Il turco a Vienna. Storia del grande assedio del 1683 9788842088790

"Cominciò così la grande battaglia attorno alle mura di Vienna. Era il 12, nel giorno di domenica benaugurante per

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Il turco a Vienna. Storia del grande assedio del 1683
 9788842088790

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i Robinson / Letture

Di Franco Cardini nelle nostre edizioni:

Astrea e i Titani. Le lobbies americane alla conquista del mondo Europa e Islam. Storia di un malinteso Noi e l’Islam. Un incontro possibile? (con F. Bertini, M. Fumagalli Beonio Brocchieri, C. Leonardi)

Medioevo al femminile (con G. Bartolini)

Nel nome di Dio facemmo vela. Viaggio in Oriente di un pellegrino medievale (con M. Miglio)

Nostalgia del paradiso. Il giardino medievale

A cura di Franco Cardini nelle nostre edizioni:

Gostanza, la strega di San Miniato La paura e l’arroganza

Franco Cardini

Il turco a Vienna Storia del grande assedio del 1683

Editori

Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione novembre 2011 Seconda edizione dicembre 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Le cartine sono state realizzate da Alessia Pitzalis

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel dicembre 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8879-0

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a Giovanni Paolo II, De Labore Solis, che amava la memoria di Jan Sobieski e che mai restituì le insegne strappate al Turco in battaglia, ma che pregò con i fratelli in Abramo nella sinagoga di Roma e nella moschea di Damasco

Indice

Prologo

xi

1. Selva araldica

3

Invito al gioco, p. 3 - Fin sotto Vienna, p. 8 - «Impium foedus» o «impia foedera»?, p. 18

2. Il duello mediterraneo

36

«Magnanimo» «al-Qanuni», p. 36 - Lepanto e dintorni, p. 44 - Sognando l’Oriente e la crociata..., p. 54

3. Fluidi confini, mutevoli frontiere

66

Incerte identità: schiavi, prigionieri, rinnegati, convertiti, fuggitivi, pentiti, traditori, doppiogiochisti..., p. 66 - L’Ungheria tripartita e la «lunga guerra turca», p. 86 - Sogni medicei e gonzagheschi di crociata, p. 93

4. Tra l’Ucraina e l’isola di Candia

105

Dal Dnepr al Tigri, p. 105 - Un settantennio di fragile pace, p. 109 Prima che termini la guerra fra i cristiani..., p. 113 - Una solidarietà insufficiente, p. 120

5. Effemeridi danubiane

137

Le due Ungherie e la Transilvania, p. 137 - Ritratto di un soldato, p. 146 - Una grande vittoria e una pace discussa, p. 152

6. Al tempo della tregua

167

Tra diplomatici e generali, p. 167 - «Take a soldier, take a king», p. 177 - La «questione ungherese», p. 184 - «Bellua insatiabilis», p. 193

7. Splende sull’Oriente il Sole d’Occidente Erano davvero «Malcontenti»..., p. 207 - Molto di nuovo sul fronte occidentale, p. 212 - L’Ungheria regia, tra ribellione e nuovo assetto istituzionale, p. 225

207

Indice

VIII

8. Marcia turca

232

Il Turco in Europa, p. 232 - Prove d’alleanza cristiana, p. 241 - «Il Turco è alle porte!», p. 258

9. «Auff, auff, ihr Christen!»

274

Nella Città dell’Aureo Pomo, p. 274 - Sangue viennese, p. 283 - Quei terribili sessanta giorni, p. 289

10. «Dies Gloriae»

309

Il soccorso cristiano, p. 309 - Il paradosso delle due Supreme Assenze, p. 322 - La domenica della Vergine Maria, p. 331 - La lunga convalescenza di una città ferita, p. 341 - L’eco della fama, le ali della vittoria, p. 351

11. L’«Estate Indiana» della crociata

361

Morte di un gran visir, p. 361 - La Santa Lega, p. 374 - La campagna di Morea, p. 380

12. L’Ungheria liberata

399

La campagna balcanica, p. 399 - Buda, «e servitute in libertatem restituta», p. 409 - La sistemazione delle conquiste, p. 414

13. Dal Reno al Danubio: l’intreccio dei fronti 422 L’impero nella tenaglia, p. 422 - Gli avvicendamenti negli alti comandi, p. 432 - Verso la pace, p. 441

14. Chi sale, chi scende

451

Verso tempi nuovi, p. 451 - La «seconda guerra di Morea», p. 456 Nuove vittorie, voglia di pace, p. 463 - Guerriero senza riposo, p. 470

15. Del caffè viennese e di altre «turqueries» 479 Caffè, tulipani e «Wunderkammern», p. 479 - Tra orientalismo e orientalistica, p. 486 - Dal «pericolo turco» al «turco alla moda», p. 493

Epilogo

511

Note

515

Bibliografia

605

Sigle e abbreviazioni, p. 607 - Fonti, p. 609 - Studi, p. 627

Cronologia 1645-1718

683

Indice

IX

Glossario

701

Nota critica

713

Cartine

719

Ringraziamenti

731

Indice dei nomi di persona e di luogo

735

Prologo

Quella fredda, piovigginosa mattina del sabato1 11 settembre dell’anno del Signore 1683, molto presto, frate Marco d’Aviano2 aveva affrontato la salita verso la cima dello Josephsberg, il Monte San Giuseppe – ora Kahlenberg3 – a quota 483 metri sulle estreme pendici settentrionali del collinoso e boscoso Wienerwald, alto sul Danubio. E ora, in quell’incerto albeggiare, scriveva «dal monte alla veduta di Vienna»4 all’imperatore Leopoldo I: «L’armata è bellissima, tanto nell’infanteria e cavalleria: e stimo saranno 70 mila uomini»5. Il coraggioso cappuccino ringraziava Iddio per il buon ordine delle truppe, la concordia dei comandanti e la tenuta della guarnigione che difendeva la capitale. Gli auspici erano dei migliori: un messaggio tempestivamente arrivato avvertiva che i reggimenti tedeschi stavano uno per uno avanzando e occupando buone posizioni6. Qualche ora prima, alle 2 di notte, l’instancabile Carlo duca di Lorena aveva ordinato un decisivo assalto contro la postazione ottomana che ancora occupava le cime dello Josephsberg e del vicino Kahlenberg7: i reparti della coalizione, avuta presto ragione dei nemici, controllavano adesso le due quote dall’alto delle quali Vienna era ben visibile. O meglio, lo sarebbe stata: se, nella luce incerta di quel brumoso mattino, la nebbia e il fumo sprigionato dalle mine, dalle artiglierie e dai fuochi dei bivacchi non ne avessero impedito un’osservazione decente. Era quanto notava con nervosismo e disappunto il corpulento, collerico e affaticato Jan Sobieski, cioè Giovanni III dal 1674 re della respublica Polonorum: che, spingendo con fatica lo sguardo, sia pur aiutato dal cannocchiale, dall’alto di un’altra collina del Wienerwald verso sud fino ai bastioni in parte diruti della capitale dell’impero, malediceva le cattive mappe che gli erano state fornite e i maldestri capi dell’esercito imperiale che gliele avevano presentate. Si era aspettato un dolce e sgombro digradar di piani sin alle fortificazioni

­XII

Prologo

della città: e invece dinanzi a lui si stendevano precipizi, dislivelli, rocce, dossi, gruppi di case, spazi coltivati, boscaglie, vigne che sarebbero già state pronte per la vendemmia – quell’anno in ritardo8 – se gli ottomani non le avessero spogliate accuratamente dei frutti ancor primaticci. Il terreno sgombro c’era, senza dubbio, ma alquanto lontano: oltre il fiume Alsbach che si gettava nel canale, cioè nell’ampia derivazione che, staccatasi dal Danubio all’altezza di Nussdorf in direzione sud, costeggiava il margine nord-orientale dell’abitato viennese per poi ricongiungersi al grande fiume molto a valle, quasi a Kaiserbergsdorf. Tuttavia, quel che agli occhi esperti del re di Polonia appariva incredibile era lo spettacolo del dispositivo nemico che, sia pur confusamente, egli riusciva a distinguere. Il capo dell’esercito assediante, il gran visir Kara Mustafa, pur al corrente dell’arrivo dell’armata cristiana di soccorso alla capitale, non aveva concentrato le sue forze allo scopo ormai divenuto per lui primario di respingere la nuova minaccia, ma le aveva al contrario disseminate per tentare da più parti un nuovo assalto alla città: come se il suo disegno strategico fosse quello d’una conquista dell’ultim’ora, che avrebbe condotto i coalizzati a misurarsi con un esercito ottomano già padrone di Vienna. Conseguenza di tale tattica, l’immenso accampamento degli infedeli appariva praticamente privo di difese esterne, salvo qualche caposaldo forse poco visibile in quell’incerta ora mattutina. Ed era ormai tardi per approntarne di efficaci. Ma, mentre gli assedianti si preparavano a venir a loro volta assediati, anche l’armata degli assalitori si vedeva costretta ad affrontare non pochi problemi. Uno dei principali tra essi può apparire assurdo ad occhi moderni. Si trattava delle innumerevoli questioni formali di cerimoniale e di competenze – a cominciare da quella delle precedenze: chi avrebbe dovuto figurare in pubblico, incedendo prima di chi, o alla destra di chi? – che avevano ostacolato i rapporti tra i principi comandanti delle armate imperiali e il re di Polonia, a parte l’ormai cronicizzata difficoltà d’intendersi tra questi e il duca di Lorena, fin da una settimana prima: quando le colonne dei coalizzati si erano incontrate attorno alla città di Tulln, circa 5 leghe9 a ovest di Vienna, dov’era stato costruito un ponte di barche. Ci volle tutta la giornata dell’11, trascorsa in accese discussioni, prima di mettere a punto un piano di battaglia che avrebbe dovuto venir concordato il prima possibile se si voleva trarre partito dagli evidenti errori di Kara Mustafa. Intanto anche il posizionamento dei pezzi d’artiglieria procedeva a desolante lentezza: solo nella notte successiva il generale

Prologo

XIII

James Leslie riuscì a collocare una buona batteria sul fianco digradante del Kahlenberg, nonostante la minaccia d’un attacco nemico dal vicino Nussberg. Cominciò così la grande battaglia attorno alle mura di Vienna. Era il 12, nel giorno di domenica benaugurante per i cristiani: due prima della festa liturgica dell’Esaltazione della Croce. Alle quattro del mattino, re Giovanni insieme con il figlio Jakub servì personalmente e con devozione la messa celebrata da frate Marco nella cappella camaldolese10. Dopo l’eucarestia somministrata ai cattolici e una paterna benedizione impartita ai protestanti, il cappuccino lesse all’aperto una commossa preghiera: «O magne Deus exercituum, aspice nos hic ad pedes Maiestatis Tuae provolutos... Extendo igitur manus meas sicut Moyses ad benedicendum militibus Tuis...». Lo scontro si protrasse fino a sera per concludersi trionfalmente in Vienna liberata; all’alba del giorno dopo, sotto il ricco padiglione del gran visir conquistato dalle sue truppe che stavano saccheggiando il campo ottomano, Giovanni III poteva scrivere una trionfante lettera alla sua regale consorte, l’amatissima «Marysien´ka»11. Era felice come un bambino, mentre descriveva i padiglioni conquistati e le ricchezze ramazzate: «...bagni, giardini, fontane, conigliere e perfino un pappagallo. I pezzi migliori del mio bottino sono una cintura di diamanti, due orologi tempestati di diamanti, cinque faretre con zaffiri, rubini e perle, tappeti e i più splendidi zibellini del mondo...». Terminava così, dopo due lunghi mesi, l’incubo dell’assedio alla prima città del Sacro Romano Impero e capitale della compagine territoriale ereditaria asburgica. Con esso, l’ultima Grande Paura provocata da un assalto ottomano a una Cristianità peraltro tutto men che unita: dal momento che alle lacerazioni dello Scisma d’Oriente dell’XI secolo e della Riforma del XVI si erano ormai aggiunte, a dividerla e a tenerla sul costante filo del rasoio dell’inquietudine, le rivalità sugli oceani, l’instabilità dell’area baltico-scandinava e le aggressive ed egemoniche pretese della politica del Re Sole che mirava contemporaneamente alla Spagna, al Mediterraneo e ai contesi e tormentati ma ricchi territori della fascia compresa tra Reno, Mosa e Schelda. È stato detto che il fallito assedio di Vienna e la contesa nel territorio balcano-danubiano che gli tenne dietro furono il «principio della fine» dell’impero ottomano. Non è mancato chi ha posto sullo stesso piano eventi del tutto eterogenei tra loro per carattere, conte-

­XIV

Prologo

sto e conseguenze quali la battaglia di Poitiers del 732, quella navale di Lepanto del 7 ottobre 1571 e quella campale sotto Vienna del 12 settembre 1683: inscrivendoli all’interno di un preteso, coerente e continuo «scontro di civiltà» tra Cristianità e Islam – o addirittura tra «Oriente» e «Occidente», in un immenso arco geostorico teso tra VI secolo a.C. e XXI d.C. – e promuovendoli a momenti nei quali la prima, costantemente assalita e assediata, si sarebbe eroicamente liberata dalla minaccia aggressiva costituita dal secondo. Si tratta di grottesche illazioni semierudite e paraideologiche: le quali nulla hanno di seriamente storico, per quanto s’inseriscano nella consuetudine di un pervicace e perverso uso strumentale della storia. Ciò non toglie tuttavia che sia stata davvero una grande giornata, quel 12 settembre 1683; e fondamentali per la storia dell’Europa moderna e dei rapporti di forza eurasiatico-mediterranei gli anni che le tennero immediatamente dietro e che da essa furono condizionati. Anni che assisterono all’emergere d’una nuova potenza europea tra Europa centrale e Balcani, l’Austria, e al tempo stesso l’affermarsi della potenza baltico-eurasiatica della Russia dei Romanov, l’eclisse della Francia borbonica e l’avvio lento ma irreversibile della decadenza dell’impero ottomano. Anni che prepararono gli scenari dai quali, due secoli dopo, sarebbe scaturito lo scoppio della guerra del 1914-18. Ma come ci si era arrivati? Questo libro, partendo da alcune relativamente «lontane» ma non estranee premesse, richiama gli eventi di quella che può sul serio venir considerata (per quanto si tratti d’espressione di cui si è da più parti retoricamente abusato) «l’ultima crociata» dell’Europa cristiana, avviata in coincidenza con la liberazione di Vienna e conclusasi nel 1718 con la pace di Passarowitz, che dischiuse la storia del nostro continente a una nuova fase: alla lotta cioè per l’egemonia tra nuove potenze – l’Austria, la Russia, la Prussia, l’Inghilterra –, mentre la Francia sonnecchiava nel torpore della Reggenza e del lungo regno del bienaimé Luigi XV, gli imperi spagnolo e ottomano lentamente tramontavano e si andava imponendo la cultura dei «Lumi» che avrebbe definitivamente disgregato quel che restava della societas christianorum e fondato la Modernità. A cavallo tra XVII e XVIII secolo, nell’arco di tempo che Paul Hazard ha individuato come quello della «crisi della coscienza europea», fu paradossalmente una «vittoria crociata» non certo a determinare, ma comunque a coincidere con l’avvìo della fase decisiva dell’irreversibile processo di secolarizzazione continentale.

Il Turco a Vienna Storia del grande assedio del 1683

1.

Selva araldica

Invito al gioco Croce e Mezzaluna, Aquile e Gigli, Soli e Leoni. Una «selva araldica» che si presta bene a presentare la situazione eurasiatico-mediterranea tra la fine del XIV e la prima metà del XVIII secolo, vale a dire nel lungo periodo che abbraccia quel che noi convenzionalmente definiamo Tardo Medioevo, Rinascimento e Prima Età Moderna: dalla crisi di metà Trecento sino alla vigilia della «rivoluzione industriale». Tempo di grandi scoperte geografiche e invenzioni tecnologiche, di rivoluzioni scientifiche e filosofiche, di mutamenti profondi nei gusti e nelle sensibilità non meno che nei modi tanto di pensare quanto di produrre, di consumare, di vivere. Tempo in cui si afferma, con il consolidamento del sistema coloniale e del cosiddetto «scambio asimmetrico», la prima fase di quella che oggi siamo abituati a chiamare «globalizzazione» e nella quale, con il passaggio dalle monarchie feudali agli stati assoluti e con lo sviluppo della Riforma, si configura il processo di secolarizzazione del potere e si va configurando lo ius publicum Europaeum. Tempo in cui si erodono ed entrano in crisi – pur incessantemente ridefinendosi – i grandi sistemi di pensiero politico-religioso e le correlative istituzioni sociogiuridiche a carattere universalistico, il papato e l’impero; mentre prepotente emerge una nuova visione del mondo fondata sui diritti e le prerogative dell’individuo. Tempo insomma in cui si profila la «civiltà occidentale» nel senso moderno di tale espressione: e addirittura l’inscindibile endiadi Occidente/Modernità. Si tratta di tre-quattro secoli dominati, sul piano della politica e dei rapporti interstatuali, da una tensione che si traduce in una rete complessa e mutevole di alleanze e di rivalità. A un primo sguardo il complesso rapporto tra Cristianità e Islam che caratterizzava il medioevo, e che era fatto senza dubbio di scontri militari ma anche d’un intenso scambio sia commerciale che culturale e al tempo stesso

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Il Turco a Vienna. Storia del grande assedio del 1683

da una pluralità di soggetti interagenti tra loro – il mondo cristiano latino o «occidentale», quello greco-bizantino o «orientale», i califfati sunniti e sciiti, l’Islam iberico-maghrebino, il mondo tartaro e la sua progressiva islamizzazione –, sembra essere stato sostituito, a partire almeno dal Quattrocento, da un più semplice e brutale «equilibrio della paura». Nonostante l’obiettivo complicarsi della scena mondiale in seguito alla nascita e allo sviluppo, dal Nuovo Mondo all’Asia all’Africa, di realtà e di situazioni nuove, che a lungo parvero più o meno ininfluenti ma che avrebbero più tardi sempre più contribuito a modificare il quadro generale dei rapporti e degli equilibri, la lotta per l’egemonia si giocava ora nello spazio compreso tra Mediterraneo ed Europa centro-orientale e aveva come protagonisti due coerenti blocchi socio-politici e religiosi, peraltro molto articolati e tutto men che concordi al loro rispettivo interno. Da una parte la Cristianità occidentale, ormai tuttavia distinta in una quantità di soggetti statuali e lacerata dal conflitto tra chi era rimasto fedele alla disciplina della Chiesa di Roma e chi aveva intrapreso la lunga e difficile via della ricerca della purezza cristiana originaria, la reformatio deformatarum rerum che condusse in realtà a una lunga, dura e persino sanguinosa pluralità di proposte di ridefinizione del cristianesimo, talora profondamente innovatrici; dall’altra la nuova potenza ottomana che si presentava come un mondo compatto e coerente e che dava, vista dall’esterno, l’impressione di aver non solo egemonizzato, bensì addirittura fagocitato il vecchio Islam con le sue distinzioni, differenze, divisioni e rivalità, nonché metabolizzato la cultura e la società bizantine delle quali appariva – piacesse o no e fosse o meno sul momento compreso dai cristiani d’Occidente – come l’erede piuttosto che la distruttrice. La lunga era degli scambi culturali e commerciali tra società cristiane e mondo islamico pareva nelle sue grandi linee esaurita, per lasciare il campo a una fase nuova fondata sul confronto diplomatico e politico da un lato, sul brutale equilibrio delle armi dall’altro: non tanto «scontro di civiltà» quanto «scontro di potenze», nel quale tuttavia l’elemento religioso, con tutto il peso d’un passato che veniva riconsiderato principalmente se non esclusivamente sotto il profilo del conflitto, era il più intenso e qualificante. Quello tra l’Europa cristiana quattro-settecentesca e l’impero sultaniale d’Istanbul, che ancora più radicalmente di quanto non si fosse presentato nei secoli precedenti è apparso agli osservatori moderni come un «duello tra la Croce e la Mezzaluna», non è stato comunque mai una «guerra di

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5

religione»: e difatti mai in realtà cristiani e musulmani si sono odiati, nelle loro pur lunghe, cruente e talvolta selvagge contese per mare e per terra, tanto tra i flutti dell’Egeo e dell’Adriatico o del Tirreno quanto tra i clivi e le selve balcaniche o sulle pianure danubiane, con quella sistematica ferocia e quella pervicace reciproca volontà di distruzione con le quali si sono affrontati cattolici e ugonotti nella Francia del secolo XVI o papisti e riformati tra Irlanda, Scozia ed Europa centrale di quello successivo. Non c’è tuttavia dubbio che le lunghe contese guerriere fra turchi e barbareschi da una parte e spagnoli, italiani, tedeschi e polacchi dall’altra si configurassero come guerre, se non «di religione», quanto meno tra homines religiosi appartenenti a fedi tra loro diverse per quanto né storicamente, né teologicamente, né eticamente estranee fra loro; e tra due differenti tipi di società in entrambe le quali la fede costituiva comunque il fondamento della visione del mondo, dell’assetto giuridico, della morale condivisa. Per questo motivo i due sia pur tutt’altro che monolitici fronti in conflitto potevano senza dubbio riconoscersi nei due rispettivi sistemi simbolici religiosi. Duello tra Croce e Mezzaluna, appunto, immaginate per una volta entrambe con tanto d’iniziale maiuscola: a patto tuttavia di tener presente che, mentre non c’è dubbio che la croce rappresenti in modo adeguato cristianesimo e Cristianità, la «mezzaluna» – cioè il «crescente» o «falce lunare» – dispone invece di uno statuto storico-simbologico molto complesso e tutt’altro che lineare, e che comunque non detiene all’interno dell’Islam quel valore assoluto, primario e pregnante che la croce possiede per i cristiani1; la quale croce, tuttavia, si presenta a sua volta come caratterizzata da forme e fogge diverse, sovente in competizione o in alternativa se non in vera e propria lotta tra loro, in conseguenza dell’uso araldico ed emblematico che se n’è fatto nonché delle sue numerose variabili – talune molto antiche – all’interno delle varie confessioni nelle quali la religione cristiana si è andata articolando. Sarebbe interessante, dal canto nostro, stabilire come, quando e perché la luna – e in particolare la falce di luna impropriamente chiamata in italiano «mezzaluna», vale a dire il «crescente» o «montante» dell’araldica, il hilal degli arabi – sia divenuta il simbolo principale dell’Islam. Presente in molti culti e in molti sistemi simbologici dell’Oriente antico e dell’Arabia preislamica, solo con gli ottomani assume sempre di più il ruolo di emblema dell’Islam: al punto tale che, ancor oggi, si parla indiscriminatamente – ad esempio per il medioevo – di

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Il Turco a Vienna. Storia del grande assedio del 1683

«lotta fra la croce e la mezzaluna», nonostante il secondo di questi simboli sia certo presente, ma non in una posizione particolare, nell’emblematica islamica; e non risulti che, nell’immaginario europeo precinquecentesco, esso rivestisse un significato rinviabile in modo certo ed esclusivo all’Islam2. La luna indicava il mutamento, la natura femminile fondata sul ciclo mestruale, anche la volubilità e la follìa: in questo senso poté essere assunta nel mondo cristiano come simbolo negativo dell’Islam, «religione irrazionale». Ma in area cristiana era ben noto anche un uso positivo del crescente lunare, interpretato come simbolo di gloria e di fama: esso indicava il crescere appunto della reputazione e della considerazione. Renato d’Angiò aveva fondato nel Quattrocento un «Ordine del Crescente» che alludeva appunto al salire e al dilatarsi della gloria e della fama in coloro che ne venivano insigniti3. Numerosi grandi casati – come i senesi Piccolomini e Tolomei4, i fiorentini Strozzi, Canigiani, Pazzi (almeno fino al XV secolo), Govoni5 ed altri – presentavano il crescente come elemento della loro arme. Un crescente lunare d’oro in campo azzurro stellato figura tra le armi araldiche immaginarie dei re magi nei dipinti a partire dal Quattrocento6. D’altro canto l’immagine apocalittica della Signora amicta sole, et luna sub pedibus eius, che era stata interpretata come Maria vittoriosa sull’Anticristo, aveva collegato da tempo Anticristo e Islam. Vedremo che tale interpretazione divenne corrente e consueta dopo la battaglia di Lepanto, consacrata alla Vergine del Rosario: allorché la luna, più che supporto ai piedi della Vergine alta nel cielo, divenne il simbolo malvagio del Nemico che essa calpestava. Secondo un testo gioachimita duecentesco, l’Expositio in Apocalypsim, figura dell’Anticristo nella sesta fase dell’Età del Figlio sarebbe stato il Saladino, che nel 1187 aveva riconquistato Gerusalemme strappandola ai cristiani. D’altronde lo stesso profeta Muhammad, secondo un altro testo gioachimita, il Liber Figurarum, è considerato l’Anticristo; e Innocenzo III, esortando nel 1213 i cristiani alla crociata, lo identifica con la Bestia dell’Apocalisse. Tali temi avevano di nuovo ricevuto grande attenzione e diffusione tra Quattrocento e Cinquecento. Tuttavia, contro il parere espresso da Annio da Viterbo nell’opuscolo De futuris christianorum triumphis in saracenos, edito nel 1480, ai primi del Seicento il gesuita Benito Pereyra escludeva che il fondatore dell’Islam si potesse identificare con l’Anticristo; e in genere il mondo cattolico era contrario a tale identificazione perché si pensava che essa avrebbe compromesso lo schema escatologico

1. Selva araldica

7

della venuta dell’Anticristo alla fine dei tempi. Più articolati i pareri in area protestante, anche perché in quell’àmbito la pluralità delle Chiese e delle scuole consentiva un dibattito impossibile all’interno del cattolicesimo. Più tardi comunque Tommaso Campanella avrebbe sottolineato con forza la connessione tra crociata ed escatologia, quindi tra la distruzione dell’Anticristo musulmano e l’instaurazione del regno millenaristico. Fu comunque durante il Cinquecento che il crescente lunare intraprese la sua «resistibile ascesa» come simbolo sia dell’impero ottomano sia, in generale, dell’Islam: da una parte associato per contrasto alla Vergine Maria identificata come la Donna dell’Apocalisse che calpesta la lucente falce notturna mentre schiaccia la testa del serpente; dall’altra però divenuto sinonimo di «potente coraggio» e collegato già dai poeti francesi dell’età di Luigi XIII con il sole simbolo della Monarchia di Francia: «nonostante la crociata di padre Joseph e del duca di Nevers, e nonostante l’idea largamente diffusa che l’Islam sia destinato a esser vinto, il Ballet de l’Amour de ce temps (1620) canta la complementarità dei due astri: – Puisque le Soleil et la Lune – ont costume de s’accorder...»7. Croce e mezzaluna sono pertanto segni, sia pure in modo differente, indispensabili e protagonisti: ma restano insufficienti, anche al puro livello simbologico, a rappresentare la complessità delle forze in presenza nel lungo periodo che qui ci riguarda. Non diversamente da quanto accade negli esempi delle splendide mappe cartografiche dipinte nei codici del Tre-Cinquecento, e sovente anche affrescate sui muri dei palazzi principeschi, dove le coste e le isole si presentano irte di bei vessilli, talora – come per i regni e i potentati dell’Asia o dell’Africa «profonde» – caricati d’insegne immaginarie per quanto non arbitrarie, anzi fondate al contrario su una lunga e profonda tradizione culturale. E lì, accanto alle croci e alle mezzelune8 di differenti fogge e colori che senza dubbio rappresentano i principali soggetti esprimenti il potere e la sovranità da Cadice e da Mogador fino a Timbuctù, a Istanbul, a Kazan, a Ispahan, a Samarcanda, a Delhi e oltre, altre insegne s’impongono: le aquile entrambe nere e bicipiti d’Asburgo e dei Romanov, pretendenti all’eredità universalistica dell’impero romano rispettivamente nelle partes Occidentis e Orientis di post-teodosiana memoria; la candida aquila monocipite della respublica Polonorum; gli aurei fiordalisi di Francia accompagnati dall’onnipresente impresa solare di Luigi XIV della quale non va dimenticata la sconvolgente ‘attualità’ per la seconda metà del Seicento,

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dal momento che solo da poco è stato accettato l’eliocentrismo galileiano, il che conferisce all’emblema scelto dal sovrano francese un significato di speciale intensità; il leone alato di San Marco, che domina il Mediterraneo orientale ma al quale si accompagnano e in qualche modo si contrappongono, tra Europa e Atlantico, i leoni d’Inghilterra, d’Olanda e di Svezia, magari perfino il leoncello dei granduchi medicei di Toscana in quanto duchi di Firenze, il cosiddetto «Marzocco»; e, lontano ma non poi troppo, al di là del Caucaso e dell’Eufrate, il leone solare degli shah safavidi di Persia, musulmani sciiti9 che si sono sostituiti, come avversari dei sultani ottomani d’Istanbul all’interno del dar al-Islam, ai sultani sunniti mamelucchi d’Egitto debellati da Selim I tra 1516 e 151810, ma che rappresentano per i signori del Bosforo una ben altrimenti temibile minaccia sempre pronta, almeno in teoria (ma non solo...), ad allearsi con i cristiani dell’Europa occidentale o con quelli di Moscovia per stringere in una morsa l’immenso sultanato che dai Balcani si stende fino all’Egitto e alla penisola arabica. Queste le forze in presenza sulla grande tavola del nostro war game. Gli spazi sono stati distribuiti, le pedine disposte, i dadi pronti: la partita di Risiko può aver inizio11. Fin sotto Vienna Gli ottomani, vincitori dei serbi e dei bizantini, erano stati davvero una «Grande Paura» per gli europei, a partire almeno dalla fine del Trecento: allorché le loro vittorie in Anatolia e nella penisola balcanica avevano fatto temere un loro possibile dilagare in Europa. Dopo la sconfitta di Nicopoli del 1396, allorché un intero imponente esercito crociato era stato letteralmente distrutto e l’impero bizantino ridotto alla sola capitale e a un sottile anello di territori circostanti, si era temuta un’ulteriore avanzata verso l’Europa centrale o la penisola italica: e soltanto l’inaspettata vittoria di Tamerlano nel 1402 sulle truppe ottomane presso Ankara aveva permesso di tirare un sospiro di sollievo. Ma le cose avevano ripreso ben presto a precipitare fino alla conquista ottomana di Costantinopoli, nel 1453, e poi a quella di Trebisonda nel 1461. Poco dopo, durante la nuova guerra dichiarata da Venezia agli ottomani nel 1463, si dovette assistere alle ripetute incursioni dei razziatori bosniaci a cavallo, gli akinci, che dalla Carniola12 giungevano a dilagare in Friuli e a investire perfino Mestre e Treviso: fu così a più riprese tra 1469 e 1478, poi ancora nel

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’79 e quindi – dopo la pace in quell’anno siglata tra la Serenissima e il «Gransignore»13 – di nuovo nel 1499. I distaccamenti militari mercenari di Venezia si liquefacevano, la gente si rinchiudeva nei centri fortificati o si dava alla macchia; e gli stessi veneziani, dall’alto del campanile di San Marco, potevano scorgere di notte il riverbero delle fiamme che ardevano la terra friulana14. Intanto, all’estremità opposta del «Golfo di Venezia», l’Adriatico, si consumava la strage di Otranto del 1480. Da tutt’Italia si levava un coro di terrore per il «grandissimo pericolo de la Christianitade, che tutti non andiamo in le mani de infedeli»15; e molte erano le voci che si alzavano di nuovo a chiedere, a implorare, ad esigere una crociata vendicatrice e liberatrice. Ma sui tragici fatti di Otranto pesa l’ipoteca d’una possibile combine escogitata da veneziani16 e fiorentini per uscire dall’imbarazzo di una guerra contro il papa e il re di Napoli scatenata nel 1478, e che non stava andando bene per loro: il sultano avrebbe creato, su loro istanza, uno scandaloso e sanguinoso diversivo atto a procurare nel nome della lotta al barbaro infedele la pace fra i cristiani, e toglierli così d’impaccio17. Una certa situazione d’equilibrio, o quanto meno di tregua, si era andata stabilizzando dopo il 1481, vale a dire dopo la scomparsa di Mehmed II al Fatih («il Conquistatore»), anche perché il nuovo sultano Bayezid II Vaali («il Santo») era preoccupato a causa di suo fratello Cem18, che – temendo non certo senza fondamento per la sua vita – aveva cercato rifugio prima presso i cavalieri di Rodi, quindi presso il re di Francia e il papa. Bayezid aveva ripetutamente tentato di farlo uccidere, ma al tempo stesso pagava ai suoi custodicarcerieri una «pensione» di 40.000 ducati veneziani per tenerlo a bada; e i suoi «ospiti» cristiani, dal canto loro, l’avevano trattato come un ostaggio di lusso e un oggetto di ricatto19. Ma nel febbraio del 1495 lo sventurato principe – in quel momento a Napoli con Carlo VIII di Francia, che stava preparando la sua crociata (naturalmente mai partita) – era venuto infine a morte, sembra per cause peraltro naturali; e il sultano, ormai libero dall’incubo di vederselo contrapporre sulle sue stesse terre come «legittimo» sovrano sostenuto dalle potenze cristiane, era tornato all’attacco ben deciso a vendicarsi. La piazzaforte di Lepanto, all’imboccatura del golfo di Corinto, era stata conquistata dagli ottomani che, frattanto, avevano organizzato efficaci azioni diversive tra Friuli e Dalmazia. È rimasta celebre quella tra la fine del settembre e i primi d’ottobre del 1499, allorché una decina di migliaia d’incursori agli ordini di Iskender, sancakbey

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di Bosnia, – un rinnegato originario della colonia genovese di Pera, il famoso quartiere a nord di Costantinopoli – si abbatterono sulle campagne prossime a Gorizia razziando, bruciando e tagliando centinaia di teste che issavano poi sulle picche per spaventare gli assaliti20. Bilancio del raid, durato una settimana, furono raccolti e boschi incendiati, 132 villaggi distrutti, una decina di migliaia fra morti e prigionieri. Ne derivarono lunghi anni di fame e di disordine: quelle terre, spaventosamente impoverite, si ribellarono al pesante fiscalismo di Venezia e i casati feudali rialzarono la testa fino a giungere a un vero e proprio episodio di strage di massa, a Udine, durante il carnevale del 151121. La Serenissima aveva fatto di tutto per fortificare la zona: eppure Leonardo da Vinci, che aveva ispezionato nel 1500 le fortezze di Gradisca e di Fogliano, le aveva giudicate inferiori alla bisogna22. Ma quella che è stata giustamente chiamata «ossessione turca»23 non riguardava soltanto Venezia e l’Adriatico. Lo scorcio tra Quattrocento e Cinquecento e oltre fu tutto attraversato da pronostici e vaticini che riguardavano il Turco nel suo rapporto con l’Anticristo e con la Fine dei Tempi24. Nel Friuli tormentato dalle incursioni abitava l’erudito Girolamo Amaseo, che nel 1499 aveva pubblicato presso il veneziano Manuzio un Vaticinium quo praedicitur universum orbem terrarum christianae religionis imperium subiturum, dedicato ad Accurse Maynier, ambasciatore francese presso la Serenissima: vi si prediceva una futura conquista dell’impero ottomano e dell’Asia da parte di francesi e veneziani uniti, mentre Ferdinando d’Aragona avrebbe soggiogato l’Africa e una nuova aurea proles si sarebbe aperta nel mondo. Lo scritto era evidentemente ispirato a un episodio d’un qualche rilievo, la spedizione di Luigi XII di Francia contro i turchi che occupavano l’isola egea di Mitilene25. Nel 1500 papa Alessandro VI aveva lanciato in occasione del Giubileo un appello crociato in piena regola, prontamente accolto tanto dal re di Francia quanto dalla repubblica di San Marco. Giulio II aveva pensato a qualcosa del genere, anche se aveva preferito poi organizzare sì una «Santa Lega», ma contro Venezia26. Il che era una novità in qualche modo scandalosa, in quanto nel pensiero giuridico non meno che nel sentimento diffuso «Santa Lega» era specificamente sinonimo di crociata: una volta proclamata appunto una «Santa Lega», le armi tra i cristiani dovevano immediatamente tacere, pena la sconfessione della crociata come opus pacis. D’altro canto, la Santa Sede poteva a sua volta utilizzare proprio le armi del

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diritto canonico per richiamare la disciplina che fin dal Duecento era stata quella della crux cismarina, la crux contra christianos in quanto appunto i mali christiani, con il loro malvagio agire, impedivano o ritardavano – fra le altre cose – il momento del recupero della Città Santa alla Cristianità, che restava il fine ultimo di qualunque crociata27, ed erano perciò «peggiori dei saraceni». La temibile, formidabile lega di Cambrai, stipulata contro Venezia alla fine del 1508 tra papa Giulio II, re Luigi XII di Francia, imperatore Massimiliano d’Asburgo e re Ferdinando d’Aragona, e la guerra che le era tenuta dietro, erano state una scuola durissima: sconfitta ad Agnadello nel maggio del 1509 e messa in ginocchio, la repubblica ne era uscita per il rotto della cuffia grazie ai suoi diplomatici che – dopo aver addirittura preso in considerazione un accordo con il sultano Selim I28 – avevano restituito al papa le città romagnole occupate ed erano riusciti a convincerlo del pericolo costituito dall’eccessiva forza ormai raggiunta dalla Francia. Ma, dopo quell’episodio, si era capito che il problema principale era «possedere pacificamente il dominio»: e a questo fine si era adottata una formula difensiva imperniata su un preciso «triangolo» deterrente costituito dalla flotta, dalle fortezze e dalle «milizie» nerbo delle quali erano gli artigiani del corpo dei «bombardieri» (600 solo a Venezia) e i contadini delle «cernide» – chiamate, in Dalmazia, «craine» –: gente, quest’ultima, numerosa (30.000-35.000 uomini), ma inesperta nel mestiere delle armi e destinata a costituire al bisogno una forza di riserva per i corpi militari professionisti. L’importanza accordata alle opere di fortificazione prova che Venezia si sentiva molto insicura e che ormai la sua scelta tattica era volta principalmente alla difesa. La formula della difesa tripartita, particolarmente adatta agli stati più piccoli che ormai potevano solo difendersi contro colossi come l’impero, la Francia, la Spagna e il sultanato, fece scuola in tutto il Cinquecento, dalla Toscana di Cosimo I alla Savoia di Emanuele Filiberto. La questione delle difese friulane avrebbe continuato a venir dibattuta per tutto il Cinquecento, sino alla spettacolare soluzione urbanistica di Palma, oggi Palmanova, fondata nel 159329, con la sua mirabile struttura stellare a nove punte: nella sua realizzazione si concentrò la lunga esperienza di fortificazioni già realizzate a Zara, a Corfù, a Candia, a Nicosia, tutte e sempre concepite in funzione della necessità di fronteggiare il Turco30. L’anno successivo alla fondazione di Palma il filosofo neoplatonico Francesco Patrizi, nativo

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dell’isola dalmata di Cherso ma vissuto a lungo a Cipro, pubblicava un libro inquietante, i Paralleli militari, tutto incentrato sul pericolo turco «alle porte»31. La coeva fortificazione del Salento, porta e baluardo adriatico d’Occidente di cui si avvertiva appieno la crucialità dopo gli spaventosi fatti otrantini del 1480, rispondeva puntualmente a quella dell’area istriano-dalmato-friulana. Tuttavia, forse, il vero «giro di boa» nelle vicende vicino-orientali, e quindi anche euro-mediterranee, fu quello impresso da una battaglia. Ebbene, sì: a dispetto della drastica svalutazione dell’histoirebataille alla quale siamo abituati dopo la lezione di Marc Bloch e di Fernand Braudel, di quando in quando il ritorno a vecchi temi può giovare. Il 23 agosto del 1514 l’armata ottomana di Selim I, entrata in guerra fino dal marzo precedente contro la Persia del safavide Shah Esma’∞l I, ne sconfisse duramente l’esercito nella battaglia di Cˇπldirπn, a due giorni di marcia a nord del Tigri, presso il fiume Bendimahi che si getta nel lago Van. La notizia di quella giornata suscitò scalpore anche in Europa: ne parlarono Francesco Guicciardini e Paolo Giovio, il quale ci informa che papa Leone X, all’annunzio di essa, ne rimase sconvolto32 al punto d’inviare immediatamente, il 3 novembre successivo, lettere ai nunzi apostolici di Spagna, di Francia, del Portogallo, nonché ai cantoni svizzeri, ai genovesi e ai fiorentini. Il timore del papa – che cioè il sultano, una volta se non certo debellato quanto meno tenuto a bada il suo grande avversario d’Oriente, si volgesse all’Occidente – non era privo di fondamento. In effetti Selim, sentendosi evidentemente sicuro sul suo fianco persiano, assalì nel 1516 il sultanato mamelucco d’Egitto e in un paio di anni lo eliminò fagocitandone gli immensi territori, estesi dalla Siria alla Sirte. Fin dall’aprile di quell’anno il pontefice aveva pubblicato una vera e propria bolla di crociata contro il sultano che di lì a poco avrebbe esteso il suo dominio diretto su Gerusalemme e si sarebbe strettamente collegato anche con i principi-corsari33 musulmani di Tripoli, di Tunisi e di Algeri i quali, quanto meno formalmente, avevano accettato la sua sovranità. Nel documento pontificio, Selim era definito lupus ille rapax Turcus, immanissimus christiani nominis hostis34. A parte le convenienze politiche e le espressioni retoriche, non c’è dubbio che la paura che gli ottomani incutevano fosse reale: e con essa il crescente interesse nei loro confronti da parte di tutti i popoli d’Europa. È stato calcolato che, tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVII, si sia pubblicato un numero di libri sul Turco dop-

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pio rispetto a quelli dedicati al continente americano35. Poiché si era alla vigilia della Riforma, causa occasionale dell’insorgere della quale fu appunto la protesta contro la vendita delle indulgenze, va tenuto presente che la regolamentazione del diritto di crociata, il problema del suo finanziamento e il suo rapporto con le indulgenze furono una tra le ragioni obiettive di essa. «Il Turco». Con tale epiteto ordinariamente s’intendeva alludere propriamente al sultano, cioè al «Gran Turco» o al «Gran Signore», oppure indicare in genere gli ottomani. La seconda di queste accezioni era, a livello etno-culturale, molto imprecisa e anche, almeno all’origine, intenzionalmente offensiva: gli ottomani, sudditi del sultano, erano in realtà certo non solo i turco-tartari arrivati in Anatolia nel Trecento, ma anche gli arabi, gli armeni, i greci o balcanici, gli ebrei. Tali cinque distinti gruppi etno-culturali erano detti di solito «le cinque dita della mano del sultano»: insomma, tutte le etnie che popolavano l’immenso impero sultaniale, esclusi semmai i berberi. Dal canto loro, tali popoli amavano definirsi «ottomani», o «osmanli», e si sentivano offesi dal fatto di esser collettivamente indicati con un termine, «turco» appunto, che nell’impero era sinonimo di rozzo, di barbaro, d’ignorante, d’incivile. L’impiego generalizzato di questo termine all’interno della Cristianità faceva di per se stesso già parte, quindi, della polemica antiottomana: e l’aura di paura e di repulsione che lo circondava lo conferma. D’altronde, se il Turco assaliva una qualunque area della Cristianità, gli avversari di chi la governasse avevano regolarmente qualche difficoltà a nascondere il loro sollievo o addirittura la loro soddisfazione; né doveva esser raro che essi all’aggressione non fossero, almeno diplomaticamente, del tutto estranei. Di crociata si parlava troppo e di continuo: si accumulavano le prediche, i privilegi spirituali e quelli temporali concessi a chi accettava di partire o di contribuire al suo finanziamento; poi, per una ragione o per un’altra, tutto regolarmente si sgonfiava. La Mandragola di Niccolò Machiavelli presenta un magistrale intreccio di paure diffuse, doppiezza clericale, diffidenza anticlericale e perfino ammiccamenti osceni e giochi di parole sull’immagine del Turco effeminato e stupratore al tempo stesso: Donna: Credete voi che ’l Turco passi quest’anno in Italia? Frate: Se voi non fate oratione, sì. Donna: Naffé, Dio ci aiuti con queste diavolerie! Io ho una gran paura di quello impalare!36

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Che i ricorrenti, drammatici appelli contro «il Turco», «l’infedele», «il nemico della croce», fossero non disinteressata retorica e che servissero da alibi politico o come strumento per ramazzar quattrini, lo sapevano tutti. Quando nel 1518 un cronista bolognese vide arrivare nella sua città tre cardinali portatori della disperata notizia che «el Turco volea venire in Italia», non esitò a definire faccende di quel genere «nuove trappole da dinari»37. Gli faceva del resto eco lo stesso Machiavelli che, scrivendo nel maggio del 1521 a Francesco Guicciardini, alludeva con disprezzo alle chiacchiere «sul diluvio che debbe venire, e sul turco che debbe passare, et se fosse bene fare la crociata, et simili novelle da pancaccie»38. Eppure, di quando in quando, le cose tornavano a farsi serie. Il fatto è che la penisola italica, per l’estensione delle sue coste, la sua posizione che ne faceva quasi uno spartiacque tra bacino occidentale e bacino orientale del Mediterraneo e la sua prossimità ai Balcani e all’Africa settentrionale, era stata per secoli, tra XI e XIV, un molo proteso verso l’Oriente: ma ora, di fronte ai pericoli turco e barbaresco, si trovava costretta ad accettare il ruolo di baluardo dell’Occidente. E non tutti i suoi governi erano preparati o disposti a tale impegno. Il sultano Selim I Yavuz («il Terribile»), che aveva ingrandito il suo impero fino al vicino Oriente e alle coste dell’Africa, era morto nel 1520. Gli era succeduto il figlio ventiquattrenne, che portava il nome del più splendido e saggio tra i re della Bibbia, Salomone: quel Süleyman che gli occidentali conoscono come «il Magnifico» ma che nella tradizione turca e musulmana è celebre con un ancor più glorioso epiteto, al-Qanuni, «il Legislatore», esplicitamente allusivo alla tradizione giustinianea; e attraverso il quale veniva affermata la legittima continuità tra impero romano e impero ottomano, un punto sul quale la diplomazia e la teoria politica sultaniali non erano disposte a transigere39. Nell’Europa del tempo, completamente assorbita sia dal conflitto per l’egemonia tra l’imperatore romano-germanico e re di Spagna Carlo V e il re di Francia Francesco I, sia dalla rivoluzione religiosa (ma anche istituzionale e culturale) della Riforma, il ruolo di Solimano si rivelò presto fondamentale. Mai forse nessun dinasta musulmano ha tanto influito sui destini europei. Il sultano dovette gran parte dei suoi successi, specie nelle battaglie terrestri, alla fedeltà e all’efficienza del suo prediletto corpo scelto di fanteria, la «nuova guardia» dei giannizzeri40, istituiti dal

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sultano Orkhan nel 132641. Selezionati attraverso il devs¸irme – la «leva forzata» di ragazzi cristiani, principalmente dalla Morea o dall’Albania, convertiti forzosamente all’Islam e acquartierati in appositi monasteri-caserme – i giannizzeri erano allevati in una ferrea disciplina e in un frugale tono di vita, obbligati al celibato e inquadrati in una medesima confraternita mistico-religiosa, la tariqa bektashiyya42. Erano circa 5000 quando Solimano salì al trono, ma ben 12.000 quand’egli lasciò la scena di questo mondo. Furono fino al Settecento il terrore e il motivo principale d’ammirazione degli europei: né mancarono i capi di stato e i comandanti militari che cercarono d’imitarne istituzioni, organizzazione e perfino aspetto esteriore. Vestiti di panno azzurro e muniti del caratteristico, alto copricapo candido, erano raggruppati in quattro divisioni, distinte ciascuna in compagnie (orta)43, a loro volta ripartite in camerate (oda)44. Quattro orta – la 60a, la 61a, la 62a e la 63a – costituivano i s≥lπq, la guardia d’onore e di parata dal caratteristico abbagliante elmo d’oro martellato. La necessità di favorire i giannizzeri, ma anche di tenerli occupati, determinò almeno in parte l’intensa attività offensiva di Solimano nel primo decennio del suo regno. Egli scatenò immediatamente una campagna balcanica che si concluse con la conquista di Belgrado il 29 agosto 152145: la «Città Bianca» era la chiave della vasta, umida, paludosa pianura ungherese. Intanto, la compagine ottomana si mobilitava anche sul mare, dove nel 1522 conquistò l’isola di Rodi46: l’imperatore Carlo V provvide a fornire i cavalieri di San Giovanni, ormai potente Ordine marinaro – ma che aveva dovuto sloggiare da quell’isola che era stata per oltre due secoli la sua sede centrale –, di una nuova base a Malta, dove essi si insediarono definitivamente nel 1530, dopo un intervallo molto incerto e faticoso. Tra 1526 e 1533 il sultano, approfittando delle liti tra gli europei e delle guerre che tormentavano la Cristianità, lanciò un’energica campagna militare tra Balcani e Danubio culminata nella battaglia di Mohács del 29 agosto 1526 nella quale cadde Luigi II re d’Ungheria, nella conquista di Buda ch’era difesa da una debole guarnigione provveduta da Ferdinando d’Asburgo47 e nell’assedio alla stessa Vienna del settembre-ottobre 152948. Nell’attacco alla capitale furono impegnati 120.000 uomini tra giannizzeri, spahi, ausiliari arabi e inservienti, 300 pezzi d’artiglieria e un’immensa carovana di salmerie a dorso di 28.000 cammelli. Mentre Solimano guidava l’offensiva terrestre appoggiato dal vojvoda di Transilvania János

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Zápolya49, che una parte dei magnati ungheresi aveva eletto re del loro paese50, il gran visir Ibrahim51 si occupava di organizzare un «diversivo» nel Mediterraneo occidentale allo scopo di dividere le forze avversarie52. Gli avvenimenti di quei tre terribili anni scossero l’Europa e resero ancora più forte lo scandalo della guerra della Lega di Cognac, che vedeva papa Clemente VII e il re di Francia alleati contro l’imperatore proprio mentre egli, dal Mediterraneo all’Europa orientale, si accollava il compito di proteggere la Cristianità contro gli infedeli. Ma quello non era evidentemente più tempo di crociate. D’altronde, lo stesso termine «crociata» – una parola che aveva avuto vita sorprendentemente breve, salvo goder poi di una non meno sorprendente fortuna postuma dal Settecento in poi – si era eclissato nel vortice della Riforma, in quanto i cristiani riformati individuavano nelle crociate (insieme con i pellegrinaggi, le indulgenze, i voti e le reliquie) uno degli obiettivi polemici fondamentali nella loro campagna antipapale: gli stessi cattolici, da parte loro, avrebbero sostituito al fatidico nome che tradizionalmente indicava la guerra agli infedeli espressioni meno intense e compromettenti, come «Santa Lega» o «Santa Impresa». L’assedio di Vienna nasceva comunque sotto una cattiva stella per le truppe del sultano. Di solito, le campagne ottomane in area balcanica venivano lanciate per tempo, in primavera, e le armate sultaniali partivano dalla «capitale europea» dell’impero, Edirne53: in questo modo era possibile arrivare nella piana ungherese verso l’estate, quando il terreno era meno molle e fangoso, e ritirarsi prima delle temibili, abbondanti piogge autunnali. Stavolta, invece, Solimano si era mosso direttamente dalla sponda del Bosforo solo a maggio inoltrato: era stato possibile avanzare agevolmente appoggiandosi in gran parte alla maestosa via danubiana, risalita controcorrente, ma si era arrivati comunque sotto le mura di Vienna soltanto il 25 settembre. Era un anno di precoce freddo e di piogge insolitamente abbondanti perfino in quel freddo e umido Cinquecento e in quell’area, già piovosa per sua natura. L’acqua bagnava la polvere da sparo e invadeva le trincee e le gallerie che gli ingegneri e gli zappatori avevano rapidamente apprestato. Le operazioni e le contro-operazioni d’assedio procedettero nell’ordinaria sequenza – assalti, sortite, mine, contromine, brecce, barricate –, rallentate e rese disagevoli tuttavia dal maltempo finché, il 14 ottobre, arrivò la prima nevicata. La lezione sarebbe servita per un secolo e mezzo: gli ottomani, in quel lungo periodo, non avrebbero più osato avanzare in profondità così

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lontani dalle loro sicure basi. «La distanza e il clima avevano salvato la Cristianità», com’è stato detto54; ma si dovrebbe aggiungere che la capitale fu salvata anche dal fatto che abitualmente le campagne militari ottomane non andavano mai oltre la fine di settembre: era tassativo, per ragioni logistiche, trascorrere la cattiva stagione nei quartieri d’inverno. Inoltre, parlare di salvezza tout court della Cristianità – a proposito di Vienna 1529 come di Poitiers 73255, o di Belgrado 1456, o di Lepanto 1571 – è un luogo comune tanto diffuso (per quanto solo a livello di letteratura divulgativa e di idées reçues) quanto insensato. Se il Turco avesse preso Vienna, non avrebbe comunque avuto né le forze, ne l’intenzione di procedere oltre, né a nord né ad ovest. È vero tuttavia che il generale sollievo per il passato pericolo e il peso simbolico d’una mancata sconfitta, che di per sé sola rappresentava una vittoria, non debbono essere sottovalutati. Ma non c’è da meravigliarsi se, in occasione del pericolo corso nel 1529 da Vienna, l’Europa cristiana non risonasse degli ardenti appelli crociati che l’avevano percorsa in più occasioni, specie al tempo della conquista ottomana di Costantinopoli del 1453 o degli eventi di Otranto del 1480. Il fatto è che si stava proprio allora concludendo la guerra della Lega di Cognac, durante la quale la Cristianità aveva assistito, fra l’altro, al sacco di Roma perpetrato nel 1527 dalle milizie tedesche e protestanti di Carlo V: con scene di profanazione di santuari e di reliquie ch’erano in fondo manifestazioni di pietas, per quanto un po’ ruvide, secondo la sensibilità riformata, mentre si trattava di orrendi sacrilegi per i cattolici. È vero che ormai le due parti in conflitto, esauste e colpite entrambe dal flagello d’una nuova epidemia di peste, stavano accordandosi: e che l’assedio ottomano di Vienna ebbe un peso forse decisivo nel suggerire all’imperatore la massima flessibilità, sia nell’accordo di Barcellona col papa – durante il quale si decise la restaurazione del potere mediceo in Firenze –, sia nella pace «delle Due Dame» a Cambrai col re di Francia. La solenne incoronazione imperiale di Carlo per mano del pontefice, conseguenza e pegno solenne della pace raggiunta, si tenne dunque «in terra italica d’impero» e in una città soggetta al potere pontificio, Bologna: non era certo il caso di celebrarla a Roma, dove il ricordo delle profanazioni dei lanzichenecchi era ancora troppo vivo. Ma Solimano non si era rassegnato. Mentre teneva ben d’occhio, come vedremo, il quadrante mediterraneo, nel 1532 tornò personalmente nel teatro di guerra balcanico, di nuovo con l’obiettivo di conquistare Vienna. Stavolta la data di partenza era inappuntabile,

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verso la fine d’aprile: ma dinanzi alla modesta piazzaforte di Köszeg, difesa da una piccola guarnigione al comando del capitano Miklós Jurisics, la marea militare turca si arrestò quasi un mese, tra il 5 e il 30 d’agosto. Quando i difensori si arresero, ottenendo onorevole trattamento, il sultano finse che quella fosse una gloriosa vittoria e si accontentò di scatenare le sue truppe nel saccheggio della vicina Stiria. L’autunno era vicino: e d’altra parte il vero deterrente fu per lui la notizia d’un centinaio di migliaia di cristiani ch’erano intanto accorsi attorno a Vienna per difenderla. Tale era il contesto in cui la guerra contro gli ottomani appariva fatale e indispensabile. Perfino Erasmo da Rotterdam – di solito decisamente ostile a qualunque forma di guerra – nella sua Consultatio de bello Turcico non escludeva in quello specifico caso il ricorso alle armi, quando le altre vie si fossero palesate impraticabili; dal canto suo, Martin Lutero considerava i turchi letteralmente il castigo di Dio e gli esecutori della profezia di Ezechiele secondo la quale Satana sarebbe stato liberato dalla sua prigione56. Certo è che, tra la presa ottomana di Belgrado del 1521 e il pur fallito assedio di Vienna del 1529, la mappa dell’equilibrio del sudest europeo era stata profondamente ridisegnata57. Ma è adesso necessario guardare anche all’altro scenario dello scontro, quello marittimo. «Impium foedus» o «impia foedera»? La lunga contesa tra europei e ottomani si articolava difatti su una serie di campagne militari per via ora terrestre-fluviale nell’area balcano-danubiana, ora marittima in quella adriatico-egea. L’assalitore era di consueto il Turco, al quale spettava l’iniziativa di saggiare gli avversari; il che consentiva alle potenze cristiane di presentare costantemente la loro azione militare come ispirata a criteri anzitutto difensivi. Del resto, scopo ultimo delle stesse crociate, dopo che nel 1187 il Saladino aveva cacciato gli europei occidentali da Gerusalemme, era stato la riconquista della Città Santa. Comunque né l’uno né l’altro fronte apparivano compatti: se la Cristianità europea era percorsa da diffidenze, rivalità e inimicizie reciproche le quali potevano occasionalmente, ma abbastanza spesso, giungere a far sì che questa o quella delle parti (di solito la Francia, sovente anche Venezia) appoggiasse o lasciasse credere di

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appoggiare il comune nemico, il sultano non era dal canto suo in grado di controllare pienamente i suoi alleati-vassalli, dalla Crimea ai Balcani all’Africa settentrionale. Gli ottomani alternavano campagne di mare dirette principalmente contro i possessi veneziani a imprese di terra tese a colpire la compagine asburgo-imperiale: le prime venivano regolarmente accolte con sollievo a Vienna e con preoccupazione a Venezia, le seconde sortivano l’effetto contrario. Ma c’era un terzo fronte, che di solito impensieriva relativamente poco la città sulla laguna e quella sul Danubio, mentre preoccupava alquanto Madrid, le grandi isole mediterraneo-occidentali e le coste della penisola italica: quello costituito dall’attività dei principati maghrebini, detti dagli occidentali «barbareschi» perché insediati nelle regioni occupate dalle genti berbere58. Ad ovest del golfo della Sirte il litorale nordafricano consiste in una ora larga ora più angusta fascia territoriale che dalla costa arriva fino ai margini settentrionali del Sahara, alle montagne dell’Atlante e, al di là di esse, sino ai porti mauritani dove giungevano le carovane dell’oro, dell’avorio e degli schiavi provenienti dall’Africa orientale attraverso la grande curva del Niger e la città di Timbuctù. Esso era controllato da una serie di principati-corsari che razziavano il Mediterraneo e lo specchio d’Atlantico compreso tra Algarve, Canarie e Madera, abituati fin dalla metà del Quattrocento a destreggiarsi tra formale fedeltà al sultano d’Istanbul e rapporti abbastanza ambigui con le corone spagnola e portoghese, che sul medesimo litorale mantenevano incerti possessi conquistati, perduti e riconquistati di nuovo. Gli ispano-musulmani fuggiti dalla loro al-Andalus, dalla Spagna progressivamente conquistata dai Re Cattolici fino alla presa di Granada del 1492, erano rifluiti nel Maghreb da dove cullavano improbabili ma tenaci propositi di rivalsa e di riconquista: e la corona di Spagna, anche per questo motivo, era si può dire costretta a continui raid del tipo che oggi si definirebbe di «difesa preventiva», i quali sovente approdavano alla conquista di questo o di quel centro nordafricano che poi veniva mantenuto con difficoltà o perduto poco più tardi. Tra il secondo e il quinto decennio del Cinquecento, protagonista dell’audace e spietata attività corsara fu uno spregiudicato marinaio, Khair ed-Din, che gli occidentali dotti avrebbero conosciuto secondo la versione latinizzata del suo laqab come Ariadenus, ma che per gli altri sarebbe stato «il Barbarossa»59, appellativo che, da Nerone a Federico I di Hohenstaufen, evocava fatalmente le più fosche immagini di tirannide e di crudeltà.

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Nato verso il 1476, figlio di un modesto vasaio greco di Lesbo60, d’origine forse albanese, il giovane marinaio si era convertito all’Islam insieme con i suoi tre fratelli in circostanze che restano oscure, ma che corrispondono alle solite, ben note vicende dei rinnegati mediterranei. Fattosi corsaro col nome di Hizir, aveva in un primo tempo imperversato insieme col fratello Aruç nello specchio d’acqua circostante le isole ionie; poi si era andato specializzando nell’attacco alle basi spagnole nel Maghreb, quali Melilla, Orano o Bugia e nella cattura di navi spagnole e pontificie. Nel 1517 Aruç aveva occupato con l’appoggio del sultano Algeri, autentica spina nel fianco dell’impero e di tutta la Cristianità mediterraneo-occidentale: da lì Hizir, succeduto al fratello nel 1518 e assunto il laqab di Khair ed-Din, si dette a terrorizzare tutta la costa settentrionale del Mediterraneo, da Gibilterra all’Italia meridionale e alla Sicilia. Nel 1519 prestò giuramento di fedeltà al sultano Selim I, il quale lo nominò beylerbeyi di Algeri – ma era solo il riconoscimento formale d’un potere che egli de facto deteneva comunque – fornendogli armi, materiali per il mantenimento della flotta e soldati. Dal fratello aveva ereditato anche il soprannome di «Barbarossa», con il quale i cristiani lo conoscevano. Obiettivo primario di questa durissima e continua offensiva era Carlo V, conosciuto come irriducibile nemico dell’Islam: egli aveva difatti desunto dai Re Cattolici la consegna esplicitamente sancita nel loro testamento a chi gli fosse succeduto, «que non cessen de la conquista de Africa y de pugnar por la fé contra los infieles»61. Dal 1528 l’ammiraglio genovese Andrea Doria era entrato definitivamente al servizio dell’imperatore. Da allora, egli sarebbe stato uno dei più diretti e accaniti nemici del Barbarossa: un’ostilità che peraltro si sarebbe manifestata e sviluppata, come vedremo, in un modo molto speciale. Carlo, dal canto suo, non si considerava per nulla un avversario dei musulmani indiscriminatamente intesi. Imparò anzi per tempo a distinguer con cura sulla base del principio politico in forza del quale il nemico del proprio nemico è un potenziale amico: e aprì con lo shah di Persia Tahmasp una trattativa finalizzata ad attaccare Solimano su due fronti serrandolo in una tenaglia, mentre confidava d’altronde di potersi accordare con lo stesso «Prete Gianni», ormai identificato definitivamente con il negus d’Etiopia, signore delle sorgenti del Nilo62. Il «Gran Turco» – come allora in Occidente veniva abitualmente denominato il sultano – rispose attaccando i persiani

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e accordandosi contro di loro con i potentati uralo-altaici di Transoxiana eredi dell’impero di Tamerlano, affini ai turchi per stirpe e sunniti di confessione; intanto, mentre si serviva dei principi-corsari barbareschi per tenere in scacco la potenza marinara spagnola, intratteneva rapporti diplomatici con il Re Cristianissimo di Francia, primo avversario europeo dell’imperatore, e manteneva la repubblica di San Marco su una posizione di allerta non del tutto chiusa a prospettive di pace, o perlomeno di tregua. Così, ciascuno dei grandi contendenti per l’egemonia euro-mediterranea aveva il «suo» alleato musulmano: il Turco per il re di Francia, il persiano per l’imperatore. Ma l’amicizia privilegiata per l’uno dei due non escludeva mai in linea di principio il mantenimento di rapporti diplomatici anche con l’altro. Si creava in questo modo una complessa rete di relazioni diplomatiche tessute sulla base della scacchiera geopolitica degli interessi e delle inimicizie: essa finiva ormai per avvolgere per intero il macrocontinente eurasiatico, dall’Atlantico al Karakorum. L’alleanza tra Carlo V e lo shah era un’immediata conseguenza geopolitica di quella tra Francesco I e il sultano; inoltre era sempre molto discreta, aveva carattere di rapsodicità diplomatica, e in fondo la Persia era troppo lontana per essere sistematicamente soggetta agli osservatori. Differenti erano le circostanze che presiedevano a quella tra il re di Francia e il sultano: essa acquisì presto tutti i caratteri dell’impium foedus e scandalizzò sinceramente molti devoti e strumentalmente molti politici. Non che Francesco se ne preoccupasse troppo: comunque, reagiva a sua volta con le armi della pubblicistica63. C’entrava anche la memoria epico-storica. Da una parte gli scrittori francesi sottolineavano il ruolo di guida del loro paese, «figlio primogenito della Chiesa», nella conversione alla fede cattolica e nell’impegno per la crociata, da quattro secoli gesta Dei per Francos, rinfacciando agli altri europei un’ingrata smemoratezza; dall’altra riprendevano il mito già vivo nell’XI secolo della comune origine di franchi e di turchi, calco di quello classico della discendenza dei romani dai troiani, che a loro volta con i turchi venivano posti in parafilologico e parageografico rapporto64. Inoltre, attorno a Francesco I si rispolverava di quando in quando il modello di Carlomagno per legittimare l’alleanza con il turco e indirettamente con i tartari centro-asiatici, alla luce dell’esempio del grande imperatore che si era a suo tempo alleato con il califfo di Baghdad contro bizantini e saraceni di Spagna. L’appello alla crociata e all’unità dei fedeli si mischiava sempre con questi

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giochi diplomatico-culturali, con queste rivisitazioni del passato alla ricerca di modelli legittimanti – l’«uso politico della storia» è tutt’altro che un’invenzione moderna... – e con queste realtà geostoriche di fondo. Anche, però, con risorgenti aspettative e con mai davvero sopìte paure apocalittiche. Nel 1527 papa Clemente VII aveva fatto arrestare il «profeta» Brandano, il quale andava predicendo che nel 1530 i turchi avrebbero catturato il papa, l’imperatore e il re di Francia e che soltanto allora Dio avrebbe acconsentito a salvare la Cristianità. La profezia sonava obiettivamente come una condanna dell’accordo tra Clemente VII e Francesco I contro quel Carlo V che appariva il baluardo della fede di fronte ai musulmani65. Si andava intanto sviluppando anche il fronte crociato mediterraneo, per quanto non sempre il pontefice promulgasse per mantenerlo attivo delle bullae cruciatae formalmente tali66. Tra gli avversari storici della Porta, gli Asburgo e i veneziani s’impegnavano a contenere la pressione ottomana sulla Cristianità nello scacchiere balcanico e adriatico-egeo: tuttavia la Serenissima, il cui trono dogale fu occupato dal 1523 al 1538 da quell’Andrea Gritti67 che a Istanbul aveva passato belli e avventurosi anni ed era amico personale di Solimano, si manteneva in una posizione defilata e intanto non mancava d’inviare al sultano anche segni di stima e di riguardo, come il celebre casco d’oro incrostato di pietre preziose – un sontuoso e originale per quanto pesante incrocio tra elmo e corona – che fu portato al sultano nel 1532 da Antonio de Rincon, il castigliano transfuga ch’era divenuto dopo Jean de la Forest ambasciatore di Francia presso di lui e che peraltro la Porta pagò ben 115.000 ducati, la metà circa di quel che valevano nel loro insieme le merci veneziane esportate in Aleppo in un anno intero68. Naturalmente l’oggetto – che pur figurò, insieme con altri preziosi regalia, all’atto dell’ingresso trionfale di Solimano a Belgrado nel 153269 – non era destinato a venir sul serio indossato dal sovrano, che si sarebbe trovato a disagio visti sia la sua dimensione, sia il suo peso, sia la simbolica cui esso era informato e che nulla aveva a che vedere con il mondo islamico e le funzioni sultaniali: anzi, sarebbe stato addirittura imbarazzante, data la sua evidente ispirazione desunta dal triregno papale. Si trattava difatti di un oggetto d’apparato, che doveva essere esposto nelle occasioni solenni. Mentre gli Asburgo d’Austria e Venezia provvedevano a sorvegliare gli ottomani sul fronte orientale, la Spagna, l’Ordine di San Giovanni e il papa si preoccupavano invece sul serio di quello meri-

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dionale: l’intero litorale da Gibilterra allo stretto di Sicilia era minacciato, i traffici insicuri, il drenaggio di uomini e merci causato dalla guerra corsara continuo. Nel fatidico 1529, l’anno stesso dell’assedio di Vienna da parte delle truppe ottomane, il beylerbeyi di Algeri Khair ed-Din, che già controllava il litorale del Maghreb, aveva ripreso con forza nel nome del sultano l’offensiva tesa a eliminare le piazzeforti spagnole dalla costa nordafricana70. Tale intenzione faceva presagire che ci sarebbe stato molto da fare per l’ammiraglio Andrea Doria, da poco entrato al diretto servizio dell’imperatore. Non fu soltanto lo shock subìto a causa dei fatti viennesi, ma anche la minaccia barbaresca a indurre l’imperatore Carlo V e il papa Clemente VII a chiudere al più presto la guerra tra loro scoppiata in seguito alla lega franco-pontificia stipulata a Cognac. Il re di Francia, che avrebbe forse voluto protrarre le ostilità, fu per il momento obbligato alla pace nel nome del necessario comune fronte contro gli infedeli. Il 2 febbraio 1530, giorno della Purificazione di Maria, il papa sollecitava l’impero, gli stati italici e l’Ungheria a una nuova crociata mentre gli Ospitalieri cacciati da Rodi riuscivano a insediarsi a Malta e in Tripoli. Gli spagnoli, che intanto avevano assediato Algeri, cercavano di patteggiare col sultano il loro appoggio alla pace sul fronte danubiano in cambio della cessione di quella fortezza: ma Solimano aveva trovato in Khair ed-Din l’uomo adatto a impegnare le potenze cristiane a sud. Questi, difatti, faceva mostra di un’energia e di un’abilità straordinarie. Nel 1534, attraverso lo stretto di Messina, il corsaro risalì verso nord il litorale tirrenico terrorizzando le coste calabresi e campane71 fino al porto di Savona, sfidando fin quasi sulla soglia della sua dimora il «cordiale nemico» Andrea Doria; facendo poi di nuovo rotta a meridione ed evitando Napoli, dove temeva di doversi trovar faccia a faccia con la flotta dell’ammiraglio, devastò le isole di Ischia e di Procida, massacrò senza pietà gli abitanti di Sperlonga salvo le giovani donne e i bambini che furono tratti schiavi e, sbarcato sulla costa laziale, spedì un reparto di 2000 giannizzeri ad assalire il castello di Fondi per rapirne la castellana Giulia Gonzaga, consorte di Vespasiano Colonna72, la cui leggendaria bellezza era tanto famosa da venir cantata perfino dall’Ariosto: «Giulia Gonzaga, che dovunque il piede – volge, e dovunque i sereni occhi gira, – non pure ogni altra di beltà le cede, – ma come dea scesa dal ciel l’ammira»73. Di questo miracolo di avvenenza il Barbarossa intendeva far omaggio

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al sultano. La nobile signora scampò alla schiavitù per un pelo, fuggendo semivestita dalla sua dimora fortificata e dileguandosi nella notte; ma il corsaro si vendicò crudelmente sugli sventurati abitanti del luogo. Verso la metà d’agosto, la notizia che la flotta barbaresca incrociava al largo di Ostia provocò un vero e proprio pànico a Roma, dove le fortificazioni erano state malamente riparate dopo il sacco imperiale del 1527; proprio nello stesso torno di tempo, papa Clemente VII agonizzava in Sant’Angelo. Ma il corsaro non assalì la Città Eterna. Approfittando del buon vento, e tallonato per una parte della rotta dalle navi del Doria, puntò invece su Tunisi, che conquistò agevolmente cacciandone l’emiro Mulay Hasan, che fino ad allora l’aveva governata e che era protetto dagli spagnoli: con ciò veniva creata una base ostile vicinissima alle coste siciliane e si ostacolava la circolazione delle navi cristiane attraverso il canale di Sicilia. Da Algeri, Khair ed-Din minacciava il litorale iberico; da Tunisi, controllava la Sicilia e il litorale calabrocampano. Il Mediterraneo era ormai spaccato in due: e si può dir che i musulmani, tenendo in pugno il canale di Sicilia che era – a parte l’angusto e disagevole stretto di Messina, pericoloso anche per le correnti – l’unico accesso ai due bacini in cui esso è distinto, separati dal «molo» naturale costituito dalla penisola italica e dalla grande isola, lo dominassero: tanto più che essi potevano ormai contare sulla cripto-alleanza del re francese, impossibilitato per ovvie ragioni a denunziar gli ideali e la pratica della crociata, ma ben convinto che qualunque nemico del suo nemico Carlo V fosse suo amico. Considerava le cose con buona chiarezza e molta dottrina uno studioso italico, Paolo Giovio, il quale tanto nelle sue Descriptiones quanto in uno scritto del 1531, il Commentario delle cose de’ Turchi dedicato a Carlo V e presto tradotto in sei lingue, andava ripetendo che dinanzi al pericolo ottomano il conflitto franco-spagnolo per l’egemonia sulla penisola italica e in Europa aveva ben poco senso74: senonché gli sfuggiva, o sembrava sfuggirgli, il fatto che quel pericolo era in realtà parte integrante appunto del braccio di ferro tra i due principali sovrani della Cristianità. L’imperatore non poteva a quel punto se non cercar di rovesciare, o quanto meno di modificare, l’assetto mediterraneo determinato dai successi del Barbarossa. E non c’era tempo da perdere, perché dal canto suo Francesco I aveva all’inizio del 1535 messo a punto un vasto e ben articolato piano riguardante l’Italia: le fazioni filo-

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francesi – guidate da personaggi spesso di notevole rilievo, come il genovese Cesare Fregoso, il fiorentino Piero Strozzi, i «regnicoli» Giovanni Caracciolo principe di Melfi75 e Alfonso di Sanseverino duca di Somma – avrebbero dovuto insorgere contemporaneamente, dovunque ciò fosse stato possibile, contro gli imperiali; frattanto la flotta ottomana avrebbe attaccato Puglia e Calabria e il Barbarossa la Sicilia, Napoli e la Toscana; nel contempo, i re d’Inghilterra, Scozia e Danimarca avrebbero puntato verso i Paesi Bassi e i principi Guglielmo di Fürstenberg e Cristoforo di Württemberg, alleati dei francesi, avrebbero attraversato la Lorena, terra d’impero, per raggiungere la Francia. Gli ambasciatori ottomani erano pronti, a Parigi, per scortare fino a Istanbul il plenipotenziario Jean de la Forest, con il quale il sultano avrebbe discusso i particolari dell’elaborato e ambizioso piano76. Ma i tempi della partenza si dilatarono: solo alla fine dell’aprile il La Forest salpò su una galea turca da Marsiglia, per fare scalo a Tunisi da dove ripartì poi per Istanbul. La risposta di Carlo V partì dal litorale nordafricano. Mentre Francesco I e Solimano perfezionavano la loro complessa e, almeno sulla carta, ben congegnata trappola, egli si apprestava a investire Tunisi con tutte le sue forze e a conferire a questa campagna il carattere sacrale di una crociata. La città da poco conquistata da Khair ed-Din era la chiave del canale di Sicilia: chi la possedeva, controllava il passaggio tra i due bacini mediterranei. Una piazzaforte di quella capitale importanza non poteva venir lasciata in mano di un capo corsaro vassallo del sultano e – soprattutto – alleato del re di Francia. Inoltre bisognava dar una lezione a quell’arrogante pirata rinnegato, che aveva osato perfino spingersi a un passo dalla dimora del Santo Padre per insidiare una dama appartenente a due grandi casati fedelissimi dell’impero, i Gonzaga e i Colonna. In piena coerenza con lo spirito crociato dell’impresa, l’imperatore si affidò formalmente al «Salvatore crocifisso», compì un pellegrinaggio alla Madonna di Montserrat patrona della marinara Catalogna e si assicurò l’appoggio di papa Paolo III – che diffidò formalmente il re di Francia dal nuocere in qualunque modo all’imperatore mentre questi si trovava impegnato nella campagna navale contro gli infedeli –, degli Ospitalieri e dei portoghesi. Le forze navali di Carlo furono poste sotto il comando dell’ammiraglio genovese Andrea Doria, mentre tutte le principali risorse economiche dell’impero vennero messe al servizio dell’impresa. Si impegnarono per intero i benefici del commercio delle «spezie di

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Castiglia» e si ottennero prestiti consistenti dai banchieri d’Anversa e dai Fugger; anche i proventi della vittoria sull’inca Atahualpa, battuto nel luglio del 1533, che secondo le stime del governatore del Perù ascendevano al valore in oro e argento di due milioni di ducati, erano stati messi a disposizione degli organizzatori dell’armata77. Fin dai primi di marzo l’imperatore aveva avvertito vassalli e alleati che l’impresa stava per essere avviata. Egli salpò in effetti il 30 maggio da Barcellona: luogo d’incontro delle differenti squadre navali sarebbe stato Cagliari. Il sovrano viaggiava sulla «capitana» del Doria, una superba imbarcazione uscita fiammante dai cantieri di Genova e manovrata da 240 rematori vestiti di rosso. Intanto, da Civitavecchia, salpava la squadra pontificia di 12 galee78 al comando di Virginio Orsini conte d’Anguillara. La flotta imperiale, forte in tutto di ben 74 galee e di 330 navi, sbarcava il 16 giugno sulla costa tunisina; meno di un mese dopo il forte di la Goulette era preso, la flotta turco-berbera in gran parte catturata, liberati 20.000 prigionieri cristiani; il 21 luglio, infine, Tunisi era saccheggiata. Carlo avrebbe celebrato per questo un trionfo imperiale in Roma recandovi serrature e catenacci delle porte della città. Mentre Khair ed-Din si rifugiava ad Algeri sfuggendo con rocambolesca astuzia all’accerchiamento che l’ammiraglio Doria aveva disposto attorno a lui, gli spagnoli restituivano Tunisi a Mulay Hasan, loro devoto (se non altro per opportunismo) e signore della città prima della conquista da parte del Barbarossa, mantenendo però il controllo diretto di la Goulette79. Il mosaico delle alleanze e delle inimicizie a carattere interreligioso si complicava: la diplomazia del tempo era in realtà un susseguirsi di grandi e piccoli impia foedera, dove non c’era potenza cristiana che, pur invocando la crociata, non avesse la sua eccezione da salvaguardare, il suo «buon infedele» col quale allacciar alleanze. Le conseguenze dell’entusiasmo sollevato dall’impresa di Tunisi fra i cristiani e dell’apprensione da essa suscitata invece nell’impero ottomano non si fecero attendere. Mentre il papa si dava da fare perché il ferro fosse battuto finché era caldo e confermava perfino a re Sigismondo I di Polonia che ormai l’obiettivo finale delle armi cristiane era Istanbul, il sultano riprendeva con energia le fila di un disegno già avviato dieci anni prima, al tempo della sconfitta di Francesco I contro Carlo V a Pavia nel 152580: e stipulava nel febbraio-marzo 1536 col sovrano francese un trattato che concedeva

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fra l’altro ai sudditi di quest’ultimo i medesimi privilegi commerciali nell’impero ottomano fino ad allora goduti dai soli veneziani. Era una svolta nella politica economica e diplomatica della Porta: ed era anche l’avvìo di quella che noi moderni avremmo più tardi chiamato la «questione d’Oriente». Francesco insisteva affinché il sultano gli riconoscesse anche il diritto a farsi garante e tutore di tutti i mercanti e pellegrini cristiani che si fossero recati in Terrasanta: tale era uno dei principali compiti di Jean de la Forest, primo ambasciatore permanente del re di Francia alla corte d’Istanbul. Si è a lungo ripetuto che l’impium foedus franco-turco del 1536 aveva avuto, l’anno prima, un prologo a Gerusalemme in un atto destinato a restar fondamentale nella storia della Terrasanta moderna: l’accordo definito come «Capitolazioni», mediante il quale il sultano e il re di Francia convenivano di regolare le condizioni dei cristiani occidentali in Oriente dal punto di vista delle libertà individuali, del diritto commerciale, dei privilegi giurisdizionali81. Fino ad allora, a partire dal Trecento (ma si potrebbero trovare dei precedenti databili al XII secolo), i governi musulmani avevano stipulato differenti accordi specie navali e commerciali con varie potenze: ma si era trattato tuttavia di patti che mai avevano avuto un carattere di stabilità e di organicità paragonabile a quello. Le Capitolazioni tra Solimano e Francesco I furono pubblicate nella loro versione francese a Parigi il 27 febbraio 153682: per la verità non ne conosciamo quella ottomana, a tutt’oggi introvabile83, ma all’epoca a nessuno venne in mente di dubitare ch’esse fossero state ufficialmente concordate con la corte ottomana84. Il loro testo era costituito da un accordo commerciale in 17 punti dove si assicurava libertà di traffico e da un trattato relativo all’insediamento occidentale che garantiva le libertà individuali e religiose fondamentali85. Per quanto di per sé il rapporto così delineato riguardasse i sudditi del re di Francia, nella sostanza lo si poteva intendere esteso a tutti i «franchi», vale a dire agli europei in genere: il che equivaleva a considerare il sovrano francese una sorta di detentore d’un protettorato su tutto il millet (la comunità «protetta») dei cristiani d’Occidente, un po’ come durante il medioevo i potentati musulmani avevano considerato l’imperatore di Bisanzio86. Era uno schiaffo violento in volto al nuovo imperatore d’Occidente, a Carlo V, che si considerava a tutti gli effetti il capo in temporalibus della Cristianità latina, ma che la cancelleria ottomana definiva semplicemente bey, alla stregua di un detentore di semplice potere delegato.

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La Cristianità fu percorsa da un moto d’indignazione contro Francesco I, che aveva osato allearsi con l’infedele pugnalando così alle spalle la Santa Lega stipulata tra papa, imperatore e Venezia per contrastare il Turco. Il re di Francia rispose a sua volta indignato, richiamando ai cristiani d’Occidente i grandi meriti della Francia nella secolare lotta all’infedele: da Carlomagno alle crociate sino a tempi vicinissimi (le velleità crociate di Carlo VIII) essa era stata, o poteva pretendere di essere stata, il presidio più sicuro della Cristianità contro i musulmani. A parte il fondatore dell’impero franco – che Francesco I amava celebrare come suo predecessore e nel nome del quale egli aveva perfino avanzato la sua candidatura alla corona imperiale –, era evidente come questa danza di recriminazioni reciproche fosse soltanto il prodotto dell’intrecciarsi di ben concrete ragioni politiche le quali, in vario modo, contrastavano con alcuni conclamati e condivisi princìpi più volte concordemente ribaditi da tutti i principi cristiani: e regolarmente disattesi quando e nella misura in cui le concrete circostanze lo avessero richiesto. D’altronde, se lo scalpore suscitato in Europa dal deciso e spregiudicato indirizzo della politica di potenza intrapresa dal Re Cristianissimo fu da molti sinceramente vissuto come uno scandalo, non bisogna dimenticare che si era ben lontani dal ritenere sul serio il Turco come il peggiore dei nemici della Cristianità. Lo si poteva senza dubbio proclamare in termini retorici tale, ma ciò non ostava al fatto che già da tempo i riformati sostenessero per esempio che il papa era peggiore dei musulmani: non c’era da stupirsi che una potenza cattolica si avvicinasse agli ottomani per contrastare un’altra potenza cattolica, l’impero asburgico. Ma fin dove si spingeva, in realtà, l’intesa tra la Francia e il Turco? Si sarebbe mai, da parte della prima, giunti ad avallare – anche attraverso una semplice «benevola neutralità» – le campagne militari del secondo o dei suoi alleati-vassalli barbareschi, ad esempio contro il litorale italico ch’era il più esposto e direttamente o indirettamente controllato dagli spagnoli? Nel Mediterraneo, la febbre crociata si faceva infatti più ardente. Nel 1537 gli ottomani avevano assalito la città di Castro, sulla costa a sud di Otranto, e l’avevano saccheggiata nonostante essa si fosse arresa, massacrando parte degli abitanti e traendone numerosi prigionieri: si tratta di un episodio molto strano, dove figura perfino un misterioso bagliore celeste, e che culmina in un’esemplare punizione inflitta da Solimano al comandante turco reo di fellonìa, tal Sofì

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Pas¸a da Valona. In effetti, sulla base dell’accordo strategico ad ampio raggio messo a punto due anni prima da Francesco I, un corpo di spedizione francese aveva attraversato le Alpi mentre il sultano, da Valona, era pronto a intervenire in Italia meridionale. Ma un’intesa stipulata all’ultimo istante tra Carlo V e Francesco I, il quale si era ricreduto a proposito della sua convinzione che in caso di attacco congiunto franco-ottomano in Italia Venezia sarebbe rimasta neutrale – egli temeva ora di aver confidato troppo sull’influenza del doge Andrea Gritti, simpatizzante suo e del sultano –, indusse Solimano a richiamare il suo corpo di spedizione, che dalla Puglia stava avanzando verso Napoli87. Comunque, la fama dell’atto di giustizia del grande sovrano infedele nei confronti di un suo servo che aveva agito contro giustizia fu uno degli elementi che contribuirono a costruire il suo mito anche presso i cristiani88. Eppure, sul piano puramente strategico, un attacco alle coste basso-adriatiche che erano parte del regno di Spagna non sarebbe stato illogico. Nell’àmbito dei progetti comuni di Francesco I e di Solimano riguardanti la strategia nei confronti della penisola italica, il sultano stava concentrando sull’Adriatico e sullo Ionio la sua attenzione. Fra 1537 e 1538 la repubblica di Venezia, sentendo crescere la minaccia turca contro la sua fondamentale base di Corfù mentre al suo interno un «partito della guerra» andava forzando la mano al doge Gritti, aveva rifiutato di accedere a un’intesa con il sultano come invece avevano fatto i francesi, nonostante a ciò fosse stata invitata89. La sconfitta della linea filoturca rappresentata quanto meno implicitamente, a Venezia, dal Gritti, era stata un successo di papa Paolo III, vero patrono del partito cittadino favorevole alla guerra contro il Turco. Di conseguenza, il papa e la Serenissima stipularono un patto per coordinare i loro sforzi contro gli ottomani; quando ad esso ebbe accesso anche l’imperatore, si pervenne a fondare il 31 gennaio del 1538 una nuova lega e si stabilì con un accordo dell’8 febbraio successivo una precisa ripartizione delle spese di guerra90. L’impresa così configurata si presentava, nelle intenzioni dei contraenti, come sul serio risolutiva: la sua strategia avrebbe dovuto caratterizzarsi come un attacco simultaneo per terra e per mare, con l’obiettivo di sloggiare il Turco sia dall’Ungheria, sia dalle isole greche Rodi compresa. La paura che aveva percorso l’Italia pochi mesi prima, quando era sembrato sul serio che il Turco fosse sul punto d’invadere l’intera penisola, aveva sortito il suo effetto. Carlo si sarebbe accollato la metà delle spese; i veneziani i due terzi della metà restante91, un terzo il pontefice92. Il

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piano, un vero e proprio progetto crociato, prevedeva un attacco portato alla stessa Istanbul e contemporaneamente un’offensiva contro le coste egiziane. Come capitano generale dell’impresa fu designato Francesco Maria I della Rovere duca d’Urbino, la fedeltà del quale nei confronti di Venezia era nota. Appunto per questo, sia Carlo V sia Paolo III diffidavano del duca: ed egli, temendo colpi di mano in sua assenza, seppe tutelarsi ottenendo dalle potenze firmatarie del patto d’alleanza l’assicurazione congiunta che nessuno avrebbe minacciato il suo diritto a governare i suoi territori. In caso di vittoria il sovrano asburgico avrebbe rivendicato anche il titolo imperiale di Costantinopoli, mentre Rodi sarebbe tornata agli Ospitalieri. Intanto però, in evidente ritorsione rispetto al rifiuto della repubblica di San Marco di aderire alla loro alleanza col re di Francia e addirittura alla decisione di raggiungere il fronte opposto, gli ottomani avevano bloccato il canale d’Otranto e assediato la veneziana Corfù93. Tuttavia, minacciato da un’invasione di Provenza e di Piccardia da parte delle armate imperiali, Francesco I aveva accettato nell’estate del 1538 di firmare a Marsiglia una vera e propria tregua con Carlo V; qualche giorno più tardi, incontrandosi ad Aigues-Mortes, i due sovrani si erano abbracciati promettendosi eterna amicizia e impegnandosi a combattere insieme contro la minaccia ottomana94. Il sultano, al corrente di quell’episodio, non mancò di manifestare al re di Francia la sua irritazione: sapeva fin troppo bene che un principe cristiano non poteva mai opporsi esplicitamente e formalmente a un progetto di crociata, ma non ignorava nemmeno quanto facilmente aggirabili fossero, nella pratica, gli impegni di quel tipo. In effetti, Francesco I rispose dando immediatamente due prove di buona volontà: anzitutto inviando a Istanbul, come ambasciatore in sostituzione del de la Forest, il castigliano Antonio de Rincon, un reduce della rivolta dei comuneros del 1520-22 nemico giurato di Carlo V e passato al suo servizio; quindi rifiutandosi all’ultimo istante – contrariamente alle promesse di Aigues-Mortes – di aderire alla lega pontificio-veneto-imperiale. Era, per Carlo V e per Paolo III, una grave sconfitta diplomatica. Seguì a ruota quella militare, annunziata dalla repentina uscita di scena del capitano generale della lega, il duca d’Urbino, che si era gettato con grande entusiasmo nei preparativi dell’impresa. Di ritorno a Venezia dopo un’ispezione lungo le coste istriano-dalmate, Francesco Maria era stato colto il 20 settembre da un improvviso

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malore. Sentendosi prossimo alla fine, aveva fatto vela verso Pesaro, dove sarebbe in effetti morto poco più di un mese dopo, il 22 ottobre. Alla luce delle ricerche mediche più recenti, parrebbe destituita di fondamento la diceria che fosse stato avvelenato: forse morì di un attacco di malaria aggravato dalla sifilide e da un’insufficienza renale95. L’inattesa e repentina fine risparmiò se non altro al duca d’Urbino l’umiliazione di una sconfitta. Difatti tra il 27 e il 28 settembre, nelle acque ioniche prospicienti la base navale ottomana di Prévesa96, di fronte all’isola di Santa Maura97, all’imboccatura del golfo di Arta – non lontano dal fatidico promontorio di Azio, dove nel 30 a.C. Ottaviano aveva disperso la flotta di Antonio e Cleopatra –, Khair ed-Din batté sonoramente, con una squadra di 122 vascelli, l’armata della Lega che era pur forte di 36 galee pontificie, 61 genovesi, 50 portoghesi e 10 di Malta98, con un potenziale che è stato calcolato di quasi 60.000 uomini e più di 2500 cannoni. Si disse che la sconfitta fosse imputabile anche allo scarso impegno del comandante della flotta cristiana, Andrea Doria, poco entusiasta di una guerra che, se fosse stata coronata da successo, avrebbe recato vantaggio soprattutto alla Serenissima: e anzi segretamente collegato col Barbarossa proprio ai danni di San Marco, non senza – pare – il tacito consenso dello stesso imperatore99. In effetti, Carlo temeva un riavvicinamento tra la Serenissima e il Turco: ma quel che anzitutto voleva evitare era un eccessivo rafforzarsi della potenza veneziana nello scacchiere adriatico-balcanico a scapito non solo degli ottomani, bensì anche delle posizioni asburgiche. La sconfitta di Prévesa segnò in effetti un tracollo della potenza veneziana e fu il preludio della fine del dominio della Serenissima sulla Morea. Il vecchio doge Andrea Gritti, che si sarebbe spento alla fine di quel fatidico 1538, avrà avuto ragione di rinfacciare ai suoi avversari l’incauta condotta bellicista; anche se non è il caso di arrivare a supporre che, sotto sotto, non fosse poi dispiaciuto di questa dura lezione della quale come doge egli doveva portar la croce, ma che andava in realtà a disdoro di quanti avevano ostacolato la politica sua e dell’ambasciatore Pietro Zen, avevano costretto il leone di Venezia a chiudere il Vangelo e a impugnar la spada – secondo la tradizionale alternanza nelle insegne della Serenissima in pace e in guerra – e avevano condotto il nobilissimo alato felino alla vergogna della sconfitta. L’alleanza fra le potenze cristiane si sciolse allora come neve al sole: del resto, quella imperiale-veneziana (e, più tardi, ispano-vene-

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ziana) in ordine al problema turco non poteva durare, data la fondamentale divergenza strategica e politica dei rispettivi scopi: «per usare termini del XX secolo, i veneziani pensavano a una politica di roll-back, gli spagnoli a una politica di containment della potenza turca»100. Il 2 ottobre 1540 la repubblica di San Marco siglò con la Porta una pace separata che comportava il pagamento d’una pesante indennità di guerra (300.000 ducati: per dare un’idea, oltre una tonnellata d’oro praticamente puro) e la cessione delle ultime fortezze veneziane sulla terraferma greca, come Nauplia e Monembasia101. Nella prima metà del 1540, un ravvicinamento diplomatico tra Carlo V e Francesco I era stato accompagnato da molto rumore propagandistico; Solimano se ne era adombrato tanto da minacciare personalmente e fisicamente l’ambasciatore Rincon: in questi casi un diplomatico accreditato presso la Porta rischiava la decapitazione, l’impalamento o la scorticatura. Ma quella franco-imperiale era stata una manovra effimera, gli effetti della quale sarebbero durati solo pochi mesi. Il nobile castigliano s’impegnò al massimo: non solo per compiacere al suo protettore francese, ma soprattutto per l’odio feroce che nutriva contro l’Asburgo. Rientrato presso Francesco I con un messaggio del sultano, ne ripartì ai primi di maggio del 1541 con la risposta del suo re: un nuovo progetto d’alleanza. Ma stavolta l’abile negoziatore non sfuggì all’ira del suo nemico: attraversando l’Italia settentrionale insieme con il genovese antiasburgico Cesare Fregoso, egli e il suo compagno di viaggio furono raggiunti dai sicari del governatore di Milano, Alfonso d’Avalos marchese del Vasto102. La partita era chiusa. L’imperatore si era reso definitivamente conto però che la rivalità nei confronti della Francia comportava necessariamente la convergenza tra la rivale e il sultanato. La crociata di tutta la Cristianità contro il Turco era impossibile perché nessuno dei grandi principi europei era in grado d’imporre definitivamente agli altri un’indiscutibile egemonia, né disposto a lasciarla al concorrente: e sulla scacchiera politica euro-mediterranea la pedina ottomana da giocare sul tavolo di quella contesa era troppo importante. L’evolversi della situazione mediterranea veniva seguito con molta compartecipazione e anche con ansia dal Portogallo, in quanto il sultano dava segni di non accettare per nulla il monopolio portoghese delle rotte fra Atlantico e Oceano Indiano: nel fatale 1538, l’anno medesimo della battaglia di Prévesa, egli aveva difatti conquistato il porto di Aden, all’estrema punta sud-occidentale della penisola arabica, da dove gli era possibile insidiare e intercettare i vascelli

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portoghesi diretti alle Indie orientali. Ma i portoghesi seppero molto energicamente difendere le loro basi sul litorale etiopico, sfruttando anche i loro tradizionali – e proverbiali – legami d’amicizia col negus d’Etiopia: e in quel settore la marineria ottomana non ce la fece, tanto più che, concepita e attrezzata per il Mediterraneo, era del tutto inadatta ad affrontare il clima monsonico dell’Oceano Indiano103. Per tutto il Cinquecento e la prima metà del Seicento, gli ottomani furono impegnati nel quadrante di sud-est del loro impero in guerre contro la Persia sciita alternate a campagne navali nell’Oceano Indiano: e sempre senza ottenere risultati apprezzabili104. Intanto la Cristianità riceveva però dal Turco, dopo lo smacco della Prévesa in mare, una nuova dura lezione sulla terraferma. Mentre sul Mediterraneo si misuravano imperiali e veneziani da una parte, francesi e ottomani dall’altra – due complessi esempi di alleanze imperfette e sovente perfino sleali –, il sultano aveva esemplarmente consolidato la sua posizione egemonica nell’area del Danubio. Il 20 luglio del 1540 era morto il re d’Ungheria Giovanni Zápolya che poco prima, col trattato di Grosswardein105 del 1536, aveva promesso a Ferdinando d’Asburgo, fratello dell’imperatore106, di trasmettergli la corona se fosse deceduto senza eredi. La situazione particolare del regno – che era sì elettivo, ma dove nel 1527 una parte dei magnati aveva votato a favore dello Zápolya, a quel tempo e fin dal 1510 vojvoda di Transilvania, e un’altra di Ferdinando – consentiva in effetti al primo dei due di disporre praticamente del trono nella misura in cui prometteva di lasciarlo in eventuale eredità a colui ch’era stato il candidato della minoranza dei magnati: in tal modo, si ristabiliva un’unità d’intenti all’interno della classe dirigente magiara. Ma colei che appena dal 1539 era la moglie di Giovanni, Isabella figlia di Sigismondo re di Polonia, dette alla luce un rampollo cui furono imposti insieme i nomi del padre e del nonno materno: allora, all’ultimo istante – poco prima di spirare, quando il figlioletto aveva appena dieci giorni –, lo Zápolya aveva chiesto e ottenuto, disattendendo gli impegni assunti con il re dei Romani, la protezione dei diritti del figlio da parte di Francesco I. Erano le premesse di un conflitto contro la casa d’Austria, ma soprattutto di una guerra civile: la fazione magnatizia filoasburgica non avrebbe mai consentito quel colpo di mano dell’ultimo istante, per giunta a favore di un neonato nipote del re di Polonia. Il sovrano francese aveva colto al volo l’opportunità di aprire un nuovo fronte antiasburgico in piena regione danubiana: ma era troppo lontano

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per poter agire direttamente. Aveva allora incaricato della tutela dei diritti del piccolo Giovanni Sigismondo uno dei più energici rappresentanti della fazione zápolyana, il croato György Martinuzzi Uteszenics, vescovo e governatore di Várad107: egli, alla morte di re Giovanni, aveva cercato di mediare un qualche accordo tra le regina-vedova Isabella e Ferdinando d’Austria. Ma gli fu impossibile impedire un’azione fulminea del sultano che, invitati sotto la sua tenda i magnati magiari col pretesto della ricerca di una soluzione soddisfacente per le due fazioni, offrì loro un banchetto durante il quale, il 29 agosto del 1541, i giannizzeri occuparono senza resistenza la città di Buda; quindi fece arrestare i suoi ospiti e spedire la regina Isabella e il fanciullo in Transilvania. Il regno d’Ungheria venne allora smembrato e riorganizzato in tre parti108. Di esse solo una, l’esigua fascia territoriale di nord-ovest corrispondente ai comitati dell’alta Ungheria sino alla sponda occidentale del Tibisco, rimaneva agli Asburgo, i quali ne cingevano la corona regia che, in quanto elettiva, non concedeva loro in linea di principio alcuna prospettiva sicura di poterla mantenere. Essa comprendeva: l’attuale Slovacchia, con capoluogo Kassa109, una città di circa 70.000 abitanti in strettissime relazioni con Cracovia; una parte del cosiddetto Transdanubio con la città di Sopron110, celebre per i suoi vigneti; e i regni di Croazia, Dalmazia e Slavonia (le cosiddette partes adnexae). I fieri cavalieri croati insediati nell’area montagnosa tra le città di Zagabria e di Fiume avevano accettato fin dai primi del XII secolo di collegare il loro regno, in unione personale, alla corona d’Ungheria. Governati da un «bano» (il Banus Croatiae, rappresentante del re), erano fieri dei loro reggimenti a cavallo – le famose «cravatte» – e si mantenevano gelosi delle loro libertà; disponevano di una loro dieta particolare (il Sabor) ma inviavano rappresentanti anche a quella ungherese, una sede nella quale essi presentavano le loro proteste e rimostranze, i cosiddetti gravamina111. Poiché Buda era perduta, la capitale dell’Ungheria regia venne trasferita a Presburgo, oggi Bratislava in Slovacchia. La principale fortezza del regno era Györ112. La grande pianura ungherese dal Balaton alla Sava e al Tibisco, compresa tra Slovacchia e Transilvania, passò all’impero ottomano che dal 1541 ne aveva fatto di Buda la capitale: il territorio ungherese dominato dagli ottomani veniva ripartito in quattro pas¸alik (Buda, Eger, Kanizsa nonché il banato di Temesvár113), compresa anche una parte della vallata del Danubio con l’importante città di Esztergom,

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o Gran, sede primaziale d’Ungheria. Il territorio in parte dipendeva direttamente dall’autorità sultaniale esercitata dai pas¸a, in parte era affidato a guerrieri che avevano l’obbligo di servire a cavallo, gli spahi, inquadrati nel regime «feudale» del timar 114. Sotto il profilo religioso, tanto l’Ungheria regia quanto quella ottomana erano un groviglio di cattolici, calvinisti, luterani e unitariani, con qualche comunità ebraica; ma nell’alta nobiltà prevalevano i calvinisti, mentre gli aristocratici di più modesto lignaggio erano sovente luterani. La differenza tra le due Ungherie era che in quella controllata dagli Asburgo si mettevano in atto ricorrenti politiche repressive nei confronti dei riformati, mentre in quella ottomana le comunità religiose godevano di libertà condizionata dalla rispettiva condizione di dhimmi 115. Il «principato ungherese di Transilvania»116, governato da un principe eletto dai magnati locali, comprendeva gran parte della Transilvania storica e alcuni «comitati» o contee117 ad est del Tibisco118. Indipendente de nomine, viveva in uno stato di ambigua soggezione de facto tra Vienna e Istanbul: la Porta ammetteva che gli Asburgo vi mantenessero una qualche ingerenza119. Le sue due città principali erano Kolozsvar120 e Gyulafehérvar121. In Transilvania vigeva uno stato di notevole tolleranza religiosa, con una maggioranza di calvinisti ungheresi e di luterani sassoni, una minoranza cattolica, gli ortodossi valacco-moldavi, un po’ di anabattisti unitariani rifugiati e alcune comunità israelitiche. Dal punto di vista etnolinguistico prevalevano i magiari veri e propri, i turco-magiari detti Székler e i sassoni evidentemente germanofoni. Molti erano anche gli ortodossi, appunto valacchi e moldavi, che anzi alla fine del XVII secolo avrebbero raggiunto il 30-40% della popolazione: venivano lasciati del tutto liberi di professare la loro fede ma, data la loro condizione servile, non godevano di alcun diritto. Questa ridefinizione del territorio ungherese non poteva piacere alla corte di Vienna: dove, poiché non si era in grado per il momento di far altro, si pensò quanto meno a vendicarsi di chi ne era stato responsabile. Nel dicembre del 1551 il Martinuzzi, ritenuto colpevole della soluzione e accusato di connivenza con il Turco, fu fatto assassinare dal generale asburgico Giovanni Battista Castaldo nel castello transilvano di Alvinc122.

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«Magnanimo» «al-Qanuni» Tanto per la politica imperiale quanto per quel che Carlo V personalmente pensava e sentiva, il vero bubbone della politica mediterranea e la vera macchia sullo splendore della sua panoplia era Algeri, la capitale corsara di Khair ed-Din1. L’imperatore – nonostante i pareri dei suoi più stretti collaboratori che lo esortavano a sostenere il fratello nei Balcani, dove la caduta di Buda in potere degli ottomani nel 1541 non lasciava presagire niente di buono2 – decise proprio in quell’anno di conquistare la città nordafricana, confidando nel mantenimento dell’accordo con il re di Francia raggiunto l’anno precedente. Sarebbe stata quella, finalmente, l’occasione buona d’impartire al Barbarossa la lezione che egli da tempo meritava? Fu peraltro solo arrivando a Genova, l’8 settembre, che il sovrano fu informato della débâcle di suo fratello Ferdinando in Ungheria. Se lo avesse saputo prima, forse avrebbe deciso altrimenti a proposito della spedizione navale ormai in atto; ma, ormai, quella diventava una ragione di più per prendersi con Algeri una decisiva rivincita. Stavolta però il fido ammiraglio Andrea Doria, padrepadrone della repubblica di Genova e suo grande sostenitore, indignato forse a causa dei sospetti di connivenza con Khair ed-Din che dopo la sconfitta della Prévesa si erano addensati su di lui, pur non rifiutando esplicitamente la sua collaborazione declinò l’invito ad assumere primarie responsabilità. La giustificazione addotta, del resto, non era priva di plausibilità: il vecchio marinaio faceva notare al suo imperiale interlocutore che la stagione cominciava ad essere ormai avanzata e quell’anno per giunta non si annunziava clemente. D’altro canto, l’ammiraglio aveva ormai i suoi bravi settantacinque anni ed era sofferente: il sovrano mostrò molta comprensione nei suoi confronti3. La squadra genovese era del resto comandata da Giannettino Doria, cugino di secondo grado di Andrea che lo con-

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siderava suo successore e che da parte sua prese fisicamente parte all’impresa. A Palma di Maiorca attendevano la squadra di Napoli e di Sicilia comandata da Ferrante Gonzaga e quella di Castiglia agli ordini di Bernardino de Mendoza4. Ma una tempesta obbligò la flotta ad arrestarsi alle bocche di Bonifacio, dove era atteso il contingente dei cavalieri di Malta, e infierì anche in seguito durante la traversata; la situazione, già critica, si aggravò a causa di ripetuti attacchi corsari. Nuovi episodi di cattivo tempo, seguiti da un’incursione delle navi ottomano-barbaresche, distrussero la flotta: solo il coraggio dei cavalieri di Malta impedì che lo stesso imperatore venisse preso prigioniero. Sbarcato in terraferma, e dopo vari tentativi di riprendere il mare, Carlo vi riuscì soltanto alcune settimane dopo, il 23 ottobre; tre giorni dopo era di nuovo a Palma di Maiorca, da dove raggiunse il 29 Ibiza e il 3 dicembre Cartagena. Testimone d’eccezione del disastro fu lo stesso Hernán Cortés, il conquistatore del Messico, che aveva partecipato all’impresa insieme con i suoi due figli. Il sogno della conquista di Algeri naufragava miseramente: nonostante le proteste dell’anziano conquistador, che quasi settantenne sentiva l’impresa come il canto del cigno della sua vita cavalleresca. Non volendo concluderla con una sconfitta, egli insisteva affinché si evitasse una ritirata ingloriosa. Non fu ascoltato5. Probabilmente il vecchio cavaliere si sarà chiesto che cosa mai potesse avere spinto il suo sovrano ad agire così: a quale dei molti «encantadores mis enemigos» avesse mai dato egli ascolto «por defraudarme de la honra de aquella batalla»6. Mentre l’imperatore era ancora scosso per la batosta d’Algeri che aveva compromesso la sua reputación, il kapudan-i daryâ sultaniale Khair ed-Din avviava fra il 1543 e il 1544 – su sollecitazione di Francesco I, che il 20 luglio 1542 aveva d’accordo con Solimano dichiarato di nuovo guerra a Carlo V 7 – una potente spedizione d’intesa con il re di Francia. Dopo essersi presentata in pieno dispiegamento di fronte a Ostia il 29 giugno seminando un pànico che riecheggiò fino a Roma, l’immensa flotta ottomana forte di 610 galee e di 4 grandi navi sfilò dinanzi al porto di Nizza navigando verso Marsiglia per rifornirsi; là, fu accolta dall’ex capitano delle galee pontificie, Virginio Orsini, passato in odio all’imperatore al servizio del re di Francia8: il nobilissimo signore laziale offrì al corsaro ricchi doni9. Ma in quel porto era presente anche un ammiraglio francese ventitreenne, François de Bourbon conte d’Enghien, sul quale – scambiati i regali e i convenevoli d’uso – si abbatté l’ira del Barbarossa il quale gli rim-

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proverò la scarsa qualità e la scadente preparazione della sua flotta. In realtà egli avrebbe voluto affrontare decisamente le navi di Carlo V in mare aperto e si rendeva conto che i francesi tergiversavano, al solito, timorosi delle reazioni dell’opinione pubblica cristiana dinanzi allo spettacolo dei vascelli del Re Cristianissimo schierati al fianco di quelli del nemico della fede contro quelli di Sua Maestà Cesarea. Si adottò alla fine una sorta di ripiego: puntare di nuovo su Nizza, che apparteneva al duca di Savoia vassallo e alleato dell’imperatore10. L’assedio franco-ottomano alla città, ben difesa da una forte cittadella, cominciò piuttosto pigramente, tra il 7 e il 9 agosto: finché il 15 – festa dell’Assunzione della Vergine Maria – il kapudan-i daryâ dette di primo mattino ordine a tutte le sue galee, schierate di fronte al porto, di aprire contemporaneamente il fuoco e di penetrare quindi nella città. La data mariana era ben scelta: i cristiani consideravano la Madonna loro speciale protettrice nella guerra contro gli infedeli. In questo modo il corsaro rinnegato aveva non solo oltraggiato la loro fede, ma anche compromesso ulteriormente i francesi agli occhi della Cristianità per legarli irreversibilmente alla sua causa. Non che ciò, peraltro, disorientasse troppo le ciurme del Re Cristianissimo: le quali penetrarono nella cinta urbana attraverso la breccia aperta dall’artiglieria ottomana e, nonostante i cittadini si fossero arresi, si dettero al saccheggio e all’incendio. Ma poiché la cittadella resisteva, la flotta ottomana preferì ritirarsi, temendo l’arrivo di rinforzi imperiali. Il bilancio dell’impresa comune era pessimo: il Barbarossa accusò gli alleati di scarsa competenza e di leggerezza, i francesi – a disagio – ritorsero le accuse rimproverandogli crudeltà e barbarie (ma a dire il vero il saccheggio e l’incendio della città erano stati opera loro)11. Nonostante il kapudan-i daryâ avesse ricevuto l’ordine sultaniale di rientrare a Istanbul, egli stimò che la stagione fosse troppo avanzata per mettere a rischio la flotta: il che, nonostante le prevedibili bufere di mezz’agosto, non era poi del tutto vero. La navigazione era ancora agevole, di solito, fino a tutto settembre. Ma il Barbarossa non voleva rischiare. E, in fondo, sapeva di poter fare quel che voleva perfino quando trattava col suo signore. I francesi approvarono quella scelta, che forse erano essi stessi ad aver sollecitato: dopo la brutta pagina nizzarda temevano, se gli ottomani se ne fossero andati, attacchi spagnoli di ritorsione; e, se essi fossero rimasti, speravano per contro nella loro ripresa primaverile di una lotta navale contro l’imperatore che non si sentivano di sostenere da soli. Il re di Francia offrì quindi alla flotta di Khair ed-Din il porto di Tolone

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per svernarvi. La gente di quello che allora era un grosso paesone costiero aveva poco da lamentarsi di quella scelta, dal momento che nel ventennio precedente aveva subito attacchi e saccheggi da parte sia dei barbareschi sia degli spagnoli. Essa fu comunque quasi completamente evacuata e gli ottomani l’occuparono dall’ottobre del ’43 all’aprile del ’44. Ma il kapudan-i daryâ, deciso a dare ai suoi alleati una lezione di disciplina e di stile, dette ordine ai suoi di rispettare rigorosamente i beni dei cittadini temporaneamente a lui affidati e l’ambiente circostante: il che avvenne, con grande meraviglia dei provenzali e dei francesi i quali sapevano che un comportamento così disciplinato sarebbe stato impensabile in un’armata cristiana. Vero è che, a parte i doni d’uso, l’occupazione valse al Barbarossa un contributo di 30.000 ducati mensili oltre ai vettovagliamenti e alla somministrazione dei materiali tecnici necessari alla flotta: in cambio, l’amministrazione regia esentò per i dieci anni successivi la città di Tolone dai carichi fiscali. Ma il fatto che un porto francese fosse diventato per sei mesi «una città turca» valse al re di Francia, da parte dei suoi correligionari europei, un rafforzamento della sua fama di «turco battezzato» e di «peggiore degli infedeli». Francesco I corse addirittura il rischio della scomunica. Salpata da Tolone, nella primavera dell’anno successivo la flotta di Khair ed-Din intraprese il viaggio di ritorno a Istanbul costeggiando il litorale tirrenico e terrorizzando le coste liguri, toscane, campane, siciliane e pugliesi. Saccheggiò l’isola d’Elba ai primi di giugno; impose quindi a Jacopo d’Appiano signore di Piombino la restituzione di un ragazzo, figlio del corsaro Sinan detto «lo Judeo» e di una donna di Rio Marina nell’isola d’Elba che il corsaro aveva rapito anni prima12. Il fanciullo era stato recuperato a Tunisi nel 1535, quando la donna era stata liberata dalla flotta di Carlo V: rientrato in Toscana con la madre, aveva trovato un tutore nel signore di Piombino, che lo aveva fatto battezzare col nome di Antonio e allevato insieme con i suoi figli13. Quindi il Barbarossa, tra il 9 e l’11 giugno, conquistò Talamone – il cui signore Bartolomeo Peretti, che aveva sostituito Virginio Orsini al comando delle galee pontificie, aveva condotto qualche mese prima un raid contro Mitilene, sua isola natale14 – e razziò anche un villaggio dell’interno; poi occupò Porto Ercole, uccidendone o prendendone prigionieri quasi tutti gli abitanti; il 13 successivo, il suo rais Salah assalì anche l’Isola del Giglio, che dipendeva da Siena, traendone oltre 600 prigionieri da condurre in schiavitù; il 23 Khair ed-Din infierì su Ischia, feudo

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del marchese del Vasto fedele vassallo dell’imperatore, catturandone ben 4000 persone da vendere come schiavi15. Nel luglio, ne prelevò altri 9000 da Lipari, dove fu perpetrata un’orribile strage. Questi assalti alle coste italiche non si sarebbero comunque mai verificati, se l’ammiraglio del sultano non si fosse sentito sicuro per tre belle ragioni: l’appoggio francese16; la connivenza con la flotta di Giannettino Doria che – senza mai impegnarsi in combattimento – appariva di quando in quando all’orizzonte, quasi a segnalare i porti che andavano lasciati in pace; infine la consapevolezza che l’imperatore – impegnato in Fiandra contro un suo vassallo fellone, il duca di Clèves – non avrebbe potuto correre in aiuto delle sue terre nella penisola. E in effetti egli non lo avrebbe fatto anche perché, proprio nel frattempo, aveva deciso d’intavolare col sultano delle serie trattative, d’accordo con lo stesso re di Francia17. Paolo Giovio, sempre più desolato dinanzi allo spettacolo degli odî che dilaniavano la Cristianità e lasciavano tanto spazio al Turco, dava voce agli sciagurati prigionieri cristiani che, incatenati nelle stive dei vascelli degli infedeli e trascinati verso la schiavitù che li attendeva a Istanbul, maledicevano «la ingordigia» dei principi, «lontani dalla concordia comune», dei quali «con grave infamia si diceva che davano cagione a tante sciagure»18. Il Barbarossa sarebbe morto poco dopo, il 4 luglio del 1546: aveva ottimi luogotenenti che ne continuarono l’opera, ma la sua scomparsa ruppe comunque il cerchio magico di un mito. Carlo V ne approfittò per gettarsi nel giugno del 1550 sulla tunisina al-Mahdiyah, base del successore di Khair ed-Din, quel Turghud Ali – un altro kapudan-i daryâ d’origine cristiana – che gli occidentali conoscevano come Dragut. La città fu in effetti presa il giorno della Natività di Maria, l’8 settembre: un’altra prova che la Vergine proteggeva le armate cristiane, anche se Dragut riuscì a fuggire. Nulla da stupirsi dunque, stando così le cose, se quando nel 1543 i Padri del concilio di Trento si erano riuniti per stilare il programma di quell’assise che avrebbe dovuto rinnovare la Cristianità d’Occidente, uno dei punti qualificanti di esso era stato appunto – ed era tale fino dal Lateranense IV del 1215 – il negotium crucis, la crociata. La spregiudicata politica francese aveva sortito fino ad allora effetti diplomatici e militari tutto sommato vantaggiosi: ma ora il Re Cristianissimo cominciava a rendersi conto che non si poteva tirar troppo la corda. Nel 1553 papa Giulio III non esitava difatti a minacciare Enrico II – succeduto a Francesco nel 1547 – di brandire la croce

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direttamente contro di lui se egli avesse perseverato nell’appoggio che forniva ai turchi e ai protestanti19. Intanto sulla costa nordafricana si subivano nuovi rovesci: il 14 agosto del 1551 gli Ospitalieri di Malta si erano visti costretti ad evacuare la città di Tripoli20, che il sultano aveva quindi assegnato a Dragut. L’appello dei cavalieri all’imperatore affinché s’impegnasse nel recupero della città che per più di vent’anni era stata loro non aveva sortito effetto. In cambio, abbandonando Tripoli, essi avevano fatto una ben magra figura: grazie alla mediazione francese avevano ottenuto vita e libertà, lasciando alla mercé degli infedeli i poveri soldati di truppa... Qualche anno più tardi, dopo l’abdicazione di Carlo V, il quadro di riferimento sembrò mutare profondamente: il nuovo pontefice Paolo IV dava l’impressione di accettare una sorta di tregua non scritta con la Porta, ossessionato com’era dalla potenza asburgica. Si disse perfino che avesse offerto sottobanco un’alleanza ai turchi contro la Spagna (a causa di un’accusa del genere suo nipote cardinal Carlo Carafa, ex Ospitaliere, sarebbe stato più tardi condannato a morte). D’altro canto, la guerra corsara dei barbareschi era ormai un affare endemico mediterraneo, ricambiato da analoga guerra corsara da parte delle potenze cristiane: ed el Rey Prudente Filippo II, succeduto al padre sul trono di Spagna, mostrava di preoccuparsi molto meno del Turco, che era lontano (per quanto vicini fossero invece i barbareschi...), che non dei marranos e moriscos presenti entro i confini iberici, a suo avviso eretici e ribelli ben più pericolosi. Un nuovo assaggio offensivo cristiano contro le coste nordafricane si ebbe nel 1559 su Tripoli e poi ancora alla fine dell’inverno del 1560, quando una flotta di una cinquantina di galee fornita da Spagna, Napoli, Sicilia, Genova, Firenze, papa e Ospitalieri scaricò sull’isola di Jerba, all’imbocco meridionale del golfo di Gabès, circa 12.000 armati. Il 13 marzo l’isola era presa: era chiaro che ormai ci si stava avviando a un’azione ad ampio raggio, diretta a minacciar magari la stessa Tripoli. Ma a metà maggio i turchi riuscirono a distruggere quella formidabile armata: la guarnigione rimasta a presidio di Jerba resistette circa due mesi e mezzo, per cedere comunque a fine luglio: e fu un massacro dal quale si salvarono soltanto circa 7000 uomini, inviati tristemente prigionieri a Istanbul21. Fu soprattutto in seguito a queste vicende che il duca di Firenze e di Siena Cosimo I, dopo qualche a onor del vero modesto exploit marinaro22, fondò solennemente il 15 marzo del 1562, nel duomo di

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Pisa, il Sacro Militare Ordine Marittimo dei Cavalieri di Santo Stefano23, di lì a poco destinato con begli edifici e gloriose insegne ad abbellire Pisa24 e anche Livorno e del quale i granduchi sarebbero stati ereditariamente Gran Maestri25. Esso avrebbe dovuto tutelare le coste toscane contro turchi e barbareschi. La sua arme, la croce patente biforcata vermiglia in campo d’argento, richiamava quella dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, poi – fino al 1522 – di Rodi e infine di Malta: ma i colori erano invertiti rispetto a quell’insegna26. L’inversione cromatica è in araldica un messaggio ambiguo: può indicare fratellanza e complementarità, può significare rivalità e opposizione. D’altro canto, i colori di Santo Stefano erano i medesimi di Firenze. L’Ordine debuttò militarmente nel 1565, al fianco della marina spagnola, in soccorso a Malta assediata; da allora avrebbe fatto le sue molte brave prove sul mare, nella guerra di corsa, contrastando ed emulando i barbareschi, rifornendo il granducato – e non solo – di schiavi «turchi» e il porto di Livorno dei necessari «schiavi da remo», indispensabili per la propulsione delle galee, e magari disturbando non poco le potenze cristiane quando si attraversavano quelle fasi di tregua che i cavalieri medesimi tendevano a infrangere. Nel caso di quelli di San Giovanni e di Santo Stefano si può parlare di «Ordini corsari» senza irriverenza alcuna, bensì nel senso tecnico della parola: Ordini cioè che esercitavano la «guerra di corsa» nel nome e per conto della Cristianità27 e che, data la loro professione di una regola religiosa, dipendevano formalmente dall’autorità della Santa Sede. Intanto, forte del successo di Jerba, Solimano tentava nel 1565 la conquista di Malta, formidabile ostacolo nei rapporti marittimi tra l’impero sultaniale e il Maghreb, da dove le galee dell’Ordine colpivano con frequenza e durezza le coste tanto europee e asiatiche quanto africane dell’impero. Una flotta di 140 galee, una ventina di galeotte e numerosi vascelli da trasporto, con un contingente di circa 30.000 armati, partì dalla rada di Navarino il 12 maggio per giungere sei giorni dopo sotto le coste maltesi. Ma le risorse e la combattività dei cavalieri erano state sottovalutate: l’assedio si trascinò stancamente, con alte perdite da parte degli assalitori, finché la notizia dell’incombente arrivo d’una flotta spagnola di soccorso fece decidere le forze ottomane a reimbarcarsi esattamente quattro mesi dopo l’inizio della campagna, il 12 settembre28. Il fatto che l’isola fosse il raccordo fondamentale tra Europa orientale e Africa settentrionale rendeva ancor più cocente l’insuccesso; tuttavia il nuovo gran visir, Mehmed Sokollu, era in generale contrario alle imprese

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marinare. Da parte cristiana, nella stessa Inghilterra protestante si giunse a ringraziar Dio per questa vittoria dei «papisti». Magra consolazione, del resto. Nell’estate del medesimo anno uno sbarco dei corsari barbareschi sulla costa andalusa veniva respinto, ma i suoi postumi sarebbero confluiti di lì a poco nell’esplosione della rivolta degli esasperati moriscos della regione contro l’autorità regia29; nell’anno successivo l’isola di Chio, fino ad allora in mano ai genovesi30, si arrendeva senza combattere al Turco, che poi assaliva anche le coste abruzzesi infierendo sulla città di Ortona31. Intanto, in Ungheria, i musulmani conquistavano la pur eroicamente difesa fortezza di Szeged: ma in quell’assedio moriva il grande Solimano. L’Occidente tirò un sospiro di sollievo; qua e là vi furono anche manifestazioni di gioia. Eppure, un velo di mestizia sembrò offuscare quel prevedibile giubilo. Era scomparso uno dei protagonisti della storia del secolo: un uomo crudele, ma anche uno statista, un legislatore e un sovrano che aveva saputo affascinare lo stesso Occidente il quale continuamente aveva parlato di lui, ne aveva imitato immaginificamente i fasti e i costumi nelle sue feste e nei suoi apparati, lo aveva ammirato, lo aveva perfino più volte ritratto, per quanto egli – a differenza del suo predecessore Mehmed II32 – non avesse mai posato per nessun pittore «giaurro». Lo stesso Tiziano aveva dipinto ben tre volte la sua effigie, sforzandosi d’interpretare le immagini che gli erano state messe a disposizione. Paolo Giovio lo aveva lodato come pio e magnanimo. Auger Ghiselin de Busbecq, che tra 1554 e 1562 era stato ambasciatore presso di lui per conto di Ferdinando d’Asburgo, lo ammirava nonostante i momenti di forte tensione che avevano caratterizzato il suo lavoro diplomatico33. Fu soprattutto grazie a lui e al suo mito occidentale – alimentato da Montaigne, da Bodin34, da Charron – che si fondò l’idea diffusa della giustizia, dell’ordine, della potenza severa e inesorabile dell’impero ottomano, parallela a quella della sua temibilità in guerra e della crudeltà dei suoi costumi. I molti viaggiatori cinquecenteschi francesi in Oriente non risparmiavano elogi nei confronti del Gran Turco35. Né erano mancate le lodi per quella che per alcuni anni, specie a Venezia, si era definita la «pace turchesca», cioè l’ordine e l’equilibrio che egli aveva saputo a lungo mantenere: un’espressione che suonava onore, rispetto e ammirazione, evidentemente ispirata alla pax Romana, per quanto non mancasse chi ne sottolineava il carattere tirannico e crudele. Né vanno dimenticati gli aspetti pacifici e commerciali dei rapporti tra impero ottomano ed Europa cristiana: basti pensare

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alle massicce importazioni di frumento turco nella sola Italia a metà secolo, allorché la penisola era stata colpita da una disastrosa serie di cattive annate agricole ed era sull’orlo della fame. Lepanto e dintorni La morte di Solimano non fermò peraltro l’imponente macchina da guerra ottomana. Suo figlio Selim II Saroch, «l’Ubriacone»36, succedutogli alla fine d’agosto, dette segno certo di continuarne l’opera. Sistemate sia pur provvisoriamente le cose sul fronte balcano-danubiano con la pace di Edirne del 1568, tornò a investire con foga e da più versanti lo scacchiere mediterraneo, secondo la vecchia legge ottomana dell’alternanza tattica: saggiare i fronti di resistenza cristiani ora via terra appunto attraverso la pianura balcano-danubiana, ora via mare nel Mediterraneo orientale, con la «variabile mobile barbaresca» negli specchi d’acqua occidentale e meridionale. In un paio d’anni i cristiani perdevano infatti, a ruota, Tunisi occupata nel 1569 da Uluç-Ali (che l’anno prima era succeduto al defunto Dragut – caduto all’inizio dell’assedio di Malta di quattro anni prima – come governatore di Algeri)37 e Cipro presa fra il luglio del 1570 e l’agosto dell’anno successivo, quando la piazzaforte veneziana di Famagosta si arrese. Selim attaccò Venezia nonostante vi fosse ancora una tregua in atto: per aggirare le remore che il diritto coranico in questo caso gli opponeva, egli aveva inviato a Venezia un ambasciatore il quale aveva avanzato formalmente la richiesta che Cipro venisse ceduta alla Porta. Nonostante il senato si fosse diviso, in quell’occasione, tra chi era favorevole a una guerra e chi proponeva viceversa di ceder l’isola mediante una vantaggiosa compravendita che pareva possibile, alla fine prevalse il partito che pretendeva il confronto armato38. Le ostilità relative al possesso dell’isola di Cipro avevano avuto probabilmente – o, quanto meno, tale era la convinta e documentata opinione dei diplomatici veneziani – origine dagli intrighi e dalle rivalità dei visir che attorniavano il sultano: in particolare tra il gran visir Mehmed Sokollu39 e il visir Lala Mustafa40, fieramente avversi tra loro; alle loro trame si era aggiunta l’influenza – variamente valutata dalle fonti – di un inquietante personaggio, l’ebreo portoghese Joâo Migues41, conosciuto anche come Josef Nassì, o Nasi, o Nacì, il «Gran Giudeo» come lo chiamavano i veneziani. Esponente autorevole degli ebrei sefarditi esuli a Istanbul e nelle altre città dell’impero

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ottomano in seguito alla persecuzione che proprio in quegli anni andava divenendo, in Spagna e nella parte d’Italia soggetta a Filippo II, sempre più violenta42, il Nassì, influente amico del sultano Selim II, si era prefisso come scopo supremo della sua vita la missione di colpire in qualunque modo la potenza del persecutore della sua gente, Filippo II di Spagna: per questo le sue mosse erano volte ad alimentare in ogni modo i conflitti mediterranei. A Venezia l’opinione che si aveva del Nassì era pessima. Qualunque fosse il peso del parere dei consiglieri del sultano, è un fatto obiettivo che in quel momento la conquista di Cipro, il più ricco e importante nodo produttivo e portuale di tutto il Levante mediterraneo, appariva un obiettivo importante e realisticamente conseguibile. Si sapeva molto bene che la popolazione greca cipriota, ortodossa, sopportava malvolentieri il giogo dei veneziani, non solo pesante sotto il profilo repressivo non meno che sotto quello fiscale, ma aggravato dall’egemonica presenza del clero latino. Sembra che a sostenere l’opportunità dell’impresa fosse soprattutto Lala Mustafa, mentre di avviso diverso era il gran visir Mehmed, che a sua volta insisteva per proseguire la guerra contro la Spagna con lo scopo di assumere il definitivo controllo dell’Africa settentrionale e nella prospettiva di una futura ripresa dell’offensiva balcano-danubiana contro l’impero per affermare ed estendere il controllo sull’Ungheria. Ma lo smacco di Malta, una macchia sulla gloria del grande Solimano proprio alla vigilia della sua scomparsa dalla scena del mondo, aveva fatto infuriare il sultano: e sembra che la sua decisione di assalire Cipro fosse in qualche modo determinata anche dalle conseguenze di quell’evento. In tale quadro si colloca forse, fin dall’anno successivo all’umiliazione maltese, l’investitura del «Gran Giudeo» a duca di Nasso, la più grande delle Cicladi, e di altre isole dell’Egeo: da qui, appunto, il predicato «Nassì». Il Migues organizzava intanto, sempre col favore del sultano, alcune colonie ebraiche attorno a Tiberiade, in Galilea, chiamandovi gli ebrei espulsi dall’Italia43. La rete diplomatico-militare ottomana andava ormai sul serio avvolgendo il Mediterraneo. Proprio nel 1569, lo stesso anno nel quale Uluç Ali aveva occupato Tunisi, Selim II – dopo essersi assicurato la pace balcanica con l’impero, grazie al trattato di Edirne – aveva rinnovato (o inaugurato?) d’accordo con la Francia quelle «Capitolazioni» che accordavano al Re Cristianissimo una preminenza esplicita nella tutela dei pellegrini e dei mercanti in Terrasanta: col che il sovrano francese da un lato si confermava l’interlocutore euro-occi-

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dentale privilegiato della Porta, dall’altro si proponeva all’opinione pubblica europea non già come un tiepido cristiano o in prospettiva un traditore dell’ideale crociato – per quanto accuse di questo tipo gli vennero ovviamente mosse: ma erano, per così dire, comprese nel conto –, bensì come il protettore dei cristiani o almeno dei cristiani occidentali, dei faranj, in terra del sultano. Era un colpo gravissimo al prestigio dell’impero e un affronto a quello della Monarchia di Spagna: ma a Istanbul si sapeva bene che l’aggravarsi della discordia tra i cristiani, causato dalle Capitolazioni, avrebbe contribuito appunto a render ancora più improbabile un loro futuro attacco concordato contro la compagine ottomana e pertanto, paradossalmente, migliorato i rapporti tra essa e le singole potenze europee. Se quindi, nella sua politica nordafricana e francese, il sultano seguiva le indicazioni del suo visir, nondimeno curava di non trascurare i consigli del suo amico ebreo. Il 25 marzo del 1570 erano difatti arrivate a Venezia le pesanti richieste della Porta riguardanti la resa di Cipro. Ma a quel punto si verificò qualcosa che il saggio consigliere ebreo del Gran Signore non aveva previsto: gli interessi veneziani e quelli spagnoli, ch’egli giudicava contrastanti o quanto meno comunque difficili a comporsi, si presentarono in quel frangente inaspettatamente complementari. La Serenissima aveva fino ad allora evitato di compromettersi in un’esplicita alleanza in funzione antiottomana con la Spagna per non esser coinvolta nelle questioni nordafricane. Ora, però, non le rimaneva che rivolgersi accorata all’unico che sembrava disposto a fermare il sultano, sia pure in uno scacchiere che era stato fino ad allora remoto rispetto agli interessi veneziani: a Filippo II44. La risposta del Rey Prudente fu del tipo che nessuno si sarebbe mai aspettato da parte sua: cioè entusiasta. Il fatto era che lo sbarco dei barbareschi in Andalusia nell’estate del 1565 – durante il quale si erano assalite e incendiate chiese, profanate ostie consacrate e reliquie, uccisi preti –, era stato la causa occasionale, se non addirittura il pretesto, per indurre il sovrano a imporre ai cristianos nuevos andalusi un’assimilazione completa, anche sotto il profilo della lingua e dei costumi. Il «giro di vite» aveva presto condotto all’insorgere di situazioni insostenibili: bastava il sospetto che in qualche famiglia si continuasse a cucinare con l’olio d’oliva anziché col grasso di porco per scatenare la persecuzione. La reazione disperata dei moriscos, che giunsero a implorare l’aiuto del sultano ottomano, provocò una risposta durissima45: ma la rivolta nel territorio dell’antico emirato

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di Granada, culminata nei moti avvenuti nel giorno di Natale del 1568 nel capoluogo e durata fino al 1570, si trascinò endemicamente anche più tardi, fino alla definitiva espulsione degli irriducibili dal regno che sarebbe stata attuata da Filippo III tra 1609 e 161446. La reazione dei moriscos e soprattutto la prospettiva di un possibile intervento del sultano – suscettibile di tradursi, nell’immediato, in nuovi raid barbareschi – aveva risvegliato nel figlio di Carlo V, insieme con l’ira e la paura, quello spirito di crociata ereditato in gran parte dalla Reconquista e che si sarebbe affermato come uno dei caratteri fondamentali, per quanto tutt’altro che incontestati, dell’identità iberica moderna47. Quel mondo che, fra XI e XIII secolo, era stato – nonostante le difficili fasi almoravide e almohade e le frequenti guerre – la terra d’elezione dell’equilibrio e della convivenza fra le tre fedi d’Abramo, si stava ormai avviando a divenire la ruvida e austera patria della cruzada48 propugnata dovunque giungessero i gloriosi tercios e dovunque garrisse il vessillo sangre y oro: dalle Ande al Mar di Levante al Sahara... Cipro seguiva intanto il suo destino: cadeva Nicosia il 9 settembre del 1570, cadeva Famagosta il 5 agosto del 1571; quattro giorni dopo il giovane fratellastro del Rey Prudente, Giovanni d’Austria – che aveva già fornito prova di sé sia al comando della flotta spagnola sia durante la repressione della rivolta andalusa dei moriscos –, sbarcava a Napoli; poco più d’un mese più tardi la flotta ispano-veneto-papale salpava da Messina. L’Occidente fu investito dalle notizie relative a Cipro; triste fama di ferocia e di fellonìa si acquistò il comandante ottomano, Lala Mustafa che, in spregio agli impegni assunti all’atto della resa della guarnigione veneziana di Famagosta, inflisse una lunga e orribile agonìa a quello che era stato l’eroico difensore dell’isola, il senatore Marcantonio Bragadin. Per la verità, i fatti relativi alla resa del Bragadin e alla sua successiva esecuzione erano andati in modo sensibilmente diverso da come furono divulgati in Occidente: ed erano stati determinati, al di là del suo indubbio e ammirevole coraggio, anche dall’arroganza e dalla violenza provocatoria del senatore, alle quali il suo interlocutore turco, peraltro in effetti noto per moderazione, avrebbe risposto con uno scatto d’ira del quale si sarebbe più tardi, a più riprese e a lungo, scusato e rammaricato49. La tesi più di consueto sostenuta anche da studiosi recenti è peraltro quella secondo la quale i fatti di Cipro sortirono un effetto contrario a quel che gli ottomani – che usavano seminare sistematicamente il terrore attraverso una crudeltà sapientemente ostentata – avevano

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immaginato. La notizia del martirio del Bragadin, sostenuto con impavido stoicismo, fece presto il giro della Cristianità: e concorse a provocare proprio quel che l’abile gran visir Mehmed Sokollu aveva fatto fin allora il possibile per evitare e che era comunque abbastanza imprevedibile, cioè l’alleanza tra Spagna e Venezia. Ad esse si aggiunsero altre potenze, fino a mettere insieme una lega che oltre a loro e al papa vedeva schierati i cavalieri di Malta, il ducato di Savoia e il granducato di Toscana i cui vascelli dell’Ordine di Santo Stefano combattevano tuttavia sotto bandiera pontificia agli ordini di Marcantonio Colonna, come era d’altronde corretto dal momento che gli stefaniani dipendevano appunto, in quanto religiosi, dal papa: il granduca si limitava ad esserne il Gran Maestro. D’altra parte, le navi dei cavalieri non sarebbero state accettate comunque nella squadra del re di Spagna in quanto egli non aveva digerito l’unilaterale concessione pontificia della nuova corona granducale a Cosimo de’ Medici50. Il 7 ottobre del 1571, nelle acque del golfo di Patrasso, si verificò quindi quello che la Cristianità – non solo la cattolica, ma anche la riformata – salutò, almeno sul momento unanime, come un miracolo51. La vittoria, che siamo abituati a chiamare «di Lepanto»52, fu davvero grandiosa: e il merito di essa fu a lungo conteso tra i due comandanti della flotta cristiana, il ventiseienne don Giovanni d’Austria e il settantacinquenne «Capitano da Mar» dei veneziani, Sebastiano Venier53. Un diluvio di scritti, di poemi, di opuscoli e di opere celebrative d’ogni tipo invase la Cristianità54. Alcuni stendardi strappati come trofeo alle galee ottomane da parte dei toscani dell’Ordine di Santo Stefano furono appesi alle pareti della chiesa pisana dell’Ordine. Alla vittoria si deve anche una straordinaria crescita di prestigio del santuario mariano di Loreto, che era già legato alla crociata dal suo stesso mito di fondazione: la Santa Casa lauretana era difatti giunta in volo alla fine del secolo XIII da Nazareth, traslata da un volo d’angeli che l’avevano in tal modo sottratta al pericolo di venir conquistata dagli infedeli tre secoli prima, allorché i sultani mamelucchi d’Egitto avevano intrapreso una campagna militare tesa a scacciare dal litorale di Terrasanta quel che restava del regno crociato di Gerusalemme55. Alla Vergine lauretana Pio V aveva dedicato quel fatto d’armi, aggiungendo il titolo prestigioso di Auxilium christianorum alle litanie a lei dedicate56. Dopo l’episodio, l’ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna si recò al santuario insieme con i rematori cristiani che erano stati

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liberati dalla schiavitù; nel 1575 fu lo stesso Giovanni d’Austria a compiervi il suo pellegrinaggio. A Maria furono dedicate le catene dei ferri che avevano avvinto gli schiavi ora liberati: una volta fuse, col metallo ottenuto si forgiarono le cancellate del santuario. La data della vittoria fu proclamata festa solenne della Madonna del Rosario, la preghiera mariana alla quale i cattolici attribuivano il merito principale della gloriosa giornata57. Tuttavia, il contesto del trionfo era molto fragile: i fatti sembravano dar ragione all’imperatore Massimiliano II, che – nonostante il «patto di famiglia» che lo legava ai suoi parenti e alleati Asburgo di Spagna – non aveva voluto scender in campo e, fedele a quanto aveva promesso nel trattato di Edirne, aveva continuato a pagare al sultano un alto tributo in danaro, come già aveva del resto fatto suo padre Ferdinando I58. L’imperatore aveva declinato con ben calcolata severità gli inviti a denunziare la tregua stipulata con gli ottomani e a rifiutare il tributo, ora che la Porta pareva messa in difficoltà: era indegno d’un principe cristiano – argomentava Sua Maestà Cesarea – mancare alla parola, fosse pur stata data all’infedele. Pesavano tra l’altro sui suoi giudizi e sul suo comportamento le considerazioni del suo oratore a Roma, il conte Prospero d’Arco, il quale in un dettagliato memoriale confermava che solo per via di terra i cristiani avrebbero potuto ottenere durevoli risultati militari contro gli ottomani. Le campagne navali, secondo il conte d’Arco, erano costose, pericolose e foriere di risultati illusori. I fatti gli avrebbero dato ragione: per quanto il suo signore lo rimproverasse di esprimersi con tanta libertà proprio mentre le armi nei Balcani tacevano59. La pressione ottomana obbligava d’altronde l’imperatore a mantenere e ad ampliare le concessioni fatte ai protestanti nell’impero: egli sapeva di non potersi permettere di affrontare i guai che avrebbero potuto provenirgli da quella parte, con i turchi attestati saldamente in Ungheria. Come si diceva nella Germania del tempo, «der Türke ist der lutheranische Glück»60. Su Lepanto, battaglia vinta all’interno d’un conflitto perduto, si è a lungo impiantata un’idée reçue che è necessario sfatare: essa avrebbe determinato il crollo del mito dell’invincibilità ottomana sul mare. In realtà i carteggi tra Santa Sede, cancelleria del re di Spagna e governo della Serenissima dimostrano senza possibilità di dubbio che i membri della Santa Lega erano persuasi che, se fossero riusciti a mantenersi uniti e ad agire correttamente di conseguenza, la vittoria sarebbe stata sicuramente conseguita: nonostante il Turco fosse

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un nemico temibile e avesse più volte battuto i cristiani sul mare, il mito della sua inevitabile invincibilità è stato costruito a posteriori ed è parte a sua volta appunto del «mito di Lepanto». Con tutto ciò, non c’è dubbio che la vittoria cristiana fu splendida; e la sconfitta ottomana un disastro61. La flotta cristiana comandata da don Giovanni d’Austria era leggermente inferiore sotto il profilo numerico rispetto a quella sultaniale guidata dal kapudan pas¸a62 Müezzinzâde Ali – che sarebbe caduto in combattimento –, ma molto migliore sotto quello qualitativo; in particolare, la superiorità dell’artiglieria ispano-veneta rispetto a quella ottomana era schiacciante63. Difficile determinare con precisione l’entità delle forze allineate dal Turco: si va da un calcolo pessimistico di 170-180 a uno ottimistico di 220-230 galee, cui andrebbe aggiunta una sessantina di galeotte64: ma il fatto che la flotta ottomana fosse il risultato delle forze sultaniali e delle squadre dei principi-corsari barbareschi rende più difficile e meno sicuro il calcolo, tanto più che le tipologie nautiche erano più varie di quelle occidentali, comprendendo fuste e brigantini, insomma imbarcazioni di stazza modesta, il che conferiva all’armata musulmana un aspetto di gran lunga meno ordinato. La flotta cristiana annoverava, oltre a 204 galee e a una trentina di vascelli da trasporto, 6 nuove «galeazze» veneziane, che si rivelarono determinanti65. Anche il fornire qualche dato preciso sulle perdite dei due campi appare molto difficile. Le valutazioni, sia nelle fonti occidentali sia in quelle ottomane, variano alquanto; e, col passar del tempo, mutano a seconda del desiderio o della necessità di sottolineare il successo dei vincitori o di minimizzare le perdite. È stato detto che quelle della Santa Lega ascesero a 7000 caduti e 20.000 feriti, a fronte di oltre 30.000 tra morti e feriti e 35.000 prigionieri di parte ottomana. Gli europei ci rimisero una dozzina di galee, mentre gli ottomani ne videro 62 delle loro colate a picco e altre 117 catturate insieme con 13 galeotte; inoltre 15.000 forzati cristiani che remavano sulle imbarcazioni del Turco vennero liberati. In tutto, nei porti ottomani rientrarono un’ottantina appena di imbarcazioni, tra galee e galeotte, delle 280-290 che ne erano uscite66. L’eco della grande battaglia e della splendida vittoria si diffuse con intensità e rapidità eccezionali per tutta la Cristianità e fu salutata con unanime gioia, per quanto con diversità di toni e di accenti: le polemiche sia tra veneziani e spagnoli sia tra veneziani e genovesi, affiorarono quasi immediatamente, come del resto c’era da aspet-

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tarsi; e allo stesso modo emersero i tentativi di appropriazione da parte di questa o di quella potenza del merito principale della gloria comune. Ma se la memoria di quel fatto d’armi fu celebrata più in sordina ed ebbe più labile sopravvivenza in Francia, dove al momento tutti avevano altro a cui pensare, o nei paesi protestanti, dove in fondo aveva il suo peso il fatto che la giornata di Lepanto avesse un indelebile marchio papista, essa restò indelebile – e tale è rimasta, sia pure con periodi d’eclisse ma anche con vari revivals, fino ai nostri giorni – in Spagna e in Italia, dove «era del tutto svanita la tensione legata al fenomeno protestante. Rimaneva al contrario ben concreto il pericolo turco-musulmano che, come una gigantesca tenaglia, per mare attraverso le continue scorrerie dei corsari barbareschi e per terra con le ripetute puntate offensive musulmane lungo il corridoio danubiano, continuava a minacciare simultaneamente tanto la periferia che il cuore dell’Europa occidentale»67. Comunque, già fin dai giorni immediatamente successivi alla vittoria si era sparsa nella Cristianità la crescente convinzione che il formidabile vantaggio conseguito nelle acque di Lepanto non fosse stato sfruttato nel migliore dei modi68, a causa dell’esplicito emergere di quella divergenza di fondo tra gli alleati che per qualche tempo era restata occulta e latente: mentre don Giovanni d’Austria e gli spagnoli intendevano infatti proseguire l’offensiva impegnandosi nella riconquista dell’Africa settentrionale, i veneziani insistevano sul fatto che si dovesse rioccupare Cipro. Il 10 febbraio del 1572 la Santa Lega era stata rinnovata; pochi giorni dopo Pio V inviava a tutti i fedeli una lettera nella quale egli conferiva alla nuova fase della lotta antiottomana il preciso valore giuridico e l’inequivocabile colore d’una rinnovata crociata. ...a coloro che partono personalmente ma a spese d’altri e si sottopongono ai pericoli e alle fatiche della guerra... noi concediamo pieno e completo perdono, remissione e assoluzione di tutti i peccati di cui abbiano fatto confessione con cuore contrito, e la stessa indulgenza che i pontefici romani nostri predecessori solevano concedere ai crociati che andavano in soccorso della Terrasanta. Noi accogliamo i beni di coloro che partono per la guerra... sotto la protezione di san Pietro e nostra69.

Intanto però gli ottomani avevano consolidato il loro controllo su Cipro – le popolazioni greche locali avevano salutato con gioia il Turco che le aveva liberate dal giogo veneziano e cattolico – e rico-

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struito con incredibile velocità la loro flotta70. Già il 30 novembre del ’71, nemmeno due mesi dopo la spaventosa sconfitta e poco più di un mese da quando la notizia di essa era arrivata al Topkapi, il gran visir poteva proclamare nel nome del sultano la sua intenzione, «se Dio Altissimo lo concede, d’inviare al largo la mia immensa augusta flotta, prima della benefica primavera, per il jihad sulla via di Dio»71. Per la verità, tanto il gran visir quanto il nuovo kapudan pas¸a sapevano benissimo che della nuova flotta sultaniale, per troppi versi improvvisata, c’era poco da fidarsi. Era lo stesso avviso di François de Noailles, ambasciatore di Francia presso la Porta. I risultati dello sforzo intrapreso da Mehmed Sokollu erano senza dubbio straordinari: ma il sultano, per quanto si affrettasse a far sapere che a Lepanto i cristiani gli avevano appena strappato un pelo della barba, aveva ottimi motivi di preoccupazione. Il fasciame delle sue navi era di legno non abbastanza stagionato, i cannoni mal fusi, gli equipaggi improvvisati, raccogliticci e privi d’esperienza. Per i capi dello schieramento cristiano sarebbe stato forse quello il momento d’insistere nel conflitto, di colpire ulteriormente la compagine ottomana. Ma le loro prospettive erano divergenti: i veneziani avrebbero voluto portare avanti un attacco a fondo in Adriatico72, mentre Giovanni d’Austria intendeva assicurarsi la talassocrazia del settore meridionale del Mediterraneo e riconquistare Tunisi, che gli ottomani avevano strappato quattro anni prima alla Spagna. A tale scopo egli organizzò un massiccio attacco diretto contro la città nordafricana, mettendo insieme 107 galee e 31 navi con equipaggi e soldati spagnoli, italiani73, tedeschi. Nella compagine c’erano anche a titolo ufficiale un galeone e tre galee toscane, ormai ben accette: sia l’imperatore, sia Filippo II erano sulla strada di perdonare a Cosimo I di aver accettato il titolo granducale di Toscana dal papa, in un intricato contesto di rivendicazioni dinastiche e territoriali che risaliva al XII secolo e alla contesa eredità di Matilde di Canossa. Ad ogni modo, la conquista di Tunisi e di Biserta nel 1573, gloria ulteriore di don Giovanni d’Austria, fu effimera e inutile. Anzi, scatenò una furiosa reazione. La Santa Lega si era intanto sciolta: esausti e contrariati, i veneziani avevano allora deciso di abbandonare l’intesa con la Spagna e di concludere con Selim una pace separata, che però era costata loro la definitiva rinunzia a Cipro e il pagamento di una indennità di guerra di 300.000 ducati74. In seguito al «tradimento», o comunque all’abbandono, veneziano75 il sultano aveva potuto concentrarsi sulla costa dell’Africa

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settentrionale. A metà maggio del 1574 era salpata da Istanbul una flotta ottomano-barbaresca di 280 galee e una cinquantina di altri vascelli al comando di Uluç Ali: a bordo c’erano circa 70.000 uomini sotto la guida del beylerbeyi d’Egitto Sinan Pas¸a76. Come sembravano ormai lontani i giorni di Lepanto! Tra l’agosto e il settembre successivi quell’armata aveva cacciato di nuovo gli spagnoli da Tunisi e da Biserta77. L’ammiraglio calabrese sapeva perfettamente che la sua armata messa su in fretta e furia era inaffidabile e inefficiente, ma contava sull’effetto sorpresa e sulla fama terribile del suo nome: e riuscì. Il sogno strategico di Filippo II, stringere Algeri nella morsa tra la flotta spagnola e Tunisi conquistata, tramontava per sempre78. Il conte d’Arco aveva davvero visto chiaro. D’altronde, quanto era accaduto rispondeva a una ferrea logica. Il Rey Prudente non poteva in effetti sperare che la Serenissima continuasse a fargli da scudo sostenendo l’urto delle armate di mare ottomane mentre egli a sue spese si consolidava sul litorale nordafricano. E nella città lagunare si sapeva bene che, per quanto il Turco fosse «signor tremendo», come l’aveva definito Marin Sanudo, i rapporti economici tra la Serenissima e l’impero ottomano erano troppo intensi e troppo importanti perché ci si potesse consentire lunghe o frequenti guerre. Ogni volta che si scontravano, Venezia e la Porta s’infliggevano colpi reciproci che entrambe immediatamente risentivano: e più danneggiavano il nemico, più facevano del male a se stesse. Veneziana o turca che fosse, Cipro giovava sia ai veneziani, sia ai turchi: chiunque le nuocesse, colpiva entrambi. Ciò non valeva del resto solo per le isole egee: era vero anche per quelle ioniche. Basti pensare a Corfù, divenuta progressivamente città-fortezza proprio in funzione antiottomana (a differenza della veneta Palma che era stata fondata più in funzione antimperiale che non antiturca, nonostante le dichiarazioni ufficiali del governo veneziano). L’isola era senza dubbio una formidabile piazzaforte; ma sta di fatto che i suoi difensori e i suoi abitanti, come in tutte le Ionie veneziane, mangiavano pane cotto con farina turca. «Il grano di cui necessitano è prodotto in terra ottomana. È un grano che arriva per mare. Ma sono arrivi condizionati. Troppo turco-dipendenti, per tal verso, le isole»79. E questo è solo un aspetto, ma forse esemplare, della situazione in cui la Serenissima si trovava. Tuttavia gli effetti della giornata di Lepanto vanno misurati anche su altre dimensioni, nelle quali furono più duraturi. La battaglia era stata preparata da un intenso clima profetico e apocalittico, non sen-

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za la ripresa di vecchi spunti gioachimiti80. La vittoria esaltò questo clima. La mulier amicta sole, et luna sub pedibus eius, et in capite eius corona stellarum duodecim dell’Apocalisse81 divenne da allora, com’è noto, un cànone iconico-esegetico fondamentale per la rappresentazione della Vergine Maria. E il fatto che la Signora apocalittica stia dritta sulla falce di luna – una figura che ci rinvia a una lunga serie di personaggi divini di segno notturno, lunare e mithraistico: da Artemide-Diana a Iside a una lunga serie di «dee madri» d’origine microasiatica e semitica – fu interpretato, almeno dal Cinquecento in poi, in una direzione caratteristicamente antislamica. La Vergine calpesta la luna, che si avvia a diventare almeno secondo gli europei occidentali simbolo tradizionale dell’Islam: non a caso è la Vergine del Rosario colei che intercede per la grande vittoria di Lepanto; e il 7 ottobre, giorno di tale vittoria nel 1571, per volontà di Pio V diventò la festa della Madonna delle Vittorie, da Gregorio XIII fissata come festa di nostra Signora del Rosario. Non v’è motivo insomma di minimizzare né la portata, né il significato dell’episodio di Lepanto: sta di fatto tuttavia che Cipro era rimasta al Turco e che la Santa Lega stipulata con tanto entusiasmo per contrastare gli ottomani non resse agli inconcludenti esiti politici del conflitto. Si continuava a giocare una partita senza vincitori né vinti: l’impressione – condivisa tanto in Europa quanto nell’impero ottomano – era comunque che, vincitore o vinto che riuscisse nelle singole battaglie, fosse il sultano all’attacco, mentre i cristiani restavano sull’intimidita difensiva. E resta in ultima analisi condivisibile il giudizio di chi ha fatto notare che «forse, il vero vincitore di Lepanto non fu la lega cristiana, destinata a sfaldarsi nel giro di pochi mesi, bensì il gran visir Sokollu, l’unico maggiorente dell’impero che all’inizio si era pronunziato contro il conflitto e che, alla fine, risultò il solo ancora saldamente al suo posto»82. Sognando l’Oriente e la crociata... Del resto, non c’era affatto da stupirsi che don Giovanni d’Austria, dopo la vittoria navale, non avesse granché tenuto conto delle esigenze adriatiche della Serenissima. Il Turco minacciava certo l’Adriatico, ma non solo quella parte di esso ch’era presidiata dai veneziani. Le sue conquiste nell’interno avevano fatto rifluire già da tempo sul litorale ungaro-croato una congerie di genti, principalmente

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cattoliche di Bosnia, che l’imperatore Ferdinando I aveva trasferito in Dalmazia, in Carnia e lungo le sue coste. Un po’ mercenari degli Asburgo che peraltro li pagavano male, un po’ briganti, questi scomodi nuovi arrivati – gli «uscocchi»83 – si erano dati all’attività piratesca insidiando con le loro agili, piccole imbarcazioni soprattutto i legni veneziani, ma infastidendo gli stessi ottomani che più volte si erano rivolti alla Serenissima minacciando ritorsioni. Il loro centro era divenuto Senj, o Segna, sulla costa dalmata leggermente a sud di Fiume e feudo della nobile famiglia dei Frangipane, da dove essi minacciavano tutta la costa illirica. Venezia, incuneata tra i domini degli Asburgo d’Austria e quelli italici dei loro parenti di Spagna, si sentiva ora soffocare da quelli, a causa degli uscocchi loro alleati, molto più che non dai turchi. Fu per questo che nel 1575, dopo molte proteste sia della Serenissima sia della Porta indirizzate al governo asburgico che proteggeva quei corsari, una squadra navale veneta al comando di Ermolao («Almorò») Tiepolo mise il blocco a Segna e a Carlopago, le due basi degli uscocchi, li attaccò decimandoli spietatamente e ottenne che l’imperatore intervenisse imponendo loro un minimo di disciplina84. Ma la guerra era tutto quel che gli uscocchi sapevano fare, e la miseria li tallonava da vicino: del resto crescevano di numero, passando dai circa 2000 nel 1588 ai 3500 nel 1593. Né gli svogliati tentativi austriaci di contenerli, né le reiterate proteste veneziane e ottomane vennero ancora per alcuni anni a capo del problema: solo nel 1606, dopo la pace tra la casa d’Austria e la Porta, il governo imperiale si decise a intervenire con qualche raid punitivo e qualche deportazione. I loro reiterati attacchi alle coste istriane, fino al 1612, condussero a nuove rappresaglie veneziane e a nuovi accordi con la casa d’Austria. Un nuovo loro colpo di mano, l’assalto nel maggio del 1613 nel porto di Mandra alla galea di Cristoforo Venier, che decapitarono85, indusse infine Venezia a scendere in conflitto aperto contro di loro, ma anche contro la stessa Austria. Fu, quella, la guerra che dallo splendido scenario in cui si svolse fu detta «del Friuli», o «di Gradisca»86: vi entrò anche il viceré di Napoli, Pedro Giron duca di Ossuna, intenzione del quale era contendere o comunque condizionare l’egemonia veneziana sull’Adriatico. Il conflitto si concluse soltanto nel settembre del 1617 grazie alla mediazione francese e sabauda: ma il pericolo per la Serenissima non era ancora scomparso87. Il suo primo nemico era adesso l’ambasciatore spagnolo marchese di Bedmar, infaticabile orditore di trame e di congiure (anche se

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c’è molta discordia tra gli storici nello stabilire il suo autentico ruolo). Così, tormentata dai suoi avversari cristiani e preoccupata per il pericolo che essi costituivano, la Serenissima badava bene a non provocare gli ottomani con i quali si trovava in pace dal 1573. Comunque, che nella realtà politica e diplomatica delle cose il Turco non fosse affatto considerato un eterno e irremissibile nemico, molti fatti lo dimostravano direttamente e indirettamente. Comprese certe beffe che i principi cristiani si giocavano talvolta tra loro. È rimasta celebre quella che appena cinque anni dopo Lepanto, nel 1576, riguardò Alfonso II d’Este duca di Ferrara, noto per la sua sconfinata ambizione e per la gelosia nei confronti della casa Medici che era riuscita ad assurgere al rango granducale: trascinato dal suo orgoglio, Alfonso aveva cercato perfino di aggiudicarsi la corona elettiva di Polonia. Nel ’76, dunque, si presentò da lui un tale in abiti turcheschi, il quale esibiva alcune credenziali del sultano Murad III: stando a quei documenti il Gran Signore, impressionato dalla fama del duca e animato da straordinaria benevolenza nei suoi confronti, esprimeva il desiderio di farlo «re di Gerusalemme». Il duca s’intrattenne a lungo a colloquio con lo strano ospite e dette quindi ordine di onorarlo e di trattarlo principescamente, ma lo fece in realtà sorvegliare con molta cura. Il colloquio doveva averlo lusingato, ma non convinto. Alfonso provvide pertanto a spedire a Istanbul un corriere fidato che verificasse l’autenticità delle missive e le intenzioni del sultano. Avendo notato che il duca, dopo il primo colloquio, non lo aveva più interpellato e che in cambio le guardie non lo perdevano mai di vista, il preteso ambasciatore ottomano s’insospettì e riuscì ad evadere; riacciuffato, fuggì di nuovo e fu talmente abile da far perdere le sue tracce. Conosceva bene la regione? Aveva dei complici sul posto? Non lo sappiamo. Intanto però il messo ducale a Istanbul era rientrato in Ferrara, confermando con le notizie che recava dalla corte del sultano i sospetti del duca: nessuno aveva mai pensato a lui come al futuro re di Gerusalemme. Si sospettò che Alfonso fosse rimasto vittima di una beffa giocatagli dal granduca di Toscana Francesco I: tra le due dinastie era ancora aperta una vecchia contesa originata a quanto pare da una questione di precedenze cerimoniali presso l’imperatore Carlo V e proseguita nel 1558 in occasione delle nozze tra Lucrezia de’ Medici figlia di Cosimo I e Alfonso stesso, figlio ed erede dell’allora duca Ercole II, che avevano scatenato l’ira di Anna d’Este, sorella di Alfonso, la quale era moglie di Francesco di Lore-

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na duca di Guisa e viveva in Francia88. La duchessa di Guisa-Este disprezzava la dinastia fiorentina, uscita da troppo bassi natali per confrontarsi con quella ferrarese. Tuttavia il matrimonio era stato celebrato: ma Lucrezia era morta quasi subito, nel ’61, e l’effimera alleanza tra Medici ed Estensi si era di nuovo sciolta. Al di là di tutti questi eventi, ci si potrebbe stupire dell’almeno iniziale credulità di Alfonso dinanzi alla pretesa ambasciata sultaniale: poteva essere stata dettata solo da un’ambizione tanto forte da ottundere qualunque senso critico? Forse la questione è più complessa. La casa estense intratteneva fin dal Quattrocento rapporti intensi e amichevoli con alcuni dinasti musulmani, presso i quali Borso ed Ercole I acquistavano cavalli; e attraverso l’amicizia con i duchi di Borgogna erano giunte a Ferrara forti influenze dell’orientalismo cavalleresco che trionfava nella corte borgognona e che si esprimeva in giostre e tornei89. Lo stesso Alfonso era molto attratto dalle feste e dagli spettacoli caratterizzati da fogge orientali. Suo padre Ercole II aveva ospitato nel 1548 a Ferrara l’emiro di Tunisi Muhammad Hassan, ch’era stato destituito, accecato ed esiliato dal figlio. Francesco I de’ Medici, forse a conoscenza di queste cose e inoltre memore di quanto Alfonso avesse gustato uno spettacolo di danzatrici e di cavalieri abbigliati alla musulmana durante le feste per il suo matrimonio celebratesi in Firenze nel ’58, non aveva tirato a caso giocandogli diciotto anni dopo la beffa del falso ambasciatore ottomano. Anche il fratello di Alfonso, il cardinale Luigi, era molto attratto dalle cose d’Oriente e aveva al suo servizio degli schiavi turchi. Peraltro, gli Este pretendevano di essere discesi dall’antica Troia, esattamente come si diceva che i turchi si proclamassero eredi dei mitici troiani. Insomma, dal punto di vista dell’orgoglioso Alfonso II ce n’era abbastanza perché il nome estense potesse risuonare circondato di rispetto e di considerazione anche sulle rive del Bosforo90. Atteggiamenti del genere sottintendevano, se non proprio amicizia, quanto meno rispetto, considerazione, perfino ammirazione nei confronti della civiltà degli infedeli. Eppure la Cristianità era al tempo stesso ben fiera delle sue vittorie contro di loro. Non c’è panoplia cinque-seicentesca che non rechi, ben in vista, le bandiere dall’asta coronata dalla mezzaluna e le insegne dalle code di cavallo strappate ai turchi; non v’è monumento di principe o di generale del tempo che non mostri i prigionieri dal cranio rasato, dalla lunga treccia e dai baffi spioventi che seguono mesti e incatenati il carro di trionfo del vincitore o che languono in ceppi ai suoi piedi. I trionfi sugli infedeli

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e quelli sugli avversari cristiani – reciprocamente definiti «peggiori dei saraceni» – si rafforzavano e si confermavano a vicenda, come nella celebre serie delle acqueforti delle vittorie di Carlo V disegnata da Martin van Heemskerk, incisa da Dirk Coornhert e pubblicata da Hieronimus Corck nel 1556, dove il papa e Francesco I giacciono incatenati ai piedi del sovrano, mentre il sultano sta fuggendo. È interessante come, nelle immagini concepite e realizzate da artisti protestanti, il pontefice, il sovrano francese e il dinasta ottomano siano posti quasi allo stesso livello e trattati più o meno alla stessa maniera, con sarcasmo e disprezzo91. Ma proprio sul piano iconico talvolta gli occidentali erano più critici e meno trionfalistici: magari fino al macabro sarcasmo. Lo vediamo nella Danza Macabra dipinta in sette quadri a olio per la sua città, Lucerna, da Jakob von Wyl, attivo nel trentennio a cavallo tra Cinque e Seicento. Essa, successiva agli esempi di Basilea e di Berna, non ci è pervenuta: ci è testimoniata tuttavia da alcuni disegni del restauratore ottocentesco Carl-Martin Eglin. In uno di essi, la Morte «che danza con tutti», quando è ritratta nell’atto di uccidere l’imperatore viene immaginata come un arciere ottomano, con la testa fasciata da un turbante caratteristicamente turco e provvista di un tipo di faretra che si portava appesa alla cintura e che, a causa appunto dei turchi, in italiano è denominato «turcasso». In tempi di lotta feroce tra croce e mezzaluna, come quelli succeduti a Lepanto, la fantasia del von Wyl toccava i limiti della drammatica ironia. In quei medesimi anni, Torquato Tasso lavorava al poema che in un primo tempo egli intitolò Goffredo, quindi Gerusalemme liberata e infine Gerusalemme conquistata. Ma in esso il poeta, pur ispirandosi alla prima crociata, non pensava affatto a quella lontana epopea: aveva presenti i suoi tempi, la minaccia turca, i corsari infedeli che aveva visto infierire nel porto e per le stradicciole e i vicoli della sua Sorrento; e al personaggio che è il suo antieroe saraceno più intenso e affascinante egli aveva imposto non a caso il nome del grande sultano Solimano. Non era la Gerusalemme dell’XI secolo a ispirare il Tasso: erano la battaglia di Lepanto e gli altri non meno straordinari avvenimenti ai quali il suo tempo aveva assistito92. Il fronte crociato era difatti molto ampio: non lo possiamo dir certo coerente e unitario, tuttavia gran parte del significato dello scontro militare tra Cristianità e Islam di quel periodo – e anche di altri, del resto – ci sfugge se non teniamo costantemente conto dell’insieme di uno scenario che da Gibilterra e dal Maghreb giunge

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fino al Mar Rosso, al Mar Nero, al Caspio, all’Oceano Indiano. Non dimentichiamo ad esempio che il nuovo sultano Selim II aveva sostenuto con forza tra 1568 e 1570 la rivolta dei moriscos andalusi93, consigliando loro anche di tentare un’alleanza con i luterani; e che, nel contempo, aveva fatto studiare la possibilità di un canale che mettesse in comunicazione Volga e Don. Ancora una volta, il «se» e il «ma» irrompono nella storia: che non solo si può, ma si deve pensare anche al condizionale al fine di meglio comprendere valore e importanza di quanto è effettivamente avvenuto. Se le flotte ottomane, che attraverso i porti d’Arabia già avevano accesso all’Oceano Indiano, avessero davvero potuto, grazie a un canale tagliato tra Don e Volga, spostarsi dal Mar Nero – e quindi dal Mediterraneo – al Caspio e viceversa, mettendo in pericolo i confini settentrionali del rivale impero persiano, le conseguenze sulla storia mondiale avrebbero potuto essere di vastissima portata. Il gioco, insomma, andava assumendo sempre più un aspetto planetario, imposto del resto con forza dalle potenze europee ormai presenti nelle acque dell’Atlantico e del Pacifico. E ben se ne era reso conto Pio V il quale, tra 1566 e 1572, aveva tenuto di costante vigile occhio la situazione portoghese, invitando gli Ordini militari di quel paese a prender posizione sulla linea di frontiera nordafricana e disponendo che nessuno potesse dirsi professo di tali Ordini se non vi avesse militato per almeno tre anni. Proprio per questo il re di Spagna, come si è visto, dopo la guerra di Cipro aveva deciso di dedicarsi alle coste maghrebine. Appunto là stavano accadendo cose nuove e importanti. Nel teatro politico di quell’area saliva ora al proscenio la questione del Marocco, dov’era in atto una crisi dinastica le caratteristiche della quale sembravano aprire ampie possibilità d’inserimento agli interessi delle potenze cristiane. Le vicende marocchine erano seguite con attenzione da Sebastiano, re del Portogallo dal 1557 e strettamente imparentato con la casa d’Asburgo grazie alla politica matrimoniale ispano-portoghese voluta da Carlo V. L’imperatore aveva difatti sposato la bellissima Isabella, sorella di re Giovanni III del Portogallo: dalla loro unione era nata la principessa Giovanna, la quale era andata a nozze col cugino principe Giovanni, nato a sua volta dall’unione di re Giovanni suo padre e di Caterina, sorella dell’imperatore. Dal momento che la sorella del principe Giovanni, Maria, era a sua volta andata sposa anch’essa a un cugino, Filippo che sarebbe poi divenuto re di Spagna all’atto dell’abdicazione di Carlo V suo padre, il principe Sebastiano – frutto

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appunto del matrimonio tra i due cugini Giovanni e Giovanna – aveva l’imperatore come nonno materno, il re del Portogallo Giovanni III come nonno paterno e Filippo II di Spagna come zio. Morto re Giovanni III nel 1557 privo del diretto erede, che gli era predefunto, Sebastiano era asceso al trono di un paese sul quale si allungava ormai l’ombra d’una inevitabile successione asburgo-spagnola, se egli fosse scomparso – cosa che in effetti avvenne – a sua volta senza eredi. Nato nel 1554, succeduto al nonno Giovanni III quando aveva solo tre anni ma sottoposto al regime di reggenza fino al raggiungimento dei quindici nel 1568, il giovane re era un groviglio di oscure e lampeggianti contraddizioni: e difatti contraddittoriamente è stato giudicato ora un santo, ora uno stravagante vizioso, ora un folle. Perseguitato da strane fantasie dinastico-necrofile, disseppelliva e vezzeggiava le ossa dei suoi regali antenati in accessi d’affetto non troppo dissimili da quelli del principe Amleto di Danimarca dinanzi al teschio del buffone Yorick; condizionato quasi certamente dalla sua indole schiva ed emotiva, ma forse anche da una qualche forma di difetto o di disfunzione sul piano fisico, rifuggiva le compagnie femminili; dilapidava i beni della corona e perseguiva ardui sogni di grandezza. Ma non era, il suo, un delirio imperiale di natura soltanto misticoescatologica: dietro ad esso vi era pur sempre la realtà di grande potenza navale del Portogallo del suo tempo. Sebastiano collegava le sue aspirazioni di gloria a un quadro di riferimento forte e tutto sommato non poi così campato in aria: se fosse riuscito – e fu a un passo dal riuscirci – probabilmente la storia del mondo mediterraneo e dell’umanità sarebbe stata diversa. Rigorosamente educato dalla Compagnia di Gesù, il giovane re del Portogallo aveva un idolo: l’Infante Enrico il Navigatore, che un secolo prima aveva fondato la potenza marittima lusitana. Il sogno di Enrico era stato portare il Cristo fino alle Indie; quello di Sebastiano era di portarlo in Africa, oltre la grande curva del Niger e la favolosa Timbuctù: impadronirsi delle rotte dell’oro e dell’avorio, collegarsi al negus d’Etiopia per spazzar via l’Islam da tutta l’Africa centrale – dalla Nubia al Mali – e far trionfare il cristianesimo in quel continente che si stava rivelando immenso, molto più grande di quanto non avessero creduto gli antichi geografi. Ma per far questo era necessario controllare il Marocco e la Mauritania, allo stesso modo in cui gli spagnoli cercavano, con alterne vicende, di egemonizzare quell’area che attualmente è l’algerino-

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tunisina, sottraendola all’impero ottomano e reprimendovi l’attività dei corsari barbareschi. Nel 1570 Sebastiano aveva ceduto a un gruppo di privati il monopolio regio sulle spezie, dal quale si proponeva di ricavare una massa di denaro liquido tale da consentirgli di far fronte a una grandiosa impresa crociata: in preparazione di essa aveva lasciato sospesa anche una serie di trattative matrimoniali che del resto non dovevano interessarlo granché. I migliori uomini di cultura portoghesi del tempo incitavano il giovane e cavalleresco sovrano a dimostrare al più presto come desiderio di combattere per la fede e volontà espansionistica dovessero proceder di pari passo: la pensavano così Diego de Teive, Pedro de Andrade Caminha, Luís de Camões. E si stava profilando anche il casus belli, fornito dalla politica dei nuovi sultani di Fez, della dinastia saadiana, che nel quadro della loro abituale diplomazia oscillante tra Portogallo, Spagna e Istanbul – tesa in realtà a mantenere una sostanziale, forte autonomia – sembravano ora propendere per rafforzare, o comunque render meno teorica possibile, la sovranità ottomana sul Maghreb. In ciò essi erano fermamente appoggiati dal principe Murad, figlio del sultano Selim II. Lo scontro con Sebastiano stava divenendo inevitabile in quanto il Portogallo possedeva sino dalla seconda metà del Quattrocento numerosi porti e scali commerciali, le fronteiras, sulla costa marocchino-mauritana a sud-ovest di Gibilterra: il centro più importante era Tangeri, che era però stata perduta nel 1561. Sebastiano sognava di restaurare il controllo costiero su quell’area, molto importante tanto per le piste che vi giungevano dall’interno dell’Africa, lungo le quali transitavano le favolose carovane dell’oro, dell’avorio, degli schiavi, quanto per il nuovo traffico navale aperto dalle conquiste oceaniche94. Nell’anno stesso dell’ascesa di Murad al trono di Istanbul, il 1574, i portoghesi avevano condotto un audace colpo di mano contro Ceuta e Tangeri. Ma due anni dopo, nel 1576, un esponente esiliato della dinastia saadiana di Fez, Abu Marwan Abd al-Malik, poté con l’aiuto di capitali e di reparti militari ottomani partiti dalla base di Algeri attuare una specie di colpo di stato contro il sultano Muhammad al-Mutawwakil, del quale era zio. Era il segnale della volontà del padis¸ah di mantenere il controllo sull’Africa nordoccidentale. Il dinasta spodestato corse a Lisbona per chieder aiuto; e, al di là dell’abilità con la quale seppe esporre le proprie ragioni e dell’impeto mistico e cavalleresco del giovane sovrano che le ascoltava, era

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chiaro che i portoghesi non avrebbero potuto agevolmente tollerare l’arrivo di navi ottomane e algerine non solo nel Mediterraneo sudoccidentale, ma addirittura in quell’«Atlantico mediterraneo» che era il grande specchio di mare compreso tra Algarve, Gibilterra e Casablanca: un immenso golfo aperto ritenuto, fin dai tempi di Enrico il Navigatore, sostanzialmente un «mare portoghese». Naturalmente, l’impresa consistente nel tentativo di stabilire un’alta mano sul principato di Fez con il pretesto della restaurazione di un sovrano «legittimo», aveva qualcosa di folle che non a caso il re di Spagna, con la sua proverbiale cautela, sconsigliava decisamente. Per cercar di far ragionare l’animoso Sebastiano, Filippo II si rivolse perfino al più celebre condottiero del tempo, l’anziano – allora ormai settantenne – e autorevolissimo Fernando Alvarez de Toledo, il duca d’Alba. Invano: «Sembra infatti che, al vecchio soldato che faceva presente al sovrano portoghese il pericolo costituito da un esercito di colore forte e agguerrito, Sebastiano avesse chiesto: – Generale, di che colore è la paura? –, e che l’altro, ritirandosi, abbia risposto: – Del colore della prudenza –»95. Una risposta perfettamente consona a un solerte funzionario e fedele suddito, appunto, del Rey Prudente. A questo punto Sebastiano si era giocato qualunque possibilità di aiuto, sia militare sia economico, da parte spagnola; anche l’aristocrazia lusitana gli fece il vuoto intorno. Fu il granduca di Toscana Francesco I a consentirgli di tradurre in atto la sua follìa concedendogli un prestito di 300.000 scudi, vettovaglie, rifornimenti e il trasporto di 2000 soldati al comando dell’ingegnere militare Filippo Terzi dal porto di Livorno a quello africano di Ceuta, in mano ai portoghesi. Il re poté quindi imbarcarsi a Lisbona il 12 luglio 1578 diretto al porto marocchino di Arzila, insieme con Muhammad al-Mutawwakil e con un esercito consistente di fanti e di cavalieri: circa 8000 portoghesi mischiati a un tercio di 1600 spagnoli96, cui andarono aggiungendosi forse altri 5000 tra volontari o mercenari di varia origine: marocchini seguaci di Muhammad che si presentava come il legittimo sultano, milizie delle fronteiras ma anche 2800 tedeschi e 600 italiani finanziati dalla Curia romana e guidati da un cattolico inglese eroe romantico avant la lettre, sir Thomas Stukeley: questi ultimi avrebbero originariamente dovuto combattere per la liberazione dell’Irlanda. Così le questioni della crociata, le faccende delle lotte connesse con la Riforma e il duello tra Filippo di Spagna ed Elisabetta d’Inghilterra s’intrecciavano in modo inestricabile: il che

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la dice lunga sulla complessità dell’idea e della pratica di crociata97. Il totale degli effettivi su cui il re del Portogallo e il sultano saadi potevano contare era di circa 20.000 tra fanti, archibugieri e cavalieri, oltre a 36 bocche da fuoco. Il Rey Prudente, contrario all’impresa e per nulla persuaso dell’abilità militare del suo giovane collega e nipote, aveva comunque evitato di assumere una posizione di netto diniego: ma nessuna delle sue vaghe promesse fu mantenuta. La propaganda asburgica circonfuse tuttavia la spedizione africana di Sebastiano di un alone di leggenda e non si fece scappare l’occasione di denunziare alla Cristianità il fatto che le truppe marocchine di Abd al-Malik, almeno formalmente fedeli al sultano d’Istanbul e forti – si disse – di 34 cannoni e ben 4000 archibugi, erano state armate dall’Inghilterra di Elisabetta, l’odiata rivale di Filippo. In realtà il parco d’artiglieria dell’usurpatore (ammettendo che tale egli fosse, e non suo nipote) doveva invece essere piuttosto modesto, e non superare comunque la ventina circa di bocche da fuoco: parecchie meno di quelle dei suoi nemici. Ma, nel complesso, la sua superiorità era schiacciante: compresi gli irregolari, Abd al-Malik arrivava a mettere in campo 40-50.000 armati, più del doppio cioè dei crociati europei e dei loro alleati marocchini lealisti98. Inoltre si trattava di truppe motivate, certe di combattere contro un invasore cristiano e un pretendente indegno perché, pur di recuperare il trono, si era dato agli infedeli. Sbarcati vicino a Tangeri, i crociato-lealisti intrapresero una mar­ cia di penetrazione nell’interno. Lo scontro avvenne il 4 agosto in una località detta al-Kasr al-Kebir (Alcazar, per gli occidentali), presso il Wadi el-Makhazen, leggermente a sud-est di Arzila sull’Atlantico, a metà strada fra Tangeri e Fez. La battaglia sarebbe stata denominata «dei Tre Re», perché vi parteciparono appunto i tre sovrani contendenti. Il ritorno sul trono del legittimo sultano – o di colui che comunque si riteneva tale: per quanto il favore dalla Porta accordato al suo concorrente rendesse dubbie le sue pretese – avrebbe comportato uno stabile protettorato portoghese sul Marocco, quindi un’almeno indiretta vittoria della Cristianità in terra d’Africa. Sebastiano e i due dinasti «mori» trovarono tutti la morte nello scontro; la vittoria arrise comunque ad Abd el-Malik il quale, peraltro già irrimediabilmente minato da una malattia, si era spento all’inizio del fatto d’arme; ma la sua morte fu tenuta nascosta dai suoi. Il re del Portogallo e al-Mutawwakil persero la vita in una ritirata che era piuttosto una fuga, dopo sei ore di combattimento, annegan-

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do in uno wadi. Il corpo dell’ex sultano fu più tardi rinvenuto dai nemici che lo scorticarono e ne recarono poi la pelle impagliata in giro per il Marocco99. Nella battaglia aveva perduto la vita anche il romantico avventuriero sir Thomas Stukeley. Chi raccolse i frutti di quella strampalata impresa fu il fratello del defunto Abd el-Malik, Abu Abbas, che abilmente seppe guidare alla vittoria le sue truppe nell’ultima parte dello scontro e che perciò, insieme col trono di Fez, si guadagnò il titolo onorifico di al-Mansur, «il Vittorioso»100. Ma di Sebastiano – morto per pura coincidenza in circostanze abbastanza simili a quelle in cui, quasi quattro secoli prima, era deceduto l’imperatore Federico I in Asia Minore durante la terza crociata – non si trovarono più tracce. Era abbastanza prevedibile quindi che non si sarebbe creduto alla morte di un sovrano che del resto era ancora molto giovane101. Il deserto inghiotte i re, ma conserva le leggende. Dalla parte opposta del continente africano rispetto ad al-Kasr al-Kebir nel senso della longitudine, verso l’oasi di Siwa nel deserto egiziano, era scomparso inghiottito dal nulla nel VI secolo a.C. l’intero esercito del Gran Re persiano Cambise, diretto forse a occupare e magari distruggere il tempio di Ammon. Qualcuno sostiene che là, presso il santuario del gran dio solare egizio e in mezzo al «gran mare di sabbia» – anziché ad Alessandria – fosse stato sepolto Alessandro il Grande. Come dicono gli arabi, Dio ne sa di più. Neppure Sebastiano fu mai restituito dalla sabbia e dalle pietre del Marocco: nacque dunque la profezia – più tardi ripresa nei versi di Fernando Pessoa – che il giovane re, ormai chiamato O Encoberto («il Velato», «il Nascosto») sarebbe un giorno tornato dal mare, emergendo dalla bruma dell’Atlantico, e che con lui si sarebbe inaugurato il «Quinto Impero» che – dopo quello greco, quello romano, quello cristiano e quello inglese – avrebbe infine segnato l’egemonia del Portogallo102: un destino in cui l’autentica vocazione mistica dell’Europa avrebbe trovato compimento103. Molti furono comunque i Sebastiani redivivi, com’era già accaduto nel Duecento dopo la morte di Federico II e come tra fine Cinque e inizio Seicento sarebbe accaduto in Russia con i «falsi Dimitri» contro i quali dovette combattere lo czar Boris Godunov. Difatti, nel 1584 un falso Sebastiano fu scoperto e condannato al remo; nel 1585 un altro, in origine un eremita, fu giustiziato; nel 1595 venne impiccato il «falso Sebastiano» forse più famoso, Gabriel de Espinosa; infine, nel 1603, un altro preteso Sebastiano redivivo, l’italiano Sebastiano da Venezia (chiamato anche

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Calabuis o Catizzone), confessò sotto tortura la sua frode, ebbe la mano destra tagliata e fu quindi impiccato. Si racconta ancora di altri falsi Sebastiani, uno dei quali fu, a quel che pare, sul punto di venire riconosciuto e legittimato proprio da Filippo II, che lo ricevette a Madrid ma che avrebbe poi preferito farlo avvelenare. E il mito continua...

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Incerte identità: schiavi, prigionieri, rinnegati, convertiti, fuggitivi, pentiti, traditori, doppiogiochisti... C’è una strana corrente di coincidenze temporali, una sorta di sistole e di diastole, tra fronte occidentale e fronte orientale del millenario scontro militare tra Cristianità e Islam, durato ininterrottamente, per quanto in modo discontinuo, dal VII secolo in poi: del resto punteggiato da tregue anche lunghe; accompagnato da continui scambi economici, diplomatici e culturali; e intrecciato con le contese di cristiani contro cristiani, di musulmani contro musulmani e di molte alleanze e opposizioni tra fronti interreligiosi, come abbiamo visto nell’impresa marocchina di Sebastiano del Portogallo. Si tratta in realtà di un confronto polimorfo e complesso, una specie di gara tesa alla continua reciproca ridefinizione dei rapporti di forza e delle distanze. La battaglia di Poitiers, nel 732-733, fu probabilmente poco più d’una scaramuccia che arrestò un raid ispano-musulmano diretto al santuario di San Martino di Tours – patrono dei franchi e della monarchia merovingia – con l’intento di saccheggiarlo, ma che non fermò alcuna travolgente conquista araba dell’Occidente, la spinta della quale si era già esaurita da alcuni anni; in cambio, più o meno nello stesso torno di tempo, fu semmai il basileus Leone III Isaurico ad arrestare un’effettiva avanzata araba nella penisola anatolica (ma gli occidentali finsero di non accorgersene, dal momento che Leone era un eretico iconoclasta). Qualche secolo più tardi, se dopo la conquista castigliana di Toledo del 1085 la controffensiva almoravide bloccava l’avanzata cristiana nella penisola iberica, in cambio i faranj occupavano nell’ultimo decennio dell’XI secolo Sicilia, Siria e Palestina. In pieno Duecento, ai trionfali successi della Reconquista in Spagna corrispondeva la cancellazione dei principati crociati di Siria. Nella seconda metà del Quattrocento, se gli ottomani conquistavano

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Costantinopoli e dilagavano nei Balcani, i Re Cattolici prendevano Granada ponendo fine a sette secoli di dominazione mora in Andalusia. Infine, l’ottavo decennio del Cinquecento si apriva, nel nordest del bacino mediterraneo, con la vittoria cristiana di Lepanto e si chiudeva, nel suo sud-ovest, con la vittoria musulmana di al-Kasr al-Kebir. Coincidenze. O, se si preferisce, sincronie che inviterebbero a illazioni di junghiana memoria per le quali non è questa comunque la sede adeguata. La storia non ha alcun senso immanente: presenta una continuità equivoca, fatta di grandi e piccole rotture; e la sua discontinuità non è a sua volta mai tale da non consentir il continuo riemergere e riannodarsi di istituzioni, di strutture, di eventi. Non ha senso: però ha in cambio ritmi, pulsazioni, curve di livello, regole forse fenomenologicamente intelligibili o magari esegeticamente razionalizzabili e matematicamente traducibili in formule. Ha stile. Nel 1580, due anni dopo la scomparsa di don Sebastiano, proprio quel medesimo anno in cui Filippo II s’impadroniva del Portogallo e – in vista della grande impresa contro l’Inghilterra di Elisabetta, che già stava progettando – avviava i negoziati diplomatici per una tregua con l’impero ottomano1, in una prigione di Limbourg dove lo avevano gettato gli spagnoli perché era accorso in Fiandra a difendervi i calvinisti, un altro guerriero romantico avant la lettre alla stregua dello Stukeley, l’ugonotto François de la Noue detto Bras-de-Fer, scriveva i suoi Discours, uno dei capolavori della letteratura politica e militare del XVI secolo. Egli scorgeva in una nuova crociata, liberata dall’ipoteca egemonica pontificia e sentita come impresa collettiva di liberazione dell’Europa dall’incubo turco, una delle strade attraverso le quali la Cristianità stessa avrebbe potuto ritrovare la sua unità2. Intanto le potenze europee – a cominciare dal papa – studiavano i modi più adatti a crear problemi al sultano sui confini orientali del suo impero. Uno stuolo di viaggiatori, di esploratori, di mercanti e di diplomatici – o di figure ambiguamente fluttuanti tra questi modelli – visitò tra Cinque e Seicento la Persia, cercando d’indurre lo shah safavide a una comune «crociata» contro il Gran Signore di Istanbul. E i persiani dettero in effetti duro filo da torcere agli ottomani3, mentre lo czar di Russia puntava decisamente contro i tartari del khanato di Crimea, vassalli della Porta, e contro la chiave dell’Asia centrale, Astrakhan. Se russi e persiani si fossero congiunti, tra Caspio e lago d’Aral, l’impero del padis¸ah avrebbe dovuto fronteggiare ad est una nuova, compatta frontiera continentale. Appunto al fine d’impedire ciò, egli s’impegnava ad allacciar rapporti d’amicizia e

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d’alleanza militare con i potentati turco-mongoli delle vaste regioni fra la Transoxiana, il Tien Shan e il Karakorum. Intanto, anche gli occidentali stavano cominciando a guardare di nuovo all’Asia centrale. Dai mercanti fiorentini Giovan Battista e Girolamo Vecchietti sino all’avventuroso poligrafo romano Pietro della Valle, si continuava con passione ed erudizione a inseguire l’antico sogno nato in pieno Duecento, quello dell’alleato centro-asiatico che avrebbe stretto in una morsa l’Islam mediterraneo liberando dall’incubo l’Europa cristiana4. Nel 1581, l’anno successivo alla redazione dei Discours del de la Noue, l’ormai anziano Auger de Busbecq, già ambasciatore imperiale presso la Porta ai tempi di Solimano, si lasciava convincere dal suo amico Adam von Dietrichstein, Hofmeister della corte di Vienna, a pubblicare, con una dedica a Rodolfo II d’Asburgo, la sua Exclamatio sive de re militari contra Turcam dai toni profondamente ed inequivocabilmente erasmiani, dove la guerra contro l’infedele era presentata come una misura inevitabile per salvare la Cristianità, alle divisioni interne della quale si attribuiva comunque con severità l’origine dei suoi stessi mali; in questo contesto non si esitava a criticare la stessa conquista dell’America, un’impresa ispirata dall’avidità travestita da desiderio di conversione di quei lontani popoli pagani che aveva distolto l’Europa dal dovere e dalla necessità di arginare la potenza ottomana. Busbecq, che aveva ammirato Solimano ma non aveva nutrito analoghi sentimenti per i suoi successori Selim II e Murad III, rimproverava agli ottomani il loro disprezzo per i trattati stigmatizzando il fatto che, presso di loro, il rispetto della parola data fosse considerato un segno di debolezza5. Ma intanto la Spagna e il sultano erano in trattative per la firma di una tregua che resse, nonostante papa Gregorio XIII facesse di tutto per rinnovare gli appelli alla crociata e sostenesse che quello era il momento propizio per un nuovo attacco, data la guerra in atto tra la Porta e i safavidi di Persia6. Il fatto è che il Turco, per l’Europa cristiana, non era soltanto un incubo; o meglio, non era necessariamente tale per una gran parte d’Europa, e per qualcuno si può dire non lo fosse per nulla. Si è già visto come – dalla Francia all’Inghilterra al mondo protestante – non mancasse chi ad esso guardava, magari di nascosto, come a un alleato quanto meno potenziale, a un «nemico del nemico». V’era inoltre – specie sulle coste del «continente liquido», il Mediterraneo – chi da un lato si sentiva particolarmente esposto alla minaccia degli ottomani7 o dei loro sudditi-alleati, i corsari barbareschi, ma dall’altro guardava ad essa come a un male minore, o addirittura

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a una possibile chance. I poveri, i deboli, i sudditi privi di beni di fortuna e di risorse nel troppo rigido sistema politico e istituzionale della Cristianità – che si poteva modificare, in parte, solo col denaro – consideravano quello dell’infedele come un mondo nel quale si poteva nascere pescatori calabresi o montanari albanesi e, se si evitava il remo o ci si liberava in qualche modo dai banchi delle galee, diventare visir o ammiraglio8. Qualcuno – qualche eretico, qualche perdente rancoroso o sognatore, qualche diseredato – pare arrivasse fino a sperarla, una vittoria degli infedeli sulla sua ingrata e ingiusta patria cristiana. In Europa si andava sul rogo se si manifestava un troppo libero spirito religioso; ma il crudele Turco, che pur impalava e scuoiava, lasciava liberi di adorare il Dio di Abramo come si volesse – quando si appartenesse ai «popoli del Libro» – col semplice atto di sottomissione e il pagamento di una mite imposta. Essere catturati dalle navi che battevano bandiera di Malta o di Santo Stefano durante un’incursione corsara cristiana sulle coste del dar al-Islam portava ordinariamente a remare nelle galee o a languire nei sotterranei di Livorno o di Tolone; cader prigionieri invece di un vascello turco o barbaresco poteva sì condurre ad analoga sorte, ma – se si era abbastanza giovani e belli, o intraprendenti, o tanto fortunati da imbattersi in un padrone misericordioso e autorevole – era possibile salire i gradini di una ripida scala sociale magari fino alle soglie del Gran Serraglio, ai piedi del Gran Signore. Sintomatica al riguardo una composizione letteraria veneziana anonima, un «lamento» composto verso il 1570, nel quale due poveri pescatori esasperati dal malgoverno della repubblica di San Marco auspicano una vittoria del sultano9. Esser fatti prigionieri dai musulmani era d’altronde un incidente di percorso che poteva capitare spesso, se si apparteneva a una popolazione rivierasca oppure se si faceva il mercante o si andava in pellegrinaggio, o se si stava onorando il voto crociato: nella Cristianità erano nati Ordini religiosi speciali, come i Trinitari, i Mercedari e i Lazzaristi, per riscattare i fratelli in Cristo ridotti in ceppi10. Dall’altra parte s’impegnavano i redditi degli awkaf, i beni comuni messi insieme a scopo caritatevole, per riscattare gli schiavi musulmani11. Ma i liberati dietro riscatto, come quelli che riuscivano a fuggire, erano nel complesso pochi: di solito le liberazioni reciproche avvenivano dietro scambi, oppure sulla base di favori che dinasti cristiani e principi musulmani si facevano reciprocamente12. Molti erano poi, da entrambe le sponde mediterranee, quelli che invecchiavano in

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schiavitù salvo venir manomessi in tarda età; e molti quelli che, nella condizione di schiavi domestici, adottavano prima o poi la fede del padrone e continuavano a vivere nella sua casa. Sono parecchie le storie mediterranee di ragazzi, di ragazze, d’uomini e di donne catturati dai turchi o dai barbareschi. Alcune, molte, le conosciamo: ancora di più sono quelle che resteranno per sempre ignote. Vicende molto spesso tragiche, ma talvolta avventure a lieto fine13. A volte, la realtà soverchiava i toni del romanzo: altre, provocava memorie scritte o diari-romanzo magari «falsi» sul piano dell’evento specifico che narravano, ma costruiti sulla base di autentiche testimonianze. Come nel caso del medico segoviano Andrés Laguna, ben noto per i suoi lavori scientifici, autore presunto14 di un Viaje de Turquía edito nel 1557 che, in termini non è chiaro se pseudoautobiografici o semiautobiografici, narra le avventure di Pedro de Urdimalas, catturato nell’agosto del 1552 al largo dell’isola di Ponza e costretto alle dure esperienze del galeotto e dello schiavo a Costantinopoli da cui riesce a liberarsi fingendosi medico – grazie al provvidenziale aiuto di alcuni libri – e curando così prima il pas¸a suo padrone, quindi la stessa sultana15. Un romanzo poteva servire da testimonianza indiretta per la narrazione o la rievocazione di avventure autentiche, spesso più mirabolanti dei racconti letterari che le richiamavano; dietro la narrazione letteraria poteva celarsi un’esperienza reale effettiva, per quanto ci sfugga in quali e quanti modi potesse presentarsi il rapporto tra memoria dei fatti e racconto. Così accadde comunque al più celebre schiavo dei barbareschi, quel Miguel de Cervantes che nel 1569 – per ragioni che ignoriamo – si era trasferito in Italia, si era arruolato come soldato semplice in un tercio di Sua Maestà Cattolica, aveva partecipato nel ’71 alla battaglia di Lepanto dov’era rimasto mutilato e nel ’75 (aveva allora ventotto anni) era stato catturato durante il viaggio di ritorno da Napoli in Spagna dai corsari barbareschi che lo avevano trascinato in catene ad Algeri16. Dopo aver tentato più volte inutilmente la fuga, fu liberato in seguito a riscatto nel 158017. Della sua esperienza egli avrebbe lasciato una toccante testimonianza nei capitoli 39-41 del Don Chisciotte, la «novella» del cautivo18, nonché nelle tre commedie che si ispirano al periodo della sua prigionia: La vita ad Algeri, I bagni di Algeri e La gran sultana19. L’aspetto più straordinario dell’avventura del cautivo Miguel de Cervantes potrebbe sembrare il suo rapporto col beylerbeyi di Algeri, Hassan Pas¸a, al quale era stato presentato in catene dopo il suo ultimo tentativo di fuga e che stranamente non

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l’aveva fatto né impalare né frustare, ma l’aveva anzi tenuto presso di sé. Un’eccezione? La vita è davvero un castello dei destini incrociati. Nel caso del grande scrittore castigliano, infatti, la sua s’incrociò con quella di uno scrivano veneziano nato dalle parti della parrocchia dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia e che portava il cromatico nome di Andrea Celeste. Imbarcato su una nave di Ragusa, il Celeste era stato catturato dal corsaro Turgud reis, che nella Cristianità era più noto come Dragut, e portato a Tripoli. Venduto e rivenduto varie volte, il povero scrivano era passato di mano in mano come schiavo fino a giungere nientemeno che in quelle di Uluç Ali, un personaggio leggendario di cui diremo tra breve e che era un rinnegato di origine calabrese. Quegli aveva preso a benvolere il Celeste, che intanto si era convertito all’Islam e aveva assunto il nome di Hassan, era divenuto a sua volta corsaro, quindi beylerbeyi di Algeri e infine – alla morte di Uluç Ali – gli era succeduto come kapudan pas¸a20. Celeste-Hassan aveva poi addirittura sposato una nobilissima signora, Zahra, vedova del re del Marocco Abd al-Malik perito nella battaglia di al-Kasr al-Kebir. Aveva naturalmente fatto dimenticare la sua umile origine veneziana, ma non troppo: era infatti noto come Venedikli Hassan, «Hassan il Veneziano». Si deve alla comune origine cristiana, e al comune destino di schiavitù provato da entrambi, il fatto che tra il potente rinnegato e il castigliano destinato alla gloria delle lettere si stabilisse un forte legame di amicizia e di simpatia?21 Ma come si era davvero comportato, il Cervantes, durante la prigionia? Certo non si convertì all’Islam, non divenne «rinnegato», come invece accadde a molti di quelli che lungo l’arco di oltre un millennio – tra VII e XIX secolo – condivisero la sua avventura. Tuttavia, nell’ansietà con cui prima di andarsene da Algeri raccolse testimonianze per scagionarsi dalle accuse che gli provenivano dall’ambiguo e malevolo ecclesiastico Juan Blanco de Paz – aver avuto rapporti amichevoli con i musulmani, esser colpevole di comportamenti sessuali «viziosi» e così via –, si capisce non solo che cose del genere accadevano abitualmente, ma anche che era molto verosimile riguardassero anche lui. Gli «impuri allettamenti di sfacciate donne» e le innominabili violenze sofferte da chi finiva schiavo e aveva un aspetto tale da attrarre l’attenzione dei «sensuali ed effemminati turchi» facevano parte di una serie infinita di topoi riguardanti i pessimi costumi degli infedeli che peraltro non venivano di per sé contestati – godevano anzi di un illimitato credito –, ma erano evidentemente

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corretti dalla pratica e dall’esperienza quotidiana, dalla capacità di subire, sopportare, adattarsi e anche di finire con l’intrattenere rapporti amichevoli e perfino affettuosi, al di là della violenza e della costrizione22. Il punto è che la posizione del galeotto-schiavo (insomma del prigioniero) cristiano e quella del rinnegato, sovente l’una conseguente all’altra, non si possono considerare tuttavia opposte o alternative: esiste anzi fra esse non solo una frequente continuità fenomenologica, ma anche una sorta di affinità. Non tutti divenivano beylerbeyi o kapudan pas¸a, certo: eppure ce n’era, di gente che si era «fatta turca»23 per far carriera, e di altra che comunque, convertitasi, ne aveva fatta. Molti erano diventati governatori e ammiragli, dallo stesso Barbarossa al sardo Hassan Ag˘a, ad Hassan «còrso», al croato Piyalè Pas¸a, al calabrese conosciuto come Dionigi, al genovese – o siciliano? – Scipione Cigala divenuto Sinan24, fino appunto a un altro e ben più noto calabrese, Luca (o, forse, Giovanni) Galieni, nato nel 1508 e rapito dai barbareschi quand’era sedicenne, il quale divenne Uluç-Ali, grande ammiraglio della flotta sultaniale25 e nelle fonti italiche circondato da terribile fama per quanto noto col buffo nomignolo di «Occhiali»26, mentre i turchi lo chiamavano con rispetto e ammirazione Kiliç Ali, «Ali la Spada»27. D’altronde, un’altra avventura mediterranea conferma la fluidità dei confini tra rinnegati, convertiti e schiavi. Nel 1605, vicino a Marsiglia, un vascello tunisino catturava tra gli altri un giovane prete, Vincent de Paul; divenuto schiavo a Tunisi quel sacerdote riuscì, con la sua appassionata eloquenza, a «riconvertire» il suo padrone, che era un rinnegato cristiano probabilmente – al pari di chissà quanti altri – mai stato convinto, nell’intimo, della sua conversione all’Islam. Padrone e schiavo riuscirono quindi a fuggire da Tunisi e a riguadagnare la Francia. Il prete Vincent avrebbe dedicato la vita intera ad assistere la gente delle galee e a riscattare i poveri prigionieri, fondando a tale scopo la «Congregazione della Missione», che dal 1632 si sarebbe insediata nel priorato di Saint-Lazare e da allora sarebbe stata celebre come «Congregazione dei Lazzaristi». Oltre a raccogliere danaro per pagare i riscatti, i religiosi cristiani contrattavano con le associazioni pie musulmane allo scopo di organizzare scambi di prigionieri: e ve n’era copioso materiale, dal momento che non bisogna dimenticare che «inconsciamente, si bada ai lamenti e alle reali sofferenze della Cristianità, e si dimenticano tante Algeri cristiane – Malta, Pisa, Livorno – e tanti ergastoli cristiani, con le medesime sevizie e pratiche

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di Algeri»28. La miserabile carne circoncisa non soffre e non muore di meno della miserabile carne battezzata29. Non era comunque troppo comune che un rinnegato tornasse alla fede primitiva: cosa rischiosa e sotto molti aspetti inopportuna. D’altro canto, il prestigio dei rinnegati era legato alla costanza della loro presenza nel ceto dirigente ottomano e barbaresco: per questo ciascuno dei gruppi etnici cui essi appartenevano s’ingegnava a tener alta la sua quota numerica inducendo o obbligando i connazionali cristiani a rinnegare a loro volta la fede. Di rado si trattava di gente volontariamente fuggita «presso il Turco»: erano però consueti i casi di cristiani che, una volta catturati, si erano convertiti per evitare il carcere o il remo ed erano riusciti a diventare magari proprietari di almeno un vascello, talora di una flottiglia, e qualche volta a salir più in alto. Tipi sovente di straordinario talento: duri, spregiudicati, crudeli, però abili e coraggiosi. Fossero restati al loro paese, nella Cristianità, la rigida stratificazione sociale del tempo – che privilegiava in cambio imbecilli inetti sì, ma di illustri natali – avrebbe loro impedito di ascendere: sarebbero rimasti marinai o pescatori. Non c’è dubbio che il fenomeno dei cristiani che passavano all’Islam fosse molto più comune di quello opposto, e a ciò concorrevano parecchi fattori: che la società musulmana fosse più egalitaria, ignorasse i privilegi del sangue e consentisse quindi maggiori e migliori possibilità di carriera a persone di umile condizione sociale ma capaci; che il controllo sui comportamenti religiosi e sessuali fosse nell’Islam molto meno pesante che non nella Cristianità; che la conversione all’Islam permettesse a chi era stato condannato in un paese cristiano di sfuggire ai rigori della legge. L’area balcanica, le isole e l’«impero» veneziano erano i luoghi, per loro natura marginali, in cui la fluidità del metabolismo sociale fondato sugli scambi, le vicende diplomatiche, i mutamenti di religione si avvertivano con maggior forza30. Ma questo valeva per i rinnegati: cioè – parliamo dal nostro punto di vista «occidentale» – per i cristiani che, qualunque fosse la ragione della loro scelta, passavano all’Islam. Diverso, almeno in parte, il discorso per quelli che, sempre dal nostro punto di vista, erano i «convertiti»: del resto poteva succedere – non sapremmo dire con quanta frequenza – che la stessa persona avesse fatto entrambe le esperienze: che cioè, come si esprimevano al riguardo con disprezzo teologi e canonisti, «come un cane, tornasse al suo vomito»31. Anche (e, forse, soprattutto) dietro queste tormentate scelte si celavano spesso drammi intensi e struggenti: come nella storia del povero soldato Giuseppe, che Montaigne apprese

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nel maggio del 1581 a Bagni di Lucca e che lo colpì tanto da indurlo a raccontarla. Un altro romanzo. «Un abitante del luogo, un soldato di nome Giuseppe», dunque, «trovandosi in guerra sul mare, fu preso dai turchi. Per ottenere la libertà si fece turco... fu circonciso e prese moglie laggiù»32. Ma tornò un po’ di tempo dopo sulle coste della sua Versilia, con i suoi nuovi compagni di fede e di guerra, per saccheggiare. Perché lo fece? Lo obbligarono, dal momento che conosceva i luoghi, magari per mettere alla prova la sua lealtà? S’intrufolò in qualche vascello in partenza per le coste toscane, spinto forse dal desiderio di fare una vendetta o di rivedere qualche familiare o qualcuno cui aveva voluto bene, o semplicemente di tornare sui luoghi dell’infanzia? Ci si trovò per caso, dal momento che la destinazione originaria dell’equipaggio cui apparteneva era un’altra e un incidente, un fortunale, un cambio di umore del comandante della sua nave lo avevano ributtato sulle coste natie? Aveva in realtà preso da tempo, stando tra gli infedeli, la decisione di scappare alla prima occasione e di ritornare ai suoi luoghi natii e alla sua fede tradita? Volle fare una bravata? Non lo sapremo mai. Il fatto è che fu catturato dagli abitanti, i quali evidentemente – in questo come in altri casi – erano in grado di reagire alle incursioni e di difendersi. Naturalmente, appena preso si rivelò per chi era, sostenendo – e non gli fu difficile dimostrarlo –, che era proprio lui, nato e cresciuto lì, protestando che era sempre rimasto cristiano per quanto lo avessero obbligato a circoncidersi, che era venuto col proposito di tornare alla vera fede e ai suoi cari. Dopo un primo momento di dubbio e d’incertezza, fu comprensibilmente accolto a braccia aperte. Del resto, aggiunge l’illustre narratore di questa storia, le sue vicende somigliavano a quelle di parecchi altri «originari delle montagne qui attorno e ancora viventi». Giuseppe ebbe così la consolazione di riabbracciare la madre ancora in vita – il che ci dice che non doveva essere troppo anziano e che la sua esperienza presso i mori non doveva essere durata particolarmente a lungo –, venne festeggiato quasi come un eroe, fu riaccolto in chiesa ed ebbe addirittura l’onore di ricevere l’eucarestia dal vescovo di Lucca. Chissà, magari la sua famiglia aveva da tempo concepito il desiderio di mettere insieme il denaro necessario per riscattarlo: e sappiamo come «attorno agli schiavi cristiani fiorisse tutto un vasto traffico mercantile. Il riscatto di quegli infelici, in ultima analisi, venne assumendo la forma di un vero di un vero e proprio commercio, attraverso il quale da più parti si cercò di realizzare il massimo pro-

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fitto»33. Insomma, se gli abituali strumenti della carità cristiana non bastavano, se le elemosine affidate ai religiosi trinitari o mercedari erano insufficienti, ci si doveva rimettere a un giro di sensali e di strozzini che non conosciamo nei particolari, ma che affiora da più testimonianze magari parziali o indirette34. Quando si era certi che un proprio familiare fosse finito schiavo, rintracciarlo non doveva essere sempre troppo difficile: ma poi ci si doveva indebitare per pagarne la libertà. Il che spalanca la porta anche su problemi ulteriori: quante famiglie rinunziavano a sacrificarsi e stabilivano che in fondo, se Dio aveva voluto così, era meglio che il loro caro restasse fra i saraceni? E d’altra parte uno schiavo aveva davvero, sempre e comunque, voglia di tornare a casa e di vivere di nuovo presso i suoi? La vita di un rivierasco o di un montanaro della Lucchesia, costretto magari per tirare avanti a emigrare nella vicina ma micidiale «Maremma amara», terra di malaria e di briganti35, e che non aveva alcuna prospettiva di miglioramento dinanzi a sé, era davvero preferibile a quella di uno schiavo in Algeri? E parliamo di Lucchesia dal momento che questa era la terra del nostro schiavo liberato: ché per la Liguria, o il Sorrentino, o la Dalmazia, o il Salento, il discorso cambierebbe di poco o nulla. Comunque nel caso del nostro Giuseppe, come conclude il Montaigne con un disprezzo che non è a dire il vero nelle sue corde abituali, «era tutta una commedia. Nel cuore si sentiva turco, e per tornare laggiù fugge di nascosto, va a Venezia e si rimette coi turchi». Quindi, dalla Toscana tardo-cinquecentesca, uno che volesse tornare in un qualche luogo del dar al-Islam – noi non sappiamo dove fosse stato portato Giuseppe e dove avesse preso moglie: se in qualche isola greca, sulla costa balcanica, in Anatolia, magari in Istanbul stessa, o in «Barberia», come saremmo portati a pensare (ma allora, perché scegliere Venezia?) – aveva più probabilità di rientro se si dirigeva verso il porto della Serenissima che non verso quelli di Livorno o di Genova o di Civitavecchia che erano più vicini. Anche su ciò, vorremmo saperne di più. Ci piacerebbe soprattutto capire se era davvero caduto incidentalmente nelle mani dei rivieraschi toscani, o aveva sul serio e da tempo programmato di farlo, come egli stesso aveva subito dichiarato. Siamo davanti a un doppiogiochista maldestro? Oppure, una volta riaccolto preso i suoi e tornato al suo solito lavoro di contadino o di boscaiolo, aveva valutato che stava meglio prima, tra i musulmani? O era stato assalito dalla nostalgia di chissà quali paesaggi di mare e di palme, magari della moglie

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abbandonata laggiù, o forse dalla voglia struggente di prostrarsi di nuovo alla sera, la fronte verso la Mecca, per recitare le sante parole della preghiera? E a dir la verità non è nemmeno il caso di leggere la pagina del Montaigne al riguardo come ispirata con certezza al disprezzo: chissà, in fondo quel sentirsi «turco nel cuore»... Certo, comunque, scalognato Giuseppe lo era sul serio. Tornato alla sua professione di corsaro, venne catturato ancora una volta – la terza in vita sua –, stavolta dai genovesi. Nessuno volle, in quella nuova circostanza, sentir ragioni; o forse lui non ci provò nemmeno. E finì presumibilmente i suoi giorni incatenato al banco di voga di una galea. Molti avranno conosciuto vicende analoghe ma con più felice esito rispetto a lui, rinnegato e riconvertito e poi «ririnnegato», chissà, magari per amore di una lontana moglie saracena o per nostalgia del richiamo del muezzin nel cielo del tramonto. Altri più duri, o più furbi, o meglio assistiti di lui dalla sorte, riuscivano a diventare almeno reis. Quanto appunto ai reis, la descrizione di Algeri redatta nel 1581 dal benedettino spagnolo Diego de Haëdo ci fornisce l’elenco dei 35 vascelli corsari che abitualmente avevano allora base in quel porto36. Dei loro comandanti, 25 sono cristiani rinnegati, e fra loro abbondano gli italici: 6 genovesi, 2 veneziani, 1 napoletano, 1 calabrese, 1 còrso, 1 siciliano. Relativamente di rado questi uomini, regolarmente di umile condizione quanto alla nascita, si rifugiavano spontaneamente nel dar al-Islam, «fuggivano presso il Turco», come si diceva con disprezzo: ma, catturati, accettavano di convertirsi per sottrarsi al remo e alla catena. Tra loro ce n’erano parecchi che dopo la conversione, grazie a doti d’intelligenza, di coraggio, di bellezza o d’intraprendenza facevano carriera, si compravano una nave e magari una flottiglia e diventavano rais, cioè capitani di mare, o caid, cioè governatori, fino a giunger magari all’invidiato livello di pas¸a e di visir. Per certi versi non è affatto azzardato il paragone, che è stato spesso proposto, fra loro e i liberti dell’antica Roma. Ben più modeste, al confronto, le carriere dei musulmani «convertiti» al cristianesimo che si adattavano a vivere nella rigida e stratificata societas christiana, dov’era difficile conseguire qualcosa di meglio del livello del chierico, del domestico, del criado o del «liberto»37. Tra le «virtù» dei turchi contrapposte ai difetti dei cristiani, si segnalavano da parte di molti trattatisti o memorialisti – l’intelligente Busbecq ci è ancora una volta sicura guida – la generosa ospitalità, la disciplina, la sobrietà, la moderazione, la capacità di resistenza al

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dolore, l’importanza attribuita ai meriti personali anziché ai privilegi dipendenti dalla condizione sociale o familiare, l’affetto e la dolcezza con cui si trattavano certi animali (per esempio i cavalli, gli uccelli, i gatti), l’amore per l’igiene e la pulizia38. D’altronde talvolta, per far carriera e imporsi nel mondo ottomano, fino a giungere ai massimi fastigi, non c’era neppur bisogno di convertirsi: ma allora si doveva esser donna. Il Mediterraneo è pieno di leggende circa belle fanciulle razziate e divenute poi concubine o mogli di principi musulmani o magari dello stesso Gran Signore39; ed erano potentissime poi, quelle dame, quando il caso, magari «aiutato» dalla loro abilità e intelligenza, le innalzava fino al rango di valide sultan, la sultana-madre, la quale come genitrice di colui che sedeva sul trono disponeva di un potere e di un prestigio immensi40. Sono restate famose le storie di Hürrem41, dagli occidentali meglio conosciuta col nome di Roxelane, la bella e intrigante gözde, «favorita» di Solimano il Magnifico – il quale «nel 1524 aveva, contro ogni tradizione, optato per la monogamia» e che una decina di anni dopo l’aveva addirittura sposata42. Affascinante, e senza dubbio autentica nel suo fondo per quanto ricca di particolari romanzeschi, è anche la storia di Nur Banu, la «Principessa Luce», un nome che da solo dice tutto a proposito di una bellezza che doveva essere sfolgorante. Molte leggende si raccontano sul suo conto. Sembra che fosse una greca rapita a Corfù dal corsaro Barbarossa e da lui presentata all’harem imperiale dove il principe Selim43, figlio del sultano Solimano, se ne sarebbe perdutamente innamorato. Nonostante l’abissale diversità, in termini d’indole e d’intelligenza, tra i due sultani, il figlio seguì fedelmente nella vita sentimentale – come del resto in altre cose – l’esempio paterno. Come Solimano aveva preso in sposa Roxelane-Hürrem compiendo una scelta monogamica del tutto eccezionale nei costumi sultaniali, altrettanto fece Selim nei confronti di Nur Banu: la quale ebbe un grande ascendente sul marito per tutto il periodo del suo regno, ma perpetuò poi il suo potere in quanto valide del figlio Murad III44. Nella tradizione storica turca, con lei iniziò un lungo periodo – durato fino al 1651, anno della tragica morte di un’altra energica sultana, Kösem – ordinariamente definito «sultanato delle donne»: quasi un secolo durante il quale l’influenza delle donne di corte (mogli, madri, perfino nonne dei regnanti) fu particolarmente forte. Molto diffusa, ma non confortata da prove certe e in fondo non verificabile, la voce che identifica Nur Banu in Cecilia Baffo, figlia illegittima di Nicolò Venier, parente di colui che

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sarebbe stato più tardi il vincitore di Lepanto e governatore di Paro, e di Violante Baffo45; ma altre versioni, autorevolmente accreditate dalle lettere del bailo veneziano a Istanbul, sostengono che si trattava di una ragazza di Corfù suddita veneziana, di nome Kalì Kartanou. Non ci districheremo mai in questa selva di chiacchiere e d’ipotesi, ma certo è che la sultana non nascose il suo favore e la simpatia per la città di San Marco; e che il governo della Serenissima la ripagò di pari moneta. Il che si tradusse in doni, scambi di corrispondenza e favori reciproci, per quanto la crudele ironia della sorte volle che proprio durante il suo regno si svolgesse la guerra di Cipro e a Lepanto le armi e le navi sultaniali venissero umiliate da uno che, forse, era congiunto della sultana. Che comunque, «dopo la sua morte, nel 1583, lasciò un tenace ricordo nei veneziani, ammirati e sconcertati al tempo stesso dall’incredibile ascesa di una fanciulla che la consuetudine delle famiglie nobili avrebbe destinato, come figlia naturale, al monastero o a un modesto matrimonio»46. Il romanzo di Cecilia-Nur Banu fu senza dubbio un caso unico, anche se la storia del tempo è ricca di personaggi e di eventi di quel tipo; del resto, per quanto in effetti si convertisse all’Islam, la sua vicenda non rientra propriamente nel genere di quelle dei rinnegati. Originariamente cristiana, figlia di un sacerdote ortodosso dell’isola di Tinos, era Kösem, che gestì abilmente il passaggio di poteri all’atto della deposizione di suo marito Ahmed I e i successivi sultanati dei suoi figli Murad IV e Ibrahim I47. Se parecchie tra le concubine dei sultani erano originariamente cristiane, e magari potevano in qualche modo essere rimaste segretamente tali – il diritto coranico proibisce a una musulmana di sposare un cristiano, ma non viceversa –, molti dignitari e ministri della corte sultaniale erano dei veri e propri rinnegati, cioè persone che avevano almeno formalmente abiurato alla fede cristiana in modo volontario, non in quanto costrettivi da pratiche come quella del devs¸irme. Ad Algeri – ch’era stata oggetto nel 1594 d’un ulteriore tentativo di conquista, particolarmente maldestro, da parte di Giannandrea Doria48 – i rinnegati che facevano più carriera erano spesso genovesi e veneziani; ma c’erano anche calabresi, siciliani, napoletani, albanesi, greci, francesi e qualche ebreo. Pare che il fenomeno dei rinnegati divenisse meno massiccio nel XVII secolo, forse perché globalmente diminuirono anche i cristiani presi prigionieri da turchi e barbareschi a causa della già incipiente decadenza della talassocrazia musulmana (ma anche, globalmente, dei traffici) nel Mediterra-

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neo: tuttavia resta celebre il ligure Usta Murad, noto in Italia come Osta Morato o Moratto, che divenne dey di Tunisi nel 1637 e dette origine addirittura a una dinastia – i muraditi – rimasta al potere fino ai primi del Settecento49. È famoso anche Ali «Piccinino», di origine veneziana, un comandante della flotta che tra 1638 e 1645 governò sostanzialmente Algeri. Ma un posto a parte, in questa pur forzatamente troppo rapida rassegna, spetterebbe a quello che si sarebbe tentati di definire il «clan dei rinnegati veneziani del serraglio». Si trattava, in effetti, di un gruppo di pressione e di potere forse non organico e strutturato, certo comunque autorevole: e centro di un vero e proprio «partito veneziano» attivo nell’harem in più o meno stretto contatto con i baili della Serenissima. Ne facevano parte uomini e donne di varie origini familiari, talvolta ragguardevoli: come i Michiel, uno dei quali, quasi un ragazzo, era il fedele portainsegna del principe Mustafa, lo sfortunato figlio di Solimano il Magnifico che fu fatto strangolare dal padre nel 1553: e il giovane seguì il destino del suo signore50. Va detto tuttavia che altri rinnegati di altissimo rango, proprio in quanto di origine veneziana, si guardavano bene dall’esporsi favorendo in qualche modo la Serenissima; e anche qui la pluralità delle situazioni regna sovrana. In molti, anzi, la memoria dell’origine poteva giocare in modo negativo, traducendosi in una implicita o addirittura aperta inimicizia dettata da lontani rancori o da zelo nei confronti della posizione acquisita. Era difatti un Michiel anche Gazanfer Ag˘a, kapiag˘asi, cioè capo degli eunuchi bianchi addetti alla persona del sultano. Figlio di un Michiel e di una Zorzi, era stato catturato ragazzino con tutta la sua famiglia dai corsari nel 1559; la sua nobile madre aveva potuto riscattare le figlie femmine, ma non i maschi, che erano stati assegnati come paggi al principe Selim e avevano assunto il nome di Cafer e Gazanfer: intimi di Selim – lo stesso che era figlio della greca Roxelane e innamorato e quindi marito della greca, o forse veneziana, Nur Banu – erano stati evirati ed erano entrati nel gruppo degli eunuchi fedeli e costanti compagni del principe e quindi sultano. Gazanfer, divenuto capo degli eunuchi sultaniali attorno al 1577, esercitò una grande autorità nell’ambiente di corte e creò una fitta rete di amicizie e alleanze uno dei perni della quale era una sua sorella, Beatrice Michiel appunto, conosciuta come Fatma hatun. La storia di Beatrice è per la verità drammatica: essendo venuta a Istanbul per visitare i fratelli, fu da Gazanfer costretta a restare e a convertirsi all’Islam.

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Essa divenne comunque una donna molto potente, sposò Ali ag˘a dei giannizzeri e dovette coinvolgerlo nelle sue trame filoveneziane anche sotto il profilo economico, dal momento che incontriamo l’alto dignitario presente come socio in una compagnia commerciale mista di cristiani e di musulmani, con sede in Istanbul. Sodalizi del genere erano per la verità concordemente proibiti dalle leggi sia della Chiesa sia dei paesi cristiani, sia del sultanato: ma le ripetute proibizioni testimoniano che si trattava invece di pratiche correnti51. La fortuna politica di Gazanfer, che dopo la scomparsa di Nur Banu si era legato alla nuova valide Safiyye, precipitò con la rivolta di palazzo del 3 gennaio 1603: allorché, morto Murad III, il nuovo sultano Mehmed III, piangente, fu costretto dagli spahi, dagli ulema e dai giannizzeri in rivolta ad assistere alla decapitazione del rinnegato veneziano e di Osman, capo degli eunuchi neri. Il nipote di Gazanfer, Giacomo Michiel – Mehmed in quanto convertito all’Islam – restò a corte e fu uno degli accompagnatori di Murad IV52. È stato tuttavia notato che dopo la metà del XVII secolo la fortuna dei rinnegati d’origine mediterranea cominciò a farsi sempre più rara, in parte tuttavia sostituita da quella di altri rinnegati, soprattutto inglesi e fiamminghi, detti «ponentini». L’attività della guerra di corsa, che stava alla base sia del metabolismo dei gruppi di pressione dei rinnegati sui vertici della società ottomana sia del sistema dei prigionieri e degli schiavi di entrambe le parti, andò irreversibilmente restringendosi a partire dal Seicento, per quanto ancora un secolo dopo perfino le grandi città, in Sicilia e in Sardegna, continuassero a temere incursioni; e per quanto i corsari algerini, dopo il 1610, fossero riusciti a esportare la loro guerra di corsa ad ovest dello stretto di Gibilterra, sull’Atlantico. L’incubo durò comunque a lungo. Ancora nel 1798 un’incursione tunisina nell’isola di San Pietro presso il litorale sardo faceva un migliaio di prigionieri; nel 1805 una banda di turchi approdava in Versilia e si portava via una manciata di malcapitati53. Una recrudescenza dell’attività corsara musulmana si ebbe nel biennio 1815-16 e continuò per alcuni anni colpendo il Meridione d’Italia, la Toscana, le due grandi isole tirreniche54. Ma ormai, evidentemente, il clima delle stesse prospettive della prigionia in terra d’infedeli si era – tra Sette e Ottocento – molto disteso. La Entführung aus dem Sarail di Wolfgang Amadeus Mozart e L’Italiana in Algeri di Gioacchino Rossini non sarebbero mai nate, se il dramma dei prigionieri cristiani non fosse intanto andato svanendo. E d’altra parte non sarebbero

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mai state scritte, se esso non avesse per secoli costituito una dura realtà e un incubo per l’Europa. Tuttavia, va anche tenuto conto del fatto che la guerra di corsa, che si presentava al tempo stesso come episodica e come endemica, cresceva d’intensità nei periodi nei quali veniva sospeso il grande scontro frontale: fra Sei e Settecento, dunque, i più frequenti episodi di assalti e di saccheggi corsari – da entrambe le parti – vanno messi in rapporto anche con la tregua stabilitasi sul mare tra la fine della guerra di Cipro, nel 1572, e l’inizio di quella di Candia oltre settant’anni più tardi. Il diminuire delle attività corsare turche e barbaresche – in ­parte causato anche dall’incipiente decadenza dell’impero ottomano – provocò il contraccolpo di un contrarsi delle attività marinare e corsare sia dei cavalieri di Malta e di Santo Stefano sia dei corsari privati cristiani nel Mediterraneo: attività che erano state molto intense, specie nel trentennio 1580-1610. A parte la necessità di rispondere colpo per colpo agli attacchi musulmani con appropriate ritorsioni, il punto è che c’era bisogno di manodopera schiavistica per remare sulle galee e per lavorare alle fortificazioni costiere. Si razziavano prigionieri sia dal Levante sia dal Maghreb: famoso il saccheggio di Mahomedia (Hammamet), nell’agosto del 1602, da dove le galee degli stefaniani prelevarono dalle quattro alle settecento persone55. Gli assalitori erano arrivati «travestiti da turchi» (cioè con gli abiti locali, che dovevano essere maghrebini: ma le fonti occidentali del tempo utilizzano il termine «turco» come sinonimo di musulmano in genere) ed erano stati fatti per questo entrare pacificamente in città, che misero a sacco. Gli episodi che vedevano come protagonisti soldati e – soprattutto – marinai cristiani travestiti da musulmani (o viceversa), e la facilità con la quale a quel che sembra questi camuffamenti riuscivano a ingannare le loro vittime, non debbono stupire: essi sono una prova della fluidità degli assetti etnico-culturali del mondo mediterraneo e della diffusione in esso degli incontri, delle sincresi, delle ibridazioni, dalle varie forme di nicodemismo e di doppia professione di fede, dei risultati del diffuso fenomeno dei rinnegati e dei detentori di una duplice identità, di una duplice cultura, o meglio di una cultura risultato cangiante di sfumature e di articolazioni d’origine diversa. Tutto ciò si rifletteva sugli abiti, sulle abitudini alimentari, sulle lingue e sui «vernacoli» usati56. Inoltre le navi venivano spesso reciprocamente requisite: nessuno poteva quindi fidarsi, avvistando un vascello dall’apparenza familiare e inalberante vessilli amici, dal momento che l’imbarcazione poteva in realtà

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essere una preda di guerra del nemico e non mancava mai, nell’un campo, chi non conoscesse la lingua e il sistema dei segni dell’altro. I travestimenti, del resto, erano comuni: gli stessi diplomatici occidentali, quando viaggiavano nelle terre del sultano, assumevano abiti «turcheschi». Tra questi usi e l’introduzione di fogge orientali nell’abbigliamento domestico non meno che nelle feste di corte o di piazza c’è un legame intenso. Compartecipavano di questo mondo dai contorni fluidi ed ambigui i rinnegati che, tornati nella società cristiana, cercavano di reinserirsi, i poveracci sfuggiti al remo nelle galee turche o barbaresche e quelli reduci dalle carceri di Tunisi o di Algeri perché erano riusciti a evadere o perché erano stati liberati tramite un riscatto pagato per loro da Ordini come i Trinitari, i Mercedari o i Lazzaristi, oppure da una delle numerose confraternite che avevano come scopo il riscatto degli schiavi. Essi finivano spesso sulle strade, come mendicanti o vagabondi; mischiata con loro, si agitava una turba di ciarlatani e di millantatori come quelli descritti dal Frianoro nel suo trattatello del 1621: Arrivati alle città o castelli, in mezzo alle piazze, con una fionda fanno scoppi terribili, al cui suono convengono fanciulli e uomini poco pratichi, e sentendoli gridare: Allah, Allah, Allah hecber, elhemdu, lillahi, la illah, illelhac, et altre parole con sì strana lingua, e mostrare longhe catene e ferri con cui dicono essere stati legati e dalla galera fuggiti, danno ad intendere al volgo d’aver ricevuto ogni dì grandissima quantità di bastonate da’ Turchi, inimici della fede di Cristo, mostrando certi segni che artificiosamente hanno fatto nelle carni57.

I travestimenti, o comunque l’esibizione da parte dei prigionieri liberati delle vesti e soprattutto delle catene che avevano portato durante la schiavitù, erano prassi ordinaria nelle cerimonie durante le quali si presentavano con solennità per le piazze e le strade d’Europa gli sventurati che erano stati riscattati dalla prigionia abbigliati teatralmente per l’occasione, con turbanti, burnus e – naturalmente – catene58 che sovente finivano attaccate come ex voto alle muraglie di qualche santuario: peccato solo che quei ferri fossero talvolta delle falsificazioni59. Ma dagli schiavi passiamo a chi li rendeva tali, a chi li catturava. Le differenze tra corsari («liberi imprenditori» ufficialmente autorizzati alle razzie da un potere pubblico e muniti di tanto di patente) e pirati (imprenditori in proprio, fuorilegge per tutti) nella pratica

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si può dire non esistessero, tanto più che i corsari venivano trattati come volgari pirati dalle potenze avverse a quelle che li autorizzavano: e il bagaglio di violenze e di sofferenze era analogo. Tutto il Mediterraneo quattro-settecentesco è un lago di paura, sulle sponde cristiane non meno che su quelle musulmane: ne fanno fede le torri di guardia che si ergono dappertutto sui litorali e che sono simili per forma e funzione. Se le tempeste e la cattiva stagione facevano crescere la miseria nei centri rivieraschi perché era impossibile o molto più difficile pescare e commerciare, il bel tempo e il mare calmo portavano con sé un po’ di prosperità, ma anche il pericolo degli incursori. Vero è tuttavia che furono soprattutto i musulmani del Maghreb, i «barbareschi»60, a far delle razzie e del traffico degli schiavi la base della loro economia: e ciò continuò, sia pur in modo più stemperato, sino alla conquista francese di Algeri del 1830 che non a caso alcuni – lo stesso Chateaubriand – vollero celebrare come «l’ultima crociata»61. Le vicende dei prigionieri musulmani in terra cristiana furono comunque mediamente meno varie e – sia pure rispetto a casi limitati – meno fortunate dei loro omologhi cristiani. Non vi fu un apprezzabile fenomeno di convertiti che passassero dall’Islam al cristianesimo (e che quindi, dal punto di vista degli ex correligionari, fossero appunto a loro volta dei «rinnegati»): non sapremmo dire quanto e fino a che punto perché la fede islamica fosse più radicata che non la cristiana, e da che punto in poi, più semplicemente, perché poca pressione (non parliamo di apostolato) veniva esercitata sui prigionieri affinché si convertissero. Del resto, la conversione sarebbe stata antieconomica: lo schiavo divenuto cristiano avrebbe dovuto esser liberato. I pochi casi di conversione venivano celebrati come grandi avvenimenti: il che ne conferma la rarità. D’altro canto, si preferiva tener gli schiavi in serbo per eventuali scambi di prigionieri. Nel 1543 Paolo III aveva istituito in Roma un Collegio dei Neofiti che avrebbe dovuto ospitare cristiani convertiti d’origine ebraica e musulmana: ma i suoi ospiti non furono mai numerosi. Fonti cristiane – di rado confermate da notizie musulmane – parlano invece di occulte simpatie da parte di molti infedeli nei confronti del cristianesimo. Il fatto che nella dar al-Islam l’apostasia fosse punita con la morte faceva sì comunque che casi del genere – se e quando c’erano – restassero rigorosamente segreti. Del resto, c’era una certa differenza di fondo – vicende della considerazione e del trattamento a parte – tra schiavi cristiani dei musulmani e viceversa. Il fatto che l’Europa

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si ponesse a partire già dal Cinquecento su un piano di progressiva crescita economico-tecnologica, che presto assunse i caratteri di una vera e propria superiorità, fece sì che la razzia degli schiavi africani destinati al remo perdesse progressivamente d’importanza, mentre la guerra di corsa cristiana assumeva sempre di più i caratteri della ritorsione, dell’intimidazione, della dissuasione, oppure della ricerca di manodopera coatta per le galee: e, se i «turchi da remo» venivano liberati difficilmente, d’altro canto la progressiva introduzione di tipi nautici totalmente a vela, che non avevano bisogno di rematori, ne ridusse drasticamente la domanda. Da parte musulmana, viceversa, il catturare schiavi era e rimase a lungo attività economica redditizia in quanto intimamente legata alla vera e propria «industria» dei riscatti: e qui i musulmani trovavano preziosi interlocutori negli Ordini religiosi che avevano come loro scopo specifico appunto il riscatto e la liberazione dei prigionieri degli infedeli, come Trinitari, Mercedari e Lazzaristi. Inoltre le marinerie islamiche continuarono più a lungo di quelle cristiane a servirsi di navi a remi. Eppure, nel «continente liquido» mediterraneo, le occasioni d’incontro pacifico e di condivisione culturale, anzi perfino religiosa, erano molte. Area di confine, esso era anche area di scambio e in certo senso di fusione. Santuari frequentati da cristiani e musulmani erano frequenti: già nel XII secolo, l’emiro siriano Usama ibn Munqidh aveva testimoniato come i Templari, che avevano all’epoca il loro quartier generale nella moschea gerosolimitana di al-Aqsa, permettessero agli amici musulmani di compiere la loro preghiera canonica in un oratorio adiacente. I due culti si incontravano e si incrociavano, pur senza fondersi e senza dar necessariamente luogo a fenomeni di sincretismo, in santuari quali la Virgo incarnata di Saidenaya in Siria, San Giorgio a Lydda in Palestina, la grotta del Santo Latte a Betlemme, Santa Caterina sul Sinai, il santuario mariano di Matariya presso il Cairo (da dove proveniva il famoso balsamo), Nostra Signora del Buonconsiglio a Scutari in Albania, la grotta della Madonna a Lampedusa. Era soprattutto la profonda devozione mariana dei musulmani a favorire queste forme d’incontro. Tracce di una considerazione positiva o comunque di una forma più o meno implicita di simpatia, insieme con la paura e l’odio, emergono vivissime anche un po’ in tutto il folklore mediterraneo cristiano attraverso vari tipi di spettacolo, canzone, ballata, proverbio, danza «moresca» o «turchesca»62. Queste molteplici forme d’incontro tra genti spesso affini sotto il profilo storico-antropologico, contigue per rispettivi insediamenti,

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ma diverse per lingua e per fede religiosa, si sommavano alle numerose occasioni diplomatiche e commerciali di scambio nel creare non solo spazi di sovrapposizione, se non addirittura di espressione sincretica, ma anche, e forse soprattutto, momenti e situazioni di simpatia, di familiarità, di comprensione, di amicizia. Accanto al «pericolo turco» e all’«ossessione turca» si erano andati affermando – e in alcuni casi erano vivi da secoli – spazi per considerare il mondo musulmano uno specchio in cui confrontarsi, quando non addirittura un esempio da tener presente e una risorsa cui attingere. Già i controversisti del XII-XIII secolo avevano rilevato come strano e paradossale il fatto che la legge islamica, fondata dall’«eretico» e «corruttore» Maometto e intrinsecamente malvagia in quanto «corruptela de omne bontà e costume»63, potesse essere abbracciata e praticata da uomini tanto valorosi in guerra e tanto miti, dolci e perfino equi in pace; mentre quella cristiana, portatrice della Verità, era tanto spesso rappresentata da personaggi crudeli, disonesti e indegni. D’altronde, la cultura europea occidentale era abituata da almeno mezzo millennio a vedere in un principe musulmano, il Saladino, il campione purissimo di una delle virtù morali della Cristianità, la magnanimitas cavalleresca. Infine, le leggende relative alla comune origine troiana di romani, franchi e turchi circolavano almeno dal tempo della prima crociata. Depositate sul fondo di una diffusa coscienza antimusulmana abituata a vedere nell’Islam il «nemico della croce» e periodicamente attraversata da quell’autentica Balena Bianca della nostra storia che è l’idea di crociata, queste istanze erano destinate a lievitare magari in silenzio e a riaffiorare più volte e in modi differenti, talora perfino impensati: anche perché di continuo ricondotte in superficie dalla realtà obiettiva, la quale si incaricava di mostrare concretamente come i musulmani potessero sovente da avversari divenire alleati e quanto abituale fosse il loro ruolo di abili interlocutori diplomatici e di preziosi partners economici e commerciali. Né mancavano i casi di aperto e disinvolto opportunismo: come ben si vede nei processi inquisitoriali a danno di quei tali mercanti francesi che nel 1580 si erano imbarcati nel porto di Marsiglia, erano arrivati a Messina dove si erano convertiti all’Islam per recarsi da lì a Istanbul come musulmani e, sistemati i loro affari con maggior convenienza nella loro veste di fedeli del Profeta, rientravano a Messina, dove tornavano alla vera fede64. Del resto, la linea che distingue il corsaro dal mercante e il guerrierobrigante, ghazi o dighenis akrites o border fighter che sia, dall’eroe

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epico o dal vendicatore delle ingiustizie, è molto sottile: e più volte fin dall’antichità era stata superata e cancellata. Buon esempio di una considerazione positiva del «Turco» sono le opere di un intellettuale salentino del Quattrocento, Antonio De Ferrariis, detto «il Galateo» in quanto nativo di Galatone oggi in provincia di Lecce65. Trattando più volte degli infedeli, e pur ribadendo che in essi andava identificato l’«eterno nemico» e che «inter christianos et ethnicos perpetuum est bellum»66, al punto che le popolazioni del Salento ne erano così ossessionate da scorgere l’avvicinarsi di un’inesistente flotta turca perfino in un fenomeno atmosferico quale la «fata morgana», il Galateo – cattolico scrupolosissimo – giungeva talvolta ad elogiare il Turco principalmente a due livelli: il primo, indiscutibile, relativo al valore e al coraggio guerriero; l’altro di carattere giuridico e morale, in quanto egli richiamava alcune situazioni nelle quali gli infedeli si erano comportati in modo più equo e più caritatevole dei cristiani, o avevano mostrato di possedere istituzioni giuridiche le quali a ciò li inducevano. Così in certi aspetti del diritto, come nella confisca dei beni ai figli o ai discendenti innocenti in seguito a colpe dei genitori o degli avi: pratica seguita dai giuristi cristiani e ignota a quelli musulmani. Inoltre, nel trattato Dell’educazione, il De Ferrariis non esita a descrivere in termini positivi lo stesso tirocinio che gli ottomani imponevano ai fanciulli cristiani rapiti e convertiti a forza per diventar giannizzeri nel devs¸irme: ...gli ammaestrano nell’agricoltura, secondo il costume degli antichi romani e dei fidalgi, che menano la vita nei fondi, e gli addestrano a diverse arti; poscia gli mandano ai maestri della milizia; consigliano ad essi la religione, e a mantenere il giuramento; puniscono di morte quei che dicono male parole contro Dio; vietano di spergiurare, di mentire, di giocare ai dadi e alla sorte, di rubare; imperocché il furto si tiene da loro pel più grande dei delitti, vietano nell’esercito di aver vino e baldracca... tengono in abominio i giuochi e il vino, le meretrici e i ruffiani e i sicarii...67

L’Ungheria tripartita e la «lunga guerra turca» Qui giunti, lasciamo un istante da parte quel che succedeva nel ­nostro caro luminoso Mediterraneo68. È tempo di accordar attenzione anche all’altro grande fronte dello scontro tra europei e ottomani e agli

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altri tipi di rapporto che esso comportava: quello del brumoso, umido, sovente boscoso o paludoso «antemurale» balcano-danubiano. Dopo Lepanto e la guerra di Cipro, la pressione turco-barbaresca sul mare si attenuò sensibilmente. Il naufragio dell’Invencible Armada di Filippo II nelle acque della Manica, nel 1588, avrebbe potuto essere una palla da cogliersi al balzo da parte della Sublime Porta: ma essa era ancora troppo impegnata contro i persiani. Il lungimirante Carlo V aveva a suo tempo visto giusto, pensando alla possibilità di un’alleanza con lo shah tesa a bilanciare l’impium foedus franco-ottomano. Ma non appena, grazie alla tregua stipulata con i persiani nel 1590, Murad III si sentì sicuro ad est, tornò a volger le sue attenzioni aggressive contro l’Occidente cristiano. Secondo un’ormai consolidata regola d’alternanza che Fernand Braudel ha splendidamente razionalizzato, era adesso nell’area balcano-danubiana che riprendeva forza la tensione tra impero ottomano e mondo cristiano: ed era l’«antemurale asburgico» a tornare in prima linea. Lo si vide bene nel 1592-93, quando il sultano – ormai in pace con Venezia e tranquillo anche per quanto riguardava il regno di Spagna, con il quale era stata stipulata una tregua che appariva solida – riprese l’offensiva diretta contro quella parte di Ungheria che era rimasta costituita in regno cristiano indipendente69. Avrebbe forse potuto, secondo appunto la vecchia regola dell’alternanza geostrategica, scegliere di prender di mira l’impero marittimo veneziano: ma, tregua a parte, forse la memoria di Lepanto bruciava ancora; e poi in fondo il sultano era pur sempre figlio di una ragazza della laguna, Cecilia Baffo-Nur Banu, e attorniato da amici e collaboratori d’origine veneziana e talvolta simpatizzanti con la repubblica di San Marco. Vero è che la grande valide era morta da un decennio: ma chissà non avesse insegnato al figlio a sentirsi a sua volta un po’ veneziano anche lui. Ormai dopo Lepanto la Porta, senza perdere mai del tutto di vista lo scacchiere nel quale agivano i corsari maghrebini, aveva di fatto rinunziato a mantenere una vera e propria diretta forma di talassocrazia: e si era volta con sistematica strategia altrove, a nord-ovest verso l’Europa centrale e ad oriente in direzione dell’impero persiano nei confronti del quale, dopo la nuova guerra del 1592, le frontiere ottomane sarebbero giunte a toccare sia il Mar Caspio, sia l’Oceano Indiano. D’altro canto, in quel momento protagonista della dinamica politica del settore balcanico era il vojvoda di Transilvania István Báthory il quale, divenuto nel 1575 re di Polonia in seguito al suo matrimonio con Anna Jagellona70, mostrava di voler condurre una

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politica per un verso indipendente dalla Porta, per un altro aggressiva nei confronti del granprincipe Ivan IV «il Terribile» di Moscovia, che fino dal 1547 si era proclamato czar e autocrate di tutte le Russie nonché successore degli imperatori di Bisanzio71. Scomparso il Báthory, il suo successore Sigismondo ne aveva proseguito la politica, cercando l’alleanza con l’impero romano-germanico. La rinnovata minaccia contro l’Ungheria «regia» alla fine del secolo fece riemergere nel mondo balcano-danubiano le antiche paure: quelle che in periodo di pace, vale a dire quando i turchi erano impegnati altrove, davano l’impressione di venir facilmente dimenticate. «Si ordinò di riprendere l’antica usanza di suonare la campane e di innalzare preghiere per essere liberati dalla minaccia. La curiosità popolare per la Sublime Porta, per la sua forza terribile e la sua politica empia fu alimentata da un gran numero di scritti di ogni genere che andavano dai fogli volanti di più ispida fattura alle confutazioni elaborate dell’Islam. Tuttavia il tratto caratteristico di quasi tutta quella pubblicistica era una forte ispirazione propagandistica a favore della casa d’Asburgo»72. L’imperatore Rodolfo II lanciò in quell’occasione un nuovo, accorato appello ai fratelli in Cristo: risposero in molti, dalla Polonia dove si fece sentire l’energica azione della fazione nobiliare filoasburgica guidata dalla famiglia Zborowski, alla Moscovia da dove pervennero ambasciatori a Praga, sino a quello strano personaggio che fu l’inglese Anthony Sherley, ambiguamente cattolico ma forse agente di Elisabetta I, che era o si faceva passare per emissario in Occidente di Shah Abbas, il sovrano della Persia73. Cominciò così la «lunga guerra turca», che sarebbe durata dal 1593 al 1606 per esaurirsi senza davvero concludersi. L’impresa imperiale provocò sulle prime molto entusiasmo anche in Italia. La Santa Sede aveva fin dal ’92 stanziato un contributo di 50.000 fiorini per sovvenire alle necessità legate agli armamenti imperiali, mentre si inviavano ambasciatori a Vienna con la promessa di provvedere all’organizzazione di una nuova Santa Lega. Tra i principi della penisola desiderosi di prendere le armi figuravano Alfonso II d’Este duca di Ferrara74 e Vincenzo I Gonzaga duca di Mantova. Al pari di Ferdinando I di Toscana e di Carlo I Emanuele di Savoia, il Gonzaga mirava a cingere una qualche corona regia: e riteneva la guerra contro il Turco una buona occasione per realizzare le sue ambizioni75. Ma i problemi connessi con la guerra di religione in Francia erano ancora brucianti: e molti principi cattolici si chiedevano se fosse

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più giusto prender le armi contro i cani infedeli o contro i maledetti ugonotti. Vero è che nel mondo cattolico era diffuso il considerare gli uni alleati degli altri e perfino religiosamente affini – quello che veniva definito con rabbioso disprezzo il calvinoturcismus, negatore del culto delle immagini e del libero arbitrio –: ma bisognava pur scegliere dove puntare subito la spada, quale nemico affrontare per primo. Nel 1595 Clemente VIII, emanato un breve per la costituzione della Santa Lega76, inviò sul fronte turco un esercito forte sulla carta di 10.000 fanti e di un migliaio di cavalieri guidato da suo nipote Gian Francesco Aldobrandini77. In risposta, ai primi del maggio 1596 lo stesso sultano Mehmed III – frattanto succeduto al padre Murad III78 – partì da Istanbul con un imponente esercito e un grosso parco d’artiglieria da campagna diretto a Edirne e quindi a Belgrado per puntare poi sull’Ungheria, dove stavano convergendo anche le forze del pas¸a di Bosnia. A sua volta l’arciduca Massimiliano d’Asburgo, capitano generale dell’Ungheria regia, marciò da Vienna dopo aver ottenuto serie assicurazioni d’appoggio economico dal papa. Gli ottomani furono assediati in Buda e cacciati da Strigonia, cioè da Esztergom, che i tedeschi chiamavano Gran e che era la tradizionale sede del primate cattolico di Ungheria. Ma a quel punto qualcosa s’inceppò: anche perché i magnati polacchi, presi nelle loro reciproche rivalità, si guardarono bene dall’accogliere l’invito a scendere in campo. Esprimendo al cardinal legato Enrico Caetani il rifiuto del suo sovrano di accedere alla Santa Lega, il cancelliere del regno di Polonia Jan Zamojski affermava che il suo paese era pronto alla guerra contro il sultano, ma solo a patto che l’imperatore Rodolfo liberasse l’Ungheria e avanzasse verso Serbia e Bulgaria: in questo caso, i polacchi avrebbero liberato a loro volta Moldavia e Valacchia79 e si sarebbero uniti alle milizie imperiali in Bulgaria per marciare su Costantinopoli, della quale i polacchi sarebbero peraltro dovuti restar padroni. In altri termini, la proposta polacca era quella di una divisione delle terre europee soggette all’impero ottomano tra Asburgo e Polonia: non è chiaro se si trattasse di una folle utopia, di una proposta a bella posta irricevibile formulata per mandar all’aria qualunque prospettiva d’accordo o di una boutade fanfaronesca e canzonatoria, che comunque fu respinta dall’imperatore Rodolfo. Ben più concretamente, e secondo quelle ch’erano le sue effettive intenzioni, Sigismondo III Vasa80, che dal 1587 era stato eletto re di Polonia, inviava frattanto al sultano un ambasciatore per rassicurarlo di non aver alcuna intenzione di prender le armi contro di lui.

