Il tramonto della nostra civiltà 8804379189

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Il tramonto della nostra civiltà
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IL TRAMONTO DELLA NOSTRA CIVILTA

ARNOLDO MONDADORI EDITORE

Pochi anni ci separano ormai dallo scadere del secondo millennio cristiano-occidentale.

È un'epoca di grandi rivolgimenti: accanto al crollo di regimi consolidati, di antiche certezze e valori, assistiamo agli straordinari progressi della tecnologia e all’affacciarsi sulla scena mondiale di nuove nazioni, di

popoli rimasti finora ai margini della civiltà. Gli eventi contemporanei ci lanciano segnali contraddittori che si prestano a essere inter-

pretati in modi diversi. Di fronte ad alcuni fatti sembriamo

alla vigilia dell'età dell'oro,

poi ne accadono altri e ci inducono a pensare che tutto stia per sprofondare nelle tenebre. Ci chiediamo dunque: siamo in un’epoca di decadenza? la fine della nostra civiltà è prossima? oppure i nostri figli vivranno meglio di noi, e i nipoti meglio dei figli? Con Il tramonto della nostra civiltà Piero Ottone ha provato a offrirci, sulla base delle let-

ture e delle esperienze raccolte nella sua vita di giornalista, una chiave interpretativa che dia coerenza agli eventi, in modo da capire,

finalmente, quello che sta succedendo intorno a noi e quello che succederà dopo di noi. Sotto la guida di due grandi pensatori del

Novecento, Spengler e Toynbee, Ottone ripercorre in un affascinante viaggio a ritroso l'avventura della civiltà occidentale, il cui percorso, al pari di ogni altra, è simile a quello di un organismo vivente che nasce, raggiunge l'età matura e, infine, decade e

muore.

È attraverso i più diversi aspetti

della realtà contemporanea, politici, artistici, religiosi, di costume, giunge a mostrare,

come già il titolo ci fa presagire, che la nostra civiltà è giunta alla sua fase finale, al suo tramonto.

Ma la conclusione del libro non è pessimistica: anche nei tramonti ci può essere dolcezza di vivere e un significato per un'esistenza degna di essere vissuta. Il tramonto della nostra civiltà ci aiuta non solo

a leggere e a dare un senso alla nostra storia, ma anche a interpretare un presente che spesso ci appare confuso e incomprensibile.

In sovraccoperta: Michelangelo, David (part.) Firenze, Galleria dell’Accademia

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https://archive.org/details/iltramontodellan0000otto

Piero Ottone

IL TRAMONTO — DELLA NOSTRA CIVILTÀ

ARNOLDO MONDADORI EDITORE

ISBN 88-04-37918-9

© 1994 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione settembre 1994

Indice

Parte prima DARE UN SENSO ALLA STORIA

Una bussola per il tempo I nostri errori

L'avventura delle civiltà

La nascita dell'Occidente

L'enigma di Cristo Il momento più bello SA ae La catastrofe di una civiltà stroncata Parte seconda DARE UN SENSO AL PRESENTE

125 135

Le gioie della vecchiaia Nobiltà, borghesia, capitalismo Noi, abitanti di Babilonia

163 196 236 248 272

Ritratto dell’uomo politico L'arte astratta è arte? La seconda religiosità L'impero americano Da che parte stanno i russi? I nuovi barbari L'Italia è civile? Non siamo pessimisti

Il tramonto della nostra civiltà



US

t97,CAT

Parte prima Dare un senso alla storia

I

Una bussola per il tempo

E necessaria una chiave di interpretazione per inquadrare gli eventi del passato, per capire quelli del presente e, forse, per prevedere l'avvenire Quando è caduto il Muro di Berlino, col successivo crol-

lo dell'impero sovietico, uno studioso residente in America, Francis Fukuyama, annunciò: «È la fine della storia».

Fu deriso, ma le sue parole non erano prive di senso: egli voleva dire che, instaurato ovunque un sistema liberale e democratico, non ci sarebbe più stata evoluzione storica,

come se l'umanità fosse giunta allo stadio finale della civiltà, quello del Nirvana. Altri, sia pure usando espressioni meno fantasiose, fecero previsioni analoghé. Ogni tentativo di prevedere il nostro avvenire, di intuire se dobbiamo attenderci guerra o pace, prosperità o miseria, progresso o decadenza, non può prescindere tuttavia da un giudizio sullo stadio della civiltà occidentale. È ancora uno stadio di crescita, o è uno stadio finale? Siamo

all’inizio del cammino, o siamo giunti alla fine di una lunga marcia? L’Occidente è ancora giovane, o è decrepito? È questa la sua primavera o il suo autunno? Non si può tentare di rispondere a queste domande se non si ha una visione generale della storia. Ho cercato di elaborarla attraverso gli anni, e mi propongo adesso di esporla. Ma cerchiamo di capire innanzi tutto in che cosa consiste, e come l’ho raggiunta. Ii punto di partenza, per me, è il giornalismo. Sono in-

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Il tramonto della nostra civiltà

fatti un giornalista, e per tutta la vita ho inseguito l'attualità, al fine di descrivere, come avrebbe detto Mario Missi-

roli, giornalista filosofo di altri tempi, uomini e cose. Mi è capitata in sorte, quale campo di osservazione, la seconda metà del Novecento. Se fossi nato due secoli prima, avrei scritto di Napoleone e di Talleyrand oppure, se fossi nato nell'Ottocento, di Bismarck e di Disraeli. Mi so-

no invece occupato di Adenauer e di De Gasperi, di Krusciov e di Gorbaciov, giù giù fino a Craxi e Andreotti. Mi è andata male? Meglio astenersi dalle risposte frettolose. Si può sostenere che, come individui, gli uni valgano gli altri; e se quelli di ieri sembrano tanto più illustri di quelli di oggi, lo si deve non solo ai loro meriti, alle loro qualità, ma anche al metodo di osservazione, perché cogliamo dei personaggi del passato gli aspetti essenziali, li collochiamo in un contesto, e sorvoliamo sui particolari, sulla de-

bolezza dell’esistenza quotidiana. Si è detto che nessuno è un genio agli occhi del proprio cameriere. Possiamo anche affrontare la questione in altri termini: che impressione fanno, su un osservatore spassionato, i personaggi del nostro tempo? Il giornalista li osserva (come il cameriere) da distanza ravvicinata; spesso li incontra di persona, li conosce, gli parla. Ero molto giovane quando pranzai a Bonn con Konrad Adenauer, lo statista che rimise in piedi lo Stato

tedesco dopo la sconfitta della Germania. Lo rividi più tardi (nel 1955) a Mosca, durante la prima visita ufficiale

di un cancelliere tedesco in Unione Sovietica dopo la fine della guerra, sorridente, sicuro di sé, dal portamento affa-

bile e signorile, circondato dai capi russi che, più piccoli di lui, con un modo di fare contadino, sembravano i suoi

mezzadri. Un giorno mi trovai a tu per tu, nel corso di un ricevimento, con Nikita Krusciov, e scambiai con lui qual-

che battuta; parlammo delle sventure dell'esercito italiano in Russia. Brevi incontri, visioni fugaci: era come se un lampo di magnesio avesse squarciato le tenebre, illuminando all'improvviso davanti ai miei occhi questo o quel

Una bussola per il tempo

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potente della Terra; e io facevo una fotografia istantanea. Potevo dire, come Christopher Isherwood nel famoso romanzo su Berlino: I am a camera, sono una macchina foto-

grafica. Poi, il potente spariva. Ma che cosa combinano questi potenti della Terra? Quanto incidono sugli eventi? Gorbaciov era il capo di tutte le Russie quando è stato demolito il regime comunista. E merito suo, è dovuto al suo amore per la libertà, se

la dittatura è caduta? O il sistema gli è crollato addosso contro la sua volontà? La Germania moderna è stata tenuta a battesimo da Adenauer, ma fino a che punto la sua personalità ha influito sulla natura e sulle caratteristiche della Repubblica federale tedesca? Margaret Thatcher ha contrastato la fondazione di un'Europa federale, degli

Stati Uniti d'Europa: è a causa sua se gli Stati Uniti d'Europa non si fanno? Queste domande ne pongono un’altra, di carattere generale: l'influenza dell'individuo sugli eventi della storia. Ho detto che Krusciov o Adenauer mi comparvero davanti in certi momenti all'improvviso, come se fossero

stati illuminati da un lampo di magnesio. Ma la loro stessa presenza al timone dei rispettivi paesi appare breve, quando la si misura sulla vita dei popoli: una apparizione fugace, quasi effimera; una stella cadente nell’immensità del cielo. Attlee governò l'Inghilterra per sei anni, e De Gasperi governò l’Italia per otto. Per altrettanti anni Krusciov fu il dittatore sovietico. Che cosa sono sei, sette, otto

anni nella storia di una nazione? Possibile che così brevi periodi abbiano cambiato il corso degli eventi? Nessuno saprà mai con certezza quale sia il rapporto fra l’individuo e gli avvenimenti; così come non capiremo mai il giuoco fra destino e casualità, fra quel che succede perché è inevitabile e quel che succede per caso. Però continuiamo a chiedercelo. Pensiamo alle vicende dell'economia,

alla vita delle imprese: alcune prosperano, altre crollano. Fino a che punto il successo di un'impresa, o il suo crollo, sono dovuti all'imprenditore? Pensiamo alle vicende del-

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Il tramonto della nostra civiltà

la vita familiare: fino a che punto l'indole degli figli è dovuta ai genitori? Questi sono i quesiti. C'è chi sostiene che esulano dai compiti del giornalista. I am a camera: la macchina fotografica coglie l'attimo fuggente nel bagliore di un lampo, tutto il resto è tenebra. Quando ero giovane corrispondente a Bonn, scrissi due articoli sull'economia tedesca (la soziale

Marktwirtschaft), il primo per descrivere i progressi di quel paese, il secondo per inquadrare la politica economica di Ludwig Erhard, allora ministro dell'Economia, fra

tendenze liberiste e socialiste. Il dibattito fra socialismo e liberismo era vivace in quegli anni. Ricordo l'episodio perché un collega anziano, Giorgio Sansa, mi disse: «Bene il primo. Quanto al secondo, lascia perdere: non è compito nostro divagare sul corso della storia».

Capisco bene la prudenza di Sansa. Le estrapolazioni sono divertenti esercitazioni intellettuali, ma si sbaglia quasi sempre. Come si fa a capire, col naso schiacciato su un singolo avvenimento, dove andremo a finire? Ero in

Inghilterra quando il partito conservatore vinse le elezioni generali per la terza volta di seguito. Giornalisti e politologi spiegarono allora al popolo che i laboristi avevano fatto il loro tempo, che la loro estinzione era imminente. Ebbene: le elezioni successive furono vinte dai laboristi, che rimasero al potere per molti anni. Vogliamo fare un esempio più recente? È caduto il Muro di Berlino, si è dissolta l'Unione Sovietica, ed è stata proclamata l’èra della pace perpetua o, secondo Fukuyama, «la fine della storia». Dopo di che sono scoppiate tante guerre: in Iraq, in Jugoslavia, in Somalia. E ci si è chiesti se avremmo avuto,

come conseguenza della caduta del Muro, un accresciuto

tasso di bellicosità. Forse; ma ecco la pace nel Medio Oriente a contraddire quest'altro tentativo di estrapolazione. E allora? Le previsioni sono rischiose; però sono inevitabili, perché ogni evento è interessante, oltre che di per sé, per il

Una bussola per il tempo

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suo significato. Nessuno può sottrarsi all’ansia di capire quel che succede; neanche il giornalista, sebbene il suo primo compito sia di registrare, di fotografare. Fra i giornalisti ci sono quelli che si calano con gioia nell’attualità, e si perdono in una ricchezza descrittiva che li appaga; ce ne sono altri inclini a porre domande, a complicare il quadro. Dice Alberto Ronchey: se assisto al funerale di Churchill, quando appare il primo reggimento a cavallo comincio a riflettere sulla parte che ebbe Churchill nella storia dell'Inghilterra, mi sprofondo nelle mie riflessioni, e non faccio più caso al resto del corteo che sfila davanti ai miei occhi. Cattivo cronista? Certamente: ma buon analista politico. E probabile che il lettore di giornale legga con interesse l’analisi più che la descrizione (oggi più di ieri: perché il lettore ha già visto lo spettacolo alla televisione). L'analisi, per essere credibile, esige però una visione d’insieme. I singoli eventi incuriosiscono: ci si chiede, inevitabilmente, che cosa significano. Ma non si può rispon‘ dere se le risposte non sono inserite in una visione generale, in una visione del mondo:

in una

Weltanschauung.

Come si fa a interpretare i singoli atti, le singole mosse della vita quotidiana, se non c'è un filo conduttore? Le spiegazioni, per essere credibili, devono essere coerenti, e la coerenza nasce nella nostra testa, è dovuta alla nostra

capacità di legare insieme i fatti. Gli eventi quotidiani sono sporadici e contraddittori se non abbiamo a nostra disposizione una filosofia che a quei fatti dia un senso; se non abbiamo una filosofia della storia, quella che fece

esclamare a Goethe la sera della battaglia di Valmy: «Qui comincia una nuova epoca della storia». Il riferimento alla necessità di una visione d'insieme ci consente forse di risolvere, una volta per tutte, l’annoso di-

battito sull’obiettività del giornalista. Coloro che negano la possibilità per un giornalista di essere obiettivo confondono il concetto di Weltanschauung con quello di faziosità. È infatti vero che ogni essere umano, quindi anche un giornalista, deve disporre di una sua visione, di una sua filoso-

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Il tramonto della nostra civiltà

fia, per l'appunto di una Weltanschauung, per capire il mondo. Ma questa Weltanschauung, che è necessaria, non ha niente in comune con i favori che si possono rendere, nella stesura di una cronaca o di un commento, a un partito o a un personaggio. La Weltanschauung è uno strumento intellettuale che consente di comprendere il mondo. La mancanza di obiettività (la faziosità) è l'’ammiccamento verso un amico al quale si riserva un trattamento di favore. Se un fatto è incompatibile con i favori che vogliamo rendere, il giornalista fazioso (non obiettivo) altera o sopprime il racconto di quel fatto. E ancora: fazioso non è solo chi distorce la realtà per compiacere un altro, ma anche chi lo fa per compiacere se stesso, i propri convincimenti. Se un fatto è incompatibile con la Weltanschauung, sarà quest'ultima a evolvere, o a trasformarsi radicalmente, fino aquando l’in-

compatibilità non sarà superata. La mancanza di obiettività distorce la cronaca. La Weltanschauung spiega la cronaca, e sussiste in quella sua

forma

soltanto

se riesce a

spiegarla. È poi vero, in assoluto, che la percezione dei fatti, di qualsiasi fatto, passa attraverso il filtro della soggettività, quindi delle nostre idee preconcette. Ma non esageriamo: se fuori piove, tutti si accorgono che piove, quale che sia la loro cultura, il loro grado di istruzione, o il colore della

loro pelle.

Il giuoco fra attualità e analisi, fra cronaca e spiegazione della cronaca, fra percezione immediata e filosofia della storia, si ripete di continuo per il giornalista come per ogni essere umano. Nella seconda metà del Novecento,

cioè nell'epoca che è stata il mio campo di osservazione, il giuoco fra attualità e analisi ha acquistato particolare intensità nella parabola di un impero, che ha toccato il momento di massima gloria alla metà del secolo e poi, cin-

quant'anni più tardi, è crollato. Declino e caduta, decline and fall, dell'impero russo: perché? Andai per la prima volta a Mosca nel gennaio del 1955,

Una bussola per il tempo

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e provai tutte le emozioni, vorrei dire tutte le gioie estetiche, dell'impatto immediato con una nuova realtà, una realtà diversa da quella che già conoscevo. I am a camera: c'era tanto da fotografare. Arrivai a mezzanotte. L’aeroporto; la strada verso la città, attraverso la campagna coperta di neve, misteriosa nella notte; le torri del Cremlino,

cupe nell'oscurità; l'albergo Métropole, fiocamente illuminato; la camera spaziosa, i mobili vecchiotti, l’abat-jour, il letto nell’alcova: era un viaggio sulla Luna, su un altro pianeta, tutto diverso dal nostro. Era anche un viaggio a ritroso nel tempo, perché lo scenario in cui mi muovevo, i

mobili vecchiotti, gli abat-jour giallognoli, gli scaloni ampi potevano essere quelli di Parigi nel 1910, in un albergo della belle époque, su cui sembrava che fosse sceso, adesso,

un velo di polvere. Provavo una grande emozione all'impatto di quel mondo; provavo la gioia della scoperta. Ma perché tutto era a quel modo? Mi trovavo al centro di un impero immenso, che incombeva sul resto d'Europa: qual era il suo destino? Era un impero socialista: qual era la sorte del socialismo? Molti fatti si susseguirono dopo il mio arrivo: arrivò a Mosca Raab, cancelliere austriaco, concordò coi russi la

firma del trattato di pace, e si ubriacò per la gioia: quando rientrò in ambasciata non si reggeva sulle gambe. Fu fatta la pace con Tito, Krusciov e Bulganin andarono a Belgrado, ma Molotov rimase a Mosca: perché? E così avanti, un fatto dopo l’altro: l'ascesa di Krusciov, la sua caduta, l’èra

di Breznev e di Kossighin, poi Andropov, Cernienko, infine Gorbaciov, e il crollo. Come si spiega tutto questo? E che cosa possiamo aspettarci adesso? Potrei citare altri esempi: il mio campo di osservazione, la seconda metà del Novecento, ha generato tanti eventi

curiosi e interessanti, ha posto tanti quesiti. Il giornalista, una specie di notaio che registra ciò che succede, racconta gli eventi. Ma non solo quelli. Deve fare anche lui, come lo storico, la sua scelta fra histoire événementielle e histoire tota-

le. La prima riferisce i grandi avvenimenti, la battaglia di

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Il tramonto della nostra civiltà

Poitiers, l’attentato di Sarajevo, l'uccisione di Kennedy.

L'altra segue la vita di tutti i giorni, riferisce quel che si mangia, come ci si veste, quali commerci si fanno, su che

navi si naviga, con che armi si spara. Il giornalista può fare a sua volta il giornalismo événementiel, e dire che israeliani e palestinesi hanno firmato un trattato; può fare un giornalismo total, e osservare che è entrata sulla scena del *mondo la minigonna. La seconda metà del Novecento è stata sensazionale anche nell'evoluzione del costume; evoluzione di cui la mi-

nigonna è un aspetto rivelatore. La società occidentale è entrata fra il 1950 e il 2000 nell’èra della permissività totale. Sono caduti molti tabù; anzi, tutti i tabù. Nella terza

decade del nostro secolo un re d'Inghilterra dovette abdicare perché voleva sposare una signora allora considerata impresentabile nei salotti rispettabili: era una divorziata. Cinquant'anni più tardi il divorzio fu ammesso fra gli stessi principi reali. All’inizio del secolo un grande scrittore, Oscar Wilde, fu processato e condannato per il reato (allora era un reato) di omosessualità, che egli cercò di ne-

gare fino all'ultimo, disperatamente; verso la fine dello stesso secolo gli omosessuali chiedevano, e in molti Stati dell'Occidente ottennero, il riconoscimento legale dei loro matrimoni, con il corollario, giacché non potevano produrli, di adottare figli. È facile prendere atto di questa rivoluzione. Ma che significato ha? Tanti ricordi, fotografie istantanee, prese nel corso degli anni e accantonate nella memoria, si affollano alla mente.

In mezzo secolo di attività giornalistica si ha la possibilità di studiare gli uomini a tutte le latitudini, di fare confronti. L'uomo ha attraverso i millenni un rapporto costante con la terra, fonte della sua ricchezza. Ma come lo risolve?

Negli Stati Uniti visitai la casa di un farmer che coltivava da solo, con l’aiuto di macchine, molte decine di ettari; fui

suo ospite nel giorno del Ringraziamento (Thanksgiving Day) in cui si osservano vecchie usanze di origine religiosa, anche se oggi la fede religiosa si sta attenuando. In

Una bussola per il tempo

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Russia vidi all'opera il mugik, contadino russo, fedele ai vecchi metodi di coltivazione, tenace e inefficiente. Nel

Transkei, una regione del Sudafrica, andai in un villaggio di negri, e ricordo come fecero ressa intorno all’automobi-

le per chiedermi qualche moneta; ancora mi sembra di sentire sul braccio la stretta delle loro mani di acciaio. Il farmer, il mugik, il negro: tre contadini diversi l’uno dall’altro. Le differenze fra l’uno e l’altro sono evidenti, e il cro-

nista può registrarle. Ma che cosa significano? E che cosa lasciano presagire? Il presente incalza, in ogni momento: può essere affascinante, anche se il fascino è essenzialmente retrospettivo, perché spesso le nostre esperienze immediate provocano attriti, frizioni, asperità, e si abbelliscono soltanto nel ri-

cordo. Ci sono tanti modi diversi di vivere il presente, secondo il carattere individuale. Gli uni sono contenti di quel che hanno e di quello che provano in ogni singolo istante; gli altri desiderano sempre qualche cosa di diverso. Ma in ogni caso il presente è vissuto, almeno da noi occidentali, nella prospettiva della sua proiezione verso l'avvenire, in un’altalena di timori e di speranze. Se siamo infelici, speriamo che succeda qualche cosa che ponga fine all’infelicità. Se siamo felici, ci chiediamo trepidanti

per quanto tempo lo saremo. Non si promettono gli amanti, nei momenti di estasi, amore eterno? Non chiede Faust a Mefistofele, come dono supremo, quello di vivere

un'esperienza alla quale potrà dire: o istante, sei così bello, fermati? Anche il giornalista è un uomo; vive il presente, vive l'attualità, e continuamente cerca, per sé e per i suoi letto-

ri, di capire come evolverà. Ma non si può prevedere l'evoluzione futura se non si dà un senso al presente.

Questo libro vuole offrire una chiave di interpretazione che consenta di dare un senso agli eventi del nostro tempo. Ma d'altra parte non possiamo capire quel che succede oggi, e tanto meno indovinare quel che succederà do-

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Il tramonto della nostra civiltà

mani, se non ci rendiamo conto di quel che.èaccaduto nel passato. Dobbiamo conoscere l’antefatto. Occorre insomma la conoscenza della storia. A un giovane giornalista si consiglia sempre, in primo luogo, di studiare la storia; se non sa un po' di storia, non potrà orientarsi tra i fatti del giorno. E più ancora che conoscere il passato, deve cercare di capirlo. Non è essenziale la vastità dell’erudizione, e nessuna persona al mondo può essere erudita, del resto, sulle vicende di tutti i popoli in tutte le epoche dell'umanità. Importante è il tentativo di capire, piuttosto che di conoscere tutti i singoli episodi, in modo da interpretare il presente, nella speranza di immaginare quel che tiene in serbo per noi l'avvenire: chi si confronta con questi compiti cerca di elaborare una filosofia della storia. Che validità può avere la mia filosofia della storia? Non sono né un filosofo, né uno storico. Le convinzioni alle

quali sono giunto sono il risultato di letture, quali può avere fatto una persona di media cultura del nostro tempo, e di esperienze, cioè di osservazioni personali, che nel-

la professione del giornalista sono inevitabilmente numerose, perché il mestiere gli impone per l'appunto di osservare ciò che accade intorno a lui. Ogni filosofia della storia è il risultato di letture e di esperienze, messe insieme e amalgamate dal coefficiente di intelligenza di chi la elabora. Nel mio caso è fuori di dubbio che la componente delle esperienze personali supera di gran lunga la componente delle letture. Quanto al grado di intelligenza impiegata per unire le due componenti, per impastarle insieme, non sta a me giudicarlo. Vorrei soltanto avanzare la tesi che, per la bontà del ri-

sultato, non importa tanto l'estensione di ogni singola componente (letture, esperienze, intelligenza) quanto la loro reciproca compatibilità. Solo così si arriva a un risultato equilibrato e, pertanto, convincente. Aggiungiamo subito: convincente non in senso assoluto, sempre e ovunque, per

tutti, ma per un determinato pubblico in una determinata

Una bussola per il tempo

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epoca. La chiave di interpretazione che io offro per capire gli eventi contemporanei, e per intuire il loro sviluppo in prospettiva, è il frutto di un'elaborazione compiuta da una persona di media cultura che vive nell’Occidente industriale alle soglie del Duemila. Non c'è alcun dubbio che sarebbe stata diversa se fosse stata elaborata in un altro periodo storico; oppure se fosse elaborata da un intellettuale del Terzo Mondo, da qualcuno cresciuto nell’ambito di una

cultura diversa, per esempio della cultura islamica o confuciana. È possibile d’altra parte, anzi oso sperare probabile, che questa Weltanschauung risulti convincente per persone di cultura simile alla mia, con lo stesso colore della

pelle e con analoghe esperienze alle spalle. Per questo ho l'audacia di presentargliela. Sono consapevole dei limiti di questa mia chiave di interpretazione (che poi è mia, ben inteso, solo in piccola parte, perché riprende e rielabora altre visioni e altre chiavi di interpretazione). C'è chi ha letto infinitamente più di me; c'è chi può definirsi, con pieno diritto, uno storico 0 un filosofo, e sa tante cose più di me; e c'è, ovviamente,

chi ben più di me è intelligente. Ma forse la sua filosofia della storia, a causa di queste più vaste letture o di questa intelligenza più acuta, sarà universalmente credibile? Forse che sarà valida per tutti, in assoluto? No di certo: neanche la sua sarà quella definitiva, quella universalmente accettata, perché nessun sistema filosofico, e nessuna filosofia della storia, sono tali da

convincere tutti coloro che ne prendono conoscenza. Vi sarà sempre chi contraddice ciò che altri, per quanto eru-

diti, acuti e brillanti, affermano. Nessun sistema è perfetto, universale, definitivo. È già un bel risultato se riesce a essere convincente per un determinato numero di persone, e se le aiuta a capire il mondo: capire, nel senso limita-

to e soggettivo che attribuisco al termine. Nessuna teoria (sia che miri a capire la storia, sia che si riferisca a fenomeni naturali, alla biologia o alla botanica o alla fisica) scopre la verità. Nessuna è definitiva. Qual-

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siasi teoria è soltanto una chiave di interpretazione che aiuta a comprendere un certo numero di fenomeni. Se li comprendesse tutti sarebbe perfetta. Ma la vita, nel suo fluire, sfugge a ogni tentativo di comprensione totale ed esauriente, perché la vita scorre, la vita cambia, mentre la definizione dei fenomeni vitali, frutto di una teoria, è ine-

vitabilmente statica. Diciamo che la teoria è una fotografia, o meglio ancora un dipinto, e ritrae la realtà nel momento in cui il fotografo fa scattare l’obiettivo, o il pittore la traccia sulla tela. Un istante più tardi la riproduzione è già falsa, perché la realtà è cambiata. I seguaci di ogni teoria, naturalmente, si illudono di es-

sere finalmente in possesso della verità assoluta, e si affannano a dimostrarlo mediante spiegazioni esaurienti o, come si dice, scientifiche. Da quanto tempo i darwinisti cercano l’«anello mancante»? Il darwinismo altro non è che una chiave di interpretazione (piuttosto macchinosa, a mio avviso, e totalmente inaccettabile) per spiegare la presenza delle specie animali sulla Terra. Ci sono quelli che giurano che la chiave offerta dal darwinismo è vera e quelli che giurano che è falsa. Ma non è né vera né falsa: è una chiave di interpretazione e nulla più, nata in quella forma perché si inserisce in una più generale visione del mondo che predominava al momento in cui fu concepita. «La teoria» sono parole di Goethe «non serve a nulla, se

non a farci credere alla correlazione dei fenomeni.» Ogni essere umano ha una sua visione del mondo, una

sua chiave di interpretazione, grandiosa e sublime se è colto e intelligente, limitata e infantile se è un essere primitivo. Ogni visione è il frutto di una determinata cultura e di una determinata epoca. E ognuna dura nella sua forma individuale per il breve lasso di tempo pari alla vita di chi la concepisce, subendo a sua volta modifiche e trasfor-

mazioni nel corso di quella vita, perché ognuno di noi, da vecchio, vede il mondo in maniera diversa rispetto a quando era giovane. Miliardi di visioni individuali si avvicendano dunque sulla superficie del globo, nella testa

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dei miliardi di individui che formano il genere umano; so-

no brevi sprazzi di intelligenza che rilucono e si spengono, incessantemente, da migliaia di anni. Di fronte alla caducità delle nostre visioni, i corpi celesti ruotano nello spazio, con regolarità e con precisione quasi assoluta (non del tutto assoluta, se è vero che l’asse della

Terra si sposta lentamente rispetto al Sole, tanto che la stella del Nord per Ulisse non era la Polare, ma un’altra

stella, la quale tornerà a collocarsi esattamente al Nord fra non so quante migliaia di anni. E un altro esempio di disordine nell'Universo, se mi è consentita l’impertinenza,

sono quei detriti che lo attraversano, come piccolissime schegge di chi sa quali conflagrazioni, che noi ammiriamo specialmente in agosto e chiamiamo stelle cadenti). C'è da impazzire quando si pensa all’immensità dello spazio, alla miriade di corpi celesti che in esso si muovono, alla loro origine misteriosa, alla loro sorte. Anche su

tutto questo gli uomini, alcuni uomini, arrischiano audaci chiavi di interpretazione, che non so se sia più giusto definire timide o presuntuose; e ci parlano di buchi neri, di grandi bang, in un Universo esistente da non so quanti milioni di anni-luce e, secondo i casi (cioè secondo i gusti personali), finito o infinito... Forse l’astrononaia è, fra tutti i rami dello scibile, il più fantasioso. I nostri sistemi filosofici, le nostre chiavi di interpretazione sono, di fronte all’Universo, ben misera cosa. Ma

per quanto siano discutibili, fragili e rudimentali, rappresentano pur sempre l’unica nostra possibilità di difesa individuale, l’unica nostra imprecisa, fragile bussola per trovare una rotta nel caos che ci attornia.

II I nostri errori

È sbagliato suddividere la storia in Evo Antico, Medio Evo ed

Evo Moderno, e non si può credere alla teoria del progresso continuo dall'uomo di Neandertal fino all'uomo contemporaneo La filosofia della storia è il tentativo di capire il senso degli avvenimenti, la loro concatenazione, la loro linea di

tendenza. Poiché sono possibili molte interpretazioni diverse degli stessi fatti, nessuna può pretendere di essere quella definitiva, quella autentica: non esistono verità assolute. Si può solo parlare di credibilità. Secondo me sono credibili alcune proposizioni, che adesso proverò a esporre. Ogni civiltà è caduca, nel senso che è destinata a decadere, a spegnersi, in una parola: a morire. La civiltà occidentale, alla quale apparteniamo, non fa eccezione (sarebbe strano se lo facesse) ed è caduca anch'essa. Un giorno si spegnerà, come si sono spente tutte le altre. Noi ci troviamo oggi, in questo ultimo decennio del Novecento, nella fase discendente della parabola, cioè

nel periodo della decadenza. Già oggi, nonostante le grandi conquiste tecniche, nonostante l'esplorazione dello spazio, la civiltà occidentale è decadente. È in quella stagione dorata ma triste dell'autunno, con i piaceri raffinati, con le gioie e le malinconie, con le meschinità e le miserie di ogni esistenza quando si approssima la fine. La civiltà occidentale sta avviandosi verso l'estinzione, verso la morte. Noi, figli di questa civiltà, siamo «vecchi»; siamo

decadenti.

I nostri errori

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Queste sono le conclusioni, che mi sembra utile esporre

subito al lettore. Ci inoltreremo ora nei ragionamenti e nelle riflessioni che le renderanno credibili. Vedremo quindi di interpretare, attraverso di esse, molti aspetti della vita contemporanea, e cercheremo di immaginare i loro sviluppi futuri. Ma innanzi tutto è bene sgomberare il terreno di alcune fallacie. Rinunciamo pure a considerare giuste o sbagliate le varie interpretazioni della storia, e accontentiamoci di definirle più o meno credibili, più o meno accettabili, secondo

le nostre inclinazioni intellettuali. Resta il fatto che certe visioni, certe idee dominanti

sono assurde e ridicole,

quindi fuorvianti. Molti le prendono per buone. Ma è tempo di liberarcene. Dobbiamo imparare a rivedere in modo radicale le convinzioni correnti; dobbiamo impara-

re a ragionare in modo diverso. Gli storici più saggi rinunciano di solito alle visioni

d'insieme. Preferiscono approfondire la conoscenza di determinati periodi, di cui diventano specialisti. Gli eventi, visti da vicino, con la lente di ingrandimento, rivelano

collegamenti immediati, facilmente spiegabili; si scopre che la battaglia di Waterloo ebbe un certo esito perché la cavalleria di un certo maresciallo arrivò un po’ prima del previsto, o un po’ dopo; o si osserva che Giulio Cesare non sarebbe caduto sotto le pugnalate dei congiurati se avesse ascoltato Calpurnia, che gli raccomandava di starsene a casa. L'interesse per il particolare prevale sulle considerazioni generali. Sul significato di Waterloo nella storia d'Europa, o dell'uccisione di Cesare nella storia di

Roma, si preferisce non arzigogolare. L'uomo comunque non rinuncia a capire. In ogni momento lo assillano le domande sul significato di quel che succede ogni giorno, nel presente. Quando poi si viaggia, e oggidì si viaggia sempre di più, quando ci si trova davanti alle tracce di quel che avvenne nel passato, le do-

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Il tramonto della nostra civiltà

mande sono ancora più fitte. Joseph Goebbels arrivò a Roma nel maggio del 1938, al seguito di Hitler. Goebbels non era un tipico esemplare di uomo comune, essendo ministro per la Propaganda di un governo piuttosto insolito, e gerarca di un partito che per fortuna non esiste più. Ma dalle annotazioni del suo diario apprendiamo che, fra le

accoglienze entusiastiche della popolazione, di fronte alle rovine dell'antichità, aveva

reazioni caratteristiche di

qualsiasi visitatore, e poneva le stesse domande. Il corteo di automobili sfilò attraverso i Fori: «L'antica Roma offre uno spettacolo fantastico» annotava Goebbels. «A noi purtroppo tutto questo manca.» Poi andarono sull’Appia antica: «Che storia! In quante cose gli italiani sono avvantaggiati rispetto a noi!». E dopo avere visto le Terme di Diocleziano: «Quanto era già elevato il livello culturale dei romani! E quale perfezione di scultura». Ed ecco le sue riflessioni complessive, riassunte in un concetto: «L'antica Roma ha una storia imponente che noi non abbiamo, o perlomeno che non si manifesta con altrettanta evidenza». Nelle sue frasi sono le reazioni tipiche di un uomo comune di fronte alla storia. Goebbels,

uomo di cultura nordica, profondamente convinto che il popolo tedesco sia il più degno rappresentante della civiltà moderna, si trova di fronte ai resti di una civiltà antica, la civiltà di Roma. Prova stupore, innanzi tutto: come

erano bravi, già allora! L'uomo comune non è pronto a concedere grandi qualità a chi l’ha preceduto; si meraviglia quando scopre che gli uomini del passato valevano, più o meno, quanto lui. Poi viene, inevitabile, il confronto: perché loro sì e noi no? perché i romani erano civili e noi tedeschi non avevamo una nostra civiltà, o non l'avevamo

con altrettanta evidenza?

In queste domande è la problematica di una filosofia della storia. Ma cominciamo, abbiamo detto, con lo sgomberare il terreno di alcune fallacie; e la prima fallacia è la

suddivisione del passato in tre grandi età, in tre grandi

I nostri errori

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evi, quale si insegna nelle scuole, e che impedisce nel modo più totale di fare chiarezza. Si insegna infatti che la storia dell'umanità si divide in Evo Antico, Medio Evo ed Evo Moderno. Le origini del primo, di solito, non sono indicate con esattezza, e rimangono avvolte nella nebbia; si può presumere che si identifichino con Adamo ed Eva o, se si è darwinisti, col magico

momento in cui la scimmia, dopo tanti piccoli sforzi e tanti impercettibili aggiustamenti, diventa uomo. Ma quella, si dirà, è preistoria. Supponiamo dunque che l’Evo Antico cominci con la storia della Cina e dell'Egitto. La fine dell’Evo Antico è invece fissata con bella sicurezza, a differenza dell'inizio, in un preciso evento: la deposizione dell'ultimo imperatore romano, anno 476 dopo Cristo.

Comincia quindi un'età variegata, contraddistinta da catastrofi e trionfi, con cadute paurose nella barbarie alternate a splendide creazioni dello spirito umano, e che si

estende fino a una data indicata con precisione altrettanto assoluta quanto la data di inizio: 1492, scoperta dell’ America. L'aggiunta di un continente al mondo da noi conosciuto è sembrata agli storici, evidentemente, una buona ragione per segnare la svolta dall’Evo Medio all’Evo Moderno, anche se è discutibile che abbia segnato davvero

una svolta nella nostra civiltà. Col 1492, quindi grazie a Cristoforo Colombo e alla sua scoperta, comincia l’Evo Moderno, quello nel quale ci pregiamo di vivere. Quanto durerà? Qui si pone un problema. L'Evo Moderno dura per definizione fino al momento presente, e noi lo allunghiamo di anno in anno, col passa-

re del tempo. Ma potremo farlo all'infinito? L’Evo Moderno è destinato ad allungarsi, come

un elastico, fino a

quando la Terra sarà abitata dal genere umano? Già si notano segni di impazienza, e c'è chi parla di un'èra postmoderna, ma l’espressione dimostra da sola la precarietà della soluzione. Quello di post-moderno è un concetto artificioso e provvisorio. Coloro che vivranno fra mille o

cinquemila anni, ammesso che si occupino di queste fac-

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Il tramonto della nostra civiltà

cende, saranno disposti a definire moderno un evo per loro così antico, quello che comincia nel 1492, e nel quale vi-

viamo?

La suddivisione della storia del mondo in tre età si associa a un’altra fallacia 0, se si preferisce, a un’altra convinzione scarsamente credibile: quella della unità della storia umana, della sua indivisibilità. È una convinzione

molto diffusa. Le persone di media cultura, presumibilmente, non pensano sovente a questi problemi, e non compiono particolari sforzi per chiarirsi le idee sulle vicende dell'umanità. Ma i più portano con sé una certa visione, abbastanza vaga e nebulosa, secondo cui l’uomo, in

condizioni estremamente primitive quando appare sulla Terra, progredisce a poco a poco, fino a diventare quell’essere evoluto e civile nel quale ci identifichiamo: tutto ciò avviene lungo una linea di progresso continuo, un'idea suggestiva alla quale è difficile sottrarsi. Alcune cognizioni generiche, alla portata di tutti, spingono a conclusioni che sembrano inoppugnabili. Tutti sappiamo che all’inizio l’uomo si aggira nelle foreste, si nutre degli animali che uccide e dei frutti selvatici che raccoglie, abita nelle grotte. Poi comincia a costruirsi una ca-

panna e a coltivare la terra. Si delineano le prime civiltà, in Egitto, nella Grecia,

a Roma: i nostri antenati costrui-

scono case e palazzi, si vestono con camicioni che non sono proprio ben rifiniti come i nostri abiti, ma costituiscono pur sempre un passo avanti rispetto alle pelli di pecora, e riescono anche a compiere alcune opere (le piramidi, gli acquedotti) di cui ci si meraviglia che siano stati capaci, «dati i tempi». Sopraggiunge la religione cristiana a ingentilire gli animi: e così, un passo dopo l’altro, si arriva alla modernità. Come si potrebbe dubitare che noi siamo molto più avanti, in tema di civiltà, di chi ci ha preceduto? Non si può; e nel subconscio dell’uomo medio sonnecchia la convinzione che l'umanità, emersa dalla barbarie degli

esordi, prosegue la sua marcia, per salire verso vette sempre più eccelse.

I nostri errori

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Entrambe queste visioni, la suddivisione della storia in

tre evi e la convinzione, che la conforta, di un progresso continuo dell'umanità, sono fallacie dovute a un errore di

prospettiva dell'uomo europeo, quale esiste oggi. Uomo europeo: soltanto a quell’esemplare del genere umano che abita in Europa poteva venire in mente di suddividere la storia dell'umanità intera, quale si è svolta negli ultimi sei o settemila anni, secondo due avvenimenti che sono importanti solo per lui, il crollo dell'impero romano e la scoperta dell'America. I cugini dell’uomo europeo che si sono poi trasferiti in America, distruggendo la civiltà locale, hanno naturalmente conservato tale e quale la visione eurocentrica: gli americani altro non sono che europei emigrati, al pari degli australiani o dei neozelandesi. Sarebbe interessante sapere che cosa penserebbero di questa suddivisione fra Medio Evo ed Evo Moderno gli aztechi, se ancora fossero in grado di pensare, se cioè non fossero stati distrutti dai conquistadores. Per loro il 1492 non fu l’inizio dell’Evo Moderno. Fu la fine di tutto. La suddivisione della storia nei tre evi non tiene conto, in modo assoluto, di quel che accadde in altri continenti, nell’ambito di altre civiltà; dà grande importanza alla fine

di un impero, quello romano, che già da alcuni secoli aveva perso qualsiasi capacità creativa, e getta le altre civiltà alla rinfusa nell’èra antica, come se fossero avvenimenti di poco conto, avvenimenti trascurabili. Questa indiffe-

renza verso gli altri, questa alterigia è dovuta al fatto che non abbiamo visto di regola le altre civiltà se non quando erano morte; per questo la nostra sembra l’unica che conta. Con qualche eccezione; Hernàn Cortés vide un'altra ci-

viltà nel suo fulgore, e quando gli apparve davanti agli occhi la visione sconvolgente di Tenochtitlén, là dove oggi sorge Città di Messico, scoprì una città più monumentale e più progredita delle nostre. Dopo di che, come si è detto, procedette a distruggerla: un modo anche quello di affermare l’eurocentrismo. Nessuno, ormai, perde tempo a difendere la suddivisio-

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Il tramonto della nostra civiltà

ne della storia in tre evi, tanto è assurda. Ma si continua a

insegnarla nelle scuole per forza di inerzia; anche perché nessuno ha pensato di sostituirla con una suddivisione diversa. Essa è totalmente incompatibile con la chiave di interpretazione che proporrò nei capitoli seguenti. Poteva nascere solo nella testa dell’uomo europeo; così come l'ipotesi del progresso continuo può nascere solo nella testa dell’uomo contemporaneo. Anche questa ipotesi, scarsamente credibile, è incompatibile con quanto diremo in seguito.

Progresso continuo: ma in che cosa consiste? Bisognerebbe stabilire che cosa intendiamo per progresso prima di accertare che sia reale. Occorre una scala dei valori. Pensiamo alla bontà, alla generosità, all’altruismo? Non si

può certo affermare che l’uomo moderno sia migliore di quello di cento o di mille anni fa. Un progresso morale non è credibile se si pensa alle stragi, alle esecuzioni di massa, alle crudeltà che uomini appartenenti a paesi progrediti si sono reciprocamente inflitti fino a qualche anno fa; se si pensa alle guerre che tuttora si combattono, alla

volontà di conquista e di sopraffazione. Ci riferiamo piuttosto, quando parliamo di progresso, all'intelligenza, all'efficienza? È difficile sostenere che la poesia moderna sia più ispirata di quella antica, che la filosofia sia più acuta, che l'esercizio delle arti pratiche sia più provetto. Quanto all'efficienza fisica, è fuori di dubbio che i nostri

antenati erano più forti di noi: c'è stato regresso. Pochi uomini civili potrebbero oggi andare a combattere a cavallo rivestiti di pesanti armature metalliche, come si usava fare in altri tempi. Ma non è giusto parlare di progresso in modo approssimativo e generico. L'umanità non presenta, da quando è cominciata la storia, un aspetto uniforme. Si sono avute simultaneamente forme di vita diverse in luoghi diversi; e le diversità sussistono tuttora, giacché le popolazioni di città progredite e ricche nell’Occidente industriale sono con-

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temporanee di popolazioni primitive nel centro dell’Africa o nelle foreste sudamericane. Non solo: all’interno di ogni comunità convivono gruppi miti e gruppi aggressivi, ceti raffinati e gente rozza. Il quadro complessivo è variopinto, e ogni definizione che si riferisca all'insieme è improponibile. Non si può parlare di una linea uniforme di sviluppo per l'umanità intera, perché ogni affermazione può essere contraddetta con esempi contrari. All’osservatore si presenta non un quadro unitario, ma

un quadro a chiazze: qui c'è progresso, là staticità o addirittura involuzione. Attraverso i secoli, l'umanità tiene un

movimento a zig-zag, spostandosi in tutte le direzioni, trasformandosi ora in meglio, ora in peggio. Nell'antica Roma si viveva bene, civilmente: «Se si volesse fissare il

periodo nella storia del mondo» scrisse Gibbon «in cui la condizione della razza umana fu più felice e prospera, si nominerebbe senza esitare quello che si svolse fra la morte di Domiziano e l'incoronazione di Commodo». Ma qualche secolo più tardi, con l’arrivo dei barbari, le condizioni di vita precipitavano: «Il regno di Odoacre mostrava il triste spettacolo della miseria e della desolazione». Il cristianesimo esortò all'amore per il prossimo, ma l’Inquisizione, cristiana anch'essa, perpetrava forme-crudeli di re-

pressione, peggiori di quelle adottate dagli imperatori romani contro i primi seguaci di Cristo. Nel nostro stesso secolo, in anni recenti, un regime che voleva portare una civiltà superiore nel mondo intero, quello tedesco, asfis-

siava migliaia e migliaia di ebrei nelle camere a gas, e regimi democratici che professavano il più profondo rispetto per i diritti dell'individuo uccidevano in una sola notte coi bombardamenti aerei migliaia di uomini, di donne e di bambini (gli autori delle stragi non vedevano fisicamente le vittime, a differenza degli autori di stragi di altri tempi: scarsa consolazione per chi soccombeva). Come orientarsi fra eventi così contraddittori? La sola ipotesi che si può enunciare sul progresso dell'umanità, vista nel suo insieme, deve estendersi a un

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Il tramonto della nostra civiltà

periodo così lungo da assorbire in sé tutte le contraddizioni, tutti gli zig-zag intermedi. Si può sostenere che dall'uomo di Neandertal a oggi il genere umano è progredito? Certamente sì. Ma allora il periodo preso in esame diventa così indescrivibilmente lungo che si abbandona l'indagine storica e si passa alle enunciazioni fideistiche, dettate dalle preferenze individuali. Le affermazioni così generiche non possono essere né provate né smentite; so-

no arbitrarie, giacché non si reggono su ragionamenti o su fatti reali; e sono dovute alle inclinazioni intellettuali di

chi le adotta. Una inclinazione di tipo positivistico, la stessa che ha dato origine alle teorie dell'evoluzione, può in-

durre a credere che il genere umano progredisca attraverso i millenni. Ma il darwinismo, come si è già detto, non rientra nella nostra Weltanschauung. Bisogna soffermare l’attenzione, prima di chiudere questo argomento, su un problema specifico, quello della tecnica, che può sembrare il punto debole delle nostre affermazioni. Chiunque creda nell'ipotesi del progresso continuo del genere umano ha difficoltà, come si è visto, a

confortarla con argomenti persuasivi, tranne uno: quello del progresso tecnico. Chi può negare che l’uomo contemporaneo, in questo scorcio di secolo, abbia conseguito risultati miracolosi, impensabili fino a un passato recente? Si vola a velocità supersoniche; ci si trasferisce in poche ore da un continente all’altro; si esplora l'Universo, si va sulla Luna; si trasmettono immagini attraverso l'etere, consentendo di assistere, seduti in poltrona a Londra, a

spettacoli che si svolgono a Sydney in quel preciso istante; si eseguono in pochi secondi calcoli astrusi in minuscoli calcolatori di pochi centimetri, anzi di pochi millimetri. Come negare che il progresso tecnologico è travolgente? Infatti, negare non si può. Useremo in seguito la nostra chiave di interpretazione per spiegare il progresso tecnologico compiuto, pur nel periodo della decadenza, dalla civiltà occidentale. Ma fin da adesso possiamo addurre,

I nostri errori

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per controbattere le tesi di chi crede nel progresso continuo dell'umanità, un’argomentazione convincente. L’evoluzione tecnologica alla quale assistiamo è recente: è tutta contenuta nel giro di appena due secoli. Fino all’inizio dell'Ottocento, le condizioni di vita e i metodi di lavoro rimanevano statici. Si coltivava la terra con l’aratro tirato dai buoi; si viaggiava in carrozza, alla velocità dei cavalli; si curavano le malattie con le erbe e coi salassi, come mille

anni prima.

L'esplosione tecnica che ha rivoluzionato la nostra vita è avvenuta l’altro ieri: la macchina a vapore, l'elettricità, il

motore a scoppio, l'elettronica sono conquiste degli ultimi duecento anni. Troppo pochi per indicare una tendenza costante di progresso nella storia dell'umanità. Che cosa sono duecento anni in diecimila anni di storia? Né si può affermare che l'avanzata tecnologica fra l’Ottocento e il Novecento sia il risultato di ricerche e di conquiste compiute nei secoli precedenti. La storia della tecnica è anch'essa tortuosa e contraddittoria, come la storia della

politica e dell’arte: la mente umana ha fatto le sue invenzioni attraverso il tempo, poi le ha dimenticate; o le ha fatte simultaneamente in luoghi diversi, a opera di inventori diversi, senza che gli uni sapessero degli-altri. I cinesi adoperavano la bussola, che poi fu dimenticata fino a quando non fu di nuovo inventata in Europa; i romani adoperavano le ancore; e sembra che tanto i cinesi quanto

i romani fossero in grado di stampare, anche se poi non si servirono delle macchine per la stampa, perché non ne sentivano il bisogno. La teoria del progresso continuo, nel campo tecnico come in ogni altro campo, presuppone che ogni passo avanti sia reso possibile da un passo precedente; immagina una interminabile concatenazione di scoperte e di invenzioni, tutte collegate fra loro. Ma si è invece accertato che le invenzioni compiute in determinati luoghi sono state

spesso dimenticate, e coloro che le hanno rifatte in altri luoghi e in altri tempi non avevano alcuna conoscenza di

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Il tramonto della nostra civiltà

quel che era avvenuto prima. La verità è che si inventa, e si adopera il risultato dell'invenzione, solo quando se ne avverte l'esigenza interiore; senza tale esigenza, anche la conoscenza di invenzioni altrui ci lascia indifferenti, e non

pensiamo menomamente a farne uso. Accenniamo così, con questa ultima enunciazione, ai

princìpi che ispirano la nostra visione della storia. La visione della storia che qui scartiamo è stata definita tolemaica. Tolomeo, astronomo del Secondo secolo dopo Cristo, collocava la Terra al centro dell'Universo. Allo stesso modo, la filosofia della storia oggi dominante colloca l’uomo contemporaneo appartenente alla civiltà occidentale, cioè noi, noi che viviamo in Europa e in America,

e che siamo gli autori di questa filosofia, al centro del mondo. Mettiamo al centro del mondo noi stessi. Non è sospetto tutto questo? Possiamo immaginare la visione della storia che alberga nella mente, per esempio, di un senatore americano eletto nell’Ohio o nella Virginia, di media cultura, intellettualmente non raffinato, ricco di buon senso e di buona volontà, animato da un bonario ottimismo sulle sorti del

genere umano. Sa che nell'antichità ci furono Nerone, Attila, Tamerlano: l’èra dei barbari. Poi vennero il Re Sole, Pietro il Grande, Federico di Prussia: assolutismo illumi-

nato, quindi un passo avanti. Infine, il 1789 in Francia e la Costituzione in America, Jefferson, La Fayette, la demo-

crazia. Ecco il punto di arrivo della civiltà, risultato di una lunga marcia dell’uomo verso forme di governo sempre più evolute, sempre più giuste. In realtà si era già avuta una democrazia egualmente evoluta nell'antica Grecia, nella Roma antica. Ma il nostro immaginario senatore non ne tiene conto. E come vede la storia un uomo di sinistra, per esempio un dirigente delle Trade Unions a Manchester o a Glasgow? Sa che nei tempi antichi c’era la schiavitù: barbarie assoluta. Poi gli schiavi furono liberati, ma continuò lo

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sfruttamento dei lavoratori: orari spietati nelle fabbriche, bambini di dieci anni nelle miniere di carbone, paghe misere. Infine è venuto il socialismo «scientifico», inventato

da Marx e da Engels, punto di arrivo di una lunga marcia dell’uomo verso la conquista dei suoi diritti. In realtà si erano già diffuse dottrine di tipo socialista nella Roma antica o in India, c'erano già stati i grandi tribuni della plebe, si inventò anche in secoli lontani l'assistenza sociale.

Ma il nostro sindacalista immaginario non ne tiene conto. Dobbiamo continuare a credere nella visione tolemaica della storia? Dobbiamo credere che siamo il risultato di alcuni millenni di progresso? che siamo i più bravi e i più importanti? Ormai è chiaro, avendo messo da parte alcune

diffuse convinzioni del nostro tempo, che bisogna ricorrere ad altre impostazioni per spiegare quel che è successo nella storia, e quello che tuttora succede. Non accettiamo la divi-

sione della storia nei tre evi tradizionali. Non accettiamo la tesi del progresso continuo e costante, non si capisce bene verso quale meta, se non verso il Superuomo sul quale G.B. Shaw scriveva commedie divertenti. Come sostituiremo queste teorie, che abbiamo definito fallaci? Si può osservare che un'epoca come la nostra che vuole essersi liberata di ogni antropomorfismo e finalismo, in realtà ostenta una filosofia della storia finalista ed eurocentrica.

HI

L'avventura delle civiltà

Ogni grande civiltà fa storia a sé, e si sviluppa secondo un ciclo, come gli esseri viventi: gioventù, virilità, maturità, vecchiaia, morte

Immaginiamo l'umanità primitiva come un vasto mare. Emergono da quel mare alcune isole: sono le civiltà. Può darsi che vi siano rapporti fra un'isola e l’altra; che di tanto in tanto alcuni uomini si stacchino da un'isola per approdare su un’altra, portandovi i loro prodotti. Ciascuna però è autonoma, vive la sua vita. Non c’è interdipendenza; ognuna vivrebbe anche se l’altra non ci fosse. Il paragone vale fino a un certo punto, perché tutte le isole, pure essendo autonome, vivono simultaneamente. Le civiltà sono invece scalate nel tempo. Ricorriamo allora, per chiarire le idee, a un secondo paragone. Ogni civiltà è paragonabile a un essere umano: nasce, cresce, si sviluppa, invecchia, muore. Dopo la morte può darsi che sia imbalsamata,

che diventi una mummia.

Mantiene

esteriormente le sue sembianze. Mantiene la sua forma apparente. Ma dentro non c'è nulla. È priva di vita. Facciamo un esempio. La grande civiltà greco-romana comincia nel periodo omerico: si sviluppa attraverso gli stadi di cui ci hanno insegnato qualche cosa a scuola, e decade con la comparsa dell'impero a Roma. Si tratta di un'unica civiltà, con l'epicentro in Grecia nel periodo ascendente, in Italia nella fase del declino. L'età imperiale coincide con la fine di ogni capacità creativa: è la decaden-

L'avventura delle civiltà

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za. La durata complessiva del ciclo, da Omero all'impero, è fra i dieci e i quindici secoli. La nostra civiltà, la civiltà occidentale, si apre con Car-

lomagno e col periodo feudale, si sviluppa in Europa e, dopo la scoperta, anche in America, ha un ciclo paragonabile a quello della civiltà greco-romana. Oggi siamo a nostra volta nel periodo della decadenza, e molti aspetti della vita contemporanea sono paragonabili (possiamo dire «paralleli») a quelli della tarda repubblica nell'antica Roma. La nostra può anche essere definita la civiltà euroamericana: l'epicentro è in Europa nel periodo ascendente, in America nella fase del declino. Questi sono i concetti. Cerchiamo ora di svilupparli, descrivendo innanzi tutto quel mare sconfinato: l'umanità primitiva. Creature a somiglianza dell’uomo, dicono gli studiosi della preistoria, comparirono sulla Terra quattro o cinquecentomila anni or sono, sparse dall'Inghilterra alla Cina, e

dalla Germania al Transvaal. Vivevano nelle foreste, si nutrivano di frutta e degli animali che riuscivano a uccidere, e non so fino a che punto somigliassero davvero a noi. La loro esistenza non ci interessa quando vogliamo ragionare sulla storia delle civiltà, o ci interessa indirettamente, per

ragioni di contrasto.

Per il nostro ragionamento, gli uomini diventano interessanti, e il loro comportamento acquista rilevanza, solo quando cominciano a coltivare la terra, a costruirsi capanne, a condurre un'esistenza lontanamente paragonabile alla nostra. Quando, e dove? Forse diecimila anni fa, cioè

l’altro ieri, perché dieci millenni sono poca cosa a confronto di quel periodo lunghissimo durante il quale esseri umani o subumani si muovevano sulla superficie terrestre; pare che i primi insediamenti fossero nel Medio Oriente. Con tali insediamenti, l’uomo di Neandertal cede

il posto all’Homo sapiens. E con l’Homo sapiens tutto cambia. Come è avvenuto il

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Il tramonto della nostra civiltà

cambiamento? Si sono fatte tante ricerche, si sono formu-

late tante teorie; ogni teoria contiene qualche cosa di immaginato, qualche cosa di non provato, quindi un salto logico: e il mistero sussiste. Non dobbiamo illuderci di forzarlo, di eseguirne l'anatomia per vedere che cosa c'è dentro. Non è forse misteriosa la vita stessa? Sappiamo forse come sono comparse le varie specie animali sulla faccia della Terra? Anche il darwinismo, cioè la teoria di

una evoluzione continua da specie inferiori a specie superiori, in cui buona parte della gente comune crede perché è stata la teoria dominante degli ultimi cento anni, altro

non è che una ingegnosa invenzione dell’intelligenza umana; è un atto di fede, come quello di chi crede alla ver-

sione della Bibbia. Ma questo non toglie nulla alla bellezza dell'Universo, e la comparsa dell’Homo sapiens non è meno meravigliosa se non riusciamo a spiegarci come sia avvenuta. Gli uomini primitivi, i «barbari», non sono, come indivi-

dui, molto diversi da noi, che ci consideriamo civili. Sappiamo come vivevano, e come tuttora vivono, perché disponiamo di numerose testimonianze; e le comunità primitive esistono ancora oggi intorno a noi. Coloro che appartengono a tali comunità hanno sentimenti fondamentalmente simili ai nostri: paure, speranze, pulsioni e reazioni simili alle nostre. Non dobbiamo illuderci di avere fatto molta strada per quanto riguarda la coscienza individuale. Vi sono differenze, e assai grandi; e proprio su di es-

se verte questo libro: ma sono differenze che riguardano la convivenza sociale, quindi le relazioni fra individui e la cultura delle comunità cui essi appartengono; riguardano gli insiemi, non i singoli. Cercherò ora di spiegare che cosa significa tutto questo. Una testimonianza fra le più famose sulle comunità primitive è quella di Tacito sulla Germania. I romani del primo secolo dopo Cristo, uomini civili, appartenenti a una grande civiltà, quindi a una società profondamente diver-

L'avventura delle civiltà

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sa da quella primitiva, conoscevano gli usi e i costumi delle tribù germaniche, dei cimbri, dei longobardi, dei marcomanni, perché le vedevano dall'altra parte del Reno,

raccoglievano notizie su quel che accadeva di là dal confine, talvolta penetravano essi stessi nel loro territorio; e ve-

nivano continuamente alle armi. Che cosa vedevano, sull'altra riva del fiume? C'erano

uomini forti, dagli occhi azzurri e truci, coi capelli biondi o rossicci, dal corpo saldo e robusto, che abitavano in ca-

panne di legno, collocate a qualche distanza l’una dall’altra, circondate dall’orto (le villette con giardino dei nostri tempi); e, accanto a loro, donne audaci, dallo sguardo fie-

ro, sicure di sé. Erano bella gente, che suscitava ammirazione e incuteva timore.

Guerreggiavano volentieri, con grande valore (già allora). Ma crediamo forse che andassero in battaglia con sentimenti diversi dai nostri, o da quelli di ogni soldato in ogni epoca, quando si accinge a combattere? Certamente avevano anche loro paura di morire, e la vincevano cer-

cando di uccidere prima di essere uccisi. Alle loro spalle, spesso, c'erano le donne, e pare che fossero lì per incoraggiarli, per spingerli a battersi con furore; ma certo li seguivano anche per soccorrerli quando erano feriti, e più di una volta ognuna di quelle donne avrà sperato in cuor suo che il suo uomo fosse prudente, che si stesse attento,

per tornare vivo e illeso. Come adesso. Quando non combattevano, quando non lavoravano i campi, cercavano di godere la vita. Si annodavano sulla spalla, i più poveri, un lembo di lana ruvida, o indossavano, se potevano permettersela, una tunica aderente, e an-

davano a banchettare. Sedute accanto a loro, in condizioni di parità, c'erano le donne, motivo di stupore per i romani, la cui civiltà imponeva una più netta separazione fra i sessi; e le donne, altro motivo di stupore per i romani, erano avvolte in vesti di lino tinte di porpora, che lasciavano nudi «il braccio, l’avambraccio e la parte più vicina al petto».

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Il tramonto della nostra civiltà

Ciò nonostante, rassicura Tacito, vivevano castamente.

Ma crediamo forse che non ci fosse anche allora, in quei banchetti, un giuoco di seduzione, come in qualsiasi pranzo ai nostri giorni? Ognuno voleva certamente eccellere, avere successo, raccontando le sue storie meglio degli altri, muovendo gli altri allo stupore e al riso, e guardando spesso, mentre raccontava, la donna che gli stava a cuore. Le donne ostentavano la loro avvenenza con naturalezza, senza malizia; come spesso avviene fra le donne nordiche,

ancor oggi. Tutti bevevano allegramente, anche allora: nei banchetti si trangugiavano grandi quantità di «un liquido ricavato dall’orzo o dal frumento», umor ex hordeo aut frumento, fino a ubriacarsi; segno che avevano,

esattamente

come noi, qualche problema.

Facevano politica. Andavano alle riunioni, eleggevano i capi. Diversi stati d'animo dominavano di volta in volta, senza alcun dubbio, le adunanze di allora, come succede

oggidì: rabbia, indignazione, entusiasmo, invidia. Quando erano d'accordo, battevano le armi per terra, rumorosamente; quando dissentivano, emettevano «suoni cupi»,

gridavano, vociavano. Gli assembramenti avvenivano in un ambiente diverso dal nostro, in mezzo a foreste, fra

umili capanne; ma si inseguivano anche là gli stessi sogni di gloria, si conoscevano le stesse disperazioni. Tacito viveva

a Roma, grande città, metropoli lussuosa

e corrotta, e con la nostalgia degli uomini metropolitani per la perduta virtù ammirava quella gente primitiva, la sua frugalità, i suoi costumi rigorosi e austeri. Elogiava la fedeltà coniugale, giacché rari erano gli adulterii, e raccontava con quale dignità si celebravano i funerali: «Smettono presto lamenti e lacrime, tardi dolore e tristez-

za»; e ancora: «È ammissibile che le donne piangano, mentre agli uomini spetta ricordare». Che gente virile, che gente forte. Che differenza dalle mollezze della società imperiale di Roma. Si potevano presagire, fra quegli uomini biondi, fra quelle donne disinvolte, i segni di una civiltà futura? For-

L'avventura delle civiltà

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se sonnecchiava in loro, allo stato latente, lo spirito creati-

vo che avrebbe fatto sorgere in quegli stessi luoghi, al posto delle capanne di legno disseminate fra cupe foreste, le città di grande bellezza, gioiellidi architettura, le case leggiadre, i templi severi, le torri svettanti verso il cielo. Ma nessuno poteva avvertirne i misteriosi fermenti, e troppo grande era l'abisso che separava la terra dei barbari da quel giardino incantato, delizioso anche se corrotto, da

quella stupenda città di Roma, che una splendida civiltà era riuscita a creare sulle rive del Mediterraneo. Arriviamo così al nocciolo del problema: le differenze fra le comunità primitive e una società civile. È certamente vero che gli uomini primitivi, come individui, erano simili a noi; temevano le catastrofi naturali e le insidie del

nemico, come noi; inseguivano sogni di gloria; si innamoravano; passavano dall’esaltazione alla cupezza; e c'erano anche fra di loro i tipi allegri e i malinconici, i buoni e i cattivi, gli uomini di successo e quelli destinati a perdere. Ma le comunità primitive avevano due caratteristiche che le distinguevano in modo netto dalle società civili: la semplicità e la ripetitività. La semplicità, innanzi tutto. Tacito osserva che i barbari della Germania costruivano le loro abitazioni con legname grezzo invece che con pietre ben lavorate; e non badavano alla differenza fra i vasi d'argilla e i vasi d’oro e d’argento, quando li ricevevano in dono. Guerreggiavano; ma le loro battaglie miravano soltanto a contendersi una preda, o a respingere un'incursione. Seguivano un rituale, parlavano una loro lingua, avevano insomma una cultura, ma si trattava di una cultura molto semplice, e le sole feste che conoscevano celebravano gli eventi della natura, il mutare delle stagioni, il raccolto. Il grado di semplicità in seno all'umanità primitiva varia secondo le comunità. Non tutte sono primitive allo stesso modo: alcune hanno raggiunto un livello piuttosto alto; hanno elaborato un linguaggio più evoluto, si vestono meglio, costruiscono navi per solcare gli oceani, istitui-

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Il tramonto della nostra civiltà

scono linee di commercio fra terre lontane. È facile dimo-

strare l’esistenza di diversi gradi di primitività; non tutti gli uomini primitivi sono ugualmente semplici. È vero piuttosto che si sono sviluppate miriadi di culture primitive, come si è sviluppata gran varietà di linguaggi (fra gli aborigeni australiani, circa duecentomila individui, si sono contati cinque o seicento idiomi). Ma un’altra caratteristica contraddistingue tutte le società primitive, quale che sia il loro livello, ed è la ripetitività.

La vita degli uomini all’interno di una società precivile, di generazione in generazione, si ripete in modo costante, e la Germania con cui i romani di Tacito dovevano fare i conti non era cambiata da quella che insidiava Roma qualche secolo prima, ai tempi di Cecilio Metello e Papirio Carbone: «Da quanto tempo» sospira Tacito «si vince la Germania!». Usi e costumi non cambiano, o cambiano

con lentezza impercettibile, secondo fuori di quei segni di progresso che contrassegno di una grande civiltà. non avanzano a poco a poco verso

leggi di natura, al di sono per l'appunto il Gli uomini primitivi la civiltà, bensì man-

tengono, diremo così, un'esistenza orizzontale, che non tende verso l’alto o verso il basso, ma rimane uniforme.

Questa è dunque la differenza fondamentale rispetto ai civili: gli uomini primitivi vivono fuori della storia. Si può essere fuori della storia perché non ci si è mai entrati; oppure perché se ne è usciti. Così, con questa osservazione, ci avviciniamo al punto centrale del nostro tema; il quadro che cerchiamo di tracciare diventa più complesso, più variegato, e si completa. E facile comprendere che i germani di Tacito non erano entrati nella storia, perché conducevano

un'esistenza

semplice e ripetitiva attraverso i secoli, senza una grande politica e senza una grande arte, genuini e frugali, gente alla buona. È facile comprendere che si possono fare analoghe osservazioni sugli aborigeni australiani o sui vi-

chinghi, cioè su popolazioni diverse l’una dall'altra, quale

L'avventura delle civiltà

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più avanzata e quale meno, gli uni ben ricoperti e gli altri seminudi, ma tutti ugualmente sempliciotti rispetto a noi. Questo è facile da comprendere: quale fra i loro condottieri potrebbe mai essere paragonato ad Alessandro Magno o a Carlo XII? Quale fra gli autori dei loro graffiti a Fidia o a Michelangelo? Essere fuori della storia perché non ci si è mai entrati: il concetto è facile da capire. Più difficile è comprendere che cosa significhi uscire dalla storia. Eppure, l'Egitto, l’Anatolia, la Cina, l'India videro sor-

gere grandi e popolose città, opere ciclopiche; costruirono la Grande Muraglia, che non era paragonabile alle quattro pietre ammassate alla bell'e meglio dai germani per contrastare le incursioni romane; costruirono Taj Mahal, che non è paragonabile alle quattro pietre di Stonehenge; costruirono le Piramidi. Lì si compirono grandi cose; lì si crearono giardini incantati, nei quali uomini privilegiati condussero un'esistenza raffinata, in una levità di sogno.

Che cosa è rimasto? Non è rimasto quasi nulla: ecco che cosa significa uscire dalla storia. Oggi, vaste masse di una umanità indistinta conducono in quei territori, in Egitto o in Anatolia, nell’Arabia o nel Magreb, un'esistenza altrettanto sempli-

ce e primitiva quanto i popoli che nella storia non sono mai entrati; e vivono e si muovono fra rovine alle quali non fanno caso, perché quelle rovine non significano più niente per loro. Che cosa prova un pastore turco quando vede le pietre annerite di un tempio antico? Che cosa prova un contadino greco quando vede i resti di un antico teatro invaso dalle erbacce? Non prova nulla, perché quel che rimane della civiltà antica, quel che rimane di quella grande storia che ormai si è chiusa, per lui non esiste più. Saremo noi, se mai, a

commuoverci, sebbene appartenenti a una cultura diversa, quando usciamo dal nostro giardino incantato e ci aggiriamo fra le rovine greche e romane, struggente testimonianza di altri giardini ormai scomparsi, presagendo in modo più o meno oscuro che anche i nostri monumenti,

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Il tramonto della nostra civiltà

un giorno, si sgretoleranno. Si commosse Napoleone in Egitto quando alla vigilia della battaglia esclamò davanti ai suoi soldati: «Quaranta secoli di storia vi guardano dall'alto di queste piramidi». A Murad Bey che gli stava di fronte mai sarebbe passato per la mente, è stato osser-

vato, di rivolgere la stessa frase ai suoi mamelucchi. Napoleone era nella storia, sia pure nella storia di un’altra civiltà; Murad Bey era fuori. Ci sono modi diversi di uscire dalla storia. L'Egitto è un caso estremo: gli egizi che crearono il loro giardino incantato sono scomparsi dalla faccia della Terra, i loro discendenti sono stati sopraffatti dagli arabi, la loro civiltà sopravvive solo in scarse testimonianze, splendide e misteriose: alcuni monumenti, pitture incantevoli, tombe ospitali, una

scrittura tanto indecifrabile quanto elegante. Altrove è rimasto in vita molto di più; come in India, come in Cina.

Ma quel che sopravvive ha perso ogni significato a sua volta, ha perso ogni capacità di evoluzione; sicché è vero

delle comunità sopravvissute quel che si è detto di tutte le comunità primitive: l’immobilità nel tempo, la ripetitività, il movimento

orizzontale attraverso centinaia d’anni, né

verso l'alto né verso il basso. Che cosa ha prodotto di nuovo, la civiltà indiana, negli ultimi secoli? che cosa ha prodotto la civiltà cinese? I relitti del passato sono ormai immobili, gelidi, pietrificati come le caste in India; sussistono solo perché nessuno ha avuto il tempo e la voglia di distruggerli. Sono inanimati: alberi secchi. È dunque vero che l'umanità vive in gran parte fuori della storia, o perché non vi è ancora entrata, o perché ne

è uscita; e questa è la sua condizione normale, che la rende in certo modo paragonabile alle specie animali, anche se a un livello, ovviamente, assai più alto: ancora non si

sono visti animali capaci di costruire navi, o di tracciare graffiti. È sullo sfondo di questa umanità primitiva, o con una storia alle spalle o senza storia, sempre uguale attraverso il tempo, dall'esistenza ripetitiva, semplice ed elementare, che si stagliano a un tratto fenomeni sociali di-

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versi: sorgono allora grandi città, si costruiscono templi e palazzi, si dipingono quadri meravigliosi, si ascolta musica divina, si fa grande politica, si vive fra i lussi, con squisita raffinatezza. Questi fenomeni sociali, relativamente brevi, ecceziona-

li e irripetibili, costituiscono le grandi civiltà. Grandi civiltà: vogliamo capire che cosa sono, come nascono, come si sviluppano e come muoiono queste avventure straordinarie che interrompono all'improvviso i ritmi naturali di un'umanità senza storia, come lampi nelle tenebre; vogliamo capire il decorso delle altre per indovinare il destino della nostra. E si presenta alla mente, quando cerchiamo di capire, il nome di Arnold Toynbee, che ci offre un contributo prezioso per chiarirci le idee. Grande storico, Toynbee ha mantenuto nei suoi studi la mentalità di quegli inglesi che si recavano nei territori lontani dell'impero, in India o nel Transvaal, per governarli. Assunte le loro cariche, si interessavano delle condi-

zioni di vita degli indigeni, per svolgere al meglio le loro funzioni amministrative; ma se ne interessavano anche

per genuina curiosità intellettuale, essendo persone intelligenti e colte. Si guardavano dunque in giro, incontravano persone di diversa estrazione, visitavano le città, stu-

diavano la cultura locale con benevola condiscendenza,

senza però rinunciare, si capisce, alle abitudini londinesi, che conservavano gelosamente, ovunque si trovassero. Prendevano il whisky alle sei di sera e il vino di Porto alla fine del pranzo, come nei palazzi della lontana Inghilterra; andavano a caccia e a cavallo; leggevano Gibbon e Walpole. Non si consideravano né missionari, né unti del

Signore nella terra degli infedeli; erano soltanto osservatori attenti. Toynbee, un intellettuale di buona formazione, era para-

gonabile per mentalità a quegli amministratori dell’Indian Service; e infatti, al pari di altri intellettuali suoi compatrioti, ha interrotto in qualche occasione l'insegnamento uni-

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versitario per prestare servizio al Foreign Office, segno che c'era anche in lui qualche tratto in comune coi funzionari. Studioso di storia, esplorava epoche lontane dalla nostra, e osservava usi e costumi di popoli antichi, con la stessa compita curiosità con cui i funzionari inglesi a Delhi o a Calcutta studiavano gli usi e costumi degli indiani; e cercava di dare un senso agli eventi del passato con spirito pragmatico, astenendosi dallo sposare tesi preconcette, evitando polemiche e pregiudizi. La prima curiosità di Toynbee riguardava proprio lui, e la sua scelta di vita: si chiedeva perché ci si dedica allo studio della storia, e perché ci si fosse dedicato lui stesso. Rifletteva che, per diventare storici, non basta essere genericamente curiosi di fronte alle vicende umane. La genericità produce confusione. Occorre l'impatto di grandi eventi o di situazioni personali, che inducano a uno studio specifico. Fu la guerra fra Atene e Sparta, scoppiata quando Tucidide aveva trent'anni, a fare di lui uno storico; e Gibbon decise di raccontare il declino e la caduta

dell'impero romano mentre vagava pensieroso fra le rovine del Campidoglio. Nel caso di Toynbee agirono, come egli stesso spiega, due fattori. Il primo fattore, il grande evento che produsse su di lui un impatto, fu la guerra del 1914-18. Egli era nato pochi anni prima, nel 1889; era cresciuto in un’Inghilterra solida e felice, profondamente sicura del suo avvenire; aveva

creduto al progresso umano, al trionfo della civiltà liberale, quando pareva (sono le sue parole) che il Paradiso Terrestre fosse dietro l'angolo. All'improvviso era giunto il trauma di uno scontro terribile, sangue, lutti, distruzioni;

il mondo in cui era cresciuto aveva cominciato a vacillare. Ed ecco, nel 1939, una seconda guerra, peggiore della prima. A un uomo nato sul finire dell'Ottocento, egli dice, e

ancora vivo nel 1955, si poneva una domanda: come mai la sua generazione era stata costretta così dolorosamente a

ricredersi? che cosa si era rotto nelle nostre nazioni? come si era passati dalla quieta convivenza di otto Grandi Po-

L'avventura delle civiltà

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tenze al dominio di due soli imperi, entrambi collocati fuori dell'Europa occidentale? Domande difficili. Ma Toynbee, ponendole, non perdeva il suo equilibrio, non cedeva all’angoscia; come un fun-

zionario inglese di fronte a una complicazione politica, affrontava il problema con equanime serenità, con spirito

sportivo, e anzi si considerava fortunato, per essere nato in quello che chiamava un time of troubles, un'epoca di grandi sconvolgimenti, che è «il paradiso dello storico». Poi si considerò fortunato una seconda volta: era nato in tempo per trarre beneficio dall’insegnamento della cultura umanistica, quale si praticava in quell’Inghilterra solida e opulenta a cavallo dei due secoli, dotata di famiglie bene assestate, di buone scuole, di università eccellenti.

Grazie a quell’insegnamento aveva familiarità con la storia e con la letteratura ellenica, e questo fu il secondo fattore che fece di lui uno storico. La familiarità con l'antica Grecia, infatti, lo indusse a ri-

flettere su una coincidenza singolare: la dichiarazione di guerra nel 1914 dovette fare su di lui la stessa impressione che la dichiarazione di guerra nel 431 avanti Cristo fece su Tucidide. Un libro scritto a più di duemila anni di distanza, in un altro mondo, acquistò allora per lui.un significato diverso, ed egli lesse con cui importanza, prima, non senso» osserva «le due date, il 431 prima della nascita di

diversa si era il 1914 Cristo,

attenzione frasi della accorto. «In un certo nell’èra del Signore e erano filosoficamente

contemporanee.»

È per questa divinazione che Toynbee affrontò lo studio della storia. Vi fu spinto da una tragedia, la guerra in Europa sotto i suoi occhi, e da un’altra tragedia in certo modo parallela, la guerra in Grecia, lontana nel tempo. Pre-

vedeva dunque catastrofi? Si era convinto che il crollo della serena sicurezza, crollo al quale stava assistendo,

fosse definitivo? Riteneva senza possibilità di recupero la decadenza dell'Occidente? Toynbee, come abbiamo visto, non era un personaggio tragico. Anche di fronte a eventi

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Il tramonto della nostra civiltà

eccezionali non tardava a recuperare il suo equilibrio: conservava l'atteggiamento di un osservatore equanime. Cominciò a riflettere sulla storia di una nazione; non di una nazione qualsiasi, ben inteso, ma di quella inglese, la

sua, perché già abbiamo detto quanto fosse inglese di cultura e di mentalità. Come si poteva capirne l'evoluzione? Provò a ripercorrerla a ritroso nei vari periodi, comincian-

do dal più recente, la grande rivoluzione industriale dell'Ottocento, per risalire a quelli antecedenti, l’istituzione di un governo parlamentare, la creazione dell'impero, e prima dell'impero la Riforma, per arrivare, sempre procedendo a ritroso, fino alle origini, fino alla conversione al

cristianesimo delle prime comunità anglosassoni. Si potevano comprendere gli avvenimenti in ciascuno di quei periodi, se ne poteva approfondire il significato, senza prendere in considerazione ciò che stava accadendo all’esterno della nazione inglese? No, non si poteva. Toynbee ne trasse la ragionevole conclusione che la storia della nazione inglese non poteva essere compresa, non era un «campo intelligibile di studio», se non si allargava l'orizzonte.

Ma ciò non significava affatto che gli eventi storici dell'umanità intera, in ogni parte del globo, fossero legati insieme, e interdipendenti. Gli eventi egiziani o cinesi non avevano alcuna rilevanza per la nazione inglese; neanche la avevano, e questa era un’altra importante convinzione

di Toynbee, gli eventi della storia ellenica. Il campo di studio rilevante per l'Inghilterra non poteva essere limitato alle isole britanniche, ma non doveva neanche essere al-

largato ai cinque continenti. Quale era, dunque? Per rispondere, Toynbee ebbe la sua grande intuizione. All'origine di ogni creazione geniale, di ogni conquista intellettuale, è una scintilla che mette in moto un processo creativo al di fuori di ogni necessità logica e di ogni razionalità; e questo è vero in tutti gli aspetti dell'attività umana, è vero per lo studioso come per l'imprenditore, per lo scienziato come per il condottiero di eserciti. Toynbee già covava in sé, probabilmente, l'individuazione di quello

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che chiamava il «campo intelligibile di studio», e che era l'elemento unitario dello studio storico, prima ancora di intraprendere le sue riflessioni sui singoli stadi nella storia di una nazione. Adesso poteva indicarlo con certezza: l’unità da prendere in considerazione per comprendere la storia è ogni singola civiltà. Lì trovò la sua chiave di interpretazione. Toynbee contò ventuna civiltà.* Dalla sua impostazione derivano conseguenze di importanza considerevole. La prima, e anche la più ovvia, è che salta la suddivisione della storia in tre evi, l'antico, il medio e il moderno, or-

mai priva di senso; abbiamo già detto che la suddivisione tradizionale ha perso qualsiasi credibilità, e sussiste soltanto per forza di inerzia fra pigri cultori della materia. Ma le conseguenze più interessanti, quelle più avvincenti, riguardano i rapporti fra una civiltà e l’altra. Per la gente comune, e lo si è accennato nelle pagine precedenti, la storia è un continuum dall'età della pietra fino all'uomo moderno, l’uomo del Ventesimo secolo, con-

siderato il massimo rappresentante del progresso (G.B. Shaw diceva che poi sarebbe venuto, attraverso saggi accoppiamenti, il Superuomo). Anche coloro che non sono profani si dedicano con impegno allo studio del rapporto fra una civiltà e l’altra, cercando di dimostrare come ogni progresso in una di esse sia dovuto all'apporto di qualche conquista in una civiltà diversa. Con Toynbee le relazioni fra le civiltà si presentano in una luce totalmente diversa: nell’essenza, ogni civiltà è autonoma e autosufficiente, ba-

sta a se stessa. * Ecco le ventuna civiltà individuate da Toynbee: 1) egizia; 2) andina; 3) cinese; 4) minoica; 5) sumerica; 6) maya; 7) yucatec; 8) messicana; 9) ittita; 10) siriaca; 11) babilonese; 12) iranica; 13) arabica (le due ultime fuse insieme per forma-

re un'unica civiltà islamica); 14) estremo-orientale, corpo principale; 15) estremo-orientale, variazione giapponese; 16) indiana; 17) indù (le due ultime affiliate, ma collocate in diverse regioni dell'India); 18) ellenica; 19) cristiana or-

todossa, corpo principale; 20) cristiana ortodossa, diramazione russa; 21) occidentale.

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Il tramonto della nostra civiltà

Che si trasmettano cognizioni dall’una all'altra, è inne-

gabile. Noi abbiamo imparato a fumare tabacco dagli americani, e i giapponesi hanno imparato a produrre automobili dagli occidentali (in poco tempo, se si ricorda che nel 1945 ne erano incapaci). Anche invenzioni di enorme importanza, come l'alfabeto, sono state trasmesse da una popolazione all'altra. Ma la ricezione di elementi dall'esterno acquista valore, diventa operativa soltanto se coloro che li ricevono sono in grado di comprenderli e di ricrearli. Come si spiega che i testi letterari e filosofici della Grecia classica furono capiti e assorbiti (si potrebbe dire: metabolizzati) nel Trecento o nel Quattrocento, sebbe-

ne fossero noti anche prima? Si crede forse che fossero dimenticati in soffitta, e che qualcuno li abbia scoperti per caso? Tutto dipende dalla capacità ricettiva. Ma se esiste la disponibilità di ricevere, se si possiede la facoltà di ricreare in sé ciò che si riceve dall'esterno, allora vi è anche

la capacità di creare in modo autonomo, e la ricezione da fuori non è indispensabile. «Ci sono pochi dubbi» scrisse nel 1873 Freeman, uno studioso citato da Toynbee «che molte fra le invenzioni più essenziali della vita civile furono fatte e rifatte di continuo, in tempi e in luoghi lontani, nel momento in cui le diverse nazioni raggiungevano i particolari stadi di progresso nei quali quelle invenzioni diventavano necessarie. Pertanto, la stampa fu inventata indipendentemente in Cina e nell'Europa medievale...» Del resto, aggiunge Toynbee, sappiamo bene, nonostante le perversioni del materialismo moderno, che la civiltà «non è fatta di questi mattoni»; non consiste cioè nell'uso di macchine da cucire

o di carabine (o, come diremmo noi oggi, di calcolatori elettronici e di aeroplani a reazione), e neanche di numeri e di lettere dell'alfabeto: «È la cosa più facile al mondo di esportare, grazie ai moderni rapporti commerciali, una nuova tecnica occidentale. È infinitamente più difficile per un poeta o per un santo dell'Occidente di accendere

L'avventura delle civiltà

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nell'animo di un uomo non occidentale una fiamma simile alla sua». Ecco dunque un'affermazione di estrema importanza nell’impostazione di Toynbee: ogni civiltà è un campo di studio, è un fenomeno autonomo, e recepisce fattori di progresso dall'esterno solo quando possiede essa stessa le facoltà necessarie per comprenderli e per ricrearli. Ma questa affermazione investe in modo radicale i due problemi esistenziali più appassionanti e più angosciosi, le due domande vitali e sconvolgenti, quelle che riguardano la nascita di una civiltà, e la sua morte; la nascita perché

nell’impostazione di Toynbee diventa misteriosa, la morte perché è definitiva e irrimediabile. Nonostante il crollo della credenza elementare, quella del progresso continuo da Adamo ed Eva in poi (con alti e bassi, i suoi adepti si affrettavano a spiegare: una frase che annebbia tutto e lascia aperta ogni possibilità, come quella dei meteorologi quando prevedono «tempo variabile»), gli storici e i filosofi della storia pensano in genere alla storia delle civiltà come a una concatenazione, nella quale ognuna trae la linfa vitale da quella precedente. Per loro, l’uomo civile deve sempre appoggiarsi a un uomo civile precedente; come se la loro mente vacillasse al pensiero dell’uomo solo nello spazio. Nasce così la teoria dell’affiliazione: ogni civiltà, ogni cultura figlia quella successiva. Ma allora, come è nata la prima? Almeno una volta nella storia del genere umano vi fu il salto di qualità, il passaggio dai ritmi della natura, seguiti in modo ripetitivo da comunità primitive, alle creazioni straordinarie della grande civiltà. Perché? e perché in certi luoghi piuttosto che in certi altri? Toynbee non poteva accettare una risposta che, pur tentando di spiegare la genesi di tutte le civiltà successive attraverso il concetto di affiliazione, lasciasse insoluto il quesito a proposito della prima; se d'altra parte si trovava, per spiegare la genesi della prima, una risposta soddisfacente, perché non applicarla a tutte? Con le sue scoperte sul carattere unitario di

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ogni civiltà, Toynbee tendeva a metterle tutte sullo stesso piano. D'altra parte, era troppo positivista, troppo pragmatico, avendo una cultura anglosassone alle spalle, per

rinunciare alla ricerca di un fattore esterno, quindi di una spiegazione logica. Tipicamente inglese, infatti, è la risposta. Toynbee, avendo scartato una dopo l’altra varie teorie, spiega alla fine la genesi di una civiltà come la reazione a una sfida. Fin da ragazzi gli inglesi imparano nelle loro scuole famose che la vita è un susseguirsi di sfide, e che bisogna raccoglierle e affrontarle, con coraggio. It is a challenge, è una sfida: di fronte a questo richiamo nessun inglese si tira indietro. Ebbene: secondo un tentativo di spiegazione, che Toynbee avanza con cautela, senza la pretesa che sia l’unica possibile, tanto meno che sia infallibile, la civiltà è la risposta di una comunità, non identificabile con una nazione ma etni-

camente più vasta, quando si trova esposta a una particola-

re difficoltà o a un particolare pericolo, che può essere affrontato solo mediante una prestazione eccezionale. Se esistono dubbi e incertezze sulla nascita, è invece

certa la condanna: ogni singola civiltà è destinata a morire. Qui non vi è ricerca di cause: basta la constatazione,

nella sua inesorabile finalità. Toynbee traccia una specie :, di iter che tutte seguono, nel periodo di decadenza, prima di spegnersi: vi è un time of troubles (ma non ci eravamo già imbattuti nell'espressione, a proposito del nostro secolo?), un susseguirsi di guerre e di rivoluzioni, seguito a sua volta dall’instaurazione di uno «Stato universale»,

che precede la fine. Finirà anche la nostra? Toynbee pone il quesito, senza abbandonarsi allo sgomento qualora la risposta sia affermativa, perché un uomo che si considera fortunato se gli càpita di vivere, come abbiamo visto, nell’èra degli scon-

volgimenti, non può poi disperarsi se gli sconvolgimenti sono seguiti dall’agonia e dalla morte. Sarebbe strano, anzi, se il destino della nostra civiltà

fosse diverso da quello delle altre. Ma il nostro storico

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adotta un metodo pragmatico. Niente è sicuro fino a quando non sia provato dall'esperienza. Sappiamo che cosa è accaduto nei secoli scorsi; come possiamo sapere

quel che accadrà nei prossimi? Perché dobbiamo escludere che la civiltà occidentale, a differenza delle altre, riesca

a sopravvivere e a rigenerarsi? Toynbee è un uomo religioso, e con un’affabile serenità quasi sacerdotale lascia aperta la strada alla speranza. La fine è possibile. Ma non è certa. Questo è il suo verdetto.

Arnold Toynbee aveva incontrato, nel costruire il suo modello, alcune difficoltà, alcuni nodi che non era riusci-

to a sciogliere in modo soddisfacente. Aveva cercato di spiegare la genesi di una civiltà; ma la spiegazione lascia perplessi. Lui stesso aveva i suoi dubbi. Aveva detto che una società si scuote dalle condizioni di vita primitive, e dà origine a una grande civiltà, quando è posta di fronte a una sfida. Aveva però aggiunto, saggiamente: non sempre. Le sfide sono diverse di volta in volta, e non si può afferma-

re che ogni sfida produca automaticamente, presentandosi, le stesse conseguenze. La civiltà non è un fenomeno di natura, anzi è quasi contro natura, e non obbedisce a leg-

gi scientifiche. Se mettiamo insieme due acidi sappiamo quale reazione chimica avverrà; se mettiamo un seme nella terra sappiamo che cosa ne germoglierà; con la vita dello spirito non è la stessa cosa. La sfida (che può essere determinata da fenomeni naturali o da interventi umani) ha bisogno, per produrre una civiltà, di una comunità ricettiva, «di fenomeni psicologici che è impossibile soppesare e misurare, e quindi prevedere scientificamente»; subentra «una quantità sconosciuta», un’incognita che sarà determinante. Bisogna che la sfida sia raccolta da uomini capaci di raccoglierla, e nello stato d'animo adatto per raccoglierla. Tutto ciò riconduce al tema affascinante e imperscruta-

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bile dell’imponderabilità nelle vicende di questo mondo. «I più grandi geni militari» afferma Toynbee «hanno ammesso l’esistenza di un elemento incalcolabile nei loro successi. Se religiosi, attribuivano le loro vittorie a Dio, come Cromwell; se soltanto superstiziosi, alla loro buona

stella, come Napoleone.» È dunque chiaro che Toynbee spiega solo a metà, col ragionamento, la genesi di una civiltà; l’altra metà, come le vittorie dei grandi condottieri, è dovuta a fattori imponderabili: è dovuta a Dio, o alla buo-

na stella. Perché nasca una civiltà occorre la presenza di uomini capaci di diventare civili. Ma perché alcuni sono capaci, altri no? Perché alcuni popoli producono civiltà, altri non sono mai stati in grado di farlo? In che cosa consistono le capacità ricettive? Perché qualche volta sono presenti, altre volte mancano? Toynbee sorvola. Una difficoltà ancora maggiore, nel suo modello, riguarda il percorso di ognuna delle civiltà, e sono ventuna, che egli individua nella storia del genere umano. La ricerca di analogie e di simmetrie fra l'una e l’altra dà risultati piuttosto difformi. Soltanto per quel che riguarda il periodo finale Toynbee appare abbastanza convincente. Egli ritiene, lo abbiamo visto, che ogni civiltà sia destinata ad attraversare un time of troubles, un'epoca di guerre e di sconvolgimenti, seguita dall’istituzione di uno Stato universale. È un'affermazione, la sua, che induce a riflettere tutti noi, uomini del Ventesimo secolo, a mano a ma-

no che si svolgono gli avvenimenti contemporanei: il time of troubles c'è già, lo Stato universale potrebbe profilarsi all'orizzonte... Oswald Spengler ebbe intuizioni analoghe a quelle di Toynbee, ma tentò di risolvere i problemi che ne derivava-

no in modo diverso. Si può pensare nel loro caso a due vite parallele. Entrambi nacquero sul finire dell'Ottocento, nel 1880 il tedesco, nel 1889 l'inglese, in un'Europa solida

e fiduciosa. L'Inghilterra vittoriana, la Germania guglielmina sembravano maestose corazzate sul mare della storia. Eppure, su quelle nazioni che godevano la loro estate,

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si addensavano le nuvole della tempesta: la guerra del 1914, le trincee insanguinate, le battaglie sul mare, le cam-

pagne di odio, le stragi. I due studiosi vissero la tragedia dalle parti opposte della barricata; entrambi furono assaliti dal cupo presentimento che la nostra civiltà fosse destinata a perire, a spegnersi, ad annientarsi. Spengler morì prematuramente nel 1936 e non ebbe il tempo, a differenza di Toynbee, di assistere alla seconda tragedia, quella del 1939, più spaventosa della prima. Ma l'aveva prevista. I due personaggi, nonostante le analogie, erano profondamente diversi l’uno dall'altro. Tanto Toynbee era inglese di mentalità e di cultura quanto Spengler era tedesco, anzi prussiano. Il primo era un gentiluomo cortese e misurato, asciutto ed essenziale nell'esposizione dei concet-

ti, pronto ad ascoltare con rispetto le opinioni altrui anche quando sapeva in partenza che non le avrebbe condivise. L'altro era un intellettuale teutonico, tagliente

e aggressivo, irruente e verboso, pieno di altero disprezzo per i teorici, per gli accademici, per gli ideologi e (come Schopenhauer) per i professori di filosofia. Poteva non condividere le affermazioni degli idealisti, ma che bisogno c’era di definire quella dell’idealismo «la filosofia dello struzzo»? o di definire inutile, ininfluente tutta

quanta la filosofia? Fu ripagato della stessa moneta: Benedetto Croce lesse attentamente (a quanto si dice) la sua opera, poi lo definì «un ingegnoso ciarlatano». Avevano torto entrambi. Toynbee e Spengler seguirono anche, per giungere alle loro conclusioni, itinerari diversi. Toynbee, col pragmatismo della cultura anglosassone, partiva dall’osservazione

degli eventi storici; partiva cioè dall’esperimento e traeva le sue deduzioni. Il punto di partenza di Spengler era invece il suo pensiero, la sua visione del mondo, quella visione che si era tumultuosamente formata in lui attraverso gli anni, da quando studente universitario aveva scritto una tesi su Eraclito, nel tentativo di capire che cosa sia l'essere umano e, di fronte a lui, l'Universo.

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Toynbee parte (o crede di partire) da quel che vede intorno a sé; Spengler dal processo interiore che evolve in lui. Neanche quello straordinario evento esterno rappresentato dalla Grande Guerra fu per lui determinante, nel dare forma alle sue teorie, come lo fu per lo storico inglese: egli cominciò infatti a scrivere l’opera che lo rese famoso nel 1911, decise il titolo (il famoso Tramonto dell’Occi-

dente) nel 1912, completò la prima stesura nel 1914; il primo volume fu pubblicato nel 1917, e nella prefazione l’autore si limitò a spiegare succintamente che «eventi straordinari avevano ritardato la pubblicazione». Eventi straordinari: cioè, appunto, la guerra. Nel 1922, nella prefazione a un'edizione successiva, accennò di sfuggita «alle miserie e agli orrori di questi anni». Quel che succedeva intorno a lui non lo interessava più di tanto. Fu un filosofo mancato? Forse sì, e questa fu la sua tra-

gedia personale, che turbò profondamente la sua esistenza; non fu un pensatore felice, capace di saltellare leggero fra raggi di sole, come Zarathustra. Ma delle confusioni metafisiche soffrì anche la sua visione della storia, di cui

diremo fra poco, perché essa discendeva dall'esposizione filosofica, ed era corredata dall'uso frequente di termini originali e di contrapposizioni audaci, Dasein e Wachsein,

Werden e Geworden Sein, Richtung e Ausdehnung e Ausgedehntes, e numerose altre, che certo furono motivo di sgo-

mento per i traduttori in altre lingue, meno adatte del tedesco a destreggiarsi fra simili invenzioni. È significativo d'altra parte che Spengler non abbia mai portato a termine la costruzione di un suo sistema, al quale, afferma uno studioso, Francesco Causarano, certamente mirava come

ogni filosofo, nonostante «la sua accesa polemica contro i sistemi e la sistematica». Parliamo dunque della sua filosofia, per capire meglio quel che aveva da dirci sulla civiltà occidentale e sul suo destino; e poi anche perché quella filosofia, semplificata (vorrei dire degermanizzata) nella giusta misura, presenta i suoi pregi: quando ne ebbi conoscenza, a diciotto anni

L'avventura delle civiltà

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di età, rimasi affascinato, e se qualcuno osserverà che a

diciotto anni si è semplici di spirito, gli si può rispondere con la massima evangelica. I maestri di Spengler furono Eraclito, Goethe, Nietzsche. E facile contestarglieli, e mettere in rilievo le differenze, non solo di statura ma anche

di indirizzo. «Lasciamo stare Eraclito...» scrisse Vittorio Frosini. «I due nomi insigni di Goethe e di Nietzsche stanno apposti sul frontespizio ideale dell’opera spengleriana come due stemmi di vantata nobiltà teutonica sul frontone di un palazzo borghese di stile liberty del primo Novecento.» Si disse anche che l'essenza del suo pensiero storico era la nostalgia della nobiltà terriera prussiana, alla quale per altro non aveva mai appartenuto. Quante cose si possono

dire per demolire il pensiero altrui. Certo, Spengler conosceva l’arte di farsi i nemici. Si è già detto della sua alterigia verso i rappresentanti del pensiero accademico. Non poteva neanche suscitare molte simpatie, come vedremo,

fra gli ideologi politici, fra i socialisti e i pacifisti. La stessa indicazione della paternità spirituale può suscitare qualche allarme. Non certo quella del sublime Goethe, superiore a ogni sospetto; ma Eraclito (polemos panton patér: la guerra è la madre di tutte le cose) e soprattutto Nietzsche,

la volontà di potenza, il Superuomo di là dal Bene e dal Male... Le destre lo amavano; in Italia Julius Evola, uomo

di destra, fu il suo entusiastico traduttore. In realtà Spengler non fu mai nazista o fascista; sarebbe semplicistico fa-

re risalire a lui la dottrina nazionalsocialista. Proviamo a indicare la linea del suo pensiero. L'uomo vive; e cerca di capire la vita. Fra questi due poli, Dasein e Wachsein, esistenza e coscienza, l’esser presenti (ich bin da, sono qui) e l'essere coscienti (ich bin wach, sono desto, so-

no sveglio), si svolge la vicenda umana. L'esistenza, la vitalità hanno un loro ritmo e una loro inevitabilità; l’uomo di azione agisce per istinto, secondo intuizioni, e il senso

del destino domina la sua vita. Il destino è una quantità imponderabile che sfugge a qualsiasi definizione.

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Il tramonto della nostra civiltà

La coscienza (il Wachsein) cerca invece dicapire la vita

secondo il processo mentale della causalità, cioè del rapporto fra causa ed effetto; chiede i perché e fornisce le risposte. L'uomo di pensiero (di Wachsein) si esprime mediante definizioni che formano, nel loro insieme, un sistema. Ma nessuna definizione, quindi nessun processo

di causa ed effetto, potrà mai spiegare la vita nel suo perenne fluire; ed è qui il legame con Goethe e con Nietzsche, che stanno di fronte all’Universo con intuizione poetica, non con rigore scientifico. Tutto ciò che accade può accadere una sola volta, il tempo è irreversibile. Tutto ciò

che è riconosciuto (das Erkannte) è invece fuori del tempo (zeitlos) e di validità illimitata nel tempo. L'atteggiamento mentale di Goethe e di Nietzsche è quello giusto per capire gli eventi umani: «Il mezzo che consente di riconoscere forme prive di vita è la legge matematica. Il mezzo che consente di capire forme vitali è l'analogia». Anche se il punto di partenza è, secondo l’uso tedesco, abbastanza remoto, quello di arrivo è di grande evidenza: sappiamo tutti che gli uomini di affari, gli uomini politici, insomma gli uomini d'azione sono dotati, quando hanno successo, di una tempestività che possiamo definire, solennemente, senso del destino; sappiamo che gli economisti e i politologi, attrezzati con una profonda dottrina,

consapevoli di «leggi matematiche» con le quali vorrebbero spiegare l'economia o la politica, raramente hanno successo nell'attività pratica, se ci si provano. Le eccezioni sono rare. Il Borgia non aveva bisogno di leggere il Principe; il Machiavelli, d'altra parte, come uomo di governo, la azzeccò di rado. L'economista (cioè lo scienziato) conosce le cause di quel che succede in economia, sa che l'esaurimento delle

scorte e l'aumento della domanda producono sviluppo, perché questa è la regola generale, la legge di validità costante nel tempo. Ma non sa quando si produrranno i fenomeni che avranno determinate conseguenze. L'uomo d'affari spera di intuire il quando, affidandosi alla sua

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buona stella; se le stelle sono dalla sua parte, avrà successo, si arricchirà. Altrimenti sarà condannato al fallimento.

Ma nessuno studioso, nessuno guidato solo dalla coscienza, dal Wachsein, dalla conoscenza approfondita di cause ed effetti, potrà mai dargli la ricetta sicura per arricchire. Ciò non impedirà allo studioso, essere presuntuoso e saccente, di conoscere sempre la risposta alle sue innumerevoli domande. Causa ed effetto: si spiega tutto. Perché i fiori diffondono profumo? Per attrarre gli insetti. Perché gli uomini si innamorano? Per conservare la specie. Oppure, passando alla storia e alle imprese dei grandi condottieri: perché Hitler attaccò la Russia? Per avere il grano dell'Ucraina. Ogni risposta dà luogo ad altre domande: se l’amore serve alla conservazione della specie, come mai si innamorano gli omosessuali? E se Hitler cercava grano in Ucraina, che cosa cercava Alessandro in India? Ma i cultori del principio di causalità non tarderanno a trovare risposte anche per le nuove domande. Il giuoco può continuare all'infinito. A Spengler questo giuoco non interessa. Il mistero maestoso della vita non può essere ridotto a una concatenazione di domande e risposte, di cause ed effetti; e se si fa

l'autopsia dell'individuo, per capire come funziona, lo si uccide. Di fronte ai misteri della natura si può solo provare un sacro stupore: lo aveva insegnato Goethe. In questo stato d'animo Spengler si pone di fronte alla storia, non per capirla secondo il meccanismo di leggi matematiche, non per farne l'autopsia, ma per intuirne i significati profondi e inesplicabili attraverso le analogie: e arriva anche lui, come già Toynbee, ma con molti anni di anticipo, alla sua grande scoperta, quella dell'unità primordiale, che Toynbee aveva chiamato modestamente «campo intelligibile di studio», e che lui, teutonicamente, chiama con solennità l’Urphinomen, il fenomeno originale. È la Kultur, la Grande Civiltà.

È curioso che tanto l'inglese quanto il tedesco scoprano

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Il tramonto della nostra civiltà

la Grande Civiltà, come unità essenziale della storia uma-

na più importante delle singole nazioni, degli Stati, delle religioni, nel momento stesso in cui la nostra civiltà entra nel periodo di declino, nel momento cioè in cui si deve

mettere in conto la possibilità di perderla. Secondo Spengler, i cicli sono inevitabili: le civiltà sono organismi, seguono il decorso di ogni unità organica, e lo storico altro non fa che scrivere la loro biografia, come si scrive la bio-

grafia di un individuo, suddivisa secondo le varie stagioni, infanzia, gioventù, maturità, vecchiaia. Si tratterà di

capire, per sensibilità, secondo le analogie, non in base a ragionamenti meccanici, in quale stagione ci troviamo noi, in questo Ventesimo secolo, alle soglie del Duemila.

È accettabile questa visione? Toynbee, come tanti altri prima e dopo di lui, pensa di no. Egli rifiuta di considerare le civiltà come altrettanti organismi, e osserva giudiziosamente che non si riesce a comprendere come una moltitudine

di individui,

ciascuno

con

la sua

esistenza

personale, possa dare vita a un'entità organica superiore, a un «gigante» dotato di una sua esistenza autonoma. Ma non credo che Spengler si sarebbe addolorato oltre misura per le ironie dello storico inglese; tutt'al più avrebbe notato, se fosse vissuto abbastanza a lungo per leggerne l’opera, che sovente Toynbee, sebbene respinga concettualmente l'analogia fra una civiltà e un organismo, applica alle civiltà i termini che descrivono i vari stadi nella vita di un uomo

(gioventù, maturità, vec-

chiaia): parla di civiltà giovani e vecchie, acerbe e mature. Anche ciò che non si comprende razionalmente può dunque essere vero. Spengler avrebbe notato soprattutto questo: anche Toynbee osserva che tutte le civiltà, al termine

del loro sviluppo, sono morte, e solo in omaggio al suo pragmatismo, per cui crede unicamente agli eventi percepiti attraverso l’esperienza, si chiede se morirà anche la nostra. Le analogie fra i due studiosi sono maggiori di quanto non sembri. Spengler era convinto della inevitabilità del suo modo

L'avventura delle civiltà

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di vedere la storia; era convinto che un uomo del nostro tempo non potesse vederla in modo diverso; quasi credeva di essere spinto da una forza immanente alla quale non poteva resistere. Quando pubblicò la prima edizione della sua opera, scrisse anche, trascinato dall’entusiasmo della sua scoperta, che in essa si esprimeva la formulazio-

ne «incontrovertibile di un pensiero che, una volta esposto, non sarebbe stato assolutamente possibile confutare». Nella prefazione alla trentatreesima edizione (tale fu il suo successo: si arrivò vicini alla cinquantina di edizioni nella sola Germania) si corresse: «Avrei dovuto dire: una volta capito». E si consolò con la certezza che le nuove generazioni avrebbero avuto la disposizione mentale adatta per capire. Lo capiamo noi? In altre parole: riteniamo credibile questa morfologia della storia? Abbiamo manifestato fin dall'inizio l'opinione che nessuna filosofia può essere considerata definitiva, nessuna vera in senso assoluto; non

condividiamo dunque l’ingenua certezza manifestata da Spengler nella prima prefazione sull’inconfutabilità del proprio pensiero. Lui stesso si rese conto, col tempo, di contraddizioni e di errori nella sua opera. E vi deve essere una ragione profonda se non riuscì mai a portare a termine la costruzione e l'esposizione di un suo «sistema», ammesso che davvero aspirasse a farlo. Rimane una grande quantità di appunti e di giudizi, pubblicati sotto il titolo di Urfragen (domande essenziali) anche in italiano. Qualche esempio: «La vita organica è una forma casuale dell'infinito divenire, un evento riferi-

bile soltanto al pianeta terra e a un breve periodo della sua storia». «Schopenhauer dà inizio al suo libro con questo pensiero: “il mondo è una mia rappresentazione”; ma filosofi del suo genere, gente abituata a lambiccarsi il cervello alla luce della lampada di una scrivania, non hanno mai pensato che invece bisogna dire: “il mondo consiste nella mia, nella tua, nella sua rappresentazione”. Ché se io

sono morto, gli altri esistono ancora, e la loro rappresenta-

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Il tramonto della nostra civiltà

zione continua.» «...qualcosa... un giorno, quando tutti gli animali, ivi compresi gli uomini, saranno scomparsi, continuerà inviolato la sua esistenza, anche se qualcos'altro,

per esempio il “nostro mondo”, che senza i nostri occhi non esisterebbe, avrà cessato completamente di esistere.» La sua esposizione, quale si presenta nell'opera principale, pur con tutti i limiti offre tuttavia una chiave di interpretazione interessante, e spesso convincente, per dare un senso agli eventi storici, e in particolare, come vedre-

mo, agli eventi contemporanei. A differenza di Toynbee, egli identificò sette grandi civiltà nella storia del genere umano: la egiziana; la cinese; l’indiana;

la greco-romana; la precolombiana; quella «magica»; e l’occidentale, cioè la nostra; e riuscì a tracciare di ognuna un decorso parallelo, in mo-

do suggestivo, con una soluzione originale e acuta per quella, la «magica», che più si confonde, per accavallamento e sovrapposizione, con le altre. Questa classificazione è essenziale se si vuole capire tutto quel che segue nel suo ragionamento. E se si vogliono capire le sue conclusioni.