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Così, dopo scaramucce nel complesso abbastanza brancaleoniche, inutili sprechi di danaro e di materiale e continue epidemie, della prosecuzione dell’offensiva non si fece di nulla. Con presumibile immensa gioia del grande Claudio Monteverdi, che il duca Vincenzo I di Mantova si era trascinato alla crociata confuso nel suo elegante e pittoresco seguito di paggi, valletti, cuochi e musicanti81. A differenza di lui il suo collega Alfonso II d’Este duca di Ferrara, Modena e Reggio si era in realtà ben guardato dal muoversi dalle sue ricche, grasse, nebbiose terre padane: e si era limitato a qualche bellicosa parata a cavallo alla quale peraltro, data l’età, non aveva partecipato personalmente. Altri volontari – o mercenari: del resto, l’una e l’altra cosa di solito coincidevano – presero strade differenti, come talora era accaduto anche durante le crociate dei secoli XI-XV: per esempio i mercenari valloni ingaggiati a difesa della piazzaforte di Pápa in Ungheria chiesero tutti di passare come moschettieri a cavallo al servizio del Gran Signore, che era evidentemente più pericoloso in guerra e miglior partner contrattuale dell’imperatore82. L’episodio – uno dei tantissimi, in apparenza «minori», che duole di non poter seguire in dettaglio – è molto significativo. Si trattava in realtà di un reggimento misto: insieme con i valloni (mercenari per definizione), c’erano anche lorenesi, tedeschi e francesi. Questi «volontari», in effetti dei professionisti delle armi, erano reclutati da un lorenese, Georges Bayer barone di Boppart. Considerandosi dei soldats de fortune, essi furono ingaggiati in un primo tempo nella compagine imperiale: ma gli ufficiali di Rodolfo d’Asburgo, per i quali essi erano dei «francesi», non li vedevano di buon occhio. In cronico arretrato con il pagamento del soldo, l’amministrazione imperiale sembrava ignorarli almeno fin dall’inverno del 1598-99: alla fine, durante l’estate del 1600, il reggimento tenne un consiglio generale in Pápa dov’era acquartierato e decise di passare al servizio del Turco, tanto più che il pas¸a di Belgrado aveva già mostrato d’interessarsi alla sua sorte. Così i soldats de fortune si arresero con un documento siglato il 23 giugno che il gran visir in persona sancì nel settembre successivo. Vi si regolavano minuziosamente le condizioni sia della resa e della consegna della piazzaforte, sia del futuro servizio mercenario del reparto al fianco degli ottomani, che non comportava peraltro alcun impegno di conversione: quelli «che si fecero turchi» furono appena una quarantina. Tradimento perpetrato da soldati cristiani o transazione contrattuale di mercenari?83 L’episodio fa pensare. È evidente che il cupo sire di Praga – sicuro dei suoi possessi ereditari asburgici – aveva invece ben poca

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autorità effettiva sull’impero e ben scarso controllo sulle milizie mercenarie, che avrebbero dovuto anzitutto essere regolarmente pagate; mentre le rigorose condizioni da lui poste nell’intento di rendersi indiscusso capo dell’impresa gli alienavano sia la Santa Sede sia la Spagna. Inoltre, specie nell’ultima fase della guerra, i litigi tra italiani e tedeschi negli alti comandi divennero paralizzanti per le operazioni militari. D’altronde un conto era l’entusiasmo con il quale molti nobili cavalieri accorrevano a combattere il Turco, spinti sia dal desiderio di servire in armi il Dio degli eserciti, sia dalla ricerca – squisitamente cavalleresca, appunto – dell’aventure, un tipico tratto dell’esperienza e della letteratura cavalleresche medievali e rinascimentali che si stava trasferendo, attraverso molteplici avatara, nello spirito di quello che da lì ad alcuni decenni sarebbe divenuto il Grand Tour aristocratico. Ma quei nobili cavalieri si portavano dietro dei professionisti delle armi, dei soldats de fortune, a loro volta senza dubbio più o meno animati da sentimenti cristiani, comunque però «crociati» per bisogno o per lavoro, se non addirittura dei malgré-nous84. Si tentarono comunque nuove strade. Nel 1600 rientrò in scena lo Sherley che guidò alla corte di Praga, in una coreografica missione, un’ambasceria persiana scopo della quale era la presentazione di un altro piano comune safavide-asburgico di attacco alla Sublime Porta. Rodolfo prese molto sul serio l’offerta e inviò subito un’ambasceria di risposta allo shah: essa, guidata dal transilvano István Kakas di Zalánlemény, avrebbe dovuto raggiungere Ispahan passando per Mosca, ma fallì a causa della morte, durante il viaggio, del plenipotenziario. Comunque una nuova ambasceria persiana raggiunse Praga nel 1604, mentre lo Sherley non desisteva dai suoi piani, che coinvolgevano lo stesso Marocco dove ci si aspettava un’insurrezione antiottomana. Al tempo stesso, Rodolfo si era reso conto che il condurre la guerra lasciandola esclusivamente nelle mani delle truppe mercenarie, oltre a essere estremamente dispendioso, era poco sicuro. Fu così che egli decise di ricorrere ad accorpamenti di truppe: ad esempio, grazie alla Bestellung del 24 aprile del 1600, Philippe Emmanuel duca di Mercoeur – che, in quanto aristocratico di ceppo lorenese, era principe tanto dell’impero quanto del regno di Francia – divenne colonnello di un reggimento costituito da 500 archibugieri a cavallo che già stavano servendo in Ungheria, ai quali avrebbero dovuto essere aggiunti 500 cavalieri pesantemente armati, i corazzieri, che egli

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si impegnava a reclutare in Lorena, mentre il suo fratellastro conte di Chaligny era elevato al grado di colonnello di un reggimento dei soliti mercenari «valloni» (i quali non erano tutti necessariamente tali, ma come tali erano conosciuti) dell’esercito imperiale, con l’impegno a trovarne sempre in Lorena altri 120085. In accorgimenti di questo tipo è stato visto, non senza ragione, il debutto di un sistema di forze armate permanenti presso gli Asburgo d’Austria: la «lunga guerra turca» ne aveva resa evidente la necessità86. Ma il conflitto balcanico ormai languiva. Nel 1596 gli ottomani si erano impadroniti di Eger, e la strada verso Presburgo sembrava sgombra: vennero tuttavia battuti in Moldavia. Riuscirono a vincere di nuovo a Kanizsa, ma evidentemente non ce la facevano a sfondare. Il nuovo sultano Ahmed I, asceso quattordicenne al trono sultaniale nel 160387, ebbe la fortuna di potersi giovare dell’appoggio del principe di Transilvania István Bocskai, grazie al quale nel 1605 gli ottomani poterono riconquistare le fortezze di Veszprém, Visegrád e Gran e senza il quale probabilmente la loro compagine non avrebbe retto88. Le parti erano esauste. D’altronde, quello strano conflitto era costato moltissimo: tra il 1598 e il 1606 Filippo III di Spagna aveva sostenuto l’imperatore con non meno di 1.200.000 escudos, mentre più o meno nello stesso periodo il granduca di Toscana, i duchi di Mantova, di Parma e di Ferrara-Modena-Reggio nonché le città di Lucca e di Genova avevano contribuito con una somma che raggiungeva in tutto i circa 350.000 fiorini, oltre all’impegno militare mantovano e toscano89. Insomma, l’impressione diffusa era che la questione ungherese fosse un pozzo senza fondo: non si poteva andar avanti a quel modo. Nel 1606 la «lunga guerra», o «guerra dei Tredici Anni», si concluse con la tregua di Zsitva Törok, «negoziata in terreno neutro su un’isola ungherese del Danubio, là dove l’affluente Zsitva si getta nel grande fiume»90. Essa fu nel complesso poco favorevole per l’imperatore, che aveva dovuto abbandonare la Transilvania al Bocskai, per quanto si liberasse in cambio del tributo di 30.000 zecchini che fino ad allora gli Asburgo pagavano alla Porta per l’Ungheria e che fu sostituito dal versamento una tantum di 20.000 talleri e dall’impegno di un periodico scambio di doni, a scadenza triennale, il valore dei quali non era però precisato. Ahmed non aveva dal canto suo granché di cui esser contento: sapeva di dover mantenere anche ad alti costi la pace con le potenze europee, dato che la campagna militare ottomana sul fronte orientale del sultanato, iniziata nel 1603-4 contro lo shah persiano Abbas, stava andando a rotoli.

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Comunque, da allora la cancelleria sultaniale cessò di trattare l’imperatore romano-germanico da re di seconda classe: nei documenti ufficiali, lo aveva sempre chiamato bey Krali, «re di Vienna»; ora accettò di definirlo Avusturya Imparatoru, «imperatore d’Austria»91. Sul piano della simbolica, era finita un’epoca92. La «lunga guerra turca» e i sogni di crociata, magari cullati come scorciatoia verso il traguardo della corona regale, lasciarono comunque una scia che, almeno nel caso di due grandi dinastie italiane, fu o sembrò sul momento meno utopistica e folle di quanto non paia adesso a noi. Sogni medicei e gonzagheschi di crociata Vincenzo I di Mantova aveva per il momento riposto le sue ambizioni crociate, ma era rimasto fedele al sogno avventuroso e cortese che le sosteneva. Nel 1608, in occasione delle solennità nuziali splendidamente svoltesi nella «Pasqua di Rose», la festa cavalleresca per eccellenza, cioè la Pentecoste, durante le quali si celebrava il matrimonio di suo figlio Francesco con Margherita figlia di Carlo Emanuele di Savoia, fu istituito anche l’Ordine cavalleresco della Redenzione, che tuttavia, al di là del fasto che ne accompagnò la nascita, non ebbe vita alcuna in quanto subordinato a un voto di castità coniugale che papa Paolo IV pretendeva da chi ne avesse assunto l’abito e al quale il duca si rifiutò di sottostare93. Diversamente erano andate le cose per un altro Ordine cavalleresco, che stavolta – è proprio il caso di dirlo – era arrivato felicemente in porto come Ordine militare marinaro emulo dei giovanniti di Malta: quello toscano di Santo Stefano. Ferdinando I de’ Medici era molto vicino alla corte pontificia in quanto era stato cardinale e perché, come granduca di Toscana, era detentore di un titolo concesso a suo padre Cosimo I da papa Pio V e a lungo avversato da impero e Spagna – che avevano finito col riconoscerlo, e di malavoglia, solo nel 1576 –; egli era comunque formalmente un vassallo dell’impero per le corone ducali fiorentina e senese, ma sentiva soprattutto pesargli addosso la politica egemonica della corona di Spagna in quanto era stato da Filippo II d’Asburgo, che agiva come vicario del padre Carlo V, che Cosimo aveva ricevuto in feudo il territorio senese con l’esclusione tuttavia delle piazzeforti marittime di Orbetello, Porto Ercole, Porto Santo Stefano, Talamone, Ansedonia e Porto Longone, che

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unite erano andate a costituire lo stato dei Presidî in mano spagnola. In cerca di tutti i possibili mezzi per affrancarsi dalla tutela iberica, Ferdinando aveva concesso nel 1600 la mano di Maria, figlia del suo scomparso fratello Francesco I, a Enrico IV di Francia94. Ma i nuovi orizzonti diplomatici non potevano bastargli: mirava più in alto, cioè a conquistarsi nuovi territori dei quali potersi dire sovrano a pieno titolo, non vincolato da pastoie vassallatiche, superiorem non recognoscens: soltanto ciò gli avrebbe consentito di portar avanti una sicura politica dinastica. Per questo egli guardava con insistenza perfino all’Africa e al nuovo mondo, soprattutto al Brasile. Ma più vicini ancora gli apparivano alcuni obiettivi mediterranei, per conseguire i quali egli contava sulla sua ottima ed efficace marineria, i cavalieri stefaniani appoggiati al porto di Livorno e impegnati nell’endemica guerra di corsa contro i vascelli turchi e, soprattutto, barbareschi. La «politica crociata» dei granduchi medicei, appoggiata all’attività corsara dell’Ordine di Santo Stefano, aveva una sua coerenza. A quanto sembra il suo scopo immediato tra Cinque e Seicento, dopo che la Spagna pareva essersi temporaneamente defilata dall’impegno contro gli ottomani, era l’obbligar le forze militari e navali degli infedeli a frazionarsi su vari fronti, alleggerendo la pressione sull’Ungheria e su quel che restava dell’impero coloniale della Serenissima. Va ricordato che, intanto, la diplomazia di varie potenze occidentali s’indirizzava alla volta dell’impero persiano, il «naturale» nemico geostorico di quello ottomano. Certo, uno degli scopi fondamentali dell’Ordine di Santo Stefano era comunque la razzia di uomini da rendere schiavi, di bocche da fuoco e di merci, specie sulla rotta fra Alessandria e Istanbul sulla quale transitavano i tributi raccolti in Egitto per il fisco sultaniale: era, questa, una delle rotte più ambite per la guerra di corsa europea. L’Ordine di Santo Stefano, fino dalla sua fondazione, aveva mietuto una larga messe di vittorie marinare sugli infedeli: «in realtà però alla fine quest’attività arrecava più danni che vantaggi al granduca e al suo stato»95. La Toscana attraversava, non diversamente del resto da quasi tutta l’Europa del tempo, una forte crisi economica dalla quale avrebbe almeno in buona parte potuto risollevarsi incrementando i commerci con il Levante: ma l’attività dei cavalieri stefaniani impediva di fatto quelli che avrebbero potuto essere dei floridi rapporti commerciali, per quanto non mancassero comunque gli scambi tra Livorno da una parte, Alessandria, Tunisi e anche Al-

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geri dall’altra96. Erano in molti, nello stesso entourage della famiglia medicea, ad avversare la politica marinara del granduca e dei suoi cavalieri: la sua stessa consorte, Cristina di Lorena, non faceva mistero di disapprovarla. Un banco di prova che avrebbe potuto essere importante fu la spedizione dei due Ordini, di Malta e di Santo Stefano, in appoggio a Filippo III di Spagna che nel 1601, con una flotta di una settantina di galee al comando di Gian Andrea Doria, aveva in animo di battere una buona volta il kapudan pas¸a Cigala e d’impadronirsi della solita Algeri. L’ammiraglio genovese si diceva sicuro del fatto suo in quanto un gruppo di rinnegati, all’interno delle mura, avrebbe appoggiato la conquista. Ma l’impresa si risolse in un fiasco: il 25 agosto la flotta cristiana giunse in vista della città, ma da essa non partì nessuno dei segnali che erano stati convenuti con i congiurati. Allora il Doria dette ordine di virare di bordo e le sue navi rientrarono scornate nel porto di Messina97. Se il granduca aveva sperato, con quell’impresa, di riallacciare i rapporti con la corona spagnola ormai da tempo compromessi, e aggravati poi dalle nozze tra Enrico di Francia e Maria de’ Medici, quella fu peggio di un’occasione perduta. Ai primi del secolo, del resto, un progressivo aggravarsi delle condizioni fisiche consigliò Ferdinando – preoccupato per la troppo giovane età e le propensioni poco inclini al governare di suo figlio Cosimo e sollecito anche nel trovare una qualche sistemazione per i figli cadetti, ad evitare che insidiassero l’erede – di tentare vie più audaci e sbrigative atte a procurargli nuovi possessi territoriali da lasciare in eredità. Collegando questa esigenza alle mai sopite aspirazioni crociate, il granduca tentò prima di allearsi con gli avversari musulmani più accaniti del padis¸ah, vale a dire il sultano sa’adita del Marocco al-Mans∂r98 e lo shah Abbas di Persia99, che, in guerra con la Porta, si era già apertamente mostrato disponibile a concordare con i cristiani d’Occidente un piano di attacco a tenaglia in grado di strangolare il Turco. Le trattative con il dinasta maghrebino non condussero in realtà a niente, mentre quelle con l’imperatore persiano, pur procedendo speditamente, dovettero arenarsi su uno scoglio insormontabile: il conflitto safavide-ottomano era giunto a un punto di stallo nel quale nessuno dei due contendenti riusciva a soverchiare l’altro. Intanto, però, alla fine del 1606 era giunta in Europa la notizia della ribellione contro il sultano del pas¸a di Aleppo, Ali Jambulad, cui si andava unendo anche l’emiro druso del Libano, Fakhr ad-Din della nobile

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dinastia dei Maan, il quale era entrato già in contatto col granduca di Toscana mesi prima attraverso i buoni uffici di un nobile faccendiere veneziano, Raffaello Cacciamari. Ma il granduca, sentendosi forse incalzare dal tempo, aveva fretta. Sembra che ormai puntasse non solo e non tanto ad accaparrarsi dei territori sui quali dominare, bensì a volerli in Levante e addirittura ad aspirare a una corona in realtà inesistente, ma formalmente molto contesa tra vari pretendenti e quanto mai prestigiosa: quella dell’antico regno crociato di Gerusalemme. Essa era nel mondo cristiano, attraverso il gioco delle eredità e delle relative pretese, oggetto di almeno formale rivendicazione da parte sia dell’imperatore, sia del re di Spagna, sia di quello di Francia, sia del duca di Savoia. Ma si trattava in fondo di diritti alquanto aleatori: e il dinasta toscano poteva ragionevolmente pensare che, messe dinanzi al fatto compiuto, le potenze cristiane avrebbero accettato di vederlo insediarsi su un trono il cui possesso non significava nulla di concreto. Tanto più che l’imperatore, dopo la tregua col Turco, aveva il suo bel daffare nella riorganizzazione della sua compagine danubiana; la potenza marinara spagnola era stata messa in ginocchio dall’Inghilterra di Elisabetta I; dalla Francia, retta da un sovrano sposo di sua nipote, Ferdinando si attendeva benevolo appoggio; e il Savoia poco avrebbe potuto fare, se non protestare, mantenere le insegne gerosolimitane nella sua arme araldica e rivendicare il relativo titolo nei suoi documenti di cancelleria. La via più semplice per accedere all’aleatoria ma prestigiosa corona gerosolimitana, impadronendosi anche di qualche buon titolo di legittimità a detenerla, era tuttavia la conquista di Cipro, i cui sovrani tra XII e XV secolo erano appartenuti alla dinastia francese – ma vassalla dei re d’Inghilterra che erano anche duchi d’Aquitania – dei Lusignano, che avevano portato il titolo regale congiunto di Cipro stessa e di Gerusalemme. L’isola, ereditata dalla repubblica di San Marco attraverso l’ultima regina consorte di un Lusignano, la veneziana Caterina Corner, era stata conquistata dagli ottomani fin dal 1570: ma si diceva che il seme della rivolta serpeggiasse nella popolazione greca dell’isola100. Se il granduca fosse riuscito a occuparla mettendo dinanzi al fatto compiuto sia il sultano sia l’Europa cristiana, egli avrebbe potuto rivendicare la tradizione dei Lusignano e farsi incoronare come re di Cipro e di Gerusalemme. Restavano, sul possesso dell’isola, le rivendicazioni di legittimità dei veneziani, che sarebbero state un po’ più consistenti di quelle del duca di Savoia

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su Gerusalemme. Tuttavia Ferdinando confidava di riuscire a venir a capo degli ostacoli grazie alla sua abilità diplomatica. A metà maggio del 1607 la flotta toscana salpò al comando del­ l’ammiraglio Jacopo Inghirami: era forte di un galeone, 8 galee e 9 vascelli detti «bertoni»101 con un corpo di sbarco di 1800 fanti. Comandante generale dell’impresa era Antonio de’ Medici, nipote del granduca; le fanterie erano guidate da Francesco Bourbon del Monte102; l’obiettivo era l’occupazione di Famagosta e le spie assicuravano che all’appressarsi delle forze toscane la popolazione greca si sarebbe sollevata103. Ma l’intelligence ottomana si dimostrò migliore di quella granducale: i difensori dell’isola erano perfettamente informati dei piani dell’assalitore e la loro artiglieria decimò impietosamente le colonne toscane appena sbarcate, che poterono soltanto riprendere precipitosamente il mare; la popolazione greca non mosse un dito. Tutta la faccenda assunse poi una tinta quasi tragicomica, a causa di una serie di equivoci tra i due comandanti. Ferdinando, inferocito per l’umiliazione subita, non si dette tuttavia per vinto: reagì immediatamente allo smacco cipriota facendo assalire e conquistare nel settembre successivo la città di Bona in Algeria da una flotta formalmente di nuovo agli ordini dell’Inghirami e del gran conestabile dell’Ordine stefaniano Silvio Piccolomini, ma nella quale, sotto la guida del generale Guglielmo Guadagni, più noto sotto il romantico titolo di «cavaliere di Beauregard»104, navigavano i legni di alcuni bravi corsari inglesi e fiamminghi nel nome, per conto e con le insegne della granduchessa Cristina105. L’impresa fruttò circa 1500 schiavi e fu celebrata, ohimè, dai versi di Vincenzo Piazza106 e di Gabriello Chiabrera107. Il celebrato trionfo di Bona accelerò l’intesa del granduca con i ribelli di Aleppo. Tra il pas¸a siriano Ali Jambulad108 e Ferdinando si era giunti addirittura a un elaborato patto d’alleanza, firmato il 2 ottobre dagli inviati di quest’ultimo, Michelangelo Corai e Ippolito Leoncini: esso, distinto in 30 capi, prevedeva la formazione di una lega tra il papa, il re di Spagna e il granduca di Toscana nonché la restaurazione del regno di Gerusalemme e una serie di accordi a carattere marittimo e commerciale. L’obiettivo gerosolimitano, d’altronde, era in realtà molto arduo da conquistarsi: la città era in effetti preda di una forte decadenza, ma rimaneva pur sempre il secondo santuario dello haj, il pellegrinaggio musulmano. Del resto, la rivolta di Ali Jambulad fu rapidamente

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repressa dalle truppe sultaniali. Non era però altrettanto facile aver ragione dell’emiro druso, ben arroccato sulla montagna libanese e nelle cui mani erano anche alcuni porti come Sur, l’antica Tiro. Fu proprio in quella nobile e vetusta città di mare che, nella primavera del 1608, Fakhr ad-Din ricevette solennemente e cordialmente gli ambasciatori toscani assicurandoli di essere perfettamente in grado di fronteggiare le truppe ottomane e di conquistare Gerusalemme, anche se esprimeva forti dubbi sulla possibilità di mantenerne il possesso109. A tale riguardo, gli ambasciatori lo assicurarono dell’appoggio sia del re di Spagna, sia del papa, ma l’emiro pretendeva garanzie più immediate e concrete: fornitura di armi, appoggio navale, salvacondotto che gli consentisse di visitare al momento opportuno il suo granducale alleato. Nel 1609, Cosimo II succedette al padre Ferdinando I accollandosi la prosecuzione del suo ambizioso programma. Il suo primo gesto qualificante, sotto il profilo diplomatico, fu il ricevimento dell’ambasceria persiana inviata da Shah Abbas, che sul fronte della guerra contro gli ottomani era stato sconfitto e stava quindi cercando di ottenere che i suoi interlocutori cristiani scendessero decisamente in armi contro il sultano attaccandolo da nord e da ovest: ciò avrebbe molto alleggerito la sua pressione sulla Persia. Inviato dello shah era il conte Robert Sherley, fratello di Anthony110. Giunse frattanto a Firenze anche un altro personaggio abbastanza strano, il giovanissimo principe Yahya111, che si qualificava come terzogenito del defunto sultano Mehmed III e fratello maggiore del sultano Ahmed I allora regnante. Egli era stato salvato da sua madre, una greca originariamente cristiana dal fatidico nome di Elena Comnena, che lo aveva sottratto al destino consueto, o molto frequente, dei fratelli dei sultani in carica; era arrivato fortunosamente in Grecia e lì era stato nascosto e protetto da alcuni monaci che lo avevano anche battezzato. Il governo granducale si mostrava scettico circa una possibilità di esito positivo dell’alleanza con la lontana Persia: mentre puntava invece piuttosto su Yahya, che riteneva di poter contrapporre al sultano regnante suscitando così una sorta di guerra civile, se non generale, almeno in qualche regione più turbolenta dell’impero ottomano. Era un piano non diverso da quello che, oltre due secoli prima, aveva indotto le potenze cristiane a servirsi del principe Cem, fratello di Bayezid II. Il granduca aveva per questo domandato aiuto alla Serenissima, proponendo attraverso il residente fiorentino a

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Venezia Asdrubale Montauti un piano di crociata che sfruttasse il fatto che il sultano era impegnato in guerra contro i persiani: ma da San Marco gli si era risposto picche. Né miglior fortuna sembrava arridere al principe Yahya: nella primavera del 1610 egli approdò, con una buona scorta navale toscana, sulle rive del Libano, ma l’emiro Fakhr ad-Din gli riserbò un’accoglienza fredda, dalla quale ci si poteva render conto di come le possibilità che un pretendente al trono sultaniale determinasse una sollevazione era molto remota. In effetti, Yahya rientrò pochi mesi dopo a Livorno con la flotta che lo accompagnava e risiedette in Toscana fino al 1614112. Se ne andò allorché era invece da poco arrivato l’emiro Fakhr ad-Din, che a sua volta si trattenne in Toscana fino all’anno successivo: fu un ospite molto ben accetto e si legò di profonda amicizia a Cosimo II113. Il granduca di Toscana aveva appoggiato i movimenti di rivolta antiottomana nel Vicino Oriente e tra settembre 1609 e aprile 1611 una flotta dell’Ordine di Santo Stefano aveva incrociato di nuovo nelle acque del Mar di Levante: nel corso di questa spedizione, gli incontri con gli emissari dell’emiro avevano rivelato l’esistenza di un piano preciso, per quanto sia difficile pronunziarsi sulla sua serietà. Il granduca accolse generosamente l’emiro Fakhr ad-Din quando egli fu costretto a rifugiarsi in Occidente per sfuggire al sultano. Dopo aver combattuto coraggiosamente, l’emiro era dovuto partire: e il 3 novembre del 1613 era giunto da Sidone nel porto di Livorno, su una nave fiamminga, con un seguito di una settantina di persone. Della visita dell’emiro druso in Toscana siamo fortunatamente ben informati da una sorta di diario che il principe stesso dettò al suo biografo al-Khalidi: possiamo quindi seguirlo nelle sue visite a Pisa, alla villa dell’Ambrogiana, a Firenze, all’Impruneta, quindi ancora a Livorno per ricongiungersi con la moglie, poi a Pisa e infine a Firenze dove lo aspettavano i festeggiamenti di carnevale. Si sarebbe tanto innamorato della cultura fiorentina da far riprodurre il giardino di Boboli in uno dei suoi possedimenti d’oltremare. Insieme, il granduca e l’emiro ripresero il progetto, o se si preferisce il sogno, di Ferdinando I: conquistare Gerusalemme. Molti fiorentini cavalieri di Malta incoraggiarono queste che non è ingeneroso definire fantasie; e pare che – soprattutto su consiglio di don Giovanni de’ Medici, figlio naturale del granduca Cosimo I e quindi zio molto autorevole e ascoltato di quello allora in carica114 – nascesse in quest’ambito e in questa circostanza anche l’idea di trasportare il sacello del Santo Sepolcro del Cristo dalla Città Santa alle rive

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dell’Arno, per rimontarlo al centro della cappella funebre granducale della chiesa di San Lorenzo, sotto la grande cupola concepita da don Giovanni de’ Medici e dall’architetto Giovanni Righetti la forma e le dimensioni della quale si ispiravano – com’è stato sostenuto – a quelle dell’Anastasis gerosolimitana. A onor del vero, nessuna documentazione sicura comprova la veridicità di questo audace piano, che sarebbe stato comunque molto arduo a realizzarsi: la sua esistenza ci viene attestata da molteplici fonti cronistiche posteriori, ma forti sono le possibilità che si tratti di una leggenda115. L’emiro druso rimase a lungo in Toscana e fu al centro di molteplici progetti marinari e militari, sempre regolarmente risolti in altrettante bolle di sapone: ma lasciò un’impronta durevole nella memoria, nell’arte e nel gusto del tempo116. I convulsi eventi che stavano intanto turbando la vita ottomana di corte e di governo, e che ebbero, come vedremo, un momento di particolare crisi nel lustro compreso tra 1617 e 1622, potevano sembrare la fase acuta di un processo piuttosto fisiologico che non patologico, quello che presiedeva ai quasi sempre laboriosi e spesso violenti passaggi di potere al vertice dell’impero sultaniale. In realtà erano ormai sintomo dell’ancor tutto sommato lontana ma inarrestabile decadenza dell’impero ottomano: che pure al momento appariva ancora non solo imprevedibile, bensì inimmaginabile. Istanbul restava la capitale di un temibile gigante. Tuttavia, l’Occidente stava ormai spiccando il volo grazie al suo dominio sugli oceani e ai suoi imperi coloniali nonché a una crescente superiorità tecnologica rispetto alla quale il mondo ottomano poteva soltanto porsi nella posizione del passivo cliente; mentre le molte concessioni economiche, finanziarie, daziarie accordate soprattutto ai francesi, agli olandesi e agli inglesi avevano messo l’impero nell’irreversibile condizione di una «economia dominata»: le sue casse si gonfiavano grazie ai proventi delle concessioni, ma non nasceva una borghesia autoctona. La società turca era sempre più caratterizzata dal dilatarsi della distanza tra un’aristocrazia militare e terriera di straricchi e una popolazione urbana e rurale avviata al progressivo impoverimento; il sottile ceto medio di piccoli agricoltori, di mercanti a modesto raggio e sprovvisti di strumenti creditizi, di bottegai e di artigiani era inadatto e insufficiente a far decollare un’economia concorrenziale rispetto all’Europa. Dinanzi alle potenze occidentali sempre più ricche e aggressive, il governo ottomano aveva pur in un primo tempo reagito cercando d’impadronirsi di metodi e tecniche in grado di fornire ai tempi una risposta adeguata: ma non

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aveva saputo sviluppare né un’economia né una tecnologia proprie, e si era invece affidato a imprenditori, finanzieri, mercanti e ingegneri occidentali. Nei vasti territori dell’impero, la burocrazia sultaniale si rivelò progressivamente sempre più avida e incapace: un fiscalismo cieco e ottuso – anch’esso in gran parte erede peraltro delle tradizioni bizantine – soffocava ogni iniziativa e conosceva solo la corruzione come correttivo al sopruso, mentre il vero cespite dei proventi per il sultano e le aristocrazie militari restava la razzia. Il ricavato delle tasse e dei raid, d’altronde, finiva in gran parte inghiottito dalle spese di guerra in terra e in mare. Una delle cause che stavano rendendo difficile la vita dell’impero ottomano era la bellicosa, aggressiva vicinanza di quello persiano a est. Non a caso i progetti di crociata cristiano-persiana contro Istanbul si erano succeduti tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento: e non erano privi di una loro plausibilità né politico-diplomatica, né tattico-strategica117. In effetti era parso a un certo punto che qualcosa si stesse movendo, a partire da quel regno di Francia che fino ad allora aveva semmai mostrato di servirsi spregiudicatamente dei turchi per farsene strumento di lotta contro la rivale compagine asburgica. Nel secondo decennio del XVII secolo l’allora segretario di stato Armand-Jean du Plessis duca di Richelieu e il suo consigliere, il cappuccino padre Giuseppe118, avevano caldeggiato e appoggiato anche presso la Santa Sede il progetto di crociata di Carlo Gonzaga duca di Nevers119. Questi aveva partecipato nel 1602 all’offensiva delle truppe imperiali sotto le mura di Buda insieme con il contingente di suo cugino Vincenzo I duca di Mantova120. Figlio di Ludovico di GonzagaNevers e di Henriette di Clèves, Carlo sognava di riconquistare il trono imperiale di Costantinopoli rispetto al quale vantava almeno formalmente qualche effettivo diritto dinastico attraverso un’ava paterna, Margherita del Monferrato121, nelle vene della quale scorreva il nobilissimo sangue dei basileis della stirpe dei Paleologhi. I greci di Morea avevano inviato al discendente dei loro despotai cristiani un’accorata ambasceria, dicendosi disposti alla ribellione; Venezia avrebbe potuto appoggiare il progetto. La gloria crociata era d’altronde necessaria al consolidamento della nuova dinastia dei Borboni, che doveva pur far dimenticare le proprie origini ugonotte: e non a caso, nel 1611, il calvinista Jacques Bongars aveva dedicato al giovane re Luigi XIII una preziosa raccolta a stampa delle prime cronache crociate, i due volumi dei Gesta Dei per Francos.

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Nella primavera del 1617 padre Giuseppe, che si era recato a Roma carico di incombenze diplomatiche dalla Francia, ne ripartiva recando con sé una lettera di Paolo V destinata alla corte spagnola, in cui lo si autorizzava ad avviare i necessari contatti in tutta Europa per la realizzazione dell’impresa crociata. Esaltato da questa prospettiva, il frate buttò giù in un tempo straordinariamente ristretto un lungo poema in latino, la Turchiade, nel quale si esaltava la guerra santa. Ma il primo approccio diplomatico teso a concretizzare il progetto dell’impresa fu deludente: a Firenze aveva ottenuto buona accoglienza dal granduca Cosimo II, il quale era intanto impegnato come sappiamo ad architettare dal canto suo progetti crociati insieme con l’emiro druso del Libano; in cambio a Torino Carlo Emanuele di Savoia, in quel momento in guerra con la Spagna e irritato a causa della politica filospagnola di Maria de’ Medici, non trovò nemmeno il tempo di riceverlo. Tornato a Parigi, il frate poeta e diplomatico assisté alla rovina del Concini, l’intrigante favorito della regina madre, a sua volta relegata a Blois: l’edificio politico al quale si era appoggiato stava vacillando. Il tenace cappuccino era peraltro ben lungi dal demordere: tanto più che il duca di Nevers gli inviava dalla Germania dispacci dai quali pareva che i principi tedeschi ad altro non ambissero se non a muovere contro i turchi: l’unico restio al passo sembrava Filippo III di Spagna, che non aveva intenzione di rompere la tregua con la Porta siglata nel 1585 e aveva i suoi grattacapi oltre l’Atlantico, nel Nuovo Mondo. Padre Giuseppe confidava nella lettera pontificia in suo possesso, diretta proprio all’Asburgo di Madrid; ma nella primavera del 1618, mentre si stava mettendo in cammino alla volta dei Pirenei, lo raggiunse a Poitiers la notizia che i rappresentanti dell’imperatore Ferdinando II erano stati fatti senza troppi complimenti passare da una finestra del castello di Praga. Era l’inizio della guerra dei Trent’Anni: nessuno avrebbe mai più per lungo tempo potuto permettersi il lusso di pensare alla crociata. Padre Giuseppe proseguì comunque il suo viaggio alla corte spagnola: ricevette buone parole dal re e dal ministro duca di Lerma, però comprese che mai essi avrebbero acceduto a un progetto egemonizzato dalla Francia; del resto, di lì a poco la situazione europea sarebbe precipitata. Eppure, almeno nell’Ordine francescano, l’idea di una nuova spedizione non era affatto considerata peregrina, né i progetti relativi ad essa erano limitati al solo cappuccino consigliere del Richelieu. Ancora nel 1625 un francescano che era stato custode di Terra-

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santa, padre Francesco Quaresmio122, indirizzava al re di Spagna un accorato appello per la liberazione del Santo Sepolcro, la Jerosolymae afflictae et humiliatae deprecatio ad suum Philippum IV123. Nel medesimo anno nel quale il Quaresmio redigeva il suo appello padre Giuseppe, che nel frattempo era rimasto al fianco del Richelieu – da tre anni divenuto cardinale, da uno primo ministro –, aveva terminato di scrivere i 4637 versi della sua Turchiade e ottenuto da Urbano VIII il riconoscimento del nuovo Ordine cavalleresco che il duca di Nevers aveva concepito per la lotta all’infedele, la Milizia Cristiana. Ma l’unica crociata che l’ormai cardinal di Richelieu e il suo re si dimostrarono in quel torno di tempo disposti ad appoggiare sul serio fu quella contro gli ugonotti del Béarn, nei Pirenei occidentali; e poi contro gli ugonotti tout court, sino alla presa di La Rochelle del 1628. Frattanto l’infuriare della guerra dei Trent’Anni in Europa e del conflitto turco-persiano in Asia impedirono che, nella prima metà del Seicento, il Mediterraneo fosse teatro di scontri fra croce e mezzaluna più importanti delle solite scaramucce fra corsari e delle solite incursioni sulle reciproche coste a caccia di schiavi. Del resto, non è che nemmeno tra i corsari scorresse reciproco buon sangue: Malta e Santo Stefano non si amavano granché tra loro; e tra i potentati maghrebini, a parte la comune (ma non uniforme) sudditanza formale nei confronti del sultano e l’ambiguo gioco di sponda con Spagna, Portogallo, Francia e perfino Toscana e stato pontificio, a volte si arrivava a veri e propri scontri, specie dopo la riforma sultaniale del 1587 che, suddividendo «i territori nordafricani in tre reggenze, aveva introdotto un elemento di notevole rilievo nella storia politica del Maghreb: l’idea di confine»124. Fu d’altronde il perdurare del conflitto con i persiani a impedire alla Sublime Porta, sino alla metà del quinto decennio del secolo, di riprendere in qualunque modo iniziative aggressive contro i faranj: i quali erano d’altro canto troppo affaccendati a farsi a pezzi tra loro per poter pensare al Turco. La concordia interna, tra fratelli nella medesima fede, è una condizione formale e sostanziale e una regola di fondo per intraprendere sul serio qualunque tipo di crociata o di jihad: ma per quasi tutta la metà del XVII secolo questa condizione venne drammaticamente meno (ancora più del solito) sia tra la gente della Croce, sia tra quella del Corano. Solo verso la metà del Seicento questo in apparenza paradossale – ma in realtà del tutto logico – incantesimo, la pace tra cristiani e musulmani a causa delle troppo violente guerre all’interno delle due rispettive compagini, si sarebbe spezzato.

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L’ultima voce autorevole e «profetica» a proclamare il grande sogno medievale e rinascimentale, coniugando in modo forte ed esplicito istanze crociate, guerra contro il Turco e volontà di rinnovamento del mondo, fu quella di Tommaso Campanella, prima nel De monarchia Hispanica composto nel 1600 a Napoli nel carcere di Castel Nuovo e poi, nel 1638, nell’Ecloga per la nascita di quel Serenissimo Delfino di Francia che egli salutava come orbis christiani Summa Spes e che sarebbe divenuto – con un epiteto che al frate calabrese molto sarebbe senza dubbio piaciuto – il Re Sole. Naturalmente, a ben valutare le sue indicazioni per la lotta contro l’impero ottomano, è importante non lasciarsi fuorviare dal loro sapore di puntuale realismo e addirittura dalla loro apparenza di genialità strategica, nel senso politico ma per qualche verso addirittura militare dell’aggettivo. Tale realismo, tale genialità, sono tanto più illusori quanto più appaiono perfetti nello splendore razionale del dettato campanelliano. Frate Tommaso non teneva in alcun conto le effettive forze politiche e le reali condizioni storiche del momento in cui scriveva: le sue proposte si muovevano nel mondo della renovatio saeculi. Situandosi sul piano della metafisica e dell’escatologia e partendo dalla tradizione universalistica dell’impero medievale – cui nella prima opera fatalmente si fondeva la suggestione dell’impero del Plus Ultra, quello donde nunca se acuesta el sol –, il Campanella tracciava un possente affresco cristianoapocalittico del suo tempo, la nota qualificante del quale era la contesa tra croce e mezzaluna. Le sue speranze messianiche riposavano su colui che avrebbe battuto e umiliato il Turco: egli sarebbe stato il monarca della Fine dei Tempi, che avrebbe preceduto l’ora terribile di Gog e Magog e quindi la Seconda Venuta, in virga ferrea, del Cristo. Tale afflato escatologico va ricondotto alle fondamentali opere campanelliane, la Città del Sole e soprattutto i libri XXVII-XXVIII della monumentale Theologia125: ché la crociata, nella sua prospettiva, non va considerata tanto nella sua dimensione di guerra, sia pure santa, quanto piuttosto in quella di strumento dell’unificazione della Cristianità e quindi dell’humanum genus. Il nodo concettuale proposto dal Campanella restava – o tornava ad essere – quello tra crociata e spirito missionario, tra «guerra santa» e testimonianza tesa fino al martirio, tra rinnovamento etico-politico e apostolato, nella direzione di una totale conversione dell’umanità a un cristianesimo rinnovato126. Ma né il Re Cattolico nel 1600, né il Re Cristianissimo nel 1638, potevano pensare che la guerra contro il Turco fosse il più importante tra i molti problemi che erano chiamati ad affrontare.

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Dal Dnepr al Tigri Il lungo periodo di relativa pace mediterranea aperto dalla tregua ispano-turca del 1585 era in realtà stato riempito da altre guerre, che avevano distolto i contendenti dallo specchio scintillante ma non certo tranquillo del Mare Nostrum. Di solito, si definisce «secolo di ferro» il lungo periodo (in realtà più di cento anni) intercorso tra l’inizio della Riforma protestante e le paci di Westfalia/Pirenei del 1648/1659. Ma forse tale definizione meglio ancora si attaglierebbe a quei centotré anni tra la «defenestrazione di Praga», che in quel fatale 23 maggio 1618 dette avvio alla guerra dei Trent’Anni, e il trattato di Nystadt che il 10 settembre 1721 pose fine alla guerra del nord tra Russia e Svezia: e ch’era stato preceduto, appunto, da quello di Karlowitz del 1718, punto d’arrivo della fase più intensa delle guerre turche. Non c’è comunque dubbio che il periodo corrispondente alla guerra dei Trent’Anni sia stato uno dei più duri e oscuri che l’Europa abbia mai affrontato: anche perché, proprio nel bel mezzo di quel lungo conflitto – che aveva già causato spopolamenti d’intere aree e, con la complicità del cattivo tempo, anni di carestia –, la peste del 1630-31 aveva infuriato scavando nella popolazione del continente un vertiginoso per quanto non omogeneo vuoto demografico. La guerra in sé uccideva meno dell’epidemia e delle carestie, ma i suoi effetti distruttivi erano più duraturi: un paese saccheggiato e incendiato necessitava di lunghi anni prima di potersi rimettere in piedi. Tuttavia, i dati quantitativi ipotizzati dagli studiosi sono in contraddizione tra loro: «...Secondo Günther Franz, l’impero germanico avrebbe perduto tra 1620 e 1650 circa il 37,5% della sua popolazione, che sarebbe caduta dai 16 ai 10 milioni di abitanti. Ma, più tardi, Hans Ulrich Wehler ha preteso che, proprio al contrario, ci fossero circa 15 milioni di tedeschi nel 1600 e tra 15 e 16 milioni nel 1650»1.

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All’atto delle paci di Westfalia l’Europa stava appena uscendo dal tunnel della tragedia demografica ed economica: era quindi nella condizione meno adatta a difendersi da eventuali attacchi esterni. Tuttavia, il sultano non avrebbe potuto trarne vantaggio di sorta, nemmeno se avesse voluto: era a sua volta occupato sul fronte orientale contro il suo tradizionale avversario geopolitico, lo shah di Persia. Anzi, nel corso della prima metà del Seicento i molti e regolarmente dimenticati o disattesi piani di crociata che venivano pur formulati si erano andati intrecciando con le parallele sollecitazioni che alle potenze cristiane provenivano da Shah Abbas ma che, appunto date le condizioni europee del tempo, non avrebbero mai potuto essere accolte. Del resto, in realtà, gli scontri fra cristiani e musulmani non si sviluppavano, nemmeno nei momenti peggiori, nel segno d’un odio così accanito da potersi lontanamente paragonare a quello con cui si ammazzavano tra loro i cristiani di differenti confessioni. Voltaire, nel suo celebre Essai sur les moeurs, è stato molto duro nel denunziare i 10.000 coloni protestanti massacrati con indicibile crudeltà in Irlanda, nell’ottobre del 1641, dai cattolici: peccato che il grande philosophe abbia poi «trascurato» di dir due parole sulla repressione protestante che infuriò in quel medesimo paese2. Le preoccupazioni per la frontiera orientale non vietavano d’altronde alla Porta di guardare anche al suo scacchiere di nord-ovest, dove il fattore dinamico era costituito dal principe calvinista di Transilvania Gabor Bethlen: il quale aveva preso le parti dei ribelli boemi già fin dal 1618, divenendo in tal modo uno dei protagonisti del periodo iniziale della guerra dei Trent’Anni. Tra le bellicose intenzioni del Bethlen c’era stata addirittura quella di assalire la stessa Vienna: il che aveva indotto Sigismondo III di Polonia ad accorrere in aiuto di suo cognato, l’imperatore Mattia, sulla base di un accordo sottoscritto nel 1613. Dal momento che la dieta polacca non era d’accordo e rifiutava al re l’uso dei suoi contingenti militari, egli fu costretto ad assoldare a sue dirette spese delle truppe mercenarie con le quali batté il Bethlen nel 1619 sotto le mura della città imperiale. Desideroso di vendetta, ma rendendosi conto che le sue sole forze non erano in grado di conseguirla, il principe transilvano incoraggiò le sempre costanti mire della Porta sul regno polacco. Un attacco diretto si presentava tuttavia come rischioso: si convenne allora di concentrarsi sulla Moldavia, il cui principe Gaspar Grat¸iani3 era tributario dell’impero ottomano ma in buoni rapporti d’amicizia con il confinante regno di Polonia.

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Sulle rive del Bosforo, si nutrivano disegni ambiziosi riguardo ai confini nordorientali dell’impero. Il sultano Ahmed era morto nel 1617 appena ventottenne: suo figlio Osman, ancora minorenne, era stato sostituito da Mustafa, fratello del defunto sultano e quindi zio del sovrano in carica. Risparmiato, al tempo dell’ascesa al trono del fratello, secondo una nuova più umana consuetudine, Mustafa era stato rinchiuso nel kafes (la «gabbia»), il ricchissimo complesso di edifici nel quarto recinto del palazzo imperiale in cui i fratelli del sultano – quando non venivano soppressi, come fino a pochi anni prima era consueto – venivano relegati insieme con la loro madre (se era diversa da quella del sultano in carica), i loro schiavi e le loro concubine, «in una prigione dorata dalla quale non uscivano se non per morire o regnare»4. Mustafa era però un incapace: deposto dopo pochi mesi, era per sua fortuna rientrato incolume nel kafes, cosa della quale era stato probabilmente tanto lieto quanto incredulo. Intanto, al termine di un’altalena di offensive e di tregue sul fronte orientale, nel 1618 gli ottomani avevano dovuto abbandonare ai persiani Azerbaijan e Georgia. A quel punto Osman era stato costretto ad ascendere al trono, alla stessa età nella quale suo padre Ahmed aveva dovuto compiere il medesimo difficile passo tre lustri prima: cioè a quattordici anni. Avrebbe regnato, col nome di Osman II, solo per altri quattro. Nel 1620 il giovanissimo sultano marciò dunque in armi contro il suo vassallo moldavo, che chiese soccorso al re di Polonia dicendosi in grado di mettere in campo una forza di 25.000 armati: ma il comandante polacco, l’atamano Stanislaw Z˙ółkiewski, una volta penetrato in territorio moldavo con 8000 uomini si vide in realtà sostenuto da un contingente di soli 600 combattenti locali. Pur con tali scarse forze, l’atamano resisté nel settembre per una decina di giorni nella fortezza di Cecora, sul fiume Prut, contro la ben più forte armata nemica, nella quale erano presenti anche tartari e naturalmente moldavi avversari del loro principe; tentò poi un lento ripiegamento che però, sotto l’incalzare del nemico, si trasformò in rotta. La testa dell’atamano fu presentata come macabro trofeo al padis¸ah. Tuttavia, grazie soprattutto al sostegno dei cosacchi, quel che rimaneva dell’armata polacca riuscì a ripiegare alla meglio. Era uno smacco insostenibile per la fiera nazione dei «sarmati d’Europa». La dieta dispose immediatamente la messa in campo di 40.000 armati per lavare l’onta e vendicare l’atamano Z˙ółkiewski: il suo successore Chodkiewicz marciò per l’Ucraina e concentrò

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nel ’21 le sue forze insieme con quelle cosacche presso Leopoli5, da dove avrebbe puntato a sud-est, alla volta del Dnestr. Dalla Moldavia, l’adolescente Osman II stava convergendo a sua volta verso il grande fiume, alla testa di un’armata tre volte più potente di quella polacco-cosacca: con essa, egli circondò e attaccò l’accampamento del Chodkiewicz presso l’attuale città di Chotyn6 in Podolia7, sulla destra del fiume. Dopo un infruttuoso assedio di cinque settimane si giunse a un accordo sulla base del quale i polacchi s’impegnarono a frenare le incursioni cosacche in territorio turco-moldavo e in Crimea, gli ottomani quelle tartare in Ucraina. I polacchi potevano essere soddisfatti di tale sia pur ambiguo risultato. Non era lo stesso per la compagine ottomana, partita da un disegno di conquista che riguardava almeno il meridione della Polonia-Ucraina e che sperava probabilmente di andar ancora oltre. Dopo lo smacco dell’assedio di Chotyn, i soliti scontenti e turbolenti giannizzeri obbligarono il giovane Osman a deporre il potere: poco dopo, nel maggio del ’22, egli venne strangolato. Per la successione, si ricorse di nuovo come nel ’17 al fratello di Ahmed I e zio dello sfortunato padis¸ah, a Mustafa, che si era già dimostrato inetto e che non si smentì neppure quella volta: fu poco dopo sostituito con un altro suo nipote, Murad IV, un ragazzino di undici-dodici anni fratello dell’ucciso Osman. Durante i primissimi anni del regno del nuovo sultano scoppiò violento un nuovo conflitto con la Persia: tuttavia il giovanissimo Murad si dimostrò straordinariamente dotato e molto ben consigliato da un’équipe di governo saldamente controllata dalla madre, la valide sultan Kösem: egli riuscì a domare le molte rivolte interne con ferma energia (e anche a ciò dovette il suo soprannome, «il Crudele»), respinse gli attacchi dei cosacchi sulla costa del Mar Nero tra 1624 e 16378, lavorò in accordo con gli svedesi e i moscoviti per creare difficoltà ai polacchi e seppe tenere al tempo stesso a bada l’eterno nemico persiano9 cui strappò Baghdad, costringendolo nel 1639 a una pace. L’ambasciatore veneziano a Istanbul, Pietro Foscarini, descriveva il suo governo come «immoderato e stravagante» e il suo dominio «assoluto e dispotico»10. Un aggettivo nuovo e precoce, quest’ultimo: non tanto perché nuova fosse la parola «despota» (al contrario, come si sa, molto antica), ma perché il concetto moderno di dispotismo – e una delle sue più note variabili, il dispotismo orientale – sembra essersi andato articolando solo nel corso del Settecento.

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Le riforme di Murad furono invece notevoli e costituiscono il primo passo verso una vera e propria ridefinizione dello stato sultaniale. Importante quella militare: il devs¸irme dei kapikullari11 fu abolito nel 1637 e si cominciò a reclutare i futuri soldati non più unicamente tra i ragazzi di famiglia cristiana, bensì anche tra i musulmani12. Murad stava riorganizzando i giannizzeri e ridefinendo il sistema del timar quando fu colto dalla morte nel 1640, appena trentenne. Questo giovane guerriero e riformatore divorato dal desiderio di gloria e di grandezza aveva regnato diciassette anni, in gran parte in mezzo a guerre a oriente e a settentrione che gli avevano impedito di pensare alle questioni europea e mediterranea. Tuttavia, bisogna risalire agli anni del suo bisnonno Murad III per incontrare un sultano che negli ultimi decenni avesse regnato più di lui: e quei suoi anni di governo erano stati preziosi nel consolidare l’impero facendolo uscire dalle crisi precedenti. Aveva anche ingrandito e abbellito Istanbul che, con i suoi 600.000 abitanti, era senza dubbio alcuno la prima città d’Europa e una delle più grandi al mondo. Gli succedette un altro suo fratello, Ibrahim I, giovanissimo a sua volta, che per lo scarso equilibrio mentale che lo caratterizzò sarebbe stato denominato «il Folle». Un settantennio di fragile pace Ed è tempo di considerare di nuovo la tregua sul mare che, sostanzialmente mantenuta dopo la guerra di Cipro, era pur sempre imperfetta: in realtà, essa era endemicamente turbata dai conflitti corsari che vedevano impegnati i barbareschi13 non meno dei cavalieri-marinai-corsari di Malta e di Santo Stefano. Gli attacchi reciproci, di solito di modesta entità, erano continui e si potrebbero contare a centinaia: a volte si trattò di imprese impegnative, come quella già ricordata contro Mahomedia nel 1602. Ma questo stato di «pace imperfetta», che riempiva sempre di paura le popolazioni rivierasche sia cristiane sia musulmane quando le acque erano tranquille e il tempo sereno, fu brutalmente infranto nel 1645, quando i turchi scatenarono una dura offensiva contro l’isola di Creta nota anche come Candia, «una delle perle dell’impero veneziano»14 che il Barbarossa aveva già tentato di conquistare nel 1537 e dove del resto si sapeva che – non diversamente da quel che si era verificato a Cipro prima del 1570 – la popolazione greco-

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ortodossa era stanca delle affilate grinfie del leone di San Marco e insomma, parafrasando un celebre adagio, avrebbe preferito il turbante sultaniale al galero dogale. C’era stata pace, tra la Serenissima e la Porta, fin dal 1573: una pace che recava il sigillo di Nur Banu, la valide sultan che mai aveva dimenticato d’esser veneziana (ammesso che davvero fosse tale). Dopo Lepanto si era stabilita anzi, com’è stato molto opportunamente detto, una «solidarietà di fatto veneto-ottomana», alla base della quale c’era il solido interesse comune di «adattare le proprie strutture economiche e sociali alla situazione nuova creata dall’apertura delle rotte oceaniche, dall’affermarsi delle grandi potenze marinare dell’Europa nord-occidentale e dal loro crescente peso sulla scena mondiale e nello stesso Mediterraneo»15. Sono ben noti numerosi aspetti di questa lunga amicizia: il rifiuto di accogliere gli schiavi fuggitivi e i debitori insolventi che provenissero dalle terre soggette alla Porta; l’attenzione per i mercanti ottomani ospitati nel Fondaco dei Turchi e rispettati anche nei momenti di aperto conflitto16; l’asilo offerto a molti moriscos a più riprese espulsi dall’Andalusia; la prosecuzione indisturbata del commercio di merci come l’allume di Focea – magari formalmente trattato da intermediari ebrei – nonostante le bolle pontificie che colpivano quell’empio mercato perseguito con gli infedeli per bieca sete di guadagno17; la collaborazione contro gli uscocchi; il ruolo di mediazione della piccola ma prospera repubblica di Ragusa, favorito tanto dai turchi quanto dai veneziani; le facilitazioni concesse dal sultano alla Serenissima che tra 1624 e 1630 arruolava truppe mercenarie nelle regioni dell’impero ottomano, per quanto ciò fosse stato esplicitamente proibito dagli accordi tra la Porta e la casa d’Austria18; lo scambio frequente di doni e di ambascerie19. Ma tutto ciò era ormai storia vecchia. Non erano del resto esclusivamente voci allarmistiche quelle dei baili candioti Giovanni Moro, Girolamo Lippomano e altri, i quali tra la fine del Cinque e i primi del Seicento avevano più volte messo in guardia il governo centrale contro le mire ottomane su Candia. D’altronde, anche gli ottomani avevano i loro ottimi motivi per dubitare delle effettive intenzioni della Serenissima. In quella curiosa opera ch’è L’Espion turc di Giovanni Paolo Marana20, diretto ispiratore delle Lettres persanes del Montesquieu, la spia e poligrafo Mehmed, immaginario viaggiatore in Europa e nelle sue corti tra 1637 e 1654, scrivendo al kaymakam lo informa delle confidenze ricevute dal nano Osmin, cristiano ma d’origine turca, il quale era stato donato da un signore spagnolo al

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re di Francia e un giorno, in quella corte, aveva casualmente assistito non visto al colloquio tra una grande dama e l’ambasciatore di Venezia, il quale aveva informato la sua interlocutrice della vittoria – un fatto davvero avvenuto – riportata nell’agosto del 1638 dalle navi veneziane sul corsaro Ali «Piccinino». Il potente e valoroso sultano Murad IV, proseguiva a detta del nano Osmin l’ambasciatore veneziano, era allora impegnato contro la Persia e solo questo gli impediva di vendicarsi, come pur aveva dichiarato di voler fare: a ciò tutti i suoi ministri lo incitavano, ed egli era ben deciso a incendiare per vendetta l’arsenale di Venezia. Il diplomatico supplicava la dama, con ogni evidenza molto influente, di suggerire al re di appoggiare la Serenissima nel suo progetto di guerra di difesa preventiva al Turco; e magari di consigliare esattamente il contrario all’onnipotente ministro, il cardinale di Richelieu, il quale disprezzava notoriamente il parere delle donne al punto che, dinanzi a un consiglio di far pace con la Porta provenientegli da una fonte femminile, avrebbe sicuramente fatto l’opposto di quel che gli veniva prospettato. Infine, il veneziano informava che il bailo della Serenissima a Istanbul era stato secondo voci correnti imprigionato nel castello «delle Sette Torri», cioè in Rumelì Hissar21; che il sultano aveva offerto la pace allo shah di Persia per concentrare tutte le sue forze contro il nemico occidentale; e che il papa aveva credibilmente promesso alla repubblica denaro e navi, cui si sarebbero aggiunti 50 vascelli da guerra e 40 galee del re di Spagna nonché 10 galee e 8 vascelli del granduca di Toscana, mentre il re di Polonia aveva pronti 50.000 cosacchi da far scendere in campagna militare. I maggiorenti veneziani erano disposti ad armare un vascello ciascuno, le città della Terraferma a offrire 50.000 ducati al mese per l’intera durata dell’impresa. Scopo ultimo di questa tirata dell’ambasciatore veneziano era pregar la dama di supplicare il re affinché non insistesse nella sua guerra contro la Spagna, anzi la sospendesse per aderire alla lega contro il Turco ormai già potenzialmente costituita: un premio di 100.000 scudi era pronto a Venezia per lei, se fosse riuscita a condurre a compimento la cosa22. In altre lettere si richiamano diversi fatti di mare che testimoniano della guerra endemica e non dichiarata fra i turchi, i barbareschi, Venezia e l’Ordine di Malta23 nonché di altri aspetti dei rapporti fra ottomani e potenze cristiane24. La sconcertante opera del Marana, in parte plagio da altre opere in parte «falso» epistolario d’un turco immaginario, è tuttavia una cronaca talora illuminante di quanto accadeva a metà Seicento in

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Europa nonché dei costumi e degli atteggiamenti degli «occidentali» giudicati con sguardo «orientale» – o con quel che in Occidente tale poteva sembrare –: non bisogna guardar ad essa solo come a un caposaldo della letteratura orientalistica. Il suo autore, forse un nobile genovese di origine sefardita, quindi ebraico-iberica25, era riparato in Francia dopo una fallita congiura, scopo della quale sarebbe stato il far passare la città di Savona sotto la dominazione dei duchi di Savoia. Il primo volume de L’Espion turc venne pubblicato nel 1684, all’indomani della liberazione di Vienna, e fece molto rumore. Le sue notizie sugli eventi del 1638 sono in parte confermate da quel che sappiamo della situazione del momento, in parte ampiamente verosimili. L’incombere di un pericolo turco che sarebbe tornato minaccioso se e non appena il sultano si fosse in qualche modo liberato dalla pressione aggressiva dei persiani era in effetti un argomento usato correntemente da quanti avevano interesse ad arrivare a una sospensione della guerra dei Trent’Anni. In effetti verso gli anni Quaranta del secolo, dopo i successi ottomani nel conflitto contro i safavidi concluso nel 1639 e nel contesto del generale indebolimento dell’Europa cristiana dovuto al protrarsi della guerra che durava dal 1618, alla Porta sembrò giunto il momento opportuno per impadronirsi di Creta. Era un dato obiettivo che l’isola costituisse un formidabile caposaldo sulla rotta tra Mar di Levante, Egitto, Africa settentrionale ed Italia: una ragione di più per non riuscir a comprendere come la Serenissima non avesse fatto granché, nonostante la pace col Turco, per risistemare le fortificazioni che erano in più punti cadute in rovina e per mettere di nuovo a punto lo stato d’efficienza delle guarnigioni e delle munizioni. Il fatto è che a Venezia molti si erano ormai assuefatti da tempo all’idea di un suo fatale ripiegamento in Levante, per quanto la lunga pace successiva all’occupazione ottomana di Cipro avesse fatto nascere qualche illusione26; e per quanto non fosse affatto sopìta la polemica già scoppiata nel Quattrocento, al tempo del doge Francesco Foscari, tra i sostenitori della necessità di ampliare e rafforzare l’entroterra con una politica di consolidamento, se non addirittura di conquista, della terraferma e quanti invece ribadivano che il destino della repubblica di San Marco era sul mare e che sulle isole poggiava «tutto il fondamento dello stato veneto», come già nel Cinquecento aveva dichiarato il diarista Priuli27. Comunque, la repubblica sembrava ben decisa a mantenere finché possibile le sue piazzeforti marittime e a non cederle se ciò non fosse stato inevitabi-

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le: un’intenzione per la verità in contrasto con l’incuria che sovente si registra nel suo apparato logistico e che ha fatto pensare che in realtà, non si ritenesse sul serio in pericolo il «dominio da mar» e che ciò avesse indotto a sottovalutare i pericoli. Prima che termini la guerra fra i cristiani... C’era forse addirittura chi pensava a un contrattacco preventivo: ma non è che ci fossero né troppa chiarezza, né totale unità di vedute al riguardo. L’idea di un’alleanza con la Francia, tra la fine del quarto e l’inizio del quinto decennio del secolo, pare fosse stata utilizzata, in funzione – quanto meno nelle intenzioni – deterrente, dai diplomatici della Serenissima. Ma il governo sultaniale sapeva bene per vecchia esperienza e per continue acquisizioni diplomatiche quanto fosse difficile se non impossibile un’effettiva e duratura unione delle forze cristiane dirette contro la sua compagine. Basti al riguardo un solo caso: l’attacco del corsaro Ali «Piccinino» con una flotta algero-tunisina, nel 1638, alla Santa Casa di Loreto28. Fallita tale impresa, il corsaro aveva catturato una nave veneziana presso Cattaro. Una flotta della Serenissima, al comando di Antonio Marin Cappello, aveva inseguito i vascelli corsari che avevano trovato nel porto di Valona un asilo il cui governatore ottomano, per gli accordi intercorsi con Venezia, non avrebbe avuto il diritto di consentire. Il Cappello sfidò a quel punto il tiro di sbarramento delle artiglierie portuali ottomane, catturò la squadra corsara e l’affondò al largo di Corfù, mentre l’ammiraglia di Ali fu trascinata fino a Venezia dove al comandante vittorioso fu tributato un grande trionfo29. Questi eventi si svolsero tra il luglio e i primi d’agosto del ’38. Naturalmente, sia la Porta sia la Serenissima convennero che si dovesse appianare diplomaticamente la cosa: ma non senza un qualche attrito. Quando, in conseguenza di quell’incidente, nel 1639 l’ambasciatore veneziano a Istanbul aveva minacciosamente prospettato a un alto funzionario sultaniale l’eventualità che l’ira crociata dell’Europa offesa per la tentata profanazione del santuario mariano si abbattesse sul suo signore, il dignitario gli aveva risposto con affabile ironia: «Mi fate ridere quando agitate lo spauracchio delle forze della Cristianità. È una chimera che non ha nulla di terribile se non il nome»30. Era del resto vero anche il reciproco: in Europa – a parte la retorica di qualche predicatore e la fantasia di

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qualche poeta o di qualche mistico – tutti sapevano che l’Islam non si sarebbe mai riversato con tutta la sua potenza unita contro la Cristianità, per la semplice ragione che lo scontro era circoscritto all’area mediterranea e vicino-orientale e che tra i musulmani, al pari che tra i cristiani, non v’era alcuna unità né alcuna concordia. In ciò, la forza del progresso tecnologico e dell’informazione (o disinformazione) mediatica si è rivelata formidabile: quella che tra medioevo ed età moderna era ritenuta una grossa sciocchezza si è trasformata tra XX e XXI secolo, grazie a un’intensiva propaganda, in un luogo comune largamente ammesso come verosimile. Comunque, nei primi anni Quaranta del XVII secolo, ci si aspettava un’offensiva ottomana su Candia: e, su come affrontarla o cercar di evitarla, i pareri erano incerti e discordi. D’altronde, per quanto si potesse presumere che il Turco non fosse troppo intenzionato a rinnovare una pace che durava ormai da oltre settant’anni, sta di fatto che il casus belli fu offerto al sultano Ibrahim da un incidente causato dal «corso», la guerra di corsa, dei cavalieri di Malta. Il 28 settembre 1644 una squadra composta da 6 galee maltesi, al comando del comandante generale della flotta giovannita, Gabriel de Bois-Brodant, aveva attaccato tra Rodi e Karpathos un convoglio costituito da un grande vascello31, 2 navi e 7 caicchi, organizzato da un ricco dignitario degli eunuchi neri32, Sümbül Ag˘a, che destituito dal sultano si recava in Egitto; con lui viaggiavano anche alcuni illustri personaggi diretti come pellegrini alla Mecca, tra cui sembra vi fosse la nutrice del principe Mehmed, figlio del sultano, con un suo figlioletto. Ciò fece circolare in Europa la voce che lo stesso piccolo erede al trono fosse caduto nelle mani dei cavalieri33. Il convoglio fu saccheggiato e i suoi viaggiatori condotti prigionieri nel porto di Kalismenos, nella parte meridionale dell’isola di Candia, terra di San Marco34. Ma altri narrano la vicenda con ben più romanzeschi colori: sulla nave catturata dai cavalieri melitensi avrebbe viaggiato nientemeno che la sultana Zafira35; e con lei il piccolo Osman che poi, convertito, sarebbe divenuto il famoso padre Domenico Ottomano dell’Ordine dei Predicatori36. L’episodio causò una vivissima impressione a Istanbul: si dichiarò guerra ai cavalieri di Malta, responsabili del colpo. Ma in realtà – nonostante le assicurazioni che il governo sultaniale fece pervenire al bailo veneziano di Candia – ci si rendeva ben conto che Malta era un osso troppo duro: l’accaduto forniva invece su un piatto d’argento, come si usa dire, il pretesto per un attacco a Creta. L’isola era in una

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posizione strategicamente e commercialmente invidiabile e il suo possesso avrebbe garantito la completa egemonia sul Mediterraneo orientale. Del resto, appena la notizia dei fatti candioti era giunta al serraglio, il sultano Ibrahim se l’era presa immediatamente con i veneziani; e in uno dei suoi celebri accessi d’ira aveva ordinato che tutti i cittadini della Serenissima presenti nella capitale fossero immediatamente giustiziati, un’infamia che i visir avevano fatto fatica a evitare. Ma l’incidente era un pretesto: che il governo della Porta, dopo la conquista di Cipro, avesse da tempo messo gli occhi sull’altra grande isola del Mediterraneo orientale era cosa ben nota, né esso ne aveva mai fatto mistero. In realtà, il feroce e squilibrato Ibrahim doveva essere molto felice per il fatto che l’inatteso se non addirittura insperato incidente gli fornisse un alibi perfetto per avviare la conquista dell’isola. Sappiamo già che Venezia non s’illudeva. Forse, qualora l’incidente del quale erano state responsabili le navi di Malta non fosse avvenuto, il previsto e temuto attacco avrebbe tardato di qualche tempo. Ma non ci sarebbe stato comunque da farsi illusioni, anche perché grazie alle sue spie la Porta sapeva bene che da tempo i veneziani, pur rispettando i termini del loro trattato e avendo anzi collaborato con il governo sultaniale in più occasioni, come nella faccenda della lotta con gli uscocchi, andavano saggiando il terreno alla ricerca della possibilità di mettere insieme una nuova lega antiottomana con l’intento di recuperare le loro posizioni nell’Egeo e in Morea: non vi erano riusciti soltanto perché le potenze europee erano impegnate nella guerra dei Trent’Anni. Ormai però i segnali di stanchezza per il troppo lungo conflitto andavano facendosi evidenti in Europa: la Porta doveva far presto, se voleva colpire la Serenissima senza tirarsi addosso tutta la Cristianità tornata concorde. Dopo Cipro, era Candia l’obiettivo più ovvio: e anche lì si sapeva di poter contare sulla popolazione greca e ortodossa, stanca della superbia veneziana e cattolica. D’altronde, una Candia che fosse rimasta in mani veneziane avrebbe in qualsiasi momento potuto servire da base per un’eventuale riconquista cristiana del Mediterraneo orientale: un rischio da non correre. L’incidente del 1644, per quanto la Porta non lo avesse né voluto né provocato, apparve ad essa un provvidenziale casus belli. Come poteva reagire la Serenissima? L’idea di un appello alla Cristianità, che in quel momento si stava svenando sui campi di battaglia, sarebbe stata ridicola: e infatti non lo propose nessuno. C’era invece chi riteneva possibile e vantaggioso il comprarsi un altro po’

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di pace col Turco, magari a peso d’oro: le conseguenze della peste del 1630-31 e delle guerre di Valtellina tra 1641 e 1644 si facevano ancora sentire, durissime, in città e nella Terraferma. Prevalse per il momento il partito di chi consigliava la prudenza, ma giudicava inutilmente costoso il negoziare una nuova tregua che avrebbe comunque condotto soltanto, nella migliore delle ipotesi, a un’illusoria ed economicamente gravosa dilazione37. Invece quel che intendeva fare la Porta non tardò a divenir chiaro. Il governo sultaniale, dopo aver un po’ tergiversato, accusò formalmente quello veneziano di complicità nella faccenda dell’attacco delle galee di Malta al convoglio: dal momento che ciò appariva con ogni evidenza pretestuoso, l’accusa – secondo una nota regola diplomatica ben esemplificata dalla favola esopica del lupo e dell’agnello – palesava senza possibile equivoco le effettive intenzioni del sultano. Non c’era proprio un bel niente su cui trattare: il Turco voleva la guerra. Intanto il bailo a Costantinopoli, Giovanni Soranzo38, e alcuni maggiorenti veneziani presenti in Istanbul furono messi agli arresti. Passarono comunque vari mesi senza che nulla accadesse, anche perché frattanto era cominciata la stagione invernale. Ma con la primavera, dopo lunghi e accurati preparativi, una flotta da guerra forte di 416 vascelli (ma fonti più prudenti propongono numeri più bassi39) che trasportavano oltre 70.000 armati40 e un parco d’artiglieria di una settantina di cannoni salpò da Istanbul il 20 aprile 1645 diretta prima a Tinos e Navarino per cambiare poi rotta puntando decisamente su Candia; approdò il 23 dinanzi alla fortezza dello scoglio di San Teodoro41, chiave della difesa della Canea42, che fu immediatamente catturata nonostante l’eroica resistenza della piccola guarnigione comandata da Biagio Zuliani il quale preferì far esplodere il forte piuttosto che cederlo al nemico43. Colto di sorpresa e quasi del tutto impreparato, il governatore di Candia Andrea Corner riuscì comunque a far fronte all’attacco. Però la flotta veneziana di Antonio Marin Cappello, ancorata alla Suda e forte d’una ventina di galee ma in attesa di un sostanzioso rinforzo che avrebbe dovuto arrivarle, non rispose al disperato appello lanciatole da Antonio Navagero, comandante della Canea: la quale dovette arrendersi tra il 22 e il 24 agosto44. La settantina d’anni fra l’attacco ottomano a Candia e la pace di Passarowitz sarebbero stati, per la repubblica, un vero e proprio «secolo di ferro»45. Il leone di San Marco reagì all’attacco ottomano contro Candia ruggendo e mostrando zanne e artigli, come da un suo pari ci si do-

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veva aspettare. Sulle sponde della laguna ci si andava ripetendo che non ci sarebbe mai più stata un’altra Cipro e che la talassocrazia della città sposa perpetua del mare non poteva esser messa in discussione: e, più che intimoriti o adirati, adesso si era quasi stupiti che il Turco avesse di nuovo osato tanto. Giovanni Dolfin, rivolgendosi nel 1646 al padre Nicolò, cui spettava – come «provveditor generale» delle tre isole di Corfù, Cefalonia e Zante – la difesa di Corfù, dove Ionio, Adriatico ed Egeo si incontrano, lo esortava a «piantar su la luna ancor la croce» e a far «gonfio l’Egeo del turco sangue»46. Intanto la notizia dell’attacco ottomano aveva fatto il giro dell’Europa e parve che, come altre volte era accaduto, la risposta della Cristianità occidentale fosse entusiasta e corale: quanto beninteso i tempi lo permettevano, dal momento che era ancora in corso la lunga guerra che noi chiamiamo dei Trent’Anni. La nuova Santa Lega, per organizzare la quale lo stesso papa Innocenzo X Pamphili sembrava essersi per un attimo riscosso dal suo abituale dormiveglia nepotista47, sembrò unire accanto alle forze veneziane e pontificie anche quelle dell’Ordine marinaro toscano di Santo Stefano, del regno spagnolo di Napoli e perfino della tradizionale avversaria di Venezia, cioè di Genova, che mise a disposizione dell’impresa candiota una squadra di una dozzina di galee e di 6 navi d’alto bordo. Certo, mancavano le grandi belligeranti: la Spagna, la Francia, l’impero. Eppure, se tutte le promesse fossero state mantenute e se la concordia e l’unità d’azione fossero state coerenti con esse, si sarebbe potuti ben arrivare a qualche tangibile risultato. Non fu tuttavia così. A romper l’incantesimo fu per primo il duca di Savoia, che si diceva disposto a impegnarsi, ma in cambio della sua partecipazione pretendeva da Venezia il riconoscimento dei suoi diritti sulla corona regale di Cipro, che esso rivendicava come eredità passatagli dalla dinastia dei Lusignano. Nonostante Cipro fosse ormai da oltre un settantennio in potere degli ottomani, né la cancelleria ducale né quella dogale cedettero: e dell’aiuto sabaudo non si fece di nulla48. Dal canto suo, la repubblica di Genova fino dal 1580 rivendicava – al pari di e in concorrenza con Venezia49 – i medesimi onori diplomatici dovuti a un regno, che si risolvevano soprattutto nelle solite faccende di precedenze e di salve d’artiglieria; ma fino ad allora solo l’impero e la Spagna avevano acceduto a tale pretesa. Poiché Venezia si rifiutò, la promessa d’una squadra navale genovese d’appoggio sfumò nel nulla. Quanto alle galee napoletane, la preoccupazione per un assalto francese le tenne chiuse nei loro porti50.

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Erano state comunque raccolte una ventina di galee al comando di Niccolò Ludovisi, nipote del papa. Esse attraccarono a Zante alla fine d’agosto per unirsi alla squadra veneziana. Ma, giunta alla Suda e constatata la partenza delle navi del Cappello, la flotta dei nuovi arrivati – ora 66 navi in tutto – avrebbe forse potuto attaccare quella turca, come consigliavano i veneziani. Si perse invece più d’un mese, pare anche a causa del cattivo tempo, e alla fine i collegati ripresero il mare per rientrare alle loro sedi. Quanto ai toscani, preoccupati per il protrarsi della guerra europea e per la costante minaccia barbaresca sulle coste tirreniche, essi avevano preferito finir col mantenersi da parte. Ai primi del ’46, la lega era dissolta. Tuttavia, a Venezia l’entusiasmo non sembrava calare. Anzi, esso ricevette nuova energia dalla nomina di Giovanni Cappello a «capitano generale da terra e da mar»: durante la solenne cerimonia d’insediamento risonarono le parole evangeliche, Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Johannes. La flotta messa insieme dal nuovo comandante annoverava 50 galee, 6 galeazze, 40 galeoni e una notevole quantità di velieri minori usati per trasporto di merci e per incursioni, come brulotti, ciaike, fregate e brigantini51. Sfumata l’idea di un ampio schieramento «crociato» dell’Europa cristiana, bisognava lavorare a intese bilaterali. I diplomatici della Serenissima agivano a largo raggio, evitando beninteso di chiedere aiuto agli Asburgo d’Austria: si sapeva bene che Vienna era felice quando il Turco attaccava Venezia via mare, perché ciò significava che non avrebbe aggredito l’Ungheria regia via terra: e del resto era vero anche il reciproco. Si domandò invece appoggio alla Francia – erano ben note le convinzioni del cardinal Mazarino a proposito della necessità di contrastare sistematicamente il «pericolo turco»52 –, alla Moscovia, alla Polonia, ai cosacchi e perfino al pas¸a di Aleppo: una rivolta nel Vicino Oriente avrebbe distolto le armate sultaniali da Malta. Circolavano anche voci insistenti a proposito dei soliti lontani alleati asiatici, lo shah di Persia e il Gran Moghul, che sarebbero stati sul punto di accordarsi per riprendere le ostilità contro la Porta53. Il Mazarino si gettò con entusiasmo nella prospettiva di una nuova vera e propria crociata. Offrì ai veneziani 100.000 ducati come contributo ai preparativi militari e promise addirittura il doppio ai polacchi se si fossero impegnati con decisione contro gli ottomani. Può darsi che la diplomazia francese non fosse poi così lungimirante – o, se si preferisce, così velleitaria – da mirar sul serio a coin-

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volgere le corti di Isfahan e di Delhi, come il cardinale aveva pur in animo di fare: ed è prevedibile che i risultati sarebbero stati modesti. Ma il momento era molto più difficile di quanto a prima vista non si sarebbe detto. È vero che si stava avvicinando la pace che avrebbe posto fine a parte del conflitto europeo: ma si prevedeva che essa non sarebbe stata definitiva54; inoltre, all’interno della stessa Chiesa cattolica, la prospettiva d’una vera e propria crociata era in quel momento poco gradita. In tutto l’impero ottomano, a cominciare da Istanbul e da Gerusalemme, i cattolici godevano dell’ottimo trattamento che la Porta riservava abitualmente loro: la tolleranza ottomana aveva consentito soprattutto a gesuiti, francescani, carmelitani e teatini d’insediarsi nell’impero, per quanto il loro zelo missionario dovesse adattarsi alle rigide regole che limitavano l’attività delle comunità dhimmi. Tuttavia, pur non potendo predicare e convertire, dovendo pagare alcune tasse ed essendo soggetti a varie forme di sanzione anche simbolica della loro inferiorità, i cristiani di qualunque confessione godevano, al pari degli ebrei, dello statuto di protezione che il diritto coranico accorda a tutte le ahl al-Kitab, le «genti del Libro». Era una condizione preziosa, che consentiva comunque una presenza e una penetrazione silenziose e che non aveva alcun reciproco riscontro in terra cristiana. La Santa Sede si guardava bene dal compromettere un tale equilibrio: siamo anzi davanti a una delle ragioni per le quali, per quanto si continuasse a usare termini come «Santa Lega» – che postulava comunque un carattere difensivo –, il lessico della crociata era stato praticamente abbandonato dagli inizi del Cinquecento. Per questo lo stesso Mazarino, in quanto cardinale, era costretto per disciplina ecclesiale a camuffare continuamente i suoi ardori guerrieri contro gli ottomani presentandoli come necessità dettate da una politica di difesa; inoltre, come primo ministro di Francia, non poteva guastare gli accordi con la Porta relativi alle Capitolazioni, che tanti vantaggi e tanto prestigio procuravano al suo paese in Levante. I veneziani continuarono quindi a battere la via delle trattative: con il papa, con i genovesi e perfino con il Commonwealth puritano di Oliver Cromwell, che non aveva interesse alcuno a far guerra al Turco ma guardava invece con attenzione alle possibilità di radicarsi solidamente nel commercio mediterraneo. Dovettero presto rassegnarsi però alla concreta prospettiva che, a parte un certo appoggio francese e al di là delle dichiarazioni ufficiali e della retorica propagandistica, la Cristianità europea li stava lasciando soli.

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La zampata del leone di San Marco si fece sentire comunque, e forte, perfino negli apparentemente sereni padiglioni del Gran Serraglio. Attaccati dalle flotte ottomane in profondità, fino alle coste e alle isole dalmate55, i veneziani seppero resistere splendidamente e riuscirono a loro volta a imporre severe umiliazioni sia alla flotta nell’Egeo56 e nei Dardanelli57 sia all’armata sultaniale anche in terraferma, dalla Bosnia all’Erzegovina al Montenegro all’Albania alla Dalmazia, determinando fra l’altro lo spostamento dei musulmani di etnìa serba e croata dai loro insediamenti dalmati verso la Bosnia58. Intanto, su un fronte lontano ma in significativa e non casuale coincidenza, i russi intervenuti in appoggio ai cosacchi strappavano agli ottomani la piazzaforte di Azov sul Mar Nero59. Quest’insieme di circostanze provocò nel 1648 una nuova crisi nell’impero ottomano e nella capitale: con relativa nuova rivolta dei giannizzeri che abbatterono il sultano Ibrahim60, prima deposto e quindi strangolato l’8 agosto, e insediarono sul trono suo figlio Mehmed IV, un fanciullo di sei anni sotto la reggenza della valide sultan Kösem, che audacemente lo aveva presentato prima ai soldati in tumulto e quindi al consiglio sultaniale61, sostenendo la sua candidatura a succedere al padre. Kösem, nonna del nuovo sultano, doveva con ciò per la verità cedere il ruolo di valide alla madre di questi, Hadice Turhân; ma continuò a regnare di fatto, col titolo di büyük valide «sultana nonna», erigendo monumenti, facendosi amare dai molti che beneficiava ma governando dispoticamente finché nel 1651 fu a sua volta trucidata, come vedremo, in seguito all’ennesima congiura di palazzo62. Sarebbe forse stato quello, per le potenze d’Europa, il momento migliore per colpire la compagine ottomana: tanto più che i polacchi si erano intanto di nuovo mossi contro i tartari di Crimea e, incoraggiati anche dalle promesse d’appoggio economico del Mazarino, sembravano disponibili ad accedere a una ridefinizione del progetto della Santa Lega con Venezia e con il papa63. Una solidarietà insufficiente Frattanto, la guerra dei Trent’Anni era finita: i trattati di Westfalia, siglati tra l’agosto e l’ottobre del 164864, consentivano a tutti gli stati di accedere al nuovo ordine europeo da essi delineato e dal quale era esplicitamente escluso il Turco. Ciò equivaleva ad affermare che una

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ripresa delle ostilità nei confronti degli ottomani avrebbe rafforzato la pace tra gli europei; e che per converso la pace inter christianos si fondava – secondo una regola che tre secoli più tardi Carl Schmitt avrebbe esplicitamente teorizzato – sull’individuazione di un comune pubblico nemico, un hostis, e sull’esportazione della violenza contro di lui. D’altronde, si ripresentava con ciò il caso lucidamente previsto dai canonisti medievali, i quali avevano definito la crociata opus pacis proprio in quanto sua necessaria premessa era la fine di qualunque guerra combattuta tra cristiani. La Santa Sede aveva accettato, sia pure obtorto collo e tra riserve e proteste, che buona parte dell’Europa fosse definitivamente «ceduta» ai riformati in cambio d’una prospettiva di futuro comune impegno contro gli ottomani, che gli eventi di Candia prospettavano come urgente65. Si era quindi, o si riteneva di essere, un’altra volta davanti al momento ottimale per un rilancio delle prospettiva d’un’alleanza benedetta da Dio e dal papa: e a Venezia ci contavano. Invece, l’appello ai fratelli in Cristo contro il nuovo assalto degli infedeli ottenne di nuovo, nella pratica, solo tiepide risposte: papa Innocenzo X aveva sborsato un centinaio di migliaia di scudi d’oro e messo a disposizione 2000 soldati e alcune galee, mentre il suo successore Alessandro VII fece come sappiamo qualcosa di più; il granducato di Toscana e la repubblica di Genova si limitarono a un aiuto praticamente simbolico; l’impero e la Francia si tennero da parte per quanto il cardinal Mazarino fosse personalmente un deciso sostenitore della necessità della lotta contro il Turco. Il fatto era che la situazione generale europea rendeva difficile organizzare una risposta forte e concorde, dato il permanere nonostante tutto dei postumi della lunga guerra; e quella economica sconsigliava azioni militari che avrebbero potuto compromettere i traffici con il Levante. A parte la guerra di corsa barbaresca, le rotte veneziane di Levante erano ormai minacciate dalla forte concorrenza inglese e olandese che, anche a causa all’apertura del «porto franco» di Livorno, si erano riversate nel Mediterraneo facendone perfino teatro dei loro scontri navali: al fine di salvare il salvabile, il recupero della pace con la Porta diventava per San Marco un’assoluta priorità, in assenza di alternative che per un istante erano sembrate dietro l’angolo. Ma era la quadratura del cerchio: indispensabile, almeno per una tregua col sultano, sarebbe stato mollare Candia: ed era proprio quel che non ci si sentiva di fare. Al momento dunque, e con la riserva della ricerca d’una possibile soluzione diplomatica, bisognava combattere: anzi, proprio al fine

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di accelerare la pace era necessario dimostrare agli ottomani che il leone alato era ancora in grado di mordere e di graffiare sul serio66: specie sul mare. Nel 1651 il nuovo «capitano generale da mar» Alvise Mocenigo infliggeva al nemico una sonora lezione con la battaglia di Nasso; il 26 luglio 1656 le navi veneziane comandate da Lorenzo Marcello – che sognava di far vela direttamente su Istanbul – ottennero al largo dei Dardanelli, che la Serenissima bloccava di fatto fin dal ’48, una vittoria memorabile, la più strepitosa dopo Lepanto, che tuttavia costò la vita del loro ammiraglio67. Intanto, tra ’55 e ’57, ripetuti successi erano colti sempre attorno ai Dardanelli da Lazzaro Mocenigo, il quale riusciva a impedire l’afflusso delle navi ottomane dirette dal centro dell’impero a recar rinforzi e vettovaglie agli assedianti di Candia. Splendidi gesti di sfida barocca accompagnavano queste azioni temerarie: si sfilava sotto il tiro dei 300 cannoni dei forti ottomani schierati a difesa dei Dardanelli spiegando immensi vessilli, indossando fastosi abiti da parata, facendo squillar le trombe e rullare i tamburi. Ma i beaux gestes non erano sufficienti. Le buone occasioni non si presentano spesso e il momento giusto per acciuffarle non dura mai a lungo. Per due volte di seguito, nel ’48 e nel ’51, la compagine governativa sultaniale era stata prossima al collasso: per qualche tempo si era pensato che l’impero ottomano fosse ormai in ginocchio. Nel 1651 la vecchia, terribile e fino ad allora onnipotente sultana Kösem fu inaspettatamente rovesciata, braccata, miseramente scovata nascosta in un armadio e strangolata: il suo posto era stato preso dalla nuora, la sultana-madre Hadice Turhân, moglie del folle Ibrahim ucciso tre anni prima e madre del piccolo Mehmed. Fu la nuova sultana a pilotare e a superare la crisi. Dopo una vorticosa ridda di gran visir – se ne contano diciotto tra 1644 e 1656, dei quali quattro giustiziati e undici dimessi dalle loro funzioni –, si trovò quello giusto: un vegliardo d’origine albanese, l’ottantenne Mehmed Köprülü, al quale la valide sultan accordò nel settembre 1656 poteri dittatoriali nello scenario drammatico di una capitale sconvolta dal terrore per le vittorie navali veneziane. I Dardanelli erano bloccati e nel giugno una nuova cocente sconfitta aveva obbligato gli ottomani ad abbandonare le isole di Lemno, Samotracia e Chio. Ma quel che il vecchio gran visir doveva affrontare non era solo il contraccolpo delle batoste militari. In effetti, per quanto le riforme imposte nel 1637-38 da Murad IV fossero state opportune e magari necessarie, i loro contraccolpi negativi si stavano facendo sentire negli

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àmbiti sia militare, sia sociale. Lo statuto dei giannizzeri, fino ad allora giovanissimi cristiani strappati a forza dalle famiglie e rigorosamente allevati in caserme nelle quali s’insegnava loro la fede musulmana e l’obbedienza al padis¸ah, era con quelle riforme profondamente mutato. Ora essi provenivano anche da famiglie musulmane, potevano sposarsi, abitare fuori dalle caserme, lavorare come artigiani o metter su traffici commerciali per arrotondare il loro reddito, addirittura vendere il loro ruolo o trasferirlo ai loro figli. L’aura sacrale che li circondava scomparve: non erano più i fedeli difensori del trono e della fede; non marciavano più verso la battaglia incuranti della morte; ora che avevano moglie, figli, rendite da far fruttare, erano diventati più prudenti e meno disciplinati. Si guadagnarono addirittura la fama di codardi, fino ad allora impensabile. In cambio, divennero sempre più potenti come corporazione, sia perché accresciuti di numero – a metà secolo erano circa 50.000, vale a dire i due terzi circa degli effettivi dell’esercito – e sempre più turbolenti ed esigenti in quanto sapevano che il trono sultaniale poteva trovarsi, in caso di rivolta, nelle loro mani. Intanto, sempre a causa delle riforme, il timar si era trasformato in un’istituzione ereditaria ma si andava allontanando dall’originaria funzione militare: i «timarioti» non servivano più necessariamente come cavalieri nell’esercito ed erano divenuti proprietari fondiari che angariavano sempre più i contadini spingendoli alla fuga dai campi o all’inurbamento, mentre gli spahi avevano smarrito gli originali connotati «feudali» e si stavano a loro volta trasformando in mercenari professionisti. «Fortunatamente per il potere, giannizzeri e spahi si detestano e càpita che si scontrino fra loro. Ma, quando si uniscono, il sultano è nelle loro mani»68. Comunque l’energico vegliardo albanese divenuto gran visir seppe mantenersi, anche usando le risorse della scaltrezza e della spietata repressione, in sapiente equilibrio tra queste forze che stavano mutando natura. Riuscì a risollevare le sorti del potere centrale eliminando dalla corte le sacche di congiura e di corruzione, richiamando all’ordine gli inquieti giannizzeri, avviando una rigorosa politica di risanamento fiscale e ristabilendo con Venezia un rapporto di forze più favorevole alla Porta. Nel corso di un tentativo veneziano di penetrare all’interno del dispositivo ottomano di difesa marittima tanto profondamente da bombardar la capitale «protetta da Dio»69, il comandante della flotta Lazzaro Mocenigo – abile ed eroico capitano generale poco più che trentenne, che aveva perduto un occhio in battaglia l’anno prima e aveva riportato in patria la salma del

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Marcello – venne ucciso in un furioso scontro all’imboccatura degli Stretti che durò quattro giorni, dal 16 al 19 del luglio 1657, su un mare sconvolto da un impetuoso vento fuori stagione70. La sua morte causò il pànico nei comandanti delle altre navi e la flotta veneziana si disperse. In seguito a quell’episodio, gli ottomani riuscirono a riassumere l’iniziativa riconquistando Ténedo alla fine d’agosto e Lemno a metà novembre. Nuovo «capitano da mar» fu nominato un personaggio destinato a una lunga, gloriosa carriera: Francesco, del ramo dei Morosini di San Cassiano. Non ancor quarantenne, egli aveva preso il mare la prima volta a meno di vent’anni, nel 1638, come «nobile di galea» volontario agli ordini di Pietro Badoer: da allora la sua vita era stata una sequenza di battaglie e di vittorie. Nel 1647 si era distinto durante il blocco al porto di Chio gestito da Giovanni Battista Grimani; provveditore generale di Candia dal ’55, in quella veste ne divenne l’eroe dell’estrema, lunga fase di difesa. Guidato dal ferreo polso del vecchio gran visir, il governo ottomano aveva ritrovato un suo saldo equilibrio. Fazil Ahmed Köprülü71, succeduto nel 1661 al padre, procurò di continuarne l’opera. I Köprülü erano ormai una solida dinastia in grado di trasmettersi la carica di primo ministro dell’impero. Fazil Ahmed avviò con energia un processo di ammodernamento della marina sultaniale, giovandosi per questo anche della competenza di alcuni rinnegati che gli consentirono di migliorare le artiglierie di bordo e la solidità dei vascelli. Lo scontro sul mare proseguì accanito, perché gli ottomani dovevano proteggersi dall’efficace guerra di corsa cristiana protagonisti della quale erano soprattutto i «frati della Religione», cioè dell’Ordine di Malta, e in particolare assicurarsi l’incolumità dei convogli di Alessandria; mentre i veneziani erano impegnati a tenere sgombre le rotte dei convogli d’approvvigionamento destinati a Candia assediata72. Nell’isola, frattanto, la fortezza della Canea era stata conquistata come sappiamo quasi subito dagli ottomani, nell’agosto del 1645, dopo due mesi di durissimo assedio; nel novembre dell’anno successivo era caduto anche Rethymnon. Ma il capoluogo, Candia, era stato ben fortificato un secolo prima a quel che pare su progetto del grande architetto veronese Michele Sanmicheli, per quanto in seguito parte del dispositivo di difesa fosse stato compromesso dalla carenza di manutenzione: esso sostenne comunque gli assalti turchi dall’inizio del maggio al 10 novembre del ’48 e quindi di nuovo dal 21 agosto al 6 ottobre del ’49. Nuovi e vani attacchi furono scatenati

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nel ’53, nel ’54 e nel ’55, ma sempre senza esito, nonostante gli assedianti avessero fino dal ’52 costruito e fortificato una vera e propria città-fortezza, «Candia Nova», a sud della piazzaforte che cercavano invano di conquistare; e nonostante il continuo scavo di gallerie sotto le mura da parte degli infaticabili minatori assedianti, che pure danneggiarono seriamente i bastoni. L’assedio venne interrotto spesso, durante quegli anni, da trattative nel corso delle quali i veneziani, durissimamente provati, non esclusero mai in linea di massima l’eventualità di arrendersi e di cedere la piazza: ma i negoziati non giunsero mai a una soluzione soddisfacente per le parti. A Venezia, dove ci si sentiva minacciati perfino nelle regioni adriatiche73, si erano ovviamente creati due partiti, favorevole l’uno a negoziare la resa col Turco e ostinato l’altro nella volontà di resistenza: si riproponeva, ancora una volta, lo scontro fra chi intendeva tener duro sul mare e chi invece scorgeva maggiori pericoli per la Terraferma, dove correvano allarmanti e insistenti voci che parlavano di una possibile invasione74. Ma nuove speranze si andavano aprendo: all’indomani del pontificato del pigro e sussiegoso Innocenzo X, papa Alessandro VII che gli era succeduto sembrava senza ambiguità incline a sostenere lo sforzo veneziano contro il Turco. Intanto la Cristianità tutta era rimasta fortemente impressionata dall’eclisse solare del 12 agosto 1654, che aveva dato luogo a opposte interpretazioni: vittoria finale dell’Anticristo turco seguita dal Giudizio Universale o, al contrario, trionfo delle forze della luce su quelle delle tenebre. Come al solito, oroscopi e profezie circolavano vorticosamente per l’Europa, diffusi da fogli volanti e gazzette75. Tra giugno del ’56 e marzo del ’58 la fazione incline a cercare un accordo col Turco aveva trovato un sostenitore illustre nello stesso doge Bertuccio Valier, fieramente osteggiato dal procuratore Giovanni Pesaro secondo il quale si sarebbero gettate ai piedi del nemico, «con la cessione di Candia, le difese del Mediterraneo e le chiavi d’Italia»». Ma papa Alessandro VII, quel Fabio Chigi che – nunzio apostolico all’atto dei trattati di Westfalia – non aveva nascosto che la pacificazione con i protestanti lo trovava suo malgrado consenziente solo nella misura in cui avrebbe favorito una rinnovata lotta della Cristianità unita contro il Turco, insisteva scrivendo a tutti i capi di governo cattolici affinché non facessero mancare il loro sostegno a Venezia. Le notizie relative alle vicende dell’isola volavano attraverso lo spazio mediterraneo. In Europa, l’eroica resistenza di Candia aveva suscitato un’ondata d’entusiasmo destinata a durare nel tempo:

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perfino lo scettico Voltaire, ancora un secolo dopo gli avvenimenti, non avrebbe esitato a paragonare la guerra di Candia allo scontro e all’assedio epici per eccellenza, quelli di Troia76. Sul momento l’eco di quel che stava accadendo nel Mediterraneo orientale fu uno dei fattori che consigliarono l’accelerarsi delle trattative di pace tra le potenze europee. Le paci del ’48 e del ’59 furono in qualche modo legittimate e accelerate dal risveglio dell’aggressività turca sul mare. Il Mazarino, che il trattato dei Pirenei del 1659 aveva finalmente liberato dalle preoccupazioni della guerra contro la Spagna, oltre ad impegnare, come abbiamo visto, per un’ingente somma il suo personale patrimonio al fine di consentire alla Serenissima di accelerare l’armamento navale e di assoldare mercenari, promosse una spedizione francese di soccorso guidata da un suo congiunto, Almerico d’Este, fratello di Alfonso IV duca di Modena il quale aveva sposato nel ’55 Ortensia Mancini, una delle nipoti del cardinale77. Era tuttavia importante, sotto il profilo diplomatico, che la Francia non scendesse in campo direttamente contro la Porta: i legami diplomatici e commerciali tra Istanbul e Parigi erano troppo stretti per venir messi in discussione, al di là dei sentimenti del cardinale primo ministro78. Per questo il comando della flotta che avrebbe dovuto servire da supporto alla spedizione venne affidato a frate Paul, marsigliese e quindi suddito del re di Francia ma cavaliere di Malta79. Agli ordini di un membro dell’Ordine militare di San Giovanni, i volontari francesi erano quindi formalmente al servizio della Santa Sede: il governo di Parigi, dinanzi a eventuali proteste della Porta, avrebbe potuto replicare di non saperne e comunque di non poterci far nulla. La spedizione, ansiosamente seguita dal cardinale ormai sul letto di morte80, non sortì comunque gli esiti sperati. I francesi, sbarcati presso Suda, si scontrarono con un forte reparto ottomano perdendo circa 700 uomini; si reimbarcarono e poterono raggiungere così Candia; tentarono un assalto a Candia Nova, ma ce ne rimisero altri 1300. Intanto, i rapporti fra comandanti francesi e comandanti veneziani si erano deteriorati al punto da consigliare il principe estense a riprendere il mare per svernare nell’arcipelago e quindi rientrare in patria: ma egli incontrò la morte a Paros, nella notte fra il 14 e il 15 novembre 166081. La presenza dei volontari francesi, per quanto nascosti tra le pieghe del vermiglio stendardo di Malta, aveva rischiato di compromettere i rapporti con il sultano, come dimostra una lettera del gran visir indirizzata a Luigi XIV82. In effetti le relazioni diplomatiche tra

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la Francia e la Porta furono di fatto sospese per riprendere solo nel 1664, dopo la tregua di Vasvár83, con l’invio a Istanbul di Denis de La Haye, cui spettava principalmente l’incarico di rinnovare le Capitolazioni. Ma il compito del diplomatico sarebbe stato reso anche allora arduo dal fatto che tra i difensori di Candia fossero ancora presenti alcuni francesi o comunque sudditi del re di Francia: come il marchese François de Ville (cioè il savoiardo Francesco Ghiron di Villa), luogotenente generale dell’armata francese, che a Candia comandò fino al giugno 1668 con il consenso di Luigi XIV la fanteria veneziana; o Alexandre du Puy de Montbrun marchese di Saint-André, che gli succedette in tale ufficio. Nel novembre del 1666 il gran visir Ahmed in persona sbarcò alla Canea, al comando di una formidabile flotta, per avviare un nuovo assedio contro l’eroica piazzaforte veneziana. L’equipaggiamento ottomano, stavolta, era particolarmente temibile in quanto molto moderno: l’avevano fornito, beninteso ad alto prezzo, gli inglesi e gli olandesi. I quali erano sì nemici e concorrenti tra loro ma, protestanti entrambi, potevano ben collaborare volentieri al buon esito di una guerra contro i «papisti»; e confidavano che, una volta cacciati i veneziani, la Porta sarebbe stata larga di concessioni commerciali nell’isola a favore loro. Il gran visir impiegò l’autunno, l’inverno e l’inizio della primavera ammassando forze e rifornimenti, piazzando cannoni e addirittura facendone fondere direttamente di nuovi in una località qualche miglio ad est di Candia nella quale lavoravano giorno e notte, come testimonia Evliya Çelebi, circa 3000 operai specializzati. Le trincee e le mine ch’egli fece scavare gli valsero l’epiteto di Fazil, «lo Scavatore». L’assedio cominciò alla fine del maggio 1667. Nel settembre successivo gli attacchi assunsero una nuova, più decisa forma in seguito alla diserzione di un colonnello veneziano, Andrea Barozzi, il quale consigliò ai suoi nuovi amici di puntare sui bastioni più prossimi al mare in modo che le artiglierie ottomane fossero in grado di colpire anche le navi che assicuravano il vettovagliamento della piazzaforte assediata84; intanto, s’indebolivano le cortine murarie scavando le gallerie delle mine. Solo tra il maggio e il novembre gli ottomani assalirono per ben trentadue volte i bastioni candioti, venendo sempre respinti. Le cifre dell’assedio sono, al solito, incerte: si parla di oltre 20.000 perdite ottomane a fronte di circa 3600 dei difensori, tra cui molti ufficiali; comunque, la guarnigione di Candia non doveva superare la decina di migliaia di uomini, per quanto il loro numero variasse molto nel corso dell’assedio (da oltre 12.000 a meno di 4000, che il Morosini stimava il limite minimo indispensabile). Gli assediati attuarono circa

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diciassette sortite in terraferma e alcune anche in mare: celebre quella della notte del 7 marzo 1668 in cui il Morosini, uscito per scompigliare la flotta nemica mentre essa attendeva alla fonda i rinforzi del rais Chalil Pas¸a e del corsaro Durac, con una sola galea ne catturò 5 nemiche liberando 1200 schiavi cristiani. Ma Candia era allo stremo: i viveri e le munizioni mancavano; i soldati dovevano sorvegliare di continuo le mura sbrecciate senza potersi permettere il cambio della guardia; gli abitanti vivevano tra le macerie; gli ospedali rigurgitavano di ammalati e i cimiteri di cadaveri insepolti; la peste infuriava. Va situato a questo punto l’arrivo di un nuovo corpo di spedizione francese, guidato da François III d’Aubusson duca de La Feuillade – che si era già distinto quattro anni prima nei Balcani, all’atto della battaglia di Szent-Gotthard85 – e dal conte di Saint-Paul, figlio nientemeno che di François de la Rochefoucauld, i quali con l’aiuto di papa Clemente IX erano riusciti a mettere insieme circa 600 gentiluomini volontari francesi mossi da molte, eterogenee ragioni nelle quali «si mischiavano i valori nobiliari, la ricerca della gloria, la sete d’avventura, i comportamenti riflessi dei cortigiani e lo zelo religioso»86. Non era una spedizione di gente facile a gestirsi: anzi, si trattava di avventurieri abbastanza turbolenti, il dettagliato racconto delle gesta dei quali parrebbe più vicino a un romanzo di Dumas o a certe scene del Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand che non alla cronaca di un evento militare, sia pure francese e d’età barocca. Il re aveva accordato controvoglia il suo benestare alla partenza di quei coraggiosi spacconi, prevedendo che gli avrebbero procurato delle noie con la Porta paragonabili a quelle di pochi anni prima, che aveva avuto molta difficoltà a risolvere. Essi, dal canto loro, verso la fine dell’agosto del ’68 si erano riuniti alla spicciolata a Lione, dove avevano provocato un grosso incidente attaccando alcuni cittadini, forse a loro volta non proprio degli stinchi di santo: i disordini che ne erano nati avevano coinvolto anche la guarnigione militare ivi di stanza. Passati a Tolone, tre di loro erano stati uccisi nel corso di uno scontro con la gente del porto, una grossa e sanguinosa rissa. Alla fine, il 20 settembre, si erano imbarcati con sollievo di chi li aveva ospitati, o meglio subìti; e nella notte del 3 novembre avevano raggiunto Candia. Il La Feuillade pretese immediatamente e con alterigia che a lui e ai suoi fossero assegnati i posti più pericolosi, il che voleva dire quelli d’onore: veneziani e cavalieri di Malta rifiutarono, e fu solo grazie alla saggia moderazione dei comandanti se ai nuovi venuti fu comunque assegnata una sezione piuttosto delicata del dispositivo di difesa. Nelle settimane successive,

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il corpo di spedizione francese fu decimato nel corso di valorose ma anche avventate sortite animate dal cappuccino padre Paul, cappellano del duca, che incitava i combattenti stando alla loro testa, le mani nude armate solo di un crocifisso. Il loro entusiasmo, durante un exploit del quale furono protagonisti il 16 dicembre, li trascinò troppo addentro nelle linee degli assedianti: ben 120 di loro trovarono la morte, mentre gli altri si salvarono solo con una fuga precipitosa. Quella dura lezione fece sbollire gli ardenti spiriti dei superstiti, che persero di colpo la voglia di combattere o che, fatto il beau geste, si ritennero sazi di gloria: e furono sostituiti dai cavalieri di Malta. I 230 superstiti s’imbarcarono il 4 gennaio del 1669 per la Francia, dove però non presero terra se non in marzo, dopo un fortunoso viaggio in mezzo alle tempeste invernali87. Quasi i due terzi di loro erano caduti in combattimento; ma, tutto sommato, il contingente aveva offerto alla difesa di Candia un contributo piuttosto maldestro, nonostante le indiscutibili doti di coraggio di molti dei suoi componenti. Nemmeno la decisione di affrontar il mare nella stagione peggiore era stata granché saggia: ma bruciavano dalla voglia di tornare a casa. Tuttavia la fama della spedizione del La Feuillade attraversò intatta i secoli, divenendo un mito – heureux, toi français, toi chrétien!... – anche grazie all’elogio che ne fece il Voltaire nel Siècle de Louis XIV: «La Feuillade, simple gentilhomme français, fit une action qui n’avait d’exemple que dans les anciens temps de la chevalerie»88. Papa Clemente IX non era però soddisfatto dell’impegno del giovane re di Francia: e insisteva per ottenere di più. Fu soltanto dopo lunghe e laboriose trattative che nel gennaio 1669 questi si decise a inviare a Candia un soccorso più consistente: ma era fuori discussione che esso potesse combattere direttamente sotto bandiera francese, per non compromettere almeno formalmente i rapporti col sultano. Il nuovo corpo di spedizione fu posto pertanto sotto l’alto comando – quanto meno teorico – di Vincenzo Rospigliosi, nipote del papa, generalissimo della Chiesa e balì dell’Ordine di Malta. Il comandante effettivo della spedizione, viceammiraglio François de Bourbon-Vendôme duca di Beaufort, aveva ricevuto dal re l’ordine esplicito di porsi all’ombra dello stendardo pontificio in quanto «Sua Maestà non desidera affatto dichiarar apertamente guerra al Gran Signore»89. Il corpo di spedizione era composto di 6000 effettivi al comando di Philippe de Montault-Bénac duca di Navailles; per trasportarlo oltremare, era stata raccolta a Tolone una quarantina di vascelli insieme con le navi di Louis-Victor de Rochechouart, duca di Vivonne e capitano generale delle galee del regno di Francia.

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Lasciata la rada di Tolone il 5 giugno, la flotta giunse al largo di Candia il 19 successivo e gettò l’ancora nel vicino porto di Standia, mentre la squadra del Vivonne arrivò solo più tardi90. Poco prima, nel maggio, erano arrivati altri 3000 combattenti forniti dal duca di Brunswick-Lüneburg e guidati da Josias von Waldeck. Fu solo dopo un’animata discussione con i membri dell’alto comando veneziano che i francesi, al solito decisi a battersi immediatamente, ottennero di tentare nella notte tra 24 e 25 giugno una sortita che colse gli assedianti di sorpresa. L’azione, ben concepita, fu abilmente coordinata dal Beaufort e dal Navailles; ma un incidente – a quel che sembra l’esplosione d’una riserva di polvere da sparo: anche se le fonti turche parlano di un colpo ben assestato da parte di un artigliere assediante – scompaginò il dispositivo d’assalto; seguì una fuga disordinata, che causò forti perdite. Un testimone ottomano fornisce al riguardo dati per la verità incredibili: tuttavia le relazioni inviate alla corte di Francia parlano di 245 ufficiali e 500 soldati uccisi, tra cui lo stesso duca di Beaufort e il conte di Rozan, nipote del maresciallo di Turenne. Il rapporto tra ufficiali e soldati caduti parla chiaro: un’altra pagina scritta col sangue dalla cavalleresca nobiltà di Francia. Le fonti ottomane ci hanno lasciato memoria dello stupore e dell’ironia prima, della paura poi, che s’impadronì delle fila dei soldati del sultano di fronte a quegli strani guerrieri pettinati, agghindati e profumati come damigelle, con i loro sbuffi di merletti che spuntavano da corazze e giubboni, che però combattevano con un coraggio e una furia da leoni: il loro «France et Saint-Dénis!», gridato alto e accompagnato da un meno mistico «Tue! Tue!», non era certo meno spaventevole per i nemici di quanto non fosse, per i cristiani, lo «Allah akbar!» dei musulmani. Nonostante le gesta di valore, le condizioni dei difensori erano ormai disperate. Secondo una lettera inviata il 15 luglio dal Navailles al Vivonne, che era sopraggiunto nel frattempo, i veneziani mancavano di tutto91. Intanto era arrivato anche il balì Rospigliosi: e un consiglio di guerra finalmente riunito al completo decise di tentare un bombardamento dal mare, grazie ai vascelli più grandi che potevano essere rimorchiati dalle galee in quanto non avrebbero altrimenti potuto manovrare: il fuoco fu aperto il giorno 24. L’obiettivo scelto fu il campo del gran visir, collocato attorno al bastione di Sant’Andrea sull’angolo di nord-ovest della città. Ma l’accampamento ottomano era molto ben difeso, con solide trincee

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e batterie costiere accuratamente protette: le perdite causate dall’attacco furono lievi, mentre la risposta al fuoco dal litorale risultò efficace. La perdita della Thérèse, un vascello di linea da 58 cannoni, saltato in aria con tutto l’equipaggio a causa dell’esplosione della santabarbara, obbligò la flotta a riguadagnare la rada di Standia. Esplodendo, la grossa nave aveva danneggiato la stessa «capitana»: e il Vivonne era rimasto ferito. L’8 agosto morì, in seguito alle ferite riportate, anche il Waldeck. L’insuccesso nell’attacco al campo del gran visir rese insostenibili i rapporti tra i comandanti francesi e veneziani, i quali si accusavano reciprocamente d’incapacità se non addirittura di fellonìa. Difficile valutare in questo contesto l’episodio che ebbe come protagonista il dragomanno92 Nikoússios, un greco ortodosso – «fanariota» – di Istanbul, che secondo lo storico settecentesco Ypsilantis avrebbe ingannato il Morosini rivelandogli un supposto tradimento dei francesi93. Certo è che dissapori e divergenze esistevano. Il 20 agosto il Navailles e il Vivonne decisero di abbandonare l’isola: il reimbarco si avviò dopo due giorni, ma soltanto nella notte fra 31 agosto e 1° settembre le navi del convoglio poterono prendere il mare per approdare a Tolone quaranta giorni dopo. Dei 6000 uomini partiti più o meno cinque mesi prima, solo la metà tornava a rivedere le coste della dolce terra di Francia. Intanto, già dal 30 agosto Francesco Morosini aveva convocato un consiglio di guerra che si era definitivamente pronunziato per la resa. Secondo un ufficiale francese che ci ha lasciato le sue memorie, il Domenisse94, la piazzaforte di Candia era comunque condannata già da prima dell’arrivo del corpo di spedizione del duca di Beaufort: senza quel soccorso, essa avrebbe dovuto arrendersi o sarebbe stata conquistata almeno due mesi e mezzo prima. Il Domenisse, con ciò accusando i veneziani quanto meno d’ingratitudine, sosteneva che era stato solo grazie ai francesi se i difensori avevano poi potuto trattare una dignitosa capitolazione. Per contro, le fonti veneziane insistono sull’impreparazione e l’improvvisazione dei francesi. Forse entrambe le parti esagerano: certo è che la mancanza di viveri, l’insufficienza delle munizioni per le bocche da fuoco, l’emorragia delle perdite quotidiane (da 60 a 90 uomini al giorno, stimava il Vivonne scrivendone al ministro Colbert), le malattie e la stanchezza avevano reso insostenibile la situazione già fin dall’inizio dell’estate. Luigi XIV, quando il Navailles e il Vivonne scelsero il ritorno in patria, aveva dal canto suo – date le costanti pressioni del papa – di-

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sposto l’invio a Candia di un nuovo contingente militare, guidato dal maresciallo di Bellefonds. Ma, avvertito dal Vivonne dell’insostenibilità della situazione, ne trasse le necessarie conseguenze, cioè che non fosse il caso d’insistere. Il che nella sostanza non gli dispiaceva affatto, almeno a quel che sembra di capire da una lettera da lui inviata da Saint-Germain-en-Laye il 20 agosto al capitano delle galee reali il quale aveva avvertito che la partenza avrebbe dovuto essere affrettata, in quanto le condizioni meteorologiche stagionali sconsigliavano di mettersi in mare oltre i primi di settembre. Insomma, in pratica era già tardi. Non restava che rinunziare alla spedizione. Comunque, sul piano ufficiale, Luigi non poteva addossarsi la responsabilità dello smacco: qualcuno doveva prendersela al posto suo. Difatti, il duca di Vivonne fu al suo ritorno spedito dritto al confino, peraltro abbastanza comodo, nelle sue terre avite. La «punizione» inflitta al suo ammiraglio serviva al re di Francia per sostenere che la ritirata era avvenuta senza il suo consenso, il che del resto era formalmente vero: ma il papa ne rimase fortemente scontento e i rapporti diplomatici con la Serenissima ne furono in qualche modo compromessi. La tradizione eroica ed encomiastica fondata in Francia a proposito della difesa di Candia rispose fin dalle sue prime battute, in termini propagandistici, all’onta di quella che gli avversari del regno fecero mostra di considerare una ritirata e un abbandono di campo. In realtà, il fatto che Candia capitolasse solo meno di una settimana dopo la partenza del contingente francese creò una sorta d’illusione ottica sfruttando la quale la repubblica di Venezia poté, a livello propagandistico se non sul piano diplomatico, addossare al re di Francia la responsabilità della resa. Ma le cose non stavano così: già all’arrivo delle navi del Beaufort era apparso chiaro a tutti che un’ulteriore difesa era insostenibile. Tutto quel che si poteva semmai rilevare era che i rinforzi erano arrivati tardi e che erano insufficienti: ma di ciò la Cristianità non poteva far esclusivo carico al re di Francia. Inoltre, trattative segrete per la resa erano in realtà già state avviate fin dall’estate del ’68 tra il governo veneziano e la corte sultaniale, per quanto la Serenissima sperasse, sulle prime, di riuscir a spuntare qualcosa di più di quel che poi non ottenne, un anno più tardi, in circostanze per essa sfavorevolmente mutate: ma sulla riva della laguna non si era per nulla d’accordo né sul far la pace, né sulle eventuali condizioni di essa95. Se le trattative non si fossero trascinate così per le lunghe, anche perché molti fautori della resistenza a oltranza per

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strappare agli ottomani condizioni migliori si fondavano in effetti sulle promesse d’aiuto del papa – e naturalmente contavano quindi essenzialmente sul re di Francia: nulla di concreto c’era da aspettarsi né dall’imperatore, dopo la tregua da questi conclusa con la Porta nel ’6496, né dalla Spagna o dagli stati italiani –, si sarebbero potuto ottenere condizioni migliori. Ma nella tarda estate del ’69, con la cattiva stagione incombente e quindi l’impossibilità di pensare a nuove flotte in arrivo nei sei mesi successivi, e per giunta sotto l’impressione della precipitosa partenza dei francesi, il Turco era in grado più d’imporre un ultimatum che di proporre delle trattative. In fretta e furia, tra 5 e 6 settembre, la città di Candia venne abbandonata senza condizioni al gran visir, che lasciava a difensori ed abitanti dodici giorni per sgombrare e quaranta per evacuare il porto di Standia; la guarnigione poteva uscire dalla piazzaforte a bandiere spiegate e recando con sé le armi portatili, gli oggetti preziosi e i sacri arredi, senza offrir donativi e senza pagare indennità di guerra – contrariamente alle consuetudini che gli ottomani imponevano in quei casi –, ma lasciando al nemico quasi tutta l’artiglieria, che peraltro non era né buona, né in buono stato. Ai veneziani rimanevano sull’isola le tre piazzeforti di Suda con la sua importante rada, Grabusa e Spinalonga, nonché tutte le località dalmate e albanesi che avevano conquistato dall’inizio della guerra; invece, per poter conservare l’isola di Zante la repubblica dovette accettare l’esborso di 1500 ducati all’anno. Un ambasciatore della Serenissima sarebbe stato inviato al più presto a Istanbul per ratificare gli accordi e per procedere allo scambio dei prigionieri e alla liberazione degli schiavi fatti da entrambe le parti durante il conflitto97. Una ventina di giorni più tardi, il 27, gli ultimi difensori abbandonarono Candia. L’assedio era durato ventitré anni. La vittoria ottomana era al solito costata un alto tributo di vite umane, il che era comunque considerato cosa normale dagli alti comandi sultaniali: essi avevano subito difatti più di 120.000 perdite, a fronte dei circa 30.000 caduti dei veneziani e dei loro alleati. Ma per la difesa dell’isola avevano dato la vita circa 280 patrizi veneti, cioè più o meno un quarto del gran consiglio. Il bilancio non era comunque, almeno in apparenza, troppo fallimentare per San Marco. Le piazzeforti candiote conservate gli permettevano di mantenere un ruolo d’una qualche importanza nel sistema di scali e d’approvvigionamento lungo le rotte per il Levante; inoltre, addossando al re di Francia la colpa dell’estremo abbandono dell’isola, la Serenissima salvava in qualche modo la reputazione. La

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diplomazia francese reagì imbronciata e sdegnosa: ma nemmeno al Re Sole dispiaceva poi troppo che in Europa circolasse la notizia che l’abbandono di Candia si doveva in qualche misura al suo atteggiamento. Ciò era appunto quel che si suggeriva alla Porta, facendo capire che se ne attendeva la gratitudine. Quanto al sultano, dopo la tregua siglata cinque anni prima a buone condizioni in Ungheria98 e con il possesso di Candia assicurato, egli si guardava bene dall’insistere su pretese che avrebbero potuto offendere o umiliare uno qualunque dei suoi interlocutori cristiani; e faceva di tutto per evitare l’insorgere di nuovi appelli alla crociata. Gli ottomani avevano comunque ottenuto lo smantellamento si può dire totale dello «stato da mar» che la repubblica di San Marco aveva tenacemente edificato a partire dalla fine dell’XI secolo. Naturalmente, si scatenò la caccia al capro espiatorio: accusato di debolezza nella conduzione del conflitto e di abuso di potere per aver deciso di arrendersi senza un benestare del governo, Francesco Morosini fu processato e qualcuno insinuò addirittura che fosse stato comprato dall’oro nemico. Tra i suoi accusatori più implacabili si distinse Antonio Correr, mentre i senatori Giovanni Sagredo e Michele Foscarini lo difesero accanitamente. Uscì comunque a testa alta da quell’umiliante prova: gli fu riconosciuto di aver agito in stato di durissima eccezione, di aver saputo difendere la piazza affidatagli e di aver condotto con saggezza i negoziati di resa. Da parte sua, la Serenissima aveva incassato una dura ma, sia pur in ritardo, salutare lezione. Nonostante la guerra di Candia avesse prosciugato le sue casse, essa provvide con tempestività a restaurare le fortezze, a serrare la disciplina militare e a vigilare con cura sui possessi oltremarini che ancora le restavano e dai quali era ormai chiaro che il Turco aveva l’intenzione di farla prima o poi sloggiare. Una costernazione profonda, accompagnata da cattivi auspici, accolse in Europa la notizia che l’isola era caduta nelle mani dell’infedele. Nel 1456, quando i crociati guidati da János Hunyadi e animati da Giovanni da Capestrano avevano respinto gli ottomani da Belgrado, l’evento era stato arcanamente salutato dalla cometa di Halley: ora invece, nel 1669, un’altra cometa splendeva sinistra nel cielo a ricordare che, nonostante ormai si fosse radicata la credenza che la stella dei magi annunziante il Salvatore di cui parla il vangelo di Matteo99 fosse in realtà un astro caudato, esso era pur sempre ritenuto dall’astrologia tradizionale un segno di mutamenti sì, ma infausti100.

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La lunga guerra di Candia rimase a lungo nella memoria e nell’immaginario euro-occidentale, aureolata di gloria epica; e contribuì decisamente alla genesi della figura del guerriero turco come «Altro» rispetto al cristiano: restarono impressi nelle parole dei testimoni quei combattenti temibili, che facevano ancora un uso esteso dell’arco nonostante fossero dotati anche di armi da fuoco e che maneggiavano le loro caratteristiche armi da taglio, yatag˘an e šimšir101, accompagnando la furia dei loro assalti con grida belluine. La «barbarie» e la «crudeltà» leggendaria di quegli infedeli si univano tuttavia anche ai ricordi ora baldanzosamente cruenti ora inorriditi degli atti di ferocia perpetrati, oltre a quelli testimoniati e a quelli subìti. E spesso la millanteria si mischiava all’incredulità, come quando si narrava di cinture confezionate in pelle di turco ostentate da qualche combattente europeo. Ciò non toglie che, di quando in quando, la violenza e la rabbia dello scontro cedessero il passo a scene e a momenti di cortesia cavalleresca, che forse qualche nobile francese o veneziano si sarà ricordato di aver incontrato anche nei versi dei poemi eroici e dei romanzi cavallereschi: congratulazioni reciproche per i rispettivi exploits, scambio di doni in uva secca, frutta, vino tra gli opposti schieramenti. E che i musulmani offrissero e soprattutto accettassero doni sotto forma di vino è tutt’altro che strano: evidentemente, doveva trattarsi di giannizzeri affiliati alla confraternita detta dei bektashi dal nome del loro fondatore, Haji Bektash Veli, che nonostante il divieto coranico102 potevano consumare bevande alcoliche. Quel che invece non tutti gli storici hanno abbastanza chiaramente sottolineato è che uno dei fattori della debolezza della Candia veneziana stava nel rapporto stabilitosi tra i dominanti «latini», vale a dire i veneziani cattolici, e la popolazione greca e ortodossa: una rigida distinzione e una pesante soggezione dei secondi ai primi avevano prodotto certo assuefazione, ma anche accumulato un sordo e massiccio rancore; esattamente come del resto era accaduto a Cipro, dove la cosa non era stata di secondaria importanza nella conquista turca dell’isola. Abbiamo già detto come, a Creta non meno che a Cipro e in tutte le terre popolate dai greci ma suddite dei latini – e lo stesso si potrebbe dire delle genti danubiano-balcaniche non cattoliche e non tedesche soggette all’impero –, si guardasse con paura al Turco perché se ne conoscevano la durezza e la ferocia, ma anche con una qualche speranza in quanto si sapeva che il suo regime egalitario forniva a tutti i sudditi opportunità che la rigorosa gerarchizzazione sociale degli europei occidentali non consentiva;

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inoltre, per i cristiani ortodossi greci o valacchi non meno che per i calvinisti o i luterani ungheresi, l’essere considerati dhimmi in quanto membri di un proprio millet dai musulmani era preferibile che non sottostare alla fèrula cattolica. Quando si considerano i successi militari musulmani sui cristiani fra VII e XVII secolo, questo aspetto del problema viene quasi regolarmente taciuto o sottovalutato dai commentatori occidentali103. Da parte ottomana, la propaganda sparse ai quattro venti la notizia della prestigiosa vittoria ottenuta sotto la guida del giovane sultano Mehmed: che per la verità avrebbe avuto il desiderio di far almeno atto di presenza nell’isola conquistata di fresco, ma poi non ne fece nulla e preferì restare nella sua prediletta dimora di caccia di Edirne. A Istanbul tornò, accolto da trionfatore, il gran visir.

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Le due Ungherie e la Transilvania Le esigenze della narrazione ci obbligano a questo punto a fare, come si diceva nei romanzi dell’Ottocento, un passo indietro: e a tornare nella regione balcano-danubiana. Gli Asburgo non si erano mai rassegnati alla perdita, a metà circa del Cinquecento, di gran parte dell’Ungheria1; ma, mentre l’ampia porzione di quel territorio passata direttamente sotto il governo ottomano appariva realisticamente irrecuperabile, un certo stato d’ambiguità permaneva invece riguardo alla Transilvania, formalmente indipendente, di fatto soggetta alla Porta ma sulla quale la corte di Vienna continuava a far sentire comunque la sua influenza. Tra 1630 e 1648 aveva cinto la corona principesca di Transilvania un nobile luterano, György I Rákóczi, che – sostenuto dai turchi dei quali si era confermato vassallo – aveva proseguito la lotta del suo predecessore Gábor Bethlen contro l’imperatore Ferdinando II2 e, alla morte di questi nel 1637, contro il di lui figlio e successore Ferdinando III. György era intervenuto nella guerra dei Trent’Anni a fianco degli svedesi – che, invasa la contigua Moravia nel 1642, avevano stretto nell’anno successivo un accordo con lui – ed era a capo di una discreta forza militare. Superbo, vanitoso, violento e politicamente dotato di forte spirito d’indipendenza, era in pratica scomodo per tutti. L’imperatore aveva inviato nel ’44 una splendida ambasciata al sultano per convincerlo a non impegnarsi oltre nella difesa di quel personaggio che stava procurando guai ad entrambi3. La mossa diplomatica non riuscì: anzi, forze militari ottomane di una certa consistenza fecero la loro comparsa sia presso Györ, nell’Ungheria regia, sia sulle frontiere della Moravia: e gli imperiali dovettero impegnarsi a respingerle. Intanto il Rákóczi inviava una sua autorevole ambasciata anche a Parigi: ne era protagonista il suo stesso figlio, appoggiato dal generale svedese Torstensson, ed

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era chiaro che l’esito di essa avrebbe rafforzato il fronte antiasburgico della guerra dei Trent’Anni4. Ma non sembra che il principe di Transilvania fosse troppo soddisfatto dell’exploit diplomatico del figlio, che rischiava di coinvolgerlo un po’ troppo nell’alleanza franco-svedese: la situazione transilvana aveva logorato tutti coloro che vi erano interessati e l’appressarsi della fine dell’immenso conflitto europeo, che pareva ormai prossima, consigliava un accordo. Il Rákóczi stipulò pertanto con l’imperatore una pace separata a Linz, nel 1645, ottenendo libertà di culto per i protestanti dell’Ungheria regia e la cessione di sei contee nell’area di confine ungarotransilvana. La diplomazia sultaniale, opportunamente sollecitata da quella imperiale, spingeva dal canto suo con insistenza il Rákóczi a trovare un accordo con Vienna. Gli ottomani stavano preparando la spedizione di Candia e avevano urgente bisogno di stringere patti di fiducia con l’impero in modo da isolare il più possibile la repubblica di San Marco. Tuttavia, la politica un po’ troppo intraprendente del principe di Transilvania non poteva piacere al sultano. La Porta dichiarò nel 1648 decaduto il suo semi-vassallo Rákóczi5, facendo eleggere al suo posto dai magnati del paese un personaggio ad essa più gradito. Ma intanto le vicende che avevano portato alla deposizione e all’efferata uccisione del sultano Ibrahim impedivano alla compagine ottomana l’assunzione di misure efficaci sia nel quadrante balcanico, sia in quelli adriatico, egeo e persino del Mar Nero, dove le cose non stavano andando affatto bene. Il rifiuto del figlio e successore del Rákóczi, György II, di tirarsi da parte, aveva invece provocato la discesa in campo dell’abile ed energico pas¸a di Buda: a questo punto gli ungheresi sudditi dell’Asburgo si erano rivolti alla corte imperiale, da cui si attendevano un appoggio nelle cose transilvane; e gli stessi partigiani del Rákóczi, giocando sino in fondo la carta dell’ambiguità tra Vienna e Istanbul che era una delle caratteristiche del principato, si erano appellati al protettore asburgico. Ma la situazione viennese, intanto, si era fatta difficile. L’imperatore Ferdinando III, che regnò dal 1637 al 1657, aveva avuto dalla prima consorte Maria6 due figli maschi, Ferdinando e Leopoldo, e due femmine, Maria Anna andata sposa a Filippo IV di Spagna e Maria subito morta7. Secondo gli usi del tempo, egli si preoccupò principalmente del primogenito, Ferdinando, facendolo eleggere e incoronare nel 1646 re sia di Boemia, sia d’Ungheria, e nel 1653 re dei Romani, candidato quindi a succedergli al trono imperiale. Ma

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questi, già Ferdinando IV in quanto rex Romanorum, era premorto al padre il 9 luglio del ’54 per un attacco di vaiolo. L’imperatore, che pur essendo relativamente giovane era malfermo in salute in quanto da anni sofferente di gotta e invecchiato anzitempo per le fatiche sopportate durante la guerra dei Trent’Anni, fu pertanto costretto a riporre tutte le speranze della dinastia sul secondogenito Leopoldo, nato nel 1640, consacrato fin dalla nascita alla Madonna e originariamente destinato alla carriera ecclesiastica. Egli venne eletto e incoronato re d’Ungheria nel luglio del ’55, re di Boemia nel settembre successivo: ma Ferdinando III non riuscì ad assicurarsi la piena successione, in quanto per conseguire tale scopo Leopoldo, al pari di suo fratello, avrebbe dovuto essere incoronato re dei Romani mentre il padre era ancora in vita. Questi morì invece, appena quarantanovenne, il 2 luglio del ’57. Immediatamente il cardinal Mazarino – secondo una linea che la corona francese perseguiva fino dal secolo precedente ogni volta che ne scorgesse l’opportunità8 – mise in atto un tentativo di strappare il trono imperiale alla casa d’Asburgo, facendo in modo che nel collegio elettorale s’imponesse la candidatura del giovane re Luigi di Francia, benvisto dagli elettori renani9, da quello bavarese e in alcuni ambienti della Santa Sede. La situazione dell’Europa centro-orientale era intanto sempre più critica: alla guerra tra Russia e Polonia, che infuriava dal ’54 in quanto il granprincipato moscovita10 si era eretto a protettore dei cosacchi ribellatisi contro i polacchi, si era aggiunta quella – cosiddetta del Nord – tra la Polonia e la Svezia di re Carlo X Gustavo11. Le truppe svedesi erano avanzate dalla Pomerania fino a Cracovia, che era capitolata nell’ottobre del 1655 obbligando l’imperatore a intervenire nella campagna a difesa dei suoi stessi confini. La scomparsa di Ferdinando III non avrebbe quindi potuto essere più intempestiva. Dopo un’elezione che era stata – contrariamente a quel che di solito accadeva – piuttosto combattuta e tempestosa a causa degli intrighi del primo ministro di Francia, Leopoldo era ­divenuto il nuovo «re dei Romani», in quanto tale abilitato a cingere la corona imperiale. Da quasi un secolo e mezzo non si era più presentata l’eventualità che essa potesse venir attribuita se non a un Asburgo: ma ciò si era verificato perché i capi della dinastia avevano sempre curato di tenere in ordine il meccanismo di successione facendo eleggere durante la loro vita il nuovo rex Romanorum. Il fatto che l’imperatore defunto non avesse avuto il tempo di regolare la questione espose il diciottenne Leopoldo I al rischio di non farcela.

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L’elezione del nuovo re dei Romani, il 18 luglio del ’58, e la sua incoronazione imperiale il 1° agosto successivo, si tennero pertanto in un contesto quasi febbrile. La Svezia aveva trovato contro i polacchi un alleato nel discusso principe di Transilvania György II Rákóczi e s’intravedeva il pericolo che questi potesse, a quel punto, collegarsi in qualche modo anche al Turco, che pur aveva in passato dato segni di non gradirlo. In cambio però la Moscovia aveva cambiato rotta, trovando che l’egemonia militare svedese stava divenendo il fattore destabilizzante del Nord Europa; e due ottimi diplomatici austriaci, Johann von Goess e Franz von Lisola, avevano ottenuto l’alleanza in funzione antisvedese sia della Danimarca, sia del Brandeburgo. Il nuovo nunzio apostolico a Vienna, arrivato nell’agosto del 1658, era Carlo Carafa, che già molto abilmente aveva lavorato a Venezia. Egli aveva ricevuto dalla Santa Sede, a ciò indotta dalle insistenze del Mazarino, precise istruzioni di sostenere le richieste degli ambasciatori transilvani i quali stavano perorando presso il nuovo imperatore la causa del Rákóczi, nonostante si trattasse di un principe luterano e sospettato per giunta di tramare con gli svedesi; inoltre, la missione del diplomatico pontificio era complicata da una quantità di complesse e noiose questioni, come il destino del principato vescovile di Trento cui ambiva l’arciduca Sigismondo d’Austria, le immunità ecclesiastiche nel ducato di Baviera e alcune concessioni venali di cappelli cardinalizi, che il nunzio ostacolava. Comunque, la coalizione russo-polacco-imperiale riuscì a respingere l’«Alessandro nordico», Carlo X Gustavo di Svezia; poi, quando egli inaspettatamente venne a morte nel febbraio 1660 lasciando come successore il figlio Carlo XI di appena sei anni12, la Svezia dovette piegarsi alla pace di Oliva. Era un primo successo del giovane imperatore Leopoldo, che sulle prime non aveva suscitato né entusiasmi né speranze, ma che era stato tuttavia fedelmente spalleggiato e ben consigliato dai collaboratori del padre. Nonostante avesse dovuto sopportare, da bambino, una salute malferma, il nuovo sovrano era un diciottenne robusto. Ma il suo aspetto era poco gradevole: carnoso e pendente il labbro inferiore, denti precocemente rovinati da uno scorbuto che l’aveva quasi ammazzato, voce rauca, parola lenta e impicciata (con una bocca tanto malmessa, non c’era bisogno di esser balbuzienti...), forte miopia e quindi passo incerto ed esitante, bassa statura. I molti ritratti, anche quelli «eroicizzati», confermano le descrizioni: sia quella estetica-

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mente malevola – ma ispirata, a quel che pare, a spietato realismo – del viaggiatore e memorialista turco Evliyâ Çelebi13, sia quella formalmente più prudente e cortese del «residente» francese a Vienna, l’ambasciatore Sébeville. L’imperatore era guidato con fermezza da un istitutore, direttore spirituale e confessore, il padre gesuita Christoph Müller, deciso fautore della necessità di riguadagnare al cattolicesimo l’Ungheria dove luteranesimo e calvinismo erano molto diffusi e soprattutto ben radicati nell’aristocrazia; molta influenza aveva esercitato su di lui un altro gesuita, Johann Eberhard Neidhard, che però nel ’49 aveva dovuto trasferirsi in Spagna come confessore della sorella stessa di Leopoldo, Maria Anna, seconda moglie di Filippo IV14. Ascoltato consigliere del nuovo sovrano era inoltre il conte Giovanni Ferdinando Portia, casualmente veneziano per nascita, ma di nobile origine friulana e figlio di un amico d’infanzia e quindi fedele funzionario dell’imperatore Ferdinando III. Grazie a quell’amicizia il Portia era stato presto chiamato a corte per curare l’educazione del giovane Leopoldo, allora dodicenne. Uomo di fiducia di colui che era stato il suo pupillo, egli era portatore di un vivo sentimento anti-iberico e aveva influenzato il giovane erede al trono ispirandogli una vigile attenzione per le cose dell’impero e delle frontiere orientali, laddove il forte «partito spagnolo» presente a corte avrebbe voluto dirigere l’impegno degli Asburgo di Vienna sul «patto di famiglia» con quelli di Madrid e quindi sul pericolo rappresentato dalla Francia. Una tesi ormai divenuta «classica»15 continua ancor oggi a dipingere Leopoldo I come dotato di un carattere debole e incerto dovuto almeno in parte sia alla fragilità della sua salute quand’era bambino, sia all’educazione giovanile ricevuta che lo destinava, in quanto figlio cadetto, allo stato ecclesiastico. In realtà, molti segni mostrano invece in lui un’indole viva, animata forse da una certa gelosia nei confronti del fratello maggiore candidato alla successione imperiale. Ma, per quanto Leopoldo potesse in qualche modo aver confusamente desiderato per sé un tale onore, lo disorientò e lo impaurì il fatto che nel breve giro di tre anni la perdita del fratello e del padre lo avesse messo davanti a un compito inatteso, rispetto al quale egli si sentiva forse inadeguato. Grazie all’educazione ricevuta da bambino e da ragazzo, quando si voleva far di lui un prelato, il nuovo sovrano era un uomo di buona e solida cultura. La frequentazione della Compagnia di Gesù gli aveva provveduto una sicura preparazione filosofica e matematica.

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Dotato di un’inclinazione naturale per le lettere, la musica e le arti che gli studi compiuti avevano affinato e che gli sarebbe sempre stata buona compagna, era in grado di esprimersi correttamente ed efficacemente, oltre che in tedesco, anche in latino (che usava con gli ungheresi), in italiano (che parlava e scriveva bene – merito del Portia? – e che usava per la sua corrispondenza diretta con Luigi XIV) e in spagnolo, l’idioma di sua madre che era comunque morta quand’egli aveva appena sei anni. Conosceva anche il francese, ma lo padroneggiava meno e non lo amava: al punto che – senza dubbio anche per ragioni politiche – finì con il proibirne l’uso a corte, con straordinario vantaggio, di conseguenza, per l’italiano. Dopo la sua incoronazione, aveva perfino espresso l’intenzione di studiare l’ebraico: pare che avesse ereditato da qualche suo avo, per esempio da Rodolfo, la «tentazione» per la cabala, per l’alchimia e per l’ermetismo. Non sembra che desse poi seguito all’interesse per l’ebraismo: comunque, la sua effettiva passione per la cultura e le cose dello spirito lo condusse a incrementare moltissimo la biblioteca di corte, a curare quella – leggendaria per i tesori in essa contenuti – del castello tirolese di Ambras e appena gli fu possibile a salvar perfino il salvabile di quel che restava di un’altra biblioteca celebre, la Corviniana, che era rimasta a Buda ma che era già stata dispersa prima dell’arrivo degli ottomani. Fu compositore di talento: sotto il suo regno l’opera italiana s’insediò gloriosamente a Vienna e tutti italiani furono i suoi Hofkapellmeister. Leopoldo scrisse un’opera, Il sacrificio di Abramo, e compose poemi in italiano, che da allora prese a venir utilizzato come lingua comune alla corte viennese16. L’inclinazione per la musica e il teatro italiani gli proveniva anche dai molti legami di parentela che gli Asburgo avevano contratto con principi della penisola quali i Medici e i Gonzaga, la dinastia dalla quale proveniva la terza moglie di suo padre e sua matrigna, l’imperatrice-madre Eleonora17. Amava la caccia e i giochi cavallereschi, come i caroselli, il che avrebbe potuto avvicinarlo al suo splendido cugino, il re di Francia. Ma, a differenza di lui, era estremamente sobrio – quanto poteva esserlo un sovrano barocco – nel modo di vivere e di abbigliarsi, negli usi della tavola e nei cerimoniali di corte. La sua pietas religiosa era molto profonda: oltre alla «casa professa» dei gesuiti, non mancava di visitare piuttosto spesso i principali istituti religiosi della capitale e di compiere severi esercizi spirituali. Temperamento flemmatico e riflessivo, era davvero «lento all’ira», come la retorica cancelleresca definiva sempre i sovrani (anche quelli che non lo erano affatto). Con-

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scio delle sue responsabilità di governo, era tuttavia generoso fin alla liberalità, per quanto non fosse affatto uno scialacquatore. Alla luce della sua carriera di sovrano, si può dire che avesse una buona intelligenza politica, non accompagnata forse da una sufficiente fiducia in se stesso: un difetto del resto a doppio taglio, che lo rendeva un po’ troppo influenzabile, ma che lo teneva in cambio al sicuro da decisioni orgogliosamente avventate e affrettate e lo induceva a ponderare bene la scelta dei consiglieri. Tale prudenza, che si manifestava spesso nelle apparenti forme dell’incertezza, contribuì a creare attorno a lui il mito – immeritato – della mancanza di carattere. In verità, più che a insicurezza caratteriale, molte delle sue esitazioni si dovevano proprio agli scrupoli morali e religiosi, che la pratica gesuitica dell’esame di coscienza faceva continuamente emergere in quell’età così irta di teorie antimachiavelliche: nel febbraio ’94, scrivendo a padre Marco d’Aviano una triste lettera in occasione del decesso del fido cancelliere Theodor Strattmann, avrebbe manifestato la sua paura dinanzi alla prospettiva di dover affrontare il giudizio di Dio e avrebbe compianto se stesso, gravato dalle cure di governo e dai pesi di coscienza che ciò comportava. Ed era una profonda umiltà cristiana, senz’ombra di vittimismo o di convenzione, che pensando ai suoi sudditi lo induceva a chiedersi: «che sarà di me poverino, che non solo per me, ma per tutti costoro, haverò a rendere conto?»18. Superato con fortuna il frangente svedese che aveva a lungo tenuto l’Europa centrale e orientale col fiato sospeso, il primo vero banco di prova per il ventenne sovrano fu la crisi transilvana, all’alba del settimo decennio del secolo. György II Rákóczi aveva giocato ambiguamente le sue carte sui tre tavoli ottomano, imperiale e svedese, spingendosi a un punto tale da esasperare la Porta, ormai convinta che in Transilvania fosse necessario cambiar cavallo. A metà giugno del 1660 un’armata alla guida della quale stavano il gran visir e il pas¸a di Buda, ma che comprendeva anche un reparto polacco nonché tartari e cosacchi, riusciva a sconfiggerlo. Egli morì ai primi del luglio successivo nella cittadella di Oradea espugnata dagli ottomani, che divenne a quel punto capoluogo di un quinto pas¸alik dell’Ungheria loro soggetta. Ciò non poteva essere accettato a Vienna: se si era costretti a sopportare, faute de mieux, che la Transilvania restasse un principato cristiano di fatto soggetto alla Porta, era stato fin allora pacifico che gli Asburgo conservassero su quella regione, così importante dal punto di vista strategico e sotto il profilo delle risorse del sottosuolo,

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una sorta di alta mano morale. L’azione brutale contro un principe cristiano e in qualche modo vassallo, per quanto infido, era intollerabile. Inoltre, il paese era tutt’altro che tranquillo. Difatti, non appena le truppe ottomane si furono ritirate, i transilvani insorsero sotto la guida di János Kemény, già stretto collaboratore del Rákóczi. L’uomo di fiducia della Porta, il principe di Sibiu19 Ákos Barcsai, nemico del Rákóczi e che si era adattato alla più stretta egemonia degli ottomani accettando da loro il titolo principesco, fu imprigionato e poi ucciso. Il governo asburgico si mosse nel 1661, per la verità con molta cautela, in appoggio al Kemény, nuovo principe di Transilvania legittimato dagli Stände locali: il che fece infuriare il nuovo gran visir, il prudente ma energico Ahmed, che di lì a poco, nella campagna di Candia, si sarebbe guadagnato l’epiteto di Fazil («lo Scavatore»), col quale è rimasto famoso. Ahmed cacciò in malo modo il residente austriaco in Istanbul, conte Simon Reniger von Reningen, il quale gli aveva chiesto udienza per riallacciare le fila del solito semitacito accordo di partenariato asburgo-ottomano sulla Transilvania. In fondo, alla diplomazia imperiale sarebbe bastato salvare la faccia trovando una soluzione che le consentisse di accettare il fatto compiuto. Sarebbe stato sufficiente intavolare qualche trattativa e legittimare il principe che i transilvani si erano scelti, in modo da far rientrare la ribellione; oppure accordarsi su una qualunque nuova soluzione che risultasse gradita alla Porta e onorevole per Vienna. Ma il gran visir, stavolta, non volle sentire ragioni: quella terra apparteneva al padis¸ah, nessuna finzione formale poteva essere ammessa, nessuna ingerenza tollerata, nessun compromesso accettato. Era la guerra. Leopoldo inviò in territorio ungherese un’ingente forza militare, che però fu decimata; la controffensiva ottomana, che mise in campo un’armata di circa 70.000 uomini, finì col determinare – addirittura al di là delle intenzioni del governo sultaniale – una minaccia nel quadrante sudorientale europeo quale ormai non si era più vista da oltre centotrent’anni. L’avanzata del Turco fu accompagnata da massacri e distruzioni di entità inattesa e spaventosa. Nel settembre il pas¸a di Buda, Ali, aveva investito del principato di Transilvania un nobilissimo personaggio, Mihály Apafi, dotto ma poco abile nel governare; che difatti non ebbe mai alcuna autorità e lasciò di fatto comandare il suo cancelliere Mihály Teleki. Il Kemény, che aveva invano assediato il nuovo principe in Segesvár20, fu battuto dagli ottomani e morì calpestato dagli zoccoli della sua stessa cavalleria in rotta, nel gennaio del 1662. Intanto, in Croazia, il bano Miklós Zrínyi21 – un principe dotato di grande capacità

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e noto anche come studioso e poeta – si era dato a fortificare le difese limitanee con l’Ungheria ottomana nonostante i patti tra Vienna e la Porta non lo consentissero: e anzi passava regolarmente il confine per provvedersi di grosso legname, adatto a costruire fortificazioni militari. Anche in quel caso, la diplomazia asburgica tentò di persuadere la Porta che in fondo si trattava di misure difensive trascurabili. Invano. Lo stato di guerra era ormai esplicito. L’Europa aveva il fiato sospeso. Era già da tempo chiaro che, prima o poi, gli ottomani si sarebbero impadroniti di Candia. Ora sembrava approssimarsi un nuovo, violento attacco portato in profondità contro l’Ungheria regia: dove voleva arrivare il Turco? Dove sarebbe mai giunto, se non lo si fosse fermato? Era mai possibile che i governanti ottomani fossero così avventati, o così sicuri di sé, da avviare allo stesso tempo l’aggressione per la via marittima mediterranea contro Venezia e quella terrestre balcanica contro l’impero, rinnegando la loro inveterata e prudente consuetudine tattico-strategica che postulava al riguardo una tattica di alternanza? Con la rinnovata paura, risorgevano le istanze crociate. Papa Alessandro VII lanciava di nuovo i suoi progetti di lega universale contro il Turco: cinque anni prima aveva mobilitato cancelleria e ambascerie pontificie in tutta Europa chiedendo che la Serenissima fosse appoggiata in quella guerra di Candia che pareva ormai eterna; ora non esitava a indicare nel giovane Leopoldo il capo di un fronte unito contro gli infedeli. I veneziani dal canto loro insistevano sul bisogno di fermare il Turco anche sul mare e rimproveravano gli stati cristiani di averli per oltre quindici anni lasciati soli a fronteggiare il comune nemico nella loro isola in mezzo al Mediterraneo: essi erano profondamente contrariati per tutta l’attenzione che si stava dedicando alla crisi transilvana. Se le potenze cristiane fossero accorse in aiuto a Leopoldo, il peso della difesa di Candia sarebbe tornato a gravare unicamente sulle loro spalle. D’altronde, anche il governo ottomano appariva disorientato. Il gran visir, che pure era responsabile di aver cercato di risolvere sbrigativamente la questione transilvana, era stato colto di sorpresa dagli sviluppi militari e diplomatici di essa. Tenere contemporaneamente aperti due fronti militari, uno terrestre sulla linea balcano-danubiana e uno marittimo nel Mediterraneo orientale, era contrario alle consuetudini militari cui la Sublime Porta abitualmente si atteneva ed era tanto imprudente quanto dispendioso. Ma non sembrò sulle prime che l’apertura del secondo fronte causasse alla compagine ottomana troppi fastidi: l’Ungheria sultaniale era solida e militarmente

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ben presidiata, mentre quella asburgica dava chiari segni di fragilità e l’infida Transilvania era nel caos. Ritratto di un soldato A questo punto Leopoldo affidò la delicata situazione ungaro-transilvana alle energiche e capaci mani del generale e funzionario di corte del quale da anni sapeva di potersi in massimo grado fidare: il conte di Montecuccoli, nel ’61 nominato General Feldmarschall. Con ciò, Leopoldo scartava il grande avversario di questi, il bano Zrínyi che gli si opponeva sia sul piano tattico-strategico, privilegiando l’improvvisazione, l’audacia e la guerriglia alla prudente e sistematica metodologia montecuccoliana22, sia su varie questioni di politica interna ungherese: in realtà, tra i due c’era anche una reciproca invincibile avversione personale. L’intervento imperiale aveva in realtà originariamente mirato soltanto a sostenere il Kemény in Transilvania. Ma, di fronte all’inattesa situazione d’emergenza che ciò aveva determinato, protagonista del momento era diventato l’alto ufficiale italiano nel quale l’imperatore, poco incline a prestar credito a croati e a ungheresi, confidava. La situazione era delicata: uno dei caratteri più allarmanti di essa era l’ingente crescita delle spese militari, dato fra l’altro che ormai, con sempre maggior decisione dalla fine della guerra dei Trent’Anni, le armate europee erano tornate ad orientarsi – dopo circa un secolo e mezzo, si direbbe: ma con mutamenti e innovazioni sostanziali e profonde – verso un uso sempre più ampio e massiccio delle formazioni montate, fossero esse costituite da cavalieri pesanti, vale a dire corazzieri o «pistolieri», o da reparti di cavalleggeri di vario tipo, o da moschettieri a cavallo, o da dragoni che combattevano ordinariamente come fanti ma si spostavano cavalcando. È argomento discusso, ma cosa molto probabile, che questo «ritorno» del cavaliere sia stato dovuto proprio alla crescente presenza, nella guerra del secondo Seicento, di combattenti che appartenevano in un modo o nell’altro, almeno in una certa parte, a dei Reitervölker: croati, ungheresi, transilvani, valacchi, moldavi, polacchi, cosacchi, tartari, russi; e, naturalmente, turchi. È un fatto che il Montecuccoli stesso aveva sostenuto nel 1642-44 che l’equilibrio ottimale in un’armata stava nel rapporto tra 24.000 fanti e 8.000 cavalieri, cioè di tre fanti ogni cavaliere; mentre pochi anni dopo, tra 1649 e 1654, pensava a

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un rapporto tra 9000 fanti e 11.000 cavalieri. Un bel cambiamento23. E una bella capacità di rimettersi spregiudicatamene in discussione. Ma chi era questo militare così sicuro di sé da aver il coraggio di cambiare anche radicalmente idea? Raimondo Montecuccoli, prototipo dei «militari intellettuali» del XVII secolo24, era nato il 21 febbraio del 1609 nell’avito castello di Montecuccolo del Frignano, sull’Appennino modenese, terzo di undici fratelli. Il padre, conte Galeotto, era un soldato valoroso ma duro e violento: quando morì nel ’19 – si sospettò che fosse stato avvelenato – nell’area montana del Frignano furono in parecchi ad abbandonarsi a grandi feste. Nonostante ciò, Galeotto era un militare colto, che disponeva di una ricca biblioteca; ma le fortune del suo casato presso l’arcigna corte estense di Modena – che nulla era riuscita a ereditare dello splendore e dell’apertura dei tempi ferraresi, conclusi nel 1598 con la devoluzione di Ferrara al governo pontificio – si erano molto compromesse sotto il nuovo duca Cesare d’Este. Tuttavia dalla madre, la ferrarese Anna Bigi, Raimondo aveva ereditato ancora di più che non dal padre fortissimi interessi intellettuali, incentrati sull’ammirazione per gli scritti storico-genealogici di uno scrittore «cortigiano» ma complesso come Giovanni Battista Nicolucci, detto «il Pigna», da cui egli avrebbe tratto le tematiche relative alla compatibilità tra il mestiere delle armi e la professione di fede cristiana nonché l’interesse per alcuni caratteristici temi della trattatistica di corte, quello della congiura e quello del modello statuale all’italiana, retto cioè da un monarca con poteri assoluti e caratterizzato da un regime centralistico. Altri pensatori che avrebbero molto influito su Raimondo e sulle sue meditazioni a proposito del legame tra arte di governo e arte militare erano Pio Rossi e Filippo Gerardo Scaglia conte di Verrua. Rimasto decenne orfano di padre, Raimondo era stato educato dal cardinale Alfonso d’Este, fratello del duca Cesare e vescovo di Reggio, che lo aveva condotto a Roma con il suo seguito. Venendo a mancare nel ’24, il suo tutore gli aveva lasciato una solida rendita a patto che egli abbracciasse la carriera ecclesiastica, cui del resto sembrava portarlo la sua indole profondamente religiosa, alla quale mai sarebbe venuto meno. Ma il giovane mostrava anche straordinarie doti intellettuali e al tempo stesso eccelleva negli esercizi militari e nelle arti equestri; seppe distinguersi tra l’altro nelle giostre e nei tornei, giochi guerreschi ancora molto in voga nell’Europa del Seicento. Era comunque, o sembrava, soddisfatto della vita di studio e di meditazione che lo attendeva e che si profilava prospera e serena

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grazie al lascito del suo protettore. Tuttavia era inquieto: e nel ’25 si avvalse dell’appoggio del cugino Ernesto, quarantenne generale nell’armata dell’imperatore Ferdinando II, per entrar come soldato semplice – all’umile e fondamentale scopo d’imparar bene, come si diceva allora, «a maneggiar la picca» – nell’armata di un altro generale asburgico, Rambaldo di Collalto, militando agli ordini del quale dette buona prova di sé in Italia. A questo punto il cugino Ernesto lo volle con sé nella campagna di Fiandra, dove egli colse una gloriosa affermazione: entrò per primo nella conquistata piazzaforte di Amersfoort, preso Utrecht, inalberando alta la bandiera imperiale. Era il ’29: Raimondo aveva vent’anni. Da allora, pur non abbandonando mai gli studi – scriveva anche poesie ed era in rapporti d’amicizia con la stella della corte e della letteratura estense del tempo, Fulvio Tosti25 – proseguì dunque la carriera che ormai sentiva definitivamente sua. Nel ’31, più volte distintosi in battaglia e ferito, conquistò il grado di tenente e il comando di una compagnia: all’atto della presa di Neuhandenburg gli venne concesso l’alto onore di consegnare le chiavi della fortezza al generale Jan T’serclaes conte di Tilly, comandante generale dell’armata dell’impero. I suoi successi gli confermarono che quelli delle armi erano la sua professione e il suo destino; rimase tuttavia scosso dall’inaudita violenza e dagli orrori con cui dovette confrontarsi durante quella guerra: e se ne sarebbe più volte ricordato nei suoi scritti, nei quali tanto insiste sulla necessità dell’ordine, della disciplina e della moderazione nel trattamento degli inermi. Dovevano averlo profondamente toccato episodi crudeli come quello della conquista, incendio, saccheggio e massacro di Magdeburgo nel ’31, cui gli era toccato di assistere. Pervenuto al comando di uno squadrone di cavalleria, si misurò con colui ch’era forse il più temibile e formidabile nemico di quegli anni, Gustavo II Adolfo Wasa re di Svezia: partecipò con valore al memorabile scontro di Breitenfeld in Sassonia, il 17 settembre del 1631, venne ferito e condotto prigioniero ad Halle. Passò sei mesi nelle mani degli svedesi, prima di venir liberato dietro versamento di un riscatto. Tornò a combattere; e, come tenente colonnello di un reggimento di cavalleria, prese parte il 16 novembre del 1632 alla battaglia di Lützen, dove fu leggermente ferito e dove Gustavo Adolfo conseguì, insieme, il trionfo e la morte. In onore di quel grande nemico, Raimondo scrisse una canzone epica. La sua carriera assunse a quel punto un ritmo vertiginoso. Il 6 e il 7 settembre 1634 partecipò alla vittoriosa e sanguinosa battaglia

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di Nordlingen agli ordini d’un altro prestigioso generale italiano dell’impero, il Galasso. Combatté riportando nuove affermazioni nella campagna del Palatinato; e nel ’35 lo troviamo, già colonnello, alla testa di un reggimento di cavalleria pesante, i cosiddetti «corazzieri». Come ormai esperto comandante di cavalleria, fu lui a salvare quel che rimaneva dello scompaginato esercito imperiale dopo la sconfitta di Wittstock, il 24 settembre del ’36, sempre ad opera degli svedesi: la batosta era irreparabile, ma almeno la ritirata poté svolgersi in ordine grazie alla sua tempestività. Lo aspettava però un altro e più lungo periodo di prigionia svedese. Catturato nel maggio del ’39 in Boemia, restò per tre anni prigioniero a Stettino: fu questo d’altronde per lui un periodo provvidenziale, forse decisivo nella sua carriera. Poté riposarsi e approfittare della formidabile biblioteca dei duchi di Pomerania: onnivoro, leggeva di tutto, dalla filosofia alla botanica, dal diritto alla medicina. Ma, soprattutto, meditava sull’arte militare: ne scaturì la prima stesura dei suoi grandi trattati Della guerra e Delle battaglie, in cui il problema militare era considerato alla luce dell’esperienza e del fermo proposito di giungere a una sistematica trattazione in grado di conferire finalmente a quella sterminata materia lo statuto di una disciplina scientifica. Nel giugno del ’42, liberato grazie all’interessamento costante sia dell’imperatore Ferdinando III sia del duca di Modena Francesco I, rientrò presso la corte degli Asburgo dove gli venne conferito il grado di generale: umiliò nella battaglia di Troppau26 i suoi ex carcerieri svedesi, ma fu quindi rimandato dall’imperatore in Italia a servire il suo «signore naturale», il duca di Modena. Francesco I d’Este, che tanto aveva fatto per liberarlo dalla peraltro non scomoda prigionia, aveva molto insistito presso l’imperatore affinché il giovane generale nativo delle sue terre tornasse per prestare la sua opera nella cosiddetta «guerra di Castro», il piccolo ducato laziale presso il lago di Bolsena che Paolo III aveva concesso nel 1538 a suo nipote Pier Luigi Farnese e che ora papa Urbano VIII Barberini rivendicava alla Santa Sede togliendolo a Odoardo Farnese, duca di Parma e Piacenza nonché cognato del duca di Modena. La faccenda era sfociata in una guerra tra il papa e una lega toscoveneto-modenese. Il Montecuccoli avrebbe preferito non prendervi parte, anche perché non vedeva in ciò alcuna sua vera personale convenienza: partì comunque da Vienna nel settembre del ’42 e, giunto a Modena, restò inoperoso per alcuni mesi dal momento che

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gli alleati non riuscivano ad accordarsi quasi su nulla. Comunque la vittoria gli arrise ancora una volta, in uno scontro presso Nonantola del 20 luglio ’43, al quale seguirono però altri patteggiamenti e altre incertezze sino alla pace, stipulata nel luglio del ’44. Rientrato in Austria, il suo sovrano lo utilizzò spesso in missioni non solo militari, bensì anche diplomatiche. La guerra contro i franco-svedesi procedeva con alterne vicende: e il formidabile comandante nemico, Henri de la Tour d’Auvergne visconte di Turenne, di due anni più giovane di lui, premeva presso il suo governo affinché gli fosse permesso di portare a termine un attacco al cuore dell’impero, occupare Vienna e distruggere la monarchia degli Asburgo d’Austria. Tuttavia, ormai il quasi trentennale conflitto aveva stancato tutti: e il cardinal Giulio Mazarino, succeduto al Richelieu come primo ministro di Luigi XIII di Francia, si opponeva all’eliminazione d’una potenza cattolica che rappresentava un argine al protestantesimo e un antemurale contro quella potenza ottomana che per il momento non faceva sentire la sua pressione nei Balcani perché impegnata a est contro i persiani e nel Mediterraneo nella guerra di Candia, ma che sarebbe tornata prima o poi a minacciare – il cardinale ne era convinto – la Cristianità intera. Per quanto le forze imperiali fossero nettamente inferiori a quelle franco-svedesi, il Montecuccoli riuscì ad associare tattica e strategia a diplomazia per impedire al nemico di conseguire risultati definitivi in Boemia e in Germania. Alternando veloci assalti e brusche ritirate, ma sottoposto alla congiunta pressione del Turenne e del comandante delle truppe svedesi, il Wrangel, organizzò dopo la sconfitta del 17 maggio del ’48 a Susmarshansen – dov’era caduto il comandante in capo degli imperiali Holzhapel – una memorabile ritirata che si guadagnò l’elogio del Turenne. In questo modo si poté evitare alla fine che Vienna venisse espugnata dai franco-svedesi e si arrivò al compromesso delle paci di Westfalia. Ormai promosso «gentiluomo di camera» dell’imperatore e membro del Hofkriegsrat, l’Aulico Consiglio di Guerra, il Montecuccoli poteva dedicarsi adesso alla riforma dell’esercito che aveva dato cattiva prova di sé e nel quale difettavano disciplina e organizzazione tecnico-logistica; frattanto approfittava della fiducia accordatagli dal suo sovrano per visitare l’Europa grazie a ripetuti impegni diplomatici. Gli era compagno il conte Enea Silvio Caprara, a sua volta destinato alla carriera militare. Tra i suoi impegni diplomatici vi fu quello degli incontri col lord protettore d’Inghilterra Oliver Cromwell e con la corte di Cristina

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Wasa, regina di Svezia, che egli avrebbe dovuto convincere a sposare l’allora ventenne figlio dell’imperatore e re dei Romani, Ferdinando IV. Il Montecuccoli arrivò in Svezia come missus dominicus imperiale in un momento climaticamente certo non facile: era a Uppsala il 6 gennaio del ’54. L’impresa diplomatica fallì, sia per la scarsa propensione della sovrana alle nozze – essa confidò al Montecuccoli, con il quale aveva allacciato rapporti di confidenza, di essere «innamorata della bella contessa», una dama sua amica –, sia perché il pretendente morì di lì a poco di vaiolo. Il legame d’amicizia che si era creato permise al generale di conoscere in notevole anticipo l’intenzione della regina di abbandonare il trono. Essa abdicò difatti il 6 giugno del 1654 a favore di Carlo X Gustavo di Zweibrücken; quindi, lasciata la Svezia in abiti maschili, dalle Fiandre dove si era trasferita e dove ancora infuriava la guerra tra Francia e Asburgo di Spagna chiese di venire scortata dal Montecuccoli, che la raggiunse e rimase al suo fianco prima ad Anversa, quindi a Bruxelles. Fu a lui che l’ex sovrana confidò, forse per primo, la sua intenzione di passare dal luteranesimo al cattolicesimo: e a Bruxelles, il 24 agosto, ella formulò in presenza del grande soldato modenese la professione segreta di conversione. Designato dall’imperatore ad accompagnare quell’affascinante, colta ed enigmatica signora fino a Roma, il generale fu uno dei sei testimoni del suo battesimo cattolico, la vigilia del Natale del ’54. Frattanto il nuovo re di Svezia era sceso in guerra contro la Polonia, a sua volta alleata della Danimarca: e Cristina insisté presso il Montecuccoli affinché l’imperatore accettasse un suo piano di battaglia contro i compatrioti ormai avversari e difendesse i suoi beni in Pomerania, nel caso che Carlo Gustavo avesse deciso di confiscarli. Il generale avrebbe forse, a quel punto, desiderato un po’ di pace. Aveva finito allora di organizzare i suoi appunti sparsi nello Zibaldone e si era deciso nel maggio del ’57, alla soglia dei cinquant’anni – che non erano poi troppo pochi, in pieno XVII secolo –, a contrarre matrimonio con una giovane di un trentennio più giovane di lui, Margarethe von Dietrichstein, con la quale avrebbe allacciato un profondo legame durato quasi per l’intera sua vita27. Nell’anno stesso delle sue nozze l’imperatore lo aveva cooptato nell’esclusiva Accademia Italiana dei Novelli, o dei Crescenti. Ora, avrebbe voluto godersi la prediletta residenza del castello di Hohenegg non lontano da Vienna, la compagnia della giovanissima sposa e i suoi prediletti studi. Ma la guerra contro i soliti svedesi incombeva. Ferdinando III era venuto da poco a mancare; suo figlio ed erede Leopoldo I affidò al generale modenese la diffici-

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le gestione del fronte baltico-polacco, che egli avviò trionfalmente con la liberazione di Cracovia. Fu grazie alla sua abilità militare e alla sua sagacia diplomatica – capolavoro della quale fu l’aver convinto l’elettore del Brandeburgo a rompere l’alleanza con la Svezia e a passare dalla parte imperiale – se la crisi si concluse abbastanza rapidamente con la liberazione di Copenhagen assediata dagli svedesi e la pace di Oliva, presso Danzica, il 3 maggio 1660. L’anno successivo, il Montecuccoli ascendeva al grado di General Feldmarschall. Tuttavia, il riposo a Hohenegg avrebbe dovuto ancora aspettare. Se il Settentrione europeo sembrava temporaneamente pacificato, era il Meridione che tornava a ribollire. Una grande vittoria e una pace discussa La crisi ungaro-transilvana era ormai sfociata come sappiamo in un’aperta guerra contro l’impero ottomano, il governo del quale era con sagacia guidato dal gran visir Fazil Ahmed28. Il papa aveva a quel punto rinnovato con estrema decisione la consueta politica pontificia in casi analoghi a quello: come si era fatto da oltre due secoli, almeno dai tempi di Eugenio IV in poi, si tornava ora a invocare la costituzione di una Santa Lega. Si era in altri termini, comunque s’impostasse la questione terminologica, di nuovo alla «crociata»: e non a caso Alessandro VII, un Chigi, era senese come Pio II. Le istruzioni da lui consegnate al nunzio apostolico Carafa e a tutti i suoi colleghi in Europa indicavano esplicitamente la necessità di costituire una grande alleanza tra le potenze cristiane. Il momento era propizio, dopo la pace dei Pirenei del 1659 tra Francia e Spagna. Il papa impose une decima sui beni ecclesiastici nella penisola italica e girò a favore dell’impero il legato di 600.000 lire che il cardinal Mazarino aveva lasciato alla sede apostolica a condizione che si giungesse alla guerra apertamente e irreversibilmente dichiarata contro il Turco. Quelle risorse, insieme con altri fondi provvisti dal governo imperiale, fecero il miracolo di attizzare il fuoco dell’entusiasmo sia in Italia, sia in Germania: i volontari provenienti soprattutto da Sassonia, Brandeburgo e Lega renana furono numerosi. Nell’imminenza dell’attacco ottomano, Leopoldo I ebbe comunque la sagacia di segnare un punto nettamente a vantaggio del rafforzamento del suo potere: la dieta imperiale convocata a Regensburg e trasformata in dieta permanente29, che «aveva in apparenza poteri

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limitatissimi, ma rappresentava comunque una nuova forma di stabile collegamento giuridico tra l’imperatore e gli stati tedeschi»30. L’esercito ottomano, forte di un centinaio di migliaia di uomini preceduti dalla terribile cavalleria dei tartari di Crimea, era partito da Istanbul sotto la guida del ventunenne sultano Mehmed IV, che tuttavia si era fermato nella reggia di Edirne, favorita in quanto centro della regione delle sue predilette battute di caccia che gli avevano procurato il soprannome appunto di avci, «il Cacciatore». Là egli aveva passato il comando supremo al gran visir, che aveva cominciato con il penetrare con la sua armata in Moldavia e in Valacchia al principale scopo di riaffermare il controllo sulla Transilvania. Ma quando nel settembre 1663 gli ottomani giunsero quasi a Presburgo dopo aver assediato e conquistato l’importante piazzaforte di Neuhäusel sul fiume Nyitra, affluente da nord del Danubio31, e aver passato freddamente per le armi, sotto Barkan32, circa 1200 prigionieri, apparve evidente che essi stavano puntando sulla capitale dell’impero: i viennesi furono travolti dal pànico e l’imperatore Leopoldo I, abbandonata ogni residua reticenza, invocò in termini accorati l’aiuto dell’Europa cristiana. Era la vittoria della linea del pontefice e del nunzio Carafa. La gente fuggiva disperata e atterrita dalla capitale e la via verso Linz era ingombra di decine di migliaia di sfollati e di carri pieni di masserizie. Se l’imperatore non lasciò a sua volta la Hofburg, ciò dipese – almeno secondo l’ambasciatore veneziano, Giovanni Sagredo – solo dalle insistenze dettate dall’incosciente (o forse, politicamente parlando, fin troppo avveduto?33) ottimismo del suo ministro conte Portia. Ma l’Europa, per quanto ormai libera da guerre interne – il che, da quasi sei secoli, costituiva il presupposto almeno teorico della crociata –, era a sua volta uscita stremata dal conflitto aperto nel 1618. Dominavano ora un diffuso desiderio e un serio bisogno di una pace vera e profonda, che non riguardava tuttavia i rapporti con il Turco in quanto concepita solo in funzione della Cristianità e all’interno di essa: quella che, secondo la celebre definizione uscita dalla penna di John Locke, avrebbe dovuto appunto fondarsi sulla mutua inter christianos tolerantia. Sta di fatto che, da allora sino alla Rivoluzione francese, il continente non conobbe più se non guerre magari frequenti, ma relativamente limitate e poco cruente: per quanto non si debbano dimenticare i molti e duri conflitti imposti all’Europa dall’ingorda aggressività del Re Sole, né si possa esagerare con la retorica della gentilezza della guerre en dentelles, che restava guerra

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eccome. Bisogna comunque considerare che la tolerantia veniva ritenuta un valore essenzialmente ed esclusivamente intercristiano: essa comportava una nuova, sottintesa attenzione al problema costituito dalla minaccia ottomana e un’esigenza di rinnovata solidarietà nei confronti di essa. Del resto, già fino dai canonisti del Duecento la crociata era tradizionalmente ritenuta una opus pacis, che non poteva esser bandita se non sulla base d’una generale pacificazione dell’intero corpus christianorum. Quel che le bolle pontificie e la trattatistica de recuperatione Terrae Sanctae avevano proclamato fin dal XIII secolo, ma che in fondo era chiaro già nell’appello di papa Urbano II a Clermont del 1095 (che pure in sé e per sé, per quel che ne sappiamo, non era certo un «appello crociato»), si confermò allora una volta di più. Nell’Europa degli anni Sessanta del XVII secolo agì come alla fine dell’XI secolo, per quanto in differente contesto, quel principio che Carl Schmitt definisce «esportazione della violenza»: la guerra contro il nemico esterno servì da cemento per la pace interna della Cristianità occidentale. Luigi XIV, se da una parte pretendeva di venir celebrato come il successore di Carlomagno e di san Luigi nella lotta contro gli infedeli – e per questo incitava i suoi storici di corte a presentar il regno di Francia come il promotore storico della crociata, gesta Dei per Francos, mentre non nascondeva l’ambizione di poter farsi un giorno incoronare sovrano del Sacro Romano Impero –, dall’altra teneva molto al suo ruolo di difensore dei Luoghi Santi, incurante del fatto che a concedergli tale prerogativa fosse il sultano; e, se insisteva presso la Porta per il rinnovo delle Capitolazioni secondo una forma che gli attribuisse di fatto il protettorato non solo sui francesi, bensì su tutti i religiosi di rito latino in Oriente, mostrava d’altronde di volersi avvantaggiare di esso anche e soprattutto per sostenere i commerci francesi nelle terre d’Oriente e non esitava a ricattare continuamente il padis¸ah con la prospettiva d’un’alleanza tra la Francia e l’impero persiano. Tuttavia, dinanzi all’impressione suscitata in Europa da quanto andava accadendo nella pianura danubiana, e che si aggiungeva alle sempre più drammatiche notizie provenienti da Candia assediata, il Re Sole comprese di non poter tirarsi indietro. In ciò lo aveva sostenuto del resto il suo onnipotente ministro cardinal Giulio Mazarino, finché era rimasto in vita. Fu anche in memoria del suo impegno se all’armata imperiale si aggiunse quindi un sostanzioso corpo di spedizione francese, forte di circa 6000 uomini guidati da Jean de

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Coligny conte di Saligny – un vecchio frondeur, che godeva tuttavia della protezione del Louvois –: l’intera compagine cristiana fu posta al comando del General Feldmarschall dell’impero, il conte di Montecuccoli. Ma il fronte ungherese era ampio, e non tutto direttamente controllato dal comandante in capo. Nell’alta Ungheria le truppe imperiali combattevano sotto il comando di Louis Raduit de Souches, un grande generale francese calvinista passato al servizio dell’imperatore, che tra la primavera e l’estate aveva ripetutamente battuto le truppe dei pas¸a di Nagyárad e di Buda: contro quest’ultimo, egli aveva ottenuto una strepitosa vittoria presso la città di Léva, il 19 luglio 1663, sgominando con un’armata di 12.000 soldati un esercito nemico grande almeno il doppio. Ali, pas¸a di Buda, era caduto combattendo valorosamente sul campo, insieme con un migliaio dei suoi. La vittoria aveva procurato un ottimo bottino: 1200 carri di viveri e di munizioni, 11 grossi pezzi d’artiglieria e una grande quantità di bocche da fuoco più piccole. La campagna era quindi proseguita fino alla città di Barkan il cui ponte sul Danubio, che consentiva agli ottomani di varcare il fiume, fu incendiato dagli imperiali consentendo così l’arresto della penetrazione turca in alta Ungheria. L’assedio di Neuhäusel da parte delle truppe del gran visir, avviato come si è visto nell’autunno successivo, era andato peraltro troppo per le lunghe: quando la piazzaforte cadde, era ormai tardi per procedere oltre. La cattiva stagione incombeva: Fazil Ahmed ricondusse quindi indietro i suoi uomini fino a Belgrado, nella quale aveva l’intenzione di svernare per riprendere la guerra non appena il tempo lo avesse consentito. Si continua ancor oggi a discutere, tra gli storici, se quell’assedio non sia stato il fatale errore del gran visir: se egli si fosse lasciato audacemente, anzi diciamo pure imprudentemente, la poderosa fortezza alle spalle e avesse proceduto marciando in estate su Vienna, la capitale sarebbe stata sua. E se avesse evitato le scene d’orrore e di ferocia che si verificarono all’atto della sua caduta, l’Europa cristiana non avrebbe forse risposto con tanta energia – proprio quel che egli non si aspettava – alla provocazione. Quella scia di sangue aveva d’altronde riattizzato l’antico odio; e il desiderio di vendetta era stato olio sparso su quelle fiamme. Durante l’inverno tra ’63 e ’64 il bano di Croazia Miklós Zrínyi, a capo d’una trentina di migliaia di soldati per quanto sprovvisto di artiglieria, tormentò senza tregua il nemico costringendolo a subire le conseguenze d’una serie di rapide azioni a sorpresa: attaccata Szigetvár alla fine di gennaio, prima che gli ottomani avessero il tempo

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di riprendersi aveva bruciato il grande ponte di legno di Osijek, altro principale passaggio sul Danubio che avrebbe consentito loro di penetrare nell’Ungheria regia, e aveva attaccato Pécs bruciandola anche se non era riuscito a espugnarne la cittadella. Nella primavera, gli attacchi dei croati e dei pandur, gli irregolari ungheresi a cavallo, erano ripresi: finché il gran visir, partito da Belgrado e passato il ponte di barche sulla Drava il 20 maggio del 1664, non ebbe a sua volta assalito e saccheggiato la fortezza di Zrínyi-Úivár, principale piazzaforte del bano. Tuttavia la regione disseminata di acquitrini e la stagione piovosa ritardarono alquanto le sue mosse, anche perché egli era discretamente fornito di artiglieria pesante. Intanto il Montecuccoli – che, contro le previsioni di Fazil Ahmed, si era guardato bene dal correre in aiuto degli ungaro-croati – aveva formulato un piano preciso per indurre il Turco a metter da canto i piani di una troppo audace avanzata e addirittura a ritirarsi dalla Transilvania: attaccarlo lungo la linea del Danubio, puntando direttamente su Buda. Il General Feldmarschall non tenne evidentemente alcun conto delle esigenze e del parere del suo avversario Zrínyi, che a sua volta – dopo aver scritto all’imperatore per informarlo che si rifiutava di mettersi al servizio dell’odiato italiano – si ritirò sdegnosamente dalla lotta34. La cavalleria croata non avrebbe partecipato allo scontro che ormai si profilava come prossimo. Nello scacchiere occidentale che il generale modenese aveva individuato, la battaglia risolutiva ebbe luogo il 1° agosto35 «su un fronte di quasi sette chilometri, al di qua e al di là dell’ansa del fiume Raab, un affluente del grande Danubio, ansa che si trova all’altezza dell’attuale confine tra Austria e Ungheria, tra la cittadina oggi austriaca di Jennesdorf e quella oggi ungherese di Szent-Gotthard»36, cioè l’abbazia cistercense di San Gottardo nei pressi della quale v’era il villaggio noto con il nome tedesco di Mogersdorf, un modesto centro demico ad appena una settantina di chilometri ad est di Graz. La Raab segnava il confine tra l’Ungheria regia e la Stiria, regione che di solito gli ottomani investivano quando decidevano di attaccare in profondità i territori asburgici, ma che era difesa dalla piazzaforte di Graz. Sembra che il gran visir non si aspettasse di trovarsi davanti il nemico in corrispondenza di quell’ansa del fiume, che durante quella stagione era comunque povero d’acqua: nemmeno i sagaci ed esperti esploratori tartari si erano resi conto della presenza degli imperiali. Il dispositivo tattico di questi ultimi era semplice. L’esercito comandato dal Montecuccoli aveva preso posizione sulla sponda sini-

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stra del fiume: alla sua ala destra erano schierate le truppe dei domini ereditari di casa Asburgo, su un fronte di circa tre chilometri ai diretti ordini del General Feldmarschall; al centro, quelle del Reich (cioè provvedute, reclutate e finanziate dai Reichskreise, i «circoli dell’impero»37) che coprivano circa 1200 metri ed erano comandate da Leopoldo Guglielmo margravio di Baden-Hochberg; all’ala sinistra gli alleati tedeschi e francesi, cioè i reparti della Lega del Reno comandati dal conte Julius von Hohenlohe e insieme con i quali erano i quaranta squadroni di cavalleria francese, guidati dal Coligny e dal de la Feuillade, per altri due chilometri e mezzo di fronte. In tutto, i franco-imperiali erano secondo alcune fonti circa 26.500, mentre altre preferiscono arrotondare a 25.000 (ma con 9000 combattenti a cavallo e 24 cannoni) e altre ancora parlano di una quarantina di migliaia. In netto vantaggio numerico, il gran visir schierava sulla destra del fiume almeno 40.000 combattenti (che altre fonti fanno addirittura ascendere a 70.000), dietro i quali alcune testimonianze affermano che ve ne fossero altri 80.000 probabilmente già pronti per marciare su Graz e magari addirittura su Vienna, una volta che il campo fosse stato sgombrato38. Lo schieramento ottomano era disposto su sei colonne, dinanzi alle due centrali del quale era stato piazzato il parco d’artiglieria. Nei giorni precedenti, con una serie di abili manovre il Montecuccoli era riuscito a impedire che gli ottomani passassero la Raab usando guadi per loro favorevoli, più a valle, verso Körmend, una trentina di chilometri ad est di Szent-Gotthard: ora, essi si trovavano a doversi confrontare con un’ampia ansa, mentre le truppe cristiane potevano schierarsi in posizione favorevole, dislocate su alcune alture. La battaglia infuriò a partire dalle nove del mattino. L’abituale tattica ottomana, secondo le vecchie tradizioni turche e in genere dei Reitervölker, prevedeva che si lasciasse attaccare il nemico, lo si facesse penetrare in profondità aprendosi a mezzaluna, sui lati, per colpirlo alle ali accerchiandolo e richiudendosi quindi verso il centro. Stavolta, certo, la presenza dell’ansa del fiume complicava un po’ il quadro. Il gran visir aveva l’intenzione di coglier di sorpresa il nemico rovesciando del tutto la tattica tradizionale: attacco immediato e per giunta al centro. Il sole del mattino, alle spalle del suo dispositivo, gli era favorevole. I comandi cristiani si aspettavano in effetti di venir in qualche modo impegnati lateralmente: il Montecuccoli aveva previsto un attacco sulla sua estrema ala destra, comandata dal tenente maresciallo Johann von Sporck. Comunque, vista la schiac-

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ciante superiorità numerica nemica, il dispositivo centrale, che non ci si aspettava di dover immediatamente impegnare, non era stato particolarmente curato: il comandante in seconda, conte Georg Friedrich von Waldeck, aveva perfino trascurato di fortificare le sponde del fiume scavando delle trincee. I francesi del Coligny, all’estrema sinistra delle linee cristiane – quindi a nord-est – si aspettavano a loro volta, anzi cavallerescamente si auguravano, di doversi confrontare per primi contro la solita manovra a tenaglia degli infedeli. Invece il gran visir aveva fatto avanzare fin dall’alba i suoi corpi scelti, 12.000 tra giannizzeri, spahi, albanesi e bosniaci, che una volta attestatisi sulla riva sinistra attaccarono con durezza e rapidità al centro, cogliendo di sorpresa le truppe dei Reichskreise, senza dubbio le meno agguerrite, e occupando Mogersdorf. Verso mezzogiorno il villaggio era distrutto, le truppe dei Kreise sbaragliate, all’ala destra imperiale la cavalleria ottomana sembrava in vantaggio e i comandanti in seconda facevano sapere al General Feldmarschall che tutto era perduto, c’era almeno un migliaio di perdite e alcuni ufficiali se l’erano data a gambe in direzione di Vienna. Egli rispose con freddezza di aver previsto tutto e che tutto andava secondo i suoi piani: e fece notare di non aver ancora nemmeno snudato la spada. Non era un modo di dire. L’estrarla dal fodero, in una battaglia di campo, era da parte del comandante generale un segnale preciso e della massima importanza. Forse bluffava: ma di fatto pare che il ponte provvisorio gettato dagli ottomani sulle acque del fiume fosse ingombro di carri e che la loro fanteria, che si era impegnata in uno sbrigativo guado, fosse in difficoltà perché durante la notte un acquazzone aveva gonfiato la Raab e il fango che aveva invaso le trincee scavate dai giannizzeri stava impedendo all’artiglieria di muoversi. Il General Feldmarschall si era reso conto che il nemico si era immobilizzato da solo. Lo aveva previsto? Lo aveva addirittura programmato? Aveva confidato nella Provvidenza o nella sua buona stella? Comunque, lo Sporck contrattaccò con i suoi Schwarzreiter, i corazzieri a cavallo, caricando i 4000 spahi che avevano attaccato l’ala destra e che vennero in effetti respinti: intanto, il Montecuccoli dava ordini ai francesi e ai tedeschi schierati all’ala sinistra, verso est, di convergere verso il centro. La cavalleria francese, immerlettata, profumata e impennacchiata, compì prodigi di coraggio e di valore; il signor di Coligny, da solo, ammazzò un numero di nemici degno d’una chanson de geste: più tardi avrebbe rievocato, felice come un bambino crudele, lo spettacolo delle selve di lance, delle bandiere colorate al vento, del

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clangore degli strumenti militari. Dopo la carica, fu l’intenso e disciplinato fuoco dei cannoni e dei moschetti a fare il resto. Un’ora dopo l’ala sinistra ottomana era spazzata via, il resto delle truppe turche erano strette tra i franco-imperiali e il fiume e incapaci di manovrare mentre il Montecuccoli poteva muovere al contrattacco usando il suo originale schema che metteva in campo fanteria e cavalleria in una tattica di reciproca integrazione e spezzando il fronte avversario con una manovra a sua volta «a mezzaluna» che isolava dal teatro del combattimento l’ala occidentale nemica, fronteggiata intanto dallo Sporck e obbligata a battere in ritirata senza nemmeno provar a guadare la Raab, il letto della quale si era andato frattanto ingombrando di cadaveri dei fanti ottomani in fuga. Solo gli agili cavalli degli scorridori tartari riuscivano a nuotare nelle acque ingrossate senza scrollarsi di dosso i loro cavalieri. Il terreno reso pesante dalle piogge recenti facilitò il gioco del General Feldmarschall: difatti, dovendo contrattaccare, i suoi uomini non avevano avuto bisogno di affrontare a loro volta il guado. L’intelligente Evliyâ Çelebi, testimone oculare della battaglia dalla parte degli ottomani, riferisce che i giannizzeri stessi si lasciarono prendere dal pànico, forse sorpresi e impauriti dall’intensità di fuoco della fanteria nemica39. Dei 16.000 armati ottomani circa che erano passati sulla sinistra del fiume, 10.000 erano stati uccisi: ed erano quasi tutti appartenenti alle truppe scelte, giannizzeri e spahi. Il resto della grande armata, sconvolto e demoralizzato, poté soltanto ritirarsi. Alle quattro del pomeriggio il Montecuccoli aveva impartito l’ordine del contrattacco generale partendo al galoppo alla testa dei suoi, col rischio di esser ferito o catturato. Da allora, per i turchi, egli sarebbe stato «il Gran Diavolo»40. Le truppe ottomane, inizialmente forti a quel che pare di un numero di combattenti calcolabile tra i 60.000 e i 70.000, tra cui 30.000 spahi e 15.000 giannizzeri, persero secondo stime tuttavia un po’ troppo alte circa 17.000 uomini, tra uccisi, dispersi e annegati nel fiume durante la rotta disordinata e disperata: circa un quarto degli effettivi. Molti dei caduti erano ufficiali, anche di alto grado. Oltre allo stendardo del gran visir, furono catturati 126 insegne, 17 cannoni, 5000 sciabole di pregio, 3000 cavalli, 300 carri logistici. Le perdite cristiane, premesso che le contraddittorie fonti disponibili rendono arduo calcolare gli effettivi presenti (si va dai 25.000 ai poco oltre 40.000 inclusi 13.000 fanti e 4000 cavalieri della Lega del Reno, 17.000 fanti e 4000 cavalieri dei Kreise, nonché circa 4500 francesi), furono di circa 3000 uomini, tra cui qualche nobile ufficiale41.

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Fu una grande vittoria che il General Feldmarschall avrebbe secon­ do alcuni voluto e potuto sfruttare appieno, incalzando l’armata in rotta con stringenti manovre d’inseguimento, quando fu arrestato dalla notizia della tregua di Vasvár. Che cos’era accaduto? L’eco delle vittorie ungheresi era stato immenso in Europa: le stamperie imperiali avevano sfornato prontamente ogni sorta di giornali, di Flugblätter, di opuscoli per celebrare l’evento. Nelle chiese tedesche, italiane e ungheresi si erano celebrati Te Deum e cerimonie di ringraziamento. Si era al massimo dell’euforia; ci si vedeva già a Buda e magari a Istanbul. Anche in Francia la vittoria fu molto festeggiata, dato soprattutto il contributo che il contingente del Coligny vi aveva apportato: e l’imperatore, a ciò indotto anche dall’entusiastico resoconto speditogli di pugno del Montecuccoli, aveva estremamente gradito e apprezzato l’impegno di quei valorosi, a proposito dei quali si era mostrato molto riconoscente al Re Cristianissimo. Molti poeti aulici, piuttosto mediocri peraltro, celebrarono in versi altisonanti la gloria di Luigi XIV cui veniva attribuito il merito principale del successo e che veniva esaltato come salvatore della Cristianità. Stava nascendo il topos propagandistico secondo il quale si salutava qualunque vittoria di una certa importanza sul Turco o sull’infedele come l’episodio che segnava la liberazione da un pericolo che altrimenti avrebbe sommerso l’intero mondo cristiano. D’altra parte, per quanto ciò non sia del tutto vero in nessuno dei due casi, è stato detto e ripetuto che, se la giornata di Lepanto aveva dimostrato che il Turco non era invincibile sul mare, quella di SzentGotthard-Mogersdorf dimostrò che non lo era più nemmeno negli scontri terrestri. Tuttavia, in realtà, a Parigi il successo delle armi cristiane cui tanto aveva contribuito il corpo di spedizione francese era valutato in modo ambiguo. Il governo di Sua Maestà Cristianissima non poteva non tener presente che, nello stesso torno di tempo, la sua politica d’intimidazione degli emirati corsari nordafricani si era conclusa con uno smacco; e si stava seriamente chiedendo se quella linea di collisione con la Porta, sostanzialmente estranea alla politica estera del suo paese, avrebbe davvero portato a risultati vantaggiosi. In Olanda, dove le cose d’Ungheria erano molto seguite a causa degli stretti rapporti tra i protestanti dei due paesi, la giornata della Raab fu celebrata perfino in un poema del più grande letterato del momento, Joost van den Vondel. Nell’impero ottomano, al contrario, essa fu a lungo ricordata come un momento di lutto e di vergogna.

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Ma i risultati militari conseguiti dalla gloriosa vittoria furono in parte vanificati – e contro il fermo e ben motivato (anche se c’è da chiedersi quanto intimamente convinto) parere del Montecuccoli – dalla tregua ventennale di Vasvár: con la quale gli ottomani non solo restarono padroni delle piazzeforti conquistate dopo il 1660, soprattutto le fortezze di Nagyvárad, Érsekújvár42 e Zrínyi-Újvár, mentre la Transilvania diveniva formalmente un loro protettorato retto da un principe cristiano ad essi soggetto43, ma furono anche liberi di riprendere con maggior energia la guerra di Creta fino alla caduta di Candia, avvenuta come sappiamo nel 1669. Inoltre l’impero accettava di corrispondere alle casse sultaniali un tributo (un «dono», come lo si definiva) di 200.000 fiorini all’anno, secondo una tradizione diplomatica di pretese ottomane e di remissive concessioni cristiane che era peraltro più umiliante che onerosa (nel senso che di solito quei tributi non venivano quasi mai interamente e regolarmente versati). Va peraltro detto che il sultano si obbligava, in cambio, a un «dono» corrispettivo, sia pure più simbolico che sostanziale, che invece veniva scrupolosamente presentato44. Questi risultati sono stati massicciamente valutati come negativi per l’impero. Si è quasi all’unanimità, fino almeno a tempi recenti, accusato Leopoldo di debolezza, di miopìa e perfino di viltà per quella tregua, stipulata – ironia della sorte – in una località molto prossima a Szent-Gotthard. Una più serena visione delle cose invita alla prudenza: e c’è da chiedersi fino a che punto lo stesso Montecuccoli fosse poi tanto sincero e sicuro di sé, nel momento in cui consigliava il suo sovrano di proseguire l’offensiva. Egli sapeva bene che la sua vittoria era dovuta almeno in parte anche alla fortuna, quell’inaspettato acquazzone di fine luglio: e che cosa mai sarebbe, un buon generale, senza la fortuna? D’altronde, nonostante le ingenti perdite di quella giornata, il nucleo della possente armata ottomana permaneva intatto, mentre il sistema delle difese meridionali imperiali e ungheresi era incoerente e insicuro. Inoltre, l’imperatore era preoccupato per la debolezza della Spagna asburgica nei confronti della Francia che stava guardando con sempre maggior interesse alle sue province dei Paesi Bassi; e preferiva pertanto, nell’ipotesi di esser costretto a occuparsi di quel che accadeva ad ovest, aver le mani libere e le spalle coperte nei Balcani. Egli era infine in ansia per il destino di entrambi i rami della dinastia asburgica, lo spagnolo e l’austriaco, che apparivano per il momento privi di eredi diretti e su entrambi i quali pesava, a causa

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dell’intricata politica matrimoniale del tempo, l’ipoteca d’una pretesa borbonica alla successione, al di là di accordi tra lui e il Re Cristianissimo suo cugino: aggravata dal fatto che il Re Sole non faceva mistero delle sue stesse ambizioni rivolte alla più aleatoria forse, ma anche più prestigiosa corona d’Europa, quella elettiva imperiale, e a tale scopo intratteneva strettissimi rapporti diplomatici con alcune componenti del Reich, dal Rheinbund che dal 1658 riuniva in lega gli stati renani a personaggi come l’elettore di Colonia, Massimiliano Enrico di Wittelsbach, il quale tendeva a collegarsi a lui nella prospettiva di un ingrandimento territoriale, o come quello di Baviera, tradizionalmente amico della Francia e profondamente solidale con i principati del Reno. La tregua del 1664, stabilizzando e rendendo sicuro per un ventennio il fronte sudorientale europeo, aveva in realtà determinato un’immediata ripercussione su quello occidentale. Di più: essa era un atto politico pensato in gran parte guardando a occidente, che segnava un mutato atteggiamento dell’imperatore rispetto alla Francia e alla Spagna. Stava tramontando l’era politica dominata nell’impero e nella corte di Vienna dalla forte personalità di Giovanni Ferdinando Portia, l’indirizzo del quale era decisamente antispagnolo. In effetti, l’imperatore era molto preoccupato dall’idea di poter perdere il suo abile ed energico collaboratore: cosa che invece accadde proprio nel 1665. Leopoldo fornì per la verità un segnale immediato di continuità politica: e difatti il candidato più forte a succedere al Portia, il conte Franz-Karl von Auersperg, venne tenuto da parte non solo perché era un insopportabile arrogante, ma anche – o, almeno, così circolò la voce – in quanto scopertamente filoiberico. Chissà che a ispirare l’imperatore non sia stato l’esempio del cugino francese, che non aveva mai nominato un successore al Mazarino. Frattanto, però, a Vienna stava montando la stella di un nuovo ministro, il principe boemo Wenceslaus Lobkowitz, decisamente francofilo e che non nascondeva la sua viva antipatia per il clero cattolico. Comunque, il problema immediato era ad oriente. A Vasvár gli imperi romano-germanico e ottomano avevano regolato, entrambi di malavoglia, i rispettivi rapporti per i due decenni a venire in quanto entrambi preoccupati da altre questioni. A Vienna si sapeva bene che una tregua con la Porta significava un’almeno provvisoria tranquillità nell’area balcano-danubiana, a scapito per giunta (e ciò alla diplomazia imperiale poteva far solo piacere, per quanto essa non potesse andar in giro a raccontarlo) di altri quadranti dello scacchie-

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re mediterraneo che immediatamente il sultano o i suoi inquieti vassalli barbareschi si sarebbero sentiti in grado di colpire: l’Adriatico e l’Egeo egemonizzati entrambi da Venezia, le coste del Mediterraneo centro-orientale, quelle occidentali. Per questo una pace tra l’impero e la Porta rendeva immediatamente inquiete non solo la cancelleria del Re Sole, ma anche quella madrilena (nonostante il «patto di famiglia» tra i due rami degli Asburgo separati oltre un secolo prima dalla volontà di Carlo V, novello Teodosio; e nonostante Leopoldo I avesse siglato l’accordo con il sultano proprio pensando alla Spagna) e quella della Serenissima, oltre al papa e alla Toscana preoccupati per le incursioni dei corsari nordafricani sul litorale tirrenico. Non era d’altronde un segreto per nessuno che le scelte del Turco erano a loro volta condizionate da tre pericoli e da una sia pur implicita e formalmente occulta eppur forte e solida alleanza: i pericoli erano Venezia sul mare – la partita di Candia non era ancora chiusa –, la Polonia e la Russia a nord e la Persia ad est; l’alleanza quella, stipulata ormai almeno dai tempi di Francesco I, con il Cristianissimo Re di Francia in funzione anti-ispanica e anti-imperiale. La geopolitica ha ben le sue ragioni: per quanto né l’impero né la Serenissima sapessero da ciò trarre sempre le dovute conseguenze per quanto riguardava la respublica Polonorum45, lo czar di Russia e lo shah. La politica francese, dal canto suo, condizionava fortemente una potenza italiana formalmente vassalla al tempo stesso del papa e dell’imperatore: la Toscana medicea, attenta altresì a non lisciar troppo contropelo nemmeno la sia pur ormai in crisi potenza spagnola, che tramite lo Stato dei Presìdi controllava e condizionava l’attività navale di tutto il medio Tirreno. Insomma, la pace e la relativa prosperità di cui la Toscana godeva poggiavano su un’intrinseca fragilità militare, sulla condizione giuridica del porto franco di Livorno e sul costante compromesso politico-diplomatico. Quanto all’Inghilterra, essa aveva in quel momento troppi guai, tra il contestato regno di Carlo II e la guerra contro l’Olanda, per pensar al Mediterraneo orientale. Mentre Venezia si stava ormai rassegnando controvoglia e tra molte recriminazioni ad abbandonare Candia al Turco, il Carafa – che nel gennaio del ’64 aveva a sua volta ricevuto il paonazzo cappello di cardinale – si apprestava a lasciare Vienna, il cui signore non aveva alcun desiderio di proseguire la crociata. In realtà, piovvero addosso all’imperatore critiche molto dure per essersi mostrato troppo accomodante con gli ottomani. A Parigi, dove la notizia comparve sul «Musée historique» del 18 ottobre,

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versi poetici di mediocre fattura, ma esprimenti alta indignazione, furono coniati per l’occasione e passarono presto di bocca in bocca. La maggior parte degli storici, seguendo e riprendendo i pareri espressi «a caldo» da molte fonti del tempo, ha rimproverato a Leopoldo I la fretta di raggiungere un accordo con la Porta, attribuendola talvolta a stanchezza o a pusillanimità. Nella tradizione ungherese, quella di Vasvár è ancor ai nostri tempi correntemente definita «la pace vergognosa»: e l’immagine dell’imperatore fu in effetti a lungo e duramente compromessa in Ungheria in seguito a quell’evento. Ma, come dicevamo, a un esame più prudente non sembra il caso di dar del tutto ragione a quelle critiche46. Certo, il fatto che in una sola battaglia, quella di Szent-Gotthard, il fiore delle truppe sultaniali fosse stato distrutto e un imponente esercito respinto da una forza decisamente inferiore (anche se la propaganda esagerò lo squilibrio numerico tra gli schieramenti) aveva disorientato e demoralizzato gli alti comandi sultaniali. Tuttavia, in realtà, è probabile che le perdite effettive si fossero obiettivamente limitate a non più del 10% delle truppe: il disagio maggiore si era registrato al livello dei vettovagliamenti e delle infrastrutture. Ma l’esercito cristiano, vittorioso, stava ancora peggio: anche perché il suo livello igienico era di gran lunga più scadente di quello ottomano – quella sarebbe stata una delle preoccupazioni costanti del Montecuccoli, insieme con quelle logistiche: lo si riscontra costantemente nei suoi scritti –, al punto che quasi il 40% degli imperiali era ammalato e tra i francesi si contavano 200 nuovi infermi ogni giorno. In conseguenza di queste difficoltà, un forte malumore circolava nelle truppe: e, sotto forma di reciproche recriminazioni e di vecchie rivalità, riaffioravano le vecchie antipatìe nazionali. Inoltre, le capacità combattive degli ottomani non erano compromesse: la ritirata dopo la battaglia di Szent-Gotthard era stata rapida e forse non troppo ordinata, ma non si era trasformata in una rotta, non aveva comportato l’abbandono del teatro della guerra né aveva profondamente inciso sulle strutture militari di fondo. Quattro giorni dopo la vittoria, il signor di Coligny avvertiva il General Feldmarschall che il nemico era tuttora accampato nelle vicinanze e che «il padiglione del gran visir non si è mosso di più di cinquecento passi»47. Inoltre alcuni reparti della cavalleria ottomana, insieme con gli ausiliari tartari, continuavano con i loro raid a devastare il territorio ungherese circostante e a tagliare le linee dei rifornimenti che provenivano dalla Stiria e dalla Slovenia. Ma a devastar il territorio non erano soltanto i nemici infedeli. Ci si mettevano anche le truppe

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di Sua Maestà Cesarea: siccome le vettovaglie non arrivavano – non per niente la logistica era la croce del General Feldmarschall –, i militari imperiali si rifacevano sui contadini ungheresi i quali ovviamente si difendevano come potevano, anche a mano armata: e non erano poveri agricoltori sottomessi e bâtonnables et corvéables à merci, bensì gente ruvida e selvatica, abituata a combattere con gli orsi, i lupi e i banditi, ben provvista di armi proprie ed improprie e abituata a servirsene. A Tehgrub, nella regione del Fürstenberg, si registrò un vero e proprio massacro di soldati per mano dei contadini inferociti. Il Montecuccoli era ogni giorno più preoccupato, sia per le lacune della logistica, sia per il morale delle truppe che andava precipitando, sia per la disciplina che nemmeno lui era più sicuro di poter e di saper mantenere: e se non era sicuro lui... Inoltre, sapeva bene quanto labile fosse ormai il sostegno militare sia dei Kreise dell’impero, che terminata la campagna militare esigevano il rientro della loro gente, peraltro non granché bellicosa, sia dei pur valorosi francesi del Coligny che tuttavia dopo la giornata del Szent-Gotthard erano stanchi, delusi, demotivati e facevano causa comune con la gente ungherese per accusar gli imperiali di qualunque soperchieria o slealtà. Qui s’imponeva, come a Candia, la mentalità cavalleresca dei volontari francesi: coraggiosi, amanti dello scontro per lo scontro, eccitati al pensiero della battaglia, ma insofferenti poi della disciplina, della noia e dei disagi della vita negli accampamenti, della routine. Il loro exploit era stato splendido, le mani le avevano menate fin troppo, il loro onore di cavalieri era alle stelle. Che cosa si restava a fare adesso, in quelle lande acquitrinose, a farsi mangiar dalle zanzare tra soldatacci ladri e insolenti, tra puzzolenti villani? Oh, la douce France!... Infine, i magnati ungheresi erano sempre più infidi: e già si mostravano i sintomi delle congiure e delle ribellioni future48. Che le forze ottomane fossero fiaccate e demoralizzate, ma non schiacciate, ce lo assicura un testimone di grande qualità: il residente imperiale a Istanbul, Simon Reniger von Reningen, gentiluomo originario della Stiria che aveva accompagnato il gran visir durante l’intera campagna ungherese e la presenza del quale si rivelò di grande utilità diplomatica. Fu il Reniger a firmare in effetti con il gran visir Köprülü il protocollo della tregua di Vasvár, il 10 agosto. Secondo alcuni studiosi, il Re Sole avrebbe a quel punto cercato di forzare la situazione ungherese addirittura pensando di rivendicare per sé la corona di quel paese utilizzando il malcontento di molti magnati e in particolare dello Zrínyi, che però morendo per un inaspettato incidente nel novembre

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aveva lasciato a mezz’aria una situazione che avrebbe potuto portare lontano, ma che comunque avrebbe prodotto di lì a pochi anni, con la rivolta del ’70, i suoi frutti avvelenati. Al di là di tutti i motivi per i quali, già qualche mese più tardi, apparve evidente che l’imperatore non era stato in realtà per nulla improvvido nel firmare quella tregua ventennale, una ragione di più conferma che la scelta fu in effetti opportuna. La salute di re Filippo IV di Spagna andava rapidamente declinando: pochi mesi dopo, con la sua morte il 17 luglio del 1665, si andò profilando all’orizzonte la crisi di successione su quel trono. L’idillio tra l’imperatore e il Re Sole, all’ombra della loro parentela, delle insegne crociate e della gloria di Szent-Gotthard, era per il momento salvo: ma non sarebbe tuttavia durato a lungo. Comunque nel ’66, con la scomparsa del pugnace Alessandro VII e l’avvento al soglio pontificio di Clemente X Altieri, che avrebbe peraltro regnato per soli tre anni, la pressione della Santa Sede per la prosecuzione della guerra contro il Turco manteneva intatto il suo mordente: ma le condizioni politiche e diplomatiche non apparivano a ciò favorevoli. Se l’imperatore mostrava di considerare ormai primario l’equilibrio raggiunto con la Porta nello scacchiere balcano-danubiano e la Serenissima si rassegnava a perdere il suo principale caposaldo nell’area orientale del Mediterraneo, Candia, il vessillo crociato restava ripiegato, in malinconica attesa di una folata di vento che lo facesse garrire di nuovo o di un valoroso che lo impugnasse al cospetto della Cristianità. Il pontefice si andava guardando attorno, cercando di individuare un possibile nuovo capo di una Santa Impresa che tuttavia sembrava tanto irrinunziabile quanto inattuabile. Dal canto suo il governo di Istanbul, una volta segnato il punto della vittoria diplomatica di Vasvár e apprestandosi a metter definitivamente le mani su Candia, comprendeva bene ch’era giunto il momento di mostrar flessibilità nei rapporti con Leopoldo. Da allora, i rapporti diplomatici tra le due potenze divennero più ordinati e regolari. Il plenipotenziario ottomano, Kara Mehmed Pas¸a, fece nel 1665 solenne ingresso in Vienna, ben accolto da una popolazione allegramente incuriosita, e s’installò nel quartiere di Leopoldstadt49. Del suo seguito faceva parte – stando alla sua stessa testimonianza – un viaggiatore e cronista ottomano di fama, ormai nostra vecchia conoscenza: Evliyâ Çelebi50.

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Tra diplomatici e generali Nel corso del settimo decennio del Seicento, nonostante la persistente retorica crociata secondo la quale la Cristianità avrebbe dovuto essere unita e concorde, le potenze cristiane europee avevano intanto ripreso, dopo la breve parentesi di apparente distensione e di effettiva stanchezza succeduta alla fine della guerra dei Trent’Anni, a contendere fra loro: e quindi a disputarsi – possibilmente senza lasciarlo vedere agli avversari – la neutralità e la complicità, quando non addirittura la criptoalleanza, del sultano. Intanto l’ascendente del Montecuccoli alla corte di Vienna era arrivato al suo acme, per quanto la sua energica prospettiva strategica nei confronti del Turco fosse stata in qualche modo contestata e ostacolata per paura che una ripresa del conflitto favorisse le manovre delle potenze europee avversarie dell’impero. Nella primavera del 1667 era scoppiata una nuova guerra: l’esercito francese aveva invaso i Paesi Bassi spagnoli sulla base della cosiddetta «legge di devoluzione», seguita nel Brabante, secondo la quale i figli di primo letto potevano reclamare alla morte del loro padre la parte di eredità loro spettante. Sulla base di essa, scomparso ormai da due anni Filippo IV di Spagna, il re di Francia suo genero reclamava i diritti della sua consorte, l’Infanta Maria Teresa. Alla corte di Vienna l’ambasciatore di Spagna conte di Castellar e tutto il partito filoiberico insistevano affinché l’imperatore – a sua volta genero di Filippo IV1 in quanto marito di un’altra Infanta, Margherita Teresa, che Leopoldo aveva sposato proprio l’anno prima, nel novembre, con una cerimonia sontuosissima seguita da una festa cavalleresca che pare sia stata la più dispendiosa del secolo2: e che, oltre a essere sua nipote, era dieci anni più giovane di lui3 – intervenisse a tutela dei diritti dell’imperatrice, o comunque nel nome del «patto di famiglia» asburgico, o almeno accettasse di inviare un corpo di

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spedizione a tutela della sicurezza del Kreis imperiale di Borgogna. Il principe-vescovo elettore di Colonia, che come tutti i reggenti renani era filofrancese, cercò d’insistere presso Leopoldo sostenendo che non era il caso di impicciarsi, tanto più che quel Kreis corrispondeva a territori in massima parte di pertinenza spagnola: ma la sua posizione era troppo ovviamente interessata e il suo consiglio fu dunque mal accolto. Invece, i membri dei vari organi di governo e della corte erano profondamente divisi: il «partito spagnolo», autorevolmente rappresentato da personaggi come i conti Johan Maximilian von Lamberg e Franz Karl von Auersperg, era fautore di un intervento; gli si contrapponeva un «partito tedesco» guidato dal principe Johann Adolf von Schwarzenberg, convinto che ci si dovesse invece preoccupare solo dei confini meridionali dell’impero, tanto più che il Re Sole aveva espresso l’intenzione di rispettare scrupolosamente i diritti dell’imperiale cugina e cognata mentre rivendicava quelli della consorte, ragion per cui il vero pericolo stava nell’incombente presenza ottomana. Insieme col «partito tedesco» o dietro di esso, o addirittura al suo interno, si profilava un silenzioso ma vero e proprio «partito francese», rappresentato principalmente dal Lobkowitz, gli adepti del quale si limitavano a osservare che nulla si sarebbe potuto decidere senza il consenso delle varie diete dell’impero e dei paesi ereditari: e si sapeva bene che, quando si trattava di guerra, cioè di procurar contingenti militari o di sborsar quattrini, quelle rispondevano picche. Ora, una mobilitazione che comportasse uno sforzo in termini di raccolta di fondi e di truppe era immaginabile in quel momento soltanto se rivolta contro la Francia: per cui uno stretto legalismo era sufficiente a impedire di fatto decisioni che avrebbero potuto dispiacere a Parigi. Va da sé che, a incoraggiare i cortigiani simpatizzanti per il Re Sole o a far decidere gli incerti, arrivavano dalla Francia, o venivano promessi, buoni incentivi in danaro. Una delle ragioni per le quali Leopoldo aveva preso la sofferta e contestata decisione di adire la tregua con la Porta siglata a Vasvár era appunto quella di coprirsi le spalle ad oriente per potersi con tranquillità dedicare alle questioni interne sia dell’impero sia dei paesi ereditari della sua dinastia, entrambe caratterizzate dai pesanti postumi delle guerre e delle epidemie degli anni precedenti e da un forte dissesto finanziario. La costante presenza di un consigliere come il Portia lo aveva altresì abituato a diffidare delle richieste e delle pretese che provenivano dai suoi congiunti iberici: al punto che

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c’è da domandarsi se le nozze con la principessa spagnola avrebbero avuto luogo, qualora il potente ministro fosse stato ancora in vita. Anche un altro ascoltato consigliere dell’imperatore, il Montecuccoli, che come tutti i veri e grandi generali era un uomo di pace, lo indirizzava a seguire il più ragionevole e moderato dei tre «partiti» di corte, quello «tedesco»: era giunto il tempo di occuparsi delle faccende di casa, mettendo un istante a tacere «spagnoli» e «francesi». Del resto era proprio per questo che, una volta scomparso nel ’65 il Portia, il sovrano aveva preferito non procedere alla designazione di un vero e proprio nuovo primo ministro. Volendo dedicarsi con maggior agio agli interessi di famiglia, senza d’altronde dimenticare i doveri imperiali, Leopoldo non aveva scelta: era obbligato a trovare una linea d’accordo col re di Francia. Ci si avviò così a un periodo d’intesa franco-imperiale di cui il tempo, gran galantuomo, si sarebbe incaricato di mostrare il carattere effimero: ma che per il momento parve un’eccellente via d’uscita. Nel gennaio del ’68 Sua Maestà Cesarea e il Re Cristianissimo, cugini4 divenuti anche cognati, stipularono un trattato segreto di spartizione dell’immenso impero spagnolo, ormai considerato in via di probabile liquidazione dinastica a causa della mancanza di un erede di sesso maschile. Leopoldo avrebbe dovuto ricevere la Spagna, le colonie d’Oltreoceano e l’Italia settentrionale, mentre Luigi si sarebbe appropriato dei Paesi Bassi, della Franca Contea, della Navarra, delle basi spagnole nell’Africa settentrionale e del regno di Napoli5. Vero è che la «Grande Alleanza» interasburgica dell’anno successivo stabilì l’esclusivo diritto degli Asburgo d’Austria a succedere agli Asburgo di Spagna. Ma i patti segreti, di solito, sono più solidi e reggono più a lungo delle solenni alleanze ufficiali accompagnate da documenti sigillati e da feste di popolo e di corte. Sembrava inoltre una garanzia d’acciaio l’ascesa del filofrancese Lobkowitz a primo ministro di Leopoldo. Nel 1670 le truppe del Re Cristianissimo occuparono per intero la Lorena: la «Camera di Riunione» di Metz legittimò unilateralmente l’occupazione dichiarando tale territorio nel suo complesso una dipendenza temporale del vescovo di quella città e passando con disinvoltura sopra i diritti del Reich e della dinastia ducale6. Tuttavia i lorenesi non parevano granché dispiaciuti dell’evento, e d’altronde l’imperatore Leopoldo era preoccupato per una nuova rivolta che stava montando tra Ungheria e Croazia: gli agenti francesi soffiavano sul fuoco e il Lobkowitz fece la sua parte sottolineando che l’area

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danubiana non era tranquilla e suggerendo che non fosse quindi il caso di spingersi, riguardo alla Lorena, al di là delle proteste formali d’uso. L’accordo tra Parigi e Vienna venne ribadito l’anno successivo da un trattato segreto d’alleanza franco-imperiale7. Proseguiva frattanto inarrestabile la carriera del conte di Montecuccoli. Nel 1668 egli venne nominato presidente del Hofkriegsrat e l’anno successivo insignito dell’Ordine del Toson d’Oro. A capo del potente e prestigioso Consiglio Aulico di Guerra, egli riavviò con sistematica energia il lavoro già impostato fin dal 1649 dall’imperatore Ferdinando III, il quale aveva con molta decisione affermato che un’armata permanente era indispensabile alla difesa dei territori ereditari della dinastia asburgica e aveva per questo confidato ai suoi migliori generali una ventina di reggimenti, risparmiati dalla demobilitazione che era sembrata il loro destino dopo i trattati di Westfalia8. Ma il problema riguardava tanto i territori ereditari, quanto gli stati d’impero. Un regolamento imperiale del 1654 aveva obbligato i principi a provvedere anche in tempo di pace alla custodia militare armata delle fortezze; intanto si era disposto che i Kreise dovessero fornire in caso di guerra dei contingenti armati, l’entità dei quali fu stabilita dalla dieta imperiale nel settembre del 16819. Mentre attendeva alla riforma militare, altro elemento di base della quale oltre al reclutamento degli effettivi era la disciplina10, il Montecuccoli riprese fra le mani un’opera che aveva iniziato a scrivere fino dal 1663 e che avrebbe compiuto nel 1670, il suo capolavoro anche letterario: gli «Aforismi» Della guerra col Turco in Ungheria11, ampliamento e prosecuzione di un Discorso della guerra contro il Turco che egli aveva composto tra ’61 e ’64 e ch’era stata la premessa della grande vittoria di Szent-Gotthard12. Molto aveva appreso, il grande generale, dal Turco. Contro gli ottomani, le lente e massicce formazioni dei picchieri – formidabili contro la cavalleria pesante occidentale che caricava all’arma bianca – non servivano quasi a niente: ma il Montecuccoli contribuì solo con molta prudenza a dar un definitivo addio a quella che era stata tra fine Quattro e metà Seicento la regina delle battaglie, la picca, e a incrementare l’uso dei moschettieri che fronteggiavano adeguatamente sia gli spahi a cavallo, sia i giannizzeri armati di armi da fuoco e soprattutto dei sempre efficaci archi, la forza di penetrazione delle frecce scagliate dai quali poteva raggiungere gli 800 metri. Sempre al fine di fronteggiare le armate ottomane, egli valorizzò l’uso congiunto dei pistolieri a cavallo pesantemente armati (quelli le cui corazze

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annerite per non riflettere i raggi solari avevano fatto meritare loro l’epiteto di Schwarzreiter), della cavalleria leggera (gli ussari) e della fanteria montata che combatteva a piedi, ma si spostava a cavallo (i dragoni). Le riforme strategiche messe a punto dal Montecuccoli, il quale auspicava un esercito permanente di circa 100.000 uomini, non vennero realizzate nell’immediato: ma dalla vittoria della Raab in poi una serie di cambiamenti condusse, nell’arco di poco più di una trentina d’anni, a imporre la «Monarchia d’Austria» – ormai chiaramente distinta dal Reich, nonostante i persistenti legami che conosciamo – e a portarla a occupare un ruolo primario tra le potenze egemoniche europee, dal tiaso delle quali era ormai irreversibilmente espulsa invece la «Monarchia di Spagna». Nel nuovo esercito asburgico la cavalleria leggera copriva un ruolo fondamentale sia di disturbo delle avanzate nemiche sia d’inseguimento degli eserciti avversari in ritirata, coordinata con una cavalleria pesante che agiva di concerto tattico con i reparti di moschettieri i quali, disposti in un ordine profondo di file (almeno sei), la proteggevano costantemente ai fianchi. Intanto l’artiglieria pesante, grazie all’allungamento del suo tiro di battuta, aveva cessato di essere solo un’arma ossidionale o di protezione contro la cavalleria nemica, divenendo un sostegno per le truppe in avanzata: e in ciò la risorsa del «tiro alternato» dei fucilieri e dei cannoni svolse un ruolo fondamentale. Ma i còmpiti d’un maresciallo dell’impero non riguardavano soltanto la guerra contro il Turco. Il fronte ottomano appariva ormai stabilizzato, mentre gli eventi bellici europei ben presto ripresero e l’imperatore se ne lasciò coinvolgere: senza dubbio anche perché contava sulla stabilità della tregua con gli ottomani, nonostante la situazione ungherese che stava ormai peggiorando di giorno in giorno. Una nuova guerra vide infatti dal 1672 al 1678-79 contrapposti i francesi, che avevano invaso l’Olanda mentre il Re Sole aveva fin dal 1670 siglato un patto d’alleanza col principe elettore di Baviera, Ferdinando Maria13, alla Spagna ch’era a sua volta collegata con l’impero e con la Danimarca. Nel 1673 – con la dichiarazione di guerra alla Francia che segnava l’ingresso dell’impero nel conflitto – il Montecuccoli fu chiamato a contrastare le truppe guidate dal suo grande avversario-ammiratore (e da lui a sua volta ammirato), il Turenne, maréchal général de France dal 1660. Sarebbe stato nel contesto di queste dure contese per l’egemonia in Europa che il Turco avrebbe potuto dieci anni dopo arrivare – con la soddisfazione e non senza

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la sia pur indiretta complicità del cristianissimo re di Francia – fin sotto Vienna. Gestire la situazione non fu un’impresa facile per il General Feldmarschall che, convinto della necessità di una belligeranza della quale avrebbe pur fatto volentieri a meno, dovette in tale frangente affrontare la difficile opposizione d’una parte della corte di Vienna nella quale al «partito spagnolo», ben deciso a contrastare qualunque progresso territoriale del Re Sole a danno dell’uno o dell’altro dei rami della dinastia asburgica a sud o a nordest della Francia, si opponeva il «partito tedesco», preoccupato piuttosto di mantenere il più possibile la pace nel mondo germanico e d’indurre l’imperatore a svolgere invece scrupolosamente il suo ruolo di custode della stabilità balcano-danubiana, rispetto alla quale qualunque preoccupazione per il fronte occidentale pareva sviante. Il primo ministro Lobkowitz si era mostrato molto favorevole alle istanze del «partito tedesco»: ma ciò era ovvio dal momento che tutti lo conoscevano come un impenitente filofrancese, nonostante avesse alquanto riveduto, nel tempo, le sue convinzioni14. Il che non toglie che, nella pratica, il Lobkowitz ostacolasse il Montecuccoli nella sua politica di guerra. Del resto lo stesso nuovo nunzio pontificio a Vienna, il lucchese monsignor Francesco Buonvisi15, era portavoce dei dubbi e degli umori di papa Clemente X: il quale rimaneva fedele al suo vecchio principio dell’equidistanza tra le potenze cattoliche e dell’insistenza per il raggiungimento di una pace tra loro. Il pontefice era quindi molto contrariato per il nuovo scontro, che tra l’altro vedeva contrapposti due fronti misti entrambi di cattolici e di protestanti; ma era anche preoccupato e indignato per il vantaggio che l’imperatore, con la tregua di Vasvár, aveva accordato al sultano. La posizione del papa, fedelmente anche se flessibilmente interpretata dal nunzio apostolico, anziché semplificare le cose le complicava. In sé, era molto limpida: pace tra i cattolici, cautela e tendenzialmente chiusura nei confronti del mondo protestante, ripresa appena possibile della guerra contro il Turco. Un programma che trovava l’appoggio incondizionato dello stesso Montecuccoli, convinto che la guerra contro la Francia dovesse esser portata avanti fino a un successo che, se non poteva essere la vera e propria vittoria militare, avrebbe perlomeno dovuto necessariamente condurre a una pace vantaggiosa, ma al tempo stesso non sfavorevole a una nuova strategia crociata – in attesa di un momento opportuno – e soprattutto persuaso dell’assoluta necessità di ricondurre l’Ungheria pacificata in seno a Santa Romana Chiesa e invincibilmente avverso ai ribelli ungheresi.

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Ma in realtà l’ovvio e lineare indirizzo pontificio, interpretato dal nunzio Buonvisi, finiva col pestar equamente i piedi a entrambi i partiti presenti nella corte di Vienna: a quello spagnolo perché un’eventuale rottura della tregua con la Porta avrebbe fatalmente obbligato l’imperatore ad abbandonare o a rallentare l’impegno nella guerra d’Olanda, mentre un ulteriore giro di vite nei confronti dei protestanti avrebbe aggravato la crisi ungherese impegnando ulteriormente Leopoldo nel fronte balcano-danubiano e distogliendolo ancora di più da quello nord-occidentale; e a quello tedesco (al quale strumentalmente si collegavano, in quel momento, i filofrancesi) in quanto il ritorno a un’energica politica antiprotestante era nocivo per la concordia interna dell’impero e degli stessi stati ereditari asburgici, dove i rappresentanti delle varie confessioni riformate erano numerosi. Inoltre l’intesa col Buonvisi almeno sulle prime non era stata semplice: l’imperatore gli rimproverava difatti di essere stato forse determinante nel far trionfare presso la dieta polacca la candidatura di Jan Sobieski contro quella di Carlo di Lorena, sostenuta dalla corte di Vienna. Comunque, la replica di Leopoldo I al sommo pontefice seguiva scrupolosamente l’avviso del Montecuccoli: lavorare per una futura ripresa diplomatica dell’intesa col Re Sole, ma intanto proseguire il conflitto contro di lui, anche perché un buon andamento di esso appariva l’arma migliore per convincere il bellicoso Re Cristianissimo ad adottare più miti consigli. Gli oppositori erano tuttavia parecchi; né troppo persuaso dell’opportunità della guerra sembrava lo stesso margravio del Brandeburgo, il «Grande Elettore» Federico Guglielmo di Hohenzollern, ch’era confinante dell’Olanda e che fin dal l° settembre del 1672 aveva comunque unito il suo buon esercito, 23.000 uomini, ai 17.000 imperiali. Il nunzio apostolico a Vienna dovette far buon viso all’ingresso di quel principe calvinista, eccellente capo militare, nella lega antifrancese: ma tale episodio ribadì la sua convinzione che bisognava far presto a raggiungere la pace. D’altronde Leopoldo, il Buonvisi e il Montecuccoli erano concordi nel ritenere che fosse il caso di adottare nei confronti del mondo riformato una strategia a doppio binario: un conto erano i principi e gli stati protestanti, con i quali si poteva trattare e collaborare, un altro i protestanti presenti come minoranze nelle compagini civili cattoliche, che andavano al contrario ostacolati e repressi in ogni modo. Da questo punto di vista la politica di tolleranza di Leopoldo in quanto imperatore non si accordava con quella di Leopoldo sovrano della «Monarchia d’Austria».