Abbiamo visto che Toynbee ebbe qualche difficoltà quando affrontò il problema della genesi. Come nascono le grandi civiltà? Toynbee risolse il problema solo a metà. Spengler non lo risolve affatto. Lo elude. La nascita di una grande civiltà, secondo lui, è un evento che non si spiega in modo razionale. Coloro che si lambiccano il cervello (per usare la sua espressione) alla luce della lampada di una scrivania cercano di volta in volta cause economiche o geografiche, studiano la configurazione della terra e il suo intreccio col mare, indagano sulle grandi mi-

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grazioni, arzigogolano sull'effetto del clima. Quante diverse considerazioni si possono fare sulla genesi di una civiltà, secondo che la propria cultura sia di impronta economica, geografica, antropologica o religiosa. Spengler sgombra il terreno da tutte queste considerazioni con un movimento impaziente della mano,

«Una civiltà» egli scrive «nasce nel momento in cui una grande anima (eine grosse Seele) si risveglia, nel momento in cui essa si distacca sullo sfondo di una umanità eternamente infantile, e acquista forma di fronte a una condizione

informe e indefinita, prende i suoi contorni in un contesto sconfinato, diventa mortale in contrasto a una situazione

destinata a continuare all'infinito.» Un'anima che esprime se stessa, dunque: esattamente come la nascita di ogni essere vivente è la creazione di una individualità, chiaramente delimitata e caduca, sullo sfondo dell'eternità sconfinata

del macrocosmo. Nasce un individuo: sappiamo forse perché, quando ci troviamo di fronte a questo straordinario

miracolo che si ripete incessantemente attraverso i millenni? Nasce una grande civiltà: prendiamone

atto, con lo

stesso commosso stupore, senza porre domande inani alle quali, comunque, non c'è risposta. Spengler è talmente impegnato a descrivere il fenomeno della nascita, e le sue caratteristiche, che non trova il

tempo di chiedersi perché avvenga. Nasce la civiltà: l’anima prende forma (ogni civiltà ha una sua forma, una sua fisionomia che la distingue dalle altre: il tempio gotico è diverso dal tempio dorico, la Venere di Cnidos è diversa

dalla Primavera di Botticelli) e tutta l’attenzione si concentra sulla sua crescita, sui suoi tratti fisionomici. Ognuna è diversa: ognuna ha la sua personalità. Ma tutte sono paragonabili l'una all'altra; ciascuna ha i suoi tratti, ma tutte seguono le stesse linee di sviluppo, come le piante, come gli animali, come gli esseri umani: ogni quercia somiglia alle altre querce, ogni tigre alle altre tigri, ogni uomo agli altri uomini, C'è un iniziale periodo creativo, in cui l’anima della ci-

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Il tramonto della nostra civiltà

viltà si esprime in forme politiche, religiose, artistiche. Essa dà forma a uno Stato, e quello occidentale è diverso dallo Stato ellenico (la polis) o da quello cinese; a una religione, a una poesia, a una pittura, a una musica, in tutte queste espressioni così diverse l’una dall'altra si osserva pur sempre la caratteristica di una stessa anima, di una stessa fisionomia, così come nell’individuo si osservano i

tratti dello stesso carattere qualsiasi cosa faccia, quando studia, quando si innamora, quando si guadagna il pe quando scherza con gli amici. Il periodo creativo (della crescita e della fioritura) è quello della Kultur. Ma a un certo punto del ciclo l’anima ha dato tutto di sé (in modi e tempi prevedibili, perché ogni civiltà sottostà alle medesime leggi, esattamente come l'individuo), e allora si passa dal periodo della Kultur a quello della Zivilisation, in cui più non si crea, ma si stu-

dia, si ragiona, si riflette e si mette ordine, si cataloga quel che si è creato. Nel caso della civiltà greco-romana si passa dal periodo attico a quello alessandrino; dal periodo dei grandi artisti a quello dei critici. Il passaggio, inesorabile, si ripete nel decorso di ogni altra grande civiltà: ognuna ha, dopo il periodo attico, quello alessandrino. È ogni Zivilisation ha le sue caratteristiche, la mentalità, le

manifestazioni della decadenza: grandi metropoli con una popolazione caotica e indifferenziata, edonismo, co-

smopolitismo, permissività, la Roma imperiale come New York, Alessandria come Berlino.

Spengler non ha dubbi: tutte le grandi civiltà avvizziscono e muoiono, morirà anche la nostra. Nel suo studio in Baviera, circondato da libri, fra intuizioni entusiasman-

ti e cupe riflessioni, nell'imminenza della prima grande guerra (die kimpfenden Staaten, gli Stati che combattono: tutte le civiltà passano attraverso questo stadio obbligato), egli trova, siamo nel 1912, il titolo geniale dell’opera a cui lavora: Der Untergang des Abendlandes, il Tramonto dell'Occidente. Il titolo farà fortuna. «In questo libro» egli

L'avventura delle civiltà

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comincia a scrivere con solennità, «si compie per la prima volta il tentativo di prevedere la storia.» Abendland significa Occidente; ma significa anche, etimologicamente, Terra della Sera. È dunque vero che i raggi della sera si allungano su di noi? «Tutto è transeunte a questo mondo» dichiara Spengler, in tono biblico. «Transeunti non sono soltanto i popoli, i linguaggi, le razze, le civiltà. Fra alcuni secoli non ci sarà più una civiltà europea, non ci saranno più tedeschi, inglesi, francesi, come ai tempi di Giustiniano non c’era più nessun romano.» È un'affermazione che non lascia adito a dubbi.

IV La nascita dell'Occidente

Ogni civiltà ha la sua fisionomia: quella greco-romana, simboleggiata dal tempio, aspira all'equilibrio, e quella occidentale,

simboleggiata dalla cattedrale gotica, è pervasa dall'ansia dell'infinito A noi interessa soprattutto capire il presente, nella speranza di immaginare che cosa tenga in serbo l'avvenire. Ma non possiamo immaginare l'avvenire della nostra civiltà, se non conosciamo le sue origini e le sue caratteristi-

che; e in primo luogo dobbiamo imparare a muoverci fra gli eventi della storia, dobbiamo cercare di guardarli con occhio diverso. Torniamo a Spengler: non allo Spengler filosofo, almeno per ora, ma allo Spengler poeta. Alcune sue pagine sono infatti molto belle, di una bellezza poetica, per esempio quelle in cui indugia a descrivere con animo commosso gli albori di una civiltà, quelle in cui descrive i sentimenti e le trepidazioni di un popolo al momento del risveglio, quando sta per intraprendere il grande viaggio nell'avventura della storia. A molti di noi è capitato di visitare le rovine del Peloponneso, i campi ben coltivati di Creta, le Cicladi rocciose, battute dal vento. Come erano quelle terre quattromila anni fa? chi le abitava? quali eventi vi si svolgevano? «Sul Mare Egeo,» scrive Spengler «intorno alla metà del secondo millennio avanti Cristo due mondi si confrontano, uno che silenziosamente si prepara al suo avvenire,

La nascita dell'Occidente

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fra oscure intuizioni e trepide speranze, fra angosce e ardimenti: il mondo miceneo; e l’altro sazio e sereno, ada-

giato fra i tesori di una civiltà matura, tutta finezza e levità, coi grandi problemi alle spalle: il mondo minoico sull’isola di Creta.» Si confrontano dunque due civiltà, una giovane e inesperta, l’altra avviata verso il tramonto. «Lo vedo davanti ai miei occhi» prosegue Spengler «gli abitanti dei castelli di Tirinto e di Micene alzano lo sguardo, stupiti e timorosi, verso l'eleganza irraggiungibile di usi e costumi a Cnosso; e vedo anche l’alterigia con cui la popolazione raffinata di Creta guarda dall'alto in basso quei capitribù e i loro seguaci. Ma immagino altresì il segreto sentimento di superiorità dei barbari sani e vigorosi, lo stesso sentimento che ogni soldato germanico provava di fronte ai venerandi dignitari di Roma.» Due civiltà, due mondi a confronto: da una parte la civiltà micenea, stadio incipiente della grande civiltà ellenica; dall'altra parte quella minoica, che probabilmente faceva parte del grande ciclo egiziano. Avvenivano scambi fra l'una e l’altra: ma l’incomunicabilità era profonda, perché vivevano, gli uomini appartenenti all'una e all'altra, due avventure diverse. Quel confronto alla metà del secondo

millennio avanti Cristo, dalle opposte rive dell'Egeo, aiuta a comprendere un altro periodo storico più vicino a noi, e a mettere ordine fra eventi complessi, che per ora si presentano in modo confuso.

Passiamo agli ultimi secoli del primo millennio dopo Cristo. In alcune regioni d'Europa, e specialmente in Italia, si

incontrano, in un intreccio assai più complicato di quello dell'Egeo, tre civiltà, in tre stadi diversi. Quella romana è

ormai spenta; e quando si dice che non ci sono più romani superstiti al tempo di Giustiniano, si intende che la romanità è estinta come coscienza politica, come cultura, come

capacità creativa, anche se sopravvivono i discendenti della popolazione che aveva creato l'impero. Sono rimaste

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Il tramonto della nostra civiltà

fisicamente in piedi anche le città: ma rovinate, decadenti,

alcune abbandonate perché non si è più in grado di mantenerle in funzione, altre contratte, rimpicciolite. La città è

espressione di una civiltà, e muore con la civiltà che l’ha creata. Gli scambi commerciali sono ridotti al minimo. Ma non tutte le regioni d’Italia sono in condizioni così misere. Si trovano anche i segni di una civiltà diversa da quella greca classica o da quella romana. Nelle zone orientali della penisola, a Ravenna, ad Aquileia, in Puglia si vedono mosaici, basiliche, strane pitture di uno stile totalmente diverso da quello classico; e si diffonde una reli-

gione orientale, anch'essa totalmente diversa. Si fondano ordini monastici. Che cosa significa tutto questo? Da dove vengono queste nuove invenzioni dello spirito umano? La provenienza è nota: sono i bagliori di una civiltà diversa da quella classica, che ha il suo centro più fastoso a Bisanzio, una metropoli popolosa, con un milione di abitanti, ricca di basiliche e di palazzi, splendente di marmi e di pitture che mandano riflessi dorati sulle acque azzurre del Bosforo. Che cos'è Bisanzio? Che cosa rappresenta? Si impara a scuola che l'impero romano si è scisso in due, che quello d'Occidente

è decaduto

e si è estinto, mentre

quello

d’Oriente è rimasto in vita fino al Quindicesimo secolo.

Ma perché? E come si spiega che la civiltà bizantina è evidentemente diversa da quella greco-romana, di cui dovrebbe essere la continuazione? Non c'è somiglianza fra i templi di Bisanzio e quelli di Roma. Si intuiscono invece contatti, legami, somiglianze fra il mondo bizantino e

quello islamico, che nel frattempo esprime una sua civiltà (apparentata, similare? o addirittura è la stessa?) sulle rive meridionali del Mediterraneo, in Africa, in Sicilia (conqui-

stata interamente dagli arabi nel Novecento), in Spagna. Bisanzio, metropoli evoluta, raffinata, progredita e corrotta, può essere paragonata, per lo stadio di sviluppo in cui si trova, alla Cnosso verso la quale i capitribù greci alzavano lo sguardo stupito e timoroso? Rispondiamo di sì;

La nascita dell'Occidente

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e anche in questo caso troviamo altri popoli, altra gente che costituisce il terzo polo: le popolazioni nordiche, i goti, i longobardi, i franchi che si sono insediati a nord e a

sud delle Alpi, e alzano lo sguardo stupito e timoroso verso la civiltà matura, verso Bisanzio. Si tratta di tribù rozze e primitive, spesso in lotta le une con le altre; non molto

diverse da quelle descritte da Tacito qualche secolo prima. Sono le tribù germaniche. Questo è il quadro, sette o otto secoli dopo la nascita di Cristo. I singoli elementi (riguardanti i tre poli: Roma, Bisanzio, i barbari) sono tutti noti. Il problema, come si è detto, è di mettere ordine nelle nostre nozioni, se voglia-

mo capire come si spiega che manifestazioni e comportamenti così diversi l'uno dall'altro siano stati concomitanti. Che cosa è accaduto della civiltà classica: è scomparsa del tutto? Da dove nasce quella bizantina: è una continuazione di quella classica, o appartiene a un altro ciclo, e se mai a quale? Ma la domanda che più ci interessa riguarda noi, riguarda cioè la civiltà occidentale alla quale partecipiamo: quando nasce, come nasce, in che rapporto si colloca con le altre due? Storici diversi hanno dato a ognuna di queste domande risposte diverse. Spengler offre una chiave di interpretazione di cui pochi, ormai, tengono conto. Vale la pena di prenderla in esame.

Chiunque rifletta sulla nascita delle civiltà si rende conto che nessuno è in grado di spiegarla in modo esauriente. Tanto vale che si rinunci a una spiegazione: meglio riconoscere l’impenetrabilità di un mistero. È invece possibile stabilire quando una civiltà nasca, in quali secoli, in quale periodo, e a opera di quali popoli o di quali nazioni. Ma è facile cadere in un equivoco. È infatti naturale credere, vedendo i diversi popoli bene assestati intorno a noi, che siano sempre esistiti, e si parla di inglesi, di fran-

cesi o di germani come se fossero entità costanti nel tempo, solide, durevoli e imperiture. Il concetto di razza,

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Il tramonto della nostra civiltà

quando ci si crede, rafforza ancora questa illusione: come se la razza fosse una realtà immutabile nella storia del genere umano. Questa visione etnica porta ad alcune cu-

riose conseguenze. Non appena ci si trova di fronte a una popolazione, e ci si accinge a studiarla, certi studiosi, osserva Spengler in uno dei suoi rari momenti di umorismo, subito sentono il desiderio di scoprire da dove vengano. Secondo tali studiosi, ogni popolo deve provenire da qualche parte; si direbbe che un popolo non sia rispettabile se non ha una particolare provenienza, e se non si è in grado di stabilire quale essa sia. Che un popolo sia lì dove è perché è sempre stato lì sembra inconcepibile; e non ci si mette il cuore in pace fino a quando non si sia accertato che può dichiarare, come si fa sui moduli della polizia al passaggio delle frontiere, l'origine del viaggio. Da questa ossessione sulla provenienza discende una curiosa idea, quella che i popoli, quando decidono le loro migrazioni, attraversino i continenti come entità ben contraddistinte, come una palla di fuoco attraverso lo spazio. In realtà, è fuori di dubbio che sono avvenuti attraverso i

secoli grandi spostamenti umani, grandi migrazioni da un continente all’altro. Ma non si tratta di viaggi in comitiva, con data di partenza e numero di partecipanti chiaramente definito. Tanto meno si può determinare la ragione per cui gli spostamenti avvengono: è riduttivo parlare semplicemente di ricerca di terra fertile o di climi temperati. In una visione meno utilitaria e più romantica, è giusto affermare che le migrazioni avvengono per spirito di avventura: la gente si muove perché ha voglia di muoversi. Come spiegare altrimenti gli ardimentosi viaggi dei vichinghi verso l'America, o dei crociati in Terra Santa? Bisogna quindi rivedere anche il concetto di popolo. La tendenza più diffusa è di credere che determinati popoli, avendo effettuato i loro viaggi attraverso i continenti, e avendo finalmente trovato una terra adatta per eleggervi domicilio, si dispongano di buon animo a produrre una

La nascita dell'Occidente

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cultura, a creare una civiltà. Anche questa è una visione meccanica che un intellettuale tedesco, con discendenze filosofiche da Leibniz, Schopenhauer o Nietzsche, non

può non respingere. Il procedimento, afferma Spengler, è quello inverso. Non è il popolo a creare una cultura; ma è la cultura, cioè quell’anima misteriosa che a un tratto si ri-

sveglia e si scuote dalla primitività infantile, a creare un popolo, il popolo che sarà il portatore della nuova cultura. E il popolo (ecco la sua definizione) è la comunità tenuta insieme dalla stessa visione del mondo. Infatti, egli dice, «già intorno all’anno Mille gli uomini più rappresentativi hanno ovunque coscienza di essere tedeschi, italiani, spagnoli o francesi, mentre appena sei generazioni prima i loro antenati nel fondo dell'anima sentivano di essere franchi, longobardi o goti». La coscienza nazionale, se così possiamo chiamarla, è essa stessa il prodotto della civiltà, come tutte le altre creazioni, politiche,

filosofiche, artistiche, che dalla civiltà provengono. All'origine è quell’entità misteriosa, die Seele, l’anima, che

con la repentinità di una rivelazione divina discende sugli uomini, su certi uomini.

A chi osservi che una spiegazione del genere non spiega nulla è facile rispondere che questo è vero.di ogni altra spiegazione: nel senso che ognuna, in realtà, si limita a spostare il mistero da un termine all’altro dell'equazione, senza mai risolvere l’ultima incognita. Per noi è invece importante ordinare i fatti secondo schemi coerenti, lasciando insolute le ultime domande, nella certezza che

non avranno mai risposta. Si può pertanto affermare che la civiltà occidentale ha inizio fra popolazioni abitanti nell'Europa occidentale, ed è il terzo polo contrapposto ai residui inanimati della civiltà classica e alla fioritura di una civiltà orientale intorno a Bisanzio, di cui diremo. Nel momento in cui sorge, la nuova civiltà imprime un’identità a quelle popolazioni. Il fenomeno, il risveglio dell'anima occidentale, avviene

nel periodo compreso fra Carlomagno e Ottone il Grande.

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Il tramonto della nostra civiltà

Cerchiamo ora di immaginare il quadro storico a partire dall’Ottavo secolo, quello di Carlomagno, per comprendere se lo schema di cui parliamo possa essere considerato una chiave di interpretazione accettabile. Il compito è arduo, a dir poco. Ma lo affronteremo con la mentalità di un giornalista che arriva in Italia, poniamo,

da Bisanzio, e che supera il fastidio di trovarsi in luoghi disagiati, certamente meno fastosi di quello da cui proviene, per guardarsi intorno con animo sereno. Ogni giornalista sa che non conviene perdersi nei particolari. Per capire una situazione è preferibile lo sguardo d'insieme. In Italia comandano i longobardi e i bizantini; vi sono al centro i territori della Chiesa, e la Sicilia cadrà sotto il dominio degli arabi. Ma come ci si vive? Le città, in gran

parte già esistenti nell'antichità, si sono frettolosamente circondate di mura a partire dal Terzo secolo per proteggersi dalle invasioni. La vita economica si è immiserita. Gli scambi commerciali sono ridotti al lumicino. I lussi, la dolce vita sono altrove: nelle città bizantine e arabe, in

Oriente, sulla costa africana del Mediterraneo, in Spagna: palazzi ariosi ed eleganti, giardini profumati allietati dalle fontane ridenti, sale di convegno, basiliche, moschee, bi-

blioteche. Coloro che abitano in Italia, si tratti dei lontani discen-

denti delle popolazioni latine o di gente venuta dal Nord, ne sono consapevoli. Il ricordo di Roma è lontano, conta poco fra le persone comuni, anche se l'ossessione di rifare l'impero non si cancellerà mai. L'ammirazione è tutta per l'Oriente. Ai tempi di Carlomagno regna a Bisanzio un'imperatrice, Irene, che d'altra parte non nasconde il suo disprezzo per le popolazioni a nord e a sud delle Alpi: «tribù di selvaggi illetterati», governati da principi vagabondi, senza fissa dimora. Carlomagno, per lei, è «un guerriero ignorante e barbaro». I «barbari» sono consapevoli della loro inferiorità. Carlomagno è semianalfabeta; vorrebbe imparare a scrivere,

ma con scarsi risultati. I rapporti di questi nordici coi bi-

La nascita dell'Occidente

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zantini variano secondo le circostanze, non mancano gli scontri e le velleità di conquista anche da parte dei longobardi o dei franchi, ma prevale il desiderio di imitazione. Carlomagno decide di costruire ad Aquisgrana, che sarà la sua capitale, un palazzo a somiglianza di quelli della corte bizantina, a quanto pare nello stesso stile, con mosaici, marmi e colonne; della cappella accanto al palazzo, o in esso incorporata, si dirà che non si capisce bene se sia piuttosto il primo duomo o l’ultima moschea; ci si chiede se lo stesso Carlo non sia «un califfo d'Occidente, un ca-

liffo del Frankistan». Ma ecco il fatto interessante, il fatto miracoloso: l’imitazione non dura. In altri casi nella storia, e li vedremo, l’as-

similazione delle forme esterne di una civiltà diversa è completa e definitiva. Qui invece l'influenza di Bisanzio è limitata nel tempo. Si manifestano nel regno di Carlomagno fermenti originali, che non costituiscono ancora una nuova civiltà, sono soltanto una preciviltà, quella che i tedeschi chiamano una Vorkultur. Però le grandi novità si riveleranno presto, e si riveleranno a trecentosessanta gradi, in tutto ciò che riguarda la convivenza sociale. Compare infatti una nuova classe dominante, che assume il controllo, acquista potere, e lo esercita secondo i suoi metodi e i suoi criteri, anche quando si inserisce, co-

me a Napoli o ad Amalfi, in strutture istituzionali preesistenti. Spesso, questi nuovi governanti rimangono separa-

ti dalle città: il loro mondo è piuttosto nei castelli, fra i villaggi delle campagne. Costituiscono la nuova nobiltà feudale. I loro costumi, i loro passatempi sono quelli dei nobili: la caccia, i banchetti, la guerra. Hanno alle spalle

una mitologia nordica, una cultura. Ma questi signorotti non sono l’unica classe sociale. Dalle loro famiglie nasce una derivazione della nobiltà guerriera: sono gli uomini di chiesa, che studiano, pregano, e soprattutto fanno pregare gli altri, perché assumono il governo delle anime. Nobiltà, clero si affrancano dalla civiltà allora dominan-

te, quella di Oriente, per pensare, agire e costruire in mo-

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Il tramonto della nostra civiltà

do diverso. Qui nasce dunque qualche cosa di nuovo. E nasce, lo abbiamo detto, a trecentosessanta gradi: abbiamo anche la crescita demografica, la popolazione aumenta come per incanto, l’attività economica

comincia a

espandersi, a svilupparsi. Invano il giornalista proveniente da Bisanzio cercherebbe le ragioni per le quali cessa l'imitazione, o per lo meno si attenua, per dare luogo a un modo di vita, a uno stile diverso. Se fosse perspicace, tuttavia, scriverebbe che quel nuovo fermento, quella curio-

sa rinascita non promette, per i suoi lettori o per i loro discendenti nell’Oriente, niente di buono.

E infatti ci saranno le Crociate: queste grandi e confuse spedizioni militari, queste migrazioni verso Oriente, che prima ancora di essere un movimento religioso sono la grande prova, il suggello storico dell’esistenza di una civiltà giovane, nuova e diversa: in contrasto, in contrapposizione con l'Islam, ma anche in contrapposizione a Bisanzio, sebbene cristiani si dicano gli invasori provenienti dall’Occidente e cristiani siano i bizantini. Non parlano di religione, d'altra parte, imercanti che arrivano in Oriente con le navi genovesi, pisane e veneziane; non si tengono nel nome di Cristo i commerci fiorenti con gli infedeli. Siamo partiti dall’Ottavo secolo: nel giro di due o trecento anni la nuova civiltà si è affermata, ha cominciato il

suo straordinario viaggio attraverso la storia, diversa da

tutto quanto era stato fatto fino allora in Europa, in Asia o in Africa. La sua caratteristica più importante, quella su cui poggia tutto il nostro tentativo di interpretazione, è la compattezza, l'omogeneità del fenomeno, dal Baltico al Mediterraneo,

dalle Fiandre

alla Campania

e, presto, alla

Sicilia. Compattezza: questo non significa naturalmente che fra le popolazioni coinvolte non vi siano contrasti, tensioni, divergenze e dissonanze, conflitti ideologici e

scontri armati. Al contrario, le guerre si susseguono senza fine; l’irrequietudine è immensa. Ma tutto si muove con gli stessi simboli, tutto procede in un'unica direzione, e i

La nascita dell'Occidente

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duchi di Benevento sono affini, non più agli esarchi di Bisanzio, ma ai principi di Normandia. Federico II, nel Tredicesimo secolo, sarà l'esempio più fulgido di questa continuità fra Nord e Sud: sovrano nordico, eppure siciliano,

amante della Sicilia, puer Apuliae. E un'unica civiltà, quella di cui si avevano i primi segnali nel secolo di Carlomagno, e che comincia a fiorire, forse dovremmo dire a esplodere, con gli Ottoni, in prossimità del Mille. È una civiltà tedesca? Si è tanto discusso, si è scritto tanto sull'incontro di romanità e germanesimo, e negli anni fra le due guerre, quando Hitler e Mussolini erano alleati, l’uno e l’altro nazionalisti fanatici, si davano

addirittura i temi a scuola per indurre i ragazzi a sviluppare la tesi di un incontro felice fra romani e germani. Ma su argomenti del genere, già lo abbiamo detto e ripetuto, non esistono dimostrazioni scientifiche e definitive; ed è

abbastanza futile sostenere, sulla base di citazioni o di osservazioni stilistiche, che il ricordo di una civiltà, nella fat-

tispecie quella romana, sia stato determinante per scatenarne un’altra, quella germanica.

A me sembrano più credibili due affermazioni. La prima è che la civiltà di cui stiamo parlando, quella che si manifesta fra l’Ottavo e il Decimo secolo, è di impronta

nordica.* È infatti nordica la sua mitologia, nordica la sua nobiltà; e sono originali e nordiche le creazioni dello spirito, le architetture, i castelli. Ma ciò non significa, ed è il se-

condo punto, che questa civiltà sia germanica, o che porti comunque il segno di una nazionalità specifica: coinvolge infatti popolazioni che germaniche non sono, residenti in Italia, diverse dal punto di vista etnico o del linguaggio. Attraverso di essa si esprimono insomma, a pieno diritto, gruppi sociali e individui di provenienza etnica diversa da quella germanica; gruppi e individui dei quali non si

può dire certo che siano sudditi degli invasori. L'Italia * Ricordo un titolo delle «Nouvelles Littéraires», rivista culturale francese,

negli anni Trenta: Malgré Rome, c'est du fond celtique qu'a jailli notre civilisation.

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Il tramonto della nostra civiltà

non è una colonia; forse lo è stata in secoli precedenti, ora

non lo è più. Dante o Petrarca non sono poeti «romani» 0 «latini». Ma non sono neanche tedeschi. Sono, a pieno diritto, poeti di questa civiltà nuova e diversa. Tutto dipende dal punto di partenza. Se noi crediamo che queste nuove capacità creative, nella politica come nell’arte (e lo vedremo), nella religione, nascano dall’interno degli uomini, e non siano destate mediante stimoli

dall'esterno, allora è possibile descrivere la nuova civiltà come un fuoco che si accende negli uomini a partire da un certo periodo, indipendentemente dal colore dei capelli,

dalla forma del cranio o dall’idioma. Si è parlato prima di «anima». Forse è più giusto parlare di «energia», o di slancio vitale: qualche cosa che crea un nuovo ciclo, spontaneo e originale, in determinate zone e fra determinata gente, a cui non chiederemo il passaporto per scoprire a quale nazionalità appartengano. Non parliamo dunque di civiltà germanica, anche se l'impronta, in contrapposizione a quella mediterranea o orientale, è nordica. Parliamo di civiltà occidentale. E di-

mentichiamo le belle dissertazioni sull'incontro fra romanità e germanesimo, che mi sembrano irrilevanti. Gli stimoli esterni hanno scarsa importanza. Si è visto che Carlomagno cercava di copiare le architetture bizantine, certamente più avanzate di quelle dei franchi: crediamo forse che quelle premesse siano state essenziali per sviluppare, più tardi, l'architettura gotica? Federico II mostrò interesse ed entusiasmo per la cultura araba, e questo interessamento, condiviso da numerosi suoi contemporanei, lasciò certamente un segno alla sua corte e fra i dotti intorno a lui: ma si può credere che non vi sarebbe stata una civiltà normanna se Federico non avesse conosciuto gli arabi in Oriente? Anche uno studioso moderato e prudente come Toynbee appare convinto che i contributi esteriori, gli stimoli provenienti dall'esterno non approdano a nulla se non vi è la disposizione ricettiva: cioè il fuoco, l’anima, l'energia capaci di reagirvi.

La nascita dell'Occidente

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Abbiamo davanti a noi una nuova civiltà: la nostra. L'epoca del suo inizio è fra Carlomagno e gli Ottoni; la sede è l'Europa; i portatori sono popolazioni in prevalenza nordiche, ma non solo quelle: i confini sono spirituali, non etnici. Le influenze esterne, quando ci sono, non sono determinanti. I longobardi, i franchi, gli svevi che scendono

a sud delle Alpi trovano piacevole il clima; i normanni considerano la Sicilia un giardino delizioso, un giardino di rose e fiori in cui sono ben felici di insediarsi, e sanno abbastanza storia antica, conoscono abbastanza la mitolo-

gia greca per provare emozione quando navigano nello stretto fra Scilla e Cariddi, o quando vagabondano fra i campi fertili della Campania, o visitano Napoli, che riporta alla mente reminiscenze virgiliane. Ma non è per questo che nasce la nuova civiltà. Le origini sono, per esprimersi nel linguaggio dei tecnici, da manuale. C'è una nobiltà feudale, che si ispira a una

mitologia nata anch'essa nel Nord. Si forma una gerarchia religiosa, come in ogni civiltà nascente, e icommerci indicano in embrione l’esistenza di una terza classe, quella

borghese e artigiana. Ma che cosa ricordano queste origini? Dove abbiamo trovato una situazione paragonabile? Abbiamo incontrato nelle pagine precedenti quei guerrieri ancora rozzi che, dalle spiagge del Peloponneso, osservavano stupiti e timorosi i monumenti e i palazzi della grande civiltà minoica sull’isola di Creta: questo ci ricorda il quadro storico che ora osserviamo. Guerrieri barbari e selvaggi, anche là; castelli e borghi in mezzo alla campagna; e i primi sintomi di una nuova capacità creativa. C'era anche in Grecia una mitologia: i miti omerici. C'era una nuova religione: gli dèi dell'Olimpo. C'erano nuove canzoni, nuove leggende. Se si confrontano

gli esordi della greca, si arriva stessi fenomeni stili diversi, ma

civiltà occidentale con quelli della civiltà inevitabilmente alla conclusione che gli si ripetono, con protagonisti diversi, con con ritmi analoghi. Da una parte abbiamo

Omero, l'Olimpo, Agamennone; dall'altra il Walhalla, i Ni-

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Il tramonto della nostra civiltà

belunghi, Rolando, Sigfrido, re Artù. Le due civiltà partono entrambe da splendide fantasticherie. Forse sono paragonabili la spedizione di Troia e le Crociate: come se una civiltà giovane avesse bisogno di affermare la sua identità attraverso un'impresa insieme guerresca e migratoria; attraverso una grande avventura verso

altre terre, a confrontarsi con altri popoli. E intanto si comincia a costruire, e si delineano gli stili: l'arco gotico e romanico da una parte, la colonna dorica dall'altra; l’archi-

tettura verticale da una parte, quella orizzontale dall'altra, profondamente diverse nello spirito, ma ugualmente significative come prime espressioni di uno stile, anzi di una visione del mondo; e ormai diversi, i templi degli uni e le chiese degli altri, dall’architettura bizantina o da quella minoica, non più in grado di esercitare un'influenza perché le nuove creature stanno trovando la loro identità.

Possiamo ora indicare, dopo queste osservazioni, alcuni punti essenziali. Innanzi tutto possiamo affermare, guardando la genesi delle due civiltà, che essa avviene in modo analogo. Le analogie sono visibili, diremo così, a occhio nudo, e anche

chi non ha una conoscenza specifica degli eventi si accorge della loro somiglianza. Gli eruditi potranno naturalmente contestare singoli accostamenti, o discutere sulla velocità dell'evoluzione da una parte o dall'altra. Resta il fatto che certe cose succedono intorno al Mare Egeo a partire dalla metà del secondo millennio avanti Cristo; e cose simili si ri-

petono, ricominciando da capo, a nord e a sud delle Alpi, a partire dall’Ottavo secolo dell'èra cristiana. Si può proseguire nello stesso ordine di idee, scoprendo che le due civiltà di cui parliamo, essendo cominciate allo stesso modo, hanno attraverso i secoli lo stesso decorso.

Le forme politiche e le creazioni artistiche si susseguono secondo un unico paradigma; le religioni, la filosofia, perfino la scienza e la tecnica, obbediscono ad analoghi im-

pulsi e mantengono ritmi paragonabili nel loro sviluppo,

La nascita dell'Occidente

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nella loro evoluzione e nel loro declino. La dimostrazione di queste affermazioni richiederebbe una erudizione sconfinata, di cui nessuno è in possesso: il compito è sovrumano, non solo per le persone di media cultura, ma anche per gli specialisti. Chi ha tentato di affrontarlo si è ovviamente esposto a pericoli gravissimi, commettendo inevitabilmente errori che inficiano la validità dell’insieme. Si colgono tuttavia esempi interessanti, dai quali si possono dedurre regole e princìpi di carattere generale. Bisogna essere studiosi di filosofia per conoscere a fondo Aristotele e Kant; ma non occorre essere filosofi per 0sservare che entrambi compaiono in periodi analoghi delle rispettive civiltà. Noi ci accontentiamo, da semplici giornalisti, dello sguardo d'insieme. (E chi dice che l’erudito abbia sempre ragione? Chi ha letto una poesia di Goethe, Kenner und Enthusiast, Il critico e l’entusiasta, sa che anche

quel genio aveva i suoi dubbi in proposito.) Arriviamo adesso a un argomento di grande importanza: la fisionomia di ogni singola civiltà. E fuori di dubbio: ogni civiltà inventa il suo linguaggio. Abbiamo finora concentrato la nostra attenzione sulla civiltà greco-romana e su quella occidentale. Continuiamo dunque a parlare di queste due. Abbiamo visto che sono nate su per giù allo stesso modo; abbiamo aggiunto che si sono sviluppate in modo analogo. Si sono comportate, insomma, come individui. Anche gli esseri umani nascono alla stessa maniera, seguono su per giù lo stesso ciclo biologico, vivono (salvo malattie o incidenti) un certo nume-

ro di anni, poi se ne vanno. L'analogia è completa. Ma ogni essere umano, pur seguendo lo stesso ciclo biologico, ha la sua faccia, le sue caratteristiche, la sua personalità.

Ognuno ha la sua fisionomia. La stessa identica affermazione va ripetuta per le civiltà: ognuna ha la sua fisionomia, che la rende inconfondibile in ogni manifestazione.

Vediamo. I greci, a mano a mano che la loro civiltà progredisce, costruiscono le città, erigono i templi per vene-

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Il tramonto della nostra civiltà

rare i loro dèi; istituiscono forme politiche; parlano, scri-

vono, cantano, amoreggiano, lavorano, guadagnano a un certo modo: fanno tutte queste cose secondo il loro stile. La matematica, la filosofia, la retorica, l'urbanistica, l’arte militare, tutto ciò che emana da loro, fino alle fogge del

vestiario, porta la loro impronta, risponde a una certa forma mentis. L'insieme costituisce la fisionomia della civiltà greco-romana. Poi, alcuni secoli più tardi, anche gli occidentali, e ormai sappiamo chi sono coloro che così definiamo, costruiscono città, erigono templi, sviluppano una religione, una matematica, una filosofia; anch'essi parlano, scrivono, cantano, amoreggiano e lavorano. Ma lo fanno a modo loro; diversi sono i loro Stati, le loro città, i loro

abiti. La loro fisionomia è diversa e inconfondibile. Sullo spirito che pervade ogni singola civiltà, sulla sua forma mentis, che va intesa in modo unitario per ciascuna, sono possibili interpretazioni diverse. Le differenze sono evidenti, tutti le vediamo. Il Partenone è diverso dalla cat-

tedrale di Reims. Ma che cosa c'è dietro l’uno e dietro l’altra? Quale animo, quali aspirazioni, quali sogni e quali angosce hanno creato l’uno e l’altra? In che modo quei moti dell'animo hanno poi plasmato le divinità che si adorano nel tempio e quelle che si adorano nella cattedrale? E la religione degli uomini che si inginocchiano o si prostrano davanti a loro? Certe caratteristiche sono palesi: il tempio è orizzontale, la cattedrale tende verso l'alto. Che cosa possiamo dedurne? Si è detto che la civiltà occidentale è «faustiana»,

perché aspira alla conquista dell'infinito, come quel Faust che può essere considerato il suo simbolo: e la stessa ansia

di infinito porterà alle spedizioni temerarie attraverso gli oceani nel Quattrocento, all'avventura dello spazio, allo

sbarco sulla Luna. Si è detto altresì che la civiltà greca è «apollinea», perché il suo ideale è l'equilibrio, la corporeità, la tattilità, la concretezza: Apollo. E questo spiega forse tante caratteristiche di quella civiltà, dalla geometria di Euclide alla modestia della loro tecnologia. Ma qui si

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va su un terreno difficile, e la mente di ognuno può spaziare (o farneticare) alla ricerca delle interpretazioni più acute. Lo stesso accade di fronte a un individuo: vediamo chiaramente la sua fisionomia, ma sul carattere della persona che ha quella tal faccia, e parla in quel tal modo, sono possibili mille ipotesi diverse. Accontentiamoci dunque di affermare che ogni civiltà ha una sua fisionomia inconfondibile: lasciamo ad altri l’interpretazione. Ci si può chiedere fino a qual punto la fisionomia di una civiltà sia dovuta a caratteristiche congenite (a quella famosa «anima» che le diede origine), e fino a qual punto a influenze esterne, cioè all'influenza di altre civiltà, di al-

tre culture. Il tema è appassionante: si tratta, né più né meno, del problema dell’incomunicabilità. Siamo in grado di capire i simboli e le creazioni di una civiltà diversa, anche se pedissequamente li imitiamo? Forse no: la comprensione vera, la comprensione profonda di ciò che non emana da noi stessi, dalla nostra cultura è impossibile. La

musica orientale sembra monotona a noi europei. E che cosa proverebbe un pittore egiziano dell'antica Tebe di fronte a un Rembrandt o a un Picasso? Sull’influenza fra civiltà diverse esistono naturalmente diverse opinioni, gli uni la credono possibile, anzi essenziale, gli altri la escludono. Le dimostrazioni inoppugnabili in un senso o nell'altro sono precluse. Io sono convinto che la propensione verso le varie tesi, tanto fra gli osservatori dotti quanto fra gli incolti, sia dovuta essenzialmente alle premesse culturali dei singoli: premesse che possono essere di tipo positivistico o di tipo idealistico, le prime tipiche della tradizione anglosassone, le altre della tradizione tedesca. I positivisti credono nell’influenza dall'esterno. Gli idealisti credono che tutto nasca da dentro. Noi ci accontenteremo di osservare qui che ogni civiltà ha la sua fisionomia, e su questo fatto non sussistono dub-

bi: un tempio dorico è diverso da una cattedrale gotica. Se

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Il tramonto della nostra civiltà

poi l'uno sia apollineo, e l’altra faustiana, lo lasciamo impregiudicato. Ma abbiamo parlato finora di greci e di occidentali. Il mondo non finisce con loro. E le altre civiltà? Si è già detto che Toynbee ne ha contato più di venti; Spengler si è fermato a sette, secondo una visione più ampia, forse più sistematica. Entrambi affermano che tutte seguono un decorso analogo; quelle analogie che abbiamo indicato finora a proposito di greci e occidentali si ripeterebbero per le altre, talvolta in forma chiara e distinta, altre volte

attraverso deformazioni e travestimenti. Vi sarebbe stata pertanto una società feudale anche in Egitto, con la Quarta e la Quinta dinastia, fra il 2550 e il 2300 avanti Cristo; vi sarebbe stata una società feudale in Cina, fra il 1300 e il

500: epoche parallele fra di loro, «contemporanee» in senso intellettuale. Allo stesso modo, il tempio a piramide degli egiziani corrisponderebbe al tempio dorico dei greci; e il giuoco può continuare a lungo, ed essere ripetuto in ogni campo dell'attività umana. Qui il giornalista non è in grado di seguire, e non può esprimere un'opinione attendibile: deve limitarsi, secondo le buone regole della sua professione, a ripetere ciò che dicono quelli che se ne intendono. Come si fa a sapere tutto su tutto? Non solo sarebbe necessaria una vastità di erudizione a cui nessun individuo può aspirare, ma in molti casi si tratta anche di campi di studio in cui le conoscenze sono scarse. Che cosa sappiamo con certezza della civiltà egiziana o cinese, per non dir nulla di quella precolombiana? Possiamo solo procedere per intuizioni. E forse è lecito affermare che, se certe analogie sono convincenti nei casi che conosciamo, l’esistenza di altre analogie è probabile

negli altri casi. Tutto dipende se si accetta o si respinge la visione della storia come un susseguirsi di grandi civiltà; e forse è vero che si è più propensi ad accettarla se si guardano le cose dall'alto e da lontano, e si è meno convinti

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quando si comincia a guardarle con la lente di ingrandimento, come fanno gli esperti. Ma ho già detto che non sempre gli esperti hanno ragione. La conclusione di queste varie affermazioni sembrerà a molti sensazionale: la nostra civiltà occidentale non è superiore a quelle che l'hanno preceduta. Se infatti accettiamo che le diverse civiltà, anche quelle

di cui sappiamo poco o pochissimo, sono analoghe nel decorso, e profondamente differenti nelle rispettive fisionomie, arriviamo a un'ultima proposizione: quella che tutte le grandi civiltà si equivalgono. Non si può fare una gerarchia; non si può dire che quella greco-romana sia più grande, o più progredita, di quella egiziana, per il semplice fatto che è venuta dopo. Tutte costituiscono cicli chiusi e autonomi; tutte hanno raggiunto alte vette nell’evoluzione del pensiero e nelle forme di vita; non c’è stato un progresso costante nel passaggio da una all'altra, anzi non vi è stato alcun passaggio.

Ciascuna è nata infatti in modo autonomo. D'altra parte, ciascuna è morta. Una civiltà spenta è paragonabile a una mummia: mantiene i tratti esteriori, ma è priva di vi-

talità. Come può una mummia irradiare vita, influire sui vivi? Se tutte le civiltà sono autonome, tutte si equivalgo-

no: come potrebbe la nostra, proprio la nostra, essere superiore? L'imperatore di Cina che alla fine del Settecento ricevette una delegazione inglese dichiarò pomposamente che la sola vera civiltà era la sua, e il re d'Inghilterra dava prova di saggezza mandando a Pechino i suoi messi per

impararla: così diceva l’imperatore di Cina, e noi ridiamo. Ma perché pensare che lui avesse torto, e noi ragione? Questa proposizione, che nega la superiorità della civiltà occidentale, è destinata a essere respinta, piuttosto che dagli eruditi, dai profani, perché è istintivo credere che noi siamo più progrediti, non solo dei barbari di Carlomagno, ma anche dei contemporanei di Cicerone e di Giulio Cesare. E crediamo di essere più progrediti per va-

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Il tramonto della nostra civiltà

rie ragioni: innanzi tutto perché ci prendiamo sul serio e abbiamo un alto concetto di noi stessi (i popoli tendono a credere, salvo rare eccezioni, di essere al centro del mon-

do, e di rappresentare il culmine del progresso); e poi perché i progressi della tecnica danno a noi, uomini occidentali sul finire del Ventesimo secolo, possibilità che fino a cento anni fa erano totalmente impensabili, ed erano certo sconosciute agli indiani come agli egiziani, sia pure nei periodi di maggior fulgore in India o in Egitto. Aeroplani e razzi; calcolatori elettronici; spedizioni sulla Luna: non sono, tutte queste, dimostrazioni incontrovertibili della

nostra superiorità? Per quanto riguarda il livello tecnologico, ogni sentimento di orgoglio o alterigia da parte nostra è raggelato con la consueta concisione da Toynbee. La suddivisione della storia, egli dice, secondo l'abilità tecnica, quindi in èra paleolitica e neolitica, età del rame ed età del ferro, fi-

no all’Homo faber e all’apoteosi della macchina nei nostri giorni, è molto sospetta, per varie ragioni. In primo luogo, a causa della sua stessa popolarità: stimola i pregiudizi di una società affascinata dai suoi recenti trionfi tecnici. «Questa popolarità» scrive Toynbee «conferma l’innegabile fatto che ogni generazione tende a disegnare la storia in base ai suoi effimeri modelli mentali.» Secondo: la classificazione tecnologica dimostra che ogni studioso tende a essere schiavo del materiale che per caso si trova fra le mani. Le conquiste spirituali del passato potevano essere ben più importanti degli utensili; ma le conquiste sono state cancellate dal tempo, gli utensili si ritrovano negli scavi archeologici, e quindi si ragiona secondo gli utensili: secondo la tecnica, appunto. Terzo: progresso civile e progresso tecnico non sono necessariamente concomitanti. Toynbee cita numerosi casi di civiltà decadenti in cui la tecnica progrediva, e altri casi in cui accadeva l'inverso. Tecnica e civiltà non sono sinonimi. Ed è vero che la civiltà occidentale ha raggiunto alti livelli tecnologici: ma

La nascita dell'Occidente

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dobbiamo forse dedurne che per questa ragione siamo superiori ai nostri antenati? La filosofia di Heidegger è più eccelsa, o più profonda, di quella di Aristotele perché Heidegger poteva andare in aeroplano? Vedremo in seguito quali possono essere le ragioni della nostra superiorità tecnologica: certamente non è dovuta al fatto che noi occidentali siamo stati preceduti da altre civiltà, perché nessuna delle conquiste tecniche degli ultimi due secoli è dovuta a conquiste tecniche di civiltà precedenti. Se questa argomentazione appare convincente, abbiamo sgombrato il terreno dalla convinzione che la civiltà occidentale sia superiore alle altre. Solo nel campo tecnico, infatti, il divario è innegabile. Non lo è nel campo artistico, ammesso che sia lecito tentare paragoni fra opere d’arte. E non lo è sul terreno della moralità o della bontà d'animo. È infatti vero che certe crudeltà del passato non si commettono ai nostri giorni: ma se ne commettono altre, come dimostrano le stragi assai recenti nelle guerre, nei bombardamenti indiscriminati o nei campi di sterminio, dove la tecnica, per esempio quella delle camere a gas, serviva soltanto a essere più crudeli con più efficienza. Ed è vero d'altra parte che anche le civiltà diverse dalla nostra hanno anticamente conosciuto, secondo gli stadi

di sviluppo, periodi miti e mansueti accanto ad altri di maggior crudeltà. I costumi, le usanze cambiano attraverso il tempo, non

in linea continua e ascensionale come si crede comunemente, ma secondo il succedersi di diverse stagioni all’in-

terno di una stessa civiltà. Ai tempi di Dante e di Federico II uomini di alta cultura infliggevano ai loro nemici torture e punizioni che si ha ritegno a descrivere, tanto erano efferate. Ma i contemporanei di Cicerone, dodici secoli prima, erano gentili con gli schiavi, li trattavano meglio di quanto non siano stati trattati i servi, fino a un passato recente, nella nostra civiltà occidentale. Altro esempio: i costumi nei rapporti fra i sessi erano castigati nell’Inghilterra vittoriana, ma

nell'antica Roma,

diciannove

secoli

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Il tramonto della nostra civiltà

prima, regnava una permissività paragonabile a quella dei nostri giorni. La storia non procede secondo una linea continua, non è unidirezionale. È un continuo zig-zag. Il tentativo che compiamo in questo libro è di dare un senso, non scientificamente dimostrato ma accettabile, ai continui alti e bassi.

V

L'enigma di Cristo

Il cristianesimo della civiltà occidentale è una religione diversa da quella della civiltà «magica», o siriaca, nelle sue versioni cristiana e islamica Abbiamo ragionato nelle pagine precedenti sulla genesi della civiltà occidentale senza nominare il cristianesimo. Omissione imperdonabile? Senza dubbio, molti lo pensano. È infatti diffusa la convinzione, nella tradizione popolare, che la nostra civiltà sia figlia di Cristo. Vediamo come sono andate le cose, secondo le nozioni che i più han-

no imparato a scuola o nella parrocchia, al corso di dottrina cristiana, e che portano poi con sé per tutta la vita, senza dedicare all'argomento grande attenzione. L'impero di Roma decade a causa delle cattive abitudini contratte dai romani, e si diffonde una nuova religione, appunto la religione cristiana, che sconvolge i capisaldi della società pagana. Arrivano i barbari, e per le ragioni su esposte incontrano scarsa resistenza. Occupano la penisola, la devastano. Tutto decade, tutto peggiora: le condizioni di vita, la cultura, le usanze. Si piomba nei secoli bui. Ma i barbari si convertono al cristianesimo, si ingentiliscono sotto l’influenza della religione e a poco a poco diventano a loro volta civili. La storia ricomincia. Ci si avvierà, dopo qualche vicissitudine supplementare nel Medio Evo, verso l’èra moderna, anche perché la riscoperta della civiltà an-

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Il tramonto della nostra civiltà

tica (nel Rinascimento, ovviamente) contribuirà al pro-

gresso. J Abbiamo semplificato l'esposizione. E ovvio che il quadro è più complesso, non solo per gli addetti ai lavori, ma anche per ogni persona di media cultura che abbia sentito il desiderio, dopo gli anni di scuola, di approfondire l’argomento. Resta il fatto che alla religione cristiana si attribuisce grande importanza quando si studia l'origine della civiltà moderna. Non ci si riferisce solo al suo insegnamento: l'umiltà, l'amore del prossimo, la virtù, la rinuncia

alla violenza (anche se i cristiani attraverso i secoli non furono tutti molto umili o molto miti). Al cristianesimo si devono anche benefici di ordine pratico: i benedettini insegnavano a coltivare nuovamente la terra, e grazie al loro esempio, come si impara nei libri di storia, rinasce in Italia l'agricoltura; così come per merito di papa Gregorio rinasce la città di Roma. Sull’importanza del papato e degli ordini religiosi alle origini della civiltà occidentale non ci sono dubbi. Bisogna però chiarire l’interpretazione che si dà della loro funzione. È possibile considerare la religione come un dato a sé stante, come qualche cosa di preesistente che si cala negli individui, in certi individui, e produce, come se fosse

un reagente chimico, determinate conseguenze. Si aderisce a una religione, la si impara dalla tradizione orale e dai libri, forse più da quella che da questi: e così si migliora. Semplifichiamo ancora una volta: secondo questa visione, la religione cristiana è intesa come una medicina che, somministrata agli uomini, cambia la loro mentalità e

il loro comportamento. Può darsi che sia così. Ma è possibile anche una interpretazione diversa che, senza nulla togliere agli ordini monastici, ai papi e ai loro seguaci, priva la religione di quella caratteristica descritta sopra, e respinge la funzione di reagente chimico, per giudicarla in altro modo. La religione non è allora un agente esterno che, calato sugli uomini, li cambia; bensì è un elemento innato, che scaturisce

L'enigma di Cristo

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dagli uomini stessi. Insomma: gli uomini non la imparano. La inventano. Mi rendo conto di sfiorare il tema della Rivelazione, e mi guarderò bene dall’inoltrarmi su un ter-

reno così difficile. Vorrei soltanto inquadrare la funzione del cristianesimo in quella visione della storia di cui tracciamo a poco a poco i contorni. Per spiegarla, tuttavia, bisogna fare un passo indietro, per parlare delle origini stesse del cristianesimo, e della civiltà da cui esso nasce. Riassumo adesso i concetti di questo capitolo in poche frasi, e tutto sarà più chiaro. Sorge duemila anni or sono una nuova civiltà, con l'epicentro in Palestina, e si dà una religione: la religione cristiana.

Sorge mille anni più tardi una nuova civiltà, totalmente diversa, quella occidentale, e si dà un’altra religione: che sembra la stessa, perché è cristiana di nome, ma la somi-

glianza è del tutto apparente. In realtà si tratta di due religioni diverse. Fra le varie civiltà individuate dagli storici, più o meno numerose secondo gli autori, quella che dà origine alla religione cristiana è la più complessa e la più contorta. C'è chi la chiama «siriaca», chi la chiama «magica», e tutti in-

contrano grossi problemi quando cercano di ricostruirne

il decorso, perché essa si confonde di continuo con popoli diversi e con culture diverse, si nasconde, si mimetizza.

Spengler, per descriverla, ricorre all'immagine della pseudomorfosi. «In uno strato roccioso» egli scrive «sono inseriti i cristalli di un minerale. Si formano squarci e fessure; l’acqua vi penetra e lentamente asporta i cristalli, vuotando le cavità che essi avevano prodotto. Si hanno poi eventi vulcanici; masse liquefatte e incandescenti penetrano nelle cavità, si raffreddano e a loro volta si cristal-

lizzano. Ma non hanno la possibilità di cristallizzarsi secondo la loro forma; devono assumere le forme già esistenti e così nascono forme falsate, cristalli la cui strut-

tura interna non corrisponde alla costruzione esteriore;

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Il tramonto della nostra civiltà

nasce un tipo di cristallo in forme che gli sono estranee. È quel che i mineralogi chiamano pseudomorfosi.» È il destino della civiltà magica, o siriaca; possiamo anche chiamarla araba. A mano a mano che si delinea e si sviluppa, la nuova civiltà trova il territorio occupato dalla civiltà alessandrina, e non può non assumerne le forme esteriori. Eppure è diversa dal mondo che la circonda, un mondo che ha alle spalle la grande cultura greco-romana, e che si avvia verso la fase finale del suo ciclo. La nuova civiltà vorrebbe seguire l’iter normale, come le altre; vorrebbe avere anch'essa, per esempio, i suoi feudatari, i rap-

presentanti di una protonobiltà, equivalenti di quei feudatari che abbiamo incontrato nel periodo miceneo o in quello gotico; ma ecco che essi si confondono invece con i funzionari dei regni dei Diadochi, perché i regni dei Diadochi sono lì, come le cavità dello strato roccioso nelle pseudomorfosi. Se ve ne ricordate, abbiamo già incontra-

to un fenomeno di pseudomorfosi quando Carlomagno costruiva ad Aquisgrana un palazzo simile al palazzo imperiale di Bisanzio. Anche allora, le forme di una civiltà

diversa, quella bizantina, già pienamente sviluppata, condizionavano la civiltà nascente. Ma i successori di Carlomagno si liberarono presto dell'influenza esterna: prevalse la civiltà gotica, con forme originali. Nel caso della civiltà magica, invece, la pseudomorfosi è continuata.

Ho detto che il decorso di questa civiltà è complesso e tortuoso, e non sono in grado di seguirne l'itinerario fra aramei, assiri, ebrei e siriani, vaganti nei deserti e fra i fiu-

mi della Mesopotamia, dall'Egitto fino alle frontiere con l'India. Mi accontento di riferire che Spengler colloca temporalmente la civiltà magica attraverso una decina di secoli: essa comincia secondo lui con l’èra cristiana e si conclude intorno all'anno Mille, con un periodo di incubazione

che risale ai persiani e alla civiltà alessandrina, quattro o cinquecento anni prima di Cristo. Toynbee, coi suoi schemi più liberi, allaccia la civiltà che lui chiama siriaca a quella minoica, e quindi molto indietro nel tempo; concorda inve-

L'enigma di Cristo

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ce con Spengler sul suo periodo finale. Si può osservare'ancora che si tratta, fra tutte le civiltà, di quella mediana, sia nello spazio, a metà strada fra Oriente e Occidente, sia nel

tempo; e ha contatti con quasi tutte le altre. È nell’ambito di questa civiltà che, duemila anni or sono, appare Gesù. Se gli diamo una collocazione storica, la sua apparizione diventa comprensibile, trova una spiegazione, e si spoglia degli elementi inesplicabili che normalmente le si attribuiscono. E si risolve un problema che altrimenti appare insolubile. Come si può scoprire, infatti, una qualche consequenzialità naturale nella concatenazione di questi eventi? A un certo momento nella storia dell'antichità, in un periodo poco esaltante, quando la grande avventura della civiltà greco-romana volge al declino fra clamori di guerre e di conquiste, nasce in Palestina un uomo qualsiasi, figlio di un falegname. Egli trascorre i primi trent'anni della sua vita in modo oscuro, si sa poco o nulla di lui. Ma ecco che a un tratto si convince di essere investito da una missione terribile: gli uomini aspettano il figlio di Dio, i profeti hanno preannunciato la sua venuta, e il figlio di Dio è lui. Predica per tre anni, raccoglie seguaci, è crocefisso. Tutto avviene in un angolo remoto dell'Oriente, lontano da Roma. Eppure, da quella crocefissione nasce una religione che duemila anni più tardi, avendo superato persecuzioni, guerre, degenerazioni di ogni sorta, è ancora la più importante del mondo. Il cristiano è convinto che la sua religione sia l’unica vera, l’unica che lo riconcilia con Dio e gli salva l’anima. In altri secoli i cristiani furono risoluti a diffonderla in ogni continente, a convertire gli infedeli, per amore o per forza. Oggi l'entusiasmo missionario si è affievolito e anche le altre religioni sono ammesse (vedremo perché) come strade che, pure essendo diverse dalla strada maestra, possono pur sempre condurre a Dio, e alla salvezza eterna. Quella cristiana è tuttavia l’unica autentica. Perché è vera

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Il tramonto della nostra civiltà

soltanto quella, che è la nostra? E perché è nata proprio allora, fra quei villaggi di Palestina, in quella povera comunità ebraica? Perché in quel frangente storico, non prima e non dopo? Il cristiano non ha difficoltà a rispondere: Dio ha voluto così, i suoi disegni sono imperscrutabili. Ma anche chi non è religioso definisce cristiana la nostra civiltà; e quando riflette sulle origini del cristianesimo, e sulle sue vicissitudini, non riesce a spiegarsele. An-

che chi non è religioso tende a credere che la civiltà cristiana sia al centro del mondo, la più forte, la più possente, la più umana, la più progredita: e tutto comincia là, in quel villaggio di Betlemme? Sono venuti i barbari, sono scesi minacciosi gli imperatori di Germania, si sono moltiplicati i nemici, armati di spada 0, secondo i casi, di ideo-

logie avverse: eppure il Papa è sempre lì, le chiese accolgono sempre i fedeli, fra fumi di incenso e luccichìo di candele. Come capacitarsene? Tutto è cominciato con Gesù: anche chi non è religioso esclama che nessuno fu più grande di lui, e chi non vede in lui il figlio di Dio è indotto

ad ammirarne ancor più le qualità umane, per definirlo il personaggio più grande della storia. Tutto cambia se si comprende che la figura di Gesù, e la religione che da lui ha origine, appartengono a una civiltà diversa dalla nostra, ben definita e circoscritta. Mi sembra che la collocazione storica, così inquadrata, renda com-

prensibili quegli eventi che altrimenti ci sembrano inspiegabili, o miracolosi. Il cristianesimo di allora appartiene a un ciclo diverso, riguarda popolazioni diverse, ha un significato diverso dal nostro cristianesimo, che appartiene

a un altro ciclo e riguarda altre popolazioni, su altri territori. La continuità attraverso venti secoli appare inspiegabile; ma non c’è continuità, e quindi non c'è da spiegare

nessun miracolo. Ogni civiltà è autonoma e autosufficiente; la trasmissione di segni e simboli dall'una all'altra, quando avviene, è un evento esteriore. In Oriente, le origini del cristianesimo si collocano in periodo alessandrino. Alessandro era partito col suo eser-

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cito dalla Macedonia, trecento anni prima, aveva attraver-

sato l’Ellesponto, aveva conquistato e unificato quello che oggi chiamiamo il Medio Oriente: tutto questo avviene fra il 334 e il 323 avanti Cristo. Grazie a lui si diffuse la civiltà greca, in un regime che potremmo definire di tipo coloniale, con una classe dominante che aveva fatto propri gli usi e costumi importati dalla Grecia. Nel passato, gli studi sulla civiltà ellenistica erano suddivisi secondo le specializzazioni; oggi si tende ad avere una visione d'insieme,

ed emerge un quadro appassionante, anche perché quella società era, per molti aspetti, simile alla nostra. Fra una società scettica, edonistica, amante della bella

vita, senza più sogni di gloria; i giorni gloriosi si erano spenti con Alessandro. Adesso era venuto il tempo degli stoici e il giardino di Epicuro. Si praticavano sport nel gymnasium, e gli atleti erano nudi, secondo l’uso dei greci. Si amavano le feste: secondo una testimonianza del tempo, «si tengono feste a volontà, e il vino allieta la vita, e il denaro risolve ogni cosa». La cultura era erudita piuttosto che creativa. Si diffondevano strani culti, e si teneva in

gran conto l'astrologia, che confinava con i riti religiosi. Purtroppo, l’esistenza era turbata dalle guerre fra gli Stati che si erano formati dopo la morte di Alessandro; in tutti i tempi, gli uomini sanno come rovinarsi la vita. Dopo trecento anni di regime greco erano comparsi i romani; Silla era venuto a combattere Mitridate (nell’85

a.C.), e l'interesse di Roma per l'Oriente era cresciuto col tempo. È proprio vero che Giulio Cesare pensò di trasferire la capitale in Oriente? Erano quelli gli ultimi giorni della repubblica, stava per aprirsi l’èra imperiale, e ormai, abbandonato l'attaccamento alla propria terra, per uomini sradicati e cosmopoliti, una metropoli valeva l’altra, Roma valeva Alessandria o Antiochia. La contrapposizione fra Oriente e Occidente diventò drammatica con Ottaviano a Roma e con Antonio, affiancato da Cleopatra dopo il ripudio della sorella di Ottaviano, ad Alessandria. Che

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Il tramonto della nostra civiltà

cosa spostava il centro di gravità verso.l’Est? Che cosa attirava i romani verso i territori orientali? Vi erano segni di declino in Italia, e nei territori intorno al Mediterraneo occidentale; la popolazione si diradava, il commercio era meno intenso. Cresceva invece la vitalità in Oriente. Si era innestato un processo che avrebbe provocato più tardi il trasferimento della capitale a Bisanzio. Forse già Antonio si accingeva a farlo, precorrendo i tempi; e non si può attribuire ogni sua decisione, ogni sua

propensione all’avvenenza di Cleopatra. C'erano ragioni più valide per preferire l'Oriente. Le sorti si decisero alla battaglia di Azio, trent'anni prima di Cristo: Antonio contro Ottaviano. Che cosa sarebbe accaduto se avesse vinto Antonio? Chi sa quanti turisti, ora, passano ogni estate davanti al promontorio di Azio, a sud di Corfù e a poca distanza da Leucade, senza ricono-

scere il luogo in cui si decisero le sorti di una civiltà. È stato detto che la vittoria di Ottaviano ebbe lo stesso effetto che avrebbe avuto la vittoria degli arabi contro Carlo Martello a Poitiers. A Poitiers, una civiltà matura, quella ara-

ba, affrontava una civiltà nascente, quella gotica. Se avessero vinto, se fossero dilagati nell'Europa, gli arabi avrebbero costruito sul Reno, dicono gli storici, città simi-

li a Granada e a Cordova, e la civiltà gotica, che allora stava per sbocciare, sarebbe stata falsata nelle sue forme da

quella presenza estranea. Allo stesso modo, secondo chi traccia questo parallelo,

la vittoria all’Oriente in Oriente l'appunto,

di Roma (con Ottaviano) ad Azio impose una presenza estranea, condizionando ciò che stava per accadere: la fioritura incipiente, per di una nuova civiltà.

Gli ebrei vivevano allora in Palestina, nella Giudea.

Non appartenevano alle classi dominanti. Solo i più ambiziosi fra di loro cercavano di somigliare ai greci, come si usava in tutto il Medio Oriente, perché i greci erano i vincitori, avevano il potere e portavano la civiltà. Si racconta di un Giuseppe, figlio di Tobia, che era diventato banchie-

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re, e aveva agenzie, come diremmo noi, nelle città più im-

portanti, anche ad Alessandria: lo si è definito «il primo banchiere ebreo della storia». Gerusalemme era diventata anch'essa una città popolosa e godereccia. Si adottavano usi e costumi importati dalla Grecia, anche gli sport a corpo nudo, e si dice che gli ebrei che volevano farsi passare per greci, tanto li ammiravano, avevano qualche difficoltà per via della circoncisione. Ma gli ellenofili (come gli anglofili fra gli indiani ai tempi dell'impero inglese) erano una minoranza. Gesù era un uomo semplice, viveva fra gente semplice, e gli importava poco dei greci. Si sentiva anche lontano nello spirito dagli splendori di Gerusalemme, dal lusso della città. Ma quale tensione doveva vibrare nell'animo degli ebrei, se veramente stava per risvegliarsi, come era accaduto fra i greci di Micene tanto tempo prima, come sarebbe accaduto fra i franchi e i goti tanto tempo dopo, una nuova civiltà. Certamente nasceva una nuova religione; e perfino le stelle partecipavano all’attesa.

I credenti non hanno bisogno di spiegare a sé o agli altri perché proprio in quel momento, a partire da quello che sarebbe poi stato l’anno Zero, non prima.e non dopo, Dio decise di mandare il figlio in terra, e nacque la nuova religione. Agli occhi dello storico, il fenomeno esige tuttavia spiegazioni, e le spiegazioni si trovano facilmente nelle circostanze che accompagnano la nascita e la vita di Gesù. La comunità ebraica di cui egli faceva parte era ben distinta, già lo abbiamo detto, dalla società ellenistica che la circondava; una società che viveva lo splendido decli-

no della civiltà greca, progredita e decadente, lussuosa, edonistica. C'era invece, fra quella gente semplice, tensione e fermento, il fermento dell'attesa. Tutti si attendevano che

succedesse qualche cosa. Le sacre scritture lo avevano preannunciato; i predicatori, come Giovanni il Precursore,

lo ripetevano; la gente lo credeva. Era quello uno dei mo-

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Il tramonto della nostra civiltà

menti storici in cui tutti si attendono che succeda qualche cosa, e alla fine è inevitabile che qualche cosa succeda. Gli uomini che governavano la regione (i romani, ormai, in-

vece dei greci), i mercanti, i proprietari che appartenevano alla classe dominante, assistevano con fastidio alle irre-

quietudini che percorrevano i villaggi, senza capirne il significato. Gesù diventò il fulcro di quei misteriosi fermenti. Quando cominciò a predicare, all’età di trent'anni, nessu-

no sapeva chi fosse: era un uomo come tanti altri. La pre-

dicazione durò soltanto tre anni; poi venne il sacrificio. Come mai la sua vicenda, in apparenza circoscritta a qualche villaggio, acquistò nel giro di pochi anni tanta importanza? Come mai la sua predicazione, così breve, fondò

una religione che si diffuse non solo in Palestina, ma in Italia e nei territori dell'impero? Ancora una volta, il credente risponde con calma serenità che così volle l’Onnipotente che sta nei cieli. Lo storico indica invece, per spiegare la diffusione del cristianesimo oltre i confini in cui nacque, due grandi personaggi: Marco e Paolo. A Marco si deve il Vangelo che meglio enuncia i princìpi della predicazione cristiana. A Paolo la sua diffusione. Il merito storico di Paolo è di avere diffuso il cristianesimo frai gentili, cioè al di fuori della comunità in cui nacque. È probabile che la società romana, essendo ormai concluso il suo ciclo ed esaurita la sua capacità creativa, fosse

pronta ad accogliere riti e fedi provenienti dall'Oriente, estranei alla sua natura e alla sua tradizione. Ma il cristianesimo, se è valida la nostra chiave di interpretazione, ri-

mane l’espressione culturale di una civiltà diversa da quella greco-romana. I suoi princìpi fondamentali, il peccato originale, l'incarnazione del figlio di Dio, la redenzione, ri-

mangono estranei a Roma; ispireranno invece un ciclo millenario che proprio allora sta per aprirsi, quello della civiltà magica o siriaca, secondo la definizione che si sceglie. È, lo abbiamo già detto, una grande civiltà: nel corso di un millennio darà vita a una grande architettura, a una

L'enigma di Cristo

Si

grande letteratura, a studi filosofici, matematici, scientifici; e anche a grandi commerci, a sconfinata ricchezza. Il Medio Oriente è il suo cuore; Bisanzio, per un periodo di

tempo, è la sua città più importante. Ma anche Maometto e la potenza araba ne fanno parte. Maometto si riallaccia alla tradizione giudaico-cristiana: nel segno dell'Islam la civiltà di cui parliamo, la civiltà «magica», si diffonde attraverso il Mediterraneo, conquista l'Africa del Nord, la

Spagna, la Sicilia. Se avesse sconfitto Carlo Martello a Poitiers, sarebbe sconfinata in Francia, in Germania. La sua capacità creativa è enorme; Granada, Cordova, Palermo

sono le sue città più floride e più colte; e in Italia e in Occidente Aristotele, dimenticato per alcuni secoli, è riscoper-

to in lingua araba. Se accettiamo questa interpretazione della storia, il mondo arabo dei nostri giorni appare in una luce diversa; e finalmente è possibile capirlo. Il periodo creativo della civiltà araba si è definitivamente esaurito in secoli ormai lontani. A partire da un certo periodo, un migliaio di anni addietro, la civiltà «magica» (o «araba» che dir si voglia) è morta: è un albero secco. Rimangono le strutture; rimane l'Islam, ormai ossificato, pietrificato, incapace di evolvere

dal suo interno, incapace di cambiare per sua forza spontanea, perché è inaridito. Dall’Oriente arrivano altri popoli, i mongoli, i turchi; accedono al mondo islamico; gli

danno una straordinaria potenza militare, che raggiunge il culmine (nel Cinquecento) con Solimano il Magnifico; ma neanche allora l'Islam torna a essere culturalmente vitale e creativo. Questo spiega oggi l'immobilità culturale dell'Islam, non solo per quanto riguarda i sacri testi, la cui intoccabilità ha altre spiegazioni (sono la parola di Dio; Dio non può contraddirsi), ma nelle forme di vita e nelle regole sociali. Una civiltà estinta è immobile; le forme che essa ha prodotto sono immutabili, come è immutabile tutto ciò che è pri-

vo di vita. Se tutto questo è vero, ne consegue che i paesi musulmani non sono oggi dotati di capacità espansiva. So-

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Il tramonto della nostra civiltà

no invece in grado di esercitare resistenza contro la penetrazione di una civiltà diversa, cioè la nostra. Non sono ca-

paci di promuovere progresso sotto il loro segno, perché l'Islam è pietrificato; ma respingono il progresso quale è avvenuto sotto altro segno, cioè sotto il nostro. Ed è proprio la loro immobilità culturale, immobilità di morte, a rendere tetragona e irriducibile la resistenza. E il nostro cristianesimo? Anche la civiltà occidentale, la nostra, è cristiana. Ha

ereditato l'insegnamento cristiano; riconosce in Gesù il figlio di Dio; crede nella resurrezione; accetta la Bibbia e i Vangeli, il Vecchio e il Nuovo Testamento. Ma se l’impo-

stazione fin qui esposta è vera, dobbiamo assuefarci all'idea che il nostro cristianesimo è nell’essenza una religione diversa da quella che fiorì nel primo millennio, e che appartiene a un’altra civiltà. La storia del cristianesimo deve essere divisa pertanto in due parti, in due segmenti: quello orientale e quello occidentale. E la distinzione fra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa acquista un nuovo significato. Questa affermazione non è assurda, anche se coloro che

ne vengono a conoscenza per la prima volta possono meravigliarsene. Abbiamo detto all’inizio di questo capitolo che la religione può essere intesa come una Rivelazione della divinità, e in questo caso non vi è dubbio che abbia una sua

esistenza autonoma, indipendente dagli uomini. Ma sappiamo che nessuna religione, quindi neanche la nostra, è mai indipendente dagli uomini, perché l’interpretazione dei sacri testi cambia attraverso il tempo, e cambia appunto a opera degli uomini; sappiamo che nei diversi periodi storici alcuni princìpi perdono importanza e sono in pratica dimenticati, altri se ne stabiliscono.

Se si vede dunque nella religione, non la Rivelazione della parola di Dio, ma l’espressione di una civiltà (diciamo pure: un'invenzione umana), allora è inevitabile credere che ogni civiltà produca la sua. Così è stato degli in-

L'enigma di Cristo

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diani e degli aztechi, degli egiziani e dei cinesi; così è stato degli ebrei e di quelle popolazioni che, a partire dai secoli in cui tramonta la civiltà greco-romana, danno vita a una civiltà nuova, e hanno sviluppato e abbracciato un loro cristianesimo, nelle numerose ramificazioni di quei primi secoli, con gli gnostici, i manichei, i neo-platonici. E così è stato della civiltà occidentale, la quale, adottando insegnamenti e dottrine già esistenti, li ha elaborati e ricreati a sua immagine e somiglianza, secondo le sue esigenze interiori, allo stesso modo in cui, secondo quelle sue esigenze, ha costruito case e città, dipinto quadri e composto musica, fatto politica e praticato commerci. Gli storici delle religioni conoscono bene le differenze fra i cristiani del Terzo secolo e quelli del Tredicesimo, fra Agostino e Tommaso d'Aquino. Non proveremo a parlarne noi stessi, perché ne saremmo del tutto incapaci, e commetteremmo, nel tentativo di riassumere, chi sa quan-

ti errori. Ci basti riflettere che le differenze esistono. È possibile attribuirle, naturalmente, al semplice fatto che la

storia evolve per tutti, anche per chi è religioso. Nessuno vorrà credere che la fede di un cristiano ai tempi di Nerone sia identica a quella di un cristiano ai tempi di Carlo V o della regina Vittoria. L'evoluzione c’è. Qui si afferma tuttavia qualche cosa di più: si divide l'evoluzione, per così dire, in due diversi periodi, come se si trattasse di religioni diverse nella sostanza, anche se simili nella forma, All'origine di questa affermazione è la convinzione che ci troviamo di fronte a due civiltà diverse, quella magica o siriaca e quella occidentale. Se si accetta la premessa, tutto il resto è logico e persuasivo. E si conclude allora che non è stata la religione cristiana la scintilla che ha dato origine alla civiltà occidentale; ma che la civiltà occidentale si è impossessata della religione cristiana per rielaborarla e per trasformarla a modo suo.

Abbiamo già detto che il percorso della civiltà magica o siriaca è di tutti il più tortuoso, tanto che si è fatto ricorso

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Il tramonto della nostra civiltà

alla figura della pseudomorfosi per tentare di spiegarlo. Essa include eventi e dottrine in apparenza eterogenee: l'insegnamento di Cristo, le credenze religiose dei primi secoli dell’èra cristiana, l'impero bizantino, il cristianesimo d’Oriente, l'Islam. Possiamo credere davvero che la

Chiesa cristiana ortodossa sia più vicina all'Islam che non alla Chiesa d'Occidente? E che cosa intendiamo dire col termine «più vicina»? In che senso vanno interpretate queste affermazioni? E probabile che sembrino strane al profano (e al profano credente in modo particolare) piuttosto che allo studioso; ma anche lo studioso ha certo da

sollevare molte obiezioni. Eppure non mancano gli indizi favorevoli. Imusulmani non hanno mai dubitato di essere i continuatori della fede ebraica e di quella cristiana: si direbbe pertanto che a loro giudizio la visione unitaria di una civiltà magica (la loro) è perfettamente accettabile. Nel 1068 uno studioso di Toledo, Sahid ibn Ahmad, tentando forse di scrivere un libro

simile a questo, di tracciare cioè divisioni fra popoli civili e popoli incivili, per dare un senso agli eventi della storia, classificò otto popoli come portatori di progresso, gli indiani, i persiani, i caldei, i greci, i «romani» (cioè i bizanti-

ni e i cristiani d'Oriente), gli egiziani, gli arabi. Dei popoli esclusi, lodò solo i cinesi e i turchi; considerò gli altri barbari e selvaggi. Per Sahid, la sede della civiltà era nei territori fra la Spagna, il Nordafrica e il Medio Oriente; l'impero di Bisanzio, con la sua religione cristiana, era soltanto uno stadio prece-

dente di quella civiltà che trovò il completamento nell'Islam. Ed era profonda fra gli arabi, anche nei periodi più vicini a noi, la conoscenza storica dei primordi della dottrina cristiana: nel 1655 un altro studioso, Katib Celebi,

mise in rilievo i princìpi del cristianesimo che più lo rendevano simile all'Islam, illustrò le dispute ideologiche sulla

Trinità fra i primi cristiani, riferì il testo del Credo di Nicea in versione araba, spiegò che i seguaci di Cristo si dividevano in tre scuole o sette, iacobiti, melchiti e nestoriani,

L'enigma di Cristo

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usando per «setta», in segno di rispetto e di fratellanza, lo stesso termine che si usa per le quattro scuole di giurisprudenza sunnita, cioè musulmana. Ma sulle vicende successive del cristianesimo non aveva niente da dire, ed era na-

turale che non lo interessassero: le controversie fra cattolici e protestanti, sebbene tanto più attuali per lui, appartengono culturalmente a un'altra civiltà, mentre quelle protocristiane appartenevano alla sua.

È vero che i musulmani considerarono «infedeli» tutti i cristiani, d'Oriente e d'Occidente; ma questo non esclude che quelli d'Oriente fossero ben più vicini a loro, e appartenessero alla loro stessa civiltà. Anche protestanti e cattolici si condannavano reciprocamente, pure essendo tutti cristiani; e sappiamo anche che si combattevano con le armi in pugno. E non furono i cristiani d'Occidente a conquistare e a devastare la cristiana Bisanzio, il 13 aprile 1204? Cristiani contro cristiani, dunque? È anche sicuro

che i crociati sapevano, intorno alle dottrine e ai riti dei loro presunti fratelli d'Oriente, assai meno degli studiosi musuimani, assai meno di Katib Celebi.

Vorrei aggiungere un'esperienza personale. Un giorno assistetti, in un'isola greca non lontana dalla costa turca, a

una cerimonia religiosa. Ascoltavo il canto salmodiante; guardavo i fedeli prostrati davanti alle icone; e sebbene sull'altare vi fosse la croce, mi sembrava di essere in una moschea, e sentivo l'Islam molto vicino. Ma queste altro

non vogliono essere che superficiali considerazioni a favore di una tesi, o per meglio dire di una certa interpreta-

zione della storia; e si presentano qui come incoraggiamento affinché gli studiosi e gli esperti esplorino a fondo la sua credibilità prima di escluderla.

VI Il momento più bello

L'arte, la politica, l'umana convivenza raggiungono nella civiltà occidentale il culmine intorno al Cinquecento e al Seicento È istintivo riprodurre ciò che si vede, disegnare uomini e cose. I primitivi adornano le loro caverne coi graffiti, che possono avere significato simbolico, ma servono comunque a soddisfare quel bisogno elementare, presente in ogni essere umano, di riprodurre la realtà attraverso figure. Anche il bambino scarabocchia e disegna: basta dargli un pennarello e un foglio di carta, e l'artista che è in lui (l'artista che è in ognuno di noi) comincia a operare. Il bambino compie un'operazione inutile, ma bella, per il semplice gusto di compierla. Disegno e pitture esistono da tutti i tempi. Le grandi civiltà danno vita a una grande pittura e ogni civiltà ha il suo stile pittorico. L'Italia, nel periodo che corre fra il tramonto dell'impero romano e l'alba della civiltà occidentale, entra nella sfera della civiltà bizantina, e lo stile della

sua pittura è bizantino: figure ieratiche prive di prospettiva, colori vivaci su sfondo oro. Poi, intorno al Tredicesimo

secolo, i pittori si accingono a dipingere in modo diverso. La scuola bizantina è lenta a morire: ma ecco che le figure cominciano a muoversi, e acquistano una nuova dimensione, una terza dimensione, che dà loro una diversa con-

sistenza. È quella che Bernard Berenson, parlando di Giotto, chiama «tattilità», perché le figure diventano ai nostri occhi più vere, come se potessimo toccarle.

Il momento più bello

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Ora può succedere che Cristo posi il braccio sulla spalla della Madonna: «Un'idea» scrive Jacob Burckhardt «poco bizantina». Il mondo pittorico si popola di angeli, di madonne, di fraticelli teneri e gentili, commoventi nella loro

semplicità, e il Burckhardt, per descrivere quest'arte, usa termini come «grazia, naturalezza, vitalità, giovanilità». Ma non occorre essere critici d’arte, non occorre grande

familiarità con l’arte pittorica per commuoversi, quando si entra nelle sale di una galleria o nelle navate di una chiesa, e ci si trova davanti a queste figure lievi, delicate, eteree, tremanti di fede, animate da una religiosità ancora primitiva ed elementare, da adolescenti.

Si dipinge molto, con entusiasmo e con devozione. Le scuole pittoriche si moltiplicano, e ogni artista si adegua all'insegnamento e all'esempio, soprattutto all'esempio del maestro. Ma non si fa teoria. Questi sublimi pittori sono artisti senza sapere che cosa sia l’arte, e senza chiederselo. Dipingono per abbellire le pareti di una chiesa, di una cappella isolata fra i campi; tutt'al più, se si vuol dare un senso più elevato alla loro opera, diciamo che dipingono per cantare col pennello le lodi del Signore, come altri le cantano con le preghiere, con i salmi, con le poesie. I trattati di estetica appartengono ad altri stadi di civiltà, quindi ad altre epoche, del passato o dell'avvenire: l’estetica di Aristotele o la critica del giudizio di Kant. Il Vasari, quando parla dei pittori, racconta la loro vita, non descrive i canoni estetici ai quali, senza saperlo, si ispirano. La descrizione dei canoni estetici sarà il compito di critici futuri, in anni ancora lontani.

I pittori dipingono per cantare le lodi del Signore; ma soprattutto dipingono per esprimere se stessi, per compiere un’opera insieme bella e inutile, inutile perché è fine a sé, come quella del bambino al quale si è dato un pennarello e un foglio di carta. A quale livello, però! Si crea un nuovo stile, grandioso e sublime: quello che Burckhardt, conoscitore per altro ed estimatore di arte italiana come pochi nell'Ottocento, chiama con perentorietà «stile ger-

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Il tramonto della nostra civiltà DS

manico». Siamo, dopo gli anni del romanico, nell’èra dello

stile gotico. Come non sentire che questo stile indica la nascita di una nuova civiltà, di una civiltà distinta da quelle che l'hanno

preceduta, e che ha sciolto i legami col passato? Ancora una volta: non occorre essere critici eruditi per avere la sensazione, nelle sale di una galleria dedicate al Duecento, al Trecento e al Quattrocento, che ci si trova di fronte a una

nuova avventura dello spirito; di fronte a creazioni nelle quali una

civiltà nuova,

giovane, semplice, trepidante,

esprime in quadri estatici e commoventi la sua visione del mondo, la sua concezione dell’umana esistenza. Grazia,

naturalezza, semplicità pervadono questi dipinti; ma anche lo stupore, la curiosità, la fragilità dell’adolescente.

Non c'è dubbio che lo stile gotico offre una chiave per capire quale sia la visione del mondo di questa nuova civiltà; per capire le sue aspirazioni, i suoi sogni; così come le figure ieratiche dell’arte bizantina esprimevano la visione del mondo della civiltà bizantina. È possibile decifrare l'una e l’altra visione? Ognuno può dare un’interpretazione diversa; ma gli stili non nascono a caso, e quelle figure immobili, prive di prospettiva, adagiate sul fondo dorato (quali si vedono nei mosaici di Ravenna o nelle icone di Kiev) presupponevano un modo di vivere assai lontano da quello che creò le figure di Fra Angelico e di Giotto. La visione del mondo è coerente, nell’ambito di ogni singola civiltà, quali che siano le sue forme di espressione: pittura, scultura, architettura, musica. Non solo: ognuna

di queste forme d’arte evolve col tempo, e l'evoluzione è sincrona in tutte, perché risalgono tutte a una matrice comune, quella determinata dallo spirito della civiltà cui esse appartengono. Infatti: Burckhardt annota diligente le manifestazioni dello «stile germanico» nelle statue e nei gruppi scultorei così come nei palazzi e nelle chiese, osservandone la graduale maturazione nelle singole opere;

Il momento più bello

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e trova più gotico, o di un gotico meglio riuscito, un palazzo di Napoli che il Duomo di Milano, a dimostrare che la civiltà di cui si parla, la civiltà occidentale, non è questione di latitudine: non è prerogativa della Germania, anche se si chiama germanico il suo stile, bensì coinvolge ormai tutta intera la penisola italiana. Ogni civiltà ha la sua fisionomia: ce lo siamo già detti in un capitolo precedente. Abbiamo anche osservato che sono evidenti le differenze fra il Partenone e la cattedrale di Reims; basta uno sguardo per capire, senza lunghe dissertazioni, che siamo di fronte a due differenti visioni del

mondo. Ci siamo chiesti che significato si possa attribuire a queste differenze. Quale spirito rappresentano opere d’arte così diverse l’una dall'altra? Quale filosofia di vita?

Quali aspirazioni? Vediamo ora di approfondire il tema. Spengler afferma che la civiltà occidentale è dinamica, quella greco-romana è statica; e fra i tanti esempi ai quali ricorre per suffragare questa affermazione, è suggestivo il paragone che egli traccia fra la tragedia occidentale e quella greca, fra Shakespeare ed Eschilo. Il personaggio di Shakespeare, dice Spengler, è vittima delle sue azioni, del suo carattere;

vittima di un destino che egli stesso ha creato. Soffre perché agisce. Il personaggio di Eschilo subisce la volontà del fato; la sua tragedia è di trovarsi in una situazione che non dipende da lui. Soffre perché subisce. I paragoni di questo genere, per quanto suggestivi, possono lasciare scettici. Ma non è forse vero che una caratteristica dell’uomo occidentale è la drammaticità? Jacob

Burckhardt, quando parla dell’architettura gotica, afferma che è contraddistinta da un giuoco di forze contrastanti (aufdringende Kriifte, così le chiama: cioè forze che incalzano). Le facciate alte e strette; i campanili snelli, svettanti verso il cielo; le guglie sottili: tutto predispone all’emozione, al tuffo al cuore che si prova quando si varca il solenne portale, si avanza nella fioca penombra, e si alza lo sguardo impaurito verso le volte altissime, che sembrano per-

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Il tramonto della nostra civiltà

dersi nell’immensità di spazi irraggiungibili; e ti fanno sentire così piccolo. Ma c'è un giuoco di forze anche nelle figure scolpite da Michelangelo. Sono anch'esse un simbolo dell’uomo occidentale? Certamente sì: sono il simbolo di uno stato d’animo che ritroviamo in mille altre espressioni. Abbiamo già detto che la spinta verso l'infinito ha ispirato le scoperte marittime nel Quattrocento, o le esplorazioni spaziali del nostro secolo. Ma non si ritrova lo stesso spirito, la stessa

ricerca dell'infinito, nelle visioni religiose, nel concetto di Dio, nella visione del paradiso e dell'inferno? E nella

scienza, nella fisica, nella tecnologia? Solo un'irrequietudine angosciosa, provocata da grandi lotte interiori, può spingere alle folli conquiste, nel continuo tentativo di superare se stessi. Tutto si distende invece nella civiltà greco-romana; tutto si rasserena: è quella distensione beata che l'uomo del Nord prova quando scende sulle rive del Mediterraneo, nelle terre dove fioriscono i limoni, per lenire i suoi affanni. Gli uomini della civiltà mediterranea si accontentarono di vivere in zone ben circoscritte, senza la curiosità di scoprire quel che c’era dall'altra parte. La loro arte, e non solo l’architettura, ma la scultura, la pittura, probabilmente la mu-

sica, esprime sublime equilibrio, e può essere stata creata soltanto da uomini il cui ideale di vita fu la serenità, l’ar-

monia, l'accordo totale con un paesaggio pieno di sole, vero e concreto, da toccare con mano, da godere coi sensi, tan-

to diverso dalle nebbie cupe e impalpabili del Nord. Così si spiega anche la semplicità, a volte penso addirittura la banalità che sembra di scoprire negli scritti e nei ragionamenti dei pensatori e dei poeti dell'antichità: sempre giudiziosi, e dotati di un senso costante del reale, anche quando descrivono i loro dèi, quando immaginano il loro aldilà, quando fantasticano sui loro viaggi nell’Ade. Così si spiega il senso delle proporzioni, il contatto con la natura, il divino equilibrio, l'immunità dalle terribili an-

gosce moderne. Non dipende da questa immunità la fre-

Il momento più bello

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quenza, direi la naturalezza con cui gli antichi, quando erano in difficoltà, si toglievano la vita? Nel nostro mondo il suicidio è un momento di follia; è un eroismo. Nell’antichità è un intermezzo, e sembra piuttosto, vorrei dire, un

altro modo di vita. Fantasie? Interpretazioni arbitrarie? Può darsi: e ognuno può fantasticare come vuole. Forse lo stile gotico ha significati diversi da quelli qui accennati; e forse ha significati diversi l’orizzontalità armoniosa nell’architettura dei greci. Ma non c'è dubbio che la serenità del Partenone si ritrova nelle statue antiche, sia che rappresentino Giove e Apollo o Giulio Cesare e Cicerone; così come la drammaticità delle

cattedrali si ritrova nei volti e nelle figure scolpite da Michelangelo o dal Bernini. Possiamo leggere lo spirito di queste opere come vogliamo; ma non possiamo negare una corrispondenza fra le varie opere, pittoriche, scultoree o architettoniche, nell’ambito di ogni singola civiltà. Così si risolve anche il grande enigma del Rinascimento, quando sembra che la nostra civiltà, occidentale, nordica

di origine, germanica come si è detto, sia affascinata e plagiata da quella, ormai estinta, dell'antichità greco-romana.

E vero l'entusiasmo per l’arte antica, e il desiderio di imitazione; e non è la prima volta, già lo si è visto, che una civiltà adotta forme e simboli dall'esterno. Ma lo spirito dell’arte rinascimentale, anche quando si ispira all’antichità, è nuovo e diverso; e mantiene le caratteristiche, i simboli, le in-

quietudini, la drammaticità che si era colta nel periodo gotico, e che continuerà a manifestarsi nel barocco.

Certo, la nordicità è temperata nel periodo rinascimentale, è modificata: segno che l’Italia, e cioè Venezia, Firen-

ze, Roma, Milano, pur facendo parte a pieno diritto della civiltà moderna che proviene dal Nord, la vivono, quando la vivono, a modo loro.

Il governo degli uomini è compito della nobiltà, cioè di quella classe di proprietari terrieri e di guerrieri che si ritrova in tutte le civiltà; e anch'essa si trasforma e si affina col passare del tempo, sviluppando un suo stile di vita.

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Il tramonto della nostra civiltà

All'origine, le leggende, le poesie, i racconti (l’Iliade, il Ci-

clo di re Artù) illustrano le sue gesta, con ingenue storie di eroismo. Poi, i castelli diventano palazzi, le abitudini di

vita si ingentiliscono: i nobili delle Crociate sono certamente diversi dagli aristocratici del siglo de oro dell'età barocca, dai cortigiani di Filippo II o di Luigi XIV. Ma il compito di governo degli uomini rimane costante. Ministri, ambasciatori, generali, ammiragli sono usciti fin

quasi ai nostri giorni dai ranghi dell’aristocrazia. Bismarck, Salisbury, Churchill erano aristocratici; l’Inghilterra ha avuto ancora quale Primo ministro, nella seconda

metà del nostro secolo, un personaggio di nobiltà antica, il quattordicesimo conte di Home. E questo indica che c'è molto di vero nella tesi secondo la quale l'aristocrazia ha continuato a governare l'Europa, in maniera più o meno palese, anche dopo la Rivoluzione francese, perfino in paesi apparentemente molto borghesi, quale appunto la Francia. L'unico mestiere che si addice ai nobili è quello di governare, sebbene molti di loro (soprattutto in Inghilterra) si siano cimentati nell'arte della finanza. Ma da un certo periodo in poi governano per delega di un’altra classe, quella borghese, che pur diventando la classe dominante, non fornisce in presa diretta gli individui che governano. Infine, quando crolla anche questo sistema, si passa agli avventurieri populisti. La nobiltà si fonda sulla proprietà della terra (che sarà, come spiega Werner Sombart, l'origine del capitale, anche se l’uso del capitale competerà a persone diverse). Fino a ieri, i proprietari terrieri di Prussia erano l’anima dell’esercito tedesco, che a sua volta era uno dei pilastri dello Stato tedesco. In Inghilterra, le grandi famiglie, i Cecil, iMarlbo-

rough, i Devonshire, sono ancor oggi proprietarie di vaste estensioni di terra. I nomi dei quartieri e delle piazze di Londra portano la testimonianza degli antichi proprietari. E oggidì diciamo che il suolo pubblico è dello Stato, del demanio; ma originariamente è del re, cioè del primo dei no-

bili, di quel nobile che ha stabilito il primato su tutti gli al-

Il momento più bello

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tri, magari mediante congiure e assassinii, come si legge nelle tragedie di Shakespeare. La nobiltà, con la dinastia monarchica al vertice, forma

l'ossatura degli Stati che emergono dalle strutture feudali; Stati più o meno grandi, più o meno unitari. Certamente sono diversi nell’Occidente da quelli che nascono in altre civiltà, come sono diverse le pitture, diversi i templi. I limiti assai angusti della mia cultura mi impediscono di approfondire il tema e di tentare raffronti con civiltà lontane da noi; e ho già detto, a mia parziale consolazione, che chi

si avventura su questo terreno rischia di commettere errori madornali. Ma se la politica è a sua volta, come l’arte, creazione

dell’uomo, e lo dimostra il fatto che sono possibili tanti modi diversi di concepire gli Stati, e cioè il loro governo, la loro natura, la loro costituzione, se questo è vero, gli uo-

mini che costruiscono i templi gotici, e che vanno a pregare in essi quel loro Dio, fra quelle musiche e quei salmi, non possono poi, quando tornano a corte, fare politica allo stesso modo degli uomini che vanno in templi tanto diversi ad Atene, e pregano dèi tanto diversi. Gli uni creano infatti i grandi Stati unitari, ciascuno dei quali aspira alla conquista del mondo; gli altri creano la polis, circoscritta,

palpabile, entità fisica, percepibile tutta intera, si può quasi dire, da un singolo individuo che la vede distendersi sotto i suoi occhi dopo essere salito su un'altura.

Con la nobiltà, cui compete il governo degli uomini, si forma ed evolve il clero, che governa le anime. I sacerdoti

delle origini di una civiltà sono i precursori dei filosofi nell'età matura? Certamente la contrapposizione fra nobiltà e clero si riconduce alla distinzione fra gli uomini d'azione e gli uomini di pensiero, quindi fra gli uomini della politica e quelli della moralità: un dualismo che si ripete costante, in episodi sempre diversi, quando il Papa incontra l’imperatore e lo incorona fra i canti e i fumi d’incenso di una cattedrale, o quando il Papa fugge davanti agli eser-

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Il tramonto della nostra civiltà

citi dell’imperatore, o quando il conte zio nei Promessi Sposi ha il memorabile colloquio col Padre provinciale; e anche, per fare un salto in altra epoca, fra altri uomini, in altre circostanze, quando Alessandro si trova davanti a Diogene. L'uomo di azione e l’uomo di pensiero sono due specie umane totalmente diverse l’una dall'altra. La religione, già lo abbiamo detto parlando del cristianesimo, è prodotta da ogni singola civiltà, e ogni civiltà ha una religione diversa, quella che le si addice. La nostra concezione della divinità non è paragonabile a quella dei greci e degli egizi, degli indiani e dei cinesi, anche se vi sono in tutte le religioni tratti comuni. Quale abisso fra il nostro Dio, puro spirito onnipresente e onnipotente, impalpabile e incorporeo, ideale supremo degli uomini che aspirano alla conquista di spazi infiniti e si avventurano fra le stelle dell'Universo, e vorrebbero somigliare a lui, e gli dèi dell'antichità, così umani, così palpabili, così fisici anch'essi, come la polis su cui vegliavano. A scuola si ride-

va di quegli dèi pasticcioni, e nessuno faceva il minimo sforzo per farci capire che essi non erano la creazione di un'umanità arretrata e primitiva, bensì erano dèi altrettanto rispettabili quanto tutti gli altri, purché rapportati alla loro rispettiva civiltà. Conviene ricordare piuttosto che il cristianesimo, specie nelle religioni meridionali

d'Europa, oltre al Dio impalpabile e infinito ha i suoi santi estrosi e variegati, non dissimili dagli dèi antichi; e possiamo chiederci se anche questo non sia un segno che l’Italia vive la civiltà proveniente dal Nord, come già si di-

ceva a proposito del Rinascimento, a modo suo. Nobili e sacerdoti governano gli Stati, ora in pieno accordo fra di loro, ora in conflitto; e la conflittualità fra po-

tere temporale e potere spirituale è assai viva nella nostra storia, perché è alimentata dallo spirito della civiltà; è alimentata cioè da quella aspirazione di dominio assoluto e totale, che si manifesta da una parte e dall'altra. Né i papi né gli imperatori ammettono limiti alla propria potenza, e continuano a combattersi attraverso i secoli, con sorti al-

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terne. Al di sopra dei conflitti ci sono princìpi, regole, procedure accettate da ambo le parti, che determinano i comportamenti rispettivi; è proprio intorno a quelle regole, di cui si pretende il rispetto o si propone la modifica, che si accende la lotta. Tutti quei regolamenti sono la creazione della stessa civiltà; sono le modalità che governano i giuochi di coloro che a diverso titolo le appartengono. Le classi dominanti hanno il senso del dovere, hanno

quel che si dice oggi lo spirito di servizio. Sono consapevoli dei loro compiti e li assolvono. I nobili partono per terre lontane a rappresentare il loro re; conducono spedizioni militari, affrontano rischi e sacrifici. Solo al termine

della loro missione nella storia, quando hanno esaurito la propria funzione, trascurano le incombenze; e quello è l’inizio del declino, la vigilia dell’eclissi. I sacerdoti combattono altre battaglie, perseguono altri obiettivi, con

uguale tenacia. Ma l'esecuzione dei compiti, spesso gravosi e rischiosi, è soltanto una parte dell’esistenza che le classi dominanti conducono: si inserisce in un modo di vita che lascia largo. spazio alle raffinatezze e ai piaceri, ai ricevimenti, ai pranzi, ai concerti, in residenze sempre più eleganti, sempre più lussuose. Come si sono create regole e procedure per affrontare e risolvere il problema dei rapporti fra potere temporale e potere spirituale, e il problema dei rapporti fra Stati (fino alle norme in apparenza più frivole: il numero dei colpi di cannone per salutare un veliero all’ingresso nel porto o al passaggio di uno stretto; il numero di scalini che bisogna scendere per incontrare un ospite), così altre regole si sono adottate per i rapporti privati. Sono nati i galatei, i codici cavallereschi, le grandes manières. Ogni momento della giornata, a corte e fra i nobili, deve

svolgersi in un determinato modo, nel rispetto di convenzioni e usanze. I sovrani, dal momento in cui aprono l’occhio la mattina (e non certo a un'ora qualsiasi, ma quando devono aprirlo), entrano in un complesso cerimoniale che

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Il tramonto della nostra civiltà

non lascia spazio all’improvvisazione. Si sa quanti e quali cortigiani devono assistere alle diverse operazioni dopo il risveglio, al nutrimento, alla vestizione. Al principe che sa-

rebbe diventato Federico II di Prussia era anzi prescritto quante volte fosse autorizzato a rigirarsi nel letto prima di alzarsi: la disciplina cominciava prima ancora dell'istante in cui avrebbe messo il piede per terra. E il problema delle regole di etichetta è sempre presente, ossessivo, alla mente dei cortigiani. Anche in una corte un po’ più facilona di altre, quella di Napoli, quando re Ferdinando andò a cercare impaziente, di primo mattino, un nobiluomo, col quale vo-

leva andare a caccia, e lo trovò assiso sulla chaise percée, che fungeva da gabinetto, si sentì chiedere: «Maestà, non conosco i precedenti: devo alzarmi, o posso rimanere seduto?». I precedenti: ecco il primo pensiero che attraversò la mente del cortigiano. (Per completare l'episodio, riferirò che il re rispose: «State pure seduto, ma fate presto».) Regole, regole, regole: tutto era governato da regole, da convenzioni precise, in guerra e in pace, in chiesa e a corte, a palazzo e in famiglia, fra marito e moglie (e amante), coi figli. Ciò dimostra che una civiltà,

a mano a mano che

cresce e matura, diventa sempre più artificiosa, si allontana sempre più dal modo naturale di vita: la regola è l’antitesi della spontaneità. Una grande civiltà appare in ogni suo aspetto come un cumulo di artifici che arginano la naturalezza e la sopprimono. La civiltà è quindi costruzione: si costruiscono modelli di comportamento che regolano e dominano la convivenza umana in ogni istante. È costrizione? No, non lo è: perché all’interno delle regole il genio può sempre creare opere geniali, e Bach, obbedendo a complicati obblighi che regolavano la composizione musicale, componeva sonate e concerti assai più belli (a mio avviso) di quelli composti oggi da musicisti in condizioni di maggior libertà compositiva. Non è costrizione: ma l’artificiosità dell’esistenza civile è innegabile. Ecco l'essenza di una grande civiltà: è un grande giuoco, perché le regole si creano appunto per giocare. Il biso-

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gno immediato e impellente non lascia spazio per il giuoco, non ammette regole: l’uomo primitivo che si trova di fronte una belva feroce pensa solo a ucciderla, non riflette sul modo in cui la ucciderà. Ma già il cacciatore sportivo, che affronta la belva per giuoco, cerca di farlo secondo qualche regola. E che dire degli eserciti del passato che si affrontano secondo le modalità del galateo guerresco, che

prevede persino quale dei due sparerà per primo? Messieurs les Anglais, tirez les premiers. Le loro pallottole uccidevano davvero; ma ciò nonostante la guerra era vissuta

come un giuoco, sia pure un giuoco mortale. A mano a mano che una grande civiltà cresce, si può

dunque affermare che si allontana dalle forme semplici e primitive dell’esistenza, per creare altre forme, complesse e artificiali, che accentuano il carattere di giuoco della nostra esistenza. La vita di corte, il galateo aristocratico, le danze, i riti, gli incontri diplomatici, fino agli scontri armati e alle guerre, tutto è governato da regole inventate attraverso il tempo, belle perché innaturali, tali da distinguere l’uomo civile da quello primitivo. L'uomo civile giuoca e si diverte giocando, perfino quando fa la guerra e rischia la vita; gli eserciti che stabiliscono chi tirerà per primo imitano le squadre di bambini che giuocano a guardie e ladri, fino a quando la mamma

non li chiama per fa-

re il bagno e andare a letto. Le imitano forse perché vorrebbero tornare a quel periodo felice della vita? Il massimo di giuoco nella civiltà occidentale si ha fra il Cinquecento e il Settecento. Se quanto abbiamo detto finora è accettabile, si può sostenere pertanto che il culmine della civiltà occidentale è raggiunto alla metà del secondo millennio. Chiediamoci innanzi tutto: è giusto parlare del culmine di una civiltà? È accettabile il concetto? Mi sembra di sì. Se infatti riteniamo credibile il concetto secondo cui una civiltà ha un suo decorso, e mi pare innegabile che di ognuna possiamo individuare la nascita, il periodo iniziale, lo sviluppo; se è vero che tutto ciò che evolve, si svi-

luppa e cresce è anche destinato, dopo avere raggiunto il

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Il tramonto della nostra civiltà

culmine, a declinare (altrimenti avremmo lo sviluppo continuo, e nessuna delle civiltà precedenti alla nostra sarebbe decaduta e si sarebbe estinta, mentre sappiamo che

è accaduto il contrario); se tutto questo è vero, è giusto cercare di stabilire quale sia il momento di maggior fulgore, il culmine della nostra civiltà, il momento che ne precede il declino. La risposta al quesito dipende ovviamente dal criterio di giudizio. Se per esempio si accoglie il criterio del progresso scientifico e tecnico, noi siamo al culmine della civiltà occidentale in questo scorcio del Ventesimo secolo, o forse non lo abbiamo ancora raggiunto, perché continueremo a progredire per qualche tempo. Se si accoglie il criterio del socialismo e della democrazia, ancora una volta

il Ventesimo secolo ha buoni titoli per uscire vincitore. Se invece si prende come criterio la raffinatezza, la creazione artistica, l'eleganza dei costumi, la scelta cade in quelli

che potremmo definire gli ultimi secoli aristocratici. Non è allora, infatti, che le arti, la musica, la speculazione filo-

sofica raggiungono le vette più alte? Non è allora che diventa più raffinata la politica? L'obiezione più grave che si può opporre a queste affermazioni è ovvia: come vivevano le masse? Ammettiamo che in quei secoli i vertici della società, ie classi privilegiate, godevano il tipo di esistenza più gradevole, fra i giuochi più fatui e più eleganti, sia che stessero danzando nei saloni dei loro palazzi, sia che partissero per le loro spedi-

zioni e per le loro guerre: ma come se la passava la gente comune? La risposta non è così facile come sembra, perché le condizioni di vita variavano da regione a regione; e non è affatto sicuro che la gente comune stesse sempre male, come si tende a credere oggidì. È però sicuro che le condizioni di vita delle masse nel passato erano infinitamente inferiori a quelle odierne: sicché, se si adotta un altro criterio ancora per giudicare quale sia il momento più alto di una civiltà, e lo si identifica col benessere materiale dei più, il Ventesimo secolo supe-

Il momento più bello

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ra tutti quelli precedenti. Ma attenzione: li supera solo per le masse all’interno della nostra civiltà, e dobbiamo aggiungere che il resto dell'umanità, cioè la grande maggioranza, il Terzo Mondo, se la passa male. Conviene quindi essere prudenti quando, secondo criteri umanitari, ci en-

tusiasmiamo per il tempo presente. Si può comunque osservare che le civiltà non nascono per migliorare le condizioni di vita degli uomini: non sono società di beneficenza. Quando infatti studiamo quelle del passato, soffermiamo l’attenzione sulle creazioni dello spirito, sull'arte, sulla politica, sulle guerre e le conquiste,

piuttosto che sulle condizioni di vita della gente comune. Per sua natura, una civiltà è un fatto di minoranze, non di

massa; di qualità, non di quantità. È per questa ragione che possiamo identificare il culmine della civiltà occidentale in periodi in cui la gente comune viveva meno bene di adesso.

Una considerazione finale, conseguenza di quelle precedenti, è la mancanza di un obiettivo superiore; di una finalità; diciamo pure di un'’utilità. Una grande civiltà è

inutile, perché è fine a se stessa, e non serve a raggiungere un obiettivo a essa esterno. È inutile come è inutile, perché fine a se stesso, qualsia-

si giuoco. Come lo è la creazione artistica. A che cosa serve la Gioconda? Serve a Leonardo, per la gioia di dipingerla; a noi, per la gioia di guardarla: ma la Gioconda non risolve alcun problema sociale, non agevola alcun progresso scientifico, non raggiunge alcun obiettivo umanitario. La grande arte è fine a se stessa: nel nostro tempo, i rappresentanti di regimi a carattere ideologico, fascisti e comunisti, hanno cercato di attribuire all'arte una funzio-

ne sociale, ma i risultati sono stati mediocri. Zhdanov, uno

dei massimi dirigenti dell’Unione Sovietica ai tempi di Stalin, chiedeva a Prokofiev e a Sciostakovic di comporre musica orecchiabile, per il popolo; ma Prokofiev e Scio-

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Il tramonto della nostra civiltà

stakovic componevano buona musica solo quando non davano retta a Zhdanov. Quel che vale per l’arte vale per la civiltà nel suo insieme: diciamo, con un aggettivo apparentemente sacrilego, che la civiltà è inutile solo perché non persegue altro fine che non sia l’espressione (oggi si dice la realizzazione) di chi vi partecipa, ed è destinata, dopo la grande fioritura, a

estinguersi, come la pianta che d'autunno perde le foglie. Affermazione sacrilega? Non c’è altra affermazione possibile se respingiamo il concetto di continuità del progresso nella storia dell'umanità. Raggiunto il culmine, nuove ca-

tegorie sociali si affacciano sulla scena, la borghesia sostituisce la nobiltà come classe dominante, cambiano i criteri

di comportamento; e se è vero che quello che abbiamo indicato era il culmine, tutto ciò che viene dopo può solo essere movimento in discesa, declino, decadenza. Ne parle-

remo nelle pagine che seguono. Ma prima di farlo vorrei richiamare l’attenzione su un argomento che a mio parere mette in rilievo in modo drammatico

e, forse, definitivo quel che intendo dire

quando affermo che una civiltà è inutile. Mi riferisco alle civiltà precolombiane nelle due Americhe.