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Il General Feldmarschall ottenne buoni successi contro il Turenne sulla linea del Reno: ma all’inizio del ’74 rientrò a Vienna indignato per i continui intralci che burocrati e amministratori opponevano al suo lavoro e dichiarò di rifiutarsi di riassumere la responsabilità della guerra se non gli fosse stata accordata effettiva libertà di movimento come comandante supremo. Senonché, in sua assenza, il Turenne sbaragliò tutti gli altri generali dell’impero: la sua campagna invernale nei Vosgi è considerata ancor ai nostri giorni un capolavoro tattico, un modello da manuale. Leopoldo richiamò allora con urgenza il Montecuccoli, che tuttavia riassunse il comando soltanto nell’aprile del ’75: ed esclusivamente dietro assicurazione che nessuno avrebbe potuto da allora condizionarlo e che sarebbero stati stanziati 60.000 talleri per i bisogni dell’esercito. Seguirono tre mesi di manovre e di contromanovre, tra il maggio e il luglio: in apparenza una snervante sequenza di mosse non sempre congrue, in realtà un raffinato duello tra due strateghi di genio, sia pur non esente da errori da entrambe le parti originati forse dal fatto che i due comandanti, stimando fin troppo l’uno l’intelligenza dell’altro, eccedevano in prudenza. Le cose andarono ad ogni modo come certamente desiderava il comandante imperiale, paziente fautore d’una strategia annientatrice piuttosto che risolutiva e quindi in linea di principio avverso ai grandi scontri campali: non si giunse mai alla battaglia frontale. Il General Feldmarschall non riuscì ad entrare in Alsazia; ma il Turenne non ce la fece a fargli riattraversare la Selva Nera con la vecchia codaccia di lupo dell’Appennino modenese fra le gambe, come si era invece ripromesso. Eppure a volte basta un miserabile inghippo a fermare il più nobile dei cuori. A Salzbach, una banale palla di cannone abbatté monseigneur le maréchal général de France: al «fraterno nemico» il Montecuccoli presentò cavallerescamente le armi – «È morto un uomo che faceva onore all’umanità!» – e si guardò bene, da perfetto gentiluomo cattolico, dall’approfittare dello sbandamento dei francesi seguito alla morte accidentale del loro illustre comandante. Solo qualche giorno più tardi, ad Altheim, impegnò di nuovo il nemico in un episodio campale d’una qualche importanza, che naturalmente lo vide vincitore. Quella fu l’ultima sua grande campagna. Ormai anziano e sofferente, il General Feldmarschall si ritirò dalla scena. Nel 1676 la morte dell’ancor giovane consorte lo aveva definitivamente prostrato. Si limitò solo a sollecitare dall’imperatore la concessione del titolo di principe, che più volte gli era stato promesso e mai accordato: alla

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fine, l’ottenne. Morì a Linz, il 16 ottobre del 1680. Riposa a Vienna, in una cappella della chiesa dei Nove Cerchi Angelici, sulla piazza Am Hof, di fronte al palazzo imperiale; ma il cuore e le viscere sono onorevolmente e umilmente sepolti nella Kapuzinergruft, accanto alle tombe dei suoi diletti sovrani di casa Asburgo che egli aveva servito per cinquantacinque anni con fedeltà di cavaliere. All’atto della scomparsa del General Feldmarschall dalla scena di questo mondo l’equilibrio dello scacchiere sudorientale europeo, che dopo la battaglia di Szent-Gotthard era apparso dotato di prospettive di lunga stabilità, si era ormai quasi del tutto deteriorato perché molto mutati ne erano contesti e condizioni. L’impero ottomano, che nel ’64 aveva concluso con una dura sconfitta una guerra, aveva in cambio stravinto la pace successiva. Mai fino ad allora esso aveva raggiunto un’estensione talmente ampia: i suoi confini settentrionali toccavano quasi Zagabria e Kiev includendo gran parte della Croazia, l’Ungheria con la Transilvania e la Podolia. Tra il 1672 e il 1676 la Porta – come tra poco vedremo meglio – era scesa in guerra contro la Polonia, tormentata frattanto dai continui attacchi dei tartari e dei cosacchi: quella «guerrilla predatrice» considerata «leggera» dai teorici delle cose militari16 al confronto della «guerra pesante» degli scontri in campo aperto e degli assedi, ma che sapeva essere tanto crudele quanto efficace. Era attraverso quella feroce guerra di razzia che gli ottomani contestavano ai polacchi il controllo dell’Ucraina. La Porta ora incoraggiava i cosacchi di quella regione a conseguire un’indipendenza di fatto sia dai polacchi sia dai russi17. Ma i ripetuti assalti alla fragile e divisa compagine polacco-lituano-rutena18 non furono per il governo sultaniale una scelta troppo opportuna. Il regno elettivo polacco – o, se si preferisce, la repubblica governata da un re – era diplomaticamente legato alla politica del Re Sole, della quale pareva talvolta addirittura succube; ciò era per la Porta una garanzia in quanto comportava la necessità di una certa prudenza, spinta fino alla debolezza, nella risposta agli attacchi ottomani. Un troppo deciso impegno militare contro il Turco sarebbe stato obiettivamente un appoggio all’impero romano-germanico nello scacchiere balcanico e sarebbe dispiaciuto a Parigi19. Nella respublica Polonorum, dominata da un’orgogliosa e cavalleresca aristocrazia che eleggeva il suo re – come, secondo il venerabile modello del principatus nell’antica repubblica romana (concepito e praticato da Augusto o da Traiano), fin dal X secolo si faceva nel regno di Germania (e quindi nell’impero romano-germanico), e come nella

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repubblica di Venezia si eleggeva il doge –, salire al trono (e, soprattutto, restarci efficacemente) poteva essere una bella gatta da pelare. La nazione polacca, che fin dal medioevo era strettamente collegata alla Lituania ma non si era mai fusa con essa e che guardava alla vicina Ucraina come a un territorio da contendere a russi, a cosacchi e a turchi, aveva sviluppato un suo forte senso identitario lottando per mantenere quella specificità religiosa della quale andava fiera. Gli slavi polacchi e i balti lituani avevano dovuto faticosamente guadagnarsi la libertà, tra Due e Quattrocento, tenendo a bada un formidabile vicino, che a lungo li aveva signoreggiati: l’Ordine ospitaliero di Santa Maria, quei religiosi-cavalieri che noi designiamo oggi con la non proprio esatta, ma ancor terribile definizione di Cavalieri Teutonici. Ma il fatto che l’ultimo Gran Maestro, Alberto di Brandeburgo, fosse passato alla Riforma e da laico si fosse insignorito delle terre dominate dall’Ordine, aveva radicato ancor più i polacchi nella loro identità cattolica e slava di fronte ai tedeschi protestanti dell’ovest; mentre ad est vi erano altri slavi certo, ma «scismatici», quelli del granprincipato di Moscovia che si era ormai orgogliosamente autodenominato «impero» e che trovava nell’ortodossia il più autentico pilastro e la giustificazione primaria per proclamarsi erede della basileia bizantina; e a sud, minacciosi, i musulmani turchi di Podolia e tartari di Crimea, che erano in realtà tutto quel che restava della gloriosa e tremenda Orda d’Oro. Circondati da protestanti, ortodossi e musulmani, i cattolici polacchi erano andati in cerca di alleanze guardando verso l’Europa occidentale: ma nel Cinque-Seicento non avevano potuto trovarne nella Germania formalmente soggetta al Sacro Romano Impero, dove il sovrano doveva tenere troppo conto dei principi e dei popoli riformati nelle terre del Reich, mentre, in quanto signore ereditario di parte dell’Ungheria e della Boemia, minacciava a sua volta da sud-ovest il confine polacco. Trattare con l’Inghilterra, protestante e quindi apostata essa stessa, giammai, tanto più che essa era alquanto lontana; la Svezia, luterana e aggressiva, era una nemica naturale che minacciava la Polonia sul Baltico. Restava la Spagna: cattolica certo, ma dominata tuttavia dalla dinastia regia degli Asburgo imparentata con il non amico ramo germanico. E allora, a chi mai guardare? A chi offrire come privilegiato interlocutore e cliente i grassi prodotti del suolo polacco, la carne, il grano, il cuoio, che avevano permesso alla nobiltà del paese d’ignorare la crisi economica del Cinquecento, quella che con il nome di «rivoluzione

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dei prezzi» aveva messo in ginocchio soprattutto i paesi soggetti alla monarchia di Spagna? A parte il papa, era chiaro chi poteva presentarsi come il grande amico della Polonia: la cattolica e antiasburgica Francia, naturalmente. Difatti, tra nobiltà francese e nobiltà polacca si era stabilito un legame stretto, che aveva consentito a molti aristocratici della pianura dell’est di scendere spesso tra i vigneti della dolce Francia e di organizzare anche una buona politica matrimoniale con illustri casate francesi. In cambio, il Re Cristianissimo non nascondeva la sua ferma e costante volontà di occuparsi delle cose polacche e di voler dire la sua quando i nobilissimi, arditi e pittoreschi aristocratici della «Sarmazia d’Europa» sceglievano il loro sovrano: per quanto sapesse bene che quel «re» era qualcosa di particolare, il primus inter pares di una repubblica, un po’ come – con molte differenze – il doge di Venezia o lo stadhouder delle Province Unite d’Olanda, Zelanda e Utrecht. E l’erede della prima corona cristiana d’Europa, della «nazione figlia prediletta della Chiesa», si ostinava – nonostante l’amicizia – a negare l’appellativo di «Maestà» a quel sovrano eletto da rumorosi boiari. «Take a soldier, take a king»20 E a questo punto ci imbattiamo in un altro dei protagonisti della nostra vicenda. Jan Sobieski era nato a Olesko, presso Leopoli, nel 1624: suo avo materno era l’eroico atamano T¸ółkiewski. Fu educato a Parigi, secondo appunto gli usi dell’aristocrazia polacca del tempo21; in seguito viaggiò a lungo in vari paesi d’Europa finché non venne richiamato in patria, minacciata in quel momento dall’insurrezione ucraina guidata da Bogdan Chmielnicki22 che era riuscito nel 1648 a riunire i contadini ortodossi, servi dei latifondi dell’oltre-Dnepr e stanchi dei loro padroni polacchi, e le inquiete tribù cosacche zaporoghe23, che nel 1654 si sarebbero poste in odio alla Polonia sotto il patronato dello czar. I meriti militari guadagnati dal Sobieski nelle continue guerre contro i cosacchi e i turchi gli procurarono presto il titolo di grande maresciallo del regno. Tuttavia, l’episodio forse centrale della sua vita fu una storia d’amore. Nel 1649 l’appena eletto e incoronato re Giovanni II Casimiro aveva sposato la vedova di suo fratello e predecessore Ladislao24, Maria Luigia Gonzaga Nevers25, figlia di Carlo I Gonzaga duca di Mantova e sicuro alleato della Francia nella penisola italica. La dama

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due volte regina aveva al suo seguito alcune damigelle di compagnia tra le quali sembra si distinguesse per grazia e bellezza Marie-Adelaïde de la Grange d’Arquien, che le era talmente legata da mutare il suo nome originario in quello di Marie-Casimire, in omaggio al consorte della sua protettrice. Il giovane Sobieski l’incontrò a corte: e fu un vero e proprio amore a prima vista per quella donna diciassette anni più giovane di lui26. Pare che i sentimenti di Jan – ma qui il racconto dei biografi si tinge molto di rosa – fossero immediatamente e profondamente ricambiati: il fatto è tuttavia che la diciassettenne fanciulla era andata nel 1658 sposa a Jan Zamoyski, vojvoda di Sandomierz. Una storia non si sa quanto attendibile, comunque tutto sommato verosimile, narra di un patetico incontro tra i due infelici innamorati e del loro giuramento, tra le lacrime, di unirsi se la sorte avesse voluto che Marie-Casimire restasse vedova: cosa che in fondo non sembrava poi così probabile, dato che il vojvoda era, all’atto delle nozze, appena trentunenne. Ma le cose non sono troppo chiare: non si capisce a onor del vero se e quando Jan divenne l’amante di Marie-Casimire e il ruolo in ciò giocato dalla regina, ben decisa ad annoverare il Sobieski tra i suoi seguaci e sostenitori politici. Comunque, la corrispondenza fra i due innamorati fu da allora fittissima, anche quando la dama dovette spostarsi a Parigi. Nell’aprile del 1665, l’ingombrante Zamoyski ebbe il garbo di andarsene all’altro mondo. Le storie ci fanno assistere allora alla focosa partenza di Jan incontro all’amata, alla testa di un favoloso corteggio di centinaia di cavalli e cavalieri sferragliante d’armi e sfolgorante di colori. Questa era la «Sarmazia europea»!27 Il sogno d’amore fu così coronato: i due amanti poterono unirsi segretamente già dal maggio di quell’anno e convolare quindi nel luglio successivo a pubbliche nozze, solennizzate dal nunzio pontificio Antonio Pignatelli28. Prezzo per la sospirata unione fu il deciso passaggio del Sobieski alla causa della regina, cioè a quella dell’allineamento sulle posizioni favorevoli al re di Francia. A sancire il loro rapporto con il lontano ma amico paese, essi ottennero addirittura che Luigi XIV fosse padrino del loro primogenito Jakub, nato nel novembre del ’67. Ma gli avvenimenti premevano. La nobiltà mordeva il freno, lacerata tra opposti partiti fautori rispettivamente di un’egemonia asburgica e di una francese sulla Polonia: una parte dell’aristocrazia e dell’esercito, tra cui i turbolenti esponenti della piccola nobiltà guerriera, la szlachta, aderì nel 1665-66 alla confederazione (rokocs) promossa da Jerzy Lubomirski, gran maresciallo della corona, av-

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versa al sovrano. Nel settembre del 1668, terminate le lunghe guerre polacco-russe che erano durate tredici anni, dal 1654 al 166729 – complicate dalla cosiddetta «seconda guerra del Nord», fra 1655 e 1660, contro gli svedesi30 – e durante le quali la Polonia aveva dovuto abbandonare qualunque proposito di dominio sull’Ucraina, Giovanni II Casimiro fu obbligato ad abdicare. Dopo un tempestoso anno d’interregno, salì al trono elettivo Michele Korybut Wis´niowiecki, rappresentante della fazione filoasburgica in quanto sposo di una principessa di quella dinastia – l’arciduchessa Eleonora Maria Giuseppina sorellastra dell’imperatore Leopoldo I31 – nonché sostenuto dalla szlachta delle regioni orientali del paese, che pretendeva una politica dura contro i cosacchi e i contadini. Ma dal punto di vista politico il ricco proprietario terriero Michele era una personalità piuttosto modesta: egli, in una disgraziata guerra contro l’impero ottomano il cui esercito era riuscito a impadronirsi della formidabile fortezza di Kamienec Podolski32, finì nel 1672 per cedere ad esso, con il trattato di Buczacz, la Podolia e l’Ucraina meridionale, su cui fino ad allora i polacchi avevano mantenuto un qualche controllo. Era la disfatta, la disperazione. L’impero ottomano, al quale la pace di Candia del 1669 che chiudeva definitivamente la guerra cominciata nel ’45 aveva consentito finalmente d’intervenire con energia nello scacchiere russo-polacco, raggiungeva ora la sua massima estensione. Ma era, per molti aristocratici polacchi, anche la prova che l’alleanza asburgica non garantiva affatto – contrariamente a quel che i suoi fautori sostenevano – una più efficace difesa contro il Turco. A torto o a ragione, molti giudicavano (e la fazione nobiliare filofrancese soffiava sul fuoco) che re Michele si fosse comportato a Buczacz con lo stesso spirito colpevolmente remissivo – cioè «vigliacco», nell’eroica visione dei bellicosi cavalieri polacchi – con il quale il suo illustre cognato si era comportato a Vasvár otto anni prima. In realtà i magnati, in una qualche misura fingendo di preoccuparsi di un’eventuale ripresa delle ostilità ottomane invero non troppo probabile, spingevano per riaprire la guerra e cancellare il vergognoso trattato. Al fine di ottenere una convergenza su tale programma, Clemente X inviò a Varsavia come nunzio straordinario uno dei suoi migliori diplomatici, il già citato Francesco Buonvisi, che prima di partire avrebbe dovuto cercare in ogni modo di estorcere anche ai principi elettori del Reno la promessa di un loro appoggio ai polacchi nel caso di una ripresa delle ostilità contro il Turco. Ovviamente, ciò non fu possibile: gli arcivescovi-principi

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risposero di essere molto preoccupati per la guerra d’Olanda che divampava non lontano dai loro confini, a occidente. Ma dietro a tutto il complesso quadro diplomatico del momento c’era, onnipresente, il Re Sole: il quale aveva tutto l’interesse alla riapertura del fronte polacco-ottomano ad est per creare una preoccupazione all’imperatore, ma non intendeva consentire ai suoi amici renani di recar man forte a chi intendeva arginare il Turco. Eventuali progressi militari degli ottomani avrebbero, al contrario, reso impossibile a Leopoldo di aiutare gli olandesi. Arrivato a Varsavia il 27 gennaio del ’73, il nunzio Buonvisi si adoperò per una pacificazione tra magnati che consentisse l’attuazione del suo progetto di ripresa della guerra contro la Porta. A guidarla, il più adatto era ovviamente il comandante in capo dell’armata, l’atamano della corona Sobieski: l’esborso di 10.000 fiorini rese più convincenti le argomentazioni dell’ambasciatore papale. La dieta votò pertanto la ripresa del conflitto: e il Buonvisi ottenne in premio nel luglio l’ufficio di nunzio ordinario, in sostituzione di monsignor Angelo Maria Ranuzzi. Quando re Michele venne a mancare, nel novembre del 1673, prese ad ascendere inarrestabile la stella dell’atamano della corona, che nonostante le sconfitte aveva dato ottime prove di coraggio e d’intelligenza strategica ed era l’unico ritenuto in grado di fronteggiare il pericolo turco: e che proprio l’11 novembre, immediatamente dopo la scomparsa di re Michele, aveva clamorosamente battuto a Chotyn le forze ottomane, imprimendo con tale vittoria un’inversione di tendenza alla storia di tutta l’area euro-orientale a nord del Mar Nero. Dopo la pace di Buczacz la Porta si era illusa, grazie alla sua sovranità sui tartari di Crimea, di poter imporre definitivamente la sua egemonia sull’Ucraina e sulla stessa Polonia: ma grazie a quella battaglia, che aveva segnato la peggiore sconfitta mai inferta in terraferma agli ottomani da un’armata cristiana e che per un certo tempo parve oscurare la stessa gloria del Szent-Gotthard, ora tutto sembrava cambiato. Il vincitore di Chotyn, noto per l’affetto che lo legava alla Francia, sposo di una gran dama francese, non aveva tardato a guadagnarsi l’appoggio della diplomazia del Re Sole rappresentata dall’ambasciatore Toussaint de Forbin-Janson, vescovo di Marsiglia33. Luigi XIV avrebbe voluto per la verità veder occupato il trono da uno dei suoi cugini, il Gran Condé o suo figlio il duca d’Enghien: ma, tramontate queste ipotesi, l’importante era sbarrar la strada al candidato imperiale, Carlo V pretendente al perduto ducato imperiale

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di Lorena, che il re di Francia – il quale aveva usurpato le sue terre – considerava pour cause uno dei suoi nemici capitali34. Il Forbin-Janson, giunto a Varsavia ai primi del maggio 1674, si presentò immediatamente al cospetto della dieta riunita per l’elezione regia con il mandato di appoggiare il nuovo candidato del suo signore, il conte palatino Johann Wilhelm di Neuburg: si trattava pur sempre di un principe dell’impero, il che si sperava avrebbe ammorbidito l’opposizione dell’imperatore e lo avrebbe indotto a ritirare la candidatura del duca di Lorena. L’ambasciatore riteneva di poter contare al riguardo sull’appoggio sia dell’atamano Sobieski sia del gran tesoriere del regno Morsztyn, che era sul libro-paga del Re Sole: ma dovette ricredersi quando si rese conto che a sfavore di qualunque candidatura venisse proposta a nome del suo sovrano militava, oltre alla pesante questione di molte pensioni da questi ordinariamente corrisposte o promesse a parecchi magnati della respublica Polonorum ma da tempo in arretrato, anche l’ormai esplicita volontà del Sobieski, che era fortemente sostenuto – anzi, a dir la verità, spinto – dalla consorte Marie-Casimire, che i polacchi chiamano ancora familiarmente «Marysien´ka», di candidarsi al trono. Superato un momento di perplessità, l’inviato di Luigi XIV si rese conto ch’era tanto inutile sostenere il conte palatino quanto opportuno, invece, appoggiare la candidatura del Sobieski, lucrando così presso di lui un buon credito di gratitudine. Il nunzio pontificio nutriva invece qualche iniziale dubbio su quell’irruento e corpulento soldato: finì tuttavia per schierarsi anch’egli a suo favore35, adattandosi al parere del papa al quale – una volta sfumata l’aleatoria prospettiva di una candidatura del nipote, Gaspare Altieri – piaceva l’idea che a seder sul trono fosse colui che aveva umiliato a Chotyn gli ottomani. Non che il Buonvisi fosse comunque del tutto persuaso della scelta: egli temeva, non senza fondamento, che il nuovo re avrebbe finito con il lasciar perdere la guerra al Turco che contrastava con la linea politica francese. Avversaria decisa all’elezione dell’atamano restava invece la reginavedova, sorellastra dell’imperatore Leopoldo. Essa era però poco incline a tener conto della volontà del suo imperiale congiunto: per cui non è detto che la sua posizione dipendesse in qualche modo da una ‘soffiata’ d’origine viennese. Il Sobieski fu eletto il 21 maggio del 1674: avrebbe regnato ventidue anni, fino alla morte. Tra i suoi primi atti vi furono due trattati segreti con la Svezia, stipulati tra 1675 e 1677, che collegavano for-

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temente la Polonia al blocco antiasburgico franco-svedese cui aderivano anche i magnati protestanti ungheresi ostili alla monarchia di Vienna. Il ventilato appoggio polacco agli ungheresi ribelli e le prospettive di rivendicazione polacca sulla Slesia e sulla Prussia obbligarono l’imperatore a spostare alcune truppe dal fronte del Reno allo scacchiere orientale: ed era proprio quel che il Re Sole voleva. Andavano prendendo corpo gli impegni che il nuovo re aveva assunto il 13 giugno del 1675 a Jaworów con i plenipotenziari francesi: essi gli avevano fruttato un introito immediato di 100.000 scudi e la prospettiva di ottenerne altri 200.000 all’anno, anche se gli avevano suscitato contro parecchie inimicizie all’interno del suo regno. Insomma, il nuovo scenario si apriva su una conferma dei timori del Buonvisi il quale però, non avendo appoggiato la candidatura di Carlo di Lorena, si era intanto inimicato l’imperatore. Si era trattato insomma, per il nunzio, di una mezza vittoria: e le mezze vittorie sono anche mezze sconfitte. Gli agenti provocatori di Luigi XIV, ben provvisti di danaro per corrompere magnati e funzionari, lavoravano bene: l’accordo di Jaworów aveva indebolito la compagine imperiale ad occidente, ma aveva anche compromesso definitivamente le prospettive di un’intesa polacco-imperiale in funzione antiottomana, provocando la delusione del papa e il furore di Leopoldo. Intanto il Buonvisi, che veniva ritenuto responsabile per tutto ciò, si era subito scontrato con il nuovo re di Polonia per una questione onorifica: il Sobieski rimproverava al papa lo sgarbo della mancata concessione alla regina Maria Casimira della «rosa d’oro» pontificia, ambito segno d’onore della Santa Sede. A quel punto era necessario un promoveatur ut amoveatur. Difatti nel settembre del ’75 monsignor Buonvisi si vide trasferito dalla nunziatura di Varsavia a quella di Vienna, «come premio – scrive egli stesso, con amara ironia – di haver pacificato l’intestine discordie della Polonia»36. Ed era davvero un premio avvelenato, da parte di papa Altieri, quello di spedirlo proprio presso Leopoldo: il quale gli rimproverava tanto la mancata ascesa al trono polacco del suo protetto Carlo di Lorena quanto l’elezione di un candidato che non solo aveva favorito l’intesa franco-svedese, ma dava perfino mostra di appoggiare i ribelli protestanti magiari. Invece i reali effetti politici e militari dell’ascesa al trono di colui che d’ora in poi non chiameremo più Jan Sobieski, bensì Giovanni III di Polonia, non si fecero attendere: e furono in buona parte inaspettati. Il nuovo sovrano sapeva far tesoro da maestro dell’imprevedibi-

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lità degli avvenimenti. Un’ulteriore offensiva ottomana, rivolta ora contro la Russia, fu respinta grazie all’impegno polacco e si concluse con la conquista russa di Czehryn´ e la sottomissione dei cosacchi di Pjotr Dorošenko37: nel 1675 l’Ucraina tornava alla Polonia. Il 2 febbraio del 1676 Giovanni celebrò in Cracovia l’incoronazione con uno spettacolare fasto «sarmatico» e barocco. Ma una delle sue prime concrete preoccupazioni fu il rinforzare le sue armate, incorporando nelle forze regolari circa 10.000 reclute provenienti dalle milizie reclutate sulla base degli obblighi territoriali38. Cominciavano intanto a manifestarsi indizi sicuri di un prossimo attacco ottomano che non si sarebbe fatto attendere a lungo. Il nuovo re indisse pertanto una grande leva militare, che gli avrebbe consentito di disporre di 50.000 reclute polacche e di 16.000 lituane: le resistenze dei magnati furono superate solo attraverso l’imposizione di nuove tasse, di parte delle quali essi erano autorizzati a disporre. In effetti, un potente esercito turco-tartaro aprì nell’estate del ’76 le ostilità puntando direttamente sulle roccaforti polacche di Chotyn e di Kamenec; notizie inquietanti giungevano frattanto dalla Transilvania, il cui principe Mihály Apafi era ormai, dopo la tregua di Vasvár, vassallo del sultano, e – per quanto la Porta lo considerasse non senza ragione infido – sembrava adempiere al suo ruolo con un certo zelo. Nonostante le insistenti raccomandazioni del Re Sole, che per nulla al mondo avrebbe voluto veder l’amica Polonia in guerra contro il suo cripto-alleato turco ma avrebbe preferito saperli entrambi impegnati a differente titolo in una politica che procurasse ostacoli all’imperatore, lo scontro era ormai inevitabile. Tuttavia, tra scuse e rinvii dei magnati, re Giovanni si trovò alla fine a disporre di soli 16.000 armati polacchi, cui si aggiungevano 5000 lituani e un contingente cosacco: in tutto, meno di un terzo degli effettivi previsti. Ciò nonostante egli si mosse contro un nemico le cui forze apparivano soverchianti: difatti il comandante ottomano, il pas¸a di Buda Ibrahim detto Shaitan39, disponeva di circa 50.000 uomini fra turchi e tartari. Per salvare la forma e fornire a Luigi XIV una prova estrema di buona volontà, il re spedì il 16 settembre da Leopoli al campo ottomano un’ambasceria incaricata di saggiare le possibilità di un accordo che all’ultimo istante avrebbe evitato lo scontro. Ma era troppo tardi: informato dell’esiguità delle forze cristiane e certo pertanto della vittoria, Ibrahim Pas¸a non voleva farsi sfuggire l’occasione. Lo scontro avvenne presso la città di T¸urawno, tra i boschi e le paludi del Dnestr: fu lungo e sanguinoso, ma non risolutivo. Tut-

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tavia, col favore delle tenebre nel frattempo sopraggiunte, i polaccolituano-cosacchi poterono rifugiarsi entro la cerchia muraria urbana, dove resisterono per venti giorni a uno spietato assedio. Quella miracolosa resistenza fu possibile soprattutto grazie alla ferma volontà di Giovanni, che non esitò a profondervi a piene mani tutte le sue sostanze. È rimasta celebre, nella memoria polacca, l’immagine del re che a cavallo visita i suoi accampamenti gettando in aria a piene mani delle monete d’oro attorniato dalla feroce allegria dei cosacchi che si assiepano attorno al suo cavallo: essi lo ricambiarono con il consueto ardimento40. La «questione ungherese» L’umido e piovoso autunno era ormai avanzato ed entrambe le parti erano stanche. Il re sarebbe venuto a quel punto volentieri a patti, anche perché non si fidava affatto dei suoi vicini cristiani, cioè né del Brandeburgo protestante, né della Russia ortodossa; tuttavia gli ottomani erano irremovibili almeno per quanto riguardava il loro possesso della fortezza di Kamenec, considerata una delle chiavi strategiche dell’area polacco-ucraina. D’altronde si faceva sentire la volontà del Re Sole, il quale intendeva evitare adesso che il protrarsi del conflitto preoccupasse troppo Leopoldo I, inducendolo a premunirsi nei confronti di quel che frattanto stava per accadere in Ungheria: i due residenti francesi, il Forbin-Janson a Varsavia e il marchese di Nointel41 a Istanbul, premevano affinché si ponesse fine allo scontro. Si giunse quindi, nella medesima città di T¸urawno, a un armistizio firmato il 26 ottobre e che sarebbe stato ratificato due anni dopo nella pace di Istanbul. Grazie ad esso, gli ottomani restavano padroni della fortezza di Kamenec e di parte dell’Ucraina, mentre la Podolia interna diveniva un pas¸alik turco; nonostante i polacchi si vedessero confermato il controllo del resto della regione, nella sostanza gli accordi riprendevano quelli stipulati quattro anni prima a Buczacz. Le armi tacevano, con sollievo del mondo polacco; il re ne usciva aureolato di gloria; ma praticamente non si era guadagnato nulla. La tregua suscitò le immediate proteste del papa e dell’imperatore, delusi per l’atteggiamento del sovrano del paese considerato l’antemurale Christianitatis e irritati perché sapevano bene chi era stato l’occulto – ma non troppo – regista del trattato. Giovanni fu comunque esplicito nel replicare che la situazione lo aveva obietti-

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vamente spinto alla scelta di deporre le armi, ma che avrebbe potuto riprenderle in qualunque momento: a patto però di essere veramente e concretamente sostenuto dagli altri paesi cristiani. Quell’episodio fu probabilmente decisivo nel convincere il pontefice, come subito vedremo, che fosse necessaria una vera e propria lega antiturca. A Parigi invece, dove risiedeva il vero beneficiario dell’armistizio, si esultò: Luigi XIV scrisse al collega polacco una missiva di congratulazioni per «un bien si general pour votre couronne et pour toute la Chrestienté»42. La paziente rete annodata dal Re Cristianissimo sembrava ormai avvolgere l’intero est europeo. Polonia, Svezia e ribelli ungheresi si collegavano obiettivamente in un vasto e articolato asse antiasburgico43, per quanto non del tutto coerente: ne era fulcro la Francia e ad esso, nella sostanza, finiva con l’accedere il sultano stesso. Tuttavia il sovrano polacco non era né tranquillo, né soddisfatto; insofferente di vedersi costretto a oscillare tra la tutela imperiale e quella francese, egli dava segni di voler condurre una politica originale. La vicina Ungheria era, in quel torno di tempo, divisa come sappiamo in tre parti44: un’area molto modesta, a nord-ovest, re elettivo della quale era l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo che governava tramite un principe palatino di solito chiamato, semplicemente, «palatino»45; la Transilvania, ad est, guidata da un principe vassallo della Sublime Porta; e una regione direttamente soggetta al Turco e governata dal pas¸a di Buda. Nell’Ungheria regia molti erano gli scontenti, specie tra gli aristocratici protestanti che contrastavano la politica di ricattolicizzazione imposta da Leopoldo. Si era andato creando un movimento d’opposizione piuttosto vasto, che alternava una dissidenza a tratti più o meno decisa a momenti di autentica ribellione. Esso aveva trovato un punto di riferimento nel bano di Croazia Míklos Zrínyi, l’avversario accanito del Montecuccoli, e dopo la sua morte in un gruppo di magnati alla testa del quale si trovavano suo fratello Petar46, il palatino Ferenc Wesselényi47 e lo iudex curiae48 Ferenc Nádasdy49, i quali fino dal ’68 si erano uniti in una specie di movimento antiasburgico organizzato che aveva acquistato sempre più spazio presso la media e piccola nobiltà soprattutto protestante. Il gruppo dei dissidenti si era messo in contatto con Jacques Betel de Grémonville, cavaliere di Malta che dopo aver combattuto per i veneziani a Candia fino al 1661 era stato nominato residente del re di Francia a Vienna50. Nel ’70, in seguito a una vera e propria cospirazione organizzata da quei magnati, si erano verificati nell’Ungheria settentrionale di-

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sordini che Leopoldo I, in quel momento impegnato a contrastare l’attacco di Luigi XIV contro la Fiandra spagnola, aveva avuto difficoltà a reprimere51. I congiurati contavano sull’appoggio sia del re di Francia, sia della Porta: ma non riuscirono a convincere nessuno dei loro due possibili alleati a intervenire con decisione. Il movimento fu dunque stroncato sul nascere e i suoi capi giustiziati l’anno successivo a Wiener-Neustadt. Il governo asburgico adottò a quel punto la linea della durezza e dell’imposizione del cattolicesimo controriformista a un paese i cui ceti aristocratici erano largamente guadagnati alle tesi riformate: i magnati prevalentemente al calvinismo, i nobili minori ad esso o al luteranesimo. L’occupazione militare e la repressione politica e religiosa provocarono la resistenza armata, sotto forma di guerriglia; ma indussero anche molti ungheresi a fuggire, riparando nella porzione del territorio ungherese sotto controllo turco oppure in Transilvania. Va da sé che la pur cattolicissima Francia continuava naturalmente ad appoggiare la nobiltà protestante ungherese: politique d’abord. Anzi, a partire dal 1674 Luigi XIV – d’altronde in quel momento impegnato nella guerra d’Olanda, nella quale doveva fronteggiare anche l’impero – non esitò a scoprire le sue carte alleandosi apertamente con i ribelli. Si andava intanto avvicinando la scadenza della tregua ventennale di Vasvár52: se l’imperatore Leopoldo era ben deciso a rinnovarla, l’atteggiamento del sultano Mehmed IV appariva al contrario infido e sfuggente. Accadde a quel punto un fatto molto importante, che fece senza dubbio anche al momento molto rumore: meno tuttavia di quanto avrebbe dovuto. Il 3 novembre del 1676 era inaspettatamente morto, sulla strada tra Istanbul e Edirne, il gran visir Fazil Ahmed Köprülü, stroncato forse dalle ormai lunghe fatiche di guerra e di governo, forse dalla sua non troppo coranica passione per le bevande inebrianti. Gli era immediatamente succeduto senza difficoltà alcuna un suo fratello adottivo ch’era anche suo cognato, Kara Mustafa, il quale fin dai suoi primi passi di governo aveva dato segni di voler tornar a riprendere la via dell’espansione balcanica: e aveva preso subito a insistere in tal senso presso il sultano Mehmed, non solo perché convinto che il momento fosse propizio, ma anche perché personalmente invogliato dalle ricche prospettive di bottino che l’impresa balcanica gli avrebbe personalmente procurato. Era un uomo intelligente e lucido, ma anche ambizioso, crudele, avido e infido; come relativamente di rado

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accadeva tra gli alti dignitari della corte ottomana, era musulmano di nascita, figlio di uno spahi anatolico; il suo disprezzo per i cristiani e gli europei era autentico e profondo quanto il rispetto per la famiglia dei Köprülü che lo aveva adottato, ma non condivideva la passione del fratellastro per le bevande alcooliche. Si era fatto le ossa nel servizio di mare: nel 1663 era stato nominato ammiraglio della flotta sultaniale dell’Egeo53 e in quanto tale si era misurato con le galee veneziane. Godeva di un forte ascendente sul sultano Mehmed, circa tredici anni più giovane di lui. Suo immediato obiettivo era l’Ungheria settentrionale: ma da lì, le armi del sultano avrebbero potuto minacciare tanto l’Austria quanto la Polonia. Tuttavia, l’impegno militare del suo esercito contro i cosacchi e la Russia gl’impedì, fino all’armistizio russo-ottomano del 1681, di pensar sul serio al fronte ungherese. Le notizie relative al nuovo clima politico che si respirava sul Bosforo correvano veloci: e cresceva nell’Europa centro-orientale la sensazione che il tempo ormai scarseggiasse. In realtà la tregua stipulata a Vasvár non aveva funzionato in tutto e per tutto: per tutta la lunga linea di frontiera, le reciproche scorrerie erano un male cronico; e lo stillicidio delle violenze aveva finito col procurare danni ai quali si era abituati, ma che nel loro complesso si rivelavano ingenti. Sentimento comune era che la situazione si fosse ormai talmente deteriorata che sperare in un rinnovo della tregua sarebbe stato follìa. Ma ciò, per quanto fosse chiaro a chi conosceva direttamente i territori interessati, poteva sfuggire a chi osservasse dall’alto e da lontano, cioè dalle cancellerie delle capitali. Dal canto suo, il Re Sole sembrava soddisfatto (e lo era) per le nubi che si andavano addensando sulla penisola balcanica: e ne approfittava sia per rafforzare la sua pressione sulla Spagna affinché abbandonasse i Paesi Bassi, sia per annettersi miglio dietro miglio, con una pretesa di legittimità sostenuta dai suoi giuristi a caccia di vecchi diritti feudali (le cosiddette «camere di riunione»), i territori imperiali dell’area renana. La diplomazia francese a Istanbul soffiava sul fuoco, incoraggiando il gran visir ad attaccare l’impero nei Balcani: ciò avrebbe provocato un’inevitabile reazione, che impegnando Leopoldo avrebbe lasciato a Luigi mano libera sul fronte del Reno. Ma a questo punto l’orientamento politico di Giovanni III di Polonia cominciò a cambiare. Egli aveva appoggiato i dissidenti magiari anche perché sperava che essi avrebbero finito con l’offrire la corona di Santo Stefano a lui o a suo figlio Jakub: e il Re

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Sole aveva fatto di tutto, se non per convincere i magnati ungheresi ad assecondarlo, quanto meno per fargli credere che così stessero appunto andando le cose. Intanto però analoghe speranze erano state fatte balenare dinanzi agli occhi di Mihály Apafi. A parte la consapevolezza di queste ambiguità diplomatiche Giovanni sapeva benissimo, e non dimenticava, di dover largamente al re di Francia la sua corona, e ne era del resto fino ad allora stato alleato fedele: ma si rendeva conto che un’ulteriore espansione dell’impero ottomano nell’area balcano-danubiana era l’alto prezzo che la Cristianità eurocentrale avrebbe dovuto pagare in cambio dell’espansione della Francia in Europa occidentale. Nessun altro, a parte il sultano e il Re Sole, ci avrebbe guadagnato. Inoltre, Giovanni conosceva bene gli ottomani: si era misurato in battaglia con loro e sapeva che la Porta non aveva mai rinunziato alle prospettive di espandere la sua influenza a nord del Mar Nero col tramite dei tartari di Crimea. E ciò, nonostante i trattati di pace, costituiva una minaccia obiettiva per la stessa Polonia. Con gli ottomani insediati nella fortezza di Kamenec, si era andato consolidando un costante pericolo: era irragionevole sopportare una situazione del genere per l’esclusivo vantaggio del re di Francia e per sostenere le sue mire sui territori imperiali del Reno54. A influenzare il mutamento d’indirizzo diplomatico del re di Polonia pesava anche il parere della sua consorte, che nei confronti del Re Sole nutriva un qualche rancore a causa di promesse non mantenute e di privilegi negati alla sua famiglia55; e altresì vi contribuiva il progetto della coppia regale di trasformare la monarchia polacca da elettiva in ereditaria. Una nuova prospettiva in tal senso si era aperta insieme con la possibilità, che Giovanni considerava plausibile, della fondazione di una solida alleanza dinastica con gli Asburgo attraverso il matrimonio di suo figlio Jakub con una principessa di sangue imperiale. Le trattative, condotte dal nunzio apostolico a Vienna Buonvisi che ben conosceva la situazione polacca, sarebbero finite nel nulla in quanto la regale coppia di Varsavia pretendeva che la promessa sposa, l’arciduchessa Maria Antonia d’Asburgo, recasse in dote il regno d’Ungheria56: comunque, il cambio d’orientamento diplomatico di Giovanni III da Parigi verso Vienna appariva ormai certo. Un autorevole schieramento di magnati, alla guida dei quali era Andrzej Trzebicki vescovo di Cracovia, lo sosteneva in questa politica di allontanamento dalla troppo stretta alleanza con la Francia. Se ne rese conto un diplomatico inviato nell’aprile

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del ’76 a Varsavia con ricchi doni destinati all’augusta coppia regale, François-Gaston de Béthune, che si trovò a dover affrontare la freddezza e addirittura l’ostilità della sovrana nonostante ne fosse addirittura cognato, avendone sposato una sorella57. L’atto formale conclusivo della svolta politica fu il battesimo del terzogenito58 di Giovanni e Maria Casimira, Aleksander59, madrina e padrino del quale furono l’imperatrice e il papa. Quello che era accaduto in Polonia, insieme con la nuova fase della politica annessionistica del Re Sole nei confronti dei territori posti ad est e a nord-est del suo regno, stava determinando un forte mutamento nell’equilibrio dell’intera Europa; qualcosa di nuovo, e suscettibile di provocar novità ancora più profonde, si verificava intanto sulle sponde del Bosforo. Come già si è accennato, il gran visir Kara Mustafa, inorgoglito dai successi ottenuti ai confini nordorientali dell’impero sultaniale, guardava ora con crescente interesse verso nordovest. I diplomatici occidentali, veneziani compresi, gli attribuivano grandi e spericolati sogni, compreso quello ricorrente nei capi ottomani: cogliere l’Aureo Pomo, che poteva esser Vienna ma anche Roma. Tornava la paurosa immagine «profetica»: i cavalli turchi che si abbeverano nelle vasche di San Pietro. La conquista della Città Eterna quale segno della fine dei tempi era altresì vagheggiata da alcune correnti pietistiche e mistiche musulmane, esponente di una delle quali era Mehmed Vani Efendi, direttore spirituale del gran visir60. Ma era mai possibile puntare su Roma trascurando il fatto obiettivo che, per conquistarla, sarebbe stato prima necessario neutralizzare in qualche modo – militare o diplomatico che fosse – i tre suoi scudi cattolici: Vienna, Venezia e Varsavia? Era mai possibile illudersi che la stessa «amica» e magari perfino «alleata» Francia consentisse di rendersi agli occhi della Cristianità complice di qualcosa di tanto enorme?61 Lasciando comunque da parte i sogni che avevano come oggetto Roma, e limitandosi al quadrante europeo sudorientale, il governo ottomano si trovava dinanzi all’ormai vecchio problema della scelta tra l’attacco per via marittima diretto contro Venezia o quello per via terrestre lungo l’asse balcano-danubiano: alternativi non solo per ragioni tattico-logistico-strategiche, ma anche politicodiplomatico-militari. Era assurdo pensare a un’aggressione condotta su entrambi i fronti, che avrebbe avuto come risultato l’immediata alleanza della Serenissima e dell’impero e per la quale mancavano obiettivamente i mezzi e le energie.

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Dopo la perdita di Candia, Venezia sapeva di poter dormire sonni relativamente tranquilli per quanto riguardava un’immediata minaccia ottomana rivolta contro di lei. Giungere alle sponde del Tevere era di fatto per il visir una speranza folle; viceversa quelle del Danubio e della Vistola apparivano relativamente vicine, a portata di mano. Certo era comunque che il comportamento del nuovo gran visir appariva provocatorio e minaccioso nei confronti sia dell’imperatore, sia dei polacchi: e ciò giustificava da solo quell’avvicinamento dell’uno agli altri che, con Giovanni III, si stava di fatto già verificando anche per altri motivi. Naturalmente, il governo ottomano confidava anche a questo riguardo nell’indiretto appoggio del re di Francia, che stava sostenendo nell’Ungheria regia la fazione antiasburgica. Alcuni magnati magiari esuli dopo la repressione del ’71 avevano scelto come rifugio la Polonia, che aveva fino ad allora a sua volta aiutato i dissidenti ungheresi; ma il Re Sole si era spinto a concludere con i fuorusciti ribelli un formale trattato nel quale accettava il ruolo di loro difensore, a far istruire un piccolo corpo militare ungaro-polacco da ufficiali francesi e a consentire, nel maggio del 1677, l’inaugurazione a Varsavia di una specie di governo ungherese provvisorio in esilio sotto l’egida dell’ambasciatore francese, il de Béthune62. La condiscendenza della corte polacca dinanzi a tutto ciò aveva determinato nel Re Sole la convinzione, più tardi rivelatasi erronea, che i segnali di freddezza che da quella direzione erano cominciati a pervenire nei suoi confronti fossero solo il passeggero risultato dell’irritazione di Maria Casimira: ma il nuovo corso impresso da Giovanni III nella politica delle alleanze aveva presto dissipato l’equivoco. D’altra parte, Luigi XIV aveva a sua volta promesso alla Porta che stavolta, a differenza di quanto era accaduto in passato, la sua «neutralità» negli affari ungheresi sarebbe stata rigorosissima: cioè che, di fatto, egli era disponibile a giungere addirittura a impedire formalmente e ufficialmente la partenza dal suo regno di eventuali contingenti volontari francesi fatti di cavalleresche teste calde impazienti di misurarsi con gli infedeli, com’era invece accaduto sia durante la guerra di Candia sia nella campagna balcanica conclusasi con la tregua di Vasvár. Resta tuttavia incomprensibile perché il gran visir, identificando Vienna come suo prossimo obiettivo, non abbia preparato diplomaticamente l’azione militare cercando di allontanare dall’amicizia con l’impero la corte polacca, obiettivo per conseguire il quale sarebbe forse bastato rassicurare Giovanni III della volontà effettiva e concreta di rispettare la pace di T¸urawno e di non

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tentare eventuali forme d’espansione a nord del Mar Nero. E resta incomprensibile perché il Re Sole non lo abbia consigliato in questo senso e perché il pur abile signor di Nointel, che da Istanbul sorvegliava costantemente la situazione, non se ne sia granché occupato. È molto probabile che tanto a Parigi quanto a Istanbul si fosse convinti che ormai le scelte del re di Polonia, spinte se non in gran parte determinate dalla sua energica e amatissima consorte, non avrebbero comunque mai più favorito, direttamente o indirettamente, la Francia: e che per questo si preferisse che la corte di Varsavia, di fronte alla minaccia ottomana e probabilmente soprattutto tartara, si sentisse tanto insicura da dedicarsi alla difesa interna. Quell’errore di valutazione condizionò forse molto più di quanto non si sia finora creduto lo sviluppo degli eventi del 1683. Dal canto loro i dissidenti magiari, che disponevano già dell’appoggio della Francia e almeno fino ad allora sapevano di poter contare sulla Polonia, avevano alfine trovato un capo abile e affascinante in un nobile luterano, il conte Imre Thököly63: egli non aveva esitato a raccogliere attorno a sé i nobili e i contadini stanchi delle violenze delle soldatesche imperiali e a organizzare la resistenza attestandosi nelle aree montane della Slovacchia e verso la Transilvania. Si andò in tal modo creando un movimento, quello dei kurucok64, conosciuto nella storia europea con il termine impreciso ed eufemistico di «Malcontenti». Sarebbe riduttivo pensare ad esso come teso unicamente alla difesa o al recupero delle libertà religiose dei riformati. In realtà, alla sua base c’erano altresì la forte opposizione alla germanizzazione dell’Ungheria e ai suoi partigiani ungheresi, i cosiddetti labancok 65, e l’orgogliosa rivendicazione delle tradizionali libertates magiare che si esprimeva anche nei fieri costumi, nell’aspetto bellicoso, nell’atteggiamento insofferente di limiti e di subordinazione. Tutto ciò sarebbe stato ben descritto, nel 1687, da un osservatore intelligente come Jean de Vanel: «sono bellicosi, arditi e coraggiosi; ...volubili, incostanti e inconciliabili nella vendetta; ...Non simpatizzano con i tedeschi, se non per il costume delle buone bevute... poco puliti, gran mangiatori e pigri; ...hanno lo sguardo terribile e il furore sempre dipinto sul volto»66. Si sapeva che il Thököly non avrebbe avuto scrupolo alcuno a coinvolgere gli ottomani nella partita che si stava giocando. D’altronde Kara Mustafa, a differenza dei saggi e prudenti visir della famiglia Köprülü che lo avevano preceduto, era evidentemente ben disposto a lasciarsi attrarre dal ginepraio ungherese: scelta avventata magari, ma comunque ottimo alibi per iniziare una marcia verso il

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nord della quale, almeno sulle prime, l’Europa cristiana non avrebbe identificato la mèta autentica. E ciò pur ammettendo che essa potesse già fin da allora essere Vienna, quanto meno per il gran visir: che, se ci stava già pensando, era per il momento il solo a farlo. La dieta ungherese, composta di nobili in parte preoccupati per un futuro che si stava profilando insicuro e in parte sostenitori sia pur occulti del Thököly, raccomandava che s’intraprendessero negoziati con i Malcontenti: ma l’entourage di Leopoldo oppose un netto rifiuto. Ciò equivaleva a un’indisponibilità alle trattative che suonava obiettivamente, in quel momento, come un invito al Turco affinché penetrasse nei confini dell’Ungheria regia: il fatto è che nemmeno a Vienna si era compreso quanto potesse esser pericoloso il «nuovo corso» avviato sulle rive del Bosforo. E a corte il «partito spagnolo», impegnato a convincere l’imperatore che il vero pericolo per la compagine asburgica stava a Parigi anziché a Istanbul, era anche quello meno incline a cercare un’intesa con il mondo protestante: né dava mostra di accorgersi della contraddittorietà di tale atteggiamento. Quel che i sostenitori di quella linea politicodiplomatica non arrivavano a comprendere, difatti, era che proprio il raggiungimento di un qualche accordo di convivenza tra cattolici e protestanti in Ungheria, rafforzando la sicurezza dell’area danubiana, avrebbe consentito all’imperatore di occuparsi con maggior serenità dei confini occidentali del Reich. Vero è d’altronde che la propaganda francese puntava al contrario, nei Paesi Bassi e sul Reno, appunto sullo scontento mostrato dai cattolici per la conciliante politica religiosa dell’imperatore nel Reich. Ma Leopoldo procedeva in modo differente nel rispettivo trattamento della questione protestante nell’impero, dove dopo i trattati di Westfalia essa era stata regolata, e in Ungheria, nella quale concessioni e trattative sembravano parte di un itinerario impercorribile. Solo nel 1681, troppo tardi e frettolosamente, egli finì col riconoscere di nuovo le prerogative di libertà religiosa da lui stesso otto anni prima sospese e con il concedere libero culto ai protestanti, che nelle regioni ungheresi soggette agli ottomani erano lasciati invece liberi di esercitarlo tranquillamente e che in certe zone – fra la Transilvania e l’area montana dell’attuale Slovacchia – superavano (mettendo insieme luterani, calvinisti e unitariani) il numero dei cattolici. Un nuovo fattore si era intanto proposto nel quadro politico e anche religioso di quel torno di tempo: l’elevazione al soglio pontificio del cardinal Odescalchi, orientato a promuovere e a mantenere

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la concordia e l’equilibrio tra le potenze cristiane in quanto deciso sostenitore della necessità di fronteggiare con ogni mezzo, comprese le armi, la potenza ottomana. I più impenitenti cacciatori di coinci­ denze storiche saranno senza dubbio interessati a rilevare che i due nuovi protagonisti del momento, le idee dei quali erano singolarmente convergenti e in un certo senso simili, accedettero al loro rispettivo alto ruolo quasi contemporaneamente, fra il settembre e il novembre del 1676. L’Odescalchi cinse la tiara adottando il nome di papa Innocenzo XI, mentre il controllo politico della Porta veniva assunto da Kara Mustafa, che già conosciamo: un gran visir fautore di una ripresa della politica espansionistica che sembrava accantonata – almeno nell’Europa orientale e nel Mediterraneo – da diciassette anni. I due personaggi, senza mai incontrarsi, non conoscendosi e senza dubbio trovandosi reciprocamente antipatici, erano di fatto concordi nel cercare entrambi il reciproco scontro. Un po’ come George W. Bush jr. e Usama Bin Laden all’indomani dell’11 settembre. Come avrebbe detto mia nonna, «Dio li fa e poi li accoppia». Papa Odescalchi era rimasto molto impressionato e turbato dai successi degli ottomani sul fronte polacco-ucraino-russo. Egli aveva ricevuto dal nunzio a Varsavia Francesco Martelli notizie allarmate a proposito della pace conclusa a T¸urawno; e aveva disposto che il nuovo segretario di stato, cardinal Alderano Cybo67, facesse pressione sulla corte polacca minacciando di sospendere il sussidio annuo di 50.000 ducati che del resto la Santa Sede aveva deciso di elargirle solo a patto che la guerra continuasse. Ma chi era il nuovo pontefice? «Bellua insatiabilis»68 Benedetto Odescalchi era nato il 19 maggio del 1611 da una famiglia comasca dedita agli affari ma ormai in via di nobilitazione. Dottore in utroque iure e quindi chierico, era stato promosso cardinale diacono il 6 marzo 1645 da papa Innocenzo X Pamphili che confidava molto in lui; aveva ricevuto la nomina a vescovo di Novara nel 1651, quando era legato pontificio a Ferrara. Grazie poi ad Alessandro VII, del quale aveva favorito l’elezione, era riuscito a liberarsi dal molesto peso della diocesi novarese69. A metà degli anni Sessanta, l’Odescalchi si era avvicinato alla fazione cardinalizia detta «dello squadrone volante», guidata dall’Az-

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zolini e dall’Ottoboni e della quale faceva parte anche il Cybo, che sosteneva la necessità di un’equidistanza della Santa Sede tra Francia e Spagna e che nel 1667 fu determinante nell’elezione pontificia di Clemente IX Rospigliosi; ma due anni dopo, nel nuovo conclave che si sarebbe concluso con l’elezione di Clemente X Altieri, la sua posizione doveva esser mutata. Egli avrebbe di fatto potuto già da allora ascendere al soglio, se sul suo nome non fosse caduta la mannaia d’un pesante veto del Re Cristianissimo le ragioni del quale non sono state mai d’altronde appieno chiarite. Ma sei anni più tardi, nel laborioso conclave tenutosi tra l’agosto e il settembre del ’76, Benedetto raccolse i suffragi della stessa fazione filofrancese: Luigi XIV, esplicitamente interpellato al riguardo, ne accettò l’elezione a patto che ciò non apparisse una vittoria dei cardinali politicamente orientati in favore della Spagna. Alto, magro, dal caratteristico aguzzo profilo, noto per austerità di vita e rigore di costumi, il nuovo pontefice non aveva mai sollecitato incarichi curiali ed era sostanzialmente estraneo ai giochi di corte e al giro delle prebende e degli uffici venali. Cautissimo, teneva molto all’equilibrio politico ed usava sia assumere precise informazioni sulle differenti faccende su cui era chiamato a decidere, sia non mostrarsi mai troppo condizionato dalle grandi potenze cattoliche, le quali non mancavano certo di far sentire la loro pressione: e nei primi sei mesi del suo pontificato dette adito perfino a qualche preoccupazione per le sue esitazioni e i suoi dubbi. Lavorava intensamente, avvalendosi di una ristrettissima cerchia di fedeli collaboratori: uno dei quali però, il cardinal Cybo che egli aveva pur promosso segretario di stato immediatamente dopo essere stato eletto, era – nonostante il loro vecchio rapporto d’amicizia – tenuto sempre da lui a una certa distanza in quanto il pontefice era al corrente del fatto che egli percepiva una ricca pensione corrispostagli dal Re Sole. E non è improbabile che la scelta del segretario di stato, così sollecita, rientrasse negli accordi che erano valsi al nuovo papa i suffragi cardinalizi controllati dal re di Francia: ragione questa per la quale Innocenzo XI non aveva esitato ad elevare all’alto incarico il suo vecchio amico, ma al tempo stesso aveva preso a tenerlo a una certa distanza e sostanzialmente a diffidarne. Tre furono da allora le costanti direttrici della politica innocenziana: il risanamento finanziario dello stato pontificio, sull’orlo della bancarotta; la riorganizzazione disciplinare della Curia, con la sistematica persecuzione degli abusi e delle pratiche nepotistiche; la

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politica internazionale, i due problemi emergenti della quale erano le mire espansionistiche di Luigi XIV e la nuova fase dell’aggressività ottomana di cui era promotore il gran visir. Il comporre diplomaticamente quelle ultime due questioni non era, dal punto di vista della Santa Sede, troppo semplice. Era chiaro che Luigi XIV giocava costantemente ed energicamente, per quanto non esplicitamente, la carta ottomana in funzione antiasburgica: d’altro canto era piuttosto evidente che, stretto nella morsa costituita dagli Asburgo di Spagna e da quelli dell’impero – una morsa che fin dall’inizio del Cinquecento minacciava la Francia –, il Re Sole non poteva ignorare la legge della scacchiera geopolitica in forza della quale i nemici dei nemici confinanti sono amici. Inoltre, era importante il rapporto del tutto privilegiato che già ai tempi di Francesco I il Re Cristianissimo era riuscito a stabilire con la Porta mediante la politica delle Capitolazioni, mentre un’accorta propaganda – uno dei primi e più lucidi esempi di politica massmediale dell’Europa moderna – aveva saputo fondare e sostenere il mito dei gesta Dei per Francos, che presentava i francesi come i primi e più decisi protettori dell’Europa cristiana contro l’offensiva islamica, dalla battaglia di Poitiers del 732 alle crociate. D’altronde, doni e lusinghe provenienti entrambi da Parigi stavano sollecitando orecchie e borsa, vanitas e cupiditas, di Kara Mustafa. Ottenendo il rinnovo delle Capitolazioni, Luigi XIV mirava a conseguire tre differenti ma complementari scopi: proporsi alla Porta come interlocutore privilegiato; presentarsi in Europa come l’autentico baluardo della Cristianità occidentale in Oriente, umiliando e delegittimando così tanto la Cesarea Maestà Imperiale quanto la Cattolica Maestà di Spagna; far pesare il suo ruolo nei confronti tanto della Santa Sede quanto dei paesi più profondamente cattolici dell’Oriente europeo (in primis la Polonia, dove una parte della nobiltà era fortemente filofrancese) in modo da metter a tacere le insistenti voci che lo indicavano come «complice» se non addirittura occulto alleato del Turco. D’altronde, sul Mediterraneo, la sua politica dava prova di voler tenere a bada sia la potenza ottomana, sia i turbolenti emirati corsari dell’Africa settentrionale; e il papa sapeva bene di non poter contrastare troppo il Re Sole, sia per non suscitare all’interno della Curia pontificia stessa l’opposizione della fazione cardinalizia filofrancese, sia per non offrire pretesti alla crescita, nella Chiesa di Francia, delle già latenti istanze gallicane. Infine, la prudente condotta di Leopoldo I nei confronti dei protestanti – non già nei suoi possessi ereditari,

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dove, come abbiamo visto, egli adottava una politica repressiva piuttosto pesante, bensì nelle terre d’impero, alcune delle quali erano irreversibilmente guadagnate alla causa della Riforma – non soddisfaceva del tutto il pontefice e lo consigliava a muoversi con molta cautela nell’ostacolare le intenzioni espansionistiche verso le regioni occidentali dell’impero perseguita da Luigi XIV. Il problema politico proposto dalla tensione tra Francia e impero era d’altronde molto delicato. Se l’imperatore si fosse con più energia dedicato ad ostacolare la politica francese che puntava decisamente verso il bacino renano, la propaganda del Re Sole avrebbe avuto facile gioco nell’accusarlo dinanzi alla Cristianità di trascurare gli interessi generali dell’Europa e della fede, che da oltre due secoli vedevano negli Asburgo d’Austria l’antemurale europeo contro l’espansionismo ottomano: dunque di tradire la missione storica affidata alla sua corona e alla sua dinastia per squallide, meschine e ristrette ragioni d’interesse territoriale che non coincidevano neppure, né sempre né necessariamente, con la volontà delle genti delle regioni coinvolte. Difatti, nei territori lorenesi ed alsaziani, era diffusa tra i cattolici la convinzione che il Re Cristianissimo li avrebbe meglio tutelati contro i calvinisti e i luterani locali di quanto non faceva l’imperatore, troppo rispettoso dei loro privilegi e preoccupato delle reazioni dei paesi protestanti dell’impero se avesse cambiato atteggiamento. Per questo il papa aveva raccomandato la massima prudenza e la più stretta neutralità al suo rappresentante pontificio monsignor Luigi Bevilacqua, giunto nel giugno del 1677 nella città olandese di Nimega70 per partecipare ai preliminari di quella pace con cui si sarebbe conclusa la guerra d’Olanda, che aveva coinvolto l’intera l’Europa occidentale. Il Bevilacqua era già in difficoltà, in quanto la sua presenza era stata contestata dai rappresentanti delle potenze protestanti le quali non la consideravano legittima. Il segretario di stato pontificio cardinal Cybo e il nunzio pontificio presso l’imperatore Buonvisi si erano inoltre adoperati in ogni modo per ottenere la partecipazione della repubblica di Venezia alle trattative, secondo i desideri della Santa Sede: ma avevano incassato il veto sia di Spagna sia d’Austria che non intendevano accettare la presenza dell’inviato veneziano, quel Giovan Battista Nani la cui Historia della repubblica veneta era giudicata – francamente non a torto – troppo animata da spiriti antiasburgici. Anche il secondo obiettivo diplomatico del Cybo e del Buonvisi – far in modo che la conferenza di pace si svol-

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gesse non in una città protestante come Nimega, bensì in una cattolica come Clèves o Aquisgrana – era stato mancato. In cambio ebbero nella sostanza successo le raccomandazioni che il Buonvisi, a nome del papa e con il consenso dell’imperatore, rivolse al Bevilacqua: curare l’intesa tra le potenze cattoliche; favorire un accordo francoimperiale contenendo quanto più fosse stato possibile le pretese del Re Sole sull’area renana; evitare un eccessivo indebolimento della Svezia a favore della Danimarca e del Brandeburgo. Innocenzo XI mirava in sostanza a un solo e molto preciso obiettivo: ricreare le condizioni per una nuova Santa Lega in grado di rilanciare la guerra contro il Turco. L’ambasciatore francese presso la Santa Sede, il duca d’Estrées, insisteva presso il suo sovrano sul fatto che non vi era argomento di conversazione che attraesse tanto il pontefice quanto la ripresa delle ostilità contro gli ottomani. Ma in quel momento – a parte le dichiarazioni di principio, che su quel tema si sprecavano – nessuna potenza europea era disposta ad ascoltarlo. Sembra comunque che, dopo un’iniziale diffidenza e forse perfino personale antipatia, i rapporti di Leopoldo I con monsignor Buonvisi fossero decisamente migliorati. Il nunzio mirava con sempre più chiarezza, interpretando in ciò perfettamente la volontà di papa Innocenzo, ad allontanare il più possibile le ombre di conflitti tra le potenze cristiane confinanti con l’impero ottomano, in modo da favorire o addirittura da promuovere un’intesa aggressiva contro la Porta. In tal senso egli ostacolava quanto più poteva qualunque forma d’accordo tra i polacchi e i Malcontenti ungheresi, principalmente per combattere le ingerenze francesi in quel settore: ma al tempo stesso si mostrava favorevole alla ricerca di un punto d’equilibrio fra l’imperatore e i magnati protestanti magiari, che avrebbe rafforzato la compagine asburgica e contribuito a dissuadere i ribelli dal cercar appoggio presso la Porta. Innocenzo XI spingeva addirittura verso un allargamento al di là delle potenze cattoliche dell’alleanza antiottomana che il Buonvisi si sforzava di tessere: su suo consiglio, il nunzio cercò di combinare le nozze di una principessa austriaca con Fëdor III, czar di Russia, che dal marzo del ’77 era sceso in guerra contro il Turco. Ma Leopoldo, il quale non intendeva assumere alcun impegno che riguardasse la sua politica relativa al sultano prima di aver risolto le questioni occidentali, fece cadere la cosa rinviandola sine die. Gli obiettivi ultimi dell’imperatore e quelli del nunzio, quindi della Santa Sede, coincidevano comunque per quel che atteneva l’Europa: conservare all’impero l’Alsazia, alla

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Spagna le Fiandre, all’Inghilterra quella supremazia navale alla quale la Spagna aveva ormai rinunziato. Il fatto che il papa avesse addirittura caldeggiato un accordo tra l’imperatore e lo czar di Russia era un segno di tempi nuovi che si stavano aprendo ad oriente e che la Santa Sede aveva colto con prontezza. L’affermarsi progressivo della potenza russa non era sfuggito nemmeno al re di Francia; e preoccupava la Polonia. Era sintomatico che, pochi mesi dopo l’inizio delle ostilità fra impero ottomano e czar, re Giovanni III avesse fatto un passo indietro nella sua politica di difesa e di rivendicazione territoriale contro la Porta, siglando con essa un armistizio. L’ambasceria polacca giunta a Istanbul nel 1677 con tale scopo fece sul serio epoca: gli stambulioti se ne sarebbero ricordati a lungo. Era guidata dal conte palatino di Chelmno, Janusz Gninski, il quale aveva preteso un seguito dal fiabesco sfarzo «sarmatico», con ricche pellicce, armi e gualdrappe lucenti, abiti sfolgoranti. Secondo una tradizione già nota alla cavalleria medievale d’Occidente, i cavalli erano ferrati d’argento e i preziosi ferri erano stati inchiodati agli zoccoli in modo da staccarsi facilmente e da venire raccolti tra risse e tumulti dalla popolazione. Il corteo dell’ambasciatore era così numeroso che il gran visir commentò sarcastico: «Troppi per un’ambasceria, pochi per un assedio». Ma la spettacolare missione diplomatica, il cui principale compito sul piano formale era la ratifica della tregua di T¸urawno che si doveva conseguire ottenendo quanti più vantaggi fosse possibile, fu un fallimento: e forse sull’esito incise anche l’antipatia che il conte era riuscito con il suo fastoso seguito a ispirare nel gran visir. Intanto, i propositi del papa davano i loro frutti. Proprio nel 1678, dai cappuccini della terra di Francia – l’Ordine e la patria di padre Giuseppe, l’«eminenza grigia» del Richelieu, che negli anni Venti era stato un fermo ed entusiasta sostenitore della crociata – giungeva ad Innocenzo un denso memorandum firmato da frate Paul de Lagny-sur-l’Oise: vi si proponeva sì una nuova guerra preventiva contro l’impero ottomano, ma con fini molto più ampi e originali di quelli che il pontefice non avesse fino ad allora concepito71. Si sarebbe trattato non soltanto di riconquistare alla Cristianità la Nuova Roma, Costantinopoli, e di liberare il Santo Sepolcro: bensì anche di fondare un nuovo impero latino d’Oriente sotto la sovranità eminente del pontefice, che l’avrebbe esercitata attraverso un patriarca latino con sede in Costantinopoli e una serie di principi ecclesiastici che avrebbero dovuto insediarsi in principati i confini dei quali era-

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no da stabilirsi, secondo un assetto istituzionale che prendesse come modello il Sacro Romano Impero. Solo in tal modo il papa avrebbe acquisito quella forza temporale che gli avrebbe consentito di tener sul serio testa agli altri sovrani: e al tempo stesso avrebbe potuto controllare e circoscrivere la crescita del nuovo pericolo, cristiano sì, ma ortodosso, lo czar di Russia: che, se si fosse imposto come forza tutrice dei cristiani orientali, avrebbe potuto divenire per la Cristianità occidentale un nemico altrettanto formidabile che non il Turco. I casi di Cipro e di Creta parlavano chiaro: le genti greche e ortodosse delle due isole si erano rallegrate in entrambi i casi della fine dell’egemonia veneziana, ch’era anche egemonia cattolica, mostrando di preferire il turbante sultaniale alla tiara pontificia e al galero dogale. Che cosa sarebbe potuto accadere se, dalla Moldavia all’Adriatico, gli ortodossi si fossero volti con speranza a una protettrice loro compagna di fede, la potenza che stava cominciando a irradiarsi da Mosca? È arduo a stabilirsi se la voce di frate Paul fosse quella di un isolato visionario, o fosse invece ispirata dagli ambienti dell’Ordine, o si potesse in qualche modo collegare alla monarchia francese. Innocenzo era comunque in quel momento molto più preoccupato per la piega che andavano prendendo le trattative della pace di Nimega, la conclusione delle quali, il 5 febbraio del 1679, lo lasciò scontento. Anche il nunzio apostolico a Vienna era deluso: la minaccia francese continuava a incombere sui territori occidentali dell’impero, il che significava che Leopoldo non aveva ristabilito in quell’area il sicuro controllo che gli avrebbe consentito di dedicarsi a un’ipotesi che del resto evidentemente non gli si confaceva granché, quella di riprendere la guerra contro la Porta. Tuttavia il papa decise di adeguarsi alla situazione, salvo inoltrare una protesta formale per il fatto che la non ancor perfettamente raggiunta concordia europea impediva un’intesa comune contro gli ottomani. I recenti successi delle armi sultaniali nei confronti di Polonia e Russia giustificavano in una certa misura la priorità che il pontefice sembrava assegnare alla lotta contro il Turco: ma va detto che essa era sempre stata una sua personale preoccupazione, fin della guerra di Candia. Durante quel conflitto, l’allora cardinale Odescalchi aveva destinato in più occasioni cospicue somme personali di denaro a sostenere lo sforzo bellico di Venezia. Dopo la pace di Nimega la Santa Sede intraprese, allo scopo di creare una nuova Santa Lega contro gli ottomani, una politica ad

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ampio raggio che includeva anche difficili approcci con la Russia ortodossa e la Persia sciita72. Nel marzo del 1679 una nutrita serie di brevi pontifici insisteva presso il re di Polonia, l’elettore di Baviera73 e il re di Spagna che era ormai venuto il momento per la sacra adversus Turcas expeditio, per il bellum adversus Turcam, il bellum sacrum, la sacra expeditio, con un tono e un lessico che erano quelli della crociata74. Ma tale impegno sortì scarso successo immediato: i tentativi di giungere a un’intesa formale sia russo-polacca, sia russo-asburgica fallirono, mentre Luigi XIV si limitò a impegnarsi a intervenire contro la Porta solo nel caso in cui essa avesse sul serio, apertamente e concretamente, minacciato la Polonia o la repubblica di San Marco: il che era come dire che non si sarebbe mosso. Era difatti logico attendersi che la Porta – al di là dell’altezzoso e aggressivo comportamento del gran visir, del resto corretto da una buona dose di doppiezza – avrebbe agito in modo da non attaccare mai se non una potenza cristiana alla volta in modo da giocare sulle rivalità interne all’Europa, evitando l’insorgere di condizioni che, determinando un cointeresse a reagire, facilitassero il formarsi di coalizioni dirette contro di lei. Il nunzio apostolico a Vienna Buonvisi75 faceva al contrario il possibile per sostenere che qualunque attacco della Porta contro una singola potenza cristiana era in realtà un assalto alla Cristianità nel suo complesso. Tale argomento era stato spesso utilizzato dai veneziani: ora veniva sfruttato appieno dalla diplomazia dell’imperatore, che si sentiva ormai sempre più in prima linea, minacciato sia dagli ottomani sia dai ribelli protestanti in Ungheria, mentre dubbioso e ansioso lo lasciava l’atteggiamento dei polacchi. La posizione della Santa Sede, primario interesse della quale continuava ad essere la causa della crociata, si articolava invece su due prospettive. Da una parte essa teneva d’occhio la politica francese ben sapendo che Luigi, con il quale non poteva permettersi di scontrarsi, non si sarebbe mai mosso in difesa dell’impero: anzi, avrebbe approfittato di qualunque sua difficoltà e avrebbe cercato d’indurre i polacchi a fare altrettanto. Dall’altra era costretta a contenere le insistenze della diplomazia spagnola che, allarmata per le ulteriori mosse dell’espansionismo francese, avrebbe preferito che l’imperatore – anziché preoccuparsi troppo dei suoi confini sud-orientali, che in fondo riguardavano principalmente i territori ereditari della dinastia asburgica – dimostrasse di tener conto con maggior senso di responsabilità del suo ruolo di sovrano del Reich e in quanto tale tutelasse con più

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energia l’area renana, nella quale in effetti la sua concreta autorità era alquanto debole, ma della quale era pur sempre sovrano eminente. Insomma, Carlo II di Spagna temeva che i suoi collaterali d’Austria lo lasciassero solo, in Europa, alle prese col colosso francese: e la pace di Nimega non lo aveva per nulla rassicurato. Ma Innocenzo XI non era in grado di tranquillizzarlo, non era sicuro che gli convenisse granché indurre l’imperatore a seguire con maggiore impegno i problemi del Reich – cosa questa che lo avrebbe indotto automaticamente ad abbandonare qualunque anche ipotetico progetto di guerra al Turco – e al tempo stesso si chiedeva quanto fosse davvero opportuno esporsi troppo nel cercar di contenere l’espansionismo renano del Re Sole, molto gradito ai principi e all’opinione pubblica cattolica di quell’area, che si sentivano meglio tutelati contro i protestanti dalla Francia che non dall’impero. Leopoldo si trovava a sua volta dinanzi a una difficile scelta76: o accettare l’intromissione di Kara Mustafa nella politica ungherese cedendo a un’infeudazione, se non di diritto quanto meno di fatto, dell’Ungheria regia alla Porta, con la speranza che ciò bastasse a saziare l’avidità del nuovo gran visir, e puntare in cambio di questo cedimento a ottenere un rinnovo della tregua di Vasvár che gli consentisse di accorrere nello scacchiere occidentale dell’impero ad arginare l’offensiva della «politica delle riunioni» di Luigi XIV con la sicurezza di non venir aggredito alle spalle dagli ottomani; oppure abbandonare ai progetti aggressivi del Re Sole l’area renana restando in cambio libero di mobilitare tutte le forze a sua disposizione con il fine di far adeguatamente fronte all’offensiva unita degli ottomani e dei loro vassalli o alleati cristiani est-europei, dagli ungheresi protestanti ai transilvani ai moldavi ai valacchi. Stretto tra i due «partiti» che dividevano i suoi consiglieri e collaboratori – quello «spagnolo», che lo spronava a onorare anzitutto i suoi doveri d’imperatore e tutelare i confini occidentali contro la Francia, e quello «tedesco» che lo esortava viceversa a pensare anzitutto al nucleo dei suoi possessi ereditari e a fermare il Turco prima che fosse troppo tardi (se l’Ungheria regia fosse andata perduta Vienna si sarebbe trovata sul confine ottomano, irreparabilmente esposta) –, il sovrano non sapeva letteralmente che pesci prendere. Né poteva sottovalutare la pressione del pontefice, che – per quanto a sua volta in difficoltà – gli indicava instancabilmente e rigorosamente la priorità antiottomana. Intanto, un fermo segnale gli giungeva dalla Polonia: nel giugno del ’78 re Giovanni aveva impedito al Béthune

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di proseguire nella sua capitale la politica di sostegno ai Malcontenti ungheresi. Ciò significava in modo definitivo, e per il momento irreversibile, che il sovrano della Rzeczpospolita aveva ormai preferito Vienna a Parigi: e la pace con la Porta, siglata nel ’78 a confermare gli accordi di T¸urawno di due anni prima, non poteva più venir interpretata come la conferma di un gesto distensivo nei confronti del Turco scelto in funzione dei suggerimenti della diplomazia francese, bensì semplicemente come una dichiarazione di sicura non-belligeranza nella guerra intanto scoppiata tra il sultanato e la Russia per il controllo dell’atamanato cosacco situato sulla destra del Dnepr. Tutto ciò fu confermato dalla riunione della dieta polacca a Grodno, fra ’78 e ’79, durante la quale si sancì definitivamente l’allontanamento della politica del regno rispetto alla Francia e si profilarono anche istanze tese a rivedere l’atteggiamento pacifico nei confronti degli ottomani, nonostante i patti ormai da poco siglati e ch’era fuori discussione rispettare. Durante i lavori di quella dieta, che si conclusero nell’aprile del ’79, si alzarono – sia pure nel tumulto di focose discussioni – perfino voci intese a chiedere che si sondassero le disponibilità dei principi europei a una vera e propria nuova crociata; ed emersero proposte volte, in quella medesima direzione, non solo a rafforzare l’alleanza con Leopoldo d’Asburgo, ma anche a riprendere i contatti con lo czar Fëdor III77 e al tempo stesso a confermare la scelta di abbandonare e addirittura di condannare i Malcontenti ungheresi. Pur senza mai troncare drammaticamente i rapporti con l’ambasciatore Béthune, Giovanni III non si compromise contrastando la dieta: tale doppio gioco permise a Luigi XIV di continuar a pensare che in qualche modo il sovrano polacco avrebbe finito con l’assecondare o quanto meno col non contrastare i suoi piani. Non c’è da meravigliarsi che nemmeno il papa comprendesse le effettive intenzioni del re di Polonia: lo stesso nunzio Martelli gli parlava dell’indecisione e dell’ambiguità di quel sovrano. Frattanto, però, dopo la pace di Nimega anche alla corte del Re Sole molti equilibri erano mutati: due alti dignitari, il Colbert de Croissy78 e il Louvois, erano riusciti a fare nel novembre ’79 «le scarpe» al ministro degli affari esteri, Arnaud de Pomponne, appunto sostituito dal Colbert. Non era il solito sgambetto tra carrieristi nei corridoi del potere: ci si liberava in realtà di un funzionario di solida e scrupolosa coscienza giansenistica sostituendolo con un personaggio dal temperamento che, in termini schmittiani, si potrebbe definire senza esitazioni decisionista. Le fazioni che si agitavano all’ombra

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del trono avevano senza dubbio molto a che fare con quel colpo di scena: ma al di sotto di esso era il cambiamento di politica a contare. Si aveva voglia di agire più presto, più sbrigativamente. Il terremoto di corte ebbe immediate conseguenze negli ambienti diplomatici. A Varsavia il marchese di Béthune – che aveva già ricevuto dal re una nota nella quale lo si avvertiva che il sostegno ai Malcontenti ungheresi non era più così importante – fu sostituito dal de Vitry; a Istanbul Gabriel Joseph de la Vergne, visconte di Guilleragues, venne insediato al posto del marchese di Nointel79; infine, a Vienna, arrivò nell’ottobre del 1680 il marchese di Sébeville, che pur rivestendo il semplice rango di «residente» avrebbe espletato le funzioni d’ambasciatore presso la corte imperiale fino al 1684 vivendo quindi in pieno la crisi dell’assedio, riguardo alla quale ci ha lasciato una testimonianza preziosa. Le carte diplomatiche del biennio 1679-80 sono particolarmente importanti per noi. Le mire sempre più preoccupanti del gran visir Kara Mustafa e la necessità di affrancarsi definitivamente dalle pretese francesi di tutela avevano indotto il re di Polonia a delineare un grandioso progetto diplomatico-militare, che ricevette l’appoggio di papa Innocenzo XI. Si trattava di risolvere una volta per tutte tanto le questioni di confine tra Polonia e Moscovia lasciate aperte dalla pace di Andrusovo del 1667, quanto quelle con Svezia e Brandeburgo per l’egemonia sulla Prussia attraverso l’assunzione da parte della Rzeczpospolita di un ruolo attivo e primario in una grande alleanza contro il Turco che avrebbe dovuto coinvolgere tutta l’Europa per liberarla una volta per tutte dall’ipoteca della minaccia ottomana. «È in questo contesto che si inseriscono le ambascerie straordinarie dirette all’imperatore e al papa, allo zar di Moscovia, ai re Carlo II di Spagna e Pedro II del Portogallo, all’elettore del Brandeburgo; infine al re di Francia, alla corte di Londra e all’Olanda assegnata al Morsztyn»80. Nonostante quest’ultimo, tesoriere del regno, fosse un sicuro sostenitore della Francia e ricevesse per questo dal Re Cristianissimo una buona pensione, l’iniziativa polacca destò a Parigi scontentezza e preoccupazione: anche perché intanto il nuovo ambasciatore faceva sapere che tra Vienna e Varsavia si andava delineando un asse difensivo-offensivo che obbligava austriaci e polacchi a correre gli uni in aiuto degli altri sia nel caso che il Turco avesse attaccato la compagine asburgica nell’Ungheria superiore, sia in quello che fosse invece il re di Polonia a decidere di rompere gli indugi e di avviare un’azione di «difesa preventiva» contro gli ottomani.

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In realtà, l’impegno polacco servì soprattutto a verificare una volta di più che all’ardore con il quale ci si abbandonava, in sede politica, a promesse e a propositi crociati corrispondevano poi – quando si passava alla concreta sede diplomatica – una sistematica prudenza e un’arte consumata di articolare argomenti e riserve. In Spagna e in Portogallo, per esempio, l’ambasciatore Piotr Mikołaj Korycin´ki ottenne dopo qualche rinvio la risposta che i paesi iberici erano troppo impegnati contro i mori maghrebini – era crociata anche quella – per potersi permettere il lusso di sovvenire in qualche modo i fratelli del nord-est: tutto quel che si poté ottenere fu un modesto e non granché sollecito contributo in denaro81. Da parte sua il protagonista della grande ambasciata polacca del 1679 diretta a Vienna e a Roma, il duca Michał Kazimierz Radziwiłł, maldispose i destinatari della sua missione diplomatica esibendo una superbia e un’ostentazione forse molto «sarmatiche», certo però in quel momento non opportune. Il duca viaggiava con un larghissimo seguito e gli premeva moltissimo stupire i romani con una «pomposa cavalcata»; ma, domandando nel tragitto da Vienna verso la Città Eterna alle autorità della Serenissima un salvacondotto per attraversare le terre di San Marco, si rifiutò tuttavia di sottoporsi ai controlli sanitari necessari in quanto proveniva da una regione crudelmente devastata dall’epidemia di peste. Lo stesso governo pontificio non aveva alcuna intenzione di consentire l’ingresso nelle sue terre di un così gran numero di stranieri provenienti da un’area contaminata. Re Giovanni, irritato per le difficoltà che si opponevano all’arrivo ad limina Petri del suo ambasciatore e sospettandone la pretestuosità, assillava il nunzio Martelli il quale intratteneva al riguardo una densa corrispondenza con il cardinale Cybo. Dal momento che non poteva attraversare lo stato veneziano, al Radziwiłł non restava che recarsi per nave fino ad Ancona; là giunto, egli si dichiarava disposto a una breve quarantena. Ma il re insisteva per l’urgenza dell’ambasceria: era riuscito ad ottenere dai suoi magnati l’assenso di massima all’ingresso in una lega antiottomana alla quale avrebbe partecipato anche la Moscovia; ma, dal momento che la dieta era convocata per l’8 gennaio 1680, egli sapeva che il rifiuto del papa di accogliere l’ambasciatore sarebbe stato sufficiente pretesto, colto al volo dai nobili contrari a scendere in campo contro il Turco, per mandar di nuovo tutto all’aria. In ballo c’era anche il consistente aiuto economico ripetutamente promesso dal papa alla Polonia. Intanto, il duca Radziwiłł dava segni di averne abbastanza e minacciava di dichiarar fallita la sua missione

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e di tornarsene a casa. In realtà, non ne aveva alcuna intenzione: ma sapeva che quelle minacce sarebbero state preziosa materia di ricatto. L’ambasceria si rivelò comunque inconcludente. Presso le corti d’Italia, fu piuttosto l’imperatore a inviare i suoi messi: e anche lì con scarsi e tiepidi risultati. L’ambasciatore cesareo Georg Adam Martinitz raggranellò meno di una trentina di migliaia di fiorini dal governo lucchese e un’altra trentina scarsa di migliaia di talleri da quello di Genova; Ranuccio II Farnese duca di Parma si defilò cortesemente; Vittorio Amedeo di Savoia non andò oltre la concessione di una cifra modesta; Cosimo III di Toscana inviò a sua volta un po’ di denaro e di rifornimenti militari82. All’inizio del penultimo decennio del XVII secolo, il quadro dell’assetto diplomatico europeo orientale era insomma quello di un reticolo di formali trattati e della sostanziale vigilia d’un nuovo, inevitabile, più aspro conflitto al quale gli stati dell’area occidentale del continente e della stessa penisola italica non avevano granché voglia di prender parte. Né si poteva davvero sperare in un rinnovato periodo di tregua: alla corte di Vienna, dove molti continuavano a contarci, si sapeva d’altronde bene che neppure il papa avrebbe gradito quella soluzione. È solo apparente il paradosso che vuole Innocenzo XI il migliore e più efficace alleato del gran visir nell’auspicare la guerra. L’atteggiamento aggressivo di Kara Mustafa aveva vanificato alcuni lustri di prudente politica pazientemente costruiti dal suo predecessore. D’altronde la pace del 1678 tra la Porta e Varsavia e quella successiva del 1681 fra essa e Mosca, dopo una nuova serie di vittorie ottomane, non lasciavano dubbi sul fatto che l’impero sultaniale fosse ormai la potenza egemone dell’intera, immensa area esteuropea, e che la sua ombra si protendesse verso il nord fino al Dnepr e al Danubio superiore. Mentre Luigi XIV approfittava di questo stato di cose per allargare il suo dominio in Alsazia, il papa e il re di Polonia si sforzavano di preparare la guerra contro il Turco. Solo l’imperatore perseverava in una posizione di possibilistica attesa. Frattanto, le cose ungheresi non andavano granché bene. Nell’Ungheria regia i generali imperiali Carafa e Caprara non riuscivano a venire a capo dei ribelli, ma in cambio infierivano sulle popolazioni civili sia perché le loro truppe si mantenevano per mezzo di rapine e di estorsioni, sia perché convinti che quello fosse l’unico modo per dissuaderle, col terrore, dal simpatizzare con gli insorti. Naturalmente ottenevano l’effetto opposto. Nei casi migliori le comunità reagivano appellandosi all’imperatore, come fecero il 28 aprile 1681

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quelli di Debrecen, in una supplica nella quale si dicevano «variis depopulationibus, pecudumque et pecorum abactionibus, victualium denique et innumerabilium bonorum... extorsionibus exausti». Né con minor durezza – che giungeva sino alle esecuzioni sommarie a scopo intimidatorio – i due trattavano le truppe: il che non migliorava certo né la sicurezza, né la disciplina.

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Erano davvero «Malcontenti»... Si dice che, quando gli uomini non sanno decidere, siano le circostanze a farlo al loro posto. Durante la dieta di Ödenburg1, tra il maggio e il dicembre del 1681, Leopoldo aveva restaurato un governo costituzionale nell’Ungheria regia senza rendersi forse conto che ormai era tardi per misure del genere. I risultati della complessa e sfibrante assise non avevano soddisfatto nessuno; si era comunque convenuto che al regno sarebbe stata lasciata una larga autonomia, a differenza di quanto era accaduto nel caso della Boemia. Il modello boemo sarebbe forse stato più gradito al da poco defunto General Feldmarschall Montecuccoli, il quale era sempre stato d’accordo con i gesuiti per trattare il meno possibile con i protestanti magiari. Ma proprio a questo riguardo l’atteggiamento del nunzio Buonvisi, l’attività del quale era stata determinante per la convocazione della dieta e che ne aveva condizionato abilmente i lavori, era invece decisamente orientato per le trattative. Appariva secondario il fatto che più o meno in quello stesso torno di tempo l’influenza dell’ambasciatore francese a Varsavia, accompagnata da parecchio oro, avesse evitato che i magnati polacchi si pronunziassero esplicitamente a favore di un’alleanza con l’imperatore. Leopoldo si preoccupava difatti soprattutto dell’Ungheria: e contava sul fatto che i negoziati, di nuovo avviati nella primavera del 1681 con il Thököly e i «Malcontenti» sulla base delle garanzie decise dalla dieta, approdassero a un accordo. Esso era fondamentale nella prospettiva dell’organizzazione di una campagna contro gli ottomani, impensabile con un’Ungheria non pacificata parte della quale si sarebbe prestata a far da «quinta colonna» al nemico. Chi aveva invece seguito l’andamento della dieta di Ödenburg con interesse e soddisfazione crescenti era stato Innocenzo XI: ne era rimasto così contento da decidersi a concedere il 1° settembre

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al Buonvisi la porpora cardinalizia, con il titolo di Santo Stefano al Celio, senza tuttavia che ciò comportasse – il che era in deroga alle usanze – l’abbandono di quelle funzioni diplomatiche nell’esercizio delle quali il neoporporato, pur con tutto il suo sincero impegno, aveva fino ad allora raccolto risultati solo mediocri. Adesso, invece, sembrava arrivato il grande successo. Appena in tempo. Se il pontefice avesse indugiato qualche settimana a sigillare sub anulo Piscatoris la sua decisione, forse ci avrebbe ripensato. Il 19 settembre arrivò difatti a Vienna l’inattesa e fulminante notizia che il conte Thököly, dopo molte esitazioni ed evidentemente confortato anche dall’appoggio e dal denaro del re di Francia2, aveva fatto la sua scelta rompendo formalmente la tregua e riprendendo le armi, con una ragguardevole armata rafforzata da un contingente ottomano di circa 7000 uomini e da 12.000 tra moldavi e valacchi, vassalli della Porta3. Queste forze musulmano-luterano-calvinisto-ortodosse, alle quali andava anche la simpatia delle locali comunità ebraiche (un bell’esempio di interconfessionalità balcanica...), avevano attaccato il 15 settembre la piccola fortezza di Kalo, nell’Ungheria orientale: ciò rischiava di determinare la caduta di Szatmár e di tutto quel che restava in quello scacchiere nelle mani degli imperiali. Per reggere il fronte, essi disponevano almeno sulla carta di effettivi in numero forse leggermente superiore, ma disseminati: circa 21.000 uomini di truppa cui andavano aggiunte le guarnigioni di frontiera, qualche battaglione sparso, 13.000 cavalieri e 7 reggimenti di fanteria che in totale avrebbero dovuto far 17.500 uomini ma erano incompleti4. Alla fragile situazione si era per la verità cercato di ovviare, con la lucida consapevolezza che essa era tale: ma forse troppo tardi. Appunto il 30 agosto la dieta imperiale, seguendo finalmente appieno i consigli anzi le reiterate raccomandazioni del principe di Montecuccoli da poco scomparso, aveva votato a Ratisbona l’istituzione d’un esercito permanente dell’impero costituito da contingenti che avrebbero dovuto ascendere in tutto a 40.000 uomini, forniti e mantenuti dai vari Kreise nei quali il territorio dell’impero era ripartito: ma si trattava di una decisione ancora sulla carta. Nel settembre l’imperatore stabilì che gli effettivi dei reggimenti di fanteria fossero portati da 2500 a 3000 e nel mese successivo organizzò un paio di reggimenti di corazzieri e qualche altro di dragoni e di fanti: ma le diete dei paesi appartenenti all’eredità dinastica degli Asburgo (bassa Austria, Boemia, Moravia, Slesia) rifiutarono sia di sborsare i necessari crediti supplementari, sia – e soprattutto – di concedere

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sui loro territori gli ambienti e gli spazi per acquartierare le truppe. In ciò, i Kreise dell’impero non si comportavano diversamente: l’ambasciatore francese a Vienna testimoniava che l’inviato del Kreis di Svevia gli aveva dichiarato che la sua gente avrebbe preferito ospitare le milizie ottomane piuttosto delle truppe imperiali5. In quel momento ci si sentì presi tra due fuochi: e dovette esser molto difficile non pensare a una manovra a tenaglia concertata tra il re di Francia, il sultano e gli insorti ungheresi. Quasi a ruota rispetto alle cattive notizie dall’Ungheria, si era venuti a sapere che il 30 settembre le truppe del Re Sole erano entrate nella città imperiale di Strasburgo, prendendone possesso secondo la delibera unilaterale della «Camera di Riunione» di Metz: con grande gioia dei cattolici del capoluogo alsaziano e con presumibile soddisfazione della Santa Sede, perché si sapeva che Luigi sarebbe stato ben più duro con i protestanti alsaziani di quanto non era fino ad allora stato Leopoldo6. A quel punto, altre libere città imperiali come Ulm e Colonia temevano l’arrivo dei francesi, ma al loro interno c’erano anche non pochi che invece lo desideravano: la presa di Strasburgo poteva segnare l’avvio di un’offensiva sistematica su tutta la riva destra del Reno. Si era ormai ben compreso che l’interpretazione dei documenti esaminati dalle «Camere di Riunione» stava giungendo a permettere la conclusione che le tre diocesi di Metz, di Toul e di Verdun appartenevano di diritto al territorio sottoposto alla sovranità del re di Francia; e che il passaggio dalle solenni dichiarazioni giuridiche all’occupazione militare sarebbe stato solo questione di tempo7. Ma all’interno della compagine imperiale i pareri circa l’atteggiamento e le pretese del Re Sole erano molto diversi: il principe elettore arcivescovo di Magonza, Franz von Ingelheim, non voleva sentir parlare di resistenza perché il suo territorio era stato devastato durante la guerra d’Olanda, aveva perduto 200.000 fiorini di rendita, disponeva di un esercito ridicolo ed era oltretutto lieto che la città di Strasburgo fosse finita nelle mani del Re Cristianissimo anziché in quella degli eretici protestanti, com’era stato sul punto di accadere; quello di Colonia si diceva preoccupato ma non in condizione di reagire, e si sapeva bene quanto amico fosse del Re Sole; quanto a Massimiliano Emanuele elettore di Baviera, cognato del Gran Delfino8, egli si era affrettato a congratularsi con il suo congiunto re di Francia. Il quale d’altronde non faceva mancare ai principi tedeschi palesi e soprattutto occulti segni del suo favore: i cospicui sussidi da lui versati al duca di Hannover, per esempio, venivano percepiti e

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trasportati dalla Francia alla Sassonia in botti di bevande alcoliche astutamente approntate dal Hofjude Leffman Behrens. Come osservava in un suo dispaccio al senato l’ambasciatore veneziano a Vienna Domenico Contarini, il disorientamento e la confusione dei consiglieri di Leopoldo, riuniti nella Geheime Konferenz9, erano a quel punto indescrivibili10. In Ungheria, le truppe imperiali comandate dal generale Silvio Enea Caprara stavano collezionando solo sconfitte: ormai, dinanzi alle armate ungaro-ottomane si apriva, libera e spianata, la via di Presburgo. Era logico aspettarsi l’assedio di quella piazzaforte. Dei pareri e degli umori che si agitavano in quel momento attorno a Leopoldo I e all’interno della sua Geheime Konferenz, ci resta un quadro forse soggettivo ma molto ampio e approfondito grazie alle abbondanti e dettagliate relazioni degli ambasciatori a Vienna, soprattutto del francese Sébeville e del veneziano Contarini11. La «Conferenza» era presieduta dal cancelliere d’Austria Johann Paul Hocher barone di Hohenkrahn, buon giurista ma spesso assente dalle riunioni in quanto ammalato di gotta: egli era fautore della politica del pugno di ferro in Ungheria e al tempo stesso ostile alla Francia. Invece il principe Johann Adolf von Schwarzenberg, presidente del Reichshofrat12, era un moderato e un pragmatico: conosceva perfettamente gli equilibri di quel quasi monstrum – eppur mirabile monstrum! – che era il Sacro Romano Impero13 ed era un cauto sostenitore della necessità di un accordo con la Francia. Più o meno allo stesso modo la pensava anche il conte Leopold Wilhelm Königsegg-Rothenfels, vicecancelliere dell’impero: uno svevo ritenuto creatura del principe elettore arcivescovo di Magonza – e in quanto tale filofrancese –, ma molto stimato dall’imperatore. Va sottolineato che ostili a un’affermazione del Re Sole nell’area renana non erano tanto i principi e le città dell’impero ad essa direttamente interessati – che anzi erano piuttosto favorevoli a un’intesa che alla fine avrebbe loro consentito di vivere in pace e che spesso figuravano nel libro-paga di Luigi – quanto piuttosto i sostenitori di una stretta unità d’azione tra i due rami della casa d’Asburgo, evidentemente contrari a un attestarsi del sovrano sui problemi dei suoi possessi dinastici d’Austria e di Boemia e quindi a un suo abbandono o a una sottovalutazione dello scacchiere occidentale14. Altri membri influenti del governo e consiglieri dell’imperatore erano il maresciallo di corte conte Albert von Zinzendorf15, Ermanno margravio di Baden-Durlach presidente del Hofkriegsrat – un ufficio ch’era stata tenuto dal Montecuccoli fino al 1680, cioè finché egli era restato

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in questa valle di lacrime – e il barone Christoph von Abele presidente del Reichskammergericht16. Tanto il margravio di Baden quanto il von Abele, personaggi non granché energici per questioni o di età, o di scarsa salute, o di debole carattere, erano influenzati in modo decisivo da padre Imre17 Sinelli: un ungherese di umili origini entrato nella famiglia cappuccina dell’Ordine francescano e vescovo di Vienna dal 1680. Egli era uno dei personaggi che più l’imperatore amava ascoltare: sostenitore di una linea di fermezza nei confronti della Francia, ma anche della ricerca di un accordo con le varie forze sociali e religiose presenti nell’Ungheria regia, riteneva necessario – d’accordo con il cardinal Buonvisi – provvedere anzitutto alla pacificazione di essa. In ciò, egli si opponeva alle soluzioni ispirate a intransigenza cattolica sostenute invece da un potentissimo prelato e influente consigliere del sovrano, il vescovo Leopold Kollonics18, e dalla Compagnia di Gesù. Ad avviso del Sinelli, la ricerca di una composizione delle tensioni in Ungheria era necessaria appunto perché l’imperatore potesse concentrarsi sul problema dell’espansionismo francese e adeguatamente contrastarlo: la linea dura proposta dal Kollonics avrebbe, secondo lui, irreparabilmente seminato nuovi reciproci rancori e reso impossibile il raggiungimento di un sicuro punto d’accordo accettabile e difendibile fedelmente da tutti. È peraltro ovvio che i due partiti delineabili soprattutto attraverso le relazioni del residente francese, il marchese di Sébeville – che prescindeva dall’esistenza a corte di un «criptopartito francese» o preferiva dissimulare il ruolo dei suoi adepti, di solito del resto nascosti nelle fila del «partito tedesco» –, non corrispondessero a due fazioni frontalmente opposte tra loro e rigorosamente compatte al loro rispettivo interno. Era ad esempio generale e comune a tutti i consiglieri imperiali l’espressione di un severo giudizio (forse non sempre sincero) nei confronti della politica delle «Camere di Riunione» proposta da Luigi XIV, considerata un insieme di violazioni del diritto, di cavillosi pretesti sostenuti dalla prepotenza militare e di ingiustificate ingerenze nelle questioni di pertinenza dell’impero. In chi afferiva al «partito tedesco» prevaleva comunque la preoccupazione sia per la situazione ungherese – che non solo era grave in sé, ma avrebbe potuto servire da modello per il sorgere di qualcosa di analogo in Boemia, dove non mancavano motivi di tensione e di scontento e dove nel 1680 era scoppiata una violenta rivolta contadina contro la pesantezza del regime signoriale19 –, sia per l’eventualità di una nuova offensiva ottomana. Chi la pensava così poneva in

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primo piano le esigenze di pace e di sicurezza sia del Reich, sia della compagine ereditaria asburgica. In altri dignitari e funzionari di corte la ragione principale di una prospettiva che finiva col consigliare la ricerca d’un accordo con la Francia verteva sulla consapevolezza, politicamente realistica, del formidabile potenziale militare a disposizione del Re Sole, il quale in quel momento poteva contare, a quel che sembra, su circa 140.000 uomini pronti a essere schierati: da tre a quattro volte quelli dei quali poteva disporre l’impero, ma meglio armati e addestrati e più disciplinati, e soprattutto effettivamente già disponibili e già sul piede di guerra, a differenza dei contingenti imperiali di cui ancora si discuteva nella dieta di Ratisbona. Una discreta disparità di opinione regnava poi a proposito delle misure da prendere nei confronti degli ungheresi. I fautori della linea morbida, pur esitando, si giustificavano con la paura che una scelta contraria potesse saldare ancora di più l’alleanza dei ribelli con gli ottomani e con la prospettiva che una soluzione remissiva ma stabile del problema ungherese avrebbe consentito di volgersi senza perdere altro tempo e con maggior serenità a fronteggiare l’espansionismo francese. Quanto ai più decisi sostenitori del «partito spagnolo», comune era in loro – in buona o in malafede – una certa sottovalutazione del pericolo ottomano: ma, come c’era quanto meno in apparenza accordo generale sul giudizio in linea di principio severo nei confronti della politica del Re Sole, una qualche identità di vedute regnava anche a proposito del Turco. Qui, l’impressione che il sultano avrebbe confermato e rinnovato la tregua stipulata nel ’64 a Vasvár appariva diffusa e condivisa, sia pur non con unanime convincimento. Il «partito spagnolo» era naturalmente coordinato dall’ambasciatore stesso di Spagna, Carlo Emanuele d’Este marchese di Borgomanero, arrivato a Vienna nel maggio del 1681 più o meno contemporaneamente al francese Sébeville; e godeva dell’autorevole appoggio di colui che si sentiva il primo danneggiato dalla politica delle «Camere di Riunione», cioè di Carlo V duca di Lorena che era succeduto al Montecuccoli nell’ufficio di comandante in capo dell’armata imperiale20. Molto di nuovo sul fronte occidentale Abbiamo già incontrato Carlo, al momento quasi quarantenne e Feldmarschall da un lustro, quando ad appena trent’anni era stato sostenuto da Leopoldo nella candidatura al trono di Polonia. La

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dieta polacca gli aveva preferito Jan Sobieski: ma l’imperatore, che gli era affezionato e si sentiva colpevole forse nei suoi confronti – e in quelli del Reich – per non essere stato in grado, nel ’70, d’impedire la fagocitazione della Lorena da parte del Re Sole (il quale gli aveva di nuovo inflitto una mezza umiliazione a proposito della successione polacca, poiché il Sobieski era al momento più gradito alla Francia che all’impero), gli aveva corrisposto una specie di premio di consolazione accordandogli la mano della sorellastra Eleonora Maria Giuseppina, vedova del precedente re di Polonia Michele Korybut e cordialmente avversa a quello nuovo. La posizione di Carlo restava comunque debole: per quanto cognato del sovrano e per giunta investito del prestigioso ufficio di governatore del Tirolo nonché titolare di un capitale di 100.000 fiorini cui se ne aggiungevano altri 20.000 di rendita annua, egli restava un duca senza ducato. Durante le trattative che avevano condotto alla pace di Nimega gli era stata per la verità offerta la restituzione della sua Lorena: ma a condizioni tali da obbligarlo per dignità a rifiutare. È ovvio pertanto che egli odiasse con tutte le sue forze il re di Francia: se non altro per questo era un sostenitore deciso delle tesi «spagnole». Annessa la buona città imperiale di Strasburgo, le truppe francesi dilagavano in Alsazia: e a quel che pareva la Santa Sede non ne era poi scontenta. Strasburgo era in parte luterana: il papa e i cattolici alsaziani sapevano bene che il re di Francia, per legittimare il suo potere sulle terre occupate, avrebbe ostentatamente represso i protestanti nei confronti dei quali invece l’imperatore manteneva in tutto il Reich un contegno moderato e rispettoso degli accordi che lasciavano loro libertà di culto. Dopo la tregua del ’64, la corte viennese aveva costantemente fatto di tutto per mantenere la pace col Turco e cercare un compromesso nelle cose ungheresi in modo da potersi concentrare sulla minaccia francese. E il Re Sole, che lo sapeva bene, non aveva mai cessato d’incoraggiare in ogni modo i ribelli ungheresi e di appoggiare la Porta in modo che essa si disponesse a intensificare la sua pressione sui Balcani. Al tempo stesso la propaganda francese denunziava a gran voce a tutta la Cristianità lo scandalo costituito dal fatto che, mentre il Turco nemico della croce incombeva sui confini orientali d’Europa e taglieggiava in ogni modo i poveri cristiani ungheresi, valacchi e moldavi, la miope ed egoistica politica degli Asburgo avesse condotto alla firma di un nuovo impium foedus con l’infedele e si ostinasse ad osteggiare il Re Cristianissimo e la Francia, figlia primogenita di Santa Romana Chiesa.

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Nell’autunno dell’81, la corte di Vienna aveva dunque ricevuto a ruota, in una quindicina di giorni, tre pessime notizie riguardanti altrettante aree dell’impero e dei territori ereditari: una specie di malvagio triangolo che stringeva la compagine asburgica. Non solo il Re Sole si era impadronito di Strasburgo, ma i francesi avevano occupato anche Casale Monferrato, che ormai costituiva una loro base avanzata nell’Italia settentrionale; mentre, in Ungheria, i «Malcontenti» del Thököly avevano ripreso le armi frustrando le speranze accese durante la fluviale dieta di Ödenburg. Si sapeva bene che – nonostante la tregua di Vasvár, peraltro sul punto di scadere, non sembrasse in discussione ed esistessero anzi buone prospettive di rinnovo – dietro al conte ungherese ribelle c’era in qualche modo il Turco. Il punto era: a quali problemi dare la precedenza, a quelli del Reich o a quelli dei territori ereditari? Nell’entourage dell’imperatore, i pareri erano diversi se non opposti. Ricapitolando in sintesi quanto già si è anticipato, va tenuto presente che il «partito spagnolo» si contrapponeva a quello «tedesco», nel quale militavano anche i filofrancesi che si tenevano nascosti, ma erano più numerosi e influenti di quanto non sembrasse. Si può inoltre identificare, magari come posizione sottintesa e subordinata, anche un «partito pontificio» che non era necessariamente equidistante fra i due, ma che si regolava nell’appoggio all’uno o all’altro – o nella conduzione di una politica indipendente – sulla base di un programma chiaro e semplice, costituito di due punti precisi: ricattolicizzazione dell’Ungheria e ripresa della lotta contro il Turco. Riguardo al primo il consenso della potente Compagnia di Gesù era totale, e si poteva contare sull’energica azione del Kollonics: mentre il vescovo, il cappuccino Sinelli, si discostava alquanto dallo stesso parere della Santa Sede ritenendo che l’accordo con i riformati ungheresi fosse un obiettivo tanto importante da meritare una politica moderata, per motivi che erano al tempo stesso religiosi, morali e tattici. Trovare un modus vivendi col Thököly e i suoi significava strappare al Turco un potenziale alleato e quindi facilitare e magari affrettare la nuova crociata che il pontefice auspicava esplicitamente: una prospettiva che il «partito tedesco» era tiepido nell’abbracciare in quanto avrebbe nettamente preferito mantenere la pace con la Porta, ma che considerava positiva nel suo aspetto difensivo. Il Turco era pur sempre un pericolo incombente: ci si poteva augurare di tenerlo diplomaticamente a bada e sperare che esso fosse impegnato in cose che lo distogliessero dal guardar con troppa

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attenzione alla piana del Danubio, ma non era per nulla il caso di sguarnire il settore difensivo destinato a fronteggiarlo solo per far piacere alla Maestà Cattolica del re di Spagna. Quanto a Strasburgo tolta al Reich, è evidente che nessuno poteva gioirne: ma in fondo, al pari del papa, chi come il Kollonics auspicava il pugno duro con i protestanti sapeva bene che Luigi sarebbe stato con quelli alsaziani molto più rigoroso di Leopoldo. Questa era la situazione con cui si era trovato a misurarsi l’ambasciatore francese Sébeville quando nella primavera del 1681 era arrivato a Vienna: e certo la notizia che il suo signore aveva preso Strasburgo non gli aveva reso facile il lavoro. D’altronde, i compiti dei diplomatici sono di questo tipo. Noi parliamo di «partiti»: ma al riguardo bisogna intendersi. V’erano, certo, alcuni personaggi dotati di effettivo potere o comunque molto influenti che rappresentavano in modo inequivocabile una posizione che, magari indirettamente ma non per questo meno decisamente, finiva col favorire la politica del re di Francia: perché questo era il vero discrimine alla corte di Vienna, e il Re Sole non lesinava al riguardo né rimesse di danaro né favori né promesse di vario genere. Ciò emerge per la verità soprattutto da indizi, dicerie o sospetti che la successiva storiografia ha confermato: anche se è obiettivamente difficile confermarli con sicure prove documentarie. Vi era poi chi con certezza, magari per ragioni personali profonde, manteneva comunque una posizione esplicitamente e coerentemente antifrancese: Carlo di Lorena, ad esempio, stava sempre e comunque dalla parte opposta rispetto a chiunque e a qualunque cosa gli desse l’impressione di assecondare, sia pure in modo provvisorio e involontario, il gioco del Re Sole. Ma la maggior parte dei consiglieri e dei collaboratori dell’imperatore evitava il più possibile di uscire allo scoperto, di schierarsi: era preferibile far attenzione volta per volta al vento che tirava, non esprimere giudizi decisi o darne solo su fatti episodici e secondari, evitare di prender definitivamente partito o di chiuder porte semiaperte o di tagliar ponti. I «partiti», più che incarnarsi con decisione in questa o in quella personalità, in questo o in quell’ambiente, erano il risultato piuttosto fluido e cangiante d’una molteplicità di istanze e di tendenze. Ma, in ultima analisi, esistevano. Leopoldo era molto sensibile alle ragioni del «partito spagnolo», anche in quanto teneva a sottolineare i suoi diritti ereditari sul regno di Spagna ed era a sua volta convinto, come i sostenitori di esso non perdevano occasione di denunziare, che tra Parigi e Istanbul vi fosse sul serio una ferrea intesa: ma va a onor del vero detto che tale con-

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vinzione poggiava quanto meno in parte su un malinteso. Luigi XIV considerava la minaccia ottomana contro Ungheria e Austria come un deterrente: suo scopo reale non era certo il favorire il Turco, bensì l’impegnare Leopoldo sul fronte orientale per impedirgli di agire a occidente. Se si fosse trovato un accordo per l’assetto dell’area renana, egli avrebbe ben potuto sia cessare di appoggiare gli insorti ungheresi, sia allentare i rapporti con gli ottomani; e si doleva di avere, al riguardo, perduto il supporto polacco a causa del voltafaccia di Giovanni III. Il punto è che egli era ben deciso a ottenere quel che voleva sulla base della politica delle «Camere di Riunione»: ma non trascurava affatto né il suo epiteto di Re Cristianissimo, né il ruolo di scudo e spada della fede e di promotore della crociata che gli storici al suo servizio rivendicavano storicamente ai sovrani di Francia. Fossero o meno giustificati, gli attacchi propagandistici lanciatigli contro nei territori dell’impero, dove di lì a poco lo si sarebbe soprannominato «il Turco di Versailles» mentre già si definiva «inturbantata» la sua corte, non solo non gli giovavano – e lo sapeva benissimo –, ma non gli facevano neanche piacere. Era pertanto buona politica il mostrar di tanto in tanto come i rapporti di «amicizia» della Francia con la Porta non fossero poi così idilliaci. Lo si vide proprio nel 1681, a proposito dell’affare di Chio: la squadra navale dell’ammiraglio Abraham Duquesne21 stava inseguendo alcuni corsari barbareschi22 che si erano rifugiati nel porto di quell’isola. L’ammiraglio non aveva esitato a bombardare la città, che era dal 1566 sotto sovranità ottomana, danneggiando una moschea e uccidendo 250 persone; quindi era penetrato nelle acque dei Dardanelli. Il sultano non aveva affatto gradito la cosa, e l’ambasciatore francese visconte di Guilleragues – che il gran visir, infuriato, aveva minacciato di far rinchiudere nella leggendaria e famigerata prigione delle Sette Torri e addirittura di far strangolare: e che aveva comunque isolato nel serraglio – era riuscito a tirarsi d’impaccio solo mettendo in campo tutta la sua abilità, sfruttando al massimo le amicizie (prima fra tutte quella, preziosa, con l’archidragomanno23 Alexandros Mavrocordatos24) e spendendo parecchio danaro25. Si è comunque ricordato non inopportunamente che la marina francese era spesso impegnata contro i corsari barbareschi; e perfino che, a quel che pare, Luigi XIV aveva pensato in qualche occasione a un’azione dimostrativa di quelle che tolgono il fiato, come a un bombardamento d’Istanbul, per mostrare al tempo stesso al sultano la sua potenza e all’Europa che egli non era affatto unilateralmente

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e machiavellicamente filoturco26. Al residente francese a Istanbul toccava il difficile compito di tener buono il governo sultaniale che rimproverava alla Francia le sue ritorsioni contro i corsari barbareschi e d’insistere affinché i «Malcontenti» fossero sostenuti dalla Porta nell’interesse della politica del Re Sole. Una bella quadratura del cerchio. Comunque, nel dicembre del 1681 l’imperatore era riuscito a concludere un accordo che comportava una tregua di sei mesi con il conte Thököly: che però, grazie ai fondi fornitigli dai francesi e all’appoggio del gran visir, riprese quasi subito le armi. Il Guilleragues lavorava bene, per quanto alla sua abilità di negoziatore fosse necessario l’appoggio di somme di danaro sempre più consistenti: per esempio 250.000 scudi graziosamente «donati» tutti in una volta, nel settembre del 1682, al sultano. Ma si trattava di superare le cifre offerte dal rappresentante imperiale, il bolognese conte Carlo Alberto Caprara fratello di Enea Silvio, celebre generale dell’impero27. Intanto a Vienna, accanto alle ragioni del «partito tedesco» e in appoggio al lavoro del residente francese Sébeville, stava crescendo attorno al sovrano l’influenza del terzo partito, quello «pontificio»: che, secondo i progetti di Innocenzo XI, premeva per una soluzione in Renania che ponesse fine o che comunque sospendesse le lotte tra le potenze cristiane (il che significava sostanzialmente piegarsi agli appetiti del re di Francia) e promuovesse con maggior forza invece la guerra in Ungheria: come a Strasburgo l’occupazione francese si era risolta in un rafforzamento del cattolicesimo, nell’area danubiana l’offensiva imperiale sarebbe andata a colpire i protestanti ungheresi. Nemmeno ciò dispiaceva alla politica francese: un irrigidirsi dei cattolici in Ungheria avrebbe comportato una reazione dei protestanti, che avrebbero finito con il chiedere la protezione o almeno l’appoggio della Porta. A Roma, si riteneva che ciò avrebbe reso inderogabile la crociata europea; a Parigi, che avrebbe persuaso l’imperatore a lasciar perdere il fronte occidentale per concentrarsi sul Danubio. Si trattava di una convergenza di fatto, non di un disegno condiviso dalle due parti: ma è ovvio che chi voleva fare il gioco del Re Sole ne fosse consapevole, mentre c’è da chiedersi se e in che misura chi pensava principalmente a sostenere la volontà pontificia sottovalutasse o ignorasse in buona fede quest’aspetto della questione. Portatore ardente e inflessibile delle istanze papali era comunque il cappuccino Marco d’Aviano28, che – trovandosi a Laxenburg, presso la corte, per espressa e insistente volontà dell’imperatore29 – ai primi

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del giugno dell’82 si incontrò col Sébeville confermandogli, quanto alla questione di Strasburgo, che a giudizio del papa quel che in ultima analisi contava era che grazie al Re Cristianissimo il culto cattolico vi fosse stato pienamente restaurato30. Era importante e significativo che fosse proprio padre Marco a esporre all’ambasciatore francese i sentimenti del pontefice circa la conquista della città alsaziana: Luigi XIV non amava quell’ardente e carismatico cappuccino, ma sapeva quanto invece egli fosse caro sia al papa, sia all’imperatore. Marco d’Aviano è anzitutto il santo della penitenza e dell’Atto di Dolore31. Ma era proprio la sua vocazione religiosa a spingerlo con forza irrefrenabile alla predicazione della crociata. Fedele alla tradizione secondo la quale i mali che si abbattevano sulla Cristianità erano la conseguenza delle sue cattive azioni e che qualunque sventura fosse la punizione per i peccati (appunto peccatis nostris exigentibus), egli riteneva fermamente che il Turco fosse il segno e lo strumento della giustizia divina indignata: per questo la crociata tesa a batterlo e ad umiliarlo a costo di lacrime e di sangue era anzitutto un’opera di penitenza. Sedicenne, aveva tentato di raggiungere Candia assediata sperando di cogliervi la corona del martirio. Entrato più tardi nella famiglia cappuccina dell’Ordine francescano, era diventato nel 1680 consigliere spirituale di Leopoldo I e aveva miracolosamente guarito Carlo di Lorena da una frattura mal saldata a una gamba. Il fondamentale carattere penitenziale che egli attribuiva alla sua missione è la chiave per intendere correttamente il suo stesso slancio crociato. Fino dal 1680, predicando a Linz, aveva minacciato che «l’ira divina» si sarebbe manifestata presto, e in forme terribili, se non si fosse posto rimedio al dilagare del malcostume e della corruzione32. Due anni dopo, predicando proprio a Vienna, non aveva lesinato i toni profetici più paurosi e minacciosi: «O Vienna! O sciagurata città... cattivi giorni stanno per arrivare su di te. Il tuo amore per la vita libera e facile, le tue ingiustizie e la tua lascivia ti stanno procurando formidabili punizioni. La spada non è stata ancora riposta nel fodero: essa è al contrario più minacciosa che mai, se Dio non vede qualche segno di resipiscenza...»33. C’era stata da poco una durissima epidemia di peste: era quella appunto la spada divina, non ancora rinfoderata. Un nuovo strumento di castigo celeste si andava preparando. Ma appunto contro questi mali e queste minacce la crociata sarebbe stata un rimedio miracoloso. In questo senso la volontà peni-

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tenziale era primaria nella stessa predicazione di Marco contro gli ottomani. Essi erano, con la loro ferocia, ministri di Dio e strumenti della sua vendetta34: il combatterli sarebbe stato il primo segno che la via della redenzione era stata imboccata. Dalle prediche del cappuccino e dal suo epistolario, specie dalle missive scambiate con Leopoldo I, si ricava una vera e propria teologia penitenziale della crociata. Egli non aveva dubbio alcuno che il governo ottomano si dovesse qualificare ingiusto, dispotico, tirannico: ma proprio per questo, dal momento che da tanto tempo minacciava la Cristianità, esso si proponeva come «specchio delle debolezze e dei peccati dei cristiani, e permanente enigma per loro»35. La crociata come opus poenitentiae si riallacciava pertanto al tema agostiniano delle sventure che i cristiani dovevano affrontare peccatis exigentibus: mai si sarebbe ottenuta vittoria sugli infedeli, se non si fosse prima proceduto a una vera e propria conversio tanto personale quanto comunitaria. La vera guerra santa non era quella contro gli infedeli e non mirava né a convertirli, né a soggiogarli: era quella che si combatteva nell’anima di ciascun fedele, contro il male e il peccato. Si Deus pro nobis, quis contra nos?, scriveva l’imperatore stesso a padre Marco36. Solo la condizione del trovarsi in grazia di Dio era sicura garanzia di vittoria. Proprio per questo la prospettiva di una nuova impresa contro il Turco aveva infiammato il cappuccino: nel marzo del 1682 egli aveva cercato di raggiungere la Spagna per predicarvi la crociata, ma Luigi XIV gliel’aveva impedito37. Era importante dunque che fosse il celebre predicatore e taumaturgo a confidare al Sébeville un parere riguardante quel re di Francia che non lo aveva granché in simpatia. A nome del papa il frate confermava ufficiosamente che il Re Sole aveva in qualche modo mano libera sull’Alsazia, purché s’impegnasse a far piazza pulita dei protestanti in quell’area e agisse con moderazione in modo da non contrariare troppo l’imperatore: la sostanza ultima del messaggio pontificio, fatto avere oralmente e con discrezione attraverso padre Marco, era che le potenze occidentali dovevano trovare rapidamente quella concordia necessaria a consentire loro di riprendere il combattimento contro il Turco. Nella pratica, i consiglieri imperiali più ligi al papa spingevano Leopoldo a far di tutto – anche qualche sacrificio territoriale a occidente – pur di mettersi in condizione di riprendere l’offensiva contro l’Infedele; e il «partito tedesco» (nel quale si annidavano, mimetizzati, i filofrancesi) gli raccomandava di pensare anzitutto alla sua

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condizione di capo della dinastia e di custode degli interessi di essa, che erano a sud e ad est. Al di là degli schieramenti di corte, non è impossibile che Leopoldo riuscisse in qualche modo anche a tastare il polso di un gruppo non trascurabile dei suoi sudditi, i Misjunker, la piccola nobiltà di campagna austriaca. Quegli onesti, un po’ ruvidi gentiluomini di campagna avevano in sovrana antipatia il polite Hofadel, «la raffinata nobiltà di corte» e disprezzavano la vita in città al contatto con quella che essi giudicavano una sfaccendata e viziosa plebaglia. I Misjunker vivevano chiusi negli aviti castelli al centro delle loro terre, cacciavano e spesso si ubriacavano, finché ce la facevano mettevano continuamente al mondo figli e non trascuravano gli amori ancillari: ma alcuni di loro leggevano e studiavano; e magari talvolta perfino pregavano, dal momento che erano buoni cristiani di fede ora cattolica, ora luterana. Quegli aristocratici, che si sentivano piuttosto estranei al corpus germanicum del Reich ma profondamente legati alla loro «buona terra tedesca», avevano mandato giù piuttosto a fatica la tregua di Vasvár anche perché non riuscivano a dimenticare che il Turco era là, oltre il confine, poche miglia a sud dei loro boschi e delle loro vigne. Proprio nel 1682 venne pubblicato il complesso poema-trattato uscito dagli ozi operosi e dalla penna di uno di loro, il barone protestante Wolf Helmhardt von Hohberg: il suo titolo era Adeliges Landleben, e si trattava di una specie di simpatico, ispido, un pochino prolisso «manifesto» del modo dei Misjunker di concepire il mondo. Il barone von Hohberg non si curava di partiti «spagnoli» o «tedeschi» attorno al suo imperatore, roba da quei damerini del polite Hofadel: ma la minaccia ottomana e l’idea che vi si dovesse sottostare non gli piacevano. E, nel componimento Georgica inserito nel suo più corposo scritto, egli proclamava con una lucidità che sorprende: Se non ci raduniamo e al più presto armati di consiglio, coraggio e devozione, la salvezza può giunger troppo tardi. L’eroica patria tedesca, che un tempo con immense schiere il mondo inondava, deve ora comprare la pace, pagar tributo ai turchi, spiare come un condannato, con viltà, angoscia e paura se viene il suo carnefice, attendere che il nemico sguaini la scimitarra scintillante, che le schiere giannizzere, che i cavalieri spahi irrompano vittoriosi? Oh, no, valorosi tedeschi, fate che mai questa viltà sia proclamata di voi38.

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Sentimenti non dissimili da questi dovevano circolare un po’ in tutta l’Austria; a corte, essi venivano tradotti in termini politici e diplomatici. Era rimasto solo il «partito spagnolo», che adesso appariva in minoranza, a ricordare a Leopoldo i suoi doveri nei confronti del Reich: dei quali egli era peraltro, al di là delle contingenze del momento e del tornaconto della sua dinastia, del tutto consapevole. Comunque, a est o ad ovest che ci si volgesse, c’era aria di guerra. Fra ’81 e ’82 l’imperatore si dedicò a riorganizzare le forze armate tanto nei territori ereditari quanto nell’impero: era per lui inevitabile schierare truppe sui due fronti, quello renano – poiché, come dichiarava al residente francese, pur non avendo alcuna voglia di riaccendere la guerra sul Reno non poteva far altrimenti «per sostenere la sua dignità e il suo onore» – e quello ungherese, per quanto avesse ben presenti tutti i rischi di una tale scelta. Per l’armata del Reno, non era in grado di mettere insieme più di 60.000 uomini, mentre doveva lasciarne almeno 35.000 in Ungheria: ma erano dati calcolati sulla carta, rispetto ai quali le disponibilità effettive erano molto inferiori. Tutto quello di cui poteva effettivamente disporre, alla fine del 1682, si limitava a 13 reggimenti di corazzieri (cioè di cavalleria pesante), 2 di «cravatte»39, 5 di dragoni (fanteria montata) per quel che concerne le forze a cavallo; mentre il fatto che avesse ben ventidue reggimenti di fanteria40, pari a circa 39.600-44.000 uomini, dimostra che egli pensava più al conflitto sul fronte occidentale e a operazioni di difesa che non alla guerra mobile sul territorio ungherese, dove la cavalleria era assolutamente indispensabile41. Nel 1679, in coincidenza con la pace di Nimega, l’esercito imperiale era stato energicamente sfoltito in modo da abbatterne i costi: si sperava in effetti di non aver più bisogno di forti contingenti in servizio. La ripresa delle ostilità sul Reno e la nuova situazione ungherese avevano preso di contropiede la compagine imperiale: e riorganizzare le cose in poco tempo era difficile. Il reclutamento presentava problemi ardui a risolversi: nel Reich non era difficile trovare vagabondi o gente senza risorse e senza relazioni disposte ad arruolarsi in fanteria, ma con quel tipo di materiale umano si mettevano insieme reparti poco disciplinati e di bassa qualità; mentre i sudditi austriaci preferivano semmai servire a cavallo, nei corazzieri o nei dragoni. Anche Leopoldo I, al pari di Luigi XIV, giocava del resto su almeno due tavoli. Da una parte assecondava il «partito spagnolo» che era fiducioso – anche con la forza della corruzione – di ottenere dalla Porta un rinnovo della tregua del ’64 che avrebbe consentito

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di dedicare tutte le energie ad arginare l’offensiva francese: a tale scopo inviava alla corte del sultano tra febbraio e marzo del 1682 il conte Alberto Caprara42 con una missione esplorativa. Al tempo stesso però si preparava le alleanze nel caso il conflitto con gli ottomani divenisse inevitabile: durante una conferenza tenutasi in quello stesso gennaio, aveva avviato con la Santa Sede e con Venezia gli accordi per una nuova lega, mentre lavorava a sottrarre al Re Sole quanti più alleati potesse in modo da scoraggiarne il proseguimento dell’aggressione alla linea del Reno. Il re di Svezia Carlo XI, scontento e preoccupato per la politica delle «Camere di Riunione», prese difatti le distanze dalla Francia e finì col siglare nel luglio un’alleanza con l’imperatore che coinvolgeva anche l’Olanda, a sua volta in ansia a causa della ripresa dell’espansionismo francese. Dal canto suo il giovane principe elettore di Baviera, Massimiliano Emanuele43, congiunto di Luigi XIV nonché protagonista di una politica segnata da una costante direzione filofrancese, era alquanto preoccupato dopo l’annessione di Strasburgo da parte del Re Sole: accettò a sua volta di riavvicinarsi alle posizioni di colui che era oltretutto pur sempre il suo dominus feudale, anche dietro la promessa della mano dell’arciduchessa Maria Antonia, figlia maggiore di Leopoldo44, e non senza chiedere un sussidio di 300.000 fiorini all’anno per assicurare l’intervento militare di circa 10.000 suoi soldati accanto alle truppe asburgiche. Padre Marco d’Aviano fu mediatore abilissimo dell’avvicinamento tra l’elettore di Baviera e l’imperatore. Analoga scelta politica fece un altro giovane elettore, Giovanni Giorgio III di Sassonia45. La «svolta» dei due potenti principi era la risposta all’aggressiva dinamica del Re Sole sul Reno: un segnale che a Parigi non si poteva né ignorare, né sottovalutare. A questo punto era il «partito spagnolo» a dar l’impressione di aver avuto decisamente la meglio. La Geheime Konferenz era dominata da quattro suoi sostenitori: il vescovo di Vienna, il maresciallo della bassa Austria Johann Quintin von Jörger, Ermanno margravio di Baden e il cancelliere Hocher, che parevano tutti disponibili sia a lasciare l’alta Ungheria nelle mani del Thököly – il quale l’aveva comunque già occupata e rischiava di ridurre l’intera area del medio Danubio sotto il diretto o indiretto controllo ottomano – sia a pagare al Turco il richiesto tributo di 40.000 scudi. Obiettivo concorde era ormai il rinnovo del trattato di Vasvár. Ma, in diplomazia come in amore, per far bene e in pieno accordo le cose bisogna volerlo in due. Era davvero possibile rinnovarlo, quel

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trattato? Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere: e attorno a Leopoldo troppi consiglieri erano, se non ciechi, quanto meno affetti da una forte miopia iberica. Che non ci fosse troppo da contare sulle intenzioni del Turco, sia quel che stava accadendo in Ungheria, sia i dispacci del conte Caprara lo dicevano con chiarezza: «... sempre più cresce il sospetto che vogliano con grand’esercito attaccare. Certo è che qui [nell’Ungheria ottomana] sono fatte provisioni militari infinite... quelli ch’hanno vedute queste cose confermano essere assai più che nel tempo dell’ultima guerra»46. L’11 aprile47, e poi di nuovo ai primi di giugno, il Caprara incontrò a Istanbul il gran visir. Aveva ricevuto mandato di offrire le contee di Liptow e di Szatmar come aggio supplementare, per facilitare il rinnovo della tregua. Ma la delegazione ottomana lo mise subito alle corde presentandogli un pacchetto di pretese che aveva tutta l’aria dell’ultimatum: ritorno della frontiera ottomano-asburgica al 1655, il che significava la pratica vanificazione di tutte le conquiste del ’64; versamento al sultano, da parte del regno d’Ungheria, di un tributo annuo salito a 50.000 fiorini; pieno perdono ai «Malcontenti» puniti dalla giustizia asburgica, con reintegro in patria e restituzione dei beni confiscati; consegna al conte Thököly di alcune piazzeforti di confine; disarmo di quelle di Graz e di Leopoldstadt, il che significava lasciar Vienna indifesa. Non vi era certo bisogno dell’esperienza diplomatica del conte bolognese per comprendere l’autentico significato di quelle pretese: il governo ottomano sapeva benissimo che esse erano obiettivamente inaccettabili. Si trattava di un’implicita, sostanziale dichiarazione di guerra. Da allora il Caprara, dopo aver riferito a corte del suo ovvio rifiuto, si sforzò d’inviare al governo imperiale tutte le notizie possibili sugli inequivocabili preparativi militari. Era certo lontano dal poter in ogni modo pensare che l’obiettivo ottomano fosse al di là dell’Ungheria regia: ma sul prossimo avviarsi della campagna militare non nutriva più dubbio alcuno. È difficile dire se i suoi dispacci andarono perduti, furono occultati o vennero sottovalutati, al pari di altre non meno inequivocabili avvisaglie. All’interno della Geheime Konferenz dovevano esser in parecchi a pensare che in fondo tutto si sarebbe risolto in un’ulteriore dimostrazione di forza degli ottomani e in un confermarsi del loro appoggio alla causa dei ribelli ungheresi, l’almeno parziale vittoria dei quali era stata messa sul salato conto da pagare a oriente pur di arginare in qualche modo il Re Sole. Più che al «patto di famiglia» con gli Asburgo di Spagna, a Leopoldo premeva sul serio la fedeltà

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ai suoi doveri nei confronti del Reich: ed era sinceramente convinto che ad essi fosse giusto sacrificare anche alcuni interessi dinastici. Perdesse pure la casa d’Austria qualche pezzo d’Ungheria, purché non fosse ulteriormente fatto a brani il territorio dell’impero della cui unità nella diversità era garante la reliquia della Santa Tunica Inconsutile del Cristo conservata a Treviri. Anche questi motivi, propri di una ragione per noi moderni divenuta imponderabile, persuasero l’imperatore ad ascoltare i suoi consiglieri che, durante la conferenza di Laxenburg presso Vienna l’11 agosto del 1682, lo esortavano concordi a rinnovare a qualsiasi costo il trattato con la Porta in modo da aver le mani libere altrove, sul turbolento fronte euro-occidentale. Della prevedibile volontà dell’interlocutore non si tenne alcun conto, per quanto vi fossero segni che ne palesavano con chiarezza gli intenti. Ma, come giustamente scriveva l’ambasciatore veneziano Domenico Contarini, una guerra mossa dal Turco era «prevista, ma non creduta»48. Del resto un mese circa prima della conferenza di Laxenburg, papa Innocenzo XI aveva avuto a Roma un intenso colloquio con il cardinal François Hannibal d’Estrées, fratello del rappresentante del re di Francia presso la Santa Sede. Il papa aveva fatto di tutto per convincere il prelato – tramite il quale egli contava con ogni evidenza di raggiungere efficacemente il fratello, e quindi Luigi – che la cosa più opportuna che il Re Sole avrebbe potuto fare per indurre le potenze europee ad accettare le sue rivendicazioni territoriali era il promuovere insieme con loro la guerra contro il Turco: nelle sue relazioni tempestivamente inviate al re, il cardinale sottolineava come il pontefice gli avesse parlato con foga ispirata, prospettando addirittura un’ascesa di Luigi XIV o comunque di un principe francese a un rinnovato trono imperiale cristiano in quella che sarebbe tornata ad essere Costantinopoli. C’era una qualche eco, nelle parole del pontefice, delle suggestioni che in lui o in qualche personaggio della Santa Sede potevano essere nate dalla lettura dello strano «memoriale» del cappuccino Paul de Lagny? Comunque, il prelato riferiva di aver resistito al fascino e all’irruenza di quelle argomentazioni, che pure lo avevano commosso: e di aver replicato al pontefice che il tempo delle crociate era ormai concluso per sempre49. Tuttavia, un certo malinteso regnava sempre nelle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e le potenze europee. Che il papa volesse obbligarle a un’improbabile concordia e soprattutto a unirsi nella guerra contro il Turco era indubbio: ma quel che

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per noi non è facile comprendere è se la pace tra i cristiani fosse, agli occhi del pontefice, premessa e garanzia per la guerra al Turco intesa come scopo ultimo del momento; o se non fosse, al contrario, la nuova «crociata» lo strumento da lui concepito per fondare finalmente una pace durevole tra fratelli in Cristo. Quale dei due obiettivi era più importante, sul serio, per Innocenzo XI? Quale delle due cose era da lui ritenuta condizione per l’altra? L’Ungheria regia, tra ribellione e nuovo assetto istituzionale Frattanto anche la situazione ungherese era giunta a una svolta, protagonista della quale era Imre Thököly. Egli aveva il 15 giugno precedente coronato il suo sogno (non sappiamo quanto d’amore) sposando con il consenso imperiale, sia pur concesso di malavoglia, Ilona Zrínyi, la figlia di Pétar (quindi nipote del leggendario bano di Croazia Miklós) e vedova di Férenc I Rákóczi50: il che gli forniva un ulteriore prestigio e faceva di lui, ancor più di prima, il candidato a regnare su un’Ungheria riunificata e «liberata». Ma questo era il punto: riunificata in che senso? E liberata da chi? E con l’appoggio di chi altro? Collegarsi alla dinastia degli Zrínyi significava fra l’altro, per l’intraprendente conte Imre, una cosa molto precisa. I magnati avversi agli Asburgo mancavano di un centro sicuro, di una guida indiscutibile: in questo senso la morte del bano di Croazia nel banale incidente di caccia del novembre del 1664 era stata un colpo irrimediabile per l’aristocrazia ungherese nel suo complesso. Collegarsi a quel casato voleva dire in qualche modo rivendicarne la tradizione e riassumerne le responsabilità. Le nozze tra il Thököly e la Zrínyi, fastosamente celebrate nel castello di Munkács nel giugno del 1682, erano state in realtà l’esito di una faccenda complessa. La dama, di quattordici anni più anziana dell’ambizioso signore, pareva sul serio innamorata o infatuata o comunque personalmente interessata a lui, anche se è probabile che egli non la ricambiasse: però, nonostante la sincerità del suo entusiasmo, essa non avrebbe mai consentito alle nozze senza il consenso dell’imperatore del quale la sua famiglia era sempre stata sia pur inquieta vassalla. Da parte sua, il Thököly considerava proprio per questo le nozze con lei uno strumento per modificare i suoi rapporti con Vienna; e aveva appunto offerto la pacificazione, quindi

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la demobilitazione dei kurucok, in cambio della mano della signora e della cessione a lui dell’Ungheria regia. Voleva farsi re: in cambio garantiva che la corona di Santo Stefano sarebbe restata vassalla di quella imperiale. Leopoldo, dopo le solite esitazioni, aveva acconsentito alla prima richiesta; ma non alla seconda. In fondo, per lui, la scelta vera era tra il dover affrontare una ribellione immediata se avesse opposto alle richieste del conte un rifiuto su tutta la linea, o una ribellione un po’ dilazionata nel tempo oppure un po’ attutita nella violenza se le avesse soddisfatte solo in parte: dal momento che il cedere su tutto era fuori discussione. Anche se avesse accettato, i sostenitori ungheresi di casa Asburgo, i labancok, non ci sarebbero stati. In cambio, molti erano i fautori impliciti o indiretti dell’intraprendente conte ungherese proprio nella cerchia dei personaggi più influenti presso Leopoldo: l’ambasciatore di Spagna e tutto il «partito spagnolo», interessati a far sì che ci si disimpegnasse quanto più possibile dalla situazione balcano-danubiana per dedicarsi a fermare, a ovest, l’aggressione del Re Sole, andavano ripetendo che in fondo cedere l’Ungheria al Thököly, dal momento che soluzioni più opportune non ce n’erano, era pur sempre meglio che vederla passar tutta direttamente sotto il Turco. Tale in effetti era la realistica prospettiva. La stessa Santa Sede inclinava per questa soluzione, pur sapendo che ciò equivaleva a un rafforzamento dei protestanti nel regno: se l’obiettivo più importante era la resistenza agli ottomani, cedere in Ungheria ai riformati significava pur sempre sottrarre un alleato al grande nemico. Appunto per questo re Giovanni di Polonia, che invece non vedeva affatto di buon occhio un così stretto riavvicinamento dei ribelli ungheresi all’imperatore, aveva incaricato ai primi del mese di giugno il suo segretario Talenti di scriverne a Roma, al cardinal protettore del regno di Polonia Carlo Barberini, affinché egli mettesse in guardia il papa: «Averà Vostra Eminenza sentito come il Techeli, capo dei ribelli Ongheri, era stato a Buda a quel bassà con non ordinaria magnificenza col sbaro del cannone con regali soliti farsi ai principi grandi»51. Ci si poteva mai fidare di uno che, mentre trattava con l’imperatore, veniva ricevuto in pompa magna nella capitale dell’Ungheria ottomana? Infatti, come c’era da aspettarsi, di lì a poco il Thököly riassunse il ruolo di capo della ribellione deludendo tutte le speranze che erano state riposte in una sua funzione di mediatore e pacificatore. Le concessioni imperiali non erano evidentemente bastate: e d’altronde

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il sultano aveva giocato al rialzo per tirar definitivamente dalla sua gli inquieti magiari. Il conte aveva chiesto due cose all’imperatore: avendone ricevuta soltanto una, aveva deciso che l’altra gli sarebbe stata concessa dal padis¸ah. Appena una decina di giorni dopo le nozze aveva denunziato gli accordi con la corte viennese e visitato a Buda il governatore Ibrahim Pas¸a, insieme col quale si era poi recato a Istanbul. Il trattato siglato di conseguenza, nel luglio del 1682, riconosceva al capo ribelle il titolo di principe dell’alta Ungheria sotto protettorato sultaniale. Anche in quel caso la diplomazia del Re Sole, tanto sulle rive del Bosforo quanto nella piana ungherese, era stata attiva e sostenuta da buone borse d’oro. La sua politica avrebbe ricevuto un colpo mortale dalla pacificazione dell’Ungheria: valeva senza dubbio la pena, per lui, di comprarsi un po’ di Danubio per guadagnarsi il Reno. Il nuovo vassallo del sultano si dette immediatamente da fare: espugnò prima la fortezza di Kassa52, che divenne la sua residenza, e quindi – pare su richiesta precisa del Turco, e comunque con ausiliari ottomani che gli furono inviati dal pas¸a di Buda e transilvani provvisti dal principe Apafi – mise le mani su altre piazzeforti tra le quali quella di Fülek, le cui mura fece saltare e ai piedi della quale, il 15 agosto53, un inviato del Gran Signore gli consegnò il documento munito del sigillo sultaniale col quale gli si attribuiva il titolo di re d’Ungheria54: riconoscimento che somigliava troppo a una nomina e che egli perciò declinò, proponendo la meno impegnativa definizione di «principe, signore delle parti d’Ungheria». Ma accettò le consuete insegne ottomane – il tug˘ a coda di cavallo, la bandiera e la spada – che facevano di lui un governante nel nome del padis¸ah, quindi un «servo della Porta». Le monete che egli fece coniare portavano l’iscrizione Emericus dux Ungariae. Con i fondi confiscati ai gesuiti cacciati dai territori ch’egli controllava, sognava di fondare una nuova università a Eperjes55. In un altro momento, e in un differente contesto, tutto ciò si sarebbe configurato per quello che era: alto tradimento e ribellione. Ma la politica è l’arte del possibile: e il rifiuto del titolo regio da parte di colui che era comunque in quel momento il personaggio più forte d’Ungheria poteva venir formalmente interpretato, faute de mieux, come un atto di buona volontà e addirittura di lealismo nonostante tutto. A Vienna, si voleva salvare a qualunque costo il principio che un accordo con la Porta fosse ancora possibile: e non mancava nemmeno chi faceva osservare che le devastazioni del Thököly nelle

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sue campagne di conquista delle fortezze ungheresi erano la prova che il Turco non aveva alcuna intenzione di scendere in una guerra contro l’impero che lo avrebbe costretto ad attraversare quelle regioni. Dove avrebbero trovato, le truppe ottomane, di che sostenersi ed acquartierarsi in un ambiente così devastato e desolato? Argomento evidentemente capzioso: chiunque avesse avuto un minimo d’esperienza militare in quel periodo sapeva bene che, a differenza degli eserciti europei, quelli ottomani disponevano di un’eccellente logistica che non li costringeva affatto a sopravvivere in marcia sfruttando le risorse e gli alloggiamenti dei paesi attraversati. Dietro a queste illusioni c’era uno sfibrante e – per chi osserva queste cose più di tre secoli dopo, attraverso le carte – perfino divertente braccio di ferro tra la diplomazia francese e quella imperiale: più il Re Sole intensificava gli sforzi per convincere il sultano che quello era il momento buono per un «a fondo» contro la compagine imperiale, più la corte viennese moltiplicava i segnali, diretti ad Istanbul ma anche (e soprattutto?) a Parigi, tesi a convincere entrambe che il Re Cristianissimo non doveva illudersi, che la guerra ad oriente non sarebbe scoppiata e che pertanto l’imperatore era ben deciso e assolutamente in grado di fermare l’erosione francese dei confini renani. Ancora il 12 novembre il buon Ermanno di Baden, tormentato dalla gotta ma al tempo stesso – per quel che si può non imprudentemente supporre – istruito una volta di più dal vescovo Sinelli, assicurava l’ambasciatore francese Sébeville che il rinnovo del trattato con il Turco era imminente e che in fondo tutto quel che il sultano chiedeva era il controllo dell’alta Ungheria, di fatto già nelle mani comunque del conte Thököly, e un tributo di 40.000 scudi che non era poi una cifra astronomica. In effetti, per quanto il consigliere imperiale potesse dar l’impressione di rifilare all’ambasciatore come buoni e sempre attuali i termini d’una bozza di trattato che era già stato largamente superato dallo stesso incontro d’Istanbul del giugno precedente fra il Caprara e Kara Mustafa, il fatto era che Ermanno sapeva perfettamente quale gulasch diplomatico stesse bollendo nella pentola asburgo-magiara: infatti, l’accordo con i «Malcontenti» ungheresi era stato concluso e stava per esser formalizzato56. Il «partito spagnolo» sembrava di nuovo aver vinto su tutta la linea: si era disposti a concedere al Turco e ai ribelli magiari qualunque cosa, pur di disimpegnarsi dal fronte di sud-est. A riprova che stava facendo sul serio, Leopoldo accordò il 19 novembre al

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suo scomodo interlocutore ungherese un armistizio sulla base del riconoscimento al legittimo governo dell’Ungheria regia sino al fiume Gran, escluse le città minerarie e sei fortezze che rimanevano custodite da guarnigioni austriache. Il conte-principe, che tale era ormai, convocò subito una dieta nazionale, che si sciolse poco dopo esprimendo il voto che egli fosse in grado di convocare al più presto un vero e proprio parlamento nazionale. I beni che erano stati confiscati ai ribelli vennero restituiti, gli esuli poterono tornare alle loro case, le comunità protestanti riaprire case e scuole. Accostando il decreto sultaniale del settembre e la concessione imperiale del novembre, si sarebbe potuto quasi parlare ormai di un’alta Ungheria autonoma sotto il congiunto e implicitamente concorde protettorato austro-ottomano, con un netto prevalere tuttavia della seconda componente sulla prima. Molto del pur inaccettabile diktat presentato nel giugno dal gran visir all’ambasciatore imperiale era stato respinto sulla carta, ma soddisfatto in concreto. Il nuovo equilibrio dell’Ungheria regia veniva a somigliare sotto molti aspetti a quello che era stato proprio del principato di Transilvania prima della tregue di Vasvár. Era un indubbio sostanziale arretramento del potere e del prestigio asburgici nella regione danubiana: ma consentiva a Leopoldo di pensare al Reich e ai suoi confini occidentali. Va sottolineato a questo punto che non erano proprio nel giusto né i cattolici austriaci e ungheresi, né i consiglieri imperiali appartenenti al «partito tedesco», i quali sostenevano che il Thököly si fosse venduto al Turco e fosse sic et simpliciter un traditore del suo signore naturale e della causa della Cristianità. Se per mettere a segno i suoi obiettivi politici il conte avesse potuto disporre di uno strumento diverso dall’appoggio della Porta, lo avrebbe senza dubbio usato con piacere. Ma quella era un’arma formidabile nelle sue mani: si poteva davvero, realisticamente, chiedergli di rinunziarvi? D’altronde, l’ulteriore mossa dell’imperatore sembrava rimetter tutto in discussione fornendo al ribelle un’inattesa passerella attraverso la quale rientrare in una specie di regime di «fedeltà negoziata». Tuttavia, al di là dei sentimenti e delle intenzioni del loro capo, almeno per gli ungheresi non cattolici era chiaro che il vero garante della loro quasi raggiunta libertà non era il loro affascinante e intraprendente leader, bensì il padis¸ah, senza il quale l’Asburgo non sarebbe mai stato tanto condiscendente. Ora, grazie al sultano che faceva tanta paura a Vienna da farla decidere a qualunque cosa pur di strappargli un alleato, e anche al re di Francia l’arroganza del

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quale era tanto insostenibile da indurre l’imperatore a qualunque sacrificio pur di contrastarla, i propositi del vescovo Sinelli sembravano in un qualche modo vincitori ma anche superati; e quelli del Kollonics battuti in breccia. Stavano proprio così, le cose? Una volta di più, come dicevano i cattolici tedeschi, «il Turco è la fortuna dei luterani». E dei calvinisti. D’altronde, la sensazione che ormai il Thököly fosse davvero padrone della situazione ungherese radicò ancor più il gran visir e i suoi sostenitori nei silenziosi padiglioni del serraglio, alti sul Corno d’Oro, nella convinzione che il cuore stesso della Monarchia d’Austria fosse a portata di mano. Se Luigi XIV aveva ritenuto astuta la mossa consistente nel contribuire a determinare l’affermazione dei ribelli ungheresi e i progressi degli stessi ottomani in Ungheria, contando su una dura reazione austro-imperiale che avrebbe consentito, a corte, la vittoria del «partito tedesco» e il concentramento di tutte le energie imperiali e asburgiche sul sud-est europeo, il suo era stato un abbaglio. Il Re Sole doveva aver pesantemente sottovalutato l’odio o la paura, o entrambe le cose insieme, che egli era in grado d’ispirare. Leopoldo, seguendo le indicazioni del «partito spagnolo» e molto probabilmente indignato e offeso per i vecchi affronti (la Lorena) cui se ne aggiungeva ora uno nuovo (l’Alsazia), sembrava deciso a qualunque concessione sia al Turco, sia al Thököly e ai suoi, pur di fermarlo. Ora il Re Cristianissimo doveva esser costretto ad ammettere che Sua Maestà Cesarea, sia pure a un carissimo prezzo danubiano, aveva giocato bene le sue carte. Una volta distaccate Svezia, Baviera e Polonia dall’alleanza con la Francia, e dopo essersi al tempo stesso assicurato l’appoggio del papa e di Venezia contro un eventuale riaffacciarsi della minaccia ottomana, l’imperatore aveva potuto durante un convegno tenuto a Francoforte adottare un atteggiamento intransigente: come dimostrano le sue rivendicazioni nella Deductio pro iuribus imperii del 26 ottobre, nella quale si respingevano come illegittime e ingiustificate le pretese di «riunione» unilaterale avanzate dalla corona di Francia e si reclamava il ritorno allo status quo ante. In conseguenza di quella dichiarazione, i delegati francesi avevano abbandonato la sede delle trattative: esse sarebbero riprese più tardi, a Ratisbona. All’atto della presentazione della Deductio, la scelta che avrebbe condotto a ulteriori concessioni a vantaggio del conte Thököly era già stata compiuta: meglio il Turco infedele alle porte di sud-est, che l’arrogante francese a quelle d’occidente.

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Ma le risorse diplomatiche del Re Sole erano molteplici. Se avevano l’aria di aver fallito a Vienna, a Varsavia, a Stoccolma e a Monaco, le sue trame sembravano in realtà essere state annodate molto meglio in riva al Bosforo. E forse, assieme all’abilità del tessitore, c’era entrata ancora una volta la fortuna: sotto forma dell’ambizione sconfinata del nuovo gran visir.

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Il Turco in Europa La cometa è un segno astrale ambiguo. Tradizionalmente, fin dall’antichità, portava sfortuna. Ma per la sensibilità cristiana le cose cambiarono da quando Giotto, affrescando le pareti della cappella degli Scrovegni a Padova, attribuì il pauroso eppur mirabile aspetto della cometa di Halley a quella che, tredici secoli prima, aveva incendiato il cielo di Giudea annunziando la nascita del Salvatore. Una cometa amica dei cristiani, quella di Halley. Nel 1456 ricomparve annunziando, stavolta nei cieli balcanici, la vittoria dei crociati di János Hunyadi e di Giovanni da Capestrano a Belgrado1. Ma non tutte le sue caudate e risplendenti sorelle erano altrettanto fauste: quella del 1669, risplendendo sulla caduta di Candia, richiamò alla diffidenza che gli antichi avevano sempre manifestato contro l’astro dalla scia luminosa. Nel 1682 ne apparvero almeno due: che, ovviamente a posteriori, furono interpretate come presagio delle macchinazioni degli ugonotti contro il Re Sole (bell’esempio di rovesciamento tra persecutori e perseguitati...) e dell’assalto del Turco a Vienna2. La storia è davvero un sorprendente reticolo di coincidenze: tanto da far dubitare, a volte, che siano semplicemente tali. Ma almeno fino a tempi recentissimi non tanto la segretezza delle decisioni dei potenti, quanto la lentezza delle comunicazioni hanno giocato un ruolo primario nella dinamica degli eventi. Appena cinque giorni prima della riunione di Laxenburg durante la quale l’imperatore aveva deciso d’impegnarsi per ottenere un rinnovo della tregua col Turco, nel fatidico recinto del Topkapi se ne era tenuta un’altra, per molti versi analoga e parallela e per altri di segno opposto. Il 6 agosto, durante una seduta del dîvân-ı hûmâyûn nel palazzo sultaniale, aveva trionfato la linea proposta dal gran visir Kara Mustafa. Una decisione che avrebbe cambiato la storia dell’Europa e dell’impero ottomano.

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Quel che allora si stabilì nei padiglioni segreti del Gran Serraglio era una nuova offensiva contro l’impero attraverso l’Ungheria. La tregua ventennale stipulata a Vasvár sarebbe scaduta nel 1664. La decisione era stata assunta in contrapposizione alla proposta di una parte dei consiglieri, che non escludeva e addirittura auspicava il rinnovo di essa. È difficile immaginarsi l’andamento dei lavori di quella seduta: per noi «occidentali moderni», è quasi impossibile concepire come una decisione tanto importante, assunta presumibilmente in un’atmosfera tesa, densa di dubbi e di rivalità, fosse comunque presa nel rispetto della rigorosa etichetta della corte ottomana, che imponeva il silenzio quasi assoluto. Anche per le decisioni più serie e urgenti si usava il silenzioso linguaggio dei segni: per giunta, le sedute dei massimi consiglieri del sovrano avvenivano regolarmente all’insegna della sua «presenza-assenza». Non si sapeva mai se, dietro «una finestra, che guarda in divano, e risponde sopra il capo del gran visir, alla quale sta una gelosia spessa per non esser veduti»3, il padis¸ah stesse o no in quel momento sorvegliando i suoi ministri4. Certo quella era una continua minaccia: «teme il bassà primo ministro sempre della sua testa, e si regge per ciò con molta circospezione»5. Andarono in tal modo le cose anche in quel caso specifico? O c’era stato un precedente accordo tra il sultano e Kara Mustafa che consentiva a quest’ultimo di procedere speditamente? O il gran visir aveva le sue spie fidate, e sapeva bene che in quel momento il sultano non stava spiandolo alle sue spalle, celato dietro la «gelosia spessa» al di sopra della sua testa? Oppure l’ascendente che il primo ministro esercitava o credeva di esercitare sul sovrano era tale da autorizzarlo a un’imprudenza come quella? Non lo sapremo mai. Comunque, per quanto purtroppo i particolari ci manchino – né forse, sul momento, se ne discusse –, in quella sede fu decisa, nella sostanza, la ripresa delle ostilità nell’area balcano-danubiana, caldeggiata direttamente o indirettamente sia dalla diplomazia francese6 sia dai ribelli ungheresi. Essa non comportava per nulla, di per sé, la prospettiva di un assedio alla capitale dell’impero: che pure si era affacciata nella campagna del 1663-64. Pare che l’obiettivo esplicito fosse l’occupazione delle fortezze di Györ e di Komárom: le due vere e proprie chiavi danubiane non solo dell’Ungheria regia, ma addirittura della stessa strada sia terrestre sia fluviale verso la capitale. Non è agevole a credersi – per quanto il dubbio resti irresolubile – che il sultano Mehmed IV volesse correre il rischio che si andasse oltre, tanto più che egli doveva in qualche modo esserne stato sconsigliato,

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sia pur indirettamente (ma fino a che punto?), tanto dal khan dei tartari di Crimea quanto dal beylerbeyi di Buda: un attacco a Vienna avrebbe corso il rischio di suscitare la reazione di tutto il mondo cristiano. Ma l’ormai quarantenne sultano, dal temperamento chiuso e malinconico – molto influenzato dalla madre e di tutt’altra indole rispetto al suo squilibrato padre –, era pur un cultore delle memorie eroiche ottomane e un sincero ammiratore delle gesta di suo zio Murad: sognava anche per se stesso la gloria della conquista di una città come Costantinopoli o Baghdad, per quanto avesse dimostrato in realtà scarsa inclinazione per le avventure guerriere e la vita militare. La conquista di Vienna, il «rosso pomo» governato dall’imperatore d’Occidente, avrebbe consentito a Mehmed IV di dichiararsi erede di quell’impero, come il conquistatore di Costantinopoli aveva fatto oltre due secoli prima per l’impero d’Oriente: del resto, il padis¸ah portava regolarmente e formalmente il titolo di sultan i-Rum. Le ambizioni del sultano lo esponevano alquanto a subire l’influenza di Kara Mustafa, che a sua volta aveva forse imprudentemente ceduto alle pressioni e alle suggestioni dei nobili ungheresi ribelli; nonché, senza dubbio, alle prospettive di un ricco bottino, e forse – com’è stato ipotizzato – all’ambizione di vendicare l’onore della famiglia dei Köprülü, compromesso con la sconfitta di SzentGotthard. Tuttavia, se davvero fin dal principio pensava a Vienna (e nulla lo prova), il visir contava non già su una conquista violenta, bensì su una capitolazione: in questo caso il bottino sarebbe stato minore, ma egli non avrebbe dovuto dividerlo con le truppe, come invece sarebbe dovuto accadere nel caso di una caduta della città in seguito a un assalto, cosa che comportava il diritto di saccheggio da parte delle armate conquistatrici. D’altronde, conquistare d’assalto una grande piazzaforte era di per sé cosa molto difficile; e una presa seguita dal saccheggio e magari dalla distruzione comportava sul serio il rischio di una corale e torrenziale reazione del mondo cristiano desideroso di vendetta. Il gran visir mirava a un assedio passabilmente lungo e quindi a pazienti trattative; e non escludeva forse nemmeno di levar le tende in seguito a un accordo fondato su vantaggiose proposte della controparte, magari con la mediazione diplomatica francese. Nella sera del 6 agosto, dunque, sette tug˘, le fatidiche insegne a coda di cavallo dei guerrieri delle steppe, furono esposti dinanzi alla Porta imperiale7 del palazzo del Topkapi: era il segnale dell’imminente partenza del sultano per un «viaggio armato» che in linea di principio

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si prospettava sempre come una campagna militare, anche quando in realtà si trattava solo di una di quelle lunghe battute di caccia che duravano molti mesi e per le quali Mehmed era famoso. Egli aveva messo all’erta la sua intera corte e i reparti militari che costituivano la sua guardia del corpo: ci si sarebbe mossi quanto prima per recarsi a svernare in Edirne, al centro di una regione molto propizia alle sue predilette battute autunnali che erano colossali massacri di selvaggina. Tutto ciò non era passato inosservato ai due rappresentanti dell’imperatore in Istanbul, il barone Georg Christoph Kunitz che vi risiedeva dall’80 e il conte Alberto Caprara, inviato ad assisterlo. I loro periodici dispacci erano sempre più allarmati. La condizione dei due diplomatici – peraltro, con molte variabili, consueta in quel tempo – era segnata da una curiosa ambiguità tra la funzione di spia tollerata e quella di ostaggio8. Dalla loro pur scomoda posizione – che li manteneva in ansia anche per quanto riguardava la loro sorte personale ma le condizioni materiali della quale erano buone e consentivano anche una certa libertà di movimenti e di raccolta d’informazioni – avevano entrambi compreso che qualcosa di grosso stava preparandosi. Certo, nessuno dei due – e del resto nessun altro – avrebbe mai potuto prevedere che si era alla vigilia della seconda «lunga guerra turca», quella che (dopo la prima, tra 1593 e 1606) sarebbe durata dal 1683 al 1699 per poi riprendere dal 1716 al 1718 e, insieme con le guerre europee combattute nel frattempo, avrebbe profondamente mutato l’equilibrio euro-mediterraneo e consentito il decollo dell’Austria asburgica come vera e propria grande potenza europea. Quel che poi accadde fu del tutto coerente rispetto al piano del padis¸ah o del suo potente ministro. Il riconoscimento – nelle intenzioni, si era trattato addirittura di una corona regale – al capo dell’insurrezione ungherese era di per sé un sostanziale atto di guerra contro colui che occupava il trono elettivo d’Ungheria; il concedere quello dell’Ungheria regia a un principe che si dichiarava in ciò vassallo della Porta equivaleva a una dichiarazione di sovranità su un territorio altrui. La cancelleria viennese mostrò di non accordare rilievo all’episodio, che era già di per se stesso una violazione della tregua di Vasvár prima che i suoi termini scadessero. Ma c’era di più. Con le sue conquiste militari e l’impianto tattico-strategico del suo potere, Imre Thököly – stesse lavorando alla costruzione del suo regno o all’indipendenza del suo paese – stava costruendo comunque un tratto importante della strada militare che di lì a poco l’armata sultaniale avrebbe percorso.

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Va da sé che, a quel tempo, in cinque giorni nessuna notizia avrebbe potuto giungere dalle rive del Bosforo a quelle del Danubio. Nemmeno il più veloce e resistente piccione viaggiatore, liberato dalla più abile e tempestiva spia che si possa immaginare, avrebbe potuto coprire la distanza di 260 chilometri al giorno volando cinque giorni consecutivi per i 1300 necessari. Ma anche in assenza di un tale prodigioso volatile e pur tenendo conto che le decisioni adottate all’interno del serraglio erano circondate dalla più stretta segretezza, la realtà delle cose avrebbe potuto essere non troppo difficilmente intuita, se le rivalità interne alla corte imperiale e la complessità degli affari europei non avessero fatto velo alle decisioni di Leopoldo. Certo, ciò è quanto diciamo noialtri con quel senno di poi del quale, com’è noto, son piene le fosse. Gli storici sono sempre ottimi profeti post eventum: ed è su fini ragionamenti a posteriori che si sono fin troppo a lungo fondate le pretese deterministiche di quanti hanno parlato di una «ragione immanente» della storia. Eppure, i segni c’erano: innegabilmente. La situazione balcanica appariva caratterizzata da una particolare tensione sin da quando il nuovo gran visir si era insediato alla guida del governo sultaniale, e i due fatti non potevano considerarsi indipendenti fra loro: i diplomatici austriaci presenti a Istanbul l’avevano segnalato subito, notizie del genere erano arrivate anche a Roma e a Venezia (nonché, senza dubbio, a Parigi); e se papa Innocenzo aveva moltiplicato fin dalla sua elevazione al soglio di Pietro gli appelli per una campagna preventiva contro il Turco, ciò non dipendeva soltanto – al contrario di quel che qualche osservatore superficiale o tendenzioso aveva rilevato – da una sua ostinazione preconcetta. Ma tutto questo non aveva preoccupato gran parte dei collaboratori dell’imperatore, ben più allarmati dalla politica aggressiva di Luigi XIV nelle Fiandre, in Germania e in Italia; essi erano inoltre certi che, se Carlo II di Spagna fosse deceduto senza eredi diretti, il re di Francia non avrebbe mancato di avanzare le sue pretese a quel trono in concorrenza con Leopoldo. Insomma, ci si sarebbe trovati presto dinanzi a una nuova conflagrazione europea come non la si vedeva più dall’inizio della guerra dei Trent’Anni. Il che in effetti sarebbe più o meno accaduto, appunto, in un trentennio di nuovi conflitti, fra 1684 e 1714: per quanto con meno feroce intensità, e con risultati meno tragici, rispetto al periodo fra 1618 e 1648/59. L’imponderabile tuttavia della politica europea del tempo, a differenza di quel che si era verificato oltre mezzo secolo prima – quando la

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guerra ottomano-persiana aveva impedito al Gran Signore d’Istanbul di prestar soverchia attenzione all’Europa – era proprio il Turco. Un imponderabile che avrebbe forse dovuto esser quanto meno previsto. Sono fredde e brumose le mattinate sul Bosforo, fra l’autunno e la primavera. Alla fine del Seicento, dovevano esserlo ancora di più: nell’emisfero boreale si era a quel tempo in pieno pessimum climatico, in un periodo che non a caso è stato definito «piccola glaciazione». Doveva fare un freddo umido anche quel mattino del 6 ottobre, nell’immenso accampamento pronto non lontano dalla reggia. Due giorni dopo, celebrata la festa della fine del Ramadan, il padis¸ah si mosse in gran pompa da Istanbul seguito dalle insegne sultaniali e califfali, dall’intera corte, dai reparti militari insediati a difesa della sua persona – spahi a cavallo e giannizzeri a piedi – e dal suo harem9: una mobilitazione che qualcuno avrebbe potuto stimare eccessiva per una sia pur lunga stagione venatoria. Una settimana più tardi si mosse il grosso dell’armata, che tuttavia procedendo a marce forzate giunse in Edirne prima di lui: in effetti il corteggio sultaniale impiegò quasi due mesi ad arrivare in quella che i sultani consideravano fino dal XIV secolo la loro capitale europea. Ai beylerbeyi, governatori in capo delle province dell’impero, e ai sancakbey che dipendevano da loro, era stato impartito l’ordine di far giungere da tutto l’impero i contingenti disponibili; e anche i titolari di timar erano stati precettati. I due centri di raccolta per le truppe, che sarebbero arrivate sia via terra sia per mare, erano Edirne e Belgrado. In Edirne convennero subito varie rappresentanze diplomatiche: come quella dello czar di Russia, sollecita di confermare la tregua siglata nel 1681 che assicurava gli ottomani a proposito di un lungo periodo di sicurezza alla loro frontiera nordorientale; e quella del principe di Transilvania Mihály Apafi, puntuale nel corrispondere al sultano il richiesto tributo e nel fornirgli forze militari ausiliari anche perché temeva di venir messo troppo da parte a favore dell’astro montante tra gli alleati cristiani della Porta, Imre Thököly. Alberto Caprara fu a quel punto convocato di nuovo dal gran visir. Gli si fece sapere che lo scontro avrebbe potuto esser evitato e magari la tregua del ’64 rinnovata, a patto tuttavia che gli imperiali cedessero la fortezza di Györ, una cinquantina di miglia a sudest di Presburgo. Era un’altra pretesa evidentemente inaccettabile: non solo perché il cedere quella piazzaforte avrebbe significato consegnare all’esercito ottomano le chiavi dell’Ungheria regia e della stessa vicina Austria, ma anche perché – come il gran visir sapeva benissimo

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– il Caprara non disponeva comunque dell’autorità necessaria a una così grave decisione: egli poteva soltanto inoltrare a Vienna la richiesta, ma prima di ricevere una risposta sarebbero passate parecchie settimane mentre la mobilitazione generale dell’esercito ottomano era già in atto. La pretesa poteva dunque sembrar insensata, ma purtroppo non lo era affatto: e il diplomatico italiano lo sapeva bene. Quello che al gran visir serviva, in quel momento, era un rifiuto dell’ambasciatore imperiale. Indipendentemente da come esso venisse presentato e motivato, si trattava comunque di un ottimo pretesto per procedere in armi. Sappiamo che il 23 dicembre la Geheime Konferenz aveva inviato a Istanbul un corriere accompagnato da un interprete ufficiale per presentare alla Porta una formale proposta di rinnovo della tregua: ma a quella data il sultano e il gran visir si trovavano già in Tracia. Quanto alla sostanza della pretesa avanzata dal gran visir all’ambasciatore Caprara, il suo collega veneziano Contarini, il quale ne era debitamente informato, riteneva che si trattasse di cose sulle quali potevano ormai far affidamento solo tre categorie di persone: gli illusi come Ermanno di Baden, quelli che speravano di scampare alla futura nuova ondata di tasse per la guerra al Turco e quelli che avrebbero preferito far la guerra alla Francia piuttosto che alla Porta10. Il «partito spagnolo» aveva trionfato a Vienna, però i fatti lo stavano battendo in breccia. Le ostilità non erano state comunque ancora formalmente dichiarate, né tantomeno era stato ancora violato alcun confine: tuttavia la macchina militare ottomana era ormai in moto. Nella capitale tracia si stabilì che il sultano avrebbe guidato l’esercito lungo l’antica e sempre efficiente strada militare romana attraverso i Balcani fino a Belgrado, dove avrebbe passato le consegne al gran visir. Nel dicembre del 1682 il padis¸ah indirizzò al collega romano-germanico un messaggio che avrebbe potuto essere interpretato come una rinnovata offerta di tregua o un’implicita assicurazione del fatto che il suo esercito si era mobilitato solo in vista d’un definitivo consolidamento delle posizioni balcaniche, senza per questo progettare ulteriori conquiste11. Mehmed proponeva a Leopoldo di riconoscere al Thököly il governo dell’Ungheria regia sotto tutela ottomana e gli chiedeva lo smantellamento di alcune piazzeforti austriache12; lo stesso capo ribelle magiaro – dopo aver a lungo sperato di poter contare sulla mediazione di Giovanni III re di Polonia, una speranza ormai tramontata – tentava più o meno nello stesso torno di tempo un riavvicinamento all’imperatore offrendogli il suo braccio, forte di 35.000

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combattenti. Ma ormai era tardi: e il Thököly era a quel punto ben consapevole che tanto a lui quanto al principe transilvano Mihály Apafi, insieme col suo primo ministro Teleki, restava da giocare sino in fondo solo la carta ottomana. Intanto il padis¸ah inviava un suo messaggio corroborato dal sigillo sultaniale, la tughra, e accompagnato da ricchi doni, alla fortezza di Bahçisaray sulle colline della Crimea meridionale, barbara e fastosa residenza di Mehmed Giray, khan dei tartari di Crimea e signore di un immenso territorio che dalla penisola aggettante sul Mar Nero si spingeva sino agli Urali. A lui obbediva un’ottantina di migliaia di esperti e audaci guerrieri a cavallo, senza dubbio tra i migliori del mondo nell’abilità di cavalcare e di compiere scorrerie: in grado di restar in sella per giorni interi vivendo di qualche sottile striscia di carne cruda seccata e d’un sorso di airan13, capaci di minacciare la Russia fino a Mosca, la Polonia fino a Cracovia e di tener testa ai loro pur temibili confinanti, i cosacchi. I tartari lasciavano che per il mondo della steppa si diffondessero le leggende attorno alle pelli conciate di cosacco che servivano loro per confezionare le belle selle colorate e borchiate; e i cosacchi rispondevano che di pelle tartara erano le briglie dei loro cavalli e i foderi delle loro sciabole. Erano probabilmente balle, da entrambe le parti. Ma non giuriamoci. Al khan, formalmente suo suddito che viveva di razzie, di traffico di schiavi e di proventi dei riscatti dei prigionieri di guerra, il sultano non trasmetteva ordini alteri, bensì rivolgeva fraterna richiesta di aiuto nel nome di Allah. L’esercito ottomano era poderoso ma lento, appesantito dal materiale logistico, dalle vettovaglie, dall’artiglieria: i leggeri e veloci cavalieri tartari gli fornivano un complemento ideale; e facevano ancor più paura. Insieme, turchi e tartari costituivano nelle praterie dell’Europa orientale una miscela terrificante e invincibile. Non siamo tuttavia in grado di sapere quanti dei suoi formidabili cavalieri Mehmed Giray fu in grado di portare con sé, rispondendo all’appello del Gran Signore che lo trattava non da vassallo bensì da alleato. A Vienna non esisteva ancora una vera e propria stampa d’informazione paragonabile a quella che, in quel tempo, si trovava ad esempio a Parigi: usciva solo una «Gazzetta» stampata in italiano e ispirata dalla corte. Si era scelto di pubblicarla in una lingua diffusissima al livello degli aristocratici, dei religiosi e delle persone di cultura, per evitar che la gente comune la consultasse con troppa facilità. Tuttavia i quasi centomila viennesi, che non conoscevano

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l’italiano e molti dei quali non avrebbero mai saputo nemmeno come procurarsi quel giornale, erano vivaci e sensibili a tutte le notizie e a qualunque tipo di voce, quelle incontrollate incluse. Era diffusa una certa ostilità nei confronti della Francia, ma anche della Spagna, mentre le informazioni relative alla ribellione in Ungheria sembravano incontrare scarso interesse. Certo, la paura del Turco era uno degli elementi principali di preoccupazione: si temevano anche i raid degli ungheresi o dei tartari, ma la memoria collettiva dell’assedio del 1529 permaneva ancora molto forte. Quando nell’autunno del 1663 si era sparsa la voce che l’infedele era di nuovo quasi alle porte, la città era stata percorsa da un brivido di terrore. Qualcosa del genere si ripeté nell’autunno del 1682, mano a mano che le notizie circa i movimenti delle truppe ottomane si facevano più precise. In città si erano alzate, all’indomani della conquista francese di Strasburgo, parecchie voci che invocavano la guerra contro il Re Sole: ora, incalzati dalla paura, i viennesi reclamavano una pacificazione con la Francia ed esigevano assicurazioni a proposito delle misure di sicurezza che si stavano prendendo contro l’antico e rinnovato pericolo. L’inverno tra ’82 e ’83 fu più rigido del solito, in quel tempo che pur già di per sé corrispondeva a una fase di generale raffreddamento del pianeta. La corte del sultano, circondata dal suo esercito, svernava confortevolmente a Edirne tra splendidi tappeti e preziose pellicce, godendo della ricca selvaggina e scaldandosi ai grandi bracieri di rame e d’ottone sparsi per la reggia: ciò consentiva a molti nell’entourage imperiale viennese di continuare a mantenere, con una certa leggerezza o forse per partito preso, un atteggiamento ottimista riguardo alle effettive intenzioni del Turco. Eppure, le insegne di cavallo piantate all’inizio del gennaio dinanzi alla reggia della metropoli della Tracia parlavano un linguaggio chiaro; e da Edirne partivano, diretti a Vienna, a Roma, a Venezia, a Parigi, messaggi e informazioni sostanzialmente inequivocabili. Il sultano si apprestava a una durissima campagna militare, imparagonabile a quella di un ventennio prima, che era stata pur violenta. Bisognava prepararsi. I termini della scelta dinanzi alla quale il mondo cristiano e i principi che lo guidavano si stavano trovando erano chiari: lasciare o no l’imperatore e il popolo della sua capitale e delle terre ereditarie degli Asburgo, che le erano vicine, soli dinanzi a quel formidabile pericolo? Vienna, apprensioni della gente comune a parte, poteva bene non venir per il momento ritenuta ancora direttamente in causa: ma se il Turco avesse conqui-

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stato i capisaldi danubiani dell’Ungheria regia e mantenuto l’alleanza con ungheresi e transilvani, gli interi possessi ereditari asburgici si sarebbero trovati esposti alla sua costante minaccia. Prove d’alleanza cristiana Quantus et quam formidabilis sit Turcarum adversus Hungariae regnum apparatus, quaeque eidem regno universaeque Christianae Reipublicae ab immanissimo hoste tempestas impendeat, satis superque notum atque exploratum est Maiestati tuae14.

Con queste accorate parole, all’inizio del nuovo anno, un breve di Innocenzo XI datato 20 gennaio 1683 si rivolgeva quasi per un estremo appello al re di Francia, il quale non poteva certo lamentarsi di come la Santa Sede lo aveva trattato fino a quel momento, invitandolo ancora una volta a fornire un suo contributo, che il papa riteneva decisivo, per fermare il Turco. La risposta di Luigi XIV si attenne alle strette regole dell’ambiguità diplomatica: il Re Cristianissimo faceva sapere al pontefice che egli non avrebbe intentato alcuna azione contro l’imperatore finché esso si fosse trovato in stato di guerra contro la Porta. Evenienza che, si faceva implicitamente notare, non si era ancora formalmente verificata: e tuttavia impegno che non si prestava a venir eluso qualora le cose fossero arrivate a tanto15. Dinanzi a più pressanti richieste d’intervento il sovrano francese, che pur aveva sovente propagandisticamente rivendicato la primogenitura del suo paese nelle sante guerre per la liberazione del Sepolcro del Cristo16, non esitò a replicare al nunzio apostolico – ripetendo quasi alla lettera quel che il cardinal d’Estrées aveva detto qualche mese prima al papa – che non era il caso di rinverdire l’era delle crociate; al tempo stesso però egli si astenne dal procurare alle truppe ottomane il minimo supporto, anche solo tecnologico, pur assicurando la Porta che da parte sua nessun soccorso, neppure privato, volontario o nascosto, sarebbe giunto all’imperatore, contrariamente a quel che era accaduto nella guerra di Candia o durante la campagna ungherese del 1663-64. A questo riguardo le reiterate accuse contro di lui da parte imperiale sono false: o, quanto meno, carenti di prove. In realtà, anche sulla base di quel che a Istanbul era stato significato ai suoi diplomatici e di quel che si sapeva fosse stato comunicato a quelli asburgici, il Re Sole era convinto che da

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parte ottomana la richiesta più esigente sarebbe stata la consegna della fortezza di Györ. Era appunto quello che il gran visir aveva chiesto al Caprara durante un’udienza della quale Vienna era stata prontamente informata: sappiamo che la corte imperiale era piena di orecchie disposte ad ascoltare per conto del Re Cristianissimo e che i corrieri tra le due capitali europee funzionavano molto bene. Ci si era mossi tardi? Ci si stava muovendo male? Tutto sommato, alla luce di premesse e di circostanze, non lo si può sostenere. La mobilitazione in appoggio all’imperatore e per la sicurezza dei confini terrestri della Cristianità interessò tutto il Reich non appena Sua Maestà Cesarea ebbe posto con chiarezza il problema. Certo le realtà istituzionali, il diritto feudale e le libertates dell’impero non potevano essere forzati: lente erano le procedure, molti i dubbi e gli ostacoli da superare, complessi i meccanismi logistici e giurisdizionali da attivare. Fin dal gennaio del 1683 si stipulò un’alleanza della quale entrarono a far parte sia la Baviera cattolica sia la Sassonia luterana. Massimiliano Emanuele di Baviera aveva assicurato l’apporto di un’armata di 8000 uomini e 16 cannoni; l’elettore di Sassonia ne aveva promessi altri 10.000. Fece meno scalpore di quanto avrebbe dovuto – il che rende l’idea della pesantezza dell’intervento frenante francese e dell’imbarazzo della Santa Sede, forse ancora più preoccupata della ricattolicizzazione dell’ovest del Reich che non dell’avanzata del Turco, il quale in fondo se ne stava ancora entro quelli che ormai da molto tempo erano i suoi confini – il fatto che, mentre si stava mobilitando l’elettore luterano di Sassonia, i cattolicissimi vescovi-elettori del Reno, in stretti rapporti con la Francia, facessero l’orecchio da mercante. Né un soldo, né un soldato renani affluirono ad est; e sì che il loro alleato storico, l’elettore di Baviera, si stava comportando in modo differente. Il 15 marzo del nuovo anno, il padiglione sultaniale di guerra fu montato dinanzi alla reggia di Edirne; due settimane dopo17, il sultano uscì dalla sua capitale europea diretto a nord. Era a capo di un’enorme massa di armati, di accoliti e di inservienti, che accompagnava l’intera fastosa corte in marcia: l’harem del gran visir gareggiava in opulenza con quello del sultano18. L’indimenticabile scena della partenza dell’armata ci è stata tramandata da un testimone oculare, Antonio Benetti, funzionario veneziano al seguito del bailo Giambattista Donà19, che ci regala l’immagine di un immenso accampamento fiorito come un prato di primavera di tende rosse, bianche, verdi, arancioni:

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...il corteo è composto da centinaia di scudieri e magistrati, alcuni dei quali con turbanti così grandi che a malapena un uomo sarebbe in grado di cingerli... cani da caccia con collari dorati e con le zampe e la coda dipinti di rosso e di giallo... due cammelli riccamente bardati, uno dei quali trasporta il Corano, racchiuso in una custodia verde, mentre l’altro porta dei brandelli dell’abito appartenuto al Profeta. Dozzine di giannizzeri battono energicamente sui loro pentoloni facendoli risonare con gran frastuono. Chiudono la parata un centinaio di arcieri con elmi d’oro martellato20... più di duecento matti sono stati tolti dal loro ricovero per divertire la folla21.

Partirono per primi i giannizzeri, che costituivano l’avanguardia con funzioni di pattugliamento, rastrellamento e preparazione del terreno per gli accampamenti; il sovrano e il grosso delle truppe tennero loro dietro, insieme con gli ambasciatori-ostaggi dell’impero e di Polonia. Si è calcolato che la velocità di marcia dell’immenso esercito fosse di circa 20 chilometri al giorno da Edirne a Belgrado: quindi tutto sommato buona, per quanto una serie di contrattempi meteorologici l’avessero ritardata. Le fonti ottomane e gli osservatori occidentali fanno a gara nell’offrirci un’immagine tragica di quell’avanzata: ponti che crollano, ondate di fango che sommergono uomini e animali, frane e smottamenti. In effetti, a parte gli scorridori tartari che precedevano l’armata e i ben inquadrati reparti di giannizzeri, il resto delle truppe doveva fornire nell’insieme un quadro al quale gli europei, anche quelli che avevano esperienza di guerre turche, non erano granché abituati. Tuttavia, la media giornaliera di distanza percorsa era discreta; nell’esercito ottomano regnava una disciplina differente da quella abituale nelle armate europee, ma di qualità migliore: e se ne vedevano ancora – siamo alla fine del Seicento – i risultati. Gli effetti della «rivoluzione militare» occidentale non erano ancora giunti del tutto a maturazione. Certo, molti erano nell’esercito sultaniale gli effettivi non-combattenti che seguivano le truppe, addetti ai vari uffici logistici22; c’erano inoltre le sterminate mandrie di vitelli e le greggi di pecore e capre che servivano a provvedere gli uomini di carne fresca e che erano accompagnati da gabbie e da stie nelle quali stavano i volatili da cortile, complemento necessario alla ricca e variata dieta delle armate ottomane. Questo elemento logistico, che senza dubbio appesantiva e rallentava le truppe, non mancava di stupire ma anche d’interessare gli occidentali, abituati anche loro

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a tirarsi dietro dei non-combattenti, ma di altro tipo e in differente contesto: ne nascevano critiche e perfino accenti ironici, ma anche costruttive riflessioni. Sta di fatto che i combattenti della Porta – celebri per la loro frugalità: un po’ di pane, minestra, riso, carne seccata, tè, latte acido, cipolle – erano tuttavia meglio, più abbondantemente, regolarmente e igienicamente nutriti degli eserciti europei eternamente sospesi tra la fame e il consumo di cattivo biscotto e di carne salata rancida e tra i quali dunque – non solo in conseguenza di ciò: ma certo anche per quello – si sviluppavano continue malattie. Durante una lunga marcia, nelle file ottomane ci si aspettavano perfino quotidiane razioni di carne fresca. Si sapeva che al riguardo i soldati del sultano erano piuttosto suscettibili: era noto – per quanto non sempre vero – che parecchie rivolte dei giannizzeri cominciavano dalla protesta per il rancio: era un brutto segno quando i guerrieri dagli alti candidi copricapi rovesciavano i pentoloni di riso e i bricchi23 del tè; e d’altronde nella stessa simbolica dei loro reparti le stoviglie e gli utensili da cucina avevano un ruolo di spicco. Tra i giannizzeri, il grado di capitano era indicato dall’espressione çorbaci, «colui che prepara la zuppa», e un ufficiale di stato maggiore era un muhzir ag˘a, «custode del burro». Fatto importante anche sotto il profilo strategico, e fondamentale sotto quello dell’immagine e della propaganda, era che l’autosufficienza alimentare garantita dalla logistica ottomana risparmiava in una qualche misura anche i territori che le armate attraversavano (almeno quelli amici) dalla pratica delle razzìe: laddove, da parte cristiana, ancora lo stesso Montecuccoli – le preoccupazioni del quale per la logistica sono rimaste proverbiali – era del parere che la guerra dovesse «mantenersi da sola», il che fuor di metafora autorizzava i sequestri se non le ruberie24. Con tutto ciò, neppure nel mondo ottomano il passaggio di un esercito era augurabile per i poveri sudditi del sultano: incendi, violenze e ruberie erano comuni, e le corvées imposte agli abitanti dei territori interessati dall’itinerario militare, anche solo in termini di legname e di foraggio da procurare, erano pesantissime. La marcia della grande armata verso il nord non fu accompagnata da buoni auspici. Una stagione felice l’avrebbe facilitata: viceversa, una primavera eccezionalmente piovosa aveva reso franose e fangose le strade, già messe a dura prova dall’eccezionale affluenza di gente che vi stava transitando; le acque che scendevano dal Rodope e dai Balcani avevano gonfiato la Maritza e la Morava, travolgendo i ponti

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ch’erano pur stati rinforzati. Per rispettare i tempi che gli alti comandi si erano dati si procedeva a marce forzate, anche di notte, al lume delle fiaccole, sotto la pioggia battente. Solo nelle città principali, come Filibe25 o Sofia, ci si fermava uno o due giorni: allora i maggiorenti e i personaggi di riguardo – compresi quegli ospiti-ostaggi che erano gli ambasciatori con il loro piccolo seguito – entravano in città, mentre l’armata si accampava26. I disagi, dovuti soprattutto al fango e agli smottamenti di terreno causati dalla cattiva stagione, erano pesanti: più volte le truppe giunsero al limite dell’ammutinamento e il gran visir fu costretto a ordinare qualche giorno di riposo supplementare. Insomma, gli osservatori vedevano e descrivevano giusto: il maltempo non comprometteva granché la macchina militare ottomana; tuttavia la disturbava parecchio. E, soprattutto, era un inquietante presagio. Il 24 aprile, le truppe arrivarono a Niš27, il 3-4 maggio a Belgrado28, dove era prevista una necessaria e più consistente sosta e dove da Ragusa, dalla Dobrugia, dall’Ungheria e dalla Transilvania giunsero i vassalli cristiani della Porta a render omaggio al gran visir, portando tutti doni adeguati al suo rango e alla sua dispotica avidità. Nove-dieci giorni dopo, il 13, Mehmed IV consegnò in forma solenne il Vessillo del Profeta a Kara Mustafa che venne formalmente investito a quel punto dell’ufficio di seraskier, comandante in capo, mentre il sovrano – che il Caprara aveva intanto informato dell’avvenuta alleanza tra l’imperatore e il re di Polonia29 – si apprestava a rientrare nella capitale. Le truppe alleate (valacchi, moldavi, ungheresi, transilvani, tartari) e quelle dei lontani territori soggetti all’impero ottomano (siriani, egiziani che erano buoni moschettieri30, berberi) si unirono a quelle sultaniali, secondo l’ordine che era stato loro impartito fin dall’autunno precedente e che stabiliva la piccola località di Zemun, alla confluenza della Sava e del Danubio, come luogo dell’incontro. Quei giorni di maggio dell’83 furono il momento più alto della gloria dello spregiudicato e crudele gran visir, che tuttavia le fonti ottomane descrivono in modo contrastante in quanto ebbe a sua disposizione anche un numero notevole di amici, alleati, clienti e sostenitori. Nella tradizione cristiana, egli gode viceversa quasi universalmente di pessima stampa: il che non stupisce, per quanto inviti alla prudenza nel giudizio. Così lo presenta nella sua prosa densa di allusioni proverbiali e di reminiscenze classiche il dragomanno veneziano Tommaso Tarsia, che pur non era restio nel lodare gli alti funzionari ottomani che

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entrarono in rapporto con lui e che a suo avviso meritavano rispetto e considerazione: «Altro era, altro pareva, altro parlava, altro pensava, e sotto spoglie d’agnello copriva il lupo rapace»31. Ma non va dimenticato che gli sconfitti trovano sempre degli implacabili detrattori. Quanto alla valutazione delle forze degli ottomani e dei loro alleati, si è esagerato accettando «cifre in libertà» di origine propagandistica fino ad arrivar a parlare di 310.000 uomini: 250.000 combattenti e 60.000 ausiliari addetti alle funzioni logistiche e tecniche, accompagnati dalle immense greggi che provvedevano le truppe di latte, di airan e di carne fresca. Sappiamo invece che il reclutamento a Istanbul non era stato brillante, e che dei 15.000 uomini che ci si aspettava di mettere insieme si era arrivati appena a 300032. Secondo le fonti meno insicure33, nell’insieme non si andava – arrotondiamo il conto – oltre i 150.000 armati, per giunta di qualità eterogenea34: il nucleo forte dell’armata era costituito dalla fanteria giannizzera e dalla cavalleria spahi, mentre le altre truppe erano relativamente poco efficienti in battaglia contro gli eserciti occidentali, l’armamento e la disciplina dei quali erano enormemente migliorati dalla fine della guerra dei Trent’Anni. Cercando di rendersi conto di quanto discordanti siano i dati a nostra disposizione, bisogna tener presente che secondo Giovanni Benaglia, solerte segretario del conte Alberto Caprara che accompagnò a lungo l’esercito, si poteva arrivare a circa 40.000 combattenti effettivi: ma egli parlava solo dei soldati dell’armata regolare, vale a dire dei giannizzeri, dei timarioti e di qualche altra unità. L’altro testimone diretto della marcia, l’ambasciatore Kunitz, valutava l’insieme delle forze, non-combattenti inclusi, a 180.000 uomini35. Il Sébeville conferma in fondo i dati del Caprara, parlando anch’egli di 40.000 uomini dell’esercito regolare, ai quali ne aggiunge 70.000 delle truppe provinciali, provenienti dai Balcani, dal Vicino Oriente, dall’Egitto, dall’Africa. Si ha quasi la sensazione che in fondo i conti tornino: Kunitz aveva forse avuto notizia di 110.000 combattenti in tutto (tanti quanti riferisce il Sébeville), ma aveva calcolato inoltre il numero dei non-combattenti attribuendo a tale categoria la cifra che in realtà corrisponderebbe alle truppe provinciali: insomma, avrebbe messo due volte in conto le truppe provenienti dalla periferia dell’impero. La sostanziale esattezza della valutazione del Sébeville appare confermata da un documento rinvenuto tra le carte del gran visir nel suo padiglione e ora conservato a Parigi, secondo il quale Kara Mustafa avrebbe rilevato, nella rivista passata alle sue truppe il 7 settembre – alla vigilia

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dunque della sua sconfitta – 106.900 effettivi, oltre a 32.000 dei contingenti alleati (che parrebbero invece 34.000: cioè 20.000 tartari di Crimea, 6000 al seguito del principe di Transilvania, 4000 del vojvoda di Valacchia, 4000 di quello di Moldavia36): 138.900 in tutto. Ma – a differenza dei luterani e dei calvinisti ungheresi e transilvani, cui non doveva dispiacere tirare addosso a dei tedeschi (o a dei polacchi) cattolici – degli ortodossi valacchi e moldavi gli alti comandi ottomani sapevano di non potersi granché fidare: molti avevano cercato di pagare per non venir arruolati, si era stati costretti a inquadrarli con la forza e in genere ci si serviva di loro per mansioni logistiche o come genieri per ponti e strade piuttosto che per farli combattere. Di valacchi e di moldavi armati, gli ottomani preferivano fare a meno37. A questi contingenti vanno poi aggiunti gli ungheresi del Thököly: 3000 uomini di cavalleria «confinaria», ben armati, ben addestrati, ben montati; 3000 di cavalleria «campestre», leggera; e una fanteria piuttosto scadente, di altri 3000 uomini armati di vecchi archibugi anziché di moschetti: ma gli ungheresi, Reitervolk, facevano poco affidamento sulla gente a piedi, quindi non ci si stupirà se essa raggiungeva solo un terzo degli effettivi. I kurucok erano coraggiosi ma poco disciplinati: per cui anche la loro effettiva presenza sul campo era soggetta a molte oscillazioni38. In effetti l’anno prima, quando a metà agosto aveva accettato a Kassa dagli ottomani la funzione (se non il titolo ufficiale) di principe d’Ungheria, il Thököly doveva aver a disposizione più o meno 12.000 uomini39: di essi, però, un buon 25% si era poi defilato oppure era stato in qualche modo acquartierato e non era comunque disponibile per la guerra di movimento. Scarso e più che mediocre poi il parco di artiglieria dell’armata, relativamente antiquato, costituito di pezzi dai calibri eterogenei e carente di pezzi da assedio. Vero è d’altronde che anche l’artiglieria da campagna era d’impiccio40, data la pesantezza delle bocche da fuoco da trasportare su un terreno che le piogge primaverili aveva reso fangoso. Ma in fondo questo dispositivo non era coerente né col fatto che lo scopo semidichiarato della campagna era stato, fino all’ultimo istante, la presa di Györ e di Komárom, né con le intenzioni effettive del gran visir. Resta in ultima analisi il problema: Kara Mustafa aveva davvero, fino dall’ormai famosa riunione del 6 agosto, l’intenzione di assalire Vienna? E, altrimenti, quando cominciò a concepire tale piano? E davvero programmò un assedio senza provvedersi di artiglieria adeguata? E poté osare di farlo senza, o addirittura contro, la volontà del suo signore?41

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Comunque, si trattava di un’armata numericamente considerevole. Che quella massa di soldati potesse far paura a chi assisteva al suo interminabile sfilare e a chi udiva il suo spaventoso frastuono misto al clangore delle sue celebri bande musicali, è un altro discorso. Si trattava dì una mobilitazione di entità mai vista dai tempi di Solimano in poi. Per quanto le prove facciano difetto, non è impossibile che gli obiettivi di Kara Mustafa, sia pur mai esplicitamente e sistematicamente dichiarati, fossero davvero ambiziosi: Vienna, e forse oltre essa Praga, o magari la linea del Reno, o davvero l’Italia, almeno quella nordorientale. In realtà, cominciamo a saper qualcosa delle sue reali intenzioni solo a partire dal momento in cui le dichiarò: come esse siano nate e se e come si siano evolute, resta un mistero. Quanti sostengono di averlo risolto si affidano invariabilmente a fonti che ne trattano post eventum; o travestono da tesi fondate su prove quelle che sono soltanto ipotesi basate su indizi. Per l’Europa, comunque, la decisa e oceanica avanzata di un grande esercito attraverso la penisola balcanica fu una doccia fredda. Fin dall’indomani della giornata di Szent-Gotthard si era diffusa la convinzione, magari mai esplicitamente espressa, che la potenza dell’impero ottomano – pur restando temibile – fosse entrata in una fase di lento ma irreversibile declino. La notizia di una forza militare di straordinaria entità diretta verso nord, con l’evidente intenzione quanto meno d’investire l’Ungheria regia, lasciò stupefatti principi e popoli cristiani. Ma bisognava fare i conti con la lentezza, l’imprecisione e l’insicurezza con le quali viaggiavano le informazioni: prima che le notizie e gli ordini giungessero a destinazione e provocassero reazioni e risposte, passavano ordinariamente settimane e mesi. Infine, il medio Danubio era come ogni primavera immerso nel consueto clima alluvionale: a sud di Buda si stendeva un’immensa pianura fangosa, punteggiata di stagni e di paludi; si contava sul fatto che ciò avrebbe ritardato la marcia del pesante esercito ottomano, con i suoi innumerevoli carriaggi e cannoni. Ma anche su ciò non ci si potevano fare eccessive illusioni. Il Caprara, affidato alla custodia dei giannizzeri che ben lo conoscevano, lo trattavano con molta correttezza e lo lasciavano abbastanza libero di muoversi e di scrivere, seguiva con attenzione le tappe dell’armata e spediva ogni volta che se ne presentasse l’occasione – con rischio e disagio immaginabili, ma in fondo senza eccessive difficoltà – i suoi dispacci a Vienna, ricevendone anche a sua volta. A Plovdiv aveva registrato l’arrivo di un’ambasciata ungherese; a Buda poté rendersi conto di come le varie colonne militari stessero ormai convergendo sulla città imperiale. Verso la fine di luglio

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lo si sarebbe infine autorizzato a lasciare la capitale dell’Ungheria sultaniale e, aggregato a un convoglio di vettovaglie, raggiungere il campo degli assedianti sotto Vienna. Dalla parte del nemico, certo: ma ormai a un tiro di schioppo – è il caso di dirlo – dai suoi. Il dragomanno veneziano Tarsia, «in ubbidienza alle riverite prescrittioni pubbliche», ricevette l’ordine di raggiungere l’accampamento del gran visir e si mosse «con il mio pocco (sic) seguito» da Istanbul il 3 maggio; arrivò il 18 a Sofia e il 29 a Belgrado nella quale rimase «per far le necessarie provvigioni» fino al 7 giugno e raggiungere quindi il campo ottomano, che ancora sostava al ponte di Osijek42. L’imperatore era rimasto a lungo incerto sul da farsi. Attorno a lui, i rappresentanti del «partito spagnolo» gli andavano ripetendo che era stato un errore respingere le offerte in extremis sia di pace da parte del sultano, sia di alleanza da parte del Thököly e attraverso lui del principe di Transilvania. Recriminazioni prive di senso. Non era vero, ed era comunque inutile: non vi era ormai più scelta. Tutto quel mugugno serviva soltanto a cercar di nascondere le autentiche responsabilità di chi fino all’ultimo istante aveva minimizzato il pericolo ottomano per indurre Leopoldo a preoccuparsi invece del Reno e dell’avanzata francese. D’altro canto le trattative d’alleanza tra impero e Polonia procedevano lente e insicure, per quanto ormai fosse evidente che re Giovanni aveva scartato con decisione la possibilità di tornare a un qualche accordo con la Francia. Tra i magnati regnava come al solito un rissoso disaccordo: agli orgogliosi cavalieri polacchi non piaceva nessun vicino, né l’Asburgo, né i cosacchi, né i tartari, né lo czar, né il Turco. Il cardinal Buonvisi aveva tentato ancora una volta la via dell’alleanza matrimoniale, disponendo le trattative per le nozze tra il primogenito di re Giovanni e una principessa di casa d’Austria: progetto che non sarebbe tuttavia giunto in porto, ma nel quale il sovrano avrebbe a lungo confidato. Finalmente la dieta polacca aveva accettato fin dal 27 gennaio il patto d’alleanza con l’imperatore per troppo tempo rimasto sospeso e oggetto di faticosi patteggiamenti43: ma esso era stato a più riprese ridiscusso accanitamente fin dalle sue grandi linee, data la presenza tra i boiari polacco-lituano-ruteni di un forte partito filofrancese, sostenuto sia dall’ambasciatore Nicolas-Marie de l’Hopital, marchese de Vitry – che aveva profuso anche il suo personale patrimonio nel tentativo di corrompere il numero più alto possibile dei magnati: e il potente ministro del re, il tesoriere Andrzej Morsztyn che era intanto

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da tre anni a Parigi come ambasciatore, era tra i corrotti –, sia dagli agenti del principe elettore del Brandeburgo che avevano messo in giro insistenti voci di un segreto accordo tra l’Asburgo e il sultano alle spalle dei polacchi. In realtà, tuttavia, le discussioni si erano trascinate per buoni quindici giorni ed erano state più volte sul punto di naufragare: Tommaso Talenti, segretario di Giovanni III, ce ne ha lasciato preciso conto nelle sue lettere al cardinale Carlo Barberini, che presso la Curia pontificia svolgeva la funzione di «protettore» del regno di Polonia44. Il Talenti riferiva che il re stava profondendo energie e denaro nel tentativo di persuadere i magnati a spazzare via gli ultimi indugi, nonostante la sua salute fosse in quel momento precaria a causa di una forte affezione bronchiale45. Un contributo importante alla soluzione dei dubbi, intanto, era venuto proprio dal papa che era riuscito a persuadere il sovrano a scendere in guerra contro gli ottomani: in ciò la Santa Sede era stata spalleggiata dai «servizi» imperiali, che avevano passato alla corte le prove della corruzione dei dignitari polacchi per mezzo dell’oro francese. Difatti, fu lo scandalo a sciogliere gli ultimi intricati nodi che ancora ostacolavano la resa operativa del patto. Si scoprì a Varsavia – ovviamente in modo del tutto «casuale» – una corrispondenza tra l’ambasciatore francese e quello polacco a Parigi, il Morsztyn appunto46, secondo la quale risultava con chiarezza l’esistenza di un complotto per sciogliere la dieta, dichiarare decaduto re Giovanni ed elevare al trono in sua vece un principe francese. Il patto di alleanza tra l’imperatore e il re di Polonia contro gli ottomani, stipulato formalmente a Varsavia fra il 30 e il 31 marzo47, rischiava di venir bloccato dai magnati: ma la scoperta dette il colpo di grazia alle resistenze residue. Indignata, la dieta aveva immediatamente votato per la legittimazione dell’alleanza, il 1° d’aprile. Poiché i termini di essa prevedevano collaborazione militare, comune difesa e mutua assistenza in caso di attacco ottomano, e il Turco in armi stava allora già procedendo oltre Edirne, ciò significava la guerra: non era poi importante stabilire se il nemico avrebbe marciato sull’Ungheria regia minacciandone piuttosto l’ovest, verso la Croazia e l’Austria, o l’est, verso la Boemia e quindi la Polonia. Forse, nelle loro intenzioni, i magnati polacchi avevano deciso che le armi andavano puntate più contro il Re Sole che contro il sultano48. I termini del patto prevedevano che l’imperatore avrebbe dovuto mobilitare 60.000 uomini in Ungheria, i polacchi 40.000 in Podolia. Leopoldo stanziava 200.000 talleri, pari a 1.200.000 fiorini polacchi,

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per sostenere lo sforzo militare della respublica Polonorum. L’alleanza veniva posta sotto la garanzia del papa, che impegnava le sue finanze per 400.000 fiorini all’imperatore e 500.000 al re di Polonia mentre consentiva all’introduzione di un’imposta speciale sugli introiti ecclesiastici in Austria e in Baviera. L’alto e supremo comando di tutta l’armata sarebbe spettato al re di Polonia: una clausola alla quale Giovanni teneva al punto di subordinarle la firma del trattato, ma che l’imperatore non avrebbe mai voluto accettare se non ne fosse stato persuaso, pro Christianitatis communi bono, dagli sforzi congiunti di Marco d’Aviano, del Buonvisi e di re Giovanni stesso, il quale non poteva certo andar a dire in giro che, dal canto suo, ne avrebbe fatto anche a meno, ma che le prepotenti insistenze di «Marysien´ka» e dei suoi magnati a ciò lo obbligavano, con la pena di perderci la faccia. Permanevano tuttavia altri dubbi, che si traducevano in continue polemiche: l’accordo era già stipulato, ma c’era ancora la possibilità pratica di tirarsi indietro. Qualcuno si chiedeva se in fondo valesse davvero la pena di impegnarsi: che cosa ci avrebbe in concreto guadagnato la respublica Polonorum? Se davvero la posta in gioco, in caso di riapertura delle ostilità contro il Turco – e si credeva, e si lasciava credere, che fosse stata la diplomazia francese a dissuadere il gran visir da un nuovo attacco diretto alla Polonia, dirigendolo invece verso l’Ungheria –, era il recupero di Kamenec e delle altre fortezze podoliche e ucraine lasciate in mano turca nel 1676, non sarebbe stato più opportuno attaccare direttamente in quel settore anziché mettersi in marcia verso il sud per far un piacere agli austriaco-boemi e andar a combattere gli ex semialleati, i Malcontenti d’Ungheria? La diplomazia e i «servizi» austriaci, guidati dall’abile barone Hans Christoph von Zierowski, avevano lavorato in modo splendido nello scoprire le carte comprovanti il complotto franco-polacco ai danni di Giovanni III; ma la tesoreria della Hofburg era piuttosto spilorcia: e i magnati polacchi non consideravano affatto i donativi in denaro una forma di corruzione, bensì – e anche in questo ragionavano molto più come i turchi che non come gli occidentali – un dovuto e rispettoso riconoscimento al loro rango. Il von Zierowski continuava a tempestare la cancelleria imperiale, chiedendo sempre più denaro per tener a bada gli insaziabili nobili polacchi: ma i soldi non bastavano mai. Evidentemente, non era quella la via per raggiungere la loro volontà. Difatti, per avidi che fossero, non ragionavano con la borsa: ma, da buoni irruenti «sarmati», col cuore e con la spada. Il loro re, che era prima di tutto uno di loro, lo sapeva bene: e sapeva quali corde

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toccare per quanto in quel momento fosse ammalato, anzi, proprio in quanto era tale. Fra il 17 e il 18 aprile, nel pieno della santa notte di Pasqua, Giovanni si era presentato di sorpresa, febbricitante, dinanzi ai magnati: e nel loro sbigottito silenzio li aveva esortati con disperata energia, la voce rotta dai colpi di tosse e dal flusso catarrale, a mettere da parte rivalità e divisioni e ad approvare il trattato d’alleanza con l’imperatore per il bene di tutta la Cristianità. Al suo fianco, il nunzio Opizio Pallavicini aveva lavorato instancabilmente a rimuovere gli ultimi ostacoli e ad impedire che qualcuno nella dieta si avvalesse del diritto di liberum veto. Il 2 maggio l’imperatore siglò a sua volta il trattato, del quale fu sottolineato il carattere esplicitamente solo difensivo: il che del resto, con gli eserciti ottomani ormai già in movimento dalla Tracia, era del tutto ovvio. Al papa spettava l’alto patronato sull’alleanza, che avrebbe dovuto aver effetto in tutta l’area balcano-danubiana sino alla finale vittoria e comportava, da parte dell’imperatore, la rinunzia a una serie di crediti finanziari che egli avrebbe potuto vantare nei confronti della respublica Polonorum nonché la concessione di altri sussidi a fronte della promessa mobilitazione di 40.000 uomini al comando di re Giovanni. Dal canto suo il pontefice aveva fatto pervenire al sovrano polacco, secondo un dispaccio giunto al Re Cristianissimo, l’equivalente di quel che in valuta francese sarebbero state 400.000 lire, che si aggiungevano ai due milioni che egli aveva già fatto avere all’imperatore, ma dei quali per la verità 1.200.000 erano sotto forma di lettere di cambio49. La notizia del definitivo accordo tra impero e regno di Polonia venne accolta con grande giubilo e feste popolari a Roma; con il massimo malumore invece nella nuova, splendida residenza di Versailles, dove dal maggio dell’anno prima gloriosamente si erano insediati il sovrano con la corte, gli uffici ministeriali e la famiglia reale. L’ambasciatore veneziano Foscarini scriveva dal nuovo Olimpo al senato della Serenissima che, all’annunzio, il ministro Charles Colbert de Croissy era esploso in un accesso di cieco furore. Uno dei segretari dell’ambasciatore francese a Varsavia, de Vitry, rientrato in sede per ricevere istruzioni, fu spedito senza complimenti a meditare in Bastiglia su colpe senza dubbio non sue. Eppure, nonostante il successo conseguito con la Baviera, la Sassonia e la Polonia e le caute ma in fondo non deludenti risposte degli Stände del Reich, l’imperatore era pessimista. Scrivendo a Marco d’Aviano, il 3 aprile50, gli confessava tutti i suoi dubbi e le

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sue paure: il Turco stava marciando sull’Ungheria con una potenza e una protervia che non si erano mai viste «da più di cent’anni»: un’allusione alla campagna di Solimano del 1529 che includeva già il sospetto che, al pari di allora, la mèta finale potesse essere Vienna? In fondo era già accaduto di nuovo, nel 1619 e poi ancora nel 1663: ed era proprio il ricordo inquieto di quegli anni e di quei pericoli scampati per un soffio che da tempo serpeggiava tra i viennesi. Leopoldo assicurava il suo interlocutore a proposito del suo equilibrio intimo: non si stava affatto perdendo d’animo, stava mettendo insieme un’armata di 40.000 uomini e si apprestava a passarla in rivista di lì a poco a Presburgo, dove si sarebbe trattenuto per qualche tempo. Avrebbe voluto restarci più a lungo e mantenersi alla testa delle truppe: ma i problemi dell’Ungheria erano diversi da quelli del Reich, il clima gli procurava un malanno tutte le volte che vi si recava e non poteva permettersi il lusso di venirvi isolato. Per questi motivi, dopo la rassegna delle truppe, ne avrebbe lasciato il comando al duca di Lorena suo cognato in attesa dell’arrivo del re di Polonia. Ma la ragione profonda della sua amarezza e della sua delusione era il constatare che la Cristianità lo aveva lasciato solo: eppure, aggiungeva, il problema dell’offensiva degli infedeli la riguardava nel suo complesso. Era sincero? Molto probabilmente, nella depressione che in lui doveva essere abituale e che l’insicurezza del momento stava acuendo, sì: il che non toglie che la realtà obiettiva delle cose stesse altrimenti. Non era vero (o, quanto meno, non del tutto) che la Cristianità lo avesse lasciato solo. Tanto il Reich – con l’eccezione dei paesi renani e dell’elettore calvinista del Brandeburgo: e a parte gli ungaro-transilvano-valacco-moldavi, che per amore o per forza stavano col sultano e ai quali comunque egli in quel momento non pensava – quanto la Polonia erano con lui. Certo, non poteva realisticamente aspettarsi granché non solo dalla Spagna e dagli stati italiani, ma neppure dall’Inghilterra, dall’Olanda, dai paesi balticoscandinavi, dalla Russia: per quanto almeno l’ultima di queste potenze fosse dal canto suo molto interessata al problema ottomano. Ma quel che gli faceva più male era che il pontefice non potesse fare di più del molto che già faceva e che si mostrasse debole se non reticente nell’incitare e magari nel censurare il re di Francia; a parte l’ambiguità e l’atteggiamento temporeggiatore della Serenissima. Infine quel che gli sfuggiva, o che non voleva confessare, era la sensazione – se non la consapevolezza – che la Cristianità unita

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e concorde nel nome della fede non esisteva più e che rispetto ad essa l’Europa cristiana era già altra cosa. Leopoldo era un uomo di profonda e raffinata cultura, certo superiore alla media degli statisti europei del tempo: egli non poteva quindi non avvertire, sia pure oscuramente e confusamente, che la grande crisi di coscienza dell’intera Europa era ormai prossima. Tuttavia, la forza della tradizione era ancora robusta e ben presente, a livello tanto delle istituzioni quanto del comune e diffuso sentire: e l’emergenza del momento contribuiva a farla riaffiorare. Innocenzo XI rendeva ormai espliciti i toni della crociata. Nell’aprile ordinava che «da tutt’i fedeli venga implorato il Divino Aiuto, acciò Sua Divina Maestà si degni per Sua infinita misericordia, e per i meriti del nostro Redentore, deludere ogni tentativo dei persecutori del Suo Santo Nome et abbattere con la potenza della Sua destra la loro fierezza»51. A Roma, fu il pontefice a presiedere ai riti che egli stesso aveva predisposto e che prevedevano per tutta l’Italia pubbliche preghiere ed esposizione del Santissimo Sacramento. Il papa moltiplicava gli appelli per la difesa. Ormai aveva convinto re Giovanni III al massimo sforzo, anche al di là degli impegni che egli si era assunto con l’imperatore. Ma il sovrano polacco, ben conscio dell’ormai acquisita centralità del suo ruolo, esigeva un riconoscimento adeguato: esso non poteva essere se non il comando supremo, e invece proprio su ciò si addensavano i dubbi, nonostante la lettera del trattato polacco-imperiale. Le carte parlavano chiaro, ma i malumori e le insoddisfazioni montavano: e Giovanni temeva qualche colpo di mano dell’ultim’ora. In questo senso va letta la fitta corrispondenza tra l’«intimo segretario regio per le cose d’Italia», il lucchese Tommaso Talenti, e il cardinale Carlo Barberini52. Dopo la conclusione del patto tra imperatore e re di Polonia, Innocenzo XI si era rivolto, per aiuti militari o finanziari, anche a tutti gli stati italiani: la promessa toscana di sussidi e dell’impiego delle galee di Santo Stefano era stata da lui ritenuta evasiva, per quanto il governo granducale in realtà contribuisse con materiale bellico inviato all’imperatore e 100.000 fiorini ai polacchi; contributi in danaro giunsero anche da Genova, da Lucca, da Massa, dalla Savoia e dagli stati minori53. Gli stessi cardinali parteciparono con buone somme di danaro allo sforzo comune e il papa dette generoso esempio. La prima, fondamentale ed autentica guida suprema dell’armata cristiana non era in discussione. Non sarebbe spettata all’imperatore, che non era un esperto soldato. Il comandante militare in capo

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della compagine asburgo-imperiale avrebbe ricevuto istruzioni attraverso lo Hofkriegsrat, al quale avrebbe dovuto rispondere. Ma, secondo un voto di Ferdinando III che Leopoldo I aveva rinnovato nel 1676 durante un pellegrinaggio a Mariazell, la Beata Vergine Maria era «generalissima» di tutte le armate imperiali in tempo di guerra e «plenipotenziaria» imperiale in tempo di pace54. L’effigie della Madonna era ricamata o dipinta sugli stendardi imperiali come su quelli della Santa Lega. In quegli anni la «pia opinione» relativa all’Immacolata Concezione di Maria, pur non ancor definita come dogma55, era sempre più diffusa ed oggetto di un vivissimo culto araldi del quale erano soprattutto gesuiti e francescani: è dall’epistolario di padre Marco d’Aviano che apprendiamo con quanta frequenza la Vergine fosse venerata «sotto il titolo di Maria Ausiliatrice quale protettrice dei cristiani nella lotta contro i turchi»56. Il culto di Maria del Soccorso, Auxilium christianorum, si sarebbe diffuso vertiginosamente dopo l’assedio di Vienna57. Ma la Madonna non era certo tenuta a rispondere al Hofkriegsrat. Leopoldo decise che tale incombenza spettasse, per la compagine armata asburgo-imperiale nel suo complesso, a suo cognato Carlo V duca di Lorena, cui egli affidò con una solenne cerimonia il 6 maggio la guida suprema – dopo Maria – delle sue armate. Il governo asburgico era intanto riuscito a formulare qualche stima quantitativa verosimile e attendibile relativa alle difese necessarie. Si riteneva che, per fronteggiare adeguatamente la minaccia ottomana ormai prossima sarebbero stati necessari almeno 80.000 uomini sul campo, oltre ai 27-28.000 indispensabili per l’acquartieramento nelle fortezze della frontiera militare. All’inizio dell’estate, se in teoria si erano raggiunti i circa 80.000 effettivi in tutto – che erano comunque, nella pratica, sempre meno del necessario –, in realtà tutto quel che era disponibile nell’armata relativa ai territori ereditari (prescindendo quindi comunque dall’apporto delle truppe imperiali e degli alleati) si aggirava su circa il 60% di tale numero. Sulla carta, l’esercito mobilitato constava di 54.968 fanti e di 21.000 cavalieri equipaggiati, escluse le forze ungheresi e le guarnigioni di frontiera. Ma, nella realtà concreta, tutto quel che si aveva sottomano si limitava a 21.000 fanti e a 10.800 combattenti a cavallo, che sommati ai circa 6000 ungheresi comandati dal palatino Pál Esterházy, arrivavano a meno di 40.000 effettivi, a parte un piccolo distaccamento a tutela di bassa Austria, Slesia e Moravia58 e oltre a 12.700-14.000 uomini in armi che costituivano i presidi permanenti

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delle fortezze e che non potevano venir calcolati per la campagna mobile. Con i rinforzi provenienti dal Reich, cioè i sassoni, i bavaresi, gli svevi e i franconi, si sarebbero dovuti raggiungere e forse addirittura superare, ma di poco, i 50.000 combattenti59. Inoltre, si aspettavano i polacchi: e non si aveva ormai dubbio che essi sarebbero arrivati, per quanto non si potessero far pronostici sulle date. Ma qui era ogni giorno più chiaro che si sarebbe dovuto risolvere una buona volta il nodo del ruolo di re Giovanni nell’armata di coalizione: egli non avrebbe mai accettato di trovarsi all’atto pratico – e nonostante i patti – comandante in seconda di nessuno, tanto meno poi di un duca privo di ducato e sposo di una sua acerrima nemica. D’altro canto i generali imperiali, pur non essendo troppo concordi fra loro, erano unanimi nel non gradire di trovarsi a dover obbedire al polacco. In fondo, si trattava di una classica situazione grave, ma non seria. I due principali protagonisti, Leopoldo e Giovanni, avrebbero forse in cuor loro entrambi lasciato perdere: ma non era da loro che la cosa dipendeva. I loro rispettivi parenti e collaboratori non intendevano mollare, forti da parte polacca dell’impegno scritto e firmato, da quella imperiale della fluidità del momento che poteva sempre render necessarie altre scelte. La questione poteva ben essere rimandata di qualche settimana, non però aggirata. Per il momento, ci si limitava a un gioco tattico delle parti. Il re non rivendicava apertamente il ruolo che era convinto gli spettasse e a proposito del quale non giudicava dignitoso chiedere ancora garanzie, dal momento che la cosa era stata già ufficialmente decisa con tanto di sigilli sovrani: ma lasciava circolare la voce che esso era per lui comunque irrinunciabile e che non avrebbe ammesso tiri mancini. Intanto evitava di precisare la data in cui si sarebbe mosso con le sue truppe, lasciando intendere che ciò non sarebbe avvenuto prima della soluzione esplicita e definitiva di quel nodo formale; la corte di Vienna aggirava l’argomento evitando di rispondere con formule che avrebbero potuto peggiorare la situazione. Ma era un gioco che non poteva durare. Il 6-7 maggio Leopoldo passò in rivista l’armata imperiale a Kittsee, a sud di Presburgo; con lui erano Massimiliano Emanuele di Baviera e il comandante in capo delle truppe imperiali Carlo di Lorena, che aveva attraversato una grave malattia dalla quale si diceva fosse uscito grazie alle preghiere di padre Marco d’Aviano; fu il cappuccino a suggerire, in quella sede, che tutte le insegne militari austriache recassero l’immagine della Vergine Maria. Alla solenne cerimonia era

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presente il primate d’Ungheria e arcivescovo di Ersztergom, György Szlepcsényi, uno che – come si direbbe oggi – stava decisamente «a destra» dello stesso Kollonics per quanto riguarda il rapporto tra cattolici e riformati in Ungheria: se fosse dipeso da lui, la crociata sarebbe stata bandita molto più e molto prima contro il Thököly che non contro Kara Mustafa60. Si riproponeva ancora una volta la questione del numero degli effettivi. Sulla carta, l’imperatore disponeva di 60.000 uomini circa, ordinati in 27 reggimenti di fanteria, 17 di corazzieri, 9 di dragoni e 28 di «cravatte», cioè di irregolari croati61. L’artiglieria era forte di 72 pezzi leggeri, da campagna, e di 15 mortai. Ma quando il sovrano passò in rivista le truppe effettive tutto quel che risultò furono 22.000 fanti, 11.000 soldati a cavallo e 56 cannoni; vero è che, dal canto suo, il palatino Esterházy stava radunando sulla bassa Vág i più o meno 6000 uomini dell’Insurrectio, la milizia nobile ungherese, con 14 cannoni62. Vanno inoltre messi in conto circa altri 800063 arruolati nelle Freiecompanien costituite fino dal 1675, i quali erano dislocati nelle guarnigioni delle fortezze sudorientali dell’Ungheria regia, i cui confini erano organizzati nei quattro generalati di Raab, delle città minerarie, dell’alta Ungheria e di Kanizsa64. Se a queste forze si aggiungono i 4000 mercenari polacchi del principe Lubomirski, arruolati direttamente dall’imperatore65, si arriva a un computo approssimativo arrotondato, e ottimistico, di più o meno 50.000 uomini, calcolando mercenari e uomini di guarnigione66. I dati rilevati alla rivista confermavano insomma quelli precedenti, pur rivelandosi ben più bassi del previsto e del prevedibile. Eppure, anche così ridotti rappresentavano una massa di armati quasi impossibile da salariare, equipaggiare, alloggiare, sfamare e addestrare con le risorse disponibili. Per mantenere tutti questi militari in servizio con la certezza che rimanessero passabilmente efficienti e disciplinati qualche mese, ci voleva infatti un sacco di soldi. Ma, dei 5.700.000 fiorini calcolati come necessari a sostenere lo sforzo difensivo, gli Stände imperiali annunziavano nel maggio di averne messi insieme più o meno solo 2.400.000, cioè molto meno della metà67. Il duca di Lorena disperava che si potesse far fronte al nemico senza gli aiuti che avrebbero dovuto giungergli dal Reich e dalla Polonia. Il papa s’impegnò con molta decisione anche sotto il profilo economico, esponendo anche le finanze della sua famiglia di banchieri: la tesoreria della Santa Sede contribuì in tutto alla guerra contro il Turco, dal solo punto di vista dei sussidi in denaro liquido, per 5 milioni

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di fiorini, cioè per oltre l’80% della somma teoricamente necessaria: senonché buona parte di essa, una volta stanziata, si disperse per molti rivoli e per varie ragioni. I sussidi pontifici, tra effettivamente corrisposti e credibilmente assicurati per quanto non immediatamente versati, contribuirono comunque a permettere un più rapido e massiccio reclutamento. Ma tutto ciò era ancora insufficiente. L’armata posta sotto il comando del duca di Lorena rimase per alcune settimane inattiva. Si era incerti, in quanto era in atto l’ennesima tregua concessa ai ribelli ungheresi; e d’altra parte si sorvegliava l’avanzata degli ottomani, l’obiettivo definitivo dei quali permaneva incerto. Solo ai primi del giugno il comandante generale, pressato dal Hofkriegsrat, si decise a cinger d’assedio la fortezza ottomana di Neuhäusel: ma con ben poca convinzione, in attesa dell’arrivo dell’esercito nemico68. Le obiezioni e le remore opposte dal «partito spagnolo» e alimentate dalle rivalità di corte erano ancora forti: nonostante tutto, c’era ancora chi pensava che il Turco non avrebbe osato addentrarsi al di là dell’Ungheria. Chi oggi osservi, a posteriori e da lontano, lo scenario qui descritto, ha la netta sensazione che ormai tutto avesse dovuto essere chiaro. Invece, lo era tutto sommato solo a pochi. Ma, quelli, non avevano dubbi: «Se si perdesse Vienna, sarebbe tutto in precipizio», scriveva disperato il Buonvisi al Cybo69. «Il Turco è alle porte!» Ma torniamo agli ottomani. Dopo la sosta a Belgrado, il tempo sulla penisola balcanica era con l’avanzata della primavera sensibilmente migliorato, consentendo all’armata di procedere più agevolmente e rapidamente attraverso l’antica Pannonia, cioè nella regione geostorica denominata Transdanubia, con i suoi prati e i suoi acquitrini. Il foraggio certo non mancava; tuttavia la stagione, ancora più umida del consueto, incideva sulla rapidità di marcia poiché il terreno era più pesante, cedevole e intriso d’acqua del solito e i fiumi gonfi minacciavano ponti e guadi. Pervenuto l’immenso esercito a Osijek il 19 maggio70, vi fece una lunga sosta. Là si incontrò con i contingenti del Thököly, che aggiunse così il suo contributo cristiano, insieme con i moldavi e i valacchi, alle forze che marciavano nel nome di Allah e del Profeta. Serban Cantacuzeno, hospodar della Valacchia, si considerava il cu-

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stode dell’ortodossia contro il cattolico re di Polonia, che non faceva mistero del suo interesse per le terre a nord del Danubio. Serban non sarebbe stato in linea di massima alieno dall’intendersi con gli Asburgo d’Austria, se non altro perché forte era il suo contrasto con il vojvoda di Transilvania: ma la Porta lo teneva stretto a un ferreo patto di vassallaggio rispetto al quale non era in grado di ribellarsi. L’armata lasciò Osijek il 14 giugno, varcando il celebre ponte sulla Drava che era stato distrutto ma febbrilmente riparato e dirigendosi a nord-ovest71. Si era ormai nell’Ungheria sultaniale. Già mentre si trovava in sosta a Belgrado, il gran visir aveva ricevuto una lettera del presidente del Hofkriegsrat, Ermanno di Baden, nella quale si dichiarava in toni estremamente piani e cortesi che l’imperatore Leopoldo aveva fatto di tutto per salvare la pace con la Porta, ma che ormai era costretto ad ammettere che ci si trovava in obiettivo stato di guerra. Il gran visir attese appunto di star sul punto di lasciare Osijek e prima di passar la Drava rispose alla missiva con cortese sobrietà, confermando l’avviso del suo interlocutore. La risposta fu affidata al Caprara che proseguì verso Buda, mentre il suo collega von Kunitz rimaneva, ospite-ostaggio, presso Kara Mustafa72. Giunti a Székesfehérvár73, si tenne il 27 un consiglio di guerra per scegliere l’itinerario più adatto a intraprendere l’invasione dei territori asburgici ereditari: in quella sede il gran visir palesò finalmente le sue effettive intenzioni. Non si trattava più – come si era fino ad allora lasciato credere anche ai più alti dignitari dell’impero e tanto più agli ambasciatori-ostaggi; oltre a lasciar circolare notizie in tal senso che ingannassero «talpe» e spie di vario genere e facessero pervenire notizie adulterate alla cancellerie d’Europa – di prestar man forte al principe-vassallo Thököly e d’impadronirsi delle piazzeforti asburgiche del Danubio. Kara Mustafa voleva cogliere la Mela Rossa. Non mancarono in quella sede i dubbi, anzi addirittura la proteste, per quanto l’etichetta ottomana ne impedisse un troppo evidente palesarsi: sia il beylerbeyi di Buda Ibrahim Pas¸a, sia il khan tartaro Mehmed Ali Giray, che erano i due principali capi della spedizione militare dopo il gran visir, palesarono vivacemente la loro opposizione74. Si sentivano raggirati e canzonati: e sostenevano che dello scopo strategico dell’impresa si sarebbe dovuto parlare subito, a Istanbul nell’agosto precedente, anche per studiarne la fattibilità e prepararsi meglio; aggiungevano che alto era il rischio che un assalto a Vienna finisse coll’attirar addosso al sultanato l’intera Europa cristiana. Credessero o no seriamente a tale evenienza, si trattava certo

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di un argomento di un qualche peso. A loro avviso, la conquista delle due grandi fortezze danubiane giustificava appieno la campagna militare e ne avrebbe costituito un sicuro successo: perché osare oltremisura? Resta dubbio quando Kara Mustafa avesse sul serio maturato il suo proposito – è possibile che se lo fosse tenuto dentro fin dalla famosa riunione d’Istanbul dell’agosto precedente? –; e più dubbio ancora se davvero osasse agire tenendo all’oscuro il sultano. Obiettivamente impensabile comunque che stesse trasgredendo una sua formale proibizione. Sapeva bene, semmai, di star preparandogli un prezioso, inestimabile dono: se fosse riuscito a presentarglielo, il suo prestigio sarebbe salito alle stelle nonostante la trasgressione consistente nel non aver chiesto il sovrano assenso al suo progetto. Se avesse fallito, sapeva che in gioco c’era la sua testa. Ad ogni modo, notizie peraltro post eventum informano che Mehmed IV venne di lì a circa una settimana a conoscenza della decisione del gran visir e manifestò disappunto75. Di solito, però, la riprovazione sultaniale comportava la destituzione dello «schiavo» che avesse osato dispiacere al Gran Signore – dei quali tutti, dal gran visir all’ultimo suddito, erano appunto köle, schiavi – e magari il capestro. Nel caso di Kara Mustafa entrambi sarebbero in effetti puntualmente arrivati: ma solo sei mesi dopo, quando la sua temeraria impresa era fallita. Il che significa probabilmente che, ne approvasse o meno la mossa, il sultano decise che era ormai il caso di stare agli eventi. In caso di successo, la gloria del padis¸ah avrebbe comunque eclissato quella del suo troppo audace servo, che c’era sempre il tempo di ricompensare o di punire secondo la convenienza; in caso di rovescio, il capro espiatorio era pronto. Quanto a Kara Mustafa, il quadro che di solito se ne fa – di un personaggio abile ma crudele e spregiudicato, che avrebbe voluto impadronirsi di Vienna per vanagloria, per accrescere il suo potere o per far bottino – deve essere forse riconsiderato anche alla luce degli apporti della storiografia turca, che ha sottolineato come egli fosse sensibile alle idee politico-mistiche del suo direttore spirituale, il cinquantenne Mehmed Vani Efendi, che stava costantemente presso di lui e che è stato dipinto come una versione musulmana di Marco d’Aviano. Egli sembra essere stato l’autentico ispiratore dei sogni di conquista universalistica ottomana e musulmana di quello che era stato l’intero impero romano, attraverso Vienna fino a Roma76. L’armata ottomana entrò dunque in territorio asburgico il 29 giugno, festa – coincidenza? – dei santi Pietro e Paolo. Mentre il grosso

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dell’esercito avanzava inesorabilmente, gli scorridori tartari e magiari stavano conducendo con i loro tremendi raid una guerra distruttiva nei confronti soprattutto della popolazione rurale. Il tradizionale sistema di allarme per mezzo d’improvvisati falò avvertiva volta per volta le differenti comunità del pericolo che si stava avvicinando: ma nulla era stato né previsto né preparato, quindi nessuno riusciva a prevedere l’entità delle scorrerie né a localizzarle in tempo. Nella prima settimana di luglio queste bande attraversarono il Wienerwald: quando l’esercito sultaniale giunse alle porte di Vienna erano già più avanti di 50 miglia, vicino a Melk; proseguirono in seguito fino al fiume Ybbs. A questo punto i contadini che non erano fuggiti avevano organizzato una piccola forza armata che fu capace di opporsi agli incursori quando essi risalirono il Danubio. Altre bande avevano già raggiunto la valle della Leitha e da lì avevano mosso verso sud incendiando e saccheggiando Breitenbrunn, Eisenstadt, Rust e Sopron. I contadini, che per settimane avevano sentito le voci di questa guerra imminente, dall’inizio di luglio avevano smesso di mietere; alcuni gruppi di abitanti dei villaggi ebbero però modo di negoziare per essere risparmiati dai peggiori eccessi. Nell’Ungheria asburgica Imre Thököly poté sperimentare la sua crescente popolarità presentandosi come scudo nei confronti degli invasori e ponendosi come mediatore o come protettore di chi avesse fatto atto di sottomissione nei suoi confronti: tutto ciò era favorito dagli ottomani, giacché in tal modo i rischi di una resistenza organizzata o comunque della difficoltà di controllo del territorio erano ridotti e anche i problemi logistici potevano essere facilitati favorendo la collaborazione dei locali anziché atterrendoli e riducendoli alla disperazione. Resisterono le piccole guarnigioni di Forchtenstein, Wiener-Neustadt e Eberfurth, che riuscirono perfino a contrattaccare in direzione del Burgenland. Era ormai chiaro anche ai più scettici tra gli osservatori esterni che Kara Mustafa puntava su Vienna, e che aveva anche fretta: difatti si lasciò alle spalle, senza provar a conquistarle, le due principali fortezze asburgiche in territorio ungherese, Györ77 stessa e Komárom78, che sbarravano e controllavano, rispettivamente, la via terrestre e quella danubiana da Buda verso la capitale. È vero che l’assedio di Györ – dal quale il gran visir aveva tolto le tende l’8 luglio – proseguì, affidato dal gran visir al vojvoda di Transilvania Mihály Apafi: ma proprio ciò significava che non era quello l’obiettivo. Lasciarsi alle spalle due importanti fortezze ancora in mano austriaca era una de-

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cisione tattico-strategica senza dubbio caratterizzata da un altissimo grado d’imprudenza: d’altronde, conquistare quelle due formidabili piazzeforti avrebbe fatto perdere tempo, uomini e materiali preziosi. Mentre il vojvoda, più che tentare di prendere Györ, si limitava a sigillarla impedendo agli assediati qualunque movimento, il gran visir puntava ormai dritto sulla sua preda senza più curarsi di mantenere il nemico nel dubbio. In effetti, Leopoldo e i suoi alti comandi si erano fino all’ultimo illusi, o voluti illudere, che scopo ultimo della campagna militare ottomana fosse cacciar le forze austriache da tutta l’Ungheria e trasformare quest’ultima in uno stato-cuscinetto che il Thököly avrebbe ridotto al vassallaggio della Porta. Già questa, che significava in pratica per i possessi ereditari di casa d’Austria aver il Turco sotto casa, non era certo un’allettante prospettiva. Ma si sarebbe fatto di necessità virtù. L’unica contromisura energica che l’imperatore potesse al riguardo scorgere era l’occupazione, a sua volta, della fortezza di Neuhäusel: sarebbe stato un bel colpo assestato agli ottomani, ma la cosa si era rivelata impossibile. Ormai i fatti si presentavano in tutta la loro gravità: gli ottomani avanzavano senza incontrare resistenza mentre i tartari andavano razziando e devastando l’area interessata dall’itinerario delle avanguardie. Si era tardato molto a capire che l’esercito nemico stava puntando sulla capitale: troppi si erano illusi, o avevano voluto illudersi. Solo quando giunsero le notizie relative al passaggio della Drava, ci si dovette arrendere all’evidenza anche senza bisogno di sapere quello che di lì a poco il gran visir avrebbe palesato a Székesfehérvár: ma ormai si era alla fine di giugno e si era perduto tempo prezioso. Inoltre, a complicare le cose ci si era messa anche la rivalità tra il generalissimo Carlo di Lorena ed Ermanno margravio di Baden, il cinquantacinquenne e malfermo in salute presidente del Hofkriegsrat che si sentiva umiliato e defraudato di un diritto e di un onore perché il comando supremo delle armate imperiali non era stato assegnato a lui. Tali contrasti non contribuivano certo a migliorare il quadro della situazione, già di per sé drammatico. Di fronte all’esercito ottomano rigorosamente sottoposto alla sola autorità del gran visir, le forze imperiali e alleate presentavano una preoccupante mancanza di unità di comando: i poteri del duca di Lorena venivano contestati quanto meno di fatto, mentre l’arrivo del re di Polonia dava adito ad aspettative e a preoccupazioni che si traducevano in pericolose correnti centrifughe. Come scriveva Cristina di Svezia, solo un miracolo avrebbe ormai potuto salvare Vienna.

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Con i primi di luglio, la situazione si andò aggravando: l’armata sultaniale avanzava senza incontrare resistenza, preceduta dai tartari che seminavano il terrore arrivando con i loro raid anche molto in profondità a nord del Danubio. Carlo di Lorena spedì la sua fanteria a rinforzare le difese della capitale e si attestò sulla riva sinistra del grande fiume con la sua cavalleria aspettando rinforzi e cercando intanto di contrastare le scorrerie tartare che infierirono con incredibile ferocia in tutto il territorio, ma furono anche combattute con molto coraggio: parecchie cittadine e molti villaggi fortificati resisterono loro validamente, così come i monasteri di Lilienfeld, Melk e Klosterneuburg, dove monaci e gente dei dintorni che entro le loro solide mura aveva trovato ricetto dettero agli invasori un inatteso filo da torcere, impartendo loro qua e là anche qualche sonora lezione. A sud di Vienna e nel Wienerwald, gli irregolari al servizio degli ottomani stavano colpendo in maniera particolarmente feroce, uccidendo e catturando molti prigionieri. I centri di Mölding, Baden e Perchtoldsdorf furono saccheggiati tra il 12 e il 15 luglio, per quanto molti abitanti riuscissero a fuggire; quelli rimasti furono vittime di un trattamento selvaggio. Comunque, stavano crescendo le sacche di resistenza. Sulla strada tra Vienna e Sankt-Pölten, la coraggiosa marchesa Pálffy difese il proprio castello con encomiabile energia. In quegli stessi giorni, comunque, l’esercito imperiale di campagna fu spinto sulla sponda settentrionale del Danubio. Era ormai chiaro che, come centocinquantaquattro anni prima, gli ottomani stavano tentando di nuovo il colpo che allora era andato fallito: e ancora una volta il re di Francia e forse almeno in parte i protestanti lo stavano appoggiando o simpatizzavano per esso. Era d’altronde vero anche il contrario: in Austria, nelle città e nelle campagne, i simpatizzanti della Riforma erano stati perseguitati e il loro credo represso dall’autorità imperiale, ma erano ancora lontani dall’essere scomparsi. Alcuni di loro approfittarono della confusione del momento per rivendicare il loro credo e la loro dignità; altri non esitarono a rinfacciare all’imperatore il suo atteggiamento persecutorio che aveva contribuito al malcontento ungherese e, quanto meno indirettamente, determinato l’invasione ottomana. Quanto ai rapporti di forza, la situazione appariva disperata. La diceria secondo la quale il nemico aveva schierato in campo circa 300.000 persone non solo era lontana dal vero, ma taceva il fatto che molte di esse erano artiglieri, scavatori di mine, pionieri, servitori, cioè non propriamente combattenti; e che questi ultimi, come abbiamo visto,

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erano in numero sensibilmente minore rispetto agli addetti ai servizi vari. La sproporzione tra i due campi era nondimeno spaventosa, abissale79. Ciò giustifica ampiamente il terrore e le disperate richieste d’aiuto rivolte a tutta la Cristianità. A ben valutare tuttavia il clima di quegli affannosi giorni, è forse a questo punto necessario un avvertimento. La gente si ricordava molto bene di quel che era accaduto vent’anni prima, a parte il diffondersi di storie di violenze e di sevizie orribili, che in larga misura corrispondevano purtroppo alla realtà. Gli incendi di interi villaggi con gli abitanti dentro, le decapitazioni, la gente impalata e scorticata, non erano leggende folkloriche. Seguendo l’antica tradizione dei Reitervölker della steppa, scopo ultimo della quale era peraltro la distruzione del morale del nemico in modo da indurlo a piegarsi il prima possibile e da abbreviare i conflitti, gli eserciti ottomani e soprattutto gli scorridori tartari seminavano sistematicamente pànico e terrore: il che significava appunto incendi, sevizie, impalamenti, scorticamenti, decapitazioni con relativo lancio delle teste al di là delle linee nemiche. E va aggiunto che, tanto nelle isole del Mediterraneo quanto nella penisola balcanica, i cristiani – fossero le milizie della Serenissima o i soldati imperiali o gli scorridori ungari e croati – avevano ormai da più di tre secoli imparato a far la stessa cosa. In queste pagine, ci siamo astenuti il più possibile dal ricorrere a quella che avrebbe potuto sembrare un’aneddotica da Grand Guignol, ma tale era la realtà: non si tratta di darsi al macabro bilancio dei reciproci atti di ferocia, bensì di comprendere come l’arrivo di un esercito nemico a quei tempi e in quelle regioni potesse sul serio esser causa di paura disperata. Il Turco, dunque, incombeva. L’imperatore cominciò ad assumere le misure d’urgenza per difendere la capitale, mentre ordinava la celebrazione di continue sessioni di riti e di preghiere e disponeva che si riprendesse l’uso dei Türkenglockern, i rintocchi di tutte le campane di Vienna e dei dintorni ogni mattina. Per il resto egli lasciò comunque ai suoi collaboratori l’incarico di organizzare i particolari e si sforzò di mantenere inalterate le sue abitudini, comprese le partite di caccia nella riserva di Perchtoldsdorf dove si recò il 2 e il 6 luglio, quando ormai gli ottomani erano a poche miglia e già dall’alto delle mura si potevano scorgere le fiamme dei villaggi incendiati. La caccia era una delle grandi passioni dei principi e dei nobili del tempo: del resto, Leopoldo la condivideva con quello che al momento era il suo diretto avversario, Mehmed IV. Nelle sue prediche, padre Abraham a Sancta Clara non esitava a fustigare con violenza

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questa smodata passione, che spingeva spesso i nobili a lasciare che i cinghiali distruggessero i campi e le vigne senza curarsi di quei poveri contadini che essi avrebbero dovuto paternamente proteggere e che invece sottoponevano a sempre più dure e illecite corvées 80. La caccia era esercizio del potere, addestramento militare, privilegio, svago, divertimento: non a caso i trattatisti l’avvicinavano, fin dal medioevo, alla guerra e all’amore; ed erano appunto Marte, Venere e Diana le divinità più sovente effigiate nelle sculture dei giardini principeschi e nobiliari del Grand Siècle. Non è nemmeno detto che andare a caccia, per Leopoldo, fosse in quel frangente un modo per ‘distrarsi’, per sfuggire alla realtà e alle sue preoccupazioni. La caccia a cavallo richiede tensione, attenzione, concentrazione: a modo suo, è un’attività ascetica. La fiera da cacciare – orso, cervo, cinghiale che sia – fruisce contemporaneamente di due statuti simbolici: è amico, fratello, compagno d’armi, iniziatore; ed è nemico mortale, figura diaboli. L’imperatore poteva ben immaginare il duello tra lui e il suo cinghiale da cacciare come immagine del prossimo scontro col Turco. Ma chi dei due era l’inseguitore, chi la preda? Il 7 luglio giunsero attraverso varie staffette notizie nonostante tutto inaspettate, alla luce delle quali sembrò che la situazione precipitasse. Gli scorridori tartari erano stati avvistati molto vicino: da più punti a sud della città era possibile scorgere le colonne di fumo dei villaggi incendiati. Intanto, l’esercito ottomano – che tutti stimavano affetto da una pachidermica lentezza – era giunto a Moson, «dove il fiume Leitha, tradizionale confine tra Ungheria ed Austria, si getta nel Danubio»81. In una ridda affannosa di notizie anche contrastanti recate da un corriere dopo l’altro – a confondere le acque ci si mise anche il colonnello Leopoldo Filippo Montecuccoli, figlio del grande Raimondo82 e desideroso di acquistar fama –, Leopoldo decise che non fosse il caso che la famiglia imperiale e lo Hofkriegsrat si lasciassero imbottigliare per chissà quanto tempo nella città assediata: per adempiere alle mansioni che il loro ruolo imponeva, essi dovevano restare liberi83. In quel momento, evidentemente, si sentiva più cinghiale che cacciatore. Appunto il 7 di luglio, mercoledì, la situazione parve precipitare d’un tratto: si diffuse la notizia che i turchi avevano superato inaspettatamente ponti e guadi che ancor li separavano dalla capitale e si venne a sapere di un disgraziato scontro, in località Petronell non ben identificata, in cui la cavalleria e i dragoni della retroguardia

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del duca di Lorena si erano fatti maldestramente sorprendere dagli scorridori tartari e si erano dati indecorosamente alla fuga, inseguiti dal loro comandante generale che li colpiva col calcio della pistola gridando: «Signori, voi disonorate le armi dell’impero!»84. Ed è probabile che i suoi indignati e accorati richiami fossero espressi in un linguaggio meno forbito. Ludovico Guglielmo di Baden85, che si trovava sul posto quasi per caso con un reparto di cavalleria, mantenne compatti i suoi ma non poté fare di più. In quello scontro venne malamente ferito anche il giovane comandante di un reggimento di dragoni, Luigi-Giulio di Savoia-Soissons, che si spense qualche giorno più tardi: suo fratello Eugenio ne avrebbe da lì a poco onorevolmente vendicato la memoria. Furono il generale Caprara e il colonnello Montecuccoli a recare a Vienna l’annunzio della rotta militare – che, per modesta che fosse, causò un vero pànico – e a far decidere l’imperatore che era proprio giunto il momento di lasciare la capitale, se non voleva restarvi imbottigliato. La comunicazione ufficiale da parte di Carlo di Lorena, che descriveva l’urgenza della situazione, fu recata al sovrano dal generale italiano Rodolfo Rabatta. Anche secondo il dragomanno Tarsia, che ci riferisce degli avvenimenti nel campo cristiano secondo la prospettiva delle notizie che giungevano in quello ottomano, il competente parere del duca di Lorena fu decisivo nell’indurre il sovrano ad assumere l’ingrata decisione. Il Duca di Lorena partito dal suo campo che teneva appresso Rabba, trincerato come già dissi, si portò frettolosamente a Vienna (per quanto rifferirono) ad avisar Sua Maestà Cesarea della formidabil callata [sic] de’ Turchi contra l’imperial città, acciò inaspetatamente [sic] con qualche sorpresa la Maestà Sua Imperiale non restasse in quella bloccata. Onde, in virtù del narrato dal medesimo duca, fu deliberata, e due giorni avanti la comparsa del primo vesir nelle campagne di Vienna seguita precipitosamente la partenza dell’imperator, imperatrice e nobiltà di corte tutta, con la prescrittione medesimamente a tutti l’habitanti, così forastieri come cittadini di quella non havendo provvigione per sei mesi di vito [sic] d’absentarsi dalla città e portarsi altrove, e che quelli del borgo pure non possan essere ammessi nell’accenata città se non con l’istesse clausole86.

Per tutta Vienna si sparse allora il grido fatidico: «Il Turco è alle porte!», foriero di incontenibile disordine. L’imperatore con tutta la famiglia e la corte, insieme con il nunzio Buonvisi e le principali autorità, lasciò la capitale scortato dal Caprara87 – e, se non proprio in

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fretta e furia come molti hanno scritto, diciamo quanto meno con una certa premura – per insediarsi a Linz, 217 chilometri circa a monte sul Danubio. Si erano messe febbrilmente insieme le cose più preziose del tesoro, degli archivi di corte e della celebre biblioteca cesarea che non erano state ancora spedite, quando nel tardo pomeriggio si diffuse la notizia della partenza, accompagnata da molto malumore e perfino da qualche protesta da parte della gente della città. Il corteggio imperiale era «ristretto», ma costituito tuttavia da 69 carrozze, 32 carri pesanti e 391 cavalli per il sovrano, 33 carrozze, 22 carri pesanti e 203 leggeri per i profughi di rango principesco. La scorta militare contava 200 cavalieri. Dal carattere sommario e improvvisato di quella partenza, sembra di poter capire che un po’ per forse eccessivo ottimismo, un po’ per comprensibile ritrosia, l’imperatore avesse fino all’ultimo procrastinato i preparativi in quanto convinto che non ci sarebbe stato bisogno di lasciare la capitale o deciso a non farlo a nessun costo e per nessun motivo. L’esperienza di un ventennio prima, quando tutto si era dissolto in una bolla di sapone dando ragione all’ottimismo del Portia88, lo aveva forse sostenuto. Fu travolto all’ultimo istante da un moto di terrore o cedette a insistenze che gli apparvero non solo energiche, ma anche molto motivate? Il viaggio conobbe qualche momento drammatico: a Krems poco mancò che gli scorridori tartari, i quali avevano occupato l’opposta riva del fiume, non assalissero il lungo convoglio: erano coscienti del favoloso bottino che sarebbe spettato loro in caso di successo? Comunque, fu grazie alla tempestività del residente francese Sébeville, che fece sbarrare il ponte dai suoi domestici, se fu evitata quanto meno una scaramuccia che avrebbe potuto avere delle conseguenze89. Il viaggio proseguì poi per la via di Melk alla volta di Linz, da dove fu più tardi raggiunta in battello Passau, un’ottantina di chilometri ancora più ad ovest. Era stata una decisione magari affrettata, ma ragionevole: tuttavia non facile a prendersi, non troppo abilmente tradotta in pratica – per quanto non fosse stata così disordinata come qualcuno sostenne – e soprattutto non certo popolare: l’imperatore stesso, appena arrivato il 18 a Passau, aveva confidato in una missiva diretta al suo consigliere spirituale Marco d’Aviano di essersi sentito a disagio dinanzi a un passo del genere90, compiuto non senza confusione e atti di negligenza. Le fanterie intanto si erano arroccate entro le mura viennesi, mentre la cavalleria insieme con il duca di Lorena restava intorno a Presburgo.

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Contemporaneamente all’imperatore o subito dopo – ma in realtà l’esodo era già cominciato da prima, alla spicciolata – se ne andarono parecchie migliaia di persone, in gran parte aristocratici o esponenti dei ceti più prosperi, dando l’impressione che si fosse al si-salvi-chi-può e che in città restassero, militari a parte, solo quelli che non avevano alternativa; le case lasciate libere furono del resto subito occupate in gran parte da un ben superiore numero di abitanti dei sobborghi, che si riversarono all’interno della cinta muraria cittadina cercando riparo. Non si poterono evitare scene di saccheggio e di vandalismo, cui si aggiunsero le confische ufficiali da parte delle autorità preposte alla difesa. Parecchi tra coloro che se l’erano data a gambe erano difatti personaggi che avrebbero dovuto restare e dar l’esempio91. Molti furono comunque quelli che, pur potendo fare altrimenti, rimasero al loro posto in città: e – qualunque ne fossero le ragioni pratiche – la loro presenza suonò sostanzialmente come un tacito ma severo rimprovero rivolto al sovrano. Leopoldo soffrì molto il peso sia della decisione di abbandonare la capitale, sia dell’obbligo di affrontare le voci di rimprovero che – con accorato affetto o con malcelata o esplicita malevolenza – lo raggiunsero. La corte non poté evitare di diffondere al riguardo varie giustificazioni, nessuna ufficiale (formalmente, si trattava di una misura prudenziale necessaria, per non imprigionare il governo imperiale impedendogli di agire: e quindi nel primario interesse di Vienna stessa) e nessuna convinta né convincente. Si disse che l’imperatore aveva voluto portare al sicuro la consorte Eleonora, prossima a un parto. Ma l’ipotesi – ancora corrente, e che nemmeno da parte nostra ci siamo sentiti di scartare del tutto – che il troppo vicino nemico avesse determinato nel sovrano una reazione di paura appare scarsamente credibile. Pur non potendo del tutto eludere questo aspetto della faccenda, si deve osservare che in questo modo Leopoldo si sottraeva obiettivamente al teatro delle operazioni in modo da render più facile l’insediarsi a capo supremo dell’armata, per il periodo della loro durata, del re di Polonia. E l’occasione fu colta al balzo: con precisa tempestività, il Talenti scriveva al cardinal Barberini che ormai più nulla s’interponeva al dovuto riconoscimento, e che se il suo re avesse ottenuto «il comando anche de’ Cesarei come si è convenuto, Vostra Eminenza mi creda che farà miracoli e che s’immortalerà»92. Al di là di ciò, non vanno sottovalutate neppure altre buone ragioni politiche e dinastiche tenute in conto dall’imperatore per assu-

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mere la dolorosa e imbarazzante decisione: a parte la sua persona e la sua terza moglie incinta, c’erano i due figli, il malaticcio seienne Leopoldo e il cinquenne Giuseppe. L’eventuale sparizione degli ultimi garanti della sopravvivenza degli Asburgo d’Austria, mentre anche il ramo spagnolo della dinastia era in crisi, avrebbe potuto avere serie conseguenze sull’equilibrio politico europeo. Certo, tutto avrebbe potuto essere stato organizzato meglio: con più calma, in maggior ordine, senza lasciar la spiacevole se non disperante impressione in chi vi assisteva che si trattasse non già di un ragionevole ripiegamento, bensì di una fuga. Ma non si deve sottovalutare al riguardo l’influenza dei membri del «partito spagnolo», che fino all’ultimo istante avevano fatto di tutto per minimizzare il pericolo dell’avanzata ottomana giungendo quasi a negar l’evidenza; e per questo se l’erano presa non poco con il nunzio Buonvisi, che non perdeva invece occasione per manifestare la sua preoccupazione. D’altronde, egli si era opposto a quella partenza all’ultimo istante, che sembrava troppo simile a una fuga: si rassegnò ad accettarla, pur restando contrario, in quanto non volle abbandonare l’imperatore in un momento così drammatico. Di tutto ciò egli avrebbe scritto al cardinal Cybo qualche settimana dopo, nell’agosto, senza dissimulare il suo risentimento: Vorrei con mio discredito non essere stato profeta delle sciagure che sovrastano, ma Dio ha voluto per mio maggior rammarico che le prevedessi senza poterci rimediare, perché il più forte partito atterrito dalle minacce di un ministro, applicava più al Reno che al Danubio et il Presidente di guerra faceva credere a Sua Maestà di aver in mano la pace con i ribelli et estenuava talmente le forze del Turco che il buon Imperatore si lusingava di poter fare la guerra offensiva e non credeva a me quando chiaramente gli rappresentavo che né meno potrebbe farla difensiva mentre teneva la sua gente nell’imperio e si sarebbe trovato ingannato nel supposto che li facevano di dover trovare 80 mila uomini. E si è poi veduta la fraude e l’inerzia di quei colonnelli che sono stati promossi per favore, e però persuadevo che si mettessero sollecitamente in sicuro le persone cesaree e la roba più preziosa che si trovava in Vienna, ma dicevano gl’infatuati del destino ch’io ero troppo precipitoso et essi che erano più arditi sono fuggiti più precipitosamente degli altri et hanno due volte messe in manifesto pericolo le persone Cesaree e fatto rimanere in Vienna le sustanze di tutti questi paesi93.

La paura ormai dominava.

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...quel’habitanti, oltre l’aviso portatogli dal duca di Lorena, anco da diversi altri inditii lugubri havevan subdorato che quel fulmine d’Averno doveva scoccar sopra la loro patria, e questi furono con gran loro spavento osservava l’aria tutta coperta d’un densissimo fumo che rassembrava ad un terribile globo di fiame (sic), causatto dalli gran focchi con cui venivan inceneriti tanti villaggi, terre, pallaggii et ogn’altra cosa ch’incontravan li Turchi, non men che dalla gente favorita dalla fortuna pottè salvarsi con la fugga (sic) dalla stragge (sic) praticata con li loro compagni ch’inavedutamente coltivando la campagna furon trucidati (havendo io trovato il giorno seguente estesi sopra la terra più di cento cadaveri)...94.

Si calcola che circa 30.000 viennesi, cioè quasi tutti quelli che ne avevano la possibilità, evacuassero la città; nella quale sarebbero restate tuttavia circa 70.000-80.000 persone, perché circa in 20.000 defluirono dal contado entro il perimetro murario urbano quando i difensori incendiarono e rasero al suolo i sobborghi. Era stata fatta incetta di provviste d’ogni genere per l’assedio. Nelle chiese, i predicatori levavano alta la loro voce com’era accaduto due secoli e qualche decennio prima, quando il francescano Giovanni da Capestrano aveva chiamato a raccolta i cristiani per la crociata del 1456. Ora, l’eroe della parola del momento era il padre agostiniano Abraham a Sancta Clara, un autentico «divo della penitenza» i sermoni del quale scuotevano le corti dei principi non meno che le piazze. Le sue prediche ardenti, che incitavano a pentirsi dei peccati e a far della riscoperta conversio ad Christum la prima e vera arma contro il barbaro e pagano invasore, furono raccolte più tardi sotto il titolo Auff, auff, ihr, Christen!95. A parte i poveracci costretti a rifugiarsi in città e a farcisi intrappolare dal nemico perché non avevano dove andare, le grandi porte della cinta alla vigilia dell’assedio furono varcate, dall’esterno all’interno, anche da un certo numero di personaggi spesso pittoreschi. Duole non poterne dar conto analitico: la maggior parte delle loro storie ci sfugge, è andata dimenticata. In qualche caso fortunato, possiamo rinfrescarne il ricordo. Come in quello del nobile friulano Odorico Frangipane, che alla notizia che il Turco si andava appressando partì da Tarcento il 29 giugno, giorno di San Pietro, e giunse a Vienna l’11 luglio, appena in tempo per poter mettere la spada al servizio del suo imperatore. Solo che gli andò male. La sua famiglia era nota per pesanti trascorsi antiasburgici: ed egli dovette farsi l’intero assedio restando nascosto agli stessi assediati per evitare la prigione96. A par-

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te il suo caso, comunque, la nobiltà friulana fu largamente presente nell’episodio viennese sia nell’armata imperiale (come i membri delle nobili famiglie Portia, Rabatta – peraltro, questa, di origine toscana – Strassoldo, della Torre; e ancora Antonio Varmo di Pers, Bernardino Venier, Ottavio Fenicio, Carlo Maria de Pace), sia all’interno della città, combattendo insieme con i difensori (come Matteo di Collalto)97. Qui, la «grande» storia dell’assedio s’intreccia con una quantità di tracce microstoriche, alcune delle quali sono veri e propri piccoli romanzi. I casi italiani sono al riguardo molteplici. Si pensi solo a quello del nobile gentiluomo cremasco Gianbattista Benvenuti, costretto a cambiar aria – nonostante la protezione del cardinal Ottoboni – in seguito a un duello prima, all’uccisione di un prete (perpetrata da un suo famiglio, ma del quale egli era sospetto mandante) poi. Il suo autorevole protettore gli consigliò a quel punto di sparire: ed egli finì a Vienna, dove in seguito a una lettera del generale Rabatta avrebbe combattuto nel reparto del colonnello Heisler, il medesimo del principe Eugenio. Tra gli amici che egli ricorda nelle sue lettere figurano molti volontari italiani: il conte Antonio Premoli, i marchesi Geronimo Trench da Cremona, Guerrieri di Mantova, Cusani da Milano che dopo la vittoria si sarebbe appropriato di oggetti di gran valore saccheggiati dal corredo del gran visir. Anche il cardinal Ottoboni avrebbe ricevuto dal Benvenuti un attento resoconto delle cose viennesi e lo avrebbe epistolarmente ringraziato98. L’Europa intera, intanto, si era allarmata sul serio: o, quanto meno, aveva finto di allarmarsi. Sin dalla primavera il lavoro diplomatico delle potenze della Cristianità era divenuto parossistico. Il fatto che la tregua ventennale stipulata nel 1664 tra gli imperi asburgico e ottomano non fosse ancora formalmente spirata aveva consentito fino ad allora alle cancellerie della Cristianità di prender tempo e aspettare gli eventi; e l’ottimismo forzato del «partito spagnolo» aveva aggravato le cose. Ma ormai sulle intenzioni del Turco non potevano più esserci dubbi ragionevoli in alcun paese d’Europa. La cancelleria imperiale, per la verità un po’ tardivamente, lavorava ora da parte sua con alacrità per diffondere urgenti e accorate richieste di aiuto indirizzate ai governi dell’Europa cristiana: nei messaggi come nella pubblicistica imperiali, l’Hungarorum perfidia figurava, a torto o a ragione, tra le prime spiegazioni del fatto che il pericolo si fosse manifestato così drammaticamente, ma anche così tardi. L’incerto momento coinvolgeva anche padre Marco che si era dato molto da fare, ad esempio, per combinare il riavvicinamento

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tra l’imperatore e l’elettore di Baviera e che aveva seguito trepidante le notizie riguardanti l’avanzata degli infedeli. Avrebbe voluto volare a Vienna: ma era come se, anche a livello delle alte gerarchie della famiglia cappuccina e nei palazzi pontifici, qualcuno gli remasse contro, perché – come egli stesso scriveva il 25 maggio e poi ancora il 22 giugno del 1683 all’ambasciatore imperiale a Venezia, conte Francesco Della Torre – non riusciva a ricevere le autorizzazioni che gli erano necessarie per intraprendere in spirito di santa obbedienza il viaggio alla volta della città in pericolo99. Il conte palatino Filippo Guglielmo di Neuburg, suo devoto, gli scriveva confortandolo: «Io non so perché tanto tardi sua maestà cesarea a chiamarla, perché so che l’ama teneramente e la brama come merita: ma sa vostra paternità che in cotesta corte le cose vanno con lentezza grande, et veramente et la corte et l’essercito haverebbero bisogno di stimoli di vostra patternità»100; e ancora un mese più tardi, ad assedio ormai iniziato: «Dice benissimo vostra paternità... che Dio perdoni a quelli chi hanno impedito il felice principio delle arme cesaree... O se vostra patternità avesse ale per volare, come dice, a quele [sic] corone che governano la christianità! Ma almeno voli da noi chi siamo più esposti all [sic] pericolo»101. Che nell’entourage dell’imperatore qualcuno gradisse poco l’arrivo del frate taumaturgo che si sapeva tanto ascoltato dal sovrano, e avesse trovato la maniera di ritardarne la partenza? Ad ogni modo, come padre Marco rammentava ancora più tardi in una lettera scritta al sovrano il 3 agosto da Padova, gli era «necessaria l’ubbidienza del mio padre generale, ch’hora si trova nelli ultimi confini del regnio di Napoli»102. Quanto al re di Francia103, egli non si era nemmeno sognato di alleviare la sua pressione sul fronte renano per il fatto che parte del Reich fosse coinvolta nella crociata: anzi la sua diplomazia, associata a forti sborsi di denaro, aveva fatto di tutto per coinvolgere i principati del Reno e la stessa Polonia nella sua sfera d’influenza: il che immediatamente aveva creato ulteriore motivo d’attrito non solo con Vienna, ma anche con Mosca. Semmai, Luigi poteva preoccuparsi che si tornasse a insistere, o che si insistesse con particolare forza – in realtà non si era mai smesso di farlo – sul tasto dei suoi buoni rapporti con il governo sultaniale: cosa che in quella congiuntura sarebbe stata per lui particolarmente inopportuna. Ma proprio per questo, mentre manteneva con la Porta l’ormai secolare politica di tacita intesa e il rapporto del tutto privilegiato che gli veniva assicurato dalle Capitolazioni per quanto riguardava i Luoghi Santi, d’altro canto

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alimentava il mito dei gesta Dei per Francos, che faceva dei francesi i principali difensori della Cristianità contro l’Islam. D’altronde, la preoccupazione di poter essere tacciato ulteriormente di filoturchismo lo indusse ad alleggerire la sua pressione sull’impero per la durata dell’assedio, sospendendo l’offensiva contro il Lussemburgo. Vale al riguardo la pena di ascoltare il penetrante per quanto, come al solito, non proprio equo giudizio del Voltaire, tanto più rivelatore appunto per la disinvoltura delle sue tendenziose opinioni: Luigi XIV sperò, con molto fondamento, che la Germania, devastata dai turchi, sotto un capo la cui fuga aumentava il comune terrore, sarebbe stata costretta a ricorrere alla protezione della Francia. Teneva perciò un esercito sulle frontiere dell’Impero, pronto a difenderlo contro quegli stessi turchi che le sue precedenti pratiche vi avevano condotto; così sarebbe potuto divenire il protettore dell’Impero e avrebbe potuto fare di suo figlio il re dei Romani. Il capolavoro della sua politica fu di essere ancora generoso nel curare tanti interessi. Tolse il blocco di Lussemburgo quando i turchi furono vicino a Vienna: ‘Io non desidero che il bene della Cristianità’ (fece dire agli spagnoli); ‘non voglio attaccare un principe cristiano quando i turchi sono nell’impero, né impedire alla Spagna di soccorrere l’imperatore’. Egli curò così la sua politica e la sua gloria. Ma, contro tutte le previsioni, Vienna fu liberata104.

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«Auff, auff, ihr Christen!»

Nella Città dell’Aureo Pomo Ironia della sorte, si dice. Anche la storia ha le sue ironie, talora crudeli. Perfino i più tenaci avversari delle varie tesi secondo le quali essa avrebbe un «senso» o una «ragione», dovrebbero comunque riconoscerle un suo stile: e perfino un certo humour. Nero, magari. Parliamo di presagi. Leopoldo Ignazio Francesco Giuseppe Feliciano era il quarto dei figli maschi e quinto comunque dei figli (dei quali solo tre raggiunsero l’età adulta) dell’imperatore Ferdinando III. Sua madre era la prima consorte di suo padre, di cui era anche cugina: si trattava dell’Infanta di Spagna Maria Anna figlia di Filippo III e di Margherita d’Austria, a sua volta sorella di Ferdinando III (quando si dice far le cose in famiglia...). Leopoldo era nato per parto cesareo il 9 giugno del 16401. La sua venuta al mondo era stata accompagnata da una forte emorragia della madre: e ciò, nelle credenze allora diffuse, era presagio del fatto che durante il suo regno – se il fanciullo, quartogenito, fosse pervenuto al trono: eventualità ritenuta fortunatamente improbabile... – molto sangue sarebbe stato versato. Ventotto anni più tardi quel bambino, divenuto intanto Leopoldo I imperatore2, celebrò nel luglio del 1668 il genetliaco della consorte, la diciottenne imperatrice Margherita Teresa, sposata due anni prima e della quale si trovava ad essere anche zio materno3. In tale circostanza, nel teatro di legno costruito accanto alla Hofburg si recitò una «commedia in musica» ispirata al giudizio di Paride, Il Pomo d’Oro4 del compositore aretino Antonio Cesti. Ebbene, nelle leggende turche Vienna aveva ereditato dopo il 1453 il ruolo che Costantinopoli aveva tenuto per alcuni secoli nelle tradizioni folkloriche uralo-altaiche passate a tutto l’Islam, e che era successivamente spettato alle altre capitali da conquistare: a Roma o a Mosca o a Ispahan.