VII

La catastrofe di una civiltà stroncata

La civiltà precolombiana aveva raggiunto un alto grado di sviluppo: la sua fine violenta dimostra che ogni civiltà è fine a se stessa

Immaginiamo che verso la fine del Quattrocento (attenzione alla data: siamo nell'ultimo decennio del secolo, intorno al 1490) un osservatore, diciamo un astronauta ante

litteram, sia librato nello spazio, in bilico fra gli astri. Il pianeta a lui più vicino è la Terra, una palla mezzo illuminata e mezzo buia, che rotola indifferente nel suo corso

immortale. Il nostro osservatore la guarda, e immaginiamo che sia dotato di quei miracolosi strumenti che consentono di scorgere, anche a grande distanza, ogni minimo particolare. Non gli sfugge nulla. ; Ecco l'Europa, sotto i suoi occhi; ecco l’Italia. Egli distingue nitidamente le città disseminate qua e là, piccoli grumi di case intorno a qualche chiesa, a qualche palazzo. Vede Firenze: la cupola del Brunelleschi fa un bell’effetto anche se è vista dall'alto. In fondo alla penisola c'è Napoli, con un gran formicolìo di esseri umani; pare che abbia

centomila abitanti, contadini e vagabondi continuano ad affluire dalla campagna, regna la confusione. Ed ecco Venezia, là dove termina un lungo braccio di mare, l’Adriatico: palazzi pieni di ricami si specchiano sull'acqua dei canali, gente vestita con eleganza si sposta da una calle all'altra su curiose imbarcazioni che scivolano graziosa-

mente sotto i ponticelli di pietra.

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Il tramonto della nostra civiltà

La civiltà europea sul finire del Quattrocento è in pieno sviluppo. Milano cresce, si espande; divampa un boom edilizio, la città conta quindicimila case. Ludovico il Moro sposa (1490) Beatrice d'Este, una ragazza cresciuta a Napoli, allegra e vivace, amante del divertimento, e si passa da una festa all'altra. Tutte le città pullulano di mercanti e di artigiani; alcuni mercanti di successo diventano banchieri,

in rapporto d'affari con la Spagna, con la Francia, coi Paesi Bassi, e alcuni artigiani di successo creano, quasi senza accorgersene, grandi opere d’arte. A Milano, Leonardo ha di-

pinto la Vergine delle Rocce. A Venezia un ragazzo di nome Tiziano, nella bottega del Giambellino, promette bene. A

Firenze un altro giovane, di nome Michelangelo, ha scolpito un bel gruppo, Ercole e i Centauri, che il Magnifico, ormai vicino alla conclusione di una gloriosa esistenza, ha messo nel suo giardino. C'è anche un tale Niccolò Machiavelli che scrive libri di storia, e un trattato pieno di infallibili consigli per avere successo; consigli che però gli servono a poco quando si cimenta lui stesso nella vita pratica, a riprova del fatto che l’uomo d'azione e l’uomo di pensiero appartengono a categorie diverse. L'uomo d’azione non ha bisogno di leggere libri per sapere, di volta in volta, che cosa gli conviene fare. L'altro, per quanti libri scriva o legga, non lo imparerà mai. L'osservatore in bilico fra gli astri guarda compiaciuto. Lo spettacolo dell'Europa fa bene al cuore. Nelle botteghe si lavora, e i rumori dei martelli, delle pialle, delle seghe si

confondono nell’aria col brusìo delle voci e con le grida dei venditori; di notte si tengono feste e ricevimenti, con

musiche e danze. I mari sono solcati da minuscoli velieri che corrono di qua e di là, nel Tirreno e nell'Adriatico, nell’Egeo fino al Mar Nero, e nei freddi mari del Nord. Lo

spettacolo è rincuorante anche al nord delle Alpi. Si nota tuttavia un certo movimento di soldati a piedi e a cavallo, e presto si vedranno le colonne di Carlo VIII, re di Fran-

cia, dirette verso l’Italia: sarà un brutto momento per gli italiani, che da allora cominceranno a perdere smalto. Ma

La catastrofe di una civiltà stroncata

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tutto questo è di là da venire. Per intanto ci si diverte: chi vuol esser lieto sia, del diman non v'è certezza.

La Terra gira, rivelando all’osservatore sempre nuovi paesi: la Turchia, la Persia, l'India, la Cina, dove abita gente diversa, in città costruite con altri stili. I contatti sono

poco frequenti, anche perché indiani e cinesi tendono a stare dove sono. Però gli uni sanno che esistono gli altri, e lunghe carovane percorrono pianure e deserti, si infilano passo passo fra le gole delle montagne, per trasportare merce fra Oriente e Occidente. Da ogni parte, in Asia e in Europa, c'è dunque un gran formicolìo di gente che si dà da fare. Poi, a ovest dell'Europa, c'è una sconfinata distesa

d’acqua, e il mare è deserto. I velieri navigano lungo le coste, tutt'al più si avventurano fino a certe isolette, le Isole Fortunate (le Azzorre? Madera? le Canarie?), a qualche

centinaio di miglia: più in là non vanno. Oltre le isole non c'è anima viva. Si capisce dal biancheggiar della schiuma che sovente infieriscono le tempeste; vicino all’Equatore,

se si guarda con attenzione, la schiuma indica una specie di corridoio formato da un vento costante, che soffia da

est verso ovest, ora più forte ora più debole, sempre nella stessa direzione. Nel corridoio nessuno si infila. Ma che cosa c'è, dall'altra parte del mare? C'è un continente immenso, che due oceani, l'Atlantico e il Pacifico,

tengono rigorosamente isolato dal resto del mondo. E su quel continente si presenta allo sguardo uno spettacolo che gli abitanti di Firenze o di Milano, se lo vedessero, troverebbero strabiliante. Anche lì sono numerose le città, e ci sono ottime strade fra una città e l’altra; anche lì le cam-

pagne sono ben coltivate. Ma tutto è più grande, più maestoso, diciamo pure più progredito rispetto all'Europa. Ecco il regno degli incas: la popolosa città di Cuzco è collegata coi territori al Nord addirittura da due grandi arterie, una lungo la costa, l’altra attraverso le Ande, e la co-

struzione di quest’ultima fra le montagne non dev'essere stata facile. Lungo le strade vi sono contrassegni a inter-

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Il tramonto della nostra civiltà

valli regolari, simili alle pietre miliari; posti di sosta; locande. Cuzco ha eleganti palazzi di pietra, viali diritti che si incrociano ad angolo retto, come nelle città americane del nostro tempo. In mezzo alle strade è un condotto per l’acqua, rivestito di pietra. I templi sono d’oro. Il continente fra i due oceani si restringe in mezzo, co-

me se fosse stato pizzicato dalle dita di un gigante; a nord dell’istmo è l'impero degli aztechi. La capitale è TenochtitlAn: che strano, sembra Venezia, anche Tenochtitlàn è co-

struita sull'acqua, la gente si sposta su imbarcazioni, e c'è un traffico intenso, anche se Tenochtitlàn, a differenza di

Venezia, sorge su un lago lontano dal mare, a grande altezza (chi andrà a Città di Messico se ne accorgerà). Come Venezia: ma Tenochtitlàn è più grande, ha centomila case, ha settecentomila abitanti, forse più; una vera metropoli,

insomma. E Montezuma II, l’imperatore, un personaggio mite, di buon carattere, con lo sguardo triste, abita in un palazzo che sembra una città nella città; neanche Carlo V,

quando diventerà il sovrano più potente d'Europa, potrà permettersi un palazzo uguale. La verità è che la civiltà sul continente americano ha raggiunto alla fine del Quattrocento uno stadio di sviluppo superiore a quella europea; e forse, in quanto più avanzato, anche più vicino al declino. La presenza delle

metropoli, con tutte quelle strade incrociate ad angolo retto, come in tante città moderne nel nostro tempo, è in-

dicativa: è indice di razionalità, tipica del secondo periodo di una civiltà, il periodo del declino, quando si passa

dalla creatività alla riflessione. Cuzco ha centomila case a un piano, molto ben tenute, elegantemente costruite con

ampi cornicioni. Tenochtitlàn è imponente. La piazza centrale misura centosessanta metri per centottanta, è circondata da arcate. Sotto gli archi vi sono negozi, botteghe di artigiani, locande, ristoranti. La merce messa in vendita nei negozi attesta un artigianato evoluto, forse un’indu-

stria tessile e di lavorazione delle pelli: si vendono mantelli, tuniche, gonne, calzature, sacchi e borse. C'è anche

La catastrofe di una civiltà stroncata

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(non si inorridisca: esiste in Europa come in America) un mercato degli schiavi. La gastronomia, a giudicare dalle vettovaglie che si espongono, ha un alto livello; sembra del resto che Montezuma potesse scegliere ogni giorno fra trecento diversi piatti preparati per lui. Si vende grano, granturco, fagioli, cipolle, gran varietà di frutta e di legumi, spezie e cacao; e poi tacchini, conigli, lepri, anitre, e ahimè anche cani, ca-

gnolini grassocci senza pelo, allevati per la bisogna, di cui gli aztechi sono golosi; pesci, rane; miele, patate dolci. E c'è una bevanda alcolica, l’octli, ottenuta con la fermentazione del riso; ma gli aztechi sono severissimi nel punire

gli eccessi, pare addirittura con la pena di morte; forse si può affermare che è in vigore, virtualmente, un regime proibizionista, in anticipazione di quello che altri americani cercheranno di imporre cinque secoli più tardi. Tutto attesta la presenza di una grande civiltà: le pubbliche istituzioni, le strutture dello Stato, i tribunali e l’esercito, i riti religiosi (coi famigerati sacrifici umani: ma

non è questa l’unica civiltà che li compie). Si creano opere d’arte; si fanno feste, si canta e si danza. Anche l’uso di droghe, piuttosto diffuso, è concomitante con un certo

stadio di sviluppo sociale, e indica l’inizio della parabola discendente. Gli esseri umani di tutte le razze e di tutti i tempi hanno bisogno, a quanto sembra, di qualche eccitante, alcol, tabacco, oppio, cocaina, per rendere sopportabile la vita; ma nei periodi di decadenza ne hanno maggior bisogno. Il 3 agosto 1492, ogni buon azteco si alza di buon'ora,

come di consueto; fa il bagno, perché dà grande importanza all'igiene personale; si avvolge nel mantello, infila i sandali, ed esce per i suoi affari, come ogni mattina. Chi va nel suo negozio; chi in tribunale, chi nell'ufficio di un

ministero. Verso la metà della mattinata ogni buon azteco farà uno spuntino, probabilmente focacce di granturco, bollite o arrostite, e chi potrà permetterselo berrà anche

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qualche tazza di cacao. (Si prepara la bevanda di cacao in sei o sette modi diversi.) Poi tornerà al lavoro, fino al primo pomeriggio, quando farà il pasto principale della giornata, di nuovo focacce di granturco bollite o grigliate e legumi per la gente modesta, gran varietà di carni, capretto, maiale, pernici, pesci e insetti, per i ricchi; dopo il pasto,

specie d'estate, una breve siesta. Il nostro bravo azteco si preoccupa il 3 agosto, come ogni giorno, dei suoi affari e delle sue vicende familiari; dà grande peso a questo o quel contrattempo, come sempre: e non sa che in quel particolare giorno, che per lui è come tutti gli altri, tre velieri partono per un lungo viag. gio che ha origine in Spagna. Sono i velieri del destino. Quel loro viaggio sta infatti per produrre una concatenazione di eventi che porteranno, nel giro di pochi decenni, alla distruzione di tutto ciò che circonda il nostro azteco, alla distruzione della sua civiltà; e ben poca cosa sono i

contrattempi di cui si preoccupa, come ogni giorno, a paragone di quell’immane tragedia che incombe, e di cui non sa nulla. Lui, il nostro azteco, trascorre quella giornata e quelle successive come sempre; e intanto, mentre accudisce alle sue faccende, i tre velieri, avendo a bordo una ciurma scarsamente raccomandabile, e uno scorbutico ca-

pitano coi capelli rossi, navigano verso Ponente, miglio dopo miglio, giorno dopo giorno, lungo quel corridoio di vento che l’ipotetico astronauta ante litteram poteva osservare dall'alto. Sono i primi esseri umani che si avventurano su quella distesa di mare, fino allora deserta. Chi potrebbe immaginare, vedendoli, che sono forieri di morte? È vero: secon-

do una vecchia leggenda, diffusa fra gli aztechi, un giorno sarebbe arrivato da Oriente qualche creatura misteriosa, e avrebbe portato con sé lutti e rovine, Ma chi avrebbe ravvisato la creatura del mistero nei marinai piuttosto scalcinati delle caravelle? Passano i mesi, intanto: ed ecco, il 12

ottobre, i velieri approdano su un'isoletta: San Salvador? L'azteco non ne sa nulla, naturalmente; Cristoforo Colom-

La catastrofe di una civiltà stroncata

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bo e i suci marinai, d’altra parte, non sanno nulla delle

grandi metropoli che sorgono a poca distanza, ad alcune centinaia di chilometri, anche se Colombo si ostina a chie-

dere ai poveri selvaggi seminudi, che abitano le isole dei Caraibi, dove sia l'impero cinese, che immagina ormai a portata di mano. Solo l'osservatore fra gli astri potrebbe seguire, sorridendo, il curioso giuoco a mosca cieca di quegli ometti, che nulla sanno gli uni degli altri. Due civiltà stanno per incontrarsi, e l’incontro sarà una catastrofe. Per un attimo si sfiorano: durante il quarto viaggio di Colombo (1502), in una baia di quello che oggi è l’Honduras, arriva accanto alle navi spagnole, che sono all'ancora, una grande canoa, «lunga come una galera». Ha a bordo una quarantina di persone, uomini, donne, bambini; tutti sono vestiti con proprietà, a differenza dei selvaggi che Colombo ha incontrato finora, sempre seminudi; le donne si coprono il viso, come le musulmane. La

canoa trasporta merci di buona qualità, mantelli di cotone, camiciotti senza maniche, «con strani disegni a tinte

forti»; perizoma, scialli, spade, asce, rasoi, coltelli di rame.

Tutto è segno di una civiltà superiore: quella dei maya o degli aztechi. Ci sono anche le noci di cacao: è la prima volta che gli europei vedono il cacao, e presumibilmente lo assaggiano. Ma a Colombo tutto questo non interessa. Lui è un avventuriero del mare; a lui piace solo avventurarsi su mari sconosciuti, rischiare, scoprire, e ora si affanna a cer-

care, ossessivamente, un varco che gli consenta di proseguire il viaggio, di riscoprire la Cina o l'India dal Levante. Un quarto di secolo più tardi, le due civiltà si sfiorano di nuovo, quando Francisco Pizarro, l’uomo che conquisterà il regno degli incas, incontra (1526) uno zatterone, anch’esso pieno di merce pregiata. Ma ormai i giuochi sono scoperti; cinque anni prima un altro avventuriero, Hernan Cortés, ha conquistato, e distrutto, l'impero azteco. È una vicenda straordinaria. Ci si meraviglia che così pochi spagnoli siano stati capaci di distruggere così vasti im-

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peri: Cortés guidava un corpo di spedizione di cinquecento uomini e sedici cavalli, Pizarro di poche decine di uomini. La loro vittoria è stata possibile perché entravano in contatto due civiltà di segno diverso: sarebbe stata impensabile all’interno di una civiltà dello stesso segno, perché troppo grande era lo squilibrio di forze. Ma quel che più meraviglia è la rozzezza, è l’insensibilità di questi conquistatori. Vivono un'avventura incredibile, meravigliosa; si

trovano per primi di fronte a una civiltà grandiosa di cui nessuno, in Europa, immagina l’esistenza; sono accolti amichevolmente; e invece di sentire il desiderio di osser-

varla, di conoscerla, di penetrarne il mistero, pensano solo a cercare oro e tesori, e in poco tempo la distruggono. Hernan Cortés, al termine di una marcia avventurosa attraverso un territorio ben coltivato, abitato da gente che lo guarda con stupore, si affaccia finalmente da un'altura,

e lo spettacolo emozionante di Tenochtitlàn si offre al suo sguardo. Ecco la grande metropoli, sfavillante sotto i raggi del sole, con i suoi templi e i suoi palazzi, circondata dal lago. Cortés si avvicina; coraggiosamente porta i suoi uomini lungo una strada in mezzo all'acqua, penetra nel cuore della capitale, dove gli spagnoli potrebbero essere circondati e disarmati. Montezuma, l’imperatore triste e gentile, lo accoglie invece con civiltà, e un giorno lo porta fin sulla cima del tempio principale, perché ammiri la città dall'alto. Il brusìo delle voci sale dal mercato nella gran piazza. Cortés guarda intorno a sé, con interesse: forse con bramosia. Ebbene: nel giro di pochi anni, tutto quel mondo sarà distrutto, si dissolverà come un sogno, come se non fosse mai esistito nella realtà. Non è, questa, una

delle vicende più straordinarie e più incredibili nella storia del genere umano? Gli europei si comportano di fronte alla società precolombiana come barbari di fronte a un mondo civile. Impulsi diversi li spingono a distruggere: l'odio per ciò che non conoscono e non capiscono; il fanatismo religioso; la

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cupidigia di guadagno. Anche i frati, accanto ai soldati, aizzano alla lotta contro gli infedeli; gli spagnoli compiono stragi crudeli con le armi da fuoco, con la carica dei cavalli. La pagina della conquista non è una bella pagina. Ma che cosa significa, quando cerchiamo di interpretarla, e di dare un senso alla storia? Conferma che la storia non ha senso. Le civiltà di cui abbiamo conoscenza tramontano e muoiono di morte naturale; il loro ciclo, dopo avere rag-

giunto il culmine, segue una parabola discendente, viene il periodo della decadenza, poi viene la fine. Tutto, di soli-

to, si svolge per gradi. La civiltà americana precolombiana è invece interrotta quando ancora sta percorrendo il suo ciclo, quando è rigogliosa: muore di morte violenta. È suggestivo riflettere su quei tre velieri che fanno rotta verso Ponente, piccoli, modesti, all'insaputa delle popolazioni americane che intanto badano ai fatti loro, conducono

l'esistenza di sempre, e non sanno che sta per abbattersi sul loro capo, a causa di quegli stessi velieri, una grande sciagura. Si può ancora parlare, di fronte a un evento del genere, di un disegno superiore nella storia? Gli storici vedono in genere la storia come una concatenazione di eventi; ogni evento produce quello successivo.

Vediamo come funziona questo giuoco. Lasaulx, citato dal Burckhardt nelle sue famose considerazioni sulla storia mondiale, è convinto che anche i popoli si stancano e invecchiano; ma poi ci sono le invasioni barbariche, che ne

ravvivano il sangue, e danno luogo a una nuova fioritura culturale. Ecco dunque l’utilità delle invasioni: sono iniezioni ricostituenti. Seguiamo ancora i ragionamenti di Lasaulx: le guerre, se a breve termine provocano sciagure, dopo qualche tempo danno buoni frutti. La guerra di Troia produce infatti la poesia omerica. Le guerre persiane, «armi elleniche contro armi asiatiche, libertà ellenica contro dispotismo asiatico», decidono le sorti della Grecia, e conducono a Pericle e a Fidia, a Eschilo e a Sofocle, a Platone e

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Aristotele. Così avanti di questo passo: ecco Alessandro, «il primo europeo che sogna il dominio mondiale»; ecco il periodo alessandrino, che fonde la cultura d'Europa, d'Asia e d'Africa, «premessa del cristianesimo». Con tante fusioni e tante misture, sembra di assistere al-

la indicazione degli ingredienti per una ricetta culinaria: una dose d'Africa, una dose d’Asia, una dose d'Europa e

mescolare fino a quando non si ha un bel cristianesimo. Sul versante occidentale, intanto, Roma distrugge Cartagine e sconfigge Mitridate, così nasce l’età di Augusto. Ma ecco le Crociate, premessa della cultura medievale (Tommaso, Dante...); i turchi, intanto, conquistano Bisanzio, e

gli artisti e i dotti bizantini, venendo in Occidente, provvedono alla rinascita delle arti e delle scienze in Europa... Il concetto di concatenazione contiene in sé, implicito, il

concetto di un disegno superiore, un disegno della divina Provvidenza. Il cristiano ravvisa in ogni evento della storia antica una premessa della incarnazione del figlio di Dio; e a tutti noi è capitato una volta o l’altra di ascoltare

la tesi secondo cui l'impero romano fu preordinato per consentire la diffusione della religione cristiana, come se

Dio lo avesse voluto al fine di preparare il terreno. In questa visione, le civiltà del bacino mediterraneo svolgono

tutte una funzione precisa; sono gli scalini risalendo i quali si arriva, passo passo, al presente. Si possono anche attribuire gli eventi, invece che alla volontà divina, ai capricci del caso. Sappiamo come sono andate le cose: potevano anche andare in modo diverso. Se i persiani avessero vinto a Maratona, osserva Lasaulx, la storia avrebbe preso un’altra piega, ora noi non saremmo qui a discuterne; e se i cartaginesi avessero vinto contro i romani, oppure se Antonio avesse vinto contro Augusto, la civiltà africana o asiatica avrebbe prevalso su

quella europea. Ma anche se si crede che nulla sia predestinato, e che tutto dipenda dal caso, anche se si crede che la concatenazione degli eventi sia fortuita, resta il fatto

che si attribuisce a ogni civiltà una funzione, quella di

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avere preparato la civiltà successiva. Le si attribuisce quindi un'utilità. Ogni civiltà si è sviluppata, poi è sfiorita, è morta, ma a qualche cosa è servita. Non era fatica

sprecata.

Ebbene: questa convinzione riceve un duro colpo dalla distruzione della civiltà precolombiana. A che cosa è servita? Che cosa ha preparato? Qual è stata la sua funzione? A ogni quesito è soltanto possibile una risposta negativa: la civiltà precolombiana non è servita a nulla. Non ha preparato nulla. Non ha svolto alcuna funzione. E allora questa grande civiltà appare come uno splendido fiore che sboccia nel deserto, diffonde la sua bellezza, e poi perde i petali nella tempesta, senza avere assolto altra funzione, senza avere avuto altra utilità che quella di esistere. Vale il discorso per le altre civiltà? Non esistono, lo abbiamo già detto, dimostrazioni definitive per avvalorare

una tesi piuttosto che un’altra. Nessuno può essere sicuro che ciò che è vero, inequivocabilmente, per la civiltà precolombiana sia vero anche per le altre. Ma il precedente mi sembra impressionante. Se la distruzione a opera degli spagnoli ha messo a nudo il carattere di quella civiltà, se ha indicato che era fine a se stessa, e non rispondeva a disegni superiori, se ha messo in chiaro che non era l'anello di una catena, abbiamo ancora il coraggio di credere che ciò non valga per le altre civiltà? che il modello rappresentato da quella precolombiana non sia applicabile a quella egiziana, a quella greco-romana, o alla nostra? Quel che accadde nel Cinquecento sul continente americano contraddice la visione della storia come una linea continua che, grazie alla concatenazione degli eventi, parte dalle società primitive per condurre al Superuomo. È

difficile pensare allo sviluppo dell'umanità su due linee distinte, una linea di

progresso infinito la nostra, un bina-

rio morto quell'altra. E concepibile invece che anche la nostra attuale civiltà possa essere improvvisamente distrut-

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Il tramonto della nostra civiltà

ta, e scomparire dalla faccia della Terra, come capitò agli sfortunati popoli che abitavano il continente americano. Bombe nucleari? Ordigni misteriosi? Guerre stellari? Forse la Terra stessa potrebbe essere annientata senza che la sua scomparsa provochi il minimo turbamento nell’armonia dell'Universo. Chi sa: può anche darsi che ora, mentre io scrivo queste note, o mentre voi le leggete, tre astronavi stiano percorrendo lo spazio, come i velieri spagnoli percorrevano l'oceano alla fine del Quattrocento, per mettere in moto una serie di eventi che porteranno, nel giro di qualche anno, alla scomparsa della civiltà occi-

dentale. Ma noi non lo sappiamo; pensiamo ai fatti nostri; e ci preoccupiamo di contrattempi che, a confronto di quell'evento finale e supremo, sono privi di qualsiasi importanza.

Parte seconda

Dare un senso al presente

I

Le gioie della vecchiaia

Oggi viviamo nel periodo della dolce vita, quando ciascuno cerca il massimo piacere con il minimo sforzo, e i divieti che possono ostacolare il godimento sono rimossi Possiamo finalmente occuparci del presente: del nostro tempo, dei nostri problemi, soprattutto delle nostre prospettive. Certi giornalisti, dopo un lungo soggiorno all'estero (nel mio caso quindici anni) per osservare altri paesi, tornano in patria per osservare il proprio. Così noi, dopo avere preso in considerazione altri periodi della storia, e altre civiltà, possiamo ora occuparci del nostro periodo e della nostra civiltà, oggi. Se è vera la nostra lettura della storia, allora siamo in

periodo di decadenza. La civiltà occidentale ha raggiunto il culmine, ricade su se stessa. Siamo al declino, siamo al

tramonto. Che cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che quella frazione dell'umanità (circa un quinto) di cui facciamo parte, quella frazione composta di popoli abitanti in Europa ed emigrati in America, dopo avere dato prova per alcuni secoli di straordinaria creatività, dopo avere assoggettato i continenti, dopo avere inventato e plasmato un grande stile nelle arti, nella politica, nella finanza, nel-

la tecnica, fino ad avventurarsi negli spazi extraterrestri, ora è stanca. Ha dato quel che poteva dare, non darà altro. Invecchia. Si avvia verso la fine. Ci vuole, per affermarlo, un certo coraggio. Non sembra forse, osservando determinati segnali, che siamo piut-

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tosto all’apogeo della nostra storia? Gli uomini non hanno mai vissuto bene come oggi. Si è sconfitta la fame; si sono

sconfitte le malattie; si vive più a lungo e più comodamente. Una miriade di individui, nelle case ben riscaldate

d'inverno e refrigerate d'estate, con l’acqua corrente calda e fredda, con il frigorifero ben rifornito, con la possibilità di ascoltare musica e assistere a spettacoli in ogni momento della giornata grazie alla televisione e alle videocassette, con l'automobile alla porta, gode di un tenore di vita superiore a quello di cui usufruivano, personalmente, personaggi di grande ricchezza e potenza, quali Carlo V o Luigi XIV. Non tutti vivono così bene, d'accordo; la mag-

gior parte dell'umanità, anzi, è ancora in miseria. Ma è questione di tempo, dicono gli ottimisti: i progressi della tecnica, lo sviluppo dell'economia diffonderanno a poco a poco il benessere ovunque. Sembrano mirabili anche le conquiste politiche e sociali. Mai come adesso si sono rispettati i diritti umani. La democrazia si diffonde in tutti i continenti. Crollano i regimi dittatoriali. La solidarietà sociale conduce a forme di pubblica assistenza che proteggono gli strati deboli della popolazione dalle sventure della sorte, garantiscono sostentamento e cure mediche ai malati, ai vecchi e ai minorati, sostengono l'individuo, ogni individuo, «dalla culla

alla tomba». Come si osa parlare di decadenza di fronte a un quadro così entusiasmante, di fronte a condizioni di Vita così gratificanti? Quando mai l'umanità ha vissuto meglio di adesso? D'accordo: non è facile parlare di decadenza di fronte a circostanze così propizie, tanto più che i vantaggi del presente sono in gran parte materiali, quindi facilmente percepibili, da toccare con mano, da godere ogni giorno, mentre i segni di debolezza sono spirituali. E torna alla mente, se vogliamo essere cinici, la battuta di Oscar Wilde: «Dio mi protegga dai malanni fisici, a quelli dello spirito penserò io». Eppure, anche di fronte al quadro in ap-

Le gioie della vecchiaia

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parenza irresistibile di un'umanità felice, dobbiamo ragionare. Cominciamo con una domanda: dove nasce il benessere odierno? dove il progresso? Se quanto abbiamo esposto nelle pagine precedenti è vero, le condizioni odierne non sono il frutto di un progresso dell'umanità presa nel suo insieme; di un progresso indistinto e generico, a cominciare dall'uomo di Neandertal per giungere fino all'uomo moderno. No: le condizioni odierne sono il frutto di una civiltà, di una particolare civiltà, quella occidentale, la nostra, il cui esordio si colloca in un'epoca ben precisa: intorno all'anno Mille. Quello di cui parliamo, quello cui

assistiamo nei nostri giorni, non è dunque il progresso dell'umanità tutta intera, tanto è vero che riguarda in forma diretta solo una frazione dell'umanità, e investe il resto

in maniera indiretta, per straripamento, quando gli operatori della civiltà occidentale cercano materie prime per le loro industrie, o mercati per i loro prodotti (o quando, in momenti di euforia, lasciano cadere qualche briciola del lo-

ro benessere fra i popoli diseredati: Unicef e simili). Le condizioni di vita oggi esistenti in Europa e in America sono il frutto, non già di un generico progresso dell'umanità, bensì di una civiltà particolare, la nostra. Orbene: la civiltà occidentale, anche se ha raggiunto negli ultimi secoli risultati superiori a quelli delle civiltà precedenti, non può sottrarsi alle regole generali. Non può, per il semplice fatto di essere più ardita o più efficiente, diventare immortale. Non può fare legge a sé. Fra gli esseri umani, anche i più straordinari e i più geniali devono sottostare alle ineluttabili leggi biologiche. Anche loro invecchiano e muoiono. È morto Dante; è morto Leonardo; è

morto Napoleone. Sia pure straordinaria, neanche la nostra civiltà è immortale. E allora, avendo ridimensionato la sua presunzione, pos-

siamo indicare per quali ragioni il suo destino è segnato. La prima condanna è nel suo ciclo. «Morire e divenire»

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scrive Jan Huizinga «tengono nella storia lo stesso passo come nella natura.» Ed Ernst von Lasaulx afferma: anche i popoli muoiono quando la loro individualità si è sviluppata, quando la loro missione è compiuta; tutto, anche gli Stati e gli imperi più gloriosi, e tutte le forme di vita terrena, e tutto ciò nella natura che è nato e ha avuto un inizio, dovrà tramontare, e trovar la sua fine; questa verità, sicura come nessun'altra al mondo, non c'è persona che possa negarla, se si osservano con serietà e con serenità, e con

partecipazione, i destini degli uomini, e se si pone mente alla propria esistenza. Questo scrive Lasaulx, studioso tedesco, nella prima metà dell'Ottocento. Bastano queste considerazioni, se sono giudicate credibili, per sancire il destino biologico di una civiltà, la nostra, che ha ormai dietro di sé dieci secoli di vita, e splen-

dide testimonianze della sua creatività. Regni e imperi; palazzi e chiese; città e metropoli; statue, quadri, musica;

industria e commerci; spedizioni di conquista: questo è il passato, questo è stato fatto nel passato. Ogni impresa è anche indice di età. Nulla è eterno nell'Universo: perché dovrebbe esserlo la civiltà occidentale? Il decorso delle altre civiltà, di quelle che l'hanno preceduta, è la seconda considerazione che porta allo stesso verdetto. Tutte, dopo i secoli di creatività, si sono ripiegate stancamente su se stesse, e un confronto fra i vari cicli

mette in rilievo analogie sui vari stadi di sviluppo e di declino. Molti aspetti politici e sociali del nostro tempo sono paragonabili ad analoghi aspetti nel periodo conclusivo della repubblica romana, quando si scivola verso l’età imperiale. L'impero di Roma fu uno «Stato universale», secondo la definizione di Toynbee, ed egli osserva che la formazione di uno Stato universale contraddistingue in ogni civiltà il periodo che precede la fine. Non vediamo forse anche noi, imminente, uno Stato universale, rappresentato dall’unica superpotenza sopravvissuta all’èra delle guerre calde e fredde? Il declino si manifesta in maniera globale, e può essere

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studiato e analizzato nei suoi vari aspetti, politici e sociali, artistici e religiosi, L'invecchiamento, quando sopravviene, investe tutto l'organismo, non soltanto certi suoi

organi; è poi vero che ogni organo, naturalmente, invecchia a modo suo. La politica decadente diventa demagogica; l’arte decadente diventa astratta; la società decaden-

te diventa permissiva, Prenderemo in esame, nelle pagine che seguono, queste varie manifestazioni di decadenza; e cercheremo anche di indovinare quali saranno i prossimi stadi. Dove conduce, per esempio, la demagogia? Quali

saranno le forme di governo dopo il Duemila? È definitivo il tramonto delle ideologie al quale abbiamo assistito negli ultimi anni? E quali saranno, presumibilmente, i rapporti internazionali? Quali i rapporti fra i paesi civili e il Terzo Mondo? Ma è possibile indicare, per spiegare il declino di una civiltà, una caratteristica dominante, che riemerge nei vari

aspetti di vita sociale e culturale che abbiamo enumerato. Il periodo di crescita e il periodo di decadenza hanno ciascuno il suo segno. Quello di crescita ha il segno della creatività; quello della decadenza, il segno della razionalità. Uno

crea; l’altro ragiona. E chi ragiona, a differenza di chi crea, si fa guidare soprattutto dal calcolo di utilità. Cerca il suo tornaconto. Soppesa vantaggi e svantaggi prima di agire. Rifugge dal sacrificio per inseguire con ostinazione il proprio interesse. Così inaridisce: così passa dalla fase creativa a quella utilitaria. Rivedremo questo concetto a mano a mano che passeremo in rassegna i vari segnali del nostro tempo: ma basta dare un'occhiata a un prodotto dell’architettura moderna per capire quanto esso sia vero; quanto sia

dominante, cioè, l'impostazione utilitaria. In economia, l’espressione sublime di questa mentalità, utilitaria e razionale, è il capitalismo. La comunità euro-americana, stanca e appagata, vive dunque il suo autunno dorato. Intraprendente, rapace, te-

meraria, ha conquistato il mondo; ha preso possesso, co-

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me non era riuscito prima a nessun'altra comunità, di tutto intero l’orbe terracqueo. Ma adesso ha deposto le ambizioni, e vuole soltanto godere il frutto delle imprese e delle conquiste delle generazioni precedenti. Non crede più a nulla, se non al proprio benessere e al proprio tornaconto. Anche i più generosi fra gli individui che ne fanno parte pensano di essere utili al prossimo quasi esclusivamente in termini di benessere materiale. In altri tempi si volevano salvare le anime degli infedeli; ora si pensa, tutt'al più, a salvare i loro corpi. La società contemporanea nei paesi civili non crede più a nulla: è scettica. Tutti i precetti, le remore, i divieti che

potevano ostacolare il godimento sono stati abbandonati, soppressi, relegati fra i ricordi di epoche più severe. Importante è seguire le proprie inclinazioni, senza scrupoli e senza rimorsi, per la massima gratificazione. È il momento della dolce vita, nelle grandi metropoli scintillanti di luci, o nei luoghi più incantevoli della natura, fra montagne nevose e isole lussureggianti che la civiltà meccanica rende comode e ospitali, e a portata di mano per masse sempre più vaste di individui. È il momento della dolce vita: ciascuno per sé, col minimo di ingombro e il massimo di piacere, da perseguire secondo il grado di cultura e secondo il gusto di chi lo ricerca, raffinato ed elegante per pochi eletti, sempre più grossolano e rozzo a mano a mano che si scende nella scala sociale. I gusti sono molteplici; la mentalità è la stessa. Decadenza: sarebbe sciocco, ed è facile rendersene con-

to se si è seguito il ragionamento esposto nelle pagine precedenti, ricercarne le cause. Ognuno può essere tentato di presentare un elenco diverso: il prete parlerà del declino della fede come causa prima del declino civile; l’uomo politico denuncerà l’affievolimento dell’amor di patria, o dell'impegno di solidarietà sociale; l’illuminista osserverà

il crescente disinteresse per la buona cultura, e lo attribuirà al bombardamento di messaggi facili e a buon mercato, attraverso la stampa e la televisione. Ma queste, e

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tante altre che si possono enumerare, non sono le cause della decadenza; sono la sua manifestazione, come i ca-

pelli bianchi e le rughe sul volto sono il segno, e non la causa, dell'invecchiamento di un individuo. E sciocco parlare di cause; è vano parlare di rimedi. Quanti bei discorsi si fanno, nelle chiese, nei parlamenti,

nelle riunioni conviviali, per additare la strada della rinascita: quanti buoni propositi di ridare solidità alla famiglia, di educare meglio i giovani, di convincere gli uomini che la strada dell’egoismo porterà al caos. E magari si fanno anche leggi, per impedire gli eccessi, per ricondurre alla virtù: come Augusto cercava di rendere più difficili i divorzi, oggi si vieta la droga, si cerca di ridurre il consumo di alcol. Educatori, governanti, rappresentanti del clero, rinunciando agli argomenti di carattere sociale o morale, ricorrono ad argomenti utilitari, e cercano di convincere l'umanità che la sua vita sarà più dolce, non meno, se os-

serverà una certa morigeratezza. Non mi pare che i sermoni diano grandi risultati. La gente ha poca voglia di ascoltare. Non si sfidano

perfino i pericoli dell'Aids, questa malattia a scoppio ritardato, pur di non rinunciare al piacere sessuale? Decadenza: nessuno se ne preoccupa. I dotti respingono il concetto, la gente comune non se ne cura. E infatti: sarebbe stato creduto chi avesse preannunciato ai contemporanei

di Augusto che la civiltà, di cui stavano godendo i frutti, volgeva al declino? Anche la Roma imperiale viveva l'autunno dorato della dolce vita, in grandi ville sparse nelle campagne, o nelle terme accoglienti, o nei teatri e nei cir-

chi chiassosi, secondo la cultura e il potere d'acquisto dei vari strati sociali, mentre si diffondevano scuole di pensiero scettiche ed epicuree, in tranquilla indifferenza verso i grandi compiti della storia. Nessuno, in quella Roma, avrebbe creduto agli ammonimenti

sulla decadenza; o,

per meglio dire, coloro che vi credevano erano piccola minoranza, e non erano ascoltati. La gente anche allora pensava ad altro.

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Il tramonto della nostra civiltà

Questo non significa, naturalmente, che la dolce vita

porti la felicità. Anche il rammollimento dei costumi ha i suoi svantaggi, pratici e immediati. Le avversità, quando non sono evitabili, si sopportano male. La guerra del Vietnam è stata un esempio impressionante della cattiva reazione della società moderna di fronte alla necessità di combattere: ciascuno mette il rischio di morte individuale molto al di sopra degli obiettivi che una determinata azione militare persegue. Quell’episodio nella storia recente degli Stati Uniti dimostra che la comunità euro-americana, nello stadio in

cui si trova, difficilmente è in grado di combattere una guerra; un intervento successivo, quello contro l'Iraq, fu fatto con tale abbondanza di mezzi da eliminare praticamente il rischio individuale. La razionalità, il ragionamento sul proprio tornaconto, che è il segno, lo abbiamo già detto, del nostro tempo, porta ineluttabilmente l’equazione del sacrificio individuale a un risultato negativo: la mia morte, qualunque cosa accada, è sempre il peggiore dei mali. Non si diceva in Inghilterra, al tempo delle campagne antinucleari cui partecipava anche un filosofo acuto e brillante, Bertrand Russell: better red than dead, meglio essere «rossi», cioè occupati dall'Unione Sovietica, assog-

gettati dai comunisti, magari schiavi, piuttosto che morti? A breve termine, la dolce vita può essere una soluzione accettabile del problema esistenziale. Ma quanto dura? Ancora una volta siamo costretti, se vogliamo rispondere, a ragionare. È improbabile che l'equilibrio sociale, premessa della dolce vita, si mantenga all'infinito. I rapporti sociali tendono alla instabilità, ed è possibile dominarla soltanto in periodi relativamente brevi. Prima o dopo prevalgono le tendenze al disordine: ci sono sempre individui e gruppi, anche all’interno di una comunità in apparenza appagata, decisi a prendere il sopravvento; nascono allora gli scontri, le sommosse, le guerre civili. La gestione di una grande massa di individui, concen-

Le gioie della vecchiaia

133

trata in alcuni immensi agglomerati urbani, nelle metropoli che sempre più si allargano sul territorio, New York, Chicago, Los Angeles, Londra, Tokio, non avviene da sola, meccanicamente, per processo automatico. È, al contra-

rio, un miracolo di equilibrismo, e ci accorgiamo ogni giorno che presenta problemi che è sempre più difficile affrontare. Già la soluzione di tali problemi è di per sé ardua; ma è gravemente complicata dalla rivalità di gruppi che propongono soluzioni diverse, ognuno alla ricerca del proprio tornaconto o del predominio sugli altri gruppi. Si apriranno grandi spazi per la politica di tipo demagogico: già ne abbiamo i sintomi. E come saranno i rapporti col Terzo Mondo? Il problema di fondo è lo squilibrio fra l’alto tenore di vita delle nazioni civili e la miseria dei popoli sottosviluppati. L'impero romano circondato da orde di barbari è il parallelo più ovvio: anche allora si assisteva al confronto fra una grande civiltà e le popolazioni primitive. La crescita demografica in Africa e in Asia, la pressione della gente di colore ai nostri confini, la comparsa delle loro avanguardie nei quartieri poveri delle nostre città, sono i segni premonitori del nostro destino; la speranza di impedire le infiltrazioni, di tenere a bada i diseredati tutto intorno alle

nostre frontiere, è altrettanto illusoria quanto poteva esserlo quella dei romani di fronte ai germani o ai parti. Non è coi controlli di polizia alla frontiera che si determinano i grandi eventi della storia. Tutto fa pensare a un Terzo Mondo che sommerge, col suo immenso peso demografico, il mondo civile: è successo prima, in altri periodi storici e con altre civiltà; potrà succedere ancora. Ma ora il problema è complicato dal fatto che alcuni popoli nel Terzo Mondo, sulla scia dello sviluppo economico occidentale, innescano a loro volta un processo di sviluppo che diventerà travolgente nel giro di pochi decenni. Ciò è vero soprattutto dell'Estremo Oriente, della Cina e delle comunità confinanti, Taiwan,

Hong Kong, Corea, Singapore.

134

Il tramonto della nostra civiltà

Che cosa succederà quando la Cina sarà, a tutti gli effetti, una grande potenza economica, non più al rimorchio dell'Occidente, ma autosufficiente e autonoma? È previsto che l'economia cinese superi, all’inizio del prossimo secolo, quella americana per le dimensioni del prodotto nazionale. E allora? Qui si entra nel regno della futurologia più sfrenata. Un Terzo Mondo sazio, ammesso che possa saziarsi, ed economicamente sviluppato, potrebbe adagiarsi a sua volta nel benessere materiale, alleandosi all'Occidente per cercare, tutti insieme, l’Età

dell'Oro. Ipotesi troppo bella per essere vera. Oppure, forte di una potenza economica che si trasformerebbe facilmente in politica e militare, potrebbe diventare un antagonista irresistibile, bene armato, animato da spirito aggressivo. Potrebbe cercare lo scontro. Sarebbe questa una scelta irrazionale e folle? Senza dubbio: ma non la prima nella storia dell'umanità.

II

Nobiltà, borghesia, capitalismo

Vi sono differenze profonde fra la nobiltà, classe di governo, e la borghesia, che governa per delega La nobiltà è, per sua natura, classe di governo. La bor-

ghesia non lo diventerà mai. Ma a un certo momento la borghesia soppianta l'aristocrazia come classe egemone. Ciò avviene in un determinato periodo nel decorso di una civiltà, ed è probabile che il fenomeno si ripeta in ciascuna, se si crede al parallelismo fra le diverse grandi civiltà della storia. Fatto sta che in tutte scoppiano, quando sono al culmine del ciclo, rivoluzioni sociali: diciassette secoli

avanti Cristo fra gli antichi egizi, cinque secoli avanti Cristo fra i cinesi. In Europa, il trapasso avviene fra il Settecento e l’Ottocento. Poi declina anche la borghesia, e le classi sociali si cancellano. Il periodo finale di una civiltà è contrassegnato da una società senza classi, una sconfinata marea di individui, ciascuno chiuso e isolato nel suo involucro. È la situa-

zione verso la quale stiamo rapidamente avviandoci. Gli istinti umani spingono alla conquista e al predominio, nella guerra e nell'amore; spingono all'affermazione personale, se necessario con la violenza. Poi, a un tratto, per ragioni misteriose, scende su certe sezioni dell’uma-

nità primitiva il desiderio di vivere un sogno; un incantevole sogno in cui la vita si ingentilisce, e tutto in essa diventa giuoco e recita, tutto si svolge secondo regole e

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Il tramonto della nostra civiltà

secondo convenzioni: i rapporti sociali coi propri simili e quelli bellicosi coi nemici, gli amori, le feste, i divertimen-

ti. Si forma una classe privilegiata, un’aristocrazia, la cui esistenza

è fantasia, artificio, formalismo,

fuga dalla

realtà; sempre più lontana dall'esistenza rozza e monotona degli uomini primitivi. La trasformazione da uomo

primitivo a uomo

civile,

per quel che riguarda la civiltà occidentale, comincia intorno al Mille, si accentua nei secoli successivi. I valori dominanti sono di marchio aristocratico: orgoglio dinastico, senso dell'onore, fedeltà, lealtà, spirito di vendetta. I tor-

nei sono il giuoco preferito; in essi si celebra, dice Huizinga, il sogno di eroismo e di amore. Il torneo simula il combattimento; ma ha una forte valenza erotica. La dama

dona al cavaliere preferito, prima che vada a combattere, un suo velo, un suo indumento; altri indumenti gli dona

mentre combatte, fino a quando rimane a capo scoperto e con le braccia nude. Ecco un episodio straordinario: succede un giorno che una dama manda al suo cavaliere, alla vigilia dei giuochi,

la camicia, affinché la indossi come unico indumento per ricoprire il petto quando combatte, e affronti la tenzone senza corazza; sarà difeso solo dall’elmo, dai gambali e da

quel tenero capo di vestiario. Così egli si presenta al torneo, rimane ferito, la camicia si macchia di sangue. Il ca-

valiere ha dato prova del suo coraggio e del suo amore. Poi restituisce la camicia alla dama, le chiede di portarla, insanguinata e strappata com'è, sopra i suoi abiti, alla festa che concluderà il torneo. Lei obbedisce; così si presen-

ta ai festeggiamenti. «I più la rimproverano, il marito è imbarazzato, e il cronista domanda: quale dei due innamorati ha dato di più all’altro?» Quel che importa è il giuoco; il senso pratico delle proprie azioni, lo scopo per cui si agisce, passa in seconda linea. La mentalità ludica prevale sulla mentalità utilitaria. La pattuglia di polizia, presumibilmente, fa la ronda per sorprendere i malfattori; ma si fa precedere dalla musica

Nobiltà, borghesia, capitalismo

107

(citiamo ancora da Huizinga), così sottolinea la sua festosa importanza, anche se permette ai malfattori di scantonare. Alla battaglia di Crécy, alcuni cavalieri francesi corrono grandi rischi per scoprire le postazioni inglesi, ma quando si presentano al re, nessuno apre bocca per non mancare di rispetto verso gli altri. All’assedio di Sens, un cavaliere esce dalla città per portare un messaggio agli assedianti; magari si tratta di un messaggio di vita o di morte, ma l'aspetto del messaggero non è conforme alle buone regole del galateo, lo si manda dal barbiere e poi lo si

ascolterà. Col passare del tempo, la tendenza ludica, il rispetto delle forme diventano eccessivi: è questo il destino di tutte le cose. «Il tardo Medio Evo» scrive Huizinga «è uno dei periodi conclusivi in cui la vita culturale delle classi più elevate diventa quasi esclusivamente un giuoco di società.» Subentra la stanchezza: ora la forma di vita aristocratica del cavaliere appare «vana e falsa, una commedia artefatta, un ridicolo anacronismo».

Siamo alla svolta. Sono i nuovi protagonisti della civiltà a denunciare il giuoco, a scoprire l’anacronistica commedia dietro i giuochi eleganti e fatui: si apre l'epoca borghese. . L'egemonia borghese significa il passaggio dalla fase ludica alla fase utilitaria. Il valore dominante non è più l'onore, ma il vantaggio, il tornaconto. Prevale una nuova mentalità, quella economica; alla luce di questa nuova

mentalità, il passato appare improvvisamente lontano e incomprensibile. Tale è l'ossessione economica dell'età borghese che si attribuiscono finalità di guadagno alle imprese del passato, a cominciare dalle Crociate: la nuova cultura non può credere che si combattesse per altre ragioni, l'onore o l'orgoglio, o la religione, o il semplice spirito di avventura, e si sostiene che i crociati cercavano in realtà nuovi mercati, nuovi commerci. Nasce il capitali-

smo: il sistema economico che rappresenta la razionalità

138

Il tramonto della nostra civiltà

allo stato puro. Ora non si giuoca più: si calcola e si ragiona, quando si lavora, quando ci si sposa, quando si generano e si educano i figli. Il criterio di vita è il guadagno. Il metro del guadagno è il denaro. La borghesia produce i suoi eroi, grandi industriali e grandi finanzieri, uomini dai nervi di acciaio, audaci e geniali, i Rockefeller e i Morgan, che accumulano fortune

immense. Sono loro i nuovi uomini di potere. Le cento famiglie (ma quanto dura una famiglia? due, tre generazioni?) controllano gli Stati. Questi personaggi, a differenza degli aristocratici, non ostentano però il potere che detengono; non ne mostrano i segni esteriori, con la foggia degli abiti, con il comportamento in pubblico: sono, dice Schumpeter, uomini grigi, in apparenza noiosi, incapaci di colpire la fantasia. Rifuggono dalla folla; preferiscono rimanere invisibili, chiusi nei loro uffici, e impongono la propria volontà con un tratto di penna, con un ordine a bassa voce. Le loro decisioni influiscono sulla vita di milioni di persone; ma non li incontrano mai. Napoleone passava in rassegna le sue truppe prima della battaglia; il grande industriale non sa che faccia abbiano i suoi operai. I grandi borghesi non fanno politica; non li interessa l’arte di sedurre altri esseri umani, presi individualmente o in massa. Il loro potere si esercita attraverso l'industria e la finanza. Industria significa macchine, tecnica, produzione. Ogni civiltà crea la sua tecnica; sono mezzi tecnici anche i carri, le carrozze, i velieri, gli utensili per lavorare

i metalli. Ma nessuna civiltà ha creato finora una tecnica così avanzata, così rivoluzionaria come la nostra.

Si tratta, lo abbiamo già detto, di una creazione originaria dell’uomo occidentale, e non del punto di arrivo di un

progresso costante dai primordi dell'umanità. La tecnologia dell'Occidente attesta uno spirito di iniziativa e una volontà di conquista che non ha precedenti nella storia; ed è parallela a quell'altro impulso di conquista che ha spinto l’uomo occidentale all'occupazione dell’orbe terracqueo, con diramazioni nello spazio. All’estremo opposto è

Nobiltà, borghesia, capitalismo

139

la grande semplicità tecnica della civiltà greco-romana, la cui macchina motrice più importante è rappresentata dalla moltitudine di schiavi: ma anche allora c'erano i grandi borghesi, di mentalità analoga a quella dei nostri. Altre civiltà, diverse da quella occidentale e da quella greco-romana, occupano uno spazio intermedio; ma nessuna si

avvicina per le conquiste tecnologiche, lo abbiamo già osservato, alle nostre vette.

L'industria significa macchine, e la finanza significa denaro. Anche il tipo di denaro inventato dagli occidentali è diverso: del tutto incorporeo, astratto, creazione puramente intellettuale, come lo è la visione del mondo della filosofia occidentale. La moneta, intesa come pezzo di

metallo con un valore intrinseco, sparisce. I grandi finanzieri ne fanno a meno da tempo; i loro patrimoni, le loro operazioni sono numeri astratti. Un amico che fece il servizio militare con Gianni Agnelli racconta con quale imbarazzo estraeva dalla tasca, con la punta delle dita, le

banconote sgualcite, come se fossero state oggetti mai visti prima, quando pagava il caffè in un bar. I biglietti di banca hanno sostituito la moneta anche per l’uomo comune; adesso, le carte di credito consentono all'uomo co-

mune di operare a sua volta, come i grandi finanzieri, con numeri astratti, con partite di conto. Il denaro come 0g-

getto non esiste più.

Anche la borghesia può essere considerata una classe sociale, come la nobiltà. Ma alla classe borghese si appartiene per la funzione che si esercita, non per la famiglia in cui si nasce. Un marchese è sempre un marchese, anche se guida un tassì. Il borghese è un mercante o un imprenditore, e cessa di esserlo se cambia mestiere. Col tempo, il

borghese sviluppa tuttavia un orgoglio di classe; affina determinate virtù, le virtù borghesi, che sono la serietà, la

laboriosità, la correttezza negli affari, l’inappuntabilità. Anche lui acquisisce abitudini e usanze che diventano uno stile di vita.

140

Il tramonto della nostra civiltà

E con questo nuovo stile si accentuano le differenze fra aristocratici e borghesi. Per il borghese, il dovere primario è di lavorare, di svolgere un'attività remunerativa; l’ari-

stocratico può essere a sua volta molto attivo, ma non considera la sua attività «un lavoro». Profondamente diverso è l'atteggiamento verso il denaro. Per l’aristocratico, il denaro esiste per essere speso; per il borghese, esiste per essere moltiplicato. È anche vero che per il borghese il denaro è il metro del successo. Ma si racconta di Filippo il Buono, duca di Borgogna, che non chiese mai, per tutta la vita, quale fosse lo stato delle sue finanze. Non è l'aristocrazia, comunque, l'antagonista storica

della borghesia, che pur combattendola nel periodo di trapasso dei poteri, cerca di imitarla nei comportamenti. L'aspirazione di un borghese di successo è di fregiarsi di un titolo e di uno stemma nobiliare; e di sposare una ragazza di nobile famiglia. La borghesia cerca di ritagliare la propria esistenza secondo i classici modelli della nobiltà: la residenza in campagna, i divertimenti della caccia, i cavalli e i cani, le grandes manières. Ma ciò che per gli uni è istintivo e naturale, per gli altri è appiccicato alla bell'e meglio. Per gli uni, la villa in campagna è la normale residenza, perché sono sempre stati proprietari terrieri, e lì è l'origine della loro fortuna; gli altri sono irrimediabilmente uomini di città. La borghesia è cittadina. L'Inghilterra è il paese in cui l'aristocrazia ha mantenuto più a lungo terra e prestigio; ed ecco che un ricco uomo d'’affari, sir Julius Wernher (lo leggiamo in un ampio studio di David Cannadine) «acquistò Luton Hoo nel 1903, una residenza che gli costava trentamila sterline l’anno di sola manutenzione, che richiedeva numerose persone di servizio e nella quale si recava solo di tanto in tanto la domenica pomeriggio». L'antagonista della borghesia è la classe operaia, il proletariato; in un certo senso, si può dire, il resto della popolazione. (I contadini stanno ai margini; poi spariranno.) La borghesia non rinuncia a esercitare il potere; tuttavia lo

Nobiltà, borghesia, capitalismo

141

esercita per delega, attraverso i rappresentanti dell’aristocrazia, i funzionari, i professionisti, gli intellettuali, i gior-

nalisti. I ministri, gli ambasciatori, i prefetti possono essere indifferentemente aristocratici, oppure ex operai, magari ex minatori o figli di minatori, come Ernest Bevin, un grande ministro degli Esteri inglese nel dopoguerra. Purché tutti siano bene inquadrati nella società borghese e capitalistica, e operino per la sua maggior gloria. Questo esercizio del potere, anche se avviene per delega, richiede però un'etica. Non si riesce a comandare se non si è legittimati al comando. La nobiltà, pur tra un giuoco e l’altro nel suo senso ludico dell’esistenza, faceva

derivare il proprio potere da una fonte soprannaturale; riceveva l'investitura dal re, che regnava per grazia di Dio, attraverso la sacralità della sua persona. La borghesia capitalistica trova una legittimazione diversa da quella divina, anche se il rapporto fra religione protestante e capitalismo è stato illustrato in modo brillante da Weber o da Tawney. L'etica borghese è costituita dalle regole di comportamento che la borghesia crea nell'interesse generale. Sia chiaro: l’obiettivo del borghese non è la virtù; l’obiettivo è

il guadagno, e questo vale tanto per l'industriale che produce automobili quanto per l'editore che pubblica un giornale. Ma il conseguimento dell'obiettivo è lecito, è legittimo solo se avviene nel rispetto delle norme di comportamento. Tale è la legittimazione borghese all'esercizio del potere; e le corrisponde simmetricamente la legittimazione della classe operaia, che a sua volta fa consistere il proprio senso dell'onore nella fedele esecuzione dei suoi compiti: quel che si dice guadagnarsi il pane. Come si arriva alla società senza classi, che contraddi-

stingue l’ultimo stadio della civiltà? Abbiamo detto che solo la nobiltà costituisce una classe

per diritto dinastico; per una questione di sangue. La borghesia e il proletariato sono classi funzionali, determinate

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Il tramonto della nostra civiltà

in primo luogo dall'attività che si svolge. Si è borghesi se si è imprenditori, mercanti, professionisti; si è operai se si

svolgono attività in prevalenza manuali negli stabilimenti. Ma la classe non è solo una categoria di mestiere, una corporazione. È anche un fatto culturale, perché crea una mentalità, un senso di appartenenza, una coscienza etica. A un tratto, nel decorso della civiltà, tutto questo cede.

In primo luogo cede perché si livellano, per ragioni obiettive, le varie attività economiche. Al vertice, le grandi imprese diventano sempre più grandi, sempre più anonime, di proprietà sempre più diffusa; e i grandi imprenditori, i fondatori, coloro che potevano veramente essere definiti gli eroi della società borghese, come Henry Ford o Krupp o Vanderbilt, cedono il posto a grigi dirigenti, a manager che sono anche, a loro modo, prestatori d'opera, come tut-

ti gli altri che lavorano nella stessa azienda. Si attenuano d'altra parte le differenze fra lavoro intellettuale e lavoro manuale; l'operaio non si distingue più dall’impiegato, per il reddito, per il modo di vita, per il vestiario, per la mentalità, e l'impiegato è meno diverso di prima dal capo, che non è più il grande imprenditore, il «signore», ma è il dirigente ai vari livelli del management. Quanto ai contadini, la loro classe è scomparsa da tempo

nella società moderna: bastano poche persone per coltivare i campi; e quei pochi adottano sistemi e mentalità prettamente imprenditoriali, cioè borghesi. Un farmer negli Stati Uniti non si distingue dall’industriale della città più vicina, col quale trascorre il tempo libero. Ma non vi è solo un livellamento nelle attività che si svolgono. Il fatto più interessante è che scompare la mentalità di classe. La classe è anche un fatto culturale; sicché

la cultura, quando cambia, la cancella. Si perde la coscienza di diversità fra i gruppi sociali; si perde l'orgoglio di appartenere a un gruppo o all’altro. Chi si proclama ancora borghese in questo nuovo stadio, che è lo stadio finale, lo fa per sfida, o con ironia, perché sente di essere sorpassato. Ormai, ogni individuo esiste solo per sé.

Nobiltà, borghesia, capitalismo

143

Nello stadio di decadenza di una civiltà non ci sono più classi; e con esse scompare l’insieme di simboli, di re-

gole, di qualità, di virtù che prima l'aristocrazia, poi la borghesia e, simmetricamente, la classe operaia avevano

creato attraverso il tempo. Rimane la nostalgia del passato, di quei borghesi di cui scriveva Thomas Mann e di quegli operai di cui scriveva Gramsci. Si avvera l'ideale dell'uguaglianza; ma si avvera soltanto in senso negativo, perché si aboliscono i contrassegni che costituivano, ciascuno a suo modo, titolo di civiltà. Rimangono invece dif-

ferenze profonde, talvolta abissali e crudeli, provocate da un solo elemento, l'elemento primario, l’unico che conta:

il denaro, e tutto ciò che il denaro procura in termini di educazione, cultura, assistenza medica, sicurezza.

Questa evoluzione ha un prezzo altissimo: la disintegrazione delle regole. L'etica di classe era collegata all’esistenza della classe; ora la classe non c’è più, e ciascuno si ritiene

libero di seguire qualsiasi strada pur di conseguire il massimo vantaggio. Così si spiega la corruzione dilagante, oltre che nella politica, anche nella vita delle imprese. L'imprenditore e il finanziere, il dirigente e il dipendente, cedono sempre più spesso alla tentazione di imboccare una scorciatoia per guadagnare di più in breve tempo. Le regole cadono anche nell’amministrazione pubblica, nelle istituzioni, nelle professioni, nel giornalismo.

È dunque vero che in una civiltà decadente il denaro diventa il metro di tutti gli uomini; intellettuali spregiudicati e sguaiati giustificano ogni comportamento purché abbia successo. Il luogo in cui avviene la trasformazione finale, la macchina livellatrice che tutto macina per produrre questo nuovo tipo di umanità, è la grande metropoli del nostro tempo.

II

Noi, abitanti di Babilonia

Le sconfinate metropoli sono l’ultima espressione di una civiltà nello stadio finale, e si somigliano tutte: New York nel nostro tempo equivale alla Roma antica L'ultima espressione della civiltà decadente è la grande città: la Weltstadt, la metropoli, la megalopoli. Ve ne furono nell'antichità: Babilonia, Alessandria, Roma, Bisanzio,

poche altre. E ricompaiono adesso, gigantesche, sconfinate: New York, Los Angeles, Londra, Tokio, sempre più

estese, sempre più popolose, con otto, dieci, dodici milioni di abitanti, forse anche venti o trenta se si includono le immense periferie, miscuglio di razze e di idiomi, affasci-

nanti e paurose allo stesso tempo, splendide e orride. In un certo senso, tutte uguali. Le analogie fra questi agglomerati urbani sono impressionanti, anche a secoli o a millenni di distanza. New York non somiglia soltanto a Los Angeles o a Tokio; ha punti di contatto anche con Babilonia o con Roma, ha lo stesso significato e presenta analoghe condizioni di vita. Certo può sembrare assurdo il paragone fra New York e la Roma imperiale; fra una metropoli rutilante di luci, irta di grattacieli, percorsa da milioni di automobili, sorvolata da stormi di aeroplani, e una cittadona di duemila anni fa, presumibilmente con i

suoni, gli odori, la folla, il ritmo di vita che oggi ritroviamo in certe città arretrate dell'Oriente. (È il viaggio impossibile, il sogno irrealizzabile di ogni giornalista: un reportage indietro nel tempo.)

Noi, abitanti di Babilonia

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Il paragone fra New York e la Roma antica sembra assurdo perché le conquiste della tecnica, l'elettricità, il motore a scoppio, il cemento armato, il telefono, la televisio-

ne, il computer ci inorgogliscono oltre misura, quindi ci fanno perdere il senso della realtà, fino a indurci a credere di essere diventati diversi e, naturalmente, migliori. Ma

siamo diversi davvero? Crediamo davvero di innamorarci, quando ci innamoriamo, in modo diverso da Catullo? Di fare politica, quando la facciamo, in modo diverso da Cicerone o da Catilina? Di ragionare in modo diverso dai contemporanei di Seneca o di Epicuro? Crediamo di essere «progrediti», quindi diversi e migliori? Ma allora dovremo anche pensare di essere più avanzati di Dante, di Goethe, di Beethoven o di Leopardi, perché neanche loro andavano in automobile, neanche loro telefonavano.

Dobbiamo imparare a cogliere l'essenza del modo di vita, della mentalità, dei problemi esistenziali di ogni epoca, e cogliere l'essenza significa astrarre dalle differenze esteriori. Sapremo allora scoprire le analogie fra situazioni in apparenza diverse, e capiremo quanto siano profonde le somiglianze fra due metropoli a duemila anni di distanza. Chi legga in un certo spirito l’epistolario di Cicerone, per esempio, scopre in lui un contemporaneo; non è difficile ritrovare fra gli uomini politici del nostro tempo, per fare un altro esempio, chi somiglia a Verre, il disonesto governatore della Sicilia. Anzi: le analogie fra il mondo di oggi, quale lo viviamo, e il mondo di allora, fra il tramonto del-

la repubblica e l'avvento dell'impero romano, sono la dimostrazione più convincente di quella visione della storia che esponiamo in queste pagine; dimostrano che la civiltà occidentale è giunta a uno stadio simile a quello di allora. Possiamo anche presagire, a questo punto, quale sarà il decorso nei prossimi decenni. Abbiamo a disposizione i precedenti.

La metropoli moderna non è l'inferno. È facile scivolare, quando se ne parla, nei luoghi comuni, che mettono in

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Il tramonto della nostra civiltà

risalto i suoi aspetti peggiori, le dimensioni, la confusione, l’ingovernabilità e, soprattutto, la crudele indifferenza verso la sorte dei suoi abitanti. Ma un giornalista che arriva a New York, che vi trascorre qualche tempo, conosce anche l’altra faccia della medaglia. La vita in una città come New York è un'esperienza bellissima. Ha una sua speciale effervescenza; ha un ritmo che dà l'impressione di

vivere di più, di vivere più intensamente, e anche di valere di più; come quando si beve champagne. Lì sono i giuochi di potere più spericolati, le avventure più audaci, gli spettacoli più diversi; si incontrano persone di ogni rango e di ogni razza, e tutto avviene a un alto grado di raffinatezza, soprattutto di intelligenza. La grande città è intelligenza allo stato puro; e lì si concentra tutta la civiltà contemporanea, tutto quello che conta, quello che suscita sorpresa, che non si ripete mai, che dà emozione. La metropoli risucchia e assorbe ogni forma di vita, afferra le persone di valore sparse per il mondo e le stringe a sé, diventa l’unico luogo in cui si ha davvero l’impressione di vivere. Il resto è provincia; è ritiro dal mondo. La voracità della metropoli è scandalosa; e anch'essa, a

modo suo, affascinante. La metropoli divora la campagna, invade il territorio, senza remissione. Ricordo il mio stupore quando andai a vivere a Londra mezzo secolo fa. Ero cresciuto in Italia, un paese ai margini della civiltà occidentale, appena appena alla vigilia della grande rivoluzione industriale, destinato a trasformarsi in un paio di decenni; l’Italia aveva ancora una campagna. Ed era una campagna che conoscevo abbastanza bene, ci avevo trascorso vario

tempo; ragazzo di città, avevo visto quel mondo così diverso: i buoi sui campi, lenti e tranquilli come i buoi omerici; i contadini dietro l’aratro, e l'eco lontana delle loro voci nelle valli; le strade fangose, i mucchi di concime, le case di pietra con la stufa a legna, il fumo azzurro che usciva dai

comignoli, la chiesetta in mezzo al paese, il truogolo dietro la curva. Era quella l’Italia delle lucciole rimpianta da Pa-

Noi, abitanti di Babilonia

147

solini; un'Italia contadina, sempre uguale nei secoli, perché la campagna non cambia. In Inghilterra, mi venne voglia di andare a cercare la

campagna inglese. Uscivo in auto da Londra, già allora fra lunghe code per gli ingorghi di traffico. Guidavo per chilometri e chilometri. E la campagna non si vedeva mai. Non c'era: era stata distrutta. C'era, se mai, qualche cosa di me-

glio. Fuori dei quartieri periferici di Londra, tutti ordinati, puliti, con le villette in fila, c'erano parchi ben tenuti, cam-

pi da golf, ampi recinti coi cavalli in libertà, molti alberi, qua e là un laghetto; tutto ben tenuto, elegante, accogliente. Ma non c'era più la campagna; non c'erano più i contadini, quelli veri; non c'erano più i buoi di Omero. La metropoli si allarga, si estende di continuo, tutto invade eruttando la sua lava di pietra, perché attrae una porzione di umanità sempre più vasta, e deve alloggiarla; anche quando non invade la terra dei campi, quando non vi costruisce le sue case, trasforma la campagna a sua immagine e somiglianza, ne fa un parco che le appartiene, azzimato e profumato. I centri circostanti sono inghiottiti. Highgate, Finsbury, Wimbledon, Hampstead, Kilburn erano tutti villaggi autonomi intorno a Londra; Marylebone, Holborn, Chelsea avevano i loro municipi, la loro

esistenza separata; adesso sono soltanto stazioni della ferrovia metropolitana sotterranea, quest'altra invenzione mirabolante, questa possibilità di viaggiare sotto terra comodamente sprofondati sui sedili di un treno, che oggi

accettiamo come una banale comodità di tutti i giorni. Milano, piccola metropoli nostrana, contraffazione provinciale delle metropoli vere, assorbe e congloba a sua volta Monza, Lambrate, Busto, assorbirà presto Vigevano, Binasco, Pavia.

Prima ancora di distruggere la campagna, infatti, la metropoli vorace distrugge la città tradizionale; quella del periodo aureo, bella e armoniosa, in cui non si conosceva

l'emozione, un po’ nevrotica, un po’ cerebrale, frutto

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Il tramonto della nostra civiltà

dell’intelligenza astratta e tagliente, tipica dell'uomo metropolitano, ma si viveva in uno stato di tensione, di par-

tecipazione ai riti dell’esistenza. Emozione e tensione sono due cose diverse: e la metropoli, scrive Yves Renouard, «funzionale, senza limiti e senza anima, non si avvicina

alla città del Medio Evo». La città tradizionale era un gioiello. La vediamo nelle stampe, nei dipinti: ben racchiusa fra le mura, ben delimitata dal territorio circostan-

te, coi palazzi dei nobili e dei mercanti accanto alle case degli artigiani, con le torri, con le chiese più alte, più solenni, più importanti dei palazzi. Come mai quegli architetti, molti di loro anonimi e sconosciuti, sapevano co-

struire con tanta grazia, con tale senso delle proporzioni? Sulle strade circolava gente in abiti variopinti, di varia foggia e di vario colore; i colori avevano un significato, erano quelli della corporazione, o del quartiere, o della dama da cui si era stati prescelti. Era intensa la vita di comunità, nelle cerimonie in chiesa e nelle feste mondane. Si

tenevano processioni frequenti di giorno o di notte, talvolta per varie giornate di seguito; e alle processioni si partecipava, perché l’abitante di quella città era attore piuttosto che spettatore; i cortei attraversavano la città con le torce, salmodiando. Le campane ritmavano l’esistenza alle ore prestabilite, dominando ogni suono, ogni rumore; talvolta risuonavano all'improvviso, anche in

piena notte, per raccogliere la popolazione e darle un annuncio, per esortarla alla preghiera nei momenti difficili, per esempio alla vigilia di una battaglia. Erano solenni i funerali; erano drammatici i sermoni dei predicatori itineranti, e muovevano alle lacrime: grande era la partecipazione, grande la tensione. Anche nella città tradizionale si viveva intensamente, come nella metropoli moderna; ma

in modo diverso, più naturale e spontaneo, non ancora cerebrale, non ancora intellettuale.

La metropoli si allarga, non più secondo i criteri sociali e i canoni artistici che determinavano lo sviluppo della città tradizionale, ma secondo princìpi urbanistici decisi

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dallo sfruttamento economico, in definitiva dal denaro.

Così sorgono i grandi edifici «funzionali», i casermoni, tutti uguali. Li si trova a Mosca come a Berlino, in regime comunista come in regime capitalista: la legge della metropoli non si cura dell'ideologia dominante, è uguale per tutti. Li si trovava anche nella Roma antica, grandi, ciclopici, uniformi, nei limiti concessi dai metodi di costruzio-

ne di allora. L'affollamento provoca difficoltà di traffico: adesso come allora. Le carrozze e i carri tirati dai cavalli creavano problemi di circolazione, come le automobili.

L'autorità cittadina cercava di regolare il traffico anche allora, come cerca di farlo adesso,

e numerosi erano nella

Roma imperiale i divieti di transito a certe ore del giorno e della notte. I grandi assembramenti umani presentano sempre le stesse difficoltà. Qual è, dunque, la condizione umana in una metropoli?

Come sono gli esseri le speranze di questi fenomeno metropoli politica; condiziona

umani che essa produce? Quali sono esseri umani, quali le frustrazioni? Il determina oggi un certo tipo di lotta i rapporti sociali; alimenta l’attività

economica; influisce sulla moralità, più o meno come de-

terminò il comportamento del cittadino romano duemila anni or sono (le testimonianze a noi pervenute lo confermano), e come determinò, presumibilmente, il comportamento dell’abitante di Babilonia, di Tebe o di Tenochtitlàn

secondo leggi costanti che si ripetono invariate nel tempo. Ma quali sono queste leggi? Possiamo anche chiederci, in altre parole, che cos'è l’uomo moderno, e perché è così. È ingenuo discutere se la metropoli, espressione di decadenza, renda gli uomini più felici o più infelici rispetto ad altre epoche storiche. Secondo l'opinione prevalente crea infelicità; ma a pensarci bene si dice di tutti i tempi che per una ragione o per l’altra ci rendono infelici, forse perché tale èconsiderata la condizione umana, da quando si è chiusa l’Età dell'Oro. È piuttosto vero che la felicità è una variabile indipendente: si può essere felici o infelici in

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qualsiasi situazione, secondo il carattere, il temperamento, lo stato di salute di ciascuno; si può essere felici in una

capanna, magari in un carcere, e infelici in una reggia.

Evitiamo pertanto i luoghi comuni; evitiamo di descrivere la metropoli come il deserto di pietra, o la giungla d’asfalto che riduce alla disperazione. C'è chi la trova orribile e chi la trova splendida; chi vi si adegua con facilità e chi non vi si adatterà mai. È però vero che la metropoli impone un particolare modo di vita; inculca una particolare mentalità. Quale?

Cominciamo con le negazioni: non genera patriottismo. L'esemplare umano che essa produce non ha sentimento di patria. Che ciò sia vero, lo vediamo tutti i giorni intorno a noi: i patrioti non circolano più. Per spiegarne la ragione, osserviamo innanzi tutto che il sentimento di patria non nasce dal nulla; non è sospeso per aria. Esso presuppone speciali legami, particolari interessi; presuppone un rapporto con il ceto cui si appartiene, con l’attività che si svolge. Può essere importante l’idioma che si parla, può contare la cultura che si è imparata a scuola, ma l’aristocratico vede soprattutto la patria nella terra che gli appartiene da molte generazioni, il borghese la vede nell'attività che svolge. L'amor di patria passa insomma attraverso la classe sociale. È inevitabile che si affievolisca o sparisca quando le classi si cancellano. Ed esse si cancellano, lo sappiamo, nelle metropoli, oggi come nel passato. La metropoli non favorisce neanche il nazionalismo. Può essere la capitale di un impero, può dominare il mondo, ma chi vi abita non prova orgoglio: si occupa d'altro. I cittadini dell'antica Roma assistevano con indifferenza all'arrivo di solenni ambasciate dai regni dell'Oriente, i cui monarchi chiedevano la protezione del Senato, o il suo intervento per dirimere controversie, così

come gli abitanti di New York e di Washington assistono di continuo all'arrivo di delegazioni straniere, per le stesse ragioni. La politica esteraè vista nella metropoli soprattutto come strumento interessante dal punto di vista

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economico, adesso come allora: come strumento per concludere buoni affari. I mercanti romani in Oriente erano mal visti per i loro interventi considerati predatori, come adesso lo sono i capitalisti delle multinazionali: nell’88 a.C. vi fu una strage di ricchi romani sotto il regno di Mitridate VI, e si pensa subito agli ostaggi americani in Persia, nei nostri tempi. Neanche le lotte sociali sono possibili, ovviamente, in

una società senza classi. La metropoli è livellatrice. Le battaglie eroiche e appassionate di Bakunin o della Luxemburg sono un ricordo, come quelle dei Gracchi lo erano a

Roma alla vigilia dell'impero. Le dispute sindacali mirano solo a far guadagnare di più. Ormai, gli uomini hanno perso il senso dell’appartenenza a gruppi o formazioni, e diventano tutti uguali, abitano tutti in appartamenti, si vestono allo stesso modo, hanno le stesse abitudini e le

stesse aspirazioni. Non c'è più mistica operaia né orgoglio borghese. Gli Stati Uniti, nati quando già la civiltà occidentale è alla svolta fra nobiltà e borghesia, fra periodo creativo e periodo razionale, non hanno mai conosciuto le classi secondo il modello europeo; ma ormai le classi si cancellano anche in Germania, anche in Inghilterra, dove

la società aveva mantenuto più a lungo le sue gerarchie. La Camera dei Lord perde ogni potere e gli Junker prussiani sono un ricordo folcloristico. Nella metropoli ci sono solo differenze di grado, non di specie; dovute alla quantità di denaro di cui ciascuno dispone. Tutti negli appartamenti; tutti nella stessa foggia di abito: ma ci sono grandi differenze fra un appartamento e l’altro secondo la ricchezza di chi lo occupa, come ce ne sono nella qualità della stoffa e nel taglio degli indumenti che ciascuno indossa. (Ci sono anche differenze di dimensioni, di potenza, di solidità nelle automobili degli uni e degli altri; però procedono tutte con la stessa lentezza negli ingorghi di traffico.) Poiché il denaro è importante, le considerazioni economiche diventano preponderanti, anzi ossessive. È un errore, lo si è detto, attribuire finalità

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economiche a ogni mossa dei cavalieri medievali, perché altri erano i loro criteri di scelta, le loro priorità, le loro

aspirazioni; ma adesso l’interpretazione economica della storia acquista validità, il denaro diventa l'aspirazione prioritaria, la finalità esclusiva.

Ed eccolo davanti a noi, l’abitante della metropoli, senza l'amor di patria, senza l'appartenenza di classe, ridotto al puro stato di individuo solitario. È, la sua, «la solitudine dell'individuo alla deriva nella giungla urbana»: lo storico Peter Green descrive con questa frase la condizione umana nell'antica Alessandria, ma non ci meravigliamo ormai più se essa è applicabile al nostro tempo. Il problema non cambia. La metropoli distrugge il senso di appartenenza a tutto ciò che contava nel passato; enon sa sostituirlo con il culto di se stessa, col senso di appartenenza a

se stessa. Il patriottismo di metropoli non esiste. «Quanti sono» domanda Yves Renouard «gli abitanti di Parigi che oggi si sentono figli di Santa Genoveffa e di San Dionigi? Qual è il centro dell’agglomerato?» La grande città, «mondo immenso, oscuro, disintegrato», non suscita sentimenti di dedizione, non suscita amo-

re: tutt'al più la si predilige perché ci si sta volentieri, così come si va volentieri in un ristorante che si giudica più piacevole di altri, o si torna volentieri in una località di

vacanza. Ormai vale una sola regola: ubi bene ibi patria. La mia patria è dove sto bene; me la scelgo dove trovo le condizioni migliori, quelle che più mi si addicono. Ma che cosa significa stare bene? Qual è il bene con cui l’abitante della metropoli, l’uomo moderno si identifica? Qual è la zattera di salvataggio a cui ricorre l'individuo solitario, allo stato puro, per rendere sopportabile la vita? È il piacere: vuol divertirsi, vuole provare tutte le esperienze capaci di gratificarlo, di procurargli emozione, di distrarlo, e ormai non esistono più ostacoli, remore, scrupoli: la ricerca del piacere non conosce limiti. Nell'antichità, la scuola dei cinici definiva la felicità co-

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me la soddisfazione dei bisogni naturali, e condannava tutto ciò che poteva contrastarla: le convenzioni sociali, le

norme di cortesia, le superstizioni, la proprietà, il capitale, il sistema delle classi. L’enunciazione di duemila anni fa sembra guidare pari pari la condotta dell’uomo moderno, che a sua volta respinge tutte le convenzioni, tutti i freni. Ciascuno fa quel che gli passa per la testa, senza timore e senza pudore, pur di divertirsi, pur di appagare i suoi desideri: «Nulla si merita» constata Stefano Zecchi «il sacrificio di una passione completamente dedita all’affermazione o alla difesa di un principio». L'ostacolo, l'unico che sussiste, è nella disponibilità di

denaro: denaro e piacere, piacere e denaro sono le due ossessioni ricorrenti. Un demagogo greco, Carneade, andava in giro per la Roma antica, dove era arrivato dalla Grecia (terra del peccato, come la Francia per gli americani), già un secolo prima dell'impero, e sosteneva che il proprio interesse poteva prevalere sui princìpi di moralità: sembra di ascoltare i discorsi di certi telepredicatori moderni, se così

vogliamo chiamare gli intellettuali che parlano alla televisione, sempre pronti a esaltarsi per i personaggi più spregiudicati purché abbiano successo, per gli avventurieri più scandalosi purché raggiungano il loro scopo.Il piacere più ovvio, nella metropoli moderna come nell'antica, è quello sessuale. Il gusto, di solito, è volgare: le preferenze del nouveau riche predominano, adesso come allora. Chi vende pornografia fa grandi affari. La tecnica moderna ne agevola la diffusione: riviste, film, videocas-

sette, e ogni sera migliaia e migliaia di persone, in migliaia di appartamenti tutti uguali, sole o in coppia, assistono cupamente alle prodezze sessuali di attori e attrici, sempre le stesse variazioni sul tema, facendole scorrere sul videoregistratore, moderno dispensatore di felicità. Fino a un passato recente magistrati prudes cercavano di intervenire; ricordo io stesso l'indignazione, forse anche un

po’ morbosa, con cui un procuratore della Repubblica a Genova estrasse dal cassetto della scrivania, per mostrar-

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mele, certe riviste arrivate per posta dalla Scandinavia, e

prontamente sequestrate. Adesso lo smercio è palese e universale, sotto gli occhi di tutti. Nell'antichità greco-romana, l'atteggiamento verso il sesso fu sempre più disinibito che fra noi; il solare spirito mediterraneo faceva accettare come normali i piaceri dei sensi, che hanno sempre turbato, invece, l’uomo occiden-

tale. Ma è probabile che molte raffigurazioni erotiche giunte fino a noi, e molti usi e costumi di cui leggiamo, non fossero abituali in ogni periodo della civiltà antica, e

che siano divenuti frequenti solo nel periodo finale di quella civiltà, quando anche in essa si allentarono i freni e

si instaurò la licenza. Si afferma per esempio che le donne di Creta andavano in pubblico col seno scoperto: ma lo facevano sempre, in tutte le varie epoche della storia cretese, o solo nell'epoca corrispondente a quella in cui, da noi, è diventato lecito il topless? Nei diversi momenti della storia, nelle società evolute e

in quelle primitive, i vari modi di convivenza, quindi anche i rapporti fra i sessi, sono stati assoggettati a regole. Insieme con le regole, esattamente allo stesso istante, sono

nate le trasgressioni; la prima trasgressione segnò la fine dell’Età dell'Oro, l'uscita dal Paradiso Terrestre. La storia

dell'amore in Occidente si apre col tradimento di Isotta. Ma il trasgressore è sempre consapevole della violazione che commette, e la società lo giudica come tale. Questo è vero fra i primitivi, che prendono a sassate l’adultera; ed è vero in quell’aristocrazia settecentesca, estremamente raffinata e libertina, descritta da Choderlos de Laclos, in se-

no alla quale la marchesa di Merteuil e il conte di Valmont sono capaci di ogni audacia erotica, ma trovano il loro piacere proprio nella consapevolezza di commettere peccati, di stringere i famosi «legami pericolosi»: comunque, nel romanzo, finiscono male.

È solo nei periodi del tramonto di una civiltà, quando gli uomini popolano le metropoli ormai prosciolte da ogni punto di riferimento, scettiche, irreligiose, cosmopoliti-

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che, «immense, oscure e disintegrate», è solo allora che ca-

dono tutte le regole. E infatti non è proprio questo uno dei grandi pregi di cui si parla quando si mostra di apprezzare il modo di vita a Londra, a New York o a Los Angeles: lì si può fare quel che si vuole? Lì (si dice) nessuno fa caso a te, qualsiasi cosa tu faccia. Ogni forma di unione, temporanea oO definitiva, eterosessuale

o monosessuale, è con-

sentita. Ogni proclività personale è permessa, sovente ostentata. Perfino la Chiesa, dopo secoli di regole severe, in qualche modo si adegua, sotto la pressione di una società che ormai trova assurdo ogni divieto; si parla di concedere i matrimoni anche ai preti cattolici, si parla di celebrare matrimoni omosessuali fra preti protestanti. Qualche divieto, per la verità, sussiste, almeno per la

forma. Si pone qualche barriera per i minori d’età, e abbiamo già detto che Augusto cercò di rendere un po’ più difficile lo scioglimento del matrimonio, un po’ più pericoloso l’adulterio. Ma ogni timido tentativo di contrapporre argini è travolto, perché i fenomeni sociali di questa portata non possono essere controllati con gli editti di polizia, né con l'intervento della magistratura. E se il diritto romano punisce l’adulterio, ma consente la prostituzione, le matrone romane si iscrivono prontamente-negli elenchi delle prostitute pur di godere della massima libertà amatoria. Le dame moderne non si iscrivono più in quegli elenchi, ma fanno qualche cosa di equivalente: si vestono come nel passato si vestivano solo le prostitute, con abiti ugualmente volgari e provocanti. Non si dimostrano forse vani i provvedimenti per arginare quell'altro corollario della vita moderna che è l’uso della droga? L'evoluzione del costume è rapida; il crollo dei tabù cla-

moroso. Ancora nella prima metà del Novecento il re d'Inghilterra deve abdicare se vuole sposare un’americana con un divorzio alle spalle; i divorziati non sono invitati alle corse di Ascot o di Epsom quando vi partecipano i reali. Cinquant'anni più tardi, non solo il divorzio è praticato nell’ambito della famiglia reale, ma i divieti in vigore

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fino a poco tempo prima sono giudicati illogici, perdono qualsiasi credibilità. E con quei divieti ne sono caduti, in cinquant'anni, molti altri, anche in paesi di costume più tradizionale, ai margini della civiltà occidentale; quelli in cui gli antichi parametri sembravano duri a morire. Le riviste con le ragazze seminude in copertina sono comparse nelle edicole di Istanbul e di Casablanca (altro che le donne velate), e la gioventù spagnola e italiana ha improvvisamente avuto il permesso, nel giro di una generazione, di comportarsi come quella svedese o olandese, cioè con la libertà sessuale più completa. Quanto alla droga, i divieti sono ormai impostati esclusivamente su argomentazioni mediche: la si vieta perché fa male alla salute. All’edonista bisogna evitare il rischio di ammalarsi; se sta bene, gode di più. Ma è proprio vero? E perché vietare alcune droghe, ma consentirne un'altra come l'alcol? Anche qui, il problema è troppo vasto perché sia possibile controllarlo con le leggi e con l'intervento della polizia. Già alcuni paesi, per esempio l'Olanda, hanno ceduto; che gli altri cedano o non, il ricorso alla droga non sarà certo estirpato. La libertà sessuale, la licenza, il

ricorso alla droga sono fenomeni sociali inevitabili nella società edonistica e scettica di un determinato periodo storico, e ogni censura morale lascia il tempo che trova. Quel che conta è l'opinione prevalente. Nei pubblici dibattiti sovente trasmessi dalla televisione è interessante osservare che, quando si parla di matrimonio, nessuno riesce più a trovare argomenti coerenti per spiegarne l’opportunità nel mondo contemporaneo, mentre hanno facile giuoco coloro che lo ritengono inutile, a dimostrare che il matrimonio è un istituto sorpassato. Anche la cultura assume al tramonto di una civiltà una connotazione particolare; è la connotazione «alessandrina», e prende il nome da Alessandria, cioè da una metro-

poli dell'antichità. La sua caratteristica è «la tendenza a classificare il passato piuttosto che a esplorare il futuro». La definizione, applicata da Peter Green alla cultura

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dell'èra alessandrina, vale naturalmente anche per quella contemporanea. Il periodo della razionalità, contrapposto a quello creativo che l’ha preceduto, non sa produrre con la divina facilità del passato le cose nuove, ma studia con

amorevole cura (e con pedanteria) le creazioni dei secoli precedenti, quelle del periodo aureo. Così nascono le gigantesche edizioni critiche degli autori classici, le dissertazioni filologiche; la metropoli ospita musei immensi, sempre più intelligenti (non è l’intelligenza la sua dote?), sempre più eleganti. L'antiquariato è un'altra caratteristica del periodo tardo; la produzione contemporanea è «funzionale», ma quella antica era soprattutto bella, e i ricchi la preferiscono. L'antiquariato (con le relative contraffazioni) è in auge ora, lo era anche nella Roma di duemila anni fa; Verre, il famoso Verre tan-

to inviso a Cicerone (e tanto moderno per la sua corruzione, giacché amava svisceratamente le tangenti) faceva anche l’antiquario. Il ripiegamento sul passato avviene di regola con venerazione, ma non mancano i casi di irriverenza: in una rappresentazione antica Medea era trasformata in una massaggiatrice, e vengono in mente certe odierne recite di Amleto in abiti moderni. L'èra tarda non riesce a ritrovare il pathos delle generazioni che l'hanno

preceduta, e ricorre alla parodia. Non si possono certo descrivere, o anche soltanto sfiorare, tutti gli aspetti di una metropoli, e della vita che vi si conduce, in queste poche pagine. Nessuno può raccontarla tutta: è troppo vasta, è sconfinata. Se ne possono cogliere certe qualità, inebrianti o tragiche, in visioni artistiche, e

non mancano i romanzi geniali sulle vicende umane, sulle estasi, sulle disperazioni di chi vi abita, di chi vi si perde. Christopher Isherwood, scrittore inglese, omosessuale, fi-

glio del suo tempo, precursore di tante esperienze simili alla sua, seppe rendere in poche battute i tristi piaceri, l’irrequieta malinconia, lo smarrimento che si provavano negli anni Venti a Berlino, nella Berlino prehitleriana, una delle

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prime incipienti metropoli moderne, libera, cosmopolitica, stravagante, intelligente, coi pittori astratti, con la musica dodecafonica, con le ragazze dalle unghie verdi. Da Berlino, Isherwood andò a Los Angeles: le metropoli sono tutte simili l'una all'altra, ugualmente ospitali per chi le ama; obbediscono alle stesse leggi. Qui non pretendiamo di descriverle in modo esauriente; vorremmo

sol-

tanto offrire una chiave di lettura che aiuti a capire le loro manifestazioni, a mano a mano che si presentano. Assistiamo a tanti spettacoli curiosi; ascoltiamo tanti discorsi strani. Vediamo gente vestita in modo bizzarro; vecchi uo-

mini d'affari che si presentano in camiciole colorate, donne di tutte le età indifferentemente vestite di abiti lunghi fino ai piedi o in minigonna o anche, succede sempre più spesso, senza pantaloni e senza gonna; le vediamo nelle strade centrali di città o in quelle dépendances della metropoli che sono i luoghi delle vacanze, ai Caraibi o sulla Costa Azzurra. Ci accorgiamo che i genitori, severi in altri tempi, concedono adesso ai figli, e alle figlie, la piena libertà di movimento, fin da quando i figli hanno quattordici o quindici anni d’età, forse meno, desiderosi soltanto, i genitori, di

godere a loro volta, nella loro vita, libertà analoga. Leggiamo che il famoso regista Peter Brook, in una rivista di New York, racconta gioiosamente con quale lieta aspettazione torna a casa, dopo avere comperato una rivista pornografica, per masturbarsi. Oppure leggiamo in un giornale (un editoriale di «Repubblica») frasi come questa: «E diventata un'abitudine quella di vilipendere lo Stato, o comunque di considerarlo poco più che un impaccio, un inutile ingombro, un fossile da trasportare in qualche museo degli orrori». Assistiamo a queste manifestazioni e a tante altre, leggiamo questi articoli, con un grado di stupore, magari di indignazione o di riprovazione, che varia in genere secondo la nostra età e le nostre origini, e ci chiediamo: perché succede? che cosa significa tutto ciò? Perché si vestono a

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quel modo? Perché tanto libertinaggio? Perché non si crede più nello Stato? E la risposta a tutte queste domande diventa facile se la nostra chiave di lettura è che nella civiltà in declino, nella metropoli in cui essa si esprime, l'umanità è ormai priva dei punti di riferimento quali esistevano un tempo; ed è alla ricerca soltanto del piacere; questo è vero oggi come lo fu nelle altre metropoli che esistettero in fasi analoghe di civiltà diverse, e pensiamo in particolare alla Roma di Cicerone o di Augusto, quando Ovidio, paragonabile forse al Peter Brook del nostro tempo, scriveva l'Arte amatoria. La metropoli non ha un'identità, non ha una connotazione etnica; non si può dire: è questo o è quello. Essa rappresenta solo un immenso

miscuglio, una somma

di

individui e di razze, confusione e guazzabuglio. La Roma antica era piena di greci, di siriani, di orientali, di gente venuta dalla provincia iberica o dalla Gallia; oggi, New York e Londra, Los Angeles e San Francisco pullulano di cinesi e di messicani, di giapponesi e di georgiani, di arabi e di africani (lo spagnolo è seconda lingua a Los Angeles, di uso comune come l'inglese), tutti sottoposti dalla mattina alla sera agli stessi messaggi che si accavallano chiassosi e nevrotici, nei giornali di ogni tipe, seri e frivoli, nelle trasmissioni televisive, nelle scritte pubblicitarie

che si accendono e si spengono nella notte, nei lampi di colore, nelle voci metalliche degli altoparlanti, nelle vetrine rutilanti che offrono cibarie, vestiti, orologi, gioielli,

apparecchi elettronici, libri, riviste, tutto quello che può essere venduto. E tutto avviene per il guadagno, tutto è giustificato dalla logica del guadagno: l'interesse finanziario, il profitto, ecco la legge suprema che ognuno accetta. Si fanno giornali scandalistici? Libri 0sés, o anche soltanto stupidi? Si

propalano confessioni clamorose, di donne che denunciano gli antichi amanti quando questi fanno fortuna o fanno carriera nella politica? Si mettono a disposizione del pubblico telefoni erotici? Si vendono le proprie memorie? Si

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' pubblicano le indiscrezioni dei servi sui vecchi padroni? Tutto lecito, tutto considerato comprensibile e giustificabile, purché procuri un guadagno. Il denaro è necessario per vivere bene; e vivere bene è l’ultima salvezza di questi esseri umani che, altrimenti, sarebbero colti dalla dispera-

zione, e non saprebbero perché sono al mondo. La legge è l’ultimo spartiacque fra quel che si può fare per guadagnare soldi, e quello che non si può. Altri divieti non esistono. Spesso si sta, naturalmente, al limite della

legge, in quella zona intermedia fra liceità e reato, sulla quale né i giudici né gli avvocati hanno idee molto chiare. Si giuoca in Borsa, e la Borsa è perfettamente lecita; ma

poi si può giocare in modi diversi, più o meno arrischiati, tali da mettere in difficoltà tanta gente, magari da provocare rovine e catastrofi, e allora la legge cerca di identificare e di perseguire i comportamenti illeciti: per esempio, l’insider trading. La finanza delle grandi società non è più una questione elementare, tanto denaro viene in cassa, tanto altro ne esce per pagare le spese, alla fine si vede il risultato: i bilanci sono operazioni astratte, ingegnose, cerebrali, che trasferiscono somme di denaro colossali senza che fisicamente si muova una sola banconota, un solo tito-

lo. Quante acrobazie contabili si compiono: come separare ogni volta, accuratamente, il lecito dall’illecito? Molti ri-

schiano, pur di avere un guadagno. Ci sono le zone intermedie fra onestà e disonestà (ma i termini sono anacronistici, bisogna parlare piuttosto di ciò che è permesso e ciò che è vietato dalla legge); e poi ci sono le violazioni aperte, dichiarate, clamorose. La criminalità è diffusa nella metropoli; è una sua caratteristica fondamentale. Mancano i freni morali; manca il buon

esempio dei ricchi; prevalgono invece i bisogni immediati, quei bisogni naturali la cui soddisfazione i filosofi cinici, nell'antica Grecia e nell'antica Roma, consideravano la

priorità assoluta. C'è la necessità di mangiare qualche cosa ogni giorno, di coprirsi, se possibile di avere un tetto

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sulla testa, e un'iniezione di droga se proprio non se ne può fare a meno. Allora si ruba, si aggredisce, si rapina,

magari si uccide. Le aggressioni, le rapine, gli scippi sono avventure quotidiane nella metropoli; più la metropoli è grande, peggiore è la criminalità, e alla stazione di polizia alzano le spalle

sconsolati, o magari irritati, quando il cittadino derubato va a denunciare il furto dell'automobile, dell'orologio, del

portafoglio. Certe zone cittadine sono praticamente off limits, sono oltre confini che non conviene varcare, per venti-

quattro ore al giorno; altre lo sono dall’imbrunire in poi. Se qualcuno si avventura nel Central Park di New York, lo fa a

suo rischio e pericolo; se è derubato, la gente dirà che è colpa sua, perché non doveva andarci. Nei tassì di New York c'era spesso un vetro corazzato fra il passeggero e il guidatore, che magari aveva accanto a sé un cane lupo, come seconda linea di difesa. C'è la criminalità spicciola, e quella raffinata e imprenditoriale delle grandi rapine nelle banche, sui treni, nei grandi magazzini. I banditi sono sempre esistiti: un tempo operavano nei boschi e lungo le strade di campagna; adesso sono nel cuore della metropoli, in mezzo a noi.

Quanto dura la metropoli? Tutto evolve nella storia; tutto ha un ciclo: per questo ogni civiltà si sviluppa, raggiunge il culmine, declina e muore. La metropoli è la sua ultima espressione, lo stadio finale. Proprio per questo si può anche pensare che abbia vita lunga, magari indefinita. Le forme di una civiltà evol-

vono fino a quando sono organicamente vive e creative; tendono a ossificarsi, a pietrificarsi, a rimanere immobili,

sospese nello spazio, quando invecchiano e perdono creatività. Se è vero che la razionalità pura si sostituisce, dopo che la civiltà ha raggiunto il culmine, all’istinto e all’intuito del periodo di sviluppo, l'intelletto è per sua natura freddo, meccanico, artificiale. Un corpo invecchia; una

mummia è eterna. Una civiltà, se non è distrutta con la

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Il tramonto della nostra civiltà

violenza, può sussistere per molti secoli, mantenendo intatte le forme di espressione, e di vita, che hanno perso si-

gnificato e vitalità. Diventa mummificata. L'India e la Cina ne sono l'esempio, per lo meno fino a quando non importano forme di vita a loro estranee dall’Occidente. Ma la metropoli, quale esiste nel periodo del tramonto, conosce un momento magico di equilibrio fra le sue componenti che può rendere piacevole l’esistenza al suo interno: assenza di scontri fra i vari gruppi; un certo ordine pubblico nonostante la criminalità diffusa; la soddisfazio-

ne dei bisogni naturali, dei famosi bisogni della filosofia cinica, resa possibile per la maggioranza della popolazione; pace alle frontiere; situazione internazionale sotto control-

lo. È questa, certamente, la situazione attuale. È improbabile che il momento magico possa durare all'infinito. (Non sarebbe più un momento magico.) L'equilibrio, specie in agglomerati sociali così variegati, compositi ed eterogenei, è precario. Arrischiamo una previsione: l'equilibrio potrà durare più a lungo in quelle oasi (diverse dalle grandi metropoli) rappresentate da città periferiche di alto livello, ben delimitate, non troppo aperte verso l'esterno, colte, sagacemente organizzate: per esempio, Stoccolma. Potrà sussistere, con difficoltà mag-

giori, nelle submetropoli disseminate nel mondo moderno, città troppo grandi per essere considerate di conio tradizionale, ma non ancora gigantesche: Francoforte, Milano, Madrid. L'equilibrio sarà esposto a pericoli più gravi nelle megalopoli che abbiamo cercato di descrivere, affascinanti proprio perché inverosimili. Ricordo il commento di un amico, un diplomatico ita-

liano che risiedeva a New York. Aveva visto New York in epoche diverse. «Assisto» mi disse «allo spettacolo di una grande città che sta disintegrandosi.»

IV

Ritratto dell'uomo politico

Le ideologie sono il tentativo di ordinare la vita sociale secondo ragione, per raggiungere il massimo di giustizia; quando muciono le ideologie compaiono gli avventurieri Coloro che svolgono attività politica nel nostro tempo presentano caratteristiche analoghe in tutti i paesi dell’Occidente: si somigliano tutti. Sono prevalentemente di modesta origine sociale (Truman era figlio di un merciaio, Carter produceva noccioline, i Thatcher avevano una bottega in provincia, il padre di Craxi era un piccolo avvocato). Fanno politica a tempo pieno. E da essa traggono i loro guadagni, leciti o illeciti. Non manifestano profonde convinzioni-ideologiche, non inseguono nobili ideali, non si sentono investiti da missioni storiche. La loro migliore qualità, quando c'è, consiste nell'essere efficienti nell'arte di governo, e quindi ottenere, come nella conduzione delle imprese, il massi-

mo risultato col minimo sforzo. Non vi sono pertanto differenze marcate fra partito e partito, fra gruppo e gruppo.

Anche i programmi, come gli uomini, si somigliano. Quando affrontano temi politici di carattere generale, sconfinano sovente nella demagogia. Hanno successo coloro che sanno meglio adoperare i grandi mezzi di comunicazione, ieri la stampa e la radio,

oggi la televisione. La vittoria è questione di immagine; prevalgono quelli che sanno diffondere l'immagine di una personalità vincente. Ma le campagne elettorali costano.

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Il tramonto della nostra civiltà

A parità di condizioni vince chi ha più denaro. Grande è dunque la fame di denaro, e spesso si ricorre a mezzi illeciti per procurarselo. La corruzione ha assunto dimensioni eccezionali in Italia, ma un certo grado di corruzione esiste ovunque. Questo è il panorama, e lo abbiamo tutti sotto gli occhi. Come si è arrivati alla situazione attuale? Quali sono le

sue origini? Quali le prospettive? La politica è affermazione di potere. Il signore feudale vuole consolidare il potere nel suo feudo ed estenderlo, se può, ai feudi confinanti. Il re vuole affermare il potere monarchico sui signori feudali, mirando al dominio assoluto nell’ambito del suo regno; cerca anche di allargarne i confini, di rafforzarsi mediante alleanze, di piegare amici e nemici alla sua volontà. La motivazione più profonda è la volontà di potenza, come romanticamente si soleva dire ai tempi di Nietzsche, o l’autoaffermazione, come più sobriamente si dice adesso. Ma ogni mossa politica, ogni decisione, ogni guerra ha i suoi obiettivi particolari, che cambiano secondo gli usi del tempo, secondo la mentalità dei protagonisti e secondo le circostanze. Agamennone guidò un esercito alla conquista di Troia per vendicare un affronto, il ratto di Elena,

e tremila anni più tardi l’Austria dichiarò guerra alla Serbia per vendicare un altro affronto, l'attentato di Sarajevo. Nei secoli di grande fede cristiana si combatteva per portare la croce fra gli infedeli, e i crociati andarono in Oriente per conquistare la Terra Santa; oppure si combatteva fra cristiani di denominazioni diverse. Si fecero guerre per impossessarsi di tesori, come Cortés in Messico e Pizarro in Perù, o per conquistare colonie, come l’Inghilterra in Sudafrica e l’Italia in Etiopia, o per occupare lo spazio vitale di un popolo, secondo la terminologia di Hitler, o per difendere i confini dai nemici (i confini, disse Mussolini, non si discutono, si difendono). Quello che è chiaro, in ogni caso, è che lo scopo dichiarato dei combat-

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timenti non era, nei secoli scorsi, il benessere materiale dei

sudditi. Ad Agamennone non sarebbe mai passato per la mente di assediare Troia per migliorare il tenore di vita dei greci. Federico di Prussia non addestrava i suoi imponenti granatieri per fare felice la fedele popolazione. Non ci si dava gran pensiero del bene comune; o lo si individuava tutt'al più, come nella Monarchia di Dante, nella

condizione spirituale che meglio preparava alla felicità eterna in paradiso. La politica interna, tradizionalmente, aveva lo scopo di predisporre lo Stato al successo nella politica estera: neanch'essa mirava a diffondere il benessere fra i cittadini. La finanza pubblica serviva a comperare armi, a costruire navi, a mantenere eserciti, a finanziare alleati. E quando ci si

occupava del tenore di vita della popolazione, quando si combatteva la povertà, lo si faceva solo perché uno Stato bene amministrato, abitato da una popolazione ben nutrita e soddisfatta, è più forte di uno Stato popolato da pezzenti affamati. I valori dominanti che guidavano l’attività politica, i valori per i quali si rischiava e si combatteva, erano nel passato quelli tipici della classe aristocratica: l'onore, l’orgoglio, la fierezza, la lealtà; e questo era vero tanto per Agamennone quanto per Francesco Giuseppe. I moventi, sostanzialmente, erano gli stessi per l'uno e per l’altro. Ma Francesco Giuseppe, a differenza di Agamennone, era ormai un personaggio fuori del suo tempo, perché al principio del Novecento prevaleva ormai una mentalità diversa: quella che possiamo chiamare la mentalità utilitaria. La svolta avviene quando la civiltà, raggiunto il culmi-

ne, entra nel periodo discendente. Abbiamo detto che la fase ascendente, quella creativa, è

un grande, splendido giuoco. Si costituiscono solidi Stati, che sono governati con solennità da corti eleganti e pompose, rette da un elaborato cerimoniale. Lì si giuoca alla diplomazia e alla guerra: si intrecciano con sagacia sottili

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Il tramonto della nostra civiltà

manovre diplomatiche, gli eserciti con le uniformi sgargianti scendono in campo per appoggiarle. E intanto si dipingono quadri e affreschi per adornare chiese e palazzi: li dipingono artisti come Raffaello, Tiziano, Rembrandt. Si scolpiscono statue: ci sono scultori come Michelangelo e Bernini. Si compone musica per allietare le cerimonie, le feste, i ricevimenti. Si mettono in scena tragedie commoventi, commedie graziose. Palestrina, Cellini, Bach, Han-

del, Shakespeare sono fra i protagonisti della grande civiltà al suo culmine, e bastano i loro nomi per indicarne lo splendore. Poi viene la stanchezza, il giuoco diventa troppo raffinato e formale, la classe che lo ha inventato tramonta. Viene alla ribalta un’altra classe, con un’altra vi-

sione del mondo. La nuova fase, e abbiamo detto anche questo, è quella

della razionalità: si giuoca meno, si ragiona di più. Vediamo ora come la svolta si riflette sull'attività politica. Viene dunque il secolo dei lumi, ci si inchina alla Dea Ragione, e ogni manuale di storia della filosofia riassume in poche frasi lo stato d'animo che prevale quando la civiltà arriva al giro di boa, e si comincia a riflettere sulla condi-

zione umana. Prendiamo la storia della filosofia di Vittorio Mathieu: nel Settecento ci si accorge, egli dice, che «le forme della vita associata e civile, così come si sono svi-

luppate ovunque, e in Europa in particolare, sono un fomite di discordia, di prepotenze, di lusso, di dissipazione; una gara in cui ciascuno cerca di prevalere sull'altro, di umiliarlo, di asservirlo ai propri scopi. E lo sviluppo della qualità intellettuale non fece che fornire armi più efficaci all'esercizio del sopruso morale. Diritto di proprietà, istituzioni delle magistrature, dispotismo sono le tappe di una progressiva ineguaglianza, fondata non sulla natura, bensì su un artificio, e resa possibile da un'intelligenza

asservita all’egoismo». Questa descrizione è un perfetto atto di accusa contro la civiltà, quale si era sviluppata prima dell'illuminismo. E vediamo che le qualità aristocratiche di cui parlavamo

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dianzi, gli elementi che reggono la convivenza umana e che concorrono a dare vita al grande giuoco della politica, sono ripetuti fedelmente nel brano di Mathieu, ma in negativo. La volontà di potenza, l'istinto di autoaffermazione diventano una stolta gara per prevalere sugli altri, per asservirli ai propri scopi. L'orgoglio di casta, la nobile fierezza diventano un abietto impulso di umiliare il prossimo. La grande architettura, l'eleganza e la raffinatezza della vi-

ta di corte, i palazzi fastosi, gli arredamenti impareggiabili, la profusione di statue e di dipinti, i concerti, gli spettacoli, tutti gli elementi che concorrono ad abbellire il grande giuoco nella fase aristocratica, che è la fase ascendente del-

la civiltà, altro non sono per gli illuministi, alle soglie della fase discendente, che lusso e dissipazione. Gli illuministi ammettono: c'è stato, è vero, un progresso; c'è stato lo svi-

luppo di qualità intellettuali: si è costruita una civiltà. Ma in questo modo ci si è allontanati dalla natura, e ciò che chiamavamo un giuoco è visto invece come un artificio: due parole di segno diverso per lo stesso concetto. Invariabilmente, l'uomo che ragiona diventa un moralista, e i filosofi il cui pensiero è riassunto nel brano di Mathieu sono moralisti. Tutto ciò che è dettato dall’egoismo nel giudizio del moralista diventa sopraffazione, ed è riprovevole perché è ingiusto. Ma le discordie, le prepotenze non sono esecrabili soltanto perché sono ingiuste; sono anche stupide, prive di senso, perché si ritorcono contro chi le commette, e comunque

concorrono, tutte in-

sieme, commesse dall'una o dall'altra parte, a rendere la vita difficile, tormentata, dolorosa, infelice. Se dunque vogliamo essere felici, dobbiamo ordinare la nostra vita in

modo diverso; dobbiamo comportarci non secondo l’istinto, ma secondo la ragione. Così nascono le teorie sociali, nascono le ideologie.