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Originariamente la «Mela Rossa», Kizil Alma5, era, secondo la più comune versione della leggenda che la riguarda, il globo dorato «sorretto dalla mano della gigantesca statua dell’imperatore Giustiniano posta di fronte a Hagia Sofia. Nel 1453, quando la statua fu demolita, la ‘Mela Rossa’ si spostò idealmente verso occidente e venne a simboleggiare il nuovo obiettivo dell’impero ottomano, la città di Roma. ‘A Roma! A Roma!’ non si stancava mai di ripetere Solimano il Magnifico...»6. Secondo altri, la «Mela Rossa» era piuttosto una grande cupola dorata che sovrastava una città la conquista della quale avrebbe coinciso con la totale e definitiva vittoria dell’Islam sul mondo7. Quando un sultano veniva incoronato, uno dei suoi primi gesti era recarsi nelle caserme dei suoi diletti giannizzeri e salutarli con il motto: «Arrivederci nella Mela Rossa»; quando salutava le armate in partenza per la guerra, il suo motto era «Ci rivedremo alla Mela Rossa!»8. Ma nel Seicento, più che Roma, era ormai Vienna la «Città dell’Aureo Pomo», o «del Rosso Pomo» (l’oro e il color rosso si equivalgono in una medesima simbolica di gloria, di vita, di opulenza), preda fatale ed ambita9. Dopo la loro vittoria di Mohács, dalla quale gli ottomani sembravano non aver tratto partito, la scomparsa del re di Boemia e d’Ungheria aveva creato, in seguito al meccanismo ereditario e alle scelte delle aristocrazie locali, una nuova situazione territoriale e istituzionale10. La Transilvania era tuttavia sfuggita al controllo dell’arciduca d’Austria11 e nuovo re di Boemia e d’Ungheria Ferdinando, fratello dell’imperatore Carlo V, poiché il principe transilvano János Zápolya aveva contestato la sua dipendenza. Approfittando delle iniziali difficoltà di Ferdinando12 e di quelle ancor più gravi che in quel momento stava affrontando suo fratello Carlo V a causa degli sviluppi della Riforma in Germania e della Lega Santa di Cognac stipulata contro di lui da papa Clemente VII con Francesco I re di Francia, Firenze, Milano e Genova nel maggio del 1526, il sultano Solimano lanciò nella primavera del 1529 una folgorante campagna contro i territori asburgici balcano-danubiani: Belgrado cadde nelle sue mani a metà luglio e, l’11 settembre successivo, le armate ottomane entrarono in Buda. La strada per Vienna era aperta, nonostante la resistenza delle piazzeforti di Presburgo e di Wiener-Neustadt. Quanto stava accadendo a nord-est dell’Adriatico scosse, come sempre in questi casi, la Cristianità: e potentemente influì sia sul trattato di Barcellona tra l’imperatore e il papa, il 29 giugno (quan-

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do Belgrado stava per essere conquistata), sia sulla «pace delle due dame» a Cambrai, il 5 agosto successivo, che poneva fine alla guerra della lega di Cognac13. Una greve ombra pesa sulle vicende succedutesi nella primavera-estate del ’29: la guerra contro l’imperatore andava male per la lega tra Francia, Venezia, il ducato di Milano e Firenze tornata repubblica dal ’27, per cui forti sono i sospetti che la diplomazia di Francesco I non sia stata estranea alla decisione di Solimano di attaccare la compagine asburgica esteuropea14. Il re di Francia, in palese difficoltà nei confronti dell’avversario15, avrebbe tentato di creare un diversivo in grado di attirare l’attenzione di tutta l’Europa e di obbligare moralmente i contendenti a stipulare fra loro una pace che consentisse di fronteggiare il comune nemico, l’infedele. In effetti l’imperatore, colto dalla notizia della mobilitazione delle truppe ottomane mentre si trovava ancora in piena guerra e poi obbligato ad affrontarne i postumi, non fu in grado né di prestare aiuto al fratello né di sostenere quel ruolo di defensor Christianitatis contro gli infedeli che, almeno a livello formale, i titolari della più sacra corona d’Occidente rivendicavano sin dal XII secolo. Sotto Vienna, in quell’autunno del 152916, l’armata assediante era forte a quel che si disse di circa 120.000 combattenti17: ai quali il conte Nikolaus Salm, cui Ferdinando aveva affidato la difesa della città popolata da poco più di 30.000 abitanti (il che significa che c’erano quattro assedianti per ogni assediato), poteva opporre solo una guarnigione di 18.000 soldati, soprattutto mercenari spagnoli e boemi. Le mura cittadine, provate dagli eventi del secolo precedente, non erano state rimesse in ordine: e le tecniche d’assedio, nel frattempo, erano molto mutate, anche a causa dei progressi compiuti dalle armi da fuoco18. Il momento peggiore fu quello successivo allo scoppio di una mina che causò una breccia di un’ottantina di metri presso la Kärntnertor19: i difensori respinsero a malapena l’assalto degli infedeli che si erano precipitati attraverso il rovinoso varco aperto nella cinta muraria. Se Solimano avesse ordinato un nuovo attacco, la città non avrebbe resistito: ma le truppe ottomane erano ormai a loro volta provate, e il sultano doveva essere preoccupato per le notizie che provenivano da occidente, dove ormai l’imperatore si era riconciliato col papa e aveva stipulato una pace, per infida che fosse, col re di Francia. L’autunno era ormai prossimo: e non era certo il caso di restar imbottigliati dal maltempo nella penisola balcanica20. Vienna era salva, ma in ginocchio. Per impedire al nemico di acquartierarsi comodamente il conte Salm aveva fatto incendiare nei

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sobborghi circa ottocento edifici; all’interno della cinta muraria, altri trecento erano andati distrutti; all’intorno, le vigne erano tutte rovinate e, con esse, la prima risorsa economica e commerciale dei viennesi. La rinascita della città fu lenta, anche perché l’insicurezza era permanente. La nuova fase dell’alleanza franco-ottomana, quella che aveva comportato l’offensiva del principe-corsaro Khair ed-Din nel Mediterraneo, era stata caratterizzata da un rinnovato attacco turco nel 1532; intanto, mentre lo Zápolya restava padrone della Transilvania, gli ottomani si erano stabilmente insediati nell’Ungheria centrale e meridionale, che avevano organizzato in quattro pas¸alik; all’atto del nuovo armistizio, siglato nel 1546 e quindi rinnovato in seguito ogni anno con la corresponsione di un tributo sotto forma di «dono onorevole» dell’arciduca-re al sultano, i domini effettivi di Ferdinando non andavano oltre la Croazia nordoccidentale e la cosiddetta alta Ungheria, grosso modo l’attuale Slovacchia. Questa linea di confine restò immutata per circa un secolo e mezzo, determinando il paradosso che vedeva la capitale della compagine territoriale ereditaria asburgica, divenuta stabilmente dopo il 1556 – a parte la parentesi dovuta a Rodolfo II, l’imperatore-alchimista di Praga, il protettore dell’Arcimboldo21 – anche la capitale dell’impero, ergersi come centro dell’antemurale europeo opposto alla minaccia ottomana, ma al contempo anche continuamente soggetta a quell’incombente pericolo: una capitale di frontiera, contro la logica degli stati assoluti moderni che tendevano a stabilire al centro del loro dominio la loro città più importante sotto il profilo politico, strategico, amministrativo e culturale. Inoltre con la Riforma si era andata allargando in tutto il dominio asburgico, e in particolare proprio a Vienna, una nuova lacerazione. Fin dagli anni Venti numerose comunità protestanti si erano diffuse in tutta l’Austria; la famiglia d’Asburgo era rimasta fedele alla Chiesa di Roma, nonostante le voci che al riguardo erano corse a proposito di Carlo V22; l’imperatore Massimiliano II, che aveva regnato tra 1564 e 1576, aveva a sua volta custodito in cuor suo una forte simpatia per la fede riformata, per quanto non avesse mai osato rompere ufficialmente con la Curia romana23. Sta di fatto che a quanto pare nel terzo quarto del XVI secolo il 20% (cioè un quinto) delle genti austriache era passato alla Riforma: e a Vienna questa proporzione era forse ancor più ampia. Già a metà del Cinquecento, 10 delle 13 parrocchie che costituivano la diocesi viennese si trovavano prive di clero in grado di servirle; degli 80 conventi francescani e dei 96

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domenicani che fiorivano prima della Riforma, non ne sopravviveva ormai più di un piccolo gruppo. I protestanti si erano diffusi anche a causa dei rapporti sempre tesi fra la dinastia asburgica e gli Stände nei quali la società civile era inquadrata. A Vienna, difesa del diritto da parte dei cittadini di aderire alla Riforma e tutela delle autonomie comunitarie andarono di pari passo lungo i decenni centrali del Cinquecento: e si può dire che se i riformati non presero ancora più piede nei domini asburgici ciò dipese principalmente dall’atteggiamento della dinastia, che rimase sempre formalmente e rigorosamente fedele alla Curia romana nonostante le personali incertezze al riguardo espresse o comunque custodite da qualche sovrano. La pace di Augusta del 1555, stabilendo il principio del cuius regio, eius religio, si affiancò ai lavori del concilio di Trento per stabilire i presupposti di una forte riconquista cattolica del paese austriaco, anche a costo di spostamenti massicci di popolazioni da un’area all’altra dell’Europa centrale. Il 31 maggio del 1551 un gruppo di 13 gesuiti era arrivato a Vienna. Pochi giorni più tardi furono raggiunti dal responsabile della Compagnia per i paesi germanici, padre Pietro Canisio, che pose le basi per la riscossa cattolica creando un collegio e scrivendo su richiesta dell’arciduca un catechismo. Tuttavia, sotto il regno del «filo-luterano» Massimiliano II, una certa libertà religiosa fu accordata quanto meno ai nobili e ai loro dipendenti; a Vienna, i riformati ottennero il permesso di celebrare pubblicamente il loro culto e acquisirono tanta importanza che, nel 1576, uno di loro occupò lo scranno di borgomastro. La svolta si presentò dopo la morte di Massimiliano II: suo figlio Rodolfo II non aveva alcuna simpatia per i riformati e, trasferendo la sua residenza a Praga, affidò Vienna al più anziano dei suoi fratelli, l’arciduca Ernesto, cattolico fervente che fin dai primi tempi del suo governo adottò nei confronti dei protestanti una serie di misure restrittive e repressive culminate, nel 1590, con un vero e proprio bando. Per quanto non tutte le decisioni del governo potessero tradursi in pratica a causa delle obiettive difficoltà di farle rispettare, esse ebbero comunque una pesante conseguenza a Vienna più che non nell’alta e nella bassa Austria, dove una certa parte della nobiltà rimase invece fedele alla Riforma. D’altronde, la causa protestante trasse un qualche vantaggio, tra 1607 e 1612, dalla rivalità tra Rodolfo II e suo fratello Mattia, dal 1608 re d’Ungheria e dal 1611 di Boemia prima di divenire, a sua volta, imperatore nel 1612.

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Privo di eredi diretti, Mattia scelse come successore il capo del ramo stiriano della famiglia, suo cugino Ferdinando, che si era formato sotto la direzione della Compagnia di Gesù e la cui posizione intransigente non consentiva ai riformati di nutrire alcuna speranza riguardo a una qualche possibilità di compromesso. Le immediate conseguenze dell’avvento di Ferdinando II alla guida del dominium Austriae furono la rivolta della nobiltà riformata boema inaugurata, il 23 maggio del 1618, dall’episodio restato celebre come «defenetrazione di Praga» – quando alcune personalità cattoliche del paese furono scaraventate dalle finestre del palazzo reale di Hracˇany24 –, cui tennero dietro la secessione di Boemia e Moravia e la sollevazione della stessa nobiltà riformata austriaca. Nel giugno del 1619 una delegazione dei nobili della bassa Austria arrivò addirittura a braccare il sovrano nel suo stesso palazzo viennese: e si dovette al coraggio e alla decisione del conte Dampierre, comandante della guardia del corpo, se egli ebbe salva la vita. Solo con la vittoria della Montagna Bianca, presso Praga, l’8 novembre del 1620, gli imperiali schiacciarono l’armata degli insorti. La situazione boemo-morava rimaneva comunque delicata: gli statuti in parte imposti, in parte concordati del 1627-28 ridussero di parecchio i poteri delle diete locali, ma non al punto da poter loro imporre un’esperienza assolutistica del tipo di quella che il cardinal Richelieu stava organizzando in Francia, e che del resto era comunque estranea fin dai suoi presupposti alle tradizioni e alle condizioni istituzionali sia delle terre del dominium Austriae, sia di quelle le corone dei quali gli erano collegate, sia di quelle del Sacro Romano Impero25. L’episodio militare della Montagna Bianca segnò comunque la fine della fase iniziale, ma anche l’avvio di una successiva, e ben più estesa e crudele, del conflitto che sarebbe rimasto tristemente famoso in Europa come la guerra dei Trent’Anni. A Vienna, la definitiva riconquista cattolica fu guidata dagli Ordini religiosi e dal cardinale Melchior Khlesl26, il quale esercitò durante il regno di Mattia un’influenza profonda, che andava al di là delle pure questioni religiose e che faceva in pratica di lui una sorta di primo ministro. La sua opera di ricattolicizzazione si appoggiò non solo sui gesuiti, che peraltro mantennero una decisa preminenza27, bensì un po’ su tutti gli Ordini religiosi, i quali si spartirono lo spazio urbano in modo da gestirne ordinatamente e sistematicamente il controllo: i carmelitani dell’Ordine ospitaliero della Grazia a Leopoldstadt (l’attuale seconda circoscrizione cittadina); gli agostiniani che costruirono la chiesa di San Rocco; i francescani; i domenicani; i barnabiti.

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Tuttavia il Khlesl non approvava l’orientamento intransigente di Ferdinando II, l’avvento del quale al trono l’obbligò a tirarsi in disparte. Egli tornò alla guida della sua diocesi solo nel 1627, tre anni prima di abbandonare questo mondo. La guerra infierì ferocemente sulla capitale e su tutte le terre dell’impero, che nel loro complesso vi persero un terzo degli abitanti, falciati non solo direttamente dagli eventi bellici ma anche dalle carestie e dalle epidemie. Comunque le paci di Westfalia del 1648, che recuperando l’assetto di quella di Augusta di novantasette anni prima fecero trionfare il principio del Cuius regio, eius religio, costituirono il sigillo di un fatto ormai irreversibile, che avrebbe conferito a Vienna e all’Austria il loro caratteristico segno identitario cattolico, condiviso con la Baviera, mentre il protestantesimo avrebbe trovato nell’ambito dell’impero la sua area d’elezione nella Prussia governata dagli Hohenzollern. Ferdinando III, un uomo e un sovrano molto più interessante di quanto non abbiano ritenuto gli storici, che gli hanno riservato scarsa attenzione28, proseguì l’opera del padre: i luterani furono formalmente posti tra 1651 e 1652 dinanzi all’alternativa tra la conversione e l’espulsione dall’Austria e dalla Boemia. Andò prendendo forma in quel torno di tempo – durante e quindi immediatamente dopo la guerra dei Trent’Anni – quel particolare insieme di forme e di atteggiamenti religioso-devozionali che si è convenuto di definire pietas Austriaca, caratterizzato principalmente da una profonda venerazione mariana, per molti versi analoga a quella spagnola. Ferdinando III consacrò i suoi stati alla Vergine, la nominò generalissima delle sue armate e nel fatale 1645 – l’anno di maggior pericolo per Vienna, minacciata insieme dalle truppe svedesi, dai transilvani e dai ribelli ungheresi – le dedicò una grande colonna votiva. L’imperatore era convinto sostenitore del culto dell’Immacolata Concezione, in ciò appoggiato dal vescovo Siegfried Breuner, e avrebbe desiderato vederne proclamato il dogma: un’istanza però che, a quel tempo, restò lontana dall’incontrare il favore della Santa Sede in quanto avrebbe contribuito ancora di più ad allontanare la Chiesa cattolica da quelle riformate, mentre in tutta Europa si stava al contrario profilando, con la stanchezza per un conflitto troppo lungo e crudele, la comune necessità di giungere a una pace come quella che si sarebbe stipulata tre anni dopo. Il colto ma goffo e sgraziato Leopoldo, destinato inizialmente alla carriera ecclesiastica, ascese giovanissimo al trono imperiale, nel 1658, in seguito alla morte di suo padre Ferdinando29. Egli proseguì

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la politica paterna improntata a un cattolicesimo intransigente, al quale gli eventi si incaricarono di conferire nuovi aspetti: come la cacciata degli ebrei dalla capitale, nel 167030, che a quel che pare si dovette tuttavia alle conseguenze di un evento fortuito. Un incendio sviluppatosi nella Hofburg appena terminati i lavori mediante i quali l’imperatore aveva unito il corpo centrale del palazzo all’Amalienburg, che era stato fatto edificare da Massimiliano II per ospitarvi il figlio Rodolfo, e nel quale, allorché questi aveva scelto di trasferirsi a Praga, si era insediato l’arciduca Ernesto31, fu attribuito da un’ingiustificata ma insistente e assordante voce popolare agli ebrei: per calmare in qualche modo i disordini che da essa erano stati originati, Leopoldo dispose che la comunità ebraica venisse bandita dalla città. La realtà di quei fatti è, come al solito, più complessa. Le «voci popolari» che attribuivano l’incendio alla perversità ebraica non erano, beninteso, per nulla né casuali, né spontanee; e tanto meno il prodotto di un antigiudaismo strisciante che peraltro esisteva da molti secoli, come dappertutto in Europa. Erano le corporazioni professionali viennesi, preoccupate per la concorrenza degli ebrei, che da tempo ne chiedevano l’espulsione; e che sobillavano in tal senso la plebaglia della capitale. Un episodio d’aborto, che colpì l’imperatrice, rese quelle voci ancora più petulanti32. Ma gli ebrei potevano essere molto utili ai regnanti: erano servizievoli, riservati, consci della debolezza del loro status e pertanto di poche pretese, avevano molti collegamenti sia in tutta Europa sia nell’impero ottomano, non condividevano i pregiudizi dei cristiani, in quanto creditori attendevano pazientemente di venir rimborsati ed esigevano interessi abbastanza bassi. «E così entra in scena un nuovo personaggio che impronta fortemente di sé tutta la storia tedesca dell’epoca: l’Ebreo di corte (Hofjude)»33. Uno dei più celebri fu Samuel Oppenheimer di Heidelberg, cui l’imperatore affidò nel 1673 l’incarico di provvedere ai rifornimenti delle sue truppe: cosa che egli avrebbe egregiamente fatto per un trentennio, servendo anche altri principi fra cui Eugenio di Savoia. Samuel sarebbe stato prezioso soprattutto durante l’assedio ottomano del 1683. Da vecchio, scrivendo a un funzionario di corte, si esprimeva così: Finché sono vissuto a Vienna ho rifornito quasi ogni anno i due eserciti che combattevano contro i francesi e i turchi di provviste, farina, avena, cavalli e denaro per le reclute, come pure di munizioni, polvere,

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piombo, cannoni, artiglieria, carri di scorta, cavalli e buoi, e non ci sono mai state perdite34.

Nel 1678, l’anno delle grandi feste per la nascita di Giuseppe, figlio primogenito dell’imperatore35, Vienna fu colpita da una ferocissima epidemia di peste che toccò l’acme durante il tremendo 1679 e infierì sino all’inizio del 1680 causando a quel che pare un forte calo demografico. La popolazione fu decimata e i superstiti che poterono permetterselo abbandonarono la città; ma alcuni, anche tra i maggiorenti – come il principe di Schwarzenberg – decisero di rimanere e di lottare: furono assunte energiche misure igieniche e l’epidemia in qualche misura arginata. Per celebrare la fine del contagio i viennesi eressero sul Graben, l’antico fossato cittadino divenuto arteria della città, la famosa Pestsäule: la colonna votiva in onore della Santa Trinità e della Vergine37. Una pesante incertezza grava sul numero dei decessi, tra Vienna e l’area circostante: le stime più ottimistiche si aggirano sui 10.000 morti, ma c’è chi non senza buone ragioni ne ha ipotizzati oltre 75.000. Nell’anno dell’assedio, Vienna era ormai estesa inglobando progressivamente i suoi sobborghi di Josefstadt, Liechtental, Schottenfeld e Rossau, sino a occupare l’intera area oggi delimitata dal Ring. Se nel XVI secolo essa era passata da 30.000 a 50.000 abitanti circa, nel Seicento la sua popolazione, nonostante i reiterati flagelli epidemici, era ormai raddoppiata. La Vienna del 1683 sfiorava e forse addirittura superava ormai i circa 90.000 abitanti, per quanto fosse decisamente la più piccola tra le più importanti capitali del mondo euro-mediterraneo: il Cairo ne aveva infatti più del doppio, Parigi forse già si apprestava a passare il mezzo milione, Londra era già a quota 575.000 e l’immensa Istanbul arrivava a 600.000, che tuttavia si sarebbero ridotti di un terzo circa nel secolo successivo mentre Vienna, nel medesimo periodo, sarebbe cresciuta del 150%. Se nel confronto con le altre capitali europee quella imperiale poteva sembrar di modesta entità, nella piccola Austria essa era una specie di gigante: i suoi abitanti corrispondevano a più o meno il 9% di tutti quelli che popolavano l’arciducato; il che, su una popolazione totale dell’intera monarchia asburgica (fra Austria, Tirolo, Ungheria e Boemia) che nella seconda metà del Seicento era grosso modo di 8 milioni, non rappresentava poco37.

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Sangue viennese Nella tradizione cristiana, l’imperatore è typus Christi. Nel momento della prova, Leopoldo I d’Asburgo si caricava sulle spalle, secondo l’insegnamento del Maestro, la sua croce. «Posso ben dire indegnamente, col mio Redentore: Padre, se è possibile, allontana da me questo calice! Ma che la Tua volontà sia fatta, non la mia»38. Quando nel luglio del 1683 l’immensa armata ottomana invase il territorio austriaco e pose sotto assedio la sua capitale, la monarchia asburgica governava su un territorio di circa 340.000 chilometri quadrati, con una popolazione totale di circa 8 milioni di persone la quasi metà dei quali appartenevano alle terre della corona boema, oltre due milioni a quelle del regno d’Ungheria e due milioni e mezzo alle varie circoscrizioni austriache e al Tirolo. Il suo sovrano ereditario si fregiava ininterrottamente da un po’ meno di 130 anni della corona imperiale, formalmente elettiva, strettamente collegata a quelle regie di Germania e d’Italia che erano tuttavia praticamente fittizie. I territori che ereditariamente gli appartenevano, l’Erblande distinta dal Reich romano-germanico, erano un insieme eterogeneo di regni, ducati e contee del tutto sprovvisto di quei caratteri di centralizzazione e di efficienza assolutistica che caratterizzavano altri paesi europei, sul modello francese che ormai andava imponendosi e che veniva preso ad esempio anche in alcuni principati dell’impero, assolutistici de facto per quanto riconoscessero formalmente la superiore autorità imperiale. Da soli tre anni era venuto a mancare uno dei «padri» dell’Austria moderna, il General Feldmarschall conte e poi principe di Montecuccoli che per tutta la vita aveva insistito per l’organizzazione di un esercito permanente e dotato di una solida base logistica: esattamente quello che, in un complesso di stati e di Stände, di ordini sociali dotati ciascuno di proprie istituzioni e gelosi delle rispettive prerogative, era difficile da immaginare, arduo da programmare, quasi impossibile da attuare. I terribili sessanta giorni dell’assedio sarebbero stati il duro travaglio, i dolori del parto dal quale sarebbe uscita una grande potenza. I febbrili preparativi per sostenere l’urto che si andava avvicinando si erano fatti rudemente sentire. Nel 1680 il reddito totale della monarchia asburgica era asceso a 6.686.856 fiorini, mentre le spese avevano toccato i 5.504.935 dei quali un po’ meno dei tre quarti (3.863.243) erano stati impiegati in spese militari; due anni dopo, nel 1682, a rendite sostanzialmente rimaste stazionarie (6.798.750)

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aveva corrisposto un’uscita che aveva mandato il bilancio in deficit (7.363.243), principalmente dovuto al lievitare di ben 2 milioni delle spese militari (5.863.243). Praticamente, nel 1682, a sostanziale parità di entrate erano corrisposte uscite militari di pari entità, anzi leggermente superiori, rispetto alle uscite generali di due anni prima39. Si erano applicate speciali tasse sulla proprietà che, significativamente, venivano chiamate Türkensteuern, «tasse turche». I contributi speciali votati alla dieta di Regensburg del 1680 si erano andati aggiungendo a prestiti stranieri: ma la Spagna, che aveva finanziariamente sostenuto l’Austria in modo notevole durante la guerra turca del 1663-64, adesso era inguaiata nel suo duello con la Francia e non aveva potuto far quasi nulla. La maggior parte dei prestiti dei quali la monarchia degli Asburgo d’Austria si giovò dal 1680 in poi proveniva dall’Inghilterra e dall’Olanda. Un ruolo fondamentale fu giocato, sul piano dei prestiti come dell’organizzazione logistica, dallo Hofjude Samuel Oppenheimer. Ad ogni modo, sui quasi 6 milioni di fiorini che sarebbero stati necessari per la guerra, gli Stände non avevano consentito che ne fossero raccolti che poco più della metà. All’atto della notizia che i turchi si stavano avvicinando le fortificazioni viennesi, risalenti al XIII secolo e modernizzate e rafforzate dopo l’assedio del 1529, non erano granché: erano invecchiate e in più punti mal tenute. Si era provveduto tuttavia in fretta e furia a ripararle e a sistemarle sino a ottenere un dispositivo in cortina alto in media tra i sei e gli otto metri, largo una ventina, con dodici bastioni in mattoni, in sporgenza – «all’italiana» – difesi da una controscarpa avanzata e rinforzata da rivellini triangolari; ci si augurava che sarebbero stati sufficienti, ma i lavori di ristrutturazione furono eseguiti in gran fretta e con mezzi economici molto ristretti. Alla risistemazione – opportunamente voluta fin dal novembre del 1682 da colui che allora era da due anni il governatore militare della città, Ernst Rüdiger von Starhemberg – aveva lavorato uno dei migliori ingegneri militari del tempo, Georg Rimpler, che si era fatto un’esperienza relativa ai sistemi turchi d’assedio durante la guerra di Candia e che aveva nel suo team alcuni ottimi specialisti, come il sassone Daniel Suttinger e l’italiano Leandro Anguissola. Una palizzata continua in grandi e robuste travi alta in media un paio di metri fu eretta oltre le linee esterne della cortina bastionata e sulla scarpata: e dovette essere un notevole lavoro, per quanto molto meno ben costruito di quanto non risulti dalle fonti iconiche rimasteci. Attorno

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alla città dalla parte di terra si erano abbattute le case dei sobborghi, creando un vasto spazio aperto e largamente controllabile; lungo il corso del Danubio, più difficile da difendersi, si erano approntate delle difese avanzate. In aprile, mentre il pericolo si avvicinava per quanto nessuno ufficialmente ne parlasse (ne chiacchierava però, e molto, la gente), 8000 contadini lavorarono in corvées ripulendo controscarpa e fossati, che erano profondi circa 20 metri e larghi dai 6 agli 840. Le difese vennero approntate in turni continui ai quali tutta la popolazione partecipava: di notte, si lavorava al lume delle torce. Fuori città, al limite del Wienerwald, in faccia al Danubio, la fortezza di Klosterneuburg e la chiesa fortificata di Weissenkirchen costituivano buone difese avanzate. I borghi sorti al di là delle mura furono rapidamente spianati e i loro abitanti, se non avevano possibilità di stabilirsi altrove, dovettero entrare in città e adattarsi a occupare gli edifici lasciati liberi da quelli che se ne erano andati o ad accettare sistemazioni di fortuna. Il punto più debole dell’intero dispositivo di difesa era senza dubbio quello nordorientale, di fronte all’isola di Leopoldstadt circondata dalle acque del Danubio. Il fiume era in quella stagione piuttosto in secca, il che avrebbe favorito gli assalitori41: c’era comunque pur sempre la probabilità che inattese provvidenziali piogge lo gonfiassero, come era accaduto alla Raab nella notte precedente la battaglia di SzentGotthard, favorendo i cristiani. Ma era difficile prevedere da che parte sarebbe stato Iddio, in quell’estate del 1683. D’altronde, l’estate mitteleuropea è relativamente breve e piuttosto piovosa: le settimane più secche, al riguardo, erano quelle di luglio, dopo le quali si cominciava a poter ragionevolmente aspettare la pioggia. Il nucleo attivo dei difensori era costituito da una guarnigione regolare di circa 11.000 soldati di fanteria42, oltre ad alcuni squadroni di corazzieri, di dragoni e ai mercenari polacchi comandati dal principe Hieronim Augustyn Lubomirski43. Altri comandanti militari mercenari di vasta esperienza e di provata fedeltà agli Asburgo erano presenti in città: come lo scozzese James Leslie, il cui zio Walter era un veterano della guerra dei Trent’Anni divenuto conte dell’impero; o come Ferdinard Karl di Wirtenberg e Jean-Louis Raduit de Souches, entrambi titolari di reggimento. Si approntò inoltre una sorta di difesa civile, di circa 5000 uomini, affidata a un collegio di scabini presieduto dal settantaduenne conte Kaspar Zden®k Kaplír˘ von Sulevic, un grintoso e mugugnoso veterano della guerra dei Trent’Anni dall’indole ipercritica, pessimista e incontentabile. Non

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che non avesse tutte le ragioni di lamentarsi, il vecchio soldato: si trattava di gente senza alcuna esperienza militare – compagnie di birrai, di macellai, di titolari di botteghe, di artigiani –, in grado solo di far la guardia e di aiutare a spegnere gli incendi e a riparare le mura. Si mise insieme anche una «legione universitaria» agli ordini del rettore, Lorenz Gruener, armata di moschetti a miccia sulla canna dei quali si fissava un pugnale per il corpo a corpo; si era all’antenata della baionetta, ma le armi da fuoco disponibili non erano delle più recenti perché ormai i fucili a pietra focaia andavano rapidamente e un po’ dappertutto sostituendo i moschetti a miccia; e le truppe ottomane in ciò erano, per il momento, più aggiornate44. Altri reparti giunsero alla spicciolata nei giorni immediatamente precedenti l’arrivo degli ottomani sotto le mura: erano spesso male in arnese e si portavano addosso un pericoloso disturbo infettivo, la cosiddetta «diarrea rosa» accompagnata da perdite di sangue che si sarebbe diffusa in tutta la città. In tutto, i difensori potevano essere da un minimo di 13.500 a un massimo di circa 26.000 armati, di origine e qualità differenti45: è fastidiosa quest’oscillazione di dati, che finisce con l’arrivare a cifre estreme la seconda delle quali è il doppio della prima; tali però sono le indicazioni che pervengono da fonti parziali, spesso contraddittorie, talora tardive. La responsabilità generale della difesa venne assunta dal conte von Starhemberg, generale dell’armata imperiale dal 1668. Era un soldato di vasta esperienza, ma ormai quarantacinquenne (età non verde, alla fine del XVII secolo), invalido in seguito alle ferite riportate e ammalato; lo assisteva l’energico borgomastro Johann Andreas Liebenberg. L’artiglieria – contrariamente al quadro semidisastroso che se ne fece a posteriori, nell’ovvio intento apologetico di sottolineare l’eroismo degli assediati nonostante l’inadeguatezza dei mezzi – era ben equipaggiata: 312 (secondo altri, 317) cannoni di vario calibro e parecchi mortai. Il problema, semmai, stava nel calcolare la quantità di munizioni necessarie e nell’approvvigionarsene bene: questione quasi irrisolvibile, dal momento che nessuno sapeva quanto a lungo sarebbe durato l’assedio. Dopo l’esperienza della guerra di Candia, anche nell’esercito austriaco erano stati introdotti i granatieri. La granata, che si lanciava a mano contro il nemico – un buono specialista poteva scagliarla a una ventina e più di metri –, era una palla cava di bronzo, ferro o spesso vetro, che si riempiva di polvere da sparo e di globuli o frammenti

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di metallo. I granatieri, che dovevano essere alti e robusti per poter più efficacemente scagliare i loro proiettili, erano armati anche di fucili a pietra focaia e rimasero da allora soldati d’élite nelle fanterie europee. I servizi logistici e l’approvvigionamento furono affidati al vescovo di Wiener-Neustadt46, il Kollonics, che era un vecchio uomo di guerra e veterano della difesa di Candia. Oltre ai militari, bisognava dar da mangiare – ma il punto era sempre lo stesso: per quanto tempo? – a circa 70.000-80.000 fra abitanti e profughi dei dintorni, cui andavano aggiunti i militari, tutti chiusi dentro la cinta muraria. Era necessario immagazzinare scorte di cibo non rapidamente deperibile e tenerle al riparo da predatori di ogni genere, dagli insetti ai topi, per i quali in fondo l’unica efficace difesa erano i gatti: un problema che nelle lunghe successive settimane si sarebbe drammaticamente risolto da solo, in quanto roditori e felini sarebbero diventati entrambi povere vittime di una caccia spietata a qualunque tipo di proteina fresca. La stagione estiva permetteva a molti privati di far provvista di frutta e verdura prodotte da giardini e orti domestici, che in città erano molti. L’acqua non sarebbe stata un grosso problema, in quanto si stava andando incontro a un’estate più umida del solito e ciò avrebbe salvato assediati e assedianti dal dilagare di alcuni tipi di epidemia. Dio fa piovere sui giusti e sugli ingiusti: e non è compito della storia stabilire chi appartenga all’uno e chi all’altro campo. Quel che vorremmo meglio sapere, tra le cose che non sarà mai possibile appurare, è qualcosa di preciso sulla struttura della popolazione rimasta. In fondo, rispetto ai livelli normali del tempo, essa era in apparenza scesa di poco: forse non più di una decina di migliaia di individui. Ma chi aveva potuto se ne era andato; probabilmente si era fatto di tutto per mettere al sicuro donne, bambini, ammalati e anziani, cioè i soggetti più deboli e gli inabili a combattere. In città erano rimasti soprattutto i soggetti di sesso maschile e di età non troppo bassa né troppo alta; ma i vuoti lasciati dall’esodo dei più fortunati erano stati riempiti dai profughi dei dintorni, che si erano installati negli ambienti lasciati vuoti da chi se ne era andato. Si è parlato fin qui di bastioni, di artiglierie, di milizie, di vettovaglie. Ma l’uomo non vive di solo pane; e quando deve combattere o anche solo difendersi, non lo fa unicamente con la forza delle sue braccia e con le armi di cui dispone e che sa maneggiare. Nella prima metà del secolo scorso, al tempo in cui la storia scritta dagli

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accademici era hegelianamente piena di valori dello spirito ma trascurava un po’ troppo gli aspetti materiali, economici, tecnologici delle vicende che magari molto puntualmente descriveva, un grande studioso francese, Lucien Febvre, esortava colleghi ed allievi i quali si occupavano di storia dell’agricoltura a non costringere quella lontana gente in carne ed ossa le vicende della quale essi stavano indagando e ricostruendo ad «arare con aratri di carta». Sono poi venuti i decenni degli studi di storia della cultura materiale e dei computi attenti relativi a prezzi e a consumi, a costi e a ricavi, a mezzi e a strumenti, a pesi e a misure. Oggi gli specialisti sono in grado di calcolare quanta galletta consumasse giornalmente una galea in mare tra la Morea e Cipro in un certo anno tra Quattro e Settecento: ma forse ci si cura meno di conoscere i pensieri e le speranze di un rematore e si ignorano le preghiere che si usavano recitare durante la voga. Cesare conquistò la Gallia: non aveva nemmeno un cuoco?, si chiedeva il vecchio Bertolt Brecht. E Lucio Dalla, a proposito dei seguaci del divino e scaltro Ulisse, chiede al capitano che ha negli occhi il suo nobile destino se egli pensi mai al marinaio a cui manca pane e vino; al capitano che ha trovato principesse in ogni porto, se pensi mai al rematore che sua moglie crede morto. Anche dei 90.000-100.000 o poco meno poveri cristi chiusi in Vienna tra abitanti, profughi e soldati, a parte una magari generosa manciata di nobili signori, di ufficiali, di chierici e di scrivani, noi non sappiamo quasi nulla, e al massimo ci preoccupiamo dei loro abiti, delle loro armi, delle loro quotidiane razioni; e così dei forse 150.000 e più poveri circoncisi (a parte gli ausiliari ungaro-transilvani e valacco-moldavi, altri poveri cristi), oltre a un’altra generosa manciata di pas¸a, di bey, di ag˘a, di khan, di ulema. Quel che soprattutto ci resta da sapere e che non sapremo mai adeguatamente – a parte i meritori sforzi di qualche studioso – riguarda il livello e l’intensità delle loro speranze di sopravvivere più che di vincere, delle loro paure che erano il condimento quotidiano della loro fame, della loro sete, della polvere che li copriva, delle pulci e dei pidocchi che li rodevano. È la loro lotta quotidiana tra l’abbrutimento che guadagnava terreno nelle loro anime ogni giorno a contatto con la sofferenza e poi la morte sempre più tremende, eppure sempre più prossime e familiari, e la fiammella interiore che li sosteneva, la pena e la compassione che si portavano dentro, le preghiere recitate tutti insieme nei momenti più solenni o più terribili, le frasi sconnesse gridate o mormorate nei momenti di terrore o d’agonia: le invocazioni a Maria

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non generalessa in capo delle armate imperiali bensì madre disperata che sa che cosa significhi stringer tra le braccia il figlio senza più vita; e a Fathma, non la figlia prediletta del Profeta – che la benedizione di Allah sia sempre su di lui –, ma l’altra, la moglie o la figlia che si è lasciata a casa partendo per la guerra e che forse non si rivedrà più. Nella Vienna assediata si pregava, si cantava, si piangeva; finché fu possibile, si accesero candele nelle chiese; si celebravano quotidianamente i misteri divini; santuari e cappelle restavano aperti giorno e notte; si facevano voti che si sarebbero dovuti sciogliere dopo la liberazione, se mai fosse venuta; ci si ricordava – e i grandi protagonisti religiosi del momento, cappuccini e gesuiti, lo ribadivano una volta tanto concordi – che nel giorno del giudizio Dio non avrebbe giudicato nessuno sulla base del suo potere o del suo sapere, ma del pane dato a un povero e dell’acqua offerta a un ammalato. Cinque volte al giorno le orecchie dei viennesi venivano ferite dall’alto richiamo alla preghiera coranica, che giungeva loro da oltre i bastioni: e che veniva accolto come una minaccia ma pur sempre come una promessa di speranza, perché quello era un iudicium Dei, e il Dio d’Abramo vegliava sui battezzati come sui circoncisi. «Auff, Auff, ihr Christen!», «Su, coraggio, voialtri cristiani!», tonavano dai pulpiti e dalle piazze frate Abraham a Sancta Clara e tanti suoi confratelli di differenti Ordini e di diversa condizione ecclesiale. La predicazione «crociata» era un momento di forza, un sostegno che rifocillava lo spirito, una sacra rappresentazione, una promessa di vittoria perché – come aveva ricordato oltre cinque secoli prima Bernardo di Clairvaux sulla scorta di san Paolo – per un cristiano altra gloria non c’è se non la croce del Cristo, vincere è un dono e morire un guadagno. Che cosa può mai temere un credente, quando sa bene che la Morte è stata vinta per sempre? Ma quanto è difficile ricordarsi che la Morte è stata vinta, mentre i cannoni tuonano incessanti e c’è in ogni momento il pericolo che le cortine murarie cedano e l’infedele dilaghi per le strade! Quei terribili sessanta giorni L’avanguardia ottomana arrivò da sud-est presso Vienna ai primi del mese di luglio, preceduta dalle terribili notizie riguardanti Hainburg, la più orientale delle città austriache sul Danubio, una decina di chilometri a ovest di Presburgo. Dopo aver resistito una settimana ai raid dei tartari grazie alle sue ottime fortificazioni, essa

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era stata sottoposta a un feroce bombardamento d’artiglieria e infine assalita dai giannizzeri: l’11 luglio gli ottomani l’avevano saccheggiata e devastata, riportandone numerosi sacchi di teste recise che avevano deposto ai piedi del gran visir. Mentre i difensori della capitale completavano col cuore in gola la distruzione dei loro sobborghi cittadini, dall’orizzonte si levavano le fiamme e le colonne di fumo della cittadina di Fischamend, abbandonata dagli abitanti e messa a ferro e fuoco la sera del 13. Al mattino successivo, preceduta degli scorridori tartari di Mehmed Ali Giray, l’immensa armata con le sue torme di carri, di cavalli, di bufali e di cammelli fu avvistata dalle sentinelle poste sulle mura. Una volta lanciato ai difensori della città, per mezzo d’uno spahi che lo formulò a voce alta e stentorea, il suo formale appello alla resa e alla conversione all’Islam – che era in realtà, al tempo stesso, una sfida e una minaccia di morte e distruzione –, Kara Mustafa sistemò il suo Quartier Generale all’altezza dell’attuale chiesa di Sankt Ulrich, nella settima circoscrizione cittadina attuale, quindi a sud-ovest della cinta muraria nel tratto compreso tra lo Schottentor e il Burgtor 47. Dall’alto dei loro bastioni i viennesi assisterono, atterriti ma anche affascinati, al rapido impianto dell’immenso accampamento turco: oltre 25.000 tende candide48 circondate da fontane e bagni come sul Bosforo. Una vera e propria città era stata quasi d’incanto edificata attorno al padiglione-serraglio del gran visir in un paio di giorni, tra il 14 e il 16, mentre gli spahi volteggiavano attorno alle mura rintuzzando le sortite dei difensori e un parco d’artiglieria piazzato nel bel mezzo delle rovine del centro abitato dell’isola di Leopoldstadt sottoponeva la città a un primo cannoneggiamento da nord-est. Si trattava di un bombardamento abbastanza leggero, perché Kara Mustafa non aveva portato con sé batterie pesanti: un’altra delle contraddizioni del comandante generale ottomano, o delle prove del fatto che all’assedio di Vienna si era arrivati in itinere, e che all’inizio la campagna militare avviata da Edirne nel marzo precedente non aveva come obiettivo la capitale imperiale. Come altrimenti spiegarsi l’assenza delle bocche da fuoco da assedio, a parte la difficoltà di trasportarle attraverso la fangosa e paludosa pianura ungherese durante la piovosa primavera? L’artiglieria turca era precisa ma debole, costituita a quanto pare da una grande maggioranza di bocche leggere e per giunta, tipologicamente parlando, eterogenee: in gran parte prede di guerra. Tutto quello che sappiamo a proposito dei pezzi da assedio, nonostante la notizia riferita da molti testimoni dell’epoca e

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da alquanti studiosi secondo la quale gli alti comandi ottomani avevano una spiccata passione per l’artiglieria pesante49, si riduce a due distinte notizie, la prima delle quali parla di un enorme leggendario cannone faticosamente trascinato da una ventina di paia di buoi e di bufali, che aveva di molto rallentato la marcia nella pianura danubiana50, e la seconda di 4 pezzi di calibro ragguardevole, anche se non precisato. Per il resto, le notizie in nostro possesso indicano un parco di artiglieria leggera ed eterogenea che oscilla dai centosessanta ai trecento pezzi da campagna, quindi leggeri. Resterebbe da sapere con certezza com’era costituito il parco d’artiglieria quando le truppe ottomane intrapresero la loro marcia, che cosa accadde in termini di perdite o di acquisizione di bocche da fuoco durante il lungo itinerario balcanico e quali furono infine le vicende del complesso di bocche da fuoco durante i sessanta giorni dell’assedio. Purtroppo, la dinamica di tali problemi ci sfugge e siamo costretti a confidare in qualche rapsodica notizia, spesso contraddetta da altre fonti51. Di lì a poco il parco d’artiglieria fu comunque spostato dall’isola di Leopoldstadt per venir trasferito a sud-ovest e montato proprio tra l’area centrale dell’accampamento, dove era il comando-reggia-residenza del gran visir, e le fortificazioni urbane. Il grosso dell’accampamento e del dispositivo d’assedio si concentrò nel settore extraurbano di ovest e di nord-ovest, tra l’anfiteatro descritto dalle colline del Wienerwald e il canale del Danubio: poche sgradite sorprese c’erano da aspettarsi dal fiume, in quanto la flotta militare austriaca destinata a pattugliarlo era in pessime condizioni e il vescovo Kollonics, che pur vi si era dedicato, non aveva potuto farci nulla per mancanza di tempo. Quindi l’ala estrema dello schieramento ottomano, quella verso Nussdorf, poté essere tranquillamente affidata agli ausiliari valacchi e moldavi comandati dai principi Serban Cantacuzeno e Georghes Duca, che vennero praticamente esentati dal combattere – gli alti comandi ottomani ne diffidavano – ma adibiti alla costruzione di un ponte di barche: comunque l’artiglieria di Carlo di Lorena, organizzata dallo Heisler, disturbò molto efficacemente la costruzione di opere fluviali. Gli ungheresi del Thököly avevano preso posto a est, oltre il canale del Danubio, in una posizione che li lasciava liberi di darsi alle rapide incursioni. L’ag˘a dei giannizzeri e il beylerbey di Rumelia si disposero al centro. Alla destra del gran visir, oltre la strada che portava al sobborgo di Sankt Ulrich, erano accampati i reparti al comando del kaymakam e beylerbey di Diyarbekir, Kara Mehmed Pas¸a, al quale

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era affidato l’assalto del tratto fortificato compreso tra la Burgbastei e la Kärntnerbastei nonché la sorveglianza della porta meridionale della città e del ponte sulla Wien; quello di legno che invece, a nord, collegava Vienna all’isola di Leopoldstadt scavalcando il canale del Danubio, era stato incendiato. L’area dell’accampamento degli assedianti corrispondente alle fortificazioni di nord-ovest, tra la città, il Danubio e i clivi delle colline del Wienerwald che dominavano la capitale, era stata affidata dal gran visir ad Ahmed Pas¸a, beylerbey di Eger, che aveva il rango di kethüda bey52. A questo funzionario di elevatissimo rango era affidato il fronte della città corrispondente alla sezione tra la Loebelbastei e l’arsenale, con le fortificazioni che difendevano l’intero settore nord-occidentale dell’abitato urbano, munito di 4 buoni bastioni, di 3 rivellini e di un ampio fossato secco che separava la cortina muraria dalla controscarpa. L’intero dispositivo d’assedio era stato studiato da un team di ingegneri militari francesi e italiani guidati da Ahmed Bey, un ex cappuccino che durante l’inverno precedente aveva visitato in segreto la città insieme con alcuni agenti del Thököly esperti di planimetrie e aveva accuratamente rilevato le fortificazioni con buoni disegni. Erano stati aiutati da qualcuno che era rimasto all’interno della città? Continuarono durante l’assedio a comunicare con lui? È una delle tantissime cose che vorremmo sapere. Lo spettacolo dell’accampamento ottomano, ammirato (si fa per dire: ma è il «bello-terribile» della guerra) dall’alto delle torri, era immane e pauroso. Gli assedianti cominciarono subito a preparare la controvallazione, scavando un imponente sistema di trincee dalla stessa parte in cui avevano impiantato il nucleo più esteso dell’accampamento, con gli alloggiamenti del gran visir, vale a dire a sudovest, di fronte alla Hofburg, il castello-residenza imperiale: in un altro paio di giorni, furono approntate trincee profonde un paio di metri che arrivavano a una quarantina di metri dalla palizzata esterna alla scarpata dei bastioni, con una qualche noncuranza del fatto che tale distanza esponeva le prime linee ottomane alla portata delle artiglierie di difesa, che le tenevano sotto tiro. Nello stesso primo giorno d’assedio, un incendio forse incidentalmente scoppiato nell’abbazia di Nostra Signora degli Scozzesi, la Schottenkirche nella parte occidentale della città, presso la Schottentor che da essa prendeva nome, offrì la tragica misura del pericolo. Vienna avrebbe potuto ardere tutta, in quell’estate che in quel momento si annunziava torrida, di un grande rogo.

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Sugli effettivi dell’armata turca si è scatenata la solita ridda di cifre, che i pochi documenti esistenti non consentono di verificare con sicurezza. È quasi certo, e molto logico, che essi fossero sensibilmente meno di quelli che si erano mossi da Istanbul, e quindi da Edirne e da Belgrado, mesi prima, e a proposito dei quali abbiamo già riferito cifre avanzate da più fonti, ma quasi tutte in realtà alquanto esagerate. Durante l’avanzata, è vero, erano arrivati rinforzi da varie parti dell’impero: ma molti di loro avevano dovuto venir disseminati a presidio dei territori attraversati e occupati. Impossibile calcolare inoltre i morti, gli ammalati, quelli che per varie ragioni si erano fermati, a parte i veri e propri disertori. Il corpo militare ottomano ordinario nel suo complesso – tra i combattenti ripartiti nella fanteria giannizzera e nella cavalleria timariota degli spahi, cui si aggiungevano gli artiglieri e gli zappatori – era stimato in momenti diversi dal conte Caprara, ambasciatoreostaggio, con forti oscillazioni che vanno da un massimo di 160.000 a un minimo di 40.000 effettivi; ad essi andavano aggiunti, secondo le stime raccolte dal Sébeville che utilizzava le fonti imperiali, circa 70.000 tra combattenti e non raccolti nelle differenti province del sultanato. Cifre che si avvicinano ai 100.000 sembrano corrette a un livello quantitativamente superiore da una stima dell’esercito ottomano datata 7 settembre, quindi alla vigilia della fine dell’assedio, che in termini precisi parla di 138.900 uomini53. A suo tempo, i difensori degli spalti viennesi stimarono più o meno valori non lontani da questi, ritenendo che le vere e proprie unità combattenti nemiche potessero aggirarsi in tutto tra i 60.000 e i 90.000 combattenti, accompagnati comunque da un enorme seguito di inservienti e di accoliti di varia natura, ai quali andavano aggiunti i peraltro infidi ausiliari cristiani – serbi, ungaro-transilvani, valacchi, moldavi – e almeno 20.000 tartari, che con le loro scorrerie stavano terrorizzando le aree occidentale e meridionale della bassa Austria massacrando e deportando intere popolazioni54. Si è un po’ meglio informati, in particolare, sugli ungheresi del Thököly, la presenza dei quali dette allo scontro anche un qualche carattere di guerra civile, poiché la milizia dei 6000 cavalieri e dei 3000 fanti raccolta dai «Malcontenti» si contrapponeva agli ungheresi lealisti guidati dall’Esterházy che militavano nel campo imperiale. Debole come si è visto l’artiglieria, con troppi pezzi di piccolo calibro «da campagna»55, il che era sintomo non solo di inadeguatezza rispetto all’assedio, ma anche di arretratezza tecnica e tattico-strategica, dal momento che ormai

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da qualche decennio la scienza militare europea aveva intrapreso la strada delle campagne d’assedio, nettamente privilegiandole rispetto agli scontri in campo aperto. Le notizie relative alle efferatezze commesse dai tartari, lo scopo tattico delle quali era lo stroncare il morale del nemico, rapidamente diffuse in città generarono per un verso un profondo sconforto, ma per un altro provocarono una rabbia che divenne un ingrediente non secondario nella decisa e tenace volontà dei difensori di resistere ad ogni costo. In parte l’esperienza diretta, ma in parte anche le idées reçues relative agli ottomani e che essi facevano del resto di tutto per diffondere e rafforzare tra i loro nemici nell’intento di spargere terrore e quindi ridurre la volontà di resistenza, contribuivano a determinare la diffusa consapevolezza che non ci fosse altra speranza di sopravvivere se non quella di non arrendersi a nessun costo. Al nemico spietato, che massacrava, violentava e riduceva schiavi, non si poteva permettere di catturar vivo nessun difensore. La terribile fama che da ormai quasi tre secoli circondava il Turco, e che di solito giocava a suo vantaggio favorendo la resa dei nemici, comportava del resto il rischio diciamo così intrinseco di sortire anche un effetto opposto: una disperata volontà di resistere. Ciò fu probabilmente sottovalutato da Kara Mustafa, che al contrario aveva tutto l’interesse a indurre la città alla resa. Ma il suo disprezzo per i cristiani, che lo induceva a sottovalutare il coraggio e il valore disperati dei difensori di Vienna guidati da esperti comandanti, lo portò a commettere un altro e più grave errore, che gli sarebbe stato fatale: egli trascurò di dotare l’immenso accampamento del suo esercito di una difesa adeguata verso l’esterno e di prendere sul serio le notizie, che gli esploratori tartari dovettero pur fargli pervenire, relative ai movimenti delle truppe imperiali e alleate. Il gran visir dovette partire dalla ferma convinzione che circondare la città con un immenso accampamento – che peraltro non ne fasciava affatto l’intero perimetro –, sottoporla ad assalti serrati e a bombardamenti continui, minarne le fortificazioni, avrebbe indotto i difensori alla resa prima che i cristiani riuscissero a far arrivare a Vienna un’armata di soccorso abbastanza forte da obbligarlo a levar l’assedio. Kara Mustafa voleva la città: ma la pretendeva sostanzialmente intatta, con tutti i suoi tesori dei quali gli sarebbe toccata la parte migliore; se fosse riuscito a conquistarla d’impeto, i suoi uomini avrebbero avuto diritto al saccheggio ma a lui sarebbe rimasto un cumulo di miserabili rovine. D’altronde, egli contava sulla sua evidente supe-

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riorità: era convinto che il dispiegarla attorno alla città sarebbe bastato a intimidire i difensori al punto da aprirgli le porte per evitare il peggio; e che ciò sarebbe accaduto in breve tempo. Era dal 1572, anno dell’assedio di Mons da parte delle truppe del duca d’Alba, che «gli assedianti usavano installarsi tra due linee di fortificazioni: la controvallazione, che circondava la piazza assediata, e la circonvallazione, un po’ più lunga, destinata a spezzare l’assalto di un’armata di soccorso»56. La controvallazione doveva ovviamente venire calcolata in modo che le prime linee di trincee fossero fuori dalla portata delle artiglierie degli assediati, e l’ampiezza del perimetro della circonvallazione dipendeva non solo dalla grandezza della città da prendere, ma anche dalle dimensioni dell’esercito assediante. Era un lungo, costoso lavoro. D’altronde il sistema di acque costituito dal Danubio, dai suoi affluenti e dai suoi canali rendeva impossibile e al limite inutile una totale controvallazione – e, a fortiori, circonvallazione –: gli assedianti potevano isolare Vienna nel suo fronte settentrionale soltanto sottoponendo le terre e le acque circostanti alla stretta rete di un continuo pattugliamento per via sia fluviale sia di terra, cosa che fu fatta e nella quale, almeno per quanto riguarda il secondo aspetto, i tartari erano abilissimi. Più difficile un controllo capillare del grande fiume e dei suoi canali: l’idrografia danubiana, davanti a Vienna e non soltanto lì, era ed è complessa. Proprio per questo l’esodo o la fuoruscita di singoli esploratori e messaggeri era possibile, ma sia l’ingresso di massicci vettovagliamenti o rinforzi, sia l’arrivo da nord di un’armata di rinforzo praticamente impossibili: potevano bensì filtrare corrieri e rifornimenti, ma in una misura che ragionevolmente gli alti comandi assedianti ritenevano in pratica di scarso o di nessun rilievo. L’impressione di un dispositivo di assedio poco efficace, che si ricava dalle mappe del tempo che presentano – anche con una buona dose di accuratezza – la dislocazione delle forze ottomane, è tutto sommato fallace. Quel che invece appare tatticamente imperdonabile nelle scelte del gran visir è l’assenza della circonvallazione, cui del resto si suppliva settore per settore con opere di fortificazione volanti. Ma quel che può apparire un errore tattico è solo l’aspetto esteriore e superficiale di un’errata valutazione strategica. Kara Mustafa era convinto che si sarebbe fatto presto: e che non ci sarebbero stati né il bisogno di un assalto vittorioso, né il tempo necessario all’arrivo delle forze nemiche. Una lunga tradizione, che data dalle moltissime opere a stampa – libri, opuscoli, gazzette, perfino stampe sciolte e Flugblätter – uscite

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a partire dall’indomani della liberazione della città, ha fissato giorno per giorno, ora per ora e si può dire (senza esagerare) minuto per minuto gli eventi di quei terribili sessanta giorni: gli exploits degli assalitori e dei difensori, gli atti d’eroismo e di ferocia, i danni agli edifici urbani e alle fortificazioni, gli scoppi delle mine, i bombardamenti, le sortite, l’incrociarsi di vere e di false notizie, l’esecuzione degli «sciacalli» e dei disertori, le preghiere, la speranza e la disperazione, la paura, la fame, la sete, le ferite infettate, la diarrea sanguinolenta che seminava morte. Abbiamo a disposizione molteplici racconti di testimoni oculari dell’una e dell’altra parte che ci hanno informati in maniera adeguata, forse talora perfino prolissa: e che in linea generale e nonostante le inevitabili inesattezze e scorrettezze, magari spesso perfino errori e menzogne, sembrano tutti discretamente attendibili. Molti autori anche recenti hanno scelto per ritessere gli eventi la tecnica del patchwork: la somma delle descrizioni risistemate in modo da dar l’impressione di un ampio e accurato racconto analitico, omettendo o dissimulando le lacune e le contraddizioni. Qualcuno ha criticamente ricostruito le effemeridi del lungo assedio con spirito più acuto: e abbiamo le belle, affascinanti, ma talora a lungo andare faticose pagine di Victor von Renner, di Reinhold Lorenz, di John Stoye e di altri che a quelle opere hanno attinto. Ma soprattutto abbiamo a nostra disposizione gli splendidi resoconti di prima mano redatti da alcuni che si trovavano nella città assediata, da altri che militavano nelle truppe cristiane o che si trovavano, come cronisti o come ostaggi, nell’esercito e nell’accampamento del gran visir: dal diario del magistrato militare nell’armata imperiale Jan Pieter van Vaelckeren, redatto in latino e in olandese e tradotto in più lingue, a quello dell’ufficiale della guarnigione cittadina Johann Georg von Hoffmann, oltre ai resoconti che ci vengono da parte ottomana ma che sono stati redatti da osservatori cristiani ostaggi, come il Benaglia segretario del conte Caprara o il conte Marsili; o quelli propriamente ottomani, come la bella e celebre cronaca di Evliya Çelebi. Noi ci siamo limitati a quelli che ci sono sembrati gli avvenimenti storicamente qualificanti, rinunziando a una cronaca analitica e lasciando da parte gli aspetti più curiosi e pittoreschi ma meno significativi. Inoltre, abbiamo rovesciato la tecnica del patchwork, evitando sistematicamente la giustapposizione e la sistemazione forzosa dei dati in un discorso coerente ma, in realtà, arbitrario: abbiamo invece sottolineato le lacune ed evidenziato le contraddizioni, alla ricerca non della rassicurante ma falsa coerenza, bensì della problematica

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realtà e delle incerte tracce che essa lascia nelle fonti. La realtà, che sfugge sempre. Mentre i genieri mettevano a punto l’ampio, articolato e complesso sistema di trincee, gli assalitori si dettero subito anche a scavar gallerie fin sotto i bastioni della Hofburg. Dal momento che era impossibile circondare per intero la città (e questo era uno dei punti deboli del dispositivo d’assedio) un ingegnere al seguito delle truppe – a quanto pare il cappuccino rinnegato Ahmed Ali – consigliò di concentrare l’offensiva nel settore sud-occidentale delle mura, cioè di attaccare la Burgbastei, il bastione della Hofburg, minarlo, farlo saltare e quindi penetrare per quella breccia in città. Il settore interessato sarebbe stato pertanto quello tra la Loebelbastei, di fronte allo Schottentor, nell’area ovest della città murata, e la Kärntnerbastei, il bastione detto «di Carinzia» in quanto custodiva l’omonima porta, rivolta a sud, dalla quale si usciva per la strada che, attraversato il ponte meridionale sulla Wien, conduceva al bivio tra la direzione sud-ovest, verso Wiener-Neustadt, e quella sud-est, verso Sopron. Sarebbe stato un buon piano, se solo si fosse riusciti ad eseguirlo rapidamente: avvenne però, come vedremo, il contrario. Anche perché il seraskier non desiderava affatto che Vienna fosse presa d’assalto e saccheggiata. Era comunque evidente che gli ottomani intendevano minare in più punti le mura, ma comunque in un unico sia pur non breve settore, tra l’ovest e il sud. Le forze chiuse nella città erano troppo poco numerose per rispondere con un rapido ed efficace sistema di contromine, che consisteva nello scavare gallerie opposte a quelle praticate dal nemico, puntellarle solidamente e incontrare le gallerie minate eliminandone le cariche prima che il nemico avesse il tempo di farle scoppiare. Prima dell’avvento della polvere da sparo il sistema di contromina, che si fondava su un efficace puntellamento delle gallerie e su un risolutivo corpo-a-corpo col nemico all’interno dei tunnel, se rapido e segreto era efficace: ma, ora che si aveva a che fare con barili di polvere nera facili da innescare una volta sistemati sotto le fondamenta della cortina muraria, il compito dei difensori era più difficile e la loro azione meno efficace. Gli attacchi dei turchi si concentrarono dunque sul tratto dei bastioni tra la Burgtor e la Schottentor: le opere di difesa avanzate furono distrutte e la cinta muraria gravemente danneggiata. Fu là che gli ottomani sistemarono le loro artiglierie e scavarono un vasto

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e complesso reticolo di trincee. Il bombardamento metodico della Burgbastei cominciò dal 15 luglio. Nella notte precedente, il duca di Lorena aveva lasciato la città con tutta la cavalleria, affidando al governatore la fanteria, e si era ritirato a nord, al di là del Danubio. Per quanto alcuni punti del canale fossero attraversabili dai cavalieri, i ponti e i guadi furono ben custoditi da alcuni reparti di dragoni che riuscirono a mettere in fuga l’avversario: in quei casi, si ripeté in dimensioni ridotte un fenomeno abitualmente riscontrato durante i combattimenti contro gli ottomani. Le loro truppe non sapevano ripiegare correttamente: ogni loro ritirata si trasformava, almeno in un primo momento, in una rotta. Intanto, si sparse la notizia che le orde tartare stavano mettendo a ferro e a fuoco tutta la bassa Austria, massacrando o deportando schiave intere popolazioni. Con apparente paradosso, erano gli assediati – nonostante la loro scomoda per non dire drammatica posizione – a star in ansia per chi era rimasto fuori della cinta muraria. Si sapeva delle truppe imperiali accampate non lontano e si aspettavano con fiducia i rinforzi che avrebbero dovuto sbloccare la situazione: ma si temeva il rullo compressore ottomano e più ancora la spietata ferocia tartara. Dopo un rapido e duro scontro con la cavalleria ottomana alle porte di Vienna il 16 luglio, la retroguardia imperiale si ritirò a nord del Danubio. In quell’occasione Carlo di Lorena fu respinto perché indotto a una manovra quando ancora non aveva ben ordinati i propri reparti. Nella terza settimana di luglio diecimila suoi uomini, quasi tutti soldati a cavallo, si accamparono a Jedlesee. La carenza in fanteria lo costrinse a operazioni limitate ma comunque utili. A Klosterneuburg, un convento fortificato degli agostiniani circa sei miglia a monte di Vienna sulla sponda meridionale del Danubio, ai limiti del Wienerwald, si erano asserragliati monaci e cittadini determinati a respingere gli ottomani; per sostenerli il duca spostò alcuni contingenti di truppe attraverso il fiume. I dragoni sotto il comando del colonnello Johann Heinrich von Dünewald furono mandati più a monte, verso Krems, da dove annunciarono di aver sconfitto i tartari. Mentre passava il mese di luglio, Carlo ritirò la fanteria da Györ e il 24 ricevette come rinforzi due reggimenti di fanteria: il Baden e il Grana. Il Lubomirski, che era a Olmutz con le sue sei compagnie di cavalleria polacca, fu richiamato anch’esso nell’accampamento di Jedlesee. Alla fine del mese Carlo di Lorena inviò corrieri a Giovanni III di Polonia, a Giovanni Giorgio III di Sassonia a Dresda e

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a Leopoldo a Passau. Tutti i suoi messaggi imploravano la partenza immediata delle truppe per soccorrere senza indugio Vienna. Frattanto, sotto le mura (è il caso di dirlo) la guerra nei tunnel procedeva incessante e feroce. Il 19 esplose una prima mina e quindi, tra il pomeriggio e la serata del 23, altre due sotto la controscarpa tra Burgbastei e Loebelbastei, ma senza efficace effetto. Un attacco di un migliaio di giannizzeri alla controscarpa della Burgbastei fu abbastanza agevolmente respinto, ma ormai il nemico aveva scoperto le sue carte sotto il profilo tattico: data l’insufficienza del suo parco d’artiglieria, e quindi la scarsa efficacia dei bombardamenti, esso puntava ad aprire per mezzo delle mine delle brecce nei bastioni e penetrarvi a forza con le sue fanterie. Difatti, il 25 un’altra mina faceva saltare in aria le difese esterne della Hofburg seppellendo diverse decine di moschettieri sotto i detriti: all’esplosione tenne dietro un furioso assalto ottomano, fronteggiando il quale rimase ferito anche il conte di Starhemberg. Altre mine esplosero, sempre sotto il rivellino che fungeva da difesa avanzata della Hofburg: ma gli assalti successivi alle esplosioni vennero sempre rintuzzati. Per la città si era intanto sparsa una paura piuttosto ossessiva non solo delle mine, ma anche dei passaggi sotterranei: si diceva che ve ne fossero dappertutto e che gli ottomani avrebbero potuto agevolmente, attraverso le gallerie da loro stessi scavate e con l’aiuto delle spie e dei rinnegati dei quali il loro campo abbondava, collegarsi con le cantine dei viennesi e irrompere in città. Un po’ per prudenza, un po’ per controllare la situazione e impedire il dilagare del pànico, lo Starhemberg – immobilizzato per le ferite all’interno della torre campanaria della cattedrale, dall’alto della quale seguiva la situazione – e il coordinatore dei cittadini non-combattenti, il Kaplír˘ , ordinarono accurate ispezioni delle cantine e disposero che si facesse molta attenzione ad eventuali avvallamenti del suolo stradale o a tremiti sotterranei, indizio di scavi che potevano essere in corso. Espedienti anche molto semplici vennero messi in opera al riguardo. Il piano di un tamburo coperto di sabbia e piazzato sul suolo era sufficiente a segnalare, con lo spostamento anche impercettibile della sabbia, l’attività di scavatori sotterranei. La Burg, il palazzo imperiale, fu gravemente danneggiata. Invece gli ottomani posero una guardia d’onore a un nobilissimo edificio edificato in stile Rinascimento da Massimiliano II, nell’attuale undicesima circoscrizione: «La Favorita», il cui impianto architettonico

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ricordava una tenda, appunto perché quello era il punto nel quale nel 1529 Solimano il Magnifico aveva edificato il suo padiglione. Fin dai primi giorni dell’assedio i difensori avevano fatto di tutto per rompere l’accerchiamento utilizzando corrieri che avrebbero dovuto collegare la città assediata alle truppe che stavano marciando in suo soccorso. Ma le notizie che essi portavano divennero rare dopo che un certo Jacob Heidler, uno dei corrieri volontari, fu smascherato dai giannizzeri e se la cavò per il rotto della cuffia solo perché l’ambasciatore Georg von Kunitz, ostaggio degli ottomani, intercedette per lui57. Dopo quell’episodio si cominciò a riscontrare una notevole difficoltà nel rintracciare i candidati a quella funzione, nonostante gli alti compensi per essa offerti, che giunsero a 200 ducati. Si calcola che al massimo una ventina di corrieri riuscissero a passare approfittando delle origini disparate dei componenti l’armata assediante e facendosi quindi passare per ungheresi, bosniaci o serbi. Uno di essi attraversò anche il Danubio a nuoto. Sembra che molte notizie giungessero dal campo degli assedianti alle truppe cristiane di soccorso anche per mezzo dei valacchi di Serban Cantacuzeno, il quale a fatica nascondeva le sue simpatie per i fratelli in Cristo contro i quali era obbligato a servire in armi. L’ingegner Georg Rimpler, come sappiamo veterano dell’assedio di Candia durante il quale lo scavo delle gallerie e l’esplosione delle mine era stato uno degli elementi di maggiore spicco delle operazioni, pensò bene a questo punto di passare alle contromisure audaci: il 2 agosto fece brillare una contromina dinanzi al bastione di Loebel, sotto il quale erano arrivate due gallerie dei minatori nemici: braccia e gambe degli assedianti uccisi o mutilati piovvero addosso agli assediati. Il Rimpler cadde due giorni dopo, il 4, in combattimento: le sortite degli assediati si alternavano con gli assalti disperati dei reparti ottomani costituiti dai cosiddetti serdengeçti, i «votati alla morte», cui si affidavano compiti tanto ardui che l’esito letale era quasi inevitabile. L’8 agosto due ufficiali, Wilhelm von Daun e Jean-Louis Raduit de Souches che già conosciamo, riuscirono a penetrare nel sistema di gallerie nemiche e a distruggerne alcune, durante duri combattimenti sotterranei. Ma il giorno dopo il tormentato bastione della Hofburg saltò infine in aria con una terribile esplosione, causata da tre mine esplose quasi contemporaneamente: sulle sue macerie si arrampicarono gli ottomani, che per l’intero mese successivo furono tenuti a bada soltanto per mezzo di continue sortite, che si rivelarono

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tuttavia foriere di gravi perdite per gli stessi assediati. I vari tentativi di rifortificare la breccia con mezzi di fortuna ebbero solo scarso ed effimero esito: è il caso di dire che per un mese i difensori fecero con i propri corpi muraglia al nemico. Tra il 9 e il 12 il ritmo dei combattimenti si fece infernale: altre porzioni delle opere difensive saltarono in aria e agli incessanti assalti dei moschettieri e degli arcieri nemici i difensori poterono opporre solo una serie altrettanto continua di disperate sortite. Un violento acquazzone di mezz’agosto, il 13, interruppe i combattimenti e allagò le trincee. Ma nei giorni immediatamente successivi lo scavo di esse riprese, indirizzandosi decisamente verso il rivellino della Burgbastei. Il 18 un reparto di dragoni agli ordini del colonnello conte Bernhard von Cronberg-Dupigny tentò un’audace e disperata sortita, ma fu respinto con gravissime perdite: il comandante stesso incontrò la morte58. Una nuova sortita, nel primo mattino del 25 dal bastione del Kärntnertor, guidata dal principe Ferdinand Karl von Hirtenberg e da alcuni ufficiali, ottenne che si riuscisse a eliminare i cannonieri di una batteria che aveva molto nociuto alle difese: ma non si riuscì poi a impadronirsi delle bocche da fuoco e ci si dovette ritirare con forti perdite, che vennero quantificate in 4 ufficiali e 200 soldati. Tra il 25 e il 26 furiosi combattimenti si svolsero attorno al rivellino posto tra il bastione della Burg e quello del Loebel che proteggeva la torre settentrionale della Hofburg, e stava piazzato quasi esattamente sulla linea retta ideale che, in direzione nord-est/sud-ovest, univa la Hofburg stessa e il padiglione del gran visir: che, non senza un’allusione simbolica, era stato appunto montato esattamente in modo da fronteggiare la facciata del palazzo imperiale. C’è da dubitare dell’efficacia pratica delle sortite: erano scontri feroci, accaniti, molto sanguinosi, che regolarmente finivano in modo insoddisfacente per entrambe le parti, ma che pure, poco a poco, segnavano il progressivo acquisto di palmi di terreno da parte degli assedianti. Il 28 un nuovo furioso temporale estivo apportò a entrambe le parti un passeggero conforto, riempiendo in parte i serbatoi d’acqua: ma distribuì equamente anche i disagi, inumidendo la polvere da sparo di entrambi i fronti. Appena cessata la pioggia, nel pomeriggio, un’altra bomba esplose presso il rivellino seguita da un attacco in forze dei giannizzeri. Le continue sortite dei difensori, tra il 22 e il 4 settembre, avevano provato duramente anche il nemico. Il 26, i giannizzeri avevano manifestato nel consueto modo minaccioso e rumoroso il loro

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scontento: avevano servito in guerra troppo a lungo, erano esposti a troppi rischi e stavano combattendo per nulla59. Il 28 – il giorno prima era esplosa una mina che aveva provocato più perdite tra gli assedianti che tra gli assediati – essi rifiutarono addirittura di combattere, appellandosi a una consuetudine che aveva riscontri anche nelle tradizioni militari europee dell’età feudale: il loro corpo d’élite aveva il diritto di non essere esposto per più di quaranta giorni di seguito in operazioni d’assedio, mentre ormai si stava andando avanti da cinque giorni oltre il termine stabilito. Era chiaro che avevano retto fino ad allora solo nella speranza del bottino successivo alla presa della città: che era appunto quel che il gran visir voleva evitare, e forse uno dei motivi, e non il meno importante, per cui i combattimenti andavano per le lunghe. Verso la fine d’agosto e i primi di settembre, comunque, arrivarono dei risultati che migliorarono un po’ l’umore degli assedianti e azzerarono il morale degli assediati. Il 1° settembre una sortita tentata in grande stile dal generale Johann Carl Serényi, uno dei principali comandanti, e nella quale erano stati impegnati ben 600 soldati, fallì; nel corso dei due giorni seguenti gli ottomani riuscirono a penetrare nel fossato e a impadronirsi del rivellino della Hofburg, una difesa divenuta quasi leggendaria60. La fiducia nella vittoria ormai prossima si rafforzò quando essi ebbero conquistato la controscarpa di sud-ovest, che essi chiamavano poeticamente «la parete delle meraviglie». A circa sette settimane d’assedio si era esausti e dal recinto della città assediata risultava tanto incomprensibile quanto esasperante che i rinforzi non arrivassero. Fin dal 9 agosto all’ambasciatore Caprara, giunto all’accampamento visirale quattro giorni prima sotto scorta giannizzera, era stato consentito entrare in città; gli ci volle tuttavia quasi una settimana per poter trasmettere alla corte, il 15, un’ultima offerta – piuttosto informale – di Kara Mustafa, disposto a toglier l’assedio in cambio della cessione della solita fortezza di Györ. Evidentemente il nemico vedeva ormai lontane sia la prospettiva di una resa, sia quella di una conquista per assalto. Ma non si dette alcun seguito alla cosa, anche perché ormai le notizie davano per davvero prossime le truppe di soccorso: il che era appunto quel che preoccupava gli ottomani61. Far passare messaggi – se non molto d’altro – attraverso le linee era comunque facile, specie se si transitava da nord. Uno di essi, spedito dal conte di Starhemberg il 27 agosto al duca di Lorena, era esplicito

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fino alla sottintesa recriminazione: «... è tempo che vostra altezza venga in nostro aiuto, perché perdiamo molti uomini e molti ufficiali, più per la dissenteria che per il fuoco nemico: sessanta persone al giorno soccombono infatti per questa malattia. Non abbiamo più granate, fino ad ora il migliore strumento per la nostra difesa. I nostri cannoni sono stati in parte smantellati dal nemico, in parte distrutti»62. Se dopo più di quaranta giorni di paura, di fatica e di stenti, il vecchio soldato aveva ormai esaurito la sua scorta di pazienza e di espressioni cortigiane, il vicepresidente del Hofkriegsrat, il nobile boemo Kaplír˘ von Sulevic63, molto meno paziente e più pessimista di lui, rincarava decisamente e seccamente la dose: «Con le pallottole, possiamo resistere appena tre giorni. I cannoni sono già quasi tutti demoliti. In una parola, le condizioni della città esigono che il soccorso arrivi senza ulteriori perdite di tempo»64. Le doti di temporeggiatore del duca di Lorena cominciavano a venir amaramente beffeggiate. Era sul serio questione di tempo: e di vita o di morte. Il che, nella fattispecie, non era ormai per nulla un modo di dire. Carlo stimava con prudenza e precisione che per avere una qualche chance concreta gli sarebbero stati necessari almeno altri 50.000 armati, e si sapeva che quelli in arrivo erano in totale più o meno 65.000. Solo che qui le previsioni dei due comandanti in capo convergevano: secondo Carlo, non sarebbe arrivato nessun consistente rinforzo prima della fine del mese, ed a quel punto erano in molti a ritenere, dentro e fuori della città assediata, che sarebbe stato troppo tardi; Kara Mustafa era quasi sicuro che entro allora Vienna si sarebbe rimessa, esausta, nelle sue mani. Il nemico più temibile di entrambi, a questo punto, era proprio l’esercito ottomano che, stanco e inferocito per il lungo assedio, non voleva aspettare che l’agognato premio, il bottino derivante dal saccheggio, gli sfuggisse. Il gran visir, in realtà, doveva ormai temere più la rivolta dei suoi che non le cannonate e le sortite del nemico o l’arrivo dell’esercito di rinforzo che – non poteva ignorarlo: e non si capisce come abbia potuto sottovalutarlo – lo avrebbe preso tra due fuochi. Forse, aveva più paura di qualche pugnale giannizzero che non di tutte le spade del duca di Lorena e dei pesanti sciaboloni della cavalleria polacca. Il 4 settembre una nuova esplosione distrusse quindici metri delle mura interne in corrispondenza della Hofburg: il successivo assalto fu respinto, ma al costo di 200 uomini. Ormai, i viennesi si preparavano a combattere strada per strada e casa per casa: già si stavano approntando le barricate interne all’abitato.

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L’8 altre due mine fecero saltare in aria il bastione del Loebel: gli assalti dei giannizzeri vennero respinti a fatica. A quel punto, i difensori di Vienna in grado di combattere erano ridotti a 4000, ai limiti delle forze. Lanciavano razzi dalla torre della cattedrale per comunicare alle forze di soccorso che essi non potevano resistere oltre. Gli infedeli avanzavano nel fossato verso la breccia e prima o poi, grazie alle mine, si sarebbero aperti un varco. Dopo quasi due mesi d’assedio, la situazione degli assediati era tragicamente critica: la dissenteria infuriava, facendo molte vittime (oltre il 10% degli abitanti morì per questo); tra ammalati e feriti, la popolazione era quasi tutta fuori combattimento; le condizioni sanitarie, anche a causa della stagione calda, erano ormai insostenibili. Per quanto sia impossibile mettere insieme dati quantitativi attendibili, si può affermare con buona probabilità di non esser lontani dal vero che la maggior parte dei decessi tra i militari e la popolazione civile in seguito alle ferite riportate non avvenne in combattimento, ma perché le piaghe s’infettavano o sopravveniva il tetano. Quanto alle epidemie, i viennesi ci erano purtroppo abituati, dopo quella terribile del 1678-80; ma nei mesi dell’assedio, nonostante l’infuriare della «diarrea rosa» – che altri, con maggiore crudezza, definivano «rossa» – non si riaffacciò, contrariamente alle previsioni, la temuta peste: forse perché i principali agenti diffusori del contagio, i topi, furono oggetto di una spietata caccia da parte dei viennesi che li fecero scomparire nelle loro povere pance vuote dopo aver sterminato peraltro i loro principali nemici, i gatti, per i quali il loro proverbiale humour aveva escogitato anche un eufemistico soprannome, quello di «conigli da tetto». In effetti, più della Guerra e della Peste, il Cavaliere dell’Apocalisse che davvero infierì durante l’assedio fu la Fame. Ma anche la disciplina cominciava a far difetto e lo scoraggiamento a circolare: i corpi dei soldati sorpresi in flagrante tentativo di disertare penzolavano impiccati nel luogo stesso nel quale erano stati colti in fallo, macabro avvertimento anche per i civili: ma non è chiaro se la loro vista producesse maggior paura o scoraggiamento. Se l’Atene viennese piangeva, la Sparta ottomana aveva peraltro, intanto, poco da ridere. Sembra che in un primo tempo i capi militari dell’accampamento avessero chiuso un occhio dinanzi al fatto che presso la Schottentor, attraverso qualche piccola breccia del dispositivo di difesa, si fosse andato organizzando un piccolo mercato nero tra le donne della città assediata e gli assedianti: ma col tempo quella risorsa si era andata esaurendo, con reciproco svantaggio delle

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due parti. Il vitto del campo era forse leggermente migliore, almeno sotto il profilo della quantità, di quello disponibile in città: non si andava tuttavia oltre qualche zuppa dai sospetti ingredienti e un po’ di riso bollito. Ben presto si cominciarono a sgozzare i prigionieri fatti schiavi: era una perdita economica, ma non ci si poteva più permettere di alimentarli. Il quartier generale del gran visir manteneva un aspetto opulento, ma quel che veniva a mancare era il decoro: pian piano, l’igiene dell’accampamento si era andata deteriorando, esattamente come la disciplina; anche le latrine, ammirate e decantate dai militari europei perché nulla del genere c’era nei loro eserciti, erano state abbandonate a se stesse. Incuria e sporcizia regnavano sovrane; molti erano i feriti, anche leggermente, che morivano d’infezione. Perfino il seppellimento delle carogne degli animali morti, e quello degli stessi cadaveri dei soldati, erano eseguiti con incuria. Tra i maggiori difetti di Kara Mustafa, che dai suoi patroni di casa Köprülü aveva imparato che un capo doveva essere temuto più che amato, c’erano la caparbietà e l’incapacità sia di ascoltare i suoi collaboratori, sia di dar loro l’impressione di stimare i loro consigli. Non amava visitare le linee del fronte né mettere in discussione i suoi piani di battaglia, che si rifiutava anche di rivedere per adattarli al mutar della situazione. Alcuni coraggiosi riuscirono ad attraversare l’accampamento ottomano a a raggiungere il duca di Lorena per incitarlo a scatenare al più presto il contrattacco. Dalla torre campanaria dello Steffl, come i viennesi affettuosamente chiamavano la loro cattedrale di Santo Stefano, era possibile scorgere quel che stava avvenendo oltre la cinta muraria, anche abbastanza lontano. Di quando in quando, s’intravedevano gli esploratori dell’armata di soccorso; più spesso, le bande degli scorridori tartari o i tragici segni del loro passaggio, le lingue di fiamme e le colonne di fumo là dove prima sorgevano villaggi e fattorie. Ormai erano in molti a pensare, tanto dentro quanto fuori dalla cinta muraria urbana, che solo un miracolo avrebbe potuto salvare Vienna. Era appunto un miracolo che una città stremata aveva implorato ai piedi della sua amata protettrice, la Santa Vergine, quel mercoledì 8 settembre dedicato alla solennità della nascita di colei che la Chiesa venera come nuova Arca dell’Alleanza, patrona del popolo di Dio schierato in battaglia. Nonostante la situazione pietosa, o forse appunto a causa di essa, la festa era stata celebrata nelle forme più grandiose possibili, con messe e processioni continue, nel

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centro e lungo i bastioni. Giunta la sera, si lanciarono come al solito dall’alto del campanile di Santo Stefano i razzi ai quali si era abituati a non ricevere alcuna risposta. Ma stavolta le cose andarono diversamente: dall’alto del colle del Kahlenberg, a nord della città, altri razzi risposero. Era il segno che la Madonna aveva ascoltato il suo popolo, era il miracolo? «Vienna laborat in extremis», scriveva l’imperatore a Marco d’Aviano: ma «qui confidit in Domino, non confundetur»65. Gli faceva inconsapevolmente eco lo Starhemberg inviando più o meno nello stesso tempo al duca di Lorena, tramite uno dei soliti spericolati corrieri, l’estremo drammatico messaggio di chi non ce la fa più: «Non perdete altro tempo, clementissimo signore, non perdete altro tempo!». Quei razzi che avevano solcato il cielo di nord-ovest nella notte, proprio alle spalle dell’accampamento ottomano, non potevano essere passati inosservati al suo interno. Essi venivano a confermare in qualche modo quel che due malcapitati soldati austriaci, catturati il 4 e l’8 stesso, avevano testimoniato: l’esercito cristiano si stava riunendo, in quel momento era a Tulln, era forte – dichiarò uno dei due prigionieri, mentendo in un estremo tentativo di servire la sua causa intimidendo il nemico – di 80.000 cavalieri, 40.000 fanti, 200 cannoni. Era più del doppio di quel che l’esercito di soccorso aveva a disposizione. I due non furono evidentemente creduti, ma la loro testimonianza non venne neppure del tutto ignorata: se non altro perché quei razzi notturni ne testimoniavano in qualche modo la sostanziale veridicità. Sembra impossibile che spie, rinnegati, agenti prezzolati o esploratori non tenessero costantemente informato il seraskier di quel che ormai stava accadendo da più di una settimana a poche decine di chilometri a ovest di Vienna, a una distanza percorribile a piedi o in battello nell’arco di una giornata. Eppure, in un consiglio di guerra tenutosi appunto nella mattina del 9, i nodi dovettero venire al pettine. Tra i comandanti in seconda dell’armata ottomana era forte, quasi unanime, l’istanza di rovesciare il dispositivo tattico: contenere gli assediati viennesi quel tanto che fosse sufficiente a impedir loro azioni di disturbo troppo consistenti e procedere sul serio, quanto più e meglio ormai si potesse, a quel che si sarebbe dovuto fare fin dal primo giorno dell’assedio, cioè a una corretta fortificazione del fronte esterno dell’accampamento. Ma Kara Mustafa, servendosi ancora una volta con la consueta arroganza dei suoi poteri, fece trionfare la tesi opposta: fortificare l’accampamento il minimo indispensabile, anzi contrat-

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taccare al momento opportuno anche verso l’esterno in modo da rintuzzare l’assalto dei nuovi arrivati, e al tempo stesso intensificare la pressione sulla città. Egli non aveva alcuna intenzione di cedere ai suoi comandanti in seconda: in particolare all’ottantenne Ibrahim, pas¸a di Buda, che era di fresco arrivato dall’Ungheria con una buona forza di cavalleria e che, con la sua esperienza e la sua autorevolezza, poteva permettersi di dargli sulla voce. Il pas¸a di Buda, l’ag˘a dei giannizzeri e il khan dei tartari di Crimea sembravano far causa comune nel contraddirlo, sia pur sempre nei limiti dell’etichetta ottomana che imponeva il silenzio e il linguaggio dei gesti (ma chissà?): ed egli non lo sopportava. È chiaro che il seraskier, come già ricordato, non voleva che Vienna fosse conquistata d’impeto, perché ciò avrebbe comportato il diritto delle sue truppe al saccheggio, l’avrebbe depauperato della parte migliore del bottino e avrebbe diminuito la sua gloria lasciandogli il possesso di una città dissanguata e distrutta. Ma d’altro canto non era pensabile che un tentativo di conquista d’assalto, fallito per due mesi, riuscisse proprio all’ultimo istante: era evidente che gli assediati, confortati dalla speranza del soccorso che era ormai prossimo, avrebbero combattuto con le unghie e con i denti. E allora? Può darsi che Kara Mustafa cullasse per qualche motivo, riguardo al quale non siamo informati, la speranza di poter contrattare una capitolazione dell’ultim’ora? Ne aveva motivo? Pensava di poter contare su una qualche Quinta Colonna? Era passato da una qualche crepa delle mura viennesi quel famoso asinello carico d’oro di cui parlava Filippo di Macedonia padre di Alessandro Magno, quello che fa cadere anche le più formidabili fortezze?66 Comunque, bisognava ben far qualcosa per sopperire alla circonvallazione che non c’era. Il gran visir destinò alla linea difensiva dell’accampamento una forza costituita nell’insieme da 6000 fanti e 20.000 cavalieri, che era poco rispetto alle necessità ma molto in proporzione a quel che restava dell’esercito ottomano. L’entità dei combattenti dislocati significa che quel che si voleva o che comunque ci si aspettava era uno scontro campale, mentre non si prevedeva una vera e propria tattica di fortificazione e di difesa dell’accampamento. Evidentemente, i due informatori austriaci non erano stati presi troppo sul serio e mancavano notizie attendibili portate da esploratori. Una forza scelta di 5400 cavalieri al comando del pas¸a di Diyarbekir Kara Mehmed fu piazzata alle falde del Kahlenberg, tra il villaggio distrutto di Nussdorf e il Nussberg, a nord della città:

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si riteneva, o si sperava, che essa avrebbe potuto in qualche modo tamponare un eventuale attacco dalle colline, per quanto in una posizione sfavorevole perché avrebbe dovuto affrontare un nemico che aveva dalla sua il terreno in discesa, in un’area che prima dell’assedio era stata prevalentemente lavorata a vigne e cosparsa di piccoli villaggi contadini. L’insediamento diruto di Nussdorf venne fortificato e corredato di trincee scavate in fretta e furia: un lavoro che avrebbe dovuto esser compiuto agevolmente e con calma un paio di mesi prima. I rimanenti cavalieri, al comando di Ibrahim Pas¸a, avevano il compito di contenere il grosso dell’attacco, mentre alla fanteria comandata da Abaza Sari Hussein era affidato quello di difendere il tratto tra Sankt Ulrich, nei pressi del quale era stato drizzato il padiglione del gran visir, e la Wien. Anche a ovest e a sud-ovest del margine esterno dell’accampamento ottomano, vale a dire su quella ch’era prevista come l’ala sinistra del suo dispositivo di difesa, si approntarono febbrilmente delle trincee e s’impiantarono delle postazioni d’artiglieria67. Tra il 10 e l’11, mentre ormai le posizioni si erano praticamente rovesciate e l’accampamento ottomano era preso tra i due fuochi della città e del nuovo esercito nemico che sarebbe arrivato da un momento all’altro da nord-ovest, il seraskier decise di restare al suo posto e ordinò al pas¸a di Buda di appiedare parte della sua cavalleria, trasformandola così decisamente in una forza di difesa. Era un estremo oltraggio a quello dei suoi comandanti in seconda che l’aveva più costantemente, sistematicamente, autorevolmente – e ragionevolmente – avversato? Era la misura disperata di chi all’ultimo istante si era finalmente arreso alla realtà e magari perfino accorto dei suoi errori, fosse o no disposto ad ammetterli? Era la manovra avventata di un comandante che aveva ormai perduto speranza e controllo della situazione? Quali sentimenti si agitavano nel petto del seraskier, la disperazione o il fatalismo? La rabbia incontrollabile e impotente o l’apatia? Il livore o la voglia di farla finita? Non lo sapremo mai.

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Il soccorso cristiano Facciamo, come nei romanzi dell’Ottocento, un passo indietro. È difficile dire se quel che invase l’Europa alla notizia che il Turco era sotto Vienna fu più il gelo del terrore o il fuoco ardente della rabbia e dell’entusiasmo. Entrambi, forse, e in intensa anche se eterogenea misura. Prendiamo un solo esempio, sia pur eccezionale: un simbolo del fiore della cavalleria della Cristianità occidentale che da secoli, a successive ondate, veniva attratto ad oriente, verso l’Oriente, come da una calamita. Non era un granché, sotto il profilo fisico. Era bassino, mingherlino, bruttino: e quelle alte parrucche tardo-barocche con la discriminatura centrale con le quali i pittori di corte si ostinavano a ritrarlo, insieme con lo splendore d’acciaio della corazza e tanto di bastone di comando e di candido destriero rampante, forse peggioravano la situazione. Ma era un genio militare, un coraggioso fulmine di guerra, un mecenate generoso, un raffinato cultore d’arte. In quel corpicciolo gracile e sgraziato albergava un’anima splendida, un vero chevalier chrétien, un autentico prince charmant. È chiaro di chi si parla. Del grande Eugenio di Savoia-CarignanoSoissons. O meglio, come la storia lo ricorda, del Principe Eugenio. Una gloria d’Europa: un grande europeo fiero e cosciente di esserlo. Tanto che amava firmarsi «Eugenio von Savoie», unendo così, nel suo nome, gli idiomi delle sue tre patrie: l’Italia, che sotto il profilo geografico e linguistico era il luogo natìo della madre; la Francia, dove era venuto da parte sua alla luce, dove aveva mosso i primi passi e appreso la lingua che egli considerava la sua vera Muttersprache; infine non tanto la Germania quanto piuttosto il Sacro Romano Impero, la corona del quale – pur restando formalmente elettiva – era di fatto ormai dalla fine del Quattrocento saldamente trattenuta dai rostri dell’aquila d’Asburgo, che era qualcosa di ben più che tedesco

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e allargava i suoi vanni fino a coprire parte delle terre slave cattoliche, dell’Italia centro-settentrionale e del mondo balcano-danubiano. Oggi tutti venerano la sua memoria, nei paesi che possono considerarsi «suoi». Soprattutto in Germania: dove perfino durante il nazionalsocialismo – che pure non era tenero né con i rampolli di case reali, né con i fedeli di casa d’Austria, né con le figure storiche di europeisti ai quali il mondo tedesco avesse dato l’impressione di andare stretto – gli furono dedicati un’intera divisione SS, la Prinz Eugen, e uno dei più grandi incrociatori della marina militare del Reich. Chissà se avrebbe gradito un omaggio del genere. È anche molto famoso e – stranamente, in apparenza – perfino amato nella stessa Turchia: e sì che, finché visse, portò con orgoglio il soprannome di Türkenfurcht, «Terrore dei Turchi». Nato a Parigi il 18 ottobre del 1663, era il quinto e ultimo dei figli maschi di Eugenio Maurizio, principe di Savoia-Carignano e conte di Soissons, e di Olimpia, nata dal matrimonio tra Michele Lorenzo Mancini e Girolama, sorella del cardinal Mazarino. Delle cinque nipoti del Mazarino, che a Parigi venivano chiamate le mazarinettes, sua madre era forse non la più bella (pare che la palma andasse alla sorella Ortensia, di sette anni più giovane di lei) ma senza dubbio la più spregiudicata. Si dice che il giovane re Luigi, esattamente suo coetaneo, si fosse invaghito di lei e l’avesse anche posseduta, prima di preferirle la sorella Maria di appena un anno più giovane. Ad ogni modo, Olimpia fu compensata attraverso il nobile matrimonio col Savoia-Carignano, celebrato il 2 febbraio del ’57 quando ella aveva appena diciotto anni e lo sposo andava per i trentaquattro. La coppia ebbe otto figli, nati tutti nell’arco di poco più di un decennio fra ’57 e ’68. Dopo la morte del padre, nel 1673, Olimpia aveva mantenuto un certo ruolo a corte come sovrintendente della casa reale: ma nel 1680 fu coinvolta nella cosiddetta affaire des poisons1 e dovette fuggire nelle Fiandre. Era evidente che aveva perduto il favore del re, cui la passata frequentazione con le mazarinettes cominciava a pesare. Eugenio, che era stato avviato alla carriera ecclesiastica – e per tutta la vita i nemici lo avrebbero schernito, chiamandolo l’abbé de Savoie – viveva all’ombra della potente nonna paterna, Maria di Borbone-Soissons, e sognava la gloria militare al pari del padre. Ma il suo aspetto gracile, il suo stato ecclesiastico e l’evidente poca simpatia con cui il re lo considerava sembravano allontanare da lui qualunque speranza. Venne pertanto tenuto in disparte anche perché Luigi, che a suo piacimento distribuiva le più prestigiose

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cariche militari, lo trovava basso di statura e meschino di persona. Ma c’entravano anche i postumi rancori del sovrano nei confronti della sua fiamma adolescenziale, Olimpia; e sembra inoltre che gli fossero giunte all’orecchio certe dicerie a proposito dell’ironia con la quale Eugenio si esprimeva sulle sue velleità di candidare – appena se ne fosse offerta l’occasione – suo figlio, il Delfino Luigi, al trono del Sacro Romano Impero2, brigando con i principi elettori. Per di più, il coinvolgimento della madre nella faccenda dei veleni non facilitava certo la posizione del figlio; inoltre, sembra che egli fosse perseguitato dal Louvois, il quale portava a sua volta rancore alla bella Olimpia, della quale si era segretamente invaghito e che mai lo aveva degnato. Filtrarono presto, a completare il quadro, anche notizie che lo descrivevano incline all’omosessualità e al gusto per i travestimenti femminili. Insomma, l’aria parigina ai primi degli anni Ottanta si era fatta greve per il giovane ecclesiastico che aspirava alla «bella vita militar». In seguito, Luigi XIV si sarebbe lamentato di aver commesso, rifiutandogli un posto nell’esercito, la plus grande gaffe de sa vie. Eugenio troncò dunque gli indugi: Vienna assediata chiedeva aiuto. Lasciò nel 1683 Parigi insieme con i cugini Louis-Armand de Bourbon principe de Conti3 e il di lui fratello, François-Louis conte di La Roche-sur-Yon4, i quali tuttavia, intimiditi dal re che vietò loro di varcare il confine francese, tornarono indietro; e, senza il regio permesso ma con l’aiuto di un altro cugino, Ludovico Guglielmo margravio di Baden, raggiunse Leopoldo d’Asburgo a Passau. Arruolato nello stesso reggimento di dragoni nel quale era da poco caduto suo fratello Luigi Giulio, e che era stato accordato a Johann Donat Heisler von Heitersheim, cominciò così la sua carriera militare impegnando qualche gioiello per comprarsi uniforme ed equipaggiamento. La cosa irritò moltissimo il Re Sole, quando egli ne fu messo al corrente: tanto più che probabilmente l’imperatore fu lieto di accettare Eugenio nel suo entourage militare in quanto ciò suonava uno schiaffo al rivale francese. Sostenuto da alcuni suoi parenti spagnoli, molto influenti alla corte di Leopoldo, il giovane Savoia fece presto carriera. Ma Eugenio non fu certo il solo a distinguersi e ad emergere in seguito alle vicende che precedettero e accompagnarono la liberazione di Vienna. Un altro protagonista della riscossa cristiana provocata dall’attacco ottomano fu il cappuccino Marco d’Aviano, erede di quell’ardente ispirazione che aveva animato a metà Quattrocento il

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francescano osservante Giovanni da Capestrano e più tardi il carmelitano scalzo Domenico di Gesù Maria, il mistico aragonese che nel novembre del 1620, alla battaglia della Montagna Bianca, aveva guidato gli eserciti cattolici contro i protestanti brandendo un crocifisso e un’immagine della Vergine mutilata dai calvinisti. Il 18 luglio, e poi di nuovo il 3 agosto, padre Marco scriveva all’imperatore che non gli era possibile raggiungerlo perché il Ministro generale dell’Ordine non gli aveva ancora concesso l’«obbedienza» necessaria a potersi servire di una carrozza anziché andare a piedi, com’era obbligatorio per la regola del suo Ordine. Come già abbiamo osservato, non sappiamo che cosa ci fosse dietro – e se ci fosse dietro qualcosa – a questo tipo di remore. Forse, soltanto il desiderio dei vertici della famiglia cappuccina di contravvenire il meno possibile alle norme disciplinari che reggevano il loro sodalizio e gli conferivano il loro fondamentale senso. Per Marco, la disobbedienza era fuori discussione: egli poteva solo rivolgersi a quel punto all’imperatore che, tramite il suo ambasciatore a Venezia conte Francesco Della Torre, aveva insistito energicamente presso il papa: e infatti, alfine, il 7 agosto il cardinal Alderano Cybo Malaspina, segretario di stato, aveva concesso d’autorità in nome del pontefice l’atteso permesso: scavalcando procedura e disciplina francescane5. In questo come in altri casi, la Santa Sede aveva giocato sino in fondo le sue prerogative nel nome di una situazione eccezionale ch’era necessario gestire in termini adeguati. Marco partì il 14 agosto, munito di tutte le dispense. Giunse infine la formalizzazione papale della crociata in atto. L’11 agosto, presso la basilica di Santa Maria Maggiore, Innocenzo XI promulgò la bolla Ad implorandam divinam operam contra Turcas, accolta in Italia e in Germania con la massima solennità6. Intanto, l’imperatore faceva sapere al papa di non disporre della liquidità necessaria a reclutare una quantità sufficiente di soldati professionisti. Mentre il pontefice s’impegnava in tal senso esortando anche a ciò tutti i principi dell’impero e d’Europa, sulle rive del Danubio giungevano un po’ da ogni parte del continente alcune centinaia di simpatici, baldi e rumorosi gentiluomini decisi a mettere la loro spada e il loro onore al servizio della causa della Cristianità. Tra loro, appunto, il principe Eugenio. Ma non erano tranquille le acque nell’armata cristiana che andava costituendosi. Giovanni III di Polonia aveva affermato che mai avrebbe accettato di subordinarsi agli ordini dell’imperatore: Marco d’Aviano implorò questi di non presentarsi quindi al campo dell’ar-

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mata per non compromettere la causa comune; e Leopoldo inghiottì l’umiliazione, ben sapendo che i suoi sudditi avrebbero frainteso le sue intenzioni e lo avrebbero giudicato male per questo7. Le notizie volavano: e le aree di frontiera, dalla Croazia al Veneto, erano percorse da contrastanti notizie e anche da spie e informatori. Si sapeva che le truppe imperiali erano dislocate a poche miglia attorno alla capitale assediata, ma che erano troppo poche per tentare un attacco immediato e diretto all’armata ottomana accampata ai piedi della città. Tutto quel che si sarebbe potuto fare sarebbe consistito in qualche azione di disturbo: ma, sul piano della guerriglia le truppe cristiane erano semmai costrette a difendersi dagli scorridori tartari, ben più abili di loro in questo genere di azioni. Il 22 luglio, dal campo nei dintorni di Stakenau, il generale Silvio Enea Caprara inviava continui, accorati messaggi nei quali la difesa di Vienna era presentata come indispensabile «altrimenti anderemo sotto il tirannico giogo dei barbari che inondano il paese come Attila»8. Il 4 agosto il provveditore della fortezza di Palmanova, Lunardo Donà, inviò a cercar notizie alla volta della Croazia un suo capitano dalmata, Giacomo Coich, che parlava croato e turco, aveva un aspetto «levantino» quanto bastava e poteva quindi, al bisogno, anche travestirsi9. Dal Veneto alla Russia si aveva una gran fame di notizie: ma quelle che arrivavano erano scarse, imprecise e nondimeno allarmanti. L’armata di soccorso si stava tuttavia poco a poco riunendo. Alle modeste forze del comandante in capo imperiale Carlo di Lorena, che non doveva disporre di più di 20.000 armati acquartierati a nord-ovest della capitale, si erano andate aggiungendo nel corso del mese le altre truppe provenienti dal Reich. Non si può dire che, nonostante l’incrociarsi parossistico di notizie e di appelli alla difesa dell’Europa cristiana minacciata, le voci del sacro romano imperatore e del pontefice imploranti soccorso avessero provocato un’ondata di entusiasmo. Tra le forze presenti all’interno di quell’impero che secondo il giurista Samuel Pufendorf era un mirabile monstrum per la singolarità e la complessità delle sue istituzioni, si mossero i principati e le aree regionali cattoliche o quelle comunque più prossime all’Austria e che quindi avevano maggior probabilità di venir investite dall’ondata ottomana nel caso che essa fosse sul serio riuscita a travolgere Vienna (il che nonostante tutto sembrava impossibile a molti) e avesse dato segni di disporre ancora – il che appariva ancor più improbabile – di forze sufficienti a proseguire il suo attacco

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all’Europa. A sentirsi minacciate erano difatti la Baviera, la Svevia, la Franconia e la Sassonia: ma gli stati della Germania settentrionale, come il Brandeburgo, si ritenevano al sicuro e non avevano alcuna voglia di spender soldi e di mettere in pericolo la vita dei loro soldati per soccorrere l’imperatore cattolico: è probabile che i protestanti e gli ebrei rifugiati a Berlino, e non certo animati da sentimenti amichevoli nei confronti della dinastia asburgica (né, del resto, del Re Sole), consigliassero al grande elettore Federico Guglielmo – che aveva in pendenza con l’imperatore la questione del principato di Jägerndorf10 – la prudenza e il disimpegno. Differente scelta fu quella di Ernesto Augusto I duca di Hannover, che spedì in aiuto dell’imperatore il suo stesso figlio poco più che ventenne, Giorgio Luigi duca di Brunswick-Lüneburg11, con un buon reparto di cavalleria di 600 uomini. Con Giovanni Giorgio principe elettore di Sassonia si concluse il 30 luglio un accordo in base al quale egli partecipò all’impresa alla testa di un corpo di spedizione di 10.000 uomini. Fuori della Germania, l’appello congiunto dell’imperatore e del papa non sortì effetti apprezzabili. Per quanto avventurieri isolati o professionisti mercenari non-tedeschi affluissero abbastanza numerosi a Vienna o nelle fila dell’esercito di soccorso, nessun appoggio formale sotto forma di combattenti regolari giunse né dall’Inghilterra, né dalle terre d’impero italiche, né dalla repubblica di San Marco, né dalla penisola iberica. Leopoldo d’Asburgo aveva spedito a tutti gli stati sui quali gravava il peso dell’investitura feudale ricevuta dall’impero – quindi la Savoia, Mantova, Modena, la Toscana – inviti di contributo alla guerra contro il Turco. Le sue pretese non sortirono risultati brillanti: anzi, furono in più casi controproducenti. Per esempio, fin dal 1683 il granduca Cosimo II, combattuto tra il suo zelo crociato e il desiderio di «sottrarsi al contributo in soldati o in denari richiestogli dal marchese del Carpio viceré di Napoli», aveva progettato «di allestire una piccola flotta per la guerra contro i turchi, unendo le sue galere a quelle del papa, di Genova, del Portogallo, e dell’Ordine di Malta»12. Ma l’impegnarsi in forma direttamente finanziaria era altra cosa: e le richieste dell’imperatore incontrarono una dura resistenza. Quanto al Re Sole, mentre le truppe di Kara Mustafa assediavano Vienna egli, sulla base delle decisioni delle sue «Camere di Riunione», annetteva alla Francia le regioni dell’Alsazia, della Lorena, della Saar, del Lussemburgo affidando al Vauban il compito di fortificare i nuovi confini; invadeva intanto anche i Paesi Bassi spagnoli: e, no-

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nostante l’accorato invito dello stesso pontefice, ricusava qualunque aiuto alla città del Danubio circondata dagli infedeli. Di fronte a quello spregiudicato atteggiamento, che rimandava i conoscitori di storia ai tempi più duri dell’impium foedus tra Francesco I e Solimano il Magnifico, le reazioni europee non si fecero tutto sommato granché sentire: almeno sul momento. Il papa andava considerando il fatto che l’avanzata francese sul Reno era accompagnata da colpi alle comunità protestanti talmente duri che l’imperatore (per quanto assolutamente non tenero con i riformati dei suoi dominii ereditari) non si sarebbe mai sognato di infliggere loro, e quindi tendeva a sedare le proteste che arrivavano fino a lui. Vero è che qua e là si alzavano voci coraggiose: come quella di un tal Chavatte, tessitore di Lilla, il quale non esitava a esprimere la sua rabbia dinanzi allo spettacolo dei francesi che invadevano i Paesi Bassi spagnoli senza dichiarazione di guerra, approfittando dell’assedio ottomano a Vienna. Non è tuttavia che il Re Cristianissimo si augurasse la caduta di Vienna nelle mani degli infedeli: il fatto che a Istanbul i suoi rappresentanti esprimessero al sultano la soddisfazione per le sue vittorie e gli presentassero le congratulazioni del loro signore non significa un bel niente. Tutto ciò rientrava del tutto nella routine diplomatica. Luigi non desiderava di vedere il Turco trionfare a Vienna: anche se, qualora ciò fosse accaduto, era pronto ad accettare il gioco; e non è affatto detto che si sarebbe unito a un’eventuale grande crociata di recupero, che quasi certamente la Santa Sede avrebbe richiesto e che avrebbe del resto fatto la fine di tutte quelle che erano state analogamente bandite sulla base di analoghe ragioni d’emergenza da metà Quattrocento in poi. D’altronde, non si vede proprio come e dove si sarebbero trovati, questi nuovi crociati, in quel caso. Né l’impero, né la Spagna, né Venezia ne avrebbero avuto né i mezzi, né la forza; Inghilterra e paesi protestanti europei non si erano mai dichiarati né disponibili né interessati a ciò. È molto probabile che – dal momento che la storia non solo si può, ma si deve scrivere anche al condizionale, con tutti i «se» e i «ma» possibili e immaginabili – sarebbe accaduto come all’indomani della conquista ottomana di Costantinopoli del 1453: cioè, in fondo, sostanzialmente nulla. Le potenze cristiane avrebbero fatto alquanta accademia sul loro possibile impegno crociato, ma il Turco non sarebbe andato con le sue conquiste oltre la capitale degli Asburgo d’Austria (l’assedio del luglio-settembre del 1683 dimostra che in effetti gliene mancavano obiettivamente i mezzi) e nessuna armata cristiana sarebbe corsa alla riconquista

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della città danubiana. Negando a Vienna assediata il suo soccorso, l’Apollo di Versailles intendeva soltanto accelerare la realizzazione dei suoi piani tanto strategico-territoriali quanto politici: penetrare in profondità nelle terre d’impero, consolidare le nuove frontiere e facilitare la futura ascesa al trono imperiale del suo candidato, il Gran Delfino, al posto di un altro rampollo di quella casa d’Asburgo che, perdendo Vienna, avrebbe dimostrato di non esser degna del diadema cesareo in quanto incapace di difendere il confine orientale. Sarebbe stato del tutto privo di logica politica aiutare Leopoldo I a vanificare questi progetti. Era un programma lucido e fermamente perseguito, come ben dimostravano le risposte del ministro Colbert de Croissy alle esortazioni del nunzio cardinal Angelo Maria Ranuzzi che ancora ai primi di settembre lo scongiurava d’insistere presso Luigi affinché egli mutasse atteggiamento. Circolavano per l’Europa i Flugblätter che ironizzavano o inveivano contro il «Turco Cristianissimo»: ma il ministro replicava imperturbabile che «il mondo può dire quello che vuole, ma il re conosce le sue ragioni»13. La situazione non era comunque delle migliori: anche perché il tempo passava, e non stava lavorando in favore né degli assediati né dei soccorritori. Carlo di Lorena disponeva di una visione piuttosto chiara e realistica della situazione viennese, grazie ai messaggi che gli assediati gli facevano avere: e, pur considerandoli con il maggior ottimismo possibile, non poteva sottovalutarne la gravità. Tuttavia non era in grado di far nulla finché non avesse ricevuto i promessi e del resto già mobilitati rinforzi. L’impressione più corrente, in tutta Europa, era che l’armata cristiana avrebbe potuto forse arrivare in vista di Vienna in tempo necessario a impedire la conquista ottomana: ma l’assedio si sarebbe trasformato in fronteggiamento tra due blocchi militari, mentre sarebbe arrivato l’inverno a trasformare città assediata, campo assediante e campo soccorritore in altrettanti pigri quartieri d’inverno, magari dotati di un differente grado di comfort. I fautori dell’ipotesi di una realtà «congelata» (è il caso di dirlo, visto il clima) erano comunque abbastanza ottimisti: essi stimavano che non fosse impossibile fare arrivare all’interno delle mura quel che bastava sia pure alla stretta sopravvivenza degli assediati forzando a nord un blocco che praticamente era assente e passando sul fiume ghiacciato. Ovviamente, se fossero stati chiusi all’interno delle mura cittadine e già provati da due mesi d’assedio, avrebbero pensato diversamente. In termini concreti l’imperatore, per liberare la sua capitale, non poteva che contare quasi esclusivamente sulle sue forze, cioè sulle

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risorse dei territori ereditari; e, in qualche misura, su quelle molto meno sicure della compagine imperiale. Alla fine di luglio, Carlo di Lorena era giunto alle conclusione che non si poteva attendere più troppo a lungo e che sarebbe stato necessario cercar di liberare la città con le sole forze sicuramente a disposizione, cioè quelle imperiali e bavaresi. Poco si aspettava da tutti gli altri, a cominciare dagli stessi polacchi: era chiaro che non si sarebbero mossi se il loro re non avesse avuto la formale sicurezza che gli sarebbe stato riconosciuto il comando supremo; ed era quanto la sua consorte non cessava di ripetere a tutti quelli che le venivano a tiro, con la conseguenza che Giovanni non avrebbe mai potuto sconfessarla senza perderci la faccia. D’altro canto le risposte positive e impegnative non mancavano. L’elettore Massimiliano Emanuele di Baviera, sul punto di sposare la figlia dell’imperatore, aveva promesso di mobilitare almeno 11.000 uomini: e già dalla fine di luglio era partito da Monaco e a capo delle sue truppe aveva raggiunto Passau, dove Leopoldo lo aveva ricevuto e aveva passato in rivista i soldati; aveva quindi continuato la sua marcia seguendo la riva settentrionale del Danubio e, toccate Linz e Krems, si era accampato tra Durnstein e Tulln. Dall’altra parte, verso sud, si stendeva una vasta pianura costellata di stagni e di paludi e troppo aperta perché il duca di Lorena potesse fidarsene. Nonostante i dispacci che di continuo gli pervenivano e che dovevano assicurarlo che i cavalieri tartari affiancati da qualche ungherese erano sì in grado di razziare poco lontano da lì, ma non avrebbero mai potuto né osato assalire un’armata, egli non era tranquillo: e fece recingere l’area prevista per il concentramento delle truppe da una robusta palizzata. Era una costosa perdita di tempo, ma il duca preferiva l’eccessiva prudenza al rischio: in ciò agì esattamente all’inverso di quel che aveva fatto il gran visir sotto Vienna. Se Kara Mustafa avesse preso a difesa del suo accampamento misure analoghe a quelle che Carlo di Lorena adottò attorno a Tulln, la storia avrebbe potuto esser diversa. Verso la fine del mese cominciarono ad arrivare le truppe che avevano ricevuto l’ordine di concentrarsi attorno a Tulln. Erano sensibilmente meno di quanto era stato promesso: ma erano buoni combattenti, disciplinati, riposati e ben equipaggiati. I Kreise di Svevia e di Franconia avevano conteso a lungo con Leopoldo a proposito dell’entità dei soccorsi che egli richiedeva e che essi erano disposti a concedere in quanto dovuti. Pare che alla

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fine circa 6000 fanti e 2000 cavalieri, tra franconi e svevi al comando del principe Georg Friedrich von Waldeck, transitassero da Passau il 21 agosto per accamparsi a Linz una decina di giorni più tardi. Un contingente di notevole entità ed efficienza fu quello partito da Dresda e guidato dallo stesso principe elettore Giovanni Giorgio III di Sassonia, forte di 7000 moschettieri, di 2000 uomini a cavallo e di un ottimo parco di artiglieria leggera da campagna. A lui si erano aggregati i volontari provenienti da Hannover e dalla Turingia. L’elettore era a Praga tra il 20 e il 22 agosto e giunse a Krems, a ovest di Tulln sul Danubio, il 1° settembre. L’esercito cristiano si concentrò appunto attorno a Tulln, a 20-25 chilometri a ovest di Vienna, attorno al ponte di barche là costruito: le forze erano distribuite irregolarmente su una lunga fascia attorno al grande fiume, fino al centro urbano di Krems14. Tra la fine di agosto e i primi di settembre la stagione si fece inclemente: le piogge torrenziali di fine estate resero penosa la marcia soprattutto dei carriaggi e delle artiglierie, mentre le acque gonfie del fiume minacciarono la sicurezza del ponte flottante. Comunque, il concentramento che il generalissimo aveva stabilito per quei giorni ebbe in effetti luogo. Per quanto le fonti non concordino tra loro15, si può propendere verosimilmente – arrotondando le cifre – per circa 20.000 tra militari professionisti e volontari giunti da varie regioni dell’impero con qualche apporto esterno interessante sotto il profilo socio-politico ma irrilevante sotto quello quantitativo; più o meno altrettanti dovevano essere quelli delle truppe dei territori ereditari di casa Asburgo guidate da Carlo di Lorena che era riuscito alla fine di luglio, con l’aiuto dei reggimenti di Ludovico Guglielmo dì Baden e dei cavalieri corazzati polacchi del principe Hieronim Lubomirski16, a impedire che gli ungheresi e i tartari che infestavano tutta la bassa Austria17 passassero il Danubio. Si inscrive in questo contesto l’episodio, molto significativo, della liberazione di Presburgo, che a metà luglio era stata saccheggiata dai tartari. Il Thököly colse al volo la situazione e si diresse coi suoi a galoppo verso la prestigiosa città, facendosi precedere da alcuni agenti che avevano il compito di convincere i cittadini a promettergli obbedienza come «re» magiaro: il 19 luglio il borgomastro si accordò con i messi del principe, isolando la guarnigione imperiale che era rimasta asserragliata nella cittadella. Il Thököly arrivò il 27, con l’intenzione tattica di attraversare il Danubio sul ponte

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sito presso la città e attaccare l’accampamento di Carlo di Lorena di fronte a Vienna: con tale mossa, puntava a costringerlo a ritirarsi ancora verso occidente. Il duca, che si aspettava però una mossa del genere, rispose spedendo il maggiore Ogilvie con il reggimento Baden a sostenere la guarnigione imperiale: ma quel reparto, duramente sconfitto, dovette ritirarsi. Carlo decise allora di attaccare direttamente il Thököly, rischiando conseguenze terribili in caso di sconfitta perché le forze magiaro-tartaro-ottomane ascendevano, a quel che pare, a oltre 25.000 uomini. Nel tardo pomeriggio del 28 fu guadata la Morava. Con i dragoni austriaci in avanguardia, l’esercito cavalcò tutta la notte lungo la vallata che portava sulla cresta delle colline che dominano Presburgo. All’alba i dragoni furono appostati nelle vigne presso i sobborghi della cittadella per verificare se Thököly si fosse accorto della loro presenza. Carlo di Lorena constatò che i due accampamenti nemici erano distanti tra loro; Ogilvie fu di nuovo impegnato per rinforzare la guarnigione; la battaglia che seguì, il 30, fu disordinata. Il Baden e altri comandanti persuasero – quasi costrinsero – Carlo ad attaccare la grande massa dei magiari e degli ottomani fuori dalla città. I dragoni austriaci si disposero in ordine sparso sull’ampio pendio fra le colline e il Danubio, mentre la cavalleria pesante si ordinò per lo scontro. I dragoni si spostarono sui fianchi con il Lubomirski e i suoi polacchi sul fianco destro, vicino al fiume, con il Tetwin e gli altri polacchi e i reggimenti di veterani insieme con quello Pálffy sulla sinistra. Una volta lanciato l’attacco, fu evidente che i magiari non erano in grado di reggere l’impeto avversario e che gli ottomani da soli non erano abbastanza forti: del resto il loro schieramento era stato indebolito dal fatto che il Thököly e buona parte dei suoi si erano ritirati fin da quella stessa mattina. La battaglia si trasformò in una caccia al fuggitivo: la cavalleria leggera austriaca e soprattutto polacca inseguì implacabile i magiari, i tartari e gli ottomani che si erano dati alla fuga. Carlo restò per parecchie ore privo di collegamenti con i reparti in azione, dei quali aveva perduto il controllo: Il Lubomirski, il Tetwin e i loro uomini con i reggimenti di veterani e quello Pálffy si erano inoltrati nella pianura allo spietato inseguimento, tornando solo al tramonto con il bottino. Carlo ordinò a quel punto che il ponte sul Danubio fosse distrutto e che le scorte di materiale d’importanza militare e le vettovaglie, compreso il bestiame, fossero portati nella cittadella. Presburgo rinnovò la propria dichiarazione di lealtà a Leopoldo: la minaccia del Thököly fu rapidamente vanificata, con questa vittoria,

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anche sotto il profilo morale e politico. Il 3 agosto, a Enzersdorf, Carlo sloggiò gli ottomani dalla testa di ponte che erano riusciti a costituire sulla sponda settentrionale del Danubio. Fra il 6 e il 20 il duca fece tappa ad Angern, da dove poteva controllare i guastatori del Thököly che continuavano a incendiare i villaggi e a saccheggiare le campagne. Questo tipo di guerra causò parecchi morti tra i civili e la distruzione di molte fattorie. Mentre succedeva tutto ciò, era di primaria importanza ottenere notizie sulla situazione di Vienna. Apparve allora chiaro a Carlo e ai suoi consiglieri che l’assedio non stava facendo progressi, ma che d’altra parte i rinforzi loro destinati si stavano organizzando con lentezza. Essi consistevano nei 9000 soldati provenienti dalla Baviera e 8000 dal Kreis di Franconia, che avrebbero dovuto arrivare per la metà di agosto; 10.000 sassoni erano attesi per la fine del mese e 20.000 polacchi nella prima settimana di settembre. Il duca era in ansia perché si rendeva conto che più tempo si sarebbe atteso per avere rinforzi, meno tempo ci sarebbe stato per impedire che il nemico conquistasse la capitale. Arrivarono, comunque, gli alleati. In tutto, parrebbe di poter parlare di circa una quarantina di migliaia di uomini infine così riuniti. Giunsero per ultimi i circa 15.000 polacchi al comando di re Giovanni18: una decina di migliaia di cavalleggeri adatti a misurarsi con gli spahi ottomani, un paio di migliaia circa di fanti e soprattutto la leggendaria «cavalleria alata» husaria, 3000 ussari armati di lunga lancia (circa 5 metri), sciabola, pistole, protetti da una pesante corazza e da un elmo appuntito, belli e terribili a vedersi con le loro ali piumate applicate sulle spalle e il mantello di pelle di leopardo. Fedeli alla tradizione medievale, gli «ussari alati» non consideravano se stessi dei combattenti singoli, bensì delle unità di combattimento simili a quella che, nel Quattrocento, sarebbe stata per esempio in Francia una lance fournie: ogni lanciere aveva al suo servizio un team di cinque-sei assistenti-inservienti armati di tutto punto19. L’aristocrazia polacco-lituana si considerava, nell’Europa orientale, l’amica fedele dell’Occidente: sia perché Polonia e Lituania erano un’isola cattolica in un mare protestante, ortodosso e musulmano, sia per la sua lunga consuetudine di rapporti soprattutto con la Francia. Ma, agli occhi degli occidentali, quei «sarmati del nord», lo volessero o no, somigliavano di più ai russi, ai cosacchi, ai tartari di Crimea e perfino ai turchi: i baffi spioventi, le sciabole ricurve, i pennacchi e la fama di cacciatori di teste si portavano dietro il

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vento e l’odore della steppa; ispiravano ammirazione e diffidenza, attrazione ed orrore. Al loro armamento, alle loro tecniche di guerra e perfino al loro abbigliamento e ai loro usi «sarmatici», i polacchi accompagnavano peraltro una forte e radicata attrazione per i costumi cavallereschi occidentali, i tornei, la poesia erotica e «cortese», il romanzo d’aventure. Infine, erano splendidi allevatori di forti e agili cavalli da guerra. Le scuderie degli atamani erano celebri: i loro cavalli erano il risultato di sapienti incroci tra i purosangue arabi e le robuste giumente locali, da cui si era riusciti a selezionare esemplari che erano un miracolo di equilibrio tra forza, resistenza, agilità, coraggio e disciplina20. L’arrivo delle truppe di re Giovanni dal nord e il loro transito nelle terre governate dagli Asburgo era ansiosamente atteso: con speranza dai principi, con paura dalle popolazioni. Un esercito in massa, di solito, era una sciagura per i paesi attraversati anche quando era amico. La cosa, del resto, riguardava senza dubbio gli stessi governi: si sapeva di aver bisogno di rinforzi, ma essi erano aspettati con preoccupazione. Il duca di Lorena incaricò il «sergente generale di battaglia» Antonio Carafa di vigilare sul tratto finale di strada che l’esercito polacco avrebbe dovuto percorrere per giungere sotto le mura di Vienna assediata. È il caso di dire che come cane da guardia era stato scelto un lupo. Era in effetti un bel tipo questo Carafa, che abbiamo già fuggevolmente incontrato durante la campagna d’Ungheria del 1681 e al quale Giovan Battista Vico avrebbe dedicato commossi scritti encomiastici. Nato nel 1642, giovanotto aggressivo e violento, aveva vestito dal 1660 al 1673 l’abito dell’Ordine di Malta, ma aveva poi finito per mettersi al servizio dell’imperatore, in ciò appoggiato anche dall’autorevolezza del suo congiunto, il cardinale Carlo Carafa, e di un prelato suo buon amico, Francesco Buonvisi. Alcuni biografi di questo ragazzaccio divenuto esperto soldato sotto la guida di Raimondo Montecuccoli e di Enea Silvio Caprara hanno comunque insistito sul fatto che si dovette alla sua commossa eloquenza se il re di Polonia si decise a correre in aiuto della minacciata Vienna: si tratta di una voce più volte rimbalzata nelle fonti settecentesche, cui non corrisponde tuttavia alcun riscontro obiettivo. Comunque, il Carafa conosceva il re di Polonia e sapeva quel che l’ormai designato comandante supremo delle truppe alleate si aspettava da lui.

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Il paradosso delle due Supreme Assenze Re Giovanni era partito da Varsavia il 18 luglio, appena venuto a conoscenza che Vienna era accerchiata; una settimana dopo, il 25, aveva fatto sosta a Jasna Góra per consacrare la sua armata alla Vergine Maria di Cze¸stochowa; là i custodi del santuario, gli eremitani di San Paolo, gli avevano offerto in pegno di vittoria la sciabola del suo eroico nonno materno, l’atamano T¸ółkiewsi. Era arrivato a Cracovia verso la fine del mese, trattenendovisi fino alla metà d’agosto, per muoversi solo dopo avervi celebrato la grande festa mariana dell’Assunzione; aveva toccato la sponda del Danubio all’inizio del settembre, accolto però da un pessimo tempo che rendeva problematico il passaggio del fiume gonfio. Intanto, verso la fine del mese, le colonne polacche e quelle del duca di Lorena si erano incontrate21. Infatti allora alcuni messaggeri usciti da Vienna, che avevano attraversato fortunosamente l’accampamento infedele, avevano raggiunto Carlo per incitarlo a sferrare l’attacco decisivo: riferivano della situazione degli assediati, ormai insostenibile, ma anche della stanchezza e del disordine che regnavano tra gli ottomani. Ma il duca si muoveva di malavoglia, dal momento che sulla questione del comando supremo delle armate cristiane e sulle relative precedenze rituali si era ancora lontani dall’aver stabilito un definitivo accordo. Comunque, l’incontro tra i due ex contendenti prima alla corona di Polonia poi alla guida generale degli alleati fu nel complesso quasi amichevole: per quanto Giovanni – il quale lo aveva battuto in entrambe le contese – giudicasse, non senza un certo disprezzo, che quel duca senza terra e re mancato era piuttosto male in arnese. Il 6 settembre i temporali cessarono: il giorno successivo la cavalleria polacca cominciò ad attraversare il ponte di barche, scortata – e sorvegliata – dagli uomini del Carafa. Era intanto arrivato anche Marco d’Aviano. Partito da Padova, aveva navigato il Brenta fino a Venezia con un battello del conte Corbetelli: prima di lasciare il convento padovano, aveva trovato il tempo di scrivere un frettoloso biglietto all’imperatore: «... me ne vengo da vostra maestà cesarea, dove a bocca poi poi [sic] farò le mie parti. In tanto vostra maestà cesarea soleciti per carità la mossa del esercito verso il campo nemico...»22. Viaggiando quindi in carrozza – in deroga alla regola cappuccina: ma con la dispensa procuratagli grazie, come sappiamo, ai buoni uffici dell’imperatore presso il papa –, il 28 era arrivato a Innsbruck dove aveva visitato l’imperatrice e la duchessa di Lorena;

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quindi, forzando le tappe, era arrivato il 1° settembre a Passau dove aveva confortato il resto della famiglia imperiale; a Linz si era incontrato con Leopoldo, col quale aveva discusso le misure da prendere. Da lì il viaggio si faceva pericoloso: c’era il rischio di imbattersi in qualche reparto ottomano o, soprattutto, nei temuti scorridori tartari. Ma il frate non aveva voluto intendere ragioni: il suo posto era tra i soldati, con loro. Lasciata Linz il 3, due giorni dopo era a Tulln dove, nella sua veste di rappresentante del sovrano, prese parte a un consiglio di guerra. Dalle sue stesse lettere dei giorni successivi apprendiamo che in più occasioni aveva dovuto intervenire per sedare vari incidenti insorti tra i principi presenti: in particolare per calmare il re di Polonia, cosa non agevole. L’imperatore assisteva da lontano, con incertezza e inquietudine, al concentramento delle armate. A parte la «generalissima», la Vergine Maria, egli aveva affidato al duca di Lorena il comando supremo delle truppe asburgo-imperiali nel loro complesso, cioè sia quelle del Reich sia quelle degli stati la corona dei quali era patrimonio ereditario di casa d’Austria; ma non voleva in alcun modo contrastare il vivo desiderio, anzi la pretesa di Giovanni di Polonia, che rivendicava con intransigenza per sé l’alto comando sull’intera compagine alleata. Si trattava di una scelta realisticamente opportuna, che pesava comunque sia sul suo amor proprio, sia sul suo senso del dovere e della dignità del nomen e dell’honor imperii. Leopoldo era insoddisfatto con se stesso per aver dovuto abbandonare Vienna accerchiata, sapeva bene che ciò gli veniva rimproverato da molti e con accenti per giunta non sempre né equi, né generosi, né onesti; tuttavia si rendeva conto che non era il caso di compromettere tutto per una questione formale della cui importanza peraltro egli stesso, da uomo e da sovrano del Seicento, era perfettamente cosciente, anche se il senso di essa tende a sfuggire a noi moderni. Si tirò pertanto indietro per mantenersi nelle retrovie il più vicino possibile al teatro di guerra: cioè tra Linz, Dürnstein e Krems. Gli era accanto Marco d’Aviano che però, alla vigilia della battaglia conclusiva, si spostò fra le truppe di prima linea. Fornire valori quantitativi a proposito dell’insieme delle truppe riunite attorno a Tulln è, come al solito, arduo. Appoggiandosi a calcoli affidabili condotti sui non troppi documenti sicuri che restano23 si è parlato di 10.500 tra bavaresi e contingente di Salisburgo, di 9500 forniti dai Kreise francone e svevo al comando del conte di Waldeck, di 9000 sassoni, di 6000 ungheresi guidati dal conte Pál Esterházy

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di Galántha, «palatino» dell’Ungheria regia, oltre ai 20.000 soldati della Monarchia d’Austria e degli altri territori ereditari asburgici agli ordini del duca di Lorena; ad essi dovremmo aggiungere il rumoroso, rissoso, coraggioso, variopinto, allegro e feroce contingente polacco, ma è la cosa più difficile in quanto le relative stime – che in cifra tonda indicano nella maggior parte delle testimonianze 15.000 uomini – oscillano da un ottimistico picco di 27.000 combattenti a una pessimistica depressione di 10.000. Tra l’altro, non si riesce a capire se gli inservienti degli ussari alati sono o meno stati compresi in qualcuno di tali calcoli: va tenuto presente che si trattava di accoliti armati, non di personale addetto alla logistica. Confrontando i dati forniti dalle differenti fonti a nostra disposizione, e per molti versi come al solito discordanti, i commentatori più ottimisti hanno sostenuto che l’armata austro-imperiale-polacca24 fosse un po’ più numerosa di quanto non risulti da un computo addizionale dei dati analitici disponibili: e hanno ipotizzato una forza complessiva di almeno 65.000 uomini e più, per quanto non superiore comunque agli 80.000, con 150 bocche da fuoco25. Anche se è certo che le loro forze fossero nettamente inferiori a quelle turche sul piano numerico (ma sull’effettivo livello dell’inferiorità quantitativa continuano a infuriare le polemiche), il fatto di maggior rilievo, anzi si può dir decisivo, è che si trattava di truppe fresche, adeguatamente vettovagliate, animate da un rabbioso entusiasmo, preoccupate di arrivar tardi sul terreno dello scontro ma appunto per questo tanto più motivate, ben armate, addestrate e disciplinate, per il momento perfino ben pagate (il che non era frequente: e questo era soprattutto il «miracolo» della Santa Sede...)26. Ed erano anche guidate da comandanti esperti: come il braccio destro dell’elettore di Baviera, il generale Hannibal von Degenfeld, un avventuriero-professionista figlio di un veterano della guerra dei Trent’Anni – il quale aveva combattuto a fianco del Tilly, del Wallenstein e degli svedesi prima di finire al servizio della Serenissima –, che come il padre avrebbe poi servito in armi il leone di San Marco; o come Georg Friedrich von Waldeck, che era stato con il Montecuccoli a Szent-Gotthard. Nonostante la ‘generalissima’ dell’armata fosse la Madonna, il suo grande patrono papa Innocenzo XI e i due principali comandanti effettivi i cattolici re di Polonia e duca di Lorena, la presenza dei luterani sassoni e dei luterani e calvinisti ungheresi, nonché di un po’ di cosacchi ortodossi nelle schiere polacche, mischiati ai cattolici della colonna dell’E-

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sterházy, garantivano che la Cristianità era simbolicamente unita contro l’Islam. Un fatto simbolico che può avere il suo significato, ma che comunque non viene rilevato dalle fonti. Del resto, appare probabile – ma non risulta provato – che con le truppe polacche vi fossero anche dei tartari musulmani. È comunque paradossale che, alla vigilia dello scontro conclusivo, il campo cristiano registrasse due grandi, anzi due supreme assenze: sia pur diversamente motivate. Di quella involontaria, diplomatica e forzata dell’imperatore si è già detto; ma sappiamo anche le ragioni di quella volontaria, politica e «scandalosa», di colui che si gloriava dell’epiteto di Re Cristianissimo e che tuttavia non solo non era presente, ma impediva indirettamente anche ad altre forze cristiane d’intervenire. Se avesse cambiato politica, avrebbero potuto dirigersi su Vienna anche contingenti spagnoli e tedeschi delle aree occidentali dell’impero, finalmente liberate dalla minaccia della sua volontà espansionistica; e la stessa Venezia, il senato della quale – come gli faceva sapere in un messaggio del 31 luglio il suo ambasciatore presso la Serenissima, Amelot de Gurnay – subordinava un proprio intervento armato diretto a Vienna alla presenza francese. Papa Innocenzo XI tornava a supplicare accoratamente Luigi, in una lettera del 10 agosto, ma quegli rimaneva sulle sue posizioni: volentieri avrebbe fatto la sua parte, se l’imperatore avesse acceduto al riconoscimento delle annessioni alla Francia dei territori germanici occupati dal 1681 in poi. Alla fine dell’agosto, le truppe al comando del maresciallo di Humières si mossero verso la Fiandra per occuparvi le città ancora soggette alla corona di Spagna. La diplomazia francese spiegava al pontefice che il governo spagnolo, rifiutandosi d’accettare le richieste del Re Cristianissimo e di riconoscerne le annessioni, ritardava il momento della stipula della pace generale: condizione unica ed essenziale per un comune sforzo della Cristianità contro il Turco. D’altro canto, il sovrano più potente d’Europa non mancava di sottolineare rispondendo al papa che erano proprio le vittorie francesi, avvicinando l’inevitabile momento della pace, a contribuire obiettivamente alla lotta di tutte le forze cristiane una volta ritrovata la concordia. Va sottolineato a questo punto che le accuse di cinismo e addirittura di irreligiosità, spesso indirizzate a Luigi XIV per il suo atteggiamento, non hanno granché senso. Era evidente che il suo «ricatto», il rifiuto di soccorrere Vienna assediata, accompagnato dalla disponibilità a farlo nel caso che le sue annessioni fossero state

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riconosciute, corrispondeva a una misura ispirata a un realismo politico che si potrebbe condannare solo a patto di prender per buone – rifiutando di riconoscerne il carattere a loro volta propagandistico e ricattatorio – le denunzie formulate da parte imperiale a proposito delle sciagure che si sarebbero abbattute sulla Cristianità se il Turco non fosse stato fermato. Con tutto ciò, anche in Francia l’eroica difesa di Vienna suscitava ammirazione: molti erano gli aristocratici che cavallerescamente avrebbero voluto accorrere e partecipare all’impresa crociata della sua liberazione; né mancava chi, quanto meno di nascosto – c’era il concreto rischio di finire, altrimenti, alla Bastiglia o nel torrione di Vincennes... –, criticava o addirittura condannava la scelta del suo re. Inoltre, anche a corte ci si rendeva ben conto che la caduta di Vienna non solo sarebbe stata accompagnata da ogni sorta di orrori, ma soprattutto avrebbe causato in tutta Europa un’ondata di recriminazioni che si sarebbero abbattute sul sire di Versailles. Va da sé che – contrariamente a quel che con leggerezza si va ancora da più parti ripetendo – Luigi era ben lungi dall’augurarsi che il Turco riuscisse a cogliere l’Aureo Pomo. Egli voleva soltanto, più semplicemente, che l’assedio bloccasse ancora per qualche tempo l’imperatore, che impegnasse e preoccupasse il papa e Venezia, che l’aiuto francese divenisse a quel punto la priorità indispensabile e che per questo le annessioni territoriali ancora contestate venissero accettate: perché i fatti compiuti hanno sempre e comunque la loro logica e la loro forza, che non è mai troppo rapido ma che è abbastanza facile trasformare in riconosciuto e legittimato diritto. Ciò sottintende che il re, i suoi consiglieri e i suoi generali fossero convinti che Vienna avrebbe resistito: il che appariva arduo a credersi ma in ultima analisi piuttosto probabile perché, se è vero che il passar del tempo spingeva gli assediati verso la stanchezza e la disperazione, è non meno vero che indeboliva, sfiduciava e sfibrava anche gli assedianti. L’immagine di un’armata immensa che, sommersa Vienna come un maremoto, sarebbe dilagata per l’Europa, era in quell’estate dell’83 l’incubo dell’Europa cristiana e ancor oggi continua a venir evocata con accenti di raccapriccio: ma la verità storica era ed è un’altra. Un esercito sia pur composto di molte decine di migliaia di soldati – mettiamo da canto i noncombattenti – era rimasto per molte settimane inchiodato ai piedi d’una città dalle fortificazioni in molti punti antiquate o fatiscenti, insufficientemente dotata di artiglierie in parte inadeguate che si

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erano ulteriormente deteriorate o erano state messe fuori combattimento durante l’assedio, mentre la dissenteria aveva infierito con ferocia su entrambi gli schieramenti. Se davvero il Turco avesse conquistato Vienna, per resa dei difensori o in seguito a un assalto, che cosa avrebbe potuto concretamente fare poi se non chiudercisi dentro, in attesa di una controffensiva cristiana che si sarebbe probabilmente verificata, e che sarebbe stata forse unitaria perché la paura avrebbe fatto ritrovare la concordia fra gli europei? Nel corso degli ultimi due secoli e mezzo, anche quando erano state conquistate Costantinopoli, Belgrado e Buda, voci atterrite e minacciose profezie avevano annunziato che gli infedeli sarebbero arrivati in un soffio a Venezia e a Roma. Non era successo nulla. Viceversa, era plausibilmente certo che sotto Vienna un esercito francese accorso di rinforzo ai contingenti di soccorso già mobilitati avrebbe spazzato via gli ottomani: ma al costo di una rottura forse irreversibile delle relazioni di Versailles con la Porta e al tempo stesso della rimessa in discussione delle annessioni francesi tra Reno e Fiandre, che nel nome della riaffermata solidarietà tra cristiani sarebbero state immediatamente chiamate in causa dalla stessa Santa Sede, nel contesto del ristabilimento di una «vera pace» nella Cristianità. Se poi l’armata di soccorso fosse stata battuta, la linea politica del Re Sole sarebbe diventata difficile da sostenersi: in quel caso Luigi sarebbe stato accusato di aver causato col suo atteggiamento la catastrofe, e magari perfino di averla voluta e preparata in combutta col sultano. Ma anche fra i capi ottomani il dubbio si era fatto strada da tempo: anzi, per alcuni di loro – almeno il pas¸ a di Buda e il khan di Crimea – si trattava di vera e propria opposizione, per quanto il sistema di potere ottomano impedisse di esprimerla liberamente. A che pro impiegare tanti uomini e tanto denaro per la conquista di Vienna, dal momento che ciò avrebbe costituito una gloria e un vantaggio quasi esclusivi di Kara Mustafa mentre avrebbe attirato sulla compagine ottomana tutte le forze dell’Europa intera? Dal canto suo, il gran visir temporeggiava perché desiderava una città arresa, che gli si aprisse dinanzi pacificamente e delle cui ricchezze egli avrebbe potuto godere ampiamente: un cumulo di macerie fumanti tra cui si aggirassero i combattenti di Dio e del Profeta ebbri di massacro e di bottino era l’ultima cosa che lo interessasse; e aveva molto probabilmente i suoi agenti all’interno della città assediata, i quali lo assicuravano che il momento della resa non si sarebbe fatto

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attendere. Insomma, a parte le truppe assedianti – ma non i loro capi –, nessuno voleva che il Turco entrasse con la forza in Vienna, per quanto differenti e magari opposti fossero i motivi per cui non lo si voleva. Intanto, le distinte colonne dell’armata cristiana stavano convergendo. La solenne rivista delle forze ormai unite si tenne, com’era ovvio, nella festa della Natività di Maria, l’8 settembre, attorno alla città di Tulln, che sorgendo sulla sinistra del Danubio ne custodiva l’ultimo ponte prima di quelli dell’area viennese. C’erano ormai tutti i capi supremi: il duca di Lorena, il re di Polonia, i principi elettori di Sassonia e di Baviera. Dopo la messa celebrata da Marco d’Aviano e servita da Giovanni III, venne di comune accordo individuato un itinerario adatto ad avvicinarsi alla capitale cogliendo il più possibile di sorpresa il nemico: il che significava però far un cammino faticoso e abbastanza difficile, fra boschi impervi e rilievi collinosi piuttosto aspri, almeno per chi avesse dovuto percorrerli a cavallo. Un reparto di seicento dragoni guidati dal colonnello Heisler, nel quale militava anche il giovane Eugenio di Savoia, fu inviato immediatamente dal duca di Lorena in avanscoperta, verso Klosterneuburg: avrebbe dovuto controllare se l’itinerario scelto, che passava dal Wienerwald (la «foresta viennese», a nord-ovest della città), era sgombro e praticabile27; e avrebbe magari dovuto far arrivare agli assediati un messaggio di conforto e di speranza. I razzi luminosi avvistati nella notte fra l’8 e il 9 dalla torre campanaria di Santo Stefano erano appunto quelli accesi dagli uomini di Heisler dal Kahlenberg, una delle più alte fra le colline del Wienerwald che fronteggiavano la città in un grande anfiteatro teso a ovest di essa, dal corso del Danubio a quello della Wien, con le due vette del Kahlenberg a nord-ovest e del Rosskopf a sud-ovest. Il 9 settembre l’armata partì dall’accampamento eretto attorno a Tulln, una volta che si fu affrontato e in qualche misura risolto un cumulo di questioni diplomatiche e procedurali: non ultime quelle di precedenza e di dignità. Il re di Polonia, armato del prestigio della corona, del diritto che gli conferivano i patti siglati con l’imperatore, della consapevolezza della speciale e notoria simpatia che gli riservava il pontefice, del fisico imponente e della fama di soldato intrepido e di sovrano energico fino alla prepotenza, non tardò a far definitivamente prevalere le sue pretese nei confronti del comandante imperiale, che era quattordici anni più giovane di lui. Ma Carlo di Lorena, nobilissimo principe dell’impero discendente dei re lotaringi, sapeva affian-

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care l’austerità e l’autorevolezza di capo consapevole del suo ruolo con un tratto semplice, schietto, diretto, in grado d’imporsi al rispetto tanto dei nobili e degli alti ufficiali che lo attorniavano, trattandoli senza affettazione come compagni d’arme, quanto delle truppe. Alla fine, trionfarono comunque le ragioni dei patti formalmente conclusi e le doti di più lunga esperienza militare, di maggior età anagrafica e soprattutto di ostinazione del re di Polonia, probabilmente ben appoggiate ai risultati ottenuti dall’insistenza diplomatica della regina Maria Casimira presso il papa28. Va detto che alla soluzione dei problemi riguardanti prestigio e precedenza giovarono molto, in ultima analisi, la moderazione e quasi la remissività del duca di Lorena. Altro elemento di coesione e di rimozione delle rivalità fu l’assenza dell’imperatore, che come sappiamo qualcuno a torto gli ha rimproverato. Se può essere discutibile la scelta di Leopoldo di non rimanere nella capitale assediata, saggia e sofferta fu invece quella di restare lontano dalle truppe riunite per soccorrere la città: in effetti, si era sparsa la notizia che egli sarebbe giunto, e ciò aveva immediatamente provocato un’ombrosa reazione del re di Polonia. A questo punto furono, concordi, il Buonvisi e padre Marco d’Aviano a consigliare energicamente a Leopoldo di restare dov’era e al papa di avallare una scelta che non doveva venir interpretata come vile o irresponsabile. All’alba del 9 si mossero le forze asburgiche e quelle imperiali; nel pomeriggio, i polacchi. Il cammino scelto per avvicinarsi a Vienna, in modo da sorprendere l’accampamento ottomano alle spalle, era breve ma non agevole: i comandanti lo conoscevano poco, qualcuno per nulla, e non erano nemmeno entusiasti della scelta della quale era responsabile il generalissimo. Si trattava di ripartire le forze in modo da seguire un cammino di circa una trentina di chilometri attraverso la foresta viennese, su un terreno nella sua prima parte piano ma umido e reso fangoso dalle piogge recenti, quindi stretto e ripido; ma al tempo stesso anche di servirsi di una strada migliore ma più lunga e scoperta, quella che costeggiando la sponda destra del Danubio passava per Greifenstein, Höflein e Klosterneuburg. Le forze dovevano essere distribuite attraverso itinerari diversi per facilitare e render più rapida la marcia, ma anche per confondere eventuali esploratori nemici. Si decise che il duca di Lorena si sarebbe posto alla testa dell’ala sinistra dell’armata, lungo la strada prossima al fiume, con i fanti e la cavalleria dei reparti imperiali e i sassoni personalmente guidati dal loro principe elettore; al centro avrebbero marciato i reparti franconi e bavaresi sotto il comando

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del Waldeck, alla cui destra avrebbero preso posto – su un itinerario alternativo che descriveva un’ampia curva a sud – i relativi squadroni a cavallo comandati da Massimiliano Emanuele di Baviera, mentre l’intero dispositivo centrale di marcia sarebbe stato posto agli ordini di Giulio Francesco duca di Sassonia-Lauenburg; infine, al comando dell’ala destra dell’armata – tradizionalmente il posto d’onore negli schieramenti di battaglia –, cavalcava Giovanni di Polonia con il fido atamano della corona Jabłonowski e i suoi. I giovani nobili accorsi volontari un po’ da tutta Europa, da soli o con un più o meno modesto seguito, per la difesa della capitale dell’impero e della Cristianità, erano aggregati a questo o a quello dei principi e dei capi militari presenti. A fianco del margravio di Baden, all’ala sinistra, si trovava Eugenio di Savoia che in quella memorabile giornata ricevette il battesimo del fuoco. Il dispositivo tattico prevedeva che la cavalleria avrebbe attaccato nell’area occidentale di un campo di battaglia individuato nell’ampio triangolo tra il crinale delle colline, l’arco occidentale dell’accampamento ottomano e la Wien. L’alveo di questo modesto corso d’acqua che, scorrendo da sud-ovest verso nord-est, si gettava nel Danubio immediatamente all’apice orientale delle fortificazioni cittadine, tagliava infatti in due parti l’accampamento nemico, la maggior parte del quale era insediata appunto tra il nord e l’ovest dell’area pianeggiante che circondava la città; e appunto a sud-ovest si trovava il sistema di trincee scavato dai turchi e la porzione della cortina muraria che era stata l’oggetto principale degli attacchi nemici, tra il Burgtor e il bastione di Loebel; più lontano, nella medesima direzione al centro dell’accampamento degli infedeli, il padiglione del seraskier. La marcia nella foresta venne condotta con molta difficoltà, specie dai reparti a cavallo che furono costretti a scendere e a procedere a piedi, tenendo le loro bestie per le briglie. Anche il posizionamento dei pezzi di artiglieria procedeva a desolante lentezza: solo nella notte tra l’11 e il 12 il generale James Leslie sarebbe riuscito a collocare una buona batteria sul fianco digradante del Kahlenberg29, nonostante la minaccia di un attacco ottomano dal vicino Nussberg. Ma ci si rese conto che le poche postazioni nemiche lungo le pendici del Kahlenberg erano solo punti di vedetta. Se il nemico fosse riuscito a prevenire l’esercito cristiano occupando con piazzuole di fuoco anche modeste lo spartiacque della linea collinare a nord-ovest della città, che segnava il limite tra il lato nordoccidentale boscoso e quello sudorientale coltivato30, perfino pochi gruppi di moschettieri

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sarebbero stati sufficienti a creare grossi problemi all’armata avanzante in mezzo ai disagi. Ma, poiché ciò per fortuna degli attaccanti non era avvenuto, fu abbastanza facile a un manipolo di esploratori (c’erano alcuni montanari savoiardi, tra cui il principe Eugenio, e un pugno di moschettieri) organizzare nella notte tra il 10 e l’11 un raid notturno scopo del quale era individuare il cammino più agevole per raggiungere la vetta del Kahlenberg e al tempo stesso sorprendere ed eliminare i posti di vedetta ottomani. Ci riuscirono quasi del tutto, ma non fu proprio un lavoro pulito: alcune sentinelle riuscirono a sfuggire agli assalitori, corsero o forse rotolarono per la scarpata in discesa verso l’accampamento ottomano e dettero l’allarme. Naturalmente era impossibile qualunque efficace contrattacco: ma il nemico sapeva ormai che l’esercito cristiano era arrivato. Nella giornata dell’11, le tre colonne che avevano attraversato il Wienerwald si affacciarono sul crinale collinoso e ne occuparono i culmini, ciascuna secondo il settore che le era stato assegnato. La domenica della Vergine Maria Il campo di battaglia individuato, e anzi accuratamente scelto dal duca di Lorena, appariva all’esame diretto dall’alto come una ripa scabra, scoscesa, scivolosa, a tratti ripidissima, interrotta da dislivelli, pietrame, rocce, ciuffi di vegetazione e gruppi di edifici rurali abbandonati. C’erano anche campi arati e vigne, che in quella stagione avrebbero dovuto essere pronte per la vendemmia: ma tutto era desolato, e del resto i grappoli erano stati colti forse, magari un po’ anzitempo, dai soldati ottomani dell’accampamento. Comunque, non c’era nulla di simile al dolce declivio raffigurato nelle mappe31. I capi militari, e specialmente Giovanni di Polonia che aveva fin da Tulln manifestato il suo disappunto per essere stato coinvolto in un dispositivo tattico-strategico che non aveva in nulla contribuito a elaborare – e d’altra parte, non conoscendo il terreno, non avrebbe potuto farlo –, erano delusi, preoccupati e irritati. In quell’ambiente e in quella situazione, una carica della cavalleria pesante sarebbe stata suicida. Anzi, procedendo a cavallo, il semplice restar in sella era estremamente difficile, salvo per uomini armati alla leggera: ma con animali così robusti e il pesante corredo dei corazzieri tedeschi e degli ussari polacchi ci si trovava sul serio in difficoltà. Rispetto a loro la più leggera cavalleria nemica, con le sue bestie più piccole e

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agili, era senza dubbio avvantaggiata; inoltre il tiro dei moschetti e degli archi ottomani sarebbe stato micidiale su bersagli tanto esposti. Schierare dei picchieri e farli avanzare in ordine serrato su un terreno del genere era impensabile. Kara Mustafa, data un’occhiata alle linee di difesa organizzate sia pur in gran fretta dai suoi, ne aveva tratto una buona impressione, rilevando come suoi vantaggi quelli che erano esattamente gli svantaggi del nemico; analogo parere era stato espresso dal conte Marsili, ostaggio degli ottomani, che aveva a sua volta avuto modo di esaminare la situazione. Insomma, sembrava che l’effetto-sorpresa di un attacco dalle colline del Kahlenberg fosse stato annullato perché ormai esso era atteso a piè fermo e che, vista la natura del terreno, la naturale superiorità di chi occupava le quote più alte fosse in quel caso annullata. Verso le 5 del mattino Carlo di Lorena, giunto sulla cima del Kahlenberg digiuno e con una notte insonne sulle spalle, dopo la messa celebrata da padre Marco32 dette l’ordine di attacco. L’ala sinistra, quella più vicina alla città e al corso del Danubio, era comandata dal duca di Lorena cui facevano corona i principali alti ufficiali dell’armata asburgica: Ermanno e Ludovico Guglielmo del Baden, il Leslie, il Caprara, il Lubomirski; al loro seguito molti illustri rappresentanti di nobili casati europei tra cui il diciannovenne prince volontarie, Eugenio di Savoia. Al centro dello schieramento trovavano posto le forze del Reich: Giovanni Giorgio di Sassonia, Massimiliano Emanuele di Baviera, le truppe dei Kreise di Franconia e di Svevia comandate dal Waldeck e molti altri nobili signori e ufficiali tra cui l’italiano Rabatta e il barone von Degenfeld. All’ala destra stavano i polacchi con il loro re e i due atamani, rinforzati da alcuni reggimenti tedeschi. All’alba, gioiosi razzi di saluto partirono da dietro le mura della città: «Le commandant de Vienne nous voit», scriveva felice e quasi commosso Giovanni III. Due battaglioni di fanteria disposti su duplice linea cominciarono a scendere i contrafforti della collina, sotto l’efficace fuoco della pesante moschetteria che sparava da Nussdorf, il piccolo e ben difeso quartier generale che il capo dell’avanguardia Kara Mehmed aveva disposto con sagacia. Verso le otto un reggimento sassone si mosse a sua volta, senza aspettare l’ordine del comandante generale, per venir in appoggio ai commilitoni già impegnati, e puntando a sua volta su Nussdorf. Carlo riassunse immediatamente il comando, ordinando alla fanteria asburgica di rallentare la marcia e impegnando i bavaresi e gli altri contingenti imperiali. Verso le dieci del mattino, le truppe

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germaniche erano arrivate ai piedi della collina del Nussberg – poco più di due chilometri in linea d’aria dalla vetta del Kahlenberg –, e il maestro sultaniale delle cerimonie, lì presente, testimoniò che «i giaurri»33 stavano scendendo dalla collina «come una nera colata di pece», distruggendo e bruciando qualunque cosa incontrassero34. Pur impressionato dal numero dei nemici e dalla loro avanzata, il dignitario ottomano ritenne sul momento che l’offensiva sarebbe stata vana, in quanto si stava sviluppando esattamente come Kara Mustafa e Kara Mehmed avevano previsto. Il fatto era che la pur potente e ben concepita piazzaforte di fortuna allestita a Nussdorf non era in grado di resistere all’artiglieria leggera che i sassoni riuscirono rapidamente a piazzare: la battaglia fu dura e le perdite cristiane notevoli, ma alla fine il punto più alto di Nussdorf fu conquistato e di là i cannoni poterono agevolmente bombardare il vicino villaggio stanandone gli ottomani. La battaglia fu accanita: le grida di battaglia, «Jezus Maria!» e «Allah akbar!» si mischiavano soverchiandosi a vicenda: ma ancora una volta, come era accaduto a Szent-Gotthard, gli ottomani, abituati a veder fuggire i nemici dinanzi a loro, si trovarono davanti combattenti disciplinati e accaniti quanto loro. L’esperienza militare della guerra dei Trent’Anni, elaborata e perfezionata da «intellettuali militari» come il Montecuccoli, aveva raggiunto uno scopo fino a pochi decenni prima ritenuto impossibile: il Turco, già umiliato sul mare a Lepanto, non era più invincibile nemmeno sulla terraferma. Kara Mustafa aveva predisposto una ridotta attorno al vicino villaggio di Gertshof35: vi si fortificò con la sua guardia del corpo, piazzando il verde stendardo del Profeta dinanzi alla sua tenda36. Ormai, sembrava aver dimenticato che la ragione per cui da due mesi egli si trovava là era la conquista di Vienna: nonostante l’esito della giornata, cinque-sei ore dopo l’inizio della battaglia, fosse ancora molto incerto, era chiaro per il gran visir che quel che egli doveva fare era difendersi. Anche ammesso che l’armata ottomana fosse numericamente davvero superiore – ma un calcolo al riguardo è molto difficile: non siamo in grado di valutare le perdite subìte durante l’assedio, e bisogna comunque tener conto che si trattava di truppe già molto provate, a parte il contingente giunto da Buda con Ibrahim Pas¸a –, non si poteva sottovalutare quel che avrebbero potuto fare intanto gli assediati in Vienna, avvantaggiati dal fatto che l’attacco dalle colline aveva alleggerito la pressione degli assedianti su di loro e che intanto si erano rinfrancati. Il seraskier non era in

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grado di sottrarre altre forze dal fronte dell’assedio, che paradossalmente era divenuto un fronte di contenimento degli assediati: la compagine ottomana era presa tra due fuochi, e ciò annullava il suo peraltro dubbio vantaggio numerico. Intanto, si stava avvicinando il momento decisivo della battaglia. Di primo mattino, col favore dell’oscurità, i lancieri pesanti polacchi – gli ussari alati –, che costituivano l’ala destra dello schieramento cristiano (quella ubicata all’estremo sud-ovest del dispositivo), avevano cominciato a discendere i contrafforti della porzione collinosa loro assegnata, con i picchi del Dreimarkstein e del Rosskopf. Ma il terreno era impervio, e arrivarono con un po’ di ritardo a un livello che consentiva loro di caricare, convergendo al tempo stesso con le forze, prevalentemente appiedate, di Carlo di Lorena: le due colonne avrebbero puntato sul padiglione del gran visir e sull’insegna del Profeta. Dinanzi a loro, l’immenso accampamento ottomano appariva irto sì di armi e di armati, ma privo di autentiche difese organizzate: a parte i due villaggi di Nussdorf, conquistato dai sassoni dopo un furioso corpo a corpo, e di Heigenstadt. La cavalleria degli spahi, numericamente forte e agguerrita, contrattaccò con efficacia impegnando i Cuirassieren, i corazzieri pesanti del duca di Lorena e dell’elettore di Sassonia. Verso il mezzogiorno, la situazione pareva giunta a un punto di stallo. Le truppe asburgo-imperiali non avevano avuto modo di mandar giù un boccone dal primissimo mattino e per giunta erano a corto d’acqua, ma anche il nemico sembrava in condizioni analoghe: inoltre quasi sette ore di combattimento avevano sfibrato entrambi gli schieramenti. Gli scontri erano spontaneamente rallentati: e ora, in silenzio, i due fronti si andavano studiando. Fu a quel punto che un’alta e densa nuvola di polvere e un terribile frastuono di zoccoli di cavallo e di armi risonanti riempirono l’aria. L’armata polacca si era disposta in tre corpi: l’ala destra, quella più sud-occidentale, collocata dal lato del corso della Wien, era comandata da Stanisław Jabłonowski, l’eroe che aveva battuto svedesi, tartari e russi e che nel 1674 aveva appoggiato in maniera decisiva l’ascesa al trono di Jan Sobieski; al centro, aveva preso posto re Giovanni stesso; a sinistra un altro fido generale del sovrano, Mikołaj Hieronim Sieniawski37. La fanteria polacca, che era già stata fatta schierare, era appoggiata da moschettieri e da picchieri tedeschi nonché da 28 buoni pezzi d’artiglieria. La marcia di avvicinamento del re di Polonia e dei suoi cavalieri fu molto più lenta e prudente, in realtà, di quanto non abbia immagina-

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to chi ha trasmesso di quel glorioso 12 settembre una visione epica ed oleografica. Ci vollero quattro ore circa, da mezzogiono alle quattro del pomeriggio, prima che la cavalleria fosse pronta per un attacco in profondità, su un terreno davvero adatto; e gli ottomani non furono affatto colti di sorpresa, anzi sia gli spahi sia la fanteria e i giannizzeri cercarono a più riprese di ostacolare le manovre dei reparti cristiani. Nella prima parte del pomeriggio l’incertezza regnava da entrambe le parti: lo scontro durava da molte ore e tutti erano stanchi; se dalla parte degli ottomani il gran visir continuava a ignorare sprezzante il parere dei suoi comandanti in seconda, da quella cristiana era difficile comunicare, nonostante i tentativi di convergenza delle colonne attaccanti. Il duca di Lorena riunì i suoi ufficiali per un breve scambio d’idee, e pare – è uno di quegli aneddoti che non si può far a meno di tramandare, e che forse risponde alla verità dell’accaduto – che a far cadere ogni dubbio residuo fosse la battuta di un anziano generale, il von den Goltz, il quale osservò che se Dio stava concedendo alle armate cristiane la vittoria non si poteva far altro che osservare la sua volontà; quanto a lui, aggiungeva, era vecchio e tutto quel che desiderava in quel momento era un vero, buon letto viennese sul quale riposare quella notte. Da parte sua, Giovanni di Polonia aveva deciso che bisognava andare avanti senza dare al nemico la possibilità di riprender fiato e di riorganizzarsi: tanto più che, per quanto se ne sapeva, la città era agli estremi e avrebbe potuto cadere da un momento all’altro. Questa preoccupazione diffusa induce d’altronde a chiedersi se non avesse qualche ragionevolezza la probabile speranza di Kara Mustafa di vedere Vienna arrendersi da un momento all’altro e di entrarvi senza bisogno di un assalto definitivo. Chi aveva incontrato, mesi prima, il rinnegato Ahmed Bey, visitando in incognito la città per spiarne le fortificazioni? Quanti segreti partigiani del Thököly, quanti simpatizzanti della Riforma che gli Asburgo avevano represso a colpi di cappuccini e di gesuiti, quanti agenti prezzolati del re di Francia, avevano per due lunghi mesi pazientemente condiviso la sorte degli abitanti della città assediata sperando di vederla capitolare e lavorando per giungere a quel risultato? Esisteva davvero, una «Quinta Colonna»? Forse, tutto sommato, le speranze dell’ultim’ora del gran visir non erano poi così campate in aria. Ma, anche se stava davvero così, la cosa non funzionò. Verso le tre e mezza del pomeriggio, le truppe asburgiche e i bavaro-sassoni attaccarono con decisione l’ultima ridotta ottomana

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attorno alla tenda del gran visir e alla bandiera del Profeta: vista indifendibile la posizione, Kara Mustafa l’abbandonò e, portando con sé la santa insegna, tornò al grande padiglione situato al centro dell’accampamento. Poco dopo, re Giovanni ordinò l’inizio delle successive cariche di cavalleria dei suoi ussari alati, appoggiati dai corazzieri, contro il centro dell’accampamento ottomano dove erano stati concentrati i cannoni e gli spahi; l’attacco finale venne scatenato verso le sei. Si era trepidato, nell’esercito imperiale, aspettando gli angeli alati che avendo «più lunga via da percorrere, attraverso borri e valloncelli dirupati e selvosi... avevano tardato più del previsto; ma quando i primi squadroni polacchi, bandiere crociate al vento, spuntarono fuor dai boschi, un urlo immenso si alzò da tutto l’esercito cristiano»38. Vi sono per la verità molte incertezze e molte eterogenee testimonianze a proposito della successione cronologica degli avvenimenti. Parecchi commentatori moderni hanno per questo ceduto al fascino romantico della carica di cavalleria lanciata nel pieno sole del meriggio; anche perché non si è riusciti a comprendere come mai il re di Polonia, che sicuramente era arrivato già da circa mezzogiorno a schierare ussari e corazzieri, lasciasse passare così tanto tempo in una serie di manovre che, è vero, affascinavano e impaurivano il nemico, ma potevano sembrare un inutile temporeggiamento. La spiegazione del ritardo dovuto alle difficoltà del terreno è plausibile: ma non convince del tutto. In realtà, invece, non è che le cose siano poi così strane. Il punto è che il re di Polonia aspettava l’ora adatta ad attaccare. Se lo avesse fatto – e magari avrebbe potuto ben farlo – verso mezzogiorno, i suoi cavalieri lanciati al galoppo si sarebbero trovati il sole negli occhi, dal momento che il nemico era schierato su una linea che risaliva da sud verso est: solo tra il pieno pomeriggio e verso sera l’astro diurno giunse a una posizione e a un’altezza favorevoli ai cristiani e tale invece da ferire, con i suoi raggi declinanti, le pupille dei musulmani. Le ali dei polacchi, controsole, nel turbinar della polvere e dei pennoncelli colorati delle lance, dovevano davvero fare un effetto di angelica terribilità a chi si vedeva rotolare addosso quella valanga di cavalli e di ferro. Il pànico s’impadronì dell’armata ottomana quando, dietro la travolgente carica degli ussari polacchi annunziati dal sibilo spaventoso dell’aria tagliata dalle migliaia di ali applicate al dorso delle corazze, la fanteria penetrò nel varco aperto dalla cavalleria. Una difesa anche semplice, di carri o di steccati guarniti da qualche pezzo d’artiglieria,

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avrebbe reso le cariche degli ussari molto meno efficaci, così come esse non lo erano un granché contro i massicci quadrati di picchieri tipici delle battaglie europee del Cinque-Seicento: ma le barriere improvvisate dagli ottomani poche ore prima non erano sufficienti, e soprattutto essi si trovavano completamente privi di ordini. Tutto quel che potevano fare era ormai difendersi disperatamente, in furiosi corpo a corpo, o fuggire39. Dopo aver cercato di resistere agli ussari di Jabłonowski, il gran visir si rese conto che tutto era perduto: ripose lo stendardo del Profeta nella sua custodia40, ramazzò rapidamente quanto poté del suo tesoro e con un piccolo gruppo di spahi si diresse al galoppo verso l’Ungheria dopo aver lanciato affannosamente ai suoi l’ordine di distruggere tutto quel che poteva servire al nemico, uccidere tutti i prigionieri e abbandonare il campo. Era ormai la rotta disordinata: solo i reparti di spahi tentarono una certa resistenza, pur ripiegando a loro volta; i soldati a piedi fuggirono inseguiti dalla cavalleria cristiana che ne fece a pezzi un gran numero. Il bilancio della giornata è difficile se non impossibile a farsi, data la contraddittorietà delle notizie in materia. Sembra verosimile che le perdite di parte cristiana ammontassero, arrotondando le cifre, a un paio di migliaia uomini, e quelle ottomane a cinque volte tanto, oltre a molte migliaia di prigionieri alcuni dei quali abbracciarono il cristianesimo. I viennesi avevano seguito con apprensione, e poi con gioia crescente, le fasi della battaglia, durata più meno ininterrottamente per mezza giornata. Era ormai il momento del trionfo. Il primo a entrare in città, attraverso lo Schottentor, fu Ludovico Guglielmo di Baden insieme con i suoi dragoni, al suono di trombe e tamburi. Era stato un vero sacrum proelium, nel quale entrambe le parti avevano invocato con forza e con fede l’assistenza del Dio di Abramo. I reparti cristiani si erano mossi dopo la messa, la confessione e l’eucarestia, muniti – almeno i cattolici – dell’indulgenza plenaria loro accordata dal sommo pontefice; i musulmani avevano attaccato dopo la preghiera dell’alba che era stata eseguita, secondo la norma, gli occhi e le fronti rivolti a sud-est verso la Mecca, quindi dando le spalle al nemico che scendeva da nord-ovest in un atto di disprezzo, pur se involontario. Sulle bandiere degli imperiali e dei polacchi splendevano ricamate o dipinte le croci e le immagini della Vergine Maria; le insegne ottomane e tartare accompagnavano il Nome di Allah e i versetti coranici alle code di cavallo e ai campanelli dei Reitervölker della steppa (poche le fatidiche mezzelune, che invece

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nell’immaginario occidentale erano il segno musulmano per eccellenza). Le grida di guerra erano grida di fede, e su tutte erano risonate alte e terribili, nella gran giornata, lo «Jezus Maria!» dei polacchi e lo «Allah akbar!» comune a tutti i musulmani. Dopo la vittoria ci si era inginocchiati ringraziando Iddio; se avesse vinto il gran visir, luterani e calvinisti ungaro-transilvani e ortodossi valacco-moldavi avrebbero rivolto al Dio degli Eserciti la loro grata preghiera per aver favorito le armi del Gran Signore. Se di «guerra santa» a livello tecnicamente teologico e canonistico non si poteva parlare, né dal punto di vista cristiano né da quello musulmano, certo si era trattato di una guerra tra due schieramenti costituiti tutti da sinceri credenti. In un tempo nel quale tutto si usava consacrare – dagli alimenti agli strumenti di lavoro – a più forte ragione si sacralizzava la guerra. La gioia in città fu immensa: gli unici a non parteciparvi furono alcuni sfortunati «minatori» turchi i quali, lavorando da parecchie ore sottoterra, avevano perduto la nozione del tempo ed erano all’oscuro – è il caso di dirlo – di quel che era accaduto nell’ultima mezza giornata. Quando si riaffacciarono all’esterno, o quando furono tirati fuori a forza dalle gallerie, si trovarono circondati dai nemici e per molti di loro la fine fu atroce: nell’entusiasmo, ma anche nella rabbia e nella feroce voglia di vendetta del momento, ci si dimenticò che in fondo avrebbero anche potuto esser presi prigionieri. Poi la stanchezza, e forse il disgusto del sangue, prevalsero; e tornarono, con il cibo e l’acqua, anche la pietà e la carità cristiana. I viennesi erano raggianti di gioia ma anche impauriti, abbrutiti, affamati, inferociti; e stentavano perfino a credere che tutto fosse finito. Nessuno era inoltre davvero sicuro che il Turco avesse sul serio abbandonato il campo, che fosse fuggito; la leggenda dell’invincibilità delle armate ottomane – che non era mai stata un dato assoluto, ma che pur aveva avuto il suo peso – era ancora nel pieno della sua fama, e la giornata di Szent-Gotthard non era certo stata sufficiente ad abbatterla. Era difficile accettare che un esercito di centinaia di migliaia di guerrieri (o, almeno, tanti si riteneva fossero) si fosse volatilizzato in poche ore dopo due mesi di incubo; e si temeva un altro inganno del gran visir, una perfida ruse de guerre. Anche per questa ragione, oltre che seguendo una tendenza comune nel XVII secolo (contro la quale peraltro si era esplicitamente espresso uno che se ne intendeva, il Montecuccoli), non si partì all’inseguimento dell’armata fuggitiva nell’intento di distruggerla. Sarebbe stato militarmente imprudente e diplomaticamente inopportuno.

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D’altra parte, il giubilo del momento era come appannato e – è, ancora una volta, il caso di dirlo – «affumicato» dallo spettacolo della desolazione e della miseria di una città che aveva resistito forse perfino al di là dell’umanamente possibile. La fame, le malattie, l’angoscia, il lerciume, avevano lasciato segni profondi sia sulle persone sia sulle cose. Era necessario festeggiare e si sentiva l’imperioso bisogno di farlo: ma era difficile abbandonarsi alla gioia in una città dove ogni famiglia piangeva un suo caro defunto o un suo bene volato in pezzi oppure scomparso nel fuoco e nel fumo. Un dispaccio pubblicato solo pochi giorni dopo a Lucca, in italiano, e certo esito di informazioni di prima mano, ci mostra un quadro eloquente del momento: ...il fetore orribile de’ cadaveri e bestie, che sono negli esteriori di questa città ne’ fossi e nella campagna, e non giova né zibetto, né altri odori per preservarvisi. Si vedono quantità d’ammalati, e feriti, che languidi se ne trovano in ogni casa. Si fanno nettare i fossi, e fare altre operazioni alli turchi schiavi, facendoli lavorare a furore di bastonate, e dicono che tra questi vi sia il principale loro minatore41.

Fuggendo, gli ottomani si erano lasciati alle spalle l’accampamento intatto, un’autentica opulenta città morta. Certo, doveva essere ormai a sua volta molto degradato, dopo i due lunghi mesi d’assedio; e senza dubbio i fuggiaschi di rango erano riusciti a portar con loro le cose più preziose. Tuttavia i polacchi, che ci entrarono per primi, si servirono riccamente: e, a parte gli oggetti di maggior pregio, le stoffe, le armi, le pellicce che poterono trovarvi, si impadronirono dei cannoni e di molte migliaia di tende; il che fa pensare che il saccheggio fosse in realtà molto più disciplinato di quanto non sembrasse, e che gli alti comandi militari di re Giovanni lo avessero diretto, se non addirittura programmato. Gli asburgo-imperiali dovettero accontentarsi, venuti dopo, del poco lasciato dai polacchi; poi l’accampamento venne invaso dai poveri viennesi, che fecero piazza pulita delle cianfrusaglie rimaste. Dal padiglione stesso del gran visir, Giovanni III scrisse un trionfale resoconto del bottino in una lettera indirizzata alla consorte, alla quale riservò il dono di un magnifico gioiello frutto appunto della vittoriosa razzia42. Il nemico, riferiva raggiante il sovrano alla moglie amatissima, «ha abbandonato nelle nostre mani tutti i suoi cannoni, le sue tende, i suoi inestimabili tesori... Ho tenuto per me il cavallo del gran visir con tutto il suo arnese... le rarità che sono state trovate nel padiglione del gran visir

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sono tanto numerose quanto strane e sorprendenti: dei pappagalli molto curiosi, alcuni uccelli del Paradiso, dei bagni, delle fontane, alcuni struzzi che egli preferì uccidere piuttosto che lasciar vivi in mano nostra»43. Ancora più favoloso apparve comunque il bottino trovato nella tenda del khan di Crimea. Era stata una vittoria campale, ma alla fine di un assedio. Nella seconda metà del Seicento le battaglie campali non decidevano mai o quasi dell’esito di una guerra: «Uno degli aspetti essenziali della rivoluzione militare fu l’abbandono progressivo della guerra di movimento a profitto della guerra d’assedio: per ogni battaglia combattuta in campo aperto, si conducevano venti assedi»44. Tale regola aveva una sola, eppur non infrequente eccezione: quando un’armata assediante veniva a scontrarsi con un’altra che sopravveniva in soccorso degli assediati. Sotto le mura di Vienna, si era verificato appunto quel caso45. La ritirata degli ottomani, presto trasformatasi in una fuga disordinata, in un si-salvi-chi-può, lasciò una traccia indelebile in chi l’aveva vissuta e scrisse per renderne testimonianza. «Se ne andarono tristi e stravolti, salvando solamente la loro nuda vita e versando lacrime di sangue», scrive il maestro di cerimonie della Porta46. E un altro cronista: ...tutto quello che si trovava nell’accampamento sultaniale, denaro e armamenti e oggetti preziosi, fu abbandonato e cadde in mano alle legioni infernali. L’esercito dei maledetti infedeli (possa venire schiacciato) giunse in due colonne. L’una, avanzando lungo la riva del Danubio, penetrò nella fortezza e prese d’assalto le trincee. L’altra s’impadronì dell’accampamento dell’esercito sultaniale. I feriti che si trovavano nelle trincee vennero trucidati oppure presi prigionieri. Gli uomini rimasti nelle trincee, circa 10.000, non erano più in grado di combattere, essendo stati feriti da colpi d’artiglieria, moschetti, cannoni, mine, pietre ed altro, non pochi essendo stati privati di un braccio o di una gamba. Gli assalitori li passarono immediatamente a fil di spada, e avendo trovati prigionieri alcune migliaia dei loro li liberarono dalle catene che li avvincevano. Riuscirono a impadronirsi di una quantità indescrivibile di denaro e di rifornimenti. Non si preoccuparono neppure, quindi, di inseguire i soldati dell’Islam e se l’avessero fatto, sarebbero stati guai. Che Dio ci protegga. Un disastro di tali proporzioni non si era mai visto dalla comparsa dello stato ottomano47.

Se l’avessero fatto, sarebbero stati guai. Un parere probabilmente molto giusto: un inseguimento duro e immediato avrebbe dato sul

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serio il colpo di grazia all’armata. Aveva ragione Raimondo Montecuccoli, che nei suoi Aforismi della guerra contro il Turco aveva raccomandato proprio questo: dopo la vittoria, inseguire il nemico in fuga e picchiar duro fino a distruggerlo. L’esercito ottomano, tuttavia, si riorganizzò presto. Era una sua caratteristica, che gli occidentali conoscevano: quando subiva una sconfitta, la compagine militare ottomana sembrava sulle prime sfasciarsi completamente; ma era altrettanto abile nel ricomporsi. Ritirandosi, l’armata del gran visir si portò dietro migliaia di prigionieri cristiani: l’ordine di ucciderli tutti, che era pur stato impartito, sarebbe stato in ogni caso impossibile a eseguirsi, e non mancavano le piazzeforti vicine all’interno delle quali custodire le prede umane. Tra quei prigionieri ce n’era uno destinato a venir ricordato dai posteri: il conte Luigi Ferdinando Marsili, testimone eccezionale della campagna e osservatore attento e accurato del complesso habitat idrologico danubiano48. Il gran visir fece arrestare e giustiziare per strangolamento il «colpevole di Nussdorf», Ibrahim Pas¸a. Una miserabile manovra per coprire i suoi errori e la leggerezza con la quale aveva gestito l’assedio. Tuttavia va detto che un cronista intelligente, il gran dragomanno Alessandro Maurocordato, giustifica le accuse lanciate da Kara Mustafa sia contro Ibrahim, «il quale nutriva rancore e odio verso il gran visir», sia contro il khan dei tartari di Crimea, che egli accusa di essersi comportato da «vigliacco e codardo»49. Ma non c’è granché da fidarsi, e proprio perché il Maurocordato era molto intelligente: egli apparteneva all’entourage del gran visir50. La lunga convalescenza di una città ferita Era stato un errore non inseguire gli ottomani in rotta? Col senno di poi, si potrebbe dire di sì: ma chi lo affermasse non terrebbe in sufficiente conto il fatto che l’armata cristiana era a sua volta a pezzi per la stanchezza; e forse anche sopraffatta dalla gioia. Il giorno dopo Giovanni III entrò gloriosamente nella città che lo acclamava liberatore. Come in un trionfo dell’antica Roma, dietro di lui sfilavano le spoglie dei vinti: il cavallo del gran visir, i tug˘ e le altre insegne ottomane catturate al nemico. Il corteo toccò i più importanti luoghi e le principali chiese, e nella Augustinerkirche si cantò in presenza del re un solenne Te Deum. Ma più tardi, durante il pranzo offerto in onore del sovrano dal conte di Starhemberg, ci si rese conto

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che il lezzo dei rifiuti e dei cadaveri ancora insepolti rendeva la vita in città impossibile: e si finse di ritenere che appunto per questo Carlo di Lorena e i generali asburgo-imperiali avessero preferito tirarsi da parte e lasciare che Giovanni si godesse da solo il suo trionfo. L’imbarazzo per l’assenza dell’imperatore era tangibile. Comunque, date appunto le difficoltà igieniche e logistiche le quali sconsigliavano un sollecito soggiorno viennese, o con il pretesto di esse, Giovanni tornò nell’accampamento conquistato, che i saccheggiatori stavano contribuendo a ripulire efficacemente; si ritirò sotto la tenda del gran visir da dove scrisse alla moglie e ad altri destinatari, tra cui gli czar Ivan e Piotr di Russia, iniziando sempre le sue missive col motto che con formale modestia si era scelto per l’occasione, ispirato a Giulio Cesare: «Veni, vidi, Deus vicit»51. Tale motto – una vera e propria «impresa» cavalleresca – implicava senza dubbio anche un’intenzione polemica. Fino dal celebre carosello che il giovane Luigi XIV aveva organizzato tra il 5 e il 6 giugno 1662 ai «giardini di Mademoiselle», sotto le finestre del Louvre e delle Tuileries (appunto dov’è oggi la Place du Carrousel), l’impresa del sovrano era stata un sole dissipante le tenebre e accompagnata dal motto, cesariano appunto, Ut vidi vici 52. All’orgoglio del Re Cristianissimo che non aveva voluto prender parte alla crociata, il liberatore di Vienna opponeva una compendiosa ed efficace versione del non nobis, Domine, non nobis, sed Nomini Tuo da gloriam. Ai dinasti moscoviti, in notori buoni rapporti con lo shah di Persia, scriveva pregandoli d’inviargli una sollecita missiva affinché si unisse agli sforzi delle potenze europee per schiacciare il comune avversario ottomano53. Dextera Domini fecit virtutem, come recita la Missa contra paganos. La notizia della vittoria percorse l’Europa con la velocità della folgore. Intanto, il 14 settembre, l’imperatore, giunto da Linz navigando sul Danubio a bordo di un battello, faceva il suo ingresso in Vienna liberata. Non era un giorno qualunque, né una data scelta a caso: quel giorno la Chiesa celebra con solennità la festa dell’Esaltazione della Croce, la vittoria in hoc signo di Costantino sui pagani. Anch’egli, solennemente accolto dallo Starhemberg, fece il giro obbligato della città e dell’accampamento ottomano. Il giorno dopo, a Schwechat – dove ora si trova l’aeroporto di Vienna – Leopoldo incontrò il re di Polonia che in quel villaggio aveva trasferito il suo accampamento per sfuggire al tanfo e alle mosche di Vienna. Il Voltaire ricostruisce l’evento in termini non proprio

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precisi e forse un po’ troppo drammatici: «L’imperatore rientrò nella sua capitale, dolente di averla lasciata; ci rientrò proprio nel momento che il suo liberatore usciva di chiesa, dove era stato cantato il Te Deum, e dove il predicatore aveva preso per testo le parole: – Ci fu un messo del Signore, chiamato Giovanni». Appunto. Gli ussari polacchi, le grandi alte ali fissate sul torso delle corazze, erano davvero apparsi come angeli liberatori e vendicatori. «Fuit homo missus a Deo cui nomen erat Johannes»: così, con le sante parole del Prologo secondo Giovanni, fu salutato il re di Polonia nei Te Deum cantati per lui in tutte le chiese della Cristianità latina. Proprio come il Voltaire testimonia due volte, nell’Essai des moeurs e poi nel Siècle de Louis XIV, il medesimo versetto era già stato applicato da Pio V a don Giovanni d’Austria all’indomani di Lepanto: «spesso quelle che paiono nuove trovate non sono che ripetizioni»54. All’imperatore non sfuggì quel che era del resto palese: i reduci dell’assedio erano di gran lunga più grati al re di Polonia che a lui e, lo dicessero esplicitamente o no, al loro sovrano rimproveravano l’assenza dal suo posto nell’ora della prova. Leopoldo e Giovanni si salutarono con misurata cortesia, esprimendosi entrambi in latino: l’imperatore ringraziò il re per il tempestivo aiuto, questi rispose elogiando il valore delle truppe imperiali. In realtà, i due sembravano fatti apposta per non intendersi e per trovarsi reciprocamente antipatici: tanto pletorico ed estroverso il polacco quanto chiuso e freddo l’austriaco. Il re di Polonia doveva scrivere poco più tardi furibondo alla moglie che l’imperatore gli era parso gelido, invidioso, irriconoscente55. Era rimasto sfavorevolmente colpito, soprattutto, dal trattamento che Leopoldo aveva riservato al loro figlio Jakub, che egli continuava a sperar di vedere presto unito in matrimonio all’arciduchessa Maria Antonia, figlia appunto dell’imperatore: la quale, in verità, era invece già destinata all’elettore di Baviera56. Da parte sua, Leopoldo era molto contrariato di essersi dovuto incontrare con un sovrano straniero che egli era tenuto a dover ringraziare per aver liberato la sua capitale e che in quel momento veniva iperbolicamente indicato come «salvatore dell’Occidente». Durante il loro incontro, entrambi restarono scontenti anche a causa del cerimoniale previsto, anzi presumibilmente concordato: la questione delle precedenze era ormai scottante e, se Leopoldo non poteva cedere, Giovanni non poteva dal canto suo accettare un ruolo simbolico troppo evidentemente subordinato. Ulteriore ragione di

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disappunto per l’imperatore era il fatto che i polacchi avessero fatto man bassa delle ricchezze dell’accampamento ottomano. Molti hanno comunque sottolineato il suo «errore» nell’essersi tenuto in disparte, durante i due lunghi mesi dell’assedio, dal teatro di guerra: e si sono chiesti l’effettivo perché del suo comportamento, in un’età nella quale il sovrano era, nei fastosi termini della retorica letteraria e artistica – ma anche politica – dell’età barocca, anzitutto un «re in guerra». In realtà, però, ormai la raison d’état moderava e reprimeva alquanto gli eroici furori dei sovrani, perfino quando essi li mostravano sul serio: il che non era certo il caso dell’Asburgo. Il Seicento, età della retorica, è nondimeno anche età della ragione e della scienza sperimentale: tutti sapevano che per fare un re, viste le consuetudini del regime ereditario, ci volevano spesso anni di trepida attesa, mesi di attenta gestazione, quindi altri anni di cautela e di educazione. Un po’ troppo per farselo portar via da una sciabolata o da un colpo d’arma da fuoco in omaggio ai bei versi dell’Iliade o della Chanson de Roland. Vero è che il XVII secolo fu comunque tempo di coraggiosi sovrani, sul tipo di Carlo XII di Svezia o di Guglielmo d’Orange: ma in genere, nella realtà pratica, i sovrani preferivano farsi ammirare nelle parate e nei caroselli piuttosto che partecipare di persona a battaglie campali o ad assedi. Il Re Sole fa impennare sovente il suo bel cavallo, nei grandi dipinti di corte, sullo sfondo dei cieli nuvolosi dinanzi alle mura di certe città – le opere che lo ritraggono dinanzi alle fortificazioni di Namur57 sono innumerevoli –: ma in realtà si faceva vedere di rado e da lontano, galoppava e caracollava un po’ e se ne andava per tornare poi, a battaglia o ad assedio conclusi, a cogliere gli allori della vittoria. Leopoldo I si lamentava spesso che i suoi ministri non lo lasciassero andare alla guerra: ma nel governo asburgico il principio della conservazione della dinastia era inviolabile. Popolare o no, maldestro o meno che fosse stato, il suo spostarsi dalla capitale alla vigilia dell’assedio ottomano per non restarvi imbottigliato, a repentaglio, era politicamente opportuno. Che poi fosse stata o no una mossa abile a livello d’immagine, era un altro discorso; ma bisognava pur stabilire una gerarchia delle priorità, e la sicurezza in quel momento aveva prevalso. Per iniziativa sua, e tutta sua? Bisogna credergli quando nel 1683 lo vediamo dichiarare che avrebbe voluto esser lui a liberare Vienna, ma che il re di Polonia si sarebbe sentito troppo offeso di non esser lui il capo dell’armata di soccorso?58 D’altronde, a dispetto dei cavalli, delle corazze e dei bastoni di comando, l’imperatore non era mai stato troppo versato

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nell’arte della guerra: e disponeva inoltre di ottimi generali. I suoi doveri e i suoi compiti erano ben altri. Non si può nemmeno dire che egli facesse granché, quanto meno nell’immediato, per recuperare l’affetto e il rispetto dei viennesi; il che è stato giudicato segno di freddezza o di alterigia, mentre qualcun altro lo ha accusato di avere la coda di paglia e di nascondere la vergogna dietro una buona patina di regia arroganza. Molto più probabilmente, ad agire in lui era la lucida e pacata considerazione della realtà. Era inutile far sfoggio di virtù eroiche post eventum, inutile cercare scuse: e quella della suscettibilità di Giovanni III ne aveva già l’aria. I mugugni dei sudditi sarebbero sbolliti. Quel che contava erano i risultati. Gli allori della giornata di gloria erano spettati al re di Polonia: l’alloro è senza dubbio un sempreverde, tuttavia esposto a lungo prende polvere; i sudditi hanno la memoria corta, e l’importante è mantenere il potere. Intanto, era meglio lasciar sbollire i cattivi umori: dopo il suo ingresso in pompa magna in città, constatato che le condizioni di vita al suo interno erano molto precarie e a lungo tali sarebbero restate mentre il rigido inverno viennese era alle porte, l’imperatore mantenne la residenza della corte a Linz per altri undici mesi circa. Anche gli altri capi militari e i soldati non vedevano l’ora di andarsene da quella città infetta, nella quale le malattie continuavano a mietere vittime e cominciavano ad aggredire anche loro e i loro uomini. Sua Maestà Cesarea sarebbe tornato con tutto comodo, in una situazione da molti punti di vista migliore, e avrebbe ripreso cominciando dall’essenziale: la necessità di ricostruire, il piacere di abbellire, l’arte di governare. Officium regum est regnare. D’altro canto, un motivo ancor più sottile presiedeva all’opportunità di non affrettarsi a rientrar nella capitale. Per il momento, le ferite erano troppo fresche e troppo rosse: era chiaro che i viennesi portavano un certo rancore e covavano un qualche disprezzo nei confronti di Sua Maestà Cesarea che li aveva abbandonati nell’ora della prova suprema, quali che fossero state le ragioni che gli avevano consigliato tale scelta. La città era in ginocchio: e, immediatamente, dopo le feste improvvisate per la gioia, i rancori e le polemiche cominciarono ad emergere con la violenza che era logico aspettarsi. All’imperatore, alla corte e all’aristocrazia si rimproverava, a bassa ma quando capitava anche ad alta voce, di aver lasciato il popolo nella sofferenza e nel pericolo; e i magari sensati argomenti di chi obiettava che ciò era stato necessario, e in ultima analisi che si era trattato di un vantaggio per tutti, non apparivano convincenti.

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Il Turco a Vienna. Storia del grande assedio del 1683

Bisognava interporre del tempo tra il loro risentimento e il ritorno. Col passar delle settimane, la memoria collettiva si sarebbe stemperata e la città sarebbe rifiorita. I viennesi avrebbero cominciato a provare invidia per la piccola Linz e a esigere che Cesare tornasse tra loro. Bastava aspettare. Del resto, la realtà obiettiva parlava chiaro da sola. All’indomani della liberazione, ci si rese conto che i danni inferti da sessanta giorni d’assedio erano molto più seri e gravi di quanto non si fosse pensato nell’entusiasmo delle ore esaltanti e febbrili in cui si era visto l’esercito assediante sciogliersi come neve al sole dinanzi alla colata di ferro e di fuoco discesa dal Wienerwald. La sofferenza era dappertutto, visibile e palpabile. A parte i soldati, si calcola che tra i civili viennesi almeno 3000 fossero i caduti durante l’assedio. Il bilancio di tali pesanti perdite (quasi il 5% della popolazione, a una media di cinquanta morti al giorno) dev’essere appesantito dai 3500 tra feriti e ammalati che non riuscirono a superare il decorso postraumatico o la convalescenza oppure a sopportare i rigori dell’inverno seguente: tanto più che durante l’assedio molte case erano state scoperchiate per ridurre i rischi dei bombardamenti e degli incendi, il che dava a Vienna un’aria di città di gran lunga più profondamente compromessa di quanto in fondo non fossero riusciti a fare i danni inferti dal nemico. Ci si dette a rimuovere le macerie, utilizzando per questo anche i prigionieri ottomani: ma, a causa dei numerosi e maleolenti cumuli d’immondizia, dei cadaveri insepolti che si cercò d’inumare in gran fretta e delle carogne d’animali – c’erano anche quelle, per quanto la fame ne avesse facilitato lo smaltimento –, si temeva lo scoppio di una nuova epidemia in quell’estate declinante ma ancora abbastanza calda da indurre a non scartare il pericolo. C’era inoltre il problema della miseria diffusa, che era senza dubbio cronico anche prima: l’assedio lo aveva però aggravato. Esso si presentava particolarmente drammatico nelle torme di ragazzi orfani o abbandonati di cui la città era piena. Spettò a pii personaggi, come il conte Leopold Kollonics vescovo di Wiener-Neustadt, raccoglierli, nutrirli, dare loro un tetto e un letto, avviarli a un futuro migliore. I viennesi sono ancora grati per questo alla memoria del nobile prelato. Se la miseria era una piaga che si stentava a padroneggiare, ciò dipendeva anche dal fatto che essa si impiantava su una situazione di reale, effettiva povertà. I viennesi non erano riusciti ad aver parte

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alcuna del pur ricco bottino ricavabile dalla spoliazione dell’accampamento ottomano: alcuni ci provarono, ma l’orda di locuste dei soldati c’era già passata. Chi riuscì a impadronirsi di qualche arma o di qualche indumento cercò poi di rivendere le sue magre prede, per sbarcare il lunario. Un minimo di ritorno alla normalità servì comunque, bene o male e presto o tardi, a ristabilire le condizioni per una vita sopportabile. I difensori civili sopravvissuti ricevettero a partire dalla fine di settembre una sovvenzione speciale, versata dall’imperatore che la prelevò da quel che restava dei fondi di soccorso messigli a disposizione soprattutto dal papa. Invece le paghe dovute alla guardia della città, cioè alle truppe regolari, restarono non distribuite per mesi da parte degli Stände59 della bassa Austria, cui competeva il dovere della corresponsione del soldo. Lo scampato pericolo induceva soprattutto a ringraziare Iddio. Spigolando tra i magri resti del saccheggio che i militari avevano lasciato loro, i viennesi riuscirono comunque a mettere insieme un centinaio di cannoni fuori uso dal bronzo dei quali si poté ricavare una campana di venti tonnellate, la Pummerin, che fu issata sul campanile della cattedrale. I gesuiti si incaricarono di mettere in scena un dramma dal titolo Vindobona liberata. Passata la paura, si cominciò alacremente e con entusiasmo a restaurare, abbellire e ampliare sul serio la città60. L’aristocrazia viennese aveva da tempo fatto a gara, fra Cinque e Seicento, per fondare le proprie residenze di rappresentanza più vicino possibile alla Hof­ burg; ora, le grandi famiglie dovettero scegliere se insediarsi entro la cinta muraria interna o sfruttare le aree esterne, dove la distruzione dei sobborghi resasi necessaria al principio del luglio aveva lasciato disponibili ampie aree a basso costo e dove era quindi possibile costruire dimore corredate di grandi giardini. Primo a terminare i lavori di ampliamento e di abbellimento della sua residenza fu il conte Dietrichstein, che alla fine del 1684 riusciva a farsi consegnare perfettamente pronti i tre piani del suo palazzo, tra la chiesa degli agostiniani e quella dei cappuccini, edificato su disegno dell’architetto Giovanni Pietro Tencala61. Seguì a ruota la famiglia Khevenhüller, che costruì il suo palazzo di fronte a quello Starhemberg, appena finito; ma che dovette essere di lì a poco venduto al conte Dominik Andreas von Kaunitz, che nel 1691 chiese all’architetto Domenico Martinelli di sottoporgli un piano di costruzione; fu poi un ulteriore proprietario, il principe Johann-Adam von Liechtenstein, a completare l’edificio gra-

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zie a un nuovo architetto, Gabriele Gabrieli, che mise definitivamente a punto nel 1705 quello che ormai sarebbe stato conosciuto come palazzo Liechtenstein e al quale avrebbe prestato la sua raffinata opera di scultore il veneziano Giovanni Giuliani. Il principe di Liechtenstein, instancabile costruttore, edificò per sé e per la sua famiglia anche un «palazzo d’estate» per il quale tormentò incontentabile alcuni tra i più celebri architetti del tempo, da Johann Bernhard Fischer von Erlach62 al Martinelli a Carlo Fontana: prevalse alla fine il progetto del Martinelli, sulla base del quale il palazzo fu completato nel 1704. Il parco del palazzo d’estate Liechtenstein era uno dei massimi capolavori dell’arte barocca dei giardini: ma fu distrutto purtroppo nel 1873 per far posto a un monumento di altro genere63. Meriterebbe di esser raccontata in dettaglio la vicenda della residenza imperiale d’estate, «La Favorita», meno sontuosa di altre dimore viennesi ma carica di una ben più significativa storia. Era stata fondata dall’imperatore Mattia e la sua facciata era stata ristrutturata da Leopoldo I tra 1672 e 1683. All’inizio dell’assedio, il conte Starhemberg aveva disposto che la dimora fosse rasa al suolo. Dopo la vittoria, l’imperatore ne volle la ricostruzione, affidata agli architetti Ludovico Burnacini e Giovanni Tencala. Nel 1698, vi si sarebbe organizzato in onore dello czar in quel momento in visita a Vienna un ballo mascherato di un lusso mai visto prima di allora64. Alla gara per abbellire la città risorta a nuova vita non poteva mancare il contributo della stella nascente del momento, il principe Eugenio di Savoia, che nel 169565 avrebbe conferito a Johann Bernhard Fischer – cui non era stato ancora attribuito il predicato nobiliare «von Erlach» – l’inatteso e costosissimo compito di tradurre nel suo nuovo «palazzo d’inverno», nella Himmelpfortgasse, le idee architettoniche innovative che il grande artista aveva appreso tra Roma e Napoli, e che del resto stavano allora trionfando nella capitale grazie a interpreti di indiscusso genio quali Enrico Zucalli e Domenico Martinelli. Tuttavia, bruscamente, il principe cambiò idea e sostituì il Fischer con un artista e tecnico austriaco, Johann Lukas von Hildebrandt, un giovane architetto militare che egli aveva incontrato in Italia e che divenne un suo protetto66. D’altronde, allorché il Fischer fu congedato da Eugenio, stava già lavorando al progetto della reggia di Schönbrunn, per il giardino della quale la corte aveva fatto appello invece a un francese, Jean Trehet. Il Fischer von Erlach e il von Hildebrandt si sarebbero del resto trovati insieme negli anni Venti del Settecento, impegnati nella costruzione del

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palazzo Schwarzenberg. Al von Erlach – ormai architetto ufficiale di corte dal 1705 – sarebbe poi spettato l’onore di concepire e di sovrintendere (ancora una volta in concorrenza col von Hildebrandt) dal 1715 alla costruzione della Karlskirche, cioè alla chiesa di San Carlo Borromeo che l’imperatore Carlo VI aveva voluto erigere come chiesa votiva durante la nuova epidemia di peste e la costruzione della quale era stata avviata due anni prima, nel 1713. Nel 1722, un anno prima della morte, il von Erlach ricevette l’incarico di edificare la Hofbibliothek, la biblioteca di corte, che sarebbe stata completata nel 1737. Al suo rivale von Hildebrandt sarebbe naturalmente spettato l’onore della costruzione dei due palazzi del suo grande protettore, il Belvedere inferiore tra 1713 e 1716 e il Belvedere superiore fra 1721 e 172367; per i giardini, il principe di Savoia si avvalse di Dominique Girard, allievo del Le Nôtre, che aveva già lavorato nei castelli monacensi di Schleissheim e di Nimphenburg. Nei palazzi viennesi della grande era barocca lavorarono pittori italiani come Andrea Pozzo, Martino Altomonte, Carlo Carlone, Francesco Solimena, Marcantonio Chiarini, ma anche artisti austriaci quali Johann Michael Rottmayr, Daniel Gran, Paul Troger e Franz Anton Maulbertsch. Nel 1700, Vienna e i suoi Vorstädte, cioè i sobborghi distrutti nel 1683 e quindi ricostruiti, contavano nel complesso 80.000 abitanti in rapida crescita: mezzo secolo più tardi il loro numero sarebbe ormai raddoppiato. Nel 1704 Vienna fu colpita, se non da un nuovo assedio, da una serie di raid protagonisti dei quali erano i kurucok del principe di Transilvania, Ferenc II Rákóczi. La risposta a questo e ad altri eventuali rischi del genere, da parte del principe Eugenio di Savoia che allora era presidente del Hofkriegsrat, fu la costruzione alla periferia di una nuova linea di difesa a forma di semicerchio, lunga 13,5 chilometri e alta 3,5 metri, il Linienwall, destinata a includere i nuovi sobborghi nel perimetro cittadino così ridefinito e ampliato. Progettatore della nuova fortificazione era il matematico di corte, Giangiacomo Marinoni. Dopo il 1710 le fortificazioni furono ulteriormente rafforzate, nell’ipotesi di nuovi attacchi: gli eventi del 1683 avevano segnato profondamente la città e i suoi abitanti; nonostante le non poche vittorie che nel frattempo avevano incoronato le armi cristiane, la paura sussisteva ed era entrata a far parte di un folklore urbano destinato a lasciare un’impronta profonda. Gran parte dello splendore della Vienna barocca68, letteralmente fondata da Leopoldo e dal suo successore Giuseppe I nei tre decen-

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ni successivi all’assedio quasi come risposta liberatoria alla grande paura che la peste prima, gli ottomani poi avevano provocato nel terribile lustro fra 1678 e 1683, si è andato perdendo sia a causa delle modificazioni subite dall’architettura e dall’urbanistica cittadine fra Sette e primo Novecento, sia per le distruzioni provocate dalla seconda guerra mondiale, sia infine perché, fin dall’inizio, esso era costituito da un’impressionante quantità di monumenti e di ornamenti effimeri destinati a ingressi solenni di sovrani, feste di corte o di città, solennità di vario genere ma dei quali non si prevedeva la durata. Di questa straordinaria ricchezza restano solo le testimonianze grafiche, pittoriche e plastiche negli archivi, nelle biblioteche e nelle raccolte d’arte cittadine69. Immediatamente dopo l’assedio dell’83 l’edilizia religiosa, specie – ma non soltanto – quella a carattere votivo, aveva conosciuto uno straordinario incremento sia all’interno sia all’esterno del perimetro murario urbano. La grazia della liberazione era stata immensa: molti avevano parlato addirittura di miracolo, le notizie di apparizioni e di eventi prodigiosi – mai peraltro legittimate dall’autorità della Chiesa – si erano incrociate e la città era diventata una specie di grande teca di ex voto. Era ovvio che ne giungesse il riconoscimento e la legittimazione anche al livello della circoscrizione diocesana. Il 1° giugno del 1722 papa Innocenzo XIII, con la bolla Suprema dispositione, elevò la diocesi viennese – fondata nel 1469, dotata di presule residente a partire dal 1513 e fino ad allora suffraganea della bavarese Passau – al rango di arcidiocesi metropolitana. Nonostante questa indubbia affermazione sul piano dell’organizzazione ecclesiale, che sanciva definitivamente un salto di qualità sotto il profilo del prestigio, nel corso del XVIII secolo fu come abbiamo visto l’edilizia pubblica e privata laica, specie quella a carattere monumentale o caratterizzata comunque da opulenza e grandiosità, a prevalere. La capitale della «Monarchia d’Austria» era ormai una delle più grandi, ricche, colte città d’Europa: la più splendida capitale del continente, dopo Parigi e insieme con Napoli. Questa fu la Vienna gloriosa degli anni 1685-1720, la «prodigieuse floraison de constructions»70 della quale fu sostenuta sia da un generale risanamento delle finanze della «Monarchia d’Austria», alla quale l’imperatore Leopoldo aveva lavorato assiduamente e instancabilmente, sia da una vera e propria inversione di tendenza – rispetto al periodo di prima dell’assedio – in termini di mercato del lavoro e di livelli salariali, che crebbero in modo netto e per lungo tempo irreversibile.

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Nella vertiginosa crescita della Vienna settecentesca e nel parallelo decremento d’Istanbul sta sintomaticamente e simbologicamente racchiuso il nucleo delle vicende dell’avvio della crisi dell’impero ottomano e dell’affermarsi di quello austro-asburgico, che venne interpretato al momento anche come una rinascita del Sacro Romano Impero (e, in un certo senso, lo era). Due direzioni che trovano, entrambe ed insieme, il loro atto di nascita nell’assedio del 1683 e nel suo esito. L’eco della fama, le ali della vittoria All’indomani dell’insperato successo di Vienna – cui avevano contribuito in qualche modo, se non proprio i governi, quanto meno i volontari venuti un po’ da tutta l’Europa, e che ebbe un’eco entusiasta in tutto il mondo cristiano71 – una nuova ondata di devota fierezza s’impadronì dell’Occidente. I veneziani seppero prestissimo, da fonte probabilmente ragusea72, della vittoria; e il giubilo cittadino alla lieta notizia viene documentato in uno scritto del carmelitano osservante padre Sebastiano Stefani, che riferisce molti significativi episodi73. Venezia fu il primo e principale centro d’irradiazione della fausta notizia in tutti i luoghi della Cristianità. Da Venezia, il rumore dell’evento arrivò il 17 settembre a Roma provocando «un vero tumulto di gioia»74. I dispacci ufficiali, comunque, giunsero soltanto qualche giorno dopo, tra il 22 e il 23: e allora l’entusiasmo popolare giunse letteralmente alle stelle. Il papa, che negli ultimi giorni non aveva chiuso occhio, si prostrò in ginocchio e ordinò quindi che le campane della città suonassero nei giorni successivi per un’ora. La notte seguente tutta Roma venne illuminata da miriadi di fiaccole, mentre il popolo, osannando al papa, all’imperatore e al re di Polonia, portava in trionfo pupazzi travestiti da gran visir che venivano poi festosamente giustiziati; e naturalmente non mancarono i soliti tumulti. Uno dei primi atti di Giovanni III, dopo la vittoria, era stato l’invio a papa Innocenzo XI, attraverso il suo segretario personale Tommaso Talenti, di una grande bandiera ricamata, che egli riteneva lo stesso stendardo del Profeta75. Il pontefice era stato informato della vittoria attraverso il cardinal Carlo Barberini, immediatamente avvertito dal re di Polonia il quale aggiungeva che il suo segretario si era subito messo in viaggio alla volta di Roma76.

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L’insegna ottomana, viaggiando da Vienna a Roma, fu oggetto e protagonista al tempo stesso di uno straordinario trionfo. A Ferrara, il 22 settembre, il legato pontificio la fece esporre nel castello. Per l’occasione fu stampato un foglio volante nel quale essa veniva effigiata e si interpretavano le parole in arabo che vi erano ricamate; a Bologna le vennero dedicati componimenti poetici77. Non è tuttavia chiaro se il trofeo ostentato a Ferrara e a Bologna fosse il medesimo che il Talenti recò al pontefice. Le descrizioni non coincidono: e anche le date, pur sovrapponendosi, non paiono del tutto coerenti. Abbastanza certo è che, passando per la bassa Austria e per Trento, il 24 settembre il Talenti pervenne a Firenze dove non doveva aver ricevuto incarichi da espletare, tanto è vero che cercò di mantenere l’incognito: tra l’altro, era piuttosto mal messo in salute. Ma non sfuggì né alla curiosità del popolo e della nobiltà fiorentina, né tantomeno al granduca Cosimo III che volle riceverlo con tutta la corte: e a palazzo si intrattenne sino a notte fonda, nonostante fosse raffreddato e forse febbricitante78. Ripartì comunque di primo mattino il giorno dopo e a Roma fu ospite del cardinal Barberini nel suo palazzo alle Quattro Fontane. L’accoglienza del Talenti nella capitale del papa fu veramente trionfale: la città visse giorni di giubilo indimenticabile. In quell’occasione, il segretario regio presentò al pontefice la celebre lettera scritta dal suo signore, l’incipit della quale è rimasto nei secoli: Venimus, vidimus et Deus vicit79. Quel 25 Innocenzo XI cantò un solenne Te Deum nella basilica di Santa Maria Maggiore; nel medesimo giorno inviò commossi brevi all’imperatore, al re di Polonia, al duca di Lorena e ad altri protagonisti della liberazione; al bano di Croazia Miklós Erdödy spedì 25.000 fiorini che avrebbero dovuto servire all’immediato attacco della fortezza di Kanizsa ancora in mani infedeli80. Splendidi doni furono offerti dal papa e dalla corte pontificia al Talenti, come si usava fare quando un messaggero recava notizie particolarmente liete. Infine, durante una messa celebrata al Quirinale la domenica 29 settembre, festa dell’arcangelo Michele, l’insegna strappata al Turco in battaglia fu presentata al papa dal canonico Jan Cazimiersz Dönhoff, rappresentante del re di Polonia a Roma. Lo stendardo fu solennemente e cerimonialmente scagliato a terra e trascinato quindi verso l’altare durante l’offertorio, prima di venir deposto ai piedi del pontefice81, che lo fece appendere sul portale maggiore di San Pietro82. Un’altra bandiera, giudicata ancora più bella, fu conquistata il 27 settembre dal re di Polonia mentre egli era all’inseguimento dell’e-

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sercito del gran visir in ritirata e venne offerta al santuario mariano di Loreto, insieme con il padiglione del gran visir che servì a confezionare sia un baldacchino processionale, sia alcuni paramenti liturgici83. Fedele a una tradizione che ininterrottamente si era seguita fin dal Quattrocento, il papa decretò inoltre che la vittoria della domenica 12, ottenuta il trentesimo giorno dopo l’Assunzione, avrebbe dovuto esser da allora in poi celebrata come festa del Nome di Maria84. A Roma in ricordo della vittoria si costruì una nuova chiesa, presso il Foro Traiano nel rione Trevi, che venne dedicata appunto al Santissimo Nome di Maria. Fu tra Sei e Settecento che si cominciò a dedicare alla Vergine il mese di maggio, un periodo «difficile» per il mondo agricolo in quanto decisivo per i raccolti, ma anche – come si vede nell’epistolario di Marco d’Aviano – il mese per eccellenza della guerra, il «bel maggio» in cui la Cristianità soleva muovere di nuovo, dopo la pausa invernale, all’assalto del nemico85. La vittoria fu salutata anche da alcuni arcani segni. Si diffuse la notizia di una croce misteriosamente rinvenuta in Germania, su cui erano disposte le cinque lettere in acrostico divenute l’impresa della casa d’Asburgo: A.E.I.O.U., interpretate come «Austriae Est Imperare Orbi Universo», ma anche «Austriaci Erunt Imperii Ottomanici Victores», oppure – con specifico riferimento ai protagonisti della liberazione di Vienna – «Austriaci Emmanuel (l’elettore di Baviera) Iohannes (il re di Polonia) Odescalcus (papa Innocenzo XI) Veneti»86. Un’effigie di Maria fortunosamente rinvenuta fu presentata al re di Polonia, che ne fece una specie di palladio. «Sei vinta, o Morte, sei vinta!». Così apriva la sua solenne orazione il padre Francesco Tinelli, della Compagnia di Gesù, predicando solennemente nel fiorentino tempio della Santissima Annunziata in occasione della grande cerimonia funebre organizzata il 13 ottobre, dinanzi al Castrum doloris, un enorme catafalco foggiato su disegno di Pietro Dandini a forma di fortezza sulla quale si ergeva una piramide sul culmine della quale era posta un’urna d’argento e attorno alla quale, nella luce di innumerevoli ceri, stavano disposti dodici scheletri armati dritti su un trionfo di trofei, armi, tamburi, insegne e strumenti di guerra87. Sei vinta, o Morte, sei vinta! All’or che alla Luna Ottomana spezzate furon le punte dell’arco suo, hai spezzato anche tu le tue saette; né la Luna, né la Morte potranno mai sopra le mura viennesi piantar bandiere di vanto. Chi muore per difender la Fede, non finisce, ma solo muta il

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suo vivere. Cangia le aste in scettri, le celate in diademi, gli usberghi in manti, le piaghe in stelle; passa da frali spoglie a ricami eterni, da steccati di guerra a recinti di pace, da battaglie terrene a trionfi celesti. Ed ancorché in pochi passi di sole vengano l’ombre di morte, assai vive, chi vive da forte; assai combatte, chi nulla risparmia; con brevi giri di spade s’intreccia molte corone e tutto vince, chi vince un’eternità. Tali foste, o voi tutte, anime grandi, che in questa guerra contro il turchesco tiranno ardimentose pugnando, per salir da eroi nel Cielo, non trovaste una via di latte finta già da’ poeti per la via degli eroi, ma voi stessi v’apriste in terra una via di sangue, ch’è la via non favolosa degli eroi marziali, per portarvi là su a passeggiare nella Beata Eclittica col sole eterno88.

Dalla fastosa prosa barocca del gesuita Tinelli si ricava tra l’altro, al di là dell’intensa reminiscenza paolina relativa alla vittoria sulla morte e dell’eco delle nuove scoperte astronomiche, un’indicazione simbolica e addirittura iconica di archetipica forza: il crescente musulmano viene qui assimilato all’arco della morte, con un’immagine destinata a coinvolgere in modo profondo l’immaginario cristiano89. E bisogna tener presente che l’arco, ormai scomparso da tempo nell’uso militare europeo – per quanto sopravvivesse come arma da caccia e da diporto –, era invece ancor diffuso e usato con perizia in tutti gli eserciti asiatici, dall’impero ottomano a quello persiano, all’India moghul, alla Cina, al Giappone, con tattiche complementari all’arma da fuoco. Anche durante l’assedio, secondo alcuni – ma è parere controverso –, si era sperimentato quanto più rapidi, precisi ed efficaci fossero con i loro colpi gli arcieri rispetto ai moschettieri. Le parole del padre Tinelli confermano anche un altro elemento caratteristico della cultura europea e degli schemi simbolici in essa ormai radicati: l’insistenza sull’immagine della falce di luna trattata come se fosse stata non uno dei tanti simboli diffusi nel mondo musulmano, ma il suo segno sacro e identificante per eccellenza. Anche il lucchese Michele Di Poggio, scrivendo al suo vescovo a proposito dei festeggiamenti che si erano fatti in Lucca appunto alla notizia della liberazione di Vienna, insisteva sulla luna ottomana, che la sonora lezione inflittale aveva «ridotta in minuti quarti», ma che era abituata all’alternarsi delle sue fasi e a «ricrescer quasi subito e à farsi in pochi giorni riveder luna piena»90. Dalla giornata viennese raccolse grande messe di gloria Antonio Carafa, al quale – secondo un suo biografo settecentesco, l’Aldimari – andava l’onore di aver non solo definitivamente persuaso con la sua eloquenza re Giovanni di Polonia a intervenire per salvare Vienna,

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ma di essere poi entrato per primo nella capitale assediata, avendo «col primo squadrone rotta l’audacia dell’ottomana potenza»91. Non era vero: pare che quell’onore sia andato a Ludovico Guglielmo di Baden, come abbiamo visto. Ma, all’interno dell’erudizione storica del XVII secolo, la falsa notizia ripresa (o coniata?) dall’Aldimari ha una sua logica precisa. Con essa, difatti, si riproponeva un topos che era molto caro alla letteratura genealogico-encomiastica fino almeno dal Trecento, quello del «primo crociato» a esser salito sulle mura di Gerusalemme, nella fatale giornata del 15 luglio del 1099, che molte città e famiglie si erano attribuite foggiando varie leggende tutte simili e concorrenti fra loro. Il comportamento eroico dei viennesi assediati, la grande giornata del Kahlenberg e la guerra che le tenne dietro furono oggetto di un’eco infinita: feste, spettacoli teatrali e musicali, quadri, affreschi92, stampe, opuscoli celebrativi in versi e in prosa, Flugblätter, monumenti; la nascente stampa giornalistica fece dell’evento un suo argomento privilegiato93. Da Mantova a Firenze a Lucca a Roma, negli anni attorno all’84-’87, benemerite stamperie come quelle dei Marescandoli, del Paci e del de’ Rossi sfornarono instancabili uno straordinario numero di fascicoli e di opuscoli, spesso di pochissime pagine, dedicati ai pronostici relativi al Turco, alle rassegne degli eserciti contrapposti, alle fortezze. Un po’ in tutta Europa si organizzarono manifestazioni di giubilo con fuochi artificiali e cortei e si allestirono rappresentazioni sceniche incentrate sul ludibrio dell’avversario vinto: sultani appesi per i piedi, visir impalati, fortezze turche di legno e cartapesta che saltavano per aria, carri allegorici, elaborati trionfi della croce sulla mezzaluna. Le profezie astrologiche secondo le quali l’impero ottomano era alla fine del suo ciclo, sovente rielaborazioni dei testi gioachimiti o di opuscoli già comparsi in abbondanza tra Quattro e Cinquecento, furono riproposte in nuove rielaborazioni. In Italia, soprattutto – ma non solo – nelle terre della Chiesa, i festeggiamenti furono straordinari: si ha particolare memoria, oltre che di Venezia, di Milano94, di Bologna, di Reggio Emilia, di Ferrara, di Ancona95, di Lucca, di Firenze: un po’ meno, forse, nell’Italia «spagnola». A Venezia, i «casotti» nelle calli e nei campielli e i teatrini nelle dimore patrizie misero a gara in scena con le loro marionette l’epopea delle forze cristiane contro turchi ridicoli, fuggiaschi e bastonati: ancor oggi alcuni di quei burattini – come quelli, bellissimi, di casa Grimani – si ammirano al museo Correr. A Ferrara, dove l’e-

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vento venne celebrato dai cronisti cittadini Niccolò e Gerolamo Baruffaldi, si ebbero Te Deum in duomo, scampanate, salve di cannone, spari di archibugi, archi trionfali coronati dall’aquila imperiale che stringeva fra gli artigli la mezzaluna ottomana, impiccagione per i piedi e rogo di due pupazzi rispettivamente rappresentanti il sultano e il gran visir; e la florida, numerosa comunità ebraica – come tutte le altre nell’Europa cristiana sospettata di simpatie nei confronti dei turchi: il che, visto il differente trattamento che cristiani e ottomani riservavano agli ebrei, non meraviglia... – organizzò a sua volta «gran feste con fuochi et illuminazioni a gara de’ cristiani»96. A Bologna, l’incisore Giuseppe Maria Mitelli dedicò una serie d’immagini caricaturali alla sconfitta del Turco97. A Lucca, dove la lieta novella era giunta nella notte da Firenze, fino all’alba non si dormì: il giorno seguente, salutato dai rintocchi gioiosi della campana maggiore della «Torre di Palazzo», si stabilì che il 24 successivo si sarebbe celebrato in cattedrale un solenne Te Deum, e quel giorno fu ancora pieno di festeggiamenti che si prolungarono sino a notte fonda tra falò, squilli di tromba e spari di moschetto. La città – scriveva Michele di Poggio al vescovo della città, il cardinale Giulio Spinola – «non vide mai notte più luminosa di questa; in cui, sì come non era alcuno, che non brillasse di gioia, così non fu casa, che non risplendesse di fuochi»98. Si continuò a festeggiare nei giorni successivi con cerimonie religiose ed elargizioni di cibo ai poveri, per quanto i parsimoniosi mercanti lucchesi non riuscissero a celare del tutto la loro apprensione per le nuove richieste di denaro che sarebbero giunte loro dall’imperatore per continuare lo sforzo militare intrapreso. Anche a Lucca, come a Bologna, gli stampatori locali si dettero molto da fare con memorie, ragguagli, fogli volanti: qualcuno ha sostenuto che il giornalismo moderno può trovare nell’evento viennese la sua data simbolica di nascita, o quanto meno il suo battesimo del fuoco99. Lucca venne a trovarsi, al pari di Venezia e di Bologna sia pure per differenti motivi, nella condizione di fungere da cassa di risonanza per tutti gli avvenimenti del momento che riguardassero Vienna e l’Europa centrale: lucchese era difatti il cardinal Buonvisi, e la città vantava d’altronde un lungo e fecondo rapporto economico e commerciale con la Polonia; lucchese era inoltre il segretario stesso di Giovanni III, Tommaso Talenti; e lucchese uno dei suoi principali comandanti militari, l’allora ormai settantacinquenne ufficiale d’artiglieria Giovan Battista Frediani, che viveva e militava in Lituania-Polonia fin dal 1649100.

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Qualcuna delle manifestazioni di gioia che in tutta Italia e in tutta Europa fiorirono in quei giorni entrò probabilmente nel folklore delle feste che ancora si celebrano – o che si sono ripescate in seguito alle ondate revivalistiche otto-novecentesche – in Europa. Almeno in un caso, l’evento dette adito a una composizione epico-popolare che ha davvero sfidato i secoli. Infatti secondo il Meo Patacca, il poema eroicomico pubblicato nel 1695 da Giuseppe Berneri, mentre «stava Roma paciosa allor che l’anno – mille seicento ottantatré curreva», si diffonde nell’aria sonnacchiosa per la calura estiva la notizia che Vienna è stata assalita dal Turco. Allora il popolano Meo Patacca, lo spavaldo e manesco «capotruppa della gente sgherra» «figlio di mastro Titta e monna Lena – conforme loro lui è tresteverino», si dà a raccogliere uomini, armi e vettovaglie per correre in aiuto della capitale assediata. Anche molti nobili lo sovvengono con cibarie e bei soldi. Ma, allorché l’armata popolana sta per muoversi, giunge la notizia che Vienna è stata liberata: e allora i soldi e le cibarie vengono allegramente scialacquati da Meo e dai suoi chiassosi compari in feste e bagordi101. La vittoria fece scorrere i tradizionali fiumi d’inchiostro e gemere a lungo i torchi degli stampatori. Piovvero gli inni, le odi, i panegirici e ogni genere di opera letteraria: non sempre vere e proprie primizie ispirate dalle muse, comunque scritti significativi102. In qualche caso, si ebbero risultati degni di nota: come nelle Canzoni in occasione dell’assedio e liberazione di Vienna del poeta fiorentino Vincenzo da Filicaia, un rimatore non privo di qualità103. L’Europa fu invasa dai trofei di guerra turchi conquistati in battaglia, cui fatalmente se ne aggiunsero anche altri che da lì non provenivano: certo è che, dalla giornata viennese, collezionismo ed orientalismo trassero ricco alimento, come si può vedere un po’ in tutti i musei del continente104. La grande vittoria cristiana fu celebrata, in ogni modo, anche nelle cosiddette arti minori – che tali non sono affatto – e negli ogget­ti d’uso. Un bellissimo nappo d’argento dorato, avorio e pietre semipreziose oggi conservato nel dipartimento Monnaies, Médailles et Antiques della Bibliothèque Nationale di Parigi, e noto appunto come «vaso di Löwendal», o «nappo di Sobieski», reca scolpite in avorio le gesta dell’armata vittoriosa e, sul fastigio, l’immagine statuaria in argento dell’imperatore Leopoldo che, a cavallo, abbatte il gran visir: secondo l’iconografia di san Giorgio e del dragone, a sua volta modellata su quella dell’arcangelo Michele che sconfigge il demonio.

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Peraltro non ci si limitò alle manifestazioni di giubilo. Nell’esaltazione del trionfo, molti si ricordarono – o magari in una qualche misura si inventarono – che il cane infedele nemico aveva avuto anche all’interno della Cristianità i suoi partigiani, se non addirittura dei complici. Nonostante il Re Sole si fosse accodato (non subito, per la verità: né troppo di buonavoglia) alle congratulazioni che da tutta la Cristianità giungevano all’imperatore, al papa e al re di Polonia, capitò che qualche viaggiatore francese all’estero fosse attaccato o dileggiato a causa dell’ambiguo comportamento del suo sovrano. Più duri e violenti furono gli attacchi contro gli ebrei, sospettati di simpatie nei confronti del Turco: né si vede come avrebbero mai potuto non averne, dal momento che tra fine Quattrocento e Cinquecento molti loro correligionari cacciati dalla Spagna avevano trovato rifugio nell’impero sultaniale, e che nel dar al-Islam essi erano trattati incommensurabilmente meglio che non nella Cristianità. In alcuni casi, come in Polonia, si giunse addirittura ad accusare apertamente gli ebrei di spionaggio e di collaborazione attiva con gli ottomani105. Poco dopo, durante la campagna balcanica che avrebbe portato alla liberazione di Budapest e di Belgrado, si riproposero le scene di violenza e di saccheggio dirette contro le comunità ebraiche ormai periodicamente consuete almeno dall’XI secolo in coincidenza con la proclamazione di crociate o con il diffondersi di notizie riguardanti supposte profanazioni di ostie consacrate o infanticidi rituali perpetrati da coloro che la liturgia cattolica del Giovedì Santo – che pur invitava a pregare per loro: ma affinché si convertissero – definiva perfidi Iudaei. Nella penisola balcanica, la riconquista cristiana delle aree che dal Trecento in poi erano state progressivamente occupate dagli ottomani fu accompagnata prima da una vampata di furia persecutoria contro gli ebrei, quindi da un drastico peggioramento delle loro condizioni civili e sociali. Molti di loro, forse, si sarebbero aspettati una protezione dalla dinastia imperiale, dato l’appoggio economico e finanziario che i cosiddetti Hofjuden, gli «ebrei di corte», le avevano lungamente e massicciamente fornito, e i meriti che uno di essi, Samuel Oppenheimer, si era guadagnato rifornendo le truppe imperiali anche durante l’assedio di Vienna106: ma in realtà si sarebbe dovuto aspettare un secolo, cioè il tempo delle riforme giuseppine e leopoldine, perché le loro condizioni migliorassero sul serio. Vero è tuttavia che si registrarono molti casi di partecipazione delle comunità israelite al giubilo per le vittorie cristiane di fine secolo: ma dovette trattarsi di manifestazioni piuttosto tiepide

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e poco convincenti, pour cause del resto. D’altronde, i viaggiatori e i mercanti occidentali sapevano bene, e l’avevano più volte veduto, con quanto più convinto entusiasmo gli ebrei dell’impero ottomano festeggiassero invece le vittorie delle armi sultaniali107. L’assedio di Vienna e le sue immediate conseguenze sono stati considerati da alcuni studiosi una sorta di plaque tournante per la situazione degli ebrei nell’Europa centrale e meridionale: e quasi una fase di passaggio, in una parte del pensiero e negli atteggiamenti correnti nell’Europa del tempo, dall’antigiudaismo con le sue connotazioni essenzialmente teologiche e controversistiche (un atteggiamento che includeva la speranza e la volontà di una loro conversione al cristianesimo) a un vero e proprio protorazzismo. Ci si è in altri termini chiesti se già da allora, dietro le recriminazioni contro gli ebrei nemici del cristianesimo, usurai e sostenitori anche se magari solo occulti degli ottomani, non si celasse la convinzione diffusa o elitaria che essi fossero incapaci di riconoscere quella Verità che era pur uscita dal seno della loro fede e della loro storia – per cui chi avesse accettato la vera fede si sarebbe con ciò stesso riscattato da qualunque passato errore –, in quanto nel loro intimo albergava qualcosa di ereditario, una diversità radicalmente biologica che li predisponeva al male. È noto che la teorizzazione di questa differenza in termini decisamente razzistici, cioè con il supporto di pretese «scientifiche», non si presentò prima del XVIII secolo. Ma si è d’altro canto notato che, ferma restando la netta distinzione tra l’antigiudaismo teologico e proselitistico da una parte e l’antisemitismo politico e deterministico-razzista dall’altra, già alcuni elementi cresciuti nell’ambito del primo potevano preludere al secondo. Così, nella Spagna cinque-seicentesca la nobiltà insisteva sulla sua limpieza de sangre, propria di chi era da sempre cristiano, contrapposta all’ambiguità genealogica dei cristianos nuevos, in termini nei quali qualcuno ha voluto individuare, un po’ avant la lettre e forse non senza una qualche sfumatura d’anacronismo, dei «tratti protorazzisti»108; mentre luoghi comuni come quelli del foetor iudaicus, l’odore particolare – e non piacevole – emanato dagli ebrei e sul quale aveva insistito anche Martin Lutero nei suoi violentissimi scritti antigiudaici, sembravano affermarsi al di là della considerazione che tale supposto fenomeno potesse dipendere da ragioni igieniche o alimentari o dall’uso quotidiano di specifiche sostanze cosmetiche o mediche, e suggerire invece che esso costituisse un connotato loro biologicamente intrinseco, una sorta di signum infamiae impresso loro da Dio

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prima che, in analogia con esso, dal concilio lateranense IV del 1215 in poi fosse stata loro imposta la rota distintiva sulle vesti. La notizia della liberazione di Vienna e quelle, immediatamente successive, che fornivano un quadro un po’ troppo ottimistico dei successi dell’armata imperiale all’inseguimento di quel che restava di quella ottomana provocarono anche un’ondata di nuovo entusiasmo per le prospettive di un’ultima e definitiva crociata, alla quale il papa mostrava di credere fermamente e di lavorare con decisione, con la costituzione, come si vedrà, di una Santa Lega alla quale parteciparono subito l’impero e la Polonia, e poco dopo aderì Venezia. Soprattutto nell’Italia «spagnola», vale a dire nello stato milanese e nel regno di Napoli, dove si introdusse di nuovo la contribuzione fiscale detta appunto cruzada, molti parlavano sul serio addirittura del prossimo recupero dei Luoghi Santi109. La gloriosa giornata del 12 settembre fornì anche l’impulso decisivo a una nuova canonizzazione. Giovanni da Capestrano, il francescano osservante ch’era stato a metà del Quattrocento instancabile predicatore della crociata, fu oggetto nei mesi dell’assedio, per volontà di papa Innocenzo, di un culto continuo: una lampada ardeva giorno e notte davanti alla sua effigie posta sull’altar maggiore della chiesa romana dell’Ara Coeli. Una volta Vienna liberata, la gratitudine del pontefice non si fece attendere: nel 1690 Giovanni fu proclamato santo110.

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Morte di un gran visir La pietra filosofale e la guerra santa erano solo il rendez vous di cervelli guasti che portavano piume in testa anziché sui cappelli.

Con questa sprezzante sentenza Francis Bacon, nell’Advertisement touching the Holy Warre del 1622 che purtroppo non riuscì a portare a termine1, bollava a fuoco le fantasie alchemiche e quelle crociate e cavalleresche del suo tempo, significativamente accomunate in un’unica ridicolizzante condanna. Ma era la voce di un razionalista protestante, per il quale l’alchimia era una favola e la crociata una perfida invenzione papista di cui il suo paese era stato a un pelo dal cader vittima alcuni anni prima, al tempo dell’Invencible Armada. D’altronde, in quel momento la minaccia ottomana latitava dalla stessa Europa centrale e orientale: il sultano era impegnato in guerra contro la Persia, la «lunga guerra turca» era terminata da più di tre lustri e quella di Candia era lontana a venire quasi un quarto di secolo; né si affacciavano pericoli immediati all’orizzonte. Plausibile disprezzo per la crociata, nell’Inghilterra protestante del primo quarto del Seicento. Ma se ci spostiamo nell’Europa continentale, oltre una sessantina d’anni più tardi, troviamo evidentemente un quadro di tutt’altro genere. Tre anni dopo la liberazione di Vienna il prete cattolico francese Jean Coppin, ormai ritiratosi settantenne a Le Puy in Alvernia ma con alle spalle un passato avventuroso e tumultuoso come ufficiale di cavalleria sotto Luigi XIII, quindi viaggiatore in Africa settentrionale e infine console di Francia a Damietta, pubblicava un’opera destinata a restar celebre, Le bouclier de l’Europe et la Guerre Sainte. In essa si sosteneva che mai prima di quella congiuntura temporale gli ottomani avevano dovuto incassare tanto sonore sconfitte e ch’era giunta l’ora di scatenare la finale, risolutiva crociata. Le armi cristiane stavano in quel momento trionfando, come vedremo,

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dalla piana del Danubio allo Ionio: era giunta l’ora di un attacco unitario e coordinato dell’Europa cristiana che finalmente, dopo secoli di alterne vicende, avrebbe messo in ginocchio il suo secolare nemico. Il Coppin forniva con la sua opera il supporto storico e teorico a un’impresa ormai in atto da circa due anni, ma dalla quale era assente proprio il suo sovrano, Luigi XIV: la Santa Lega. Lo scritto di quel sacerdote ex militare era solo uno dei tanti, analoghi sia per tono sia per contenuto, che circolavano in quegli anni riallacciandosi a un genere trattatistico dalle lontane e venerabili radici più volte rivisitato, rinnovato, riattualizzato. I suoi primi modelli sono rintracciabili nella vasta letteratura de recuperanda Terra Sancta avviata per volontà di papa Gregorio X in coincidenza con il II concilio di Lione del 1274, quando quel pontefice aveva invitato principi ed esperti del mondo d’Oltremare e della crociata, laici ed ecclesiastici, a inviargli progetti per nuove spedizioni e dossiers sull’effettiva praticabilità di esse. Da Fidenzio da Padova a Jacques de Molay, a Pierre Dubois, a Benedetto Zaccaria, a Raimondo Lullo, a Marin Sanudo «il Vecchio», una nutrita serie di personaggi si erano cimentati nella redazione di trattati, alcuni dei quali avevano raggiunto dimensioni monumentali e sarebbero rimasti famosi per la loro esposizione della geografia vicino-orientale e per le loro tesi economiche, giuridiche, strategiche e politologiche. In realtà, questa trattatistica sta per molti versi alla base del diritto internazionale e della teoria dello stato moderno2. Ma in un successivo concilio, quello di Vienne del 1312, quella densa stagione di progetti era sembrata chiudersi per sempre: intanto, proprio durante il periodo intercorso tra i due concili, papa Bonifacio VIII aveva avviato nel 1300 la pratica di quel Giubileo che, oltre a portare definitivamente la città di Roma al centro della Cristianità occidentale, segnava una prospettiva di sostituzione del pellegrinaggio gerosolimitano con quello romano e chiudeva pertanto l’età, durata oltre due secoli, nella quale la prospettiva penitenziale e salvifica dell’indulgenza plenaria si era indissolubilmente legata al voto crociato3. Tuttavia, di lì ad alcuni decenni la crociata sarebbe ricomparsa all’orizzonte delle discussioni, delle pratiche delle necessità e delle illusioni del mondo cristiano europeo insieme con la nuova, inattesa minaccia costituita dall’espansionismo ottomano: dopo la terribile sconfitta di Nicopoli del 1396, allorché il forse più potente esercito crociato mai messo fino ad allora insieme era stato distrutto dai turchi del sultano Bayezid, e più ancora dopo l’ulteriore sconfitta crociata di Varna del 1444, la

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perdita di Costantinopoli del 1453 e l’eroica difesa di Belgrado del 1456, anche la trattatistica de recuperatione si era riproposta sotto le spoglie della vasta letteratura antiottomana, allacciandosi a temi strategici e geopolitici per certi versi e addirittura profetici ed apocalittici per altri. Personaggi molto diversi tra loro, quali il poeta Luís Vaz de Camões, lo stratega e politologo calvinista François de la Noue4, il principe Carlo di Nevers, l’ambasciatore francese François Savary de Brèves, il duca di Sully ministro di Enrico IV, il teologo Tommaso Campanella, il viaggiatore Pietro della Valle5, il cappuccino padre Giuseppe consigliere del Richelieu, avevano formulato tra Cinque e Seicento da differenti punti di vista dei veri e propri nuovi progetti di crociata, che in qualche modo avevano costituito nel loro insieme il background dei trattati di Westfalia e di quell’idea della mutua inter christianos tolerantia che si radicava profondamente nella teologia della crociata quale opus pacis esplicitamente teorizzata dai canonisti del Duecento: da lì sarebbero partiti Locke, Voltaire e Lessing per la loro fondazione dell’idea di tolleranza. Una prospettiva crociata in chiave storica, ma strettamente connessa a profetismo e ad escatologia, era stata proprio quella annunziata – nel contesto della pacificazione tra cattolici e ugonotti francesi dopo il troppo lungo scontro concluso con l’avvento al trono di Enrico IV – dal calvinista Jacques Bongars che aveva edito, dedicandola al suo successore Luigi XIII, un’ampia raccolta di fonti crociate dal significativo titolo di Gesta Dei per Francos6 dove si riproponeva un’espressione passata quasi in proverbio, ma ora reinterpretata a indicare un «primato francese» nella lotta contro gli infedeli. Riprendendo questa visione e accettando il provvidenziale ruolo della Francia Tommaso Campanella, nella sua Ecloga per la nascita di quel Delfino che sarebbe divenuto Luigi XIV, scorgeva nella futura liberazione di Gerusalemme il segno della renovatio saeculi, che avrebbe coinciso con l’instaurazione della monarchia universale e la fine della storia7. Alla luce di quel profetico scritto non stupisce che il sovrano – il quale si fregiava di un’impresa solare che sembra richiamare a suggestioni non solo galileiane, ma anche campanelliane – fosse tanto geloso custode del suo ruolo di protettore dei Luoghi Santi e dei cristiani di Terrasanta, secondo le Capitolazioni firmate da Francesco I e da Solimano il Magnifico e quindi più volte rinnovate. In pieno Seicento, la monarchia di Francia sembrava aver eclissato sia l’impero sia quelle di Spagna e d’Austria come vessilliferi delle istanze crociate: e ciò accadeva nonostante la politica di Luigi

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XIV nei confronti della Porta. Anzi, il Re Sole se ne serviva appunto per contrapporla alle accuse dei detrattori che lo stigmatizzavano come filoturco. Difatti un altro grande saggio teorico sull’idea di crociata, a modo suo ascrivibile alla grande stagione della trattatistica de recuperatione nel 1274, si dovette alla fine degli anni Sessanta del Seicento al genio di un allora giovane8 consigliere di corte del principe elettore arcivescovo di Magonza Johann Philipp von Schönborn, notoriamente filofrancese: un certo Gottfried Wilhelm Leibniz, autore di un piano che, nelle sue intenzioni e nell’interesse del nobilissimo signore che in quel momento l’ospitava, avrebbe dovuto aver l’effetto di distrarre le mire espansionistiche di Luigi XIV dall’area compresa tra Mosa e Reno per avviarle invece verso il Vicino Oriente. Tale idea sembrava anticipare di circa un secolo e un quarto, mutatis mutandis, l’audace impresa del generale Bonaparte: organizzare una grande spedizione navale francese per la conquista dell’Egitto in modo da liberare una volta per tutte Mediterraneo e Balcani dall’ipoteca della minaccia ottomana obbligando il Turco a passar bruscamente e drammaticamente alla difensiva su un per lui inatteso fronte meridionale e far quindi centro sulla nuova conquista per distruggere l’intero impero sultaniale, liberando finalmente Gerusalemme e Costantinopoli. Il Leibniz lavorò alacremente al progetto di questo Consilium Aegyptiacum, insieme col ministro dell’elettore di Magonza, Johann Christian Boyneburg; e nel 1672 lo portò in Francia con sé, ancora incompleto, intenzionato a presentarlo come memoriale9. Ma era troppo tardi. Proprio in quello stesso anno, senza aspettare che il filosofo terminasse il suo ponderoso trattato, Luigi XIV aveva intrapreso la campagna d’Olanda10. Qualcosa di quel progetto giunse comunque nelle carte di governo, se non altro sotto forma di proposta avanzata dal Boyneburg. Il re di Francia non poteva trascurare di dar ascolto ai principi elettori renani, suoi buoni amici. Ma il suo arcigno ministro, il marchese di Pomponne, annotò su quegli appunti un giudizio tranciante, che sarebbe stato ripreso più tardi dal cardinal d’Estrées e dallo stesso Re Sole: «Le crociate sono fuori moda dal tempo di san Luigi». Certo, egli non poteva prevedere che di lì a pochi anni, al contrario, se non la realtà quanto meno l’idea, la fama, l’illusione della crociata sarebbero tornate tanto à la page11. Tuttavia, la serie delle «memorie» dedicate al revival della crociata e alla lotta contro il Turco proseguì ben oltre lo scritto del

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Leibniz, come abbiamo visto a proposito del progetto redatto da Paul de Lagny appunto pochi anni più tardi. Intanto, in Francia come altrove, aveva avuto grande successo lo scritto del cappuccino Michel Febure, L’état présent de la Turquie, originariamente redatto in italiano ma edito in francese nel 1675 e tradotto ben presto nelle principali lingue europee: vi si sosteneva che la decadenza dell’impero ottomano – che in ciò seguiva le leggi inesorabili della storia – era ormai irreversibilmente cominciata. All’indomani dell’assedio di Vienna, i temi dell’unità dei cristiani e della definitiva liberazione del bacino mediterraneo dall’incubo ottomano erano stati rilanciati con un’intensità e un entusiasmo che ormai non si conoscevano più da alcuni decenni. Secondo molti, il tramonto della potenza turca era già cominciato, anzi era prossima la rovina dell’impero e si profilava come necessaria una spartizione delle sue spoglie tra le potenze cristiane; i turchi si sarebbero convertiti in massa al cristianesimo, oppure sarebbero stati esiliati in qualche area desertica, o si sarebbero dispersi per il mondo come era accaduto agli ebrei all’indomani della distruzione di Gerusalemme; o ancora – e c’era chi, più che prevederlo, se lo augurava e lo programmava – sarebbero stati radicalmente sterminati12. Restava da accordarsi tuttavia su alcuni punti: sarebbe risorto un impero latino d’Oriente, come quello che si era impiantato sulle rive del Bosforo dopo la IV crociata, tra 1204 e 1261, i cui possibili pretendenti ereditari sembravano ormai in un modo o nell’altro potersi ricondurre alla corona di Francia? Si sarebbe restaurato il regno crociato di Gerusalemme, il trono del quale era conteso fin dal XIII secolo a colpi di diritto ereditario da molti sovrani che ancora ne recavano il titolo nominale, dall’imperatore romano-germanico ai re di Francia e di Spagna e perfino al duca di Savoia? Si sarebbe assistito nell’immediato futuro al nascere di un «nuovo ordine cristiano» egemonizzato da una «tripartizione imperiale», visto che ai due imperi latini e cattolici – l’uno esistente, l’altro erigendo – era ormai necessario far posto anche alla nuova realtà, quella della Terza Roma ortodossa degli czar moscoviti, senza tuttavia lasciar fuori da questa ridefinizione della geografia politico-religiosa cristiana un’altra forza reale e concreta, quella del mondo occidentale riformato? E, dopo la cancellazione dell’impero sultaniale ottomano, sarebbe stato opportuno passare alla lotta contro quelli, musulmani anch’essi, di Persia e d’India, oppure trattare con quelle più remote compagini un modus vivendi che tuttavia – e già lo si prospettava da più parti, a cominciare dalla Compagnia di

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Gesù; ma anche dal mondo degli operatori mercantili internazionali che facevano capo all’Inghilterra, all’Olanda, alla Francia stessa, in modo più ristretto al Portogallo – non escludesse, insieme con e al di là dei traffici e degli affari, la missione, la conversione, la conquista? Al coro di questi nuovi teorici della crociata, che in gran parte erano anche – almeno nelle loro intenzioni – dei costruttori strategici del mondo che stava nascendo, appartengono appunto Jean Coppin, il de la Croix, il Gravier d’Ortières, il Des Joanots du Vignau13. Queste considerazioni implicano da parte nostra la necessità di una revisione profonda di alcune idées reçues che da troppo tempo circolano nel mondo occidentale lambendo perfino gli spazi riservati alla ricerca scientifica e rischiando di inquinarli con l’onda nera del pregiudizio. È ancora comune, nei manuali scolastici come nell’opinione storica diffusa, il riferirsi all’«era delle crociate» alludendo ai secoli XII e XIII e alle spedizioni dirette alla conquista, al sostegno o al recupero della Terrasanta, che si usano contare in numero di sette o di otto, tra il 1095 e il 1270. Si tratta di un uso canonizzato dalla storiografia del XIX secolo e sopravvissuto fino ad oggi, sia pur in mezzo a critiche e polemiche di ogni genere. Sappiamo tuttavia altresì che la crociata conobbe un lungo Fortleben e molti revivals. Nel suo Autunno del medioevo, Johan Huizinga insiste molto sul carattere stilizzato e sulla forte drammaticità di molte spedizioni crociate tre-quattrocentesche, sottolineandone l’accentuato carattere cavalleresco e l’intensa carica mistico-escatologica. Ispirandosi al titolo del suo capolavoro, si potrebbe dire che tra la spedizione di Nicopoli del 1396 e la battaglia di Lepanto del 1571 la Cristianità europea abbia vissuto un vero e proprio «autunno della crociata»; un lungo autunno, che in realtà si prolungò fino al secondo assedio di Vienna e ancora oltre, nel trentacinquennio di guerre mediterraneo-balcaniche del quale esso costituì l’avvio e per molti versi la causa. Infatti dopo Lepanto, e dopo un lungo momento nel quale sembrò – a parte alcune spedizioni di scarso conto, una serie di conflitti anche lunghi ma localizzati e molta letteratura – che tra Europa e sultanato le armi tacessero del tutto o quasi, la guerra di Candia e le vicende ungheresi dei primi anni Sessanta del Seicento risvegliarono i venti di guerra. La nuova fase, culminata con l’assedio di Vienna e conclusa trentacinque anni dopo con la pace di Passarowitz, potrebbe essere considerata una sorta di Indian summer14 della crociata, questa specie di «Balena Bianca» che attraversa la storia euro-asio-

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mediterranea di tutto il secondo millennio. Jean Coppin esprimeva con esemplare precisione lo stato d’animo del momento. È un fatto che, da quando in Europa erano giunte le prime notizie dalle quali appariva ormai certo che l’esercito ottomano stesse puntando su Vienna, quindi dalla primavera del 1683, l’antica febbre devota e guerriera aveva di nuovo invaso almeno alcune regioni della Cristianità: nelle terre dell’impero e in quelle della Chiesa si era tornati al sonar delle campane a stormo, alle prediche contro il barbaro infedele, al garrir di vessilli, all’accorrere di volontari, al raccoglier denaro e al distribuire indulgenze. Ma fin dall’indomani della liberazione di Vienna, mentre il suono delle campane a festa vibrava ancora nell’aria e i fuochi di gioia non si erano ancora spenti del tutto, già si sentiva che una pagina di storia era stata voltata. Passato il momento dell’esaltazione per la vittoria, era giunta l’ora di fare i conti: che non erano né facili, né leggeri. Del resto accade regolarmente che all’indomani di un successo gli alleati, spartitisi il bottino e gli allori, comincino a litigare e a delimitare il terreno dei loro scontri futuri. Dopo la battaglia. O si vince, o si perde. Nella vittoria render grazie a Dio, seppellire i morti, pubblicar la vittoria, esagerarla, proseguirla, incalzar le reliquie dell’esercito battuto, né dargli tempo di raccogliersi15.