Perché nascano proprio allora, perché proprio nel Settecento gli uomini di cultura si mettano a ragionare, per giungere a quelle conclusioni, può apparire strano a chi

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cerchi di ogni evento le cause esterne. In realtà non ci sono cause; non sono identificabili fattori esterni, senza i quali non si sarebbero determinati i fenomeni di cui parliamo. La semplice verità è che allora si apre il secolo dei lumi, si apre la fase della razionalità perché ogni civiltà, avendo raggiunto il culmine, subisce nel periodo successivo quel genere di evoluzione. Sappiamo che l’uomo incanutisce perché invecchia; la vecchiaia è un fenomeno naturale che non possiamo sopprimere. Così, la cultura acquista quella connotazione razionale a un certo momento dell’evoluzione di una civiltà, e ciò avviene in quella greca come in quella indiana, in quella cinese come nella nostra: è questo il modo di invecchiare di una civiltà. L'avvento del razionalismo coincide con l'avvento della borghesia in posizione dominante; e tutto cambia, nella concezione non solo dell’arte, della religione, dell'attività economica, ma

anche della politica. In politica, l’illuminismo produce le ideologie, e ogni ideologia si prefigge un ideale di giustizia. Non è giusto, secondo l’umana ragione, che un uomo

singolo, o un

gruppo ristretto di individui, o un'intera classe sociale, prevalgano sul resto della comunità. Ciascuno ha lo stesso diritto di partecipare al governo della nazione. La teoria sociale prescrive, per garantire questo diritto, la democrazia. Si vorrebbe che tale diritto fosse esercitato nella sua pienezza, senza intermediazioni, e ne troviamo l’espres-

sione più elementare e più infantile quando Gheddafi, dittatore libico, dichiara nel suo Libro verde che in Libia il

popolo si governa da solo, senza partiti, perché il partito esprime la parte e non il tutto: punto e basta. Ma questo non è possibile, e allora si elaborano sistemi democratici e procedure elettorali per consentire la partecipazione di ogni cittadino al governo della comunità. L'economia, nella nuova fase della civiltà, si sposta al

centro dell'attenzione, diventa l'occupazione primaria nella cultura e nella vita pratica, e il tentativo di ordinare l'esistenza degli esseri umani secondo ragione, senza la-

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sciare libero sfogo all’istinto, si estende ai rapporti economici. Si ragiona su di essi, e ci si convince che ogni operatore, perseguendo il proprio interesse, fa anche l'interesse della comunità, secondo la famosa osservazione di Ada-

mo Smith: se il mio pasto quotidiano dipendesse dalla carità del fornaio e del macellaio, morirei di fame; sopravvi-

vo perché il mio pasto dipende dal loro interesse a vendermi il pane e la carne. Ma l'interesse del singolo coincide con quello della comunità solo se egli agisce in un libero mercato, accanto a una miriade di operatori simili a lui, così numerosi (diranno poi gli studiosi del problema della concorrenza) che nessuno, manipolando arbitrariamente il prezzo della sua merce, sia in grado di provocare una qualsiasi variazione sul prezzo di mercato. La libertà di mercato deve essere garantita dallo Stato. L'industriale monopolista che respinge l'intervento dello Stato a lui contrario nel nome della libertà di impresa e dell'economia di mercato dice una sciocchezza, o tenta un imbroglio. Politica, economia trovano dunque nuove forme nel momento in cui la civiltà si prefigge un nuovo ideale: quello di vivere secondo ragione. I valori dominanti non sono più l'orgoglio di casta, la potenza, e.quel senso di onore che ha come corollario la vendetta dell’affronto (valori che si ritrovano, sia detto per inciso, in associazioni

mafiose; ed è la ragione per cui certi intellettuali, pur condannando la mafia, sono affascinati dal suo codice). I va-

lori della nuova deve perseguire ne umana deve del singolo con

fase sono la giustizia e l'utilità. Ognuno ciò che è giusto e ciò che è utile; la ragiostudiare il modo di far coincidere l'utile il vantaggio di tutti. Le teorie indicano la

strada, e lo Stato, il nuovo Stato borghese, deve attuarle. I cittadini che credono in quelle teorie, e in certe loro elabo-

razioni più che in altre, formano associazioni e partiti. Abbiamo qui le premesse della situazione odierna. AI vertice della costruzione, alla sommità di ogni aspirazione troviamo adesso il bene comune: ma non più nel

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Il tramonto della nostra civiltà

senso in cui lo intendeva Dante, che pensava al bene spirituale, alla virtù, alla piena realizzazione della vita morale,

bensì inteso come benessere nell'accezione più completa, materiale oltre che spirituale, e anzi sempre più materiale con l’andar del tempo. Agamennone non potrebbe più sognarsi un assedio di dieci anni per i begli occhi di sua cognata. Ora è lecito ciò che giova ai più; e se l’Austria di-

chiara guerra alla Serbia per l'attentato di Sarajevo, il governo e i giornali devono affannarsi a spiegare che quello è solo un pretesto, un episodio, uno spunto; ma la

guerra è giustificata da superiori interessi nazionali (o imperiali). A poco a poco, il bene comune diventa l’imperativo categorico della organizzazione statale negli Stati dell'Occidente, e le teorie sociali indicano il modo razio-

nale di perseguirlo. Sorge tuttavia un problema. Vi sono, come abbiamo detto nelle pagine precedenti, uomini di pensiero e uomini d'azione. Ne abbiamo parlato affrontando il problema della genesi di una civiltà, descrivendo le figure del guerriero (il nobile) e del sacerdote, ma la distinzione sussiste

in tutti i periodi successivi, è una costante della storia. In ogni momento, in ogni epoca di una civiltà in evoluzione, vi sono uomini propensi ad agire, e altri propensi a riflettere sulle azioni di coloro che agiscono. Un imprenditore è uomo d'azione; un economista è uomo di pensiero. Il mondo della politica attiva, quella non pensata a tavolino, ma fatta di giorno in giorno, governando, negoziando, arringando, è pascolo dell’uomo d'azione. Quello di pensiero può avventurarsi con i suoi ragionamenti, oltre che in ogni campo dello scibile (astronomia, chimica, biologia, elettronica, e così avanti), anche nella scienza politica. Può

inventare teorie sociali, elaborare ideologie. Però rimane sul terreno della teoria, cioè del pensiero. Rousseau non si presenta candidato alle elezioni. Robespierre, d'altra par-

te, non era molto forte in scienza politica. Le motivazioni che spingono l’uomo d’azione a sceglie-

Ritratto dell’uomo politico

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re, diciamo così, una carriera attiva sono molteplici; esiste la più grande varietà di esemplari fra gli uomini d'azione,

e si può passare da grande rozzezza a raffinatezza estrema, da una cultura profonda a una cultura inesistente. Gli uni sono motivati da bruciante ambizione, e si danno alla

politica per un forte desiderio di rivalsa sulla società; gli altri vogliono semplicemente vincere la noia. Napoleone, proveniente da una modesta famiglia corsa, irruente, impaziente, un po’ screanzato, vuole conquistare il mondo. Talleyrand, ricco aristocratico, è pigro e indolente, ma è uomo d'azione anche lui, sebbene di un tipo diverso da Napoleone. Lo spartiacque fra azione e pensiero, cioè il modo di distinguere l’uomo d'azione dall'uomo di pensiero, non è in

quel che ciascun essere umano fa concretamente, perché vi sono uomini di pensiero che le circostanze della vita hanno portato ad agire, cioè ad assumere incarichi operativi (in genere hanno scarso successo); e vi sono uomini d’azione che si ritirano a meditare in campagna. Lo spartiacque è nel criterio di scelta col quale ciascuno decide il suo comportamento. L'uomo d'azione agisce secondo l'istinto, si affida a un sesto senso in ogni decisione: quando convenga attaccare e quando ritirarsi, che cosa bisogna dire a un al-

leato o a un avversario, quando sia opportuno lanciare un prodotto. L'uomo di pensiero si affida al ragionamento, e il ragionamento lo induce a scegliere, non ciò che è conve-

niente, ma ciò che è giusto. Detto tutto questo, è chiaro però che la separazione non è mai netta e assoluta, nel sen-

so che ognuno di noi è contemporaneamente uomo d'’azione e di pensiero. Il filosofo, l’ideologo è guidato dall’istinto quando, filosofando, arriva al momento di quel salto logico di cui parla Nietzsche nel bellissimo saggio sui presocratici; la creazione di ogni teoria, anche la più asettica, è dovuta a un impulso di carattere istintivo. L'uomo d’azione, d'altra parte, pensa e ragiona anche nel momento cruciale di una battaglia. Queste osservazioni aiutano a capire la natura dell’equi-

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voco che inevitabilmente pesa su ogni uomo politico nell'era delle ideologie, mettendolo in cattiva luce di fronte all'opinione pubblica. L'ideologia politica è il frutto di un ragionamento, è elaborata da uomini di pensiero, impone una moralità. Ma l’uomo politico che si candida a governare la nazione, o la città, o il quartiere appartiene pur sempre, anche nell’epoca delle ideologie, come in ogni altra epoca nella storia di una civiltà, alla categoria dell’uomo d'azione; è prevalentemente uomo d'istinto come lo erano i suoi predecessori in epoca aristocratica ed eroica, e come loro aspira a pre-

valere sugli avversari, è spinto dalla volontà di potenza, perché questa è l'essenza della politica. C'è però una differenza: adesso egli non può sperare nel successo, a differenza dei predecessori, se non sposa una teoria; se non professa gli ideali contenuti in quella teoria; se non attin-

ge al serbatoio di idee e di concetti che gli offrono gli uomini di pensiero, i pensatori, gli ideologi; se non si serve dell'ideologia per conquistare il potere. Può darsi che ci creda davvero. E può darsi che soltanto finga di crederci. Esistono in tutte le epoche esempi innumerevoli di un caso e dell'altro, e molti casi intermedi. La storia mantiene vivo il ricordo, di solito, degli idealisti, da

. Cromwell a Giovanna d'Arco, e dimentica gli altri, giustamente consegnati all'oblio, trattandosi di imbroglioni. Ma è vero che un certo grado di ambiguità aleggia su tutti, anche sui più onesti, su quelli che sono sinceri quando dicono di credere in quel che dicono, perché l’azione politica esige sempre, in quanto azione, una qualche indipendenza dalle regole fissate dalla teoria. C'è infatti una contraddizione di fondo fra l'essenza della politica, prevalere sugli altri, e il bene comune, fondato sulla giustizia

e sull'utilità generale. Alcide De Gasperi era un uomo politico onesto, di grande moralità; eppure neanche lui, quando la sera diceva le sue preghiere e andava a letto, poteva approvare tutto ciò che aveva fatto durante la giornata.

Ritratto dell'uomo politico

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Questa ambiguità fra teoria e pratica mette inevitabilmente ogni uomo politico, anche il più integro, in difficoltà di fronte all'opinione pubblica: da quando l’età borghese instaura il principio di razionalità e il fine del bene pubblico, il prestigio della professione politica comincia il suo declino. Si scoprono in chi la esercita incongruenze, reticenze, contraddizioni. Il declino si accelera quando cresce il numero dei professionisti della politica, di quelli che su di es-

sa vivono. Oggi, la discesa sembra irreversibile.

Le teorie sociali sono ambiziose; pretendono di applicarsi all'umanità intera, in tutte le situazioni e in tutte le

epoche. Al loro centro è di solito l’uomo astratto; un esemplare umano quale non esiste in carne e ossa. Le norme indicate dalla teoria sociale sono destinate a garantire a ogni uomo, in ogni latitudine, il massimo di felicità, nel conseguimento del bene comune. In realtà, ogni teoria, sebbene aspiri a validità universale, discende da una particolare visione del mondo, e la vi-

sione cambia secondo i tempi e secondo le condizioni sociali. Quella prevalente alla fine del Settecento è, lo abbiamo visto, la Weltanschauung borghese. È inevitabile che giovi soprattutto alla classe borghese, per la sovrapposizione degli interessi particolari sulla visione generale. Sarebbe infantile attribuire questa sovrapposizione a malafede. È però un fatto che la dottrina liberale e l'economia di mercato, imperniate sulla libertà dell'individuo, pre-

miano l'individuo più intraprendente, che parte da posizioni di vantaggio se cresce nell'ambiente giusto, se riceve una buona istruzione, se frequenta persone influenti. Si mira in teoria al bene comune; in pratica il bene è, parafra-

sando Orwell, più comune per gli uni che per gli altri. L'applicazione della teoria liberale vorrebbe giovare a tutti, nel nome dell'uguaglianza: in pratica giova alla classe borghese, a scapito delle altre categorie sociali. L'individuo imprenditore è privilegiato rispetto all'individuo operaio: l'individuo imprenditore ha un grande potere,

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Il tramonto della nostra civiltà

mentre l'individuo operaio, preso a sé, è debole. La teoria liberale, imperniata sull’individuo, vieta agli operai di mettersi insieme per essere meno deboli. I sindacati sono per lungo tempo fuori legge. Il secolo dei lumi introduce grandi ideali di libertà e di eguaglianza, che vogliono redimere l'umanità intera; ma il reggimento della cosa pubblica nell’èra dell'ideologia porta all’egemonia o a tutto vantaggio dei ricchi. La borghesia non governa in prima persona. I suoi rappresentanti sono di altra stoffa. I mercanti, gli imprenditori hanno altra mentalità rispetto a quella dell’uomo politico. Vogliono produrre beni, vogliono fare commerci; il loro obiettivo è il guadagno, il profitto, non la conquista, tanto meno il servizio pubblico. La borghesia, quando diventa la classe egemone, delega l'esercizio del potere a uomini politici che provengono da altre categorie sociali: ad aristocratici (che però non governano più in nome dell’aristocrazia), a funzionari, ad avvocati, e qualche volta anche ad avventurieri. I baroni, i conti, imarchesi continuano a fare gli ambasciatori, ma il loro compito, ormai, è

di agevolare le esportazioni e di concludere i trattati commerciali.

I governi sono, è stato detto, comitati d'affari al

servizio di una classe sociale. Si formano così gruppi dirigenti abbastanza stabili, i cui rappresentanti si alternano nelle cariche di governo e nelle funzioni amministrative. La democrazia, sistema politico nato all'insegna della libertà e dell’eguaglianza, e destinato ad affidare la cosa pubblica a tutti i cittadini senza distinzione di classe, diventa in realtà un regime di stam-

po borghese in cui gli elettori hanno soltanto la facoltà, ogni quattro o cinque anni, di scegliere fra due o tre gruppi dirigenti alternativi. La teoria sociale mostra insomma, al momento dell’applicazione, i suoi limiti: persegue grandi ideali, libertà, eguaglianza, giustizia, bene comune, che la pratica provvede poi a modificare e a ridimensionare, per adeguarli alle possibilità concrete. Un sistema nato per raddrizzare le ingiustizie dell’epoca aristocratica,

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per liberare gli uomini dall’oppressione di un’oligarchia, crea nuove ingiustizie, nuovi gruppi oligarchici. Ma gli ideologi non si danno per vinti; ormai sono risoluti a mettere ordine nei fatti della vita, per garantire all'umanità un'esistenza razionale, per affrancarla dalle prepotenze, dai privilegi, dalla diseguaglianza, da tutti i malanni provocati dai bassi istinti. La teoria dell’èra borghese ha rivelato le sue iniquità; nasce la teoria socialista. Si può affermare, a rischio di essere fraintesi, che è la più completa, la più esauriente, la più ambiziosa. Gli ideologi liberali, da Locke a Smith, lasciano ampio

spazio agli istinti umani, ai desideri di successo e di ricchezza, successo individuale e ricchezza individuale, mia

e non tua; prendono pari pari alcuni di quegli impulsi che nell’èra preborghese spingevano le persone a ottenere successo e a prevalere sugli altri, e li trasferiscono dal terreno politico e militare a quello economico, perché ormai si ragiona soprattutto in termini di impresa e di finanza; cercano inoltre di garantire che il vantaggio degli uni non significhi la distruzione degli altri, riuscendovi, come si è detto, solo in parte. Ma non dimentichiamo che gli istinti sono contrapposti alla ragione, e possono entrare in conflitto: la teoria sociale borghese non è ancera l'apoteosi della razionalità pura. La teoria socialista va oltre. Essa cerca di ridurre a razionalità tutti i rapporti umani, secondo schemi intellettualmente ineccepibili, o almeno così sembra a prima vista. Se la produzione dei beni è affidata all'iniziativa dei singoli, spinti dal desiderio di guadagno, il risultato è che si producono anche beni inutili, che distolgono i consumatori dall'acquisto di beni utili; ne soffre il livello di ricchezza generale. La teoria socialista prescrive pertanto che la produzione dei beni sia decisa, non secondo gli automatismi di mercato e secondo i capricci dei produttori, ma in base alle esigenze della comunità. Così si produrranno soltanto le cose veramente utili. La ricchezza è oggi mal distribuita, in modo ingiusto:

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risolviamo il problema, secondo la teoria socialista, con una formula ineccepibile, assai bella nella sua essenzialità, diamo a ciascuno secondo i suoi bisogni, chiediamo a

ciascuno di contribuire al bene comune secondo le sue possibilità. Ma a questo punto non è più necessario il diritto di proprietà, perché la formula su esposta crea condizioni di equilibrio perfetto, e non occorre possedere alcunché se i beni della comunità sono a disposizione di ognuno secondo le sue esigenze. Ne discende che può sciogliersi lo Stato, come già si sospettava ai tempi di Rousseau. Non è forse lo Stato un’'ingombrante sovrastruttura, creata per regolare i rapporti proprietari? Non si può immaginare nulla di più razionale. Viviamo oggi in una valle di lacrime a causa degli egoismi umani; lasciamo che prevalgano i dettami della ragione, e torneremo all’Età dell'Oro. Nel 1928, Majakovski immaginò in un'opera teatrale (La cimice) le condizioni dell'umanità cinquant'anni più tardi: tutto sterilizzato, tutto perfetto nel paradiso comunista, cioè, per l'appunto, nell’Età dell'Oro. Senonché un bel giorno un blocco di ghiaccio (siamo in Russia) si scioglie e ne emerge un operaio, quasi un fossile dell’èra precomunista, che vi era rimasto intrappolato quando i pompieri stavano spegnendo un incendio. Miracolosamente vivo, dopo mezzo secolo, l’operaio si guarda intorno, e trova insopportabili le nuove condizioni di vita; esposto ai visitatori in una gabbia, co-

me esemplare del mondo che fu, scopre su di sé una cimice, miracolosamente conservata come lui, e solo allora è

felice. Meglio il vecchio mondo con le cimici, che quello nuovo inventato dai teorici. Già allora, all’inizio dell’esperienza comunista, Majakovski aveva capito che c’era qualche errore nell’impostazione, Infatti poi si uccise. L'ideologia socialista, la più razionale, la più perfetta, è anche la più assurda, perché più ci si inoltra nel regno della razionalità pura, più ci si allontana dalla realtà della condizione umana. L'uomo non è quello immaginato dagli ideo-

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logi; privato degli istinti individuali, del desiderio di prevalere sugli altri, della volontà di autoaffermazione, perde lo spirito di iniziativa, Per fortuna, le nazioni della civiltà occidentale, bene assestate nel loro sistema politico ed economico, non tentano l'applicazione dell'ideologia socialista, anche se in molte sorgono partiti che a essa si ispirano, per polemica antiborghese e in sostegno degli operai. Si tenta invece l'applicazione di quell’ideologia alla periferia della comunità occidentale, in nazioni a essa estra-

nee: in primo luogo in Russia. Torneremo sull'argomento quando vedremo di collocare i popoli slavi al posto che a essi compete nella nostra visione della storia. Ma osserviamo subito che la teoria socialista, già ai primi tentativi, si dimostrò assurda: non era possibile applicarla. Accadde allora quel che doveva accadere. Spregiudicati uomini

d'azione intervennero e, affermando di ispirarsi al socialismo, si diedero in pratica al più brutale esercizio del potere. Al massimo di utopia, quindi di irrealizzabilità sul piano teorico, corrispose, come era inevitabile, il massimo di

spregiudicatezza sul piano pratico. L'ambiguità di cui si è parlato a proposito degli uomini d'azione che fanno riferimento a una ideologia si risolse per quel gruppo in uno spietato realismo politico. n A parole, Stalin e gli uomini intorno a lui continuavano a riferirsi alla ideologia socialista, e dicevano di adoperarsi per la creazione delle perfette condizioni comuniste. Può darsi che alcuni di loro, per semplicità mentale e per impreparazione culturale, ci credessero davvero. Perfino uomini del periodo più tardo, quale Gorbaciov, erano convinti che il sistema capitalista fosse condannato all'estinzione, e speravano di rendere efficiente il sistema comunista attraverso le riforme. Ma nell'attività politica il gruppo dirigente a Mosca si comportò secondo la più rozza Realpolitik. E il suo comportamento può essere considerato, come vedremo, il preludio di quel che accadrà in altri paesi. Il tentativo di applicare in pratica, su esseri umani reali, i princìpi di un’ideologia è destinato a fallire, ovunque e

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in qualsiasi circostanza. In ogni civiltà viene il momento in cui gli uomini, stanchi delle incongruenze della vita reale, cercano di riordinarla secondo ragione, ispirandosi ai princìpi di giustizia e di utilità generale. Ogni civiltà conosce la sua illusione socialista. Quando i suoi cultori cer-

cano di passare alla pratica, il risultato è sempre lo stesso. A Siracusa (periferica rispetto alla Grecia, come la Russia lo è rispetto all'Occidente) si tentò di regolare la vita pubblica secondo la teoria politica di Platone. Fu anche lì, naturalmente, una catastrofe. Come ogni scuola di pensiero, anche l'illusione illumi-

nistica ha un ciclo. A un certo punto nella storia di una civiltà, gli uomini credono di potere rimediare all’illogicità della vita mediante l'applicazione di teorie razionali. Ci provano. Poi se ne stancano e pensano ad altro. Gli autori delle ideologie passano di moda. Oswald Spengler scrisse di Marx nel 1919: «Fra cinquant'anni sarà soltanto noioso». A suo giudizio, la fiducia nelle teorie sociali di vario segno dura in ogni civiltà un paio di secoli. Viviamo ora in un mondo privo di fede ideologica. Nelle democrazie occidentali, si cerca alle soglie del Duemila

di conciliare l'efficienza con l'equità rappresentativa; la propensione è verso l'efficienza, e gli ideali di equità e di giustizia, vissuti nell'Ottocento con grande passione, sono ormai perseguiti senza pathos. L'economia di mercato, la libertà d'impresa hanno cessato di essere grandi ideali, ammesso che lo siano mai stati. Il capitalismo ha prevalso perché funziona, e la massima preoccupazione dei teorici non è ora di proclamarne la santità, ma di controllarne gli eccessi. La concentrazione delle imprese, i monopoli dell'industria e della finanza hanno stravolto i mercati. Fukuyama afferma che è finita la storia perché si instaura ovunque la liberaldemocrazia, massima aspirazione dell'umanità. Lasciamo andare se il sistema ora vigente sia così perfetto: fine della storia significa comunque,

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se Fukuyama ha ragione, fine degli entusiasmi, fine dell'interesse. A questo punto possiamo capire come si fa politica nel nostro tempo; chi la fa, come la fa, che comportamento

tiene e quali obiettivi si prefigge. Ridotta ai termini essenziali, la situazione è questa: uomini privi di ideologia si rivolgono a una società senza classi. Che le classi si sono cancellate, lo abbiamo constatato quando abbiamo preso in considerazione la popolazione della metropoli in una civiltà decadente. E questa umanità ha perso la fede nell’ideologia: Marx è diventato noioso. Gli uomini politici, in questa fase della civiltà, provengono indifferentemente da tutte le categorie professionali, e sono per lo più di origine modesta. La scelta della carriera politica non è più dovuta a situazioni dinastiche o a ragioni ideali. È casuale. Chiunque può provare a farla, se possiede certe doti. Bill Clinton e sua moglie, quando seppero nella notte fatale che avevano vinto le elezioni per la presidenza, si guardarono in faccia e scoppiarono a ridere, increduli: come se avessero vinto una lotteria. I più, quando si danno alla politica, hanno alle spalle una vita di povertà. Li spinge il desiderio di avventura piuttosto che il senso di missione. Il crollo degli ideali, l'abbandono dell'ideologia sono visibili nella seconda metà del Novecento. All’inizio di questo periodo, cioè alla fine della seconda guerra mondiale, alcuni uomini politici sono ancora spinti da ideali, hanno davanti a sé obiettivi di alto livello. Adenauer,

Schuman, De Gasperi credono nell'unione europea, soprattutto per rendere possibile la fratellanza tra i popoli che nella prima metà del secolo si sono dilaniati in guerre sanguinose, vogliono impedire che si ripetano le stragi, che si uccidano milioni di persone in guerre senza senso. Adenauer è disposto a sacrificare il patriottismo tedesco sull'altare europeo; antepone l'amicizia con la Francia all'unità nazionale. Ideali pacifisti, in contrapposizione agli ideali eroici di periodi precedenti? Certo che sì: ma grandi ideali. Charles De Gaulle crede alla grandezza della

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Il tramonto della nostra civiltà

Francia. John Kennedy vuole che gli Stati Uniti siano i paladini della libertà nel mondo, e la sua filosofia di vita, non certo materialistica o utilitaria, si compendia nella frase fa-

mosa: non chiedetevi che cosa la patria possa fare per voi, ma chiedetevi che cosa potete fare voi per la patria. Queste frasi non trovano più un'eco. La propaganda elettorale si limita ormai a promettere il maggior benessere al maggior numero di persone. Anche quei governanti che hanno assunto una linea politica più personale, Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher in Inghilterra, altro non facevano in realtà che prospettare una diversa distribuzione della ricchezza nazionale, a vantaggio dei cittadini più intraprendenti e, in definitiva, a vantaggio dei ricchi. I giuochi politici si svolgono ormai esclusivamente sul terreno fiscale: si tratta di alleviare l'imposizione sugli uni per aggravarla sugli altri, e di decidere se sia meglio lasciare un po’ di margine agli strati di maggiore reddito, per agevolare gli investimenti, o assistere gli indigenti con l’intervento pubblico. Dare un po’ più o un po’ meno a questi o a quelli: ma questo significa dare panem, secondo la richiesta popolare nell'antica Roma. La misura dell’elargizione è al centro della lotta politica. Non ci sono più ideologie, non ci sono più ideali. È quindi inevitabile scivolare verso la demagogia. Per farsi eleggere non si può fare appello a nobili sentimenti, non si promette la giustizia sociale, tanto meno il paradiso in terra, perché nessuno ci crede più. La gente vuole divertirsi, e tutti promettono solo disponibilità di denaro, ricchezza e benessere. Che cosa si dice per prevalere sull’avversario,

per essergli preferiti, se tutti dicono le stesse cose? Lo si insulta; lo si dipinge di nero; gli si attribuiscono propositi abietti. Si fruga anche nella sua vita privata, per scoprire guadagni illeciti o avventure amorose. Se non ci sono altre discriminanti, perde chi commette più adulterii. Il confronto avviene prevalentemente alla televisione, e il mezzo non consente il ragionamento pacato, l’argomentazione distesa. Il pubblico col telecomando in mano non

Ritratto dell'uomo politico

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è abituato ad ascoltare con pazienza. Il messaggio politico acquista la rapidità nevrotica dello spot pubblicitario. Si guadagnano i favori dell'elettorato quando si usa il linguaggio più colorito e più sintetico, ma soprattutto quando si parla a voce più alta. I candidati chiassosi e volgari hanno la meglio. Si eleggono in Parlamento comici, attrici di varietà, spogliarelliste; si scende a poco a poco, come livello intellettuale, verso il cavallo di Caligola. Su tutto scorre un fiume di denaro. Si vince con la demagogia, e la demagogia ha bisogno di spazio televisivo, di giornali, di manifesti. Giornali e televisione costano. La politica nel periodo decadente di una civiltà è soprattutto una questione di disponibilità finanziaria. I favori della popolazione si conquistano col denaro. Questo era vero nella Roma della tarda repubblica, quando i candidati si indebitavano senza ritegno, e i grandi capitalisti dell’epoca, da Crasso a Pompeo, dominavano; ed è vero oggi. Ma i fiumi di denaro portano anche all’arricchimento personale degli uomini politici. Uomini privi di ideologia si rivolgono a una società senza classi: tutti i fenomeni ai quali assistiamo ogni giorno, gli scontri televisivi, il basso livello del dibattito, i con-

ti segreti in Lussemburgo o a Singapore, la-ridda di tangenti, discendono da questa realtà.

È difficile credere che nascano nei prossimi anni nuove ideologie. Se la nostra analisi è giusta, l'epoca delle teorie sociali è tramontata, e non ne sorgeranno di nuove perché

la nostra civiltà ha perso fiducia, non crede più che si possa cambiare la condizione umana mediante l'adozione di

regole globali, secondo le indicazioni di dottrine filosofiche. Si abbandona l’idealismo e si scivola rapidamente verso un realismo brutale. Anche i regimi che fino a ieri credevano, o fingevano di credere, nella palingenesi dell'umanità, anche il regime russo o cinese, promettono

ora Coca-Cola e jeans. La qualità degli uomini politici, intanto, decade; non

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Il tramonto della nostra civiltà

potrebbe essere altrimenti, dato il livello della lotta politica. Si è passati negli scorsi decenni dall’aristocrazia alla borghesia professionale, dalla borghesia professionale alla piccola borghesia; ora compaiono gli avventurieri, persone di poca cultura, che commettono errori di grammatica quando pronunciano infuocati discorsi, e che adottano modelli di comportamento sempre più bassi. Il declino è continuo, e non si vede che cosa potrebbe arrestarlo. L'ultimo stadio, a giudicare da quel che è accaduto in altre civiltà, è il cesarismo. Gli avventurieri che fanno le

promesse più allettanti, e che adoperano gli strumenti più spregiudicati, assumono il governo. Uomini come Stalin, Hitler, Mussolini possono essere considerati i primi esemplari di questa nuova fase: avventurieri che hanno trovato nella lotta politica il campo più adatto per affermare la propria personalità. Hitler non sapeva, quando era giovane, che mestiere avrebbe scelto, aveva comunque scarsa

voglia di lavorare, e propendeva vagamente verso attività artistiche; diventò un capopopolo quando si accorse che aveva successo come oratore, e che sapeva trascinare un uditorio. Anche lui commetteva errori di lingua, come Umberto Bossi. Benito Mussolini, così povero che portava le scarpe in spalla per non consumarle quando andava a insegnare in una scuola elementare, militò prima fra i socialisti, poi sul versante opposto, avendo come unico obiettivo costante la conquista del potere. Tutt'e due, una volta conquistato il potere, decisero di conservarlo con la forza: questo è cesarismo. Stalin fece altrettanto in Russia. I loro regimi sono poi stati abbattuti; e i paesi più progrediti nell’Occidente ancora non hanno vissuto esperienze paragonabili. All’Inghilterra, agli Stati Uniti i Mussolini e gli Hitler sono stati finora risparmiati. Eppure, la tendenza verso il cesarismo potrebbe coinvolgerli. È questa, dunque, la loro sorte? Avremo cesarismo anche nella superpotenza che regge le sorti dell'Occidente? La prospettiva sembra oggi improbabile, ma non può es-

Ritratto dell'uomo politico

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sere esclusa. Molto dipenderà dai rapporti fra il mondo industriale e il Terzo Mondo. Se si creassero situazioni di grande pericolo per la pressione dei popoli economicamente arretrati, si potrebbe ricorrere anche in Occidente a forme di governo diverse da quelle attuali, dittatoriali e cesaristiche — Catone o Bruto, animati dalla fede nella re-

pubblica, non prevedevano nell’avvenire di Roma né Caligola né Nerone. Come facciamo a escluderli nell’avvenire dell'Occidente? Su quel che accadrà fra cento anni è solo prudente non escludere nulla. Se il cesarismo sarà la sorte della civiltà occidentale, non è necessario, ovviamente, che assuma

esattamente le forme esteriori del cesarismo nella Roma imperiale, con gli imperatori vestiti di una toga bianca e sostenuti da riottosi pretoriani. D'altra parte già adesso, nella politica contemporanea, si scorgono segni di tipo cesaristico: uomini politici preoccupati soltanto di conquistare potere, con qualsiasi mezzo, e di servirsene a vantaggio personale. Nella politica italiana, la più grande corrente del partito democristiano, i così detti dorotei, non avevano alcuna

bandiera ideologica o idealistica: volevano soltanto essere al governo. I loro alleati più importanti, i soeialisti di Bettino Craxi, agivano allo stesso livello; non si è mai capito quali titoli accampassero per esercitare il potere, se non la capacità di distribuire favori. L'appoggio dei servizi segreti, una specie di forza armata impazzita, adoperata quasi unicamente nella lotta fra le correnti di partito, in un traffico di miliardi, fra congiure, attentati e uccisioni,

costituisce un parallelo con i pretoriani che sostenevano gli imperatori; si tratta di pretoriani in chiave moderna. E le ville, i lussi dei nuovi potenti, fra Roma e Napoli, coin-

cidevano spesso anche topograficamente con le ville e coi lussi dei potenti di duemila anni fa.

V L'arte astratta è arte?

Il grande artista crea spontaneamente, senza curarsi di canoni estetici; l'artista del periodo tardo pensa solo a questi La storia dell’arte rende visibile, meglio ancora di quella politica, lo svolgimento di una civiltà, il suo decorso. Abbiamo detto che una grande civiltà è un giuoco, cioè un meraviglioso artificio che prende le distanze dalla vita semplice allo stato naturale; e già nel termine, artificio, compare il concetto di arte. L'arte è giuoco allo stato puro, e ciò vale tanto per la musica, la danza e il teatro quanto per l'architettura e le arti figurative. Si dipinge, si recita o si compone una sonata per creare un mondo di fantasia che si sostituisce, fin tanto che si svolge il giuoco, al mondo reale della vita quotidiana. Un analogo processo si ripete in tutte le espressioni della civiltà: la vita di corte, gli scontri militari, i rapporti fra le persone, i matrimoni e i funerali, le feste e le cerimonie

religiose, tutto avviene secondo regole che di ogni evento fanno un'invenzione, una recita, insomma un giuoco. Sol-

tanto nell'arte ciò avviene allo stato puro. Nella battaglia, al di sotto delle forme ludiche, c'è pur sempre lo scontro reale: soldati che si combattono, si feriscono e si ammaz-

zano, per conquistare un lembo di territorio. Ma la Pietà di Michelangelo è fine a se stessa. Michelangelo la scolpì per la gioia (anche se il termine è improprio) di scolpirla. Noi la guardiamo per la gioia di guardarla.

L'arte astratta è arte?

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In ogni civiltà, la creazione artistica ha un andamento ciclico. All'inizio sono le opere dei primitivi: è il periodo del risveglio, quando una nuova cultura affronta per la prima volta a modo suo i grandi temi dell’esistenza, ansiosa e trepida come un adolescente, e anche l’artista lavora in semplicità d'animo, con ansia giovanile, come se il mondo cominciasse solo allora, come se niente fosse esi-

stito prima. Poi cresce la sicurezza, la fiducia in sé, di pari passo con l'abilità tecnica: la civiltà, la nuova civiltà prende forma, afferma la sua fisionomia, chiarisce la sua visio-

ne del mondo, e le opere d’arte acquistano solennità e splendore. Si arriva al periodo di maggior fioritura, al periodo aureo: all'adolescenza segue la pienezza dell'età virile. Ogni storico offre la sua spiegazione per rendere conto di questa esplosione di talento, e di questa felicità creativa: noi diciamo che l’arte fiorisce perché fiorisce la civiltà nel suo insieme; non solo nell'arte, quindi, ma anche nella politica, nella convivenza sociale.

È quello che abbiamo chiamato il periodo creativo. A esso appartengono i più grandi geni della pittura, della scultura, dell’architettura. Ma dai contemporanei non sono trattati da geni, anche se godono naturalmente di grande stima, e ricevono lusinghiere attenzioni dai potenti, che sono anche i committenti delle opere artistiche. Nel periodo creativo di una civiltà, l'artista non è ancora considerato un

essere sacro, pervaso da una divina ispirazione. È un artigiano, sia pure un artigiano di prim'ordine, che si è disposti a compensare molto bene, e la cui fama oltrepassa i confini della città o dello Stato nel quale lavora. Tutto avviene in modo diretto e spontaneo. Il pittore ha bottega, come quella di altri artigiani affollata di apprendisti, garzoni, gente della famiglia. Il committente, che può essere il principe, il sovrano, il papa, o un mercante, lo chiama e gli chiede di dipingere un ritratto, una scena religiosa, o un affresco sulla parete di una chiesa o di un palazzo. Il pittore esegue. Piace immaginare che dipinga con la stessa facilità con cui Mozart, nel famoso atto unico

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Il tramonto della nostra civiltà

di Pushkin, dice di comporre musica. In realtà l’opera ar-

tistica è più spesso il frutto di un faticoso processo, con rifacimenti, correzioni, pentimenti, frustrazioni. L'imme-

diatezza attribuita a Mozart, che tanta gelosia suscitava in Salieri, era eccezionale, ammesso che fosse vera.

L'impressione di immediatezza e di spontaneità nasce perché l'artista, nel periodo più fortunato di una civiltà, quello delle grandi creazioni, non fa teoria, non si attarda in considerazioni estetiche; e non vi si attardano neanche

coloro che, intorno a lui, guardano come lavora, e apprezzano poi l’opera quando è finita. Il pittore è guidato solo da quel che ha imparato, da giovane, nella bottega del suo maestro, con le modifiche e le correzioni che la sua perso-

nalità gli ha negli sensibilità, è il suo fetti mediante una posizione di figure

anni suggerito. È la sua meravigliosa istinto a suggerirgli di ottenere certi efcontrapposizione di colori, una comche prevede qui una tinta scura, là una

macchia, e linee musicali e flessuose,

o drammaticamente

agitate. Così nasce l'impressione di spontaneità. La creatività è naturale. Coloro che guardano il dipinto, a loro volta, sanno di-

stinguere ciò che è soltanto mediocre da ciò che è bello e da ciò che è divino. Ma anche l'apprezzamento, come la creazione, è spontaneo, vorrei dire di tipo istintivo. Sentite come il Vasari scrive di Vincenzo da San Gimignano: «Aveva Vincenzio la sua maniera diligentissima, morbida nel colorito e le figure sue erano molto grate nell'aspetto, et insomma egli si sforzò sempre d’imitare la maniera di Raffaello da Urbino». Sembra il tema di un liceale, a con-

fronto delle dotte elucubrazioni dei critici del nostro tempo, piene di vocaboli che si stenta a capire. «Morbida nel colorito..., figure grate nell’aspetto...»: Vasari riferisce così le sue reazioni immediate alle opere che osserva. L'elogio della maniera «diligentissima» sembra più adatto a definire un artigiano che non un artista; ed è subito seguito da una serie di osservazioni caratteristiche: la maniera di Vincenzo, in imitazione di quella di Raffaello,

L'arte astratta è arte?

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«si vede anco nel medesimo Borgo dirimpetto al palazzo del cardinale d'’Ancona in una facciata della casa che fabricò Messer Giovanantonio Battiferro da Urbino, il quale, per la stretta amicizia che ebbe con Raffaello, ebbe da lui il disegno di quella facciata, et in corte per mezzo di lui molti benefici e grosse entrate». Qui siamo al livello di una conversazione conviviale fra due dame danarose e un po’ pettegole, e la conversazione potrebbe terminare con la richiesta dell'indirizzo dell’artigiano in questione. Il tono non cambia quando il Vasari parla, se vogliamo fare un altro esempio, di Tiziano: «A principio dunque, che cominciò seguitare la maniera di Giorgione, non avendo più che diciotto anni, fece il ritratto di un gentiluomo da Ca’ Barbarigo amico suo, che fu tenuto molto bello, essendo la somiglianza della carnagione propria e naturale, e sì ben definiti i capelli l’uno dall'altro, che si conterebbono, come anco si farebbono i punti d'un giubone di raso inargentato, che fece in quell’opera: insomma fu tenuto sì ben fatto e con tanta diligenza, che se Tiziano non vi avesse scritto in ombra il suo nome, sarebbe stato

tenuto opera di Giorgione». Si tratta probabilmente del ritratto di Ariosto. La critica del Vasari rimane strettamente contenutistica e, direbbe

un critico moderno, superficiale: mette in rilievo la somiglianza della carnagione, i capelli distinti l'uno dall'altro, i punti del giubbone ben visibili; e ancora una volta si loda la diligenza. Alle osservazioni sul ritratto seguono, anche in questo caso, le indicazioni su altre opere di Tiziano o di Giorgione, al Fondaco dei Tedeschi o sopra le Mercerie. Come dire, fra una portata e l’altra a un pranzo dei nostri tempi: «Sai, c'è un corniciaio molto bravo in via dei Coronari, te lo raccomando, ha fatto anche le cornici per il Tal

dei Tali...».

È in questo spirito, un insieme di semplicità e di diligenza, che si fa la grande arte dei secoli aurei, e la si ammira. Di quell'età ci sorprende anche la prolificità degli artisti; la varietà dell'invenzione, pur nella coerenza stili-

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Il tramonto della nostra civiltà

stica. È per queste ragioni che si attribuisce a quel periodo felice una divina spontaneità. Come non credere che la nostra civiltà abbia vissuto allora imomenti più belli? Ma anche per l’arte, come per tutte le altre espressioni della cultura e della vita pratica, viene il momento della svolta. L'evoluzione degli stili, e della mentalità che li ispira, è stata studiata e descritta in tutti gli aspetti, e non avrò certo l’imprudenza, non essendo critico d’arte, di avventu-

rarmi in questo campo con le mie osservazioni. Quel che forse manca è una riesplorazione degli eventi artistici nell’ambito di quella visione della storia che non solo distingue le varie civiltà l'una dall'altra, ma cerca di individuare la parabola di ciascuna secondo regole paragonabili al decorso biologico di un organismo. Si impara già al liceo che vi è un'evoluzione, per esempio, dalla colonna dorica a quella ionica, più solida e semplice l’una, più raffinata l’altra, come se si passasse da una fase giovanile a

una fase avanzata e matura: il passaggio dall'uno all’altro stile si inserisce nel ciclo di una civiltà, quella ellenica, prima semplice e solida anch'essa, poi complessa e raffinata. Osservazioni analoghe, ma con maggiore ampiezza e profondità, si possono ripetere nell'evoluzione dell’arte occidentale, rapportandola al ciclo della civiltà nel suo insieme: anche nella civiltà occidentale, e in ogni altra, si

può spiegare l'evoluzione artistica come il passaggio dalla fase giovanile a quella matura, e dalla fase matura a quella senile, decadente, decrepita.

Come interpretare, in questa visione, il romanticismo? Come giudicare l’arte astratta? Sappiamo che nel periodo romantico la severità della forma si allenta, e si arriva a

un'improvvisazione soggettiva, a una libertà creativa che non ha niente in comune con la spontaneità di cui parlavamo a proposito dei secoli aurei. Allora, l'artista obbediva a regole precise; era «diligente». Quello romantico è invece ribelle, spregiudicato, libertino. Che cosa nasconde

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questa sua ribellione? Quale moto dell'animo porta al nuovo stile, e cambia nella sua mano l’uso del pennello? Per spiegarlo, si è parlato di stanchezza dello spirito, dopo le grandi creazioni della civiltà occidentale; si è parlato di nostalgia del passato, di malinconia, di presentimento del declino e della fine, È grande il salto da Goethe a Hòlderlin: si notano variazioni analoghe nelle arti figurative? Hanno lo stesso significato? Certamente cambia, a partire dal romanticismo, l’atteg-

giamento verso l’arte. Abbiamo detto che l'essenza della svolta nel ciclo di una civiltà, dopo che si è raggiunto il culmine, è la tendenza alla razionalità: prima si crea (si

giuoca), poi si ragiona. Questo è vero, in sommo grado, di fronte alla creazione artistica. Si è visto con quale semplicità il Vasari ci parla degli artisti del suo tempo, anche dei sommi. Adesso non più: si ragiona sull'arte, si cerca di capirne il significato, ci si accorge che è estremamente importante, e si costruiscono su di essa complessi sistemi interpretativi. Altro che i capelli dell’Ariosto ben distinti l'uno dall'altro, e i punti visibili nelle cuciture del giubbone inargentato: adesso si sconfina rapidamente nella metafisica, si riesplorano i miti, si contrappone la serenità apollinea al rapimento dionisiaco, si cerca la catarsi. Per le anime semplici, quelle che davanti a un quadro si limitano a dire «che bello!», non c’è più salvezza.

Nel periodo tardo di una civiltà l'artista non è più un artigiano. Diventa sacro. Egli è considerato un essere superiore al quale tutto è permesso; dopo che si sia stabilito, ben inteso, che è un artista davvero, che la sua produzio-

ne è davvero opera d’arte; sicché si scrivono libri per distinguere, appunto, l’arte dalla non-arte, per capire quale sia la qualità misteriosa che costituisce l’essenzialità artistica (un problema che il Vasari non si era mai posto). Ciascuno, ovviamente, dà una risposta diversa; ma tut-

te le risposte mirano a sancire per l’opera d’arte una qualità assoluta, eterna e universale, quindi metafisica, sacra, divina. Ricordo le lezioni, per altro affascinanti, di Adel-

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Il tramonto della nostra civiltà

chi Baratono, all'università di Genova: la poesia, diceva,

diventa arte quando la sua forma è definitiva, quando non si può cambiare nulla in essa perché è perfetta. Fino all’ultima correzione del poeta, dunque, fino all'ultima

cancellatura e all'ultima sostituzione di un vocabolo non era arte? Non era scattata la qualifica? E come si può parlare di universalità, di eternità, quando ogni uomo giudi-

ca la stessa opera in modo diverso, e quando noi stessi reagiamo in modo diverso secondo l’ora della giornata, lo stato d'animo e lo stato di salute? Le continue dispute fra i critici, le attribuzioni contraddittorie, le divergenze di va-

lutazione ne sono la prova. Il rispetto per l’arte cresce attraverso il tempo; chi non ama l’arte moderna dice che cresce a mano a mano che il livello scende. Si chiacchierava nel passato durante le rappresentazioni a teatro, e addirittura durante l'esecuzione della musica; «un'elegante conversazione», come la chia-

ma Huizinga, impegnava le persone presenti al concerto, a quel che si vede nei quadri del Seicento. Ci si scambiavano visite nei palchi, e si stava zitti, presumibilmente, so-

lo nei momenti culminanti, quando il soprano intonava un'aria difficile: come i pittori erano artigiani, gli attori e i cantanti erano mimi. Un'atmosfera altrettanto distratta regnava ai concerti che si eseguivano, quando ero a Mosca, durante i ricevimenti al Cremlino, mentre celebri violini-

sti o ballerine del Bolscioi si esibivano in fondo al salone: marescialli in alta uniforme, ambasciatori, ministri, chiacchieravano fra di loro, e la loro conversazione, più o meno

elegante, era uno dei tocchi che davano un certo tono passé alla vita di Mosca. Ma di un passato lontano. Già ai tempi di Stanislavski, al principio del secolo, si instaurò l'obbligo del silenzio sacrale durante le rappresentazioni di teatro, e il divieto di entrare in sala se lo spettacolo era cominciato. Nei tempi andati erano consentite le alterazioni o le aggiunte nelle recite, per non dir nulla dell’improvvisazione nel teatro dell’arte; e certamente si cambiava di continuo il testo

L'arte astratta è arte?

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quando si recitavano poesie a corte, a cominciare dai canti dell'Iliade. Poi, nel periodo tardo di una civiltà, viene il

tempo del rigore filologico, si cerca di risalire al testo originale e autentico, si intavolano dispute erudite su un singolo vocabolo, e guai all'attore che salta una parola: commette un sacrilegio. Queste sono le manifestazioni che abbiamo definito

«alessandrine» di fronte a tutte le creazioni dello spirito: come già in quella fase della civiltà ellenica che sta fra Alessandro Magno e la battaglia di Azio, si crea sempre meno e si ragiona, quindi si studia, sempre di più, si cataloga, si riordina, si fa esame critico, si cercano significati reconditi, si classifica e si viviseziona. I grandi critici di-

ventano i protagonisti, i padroni del campo. Gli artisti, quelli superstiti, sono profondamente influenzati dalla critica. Si passa dall'arte spontanea all'arte ragionata. Che cosa sia l’arte, è impossibile dirlo: la domanda considera l’arte una categoria dell'attività umana assoluta e a se stante, di cui i grandi artisti non sospettavano nemmeno l’esistenza. È comprensibile una certa diffidenza verso le complicazioni della filosofia estetica. Una scoperta della critica, tuttavia, è abbastanza elementare, ovvia al pun-

to che è difficile dissentire: quel che vale in un’opera artistica è la forma, non il contenuto. Poco importa quale sia il soggetto: si può dipingere in modo stupendo un bicchiere, dando emozione a chi guarda; il pregio del dipinto è negli elementi formali, non in ciò che rappresenta. Forma e non contenuto, dunque: è attraverso la forma

che si apprezza un’opera d’arte e se ne stabilisce la qualità. Ma che cosa significa forma? Nel caso di un dipinto, essa significa linee, colori, e la loro combinazione. La linea

elegante e flessuosa, spiegano i professori agli allievi liceali, costituisce il pregio delle figure dipinte da Botticelli, e dà emozione estetica a chi guarda; i colori magici del Tintoretto rapiscono lo spettatore: le donne dipinte, gli archi dell’edificio, la toga del magistrato, l’angioletto ai pie-

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di della Madonna, il paesaggio sfumato in lontananza, sono soltanto il pretesto per mettere insieme quella combinazione di linee e di colori che crea, e soltanto essa la crea,

l’opera d’arte. Noi guardiamo una Madonna di Raffaello, e crediamo che il senso di gioia che percepiamo in noi sia dovuto alla contemplazione di una Madonna; invece ci emozioniamo per la musicalità e la levità del dipinto, e l'una e l’altra sono dovute a elementi puramente formali. In un libro intitolato Saper vedere, Marangoni cercò di spiegare queste verità elementari al grande pubblico, e riferì che, un giorno che qualcuno gli mise davanti agli occhi un quadro di contenuto erotico, e piuttosto 0sé, a tutta prima non si rese conto del soggetto, perché la sua attenzione di critico allenato si era rivolta subito agli elementi formali. Del contenuto, a tutta prima, non si accorgeva, sebbene si trattasse

di un contenuto insolito, e magari solleticante. La scoperta che importa la forma, non il contenuto, ha

avuto conseguenze importanti nella creazione artistica: gli artisti moderni infatti, a differenza di quelli del passato, sono propensi anch'essi a ragionare, e ad ascoltare i ragionamenti altrui, prima di operare. Se quel che conta davvero sono, nella pittura, la linea e il colore, che biso-

gno c'è di dipingere persone e oggetti riconoscibili? Nessun bisogno, ovviamente: se ne può fare a meno. Così na-

sce l’arte astratta. Il pittore si abbandona all'impulso di tracciare linee e di usare colori secondo i moti dell'animo,

secondo il suo senso artistico, senza prendersi la briga di riprodurre diligentemente (con la diligenza di Tiziano, abbiamo visto; e di tutti quegli altri) persone e cose. Il ragionamento fila; e non è limitato, si capisce, alla pit-

tura. Lo si può ripetere tale e quale per la scultura, per la poesia; se ne possono tentare applicazioni nell’architettura e nella musica. Nel giro di pochi anni le figure umane si alterano, prendono dimensioni innaturali (si pensi a Picasso), si allungano, si scompongono, si ribellano alle leggi della prospettiva, poi spariscono del tutto, si fondono

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in un vortice di colori, totalmente privo di senso. L'abbandono del rigore esecutivo, che era cominciato negli anni del romanticismo, diventa completo. La poesia futurista mette insieme suoni alla rinfusa pur di ottenere determinati ritmi, speciali cadenze: non era un valore formale, la musicalità, a rendere immortale il verso del Petrarca, «chiare, fresche, dolci acque»? E allora perché non ricerca-

re la musicalità, senza pensare alle acque? I grandi critici, avendo stabilito una volta per tutte che l’arte è una categoria assoluta e universale, non consento-

no la graduatoria delle opere d’arte. L'assoluto non ammette classifiche. Ai profani sembra difficile esprimere giudizi su opere totalmente distaccate dalla realtà oggettuale, e invidiano senza dubbio il Vasari che ammirava figure morbide nel colorito e grate nell'aspetto. Ma i critici si giostrano benissimo fra le nuove produzioni, assegnando riconoscimenti che hanno poi buon rendimento sul terreno commerciale. Un felice incontro fra attività creativa e attività critica consente di vendere ad alto prezzo tele bianche con un taglio in mezzo, e con nessun altro segno della presenza dell'artista, inducendo il profano a chiedersi come si possano evitare le contraffazioni e, ancor peggio, il fai-da-te. È

L'evoluzione artistica nel corso di una civiltà è parallela per le varie arti,

a dimostrare una volta di più che uno

stesso spirito, uno stesso stato d'animo pervade, di quella civiltà, tutte le espressioni. L'affermazione della libertà nella politica, con l'avvento

dell’èra borghese, si riflette nella proclamazione di libertà in arte, con la quale si respingono, negli anni del romanticismo, i rigori del passato. La rivendicazione degli stessi diritti per ogni individuo porta all’emancipazione della donna, che si rispecchia nel romanzo borghese, o nelle commedie di Ibsen. La musica ottocentesca si scioglie gradualmente anch'essa dal rigore del periodo barocco, per scomporsi e deformarsi nelle composizioni di Wagner, di

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Il tramonto della nostra civiltà

Mahler, di Franck. La poesia passa, parallelamente, dalla terzina, dal sonetto, dall'obbligo della rima al verso sciol-

to, e diventa sempre più discorsiva, sempre più simile alla prosa. La danza classica evolve dai passi difficili, tecnicamente rigorosi di Petipa alle libere movenze dei balletti di New York. Le analogie di stile fra arti diverse sono sorprendenti. L'impressionismo in pittura, nel grande periodo francese, si ritrova tale e quale in musica: figure, paesaggi sfumati e trasognati da una parte, melodie vaghe e sfumate dall’altra; e i poeti contemporanei coi loro versi trasmettono impressioni altrettanto vaghe nei loro contorni. Debussy, Renoir, Mallarmé sono figli di una stessa cultura, vivono lo stesso stato d’animo. Poi lo stile evolve ancora, e a Kan-

dinski corrisponde Stravinski: lo stesso scoppiettio, gli stessi luccichii e gli stessi scherzi. A chi vogliamo assimilare Picasso: a Barték? Ho detto che non voglio avventurarmi su un terreno che non conosco, e gli esperti pensano che ho divagato anche troppo. La proiezione commerciale dell'attività artistica è imponente. Basta creare una moda per fare fortuna, e si creano

le mode quando si entra in un certo gruppo di conoscitori e di mercanti d’arte che godono di autorità, e dettano legge. Vi è una gradazione di interessi secondo il genere di attività. La pittura, la scultura rimangono limitate a circoli abbastanza ristretti; lo stesso vale per la musica. Gli spettacoli teatrali allargano la schiera di pubblico; poi si arriva al cinema, sul quale si discuterà a lungo se sia arte, e in quali casi; e alla televisione.