Così, con cesariana stringatezza, Raimondo Montecuccoli prescriveva che ci si dovesse comportare dopo aver sbaragliato il nemico: perché una battaglia vinta è tanto più importante non quanto più alto è il numero dei nemici caduti, ma quanto migliori sono i risultati che si riesce a ricavarne. Ma, all’indomani della vittoria di Vienna, non sussistevano le energie e la volontà necessarie, e forse nemmeno le condizioni obiettive, per seguire le indicazioni del saggio Feldmarschall. Chi con più sicura determinazione intendeva lavorare affinché il cammino intrapreso a Vienna non si arrestasse, bensì proseguisse verso Buda, Belgrado, Istanbul e perfino Gerusalemme, era il pontefice. Ai primi d’ottobre egli ricevette il duca d’Estrées, rappresentante di Luigi XIV presso la Santa Sede, il quale nella relazione immediatamente ed accuratamente stesa per il suo sovrano lo informava che il papa, confidando profondamente nel suo animo cattolico, lo esortava a un’immediata offensiva per via marittima mentre imperiali e polacchi

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proseguivano la campagna per via di terra: in questo modo, Istanbul sarebbe stata conquistata e il Re Sole avrebbe potuto ornarsi la fronte del diadema d’imperatore d’Oriente. Era un tema già toccato nel luglio precedente con il cardinale d’Estrées, fratello del diplomatico16. Molti segnali indicavano tuttavia che le cose sarebbero andate altrimenti. Nello stesso entourage dell’imperatore regnava tutto men che la concordia a proposito del proseguimento della guerra. Ora che il gran visir era in rotta, o comunque in ritirata, i soliti fautori del «partito spagnolo» sostenevano in modo più o meno esplicito che una campagna balcanica non era più prioritaria e che il vero pericolo ormai si correva ad ovest, sulla linea del Reno. Le voci relative alla circolazione di tali pareri raggiunsero subito Versailles – a corte tutto era possibile, meno il mantener riservata una notizia – e dettero al ministro Colbert de Croissy il pretesto per una bella sfuriata col nunzio pontificio Ranuzzi, il quale aveva di nuovo avanzato l’idea di un compromesso in grado di soddisfare il Re Sole, ma con lo scopo d’indurlo a moderare le sue pretese: al che il ministro replicava che le vere intenzioni dell’imperatore erano sì di far pace col Turco, ma solo per essere in tal modo più libero d’attaccare la Francia. Ciò non rispondeva a verità: era vero tuttavia che a Vienna la prosecuzione dell’impegno militare verso sud appariva problematica proprio dal momento che Luigi XIV non stava per nulla alleggerendo la sua pressione a ovest ed era necessario in qualche modo rispondergli drenando forze da sud-est. Inoltre, la mobilitazione dei reparti dei principi dell’impero e dei Reichskreise non poteva eccedere certi limiti: anzi, già a metà settembre i sassoni avevano ripreso la via di casa. Ciò faceva disperare padre Marco, il quale scongiurava in privato l’imperatore di non dar ascolto a quanti insinuavano che fosse opportuno cercare la tregua col Turco, cosa da lui giudicata una «tentazione diabolica»; e che in una predica pubblica, un vero e proprio appello alla crociata, «intimò a tutti con replicate proteste qualmente Iddio voleva guerra, e che niun osasse suggerire al sovrano trattati di pace, sotto tassa [taccia] d’infedeltà, nocevoli a’ progressi della fede evangelica»17. Il re di Polonia non nascondeva dal canto suo delusione e malumore: era stanco per le eterne contese di prestigio e di precedenza con il duca di Lorena – che, per la verità, era egli stesso a provocare di continuo – e, al di là di quanto egli stesso scriveva, si riteneva profondamente offeso per il trattamento a suo avviso improntato a freddezza, alterigia e ingratitudine che l’imperatore Leopoldo gli

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aveva riservato fino dall’incontro di Schwechat. A Carlo di Lorena, che lo esortava a battere il ferro finché era caldo e a inseguire subito l’armata ottomana in fuga senza concederle il tempo di riattestarsi, egli obiettava con malcelato fastidio che i suoi uomini erano esausti, che da troppo tempo mancavano dalle loro case, che avrebbero avuto bisogno e soprattutto avevano sacrosanto diritto a qualche giorno di riposo. Compromise davvero, con questo atteggiamento, l’andamento della campagna militare della quale Vienna liberata poteva segnare non la conclusione bensì, al contrario, l’inizio? Ma gli sarebbe stato seriamente possibile fare altrimenti? Comunque, non aveva alcuna intenzione di condividere a lungo con Leopoldo il medesimo spazio, si trattasse di città o di accampamenti. Finì perciò abbastanza rapidamente col decidere di gettarsi, insieme con Carlo, sulle tracce del nemico. Era in quel momento diffusa l’impressione che si sarebbe trattato dell’inseguimento di una massa di fuggiaschi in rotta: tuttavia le notizie che pervenivano, recate dagli esploratori, parlavano un linguaggio diverso che avrebbe dovuto invitare a maggiore prudenza. La ritirata degli ottomani, passato il disorientamento della prima ora e superati brutalmente malumori e recriminazioni – dare un esempio era stato forse per il gran visir, al di là dell’odio personale e del desiderio di trovare un capro espiatorio, il senso profondo della spietata esecuzione dell’ottantenne pas¸a di Buda –, procedeva ordinata: le truppe s’inoltravano in un territorio ad esse ben noto e avevano a disposizione una quantità di piazzeforti attorno alle quali potersi organizzare, rifornire e rifocillare. È vero che si stava approssimando la cattiva stagione: ma ciò sarebbe stato un problema per gli inseguitori non meno che per gli inseguiti. Ad esso, si poteva rispondere solo apprestando i quartieri d’inverno: il che per i cristiani poteva tradursi in una perdita di slancio e d’entusiasmo, magari nell’insorgere di nuove discordie, mentre per gli ottomani, favoriti dal principio dell’unità di comando della loro compagine, significava un’opportunità di riorganizzazione. Non è possibile dire fino a dove sia il re di Polonia sia il duca di Lorena ritenessero di poter avanzare in territorio ungherese e quindi balcanico prima dell’inverno, né quali fossero i loro obiettivi strategici: per il momento, probabilmente non ne avevano. Loro intenzione era inseguire il nemico, espugnarne più fortezze e massacrarne più soldati possibile in modo da spezzarne eventuali capacità e volontà di rivincita. Sembra che Giovanni – senza dubbio indispettito per essere stato pochi giorni prima tacciato di pusillanimità solo perché

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aveva sostenuto che i suoi uomini avevano il diritto e il bisogno di riposarsi – fosse intenzionato ad arrivare fino a Buda; mentre Carlo si vedeva obbligato a seguirlo un po’ per non far a sua volta la figura dell’incerto temporeggiatore – e di temporeggiare lo avevano fin troppo accusato un po’ tutti, tra il luglio e il settembre –, un po’ per non lasciargli tutta la gloria. Il resto delle forze che avevano collaborato alla vittoria era peraltro indisponibile a proseguire la campagna. Se i contingenti dei territori asburgici ereditari aspettavano le decisioni del duca di Lorena, le forze imperiali manifestavano invece desiderio e intenzione di tornare a casa: sembrava impossibile coinvolgere in un proseguimento della campagna militare sia i bavaresi, sia i sassoni, sia le truppe svevo-franconi. Alla fine, tuttavia, alcuni reparti seguirono il comandante generale. Il 17 settembre l’armata polacca si mosse e quella del duca di Lorena le tenne dietro; con loro, c’erano anche Ludovico Guglielmo di Baden e il conte Starhemberg. Ma si presentarono immediatamente i problemi del momento. L’autunno era prossimo e bisognava cominciare a organizzare i quartieri d’inverno: piuttosto che puntare su Buda, sembrava semmai consigliabile tentar la conquista di Neuhäusel, la fortezza che i turchi chiamavano Uyvar e ch’era ancora nelle loro mani. Ma a Presburgo bisognò fermarsi a lungo per passare il Danubio: il necessario pontone su barche non era ancora pronto. Solo il 27 si poterono avviare le manovre di trasferimento da una riva all’altra e affrontare il paludoso territorio ungherese. Oltre la piazzaforte di Komárom, in mano alle forze asburgiche, il successivo ponte di legno sul grande fiume era ben custodito dagli ottomani: a nord dalla guarnigione di Barkan, difesa da una caratteristica fortificazione turca in calce e legno, la palanka; e a sud dalla città di Gran con la sua formidabile cittadella, a più riprese contesa tra imperiali e ottomani e in quel momento in mano a questi ultimi. Poiché Giovanni avanzava rapidamente senza farsi precedere da esploratori e manifestava l’intenzione di passare il ponte lasciandosi Barkan alle spalle, i turchi e i tartari gli tesero un’imboscata cercando di attirarlo in una posizione in cui sarebbe stato facile stringerlo tra due fuochi come in una tenaglia. Per quanto i polacchi cadessero nella trappola, riportassero forti perdite e lo stesso re rischiasse di restare sul campo, il colpo di mano non riuscì: anche grazie alla sagacia degli ufficiali di Carlo di Lorena, che seppero fronteggiarlo; anzi, gli ottomani lasciarono sul campo numerosi dei loro sia nell’incendio della

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palanka, sia in un tentativo di passare il ponte18. Dopo due giorni di battaglia, fra l’8 e il 9 ottobre, e un breve assedio alla fortezza, la guarnigione ottomana di Gran si arrese il 19 sulla base dell’offerta di condizioni straordinariamente favorevoli: i difensori, abbandonata la piazzaforte, furono lasciati liberi di raggiungere tranquillamente Buda su battelli che li trasportarono lungo il Danubio. La generosità degli alti comandi polacco-imperiali si spiega bene con l’urgenza di acquartierarsi: la cattiva stagione era ormai alle porte. Quell’episodio determinò un’accelerazione della ritirata degli ottomani, mentre il Thököly – il quale a Barkan si era ben guardato dall’appoggiare le truppe infedeli in difficoltà – s’arroccava a sua volta nell’alta Ungheria. La presa di Gran aveva anche un alto e intenso valore simbolico: la piazzaforte altro non era se non Esztergom, una città-santuario, la sede storica il cui arcivescovo era primate d’Ungheria e arcicancelliere del regno. Quando i turchi l’avevano conquistata nel 1605, quasi alla fine della ‘lunga guerra’, avevano trasformato in moschea la cattedrale: la sua riconsacrazione, un ottantennio più tardi, appariva un luminoso auspicio per l’Ungheria cristiana. L’evento colpì profondamente Innocenzo XI che, appresa la notizia, rimase a lungo in preghiera prima di celebrare con commosso fervore la messa. Il gran visir era frattanto arrivato a Buda, dove aveva appreso della sconfitta di Barkan; e ne era anche ripartito prima che i polaccoimperiali intraprendessero l’attacco a Gran, che egli aveva provveduto a munire di buoni rinforzi convinto che i cristiani si sarebbero dovuti arrestare sotto le mura della fortezza per un lungo assedio. In effetti, l’arrendevolezza dei difensori di Gran appare sospetta: è difficile non pensare a una mossa degli avversari del gran visir, numerosi in Ungheria non meno che alla corte di Istanbul. Il sultano teneva molto a quella piazzaforte, anche proprio per il suo valore simbolico che non gli era certo ignoto; e neppure il gran visir poteva essere all’oscuro di ciò. Con quale animo subì l’ulteriore smacco della perdita di una fortezza che pur gli sarebbe stata preziosa per farvi svernare almeno alcuni contingenti? Giunto a Belgrado, Kara Mustafa ricevette la notizia che Mehmed era già nel suo palazzo di Edirne per le consuete cacce d’autunno. Fu là che il sultano, il 14 dicembre, apprese anche della disonorevole caduta di Gran. Dopo lo smacco di Vienna, era troppo19. Undici giorni dopo, il 25 – il giorno di Natale dei cristiani – il gran visir ricevette all’ora della preghiera del mezzogiorno la visita del

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ciambellano di corte del sultano e dell’ag˘a dei giannizzeri Mustafa Pas¸a, i quali in solenne silenzio gli presentarono a nome del Gran Signore un capestro di seta. Kara Mustafa si era a lungo illuso, o forse aveva voluto illudersi, a proposito della considerazione in cui il suo signore lo teneva dopo il fallimento dell’impresa viennese. Aveva cercato, anche crudelmente, di gettare su altri una parte almeno della responsabilità dell’insuccesso: e aveva con sollievo ricevuto da parte del sovrano alcuni segni che sembravano confermargli la fiducia. Il dragomanno veneziano nostro vecchio amico Tommaso Tarsia – ch’era restato a Istanbul dopo la fuga del segretario di legazione Giovanni Cappello, aveva poi seguito l’armata sultaniale e non solo aveva assistito dal campo ottomano all’assedio della capitale austriaca, ma era stato costretto anche a prender parte alla ritirata – fu testimone dell’arrivo di alcuni dignitari inviati dal sultano al seraskier. Dal momento che sugli ottomani la sapeva lunga, comprese presto il senso di quell’andirivieni di personaggi illustri, sempre accompagnato da gran pompa e da ricchi scambi di doni. Il formalismo del potere e il rispetto dell’etichetta non ingannarono l’interprete, esperto non solo della lingua bensì anche dei costumi e dei quadri mentali turchi: ma stando al suo racconto sembra che Kara Mustafa non aderisse ormai più a una realtà che non poteva ignorare. Più che a un’ostinata illusione, si assiste al dispiegarsi di una sorta di lucida e tragica follia. Secondo il Tarsia, dunque, solo allorché il gran visir si rese conto che gli inviati del sultano avevano fatto circondare dai giannizzeri il palazzo nel quale si trovava e si dirigevano alla sua volta col piglio di chi viene non già in visita di cortesia bensì per eseguire un ordine severo, «rimase con l’animo oppresso e languente per tema di morire, e pur il minore di tutti i mali sarebbe statta la morte se non havessero portato seco tanto d’ignominia, perché finalmente – conclude il dragomanno, che ama i proverbi e le sentenze – l’uscir di vita è necessario, ma l’esservi scacciato è vergognoso»20. Quel che segue assume il ritmo della tragedia. Il gran visir passa da una residua e irragionevole, forse isterica speranza alla commiserazione del suo stesso destino e infine a una mesta rassegnazione, prima dell’esito shakespearianamente rapido e crudele: …alla comparsa dei sovrachiamati soggetti alla sua presenza procurò far coraggio dicendoli fossero benvenuti e se li portassero qualche buona nuova. Al che rispose ‘Signore, speriamo di sì’, e... soggiunse che Sua

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Maestà desiderava che gli consegnasse il stendardo del Proffeta e l’imperial sigillo. A questa richiesta parve che si rasserenasse in parte, sperando con ciò restar libero dalla morte, per il che gli rispose che sia esseguita la volontà imperiale e presentatogli il stendardo stesso, pose la mano al seno e pigliato il siggilo lo mostrò, dicendogli ch’a esso lo dovesse consegnar e non al suo seno, glielo strappò dalle mani. Doppo di che il vesir soggiunse che sperava non v’esser altro di novo; et all’hora gli mostraron l’altro ordine che lo condannava alla morte, quale udito disse con apparente coraggio che s’humiliava alli supremi comandi di Sua Maestà, ma che pregavali della permissione di tanto tempo che possa adempir le sue orationi, e rispostogli a ciò non poter contradire, diede principio con molta rassegnatione alle medesime, e terminate pregò il carnefice che non lo facesse troppo penare et eseguisca il suo officio: et immediate dal medesimo fu posta la fune al collo, ma havendo fatto il laccio alquanto stretto che non passar per la testa egli con le proprie mani lo prese e se lo passò al collo, e poi dal carnefice subbito stretto gli fece uscir un occhio, con che aventandoli la morte il corpo fattale lo somerse nel porto ove vengono accolti tutti li mortali. Separato poi il capo dal busto, lo scorticarono per portarlo al Gran Signore, e seppellirono il cadavere prima che s’habbi intesa la morte21.

Il drammatico racconto deve le sue tinte vivaci e la descrizione dei particolari, con ogni probabilità, al racconto di un testimone oculare che forse direttamente riferì quel che aveva visto al dragomanno, del quale condivideva l’antipatia e l’ostilità nei confronti di quel potente caduto in disgrazia. Le fonti disponibili a proposito dell’episodio sono sostanzialmente concordi con il Tarsia, a parte alcuni particolari. Da esse, risulta che Kara Mustafa affrontò il supplizio con triste e decorosa serenità: si spogliò delle vesti d’onore; restituì il sigillo che portava appeso sul petto e i simboli califfali che, in quanto seraskier, custodiva come segno del suo potere delegato, cioè il sacro stendardo del Profeta e una delle chiavi della Ka‘ba; quindi srotolò il suo tappeto di preghiera e recitò le ultime orazioni, prima che l’ag˘a dei giannizzeri procedesse all’esecuzione22. I collaboratori più immediati del defunto gran visir furono subito rimossi; il suo fedele dragomanno Maurocordato si dette alla fuga, senza dubbio temendo la vendetta di qualcuno al quale il suo protettore aveva fatto torto e forse anche le conseguenze di qualcosa da lui personalmente perpetrato. L’ag˘a dei giannizzeri assunse provvisoriamente il comando dell’armata.

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Kara Mustafa era stato per alcuni anni l’uomo più potente dell’impero, eppure nell’istante estremo non pare gli passasse neppure per la testa di resistere; sapeva di essere ormai stato tragicamente abbandonato da tutti ed aveva passato abbastanza tempo ai massimi fastigi del potere ottomano per non essere profondamente consapevole e intimamente consenziente rispetto alla norma che lo reggeva. Ma «la fortuna è di vetro, l’aura stessa che lo gonfia lo spezza», come commenta il veneziano Tarsia che ama i proverbi e conosce bene i vetrai di Murano23; e «il collo di un servo del sultano è più sottile di un capello», come recita un proverbio ottomano24. Ciò era vero sempre. Anche quando quel collo apparteneva a un gran visir. La Santa Lega Mentre Kara Mustafa era ancora insediato in Belgrado dirigendo la ritirata del suo esercito, la stagione si era andata inoltrando verso i mesi umidi e freddi: un tempo nel quale, un po’ dappertutto ma a maggior ragione tra Danubio e Balcani, le campagne militari erano impossibili a condursi. Dopo la conquista di Gran, anche i polaccoimperiali25 avevano deciso d’impiantare i loro quartieri d’inverno, rimandando alla primavera successiva l’offensiva contro Buda. Ci si annoiava, svernando: unici svaghi per la truppa e gli ufficiali, un po’ di scambio di botte con i contadini e qualche partita di caccia. Così il 4 gennaio il conte Gianbattista Benvenuti, alfiere nel reggimento dei dragoni del colonnello Heisler, scriveva al padre dal suo accampamento in Croazia: ...nelli quartieri ogni giorno c’è qualche cosa, o che li soldati bastonano li villani o che questi li soldati onde ci vuole una pazienza grande. Sono quattro giorni che mi ritrovo dal signor colonnello havendomi fatto trattenere per andare a caccia havendo l’istesso un gusto straordinario per la caccia delle lepri, et ha una banda di trenta cani et in questo paese v’è un’infinità di lepri. Haverei caro di donar qualche cosa al signor colonnello, et non saprei qual cosa gli fosse più cara che qualche schioppetta bresciana. Prego perciò la S.V. di far la compra di due di queste della miglior qualità...26.

Apprezzando i piaceri della «bella vita militar», si aspettava il ritorno della buona stagione per riprendere la campagna. Era ormai concorde parere dei protagonisti della liberazione di Vienna

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che l’occasione fosse propizia per infliggere agli infedeli un colpo ­quale essi mai avevano fino ad allora ricevuto. Tuttavia, nei confronti dell’area danubiano-balcanica, gli obiettivi dei protagonisti delle vittorie dell’anno che andava concludendosi erano differenti. L’imperatore mirava a rafforzare definitivamente il suo ruolo in Ungheria e a contrattare quindi con la Sublime Porta una tregua sulla base di quella di vent’anni prima, caratterizzata però dalla nuova posizione di vantaggio che gli avrebbe consentito di ottenere ben altre condizioni. Per questo era necessario conseguire un nuovo, ambizioso obiettivo: la presa di Buda. Ben diverse e più ambiziose, ma anche meno realistiche, le prospettive del re di Polonia. Nell’inverno del 1683 le forze polacche si separarono difatti dalle imperiali non certo per rinunziare alla lotta contro il comune nemico, ma per proseguirla altrove, in aree e contesti loro più consoni. Giovanni III si riproponeva, a fronte della prosecuzione del suo impegno militare, una serie di risultati molto vantaggiosi: come programma ottimale, ma non irraggiungibile, egli puntava a estendere la sua «protezione» alla Moravia e alla Transilvania, a rafforzare la sua già robusta influenza in Ungheria – dove sapeva che i magnati protestanti preferivano aver a che fare come interlocutore con lui piuttosto che con l’Asburgo –, quindi a sottomettere i tartari di Crimea, a trovare un definitivo accordo con i cosacchi e a servirsi del potere e del prestigio così conseguiti come moneta diplomatica da spendere vantaggiosamente nelle trattative con lo czar di Russia. Ma il suo vero, grande sogno era probabilmente quello di vedere suo figlio Jakub sposato a una principessa di casa d’Austria e grazie a ciò in grado di ascendere al trono d’Ungheria. Se ciò fosse accaduto, e se egli fosse riuscito ad assicurarsi una successione ereditaria anche in Polonia, un grande blocco dinastico austropolacco avrebbe potuto un giorno dominare la scena est europea dalla Lituania alla Valacchia. Dietro questa ovvia e legittima disparità d’intenti e di vedute, si celava peraltro una rivalità che, a lungo andare, sarebbe stata suscettibile di vanificare i propositi di lotta comune contro il Turco: i rapporti tra imperatore e re di Polonia successivi alla liberazione di Vienna avevano subito un raffreddamento che avrebbe potuto preludere perfino a un mutar di fronte politico. E la diplomazia francese era sempre pronta a lusingare i suoi vecchi amici polacchi per servirsene ai fini del suo consueto obiettivo, l’indebolimento della compagine imperiale.

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Tutto ciò non sfuggiva al papa, sempre preoccupato che le tensioni nell’Europa occidentale potessero condurre all’abbandono di quella che ormai si configurava come una decisa offensiva antiturca. Egli aveva concepito, forse già nell’entusiasmo della liberazione di Vienna o, un mese e mezzo circa più tardi, nella commozione per il recupero della santa Esztergom, un nuovo piano di crociata che avrebbe dovuto coinvolgere l’impero e Venezia – le due potenze più esposte agli assalti del Turco e più interessate quindi a una sua definitiva sconfitta – ma alla quale avrebbero più tardi dovuto magari associarsi anche la Spagna, la Polonia, la Russia; e chissà, di lì a qualche anno papa Odescalchi pensò forse anche all’Inghilterra, dove la glorious revolution aveva fatto sì trionfare la causa protestante, ma al trono della quale era asceso Guglielmo d’Orange-Nassau, debitore dell’impresa bancaria la cui titolare era la famiglia del pontefice27. Rinasceva in Innocenzo XI il sogno ch’era stato dei suoi predecessori, da Pio II a Pio V: recuperare alla Cristianità la Nuova Roma, Costantinopoli, poi magari la stessa Gerusalemme; e perfino far rinascere un impero latino d’Oriente che avrebbe potuto essere offerto a un principe francese. Sappiamo già tutto ciò; come sappiamo che vi erano del resto molte dinastie europee che sognavano un regno orientale: come il buon Sancho Panza aveva sognato, secondo i canoni dei romanzi di cavalleria, di diventare un giorno principe di un’isola. Innocenzo non giunse a realizzare un disegno così grandioso proprio come lo aveva concepito: e probabilmente aveva capito fin dal primo istante che, in quei termini, esso era irrealizzabile. Il cardinal Buonvisi aveva cominciato subito, dall’indomani della liberazione di Vienna, a lavorare attorno al mantenimento dell’alleanza austro-polacca28, alla quale il pontefice stimava fosse necessaria la partecipazione di Venezia con la sua flotta. Il fatto che per oltre due secoli gli ottomani avessero alternato nei confronti della Cristianità europea (o quanto meno della porzione sudorientale di essa) attacchi marittimi ad offensive per la via di terra, era prova che essi non avevano la forza di agire con pari energia e contemporaneamente sui due fronti: il che significava che difficilmente avrebbero resistito alla morsa di un «attacco a tenaglia» costituito da una campagna balcanica condotta in profondità e accompagnata da un’offensiva navale in Adriatico e nell’Egeo. Il Buonvisi, ben conscio del fatto che il governo imperiale e quello veneziano erano entrambi decisi a non impegnarsi in nulla che si risolvesse in un prevalente vantaggio dell’altro, condusse instancabilmente le trattative. La posta in gioco,

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per la Serenissima, era sostanzialmente il suo ruolo nella politica «di terraferma»: impegnarsi in una solida e vigorosa alleanza antiottomana significava abbandonare in una qualche misura la prospettiva dell’influenza sull’entroterra italico di nordest già impostasi nel Quattrocento con il vigoroso governo di Francesco Foscari e tornar con rinnovato vigore agli orizzonti «levantini». Fin dal dicembre, l’ambasciatore veneziano Domenico Contarini29 aveva ottenuto dal Buonvisi, a Linz, l’assicurazione che l’imperatore era pronto a stipulare una lega contro il Turco. A Venezia non mancavano le perplessità, alimentate dalla persistenza di un solido partito anticuriale: ma esse furono vinte anche grazie alla costante opera di convincimento perseguita da padre Marco d’Aviano. Il 22 gennaio il progetto di alleanza fu quindi approvato: anche perché il papa era disposto, purché i dubbi residui fossero superati, a sostanziosi sacrifici non solo sul piano economico, ma anche su quello dei rapporti tra la repubblica e la Chiesa. Il 5 marzo si stesero per iscritto nella dimora del Buonvisi a Linz gli articoli della lega veneto-imperiale, cui naturalmente aderiva l’Ordine di Malta e cui accedettero non senza aver sollevato infinite questioni anche i polacchi30. Accettò di parteciparvi, con l’intenzione esplicita di appoggiare le campagne navali e terrestri di Venezia, anche il ducato di Savoia, il cui sovrano si fregiava formalmente dei titoli regi di Cipro e di Gerusalemme ch’egli rivendicava31; quindi il granduca di Toscana, in quanto potenza marinara che esprimeva anche i Cavalieri di Santo Stefano; né potevano mancare lo stato della Chiesa e i Cavalieri di Malta. Non furono trattative facili: contrastanti rivendicazioni di sovranità e problemi di forma e di procedura diplomatica le ostacolarono in ogni modo. Ci si può fare un’idea della complessità e della delicatezza di questioni che noialtri moderni potremmo esser tentati di giudicare futili o irrilevanti dedicando qualche parola al ‘caso’ toscano. Il granduca Cosimo III aveva ricevuto dalla cancelleria viennese pressioni che lo avevano indispettito, in quanto sembravano – o comunque avrebbero potuto – sottintendere la rivendicazione di qualche teorico diritto imperiale sul «vassallo» duca di Firenze e di Siena. A noi parrà una vecchia questione «medievale». Alla fine del Seicento non era per nulla tale. A Firenze era giunta in effetti, fin dall’estate del 1683, una richiesta di appoggio militare da parte dell’imperatore che, forse perché formulata in termini non abbastanza misurati o forse perché presentata da un inviato poco adatto, aveva irritato per il suo tono peren-

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torio il granduca: il quale aveva replicato rifiutando qualunque aiuto diretto e progettando invece di partecipare semmai a un’offensiva sul mare, unendo le sue galee a quelle del papa, di Malta, Genova e Portogallo. Le truppe toscane imbarcate su quei navigli avrebbero dovuto combattere il nemico sulle coste e nelle acque d’Epiro e di Grecia, obbligandolo a frazionare le sue forze. Si trattava di un piano in parte alternativo: dal momento che a Vienna esso non fu accolto, Cosimo si limitò a spedire al porto imperiale di Trieste alcuni rifornimenti militari, insistendo però sul tema della lega marinara. Dopo ulteriori difficoltà, sorte soprattutto per accordarsi su questioni di sovranità territoriale asburgica e veneziana in Dalmazia, si pervenne il 24 maggio del 1684, a Roma, alla ratifica definitiva di un Sacrum Foedus, una Santa Lega32, cui erano invitati a partecipare anche gli czar di Russia, i fratellastri Ivan e Piotr Aleksievich: ma la vera governante dell’impero moscovita, la loro sorella principessa Sofia, preferì mantenersi per il momento in disparte, pur con l’intenzione di collaborare de facto appena se ne fosse presentata l’occasione33. Scopo dell’alleanza era il coordinamento di un’immediata azione militare che avrebbe dovuto attaccare gli ottomani da tre lati, mentre si stava studiando la possibilità di convincere lo shah di Persia a colpirli anche da est34. Intanto, le forze asburgo-imperiali sarebbero penetrate in Ungheria; i veneziani avrebbero condotto la guerra nell’Adriatico, nello Ionio e nell’Egeo; i polacchi avrebbero agito a nord del Dnestr. L’elemento importante e decisivo del patto era l’accordo tra i contraenti a non accedere mai e per nessuna ragione ad alcuna pace separata e provvisoria col Turco fino al raggiungimento dello scopo prefisso, la totale sconfitta dell’infedele: o comunque – più concretamente e ragionevolmente – di mantenere un’intesa comune che soddisfacesse tutti gli alleati e ciascuno di essi. Al fine di sostenere l’accordo militare, il pontefice s’impegnò pesantemente anche sul piano finanziario: si è calcolato che nel periodo tra 1683 e 1689, anno della sua scomparsa, egli abbia accordato finanziamenti all’Austria per un valore di 5 milioni di fiorini oltre ad autorizzare la corresponsione di una speciale tassa che sarebbe stata versata dal clero austriaco, boemo e bavarese, il subsidium ecclesiasticum. Pare che in sostegno di Austria, Polonia e Venezia la Santa Sede abbia stanziato nel corso della seconda metà del XVII secolo in tutto circa 7 milioni di scudi romani35. Innocenzo XI coinvolse in questo sforzo anche le sostanze della sua famiglia, gli Odescalchi, finanziò personalmente il mantenimento di un corpo di cosacchi nell’esercito

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polacco e scrisse in pratica a tutti i principi e ai più importanti prelati d’Europa esortandoli a sostenere con generosi esborsi di danaro la santa causa36. I fondi giunsero copiosi, ma continuavano comunque ad essere inadeguati. Sul momento, l’impegno finanziario della monarchia asburgo-austriaca si rivelò sufficiente a coprire alla fine del 1683 un fabbisogno teorico di 80.000 soldati (ma ne erano schierati in realtà meno di 60.000), che il budget disponibile obbligò l’anno successivo a diminuire di un quarto37. A partire dal 1685 le spese militari si sarebbero impennate passando dai 5-6 milioni degli anni precedenti ai 12, per ascendere agli oltre 16 nel ’93 e arrivare a toccare addirittura i 22 nel ’95. Solo verso la fine del secolo esse sarebbero scese di nuovo, mentre migliorava sensibilmente il livello delle entrate: la guerra vinta cominciava finalmente a rendere qualcosa38. D’altronde erano di gran lunga migliorati anche i servizi: le truppe imperiali erano note come quelle che con maggior pesantezza vivevano, come con un qualche eufemismo si diceva, «sul paese»; ma proprio a partire dal 1685 lo Hofjude Samuel Oppenheimer39 riuscì a organizzare un decente servizio logistico per le truppe che operavano in Ungheria, per quanto ancora a lungo in tutta l’Europa occidentale si sarebbe continuato a rifornire gli eserciti ricorrendo a imprenditori privati e secondo i prezzi di mercato40. Per le terre ereditarie della monarchia asburgica l’esercito permanente veniva mantenuto mediante una tassa militare specifica, la Kontribution; e la Landrekruterstellung, il reclutamento provinciale – all’origine più o meno volontario, quanto meno in teoria – divenne nel corso di tutta la «guerra turca» fino alla pace del 1699 una pratica sistematicamente, volta a integrare l’esercito regolare41. Lo sforzo bellico coinvolse anche molti patrimoni privati, oltre a quello del pontefice. Il cardinal Buonvisi vi profuse personalmente buona parte dei suoi averi, senza peraltro stancarsi di chieder alla Santa Sede ulteriori forme d’impegno. Più volte il prelato minacciò le dimissioni, anzi giunse addirittura a presentarle: pur sapendo che sarebbero state respinte. Alla fine, la soluzione di vendere i beni ecclesiastici di più recente acquisto nel territorio austriaco per finanziare la campagna militare apportò in effetti, nel 1685, un sostanziale incremento alle esauste finanze di cui egli poteva disporre. Godendo dell’appoggio congiunto del papa e dell’imperatore, il Buonvisi gestiva ormai direttamente l’amministrazione dei fondi di guerra e poteva permettersi perfino di sollevar dall’incarico di commissario

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generale il conte Siegfried Breuner per sostituirlo con l’italiano Rodolfo Baratta. L’imperatore, costantemente fiancheggiato da padre Marco d’Aviano che era ormai l’instancabile apostolo della crociata, impegnò tutte le forze e le risorse nella nuova alleanza e nella strategia di largo raggio che essa comportava. Addirittura, riprendendo un disegno che era già affiorato più volte – nel 1571 dopo la battaglia di Lepanto e nel 1614 nelle trattative che il viaggiatore romano Pietro della Valle aveva condotto con lo shah di Persia Abbas – e che del resto aveva le sue lontane origini nei progetti pontifici di alleanza con la potenza mongola ch’erano stati formulati più volte tra Due e Quattrocento, Leopoldo prese contatti con l’arcivescovo Sebastian Knab, allora residente in Persia, al fine di avviare suo tramite le trattative con lo shah Safi II Süleyman in vista d’un’azione comune contro il sultano ottomano, nemico ereditario dei monarchi safavidi42. Il clima era fin troppo ottimistico: dal momento che le notizie sulla vittoria di Barkan, la presa di Gran e la fine di Kara Mustafa erano state seguite con straordinario interesse ed erano state oggetto di scritti d’occasione e perfino di stampe che circolavano per pochi soldi di mano in mano, si era diffusa l’idea – del tutto errata – che le forze ottomane fossero ormai scompaginate e incapaci di reagire a un ulteriore attacco. Anche il «Grande Elettore» Federico Guglielmo di Hohenzollern, principe di Brandeburgo, il quale da buon calvinista si era rifiutato di partecipare alla campagna del 1683 che gli era parsa in eccessivo odor di papismo, si diceva ora disposto a scendere in guerra: ma non senza un adeguato riconoscimento, visto che i cattolici non lo avrebbero mai accettato come comandante in capo. Comunque solo nell’aprile del 1686 il suo ottimo corpo di spedizione, 8000 uomini tra cavalieri e fanti, sarebbe stato pronto – come vedremo – per essere schierato nella guerra d’Ungheria. Ma né l’imperatore, né il papa, né Carlo di Lorena, né il loro tramite spirituale padre Marco, né il Buonvisi potevano né volevano aspettare. La campagna di Morea Dal canto suo, la Serenissima riteneva che il suo compito fosse far in mare quel che imperiali e polacchi stavano per fare sulla terraferma danubiano-balcanica, e scalpitava per il desiderio di vendicarsi

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dell’onta di Candia; alcuni signori della laguna, inebriati dal profumo della vittoria viennese, già parlavano di riconquistare non solo Candia ma anche Cipro e Negroponte, di ricostruire l’impero sul mare e di restaurare l’antica gloria43. Tornavano, prepotenti, anche gli oracoli, i pronostici, le profezie come i celebri oracula Leonis: e si ristampavano opuscoli astrologici e profetici che, peraltro, incontravano credito anche nella severa università di Padova44. Guardando dalla prospettiva del presente a quella nuova, grande avventura che si stava aprendo, e che è rimasta celebre come «campagna di Morea»45, è difficile dire quanto Venezia sfruttò davvero le effettive possibilità della sua compagine civile in quella guerra, che fu comunque il canto del cigno della marina di San Marco: tale problema, al pari del progetto di rinnovamento dell’esercito della Serenissima, è uno dei tanti aspetti delle questioni messe in campo da quello sforzo, che potrebbe essere considerato un’occasione che l’aristocrazia lagunare non seppe sfruttare sino in fondo. Il XVII secolo aveva infatti assistito a un profondo cambiamento nella struttura della marina veneziana. Fino ad allora, se si eccettua la guerra con gli ottomani del 1499-1503, la Serenissima aveva sempre affidato il proprio potenziale navale alle unità a remi, di cui la galeazza era l’ultima e più originale evoluzione46. Dagli inizi del Seicento le navi da guerra a vela acquisirono una crescente importanza fino a diventare l’elemento centrale della flotta47. Le ancora limitate differenze strutturali e di capacità di impiego complementare tra mercantili armati e navi da guerra rendevano l’utilizzazione dell’armamento privato non solo credibile, ma anche particolarmente interessante. Così, quando nel 1629 Venezia dovette rinforzare la flotta, vennero subito noleggiate 10 navi, mentre nel 1638 2 dei 3 galeoni armati dopo una battaglia sostenuta nelle acque di Valona contro i barbareschi erano inglesi. Questa politica arrivò al culmine all’inizio della guerra di Candia, nel 164548. Nel 1651 iniziò una nuova fase del conflitto: nel luglio di quell’anno i veneziani avevano catturato nella battaglia di Paro 3 grandi navi da guerra turche che vennero immesse in servizio nel 1652 – la prima, nel giugno, fu battezzata Sant’Alvise – con la classificazione di navi pubbliche, costituendo il primo nucleo di un’«armata grossa» nazionale e permanente. Altre unità ottomane furono catturate, in particolare da Lazzaro Mocenigo, che propugnò l’esigenza di una forte squadra da guerra con navi a vela appartenenti allo stato. Nonostante la sua prematura scomparsa nel 1657, un nucleo fra le 3 e

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le 5 navi pubbliche rimase in servizio fino alla fine di quella guerra e negli anni immediatamente successivi. In tal modo Venezia partecipò al processo evolutivo dell’Europa verso la definitiva affermazione di moderne marine da guerra statali. Però, invece di gestire direttamente gli equipaggi, come accadeva nelle marine inglese e francese, la Serenissima scelse di imitare gli olandesi, sulle cui navi era il capitano che arruolava e manteneva la ciurma49. Le unità catturate agli ottomani erano poche per le necessità della flotta e continuarono ad essere affiancate da mercantili armati che alla fine della guerra di Candia erano ancora una ventina. Le guerre anglo-olandesi avevano resa rara la disponibilità di mercantili armati stranieri e i costi per mantenere anno dopo anno le unità noleggiate crearono notevoli problemi. La repubblica aveva speso per noli, durante quei conflitti, circa 17 milioni di ducati. A queste difficoltà si sommò la sfiducia crescente verso i mercantili armati, che la seconda guerra anglo-olandese dimostrò inferiori alle navi espressamente progettate per porre in atto la nuova tattica della linea di fila, introdotta dagli inglesi a metà del secolo. Il senato della repubblica decise quindi di ordinare la costruzione di navi da guerra a vela nel grande e glorioso arsenale. Il nuovo corso si avviò relativamente in sordina – 2 vascelli da 64 cannoni impostati nel 1666, cui seguirono negli anni 1672-1674 4 unità più piccole (44-50 cannoni) –, ma vi fu una grande accelerazione nel 1675. Le preoccupazioni suscitate dalla politica navale di Luigi XIV nel Mediterraneo e la nuova strategia dei corsari barbareschi, che avevano cominciato ad agire in formazioni di 6-8 navi, spinsero il senato ad approvare la costruzione di 9 navi da guerra, cui seguirono altre 6 nel 1679. Allora fu presa la decisione ancora più importante di ristrutturare gli scali dell’arsenale per la costruzione dei vascelli: ne risultò la creazione di un complesso cantieristico unico al mondo, dove potevano essere contemporaneamente impostate, ed eventualmente conservate, fino a 13 unità. Gli ottomani non disponevano di un’effettiva squadra di navi da guerra e si limitavano a costruire velocemente una serie di unità secondo le necessità immediate, lasciandole poi a una rapida decadenza. I nuovi vascelli veneziani ebbero il compito di riaffermare una superiorità navale messa in evidenza dalla guerra di Candia sfruttando questa lacuna del nemico, che si ritenne non facilmente né, soprattutto, rapidamente rimediabile da parte sua50.

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La prima guerra di Morea fu l’occasione per verificare questa poli­ tica. Fino ad allora, fedele al principio di «possedere pacificamente il dominio», la repubblica aveva adottato una politica militare rigoro­ samente difensiva, imperniata sul «tripode» costituito dalle fortezze, dalla flotta e dalle milizie territoriali: queste ultime erano in linea di massima il punto debole del triangolo strategico veneziano. Ma gli altri due vertici di esso, la flotta e le fortezze, erano certo comple­mentari per un verso – specie in un «impero» come quello della Serenissima, dove coste e isole avevano l’assoluta preminenza sulla terraferma –, ma antagonistici per un altro: si doveva sempre scegliere se potenziare l’armata di mare piuttosto che le piazzeforti (specie quelle di terra) o viceversa. Il fatto che la strategia veneziana fosse orientata principalmente alla difesa aveva determinato un prevalere della seconda opzione sulla prima: le fortezze apparivano più urgenti che non le navi. Secondo un «ristretto» delle artiglierie del 1683, la repubblica disponeva di 34 fortezze: 12 nella Terraferma, 2 in Istria, 10 fra Dalmazia e Albania, 5 nelle Ionie, 5 nella Grecia peninsulare51. Ma né le fortificazioni né i pezzi d’artiglieria erano sempre adeguati: se l’inventario del 1683 elencava 2561 bocche da fuoco in tutto, quindi un numero rilevante, aggiornamento e munizionamento lasciavano a desiderare e richiedevano inoltre guarnigioni di servizio molto numerose, a totale scapito di un esercito disponibile per la mobilitazione. In caso di un inatteso attacco del Turco, sarebbe stato molto difficile correre in aiuto delle piazzeforti poste sotto assedio: e dato il sistema antiquato d’arruolamento, potevano esser necessari parecchi mesi prima di mettere insieme i mercenari indispensabili a far fronte a eventuali bisogni. Ma la vittoria di Vienna pareva aver mutato le prospettive anche in un settore al quale essa era estranea, quale quello ionio-egeo. Se dopo Candia poteva esser sembrato irreversibile che il Turco, pur ancora inferiore in termini nautici, avrebbe alla lunga provocato lo smantellamento dello «stato da mar» ed evidente che esso aveva i mezzi e la volontà per farlo, adesso erano in molti nella bella città lagunare a ritenere che tutto fosse stato rimesso in gioco. Il papa aveva perfettamente compreso lo stato d’animo che stava serpeggiando nella repubblica: con l’armata terrestre in ritirata se non addirittura in rotta, la Porta non avrebbe certo potuto mettere in mare una flotta in grado di tornar a minacciare i possessi della Serenissima; spettava anzi ad essa rilanciare, partendo all’attacco. Protagonista della manovra diplomatica che condusse San Marco all’impegno della Santa Lega voluta dal pontefice, e sulle prime

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guardato da molti con diffidenza, fu il cardinal Pietro Vito Ottoboni, veneto egli stesso, rappresentante ufficioso della Serenissima presso la Santa Sede. Come contropartita per la sua disponibilità, Venezia ottenne il comando delle galee pontificie con rinforzi maltesi e toscani e un sussidio di 100.000 fiorini. «Capitano generale da mar» fu proclamato – e chi altri mai? – il pur ormai sessantacinquenne eroe di Candia, Francesco Morosini, mentre a capo delle truppe che avrebbero dovuto portar a buon fine gli sbarchi veniva posto Girolamo Strassoldo; Antonio Zeno era nominato provveditore di Dalmazia e Albania. Nella vecchia repubblica aristocratica, l’entusiasmo per le prospettive della rinascita dell’impero coloniale e per la vendetta dopo le troppe umiliazioni subìte da parte del Turco giunse alle stelle, nonostante nel senato le voci dubbiose sull’opportunità d’impegnarsi nella Santa Lega fossero state molte, autorevoli e non immotivate. Il cosmografo ufficiale di stato, il francescano conventuale Vincenzo Coronelli, si dette a una straordinaria produzione di mappe e di atlanti che richiamassero ai veneziani e al resto della Cristianità il peso e il senso delle antiche glorie di San Marco52. Ma ci volevano i capitali per sostenere uno sforzo bellico del tipo che si andava profilando. Il governo della Serenissima, come aveva già fatto durante la guerra di Candia, rastrellò denaro in tutti i modi: non solo con le tasse, ma anche attraverso la vendita delle cariche pubbliche e il conferimento a prospere famiglie popolane di patenti di nobiltà al prezzo di centomila ducati ciascuna. Tuttavia, la riconquista delle grandi isole non venne ormai neppure presa in considerazione: ci si orientò invece su una regione più vicina e il possesso della quale sarebbe stato più facile da consolidare, la Morea. Bisognava battere il ferro finché era caldo, approfittando delle sconfitte che gli ottomani andavano collezionando in Ungheria. L’arsenale lavorò a pieno ritmo, costruendo 28 galee, 6 galeazze e 12 navi di linea, mentre furono acquistati altri vascelli. L’armata lasciò Venezia il 1° giugno del 1684 per far sosta a Corfù. Il 16 successivo il segretario di legazione Giovanni Cappello, che in quel momento svolgeva provvisorie funzioni di bailo veneziano a Istanbul, consegnò la dichiarazione di guerra al funzionario della Porta più alto in carica che in quel momento si trovasse in sede, il kaymakam: dopo di che ce la fece appena a svignarsela travestito a Smirne, dove si imbarcò su un vascello mercantile riuscendo a riguadagnare Venezia. Il suo comportamento può sembrare poco elegante, ma

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era necessario: il Turco, in effetti, non usava riconoscere immunità diplomatiche. Era la prima volta nella sua storia che la Serenissima dichiarava formalmente guerra all’impero ottomano: una scelta che si dovette soprattutto alla convinzione di superiorità che le proveniva dalla disponibilità dell’armata «grossa», formata da 13 navi pubbliche, alle quali furono aggiunti solo 2 mercantili armati a nolo. Va subito detto, prima di passar a esaminare il corso della campagna indugiando su alcuni episodi di essa, che i risultati non furono all’altezza delle aspettative. I vascelli erano uno strumento con attitudini difensive superiori a quelle offensive e quindi di difficile uso per i veneziani che intendevano sviluppare una strategia volta a ottenere una rapida vittoria contro un avversario sfuggente. I limiti furono amplificati dalla innovativa tattica della linea di fila: introdotta per massimizzare l’effetto del fuoco dei cannoni e per favorire il controllo e la disciplina, essa rendeva arduo il compito dell’attaccante, che doveva risolvere il problema di avvicinarsi al nemico mantenendo la coesione e senza poter sfruttare appieno il proprio armamento. Anche sul piano strategico la situazione si rivelò complicata. Solo una prolungata e costante azione di blocco come quella dei Dardanelli avrebbe potuto ottenere risultati decisivi. Le ammodernate fortificazioni degli Stretti e la congiuntura politico-diplomatica, nettamente meno favorevole a Venezia rispetto alla guerra di Candia, resero molto difficile l’attuazione di un blocco efficace; inoltre a Venezia si aspettavano una rapida e risolutiva vittoria navale, e solo una minoranza era disponibile ad accettare i tempi per una strategia di logoramento, soprattutto di fronte ai risultati della guerra anfibia condotta dal Morosini con l’armata «sottile» delle galee. Ma non anticipiamo i tempi: procediamo per ordine. I patrizi comandavano le galee veneziane: era un loro monopolio. Erano anche ufficiali e provveditori per le guarnigioni, dalla terraferma alla Dalmazia e le isole. Veneziani e croati costituivano la metà dell’esercito di 8400 uomini che fece vela, nel luglio 1684, per assediare la fortezza dell’isola di Santa Maura, di fronte alla costa nord-occidentale della Grecia. Oltre alla guarnigione di Corfù c’erano 2000 greci delle isole Ionie che servivano come ausiliari nelle forze veneziane insieme a 150 monaci che tenevano alto il loro morale. Circa un terzo dell’esercito era costituito da tedeschi provenienti dal Braunschweig e dall’Hannover, «comprati» a 200 fiorini a testa53. Furono pagati loro tre mesi in anticipo. Il fatto che il primo

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obiettivo individuato, appunto la fortezza di Santa Maura, fosse nei pressi di Corfù che serviva come quartier generale invernale per una gran parte dell’armata e della flotta, facilitò le operazioni. Francesco Morosini assunse il comando supremo dell’armata alleata. In Corfù, alle forze veneziane si aggiunsero 5 galee pontificie, 7 dei cavalieri di Malta e 4 toscane. Queste ultime avevano fatto vela da Livorno al comando del viceammiraglio conte Cammillo Guidi di Volterra, che si era distinto nel luglio del 1675 in uno scontro in vista dell’Elba con alcune galee di Biserta appartenenti al famigerato corsaro Ciriffo. Sulle navi dell’Ordine di Santo Stefano era imbarcato un contingente di fanti comandato dal sergente maggiore Pietro Serrati; inoltre era stato noleggiato, a 1500 scudi al mese, un imponente vascello, il Grand’Alessandro, con a bordo una truppa da sbarco di 600 unità. Significative le istruzioni affidate dal granduca al comandante della squadra toscana, a proposito delle questioni cerimoniali: non cedere a eventuali pretese di precedenza da parte dei Cavalieri di Malta, con i quali doveva essere evitato qualunque diretto rapporto; occupare le linee d’avanguardia e, se ciò non fosse stato concesso dagli alti comandi dell’armata, abbandonarla e rientrare. Quest’ultimo ordine era tanto perentorio quanto ambiguo: potenza del «punto d’onore» o prudente precostituzione di un alibi per disimpegnarsi dall’impresa? La mattina del 16 luglio 1684 si tenne una prima riunione degli alleati: sulla spianata della fortezza ebbe luogo la rassegna degli 8000 fanti da sbarco, il comando dei quali fu affidato all’udinese conte Niccolò Strassoldo. Il 19 la flotta alleata levò l’ancora con le galee toscane all’avanguardia – Cosimo l’aveva spuntata: o i veneziani e i maltesi avevano mangiato la foglia e lo avevano incastrato? –, «capitana» e «padrona» avanti al centro e una «sensile» davanti a ciascuna ala. Dal momento che la flotta ottomana si sottrasse al confronto in mare aperto, il Morosini decise di assediare subito la poderosa fortezza di Santa Maura che oltre alle grosse muraglie era collegata alla terraferma solo da un ponte, mentre un altro la univa all’isola dallo stesso nome54. Le fanterie sbarcarono su un lato, veneziani e toscani sull’altro, pontifici e maltesi attaccarono dal mare tra i due schieramenti, mentre le galee iniziarono il cannoneggiamento. Fra il 6 e il 7 agosto, dopo un assedio durato un paio di settimane, la guarnigione ottomano-barbaresca si arrese. Non era tuttavia che l’avvio della campagna, per quanto salutato dal fausto esito dell’assedio di Santa Maura, si presentasse troppo

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semplice. I toscani, che avevano perduto una trentina di uomini tra morti e feriti, si sentirono offesi a causa dei soliti problemi di precedenza con il comandante delle navi maltesi; il Guidi mandò a chiedere di poter rientrare, ma da Firenze gli fu ordinato di restare fino a settembre. Il Morosini lasciò allora i toscani a presidiare Santa Maura e si volse a espugnare la vicina Préveza, utilizzando i maltesi come avanguardia. Da lì lo Strassoldo sarebbe passato in Albania incitando le genti del posto alla ribellione contro la tirannide ottomana55. Ma, verso la fine di settembre, gli alleati di Venezia tornarono nei loro porti. Durante la pausa invernale il granduca di Toscana, offeso a causa del comportamento dei cavalieri di Malta, trattò con Innocenzo XI che, in accordo con il senato veneziano, decretò l’abolizione dei saluti a salve tra le squadre navali per evitare questioni sul numero dei colpi da sparare e da restituire, senza definire però le precedenze. Così, nel maggio 1685, alla ripresa delle operazioni, il Guidi ricevette dal suo signore l’ordine di non navigare di conserva con altre navi, di non partecipare a incontri e di sbarcare i contingenti delle navi di Santo Stefano in luoghi separati per unirli in seguito ai veneziani. Il Morosini si sentiva addosso tutto il peso dei suoi non pochi anni e la fatica sopportata per affrontare le liti fra gli alleati lo aveva stancato: si sentiva sfiduciato e chiese al doge e al senato di venir sostituito. A Venezia, però, ci si fidava solo di lui. Restò quindi al suo posto, pur avviando la campagna con un qualche ritardo. Nel giugno, all’atto della concentrazione delle flotte alleate alle Curzolari, riemerse la questione delle precedenze: il Guidi salutò il Morosini e il comandante del contingente pontificio «a suon di trombe», ma non degnò di alcun segno i maltesi; e, quando si tenne il consiglio di guerra che decise di assediare Corone, i toscani non vi parteciparono. Emblematico fu comunque il fatto che il comandante toscano venisse riverito e stimato più di prima per aver posposto l’amor proprio al bene comune. Il piano del Morosini consisteva nell’attaccare anzitutto Corone, antico possesso portuale di Venezia all’estremo limite meridionale della penisola di Morea. La piazzaforte fu assalita tra il giugno e il luglio da una forza consistente in tutto di 10.000 soldati. Il 25 giugno le navi toscane avevano sbarcato 300 fanti e 43 cavalieri che, senza stendardo, si unirono a uno dei reggimenti del principe Massimiliano di Braunschweig al servizio della Serenissima, per procedere

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al blocco. Gli ottomani organizzarono il soccorso della piazzaforte e nel luglio circondarono di trinceramenti gli assedianti, passando poi ad un assalto di tanto vigore da riuscir ad occupare la principale ridotta degli assedianti: fu sfiorato il disastro, evitato da un valoroso contrassalto di otto compagnie tirate a sorte tra tutti i reggimenti presenti – tra cui si trovavano anche i toscani – e condotto dal conte de La Tour Maubourg. Intanto, le galee toscane veleggiavano da sole o con quelle veneziane lungo le coste del Peloponneso, sfidando inutilmente il 23 luglio nelle acque del golfo di Nauplia la flotta ottomana. Il 7 agosto i toscani parteciparono alla conquista dell’accampamento delle forze ottomane inviate a soccorrere Corone: ma non attesero la resa di quella piazzaforte, perché ripartirono subito a causa dei soliti puntigli di cerimoniale. Tre giorni dopo, al termine di un assedio durato una cinquantina di giorni, la piazzaforte si arrese. L’azione diplomatica accompagnava di continuo le operazioni militari. Venezia si preoccupava molto del suo alleato toscano, anche per il significato che il suo appoggio avrebbe avuto nel contesto di un quadro politico europeo che appariva incerto e lacerato. Questi, dal canto suo, aveva deciso di sostenere per il 1686 più efficacemente lo sforzo di Venezia aggiungendo alle 4 galee già impegnate altre 4 galeotte, catturate ai corsari algerini, e 2 vascelli sui quali avrebbero dovuto imbarcarsi 800 soldati e 70 cavalieri di Santo Stefano. Ma con i soldati insorsero nuovi problemi poiché, mancando rematori per completare le ciurme delle galeotte, fu chiesto loro tale servizio: essi in gran parte rifiutarono; fu necessario per questo reclutarne altri disposti a integrare i vogatori. Ciò causò un ritardo nella partenza della squadra, che era stata fissata per l’aprile. Poi le navi toscane dovettero ancora attendere nel Tirreno, perché l’impegno contro l’impero ottomano aveva finito per sguarnire la protezione delle coste italiche le quali non potevano esser lasciate in balìa dei barbareschi: finché a Marsiglia, a Genova e a Napoli non furono armate altre galee, le imbarcazioni toscane non poterono raggiungere il teatro di guerra greco. Il Guidi arrivò a Corfù il 30 maggio; il 2 giugno fu raggiunto dal Morosini a Navarino dove, preso il castello vecchio, si assediò la fortezza. Le truppe sbarcate avevano come maestro di campo il veronese Sansebastiani, mentre i 70 cavalieri di Santo Stefano, che però non spiegarono lo stendardo dell’Ordine, dipendevano dal pisano Giuseppe Alliata. Il comando delle operazioni a terra era stato assunto da un generale svedese mercenario, il conte Otto Wilhelm von Königsmarck, che aveva sostituito lo Strassoldo56.

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Il 4 giugno fu preso d’assalto il campo ottomano del contingente di soccorso: come a Corone, questo successo portò poco dopo alla capitolazione della fortezza. Pur nella loro brevissima presenza, i cannonieri granducali si rivelarono particolarmente abili. Il Morosini fece in modo di soddisfare le esigenze cerimoniali richieste dal Guidi in nome del granduca: e i toscani, lieti e imbaldanziti per le prove di considerazione ricevute, si mossero per partecipare all’assedio di Modone, dove lavorarono per costruire una doppia linea di circonvallazione; e dove furono raggiunti, il 22, dalle galee. Nella notte fra il 28 ed il 29 iniziò il «lavoro di zappa» a 150 passi dalla cortina della piazzaforte, che capitolò il 7 luglio57. Fu deciso allora di prendere Nauplia: e, reimbarcato in due giorni il corpo di spedizione che era stato impegnato, con le galee toscane in avanguardia, il 30 luglio cominciarono le operazioni. Il seraskier del Peloponneso Ismail Pas¸a, con 5000 ottomani quasi tutti combattenti a cavallo, si accampò nei pressi dell’antica Argo per attaccare gli assedianti. Il 6 agosto gli alleati presero l’iniziativa passando all’assalto del campo nemico: ma la cavalleria ottomana riuscì a organizzare una violenta carica che fu respinta grazie alla disciplina delle fanterie e a un’arma entrata da poco in uso, la baionetta58. Infatti i reparti si chiusero in quadrati di battaglione, la prima fila con la baionetta inastata in ginocchio e le altre, a trenta passi, che facevano fuoco a salva di plotone. L’ala destra ottomana piombò sulla sinistra, dove si trovavano i toscani: fu respinta, ma sul resto del fronte la situazione rimase incerta fino a quando 2000 marinai sbarcati nel frattempo non minacciarono sul fianco Ismail. Gli ottomani si ritirarono in disordine verso Corinto: ma da lì organizzarono, il 29 agosto, un attacco al dispositivo d’assedio. La manovra tuttavia fallì: di conseguenza, anche Nauplia si arrese59. Caddero allora l’una dopo l’altra anche Sarnata, Calamata, Chielafà, Mistra – l’antica Sparta –, Argo: dappertutto il Morosini fece restaurare le fortificazioni e riorganizzare le compagini militari di difesa in modo da consolidare i territori conquistati. Per quell’anno, la campagna poteva considerarsi conclusa. Ai primi di settembre gli alleati fecero vela alla volta dei porti nei quali avrebbero dovuto svernare. I toscani erano soddisfatti, ma si leccavano un po’ malinconicamente le ferite. Le loro perdite si erano peraltro rivelate particolarmente pesanti: 300 tra morti e prigionieri e 240 feriti, 70 dei quali furono poi catturati da pirati tripolini quando, nel golfo di Taranto, fu sorpresa la tartana isolata sulla quale erano

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trasportati. Alla fine delle operazioni più dei due terzi delle forze toscane impegnate risultò messo fuori combattimento. Intanto una seconda armata veneziana stava conducendo una campagna in Dalmazia; incursioni diversive, lanciate ancora più a nord vicino a Sinj in Bosnia, stancarono le truppe ottomane. La flotta, al comando dell’ammiraglio Girolamo Corner e appoggiata da contingenti maltesi, papali, toscani60 e genovesi, assediò Castelnuovo Illirico all’entrata delle Bocche di Cattaro, famigerato rifugio di pirati, e lo prese il 30 settembre dopo un rapido assedio. Quando un morbo contagioso scoppiò nell’armata del Morosini, fu considerato più saggio inviare i rinforzi in questo secondario scenario di guerra. Per il marzo 1687 erano schierati circa 10.000 soldati, dei quali 6000 provenivano dai cantoni elvetici, dall’area di Bayreuth e dal Braunschweig. Gli abitanti locali, stufi del dominio ottomano, prestarono un inestimabile aiuto a queste operazioni. I loro rispettivi cleri incitarono i cristiani, morlacchi e albanesi, a ribellarsi; 2000 ausiliari montenegrini operarono con il supporto veneziano sotto il comando del vescovo di Cettigne. La rivolta si diffuse in tutta l’Albania settentrionale: il risultato di queste operazioni fu una continua, ininterrotta serie di successi veneziani lungo la costa, da Valona in Albania a Lepanto e Préveza nell’Epiro greco. Per le operazioni dalmato-epirote ci si era serviti di una miscela delle varie etnie delle coste adriatiche e delle montagne intorno ad esse: ciamurioti (o cimarioti), morlacchi, haiduk e montenegrini, «gli irochesi di questi paesi». I cimarioti, più tardi conosciuti come «cappelletti», scendevano dalle montagne a sud di Valona: erano rozzi ma eccellenti tiratori che i veneziani utilizzavano come truppe da assalto e per scaramucce varie. I cristiani dei Balcani erano combattenti spietati, specialmente contro i turchi, e non prendevano mai prigionieri. Non erano molto disciplinati e tendevano principalmente alla razzia, catturando schiavi, ramazzando provviste e avvelenando i pozzi. Erano circa un migliaio in servizio verso il 1690, ma più tardi il loro numero sarebbe cresciuto. Quanto alla campagna di Morea, nella quale il Morosini aveva impegnato il suo intero patrimonio sostenendo in modo decisivo le spese militari e navali, essa si poteva dir conclusa nel 1687. Il capitano generale aveva agito con energia e determinazione, spesso con una brutalità che gli guadagnò anche molte critiche e molti avversari. Né aveva esitato a intimidire il nemico facendo esibire le teste degli ottomani decapitati sulle picche dei suoi soldati per indurre

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i difensori delle piazzeforti ad arrendersi: «non crediamo sia qualunquismo storico dichiarare che, su questo punto, tutti, cristiani e turchi, si assomigliavano molto»61. Si trattava di tecniche di guerra psicologica comuni: che non vanno giudicate se non nel contesto del tempo, senza pretesti pseudo-antropologici d’accatto cui sembrano aver qua e là ceduto anche studiosi seri, i quali si sono posti domande oziose del tipo se gli europei, i cristiani, fossero più o meno «feroci» dei turchi, dei musulmani, e in che senso, e perché. Di per sé, gli assedi non sarebbero stati difficili: le fortezze ottomane erano state progettate secondo principi obsoleti e resistevano debolmente. Le epidemie, soprattutto di tifo, e la dissenteria indebolivano gli attaccanti più delle perdite in battaglia. Mano a mano che la campagna militare procedeva, il Morosini abbozzava piani per modernizzare l’armata affidatagli secondo lo sviluppo degli altri eserciti regolari creati nella seconda metà del XVII secolo. Alcuni cambiamenti furono tali solo in apparenza, come l’introduzione di uniformi per i differenti reggimenti. Più importante fu il fatto dell’organizzazione dei 9000 fanti regolari in reggimenti basati sulle origini nazionali. Il gruppo più numeroso fu quello della fanteria italiana, sebbene si sappia poco della sua effettiva area di reclutamento: molti mercenari venivano dal Parmense. Si organizzarono inoltre unità di «ultramarini» e «ultramontani», con uniformi differenti e con un ritmo diverso, specifico, del rullo dei tamburi; i reggimenti ingaggiati da altre potenze si mossero al suono della musica delle loro marce. Approfittando di una riforma dell’esercito spagnolo, anche due reggimenti che servivano Milano furono trasferiti al soldo dei veneziani. Le truppe «ultramontane» della Serenissima erano per la maggior parte costituite da fanterie svizzere e tedesche con l’apporto di alcuni venturieri francesi che servivano sotto ufficiali veneziani. Venezia ingaggiava truppe con sottufficiali e principi tedeschi ai quali faceva in quel momento difetto una guerra remunerativa più vicina a casa. Nel 1687 servirono in circa 4000 sotto i principi di Brandeburg-Onolzpach e d’Assia, mentre altri 2500 stavano sotto il duca di Hannover. Il principe reggente di Württemberg, Friederich Karl, mise insieme una fortuna reclutando soldati nello stato posto sotto la sua amministrazione: durante il 1687 egli s’impegnò a organizzare 3 reggimenti e mezzo, 4500 uomini in totale, per servire nell’Egeo. I contingenti tedeschi furono i canali attraverso i quali Venezia si tenne al passo dei moderni addestramenti e delle nuove tattiche. La campagna di Morea fu comunque straordinaria per tempestività e per risultati. E ben a ragione il senato decretò che nella sala

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del Consiglio dei Dieci fosse collocato un busto bronzeo dell’invitto condottiero adorno dell’epigrafe Francisco Mauroceno Peloponnesiaco adhuc viventi Senatus. Ora bisognava andare avanti. Il capitano generale si dirigeva nell’autunno del 1687 verso Atene, unendo le sue forze a quelle del von Königsmarck e ai mercenari tedeschi di Hannibald von Degenfeld. La popolazione greca si mostrò amichevole, ospitale ed accogliente – i greci, com’è naturale facciano gli oppressi, «tifavano» sempre per i «liberatori»: quelli soggetti a Venezia per il Turco, e viceversa –, il che facilitò molto le cose. In otto giorni, tra 22 e 29 settembre, i veneziani e i loro ausiliari occuparono il Pireo e il burgus, vale a dire la città bassa. I soldati ottomani, insieme con gli abitanti musulmani, si ritirarono sull’Acropoli, dove si apprestavano a resistere quando, tra 25 e 27 settembre, le bombe veneziane che cadevano senza riguardo fecero esplodere i Propilei e il Partenone, che fin dall’antichità erano rimasti intatti ma che dagli ottomani erano stati ridotti a santabarbara, cioè a deposito di munizioni: le navi della Serenissima non avrebbero mai potuto avvicinarsi tanto ad Atene se la marina ottomana non fosse stata davvero debole62. L’armata veneziana svernò in città, disturbata solo dalle incursioni della cavalleria ottomana. Quando quel che restava delle truppe infedeli passò a una nuova offensiva, il Morosini decise di evacuare la città che era troppo difficile da difendere e nel marzo dell’88 ne fece sfollare la popolazione. Il nuovo obiettivo, dopo la Morea, non poteva essere che Negroponte63, la conquista della quale avrebbe consegnato alla Serenissima la costa orientale della terraferma greca. Il momento era propizio: le armi dell’ammiraglio Corner trionfavano in Dalmazia e in Albania, Buda e Belgrado erano nelle mani degli imperiali, la Transilvania e la Bosnia liberate da Carlo di Lorena e da Eugenio di Savoia64. Intanto a Venezia, scomparso il doge Giustinian, si era deciso di elevare il Morosini al trono: Negroponte sarebbe stata lo splendido trofeo che il vecchio soldato divenuto ora principe avrebbe recato in dono alla patria. L’armata che sbarcò sotto la fortezza tenuta dal Turco era di dimensioni senza precedenti per Venezia: 16.600 uomini, dei quali circa 10.000 tedeschi e svizzeri, 4000 fanti italiani e 1100 tra cavalleria e dragoni, insieme con reparti pontifici, parmensi, maltesi e toscani che assommavano ad altri 2000 uomini. In battaglia, i cavalieri di San Giovanni e quelli di Santo Stefano ritrovarono la fratellanza d’armi

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che negli anni precedenti si era perduta nei meandri delle contese per questioni formali. Giunse al campo anche il principe François de Turenne, con 40 uomini del suo seguito: sebbene fosse appena ventenne, gli furono affidate dal Morosini importanti responsabilità e il giovane cavaliere si comportò con coraggio e onore, venendo anche ferito. La popolazione greca locale promise il supporto di 7000 irregolari. Ma, sfortunatamente per gli assedianti, si rivelò arduo bloccare contemporaneamente la città sull’isola e il forte ottomano di Kara Baba sul continente. Quest’ultimo era opera di un altro disertore italiano rinnegato, Girolamo Galoppi di Guastalla, un dragone con una certa competenza in scienza delle fortificazioni. Il forte del Galoppi consentì agli infedeli di impedire un completo blocco e assicurò continui rinforzi alla guarnigione di Negroponte, mentre i grandi cannoni della fortezza fracassavano le galee cristiane. Il costante flusso di aiuti dal continente permise agli assediati di effettuare potenti sortite contro le trincee cristiane. Il 19 agosto fu lanciato un energico assalto alla piazzaforte nemica: ma furono conquistati solo i trinceramenti esterni. Il 20 settembre, perduti 9 cavalieri e 200 soldati, l’ammiraglio toscano Guidi lasciò l’assedio65, presto seguito dai maltesi. La buona stagione stava volgendo a termine e per giunta era morto, colpito dal contagio che infuriava anche perché i militari non rispettavano i regolamenti di quarantena66, lo stesso von Königsmarck. Anche altri contingenti lasciarono il campo per tornare in Germania o in Italia; non così il giovane principe di Turenne, che fu addirittura promosso tenente generale. Ma era ormai chiaro che bisognava chiudere la partita. A quel punto il Morosini interruppe l’assedio. Ritiratosi a Corinto, il doge e comandante generale si dette a fortificare l’istmo e a riorganizzare le forze per l’anno nuovo. Intanto la cavalleria leggera veneziana, formata da irregolari e ausiliari, tormentava le guarnigioni e gli accampamenti ottomani in Attica e a Tebe, impegnando una forza nemica di circa 15.000 uomini: la guerriglia era la forma normale di questa guerra. Dalla Bulgaria alla Macedonia alla Morea, le forze sultaniali venivano continuamente martellate ai fianchi dai ribelli haiduk, che appoggiavano e sovente organizzavano le popolazioni cristiane in un’efficace guerriglia. L’uso di combattenti irregolari era stato una caratteristica di tutto quel conflitto. I veneziani avevano raccolto ausiliari nello stesso teatro di guerra o altrove, secondo le necessità di una campagna sui generis: come una banda di briganti abruzzesi che servì in cambio del

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perdono per i suoi crimini, un’unità irregolare di banditi e disertori sotto il capo fuorilegge napoletano Luca della Rocca, che sarebbe stata creata in Morea nel 1691 per prendere d’assalto Malvasìa67. Ma già nel 1688 il governo sultaniale ricorse a una mossa che si rivelò di grande efficacia: liberò un famigerato pirata maniota, Liberakis Gerakaris, che era in carcere a Istanbul, e investendolo del titolo di «bey della Mània»68 gli permise di arruolare una forza di qualche centinaia di uomini con i quali potesse raggiungere le truppe ottomane a Tebe. Da quel momento il Gerakaris rivestì un ruolo crescente sviluppando un’efficace guerriglia nei territori occupati dai veneziani e costringendo la Serenissima a destinare notevoli risorse per combatterla. D’altro canto nelle montagne della Grecia centrale si estendeva tra i possessi ottomani e quelli veneziani una specie di terra di nessuno praticamente controllata da bande di greci, albanesi e dalmati disertori dell’esercito veneziano; il Gerakaris tentò di arruolarli al servizio della Porta. Nel 1689 l’ex pirata condusse la prima grande scorreria contro Missolungi con una forza composta da turchi, albanesi e greci; nel 1692 costituì la «punta di lancia» dell’offensiva ottomana nel Peloponneso e, prima di essere respinto, prese Corinto e assediò Argo69. Gli effimeri successi di un capo guerrigliero abile e spregiudicato non bastavano comunque a riequilibrare le sorti del conflitto. Duramente provati e molto depressi per le ripetute sconfitte che stavano frattanto subendo in tutta l’area balcanica, gli ottomani proposero allora una pace70: tuttavia le condizioni dettate dal doge Morosini furono talmente dure da indurli a rompere le trattative e a proseguire la guerra. Un nuovo tentativo d’impadronirsi di Negroponte, nel 1689, fallì; l’instancabile doge si volse allora contro Malvasìa, con l’intenzione di perfezionare il controllo della penisola ellenica. Ma aveva ormai settant’anni: una malattia lo obbligò a cedere il comando a Girolamo Corner e a tornare in patria per insediarsi nel ben meritato palazzo ducale. Il Corner si rivelò un capitano generale all’altezza dell’ardua eredità morosiniana: proseguì l’assedio di Malvasìa, che nell’agosto del 1690 costrinse alla resa dopo una lunga resistenza durata ben diciassette mesi e resa possibile dal fatto che la piazzaforte era stata a lungo rifornita via mare; piombò quindi su una flotta ottomana tardivamente mossa in soccorso degli assediati e la sbaragliò nelle acque di Mitilene; attaccò poi di sorpresa Valona e la conquistò71. Il successo venne funestato tuttavia sia dalla sua morte, sia dalla per-

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dita presso Milo di 2 navi comandate da Alessandro Valier, che perì nell’impari scontro contro 10 galee ottomane. Il successore del Corner, Domenico Mocenigo, non riuscì invece a padroneggiare la situazione. Ambizioso e imprudente, forse reso troppo audace dai successi militari della repubblica e dalle notizie provenienti dai Balcani dei rovesci nemici, tentò il colpo della riconquista di Candia: un obiettivo dinanzi al quale lo stesso Morosini si era fermato. L’assedio procedeva comunque bene e sembrava vi fossero fondate speranze di una resa degli ottomani: quando alcune notizie incontrollate e forse frutto di una trappola, secondo le quali il nemico si accingeva a un massiccio assalto teso a riappropriarsi della Morea, indussero il Mocenigo ad abbandonare Candia e ad accorrere sconsideratamente contro un pericolo che non esisteva. A causa di questo madornale errore egli venne destituito e punito: ma l’occasione di riprendere Candia, che per un istante era sembrata a portata di mano, svanì per sempre. Frattanto, il 1690 aveva segnato un vero e proprio tournant della guerra marittima in quanto i cantieri ottomani avevano avviato una nuova fase di costruzione di navi di linea sotto la guida – come testimonia il conte Marsili, che si trovava a Istanbul nel 1691 in missione diplomatica per conto di Venezia – di chrétiens habillés à l’européenne72. L’impero ottomano stava accogliendo, sia pure in ritardo, la sfida dell’innovazione navale. Il disorientamento s’impadronì a quel punto dei veneziani. Le devastazioni dei francesi nella Renania e nel Palatinato avevano costretto l’imperatore a spostare una gran parte delle sue truppe dalla penisola balcanica al teatro euro-occidentale. Ciò aveva permesso agli ottomani di disimpegnarsi a loro volta da quel fronte e di ricostituire le loro forze in Grecia e in Anatolia. Le notizie che giungevano dal Levante non erano buone: ed erano aggravate dal fenomeno, continuo e progressivo, della diserzione dei mercenari che non se la sentivano di continuare una guerra durissima senza la certezza di paghe regolari73. Nell’ora così grave per la patria il vecchio Morosini fu implorato di vestir di nuovo le armi e di riprendere il mare. Fu così che, il 24 maggio del 1693, una folla commossa e plaudente accorse al lido per salutare il settantaquattrenne doge-capitano generale che si apprestava a far vela verso il teatro della guerra. Fu abile e valoroso come sempre: batté i barbareschi e riconquistò alcune isole, tra cui Salamina. Ma a Nauplia si ammalò e vi spirò non troppo tempo dopo, il 6 gennaio del ’9474.

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Mentre nell’ufficio dogale gli succedeva Silvestro Valier, il nuovo capitano generale accuratamente scelto fu Antonio Zeno, un altro patrizio veneziano provvisto di buona reputazione. La considerevole armata sotto il suo comando a Corinto contava 13.000 fanti, 3000 combattenti a cavallo e circa 4000 greci ausiliari. Il logoramento degli effettivi a causa delle epidemie era arrivato a circa il 20% annuo: ma freschi contingenti inviati da Venezia ne mantenevano costante il livello. Le guarnigioni della Serenissima si erano attestate nelle fortezze dal Friuli alla Dalmazia, nelle isole Ionie e nella Morea di recente conquistata, ma erano richieste truppe anche sulle galee e sui vascelli della flotta. Il consiglio di guerra, presieduto dallo Zeno, ritenne che ci fossero comunque abbastanza effettivi per tentare nuove conquiste altrove, nonostante già il Morosini avesse espresso il parere che era rischioso frazionare le forze. Fu così concepito un piano per sbarcare 10.000 uomini a Chio, mentre si manteneva Corinto presidiata da 3000 soldati e dalla milizia greca. Chio era un obiettivo allettante: ed era stato razziato ripetutamente dai cavalieri-corsari di Malta e di Santo Stefano che imperversavano tormentando le isole greche in mano turca. L’isola aveva una densa popolazione di 80.000 abitanti e la città principale stessa ne vantava 26.000, il che la rendeva una delle più popolose dell’Egeo e molto più grande di ogni altro centro demico già occupato dai veneziani. La maggioranza della popolazione era grecoortodossa, considerata quindi infida: ma ci si poteva aspettare la collaborazione di una notevole minoranza di cattolici latini. Si convenne che, dopo la conquista, i musulmani sarebbero stati espulsi e trasferiti sul vicino continente. L’armata sbarcò il 7 settembre 1694 e subito sconfisse la guarnigione dell’isola; la città, senza moderne fortificazioni per quanto forte di più di 200 cannoni, cadde il 15. C’era però adesso da aspettarsi la spedizione punitiva dell’ingente flotta ottomana ancorata nel porto di Smirne con una ventina di grandi vascelli ciascuno dei quali era armato dai 50 agli 80 cannoni di bronzo e che erano comandati da rinnegati inglesi, olandesi e francesi. Mentre stavano aspettando di combattere a Chio, le truppe veneziane guidate dal generale sassone Steinau si comportarono molto male, depredando indiscriminatamente greci, turchi ed ebrei. Inoltre, il trattamento di favore che i nuovi padroni riservavano ai greci che avevano accettato il rito latino rese la maggioranza ortodossa più scontrosa e risentita.

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Lo Zeno aveva troppo pochi genieri disponibili per rifortificare la città: per giunta si rese presto conto di non disporre di truppe sufficienti a difendere Chio e nello stesso tempo a bloccare un attacco diretto contro la Morea. Fu costretto a spedire là 2000 fanti e 10 galee: ma ciò lo costrinse a rinunziare a qualunque azione ulteriore, tanto più che le preziose galee maltesi e pontificie dovevano ritirarsi per l’inverno e non sarebbero tornate fino all’estate successiva. Per difendere l’isola, lo Zeno aveva richiesto 6000 fanti e 2000 combattenti a cavallo, ma aveva bisogno di almeno altri 3200 soldati per la flotta in caso di una battaglia sul mare, mentre si trovava a non disporre di più di 10.000 uomini in tutto. Gli infedeli, invece, incrementavano continuamente la loro flotta a Smirne e le truppe sulla costa vicina: era ormai chiaro che si stavano apprestando a riprendersi quanto aveva loro strappato il Morosini. Nel 1693 l’impero ottomano, definitivamente superata la vecchia consuetudine che consisteva nel non disporre di una flotta permanente ma nel costruirsi volta per volta i vascelli necessari appoggiandosi semmai ai barbareschi, possedeva ormai un’armata con navi di linea all’occidentale: secondo una tenace leggenda, era stato un rinnegato di origine livornese a suggerire questa misura. Sappiamo bene che alla flotta lavoravano tecnici europei, non necessariamente rinnegati; ma non è escluso che i cantieri livornesi c’entrassero in qualche modo. Le nuove navi sultaniali non erano soltanto costruite come i vascelli occidentali: esse avevano come equipaggio il meglio che potevano offrire i sudditi levantini dell’impero ottomano, mentre i cannonieri erano spesso europei che non si preoccupavano necessariamente d’indossare il turbante. Nell’inverno del ’95 gli ottomani scatenarono un duro attacco all’isola, sotto il comando di Hussein Pas¸a e del corsaro noto alle fonti occidentali con il nome di «Mezzomorto». Il 9 febbraio la loro flotta di 20 vascelli e 24 galee ingaggiò un combattimento con una squadra di San Marco più o meno di pari forza: i veneziani erano sulle prime in vantaggio, ma accadde che 3 delle loro navi esplosero. Quel giorno le perdite della Serenissima furono di circa 2500 uccisi o feriti, inclusi molti patrizi. Visto che nessuno dei due schieramenti aveva avuto decisamente la meglio sull’altro, il giorno dopo si tornò allo scontro. Dal momento che il mare molto mosso impediva alle galee di catturare i vascelli danneggiati o in difficoltà, l’azione consistette in ore di battaglie isolate che lasciarono altre centinaia

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di morti e feriti da entrambe le parti. Ma la flotta di San Marco finì col disperdersi, era in inferiorità numerica e lontana dalle sue basi di rifornimento. Il 21 febbraio lo Zeno evacuò Chio: ma conobbe l’ulteriore sfortuna di perdere parecchie centinaia di dragoni quando una delle sue navi finì arenata prima di abbandonare l’isola. La sconfitta irreparabile appannò molto la reputazione marinara della Serenissima75. Al di là dello smacco sul piano militare, pesanti responsabilità avevano compromesso l’immagine dello Zeno, che in Chio aveva governato molto male consentendo violenze e ruberie e che per questo fu imprigionato76: morì mentre si istruiva il processo a suo carico. Sul momento, comunque, non tardò la rivalsa. Nel biennio successivo ripetute vittorie navali, riportate da Antonio Molin e da Girolamo Dolfin, condussero addirittura a un nuovo blocco veneziano dei Dardanelli, che replicò il sia pur temporaneo successo del tempo della guerra di Candia. Venezia mantenne in ripetuti scontri77, grazie alle capacità difensive dell’armata «grossa» di fronte alla controffensiva ottomana, le conquiste conseguite da Francesco Morosini; ma ciò non toglie che gli ottomani avessero risposto alla nuova minaccia, rendendo vane le speranze della Serenissima di aver trovato nel vascello l’arma per assicurarsi il predominio sul mare. I limiti delle «navi di linea» si erano palesati, nonostante i loro indubbi vantaggi; e il potenziale marinaro della Porta era ormai di nuovo una minaccia, come ai tempi dell’impero assoluto delle sue galee sul Mediterraneo. Fino alla pace di Carlowitz del 1699, entrambe le armate rimasero immobili sulle rispettive sponde dell’istmo di Corinto. Gli ottomani, intanto, ebbero gradualmente ragione delle ribellioni greche e balcaniche. Solo qualche occasionale scontro segnò la continuazione della guerra. Nel 1697 una grande battaglia navale, combattuta al largo di Mitilene fra 26 vascelli turchi e 25 veneziani, si risolse in una mischia confusa che procurò comunque più di 1000 perdite fra quest’ultimi. Un’altra battaglia fu combattuta al largo delle coste della Macedonia più tardi, nello stesso anno, dopo il bombardamento veneziano della città di Kavalla: ma anch’essa si risolse in un sanguinoso pareggio. Nella pace di Carlowitz, la repubblica ebbe buone ragioni di essere soddisfatta del riconoscimento delle conquiste fatte fra il 1684 e il 1687: la Morea era divenuta una colonia veneziana insieme a tutte le isole della Ionia e a qualche città in Dalmazia.

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La campagna balcanica La necessità di seguire il volo del leone di San Marco sul mare ci ha costretto a spingere di qualche anno innanzi il nostro racconto. È ora opportuno il solito passo indietro. Bisogna tornare alle foreste, alle montagne e alle umide pianure del mondo danubiano che un po’ troppo a lungo abbiamo messo da parte; e riprendere il nostro discorso là dove l’abbiamo lasciato, all’indomani di quel giorno del Natale del 1683 in cui, secondo la volontà del Gran Signore, un laccio di seta si era stretto attorno alla gola del mancato conquistatore di Vienna. Dopo la stipula della Santa Lega, l’offensiva cristiana si annunziava travolgente: se i veneziani avevano l’intenzione di liberare l’intera Morea e, quanto meno a parole, addirittura di riprendersi le grandi isole, gli imperiali lavoravano ora a sgombrare l’Ungheria dal Turco e a riassumerne il controllo. Nasceva però a questo punto il problema se ciò dovesse – e potesse – avvenire anche con la collaborazione di almeno una parte, la più moderata, del movimento indipendentista: e tanto il re di Polonia quanto il duca di Lorena stavano lavorando affinché si stabilisse un accordo fra il Thököly e la corte di Vienna. Ma l’esercito ottomano era tutt’altro che debellato: esso disponeva di un’armata di circa 100.000 uomini tra spahi, giannizzeri, milizie provenienti da varie parti dell’impero, tartari e anche – per quanto gli alti comandi sultaniali ne diffidassero – vassalli cristiani provenienti dalla Moldavia, dalla Valacchia, dall’Ungheria e dalla Transilvania. Dal canto suo il re di Polonia non intendeva impegnarsi oltre in un’avanzata verso sud nella quale egli non riusciva a scorgere né ruolo, né vantaggio per il suo regno. Egli era d’altronde contrariato per il rifiuto da parte di Leopoldo, ispirato dal Buonvisi, di unire ancora una volta le forze imperiali e quelle polacche. I conflitti di autorità e le questioni di precedenza che ne sarebbero nati avrebbe-

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ro inciso profondamente sulla condotta della campagna militare: ma Giovanni si sentiva personalmente offeso del fatto che non si tenesse nel conto dovuto il suo ruolo nella liberazione di Vienna, che a suo parere lo abilitava a vedersi ulteriormente riconosciuto il comando supremo. Egli era inoltre preoccupato anche per le sue frontiere orientali: in questo senso stava intavolando con il governo imperiale di Russia alcune concrete trattative, che avrebbero condotto nel maggio del 1686 – anche grazie al continuo e intenso interessamento della Santa Sede e al lavoro del Buonvisi1 – alla stipula di un trattato di «pace perpetua» sulla base peraltro di sostanziose rinunzie territoriali da parte polacca2: ma che per il momento si stavano sviluppando faticosamente, in un clima di perduranti scontri. La ragione profonda del comportamento del re non si comprende se non si tiene costante conto della sincerità del suo impegno nel porre il regno al servizio della causa della tuitio Europae contro la potenza ottomana. Egli aveva preso molto sul serio, fin dall’accordo con l’imperatore dell’aprile dell’anno prima, quella che considerava una consegna divinamente affidatagli. Per questo, trattando con Mosca, egli finì col rinunziare a tutti i suoi iniziali vantaggi pur di indurre la potente vicina a impegnarsi a sua volta nella lotta contro la Porta. Ma l’abbandono della collaborazione con l’imperatore lo aveva obiettivamente isolato: sia la Santa Sede sia la nobiltà polacca gli fecero in seguito mancare quei contributi finanziari sui quali egli contava per proseguire la guerra contro il Turco. Le sue campagne militari in Moldavia nel 1686 e nel 1691 si risolsero in altrettanti fallimenti, tali da compromettere la gloriosa immagine che egli aveva saputo costruirsi prima nel decennio ’73-’83, poi con la liberazione di Vienna. Conclusa la seconda campagna moldava, deluso e minato dalle malattie, il vecchio leone si tirava in disparte dopo un progetto di riforma del regno presentato alla dieta di Grodno del 1692-93 e respinto dai magnati che vi avevano scorto un tentativo di limitazione delle loro libertà. Da allora, egli lasciò sempre più libero campo alle manovre e agli intrighi della regina Maria Casimira, la quale cercava ambiguamente di ricucire quegli strappi della tradizionale alleanza franco-polacca che essa aveva energicamente contribuito a compromettere alcuni anni prima. La diplomazia francese lavorava d’altra parte e da tempo alacremente presso la nobiltà polacca, dalle file della quale i sostenitori dell’alleanza con il Re Sole non erano mai venuti meno: essi ottennero alla fine che Giovanni III si tirasse definitivamente da canto, in una

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questione che – svanite le concrete prospettive di vantaggio politico – lo riguardava in realtà sempre meno. Dopo i giorni delle gloria viennese, egli aveva a lungo rivendicato il diritto a un ruolo centrale nella gestione del conflitto contro gli ottomani. Deluso, prima indispettito e poi rassegnato dinanzi al fatto che, passato l’entusiasmo della vittoria, né a Roma né a Vienna si riconoscessero appieno i suoi meriti, passò in crescente isolamento i suoi ultimi anni, procurando di consolidare i confini sud-orientali del suo regno. Scomparve in seguito a quel che allora si definiva «un accidente apoplettico» il 17 giugno del 16963. Il Re Sole aveva a sua volta accusato il colpo della liberazione di Vienna, che gli rubava gran parte della scena gloriosa d’Europa a vantaggio di Leopoldo I e di Giovanni III. Ma sul momento aveva fatto buon viso a cattivo gioco: si era congratulato, si era offerto di contribuire alla ricostruzione della reggia di Schönbrunn che era stata distrutta e aveva inviato in dono all’imperatore due splendidi fucili d’apparato, opera dei maestri d’armi Gruché e Chasteau. Ma tutto ciò non gli aveva tuttavia impedito di procedere nel giugno del 1684 all’occupazione del Lussemburgo, riprendendo un’azione militare già avviata mentre gli ottomani erano quasi sotto le mura di Vienna e quindi sospesa in segno di solidarietà con l’imperatore che veniva tanto duramente provato. All’indomani della liberazione della città, però, le armi francesi si erano mosse di nuovo. Si erano successivamente assicurate Courtrai, Dixmunde, Treviri e Kehl, mentre lungo i nuovi confini in tal modo stabiliti si era edificata una linea di fortezze rapidamente concepite dal Vauban. Nel 1684 era stata acquisita anche Casale Monferrato, perfezionata l’attrazione diplomatica della Savoia nella sfera francese nonché, nel maggio, bombardata Genova che era accusata sia di aver venduto munizioni d’artiglieria ai barbareschi d’Algeri sia di star fabbricando nei suoi cantieri alcune galee destinate agli ottomani. Quanto appunto ad Algeri, il Re Cristianissimo la fece ripetutamente attaccare dalla squadra navale di Tolone, con intensi bombardamenti, tra 1682 e 16884: al fine sia di rispondere ad alcune incursioni barbaresche sui litorali del Midi, sia di far tacere le voci che lo accusavano di condurre una politica filoturca approfittando delle difficoltà dei fratelli in Cristo austriaci. Continuava il gioco propagandistico che induceva le potenze cristiane in lotta fra loro a lanciarsi a vicenda l’accusa di turcofilìa. Di tutto ciò papa Innocenzo era sinceramente stanco e indignato. Insieme con l’impegno finanziario teso a sostenere la Santa Lega, egli impiegava tutti i mezzi della diplomazia pontificia e anche le risorse

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del suo altissimo ruolo spirituale per cercar di piegare la volontà e la coscienza del re di Francia, che lodava per il suo impegno contro i protestanti nel suo paese ma biasimava per il suo atteggiamento nei confronti dell’impero attaccato dagli ottomani. Dal canto suo, Luigi si rendeva conto che era necessario consolidare i suoi ricchi acquisti territoriali renani – Strasburgo, Lussemburgo, Kehl – attraverso un riconoscimento diplomatico che ne legittimasse il possesso: accedette quindi alla tregua ventennale di Ratisbona5 stipulata il 15 agosto 1684 con l’impero e la Spagna. Il Buonvisi, a torto accusato dai francesi di tramare contro di loro in combutta con l’ambasciatore spagnolo a Vienna, il Borgomanero, era stato al contrario un fermo sostenitore della necessità di una vera e propria pace, in grado di restaurare quella concordia tra le potenze cristiane che era irrinunciabile premessa a un’efficace offensiva contro il Turco: e si era costantemente rifiutato di avallare manovre esplicitamente dirette contro la Francia. D’altronde l’imperatore non era troppo soddisfatto delle risoluzioni adottate a Ratisbona, che implicavano da parte sua la rinunzia ad alcuni prestigiosi centri della frontiera occidentale dell’impero. Ma la guerra in Ungheria, come vedremo tra breve, non procedeva granché speditamente: ed egli aveva la sensazione di non aver altra scelta se non assicurarsi le spalle a occidente consolidando le perdite subìte in quel settore e assicurandosi che, quanto meno per il momento, l’avido sire di Versailles avrebbe arrestato la sua macchina fagocitatrice di territori. Ma questi a sua volta era in effetti si può dire condannato all’avidità di conquiste in quanto aveva un bisogno matto di soldi per infinite ragioni, tra cui le principali erano i due pozzi senza fondo della guerra e della fabbrica della nuova sontuosa reggia. Ed appunto la necessità di denaro gli suggeriva che, pur continuando a promettere un impegno contro il Turco appena fosse stato possibile, era intanto opportuno cercar di guadagnare anche attraverso i suoi buoni rapporti diplomatici con la Porta. Nel 1685 un consolato francese fu aperto a Salonicco, mentre alla «Compagnie du Levant» succedeva un ben più funzionale strumento economico-finanziario, la «Compagnie de la Méditerranée». Il commercio francese negli scali ottomani, precipitato sotto i 3 milioni di lire nel ’70, risalì a quasi il doppio tra 1684 e 1697 fino a toccare gli 8 milioni alla fine del secolo6. Intanto, Leopoldo riusciva a stabilire finalmente un’alleanza forte e duratura con quello che era da tutto il secolo l’anello più debole

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del lealismo del Reich al potere asburgico: il principato elettorale di Baviera, sempre tentato dall’alleanza francese. Circa 10.000 soldati bavaresi avevano preso parte alla liberazione di Vienna e un loro forte contingente aveva proseguito, a fianco delle altre forze impegnate su quel fronte, la guerra contro i turchi in Ungheria. Era venuto il momento di ricompensare il principe elettore Massimiliano Emanuele e di legarlo ai destini di casa d’Austria: per questo, nel 1685, l’imperatore gli avrebbe concesso la mano di sua figlia, l’arciduchessa Maria Antonia7, dando seguito a una promessa ch’era stata avanzata da tempo. Ma la nuova campagna antiottomana, avviata nella tarda primavera del 1684 con la solenne benedizione pontificia e confortata dalla presenza di padre Marco, non sembrava dare i risultati che i capi della Lega si erano proposti. Il piano strategico prevedeva che l’armata di Carlo di Lorena, forte di 43.000 effettivi8, avrebbe dovuto prendere Buda9, mentre un più piccolo corpo di spedizione costituito da 11.000 uomini sarebbe avanzato più a sud, lungo la Drava, fino a conquistare la città di Osijek10, non lontana dalla sua confluenza col Danubio; intanto una colonna di 7000 soldati, più a nord, si sarebbe diretta verso l’alta Ungheria, in direzione di Kaschau, per inseguire il Thököly. I contingenti destinati alla nuova impresa si riunirono effettivamente nella città di Scalia11 presso la confluenza del fiume Váh12 col Danubio, da dove il 20 maggio intrapresero la marcia seguendo il grande fiume distribuiti lungo entrambe le rive fino a là dove la piazzaforte di Visegrád vegliava, alta sulla sponda destra. Essa, considerata la chiave settentrionale di Buda, si arrese il 17 giugno senza resistenza dopo che Carlo di Lorena ebbe fatto puntare i suoi cannoni e offerto ai suoi occupanti l’alternativa tra l’andarsene subito o venir tutti impalati. Le notizie in possesso dei capi dell’armata cristiana erano confortanti: pareva che tra Buda e Pest, il borgo commerciale che le stava di fronte sulla riva sinistra del Danubio, non ci fossero più di 8000 armati ottomani, oltre a 2-3000 tartari sparsi nelle vicinanze; e che tutti gli effettivi dell’esercito del sultano tra Danubio e Drava non arrivassero ai 20.000 uomini. In questi termini, il vantaggio degli europei era schiacciante. Il pontefice seguiva con trepidazione le notizie che gli provenivano dall’Ungheria, puntualmente congratulandosi e indicendo solenni cerimonie di ringraziamento per ogni vittoria. Gli imperiali avanzavano distruggendo e massacrando: una tattica pesante, certo destinata almeno in parte a impaurire il nemico

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per indurlo più facilmente alla resa; ma ad aggravare le cose ci si metteva la carenza di disciplina. Ecco come il nostro amico, l’alfiere dei dragoni Gianbattista Benvenuti da Crema, descriveva in una sua lettera la scena della conquista di una piazzaforte sulla Drava: ...Dopo essersi reso il castello di Virovitza essendo la città già tutta incenerita uscirono li turchi... certo che se non fossero stati turchi averebbero dato della pietà. Sortirono in circha 500 huomini quali trascinavano altrettante donne et più figlioli. Pel peso dei figlioli, dei padri, delle madri et delle robbe che portavano non potevano quasi regersi in piedi. Avevano le guardie dei dragoni per condurli ma appena fuori del castello questi diavoli, subito li soldati della loro custodia gli cominciarono a prendere le robbe et accorsi altri soldati et li croati in un momento li presero ogni cosa. Fu una confusione grandissima, a riguardo che i soldati non volevano obbedire alli ufficiali abenché questi molti ne ferissero per farli ritirare. Ma dov’è la quantità et l’avidità della preda è impossibile regolarli. In un momento li turchi furono spogliati, et i loro gridi erano infiniti, ma solo l’Inferno li havrà intesi non essendo il Cielo fatto per loro. Gli levarono molti figlioli, et per quanto dicono, li croati avanzati nel villaggio li hanno tutti trucidati13.

Tuttavia, le speranze che quella fosse una passeggiata militare svanirono quasi subito. Ci si rese presto conto che i difensori di Buda erano molti di più di quanto esploratori e spie avevano sostenuto; inoltre gli attacchi continui degli agili spahi e dei tartari, che non sembravano aver mai bisogno di nulla – né di mangiare, né di dormire, né di rifornirsi di munizioni: mentre la compagine asburgo-imperiale era lenta, sempre bisognosa di tutto, impacciata da servizi logistici pessimi –, tormentavano i fianchi delle colonne cristiane. Inoltre gli ottomani disponevano di una buona flottiglia fluviale da guerra, alla quale si erano abitualmente appoggiati durante le campagne in quell’area e che stava rendendo loro anche in quel frangente ottimi servizi14. Il comandante generale esitava ad avviare l’assedio di Buda: aspettava l’arrivo dei bavaresi che avrebbero dovuto rafforzare sia la sua fanteria, sia – soprattutto – il parco d’artiglieria, mentre bisognava consolidare anche il ponte di barche tra Buda e Pest, che il nemico era stato sul punto di distruggere. Alla fine, però, ci si decise. Il 1° luglio Carlo di Lorena entrò in Pest che, stando alla testimonianza tratta dal diario di un anonimo soldato maremmano – forse un Tolomei, nobile del Grossetano – era «fra le fiamme abbandonata, e distrutto quel ponte che quivi sta-

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va»15. Poco dopo cominciò l’assedio della capitale. Quasi una sfida formale, un atto rituale che indicava senza possibilità d’equivoco che il fronte si era ormai invertito di centottanta gradi rispetto all’estate di un anno prima: ormai si puntava verso sud. Nell’entusiasmo di quell’ora che la Cristianità avvertiva come fausta e solenne, l’obiettivo finale era addirittura il riscatto della vergogna del maggio 1453, la riconquista della santa Costantinopoli, la nuova Roma; e da lì, aggiungevano alcuni ardenti predicatori, il balzo finale sulla mèta che da sei secoli giustificava la crociata, Gerusalemme. Così vedeva la grande città ungherese l’anonimo combattente maremmano, con la sua concettosa, verbosa e intricata loquela: Giace Buda, quasi che con le radici fin’al Danubio in eminente posto situata. Fanli teatro facili colline. Da mezzo dì rimira ‘l castello, verso ‘l settentrione l’altro cantone. Il sole le nasce in faccia dalla banda dell’acqua, et all’opposto riguarda ove tramonta. Salvo ‘l prudente giudizio geografico, il paese si può dire sterile, poiché se ben è vasto, è deserto. L’aria è sottile. La piazza è considerabile come si sa, e niente meno per il sito, stant’un monte al di cui orizzonte è fabbricata da far sudare, come s’è visto, e se da più part’è dominata, bisogna scendere per salire a chi la vuol rendere forzata. Quanto alle fortificazioni, non v’è gran cosa da dire, ha qualche forma di falsa Praga, ma non fosso o se fosso non profondo, et è senz’acqua. Il muro massiccio, è duro per l’antiquità. La forma è lunga e stretta. La lunghezza della pietra è molta che con un greppo o terreno naturalmente terrapienata, che non ammette perciò ’l farvi breccia. La piccolezza de’ fianchi non impedisce l’accostarvici. Forte bastantemente in quei tempi, che la poca arte d’espugnare non obligava a maggiori ripari. Ben è vero, che non habbiamo che ci vantare. Chi la fortificò trovolla in sito, veramente, avantaggioso16.

A differenza di quel che aveva combinato Kara Mustafa l’anno precedente dinanzi a Vienna, nessun errore tattico venne commesso dagli alti comandi cristiani: la città venne circondata completamente, l’artiglieria la sottopose a un bombardamento sistematico, lo scavo di mine venne disposto sotto differenti punti della cinta muraria, furono approntate puntualmente le necessarie opere di circonvallazione degli accampamenti per impedire attacchi ottomani dall’esterno. Ma il fatto è che Buda, arroccata sul suo alto zoccolo roccioso, non era un obiettivo facile per nessun assediante. Era inoltre provvista di un’ardua e forte cittadella, il che consentiva ai difensori di

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continuar a combattere, difendendo in profondità il nucleo urbano, anche se i bastioni esterni fossero stati espugnati. La guarnigione era numerosa e ben fornita di munizioni e di provviste; il morale degli assediati molto alto. Dopo due mesi circa di bombardamenti, di assalti, di scoppio di mine e di sortite dei nemici, l’assedio non progrediva: i difensori si erano rivelati molto più efficaci di quanto non fossero stati quelli di Vienna, come notava anche uno che se ne intendeva, Rüdiger von Starhemberg. Ai primissimi di settembre erano finalmente arrivati i rinforzi bavaresi, guidati dall’elettore Massimiliano Emanuele in persona: ma appena giunto nell’accampamento una bomba turca gli aveva ucciso il cavallo, il che era stato unanimemente interpretato come un cattivo auspicio. Infatti, l’assalto da lui immediatamente comandato e guidato fallì; convinto che l’arrivo delle sue truppe fresche avesse comunque impressionato i difensori, il giorno dopo egli inviò un messo incaricato di leggere la formale intimazione ad arrendersi. Il pas¸a Abd ar-Rahman Abdi, un vigoroso e leale settantenne albanese, ascoltò l’ultimatum e rispose cortesemente di non veder alcuna ragione per la quale avrebbe dovuto accedere alla richiesta; dopo di che rispedì il messo al mittente dopo averlo ricompensato con 15 ducati d’oro. Le cose non si annunziavano insomma per nulla né rapide, né facili. Così scriveva al padre l’alfiere Benvenuti in una pigra, calda, umida estate, il 3 settembre: ...Avrà inteso come doppo grande fatica et travaglio finalmente s’era passato il fiume Drava et le sue paludi, et che alla nostra armata s’era congiunta quella del duca di Baviera. Noi siamo qui a lasciarci mangiar dalle mosche, ma per ora non si può cosa alcuna intraprendere se non cade Buda17.

Durante il mese di settembre, il tempo peggiorò; una pioggia continua rese impossibile la vita nelle trincee scavate attorno alla città. Un’epidemia di febbri autunnali falcidiava le file degli assedianti; tra morti, moribondi, feriti e ammalati si finì col calcolare che una buona metà degli originali effettivi dell’armata era ormai fuori combattimento. Si sapeva che un corpo di spedizione ottomano aveva passato la Drava sul ponte di Osijek e, per quanto le notizie pervenute avessero in un primo tempo parlato di un numero spaventoso di nemici che ne facevano parte, 40.000, per ridurne poi la forza presumibile a 15.000, il pericolo era ormai quello di restare intrappolati

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da un autunno che si annunziava inclemente e presi nella morsa tra i difensori di Buda ancora agguerriti e l’esercito sopraggiunto. Continuava frattanto negli accampamenti la «bella vita militar»: alla fine di settembre l’alfiere Benvenuti era diventato tenente agli ordini di un «capitano assai buono», aveva attaccato briga – tanto per cambiare... – con un altro volontario «a causa di certi cavalli», si erano presi a revolverate e pare che il nostro cremasco avesse avuto la meglio ma comunque, come soleva avvenire tra cavalieri, dopo il duello erano diventati amici «et la sera stessa cenò con me essendo vicine le nostre tende»18. L’assedio tuttavia ristagnava, mentre la cattiva stagione guadagnava terreno. La piega negativa assunta dalla situazione aveva fatto riemergere le rivalità anche tra i comandanti. Ai primi di novembre giunse una visita che era in realtà un’ispezione guidata dallo stesso Ermanno di Baden, presidente dello Hofkriegsrat: formalmente si trattava di sollevare dal suo ruolo di comando lo Starhemberg, in pessime condizioni di salute. Ma durante alcune tempestose riunioni tra i capi dell’esercito, Ermanno – che senza dubbio era arrivato sotto Buda a ciò già deciso – palesò la vera ragione della sua presenza riuscendo a imporre la ritirata, contro l’avviso di Carlo di Lorena che naturalmente interpretava quella soluzione come un pesante smacco personale19. L’anonimo maremmano dà voce al disorientamento e alla mestizia dell’istante nel quale si dovette ammettere l’insuccesso, aggravato dalle gravi condizioni logistiche: ...reliquie più tosto parevano i soldati ch’avanzi delle ingiurie di tanti stenti. Si poteva con meraviglia inarcar le ciglia in vederci immersi tra dolori, et orrori di tormentosi affanni. Vedevansi morire di fame, perire di necessità le genti e nulla giovare gl’ultimi sospirii. Spettatori eravamo d’un lugubre fine20.

Si demolirono le opere d’assedio e si caricò l’artiglieria su un convoglio di battelli incaricati di riportarla indietro risalendo il Danubio. Sia Ludovico Guglielmo di Baden, sia Massimiliano Emanuele di Baviera avevano mostrato di condividere il parere del presidente dello Hofkriegsrat: e c’è da domandarsi se non lo facessero soprattutto per spedire un siluro contro il loro rivale Carlo di Lorena, o se addirittura la visita di Ermanno non fosse stata segretamente sollecitata dal nipote. Sta di fatto che ormai lo stesso frate Marco, il coraggio del quale era diventato leggendario tra gli assedianti – si

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muoveva sotto i proiettili nemici come se fosse certo della sua invulnerabilità –, era del parere che non solo ci si dovesse ritirare, ma che la prossima campagna, a proposito della necessità della quale egli non nutriva alcun dubbio, avrebbe dovuto esser condotta secondo criteri molto diversi. Egli esprimeva tale avviso in una lunga memoria spedita all’imperatore il 24 novembre e ricchissima di analitici rilievi di tipo militare, che dimostrano la sua ormai raggiunta solida competenza in materia21. Ora che lo smacco era evidente, si riversava sul comandante generale, il duca di Lorena, l’intera responsabilità di un ottimismo e di una leggerezza che erano stati condivisi pochi mesi prima da tutti i capi dell’esercito, persuasi che gli ottomani fossero alla rotta e alla disperazione, e che si erano tradotti in atti di negligenza e d’imprudenza che retrospettivamente apparivano imperdonabili: per esempio l’aver lasciato a monte del Danubio alcune piazzeforti ancora in mano agli ottomani, quali Neuhäusel e, più ad est, Eger. Lo stesso errore commesso da Kara Mustafa al principio dell’estate del 1683, con Györ e Komárom. Ci si ritirò quindi ai primi di novembre, dopo tre mesi e mezzo d’inutile assedio e con gravi perdite22. Lo smacco cristiano sotto Buda non era certo paragonabile a quello ottomano sotto Vienna dell’anno prima: se non altro perché non era stato determinato da alcuna sconfitta in campo aperto. Ma era tuttavia grave. Da parte loro, gli ottomani si limitarono ad accompagnare la ritirata degli asburgoimperiali con qualche debole azione di disturbo. Non erano proprio i proverbiali ponti d’oro che si fanno al nemico quando si ritira, ma ci andavano vicino. Anche la gente del sultano era molto provata: e forse aveva temuto sul serio di non farcela. L’insuccesso gravò comunque in modo pesante non solo sul morale delle truppe europee, ma anche sulle prospettive strategiche generali: la via verso Istanbul, che all’indomani della liberazione di Vienna era sembrata facile e sgombra, si rivelava ora per quel che era, impraticabile. E quella stessa che avrebbe dovuto condurre a più immediati obiettivi, Buda o la Drava, era lunga e irta di pericoli. La guerra era comunque in atto: quella della Santa Lega era un’offensiva senza quartiere. Dopo la pausa invernale, caratteristica di tutte le guerre di allora e del resto inevitabile nel rigido clima balcanico, i piani degli alti comandi per il 1685 ricalcavano quelli dell’anno precedente: le tre direttrici di marcia erano ancora il Danubio, la Drava e l’alta Ungheria. Mentre il duca di Lorena si riservava il diritto alla rivincita su Buda, il generale Leslie si dirigeva sulla

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piazzaforte di Osijek, la chiave della Drava, e lo Schulz insieme col Caprara attaccava gli alleati cristiani del Turco, cioè il conte Thököly nell’alta Ungheria e i transilvani. Buda, «e servitute in libertatem restituta» L’apertura della campagna era stata lenta e tardiva, nonostante gli incitamenti di Marco d’Aviano23 che era tornato presso l’esercito non si capisce con quanta gioia ma comunque in spirito d’obbedienza. Gli inizi della nuova fase furono comunque sicuri ed efficaci. Il 13 giugno il duca di Lorena schierò le truppe sotto le mura di Neuhäusel, che già da vari mesi si trovava soggetta a un assedio ch’era piuttosto un rigoroso blocco, efficace nell’impedire agli assedianti di entrare, uscire, ricevere rifornimenti e notizie, ma durante il quale non si erano segnalate azioni militari di un qualche rilievo. La fortezza, costruita dagli Asburgo nel 1571, era ritenuta una delle più formidabili dell’Ungheria regia; si era arresa agli ottomani nel 1663 dopo un durissimo assedio, ma ormai essi non potevano più considerarla un avamposto. Isolata in un territorio che adesso i cristiani controllavano senza ragionevole timore di veder la situazione strategica mutare di segno, essa restava comunque una freccia nel fianco degli Asburgo e un simbolo per loro umiliante. Dato appunto il carattere non tanto tattico-strategico quanto simbolico della posta in gioco, la nuova fase dell’assedio fu segnata da entrambe le parti da una ferocia ch’era senza dubbio lontana dall’essere eccezionale, ma che era nondimeno inconsueta. Prigionieri e ostaggi furono massacrati, decapitati, straziati: il comandante ottomano aveva ricevuto dal sultano ordine di resistere a qualunque costo, mentre il duca di Lorena lo aveva ripetutamente avvertito che non ci sarebbe stato quartiere. Con queste premesse l’assedio vero e proprio, cominciato sul serio solo il 16 luglio, stava precipitando fatalmente verso un esito che, in quei casi, era tutt’altro che comune: ci si andava rendendo conto che l’unico modo per conquistare la piazzaforte era prenderla d’assalto. L’arrivo ai primi d’agosto di circa 2000 ungheresi reclutati dal conte Esterházy consentì al duca di Lorena, nella seduta di guerra del 6 agosto, di lasciare al Caprara il comando per dirigersi verso Esztergom, dove la pressione ottomana incombeva. Il generale bolognese guidò il 19 un decisivo attacco: dopo un intenso bombardamento che aveva aperto nei bastioni una larga breccia, usò lo stratagemma di scatenare nel

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fumo ancora denso dei cannoni e delle macerie un feroce assalto. I difensori furono massacrati tutti, nonostante avessero issato bandiera bianca; e anche i non-combattenti ospitati nella fortezza vennero spietatamente sterminati, donne e bambini compresi24. Dopo Neuhäusel fu la volta della fortezza di Szolnok, conquistata nell’ottobre: poiché si trattava di due piazzeforti entrambe sulla sinistra del Danubio, rispettivamente a nord e a sud-est di Buda, era evidente che lo scopo strategico degli imperiali era ripulire il territorio attorno alla capitale per tornar ad assediarla alla ripresa della campagna, l’anno successivo. Intanto, nell’alta Ungheria, un colpo decisivo fu inferto all’armata dei kurucok, molti capi della quale disertarono per passar nel campo imperiale e impegnarsi a loro volta contro i turchi. Tra i ribelli ungheresi serpeggiavano ormai la stanchezza e la delusione nei confronti degli alleati ottomani. La vera e propria svolta nella campagna ungherese si ebbe tra ’86 e ’88: essa fu segnata dal deciso ritorno sul teatro delle operazioni dell’elettore di Brandeburgo, che dopo una lunga fase di politica francofila sembrava ora deciso alla collaborazione con l’imperatore. Con due successivi trattati, del gennaio e del marzo 1686, egli aveva accettato di provvedere entro l’aprile un corpo di spedizione di 8000 combattenti ausiliari da impegnare in Ungheria, in cambio di adeguati sussidi e della cessione al Brandeburgo della città slesiana di Schwiebus. Il contributo delle truppe brandeburghesi fu decisivo nell’avvio del secondo assedio di Buda, al quale anche i contingenti asburgo-imperiali si presentarono meglio organizzati e provvisti di un adeguato appoggio logistico. La difficoltà principale, che affiorò durante un consiglio di guerra tenuto a Barkan il 10 giugno alla presenza dell’inviato dell’imperatore conte Strattmann, era la mancanza dell’unità di comando: austriaci, bavaresi e brandeburghesi accettavano ovviamente di coordinare le loro azioni, ma ciascuna delle tre componenti mirava alla sua parte di onori, di gloria e di bottino. L’imperatore ricordava d’altro canto ai comandanti che lo scopo della campagna intrapresa non era la conquista della capitale dell’Ungheria ottomana, bensì la cacciata definitiva degli infedeli da tutto quel territorio. Il 12 giugno l’esercito cristiano intraprese la marcia su Buda, distinto in due colonne che procedevano su entrambe le sponde del Danubio, mentre bagagli e salmerie venivano trasportate via fiume su battelli che navigavano di conserva alle truppe di terra. Il 21 le batterie cominciarono il cannoneggiamento sia della città alta – la

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cittadella dove si trovavano le rovine dell’antico palazzo dei re d’Ungheria e che, imponente sul suo sperone roccioso una sessantina di metri sul Danubio, si prospettava come difficilmente prendibile –, sia di quella bassa, difesa invece da mura e palizzate vecchie e mal in arnese. Si venne a sapere dalle confessioni di alcuni prigionieri che il pas¸a di Buda, convocati i giannizzeri e gli spahi, aveva comunicato loro che il sultano esigeva la difesa della città fino all’ultima goccia di sangue: al che essi gli avevano risposto di essere sì pronti a sacrificarsi per la fede e per obbedire alla volontà del sovrano, ma tuttavia a condizione di vedersi immediatamente corrisposti gli stipendi arretrati e di avere l’assicurazione che la difesa non si sarebbe comunque protratta fino all’ultimo sangue. Insomma, decisi a sacrificarsi, certo: ma dietro adeguato compenso e fino a un certo punto. Le notizie del massacro di Neuhäusel dell’anno precedente avevano suscitato orrore ma anche spavento. Ecco qualcosa di ovvio e naturale, ma che i cristiani non erano abituati a sentire: gli ottomani avevano paura. La spietata politica dei massacri dava i suoi frutti. E questo, del resto, nessuno lo sapeva meglio del Turco. Tuttavia, quando il 24 successivo i bavaresi riuscirono a penetrare nella città bassa attraverso una breccia praticata da un ben coordinato fuoco d’artiglieria, incontrando una debolissima resistenza, l’impressione che la conquista sarebbe stata facile fu presto smentita dalla realtà. Il Benvenuti, ch’era stato intanto promosso capitano25, era acquartierato in un campo delle retrovie, riceveva farina e biscotti dalle zie monache le quali dalla Lombardia gli garantivano anche le loro orazioni e scriveva all’influente zio Scipione di frequentare un volontario lombardo illustre, don Annibale Visconti col quale si vedeva a pranzo. Nelle sue lettere penetra impetuosa la brezza della puszta di prima estate: «...quando viene il vento da Buda, sentiamo il tiro dei cannoni, quantunque Buda sia lontana di qui ottanta miglia»26. I difensori si erano arroccati nella cittadella: l’assedio sarebbe durato settantaquattro giorni, due settimane più di quello ottomano di Vienna, e sarebbe stato molto più serrato, duro e crudele. Gli ottomani si difendevano accanitamente, i corpo a corpo erano frequenti e l’uso dell’arco da parte dei difensori si rivelò forse, in quello scontro ravvicinato metro per metro e casa per casa, più efficace di quello di moschetti e fucili. Lo stesso Eugenio di Savoia ebbe la mano trapassata da una freccia. Ma stavolta i rapporti tra le due parti erano impostati in modo diverso rispetto a Vienna e a Neuhäusel: nonostante i combattimenti

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fossero forse più duri e accaniti, non si ebbero né da parte cristiana né da parte ottomana episodi di efferatezza quali si erano verificati invece nelle due precedenti occasioni. Può darsi che gli alti comandi cristiani temessero che eventuali atrocità, scopo delle quali era di solito quello di intimidire il nemico e abbattere il suo morale, potessero in quel caso sortire l’effetto opposto, indurre cioè a una più dura resistenza, inasprita dalla rabbia e dalla disperazione; e che il pas¸a e i suoi avessero dal canto loro il timore di preparare a se stessi, con eventuali eccessi, la medesima fine dei difensori di Neuhäusel. Probabilmente giovò all’impiantarsi di un clima di minore ferocia anche l’opera di Marco d’Aviano, che nelle lettere di quel torno di tempo si mostra preoccupato quando non addirittura indignato per il comportamento e i costumi di ufficiali e soldati di quell’esercito così irto di bandiere crociate e d’immagini della Vergine e così povero di cristiana pietà27. Al di là di ciò, sembra che si fosse impiantato tra il duca di Lorena e Abd ar-Rahman Abdi un rapporto di stima e di rispetto reciproci. All’intimazione di resa avanzata dal primo nei corretti termini formali di un’ambasceria protetta da una bandiera di tregua, il secondo rispose con una nobile missiva respingendola nel nome della sua fede e del dovere di obbedire al suo sovrano e dicendosi pronto allo scontro fisico risolutivo. Il duca dichiarò con ammirazione che, al suo posto, avrebbe replicato negli stessi termini. La cavalleria non era morta. Alla fine di luglio, le cose parevano essere arrivate a una situazione di stallo. I pur sanguinosi combattimenti e i pesanti bombardamenti sembravano privi di conseguenze, nonostante un casuale tiro di cannone avesse fatto esplodere la santabarbara degli ottomani massacrando un quinto circa della guarnigione. Ma gli austro-imperiali erano inquieti per le solite notizie sul transito di truppe ottomane dal ponte sulla Drava ad Osijek, mentre filtravano al contrario voci relative a discordie tra gli infedeli chiusi in Buda, alcuni capi dei quali sembravano disposti ad arrendersi. Una seconda proposta avanzata da Carlo di Lorena ricevette dal pas¸a una risposta non meno leale della prima, però più possibilista: di resa non era il caso di parlare, ma se si fossero tuttavia intavolate trattative di tregua si sarebbe potuti arrivare a un compromesso. L’impressione provocata da questa risposta era che si stesse cercando un modo onorevole per salvare la pelle e la faccia. Ma c’era anche il dubbio che si trattasse in realtà di un trucco per guadagnar tempo in attesa di rinforzi: cir-

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colavano infatti voci sempre più insistenti di un forte contingente ottomano inviato in aiuto degli assediati, col rinforzo di grosse torme di razziatori tartari. In effetti, un’armata nemica si stava davvero approssimando e qualche piccolo reparto era già riuscito anche ad entrare in città. Alla fine d’agosto giunsero però sostanziosi rinforzi anche agli austro-imperiali28. L’attacco definitivo fu lanciato il 2 settembre, e fu terribile: sembra che, dei 13.000 difensori, non restassero alla fine più di 2000 superstiti. Come il duca di Lorena e i capi militari temevano, fu impossibile – al di là delle intenzioni – trattenere i soldati: nella conquista della città furono uccisi non solo gli armati, ma anche gli inermi, le donne e i bambini, tanto musulmani quanto ebrei. Il pas¸a trovò la morte con l’arma in pugno, combattendo coraggiosamente, come aveva giurato. Carlo di Lorena e l’elettore di Baviera furono alla fine costretti a emettere ordini durissimi per ottenere che cessasse il massacro indiscriminato dei nemici che si erano arresi e degli abitanti. I superstiti vennero ridotti in schiavitù29. Il bottino fu ingente e comprese anche 400 pezzi d’artiglieria. Sul portone d’ingresso dell’antica cittadella di Buda è ancora leggibile l’iscrizione che allora vi fu apposta: Buda, e servitute in libertatem restituta. Marco d’Aviano inviò all’imperatore un breve messaggio pieno di gioia: «Siano lodati Gesù e Maria! Buda è stata presa d’assalto. Vostra Maestà apprenderà i particolari. È un vero miracolo di Dio»30. Il giorno dopo la conquista, l’instancabile cappuccino celebrò nella chiesa di Maria Assunta, che per quasi un secolo e mezzo era stata una moschea, il solenne Te Deum di ringraziamento, mentre rimbombavano le salve festose dei cannoni. La caduta di Buda accese in tutta Europa un entusiasmo paragonabile alla liberazione di Vienna di tre anni prima. Nella città liberata l’imperatore fece incoronare subito re d’Ungheria suo figlio, l’arciduca Giuseppe, che aveva appena nove anni: l’anno successivo i magnati ungheresi rinunziarono solennemente al loro diritto di elezione del sovrano e al loro secolare ius resistendi, che conferiva loro il diritto di opporsi in armi a un potere regio che avesse dato segno di volersi trasformare in tirannico; in cambio ottennero l’assicurazione di libertà confessionale. Tuttavia la «corona di santo Stefano», pur riconosciuta come titolo ereditario spettante alla dinastia degli Asburgo, non entrò mai a far propriamente parte sul piano formale dell’eredità asburgica. Alla caduta di Buda seguivano, nell’ottobre, quelle di Hatvan, Pécs31, Siklos e Szeged.

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In Europa, la conquista di Buda fu salutata con una gioia e un’intensità di manifestazioni di giubilo che poco ebbero a invidiare a quelle seguite alla liberazione di Vienna, e che anzi in qualche caso le superarono32. Il grande successo ravvivò gli ardori crociati che ormai da circa un lustro percorrevano il continente. I letterati e gli artisti si gettarono avidamente sul nuovo episodio di santo eroismo: come nella Buda conquistata di Antonio Costantino, composta fra ’88 e ’99, o nella Buda liberata di Federico Nomi pisano, del 1702. Perfino nella tranquilla Empoli, sotto lo scettro di quel Cosimo III di Toscana i cui ardori guerrieri erano molto temperati e circospetti, il poeta Ippolito Neri sognava adesso la riconquista di Costantinopoli e di Gerusalemme: Su, su campion di Cristo alla vendetta: Bisanzio prigioniera or si conforta, l’oppressa Gerosolima v’aspetta33.

All’entusiasmo dei cristiani fece riscontro il dolore e il senso della desolazione degli ottomani, che amavano Buda e la consideravano una delle perle dell’impero: Non più preghiere nelle moschee né abluzioni nelle fontane. I luoghi affollati sono ora deserti. L’austriaco ha preso la nostra bella Buda34.

La sistemazione delle conquiste Ormai la campagna ungherese andava profilandosi secondo linee chiare, sia pure in ritardo rispetto alle speranze che nel 1683-84 erano parse realistiche. Non mancavano problemi di ogni genere, inclusi quelli di gelosia e di questioni di precedenza tra i principi. Ma, soprattutto, l’ombra degli intrighi del Re Sole continuava a incombere sull’armata imperiale: se l’elettore di Brandeburgo si era orientato di nuovo verso Vienna, adesso era quello di Baviera a manifestare di nuovo inquietudine e scontentezza. Né sembrava essersi sospesa, nonostante la tregua di Regensburg del 1684, l’attività di quelle speciali corti di giustizia, le «Camere di Riunione», che dopo la pace di Nimega del 1679 Luigi XIV aveva istituito allo scopo di riesaminare

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tutti i diritti della corona di Francia veri o supposti, diretti o indiretti, lungo la sua frontiera orientale: il fine ultimo del sovrano era quello di riorganizzare e di razionalizzare i suoi confini, il suo obiettivo ambizioso era il raggiungimento della riva destra del Reno. Questo preoccupante programma, al quale il Re Sole si guardava bene dal rinunziare e che andava trovando interlocutori ben disposti sia nella curia pontificia sia tra qualche principe e qualche libera città dell’impero, non minacciava peraltro soltanto l’integrità del Reich. La diplomazia imperiale, conscia del fatto che non si potesse proseguire l’offensiva antiturca al prezzo dell’abbandono delle regioni occidentali dell’impero all’arroganza francese, si era mossa anche nella prospettiva della creazione di un argine internazionale contro quel pericolo. Appariva ormai indispensabile fissare un definitivo limite all’ingordigia e all’arroganza del sire di Versailles. Era nata così la Lega d’Augusta35 che, stipulata il 9 luglio 1686 tra impero, Inghilterra, Spagna, Svezia, Baviera36, Sassonia, Palatinato, Brandeburgo e i Kreise bavarese, francone e alto-renano, mirava a contrastare con fermezza e una volta per tutte le ulteriori mire espansionistiche di Luigi XIV. D’altronde, il dettato risolutivo di quel patto difensivo-offensivo comportava intrinsecamente, nel suo stesso tessuto, le condizioni per un obiettivo prolungamento della campagna balcanica: dal momento che i collegati si manifestavano esplicitamente d’accordo sul fatto che la fine della guerra contro il Turco avrebbe immediatamente comportato l’avvio delle ostilità contro il Re Sole, era inevitabile che da un lato egli si sentisse autorizzato a qualunque manovra preventiva, dall’altro facesse diplomaticamente di tutto per incoraggiare la Porta a contrastare con ogni mezzo i progressi degli imperiali nel bacino danubiano e a inasprire il conflitto in quel settore. Frattanto il Thököly, braccato dalle truppe asburgiche, aveva dovuto mettersi sotto la protezione degli ottomani che però lo avevano condotto prigioniero a Belgrado mentre la sua autorità sull’Ungheria regia franava rapidamente. Attorno all’imperatore molte voci si levavano di nuovo per indurlo a cercare un accordo con gli ottomani in modo da poter concentrare le sue forze contro la Francia. Era quanto il pontefice – che lavorava disperatamente alla pacificazione in Europa – voleva impedire: e Marco d’Aviano si impegnò di conseguenza su questa linea, che peraltro profondamente condivideva. Il cappuccino era rimasto scosso e deluso dagli esiti della conquista di Buda, un evento che aveva definitivamente messo a nudo quanto lontana la realizzazione della guerra contro il Turco fosse da

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quella delle sue speranze e dei suoi propositi di risanamento spirituale della Cristianità. All’indomani della conquista di Buda egli aveva lasciato l’armata: tornava in Italia per passarvi la stagione autunnale e invernale, ma il suo era stato un ben amaro commiato. Le sue lettere di quei mesi traboccano di velate espressioni di disappunto e di delusione, temperate dalla preghiera. Quando si esprimeva direttamente, a voce, era probabilmente meno circospetto e più esplicito. Il suo disagio era complicato e aggravato da una serie di tensioni nate tra la corte di Vienna e la Santa Sede per questioni di immunità ecclesiastica violata37. Lo stesso cappuccino fu oggetto in quelle circostanze di attacchi personali che senza dubbio dipendevano in larga parte dalle inimicizie che egli si era attirato con la sua opera moralizzatrice e le sue rigorose denunzie durante la campagna militare di cui era stato testimone38. Ma l’imperatore esigeva di nuovo la sua presenza accanto a sé: era necessario resistere a quanti invocavano la pace col Turco in modo da dedicarsi a contrastare la politica di Luigi XIV e al tempo stesso lavorare al problema della concordia tra cristiani ch’era proprio il Re Cristianissimo a insidiare. Con questo spirito padre Marco lasciò di nuovo l’Italia, a metà aprile del 1687; ai primi di maggio era a Vienna e all’inizio di giugno a Buda, al suo posto per la nuova campagna. Nel luglio il grosso dell’armata imperiale d’Ungheria si mosse riprendendo il progetto al quale tre anni prima si era dedicato un corpo di spedizione rivelatosi inadeguato: conquistare Osijek e il suo ponte, chiavi della valle della Drava. Era ormai tardi per una lunga campagna: era chiaro che l’obiettivo era unico e, per quell’anno almeno, definitivo. Se gli imperiali fossero riusciti nel loro intento, l’Ungheria ottomana si sarebbe dissolta e la via verso la Serbia sgombrata. Era quel che le forze sultaniali, ancora valide e numerose, non potevano permettere: i giaurri andavano intercettati prima di giungere sotto le mura della fortezza. Lo scontro ebbe luogo il 12 agosto ad Harsány39, poche miglia a sud-ovest di quella Mohács che centosessantun anni prima, il 29 agosto del 1526, era stata fatale agli ungheresi di Luigi II contro Solimano il Magnifico. Ma stavolta le cose andarono diversamente. Carlo di Lorena e Ludovico Guglielmo di Baden sconfissero duramente gli ottomani. Parte non trascurabile nella gloriosa giornata spettò a Eugenio di Savoia, che si era già battuto valorosamente in più occasioni e che, sostenuto da alcuni parenti spagnoli molto influenti alla corte di Leopoldo, aveva fatto rapida carriera.

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Dopo la vittoria, fu sufficiente un piccolo corpo di spedizione per occupare la Slavonia, cioè la regione compresa tra la Drava e la Sava. A quel punto il duca di Lorena guidò il suo forte esercito a est, verso la Transilvania, per risolvere una buona volta il problema costituito dall’infido principe Mihály Apafi. Sin da due anni prima la diplomazia imperiale aveva tentato di collegare l’Apafi alla Santa Lega, allontanandolo dal vassallaggio nei confronti della Porta per ricondurlo al suo corretto ruolo entro l’ordine feudale cristiano. Ma intanto si era fatta insistente sulla Transilvania la pressione politica e diplomatica di Giovanni III di Polonia, ormai deciso a sviluppare una sua politica di penetrazione verso il Mar Nero. Sospeso tra Vienna, Istanbul e Varsavia, l’Apafi restava incerto ed ambiguo. Gli imperiali cominciarono con l’assalire alcune piazzeforti sulla via della Transilvania occupate direttamente dal Turco, come Fünfkirchen40, assediata il 5 ottobre e caduta il 2741. Nello stesso mese di ottobre, conquistata anche Osijek42, le truppe di Carlo di Lorena provvidero a scuotere ulteriormente il principe di Transilvania, invadendone i territori e obbligandolo a sostenere le spese dei loro quartieri invernali per una stagione che fu per la verità molto disagiata, tra freddo e fame. Poco più tardi, nel marzo del 1688, l’Apafi accettò di rompere con la Porta e di riconoscere la sovranità del re d’Ungheria in cambio di ampie assicurazioni d’indipendenza e di rispetto della libertà religiosa; nel gennaio dell’anno successivo analogo trattato fu stipulato con il principe di Valacchia, ma in quel caso tutto rimase per il momento sulla carta. Ormai dinanzi agli imperiali si apriva la strada di Belgrado, che domina la confluenza del Danubio con la Sava. Nel maggio del 1688 fu conquistata la piazzaforte di Stuhlweissenburg43; ma poiché Carlo di Lorena, ammalato, era rimasto ad Osijek, il comando supremo passò a Massimiliano Emanuele di Baviera, che gli ottomani chiamavano «il Re Azzurro»44 per il colore prevalente nelle sue insegne e nelle uniformi delle sue truppe. Egli iniziò l’assedio della grande città a metà agosto e la conquistò ai primi di settembre. Frattanto Ludovico Guglielmo di Baden conquistava tra l’agosto e il settembre una serie di fortezze tra Kostajnica, Gradisca, Brod e Zvornik. Infine, l’8 settembre del 1688 Massimiliano Emanuele entrava vittorioso in Belgrado45. Nel marzo del 1689 si arrendeva anche l’isolata piazzaforte di Szigetvár. La guerra, che ora si prospettava molto più lunga del previsto ma che era da tutti intesa d’altronde come la naturale prosecuzione

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dell’assedio di Vienna e dell’inseguimento dell’esercito assediante ormai in rotta, nonché inestricabilmente collegata alla lotta interna ungherese, provocò anche rapide e vertiginose carriere. Basti seguirne brevemente una sola, del resto alquanto discutibile e discussa: quella del «sergente generale di battaglia» principe Antonio Carafa, divenuto «tenente maresciallo di campo» nel settembre 1685, conte dell’impero nel 1686, feldmaresciallo dell’esercito austriaco nel 1688 mentre Carlo II di Spagna, su istanza dell’imperatore, gli conferiva nel 1687 le insegne del Toson d’Oro. Era stato un ragazzaccio violento, il Carafa. Ma, raggiunta e superata da un pezzo la quarantina, era diventato un vero e proprio zelante macellaio e al tempo stesso un abile e consumato uomo di potere. Nel 1684 aveva battuto i ribelli ungheresi a Ungvar; era stato poi protagonista delle manovre degli imperiali tese a impedire che gli ottomani riuscissero a recar aiuto ai fedeli del Thököly e aveva partecipato all’assedio di Neuhäusel46; aveva quindi conquistato nel 1685 Debrecen, nel 1686 Szent Job e fatto trucidare gran parte del presidio di Eger47 attirandolo fuori dalle mura con un ingegnoso stratagemma; infine si era unito con i suoi 5000 uomini all’assedio di Buda. Il principe Carafa fu decisamente uno dei protagonisti dell’inquadramento di Ungheria e Transilvania nel nuovo ordine asburgico. Mentre faceva assediare Szeged, egli tornava dopo la presa di Buda su Eger, che nonostante il massacro continuava a resistergli, e la prendeva nel dicembre del 1687 dopo sette mesi di assedio. A questo punto non gli mancava che misurarsi con la piazzaforte di Munkács, dove era asserragliata l’eroica Ilona Zrínyi, moglie del Thököly: e un po’ col terrore, un po’ con l’intrigo e l’inganno – come ci riferisce l’ambasciatore veneto Federico Corner –, riusciva a seminare la discordia e la disperazione tra i difensori e a obbligare infine la coraggiosa dama a un’umiliante resa nel gennaio del 168848. Ripulì quindi, una per una, le fortezze rimaste nelle mani dei ribelli e degli ottomani sulla destra del Tibisco49: e alla fine di luglio poteva raggiungere le truppe imperiali impegnate attorno a Belgrado, entrare con esse nella città conquistata e concorrere al restauro di fortificazioni e di ospedali prima di partire per Vienna, dove giunse a settembre. La sua spregiudicata energia gli aveva procurato una straordinaria fama. Non si può peraltro dire che fosse un geniale stratega. La maggior parte delle fortezze che era riuscito a conquistare in due anni di serrata attività militare era caduta per fame o in seguito a pat-

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teggiamenti durante i quali la sua lealtà alla parola data non aveva certo brillato. Insieme con la guerra al Turco, quel che aveva contraddistinto l’azione del feldmaresciallo e conte dell’impero era stata la feroce repressione dei «ribelli» riuniti attorno al Thököly, che le fonti cattoliche del tempo – inclusi i «giornali» veneziani, spesso un po’ più cauti – dipingono concordi come una racaille, un insieme di bande di «gente tumultuaria e disperata» incapaci di vera disciplina militare e strette a un capo che «non tiene luogo permanente, ma qua e là va per lo più vagando»: senza dare l’impressione di rendersi conto che questa era appunto la strategia del principe luterano e della sua guerra di guerriglia. Lo stesso Giambattista Vico, impegnato a magnificare il suo eroe anche quando non ne cela gli atti di violenza e di ferocia50, non pare aver compreso che il Thököly era non il capobanda d’una torma di disperati messi insieme da pochi magnati riottosi e anacronisticamente attaccati alle loro prerogative nobiliari, bensì un condottiero di qualità e un capo politico che era riuscito a dar voce alle istanze che nel nome di antiche e radicate libertà si opponevano alla cattolicizzazione e alla germanizzazione delle élites e del territorio ungherese. A quella che il Corner definiva la «perfidia dell’ostinata avversione al dominio cesareo», il conte feldmaresciallo oppose – come si era visto a Debrecen, a Szent Job e ad Eger – un’agghiacciante crudeltà: le torture, le esecuzioni sommarie, gli imprigionamenti arbitrari. Alla ferocia egli non ebbe scrupolo di accompagnare la pesantezza fiscale e la corruzione. Poté vantarsi di acquartierare le sue truppe senza pesare sui fondi imperiali, dal momento che imponeva alle popolazioni locali il loro mantenimento con metodi del tutto analoghi a quelli delle dragonnades con le quali il Re Sole aveva stroncato la residua volontà di resistenza anche morale degli ugonotti renani. E, non pago di quello che estorceva con la violenza e che sottraeva con una pratica amministrativa che sarebbe eufemistico definir disinvolta, non rinunziava neppure a chiedere (o comunque ad accettare, ma non senza averli insistentemente sollecitati) principeschi omaggi: come capitò dopo la presa di Munkács, quando mise le mani su oggetti preziosi come uno scettro d’argento dorato tempestato di turchesi e di cristalli e due selle anch’esse d’argento dorato incrostato di gemme. La pratica congiunta della violenza e della spoliazione, associata a una sistematica umiliazione delle genti ungheresi che si vedevano private della dignità di portar le armi, dal momento che il Carafa impediva loro di riorganizzare le loro milizie e dava mostra di volerli ri-

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durre alla sola pratica del lavoro dei campi, era così intollerabile che il principe Mihály Apafi, stanco e disperato per tanta prepotenza, non poté che rivolgersi con accorate lettere al re di Francia e a quello di Polonia, denunziando l’insostenibilità della situazione. Ma il Carafa sapeva coordinare efficacemente la repressione, l’intimidazione e lo sfruttamento delle forme istituzionali: nel maggio del 1688 riunì a F∏g∏ras¸ gli «stati» ungheresi in una dieta chiamata a pronunziarsi definitivamente e solennemente tra quello che un giornale veneziano del tempo definiva «il dominio e soave protezione dell’augustissimo Cesare» e la barbarie ottomana. Se avessero scelto il primo, gli ungheresi avrebbero definitivamente dovuto aprire alle guarnigioni imperiali tutte le loro piazzeforti. La seconda opzione era soltanto retorica: serviva a sottolineare come coloro cui la domanda era rivolta non disponessero di scelta alcuna, dal momento che l’instaurazione del regime asburgico appariva irreversibile e la loro autonomia improponibile. L’aver rafforzato il dominio asburgico sull’Ungheria e l’aver imposto il protettorato sulla Transilvania valsero al Carafa, con il perdurante appoggio del sovrano, il commissariato generale logistico dell’esercito, de facto esentato dal controllo da parte sia dello Hofkriegsrat, sia del Reichskammergericht. Lo spregiudicato generale napoletano aveva del resto una specie di asso nella manica, che gli consentiva di mascherare o di giustificare sistematicamente le sue malefatte: contro il parere di molti consiglieri di Leopoldo – specie di quelli del «partito spagnolo», sempre interessati alle prospettive di un disimpegno più rapido possibile delle forze asburgiche dall’area balcano-danubiana – e dello stesso cardinal Buonvisi, che rappresentava il parere della Santa Sede, egli si faceva scudo dell’operato del primate, il cardinale Kollonics, cui era stata affidata la riorganizzazione dell’Ungheria di recente liberata e che lavorava a una sua ricattolicizzazione. Al Kollonics che, «tipico rappresentante dell’ambiente dei vescovi ungheresi del XVII secolo, era più attaccato agli Asburgo che alla sua nazione»51, l’imperatore porgeva un orecchio sempre più attento. La Compagnia di Gesù si pose all’avanguardia del movimento di ricattolicizzazione; e il Carafa non esitò a prenderne pretesto, come si serviva di incontrollabili notizie secondo le quali l’Ungheria rigurgitava di congiure, per la sua feroce e rapace politica repressiva. La guerra provocò anche spostamenti di gruppi più o meno consistenti di popolazioni che, altrimenti, avrebbero senza dubbio preferito rimanere dov’erano. Ciò accadde per esempio nel Kosovo,

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dove nel 1689 l’arrivo delle truppe austriache fu ritenuto dalle popolazioni serbe cristiane segno di un definitivo passaggio dal regime ottomano a quello imperiale. Su quelle genti, tra le quali era radicato il mito della battaglia di Kosovo Polje del 1389 e del glorioso martirio del principe Lazzaro, gli eventi di quell’anno – significativamente il trecentesimo dopo il giorno sacro alle loro memorie patrie – apparvero come una liberazione. Ma l’anno successivo gli austriaci dovettero sgombrare: e tornarono gli ottomani i quali, considerando l’adesione dei serbi all’impero asburgico alla stregua di un atto di tradimento, si dettero a far sistematicamente terra bruciata della zona. Per questo i superstiti lasciarono le loro terre e, al seguito delle truppe austriache in ritirata, con alla guida il loro patriarca Arsenio III intrapresero quella che, nella memoria nazionale serba, è ancor oggi viva come la «grande migrazione». Giunti in Ungheria, furono insediati nella regione da allora denominata Vojvodina: e là divennero Grenzer, difensori della linea di confine, nemici dichiarati del Turco ma separati e tutto sommato ostili rispetto ai magiari cattolici o protestanti che ora li attorniavano. In tal modo identità serba e fede ortodossa si radicarono profondamente nelle loro tradizioni52.

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L’impero nella tenaglia I successi imperiali del biennio ’86-’88 erano evidenti: la linea della Sava era stata raggiunta e Belgrado conquistata. Intanto i russi assediavano Azov. Lo scambio epistolare tra l’imperatore, il doge di Venezia e i due czar tra estate e autunno del 1688 assumeva accenti quasi trionfali1. Nella missiva di Leopoldo del 21 giugno si raggiungevano veri e propri toni di crociata: «...ad repellendum atque estirpandum communem christiani nominis hostem... cum sacri huius belli sociis... ut hostes undequaque in angustias redacti Sacrosanctae Crucis gloriam divino gladio propugnatam...»2. Da parte ottomana, i rovesci avevano determinato una nuova fase acuta nella crisi della compagine sultaniale. A Istanbul si era ormai in preda al pànico. Dopo la caduta di Buda del 1686, il malumore serpeggiava nelle forze armate sultaniali e all’interno del palazzo del Gran Signore. Se n’era fatto interprete un cinquantenne, Fazil Mustafa Köprülü, fratello minore di quel gran visir Fazil Ahmed che era venuto a mancare nel ’76. Colto, saggio, ricco, estremamente pio e per questo molto ben visto dagli ulema, era suocero di un suo ex schiavo, Siyavus Pas¸a, che aveva organizzato un’insurrezione contro il sultano Mehmed IV accusandolo di continuar ad abbandonarsi ai suoi abituali piaceri, la caccia soprattutto, mentre l’impero era attaccato per mare e per terra e rischiava la definitiva rovina. L’8 novembre del 1687 Fazil Mustafa Köprülü, che vedeva ormai giunto il momento per la sua famiglia di riprendere il potere sfuggitole undici anni prima, convocò nella moschea di Aya Sofia un’assemblea di ulema ai quali presentò una petizione che chiedeva la deposizione del sultano. Nell’ossessivo silenzio che tradizionalmente accompagnava nel mondo ottomano l’assenso, la proposta di Fazil Mustafa fu accolta: si marciò sul palazzo e senza resistenze si procedette alla deposizione del sultano e all’elevazione sul trono di suo fratello Süleyman,

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che aveva passato quarant’anni segregato nel kafès di corte e che accolse i suoi «liberatori» tremando, convinto che fossero venuti a ucciderlo. Ci volle del bello e del buono per convincerlo a mettere il sultaniale naso fuori dal recinto delle donne. Nel 16883 Fazil Mustafa divenne a sua volta gran visir: era un uomo schivo, riservato, che per inclinazione personale non amava il potere; ma lo esercitò con coerenza e con energia, imponendo un’efficace riforma fiscale e amministrativa e comportandosi fino alla morte nel 1691 da autentico kingmaker. Fu difatti lui a decidere che a Süleyman succedesse un secondo fratello di Mehmed IV, Ahmed II, che pare fosse un perfetto imbecille ma che tuttavia, con la sua sola presenza sul trono, consentì e legittimò il consolidarsi di riforme che una personalità di sovrano più forte e intelligente della sua avrebbe magari in qualche modo ostacolato o comunque condizionato. Per radicare il nuovo assetto c’era bisogno di pace: nell’estate del 1688 un’ambasceria ottomana guidata da Zülfikâr Efendi, e della quale faceva parte il gran dragomanno Alessandro Maurocordato, aveva raggiunto Vienna dove aveva dimorato per qualche mese. Mediatore tra Istanbul e Vienna era stato l’ambasciatore delle Province Unite presso la Porta. Evidente ne era il motivo: una pace con l’impero avrebbe lasciato libero Leopoldo di intervenire efficacemente sul fronte renano contro i francesi. Tra il febbraio e il giugno del 1689 il nuovo gran visir tentò un accordo con la stessa Venezia, allora impegnata contro la Porta nella guerra di Morea: come sappiamo, l’intransigenza di Francesco Morosini condusse al fallimento le trattative4. Intanto le continue pretese di Luigi XIV, che non aveva mai cessato di brigare per allontanare la Polonia dall’alleanza con l’impero mentre avanzava diritti sul Palatinato atteggiandosi a tutore degli interessi della cognata Elisabetta Carlotta d’Orléans, «Madame Palatine»5, avevano finito col far scattare il meccanismo degli accordi previsti dai sottoscrittori della Lega di Augusta. Il Re Sole, che non ne aveva dimenticato i termini secondo i quali egli sarebbe stato attaccato dalla coalizione appena si fosse giunti a una pace o a una tregua d’una qualche solidità nei Balcani, decise di prevenire i suoi avversari. La presenza a Vienna di un’ambasceria espressione di un governo ottomano che aveva ritrovato equilibrio e stabilità non prometteva per lui nulla di buono: c’era stabile tregua balcanica in vista. Se poi a ciò non si fosse giunti, la prospettiva di un’avanzata ulteriore degli imperiali verso sud, magari fino a Edirne se non addirittura a

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Istanbul, era esattamente quel che egli intendeva con tutte le sue forze impedire. In realtà, Luigi non era per nulla insensibile ai nuovi teorici francesi della crociata, che facevano a gara nel vedere in lui o in un suo discendente il futuro imperatore latino d’Oriente, l’unico che avrebbe potuto vincere gli infedeli: un sogno che i monarchi di Francia cullavano fino dal Duecento. Attaccando l’impero nel Palatinato, egli correva il rischio di accelerare proprio quel che non voleva, la tregua tra esso e la Porta: ma a ciò era abbastanza sicuro di poter ovviare con mezzi diplomatici. Non sembrava difficile convincere il governo del nuovo gran visir dell’opportunità di riprendere se non addirittura d’intensificare in futuro la pressione militare nei Balcani, approfittando appunto del fatto che Leopoldo sarebbe stato in qualche modo distratto dalla necessità di tutelare l’area renana contro i francesi. Scopo ultimo della manovra era obbligare l’imperatore a rinunziare a qualche porzione dell’integrità e della sovranità territoriale del Reich – ch’era del resto, per Sua Maestà Cesarea, teorica e nominale – cedendola anche formalmente a lui in cambio di una pace che gli accordasse di nuovo mano libera contro il Turco. Ma Luigi aveva sbagliato i calcoli sottovalutando il senso del dovere di Leopoldo, la sua seria e severa concezione dell’unità dell’impero, simbolo della quale era la reliquia della Santa Tunica Inconsutile custodita a Treviri. Conscio di tale sacro compito e deciso a mantenere la parola data ai suoi alleati europei, Leopoldo aveva accettato sia pure a malincuore di sostenere una guerra su due fronti sperando di pervenire al più presto a una tregua col Turco. Il 20 agosto 1688 le armate francesi, rotti gli indugi, avanzarono in direzione del Reno. Appena in tempo: il 6 settembre la piazzaforte ottomana di Belgrado sarebbe caduta nelle mani degli imperiali al comando dell’elettore di Baviera: e a quel punto la tregua tra Vienna e Istanbul poteva davvero sembrare dietro l’angolo. Luigi aveva un solo modo per impedirla: imprimere alla campagna renana un ritmo travolgente in modo da convincere la Porta che la compagine asburgica non avrebbe potuto mantenere le sue posizioni balcaniche senza compromettere quelle euroccidentali e che era pertanto opportuno proseguire il conflitto. Alla fine d’ottobre i francesi avevano occupato Philippsburg: in seguito a ciò, una serie di fortezze si era loro arresa senza nemmeno tentare una qualche resistenza. Alla fine dell’autunno le truppe del Re Sole entravano in Svevia e in Franconia, mentre la Francia dichiarava guerra anche alla repubblica olandese. Ma stavolta la reazione all’ennesimo colpo

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di mano del Sole di Versailles fu molto più immediata e corale di quanto egli stesso forse non si sarebbe immaginato: il meccanismo previsto ad Augusta funzionò come un orologio; inoltre, lo Stadholder d’Olanda Guglielmo d’Orange invase l’Inghilterra, detronizzò il cattolico e francofilo Giacomo II Stuart e indirizzò contro la Francia le forze inglesi e olandesi. Il blocco anglo-olandese-spagnolo unito contro la Francia significava, tra l’altro, un completo dominio del mare. Tra 1689 e 1690 una vera e propria «Grande Alleanza» fu siglata in funzione antifrancese tra impero, Inghilterra e Olanda; ad essa accedettero immediatamente la Spagna e il Piemonte, più tardi anche il Brandeburgo e la Baviera. Ormai, le bordate della stampa – libelli e gazzette – accompagnavano costantemente, e talvolta precedevano e indirizzavano, il tonar del cannone. Gli alleati dettero il massimo rilievo al dettato della dichiarazione di guerra della Spagna asburgica alla Francia, nel maggio del 1689, là dove si dichiarava che l’offensiva francese in Renania, obbligando l’imperatore a sguarnire il fonte meridionale, aveva obiettivamente reso un favore al sultano, apportato un grave colpo alla sicurezza dei confini meridionali della Cristianità e reso impossibile qualunque passo diplomatico verso la tregua con la Porta. Si era di nuovo alla denunzia dell’impium foedus, come ai tempi di Francesco I e di Solimano: e difatti l’effetto immediato dell’attacco francese al Reich era stato il recupero da parte ottomana di alcuni centri kosovari da cui il Turco era stato cacciato pochi mesi prima. La pubblicistica francese tuonò a sua volta contro l’impium foedus degli avversari, l’inqualificabile alleanza di potenze cattoliche e protestanti dirette a colpire il Re Cristianissimo che tanto stava facendo per ricondurre sotto le ali materne della Chiesa romana la Germania occidentale preda dell’eresia luterana, mentre in odio ai francesi si lasciava che il Turco dilagasse in Ungheria. Al tempo stesso, come è ovvio, la diplomazia del Re Sole a Istanbul incitava il sultano a colpire rapido e duro nei Balcani approfittando del fatto che le forze imperiali erano indebolite dalla necessità di reggere il fronte occidentale, esteso ormai nell’intera area tra i fiumi Reno a ovest, Mosa a nord, Meno e media Mosella a est, Danubio a sud, sino a lambire la città di Ulm e ad arrivare fin quasi a Norimberga e a Bamberga. Nel biennio 1688-89, il Palatinato fu quasi completamente distrutto; Worms, una delle perle della Germania renana, devastata; il castello di Heidelberg raso a zero; spazzate vie le tombe imperiali della cattedrale di Spira, venerabile santuario del Reich.

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Nella battaglia navale di La Hogue, in un’ansa del Mare del Nord, la flotta francese era stata quasi distrutta; ma la lotta terrestre continuò accanita. Nonostante la durezza dello scontro e i suoi incerti esiti, l’astro di Francia sembrava comunque splendere alto sull’Europa. A Versailles, i lavori del castello e del parco erano ormai quasi ultimati: un immenso, splendido asse teso da est ad ovest attraversava la vasta piana che fino a pochi anni prima era stato un inospite acquitrino. Il sole, sorgendo, sembrava far il suo ingresso trionfale nella reggia dagli immensi cancelli centrali che rilucevano moltiplicando la forza dei raggi dell’astro riflessi dalla loro spessa vernice dorata; e, a sera, tramontava alle spalle del grande lago artificiale che chiudeva la prospettiva del parco, il Bacino del Carro d’Apollo realizzato nel 1670 in piombo dorato su disegno del Lebrun, da cui si sprigionavano verso il cielo tre possenti fasci d’acqua capaci di raggiungere i diciannove metri. Tutta Versailles era simbolicamente dedicata alla gloria dell’antico dio solare che Luigi si era assunto a mitico patrono. Al centro dell’asse teso tra castello e parco, ai piedi dell’ampia gradinata che il re percorreva ogni giorno discendendone i gradini durante la sua promenade, la prospettiva si apriva sul bacino di Latona, le sculture della cui vasca centrale narrano il mito della madre dei celesti fratelli Apollo e Artemide che, per proteggerli dalle insidie dei rozzi contadini di Licia, ottiene da Zeus che quei miserabili siano trasformati in rane. La costruzione del bacino era stata terminata da Hardouin Mansart proprio nel 1689: a quali principi d’Europa pensava Luigi in quei mesi, augurandosi che la punizione divina li mutasse in batraci per aver osato intralciare i piani del nuovo Apollo? L’imperatore asburgico, che non era granché avvenente, avrebbe ben potuto candidarsi al ruolo di uno di quegli anfibi. L’offensiva francese, forte di ben 400.000 uomini6, aveva costretto la compagine militare dell’impero a ritirare truppe dall’area balcano-danubiana per fronteggiare il pericolo: quindi ad abbandonare la strategia di penetrazione balcanica ripiegando verso l’Ungheria. Leopoldo aveva deciso di destinare 45.000 uomini delle sue armate al fronte renano in appoggio a quelle imperiali, tuttavia nel maggio del 1689 solo una parte di quel contingente si era resa disponibile: ciò, a ogni buon conto, consentì a Carlo di Lorena di recuperare Magonza in settembre e Bonn ai primi d’ottobre. Ma il centro degli scontri, a quel punto, si era spostato verso i Paesi Bassi spagnoli.

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L’imperatore si sentiva tuttavia come schiacciato in una morsa tra Francia e impero ottomano, anche perché nessuno dei suoi alleati lo aiutava nei Balcani: le altre potenze firmatarie della Lega d’Augusta non avevano né interessi da tutelare né impegni da onorare per quanto riguardava il Turco; e Venezia, dal canto suo, ce la faceva appena a reggere il fronte greco. I consiglieri di Leopoldo I erano ancora più del solito divisi tra il «partito spagnolo», che avrebbe desiderato una conduzione energica della guerra nell’area renana ed era pertanto favorevole a un’intesa con la Porta – una prospettiva che la diplomazia francese a Istanbul faceva di tutto per impedire soffiando in ogni modo sul fuoco –, e il «partito tedesco», preoccupato invece del ristagno delle operazioni balcaniche e favorevole a una qualche intesa con la Francia. Era questa la linea di papa Innocenzo XI, che d’altronde rimproverava a Luigi XIV il suo pervicace rifiuto d’impegnarsi contro il Turco, dietro il quale si distingueva benissimo una vera e propria politica de facto filottomana, sia pur in un senso e a scopi puramente strumentali. Il re di Francia non desiderava per nulla un rafforzarsi del controllo della Porta sui Balcani: si limitava a far di tutto affinché le risorse imperiali vi fossero il più possibile impegnate, in modo da non poter reggere il fronte occidentale. La guerra della Lega d’Augusta, o, come fu chiamata, «dei Nove Anni», influì molto su quella balcanica determinandone almeno in parte il non felice andamento: e su Luigi XIV caddero quindi ancora più forti, in quel frangente, le accuse di turcofilia dalle quali egli si difendeva in ogni modo, con ciò dimostrando se non altro di cedere al ricatto di quella che egli mostrava di ritenere un’offesa infamante. Al fine di metter a tacere o comunque di contrastare le voci malevole provenienti da Roma, egli aveva quindi dovuto sia abbandonare le pretese gallicane fin allora cullate per la Chiesa di Francia, sia sospendere nel regno le garanzie accordate agli ugonotti, sia organizzare qualche attacco navale alle fortezze costiere dei corsari barbareschi nominalmente sudditi del sultano e che era stato più volte sospettato – francamente non troppo a ragione – di tollerare se non di favorire. Con tutto ciò, il Re Sole e Innocenzo XI erano arrivati sul serio ai ferri corti: e solo la scomparsa di papa Odescalchi, il 12 agosto del 1689, aveva impedito che si giungesse a un’aperta rottura. Se ciò fosse avvenuto, le conseguenze interne al regno che si proclamava «figlio primogenito della Chiesa» sarebbero state imprevedibili e

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incalcolabili; né Luigi avrebbe potuto trarne quanto meno il vantaggio di un avvicinamento ai paesi europei riformati, i quali in quel momento erano schierati praticamente tutti a fianco dell’imperatore cattolico e contro di lui. Non restava che la via dell’azione diplomatica sui cardinali riuniti in conclave per impedire che al soglio di Pietro ascendesse un seguace convinto della linea del defunto pontefice. Frattanto Leopoldo, pur ben conscio della pesantezza della situazione occidentale, non aveva alcuna intenzione di cedere nel quadrante balcanico alle pretese diplomatiche della Porta, che nella sostanza miravano a ottenere il recupero di Belgrado e a mantenere in Ungheria le fortezze che ancora rimanevano nelle sue mani. L’imperatore aveva scelto la guerra su due fronti, che come è noto è una delle classiche decisioni strategicamente parlando insensate: ma egli continuava a credere fermamente, e a spiegare a tutti i suoi interlocutori, che lo spettacolo dell’impero costretto a guerreggiare contro un re cristiano (anzi, contro il «Cristianissimo») mentre doveva difendersi contro l’infedele avrebbe causato in Europa un tale scandalo da obbligare Luigi a fermarsi. Quel che egli inspiegabilmente trascurava, o fingeva di non vedere, era che la Lega d’Augusta riuniva già gran parte delle potenze europee: ed erano proprio esse a disinteressarsi del fronte balcanico e del peso che la monarchia d’Austria stava portando, anzi a ritenerlo un problema interno ed esclusivo di essa. La tensione diplomatica e politica era arrivata ormai a un livello insostenibile: tanto che il cardinal Buonvisi, che per troppo tempo aveva gestito la grave responsabilità dell’amministrazione della campagna balcanica e che l’imperatore aveva nominato membro dello Hofkriegsrat, ritenne fosse giunto per lui il momento di sopportare il peso dei suoi ormai sessantaquattro anni in un’atmosfera un po’ meno greve. Chiese pertanto di porre fine al suo periodo di nunziatura viennese, ormai durato tre lustri, in coincidenza con il suo obbligato ritorno a Roma per partecipare al conclave che avrebbe eletto papa il suo amico Pietro Vito Ottoboni col nome di Alessandro VIII7. Lo sviluppo delle vicende del fronte europeo obbligava intanto Carlo di Lorena e Massimiliano Emanuele di Baviera ad accorrere sul Reno portando con loro – e sottraendole quindi a quello orientale – molte forze asburgiche nonché i contingenti dei Kreise francone e svevo. Quando il duca di Lorena morì prematuramente, nell’aprile del 1690, il comando supremo delle forze imperiali fu assunto dall’elettore di Baviera.

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In sua sostituzione sul fronte balcanico venne nominato comandante in capo Ludovico Guglielmo di Baden: ma con una disponibilità di non più di 24.000 soldati, cui ne andavano tuttavia aggiunti altri 6000 dislocati in Transilvania. Non c’era dubbio che il momento era critico: la guerra d’occidente aveva avuto come ovvia conseguenza la necessità, per l’imperatore, di sottrarre forze preziose al fronte orientale; e le conseguenze di ciò, in drammatica coincidenza con un momento di ripresa della compagine ottomana sotto un nuovo, abile gran visir, non avrebbero tardato a farsi sentire. Comunque le prime mosse del nuovo generale, che del resto aveva già assunto nella pratica da alcuni mesi il comando supremo da quando i suoi superiori erano stati trasferiti sul fronte renano, furono felici ed efficaci: il 24 settembre dell’89 batté gli ottomani a Niš, quindi occupò Vidin e Kladovo. Il suo piano era respingere il Turco in Bulgaria, svernare in Valacchia e gettare le basi per esaudire quella che appariva al momento la volontà della corte di Vienna: la costituzione di una «grande Ungheria» che includesse anche i principati valacco e moldavo strappati al vassallato ottomano. Ma la penetrazione in Valacchia non riuscì: gli imperiali furono costretti all’inizio del 1690 a ripiegare verso l’Ungheria e vano si rivelò anche l’appello dello stesso imperatore alle popolazioni balcaniche ortodosse affinché prendessero le armi contro l’infedele. Per la Chiesa d’Oriente e i suoi fedeli, restava nonostante tutto valida la vecchia massima che nel 1453, a Costantinopoli, aveva facilitato alquanto la conquista ottomana della città, e che poi si era confermata nell’atteggiamento di clero e popolo greci sia a Cipro, sia a Candia: che cioè tutto sommato il turbante era preferibile alla tiara. Nell’estate del ’90 una massiccia controffensiva ottomana guidata dal gran visir, che copriva anche la funzione di seraskier, rischiò di letteralmente rovesciare il fronte: allora però, dimenticando il loro vecchio pregiudizio antiromano, appena il turbante sultaniale si avvicinò sul serio slavi e valacchi ortodossi ripararono in massa in Ungheria. Il gran visir Fazil Mustafa, nel cui esercito c’erano circa trecento «consulenti» francesi tra ufficiali, ingegneri e artiglieri – la guerra della Lega di Augusta aveva ben il suo fronte balcanico... – riconquistò Belgrado, dove entrava l’8 d’ottobre, mentre Imre Thököly, che gli ottomani avevano riconosciuto principe di Transilvania dopo la morte dell’Apafi, invadeva il suo nuovo principato e ne prendeva possesso8. Il nuovo assetto della regione durò poco perché le truppe del margravio di Baden giunsero presto a cacciare il grande

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ribelle: ma l’episodio dimostrava l’instabilità e l’insicurezza di tutta l’area, per quanto nel 1697 il giovane erede dell’Apafi, Mihály II, avesse formalmente rinunziato a qualunque pretesa ereditaria consentendo finalmente che la Transilvania divenisse parte del regno asburgico d’Ungheria. L’andamento del fronte balcanico indusse Leopoldo a ripensare di nuovo la sua strategia generale: nonostante le proteste di inglesi e olandesi, suoi alleati contro la Francia, che insistevano affinché riuscisse a trovare un accordo con la Porta, egli sguarnì il fronte ovest lasciando appena 8700 soldati nelle regioni occidentali dell’impero e 14.500 in Piemonte per mettere a disposizione di Ludovico Guglielmo circa 75.000 uomini, cui andavano aggiunti gli irregolari ungheresi e le guarnigioni di frontiera. Grazie a queste nuove forze, il 19 agosto 1691 quegli riuscì a battere clamorosamente un esercito ottomano che puntava su Buda, fermandolo nella battaglia di Slankamen, alla confluenza del Danubio con il Tibisco, una sessantina di chilometri a nord di Belgrado: lo stesso gran visir Fazil Mustafa Köprülü cadde nel combattimento, forse ucciso dai suoi stessi uomini. Dopo quella vittoria, Ludovico Guglielmo – che i turchi, dal colore prevalente delle sue insegne, bandiere e uniformi, chiamavano «il Re Rosso» – fu, per i tedeschi, Türkenlouis, «Luigi dei turchi». Dopo la batosta subita, lo scoramento s’impadronì delle truppe ottomane: pare circolassero perfino alcuni predicatori bektashi, della confraternita cioè cui si ispiravano i giannizzeri, i quali inveivano proclamando che «tutti i discorsi che sentite sulle virtù della Guerra Santa e sul martirio in battaglia sono assolute sciocchezze» e che non c’era motivo di sacrificarsi «mentre l’imperatore ottomano si diverte a palazzo e il re dei franchi se la spassa nel suo paese»9. Quella battaglia era stata però estremamente sanguinosa per gli stessi vincitori. Il margravio di Baden si gettò subito dopo all’attacco della fortezza di Nagyvárad, che i tedeschi chiamavano Grosswerdein e gli italiani Gran Varadino10, che però resisté a un duro blocco d’assedio fino al giugno successivo. Di riconquistare Belgrado, il vero sogno di Ludovico Guglielmo, non era questione neppur di parlare. Per un pezzo, sul fronte balcanico non si registrarono più apprezzabili successi imperiali. Ma, dal momento che la «grande» e la «piccola» storia si intrecciano di continuo, e la seconda finisce con l’essere quasi sempre più divertente e spesso perfino più significativa della prima, è forse il caso di riprendere e di concludere il breve «romanzo» della vita di

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capitan Gianbattista Benvenuti da Crema il quale, dopo la conquista di Osijek, a metà gennaio del 1689 si era trovato a quella di Szeged, tanto importante da obbligare i comandanti imperiali a spedire a Vienna un plenipotenziario ottomano insieme con il Benvenuti stesso per trattare direttamente con il governo imperiale le condizioni della resa. Il capitano accettò volentieri l’incarico militar-diplomatico, nonostante il freddo intenso da affrontare durante il viaggio, sia perché convinto che conoscere alte personalità a Vienna avrebbe giovato alla sua carriera, sia «per vedere quei lochi». Condusse felicemente a termine il suo mandato, per quanto scontento della scarsa gratitudine degli ottomani («ma siccome sono canaglia, così non bisogna fare molto riguardo alla loro civiltà»), e accolse con gioia la notizia dell’elevazione al soglio pontificio, col nome di Alessandro VIII, del suo protettore il cardinal Ottoboni: al pronipote del quale, un ventiduenne subito elevato alla porpora cardinalizia, egli inviò in dono due bei cammelli che, accompagnati grazie ai buoni uffici di amici veneziani da un cammelliere turco alquanto scorbutico e manesco, furono molto confortevolmente alloggiati a Roma nel giardino del Palazzo di Venezia. Pur rimanendo in Transilvania per i suoi doveri militari, il Benvenuti vedeva aprirglisi ormai dinanzi una bella carriera. Era stato a Vienna, era quasi amico del papa; ora pensava al futuro del fratello Livio che avrebbe voluto educare come un «vero gentiluomo» e che fu mandato alla scuola dei gesuiti di Graz. Ma il giovane era pretenzioso: scriveva al fratello che tutti i suoi compagni altolocati avevano uno staffiere e che ne voleva uno anche lui. Un capriccio che fu soddisfatto: anche perché pare che per il resto il ragazzo fosse un allievo diligente e apprendesse bene il tedesco e il francese, per quanto Gianbattista avrebbe desiderato che gli si insegnasse anche a tirar di spada. Ma il vento della fortuna parve presto cambiar direzione. Papa Ottoboni, eletto il 6 ottobre del 1689 da una maggioranza di cardinali alcuni dei quali erano per vari e diversi motivi più o meno vicini al re di Francia e che comunque ne avevano abbastanza di spese per la crociata (e che infatti aveva inaugurato al riguardo una politica di parsimonia, evidentemente opposta alla linea del suo predecessore), fece appena a tempo a condannare le celebri «trentuno proposizioni» di Giansenio: morì il 1° febbraio del ’91. Frattanto, era spirato in Graz anche il giovane Livio, «dopo sette giorni di febbre». A sua volta Gianbattista si era ammalato piuttosto seriamente («sono di natura sanguigna, così facilmente mi si riscalda il sangue») ed era dovuto rimanere degente

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sin dalla fine dell’estate del ’90 nella zona di Tokaj, «dove il vino è così rinomato, ma non ardisco beverne. Dove sono alloggiato sono buona gente quantunque luterani, et la donna cucina ottimamente». Rientrò in servizio in autunno, osservando con curiosità l’ambiente transilvano religiosamente ed etnicamente tanto composito («...passiamo il tempo, ma sempre con il bicchiere alla mano, per non dire il bocale che tale è il costume del paese. Qui vi sono di tutte le religioni, ariani, greci, scismatici, et alcuni ancora che non sanno di che religione siano...»), ma un po’ preoccupato per le notizie che intanto gli arrivavano dall’Italia («... io amo la guerra presso di me, ma non appresso a casa...»). Mentre si trovava di presidio nella cittadina di Hust11, gli giunse notizia che l’imperatore gli aveva concesso il titolo comitale, da lui lungamente ambito e per il quale pare si fossero mossi tanto l’elettore di Baviera quanto il cardinal Ottoboni; mentre invece non gli riusciva di conseguire il grado di tenente colonnello. Finalmente, nel maggio del ’92, si mosse per marciare, al seguito di Ludovico di Baden, alla conquista della piazzaforte di Nagyvárad/ Grosswerdein, che nella sua corrispondenza egli chiamava Gran Varadino. Furono mesi duri, molestati da spossanti marce, molto freddo, feroci malattie epidemiche. Nel successivo ’93, alla fine di settembre, Gianbattista accusò a sua volta «febbre terzana con la colica»; sul finir del novembre scriveva al fratello Galeazzo confessandogli di aver nostalgia di casa e speranza di tornare per assistere al matrimonio dell’altra sorella, Lucrezia. Non ce la fece. Giunse non troppo tempo dopo a casa Benvenuti, attraverso i Trivulzio, una missiva con la quale il generale Veterani ne annunziava la scomparsa, «con sommo mio dispiacere per essere stato un cavagliere dotato di tutte le buone qualità»12. Gli avvicendamenti negli alti comandi A Istanbul, la guerra della Lega d’Augusta ferveva sotto forma diplomatica, nel braccio di ferro tra l’ambasciatore francese Charles de Ferriol che incitava la Porta a intensificare lo sforzo militare nei Balcani e l’inglese lord Paget, che tra 1689 e 1692 era stato a Vienna, conosceva bene l’imperatore e aveva mandato di negoziare una pace che avrebbe permesso a Leopoldo di concentrarsi sul fronte renano. Dal canto suo, questi era insoddisfatto e preoccupato per l’atteggiamento della Santa Sede nei confronti sia suoi, sia della cam-

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pagna contro il Turco. Alessandro VIII Ottoboni, durante il suo breve pontificato, non aveva nascosto il desiderio e il bisogno di ridurre drasticamente le spese per la crociata, che il suo predecessore aveva spinto a livelli insostenibili; e Innocenzo XII Pignatelli, che gli era succeduto e che apriva la porta alla speranza di una più decisa politica crociata in quanto aveva assunto lo stesso nome pontificale dell’Odescalchi, era d’altro canto impegnato ad allacciare nuovi e migliori rapporti con Versailles, con la quale si era andati vicini allo scisma gallicano ma che attraverso i cardinali ad essa favorevoli non era stata estranea alla sua elezione: e adesso gli presentava il conto. Marco d’Aviano, che nonostante il peggioramento del suo stato di salute continuava a far la spola tra Italia e Austria – per quanto preferisse evitare i soggiorni a corte, fedele al principio exeat ab aula, qui vult esse pius –, era assertore di una guerra senza riserve e senza quartiere contro il Turco, ma anche di una decisa posizione contro la tracotanza francese: e l’imperatore condivideva il suo scetticismo sul fatto che si potesse davvero giungere a quella pace universale tra cristiani alla quale il papa sembrava tenere tanto ma per conseguire la quale, secondo Leopoldo, si stava trascurando il «pericolo della Cristianità»13. Nella curia romana non erano pochi coloro che stimavano e temevano l’irruenza e i poteri carismatici di padre Marco; e che pertanto gli impedivano – come accadde più volte – di incontrarsi con il papa, nel timore che egli potesse persuaderlo ad appoggiare con maggior energia – quindi con più consistenti sussidi – la guerra balcanica. Leopoldo si sentiva dunque preso tra tre fuochi: il suo onore e il suo ruolo imperiali gl’impedivano di cedere sul fronte occidentale; i suoi partners su tale fronte esigevano molto da lui, ma consideravano la campagna balcanica una questione esclusiva della compagine asburgica e si guardavano bene dall’appoggiarla in qualunque modo nonostante il collegamento obiettivo tra i due fronti fosse evidente; e il papa mostrava di anteporre la pace tra i cristiani alla crociata. Tutto ciò convergeva nell’isolarlo. La situazione si rifletteva in qualche modo sull’andamento della guerra balcanica. Delle piazzeforti ungheresi in mano al Turco, dopo la caduta di Gyulafehérvar nel dicembre del 1694, ormai restava soltanto Temesvár14; ma il nuovo comandante in capo dell’armata dei Balcani succeduto al margravio di Baden che era stato a sua volta trasferito sul fronte occidentale, il venticinquenne elettore di Sassonia Federico Augusto – che in cambio di un’armata di 8000 uomini aveva ricevuto dall’imperatore 200.000 fiorini e il comando

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supremo in Ungheria – fallì due volte nell’attacco, tra ’95 e ’96, di quella piazzaforte. Intanto, però, nel 1696 Pietro I Romanov, ormai restato l’unico czar di Russia dopo la morte del fratellastro Ivan V15, era riuscito a strappare agli ottomani Azov16; in seguito a ciò, si era costituita una coalizione russo-veneziano-imperiale contro il Turco, alla quale Pietro teneva molto anche perché sperava di ottenere alcune maestranze navali da Venezia17. Il trattato costitutivo venne ufficialmente proposto dallo czar il 29 gennaio 1697 e ratificato il 10 febbraio successivo dal suo governo prima di venir sottoscritto dai plenipotenziari russo, austriaco e veneziano a Vienna il 25 febbraio e definitivamente accettato da Venezia il 7 dicembre successivo18. Avrebbe avuto durata triennale e si denominava ufficialmente foedus offensivum contra Sanctae Crucis hostes, secondo il rinnovato spirito di crociata che si respirava ormai dall’indomani della liberazione di Vienna. Il nuovo fronte aperto sulla costa settentrionale del Mar Nero, in realtà, impegnava poco le forze di Leopoldo: ma impensieriva comunque molto la Porta. Intanto, le esigenze di una guerra che sulle prime non andava bene avevano resi necessari, come abbiamo visto, molti spostamenti importanti al livello degli alti comandi imperiali. Nell’estate del 1691 Antonio Carafa, nominato comandante in seconda delle truppe destinate ad appoggiare Vittorio Amedeo II di Savoia, aveva lasciato l’Ungheria per l’Italia settentrionale. A pregiudicare il fronte balcanico concorreva difatti il dato obiettivo secondo il quale, volente o nolente, l’imperatore era costretto a considerarlo secondario rispetto a quello che lo vedeva impegnato con i suoi alleati: di conseguenza, se un generale otteneva o dava l’impressione di ottenere buoni successi contro il Turco, lo si «premiava» trasferendolo a combattere i francesi. Nella penisola italica, il Carafa inaugurò una nuova fase della sua attività. Leopoldo stava cercando di ottenere il più possibile dall’imposizione di contributi in danaro agli stati italiani vassalli dell’impero, chiamati a sostenere economicamente sia la guerra contro il Turco sia quella contro Luigi XIV, e aveva assegnato al Carafa il compito di condurre le difficili trattative in materia. Ma in tale funzione quest’ultimo aveva tirato decisamente troppo la corda, a ciò anche «costretto» dal suo tenore di vita principesco: e i suoi ormai troppi nemici avevano finito con il coalizzarsi contro di lui. Nella primavera del 1692 egli era stato richiamato a Vienna, dove aveva dovuto vedersela con colui che, da sostenitore ed estimatore,

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aveva finito per diventare il più influente e temibile dei suoi avversari: proprio quel vecchio soldato divenuto cardinale, il Kollonics, che alla fine di quell’anno sarebbe divenuto anche presidente della Camera imperiale. Prevenendo le mosse dei suoi nemici, il Carafa si era prontamente dimesso da ogni incarico ed era riuscito perfino a ottenere una sorta di premio di consolazione, l’ambasciata imperiale a Roma, quando nel marzo del 1693 un repentino attacco febbrile lo condusse alla morte. Naturalmente, non mancarono le voci secondo le quali era stato avvelenato da qualcuno dei suoi tanti avversari. Ma a Napoli egli venne onorato con macabra solennità barocca; e il buon Vico, scrivendo al Magliabechi, poteva definire «onore e lume della nostra patria» quell’avido e sanguinario avventuriero. La sua memoria fu celebrata da innumerevoli fogli volanti, canzoni e perfino, nel 1716, da quattro volumi di De rebus gestis tratti dal suo immenso ancorché disordinato archivio e conditi con molta retorica. D’altro canto, come l’esperienza del Carafa aveva appunto mostrato, guerra turca e guerre europee, pur senza fondersi, finivano con l’inestricabilmente intrecciarsi. Il Turco è la fortuna dei luterani, avevano sostenuto circa un secolo e mezzo prima, pieni di rabbia, i cattolici tedeschi. Ora, l’impero e la Santa Lega avrebbero potuto allo stesso modo proclamare che il Re Cristianissimo di Francia era la fortuna del Turco. E viceversa. Intanto, la morte di Giovanni III di Polonia nel giugno 1696 aveva di nuovo aperto in quel paese la periodica crisi elettorale. L’ambizioso Federico Augusto di Sassonia aveva posto con energia la sua candidatura appoggiata da Leopoldo e contrapposta a quella del principe François de Conti, candidato del re di Francia sostenuto dal cardinal primate di Polonia19. Ma la pressione esercitata dallo czar Pietro in favore del candidato imperiale e il contributo finanziario di Bernd Lehmann, abilissimo Hofjude del dinasta sassone che seppe generosamente riempir le tasche dei magnati polacchi, furono decisivi20. Naturalmente, per accedere al suo nuovo trono, l’elettore di Sassonia dovette convertirsi al cattolicesimo: ma non risulta facesse delle storie al riguardo. Varsavia, come era stato detto per Parigi, valeva bene una messa. L’ascesa di Federico Augusto al trono polacco fu salutata con gioia dallo stesso imperatore, non tanto perché egli fosse il suo candidato – ne era stato in effetti un patrocinatore molto tiepido –, quanto perché gli premeva togliere il supremo comando del fronte ungherese dalle sue mani, nobilissime senza dubbio alcuno, e anche dotate di una

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robustezza fisica divenuta leggendaria (il che gli avrebbe appunto procurato il celebre soprannome, «il Forte»), ma tuttavia tanto politicamente ed economicamente rapaci quanto militarmente incapaci. Divenuto re nel settembre del ’97, egli era stato sostituito in quel ruolo da Eugenio di Savoia, fortemente sostenuto da Ludovico Guglielmo di Baden e da Massimiliano Emanuele di Baviera. Scoppiata la guerra detta «della Lega di Augusta» il principe Eugenio, combattendo nel «suo» Piemonte contro i «suoi» francesi21, aveva saputo conquistarsi nel 1693 il bastone di feldmaresciallo dell’impero. Non era affatto un senza-patria: al contrario, era semmai uno che di patrie ne aveva tre – la Francia, l’Italia, il Reich – e come già s’è detto le amava tutte, sia pur di amore qualitativamente diverso. Dove davvero battesse il suo cuore, è difficile dire: francese per educazione, affezionato all’Italia per le origini della madre, aveva comunque trovato senza dubbio nell’impero la sua patria d’elezione: la sua fedeltà e la sua spada di cavaliere erano tutte per il Kaiser. I nuovi successi gli consentirono di risolvere anche i suoi problemi economici, che fino ad allora erano stati assillanti, come sempre accadeva per i cadetti delle famiglie nobili: il suo poi era un caso speciale di vita estremamente dispendiosa. Ma il suo congiunto, il duca di Savoia Vittorio Amedeo, gli venne incontro garantendogli le rendite di due abbazie piemontesi, per un’entrata annua di 20.000 lire. Era finalmente giunto, per l’ex abatino disprezzato a Versailles e divenuto ormai principe guerriero, il momento di mostrare appieno la sua gloria nel cuore fastoso dell’impero. Nel 1693 egli aveva acquistato, come sappiamo, un terreno alla periferia di Vienna, in collina, e incaricato l’architetto Johann Lukas von Hildebrandt di costruirgli un monumentale palazzo. Era un’altra vendetta contro il Re Sole, quella sua piccola – ma poi nemmeno troppo – Versailles privata? La costruzione si articolò in due grandi blocchi: il Belvedere inferiore e quello superiore. Eugenio vi avrebbe dato delle feste leggendarie, soprattutto dei balli mascherati che avrebbero fatto epoca: un altro segno di volontà concorrenziale rispetto alla reggia che lo aveva respinto giovanissimo? I due Belvedere si ergevano dinanzi alle mura di Vienna proprio lungo la strada che gli ottomani avevano percorso nel luglio del 1683 per giunger sotto la capitale: e qualcuno è giunto addirittura a sostenere che, nelle cupole delle torri e nelle linee dei tetti, vi sia un’allusione all’architettura turca e musulmana. Uno stile che era del resto ormai diffuso e che faceva parte della già affermata estetica dell’orientalismo22.

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I due fastosi palazzi viennesi erano, o avrebbero dovuto essere, il meritato riposo del guerriero. Nel 1697 i quattro trattati di pace firmati a Rijswijk presso l’Aja, ai quali la Santa Sede teneva molto23 e la diplomazia francese lavorava in realtà da anni24, avevano posto fine alla guerra della Lega d’Augusta: e il Re Sole aveva dovuto per la prima volta in vita sua sopportare l’umiliazione di consistenti perdite territoriali. Si trattò di un accordo molto faticoso e difficile, i lavori per ottenere il quale si erano già avviati nel maggio. I trattati di Luigi con inglesi e spagnoli furono siglati il 20 settembre, quello con l’imperatore il 30 ottobre. La Francia fu costretta a rinunziare a tutte le conquiste e le annessioni compiute dopo la pace di Nimega del 1678 a eccezione di Strasburgo – che comunque legittimava e consolidava i confini orientali del regno – e a riconoscere Guglielmo III d’Orange come re d’Inghilterra. Nello stesso contesto Federico Augusto di Sassonia fu eletto, come sappiamo, re di Polonia col nome di Augusto II. La questione delle contese terre del Palatinato e quella del risentimento della casa di Lorena nei confronti del re di Francia che l’aveva privata del suo ducato furono genialmente risolte in un colpo solo grazie a un capolavoro di «diplomazia matrimoniale»: il giovane Leopoldo, figlio di Carlo di Lorena, sposò la principessa Elisabetta, nipote del re di Francia in quanto figlia di suo fratello Filippo d’Orléans e di «Madame Palatine»: da quelle nozze sarebbe nato Francesco Stefano, futuro sposo di Maria Teresa imperatrice d’Austria e capostipite del ramo degli Asburgo-Lorena. Tu, felix Austria, nube25. Rijswijk segnò tuttavia il «giro di boa» della potenza del Re Sole: lo smacco rappresentato da quei trattati, che pure sul piano formale erano tutt’altro che rovinosi per la Francia, andava ben oltre la lettera degli accordi e ben al di là della sostanziale sconfitta (consistente quanto meno in una non-vittoria) che i più malevoli tra i suoi avversari gli rinfacciavano. Il malumore e le recriminazioni contro quella che, a torto o a ragione, era giudicata la sua costante politica filoturca erano stati contenuti, finché le armi gli avevano arriso: ma, appena il vento della fortuna aveva cominciato a soffiar in un’altra direzione, si erano di nuovo fatti sentire con forza. Il pluridecennale lavoro da lui compiuto per accattivarsi le simpatie dei principi dell’occidente germanico, strappandoli all’imperatore, pareva finito nel nulla. La sistematica devastazione del Palatinato dal 1688 al 1693 gli aveva alienato tutti, cattolici e protestanti: e non gli era valso, nemmeno presso questi ultimi – i quali sapevano bene che la sua fèrula poteva ben esser più pesante di quella imperiale –, il fatto

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che egli appoggiasse i ribelli riformati d’Ungheria. Studiosi di fama come il Leibniz avevano unito la loro voce a quella di una folla di pamphletaires anonimi o pseudoanonimi per condannare «il Turco di Francia»26. L’aver imperversato in una parte del mondo germanico, mentre un’altra parte di esso si stava dissanguando tra le selve e le paludi dei Balcani nella lotta contro gli infedeli, aveva fatto perdere al Re Cristianissimo un’importante battaglia di opinione pubblica: e ormai le battaglie di quel genere cominciavano a contare sempre di più, in un’Europa nella quale le gazzette andavano moltiplicandosi. Eugenio poteva ora assaporare sul serio la rivalsa: sulla sua collina viennese egli stava costruendo una nuova Versailles, mentre quella che a sua volta era stata completata appena pochi anni prima appariva ormai decrepita, appannata dalla prima vera e grande umiliazione che il suo fondatore avesse mai subìto. A Rijswijk il Sole francese si era velato di nubi: da ciò, molti avevano dedotto che fosse ormai prossimo al tramonto. Ma il riposo del principe guerriero era destinato a durar poco. Gli ottomani erano riusciti a superare una nuova loro crisi interna. Il sultano Ahmed II, che doveva il trono al gran visir Fazil Mustafa, aveva accordato il prestigioso ufficio a un altro membro della famiglia Köprülü, Husayn, il quale aveva lavorato tanto bene da porre le condizioni per consentire alla compagine sultaniale di passar di nuovo all’attacco nell’area balcano-danubiana. Mustafa II, succeduto al padre Ahmed nel 1695, aveva proseguito la guerra. Il Prinz Feldmarschall rispose, abbandonando gli otia viennesi. I suoi compiti non sarebbero stati soltanto militari: si trattava d’impostare, gestendo l’alto comando, una vera e propria nuova politica di ridefinizione istituzionale e territoriale dell’impero nei confronti del sud-est europeo che tra l’altro avrebbe dovuto rimediare ai guasti combinati dal Carafa. Essa sarebbe stata caratterizzata, come vedremo, dalla ricerca a sud del regno d’Ungheria di un nuovo confine naturale e dall’impianto alle nuove frontiere di coloni serbi incaricati della difesa e direttamente dipendenti dalla corte di Vienna mentre le regioni strappate agli ottomani, ma desertificate dagli eventi bellici, avrebbero dovuto essere ripopolate con coloni serbi o tedeschi e la turbolenta nobiltà ungherese definitivamente inquadrata in un ordine rigoroso ma accettabile. Due successive guerre avrebbero consentito di portar a termine questo vasto progetto: la prima era stata quella provocata dalla Porta e combattuta a partire appunto dal 1697 sulle linee della Sava, del Tibisco27 e del Maros28; la seconda

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sarebbe stata invece condotta dall’impero più tardi, nel 1716, per rispondere alle vittorie delle armate ottomane che avevano strappato di nuovo la Morea ai veneziani e dalle quali vi era motivo di attendersi un attacco alla Dalmazia e quindi alla Croazia. Il governo imperiale preferì non attendere che a ciò si giungesse: ma, in realtà, quella scelta nascondeva la volontà aggressiva che è di solito tipica delle cosiddette politiche di difesa preventiva. Non si trattava in realtà di tutelare una Croazia non ancora attaccata: tanto più che si sapeva bene che, se la veneziana Corfù non fosse caduta, il Turco non avrebbe né osato né potuto aggredire le coste dalmate. Il vero obiettivo della guerra, che determinò una nuova Santa Lega stipulata dall’impero con il papa e la Spagna – nonché naturalmente Venezia che, già in conflitto con la Porta, figurava anzi dell’alleanza la prima beneficiaria –, era lo spostamento dei confini al di là della Sava e del Danubio: il che avrebbe permesso d’inglobare una parte della Serbia e della Valacchia fino all’Olt. Ma non anticipiamo gli eventi. Nel settembre del 1697 il Prinz Feldmarschall, al comando dell’armata imperiale forte di 50.000 uomini ma, nonostante l’avvenuta pace del fronte occidentale, non troppo ben in arnese – un’istruzione sovrana gl’imponeva infatti la massima prudenza –, intercettò nella regione di Peterwardein29, tra il Danubio e il Tibisco, un forte esercito musulmano partito da Edirne e guidato dal sultano Mustafa II in persona. Il momento era delicato. Un’ennesima rivolta era scoppiata in Ungheria come reazione alle esazioni e alle violenze dei soldati imperiali: i ribelli avevano addirittura conquistato delle piazzeforti e massacrato le guarnigioni. La notizia, giunta in Austria, aveva provocato pànico e fuggi-fuggi. Era necessario impedire al nemico di penetrare in territorio ungherese e di saldare le proprie forze con quelle dei ribelli. Mentre il sultano avanzava sulla riva sinistra del Tibisco verso Szeged, il principe sabaudo risalì lungo la riva destra: e l’11 settembre30 sorprese gli ottomani che guadavano il fiume presso Zenta. Senza aspettare l’arrivo del grosso delle sue truppe, rimasto indietro, assalì subito il nemico e lo sbaragliò. L’epica tedesca e quella turca si sarebbero ricordate per sempre delle acque rosse di sangue e ingombre di cadaveri. L’artiglieria e i pur antiquati moschetti a miccia degli imperiali ebbero ragione schiacciante sulle bocche da fuoco leggere e sui più moderni (anche se mediocri) fucili a pietra focaia degli ottomani, i tüfek. Le truppe sultaniali persero tra i 20.000 e i 30.000 uomini tra

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caduti e annegati cercando di mettersi in salvo, nonché 87 cannoni, 9000 carri, 6000 cammelli, 15.000 buoi; gli imperiali subirono appena 400 perdite31. Il gran visir cadde in combattimento: sul suo corpo fu rinvenuto il sigillo sultaniale, che entrò nel prestigioso bottino della giornata insieme con 423 bandiere strappate al nemico o da lui abbandonate. Il sultano fu costretto a ripiegare verso la Transilvania e ad attestarsi a Temesvár, inseguito dagli ussari di Eugenio. La fortezza in cui egli si era rifugiato era tuttavia forte di una guarnigione di 30.000 uomini riposati e ben vettovagliati, mentre il principe di Savoia poteva sì metterne in campo circa 42.000, ma stanchi, mal equipaggiati e peggio nutriti. Rimase comunque nell’area: e il 22 ottobre, con un audace raid compiuto utilizzando un corpo di 4000 cavalieri scelti, 2500 fra moschettieri e granatieri, 12 cannoni e 2 mortai, con l’appoggio di alcune milizie confinarie a cavallo esperte nella guerriglia e perfino, secondo qualche fonte, di un reparto di picchieri – proprio così: la cara, vecchia picca...32 – e di alcuni specialisti della guerra di frontiera, arrivò fino a Sarajevo. Ricondusse quindi i suoi soldati a Vienna, dove il 17 novembre lo attendeva un vero e proprio trionfo. Circondato dall’entusiasmo dei cittadini, Leopoldo gli offrì solennemente una medaglia commemorativa coniata in memoria della vittoria di Zenta e una spada del valore di 20.000 fiorini. Il successo non lo indusse a concedersi una pausa. Al contrario. Instancabile, era pronto a una nuova campagna il piano della quale illustrò all’imperatore e allo Starhemberg ricevendo il loro assenso: tuttavia, tra Vienna e la Porta erano già state avviate trattative di pace che a quel punto sembravano promettere serie e vantaggiose prospettive. Per proseguire l’offensiva fino a Edirne e a Istanbul, come qualcuno sognava, mancavano obiettivamente le forze; intanto, anche sul fronte di Morea la Serenissima era stanca. Fino dal marzo 1698 gli ambasciatori d’Inghilterra e d’Olanda, che da tempo fungevano da mediatori fra l’imperatore e il sultano, avevano trasmesso a Vienna una proposta ottomana di pace fondata sul principio dell’uti possidetis: le ostilità sarebbero cessate e ciascuno dei belligeranti si sarebbe visto riconoscere la legittima sovranità sui territori in quel momento occupati33. E nell’area così riconquistata c’era molto da fare. Si trattava di consolidare i nuovi confini, riorganizzando la linea della «frontiera militare» tra Adriatico e Carpazi34. In una memoria datata 28 agosto 1698 Eugenio, ispirandosi ai principi del Vauban, proponeva di fortificare le frontiere meridionali sui corsi d’acqua e di

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organizzare le loro difese in profondità. Sulla base di questo progetto l’imperatore accordò nel 1699 ai serbi che si erano rifugiati in Ungheria fino dal 1690 un privilegio che consentiva loro di insediarsi nel meridione del paese, in Vojvodina35. Nel 1702 si definirono i confini della Slavonia, la regione storica compresa tra i corsi inferiori della Drava, della Sava e il Danubio. Per popolarla e consolidarne la struttura si utilizzò al riguardo lo strumento della zadruga36, un aggregato di famiglie che svolgevano le mansioni di soldati-contadini, abitando lo stesso territorio e lavorando la terra in comune secondo un regime di condivisione dei frutti. La zadruga si caratterizzava per una struttura gerarchica molto flessibile: non sempre il capo era l’adulto di sesso maschile più anziano; spesso tale ruolo era riservato a membri più giovani e, sia pur di rado, addirittura a donne. Sotto il profilo dell’ampiezza numerica, la zadruga poteva raccogliere una decina di persone o anche meno; ma tra gli albanesi kosovari si arrivava anche al centinaio. Eugenio fu così il protagonista dell’organizzazione dei confini militari austriaci e della colonizzazione delle terre conquistate agli ottomani, soprattutto del banato di Temesvár, peraltro destinato a tornare di lì a poco sotto il controllo della Porta. I territori sottoposti ad amministrazione militare vennero presidiati dai Grenzer, «gente della frontiera», soldati-contadini concepiti su un modello antico già adottato nell’impero romano e noto per il «caso» dei cosacchi, ma che nelle terre asburgiche avevano una lunga, specifica storia. Erano già apparsi nel Quattrocento in Ungheria, durante il regno di Mattia Corvino, e si erano sviluppati in Croazia dal 152237. Sotto Eugenio i Grenzer 38 venivano trasferiti con le loro famiglie ed erano scelti prevalentemente tra i serbi rifugiati in Slavonia o tra i coloni d’origine tedesca. Verso la pace Frutto di questa brillante, instancabile attività fu il cedimento della Porta, la quale sembrò rendersi conto che l’Ungheria era definitivamente perduta e che era indispensabile concordare nuovi confini. D’altronde, c’era anche una grossa questione socio-demografica da risolvere. Dopo la guerra di Candia, quella di Morea aveva provocato un massiccio esodo di popolazioni balcaniche dalle loro sedi: circa 200.000 cristiani, per la metà serbi, erano fuggiti dinanzi all’avanzata degli ottomani in una dolorosa diaspora verso l’Italia adriatica,

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l’Istria, la Dalmazia, l’Ungheria, la Polonia e addirittura la Russia. Nello stesso periodo, si registrarono migrazioni valacche e moldave in Polonia e in Transilvania; albanesi in Valacchia, Moldavia e Transilvania; bulgare in Ungheria, in Serbia, nei principati danubiani; greche in Ungheria, in Dalmazia, in Istria e nella città di Venezia. Particolarmente triste il destino di alcune migliaia di cristiani balcanici che, imprigionati in territorio ottomano e costretti a convertirsi all’Islam, erano poi stati catturati dai cristiani e venduti – in quanto infedeli – come schiavi, soprattutto nel regno di Napoli. Finché le potenze europee si erano misurate nella durissima guerra del 1688-97, la Porta aveva potuto contare sull’impossibilità dell’imperatore di concentrarsi sul fronte balcanico e sulla scarsa probabilità che dall’Europa cristiana gli giungessero sostanziosi aiuti. Ma ora le cose erano cambiate: e la proposta migliore e più generosa che si potesse fare al nemico era la concessione di una tregua venticinquennale, che in realtà acquistava i connotati pratici di una resa. L’accordo di Carlowitz39, concluso il 26 gennaio del 1699 dopo laboriose trattative avviate nell’ottobre precedente e portate avanti grazie soprattutto alla mediazione dell’ambasciatore d’Inghilterra presso la Porta, lord Paget40, venne firmato dai governi degli imperi romano-germanico, ottomano, russo e del regno di Polonia, con la mediazione inglese e olandese41. Fu estremamente laborioso disegnare e delimitare il «triplice confine»: agli Asburgo andavano tutta l’Ungheria ad eccezione del banato di Temesvár, la Transilvania, la Croazia e la Slavonia; a Venezia, che accedette al trattato solo il successivo 21 febbraio, la Morea, gran parte della Dalmazia, le isole di Santa Maura, Egina e Tinos; alla Polonia la Podolia con la piazzaforte di Kamenecz, per quanto i definitivi confini polaccoottomani fossero stabiliti solo più tardi, nel 1703. La Porta e la Russia stipularono un armistizio seguito da una pace l’anno seguente: ai sensi di essa, i russi avrebbero avuto accesso al Mar Nero via Azov e Taganrog. La diplomazia asburgica fu, in particolare, soddisfatta di constatare come la Russia si andasse sempre più interessando al Mar Nero: quella direttrice d’impegno era difatti, in una qualche misura, alternativa a quella nell’area balcanica, all’egemonia sulla quale ormai Vienna chiaramente mirava mentre si temeva che Mosca avrebbe potuto quanto meno avanzare pretese di patronato sugli ortodossi e di volontà di tutelarli da invadenze cattoliche. Carlowitz fu il canto del cigno politico e diplomatico di un abile e solerte ministro dell’imperatore, Franz Ulrich Kinsky, ch’era stato

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cancelliere di Boemia durante il periodo nel quale, tra 1685 e 1693, il governo imperiale era presieduto dal brandeburghese Theodor Althet von Strattmann, molto apprezzato per le sue straordinarie doti politiche, nonostante fosse protestante, dallo stesso Marco d’Aviano. Il Kinsky gli era succeduto comportandosi con pari abilità: ma l’imperatore – il quale lo stimava, ma non lo amava – aveva preferito sostituirlo con un suo vecchio amico d’infanzia, il conte Ferdinand Bonaventura von Harrach. Sembra che il dolore e l’umiliazione patiti dall’ex cancelliere di Boemia ne affrettassero il cammino verso il sepolcro42. Ed ecco situarsi a questo punto un’altra di quelle coincidenze che a volte fanno quasi pensare a chi le osservi di aver per un istante intravisto la trama e l’ordito sottili che arcanamente ordinano la storia. Padre Marco aveva prodigiosamente retto alle fatiche, alle privazioni, ai pericoli di oltre un ventennio vissuto sulle strade d’Europa, tra le corti dei potenti, gli accampamenti, gli assedi, i campi di battaglia. La sua fibra già logora, con l’età che avanzava, era stata minata negli ultimi anni da una malattia implacabile. Fu come se avesse incrollabilmente voluto condurre per mano il suo signore alla pace e guidarlo sulla soglia degli anni della ricostruzione e del consolidamento dei successi ottenuti. A Carlowitz, poté godersi la soddisfazione di vedere finalmente il Turco domato, per quanto ciò non fosse nella sostanza poi così vero; tuttavia, gli restava il rammarico di aver spesso assistito alle sconfitte degli infedeli, ma di rado alla conversione di qualcuno di loro. Ormai, era giunto per lui il tempo del silenzio e del riposo. Alla fine di luglio si trovò definitivamente confinato in un letto; spirò il 13 agosto, assistito fino all’ultimo con commossa devozione dall’imperatore e da tutta la sua famiglia43. Avrebbe trovato dimora eterna nel Kapuzinergruft, la cripta del convento viennese del suo Ordine, accanto ai membri della dinastia che aveva amato e fedelmente servito44. I trattati di Carlowitz costituirono un avvenimento molto seguito e commentato anche da un mezzo che ormai stava divenendo sempre più importante nella società europea: la nascente stampa quotidiana e periodica, mezzo capitale nella costruzione di una vera e propria opinione pubblica moderna. La parigina «Gazette», organo di stampa saldamente tenuto nella mani della corona, aveva una larga diffusione fin dal terzo-quarto decennio dei XVII secolo: le informazioni provenienti dai dispacci inviati da Istanbul acquistarono crescente importanza proprio a partire dalla fine del secolo, e la

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pace di Carlowitz ne fu una specie di evento-chiave45. Ma un discreto spazio veniva accordato anche alla descrizione delle cerimonie, alle informazioni circa il serraglio e la persona del sovrano, agli alti dignitari dell’impero. L’eroe del momento era comunque anche in Francia Eugenio di Savoia, per quanto non si possa dire che a Versailles egli fosse molto amato. Ma la sua fama e la sua reputazione, presso gli stessi avversari, raggiungevano proporzioni mai prima di allora concepibili per nessun capo militare. Egli aveva ormai oscurato di gran lunga anche nomi come quello del Wallenstein, del Montecuccoli, del Sobieski. Gli stessi benefici dei quali la casa imperiale lo copriva erano immensi. I proventi dei vasti possessi che gli furono concessi tra il Danubio e la Drava andarono ad alimentare le immense, sfarzose fabbriche dei suoi palazzi di Vienna e di Buda. Dopo Zenta, egli era l’edler Ritter modello e specchio dei valori cavallereschi, il miles christianus per eccellenza, il nuovo crociato acclamato in tutta l’Europa e temuto dagli infedeli come Türkenfurcht, «il terrore dei turchi». La pace raggiunta con la Sublime Porta – benché destinata in realtà a durare meno di quanto sarebbe stato ragionevole prevedere quando fu stipulata – segnò anche la maturazione della fine ed accorta politica di Leopoldo I, troppo spesso tacciato di passività e di debolezza. Egli era riuscito a destreggiarsi nella morsa dei suoi avversari più temibili, il Re Sole e il Turco, e a gestire abilmente i rapporti con un Reich ch’era un mosaico di maggiori o di minori potenze ciascuna delle quali pensava al proprio «particolare», con i riottosi e ambigui magnati ungheresi, con i difficili «amici» polacchi e veneziani. Le due successive paci di Rijswijk e, due anni dopo, di Carlowitz, avevano rappresentato «la piena affermazione della Monarchia austriaca sul piano delle conquiste territoriali e il nuovo statuto da essa raggiunto di grande potenza danubiano-balcanica»46. I successi militari contro gli ottomani, in modo speciale, erano il risultato della potente ed efficiente macchina da guerra che egli faticosamente aveva saputo costruire: un esercito permanente portato ormai a circa 100.000 uomini, al comando del quale si erano regolarmente succeduti generali di primissimo ordine, dal Montecuccoli a Carlo di Lorena ad Eugenio di Savoia. E ciò era con puntualità notato da uno dei più intelligenti osservatori della politica del tempo, il duca di Saint-Simon, attento a cogliere i segni del passaggio dalla lunga stagione dell’egemonia francese a una nuova fase, nella quale la Monarchia d’Austria sarebbe stata protagonista.

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Ma la Porta, frattanto, si andava riprendendo dalla batosta. Intelligente protagonista e negoziatore dell’accordo di Carlowitz era stato il gran visir Husayn Köprülü, che nel 1700 stipulò anche una pace con la Russia. Peccato solo che la sua esperienza di governo fosse troppo breve: conclusasi nel 1702 con le sue dimissioni, non lasciò a Mustafa II il tempo di mettere a punto alcune importanti riforme centralizzatrici. Una volta deposto a sua volta Mustafa, nel 1703, si sarebbe aperta con il regno di suo fratello Ahmed III una nuova fase nella storia dell’impero ottomano, protrattasi per ventisette lunghi anni fino al 1730. Era intanto scoppiata nel 1700, subito dopo l’accordo di Carlowitz, la guerra di successione spagnola tra le dinastie borbonica e asburgica47. Nominato comandante generale delle truppe imperiali in Italia, Eugenio di Savoia inflisse, nonostante l’inferiorità delle sue forze, nuove dure sconfitte ai francesi. Frattanto un colpo di fortuna – senza fortuna, non c’è audacia che tenga – portava al vertice del governo viennese un abile statista suo grande amico, il conte Stahremberg; in seguito a questo suo approssimarsi alle alte cariche di governo, nel 1703 Eugenio divenne presidente dello Hofkriegsrat. In tal modo egli poté riorganizzare l’esercito austriaco, combattendo fra l’altro coraggiosamente – per quanto con scarso successo – contro la compravendita venale dei gradi militari, un aspetto particolare all’interno del grande problema cinque-settecentesco della ‘venalità degli uffici’48. Ma anche se non ce la fece in tutto, le sue qualità e le sue competenze erano fuori discussione: e la sua autorevolezza aveva un grande peso. Dopo che l’imperatore Leopoldo fu sceso – arme Sünder – vestito dell’abito gesuita, nella Kapuzinergruft 49, l’influenza di Eugenio crebbe in modo esponenziale durante i sei anni di regno di Giuseppe I, tra 1705 e 1711: membro della Geheime Konferenz, il ristretto consiglio competente nel governo dei possessi ereditari degli Asburgo, il principe combatté gli sprechi e la corruzione, spianando sul piano militare la via a quelle che sarebbero state, più tardi, le più generali riforme di Maria Teresa. La sua vera casa era tuttavia il campo di battaglia. Durante la guerra di successione spagnola realizzò dei veri e propri capolavori tattico-strategici: come la battaglia di Blenheim del 13 agosto 1704, combattuta fianco a fianco con il grande generale inglese lord Marlborough, che obbligò i francesi a evacuare la Baviera; quella di Torino del 7 settembre del 1706, che rovesciò le sorti del teatro militare del nord-ovest italico, fino ad allora favorevole al Re Sole; e infine le brillanti operazioni anglo-austriache in Fiandra, nel 1708, come

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la battaglia di Oudenaarde e l’assedio di Lilla. Ormai era diventato la bestia nera di Versailles, dove era considerato una specie di traditore: «Odio il principe Eugenio nel modo più cristiano di cui sono capace», avrebbe confessato Françoise de Maintenon, la quale cominciava però anche a chiedersi se per caso il favore divino non avesse abbandonato la causa francese50. Da parte sua, egli dava mostra di non aver mai accordato a Luigi il perdono per il trattamento che questi gli aveva riservato circa un trentennio prima. Nel 1711 il nuovo imperatore Carlo VI inviò Eugenio a Londra per convincere il governo inglese, incline alla pace, che era invece necessario continuare l’offensiva. Sul piano diplomatico non sfondò: ma approfittò del soggiorno londinese per compiere massicci acquisti librari e stringere legami con gli ambienti intellettuali più interessanti della capitale, non esclusi i più «scomodi», come quelli col deista John Toland. La nuova fase della sua attività di politico e di soldato non fu tuttavia troppo felice. Nel 1712 era stato battuto da un geniale stratega francese, Claude-Louis-Hector duca de Villars, nella battaglia di Denain; quanto ai rapporti con Carlo VI, che non si era rassegnato a perdere la corona spagnola e amava circondarsi di consiglieri iberici, essi non si annunziavano facili. Eugenio era governatore e capitano generale di Lombardia nonché presidente dello Hofkriegsrat: ma evidentemente si sentiva a disagio nei panni del politico, mentre quelli del cortigiano proprio non gli si confacevano. Per garantirsi contro il bellicoso espansionismo del Re Sole, le diplomazie degli altri paesi europei avevano messo a punto, quanto meno sulla carta, la cosiddetta politica delle «barriere», cioè di veri e propri presidii militari. Se ne parlò per la linea del Reno e per quella alpina, ma alla fine l’unica a venire organizzata sul serio fu quella relativa ai Paesi Bassi prima spagnoli, poi austriaci: e a farsene garanti furono delle buone guarnigioni militari olandesi. Ma l’imperatore Carlo VI, nuovo signore delle Fiandre dopo il trattato di Utrecht del 1713, non gradiva granché i soldati olandesi sulle sue terre; e i suoi consiglieri spagnoli, profughi dalla loro patria passata sotto il regno di Filippo V di Borbone, lo incitavano a tener duro. Solo Eugenio consigliava di lasciar perdere quel paese, lontano dall’Austria e poco difendibile. Non fu ascoltato e le trattative austro-olandesi si trascinarono fino al 1719. Nel 1714, all’atto della pace di Rastadt siglata nel marzo e ratificata quindi a Baden nel settembre successivo51, l’impero ottenne

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definitivamente le Fiandre, cioè la parte meridionale dei Paesi Bassi, nonché Milano, Napoli, lo Stato dei Presidi, la Sardegna e Mantova. A Eugenio di Savoia era stato demandato il compito di negoziare il trattato, per quanto egli fosse, e lo si sapeva, personalmente contrario a quel tipo d’accordo. Da parte francese il negoziatore era il maresciallo de Villars, che durante la guerra di successione spagnola era stato il comandante in capo delle truppe del Re Sole e che aveva battuto come sappiamo il Prinz Feldmarschall in battaglia. In realtà, l’imperatore non era soddisfatto di come erano andate le cose. Avrebbe ambito anche alla Sicilia, che andava invece al duca di Savoia insieme con Alessandria, Valenza e il Monferrato. Il fatto è tuttavia che a livello diplomatico la compagine imperiale si era trovata indebolita per non aver potuto efficacemente impegnarsi durante la guerra di successione spagnola: infatti, tra 1703 e 1711, essa aveva dovuto affrontare in Ungheria prima le agitazioni degli ex sostenitori del Thököly, quindi la vera e propria rivolta guidata dal magnate Ferenc II Rákóczi, proveniente da un’antica famiglia ungaro-transilvana di oppositori degli Asburgo e figlio di quell’Ilona Zrínyi che aveva sposato in seconde nozze il conte Thököly e che noi già conosciamo come eroica tutrice della rocca di Munkács contro il truce Antonio Carafa52. Era stato un errore occupare il principe Eugenio altrove, nello scacchiere occidentale, invece di spedirlo di nuovo in quella regione danubiana che egli ben conosceva e dove aveva mietuto tanti allori? Ma sarebbe bastato a risolvere la questione degli insorti ungheresi? E la sua assenza dalle cure di governo e dal teatro della guerra contro i francesi avrebbe costituito un danno maggiore o minore di quello che derivò per la casa d’Austria dalla sua assenza dal teatro ungherese? È evidente che tutte queste domande sono legittime, ma che ad esse è impossibile rispondere. Il Rákóczi aveva evidentemente trovato contatti e appoggi nella Francia del Re Sole, che vedeva in lui un ottimo alleato nella guerra di successione spagnola: e in effetti la sua ribellione in Ungheria e in Transilvania sottrasse forze preziose ai campi di battaglia occidentali. Arrestato nell’aprile del 1701, era riuscito a fuggire in Polonia dove era rientrato due anni dopo, accettando di mettersi alla testa dei contadini ribelli dell’alta Ungheria. In quel lasso di tempo, aveva cercato e trovato appoggi tanto a Varsavia quanto a Versailles. Grazie all’abilità, all’audacia e al fascino di capo carismatico che da lui promanava, seppe in breve mettere insieme una variopinta armata di contadini, ex kurucok, vecchie milizie di frontiera congedate dopo la pace del 1699,

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magnati, piccoli nobili, haiduk, banditi, minatori protestanti delle città germano-transilvane indignati per la politica controriformistica del governo di Vienna. Nonostante fosse cattolico, riuscì a tener insieme egregiamente per un certo tempo questa miscela catto-luterano-calvinista che fu in grado di esprimere alcune truppe di fanteria leggera piuttosto efficienti, le quali dilagarono oltre gli stessi confini ungheresi verso la bassa Austria, la Stiria e la Moravia spargendo il terrore tra quelle popolazioni malamente difese solo dalla milizia contadina. Le scarse forze regolari asburgiche non poterono far altro che presidiare le fortezze asserragliandovisi dentro. Nel giugno del 1704 il Rákóczi venne eletto principe di Transilvania: era rinato il movimento kuruc. Nella stessa Vienna, che se ne sentiva minacciata, si provvide come abbiamo visto alla difesa mediante una specie di terrapieno lungo più di 13 chilometri, il Linienwall, tanto il pericolo sembrava ormai incombente. Nel 1707 la Dieta ungherese riunita in Ónod depose l’imperatore Giuseppe I dal trono ungherese, che fu dichiarato vacante, mentre almeno una parte degli «stati» eleggeva il Rákóczi amministratore del regno. Luigi XIV non poteva perdere un’occasione del genere. Aveva già appoggiato sottobanco il nuovo principe di Transilvania, ma ora giocò di nuovo a carte scoperte, spregiudicatamente. A partire dal 1705 un inviato ufficiale del re di Francia risiedeva stabilmente presso il Rákóczi: con ciò, si può dire che anche sul piano formale quello ungherese diventava un fronte sussidiario della guerra di successione spagnola. Tuttavia, non si giunse alla formalizzazione di una vera e propria alleanza dei ribelli con la Francia; il Rákóczi e i suoi si resero allora conto che l’unica possibilità di rafforzare la loro posizione sarebbe stata indurre un potente dinasta euro-orientale o euro-settentrionale ad accettare la corona ungherese. Si provò con Augusto di Polonia, con Massimiliano Emanuele di Baviera, con Carlo XII di Svezia, ma senza approdare a nulla. Anche lo czar offrì il suo appoggio, facendo addirittura balenare dinanzi agli occhi del Rákóczi la possibilità che la Russia lo riconoscesse come re di Polonia: ma si scoprì poi che faceva il doppio gioco trattando al tempo stesso anche con l’imperatore Giuseppe. Nel settembre del 1706, a complicare le cose si aggiunse l’invasione della Sassonia e della Slesia da parte degli svedesi. Ancora una volta, Luigi di Francia si affrettò a cavalcare l’evento appoggiando Carlo XII53, mentre Augusto di Polonia, per proteggere dall’invasione svedese l’avita Sassonia, fu obbligato a rinunziare al trono polacco

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a favore del suo rivale, Stanislaw Leszcyn´ski, sostenuto dalla Francia54. Anche gli slesiani, una volta che il loro territorio fu occupato dagli svedesi che erano luterani al pari di loro, manifestarono la loro preferenza per l’invasore rispetto al governo imperiale che, contravvenendo allo status quo concordato nel 1648 con i trattati di Westfalia, aveva confiscato alcune chiese riformate e tentato d’imporre nella regione la disciplina controriformistica. La pressione delle truppe svedesi ai confini dei territori asburgici, che rischiava di dilagare nella stessa Boemia, obbligò l’imperatore a riconoscere l’antiré Stanislaw come legittimo sovrano di Polonia e a recedere dalla sua politica religiosa. In questo modo, la guerra di successione spagnola vedeva aperto un suo terzo fronte: dopo l’Ungheria-Transilvania, anche la Slesia-Polonia-Boemia. Ma l’equilibrio ungherese cambiò repentinamente nell’agosto del 1708 con la vittoria asburgica a Trencsén. Le forze imperiali recuperarono da allora gradualmente il controllo del territorio, mentre quelle dei kurucok si volatilizzavano: ottime nella tattica della guerriglia, esse erano decisamente disadatte ai combattimenti in campo aperto. D’altronde il Rákóczi, buon comandante militare ed abile demagogo, non era riuscito a rivestire la sua causa di credibili ed efficaci obiettivi politici: aveva promesso un po’ tutto a tutti pur di ottenere consensi e senza badare al carattere contraddittorio delle sue promesse, come l’emancipazione offerta ai contadini nel momento stesso in cui rassicurava i nobili circa il mantenimento delle istituzioni servili. Inoltre, una delle ragioni della ribellione del 1703 e della secessione antiasburgica era stata la pesante tassazione imposta dal governo di Vienna per finanziare anche in tempi di non belligeranza la guerra contro il Turco: ma il Rákóczi non era stato in grado di alleviare la pressione fiscale. Poco dopo la morte prematura dell’imperatore Giuseppe I, le trattative del suo successore Carlo VI con quel che restava del movimento kuruc condussero alla pace di Szatmár, il 29 aprile del 1711, sulla base della promessa di amnistia per i ribelli e di ristabilimento delle garanzie di libertà religiosa e di rispetto per le prerogative autonomistiche del regno. Nel maggio del 1712, una volta raggiunti questi accordi, l’imperatore Carlo fu incoronato re d’Ungheria. Il Rákóczi, che era fuggito in Polonia, si rifiutò di approfittare dell’amnistia offertagli per tornare in patria e riparò invece in Francia. Da lì, nel 1717 si sarebbe trasferito nell’impero ottomano, dove sarebbe morto nel 1735, seguendo un destino analogo a quello di Imre Thököly.

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La fine della ribellione, nel 1711, aveva lasciato prostrate l’Ungheria e le terre vicine: la guerra e l’epidemia vi avevano infierito congiunte, spazzando dal 15-20 al 50% degli abitanti. Le distruzioni di edifici e di centri demici, si calcolò, erano state di gran lunga superiori durante il conflitto religioso-civile da cui si era usciti di quanto non fosse accaduto durante l’avanzata turca del 1683. Nel primo decennio del XVIII secolo, mentre dall’Ungheria alla Slesia e alla Sassonia si aprivano fronti sussidiari della guerra di successione spagnola, gli ottomani non si erano mossi: avevano preferito mantenersi fedeli ai trattati di Carlowitz anche perché erano a loro volta troppo prostrati. Le cose cominciarono comunque a cambiare all’inizio del secondo decennio.

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Chi sale, chi scende

Verso tempi nuovi È un episodio celebre e più volte narrato. Di per sé, potrebbe essere solo un fatto curioso, l’esito dello scontro non tanto tra «culture» quanto tra un cerimoniale troppo rigido e un gentiluomo di carattere: o meglio, di caratteraccio. Ma forse c’è qualcosa di più. Nel 1699, dopo il trattato di Carlowitz tra la Porta e l’impero asburgico1, l’ambasciatore francese Pierre-Antoine de Châteneuf – un vecchissimo amico del governo sultaniale, chiamato familiarmente dagli amici ottomani Mahout –, venne sostituito dal marchese Charles de Ferriol, che nel decennio precedente aveva combattuto nell’armata del Turco contro gli austriaci. Va sottolineato che il Ferriol sapeva bene sia che in quel momento il prestigio internazionale del suo re stava ormai cominciando a declinare, sia che a Istanbul nessun ambasciatore godeva di quelle prerogative, di quei riguardi e di quelle immunità ch’erano prassi ordinaria nei paesi europei: anzi molti erano stati maltrattati, minacciati e imprigionati. Eppure il 5 gennaio 1700 si presentò al serraglio con tanto di spada al fianco, che mantenne allacciata sotto il kaftan d’onore che si doveva obbligatoriamente indossare dinanzi al padis¸ah. Il capo degli interpreti sultaniali, il gran dragomanno Alessandro Maurocordato, esponente di una potentissima famiglia greca che spadroneggiava in Moldavia e in Valacchia e che conosceva molto bene l’Europa2, gli chiese di consegnargli l’arma in quanto a nessuno – neppure al gran visir – era consentito comparire armato dinanzi al sultano. Il Ferriol replicò che la spada era un attributo del suo onore di cavaliere e che non era disposto a privarsene: e lo fece dando in escandescenze, con una veemenza e una violenza tali da spaventare sul serio il dragomanno; intervenne lo stesso gran visir Husayn, ma invano. A quel punto si cercò di disarmare il marchese con la forza, immobilizzandolo, e ciò avvenne nel vestibolo stesso antistante la sala del trono: egli reagì con

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pugni e urla, le seconde forse ancor più inammissibili dei primi nei sacri recinti del palazzo, dove il silenzio era consegna inderogabile. In effetti, il Ferriol sapeva esattamente di star rischiando la vita: ma, perdinci, era cavaliere. Alla fine il capo degli eunuchi bianchi, supremo cerimoniere di corte, gli intimò di togliersi il kaftan d’onore e di andarsene: egli si riprese i doni che, secondo l’uso, avrebbe dovuto presentare al sultano da parte del re, fece dietrofront e col suo seguito, a piedi, rientrò alla sede dell’ambasciata francese posta nel quartiere di Pera fendendo la folla dell’affollatissima capitale. «Da quel giorno, fino alla sua partenza, che avvenne undici anni dopo, Ferriol non mise più piede a Palazzo»3. Si può pensare che il marchese di Ferriol fosse una testa calda, uno squilibrato: il che, per un diplomatico, è un difettaccio non dappoco. Ma era anche uno che amava gli ottomani, aveva combattuto al loro fianco, adorava Istanbul che definiva «il centro dell’universo»; e – da perfetto bastiancontrario – all’interno della sua ambasciata amava girare abbigliato «alla turca»4. Peraltro, la grandeur francese ha notoriamente profonde radici. A rigore, si potrebbe osservare che i diplomatici del Re Sole non erano nuovi a scenate del genere. Già anni prima, nel maggio del 1677, un altro bel tipo di gentiluomo, Charles-François Ollier marchese di Nointel5, era stato protagonista di un altro scandalo in quanto pretendeva di appoggiare il suo sgabello sul sofa, la pedana d’onore della sala di ricevimento del gran visir: cosa che era stata in effetti consentita per un certo periodo, ma in seguito vietata. Il Nointel insistette, in modi che sarebbe eufemistico definire energici, per mantenere il privilegio: e si buscò per questo cinque mesi di arresti domiciliari. La differenza sta nel fatto che, alla fine, egli cedette; e che le sue intemperanze gli costarono la carica perché Luigi XIV, già seccato con lui per altri abusi, lo rimosse6 inviando al suo posto nel 1679 Gabriel-Joseph de Lavergne, conte di Guilleragues, con istruzioni molto rigorose di far di tutto per mantener la più stretta amicizia tra le due corti. Del resto, il Guilleragues era un’altra pasta d’uomo e di diplomatico, che gestì – come sappiamo – con misura e abilità anche il frangente dell’attacco ottomano a Vienna. Eppure dovette affrontare egli stesso momenti difficili: come nel 1681, quando la flotta francese bombardò l’isola di Chio. Tuttavia, rispetto ai tempi del Nointel e del Guilleragues, l’affaire-Ferriol ebbe un carattere differente. Nel 1711, ormai, il Sole di Versailles rifletteva sul Corno d’Oro i raggi arrossati del tramonto; e

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anche lo splendore dei padis¸ah non era più quello d’una volta. Nuovi astri stavano montando allo zenith: da Vienna a San Pietroburgo, da Londra a Berlino7. «Tempo vène, chi sale e chi discende»8: questo verso di Federico II di Svevia, ispirato al tema simbolico della Ruota della Fortuna, è quanto mai adatto a servir da motto per gli eventi compresi tra l’assedio turco di Vienna del 1683 e gli anni Trenta del Settecento. Il vecchio Sacro Romano Impero, che rimaneva pur ben vivo nella memoria collettiva e – nonostante tutto – nella fedeltà ideale diffusa del mondo germanico, andava lentamente svanendo: Il «Sacro Romano Impero, come mai si regge ancora?», chiede uno degli studenti nella scena della «cantina di Auerbach» dell’Urfaust di Goethe9. Ma esso era ancora vivo nonostante tutto: e strettamente, indissolubilmente collegato alla casa d’Austria. Al sogno-progetto asburgico della Monarchia di Spagna, tramontato con la pace di Westfalia, succedeva adesso il sogno-progetto di quella d’Austria, risplendente sul piano formale della gloria della sacra corona imperiale, ma in realtà solidamente ancorato ai territori ereditari della dinastia. La Francia borbonica, scomparso il Re Sole, cominciava ad affrontare quell’eclisse politica e militare già in qualche modo annunziata dalla pace di Rijswijck del 1697 e che avrebbe mostrato il suo volto drammatico durante il periodo della Reggenza e il lungo regno di Luigi XV sino alla Rivoluzione. Nel Nord europeo sorgeva l’aurora boreale della gloria dei Romanov, che pur incontrava difficoltà nel suo insediarsi verso il Meridione, verso il Mar Nero e quei «mari caldi» che sarebbero rimasti nei due secoli a venire il miraggio della monarchia czarista ma la rotta per i quali già Pietro il Grande trovava sbarrata dalla persistente talassocrazia ottomana sul Mar Nero. Frattanto, sulle rive del Bosforo, si avviava quel che proprio riguardo alla mancata conquista di Vienna del 1683 molti storici hanno individuato come il «principio della fine» dell’impero sultaniale, per quanto fosse comunque presto per proclamarne l’agonia e anzi tutti fossero ben lontani dal prevederla: Istanbul era ancora un sogno dorato e lo sarebbe rimasto a lungo; la compagine ottomana appariva ancora formidabile, il suo mondo era ancora visto dall’esterno come solido, ordinato, felice. «Le voyage de l’Empire ottoman est un des plus considérables de l’univers», proclamava ancora, ben sicuro di sé nel 1695, congedando il III volume del suo État général de l’Empire othoman, uno che l’impero e l’Oriente li conosceva sul serio: Edouard de la Croix, che era stato segretario d’ambasciata a Istanbul una de-

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cina d’anni tra 1670 e 1680, collaboratore del marchese di Nointel ed amico di Antoine Galland10. Comunque, nell’equilibrio sancito dalla pace di Carlowitz del ’99 con austriaci, polacchi e veneziani, così difficile da gestire per la Sublime Porta, un altro concorrente-avversario dell’impero ottomano si stava stagliando alle sue frontiere nordorientali. La storia si trovava in effetti a una svolta. Sulla scena eurasiatica, accanto ai tre grandi imperi (i due musulmani di Istanbul e di Ispahan e quello cristiano di Vienna) se ne stava affacciando un quarto che non nascondeva le sue ambizioni: quello moscovita dei Romanov, interessato all’area tra Mar Nero, Caucaso e Caspio ma anche all’Asia centrale e a quel Mediterraneo al quale già sognava di aver accesso attraverso due strade, quella marittima dei Dardanelli e quella terrestre dei Balcani. La potenza russa giocava, per questo, su vari piani: nei confronti dei popoli slavi nel loro complesso si presentava come loro paladina contro la minaccia turca e il prepotere germanico; in quelli dei cristiani ortodossi, agiva come erede storica dell’impero bizantino e patrona della spiritualità orientale contro la tirannide ottomana e l’egemonia papista. Tale atteggiamento non andava disgiunto da un forte interesse per Gerusalemme e per la Terrasanta, dove gli czar di tutte le Russie fecero poco a poco intendere di voler essere considerati dai sultani gli autentici eredi dei basileis di Costantinopoli e quindi i protettori del millet cristiano-ortodosso che, pur avendo a capo dei prelati greci e quindi sudditi della Sublime Porta, era composto per la maggior parte da fedeli di lingua e nazione araba. Tutto ciò attivava una complessa rete di alleanze fondata su opposizioni «triangolari»: austriaci, russi e turchi nei Balcani; turchi, russi e persiani nell’area caucasica; francesi, russi e turchi a Istanbul e a Gerusalemme, dove le nuove pretese czariste scompigliavano le vecchie e solide abitudini a considerare la Francia come la protettrice dei cristiani d’Oriente. La Russia non accettò di associarsi ai patti di Carlowitz finché, con il trattato di Istanbul del 1700, non fu indotta a deporre le armi in cambio del riconoscimento del possesso di una parte dell’Ucraina e del centro portuale di Azov che lo czar aveva conquistato il 28 luglio del 1696 dopo vari tentativi che datavano dall’anno precedente e grazie a un duro e costoso lavoro cantieristico11. Ma a quel punto egli fu costretto a rinfoderare per il momento la spada di difensore della Chiesa ortodossa nei Balcani. Qualche anno dopo, tuttavia, la guerra riprese a causa di una serie di provocazioni incrociate: lo czar,

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da una parte, non cessava di fomentare rivolte di ortodossi balcanici; il sultano, dall’altra, veniva esortato a reagire alla minaccia russa da un nemico giurato di Pietro il Grande, quel Carlo XII di Svezia che, battuto dai russi nella battaglia di Poltava del 1709, si era rifugiato in una regione controllata dagli ottomani meditando la rivalsa. Naturalmente, il vecchio sire di Versailles soffiava da lontano sul fuoco. Il sultano aveva nobilmente rifiutato di consegnare Carlo allo czar: ma l’indomabile svedese, insediato a Bender sul Dnestr, mise in atto tutte le risorse dell’intrigo per indurre la Porta – che, molto impressionata dall’energia e dalle risorse di Pietro, temeva di vedere un giorno le sue navi scendere attraverso il Mar Nero fino al Bosforo – allo scontro con la Russia. Un documento sultaniale del tempo dice chiaramente che «il re di Svezia è caduto come un gravosissimo peso sulla spalle della Sublime Porta»12. Fu lo czar a liberare il sultano dalle sue esitazioni, scagliandogli in faccia un ultimatum che esigeva la consegna immediata dello svedese. Nessuno poteva rivolgersi in quel modo al padis¸ah: la risposta fu una dichiarazione di guerra, il 21 novembre 1710. La campagna militare, che si dispiegò l’anno seguente lungo il fiume Prut, fu disastrosa per lo czar. L’8 luglio 1711 egli si ritrovò imbottigliato con i suoi 38.000 uomini, accerchiato da un esercito ottomano forte di 120.000 fanti e 80.000 cavalieri sostenuto da 300 cannoni. Il giorno dopo egli accedeva a una pace umiliante, che l’obbligava a riscattarsi con una forte somma di danaro e a cedere le piazzeforti di Azov e di Taganrog13. Eppure, non gli era andata male. In realtà gli ottomani avevano perduto l’occasione di schiacciarlo per sempre: non è escluso che lo avessero addirittura sopravvalutato. Il gran visir Mehmed Baltaci, che troppo frettolosamente gli aveva offerto la pace, fu tacciato in effetti di pusillanimità e fatto oggetto di molte critiche. Del resto, nonostante gli accordi, Pietro non mollò: furono necessarie ben altre tre campagne, l’una dietro l’altra, per obbligarlo a firmare il 24 giugno del 1713 il trattato di Edirne con il quale accettava di rinunziare ad ambizioni di conquista nello scacchiere meridionale del suo impero. La talassocrazia ottomana sul Mar Nero non sarebbe stata comunque più messa in discussione, da allora, fino all’età della Grande Caterina e agli exploits del conte Orlov. La vittoria sui russi dette nuova fiducia alla compagine ottomana, dal 170314 guidata dal sultano Ahmed III che avrebbe governato per ventisette anni: ora che il quadrante marittimo settentrionale

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sembrava pacificato e sicuro, si trattava di riconquistare la Morea in modo da assicurarsi di nuovo il controllo dell’Egeo e da mettere una volta per tutte i Dardanelli al riparo da nuove possibili offensive veneziane. E si trattava anche di vendicarsi della vecchia signora dell’Adriatico, impartendole altresì una buona lezione di savoir vivre diplomatico: dal momento che la Serenissima aveva condotto, negli anni precedenti, una politica abbastanza ambigua favorendo, nonostante la tregua con la Porta, una rivolta in Montenegro. Ormai ammaestrato tuttavia dai rovesci militari e dalle laboriose manovre diplomatiche della fine del secolo precedente, il governo ottomano si mosse stavolta con la massima circospezione e con impeccabile correttezza formale: non si dedicò a far i conti con Venezia se non immediatamente dopo essersi assicurato che a nord-est lo czar fosse stato messo col trattato di Edirne in una posizione che lo rendeva, se non proprio innocuo, quanto meno controllabile. La «seconda guerra di Morea» Nei tre lustri successivi alla pace di Carlowitz, i veneziani si erano impegnati a sviluppare la loro nuova colonia di Morea, che aggiunse circa 300.000 greci ai sudditi della repubblica. Il leone alato provvide a sistemarvisi in una comoda e sicura tana, costruendo grandi fortezze a Corinto e nel porto di Nauplia. Dal punto di vista dei greci i veneziani non erano peggiori dei precedenti padroni, ma il loro sistema di tassazione era più efficiente, quindi più esigente: ed essi si lamentavano particolarmente di ciò. Altrove, nel Levante, i veneziani mantennero alcune fortezze al largo delle coste di Candia e la curiosa isola-colonia di Tinos, enclave latina in un arcipelago ortodosso. Solo 14 soldati la sorvegliavano, tanto solida era la tradizionale fedeltà degli isolani. Nella Morea mantenevano invece l’ordine circa 10.000 armati, ovvero 1/3 delle forze della repubblica. Una così sostanziosa forza sottolinea il fatto che Venezia non si disarmò con la pace di Carlowitz: l’armata permanente che essa vi manteneva osservava una proporzione rispetto alla popolazione civile che gli studiosi stimano più o meno pari – beninteso, relativamente parlando – a quella della Francia, del Piemonte e di molti stati tedeschi. Durante la guerra di successione spagnola il senato aveva scelto una cauta e dispendiosa politica di neutralità armata, coerente con quanto era già stato indicato dalle linee politiche emergenti durante

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la campagna di Morea del 1684-1699, la quale aveva segnato un chiaro disimpegno dalle cose italiche e continentali e un deciso ritorno alla politica di Levante. In coerenza con ciò, la Serenissima evitò di prestare ascolto alla sirena francese, che la invitava ad entrare nell’alleanza borbonica: non che i rapporti con Vienna fossero tra i più brillanti, ma davvero poco c’era da guadagnare in un conflitto contro la casa d’Austria. Accadde quindi quel che il Re Sole avrebbe voluto evitare: le armate imperiali poterono agevolmente attraversare il territorio veneziano per raggiungere i campi di battaglia in Lombardia ed Emilia; intanto però gli alleati francesi e spagnoli (conosciuti come «galloispani») poterono in cambio foraggiarsi vicino a Verona nel 1703-4. Durante quel conflitto 5000 soldati, principalmente veterani, sorvegliavano la laguna e la terraferma mentre altri 7-8000 stavano noiosamente acquartierati nelle fortezze in Dalmazia e nelle isole Ionie. Da questa posizione di forza Venezia sperava di assistere alla disintegrazione interna dell’impero ottomano e magari di favorirla. La guerra tra il governo sultaniale e l’impero dei Romanov, nel 1710-11, l’aveva fatta seriamente sperare in un’ulteriore espansione dei suoi possedimenti in Grecia e lungo le coste balcaniche: e la Porta, che per il momento era troppo occupata altrove per reagire adeguatamente, aveva in cambio incoraggiato i corsari barbareschi a colpire con frequenti raid le isole e le coste della Serenissima nonché le rotte di navigazione da essa praticate. Venezia intendeva sfruttare la vulnerabilità turca per ripristinare lo status di nazione privilegiata nei commerci di cui un tempo aveva goduto e poter in tal modo competere con i mercanti francesi, inglesi e olandesi: ciò l’avrebbe anche aiutata a restaurare in qualche modo le sue finanze, che la guerra di Morea aveva gravemente compromesso. Dalla sua base di Cattaro, la repubblica appoggiò anche una nuova rivolta montenegrina. Il banditismo e la guerriglia erano tradizionali occupazioni delle tribù di pastori che vivevano nel Montenegro e nell’Erzegovina: esse erano viste come attività onorevoli, quando erano rivolte contro i musulmani. Dopo il trattato di Carlowitz i montenegrini si erano rifiutati di pagar tributo al Turco: che aveva risposto con le consuete rappresaglie, bruciando villaggi e prendendo ostaggi. Le bande erano organizzate da un intraprendente vescovo-principe-brigante, Danilo di Cettigne, audace programmatore di incursioni: egli condusse una feroce guerra di religione contro i montenegrini, convertiti all’Islam, appoggiato dalla Serenissima con

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il pretesto che essi avevano occasionalmente razziato qualche territorio veneziano. Le incursioni turche nel 1712 e 1714 non repressero interamente la rivolta, ma spinsero le bande guerrigliere e le loro famiglie vicino a Cattaro. Il vescovo Danilo, che aveva seguito il destino dei suoi, non si rivelò comunque un esule riconoscente: egli cercò di minare l’autorità della repubblica in Dalmazia e contestò le gerarchie cattoliche locali. D’altronde, Venezia aveva avuto molte incertezze nell’appoggiare le ribellioni albanesi contro il Turco. Era evidente che San Marco aveva sopravvalutato le difficoltà degli ottomani nei confronti dei russi. Quando essi se ne liberarono, fu chiaro che non avevano alcuna intenzione di tollerare una forza ostile che tenesse delle basi così vicine alle rotte di navigazione vitali del loro impero. Nemmeno il perdurare del conflitto tra l’impero ottomano e quello austriaco era più una garanzia: libero dalla pressione russa, il Turco dava ora mostra di esser convinto che la politica adriatico-ionica di Venezia costituisse un elemento complementare rispetto alla pressione militare austriaca. Il fronte marittimo era stato alternativo a quello balcanico, per il governo sultaniale, finché esso si considerava titolare dell’iniziativa militare: vale a dire finché esso attaccava e i cristiani dovevano difendersi. Ora però, dopo le campagne che dalla pianura danubiana alla Morea avevano modificato profondamente confini e rapporti di forza, la prospettiva si era rovesciata. La compagine ottomana si sentiva attaccata e minacciata in profondità nel suo territorio e nelle acque sulle quali aveva a lungo esercitato la talassocrazia. L’eliminazione della minaccia veneziana era adesso una priorità, proprio per contenere l’efficacia degli stessi progressi imperiali: bisognava liberarsi da una morsa che rischiava di cacciare l’autorità sultaniale dal continente europeo e al tempo stesso di sottrarle i mari. Nel 1714 il gran visir Damad Ali cominciò a raccogliere navi per una grande spedizione contro la Serenissima. Pochi mesi dopo la flotta constava di 58 vascelli e 30 galee, con una superiorità schiacciante rispetto ai 19 vascelli e alle 15 galee che i veneziani potevano opporre. Il 9 dicembre di quell’anno la Porta dichiarò formalmente e inappuntabilmente guerra alla Serenissima: un accurato documento in cui si elencavano ben quattordici incidenti dei quali i veneziani si erano resi responsabili in violazione degli accordi di Carlowitz del 1699 fu rimesso al bailo della Serenissima e agli ambasciatori europei presso la Porta. Il fatto che si fosse alla fine dell’autunno

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significava tra l’altro, dal punto di vista del sultano, concedere a se stesso e al nemico una buona pausa di preparazione: le armi, come al solito, avrebbero taciuto nei mesi invernali, le vecchie navi sarebbero rimaste alla fonda, gli arsenali ne avrebbero rese disponibili di nuove15. Ma con la primavera la natura si risveglia: e, con essa, fioriscono i campi di battaglia. È un’antica regola: è questo il «Bel Maggio» della poesia cavalleresca, il tempo del sangue e delle rose. Il 21 maggio del 1715 l’imponente flotta ottomana salpò da Istanbul; la rivista dell’armata, che fu passata in Tebe il 9 giugno, vide schierati secondo la testimonianza di Benjamin Brue, interprete dell’ambasciata di Francia presso la Porta e presente sul posto, 22.844 cavalieri e 87.520 fanti; se si aggiungono a tale cifra le molte migliaia di inservienti, di accoliti, di tecnici, di addetti alla logistica e di varia necessaria manodopera, su cui non siamo peraltro informati nel dettaglio, si finisce con l’avere l’impressione che si fosse mobilitata una forza non troppo inferiore a quella di cui aveva potuto disporre Kara Mustafa nel 168316. Fra maggio e settembre del 1715 la flotta e l’armata di terra ottomane invasero la Morea per terra e per mare. In realtà l’esercito di terra doveva per forza avere proporzioni più limitate di quanto alcune fonti riferiscono, dal momento che gran parte di esso aveva preso la via attraverso Salonicco: il che rappresentava una precauzione contro il possibile intervento austriaco da nord. Un altro contingente, trasportato via mare, occupò le varie isole controllate dai veneziani e bloccò i porti. Tinos ed Egina, piccole isole-colonia, furono rapidamente sopraffatte. Se la repubblica di San Marco poteva schierare circa 8000 soldati in Morea, la sua flotta di sostegno a quel teatro di guerra consisteva per il momento – al di là delle sue possibilità generali – solo in 8 vascelli e in 11 galee. La rapida conquista da parte del Turco delle nuove fortezze veneziane, in tre mesi scarsi, fu nondimeno una grande sorpresa. Alla fine di giugno fu posto l’assedio a Corinto17, che cadde il 3 luglio dopo soli cinque giorni di resistenza, anche perché i 600 difensori si trovarono drammaticamente a corto di scorte d’acqua. S’intraprese quindi una specie di parata trionfale, o di passeggiata militare, attraverso la penisola, scandita da brevi per quanto in qualche caso accaniti episodi d’assedio. La «Napoli di Romània», Nauplia, che era la principale piazzaforte veneziana dell’area, resisté nove giorni prima di cadere il 20 luglio; la sua guarnigione era forte, con i suoi 2500 uomini, ma la

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popolazione greca circostante le fece per odio o per paura il vuoto intorno: la violenza e la foga dell’avanzata ottomana provocarono anche molte diserzioni, e un impetuoso assalto travolse quelli che erano restati. In mano agli infedeli caddero 126 cannoni, 20 mortai e una grande quantità di provviste. Navarino e Corone si arresero senza combattere il 10 agosto, seguiti il 13 da Castel di Morea e il 16 da Modone che cadde dopo un breve assedio; all’inizio di settembre venne conquistata anche Mistra, l’antica Sparta. Malvasia si arrese il 3 settembre senza sparare un colpo18. Le forze sultaniali completarono poi la loro azione riconquistando le isole ionie di Citera e Santa Maura. La campagna di terra si era coordinata, con perfetta sincronia, con quella della flotta del kapudan pas¸a Canim Hoca Haci Mehmed che, partito da Istanbul il 1° giugno con una flotta di 32 navi, aveva puntualmente appoggiato l’armata di terra a Nauplia e a Modone. Veniva così dimostrato quanto fragili fossero state le acquisizioni della Serenissima nella pace di Carlowitz, che aveva pur rappresentato il primo successo veneziano dopo oltre due secoli di guerra. Quando però si hanno fin troppi nemici potenziali non solo è buona politica cercar di mantenerli divisi tra loro, ma è anche molto rischioso assalirne uno e batterlo clamorosamente: il pericolo è che gli altri si allarmino e si coalizzino temendo di far la sua stessa fine. Era antica saggezza politica della Porta far di tutto per evitare che i suoi confinanti cristiani, separati da molte ragioni di rivalità che la diplomazia sultaniale teneva nel massimo conto e s’incaricava di attizzare, scoprissero tutti assieme ch’era vantaggioso allearsi tra loro. Era già accaduto, in passato, per quanto in nessun caso si fosse giunti forse a provocare una concordia perfetta e duratura: ma le lezioni di Lepanto nel 1571 e di Vienna nel 1683 erano pur state dure. Ora, quei mesi tra la primavera del 1715 e quella del ’16, esaltanti per la Porta e terribilmente umilianti per la Serenissima19, avevano attirato l’attenzione di Roma, di Vienna e di Madrid; e dopo le paci europee del 1713-14, la Cristianità occidentale non doveva più affrontare l’urgenza di un «nemico interno» da battere o quanto meno da contenere. La Porta non si era ancora abituata a un mondo privo del Sole di Versailles: si sarebbe presto compreso che lo spegnersi di quell’astro avrebbe provocato anche un rapido impallidire della mezzaluna. D’altronde, ora che la casa d’Austria si sentiva sicura ad ovest, il rischio che concretamente, e senza dubbio plausibilmente, essa vedeva profilarsi consisteva in un estendersi dell’offensiva otto-

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mana contro Venezia dall’Egeo e dallo Ionio al litorale dalmata, da dove sarebbe stato quasi naturale tracimare nella Croazia asburgica. Abbiamo d’altronde già considerato che, in realtà, questo attacco ispirato al principio strategico della difesa preventiva nascondeva una precisa volontà di consolidamento dei confini se non addirittura di espansione territoriale dello scacchiere sudorientale asburgico. Nel 1715 Venezia, ormai alle strette, aveva chiesto aiuto alla Polonia che però, dopo i successi delle armate ottomane contro la Russia che l’avevano messa in condizione insperatamente vantaggiosa nei rapporti con Mosca, stava pagando con una nuova semiegemonia da parte d’Istanbul il vantaggio conseguito: ed era poco intenzionata a prender di nuovo le armi. Ai veneziani non restava pertanto che rivolgersi ancora una volta alla casa d’Asburgo, richiamandosi ai principi della Santa Lega di oltre trent’anni prima. Spagna, Portogallo, Santa Sede, Malta e Toscana inviarono tutti galee a rafforzare la flotta veneziana che consisteva adesso di 27 vascelli opposti ai 50 turchi. Mentre le operazioni si prolungavano in settembre, le forze cattoliche si ingrossavano. Il contingente papale contava 7 galere, 4 galeotte e 7 vascelli, con un’ammiraglia armata con circa 60 cannoni. La Toscana fornì un più modesto contributo di 3 navi, oltre a un contingente di cavalieri di Santo Stefano. Nell’aprile del 1716, l’imperatore Carlo VI firmò con la repubblica di San Marco una nuova alleanza, che era con ogni evidenza una dichiarazione di guerra alla Porta. Egli disponeva di una forza in campo di circa 140.000 uomini, oltre 60.000 dei quali erano acquartierati fra Ungheria e Transilvania. Il 25 maggio la cancelleria imperiale dichiarò formalmente guerra alla Porta, subito imitata dalla Spagna borbonica desiderosa di riconfermare la ristabilita pace con la dinastia d’Asburgo e al tempo stesso ben decisa a far sentire il suo peso ai barbareschi sudditi del sultano. Il papa e i cavalieri di Malta raggiunsero quasi immediatamente gli alleati nella costituzione di una nuova Santa Lega ancora una volta, come nel 1571, in soccorso al leone di San Marco assalito dagli infedeli. Ma spettò agli ottomani assumere l’iniziativa, passando nel luglio la Sava con una forza di 86.000 uomini e 88 cannoni. È difficile dire se l’allargarsi del conflitto avesse sorpreso o no il governo sultaniale. Certo non lo indusse a mutare i suoi piani che prevedevano una campagna balcanica di contenimento delle forze asburgiche in terraferma mentre sul mare, una volta riconquistata la Morea, si poteva passare alla presa di quello che per i turchi era

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il «chiavistello veneziano» dell’Adriatico: l’isola di Corfù e le sue formidabili fortificazioni20. La peraltro abbastanza modesta squadra veneta di 27 vascelli, poi rinforzata da qualcuna delle solite galee di Malta e più tardi ancora da 6 navi portoghesi, non fu in grado di arrestare la molto più robusta flotta ottomano-barbaresca: che iniziò il 10 luglio l’assedio di Corfù, la difesa della quale era stata affidata dalla Serenissima a un militare sassone, il feldmaresciallo conte Johann Matthias von der Schulenburg21, un veterano che aveva combattuto contro Carlo XII. Un’armata ottomana di 30.000 uomini attraversò lo stretto canale che separa l’isola dal continente e cercò di far bloccare l’isola dalla flotta. Le navi alleate trasportarono due contingenti di 1500 soldati attraverso il blocco per rinforzare la città. Le potenti fortificazioni di Corfù compensarono le manchevoli capacità dei generali veneziani e la vigorosa difesa del von Schulenburg rese i progressi degli ottomani molto lenti e dispendiosi. Il von Schulenburg si rese conto una volta di più, in quel frangente, che lo strabocchevole numero di pezzi d’artiglieria di cui la Serenissima disponeva – si calcolano circa 3500 pezzi tra le due guerre di Morea – non serviva a nulla senza una risistemazione delle opere architettoniche di difesa e una seria riforma negli ambiti della logistica e del reclutamento. Difatti, le sue pur ragguardevoli forze – c’è chi ha azzardato la cifra di 18.000 uomini o almeno di 8000; un computo realistico suggerisce che non dovessero essere più di 3000, che non erano comunque pochi – erano costituite da formazioni messe insieme dai soliti «imprenditori di guerra» un po’ da tutti i paesi d’Europa22, a parte qualche reparto di «marcolini», raccolti attraverso il sistema della leva nelle terre dello stato di San Marco, che erano scadenti e che del resto ricevevano una cattiva paga. Comunque la piazzaforte resisteva, per quanto fosse legittimo chiedersi per quanto tempo ce l’avrebbe fatta. Le operazioni offensive degli infedeli procedevano lentamente ma in modo tutto sommato positivo per loro allorché, tra il 20 e il 25 agosto, inaspettatamente e abbastanza in fretta gli assalitori cominciarono a reimbarcare le truppe e levarono le ancore. Tanto sollevati quanto sorpresi, gli assediati – che sulle prime avevano addirittura pensato a chissà quale perfida ruse de guerre – furono solo più tardi informati che la loro salvezza, o comunque il loro sollievo, dipendeva dalla sconfitta ottomana di Peterwardein. Se sul momento qualcuno aveva gridato al miracolo, la logica e umana ragione di come le cose erano andate si

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venne presto a conoscere. C’era comunque di che ringraziare Iddio. In onore della «vittoria» veneziana, che era a onor del vero piuttosto vittoria del principe Eugenio e scampato pericolo per San Marco, Antonio Vivaldi compose l’oratorio Juditha triumphans, dove la Giuditta Serenissima decapitava l’Oloferne Ahmed III23. Nuove vittorie, voglia di pace L’ingresso dell’Austria nello scenario di guerra era stata un’autentica frustata d’energia per il governo veneziano, che la rapida perdita della Morea aveva prostrato. Ora però bisognava battere il ferro finché era caldo, tanto più che le conseguenze di Peterwardein dimostravano una volta di più che guerra di terra e guerra di mare non erano né estranee né alternative o concorrenti tra loro, bensì profondamente complementari. Oltre due secoli e mezzo di esperienza avevano abbondantemente insegnato che, se si volevano tutelare le posizioni cristiane nel bacino orientale del Mediterraneo, bisognava fermare le squadre navali ottomane all’uscita dai loro porti maggiori, quindi ai Dardanelli. Era una partita a scacchi, in quanto quel che gli ammiragli ottomani al contrario costantemente volevano era forzare il blocco cristiano e avanzare verso sud-ovest, verso l’Egeo e lo Ionio. Si andava ormai concludendo quella relativamente lenta ma irreversibile «rivoluzione navale» che, già a partire dalla prima metà del Seicento, aveva gradualmente ridotto l’importanza della galea a remi, per molti secoli regina del mare e delle sue battaglie, a vantaggio di tipi nautici «nuovi», almeno sul piano dell’impiego militare: vale a dire navi o vascelli dal vario nome e dalla differente tipologia specifica (inclusi i galeoni destinati a diventar celebri sugli oceani), sviluppo delle vecchie «navi tonde» mercantili. Alte e panciute, provviste di tre alberi ciascuno dei quali era dotato di due o tre vele quadrate e ai quali si aggiungeva a prora un bompresso quasi orizzontale, queste nuove navi si erano progressivamente affinate e perfezionate, aumentando pescaggio e tonnellaggio. Il tre-ponti inglese Sovereign of the Seas, varato nel 1637, stazzava 1800 tonnellate24, aveva un armamento superiore ai 100 cannoni ripartiti in tre batterie e un equipaggio di circa 800 uomini25: un autentico trionfo, dalla prora e dalla poppa sontuosamente decorate, dorate e scolpite, vero mirabile mostro «tutto vele e cannoni», come la nave pirata di Jenny nell’Opera da Tre Soldi di Bertolt Brecht. Le tre guerre

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anglo-olandesi del 1652-1674, che avevano opposto quelle che ormai erano le due principali potenze marittime del mondo26, avevano determinato un sostanziale progresso nello sviluppo dei tipi nautici e delle tattiche di scontro. Ormai, il tempo degli arrembaggi e delle battaglie navali durante le quali si finiva col combattere all’arma bianca come sulla terraferma volgeva alla fine e già dall’inizio della seconda metà del secolo si era andato razionalizzando lo schieramento in linea di fila che consentiva l’uso continuato e sistematico delle artiglierie di bordo. Vero è che questa «rivoluzione», compiutasi tra Mare del Nord e Atlantico, aveva tardato ad affermarsi non solo nel Mediterraneo, ma nello stesso Baltico27: i mari chiusi, dove gli approdi erano frequenti e le tempeste meno violente, consentirono una relativamente lunga sopravvivenza alla galea. La guerra di Candia era stata ancora in gran parte, per il suo aspetto marittimo, uno scontro di galee: ma i vascelli cominciavano a comparire anche nella flotta veneziana. Il Giove Fulminante, varato nel glorioso arsenale il 23 novembre del 1667 – la sua costruzione aveva richiesto sette anni –, recava a bordo 64 cannoni; lo seguirono più o meno a ruota un vascello comprato agli inglesi e ribattezzato Il Sole d’Oro, quindi un altro la fabbricazione del quale aveva già richiesto meno tempo, La Costanza Guerriera. Evidentemente, gli ingegneri veneziani cominciavano a familiarizzarsi con i problemi tecnici posti dalla produzione di quei mastodonti, mentre il governo dogale andava dal canto suo adattandosi ai non meno gravosi problemi finanziari che la loro costruzione implicava. I tre vascelli veneziani entrarono in servizio solo alla fine della guerra di Candia, che praticamente non ne risentì. Ma che i tempi fossero cambiati e la sfida posta dai nuovi tipi nautici fosse irreversibile l’aveva dimostrato proprio un episodio dell’anno stesso della fine di quella guerra, allorché il kapudan pas¸a Kaplan Mustafa, con una flotta di ben 54 galee, non ce l’aveva fatta a venir a capo dello scontro con due vascelli pirati cristiani, armati solamente di 46 cannoni in tutto28. La Serenissima si era comunque ben guardata dal modernizzare velocemente la propria flotta: e, anche se avesse voluto farlo, non avrebbe potuto. Le facevano gravemente difetto nell’immediato le capacità tecniche, le disponibilità finanziarie, le professionalità specialistiche marinare; e le mancava la stessa consapevolezza che le innovazioni nautiche e cantieristiche i cui modelli inglesi e olandesi avevano trionfato sull’oceano fossero ormai diventate indispensabili

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anche nel mare nostrum. D’altronde la pace del 1669, accompagnata da una certa comprensibile depressione politica dopo la perdita di Candia, era stata seguita da una sostanziosa crisi finanziaria dalla quale la repubblica riemerse soltanto buoni cinque anni più tardi. La costruzione dei grandi vascelli aveva potuto riprendere con maggior lena a metà degli anni Settanta, e quindi al rinnovarsi della Santa Lega nel 1684, l’anno inaugurale della gloriosa campagna di Morea. Quanto allo stesso impero ottomano, a fronte delle tendenze tradizionaliste dei responsabili dei cantieri stambulioti appoggiati anche dalle autorità religiose alle quali le diavolerie come le armi da fuoco e le velature moderne (e soprattutto la presenza dei tecnici occidentali nei cantieri) non erano mai andate giù, erano stati soprattutto l’esempio e l’impulso dei principati barbareschi a incoraggiare la costruzione dei nuovi grandi mostri marini, che tuttavia avevano fornito cattiva prova iniziale nello scontro dei Dardanelli del 1656. Il gran visir Fazil Ahmed Köprülü, contro il parere o comunque i gusti del sultano Mehmed IV, aveva continuato a insistere sulla costruzione delle galee. Era stato il suo fratello di latte e successore Kara Mustafa a cambiar d’avviso, incaricando fin dal 1682 un tecnico originario di Tripoli di mettere in cantiere ben dieci vascelli: e non è impossibile – stando almeno alla testimonianza (intelligente e affascinante sempre, spesso anche affidabile) del Marsili – che alla bisogna avesse collaborato uno proveniente da una città portuale tirrenica che di inglesi e di olandesi se ne intendeva fin troppo, tale Ahmed Ag˘a, rinnegato livornese29. Ormai, quindi, erano maturi da entrambe le parti i tempi della piena accettazione di una novità che del resto da quasi un’ottantina d’anni non era più tale. La fase del conflitto navale turco-veneto avviata nella primavera del 1716 fu dominata decisamente dai vascelli e dai cannoni. Le residue galee – quelle degli alleati cristiani: le pontificie, le toscane, le maltesi – dovettero rassegnarsi a far da comparsa; restavano buone per la guerra di corsa, ma dinanzi alle alte fiancate dei vascelli irte di bocche da fuoco potevano soltanto forzar sui remi e darsela a tutta voga. Dalla fine di maggio alla metà di giugno le squadre, 26 vascelli veneti e 36 ottomani, si affrontarono nell’Egeo settentrionale in una serie di scambi di colpi d’artiglieria che determinarono esiti molto cruenti, per quanto nessuna imbarcazione venisse perduta. Gli ottomani ebbero sulle prime il vantaggio di un vento favorevole e della possibilità di sfruttare opportunamente le correnti, che del resto ben conoscevano. Nel corso del luglio, la linea

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difensiva veneziana – pur rinforzata di 7 nuovi vascelli – sembrò tenere a fatica: il nemico, sia pur lentamente, stava guadagnando le acque secondo un’implacabile rotta da nord-est a sud-ovest, che impose ai combattimenti di spostarsi a sud della Morea. Abbiamo le cifre abbastanza esatte delle perdite veneziane dopo due mesi di combattimento: 2681 uomini su 13.000, cioè oltre il 20%. Non disponiamo delle cifre del campo ottomano, ma è probabile che la percentuale di sangue versato fosse almeno altrettanto alta, molto probabilmente – come accadeva di solito – ancora di più30. Le parti erano esauste. La guerra fatta di manovre e di bordate, cercando di sfruttar meglio del nemico venti e correnti, aveva sfinito i comandanti e le ciurme. È capriccioso il Mediterraneo a mezz’agosto, quando l’aria si annuvola e si raffredda di botto, e cominciano a soffiar di repente le gelide, traditrici bùccine della bufera. Ottomani e veneziani ne approfittarono entrambi per sganciarsi reciprocamente, guadagnare ripari di fortuna e darsi a racconciar le navi e a riempire i vuoti lasciati dalle perdite. Dopo la consueta sosta autunno-invernale il balletto dei vascelli, dei venti, delle correnti e delle bordate di cannone riprese tra primavera ed estate successive: sembravano ormai lontanissimi i tempi in cui, sulle galee rapide come uccelli marini e sottili come spade, si piombava vogando dritti sul nemico, lo si speronava, lo si affrontava all’arrembaggio spade e pistole in pugno. Solo un tempo assolutamente proibitivo riusciva a fermare o a ostacolare il volo delle vecchie regine del mare spinte dai remi. Ora, tutto era cambiato. Anche durante la ripresa dei combattimenti, tra 1717 e ’18, né gli ottomani riuscirono a guadagnare la costa occidentale della Morea, né i veneziani a forzar di nuovo i Dardanelli come avevano gloriosamente e ripetutamente fatto durante la guerra di Candia. La pace di Passarowitz sorprese le due marinerie in questa fase di stallo. Forse aspettavano ancora una volta l’afoso e capriccioso agosto, forse avevano ormai sentore che un nuovo trattato che avrebbe fatto tacer le armi era ormai prossimo e prendevano tempo. Era in terraferma che la situazione poteva essere sbloccata. E il salvatore fu, ancora una volta, il sabaudo Signore della Guerra. Eugenio di Savoia era stato nominato nel 1716 governatore dei Paesi Bassi austriaci: ma la sua gestione di quelle terre, portata avanti attraverso un luogotenente, aveva avuto esiti deludenti. I consiglieri spagnoli dell’imperatore brigavano contro di lui: come al solito, quella di corte era vita infida. Le amarezze e le delusioni si erano accumulate. Ma ora, ecco un’altra boccata d’aria fresca e pulita per

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i polmoni del Prinz Feldmarschall: ora bisognava combattere. Ora si trattava di mostrare quel che si valeva, senza trucchi cortigiani. Il 5 agosto il principe batté con una vittoria splendida il pur numericamente superiore esercito ottomano a Peterwardein31, in una battaglia destinata a restare una pietra miliare nella storia della guerra di tutti i tempi32: gli infedeli furono sbaragliati e il gran visir Damad Alì Pas¸a cadde in combattimento33. Lo scontro fu davvero sanguinoso non solo per gli ottomani, com’era successo a Zenta, bensì anche per gli imperiali che persero 4500 uomini, tra morti e feriti. Nella vicina località di Tekije sarebbe stato poi fondato un santuario dedicato alla Madonna della Neve, il giorno della solennità religiosa in cui la battaglia era stata combattuta. Eugenio procedette quindi contro la spina ottomana nel fianco dell’Ungheria, la fortezza di Temesvár, che cinta d’assedio capitolò verso la metà d’ottobre. Attestati sulla linea del Danubio, gli imperiali intrapresero nel novembre l’invasione della Valacchia, conquistarono Bucarest e catturarono il hospodar. Fu facile stipulare quindi un accordo con i reggenti interinali della regione, come con gli altri vicini principati cristiani vassalli della Porta: presìdi austriaci si impiantarono anche in Moldavia e in Bukovina. Fu durante questa campagna che secondo la tradizione un anonimo soldato compose il Prinz-Eugen-Lied, alto e rude elogio dell’Edelritter, il «nobile cavaliere» terrore dei turchi sui quali si abbatte come un furioso vento di tempesta. Esso avrebbe ricevuto definitiva forma letteraria e musicale nel secolo successivo, divenendo una delle canzoni militari più note e più care nell’esercito tedesco e anche fra la gente; ma le sue strofe finali erano divenute subito celebri ed erano volate di bocca in bocca per tutta la Germania: Prinz Eugen, der edle Ritter! Hei, das klang wie Ungewitter Weit in’s Türkenlager hin.

Non a caso la bevanda preferita del principe sabaudo – un calice per due terzi di vino rosso di Borgogna, per un terzo di champagne – si chiama ancor oggi, a ricordo delle sue vittorie, Türkenblut. Attenzione: questo non è puro folklore di guerra. Il rito della coppa di vino cerimonialmente presentata al signore che appena montato a cavallo si accinge a partire per un viaggio, per la guerra o per la caccia – il «bicchiere della staffa», appunto –, è una libagione sacra che

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rinvia al legame profondo tra viaggio, spedizione militare e battuta di caccia: in un certo senso tutte esperienze iniziatiche, simbolicamente collegate al viaggio verso un «Altro Mondo» che può essere il santuario lontano, il campo di battaglia, l’insidiosa foresta. Una mèta dalla quale si può non tornare. Durante le guerre balcaniche, la picca usata dalle fanterie imperiali era lo Schweinfeder, arma corta e robusta dotata di una larga e affilata lama «a foglia» alla base della quale c’era un’asticella di metallo che serviva da «arresto»: il che conferiva a questa tipica lancia, usata – come la parola suggerisce – soprattutto per la caccia al cinghiale, un non casuale aspetto cruciforme. A livello della funzione, l’asticella orizzontale impediva all’arma di penetrare troppo profondamente nel corpo della preda, il che avrebbe causato al cacciatore problemi sia d’equilibrio, sia di recupero, e avrebbe potuto consentire alla belva, pur mortalmente ferita e a costo di sentirsi il corpo trapassare dall’asta, di raggiungere il feritore e con le ultime disperate forze colpirlo a sua volta. A livello simbolico, la forma stauromorfa dell’arma era esorcistica e apotropaica. Il nemico, sia uomo sia belva, è in battaglia sempre un demone da sconfiggere: in quanto il combattimento è, nel mondo cristiano come in molti altri sistemi religiosi, anzitutto psychomachia, jihad al-akbar, guerra contro il male che è il vero nemico interiore, annidato dentro di noi. È quindi ovvio che i buoni fanti imperiali, andando in battaglia armati di Schweinfeder, fossero convinti che ciò era giusto in quanto stavano cacciando il Turco, «maiale selvatico»: ma la realtà intima delle cose non si arrestava a tale contumelia. Al contrario, il nemico combattuto con armi sacralmente significanti è sì un demone, ma anche un iniziatore, un fratello degno di rispetto34. È anche questo il senso della tradizione la quale voleva che le armi fossero benedette. Ma torniamo ai nostri campi balcanici. Dopo Temesvár e la Valacchia, l’altra vergogna per le armi cristiane in area balcanica era Belgrado, conquistata nel 1688 e perduta nel 1690. Ma per assalirla sarebbero state necessarie forze ingenti, che arrivarono solo quando i dinasti tedeschi si decisero a inviare i loro aiuti sotto forma di forze mercenarie: ben 11.000 uomini soltanto dalla Baviera e dalla Sassonia. Passato il Danubio a Višnjica il 18 giugno del 1717, Eugenio intraprese l’assedio della metropoli serba. Alla fine di quel mese, la città era circondata da una marea di soldati cristiani: 62 battaglioni di fanteria e 200 squadroni di cavalleria, per un totale di circa 70.000 uomini, con 100 pezzi di artiglieria da campo e un impressionante

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parco di bocche da fuoco pesanti da assedio che con un fittissimo bombardamento ridusse presto al silenzio le batterie ottomane. A parte l’artiglieria il quadro somigliava, con i ruoli invertiti, a quello viennese di trentaquattro anni prima: e non mancava nemmeno l’analogia delle truppe di soccorso agli assediati, che avanzavano veloci e che con una bella manovra avvolgente sembravano voler accerchiare gli assedianti. Le forze ottomane ascendevano a 150.000 uomini, cui andavano aggiunti i 24.000 che difendevano Belgrado. Inoltre, nel campo imperiale era come al solito scoppiata un’epidemia che seminava molte più vittime di quante non ne facessero le armi. L’armata ottomana di soccorso, guidata dal gran visir, arrivò dinanzi alla città il 28 luglio e accerchiò le truppe imperiali, che si trovarono così tra due fuochi. Sarebbe stata quella, trentaquattro anni dopo, la nemesi della giornata del Kahlenberg? Ma Belgrado non era Vienna: non c’erano né uno Jan Sobieski né un Carlo di Lorena tra i comandanti ottomani; e soprattutto Eugenio di Savoia non era Kara Mustafa. Gli infedeli commisero un errore che l’armata di soccorso a Vienna non aveva commesso, e il Savoia non solo non ripeté nessuna delle sciocchezze fatte dal gran visir nel 1683, ma dimostrò fino in fondo la sua genialità di stratega. L’esercito sopraggiunto, difatti, non osò attaccare immediatamente: ciò dette ad Eugenio il tempo di riorganizzare la sua compagine e di gettare sull’intero dispositivo della futura battaglia uno sguardo lucido. Le regole teoriche avrebbero prescritto che l’armata imperiale, ben attestata attorno alla città da conquistare, attendesse a piè fermo e da condizioni di terreno vantaggiose – quelle che erano mancate agli ottomani trentaquattro anni prima a Vienna – l’ondata nemica. Ma ciò avrebbe significato lasciare che fosse appunto il nemico a scegliere i tempi dello scontro: il che equivaleva a concedergli un vantaggio ulteriore, oltre a quello della superiorità numerica. Nella notte tra 14 e 15 agosto ebbe luogo un primo attacco ottomano, che fu respinto. Per rovesciare i rapporti di forza era necessario scompigliare il gioco e cogliere il nemico di sorpresa: ad esempio scatenando un contrattacco immediato, che esso non si aspettava, anche perché uscire allo scoperto in quelle condizioni era un’audacia ai limiti della follia. Ma appunto quello era il piano. Il 16 agosto, all’alba, il principe lanciò i suoi all’assalto: una manovra avventata, contro ogni regola teorica, e come tale gli sarebbe valsa più o meno un secolo dopo l’alto elogio di uno che di battaglie e di vittorie se ne intendeva, Napoleone: «Quel capitano geniale

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trasse la sua armata assediante fuori dalle sue munitissime posizioni e la condusse all’attacco contro l’esercito turco che sopravveniva a disimpegnare gli assediati»35. Alcuni strateghi da accademia sostenuti da qualche livoroso politico lo avrebbero più tardi accusato, paradossalmente, di aver vinto sì, ma con imprudenza e contro le regole: e gli avrebbero rimproverato la prevedibile sconfitta, dimenticando che invece aveva vinto. Prima che spuntasse il sole, Eugenio fece uscire dal campo sfruttando la nebbia mattutina gli squadroni di cavalleria comandati dal conte Ebergeny e li gettò contro lo schieramento dei giannizzeri, i quali contrattaccarono valorosamente respingendo in un primo tempo gli assalitori, che però tornarono alla carica sostenuti dai fanti sopraggiunti. Avanzavano intanto anche i bavaresi comandati dal La Colonnie: furono decimati da una possente batteria di 18 cannoni, che alla fine venne però travolta. Dopo ore di violento combattimento, verso le dieci del mattino la conquista della collina di Bajna36 decise la giornata: la cavalleria dei tartari e degli spahi fu dispersa e i turchi ripiegarono verso Niš. Eugenio, ferito in uno degli ultimi scontri, non poté inseguirli: ma la vittoria era stata completa. I turchi lasciavano sul campo 10.000 uomini, e altri 3000 caddero durante l’inseguimento delle truppe in rotta. Gli imperiali fecero 5000 prigionieri e catturarono 31 cannoni, 20 mortai, 52 bandiere. Dovettero comunque contare 1864 morti e 3282 feriti. Il 18 Belgrado capitolò37. Guerriero senza riposo38 Dopo la presa della metropoli di Serbia, la campagna continuò piuttosto disordinatamente. Fra l’autunno e l’inverno le truppe imperiali penetrarono abbastanza in profondità in territorio serbo, che risultò evacuato dal nemico. Si erano invece registrati durante l’estate dei rapidi raid di moldavi, di ungheresi ancora alleati degli ottomani e di tartari fra alta Ungheria e Moldavia: ma si trattava di iniziative sparse, azioni di disturbo o razzie per procurarsi cibo. La Porta si era dichiarata disposta a intavolare trattative di pace fin dal settembre del 1717. La caduta di Temesvár e soprattutto quella di Belgrado avevano avuto senza dubbio una vasta e desolata eco nei padiglioni del Gran Signore: ma c’era dell’altro. Approfittando anche dell’interesse suscitato dalla nuova «guerra turca», che impe-

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diva di guardar altrove, il cardinal Giulio Alberoni – primo ministro di Filippo V di Spagna – aveva scatenato una guerra con lo scopo di recuperare i territori italici che il regno di Spagna aveva perduto nel passaggio dagli Asburgo ai Borboni. Sul Corno d’Oro si era molto interessati a questa forma di deciso revisionismo nei confronti del trattato di Rastadt, che creava una nuova difficoltà all’imperatore: e si sperava che l’urgenza da parte di questi di occuparsi appieno delle cose italiche lo rendesse più malleabile e desideroso di concludere la pace rispetto a quelle balcaniche. Nel maggio del 1718 i rappresentanti dell’impero, di Venezia e del sultanato s’incontrarono a Passarowitz, a sud-ovest di Belgrado. La pace venne firmata il 21 luglio successivo, sostanzialmente sulla base dell’uti possidetis. La Porta rientrava in possesso della Morea39 e di vaste zone della Serbia, ma perdeva Belgrado, la Valacchia e il banato di Temesvár. Gli ottomani non accedettero alla richiesta di siglare una «pace perpetua», di per sé contraria al diritto coranico: ma accettarono che il trattato fosse valido per la durata di tutto il regno del sultano in quel momento sul trono40. Era un momento di riequilìbrio, di stabilizzazione, che preludeva a nuovi successi dell’impero sultaniale contro la Russia e la Persia, ma che non avrebbe mutato la linea storica lungo la quale si mosse il XVIII secolo e che conduceva al progressivo affermarsi dell’Austria felix nonché della stessa Russia czarista e al lento ma progressivo, inarrestabile e irreversibile declino della Porta41. Come pure della Polonia, nonostante l’unione con la Sassonia le avesse sulle prime aperto un’allettante prospettiva di egemonia centro-europea; e naturalmente di Venezia, il cui primato su quell’Adriatico che pur essa definiva orgogliosamente il «suo golfo» non venne neppure nominato nelle trattative austro-ottomane, che stabilivano per la prima volta rapporti commerciali espliciti e diretti42. L’anno dopo, Trieste e Fiume «ottennero lo status di porto franco e in breve tempo divennero gli entrepôts marittimi dell’impero austriaco, ponendosi in diretta concorrenza con Venezia per il predominio nel commercio dell’Adriatico»43. Quanto alla Francia, scomparso il Re Sole essa si stava adattando a una lenta eclisse per quanto restasse nel novero delle grandi potenze europee al quale si sarebbe aggiunta, di lì a poco, la Prussia. Dopo la pace di Passarowitz, i confini della Slavonia furono riorganizzati mentre la difesa della Serbia venne assicurata da una milizia di 2300 uomini. Si era infine consolidato un confine meridionale che avrebbe nelle sue linee di fondo retto per due secoli.

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Eppure i giochi non erano ancora fatti. La Porta aveva ben compreso come nello scacchiere adriatico-balcanico le potenze cristiane in gara non sarebbero state in grado di evitare di scontrarsi: si sarebbe potuto ottenere molto sfruttando le rivalità incrociate degli austriaci, dei russi e dei veneziani. La situazione di Venezia era molto particolare. Paradossalmente, la sfortunata guerra di Candia si era conclusa con una sua forte superiorità mentre la vittoriosa guerra di Morea terminò in una situazione di stallo. Con mezzi e una tattica tendenzialmente difensivi le maggiori capacità navali veneziane non riuscirono a tradursi in un successo decisivo. D’altro canto l’impero ottomano non aveva le disponibilità umane e tecnologiche per raggiungere anche con le navi la superiorità numerica spesso goduta con le galee e che sola avrebbe potuto rompere a suo favore l’equilibrio. I reciproci limiti furono confermati nella seconda guerra di Morea, nella quale l’esercito sultaniale riconquistò il Peloponneso solo per le grandi difficoltà in cui si dibatté l’armata «grossa» veneziana, trascurata negli anni precedenti e impegnata in una complessa riorganizzazione. Infatti appena essa fu ridefinita la situazione tornò in equilibrio: gli ottomani non riuscirono a conquistare Corfù e nel 1717, ripresa l’iniziativa per l’ultima volta nella propria storia, il leone di San Marco ruggì ancora ai Dardanelli. L’offensiva non ebbe però maggior successo di quella ottomana, e i vascelli della Serenissima furono presto obbligati a proteggere lo Ionio. Dopo essere stata negli anni tra Sei e Settecento il principale strumento del sogno del dominio di Venezia, l’armata «grossa» trovò il proprio ruolo su un piano difensivo, fornendo nei decenni successivi lo scudo avanzato a quel che rimaneva del dominio marittimo. Se il XVI secolo aveva visto il predominio navale ottomano fondato su grandi flotte di galee e il XVII quello di Venezia, che aveva saputo riprendere il sopravvento con squadre miste di navi a vela e unità a remi, nel XVIII secolo le due potenze, con le loro grandi e costose squadre di vascelli, restarono in una posizione di stallo. Fu proprio questo equilibrio una delle principali ragioni dell’estinguersi dei conflitti fra la repubblica di Venezia e l’impero ottomano dopo il 1718. La Serenissima era riuscita a dotarsi di una moderna flotta da battaglia, esempio unico tra gli stati dell’Italia preunitaria; lo sviluppo di essa le assegnò un nuovo ruolo nella bilancia generale del potere marittimo, ponendola alle spalle d’Inghilterra, Francia e Olanda. Addirittura, dopo la crisi della marina francese seguita alla guerra di successione spagnola, nel 1718, l’armata «grossa» si trovò ad essere

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la più forte squadra da guerra tra quelle mediterranee e si permise di occupare, sebbene momentaneamente, il terzo posto assoluto44. Intanto, la Russia guardava con interesse al confine caucasico: e questo non poteva non portarla allo scontro con un altro avversario storico del sultano, lo shah di Persia. I russi saggiarono l’area caucasica già nel 1722-23, con una spedizione che accese gli animi degli armeni delle regioni montuose del Gharabagh e del Siwnik’ e li incitò alla rivolta sotto la guida di Dawit’ Bek. I superstiti di quell’avventura, crudelmente repressa, trovarono rifugio nel territorio della Serenissima45. Fra 1725 e 1727 un tentativo di accordo militare e diplomatico tra Russia e Turchia condusse quasi all’assoggettamento turco della Transcaucasia, per quanto i persiani riuscissero, tre anni dopo, a vanificare questo tentativo. Frattanto, il mondo ottomano si apriva progressivamente a quello occidentale: ne sono prova le numerose ambascerie, da quella che fece epoca di Mehmed Çelebi Efendi nella Parigi della Reggenza46 in poi, e addirittura le rappresentanze permanenti a Vienna a partire dal 1719, a Mosca dal ’22, a Varsavia dal ’30. Ormai, la Porta era così entrata definitivamente nel gioco diplomatico delle potenze europee. Eppure veniva ancora considerata un corpo estraneo e un rischio per l’Europa. Era per questo che il cardinale Alberoni poteva redigere un Progetto per ridurre l’impero turchesco all’obbedienza dei prencipi cristiani e per dividere tra di essi la conquista del medesimo, insieme con un progetto di una dieta perpetua per mantenere la pubblica tranquillità. Lo scritto alberoniano – che in un certo senso si poneva nel solco della trattatistica «crociata», ma per un altro precorreva di oltre un secolo quelle che sarebbero state le prospettive delle potenze europee dell’Ottocento, riunite attorno all’«uomo malato» – si riallacciava a tesi già emerse in pieno Quattrocento, specie durante il congresso di Mantova organizzato nel 145960 per volontà di Pio II, e si proiettava ben oltre, fin quasi a lambire attraverso i trattati di Westfalia – e forse soprattutto di Nimega – il grandioso utopismo del leibniziano Consilium Egyptiacum nonché ad anticipare i disegni kantiani di pace universale: la lotta comune contro «la tirannia, e schiavitù degli infedeli», la scomparsa dell’impero sultaniale, la spartizione dei suoi territori tra le potenze europee allora ancor qualificabili come «cristiane», apparivano come garanzia per la fondazione di un futuro, stabile equilibrio internazionale47. Temi ch’erano già stati proposti con sempre maggior frequenza proprio nella seconda metà del Seicento e che avevano come capisaldi la con-

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statazione dell’urgenza della pace inter christianos quale presupposto della sicurezza politica e della prosperità economica: ma al tempo stesso conseguenza di trattati e di controlli reciproci fra le potenze, nei quali la comune necessità di tenere a bada il Turco era assunta a costante giustificazione. In questo senso si era già mosso, sulla scia di Bacone e di Hobbes, Charles Castel abate di Saint-Pierre – fermo oppositore della politica aggressiva del Re Sole – con un «progetto» di pace universale che aveva provocato larga eco; e idee non prive di originalità, insieme con una buona dose di generoso utopismo, si erano del resto riscontrate fin dal secondo Cinquecento in un poco noto trattatello pubblicato nel 1572 dal pistoiese Cosimo Filiarchi48. Si stava così compiendo la parabola, certo non priva di contraddizioni, che dall’idea di crociata avrebbe condotto al diritto internazionale49. Cominciava intanto però anche una nuova fase nella storia dell’impero ottomano e dei paesi ad esso soggetti: in un certo senso, di tutto l’Islam. Quella della lenta, graduale e da più parti osteggiata eppure a sua volta non irreversibile apertura all’Occidente, che implicava l’abbandono, sulle prime implicito e inconscio, dell’idea di superiorità assoluta di quella musulmana sulle altre culture. Nel 1730, a Istanbul, un’ennesima rivolta – quella di Patrona Khalîl, avviata dai soliti giannizzeri irritati alla vigilia di un’altra campagna contro la Persia per il ritardo delle paghe – rovesciò Mehmed III e portò sul trono d’Istanbul il sultano Mahmud I50: che naturalmente, per tutta la durata del suo regno, pagò puntualmente le sue truppe. Ma egli non limitò a ciò le sue riforme militari: condusse una sistematica politica di difesa dei confini dell’impero, costruì fortezze, impiantò guarnigioni permanenti di vigilanza. Appunto impegnandosi in quest’opera di profonda ridefinizione del suo potere e della società che egli governava, compì esplicitamente un passo avanti su una via che già alcuni suoi predecessori avevano più o meno timidamente saggiato e che – mutatis mutandis, dal momento che al riguardo la cultura musulmana costituiva una complicazione in più – era per molti versi alquanto simile alla scelta compiuta, oltre una generazione prima, da Pietro il Grande per la Russia. I suoi obiettivi, e quindi le sue necessità, passavano attraverso l’accoglienza delle tecniche occidentali. Quel che forse non era ancora chiaro nel mondo musulmano era che la tecnica non era un puro fatto materiale, bensì l’epifenomeno di una profonda realtà culturale, morale e spirituale. In cerca del nuovo che veniva dal paese dei giaurri, dal quale erano del resto già pervenute tante cose che l’impero sultaniale ave-

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va accettato e che riguardavano soprattutto il mondo della guerra, Mahmud si affidò alla competenza e alla genialità del signor di Bonneval, cioè di «Ahmed Bonneval Pas¸a». Si tratta del nobile francese conte Claude-Alexandre de Bonneval, che meriterebbe molto di più di un cenno, e sul quale del resto molto è stato scritto. Nato nel 1675, proveniente da una grande famiglia e imparentato col Fénelon, il conte era colonnello dell’esercito francese; disertò nel 1706 (i francesi lo condannarono a morte) per passare dalla parte degli imperiali, dove ottenne il grado di tenente generale; per un certo tempo fu collaboratore di Eugenio di Savoia – e in giro si mormorava che fosse ben più che suo amico51 – finché si pose in contrasto anche con lui. Accusato di alto tradimento e internato allo Spielberg, ne era fuggito; ormai disgustato dalla società cristiana aveva trovato riparo a Istanbul dove fu messo a capo dell’esercito del sultano e divenne protagonista delle riforme militari del sultano Mahmud I, non senza riavvicinarsi alla sua patria d’origine grazie all’amicizia con l’ambasciatore di Luigi XV a Istanbul, il marchese di Villeneuve52. Nel 1734 il Bonneval fondò in Istanbul una scuola d’ingegneria destinata a formare dei tecnici moderni esperti in balistica d’origine locale, cosa che avrebbe consentito al sultano di farla finita una volta per tutte con la necessità di ricorrere agli stranieri e ai rinnegati occidentali. Cinque anni prima, nel 1729, una tipografia installata nella capitale aveva prodotto il primo libro a stampa in lingua turca. Il seme era gettato, per quanto i tempi non fossero ancora maturi: difatti né la scuola d’artiglieria né la tipografia resisterono a lungo alla reazione tradizionalista che in un primo tempo si limitò a imporre che non venisse stampato il Corano – quindi il lavoro editoriale avrebbe dovuto limitarsi a testi profani – e poi riuscì a imporre la chiusura di entrambe le innovatrici istituzioni. Il Bonneval s’impegnò anche nel campo delle riforme militari, che avrebbero dovuto svecchiare l’armata ottomana e renderla più adatta a confrontarsi con quelle occidentali: ma anche lì si urtò con l’ostilità dei conservatori e con la resistenza dei potenti giannizzeri. Grazie all’amicizia tra lui e l’ambasciatore Villeneuve, i rapporti diplomatici e militari turco-francesi si svilupparono comunque notevolmente53. È rimasta celebre anche un’altra amicizia del Bonneval, quella col Casanova, che quest’ultimo ha richiamato in una divertente pagina dei suoi Mémoires. Ma ormai nel cielo della sontuosa Istanbul stava tramontando la Lâle devri, «l’età dei tulipani»: si respirava già il tempo dei successivi, affannosi conati di rinnovamento, per i quali sarebbe stato

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necessario un periodo di pace. Quella «perpetua», firmata nel 1733, aveva appunto tale senso54. Non bisogna precipitarsi a parlare di «decadenza» dell’impero ottomano: ciò può apparire ovvio a noi che guardiamo le cose a posteriori e le consideriamo nella media o addirittura nella lunga durata, ma non era poi troppo chiaro all’epoca. Anzi, non lo era per nulla. Nella successiva guerra del 1736-39 contro una coalizione austro-russa la Porta riguadagnò quasi tutto quel che aveva perduto a Passarowitz recuperando Belgrado, Azov55, la Crimea, la Bessarabia e la Moldavia; e più tardi la pace di Jassy stabiliva il Dnestr come frontiera tra l’impero sultaniale e quello czarista. Frattanto si era compiuta la parabola delle forze e della fortuna del principe Eugenio. Dopo Passarowitz, le accuse piovutegli addosso a causa della sua atipica gestione della campagna di Belgrado lo avevano profondamente amareggiato. L’ultima occasione che egli seppe felicemente cogliere al volo fu quella che, grazie alla sua mediazione, portò all’alleanza austro-russa del 1726 e a quella angloaustriaca del 1731. Tutto parve precipitare comunque con la crisi della guerra di successione polacca del 1733, allorché l’Austria non seppe evitare l’isolamento. Il vecchio soldato tornò a combattere sulla linea del Reno, contrastando efficacemente il nemico: ma quest’ultima campagna fiaccò definitivamente la sua già provata fibra. Suo estremo conforto fu la visita nella Pasqua del ’35 al suo prediletto castello di Schlosshof nella bassa Austria, dove l’architetto Lukas von Hildebrandt aveva creato per lui un bellissimo giardino: fu suo ospite in quell’occasione il giovane duca Francesco Stefano di Lorena. L’Edelritter si spense a Vienna, rientrato dal campo della guerra di successione polacca, nella notte del 21 aprile 1736. Eugenio fu uno dei più grandi strateghi dell’Europa moderna; ma quel che appare più affascinante è la sua personalità di militare e di raffinato uomo di cultura. Fu senza dubbio «soldato», nel senso che – lontano, ma (attenzione) non avulso dal suo vecchio etimo – gli aveva conferito Brantôme nel Rosaire de guerre, riscattandolo dal suo primitivo significato puramente mercenariale e celebrando ce beau nom de soldat. La sua vocazione militare era profondamente connessa a uno spirito cavalleresco che si avrebbe torto a considerare riduttivamente come «revivalistico». La cavalleria, la «gran bontà de’ cavallieri antiqui», non era soltanto sopravvissuta al medioevo, come troppo spesso con leggerezza si sostiene: essa alimentava stili di vita, scelte culturali, atteggiamenti mentali ed esperienze spiritua-

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li che attraversano come un forte e intenso fil rouge la storia delle aristocrazie europee tra XII e XVIII secolo, non senza riverberarsi potentemente nei due secoli successivi. Chissà se Eugenio conosceva il ritornello d’una vecchia canzone di guerra riferita nei Discours politiques et militaires di François de la Noue, del 1587: La guerre est ma patrie, mon harnois ma maison, et en toute saison combattre c’est ma vie56.

Certo egli avrebbe potuto intonarla, insieme con tanti cavalieri-mercenari che, tra Cinque e primo Settecento, erano accorsi a combattere il Turco ponendosi al servizio dell’imperatore o della repubblica di Venezia; o avevano guerreggiato contro i barbareschi compiendo il loro tirocinio cavalleresco e marinaro sotto le insegne di Malta e di Santo Stefano. La fede cristiana e l’entusiasmo crociato erano complementari, non estranei né tanto meno opposti, a questa vocazione militare, a questa passione per la guerra. Se il povero ragazzo incontrato sull’arido altipiano iberico dall’Ingenioso Hidalgo poteva candidamente confessare – cantando a sua volta una canzone militare – che era la povertà a trascinarlo alla guerra, ma che se avesse avuto dei soldi di cui disporre non ci sarebbe andato davvero, il principe Eugenio – non diversamente dal duca di Mercoeur o dal conte di Coligny – gli avrebbe risposto che i soldi non bastano mai, e che proprio per quelli si va alla guerra, e che se pochi quattrini sono sufficienti a sopravvivere ci vogliono invece somme immense per arruolare reggimenti e per costruire palazzi, cose degne dell’honnête homme; ma san Luigi non ragionava in termini poi troppo diversi. Al di là di ciò, resta vero che il bellum dulce inexpertis richiamato da Erasmo era valido soprattutto per i poveri; e che per i nobili signori la guerra rimaneva quella giovane e fresca, sangue e rose di primavera, a suo tempo cantata da Bertran de Born. Pecunia nervus belli. Non solo perché per sostenere le guerre ci vogliono soldi, ma anche perché si va in guerra appunto anche per farne altri, e tanti: e, con essi, realizzare i sogni della propria vita. In quanto gran principe del suo tempo, la prima passione di Eugenio di Savoia – quasi una vocazione – si espresse nell’edificare, nel costruire, nel lasciar tangibile segno di sé nelle pietre e nei marmi: ed era stata la guerra a potergliene fornire i mezzi. Un nobilissimo signo-

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re austriaco di una generazione precedente la sua, il principe Karl Eusebius von Liechtenstein57, aveva scritto: «La ricchezza è soltanto lasciare dietro di sé bei monumenti come memoria eterna e immortale»58. Eugenio tradusse perfettamente in atto questa sentenza. I suoi palazzi viennesi – i due Belvedere, il Palazzo d’Inverno, il Marchfeld – sono tra i migliori esempi del «barocco imperiale» austriaco. La sua biblioteca, ricca di 15.000 volumi59, spaziava dalla teologia al diritto alla letteratura alle scienze naturali. Era un uomo intellettualmente libero e curioso: nel suo palazzo della Himmelpfortgasse aveva ospitato nel 1712 Gottfried Wilhelm Leibniz, il quale stimava che nessun uomo al mondo fosse migliore di lui nel difendere la causa della scienza e che gli dedicò Les principes de la Nature et de la Grâce e la Monadologie60; protesse il Rousseau e il Giannone, e i suoi gusti filosofici e morali tendevano con chiarezza, per quanto con moderazione, al deismo e alla tolleranza religiosa. Nella galleria ideale dei grandi europei, gli spetta senza dubbio un posto di primo piano. «Egli meritò bene l’epiteto di ‘Atlante’ della potenza asburgica che gli fu dato dal grande Federico di Prussia»61.

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Caffè, tulipani e «Wunderkammern» Che cosa ci fa mai Ferdinando II de’ Medici, granduca di Toscana succeduto al padre Cosimo II nel 1621, travestito da sultano? Eppure è abbigliato proprio così, con tanto di ampio turbante candido adorno di un ricco gioiello e di kaftan vermiglio: e il suo sguardo sereno, un po’ ironico, ci segue dal quadro della Galleria Palatina di Firenze dovuto all’illustre pennello di Giusto Sustermans che in tale acconciatura lo ritrae1. Il suo governo «fu punteggiato di imprese militari tutte tese ad arginare la potenza turca»2: che senso ha quindi questa sorta di gioco di specchi, questa tentazione di «immedesimarsi nell’avversario, visto come una sorta di alter ego culturale verso il quale si provava una profonda curiosità e non poco rispetto»?3 Può sembrare una pura curiosità, un gioco di corte, una mascherata carnevalesca, un divertissement. Siamo invece di fronte a una delle prime testimonianze dell’ormai già radicato e maturo atteggiamento orientalistico, uno dei connotati più forti e profondi dell’identità culturale dell’Occidente. Se i cristiani potevano ben essere, ed erano di fatto molto spesso e accanitamente, adversarii e inimici tra loro, vale a dire rivali e opposti che pur si riconoscevano reciprocamente un’intrinsecità, uno solo era l’hostis, il nemico pubblico, non a caso associato sovente all’autentico Nemico, all’Avversario del genere umano, a Satana. Quel nemico era l’«infedele», che nel mondo epico medievale era definito sovente col termine – desunto dall’antichità e dall’epica – di «pagano», mentre la cultura umanistica l’aveva ovviamente associato al concetto di «barbaro» e infine, a partire dal Quattrocento, si era concretizzato in un etnonimo carico di minaccia e di paura. Il «Turco»4. Nella misura in cui era l’«Altro» per eccellenza, il Turco doveva essere il rovescio, il contrario speculare del buon cristiano. Ancora alla fine del Seicento, in un’opera data alle stampe proprio tre anni dopo l’epopea di Vienna, l’anno stesso della riconquista cristiana di

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Buda, l’abate Giovanni Battista De Burgo, che era stato schiavo del «barbaro tripolino», dava sfogo al suo risentimento forse, ma senza dubbio alla sua antipatia, redigendo in un suo resoconto intitolato Viaggio di cinque anni in Asia, Africa, & Europa un lungo elenco di forme, appunto, di «antipatie» – nel senso rigorosamente etimologico del termine – fra «cristiani» e «turchi»: modi opposti di sentire, di comportarsi, di guardare al mondo e alla vita, che da soli bastavano a spiegare al di là delle stesse fedi religiose – con le quali erano del resto profondamente connessi – la lunga inimicizia e lo stato di guerra continuo. Il cristiano porta un cappello che si toglie in segno di deferenza e il turco invece copre sempre la testa con un turbante; il cristiano porta i capelli lunghi e il turco se li rade; il cristiano al contrario si taglia sovente la barba, il turco mai; le donne cristiane incedono scoperte, le turche completamente tappate5; i cristiani si cambiano spesso la biancheria, ma non amano il contatto con l’acqua che ritengono malsano, mentre i turchi prediligono bagni frequenti; i cristiani mangiano carne arrostita o bollita, i turchi bollita o stufata6. Naturalmente, l’amore per il gioco della contrapposizione portava il De Burgo a esagerare: eppure, la descrizione di quello «turco» come una specie di mondo alla rovescia costituiva una chiave interpretativa potentissima, capace di diffondere stereotipi durevoli l’onda dei quali è forse giunta fino a lambire i nostri giorni. Il segno del cambiamento epocale sarebbe giunto allorché si fosse trovato qualcosa che piacesse a entrambi, un ponte che li unisse. Lo si trovò proprio negli anni a cavallo tra XVII e XVIII secolo, quando al lungo elenco delle «antipatie» si poté finalmente contrapporre definitivamente una «simpatia» destinata sul serio a durare. Il Turco era ancora, nella prima metà del Settecento, lungi dall’esser debellato. Ma ormai tra l’Europa cristiana e la Porta, dopo oltre tre secoli di combattimenti che in prospettiva potevano sembrare continui – per quanto si fossero in realtà accompagnati e alternati, come si è visto, a costanti rapporti economici e commerciali, a più o meno lunghe fasi di tregua e a complessi giochi diplomatici –, si era stabilito un solido e durevole equilibrio che, insieme con una lunga familiarità, finiva col somigliar parecchio al senso di consuetudine e alla simpatia, se non proprio all’amicizia. E per gli europei quella familiarità, quella simpatia, erano profumate del fumo caldo e dell’aspro aroma di una nera bevanda ormai di gran moda. I primi segni d’un contatto tra gli occidentali e il caffè sono per la verità molto anteriori a questo periodo. Fu, a quel che pare, il medi-

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co tedesco Leonhard Rauwolf a darne una prima descrizione, in un viaggio in Oriente compiuto tra 1573 e 1575. Nel 1612 il bailo veneziano Simone Contarini trattava a lungo delle «stanze pubbliche» per la mescita del caffè in Istanbul, i kahvehane, che peraltro – di origine egiziana – nella capitale del sultano esistevano fin dal 1554557. Esso è poi più volte ricordato dal viaggiatore romano Pietro della Valle. Sacchi di caffè erano giunti già a Venezia nel 1624, e il De Burgo scrive nel suo diario edito nel 1686 che vi erano già «case di caffè» a Livorno, a Parigi e a Londra. Il caffè e gli utensili atti a prepararlo, a servirlo e a consumarlo – comprese le fingian, le tazze – erano già presenti a Marsiglia fino dal 16448. A Parigi, il celebre Procope (cioè il siciliano Francesco Procopio) aprì una bottega di caffè appunto nel fatidico anno della liberazione di Buda, il 1686, ed era stato preceduto da un altro, l’armeno Pascal, che ne aveva inaugurata una nel 1672-73; ma, già da prima, la celebre visita dell’ambasciatore ottomano Süleyman Ag˘a nel 1669 aveva fatto divenire la nera bevanda di gran moda nella capitale francese. Il conte Luigi Ferdinando Marsili, assegnato come prigioniero degli ottomani a un servizio di cucina proprio sotto le mura della città assediata, dovette «per molti giorni in una fumigata tenda esercitare l’arte del cuoco del cavè», cosa che del resto gli salvò la vita e lo indusse a dedicare alla «bevanda asiatica» un divertente piccolo trattato9. Le origini del caffè viennese, come luogo di ritrovo e come bevanda, sono avvolte nella leggenda: e in certe rivendicazioni di «primogenitura» si coglie un’indubbia volontà di gareggiare con Parigi. Sembra probabile che la moda di gustarlo in un luogo a ciò deputato risalga nella capitale austriaca al 1665, anno di intenso scambio di ambascerie diplomatiche tra Vienna e Istanbul immediatamente dopo la pace di Vasvár e in particolare della visita diplomatica di Kara Mehmed Pas¸a nella capitale asburgica; e che si sia trattato dunque di importazione nella capitale austriaca di un uso turco10. Si dice che ne furono protagonisti due immigrati levantini, armeni ma forse con ascendenti ebreo-italiani, Giovanni Diodato e Isacco de Luca. Ma la gloria di aver «inventato» il caffè viennese finì per venir attribuita, dopo l’assedio, al polacco-galiziano Jerzy Franciszek Kulczycki, le cui doti di poliglotta lo avevano condotto a ottenere l’ufficio d’interprete presso lo Hofkriegsrat e che si era guadagnato una notevole fama durante l’assedio come esperto esploratore, in grado di attraversare le linee ottomane recando messaggi e dispacci11. Dopo la fine dell’assedio, egli riuscì a diffondere alcuni rapporti elogiativi sul suo conto,

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dei quali egli stesso era l’autore, e che ebbero grande successo nel clima di entusiasmo che aveva invaso tutta l’Europa all’indomani della notizia della liberazione di Vienna12. Pare che egli fosse riuscito a farsi riconoscere anche come corriere imperiale al servizio del sultano: in quanto tale si sarebbe impadronito di alcuni sacchi di caffè abbandonati nell’accampamento ottomano e ritenuti erroneamente foraggio per cammelli; con essi, dal momento che conosceva il segreto della torrefazione, avrebbe aperto nell’autunno del 1683 il primo esercizio viennese di vendita della nera bevanda. In segno di riconoscenza, la città gli offrì quel che restava di una casa incendiata che era stata abitata dagli ebrei prima della loro cacciata nel 1670, nel quartiere di Leopoldstadt: l’edificio valeva 400 fiorini e il suo nuovo proprietario fu dichiarato esente da qualunque tipo di tassa o d’imposta. Tutta questa storia è in gran parte priva di fondamento: ma si continua a ripeterla anche dopo che ne è stato ampiamente dimostrato il carattere leggendario13. Quel che si sa di sicuro è che alcune botteghe di mescita di caffè furono aperte, subito dopo l’assedio, da greci e serbi. Fu solo nel 1694, dopo la morte del Kulczycki di tubercolosi, in totale miseria, che si scoprì che egli non aveva mai ricevuto alcuna licenza di esercizio. Era stato al Diodato e al de Luca che nel 1685 la Hofkammer aveva accordato il diritto di «preparare sotto forma di caffè la bevanda turca». Un po’ più tardi, giunse a Vienna un caffettiere che si faceva chiamare Karl-Eugen Leopoldstätter, ma che in realtà era un turco, conosciuto col nome di Mehmed Efendi. Comunque, alla fine del Seicento il consumo del caffè era ormai ben radicato in Europa. Si può tuttavia assegnare forse con qualche sicurezza ai viennesi la primogenitura di una svolta importante nella sua preparazione e nel suo adattamento al gusto europeo. Il suo sapore amaro e aromatico – dovuto al fatto che i musulmani si guardavano dall’indolcirlo: e lo insaporivano invece aggiungendovi del cardamomo – fu «corretto», per renderlo più gradito ai palati occidentali, con l’aggiunta di latte e di miele: una cosa che i turchi definivano, scandalizzati, «metter le orecchie d’asino» all’aspra e corroborante bevanda che, così condita, tendeva ad assumere un colore bruno, come il saio dell’eroico fra Marco d’Aviano. Un altro po’ di latte, magari montato a schiuma, e si sarebbe difatti arrivati al «cappuccino». Insieme con il caffè, la leggenda sostiene che un qualche intraprendente introducesse nei nostri usi mattutini il panino dolce a forma di mezzaluna, il Kipfel (dall’arabo hillal, parola con la quale

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s’indica appunto la falce di luna crescente)14: ma è più probabile semmai che i viennesi si siano ispirati alla pasticceria ottomana per i Hörnchen, i pasticcini che nel mondo musulmano si chiamano «corni di gazzella». Sta di fatto che in molte regioni d’Italia il dolcetto che in Francia si denomina croissant viene indicato col nome (d’origine turco-viennese anch’esso?) di «cornetto». In seguito all’assedio entrarono nell’uso occidentale gli strumenti a percussione usati nelle marce militari alla turca, i tulipani, i lilla, l’ippocastano e in genere una quantità di nuove turqueries. La fortuna del tulipano ha una storia tutta a sé nei rapporti tra mondo ottomano e Occidente: il fiore, chiamato lâle, scritto in caratteri arabi contiene le stesse lettere della parola Allah, il che ha dato vita a infinite splendide variazioni calligrafico-pittografiche. Coltivato con straordinario amore da Ispahan a Baghdad, il «Fiore di Dio» conobbe un’enorme fortuna fin dai tempi di Solimano il Magnifico. Gli occidentali non mancarono da parte loro di notare quanto il tulipano ricordasse – e non per caso – le silhouettes dei grandi dignitari dell’impero sultaniale: la parola «tulipano», con molte varianti affermata in Occidente, deriva dal termine turco che indica il turbante, dulbend15. Molti erano gli oggetti e le suppellettili provenienti dall’impero sultaniale e amati dagli occidentali: come le armi – che gli europei apprezzavano quali pezzi da collezione; ma che nell’Europa orientale e meridionale, dalla Polonia alla Croazia, erano invece usate sistematicamente anche in guerra – e soprattutto gli stessi tappeti, usati anche come coperte e come copritavola, che avevano avuto grande successo almeno fin dal Tre-Quattrocento, come testimonia la pittura. Un notevole successo riscossero anche i bracieri turchi di ottone o di rame, così come i tavolinetti di metallo dorato o di legno profumato intarsiati d’avorio, di madreperla e d’argento che erano considerati indispensabili per gustare il caffè o i dolci orientali. In questo come in altri campi, i gusti occidentali non venivano affatto ricambiati. Fino dal Cinquecento a Istanbul avevano sì fatto la loro comparsa alcuni pesanti tavoli da pranzo all’occidentale, ma erano stati salutati con unanime e perfino superstiziosa disapprovazione: come si poteva mai mangiare – ci si domandava – su quelle lugubri placche di legno scuro, che ricordavano tanto da vicino le piattaforme usate nel mondo musulmano per lavare i morti? Se agli ottomani quel che interessava di più della produzione occidentale erano gli oggetti che costituissero una novità tecnologica,

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come gli orologi, negli europei la passione estetica per le cose che provenivano dall’Oriente si andava dal canto suo incontrando o fondendo con un sentimento che non consisteva – come invece accadeva nel mondo musulmano coevo – in una coscienza di superiorità culturale e intellettuale, bensì in una crescente e orgogliosa consapevolezza d’irreversibile vantaggio sul piano della forza militare. Le prime grandi collezioni di reperti ottomani, le Türkenkammern, nacquero come sviluppo e variante delle Wunderkammern, le collezioni di mirabilia frutto tanto dell’ingegno dell’uomo quanto della capricciosa inesauribile fantasia della natura e che erano tutto sommato i risultati rinascimentali di un genere collezionistico preciso, quello delle reliquie, che con l’umanesimo e la Riforma si era andato «laicizzando», e dove le «anticaglie» da una parte, i monstra e i portenta dall’altra, avevano gradualmente preso il posto dei pignora sanctorum. Ma al di là del traffico, magari simoniaco, alle collezioni principesche di reliquie e a quelle di mirabilia naturalia vel artificialia avevano provveduto, congiunte, curiosità, cultura e volontà di meravigliare ospiti e sudditi. Nel caso dei prodigi provenienti dal mondo ottomano erano presenti anche la volontà di sottolineare l’ampiezza di orizzonti attraverso il viaggio, l’importanza delle relazioni attraverso lo scambio diplomatico dei doni, ma forse soprattutto e anzitutto il desiderio di mostrare la preda guerriera, la conquista. Era stato così che nel 1556 Ferdinando arciduca del Tirolo, figlio dell’imperatore Ferdinando I, aveva approfittato della campagna militare d’Ungheria di quello stesso anno per impadronirsi di quanto gli ottomani fuggiaschi avevano dovuto abbandonare: quei reperti di guerra erano poi stati riuniti nel castello tirolese di Ambras, presso Innsbruck, per dar vita al primo «gabinetto turco». L’esempio era stato seguito: dalla collezione nel castello sloveno di Vurberk riunita dalla famiglia dei von Herberstein fino a quella raccolta nella prima metà del Seicento da Ludwig von Kuefstein, ambasciatore imperiale a Istanbul, nel castello di Greillenstein in bassa Austria, senza dimenticare ovviamente gli oggetti ottomani assemblati in quella che era forse la più famosa delle Wunderkammern, organizzata dall’imperatore Rodolfo II a Praga, e ancora nella Türkische Kammer del principe elettore di Sassonia a Dresda16. I granduchi di Toscana non vollero essere da meno in questa gara all’opulenta stranezza. Gli oggetti di queste collezioni e di tante altre meno importanti circolavano a vario titolo: bottini di guerra, senza dubbio, o semplici acquisti, ma anche frutti di quel rapporto diplomatico che si fonda-

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va, e non solo formalmente, sul rito dello scambio dei doni; insieme con queste due forme di scambio, senza dubbio asimmetrico (e il grande scambio asimmetrico costituisce un aspetto fondamentale del rapporto tra Europa e resto del mondo a partire appunto dal XVI secolo), il fatto che l’impero asburgico fosse in guerra con la Sublime Porta non aveva mai impedito – e lo stesso era del resto vero anche per altri paesi cristiani: si pensi a Venezia, a Genova, all’Italia meridionale, per tacer dell’«alleata» Francia – né i contatti diplomatici, né la circolazione di persone e di merci. La «guerra totale», durante la quale tutti i rapporti fra stati belligeranti che non siano quelli militari si arrestano e si congelano, era ancora molto di là da venire. Se ciò era vero tra impero e Turchia, a maggior ragione lo era per quel che riguardava la Francia. Il diplomatico Edouard de La Croix, primo segretario del marchese di Nointel che era caduto in disgrazia del re nel 1678, era stato costretto in conseguenza di ciò a rientrar in Francia nel 1680; quattro anni dopo aveva pubblicato a Parigi i suoi Mémoires. Ai primi del settembre di quell’anno, ottenuto dal sovrano un nuovo passaporto per viaggiare in Levante, si recava subito a Costantinopoli con un incarico informativo coperto dietro la generica etichetta di «affaires particulières». Ne sarebbe scaturita una densa memoria sull’État présent au juste de l’Empire ottoman. Il viaggio del diplomatico durò un po’ più di un anno: egli dovette rientrare alla fine del 1685, accusato – con ogni evidenza non a torto – di spionaggio. Nel 1691, mentre attendeva pieno di speranza di essere scelto come console a Gerusalemme, redasse un corposo promemoria sullo stato delle forze navali ottomane indirizzato al conte di Pontchartrain, segretario di stato della marina regia; e ancora scrisse memorie sull’Egitto e sull’Etiopia prima di lasciare nel 1704, modesto e dimenticato, questo mondo. Insieme con lui, si dovrebbero ricordare molti personaggi «minori», o addirittura ormai sconosciuti e dimenticati, che sarebbe arduo definire «orientali» o «occidentali»: ammesso che tali aggettivi significhino davvero qualcosa. Si tratta di gente davvero di frontiera, border fighters partecipi di due mondi. La lista sarebbe lunga: atteniamoci a pochi esempi. Come l’ucraino Wojciech Bobowski, nato nel 1610 a Leopoli, paggio e musico al Topkapi, quindi «dragomanno», padrone di più o meno una quindicina di lingue, autore di trattati in latino sull’idioma turco e sull’Islam, di una descrizione del palazzo del sultano in italiano, di una traduzione turca del Corano e di alcuni spartiti di musica ottomana17. O come, ancora, il gran

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dragomanno fanariota Alessandro Maurocordato, che conosciamo un poco. O come, infine, Dimitrie Cantemir, vojvoda di Moldavia per brevi periodi tra il marzo e l’aprile del 1693 e poi ancora tra 1710 e 1711, profondamente impregnato di cultura occidentale e frequentatore, durante il suo «esilio» a Istanbul, di ambienti cosmopoliti e nonconformisti18. Di personaggi e di carriere come la sua è lastricata la strada dell’orientalistica e dell’orientalismo, questi due pilastri dell’identità occidentale19. Tra orientalismo e orientalistica Com’è noto, e come del resto era ovvio, fu il gran Libro Sacro dell’Occidente, la Bibbia, a far gemere per primo i torchi dell’arte che più di ogni altra forse avrebbe rivoluzionato l’Europa e gettato le basi della nuova storia: la stampa. Accanto ad essa, furono i poeti e gli autori antichi a proporsi come primi best seller: e anche ciò è risaputo. Meno conosciute forse sono le più remote fortune tipografiche ed editoriali dell’Islam che nella terra da esso controllata, il dar alIslam, oppose alla penetrazione dell’arte del Gutenberg una fiera resistenza, mentre nel dar al-Harb, in terra di infedeli, ebbe una fortuna, se non immediata, quanto meno sollecita. Non che si pubblicassero testi musulmani o nelle tre principali lingue di cultura dell’Islam – arabo, persiano, turco –: non subito, quanto meno. Però cose che dell’Islam parlavano, per quanto ne parlassero magari malissimo (sia perché lo presentavano in modo inesatto, sia perché lo coprivano di contumelie), questo sì. Non era granché, certo: ma era il segnale che, col Quattro-Cinquecento, un’antica «bilancia culturale» (analoga a quella commerciale) andava invertendo i suoi rapporti. Fino ad allora, l’Islam aveva conosciuto il cristianesimo meglio di quanto questo non conoscesse quello: e ciò per motivi ovvii, dal momento che il credo musulmano era maturato in terre largamente cristiane e molte erano le comunità cristiane a contatto con i musulmani e soggette al loro potere, mentre nulla di ciò (con le parziali eccezioni della Sicilia, della Spagna e della Terrasanta crociata) si era verificato nel mondo cristiano. Ma l’interesse suscitato dall’avanzata ottomana in Europa, insieme col fatto che sempre più numerosi erano i mercanti e i viaggiatori europei che si recavano in terra d’Islam, stava ormai cambiando i rapporti di forza: e, mentre i dotti musulmani poco si curavano di approfon-

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dire la loro conoscenza in fatto di cristianesimo, fra i cristiani stava accadendo (nonostante il pregiudizio antiarabo degli umanisti e il costante atteggiamento polemico) il contrario. Sappiamo già che dopo il Cusano, Giovanni di Segovia e altri studiosi del Quattrocento, durante il secolo XVI Erasmo, Giovanni Carione, il suo allievo Melantone e lo stesso Lutero si erano interessati al mondo musulmano, magari desumendo notizie da scritti di storia generale come quello di Polidoro Vergilio, nei quali v’erano sezioni dedicate all’Islam. Già da allora esisteva però anche una letteratura che si potrebbe quasi definire specialistica e che da un lato diffondeva vecchi errori, ma dall’altro teneva vigile l’attenzione su un fenomeno la forza del quale era dilagante. Nel 1511 il teologo Jacques Lefebvre d’Etaples, prediletto da Margherita di Navarra, mandava alle stampe una versione in francese del vecchio trattato di Ricoldo da Montecroce20 rinfrescandone così la fama e con ciò contribuendo all’inquinamento delle informazioni, ma anche al loro diffondersi: un grano e un loglio che crescevano insieme e che, per il momento, era impossibile separare. Richiamare gli scritti del domenicano fiorentino fra Ricoldo significa dover citare di nuovo il Cusano, che a lui molto doveva per la redazione della sua Cribratio Alkorani; e fu ancora il Cusano a spronare il certosino Dionigi di Ryckel a comporre il suo dialogo-trattato Contra Alchoranum, la redazione del quale occupò un lunghissimo tempo. Esso fu stampato postumo, un’ottantina d’anni dopo la sua composizione, nel 1533: e il quadro dei rapporti fra Europa cristiana e turchi, a quel tempo, era lungi dall’essere idilliaco. I due mondi si stavano scontrando nelle pianure ungheresi: e difatti l’opera fu dedicata al fratello di Carlo V, quel Ferdinando ch’era allora re d’Ungheria e di Boemia e che sarebbe stato eletto una ventina d’anni più tardi imperatore. Nel 1543 vedeva la luce in Basilea, per i tipi del celebre stampatore Oporino, la traduzione latina del Corano preparata a metà XII secolo da Roberto di Ketton: naturalmente, la si presentava come l’ultimo grido della moda e della scienza, nonostante i suoi quattrocento anni del resto ben portati. Ne era editore il teologo Theodor Buchmann, professore a Zurigo, noto nel mondo degli studi col pedante nome latinizzato (o meglio, grecizzato) di Bibliander. Nel volume, dal lungo titolo Machumetis saracenorum principis vita ac doctrina omnis, quae et Ismahelitarum lex et Alchoranum dicitur, erano comprese anche un’Apologia del Bibliander stesso, una Prae-

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monitio del Lutero e una serie di altri testi, come le edizioni di Ricoldo da Montecroce e di Nicolò di Cusa. Il tutto finì per confluire in una vasta opera, un autentico monumento alla nascente islamistica21: peccato solo che di esso non ci si poté servire in area cattolica, dal momento che le ingiurie suo more solito dal dottor Lutero vomitate contro Santa Romana Chiesa indussero l’autorità pontificia a proibirne la circolazione nei paesi a Roma rimasti fedeli. Nel mondo protestante le cose andavano altrimenti: al punto che in Basilea ci fu chi propose addirittura la traduzione in tedesco dei testi latini offerti dal Bibliander. Ci volle l’autorevole parere del teologo Bonifaz Amerbach per dissuadere i buoni borghesi di Basilea dal proposito che a noialtri può apparir lodevole, ma che egli giudicava inopportuno per le solite ragioni: meglio non mettere in mani inesperte scritti di gente «empia» ed «eretica». Se Dionigi «il Certosino» e la traduzione di Roberto di Ketton, riciclata dal Bibliander, contribuivano a spargere in Europa il seme delle informazioni errate e tendenziose sull’Islam e delle citazioni manipolate e malintese del Corano, l’accresciuto interesse per il mondo musulmano e l’urgere di più precise notizie, originati entrambi dai successi di Solimano e dalla sempre maggior importanza che i mercati dell’impero turco stavano assumendo per l’economia occidentale, imponevano lo svilupparsi di una pubblicistica e di una trattatistica di più alta qualità. Ne è prova ad esempio lo spazio riservato all’Islam in genere, al mondo ottomano in particolare, in quella straordinaria opera che è il De orbis terrae concordia edita nel 1544 da Guillaume Postel. Dalle sue scorribande orientali, egli aveva riportato con sé in Francia molti e preziosi manoscritti arabi, siriaci, armeni. Professore al Collège de France, quindi per breve tempo adepto della Compagnia di Gesù dalla quale fu presto espulso, il Postel pubblicò fra le altre cose un trattato di linguistica comparata e una grammatica araba. Il De orbis terrae concordia – uscito l’anno dopo il suo saggio controversistico sul confronto tra Islam e cristianesimo riformato – è un geniale tentativo, a metà strada tra la fondazione del metodo comparativo e la follia, di dimostrare come fra tutte le religioni e le civiltà vi sia un profondo elemento in comune: e come quindi facile sarebbe, individuandolo con chiarezza e appianando diversità e divergenze, procedere alla fondazione di un’autentica unità politica e spirituale del genere umano. Storia, archeologia, linguistica, diritto, storia delle religioni e perfino una sorta di proto-antropologia

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culturale erano dal Postel messe al servizio – con un’erudizione stupefacente – dell’utopica fondazione di una civiltà e di una religione universali. Pur attingendo a piene mani all’erudizione di un Cusano e di un Dionigi di Ryckel, il Postel ne rovesciava ora clamorosamente le prospettive attuando un’autentica rivoluzione metodologica: laddove i controversisti avevano sottolineato le differenze tra cristianesimo e Islam dissimulando quando non addirittura celandone somiglianze e convergenze, egli adottava il principio diametralmente opposto. Ciò lo conduceva inevitabilmente a tornar sulla questione delle traduzioni latine del Corano, che egli – grazie al suo sapere linguistico – era in grado di controllare di prima mano: con risultati sì di progresso sul piano della comprensione testuale, ma anche di straordinaria complicazione esegetica che di continuo rimetteva in gioco i risultati conseguiti. Non stupisce pertanto che il Postel si attirasse critiche e censure da ogni parte; e che personaggi come il dotto Henri Estienne lo qualificassero di monstre exécrable per quelle che, nel clima controriformistico, sembravano «simpatie» nei confronti dell’Islam22. Nel Postel, lo stesso confronto tra fede musulmana e confessioni cristiane riformate si risolveva di fatto con una serie di perorazioni inclini a favorire la legge del Profeta. Ma è proprio qui che l’amore postelliano per il paradosso sfiorava la schizofrenia: il proporre da una parte un parallelo tra Islam e protestantesimo, e il portar avanti dall’altra il tema della ricerca di una concordia universale che a qualcuno è sembrata riprender le fila dell’ispirazione del De pace fidei cusaniano e a qualcun altro precorrere sentieri percorsi più tardi da Rousseau e da Kant, può davvero apparire audace se non contraddittorio. Eppure, nel segno di contraddizioni di questo genere si stava appunto aprendo, a Trento, il Concilio da cui ci si aspettava fra l’altro l’impulso alla ripresa della controffensiva crociata contro gli ottomani, mentre ci si andava chiedendo se esso avrebbe condotto a una decisa condanna dei riformati o a una rappacificazione con loro. Una «fuga in avanti» dunque, questa del Postel, in un mondo non ancora preparato ad accogliere sull’inimicus crucis voci più equanimi? Oppure il frutto isolato di un’erudizione torrentizia, incontrollata, stupefacente ma anche maniacale?23 Forse nulla di tutto ciò: la sensazione che si ricava dall’analisi del contesto in cui il De orbis terrae concordia vide la luce è che esso era ormai maturo per un decisivo salto di qualità nelle cognizioni relative all’Islam.

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In terra di Spagna, dove la lotta concettuale contro la cultura islamica era solo un aspetto della repressione degli ex musulmani convertiti a forza, i moriscos, il cardinal Francisco Ximenes de Cisneros – in quanto arcivescovo di Toledo e grande inquisitore di Spagna – aveva fatto instancabilmente cercare i manoscriti arabi di ogni tipo e argomento per arderli nel rogo d’un colossale auto da fé sulla piazza principale della sua città. Misure del genere non dovevano però sembrar sufficienti, perché gli opuscoli antimusulmani si moltiplicavano: come l’operetta Confusión, uscita nel 1540 a Siviglia ad opera di un Giovanni Andrea che si presentava come ex giureconsulto musulmano ma che per la verità cercava sotto tale etichetta di legittimare i tradizionali argomenti della controversistica cristiana. L’ostinazione con cui si diffondevano a stampa quelle calunnie prova, e contrario, che la loro credibilità era messa a dura prova dall’espandersi e dal circolare di più attendibili notizie che le smentivano. Infatti nella terra che forse più d’ogni altra era aperta ai contatti col mondo turco, a Venezia, usciva nel 1547 la prima versione del Corano in idioma volgare italico, che utilizzava – al solito – la traduzione latina di Roberto di Ketton, per giunta fortemente manipolandola e compendiandola, ma che pretendeva di aver attinto di prima mano all’originale24. Il curatore della versione italica, Andrea Arrivabene, la dedicava a Gabriel Puetz barone di Aramon, nuovo ambasciatore di Francia presso il sultano e interprete della politica d’alleanza con la Porta voluta dal suo re. La lettera dedicatoria dell’Arrivabene al signor d’Aramon si misurava col solito compendio storico sull’Arabia, la vita del Profeta e la fede islamica. L’armamentario polemico era quello consueto: l’Islam come eresia cristiana, come dottrina che rendeva leciti gli eccessi sessuali, come groviglio di contraddizioni. Ancora malintesi, ancora pregiudizi: il moltiplicarsi delle pubblicazioni era però indice comunque di un interesse che non poteva, alla lunga, non portar frutti copiosi. Non va sottovalutato il fatto che la versione italica dell’Arrivabene risolveva, con appena quattro anni di ritardo, un problema aperto in terra riformata dalle prospettive della traduzione tedesca del Bibliander, progetto che l’autorevole intervento dello Amerbach aveva fatto fallire mentre il papa dal canto suo aveva impedito che il lavoro islamistico edito a Basilea nel 1543 fosse conosciuto dai cattolici. Quattro anni più tardi invece il pontefice Paolo III, in urto con l’imperatore Carlo V, non faceva nulla per impedire che a Venezia si pubblicasse un’opera che finalmente volgarizzava in volgare

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italico il Corano e che era dedicata proprio al diplomatico che stava portando avanti l’alleanza tra il re di Francia e il sultano. Una sorta di implicita alleanza de facto franco-turco-pontificia si andava in altri termini delineando dietro l’edizione veneziana del 1547: anche se gli intenti dell’Arrivabene continuavano ad essere controversistici e, d’altro canto, nessun buon musulmano avrebbe mai approvato la traduzione e la diffusione del Libro Santo in una qualunque lingua, per giunta in terra d’infedeli e con l’utilizzazione dell’esecrabile mezzo della stampa. Le opposte passioni cattoliche e protestanti, che si traducevano ora in emulazione sul piano dello slancio crociato ora in accuse reciproche di filoislamismo, si accompagnarono e s’intrecciarono così, per tutto il Cinque-Seicento, allo sviluppo di un’arabistica, di una turcologia e di un’islamistica sempre più precise, che nel secolo successivo avrebbero trovato una sistemazione scientifica vera e propria. Il solito Postel aveva fornito al riguardo un contributo importante con il volume Histoire et consideration de l’origine, loy et costume des Tartares, Persians, Arabes, Turcs, edito a Parigi nel 1560. Senza dubbio equivoci, confusioni ed errori (c’è da chiedersi talora quanto involontari) si trovano copiosi tra le pagine di pur illustri autori dediti del resto a questioni di storia generale come il Grozio, il Botero, il Baronio; né del resto era facile superare e metter da canto la radicata tradizione controversistica, per cui rari sono gli studiosi che trattano dell’Islam resistendo in modo coerente alla tentazione di confutarne la dottrina. Forme tenaci d’incomprensione si registrano poi in personaggi come Blaise Pascal, che a proposito di Muhammad si domandava se egli fosse mai stato annunziato dalle Scritture – mostrandosi del tutto digiuno di notizie attorno all’esegesi della famosa profezia del «corno piccolo» in Daniele –, quale morale avesse mai praticato e se avesse mai fatto miracoli, laddove almeno dal Postel avrebbe pur dovuto sapere che dal Corano si evince con molta decisione che il Profeta non ha nulla a che fare con la dimensione del miracolo. La questione dei supposti miracoli di Muhammad, un tema polemico vivo nella pubblicistica antislamica ebraica e cristiana fino dai tempi più antichi, è anzi un’ottima cartina di tornasole per rendersi conto dei progressi che l’Europa moderna andava segnando nel campo dell’islamistica. Sempre più numerosi frattanto si profilavano gli specialisti. Come l’Erpenius, cioè Thomas van Erpen professore di lingue orientali a Leida, che nel 1613 pubblicò una grammatica araba; Edward Po-

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cock, professore a Oxford, autore nel 1639 di uno Specimen historiae Arabum; l’arabista Johan Hottinger, docente a Zurigo e quindi ad Heidelberg, che compose grammatiche, lessici e raccolte di fonti; Jibrail es-Sayuni (Gabriele Sionita), arabista a Roma; Yusuf Simaan es-Simaani (l’Assemani), siriano, prefetto della Biblioteca Vaticana con papa Clemente XII e compilatore di una Bibliotheca Orientalis; Ibrahim al-Ekleni (Abraham Echellensis), storico e filosofo, autore di una Synopsis propositorum sapientiae Arabum philosophorum edita nel 1641. Alle nascenti scienze orientalistiche – la fissazione dello statuto delle quali è coeva a quella dell’erudizione e della metodologia storica grazie a benemeriti studiosi come i padri maurini di Saint-Germaindes-Près – fornivano un contributo decisivo anche alcuni viaggiatori e diaristi tanto colti quanto coraggiosi, quali il romano Pietro della Valle. Ma andava organizzandosi intanto anche una storiografia orientalista, soprattutto indirizzata allo studio del mondo ottomano: come ben si vede nel lavoro di Giovanni Sagredo sui sultani25. L’assedio e la sconfitta dei turchi a Vienna, nel 1683, fu per molti versi un punto di arrivo e il segnale della definitiva liberazione dall’incubo della mezzaluna, dal Türkenfurcht. Ormai, anche l’Islam e la storia dell’impero ottomano potevano venir trattati con maggior serenità. Non mancarono, certo, i contraccolpi emozionali: dal momento che fin dal medioevo si era andati ripetendo che la minaccia musulmana era una punizione per i peccati della Cristianità, dopo la vittoria delle armi cristiane si trovò chi fu pronto a dichiarare ch’essa era il segnale del favore divino, mentre molti furono gli scritti dedicati al tema della conversione degli infedeli, ritenuta più facile a conseguirsi ora che Dio ne aveva punito l’orgoglio26. Frutto della fine della paura e quindi del graduale venir meno delle ragioni che avevano ispirato per secoli la letteratura controversistica fu alla fine del Seicento – cinque secoli e mezzo dopo le fatiche del circolo dei traduttori raccolto attorno a Pietro il Venerabile, uno e mezzo dopo quelle del Buchmann e dell’Arrivabene – il monumentale lavoro in due volumi editi a sette anni di distanza l’uno dall’altro con i quali il religioso lucchese Ludovico Maracci traduceva fedelmente e integralmente in latino il Corano, fornendone altresì un pacato commento27. Intanto, però, gli interessi degli occidentali nei confronti del mondo musulmano in genere, ottomano in particolare, si erano ampliati: accanto al Corano e quindi alla vasta tematica di tipo controversistico, si era andato sviluppando quell’interesse per la letteratura «profana»

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già annunziato dal lavoro di Antoine Galland sulle Mille e una notte. Gli ambienti diplomatici erano ovviamente i più adatti a coltivare e a sviluppare questo tipo d’interessi: sarebbe difatti stato un ex bailo della Serenissima a Istanbul, Giambattista Donà, a pubblicare nel 1688, nella sua Venezia, un saggio sulla «letteratura de’ Turchi»28. La Serenissima stava scendendo in guerra contro la Porta per recuperare la Morea: ma i veneziani desideravano informarsi sul nemico. Non troppo tempo dopo, nel 1697, usciva a Parigi – due anni dopo la morte del suo autore – la Bibliothèque orientale di Barthélemy d’Herbelot, corredata da un Discours del Galland. Con essa s’inaugurava così l’islamistica sistematica, mentre nel 1698 venne stampata a Padova la completa e fedele traduzione del Corano a cura del lucchese Ludovico Maracci da noi citata poche righe sopra. La turcologia, che ad arabistica e a islamistica avrebbe dovuto naturalmente affiancarsi, maturò un po’ più lentamente: ma fece progressi nel corso del XVIII secolo, fino all’eccellente grammatica di Cosimo de Carbognano, dragomanno delle legazione del regno di Napoli a Costantinopoli, del 179429. Dal «pericolo turco» al «turco alla moda» Gli ottomani erano da tempo «radicati» nella cultura sia dotta sia popolare europea. Nel XVII secolo la letteratura fantastica francese si concentrò di frequente sui sultani, ad esempio sulla storia del sultano Bajazet (Bayezid) I (1389-1402) imprigionato e del suo carceriere Timur (Tamerlano), pubblicata nel 1648. Comunque, la maggior parte delle storie narravano di episodi di crudeltà dei turchi, come si poteva vedere nella storia del feroce trattamento riservato da Solimano il Magnifico al suo favorito, il gran visir Ibrahim. «Il sultano Mehmed il Conquistatore, che in realtà fu un principe rinascimentale cosmopolita sofisticato e poliglotta, fu dipinto come un tiranno crudele e brutale in un dramma francese del 1612, che descrisse sua madre nell’atto di bere il sangue di una vittima. Altri racconti, ugualmente bizzarri e imprecisi, narrano storie di soldati ottomani che facevano sacrifici a Marte, il dio romano della guerra. Il venir meno della minaccia ottomana, dopo la sconfitta del 1683 presso Vienna, comunque, modificò l’immagine degli ottomani»30. Non che le immagini feroci e truculente con le quali si presentava il Turco agli europei tra XV e XVII secolo fossero tutte, in-

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tendiamoci, frutto di grossolana e calunniosa propaganda. Alcuni elementi che avevano finito per contribuire a comporle erano tratti dalla dolorosa esperienza; altri da una lunga tradizione, quella della poesia epica e crociata, che almeno dall’XI secolo avevano insistito sui caratteri demoniaci e mostruosi dell’«infedele» con toni che i predicatori popolari della crociata avrebbero ripreso puntualmente per quanto con differenti accentuazioni. E ciò, si noti, non ostava al costituirsi, accanto a queste immagini grottesche e terribili, anche di una diversa tradizione, quella del musulmano nemico leale, generoso e cavalleresco, o addirittura del «fratello d’armi». Su questa seconda tradizione molto aveva influito, a partire dal Duecento, lo sviluppo della «leggenda del Saladino» che, passata attraverso Dante e il Boccaccio e sintetizzata dalla Novella dei Tre Anelli 31 fu ripresa addirittura, nel 1779, da quel Nathan der Weise di Gotthold Ephraim Lessing che è una pagina classica della «cultura della tolleranza». Le due immagini, quella del saraceno (o del «moro») mostruoso, crudele e demoniaco, e quella del leale e magnanimo signore – e magari una terza, quella del «mago», in un certo senso correlata a entrambe –, avrebbero convissuto perfettamente, come ben si vede nel Boiardo, nell’Ariosto e nel Tasso. I turchi, affiorati nella coscienza e nella letteratura occidentali alla fine dell’XI secolo con l’eco delle conquiste selgiuchidi nel Vicino Oriente e per lungo tempo confusi, più che con gli arabi con i quali l’Europa aveva altra e più antica consuetudine, con i persiani, andarono acquisendo nuovi caratteri nel corso del XV secolo, quando le conquiste ottomane e soprattutto la caduta di Costantinopoli del 1453 li imposero con forza all’attenzione della Cristianità occidentale. A quel punto, la più debole tradizione almeno in parte positiva dell’infedele magnanimo e generoso si ricollegò a un’altra vecchia leggenda medievale, quella circolante dal tempo della prima crociata che – fondandosi forse, almeno in origine, sulla paraomofonia Turci-Teucri – aveva fantasticato di una comune origine di romani, «franchi» (cioè faranj, euro-occidentali in genere) e turchi dai troiani, nemici dei greci. Si trattava, in realtà, di un topos antibizantino, affiorato più volte tra XII e XV secolo e secondo il quale i greci erano appunto «peggiori dei saraceni». È noto che, da parte loro, i greci ricambiavano questi sentimenti: come si vide allorché, dinanzi al ricatto occidentale che faceva dipendere l’aiuto crociato al languente impero di Bisanzio dall’unione tra le due Chiese, da parte greca molti risposero che il turbante ottomano era preferibile alla

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tiara pontificia. Prevalse però, forse, l’altra leggenda de origine, che collegava i turchi agli antichi sciti, modello tradizionale di ferocia e che a sua volta si riallacciava alla tradizione medievale, anch’essa consacrata dall’epica, relativa ad Attila e agli unni. Con una curiosa coincidenza: che cioè gli invasori e gli incursori uralo-altaici che, collegati o addirittura mischiati con genti prevalentemente germaniche quali i goti, a più riprese avevano assalito l’Europa occidentale tra V e X secolo, e gli stessi tartari protagonisti dell’espansione genghizkhanide, venivano ora posti in rapporto con i turchi e connessi a un’origine scita evidentemente lontana dalla realtà, ma che finiva comunque col cogliere senza rendersene conto e per via contorta il dato effettivo – evidentemente sconosciuto agli europei – sia della comune origine turco-mongola di quei popoli, sia dei loro molti, profondi ed intensi rapporti sotto il profilo antropostorico con le genti nordiraniche affini agli sciti (per esempio i sarmati e gli alani) che in effetti avevano avuto a che fare con unni, ungari e così via, e che erano parte del complesso mondo turcoiranico dal quale erano uscite le genti protagoniste delle Völkerwanderungen nel lungo millennio compreso tra V e XV secolo, tra Attila e Tamerlano. Quei turchi dell’immaginario barocco, che bevono sangue e sacrificano a Marte, si collegano fedelmente a un cliché scito-germanico-altaico antropologicamente impreciso ma non gratuito: e già noto al nostro Rinascimento, come si vede bene nella raffigurazione dell’idolo del «Marte scitico» dipinto da Filippo Lippi nella cappella Strozzi di Santa Maria Novella a Firenze32. Ma questa terribilità era alimentata dalla tutt’altro che immeritata fama di ferocia degli ottomani, che si servivano del terrore sparso attorno a loro, e che essi contribuivano spregiudicatamente a rafforzare, come di un’arma tattico-strategica formidabile nel fiaccare la volontà di resistenza di quanti si opponevano loro. Gli impalamenti, le impiccagioni, gli scorticamenti, le torture, le teste recise e accatastate fino a farne macabre piramidi, non erano fantasia: per quanto si debba dire che in ciò i soldati della croce – dalle gesta del vojvoda valacco Vlad «Dracul» a quelle delle armate imperiali, dagli incursori ungheresi e veneziani ai Cavalieri di Malta e di Santo Stefano – non fossero da meno. La tradizione antropologica del recidere le teste, esibirle come trofeo e ricavare coppe dai crani dei nemici decapitati ha modelli molto diffusi nelle varie civiltà umane: tra essi, quelli dei Reitervölker indoeuropei e uralo-altaici sono particolarmente illustri. È quindi aperta la gara tra i fans dell’argomento: si può di-

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scettare dottamente se l’archetipo del cacciatore di teste spetti agli antenati dei celti, dei germani o degli uralo-altaici. Che poi – come ricordava del resto già una diffusa leggenda medievale – in fondo sono più o meno gli stessi: o hanno comunque alle loro spalle una lunga comune preistoria geoantropologica eurasiatica. Si era a lungo discusso, proprio a proposito dei turchi (sintomaticamente chiamati appunto ora Turci, ora Teucri) sul rapporto e sull’alternatività o integrazione dei termini barbaries/barbaritas, paganitas, infidelitas. Nel Cinque-Seicento l’osservatorio veneziano è al riguardo particolarmente consigliabile: al suo interno, il concettoguida alla luce del quale valutare il Turco era a lungo stato, prevalentemente, quello di «barbarie»: il che naturalmente non toglieva che, in modo più o meno rapsodico e occasionale, non si raccogliessero giudizi positivi che si avviavano a loro volta a divenire stereotipe concessioni alla disciplina e alla frugalità dei sudditi del sultano. Questo atteggiamento, che abbiamo già riscontrato fino dal Quattrocento in intellettuali come il salentino De Ferrariis, si ripresentava a molti livelli. Così scriveva in pieno Cinquecento l’ambasciatore imperiale alla corte di Solimano il Magnifico, Augier Ghiselin de Busbecq: Dalla loro parte ci sono le risorse di un vasto impero, una forza impareggiabile, esperienza e pratica nel combattere, una truppa di veterani, l’abitudine alla vittoria, la sopportazione delle fatiche della guerra, unità, ordine, disciplina, frugalità, vigilanza. Dalla nostra parte c’è pubblica povertà e lusso privato, mancanza di forza, uno spirito avvilito, mancanza di resistenza e di addestramento; i soldati sono insubordinati, gli ufficiali avari; c’è disprezzo per la disciplina; licenza, mancanza di controllo, ubriachezza, vita viziosa sono comuni e, peggio di tutto, il nemico è abituato a vincere e noi a subire sconfitte. Possiamo dubitare di come andrà a finire? Solo la Persia gioca a nostro favore perché il nemico, appena si muove all’attacco, subito deve tenere d’occhio questa minaccia alle sue spalle33.

Quasi un secolo e mezzo più tardi, nella Napoli del 1693 – quindi nel pieno della «crociata» avviata dalla Santa Lega nel 1684 –, usciva la curiosa opera di Giovanni Francesco Gemelli Careri, che aveva partecipato a due campagne militari in Ungheria tra ’86 e ’87: uno scritto che sarebbe stato più volte edito e ampliato fino a raggiungere, nel 1728, i 9 volumi. Vi si leggeva tra l’altro: Il governo politico de’ turchi, quantunque al primo aspetto sembri senza certe regole, e pieno solo di barbarie e d’ignoranza, egli convien

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nondimeno confessare, esser fondato sopra qualche stabile principio, dal quale tutti gli altri difetti vengono contrappesati, poiché altrimenti a sì alto grado di ampiezza e di potenza, a grave scorno di noi cristiani, per avventura non sarìa pervenuto, né pervenuto, sarebbesi conservato34.

Considerazioni analoghe, la radice delle quali è già possibile cogliere nei cronisti, nei controversisti e perfino nei diari di pellegrinaggio medievali, venivano in particolare sviluppate proprio in autori veneziani del Cinque-Seicento quali Lazzaro Soranzo35, Paolo Sarpi36 o, più tardi, Giovanni Sagredo nelle sue Memorie istoriche de’ monarchi ottomani edite nel 1673, quando lo smacco di Candia era ancora cocente. Del resto era stato proprio il Sagredo, nella sua relazione del 1665 di ritorno dalle terre d’impero in cui cercava di dar conto della conclusione della tregua di Vasvár che a molti era sembrata un inspiegabile cedimento di Leopoldo I, vincitore, al vinto, a sottolineare che l’esercito ottomano era estremamente sobrio, disciplinato e resistente, rispetto alle «armate christiane, e particolarmente l’alemane», che «stanno per l’ordinario sepolte nella crapula, e nel vino»37. Non mancavano certo i detrattori e gli svalutatori del mondo ottomano ispirati soprattutto dal pregiudizio, e magari poco sensibili – come accade in genere a chi al pregiudizio si affidi – alla necessità d’informarsi e all’opportunità di mettersi in discussione. Il Turco era «infedele», era «barbaro», era «crudele», e tanto bastava: quali pregi poteva mai avere gente del genere? Anche in ambiente militare lo stereotipo religiosamente o moralmente negativo ne comportava un altro ancor più errato, quello di carattere etnico e funzionale. Scriveva al riguardo uno che se ne intendeva, il Feldmarschall Montecuccoli: Vano errore lusinga coloro che delle forza del Turco parlano con poca stima: tanti regni da lui conquistati, né mai più da’ cristiani ripresi, tante piazze forti espugnate, tante battaglie campali vinte, convincono di temerità e d’insufficienza sentimenti così fatti, concetti propri di chi, vibrando per ispada la lingua, batte con parole magnifiche l’oste. Mantiene il Turco eserciti perpetui in piede, guerreggia continuo, non ammette la forma del suo dominio altro ordine che il militare...38.

A partire dal fallito assedio di Vienna, tuttavia, il terrore che la menzione del Turco spargeva attorno a sé cominciò lentamente a declinare di pari passo con il mito – che a dire il vero non era mai stato

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assoluto – dell’invincibilità delle armate ottomane. Al contrario, esse si andavano sempre più rivelando antiquate, poco disciplinate, inadeguate rispetto a quella sempre più perfetta macchina che era l’arte (e la scienza) della guerra occidentale seicentesca. Si avviò da allora un processo lento e irreversibile, i prodromi del quale erano peraltro già affiorati da alcuni decenni, forse dalla fine del Cinquecento. Se il Turco non era più invincibile, se non incuteva più un’assoluta e incontrollabile paura, si andava per contro dilatando lo spazio per poter considerare con serenità e simpatia maggiori i lati positivi della società ottomana e dei suoi costumi, già apprezzati del resto per l’egalitarismo e per la maggior libertà negli stili di vita da quanti, magari per un gioco ineluttabile della sorte, avevano finito col «farsi turchi». Sempre più apprezzati divennero gli abiti, le merci, i profumi, i sapori provenienti dal magico Bosforo. Si profilava così un’ennesima variante dello «scambio asimmetrico»: gli occidentali andavano sempre più matti per gli oggetti, gli apparati, i suoni e i colori «turchi», mentre il mondo ottomano – che non ricambiava quell’entusiasmo estetico – si andava dal canto suo sempre più imbevendo di cultura tecnologica importata dai «barbari infedeli» e interessando quando non addirittura entusiasmando ad essa. Quanto al primo di questi aspetti, che ci interessa di più in questa sede, già le ambascerie turche e anche persiane, ad esempio nella Parigi di Luigi XIV, avevano familiarizzato il pubblico europeo con certi costumi e certi atteggiamenti, favorendo addirittura una sorta di filoturchismo stilizzato in ambienti nobiliari e non. Ma, ancor prima, era in Italia che la «passione turca» si era presentata ed era stata tradotta in letteratura narrativa o drammatica. Ne sono testimoni già alcuni testi italiani come l’Orbecche e la Selene di Giovan Battista Giraldi Cinthio, cui si deve anche la novella Othello che ispirò William Shakespeare; o la tragedia Il Solimano di Prospero Bonarelli, del 1619, che poneva i problemi del contrasto fra il potere e la fede, del pentimento, dell’intrigo e dell’infedeltà ispirandosi alle Istorie dei turchi di Francesco Sansovino39. La maturità raggiunta da questi temi e da queste fantasie si riscontra comunque, appunto, nel Grand Siècle del Re Sole: soprattutto con il Bajazet di Racine e Le bourgeois gentilhomme di Molière, la comédie ballet su musica di Lully rappresentata a Chambord il 14 ottobre 167040, dove si mischia un idioma ottomano alquanto immaginario alla «lingua franca» che si parlava in tutto il Mediterraneo e che aveva una buona base italiana. Per esempio:

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Mahameta per Giourdina mi pregar sera e matina: voler far un paladina41 de Giourdina, de Giourdina. Dar turbanta e dar scarcina, con galera e brigantina per deffender Palestina42.

Il contesto di questa buffa tirata è noto: il buon monsieur Jourdain, facoltoso mercante, arde dal desiderio di conseguire una qualunque nobilitazione. Si ordisce allora ai suoi danni, per spillargli danaro e per strappargli il consenso a un matrimonio della figlia che egli non gradisce, una fantasiosa vestizione cavalleresca che gli consentirebbe di entrare nell’Ordine dei Mamamuchi – che naturalmente non esiste – e di divenire addirittura consuocero del sultano. La cerimonia si svolge in termini che in modo buffonesco richiamano le fasi di un addobbamento cavalleresco, la cui liturgia sacramentale era stata definita fin dal tardo Duecento nel Pontificale Romanum ma che da allora si era arricchita nella pratica cortese e quindi cortigiana d’infinite variabili, specie all’interno degli Ordini cavallereschi creati e patrocinati fin dal Trecento da principi e sovrani. La cerimonia messa in scena da Molière si conclude con un’allegra anche se crudele bastonatura del povero Jourdain, parodia della colée, cioè dell’alapa militaris, il colpo simbolico che i cavalieri ricevevano tra la nuca e la spalla e che gli antropologi interpretano come la memoria di una ferita rituale. Gli iniziatori danzano attorno a Jourdain e lo percuotono, mentre il falso muftì che funge da officiante ripete tre volte la formula Dara, dara, bastonnara43.

Come è noto, l’episodio che piacque al Re Sole e ispirò Molière fu l’ambasciata del müteferrika44 Osman Süleyman Ag˘a45, culminata nell’udienza accordatagli dal sovrano a Saint-Germain en Laye il 5 dicembre del 1669, durante la quale si parlò del rinnovamento delle Capitolazioni46. Ma l’importanza delle ambascerie orientali già a partire dal medioevo in tutta Europa, e comunque soprattutto di quelle ottomane – e, meno frequenti, persiane – fu del tutto fondamentale nell’Europa del tempo per diffondere il gusto, il fascino e l’interesse per quei costumi che ormai si cominciavano a definire sempre più

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spesso «orientali»47, conferendo a tale aggettivo un senso che non era più soltanto quello riferibile ai punti cardinali, o alla distinzione tra una pars Orientis e una pars Occidentis che era divenuta importante sotto il profilo geoistituzionale a partire dalla spartizione dell’impero voluta alla fine del IV secolo da Teodosio, o all’Oriente mistico, quello da cui sorge il sole «come fa questo talvolta di Gange»48 al quale alludeva Dante parlando di Francesco d’Assisi. Ora l’Oriente cominciava a divenire un termine-chiave, contrapposto e/o complementare rispetto all’altro, Occidente, a sua volta caricato di un nuovo significato49. Di solito, si attribuisce al clima dell’Illuminismo la responsabilità principale del sostanziale mutamento di prospettive con il quale in tutta Europa si cominciò a guardare al mondo ottomano: esso era stato tuttavia abbondantemente preparato, come si è visto, da molteplici precedenti in campo artistico, letterario e politico-diplomatico. Ma non si è reso ancora forse abbastanza giustizia ad alcune opere, passate piuttosto inosservate, che costituirono al riguardo un autentico giro di boa. Così ad esempio un libretto, Della letteratura de’ Turchi, che Giambattista Donà – il quale nel 1684 era rientrato da una missione diplomatica a Istanbul50 – pubblicava come si è detto a Venezia nel 1688, in piena guerra di Morea51. Sul piano storico e filologico, ma anche su quello più semplicemente informativo, si trattava di un trattato piuttosto povero: che aveva tuttavia il merito di lasciar da parte gli stereotipi relativi alla ferocia e alla perfidia e di proporre finalmente il volto, sia pure in termini ancora troppo semplici e poco precisi, non già di una «cultura musulmana» – alla valutazione positiva dell’Islam si era abituati ormai da tempo – bensì più propriamente di coloro che da più di due secoli e mezzo si era abituati a considerare il Nemico e il Pericolo per eccellenza. Dell’incontro con il mondo turco in un clima di più distesa convivenza si giovarono molto lo spettacolo e la musica. Il «turco», ora crudele e spaventoso, ora ridicolo e grottesco, era già un personaggio presente prima nei tornei, nei caroselli e negli spettacoli cavallereschi di corte, quindi nei cosiddetti opera-ballets52, nelle mascherate e nelle rappresentazioni teatrali di vario genere a partire da qualche esempio sporadico nella seconda metà del Quattrocento, che però aveva dato luogo, nel corso del XVI secolo, a presenze sempre più frequenti e articolate53. Si può dire che la presenza di turchi non solo e non tanto grotteschi – il grottesco è variante del demoniaco, e sottintende comunque una qualche terribilità magari esorcizza-

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ta – ma sempre più ridicoli e progressivamente «simpatici», crebbe esattamente nella misura in cui stava venendo meno la paura: molti studiosi citano il «dopo Lepanto» come termine a quo di tale cambiamento, ma è forse piuttosto nella seconda metà del Seicento, dopo la conclusione della guerra di Candia e in un clima di tregua ricco di prospettive pacifiche, che si andò affermando una nouvelle silhouette du Turc 54, più amichevole, sorridente e serena, o talvolta mestamente umiliata, o talaltra saggiamente e dignitosamente composta. Quando gli smisurati turbanti, i truci giannizzeri, il misterioso serraglio e il seducente harem divennero compagni familiari dell’immaginario europeo, la turquerie fece definitivo ingresso nel bagaglio di un orientalismo nascente, ma tuttavia già affermato e definibile nei suoi contorni di fondo55. Dopo un esempio ancora acerbo rintracciabile nel Ballet de la Douarière de Billebahaut del 1626, la ritroviamo nel Bourgeois gentilhomme di Molière e Lully, del 1670, e quindi in L’europa galante di Camprà e de la Motte, del 167756. Dall’investitura cavalleresca nell’immaginario ordine dei Mamamuchi, posta in burla nel Bourgeois gentilhomme con tanto di maccheronica lingua franca, il passo verso la Entführung aus dem Serail è ancora molto lungo: ma l’itinerario è tracciato. Un altro momento fondamentale nell’ingresso di turchi e di turqueries nel tessuto culturale e immaginario dell’Occidente fu l’introduzione degli strumenti a percussione nelle orchestre, direttamente desunti dalla musica militare ottomana e databile già dai primi del XVIII secolo, non senza qualche importante anticipazione già fin dal precedente. Non a caso, era stato proprio il Lully a rivedere la musica militare dell’esercito francese, nel 1672, introducendo nei segnali acustici di comando tutta una serie di innovazioni ispirate proprio agli usi turcheschi57. Nel periodo compreso tra il primo ventennio del XVIII secolo (diciamo pure dopo la pace di Passarowitz) e la metà del successivo, la cosiddetta «musica turca» – un’espressione per la verità alquanto impropria, con cui si usava qualificare in genere una musica che desse largo spazio, in un’orchestra, agli strumenti a percussione – si affermò definitivamente in Europa. Si cominciò dalle corti e dai loro reparti di guardia d’onore, che gareggiavano tra loro per riprodurre il suono delle percussioni ottomane: i piatti, il timpano singolo, il tamburo rullante e il tamburo basso, la grancassa davul, i timpani naqqara; ma anche altri strumenti, come i triangoli, i campanelli, quello che in tedesco si chiama il Glockenspiel e in inglese il Jingling

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Johnny58 – uno strumento caratterizzato da una serie di campanelli disposti «a pagoda», affine a quello che per i turchi era la cagana, tipo di sonaglio da cui derivò uno strumento europeo non per caso chiamato mezzaluna –, la tromba d’ottone buru. Questo tipo di musica derivava direttamente dalla musica mether, quella delle immancabili bande militari che accompagnavano le marce e gli assalti dei giannizzeri, suonando per dare il tempo del passo, per incoraggiare le truppe e per incutere terrore nei nemici59. Il re Augusto II di Polonia ammirava notoriamente la musica giannizzera al punto che il sultano pensò di fargli cosa grata donandogli nel 1720 un’intera banda di dodici-quindici suonatori. La czarina Anna di Russia, invidiosa di quel regalo, nel 1725 ne fece a sua volta richiesta. Dal 1741 gli Asburgo di Vienna ebbero il loro e, un po’ più tardi, anche il re di Prussia. I membri delle prime di queste orchestre erano sul serio provenienti da varie parti dell’impero ottomano: le loro vicende personali sono state in parte narrate in più occasioni, in parte meriterebbero di venir ulteriormente studiate. Nel 1782 anche Londra ebbe la sua banda: ma stavolta i tamburi, i piatti e i tamburelli erano suonati da africani, forse per intensificare il senso di esotico che scaturiva da quello spettacolo. Un residuo di questa «moda» delle bande musicali giannizzere è testimoniato dall’uso del tamburo maggiore di lanciare acrobaticamente in aria la mazza. Nel corso del tempo, la mazza era divenuta un oggetto cerimoniale, brandita dal capo della banda per scandire il tempo. Il suo destino in Occidente si è andato degradando fino alla sua giocosa nipotina, la mazzetta delle majorettes e delle pon pon girls, acrobaticamente e allusivamente manovrata durante le parate e le partite di football. La popolarità della musica dei giannizzeri andò oltre l’orchestra e poté inserirsi nel cànone di quella che oggi definiamo musica classica occidentale. Piatti e grancassa vennero usati dal Gluck in La rencontre imprevue del 1764 e «piatti, triangolo e tamburo militare nella Iphigénie en Tauride. Un esempio rapidissimo nella Entführung aus dem Serail di Mozart, del 1781 con piatti, triangolo e grancassa. Segue Beethoven con Le rovine d’Atene del 1811: grancassa, triangolo, piatti, sonagli vari. E da quest’ultimo esempio ci accorgiamo di quanti contatti e confusioni culturali si perpetuavano ancora tra la musica dei greci antichi e quella dei turchi. In altre composizioni strumentali gli schemi turcheschi venivano utilizzati per accrescere o individuare le caratterizzazioni militari e marziali: Haydn nella Sinfonia militare n.100 del 1794, Beethoven in Wellingtons Sieg oder

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die Schlacht bei Vittoria del 1813. Curiosità che testimonia come fosse comunque diffuso questo gusto turchesco è data da un registro particolare installato all’inizio del 1800 in molti pianoforti e Orchestrion che, denominato Janitscharenzug, imitava il suono di cimbali, campane e grancasse»60. Non che l’introduzione di questi strumenti e l’effetto che ciò produceva su chi ascoltava fossero immediatamente e da tutti apprezzati. In tempi di austerità ormai «classica», c’era da aspettarselo. La Entführung aus dem Serail «andò in scena al Burgtheater di Vienna il 16 luglio 1782, pochi giorni prima del matrimonio di Wolfgang e, secondo la leggenda, Giuseppe II avrebbe commentato alla fine dello spettacolo: – Troppe note, mio caro Mozart –. Al che Wam avrebbe replicato con la consueta audacia: – Non una di troppo, mio Sire»61. Nel movimento finale della Nona Sinfonia di Beethoven, pubblicata nel 1824, un magnifico passaggio rievoca per mezzo di grancassa, triangolo, piatti, ottavino e flauto immagini di giannizzeri in marcia. Altri begli esempi di «musica turca» possono essere colti nella Quarta Sinfonia di Brahms e nella sinfonia militare di Haydn; e, ancora, nell’ouverture del Guglielmo Tell di Rossini nonché nella marcia del Tannhäuser di Wagner. Nella Sonata per pianoforte in La maggiore K 331 di Mozart c’incontriamo con un incantevole «rondò alla turca»62: ed è stato segnalato più volte che si è dinanzi a un motivo destinato a diventare un «classico» nel jazz americano, come possiamo riscontrare ascoltando Dave Brubeck e Ahmad Jamal. Nell’opera si affermarono e si diffusero non solo la musica, ma anche le ambientazioni «musulmane» in genere, «arabe» o più precisamente ottomane in particolare: a partire dall’opera in tre atti di Johann W. Franck Cara Mustapha, andata per la prima volta in scena ad Amburgo nel 1686 e che col piglio dell’attualistica «presa diretta» si rifaceva all’episodio del gran visir Kara Mustafa, giustiziato dopo l’assedio di Vienna63; e, ancora, da un romanzo di straordinario successo, La turcha fedele di Teodoro Mioni, pubblicato nel medesimo anno e che ebbe molteplici riedizioni64. L’opera di Händel Tamerlano, del 1724, narra ancora una volta, sulla base di Marlowe, la sconfitta, la cattura e la prigionia del sultano Bajazet I da parte del conquistatore dell’Asia centrale65. La Entführung aus dem Serail di Mozart66 era stata preceduta da numerose opere con trame e personaggi simili, come il già citato La rencontre imprevue di Gluck, nel 1764, che reca il sottotitolo di Pélerins à la Mecque ed è basato su una delle tante harem comedies all’epoca

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di moda67, o La schiava liberata di Martinelli e Jommelli nel 176968. Ma si farebbe un torto al grande genio tarantino per nascita ma napoletano d’adozione, Giovanni Paisiello, se non si ricordasse che appunto nel 1769 egli metteva in scena proprio a Napoli, su libretto di Pietro Mililotti, l’opera buffa L’arabo cortese. In due capolavori mozartiani, la Entführung aus dem Serail del 1782 e la Zauberflöte del 1791, si affrontano quasi le due anime dell’orientalismo, rappresentate da due modi opposti di concepire il Turco: nella prima all’avido, crudele e dispotico eunuco Osmin si oppone la liberalità e la nobiltà d’animo del pas¸a Selim; nella seconda, al saggio e solare re-sacerdote Sarastro il malvagio schiavo moro Monostatos. E va notato come in entrambi i casi la crudeltà coincida con la condizione servile, la bontà illuminata con la funzione sovrana. Il grande Wolfgang Amadeus, peraltro, non aveva atteso la sua più splendida stagione per porgere orecchio a quella musica turchesca della quale la K 331 è il simbolo conosciuto e amato da tutti. Fino dal 1772, in margine al Lucio Silla, aveva composto un balletto Le gelosie del serraglio; dopo la Entführung aus dem Serail aveva proceduto sulla medesima strada con L’oca del Cairo nel 1779-80 e poi con il Così fan tutte del 1790. Frattanto, quello che a torto – per «colpa» di Pushkin69 – è considerato il rivale di Mozart, il legnaghese Antonio Salieri, aveva a sua volta offerto il suo contributo alla turquerie nel 1787 con il Cubilai Gran Khan dei tartari e con lo Axur re d’Ormus, su un libretto scritto dal Da Ponte sulla scorta della tragedia Tarare del Beaumarchais. L’avventura egiziana del Bonaparte conferì uno straordinario impulso, insieme con l’egittomania, anche al nascente orientalismo romantico: che aveva nei mondi oniricamente evocati arabo e persiano, ma anche nei più solidi riferimenti turco e ispano-moresco, le sue fonti principali di ispirazione. Ne nacque l’opera Abbenemat e Zoraide di Giuseppe Nicolini, messa in scena alla Scala nel 1805 su libretto di Luigi Romanelli, la cui lontana fonte ispiratrice era il Gonsalve de Cordova, ou Grenade reconquise, una vecchia tragedia francese di Jean Pierre Clary de Florian rappresentata a Parigi nel 1713. Seguì Les Abencerages, ou l’étendard de Grenade di Luigi Cherubini, rappresentata a Parigi nel 1813 su libretto di Etienne de Jouy, che ne riprendeva ispirazione e trama. L’italiana in Algeri 70 del 1813, Il Turco in Italia del 181471, il Maometto II del 182072, Le siège de Corynthe del 182673 e la farsa Adina del medesimo anno74 sono le tappe attraverso le quali Gioacchino

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Rossini portò avanti, genialmente rielaborandoli e rinnovandoli, i motivi etico-romanzeschi drappeggiati «alla turca» nell’opera lirica75. Entrava quindi in scena Gaetano Donizetti, il quale nel 1822 presentava all’Argentina di Roma la Zoraide in Granata, su libretto di Bartolomeo Morelli tratto a sua volta dal vecchio dramma del Clary de Florian già musicato dal Nicolini e dal Cherubini. ll Donizetti ritentò la sorte con un remake della Zoraide, cioè con l’Alaor in Granata rappresentata a Palermo, dove il musicista bergamasco dirigeva il Teatro Carolino, nel 1826, l’anno stesso della pubblicazione della novella Le dernier des Abencerages di René de Chateaubriand: ma la proposta non ebbe successo76. Meglio andarono le cose due anni dopo, nel 1828, con l’opera buffa Alina regina di Golconda, nel quale il solito fecondo librettista Felice Romani ricorreva al caleidoscopio di amori, equivoci e rapimenti già utilizzato dall’Anelli per il Rossini: e il titolo stesso dell’opera ricordava difatti la farsa rossiniana rappresentata due anni prima. Nel 1828 il vercellese Pietro Generali musicò un altro libretto del Romani, Il divorzio persiano ossia il gran bizzarro di Bassora. Un altro musicista-orientalista non privo d’ingegno, l’altamurano Giuseppe Saverio Mercadante, si era cimentato nell’ormai affermato genere con il balletto Il califfo generoso, del 1818; e vi tornò sia con una composizione strumentale, Il lamento dell’arabo77, sia più tardi, nel 1848, con un’altra opera su libretto di Francesco Maria Piave, La schiava saracena. L’anno successivo rispetto all’exploit del Generali e del Romani, il vulcanico librettista tornava alla carica ispirandosi alla Zaire di Voltaire per l’opera Zaira, con la musica del cremasco Giovanni Bottesini con la quale, il 16 maggio del 1829, s’inaugurò il Teatro Ducale di Parma. Per una delle solite ironie cronologiche della sorte, che si incontrano spesso nella storia, in quello stesso 1826 che vedeva trionfare nei teatri europei Le siège de Corynthe e nelle librerie Le dernier des Abencerages, il sultano Mahmud II soppresse brutalmente il corpo dei giannizzeri e quindi anche la sua celebre banda. La musica militare turca, da allora, si giovò per sopravvivere di musicisti italiani: tra i quali Giuseppe Donizetti, fratello di Gaetano, il cui Alaor aveva fatto fiasco a Palermo proprio nello stesso anno della strage dei giannizzeri. Insieme con la musica e il teatro, la «moda» turca entrò con prepotenza nei boudoirs, nei saloni delle feste e nei balli mascherati d’Europa a partire dal Settecento. «Pseudo-sultani e sultane otto-

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mani apparvero ovunque, seguendo una moda iniziata da madame de Pompadour alla corte di Luigi XV. In Polonia, ad esempio, nel periodo del cosiddetto ‘sarmatismo’, i nobili indossavano costumi ottomani e cavalcavano cavalli arabi. Caffè in stile ottomano si popolarono in tutta Europa di europei che indossavano sete luccicanti, pantaloni rigonfi, babbucce ‘turche’ con la punta all’insù, fumando pipe ‘turche’ e mangiando dolci ‘turchi’»78. In realtà, lo stile «alla sultana» aveva conquistato le donne francesi ben prima della Pompadour. I travestimenti da «turco» erano apprezzatissimi fin dal Seicento durante le celebrazioni del carnevale. A una festa carnevalesca offerta dalla corte di Francia, nel 1658, la «regina ambulante» Cristina di Svezia si era presentata appunto abbigliata «alla turca»; più tardi, tale travestimento andò molto di moda tra le dame francesi, come sappiamo dalle testimonianze che ce ne hanno lasciato non solo diaristi e memorialisti, ma anche pittori come Jean-Etienne Liotard e Jean-Marie Nattier. La guerra, i giochi militari, il mondo cavalleresco non poterono evitare di venir investiti in pieno dall’ondata orientalista. Abiti, armi e cavalli turchi (ma anche «moreschi» o tartari) facevano sovente la loro comparsa nelle giostre e nei tornei79, come accadde durante la visita dell’imperatore Massimiliano II a Dresda nel 1564 e nelle feste offerte a Bayonne nel 1656 da Caterina de’ Medici. Nel carosello inscenato a Parigi tra il 5 e il 6 giugno 1662 per festeggiare la nascita del Delfino, figurava una «brigata di turchi» guidata dal principe di Condé il quale calzava un turbante sormontato da una mezzaluna d’oro. Gioielli del genere non erano per nulla inconsueti. Altri oggetti, spesso molto preziosi, erano il frutto dell’orientalismo dei principi: per Augusto il Forte di Sassonia il gioielliere di corte Johann Melchior Dinglinger confezionò ad esempio nel 1707 un gioiello-giocattolo costituito da una vera e propria scenografia di corte ispirata all’India musulmana, un «teatrino» con personaggi in oro, argento, smalti e pietre preziose che fantasticamente riproduceva la sala da trono del Gran Moghol80. Fu ancora Augusto a presentarsi nel 1709 in fastoso abito da «Chef der Mohren» nella festa di corte conosciuta come «il Carosello delle Quattro Parti del Mondo». Il Monostatos della mozartiana Zauberflöte non era lontano. Al di là di tornei e caroselli, negli eserciti effettivi entrarono, oltre alle bande musicali di ispirazione ottomana, costumi turchi, armi turche e perfino – sia pure di rado – turchi veri e propri. Guerrieri musulmani, o abbigliati all’orientale, erano già sporadicamente appar-

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si in Occidente: sia nella Spagna della Reconquista, sia in Italia dove gli arcieri arabi di Federico II e di Manfredi di Svevia erano stati qua e là imitati, soprattutto da qualche signore ghibellino. Gli Ordini militari, come i Templari e i Giovanniti, si servivano di mercenari arabi e turchi come forze sussidiarie. Nel primo Cinquecento i veneziani introdussero soldati ottomani nel loro esercito: nel 1509, a Padova, erano acquartierati circa cinquecento mercenari turchi81. Ausiliari tartari musulmani erano usati negli eserciti russo e polacco. Il maresciallo Maurizio di Sassonia, vincitore della battaglia di Fontenoy del 1745 e perciò premiato da Luigi XV con il prestigioso dominio di Chambord, si era creato nel ’43, e ottenne di conservare in assetto e servizio di guerra anche in periodo di pace, un reggimento di cavalleria leggera conosciuto come «Saxe-Volontaire»82, dove militavano tedeschi, ungheresi, polacchi, valacchi, tartari, turchi e perfino dei nègres provenienti dalla Guinea e dal Senegal. In questo reggimento – che dava parecchi problemi alla gente dei dintorni di Chambord, ma che era anche un richiamo per molti che venivano ad ammirarlo fin da lontano – i lancieri erano chiamati uhlans, ulani, una parola che attraverso il polacco proveniva dal turco oglan, servitore; e un ufficiale turco di quel reggimento, il capitano Babac, divenne addirittura tenente colonnello: il primo alto ufficiale turco che avesse mai servito sotto il Re Cristianissimo, scherzava il maresciallo di Sassonia83. Nel 1748, Luigi XV passò in rivista il reggimento «Saxe-Volontaire» a Parigi, presso la collina di Chaillot: un avvenimento che richiamò una vera e propria folla plaudente. Ma quando il maresciallo di Sassonia venne a morire, nel 1750, il prestigioso reparto fu sciolto: da allora, le fonti ci consentono purtroppo di seguire solo la sorte di qualche componente di esso, che trovò rifugio in altre formazioni militari. Molti di quei cavalleggeri avranno avuto una fine più malinconica. Ma vale la pena di ricordare che il principe Maurizio era appunto un sassone. In Germania, la familiarità con i turchi e gli asiatici era più profonda che non in Francia, dove si aveva semmai qualche frequentazione nordafricana. A Dresda, i principi elettori di Sassonia tenevano una loro «guardia giannizzera», abbigliata fantasiosamente alla turca84 e Federico Guglielmo I di Prussia, il «Re-Sergente», aveva al suo servizio un vero reggimento di centoventi giganteschi granatieri provenienti dall’impero ottomano, la «Guardia turca» per la quale egli fece costruire nel 1732, nella sua residenza di Potsdam, la prima moschea mai aperta in Germania85. Più tardi, Napoleone avrebbe immesso un reparto di «mamelucchi» nella sua Guardia Imperiale.

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Dietro tutti questi esempi, e molti altri che si potrebbero addurre, pulsa senza dubbio una profonda e potente rivelazione dell’Alterità, che non a caso s’impose proprio nel periodo individuato da Paul Hazard come quello della «crisi della coscienza europea»: una crisi di cui quella rivelazione fece intrinsecamente parte. L’orientalismo progredì di pari passo con un rinnovato gusto per l’antichità greca, risorto dalle sue ceneri quattro-cinquecentesche dopo la lunga età barocca durante la quale, nella querelle des anciens et des modernes originata dal concetto di progresso implicito nella filosofia cartesiana, i primi erano stati clamorosamente sconfitti dai secondi; del resto, verso la fine del Settecento, dopo l’«Altro-da-Sé» geoculturale, l’Oriente appunto, e il remoto – ma fondante – «Altro-da-Sé» epocale-cronologico, cioè il «classico», l’«antico», s’impose gradualmente anche un più cronologicamente prossimo e fino ad allora profondamente disprezzato Altro-da-Sé temporale, quello medievale o, per usare un termine inventato da Giorgio Vasari e destinato a uno straordinario futuro, gotico. In fondo, si tratta di differenti dimensioni della mentalità cosmopolita e del gusto «esotico», che si distendeva tanto nel tempo quanto nello spazio. L’Età dei Lumi avrebbe presto imparato a scomporre il concetto e l’immagine dell’Oriente in una quantità di «Orienti», dal greco-bizantino all’arabo al turco al persiano all’indiano al cinese fino a quello giapponese. Ma, fra essi, a quello turco – associato, per evidenti ragioni di contiguità geopolitica mediterranea, a quello arabo e a quello berbero86 – spetta la primogenitura: si può affermare che l’orientalismo in quanto dimensione originale, intrinseca e irrinunciabile di quel che più volte si è tentato di definire come «civiltà occidentale» si propose anzitutto come «la scoperta in tempo reale, da parte dei viaggiatori e degli artisti, del variegato universo dell’impero ottomano»87. Un potente contributo all’interesse per i costumi e la vita quotidiana turca e araba, tra Grecia, Vicino Oriente ed Egitto, era stato fornito fin dal tardo medioevo dai viaggiatori in Terrasanta e dalle loro memorie, presto assurte a un preciso sottogenere letterario e spesso arricchite di immagini talora fantasiose, ma talaltra al contrario molto scrupolosamente fedeli alla realtà. Con il nascere della stampa, a metà Quattrocento, le xilografie e più tardi le acqueforti che riproducevano i panorami o i principali monumenti di Gerusalemme e della Terrasanta e quindi aspetti, personaggi, paesaggi, perfino flora e fauna di quelle terre si erano sempre più diffusi. Notissimo prototipo, al riguardo, è l’opera Peregrinationes in Terram

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Sanctam di Bernard von Breydenbach, che si era recato in Oriente accompagnato da un ottimo pittore di Utrecht, Erhard Reuwich: la sua cronaca, accompagnata dalle illustrazioni dell’artista, venne pubblicata la prima volta a Magonza nel 1486 e conobbe un travolgente successo88. Ma i «pellegrini» d’Oriente, a cominciare dalla metà del Cinquecento, erano divenuti sempre più dei viaggiatori alla caccia di informazioni sull’impero ottomano e di anticaglie da rintracciare, da copiare sui loro taccuini, da comprare o da rubare per alimentare le loro o le altrui collezioni. Viaggiare in mare da Marsiglia, o da Genova, o da Napoli, o da Venezia verso Istanbul significava fatalmente imbattersi non solo con le memorie della prima età cristiana – dai viaggi di Paolo in poi –, ma anche con quelle della Grecia classica, addirittura con i luoghi omerici: il della Valle ne è un esempio cospicuo. Al di là della letteratura colta o di quella devota nonché dei libri propriamente scientifici, la stessa stampa «popolare» e la letteratura di colportage ponevano sempre più spesso il lettore comune – che di solito leggeva a voce alta quel che acquistava o di cui entrava comunque in possesso a più ampi circoli di analfabeti, in famiglia o tra gli amici – in contatto con il mondo «turco», «infedele», «orientale»: nella celebre e diffusa «Bibliothèque Bleu» si ospitavano, dopo l’edizione delle Mille e una notte tradotte nel 1704 da Antoine Galland, almeno i due più celebri racconti di quella raccolta, quello di Aladino e quello di Ali Baba; erano poi comuni i pronostici e le «profezie», che alludevano molto spesso a cose accadute o che avrebbero dovuto verificarsi «in Oriente». Intanto costumi, cibi, bevande, medicinali, tessuti89, oggetti di uso comune o da collezione90, atteggiamenti, parole e perfino persone provenienti genericamente «dalla Turchia» o «dall’Oriente» penetravano poco a poco, spesso quasi casualmente, anche nella vita quotidiana. Magari si trattava di fanciulli o di ragazzini arrivati per caso, aggregati al viaggio di ritorno di qualche gentiluomo o di qualche mercante, di servitori domestici91. Chi aveva vissuto a lungo in un ambiente nel quale costumi e consuetudini «orientali» erano comuni – come i cavalieri di Malta, ma anche come gli ex-schiavi nei paesi musulmani che erano stati catturati e dopo un certo periodo di tempo rilasciati, di solito dietro riscatto – ordinariamente non li deponeva neppure una volta rientrato stabilmente in Europa. C’erano poi un po’ dappertutto, da Tolone a Marsiglia a Livorno a Palermo, le ciurme turche delle galee, che hanno se non altro insegnato ai loro

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ospiti a cucinare vari tipi di bouillabasse, di cacciucco, di cuscus di pesce. C’erano infine gli abitanti delle aree di frontiera, dal Nordafrica alla Sicilia alla costa adriatica. Come dice uno dei personaggi de Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, un «levantino» appunto, il Raguseo: «In casa mia, son tutto turco».

Epilogo

Nel 1684 – l’anno stesso dell’inizio della campagna militare che, sospesa con il trattato di Carlowitz e quindi ripresa, avrebbe condotto nel 1718 alla pace di Passarowitz che avrebbe concluso il vorticoso susseguirsi di eventi inaugurato trentacinque anni prima dall’aggressione ottomana schiantatasi sotto le mura di Vienna – l’eminente mercantilista di corte Philipp Wilhelm von Hörnigk, protestante, pubblicava il suo Oesterreich über alles, wenn es nur will. Considerando nel loro complesso i territori austriaci, boemi e ungheresi, egli ne sottolineava le ricchezze in termini di risorse naturali e di materie prime a riprova del fatto che essi non avevano – mercantilisticamente, appunto – bisogno di nulla al di fuori di sé. Dopo sette lustri passati quasi ininterrottamente sul campo di battaglia e accompagnati da un’intensa attività politica e diplomatica, la Monarchia d’Austria si presentava ormai come matura per entrare nel consesso delle grandi potenze europee giocandovi un ruolo che avrebbe mantenuto per due secoli. Ed era da quella terribile estate viennese che la nuova fase storica aveva preso le mosse. Le date «da cui comincia la nuova storia» hanno com’è noto un semplice valore convenzionale. Che deve essere di continuo rimesso in discussione, pena il radicarsi di pigri e pericolosi luoghi comuni. Ma hanno anche un valore simbolico. Che, proprio in quanto tale, non deve essere sottovalutato. Il 12 settembre del 1683 è senza dubbio una di tali date. Sia perché come tale è stata concepita e continua ad esserlo da una ininterrotta tradizione storiografica, sia perché in effetti quel giorno – con la splendida vittoria delle armate austro-germano-polacche cui erano aggregati volontari provenienti praticamente da tutta l’Europa cristiana, la fuga disordinata del temibile e sterminato esercito ottomano e il sostanziale disimpegno dei suoi più o meno coatti e infidi alleati – segnò un ribaltamento nei rapporti di forza nell’intero quadrante sud-orientale d’Europa e al tempo stesso (nonché

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soprattutto) l’irreversibile fine del mito dell’invincibilità ottomana in terraferma: e in modo molto più deciso e radicale di quanto la giornata di Lepanto, per i turchi una battaglia perduta all’interno di una guerra vinta, non avesse segnato la fine di quello della loro invincibilità sul mare. Non è certo il caso di spingersi con ciò fino ai limiti ucronici – molto cari peraltro agli «storici della domenica» prediletti dai media – di chi disegna scenari terribili d’un Islam dilagante su tutta l’Europa, se gli ottomani non fossero stati fermati sotto le mura della capitale austriaca. Quel che è stato detto per i «miti» di Poitiers nel 7321 e di Lepanto nel 15712 è tanto più vero per Vienna nel 1683. Certo però quell’episodio segnò una definitiva e per alcuni versi irreversibile battuta d’arresto dell’espansione ottomana. Non che, dopo allora, non si registrassero altri successi vuoi terrestri vuoi navali delle armi ottomane; ma senza dubbio da allora, e dalla ventennale guerra che ne seguì, si avviarono tanto una sostanzialmente progressiva e irreversibile ritirata della potenza ottomana dal territorio europeo, quanto una nuova e coerente politica danubiana degli Asburgo d’Austria, una Südostpolitik che avrebbe condotto a un assetto dell’area balcano-danubiana destinato a venir posto in discussione solo nell’ultima fase del processo di liquidazione dell’impero sultaniale, quella caratterizzata dalla dinamica imposta dai nuovi obiettivi imperialistici della potenza czarista e dal suo cinico uso degli strumenti ideologici del panslavismo e dell’insorgenza dei vari nazionalismi balcanici. Nella pratica, la fase storica aperta dal 12 settembre 1683 si concluse soltanto nel 1914 con l’inizio del suicidio dell’Europa che avrebbe avuto, come suo primo catastrofico evento di rilievo, la scomparsa dei tre imperi sovranazionali che per oltre due secoli avevano garantito all’ampia area compresa tra Adriatico, Dnestr e Bosforo pace ed equilibrio: una pace e un equilibrio duraturi, per quanto occasionalmente attraversati da crisi, e che da allora ai giorni nostri non sono stati più ritrovati, com’è provato anche da recenti vicende. Nei trentacinque anni che separano l’assedio di Vienna dalla pace di Passarowitz l’Austria si affermò come grande potenza continentale in luogo di una Spagna ormai in decadenza, di una Francia che stava entrando in una lunga fase di ristagno e di un sultanato ottomano i cui giorni più gloriosi erano ormai un ricordo. Intanto, il «secolo dei Lumi» – un «secolo breve», stretto tra i grandi trattati del secondo-terzo decennio e il fatidico Ottantanove – si apriva

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nel segno delle prospettive di pace e di riforma. Attraverso i trattati di Utrecht del 1713, di Rastadt del ’14, di Westminster del ’16, di Passarowitz del ’18, di Stoccolma e di Frederiksborg del ’20, di Nystad e di Madrid del ’21, le armate d’Europa progressivamente si demobilitarono mentre le potenze passavano a tessere nuove reti di alleanze e, d’altra parte, gli eserciti si avviavano a divenire istituzioni permanenti e ordinate. Ci sarebbero state senza dubbio altre guerre. Ma la guerra avrebbe per lunghi decenni dato l’impressione di aver cambiato volto e di esser divenuta sempre più limitata, meno distruttiva, meno disumana. Che almeno nel lungo periodo ci si illudesse, è vero: il fin de siècle avrebbe condotto come sappiamo a una tragica svolta. Ma tale discorso in questa sede non ci riguarda. D’altronde, solo a posteriori e con una buona dose di volontà schematizzatrice e periodizzatrice si potrebbe sostenere che i trattati di Passarowitz segnino di per sé l’inizio della sia pur lenta, ma irreversibile, eclisse della potenza ottomana. Le armate sultaniali restavano temibili: e avrebbero riportato altre vittorie. La stessa ormai acquisita «superiorità dell’Occidente» in termini tecnologici e militari, che nella nostra prospettiva appare evidente, era un fatto ben lungi dall’essere universalmente accettato. Il Turco si era alquanto rapidamente impadronito della tecnologia militare per quel che concerneva artiglieria, fortificazioni e navigazione; anche se ci sarebbe voluto ancora molto tempo prima che esso si familiarizzasse sul serio con le questioni riguardanti equipaggiamento, logistica, tattica, cartografia, finanziamento delle forze armate. Quel che nell’impero sultaniale riguardava la Porta e gli organi di governo, in Europa concerneva invece l’intera società civile. In realtà, la rivoluzione militare moderna è stata un aspetto delle trasformazioni sociali, civili, culturali ed etiche dell’intera modernità occidentale: ed è questo che i sultani e i loro governi, i quali ancora per molto tempo continuarono a pensare che il segreto della potenza cristiana stesse nella pura e semplice tecnologia, non riuscivano a comprendere. Per lunghi decenni essi continuarono a reclutare e a retribuire ingegneri ed esperti occidentali: quel che non capivano è che in quei «barbari occidentali», dei quali ammiravano le realizzazioni tecnologiche ma disprezzavano la cultura, l’eccellenza tecnologica era invece frutto proprio di una profonda rivoluzione culturale avviata già almeno dal XII-XIII secolo e maturata fra XV e XVI. Durante quella profonda rivoluzione culturale, scandita in lunghe fasi e attraversata anche da profonde rotture e da significative

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svolte, la respublica christianorum aveva ceduto progressivamente il passo all’Europa ancora cristiana, sì, ma ormai segnata da uno scisma che avrebbe finito col dividerla anche in senso latitudinario e con l’entrare in un complesso gioco di ridefinizioni istituzionali ed etnogeografiche; mentre la contesa tra le potenze del continente si dislocava sugli oceani, si apriva la corsa al possesso del pianeta, si inauguravano «economia-mondo» e «scambio asimmetrico», nasceva il lungo processo di globalizzazione e, insieme con esso, di secolarizzazione. Di tale processo Paul Hazard, scrivendo e studiando in un altro intenso momento di crisi della coscienza europea, gli anni Trenta del secolo scorso, testimoniò la dinamica relativa appunto ai medesimi anni dell’«estate indiana della crociata»: che di tale crisi è una componente non secondaria. Mentre la potenza ottomana veniva arrestata e costretta a retrocedere nei Balcani e sul Mediterraneo, negli stessi anni nei quali tramontava il Sole di Versailles, si concludeva l’ultima «guerra santa» e l’Europa cristiana cedeva definitivamente il passo all’Occidente, che altro non è se non la Modernità. La fine delle imprese crociate costituisce – al di là dei suoi nominalistici, malintesi e pretestuosi revivals – una parte essenziale della Entzauberung, del weberiano «disincanto del mondo».

Note

Prologo 1 Nel 1683 la Pasqua era caduta il 18 aprile: ciò consente di stabilire che l’11 settembre era un sabato. 2 Beatificato nel 2003. 3 L’attuale Kahlenberg è appunto la collina che all’epoca era ancora denominata Josephsberg; ma nel 1683 quella che era chiamata Kahlenberg, e da cui in effetti si avviò l’offensiva del 12 settembre, era la medesima che dal 1693 in poi, per volontà dell’imperatore Leopoldo I, assunse il nome di Leopoldsberg (m. 423) e sulla quale sorge la chiesa da lui voluta per solennizzare la vittoria. Per non cancellare il glorioso nome di Kahlenberg, cui la vittoria del 12 settembre era ormai collegata, lo si spostò al vicino e più alto Josephsberg, immediatamente a sud-ovest, e il primitivo nome scomparve; la chiesetta a san Giuseppe dedicata però c’è ancora ed è stata restaurata. Il nome Kahlenberg («Monte Calvo»), con probabile allusione al suo aspetto, equivale onomasticamente parlando a «Golgotha», «Calvario». In Europa esistono molti «Monti Calvi», spesso sede di paurose leggende: si pensi alla sinfonia di Modest Musorgskij, Una notte sul Monte Calvo, scritta originariamente per solo pianoforte nel 1860, mai presentata in pubblico, e poi su originale partitura del 1866-67 rielaborata nel 1868 da Rimskij-Korsakov, che ne ha offerto la versione divenuta celebre. È la storia del giovane Gritzko, che innamorato si ubriaca e cade in un sonno profondo nel quale sogna di assistere non visto, sul Monte Calvo d’Ucraina (la Lysa Gora presso Kiev), al sabba di diavoli e streghe al cospetto di Satana, la notte di San Giovanni (il 24 giugno); il terribile spettacolo è interrotto all’alba dal suono lontano delle campane di un’umile chiesa, che basta da solo a spaventare il potente principe dei demoni e a mettere in fuga i suoi seguaci, dissolvendo l’incubo. La sinfonia fu stupendamente presentata in un film d’animazione di Walt Disney del 1939, Fantasia, la colonna sonora del quale era diretta da Leopold Stokowski. 4 Marco d’Aviano 1990, p. 329. 5 Ivi, p. 330. 6 BAV, Barb. Lat. 6392, Avviso manoscritto, Linz, 14.9.1683, ff. 56r-57r, cit. in G. Platania, La Polonia di Giovanni Sobieski e l’«infedele turco» nelle inedite carte di Tommaso Talenti segretario regio, in Platania 2000, p. 159. 7 Oggi, appunto, Leopoldsberg: cfr. supra, nota 3. 8 All’interno della «Piccola Età Glaciale» durata dal XIV al terzo quarto del XIX secolo – durante la quale dovettero esserci comunque anche periodi di siccità: nel 1631 in Sassonia non piovve mai fino al 17 settembre, giorno della battaglia di Breitenfeld –, gli anni compresi tra 1676 e 1687 furono relativamente clementi, ma tuttavia molto freschi e piovosi; il Late Minimum si raggiunse nel 1645-1715. Nel

Note

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1683, la vendemmia cominciò in Borgogna appunto il lunedì 13 settembre, con soli tredici giorni di ritardo rispetto alla data formale d’inizio, il 31 agosto (nel 1645, all’inizio del Late Minimum, il ritardo era stato di 44 giorni): in felice coincidenza con il diffondersi della notizia relativa alla vittoria viennese. Il successivo biennio 1684-85 sarebbe stato, climaticamente parlando, il migliore del periodo, con arretramento dei ghiacciai alpini e buoni raccolti: il che facilitò l’avvìo della campagna militare del Re Sole tra Lussemburgo e Palatinato, ma anche di quella austriaca nei Balcani (Le Roy Ladurie 2007, pp. 50-1, 167). 9 Cioè una ventina di chilometri. Una lega è grosso modo la distanza che un uomo o un cavallo al passo possono coprire agevolmente in un’ora, quindi più o meno 5 chilometri. Gli «stivali delle sette leghe» della fiaba andavano dunque a 35 chilometri all’ora, velocità vertiginosa prima del treno a vapore. 10 Tale edificio è ora scomparso; sulle sue rovine sorge oggi la chiesa di San Giuseppe, che in onore di Giovanni III e dei suoi polacchi ospita una copia dell’icona della Vergine di Czestochowa e, sulla facciata, una lapide commemorativa della vittoria. L’episodio della messa fa per la verità parte di un resoconto della battaglia tradizionalmente ed unanimemente riferito, ma non trova diretto e sicuro riscontro nelle fonti originali. 11 von Pastor 1932, p. 130.

1. Selva araldica Cfr. Ridgeway 1908. Di «mezzelune turchesche» parla Savorelli 1999, p. 101, con riferimento all’affresco della Leggenda della croce di Piero della Francesca in S. Francesco d’Arezzo. 3 Cfr. Galbreath - Jéquier 1989, p. 209 e, in genere per il simbolo in oggetto, ad indicem. 4 Savorelli 1999, pp. 85-6. 5 Popoff 2009, part. pp. 199-308, e passim. 6 Cardini 2000, p. 148. 7 F. Dartois-Lapeyre, Turcs et turqueries dans les «représentations en musique» (XVIIe-XVIIIe siècles), in Turcs et turqueries 2009, pp. 167-8. 8 Per lo statuto araldico-emblematico dell’epoca, si può far riferimento alle tavole che illustrano l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, e dove il crescente lunare come emblema dell’impero ottomano è ormai attestato con sicurezza: cfr. le acqueforti ben riprodotte in L’Encyclopédie 2002. 9 Il leone è simbolo comune presso molti dinasti dell’Asia centrale; ma in particolare, nel mondo sciita, esso rimanda al cognato e genero del profeta, ‘Ali, detto appunto Haidar, «il Leone»; Haidar si chiamava anche lo sceicco safavide (m. 1488) che, in seguito a un sogno, aveva adottato a sua volta il turbante rosso di ‘Ali, imitato da quegli sciiti persiani presenti anche in Turchia e chiamati dai turchi, per questo, «teste rosse» (kyzil-bas¸ ). 10 Selim I regnò tra 1512 e 1520. Nel 1513 rinnovò gli accordi di tregua con Venezia e fu sul punto di allearsi con essa (cfr. Pedani 2010, p. 63). Fuori dell’area mediterranea, le acquisizioni sue e del suo successore Solimano (1520-1566) consisterono nell’accesso al Mar Rosso e quindi all’Oceano Indiano fino dal 1517, nella 1 2

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conquista del Suakin (Sudan) nel 1520, in quella dell’Iraq e di Bassora nel 1538 (che consentiva agli ottomani uno sbocco sul Golfo Persico) e nell’insediamento nella città eritrea di Massaua nel 1554. L’affacciarsi sull’Oceano Indiano implicava uno scontro con i portoghesi, padroni delle rotte che lo solcavano: nel 1569 una flotta ottomana attraversò addirittura l’oceano per andar a sostenere il sultanato di Atjeh contro i portoghesi di Sumatra (Panzac 2009, p. 9). 11 Haskins 1995. 12 I territori storici di Carinzia e Carniola corrispondono oggi grosso modo alla Slovenia. La Carniola, in sloveno Kranjska, in tedesco Krain, coincide con l’alto corso della Sava e non va confusa con la Carnia, compresa oggi nella regione Friuli-Venezia Giulia e corrispondente al bacino montuoso del Tagliamento fino alla confluenza con il Fella. 13 Con l’espressione «Gransignore» o, più spesso, «Gran Signore», o anche «Gran Turco», pronunziata o scritta in italiano indipendentemente dal contesto linguistico in cui veniva usata, s’indicava abitualmente fra Cinque e Seicento il padis¸ ah, cioè il sultano ottomano. 14 Cfr. Babinger 1967, pp. 278-9, 386-90, 397, 436; Preto 1975, pp. 32-4; Pedani 1994a. 15 Così il Diario ferrarese 1937, p. 301. 16 Nel 1479, l’ambasceria ottomana spedita a Venezia aveva, insieme con l’incarico di trattare la pace tra il sultano e la Serenissima, anche quello di trovare e invitare a Costantinopoli non solo un architetto, un fonditore di bronzo, un orologiaio, un vetraio di Murano e perfino – nonostante il divieto coranico – un pittore in grado di ritrarre le sembianze del Gran Signore. Il governo veneziano spedì sul Bosforo quanto aveva di meglio, Gentile Bellini: che ritrasse il sultano, il quale docilmente posava per lui mentre il Turco massacrava i cristiani a Otranto. Vero è che Mehmed aveva chiesto al Bellini di dipingergli anche un ritratto di Maria Vergine più bello delle icone greche, le quali non gli piacevano un granché. Altro paradosso: l’Islam vieta le immagini delle creature viventi, ma è teneramente devoto alla Vergine (Solnon 2009, pp. 66-70). 17 La pace del 1479 era costata a Venezia la perdita dell’isola di Negroponte e dell’Albania; d’altronde si era resa necessaria perché in quel momento la Serenissima, alleata di Firenze, stava appunto affrontando contro il papa e il re di Napoli la guerra scoppiata in conseguenza della congiura ordita nel 1478 dalla famiglia fiorentina dei Pazzi contro il Magnifico. Da qui i sospetti, non gratuiti, che i veneziani avessero qualcosa a che vedere, sotto il profilo diplomatico, con l’attacco turco a Otranto. Medesimo sospetto valeva per i fiorentini. D’altronde, nel 1477 era circolata la voce che i raid dei turchi in Friuli fossero stati in qualche modo facilitati dagli Asburgo e dal conte di Gorizia per mettere in difficoltà Venezia. Il Turco sempre come nemico, insomma: certo. Ma nemico di chi, con precisione? 18 Questo personaggio si trova citato come Jem (secondo la fonetica inglese), Djem (secondo quella francese), Gem (secondo quella italiana). Meglio, ormai, adottare la forma turca moderna che legge la c come una g dolce (cfr. G.E. Carretto, Turchi in Italia, in Platania 2006, p. 133 e infra, Nota critica, pp. 717-8). 19 La vicenda, molto nota, è richiamata sinteticamente in Solnon 2009, pp. 99-103. 20 Questa incursione è lo sfondo storico del dramma di Pier Paolo Pasolini I Turcs tal Friúl, ambientato a Casarsa e scritto nel 1944 sotto l’impressione dell’occupazione tedesca e della presenza degli ausiliari mongoli e cosacchi della Wehrmacht; cfr. anche Pedani 2010, pp. 53-60.

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Note

Cfr. Muir 2000, pp. 131-4. Va peraltro ricordato che tanto Leonardo nel 1502 quanto Michelangelo nel 1506 ricevettero dal sultano l’invito a recarsi presso di lui a Istanbul e a mettersi al suo servizio: entrambi lo accolsero con interesse, anzi mancò poco non accettassero, per quanto poi non ne facessero di nulla. Cfr. Solnon 2009, pp. 148-9. 23 Alludiamo al bel libro di Ricci 2002. 24 Cfr. Vasoli 1977; Niccoli 1987, pp. 110-8; Grafton 2002, pp. 139-60; Montesano 2003, p. 457. 25 Cfr. Heath 2002, p. 76. Nel 1507 il fratello di Girolamo, Gregorio, ebbe modo di presentare quel Vaticinium al re di Francia in persona, a Milano. 26 Cfr. Seneca 1962, p. 112; Preto 1975, pp. 36-45. In quell’occasione alcuni senatori veneziani avevano proposto di chiamare in Italia i turchi come alleati. 27 Il fatto che la riconquista di Gerusalemme costituisse il fondamento giuridico, oltre che la giustificazione morale ultima, dell’idea e della sistemazione giuridica della crociata, ha indotto qualche studioso a parlare di un «sionismo cristiano» contro l’impero ottomano. Una formula affascinante, ma molto azzardata (cfr. Chagniot 2001, p. 73). 28 Pedani 2010, p. 63. 29 Esattamente il 7 ottobre, ventiduesimo anniversario della battaglia di Lepanto. 30 Cfr. Concina 1983, pp. 29-30; Panciera 2005, pp. 197-212. 31 Cfr. Francesco Patrizi 2002, pp. 238-51, passim. 32 Le fonti in Galletti 2007, p. 66. 33 Per il concetto di «corsaro», la sua differenza rispetto a quello di «pirata» e le regole della «guerra di corsa», rimandiamo al succinto quadro tracciatone da Lo Basso 2002, pp. 107-22. 34 Bolla Constituti juxta, in MBR, I, pp. 565-6. 35 Cfr. Atkinson 1935. 36 Machiavelli 1975, p. 26. Sul rapporto tra storia, paura dell’Altro, sessualità e costruzioni identitarie sono interessanti le fini osservazioni di Ricci 2008. 37 Della Tuata 2005, p. 741. 38 Machiavelli 1989, p. 295. 39 Per il grande sultano, cfr. anzitutto il catalogo dell’esposizione parigina del 1990, Soliman le Magnifique 1990, nonché Sultan Suleyman 1988. Per la capitale di Solimano, Mantran 1994. 40 Cfr. Glossario, s.v. yeniçeri, e Palmer 1953. 41 Essi sarebbero rimasti il nerbo dell’esercito imperiale ottomano fino al 1826, quando vennero brutalmente sterminati e quindi soppressi. 42 Per i bektashi, il cui leggendario fondatore era un Haji Bektash immigrato in Anatolia dal Khorasan nella prima metà del XIII secolo, e che costituirono una confraternita con vari monasteri-santuario tra Anatolia e Rumelia fino alla loro soppressione nel 1826, quando i loro «figli spirituali», i giannizzeri, furono eliminati, cfr. Lewis 2007, pp. 167-8. 43 In tutto erano in sevizio 196 orta, ciascuna delle quali era almeno in teoria costituita di 100 uomini (per un quadro generale, Mansel 2003, pp. 210-28). 44 Furono comunque più volte riformati nel corso del Cinque-Settecento, anche in seguito alle loro relativamente frequenti rivolte (cfr. infra, e Djévad Bey 1882; Menzel 1902-3). 45 La conquista di Belgrado venne considerata l’avvenimento negativo principale di tutto questo periodo da un osservatore intelligente e competente come 21 22

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Auger Ghiselin de Busbecq, ambasciatore imperiale a Istanbul dal 1554 al 1562 (cfr. Dalle 2008, p. 95). 46 Cfr. Rossi 1927. Fu soprattutto con Solimano – per quanto già Mehmed II avesse in tal senso avuto fondamentale importanza – che si creò l’immagine del turco feroce, ma anche magnanimo: un’immagine di cui si sarebbe ricordato Torquato Tasso attribuendo il nome di Solimano al personaggio infedele più intenso del suo poema (cfr. Patrides 1963, pp. 126-35). Tuttavia, appunto a proposito di Rodi, il viaggiatore Pierre Belon che la visitò un trentennio dopo la conquista testimonia che gli ottomani avevano rispettato gli edifici dei cavalieri e perfino le pitture (Belon 2001, pp. 256-7). 47 Il sultano, tuttavia, non mantenne l’occupazione di Buda: fece incendiare e saccheggiare il palazzo, si appropriò di quel che rimaneva di quella che era stata la splendida biblioteca di Mattia Corvino e fece bruciare il borgo di Pest, sulla sinistra del Danubio, prima di riprendere la marcia. 48 De Vries 1999; cfr. infra, pp. 275-7. 49 Italianizzeremo d’ora in poi come Giovanni il suo nome, dal momento che si tratta di un regnante; quanto al cognome, abbiamo scelto la forma più semplice per gli italiani, anziché quella – forse preferita dagli ungheresi – Szapolyai, al genitivo locativo. 50 Chagniot 2001, p. 48. 51 Ibrahim era il figlio di un pescatore greco di Parga, modesto villaggio sulla costa dell’Epiro di fronte a Corfù; originariamente suddito di Venezia, preso prigioniero giovanissimo e venduto schiavo dai corsari, ebbe la fortuna di essere notato per la giovinezza e la grazia prima da una dama musulmana, vedova, e quindi dal governatore della città di Manisa, che era appunto Solimano. Quando questi divenne sultano, Ibrahim – intelligente, colto, poliglotta, buon musicista, molto avvenente e nel frattempo convertito all’Islam – fu accolto come paggio nel palazzo del Topkapi per esser poi promosso primo falconiere, quindi capo del servizio privato del Gran Signore e suo intimo: makbul, «favorito». Nel 1523 fu nominato gran visir e si trovò intanto cognato del sultano, che gli concesse sua sorella Khadija in sposa. Protetto dalla suocera Hafsa valide, madre del sultano, era appassionato della storia e dell’arte greca e innamorato della memoria di Alessandro Magno; era però malvisto da molti cortigiani invidiosi che lo accusavano di essere un musulmano tiepido se non addirittura ipocrita. La sua principale nemica era, soprattutto, l’energica, fascinosa e intrigante sultana Roxelane. La sua potenza e la sua ambizione finirono col perderlo: il sultano lo fece uccidere nella notte fra 14 e 15 marzo del 1536, con grande soddisfazione degli stambulioti che gli rimproveravano l’arroganza e la trasparente simpatia per gli europei, i «franchi» (Garnier 2008, p. 108; Solnon 2009, pp. 158-60; Pedani 2010, pp. 187-8). Per il carattere paradossale del suo destino è ricordato dai turchi come il Makbul/Maktub («l’Amato/l’Ucciso»): cfr. Venezia e Istanbul 2009, p. 70; Pedani 2010, pp. 187-90. 52 Garnier 2008, p. 19. 53 L’antica Adrianopoli, metropoli della Tracia. 54 Solnon 2009, p. 95. 55 Cfr. Angelucci 2007. 56 Forell 1945; Bohnstedt 1968. 57 Rothenberg 1963. 58 Cfr. In generale sul fenomeno corsaro barbaresco: Bono 1997; Bono 1999; Bono 2001; Heers 2001; Schiavi, corsari, rinnegati 2001; Lenci 2006; sul Barbarossa: Farine 1869; Mezali 2000; de Haëdo 2004.

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59 Soprannome peraltro anche dei suoi tre fratelli, a loro volta corsari. Il maggiore, Aruç, caduto in battaglia contro gli spagnoli, sarebbe stato il primo a portarlo: Mezali 2000, p. 106. 60 Sulla sua origine è nata ogni sorta di leggenda. La più pittoresca forse è quella secondo la quale egli sarebbe stato in realtà il gentiluomo-corsaro Antoine d’Authon, originario della Saintonge: essa fu in qualche modo legittimata da un discendente illustre del d’Authon, Pierre de Bourdeille sire di Brantôme (cfr. Lavallée 1997). 61 Cfr. R. Menéndez Pidal, Formación del fundamental pensamiento politico de Carlos V, in Charles V 1958, p. 2. 62 Nowell 1953; G. Zaganelli, La terra Santa e i miti dell’Asia, in Braudel 1985, p. 27. 63 L’impium foedus scandalizzava anche nel mondo musulmano: a Istanbul circolava difatti, come replica ad esso e difesa delle scelte di Solimano, la leggenda secondo la quale Mehmed II, il conquistatore della città, sarebbe stato figlio di una figlia del re di Francia (Mansel 2003, p. 183). 64 Si giocava sin dal Quattrocento sulla semi-omofonia di Turci e Teucri, una parentela che l’umanista Enea Silvio Piccolomini, poi papa Pio II e sostenitore deciso della crociata, aveva contestato; e si sottolineava come l’antica Troade si trovasse nel territorio dell’impero ottomano e non lontano dalla stessa Istanbul (il che, in effetti, non provava un bel niente). Contra, sulla gens Scytica, Preto 1975, pp. 11-22. 65 Cfr. Baron 1937, p. 106; pare che per bilanciare queste nere previsioni di parte cristiana Clemente VII abbia prestato orecchio benevolo ai «profeti» ebraici David Reubeni e Shelomò Molko, «che con le loro parole facevano balenare la possibilità dell’apertura di un secondo fronte contro l’impero ottomano» (Sestieri 1991, p. 13). L’idea d’un fronte ebraico-cristiano in funzione antimusulmana era comunque quanto meno ardita, in tempi di conversos: e comportava forse un sottinteso antispagnolo che al papa Medici non dispiaceva, almeno prima del trattato di Cambrai del 1529. 66 Tuttavia, la crociata non era soltanto, per così dire, nell’aria: c’era una notevole assuefazione ad essa, anche dal punto di vista giuridico-procedurale. Ad esempio, nei momenti di maggior crisi rispetto al Turco, molte città emanavano motu proprio provvedimenti di tipo suntuario tendenti a risparmiare risorse da accumulare per il comune sforzo religioso-militare (cfr. Muzzarelli 2002, p. 309). 67 Su questo straordinario personaggio, che parlava correntemente il turco e che era amico di musulmani e di ebrei, cfr. Barbarigo 1973; un suo ritratto ottocentesco, copia di una perduta opera tizianesca ufficiale (un «ritratto di stato»), è al Museo Correr (Cl. I, n.64). A proposito del suo figlio naturale Alvise, che Andrea (regolarmente sposato a Venezia) aveva avuto da una donna greca probabilmente «legittimata col rito turco del kabin» (Pedani 2010, p. 189) quando era «bailo» a Istanbul e che aveva studiato a Venezia e a Padova prima di preferir tornare presso gli ottomani – per i quali l’illegittimità non era un problema –, va ricordato che, era strettamente – forse fin troppo – legato al celebre gran visir e amico di Solimano, Ibrahim Pas¸ a; fu governatore di Belgrado e sul punto di divenire re d’Ungheria come vassallo del sultano; a lui si rivolse Pietro Aretino, quando offrì al sultano i suoi servigi. Alvise fu ucciso dagli ungheresi in modo atroce nel 1534 (Preto 1975, pp. 210-4; Garnier 2008, pp. 48; Solnon 2009, pp. 153-5). Di lui si sono occupati Nemeth Papo-Papo 2002 con una corposa biografia e di nuovo Nemeth Papo-Papo 2008, pp. 150-4, dove si sottolinea come sia un personaggio ancora poco studiato, nonostante una certa attenzione riservatagli ad esempio da

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Preto 1975 e 1994 e da altri. In Nemeth Papo-Papo 2002, pp. 268-78, il dettagliato e terribile racconto della sua fine. Controverso il tema di una sua pretesa conversione all’Islam, decisamente smentita da Paolo Giovio. Alcune notizie interessanti su di lui vengono efficacemente sintetizzate in Pedani 2010, pp. 189-91, dove si parla anche di altri veneziani che in pieno Cinquecento offrirono al Turco i loro servigi, come il corsaro Giovanni Contarini detto «Cazzadiavoli» e il marinaio, viaggiatore ed esperto in costruzioni navali Giovanni Francesco Giustinian. 68 Sull’elmo, opera mirabile e preziosissima del gioielliere Caorlini che sembrava riprendere e riassumere la simbologia della corona imperiale romano-germanica e del triregno papale associandola anche a citazioni bizantine e persiane, cfr. E. Concina, L’elmo di Solimano, in Concina 1994, pp. 57-76; cfr. anche Garnier 2008, pp. 52-5, Solnon 2008, pp. 123-5. L’idea di dotare il sovrano di un’insegna di potere con ogni evidenza «occidentalizzante» era stata a quel che sembra del «veneziano» gran visir Ibrahim. Conosciamo l’oggetto, che nel francese del tempo s’indicava come habillement de teste, cioè come casco, grazie a un’incisione su rame eseguita nel 1535 da Agostino Musi detto il Veneziano. Il sultano ricevette il prezioso casco il 24 giugno del 1532 all’atto del suo ingresso solenne in Belgrado, ma sembra che non lo abbia in effetti mai calzato. Ignota la fine dell’oggetto, che comunque non esiste più: ne restano raffigurazioni, sotto forma di stampe, a Parigi, a Londra e a New York. 69 Poco prima, il 16 marzo di quel medesimo anno, era stato esposto a Venezia nel palazzo ducale in modo da poter essere ammirato dai cittadini della Serenissima. Per volontà dell’occidentalizzante Ibrahim, l’ingresso trionfale di Belgrado – in concorrenza con quelli di Carlo V – era ispirato ai fasti di Alessandro Magno e dell’antica Roma. Cfr. Poumarède 2004, pp. 49-50. 70 Cfr. Belachemi 1984; Garnier 2008, p. 20. 71 La ricca aneddotica italo-meridionale relativa alle incursioni turche e barbaresche non solo dette luogo a leggende, canzoni e ballate, ma animò una tradizione che sarebbe più tardi sfociata in feste e spettacoli popolari, comprese le rappresentazioni dei pupi siciliani. Secondo un caratteristico fenomeno, l’ossessione per turchi e barbareschi venne trasferita all’indietro nel tempo, verso le incursioni dei ‘mori’ dei secoli IX-XI, e infine si focalizzò su una rivisitazione leggendario-folklorica dell’età di Carlomagno e dei paladini (cfr. Mori e cristiani 2005). 72 I Colonna erano fedelissimi di Carlo V e avversari degli Orsini, una famiglia spesso al servizio del re di Francia. 73 Orlando Furioso, XLVI, 8. 74 Cfr. T.C. Price Zimmermann, Paolo Giovio e la crisi del Cinquecento, in Paolo Giovio 1985, pp. 9-18; E. Travi, Paolo Giovio nel suo tempo, ivi, pp. 313-30, part. p. 324; nello stesso vol. cfr. il saggio di S. Tedeschi, Paolo Giovio e la conoscenza dell’Etiopia nel Rinascimento, pp. 93-116, dove si esamina fra l’altro anche il tema della sempre reiterata idea di un’alleanza euro-etiopica in funzione antimusulmana: un tema vivo fin dal Quattrocento e cullato specie da portoghesi e genovesi. Per il Giovio, cfr. le buone osservazioni di sintesi di Solnon 2009, pp. 140-1, dove si rammenta che gli undici sultani da lui citati nel Commentario furono oggetto delle biografie redatte in un’opera di un ventennio successiva, gli Elogia. Col Giovio, la tradizione della galleria degli uomini illustri, già ispirata a Plutarco e a Varrone ma nel Trecento ravvivata in termini di storia tripartita (antica, biblica, epica) nel sistema dei «nove Preux» e quindi reinterpretata in termini di rigoroso elogio dell’antichità dal Petrarca, si aprì definitivamente anche ai ‘barbari’ musulmani, nessuno dei quali figurava ad esempio in un modello fondamentale di questo tipo di sequenze, i ventotto ritratti di uomini illustri cristiani e pagani presenti nello «Studiolo» di

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Federico d’Urbino, portato a termine nel 1476. Vero è che gli affreschi dello stesso genere dipinti a Roma, Firenze e Padova tra XIV e XV secolo avevano già accolto, accanto agli eroi e ai sovrani pagani dell’antichità e del cristianesimo, almeno due personaggi musulmani, il Saladino e Tamerlano. Ma la sanzione di questa novità si ebbe nel «Museo» della villa del Giovio a Borgovico, sul lago di Como, dove lo studioso e prelato aveva riunito le sue collezioni, tra cui i ritratti dei personaggi illustri. 75 Carlo V spogliò il Caracciolo del ducato di Melfi per passarlo al suo fedele Andrea Doria. 76 Dell’ambasciata faceva parte l’erudito Guillaume Postel, che in quell’occasione avrebbe steso il suo De la république des Turcs, edito nel 1538 (cfr. Garnier 2008, p. 91). 77 Per tutto ciò, cfr. Garnier 2008, pp. 91-105. 78 Per la galea, cfr. Glossario, s.v. 79 Dal canto suo il Barbarossa si vendicò crudelmente nel settembre successivo dello smacco di Tunisi, conquistando e saccheggiando lo scalo di Port-Mahon, nell’isola di Minorca (Garnier 2008, pp. 101-2). 80 Durante la prigionia di Francesco I sua madre Luisa di Savoia, reggente del regno in assenza del figlio, inviò a Solimano due ambascerie, la prima delle quali fu letteralmente distrutta dal pas¸ a di Bosnia; ma la seconda, guidata dal «friulano-croato» Giovanni Francesco Frangipani, sortì un buon successo proprio contemporaneamente alla sconfitta ungherese di Mohács: cfr. Dalle 2008, pp. 1023. La regina-madre di Francia domandava al sultano di condurre una campagna contro il regno d’Ungheria, mentre la Francia avrebbe di nuovo attaccato Carlo V. Il documento era bruciante: caduto nella mani degli imperiali o di chiunque altro, avrebbe provato la volontà da parte francese di stabilire un vero e proprio impium foedus con gli infedeli: per questo il Frangipani, attraversando i territori asburgici, lo custodiva cucito nella suola di un suo stivale. 81 Va tuttavia tenuto presente che la diplomazia sultaniale non considerava mai un trattato come impegno paritetico tra parigrado, bensì come atto di ossequio del contraente nei confronti del padis¸ ah; né il diritto coranico permetteva di stipulare con gli infedeli trattati di pace definitivi, bensì solo tregue temporanee. 82 Garnier 2008, p. 108. Si può dire che esse furono il canto del cigno dell’onnipotente gran visir Ibrahim, che con l’ambasciatore La Forest si era vantato di poter guidare perfettamente la volontà del sovrano. Ma non aveva fatto i conti con la spietata energia e l’enorme potere della sultana Roxelane, ben decisa a non farsi sfuggire il controllo della situazione. 83 Al punto che resta, nonostante tutto, il dubbio che il documento si limiti in realtà ad essere solo un progetto commerciale di Jean de la Forest: cfr. Solnon 2009, p. 108. 84 La polemica sull’autenticità di questo complesso trattato e sulla sua originaria datazione non accenna in realtà ad esaurirsi, anzi periodicamente si ripropone: cfr. Apostolou 2009, p. 23. Tuttavia, per quel che ci riguarda, riteniamo di poterci serenamente ancorare allo studio di Pieraccini 1996. 85 Il testo completo, in inglese, è disponibile in Hurewitz 1987, pp. 1-5; buona esposizione sintetica con adeguato commento in Pieraccini 1996, pp. 74-5. 86 Divenute lettera morta con la scomparsa di Francesco I, le Capitolazioni furono rinnovate (o stipulate sul serio per la prima volta) nel 1569, allorché vi si aggiunse il privilegio secondo il quale tutte le navi non turche in Levante avrebbero dovuto battere bandiera francese. Esse furono confermate nel 1581, 1587 e nel 1597; quando poi, nel 1604, l’Inghilterra e Venezia ebbero ottenuto di poter

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battere sulle loro navi la propria bandiera, il re di Francia si aggiudicò in cambio il diritto di fungere ufficialmente da protettore nei confronti di tutti i pellegrini e del personale «latino» addetto al Santo Sepolcro. Il sovrano ex-ugonotto che allora regnava, Enrico IV, si vide attaccato dalle potenze cattoliche le quali lo accusavano di complicità con i turchi a causa del trattamento di favore che il sultano gli riservava: e si difese rivendicando i secolari gesta Dei per Francos, le benemerenze francesi nelle crociate. Al riguardo egli promosse anche gli studi eruditi destinati a comprovare il ruolo della Francia in tali imprese: ne nacque la raccolta dei cronisti crociati messa insieme da Jacques Bongars, che vide la luce un anno appena dopo l’assassinio del re e, dedicata al suo successore Luigi XIII, costituisce l’avvio dello studio scientifico moderno del movimento crociato. Proprio negli stessi anni anche orientalistica e islamistica stavano muovendo i loro primi passi. 87 Su tutto ciò Capponi 2006, pp. 29-30. 88 I turchi avrebbero condotto una nuova incursione contro Castro nel 1575. 89 Tramite fra il sultano e il Gritti era stato l’ambasciatore veneziano a Istanbul, Pietro Zen, che godeva del pieno appoggio del doge. Ma a Venezia il «partito della guerra» contro il Turco si era rafforzato nel corso degli anni Trenta al punto che lo Zen, in conseguenza delle sue mosse diplomatiche, venne trattato da vero e proprio traditore della fede (fonte citata da Concina, L’elmo di Solimano, in Concina 1994, p. 75). Questi attacchi intimidatori, in realtà diretti anzitutto contro il doge stesso, furono fondamentali nell’impedire che la linea favorevole all’intesa franco-turca riuscisse ad affermarsi. Per la guerra che ne seguì, Hale-Mallett 1984, pp. 227-33. 90 Jac ˇov 2001, pp. 151-4. 91 Ma il papa aveva loro accordato una sostanziosa parte della «decima» della crociata: Garnier 2008, p.140. 92 Cfr. Garnier 2008, pp. 148-9. 93 Era presente all’assedio di Corfù a fianco degli ottomani anche una squadra navale francese guidata dal barone Bertrand de Saint-Blancard e da Charles de Morillac, i quali però significarono al sultano che le istruzioni ricevute dal loro re non prevedevano il consenso a partecipare attivamente ad attacchi contro le postazioni veneziane. Intanto, a Valona, era morto l’ambasciatore La Forest (Garnier 2008, pp. 136-8). L’atteggiamento dei comandanti francesi rispecchia quello si può dire costante e abituale da essi tenuto nelle «alleanze» col Turco: che finché era possibile dovevano restare sul piano diplomatico, evitando di passare a quello direttamente militare. Il Re Cristianissimo temeva che, soprattutto da parte del papa, lo si potesse accusare di aver direttamente e concretamente preso le armi a fianco degli infedeli contro altri cristiani. 94 Garnier 2008, pp. 154-6. 95 Ma sembra che l’episodio ispirasse Shakespeare per l’Amleto: cfr. Ricci 2009. Tra i sostenitori dell’ipotesi dell’avvelenamento – che oggi sembra scartata alla luce dell’indagine archeopatologica – si è sostenuto che i mandanti avrebbero potuto essere Luigi Gonzaga e Cesare Fregoso, legati l’uno alla fazione imperiale e l’altro alla francese, ma entrambi nemici del della Rovere. Su Francesco Maria I della Rovere, torrenziale quantità di notizie in Dennistoun 2010, ad indicem. 96 Oggi Prébeza. 97 L’antica Leucade. 98 Heers 2001, p. 91. 99 Cfr. Lingua 1984, pp. 135-7; Garnier 2008, p. 159 sgg., riferisce sinteticamente di veri e propri accordi tra il Doria e il Barbarossa, lo scopo finale dei quali sarebbe stata la distruzione della flotta veneziana. Si disse altresì che le galee del Doria e del

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nuovo comandante della flotta genovese, il suo giovane cugino in secondo grado Giannettino, fossero state impeciate di fresco in modo da poter esser così facilmente distinte, con il loro lugubre colore nero, e risparmiate dall’attacco ottomano. 100 Galasso 2006, pp. 46-7. 101 Garnier 2008, pp. 191-2. Monembasia era detta anche «Napoli di Malvasia». 102 Garnier 2008, pp. 198-9. Quell’assassinio sarebbe diventato un classico cas d’école immancabilmente citato dai teorici della «ragion di stato». 103 Braudel 1986, I, pp. 1260 sgg. 104 Solimano guidò personalmente tre spedizioni militari contro la Persia: nel 1534-35, nel 1548-50 e nel 1554: alla prima, particolarmente sfortunata, appartiene l’episodio che la pubblicistica antiturca chiamò «la gran rotta» e che fu testimoniato da uno dei «padri» dell’orientalismo moderno, il genovese Gianantonio Menavino, allora poco più che ventenne, il quale, catturato dai corsari barbareschi, era stato venduto come schiavo e aveva avuto la fortuna di essere apprezzato dal sultano e divenire uno dei suoi protetti (G. Lucchetta, Il mondo ottomano, in Braudel 1985, p. 39); dall’esperienza del Menavino sarebbe scaturito un fortunato scritto edito contemporaneamente a Venezia e a Firenze nel ’48, Della legge, religione e vita de’ Turchi. 105 Oggi Oradea in Romania. 106 Ferdinando era stato eletto re dei Romani il 5 gennaio 1531. Era pertanto ufficialmente candidato a succedere al fratello. 107 Nemeth-Papo 2008, pp. 154-7. 108 Garnier 2008, p. 191. 109 Oggi Kosice. 110 Dai tedeschi chiamata Ödenburg. 111 Roy 1971; Bérenger 1973; Roy 1999, pp. 22-3. 112 In tedesco Raab. 113 Oggi Timis¸ oara in Romania; il banato sarebbe rimasto in mano ai turchi fino al 1718. 114 Cfr. Glossario, s.v. 115 Cfr. Glossario, s.v. 116 In ungherese Erdélyi Magyar Fejedelemség. 117 In ungherese Megye. 118 A parte quattro comitatak dall’altra parte del fiume, con la città di Debrecen. La circoscrizione chiamata comitat (plurale comitatak) assumeva il suo nome dal termine latino comitatus. 119 Venne infeudato alla Porta nel 1664, con il trattato di Vasvár (cfr. infra, pp. 160 sgg.); cfr. Evans 1993, part. pp. 305-55; Roy 1999, pp. 22-3. 120 Oggi Cluj-Napoca in Romania. 121 Oggi Alba Julia in Romania. 122 Oggi Vat ¸ a de Jos in Romania.

2. Il duello mediterraneo 1 Governatore di Algeri era, dal 1536, Hassan Ag ˘a, un «rinnegato» di origine sarda (originariamente un pastorello dell’isola di Asinara) favorito di Khair ed-Din. Per una sintesi relativa ai «barbareschi» cfr. Heers 2003. 2 Ora «la frontiera dell’impero correva a circa 150 chilometri da Vienna» (Mansel 2003, p. 61). Tuttavia, mentre Ferdinando avviava verso Buda tutti i mercenari che

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poteva nell’intento di recuperare il paese sul quale il consenso di una parte dei magnati gli conferiva almeno in teoria qualche diritto, Carlo – pur facendo sapere al fratello che non avrebbe potuto sostenerlo nello scacchiere balcanico – avvertiva lo shah di Persia che il sultano si andava impegnando in Ungheria e che quindi il momento era propizio per un’offensiva che colpisse i confini orientali dell’impero ottomano. L’esercito persiano, in conseguenza di quell’avviso, si mobilitò dirigendosi verso occidente: ciò obbligò Solimano a rinunziare a una parte delle forze terrestri, che aveva contato di usare nell’area balcanica. Comunque, nel 1547 tra la Porta e Ferdinando d’Asburgo si stipulò un trattato sulla base del quale questi avrebbe potuto mantenere il controllo sull’area ungherese ancora di sua pertinenza versando a quella il tributo di 30.000 ducati: esso consentì al sultano di occuparsi per alcuni anni del confine persiano senza preoccupazioni a nord-ovest, giungendo alla pace del 1555 (Capponi 2008, pp. 54-6). 3 Braudel 1986, I, pp. 139-40. 4 Una formidabile flotta: 71 galee, 300 navi da carico piene di soldati, in totale 30.000 uomini pronti allo sbarco. Ma le fonti, come al solito, forniscono dati discordanti (cfr. Panetta 1981, p. 125). 5 Kohler 2005, p. 270. Hernán Cortés sarebbe morto sei anni più tardi, nel 1547, a Siviglia. 6 Miguel de Cervantes, Don Quijote, II, cap. LXVI. Ovviamente, Cortés avrà potuto pensare in quei termini, ma non con quelle parole: il Quijote non era stato ancora scritto. 7 Garnier 2008, pp. 211-4. L’assassinio del Rincon e del Fregoso figurava tra i principali casus belli. 8 Virginio Orsini conte d’Anguillara, che nell’impresa di Algeri aveva guidato la squadra pontificia ma era malcontento per il trattamento ricevuto dall’ammiraglio Doria, era passato al servizio di Francesco I nel 1542. Va tenuto presente che l’Orsini era marito di Maddalena, sorella di quel grande partigiano del re di Francia che era il fiorentino Piero Strozzi (Garnier 2008, pp. 216-7). La situazione si era complicata a causa dell’accordo tra Carlo V ed Enrico VIII d’Inghilterra, l’11 febbraio 1543, che in una delle sue clausole prevedeva il comune impegno a far recedere Francesco I dall’alleanza con il Turco: ciò aveva indotto papa Paolo III a rompere clamorosamente con l’imperatore, accusandolo di aver fatto causa comune con uno scismatico (Garnier 2008, p. 216). 9 Solnon 2009, p. 142. 10 Era presente nella flotta francese un personaggio quasi leggendario, il marinaio e diplomatico Antoine Escalin des Aymars barone de la Garde, più noto come «capitaine Polin», lodato dal Brantôme come uno dei grands capitaines français. Più tardi capitan Polin avrebbe condiviso le gesta del corsaro Dragut contro l’Elba e la Corsica, tra 1552 e 1553. La costante presenza dei vascelli del Re Cristianissimo insieme con quelli del padis¸ ah e dei corsari africani venne ripetutamente denunziata da tutta la Cristianità occidentale; e bisogna dire che gli stessi marinai francesi, dinanzi alle razzie degli infedeli a danno degli insediamenti costieri cristiani, si mostrarono spesso quanto meno a disagio. 11 Ancora oggi i nizzardi ricordano la loro eroica resistenza contro la flotta ottomana, celebrando le gesta della lavandaia Catherine Ségurane e altri leggendari exploits. Ma dal 1860 essi sono diventati cittadini francesi: in quanto tali si trovano costretti a falsare e a censurare una parte della verità storica dal momento che furono i francesi, e non il Turco, a recar alla loro città i danni maggiori. L’«uso della storia» e la ricerca dell’«identità» entrano talvolta in conflitto combinando di questi scherzi. 12 Vanagolli 1997, pp. 17-26. 13 Il ragazzo fu condotto a Suez, dove suo padre, che stava allora preparan-

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do una spedizione contro i portoghesi nell’Oceano Indiano, al rivederlo morì per l’emozione. Jacopo d’Appiano venne a mancare a sua volta nel 1545, forse per il dispiacere (Garnier 2008, p. 236). 14 Il Peretti era peraltro morto qualche mese prima (Garnier 2008, p. 237); sul raid in Toscana, Ciano 1980, p. 12, e Lenci 1987, pp. 74-5, 82 15 Capri e l’Islam 2000, p. 201; Garnier 2008, p. 237. 16 Il capitano francese Antoine Escalin Polin e Leone Strozzi, fratello di Piero, comandavano i loro vascelli che navigavano insieme con la flotta ottomana. Ma va anche detto che la «brutale alleanza» tra Parigi e Istanbul non fu mai né piena, né totale, né priva di reticenze e di ambiguità reciproche, la maggior parte delle quali si dovette alla difficile situazione in cui si trovava il Re Cristianissimo, soggetto alla pressione e alle recriminazioni dei correligionari. Il suo aspetto migliore fu propriamente quello diplomatico, che consentì alla società francese – attraverso i suoi ambasciatori a Istanbul, spesso personalità notevoli – di meglio conoscere quella ottomana. 17 La missione fu affidata all’umanista fiammingo d’origine ebraica Gerhart Weltwyck per l’imperatore e a Jean de Montluc, fratello minore del grande Blaise, per il re di Francia; mentre Ferdinando I aveva a sua volta inviato a Istanbul il diplomatico Niccolò Secco per trattare col sultano a suo nome. La complessa ambasciata si trascinò a lungo, ma in ultima analisi fu inconcludente (Garnier 2008, pp. 246-54). D’altronde non ebbe successo nemmeno la missione di Gabriel d’Aramon, che nel medesimo 1546 chiedeva al sultano per conto del re di Francia di attaccare l’imperatore e recava ricchi doni, fra i quali un celebre orologio costruito a Lione (Solnon 2009, p. 119). 18 Paolo Giovio, cit. da Price Zimmermann, in Paolo Giovio 1985, pp. 15-6. 19 In effetti durante la cosiddetta «guerra di Siena», combattuta tra 1552 e 1556 in Maremma e nel Tirreno, la flotta ottomano-francese attaccò la città di Cosmopoli (cioè Portoferraio) nell’isola d’Elba, l’isola di Pianosa e altre località (Vanagolli 1997, pp. 29-49). Le tracce di quelle incursioni rimasero visibili per molti anni, come si evince anche dalle visite pastorali oltre che dalle numerose suppliche di quelle popolazioni al duca. Anche in Toscana fiorirono, in seguito alle incursioni barbaresche, leggende di tesori sepolti e di splendide fanciulle rapite: la più celebre di tutte è quella della «bella Marsilia», molto nota in Maremma (Cavoli 2002, pp. 37-71). 20 Un altro motivo di scandalo per la Cristianità nacque quando si seppe che un ambasciatore francese era presente al seguito della flotta ottomana durante l’assedio. 21 Cfr. Monchicourt 1913; l’ambasciatore imperiale Busbecq ci è testimone prezioso di come la vicenda di Jerba fu vissuta alla corte del sultano (Dalle 2008, pp. 204-7). Il Busbecq si occupò con grande premura della sorte e delle condizioni dei prigionieri cristiani arrivati a Istanbul, impegnandosi anche per forti somme di danaro. Era la sua indole: e anche per questo era eternamente indebitato. 22 La prima nave da guerra ducale, la Pisana, fu varata nel 1547; tre galee toscane affiancarono, con funzioni logistiche, la flotta di Carlo V nell’impresa di al-Mahdiyah; ma nel 1559, durante l’impresa di Tripoli contro Dragut, i toscani se la filarono non troppo onorevolmente: cfr. Ciano 1980, pp. 16-30, passim, ed el Bibas 2010, pp. 26-7. 23 Cfr. Guarnieri 1960; Ciano 1980; Bono 1999, pp. 54-62, e passim. La fondazione dell’Ordine era già stata decisa nel 1561: col breve Eximiae devotionis sinceritas del 1° ottobre 1561 papa Pio IV accordava al duca Cosimo I, su sua richiesta, la facoltà di costituire l’Ordine sul modello di quelli religioso-militari spagnoli, con lo scopo precipuo della protezione del Mediterraneo dagli infedeli. Il 1° febbraio 1562 il pontefice approvava e confermava la fondazione con la bolla His, quae pro religionis propagatione, affidando al duca l’ufficio di Gran Maestro.

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24 La chiesa dei Cavalieri e il loro Palazzo della Carovana (dove ora è ospitata la Scuola Normale Superiore) sono entrambe opere vasariane. 25 Ma il grande principe dell’Ordine cavalleresco-marinaro sarebbe stato non Cosimo, investito nel 1569 da papa Pio V del titolo di granduca di Toscana, bensì suo figlio e successore Ferdinando I, l’autentico fondatore del porto di Livorno: le sue glorie cristiane e corsare sono ancor celebrate in quella città, nel monumento dei Quattro Mori che lo ritrae nell’armatura di Gran Maestro di Santo Stefano ponendogli ai piedi quattro «tipi» antropologici di «moro», rappresentanti di quei tanti infelici che languivano nelle sentine livornesi, fratelli di sventura circoncisi degli infelici battezzati che languivano in quelle di Algeri o di Tangeri. 26 Sugli Ordini di Malta e di Santo Stefano come «corsari cristiani», cfr. la bella sintesi critica di Poumarède 2004, pp. 431-527, con ampie indicazioni relative a fonti e bibliografia moderna. 27 Lo Basso 2002. 28 Cfr. Balbi da Correggio 1995; Desportes 1999. Resta difficile da comprendere perché il Turco, dopo la faccenda di Jerba, non abbia tentato immediatamente un altro colpo navale ai danni della Spagna, che ebbe così modo di risistemare la sua flotta giovandosi anche delle nuove ottime bocche da fuoco fabbricate in Fiandra. Secondo Fernand Braudel, in effetti, gli anni Sessanta furono gli ultimi della vera e propria talassocrazia ottomana: ma dopo il fallito assedio di Malta e la sconfitta di Lepanto, la vera supremazia fu perduta, per quanto ciò non fosse immediatamente percepibile. Tale schema interpretativo non è ormai più universalmente condiviso. Panzac 2009 pone significativamente – pur rilevando egli stesso, p. 10, che la sua proposta può sembrare paradossale (ma apportando poi numerose prove del suo assunto) – l’apogeo della marina ottomana proprio all’indomani di Lepanto, cioè al 1572, anno della fine della guerra di Cipro (vinta dalle forze sultaniali per quanto all’interno di essa si collochi l’importante giornata di Lepanto) e della ricostruzione della flotta che appunto a Lepanto era stata distrutta. 29 Causa immediata della rivolta fu comunque la decisione di Filippo II, nel 1567-68, di spazzar via ogni residua resistenza musulmana negli ambienti moriscos andalusi (cfr. infra). 30 Che vi traevano una rèsina importante per varie attività manifatturiere, dalla fabbricazione di tinture e di vernici alla medicina alla cosmetica: il lentisco, cioè il mastice. 31 D. Pacaccio, La desolazione dell’estate 1566: Ortona invasa dai turchi, in Giannetti-Tosi 1998, pp. 55-75; Capponi 2006, pp. 95-8. 32 Solnon 2009, pp. 66-70. 33 Dalle 2008, passim: soprattutto, pp. 184-5, il racconto drammatico della vera e propria guerra civile che si era scatenata nel 1558-59, dopo la morte della sultana Roxelane che aveva saputo tenerli a bada, tra i due figli del sultano, Bayezid e Selim. Intanto, con la pace di Cateau-Cambrésis, Francia e Spagna avevano siglato una pace che faceva prevedere una ripresa dell’attività offensiva navale spagnola nel Mediterraneo. Tutto ciò aveva indotto il gran visir Rustem, che pur non aveva rapporti amichevoli con Busbecq, a consigliare al sultano un riavvicinamento diplomatico all’imperatore Ferdinando, con il quale dal 1551 – quando egli era ancora re dei Romani – era aperto un pesante contenzioso a causa della sua occupazione della Transilvania. Comunque Bayezid, fuggito in Persia e lì imprigionato e usato come moneta di possibile scambio, era stato alla fine raggiunto, nel 1561, dai carnefici al servizio di suo fratello e ucciso. 34 Jean Bodin (1530-1596), che con i suoi Six livres de la République è uno dei

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fondatori della teoria dello stato assoluto moderno, giunse a giustificare l’assassinio, da parte di Solimano, di suo figlio Mustafa. 35 Cfr. G. Vercellin, Uomini in movimento: viaggiatori, pellegrini, mercanti e corsari, in Occidente s.d., p. 83. 36 Regnò dal 1566 al 1574. Quanto al suo soprannome, va ricordato che le norme coraniche riguardanti il divieto del vino, del resto piuttosto ambigue, venivano scarsamente rispettate all’interno del Gran Serraglio: non solo lì, d’altronde, a giudicare da tutta la poesia musulmana, soprattutto da quella persiana (cfr. Bon 2002, p. 132). 37 Di questo personaggio riparleremo più a lungo nel prossimo capitolo (cfr. infra, pp. 72 sgg.). Tunisi fu comunque disputata a lungo, fino alla definitiva conquista ottomana del 1574, che ebbe appunto Uluç-Ali come protagonista. 38 Alcuni significativi particolari diplomatici in Pedani 2010, p. 66 sgg. 39 Accettiamo qui la grafìa semplificata proposta in Encyclopédie de l’Islam, Leiden 1997, X, pp. 735-42: ma si tratta di un nome (in realtà un attributo di provenienza, poiché era nato nel 1505 a Sokolovich in Serbia ed era stato condotto adolescente a Istanbul nel devs¸ irme) che è stato proposto altresì dalla letteratura moderna anche in altre forme, da Soqullu a Söqüllü. Mehmed, un serbo-bosniaco che nel 1562 aveva sposato la principessa Esmihan, figlia di Solimano e sorella dunque di Selim che sarebbe di lì a quattro anni asceso al trono, fu uno straordinario personaggio, che tra l’altro rinnovò la Chiesa ortodossa bosniaco-erzegovinea imponendo suoi parenti come prelati. Cfr. G. Bellingieri, Voci dal Seicento ottomano, in Simonato 1993, p. 67 e Barbero 2010, pp. 26-32. 40 Forse serbo, forse montenegrino, protetto dal sultano: cfr. Barbero 2010, p. 27. 41 Cognome variamente trascritto, anche come Micas o Miches. 42 La fortuna della sua famiglia (Pedani 2010, p. 201; Barbero 2010, ad indicem) era cominciata nel 1553 con l’arrivo a Istanbul di una signora eccezionale, doña Gracia Mendes, marrana di origine portoghese e detta comunemente La Señora: l’abilissima dama sefardita aveva avviato la fortuna bancaria e commerciale della famiglia, che nella capitale del sultano conduceva vita principesca. Del resto il suo giro d’affari era già ampio prima dell’abbandono forzato del Portogallo. La Señora, zia di Joâo-Josef, gli aveva altresì concesso la mano della sua stessa figlia e quindi cugina di lui, Rayna. 43 Cfr. Milano 1949; Barbero 2010, ad indicem. 44 Un lucido e sintetico inquadramento della «guerra di Cipro» in Hale-Mallett 1984, pp. 233-41. Ma per l’intera questione rimando ora a Barbero 2010, pp. 440-72, che ringrazio anche per avermi fatto conoscere ampie parti del suo libro mentre era ancora inedito. Le conclusioni da lui raggiunte modificano in più punti sostanzialmente, con molta originalità e in modo convincente, l’insieme delle (troppe) idées reçues che sulla guerra di Cipro e la battaglia di Lepanto continuano a circolare, accolte sovente – o quanto meno, non abbastanza coraggiosamente ed esplicitamente discusse – anche da autori recenti e attendibili. 45 Capponi 2006, pp. 111-4. 46 Essi si rifugiarono in Marocco oppure ad Algeri e a Tunisi, da dove dettero nuovo impulso alla lotta corsara e alla razzia di schiavi, appoggiati da comandanti corsari rinnegati come il terribile Morat Reis, d’origine olandese (cfr. Lugan 1992, pp. 144-5, 167-9). 47 Cfr. Vincent 1970; Lewis 1997; Delumeau 1978, pp. 410-2. 48 Va peraltro ricordato che in Spagna e nei territori dell’impero retto dalla sua monarchia la cruzada era anzitutto, e specificamente, un’imposta che il papa aveva concesso alla corona.

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Barbero 2010, pp. 462-72. La corona di Spagna, come l’impero, non aveva accettato di riconoscere il nuovo titolo granducale di Toscana concesso dal papa al duca mediceo di Firenze e di Siena: per questo le galee toscane non erano state invitate a prender posto nello schieramento navale asburgico, nonostante il granduca Cosimo facesse il possibile per convincere el Rey Prudente a rinnovare con lui un conveniente contratto di noleggio. Le trattative si trascinarono con una lentezza non abituale perfino per Filippo II: alla fine, il granduca si acconciò ad accogliere una richiesta di condotta da parte del papa. Le galee toscane combatterono comunque sotto insegna pontificia, non medicea né stefaniana (Ciano 1980, pp. 60-1). Invece alla giornata parteciparono circa duemila soldati impegnati dalla repubblica di Lucca nell’armata spagnola su invito del plenipotenziario del regno presso la curia pontificia, don Juan de Zuñiga (Lenci 1987, p. 69). La Lucchesia – non meno della vicina Garfagnana, che era però una enclave fiorentina in territorio lucchese – era importante anche per la fornitura di legname ai cantieri navali: anche da qui il suo costante rapporto con la famiglia Doria (Lenci 1987, pp. 130-1). 51 Cfr. Rogier - Aubert - Knowles 1968, pp. 315-6, dove si ricordano devozioni e manifestazioni religiose connesse già prima di allora con la guerra contro i turchi e la paura del Turco: la recita quotidiana dell’Angelus già ordinata da Callisto III in coincidenza con la vittoria di Belgrado del 1456, la «campana dei turchi» fatta suonare ogni giorno da Carlo V a mezzogiorno in Germania per ricordare l’incombente pericolo, infine appunto il Giubileo straordinario indetto nel 1571. 52 Com’è noto, la città che allora si chiamava Lepanto (oggi Naupatto) è a una quarantina di miglia nautiche dal luogo nel quale la battaglia fu combattuta, all’imboccatura del golfo di Patrasso. Il riferimento geografico più prossimo sarebbero state quindi le isole Curzolari: e «battaglia delle Curzolari» giustamente la chiamarono i veneziani (Capponi 2008, p. 10). Per il «punto» storiografico sulla battaglia in una prospettiva che tiene conto della letteratura scientifica turca, O. Yildirim, The battle of Lepanto and its impact on ottoman history and historiography, in Cancila 2007, pp. 533-66. 53 Il pensiero politico e storiografico più maturo e più lucido del tempo, a proposito della guerra di Cipro nel suo complesso, viene espresso da Paolo Paruta, per il quale cfr. Preto 1975, pp. 302-13. 54 Cfr. ad esempio Raccolta 1571 e i due poemetti celebrativi redatti da Carafa 1573. 55 La tradizione narra che il 10 maggio 1291, con la conquista mamelucca di San Giovanni d’Acri, la casa della Sacra Famiglia venisse miracolosamente trasportata dagli angeli sopra il colle di Tersatto, presso Fiume. Il 10 dicembre 1294 la Santa Casa apparve poi in mezzo a un bosco di lauri presso Recanati, ma essendo quel luogo infestato dai briganti, si spostò nel podere di Simone e Stefano Antici; poiché neppure quel luogo si rivelò adeguato, la casa fu definitivamente, miracolosamente, collocata dagli angeli in una strada ove sorse il santuario attuale. Cfr. ProperziRocchi 2007. 56 A Lepanto e alle vicende della Lega fu adattato anche un celebre testo oracolare: i vaticini attribuiti all’imperatore Leone il Saggio (886-912), ma anche a Daniele, a Metodio di Patara e così via, e che erano già stati usati per la caduta di Costantinopoli del 1453 (cfr. Rigo 1988). 57 Per le relative questioni devozionali e iconografiche, Spera 1989. 58 Wandruszka 1974; per Ferdinando, Simányi 1988. 49 50

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59 Il bel memoriale del conte d’Arco è pubblicato in Wandruszka 1974, pp. 439-43. 60 Setton 1962 ha potuto scrivere che, se non fosse stato per gli ottomani, la Riforma protestante avrebbe potuto finire come la rivolta dei catari nella Provenza del XIII secolo. 61 Panzac 2009, pp. 15 sgg. 62 Per caratteri, funzioni e prerogative di tale grado, cfr. Panzac 2009, pp. 56-8. 63 Un quadro preciso in Barbero 2010, pp. 568-82. 64 Cfr. Braudel 1986, II, pp. 1158 sgg.; Montero Hernando 1985; Beeching 1989; Venezia 1989, pp. 210-31. Per un altro illustre partecipante allo scontro, Emanuele Filiberto di Savoia, cfr. Moriondo 1981 e Capponi 2008. I dati forniti dalle fonti sono oscillanti; e quelli accettati dai differenti studiosi non concordano in tutto fra loro. Cfr. la discussione in Barbero 2010, pp. 569-74. 65 Per «galeotte» e «galeazze», cfr. Glossario, s. vv. 66 Dati riassunti in Panzac 2009, p. 15; valutazioni discusse e precisate con maggior rigore da Barbero 2010, pp. 568-607, che insiste anche sui morti tra i prigionieri in seguito alle ferite riportate in battaglia o ai successivi maltrattamenti nonché alle malattie insorte e segue le vicende di vari prigionieri ottomani, tra i quali non mancavano i rinnegati e i doppiogiochisti cui venne riservata varia fortuna. 67 Lenci 1987, p. 62. 68 Per un quadro generale del contesto e degli esiti prossimi e remoti della battaglia, resta ancora per più versi valido Mediterraneo 1974. Ma cfr. comunque Barbero 2010. 69 Pio V, lettera del 2.3.1572, cit. in Setton 1984, p. 1076. Per le vicende della crociata nel Cinquecento, fondamentale la ricostruzione di sintesi di tutto il movimento crociato fra medioevo ed età moderna fornita da Housley 1992. 70 Panzac 2009, pp. 15-41. 71 Cit. in Panzac 2009, p. 17. Il geniale ed energico impegno del visir non fu granché ricompensato: nel 1574, alla morte di Selim, fu confermato al suo posto dal successore Murad III, ma la sua stella cominciò presto a declinare. Morì nel 1579, assassinato in un non chiaro contesto. 72 Senza dubbio il pericolo turco in Adriatico era cosa reale: cfr. Nardelli 1992. 73 Cfr. Mangio 2002, pp. 216-7. 74 Sul carattere e il contenuto delle capitolazioni veneto-ottomane del 1573, a proposito delle quali il bailo Marcantonio Barbaro tenne un attento diario, Pedani Fabris 1996, p. 17. 75 Braudel 1986, II, pp. 1206 sgg. 76 Secondo stime più prudenti, le galee erano 240 e i soldati 40.000. 77 Panzac 2009, p. 52 78 I conti così aperti si sarebbero chiusi solo nel XIX secolo: ma stavolta a vantaggio della Francia, conquistatrice prima di Algeri e poi di Tunisi in una nuova, tardiva «crociata» che peraltro le destre cattoliche francesi – da Chateaubriand all’Action Française – avrebbero fatto di tutto per presentar sul serio come tale. 79 Così, nel suo bellissimo saggio, Benzoni 2005. 80 Pierozzi 1996; Rigo 1988. 81 Apocalisse 12,1. 82 Pedani 2010, p. 68. 83 Uskok (pl. uscoci) è termine serbocroato significante «evaso», «fuggiasco»: cfr. Šmitran 2008, p. 41; si veda anche G. Zanelli, Gli uscocchi di Segna, pirati e corsari, in Nemeth-Papo 2007, pp. 107-20.

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Šmitran 2008, pp. 63-5. Šmitran 2008, p. 75. 86 Una sintesi in Hale-Mallett 1984, pp. 241-7. 87 La questione uscocca, per la verità, si trascinò ancora: Šmitran 2008, p. 77; Panzac 2009, p. 98. 88 L’episodio è richiamato in Ricci 2008, pp. 143-52. 89 Foucard 1881; Schwoebel 1967, part. pp. 82-115. 90 Ricci 2008, pp. 154-8. 91 Cfr. Yates 1990. 92 Gabrieli 1989. 93 Braudel 1986, II, pp. 836 sgg. 94 Papagno 2006. 95 Sodini 1987, p. 62. 96 Per la costituzione dei tercios e relativa genesi, Favarò 2005. 97 Cfr. Berthier 1985. 98 Per i dati, incerti ma nel complesso non inattendibili, cfr. Berthier 1985, pp. 60-1, e Lugan 1992, pp. 152-4. 99 Ciò gli avrebbe valso l’epiteto di al-Maslukh («lo Scorticato»), con il quale ancora lo si ricorda. 100 Fu in effetti un ottimo sovrano, un grande mecenate e un riformatore del suo principato; intraprese una fortunata ancorché sanguinosa campagna militare in Sudan che gli fruttò il controllo delle celebri miniere d’oro di quel paese e cercò l’alleanza di spagnoli e di inglesi per tenere a bada il suo teorico signore, il sultano ottomano, che non si fidava affatto di lui. Intrattenne anche stretti rapporti con il granduca di Toscana Ferdinando I: in tal modo le città imperiali marocchine si abbellirono grazie al marmo apuano e in cambio la Toscana si giovò dello zucchero marocchino, pur non riuscendo a ottenerne il monopolio del traffico. 101 Dopo la morte di Sebastiano e il breve regno di suo fratello, il cardinal Enrico, tra 1578 e 1580, la casata di Aviz si spense e il Portogallo passò per eredità a Filippo II. 102 Housley 1992; Lugan 1992. Sul quintomonarchismo portoghese, MarieBercé 1996; cfr. Pessoa 1997. Sul nesso tra ispirazione esoterica e mitopoietica in Pessoa, Zambon 1996; una buona raccolta di scritti del poeta portoghese atta a ben contestualizzare il tema quintomonarchista in Pessoa 1997a. 103 La terza sezione del poemetto del Pessoa Mensagem è dedicata al «Re Velato» e riprende una «profezia» del poeta mistico-visionario portoghese del Cinquecento Antonio Gonçalves Annes Bandarra, poi raccolta da Antonio Vieira nel Seicento, per reinterpretarla secondo i presupposti esoterici maturati nell’autore al contatto con ambienti come la società inglese della Golden Dawn (per il Mensagem, cfr. Pessoa 1984). 84 85

3. Fluidi confini, mutevoli frontiere 1 Iniziate nel 1580-1, le trattative proseguirono fino al 1585, con un risultato comunque abbastanza durevole. 2 Cfr. Rousset 1983, ad indicem. 3 Dalla lunga guerra ottomano-safavide del 1576-1590 gli ottomani uscirono

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vincitori. Ma tra 1603 e 1604 Shah Abbas (1587-1629) recuperò i territori perduti e si dette a un’intensa attività diplomatica tesa a convincere gli occidentali che era necessaria un’azione comune contro gli ottomani: di questi «progetti di crociata» fu testimone e coprotagonista il viaggiatore romano Pietro della Valle. 4 Per Pietro della Valle e il suo «progetto di crociata», cfr. Parodi 1987 e Cardini 2003. 5 Dalle 2008, pp. 263-8. Nello stesso 1581 Busbecq pubblicò anche le sue famose Epistulae turcicae. 6 Galletti 2007, p. 70. 7 A metà Seicento correvano in Friuli voci secondo le quali stavano per rovesciarsi sulla regione 30.000 turchi: cfr. Preto 1994, pp. 96,375. 8 Sulla schiavitù nel Mediterraneo cinque-seicentesco in generale, cfr. S. Bono, La schiavitù in Europa e nel Mediterraneo, in Bizzocchi 2008, pp. 539-84, con ampia bibliografia. 9 Cfr. Delumeau 1978, pp. 406-7. 10 Cipollone 1996. La letteratura al riguardo è immensa: cfr. Zatti 1983, pp. 9-44; Rudt de Collenberg 1987; Porres 1997; Ricci 2002, pp. 153-60, con abbondanti note bibliografiche; Lo Basso 2003. 11 Il waqf (plur. awkaf), in turco evkaf, nel Maghreb hubus, è un «bene di manomorta» che il suo proprietario dichiara inviolabile e le rendite del quale sono destinate a una fondazione pia o caritatevole come una madrasa o un ospedale: cfr. Bono, in Bizzocchi 2008, pp. 569-70. 12 Mangio 2002, pp. 220-4, fornisce una discreta lista di favori scambiati tra i granduchi di Toscana e i dey di Tunisi tra Cinque e Seicento: l’oggetto erano sempre schiavi che amichevolmente si chiedeva e si accettava di liberare. 13 Gli episodi di razzìa costiera erano diventati tanto comuni che, talvolta, potevano diventar oggetto di divertimento: come accadde nella cosiddetta «burla di Goro» ordita nel 1584 dal duca Alfonso II d’Este e da suo nipote Cesare a danno di alcuni cortigiani che la sera e la notte prima si erano divertiti alla «delizia marittima» della Mesola. Con l’aiuto della guardia costiera ducale e di alcuni pescatori di Comacchio, si finse un assalto di corsari. Il tutto finì in festa, ma dopo un certo spavento (Ricci 2002, pp. 70-4). 14 La tesi dell’attribuzione è stata autorevolissimamente sostenuta da Bataillon 1958. 15 Cfr. Laguna 1983. 16 Per Algeri come centro di raccolta e di smistamento degli schiavi cristiani, F. Cresti, Gli schiavi cristiani ad Algeri in età ottomana: considerazioni sulle fonti e questioni storiografiche, in Fiume 2001, pp. 415-36. 17 Cfr. le finissime pagine di Rossi 1997; per il contesto politico, diplomatico e quotidiano della prigionia, Sola - de la Peña 1995. Sul periodo di schiavitù, Cresti 2001. 18 Cfr. Ricci 2002, p. 181. 19 Comunque, Miguel de Cervantes nelle sue conoscenze relative al mondo musulmano andava oltre gli orizzonti andalusi e maghrebini che erano propri ordinariamente delle persone di cultura del suo paese. La traduzione dell’opera del Giovio, nel 1543, aveva familiarizzato il mondo colto iberico anche con la storia e la civiltà ottomana: questo il background dell’opera teatrale tra fine Cinquecento e primo Seicento dedicata da Lope de Vega a Othman, il fondatore della dinastia che da lui prese nome, e recentemente scoperta (cfr. Lope de Vega 1996). 20 Un’interessante confusione è stata fatta in molti testi e in alcuni studi, al ri-

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guardo, tra questo Hassan e Hassan Ag˘a, conosciuto anche come Azán Agha, il bey di Algeri al tempo del celebre assedio della città condotto da Carlo V, per il quale cfr. Sola 1998 e in genere gli studi di Emilio Sola, specialista di questi problemi, ai quali rimandiamo anche per quanto riguarda la precedente bibliografia. 21 La vicenda di Venedikli Hassan è richiamata in Pedani 2010, pp. 193-4. 22 Su ciò insistono in più luoghi i bei libri di Ricci 2002 e 2008. Sul risvolto sessuale dell’espressione «turco cane», Hampton 1993, pp. 67, 80. Si ricordino ancora i casi dello spagnolo Emanuel d’Aranda, schiavo a Tunisi tra 1640 e 1642, e del contemporaneo francese Chastelet des Boys: entrambi ricordano con affetto l’affabilità e la bontà dei loro padroni (Bono, in Bizzocchi 2008, p. 566). 23 Cfr. Rostagno 1983. 24 È il Sinan Kapudan Pascià della canzone di Fabrizio De André; le due versioni del cognome, Cicala e Cigala, si alternano: cfr. Panetta 1984, p. 9; più correttamente, Çigalazadé Sinan (Pedani 2010, p. 193). Un presunto figlio di Scipione Cigala (che sembra aver portato non già il nome di Sinan, bensì quello di Jusuf Ogalazadé) comparve alla corte di Saint-Germain-en-Laye nel gennaio del 1668 presentandosi come principe ottomano convertito alla fede cristiana; in seguito, sembra di poterne seguire la tracce fra Transilvania e Inghilterra, dove venne smascherato come impostore o quanto meno accusato d’impostura; lo troviamo poi, ancora, sotto nome francese; la sua origine effettiva è stata identificata, non senza molte incertezze, come cipriota o greco-valacca (Lugosianu 1903). 25 Bennassar 1991, pp. 359 sgg.; ivi, pp. 477-84, l’elenco degli italiani passati all’Islam secondo le fonti dell’Inquisizione (1560-1700). 26 O con la variante, foneticamente più accettabile, di Uccialì; o ancora Ulugh Ali, Euldj Ali, Lucciali. 27 Uluç Ali, reis (comandante) e beylerbeyi d’Algeri; durante la battaglia di Lepanto, comandante dell’ala sinistra dello schieramento ottomano, cercò invano di risollevare le sorti della flotta sultaniale e riuscì a salvare gran parte della sua squadra nonché a conquistare e a portare in trofeo a Istanbul lo stendardo dei cavalieri di Malta; il 28 ottobre successivo, essendo caduto durante il celebre scontro il precedente kapudan pas¸ a Müezzinzâde Ali, fu nominato a sua volta nell’alto ufficio dal gran visir Mehmed Sokollu (Panzac 2009, pp. 18-9, 47-51), e in seguito anche serdar, cioè comandante non solo della flotta ma anche delle truppe che vi erano imbarcate. Nel 1574 guidò la flotta durante la definitiva conquista di Algeri, strappata agli spagnoli; negli ultimi anni, si concentrò sulla costruzione di moschee e nell’organizzazione di pie associazioni. Un intero quartiere d’Istanbul reca ancora il suo nome: il Kiliç Ali Pas¸a Mahallesi, la moschea del quale fu costruita dal grande architetto Sinan. Sulla sua morte ad oltre ottant’anni, il 27 giugno 1587, si raccontarono molte storie: si dice spirasse nel più dolce dei modi, al ritorno dalla preghiera nella sua moschea, mentre – nonostante il comprensibile divieto dei medici – si dava, compatibilmente con la sua età, ai giochi d’amore con una giovanissima ragazza. Cfr. O. Kolog˘lu, Renegades and the case of Uluç/Kiliç Ali, in Cancila 2007, II, pp. 513-31. 28 Braudel 1986, p. 941. 29 Cfr. la storia del povero prigioniero turco di passaggio nel 1687 a Ferrara con alcuni compagni di sventura, diretti probabilmente a Livorno: lo sventurato, che non ce la fa più a camminare, viene brutalmente massacrato a colpi di bastone da un capitano toscano; poco dopo, il cadavere mal inumato viene dissotterrato e decapitato perché la testa interessava un nobiluomo collezionista e tagliatore di teste. Trofei del genere non erano insoliti nelle Wunderkammern cinque-settecentesche (Ricci 2002,

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pp. 122-3, 125-34). I turchi prigionieri appartenenti a quel gruppo hanno lasciato tracce durevoli nella documentazione: li troviamo a Firenze e poi in Toscana, giacché Leopoldo I li aveva regalati al granduca Cosimo III per le sue galee (Ricci 2002, pp. 134-7). Per gli 845 galeotti turchi censiti a Livorno nel 1689, cfr. ivi, pp. 137-8. 30 Cfr. Rapporti 2004 31 Proverbi 26,11. 32 Richiamato in Lenci 1987, che cita Piovene 1958, II, pp. 94-5. 33 Lenci 1987, p. 106. 34 Cfr. ivi, p. 107, il caso di una giovinetta figlia di una cittadina genovese rapita da Dragut e fatta riscattare grazie ai buoni uffici del mercante Alessio Dati, lucchese residente in Marsiglia. Finita a Lucca, la ragazza veniva trattata da schiava per quanto la madre asserisse che per lei era stato pagato il riscatto tramite la «limosina di Spagna». Ma le autorità lucchesi facevano – oh, quant’è il caso di dirlo! – l’orecchio del mercante. E Alessio dovette pagare di nuovo, di tasca sua. 35 Ancora nel 1805 i turchi, presso il Lido di Camaiore, catturarono appunto della povera gente, uomini e donne, che «tornavano dalle Maremme» (Lenci 1987, p. 15). 36 Sull’Algeri della seconda metà del XVI secolo, cfr. N. Daniel, Città cristiana, città musulmana, in Bizzocchi 2008, pp. 175-6. 37 Sulle sovente (ma non sempre) dure condizioni degli schiavi musulmani in terra cristiana, nonché sulle loro vicende a seconda che si convertissero o meno, cfr. Bono 1999, attraverso le generose indicazioni bibliografiche del quale si può accedere ai non troppi studi in materia. 38 Dalle 2008, pp. 235-56, e passim. 39 Come la storia o meglio la leggenda, un tempo diffusa sul litorale mediotirrenico, della «Bella Marsilia»: una nobile del contado senese-grossetano che qualcuno volle identificare con la stessa Roxelane e farne quindi la madre di Selim II (Cavoli 2002, pp. 37-71; I corsari 2010, pp. 54-63). 40 Ternon 2002, p. 60. Per le gerarchie dell’harem, cfr. Penzer 1913 e Peirce 1993. Bisogna tener presente che fin dai tempi di Mehmed II la legge del fratricidio era una delle fondamentali nel meccanismo di successione sultaniale: i fratelli del nuovo sultano venivano abitualmente e sistematicamente strangolati. Va tenuto conto al riguardo del rigido e complesso sistema di controllo che il potere sultaniale esercitava sulla società ottomana attraverso il «serraglio», il grande palazzo di Istanbul: in realtà un insieme di giardini e di padiglioni organizzato in modo concentrico, da una cinta esterna praticabile da parte di sudditi e di stranieri fino ai quartieri riservati ai militari di guardia, ai funzionari di governo, alle donne. All’interno di quella che gli occidentali chiamavano «la Porta» (e, a partire dall’ultimo quarto ca. del secolo XVII, la «Sublime Porta») e che adesso si conosce comunemente come Topkapi (la «Porta del Cannone», il grande e solenne ingresso presidiato da un imponente corpo di guardia), gli eredi al trono venivano tutti allevati con cura, ciascuno separato dagli altri, ma non esisteva un diritto di successione che privilegiasse i figli delle sultane da quelli delle concubine; a ogni successione sultaniale, i fratelli del nuovo sovrano venivano posti in vario modo in condizione di non nuocere, anche – in molti casi – attraverso l’assassinio. Tuttavia, questo crudele procedimento – sostituito a partire dai primi del Seicento con la pratica della segregazione perpetua nell’harem imperiale (Mansel 2003, p. 94) – impediva le lotte di successione che hanno frequentemente insanguinato l’Europa cristiana, riversandosi dalle corti sui popoli: per il periodo che qui più da vicino ci riguarda, basti ricordare le guerre di successione dell’Assia-Marburgo (1604), di Clèves e Juliers (1609), del ducato

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di Mantova (1612 e 1627), di quello di Pomerania (1637), di quello del Palatinato (1685), di Spagna (1700), d’Inghilterra (1713). Allo stesso modo, in Occidente si è equivocato nel descrivere in toni ora lascivi, ora voyeuristici, ora scandalizzati (o, spesso, tutte le tre cose insieme), i complicati amori dei sultani, la loro lussuria – dimenticando o sottovalutando la loro ossessione per la necessità di mettere al mondo più eredi maschi possibile –, il loro «arbitrio» nel concedere e/o imporre le loro favorite in spose ai dignitari dell’impero, trascurando che in questo modo si stabiliva, attraverso la sessualità, un controllo politico che non era in fondo troppo lontano, mutatis mutandis, dai complessi riti erotici della corte del Re Sole sui quali insiste anche il Saint-Simon: si veda su ciò l’opportuno commento del Basile in Bon 2002, pp. 12-3 e relative note, inclusa la delusione espressa per le pagine a ciò relative di Norbert Elias. Per il «sistema del serraglio» cfr. Bon 2002 (il testo si riferisce alla fine del Cinquecento, ma l’eccellente commento di Bruno Basile permette di seguirne la dinamica per l’intera età sultaniale) e Mansel 2003, pp. 80-106. 41 Probabilmente Aleksandra Lisowska, figia di un sacerdote ortodosso ucraino che viveva a Leopoli; era stata catturata durante una razzia tartara. Hürrem significa «La Ridente» (Mansel 2003, p. 82; Solnon 2009, p. 162). 42 Per Hürrem, malvista nel serraglio – la fedeltà del sultano nei suoi confronti suscitava indignazione: e si accusava la bella signora di averlo stregato –, ma anche molto temuta, cfr. Mansel 2003, pp. 82-7. Morì nel 1558. 43 Sultano col nome di Selim II dal 1566 al 1574. 44 Sultano dal 1574 al 1595. 45 Scaraffia 1993, p. 153; Pedani 2010, pp. 199-201. Se era Cecilia Baffo, doveva esser nata verso il 1525; suo padre naturale era il signore dell’isola di Paro, la quale nel 1531 passò, in seguito alle nozze di una figlia legittima di Nicolò, alla famiglia Sagredo. Cecilia sarebbe stata rapita e condotta a Istanbul da Khair ed-Din, che assalì e depredò l’isola nel 1537. Divenuta la favorita di Selim figlio del sultano Solimano, nel 1546 partorì, poco più che ventenne, il principe che sarebbe divenuto Murad III. Nel 1558 un çavus¸ (messo, agente: cfr. Glossario, s.v.) del principe Selim approdò a Venezia, con il pretesto d’un commercio di armi, per informarsi sull’origine patrizia di Cecilia. Dopo la morte di Solimano e l’intronizzazione di Selim II i rapporti della signoria veneziana con la sultana divennero molto frequenti, con ricco scambio di doni, per quanto proprio in quel torno di tempo si verificasse lo scontro della guerra di Cipro. La valide sultan fu anche in contatto con la regina di Francia Caterina de’ Medici, che nel 1580 la pregò di intervenire per il rinnovo delle Capitolazioni francoottomane. Nelle sue relazioni le fu validissimo tramite la fedele schiava-confidente Kira, nome sotto il quale si nasconde l’ebrea Esther. Nur Banu morì nel dicembre 1583, si disse avvelenata dalla nuora Safiyye («la Pura»), moglie di Murad III che l’aveva sposata nel 1563. Safiyye, albanese, proseguì comunque la sua politica di buone relazioni con Venezia ed ebbe rapporti anche con Elisabetta d’Inghilterra (cfr. Spagni 1900; Rossi 1953). Una certa confusione sul nome di Cecilia Baffo, tra Nur Banu e Safiyye, sembra registrabile in Solnon 2009, p. 163. 46 Scaraffia 1993, p. 153. 47 Finì assassinata nel 1651. 48 Panetta 1984, p. 8. 49 Cfr. Scaraffia 1993, pp. 8-9; Ricci 2002, pp. 83-92, dove si richiamano anche le storie dei due rinnegati e corsari ferraresi, Mami e Ali Reis. 50 Pedani 2010, p. 193. 51 Pedani 2010, pp. 223-4. 52 Pedani 2010, pp. 194-6. 53 Cfr. supra, nota 35.

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Note

54 Una tardiva avventura in prigionia dei barbareschi toccò al padre barnabita Felice Caronni, catturato dai corsari barbareschi e condotto a Tunisi nel giugno del 1804, da dove poté rimpatriare dopo qualche mese (Caronni 1993). Analoga avventura capitò al mugellano Filippo Pananti, letterato e librettista, catturato nel 1813 a bordo di un cattivo brigantino siciliano da una flottiglia barbaresca e per alcune settimane restato prigioniero ad Algeri (Pananti 2006). 55 Altri attribuiscono l’impresa ai cavalieri di Malta e al 1601. 56 Cfr. p. es. Kahane – Tietze 1958, Cortelazzo 1989, Sebag 1989, Partner 2003, Bono 2005. 57 Cit. in Camporesi 1973, pp. 115-6; e altri passi analoghi, passim. 58 Lenci 1994; Wheatcroft 2010, passim. 59 Ricci 2008, pp. 158-9, richiama il caso del bolognese Giovanni Maria Ghiselli, liberato nel 1683: in schiavitù c’era stato sul serio, ma si sa per certo che non aveva riportato in patria le sue catene; pertanto quelle che passano per essere le sue, esposte nella chiesa di San Gerolamo alla Certosa, sono false. Il che non significa necessariamente che ciò rappresentasse una frode: poteva trattarsi di riproduzioni presentate come tali, in sostituzione di un originale non più disponibile e con intento di memoria e di omaggio. 60 Con tale termine – che non si è consolidato tuttavia prima del XVIII secolo – si intendono ordinariamente (con allusione all’area insediativa berbera) gli abitanti dei tre «principati» di Algeri, Tunisi e Tripoli, formalmente sudditi del sultano d’Istanbul. Il Marocco, i cui pirati più famosi erano quelli del porto di Salé, non è incluso in senso stretto tra i paesi «barbareschi», i maghrebini, che sono quelli dell’Africa nord-occidentale mediterranea, al di qua dello stretto di Gibilterra. (P. Boyer, État pirate ou état corsare: les barbaresques, in Jaeger 1992, pp. 61-9). 61 Cfr. Davis 2001. 62 La letteratura al riguardo è immensa. Rimandiamo a Marciani 1985 e ai tre saggi di S. Šmitran, I turchi nei proverbi serbo-croati di Vuk Stefanovic´ Karadžic´, di M.C. Nicolai, Resti di moresca, come danza rituale nella festa della madonna dei Turchi a Tollo, e di F. Sanvitale, Musica turca. Dall’Adriatico a Vienna l’incanto orientale di fiabe e di guerra, in Giannetti-Tosi 1998, rispettivamente pp. 117-29, 133-8 e 141-9. 63 Antonio De Ferraris, cit. in Finzi, Il pericolo turco nel pensiero politico del reame di Napoli, in Giannetti-Tosi 1998, pp. 99-115. 64 Per il caso, documentato da fonti manoscritte presenti in BNF, cfr. Firpo 2010, p. 36. 65 Nato nel 1444 e scomparso nel 1517, il De Ferrariis fu «forse il principale esponente dell’umanesimo meridionale dopo Giovanni Gioviano Pontano» (Finzi in Giannetti-Tosi 1998, p. 100). 66 De Ferrariis, Degli apparecchi dei Turchi, III, p. 76, cit. in Finzi, ivi, p. 101. 67 De Ferrariis, Dell’educazione, II, pp. 119-20, 149, e passim, cit. ivi, p. 104. 68 Cfr. Panzac 2009, pp. 103-40. 69 Cfr. A. Tamborra, Dopo Lepanto: lo spostamento della lotta antiturca sul fronte terrestre, in Il Mediterraneo 1974, pp. 371-91. 70 Il suo regno fu importante anche per il consolidamento dell’influenza della Compagnia di Gesù in Polonia. Madonia 2002, pp. 134-82. Quanto al titolo di vojvoda, che non è raro trovar attribuito al gran principe di Transilvania (e anche noi seguiremo tale consuetudine), si dovrebbe più propriamente usare il titolo di kiral. Ringrazio Bruno Mugnai per la preziosa segnalazione. 71 La nonna paterna di Ivan IV, sposa di Ivan III il Grande, era figlia di Tommaso Paleologo despota di Morea e fratello di Costantino XI, l’ultimo basileus di Costantinopoli. Rivendicando la dignità imperiale per le Russie, Ivan IV non

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aveva osato tuttavia assumerne il titolo supremo: si era arrestato a quello di czar, cioè di Caesar, che dall’età dioclezianea qualificava il secondo livello dell’autorità imperiale e che i basileis bizantini usavano concedere sovente ai dinasti slavi. La prima rivendicazione di titolo imperiale da parte dei granprincipi di Moscovia risale comunque a Vassili III, nel secolo XV. 72 Evans 1984, p. 100; su questa guerra resta fondamentale Loebl 1899-1904. 73 Cfr. Babinger 1932; Baumer 1944-45; el Bibas 2010, pp. 90-2. 74 Cfr. Lazzari 1920. 75 Angiolini 2006. 76 von Bezold 1883; von Pastor, XI, 1929, pp. 196-229. 77 «...ma si trattava di una truppa così raccogliticcia, così male addestrata e sostenuta logisticamente, che dopo poche settimane a Vienna non giunsero che circa tremila uomini in tutto» (Caravale – Caracciolo 1978. p. 391). 78 Sultano tra 1595 e 1603, Mehmed III all’indomani della cerimonia funebre di suo padre Murad III fece uccidere i suoi diciannove fratellastri insieme, si dice, a diciannove schiave concubine incinte; fu comunque l’ultimo sultano a applicare la pratica del fratricidio come sistematica misura di stabilità dinastica. 79 I principati di Moldavia, a est dei Carpazi, e di Valacchia, regione pianeggiante a nord del Danubio, non erano mai stati direttamente sottomessi al sultano, ma ne avevano accettato il vassallaggio continuando a governarsi sulla base delle loro tradizioni come repubbliche nobiliari i maggiorenti delle quali eleggevano un vojvoda, o hospodar, per quanto il sultano avesse i mezzi per «orientare» le loro scelte e si riservasse il diritto di legittimarle investendo il nuovo principe della sua autorità. Prezzo per la loro parziale autonomia era un pesante tributo in denaro, oltre alle requisizioni di cereali necessari al vettovagliamento dell’impero. 80 Sigismondo era divenuto anche re di Svezia nel 1592; ma, cercando di imporre l’egemonia cattolica in quel paese e in Danimarca, fu nel 1604 costretto ad abdicare cedendo la corona a Carlo IX. Come re di Polonia, restò sul trono fino alla morte avvenuta nel 1632. 81 Errante 1915; Fabbri 1985, pp. 44-5; De’ Paoli 1979, pp. 95-105; Ricci 2008, p. 85. 82 Chagniot 2001, p. 16. 83 Il singolare episodio è richiamato in Poumarède 2004, pp. 586-95. 84 L’espressione, impiegata da Poumarède 2004, p. 586, era usata in Francia durante la seconda guerra mondiale per indicare quegli alsaziani che, dopo l’occupazione tedesca seguita dall’annessione della loro regione, erano stati obbligati a servire in quanto neocittadini germanici nell’armata del Terzo Reich. 85 Poumarède 2004, pp. 397-404. 86 Chagniot 2001, p. 49. 87 Ma suo fratello Mustafa, contrariamente all’uso fin lì ordinario – per quanto non sempre seguito –, non fu ucciso. 88 Il Bocskai impose agli Asburgo il rispetto della tolleranza religiosa in Ungheria e favorì l’insediamento nelle sue terre degli ex pastori-briganti haiduk, divenuti liberi soldati-contadini di frontiera con l’obbligo di opporsi ai turchi. 89 Poumarède 2004, pp. 286-7. 90 Solnon 2009, p. 207. 91 Il mondo ottomano era discretamente informato a proposito del concetto d’impero: «diadema di grande autorità... il significato di tale termine è ‘re dei re e sultano dei sultani’» precisava nel XVI secolo il dotto Dschelalzade Mustafa (Simányi 1988, pp. 41, 109).

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92 Vero è che il solo ad esser definito padis¸ ah, al pari del sultano, era il re di Francia: Pedani – Fabris 1996, p. 39. 93 Morselli 2002, pp. 17-37; Le Thiec in Turcs et turqueries 2009, p. 139. 94 I particolari della partenza della nipote del granduca da Livorno verso Marsiglia, il 17 ottobre del 1600, e del folle sfarzo della galea che ospitava la principessa, in Ciano 1980, pp. 95-6. 95 el Bibas 2007, p. 325. 96 Cfr. Braudel-Romano 1951. 97 Ciano 1980, pp. 96-7. 98 Sodini 1987. 99 Pontecorvo 1949. 100 Stylianos 1980. 101 Per i tipi nautici toscani, Ciano 1980, pp. 149-60. 102 Alcune delle imprese guerriere della nobile casata militare dei Bourbon del Monte sono rappresentate in affresco nella fiorentina Villa Arrivabene: cfr. Bertocci-Lucchesi 2001. 103 Fermenti di ribellione serpeggiavano in effetti a quel che pare nella popolazione greco-cipriota: che però nel suo complesso aveva dimostrato, almeno subito dopo la guerra del 1570-72, di preferire secondo la tradizione ortodossa il turbante turco alla tiara cattolica (e al galero veneziano). 104 Per quest’altro bel tipo d’avventuriero, cfr. el Bibas 2010, ad indicem. 105 Ciano 1980, pp. 111-4; cfr. anche Panetta 1984, pp. 19-20, il quale richiama anche l’affresco di Jacopo da Empoli che celebra l’evento nella chiesa dei Cavalieri a Pisa e l’episodio romantico di Papirio Bussi, preso prigioniero dei barbareschi, quindi oggetto dell’amore (naturalmente...) della figlia del bey, poi fuggito fortunosamente e tornato in patria; nel 1608 il Bussi fece murare una lapide di ringraziamento nel santuario viterbese della Madonna della Quercia. 106 Ciano 1980, pp. 109-11; Bono 1997, pp. 154-63; all’impresa di Bona prese parte anche un bizzarro tipo di avventuriero-criminale, il cavaliere Francesco Alfani (cfr. Sodini 2009, pp. 143-7). Di essa si ha memoria nel monumento livornese ai «Quattro Mori», mentre le bandiere barbaresche conquistate in battaglia sono esposte nella chiesa dei Cavalieri a Pisa. 107 Ciano 1980, p. 113. 108 Per il quale cfr. el Bibas 2010, pp. 71-5 e passim. 109 A questo viaggio marinaro toscano appartiene l’episodio della «carovana del 1608»: il Guadagni, dopo aver invano cercato lo scontro con la flotta di Amurat Rais (che giudiziosamente lo aveva evitato in quanto disponeva solo di galee, che non avrebbero mai potuto farcela con gli alti galeoni dotati d’un molto superiore volume di fuoco) incrociò presso il golfo di Adalia un convoglio di una quarantina di vascelli di pellegrini musulmani diretti alla Mecca e ne ricavò un ingente bottino (Ciano 1980, p. 114). Debbo riguardo ai rapporti fra granducato di Toscana e Vicino Oriente in questo periodo molte notizie, fondate anche su documenti inediti, agli amici Carla Sodini e Khaled el Bibas. La collega Sodini sta attualmente studiando un fascicolo custodito presso l’ASF riguardante progetti relativi al 1626-29 su Cipro e sulla stessa Gerusalemme. 110 Per l’intera questione, Pontecorvo 1949. 111 Catualdi 1889; el Bibas 2010, pp. 93-8. 112 Non è qui il caso di seguire oltre le vorticose avventure di questo personaggio, che morì nel 1648 a Cattaro, dove era finito servendo la repubblica di Venezia. Altri avventurieri, millantatori e progettatori di crociate che in questo periodo incrociaro-

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no per le corti europee sarebbero degni di essere studiati in modo più approfondito: dal «prete greco» Giorgio Moschetti al «frate croato» Francesco Antonio Bertucci al «capitano albanese» Paolo Giuroy. Carla Sodini ne sta seguendo le tracce. 113 Per la vicenda di Fakhr ad-Din, che avrebbe per anni governato di fatto il Libano e la Galilea, consentendo tra l’altro la fondazione della chiesa francescana di Nazareth dedicata a Maria e l’insediamento dei frati minori sul Tabor, ma sarebbe finito giustiziato per ordine del sultano nel 1635, cfr. Carali 1936-38 ed el Bibas 2010. 114 Don Giovanni aveva combattuto a due riprese anche nella guerra d’Ungheria, a capo di un corpo di spedizione toscano di 2000 fanti e 400 cavalieri, meritandosi l’elogio dell’imperatore Rodolfo: cfr. Marri 1941. 115 el Bibas 2007, pp. 334-5. 116 Alla sua presenza e influenza si collega anche uno dei primissimi veri e propri episodi di orientalismo nel teatro europeo: il «Ballo di donne turche» messo in scena il giovedì grasso del 1615 a Firenze su un testo di Alessandro Ginori con musiche di Marco da Galliano (el Bibas 2010, p. 133). 117 Sul piano della lunga durata essi somigliano tipologicamente molto a quelli di crociata cristiano-tartara contro il sultanato mamelucco d’Egitto radicati fin dal XII secolo nella leggenda del Prete Gianni e profilatisi con almeno apparente concretezza alla fine del Duecento, ma che continuarono ad affacciarsi fino all’inizio del Quattrocento e proseguirono poi attraverso i progetti più o meno fantastici di alleanza con il negus d’Etiopia. Il diritto ecclesiastico, peraltro, proibiva in linea di massima l’impium foedus tra cristiani e musulmani e puniva con la scomunica quei cristiani che si fossero alleati in guerra con forze musulmane. Ma si trattava di una fictio iuris facilmente aggirabile grazie alla concessione, caso per caso, di opportune dispense. 118 Cioè il personaggio che al secolo si chiamava François Leclerc du Tremblay e che Aldous Huxley ha fatto divenire famoso con il soprannome di «eminenza grigia». 119 Huxley 1966, pp. 133-60; Pierre 2007, pp. 129-59; cfr. anche Rousset 1983, pp. 189-92. 120 Sui ripetuti exploits crociati di Vincenzo I (1595, 1597, 1601), cfr. Errante 1915. 121 Moglie di Guglielmo Gonzaga. 122 Che sarebbe stato più tardi autore di due celebri trattati, l’Historica, theologica et moralis Terrae Sanctae elucidatio (voll. 2, Anversa 1639), e De sacratissimis D.N.J. Christi quinque vulneribus tractatio (voll. 5, Venezia 1652). 123 L’opuscolo sarebbe stato stampato a Milano nel 1631. 124 F. Raugi, Il conflitto algero-tunisino del 1628 attraverso una fonte documentaria livornese, in Tunisia e Toscana 2002, p. 247. 125 Cfr. Campanella 1955. 126 Cfr. Sul Campanella e la crociata rimangono fondamentali le considerazioni di Dupront 1993, pp. 308 sgg.

4. Tra l’Ucraina e l’isola di Candia 1 Chagniot 2001, p. 149. Il tasso almeno teorico di crescita annua delle popolazioni, la presenza di frequenti flussi migratori (gente che fuggiva dinanzi alle truppe, cattolici o protestanti che migravano dalle loro terre dove l’opposta fazione religiosa aveva acquistato l’egemonia ecc.) e la rapsodicità della documentazione

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(ad esempio i registri parrocchiali, del tutto privi di serialità) rendono praticamente impossibile un calcolo demografico attendibile. Lo spopolamento sembra essere stato particolarmente pronunciato nelle regioni nelle quali gli eserciti soggiornavano più spesso, quindi soprattutto nella Germania centro-meridionale; meno toccate l’Austria e il nord. 2 Chagniot 2001, p. 150. 3 Su di lui, Giurescu 2007, III, pp. 33-5. Gaspar Grat¸ iani, o all’italiana Gaspare Graziani, croato, succedette a Radu Mihnea e fu in rapporto col patrizio veneziano Polo Minio (cfr. C. Luca, Il patrizio veneto Polo Minio, viaggiatore in Moldavia nei primi decenni del Seicento, in Platania 2006, pp. 81-96). 4 Per il kafes, Mantran 1989, pp. 166-7; Lewis 1990, p. 59. 5 Lvov in russo, L’viv. in ucraino. 6 Città indicata anche come Chocim o Chotin (cfr. Platania 2000, p. 133). 7 Regione storica dell’Ucraina occidentale. 8 Per il secondo di questi episodi cfr. G. Lami, La spedizione dei cosacchi ad Azov nel 1637, in Platania 2000, pp. 41-52. La città di Azov è la medesima che al tempo della colonizzazione genovese era chiamata Tana. 9 Ma colui che più volte aveva ben dato filo da torcere alla Porta, il grande Shah Abbas, era mancato nel 1629. 10 Valensi 1989, p. 18. 11 Cfr. Glossario, s.vv. 12 Ternon 2005, p. 63. 13 Ma nell’Africa settentrionale l’autorità sultaniale era ormai in crisi: i beylerbeyi si arrogavano eccessivi poteri e conducevano una diplomazia indipendente dalla Porta, le guarnigioni ottomane non venivano pagate e si ribellavano, i reis corsari gestivano le loro flotte comportandosi da liberi imprenditori. 14 Bérenger 1987, p. 24. 15 Paci 1971, pp. 19-20. 16 Concina 1997, pp. 219-46. 17 Di per sé l’allume, non essendo una merce suscettibile d’immediato e diretto impiego militare, rientrava tra le res non vetitae, le merci commerciare le quali con i musulmani era lecito salvo in periodi in cui fosse stata bandita una crociata: ma il fatto era che il commercio dell’allume di Focea danneggiava quello concorrente, l’allume della Tolfa presso Civitavecchia, sul territorio dello stato della Chiesa, causando perdite alle casse pontificie. 18 Pedani 2010, pp. 70-1. 19 Numerosi e densi richiami in P. Preto, Venezia e i turchi nel Seicento, in Simonato 1993, pp. 44-58. 20 Le vicende di questo testo sono tanto intricate quanto affascinanti ed esemplari. In realtà, tutto ha inizio dal trattato Il serraglio del Gransignore, composto nel 1608 da Ottaviano Bon, curiosa figura di mercante, diplomatico e uomo politico veneziano che dal 1604 era bailo a Istanbul (nato nel 1552, sarebbe venuto a mancare nel 1623, insignito dell’ufficio senatoriale ma triste e in solitudine; cfr. per tutto ciò Bon 2002). Il Bon era riuscito a penetrare anche nelle aree proibite del serraglio, grazie all’amicizia e forse alla corruzione di qualche funzionario sultaniale. Il celebre The present state of Ottoman Empire, pubblicato nel 1668 da sir Paul Rycaut e salutato come una delle pietre miliari dell’orientalistica (nonché dell’orientalismo) e della turcologia moderne, è in realtà, come si esprime esplicitamente il Basile, «pesante plagio del testo di Bon» (Bon 2002, p. 14). A sua volta, il Rycaut fu saccheggiato dal Marana, che però «capovolgeva la logica dell’archetipo di Bon»

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(ibidem): non più un occidentale alla scoperta del serraglio, ma un orientale che indaga sulla corte del Re Sole (cfr. anche Roscioni 1992). 21 In quel momento Giovanni Soranzo era in effetti arrestato; solo nel maggio 1650 gli fu permesso di rientrare a Venezia: Carbone 1974, pp.17-8. 22 Marana 2009, lett. LXIII (1639), pp. 115-6. 23 Cfr. Marana 2009, I, lett. XXXI (anno 1638), p. 57, sull’attacco delle galee di Malta a un galeone del bas¸ a di Tripoli e sulla cattura da parte loro presso le coste della Calabria di una squadra comandata da «Picoce, amiral de Tripoli, qui est un rénegat de Marseille», con uccisione e imprigionamento di alquanti musulmani e liberazione di una cinquantina di prigionieri cristiani nonché sul sequestro di alcuni cannoni usciti di fresco dalla fonderia. Il comandante delle galee maltesi era valente persona, anche se impedito dalla gotta. Il Marana, dando la parola al suo falso turco, informa che la vittoria cristiana era stata alquanto ingigantita, che nel bottino non c’erano cannoni di fonderia e che i cristiani liberati erano meno di quanto annunziato dalla propaganda maltese. 24 Marana 2009, I, lett. XXXIII (anno 1638), pp. 59-60, al capitan bassa, rimproverandogli i suoi legami con un segretario dell’«empereur d’Alémagne», che avrebbero rasentato l’alto tradimento e che si traducevano in doni e nell’elaborazione di falsi documenti; ivi, lett. XXXIV (1638), pp. 61-2, sull’impresa del Cappello davanti a Valona e sulla perdita delle imbarcazioni barbaresche a causa del raid delle galee di Malta, sulla cattiva fama del kapudan pas¸ a in Europa e sulle vere o presunte colpe di Ali «Piccinino»; lett. XXXV (1638), pp. 62-3, al medesimo, consigliandogli di lavare l’onta delle recenti sconfitte assalendo il santuario di Loreto, impresa già concepita dal solito «Piccinino» («Lorette est la Mecque des chrétiens», p. 63); lett. XXXVII-XXXVIII (1638), pp. 65-8,al kaymakam, ancora sul «Piccinino», sull’impresa di Loreto e su un vecchio rinnegato dalmata trattenuto prigioniero dal gran visir che era stato protagonista di molti raid in Adriatico, nell’Egeo e nel Mar Nero contro i cosacchi; lett. XLVI (1639), pp. 91-2, sulla richiesta dei francescani di Gerusalemme al cardinal Richelieu d’intervenire in loro favore contro le pretese dei cristiani greci sui Luoghi Santi di Gerusalemme e sugli intrighi di greci e armeni contro i cristiani latini in Terrasanta; lett. LVI (1639), pp. 107-8, dove si ricorda brevemente l’episodio della morte del principe curdo Fakhr ad-Din, avvenuta nel 1635 (che tuttavia fu fatto strangolare dal sultano dopo essere stato catturato e portato a Istanbul, non pugnalato come sostiene Mehmed-Marana); lett. LXVIII (1640), pp. 123-4, a un ebreo di Genova, rimproverandogli di aver scorrettamente informato la Porta a proposito delle intenzioni dei genovesi di unirsi ai nemici del sultano, cosa non vera; lett. LXXII (1641), pp. 135-8, sull’incendio d’Istanbul di quell’anno; lett. LXXV (1641), p. 142, su un altro assalto cristiano contro il Nordafrica e sulle gesta dei cavalieri di Malta che «font trembler les flottes des Ottomans» e che bagnano di continuo la croce che portano sul petto «dans le sang des fidèles musulmans»; lett. XCVII (1642), pp. 173-5, con la rievocazione del dramma di Sebastiano del Portogallo; lett. CXXI (1642), pp. 210-1, su un piano turco d’offensiva nei Balcani sventato a tempo e sulla pace tra il sultano e lo shah; lett. CXXIII (1642), pp. 212-3, sulla nascita di Mehmed IV; tomo II, lett. XV (1642), pp. 239-40, sulla morte di Safi I shah di Persia e sui progetti di alleanza tra il Gran Moghul e il sultano; lett. XVIII (1643), pp.242-3, su al-Mansur figlio di Fakhr ad-Din e in quel momento, a detta di Mehmed-Marana sulla base di fonti genovesi, alla corte del granduca di Firenze che era riuscito a farlo liberare dalla prigionia in Istanbul; lett. XXXIII (1643), pp. 269-70, su una congiura dei governatori ottomani delle isole mediterranee diretta contro il sultano; lett. XXXIX (1643), pp. 279-81, su una conversazione del fittizio

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Note

epistolografo con l’«Ebreo Errante» arrivato a Parigi, ma che molti consideravano un impostore, del che non v’è francamente da stupirsi; lett. XLVII-XLVIII (1644), pp. 291-2, sulla falsa notizia che Mehmed figlio del sultano Ibrahim fosse fatto prigioniero dai cavalieri di Malta e sull’effettiva cattura di un ricco convoglio ottomano (si tratta del casus belli della guerra di Candia, di cui si è detto); lett. LII (1644), p. 299, sulla questione della Transilvania. Per altre lettere, cfr. infra. 25 Da qui, secondo alcuni, il suo cognome: Marana da marrano; se non proviene, invece, dal toponimo di Marano in Veneto. 26 Cfr. Venezia e Creta 1998. 27 Benzoni 2005, p. 122. 28 Sul ruolo della Santa Casa di Loreto come baluardo di fronte all’Islam, Scaraffia 1998, pp. 25 (pellegrinaggio a Loreto di Marcantonio Colonna con la sua squadra navale dopo la vittoria di Lepanto nel 1571) e 26 (pellegrinaggio a Loreto imposto ai rinnegati che tornavano alla fede). Cfr. anche qui supra, nota 24. 29 Eickhoff 1991, p. 22. 30 Cit. in Mansel 2003, p. 183. 31 Era il galeone della sultana, 1200 tonnellate di stazza. 32 Gli eunuchi africani erano destinati, come sappiamo, ai servizi delle donne nel serraglio. 33 Cfr. Marana 2009, lett. XLVII-XVIII, pp. 291-2. 34 Panzac 2009, pp. 141-2; per l’intera questione della guerra di Candia sotto il profilo navale, ivi, pp. 141-61. 35 La quale sembra altri non fosse che una Giacoma Beccarini catturata dai corsari ottomani durante un saccheggio subito nel 1620 dalla città di Manfredonia. 36 Su tali questioni, cfr. Serricchio 2003 e 2003a: lo stesso autore ha tratto spunto dall’intricata faccenda per un romanzo storico (C. Serricchio, L’Islam e la croce, Venezia 2002). Invece secondo Marana 2009, lett. XLVII-XVIII, pp. 291-2, tra i prigionieri catturati nel raid c’era in effetti il figlioletto del sultano Ibrahim che sarebbe poi entrato nell’Ordine domenicano e rimasto celebre come «Padre Ottomano» o «fra Domenico Ottomano», ma che si chiamava Mehmed: cfr. Bardakçi-Pugnière 2008, p. 39. 37 Cfr. Marana, II, lett. LVIII, pp. 305-6 (arringa del senatore veneziano Grimaldi in favore della guerra); II, lett. LXII, pp. 311-2 (descrizione dell’arsenale di Venezia). 38 Cfr. supra, nota 21. 39 Panzac 2009, p. 144, calcola più di 350 navi di vario tipo, di cui comunque solo 72 galee e ben 250 vascelli da carico. 40 Panzac, ibidem, calcola 7000 giannizzeri, 14.000 spahi e 50.000 armati messi in campo attraverso le risorse del timar e provenienti da varie parti dell’impero. Secondo altri, si trattava di 80.000 uomini circa in tutto, oltre un terzo dei quali ausiliari (i guastatori armeni sarebbero stati 30.000). 41 San Tòdero per i veneziani. Era chiara l’intenzione simbolica: fedele alle tradizioni imperiali di Bisanzio, delle quali si dichiarava erede, la Porta avviava ogni anno le sue imprese marittime il 24 aprile, festa di san Giorgio, e le concludeva il 29 settembre, festa dell’arcangelo Michele. Quell’anno, era volontà del sultano che nel giorno di san Giorgio cominciasse la guerra per Candia. 42 La Canea era il porto nord-occidentale dell’isola; seguivano, da ovest verso est, Rétimo o Rétymna, Fodella, quindi la capitale Candia (l’antica Herakleion), Spinalonga e Sitia. Sulla costa meridionale, l’isola contava i centri portuali di Palaiocastro, Sfakia e Geràpetra. 43 Marana 2009, II, lett. LXXXV (1645), pp. 350-1. Nessuno della guarnigione sopravvisse: ma l’episodio fu poi rielaborato in termini propagandistici.

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44 Sulla presa ottomana di Rétimo, sulla costa settentrionale dell’isola più o meno a metà strada tra la Canea e Candia, cfr. Marana 2009, II, lett. CXI, pp. 390-1, dove si tratta anche della discordia tra i responsabili dei vari uffici della repubblica nell’isola come di un fattore di debolezza della resistenza veneziana, e lett. CXII, p. 391, dove si parla della propensione dei francesi a lodare i capi militari musulmani per umiliare indirettamente quelli delle altre potenze cristiane e a vincere le guerre usando soprattutto l’arma della corruzione venale, atteggiamento contrapposto al valore guerriero degli ottomani; lett. C, pp. 375-6, sulle malevole critiche a proposito dell’abbandono della Canea. 45 Una definizione che si deve a Vendramin Bianchi, segretario dell’ambasciatore veneziano alla pace di Passarowitz del 1718 (Bianchi 1719, p. 4). 46 Benzoni 2005, p. 121. 47 Per cui p. es. Marana 2009, II, XCVI (1646), pp. 370-71; LCVIII, pp. 372-3. 48 Un accordo diplomatico-cerimoniale tra Venezia e la Savoia fu comunque raggiunto nel 1662. 49 La Serenissima sosteneva di averne diritto in quanto signora del regno di Cipro e di quello, fittizio, di Candia; Genova ribatteva che le spettava uguale riconoscimento in quanto a sua volta signora del regno di Corsica (un’altra realtà fittizia). 50 Per cui, ad esempio, Marana 2009, II, lett. XCVI (1646), pp. 370-1; lett. LCVIII, pp. 372-3. 51 Eickhoff 1991, p. 47. 52 Cfr. Marana, II, lett. CVI (1646), pp. 381-6, dove peraltro si sottolineano le ambizioni che il ministro-cardinale nutriva a proposito della possibilità che il re di Francia fosse insediato sul soglio del Sacro Romano Impero e si sostiene che solo dopo aver guadagnato a tale causa i principi elettori la Francia avrebbe potuto guidare una vera offensiva crociata contro gli ottomani. Ivi, lett. CXI, pp. 390-1, si parla dell’ambasciatore inviato dal governo francese alla Porta per mediare una tregua turco-veneziana: il signor de Varennes, «homme présomptueux» che aveva sollecitato l’incarico solo per leggerezza, «fanfaronnade française», pare grazie al favore della regina. A detta del Marana, il cardinal Mazarino avrebbe potuto impedire la partenza del temerario e inetto de Varennes: non lo fece perché, non amandolo, ne desiderava il fallimento. Può darsi che il Marana abbia ragione, quando ritiene la missione del de Varennes una messinscena: ma le intenzioni d’impegnarsi erano serie. Tra 1644 e 1648 si trovava presso la corte di Francia un interessante personaggio veneziano, lo storico e diplomatico Giovan Battista Nani, che molto fece per indurre il Mazarino a intervenire a fianco di Venezia nella faccenda di Candia. 53 Cfr. Marana 2009, II, lett. CV, pp. 380-1. 54 Difatti, dopo i trattati di Westfalia del 1648, la guerra tra Francia e Spagna continuò altri undici anni. 55 In tale occasione papa Alessandro VII, succeduto a Innocenzo X nel 1656, avrebbe – grazie anche all’abilità del nunzio apostolico a Venezia, Carlo Carafa – concesso alla Serenissima l’aiuto di alcune galee pontificie e anche un sostegno finanziario per la difesa della Dalmazia in cambio della riammissione della Compagnia di Gesù in Venezia, da dove era stata espulsa nel 1606: i gesuiti sarebbero rientrati in effetti nel territorio della repubblica nel gennaio del 1657. Tra Veneto e Friuli, a metà secolo, la paura del Turco era vivissima: correva voce che circolassero delle spie e che un esercito di 30.000 infedeli stesse per rovesciarsi sulla regione (Preto 1994, pp. 96, 375). La piazzaforte di Sebenico, investita nel 1646, riuscì a resistere nonostante l’evidente inadeguatezza delle fortificazioni, cui non giovava l’abbondanza perfino eccessiva delle bocche da fuoco dal momento che il vero punto debole della Serenissima era costituito dalla carenza di copertura militare e logistica, un obiettivo rispetto

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Note

al quale il sistema veneziano delle guarnigioni (concentrato su quelle di Candia e di Dalmazia) era inadeguato. L’esercito veneziano di terra schierato in Dalmazia era costituito da undici squadroni di fanteria i componenti dei quali erano tedeschi, italici, svizzeri, còrsi, albanesi, croati, oltre alle «craine» – le milizie territoriali – dalmate. Sulla battaglia di Sebenico, la campagna di Dalmazia, le vicende di Leonardo Foscolo e di Christof Martin von Degenfeld, cfr. Eickhoff 1991, pp. 94-9. 56 Bardakçi-Pugnière 2008, p. 42, per le gesta di Alvise e Lazzaro Mocenigo, Daniele Morosini, Giuseppe Dolfin, Lorenzo Marcello e altri; Marana 2009, III, lett. XV, pp. 431-2, per le vittorie di Bernardo Morosini e del Grimani. In generale, Eickhoff 1991, passim. 57 Cfr. Marana 2009, III, lett. XIII (1647), p. 428, dove si riferisce anche di certi poco realizzabili progetti nautici presentati al Mazarino o da lui stesso concepiti per battere i turchi nello stesso porto d’Istanbul. 58 Sull’abbandono dell’assedio di Sebenico da parte del pas¸ a di Bosnia, Marana 2009, III, lett. XV-XVI (1647), pp. 431-3; su una disfatta dei veneziani e dei «morlacchi» (pastori ortodossi soprattutto montenegrini, ma provenienti anche da una più ampia area bosniaco-erzegovino-albanese) in Bosnia, accompagnata dal supplizio crudele d’un comandante cristiano che era anche uomo di Chiesa, scorticato e poi fatto impalare, e che morì eroicamente, e sui propositi di vendetta al riguardo formulati dai cristiani, ivi, lett. XXII (1647), pp. 443-5; sulla vendetta in effetti conseguita, e sulla sua ferocia, ivi, lett. XXIV (1648), p. 448. 59 Cfr. Marana 2009, III, lett. I (1646), pp. 406-7. 60 Marana 2009, III, lett. XXXII, pp. 466-7. 61 Cfr. Pedani 2010, pp. 72-3. Sino dai tempi di Solimano il Magnifico esisteva un consesso con poteri consultivi, chiamato «alto consiglio», composto da visir, ulema e notabili vari (Mansel 2003, p. 139). Il piccolo Mehmed era nato nel 1642; è il modello ispiratore del personaggio del delizioso, intelligente sultano-bambino nel romanzo Il castello bianco di Orhan Pamuk. 62 Cfr. Marana 2009, III, lett. XXXIV (1648), pp. 468-70; lett. LVI (1650), p. 526. 63 Cfr. Caccamo 1984. 64 Il primo fu stipulato a Osnabrück il 6 agosto, il secondo a Münster l’8 settembre: entrambi vennero pubblicati insieme il 24 ottobre successivo. 65 Su Westfalia, Poumarède 2000, pp. 254-66. 66 Sui reggimenti di mercenari svizzeri al servizio della repubblica di San Marco a Candia e sulle difficoltà dei turchi nell’assedio durante il 1651-1652, cfr. Marana 2009, III, lett. LXVIII, p. 532; lett. LXXIII, pp. 539-42; lett. LXXXII, pp. 558-60. 67 Eickhoff 1991, pp. 142-8; Preto in Simonato 1993, p. 52. 68 Ternon 2005, p. 63. 69 Espressione consueta nei documenti ottomani: cfr. Lewis 2007, p. 145. 70 Pedani 2010, p. 74. 71 Nato nel 1635 e gran visir dal 1661 al 1676, anno della sua scomparsa. 72 Bardakçi-Pugnière 2008, pp. 43-4. 73 A metà Seicento correvano in Friuli voci secondo le quali sulla regione stavano per rovesciarsi 30.000 turchi: cfr. Preto 1994, pp. 96, 375. 74 Il problema della difesa della Terraferma era strettamente connesso con la debolezza e il carattere antiquato del sistema di reclutamento veneziano: in pieno Seicento, mentre tutti gli stati europei si stavano orientando verso la costituzione di eserciti permanenti fondati su unità organiche come i reggimenti e su regolamenti generali che stabilivano gerarchie, stipendi e promozioni degli ufficiali, a Venezia si continuava a diffidare dei militari professionisti stranieri e a seguire l’arcaico sistema delle compagnie-guarnigioni, senza alcuna prospettiva di unità di comando. Il

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sistema dei presidii difensivi rendeva lento e faticoso il mettere insieme un «esercito da campagna» nel caso di attacchi di sorpresa: e le fortezza cadevano prima che si potessero raccogliere le formazioni mercenarie necessarie alla loro difesa. Per i temuti attacchi ottomani per via di terra, cfr. nota precedente. 75 Poumarède 2004, pp. 120-1. 76 Voltaire esalta l’«omerica» lotta per la libertà di Candia e i suoi eroi francesi, sia nel Siècle de Louis XIV, sia nel capitolo CXCI dell’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations. 77 Ortensia era sorella di Olimpia, che nel 1663 avrebbe dato alla luce Eugenio di Savoia. 78 Bardakçi-Pugnière 2008, pp. 62-3. 79 Cfr. G. Bergoin, Le chevalier Paul, Marseille 1597-Toulon 1667, in VergéFranceschi 1991, pp. 189-200. 80 Si sarebbe spento il 9 marzo 1661, lasciando nel suo testamento al papa la somma di 600.000 lire da usare nella guerra di Candia e raccomandando a Luigi XIV d’impegnarsi per la cacciata del turco dall’Ungheria: cfr. Goubert 1990, p. 432; F. Bilici, Les relations franco-ottomanes au XVIIe siècle, Réalisme politique et idéologie de croisade, in Turcs et turqueries 2009, p. 47. 81 La sua vicenda in Poumarède 2004, pp. 406-29. 82 Bardakçi-Pugnière 2008, p. 16. 83 Cfr. infra, pp. 160 sgg. 84 Il Barozzi, traditore e rinnegato, morì una decina d’anni dopo a Istanbul, durante una festa all’ambasciata di Francia: il bailo veneziano Donà aveva pagato dei killer per somministrargli della polvere di diamante disciolta in una bevanda. Una morte «preziosa», ma atroce, che procurò grande soddisfazione al bailo (Pedani 2010, p. 170). Il diamante assassino era forse un contrappasso simbolico del danaro che il traditore aveva guadagnato col suo infame gesto. 85 Cfr infra, pp. 156-9. 86 Bardakçi-Pugnière 2008, p. 65. 87 Ma alcuni di essi si dispersero, in circostanze non troppo chiare. Fra 1671 e 1675 il console francese a Livorno ne raccolse e ne reimbarcò a più riprese parecchi, spedendoli verso Tolone e Marsiglia: si trattava non solo dei rimpatriati francesi, sbandati per vari motivi, ma anche di soldati variamente congedati e di disertori non solo francesi, ma anche tedeschi, svizzeri e italiani (Chagniot 2001, p. 102). 88 Voltaire 2005, pp. 262-3. 89 Cit. in Bardakçi-Pugnière 2008, p. 69. Il Beaufort avrebbe in realtà dovuto riabilitarsi dopo un insuccesso sulla costa algerina. 90 Una sintesi in Eickhoff 1991, pp. 258-68. 91 Cordey 1910, p. 63. 92 Forma veneziana di un termine che nei volgari italici s’incontra spesso anche nella forma «turcomanno»; deriva dall’arabo targuman, «interprete», «traduttore»; per il ruolo dei dragomanni a Venezia, cfr. Pedani 2010, pp. 160-4. 93 Beillingeri in Simonato 1993, p. 102. 94 Le memorie sono state edite in Bardakçi-Pugnière 2008, pp. 95-125, ma il passo qui richiamato è cit. ivi, p. 76. 95 Setton 1991, pp. 206-29, ha ben evidenziato la complessità della situazione veneziana e le rivalità interne al senato a proposito sia della sorte di Candia, sia dell’atteggiamento da tenere nei confronti del Turco. 96 Cfr. infra, pp. 160 sgg. 97 Il biennio 1667-1669 della guerra di Candia è testimoniato, da parte turca, anche da Tchélébi 1687, pp. 163-275.

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Cfr. infra, pp. 160 sgg. Mt. 2, 1-12, che però non autorizza la credenza che l’astro guida dei magi fosse una cometa. 100 Casali 2003, pp. 195-7; Ricci 2008, p. 90. 101 Per la verità, il šimšir o shamshir, spesso ricordato come tipica arma bianca ottomana, è piuttosto specificamente persiana: gli ottomani preferivano il kilij o qilij, tipicamente ricurve (Mugnai 1997-98, I, pp. 104-5, 122-3). 102 Che le bevande fermentate siano vietate o soltanto sconsigliate ai credenti è questione tuttora dibattuta, alla luce di varie e complesse indicazioni coraniche (Cor. II, 219; V, 90-91; XVI, 67; XLVII, 15; LXXXIII, 25-26). 103 Per quel che riguarda Candia, cfr. Mc. Kee 2004. Questo fattore «di lunga durata» si era già presentato nella Siria e nell’Egitto del VII-VIII secolo: le genti locali, cristiane ma monofisite, avevano accolto come liberatori i musulmani che ponevano fine al regime imposto dall’impero d’Oriente, che le trattava da eretiche sottoponendole a pesanti vessazioni. 98 99

5. Effemeridi danubiane Cfr. supra, pp. 34-5. Figlio di Carlo arciduca d’Austria e di Maria Anna di Baviera, già fatto incoronare nel 1617 re di Boemia dal cugino imperatore Mattia, era asceso al trono imperiale nel 1619 alla morte di questi. 3 Cfr. Marana 2009, II, lett. LII (1644), p. 299. 4 Cfr. Marana 2009, II, lett. LXXVI (1645), pp. 335-7. Per il Torstensson cfr. Childs 2004, ad indicem. 5 Di lui i turchi diffidavano ormai da tempo: cfr. Marana 2009, III, lett. XXVIII, p. 457. 6 Figlia di Filippo III di Spagna e di Margherita d’Asburgo-Austria (sorella dell’imperatore Ferdinando II), Maria, era quindi cugina di suo marito Ferdinando III; essa era sorella altresì tanto di Anna – che aveva sposato Luigi XIII di Francia (è la regina de I tre moschettieri di Alexandre Dumas padre) e che era madre di Luigi XIV – quanto di Filippo IV, re di Spagna dal 1621 al 1665. L’imperatrice Maria era deceduta nel 1646. 7 Le due successive spose dell’imperatore Ferdinando III furono Maria Leopoldina del Tirolo, morta nel 1649, ed Eleonora Gonzaga di Mantova, morta nel 1686. 8 Il prelato-ministro aveva fatto di tutto per condizionare il collegio dei principi elettori: non tanto nell’intento di far eleggere Luigi XIV (per quanto quella fosse una vecchia ambizione dei re di Francia: ci aveva provato e pensato anche Francesco I), quanto per creare ogni sorta di difficoltà alla «politica di famiglia» tra gli Asburgo d’Austria e quelli di Spagna. Data la giovane età di Leopoldo, i fautori più convinti della dinastia asburgica avevano pensato in un primo momento di ripiegare sul di lui zio, l’intelligente e scaltro arciduca Leopoldo Guglielmo (Bérenger 2004, p. 212). 9 Nacque difatti nel 1658, per iniziativa del vescovo elettore di Magonza, il Rheinbund, cioè la «Lega renana»: cfr. Pillorget-Rouanet 1967. 10 Sin dal 1547 Ivan IV aveva assunto il titolo di czar e rivendicato il potere su tutte le Russie (la Grande, la Piccola, la Bianca). Le cancellerie delle altre potenze tardarono tuttavia molto prima di riconoscere al granprincipe di Moscovia il titolo da lui preteso. 1 2

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11 Carlo X Gustavo, asceso al trono nel 1654 in seguito all’abdicazione di sua cugina Cristina, figlia di Gustavo II Adolfo, che aveva abdicato e si era convertita al cattolicesimo (cfr. supra, p. 151, e passim), nel 1655 dichiarò guerra alla Polonia; nel 1656, alleato del Brandeburgo (con i trattati di Königsberg e di Marienburg), occupò Varsavia. Russia, Danimarca e Sacro Romano Impero dichiararono guerra alla Svezia; il Brandeburgo, con un voltafaccia, si unì all’alleanza ottenendo dalla Polonia il riconoscimento della sua sovranità sulla Prussia Orientale. Nel 1657 gli svedesi furono cacciati dalla Polonia, ma Carlo contrattaccò su un altro fronte invadendo per due volte la Danimarca. Solo la strenua difesa di Copenhagen e la morte di Carlo X facilitarono il trattato di Oliva (3 maggio 1660). Giovanni Casimiro Wasa (re di Polonia) rinunziò allora alle pretese sul trono svedese e cedette la Livonia alla Svezia. Con il trattato di Copenhagen la Danimarca lasciò alla Svezia la parte meridionale della penisola scandinava, ma conservò Bornholm e Trondheim. Con il trattato di Kardis (1661) fra Svezia e impero russo, si ristabilì lo status quo ante. Con Carlo XI Wasa (sovrano dal 1660 al 1697) la Svezia partecipò alla guerra d’Olanda (1672-1679) come alleata della Francia. L’invasione del Brandeburgo da parte degli svedesi fu fermata con la battaglia di Fehrbellin (28 giugno 1675); i brandeburghesi invasero poi la Pomerania svedese, Stettino, Stralsunda e Greifswald. La Svezia riprese tutti questi territori grazie a Luigi XIV, con il trattato di Saint Germain-en-Laye (1679). Il regno di Svezia fu governato in modo assolutistico tramite il consiglio del re e gli «stati» (gli organi degli Ordini) furono tenuti in soggezione. Nel 1680 contee, baronie e altri feudi furono ricondotti alla corona: si trattò di una confisca che colpì duramente l’aristocrazia svedese. Nel 1697 salì al trono, a 15 anni, Carlo XII, destinato a diventare con la «grande guerra del Nord» (1700-1721) un personaggio leggendario, grazie anche alla biografia a lui dedicata dal Voltaire. 12 La reggenza fu assunta dalla regina Edvige, vedova del defunto sovrano. 13 Çelebi 1964, pp. 161-2; cfr. Lewis 1983, pp. 103-5. Il memorialista turco, severo testimone dell’aspetto non avvenente dell’imperatore – uno così non sarebbe mai entrato nel serraglio d’Istanbul, dove bellezza, obbedienza e silenzio erano le tre qualità più apprezzate –, ne elogia tuttavia in modo molto intenso e convinto le doti d’intelligenza, di bontà e di moderazione. 14 Quando, morto Filippo IV, la moglie esercitò la reggenza, il padre Neidhard divenne molto potente nel regno e coprì anche la funzione di Grande Inquisitore, ma più tardi venne allontanato. 15 Così Bérenger 2004, p. 78, il quale però non la condivide. 16 Bérenger 2004, pp. 59-71 e 75 sgg. 17 Eleonora, figlia di Carlo II Gonzaga-Rethel e di Maria Gonzaga, era nata a Mantova nel 1630 e aveva sposato Ferdinando III nel 1651; morì a Vienna nel 1686. Aveva partorito all’augusto sposo ben quattro figli, dei quali due morirono in tenera età, mentre le due figlie, le arciduchesse Eleonora Maria Giuseppina e Maria Anna Giuseppina, sopravvissero rispettivamente fino al 1697 e 1689. La prima, nata nel 1653, fu moglie tra 1670 e 1673 di Michele Korybut re di Polonia e, rimasta vedova, fu autorizzata dal fratellastro Leopoldo I a unirsi in seconde nozze con Carlo V duca di Lorena, per il quale aveva già da prima un’evidente inclinazione. In questo modo Leopoldo I e Carlo V divennero cognati. 18 Md’A, II, p. 568 (in italiano, come sempre nella corrispondenza con padre Marco). 19 Per i tedeschi, Hermannstadt. 20 Oggi Sighis¸ oara in Romania.

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21 Nato nel 1620, aveva assunto la carica nel 1647; cfr. Jelcˇic´ 2005, p. 21, che però preferisce ovviamente, per il cognome dell’illustre casato, la forma croata Zrinski. 22 Sull’attività militare dello Zrínyi e i vantaggi e svantaggi della sua mancanza di artiglieria, che lo obbligava a rapidissimi raid, cfr. Wheatcroft 2010, p. 79. 23 Chagniot 2001, p. 292. 24 Immensa la bibliografia che lo concerne: a parte quel che qui citeremo espressamente, rimandiamo a Gherardi-Martelli 2009 e a Lynn 2010, ad indicem. 25 Ferrarese, nato nel ’93, politico e diplomatico oltre che cortigiano – ma fustigatore della corruzione della vita di corte: un atteggiamento moralistico che del resto corrispondeva a un antico topos –, il Tosti aveva pubblicato nel ’26 la tragedia L’isola d’Alcina e l’anno successivo la prima parte delle Poesie liriche, le quali segnavano il suo passaggio dal marinismo a una più attenta e severa ispirazione dai classici latini. 26 Oggi Opava in Cechia. 27 Dalle nozze sarebbero nate tre figlie (Luigia, Carlotta e Cristina) e un figlio (Leopoldo). Nel ’76, appena trentasettenne, Margarethe avrebbe lasciato questo mondo: il vecchio generale, rimasto solo, avrebbe trascorso nel dolore gli ultimi quattro anni della sua esistenza. 28 Va sottolineato un risvolto interno alla compagine ottomana, nella campagna del 1663: secondo Paul Rycaut, un osservatore interessante ma non sempre attendibile (anche dati i plagi di testi precedenti ai quali ricorreva), il gran visir aveva scatenato la campagna d’Ungheria anche per dissanguare il più possibile giannizzeri e spahi, di solito responsabili di complotti e sommosse, sostituendo loro le più docili milizie dei kapikulu. La guerra sarebbe servita insomma a rafforzare il potere centrale. Una mossa spregiudicata, ma anche piuttosto rischiosa, che comunque anticiperebbe ad esempio quella che con spirito ben più radicale fu adottata dallo czar Pietro I nella dissoluzione della guardia degli strelzy I nel 1698 (Chagniot 2001, p. 119). 29 Cfr. Schulze 1978 e Albrecht 1980. 30 Gherardi-Martelli 2009, p. 12; cfr. anche Platzhoff 1920. 31 Neuhäusel, conosciuta dai turchi come Uyvar e dagli ungheresi come Érsekújvár, è oggi Nove Zámky in Slovacchia. Era una cittadella importante sì, ma dalle fortificazioni ancora incomplete. Del resto tutta la frontiera militare ungarocarpatica era maltenuta per carenza di fondi: bocche da fuoco, polvere nera e munizioni erano quasi dappertutto insufficienti o in cattivo stato, le cinte murarie desuete o in rovina (Bérenger 2004, p. 310). 32 In ungherese Párkány; oggi Sturovo in Slovacchia. 33 Come i fatti del luglio 1683 avrebbero dimostrato, l’abbandono della capitale da parte del sovrano sarebbe stato foriero di paura, di disorientamento, di confusione: fu una scelta forse opportuna, magari perfino necessaria, quella del 1683, ma certo molto impopolare. 34 Sarebbe morto non troppo tempo dopo, il 18 novembre del 1664, travolto da un cinghiale in un incidente di caccia (ma non manca chi pensa a un assassinio ordito alla corte di Vienna). 35 Cfr. Montecuccoli 1988, pp. 199-250; Tóth 2007. 36 Tomassini 1978, p. 44. 37 Per la presentazione e la mappa dei dieci Kreise in cui dal 1500-1512 si ripartiva il Sacro Romano Impero, e che erano grandi unità regionali intermediarie fra l’autorità imperiale e le differenti realtà statali che la riconoscevano, cfr. Hochedlin-

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ger 2003, p. 49; comunità circoscrizionali autonome, i Kreise disponevano di competenze relative ai problemi regionali, soprattutto quelli economici (cfr. Noël 1976, pp. 82-3). Cfr. Glossario, s.v. 38 Eickhoff 1991, p. 228, è il più prudente; Wheatcroft 2010, pp. 81-2, che segue Murphey 1999, pp. 122-9, parla di meno di 40.000 uomini. Per la verità, comunque, nelle valutazioni degli storici i numeri contenuti non sono necessariamente, in questi casi, sintomo di prudenza: al contrario, si tende spesso ad esagerare l’inferiorità numerica degli occidentali per accrescerne l’effetto di valore e di coraggio, mentre si gonfiano le cifre relative al nemico seguendo il topos delle orde barbariche numerose ma imbelli. 39 Citato da Bérenger 2004, p. 233. 40 Il Montecuccoli ci ha lasciato una bella descrizione della battaglia: Montecuccoli 1973, pp. 142-51. Cfr. anche Schreiber 2000, pp. 175-88. 41 La battaglia è testimoniata, da parte ottomana, da Tchélébi 1987, pp. 127-62. I valori numerici qui citati emergono dal confronto tra quelli, discordanti, forniti dalle diverse fonti e sono stati arrotondati: insomma sono soltanto indicativi e vanno presi con le molle, in particolare per quanto riguarda quelli riferiti a proposito degli ottomani, che oscillano tra i 60.000 e i 120.000. Gli studi più recenti tendono a ridimensionare di molto le perdite subite dagli infedeli. 42 Che noi già conosciamo con il nome tedesco Neuhäusel, con il quale la indicheremo di solito in quanto esso era quello usato dalle fonti imperiali. 43 Evans 1993, part. pp. 305-55. 44 Il trattato di Vasvár fu ratificato l’anno successivo dall’ambasciatore imperiale conte Walter Leslie, uno scozzese passato al servizio degli Asburgo d’Austria. La sua visita a Istanbul sta alla base di un episodio molto importante per lo sviluppo del gusto orientalistico. Egli fu accompagnato dal conte Johann Josef von Herberstein, cavaliere di Malta e più tardi comandante generale delle truppe di confine tra la Croazia e l’Ungheria ottomana. Questi, al ritorno dall’ambasceria, fece dipingere nel suo castello di Vurberk in Slovenia (chiamato in tedesco con il nome, un po’ inquietante un po’ grottesco, di Wurmberg) una collezione di 47 tavole raffiguranti i più grandi personaggi dell’impero ottomano del tempo (Solnon 2009, pp. 235-9). La collezione, iniziata da un avo di Johann Josef, è oggi conservata nel castello di Ptuj. 45 Sulla Polonia come repubblica aristocratica e monarchia elettiva, cfr. Labatut 1982, pp. 121-3. 46 Tóth 2007, pp. 111-7. 47 Tóth 2007, p. 113. 48 Infatti, dopo la morte del ‘palatino’ Ferenc Wesselényi, la situazione dell’Ungheria regia andò rapidamente deteriorandosi fino alla rivolta dei magnati ungheresi e croati del ’70. 49 F. Hitzel, Sefâretnâme: comptes rendus des ambassadeurs ottomans en Europe, in Turcs et turqueries 2009, pp. 99-100; cfr. Anche Lewis 1983, pp. 103-4, dove si dà conto anche di una relazione di quell’ambasceria redatta in italiano e conservata negli archivi viennesi. 50 Tchélébi 2000; Mehmed Efendi 2004.

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6. Al tempo della tregua 1 Del quale era anche cognato, in quanto Filippo IV aveva sposato la di lui sorella Maria Anna. 2 Eickhoff 1991, p. 341. Leopoldo I era pertanto anche zio dell’Infanta sua sposa. 3 Le due sorelle avevano però differenti madri: Maria Teresa era figlia di Elisabetta, prima moglie di Filippo IV, la quale era sorella di Luigi XIII e pertanto zia di Luigi XIV che, al pari di quel che avrebbe fatto sei anni dopo Leopoldo I, aveva sposato nel 1660 sua cugina, a confermare il principio che le cose serie si fanno in famiglia; mentre Margherita Teresa era figlia di Maria Anna, seconda moglie del grande sovrano di Spagna scomparso e sorella appunto di Leopoldo. 4 Entrambe le loro madri erano figlie di Filippo III di Spagna. 5 Cfr. Ph. Romain, Le rapprochement franco-autrichien (1668-1672), in Bérenger 1983 (pp. 1-19 di fascicolo indipendente all’interno di un’edizione «di lavoro»). 6 Bérenger 2004, p. 256-9; Stoye 2009, pp. 49-50. 7 Bérenger 2004, p. 263. 8 Le demobilitazioni producevano disoccupazione, quindi instabilità: ma un rimedio obiettivo a ciò era il mercenariato in paesi esteri. Verso il 1680, i territori ereditari degli Asburgo erano per esempio un’autentica riserva di manodopera militare che veniva esportata in Spagna (Chagniot 2001, p. 116). 9 Anche i principi laici dell’impero furono indotti a dotarsi di armate permanenti: i primi furono il margravio di Assia-Cassel e l’elettore del Brandeburgo. Gli elettori ecclesiastici furono più lenti: ancora nel 1664, l’arcivescovo di Magonza faceva appello al re di Francia, protettore della Lega renana, per reprimere la sollevazione della città di Erfurt. La Francia era stata all’avanguardia nell’organizzazione di un esercito permanente: Enrico IV e Luigi XIII si erano limitati a una decina di migliaia di effettivi trattenuti in tempo di pace; ma nel 1659, dopo il trattato dei Pirenei, se ne erano mantenuti in servizio 72.000. Su 378.000 membri almeno teoricamente effettivi dell’esercito francese nel 1710, dopo la demobilitazione successiva alla pace di Utrecht ne sarebbero rimasti in servizio ben 131.775, vale a dire oltre un terzo (Chagniot 2001, p. 111). 10 A ciò avrebbe direttamente provveduto almeno sulla carta, subito dopo la scomparsa del Montecuccoli ma sulla base del suo impulso e dei suoi principi, l’Artikelbrief imperiale del 1682, che tuttavia riguardava solo i militari di truppa: disciplinare gli ufficiali, all’epoca ancora tutti nobili, era più problematico (Chagniot 2001, p. 120). 11 Montecuccoli 1988, pp. 241-535. 12 Montecuccoli 1988, pp. 199-239; cfr. Chagniot 2001, passim. 13 Hochedlinger 2003, p. 71. 14 Era stato anche protagonista di un buffo incidente, nel giugno del 1671, quando in occasione di una rappresentazione teatrale privata a corte aveva avuto un litigio con l’ambasciatore francese Grémonville, al quale aveva dato davanti a tutti del «coglione», in italiano (ma pare che l’epiteto fosse rivolto principalmente al Re Sole: Bérenger 2004, p. 263). 15 Nato a Lucca il 17 maggio 1626, dopo essersi fatto una buona esperienza diplomatica e politica in Francia dal 1664 al seguito del legato apostolico Flavio Chigi, era stato nominato da Clemente IX arcivescovo di Tessalonica in partibus infidelium; nunzio a Colonia dal luglio del 1670 alla fine del ’72, si era dovuto misurare con la

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complessa situazione renana e con il deciso indirizzo filofrancese del principe elettore; sarebbe stato poi nominato nunzio pontificio in Polonia dal gennaio del ’73 al settembre del ’75 (cfr. infra, pp. 179 sgg.), quando sarebbe passato a Vienna; Innocenzo XI lo avrebbe creato cardinale il 1° settembre 1681. Dopo la lunga nunziatura viennese, nel 1689 tornò nella sua Lucca della quale fu nominato l’anno successivo vescovo; morì nel 1700. Su di lui, Trivellini 1958 e Platania 2004b, pp. 229 sgg. 16 Chagniot 2001, p. 71. 17 Il gioco dei quattro cantoni tra russi, polacchi, ottomani e cosacchi (che era piuttosto dei cinque cantoni, perché c’entravano anche i tartari di Crimea) era sempre molto complesso: in genere, i cosacchi si appellavano alla Porta quando ritenevano troppo pesante la pressione russa o polacca; ma il sultano non riuscì mai a far loro accettare la sua sovranità. Noto al riguardo l’episodio dello scambio epistolare tra il sultano e i cosacchi «zaporoghi» del 1677-78, con un’arrogante lettera del sultano e un’iperbolica insultante risposta dei liberi guerrieri del Dnepr: al padis˛ ah che pretende un esplicito riconoscimento di sovranità, i fieri zaporoghi replicano, sfidandolo, che il cosacco riconosce sopra di lui soltanto l’Onnipotente e sotto di lui solo il cavallo. In realtà, quella lettera non è stata purtroppo mai né scritta né spedita: si tratta di un falso storico, che tuttavia ispirò sia un celebre quadro di Ilya Efimovich Repin, sia una splendida pagina degli Alcools di Apollinaire (Oeuvres poétiques, édd. M. Adena – M. Décaudin, Paris 1965, pp. 50-2). Cfr. Borschak 1950; D. Tollet, Les cosacques vus par les français du XVIe siècle au XVIIIe siècle, in Platania 2006, pp. 263-81, passim; Santangelo 2008, p. 161. Ai cosacchi rifugiati nella zona acquitrinosa del basso Dnepr per fuggire sia alle razzie dei tartari di Crimea sia al controllo delle autorità polacche – l’area in cui si erano ridotti era difatti contesa tra regno polacco-lituano e khanato tartaro di Crimea vassallo del sultano – fu attribuito l’epiteto di «zaporoghi» dal russo za poroga (letteralmente: «sulle cateratte»: cfr. anche Massie 1985, p. 433). Il loro principato, retto da un atamano elettivo, fu chiamato Secˇ, «sede». Sui loro agili piccoli vascelli a remi detti sciaika («muti»), essi razziavano le coste del Mar Nero (Panzac 2009, pp. 98-9). Esclama Nikolaj Gogol’nel Taras Bul’ba, il suo breve splendido romanzo sull’epopea dei cosacchi del Dnepr: «O cara steppa, che il diavolo ti porti, come sei bella!». Non c’è altro da aggiungere. 18 Nel 1658, durante il complesso periodo delle guerre russo-cosacco-polacche e svedesi-cosacco-polacche, la cosiddetta Unione di Hadziacz conferì un nuovo assetto all’unione polacco-lituana: al regno polacco e al granducato lituano si aggiunse il principato di Rutenia (cfr. K. Fokcin´ski, Polonia e Turchia crocevia degli imperi tra Sei e Settecento, in Platania 2000, p. 123). 19 O meglio, a dire il vero, a Saint-Germain-en-Laye, dove la corte si era insediata a partire dal 1666 lasciando la capitale. 20 William Shakespeare, Henry V, V, II, 172. 21 Nieuwa’zny-Laforest 2004, pp. 67-70. 22 Chmielnicki non riuscì a ricevere aiuto da Mosca, mentre l’ottenne dal khanato di Crimea, dietro al quale c’era naturalmente il sultano: i tartari lo presero sotto la loro protezione e gli promisero anche la Moldavia. In seguito a queste vicende la Russia dello czar Alessio I Romanov si annetté nel 1653 l’Ucraina, decisione approvata dal consiglio (rada) dei cosacchi a Perejaslav il 18 gennaio 1654. Una sintesi in Eickhoff 1991, pp. 287-8. 23 Quest’episodio è chiamato nella storia polacca il «Diluvio» e coincise con vaste e feroci distruzioni delle comunità ebraiche in tutto il sud-est della Polonia. I contadini si stimavano sfruttati da tutti. Circolavano infatti proverbi popolari del

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tipo: «Noialtri contadini siamo sempre disgraziati: dobbiamo nutrire il signore, il prete e l’ebreo», oppure «Quello che il contadino guadagna, il signore lo consuma e l’ebreo ne approfitta». Ma dopo la guerra russo-polacca che seguì alla richiesta di protezione da parte dello Chmielnicki allo czar, i polacchi (che gli insorti avevano massacrato insieme con gli ebrei) proseguirono la persecuzione antiebraica uccidendo o vendendo schiavi ai turchi i membri superstiti di quelle comunità, che essi accusavano di tradimento. 24 Erano entrambi figli di Sigismondo III Wasa, re di Polonia tra 1587 e 1632 e anche di Svezia, dal 1602 al marzo 1604 (quando fu deposto per essere sostituito su quel trono da Carlo IX, figlio di Gustavo I). 25 Vissuta tra 1612 e 1667. Sulla complessa faccenda dei suoi sponsali, Plourin 1946; cfr. anche Nieuwa’zny-Laforest 2004, pp. 58-67. 26 Era nata a Nevers il 28 giugno 1641. Suo padre, il marchese Henri (1602 ca., forse 1609-1707) capitano della guardia svizzera del principe d’Orléans, sarebbe stato nominato cardinale nel 1695 (cfr. Platania 2011, pp. 99-110) e sarebbe morto a Roma ultracentenario o giù di lì. Sua madre era Françoise de la Châtre de Brillebaut, dama di palazzo appunto della regina Maria Luigia: il che contribuisce a spiegare l’affetto che la sovrana nutriva per la sua giovanissima damigella. 27 L’appellativo di «sarmati europei» o di «sarmati del nord», del quale i polacchi andavano fieri, deriva dalla Sarmatiae europeae descriptio del veronese Alessandro Guadagnini (1538-1614). 28 Cardinale nel 1681, arcivescovo di Napoli nel 1687, papa col nome di Innocenzo XII nel 1691. Marie-Anne, sorella di Marie-Casimire, sposò a sua volta nel 1678 il conte Jan Wielopolski, gran cancelliere della corona (cfr. Noblesse française 2006, p. 316). L’intensità dei rapporti matrimoniali tra le famiglie aristocratiche francesi e polacche del Sei-Settecento fu molto forte; e determinata – tra l’altro – da una coerente strategia anche economica e patrimoniale, alla quale non erano estranee le alte rese delle terre polacche in termini di cerealicoltura e di allevamento dei bovini, cui si aggiunsero poi gli interessi euro-orientali della politica del Re Sole e le comuni tendenze antigermaniche di Francia e Polonia (per quanto la politica sostanzialmente filoturca del Re Sole costituisse una controindicazione per l’alleanza franco-polacca). Su re Giovanni, la regina Maria Casimira e la loro corte sono interessanti le memorie di viaggio di Jean-François Regnard, del signor de Mongrillon e di un semianonimo «abbé F. de S.», parzialmente edite tutte in De tout temps amis 2004, pp. 84-92. 29 L’armistizio di Andruszów del 30 gennaio 1667 stabiliva che alla Russia dovessero andare i territori a sinistra del Dnepr, con la regione di Smolensk, Kiev e Zaporoze; uno speciale articolo prevedeva la collaborazione russo-cosacco-polacca contro tartari di Crimea e impero ottomano. Nell’Ucraina orientale scoppiò tuttavia la ribellione guidata dal cosacco Stepan Razin. 30 Polska w okresie 1957. L’anno prima l’atamano dei cosacchi della riva destra del Dnepr, Piotr Dorošenko, si era accordato con i tartari di Crimea e si era dichiarato vassallo del sultano di Istanbul, rendendosi in tal modo indipendente sia da Varsavia, sia da Mosca. Da allora le intromissioni dei tartari di Crimea in Ucraina divennero continue, anche perché la Porta era seriamente preoccupata per l’alleanza antiottomana di Polonia e Russia stipulata ad Andruszów (cfr. infra, nota 37). 31 Figlia della terza moglie di Ferdinando III, Eleonora Maddalena GonzagaRethel. 32 Adottiamo questo toponimo, semplificato, per la città che oggi è Kam’jenec Podils’kyi, in Podolia (Ucraina), a meno di cento chilometri a nord di Chotyn, sulla

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sinistra del Dnepr; in russo, Kamenets-Podol’skij. In questa campagna era presente il sultano Mehmed IV col figlio maggiore Mustafa. Il sultano entrò in trionfo nella città conquistata, ricevette il titolo di ghazi – guerriero vincitore – e pregò nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo frettolosamente adattata in moschea e denominata Sultan Mehmed Cami in suo onore. 33 Il Forbin-Janson (1630-1713) sarebbe diventato vescovo di Beauvais nel 1679 e cardinale nel 1690. Dopo essere stato a lungo ambasciatore a Roma (1690-97 e 1700-6), sarebbe stato nominato gran cappellano di Francia. Conosciuto anche come Janson Toussaint de Forbin: cfr. Platania 2011, II, pp. 81-98. 34 Carlo, nato nel 1643 e secondogenito del duca Francesco II Nicola, si era opposto duramente alla fagocitazione del suo ducato da parte del regno di Francia, che si era verificata di fatto nel settembre del 1670 (cfr. infra, pp. 212 sgg.). Continuò per tutta la vita a portare il titolo ducale. 35 Diaz-Carranza 1965. 36 Trivellini 1958, p. 4. 37 Il Dorošenko si era del tutto sottoposto nel 1668 all’autorità della Porta; grazie all’appoggio degli ottomani, ma agendo in piena autonomia, egli aveva tentato di perseguire l’obiettivo dell’unione di tutta l’Ucraina come stato cosacco autonomo. 38 Chagniot 2001, p. 117. 39 Satana, in arabo. Ibrahim era denominato così per la sua fama di astutissimo tattico e stratega. All’indomani della campagna di Podolia, il sultano provò a «riabilitarlo» imponendogli il soprannome di Melek, Angelo: ma invano, perché tanto lui quanto i suoi soldati apparvero molto affezionati al vecchio epiteto. 40 BAV, Barb. Lat. 6618, pp. 35-41, cit. in Platania 1998, p. 253. 41 Si tratta di Charles-Marie-François Ollier de Nointel, marchese d’Angerbilliers, che fu ambasciatore presso la Porta dal 1671 al 1679. 42 MAE, CP, 52, ff. 94r-v, cit. in G. Platania, Diplomazia e guerra turca nel XVII secolo. La politica diplomatica polacca e la «lunga guerra turca» (1673-1683), in Motta 1998, p. 254. 43 A Vienna la cosa appariva ben chiara: e in risposta si era ricorsi già nel 1675 a un patto con Mosca teso a tener a bada la Polonia. 44 I dettagli in Hochedlinger 2003, pp. 82-92 e mappa p. 85. 45 In ungherese nádor o nádorispán. Le due corone, l’imperiale del Sacro Romano Impero e la regia d’Ungheria, restavano separate; e così governi e istituzioni. All’Ungheria, in quanto dotata di istituzioni proprie, non si applicava la Hofstaatsordnung (cfr. Glossario, s.v.). 46 Petar (1620-1671) aveva sposato Katarina, sorella del nobile croato Fran Krsto Frankopan (noto all’italiana con il cognome di Frangipane o Frangipani, quello del ramo dalmata-friulano del casato), padrone di larghi tratti della costa dalmata. Nel 1664, durante le trattative della tregua di Vasvár, aveva promosso un audace ma anche poco realistico tentativo di offrire la corona elettiva d’Ungheria a Luigi XIV, insieme con l’impegno dei magnati magiari a far guerra all’imperatore (Eickhoff 1991, p. 340). In quell’anno, Petar era stato eletto bano dai magnati croati: cfr. Jelcˇic´ 2005, pp. 79-80. 47 Cattolico, la dieta dell’Ungheria regia lo aveva eletto palatino; era un labanc, cioè un fautore degli Asburgo, che aveva tuttavia condiviso la delusione e l’indignazione diffuse dopo la tregua di Vasvár. Morì nel 1667. 48 In ungherese országbiró: giudice supremo e «vicepalatino». 49 Suocero di Petar Zrínyi che ne aveva sposato in seconde nozze la figlia,

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anch’egli partigiano degli Asburgo che aveva cambiato posizione dopo la tregua con gli ottomani. 50 In tale veste aveva sottoscritto il trattato segreto del ’68 tra Luigi XIV e Leopoldo I (cfr. supra, p. 169, nota 4). 51 Cfr. Eickhoff 1991, pp. 341-6, con divertenti particolari sulla fuga di notizie che, dall’ambiente stesso dei congiurati (non si capisce se per doppio gioco o per autentica stupidità), era giunta rapidamente fino alla Hofburg. 52 Premesso che nessuna pace è definitiva, e tanto meno forse quelle pretese «perpetue», va tenuto presente che secondo il diritto musulmano è lecito stipulare con gli infedeli solo degli armistizi: la vera pace riguarda soltanto gli appartenenti al dar al-Islam. 53 Fu rivestendo tale carica che entrò in rapporto diplomatico di cortesia col granduca di Toscana Ferdinando II, al quale fece dono di una splendida copia miniata dello Shaname di Firdausi (ora custodita in BMLF, Orientale 5; cfr. La biblioteca in mostra. Animali fantastici, Firenze 2007, pp. 22-3). 54 Che Giovanni III fosse in qualche modo costretto a scegliere l’alleanza asburgica, abbandonando quella borbonica, è parere forse un po’ troppo deterministico di Gierowski 1979, pp. 344-5. 55 Eickhoff 1991, p. 367; Nieuwa’zny-Laforest 2004, pp. 85-9. 56 Platania, Diplomazia, cit., p. 258: una pretesa non proprio irrealistica sul piano politico pratico, ma tuttavia insostenibile su quello formalmente istituzionale, data la natura elettiva della corona di tale regno. 57 Anzi, la consorte del Béthune brigava a sua volta, gelosa della sorella e desiderosa anche per sé di una corona regia. Sull’intrico di queste parentele cfr. supra, nota 28. 58 La secondogenita era Teresa, che nel 1695 avrebbe sposato l’elettore di Baviera Massimiliano Emanuele. 59 Varsavia, 6.11.1677 - Roma, 16.11.1714; gli si aggiunse poi il quartogenito Constantin, 1680-1726. 60 Nato forse nel 1634, morì a Bursa nel 1685: cfr. Feigl 1993, pp. 115-65; Pedani 1995. 61 Le ricorrenti vanterie sulla conquista di Roma avevano nel mondo ottomano esattamente il medesimo valore della pretesa in quello cristiano di liberare Gerusalemme, che restava pur sempre la méta almeno formale – sia pur tanto necessaria sul piano delle dichiarazioni pubbliche e del diritto canonico quanto di fatto utopistica – di qualunque impresa crociata. 62 Per tale motivo il governo francese aveva inviato in Transilvania, alla corte dell’Apafi, il diplomatico Akakia du Fresne per lavorare di conserva con i dissidenti magiari e le ambasciate francesi a Varsavia e a Istanbul. Il progetto d’alleanza tra ribelli magiari, principe di Transilvania e re di Francia, che prevedeva anche l’organizzazione di una piccola forza militare comune, era stato varato nel novembre 1676: Roy 1999, pp. 34-5. 63 Per questo personaggio, vissuto tra 1657 e1705, cfr. Acsády 1903, pp. 5 sgg. 64 La parola kuruc/kurucz (plur. kurucok/kuruczoc) ha etimo discusso in quanto si tratta di termine desueto nell’ungherese moderno. Pare che originariamente significasse «crociato», e che fosse stato assunto in memoria della rivolta contadina ungherese guidata da György Dózsa nel 1514, quando la croce era stato l’emblema dei ribelli. È ormai consueta la traduzione con la parola «malcontenti», tuttavia etimologicamente ingiustificabile. 65 Al singolare, labanc. 66 Vanel 1687, pp. 145 sgg., e passim. 67 Alderano o Alderamo – le due forme onomastiche si alternano – Cybo-Ma-

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laspina (Genova 1613 – Roma 1700), nominato cardinale da Innocenzo X (1645) fu legato apostolico per il ducato di Urbino (1646), dell’Emilia (1648), di Ferrara (1651), vescovo di Jesi dal 1656, segretario di Stato di Innocenzo XI, Alessandro VIII e Innocenzo XII. Lasciò al nipote Carlo una fortuna di 600.000 scudi; dal re di Francia riscuoteva annualmente una grossa pensione, cosa che teneva nascosta a Innocenzo XI ma che questi venne a sapere. 68 È l’epiteto conferito all’ottantaseiesimo pontefice romano da quell’enigmatico testo conosciuto come «Profezie di Malachia» e attribuito al vescovo irlandese che – qualcuno dice con la collaborazione di Bernardo di Clairvaux – avrebbe profetizzato verso il 1140 le successioni papali indicando ciascun papa con un proprio motto. Ma è forse preferibile parlare di Pseudomalachia, in quanto è molto dubbio che sia stato proprio san Malachia primate d’Irlanda (1095-1148) e vicino a Bernardo – tanto da essere sepolto a Clairvaux in abito cistercense – il responsabile di quel testo profetico. Esso fu pubblicato per la prima volta dal benedettino Arnold Wion nel libro Lignum Vitae, del 1595 (cfr. Torno 2008). Secondo tale testo, l’epiteto che designa Innocenzo XI è Bellua insatiabilis, imbarazzante motto che di solito s’interpreta come un’allusione all’arme araldica degli Odescalchi, caricata di un’aquila e di un leone. Dalle «profezie» dette di Malachia si ricava anche il motto che designa Giovanni Paolo II, De labore solis, alla memoria del quale questo libro è dedicato. Il motto che lo designa viene ordinariamente spiegato ricordando che si tratta di un papa venuto a Roma da un paese dell’Est (là da dove sorge il sole) e richiamandosi alla sua infaticabilità nel proporre a tutto il mondo, anche con continui viaggi – come il sole nel cielo – la fede del Cristo; qualcuno preferisce rifarsi invece alla forza e alla giovialità «solari» della sua indole, o sottolineare che egli fu particolarmente devoto alla Vergine (come è testimoniato dalla M sulla sua arme araldica pontificale e dal motto Totus tuus), la quale nell’Apocalisse è detta amicta sole. 69 Nuovo vescovo fu nominato suo fratello Giulio, benedettino; ma ­l’Odescalchi si riservò una pensione di 3000 scudi annui, pari a quasi la metà dell’ammontare della mensa vescovile. Comunque in seguito dispose la riduzione della cifra spettantegli, e sembra del resto che gran parte di questo denaro fosse impiegato in beneficenza. 70 Nijmegen, nel sud dell’Olanda, presso la confluenza del Reno con la Waal. I trattati di Nimega, firmati tra 1678 e 1679, conclusero la guerra di devoluzione dei Paesi Bassi spagnoli (1667-68) e quella franco-olandese che le era tenuta dietro (1672-78) coinvolgendo anche Inghilterra, impero, Brandeburgo e Svezia. Con essi, la Spagna cedette alla Francia la Franca Contea e altre città in cambio di Charleroi, Courtrai, Limburgo, Gand e altri centri; Luigi XIV abbandonò alla rappresaglia spagnola Messina (che si era ribellata nel 1674 confidando nel suo aiuto, aveva accolto nel suo porto la flotta francese e nel 1675 si era addirittura dichiarata suddita del Re Sole; cfr. Ribot García 2003); l’imperatore cedette alla Francia Freiburg im Breisgau. Carlo di Lorena si vide offerto in quell’occasione il suo ducato, ma a condizioni tali che preferì non accettare. Sulle prospettive crociate a Nimega, Poumarède 2004, pp. 266-72. 71 Il documento è conservato in BAV, Vat. Lat., 6926, ff. 1-45, ora pubblicato in Platania 2009, pp. 87-168; cfr. von Pastor 1932, p. 31; cfr. Caccamo in Simonato 1993, pp. 404-12; Platania 1998a, pp. 260-3; Soykut 2001, passim; Poumarède 2004, pp. 158-9. 72 von Pastor 1932, pp. 61 sgg. Tramite fra la Santa Sede e la Persia erano alcuni membri dell’Ordine domenicano, che tradizionalmente avevano in quel paese una notevole influenza fino dai tempi dell’ilkhanato mongolo. 73 Era allora divenuto di fresco duca e principe elettore di Baviera Massimiliano

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II Emanuele (1662-1726) figlio dell’elettore Ferdinando Maria (1636-1679) e di Adelaide, a sua volta figlia di Vittorio Amedeo I duca di Savoia. 74 Innocentii XI epistolae ad principes, I, pp. 241-9, cit. da Caccamo in Simonato 1993, p. 414. 75 Platania, Diplomazia, cit., p. 255, insiste sull’importanza del suo carteggio, conservato presso l’Archivio di Stato di Lucca, con Tommaso Talenti, segretario di Giovanni III di Polonia. 76 J. Bérenger, L’empereur Léopold Ier et la défense de la Chrétienté au début des années 1680, in Platania 2000, pp. 83-118. 77 Tra le questioni in sospeso, con la corte di Mosca, pesava non poco anche quella del riconoscimento del titolo di czar e dell’appellativo di «Maestà» al granprincipe di Moscovia: come ricordava il Buonvisi al Cybo. Ancora il 27 agosto del 1679, la corte di Vienna rifiutava l’una e l’altra cosa (von Pastor 1932, p. 76). 78 Charles Colbert, marchese di Croissy (1629-1696), era fratello secondogenito del celebre Colbert. 79 Roy 1999, pp. 38-51. 80 Platania, Diplomazia, cit., p. 261 81 Platania 2005, pp. 242 sgg. 82 ASV, Segreteria di Stato. Principi, voll. 110-1.

7. Splende sull’Oriente il Sole d’Occidente 1 Oggi Sopron in Ungheria, al confine con l’Austria. Un resoconto puntuale dei lavori della lunga dieta in Roy 1999, pp. 52-60, e in Bérenger 2004, pp. 297-304. 2 Bérenger 1973; Bérenger 2004, pp. 351-2. È evidente che il Re Sole non aveva alcun interesse a indebolire la compagine ereditaria di Leopoldo I né a incoraggiare l’avanzata ottomana in sé e per sé. In un certo senso, al contrario, egli si augurava anzi una forte reazione imperiale all’offensiva degli ottomani e dei loro alleati: tutto quel che egli intendeva ottenere era mettere l’imperatore nelle obiettive condizioni – militari e morali – di non poter se non combattere il Turco, e magari impegnarsi contro i ribelli ungheresi, in modo da lasciargli le mani libere nell’area renana. 3 Per la verità l’offensiva dei «Malcontenti», sostenuti dagli ottomani e dai tartari, era già cominciata da tempo: il Sébeville l’aveva già annunziata al re di Francia fin dal 24 luglio (Roy 1999, p. 61). Ma il fatto è che l’Ungheria non era mai stata veramente e definitivamente pacificata: era difficile distinguere pertanto tra modesti movimenti, raid occasionali e vere e proprie campagne militari coordinate da forze ribelli con appoggio straniero. Dal canto suo, l’imperatore aveva già ordinato una buona leva di fanti e di dragoni fin dal luglio-agosto. 4 Lista in MAE, CP, Autriche, 50, f. 279, cit. in Bérenger 2004, p. 87. 5 Ivi, p. 95. 6 Il 30 settembre 1681 i francesi avevano occupato intanto anche Casale Monferrato, sulla base di una convenzione con il duca di Mantova: per quanto tale mossa fosse diretta contro la Spagna, l’imperatore era tanto formalmente coinvolto anche in essa in quanto detentore della corona regia d’Italia e sovrano eminente pertanto dello stesso ducato mantovano. I diritti dell’impero si calpestavano ancora una volta. 7 In effetti, la rivendicazione formale delle tre diocesi si ebbe nella successiva primavera.

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8 Il Gran Delfino Luigi di Borbone (1661-1711), detto «Monseigneur», aveva infatti da poco sposato Maria Anna di Baviera, sorella di Massimiliano Emanuele, da allora conosciuta come la «Grande Dauphine». Nell’agosto del 1682 l’augusta coppia ebbe la gioia e la gloria di render nonno il sovrano con la nascita di Luigi, cui venne attribuito il titolo di duca di Borgogna, e che peraltro sarebbe scomparso trent’anni dopo in quel terribile 1711-12, tanto luttuoso per l’anziano sire di Versailles. 9 «Conferenza segreta»: cfr. Glossario, s.v. 10 ASVe, Senato, Segreto, Dispacci dalla Germania, filza 1555, 12 ottobre 1681. Per la «Conferenza segreta», cfr. Bérenger 1980, il quale chiarisce peraltro come il prudente Leopoldo I non si limitasse a consultare il suo massimo organo di governo, ma ascoltasse anche consiglieri privati, di solito religiosi, e tenesse inoltre conto del parere dell’ambasciatore spagnolo, che era molto influente. 11 Un efficace quadro d’insieme dell’amministrazione imperiale e delle riforme che allora si cominciavano a proporre è in Bérenger 1981 e Gherardi 1981. 12 «Consiglio Aulico»: cfr. Glossario, s.v. 13 Tale definizione si deve a Samuel Pufendorf. Bérenger 2004, pp. 15-6, definisce il Sacro Romano Impero una «struttura gerarchizzata, regolata dal diritto feudale», configurabile come «monarchia mista», né repubblica aristocratica né monarchia assoluta, «che sfugge alle categorie aristoteliche» (eccolo, il monstrum pufendorfiano!). Sacro Romano Impero e «Monarchia d’Austria», cioè l’insieme eterogeneo dei paesi che a vario titolo entrarono a far parte tra Cinque e Seicento del patrimonio dinastico degli Asburgo, non vanno mai confusi: ma debbono esser tenuti distinti pur tenendo presente che erano collegati dall’«unione personale» nell’imperatore che, in quanto tale, cingeva una corona formalmente elettiva, de facto ereditaria, insieme con altre corone elettive che progressivamente si trasformarono in ereditarie. La definizione di Bérenger per il rapporto tra funzione imperiale e funzione dinastico-ereditaria asburgica è quella di «diarchia costituzionale», mentre Otto Brunner ha parlato di una «confederazione monarchica di stati per ceti»: cfr. Cremonini in Simonato 1993, p. 332. 14 Bisogna sempre tener presente il duplice aspetto istituzionale della compagine asburgo-imperiale, costituita di varie realtà che si costeggiavano e si integravano a vicenda, ma che erano pur distinte e gli interessi delle quali non sempre coincidevano. Leopoldo I d’Asburgo era ufficialmente, come suonava il suo titolo ufficiale, «per grazia di Dio imperatore romano eletto, re di Germania, e altresì re di Boemia e d’Ungheria e arciduca d’Austria». La corona imperiale dipendeva dall’elezione da parte dei principi elettori, che concedevano quella di Germania: l’eletto assumeva il titolo di «re dei Romani» e, in quanto tale, aveva automaticamente diritto a cingere la corona imperiale che dopo Federico III (incoronato nel 1452) non era mai uscita dalla dinastia degli Asburgo, arciduchi ereditari d’Austria; il regno di Boemia, o «di San Venceslao», era stato fino al 1620 elettivo e vassallo del Sacro Romano Impero (il suo sovrano ne era principe elettore), ma dopo un periodo di eccezionalità costituzionale era divenuto monarchia ereditaria della casa degli arciduchi d’Austria; al regno di Boemia apparteneva altresì la marca di Moravia. Il regno d’Ungheria, dalla storia e dai confini particolarmente complessi, era una monarchia elettiva che comprendeva, oltre l’Ungheria attuale, anche le regioni storiche della Slovacchia (chiamata allora «alta Ungheria»), dell’Ucraina sub-carpatica, della Transilvania (oggi parte della Romania), dell’attuale Burgenland austriaco, della Croazia, della Slavonia e di parte della Dalmazia. Ma tra la prima metà del Cinquecento e gli anni Ottanta del Seicento la parte pianeggiante e meridionale del paese (cioè praticamente l’intera Ungheria attuale) era diventata un pas¸ alik ottomano con capitale Buda,

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mentre solo il nord del paese (che era stato regno autonomo fino al 1102, poi fuso con quello d’Ungheria) era rimasto «Ungheria regia», con corona ancora elettiva, costituito praticamente dal banato di Croazia (il bano, governatore, era nominato dal re), che aveva una sua dieta la quale si riuniva abitualmente a Presburgo (oggi Bratislava), e dalla Slovacchia attuale. L’Ungheria regia era governata da un «palatino» eletto dalla dieta dei magnati ungheresi su proposta del re. Dal 1527 in poi la corona elettiva ungherese era stata – al pari di quella imperiale, con la quale non aveva alcun legame istituzionale – sempre appannaggio della casa d’Asburgo; il 31 ottobre 1687, all’indomani della definitiva liberazione di Buda dagli ottomani, gli stati del regno riuniti in Presburgo avrebbero proclamato la corona ungherese ereditaria della dinastia d’Asburgo. Invece il principato di Transilvania, governato da un vojvoda eletto da una propria dieta, fu autonomo e vassallo della Porta fino al 1691. 15 Un personaggio ambiguo, secondo il Sébeville: cfr. Bérenger 2004, p. 341. 16 Cfr. Glossario, s.v. 17 In tedesco, Emerich; ordinariamente conosciuto con la forma tedesca del suo nome di battesimo piuttosto che con quella ungherese di Imre: cfr. Stoye 2009, pp. 46-8, 51, 53. 18 Leopold Kollonics (1643-1707) discendeva da una famiglia militare croata; figlio di un luterano convertito divenne il pupillo del cardinal Pázmány e, al pari di lui, si consacrò totalmente alla causa del trionfo del cattolicesimo controriformista in Ungheria. Allevato alla corte di Vienna, era destinato all’Ordine di Malta e in effetti aveva partecipato quasi ragazzo, nel 1655, alla campagna di Candia sulle «galee della Religione» (come s’indicava di solito l’Ordine con il canonicamente corretto appellativo latino di Religio, «Ordine regolare»). In seguito Leopoldo I gli aveva fatto ottenere il vescovato di Nyitra in alta Ungheria: ma egli aveva condotto severi studi teologici a Vienna prima della consacrazione, che avvenne nel 1668. Fedelissimo alla casa d’Asburgo e ostile agli ungheresi in quanto eretici e ribelli, soprattutto ai magnati, aveva appoggiato e proseguì con convinta fermezza la linea del Montecuccoli, cui lo univa la comune antipatia nei confronti dei magiari. Vescovo di Wiener-Neustadt nel 1670 e detentore in seguito di altri uffici, fu nominato cardinale nel 1688 e assunse l’incarico di riorganizzare i territori ungheresi neoacquisiti (cfr. Bérenger 2004, pp. 128-9). 19 La patente imperiale che di conseguenza cercò, nel 1681, di addolcire quelle gravezze, fissava a tre giorni alla settimana l’obbligo di corvée: cfr. Bérenger 2004, p. 96. 20 Carlo (3 aprile 1643-18 aprile 1690) era dal 1675 duca titolare della Lorena occupata dai francesi. Aveva combattuto ventunenne a Szent-Gotthard nel 1664 e aveva in seguito accompagnato il generale Sporck conseguendo trentatreenne il grado di Feldmarschall, nel 1676. 21 Un altro bel tipo di spericolato militare ugonotto (cfr. Eickhoff 1991, pp. 330-3): famoso il suo lungo duello per tutto il Mediterraneo con il suo antagonista storico, il corsaro Hussein Rais (detto «Mezzomorto» perché dopo un combattimento era stato dato per spacciato, salvo ricomparire non troppo tempo dopo in miracolose buone condizioni). 22 Ma secondo altre fonti sembra che si trattasse di corsari cristiani, provenienti dal Napoletano. 23 L’archidragomanno, o gran dragomanno, era il capo del collegio dei traduttori ufficiali di corte, indispensabili nel lavoro diplomatico e molto stimati, ma anche strettamente sorvegliati.

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24 Noto anche con il nome, italianizzato, di Alessandro Maurocordato, che da ora in poi useremo anche noi. 25 Sull’incidente, Roy 1999, pp. 39-43: il Guilleragues, sentendosi abbandonato dal suo signore, sfogò in tale occasione tutta la sua amarezza («Io andrò... dunque alle Sette Torri, e l’imperatore di Francia come al solito non farà niente, perché il commercio non è minacciato»: cit. in Roy 1999, p. 42). 26 Solnon 2009, pp. 222-4. 27 Roy 1999, p. 48. Enea Silvio (1631-1701) era stato da giovane compagno assiduo del suo parente Montecuccoli e nel 1664 aveva combattuto in Ungheria sotto il comando del de Souches. Morì nel suo palazzo viennese il 3 febbraio 1701, a settant’anni dei quali, come ricorda l’ambasciatore veneziano Francesco Loredan, «ben 45 trascorsi gloriosamente sui campi di battaglia». 28 Carlo Domenico Cristofori nacque ad Aviano (Udine) il 17 novembre 1631. Affidato giovanissimo al collegio della Compagnia di Gesù di Gorizia, ne fuggì per andar a convertire i musulmani; fallita quella fuga si rivolse ai cappuccini di Capodistria e ricevette a Conegliano il saio di novizio dell’Ordine francescano, nella famiglia cappuccina, il 21 novembre del 1648. Ordinato sacerdote nel 1655, non tardò a rivelare straordinarie doti oratorie e ad acquistarsi anche fama taumaturgica. Il suo lungo e profondo rapporto con l’imperatore Leopoldo I, avviato nel 1680, fu probabilmente una delle ragioni per le quali il Re Sole costantemente lo avversò e mai volle accoglierlo in Francia. Va comunque detto che questo punto è oggetto di una complessa disputa tra gli specialisti dell’argomento (cfr., nell’immensa bibliografia relativa, il denso profilo di Héyret 1999). Interessante sarebbe anche la vicenda di un’ava di padre Marco, su cui circolavano alcune notizie relative a una sua cattura durante l’incursione turca in Friuli del 1499 e di una sua prigionia dalla quale era tornata provvista di una certa ricchezza: si parlò di una permanenza in un harem dal quale sarebbe fuggita con alcuni oggetti di valore o sarebbe stata congedata dopo un certo periodo con una dote, com’era uso per le donne che non ascendevano al rango di favorite (Pedani 2010, p. 197). 29 Marco d’Aviano 1990, pp. 286-9. 30 Scriveva appunto il Sébeville al suo re: «...Vostre Majesté... y avoit restably la foy et n’avoit fait tort à aucun particulier, laissans la dite ville dans tous ses droits et immunitez» (lettera del 7.6.1682, Marco d’Aviano 1990, p. 293). 31 P. Zovatto, L’atto di dolore di padre Marco d’Aviano, in Simonato 1993, pp. 278-94. 32 Cfr. B. Dompnier, L’apostolato di Marco d’Aviano e la tradizione missionaria dei cappuccini, in Simonato 1993, p. 264. 33 Ibidem. 34 Esattamente come Francesco d’Assisi definiva i demoni «gastaldi del Signore». 35 C. Mozzarelli, La corte, il consiglio e la grazia. Riflessioni sulla politica seicentesca in margine al caso di padre Marco d’Aviano, in Simonato 1993, p. 296: il Mozzarelli nota giustamente che proprio dall’idea della «tirannia» ottomana, specie nella pubblicistica veneziana cinque-seicentesca, si sviluppa il tema del dispotismo orientale, che tanto peso ha nel dibattito politologico moderno. 36 Ibidem. 37 Marco d’Aviano 1990, pp. 207-8. 38 Georgica, VII, cit. in Brunner 1972, p. 216. 39 Si trattava della cavalleria leggera originariamente detta «croata», in quanto originaria di quella regione; più tardi, per tali reparti si sarebbe usato comunemente il termine «ussari». L’indumento maschile noto con questo nome deriva dal termine

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slavo krvat, «sciarpa», un accessorio abitualmente indossato appunto, nel Seicento, dai cavalieri croati e del resto variante di un indumento colorato che veniva generalmente usato, negli eserciti del tempo, come insegna di comando (portato a bandoliera dalla spalla destra al fianco sinistro o attorno alla vita a mo’ di cintura). Per la composizione dei reggimenti di cavalleria e il numero degli effettivi nel periodo 1649-1750, Hochedlinger 2003, tavola a p. 108. 40 Fra 1650 e 1695 un reggimento di fanteria constava di 1800-2000 effettivi, ripartiti in 2 battaglioni di 5 compagnie ciascuno, forti di 180-200 uomini ciascuna tra moschettieri e picchieri; cfr. Hochedlinger 2003, tavola p. 107. Le valutazioni di Bruno Mugnai sono di 10 reggimenti di corazzieri (poi portati a 15), 5 di dragoni (poi 8), 3 fra croati e ussari. 41 Nouzille 1971, cit. in Bérenger 2004, p. 109; valutazione che appare attendibile dei dati dinamici sei-settecenteschi in Hochedlinger 2003, pp. 98-150, part. tavola p. 106: dati da confrontare con quelli prodotti da Bérenger 2004, p. 319. 42 Il conte partì da Vienna il 3 di quel mese con un seguito di settantasei persone tra le quali il milanese Giovanni Tenaglia suo segretario addetto alla «cifra» (i messaggi in codice) e al diario di viaggio. La comitiva viaggiò sul Danubio fino a Belgrado, quindi per via di terra. 43 Aveva assunto le insegne ducali ed elettorali nel 1679. 44 Massimiliano Emanuele era in cerca d’una sposa degna del suo rango: ma il divieto papale gli aveva imposto di rinunziare alle già previste nozze con Eleonora di Sassonia-Esembach, che godeva fama di essere la più bella principessa di Germania ma era, ohimè, luterana. 45 Anch’egli investito del ducato elettorale nel 1679. 46 BUB, ms. 394, c. 10v. 47 Cfr. Kreutel 1969, che utilizza anche le memorie redatte dall’archidragomanno Alessandro Maurocordato; le date non concordano con quelle proposte da Eickhoff 1991, p. 284, che parla di una partenza del Caprara da Vienna il 19 febbraio e di un ricevimento solenne il 13 maggio. 48 Eickhoff 1991, p. 385. 49 von Pastor 1932, pp. 89-92. 50 Ilona (1643-1703) era andata sposa nel 1667 a Férenc I Rákóczi; fino al 1688 avrebbe difeso la fortezza di Munkács per raggiungere poi il marito, nel 1691, nell’esilio dell’impero ottomano (cfr. infra, p. 418). 51 BAV, Barb. Lat. 6655, 3.6.1682, ff. 136r-137r, cit. da Platania in Simonato 1993, p. 375. 52 Oggi Košice. 53 Questa la data proposta da Arkayin 1980, p. 110 e accettata da Bérenger 2004, p. 352; altre fonti parlano del 16 settembre. Anche sul luogo della proclamazione non c’è accordo: alcune fonti parlano di Kassa. 54 Lo si riconosceva sovrano dell’Ungheria regia in luogo dell’Asburgo. 55 Prešov. 56 Bérenger 2004, p. 353.

8. Marcia turca 1 Di fronte all’avanzata ottomana verso Belgrado, János Hunyadi e il predicatore Giovanni da Capestrano invocarono la resistenza cristiana. Poco dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1453, il papa Niccolò V inviò una lettera nella quale proclamava

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la crociata. L’entusiasmo fu debole: gli stati cristiani erano molto più preoccupati dei conflitti tra loro. Nonostante questo, alla fine, di fronte alle pressanti e reiterate richieste dell’ambasciatore imperiale Enea Silvio Piccolomini, il futuro Pio II, e di Giovanni da Capestrano, frate minore dell’Osservanza, cominciarono ad arrivare contingenti di truppe. Il francescano fu l’instancabile animatore della crociata. Giovanni era nato a Capestrano, presso L’Aquila, tra il 1385 e il 1386 e aveva studiato diritto civile e canonico a Perugia dove era divenuto, nel 1412, governatore, ma per dissensi con la città e alcune delle famiglie più importanti era stato imprigionato. Liberato, abbandonò la vita pubblica e entrò, nel 1416, nel noviziato dei francescani osservanti della città. Discepolo di san Bernardino da Siena, collaborò con lui nel diffondere e organizzare il ramo riformato dell’ordine francescano detto dell’Osservanza, di cui fu più volte commissario generale. Nel 1430 propose inutilmente le costituzioni martiniane, che cercavano una via mediana per mantenere l’unità dei francescani. Giovanni fu inoltre inquisitore contro i fraticelli, gli ebrei e gli ussiti, inviato pontificio in Francia e in Sicilia, delegato in Terrasanta per l’unione con gli armeni. Una personalità come la sua fu importantissima nella preparazione della crociata anche per le sue doti di predicatore e con la sua parola contribuì davvero ai successi militari. Ha lasciato numerose opere di argomento morale, apologetiche, lettere e discorsi e, significativamente, fu canonizzato nel 1690, in pieno rinnovamento della guerra crociata. Giovanni, nel giugno del 1455, andò alla dieta ungherese di Györ, dove János Hunyadi stava preparando la campagna contro gli ottomani. Il Capestrano e lo Hunyadi ritenevano possibile, con l’aiuto dell’Occidente cristiano, ricacciare gli ottomani e quindi i musulmani fuori dall’Europa, riprendere Costantinopoli e forse la stessa Gerusalemme. Capestrano si dedicò a predicare la crociata tornando a Buda nel gennaio del 1456, ove il cardinale Carvajal gli affidò la direzione della predicazione e gli consegnò un crocifisso espressamente inviato e benedetto dal pontefice. In aprile si diffuse la notizia dell’avanzata di Mehmed II alla testa di un poderoso esercito: mentre il Carvajal cercava rinforzi in Occidente, lo Hunyadi si dedicava ai preparativi militari e Giovanni percorse i territori minacciati portando il crocifisso sul petto e impugnando una bandiera ove campeggiava una croce. Quando gli ottomani si avvicinarono a Belgrado, lo Hunyadi, le cui truppe non erano ancora pronte, fece appello a Giovanni e ai crociati che aveva potuto raccogliere. In Ungheria 40.000 prestarono giuramento e 27.000 ricevettero la croce dalle mani di Giovanni. E anche se molti di loro raggiunsero la città dopo la battaglia, Hunyadi aveva vinto sia sul Danubio, contro la flotta nemica, il 14 luglio, sia con la liberazione della città dall’assedio il 21 e 22 luglio. Giovanni da Capestrano fu sempre tra i primi, con il suo grido di battaglia «Gesù! Gesù! Gesù!». La peste, che si era sviluppata in quel mese, uccise tanto lo Hunyadi, il primo di agosto, quanto Giovanni da Capestrano, dissolvendo il disegno della grande crociata. 2 Ricci 2002, p. 96; Ricci 2008, p. 90. 3 Bon 2002, p. 39. 4 Di una vera e propria riunione sotto la presidenza del sultano parla Arkayin 1980. 5 Ibidem. 6 Sulla base di un dispaccio reale inviato a Istanbul l’8 aprile 1682, sappiamo che Luigi XIV aveva disposto affinché l’ambasciatore Guilleragues facesse il possibile per convincere il sultano a dirigere il suo prossimo sforzo bellico in direzione non della Polonia, bensì dell’Ungheria: e tutto ciò per stornare evidentemente l’imperatore da eventuali propositi d’intervento in Alsazia (MAE, CP, Turquie, 16). 7 Cfr. Glossario, s.v. Porta.

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8 Siamo informati dell’attività e delle osservazioni del conte Caprara sia dalle carte del Fondo Marsili (BUB, Fondo Marsili, Ms. 394, Notizie e carteggio dell’operato del conte Alberto Caprara inviato straordinario dell’imperatore Leopoldo I alla Porta Ottomana nell’anno 1682), sia dal diario del suo segretario, Giovanni Benaglia; il Kunitz scrisse un preciso resoconto della sua avventura diplomatica. Della presenza del Caprara e del Kunitz presso il gran visir parla anche Maurocordato, cit. da M. Kappler, I greci e i Balcani, tra ottomani, Asburgo e ortodossia, in Simonato 1993, p. 112. Oggi, fondamentale per gli studi marsiliani Gherardi-Martelli 2009. 9 Una descrizione dell’evento in Wheatcroft 2010, pp. 90-1. 10 ASV, Dispacci dalla Germania, 2 gennaio 1683, 157, ff. 95-97. 11 Non è improbabile che la Porta fosse preoccupata per l’entità dello sforzo militare necessario e per le relative spese: un tentativo di precisarne l’entità in Inbas¸i 2001. 12 Il «partito spagnolo» rimproverò all’imperatore di non aver accolto quelle proposte in extremis, sulla sincerità delle quali è difficile formulare un giudizio. È comunque ragionevole ritenere che, se esse fossero state accettate, l’impresa contro Vienna sarebbe stata soltanto ritardata di qualche tempo. Del resto, in quel caso Luigi XIV avrebbe certamente fatto pressione perché il Turco, arrivato a pochi chilometri dalla capitale dell’impero, si spingesse oltre: cosa del tutto ovvia, in quanto l’unica ragione per la quale l’imperatore avrebbe potuto accettare di farlo avvicinare tanto sarebbe stata l’intenzione d’intervenire efficacemente ad ovest, vale a dire proprio quel che il re di Francia voleva evitare. Insomma, la frontiera renana passava per forza di cose dal Danubio; o, se si vuole, viceversa. 13 Bevanda costituita di latte acido leggermente salato e allungato con acqua, diffusa con vari nomi tra Turchia, Russia, Iran e Asia centrale fino all’Hindukush. 14 Innocentii papae epistolae ad principes, II, p. 67; cfr. Gérin 1886, p. 127; Poumarède 2004, p. 39. 15 MAE, CP, Rome, 272. 16 Non a caso aveva ben accolto nel 1675 l’edizione dell’Histoire des croisades del gesuita e gallicano Louis Maimbourg, dotto divulgatore della tesi delle crociate come impresa squisitamente francese: Tyerman 2000, p. 179. 17 Il 22, secondo Maurocordato, cit. da Kappler in Simonato 1993, p. 110. 18 Qualche divertente ma anche significativo episodio relativo ai segni infausti che accompagnarono la partenza, e che il conte Caprara si preoccupò di rilevare, o che ebbero come protagonista il sultano e i suoi sogni angosciosi, in Wheatcroft 2010, pp. 90-1, 96-7. 19 Il Donà era rimasto agli arresti in Istanbul e desiderava tornare in patria: siamo informati delle lunghe e complesse misure adottate per strappare alla corte sultaniale il consenso a farlo tornare in patria dal dragomanno Tommaso Tarsia, «Dragoman Grande della Serenissima Repubblica di Venezia alla Porta Ottomana», che seguì l’esercito del gran visir fin sotto Vienna, fu testimone dell’assedio, prese parte alla ritirata degli ottomani venendo da loro trattato come un diplomatico-ostaggio e godendo – senza dubbio grazie anche alla sua padronanza della lingua turca – di una discreta libertà e familiarità con l’apparato burocratico che attorniava il primo ministro del sultano. La memoria del Tarsia al senato è fonte preziosa per informazioni di prima mano forniteci da un funzionario intelligente, cristiano e veneziano, ma tuttavia ben esperto di cose ottomane e musulmane, il quale ebbe il «privilegio» (non sappiamo da lui quanto gradito) di partecipare alle vicende belliche del biennio 1683-84 «dalla parte dei turchi» (Relazioni 1995, pp. 685-755). 20 Si tratta dei s≥lπq, la guardia d’onore e di parata.

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Benetti, cit. in Mugnai 1997-8, II, p. 72. Solo quanto agli «azamoglani» (cfr. Glossario, s.v.) necessari «per il drizzar padiglioni, per il portar forzieri e per far molti servizi manuali che occorrono, bisogna che almeno di questi ve ne siano 500 e più» (Bon 2002, p. 60). E si trattava di gente all’esclusivo servizio del sultano. 23 Una parola italiana che proviene appunto direttamente dal turco. 24 Chagniot 2001, p. 72. 25 L’antica Filippopoli, capitale della Tracia romana; oggi Plovdiv in Bulgaria. 26 Siamo ben informati di quel che accadde sulle strade balcaniche invase dalle truppe ottomane nell’aprile del 1683 grazie all’accurata relazione di Giovanni Benaglia, segretario del Caprara: cfr. Benaglia 1684, pp. 136-50. 27 Il 13 secondo Maurocordato, cit. da Kappler in Simonato 1993, p. 110. 28 Il 23.4 ibidem. 29 Cfr. infra, pp. 249-52. 30 Maurocordato, cit. da Kappler in Simonato 1993, p. 116. Il contingente egiziano era guidato da un personaggio molto interessante, il governatore Osman Pas¸a, un bosniaco che fuggendo da Vienna avrebbe consegnato il suo archivio a Ermanno di Baden (archivio studiato da Babinger 1931) e che sarebbe morto nel 1687 combattendo contro gli austriaci come governatore della fortezza di Ujvár. Cfr. Heywood 1995, pp. 30-1. 31 Relazioni 1995, p. 737. 32 MAE, CP, Turquie, 17, f. 491. 33 Richiamate in Bérenger 2004, p. 356. 34 L’ipotesi più bassa, tra quelle attendibili, è di Heickhoff 1991, secondo cui non si andava oltre i 70.000 combattenti, esclusi i tartari e i contingenti valacco-moldavi. Bruno Mugnai mi ricorda che qualunque stima è insicura, dato il numero incalcolabile di personale al seguito dell’esercito. 35 Kunitz 1684, p. 6. 36 BNF, Ms. Fr., ff. 40-45. 37 MAE. CP, Autriche, 56, f. 77. 38 MAE, CP, Hongrie-Transylvanie, 5, ff. 82-3. 39 MAE, CP, Turquie, 17, f. 440. 40 Dopo la battaglia del 12 settembre risultarono abbandonati dagli ottomani 4 grossi cannoni e 160 leggeri (secondo altre fonti 300), di vario calibro, che non è detto costituissero il parco d’artiglieria originario, ma che potevano ben esser delle bocche da fuoco messe insieme durante l’avanzata su Vienna, frutto del bottino preso da alcune piazzeforti cristiane. Ma dove erano finiti i pezzi pesanti? È escluso che l’esercito in ritirata, che sulle prime fu quasi una fuga, se li fosse trascinati dietro: che ne era quindi del parco d’artiglieria adatto all’assedio di una grande città? Tutto fa pensare che in realtà esso non ci fosse mai stato: in effetti, il grosso dell’attività aggressiva degli assedianti sarebbe stato costituito – come vedremo – dallo scavo delle mine e delle trincee, nonché da frequenti assalti alle mura. 41 Di «contravvenzione agli ordini del sultano» parla apertamente Bérenger 2004, p. 354. 42 Relazioni 1995, p. 689. 43 Bérenger 2004, p. 353. 44 Cfr. G. Platania, La Polonia di Giovanni Sobieski e «l’infedele turco» nelle inedite carte di Tommaso Talenti segretario regio, in Platania 2000, pp. 133-72, con ricco apparato di fonti inedite e ampia bibliografia; ma cfr. ora soprattutto il formidabile, indispensabile, fondamentale Platania 2011. 45 «...un gran catarro» (BAV, Barb. Lat. 6655, ff. 264r-265r: Varsavia, 21.3.1683). 21 22

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Note

46 Il Morsztyn, travolto dallo scandalo, dovette rimborsare una forte somma e restituire gioielli per un valore di 20.000 ducati. 47 BAV, Barb. Lat. 6567, ff. 55r-v. 48 Cfr. i resoconti del Talenti al cardinal Barberini e al papa, con accuse al re di Francia formulate senza peli sulla lingua (BAV, Barb. Lat. 6655, 31.4.1683, ff. 264r-265r; ASV, Lettere di principi, 111, 18.4.1683, ff. 102r-v). 49 MAE, CP, Autriche, 55, f. 113, 21.3.1683. È molto difficile stabilire il rapporto tra le somme che venivano promesse, quelle che venivano in vario modo e sotto varie forme, in differente valuta e a differenti riprese erogate e quelle rivendicate da chi le aveva sborsate e pretese da chi invece sosteneva di esserne ancora creditore. 50 Md’A, II, pp. 98-101. 51 AAF, Cancelleria, Filza 1681-1683, aprile, doc. non numerato né paginato. A Firenze, l’arcivescovo Jacopo Antonio Morigia pubblicava il 26 aprile la notizia che il papa aveva concesso l’indulgenza plenaria a chi avesse visitato tra 2 e 4 maggio il Santissimo esposto in cattedrale secondo le intenzioni pontificie. 52 Ne fornisce attento resoconto Platania, Marco d’Aviano e il suo tempo. Vienna, Varsavia, Roma e il problema turco, in Simonato 1993, pp. 369-95, e soprattutto Platania 2011. 53 von Pastor 1932, p. 120. 54 Bérenger 2004, p. 316. 55 Lo sarebbe stato solo nel 1854, con l’enciclica Ineffabilis Deus di Pio IX. 56 M. Rosa, Aspetti della spiritualità cattolica del Seicento, in Simonato 1993, p. 237; P. Goi, L’iconografia della «Maria Hilf» di Passau in Friuli-Venezia Giulia, in Simonato 1993, p. 461. 57 Nell’agosto del 1693 l’imperatore presenziò in Santo Stefano di Vienna a un voto solenne alla Vergine coeli terraeque Regina e Auxilium christianorum: Goi in Simonato 1993, loc. cit. 58 Hochedlinger 2003, p. 156 (le cifre sono state arrotondate). A conclusioni diverse è giunto Bruno Mugnai. 59 Hochedlinger 2003, p. 103. Tali cifre vanno confrontate con quelle di Bérenger 2004, che a pp. 329 e 354 fornisce sulla base dei più recenti (e a tutt’oggi in parte inediti) studi del Nouzille una valutazione leggermente diversa. Bérenger offre un quadro sintetico di fanteria e di cavalleria col relativo numero di reggimenti e degli effettivi dal 1656 al 1690, mentre alle pp. 305-38 discute l’organizzazione militare austriaca nelle sue linee istituzionali e nei suoi rapporti con il deficit di stato, valutando spese militari, spese civili e introiti totali in fiorini renani. Il picco delle spese sembra essere stato raggiunto nel 1695-96, mentre le entrate, dopo un picco negativo nel quinquennio 1665-70, riprendono e si stabilizzano su una linea che verso il 1700 riesce a superare le uscite. 60 Con tutto ciò, il cardinal primate d’Ungheria non fece a conti fatti una gran bella figura. Di fronte all’avanzata turca si era affrettato a ritirarsi a Vienna, dove aveva preso dimora in una sontuosa residenza che aveva riempito di suppellettili preziose. Prima di venir imbottigliato nella capitale, partì anche di là per rifugiarsi confortevolmente in Moravia. Il Kollonics, vecchio soldato e cavaliere di Malta, non gliela perdonò: soprattutto, forse, visti i suoi trascorsi oltranzisti e il suo atteggiamento «duro-e-puro». Tra il 19 e il 20 luglio fece confiscare tutti i beni della residenza viennese del primate, che a quel che pare disponeva di un capitale di 70-80.000 fiorini, oltre agli oggetti preziosi valutati più di 400.000 fiorini (Stoye 2009, p. 129). 61 MAE, CP, Autriche, 54, f. 256. Ma si trattava di reggimenti quasi tutti incompleti rispetto alla regola che li avrebbe voluti composti di 1800-2000 elementi ciascuno.

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62 Avrebbero dovuto essere 8.000; anzi, l’Insurrectio interessava circa 11.000 uomini. Insomma, in tutto quasi la metà di coloro che avrebbero dovuto rispondere all’appello sembrava latitante. 63 14.000, secondo una più ottimistica stima. 64 I calcoli inviati dal Sébeville al re di Francia, che hanno l’aria di essere piuttosto affidabili, danno l’esito analitico di 20.848 fanti ripartiti in 112 compagnie e di 11.158 tra cavalieri e cavalleggeri (se tali si possono considerare i croati e i dragoni, a rigore una fanteria montata) ripartiti in 125 compagnie, cui vanno aggiunti 4950 ungheresi, 70 pezzi d’artiglieria, 30 carri di viveri, 60 carri di munizioni, 800 cavalli d’artiglieria (MAE, CP Autriche, 54, ff. 263 sgg., 375-80, e 55, f. 182, cit. in Roy 1999, p. 79). 65 Che tuttavia non ce la fecero ad arrivare a Vienna in tempo per l’inizio dell’assedio. 66 Il Sébeville, più pessimista, restava poco sotto i 40.000: e forse aveva ragione lui. 67 Hochedlinger 2003, p. 156. 68 Roy 1999, pp. 81-3. 69 ASV, Nunziatura di Germania, vol. 207, f. 559v. 70 Il 23 secondo Maurocordato, cit da Kappler in Simonato 1993, p. 112. 71 Pare tuttavia che si continuasse a usare anche il ponte provvisorio su barconi, costruito per rimpiazzare le funzioni della celebre struttura durante i lunghi lavori di restauro (Wheatcroft 2010, p. 125). 72 Stoye 2009, p. 41. 73 Si tratta di Alba Reale o Albaregia, antica capitale del regno dell’Ungheria, che i turchi chiamavano Istolni Belgrad, i tedeschi Stuhlweissenburg e che dagli occidentali in genere era conosciuta (con molte variabili) come Castel Bianco, corretta traduzione dello slavo Beograd; è situata circa 60 chilometri a sud-ovest di Budapest. 74 Tuttavia, secondo alcune fonti, i capi ottomani notoriamente contrari a quell’avventura, come il pas¸ a di Buda, non erano stati invitati alla riunione (Wheatcroft 2010, p. 127): la loro protesta sarebbe giunta solo più tardi al sultano. Il Bérenger, che verifica con molta attenzione le carte francesi, sposta la data del convegno al 2 luglio e parla dell’opposizione dei due alti dignitari, l’ottomano e il tartaro: ma non dice espressamente che essi fossero presenti proprio al convegno stesso, che potrebbe essersi svolto tra il gran visir e i suoi immediati e diretti subordinati: quindi non una riunione deliberativa con annessa discussione (nella misura in cui le consuetudini sultaniali la consentivano), bensì un briefing di carattere tecnico-tattico (Bérenger 2004, p. 357). 75 Arkayin 1980, p. 111, cit. da Bérenger 2004, p. 357. 76 Ciò non significa che Kara Mustafa puntasse, immediatamente dopo la conquista di Vienna, all’assalto diretto contro Roma: egli sapeva bene che a tale fine le forze delle quali disponeva sarebbero state ridicolmente insufficienti e che velleità del genere, se avesse accennato a tradurle in realtà, gli avrebbero tirato addosso l’intera Europa a cominciare dalla stessa «alleata» Francia. 77 Cfr. Wheatcroft 2010, p. 128. Conosciamo la situazione di Györ grazie alla testimonianza di un curioso militare-diplomatico-scienziato-poligrafo-avventuriero italiano, il conte Luigi Fernando Marsili o Marsigli cugino del Montecuccoli e del Caprara, che nell’83 aveva circa venticinque anni e che, entrato al servizio dell’imperatore Leopoldo, era stato fatto prigioniero dai turchi. L’oscillazione del suo cognome, Marsili-Marsigli, costituisce un incubo per gli studiosi: noi rispettiamo la forma Marsili, tenendo però presente che nelle fonti e nella letteratura l’altra è molto presente. Nato a Bologna il 10 luglio del 1658, debuttò come diplomaticofaccendiere al servizio di Venezia; soggiornò quindi a Istanbul tra ’79 e ’80 prima di passare al servizio di Leopoldo I. Fatto prigioniero dagli ottomani in Ungheria,

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Note

fu costretto a seguire i suoi carcerieri e fu testimone oculare dell’assedio di Vienna. Liberato dai veneziani in seguito a uno scambio di prigionieri, tornò ancora a Istanbul per risiedervi tra ’91 e ’92 e quindi al servizio degli Asburgo d’Austria lavorando dal 1699 al 1701 alla delimitazione dei nuovi confini dell’impero (Marsili 1986); nel 1703 passò a quello di Clemente XI come comandante militare. Oltre alla sua memorialistica militare, notevole per fama, ampiezza e ricchezza di notizie, è rimasto celebre per un lavoro di geografia marina, l’Histoire physique de la mer, edito ad Amsterdam nel 1725, che di lui fa uno dei «padri storici» dell’oceanografia. Sul «Fondo Marsigli» di Bologna, Molnár 2008. 78 Komárno. 79 BNF, Ms. 22482, ff. 10 sgg., cit. in Roy 1999, p. 84. 80 La critica all’eccessiva passione del cacciare veniva anche da ambienti più modesti e sobri della nobiltà, dei quali proprio in quegli anni era espressione il trattato Adeliges Landleben di Wolf Helmhard von Hohberg (cfr. Brunner 1972). 81 Wheatcroft 2010, pp. 132-3. 82 Il quale aveva imposto all’erede due sonori nomi asburgici: quando si dice lealismo fedele... 83 Stoye 2009, pp. 122-3, segue in dettaglio i preparativi per lo spostamento della corte, con relativi uffici e suppellettili: ivi comprese le insegne regie d’Ungheria, che di solito stavano a Presburgo, ma che erano state trasferite a Vienna e che l’imperatore si portò dietro per evitare che se ne impadronisse il Thököly, con conseguenze che noi moderni e postmoderni siamo portati a sottovalutare, ma che sarebbero state invece gravissime. Ancora il 6 luglio l’imperatore andava a cacciare nei pressi di Mödling. Bérenger 2004, pp. 354-5, parla invece di una specie di vera e propria fuga in fretta e furia, tra l’11 e il il 12, alla volta di Korneuburg. 84 Stoye 2009, pp. 117-8. 85 Figlio di Luigia Cristina di Savoia-Carignano, era nato a Parigi nell’Hotel di Soissons nel quale era cresciuto anche suo cugino Eugenio di Savoia. 86 Tarsia 1995, pp. 699-700. 87 Il quale peraltro rientrò in Vienna assediata, guidò il suo reggimento sotto il comando supremo del duca di Lorena, partecipò valorosamente a capo di due reggimenti di dragoni alla battaglia del 12 settembre e quindi, il 9 ottobre, a quella di Barkan. Dopo la liberazione di Vienna era stato nominato Feldmarschall: dire che avesse ripetutamente sollecitato la nomina a tale grado, è decisamente poco. 88 Va tuttavia notato che l’alto numero di carriaggi, masserizie e animali fa pensare che i bagagli fossero stati in realtà già preparati da tempo. 89 D’altronde il diplomatico francese non si trovò bene, nel seguito imperiale: molti erano quelli che rimproveravano al Re Sole il suo atteggiamento filoturco e facevano il residente oggetto di frecciate velenose, chiedendogli ad esempio provocatoriamente notizie sulle forze ottomane, dal momento «che egli ne sapeva certamente qualcosa». Il Sébeville si premura di farci sapere di aver sempre risposto per le rime, senza lasciarsi intimidire. Naturalmente, i messaggi diplomatici erano cifrati; ma esistevano abili decrittatori (Roy 1999, pp. 117-25). 90 Klopp 1888, p. 24.; Md’A, II, pp. 110-6: in chiusura, il commovente «mi raccomando a vostra paternità con tutti li miei et la mia povera Vienna». 91 Abbiamo già richiamato il caso del primate ungherese Szlepcsényi: che non fu ovviamente l’unico. 92 BAV, Barb. Lat. 6655, 21.7.1683, ff. 298r-v. 93 Cit. in Platania 2004b, pp. 228-9. 94 Tarsia 1995, p. 700.

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95 «In piedi, in piedi, o voi cristiani!» (la forma antiquata auff è nell’uso della lingua tedesca attuale sostituita da auf). Il padre Abraham era, al secolo, lo svevo Johann Ulrich Megerle (1644-1709). Per l’edizione dei suoi scritti cfr. Stoye 2009, p. 122; in linea generale, cfr. Schillinger 1993; lucidi giudizi su di lui in Brunner 1972, passim. 96 Zanetti-Vigevani-Frangipane 1983, pp. 109-12. 97 Un’interessante e commovente documentazione iconica relativa all’assedio di Vienna e alla vittoria è visibile nel castello di Torre di Pordenone: cfr. Ganzer 2006. 98 Benvenuti 1885. 99 Marco d’Aviano 1990, p. 319; Md’A, IV, pp. 113-5. 100 Lettera del 23.6.1683, in Md’A, III, pp. 328-9. 101 Lettera del 20.7.1683, ivi, pp. 332-4. 102 Md’A, II, pp. 116-7. Che qualcuno del «partito spagnolo» non gradisse l’arrivo presso l’imperatore del cappuccino tanto deciso sostenitore della guerra al Turco è possibile. Riprenderemo il discorso infra, p. 312. 103 Che era peraltro, in quel momento, molto contrariato per lo sviluppo, tra 1679 e 1682, dell’affaire des poisons (cfr. Lebigre 2006). 104 Voltaire 2005, pp. 337-8.

9. «Auff, auff, ihr Christen!» 1 Sua madre sarebbe vissuta ancora cinque anni e avrebbe dato alla luce un’altra figlia, Maria. In termini di coincidenze storiche le vite dei due cugini, cognati e avversari Luigi XIV di Borbone (1638-1715) e Leopoldo I d’Asburgo (1640-1705), sono quasi perfettamente coeve, per quanto la prima sensibilmente più lunga della seconda. Ciò ha dato modo a molti storici e a uno stuolo di eruditi di arabescare e di duellare sulle due «figure parallele» e su Leopoldo come «Antiluigi», suo doppio rovesciato: fastoso l’uno sobrio l’altro, ardito l’uno esitante l’altro, gaudente l’uno continente l’altro, imponente l’uno sgraziato l’altro e così via. Un gioco che sarebbe stato divertente, se fosse durato poco. 2 Era stato eletto e incoronato imperatore a Francoforte nel 1658. 3 Margherita Teresa dette a Leopoldo quattro figli, di cui due – Giuseppe I e Carlo VI – sarebbero successivamente ascesi al trono imperiale; e morì ventitreenne nel 1673. 4 Sic, purtroppo, con un titolo che in italiano oscilla tra l’imagerie barocca e la nomenclatura ortofrutticola. Lo spettacolo costò 300.000 fiorini. Non va dimenticato che in tedesco si denomina Reichsapfel, «pomo imperiale», quello che in italiano si chiama il «globo imperiale», ordinario attributo – insieme con lo scettro e la spada – dei sovrani del Sacro Romano Impero. 5 Rossi 1939. Ricorre nelle fiabe turco-mongole l’immagine delle leggendaria città di Kizil-Alma, il «Rosso Pomo». Nei secoli, i nomadi dell’Asia Centrale l’hanno vista scintillare nel turbinar delle tempeste di sabbia e nelle folate ghiacce di vento innevato, tra il Caspio, il Gobi e il Tien Shan: la Città del Rosso Pomo, interpretato (e volgarizzato) come un’immensa cupola d’oro: per i discendenti di Othman e la loro gente, Santa Sofia di Costantinopoli, poi la Cupola della Roccia di Gerusalemme, quindi San Pietro di Roma e anche San Marco di Venezia; poi ancora, per quanto senza una precisa indicazione della cupola-simbolo, Buda, e infine Vienna sfiorata due volte tra Cinque e Seicento (Lewis 1983, pp. 20-1). Ancor oggi, in omaggio alle antiche leggende e alle antiche speranze, la capitale del Kazakhstan è Alma Ata, «il Padre Pomo».

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Note

6 Mansel 2003, p. 9. Per le versioni cristiane, in particolare veneziane, della leggenda, cfr. Preto 1975, pp. 84-5. 7 Lewis 1983, p. 23. 8 Pedani 2010, p. 54. 9 Difatti, L’impero del Pomo Dorato (impossibile, per ovvi motivi, tradurre in italiano L’impero del Pomo d’Oro) è il titolo della cronaca redatta dallo scrittore turco Evliyâ Çelebi, nel quale la splendida città sul Danubio viene descritta con toni che, a un lettore occidentale, possono ricordare quelli dei Mirabilia Urbis medievali: che a loro volta hanno, in effetti, precedenti ellenistici, bizantini, persiani e arabi. Per l’espressione, cfr. Hasluck 1925, II, p. 737. 10 Il giovane re dei Romani, di Castiglia e d’Aragona nonché arciduca d’Austria Carlo V si era subito convinto dell’impossibilità di controllare direttamente tutti gli immensi domini che erano andati accentrandosi sulla sua persona in seguito alle sue composite eredità di parte sia paterna, sia materna: e, con il trattato di Worms del 1521 seguito l’anno successivo dalla convenzione di Bruxelles, aveva ceduto i possessi asburgici alpini e danubiani al fratello Ferdinando. Sulla base del medesimo trattato di Worms, Ferdinando veniva designato anche a raccogliere l’eredità jagellonica: infatti il 26 luglio del 1515, con una solenne cerimonia nella cattedrale viennese di Santo Stefano, l’imperatore Massimiliano aveva promesso che uno dei suoi nipoti – Carlo o Ferdinando – avrebbe sposato Anna, figlia di Ladislao II re di Boemia e d’Ungheria (mentre la nipote di Massimiliano, Maria, avrebbe sposato Luigi, figlio ed erede di Ladislao). Tale promessa aveva legato indissolubilmente le sorti degli Asburgo e degli Jagelloni. Ma il 29 agosto 1526 Luigi II di Boemia e d’Ungheria era caduto sul campo di Mohács senza lasciare eredi diretti. Ferdinando, consorte di Anna sorella del re defunto, venne allora dagli «Stati» boemi e quindi ungheresi eletto re prima di Boemia (23 ottobre) e quindi d’Ungheria (17 dicembre). 11 La famiglia d’Asburgo aveva lavorato fin dal 1308 – quando la corona imperiale, alla morte di Alberto I, le era sfuggita per finir nelle mani dei conti di Lussemburgo, poi imparentatisi con i re di Boemia – alla creazione di un forte dominio ereditario dinastico, sul modello di quel che la casa di Svevia aveva fatto nel XII secolo. Progressivamente cacciati dalla Svizzera, centro originario della loro potenza, gli Asburgo – insigniti del titolo ducale ereditario d’Austria – si erano concentrati sull’area alpino-danubiana acquistando nel 1335 la Carinzia e la Carniola, nel 1363 il Tirolo, nel 1382 Trieste e con essa lo sbocco al mare. Sotto il profilo istituzionale, importante era stato il breve governo del giovane Rodolfo IV, fra 1358 e 1364: in risposta alla Bolla d’Oro dell’imperatore Carlo IV, con la quale nel 1356 si erano insediati i sette principi elettori dell’impero escludendo dal loro novero il duca d’Austria, Rodolfo aveva emanato una serie di provvedimenti raccolti nel Privilegium maius del 1359 che attribuiva all’Austria il rango arciducale praticamente liberandola, salva fidelitate, da qualunque dipendenza rispetto all’autorità imperiale. Al tempo stesso si proclamava l’unità dei domini austriaci unificati in una nuova figura giuridico-istituzionale, il dominium Austriae, superiore alle unità che lo costituivano e in forza del quale l’arciduca d’Austria avrebbe potuto fregiarsi delle insegne regali; l’ereditarietà era stabilita sulla linea della primogenitura e la possibilità di un erede di sesso femminile ammessa. Rodolfo IV, in palese concorrenza con la capitale imperiale di Praga, aveva fondato nel 1365 anche un’Università, l’Alma Mater Rudolphina, e aveva ampliato la chiesa viennese di Santo Stefano che peraltro non era ancora cattedrale (Vienna sarebbe stata soggetta alla diocesi di Passau fino al 1469, allorché divenne centro di una diocesi territorialmente molto modesta, limitata nella pratica all’area cittadina). Naturalmente, gli imperatori

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romano-germanici rifiutarono di riconoscere la legittimità del dominium Austriae fino a quando, nel 1453, gli Asburgo non tornarono – anche grazie a un «patto di famiglia» con la casa di Boemia – sul trono imperiale. Protagonista del loro ritorno fu appunto l’arciduca Alberto V, divenuto fin dal 1437 Alberto I re di Boemia e d’Ungheria succedendo al suocero, l’imperatore Sigismondo; e quindi nel 1438 anche, col nome di Alberto II, re di Germania, quindi rex Romanorum. Morto nel 1439, Alberto non fece a tempo a cingere la corona imperiale: suo figlio, Ladislao «Postumo», mantenne l’unione personale delle corone boema e ungherese. 12 Che aveva rapporti difficili proprio con la città di Vienna, che dopo l’effimero governo di Mattia Corvino aveva duramente lottato contro l’imperatore Massimiliano prima, suo figlio Filippo arciduca d’Austria poi, per mantenere i privilegi che facevano di lei quasi una città indipendente all’interno del dominium Austriae. Ferdinando dovette domare una rivolta cittadina e far decapitare il borgomastro Martin Siebenbürger prima di poter promulgare, nel marzo del 1526, un nuovo statuto che praticamente privava la città della sua autonomia. D’altronde, ripetutamente colpita da carestie, inondazioni, terremoti ed epidemie pestilenziali, che si erano sommati alle vicende politiche, Vienna non riusciva a decollare granché, nonostante il quadro entusiastico che ne aveva tracciato Enea Silvio Piccolomini quando, ancora segretario dell’imperatore Federico III, ne aveva magnificato soprattutto la produzione e il commercio dei vini (in realtà, il grande centro economico dell’area era semmai Presburgo); alla fine del XV secolo, la città non contava più di 20.000 abitanti circa. La definitiva sistemazione dei rapporti tra corte, dominio asburgico e città di Vienna si ebbe con la promulgazione da parte di Ferdinando I della Hofstaatsordnung (cfr. Glossario, s.v.), il 1° gennaio 1527. 13 Con tale pace, Francesco I rinunziava a Napoli e a Milano, Carlo V alla Borgogna. In seguito alla pace di Cambrai Clemente VII – anche dietro la promessa imperiale che le terre pontificie occupate da Venezia gli sarebbero state restituite e che la resistenza repubblicana sarebbe stata stroncata a Firenze, dove la famiglia Medici sarebbe rientrata (il che accadde in effetti il 12 agosto successivo) – aveva accettato di incoronare Carlo imperatore, imponendo tuttavia che la cerimonia (che non era il caso di celebrare a Roma, dove le ferite del saccheggio del ’27 erano ancora fresche e sanguinanti) si tenesse in una città del dominio pontificio: era stata scelta Bologna, sede dell’Università nella quale il diritto giustinianeo era stato proclamato per volontà imperiale fin dal XII secolo e dove la cerimonia si tenne il 24 febbraio 1530. Dal canto loro i cattolici tedeschi, nella seconda dieta di Spira, imposero l’applicazione dell’editto di Worms con il quale, il 6 maggio del 1521, Lutero era stato posto al bando dell’impero; la minoranza riformata, incitata da Filippo d’Assia, protestò formalmente contro la decisione (da qui il termine «protestanti», con il quale i cattolici da allora definirono i riformati), che peraltro non sarebbe mai stata presa se l’appoggio fornito dal re di Francia ai luterani in funzione antiasburgica non fosse in seguito alla pace di Cambrai venuto meno. Nella dieta di Augusta, sempre nel 1530, l’imperatore respinse l’appello dei luterani, la Confessio Augustana compilata in 26 articoli dall’umanista Melantone, alla quale i cattolici avevano risposto con una Confutatio. La replica degli Stände protestanti fu la Lega di Smalcalda, con un esercito, una cassa e una politica estera comuni. La minaccia ottomana indusse l’imperatore alla tregua religiosa di Norimberga, siglata nel 1532. 14 Va ricordato altresì che Francesco I era l’interlocutore privilegiato del sultano per quel che riguardava le cosiddette «Capitolazioni» di Terrasanta, che conferivano al re di Francia il ruolo di protettore dei cristiani presenti nei Luoghi Santi.

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Note

15 Roma era stata saccheggiata nel ’27 dalle truppe luterane di Carlo V; nel 1528 Andrea Doria, che era al servizio del re di Francia, lo aveva abbandonato liberando Genova dal dominio francese. 16 Per il primo assedio turco a Vienna, cfr. Bled 1998, pp. 40-3. Il luogo nel quale, dal 21 settembre al 15 ottobre 1529, Solimano aveva posto il suo accampamento è il Türkenschatzpark, tra la diciottesima (Währing) e la diciannovesima (Döbling) circoscrizione: la via che conduce a tale luogo è la Türkenstrasse, dopo la chiesa votiva neogotica. Sull’evento cfr. supra, pp. 15-18. 17 Ai quali vanno sempre aggiunti contingenti atti alla logistica e a vari servizi, che messi insieme erano di solito più numerosi dei veri e propri soldati: in quel caso, si è parlato di una cifra totale di 300.000 persone (ma si tratta di dati molto incerti e non verificabili). 18 Nel 1464 l’imperatore Federico III vi era stato assediato; tra 1485 e 1490 la città era stata occupata dal re d’Ungheria, Mattia Corvino. 19 È la «Porta di Carinzia», nel lato meridionale del dispositivo murario (cfr. fig. 6). 20 Non bisogna dimenticare che si era, allora, nel pieno di quella che gli storici del clima definiscono la PAG («Piccola Età Glaciale»). Cfr. supra, p. xiii e nota 8; cfr. anche Leroy Ladurie 2007, p. 24). 21 Cfr. Dauxois 1996; ma anche l’indimenticabile Ripellino 1973. 22 Cfr. la Postfazione di L. Canfora, La fede di Carlo V, a Cardini-Valzania 2007, pp. 153-6. 23 E, in linea con l’atteggiamento generale del mondo protestante, era stato abbastanza alieno dall’impegnarsi in una politica esplicitamente antiottomana, ritenendo in genere «il papa peggiore del sultano». Lo si vide bene in occasione della guerra di Cipro, fra 1570 e 1572: alla gloria cristiana di Lepanto Sua Maestà Cesarea non contribuì né con un soldo, né con un soldato. Era del resto abbastanza logico che, a parte i suoi rapporti non felicissimi con la Santa Sede, il signore della compagine austro-ungaro-boema si guardasse bene dal fare un favore alla Serenissima. Cfr supra, pp. 48-51. 24 Nei primi giorni del maggio 1618, secondo quanto consentito dalle «lettere di maestà» di Rodolfo II, gli abitanti di Broumov e Hroby cominciarono a costruire due chiese riformate, ma ne furono impediti dall’arcivescovo di Praga che fece abbattere la porzione già edificata di esse e arrestare alcuni «Fratelli Boemi». Subito si riunì allora l’assemblea generale della Chiesa riformata, la quale ricevette però da Vienna la conferma del veto a costruire. Allora, sotto la guida del conte Thurn, un centinaio di nobili si diresse verso il castello di Praga, Hracˇany – sede dei rappresentanti imperiali –, e dopo un violento alterco gettò fuori dalle finestre Martinich, Slavata e il loro segretario Fabricius, che si salvarono cadendo su mucchi di rifiuti (25 maggio). Da tale atto di ribellione ebbe inizio la guerra dei Trent’Anni. Cfr. supra, p. 102. 25 La ricattolicizzazione della Boemia fu energicamente guidata a partire dal 1630 dal cardinale Harrach, arcivescovo di Praga, che tuttavia incontrò l’opposizione anche di molti nobili cattolici – che si opponevano alla sua politica di recupero dei beni ecclesiastici, di molti dei quali essi si erano appropriati – e che lamentò costantemente il fatto che molti fedeli, formalmente convertiti al cattolicesimo, fossero rimasti «criptoluterani». 26 Melchior Khlesl (Vienna 1552 - Wiener-Neustadt 1630), nato da una modesta famiglia protestante – suo padre era un fornaio – fu educato secondo tale confessione; ma nel 1573 tutta la famiglia si convertì al cattolicesimo sotto l’influenza del

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gesuita Georg Scherer. Dopo aver studiato all’Università di Vienna, Melchior entrò nel collegio della Compagnia e divenne nel 1579 dottore in filosofia e teologia; nello stesso anno fu ordinato sacerdote e divenne prevosto del duomo di Vienna. Fu poi vicario generale nella diocesi di Passau e, in seguito, cancelliere dell’imperatore Mattia I, al quale consigliò un atteggiamento conciliante con i riformati. Nel 1588 divenne vescovo di Wiener-Neustadt e nel 1598 anche di Vienna; nominato cardinale nel 1616 (pur essendo già tale, in pectore, dal 1615), esercitò una crescente influenza anche a Roma. Ciò, oltre al fatto che egli era capo delle due più importanti diocesi austriache, insospettì gli arciduchi Ferdinando e Massimiliano i quali, d’accordo con il vescovo di Bressanone, lo fecero arrestare il 20 giugno 1618, anche se non poterono ovviamente spogliarlo delle funzioni vescovili. Dopo essere stato rinchiuso nel castello di Ambras e poi in quello di Innsbruck, nel 1619, egli fu trasferito nell’abbazia di Sankt Georgenberg-Fiecht, sotto la protezione del nunzio apostolico in Austria Fabrizio Verospi; il 21 ottobre 1621 fu trasferito in Castel Sant’Angelo a Roma, e solo quando la sua innocenza venne chiarita definitivamente poté ricevere anche sul piano formale l’attesa porpora con il titolo cardinalizio di San Silvestro in Capite; nel 1627 riassunse la guida delle diocesi di Vienna e di Wiener-Neustadt. 27 Nel 1594 il collegio della Compagnia accoglieva 800 allievi, mentre l’Università ne aveva appena 80. Nel 1632 Ferdinando II, che era stato loro allievo a Ingolstadt, affidò ai gesuiti la direzione delle facoltà di teologia e di filosofia; la loro chiesa, edificata nei pressi della nuova Università, resta ancor oggi testimone del loro contributo allo splendore barocco della capitale (Bled 1998, p. 49). 28 Aveva ottime ed estese cognizioni linguistiche, buona cultura filosofica e matematica, e coltivava con passione sia la musica, sia l’alchimia. Fu compositore di talento, e sotto il suo regno l’opera italiana si insediò gloriosamente a Vienna; tutti italiani furono i suoi Hofkapellmeister (Bérenger 2004, pp. 59-71). L’inclinazione per la musica e il teatro italiano gli provenivano anche dai molti legami di parentela che gli Asburgo avevano contratto con dinastie italiane quali i Medici e i Gonzaga. Una Gonzaga era anche la sua terza moglie, Eleonora, figlia di Carlo II GonzagaRethel e di Maria Gonzaga. Nata a Mantova nel 1630, Eleonora sposò l’imperatore nel 1651 e in appena sei anni fece a tempo a dargli quattro figli due dei quali morirono tuttavia in tenera età, mentre solo due femmine, le arciduchesse Eleonora Maria Giuseppa e Maria Anna, sopravvissero. L’imperatrice-vedova Eleonora, matrigna di Leopoldo I, morì a Vienna nel 1686. Delle due sue figlie sopravvissute merita speciale attenzione Eleonora Maria Giuseppa, nata nel 1653 e morta nel 1697, che tra 1670 e 1673 era stata moglie di Michele Korybut re di Polonia ma che, rimasta vedova, era stata autorizzata dal fratellastro Leopoldo I a unirsi in seconde nozze con Carlo V duca di Lorena, per il quale aveva già un’evidente inclinazione. In questo modo Leopoldo I e Carlo V divennero cognati. 29 Cfr. supra, p. 274. 30 Poliakov 1974, I, p. 237. 31 L’imperatore risiedeva nella Hofburg, che fin dal Trecento era la sede nella quale la dinastia degli Asburgo si era insediata. Il nucleo originario della reggiafortezza è lo Schweitzerhof, originariamente un robusto edificio con quattro torri angolari. Di là, attraverso lo Schweitzertor si accede a un grande cortile sul quale si affacciano il palazzo dell’Amalienburg costruito nel 1575 per Rodolfo, il Reichskanzleitrakt e, di fronte ad esso, il Leopoldischinertrakt. 32 Bérenger 1973b, pp. 181-92; Poliakov 1974, I, pp. 237-8, e passim sugli «ebrei di corte».

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Poliakov 1974, I, pp. 237-8. Ivi, p. 238. Samuel Oppenheimer non va confuso con il più famoso forse tra gli Hofjuden, quel Süss Oppenheimer favorito di Carlo Alessandro duca di Württemberg che ne riorganizzò amministrazione e finanze ma che tuttavia finì sul rogo. L’avventurosa e triste vicenda di Süss fu efficacemente ma tendenziosamente narrata nel libro Der Hofjude di Peter Alldag, edito a Berlino nel 1938 e portata sullo schermo dal regista Veit Harlan nel 1940 con Jud Süss: il più celebre forse dei fin troppi film di propaganda nazista, ma uno dei non molti caratterizzati da un buon livello artistico. 35 Leopoldo si sposò tre volte, ma i due primi matrimoni rimasero sterili. Dalla terza consorte, Eleonora Maddalena di Pfalz-Neuburg, ebbe come sappiamo due figli, Giuseppe e Carlo, successivamente ascesi entrambi al trono imperiale. Eleonora Maddalena era figlia del principe elettore palatino Filippo Guglielmo (1615-1690) che succedendo nel 1685 al cugino Carlo II aveva portato il seggio elettorale nell’ambito cattolico. Il figlio di Filippo Guglielmo, Giovanni Guglielmo II (1658-1716), sposò in seconde nozze Anna Maria Ludovica de’ Medici che divenne così cognata dell’imperatore e in seguito zia, acquisita, dei due successivi Giuseppe I, appunto, e Carlo VI. Quest’ultimo fu a sua volta padre di Maria Teresa, futura consorte di Francesco Stefano di Lorena, destinato a succedere, nel 1737, al fratello della Medici, Giangastone, come granduca di Toscana. Peraltro altre sorelle di Giovanni Guglielmo sposarono Pedro II di Portogallo e Carlo II degli Asburgo di Spagna. Il fratello di Giovanni Guglielmo, Carlo, partecipò alle guerre ottomane divenendo maresciallo di campo del Sacro Romano Impero e succedette al fratello nel 1716, regnando fino al 1742. 36 La prima pietra della Pestsäule fu posata dall’imperatore Leopoldo nel 1687; al monumento, realizzato su progetto di Matthias Rauchmiller, posero poi mano Ludovico Burnacini, Johann Bernhard Fischer von Erlach, Ignaz Bendl, Paul Strudel, Tobias Kracker, Johann Frühwirt, Matthias Gunst. Terminata nel 1693, la colonna è il massimo esempio di scultura barocca dedicata alla gloria della casa d’Austria e alla spiritualità della pietas Austriaca. Cfr. Coudenhove 1958 e Bérenger 2004, pp. 112-4. 37 Cfr. Hochendlinger 2003, p. 26. Va tenuto presente che la popolazione dell’intera Europa, esclusa la Russia, era di un po’ meno di 90 milioni di abitanti all’inizio del XVII secolo; dopo un certo ristagno con alcune cadute nella prima metà del secolo (i decenni della guerra dei Trent’Anni e delle epidemie del 1630 e del 1656), aveva preso a salire con un incremento annuo abbastanza stabile del ca. 0,56% fino a raggiungere, alla fine del secolo, i 95 milioni. Anche la temperatura, che aveva toccato il suo limite più basso fra il Quattro e il Seicento, cominciò a crescere gradualmente a partire dalla fine di tale secolo. 38 Lettera a Marco d’Aviano cit. in Klopp 1888, p. 24; il passo evangelico cui si allude è Mt. 26, 42. 39 Cfr. Hochedliger 2003, p. 38, sulla base di Bérenger 1975; cfr. la sintesi e la tavola relativa agli anni 1650-1700 in Bérenger 2004, p. 327. 40 I dati, noti nel loro complesso, sono stati verificati da Bérenger 2004, p. 357, sulla base dei dispacci francesi provenienti da Vienna. 41 Peraltro fino a un certo punto, perché essi si servivano della via fluviale per trasportare i rifornimenti. C’è sempre un rovescio della medaglia. 42 Dati un po’ differenti in Wheatcroft 2010, p. 155. 43 Su di lui, cfr. Stoye 2009, pp. 102-3, e passim. L’imperatore aveva ingaggiato fino dal marzo un corpo di 4000 militari professionisti polacchi agli ordini del Lubomirski: si trattava in tutto di 2 reggimenti di cavalleria, 4 squadroni autonomi 33

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sempre di cavalleria (cioè di Cuirassieren, corazzieri pesanti) e un reggimento di dragoni. Tuttavia, secondo Bruno Mugnai, è praticamente impossibile che i reggimenti di cavalleria polacca noleggiati dall’imperatore fossero arrivati a Vienna. 44 Hochedlinger 2003, p. 127. 45 24.000 è la cifra fornita da Des Cars 2005, p. 34; Wien 1999 attribuisce alle forze del von Starhemberg dati relativi a 16.000 uomini, evidentemente la somma dei regolari e delle milizie cittadine (cfr. Hochedlinger 2003, p. 156); a 26.000 perviene il conto di Hochedlinger 2003, p. 156; quello del Bérenger si attesta sulla cifra minimale di 13.500 comprese le milizie. L’attenta valutazione del Mugnai conduce a ritenere accettabile una cifra tra gli 11.000 e i 13.000 soldati regolari, oltre a 40005000 ausiliari, per un totale tra i 16.000 e i 18.000 combattenti. 46 Città ca. 40 chilometri a sud di Vienna. 47 Die Türken 1968, una buona raccolta di fonti; cfr. anche Kreutel 1969. 48 Questa testimonianza cromatica (su cui cfr. Mugnai 1997-98, II, p. 74), è qualitativamente differente da quella policroma affidataci dal Benetti a Edirne (cfr. supra, p. 242). 49 Chase 2009, p. 163. 50 Roy 1999, pp. 82-3. 51 Cfr. supra, pp. 247-8. 52 Vicecomandante. 53 BNF, Ms. fr. 24482, ff. 40-5, cit. in Roy 1999, pp. 87-8 e in Bérenger 2004, p. 356. La stima di 300.000, avanzata da Giovanni III di Polonia, appare eccessiva (von Pastor 1932, p. 124). Ma il Ms. 22482 della BNF, ff. 10 sgg., cit. in Roy 1999, p. 84, relativo alle cifre rilevate ai primi di luglio, quando l’armata ottomana e i suoi alleati erano dinanzi a Györ, fornisce un computo che, tra combattenti e no, giunge a 302.000 persone, che confermerebbe la stima del re di Polonia. A meno che, tra caduti, morti per varie ragioni e disertori, l’armata ottomana sotto Vienna non si fosse assottigliata in modo consistente: pare comunque incredibile che si fosse ridotta in due mesi a 1/3 di quel che era all’arrivo sotto le mura della città. Siamo comunque informati di parecchie diserzioni, per la maggior parte determinate dal fatto che le truppe protestavano per essere state esposte a una campagna troppo lunga, che i loro comandi non avevano il diritto d’imporre loro (cfr. Roy 1999, p. 95, sulla diserzione del contingente del pas¸ a di Aleppo). 54 Hochedlinger 2003, p. 156. 55 Non mancano tuttavia fonti che, come si è detto, autorizzerebbero addirittura a parlare di 300 bocche da fuoco, quasi tutte peraltro di calibro piuttosto leggero e alquanto eterogeneo. 56 Chagniot 2001, p. 288. 57 Stoye 2009, pp. 167-8. Oltre al Kunitz, nel campo degli assedianti c’era come prigioniero anche il Marsili che, capitano delle truppe imperiali, si era fatto catturare il 2 luglio dai tartari su un’isola presso la confluenza della Raab nel Danubio: fu destinato «per servitore ad un credenziere che tenea pubblica bottega di caffè» (Marsili 1930, p. 47). Come egli ricordava nel 1727, rievocando le cose accadute più di quarant’anni prima, lo avevano condannato «al mestiere di cucinare e pestare il caffè, e a più altri vili servizi privati della casa» (Sarti 2001, p. 438). Sempre nel 1727, fondando a Bologna l’Istituto delle Scienze, vi collocò una cassetta per le elemosine destinate al riscatto degli schiavi: non aveva dimenticato la sua avventura turca (Ricci 2002, p. 143; cfr. anche Gherardi 2010). 58 Altre fonti forniscono una versione un po’ diversa: il Cronberg-Dupigny sarebbe caduto nel corso di una sortita successiva, il 26, guidando un gruppo di moschettieri che eroicamente avrebbero riportato indietro il suo corpo senza vita

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esponendo i propri. È impossibile accordare le effemeridi dell’assedio, che nella sostanza concordano, ma che divergono in una selva di particolari eco spesso di dirette, generose ma confuse testimonianze oculari. 59 Roy 1999, p. 95. 60 Negli archivi segreti del gran visir Aynaci Süleiman Pas¸ a esiste un piano strategico che rappresenta Vienna già conquistata, perché sulla cattedrale di Santo Stefano svetta la mezzaluna; in basso, si riconosce l’accampamento con l’area difesa nella quale risiede il gran visir, riconoscibile dalla bandiera verde fregiata della spada del Profeta. Cfr. Vienna 1999, p. 55. 61 Accomiatiamoci con questa notizia dal nostro simpatico amico. Il conte Caprara restò dopo la liberazione presso l’imperatore, che nel 1684 gli assegnò il compito di riferire al papa circa l’andamento della guerra; rientrato nel 1685 a Bologna, avrebbe dovuto tornare a Vienna nel 1688 per prender posto nel Hofkriegsrat, ma un repentino incidente di salute lo obbligò a rinunziarvi. Morì nella sua città, sessantaquattrenne, il 20 dicembre 1691. 62 Tapié 1961, p. 278. 63 Per cui cfr. Helfert 1883 e Stoye 2009, ad indicem. 64 Tapié 1961, p. 278. 65 Lettera scritta da un’imbarcazione sul Danubio, presso Dürnstein, non lontano da Krems, 11.9.1683, in Md’A, II, pp. 122-3. 66 Su delatori, traditori, doppiogiochisti ecc. siamo in realtà qua e là informati: BNF, Ms. Fr. 22482, f. 23.; Ms. Fr. 10685, f. 77. 67 Millar 2008, pp. 70-2.

10. «Dies Gloriae» Cfr. Petitfils 2010, ad indicem, s.v. Mancini, Olimpia. Luigi, nato il 1° novembre del 1661, morì il 4 aprile del 1711; era ordinariamente denominato, a corte e in Francia, «Monsignore». Sposò nel 1680 Maria Anna Cristina Vittoria di Baviera, che sarebbe morta dieci anni più tardi dopo aver messo al mondo tre figli, il primo dei quali fu Luigi di Borgogna padre del futuro re Luigi XV e il secondo fu Filippo duca d’Angiò, futuro Filippo V re di Spagna. 3 Figlio dell’omonimo principe de Conti (1626-1666), celebre frondeur e fratello del Gran Condé, nonché sposo di Maria Martinozzi, figlia di Margherita che era sorella del cardinal Mazarino (Craveri 2001, ad indicem). 4 Che nel 1685, alla morte del fratello, ereditò il titolo di principe de Conti e nel 1696 fu candidato del re di Francia alla corona di Polonia, alla quale dovette rinunziare (Craveri 2001, ad indicem). 5 Marco d’Aviano 1990, p. 322; Md’A, I, pp. 79-80. Se vi siano stati retroscena dietro le remore affiorate nell’Ordine, non sappiamo. Cfr. supra, p. 272. 6 Il testo della bolla fu diffuso anche in traduzione italiana; sul suo accoglimento in Firenze, con pubbliche cerimonie cui partecipò il 22 agosto in duomo lo stesso granduca Cosimo III con il figlio Giangastone, si veda il resoconto delle celebrazioni liturgiche e delle processioni in Wos´ 1983, pp. 16-8. Ivi, p. 19, notizia delle fonti specifiche conservate nel santuario della SS. Annunziata, in particolare la pittura ex voto offerta da Gregorio Alberto Pannij (un mercante che si trovava a Vienna e che si salvò miracolosamente?) e dovuta al pennello di Giovanni Camillo Sagrestani. Cfr. von Pastor 1932, pp. 131-2, anche su altre cerimonie romane. 1 2

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7 «...Io però non voglio che la mia venuta sii di danno a Vienna et al ben publicho...» (lettera dell’imperatore a padre Marco, 8.9.1683, in Marco d’Aviano 1990, pp. 325-326; Md’A, II, p. 120). 8 Platania, Diplomazia cit., p. 266. 9 Prelli 2006. 10 Cioè Krnov, in Boemia. 11 Dal 1714 re d’Inghilterra col nome di Giorgio I. 12 Diaz 1976, p. 477. 13 Resoconto delle sconsolate relazioni del Ranuzzi al papa in von Pastor 1932, pp. 138-9. 14 Cfr. supra, p. xiii. 15 Des Cars 2005 e Wheatcroft 2010 accettano dati discordanti, sulla base di fonti in effetti lacunose e contraddittorie. 16 Ricordiamo che Lubomirski combatteva come alto ufficiale al servizio dell’imperatore; ma non era evidentemente arrivato in tempo per assistere all’inizio dell’assedio. 17 I tartari avevano letteralmente devastato quella regione, già duramente provata dalla peste di tre-quattro anni prima. Si calcola che circa 100.000 persone furono massacrate o ridotte in schiavitù e che migliaia di edifici vennero distrutti. 18 I dati, al solito, sono confusi, discordanti e praticamente impossibili a controllarsi: il Lorena se ne aspettava 20.000, mentre vi sono fonti che parlano di una forza di ben 27.000 uomini e altre ridurrebbero tale cifra ad appena 10.000. Re Giovanni aveva messo insieme la sua forza militare tra molte difficoltà, spalleggiato – nonostante le solite tensioni e l’abituale indisciplina – dagli atamani Jablonowski e Sieniawski. Le spese erano state sostenute grazie al contributo di 10.000 fiorini provveduti dall’imperatore e di 300.000 rapidamente stanziati dal papa. 19 Platania 1998a, p. 267. 20 Chagniot 2001, p. 124. 21 Gli spostamenti di Giovanni di Polonia si seguono agevolmente anche a causa della sua incessante, quotidiana attività di epistolografo. Al papa, a principi, a cardinali, e naturalmente a Marisien´ka. 22 Md’A, II, p. 118. 23 Ci appoggiamo qui a Stoye e a Hochedlinger: ma relata referemus. 24 A scanso di incertezze o di equivoci, definiamo di solito con l’aggettivo di «asburgico» o «austriaco» tutto ciò che si riferisce ai territori ereditari di casa d’Austria, e «imperiale» quel che riguarda invece il Sacro Romano Impero. 25 Questi i dati forniti, arrotondando, da Hochedlinger 2003, p. 157, che si attesta prudentemente a una stima realisticamente stimabile come massima di 75.000 uomini. Il computo finale dei commentatori «pessimisti» non consente all’esercito cristiano di andar oltre i 55.000 effettivi. La discordanza è, come si vede, notevole. Il computo attestato da BNF, Ms. Fr. 24482, ff. 37, 40-5 giunge a 75.000 effettivi (Roy 1999, p. 99). Marco d’Aviano, scrivendo all’imperatore l’11 settembre, aveva stimato sui 70.000 uomini: si direbbe che aveva buon occhio (Marco d’Aviano 1990, p. 330; Md’A, II, pp. 123-4). 26 L’imperatore Leopoldo I era sull’orlo della bancarotta e si era visto rifiutare ulteriori prestiti: lo stesso principe-arcivescovo di Salisburgo, noto per le sue alte disponibilità economiche, aveva respinto le sue richieste. 27 Stoye 2009, pp. 227-8, che testimonia come al reparto dello Heisler si aggiunsero altri soldati di cavalleria agli ordini del generale Cladius Florimond conte di Mercy. 28 Cfr. von Pastor 1932, p. 128; ma Wos´ 1983, p. 6, rileva contra che il parere del von Pastor non pare suffragato da prove.

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29 È la collina più a nord del crinale del Wienerwald, dalla quale in effetti fu lanciato l’attacco: ma più tardi essa venne denominata Leopoldsberg in onore dell’imperatore, mentre il nome di Kahlenberg fu trasferito alla cima più alta immediatamente a sud-ovest, fino ad allora chiamata Josephsberg: cfr. supra, p. xi. 30 È quello lungo il quale corre oggi la strada panoramica tra i due «Belvedere»: quello di Leopoldsberg a nord-ovest, alto 425 metri sul Danubio (il «vero» Kahlenberg) e quello di Dreimarkstein, 454 metri. 31 Cfr. supra, Prologo. 32 La preghiera composta in latino da padre Marco per l’occasione è in Marco d’Aviano 1990, pp. 334-8. 33 Per il termine «giaurro», cfr. Glossario, s.v. gavur. 34 Zeremonienmeister 1966, p. 76. 35 Noto ancor oggi come Türkenschanz, «la ridotta dei turchi», nell’area nordoccidentale della città, quartiere Währing: ma il nome viene di frequente attribuito all’insediamento giannizzero durante l’assedio del 1529. 36 Sul sancak-i serifi, «la nobile bandiera», cfr. Mugnai 1997-98, I, pp. 143-6. 37 Per il quale cfr. Stoye 2009, ad Indicem. 38 Sestan 1951, p. 73. 39 Le accanite polemiche su chi abbia il merito della vittoria sono in fondo divertenti. Ma non spostano di molto il problema. Interessante la voce di Kołodziejczyk 1999 il quale, rovesciando una tesi molto diffusa, sostiene non solo che l’esercito turco non era arretrato, ma al contrario, che era fin troppo avanzato, e che ciò fu tra le cause della sua sconfitta del 12 settembre: infatti, secondo la tendenza più moderna di allora, aveva una fanteria e perfino un’artiglieria abbastanza potenti, ma disponeva di scarsa cavalleria pesante; se ne avesse avuta di più, avrebbe sostenuto bene l’offensiva polacca. 40 Secondo Maurocordato, cit. da Kappler in Simonato 1993, pp. 117-8, fu Osman, ag˘a degli spahi, a salvare il santo vessillo. 41 Avvisi sopra i progressi ecc., 1684. 42 A Vienna, nello Historisches Museum e al Kunstlerhaus sono esposti il sigillo aureo di Kara Mustafa e altri circa millecinquecento oggetti provenienti dal bottino dell’accampamento; le armi sono allo Heersegeschichtliches Museum. Altri oggetti provenienti dal medesimo bottino sono conservati nei musei di Varsavia e di Cracovia (cfr. Skowron 2001, pp. 216-7). 43 Cit. in Solnon 2009, p. 243. 44 Bérenger 1998, p. 12. 45 Chagniot 2001, p. 294, cita altresì gli analoghi casi degli assedi di Buda nel 1686, di Torino nel 1706, di Denain nel 1712. Naturalmente la battaglia campale era in sé risolutiva, ma l’esito poteva presentarsi in un senso o nell’altro: sotto Vienna vinse l’armata di soccorso degli assedianti; a Belgrado nel 1717 sarebbe accaduto il contrario (cfr. infra, pp. 468-70). 46 Cit. in Schreiner 1985, p. 223. 47 Sıiıhdar 1928, 2, 80, cit. in Lewis 1983, pp. 30-1. 48 Cfr. Marsigli 1931, pp. 59 sgg.; Gherardi-Martelli 2009, p. 310. 49 Maurocordato, cit. da Kappler in Simonato 1993, pp. 117-8. 50 Da giovane aveva studiato a Roma e a Padova, quindi a Istanbul aveva ricoperto importanti incarichi presso il patriarcato ortodosso prima di venir nominato, nel 1673, gran dragomanno del dîvân-ı hûmâyûn. Fu testimone oculare, al seguito di Kara Mustafa, dell’assedio. Tra 1688 e 1692 visse ancora a Vienna, dove era arrivato in missione diplomatica e si era trattenuto in quanto temeva l’inimicizia del gran visir Mustafa Köprülü. Era riuscito a ottenere dall’imperatore il Privilegium

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Leopoldinum, che consentì agli ortodossi di aprire una loro chiesa in Vienna. Per lui cfr. Kappler in Simonato 1993, pp. 102-120. 51 Quasi un secolo e mezzo dopo, nell’esaltazione seguita alla sconfitta di Napoleone che in Inghilterra era stata vissuta come un iudicium Dei, William Wordsworth si sarebbe ricordato del Sobieski e del suo motto, accomunando nella sua Ode del 1815 la crociata cristiana del 1683 a quella dei suoi tempi contro il tiranno ateo: «Canta la lode del Liberatore in ogni lingua! – La Croce si diffonderà, la Mezzaluna sarà offuscata; il cielo esultante celebra la sua conquista: LA SUA CONQUISTA PER OPERA DI DIO, E DIO PER MANO SUA». Le maiuscole, sic, fanno ohimè parte originale dell’opera «poetica». 52 Petitfils 1995, p. 291; de la Gorce 1995, ad indicem. 53 ZGADA, doc. 1, ed. Criscuolo in Simonato 1993, 13.9.1683, pp. 144-8 (testo polacco, traduzione italiana). 54 Voltaire 2005, p. 144. 55 L’episodio si è ingigantito nel tempo, fino a far parlare, da parte della storiografia polacca, di una vera e propria «offesa» subita da Giovanni da parte di Leopoldo. Hagenau 1983, pp. 9-11, 513 sgg., ridimensiona l’episodio. 56 Cfr. supra, p. 222, e infra, p. 403. Un imparentamento con la famiglia imperiale, sia pure da parte femminile, comunque ci fu: il 25 marzo 1691 Jakub (noto anche come Giacomo Ludovico, 1666-1737) sposò la principessa Edvige di Neuburg, sorella dell’imperatrice; con ciò egli diveniva cognato di Leopoldo. 57 Namur fu conquistata dai francesi una prima volta il 1° luglio 1692, perduta nel 1695, riconquistata nel 1701 e definitivamente perduta nel 1712. 58 Bérenger 2004, p. 313. 59 Cfr. Glossario, s.v. 60 Cfr. Redlich 1961. 61 Si tratta del palazzo poi noto sotto il nome dei proprietari successivi, i Lobkowitz: è stato immortalato nel 1761 da una celebre tela di Bernardo Bellotto oggi conservata nello Historisches Museum di Vienna. Fu nel salone da musica di quel palazzo che nel 1804 Beethoven interpretò per la prima volta la Terza Sinfonia, l’Eroica, che aveva in un primo tempo deciso di dedicare al liberatore Bonaparte prima di cambiar idea, deluso dalle mire imperialistiche del generale francese: a quel punto, l’artista dedicò il capolavoro al suo protettore, il principe Franz Joseph Lobkowitz. 62 Per questo eccezionale artista, nato nel 1656 a Graz e che aveva studiato le opere di Gian Lorenzo Bernini nella romana Accademia di San Luca (il predicato nobiliare «von Erlach» gli venne concesso nel 1696), cfr. Aurenhammer 1973, Lorenz 1992, Fischer von Erlach 1995. 63 Ne resta testimonianza in una tela del Bellotto oggi conservata nel castello di Vaduz. Il palazzo d’estate Liechtenstein è oggi sede del Museo d’Arte Moderna. 64 Il palazzo venne ulteriormente utilizzato, una volta tramontate le follie del lusso barocco, secondo l’abituale austerità asburgica: nel 1740 Maria Teresa lo cedette alla Compagnia di Gesù, che ne fece un Collegium nobilium; dopo l’espulsione dei gesuiti, Francesco II lo trasformò nel 1797 nel Collegium theresianum, comunque destinato esso stesso ai rampolli delle famiglie aristocratiche. 65 La travolgente carriera militare di Eugenio era cominciata nel dicembre 1684, quando il giovane soldato ventenne si era visto affidare dall’imperatore il comando di un reggimento di dragoni che si chiamò appunto, in suo onore, «DragonsSavoie» (Pigaillem 2005, p. 37). 66 Il von Hildebrandt, che si era formato a Roma ed era stato ingegnere delle

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fortificazioni al servizio del principe Eugenio durante la campagna piemontese del 1695-96, fu nominato ingegnere di corte nel 1700 (cfr. Grimschitz 1959). 67 Aveva acquistato nel 1694 la collinetta sul quale sorsero poi i due palazzi, al prezzo di 33.000 fiorini (Pigaillem 2005, p. 70). Cfr. infra, pp. 436-7. 68 Cfr. Brucher 1983, Leitsch 1963, Praschl-Bichler 1990. 69 La Österreichische Nationalbibliothek, il Kunsthistorisches Museum, lo Historisches Museum der Stadt Wien ecc. 70 Bérenger 2004, p. 196. 71 Il re di Polonia inviò ironicamente un dettagliato e ossequioso resoconto della battaglia al suo collega, il Re Cristianissimo, che beninteso non si degnò di rispondere. 72 Ragusa viveva una situazione ambigua e difficile, ma non priva di risvolti positivi: la «repubblica di San Biagio» lasciava che tanto la Serenissima quanto la Porta la considerassero amica (quasi) sicura e sostanzialmente vassalla; al tempo stesso, manteneva rapporti politici e commerciali strettissimi con la sponda adriatica dello stato della Chiesa e del regno di Napoli. Era quindi, fra l’altro, un formidabile centro di smistamento non solo di merci, ma anche di notizie, com’è provato del resto dalle sue splendide dotazioni archivistiche. 73 Stefani 1684. 74 von Pastor 1932, p. 132. 75 Mazzei 2006, p. 17; ivi, pp. 162-3, a proposito di un parere negativo espresso sul Talenti da un suo antagonista. Le bandiere che erano i più illustri trofei della vittoria viennese, quella presentata a Innocenzo XI e quella inviata al santuario della Madonna di Loreto, sembrano stendardi pentagonali del tipo sancak, di cui ci restano vari esemplari (cfr. le relative «schede» in Gentiluomini cristiani 2000, pp. 126-8). 76 Cfr. l’importante saggio Vienna liberata: la missione a Roma e a Venezia di Tommaso Talenti, segretario regio, in Platania 2000a, pp. 281-319. 77 Si distingue la raccolta di versi italiani e latini Lo scudo impugnato per la fede dalla S.R. Maestà di Giovanni terzo re di Polonia. Applauso delle muse di Felsina alla di lui gloria immortale per lo scioglimento dell’assedio di Vienna e vittoria ottenuta contro l’armi ottomane..., edito in Bologna da Giacomo Monti nel 1683, con dedica di Giovanni Carlo Mattesilani datata 30 settembre 1683 (una copia nella Biblioteca dell’Archiginnasio a Bologna). 78 Ciò non toglie che il granduca non si fosse poi particolarmente appassionato alle vicende viennesi; anzi, semmai il suo interesse – non diciamo la sua simpatia – andava proprio all’impero ottomano con il quale aveva avuto di recente contatti stretti, in quanto aveva inviato il medico Michelangelo Tilli e il chirurgo Pierfrancesco Pasquali alla corte del sultano per curare – su richiesta di questi, trasmessagli attraverso l’ambasciatore veneziano Giambattista Donà – un suo genero: le cure ebbero successo. Cfr. Zangheri 1992 e 1995; sulle collezioni medicee di oggetti ottomani e islamici, testimoni di una profonda passione, Islam 2002 e Fascinazione ottomana 2004. 79 Platania 2000a, p. 294. 80 I particolari in von Pastor 1932, p. 135. 81 Platania 2000a, p. 298; con qualche differenza Ricci 2002, p. 102. 82 Non si trattava tuttavia della bandiera verde del Profeta, che Kara Mustafa aveva provveduto a salvare durante la sua pur fortunosa ritirata. Differente versione dell’evento in von Pastor 1932, pp. 133-4, che parla di un trafugamento da parte dei francesi; sempre da lui deriva l’indicazione di tre bandiere donate dalla regina di Polonia a S. Maria della Vittoria. Le fonti che descrivono lo stendardo recato

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dal Talenti al papa sono presentate e discusse in Platania 2000a, pp. 299-300. Una bandiera ottomana conquistata da Giovanni III, in broccato rosso, si trova anche al Museo del Wawel di Cracovia (Mugnai 1997-98, 00, p. 149). 83 Notificatione 1684; D’Ascoli 1969, pp. 54-7; Scaraffia 1998, pp. 25-6, 29, 84. 84 Il breve è del 4 agosto 1688; per le vittorie attribuite all’intercessione di Maria, cfr. Biagio della Purificazione 1687. In realtà la festa del Santo Nome di Maria era celebrata tradizionalmente nella diocesi aragonese di Cuenca, e come solennità diocesana era stata riconosciuta dalla Santa Sede nel 1513. Soppressa da Pio V, era stata ripristinata da Sisto V ed estesa nel 1671 sia al regno di Napoli, sia al viceregno di Milano. Nel 1672 il cappuccino padre Bernardo da Porto Maurizio, in seguito ministro generale dell’Ordine, ne ottenne la celebrazione nel territorio della repubblica di Genova. Quando Innocenzo XI decise di estendere la festa all’intera Chiesa cattolica, ne fissò la celebrazione all’Ottava della Natività; fu Pio X a ricondurla al 12 settembre. Il carattere guerriero della solennità, che richiama a Maria come fidelis Arca, simboleggiata dall’Arca dell’Alleanza che gli ebrei portavano in battaglia, è richiamato da Alessandro Manzoni nell’«Inno Sacro» appunto al Santissimo Nome di Maria, dove la Vergine è celebrata quale «oste schierata in campo». 85 Rosa in Simonato 1993, p. 237. 86 Preto 1975, p. 91. 87 Wos ´ 1983, pp. 35-42 per l’edizione del testo delle Ricordanze: ASF, Conventi soppressi, 119, ff. 234r-236r. 88 Orazione pronunziata dal p. F. Tinelli il 13 ottobre 1683, edita in Siena in quello stesso anno e ripubblicata in Wos´ 1983, pp. 49-60: la citazione è a p. 49. 89 Un verso di una poesia di Mao Zedong recita: «Genghiz Khan, il divino – sapeva solo tendere il suo arco verso le aquile dorate». Chi si esprimeva così fingeva di parlare riduttivamente dell’arte dell’arco, ma sapeva bene in realtà che esso in tutta l’area eurasiatica (dall’Ellade dell’arciere Apollo fino all’India vedica e alla Persia – dove tendere l’arco e dire la verità erano le massime virtù degne dell’uomo – e al Giappone, dove l’arco era uno degli attributi imperiali) era considerato un’arma nobilissima, anzi divina e regale; nell’induismo, l’arco è l’attributo principale di Vishnu e l’arma sacra e regale per eccellenza della poesia epica; nel buddhismo zen, il tirar con l’arco richiede una lunga ascesi ed è tramite di alta realizzazione spirituale. Da notare comunque che l’associazione dell’arco alla falce di luna aveva anche un nobilissimo precedente greco nella simbolica relativa ad Artemide. Ma qui subentra un elemento di forte «conflitto di cultura». Esiste una contrapposizione strutturalmente rigorosa tra l’arma bianca e l’arma da lancio: essa va fatta probabilmente risalire al contrasto tra sedentari e nomadi, tra campo coltivato e pascolo o deserto, fra agricoltori e cacciatori-allevatori, tra farmers e cow-boys, fra recinti e spazi liberi, tra valla e Muraglie della Cina da una parte e sconfinati orizzonti dall’altra. Già l’aveva intravisto Eschilo nei Persiani, domandandosi chi l’avrebbe spuntata fra l’Europa dell’oplita elleno dalla forte e pesante lancia e l’Asia dell’arciere persiano dall’agile acuta freccia. Per i sedentari, l’arma da lancio è «vile» (la «freccia del Parto», appunto; e Serse, che «vile e feroce si fuggìa»): un pregiudizio che sarà poi ereditato nei confronti dell’arma da fuoco, come l’archibugio di Cimosco nell’Orlando Furioso, distruttore del felice e glorioso ordine della cavalleria, arma terribile e vile al punto da farla ritenere infernale. Tra medioevo ed età moderna, l’arco divenne in Occidente simbolo di morte spirituale. In una miniatura di un codice di Herrada di Landsberg, gli angeli sono armati di spada e scudo, armi cavalleresche, e i diavoli di archi e frecce; con il Tre-Quattrocento, nelle «Danze Macabre» e nei «Trionfi della Morte», l’arco e le frecce sono presentate come le armi più comuni della morte; e –

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con un evidente ricordo dell’Iliade: ma non solo di quello – le frecce figurano quale simbolo del contagio pestilenziale, come ben ricordano le molte effigi di san Sebastiano, Apollo cristiano e patrono protettore contro la peste, diffuse in tutta Europa fra Tre e Seicento. Jakob von Wyl, pittore di Lucerna (1586-1619 o 1621), compose per la sua città – dopo gli esempi delle vicine Basilea e Berna – una Danza Macabra in sette quadri ad olio. Essa ci è testimoniata da alcuni disegni del restauratore ottocentesco Carl-Martin Eglin: in uno di essi, la Morte che uccide l’imperatore ha in testa un caratteristico turbante turco ed è cinta di quella faretra che, a causa appunto dei turchi, si chiamava turcasso. In tempi di lotta feroce tra croce e mezzaluna, come quelli succeduti a Lepanto, la fantasia del von Wyl toccava i limiti della drammatica ironia. Non va d’altronde dimenticato che anche il petrarchesco e romantico fratello di Morte, cioè Amore, va armato di arco e dardi. Un parallelismo su cui meditare. Né che gli ottomani continuarono a usare l’arco nelle loro tradizioni militari fino al Settecento. D’altra parte, in Europa l’arco rimaneva, ancora nel XVIII secolo, una comune arma da caccia, anche se talvolta adattato per scagliare non frecce bensì pallottole di metallo o terracotta, come è testimoniato dal quadro di Pietro Longhi Caccia in laguna (1760), Venezia, Fondazione Querini-Stampalia. 90 Cit. in Sodini 1992, p. 98. 91 Aldimari 1691, pp. 195-207. 92 Affreschi pubblici, in dimore principesche, ma anche in ambienti sia pur aristocratici, ma comunque privati. Come si può vedere nel caso di Villa Bellavista presso Borgo a Buggiano, tra Pistoia e Lucca, dove il pittore Piero Dandini effigiò l’assedio e le gesta del marchese Fabio Feroni, che era stato nel 1683 a Vienna colonnello di un reggimento finanziato dal padre Francesco, ministro del granduca. 93 Infelise 2002 dedica un intero capitolo del suo libro, pp. 122-140, alle gazzette, i fogli volanti, le memorie di feste, la diffusione di notizie ecc. 94 Disposizioni per un solenne Te Deum in duomo: ASM, Militare, 166. 95 Nagy 1943, Pigozzi 1985 ecc. 96 Ricci 2002, pp. 96-8. 97 Ivi, p. 71; Infelise 2008. 98 Cit. in Sodini 1992, p. 97. 99 La Sodini calcola che tra la liberazione di Vienna e la conquista di Buda, quindi tra ’83 e ’86, due tra i principali stampatori lucchesi, il Paci e il Marescandoli, pubblicassero una sessantina di Flugblätter, «fogli a stampa», oltre a odi (aprì la nutrita serie un letterato illustre, Bartolomeo Beverini: cfr. Poesie per la liberazione di Vienna, 1684), canzoni, panegirici, la traduzione delle lettere trionfali di Giovanni III di Polonia alla regale consorte e al sommo pontefice e perfino una Vita di Emerigo Tekeli, l’antieroe protestante e alleato degli ottomani che suscitava un suo sinistro fascino (Sodini 1992, p. 99): e vien da chiedersi, se nella cattolicissima però in fondo inquieta Lucca, non ci fosse ancora qualcuno che, sotto sotto, simpatizzava un pochino per la Riforma... 100 Sulle personalità e sulle carriere sia del Talenti, sia del Frediani, cfr. il profilo sintetico di Sodini 1992, pp. 102-4. 101 Meo Patacca divenne, insieme con il sette-ottocentesco Rugantino, una delle maschere romanesche più celebri; nel 1823 fu data alle stampe una celebre edizione del poema, con belle tavole di Bartolomeo Pinelli. 102 Poesie 1684; Brahmer 1980, pp. 122-60. 103 Alcuni componimenti poetici inediti in BML, Cod. 10427 e BMF, Codd. C, CCVIII II 27 e CCLX. 104 Molti oggetti sono repertoriati in Türken 1983.

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105 Cfr. D. Tollet, Les juifs furent-ils, dans la Confédération polono-lituanienne, les agents des turcs?, in Motta 1998, pp. 152-68. 106 Poliakov 1974, I, p. 238. 107 Cfr. per tutto questo Poliakov 1974, I, pp. 225-84, e III, pp. 26-7, e passim; Israel 1991, pp. 159-84; Foa 1992, p. 253 sgg.; Calimani 2002, pp. 306-9, e passim. 108 L’espressione è di Stefani 2004, p. 191. 109 Giannini 2006. 110 Marinangeli 1990.

11. L’«Estate Indiana» della crociata Cit. in Tyerman 2000, p. 177. Cfr. Schein 1999; Porsia 2005. 3 Dopo l’indulgenza plenaria concessa da Urbano II al concilio di Clermont del 1095 a coloro che avessero raccolto il suo invito ad accorrere in oriente in difesa dei cristiani di quell’area, una tendenza a moltiplicare le occasioni di concessione d’indulgenza plenaria si era presentata dal IV concilio lateranense in poi (1215 ai crociati; successivamente l’indulgenza della Porziuncola e la Perdonanza di Celestino V). Dopo il Giubileo del 1300, significativamente, la decretale Abusionibus del concilio di Vienne aveva cercato nel 1312 di porre un freno al moltiplicarsi delle indulgenze: una tendenza che era continuata comunque a dilagare fino a divenire, come sappiamo, una delle cause immediate della protesta di Lutero e della Riforma che non a caso – riprendendo del resto istanze già avanzate più volte all’interno della Chiesa latina: ultime e particolarmente intense quelle espresse da Erasmo da Rotterdam – aveva cancellato, là dove era stata accettata, sia i bandi di crociata, sia il culto delle reliquie, sia i pellegrinaggi, sia i voti. Senonché, di lì a poco, la tematica della crociata si era riproposta e reimposta come «problema turco»; e dopo il 1453 si sarebbe assistito a un ritorno della propaganda de recuperatione Terrae Sanctae accompagnato dalla problematica de recuperatione Constantinopolis. 4 Cfr. Heath 1986; Balsamo 1997. 5 Al della Valle si deve, nel 1614, un vero e proprio progetto di crociata antiottomana redatto insieme con l’imperatore sciita di Persia, Shah Abbas (Cardini 2003). 6 Per l’importanza della quale cfr. Tyerman 2000, pp. 175-6. 7 D. Caccamo, Guerra santa e guerra turca nel Seicento, in Simonato 1993, p. 400. 8 Era nato a Lipsia nel 1646. 9 Hentsch 1988, pp. 137-42. Questo «piano di conquista, che ricorda san Luigi e annunzia Bonaparte», fu pubblicato nella Parigi di Napoleone III, nel 1864, da A. Foucher de Careil, il quale «scrivendo due secoli più tardi, sembra rimpiangere che non sia mai stato realizzato» (ivi, p. 137; cfr. Youssef 1998). È assolutamente certo che sia così: in quel momento, alla vigilia dell’apertura del canale di Suez che si prospettava come opera prevalentemente francese, le mire di Napoleone III sul Vicino Oriente, tra Egitto e Libano, e la sua volontà di prendersi la parte del leone dell’impero ottomano in disfacimento, erano evidenti. Sedan avrebbe spezzato l’incanto di questi e di altri disegni, fortemente appoggiati dall’imperatrice Eugenia; ad essi era collegato anche l’impulso, obiettivamente benemerito, che l’imperatore dette agli studi relativi alla storia delle crociate e di quella che allora era significativamente chiamata la France d’Outremer. 1 2

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Note

Klopp 1864; Wiedeburg 1962. La leggenda che il Bonaparte si fosse ispirato al leibniziano Consilium Aegyptiacum per la campagna del 1798 è comunque falsa. Il manoscritto fu scoperto solo nel 1803 dal generale Mortier nell’archivio di Hannover. 12 Poumarède 2004, pp. 104-29; Bilici 2004. 13 Cfr. Bilici 2004 e Idem in Turques et turqueries 2009, pp. 57-9. 14 L’espressione Indian Summer fu coniata per la prima volta, a quel che pare, dallo scrittore franco-americano St. John de Crevecoeur nella New York del 1778: indica generalmente un breve ed effimero periodo autunnale di buon tempo, collegato forse con le tradizioni agricole dei native Americans; può significare tanto «breve e tardiva estate», quanto, tout court, «falsa estate». 15 Montecuccoli 1973, p. 96. 16 Gérin 1886: relazioni al re del 12 luglio, pp. 123 sgg. e del 5 ottobre, pp. 190 sgg. Il contegno del Re Sole – del quale anche l’ambasciatore veneziano Girolamo Venier aveva registrato il malcelato dispetto per l’esito della questione viennese – aveva suscitato in varie parti d’Europa proteste e moti d’indignazione anche popolari, non è facile dire fino a che punto spontanei: per Roma, dove sembra che per qualche tempo i francesi avessero difficoltà a presentarsi in pubblico, von Pastor 1932, p. 138. 17 Marco d’Aviano 1990, pp. 340-1. 18 Fu in questa occasione, poi più o meno truccata da «vittoria», che Giovanni III catturò lo stendardo ottomano che fece inviare in dono onorifico al santuario di Loreto. 19 In Italia gli stampatori eredi di Antonio Pisarri diffusero da Treviso, Modena e Bologna la traduzione italiana di un Rigoroso bando, dato in Strigonia (Gran-Esztergom) il 26 dicembre, secondo il quale il sultano proibiva ai suoi sudditi ungheresi di parlare in alcun modo dello smacco subìto sotto Vienna. Una copia del bando, insieme con altri fascicoli che trattano della guerra di Morea, dell’origine del conte Thököly e di altri soggetti, è custodita nella Biblioteca Universitaria di Bologna. Ringrazio la dottoressa Beatrice Borghi per la preziosa segnalazione. La data del documento è comunque incongrua rispetto ai fatti, dato che – come sappiamo – a quel punto Gran era da molte settimane già stata riconquistata dai polacco-imperiali. Il fatto che si tratti di un falso non ne diminuisce l’interesse storico. Al contrario: si tratta di un interessante esempio di costruzione dell’opinione pubblica. 20 Relazioni 1996, p. 735. 21 Ivi, pp. 735-6. 22 Abbiamo invece testimonianze discordanti rispetto ai resti mortali del gran visir. Secondo alcuni fu soltanto nel 1688, dopo la battaglia di Belgrado, che i resti di Kara Mustafa furono disseppelliti dal pavimento dell’area della moschea e la sua testa recata in macabro trofeo a Vienna; a lungo conservata in una teca su un cuscino di seta, venne esposta nel Kunsthistorisches Museum dove però è stata rimossa dalla vista del pubblico. Tale testimonianza contrasta con l’altra, secondo la quale la testa, avvolta in un drappo di seta, fu recata a Edirne per venir presentata al sultano (Wheatcroft 2010, p. 230). 23 Relazioni 1996, p. 737. 24 Mansel 2003, p. 59. 25 Nell’esercito polacco militava anche un contingente brandeburghese di 1200 uomini, che rappresentava i feudi polacchi dell’elettore. 26 Benvenuti 1885, p. 10. 27 Si è per questo ipotizzato che egli sia giunto addirittura a sostenere indirettamente il passaggio del trono d’Inghilterra dai cattolici Stuart al protestante 10 11

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Guglielmo d’Orange-Nassau per aver così la speranza che il nuovo sovrano potesse rifondere la banca della famiglia del papa dei forti prestiti ottenuti: somme che avrebbero poi potuto venire reimpiegate nella guerra al Turco. Il «mistero» dei rapporti tra papa Innocenzo XI e Guglielmo d’Orange-Nassau ha costituito il nucleo di un romanzo «giallo-storico» di Rita Monaldi e Francesco Sorti, Imprimatur, uscito presso Mondadori nel 2002 e quindi al centro di una bizzarra vicenda ricostruita in S. Berni, Il caso Imprimatur, s.l. 2008, che in questa sede è interessante sia perché il racconto ha come teatro Roma proprio nei giorni dell’assedio, sia perché sfiora il problema della canonizzazione di Marco d’Aviano. Nonostante il romanzo di Monaldi e Sorti sia costruito su documenti storici di sicuro valore (ma lasciamo agli Autori la responsabilità del loro uso e della loro interpretazione), non inseriamo la letteratura specifica riguardante questo caso nella nostra bibliografia in quanto si tratta di un tema trattato con strumenti e intenti non specificamente storici: il che d’altronde non significa affatto che esso non sia molto importante sotto lo specifico profilo storico. Diciamo solo che questa non è la sede adatta per approfondirlo. Comunque, il romanzo della Monaldi e del Sorti è ai fini dei problemi qui affrontati importante anche perché la narrazione coinvolge la strana, enigmatica figura del castrato pistoiese Atto Melani (1626-1714), celebre musicista e cantante del tempo, ma anche agente segreto al servizio del Re Sole e di Cosimo III nonché titolare di un’imponente corrispondenza conservata in ASF (cfr. Braccini-Posborg 2008). Debbo, sulla vicenda richiamata dal romanzo della Monaldi e del Sorti, interessanti precisazioni da parte dell’amico Marco Meschini, che qui ringrazio. 28 Che era altresì polacco-imperiale, ma nella misura in cui vi partecipavano non tanto l’imperatore (il quale s’impegnava soprattutto come dinasta dei suoi territori) quanto anche i principi e i Kreise del Reich: e tale partecipazione fu tutto sommato rapsodica e aleatoria. 29 Sulla personalità del Contarini, piuttosto simpatizzante con l’impero e sensibile al pericolo costituito da un’espansione francese in Fiandra e in Italia, cfr. il lucido giudizio di Caccamo 1987, p. 119. 30 Le difficoltà col Sobieski furono superate anche concedendogli il 25 marzo le insegne di generalissimo – il berretto rosso e una ricchissima spada –, nonché la rosa d’oro pontificia sia all’imperatrice sia alla regina di Polonia (von Pastor 1932, p. 140). 31 L.C. Gentile, Lo stemma e le sue variazioni, specchio della politica dei Savoia in età moderna, in Barberis 2007, inserto illustrato. Le pretese di sovranità su Cipro, da parte del duca, non mancavano di disturbare la Serenissima: il problema fu comunque per il momento accantonato. 32 Sulle ultime difficoltà di intendersi tra imperatore e veneziani, Platania 2002b, pp. 260-1. 33 Cfr. ZGADA, ed. Criscuolo in Limonato 1993, docc. 2-10, 24.9.16833.9.1686, pp. 148-66. Dopo la morte dello czar Teodoro III, figlio dello czar Alessio e della sua prima moglie Maria Miloslavna, la corona era passata a suo fratello Ivan V e a Piotr, figlio di Alessio e della sua seconda moglie Natalia Narishkina, sotto la reggenza di Sofia, prima figlia di Alessio. 34 Su ciò insiste in più punti il carteggio tra il Pallavicini e il Cybo: von Pastor 1932, p. 121; ma la Porta aveva parato il colpo, inviando allo shah parecchio denaro e istituendo facilitazioni per lo haj, il pellegrinaggio alla Mecca, dedicate ai pellegrini provenienti dalla Persia. 35 von Pastor 1932, pp. 121-2; Platania 1998, p. 270; J. Bérenger in Bély-BercéBérenger-Corvisier-Kintz-Loupes-Meyer-Quatrefages 1991, I, p. 258.

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36 Non tutte le risposte furono adeguate, nemmeno nell’area prossima al pericolo: il principe-arcivescovo di Salisburgo per esempio non andò oltre l’offerta di un po’ di munizioni. 37 Hochedlinger 2003, p. 103. 38 Hochendlinger 2003, pp. 38-9, 103-4. 39 Ebreo d’origine renana, prima al servizio dell’elettore palatino, l’Oppenheimer era passato sotto la protezione di Ermanno di Baden ed aveva avuto l’autorizzazione come «protetto dalla corte» (Hofbefreite) di risiedere a Vienna nonostante gli ebrei fossero stati espulsi dalla città nel 1670. Rischiò più volte il fallimento a causa dei ritardati pagamenti della camera imperiale: quando la sua impresa fece fallimento dopo la sua morte, nel 1697, il suo credito nei confronti dell’amministrazione imperiale ascendeva a 8 milioni di fiorini (cfr. Bérenger 2004, pp. 390-1). 40 Chagniot 2001, p. 125. 41 I problemi non riguardavano solo i costi del mantenimento delle truppe e il reclutamento dei combattenti, bensì anche il rifornimento: particolarmente difficile e oneroso quello dei cavalli (Hochedlinger 2003, p. 111). 42 Per tale sovrano, cfr. Van der Cruysse 1998, ad indicem. 43 Cfr. Cremonesi 1976, Eickhoff 1991, Setton 1991; e Hocquet 2006, p. 323. 44 Preto 1975, pp. 84-6. 45 O addirittura «prima guerra di Morea», seguita da quella del 1714-1718 per cui cfr. infra, pp. 456-66. 46 Cfr. Guilmartin 1974, p. 83. 47 Una prima fase fu originata dalla guerra che oppose nel 1617-1620 Venezia al viceré di Napoli. La necessità di affrontare i galeoni avversari spinse la Repubblica ad affiancare all’armata «sottile» di galee e galeazze un’armata «grossa» formata da mercantili armati noleggiati. La Repubblica ingaggiò una trentina di unità straniere, due terzi delle quali olandesi e il resto inglesi. Dopo aver trasportato le truppe mercenarie destinate alle operazioni terrestri contro gli Asburgo, queste navi andarono progressivamente a unirsi alla flotta che operava nel Basso Adriatico: Cfr. Glete 1993, I, pp. 13-5, 51-5 e 123 e sgg. 48 Cfr. supra, pp. 114 sgg. In pochi mesi una quarantina di mercantili armati raggiunsero il Levante e il loro numero restò elevato per tutto il conflitto. Il risultato più significativo fu il blocco dei Dardanelli, una riuscita cooperazione tra le capacità strategiche veneziane e quelle tattico-operative degli olandesi e degli inglesi: particolarmente efficace nel 1648-1649, il blocco provocò a Istanbul la caduta dello stesso sultano Ibrahim. 49 Era un sistema che delegava uno dei compiti più impegnativi per le flotte dell’epoca e che impedì il formarsi sul lungo periodo di un corpo di equipaggi autenticamente nazionale. I marinai non dipendevano dallo stato veneziano ma dai loro capitani, e sebbene questi fossero spesso sudditi, ciò lasciò un senso di incompiutezza nei confronti della formazione di un’autentica flotta di stato, offrendo l’immagine di un’armata «grossa» meno veneziana di quella «sottile» e quasi mercenaria. Sui mercantili armati nella seconda guerra anglo-olandese cfr. Fox 1998. 50 Agli ottomani mancavano, o almeno così ritenevano i veneziani, le capacità tecniche per rispondere costruendo una potente squadra di vascelli, come avevano saputo fare nel corso del XV e XVI secolo con le più semplici galee. Essi pensavano che la tecnologia tutta occidentale costituita dal binomio vela-cannone, che aveva aperto la strada alla supremazia europea sugli oceani, si sarebbe imposta anche in Levante: Cfr. Tunstall 1990; Maltby 1990, pp. 53-73.

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51 Il numero delle fortezze era destinato ad aumentare di molto: 46 nel 1710, 78 fra 1718 e 1722; non tutte però in buono stato e con adeguato parco d’artiglieria. 52 Domini - Milanesi 1998. 53 Un esercito simile fu imbarcato nel 1685 con un insieme di soldati provenienti dal Braunschweig, dalla Sassonia e dal Württemberg, arruolati con le loro stesse bandiere e che praticavano la loro confessione evangelica durante le operazioni militari. 54 Si tratta appunto dell’antica Leucade, tra Corfù e Cefalonia. 55 Sulla campagna di Morea in generale, Panzac 2009, pp. 172-5. 56 Otto Wilhelm von Königsmarck apparteneva a un’importante famiglia tra gli esponenti della quale si contavano il generale Hans Christofer, che aveva combattuto nella guerra dei Trent’Anni e in quella contro la Polonia divenendo feldmaresciallo, e suo nipote Philip Christofer, colonnello al servizio dell’elettore di Hannover, che sarebbe tuttavia morto misteriosamente nel 1694, forse assassinato in quanto sospettato di esser divenuto l’amante della consorte del suo datore di lavoro. La sorella di Philip, Maria Aurora (1662-1728), fu a sua volta per qualche tempo l’amante di Giorgio I di Hannover. Dopo la scomparsa del fratello si trasferì a Dresda, dove nel 1696 ebbe dall’elettore di Sassonia Federico Augusto I un figlio prima di ritirarsi nel monastero di Quedlimburg del quale nel 1701 divenne badessa. Quel bambino, Maurizio (1696-1750), figlio naturale di quell’elettore di Sassonia che sarebbe divenuto quindi re di Polonia, fu educato fin da giovane alla vita militare e dal 1736 passò al servizio del re di Francia, conseguendo notevoli successi e introducendo nell’arte militare del tempo fondamentali innovazioni tattiche. Nel 1744 divenne maresciallo di Francia. Lo conosciamo col nome glorioso di Maurizio di Sassonia. 57 Alla presa di Modone offrirono un generoso contributo di sangue i combattenti dell’Ordine di Malta i quali persero 200 uomini, dei quali 19 erano Cavalieri. 58 Le baionette usate erano infatti ancora del modello a manico di legno che doveva essere incastrato nella canna del fucile: praticamente, una lunga daga dritta con l’impugnatura infilata nella canna. Ciò impediva alla prima fila di sparare: essa usava il fucile come una picca. 59 È rimasta traccia del passaggio nel 1687 da Ferrara e da Bologna, diretto a Livorno per imbarcarsi verso il Marocco, di Hassan Pas¸a, governatore della Morea, arresosi al Morosini (Ricci 2002, pp. 114-7); è sempre il Ricci, pp. 117-9, a richiamare sulla scorta di Sarti 2001, pp. 437-72, il caso ferrarese del convertito Mustafà e quello bolognese di Vassila-Rosa, schiava originariamente forse ortodossa finita presso la famiglia bolognese Paleotti e donna d’intraprendente «modernità», che avrebbe chiuso a Ferrara i suoi giorni e la cui figura storica ricorda quella «romanzesca» dell’amazzone turca Archilda, fattasi cristiana per amore, protagonista del romanzo La turcha fedele nella presa di Coron, pubblicato da Teodoro Mioni nel 1687 e divenuto un autentico best seller. La campagna di Morea entrava così nella memoria delle genti italiche. 60 Le perdite subite l’anno precedente, la rinnovata minaccia barbaresca, la scarsità di schiavi da mettere ai remi avevano ritardato la messa a punto del contingente granducale per il 1687: solo il 13 maggio 4 galee e 2 vascelli presi a noleggio, uno inglese da 50 cannoni e uno francese da 40, presero il mare. A bordo vi erano 800 fanti, comandati dal lorenese Hazard con il grado di sergente maggiore e 60 cavalieri di Santo Stefano condotti dal pisano Giuseppe Alliata. Ma la notizia dello scoppio dell’epidemia in Levante indusse il Guidi a far rientrare la squadra appena giunta a Messina. Venezia, impegnata all’assedio di Castelnuovo, insisté per avere

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rinforzi: Cosimo III inviò 300 fanti con il capitano Cancellieri e alcuni bombardieri che presero parte a duri scontri. 61 Ricci 2002, p. 133. 62 Pavan 1983, pp. 171-84. Il Morosini si disse dispiaciuto della distruzione. Qualche dotto se ne scandalizzò, nella generale indifferenza. Ma alla fine del Seicento si sarebbe dovuto ancora aspettare qualche decennio prima che il Partenone diventasse un «simbolo eterno della cultura occidentale». 63 L’attuale Eubea. 64 Cfr. infra, pp. 409-21. 65 Il granduca, preoccupato per la situazione che si stava delineando a causa di un ritorno offensivo della politica estera di Luigi XIV e per la spesa di 600.000 scudi affrontata nei cinque anni precedenti, cui si erano assommati tributi dovuti all’imperatore e al re di Spagna, ritenne opportuno non rinnovare la partecipazione diretta al conflitto nei mari di Levante (Giorgetti 1916, II, pp. 547-56). 66 La negligenza era comune specialmente tra le unità tedesche. Nel maggio si erano registrati 30 morti al giorno per l’epidemia e dai 60 ai 70 nuovi casi giornalieri; per la metà del mese 700 uomini ne erano morti e molte migliaia erano ammalati. Ancora peggio, essa minacciò di scoppiare anche sulle navi e sulle galee, dove gli uomini erano ammassati. 67 Monemvasia o Monembasia. 68 La «Mània» corrisponde alla regione meridionale del promontorio che costituisce il secondo «dito» da ovest del Peloponneso, che termina a sud con il capo Ténaron. 69 Dopo le rinnovate campagne contro il Peloponneso nel 1694 e 1695, Gerakaris sarebbe passato ai veneziani: ma il suo comportamento particolarmente brutale nei confronti della popolazione, nonché i suoi continui intrighi, avrebbero indotto – dopo che egli ebbe perpetrato il feroce saccheggio di Arta, nell’agosto del 1696 – ad arrestarlo e imprigionarlo a Brescia. 70 La proposta ottomana rientrava in realtà in un ampio progetto diplomatico del quale era protagonista il nuovo gran visir Fazil Mustafa Köprülü, dopo un colpo di stato per il quale cfr. infra, pp. 422-3. 71 Gli ottomani l’avrebbero comunque ripresa nel marzo del 1691. 72 Marsigli 1732, II, p. 164. 73 Il fenomeno è riassunto in Poumarède 2004, pp. 17. I reparti tedeschi erano in genere molto più indisciplinati di quelli italici. 74 Le sue viscere furono sepolte nella chiesa di Sant’Antonio di Nauplia, il suo corpo invece è nella chiesa di Santo Stefano a Venezia, indicato sul pavimento dal sigillo tombale, opera attribuita a Filippo Parodi (1694). Nel testamento, non avendo discendenti diretti, egli lasciò i suoi beni ai discendenti dei fratelli a condizione che chiamassero per sempre Francesco i loro primogeniti maschi. Il doge aveva un gatto cui era affezionatissimo: dopo la morte, la bestiola fu imbalsamata e dovrebbe essere conservata al Museo Correr di Venezia; non ne ho trovato traccia, ma ringrazio l’amico Massimo Cacciari per essersene occupato. 75 Sulle vicende navali delle due guerre di Morea cfr. Anderson 1952 e Nani Mocenigo 1995. Sull’impresa di Chio cfr. Argenti 1935. 76 Argenti 1935. L’episodio di Chio fu causa di una dura contesa tra i gesuiti – che vennero accusati di aver consentito nell’isola forme di nicodemismo autorizzando alcune donne cristiane a finger di avere abbracciato l’Islam – e i domenicani. La vicenda si collegò, alla fine, a quella ben più complessa del «sincretismo» che i gesuiti erano accusati di aver portato avanti nella loro opera missionaria in India e

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in Cina. Sembra comunque che la comunità cattolica avesse collaborato strettamente con gli ottomani durante la loro occupazione dell’isola, attirandosi per questo l’odio degli ortodossi greci. 77 Cfr. Secco 1998, II, p. 416.

12. L’Ungheria liberata 1 M.L. Sileoni, Il progetto di una «pace perpetua» tra i polacchi e i moscoviti nell’azione politico-diplomatica del cardinale Francesco Buonvisi, nunzio a Vienna, in Platania 2007, pp. 167-83. 2 Comunque, conseguenza indiretta del riflusso ottomano dopo l’assedio di Vienna fu che in fasi differenti, concluse con i trattati del 1699, l’esercito polacco riconquistò il controllo della Podolia. Per la guerra tra Russia e Polonia, che impediva alla Russia di accedere alla Santa Lega, cfr. ZGADA, docc. ed. Criscuolo in Simonato 1993, nn. 3-9, 13.11.1683.-3.3.1686, pp. 151-64. 3 Cfr. BAV, Barb. Lat. 6657, f. 34r-v. Considerato eroe nazionale, Jan Sobieski è ancor oggi al centro di molte polemiche. Nell’attuale storiografia polacca, sono da segnalare varie critiche mossegli durante un seminario dedicato alla comunicazione e alla propaganda guidato dalla professoressa Urszula Augustyniak: re Giovanni è stato accusato di aver in vari modi tentato di violare o comunque d’indebolire la costituzione della respublica Polonorum. Probabilmente queste polemiche hanno una radice non solo storica, ma anche politica: dopo il 1945 e durante il regime comunista, la storiografia ufficiale era molto critica nei confronti dell’«anarchia nobiliare» e del liberum veto, mentre si tendeva per contro a guardare con simpatia alle tendenze antitedesche del sovrano. Oggi, grazie principalmente agli studi di Quentin Skinner, di Antoni Ma¸czak e di altri, la costituzione della respublica è stata largamente riabilitata e di conseguenza le tendenze alla sua forzatura da parte di Giovanni sono state guardate con severità. Il che non toglie che, a livello popolare, si sia ancor oggi molto sensibili alla tesi che egli sia stato l’unico o il principale salvatore di Vienna, e quindi le tendenze riduttive di alcuni studiosi non siano ben viste. Debbo queste e molte altre informazioni – che non ho potuto forse sfruttare quanto avrebbero meritato – alla cortesia di Dariusz Kołodziejczyk. 4 Farale 2009, pp. 102-3. 5 Conosciuta anche come Regensbug. 6 Mantran 1962, p. 556: le cifre sono indicative e arrotondate per eccesso. 7 Maria Antonia, nata nel 1669, aveva allora sedici anni. Dalle loro nozze nacque nel 1692 Giuseppe Ferdinando, che si trovava ad essere bisnipote diretto di Filippo IV di Spagna; ma morì settenne, nel 1699. Ciò avrebbe causato una serie di rinnovate complicazioni ereditarie, che condussero nel 1702 alla guerra di successione spagnola, in quanto il testamento di Carlo II di Spagna faceva dell’arciduchessa Maria Antonia la sua erede universale, con l’esclusione della regina di Francia Maria Teresa e del Gran Delfino. In tale occasione Massimiliano Emanuele sarebbe tornato alla vecchia politica di suo padre Ferdinando Maria, appoggiando la Francia. Per questo sarebbe stato battuto in battaglia, cacciato in esilio e dichiarato fuorilegge dalla dieta imperiale. 8 Altre fonti però ne riducono l’entità a 30.000. 9 Per i tedeschi, Ofen. 10 Che i tedeschi chiamavano Esseg.

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Oggi Šala nella repubblica slovacca. Nome slovacco del fiume che in tedesco si chiama Waag, in ungherese Wág, in polacco Wag; nasce da due sorgenti, rispettivamente negli alti e nei bassi Tatra; lungo 403 chilometri, è affluente di sinistra del Danubio, che confluisce con esso dopo aver attraversato la Slovacchia, a pochi chilometri a ovest della città ungherese di Vác, dove il Danubio con una decisa curva muta il suo corso da ovest-est a nord-sud per giungere a Budapest. 13 Benvenuti 1885, p. 11. 14 Panzac 2009, pp. 176-7. Si trattava di una flottiglia composta di «semigalee» simili alle galeotte, di brigantini e di molti piccoli vascelli, in realtà barconi da otto a dieci banchi di rematori. 15 Un maremmano 1684, p. 5. 16 Ivi, p. 10. 17 Benvenuti 1885, p. 11. 18 Ivi, p. 12. 19 L’insuccesso fu vissuto in tutta Europa, che aveva seguito la campagna d’Ungheria con ansia vivissima, come una cocente umiliazione delle armi cristiane. Ne sono testimoni le splendide acqueforti delle fortezze ungheresi pubblicate dal conte Ercole Scala nel volume L’Ungheria compendiata, stampato a Modena presso Demetrio Degni nel 1685 e dedicato al duca Francesco II: già nell’elegante frontespizio si denunzia la contraddizione tra «Vienna liberata dall’assedio, et imperfettionato l’intrapreso di Buda» (Scala 1685). 20 Biblioteca Chelliana, Grosseto, Ms. 54, f. 20r; egli valuta a 9 milioni di ducati veneziani il danno subito dal fallimento dell’impresa. 21 Md’A, II, pp. 169-70. 22 Marco, che aveva abbandonato l’esercito evidentemente disgustato per lo spettacolo delle discordie e delle violenze che avevano accompagnato e seguito l’impresa, insisteva sul fatto che Buda non sarebbe mai stata presa se non «per miracolo della gloriosissima Maria», e non mancava di far trasparire, scrivendo all’imperatore, il disappunto «per vederla (la maestà dell’imperatore) sì mal servita», aggiungendo «O Dio, quanto haverei che dire, se fossi ad aures di vostra maestà cesarea» (lettera da Venezia, 18.11.1684, in Marco d’Aviano 1990, p. 417; Md’A, II, pp. 166-8). Dall’Italia, avrebbe continuato a inviare missive all’imperatore, trattando anche «per ispiratione celeste» (Md’A, II, p. 171) temi di tattica, di strategia e di logistica, ma insistendo soprattutto sul bisogno che le truppe si conformassero a un comportamento più cristiano. Il papa lo avrebbe rispedito presso l’armata d’Ungheria ai primi del gennaio 1685. 23 Sul ruolo non solo spirituale, devozionale e edificante, ma anche propriamente politico dei consigli di Marco d’Aviano all’imperatore, che insistevano sul rapporto tra efficienza, moralità e decisione nella guerra contro il Turco, cfr. le molte osservazioni – appoggiate all’epistolario del cappuccino – di C. Cremonini, Grossmacht o Trompe-l’oeil barocco? Considerazioni sull’impero in Italia e i rapporti con il papato all’epoca di padre Marco d’Aviano, in Simonato 1993, pp. 311-41. 24 Quel non proprio edificante carnaio eccitò gli spiriti crociati e ispirò molte composizioni a carattere retorico e poetico, alcune straripanti di santa ferocia come quelle bolognesi che nel dicembre seguente celebrarono i preclara gesta del «felsineo campion» Enea Silvio Caprara, il quale aveva seminato la piazzaforte conquistata di cadaveri e l’aveva fatta risonare delle «disperate strida di donne e fanciulli», mentre nel Danubio scorreva «un torrente di sangue». All’assedio di Neuhäusel troviamo anche il Marsili, che dopo quello di Vienna era stato costretto 11 12

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a seguire l’esercito ottomano in ritirata, poi era stato venduto schiavo e nel marzo 1684 riscattato. Tornato a Vienna e rientrato in servizio, dopo Neuhäusel collaborò alla presa di Buda, fu ferito e ricevette la nomina a tenente colonnello. Il papa fu raggiunto quasi contemporaneamente dalle due fauste notizie, la vittoria di Neuhäusel e quella di Corone in Morea. 25 Cioè comandante di una compagnia, composta di 150 uomini (Benvenuti 1885, p. 11). 26 Benvenuti 1885, p. 12. 27 Marco d’Aviano 1990, lettera del 21.7.1686, p. 469; Md’A, II, pp. 299-300; ivi, lettera del 4.8.1686; Md’A, II, pp. 302-4, osserva che i soldati hanno combattuto bene ma che i generali sono in discordia fra loro e non lo hanno ascoltato, mentre segnala che il suo franco (e a suo dire competente) parere non sempre veniva gradito. In effetti, si ha l’impressione che anche nelle questioni militari il frate avesse acquisito esperienza e non fosse nemmeno privo di un certo innato intuito. 28 Fu durante questa campagna che Giovan Battista Santini lucchese, capitano in un reggimento di «corazze» dell’elettore di Baviera e che aveva combattuto nell’assedio di Buda del 1684, fu catturato il 20 agosto dagli ottomani e rimase «schiavo del Turco con la catena al piede» fino al 16 maggio del 1688, allorché venne liberato soprattutto grazie ai buoni uffici del suo concittadino cardinal Buonvisi. Il Santini – che in prigionia avvicinò anche personaggi di rilievo come il gran dragomanno Alessandro Maurocordato – ha lasciato della sua esperienza una memoria inedita molto interessante e divertente, scoperta dalla collega Carla Sodini la quale, con la consueta generosità, mi ha consentito di leggerla e di utilizzarla in questo lavoro. Il Santini sarebbe poi divenuto priore dell’Ordine di Malta (cfr. BSL, Ms. 46). 29 L’assalto fu guidato da un ufficiale italiano dell’armata imperiale, il nobile romano (anche se napoletano per nascita) Michele d’Aste, parente del Carafa, che si comportò con straordinario valore e morì per le ferite riportate. Egli ci ha lasciato alcuni interessanti diari relativi all’assedio di Vienna del 1683 e di Buda del 1686 (D’Aste 1686). 30 Klopp 1888, p. 405; Md’A, II, pp. 323-4. A proposito del contributo di padre Marco alla vittoria, così gli scriveva Francesco Grimani, lieto anche perché grazie all’ascendente del cappuccino la repubblica di San Marco aveva potuto arruolare 2000 mercenari svizzeri: «E certo, Padre Marco mio riverito padrone, che se lei non era sotto Buda, facevimo la fritata (sic). Lei è il braccio dritto della santa lega» (lettera da Vienna, 1.12.1686, in Marco d’Aviano 1990, p. 405; Md’A, IV, pp. 392-3). 31 Nota ai tedeschi come Fünfkirchen. 32 Alcuni esempi, soprattutto veneti ed emiliani, richiamati in Ricci 2002, pp. 103-7; sulle feste romane, von Pastor 1932, p. 166. 33 Lastraioli 1980-82, p. 273. 34 Cit. in Lewis 1983, p. 31. 35 Città conosciuta anche col nome di Augsburg. 36 Sei giorni dopo, il 15, l’elettore Massimiliano Emanuele sposò Maria Antonia d’Asburgo, figlia maggiore di Leopoldo. Le nozze erano state il fulcro del mantenimento dell’alleanza (cfr. supra, p. 403). 37 Marco d’Aviano 1990, pp. 441 sgg. 38 Marco d’Aviano 1990, p. 452. 39 O Nagyhársany. 40 Oggi Pécs. 41 In questa città il capitano cremasco Gianbattista Benvenuti si guadagnò un bottino modesto, «un buon cavallo con altre bagattelle di non molto valore» (Ben-

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venuti 1885, p. 13), ma si prese con sé due fratellini, Lucia e Mustafa, strappati alle loro famiglie con altri fanciulli «nonostante lo stridore dei loro padri e madri» e quindi spediti nell’inverno successivo in Lombardia. Lucia era battezzata, «sa perfettamente la lingua turca et mediocremente la schiava, et intende qualche poco l’alemanno», mentre Mustafa, più piccolo, «parla la turca et un poco lo schiavo». Il capitano Benvenuti, che se ne era impadronito per farne due giovani servitori, dava l’impressione di essersi loro seriamente affezionato: «La prego a non separarli acciò non scordino la lingua turca che fra loro discorrono... So che li figlioli li daranno disturbo, ma è carità levarli, tanto più sperando d’esserne serviti, et hanno tutti due buon giudicio, ma sul principio saranno malinconici per non poter parlare né conoscere alcuno» (Benvenuti 1885, p. 14, lettera al padre del 12.1.1687). In aprile i due piccoli turchi arrivarono in Lombardia, e si sa che Mustafa finì nella casa dei Rosales conti di Vailate; quanto a Lucia, un paio di anni dopo il Benvenuti scriveva dicendosi contento che imparasse bene. Evidentemente, aveva continuato a seguire a distanza la sorte dei due ragazzi, che affettuosamente chiamava «turchetti». Era un violento, un attaccabrighe, un prepotente: ma con un robusto fondo di umanità. 42 Benvenuti 1885, p. 15. 43 In ungherese Székesfehérvár. 44 In quel torno di tempo venne catturato un ufficiale di cavalleria, Osman Ag˘a, che preso nel giugno 1688 in seguito alla resa della piazzaforte di Lipova sul fiume Maros, un po’ a nord-est di Timis¸oara, rimase prigioniero undici anni tra Austria e Ungheria; egli ci ha lasciato un’ampia memoria delle sue esperienze ed è considerato il primo autobiografo della letteratura ottomana (cfr. Osmân Agha 1998). 45 Marco d’Aviano era di nuovo rientrato in Italia: il 9.11.1688 scriveva da Padova all’imperatore una lettera nella quale manifestava il bisogno di ritirarsi dalle cose della corte e della guerra (Marco d’Aviano 1990, pp. 499-503, dove si esprimeva, a p. 501, il parere che il Turco fosse incalzato «da chi vole il dominio del mondo», cioè da Luigi XIV più che dal demonio; Md’A, II, pp. 411-5). Anche qui si insisteva sull’incitamento a non far pace con la Porta, nonostante i molti incoraggiamenti che l’imperatore riceveva in tal senso e le buone ragioni che a ciò avrebbero potuto indurlo. 46 Nove Zámky per i croati, Beszterazbánya per gli ungheresi. 47 In tedesco, Erlau. 48 La Zrínyi fu inviata a Vienna con i suoi due figli, Ferenc II Rákóczi e Julianna Borbála. 49 Il fiume Tisza. 50 Vico 1716. Il Vico fu incaricato dal suo allievo, il duca Adriano Carafa, di scrivere in latino la vita del maresciallo Antonio Carafa (De rebus gestis Caraphaei) fra il 1713 e il 1715. 51 Bérenger 2004, p. 128. 52 Wheatcroft 2004, pp. 267-9.

13. Dal Reno al Danubio: l’intreccio dei fronti 1 ZGADA, docc. 21-23, ed. Criscuolo in Simonato 1993, 21.6.-13.12.1688, pp. 186-8. 2 ZGADA, doc. 21, ed. Criscuolo in Simonato 1993, 21.6.1688, pp. 186-7.

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Bérenger 2004, p. 400, propone una datazione diversa, l’ottobre del 1689. Cfr. supra, p. 394. 5 Elisabetta Carlotta, figlia dell’elettore palatino, moglie di «Monsieur», cioè di Filippo d’Orléans fratello minore di Luigi XIV; Filippo era stato sposato con Enrichetta d’Inghilterra, che era però morta nel 1670: cfr. Chaline 2005, p. 46 e passim. 6 Chagniot 2001, p. 290. 7 Quello di Alessandro VIII fu un breve pontificato. Dopo la sua morte, il 1° febbraio del 1691, fu fatto in conclave anche il nome del Buonvisi come possibile nuovo papa: la cosa non ebbe seguito anche per la congiunta opposizione di Luigi XIV, persuaso che il prelato avesse sempre condotto una politica antifrancese, e dell’imperatore, che non gli perdonava di aver insistito per fargli accettare la tregua di Ratisbona, da lui giudicata inopportuna e svantaggiosa. Il Buonvisi si ritirò nella sua diocesi di Lucca, dove si spense il 25 agosto del 1700. 8 Acsády 1903, p. 34. Nelle lettere dell’ufficiale cremasco dei dragoni Gianbattista Benvenuti, cui erano stati affidati anche compiti diplomatici e che si era fatto una certa competenza in cose politiche, del principe ribelle ungherese si parla sempre in termini misteriosi e affascinati. 9 Lewis 2007, p. 168. 10 Oggi Oradea in Romania. 11 Oggi Hus¸ i in Romania. 12 Per il «romanzo» del conte Benvenuti, cfr. Benvenuti 1885, pp. 19-26. 13 Lettera dell’imperatore a Marco, 24.2.1692 (Md’A, II, pp. 512-3), cit. da Cremonini in Simonato 1993, p. 319. 14 In rumeno Timis¸ oara. 15 Dopo la deposizione della reggente, la sorellastra Sofia, nel 1689, Pietro aveva governato come czar formalmente insieme con il fratellastro Ivan V fino al 1696, quando la morte di quest’ultimo lo aveva posto nella condizione obiettiva di governare da solo. Non va dimenticato che le affermazioni militari dello czar, accompagnate dalla sua energica politica di occidentalizzazione dei costumi civili e dalla sua volontà di riforma religiosa, ebbero come contraccolpo interno la rivolta della milizia dei moschettieri streltzi, un embrione di forza militare permanente nell’impero russo che si erano già ribellati nel 1682 e si ribellarono di nuovo nel 1697, e la resistenza dei «vecchi cristiani» contrari alla modernizzazione disciplinare e liturgica della Chiesa. È l’argomento di una celebre opera di Musorgskij, la Chovanšcˇ ina. 16 Massie 1985, p. 514. 17 ZGADA, cit. in ed. Criscuolo in Simonato 1993, docc. 34-36, 22.9. – 27.10.1696, pp. 34-6. 18 ZGADA, cit. in ed. Criscuolo in Simonato 1993, doc. 37, 29.1.1697, pp. 21938; Martens 1874, pp. 13-20. 19 Negli ultimi tempi, Giovanni aveva supportato la candidatura a successore di Livio Odescalchi, nipote del defunto pontefice Innocenzo XI: ma tale ipotesi era svanita con la morte del re. La regina Maria Casimira aveva sperato invano di portar avanti la candidatura di suo figlio Jakub, malvista sia per il carattere troppo energico e intrigante di «Marysien´ka», sia per l’ambiguità politica (Jakub era cognato dell’imperatore avendo sposato nel 1691 Edvige di Neuburg, sorella dell’imperatrice Eleonora, come si è già detto supra, cap. 10, nota 56; ma la regina di Polonia cercava ora di nuovo l’appoggio dei francesi; d’altronde lo czar di Russia aveva fatto sapere che sarebbe sceso in guerra contro la Polonia in caso di prevalenza di un candidato appoggiato dal Re Sole). Dopo lo smacco subìto, Maria Casimira si ritirò esule a Roma. Su alcuni aspetti della controversa elezione, cfr. Platania 2004c, pp. 97-9. 3 4

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20 L’unione personale delle corone sassone e polacca si sarebbe mantenuta fino al 1706, quando Federico Augusto avrebbe dovuto rinunziare al trono in favore di Stanislaw Leszczyn´ski sostenuto dalla Svezia; egli tornò a Varsavia nel 1709, dopo la sconfitta svedese di Poltava, per regnare fino al 1733. Cfr. infra, in questo stesso capitolo, pp. 448-9. 21 Sul fronte piemontese l’imperatore aveva promesso al duca di Savoia un massiccio soccorso, che tuttavia giunse solo nel ’92 e in una misura molto inferiore al previsto. Le truppe alleate invasero parte della Francia meridionale, devastarono il Delfinato, ma conseguirono pochi risultati e il 4 ottobre del 1693 furono sconfitte di fronte a Marsaglia, località sulla destra del Tanaro a 57 chilometri da Cuneo. Di conseguenza il duca di Savoia si sganciò dall’alleanza della Lega di Augusta e, in cambio della restituzione da parte della Francia delle aree che essa aveva conquistato nel suo ducato, come Pinerolo e Casale, accedette a una pace separata, il 29 agosto 1696, con il trattato di Torino; le forze alleate dovettero prendere atto della demilitarizzazione dell’Italia settentrionale. 22 Cfr. Beautheac-Bouchart 1985 e Cresti 1999. 23 Al punto che il papa aveva cercato di coinvolgere nelle trattative l’autorevolezza di padre Marco: «Roma mi vorrebbe politico – scriveva il 31 gennaio 1697 il cappuccino –: cosa ch’io abborisco più della morte» (Marco d’Aviano 1990, p. 667, cit. da Cremonini in Simonato 1993, p. 320). 24 La tattica del Re Sole, vista la durezza e il non troppo felice andamento del conflitto, era impostata su due poli: aprire o contribuire a mantenere aperti fronti secondari – come quello catalano, dove le truppe imperiali non poterono impedire la presa di Barcellona nell’agosto del 1697; e naturalmente quello balcanico – e al tempo stesso intavolare trattative per paci separate con le forze nemiche. Con l’impero si era già cominciato a discutere nel 1692-93 e poi di nuovo nel 1694. La diplomazia francese si giovava dell’assenza di un obiettivo comune dei suoi nemici: difatti, impero e Spagna puntavano al recupero almeno parziale dei confini del 1648-1659, mentre Guglielmo d’Orange-Nassau ambiva all’esplicito riconoscimento del suo ruolo di sovrano e all’abbandono da parte della Francia dell’appoggio alla resistenza stuardista. Restava in sospeso la faccenda della successione spagnola, sulla quale era evidente che né Luigi, né Leopoldo erano disposti a mollare. 25 Per i termini del trattato cfr. Chaline 2005, pp. 129 sgg. 26 Chagniot 2001, p. 74. 27 In ungherese Tisza, in serbo-croato e russo Tisa, in tedesco Theiss. 28 Nome ungherese del fiume, afluente del Tibisco, che in rumeno è chiamato Mures¸; presso la confluenza sorge la città di Szeged (che gli italiani chiamavano Seghedino). 29 In rumeno Petrovaradin; per gli italiani Varadino, 65 chilometri a nord-ovest di Belgrado. 30 Il 6 settembre secondo Bérenger 2004, p. 402. 31 Le cifre, al solito, sono incerte: Childs 2004, p. 132, dà 30.000 ottomani contro 300 imperiali (cifre evidentemente arrotondate). Alcuni particolari in Bérenger 2004, p. 402. 32 La picca era ormai quasi scomparsa, anche se sarebbe a lungo sopravvissuta come arma «popolare», magari durante rivolte o sommosse. Dal 1640 circa, l’esigenza di un’arma bianca complementare al moschetto o al fucile avevano presieduto alla nascita della baionetta, i cui primi modelli erano dei pugnali il manico dei quali era sagomato in modo da essere incastrato esattamente nella canna dell’arma

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da fuoco: ma in tal modo s’impediva di usare il fucile. Si rimediò a partire dal 1688, nell’esercito francese, quando il Vauban persuase il Louvois a usare un tipo di baionetta fissata alla canna con una ghiera. Nell’esercito francese la picca scomparve nel 1703, contemporaneamente alla sistematica dotazione di un’arma bianca – la baionetta a ghiera, appunto – complementare al fucile. Ma fu molto rimpianta da parecchi comandanti militari, dal Montesquiou a Maurizio di Sassonia (Chagniot 2001, p. 298). 33 I particolari sulle fasi diplomatiche della pace in Bérenger 2004, pp. 403-5. 34 Bérenger 2004, p. 309. 35 Cfr. supra, pp. 420-1. I nobili ungheresi erano contrari a questa ristrutturazione territoriale; gli ottomani dal canto loro invitavano i serbi rifugiati in Ungheria a tornare alle loro case (Bérenger 2004, p. 429). 36 Termine slavo che si può tradurre, letteralmente, societas. 37 Nouzille 1991, richiamato in Bérenger 2004, p. 11. 38 Sui Grenzer, Ciot 2001, p. 81, e Hochedlinger 2003, pp. 83-92. 39 In serbo Sremski Karlovci. Cfr. i saggi di S. Sarlai, I progetti del Marsili per la pace di Carlowitz nel 1698 e di M.F. Molnár, Il triplice confine. Delimitazione del confine veneto-turco-asburgico dopo il trattato di Carlowiz, entrambi in Nemeth-Papo 2007, rispettivamente pp. 153-61 e 163-71; cfr anche Pedani-Fabris 1996, p. 40. 40 Ci vollero in tutto trentasei sedute, che si svolsero in tende o in baracche di legno sotto un intenso freddo: per giunta, all’ultima seduta, si dovette aspettare a lungo, orologi alla mano, il «punto» astrologicamente fausto (Acsády 1903, p. 39). Il conte Thököly, formalmente escluso dai trattati, riparò entro i confini dell’impero ottomano. Bibliografia recente, funzionale al ruolo avuto dal Marsili negli accordi, in Gherardi-Martelli 2009, pp. 204-5. Dopo Carlowitz, il Marsili fu promosso generale. Cfr. anche Platania 2000a, pp. 321-87. 41 Protagonista delle trattative di Carlowitz da parte ottomana fu il gran dragomanno Alessandro Maurocordato, meritevole tra l’altro di aver genialmente risolto in quella sede i complessi problemi causati dai protocolli di precedenza: egli propose un padiglione circolare all’interno del quale era un tavolo rotondo, e tanti ingressi di fronte alle sedie dei plenipotenziari in modo che essi potessero entrare e prendervi posto contemporaneamente. Per il ruolo polacco, Platania 2000a, pp. 321-87. 42 Bérenger 2004, pp. 382-3. 43 Md’A, II, pp. 710-4. 44 Marco d’Aviano 1990, pp. 753-69. 45 Desmet-Grégoire 1994, pp. 131 sgg. 46 Gherardi-Martelli 2009, pp. 14-5. 47 Bérenger 2004, pp. 407-37. I prodromi di essa datavano a molto tempo prima. Dopo il fallimento dell’intesa segreta del 1668, secondo la quale Leopoldo I e Luigi XIV si erano spartiti le terre della Monarchia di Spagna che sembrava ormai all’esaurimento per mancanza di eredi maschi, entrambi avevano cominciato a tessere le loro contrastanti trame. Quando nel 1685 l’imperatore ebbe il suo secondo figlio Carlo, lo destinò immediatamente alla successione spagnola; il re di Francia fece lo stesso col Delfino: cfr. Hochedlinger 2003, pp. 174-93; Bérenger 2004, p. 162; Bled 2004, p. 57. 48 Il 5 settembre 1703 un’ordinanza dello Hofkriegsrat vietava ai colonnelli di trarre profitto dalla promozione degli ufficiali nei loro rispettivi reggimenti (Chagniot 2001, p. 108; Bérenger 2004, pp. 449-50). 49 ll rituale funebre della Kapuzinergruft prescrive che la salma di chi vi viene sepolto venga accolta, in segno di umiltà e penitenza, solo dopo la rinunzia a ogni

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onore e a ogni pompa terreni. La cerimonia prevede la formulazione di tre richieste di apertura del portone d’ingresso: alle prime due – articolate nella solenne declinazione dei titoli e delle funzioni del defunto, quindi nel semplice nome – si risponde dall’interno con una formula di non-riconoscimento, quindi di diniego; infine, l’apertura dell’ingresso avviene dopo l’anonima confessione in cui, per bocca del cerimoniere di corte, il silenzioso postulante si riconosce arme Sünder, «povero peccatore», semplice ed umile parte dell’umanità segnata dalla colpa originale. Sulla «pubblica e solenne» morte dell’imperatore Leopoldo I, il 5 maggio del 1795, e sulle sue esequie cinque giorni dopo, il 10, cfr. Bérenger 2004, pp. 455-7. 50 Ciot 2001, p. 75. 51 Hochedlinger 2003, pp. 186-7. 52 I magnati ungheresi non avevano mai rinunziato alla loro lotta per l’indipendenza: essa si riaccese nel 1707, estendendosi ai contadini, quando il Rákóczi promise la libertà a tutti coloro che, di condizione servile, avessero accettato di combattere sotto le sue insegne. Solo nel 1711 le acque si calmarono. Per Ferenc II Rákóczi (1676-1735), che si pose alla testa dei «Malcontenti», cfr. Bérenger 2004, pp. 427-9: da giovane era stato inviato ostaggio presso l’imperatore che lo aveva fatto educare dal gesuiti di Praga i quali ne fecero un uomo colto e un pio giansenista. Dopo la fine del suo tentativo di ribellione visse a Parigi e quindi, dal 1717, in Turchia. È autore di una vasta opera filosofico-religioso-autobiografica in francese e in latino. Morì a Rodosto sul mar di Marmara nel 1735. 53 Va ricordato che più tardi anche molti cosacchi «zaporoghi» seguirono nel 1708 l’atamano Ivan Stepanovich Mazepa-Kolendinskij che dall’alleanza con lo czar Pietro era passato a quella con Carlo XII puntando all’indipendenza dell’Ucraina. Battuti dallo czar nella battaglia di Poltava, l’8 luglio del 1709, entrambi avrebbero trovato rifugio presso gli ottomani; il capo cosacco sarebbe scomparso quello stesso anno, mentre il grande re guerriero svedese, che aveva contribuito a convincere nel 1711 la Porta a dichiarar guerra a Pietro I, dopo aver risieduto a lungo a Bender in Moldavia rientrò nel 1714 nella parte meridionale della Svezia attraverso Ungheria e Germania, e cercò di riorganizzare un esercito provocando una lega antisvedese tra Russia, Sassonia, Polonia, Danimarca, Prussia e Hannover. Carlo XII cadde l’11 dicembre 1718 a Fredrikshald combattendo contro i norvegesi. Gli succedettero prima la sorella Ulrica Eleonora, quindi il di lei marito Federico I di Assia-Cassel, che riuscirono a ristabilire un certo equilibrio nel regno, anche grazie ai trattati del 1720-1721 che conclusero la «guerra del Nord». 54 Sulle ulteriori vicende del trono polacco, occupato nuovamente da Augusto di Sassonia dopo il 1709 in conseguenza della sconfitta svedese di Poltava e da lui tenuto fino al 1733, cfr. supra, p. 435.

14. Chi sale, chi scende 1 Espressione per i tempi di cui stiamo parlando assolutamente impropria, che tuttavia qualifica bene l’insieme di Sacro Romano Impero formalmente elettivo – e di fatto indissolubilmente legato ormai alla dinastia d’Asburgo – e di territori detenuti dagli Asburgo a vario titolo, anche formalmente ereditario. 2 Abbiamo già incontrato più volte Alessandro. Suo figlio Nicola era asceso due anni prima, nel 1709, al trono valacco vassallo della Porta come primo dei cosiddet-

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ti «principi fanarioti». Nicola fu un personaggio eccezionale, formidabile, dotato di una prodigiosa memoria e perfettamente padrone di sette lingue. 3 Mansel 2003, p. 190. 4 Per tale espressione, peraltro famosa e molto diffusa, Fichtner 2008, p. 95. 5 Che già aveva fatto spazientire sia il suo re sia il gran visir fra 1673 e 1674, concedendosi un lunghissimo viaggio per le varie terre dell’impero sultaniale e dimostrando una sovrana noncuranza dinanzi ai perentori inviti di rientrare a Istanbul. 6 Quando tornò in patria nel ’79, si vide negare dal re il saldo degli stipendi. Fu costretto pertanto a vendere, disperdendola, la sua preziosa collezione di oggetti orientali per potere sbarcare il lunario. Morì a Parigi nel 1685 «in profonda miseria» (Eickhoff 1991, p. 330). 7 Comunque, anche in ciò non bisogna esagerare. L’intesa tra Versailles e la Porta restava profonda e manteneva un peso diplomatico e politico notevolissimo. Nel 1724, durante le trattative di pace tra impero ottomano, Russia e Persia, fu l’ambasciatore francese visconte d’Andrezel a far magistralmente da mediatore, guadagnandosi la gratitudine e l’ammirazione del gran visir; e nel 1736-39 la Francia appoggiò la Porta nella guerra contro Austria e Russia che condusse alla riconquista ottomana di Belgrado. 8 Cfr. B. Panvini, Le rime della scuola siciliana, I, Firenze 1962, pp. 456-7. 9 Cfr. J.W. Goethe, Faust e Urfaust, a cura di G.V. Amoretti, Milano 1965, II, p. 687. Ben diverso ormai il clima nel 1868, alla «prima» dei Maestri Cantori di Norimberga, nella cui scena conclusiva due versi suonano – nella versione italiana di Angelo Zanardini (il libretto è edito da Ricordi nel 1957) «...crollar potrà il Sacro Romano Imper – l’arte vivrà nel genio del cantor!». 10 De La Croix 2007, p. 19. 11 Panzac 2009, pp. 177-8: una flottiglia di 22 vascelli non troppo dissimili dalle galeotte mediterranee, approntati su modello olandese, fu costruita nei cantieri vicini a Mosca, quindi inviata a pezzi smontati fino a Voronej sul Don, a 1300 chilometri da Azov, e lì rimontata. 12 Cit. in Bois 1993, p. 158. 13 Bois 1993, p. 158; Panzac 2009, pp. 183-4. 14 Abou el-Haj 1984. 15 Non che in altri settori del Mediterraneo le acque – è il caso di dirlo – fossero poi così tranquille per la Porta. Tra 1708 e 1715 alcuni legni di corsari cristiani – si trattava di livornesi, protetti da una patente di corsa del granduca di Toscana – razziarono il litorale palestinese, creando parecchi grattacapi alle autorità consolari francesi che il sultano riteneva «protettrici» (e quindi responsabili) degli occidentali in quell’area: anche perché spesso i vascelli corsari si facevano passare per innocue navi da trasporto di pellegrini diretti ai Luoghi Santi. I cristiani del luogo, attaccati per ritorsione dai musulmani esasperati, sopportavano in questi casi il tristissimo ruolo di capro espiatorio. I documenti relativi a queste e ad altre vicende, studiati da Salvatore Bono, sono tutti raccolti in Golubovich 1924-25. 16 Brue 1870, p. 184. Altre fonti sono però molto più prudenti quanto ai numeri degli armati: si è parlato di una forza non superiore ai 100.000 uomini. 17 Questo episodio dette materia a George G. Byron per comporre nel 1816 appunto il poema dedicato a L’assedio di Corinto. 18 Panzac 2009, pp. 184-5. 19 Eric Pinzelli in una tesi discussa nel 2003 nell’Università di Aix-en-Provence e ancor inedita mentre scriviamo, ma cit. in Panzac 2009, p. 185, dimostra che i

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veneziani, tra 1685 e 1686, avevano avuto bisogno di due anni per conquistare agli ottomani quel che essi strapparono di nuovo loro nel 1715 in meno di tre mesi. 20 La Serenissima considerava primario e fondamentale l’ingens opus Corcyrae, il sistema difensivo di Corfù (Concina 1983). Già un decreto del senato veneto, in data 8 ottobre 1537, stabiliva la partenza di Michele Sammicheli per Corfù, in modo da operare «secondo l’ordine dell’illustrissimo signor capitano nostro general». Corfù aveva subìto l’assedio degli ottomani in agosto e nel settembre dello stesso anno (Fara 1989, pp. 44-5). Dal 1566 al 1574 s’interessarono dell’isola Sforza Pallavicino, Baldassarre Rangone, Giulio Savorgnano; nel 1576 Ferrante Vitelli da Città di Castello venne «prestato» ai veneziani per essere impiegato nella fortificazione dell’isola. Il Vitelli, a Corfù nel novembre 1576, vi rimase due anni: sistemò la fortezza vecchia e ne disegnò una nuova con un sistema di allineamento urbano a difesa di tutti i borghi. Nell’esecuzione intervennero Giulio Savorgnano, Iacopo Malatesta e forse Bonaiuto Lorini nel 1582. Le fortificazioni di Corfù furono ristudiate nel Seicento, allorché la cinta urbana subì un raddoppio. Dal 1716 il von Schulenburg avrebbe aggiunto tre opere distaccate. 21 Johann Mathias conte di Schulenburg (Emden, Magdeburg 1661-Verona 1747) prestò servizio nella Savoia e in Polonia; durante la guerra nordica (17021706), al comando dei sassoni, fu più volte sconfitto da Carlo XII; combatté poi contro Luigi XIV. Passato al servizio di Venezia, nel 1715, ne comandò le fanterie contro gli ottomani, distinguendosi come stiamo vedendo a Corfù nel 1716. Nel 1718 iniziò la spedizione in Albania, ma fu fermato dalla pace di Passarowitz. Il von der Schulenburg sarebbe stato protagonista d’una riforma basata sulla semplificazione dei meccanismi di reclutamento, che si sarebbe attestato su una fanteria che avrebbe abbandonato il mosaico etnico che l’aveva a lungo caratterizzata per distinguersi solo in «italiani» e in «oltremarini» (che erano gli «schiavoni», cioè i croati), mentre venivano conservati 4 reggimenti di cavalleria: due di croati, uno di «corazze», uno di dragoni. Il feldmaresciallo è famoso inoltre in quanto committente, tra 1742 e 1745, dei 43 «quadri turchi» o «scene turchesche» eseguite da Antonio Guardi e dal suo atelier, considerati capolavori della pittura orientalistica settecentesca (cfr. Guardi 1993; Venise et l’Orient 2006, p. 138). 22 La pittoresca guarnigione di Corfù era un’eterogenea raccolta di tedeschi, italiani, slavi e greci, molti dei quali si erano ritirati da posizioni più avanzate. Alcuni mercanti veneziani provvidero ad anticipare fondi per reclutare truppe in Westfalia, Franconia e Svevia. 23 Valensi 1989, pp. 35-6; Panzac 2009, p. 186. Il simbolo di Giuditta era già stato usato più volte nel contesto della propaganda crociata e antiturca: l’esempio più illustre, e artisticamente parlando tra i più mirabili, è la statua bronzea di Donatello fusa per un’altra repubblica-Giuditta, la sua Firenze: in quel caso, in pieno Quattrocento, l’Oloferne di turno era nientemeno che Mehmed II al-Fatih, il conquistatore di Costantinopoli del 1453. L’ispirazione di Vivaldi era, militarmente parlando, un po’ meno millantatrice di quella di Donatello. 24 In termini d’ingombro spaziale, una tonnellata di stazza equivale a 2,832 metri cubi. 25 Panzac 2009, p. 165. 26 La Spagna non si era mai più ripresa dopo la débâcle dell’Invencible Armada e il dissanguamento dei suoi convogli oceanici sotto i continui colpi della pirateria; la Francia aveva a lungo continuato a puntare – soprattutto per l’ostinazione del Colbert – sulle galee, alle quali aveva sacrificato tante delle sue splendide foreste

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di querce, nonostante il fatto che esse, sottili e di pochissimo pescaggio, fossero sommamente inadatte alle onde dell’Atlantico che le rovesciavano o le spezzavano con facilità. Inoltre la galea aveva bisogno di approdi frequenti e non era dunque idonea alla lunga navigazione d’altura. 27 I russi usarono ancora le galee tra 1719 e 1721 per attaccare le coste svedesi (Chagniot 2001, p. 97). 28 Cfr. per tutto ciò le informazioni e le considerazioni di Panzac 2009, pp. 168-9. 29 Marsigli 1732, pp. 169-70. 30 Panzac 2009, p. 187. 31 In italiano chiamata di solito Petervaradino; in rumeno Petrovaradin. La località era stata scelta dal 1699 come chiave del sistema asburgico di fortificazioni a difesa del confine meridionale. La fortezza, conquistata nel 1687, era stata oggetto di nuovi ciclopici lavori iniziati nel 1692 e che sarebbero continuati fino al 1760. 32 Sestan 1951; Oppenheimer 1979, pp. 132-3; Pigaillem 2005, pp. 196-9. 33 Abbiamo una bella testimonianza della giornata di Peterwardein nella bella lettera che l’8 agosto, dal campo stesso di battaglia, il lucchese conte Stefano Orsetti – che vi aveva combattuto come colonnello insieme con il nipote Lelio, che aveva il grado di capitano – scrisse a suo fratello, riferendogli di aver personalmente ricevuto dal principe Eugenio le congratulazioni per «la bella azione da Lei fatta con il reggimento, avanti i miei occhi, e posso dirle che questa azione è stata una delle più gran parti dell’ottenuta vittoria» (Lazzareschi 1929, richiamato in Cardini 1997, pp. 357-60, part. p. 360). Il tugˇ conquistato in quel frangente dall’Orsetti fu offerto, nella sua Lucca, al Santo Volto, e si può ancora ammirare nella navata sinistra del duomo di San Martino, presso l’edicola del celebre crocifisso miracoloso. 34 Si rinvia per tutto ciò alle considerazioni introduttive a Bernardo di Clairvaux, De laude novae militiae, in Cardini 2004. 35 Napoleone, cit. in Sestan 1951, p. 77. 36 Batnya. 37 Per l’intero episodio, Pigaillem 2005, pp. 199-204 che indica la data della capitolazione al 22.8. 38 Si allude qui evidentemente al titolo del film Il riposo del guerriero, di Roger Vadim, 1962: Eugenio di Savoia dovette difatti, già sessantenne, tornare sul teatro della guerra. 39 A Venezia restava il controllo di 4 piazzeforti sullo Ionio: Butrinto, Parga, Prévesa e Vonitza. Ciò le consentiva comunque di controllare l’ingresso del canale d’Otranto, quindi dell’Adriatico: cfr. Hocquet 2006, p. 323. Tra 1718 e ’22, si poteva calcolare che in tutto la repubblica disponesse di 78 fortezze munite di artiglierie e di guarnigioni (difficile dire quanto adeguate queste ultime): 9 in Levante, 24 in Terraferma, 45 tra Dalmazia e Albania: cfr. Del Negro 2008. 40 Tuttavia la definizione di «pace perpetua» fu da essi accettata nel 1720, all’atto del rinnovo degli accordi con l’impero russo (Pedani-Fabris 1996, p. 40). 41 Ma, per il momento, il Mar Nero rimaneva un «lago ottomano». La Russia avrebbe dovuto aspettare la metà del secolo, i successi della Grande Caterina e lo sviluppo del porto di Odessa per mutare la situazione. 42 Nel 1716 i turchi avevano attaccato Corfù, la chiave militare del «golfo di Venezia», ed erano stati valorosamente respinti. Ma il segnale era comunque stato forte: l’Adriatico poteva essere violato; e non solo episodicamente, come era accaduto

Note

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fino ad allora nelle pur numerose incursioni dei vascelli ottomani. L’attacco diretto a Corfù mostrava che una sistematica erosione dell’egemonia della Serenissima sul «golfo di Venezia» era possibile e che il Turco ci stava pensando. Anche per questo motivo, dopo il «secolo di ferro» (la definizione è come sappiamo di Vendramin Bianchi, segretario d’ambasciata al congresso di pace di Passarowitz e autore di una celebre relazione), aperto per Venezia dalla guerra di Candia, la repubblica si chiuse in una sempre più stretta neutralità. 43 Così molto lucidamente, sulla base degli studi di M. Verga e di M.P. Pedani, afferma M. Fusaro, Vie e tecniche delle comunicazioni terrestri e marittime, in Bizzocchi 2008, p. 237. 44 Candiani 2003; Ercole 2006. 45 Ferrari 1997. 46 Mehmed Efendi 2004. 47 BCMCV, Ms. 2643, ed. Vesnitch 1912; dell’opera si conoscono anche traduzioni inglesi e tedesche (da segnalare in modo particolare la tr. ingl. comparsa su «American journal of international law», 7(1), 1917, pp. 83-107. 48 Filiarchi 1572. 49 Restano in questo senso fondamentali le pagine di Schmitt 1991. 50 Il regno del quale sarebbe durato fino al 1754. 51 Pigaillem 2005, pp. 231-4. 52 Vandal 1885. 53 Coopération militaire 1987. 54 Bellingeri 1995, pp. 247-80. M.F. Molnár, in Nemeth-Papo 2007, p. 164, ha fatto notare come fosse sul serio «perpetua»: «nessun’altra pace venne mai più conclusa tra l’impero ottomano e la repubblica di Venezia»; ma ricordando altresì, con le parole di Paolo Preto, che si trattava di «pace e amicizia tra due potenze al tramonto». 55 Che aveva perduto di nuovo nel 1737 a vantaggio della Russia. 56 Cit. in Domenichelli 2002, p. 13. 57 Vissuto tra 1611 e 1684, grande costruttore e collezionista d’arte, autore dell’opera Werk von der Architektur. 58 Brunner 1972, p. 53. 59 Pigaillem 2005, pp. 178-81. 60 Pigaillem 2005, pp. 174-6 61 Sestan 1951, p. 75.

15. Del caffè viennese e di altre «turqueries» Fascinazione ottomana 2004, p. 120. M. Scalini, ibidem. 3 Ibidem. 4 Con il Cinquecento fece anche la sua comparsa un aggettivo inesatto e quasi offensivo, che tuttavia avrebbe avuto molta fortuna e che è stato a lungo usato e lo è talvolta ancora oggi per indicare i musulmani: il termine «maomettano». Cfr. Dartois-Lapeyre, Turcs et turqueries dans les “«représentations en musique»” (XVIIe-XVIIIe siècles), in Turcs et turqueries 2009, p. 163. 5 Ma nell’intimità accadeva il contrario: le occidentali erano restie a denudarsi, 1 2

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le turche lo facevano con molta facilità, come attesta Lady Montagu che come moglie dell’ambasciatore britannico a Istanbul vi viaggiò tra 1716 e 1717: essa apprezzava del resto l’uso del velo che, coprendo le donne islamiche, le lasciava «forse, più libere di tutte le altre donne dell’universo» (cit. da R. Sarti, Cultura materiale e consumi in Europa e nel Mediterraneo, in Bizzocchi 2008, p. 360). Un argomento al giorno d’oggi spesso ripreso da donne musulmane magari impegnate nei movimenti di emancipazione o addirittura «femministe», ma non disposte ad assecondare certe facili critiche etnocentriche con cui gli «occidentali» sbrigano frettolosamente la problematica del hijab, del niqab e del burqa. 6 De Burgo 1686, cit. da Sarti in Bizzocchi 2008, pp. 353-4. Il testo del De Burgo è in italiano, ma egli era irlandese: esule dal suo paese a causa della dittatura di Cromwell, era stato preso prigioniero dai barbareschi durante un viaggio per mare al Santo Sepolcro nel 1678. Naturalmente, il termine «turco» si deve intendere, qui e in molti altri casi (anche se non sempre), quale sinonimo di «musulmano»: come nella notissima espressione «farsi turco», che significava appunto «convertirsi all’Islam». 7 Lewis 1990, p. 144. 8 Desmet-Grégoire 1994, p. 75. 9 Per tutto ciò cfr. Sarti, in Bizzocchi 2008, pp. 406-7. 10 È il parere di Tomenendal 2002, richiamato da Wheatcroft 2010, p. 216. Insomma, Vienna e Kara Mehmed Pas¸a 1665 versus Parigi-Versailles e Süleyman Ag˘a 1669: una nobile gara. 11 Su di lui Stoye 2009, ad indicem. 12 Cfr. Chabouis 1998, p. 61. 13 Cfr. Teply 1980. 14 Secondo altri (Des Cars 2005, p. 28) il Kipfel era invece già stato «inventato» nel 1529, dopo il primo assedio di Vienna, in memoria e in onore dei fornai che avevano per primi dato l’allarme all’arrivo delle truppe turche, il 27 settembre 1529. 15 Solnon 2009, pp. 131-6. 16 Solnon 2009, pp. 242-3. Parte della Künstkammer elettorale, la Türkische Kammer è sita al secondo piano del Residenzschloss, raccoglie oggetti acquistati da Augusto I e da Augusto II per mezzo di un agente a Istanbul e oggetti donati all’elettore dal sultano Ahmed III, nonché vari trofei di guerra e due grandi padiglioni cerimoniali. La maggior parte di questi oggetti furono usati durante la parata militare nota come «accampamento Zeithein», nel 1730. Il Residenzschloss, distrutto come grandissima parte del centro storico di Dresda nel criminale bombardamento ordinato fra 13 e 15 febbraio 1945 da Winston Churchill (la città, indifesa, era notoriamente un nodo di civili sfollati), è stato esemplarmente ricostruito. L’alibi dell’infamia fu che essa era «necessaria» per sgombrare l’avanzata dell’Armata Rossa alla volta di Berlino e impedire un concentramento di quel che restava dell’esercito tedesco in quel settore per rallentarla: menzogna da tempo destituita di fondamento. 17 Bobovius 1999 (da noi in Bibliografia incluso, impropriamente, tra le fonti ‘turche’: in realtà, caratteristico frutto del cosmopolitismo ottomano). 18 Dimitrie Cantemir (1673-1723) era figlio di un moldavo, Constantin, di umili origini, illetterato, serdar nell’esercito ottomano, e della nobile signora Ana Bant∏s¸; in seguito, si fabbricò un’ingegnosa e originale genealogia tartaro-latina che lo collegava alla tribù nogai, precedente Genghiz Khan. Inviato giovanissimo rehin (ostaggio) a Istanbul, fu letterato, filosofo, storico, geografo, linguista, etnologo,

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Note

musicologo e compositore musicale. Fu il primo non-musulmano a comporre, in latino, una storia dell’impero ottomano espressa dall’interno di esso, Incrementa atque decrementa aulae othomanicae, tradotto più tardi in inglese e in francese. A Istanbul ebbe modo di far pratica anche di discipline connesse con l’antichità classica. Studiò e scrisse composizioni di musica ottomana. 19 De La Croix 2007, pp. 19-24. 20 Ricoldo da Montecroce 1511. 21 Bibliander 1543-50. 22 Cfr. Malvezzi 1956, pp. 202 sgg. 23 Dei turchi il Postel tornò più volte a occuparsi: cfr. Postel 1560. 24 Vercellin 2001, pp. 39-44. 25 Cfr. Sagredo 1677; che del resto riprendeva il tema dello studio dei sovrani ottomani già affrontato da Paolo Giovio e poi nell’opera di Francesco Sansovino stampata nel 1573. 26 Cfr. Gonzalez de Santalla 1687. 27 Cfr. Maracci 1691; Idem 1698. 28 Donado 1688. 29 De Carbognano 1974. 30 Quataert 2008, pp. 24-5. 31 Boccaccio, Decameron, I, 3. 32 Cfr. Montesano 2002. 33 Cit. da Mozzarelli, riprendendo B. Lewis, in Simonato 1993, p. 296. 34 Gemelli Careri 1728, I, p. 263. 35 Soranzo 1598: cfr. Preto 1975, pp. 298-301; Soykut 2001, pp. 37-9; per altri trattati del genere, Ricci 2002, pp. 68-70. 36 Per cui cfr. Preto 1975, pp. 314-25. 37 D. Frigo, La concezione dell’impero nella pubblicistica e nelle fonti diplomatiche italiane della seconda metà del Seicento, in Simonato 1993, p. 350. 38 Montecuccoli 1973, pp. 98-9. 39 Piacenti 2008-9, I, p. 61; cfr. C. Campa, Dal tableau esotico alla rappresentazione di carattere: la storiografia musicale, le turcherie e lo spirito enciclopedico, in Motta 1998, p. 420. 40 Meyer 1974, p. 482. Il Lully vi danzò, interpretando il personaggio del Muftì; Campa in Motta 1998, p. 421. 41 Si registra qui un gioco di parole tra paladin, «paladino», «cavaliere», e baladin, ‘ballerino’ (ma in un senso che suona decisamente di scherno). 42 Le bourgeois gentilhomme, acte IV, scène 5. 43 La formula gioca sul significato di «dare», che in italiano vuol dire anche colpire, e il verbo arabo daraba, di etimo totalmente estraneo ma semiomofono e di analogo significato. 44 Incaricato di una missione. 45 Un episodio peraltro non scevro di contrattempi anche ridicoli: Eickhoff 1991, p. 324. 46 Le Capitolazioni furono in effetti rinnovate a Istanbul nel 1673 dall’ambasciatore marchese di Nointel, in un’ambasceria della quale facevano parte anche il de La Croix e il Galland; fu il de La Croix, secondo segretario d’ambasciata, a recare al re la buona notizia. Cfr.: MAE, CP, Turquie, Supplément 5, ff. 105-6; Arvieux 1735; Galland 2002; de La Croix 2007, pp. 17-8. 47 Desmet-Grégoire 1994, pp. 18-19 e passim. 48 Par., XI, 51.

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49 A proposito di questo termine e di questo concetto, oggi entrambi tanto fondamentali quanto ambigui, cfr. Corm 2009. 50 Era stato ambasciatore presso la Sublime Porta tra 1680 e 1684, cioè nel periodo «caldo» della gestazione dell’impresa di Kara Mustafa e quindi delle premesse della Santa Lega del 1684. Un suo ritratto, attribuito di recente con convincenti ragioni a Pietro Liberi, è al Museo Correr (Cl. I, n. 104). 51 Cfr. Preto 1975, pp. 91, 340-51; Soykut 2001, pp. 112 sgg.; M. Soykut, Rediscovery of the East and of the West between Europe and the Ottoman empire, in Platania 2006, part. pp. 104-12, e passim; cfr. supra, p. 493. 52 Dei quali è prototipo l’Europe galante musicata da André Campra su testi di M. de La Motte, andata in scena a Parigi nel 1697: suite di balletti in cui sono rappresentate Francia, Spagna, Italia e Turchia (Meyer 1974, p. 481). 53 Dartois-Lapeyre in Turcs et turqueries 2009, pp. 163-215, corredato da un interessante annesso video, pp. 217-9. 54 Billacois 1965, p. 16. 55 Per il termine turquerie, nato tra 1667 e 1670 grazie alla collaborazione tra Lully e Molière, cfr. Dartois-Lapeyre in Turcs et turqueries 2009, p. 181. 56 Motta 1998, p. 423. 57 Sanvitale in Giannetti-Tosi 1998, p. 143. 58 La variante del Glockenspiel sotto forma di Music Box è lo strumento di Papageno nella Zauberflöte di Mozart. 59 Meyer 1974, pp. 484, 486; Mugnai 1997-98, I, pp. 69-72; Sanvitale in Giannetti-Gori 1998, p. 142. La parola proviene da un termine persiano, mithar, traducibile come «eccelso», «elevato». 60 Sanvitale in Giannetti-Gori 1998, p. 145. 61 Melograni 2003, p. 220. «Wam» è l’acronimo dalle iniziali di Wolfgang Amadeus Mozart: «Una parola che non ha un significato, ma un suono. Fa pensare a una vampata...» (ivi, p. V). Su un’altra turquerie mozartiana, ispirata alla guerra che Giuseppe II aveva dichiarato all’impero ottomano nel 1788, Fichtner 2008, p. 95. 62 Meyer 1974, p. 487. 63 Ivi, p. 475. 64 Cfr. C. Corradi Musi, Una curiosa eco veneziana della guerra contro il Turco in Ungheria, in Branca 1989, pp. 192-201. Stiamo ripercorrendo linee problematiche note, come dimostra il lavoro di sintesi di Quataert 2008, p. 26. 65 Quataert 2008, p. 46. 66 Ivi, pp. 480, 484; Pestelli 1979. 67 Pestelli 1979. 68 Solnon 2009, p. 320. 69 Alludiamo al suo racconto Mozart e Salieri, del 1830. 70 La vicenda che ispirò al Rossini L’italiana in Algeri, dramma musicale giocoso su libretto di Angelo Anelli, del 1813, fu quella della nobildonna milanese Antonietta Frappolli, catturata dai barbareschi nel 1805 e finita nell’harem del ‘sultano’ di Algeri. Lo stesso Anelli aveva già redatto un libretto omonimo per un’opera, anch’essa omonima, del napoletano Luigi Mosca, messa in scena nel 1808. 71 Su libretto di Felice Romani, sorta di corrispettivo-contraltare all’Italiana in Algeri. Il Romani si cimentò, nel medesimo anno, col libretto Atar, ossia il serraglio di Ormuz, ispirato alla tragedia del Beaumarchais che già aveva ispirato il Salieri, e che fu musicato dal bavarese Simon Mayr, maestro di Gaetano Donizetti.

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Note

Su libretto di Cesare della Valle. Ripresa del Maometto II su libretto di Luigi Balocchi e Alexandre Soumet. 74 Su libretto di Riccardo Bevilacqua-Aldobrandini. 75 Al Paisiello e al Rossini si è lontanamente ispirato Mario Mattoli per il film Un turco napoletano del 1953, interpretato da Antonio de Curtis, il grande Totò. 76 Grande eco riscosse invece, nel 1832, la pubblicazione de I racconti dell’Alhambra dello statunitense Washington Irving, altro caposaldo dell’orientalismo romantico. 77 Tale lavoro appartiene al sottogenere esistenziale-romantico, che traspone in un ambiente esotico, di solito asiatico, il tema della fatica e della tragedia del vivere: vi appartengono capolavori come Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi, del 1829-30, ispirato al Voyage d’Orembourg à Buchara fait en 1820 del barone russo colonnello Gyorgy Meyendorf, e vi fa riferimento gran parte della musica di Charles Camille Saint-Saëns, nella quale si avverte l’eco del grande orientalismo di Loti, di Delacroix, di de Nerval, di Flaubert, di Gautier, o quella dei musicisti russi del «Gruppo dei Cinque», soprattutto Rimskij-Korsakov, Borodin e Musorgskij. Ma – scendendo, «per li rami», molto più in basso – si giunge a popolari pièces romantico-coloniali: come la canzone Canta, carovaniere canta degli anni Trenta, che contiene versi come «solo il deserto infinito / ascolta il suo canto d’amor» e «io non avrò mai pace / questa vita è una schiavitù»; o come La saga di Giarabub, in cui le citazioni orientalistiche («a cavallo della duna sta l’antico minareto») e quelle care alla propaganda fascista («qui nessuno ritorna indietro...») si uniscono, con una certa originalità, a toni futuristi («squilli, macchine, bandiere / scoppi, sangue...»), purtroppo lontanamente ispirate al Visconti Venosta del «pipe, sciabole, tappeti, scimitarre, yagatan / odalische, minareti», che aveva già ispirato Gabriele D’Annunzio della Merope per i versi «aròmati e metalli, armenti e biade / e Berenice dalla chioma d’oro / il paradiso è all’ombra delle spade / la palma è la sorella dell’alloro». Si tratta di una moda che ha uno dei suoi capisaldi nella pièce dell’inglese Albert W. Ketelbey In a Persian market, del 1920, ironicamente canzonata, negli anni Cinquanta, tanto dall’omonima canzone del Quartetto Cetra quanto dal Caravan petrol di Renato Carosone e Gegè di Giacomo, dove già si coglievano peraltro i primi cenni alle crisi energetiche allora piuttosto lontane, ma già annunziate da chiari segni. Allo stesso filone appartengono canzoni divenute molto popolari, come Ya Mustafà e Assez de couscous, o la celebre Salma ya salama della cantante francoegiziana Dalida. 78 Quataert 2008, pp. 25-7. 79 Si pensi a giochi come la Giostra del Saracino ad Arezzo. Cfr. Saracino 1987. 80 Syndram 1996. 81 Solnon 2009, p. 308. 82 Desmet-Grégoire 1994, pp. 28-9. 83 Solnon 2009, p. 308. 84 Per la guardia giannizzera dei principi elettori di Sassonia, cfr. Im Lichte 1995, p. 322 (presentato un elmo della guardia giannizzera di Federico Augusto I, elettore di Sassonia e dal 1697 re di Polonia) e p. 333 (presentato uno stendardo della medesima guardia, blu a mezzelune e stelle a otto punte dorate, del 1730). Dal Seicento si diffusero negli eserciti europei, attraverso modelli polacchi, sciabole sul tipo della scimitarra ottomana, molto usate altresì nell’Ottocento e ancor oggi presenti come «sciabole d’onore» nelle uniformi da cerimonia dell’esercito spagnolo, di quello polacco e nel corpo statunitense dei Marines. Un altro effetto del fascino esercitato dal mondo ottomano sugli eserciti europei è costituito dall’uniforme e soprattutto dal cosiddetto fez, il copricapo degli zuavi francesi, dopo la guerra di 72 73

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Crimea del 1854-1856 adottato anche dai bersaglieri italiani, dai quali passò anche – cambiando il colore dal rosso al nero – ai reparti di arditi della prima guerra mondiale e da lì alla milizia fascista. 85 Solnon 2009, p. 309. Una gran bella prova di apertura mentale, da parte del duro e rigoroso prussiano, se si pensa che due secoli più tardi un altro militare-statista, il generale Francisco Franco y Bahamonde, non permise mai alla sua pur diletta «Guardia mora» di aprire nei suoi quartieri madrileni una vera e propria moschea. 86 Il che è dal punto di vista propriamente etimologico un ossimoro. I berberi sono propriamente gli abitanti di quello che in arabo è il Maghreb, parola che significa «occidente»: in effetti, la cultura arabo-maghrebina dell’Africa nord-occidentale e della penisola iberica viene sovente indicata come l’«Occidente dell’Oriente». 87 F. Moureau, Préface a Apostolou 2009, p. 11. 88 Cfr. Savies 1911. 89 Lungo elenco in Desmet-Grègoire 1994, pp. 55-86. 90 Desmet-Grègoire 1994, pp. 87-122. 91 Desmet-Grégoire 1994, pp. 25-41.

Epilogo 1 Per il «mito» di Poitiers, fondato da Edward Gibbon secondo il quale senza la vittoria di Carlo Martello «forse oggi nelle scuole di Oxford si insegnerebbe il Corano e dai suoi pulpiti si mostrerebbe a un popolo circonciso la santità e la verità della rivelazione di Maometto», cfr. le lucide osservazioni di Angelucci 2007 e la densa monografia di Guemriche 2010. 2 Per cui è ora indispensabile Barbero 2010.

Bibliografia

Sigle e abbreviazioni

AAF Archivio Arcivescovile di Firenze. AKÖG «Archiv für Kunde österreichischer Geschichtsquellen». Archivio di Stato di Firenze. ASF ASI «Archivio Storico Italiano». ASL Archivio di Stato di Lucca. ASM Archivio di Stato di Milano. ASMs Archivio di Stato di Massa. Archivio di Stato di Roma. ASR ASV Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano. Archivio di Stato di Venezia. ASVe BAV Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano. BCMCV Biblioteca del Civico Museo Correr, Venezia. Biblioteca Corsiniana, Roma. BCR BMAVW «Berichte und Mitteilungen des Altertums-Vereins zu Wien». Biblioteca Marucelliana, Firenze. BMF BML British Museum, London. BMLF Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze. BNCF Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze. BNF Bibliothèque Nationale de France, Paris. BNMV Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia. BSL Biblioteca Statale, Lucca. Biblioteca Universitaria, Bologna. BUB FRA Fontes Rerum Austriacarum. HHSA Haus- Hof- und Staatsarchiv, Wien. HKA Hofkammer Archiv, Wien. JVGSW «Jahrbuch des Vereins für Geschichte der Stadt Wien». KKKA K.u.k. Kriegsarchiv, Wien. MAE, CP Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Paris Correspon­ dance Politique. MBR Magnum Bullarium Romanum. Md’A P. Marco d’Aviano, Corrispondenza epistolare, a cura di p. Arturo Maria da Carmignano di Brenta O.F.M. Capp., 5 voll., Abano Terme-Venezia 1986-1991.

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MH «Mitteilungen des k.u.k. Heeresemuseums». MIÖG «Mitteilungen des Instituts für österreichischen Geschichts­ forschung». MKKK «Mitteilungen des k.u.k. Kriegesarchivs». MOL Magyar Országos Levéltár, Budapest. MÖS «Mitteilungen des Österreichischen Staatsarchivs». «Osmanische Geschichtsschreiber». OG ÖN Österreichische Nationalbibliothek, Wien. RHM «Römische Historische Mitteilungen». RIHM «Revue Internationale d’histoire militaire». RQH «Revue des questions historiques». SOAS School of Oriental and African Studies Library, London. ZGADA Zientralny Gosudarstvienny Archiv Drievnik Aktov, Moskvà.

Fonti

Avvertenza Né la sezione dedicata alle Fonti, né quella che segue dedicata agli Studi, hanno pretesa di sistematicità e meno ancora di esaustività. Ci siamo in entrambi i casi limitati a indicare il materiale che ci è direttamente servito in questo libro e che è in gran parte richiamato nelle note che lo corredano. Per la problematica euristica e storiografica in generale, rimandiamo alla Nota critica. Dato il numero delle opere consultate, abbiamo scelto di utilizzare nelle note il rinvio compendioso (Autore/-i data), salvo casi di fonti o di studi citati casualmente e marginalmente ma che, non avendo alcun rapporto diretto con l’oggetto di questo libro, non sono stati inseriti né nell’elenco delle fonti, né nella bibliografia, ma vengono volta per volta citati in extenso nelle note relative. Il lettore dovrà tenere conto che i rinvii compendiosi sono volta per volta «sciolti» sia nella sezione Fonti, sia in quella Studi: ciò procurerà loro l’obiettivo disagio di doverle consultare entrambe, quando si tratterà di voler compiutamente intendere i rinvii delle note. Per ovviare a tale disagio si sarebbero dovuti confondere fonti e studi in un unico promiscuo e lunghissimo elenco: il che non è sembrato né consigliabile, né opportuno.

1. Fonti documentarie inedite Austriache e germaniche HHSA: C. von Böhm, Die Handschriften des Haus-Hof- und Staatsarchiv, Wien 1873. HKA: Handschriftensammlung, Ms. 382, Cardinal Leopold Kollonicz, Das Einrichtungswerck des Königsreichs Ungarn, 1688. ON: Tabulae codicum manuscriptorum, praeter Graecos et Orientales, in Bibliotheca palatina Vindobonensi asservatorum, 10 voll., Wien 186499, continuato come Katalog der abendländischen Handschriften der österreichischen Nationalbibliothek, ivi 1965.

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Bibliografia

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Cronologia 1645-1718

1645 23.4. Inizia la guerra tra l’impero ottomano e Venezia per l’isola di Candia. Accordo fra György Rákóczi I e l’imperatore Ferdinando III. In Inghilterra, la New Model Army di Cromwell sconfigge nella battaglia di Naseby le truppe della corona. 1647 A Napoli rivolta di Masaniello. Muore il matematico e fisico Evangelista Torricelli (1606-1447). 1648 6.8.-24.10. Paci di Westfalia e fine della Guerra dei Trent’Anni (1618-48). In Francia «fronda parlamentare». Nell’impero ottomano, muore il sultano Ibrahim (1640-1648); sale al trono sultaniale suo figlio Mehmet IV, bambino di sei-sette anni (16481687), sotto la reggenza della valideh sultan Kösem, sua madre. Blocco navale veneziano ai Dardanelli, 1648-1656. György II Rákóczi è eletto principe di Transilvania, succedendo al padre. Giovanni Casimiro (1648-1668) succede a Ladislao IV sul trono di Polonia. 1649 Rivolta dei cosacchi contro la Polonia. In Inghilterra, viene decapitato re Carlo I e avviato l’esperimento repubblicano del Commonwealth. Massacro dei cattolici irlandesi. 1650 In Francia la «fronda parlamentare» è soffocata dal principe di Condé; «fronda dei principi». Inizio della conquista di Giava da parte degli olandesi. Pubblicazione della Musurgia universalis di Athanasius Kirchner (16011680). 1651 In Inghilterra Oliver Cromwell fa approvare l’«Atto di Navigazione», che vieta l’importazione di merci se non su navi inglesi. I persiani conquistano Mascate. Fine del controllo portoghese sul Golfo Persico. Thomas Hobbes (1588-1679) pubblica il Leviathan. Pubblicazione degli studi embriologici di W. Harvey, De generatione animalium.

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Cronologia 1645-1718

1652 Il Mazarino e il Turenne sconfiggono la «fronda dei principi». Guerra anglo-olandese per il commercio marittimo (1652-1654). Gli olandesi fondano la Colonia del Capo presso il Capo di Buona Speranza. Il Bernini scolpisce L’Estasi di santa Teresa. 1653 Riforme militari di Federico Guglielmo I del Brandeburgo. Dittatura personale di Oliver Cromwell in Inghilterra (1653-1658). Il Dalai Lama a Pechino per la cerimonia di investitura della dinastia Manciù. Trattato dell’equilibrio dei liquidi di Blaise Pascal. 1654 Fine della prima guerra anglo-olandese: gli olandesi costretti ad accettare l’«Atto di Navigazione». Muore il re dei Romani Ferdinando IV. Abdicazione di Cristina di Svezia; le succede Carlo X Gustavo, suo cugino. Crollo dell’impero olandese in Brasile. Blaise Pascal accolto a Port Royal. 1655 Leopoldo I re di Boemia e d’Ungheria. Prima «Guerra del Nord». Carlo X di Svezia alleato con la Prussia invade la Polonia. Muore papa Innocenzo X (Giambattista Panfili). Alessandro VII (Fabio Chigi) papa. Muoiono Cyrano de Bergerac (1619-1655) e Pierre Gassendi (1592-1655). 1656 26.6. Vittoria navale dei veneziani ai Dardanelli e morte dell’ammiraglio Lorenzo Marcello. Alleanza della Polonia con l’impero. Nominato gran visir Mehmet Köprülü (1656-61). Il cardinale Pietro Sforza Pallavicino pubblica la Istoria del concilio di Trento. Pascal pubblica le Lettere provinciali. Spinoza allontanato dalla comunità israelitica di Amsterdam. 1657 2.4. Muore l’imperatore Ferdinando III. 17-19.7. Battaglia navale degli Stretti e vittoria di Venezia; morte di Lazzaro Mocenigo. Ripresa delle ostilità austro-svedesi in Polonia; alleanza della Polonia con la Danimarca. Alleanza tra Francia e Inghilterra contro la Spagna. Col trattato di Wehlau la Prussia si rende indipendente dalla Polonia. L’invasione transilvana della Polonia è fermata a Trembowni. Bernini avvia la costruzione del colonnato di piazza San Pietro. A Firenze, gli allievi di Galileo fondano l’Accademia del Cimento. 1658 Leopoldo I (n. 1640), figlio di Ferdinando III, è re di Germania, «dei Romani» e quindi imperatore.

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Si stipula la Lega renana. Il Turenne vince gli spagnoli nella «battaglia delle Dune» presso Dunkerque. Con l’Unione di Hadziacz si stabilisce che la res publica Polonorum sia distinta nel regno di Polonia, nel granducato di Lituania e nel principato di Rutenia. In India Aurangzeb (1658-1707) sale sul trono del Gran Moghol. Muore Oliver Cromwell. 1659 Filippo IV di Spagna firma la pace dei Pirenei. Gli ottomani intervengono in Transilvania. 1660 Luigi XIV re di Francia sposa sua cugina l’Infanta Maria Teresa d’Austria, figlia di Filippo IV di Spagna e della sua prima moglie Elisabetta, sorella di Luigi XIII di Francia. Muore György II Rákóczi. János Kemény, principe di Transilvania, invade il territorio ungherese. Paci di Oliva e di Copenhagen: la Svezia ottiene dalla Polonia i territori del Baltico e dalla Danimarca la parte meridionale della penisola scandinava, il Brandeburgo la sovranità sulla Prussia orientale. Il parlamento inglese invita Carlo Stuart a venir incoronato come Carlo II. A Londra viene fondata la Royal Society. Marcello Malpighi scopre i capillari sanguigni. 1661 A Istanbul, alla morte di Mehmed, è nominato gran visir suo figlio Fazil Ahmet Köprülü (1661-76). Intervento imperiale in Transilvania. In Francia, muore il cardinal Mazarino; Luigi XIV designa Jean-Baptiste Colbert ministro delle finanze. Trattato di Kardis tra Russia e Svezia: alla prima va l’Ucraina, alla seconda Livonia ed Estonia. André Le Nôtre (1613-1700) sistema definitivamente i giardini delle Tuileries e di Versailles. J. Ewelyn scrive il trattato Fumifugium sui mezzi per diminuire l’inquinamento atmosferico a Londra. Ad Hangkow in Cina muore il missionario gesuita Martino Martini (1614-1661), uno dei fondatori della sinologia. 1662 Gli ottomani prendono Oradea. Alla morte di Kemény, Mihály Apafi principe di Transilvania. In Polonia rivolta militare contro re Giovanni Casimiro. Carlo II d’Inghilterra cede alla Francia Dunkerque per 400.000 sterline. Alleanza anglo-portoghese. In Cina, con l’imperatore K’ang-Hsi (1662-1722), inizia la dinastia Manciù. 1663 In seguito alla confusa situazione transilvana, il sultano Mehmet IV (1648-87) attacca i territori austriaci. Presa di Neuhäusel (Ersekujvar).

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Cronologia 1645-1718 L’imperatore Leopoldo sollecita a Ratisbona l’aiuto della dieta imperiale contro gli ottomani. Il Canada diviene possesso diretto della Corona di Francia.

1664 20.7. L’armata ottomana del Settentrione è battuta presso Levencz. 1.8. Nella battaglia di Szent-Gotthard-Mogersdorf sul fiume Raab, Raimondo Montecuccoli generale degli imperiali batte gli ottomani. 10.8. Viene stipulata la pace di Vasvár (Eisenburg). Colbert promuove la fondazione della Compagnia francese delle Indie Occidentali e introduce la prima tariffa protezionistica. Seconda guerra navale tra Olanda e Inghilterra (1664-67); nel Nuovo Mondo, gli inglesi strappano agli olandesi la colonia di Neuwe Amsterdam, ribattezzandola New York. Molière rappresenta Tartuffe. 1665 Il «palatino» d’Ungheria, Wesselényi, protesta nella dieta ungherese contro la pace di Vasvár in seguito alla quale alcune fortezze ungheresi sono state cedute agli ottomani. In Spagna, muore Filippo IV; gli succede il quattrenne Carlo II, che fino al 1676 regna sotto la reggenza della madre Maria Anna d’Austria. Jan Sobieski reprime una rivolta di cosacchi. A Parigi, Molière rappresenta il Don Juan. 1666 Congiura dei magnati ungheresi. I cosacchi del Volga contro lo czar. Leopoldo I d’Asburgo sposa sua cugina l’infanta Margherita Teresa, figlia di Filippo IV e di Maria d’Austria nonché sorella di Carlo II di Spagna. La Francia si allea all’Olanda nella guerra navale e attacca l’Inghilterra alle Antille. A Parigi, prima rappresentazione del Misanthrope di Molière e fondazione dell’Accademia Reale delle Scienze. 1667 Guerra «di devoluzione» tra Francia e Spagna per le Fiandre spagnole (che Luigi XIV pretende in quanto possesso ereditario della moglie Maria Teresa d’Austria). 31.11. La pace di Breda tra Inghilterra, Francia e Olanda conclude la seconda guerra navale. Con la tregua di Andruszów (Andrusov) si conclude la guerra tra Russia e Polonia. Alla morte di Alessandro VI viene eletto papa Giulio Rospigliosi (Clemente IX: 1667-1669). 1668 Maggio: pace di Aquisgrana, che chiude la guerra «di devoluzione» franco-spagnola con la rinunzia della Francia alle pretese sulle Fiandre. Giovanni Casimiro di Polonia abdica. Luigi XIV nomina ministro della guerra François-Michel Le Tellier marchese di Louvois (1641-1691), grande riformatore dell’esercito francese. Gli inglesi conquistano Bombay.

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1669 6.9. Fine della «guerra di Candia». 26.9. Completato il ritiro dei veneziani da Candia. Michele Korybut Wisniowiecki eletto re di Polonia. Comincia la pubblicazione delle Fables di Jean de La Fontaine (1621-95). Lo scrittore tedesco Hans Jacob Grimmelshausen (1620-1676) pubblica il romanzo Simplicissimus. 1670 Leopoldo I caccia gli ebrei da Vienna. Rivolta in Ungheria e in Croazia. Luigi XIV occupa la Lorena. Emilio Altieri eletto papa col nome di Clemente X (1670-1676). Prima rappresentazione de Il Borghese Gentiluomo di Molière. Pascal pubblica I pensieri. Raimondo Montecuccoli pubblica gli Aforismi dell’arte bellica. 1671 Esecuzione a Wiener Neustadt dei magnati ungheresi che avevano congiurato contro il potere asburgico. In Ucraina i russi soffocano la rivolta dei cosacchi. Nel Mar dei Caraibi inizia l’attività corsara di sir Henry Morgan contro le navi spagnole. John Milton pubblica Il Paradiso riconquistato. Costruzione del telescopio di Newton. Athanasius Kirchner descrive la lanterna magica. 1672 Agosto. l’armata ottomana accorsa in aiuto dei cosacchi ucraini penetra in Polonia e occupa la Podolia: guerra turco-polacca (1672-76). Appello della Russia a Inghilterra, Francia e Spagna per un’azione contro «il comune nemico della Cristianità». Luigi XIV, stipulata un’alleanza con Inghilterra e Svezia, aggredisce l’Olanda. Guerra franco-olandese. Gli olandesi eleggono Guglielmo d’Orange statholder a vita; apertura delle dighe per ostacolare l’avanzata delle truppe francesi. In Inghilterra è fondata la Royal African Company of England per la tratta dei negri in America. Prima rappresentazione del Bajazet di Racine. Samuel Pufendorf pubblica De iure naturae et gentium libri octo. 1673 Dichiarazione di guerra dell’impero alla Francia. Nell’Ungheria regia, inizia la rivolta dei «Malcontenti». Morte dell’imperatrice Margherita Teresa; Leopoldo I sposa sua cugina Claudia Felicitas. Armistizio turco-polacco di Buczacz, respinto dalla dieta polacca; nella ripresa del conflitto, il generale in capo dell’armata polacca Jan Sobieski batte i turchi a Chocim. Guglielmo d’Orange stringe alleanza con Danimarca, Spagna e impero contro la Francia. Il parlamento inglese approva il Test Act, che obbliga i pubblici funzionari a giurare fedeltà alla Chiesa anglicana.

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Cronologia 1645-1718 I padri gesuiti Jolliet e Marquette esplorano la valle del Mississippi. Molière muore a Parigi mentre recita Il malato immaginario. G.W. Leibniz costruisce la prima calcolatrice.

1674 Alleanza tra impero, Province Unite, Spagna, Danimarca e Brandeburgo contro la Francia. A Messina rivolta antispagnola per ragioni fiscali, appoggiata dal Re Sole. In Polonia è eletto re Jan Sobieski (Giovanni III, 1674-1696). Guerra tra Svezia e Danimarca. Trattato di Westminster: l’Inghilterra ottiene il possesso delle colonie olandesi nel Nordamerica; viene sciolta la Compagnia olandese delle Indie Occidentali. Rappresentata a Parigi la tragedia Ifigenia in Aulide di Racine; il critico Nicolas Boileau-Despréau pubblica L’Art poëtique, esposizione canonica del classicismo. Marcello Malpighi pubblica l’Anatomia plantarum. 1675 27.6: nella battaglia di Fehrbellin, Federico Guglielmo I di BrandeburgoPrussia sconfigge gli svedesi, alleati della Francia. Vittoria navale francese su spagnoli e olandesi davanti a Palermo. Morte del Turenne. Pubblicata la Guida spirituale di Miguel de Molinos (1628-96). Fondazione dell’osservatorio di Greenwich. 1676 Muore l’imperatrice Claudia Felicitas; terzo matrimonio di Leopoldo I con Eleonora di Pfalz-Neuburg. Gennaio: avviate le trattative di pace di Nimega (vedi 1678-1679). Settembre-ottobre: eletto e incoronato papa Innocenzo XI (Benedetto Odescalchi: 1676-89). Ottobre: armistizio turco-polacco a Zurawno. Kaminiec annessa alla Podolia. Novembre: nell’impero ottomano, Kara Mustafa nominato gran visir. Fëdor III succede ad Alessio I come czar di Russia (1676-1782). 1677 Guerra russo-ottomana per l’egemonia in Ucraina. Jan Sobieski denuncia il trattato di Jaworow e sigla un trattato con l’impero. Matrimonio fra Gugliemo d’Orange e Maria di York. Fondazione della colonia francese del Senegal. Prima rappresentazione della Fedra di Racine. 1678 Pace ottomano-polacca di Istanbul, che conferma le conquiste ottomane in Polonia, Podolia e Ucraina. Festeggiamenti a Vienna per la nascita del figlio maschio primogenito dell’imperatore, l’arciduca Giuseppe. In Ungheria il luterano Imre Thököly, capo della rivolta antiasburgica dei «Malcontenti», o kurocok, che dispone già dell’appoggio della Francia e della Polonia, chiama in soccorso gli ottomani. La dieta ungherese racco-

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manda d’intraprendere negoziati con i «Malcontenti», ma il presidente della camera dei conti d’Ungheria e il cancelliere d’Austria rifiutano. Gli ottomani prendono ai Russi la città di Tchiguirin. In Francia, Marie-Madeleine de la Fayette (1634-1693) pubblica La princesse de Clèves, considerato il primo romanzo psicologico moderno. Il francese Robert de la Salle esplora la regione dei Grandi Laghi americani. 1678-79 Trattati di Nimega in Olanda tra Francia, Olanda e Svezia a conclusione della guerra di devoluzione dei Paesi Bassi spagnoli (1667-68) e di quella franco-olandese che le era tenuta dietro (1672-78) coinvolgendo anche Inghilterra, impero, Brandenburgo e Svezia. In seguito a queste paci la Spagna cede alla Francia la Franca Contea e altre città in cambio di Charleroi, Courtrai, Limburgo, Gand e altri centri; Luigi XIV abbandona Messina alla rappresaglia spagnola; l’imperatore cede alla Francia Freiburg in Breisgau; a Carlo V duca di Lorena viene offerta la restituzione del suo ducato, passato sotto la dominazione francese nel 1670, ma a tali condizioni ch’egli rifiuta d’accettare. 1679 Scoppio dell’epidemia di peste a Vienna. Pace di Saint-Germain en Laye in conseguenza della quale il Grande Elettore Federico Guglielmo del Brandeburgo, obbligato ad abbandonare la Pomerania occidentale con Stettino e amareggiato per la politica imperiale, non ostacola la «politica di riunione» di Luigi XIV; pace di Lund tra Danimarca e Svezia. Il Vauban inizia la costruzione delle grandi fortezze confinarie del regno di Francia e il Mansart riceve dal Re Sole l’incarico della sistemazione della reggia di Versailles. 27 maggio: emanazione dell’Habeas corpus act in Inghilterra. 1680 Inizio della politica delle «Camere di Riunione». Dragonnades di Luigi XIV contro gli ugonotti, molti dei quali emigrano dalla Francia. Rivolte contadine in Boemia. Fondato a Parigi il teatro della Comédie Française. Muore a Roma Gian Lorenzo Bernini. Muore Athanasius Kirchner. 1681 11.2. Trattato di Bahçisarai fra il sultano e lo czar di Russia per un equilibrio nell’area a nord del Mar Nero (la Russia ottiene gran parte dell’Ucraina ottomana). Truppe ottomane inviate dal pas¸a di Buda in appoggio a Imre Thököly, capo degli insorti ungheresi nell’area del paese controllata dagli Asburgo. Luigi XIV si annette Strasburgo. Attacco navale francese contro l’isola di Chio, controllata dagli ottomani. Muore a Madrid Pedro Calderón de la Barca. Jean Mabillon (1632-1707) pubblica il De re diplomatica. 1682 19.3. Luigi XIV fa approvare dai vescovi francesi i «Quattro Articoli» redatti dal vescovo di Meaux Jacques-Bénigne Bossuet sull’indipendenza

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Cronologia 1645-1718 della Chiesa gallicana e la limitazione dell’autorità pontificia in rapporto ai concili; tali Articoli sono condannati da papa Innocenzo XI (1676-1689). 6.5. Luigi XIV s’insedia nella nuova reggia di Versailles. Luglio: Imre Thököly si appella agli ottomani e si riconosce vassallo del sultano. 6.8. Riunione a Istanbul nel Gran Palazzo di Topkapi del governo turco: trionfa la linea politica del gran visir Kara Mustafa che sostiene la necessità di rompere il trattato di pace con l’impero romano-germanico prima della sua scadenza, cioè prima del 1684. 11.8. A Laxenburg presso Vienna i consiglieri di Leopoldo I lo esortano a rinnovare il trattato di pace con la sublime Porta, in procinto di scadere. 15.8. Imre Thököly proclamato «principe d’Ungheria» come vassallo del sultano; attacchi dei «Malcontenti» in Moravia e Slesia. Settembre: il re di Polonia accetta il principio di un’alleanza con l’impero. 7.9. il gran visir passa in rassegna l’esercito ottomano. 8.(o 12.)10. Partenza del sultano da Istanbul, formalmente diretto a Edirne per una partita di caccia. 19.10. Il gran visir con il grosso dell’armata ottomana parte da Istanbul. Novembre: armistizio tra l’impero e i «Malcontenti» ungheresi (sarà rotto il 18.6. 1683). Dicembre: l’armata ottomana si accampa in Edirne (fino al marzo 1683). La corte francese di Luigi XIV si trasferisce nella nuova reggia di Versailles. In Russia è czar Pietro I Romanov insieme col fratellastro Ivan V. L’inglese E. Halley determina l’orbita della cometa che porterà il suo nome. I coloni francesi di Robert de la Salle raggiungono la foce del Mississippi e fondano la colonia chiamata Louisiana).

1683 Assedio di Vienna (cfr. in calce la Cronologia dell’anno 1683). 1684 2.3. Il re di Polonia e il duca di Lorena s’incontrano a Vasvár; posposto l’attacco a Neuhäusel. 5.3. Istituita a Linz la Santa Lega tra papa, impero, Polonia e Venezia contro l’impero ottomano (giurata il 24.5). 24.5. Ratifica della Lega. Invasione imperiale dell’Ungheria e presa di Pest. Luigi XIV occupa il Lussemburgo e rafforza il suo confine orientale con una serie di fortezze disegnate dal Vauban. 14.7.-4.11. Gli alleati assediano invano Buda. 19.7. Lega d’Augusta. 15.8. Tregua di Ratisbona con la quale l’imperatore, impegnato nel conflitto contro gli ottomani, accetta le correzioni territoriali di confine proposti dalle «Camere di Riunione» francesi. Nasce il secondo figlio di Leopoldo I, l’arciduca Carlo. Bombardamento francese di Genova. Muore a Parigi Pierre Corneille. G.W. Leibniz (1646-1716) pubblica le Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee e Il nuovo metodo per la determinazione dei massimi e dei minimi.

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1685 19.8. Gli imperiali occupano Neuhäusel. 16.10. Vittoria presso Gran. 18.10. Revoca dell’editto di Nantes, in conseguenza del quale mezzo milione di ugonotti emigra dalla Francia, principalmente alla volta dell’Olanda e del Brandeburgo. In Inghilterra muore Carlo II e gli succede il fratello Giacomo II. Nascono Johann Sebastian Bach (m. 1750), Georg Friedrich Händel (m. 1759) e Domenico Scarlatti (m. 1757). 1686 9.7. «Lega di Augusta» stipulata tra impero, Inghilterra, Spagna, Svezia, Sassonia, Palatinato, Brandeburgo, per contrastare le mire espansionistiche di Luigi XIV, che avanza pretese sul Palatinato sulla base dei diritti della cognata Elisabetta Carlotta. 2.9. L’esercito imperiale guidato da Carlo V di Lorena riconquista Buda. 19.10. Gli ottomani battuti a Szeged. Conferma della tregua di Andrussovo: Kiev ceduta alla Russia. La Russia aderisce alla Santa Lega. Mihály Apafi, principe di Transilvania, vassallo di Leopoldo I. Conversazioni sulla pluralità dei mondi di Bernard Le Bovier de Fontenelle (1657-1747). 1687 12. (o 16.) 8. Battaglia di Harsány: Carlo V di Lorena e Ludovico di Baden, spalleggiati da Eugenio di Savoia, vincono sui turchi. 31.10. La dieta ungherese di Presburgo riconosce agli Asburgo il diritto ereditario alla corona d’Ungheria. Viene deposto il sultano Mehmed IV; gli succede il fratello Suleyman II (1687-1691). Mustafa Köprülü gran visir. I veneziani guidati da Francesco Morosini strappano ai turchi Atene (distruzione del Partenone) e conquistano la penisola di Morea. Corinto viene presa in agosto. Vittorio Amedeo II duca di Savoia (1675-1730) aderisce alla Lega di Augusta. Pubblicati i Philosophiae naturalis principia mathematica di Isaac Newton. A Parigi muore il musicista Jean-Baptiste Lully (il fiorentino Giovan Battista Lulli): era nato nel 1632. 1688 6.7. Massimiliano Emanuele principe elettore di Baviera conquista Belgrado. 20.8. Ha inizio la guerra detta della «Lega di Augusta» con la dichiarazione di guerra da parte della Francia all’impero e l’invasione del Palatinato (tale guerra è detta anche «dei Nove Anni», 1688-1697). Giacomo II d’Inghilterra abbandona il paese e si ritira in Francia. In Francia, Jean de la Bruyère (1645-1696) pubblica Les caractères, Charles Perrault (1628-1703) Le siècle de Louis le Grand, testo fondamentale nella querelle des anciens et des modernes, e il benedettino P. Perignon ottiene il primo vino di champagne bianco da uve nere.

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1689 Fine della rivolta di Thököly. Protettorato austriaco sulla Transilvania. Lo czar Pietro I accede alla «Santa Lega» contro i turchi. Il parlamento inglese dichiara decaduto Giacomo II e proclama sovrani sua figlia Maria Stuart e il di lei marito Guglielmo III d’Orange, che s’impegnano a rispettare i 22 articoli del Bill of Rights: è la Glorious Revolution. L’Olanda aderisce alla Lega di Augusta. Il Palatinato viene devastato dai francesi (distruzione di Worms, della necropoli imperiale del duomo di Spira, del castello di Heidelberg). 6.9. Trattato di Nercinsk tra Russia e Cina per la definizione delle frontiere. Muoiono papa Benedetto XI e Cristina di Svezia. Gli austriaci in Kosovo; i russi in Crimea. Fazil Mustafa Köprülü gran visir (1689-91). Riforma fiscale nell’impero. Controffensiva ottomana 1689-90. 1690 L’arciduca Giuseppe eletto re dei romani. 11.7. Nella battaglia di Boyne, in Irlanda, Guglielmo III sconfigge le forze stuardiste. 8.10. Gli ottomani riconquistano Belgrado (in seguito anche Bulgaria, Serbia e Transilvania). Pietro I (1672-1725) incoronato czar di Russia. L’architetto Johann Fischer von Erlach (1656-1732) progetta a Vienna il castello di Schönbrunn. John Locke pubblica il Saggio sull’intelletto umano. 1691 Muore o viene deposto il sultano Suleyman II; gli succede il fratello Ahmed II (1691-1695). 19.8. Ludovico Guglielmo del Baden (Türkenlouis) vince gli ottomani guidati dal gran visir Mustafa Köprülü presso Slankamen. L’Irlanda sottoposta alla sovranità inglese. Antonio Pignatelli eletto papa col nome di Innocenzo XII (1691-1700). Muore Robert Boyle (1627-1691), fondatore della chimica moderna. 1692 Battaglia navale presso La Hougue (Cap Barfleur) tra francesi e angloolandesi: la nuova flotta del Re Sole vi viene battuta. L’Hannover diviene elettorato. Bolla papale per limitare il nepotismo. 1693 Nell’intento di riavvicinarsi al papato, Luigi XIV sconfessa la dichiarazione dei «Quattro Articoli» promulgati nel 1682, redatti dal Bossuet, con i quali si proclamava l’indipendenza della Chiesa gallicana e che erano stati condannati da Innocenzo XI. 29.7. I francesi sconfiggono a Neerwinden, nei Paesi Bassi spagnoli, le truppe di Guglielmo III d’Inghilterra. 1694 6.1. Francesco Morosini muore a Nauplia. Le truppe francesi invadono la Spagna. Ha inizio in Brasile l’estrazione di grandi quantità d’oro. Viene fondata la Banca d’Inghilterra.

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Muore il medico e naturalista Marcello Malpighi (n. 1628). Nasce François-Marie Arouet, meglio noto con lo pseudonimo di Voltaire. Muore Maria II, regina d’Inghilterra. 1695 Nell’impero ottomano, alla morte di Ahmet II, gli succede Mustafa II (1695-1703), figlio di Mehmet IV. Prima rappresentazione di The Indian Queen di Henry Purcell. 1696 17.6. Morte di Giovanni III di Polonia; si contendono il trono ereditario polacco Federico Augusto II elettore di Sassonia appoggiato dall’impero e Stanislaw Leczinski (o il principe de Conti) appoggiato dalla Francia. 29.8. Vittorio Amedeo II firma la pace separata con Luigi XIV e ottiene in cambio Pinerolo e il ritiro dei francesi da Casale. Pietro I conquista Azov sul Mar Nero, strappandola al khanato tartaro di Crimea. 1697 11.9. Eugenio di Savoia nella battaglia di Zenta in Vojvodina (Ungheria: oggi Serbia) trionfa sul sultano Mustafa II. 20.9. Pace di Rijswijk che chiude la guerra «dei Nove Anni», o della «Lega di Augusta»: la Francia deve rinunziare a tutte le conquiste e le annessioni compiute dopo la pace di Nymegen, a eccezione di Strasburgo, e deve riconoscere Guglielmo III d’Orange come re d’Inghilterra. In Polonia è eletto re il duca di Sassonia Federico Augusto II, che si converte al cattolicesimo; l’unione personale delle corone sassone e polacca si manterrà fino al 1763. Pietro il Grande inizia il viaggio in Occidente. Muore in Svezia Carlo XI: sale al trono Carlo XII. In Francia, Pierre Bayle (1647-1706) pubblica il Dizionario critico-storico e Charles Perrault I racconti di Mamma Oca. 1698 Il sultano nomina gran visir Husayn Köprülü (1698-1702). Pietro I di Russia elimina il corpo della guardie degli strelzi e avvia la riforma generale dell’esercito e della marina. Alleanza franco-svedese. 1699 26.1.-21.2. Pace di Carlowitz: l’impero ottomano restituisce all’Austria quasi tutta l’Ungheria e la Transilvania (Siebenbürgen), fatta eccezione per il banato di Temesvár (Timis¸oara), la Croazia e la Slovenia; riconosce Azov alla Russia; la Morea, alcune isole dell’Egeo e parte della costa dalmata a Venezia, la Podolia e l’Ucraina meridionale alla Polonia. Alleanza segreta polacco-danese. François Fénelon (1651-1715) pubblica il romanzo Le avventure di Telemaco. 1700 2.10. Carlo II di Spagna designa per testamento suo successore Filippo di Borbone duca d’Angiò nipote di Luigi XIV, a condizione che le corone di Francia e di Spagna non vengano unite. 1.11. Morte di Carlo II di Spagna.

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Cronologia 1645-1718 Pace russo-turca che conferma il controllo russo di Azov. Russia, Sassonia-Polonia e Danimarca attaccano la Svezia; Carlo XII di Svezia sconfigge le truppe russe il 30 novembre a Narva nel golfo di Finlandia: è l’inizio della grande «Guerra del Nord». Giovan Francesco Albani eletto papa col nome di Clemente XI (17001721).

1701 La Francia ottiene dalla Spagna l’asiento de negros, cioè il monopolio nel commercio degli schiavi per l’America. 16 novembre: Filippo di Borbone è re di Spagna con l’appoggio dello zio Luigi XIV. Inizia la guerra di successione spagnola. Federico Guglielmo III di Hohenzollern, principe elettore del Brandeburgo, ottiene dall’imperatore Leopoldo I il titolo di «re di Prussia», assumendo il nome di Federico I. 1702 Carlo XII invade la Polonia e occupa Varsavia e Cracovia. Nelle Cévennes, ribellione dei contadini ugonotti detti camisards. Morte di Guglielmo III d’Orange (19.3). Anna I regina d’Inghilterra. La coalizione dichiara guerra alla Francia (15.6). A Londra pubblicato il primo quotidiano, «The Daily Courant». 1703 Ribellione militare nell’impero ottomano: viene deposto Mustafa II; sale al trono sultaniale suo fratello Ahmed III (1703-1730). Nuova ribellione ungherese guidata da Ferenc II Rákóczi. Vittorio Amedeo II duca di Savoia si unisce all’alleanza antifrancese e caccia i francesi da Casale. Trattato di Methuen tra Inghilterra e Portogallo, che entra a far parte della coalizione antiborbonica. Fallimento della banca Oppenheimer. Pietro il Grande dà inizio alla costruzione della nuova capitale Pietroburgo. Nasce Abd al-Wahab, fondatore dei wahabiti. Antonio Vivaldi viene ordinato prete ed entra nell’ospedale della Pietà a Venezia. 1704 Le truppe francesi invadono il Piemonte. Gli inglesi occupano Gibilterra. Stanislaw Leszczyn´ski eletto re di Polonia: elezione effimera. Battaglia di Blenheim (13.8): fine della fase espansiva del regno di Luigi IX. Isaac Newton pubblica Ottica. 1705 Muore l’imperatore Leopoldo I; gli succede suo figlio Giuseppe I (170511). John Locke completa le Lettere sulla tolleranza. A Londra viene fondato Buckingham Palace. Bolla di condanna del giansenismo (15.7).

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1706 7.9. Battaglia di Torino. Gli austro-piemontesi guidati da Eugenio di Savoia cacciano i francesi dal Piemonte. L’architetto Mansard completa a Parigi la cupola dell’Hôtel des Invalides. 1707 Gli imperiali conquistano la Lombardia e Napoli. Definitiva unione d’Inghilterra e Scozia con il nuovo nome di Gran Bretagna. Pietro il Grande invade la Polonia. Nasce a Venezia Carlo Goldoni (m. 1793). D. Papin collauda il primo battello a vapore, distrutto dai battellieri che ne temono la concorrenza. 1708 Attacco congiunto di Carlo XII di Svezia e del capo cosacco Mazeppa (1644-1709) contro Pietro I di Russia. 11.7. Battaglia di Oudenaarde; le truppe di Marlborough e di Eugenio di Savoia sconfiggono i francesi. 1709 La Prussia interviene nella guerra contro la Svezia; nella battaglia di Poltava in Ucraina (8 luglio), le truppe russe vincono quelle svedesi. Carlo XII di Svezia si rifugia in territorio ottomano. 11.9. Battaglia di Malplaquet. Vittoria della coalizione antifrancese, ma con ingenti perdite che inducono Eugenio di Savoia ad abbandonare il progetto di invadere la Francia. A Parigi, Luigi XIV ordina la distruzione del monastero di Port-Royal, centro propagatore del giansenismo. Inizio in Inghilterra dell’uso del carbone coke nella fusione dei minerali di ferro. Casuale scoperta in Campania delle rovine di Ercolano. 1710 I russi prendono Riga e l’Estonia. 1711 Gli ottomani in aiuto di Carlo XII di Svezia: Pietro il Grande, sconfitto nella battaglia sul fiume Prut, sul confine moldavo, cede la città di Azov all’impero ottomano. Muore Giuseppe I; gli succede suo fratello che ancora resisteva in Catalogna come Carlo III re di Spagna d’osservanza asburgica e che ora passa a Vienna dove viene riconosciuto imperatore col nome di Carlo VI. 17.11. Con la pace di Szatmár, l’Ungheria è definitivamente sottomessa alla sovranità asburgica in cambio del rispetto da parte dell’imperatore della costituzione ungherese. In Africa, Tripoli si rende indipendente dalla Turchia con la dinastia dei Caramanlidi. 1712 Si apre il congresso di Utrecht. Armistizio franco-inglese e franco-portoghese. Nasce a Ginevra Jean-Jacques Rousseau (m. 1778). 1713 11.4. Trattato di Utrecht, che chiude la guerra di successione spagnola: Filippo V di Borbone riconosciuto re di Spagna, con Milano, Napoli e le

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Cronologia 1645-1718 colonie; l’Inghilterra ottiene dalla Francia territori nordamericani e dalla Spagna Gibilterra, nonché l’asiento de negros; a Vittorio Amedeo di Savoia il titolo di re di Sicilia. Trattato di pace russo-ottomano. Papa Clemente XI (1700-1721) con la bolla Unigenitus condanna definitivamente il giansenismo. L’imperatore Carlo VI con la Prammatica Sanzione stabilisce che la successione dinastica possa avvenire anche in linea femminile. Alla morte di Federico I, è re di Prussia Federico Guglielmo I di Hohenzollern. Pace di Adrianopoli tra Russia e impero ottomano. Muore a Napoli il filosofo Anthony Shaftesbury (n. 1671). Muore il compositore Arcangelo Corelli (n. 1653).

1714 Guerra turco-veneziana in Morea, dichiarata dalla Porta il 9.12. (1714-18). 6.3. Trattato di Rastatt. La Francia ottiene i Paesi Bassi spagnoli e riconosce all’Austria il diritto di sovranità delle terre italiche del regno di Spagna (Lombardia, Sardegna, Regno di Napoli). Secondo un accordo del 1701, alla morte di Anna il trono d’Inghilterra passa al principe elettore di Braunschweig-Lüneburg, Giorgio I, della dinastia dei principi di Hannover, imparentata con gli Stuart. Filippo V di Spagna sposa Elisabetta Farnese. Pubblicata la Monadologia di G.W. von Leibniz. Pubblicati i Concerti per violino di Antonio Vivaldi. 1715 Gli ottomani cacciano i veneziani dalla Morea. Muore Luigi XIV; gli succede il pronipote Luigi XV (nato nel 1710), sotto la reggenza del principe Filippo d’Orléans (1674-1723), figlio di Filippo fratello del Re Sole. Rivolta in Scozia a sostegno di Giacomo Stuart. San Pietroburgo capitale dell’Impero russo. 1716 25.3. L’impero entra a fianco di Venezia nella guerra contro gli ottomani; si costituisce una nuova Santa Lega (impero, Spagna, Malta). 10.7.-25.8. Assedio ottomano a Corfù, interrotto dopo la battaglia di Petervaradino. 5.8. Eugenio di Savoia, al comando delle truppe austriache, vince i turchi nella battaglia di Petervaradino. Il finanziere scozzese John Law (1671-1729), emigrato in Francia, dà vita con l’appoggio del reggente al suo «sistema» economico, fondato sul presupposto che il credito sia la base del sistema economico (il che condurrà a un eccesso di moneta circolante e alla rovinosa crisi economica del 1720). Alberoni primo ministro in Spagna. Muore il filosofo e matematico Leibniz. 1717 11.1. quadruplice alleanza dell’Aia. Filippo V dichiara guerra a Carlo VI. Eugenio di Savoia conquista Belgrado.

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Fondata a Londra la Grande Loggia dei Liberi Muratori. 1718 Filippo V di Spagna, su consiglio del suo ministro cardinal Giulio Alberoni (1664-1725) riconquista Sardegna e Sicilia. Ibrahim Pas¸a gran visir (1718-30: «era dei Tulipani»). Giugno: Pace di Passarowitz: Belgrado, il banato di Temesvár, la Valacchia e la Serbia occidentale agli Asburgo, la Morea all’impero ottomano. 11.8. La quadruplice alleanza austro-anglo-franco-olandese sconfigge gli spagnoli nella battaglia navale di Capo Passero in Sicilia. 30.11. Carlo XII di Svezia muore in battaglia contro i norvegesi.

Cronologia dell’anno 1683 2.1. L’insegna dalle code di cavallo (tugh) simbolo d’una guerra prossima, viene innalzata dinanzi al serraglio del sultano a Edirne. Gennaio: alleanza difensiva tra l’imperatore e l’elettore Massimiliano Emanuele di Baviera e con il duca di Braunschweig-Hannover. 27.2. La dieta polacca accetta l’alleanza con l’impero. 30-31.3 (o 2.4.). L’esercito ottomano si muove da Edirne. 1.4. Accordo militare imperiale-polacco (ratificato dalla dieta polacca il 17 aprile e dall’imperatore il 2 maggio). 10.4. Carlo V duca di Lorena nominato comandante dell’armata imperiale. 17.4. L’armata ottomana raggiunge Sofia. 21.4. Consiglio di guerra a Vienna. 24.4. L’armata ottomana raggiunge Niš. 3.5. Le truppe ottomane con il sultano Mehmed IV a Belgrado. 6.5. L’imperatore passa in rivista le truppe imperiali presso il Kittsee. 9.5. A Vienna si riunisce un consiglio di guerra sotto la presidenza dell’imperatore. 11.5. Carlo V duca di Lorena avvia la sua campagna militare partendo da Kitsch verso est. 13.5. A Belgrado, il sultano Mehmet IV consegna solennemente il Vessillo del Profeta al gran visir, nominato capo dell’armata. Le truppe alleate del sultano (bosniaci, serbi, valacchi, moldavi, ungheresi, tartari) si uniscono a quelle sultaniali. 19.5. Le forze imperiali fuori Györ. 20.5. L’armata ottomana lascia Belgrado. 24.5. Kara Mustafa lascia Belgrado. 27.5. Il sultano passa in rassegna le truppe in partenza per la guerra contro l’impero. 31.5. Le forze imperiali si ritirano da Esztergom. 2.6. Le truppe ottomane arrivano a Osijek, dove sono raggiunte dal Thököly e dove sostano fino al 15.6. 3.6. Carlo V di Lorena pone l’assedio a Neuhäusel.

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Cronologia 1645-1718 8-9.6. In conseguenza dell’avanzata ottomana verso la Stiria, Carlo di Lorena toglie l’assedio di Neuhäusel e ripiega su Komárom. 14.6 (o 20.6?). L’esercito ottomano giunge a Székesfehérvár (o il 20 a Buda?; secondo altri arriva a Székesfehérvár solo il 25 per ripartire il 28): scelta dell’itinerario per l’invasione dei territori asburgici. 18.6. Il Thököly invia a Raab emissari per annunziare la rottura della tregua tra l’impero e i «Malcontenti» (cfr. 8.10.1682). 22.6. Le truppe imperiali arrivano a Györ. 29.6. Le truppe ottomane entrano in territorio asburgico e si dirigono contro Györ. 1.7. Assemblamento delle truppe ottomane sulla linea della Raab. 2.7. Gli ottomani attaccano Györ; le truppe del duca di Lorena, respinte sulla riva occidentale della Raab, ripiegano su Berg a sud-est di Presburgo. Battuta di caccia dell’imperatore presso Perchtoldsdorf. 4-5.7. Gli ottomani nelle vicinanze di Vienna; i viennesi cominciano a lavorare alle fortificazioni d’emergenza. 6.7. Il duca di Lorena arriva a Berg tra il 6 e il 7.7; da Deutsch-Altenburg il duca di Lorena invia il generale Andrea Caprara all’imperatore per comunicargli la sua convinzione che l’obiettivo finale delle truppe ottomane sia Vienna. 7.7. Faccenda di Petronell; l’imperatore e una parte dei viennesi lasciano la capitale per riparare a ovest. 8.7. Gli ottomani a Ungarisch-Altenburg. 11.7. Gli ottomani conquistano Hainburg. 12.7. Consiglio di guerra a Vienna; per ordine dello Starhemberg i dintorni di Vienna vengono dati alle fiamme; appello alle armi delle compagnie dei cittadini, degli artigiani e degli studenti. 13.7. L’imperatore arriva a Linz. 13 o 14.7.: Le truppe ottomane arrivano sotto Vienna e la circondano. Il 14.7 inizia l’assedio. 15.7. Giovanni III re di Polonia parte da Varsavia. Sconfitta dei difensori dinanzi a Perchtoldsdorf; incendio dello Schottenhof. 16.7. Vienna completamente isolata. 19.7. Il tesoriere di corte Ali Ag˘a arriva all’accampamento ottomano di Vienna. 20.7. Gli ottomani cominciano a minare le fortificazioni. 23.7. Esplodono le prime mine; le prime truppe bavaresi di soccorso arrivano a Passau. 24-25.7. Giovanni III rende omaggio alla Vergine Maria nel santuario di Czéstochowa. 26.7. Iniziano le operazioni di controminatura da parte dei difensori. 29.7. Comincia la sequela di scoppi di mine e di attacchi degli ottomani. 30.7. Carlo V di Lorena batte Thököly a Presburgo (Bratislava). 31.7. Il tesoriere di corte Ali Ag˘a rientra in Adrianopoli per presentare al sultano una relazione sull’andamento dell’assedio: a Passau, i reggimenti bavaresi sono passati in rivista dall’imperatore.

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3.8. Gli ottomani prendono Götzendorf, Pottendorf e Ebreichsdorf. 5.8. Gli ottomani conquistano le palizzate dinanzi al fossato. 7.8. A Vienna, severe misure contro usurai, mercato nero ed epidemia. 9.8. L’ambasciatore Caprara arriva nel campo ottomano di fronte a Vienna. 11.8. (o 14.8.) Le avanguardie polacche lasciano Cracovia; i turchi conquistano la Burgbastei; una mina al Burgravelin. 12.8. Dura battaglia dinanzi al Burgravelin. Primo notevole successo ottomano: cattura di una parte del rivellino. 13. 8. Il mercante di merci orientali Jerzy Franciszek Kulczycki viene inviato da Vienna presso Carlo V di Lorena. 14.8. Marco d’Aviano informa l’imperatore sul suo viaggio dall’Italia; l’ambasciatore Caprara arriva a Passau. 17.8. Ritorno del Kulczycki a Vienna con notizie del duca di Lorena. 19.8. Felice sortita dei difensori in cerca di cibo; il barone Kunitz invia un messaggio a Vienna; il principe di Transilvania arriva al campo turco; il re di Polonia arriva a Gleiwitz. 23.8. Il re di Polonia a Troppau; le truppe franconi a Passau; a Vienna, nuove misure contro i profittatori. 24.8. Sulla sinistra del Danubio, dura sconfitta dei turchi e dei ribelli ungheresi inflitta dalla cavalleria lorenese. 25.8. L’imperatore passa in battello da Passau a Linz; grande sortita dei difensori di Vienna. 27.8. Il mercante Michaelowitz inviato fuori di Vienna con messaggi; i giannizzeri manifestano al gran visir il loro disappunto per la durata dell’assedio. 28.8. I reggimenti franconi arrivano a Linz. 29.8. Ammutinamento degli egiziani; proposte di pace dei turchi al barone Kunitz. 31.8. Il re di Polonia e il duca di Lorena s’incontrano per la prima volta in Hollabrunn; lo Starhemberg si prepara allo scontro estremo. 1.9. Duri scontri alla Burgbastei e alla Löbelbastei; Michaelowitz porta notizie del duca di Lorena. 2.9. Nuova missione di Michaelowitz; Marco d’Aviano visita la corte a Linz e si reca quindi presso l’armata di soccorso; una mina turca distrugge una parte del bastione del palazzo (Burgbastei). 3.9. A Stetteldorf, tra Stockerau e Tulln, si tiene un consiglio di guerra tra il re di Polonia, il duca di Lorena e i comandanti delle truppe imperiali. 4.9. Scoppio di mine e grande assalto turco al Burgbastei. 6.9. Combattimenti al Löbelbastei; il principe elettore di Baviera arriva a Linz. 6-7.9. Gli alleati si riuniscono attorno a Tulln; parata delle truppe turche presso Vienna e nuova offerta di pace. 8.9. I turchi espugnano e danneggiano gravemente il Löbelbastei e le difese più basse. 9.9. L’imperatore arriva in battello da Linz a Dürnstein; consiglio di guer-

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Cronologia 1645-1718 ra: si decide la marcia attraverso il Wienerwald; consiglio di guerra del gran visir; morte del borgomastro Liebenberg. 10-11.9. Gli alleati arrivano in prossimità di Vienna; inquietudine nell’accampamento ottomano. 12.9. Lberazione di Vienna. 13.9. Il re di Polonia incontra la città liberata; l’imperatore parte da Dürnstein diretto a Klosterneuburg. 14.9. Festa liturgica dell’Esaltazione della Santa Croce. Leopoldo I entra trionfalmente in Vienna liberata. Te Deum nella cattedrale di Santo Stefano. Il gran visir fa giustiziare il beylerbeyi di Buda, Ibrahim Pas¸a. 15.9. Incontro fra Leopoldo I e Giovanni III a Schwechat. Leopoldo I passa in rivista le truppe vittoriose. Il principe elettore Giovanni Giorgio III riparte con le sue truppe per far ritorno in patria. 17-18.9. Inizio dell’inseguimento delle truppe turche. 21.9. Gli imperiali e i polacchi liberano Esztergom. 7.10. Il re di Polonia battuto a Párkány. 9.10. Seconda battaglia di Párkány: Carlo di Lorena sconfigge gli ottomani. 19.10. Liberazione di Esztergom. 26.10. La Spagna dichiara guerra a Luigi XIV, che invade i Paesi Bassi spagnoli 25.12. Morte di Kara Mustafa a Belgrado.

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acemi og˘lan: termine turco indicante i giovani aspiranti giannizzeri, selezionati attraverso la devs¸irme e alcuni dei quali divenivano effettivamente giannizzeri, mentre altri venivano avviati a vari servizi nell’àmbito del serraglio di Istanbul o delle necessità del servizio al sultano oppure allo stato. ag˘a: letteralmente ‘maestro’ o ‘gentiluomo’; termine turco usato per indicare il capo dei servizi di una casa, di un’organizzazione, di una tribù, ma anche capo militare. akçe: parola turca, originariamente ‘biancastro’, in italiano ‘aspro’ dal greco aspron. Moneta d’argento costituente l’unità contabile di base nell’impero ottomano; originariamente pesava gr. 1,20. 100-120 aspri valevano un sultanino, o reale d’oro o scudo d’oro (s¸erefi), considerato pari al ducato veneziano, o zecchino (cfr. Martinori 1977, p. 499). Ma in realtà il sultanino diminuì progressivamente di peso: nel 1477 era di 3,57 grammi, alla fine del XVII secolo solo di 3,49. Quanto alla moneta d’argento, molto apprezzata era nel Levante seicentesco quella francese, chiamata ‘luigino’. Nel corso del Seicento la crisi dell’aspro indusse anche nell’impero ottomano a usare moneta europea. akincı: cavalleggeri provenienti generalmente dalla Rumelia, vale a dire dalle aree europee soggette all’impero ottomano, specialisti in scorrerie alle frontiere e pagati di solito con parte del bottino raccolto; il termine equivale all’arabo ghazi. atamano: italianizzazione corrente d’un termine utilizzato presso i cosacchi e in Polonia per indicare un capo militare. Aufgebot: in Austria, la leva provinciale di milizie deputate alla difesa territoriale consistente in cavalleria e fanteria composta da contadini; era bandita e organizzata dagli Stände di ciascuna provincia. azamoglani: vedi acemi og˘lan. bailo: il rappresentante della Repubblica di Venezia a Costantinopoli. Il titolo riprendeva quello dell’antico capo della colonia veneziana del quartiere di Pera a Costantinopoli. Il bailo svolgeva contemporaneamente le mansioni di ambasciatore presso la Porta, di console rappresentante gli interessi e i diritti dei cittadini veneti e dei mercanti residenti o di passaggio nell’impero sultaniale e di capo della comunità veneta ivi presente (cfr. B. Simon, I rappresentanti diplomatici veneziani a Costantinopoli, in Venezia e i turchi, Milano 1985, pp. 56-69, part. 56). Banus Croatiae: ‘bano’, viceré in Croazia e Slavonia, rappresentante del re d’Ungheria.

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bastarda: tipo di galea lunga ca. 50 metri, con più di 26 banchi di rematori per lato (in genere 30): dotata quindi in tutto di 60 remi lunghi 12 metri serviti da otto rematori ciascuno; porta 1000 uomini ed è armata, oltre che dalla pesante ‘corsia’, da 22 pezzi di differente calibro. Vedi s.v. galea berat: letteralmente ‘patto’; diploma sultaniale fornito di tughra. bey: nell’impero ottomano il governatore di provincia (cfr. sancak). beylerbeyi: letteralmente ‘bey dei bey’; nell’impero ottomano, capo di un gruppo di province. brigantino: veliero a due alberi e a due vele quadre. cacebis: nell’esercito ottomano, i soldati di fanteria. çavus¸: termine turco per messaggero (di solito italianizzato in ‘chiausso’). cebelü: termine turco per inserviente armato a seguito di uno spahi. çelebi: termine turco per persona di cultura, gentiluomo. chiecaia: consueta italianizzazione del termine designante la carica di kethüda pas¸a (vedi s.v.). çorbaci: «colui che cucina la zuppa»: comandante di una orta giannizzera. cosacco: dal turco kazak, ‘fuggitivo’, ‘dissidente’. Originariamente nomadi tartari delle steppe della Russia meridionale; dal secolo XV anche i russi del basso Dnepr e del Don; riuniti sotto i loro atamani, conobbero ampia autonomia fino al XVIII secolo, quando l’autorità zarista li sedentarizzò definitivamente come soldati-allevatori-agricoltori, traendone il nerbo delle forze della sua cavalleria. dely: letteralmente ‘folle’; cavalleggero ottomano di reparto confinario. devs¸irme: letteralmente ‘raccolta’; nell’impero ottomano, leva forzosa nei villaggi (all’inizio soprattutto quelli cristiani dei Balcani e dell’Anatolia, ma più tardi anche musulmani di Bosnia, che richiesero quello che per loro rappresentava un privilegio) di fanciulli destinati al servizio nel palazzo sultaniale, nell’amministrazione, nell’esercito e nel corpo scelto dei giannizzeri. Il devs¸irme non fu mai regolato da vera e propria normativa, anzi si può dire che rimase una pratica formalmente illegale: ma di ciò nessuno si curava. In generale, i giannizzeri a ciò preposti prelevavano un ragazzo ogni quaranta famiglie, esentando quelle che avevano figli unici. dey: titolo onorifico ottomano, in origine designante un marinaio o combattente negli emirati barbareschi che si fosse particolarmente distinto; a Tunisi erano dey i quaranta comandanti dei reparti giannizzeri, ma dal 1591 il titolo passò a designare il dey supremo, da essi eletto; ad Algeri analogo titolo è attestato a partire dal 1671. dhikr: termine arabo designante la recitazione liturgica di litanie in onore di Allah. dhimmi: letteralmente ‘tributario’, cioè non-musulmano soggetto al patto di dhimma, quindi protetto in quanto membro della ahl al-Kitab, la «gente del Libro» (ebrei, cristiani, zoroastriani). Al dhimmi è consentito l’esercizio privato del proprio culto a fronte del pagamento di un tributo, detto jizya, della tassa di capitazione fondiaria kharaj e di alcune restrizioni, come il divieto di portare armi, di usare il cavallo come cavalcatura, nonché l’obbligo di indossare un segno distintivo di riconoscimento (in italiano, si usa anche la grafìa jimmi, jimma, foneticamente più simile alla pronunzia araba).

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dîvân-ı hûmâyûn: il consiglio di governo dell’impero ottomano, presieduto dal gran visir. ducato: nome di alcune monete d’oro circolanti tra XVI e XVII (e anche in altri periodi): i più noti e apprezzati erano il ducato veneziano (zecchino), di peso e titolo costanti sino alla fine della repubblica, e il ducato olandese, solidamente ancorato a un intrinseco di 3,46 grammi d’oro. efendi: termine turco per maestro, signore. elettori: vedi Kurfürsten. Erbländer: letteralmente ‘Terre ereditarie’; i territori ereditariamente spettanti alla dinastia degli Asburgo: fondamentalmente le terre austriache (l’alta Austria con capoluogo Linz, la bassa Austria con la capitale Vienna, il Vorderösterreich o Vorlande, cioè il Tirolo, il Breisgau, l’Austria sveva e il Voralberg), quelle dell’Innerösterreich (Stiria, Carinzia, Carniola, Gorizia-Gradisca, Trieste, Fiume) e dopo il 1627-28 quelle della corona boema (Boemia, Moravia, Slesia). Per quanto la corona ungherese fosse a sua volta dichiarata ereditaria nel 1687, l’Ungheria non veniva ordinariamente indicata come ‘terra ereditaria’. etmano: vedi atamano. Feldmarschall: ufficiale generale di primo livello nell’esercito asburgico. Feldmarschall-Leutnant: ufficiale generale di terzo livello nell’esercito asburgico. Feldzeugmeister: ufficiale generale di secondo livello nell’esercito asburgico (per fanteria, artiglieria e reparti tecnici). ferman, ‘firmano’: editto sultaniale, corroborato dal tughra. fucile: arma da fuoco individuale che prende nome dal suo meccanismo di s­ paro a selce, cioè a pietra focaia; messo a punto verso il 1630, sostituì tuttavia del tutto il moschetto a miccia tra la fine del secolo e i primi del successivo. Rispetto al moschetto (cfr. s.v.) era meno sensibile alla pioggia, meno visibile di notte, si caricava più rapidamente e permetteva di mirare in quanto si tirava appoggiando la guancia contro il calcio sostenuto dalla spalla anziché bloccato contro il torace e lo stomaco. Lo svantaggio era che il meccanismo a selce causava più spesso che non quello a miccia dei colpi ‘in bianco’, perché la scintilla non scoccava o scoccava male. Ad avancarica, presentava i soliti problemi di corretto dosaggio tra polvere e palla: le cartucce predosate entrarono in uso soltanto fra quarto e quinto decennio del XVIII secolo. fusta: piccola galea, con 12-15 banchi di rematori. galea: tipo nautico da guerra, derivato dalle biremi e triremi romane ma con apparato di voga solo in orizzontale. Lunga circa 40-42 metri, larga 5,5, ha vela latina, banchi di voga che dal Cinquecento sono 24 per lato, con bocche da fuoco caratterizzate da una grossa ‘corsia’ e alcuni pezzi minori sul castello di prora. Alta un paio di metri sul filo dell’acqua, è munita di un albero (due nelle galee più grandi), con una grande vela latina (triangolare) fissata a un’antenna lunga una quarantina di metri. I rematori vogano «alla zenzile»: sono 3-5 per banco, ciascuno di loro provvisto di un remo lungo una decina di metri e pesante mezzo quintale; ma nel corso del ventennio 1550-1570 questo sistema, che richiedendo coesione e sincronia è adatto a rematori esperti, professionisti

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liberi, viene sostituito (sembra a Venezia prima che altrove) dal sistema di voga «a scaloccio», secondo il quale ogni banco è dotato di un solo remo (lungo 1213 metri, pesante 100-120 chili), più adatto alle qualitativamente parlando più basse prestazioni di rematori che erano ormai divenuti, appunto, dei ‘galeotti’, cioè dei prigionieri o degli schiavi o dei condannati. L’artiglieria si trova sulla piattaforma di prua. galeazza: la galeazza, in turco mavna, era un adattamento, messo a punto a metà Cinquecento dai veneziani, della ‘galea di mercato’ che assicurava i collegamenti tra Venezia e le Fiandre: si trattava di un tipo nautico lungo 50-52 metri, largo 8,5-9, privo dello sperone che distingueva le galee, piuttosto lento ma in cambio poderoso, fornito di tre alberi e di 28-30 ranghi di banchi da remo per lato (ciascun remo, lungo 14 metri, era mosso da 6-7 uomini): un sistema di voga simile a quello della ‘bastarda’. Le galeazze erano provviste di alta murata, di un castello di prora a due-tre piani con cannoni puntati sia in avanti sia sui due lati, una struttura simile ancorché più leggera a poppa e cannoni di calibro minore anche sulle fiancate, tra i rematori: in totale, su una galeazza prendevano posto 350-400 rematori, una trentina di bocche da fuoco e 200-250 tra artiglieri e soldati, per un totale di 600 uomini (Panzac 2009). galeone: evoluzione della galea, «a vela quadra e remo» (Ciano 1980, p. 153, per un tipo speciale di galeone, il ‘rambargio’ San Giovanni Battista, varato il 20 maggio 1608), con vogatori allogati sotto il ponte di coperta, che restava quindi sgombro per collocarvi le batterie di cannoni. Più tardi, a più ponti. galeotta: la galeotta, in turco kalayta, è una piccola galea, mossa da 16-23 ranghi di banchi da due-tre rematori ciascuno, armata da tre cannoni di modesto calibro, ma agile e veloce; apprezzata soprattutto dai barbareschi. galia grossa: vedi galeazza. gavur: non musulmano; termine usato in senso peggiorativo (‘infedele’, ma anche rozzo, barbaro, crudele); da cui l’italiano ‘giaurro’. Il termine sembra derivato dall’antica parola persiana gabr, originariamente riferita ai mazdei, poi anche ai cristiani. Nell’uso del mondo ottomano aveva soppiantato l’arabo kafir, originariamente indicante il non-musulmano o il pagano (deriva da una radice indicante il ‘non credere’, il ‘negare’), ma nella pratica usato sovente a qualificare i cristiani. Al gavur nel mondo ottomano si attribuivano varie qualifiche negative, espresse in rima e indicanti le qualità dei singoli popoli cristiani: Ingiliz dinsiz (inglese senza religione), Fransiz jansiz (francese senz’anima), Enguruz menhus (ungherese malaugurato), Rus ma’kus (russo perverso), Alman biaman (tedesco spietato) (Lewis 1983, p. 179). Geheime Konferenz: supremo consiglio privato asburgico per le questioni di alta politica e di politica estera; vedi Hofstaatsordnung. General der Cavallerie: ufficiale generale di secondo livello nella cavalleria dell’esercito asburgico. Generalfeldwachtmeister: ufficiale generale di più basso rango nell’esercito asburgico. Generalkriegskommissariat: autorità suprema di amministrazione e controllo militare per le questioni economiche e logistiche. Generalleutnant: comandante in capo per procura imperiale nell’esercito asburgico.

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ghazi: termine arabo che indica, nel mondo musulmano, capo militare illustre per le vittorie riportate in operazioni di razzia. giannizzeri: vedi yeniçeri. giaurro: vedi gavur. Grundherrschaft: signoria territoriale: nelle terre passate in mani private all’inizio dell’età moderna i Landsherren potevano esercitare attraverso i loro funzionari alcune funzioni pubbliche. harem: termine turco derivato dall’arabo har∞m, ‘luogo inviolabile’: indica di solito l’insieme dei quartieri destinati alle donne (cfr. Penzer 1913; Peirce 1993; Chebel 2000). Heiliges Römisches Reich Deutscher Nation: denominazione ufficiale del Sacro Romano Impero. Hofkammer: organo destinato a gestire le rendite e i proventi delle imposte dei domini asburgici. Hofkanzlei: organo supremo amministrativo asburgico, distinto in due sezioni: per le province austriache (Österreichische Kanzlei) e per la province boeme (Böhmische Kanzlei). Hofkriegsrat: ‘Ministero della guerra’ nell’Austria asburgica. Hofmeister: capo della corte di Vienna: aristocratico scelto dall’imperatore, sul piano concettuale a vita, e responsabile dei servizi di corte nonché del governo in quanto presidente ordinario della Geheime Konferenz. Hofstaatsordnung: regolamento di corte promulgato da Ferdinando I d’Asburgo, in quanto arciduca d’Austria e re di Boemia (titolare pertanto dei possessi ereditari della casa d’Asburgo, distinti sia dalla corona regia di Germania e da quella imperiale romano-germanica – che erano elettive, restavano soggette alle norme emanate nel 1356 dalla Bolla d’Oro di Carlo IV e dipendevano dalla volontà dei Principi Elettori dell’impero –, sia da quelle di Castiglia e Aragona, delle quali appunto, insieme con quella germanica, era titolare suo fratello Carlo V). Secondo la Hofstaatsordnung, la compagine istituzionale e amministrativa asburgica si articolava in quattro organi: il Geheimer Rat o Geheime Konferenz (Consiglio Segreto), costituito da un ristretto numero di alti funzionari chiamati ad assistere il sovrano nell’insieme degli affari di stato; la Hofkanzlei (Cancelleria di Corte), con funzioni amministrative e con competenze finanziarie, distinta fino al 1749 in Österreichische Hofkanzlei per le province austriache e Bömische Hofkanzlei per le province boeme; lo Hofrat (Consiglio Aulico), suprema autorità giudiziaria; la Hofkammer (Camera di Corte), con prerogative d’ordine finanziario. Nel 1556 ad essi s’aggiunse un nuovo organo, lo Hofkriegsrat (Consiglio Aulico di Guerra). Il sistema avviato con la Hofstaatsordnung si mantenne, con qualche modifica, fino al 1848. La Reichsordnung, che riguarda il Sacro Romano Impero, e la Hofstaatsordnung, che riguarda i possessi asburgici ereditari, possono essere paralleli e procedere di pari passo, ma non vanno mai confusi tra loro. La Hofstaatsordnung non si applicava all’Ungheria regia, la quale aveva istituzioni proprie. hospodar: termine slavo, derivato dal greco despotes, ‘padrone’, ‘signore’, usato ordinariamente per i principi cristiani di Valacchia, Moldavia e Transilvania, vassalli della Porta (cfr. anche vojvoda).

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huszár: vedi ussaro. Innerösterreich: unità amministrativa che riuniva Carinzia, Carniola, GoriziaGradisca, Trieste, Fiume. Insurrectio: leva feudale nei territori dell’Ungheria regia. jimmi: vedi dhimmi. kadin: la favorita che aveva dato un figlio al sultano, e che era quindi la più elevata di rango nella gerarchia dell’harem o colei che aveva avuto comunque rapporti col sultano; tra tutte quelle che ne avevano avuti, emergeva la favorita, ikbal. kaiserliche Armee: vedi Reichsarmee. kapikulu (plur. kapikullari): letteralmente ‘schiavo della Porta’, cioè suddito del sultano. In linea di massima, tutti nell’impero ottomano erano tali. Più propriamente, venivano qualificati come tali i soldati scelti attraverso il sistema del devs¸irme, mantenuti direttamente dalla Porta, oppure impiegati nel personale amministrativo o esecutivo del serraglio. Il devs¸irme per i kapikullari fu abolito nel 1637 dalle riforme del sultano Murad IV. kapudan-i daryâ: vedi kapudan pas¸a. kapudan pas¸a, o kapudanpas¸a: comandante supremo della flotta ottomana (fino al 1567 il titolo era kapudan-ı daryâ). kaymakam, kaimakan: vice gran visir e amministratore di Costantinopoli. kethüda pas¸a: luogotenente. khutba: sermone solenne che accompagna la preghiera musulmana del mezzogiorno al venerdì. Kontribution: tassa militare introdotta nei territori austro-boemi nel 1620 per finanziare l’esercito permanente. Kreis: vedi Reichskreis. Kurfürst: ‘principe elettore’. Legittimato da Carlo IV con la Bolla d’Oro del 1356, il collegio dei principi elettori, formalmente deputato a eleggere il nuovo imperatore del Sacro Romano Impero, era costituito originariamente di sette principi che si riunivano all’occorrenza nell’edificio del Römer di Francoforte. I principi elettori erano: i tre principi-arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri; il re di Boemia (regno che dal 1547 era stato dichiarato ereditario della corona arciducale d’Austria, a sua volta ereditariamente pertinente alla dinastia degli Asburgo, e unita ai suoi territori); l’Elettore Palatino del Reno; il duca di Sassonia; il margravio del Brandeburgo. Nel 1623 il collegio fu ampliato al duca di Baviera; nel 1692 al duca di Braunschweig-Lüneburg, o di Hannover. I principi elettori eleggevano il re dei Romani, che aveva il diritto di ricevere dal papa la corona imperiale. L’incoronazione imperiale officiata dal papa era tuttavia caduta in disuso dopo quella di Carlo V a Bologna nel 1530; inoltre, era invalso l’uso di eleggere il re dei Romani mentre il suo predecessore era ancora in vita e di presentarlo come automatico erede al trono. kurucz (plur. kuruczok): termine di etimo incerto, usato ordinariamente per indicare gli insorti protestanti antiasburgici nell’Ungheria del XVII secolo (i «Malcontenti»). kurush: unità monetaria di basso valore nell’impero ottomano.

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Landrekrutenstellung: letteralmente ‘reclutamento provinciale’; sistema di reclutamento introdotto negli anni Ottanta del XVII secolo nelle province austroboeme: esse dovevano provvedere un certo numero di reclute, per sostituire i troppo costosi volontari. lala: parola turca indicante il precettore. Lega renana o del Reno: vedi Rheinbund. mavna: nome turco di un tipo di galea. Militärgrenze: linea di difesa della monarchia asburgica in funzione ottomana, dall’Adriatico all’attuale Romania. millet: in terra di dar al-Islam, comunità dotata di organizzazione autonoma e riconosciuta dal governo sultaniale come soggetta e al tempo stesso protetta, caratterizzata da limitazioni e prerogative. moschetto: arma da fuoco individuale comparsa la prima volta in Italia verso il 1555 nelle truppe spagnole. Munito di meccanismo di sparo a miccia come l’archibugio, era di maggior calibro rispetto ad esso (una libbra di palle d’archibugio ne conteneva 48; una libbra di palle di moschetto, dalle 12 alle 20). I moschetti più pesanti, che in genere servivano alla difesa delle piazzeforti, dovevano essere appoggiati a uno speciale bastone a forcella. nádor o nádorispán: termine ungherese designante il ‘Palatino’ (vedi voce), cioè il viceré dell’Ungheria regia. Oberstinhaber (o Regimentsinhaber): proprietario e comandante nominale di un reggimento di cavalleria o di fanteria. ocak: nome ordinario del reparto di spahi. oda: termine turco – letteralmente ‘stanza’, ‘ufficio’ –, usato per indicare un’unità militare. orta: termine turco – letteralmente ‘centrale’ –, usato per indicare un’unità militare. padis¸ah: termine persiano – letteralmente ‘Gran Re’ –, ordinariamente usato per indicare il sultano ottomano. Palatino: rappresentante del re nell’Ungheria regia; era eletto dalla Dieta in una rosa di candidati scelti dal re. In ungherese nádor o nádorispán. panduri: dall’ungherese pandur, di etimo incerto. In origine, con questo termine, si identificavano i servi armati, nell’Ungheria feudale, dei nobili boiari. I panduri costituivano un’autentica guardia del corpo. Vennero denominati così, durante il XVII e il XVIII secolo, speciali reparti di fanteria nell’esercito asburgico, il cui reclutamento veniva fatto tra i contadini serbi e rumeni che abitavano le regioni meridionali del regno di Ungheria: famoso per l’arditezza ma anche per la crudeltà, il corpo dei panduri, organizzato e comandato da Franz von der Trenck (1711-1749) costituì, fra il 1741 e il 1745, l’avanguardia dell’esercito asburgico durante la guerra di successione austriaca. pas¸a (pasha): termine significante ‘principe’, ‘capo’, ‘signore’, variamente trascritto nelle lingue europee come bassà, pasha, pacha, pascià. pas¸alik: circoscrizione governata da un pas¸a. Porta: sinonimo di ‘serraglio’ (vedi s.v.) o di Gran Serraglio, a indicare la resi-

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denza sultaniale che, dal nome della sua porta principale (Topkapi, Porta del Cannone), è oggi nota con questo nome. Mehmed II aveva fatto costruire un palazzo sultaniale, poi denominato Vecchio Palazzo, sull’impianto dell’antico Forum Tauri di Costantinopoli. Più tardi fece costruire, tra 1459 e 1478 ma più intensamente negli anni 1465-1471, il Nuovo Palazzo (saray-i cedid), poi chiamato ‘Palazzo della Porta del Cannone’ (Topkapi saray), organizzato in tre corti successive che scandivano i rapporti della corte col mondo di fuori: la prima era accessibile a tutti, la seconda racchiudeva i servizi e l’amministrazione, la terza era l’inaccessibile spazio del sultano. L’area tra la prima e la terza corte era denominata birun (l’esterno). La porta d’ingresso della terza corte, la ‘Grande Porta’ (Bab-i aali) era quella più tardi denominata ‘Soglia della Felicità’ o ‘Sublime Porta’ (Bab üs-sa’áe). Con la parola ‘Porta’ si usava indicare anche il governo sultaniale. L’espressione ‘Sublime Porta’, destinata a divenir proverbiale, non entrò nell’uso corrente occidentale se non nella seconda metà del Seicento, e comunque dopo che, nel 1654, al primo ministro-consigliere del sultano, il gran visir (vezir-i azam, o sadr-i azam), fu assegnata nel serraglio una residenza presso il ‘Padiglione della Sfilata’ (Alay Kös¸kü), la porta esterna del quale era appunto la Sublime Porta. È tuttavia probabile che, originariamente, quella che dava il nome a tutto il Gran Serraglio fosse piuttosto il grande portone d’ingresso, il ‘Portone nobilissimo’ o ‘Porta imperiale’ presidiato da un forte corpo di guardia (Bπb-i-Hümayün). Il palazzo fu più volte danneggiato da incendi furiosi (1574, 1665, 1862). Principe Elettore: vedi Kurfürst. qanun: dal greco kanon, l’insieme delle leggi emanate dai sultani. Raab: altro nome della città ungherese di Györ. rais: in arabo ‘capo’, ‘comandante’: cfr. reis. Regimentscommandant: colonnello in seconda di un reggimento: di solito, l’effettivo comandante (cfr. Oberstinhaber). Regimentsinhaber: vedi Oberstinhaber. Reichsarmee: esercito imperiale, forza non permanente ma che si mobilitava solo in caso di Reichskrieg e che dal 1681 doveva essere organizzato dai Reichskreise (da non confondersi con l’esercito permanente dell’imperatore, la kaiserliche Armee). La Reichsarmee era comandata dal Reichsgeneralfeldmarschall. Reichsgeneralfeldmarschall: grado supremo di comando della Reichsarmee. Reichshofkanzlei: supremo organo consultivo ed esecutivo per gli affari del Sacro Romano Impero. Reichshofrat: Consiglio Aulico Imperiale, organo supremo per le questioni d’ordine amministrativo, feudale e costituzionale del Sacro Romano Impero, con sede presso la corte di Vienna. Reichskammergericht: ‘Corte della camera imperiale’, consiglio con prerogative amministrative e fiscali. Reichskreis: unità circoscrizionale di base del Sacro Romano Impero, creata dall’imperatore Massimiliano I tra 1500 e 1512 dal punto di vista amministrativo e militare e sancita da Carlo V nel 1522, con il ruolo precipuo di mantenere la pace pubblica (Landfriede) e di curare l’adempimento delle disposi-

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zioni del Reichskammergericht. I Reichskreise erano dieci: alta Sassonia; bassa Sassonia; basso Reno-Westfalia; Borgogna; alto Reno; Reno ‘elettorale’; Svevia; Franconia; Baviera; Austria. I territori imperiali che restavano fuori dall’organizzazione dei Reichskreise erano: la Boemia con le sue pertinenze territoriali, i territori soggetti ai ‘cavalieri imperiali’ (la Reichsritterschaft), l’Italia ‘imperiale’ (il ducato di Savoia, il ducato di Milano, Mantova, Modena, Parma, Piacenza, la Toscana, Lucca, Genova e varie decine di feudi minori) e la Confederazione svizzera (una mappa dei Reichskreise in Hochedlinger 2003, p. 49). Reichskrieg: stato di guerra ufficialmente decretato dal Reichstag e riguardante il Sacro Romano Impero nel suo insieme. Reichsstände: i principi, i prelati e le libere città imperiali confederate nel Sacro Romano Impero e dotate di diritto di voto nel Reichstag; vedi anche Stände. Reichstag: Dieta imperiale. Si riuniva su convocazione dell’imperatore, fino al XVII secolo in Augusta e più tardi in Ratisbona. Trasformata nel 1663 in Immerwährende Reichstag, ‘Dieta perpetua’. Si distingueva in tre collegi: degli elettori, dei principi, delle città. reis: voce d’origine araba, passata nel turco: ‘comandante’. Si usa tanto per indicare il capitano di una nave quanto, oggi nei paesi arabi, un leader politico o anche, istituzionalmente, un presidente di stato o di governo. reis efendi: segretario del divan imperiale, incaricato di alti uffici negli affari esteri. Rheinbund: Lega renana, o del Reno, che dal 1658 riuniva gli stati renani, vassalli del Sacro Romano Impero ma politicamente legati alla Baviera e alla Francia. rivellino: opera esteriore di difesa, separata dal recinto della piazzaforte e posta dinanzi alla porta per tenere lontano il nemico: ha la forma di un bastione esterno a pianta triangolare, situato dietro la controguardia o nel mezzo del fossato. Sabor: Dieta croata autonoma all’interno dell’Ungheria regia. Salzkammergut: speciale distretto dell’alta Austria e della Stiria nord-occidentale nel quale si trovavano le miniere di sale soggette all’amministrazione della Hofkammer. sancak: bandiera; circoscrizione amministrativa. sancakbey: nell’impero ottomano i funzionari a capo della circoscrizione detta sancak (bandiera): da cui l’italiano ‘sangiaccato’. saray: termine d’origine persiana significante ‘palazzo’, ‘residenza’. Nell’uso europeo, la parola ‘serraglio’ (vedi s.v.) andò prendendo il significato ristretto di parte riservata alle donne (quindi praticamente sinonimo di harem) o addirittura di giardino nel quale si custodivano animali rari o feroci, ma nell’uso ottomano essa qualificava l’intero complesso della residenza sultaniale, della corte e delle sue pertinenze. seraskier: comandante supremo dell’esercito ottomano per la durata di una campagna militare; più tardi, ministro della guerra. serdar: comandante delle forze armate ottomane. serraglio: propriamente ‘palazzo’, dal persiano sarπy (vedi s.v.). La pseudo-etimologia che lo fa derivare dal latino serraculum, ‘chiusura’, si è affermata grazie alla fama di impenetrabilità del Gran Serraglio di Istanbul, vale a dire del sistema di fortezze, padiglioni e giardini che costituiva la residenza del sultano e la

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sede del suo governo e che era conosciuta solitamente anche come ‘Porta’ (vedi s.v.). La parola era già in uso fino dal medioevo, e indicava anche l’insieme dei recinti dove alcuni sovrani tenevano, per diletto e in segno di potenza, animali feroci, esotici e rari. sofa: da un termine arabo che significa ‘cuscino’; nell’impero ottomano, zona sopraelevata all’interno di una sala d’udienza, riservata a dignitari e ad ambasciatori. spahi: cavalleggeri turchi armati alla leggera (la parola deriva dal persiano s∞pah∞) e che si equipaggiavano e si mantenevano in servizio utilizzando le rendite del sistema del timar (cfr. anche ocak). Staatsrat: Consiglio di stato per gli affari interni nell’Austria asburgica. Stände: le élites corporativamente organizzate nei territori ereditari della monarchia austriaca (i cosiddetti Erblande o Erbstaate), comprendenti nobili proprietari di terre (Herrenstand), nobiltà minore (Ritterstand), prelati (Prälatenstand) e libere città (landesfürstliche Städte und Märkte) che annualmente si riunivano in diete provinciali (Landtage) per discutere le richieste del sovrano. Nell’impero invece i Reichsstände erano riuniti nei tre collegi costituenti il Reichstag: quello dei principi elettori (Kurfürsten), quello dei principi laici ed ecclesiastici non elettori, quello delle libere città imperiali. timar (plur. timarlar): unità amministrativa fiscale ottomana, tradotta in termini territoriali, che produceva una certa quantità d’imponibile (originariamente pari in valuta a 20.000 akçe all’anno). L’imposta di base del timar corrispondeva alla somma necessaria per mantenere un cavaliere (spahi) con il suo cavallo e il suo seguito per un anno; i cavalieri combattevano durante la stagione della guerra, primavera-estate, per tornar poi ad amministrare i loro possedimenti; parti dei Balcani e dell’Anatolia vennero divise in timar. La vastità di ogni timar variava a seconda della qualità e della produttività dei suoli. L’uso derivava da una tradizione vicino-orientale, ma aveva punti obiettivi di contatto tanto con la pronoia bizantina quanto con le pratiche feudali europee. tug˘: insegna sultaniale di guerra, caratterizzata da un’asta adorna di code di cavallo. La parola, derivata dal cinese tu, ‘bandiera’ (variante cinese media, dok), passò nelle varianti tukh/tuk ai diversi idiomi turco-mongoli e al tunguso (tibetano thugh) nel generale senso di stendardo, o insegna, o bandiera di guerra. Marco Polo attesta che un corpo militare mongolo di 100.000 uomini era chiamato tuk. tug˘ra: monogramma sultaniale. ussaro: soldato di reparto di cavalleria leggera sorto in Ungheria nel secolo XV con compiti di esplorazione e incursione. La parola deriverebbe secondo alcuni dal numero venti (husz in ungherese) in quanto la selezione per la leva in tale corpo sarebbe avvenuta per estrazione di un cittadino ogni venti (originariamente, si trattava della cavalleria leggera in appoggio alla milizia contadina ungherese di leva, la portalis militia); altri invece si richiamano al tedesco del Cinquecento Huzar e al serbocroato kursar, entrambi affini all’italiano ‘corsaro’ e derivati dal latino medievale cursarius, partecipante al cursus, cioè ‘incursore’ (la parola cursus ha comunque uno statuto etimologico-semantico molto

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complesso, riferibile anche al mitico volo magico della compagnia di Diana, radice della credenza relativa al sabba). vali: nell’impero ottomano, governatore civile di una provincia. valide, valide sultan: madre del sultano regnante. vilayet: provincia dell’impero ottomano. vojvoda: titolo d’origine slava usato per indicare i principi in Transilvania, Valacchia e Moldavia (cfr. hospodar). Vorderösterreich (o Vorlande): possessi ereditari della casa d’Asburgo, comprendenti principalmente il Breisgau, l’Austria sveva e il Voralberg. voynuk: milizie cristiane dell’impero ottomano nei Balcani. yeniçeri: termine turco, letteralmente ‘nuova guardia’. Nell’impero ottomano, corpo scelto di fanteria dotato di armi da fuoco. In italiano «giannizzeri».

Nota critica

In generale per le fonti di parte ottomana, punto debole negli studi degli occidentali, preziose informazioni sono in G. Bellingieri, Voci del Seicento ottomano, in Simonato 1993, pp. 59-124; cfr. inoltre S. Faroqui, Approaching Ottoman history. An introduction to the sources, Cambridge 1999. Per le fonti relative all’assedio, si rinvia in particolare a F. Stöller, Neue Quellen zur Geschichte des Türkenjahres 1683, Innsbruck 1933. All’indomani del secondo centenario dell’assedio del 1683, venne pubblicato un vasto resoconto relativo agli studi editi: J. Newald, Beiträge zur Geschichte der Belagerung von Wien durch die Türken, im Jahre 1683, Wien 1883-4, mentre per le collezioni di poesie sparse, prediche, fogli volanti ecc. che celebrarono l’evento del 12 settembre 1683 si deve ancora ricorrere a H. Kárdebo, Bibliographie zur Geschichte der beiden Türkenbelagerungen, Wien 1876. La più ampia raccolta bibliografico-iconologica sull’evento è ancora W. Sturminger, Bibliographie und Ikonographie der Türkenbelagerungen Wiens 1529 und 1683, Graz 1955 («Veröffentlichungen der Kommission für neuere Geschichte Österreichs», XLI). Per le celebrazioni relative al terzo centenario dell’assedio, un ampio resoconto bibliografico è in W. Leitsch – M.D. Peyfuss, Dreihundert Jahre seit dem Einsatz von Wien 1683, «Jahrbuch für Geschichte Europas», 32, 1984. Sul piano degli avvenimenti analiticamente ricostruiti, si rinvia a T.M. Barker, Double Eagle and Crescent. Vienna’s second Turkish siege and its historical setting, Albany 1967, e a J. Stoye, L’assedio di Vienna, tr. it., Bologna 2009 (in realtà un bel libro del 1964, tuttavia solo tardivamente riedito nel 2000 e nel 2006 evidentemente sulla base del rinnovato e generalizzato interesse per «l’assalto musulmano all’Europa», una ragione mediatica non estranea forse nemmeno alla traduzione italiana del 2009: riedizioni e traduzione peraltro tardive anche se certo tutt’altro che inopportune). Per le fonti e gli studi recenti ungheresi, ottimo punto di partenza

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Nota critica

è Buda expugnata 1686 - Europa et Hungaria 1683-1718, a cura di I. Bariska - G. Haraszti - J.J. Varga, Budapest 1986. Ordinariamente, e salvo differente avviso fornito volta per volta nelle note, antroponimi e toponimi si sono uniformati rispettivamente a Enciclopedia europea Garzanti e Atlante geografico De Agostini. I nomi di persona sono stati costantemente italianizzati quando si tratti di capi di stato, illustri dinasti (per esempio i principi elettori del Sacro Romano Impero) o di personaggi celebri e rispetto ai quali esiste una consuetudine storica di italianizzazione ormai consolidata (si è scritto quindi Martin Lutero anziché Martin Luther, Solimano il Magnifico anziché Süleyman al-Qanuni); negli altri casi, si sono mantenuti ordinariamente i nomi nella lingua-madre del singolo personaggio. A parte Solimano il Magnifico, si sono ricordati i nomi dei sultani ottomani secondo la grafìa turca corrente – che conosce peraltro qualche oscillazione fonetica –, in quanto di quasi nessuno di essi (a parte Süleyman/Solimano e Mehmed/Maometto) esiste una forma italiana sicura e diffusa. Le deroghe a queste scelte semplici e pratiche, per quanto forse non irreprensibili, sono volta per volta – salvo sviste o errori – giustificate dall’uso o da ragioni esposte nelle note. In modo analogo si è proceduto per i nomi di luogo: una questione molto delicata in quanto, ad esempio per i toponimi balcano-danubiani, ci si trova di solito di fronte a nomi che hanno una forma latina, una tedesca, una ungherese, una serbocroata, una slovena, una slovacca, una rumena e una turca. Il lettore sarà indulgente dinanzi a qualche probabile svista. Per una personale idiosincrasia ho limitato al minimo l’uso delle maiuscole, che – quando non siano nella lingua italiana obbligatorie – non vengono utilizzate nemmeno in parole quali stato, imperatore, impero, papa, papato, regno, senato, sultanato, repubblica, doge, sultano, padis¸a, pas¸a, shah, bey, ecc. Confido che ciò non crei difficoltà, in quanto dal contesto si capisce sempre quando, per esempio, la parola stato indica un’organizzazione politica e giuridica a carattere pubblico e quando significa una condizione o è il participio passato di essere o di stare, quando con il termine elettore si allude a un principe d’impero dotato della prerogativa di eleggere l’imperatore e quando invece a chiunque eserciti un diritto appunto elettorale, quando con dieta si qualifica un’assemblea di ottimati e quando si allude invece a un regime alimentare, quando con consiglio si indica un’istituzione di natura consultiva o deliberativa e quando l’atto del

Nota critica

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suggerire o del raccomandare qualcosa a qualcuno. Poiché non c’è regola senza eccezioni, da questa scelta empirica sono stati esentati, per lunga e radicata tradizione, i seguenti fin troppo abbondanti casi: i nomina sacra e le parole Chiesa (nel senso dell’istituzione), Sacro Romano Impero, Cristianità, Israele e Islam (le ultime tre in quanto indicano non semplicemente un credo religioso, bensì una sintesi di fede, di cultura e di istituzioni relative: invece cristianesimo ed ebraismo, indicando in genere – al contrario di Islam – in sé e per sé solo una fede, sono indicate con la minuscola); le due espressioni Monarchia di Spagna e Monarchia d’Austria, in quanto qualificanti non un’istituzione monarchica o uno stato a regime monarchico, bensì due caratteristici e complessi insiemi di istituzioni diverse coordinate tra loro e caratterizzate dall’‘unione personale’ in un solo monarca; l’aggettivo sostantivato Serenissima quando indica la repubblica di Venezia; espressioni specifiche quali Sua Maestà Cesarea per l’imperatore romano-germanico, Re Cattolici per la coppia Ferdinando d’Aragona–Isabella di Castiglia, Re Cristianissimo per il re di Francia, Grande Elettore per Federico Guglielmo di Hohenzollern principe elettore del Brandeburgo, Gran Serraglio per la reggia e la corte del sultano a Istanbul; espressioni particolari indicanti luoghi, istituzioni, fazioni o avvenimenti, come Mare Nostrum, Lega Santa (e in genere sempre la parola Lega quando indicante un’istituzione formalmente stipulata anziché una relazione di alleanza o di complicità), consiglio dei Dieci, Malcontenti d’Ungheria, guerra dei Trent’Anni, guerra di Devoluzione; epiteti individuanti un personaggio (Solimano il Magnifico, Re Sole e analoghi casi), una funzione (Gran Dragomanno) o una condizione ereditaria (Delfino/a, Infante/-a); la parola ordine reca l’iniziale maiuscola solo quando indica, nei suoi molti significati, un Ordine religioso nel senso canonico del termine; si sono usate inoltre le iniziali maiuscole per indicare i secoli oppure i decenni all’interno di un secolo, in espressioni del tipo gli anni Trenta del Seicento. Anche qui, sviste o distrazioni sono state, temo, inevitabili. La maiuscolofobìa dell’Autore di queste pagine è qui estesa anche ai titoli di libri e di saggi in lingua inglese, che di solito ne abusano per una consuetudine largamente seguita, ma non formalmente codificata; mentre si è rispettato l’uso delle maiuscole nei sostantivi nella lingua tedesca moderna, che sono obbligatorie secondo una teutonicamente precisa regola ortografica (e in genere si sono obtorto collo seguite, per

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Nota critica

ciascun idioma diverso dall’italiano, le regole di maiuscolatura che gli sono proprie, quando esse siano ortograficamente obbligatorie). La stesura di questo lavoro ha richiesto il costante ricorso a parole, espressioni e citazioni bibliografiche in lingue diverse da quelle occidentali che il pubblico italiano ha più familiari. Dando quindi per ordinariamente conosciute le principali regole fonetiche francesi, inglesi, tedesche e spagnole, precisiamo che per trascrivere in caratteri latini lingue per le quali si usano alfabeti diversi (il greco, il cirillico, l’arabo), si è stimato opportuno il ricorso alla trascrizione fonetica inglese, ormai divenuta quella internazionalmente corrente. Si è scritto quindi shah, sheikh, ecc.; un’eccezione czar, per il quale si è preferito mantenere la trascrizione fonetica della z sorda alla francese (un piccolo omaggio all’inveterata francofilia della grande cultura russa, peraltro oggi purtroppo desueta). Per i termini arabopersiani, si tenga tuttavia presente che la vocale persiana o si pronunzia di solito in arabo come una u, e la consonante p come una b. Altre avvertenze o deroghe minori sono puntualmente segnalate in nota. Per il ceco, il croato, il polacco, il rumeno, lo slovacco, lo sloveno, il turco e l’ungherese (li ricordiamo e li esaminiamo brevemente in ordine alfabetico), che usano l’alfabeto latino ma le cui particolarità fonetiche si discostano in maggiore o minor misura da quelle occidentali che ci sono più familiari, basterà qui il richiamo a poche norme pratiche, piuttosto sommarie. In ceco, la la c equivale alla z sorda (‘quarzo’): la ch corrisponde alla j (jota) castigliana; la cˇ è la c dolce (‘cena’); la ® corrisponde al dittongo ié; la j è una i semivocalica; la š corrisponde a sc di ‘scena’; la nˇ è quasi la gn di ‘gnocco’; la ž si pronunzia come la j francese di jour. In croato, la cˇ è la c dolce (‘cena’); la c´ un suono a metà tra le t di ‘tavolo’ e la c di ‘cena’; la dˉ un suono a metà tra la d e la g dolce (‘gioco’); la š corrisponde a sc di ‘scena’; la ž si pronunzia come la j francese di jour. In polacco, la a¸ equivale all’on del francese bon; la c è una z sorda (‘lenzuolo’), la c´ è la c dolce (‘cinema’); il nesso cz si legge come una doppia c dolce (‘luccio’); la dz è una z sonora (‘zero’); la dz´ è una g dolce (‘giro’); la dt¸ è una doppia g dolce (‘formaggio’); la e¸ è la in del francese fin; la g si pronunzia sempre dura (‘gatto’); la ł equivale alla w inglese; la j è semivocale (‘soia’); la n´ è la gn di ‘ogni’; la ó equivale alla u di ‘puro’; la rz, la t¸ e la z´ equivalgono grosso modo alla j francese di jour; la s è sorda (‘sapone’); la s´ e la sz equivalgono alla sc di ‘scena’ la w si pronunzia v; la z è una s sonora (‘rosa’).

Nota critica

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In rumeno, la c si pronunzia come c duro (‘casa’) salvo quando è seguita da e o i, casi in cui si pronunzia dolce (‘pace’); la g si comporta in modo analogo, ed è dura anche nel digramma gl (non ‘maglia’, ma ‘geroglifico’); la h è normalmente aspirata; la j corrisponde al suono francese; la s è sorda (‘sapone’); la s¸ si pronunzia come sc di ‘scena’; la t¸ vale come z sorda (‘zio’); la z si legge come una s sonora (‘rosa’). Per le altre lettere, ci si può comportare più o meno come nella fonetica italiana, tenendo presente che una delle vere difficoltà della fonetica rumena è la pronunzia delle vocali, alcune delle quali (â, ∏,î) sono inesistenti nella nostra lingua. In slovacco, la c è una z sorda (‘zòccolo’); la cˇ è una c dolce (‘cena’); il nesso ch equivale a una j castigliana indurita; la g è sempre dura (‘gatto’); la h è sempre aspirata, a metà tra la j castigliana e la r francese; la j è una i semivocalica; la š corrisponde a sc di ‘scena’; la ž si pronunzia come la j francese di jour; l’accento acuto su una vocale ne denota l’allungamento. In sloveno, la c è una z sorda (‘zòccolo’); la cˇ è una c dolce (‘cera’); la g è sempre dura (‘gatto’); la h è sempre aspirata, a metà tra la j castigliana e la ch tedesca; la j è una i semivocalica; la š corrisponde a sc di ‘scena’; la l può essere pronunziata, secondo i casi, come l o come u: la ž si pronunzia come la j francese di jour. Si noteranno le forti analogie tra slovacco e sloveno e di entrambe con il croato e il ceco. Per il turco, che dopo la riforma kemalista si scrive non più usando l’alfabeto arabo-ottomano, bensì quello latino, si è preferito in genere usare la forma fonetica del türkçe (il turco della Turchia) evitando le forme fonetiche desunte da altri idiomi: si è quindi per esempio scritto direttamente pas¸a anziché pasha, secondo la forma inglese ormai internazionalizzata, o pascià all’italiana, parola in fondo corretta ma che nella nostra lingua suona piuttosto scherzosa («vivere come un pascià»). Vanno quindi tenute presenti almeno le seguenti regole fonetiche fondamentali per quanto approssimative: c si pronunzia g palatale (‘giovane’); ç si pronunzia c palatale (‘cielo’); g si pronunzia g dura (‘gatto’); g˘ prolunga la vocale da cui è preceduta e va pronunziata con una leggerissima gutturalizzazione in modo da renderla morbida, quasi muta; ı si pronunzia praticamente come i, con una leggera sfumatura in e; la j è quella del francese jour; s¸ si pronunzia come la sc di ‘scena’; ö e ü vanno pronunziate come in tedesco; per le altre vocali e consonanti, ci si può regolare come in italiano, tenendo tuttavia presente che ad esempio la b finale ten-

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Nota critica

de a virare in p e la d finale in t (il che è importante specie per la forma turca di molte parole derivanti dall’arabo). Da notare che le parole turche, al pari di quelle in neopersiano (cioè in farsi), sono ordinariamente tronche: nomi come Ali e Mustafa e parole come valide quindi, si pronunzieranno Alì, Mustafà, validè (i francesi non usano accentare questi due nomi, perché li pronunziano istintivamente corretti; foneticamente corretta anche l’ordinaria trascrizione fonetica italiana, che tuttavia noi qui non adottiamo). In ungherese, il nesso cs si pronunzia c dolce (‘cena’); la z si pronunzia come s sonora (‘rosa’); il nesso dzs si pronunzia come la g dolce (‘gioco’); la g è sempre dura ‘gatto’); la h è sempre fortemente aspirata; la j è una i semivocalica; il nesso ly è una l ‘liquida’; il nesso ny è un gn dolce (‘gnocco’); la r è fortemente ‘rotacizzata’; la s si pronunzia come la sc di ‘scena’: il nesso sz va sempre pronunziato come s sorda (‘sera’); il nesso zs si pronunzia come la j francese (jour). Complessa la pronunzia delle vocali: la á si pronunzia come la nostra a, mentre la a è una o molto aperta; ö e ü si pronunziano come in tedesco e in turco (quando siano corredate invece da due accenti acuti, si pronunziano come nel caso precedente, ma più allungate); in genere l’accento acuto su una vocale ne segna l’allungamento. Rispetto all’ottomano, che risentiva molto della pronunzia araba e di quella persiana, il turco moderno è foneticamente di gran lunga più simile all’ungherese di quanto la trascrizione grafica dei suoni (che risente molto di una fonetica germanizzata) non permetta di osservare. Un tema importante, per il Mediterraneo del tempo, è quello della «lingua franca»: cfr. H. Kahane - R. Kahane - A. Tietze, The «lingua franca» in the Levant: Turkish nautical terms of Italian and Greek origin, Urbana 1958. Le comunità ebraiche d’Istanbul, essendo prevalentemente di origine sefardita, usavano come lingua corrente il castigliano; ma si parlava anche «ladino», vicino alla «lingua franca». Le parole, le espressioni e i titoli originariamente in lingua russa, bulgara, araba o farsì, trascritti pertanto in alfabeto arabo o cirillico nonché le poche parole uraloaltaiche non turche, ad esempio qualche voce tartara per cui si dispone ordinariamente di trascrizioni in caratteri arabi o cirillici, sono stati in questa sede traslitterati in caratteri latini e trascritti secondo la fonetica inglese.

CARTINE

Cartine

­720 SELIM I (1512-20)

Hafsa (1520-34)

SOLIMANO I (1520-66)

Mahidevran

Mustafa

Mehmed

Mihrimah

Nur Banu (1574-83)

Safiyyeh (1595-1603)

Ayse

Fatmah

sposa Hürrem

sposa (?)

MURAD III (1574-95)

Bayezid SELIM II (1566-74)

Ismihan

? (1617-18 1622-23)

Mahmud

MUSTAFA I (1617-18 1622-23)

sposa Sokollu Mehmed Pas¸a gran visir (1565-79) Handan (1603-05)

MEHMED III (1595-1603)

AHMED I (1603-17)

Kösem (1623-51)

MURAD IV (1623-40)

MUSTAFA II (1695-1703)

SELIM I Hafsa

Famiglia Hamzade

Mahfuz

OSMAN II (1618-22) Turkh an (1651-83)

Gulnus (1695-1715)

Jihangir

IBRAHIM (1640-48) MEHMED IV (1648-87)

Dilasub (1687-91) SULEYMAN II (1687-91)

Mahfuz

AHMED II (1691-95)

AHMED II (1703-30)

sultano (data del regno) valideh sultan (periodo di reggenza) .

sposa

Fig. 1. La dinastia ottomana (1500-1700).

concubinato concubinato seguito da matrimonio

PO LO NIA

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(Senj)

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(Karlovac)

Karlstadt

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1526 1687

Szigetvár Pécs Dra Mohács va

Fig. 2. L’Ungheria (1664-1683).

(Rijeka)

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CA

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1717

1691

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(Semendria)

Smederevo Passarowitz (Požarevac)

(Timis¸oara)

Arad Temesvár

Slankamen

Zemun Belgrado

Karlowitz

(Sremski Karlovci)

1716

Petrovaradin

(Senta)

Zenta

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Szeged

Vidin

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Maros

Segesvár

(Sighis¸oara)

Brassó

(Bras¸ov)

V A L A C C H I A

Sibiu Passo Turnu Ros¸u

Alba Iulia

Eperjes CA (Prešov) G I Kesmarck R B U Neusohl (Kežmarok) Leutschau S A (Levocˇa) Ungvár (Banska Bystrica) A Kassa R I Kremnitz ) n (Hron ra HE G (Košice) G (Kremnica) Munkács UN (Mukacˇevo) Nvitra Dürnstein Krems M Schemnitz ROS ) Kloster- Presburg (Nitra) O S Sárospatak AMA (Banska Štiavnica) Danubio MÁR AMURE L Tulln neuburg (Bratislava) Sch R Fülek D MA Melk Érsekújvár ütt Vienna ( Tib isc o (Fil’akova) A St. Pölten Onod (Nové Zámky) Szabolcz V Komorn Mödling Eisenstadt Szatmár Lilienfeld Eger Neograd I Tokaj (Komárom) Párkány (Satu Mare) A Wiener Vác Neustadt Nagybanya Ödenburg Gran ) Raab a b T (Sopron) (Rába) (Esztergom) Rá R b( Székelyhid Bis A aa trit¸ Debrecen R r Buda Pest N u a M S Székesfehérvár Güns I Vasvár (Albareale) Bistrit ¸ a L Graz Körmend Szamos-Ujvár V S A Körös N T Oradea I A U N G H E R I A I S. Gottardo R Kolozsvár Drava I 1664 A (Cluj-Napoka) T U R C A

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Porte di Ferro

Salonicco

Belgrado

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Maros

Sofia

bio

Ias¸i

Adrianopoli

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MOLDAVIA

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Kamenets

Bucarest

VALACCHIA

Buda-Pest Székesfehérvár TRANSILVANIA

Presburgo

Kosice

PODOLIA

Leopoldstadt

Fig. 3. La convergenza delle truppe ottomane su Vienna (primavera-estate 1683).

Roma

Monaco

Ratisbona

Cracovia

Da

confini dell’impero ottomano Kara Mustafa contingenti siriaci, egiziani, nordafricani tartari di Crimea Thököly

Venezia

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Praga

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(Costantinopoli)

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Laxenburg

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Wien

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Stockerau Wolkersdorf Korneuburg Stammersdorf Klosterneuburg

Canale del Danubio

Tulln

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Fig. 4. Il medio Danubio.

Mautern

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Fig. 5. Assedio di Vienna.

Baumgarten

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Canale del Danu

St. Ulrich

Schönbrunn

tenda del Gran Visir

Hofburg

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Leopoldstadt

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Canale del Danu bio

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Schottentor (porta degli Scozzesi) cattedrale di S. Stefano

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1 mura cittadine

5

2 opere in pietra 3 fossato

3

4 rivellino della Burg 5 cammino coperto 6 spalto

3

7 palizzata 8 controscarpa

9

9

9 sezione

Fig. 6. Vienna (in alto) e schema delle sue fortificazioni (in basso).

Cartine

­726 N

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GIOVANNI GIORGIO III ELETTORE DI SASSONIA

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Brno Nova Bystrice Nikolsburg Waidhofen 30 ago

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Hollabrun Krems Presburgo 1 set Vienna a ith

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Fig. 7. Concentrazione delle forze cristiane.

THÖKÖLY

ribelli ungheresi

Neuhäusel Esztergom Komárom Györ Buda Pest

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Monaco Salisburgo

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bavaresi franconi

MASSIMILIANO II EMANUELE ELETTORE DI SASSONIA

29 lug-15 ago

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Fig. 8. Gli schieramenti dei due fronti verso mezzogiorno del 12 settembre 1683.

turchi polacchi dipartimenti al servizio dell’imperatore austriaci tedeschi

1

Kahlenberg

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l’avanzata degli alleati

A turchi che attaccavano Vienna B dipartimenti schierati per fermare

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Vienna 1683 città e data della liberazione battaglia e data avanzate imperiali confine dopo il trattato di Carlowitz 1699 confine dopo il trattato di Belgrado 1739

1688

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TRANSILVANIA

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BANATO Petrovaradin 1718 1716 Slankamen

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1683

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Fig. 9. Campagne successive alla liberazione di Vienna.

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300 miglia

500 km

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l’impero ottomano nel 1800

perdite territoriali (1683-1800)

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Fig. 10. L’impero ottomano (ca. 1683-1800).

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Dubrovnik

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(Transilvania agli Asburgo)

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(Podolia alla Polonia)

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Ringraziamenti

Habent sua fata libelli. Accanto a quella rosminiana «dei fini», c’è anche una «eterogenesi dei libri». Cominciai a scrivere questo dopo il fatidico 11 settembre 2001 (un «quasi-anniversario», come qualcuno ha fatto notare con un po’ di approssimazione, della celebre giornata del 1683); nelle intenzioni dell’Editore, e anche nelle mie, avrebbe dovuto essere un libro breve, leggero, poco meno di un instant book. L’argomento mi ha preso talmente da costringermi a impegnare in esso molti anni, sia pure part time e con molti intervalli, sacrificandogli altri interessi. Non sta a me dire che ciò sia stato un bene; e, comunque, non saprei dirlo. Certo, da esso ho imparato molto. E da tanti amici e colleghi che mi hanno aiutato in questa mia prima, tardiva e ignoro quanto decorosa prova di «sei-settecentista per caso». Un immenso grazie anzitutto al mio vecchio e fraterno amico Renzo Nelli – mente e anima arcifiorentine, ma cuore magiaro –, l’aiuto e il conforto del quale, avviati in un primo momento solo a risolvere da esperto internauta le quotidiane baruffe col mio riottoso computer poi anche molti problemi connessi con personaggi e cose ungheresi e con l’indice onomastico, spauracchio di autori e di editori, mi sono stati preziosi e risolutivi. Insieme con lui, Marina Montesano mi è stata costantemente vicina accettando il pesante ruolo di lettrice e di consulente linguisticobibliografica. Anna Benvenuti ha seguito con simpatìa e con humour il mio tempestoso viaggiar fra le corti e gli accampamenti guerrieri dell’età barocca. Dovrei fare un lungo elenco di dirigenti e funzionari di archivi e biblioteche i quali mi hanno dedicato tempo, sapere e pazienza. Mi limito ai ringraziamenti indispensabili: anzitutto a S.E.R. Monsignor Sergio Pagano, B., Prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, e all’amico carissimo Pierantonio Piatti; quindi a tutti i cortesi amici che negli archivi e nelle biblioteche soprattutto di Roma, di Firenze, di Parigi, di Venezia e di Vienna mi sono stati larghi di indicazioni non solo dirette, ma anche epistolari, telefoniche e via e-mail. L’amico e collega Ugo Barlozzetti, noto ai fans di militaria come «il generale Barlozzetti» per le sue sterminate mirabili competenze nel cam-

­732

Ringraziamenti

po della storia militare, ha contratto nei miei confronti, nel corso della redazione di questo libro, un credito tale che mi sarà impossibile sdebitarmene. Insieme con lui, un grazie a Raimondo Luraghi, a Mario Scalini e a Sergio Valzania per la comune frequentazione del «nostro» feldmaresciallo Montecuccoli. Sempre per le questioni militari (ma non solo), debbo un ringraziamento profondissimo e affettuoso a Carla Sodini, preziosa anche per la storia toscana cinque-settecentesca e che mi è stata di grande aiuto non solo per le cose lucchesi e militari toscane in genere, ma anche per le esplorazioni effettuate anche per mio conto – oltre che per suo interesse e suo piacere – nel ricchissimo fondo Malvezzi della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze. Gaetano Platania ha messo a mia disposizione il suo immenso sapere sulla Polonia di Jan Sobieski, un argomento sul quale i suoi studi sono fondamentali; ancora per le cose polacche e toscopolacche, molta gratitudine debbo a Tessa Capponi Borawska, a Rita Mazzei, ad Anna Vannini Marx, a Guido Vannini e – per alcune finissime indicazioni su ville aristocratiche toscane, pittura d’apparato e avventure turchesche – al grande Antonio Paolucci. La dottoressa Agata Insana mi ha generosamente permesso di consultare i risultati delle sue ricerche documentarie sul Buonvisi e la Polonia. Speciale menzione merita infine Dariusz Kołodziejczyk. Per le questioni mitteleuropee, ringrazio anzitutto Jean Bérenger per la disponibilità dimostratami e l’attenzione dedicatami, anche se circostanze di tempo delle quali sono il solo responsabile mi hanno impedito di giovarmene. Sono inoltre debitore a Thomas Ertl della Freie Universität di Berlino e a Thomas Just direttore dello Haus-, Hof-, und Staatsarchiv di Vienna, nonché agli «amici di sempre» Bianca Valota Cavallotti, Giulia Lami e Domenico Caccamo. Il dottor István Kenyéres direttore dell’Archivio Cittadino di Budapest e la dottoressa Krisztina Arany dell’Archivio Nazionale ungherese mi hanno molto aiutato per le ricche fonti ungherese; sempre a Budapest, ho potuto giovarmi del soccorso della turcologa Monika Molnár. Un ringraziamento caloroso a Laszlo Kontler, della Central European University di Budapest, per avermi segnalato le più recenti pubblicazioni ungheresi sul periodo 1683-1718; e al professor J. János Varga per le preziose informazioni bibliografiche. A proposito di faccende turche e ottomane, I professori Paolo Girardelli e Luca Orlandi mi hanno fornito utilissimi ragguagli circa le dotazioni documentarie e le istituzioni universitarie di Istanbul. La mia ignoranza di cose turcologiche è stata alleviata dalla generosità di Maria Pia Pedani, di Bruno Mugnai (l’attenzione da lui dedicata alla lettura del mio manoscritto e l’abbondanza e qualità dei suoi rilievi mi hanno lasciato pieno di gratitudine e di ammirazione), dai puntuali consigli di Mustafa Soykut, nonché dalla mia cara allieva turca Asli Bicakci, mentre per le molte indicazioni d’àmbito irano-curdo-turco debbo un grazie a

Ringraziamenti

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Mirella Galletti. Sulle questioni marinare, specie quelle relative alla giornata di Lepanto, mi sono stati di aiuto Alessandro Barbero e Niccolò Capponi. Ringrazio, ancora, Roberto Mancini, Gherardo Ortalli, Paolo Pieraccini e Giovanni Ricci per molte indicazioni «levantine»; e Paolo Branca, Massimo Campanini, Mahmoud Salem Alsheikh per le questioni orientalistiche e islamologiche. Due mie figlie, Chiara e Anna Maria Cardini, allieve rispettivamente di Sergio Bertelli e di Leandro Perini, mi sono state guida nel mio circospetto aggirarmi l’una fra i padiglioni del Topkapi, l’altra per le sale e i giardini di Versailles. L’amica Luminit¸a Coman mi ha aiutato a reperire e a decifrare cose valacche, moldave e transilvane. Maria Concetta Salemi ha risolto generosamente alcuni problemi nati verso la fine del lavoro. Ho provveduto, nelle note che corredano questo libro, a ringraziare volta per volta altri amici e colleghi che mi sono stati episodicamente utili. Avrei voluto occuparmi più e più a lungo di questioni collegate alla storia delle comunità ebraiche «levantine» e mitteleuropee: la mancanza di tempo e di competenze mi ha costretto a ridimensionare le mie forse ottimistiche intenzioni. Grazie comunque a Dora Liscia Bemporad, a Roberto Bonfil, a Joseph Lévi, a Riccardo Calimani, a Simonetta della Seta, a Massimo Torrefranca (che avrei voluto meglio intervistare anche su questioni musicologiche, come Domenico Del Nero e Stefano Piacenti), ad Alberto e a Lea Boralevi, a Ida Zatelli. Un parere del professor Piero Stefani mi è stato prezioso a proposito delle feste organizzate a Ferrara dalla comunità ebraica nel 1683. Il consueto omaggio, last, but not least, va a Giuseppe Laterza e alla valorosa équipe della sua Casa Editrice, che ancora una volta mi hanno accordato fiducia e hanno sopportato i miei ritardi; e all’Istituto Italiano di Scienze Umane, attuale sede della mia cattedra, che ha generosamente sostenuto alcune delle trasferte necessarie per le mie ricerche. Alcuni anni or sono, a Roma, confidai la mia intenzione di scriver qualcosa sulla sua Vienna alla più nobile tra le persone che mai mi abbiano onorato della loro amicizia, a S.A.I. e R. l’arciduca Otto d’Asburgo: ne ricevetti un commosso invito ad insistere, e avrei voluto fargli omaggio del volume fresco di stampa. Purtroppo, la sua pur fortissima fibra di centenario non ha retto all’attesa. Il 16 luglio 2011 sono stato costretto a tornare a Vienna – e, una volta tanto, senza gioia: ma con molta commozione – dove, insieme con decine di migliaia di altri europei, l’ho accompagnato fino alla soglia della sua ultima dimora, la Kapuzinergruft. Ma nessun degli studiosi e degli amici qui ricordati può servire come alibi per i molti errori e le molte lacune che il lettore riscontrerà in queste pagine: la responsabilità degli uni e delle altre è purtroppo soltanto mia. Anche perché non sempre ho potuto mettere a frutto in modo adeguato le loro indicazioni e i loro suggerimenti.

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Ringraziamenti

Comunque, senza dimenticare i debiti nei confronti di troppi, il pensiero più profondo, più sincero e più commosso sento di doverlo dedicare a un grande studioso che ci ha ormai lasciato dal 1985, al mio caro e indimenticabile Maestro Ernesto Sestan, che – lui, trentino di famiglia istriana e Kaiserjäger al servizio del suo paese e del suo imperatore durante la prima guerra mondiale – è stato senza volerlo responsabile di aver contribuito a cronicizzare la mia già da allora pericolosa febbriciattola mitteleuropea. Ricordo un lontanissimo mattino viennese dei primi anni Settanta, in margine a un convegno: pochi minuti attorno a un piccolo tavolo d’albergo e un caffè preso insieme, in compagnia di un altro studioso straordinario, Adam Wandruska. In quell’occasione si parlò quasi per caso dell’assedio, del Türkenschanz, della leggenda del caffè e del croissant inventati in quell’occasione e naturalmente del principe Eugenio. Mi sono portato dentro per anni il ricordo di quella mattina, di quella luce che filtrava dalle alte finestre, del K 331 di Mozart sommessamente diffuso nella saletta delle colazioni mattutine. Questo libro, valga quel che vale, è nato allora.

Indice dei nomi di persona e di luogo

Avvertenza Si è ritenuto opportuno non appesantire eccessivamente l’Indice con la registrazione puntuale di toponimi che compaiono quasi a ogni pagina: o perché troppo generici (Europa) o perché usati indifferentemente per indicare l’entità geografica o quella politica e finanche la forma di governo della medesima (Austria, Francia, Spagna, Ungheria, Istanbul, Venezia, Vienna). In questi casi è stata quindi usata la generica indicazione passim. Luoghi particolari all’interno di una città sono elencati all’interno del lemma corrispondente a quest’ultima. Analogamente si è ritenuto inutile e inopportuno indicizzare puntualmente quelli che sono forse i protagonisti principali di questa lunga vicenda, cioè Luigi XIV di Francia e Leopoldo I del Sacro Romano Impero: anche in questo caso i loro nomi compaiono – esplicitamente o implicitamente e sotto forma di varie perifrasi – pressoché in ogni pagina e pertanto si è usata anche per loro la generica indicazione passim. I lemmi principali degli antroponimi ‘occidentali’ sono costituiti dal cognome, con l’eccezione dei nomi di papi, di religiosi regolari e di appartenenti a dinastie regnanti di uno stato sovrano, indicizzati a partire dal nome di battesimo o di elezione, con l’unica eccezione del re di Polonia Jan Sobieski, comunemente noto e indicato con il cognome. Il nome ‘secolare’, se conosciuto, e quello della dinastia costituiscono voci di rinvio. Un problema particolare è costituito dai nomi dei nobili francesi, spesso indicati indifferentemente – anche nelle fonti – sia col nome del casato sia col predicato feudale: in questi casi si è scelto come lemma principale la denominazione prevalente (ancorché non sempre di facile individuazione), riportando l’altra come voce di rinvio qualora ritenuto necessario. Non sono indicizzati i nomi di personaggi immaginari e/o protagonisti di opere letterarie e quelli degli autori di opere citate in nota. Per i luoghi che hanno tuttora un nome consolidato in lingua italiana il lemma principale è costituito da quest’ultimo (es.: Ratisbona, e non Regensburg; Aquisgrana, e non Aachen ecc.). Il nome in lingua originale è aggiunto fra parentesi e costituisce anche voce di rinvio. Per quanto riguarda molte località dell’area balcano-danubiana, che hanno cambiato più

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Indice dei nomi di persona e di luogo

volte appartenenza ‘politica’ nel corso dei secoli e che fin dal medioevo sono state designate con nomi diversi in varie lingue (slavo, tedesco, romeno, ungherese, spesso anche italiano ecc.) si è scelto di usare come lemma principale il nome ufficiale attuale, cioè nella lingua dell’attuale stato di appartenenza (es., Timis¸oara e non Temesvár, Bratislava e non Pressburg o Pozsony ecc.). Anche in questo caso i nomi in altre lingue sono aggiunti fra parentesi e costituiscono voci di rinvio. Aachen, vedi Aquisgrana. Abaza Sari Hussein, 308. Abbas, shah di Persia, 88, 92, 95, 98, 106, 380, 532, 540, 581. Abd ar-Rahman Abdi, pas¸a di Buda, 406, 412. Abele, Christoph von, barone, 211. Abraham a Sancta Clara (Johann Ulrich Megerle), frate agostiniano, 264, 270, 289, 567. Abraham Echellensis, vedi Ibrahim al-Ekleni. Abu Abbas (al-Mansuˉr), sultano del Marocco, 64, 95. Abu Marwan Abd al-Malik, 61, 63, 64, 71. Aquitania, duchi di, 96. Adalia, golfo, 538. Adelaide di Savoia, figlia di Vittorio Amedeo I, 556. Aden, 32. Adrianopoli, vedi Edirne. Adriatico, mare, 5, 9, 10, 20, 52, 54, 55, 117, 163, 199, 275, 376, 378, 440, 456, 462, 471, 512, 530, 541, 584, 597. Africa, 4, 7, 10, 14, 20, 60, 61, 63, 94, 246; centrale, 60; nord-occidentale, 603; orientale, 19; settentrionale, 14, 19, 42, 45, 51, 52-53, 112, 169, 195, 361, 510, 540. Agnadello, 11. Ahmed I, 78, 92, 98, 106, 108. Ahmed II, fratello di Mehmed IV, 423, 438. Ahmed III, 445, 455, 463, 599. Ahmed Ag˘a, rinnegato livornese, 465. Ahmed Ali, rinnegato, ingegnere, 297.

Ahmed Bey, 292, 335. Ahmed Bonneval Pas¸a, vedi Bonneval. Ahmed Pas¸a, beylerbeyi di Eger, 292. Aigues-Mortes, 30. Akakia du Fresne, Roger, diplomatico francese, 554. al-Andalus, vedi Andalusia. Alba, duca di, 62, 295. Alba Julia (Gyulafehérvar), 35, 433, 524. Alba Reale (Albaregia), vedi Székesfehérvár. Albania, 15, 84, 120, 383, 384, 387, 390, 392, 517, 596, 597. Alberoni, Giulio, cardinale, 471, 473. Alberto V, arciduca d’Austria (I come re di Boemia e d’Ungheria; II come re di Germania e rex Romanorum), 568, 569. Alberto del Brandeburgo, gran maestro dell’Ordine teutonico, 176. Aldimari, Biagio, 354, 355. Aldobrandini, Gian Francesco, 89. Aleppo, 22, 97; pas¸a di, 118, 573; vedi anche Ali Jambulad. Alessandria (in Egitto), 64, 94, 124. Alessandria (in Piemonte), 447. Alessandro VI (Rodrigo de Borja y Doms), papa, 10. Alessandro VII (Fabio Chigi), papa, 121, 125, 145, 152, 166, 193, 543. Alessandro VIII (Pietro Ottoboni), papa, 428, 431, 433, 555, 591. Alessandro Magno, 64, 307, 519, 521. Alessio I Romanov, czar di Russia, 551, 583. Alfani, Francesco, 538.

Indice dei nomi di persona e di luogo Alfonso d’Este, cardinale, vescovo di Reggio Emilia, 147. Alfonso II d’Este, duca di Ferrara, Modena e Reggio, 56, 57, 88, 90, 532. Alfonso IV d’Este, 126. Algarve, 19, 62. Algeri, 12, 20, 24, 36, 37, 44, 53, 61, 70-73, 75, 76, 78, 79, 82, 83, 94-95, 401, 524, 525, 527, 528, 530, 532, 533, 536, 601; beylerbeyi di, 20; vedi anche Hassan Pas¸a. Algeria, 97. Ali, detto Haidar, genero del profeta Muhammad, 516. Ali, ag˘a dei giannizzeri, 80. Ali, pas¸a di Buda, 144, 155. Ali Jambulad, pas¸a di Aleppo, 95, 97. Alì Pas¸a, gran visir, 467. Ali «Piccinino», corsaro, 79, 111, 113, 541. Ali Reis, rinnegato cristiano e corsaro, 535. al-Kasr el-Kebir (Alcazar), 63, 64, 67, 71. al-Khalidi, 99. Alldag, Peter, 572. Alliata, Giuseppe, 388, 585. Alma Ata, 567. al-Mahdiyah, 40, 526. al-Mansur, figlio di Fakhr ad-Din, 541. al-Mansuˉr, sultano del Marocco, vedi Abu Abbas. Almerico d’Este, fratello di Alfonso IV, 126. Alpi, 29. Alsazia, 174, 197, 205, 213, 219, 314, 561. Alsbach, fiume, xii. Altheim, 174. Altieri, Gaspare, 181. Altomonte, Martino, pittore, 349. Alvarez de Toledo, Fernando, vedi Alba, duca di. Alvernia, 361.

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Alvinc, vedi Vat¸a de Jos. Amaseo, Girolamo, 10, 518. Amaseo, Gregorio, 518. Ambras, castello presso Innsbruck, 142, 484, 571. Ambrogiana, villa medicea, 99. Amburgo, 503. Amelot de Gurnay, Michel, ambasciatore francese a Venezia, 325. Amerbach, Bonifaz, 488, 490. America, 68. Amersfoort, 148. Ammon, tempio di, 64. Amsterdam, 566. Amurat Rais, 538. Anatolia, 8, 13, 75, 395, 518. Ancona, 204, 355. Andalusia (al-Andalus), 19, 46, 67, 110. Ande, 47. Andrade Caminha, Pedro de, 61. Andrezel, visconte di, 595. Andrusovo (Andruszów), 203, 552. Anelli, Angelo, 505, 601. Angerbilliers, marchese di, vedi Ollier de Nointel. Angern, 320. Anguillara, conte di, vedi Orsini Virginio. Anguissola, Leandro, ingegnere militare, 284. Ankara, 8. Anna, figlia di Filippo III di Spagna e moglie di Luigi XIII di Francia, 546. Anna, figlia di Ladislao II di Boemia, 568. Anna d’Este, sorella di Alfonso II, 56. Anna di Russia, czarina, 502. Anna Jagellona, moglie di István Báthory, 87. Anna Maria Ludovica de’ Medici, 572. Annio da Viterbo, 6. Ansedonia, 93. Antici, Simone, 529.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Antici, Stefano, 529. Antonio, figlio del corsaro Sinan, 39. Antonio de’ Medici, fratello di Ferdinando I, 97. Anversa, 26, 151. Apafi, Mihály, principe (vojvoda) di Transilvania, 144, 183, 188, 227, 237, 239, 261, 417, 420, 429, 430, 554. Apafi, Mihály II, 430. Apollinaire, Guillaume, 551. Appennino modenese, 147, 174. Appiani, Jacopo (Jacopo d’Appiano), signore di Piombino, 39, 526. Aquisgrana (Aachen), 197. Arabia, 490. Aral, lago, 67. Aramon, barone di, vedi Puetz, Gabriel. Aranda, Emanuel de, 533. Arcimboldo, 277. Aretino, Pietro, 520. Arezzo, 602; chiesa di S. Francesco, 516. Argo, 389, 394. Ariadeno, vedi Khair ed-Din. Ariosto, Ludovico, 23, 494. Arno, fiume, 100. Arrivabene, Andrea, 490-492. Arsenio III, patriarca serbo, 421. Arta, golfo, 31, 586. Aruç, fratello di Khair ed-Din, 20, 520. Arzila, 62, 63. Asburgo, dinastia, 7, 22, 34, 35, 49, 55, 59, 88, 89, 92, 118, 137, 137, 141, 142, 149-151, 157, 161, 169, 176, 188, 195, 196, 208, 210, 223, 225, 226, 241, 249, 259, 269, 277, 284, 285, 309, 315, 316, 318, 321, 335, 375, 409, 442, 445, 447, 461, 471, 502, 512, 517, 537, 546, 549, 550, 553, 554, 557, 558, 560, 566, 568, 569, 571, 584, 594; vedi anche Eleonora Maria Giuseppina; Ferdinando; Francesco; Giuseppe;

Leopoldo; Leopoldo Guglielmo; Maria Anna; Maria Atonia; Maria Teresa; Massimiliano; Rodolfo; Sigismondo. Asia, 4, 7, 10, 103, 579; centrale, 67, 68, 454, 503, 516, 562, 567. Asia Minore, 64. Asinara, isola, 524. Assemani, vedi Yusuf Simaan esSimaani. Assia, 391, 534. Assia-Cassel, margravio di, 550, vedi anche Federico I. Astrakhan, 67. Atahualpa, imperatore inca, 26. Atene, 304, 392; Partenone, 392, 586; Pireo, 392; Propilei, 392. Atjeh, sultanato, 517. Atlante, catena montuosa, 19. Atlantico, oceano, 8, 19, 21, 32, 59, 62, 63, 80, 102, 464, 597. Attica, 393. Attila, 313, 495. Aubusson, François III de, conte di Roannais e duca de La Feuillade, 128, 129, 157. Auersperg, Franz-Karl von, conte, 162, 168. Augier de Busbeck, Ghislain, vedi Ogier de Busbeck. Augusta (Augsburg), 589; lega di, 415, 425, 427, 428, 432, 436, 569, 592; pace di, 278, 280, 423, 429. Augusto, vedi Ottaviano Augusto. Augusto II, re di Polonia, vedi Federico Augusto di Sassonia. Augusto il Forte di Sassonia, 506, 599. Austria, passim. Authon, Antoine de, 520. Avalos, Alfonso de, marchese del Vasto, governatore di Milano, 32. Aviano, 559. Aviz, casata reale portoghese, 531. Aynaci Süleiman Pas¸a, gran visir, 574. Azerbaijan, 107.

Indice dei nomi di persona e di luogo Azio, promontorio, 31. Azov (Tana), 120, 422, 434, 442, 454, 455, 476, 540. Azzolini, Decio iuniore, cardinale, 193-194. Babac, capitano del reggimento «Saxe-Volontaire», 507. Bacchelli, Riccardo, 510. Bacon (Bacone), Francis, 361, 474. Baden, 263, 446; margravio di, vedi Ermanno; Leopoldo Guglielmo; Ludovico Guglielmo. Badoer, Pietro, 124. Baffo, Cecilia, 77, 87, 535; vedi anche Nur Banu. Baffo, Violante, 78. Baghdad, 108, 234, 483; califfo di, 21. Bagni di Lucca, 74. Bahçisaray, fortezza in Crimea, 239. Bajna (Batnya), 470. Balaton, lago, 34. Balcani, xiv, 8, 14, 15, 19, 36, 49, 67, 128, 150, 161, 187, 213, 238, 244, 246, 364, 374, 390, 395, 423-425, 427, 432, 433, 437, 454, 514, 516, 541. Balocchi, Luigi, 602. Baltico, mare, 176, 464. Bamberga, 425. Banta˘s¸, Ana, madre di Dimitrie Cantemir, 599. Baratta, Rodolfo, 380. Barbaro, Marcantonio, 530. Barbarossa, vedi Khair ed-Din. Barberia, 75. Barberini, Carlo, cardinale, 226, 250, 254, 268, 351, 352, 564. Barcellona, 17, 26, 275, 592. Barcsai, Ákos, principe di Transilvania, 144. Barkan, vedi Sturovo. Baronio, Cesare, cardinale, 491. Barozzi, Andrea, colonnello veneziano, 127, 545. Baruffaldi, Gerolamo, 356.

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Baruffaldi, Niccolò, 356. Basilea, 58, 487, 488, 490, 580. Bassora, 517. Báthory, István, vojvoda di Transilvania e re di Polonia, 87, 88. Báthory, Zsigmond (Sigismondo), 88. Baviera, 140, 230, 242, 251, 252, 280, 314, 320, 403, 406, 415, 424, 425, 445, 468; elettore di, 162, 200, 272, 324, 343, 413, 414, 589; vedi anche Massimiliano II Emanuele. Bayer, Georges, barone di Boppart, 90. Bayezid, figlio di Solimano il Magnifico, 527. Bayezid (Bajazet) I, sultano, 493, 503. Bayezid II, sultano, 9, 98, 362. Bayonne, 506. Bayreuth, 390. Béarn, 103. Beaufort, duca di, vedi BourbonVendôme, François de. Beaumarchais, Pierre Auguste Caron de, 504, 601. Beauregard, cavaliere di, vedi Guadagni, Guglielmo. Beauvais, 553. Beccarini, Giacoma, vedi Zafira. Bedmar, marchese di, ambasciatore spagnolo, 55. Beethoven, Ludwig van, 502, 503, 577. Behrens, Leffman, 210. Belgrado, 12, 17, 18, 22, 89, 134, 155, 156, 232, 237, 238, 243, 245, 249, 258, 259, 275, 276, 293, 327, 358, 363, 367, 371, 374, 392, 415, 417, 418, 422, 424-430, 468-471, 476, 518, 520, 521, 529, 560, 561, 576, 582, 592, 595; pas¸a di, 90. Bellefonds, Bernardin Gigault de, maresciallo francese, 132. Bellini, Gentile, 517. Bellotto, Bernardo, 577. Belon, Pierre, 519. Benaglia, Giovanni, 246, 562, 563.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Bender, sul Dnestr, 455, 594. Bendimahi, fiume, 12. Bendl, Ignaz, 572. Benetti, Antonio, 242, 573. Benvenuti, Galeazzo, 432. Benvenuti, Gianbattista, conte, 271, 374, 404, 406, 407, 411, 431, 432, 589-591. Benvenuti, Livio, 431. Benvenuti, Lucrezia, 432. Benvenuti, Scipione, 411. Berlino, 314, 453, 572, 599. Berna, 58, 580. Bernardino da Siena, santo, 561. Bernardo da Porto Maurizio, frate cappuccino, 579. Bernardo di Clairvaux, santo, 289, 555. Berneri, Giuseppe, 357. Bernini, Gian Lorenzo, 577. Bertran de Born, 477. Bertucci, Francesco Antonio, 539. Bessarabia, 476. Beszterazbánya, vedi Neuhäusel. Bethlen, Gábor, principe di Transilvania, 106, 137. Béthune, François-Gaston de, diplomatico francese, 189, 201-203. Betlemme, 84. Beverini, Bartolomeo, 580. Bevilacqua, Luigi, rappresentante pontificio nei Paesi Bassi, 196, 197. Bevilacqua-Aldobrandini, Riccardo, 602. Bianchi, Vendramin, 543, 598. Bibliander, vedi Buchmann, Theodor. Bigi, Anna, madre di Raimondo Montecuccoli, 147. Biserta, 52, 53, 386. Blanco de Paz, Juan, 71. Blenheim, 445. Bloch, Marc, 12. Blois, 102. Bobowski, Wojciech, 485. Boccaccio, Giovanni, 494.

Bocskai, István, principe di Transilvania, 92, 537. Bodin, Jean, 43, 527. Boemia, 149, 150, 176, 207, 208, 210, 211, 250, 279, 280, 443, 449, 570, 575; re di, 138, 139, 275, 278, 282, 487, 557, 568, 569; vedi anche Ladislao II. Boiardo, Matteo Maria, 494. Bois-Brodant, Gabriel de, cavaliere di Malta, 114. Bologna, 17, 352, 355, 356, 565, 569, 573, 582, 585; Biblioteca dell’Archiginnasio, 578; Biblioteca Universitaria, 582; chiesa di San Girolamo alla Certosa, 536. Bolsena, lago, 149. Bon, Ottaviano, 540. Bona, 97, 538. Bonaparte, vedi Napoleone Bonaparte. Bonarelli, Prospero, 498. Bongars, Jacques, 101, 363, 523. Bonifacio, bocche di, 37. Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), papa, 362. Bonn, 426. Bonneval, Claude-Alexandre de (Ahmed Bonneval Pas¸a), conte, 475. Boppart, barone di, vedi Bayer, Georges. Borboni, dinastia, 101, 471. Borgo a Buggiano, villa Bellavista, 580. Borgogna, 168, 467, 516, 569. Borgomanero, marchese di, vedi Carlo Emanuele d’Este. Borgovico, 522. Bornholm, 547. Borodin, Alexander, 602. Borso d’Este, duca di Ferrara, 57. Bosforo, 8, 16, 57, 107, 187, 189, 192, 231, 236, 237, 290, 365, 453, 455, 498, 512, 517. Bosnia, 55, 120, 390, 392, 544; pas¸a di, 89, 522, 544.

Indice dei nomi di persona e di luogo Botero, Giovanni, 491. Bottesini, Giovanni, 505. Bourbon, François de, conte d’Enghien, 37. Bourbon, François-Louis de, conte di La Roche-sur-Yon, 311. Bourbon, Louis-Armand de, principe de Conti, 311. Bourbon del Monte, famiglia, 538. Bourbon del Monte, Francesco, 97. Bourbon-Vendôme, François de, duca di Beaufort, 129-132, 545. Bourdeille, Pierre de, signore di Brantôme, 476, 520. Boyneburg, Johann Christian, 364. Brabante, 167. Bragadin, Marcantonio, 47, 48. Brahms, Johannes, 503. Brandano, “profeta”, 22. Brandeburgo, 140, 152, 184, 197, 203, 314, 391, 410, 415, 425, 547, 555; elettore di, 152, 203, 250, 253, 410, 414, 550; margravio di, vedi Hohenzollern, Federico Guglielmo. Brantôme, signore di, vedi Bourdeille Pierre. Brasile, 94. Bratislava (Presburgo, Pressburg, Pozsony), 34, 92, 153, 210, 237, 253, 256, 267, 275, 289, 318, 319, 370, 558, 566. Braudel, Fernand, 12, 87, 527. Braunschweig, 385, 390, 585. Brecht, Bertolt, 288, 463. Breitenbrunn, 261. Breitenfeld, 148, 515. Brenta, fiume, 322. Brescia, 586. Bressanone, vescovo di, 571. Breuner, Sigfried, conte, vescovo di Vienna, 280, 380. Breydenbach, Bernard von, 509. Brillebaut, Françoise de la Châtre de, 552. Brod, 417.

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Broumov, 570. Brubeck, Dave, 503. Brue, Benjamin, 459. Brunswick-Lüneburg, duca di, 130; vedi anche Giorgio Luigi. Bruxelles, 151, 568. Bucarest, 467. Buchmann, Theodor (Bibliander), 487, 488, 490, 492. Buczacz (Bucˇacˇ, Buchach), trattato di, 179, 180, 184. Buda, 15, 34, 36, 89, 101, 142, 156, 160, 227, 234, 248, 259, 261, 275, 327, 333, 358, 367, 370, 371, 374, 375, 392, 403-408, 410, 412-416, 418, 422, 430, 444, 480, 481, 519, 524, 557, 558, 561, 565, 567, 576, 580, 587-589; chiesa di Maria Assunta, 413; pas¸a di, 138, 143, 185, 327, 411, 565; vedi anche Abd arRahman Abdi; Ali; Ibrahim. Bugia, 20. Bukovina, 467. Bulgaria, 89, 393, 429, 563. Buonvisi, Francesco, cardinale, nunzio apostolico, 172, 173, 179-182, 188, 196, 197, 200, 207, 208, 211, 249, 251, 258, 266, 269, 321, 329, 356, 376, 377, 379, 380, 399, 400, 402, 420, 428, 556, 589, 591. Burgenland, 261, 557. Burgo, vedi Giovan Battista de Burgo. Burnacini, Ludovico, architetto, 348, 572. Bursa, 554. Busbeck, vedi Ogier de Busbeck. Bush, George W. jr., 193. Bussi, Papirio, 538. Butrinto, 597. Byron, George Gordon, lord, 595. Cacciamari, Raffaello, 96. Cadice, 7. Caetani, Enrico, cardinale, legato papale a Varsavia, 89. Cafer, eunuco, 79.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Cagliari, 26. Cairo, 84, 282. Calabria, 25, 541. Calabuis (Catizzone), vedi Sebastiano da Venezia. Calamata, 389. Cˇaˉldiraˉn, 12. Callisto III (Alonso de Borja), papa, 529. Cambise, re di Persia, 64. Cambrai, 17, 275, 569; lega di, 11. Camões, Luís Vaz de, 61, 363. Campanella, Tommaso, 7, 104, 363, 539. Campra, André, 501, 601. Canarie, isole, 19. Cancellieri, capitano, 586. Candia (Creta), isola, 81, 109, 110, 112, 114-116, 121, 122, 124-130, 132, 134, 135, 138, 145, 150, 154, 161, 163, 165, 166, 185, 190, 199, 241, 284. 286, 287, 361, 366, 381385, 395, 398, 429, 441, 456, 464466, 472, 497, 501, 543-546, 549, 558, 598; bailo di, vedi Lippomano, Gerolamo; Moro, Giovanni; governatore di, vedi Corner, Andrea. Candia (Herakleion), capitale di Creta, 11, 131, 133, 161, 179, 218, 232, 300, 542, 543; bastione di Sant’Andrea, 130. Candia Nova, 125-127. Canea, porto di Candia, 116, 124, 127, 543. Canigiani, famiglia, 6. Canim Hoca Haci Mehmed, kapudan pas¸a, 460. Canisio, Pietro, gesuita. 278. Canossa, vedi Matilde di. Cantacuzeno, Serban, hospodar di Valacchia, 258, 259, 291, 300. Cantemir, Constantin, 599. Cantemir, Dimitrie, vojvoda di Moldavia, 486, 599. Caorlini, gioielliere, 521.

Capestrano, vedi Giovanni da Capestrano. Capodistria, 559. Cappello, Antonio Marin, 113, 116, 118. Cappello, Giovanni, 118, 372, 384, 541. Caprara, Carlo Alberto, conte, 217, 222, 223, 228, 235, 237, 238, 242, 245, 246, 248, 259, 293, 296, 302, 560, 562, 563, 565, 574. Caprara, Enea Silvio, generale, 150, 205, 210, 217, 266, 313, 321, 332, 409, 559, 588. Caracciolo, Giovanni, principe di Melfi, 25, 522. Carafa, Adriano, duca, 590. Carafa, Antonio, generale dell’esercito imperiale, 205, 321, 322, 354, 418-420, 434, 435, 438, 447, 590. Carafa, Carlo (1519-1560), nipote di Paolo IV, cardinale, 41. Carafa, Carlo (1611-1680), nunzio pontificio, cardinale, 140, 152, 153, 163, 321, 543, 589. Carinzia, 517, 568. Carione, Giovanni, 487. Carlo, arciduca d’Austria, 546. Carlo, duca di Lorena, xi, xii, 173, 180-182, 212, 213, 215, 218, 253, 255-257, 262, 263, 266, 267, 291, 298, 302, 303, 305, 306, 313, 316324, 328, 329, 331, 332, 334, 335, 342, 368-370, 380, 392, 399, 403, 404, 407-409, 412, 413, 416, 417, 426, 428, 444, 469, 547, 553, 555, 558, 566, 571, 575. Carlo I Gonzaga, duca di Mantova, 177. Carlo II, principe di Pfalz-Neuburg, elettore palatino, 572. Carlo II, re di Inghilterra. 163. Carlo II, re di Spagna, 201, 203, 236, 418, 572, 587. Carlo II Gonzaga-Rethel, 547, 571.

Indice dei nomi di persona e di luogo Carlo III, principe di Pfalz-Neuburg, elettore palatino, 572. Carlo IV, imperatore, 568. Carlo V, imperatore e re di Spagna, 14, 15, 17, 20-32, 36-41, 47, 56, 58, 59, 87, 93, 163, 275, 277, 487, 490, 521, 522, 525, 526, 529, 568-570. Carlo VI d’Asburgo, imperatore, 349, 446, 449, 461, 567, 572, 593. Carlo VIII, re di Francia, 9, 28. Carlo IX, re di Svezia, 537, 552. Carlo X Gustavo di Zweibrücken, re di Svezia, 139, 140, 151, 547. Carlo XI Wasa, re di Svezia, 140, 222, 547. Carlo XII, re di Svezia, 344, 448, 455, 462, 547, 594, 596. Carlo Alessandro, duca di Württemberg, 572. Carlo Emanuele I, duca di Savoia, 88, 102. Carlo Emanuele d’Este, marchese di Borgomanero, ambasciatore di Spagna a Vienna, 212, 402. Carlo Gonzaga, duca di Nevers, 101, 363. Carlomagno, 21, 28, 154. Carlo Martello, 603. Carlone, Carlo, pittore, 349. Carlopago, 55. Carlowitz (Karlowitz, Sremski Karlovci), pace di, 105, 398, 442, 444, 445, 450, 451, 454, 456-458, 460, 511, 593. Carnia, 55, 517. Carniola (Kranjska, Krain), 8, 517, 568. Caronni, Felice, padre barnabita, 536. Carosone, Renato, 602. Carpazi, 440, 537. Carpio, marchese di, viceré di Napoli, 314. Cartagena, 37. Carvajal, Juan, cardinale, 561. Casablanca, 62.

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Casale Monferrato, 214, 401, 556, 592. Casanova, Giacomo, 475. Casarsa, 517. Caspio, mare, 59, 67, 87, 454, 567. Castaldo, Giovanni Battista, generale dell’esercito imperiale, 35. Castel, Charles, abate di Saint-Pierre, 474. Castel di Morea, 460. Castellar, conte di, ambasciatore spagnolo a Vienna, 167. Castelnuovo Illirico, 390, 585. Castiglia, 26, 37. Castro, 28, 149, 523. Catalogna, 25. Cateau-Cambrésis, 527. Caterina, sorella di Carlo V, 59. Caterina de’ Medici, regina di Francia, 506, 535. Caterina di Russia, la Grande, 455, 597. Cattaro, 113, 457, 458, 538; bocche di, 390. Caucaso, 8, 454. Cecora, fortezza moldava, 107. Cefalonia, 117, 585. Celeste, Andrea (Venedikli Hassan), 71, 533. Celestino V (Pietro da Morrone), papa, 581. Cem (Djem, Jem), 9, 98, 517. Cervantes, Miguel de, 70, 71, 532. Cesare, Caio Giulio, 288, 342. Cesare d’Este, duca di Modena, 147, 532. Cesti, Antonio, musicista, 274. Cetinje (Cettigne), 390. Ceuta, 61, 62. Chaillot, 507. Chaligny, conte di, 92. Chalil Pas¸a, rais, 128. Chambord, 498, 507. Charleroi, 555. Charron, Pierre, 43. Chasteau, armaiolo francese, 401.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Chastelet des Boys, René, 533. Chateaubriand, François-René de, 83, 505, 530. Châteneu, Pierre-Antoine de (Mahout), ambasciatore francese, 451. Chavatte, tessitore di Lille, 315. Chelmno, 198. Cherso, isola, 12. Cherubini, Luigi, 504, 505. Chiabrera, Gabriello, 97. Chiarini, Marcantonio, pittore, 349. Chielafà, 389. Chigi, Fabio, vedi Alessandro VII. Chigi, Flavio, legato apostolico in Francia, 550. Chio, isola, 43, 122, 124, 216, 396398, 452, 586. Chmielnicki, Bogdan, 177, 551, 552. Chodkiewicz, Jan Karol, 107, 108. Chotyn (Chocim, Chotin, Khotin), 180, 181, 183, 540, 552. Churchill, John, vedi Marlborough. Churchill, Winston, 599. Cicladi, isole, 45. Cigala, Scipione (Sinan), kapudan pas¸a, 72, 95, 533. Cina, 354, 579, 586. Cipro, 12, 44-47, 51-54, 59, 78, 81, 87, 96, 109, 112, 115, 117, 135, 199, 288, 377, 381, 429, 527-529, 538, 543, 570, 583; regina di, vedi Corner, Caterina. Ciriffo, corsaro barbaresco, 386. Citera, isola, 460. Civitavecchia, 26, 75, 540. Clairvaux, 555. Clary de Florian, Jean Pierre, 504, 505. Clemente VII (Giulio de’ Medici), papa, 16, 22, 23, 24, 275, 520, 569. Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini), papa, 89. Clemente IX (Giulio Rospigliosi), papa, 128, 129, 193, 550. Clemente X (Emilio Altieri), papa, 166, 172, 179, 193.

Clemente XI (Giovanni Francesco Albani), papa, 566. Clemente XII (Lorenzo Corsini), papa, 492. Cleopatra, 31. Clermont-Ferrand, 154, 581. Clèves, 197, 534; duca di, 40. Cluj-Napoca (Kolozsvár), 35, 524. Cognac, lega di, 16, 17, 23, 275, 276. Coich, Giacomo, 313. Colbert, Charles, marchese di Croissy, 202, 252, 316, 368, 556. Colbert, Jean-Baptiste, 131, 596. Coligny, Jean de, conte di Saligny, 154-155, 157, 158, 160, 164, 165, 477. Collalto, Rambaldo, generale dell’esercito imperiale, 148. Colonia (Köln), 209, 550; elettore di, 168; vedi anche Massimiliano Enrico. Colonna, famiglia, 25, 521. Colonna, Marcantonio, 48, 542. Colonna, Vespasiano, 23. Comacchio, 532. Comnena, Elena, 98. Como, lago di, 522. Concini, Concino, 102. Condé, principe di, vedi Gran Condé. Conegliano, 559. Contarini, Domenico, ambasciatore veneziano a Vienna, 210, 224, 238, 377, 583. Contarini, Giovanni, detto «Cazzadiavoli», 521. Contarini, Simone, bailo, 481. Conti, François de, principe, 435, 574. Coornhert, Dirk, 58. Copenhagen, 152, 547. Coppin, Jean, 361, 362, 366, 367. Corai, Michelangelo, 97. Corbetelli, conte, 322. Corck, Hieronimus, 58. Corfù, 11, 29, 30, 53, 77, 78, 113, 117,

Indice dei nomi di persona e di luogo 384-386, 388, 439, 462, 472, 519, 523, 585, 596-598. Corinto, 9, 389, 393, 394, 396, 398, 456, 459. Corner, Andrea, governatore di Candia, 116. Corner, Caterina, regina di Cipro, 96. Corner, Federico, ambasciatore veneziano a Madrid, 418, 419. Corner, Girolamo, ammiraglio, 390, 392, 394, 395. Corone, 387-389, 460, 589. Coronelli, Vincenzo, frate francescano, 384. Correr, Antonio, senatore veneziano, 134. Corsica, 525, 543. Cortés, Hernán, 37, 525. Cosimo de Carbognano, 493. Cosimo I de’ Medici, granduca di Toscana, 11, 41, 48, 52, 93, 99, 526, 527, 529. Cosimo II de’ Medici, granduca di Toscana, 95, 98, 99, 102, 314, 479. Cosimo III de’ Medici, granduca di Toscana, 203, 352, 376, 378, 386, 414, 534, 574, 583, 586. Cosmopoli, vedi Portoferraio. Costantino, imperatore romano, 342. Costantino XI, imperatore bizantino, 536. Costantino, Antonio, 414. Costantinopoli, vedi Istanbul. Courtrai, 401, 555. Cracovia, 34, 139, 152, 183, 239, 322, 576; Museo Wawel, 579; vescovo di, vedi Trzebicki, Andrzej. Creta, vedi Candia. Crimea, 19, 67, 108, 120, 153, 176, 180, 188, 234, 239, 247, 320, 327, 341, 375, 476, 551, 552, 603; khan di, vedi Mehmed Giray. Cristina di Lorena, 94, 97. Cristina Wasa, regina di Svezia, figlia di Gustavo II Adolfo, 150-151, 262, 506, 547.

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Cristofori, Carlo Domenico, vedi Marco d’Aviano. Cristoforo di Württenberg, principe, 25. Croazia, 34, 144, 169, 175, 250, 277, 313, 374, 439, 441, 442, 461, 483, 549, 557, 558; bano di, vedi Erdödy, Miklós; Zríny, Miklós. Croissy, marchese di, vedi Colbert, Charles. Cromwell, Oliver, 119, 150, 599. Cronberg-Dupigny, Bernhard von, conte, colonnello dei dragoni, 301. Cuenca, 579. Cuneo, 592. Curzolari, isole, 387, 529. Cusani, marchese, 271. Cusano, Nicola (Niccolò da Cusa), cardinale, 487-489. Cybo-Malaspina, Alderano (Alderamo), cardinale, segretario di stato, 193, 194, 196, 204, 258, 269, 312, 554-556, 583. Cybo-Malaspina, Carlo, nipote del cardinale Alderano, 555. Czehryn´, 183. da Filicaia, Vincenzo, 357. da Galliano, Marco, 539. d’Alembert, Jean Baptiste Le Rond, 516. Dalla, Lucio, 288. Dalmazia, 9, 11, 34, 55, 75, 120, 378, 383, 383-385, 390, 392, 396, 398, 439, 442, 457, 543, 544, 557, 597. Damad Ali, gran visir, 458. Damietta, 361. Dampierre, Henri Duval, conte, generale dell‘esercito imperiale, 279. Dandini, Pietro, pittore, 353, 580. Daniele, profeta, 491, 529. Danilo di Cettigne, 457, 458. Danimarca, 140, 151, 171, 197, 537, 547, 594: re di, 25. d’Annunzio, Gabriele, 602. Dante Alighieri, 494, 500.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Danubio, xi, xii, 15, 19, 33, 34, 153, 155, 156, 190, 205, 215, 217, 222, 227, 236, 245, 248, 259, 261, 263, 265, 267, 269, 285, 289, 291, 292, 295, 298, 300, 312, 315, 317-320, 322, 328-330, 332, 340, 342, 362, 370, 371, 374, 403, 405, 407, 408, 410, 411, 417, 425, 430, 439, 441, 444, 467, 468, 519, 537, 560-562, 568, 573, 574, 588. Danzica, 152. Da Ponte, Lorenzo, 504. d’Arco, Prospero, conte, 49, 530. Dardanelli, 120, 122, 216, 385, 398, 454, 456, 463, 465, 466, 472, 584. d’Aste, Michele, barone, 589. Dati, Alessio, mercante lucchese, 534. Daun, Wilhelm von, 300. Dawit’ Bek, 473. De André, Fabrizio, 533. Debrecen, 206, 418, 419, 524. De Curtis, Antonio, vedi Totò. De Ferrariis, Antonio, 86, 496, 536. Degenfeld, Christof Martin von, 544. Degenfeld, Hannibal von, barone, generale, 324, 332, 392. Degni, Demetrio, stampatore, 588. Delacroix, Eugene, 602. Del Born, Bertran, vedi Bertran de Born. Delfinato, 592. Delhi, 7, 119. Della Rocca, Luca, fuorilegge napoletano, 394. Della Rovere, famiglia, 523; vedi anche Francesco Maria. Della Torre, famiglia, 271. Della Torre, Francesco, conte, 272, 312. Della Valle, Cesare, 602. Della Valle, Pietro, 68, 363, 380, 491, 492, 509, 532, 581. De Luca, Isacco, 481, 482. Denain, 446, 576. De Pace, Carlo Maria, 271.

de Paul, Vincent: vedi Vincenzo de’ Paoli. De’ Rossi, Antonio, stampatore, 355. De Ville, François (Francesco Ghiron di Villa), 127. Diana, vedi Artemide. Diderot, 516. Dietrichstein, conte, 347. Dietrichstein, Adam von, 68. Dietrichstein, Margarethe von, moglie di Raimondo Montecuccoli, 151, 548. Di Giacomo, Gegè, 602. Dinglinger, Johan Melchior, 506. Diodato, Giovanni, 481, 482. Dionigi, rinnegato calabrese, 72. Dionigi di Ryckel, monaco certosino, 487-489. Di Poggio, Michele, 354, 356. Disney, Walt, 515. Dixmunde, 401. Diyarbekir, pas¸a di, vedi Kara Mehmed. Djem, vedi Cem. Dnepr, 105, 177, 202, 205, 551-553. Dnestr, 108, 183, 378, 455, 476, 512. Dobrugia, 245. Dolfin, Giovanni, 117. Dolfin, Girolamo, 398. Dolfin, Giuseppe, 544. Dolfin, Nicolò, 117. Domenico di Gesù Maria, frate carmelitano, 312. Domenisse, Pierre, ufficiale francese, 131. Don, fiume, 59, 595. Donà, Giambattista, bailo veneziano, 242, 493, 500, 545, 562, 578. Donà, Lunardo, 313. Donatello, scultore, 596. Dönhoff, Jan Cazimiersz, canonico, 352. Donizetti, Gaetano, 505, 601. Donizetti, Giuseppe, 505. Doria, famiglia, 529.

Indice dei nomi di persona e di luogo Doria, Andrea, 20, 23-26, 31, 36, 523, 525, 570. Doria, Giannandrea, 78, 95. Doria, Giannettino, 36, 40, 524. Dorošenko, Piotr, ataman cosacco, 183, 552, 553. Dózsa, György, 554. Dragut (Turghud Ali), 40, 41, 44, 71, 525, 526, 534. Drava, fiume, 156, 259, 262, 403, 404, 406, 408, 409, 412, 416, 417, 441, 444. Dreimarkstein, 334, 576. Dresda, 298, 484, 506, 507, 585, 599. Dschelalzade, Mustafa, 537. Dubois, Pierre, 362. Dubrovnik (Ragusa), 71, 110, 245, 578. Duca, Georghes, principe moldavo, 291. Dumas, Alexandre, padre, 128, 546. Dünewald, Johann Heinrich von, colonnello dei dragoni imperiali, 298. Duquesne, Abraham, ammiraglio fran­ cese, 216. Durac, corsaro ottomano, 128. Dürnstein, 317, 323, 574. Eberfurth, 261. Ebergeny, conte, 470. Edirne (Adrianopoli), 16, 44, 45, 49, 89, 136, 153, 186, 235, 237, 240, 242, 243, 250, 293, 371, 423, 439, 440, 455, 456, 519, 573, 582. Edvige, regina di Svezia, 547. Edvige di Neuburg, principessa, 577, 591. Egeo, mare, 5, 45, 115, 117, 120, 163, 187, 376, 378, 391, 396, 456, 461, 463, 465, 541. Eger (Erlau), 34, 92, 408, 418, 419, 490; beylerbeyi di, vedi Ahmed Pas¸a. Egina, isola, 442, 459. Egitto, 8, 12, 48, 94, 112, 114, 246,

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364, 485, 508, 539, 546, 581; beylerbeyi di, vedi Sinan Pas¸a. Eglin, Carl-Martin, 58, 580. Eisenstadt, 261. Elba, isola, 39, 386, 525, 526. Eleonora di Sassonia-Esembach, 560. Eleonora Maddalena di Pfalz-Neuburg, terza moglie di Leopoldo I, 268, 572. Eleonora Maddalena Gonzaga-Rethel, moglie di Ferdinando III, 142, 546, 547, 552, 571. Eleonora Maria Giuseppa d’Asburgo, sorellastra di Leopoldo I, 179, 213, 547, 571. Elisabetta I, regina d’Inghilterra, 62, 63, 67, 88, 96. Elisabetta d’Orléans, 437. Elisabetta Carlotta d’Orléans («Madame Palatine»), 423, 437, 591. Ellade, 579. Emanuele Filiberto, duca di Savoia, 11, 530. Emilia, 457, 555. Empoli, 414. Enghien, duca di, 180. Enrichetta d’Inghilterra, prima moglie di Filippo d’Orléans, 591. Enrico, cardinale, fratello di Sebastiano del Portogallo, 531. Enrico il Navigatore, Infante del Portogallo, 60, 62. Enrico II, re di Francia, 40. Enrico IV, re di Francia, 94, 95, 363, 523, 550. Enrico VIII, re d’Inghilterra, 525. Enzersdorf, 320. Eperjes, vedi Prešov. Epiro, 378, 390, 519. Erasmo da Rotterdam, 18, 477, 487, 581. Ercole I d’Este, duca di Ferrara, 57. Ercole II d’Este, duca di Ferrara, 56, 57. Erdödy, Miklós, bano di Croazia, 352. Erfurt, 550.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Erlau, vedi Eger. Ermanno, margravio del Baden, 210, 211, 222, 228, 238, 259, 262, 330, 332, 407, 563, 584. Ernesto d’Asburgo, arciduca, 278, 281. Ernesto Augusto I, duca di Hannover, 314. Erpen, Thomas van (Erpenius), 491. Érsekújvár, vedi Neuhäusel. Erzegovina, 120, 457. Escalin des Aymars, Antoine («capitaine Polin»), barone de la Garde, 525, 526. Eschilo, 579. Esma’ıˉl I, shah di Persia, 12. Esmihan, figlia di Solimano il Magnifico, 528. Espinosa, Gabriel de, 64. Esseg, vedi Osijek. Estensi (d’Este), famiglia, 57; vedi anche Alfonso; Almerico; Anna; Borso; Carlo Emanuele; Cesare; Ercole; Luigi. Esterházy, Pál, palatino d’Ungheria, 255, 257, 293, 323-325, 409. Estienne, Henri, 489. Estrées, duca de, ambasciatore francese presso la Santa Sede, 197, 367. Estrées, François Hannibal de, cardinale, 224, 241, 364, 368. Esztergom (Gran, Strigonia), 34-35, 89, 92, 370, 371, 374, 376, 380, 409, 582; arcivescovo di, vedi Szlepcsényi, György. Etiopia, 485; negus di, 20, 33, 60, 539. Eubea, vedi Negroponte. Eufrate, fiume, 8. Eugenia, moglie di Napoleone III, 581. Eugenio IV (Gabriele Condulmer), papa, 152. Eugenio di Savoia, 266, 271, 281, 309-312, 328, 330-332, 348, 349, 392, 411, 416, 436, 438-441, 444-

447, 463, 466-470, 475-478, 545, 566, 577, 578, 597. Eugenio Maurizio di Savoia Carignano, conte di Soissons, 310. Europa, passim; centrale, xiv, 5, 8, 359; centro-orientale, 4, 143, 187, 361; nord-occidentale, 110; occidentale, 8, 51, 176, 187, 196, 376, 379; orientale, 16, 42, 483. Evliyâ Celebi, 127, 141, 159, 166, 296, 568. Ezechiele, profeta, 18. Fabricius, 570. Fa˘ga˘ras¸, 420. Fakhr ad-Din, emiro druso, 95, 98, 99, 102, 539, 541. Famagosta, 44, 47, 97. Farnese, famiglia, vedi Odoardo; Pier Luigi; Ranuccio. Fathma, figlia del profeta Muhammad, 289. Fazil Ahmed Köprülü, gran visir, 124, 127, 144, 152, 155, 156, 165, 186, 422, 465. Fazil Mustafa Köprülü, gran visir, 422, 423, 429, 430, 438, 576, 586. Febure, Michel, frate cappuccino, 365. Febvre, Lucien, 288. Federico I di Assia-Cassel, 594. Federico I di Hohenstaufen (Barbarossa), 19, 64. Federico II di Hohenstaufen, 64, 453, 507. Federico III, imperatore, 557, 569, 570. Federico di Montefeltro, duca di Urbino, 522. Federico di Prussia (Federico il Grande), 478. Federico Augusto I, elettore di Sassonia (Augusto II, re di Polonia), 433, 435, 437, 448, 502, 585, 592, 594, 599, 602.

Indice dei nomi di persona e di luogo Federico Guglielmo I di Prussia, 314, 507. Fëdor III, czar di Russia, 197, 202. Fehrbellin, 547. Fella, fiume, 517. Fénelon (François de Salignac de La Mothe-Fénelon), 475. Fenicio, Ottavio, 271. Ferdinand Karl di Wirtenberg, 285. Ferdinando, arciduca del Tirolo, 484, 571. Ferdinando d’Aragona, 10, 11. Ferdinando I d’Asburgo, fratello di Carlo V, 33, 34, 43, 49, 55, 275, 276, 484, 487, 524-527, 568, 569. Ferdinando I de’ Medici, granduca di Toscana, 88, 93-99, 527, 531. Ferdinando II d’Asburgo, imperatore, 15, 137, 148, 279, 280, 546, 571. Ferdinando II de’ Medici, granduca di Toscana, 479, 554. Ferdinando III d’Asburgo, imperatore, 137-139, 149, 151, 170, 255, 274, 280, 546, 547, 552. Ferdinando IV, re dei romani, 138, 139, 151. Ferdinando Maria, principe elettore di Baviera, 171, 556, 587. Feroni, Fabio, marchese, 580. Feroni, Francesco, marchese, 580. Ferrante Gonzaga, 37. Ferrara, 56, 57, 147, 193, 352, 355, 533, 555, 585; duca di, 92; vedi anche Alfonso II d’Este; Borso d’Este; Ercole I d’Este; Ercole II d’Este. Ferriol, Charles de, marchese, ambasciatore francese, 432, 451, 452. Fez, 61-64; sultano di, vedi Muhammad al-Mutawwakil. Fiandra (Fiandre), 40, 67, 148, 151, 186, 198, 236, 310, 325, 327, 445447, 527, 583. Fidenzio da Padova, 362. Filarchi, Cosimo, 474. Filibe, vedi Plovdiv. Filippo, arciduca d’Austria, 569.

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Filippo, duca d’Angiò, vedi Filippo V, re di Spagna. Filippo, re di Macedonia, padre di Alessandro Magno, 307. Filippo II, re di Spagna, 41, 45, 46, 52, 53, 59, 60, 62, 65, 67, 87, 93, 527, 529, 531. Filippo III, re di Spagna, 47, 92, 95, 102, 274, 546, 550. Filippo IV, re di Spagna, 141, 166, 167, 546, 547, 550, 587. Filippo V (duca d’Angiò), re di Spagna, 446, 471, 574. Filippo d’Assia, 569. Filippo d’Orleans («Monsieur»), fratello di Luigi XIV, 437, 591. Filippo Emanuele di Lorena, duca di Mercoeur, 91. Filippo Guglielmo, principe di PfalzNeuburg, elettore palatino, 272, 572. Filippopoli, vedi Plovdiv. Firdausi, 554. Firenze, 8, 17, 41, 42, 98, 99, 102, 275, 276, 352, 355, 356, 377, 387, 517, 522, 524, 529, 534, 539, 564, 569, 574, 596; arcivescovo di, vedi Morigia Jacopo Antonio; chiesa della Santissima Annunziata, 353, 574; chiesa di San Lorenzo, 100; chiesa di Santa Maria Novella, 495; Galleria Palatina, 479; giardino di Boboli, 99; Villa Arrivabene, 538. Fischamend, 290. Fischer von Erlach, Johann Bernhard, architetto, 348, 349, 572, 577. Fiume (Rijeka), 34, 55, 471. Flaubert, Gustave, 602. Florimond, Cladius, conte di Mercy, 575. Focea, 110. Fodella, porto di Creta, 542. Fogliano, 10. Fondi, 23. Fontana, Carlo, architetto, 348. Fontenoy, 507.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Forbin-Janson, Toussaint de, vescovo di Marsiglia, cardinale, 180, 181, 184, 553. Forchtenstein, 261. Foscari, Francesco, doge di Venezia, 112, 377. Foscarini, Michele, senatore veneziano, 134. Foscarini, Pietro, ambasciatore veneziano, 108, 252. Foscolo, Leonardo, 544. Foucher de Careil, Alexandre, 581. Franca Contea, 169, 555. Francesco I, duca di Modena, 149. Francesco I, granduca di Toscana, 56, 57, 62, 94. Francesco I, re di Francia, 14, 21, 22, 24-30, 32, 33, 37, 40, 58, 163, 275, 276, 315, 363, 425, 522, 525, 546, 569. Francesco II, duca di Modena, 588. Francesco II d’Asburgo, imperatore, 577. Francesco II Nicola, duca di Lorena, 553. Francesco d’Assisi, 500, 559. Francesco di Lorena, duca di Guisa, 56-57. Francesco Gonzaga, figlio di Vincenzo I, 93. Francesco Maria I Della Rovere, duca di Urbino, 30, 523. Francesco Stefano di Lorena, 437, 476, 572. Francia, passim; re (regina) di, vedi Caterina de’ Medici; Enrico II; Enrico IV; Francesco I; Luigi IX; Luigi XII; Luigi XIII; Luigi XIV; Luigi XV. Franck, Johann W., 503. Franco y Bahamonde, Francisco, 603. Francoforte, 230, 567. Franconia, 314, 317, 320, 332, 424, 596. Frangipane, famiglia, 55. Frangipane, Odorico, 270.

Frangipani, Giovanni Francesco, 522. Frankopan (Frangipane, Frangipani), Fran Krsto, 553. Frankopan, Katarina, moglie di Péter Zrínyi, 553. Franz, Günther, 105. Frappolli, Antonietta, nobildonna milanese, 601. Frediani, Giovan Battista, 356, 580. Fredriksborg, 513. Fredrikshald, 594. Fregoso, Cesare, 25, 32, 523. Freiburg im Breisgau, 555. Frianoro, Raffaele, 82. Friederich Karl, principe reggente di Württemberg, 391. Frignano, 147. Friuli-Venezia Giulia, 8, 9, 55, 396, 517, 532, 543, 544, 559. Frühwirt, Johann, 572. Fugger, famiglia, 26. Fülek, 227. Fünfkirchen, vedi Pécs. Fürstenberg, 165. Gabès, golfo, 41. Gabriele Sionita, vedi Jibrail es-Sayuni. Gabrieli, Gabriele, architetto, 348. Galántha, 324. Galasso, Mattia, generale dell’esercito imperiale, 149. Galatone, 86. Galieni, Luca (o Giovanni), vedi Uluç Ali. Galilea, 45, 539. Galland, Antoine, 454, 493, 509, 600. Gallia, 288. Galoppi, Girolamo, rinnegato, 393. Gand, 555. Gange, fiume, 500. Garfagnana, 529. Gautier, Théophile, 602. Gazanfer Ag˘a, capo degli eunuchi bianchi, 79, 80. Gem, vedi Cem.

Indice dei nomi di persona e di luogo Gemelli Careri, Giovanni Francesco, 496. Generali, Pietro, 505. Genghiz Khan, 579, 599. Genova, 26, 36, 41, 75, 92, 117, 121, 205, 254, 275, 314, 378, 388, 401, 485, 509, 543, 570, 579. Georgia, 107. Gerakaris, Liberakis, pirata, 394. Geràpetra, porto di Candia, 542. Germania, 49, 102, 150, 152, 175, 176, 236, 273, 275, 283, 309, 310, 312, 314, 353, 393, 425, 467, 507, 540, 557, 560, 594. Gertshof, 333. Gerusalemme, 6, 12, 18, 27, 48, 56, 58, 96-99, 119, 355, 363-365, 367, 376, 377, 405, 414, 454, 485, 508, 518, 538, 541, 554, 561; Cupola della Roccia, 567; moschea di AlAqsa, 84; Santo Sepolcro, 599. Gharabagh, 473. Ghiselli, Giovanni Maria, 536. Giacomo II Stuart, re d’Inghilterra, 425. Giangastone de’ Medici, granduca di Toscana, 572, 574. Giannone, Pietro, 478. Giansenio, vedi Jansen. Giappone, 354, 579. Gibbon, Edward, 603. Gibilterra, 20, 23, 58, 61, 62, 80, 536. Giglio, isola, 39. Ginori, Alessandro, 539. Giorgio I, re d’Inghilterra, vedi Giorgio Luigi, duca di BrunswickLüneburg. Giorgio I di Hannover, 585. Giorgio Luigi, duca di BrunswickLüneburg (poi Giorgio I d’Inghilterra), 314, 575. Giotto, 232. Giovan Battista de Burgo, abate, 480, 481, 599. Giovanna, figlia di Carlo V, 59, 60.

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Giovanni, figlio di Giovanni III del Portogallo, 59, 60. Giovanni II Casimiro Wasa, re di Polonia, 177, 179, 547. Giovanni III, re del Portogallo, 59, 60. Giovanni III, re di Polonia, vedi Sobieski, Jan. Giovanni d’Austria, fratellastro di Filippo II, 47-52, 54, 343. Giovanni da Capestrano, 134, 232, 270, 312, 360, 560, 561. Giovanni de’ Medici, 99, 100, 539. Giovanni di Segovia, 487. Giovanni Andrea, giureconsulto, 490. Giovanni Giorgio III, elettore di Sassonia, 222, 298, 314, 318, 332. Giovanni Guglielmo II, principe di Pfalz-Neuburg, elettore palatino, 572. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła), papa, 555. Giovanni Sigismondo, figlio di János Zápolya, 34. Giovio, Paolo, 12, 24, 40, 43, 521, 522, 532, 600. Giraldi Cinthio, Giovanni Battista, 498. Girard, Dominique, 349. Giron, Pedro, duca di Ossuna, viceré di Napoli, 55. Giudea, 232. Giuditta, 463, 596. Giulia Gonzaga, 23. Giuliani, Giovanni, scultore, 348. Giulio II (Giuliano della Rovere), papa, 10, 11. Giulio III (Giovanni Maria Ciocchi del Monte), papa, 40. Giulio Francesco, duca di SassoniaLauenburg, 330. Giuroy, Paolo, 539. Giuseppe, frate cappuccino, «eminenza grigia» di Richelieu, vedi Joseph, frate cappuccino. Giuseppe, cristiano rinnegato, 74-76.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Giuseppe I d’Asburgo, arciduca, imperatore, 269, 282, 349, 413, 445, 448, 449, 567, 572. Giuseppe II d’Asburgo, imperatore, 503, 601. Giuseppe Ferdinando, figlio di Maria Antonia d’Asburgo e di Massimiliano II Emanuele, 587. Giustinian, Giovanni Francesco, 521. Giustinian, Marcantonio, doge, 392. Giustiniano, imperatore, 275. Gluck, Christoph Willibald, 502, 503. Gninski, Janusz, conte palatino di Polonia, 198. Gobi, deserto, 567. Godunov, Boris, czar di Russia, 64. Goess, Johann von, diplomatico austriaco, 140. Goethe, Johan Wolfgang, 453. Gogol’, Nikolai, 551. Golfo Persico, 517. Goltz, Joachim Rüdiger von der, feldmaresciallo di Sassonia, 335. Gonçalves Annes Bandarra, Antonio, 531. Gonzaga, famiglia, 25, 142, 571; vedi anche Carlo; Francesco; Eleonora; Ferrante; Giulia; Guglielmo; Luigi; Ludovico; Maria; Maria Luigia; Vincenzo. Gonzaga-Rethel, famiglia, vedi Carlo II; Eleonora Maddalena. Gorizia, 10, 517, 559. Goro, 532. Govoni, famiglia, 6. Grabusa, 133. Gradisca, 10, 55, 417. Gran, vedi Esztergom. Gran, fiume, 229. Gran, Daniel, pittore, 349. Gran Condé (Luigi II di BorboneCondé), 180, 506. Gran Moghul, 506, 541. Gran Varadino, vedi Oradea. Granada, 19, 47, 67.

Grat¸iani, Gaspar (Graziani Gaspare), principe di Moldavia, 106, 540. Gravier d’Ortières, Étienne, 366. Graz, 156, 157, 223, 431, 577. Grecia, 98, 378, 383, 385, 394, 395, 457, 508, 509. Gregorio X (Tebaldi Visconti), papa, 362. Gregorio XIII (Ugo Boncompagni), papa, 54, 68. Greifenstein, 329. Greifswald, 547. Greillenstein, 484. Grémonville, Jacquel Betel de, cavaliere di Malta, 185, 550. Grimaldi, senatore veneziano, 542. Grimani, famiglia, 355. Grimani, Francesco, 589. Grimani, Giovanni Battista, provveditore di Candia, 124. Gritti, Alvise, 520. Gritti, Andrea, doge, 22, 29, 31, 520, 523. Grodno, 202, 400. Grosswardein, vedi Oradea. Grozio, Ugo (Hugo Grotius, Hugo de Groot), 491. Gruché, armaiolo francese, 401. Gruener, Lorenz, rettore dell’Università di Vienna, 286. Guadagni, Guglielmo, cavaliere di Beauregard, 97, 538. Guadagnini, Alessandro, 552. Guardi, Antonio, 596. Guastalla, 393. Guerrieri di Mantova, marchese, 271. Guglielmo d’Orange-Nassau, 344, 376, 425, 437, 583, 592. Guglielmo di Fürstenberg, principe, 25. Guglielmo Gonzaga, 539. Guicciardini, Francesco, 12, 14. Guidi, Cammillo, conte, 386-389, 393, 585. Guilleragues, Gabriel-Joseph de Lavergne, visconte di, ambasciatore

Indice dei nomi di persona e di luogo francese a Istanbul, 203, 216, 217, 452, 559, 561. Guinea, 507. Gunst, Matthias, 572. Gustavo I, re di Svezia, 552. Gustavo II Adolfo Wasa, re di Svezia, 148. Gutenberg, Johann, 486. Györ (Raab, Giavarino), 34, 137, 233, 237, 242, 247, 257, 261, 262, 266, 298, 302, 408, 524, 561, 565, 573. Gyulafehérvar, vedi Alba Julia. Hadice Turhân, madre di Mehmed IV, 120, 122. Hadziacz, 551. Haëdo, Diego de, monaco benedettino, 76. Hafsa, madre di Solimano il Magnifico, 519. Haidar, sceicco safavide, 516. Hainburg, 289. Haji Bektash Veli, 135, 518. Halle, 148. Hammamet, vedi Mahomedia. Händel, Georg Friedrich, 503. Hannover, 318, 385, 582, 594; duca (elettore) di, 209, 391, 585; vedi anche Ernesto Augusto I; Giorgio I. Harlan, Veit, 572. Harrach, Ernst Adalbert von, cardinale, arcivescovo di Praga, 570. Harrach, Ferdinand Bonaventura von, conte, 443. Harsány (Nagyhársany), 416. Hassan, rinnegato còrso, 72, 533. Hassan Ag˘a, 72, 524, 533. Hassan Pas¸a, beylerbeyi di Algeri, 70. Hassan Pas¸a, governatore della Morea, 585. Hatvan, 413. Haydn, Franz Joseph, 502, 503. Hazard, comandante lorenese, 585. Hazard, Paul, xiv, 508, 514. Heemskerk, Martin van, 58. Heidelberg, 281, 425, 491.

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Heidler, Jacob, 300. Heigenstadt, 334. Heisler von Heitersheim, Johann Donat, colonnello, 271, 291, 311, 328, 374, 575. Helmhardt von Hohberg, Wolf, barone, 566. Henri, marchese di Nevers, 552. Henriette di Clèves, 101. Herbelot, Barthélemy d’, 493. Herberstein, famiglia, 484. Herberstein, Johann Josef von, conte, cavaliere di Malta, 549. Hermannstadt, vedi Sibiu. Herrada di Landsberg, badessa di Hohenburg, 579. Hildebrandt, Johann Lukas von, architetto, 348, 349, 436, 476, 577. Hindukush, 562. Hirtenberg, Ferdinand Karl von, principe, 301. Hizir, vedi Khair ed-Din. Hobbes, Thomas, 474. Hocher, Johann Paul, barone di Hohenkrahn, 210, 222. Hoffmann, Johann Georg von, 296. Höflein, 329. Hohberg, Wolf Helmhard von, barone, 220. Hohenegg, castello nei dintorni di Vienna, 151, 152. Hohenkrahn, barone di, vedi Hocher Johann Paul. Hohenlohe, Julius von, 157. Hohenstaufen, vedi Federico I di Hohenstaufen; Federico II di Hohenstaufen. Hohenzollern, famiglia, 280. Hohenzollern, Federico Guglielmo, margravio del Brandeburgo, 173, 380. Holzhapel, generale dell’esercito imperiale, 150. Hörnigk, Philipp Wilhelm von, 511. Hottinger, Johan, 492.

­754

Indice dei nomi di persona e di luogo

Hracˇany, palazzo reale di Praga, vedi Praga. Hroby, 570. Huizinga, Johan, 366. Humières, Louis de Crevant duca di, maresciallo di Francia, 325. Hunyadi, János, 134, 232, 560, 561. Hunyadi, Mátyás, vedi Mattia Corvino. Hürrem, vedi Roxelane. Husayn Köprülü, gran visir, 438, 445, 451. Hus¸i (Hust), 432, 591. Hussein Pas¸a, ammiraglio, 397. Hussein Rais, detto «Mezzomorto», corsaro musulmano, 397, 558. Huxley, Aldous, 539. Ibiza, 37. Ibrahim, detto Shaitan, pas¸a di Buda, 183, 227, 259, 307, 308, 333, 341, 553. Ibrahim, gran visir di Solimano il Magnifico, 16, 493, 519-522. Ibrahim I, sultano, 78, 109, 114, 115, 120, 122, 138, 584. Ibrahim al-Ekleni (Abraham Echellensis), 492. Impruneta, 99. India, 354, 365, 579, 586. Indie orientali, 33, 60. Ingelheim, Franz von, arcivescovo di Magonza, principe elettore, 209. Inghilterra, xiv, 8, 67, 68, 96, 163, 176, 198, 253, 284, 314, 315, 361, 366, 376, 415, 425, 440, 472, 522, 533, 535, 555, 577, 582; re (regina) di, 25, 437; vedi anche Carlo II; Elisabetta I; Enrico VII; Giacomo II Stuart; Giorgio I. Inghirami, Jacopo, 97. Innocenzo III (Lotario dei Conti di Segni), papa, 6. Innocenzo X (Giambattista Pamphili), papa, 117, 121, 125, 193, 543, 555.

Innocenzo XI (Benedetto Odescalchi), papa, 193, 194, 197, 199, 201, 203, 207, 217, 224, 225, 241, 254, 324, 325, 351-353, 360, 371, 376, 378, 387, 401, 427, 433, 555, 578, 579, 583, 591. Innocenzo XII (Antonio Pignatelli), papa, 433, 552, 555. Innocenzo XIII (Michelangelo Conti), papa, 350. Innsbruck, 322, 484, 571. Ionie, isole, 53, 383, 396, 457. Ionio, mare, 29, 117, 362, 378, 461, 463, 472, 597. Iran, 562. Iraq, 517. Irlanda, 5, 62, 106. Irving, Washington, 602. Isabella, figlia di Sigismondo di Polonia e moglie di János Zapolya, 33, 34. Isabella del Portogallo, moglie di Carlo V, 59. Ischia, 23, 39. Isfahan (Ispahan), 7, 119, 274, 454, 483. Iside, 54. Iskender Bey, sancakbey di Bosnia, 9-10. Ismail Pas¸a, seraskier del Peloponneso, 389. Istanbul (Costantinopoli), passim; castello «delle Sette Torri» (Rumelì Hissar), 111, 216, 559; Corno d’Oro, 230, 452, 471; moschea di Aya Sofia (Hagia Sofia, Santa Sofia), 275, 422, 567; palazzo di Topkapi, 52, 232, 234, 485, 519; quartiere di Kiliç Ali Pas¸a Mahallesi, 533; quartiere di Pera, 10, 452. Istolni Belgrad, vedi Székesfehérvár. Istria, 383, 442. Italia, 29, 45, 51, 88, 112, 149, 152, 205, 236, 254, 283, 309, 312, 355, 360, 393, 416, 432, 433, 436, 482, 507, 518, 582, 583, 601; meridiona-

Indice dei nomi di persona e di luogo le, 20, 80; settentrionale, 169, 434, 592. Ivan III il Grande, czar di Russia, 536. Ivan IV il Terribile, principe di Moscovia e czar di Russia, 88, 536, 546. Ivan V Romanov, czar di Russia, 342, 378, 434, 583, 591. Jabłonowski, Stanisław Jan, ataman polacco, 330, 334, 337, 575. Jacopo da Empoli, 538. Jacques de Molay, 362. Jägerndorf, vedi Krnov. Jamal, Ahmad, 503. Jansen, Cornelius (Giansenio), 431. Jasna Góra, 321. Jassy, 476. Jaworów, 182. Jedlesee, 298. Jennesdorf, 156. Jerba, isola, 41, 42, 526, 527. Jibrail es-Sayuni (Gabriele Sionita), 492. Joanots du Vignau, signore di, 366. Johann-Adam von Liechtenstein, principe, 347, 348. Jommelli, Niccolò, 504. Jörger, Johann Quintin von, maresciallo della Bassa Austria, 222. Joseph, frate cappuccino, consigliere di Richelieu, 7, 101-103, 198, 363; vedi anche Leclerc du Tremblay François. Josephsberg; vedi Kahlenberg. Jouy, Etienne de, 504. Juliers, 534. Jurisics (Jurisich), Miklós, 18. Kahlenberg (Josephsberg, Monte San Giuseppe, Monte Calvo), xi, xiii, 306, 307, 328, 330-333, 355, 469, 515, 576. Kaiserbergsdorf, xii. Kakas, István, 91. Kalì Kartanou, 78. Kalismenos, porto di Candia, 114.

­755

Kalo, 208. Kamenecz (Kamienec Podolski, Kam’jenec Podils’kyi, KamenetsPodol’skij), 179, 183, 184, 188, 251, 442, 552, 553. Kanizsa, 34, 92, 257, 352. Kant, Immanuel, 489. Kaplan Mustafa, kapudan pas¸a, 464. Kaplírˇ von Sulevic, Kaspar Zdene˘k, conte, 285, 299, 303. Kara Baba, forte nei pressi di Negroponte, 393. Kara Mehmed, pas¸a di Diyarbekir, 291, 307, 332, 333. Kara Mehmed Pas¸a, 166, 481, 599. Kara Mustafa, gran visir, xii, 186, 189, 191, 193, 195, 201, 203, 205, 228, 232-234, 245-248, 257, 259-261, 290, 294, 295, 302, 303, 305-307, 314, 317, 327, 332, 333, 335, 336, 341, 371-374, 380, 405, 408, 459, 465, 469, 503, 565, 576, 578, 582, 601. Karakorum, 21, 68. Kardis, 547. Karl Eusebius von Liechtenstein, principe, 478. Karlowitz, vedi Carlowitz. Karpathos, 114. Kaschau, 403. Kassa, vedi Košice. Kaunitz, Dominik Andreas von, conte, 347. Kavalla, 398. Kazakhstan, 567. Kazan, 7. Kehl, 401, 402. Kemény, János, 144, 146. Ketelbey, Albert William, 602. Khadija, sorella di Solimano il Magnifico, 519. Khair ed-Din (Ariadenus, Hizir), il Barbarossa, 19, 20, 23-26, 31, 3640, 72, 77, 109, 277, 522-524, 535. Khevenhüller, famiglia, 347.

­756

Indice dei nomi di persona e di luogo

Khlesl, Melchior, cardinale, 279, 280, 570, 571. Khorasan, 518. Khotin, vedi Chotyn. Kiev, 175, 552. Kinsky, Franz Ulrich, ministro di Leopoldo I, 442, 443. Kira (Esther), schiava ebrea di Nur Banu, 535. Kittsee, 256. Kizil Alma, 275, 567. Kladovo, 429. Klosterneuburg, 263, 285, 298, 328, 329. Knab, Sebastian, arcivescovo, 380. Kollonics, Leopold, vescovo, cardinale, 211, 214, 215, 230, 257, 287, 291, 346, 420, 435, 558, 564. Köln, vedi Colonia. Kolozsvár, vedi Cluj-Napoca. Komárom (Komárno, Komorn), 233, 247, 261, 370, 408. Königsberg, 547. Königsegg-Rothenfels, Leopold Wilhelm, conte, vice-cancelliere dell’impero, 210. Königsmarck, Hans Christofer von, 585. Königsmarck, Maria Aurora von, sorella di Philip Christofer, 585. Königsmarck, Otto Wilhelm von, conte, 388, 392, 393, 585. Königsmarck, Philip Christofer von, 585. Körmend, 157. Korneuburg, 566. Korybut Wis´niowiecki, Michele, re di Polonia, 179, 180, 213, 547, 571. Korycin´ki, Piotr Mikołaj, ambasciatore polacco, 204. Kösem, madre di Murad IV, 77, 78, 108, 120, 122. Košice (Kassa), 34, 227, 247, 524, 560. Kosovo, 420. Kosovo Polje, 421.

Kostajnica, 417. Köszeg, 18. Kracker, Tobias, 572. Krain, vedi Carniola. Kranjska, vedi Carniola. Krems, 267, 298, 317, 318, 323, 574. Krnov (Jägerndorf), 314, 574. Kuefstein, Ludwig von, 484. Kulczycki, Jerzy Franciszek, 481, 482. Kunitz, Georg Christoph von, barone, 235, 246, 259, 300, 562, 573. La Châtre de Brillebaut, Françoise de, 552. La Colonnie, comandante, 470. La Croix, Edouard de, 366, 453, 485, 600. Ladislao, re di Polonia, 177. Ladislao «Postumo», 569. Ladislao II, re di Boemia e d’Ungheria, 568. La Feuillade, duca di, vedi Aubusson. La Forest, Jean de, diplomatico francese, 22, 25, 27, 30, 522, 523. Lagny, Paul de, frate cappuccino, vedi Paul de Lagny-sur-l’Oise. La Goulette, forte nei pressi di Tunisi, 26. La Grange d’Arquien, Marie-Adelaïde (Marie-Casimire, Marysien´ka) de, moglie di Jan Sobieski, xiii, 178, 181, 182, 189, 190, 251, 329, 400, 552, 575, 591. Laguna, Andrés, 70. La Haye, Denis de, 127. La Hogue, 426. L’Aja, 437. Lala Mustafa, visir, 44, 45, 47. Lamberg, Johan Maximilian von, conte, 168. La Motte, M. de, 501, 601. Lampedusa, 84. La Noue, François de, 67, 68, 363, 477. L’Aquila, 561. La Rochefoucauld, François de, 128.

Indice dei nomi di persona e di luogo La Rochelle, 103. La Roche-sur-Yon, conte di, vedi Bourbon François-Louis de. La Tour d’Auvergne, Henri de, vedi Turenne. La Tour Maubourg, conte di, 388. La Vergne, Gabriel-Joseph de, visconte di Guilleragues, vedi Guilleragues. Laxenburg, 217, 224, 232. Lazzaro, principe serbo, 421. Lebrun, 426. Lecce, 86. Leclerc du Tremblay, François (padre Joseph), 539; vedi anche Joseph. Lefebvre d’Etaples, Jacques, 487. Lehmann, Bernd, 435. Leibniz, Gottfried Wilhelm, 364-365, 438, 478. Leida (Leiden), 491. Leitha, fiume, 261, 265. Lemno (Lemnos), 122, 124. Le Nôtre, André, architetto, 349. Leonardo da Vinci, 10, 518. Leoncini, Ippolito, 97. Leone il Saggio, imperatore, 529. Leone III Isaurico, imperatore bizantino, 66. Leone X (Giovanni di Lorenzo de’ Medici), papa, 12. Leopardi, Giacomo, 602. Leopoldo I d’Asburgo, imperatore, passim. Leopoldo di Lorena, figlio di Carlo, 437. Leopoldo Guglielmo d’Asburgo, arciduca, 269, 546. Leopoldo Guglielmo, margravio di Baden-Hochberg, 157. Leopoldsberg, 515, 576. Leopoldstadt, 223, 285, 290-292. Leopoldstätter, Karl-Eugen, vedi Mehmed Efendi. Leopoli (L’viv, Lvov), 108, 177, 183, 485, 540. Lepanto (Naupatto), xiv, 6, 9, 17,

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48-54, 56, 58, 67, 70, 78, 87, 110, 122, 160, 333, 343, 366, 380, 390, 460, 501, 512, 518, 527-529, 533, 542, 570. Le Puy, 361. Lerma, duca di, 102. Lesbo, isola, 20. Leslie, James, generale dell’esercito imperiale, xiii, 285, 330, 332, 408. Leslie, Walter, conte, 285, 549. Lessing, Gotthold Ephraim, 363, 494. Leszczyn´ski, Stanislaw, re di Polonia, 449, 592. Leucade, isola, vedi Santa Maura. Léva, 155. L’Hopital, Nicolas-Marie de, marchese de Vitry, 249. Libano, 99, 539, 581. Liberi, Pietro, 601. Licia, 426. Lido di Camaiore, 534. Liebenberg, Johann Andreas, borgomastro di Vienna, 286. Liechtenstein, principe di, vedi Johann-Adam, Karl Eusebius. Liguria, 75. Lilienfeld, 263. Lilla, 446. Limbourg (Limburgo), 67, 555. Linz, 138, 153, 175, 218, 267, 317, 318, 323, 342, 345, 346, 377. Lione, 128, 362, 526. Liotard, Jean-Etienne, 506. Lipari, 40. Lipova, 590. Lippi, Filippo, 495. Lippomano, Gerolamo, bailo di Candia, 110. Lipsia, 581. Liptovská Teplicˇka (Liptow), 223. Lisbona, 61, 62. Lisola, Franz von, diplomatico austriaco, 140. Lisowska, Aleksandra, vedi Roxelane. Lituania, 176, 356, 375. Livonia, 547.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Livorno, 42, 62, 69, 72, 75, 94, 99, 121, 163, 386, 481, 509, 527, 533, 538, 545, 585. Lobkowitz, famiglia, 577. Lobkowitz, Franz Joseph, principe, 577. Lobkowitz, Wenceslaus, principe, 162, 168, 169, 172. Locke, John, 153, 363. Lombardia, 411, 446, 457, 590. Londra, 203, 282, 446, 453, 481, 502, 521. Longhi, Pietro, 580. Lope de Vega, 532. Loredan, Francesco, ambasciatore veneziano, 559. Lorena, 25, 92, 169, 170, 213, 314. Lorena, duca di, vedi Carlo; Filippo Emanuele; Francesco; Francesco II Nicola. Lorenz, Reinhold, 296. Lorenzo de’ Medici, il Magnifico, 517. Loreto, santuario, 48, 113, 353, 541, 542, 578, 582. Lorini, Bonaiuto, 596. Loti, Pierre, 602. Louvois, François Michel Le Tellier, marchese di, 155, 202, 311, 593. Lubomirski, Hieronim Augustyn, principe, 257, 285, 298, 318, 319, 332, 572, 575. Lubomirski, Jerzy, gran maresciallo, 178. Lucca, 92, 254, 339, 354-356, 529, 534, 550, 551, 580, 591, 597; duomo di San Martino, 597; vescovo di, 74; vedi anche Spinola, Giulio. Lucchesia, 75, 529. Lucerna, 58, 580. Lucrezia de’ Medici, figlia di Cosimo I, 56. Ludovico di Gonzaga-Nevers, 101. Ludovico Guglielmo di Baden, 266, 311, 318, 319, 332, 337, 355, 370,

407, 416, 417, 429, 430, 432, 433, 436. Ludovisi, Niccolò, 118. Luigi, duca di Borgogna, 557, 574. Luigi, figlio di Ladislao II di Boemia e d’Ungheria, 568. Luigi II di Borbone-Condé, vedi Gran Condé. Luigi II, re d’Ungheria, 15, 416, 568. Luigi IX il Santo, re di Francia, 154, 364, 477, 581 Luigi XII, re di Francia, 10, 11. Luigi XIII, re di Francia, 7, 101, 150, 361, 363, 523, 546, 550. Luigi XIV, re di Francia (Re Sole, Re Cristianissimo), passim. Luigi XV, re di Francia, xiv, 453, 475, 506, 507, 574. Luigi d’Este, cardinale, 57. Luigi di Borbone («Monsignore»), delfino di Francia, 311, 316, 506, 557, 574, 587, 593. Luigi Gonzaga, 523. Luigi-Giulio di Savoia-Soissons, 266, 311. Luigia Cristina di Savoia-Carignano, 566. Luisa di Savoia, madre di Francesco I di Francia, 522. Lullo, Raimondo (Ramon Llull), 362. Lully, Jean Baptiste (Gian Battista Lulli), 498, 501, 600, 601. Lusignano, famiglia, 96, 117. Lussemburgo, 273, 314, 401, 402, 516, 568. Lutero, Martin, 18, 359, 487, 488, 569, 581. Lützen, 148. L’viv, vedi Leopoli. Lydda, 84. Lysa Gora, monte presso Kiev, 515. Maan, famiglia di Fakhr ad-Din, 96. Macedonia, 393, 398. Machiavelli, Niccolò, 13, 14.

Indice dei nomi di persona e di luogo «Madame Palatine», vedi Elisabetta Carlotta d’Orléans. Madera, isola, 19. Madrid, 19, 65, 102, 141, 460, 513. Magdeburgo, 148. Maghreb, 19, 20, 23, 42, 58, 61, 81, 83, 103, 532, 603. Magliabechi, Antonio, 435. Magonza, 364, 426, 509; arcivescovo di, 210, 546, 550; vedi anche Ingelheim, Franz von; Schönborn, Johann Philipp von. Mahmoud I, sultano, 474, 475. Mahmoud II, sultano, 505. Mahomedia (Hammamet), 81, 109. Maimbourg, Louis, 562. Maintenon, Françoise de, 446. Mainz, vedi Magonza. Malachia, vescovo irlandese, santo, 555. Malatesta, Iacopo, 596. Mali, 60. Malta, 15, 23, 42, 44, 45, 69, 72, 114, 115, 116, 118, 126, 378, 461, 462, 477, 527; cavalieri di (Ospitalieri, Ordine di), 37, 41, 42, 48, 81, 93, 95, 99, 103, 109, 111, 114, 124, 128, 129, 314, 321, 377, 386, 387, 396, 495, 509, 527, 533, 536, 541, 542, 558, 585, 589; vedi anche BoisBrodant, Gabriel; Grémonville, Jacquel; Herberstein, Johann Josef von; Paul. Malvasìa, vedi Monemvasia. Mami Reis, corsaro rinnegato, 535. Mancini, Maria, 310. Mancini, Michele Lorenzo, 310. Mancini, Olimpia, 310, 311, 545. Mancini, Ortensia, 126, 310, 545. Mandra, 55. Manfredi di Svevia, 507. Manfredonia, 542. Mània, 586. Manica, canale, 87. Manisa, 519. Mansart, Hardouin, 426.

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Mantova, 314, 355, 447, 473, 535, 547, 571; duca di, 92, 556; vedi anche Carlo I Gonzaga; Vincenzo I Gonzaga. Manuzio, Aldo, 10. Manzoni, Alessandro, 579. Maometto, vedi Muhammad. Mao Zedong, 579. Maracci, Ludovico, 492. Marana, Giovanni Paolo, 110, 111, 540-543. Marano, 542. Mar Baltico, vedi Baltico. Mar Caspio, vedi Caspio. Marcello, Lorenzo, 122, 124, 544. Marco Antonio, 31. Marco d’Aviano (Carlo Domenico Cristofori), xi, xiii, 143, 217-219, 222, 251, 252, 255, 256, 260, 267, 271, 272, 306, 311, 312, 322, 323, 328, 329, 332, 353, 368, 380, 403, 407, 409, 412, 413, 415, 433, 443, 482, 559, 576, 583, 588-590, 592. Marco da Galliano, 539. Mar di Levante, 99, 112. Mar di Marmara, 594. Mare Adriatico, vedi Adriatico. Mare del Nord, 426, 464. Mare Egeo, vedi Egeo. Mare Ionio, vedi Ionio. Mare Mediterraneo, vedi Mediterraneo. Maremma (Maremme), 526, 534. Mare Tirreno, vedi Tirreno. Marescandoli, Giandomenico, stampatore, 355, 580. Marescandoli, Salvatore, stampatore, 355, 580. Margherita d’Austria, moglie di Filippo III di Spagna, 274, 546. Margherita del Monferrato, 101. Margherita di Navarra, 487. Margherita di Savoia, figlia di Carlo Emanuele, 93. Margherita Teresa, infanta di Spagna

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Indice dei nomi di persona e di luogo

e moglie di Leopoldo I, 167, 274, 550, 567. Maria, moglie di Ferdinando III d’Asburgo, 138. Maria de’ Medici, moglie di Enrico IV di Francia, 94, 95, 102. Maria del Portogallo, moglie di Filippo II, 59. Maria di Borbone Soissons, 310. Maria Gonzaga, moglie di Carlo II Gonzaga Rethel, 547, 571. Maria Miloslavna, prima moglie dello czar Alessio, 583. Maria Anna, figlia di Filippo III di Spagna, moglie di Ferdinando I d’Austria, madre di Leopoldo I, 274, 546. Maria Anna d’Asburgo, moglie di Filippo IV di Spagna, 138, 141, 550. Maria Anna di Baviera, 546, 557. Maria Anna Cristina Vittoria di Baviera, 574. Maria Anna Giuseppina d’Asburgo, sorellastra di Leopoldo I, 547, 571. Maria Antonia d’Asburgo, figlia di Leopoldo I, 188, 222, 343, 403, 587, 589. Maria Leopoldina del Tirolo, seconda moglie di Ferdinando III d’Asburgo, 546. Maria Luigia Gonzaga Nevers, vedova di Ladislao di Polonia e moglie di Giovanni Casimiro V, 177. Maria Teresa d’Asburgo, imperatrice, 437, 445, 572, 577. Maria Teresa d’Asburgo, moglie di Luigi XIV di Francia, 167, 550, 587. Mariazell, santuario, 255. Marie-Casimire (Maria Casimira), regina di Polonia, vedi La Grange d’Arquien, Marie-Adelaïde. Marienburg, 547. Marin Sanudo «il Vecchio», 53, 362. Marinoni, Giangiacomo, 349. Maritza, vedi Maros.

Marlborough, John Churchill, duca di, 445. Marlowe, Christopher, 503. Mar Nero, 59, 108, 120, 138, 180, 188, 191, 239, 417, 434, 442, 453455, 541, 551, 597. Marocco, 59, 60, 63, 64, 91, 528, 536; sultano del, vedi al-Mansuˉr. Maros (Maritza), fiume, 244, 438, 590. Mar Rosso, 59, 516. Marsaglia, 592. Marsiglia (Marseille), 25, 30, 37, 72, 85, 388, 481, 509, 534, 538, 541, 545; vescovo di, vedi Toussaint de Forbin-Janson. Marsili (Marsigli), Luigi Ferdinando, 296, 332, 341, 395, 465, 481, 565, 573, 588, 593. Marte, 493, 495. Martelli, Francesco, nunzio apostolico a Varsavia, 193, 202, 204. Martinelli, Domenico, architetto, 347, 348. Martinelli, Gaetano, 504. Martinich, Jaroslav, conte, 570. Martinitz, Georg Adam, ambasciatore dell’impero, 205. Martinozzi, Maria, nipote del cardinal Mazarino, 574. Martinuzzi Utjesenovic´, György, vescovo di Oradea (Nagyyárad), 34, 35. Marysien´ka, moglie di Jan Sobieski, vedi La Grange d’Arquien, MarieAdelaïde. Massa, 254. Massaua, 517. Massimiliano d’Asburgo, arciduca, 89, 571. Massimiliano di Braunschweig, principe, 387. Massimiliano I d’Asburgo, imperatore, 11, 568, 569. Massimiliano II, imperatore, 49, 277, 278, 281, 299, 506.

Indice dei nomi di persona e di luogo Massimiliano II Emanuele, elettore di Baviera, 209, 222, 242, 256, 317, 328, 330, 332, 403, 406, 407, 417, 428, 431, 436, 448, 554-556, 560, 587, 589. Massimiliano Enrico di Wittelsbach, elettore di Colonia, 162. Matariya, 84. Matilde di Canossa, 52. Matteo, evangelista, 134. Matteo di Collalto, 271. Mattesilani, Giovanni Carlo, 578. Mattia I, imperatore, 102, 106, 278, 279, 348, 546, 571. Mattia Corvino (Mátyás Hunyadi), 441, 519, 569, 570. Mattoli, Mario, 602. Maulbertsch, Franz Anton, pittore, 349. Mauritania, 60. Maurizio di Sassonia, maresciallo di Francia, 507, 585, 593. Maurocordato, Alessandro (Mavrocordatos Alexandros), archidragomanno, 216, 241, 373, 423, 451, 486, 559, 560, 562, 565, 576, 589, 593, 594. Maurocordato, Nicola, 594, 595. Maynier, Accurse, ambasciatore francese a Venezia, 10. Mayr, Simon, 601. Mazarino, Girolama, 310. Mazarino, Giulio, cardinale, 118-121, 126, 139, 140, 150, 152, 154, 162, 310, 543, 544. Mazarino, Margherita, 574. Mazepa-Kolendinskji, Ivan Stepanovich, ataman cosacco, 594. Mecca, La, 76, 114, 538, 583. Medici, famiglia, 56, 57, 142, 569, 571; vedi anche Anna Maria Ludovica; Antonio; Caterina; Cosimo; Ferdinando; Giangastone; Giovanni; Lorenzo; Lucrezia; Maria. Mediterraneo, mare, xiii, 4, 8, 14, 16, 19, 20, 24, 28, 33, 44, 59, 62, 68, 81,

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83, 86, 103, 110, 115, 121, 126, 145, 150, 163, 166, 195, 264, 277, 364, 398, 454, 463, 466, 498, 514, 527, 532, 558, 595. Megerle, Johann Ulrich, vedi Abraham a Sancta Clara. Mehmed II (al Fatih, il Conquistatore), 9, 43, 493, 517, 519, 520, 534, 561, 596. Mehmed III, 80, 89, 98, 474, 537. Mehmed IV, figlio di Ibrahim I, 114, 120, 122, 136, 153, 186, 187, 233235, 238, 245, 260, 264, 371, 422, 423, 465, 541, 542, 544, 553. Mehmed Baltaci, gran visir, 455. Mehmed Çelebi Efendi, 473. Mehmed Efendi (Karl-Eugen Leopoldstätter), 482. Mehmed Ali Giray, khan dei tartari di Crimea, 239, 259, 290, 307. Mehmed Köprülü, gran visir, 122. Mehmed Sokollu (Soqullu, Söqüllü), gran visir, 42, 44, 45, 48, 52, 54, 528, 533. Mehmed Vani Efendi, 189, 260. Melani, Atto, 583. Melantone, Filippo, 487, 569. Melfi, ducato di, 522; principe di, vedi Caracciolo, Giovanni. Melilla, 20. Melk, 261, 263, 267. Menavino, Gianantonio, 524. Mendes, Gracia, vedi Nassì, Gracia. Mendoza, Bernardino de, 37. Meno, fiume, 425. Mercadante, Giuseppe Saverio, 505. Mercoeur, Philippe Emmanuel, duca di, 91, 477. Mercy, conte di, vedi Florimond, Cladius. Mesola, 532. Messico, 37. Messina, 47, 85, 95, 555, 585; stretto di, 23, 24. Mestre, 8. Metodio di Patara, 529.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Metz, 169, 209. Meyendorf, György, barone, 602. Michelangelo Buonarroti, 518. Michele di Poggio, 354. Michiel, famiglia di rinnegati, 79. Michiel, Beatrice (Fatma), 79. Michiel, Giacomo (Mehmed), 80. Milano, 275, 276, 355, 391, 447, 518, 539, 569, 579; teatro alla Scala, 504; governatore di, vedi Avalos Alfonso. Mililotti, Pietro, 504. Milo, 395. Minhea, Radu, principe di Moldavia, 540. Minio, Polo, patrizio veneziano, 540. Minorca, 522. Mioni, Teodoro, 503, 585. Missolungi, 394. Mitelli, Giuseppe Maria, incisore, 356. Mitilene, 10, 39, 394, 398. Mocenigo, Alvise Leonardo, 122, 544. Mocenigo, Domenico, 395. Mocenigo, Lazzaro, 122, 123, 381, 544. Modena, 147, 149, 314, 582, 588. Modena, duca di, vedi Cesare d’Este; Francesco I. Mödling, 566. Modone, 389, 460, 585. Mogador, 7. Mogersdorf, vedi Szent-Gotthard. Mohács, 15, 275, 416, 522, 568. Molay, vedi Jacques de Molay. Moldavia, 89, 92, 106, 108, 153, 199, 247, 399, 400, 442, 451, 467, 470, 476, 537, 551, 594; vojvoda (principe) di, vedi Cantemir, Dimitrie; Gratiani, Caspar; Minhea, Radu. Mölding, 263. Molière (Jean Baptiste Poquelin), 498, 499, 501, 601. Molin, Antonio, 398. Molko, Shelomò, 520. Monaco, 231, 317.

Monaldi, Rita, 583. Monemvasia (Malvasìa, Monembasia, Napoli di Malvasia), 32, 394, 460, 524, 586. Monferrato, 447; vedi anche Margherita. Mongrillon, signore di, 552. Mons, 295. Montagna Bianca, 279, 312. Montagu, Mary Wortley, lady, 599. Montaigne, Michel de, 43, 73, 75, 76. Montault-Bénac, Philippe de, duca di Navailles, 129-131. Montauti, Asdrubale, residente fiorentino a Venezia, 99. Montbrun, Alexandre du Puy de, marchese di Saint-André, 127. Montecucco del Frignano, castello, 147. Montecuccoli, Carlotta, figlia di Raimondo, 548. Montecuccoli, Ernesto, cugino di Raimondo, 148. Montecuccoli, Galeotto, padre di Raimondo, 147. Montecuccoli, Leopoldo Filippo, figlio di Raimondo, 265, 266, 548. Montecuccoli, Luigia, figlia di Raimondo, 548. Montecuccoli, Raimondo, General Feldmarschall dell’impero, 146152, 155-161, 164, 165, 167, 169175, 185, 207, 208, 210, 212, 244, 265, 283, 321, 324, 333, 338, 341, 367, 444. 497, 549, 550, 558, 559, 565. Montenegro, 120, 456, 457. Montesquieu (Charles Louis de Secondat, barone di), 110. Montesquiou, comandante militare, 593. Monteverdi, Claudio, 90. Monti, Giacomo, 578. Montluc, Blaise de, 526. Montluc, Jean de, 526. Morat Reis, 528.

Indice dei nomi di persona e di luogo Morava, 244, 319. Moravia, 137, 208, 255, 279, 375, 448, 557, 564. Morea, 15, 31, 101, 115, 288, 381, 383, 384, 387, 390-393, 395-399, 423, 439-442, 456, 457, 459, 461463, 465, 466, 471, 472, 493, 500, 584-586, 589; despota di, vedi Paleologo Tommaso; governatore di, vedi Hassan Pas¸a. Morelli, Bartolomeo, 505. Morigia, Jacopo Antonio, arcivescovo di Firenze, 564. Morillac, Charles de, 523. Moro, Giovanni, bailo di Candia, 110. Morosini, Bernardo, 544. Morosini, Daniele, 544. Morosini, Francesco, 124, 127, 128, 131, 134, 384, 398, 423, 585, 586. Morsztyn, Andrzej, 181, 203, 249, 250, 564. Mortier, Édouard Adolphe Casimir Joseph, generale, 582. Mosa, xiii, 364, 425. Mosca, 199, 205, 239, 272, 274, 400, 442, 461, 473, 552, 553, 556, 595. Mosca, Luigi, 601. Moschetti, Giorgio, 539. Moscovia, 8, 88, 118, 140, 203, 204. Mosella, 425. Moson, 265. Mozart, Wolfgang Amadeus, 80, 502504, 601. Müezzinzâde Ali, 50, 533. Muhammad (Maometto), profeta, 6, 85, 355, 491, 603. Muhammad al-Mutawwakil, sultano di Fez, 61, 62. Muhammad Hasan, emiro di Tunisi, 57. Mulay Hasan, emiro di Tunisi, 24, 26. Müller, Christoph, gesuita, 141. Munkács, 225, 418, 419, 447, 560. Münster, trattato di, 544.

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Murad III, 56, 61, 68, 77, 80, 87, 89, 109, 530, 537. Murad IV, 78, 80, 108, 109, 111, 122, 234. Murano, 517. Mures¸ (Olt), fiume, 439, 592. Musi, Agostino, detto «il Veneziano», 521. Musorgskij, Modest, 515, 591, 602. Mustafa, figlio di Mehmed IV, 553. Mustafa, figlio di Solimano il Magnifico, 79, 528. Mustafa, fratello di Ahmed I, 107, 108, 537. Mustafa II, figlio di Ahmed II, 438, 439, 445. Mustafa Pas¸a, ag˘a dei giannizzeri, 372. Nádasdy, Ferenc, 185. Nagyárad, vedi Oradea. Nagyhársany, vedi Harsány. Namur, 344, 577. Nani, Giovan Battista, 196, 543. Napoleone Bonaparte, 364, 469, 504, 507, 577, 581, 582. Napoleone III, 581. Napoli, 9, 23, 25, 29, 37, 41, 47, 70, 117, 169, 272, 348, 350, 360, 388, 435, 442, 447, 496, 504, 509, 569, 578, 579, 584; carcere di Castel Nuovo, 104; viceré di, vedi Carpio; Giron, Pedro. Napoli di Malvasia, vedi Monemvasia. Nassì (Nasi, Mendes), Gracia, 528. Nassì (Nassi, Nasi, Miquez, Migues), Giuseppe (Joâo), 44, 45, 528. Nassì (Nassi, Nasi), Rayna, 528. Nasso, isola, 45, 122. Natalia Narishkina, seconda moglie di Alessio I Romanov, 583. Nattier, Jean-Marie, 506. Naupatto, vedi Lepanto. Nauplia, 32, 388, 389, 395, 456, 459, 460, 586.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Navagero, Antonio, comandante veneziano, 116. Navailles, duca di, vedi MontaultBénac Philippe. Navarino, vedi Pilos. Navarra, 169; vedi anche Margherita. Nazareth, 48, 539. Negroponte (Eubea), 381, 392-394, 517, 585. Neidhard, Johann Eberhard, gesuita, 141, 547. Neri, Ippolito, 414. Nerone, imperatore romano, 19. Nerval, Gerard de, 602. Neuburg, Johann Wilhelm di, conte palatino, 181. Neuburg, principessa di, vedi Edvige. Neuhandenburg, 148. Neuhäusel (Beszterazbánya, Érsekújvár, Nove Zámky, Uyvar), 153, 155, 161, 258, 262, 370, 408-412, 418, 548, 549, 588-590. Nevers, 552; marchese di, vedi Henri, duca di, 7, 102, 103; vedi anche Carlo Gonzaga. New York, 521, 582. Niccolò V (Tommaso Parentucelli), papa, 560. Nicolini, Giuseppe, 504, 505. Nicolò di Cusa, vedi Cusano. Nicolucci, Giovanni Battista, detto «il Pigna», 147. Nicopoli, 8, 362, 366. Nicosia, 11, 47. Niger, fiume, 19, 69. Nikoússios, dragomanno, 131. Nilo, fiume, 20. Nimega (Nijmegen), 196, 197, 199, 201, 213, 221, 414, 437, 473, 555. Nimphenburg, 349. Niš, 245, 429, 470. Nitra, vedi Nyitra. Nizza, 37, 38. Noailles, François de, ambasciatore francese a Istanbul, 52. Nomi, Federico, 414. Nonantola, 150.

Nordlingen, 149. Norimberga, 425, 569. Novara, vescovo di, 193; vedi anche Odescalchi, Giulio. Nove Zámky, vedi Neuhäusel. Nubia, 60. Nuovo Mondo, 4, 102. Nur Banu, valide sultan, 77-80, 87, 110; vedi anche Baffo, Cecilia. Nussberg, xiii, 307, 330, 333. Nussdorf, xii, 291, 307, 308, 332-334, 341. Nyitra (Nitra), fiume, 153. Nyitra, vescovato, 558. Nystadt, trattato di, 105, 513. Occhiali, vedi Uluç Ali. Oceano Indiano, 32, 59, 87, 516, 517, 526. Oceano Pacifico, 59. Ödenburg, vedi Sopron. Odescalchi, famiglia, 378, 555. Odescalchi, Giulio, vescovo di Novara, 555. Odescalchi, Livio, 591. Odessa, 597. Odoardo Farnese, duca di Parma e Piacenza, 149. Ogala-Zadé Jusuf, presunto figlio di Scipione Sigala, 533. Ogier (Augier) de Busbeck, Ghiselin (Ghislain), ambasciatore dell’impero, 43, 68, 76, 496, 519, 526, 527, 532. Ogilvie, maggiore, 319. Olanda, 8, 160, 163, 171, 173, 177, 180, 186, 196, 203, 209, 222, 253, 284, 364, 366, 425, 440, 472, 547, 555. Olesko, 177. Oliva, pace di, 140, 152, 547. Ollier de Nointel, Charles-MarieFrançois, marchese d’Angerbilliers, residente francese a Istanbul, 184, 191, 203, 452, 454, 485, 553, 600. Olmutz, 298.

Indice dei nomi di persona e di luogo Oloferne, 463, 596. Olt, vedi Mures¸. Ónod, 448. Opava (Troppau), 149, 548. Oporino, Giovanni (Johannes Herbst), stampatore, 487. Oppenheimer, Samuel, 281, 284, 358, 379, 572, 584. Oppenheimer, Süss, 572. Oradea (Nagyárad, Gran Varadino, Grosswardein), 33, 34, 143, 155, 161, 430, 432, 524, 591. Orano, 20. Orbetello, 93. Orkhan, sultano, 15. Orlov, Aleksej Grigor’evicˇ, conte, 455. Orselli, Lelio, 597. Orsetti, Stefano, conte, 597. Orsini, famiglia, 521. Orsini, Virginio, conte di Anguillara, 26, 37, 39, 525. Ortona, 43. Osijek (Esseg), 156, 249, 258, 259, 403, 406, 409, 412, 416, 417, 431, 587. Osman, ag˘a degli spahi, 576, 590. Osman, capo degli eunuchi neri, 80. Osman II, figlio del sultano Ahmed I, 107, 108. Osman Pas¸a, 563. Osman Suleyman Ag˘a, 499. Osnabrück, trattato di, 544. Ossuna, duca di, vedi Giron, Pedro. Osta Morato (o Moratto), vedi Usta Murad. Ostia, 24, 37. Othman, 532, 567. Otranto, 9, 17, 28, 517; canale di, 30, 597. Ottaviano Augusto, imperatore romano, 31, 175. Ottoboni, Pietro Vito, cardinale, 194, 271, 384, 432; vedi anche Alessandro VIII.

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Ottomano, Domenico (Osman), frate predicatore, 114, 542. Oudenaarde, 446. Oxford, 492, 603. Paci, Giovanni Francesco, stampatore, 355, 580. Padova, 272, 322, 381, 493, 507, 520, 522, 576, 590; cappella degli Scrovegni, 232. Paesi Bassi, 25, 161, 167, 169, 187, 192, 314, 315, 426, 446, 447, 466, 555. Paget, William, lord, 432, 442. Paisiello, Giovanni, 504, 602. Palaiocastro, porto di Candia, 542. Palatinato, 149, 395, 415, 423-425, 437, 516, 535. Paleologhi, famiglia, 101. Paleologo, Tommaso, despota di Morea, 536. Paleotti, famiglia bolognese, 585. Palermo, 505, 509; teatro Carolino, 505. Palestina, 66. Pálffy, marchesa, 263. Pálffy, reggimento, 319. Pallavicini, Opizio, nunzio apostolico a Varsavia, 252, 583. Pallavicino, Sforza, 596. Palma de Maiorca, 37. Palmanova (Palma), 11, 53, 313. Pamuk, Orhan, 544. Pananti, Filippo, 536. Pannij, Gregorio Alberto, 574. Pannonia, 258. Paolo, apostolo, 289, 509. Paolo III (Alessandro Farnese), papa, 25, 29, 30, 83, 149, 490, 525. Paolo IV (Gian Pietro Carafa), papa, 41, 93. Paolo V (Camillo Borghese), papa, 102. Pápa, 90. Parga, 519, 597. Parigi, 25, 102, 126, 137, 160, 163,

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Indice dei nomi di persona e di luogo

168, 170, 175, 177, 178, 185, 191, 192, 195, 202, 203, 215, 217, 222, 228, 236, 239, 240, 246, 250, 282, 310, 311, 350, 357, 435, 473, 481, 485, 491, 493, 498, 504, 506, 521, 526, 581, 594, 595, 599, 601; Bastiglia, 252, 326; Hotel di Soissons, 566; Louvre, 342; place du Carrousel, 342; Saint-Germain-des-Près, 492; Tuileries, 342. Párkány, vedi Štúrovo. Parma, duca di, 92; vedi anche Odoardo Farnese; Ranuccio Farnese; teatro Ducale, 505. Parodi, Filippo, 586. Paros (Paro), 78, 126, 381, 535. Paruta, Paolo, 529. Pascal, armeno, 481. Pascal, Blaise, 491. Pasolini, Pier Paolo, 517. Pasquali, Pierfrancesco, chirurgo, 578. Passarowitz, pace di, 116, 366, 466, 471, 476, 501, 511-513, 543, 596, 598. Passau, 267, 299, 311, 317, 318, 323, 350, 568, 571. Patrasso, golfo, 48, 529. Patrizi, Francesco, filosofo, 11. Patrona Khalîl, 474. Paul de Lagny-sur-l’Oise, frate cappuccino, 129, 198, 199, 224, 365. Paul, frate, cavaliere di Malta, 126. Pavia, 26. Pázmány, Péter, cardinale, 558. Pazzi, famiglia, 6, 517. Pécs (Fünfkirchen), 156, 413, 417, 589. Pedro II, re del Portogallo, 203, 572. Peloponneso, 388, 394, 472, 586; seraskier del, vedi Ismail Pas¸a. Perchtoldsdorf, 263, 264. Perejaslav, 551. Peretti, Bartolomeo, signore di Talamone, 39, 526. Pereyra, Benet (Benito), gesuita, 6.

Persia, 8, 12, 21, 33, 67, 68, 98, 108, 163, 200, 361, 365, 471, 474, 496, 524, 527, 555, 579, 583, 595; re di, vedi Cambise; shah di, 106, 111, 118, 163, 342, 378, 473, 525; vedi anche Abbas; Esma’ıˉl I; Safi I; Safi II Suleiman; Tahmasp. Perù, 26. Perugia, 561. Pesaro, 31. Pesaro, Giovanni, 125. Pessoa, Fernando, 64, 531. Pest, 403, 404, 519. Petervaradino, vedi Petrovaradin. Peterwardein, vedi Petrovaradin. Petrarca, Francesco, 521. Petronell, 265. Petrovaradin (Peterwardein, Petervaradino), 439, 462, 463, 467, 592, 597. Pfalz-Neuburg, principe di, vedi Carlo II; Carlo III; Eleonora Maddalena; Filippo Guglielmo; Giovanni Guglielmo II. Philippsburg, 424. Piacenza, duca di, vedi Odoardo Farnese. Pianosa, isola, 526. Piave, Francesco Maria, 505. Piazza, Vincenzo, 97. Piccardia, 30. Piccolomini, famiglia, 6. Piccolomini, Enea Silvio, vedi Pio II. Piccolomini, Silvio, 97. «Picoce», ammiraglio di Tripoli, 541. Piemonte, 425, 430, 436, 456. Pier Luigi Farnese , 149. Piero della Francesca, 516. Pietro Aretino, vedi Aretino. Pietro I Romanov (Piotr Aleksievich, Pietro il Grande), czar di Russia, 342, 378, 434, 435, 453, 455, 474, 548, 583, 591, 594. Pietro il Venerabile, 492. Pignatelli, Antonio, nunzio apostolico in Polonia, 178.

Indice dei nomi di persona e di luogo Pilos (Navarino), 42, 116, 388, 460. Pinelli, Bartolomeo, pittore, 580. Pinerolo, 592. Pio II (Enea Silvio Piccolomini), papa, 152, 376, 473, 520, 561, 569. Pio IV (Giovanni Angelo Medici di Marignano), papa, 526. Pio V (Antonio Ghislieri), papa, 48, 51, 54, 59, 93, 343, 376, 527, 579. Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti), papa, 564. Pio X (Giuseppe Sarto), papa, 579. Piombino, 39. Pirenei, 102, 103; pace dei, 105, 126, 152, 550. Pireo, vedi Atene. Pisa, 42, 72, 99; chiesa dei Cavalieri, 48, 527, 538; duomo, 42. Pisarri, Antonio, stampatore, 582. Pistoia, 580. Piyalè Pas¸a, rinnegato croato, 72. Plovdiv (Filibe, Filippopoli), 245, 248, 563. Plutarco, 521. Pocock, Edward, 491-492. Podolia, 108, 175, 176. 179, 184, 250, 442, 552, 553, 587. Poitiers, xiv, 17, 66, 102, 195, 273, 512, 603. Polonia, 56, 88, 89, 106, 118, 139, 151, 163, 176-180, 182, 183, 185, 187-191, 195, 198-201, 203, 204, 212, 230, 239, 243, 249-253, 257, 272, 322, 356, 358, 360, 375, 376, 378, 423, 435, 442, 447, 449, 461, 471, 483, 506, 536, 547, 549, 551553, 561, 574, 587, 591, 594, 596; conte palatino di, vedi Gninski Janusz; re di, 107, 111, 200, 245, 258, 262, 268, 358, 368, 399, 420, 578, 583; vedi anche Augusto II; Giovanni II Casimiro Wasa; Korybut Wis´niowiecki, Michele; Ladislao; Leszczyn´ski, Stanislaw; Sigismondo I; Sigismondo III Wasa; Sobieski, Jan.

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Poltava, 455, 592, 594. Pomerania, 139, 149, 535, 547. Pompadour, madame de (Jeanne Antoinette Poisson), 506. Pomponne, Arnaud, marchese di, ministro degli esteri di Luigi XIV, 202, 364. Pontano, Giovanni Gioviano, 536. Pontchartrain, conte di, 485. Ponza, isola, 70. Pordenone, castello di Torre, 567. Portia, famiglia, 271. Portia, Giovanni Ferdinando, conte, 141, 142, 153, 162, 168, 169, 267. Port-Mahon, nell’isola di Minorca, 522. Porto Ercole, 39, 93. Portoferraio (Cosmopoli), 526. Portogallo, 12, 32, 60, 61, 64, 103, 204, 314, 366, 378, 461, 528, 531; re di, vedi Giovanni III; Pedro II; Sebastiano. Porto Longone, 93. Porto Santo Stefano, 93. Postel, Guillaume, 488, 489, 491, 522, 600. Potsdam, 507. Pozsony, vedi Bratislava. Pozzo, Andrea, pittore, 349. Praga, 88, 90, 91, 102, 105, 248, 277, 279, 281, 318, 484, 568, 594; arcivescovo di, 570; palazzo reale di Hracˇany, 279, 570; vedi anche Harrach, Ernst. Premoli, Antonio, conte, 271. Presburgo, vedi Bratislava. Prešov (Eperjes), 227. Prete Gianni, 20, 539. Prévesa (Prèbeza), 31-33, 36, 387, 390, 597. Priuli, Girolamo, 112. Procida, 23. Procopio, Francesco (Procope), 481. Provenza, 30, 530. Provincie Unite, 423. Prussia, xiv, 182, 280, 471, 502, 547,

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Indice dei nomi di persona e di luogo

594; vedi anche Federico Guglielmo I. Prut, fiume, 107, 455. Ptuj, 549. Puetz, Gabriel, barone di Aramon, 490, 526. Pufendorf, Samuel, 313, 557. Puglia, 25, 29. Pushkin, Aleksander, 504. Quaresmio, Francesco, frate francescano, 103. Quartetto Cetra, 602. Quedlimburg, monastero, 585. Raab, città, vedi Györ. Raab, fiume, 156-160, 171, 285, 573. Rabatta, famiglia, 271. Rabatta, Rodolfo, generale, 266, 271, 332. Racine, Jean, 498. Raduit de Souches, Jean-Louis, generale, 155, 285, 300, 559. Radziwiłł, Michał Kazimierz, duca polacco, 204. Ragusa, vedi Dubrovnik. Rákóczi, Ferenc I, principe di Transilvania, 225, 560. Rákóczi, Ferenc II, principe di Transilvania, 349, 447-449, 590, 594. Rákóczi, György I, principe di Transilvania, 137, 138. Rákóczi, György II, principe di Transilvania, 138, 140, 143, 144. Rákóczi, Julianna Borbála, figlia di Ferenc I Rákóczi e Ilona Zrínyi, 590. Rangone, Baldassarre, 596. Ranuccio II Farnese, duca di Parma, 205. Ranuzzi, Angelo Maria, nunzio apostolico, 180, 316, 368, 575. Rastadt, 446, 471, 513. Ratisbona (Regensburg), 152, 208, 212, 230, 284, 402, 414, 587, 591.

Rauchmiller, Matthias, architetto, 572. Rauwolf, Leonhart, 481. Razin, Stepan, capo cosacco, 552. Recanati, 529. Regensburg, vedi Ratisbona. Reggio Emilia, 355; vescovo di, vedi Alfonso d’Este. Regnard, Jean-François, 552. Renania, 217, 395, 425. Renato d’Angiò, 6. Reniger von Reningen, Simon, residente austriaco a Istanbul, 144, 165. Renner, Victor von, 296. Reno, xiii, 162, 174, 179, 182, 187, 188, 192, 209, 221, 222, 227, 242, 248, 249, 269, 272, 315, 327, 364, 368, 415, 424, 428, 446, 476, 555. Repin, Ilya Efimovich, 551. Rétimo (Retymna, Rethymnon), porto di Candia, 124, 542-543. Reubeni, David, 520. Reuwich, Erhard, 509. Richelieu, Armand-Jean du Plessis de, cardinale, 101-103, 111, 150, 279, 541. Ricoldo da Montecroce, 487, 488. Righetti, Giovanni, architetto, 100. Rijswijk, 437, 438, 444, 453. Rimpler, Georg, ingegnere militare, 284, 300. Rimskij-Korsakov, Nikolaj, 515, 602. Rincon, Antonio de, ambasciatore del re di Francia, 22, 30, 32. Rio Marina, 39. Roannais, conte di, vedi Aubusson François. Roberto di Ketton, 487, 488, 490. Rochechouart, Louis-Victor de, duca di Vivonne, 129-132. Rodi, 15, 23, 29, 30, 114, 519; cavalieri di, 9, 15, 42. Rodolfo II d’Asburgo, imperatore, 68, 88-91, 142, 277, 278, 281, 484, 539, 570, 571.

Indice dei nomi di persona e di luogo Rodolfo IV, imperatore, 568. Rodope, 244. Rodosto, 594. Roma, 4, 17, 24, 37, 49, 76, 83, 102, 147, 151, 189, 204, 217, 224, 226, 236, 240, 252, 254, 260, 274, 275, 327, 341, 348, 351, 352, 355, 357, 362, 378, 401, 427, 431, 435, 460, 492, 521, 522, 552-555, 565, 569571, 576, 577, 582, 592; basilica di San Pietro, 89, 352, 567; basilica di Santa Maria Maggiore, 312, 352; Biblioteca Vaticana, 492; Castel Sant’Angelo, 24, 571; chiesa dell’Ara Coeli, 360; chiesa di San Silvestro in Capite, 571; Foro Traiano, 353; Quirinale, 352; rione Trevi, 353; teatro Argentina, 505. Romanelli, Luigi, 504. Romani, Felice, 505, 601. Romania, 557, 591. Romanov, famiglia, xiv, 7, 453, 454, 457; vedi anche Alessio; Ivan; Pietro. Roncisvalle, 273. Rosales, famiglia, 590. Rospigliosi, Vincenzo, nipote di Clemente IX, 129, 130. Rossi, Pio, 147. Rossini, Gioacchino, 80, 503-505, 601, 602. Rosskopf, 328, 334. Rostand, Edmond, 128. Rottmayr, Johann Michael, pittore, 349. Rousseau, Jean Jacques, 478, 489. Roxelane (Hürrem, Aleksandra Lisowska), sultana, 77, 79, 519, 522, 527, 534, 535. Rozan, conte di, 130. Rumelia, 291, 518. Russia, xiv, 64, 105, 139, 163, 183, 184, 187, 199, 200, 202, 239, 253, 313, 376, 400, 442, 445, 448, 454, 461, 471, 473, 547, 551, 552, 562, 572, 587, 594, 595, 597, 598; czar

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(czarina) di, 67, 163, 198, 199, 237, 375, 591; vedi anche Alessio I Romanov; Caterina; Fëdor III; Godunov, Boris; Ivan IV; Ivan V; Pietro I. Rust, 261. Rustem, gran visir, 527. Rutenia, 551. Rycaut, Paul, sir, 540, 548. Ryckel, vedi Dionigi. Saar, 314. Safi I, shah di Persia, 541. Safi II Suleiman, shah di Persia, 380. Safiye (Safiyye), moglie di Murad III, 80, 535. Sagredo, famiglia, 535. Sagredo, Giovanni, senatore veneziano, 134, 153, 492, 497. Sagrestani, Giovanni Camillo, 574. Sahara, 19, 47. Saidenaya, santuario, 84. Saint-Blancard, Bertrand, barone di, 523. Saint-Germain-en-Laye, 132, 499, 533, 547, 551. Saint-Lazare, priorato, 72. Saint-Paul, conte di, 128. Saint-Pierre, abate di, vedi Castel Charles. Saint-Saëns, Charles Camille, 602. Saint-Simon, duca di, 444, 535. Šala (Scalia), 403, 588. Saladino, 6, 18, 85, 494, 522. Salah, rais di Khair ed-Din, 39. Salamina, 395. Salè, porto del Marocco, 536. Salento, 12, 75, 86. Salieri, Antonio, 504, 601. Saligny, conte di, vedi Coligny, Jean. Salisburgo, 323; arcivescovo di, 575. Salm, Nikolaus, conte, 276. Salomone, 14. Salonicco (Tessalonica), 402, 459, 550. Salzbach, 174. Samarcanda, 7.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Samotracia, isola, 122. San Giovanni d’Acri, 529. Sankt-Pölten, 263. Sankt Georgenberg-Fiecht, abbazia, 571. Sanmicheli, Michele, architetto, 124, 596. San Pietro, isola, 80. San Pietroburgo, 453. Sansebastiani, 388. Sanseverino, Alfonso, duca di Somma, 25. Sansovino, Francesco, 498, 600. Santa Caterina, monastero sul monte Sinai, 84. Santa Maura (Leucade), isola, 31, 385-387, 442, 460, 585. San Teodoro (San Tòdero), fortezza di Candia, 116, 542. Santini, Giovan Battista, 589. Santonge, 520. Snudo, vedi Marin Sanudo. Sarajevo, 440. Sardegna, 80, 447. «Sarmazia europea», 177, 178. Sarnata, 389. Sarpi, Paolo, 497. Sassonia, 148, 152, 210, 242, 252, 314, 415, 448, 450, 468, 471, 515, 585, 594; elettore di, 242, 484; vedi anche Federico Augusto I; Giovanni Giorgio; Maurizio; feldmaresciallo di, vedi Goltz, Joachim Rüdiger. Sassonia-Esembach, vedi Eleonora. Sassonia-Lauenburg, duca di, vedi Giulio Francesco. Satu Mare (Szatmár), 208, 223, 449. Sava, 34, 245, 417, 422, 438, 439, 441, 461, 517. Savary de Brèves, François, 363. Savoia, 11, 48, 254, 314, 377, 401, 543, 596; duca di, 38, 96, 112, 117, 365, 447, 592; vedi anche Carlo Emanuele; Emanuele Filiberto; Luisa; Margherita; Maria Adelaide; Vittorio Amedeo.

Savoia-Carignano, famiglia, vedi Eugenio; Luigia Cristina. Savona, 23, 112. Savorgnano, Giulio, 596. Scaglia, Filippo Gerardo, conte di Verrua, 147. Scala, Ercole, conte, 588. Scalia, vedi Šala. Schelda, xiii. Scherer, Georg, gesuita, 571. Schleissheim, 349. Schlosshof, 476. Schmitt, Carl, 121, 154. Schönborn, Johann Philipp von, arcivescovo di Magonza, 364. Schönbrunn, 348, 401. Schulemburg, Johann Matthias von, 462, 596. Schulz, generale dell’esercito imperiale, 409. Schwarzenberg, Johann Adolf von, principe, 168, 210, 282. Schwechat, 342, 369. Schwiebus, 410. Scozia, 5; re di, 25. Scutari, 84. Sebastiano, re del Portogallo, 59-64, 66, 67, 531, 541. Sebastiano, santo, 580. Sebastiano da Venezia (Calabuis, Catizzone), 64-65. Sebenico, 543, 544. Sébeville, Bernardin Kadot, marchese di, residente francese a Vienna, 141, 203, 210-212, 215, 217-219, 228, 246, 267, 293, 556, 558, 559, 565, 566. Secco, Niccolò, 526. Sedan, 581. Segesvár, vedi Sighis¸oara. Ségurane, Catherine, 525. Selim I, 8, 11, 12, 14, 20, 516. Selim II, figlio di Solimano il Magnifico, 44, 45, 52, 59, 68, 77, 79, 527, 528, 530, 534, 535. Selva Nera, 174.

Indice dei nomi di persona e di luogo Senegal, 507. Senj (Segna), 55. Serbia, 89, 416, 439, 442, 470, 471, 528. Serényi, Johann Carl, generale, 302. Serrati, Pietro, 386. Serse, re di Persia, 579. Sfakia, porto di Candia, 542. Shah Abbas, vedi Abbas. Shakespeare, William, 498, 523. Sherley, Anthony, 88, 91, 98. Sherley, Robert, conte, 98. Sibiu (Hermannstadt), 144, 547. Sicilia, 20, 25, 37, 41, 66, 80, 447, 486, 510, 561; canale di, 24, 25; stretto di, 23. Sidone, 99. Siebenbürger, Martin, borgomastro di Vienna, 569. Siena, 39, 377, 526, 529, 579. Sieniawski, Mikołaj Hieronim, ataman polacco, 334, 575. Sighis¸oara (Segesvár), 144, 547. Sigismondo, arciduca d’Austria, 140. Sigismondo I, re di Polonia, 26. Sigismondo III Wasa, re di Polonia, 89, 106, 537, 552. Sigismondo di Lussemburgo, imperatore, 569. Siklos, 413. Sinai, 84. Sinan, ammiraglio ottomano, vedi Cigala, Scipione. Sinan, architetto, 533. Sinan («lo Judeo»), corsaro ottomano, 39. Sinan Pas¸a, beylerbeyi d’Egitto, 53. Sinelli, Imre, vescovo di Vienna, 211, 214, 228, 230. Sinj, 390. Siria, 12, 66, 84, 546. Sirte, 12, 19. Sisto V (Felice Peretti), papa, 579. Sitia, porto di Candia, 542. Siviglia, 490, 525. Siwa, oasi nel deserto egiziano, 64.

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Siwnik’, 473. Siyavus Pas¸a, 422. Slankamen, 430. Slavata, Wilhelm, conte, 570. Slavonia, 34, 417, 441, 442, 471, 557. Slesia, 182, 208, 255, 448-450. Slovacchia, 34, 191, 192, 277, 548, 588. Slovenia, 164, 549. Smalcalda, lega di, 569. Smirne, 384, 396, 397. Smolensk, 552. Sobieski, Alexsander, figlio terzogenito di Jan, 189. Sobieski, Constantin, figlio quartogenito di Jan, 554. Sobieski, Jakub, figlio di Jan, xiii, 178, 187, 188, 343, 375, 577, 591. Sobieski, Jan (Giovanni III di Polonia), xi, xiii, 173, 177, 178, 180184, 187-190, 198, 201, 202, 204, 213, 216, 226, 238, 249-254, 256, 298, 312, 317, 320-324, 328-332, 334-336, 339, 341-345, 351, 354, 369, 370, 375, 400, 401, 417, 435, 444, 469, 516, 552, 554, 573, 575, 577, 579, 580, 582, 583, 587, 591. Sobieski, Teresa, figlia secondogenita di Jan, 554. Sofì Pas¸a da Valona, comandante militare ottomano, 28-29. Sòfia, 245, 249. Sofia, figlia di Alessio I Romanov, 378, 583, 591. Soissons, conte di, vedi Eugenio Maurizio di Savoia-Carignano. Sokolovich, 528. Solimano, vedi Süleyman. Solimena, Francesco, pittore, 349. Somma, duca di, vedi Sanseverino, Alfonso. Sopron (Ödenburg), 34, 207, 214, 261, 297, 524, 556. Soranzo, Giovanni, bailo veneziano a Istanbul, 116, 541. Soranzo, Lazzaro, 497.

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Indice dei nomi di persona e di luogo

Sorrento, 75. Sorti, Francesco, 583. Soumet, Alexandre, 602. Spagna, passim; re di, vedi Carlo II; Carlo V; Filippo II; Filippo III; Filippo IV; Filippo V di Borbone. Sparta (Mistra), 304, 389, 460. Sperlonga, 23. Spielberg, 475. Spinalonga, porto di Candia, 133, 542. Spinola, Giulio, cardinale, vescovo di Lucca, 356. Spira, 425, 569. Sporck, Johann von, 157-159, 558. Sremski Karlovci, vedi Carlowitz. Stakenau, 313. Standia, 130, 131, 133. Starhemberg, Ernst Rudiger von, conte, 284, 286, 299, 302, 306, 341, 342, 347, 348, 370, 406, 407, 440, 445, 573. Stato dei Presidi, 447. Stefani, Sebastiano, frate carmelitano, 351. Steinau, Adam Heinrich, generale sassone, 396. Stettino, 149, 547. Stiria, 18, 156, 164, 165, 448. St. John de Crevecoeur, John Hector, 582. Stoccolma, 231, 513. Stokowski, Leopold, 515. Stoye, John, 296. Stralsunda, 547. Strasburgo, 209, 213-215, 217, 218, 222, 240, 402, 437. Strassoldo, famiglia, 271. Strassoldo, Girolamo, 384. Strassoldo, Niccolò, conte, 386-388. Strattmann, Theodor Althet von, conte, cancelliere imperiale, 143, 410, 443. Strigonia, vedi Esztergom. Strozzi, famiglia, 6. Strozzi, Leone, 526.

Strozzi, Maddalena, moglie di Virginio Orsini, 525. Strozzi, Piero, 25, 525, 526. Strudel, Paul, 572. Stuart, famiglia, 582. Stuhlweissenburg, vedi Székesfehérvár. Stukeley, Thomas, sir, 62, 64, 67. Štúrovo (Párkány, Barkan), 153, 155, 370, 371, 380, 410, 548, 566. Suakin, 517. Suda, porto di Candia, 116, 118, 126, 133. Sudan, 517, 531. Suez, 525, 581. Süleyman, fratello di Mehmed IV, 422. Süleyman (Solimano), al-Qanuni (il Magnifico), 14-17, 20, 22, 25, 2729, 32, 37, 42-45, 58, 68, 77, 79, 248, 253, 275, 276, 300, 315, 363, 416, 425, 482, 488, 493, 496, 516, 519, 520, 522, 524, 525, 528, 535, 544, 570. Süleyman Ag˘a, ambasciatore a Parigi, 481, 599. Sully, duca di, 363. Sumatra, 517. Sümbül Ag˘a, eunuco, 114. Sur (Tiro), 98. Susmarshansen, 150. Sustermans, Giusto, 479. Suttinger, Daniel, ingegnere militare, 284. Svevia, 209, 317, 332, 568, 596. Svezia, 8, 105, 139, 140, 151, 152, 176, 181, 185, 197, 203, 230, 314, 415, 424, 547, 555, 592, 594; re/regina di, vedi Carlo IX; Carlo X Gustavo; Carlo XI Wasa; Carlo XII; Cristina Wasa; Gustavo II Adolfo Wasa. Szapolyai (Szapolya), vedi Zápolya. Szatmár, vedi Satu Mare. Szeged (Seghedino), 43, 413, 418, 431, 439, 592. Székesfehérvár (Alba Reale, Alba-

Indice dei nomi di persona e di luogo regia, Istolni Belgrad, Stuhlweissenburg), 259, 262, 417, 565, 590. Szent Job, 418, 419. Szent-Gotthard (Mogersdorf), 128, 156-158, 160, 161, 164-166, 175, 180, 234, 248, 285, 324, 333, 338, 558. Szigetvár, 155, 417. Szlepcsényi, György, primate d’Ungheria, 257, 566. Szolnok, 410. Tabor, monte, 539. Taganrog, 442, 455. Tagliamento, 517. Tahmasp, shah di Persia, 20. Talamone, 39, 93. Talenti, Tommaso, segretario di Giovanni III di Polonia, 226, 250, 254, 268, 351, 352, 355, 556, 564, 578580. Tamerlano (Timur), 8, 21, 493, 495, 522. Tanaro, 592. Tangeri, 61, 63, 527. Taranto, 389. Tarcento, 270. Tarsia, Tommaso, 245, 249, 266, 372374, 562. Tasso, Torquato, 58, 494, 519. Tatra, monti, 587. Tebe, 393, 394, 459. Tehgrub, 165. Teive, Diego de, 61. Tekije, 467. Teleki, Mihály, 144, 239. Temesvár, vedi Timis¸oara. Tenaglia, Giovanni, 560. Ténaron, capo, 586. Tencala, Giovanni Pietro, architetto, 347, 348. Ténedo, 124. Teodoro III, czar di Russia, 583. Teodosio, imperatore, 163, 500. Terrasanta, 27, 45, 48, 51, 363, 366, 454, 486, 508, 541, 561, 569.

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Tersatto, colle presso Fiume, 529. Terzi, Filippo, ingegnere militare, 62. Tessalonica, vedi Salonicco. Tetwin, 319. Tevere, 190. Thököly, Imre, 192, 207, 208, 214, 217, 222, 223, 225-230, 235, 237239, 247, 249, 257-259, 261, 262, 291-293, 318-320, 335, 371, 399, 403, 409, 415, 418, 419, 429, 447, 449, 566, 582, 593. Thurn, conte di, 570. Tiberiade, 45. Tibisco (Tisza, Tisa, Theiss), 34, 35, 418, 430, 438, 439, 590, 592. Tien Shan, 68, 567. Tiepolo, Ermolao, 55. Tigri, 12, 105. Tilli, Michelangelo, medico, 578. Tilly, conte di, vedi T’serclaes, Jan. Timbuctu, 7, 19, 60. Timis¸oara (Temesvár), 34, 433, 440442, 467, 468, 470, 471, 524, 590, 591. Timur, vedi Tamerlano. Tinelli, Francesco, gesuita, 353, 354, 579. Tinos, isola, 78, 116, 442, 456, 459. Tiro, vedi Sur. Tirolo, 213, 282, 283, 568; arciduca del, vedi Ferdinando. Tirreno, mare, 5, 163, 388, 526. Tisza, vedi Tibisco. Tiziano Vecellio, 43. Tokaj, 432. Toland, John, 446. Toledo, 66, 490. Tolfa, 540. T¸ółkiewski, ataman polacco, 177, 322. Tolomei, famiglia, 6, 404. Tolone, 38, 69, 128-131, 401, 509, 545. Torino, 445, 576, 592. Torstensson, Lennart, generale svedese, 137. Toscana, 8, 11, 25, 39, 75, 80, 94, 99,

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Indice dei nomi di persona e di luogo

100, 103, 121, 163, 314, 461, 526, 531; granduca di, 92, 97, 111, 484, 529, 534, 595; vedi anche Cosimo I; Cosimo II; Cosimo III; Ferdinando I; Ferdinando II; Francesco I; Giangastone. Tosti, Fulvio, 148, 548. Totò (Antonio de Curtis), 602. Toul, 209. Tours, santuario di San Martino, 66. Tracia, 238, 240, 252, 519, 563. Traiano, imperatore romano, 175. Transcaucasia, 473. Transdanubio (Transdanubia), 34, 258. Transilvania, 34, 35, 92, 137, 143, 144, 146, 153, 156, 161, 175, 183, 185, 186, 191, 192, 229, 245, 247, 249, 259, 275, 375, 392, 399, 417, 418, 420, 429-431, 440, 442, 447-449, 461, 527, 533, 536, 542, 554, 558; principe (vojvoda) di, vedi Apafi, Mihály; Barcsai, Ákos; Báthory, István; Bethlen, Gábor; Bocskai, István; Rákóczi, Ferenc I; Rákóczi, Ferenc II; Rákóczi, György I; Rákóczi, György II; Zápolya, János. Transoxiana, 21, 68. Trebisonda, 8. Trehet, Jean, 348. Trench, Geronimo, da Cremona, marchese, 271. Trencsén, 449. Trento, 140, 352, 489; concilio di, 278. Treviri, 224, 401, 424. Treviso, 8, 582. Trieste, 378, 471, 568. Tripoli, 12, 23, 41, 71, 465, 526, 536, 541. Trivulzio, famiglia, 432. Troade, 520. Troger, Paul, pittore, 349. Troia, 57, 126. Trondheim, 547. Troppau, vedi Opava.

Trzebicki, Andrzej, vescovo di Cracovia, 188. T’serclaes, Jan, conte di Tilly, 148, 324. Tulln, xii, 306, 317, 318, 323, 328, 331. Tunisi, 12, 24, 25, 26, 39, 44, 45, 52, 53, 72, 79, 82, 94, 522, 528, 530, 532, 533, 536; emiro di, vedi Muhammad Hasan; Mulay Hasan. T¸urawno, 183, 184, 190, 193, 198, 202. Turchia, 473, 485, 509, 516, 562, 594, 601. Turenne, François de, principe, 393. Turenne, Henri de La Tour d’Auvergne, visconte di, 150, 171, 174. Turghud Ali, vedi Dragut. Turingia, 318. Uccisali, vedi Uluç Ali. Ucraina, 107, 108, 175, 176, 179, 180, 183, 184, 454, 540, 551-553, 557, 594. Udine, 10. Ulisse, 288. Ulm, 209, 425. Ulrica Eleonora, sorella di Carlo XII di Svezia, 594. Uluç Ali (Uluc-Ali, Kiliç Ali, Occhiali, Uccialì, Galieni Luca o Giovanni), 44, 45, 53, 71, 72, 528, 533. Ungheria, passim; palatino di, vedi Esterházy, Pál; Wesselényi, Ferenc; primate di, vedi Szlepcsényi, György; re di, vedi Luigi II. Ungvar, 418. Uppsala, 151. Urali, 239. Urbano II (Ottone di Lagery), papa, 154, 581. Urbano VIII (Maffeo Barberini), papa, 103, 149. Urbino, duca di, vedi Federico di Montefeltro; Francesco Maria I Della Rovere.

Indice dei nomi di persona e di luogo Urdimalas, Pedro de, 70. Usama Bin Laden, 193. Usama ibn Munqidh, emiro siriano, 84. Usta Murad (Osta Morato o Moratto), 79. Utrecht, 148, 176, 446, 509, 513, 550. Uyvár, vedi Neuhäusel. Vác, 588. Vadim, Roger, 597. Vaduz, 577. Vág, 257. Váh (Waag, Wág), fiume, 403, 588. Vailate, 590. Valacchia, 89, 153, 247, 375, 399, 417, 429, 439, 442, 451, 467, 468, 471, 537; hospodar (vojvoda) di, vedi Cantacuzeno, Serban; Vlad «Dracul». Valenza, 447. Valier, Alessandro, 395. Valier, Bertuccio, doge, 125. Valier, Silvestro, doge, 396. Valona, 29, 113, 381, 390, 394, 523, 541. Valtellina, 116. Van, lago, 12. van den Vondel, Joost, 160. Vanel, Jean de, 191. van Vaelckeren, Jan Pieter, 296. Varennes, ambasciatore francese, 543. Varmo di Pers, Antonio, 271. Varna, 362. Varrone, 521. Varsavia, 179-182, 184, 188-191, 203, 205, 207, 231, 250, 322, 417, 435, 447, 473, 547, 552, 554, 576, 592. Vasari, Giorgio, 508. Vassili III, principe di Moscovia, 537. Vasto, marchese del, 40; vedi anche Avalos, Alfonso. Vasvár, 179, 187; pace di, 127, 160162, 164-166, 168, 172, 183, 186,

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190, 201, 214, 220, 222, 229, 233, 235, 481, 497, 524, 549, 553. Vat¸a de Jos (Alvinc), castello in Transilvania, 35, 524. Vauban, Sébastien Le Prestre de, 314, 401, 440, 593. Vecchietti, Giovan Battista, 68. Vecchietti, Girolamo, 68. Vecellio, Tiziano, vedi Tiziano. Venedikli Hassan, vedi Celeste Andrea. Veneto, 313, 542, 543. Venezia, passim; arsenale, 111, 542; basilica di San Marco, 567; chiesa di Santo Stefano, 586; Museo Correr, 355, 586, 601; parrocchia dei Santi Giovanni e Paolo, 71; vedi anche Sebastiano da. Venier, Bernardino, 271. Venier, Cristoforo, 55. Venier, Girolamo, 582. Venier, Nicolò, 77. Venier, Sebastiano, 48. Verdun, 209. Vergilio, Polidoro, 487. Vergine del Rosario, 6, 49, 54. Vergine di Cze¸stochowa, 322, 516. Vergine di Montserrat, 25. Vergine Maria, 7, 54, 255, 256, 280, 282, 288, 305, 311, 323, 337, 353, 517. Verona, 457. Verospi, Fabrizio, nunzio apostolico in Austria, 571. Versailles, 252, 273, 316, 326, 327, 368, 402, 425, 426, 433, 436, 438, 444, 446, 447, 452, 514, 595, 599. Versilia, 74, 80. Veszprém, 92. Veterani, Federico, generale dell’esercito imperiale, 432. Vico, Giovan Battista (Giambattista), 321, 419, 435, 590. Vidin, 429. Vieira, Antonio, 531. Vienna, passim; Augustinerkirche,

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Indice dei nomi di persona e di luogo

341; Amalienburg, 281, 571; Belvedere, 349, 436, 478; borgomastro, vedi Liebenberg Johann; Siebenbürger Martin; Burgbastei, 292, 297-299, 301; Burgtheater, 503; Burgtor, 290, 297, 330; cattedrale di Santo Stefano, 305, 306, 328, 347, 564, 568, 571, 574; chiesa dei Nove Cerchi Angelici, 175; chiesa di San Rocco, 279; chiesa di Sankt Ulrich, 290; cripta dei Cappuccini (Kapuzinergruft), 175, 443, 445, 593; Graben, 282; Heersegeschichtliches Museum, 576; Himmelpfortgasse, 348, 478; Historisches Museum, 577, 578; Hofburg, 153, 251, 274, 281, 292, 297, 299303, 347, 554, 571; Karlskirche, 349; Kärntnerbastei, 292, 297; Kärntnertor (Porta di Carinzia), 276, 301, 570; Kunsthistorisches Museum, 576, 578, 582; Kunstlerhaus, 576; Leopoldischinertrakt, 571; Linienwall, 349; Loebelbastei, 292, 297, 299-301, 304, 330; Marchfeld, 478; Österreichische Nationalbibliothek, 578; palazzo Lichtenstein, 348, 577; palazzo Schwarzenberg, 349; Pestsäule, 282, 572; piazza Am Hof, 175; quartiere di Währing, 576; quartiere di Leopoldstadt, 166, 279; Reichskanzleitrakt, 571; Schottenkirche (chiesa di Nostra Signora degli Scozzesi), 292; Schottentor, 290, 292, 297, 304, 337; Schweitzerhof, 571; sobborgo di Josefstadt, 282; sobborgo di Liechtental, 282; sobborgo di Rossau, 282; sobborgo di Schottenfeld, 282; sobborgo di St. Ulrich, 291, 308; Türkenschanzpark, 570, 576; Türkenstrasse, 570; vescovo di, vedi Breuner Sigfried, Sinelli Imre. Vienne, 362, 581.

Villars, Claude-Louis-Hector duca di, 446, 447. Villeneuve, marchese di, ambasciatore francese a Istanbul, 475. Vincennes, 326. Vincenzo de’ Paoli, santo, 72. Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova, 88, 90, 93, 101, 539. Virovitza, 404. Visconti, Annibale, 411. Visconti Venosta, Giovanni, 602. Visegrád, 92, 403. Višnjica, 468. Vistola, fiume, 190. Vitelli, Ferrante, 596. Viterbo, santuario della Madonna della Quercia, 538. Vitry, ambasciatore francese a Varsavia, 252. Vitry, marchese di, vedi L’Hopital Nicolas-Marie. Vittorio Amedeo di Savoia, 205. Vittorio Amedeo II di Savoia, 434, 436. Vivaldi, Antonio, 463, 596. Vivonne, duca di, vedi Rochechouart, Louis-Victor de. Vlad «Dracul», vojvoda di Valacchia, 495. Vojvodina, 421, 441. Volga, 59. Voltaire (François-Marie Arouet), 106, 129, 273, 342, 343, 363, 505, 545, 547. Vonitza, 597. Voronej, 595. Vosgi, 174. Vurberk (Wurmberg), 484, 549. Waal, fiume, 555. Wadi el-Makhazen, 63. Wagner, Richard, 503. Waldeck, Georg Friedrich von, conte, 158, 318, 323, 324, 330, 332. Waldeck, Josias von, 130, 131. Wallenstein, Albrecht von, 324, 444.

Indice dei nomi di persona e di luogo Wehler, Hans Ulrich, 105. Weissenkirchen, chiesa fortificata, 285. Weltwyck, Gerhart, 526. Wesselényi, Ferenc, palatino di Ungheria, 185, 549. Westfalia, 596; trattati (paci) di, 105, 106, 120, 125, 150, 170, 192, 280, 363, 449, 453, 473, 543, 544. Westminster, 513. Wielopolski, Jan, conte, 552. Wien, fiume, 292, 297, 308, 328, 330, 334. Wiener-Neustadt, 186, 261, 275, 287, 297, 558, 571. Wienerwald, xi, 261, 263, 285, 291, 292, 298, 328, 331, 346, 576. Wion, Arnold, monaco benedettino, 555. Wittstock, 149. Wordsworth, William, 577. Worms, 425, 568, 569. Wrangel, Carl Gustaf, generale svedese, 150. Wurmberg, vedi Vurberk. Württemberg, 585, duca di, vedi Carlo Alessandro. Wyl, Jakob von, 58, 580. Ximenes de Cisneros, Francisco, cardinale, 490. Yahya, principe ottomano, 98, 99. Ybbs, fiume, 261. Ypsilantis, 131. Yusuf Simaan es-Simaani (Assemani), 492. Zaccaria, Benedetto, 362. Zafira (Giacoma Beccarini), sultana, 114, 542. Zagabria, 34, 175. Zahra, vedova del re del Marocco ‘Abd al-Malik, 71.

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Zalánlemény, 91. Zamoyski, Jan, vojvoda di Sandomierz e cancellerie del regno di Polonia, 89, 178. Zanardini, Angelo, 595. Zante, isola, 117, 118, 133. Zápolya (Szapolya, Szapolyai), János (Giovanni), vojvoda di Transilvania e re d’Ungheria, 15-16, 33, 34, 275, 277, 519. Zaporoze, 552. Zara, 11. Zborowski, famiglia, 88. Zelanda, 177. Zemun, 245. Zen, Pietro, ambasciatore veneziano, 31, 523. Zeno, Antonio, 384, 396-398. Zenta, 439, 440, 444, 467. Zeus, 426. Zierowski, Hans Christoph von, barone, 251. Zinzendorf, Albert von, conte, 210. Z˙ółkiewski, Stanislaw, ataman polacco, 107. Zorzi, famiglia, 79. Zrínyi (Zrinski), Miklós, bano di Croazia, 144, 146, 155, 156, 165, 185, 225, 548. Zrínyi, Ilona, figlia di Péter, 225, 418, 447, 560, 590. Zrínyi, Péter (Zrinski Petar), 185, 225, 553. Zrínyi-Újvár, 156, 161. Zsitva, affluente del Danubio, 92. Zsitva Törok, tregua di, 92. Zucalli, Enrico, 348. Zülfikâr Efendi, ambasciatore, 423. Zuliani, Biagio, 116. Zuñiga, Juan de, 529. Zurigo, 487, 492. Zvornik, 417.