A mano a mano che si allarga il pubblico, cresce la componente erotica, ed era inevitabile che ciò accadesse: attori e attrici nude, scene d'amore fisico (si dice «scene di sesso») a teatro e quasi in ogni film, scene d’amore alla televisione, e milioni di videocassette in commercio col contrassegno convenzionale di «luci rosse». L'arte, anche nelle

sue espressioni più alte, è trattenimento, e oggi il trattenimento di massa, sempre meno artistico, assume dimen-

L'arte astratta è arte?

195

sioni ciclopiche. Pochi privilegiati andavano a vedere La Mandragola a Firenze, o l’Amleto

a Londra. Adesso tutti

vedono ogni giorno tanti spettacoli, tutti gli spettacoli che vogliono, standosene in poltrona nelle loro abitazioni se non hanno voglia di uscire. In termini quantitativi il progresso è enorme. Vi sono ancora artisti veri, naturalmente, che continua-

no a produrre opere di pregio; sotto l'influenza dei critici, lo abbiamo detto, e dominati da ragionamenti che guida-

no la loro attività. Anche i migliori, i più ispirati hanno una certa scarsità di ispirazione; musicisti per altro deli-

ziosi come Prokofiev vivono per tutta la vita su pochi temi, esili e graziosi; non sanno inventarne di più. La civiltà è stanca, è esausta, non conosce più la fecondità del passato. Chi potrebbe vantare, oggi, la creatività di Mozart? Siamo, se mai, alle fatiche di Salieri; ma anche Salieri era

ben più ricco di idee dei compositori contemporanei. Il profano, un po’ frastornato, si chiede perché sia così difficile comprendere l’arte moderna, e se essa possa essere paragonata all'arte dei periodi classici. Mi pare che la risposta sia in quanto abbiamo scritto finora. Sarà vero, come dicono i filosofi quando discettano su arte e non-arte, che l’arte è tutta allo stesso livello, assoluta, eterna,

universale. Ma noi preferiamo Raffaello.

VI

La seconda religiosità

In una civiltà giunta al periodo finale gli uomini ridiventano religiosi, ma non danno più importanza ai dogmi e alla teologia: il Dio in cui credono è vago e indistinto Se è vero che ogni civiltà segue un ciclo, e che la nostra si trova nella fase discendente, molti aspetti della vita contemporanea diventano comprensibili, acquistano coe-

renza; si scopre il legame fra un aspetto e l’altro. Si comprende più facilmente, nel quadro di questa visione della storia, l’attuale clima politico: in una società

senza classi, fra la gente accampata nelle immense metropoli, le grandi ideologie sono tramontate, e il loro declino appare definitivo; non si crede più a quelle di ieri, non ne sorgeranno altre domani. Si comprende anche l'evoluzione dell'attività artistica, si spiegano le bizzarrie dell’arte astratta e la diffusione dell’arte commerciale. C'è una costante: il panorama spirituale si impoverisce. Proseguiamo ora la nostra esplorazione o, per usare un termine giornalistico, la nostra inchiesta, per chiederci: è religioso l’uomo moderno? Decade, si impoverisce anche la religione? Abbiamo distinto l’uomo d'azione dall'uomo di pensiero; il dualismo rimane costante in tutta la storia di una civiltà. Gli uomini d'azione governano, fanno politica, com-

battono le guerre, commerciano, producono beni; sono i

La seconda religiosità

197

signori feudali, i guerrieri, i ministri, i funzionari, i mercanti, gli avventurieri. Gli uomini di pensiero cercano di dare un senso alla vita attraverso gli studi, e osservano e

giudicano quel che fanno gli uomini d'azione, sempre con riprovazione, perché a loro è chiara la vanità delle opere umane; sono i sacerdoti e i filosofi. Gli uomini d’azione

agiscono sotto l'impulso di circostanze mutevoli, ben sapendo che nessuna delle loro azioni potrà essere ripetuta. Gli uomini di pensiero pronunciano definizioni che ritengono conclusive, immutabili, e ragionano per l'eternità. Il dualismo è marcato agli esordi di una civiltà, quando la nobiltà e il clero vivono a fianco a fianco, in un rap-

porto intenso ora di collaborazione, ora di conflittualità. Una civiltà giovane è appassionatamente religiosa; e infatti i riti della fede cristiana accompagnano l’esistenza delle persone di tutti i ceti in quello che impropriamente si chiama Medio Evo. La chiesa è al centro della vita sociale, anche fisicamente; è al centro del borgo, della città,

e sovrasta i palazzi. Ogni decisione importante è accompagnata da riti propiziatori; il successo delle imprese è affidato alla misericordia divina. Così è stato anche nelle civiltà diverse dalla nostra; in quello che chiamiamo

il

periodo giovanile di una civiltà, gli uomini-trepidanti e insicuri si affidano a Dio. L'elemento ludico è evidente nelle cerimonie religiose, che si svolgono secondo regole costanti. C'è chi sostiene che da questi giuochi nasce la cultura, ma non ci sofferme-

remo su queste riflessioni, non essendo esperti in etologia. Ci basta sapere, in questa breve esplorazione del passato, che la religiosità era intensa nei primi secoli della civiltà occidentale, quelli che stando alla suddivisione tradizio-

nale appartengono alla seconda metà del Medio Evo; ed era universale. Virtualmente tutti, lo sappiamo, erano cre-

denti e praticanti. C'erano gli atei anche ai tempi di Dante; ma non se la passavano bene. La religiosità medievale colpisce l’uomo moderno per la sua complessità. Non bastava credere in Dio, rispettare

198

Il tramonto della nostra civiltà

i comandamenti e i precetti della Chiesa; confessarsi e

fare la comunione. La teologia affrontava problemi astrusi, e Dio era attorniato da un grande numero di angeli e di santi, di ciascuno dei quali si volevano definire la natura, le caratteristiche, la funzione. Gesù, lo Spirito Santo, la

Madonna trovavano una collocazione precisa nel cielo cristiano, e le dispute su questi argomenti si protraevano attraverso i secoli, provocavano scissioni, condanne reci-

proche. Oggi, una persona di media cultura, anche se è credente, non ha neppure una vaga idea delle battaglie teologiche del passato.

È difficile comprendere adesso in che modo fosse religioso il cristiano medievale. La pietà assumeva forme ossessive, o anche soltanto curiose, come per quel santo di cui si legge che, quando mangiava una mela, la divideva in quattro parti, dedicandone tre spicchi ai componenti della Trinità, e il quarto alla Madonna, senza sbucciarlo

perché la Madonna lo avrebbe dato con la buccia a Gesù bambino. Ma queste sono semplici curiosità. Quel che soprattutto sorprende è il rigore letterale con cui si applicavano i princìpi della fede. L'uomo occidentale moderno stenta a credere per esempio che chi nasce fra gente di fede diversa dalla fede cristiana non abbia accesso al paradiso, e non possa essere felice in eterno, anche se ha tenuto una condotta ineccepibile; ricordo che fu questo uno dei primi articoli di fede

che mi sembrarono assurdi quando ero ragazzo, e imparavo i rudimenti della dottrina cristiana. Che colpa ha chi nasce a Bangkok invece che a Roma? Una crudeltà raffinata nel Medio Evo consisteva nel giustiziare il colpevole senza consentirgli di confessarsi, sebbene egli implorasse di farlo, così da condannarlo, non solo alla morte fisica,

ma alle fiamme eterne dell'inferno. Il Papa vietò ripetutamente di negare il confessore a chi stava per essere impiccato; ma il suo divieto non era obbedito. Noi pensiamo adesso che all'inferno, se un inferno esiste, doveva andare

La seconda religiosità

199

piuttosto il giustiziere crudele, tanto più che agiva di sua iniziativa, in contrasto con la più alta autorità religiosa; ma l'uomo medievale era convinto che l’infelice vittima del boia, se non compiva l'atto della confessione, sarebbe comunque stata condannata alla pena eterna.

Tutto questo induce a riflettere. Noi siamo propensi ad attribuire le convinzioni degli altri, quando sono diverse dalle nostre, a ingenuità, ad arretratezza o a malafede.

Stentiamo ad accettare il fatto che gli altri credano a cose diverse da quelle in cui crediamo noi. Se dunque l’uomo medievale aveva convinzioni che a noi sembrano strane, arriviamo facilmente alla conclusione che, tanti secoli fa,

gli uomini erano ingenui rispetto a noi, o arretrati, o pri-

mitivi. Eppure, l’interpretazione rigorosa e letterale della fede era condivisa da spiriti eletti, alcuni di intelligenza e cultura eccezionali, certamente superiori all'intelligenza e alla cultura media dei nostri giorni. Ciò significa che non possiamo adottare il parametro delle nostre convinzioni per giudicare gli altri. Questo è vero rispetto a stadi diversi nella storia della religione cristiana: la religiosità medievale era diversa dalla nostra, ma non certo di qualità inferiore, né meno civile, né meno intelligente. -

E questo è vero anche di fronte ad altre religioni, elaborate da altre civiltà. A noi sembrano infantili, assurde o

crudeli, perché seguiamo una fede diversa, o nessuna fede; ma il nostro giudizio negativo rispetto alle religioni altrui è solo il frutto della diversa angolazione da cui le 0sserviamo. La riflessione è utile per curarci, se ancora ce n'è bisogno, dalla tentazione di visioni eurocentriche e tolemaiche. La civiltà occidentale, con la sua religione cristiana,

non è il punto d’arrivo nella storia dell'umanità; è solo una civiltà come le altre, e se a noi sembra superiore, è per

i limiti della nostra capacità di giudizio. Lo sguardo d'insieme, quando si parla dei grandi eventi della storia, è sempre suggestivo; però è pericoloso, per-

200

Il tramonto della nostra civiltà

ché inevitabilmente è opinabile, approssimativo, superficiale. Chi cerca di definire lo spirito di un'epoca con una frase, con un concetto è subito esposto all’accusa, quando va bene, di superficialità giornalistica, come quando si

scrive, facciamo un esempio qualsiasi, che l'America è ricca; poi si guarda più da vicino, e si scoprono le zone arretrate della West Virginia, i barboni di New York. Si fa presto a dire che il Medio Evo fu un'epoca di intensa religiosità; poi si guarda con più attenzione, si scoprono gli atei e gli indifferenti anche nel Medio Evo. Sono cosciente dei pericoli di un approccio generico; già quando facevo i temi a scuola mi capitava talvolta di essere accusato di stile giornalistico, ed è lecito dedurne che sono

recidivo. Eppure il tentativo di sintesi è necessario se si vuole capire quel che succede intorno a noi, o quel che accadde nei secoli scorsi. La sintesi non è mai esatta, ma può essere giusta; come dice Indro Montanelli, può essere più vera che se fosse vera. Chi si attarda eccessivamente sui particolari, d'altra parte, rischia di non capire nulla. Dopo il Medio Evo viene la Riforma, al centro della Riforma è Martin Lutero: un gigante, lo ha detto Heine, sulle cui spalle l’uomo moderno sta appollaiato come un nano. Ma un gigante nato dall’accoppiamento di una donna con Satana, secondo una leggenda. A seguirlo da vicino, giorno per giorno, in quella miriade di eventi e di decisioni che, sommate insieme, costituiscono la vita di ogni essere umano, è difficile trovare il bandolo, e dare un giudizio sommario. Fu davvero il fulmine che tanto lo spaventò in gioventù, quando scappò a gambe levate invocando Sant'Anna, ad accendere in lui una crisi mistica?

Forse fu davvero scandalizzato dalle novemila reliquie raccolte dal vescovo di Magonza, gran collezionista, che si

vantava di avere una bottiglietta col latte della Madonna, e un’altra col vino di Cana; forse, quando andò a Roma, fu

davvero colpito dallo spettacolo di corruzione alla corte di Leone X. Però fece la Scala Santa sulle ginocchia, per mettersi a posto la coscienza.

La seconda religiosità

201

Le contraddizioni si susseguirono durante tutta la sua tempestosa esistenza, diviso com'era, si è scritto, «fra la

gloria di Dio e le piccole, meschine ambizioni della nobiltà di Turingia». Grandi obiettivi e piccole ambizioni anche nel suo animo, ed emozioni e passioni umane, come

quando sposò una suora fuggiasca da un convento, che disse «di non amare, ma di apprezzare». Oggi più che mai siamo portati a spiegare il comportamento dei grandi personaggi secondo le indicazioni della psicologia o della medicina, consapevoli come siamo che all'origine di decisioni storiche possono esserci umane debolezze, capricci, semplice puntiglio. John Osborne, commediografo inglese, scrisse su Lutero una pièce teatrale per attribuire le sue ribellioni, sostanzialmente, alla stitichezza.

Eppure, se cerchiamo di osservarlo con lo sguardo d'’insieme, se prendiamo le distanze dagli eventi quotidiani della sua vita, possiamo dire (superficialità giornalistica?) che con Lutero viene per l'individuo una conquista di libertà; si delineano nella storia della civiltà occidentale gli ideali di una nuova classe, la borghesia, che appunto nel nome della libertà e dei diritti individuali diventerà, col tempo, la classe egemone, in sostituzione della grande nobiltà. Lutero padre del capitalismo moderno? Si dice certamente una sciocchezza se si attribuisce a un individuo un fenomeno storico così vasto; la visione della storia che

qui esponiamo esclude in modo categorico affermazioni così ingenue. La borghesia si afferma, e il capitalismo è lo strumento con cui si afferma, grazie a una naturale evoluzione della civiltà, non imputabile a singoli personaggi. Ma certamente Lutero, e tutti gli altri protagonisti della Riforma

protestante, sono gli interpreti del nuovo spirito, della nuova mentalità che si sostituisce a quella del Medio Evo. E questo è vero anche se Lutero, nell'ultima parte della sua vita, si allontana dalla rivolta che lui stesso ha contri-

buito a scatenare, se accentua nella sua dottrina gli ele-

202

Il tramonto della nostra civiltà

menti teologici, se perde il favore di quegli umanisti che in un primo tempo lo avevano sostenuto e lodato. Con la Riforma si prendono le distanze dalla complessa religiosità medievale, da quel maestoso trono celeste sul quale era assiso Dio, circondato da una corte di angeli e di santi, ciascuno con i suoi compiti e con le sue funzioni, se-

condo costruzioni teologiche minuziosamente elaborate. Ora tutto si semplifica. E ci si avvia, ecco un’altra afferma-

zione generica, un altro sguardo d'insieme, verso l’illuminismo settecentesco. L'uomo occidentale acquista coraggio a mano a mano che la sua civiltà matura, e prende consistenza. Con la Riforma, il credente si trova a tu per tu con Dio, elimina la mediazione ecclesiastica allo stesso

modo in cui elimina tutta la schiera di mediatori e intercessori che ingombra il cielo del cristiano medievale. È il primo atto d'orgoglio. Più tardi non cercherà neanche più il colloquio con Dio: starà da solo, sempre più orgoglioso, nell’immensità dell'Universo. Si è già detto che una civiltà, dopo avere raggiunto il culmine, diventa razionale, nel senso che acquista una

smisurata fiducia nella ragione umana; e abbiamo preso in considerazione alcune conseguenze di questo razionalismo, abbiamo parlato delle teorie sociali, delle ideologie

che aspirano a ordinare la vita politica secondo logica, superando gli impulsi irragionevoli dell’istinto. Le teorie sociali sono soltanto una manifestazione di questo razionalismo che pervade e ispira, in una certa fase della civiltà,

tutte le forme della cultura. Altre manifestazioni sono la grande filosofia, la fede illimitata nella scienza.

La filosofia si stacca dalla teologia, di cui era ancella. Dio scompare del tutto, o diventa un'entità molto astratta.

Ora il filosofo aspira a capire il mistero della vita col ragionamento. Vi aspira in ogni civiltà, sempre dando risposte diverse, perché ogni civiltà ha una sua fisionomia, e

Kant è diverso da Aristotele; ma sempre spinto dalia stessa illusione, quella di comprendere l'Universo, di forzare l’ultimo mistero, affidandosi all’intelletto. La scienza vie-

La seconda religiosità

203

ne in suo aiuto, formando a sua volta teorie che dovrebbero fondarsi su osservazioni «scientifiche», cioè obiettivamente vere, perfettamente dimostrabili, anche se, fatto cu-

rioso, ogni teoria scientifica è diversa dalle altre. Lo sguardo d'insieme, lo abbiamo ammesso, è ingannevole. Diciamo che la cultura diventa razionale e scientifica, che crede di poter fare a meno di Dio, ma sappiamo che la religione mantiene la sua vitalità, e che l’Inquisizione continua a condannare inesorabile chiunque si allontani dalla retta via. La Riforma è seguita dalla Controriforma, che protegge il cattolicesimo a sud delle Alpi; lo stesso scisma fra cattolici e protestanti dimostra la profondità della fede cristiana, per la quale si è disposti a combattere. Gli eretici finiscono sul rogo, sono bruciati vivi.

Ma anche se lo sguardo d'insieme può essere ingannevole, alcune proposizioni sono vere. È vero che l’uomo medievale è religioso, crede in Dio; è altrettanto vero che

l’uomo settecentesco crede nella Dea ragione. L'uomo di pensiero medievale è teologo; quello settecentesco è filosofo, è scienziato. E poi? Il razionalismo, lo scientismo si

illudono di proseguire all'infinito la loro ricerca, per avvicinarsi alla verità assoluta e finale, salendo un gradino dopo l’altro. Ma così non è. Anche il razionalismo, anche lo scientismo hanno un ciclo, e dopo avere raggiunto la vetta sono colti dal dubbio. Anche chi ha creduto nella ragione si accorge che la ragione ha un limite. Come si potrebbe scoprire ragionando l’ultima verità, quella suprema? Era follia sperarlo. A un certo punto tramonta l’èra della grande filosofia, si comprende la relatività delle teorie scientifiche. E ritorna la fede in Dio. Ma ora si crede in Dio in altro modo rispetto al Medio Evo. Lo spirito religioso è profondamente diverso, e secondo Spengler si profila il fenomeno che egli chiama, con bella intuizione, «la seconda religiosità». La civiltà si avvicina alla fine del suo grande viaggio,

204

Il tramonto della nostra civiltà

invecchia, è stanca, e gli uomini si rivolgono a Dio come all'ultimo rifugio, privi della forza e dell'entusiasmo che

sarebbero necessari per creare complessi sistemi teologici, e incapaci di credere ai sistemi ereditati da altri secoli. Questo in cui si crede nel periodo tardo di una civiltà è un Dio diverso dal Dio di Dante e di San Tommaso, diverso

anche dal Dio di Lutero e di Calvino. E la fede che si ripone ora in lui è vaga, generica, quasi intimista. Quella di una civiltà al tramonto è una religiosità di ritorno; un ten-

tativo di ripetere a orecchio i grandi inni del passato, prima di morire. Così si spiega il modo in cui molti, nel nostro tempo, dicono di credere in Dio. Molti dicono di credere che un qualche Dio esista, lo descrivono in modo generico come un Essere infinitamente giusto e infinitamente buono, am-

mettono che senza di lui non si riuscirebbe a capire come esista il mondo, ma non si chiedono altro su di lui, non si

fanno domande sui grandi dogmi, o sui misteri della Trinità, perché ci si è dimenticati che esistono. La religiosità moderna non conosce le finezze teologiche. È una nebbia, nella quale si muove, come accade di vedere in certi film,

una figura gigantesca e indistinta: Dio, per l'appunto, l’Essere supremo. Dante se l’era immaginato diverso. Con queste premesse, è naturale che non si osservino i riti, non si rispettino gli obblighi imposti dalla religione. Le chiese rimangono vuote. Sono credente, non pratican-

te: ecco la frase ripetuta sempre più spesso. Che bisogno c'è di andare a messa, di confessarsi, di fare la Comunio-

ne? Ciascuno si plasma per conto suo una regola di vita, adattandola secondo le circostanze, nella certezza che è importante comportarsi bene, non fare male a nessuno;

certamente Dio comprenderà le nostre buone intenzioni, anche se non frequentiamo il tempio; anche se compiamo azioni e teniamo comportamenti che i precetti ecclesiastici condannano. Altro che precipitare all'inferno se non si aveva la possibilità di confessarsi, come si credeva in altri tempi! È interessante osservare che questa mentalità tolle-

La seconda religiosità

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rante e permissiva non è limitata ai laici; la condividono i rappresentanti del clero, ed è naturale che sia così, perché il clero non si sottrae certo alle leggi che governano il ciclo di una civiltà. Anch'esso ne fa parte, di pieno diritto. Lo si vede con chiarezza nei rapporti fra le diverse fedi religiose. Molti anni or sono, un prete anglicano mi diceva che i seguaci della Church of England aspiravano a essere trattati dai cattolici «come fratelli nell'errore, non come

eretici in preda del Demonio». Mi sembra che il suo voto sia stato esaudito. È lontano il tempo in cui cattolici e protestanti si facevano la guerra. Il movimento che avvicina l'una all'altra le varie denominazioni cristiane è inarrestabile. Si capisce bene perché: la religiosità del nostro tempo è poco attenta agli aspetti dogmatici, è distratta, è indifferente alle dispute teologiche. Che cosa può separare un cattolico da un luterano, se tutt'e due si limitano a pensare che Dio è buono ed è giusto, che ha mandato il figlio in Terra per redimere gli uomini, e che la Madonna era la madre di Gesù? La verginità delle donne in generale, e della Madonna in particolare, non è più un gran problema. Si attenuano anche le differenze fra i credenti e gli atei; icredenti non escludono affatto di ritrovare qualche ateo accanto a sé in paradiso, se nella vita terrena l’ateo si è comportato bene. Cade l'ostilità verso le religioni diverse da quella cristiana. Il capo del cattolicesimo non si limita a ristabilire rapporti ufficiali con gli ebrei, riponendo in soffitta l’accusa evangelica di avere messo in croce il figlio di Dio; incontra anche i musulmani, e una moschea diventa luogo di culto degno di rispetto, al pari di un tempio cristiano. Insomma: la seconda religiosità porta al sincretismo; al Pantheon in cui si raccolgono tutti i culti. È questa la verità di fondo. L'analogia nell'evoluzione religiosa di civiltà diverse è una nuova dimostrazione dell’ineluttabilità del loro decorso: tutte le civiltà invecchiano inevitabilmente, e invecchiano allo stesso modo, passando attraver-

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Il tramonto della nostra civiltà

so le stesse fasi e le stesse esperienze. La religione è parte essenziale di una civiltà, e segue il suo destino. Nessuno pensa, in questa seconda religiosità, che l’adesione alla religione giusta, e l'osservanza dei suoi precetti, siano la condizione inderogabile per ottenere, nella vita dell’aldilà, la felicità eterna. Nessuno si pone il problema. Non si è neanche sicuri che vi sia un aldilà. La vita ultraterrena non è una certezza, come per i credenti del Medio Evo; è una possibilità, un’eventualità, di cui comunque

non è il caso di preoccuparsi troppo, perché non la si guadagna mediante l'adempimento di doveri specifici. La differenza fra i due modi di essere religiosi, nella fase ascendente di una civiltà e in quella finale, non potrebbe essere più profonda.

Col passare del tempo, anche la seconda religiosità si trasforma. Si passa dalla pietà generica e bonaria del primo periodo ai nuovi fanatismi, tipici del periodo finale. Nascono le sette, e già ne vediamo i segnali premonitori, perché hanno una crescente fortuna i predicatori di vario tipo,

gli uni in buonafede, gli altri imbroglioni, che raccolgono proseliti a migliaia. Spesso si tratta, per quanto riguarda la nostra civiltà, di personaggi televisivi. Nell'antichità greco-romana VI è stata, nella fase finale, la proliferazione dei

culti orientali. Adesso affiorano strani miscugli di superstizioni varie. Così il cerchio si chiude. I predicatori televisivi ricordano quelli itineranti che nel Medio Evo avanzavano di borgo in borgo, seguiti da una folla vociante di fedeli, e pronunciavano sermoni infuocati, fra i gemiti e le lacrime di chi li ascoltava. Gli uni e gli altri, a parte la differenza dei mezzi di comunicazione, si assomigliano. Con una differenza sostanziale, ovviamente: che gli uni diffondevano le verità di una dottrina ben costruita, solida, condivisa

dall'intera società del tempo, dai potenti come dagli umili, dagli imperatori come dal più povero dei contadini. Gli

La seconda religiosità

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altri, quelli del nostro tempo, sono avventurieri isolati, e

recitano a soggetto.

Ci siamo chiesti all’inizio del capitolo se l’uomo moderno sia ancora religioso. La risposta è che sta ridiventandolo: ma a modo suo,

con stanchezza, con rassegnazione, senza entusiasmo. L'uomo moderno prova a credere di nuovo in Dio, un Dio

non ben definito, la cui volontà e i cui precetti sono imperscrutabili, solo perché ha perso la fiducia nelle facoltà umane, ha perso la fiducia in se stesso. L'impoverimento spirituale è quindi visibile anche sul versante della religione; come l’arte, come la politica, così anche la fede perde i contorni ben definiti, e ogni individuo la vive a modo suo, in libertà. Solo così si spiegano le costanti pressioni che si esercitano sull’autorità religiosa affinché abolisca ogni divieto, affinché approvi tutto: il libero amore, il controllo delle nascite, l'aborto, il matrimo-

nio fra religiosi, irapporti omosessuali fra i preti. La Chiesa cede, e abbandona una dopo l’altra le sue posizioni. Quando un Papa tradizionalista come Wojtyla, avendo alle spalle una cultura precapitalistica, resiste, è criticato dall'opinione pubblica, che più non comprende perché il Papa dovrebbe proibire ciò che la morale comune non esita a concedere. Gli ottimisti vedono segni di progresso civile in una Chiesa permissiva e liberale; ma sembra più giusto scorgere anche in questa permissività, in questa liberalità un altro segno di decadenza. Il fatto che noi la preferiamo, me compreso, non significa nulla; o

meglio, significa soltanto che anche noi siamo figli del nostro tempo.

La controversia sul controllo delle nascite è un esempio tipico di questo conflitto di mentalità. L'ortodossia della dottrina cristiana lo condanna; l’ha sempre condannato. Nel periodo fulgido della pietà religiosa, le conseguenze sociali del divieto erano considerate irrilevanti. Non se ne teneva conto. Le condizioni di vita sulla Terra, in questa

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Il tramonto della nostra civiltà

«valle di lacrime», perdevano qualsiasi interesse di fronte al fatto, ben più importante, della vita ultraterrena. Un genuino atteggiamento religioso non può scendere a compromessi, perché il rapporto con la legge di Dio è un asso-

luto di fronte al quale tutto il resto scompare. Ogni sacrificio, anche quello della propria vita, anche quello della vita del figlio, è giustificato, pur di conquistare la salute eterna. Ma oggi l'opposizione al controllo delle nascite appare del tutto irragionevole. Si citano le statistiche, si pensa alle

condizioni di vita nel Terzo Mondo, si pubblicano le fotografie dei bambini affamati, si trasmettono alla televisione i documentari sulla mortalità infantile, per mettere sotto

accusa un'autorità religiosa che si ostina a condannare il controllo delle nascite. La gente chiede: perché? Che senso ha insistere su un divieto che ha conseguenze sociali così gravi? La domanda è perfettamente comprensibile, è dettata dallo spirito del tempo: ma dimostra anche che nel nostro tempo non si comprende più l’ortodossia religiosa. La seconda religiosità esclude i divieti. È probabile che il successore del Papa polacco, se verrà da un paese più moderno, più in linea coi tempi di quanto non sia la Polonia, si mostrerà più comprensivo. Vi sono anche in questi anni esempi di fanatismo religioso: l'integralismo islamico è una manifestazione assai preoccupante di intransigenza dal Marocco al Medio Oriente, fino a vaste zone dell’ Asia.

Come si spiega? La religione islamica fu l’espressione di una grande civiltà che abbiamo chiamato, nel corso di questa esposizione, magica, siriaca o araba. Quella civiltà è irrimediabilmente estinta. Essa mantiene forme esteriori che ormai sono pietrificate, immobili e immutabili, appunto per il fatto che lo spirito che le ha create si è spento. Fra tali forme, la più importante è la religione, immobile e pietrificata anch'essa. Forse è proprio nella sua immobilità priva di vita la

La seconda religiosità

209

causa dell’estremismo fanatico. Ed è concepibile che la religiosità permissiva del periodo finale di una civiltà diventi, all'ultimo stadio, settaria e fanatica. Siamo nel cam-

po delle ipotesi. I fatti certi sono, innanzi tutto, che la civiltà cui appartiene la religione islamica si è esaurita, è incapace di creare nuove forme, e in secondo luogo, che l’Islam ha manifestazioni integraliste ed estreme. Nella combinazione di questi due fatti si può leggere il nostro avvenire; ma non sarà concesso alla nostra generazione di verificarlo, per ragioni di tempo.

VII

L'impero americano

Come la civiltà greco-romana si chiuse con l'impero romano, quella occidentale si chiuderà con l'egemonia degli Stati Uniti sul resto del mondo Lo studio di una civiltà, del suo sviluppo e della sua decadenza acquista grande importanza quando si esaminano, al suo interno, i rapporti fra gli Stati; rapporti che possono condurre, quando tutto va bene, alle alleanze, alla collaborazione internazionale, agli scambi, alla prospe-

rità; ma possono anche provocare le guerre. Nelle redazioni dei giornali si è abituati a classificare gli argomenti secondo il grado di interesse che suscitano nel pubblico. Quando si parla di arte moderna, per esempio, l'interesse è abbastanza diffuso: molti si chiedono sconcertati come si arriva all'arte astratta, e a forme d’arte an-

cora più bizzarre, come i tagli di Fontana in una tela bianca, 0 gli stracci di Burri. È arte anche quella? Come si colloca rispetto all'arte del periodo classico? È interessante, senza dubbio, offrire una risposta a simili quesiti, e la

visione della storia che qui esponiamo consente di dare una risposta credibile. È religioso l’uomo moderno? Anche questa domanda suscita presumibilmente un interesse abbastanza diffuso, e la risposta è fra il sì e il no; si assiste a un ritorno alla fede religiosa, ma la si vive in modo profondamente diverso rispetto al passato, in modo cioè più vago, più generico, più distratto: anche questa, che è stata definita «la

L'impero americano

211

seconda religiosità», può essere spiegata nell’ambito della decadenza della civiltà occidentale, e anche questa spiegazione è interessante. Ma i quesiti sui rapporti fra gli Stati sono più pressanti, e l'interesse che suscitano raggiunge il grado più alto. Avremo l'evoluzione che tanti auspicano verso una qualche forma di governo mondiale, e quindi una lunga pace fra i popoli; o incombe il pericolo di nuove guerre, per di più di guerre atomiche? Fukuyama parla di fine della storia, come se i grandi problemi fossero tutti risolti con la vittoria dell'ideologia liberale e democratica; la fine della guerra fredda, il crollo dell’Unione Sovietica inducono a sperare in una lunga pace; ma intanto si combatte qua e là per il mondo, si è avuta la guerra del Golfo per scacciare gli irakeni dal Kuwait, si combatte fra serbi, croati e bo-

sniaci nel territorio che prima si chiamava Jugoslavia. Come si spiegano queste conflagrazioni? Ne avremo altre? Nel nostro secolo si sono combattuti due conflitti mondiali. La storia dell'umanità non registra lunghi periodi senza una guerra; la pace, come dicono i meteorologi del bel tempo, è soltanto un intervallo fra due guerre. Ma lo

stile dei combattimenti varia secondo i tempi. Nei primi secoli di una civiltà, nel periodo che abbiamo chiamato creativo, quando ogni espressione civile sembra un giuoco, diventa un giuoco anche la guerra, con le sue regole, con le cortesie reciproche. Si fa alta civiltà anche con le armi in pugno; le differenze fra guerre e tornei non sono radicali. La svolta della civiltà in generale segna anche la svolta nell'arte militare. Si passa dalla fase creativa alla fase razionale. Ed è curioso che, proprio quando nasce fra gli uomini il desiderio di ordinare la convivenza secondo ragione, secondo logica, quando si elaborano le grandi teorie sociali, le guerre diventano brutali, crudeli. Il peggiora-

mento può essere collocato, per quanto riguarda la nostra civiltà, nel periodo delle guerre napoleoniche. È allora che scendono in campo gli eserciti popolari al posto dei mer-

212:

Il tramonto della nostra civiltà

cenari, e non si rispettano più le regole, non. si giuoca più:

si combatte per distruggere l'avversario, per annientarlo. Bel risultato: si sogna la società perfetta, la convivenza armoniosa, nel nome di libertà, eguaglianza, fraternità, si vuole sostituire il regno della ragione agli istinti disordinati della natura umana, e intanto si comincia a guerreggiare con una cieca volontà distruttiva. Ma abbiamo già osservato che la geometria dell'equazione prevede, col massimo di teoria, il massimo di crudeltà; perché il massi-

mo di teoria coincide col minimo di attuabilità. Le guerre del Ventesimo secolo sono le più crudeli. In esse è coinvolta la popolazione civile. Si combattono guerre totali, e Mussolini promise che si sarebbe fatta tabula rasa della vita civile.

Ibombardamenti massicci delle città,

diurni e notturni, uccidevano nel giro di qualche ora decine di migliaia di persone, uomini, donne e bambini. Stragi ancor più orribili si commettevano nei campi di concentramento. Anche nel passato si sono trucidati i civili, ma ciò avveniva nelle invasioni barbariche, quando orde selvagge travolgevano le città e i villaggi. Adesso lo sterminio era perpetrato da nazioni progredite. I rari casi in cui si stabilivano ancora regole, per esempio alla Rochelle, dove verso la fine della guerra si stipularono accordi per la limitazione del danno fra i tedeschi assediati e i francesi assedianti, non avevano niente in comune con i giuochi guerreschi del Medio Evo: si trattava ora di intese utilitarie di breve durata. Non sorprende che le teorie sulla decadenza della civiltà occidentale siano nate sotto l'impatto delle grandi guerre combattute nel nostro secolo. Oswald Spengler vide soltanto la prima: gli bastò. Arnold Toynbee visse anche la seconda. Le reazioni di intellettuali come lui, come Harold Nicolson e tanti altri, affidate ai diari e alle lettere,

indicano che quei conflitti, nel momento stesso in cui diventavano totali e crudeli, mettevano a nudo, in modo

drammatico, la loro folle inutilità. E lo sgomento suscitato dalle stragi portò, alcuni anni più tardi, alle dimostrazioni

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antinucleari e pacifiste portò al rigetto negli Stati Uniti della guerra del Vietnam. Siamo alla vigilia della pace perpetua, in una nuova Età dell'Oro? Le conclusioni di Spengler e di Toynbee sulla decadenza della civiltà occidentale sono credibili; e sem-

brano di per sé pessimistiche. Ma proprio per questo, forse, possiamo sperare in un lungo periodo senza grandi guerre, e il discorso di Fukuyama sulla fine della storia può diventare pertinente, sia pure in un senso diverso da quello che ispira la sua teoria. Le guerre fra gli Stati: le varie civiltà hanno attraversato un periodo, della durata di due o tre secoli, in cui gli Stati

nell’ambito di ogni singola civiltà si sono combattuti in guerre a oltranza, fino a quando uno di essi ha prevalso e ha dato vita, secondo la terminologia di Toynbee, a uno Stato universale. Tale periodo si colloca, per i cinesi, fra il 500 e il 200 avanti Cristo; nel caso dell'Egitto bisogna risalire all'invasione degli hyksos, fra il 1700 e il 1500, per scoprire qualche analogia, Soffermiamo l’attenzione sulla civiltà greco-romana, di cui sappiamo qualche cosa di più, ricordando che gli Stati nel suo ambito assumono la forma della polis, sono città-

Stato, ciascuna paragonabile ai regni che si affronteranno nell’ambito della civiltà occidentale duemila anni più tardi. Roma si afferma di guerra in guerra nel Lazio, nell’Italia del Sud e in Etruria, nella pianura del Po. Il confronto con Cartagine, che si prolunga in tre conflitti, è la prova suprema; Roma esce vittoriosa, e ha la strada spianata per conquistare, nel periodo successivo, l'egemonia del Mediterraneo,

Che cosa le consente di prevalere? I romani non sono raffinati. Importano dalla Grecia cultura, buone maniere, fogge d’abito, dolce vita. Gli uomini più brillanti nelle ville romane sono i filosofi e gli intellettuali provenienti dalle città elleniche; la lingua elegante (come il francese in seno alla

élite della Russia imperiale: si pensi a Guerra e Pace) è la

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greca; un viaggio nell’Ellade è d'obbligo per essere alla moda. Però il centro culturale dell'antichità si sposta da Atene a Roma, perché Roma è il centro politico e finanzia-

rio, lì risiedono i personaggi più autorevoli e i più ricchi. La qualità dei romani è il senso politico, la capacità in primo luogo di darsi un governo, poi di trattare con altri popoli. Vi è nella città-Stato romana una classe dirigente di fatto, composta in primo luogo da poche famiglie patrizie, poi da un’oligarchia allargata per includervi i ricchi borghesi, senza ricorrere a costituzioni scritte, senza stabi-

lire procedure, perché la vera politica si fa, non col ragionamento, non con le teorie o coi manuali di diritto costituzionale, bensì con la sensibilità, con l'autorevolezza, con

la capacità di governare, che deve essere innata e connaturale. (Si pensi all'Inghilterra nell'Ottocento.) Questa è la forza di Roma: una classe dirigente ristretta, che si divide al suo interno in destra e sinistra, in conser-

vatrice e progressista, ma anche i progressisti sono per lo più i discendenti di antiche famiglie, o per lo meno si presentano come tali. Il segreto è la classe dirigente di fatto: proprio quello che manca all'Italia del nostro tempo. È che manca alla Grecia di allora. I romani sono indotti dalle circostanze, più ancora che dall’ambizione, a estendere progressivamente la propria influenza su zone sempre più vaste. Come il potere all’interno della città, così anche il dominio all’esterno è con-

quistato in modo naturale, non secondo disegni prestabiliti: si tratta di occupare un vuoto, o di mantenere l'ordine fra gente straniera riottosa e rissosa. La guerra con Cartagine era stata l'evento affrontato in modo consapevole, perché allora il confronto era mortale: uno dei due contendenti doveva vincere, l’altro sparire. Carthago delenda: si era ormai nel periodo brutale e crudele delle guerre combattute, non per giuoco, ma per distruggere l'avversario. Roma doveva vincere, o essere distrutta. Dopo le guerre puniche la strada è in discesa. La Grecia non è una minaccia: è solo una preoccupazio-

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ne continua, perché le città greche sono costantemente in

guerra l'una con l’altra, e questa o quella chiede spesso l'intervento di Roma per combattere il nemico del momento. Si parla anche in Grecia, come nell'Europa contemporanea, di unificazione, di alleanza fra tutte le città,

di fusione, di federazione secondo i casi e secondo i momenti, per fronteggiare la potenza dei romani a occidente, dei persiani a oriente. Ma non se ne fa nulla. L'unione dei greci è impossibile per una ragione assai semplice: in qualsiasi parte del mondo, gli Stati di potenza equilibrata non riescono a superare i reciproci antagonismi per mettersi insieme. L'unione avviene soltanto se uno Stato forte annette quelli deboli: come Roma ha fatto in Italia. In Grecia, né Atene né Sparta hanno la forza di sconfiggere e di annettere le altre città. Anche in politica, come nella filosofia o nel teatro, i greci sono più brillanti dei romani, elaborano teorie politiche più raffinate, ma sono privi di quella sensibilità, di quella genialità per la politica di fatto che consente di vincere le battaglie per il potere. Così Roma, volente o nolente, con entusiasmo o con riluttanza, domina la Grecia, estende il dominio all’Asia

Minore, annette i regni fondati dai successori di Alessandro. I romani non sono ben visti: chi comanda attira sempre su di sé l'ostilità di chi è comandato. Coi governatori arrivano nei territori annessi i mercanti, gli uomini d’affari, che approfittano della posizione privilegiata in cui si trovano per fare soldi. I greci e tutti gli altri che popolano l'Oriente, gli egiziani, i siriani, gli ebrei li rispedirebbero volentieri a casa. Ma chi può sfidare Roma?

Saltano agli occhi, innegabilmente, le analogie con la nostra storia.

Anche in Europa si sono combattute nell'Ottocento e nel Novecento le guerre fra gli Stati, contraddistinte da due caratteristiche rispetto ai secoli precedenti: la partecipazione popolare, la furia distruttrice. Federico di Prussia aveva passato la vita guerreggiando con l’Austria, con la

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Francia, con la Russia; le sorti erano alterne, ma la posta in

giuoco non era la distruzione dell'avversario. La partita era più fine, più elegante: si trattava di correggere i confini, di cambiare gli equilibri, da soppesarsi col bilancino. Ma la sconfitta della Germania imperiale nel 1918 portò a Versailles, col disegno esplicito di renderla impotente. C'era il piano di ridurre la Germania a un popolo di pastori. Il colosso ferito riuscì a rialzarsi, e la Germania hitleriana, ridotta a un cumulo di macerie, fu divisa in due. Fu distrutta, come Cartagine.

La furia distruttrice non è dovuta all'esistenza di più efficaci strumenti di distruzione: quando si vuole, si riesce a distruggere anche con le armi più rudimentali, con l’accetta e col piccone. L'origine di quella furia è un’altra: l’obiettivo delle guerre a partire dall’èra napoleonica era di mettere in moto un’eliminatoria dalla quale doveva emergere la grande potenza egemone. Nell'ambito europeo, la più forte era probabilmente la Gran Bretagna, al centro di un impero di respiro mondiale, e governata anch'essa, come la repubblica romana dei tempi d’oro, da

una classe dirigente ereditaria, dotata di grande sensibilità politica, di un istinto innato per il potere. Ma c’era + fuori dell'Europa, dall'altra parte dell'oceano, una potenza di gran lunga più forte: gli Stati Uniti d'America. Non c'è alcun dubbio: l'America del Nord è la Roma del nostro tempo, è il punto d'arrivo della guerra fra gli Stati nell’ambito della civiltà occidentale. E strano che questa realtà sia sfuggita a Spengler, sebbene si inserisse in modo perfetto nella sua visione della storia, e ne costituisse un'ulteriore conferma. Già nel 1919, quando uscì la prima edizione del Tramonto dell'Occidente, si poteva intui-

re che l'America avrebbe assunto la posizione egemonica che fu di Roma nell'antichità. Corrisponde perfino la collocazione geografica: la potenza dominatrice, come le tempeste atlantiche, sopraggiunge da Ponente. Roma era a ovest del bacino che avrebbe dominato; l'America è a ovest di quello che domina.

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Come mai Spengler non se ne accorse? Egli credeva che il centro imperiale dell'Occidente sarebbe stato Berlino: certamente fu fuorviato dal nazionalismo, dall’amor di patria,

ma l'errore dimostra soprattutto quanto sia difficile capire il senso degli eventi quando li si osserva da vicino. L'egemonia americana, che nel 1919 era prevedibile, dopo il 1945 è diventata effettiva e tangibile. L'America svolge sull’Occidente ben più che una funzione di guida; esercita un potere paragonabile a quello della Roma imperiale. Il fatto che il suo predominio non sia proclamato, che non trovi sanzione giuridica, non deve trarre in ingan-

no. Il potere tacito è il più efficace. Ma un fatto è determinante, e spazza via ogni obiezione: a partire dal 1945 la difesa delle nazioni occidentali è affidata alle forze armate degli Stati Uniti, nucleari e convenzionali.

Non può essere

sovrano uno Stato che non voglia difendersi da solo. La facilità con cui le nazioni europee accettano questa menomazione dimostra che sono ormai rassegnate a una posizione subordinata. Vi sono stati, per la verità, rari momenti di orgoglio. In questo senso va interpretata l'insistenza degli inglesi e dei francesi per disporre di un armamento nucleare autonomo: il possesso di armi atomiche aveva un significato puramente simbolico, perché non serviva a nulla. Era soltanto un modo di affermare, da parte di antichi Stati carichi di storia e di gloria, che esistevano ancora. Il tentativo di offrire una dimostrazione, un segno concreto di sovranità nazionale, come nel tempo andato, ven-

ne nel 1956, con l'impresa di Suez. L'Inghilterra e la Francia tentarono con decisione autonoma, alla chetichella,

un'impresa militare il cui obiettivo, per altro, coincideva perfettamente con la politica estera americana: si trattava di ridimensionare Nasser, il dittatore egiziano, al quale

John Foster Dulles, segretario di Stato degli Stati Uniti, aveva negato il finanziamento della diga di Assuan. Nasser, per rappresaglia, aveva nazionalizzato il canale di

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Suez. Gli inglesi e i francesi, alleati con Israele, decisero di

punirlo con una spedizione militare. L'impresa fu male architettata; fu giustificata con un goffo pretesto, quello di separare l’esercito israeliano dall'esercito egiziano, e di proteggere il canale; anche la goffaggine del pretesto era un segno di decadenza. Ma la vera colpa delle due nazioni europee, di fronte agli Stati Uniti, fu di avere agito in modo autonomo: l'impresa fu

brutalmente bloccata da Washington, con conseguenze disastrose per il prestigio anglo-francese di fronte al mondo, e di fronte agli arabi in particolare. Speravano Londra e Parigi di riconquistare posizioni nel Medio Oriente? Sono state servite. Dopo di allora non vi furono da parte loro altri tentativi di autonomia nella politica estera. La lezione è stata imparata. L'egemonia americana è stata riconosciuta a tutti gli effetti. I confini dell'impero americano, poiché di questo si tratta, sono estesi: comprendono le due Americhe, l’Europa occidentale, il Medio Oriente, vaste zone dell'Asia.

Quando israeliani e palestinesi decidono di negoziare, si incontrano in America, e la trattativa si svolge sotto l’egida americana. Saddam Hussein, dittatore irakeno, adope-

rato dagli Stati Uniti per contenere l'Iran, provincia ribelle, decide a un certo punto, in seguito a un malinteso con

l'ambasciatore degli Stati Uniti, di prendersi il Kuwait. Gli americani, per punirlo, montano un'operazione militare di dimensioni straordinarie, che ha soprattutto scopo dimostrativo. Hussein abbandona il Kuwait, e gli americani non sentono il bisogno di abbatterlo, sebbene siano in gra-

do di farlo con facilità, perché ritengono che la lezione sia stata sufficiente. Infatti, Hussein non dà più fastidio. L'organizzazione delle Nazioni Unite è la facciata che consente agli Stati Uniti di svolgere una politica mondiale, e di eseguire interventi, senza impegnarsi in forma di-

retta. Le Nazioni Unite non agiscono senza il consenso americano. I membri europei dell’organizzazione internazionale non sono intervenuti in Bosnia, se non in modo

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marginale, perché gli Stati Uniti non volevano intervenire. Quando i reparti dell'esercito italiano hanno avuto problemi in Somalia, i comandanti e la diplomazia italiana

hanno cercato di appianarli con gli americani piuttosto che con gli organi dell'Onu. L'egemonia americana non si limita al controllo delle azioni militari: interferisce nella politica interna dei vari Stati. In Italia, una coalizione di centro-sinistra, cioè un’al-

leanza fra democristiani e socialisti per governare il paese, è stata possibile solo quando una presidenza di sinistra a Washington, quella di Kennedy, ha dato il consenso. Nel 1977 e nel 1978, i massimi esponenti della Democrazia cristiana, Aldo Moro e Amintore Fanfani, si sono convinti

che era giunto il momento di estendere l'alleanza di governo ai comunisti, ma il veto americano ha prontamente bloccato l'operazione. Quali altre prove si devono addurre per dimostrare che l'egemonia americana è un dato di fatto: si vuole che l'ambasciatore degli Stati Uniti si trasferisca da Villa Taverna al Quirinale?

Gli Stati Uniti esercitano, parallela all’egemonia politica, un’egemonia economica. Se si osserva da vicino que-

sto altro aspetto della loro preponderanza, siscopre la vera natura dell’imperialismo americano. Più che il frutto di una volontà politica, esso è dettato dalle circostanze. L'economia americana prevale perché è la più grande. Le multinazionali americane

sono più forti; l'industria

americana è più possente; la tecnologia americana è più

avanzata. Lo squilibrio tra le forze decreta automaticamente il predominio del più forte; lo imporrebbe anche se il più forte non volesse dominare. Il dollaro è la moneta di riserva perché è la moneta dell'economia di maggiori dimensioni. Un meccanismo perverso fa sì che gli americani costringano certi stranieri, in primo luogo il Giappone, a finanziare con la propria austerità il loro tenore di vita, assai più alto: questa situazione non è il risultato di un disegno di Wall Street, è solo la conseguenza di varie

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circostanze. Il deficit della bilancia dei pagamenti americana è coperto dai prestiti giapponesi; gli americani sono in deficit perché vogliono vivere bene e i giapponesi, per finanziarli, tirano la cinghia. Se i giapponesi rifiutassero di finanziare gli americani, crollerebbe il sistema, e i primi a soffrirne sarebbero proprio i giapponesi. L'imperialismo del dollaro non è deciso da nessuno; è la conseguenza di una situazione complessa che non è stata voluta da nessuno in particolare. Ma probabilmente questo è vero dell’imperialismo americano in generale, e non solo di quello economico. Verso l'Europa, la politica americana (si potrebbe anche dire: la politica imperiale) varia secondo le circostanze, per ottenere, saggiamente,

il massimo

risultato col minimo

sforzo. Dopo la guerra 1939-45, quando l'Europa non esisteva, perché era distrutta, scompaginata, senza fiato, gli americani dovettero intervenire per tenerla in piedi. Ciò era nel loro interesse. L'impero non poteva rinunciare alle province più importanti; ed entravano in giuoco fattori culturali, affinità storiche, valori tradizionali. Ma soprat-

tutto è vero che l'economia americana aveva bisogno del mercato europeo. Fu deciso il piano Marshall; e per agevolarne l'attuazione fu incoraggiata l'unione fra gli Stati europei. Negli anni successivi al conflitto gli Stati Uniti esercitarono energiche pressioni sulla Francia e sulla Germania occidentale, affinché seppellissero le antiche discordie, e sull’Inghilterra, affinché rinunciasse alle ambizioni impe-

riali per diventare a sua volta europea. In quegli anni, la creazione di un'unione economica, e di un esercito integra-

to europeo, rientrava negli interessi degli Stati Uniti. Il dipartimento di Stato, pertanto, era europeista. L'unione non si fece, per le ragioni che vedremo; gli Stati europei si risollevarono lo stesso. La Germania in particolare, anche prima della riunificazione, riacquistò un

grande peso nell'economia internazionale. I governi europei continuarono i loro vani tentativi di unificare l’Europa; ma gli Stati Uniti, ormai, non premevano più in quella

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direzione; non ci tenevano più. L'unione europea non coincideva più con gli interessi dello Stato egemone. A mano a mano che le singole nazioni del Vecchio Continente si rafforzavano, il desiderio di vederle riunite in una

grande federazione si affievoliva. Gli Stati Uniti non avevano alcuna voglia di trovarsi davanti a un interlocutore di pari peso, o addirittura più forte, quale sarebbe stata l'Europa unita. Nel complesso, l'atteggiamento americano verso l'esterno non è dunque guidato da idealismo (come molti credettero in Europa quando gli Stati Uniti incoraggiavano l'unificazione), ma da un sano realismo. La linea di

fondo è un imperialismo riluttante, una tendenza a occupare gli spazi vuoti, a intervenire quando è necessario farlo, senza entusiasmo particolare, con una parte notevole dell'opinione pubblica tendente piuttosto verso l’isolazionismo, verso la politica di casa: stiamo a casa nostra, occu-

piamoci dei fatti nostri, e che gli altri si arrangino. Secondo qualche storico, anche nella Roma antica era presente una corrente isolazionista, contraria agli impegni fuori casa; anche quello romano poteva essere definito un imperialismo riluttante, forse perché i grandi impegni, le grandi avventure non si addicono alle nazioni in'età matura,

nell’ambito di una civiltà stanca, che volge al declino. I barbari di Attila o di Tamerlano operavano in uno stato d'animo diverso. La gestione attenta e oculata della politica americana indica la presenza di una classe dirigente abile, di grande sensibilità, di un establishment, secondo la terminologia anglosassone, composto di uomini d'affari, di finanzieri,

di diplomatici, di generali, paragonabile alla classe dirigente che aveva gestito la politica dell'antica Roma, composta anch'essa di patrizi e di uomini d’affari. Gli americani, nella diplomazia come negli affari, si muovono con

la sagacia che si addice a una potenza imperiale; anche se le singole mosse sembrano talvolta goffe, nella maggioranza dei casi raggiungono l’obiettivo: l'esercizio di re-

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sponsabilità mondiali col massimo risultato e il minimo sforzo. Tutti i fili, per la totalità degli avvenimenti nel mondo intero, passano da Washington e da New York. Eppure, gli americani sono spesso trattati con sufficienza; sono considerati ingenui, grossolani, o addirittura infantili dagli europei decaduti, impotenti, inefficienti,

ma presuntuosi. È probabile che si facessero ad Atene discorsi simili, duemila anni or sono, quando si parlava dei

romani.

L'America odierna corrisponde all'antica Roma. L'Europa odierna corrisponde all'antica Grecia. Politicamente, la situazione è la stessa. Gli Stati europei, esausti dopo tanti anni di lotte, scettici, delusi, hanno ab-

bandonato uno dopo l’altro le grandi aspirazioni, hanno deposto le ambizioni, e si sono ripiegati su se stessi, per condurre un'esistenza comoda e tranquilla. Prima su questa strada si è avviata la Svizzera; poi la Scandinavia; infine, dopo il 1945, la Francia, la Germania, e la stessa Inghil-

terra, che ha deposto il suo impero con una grazia così elegante, così generosa da diventare sospetta: come se non avesse desiderato altro, dopo l’eroico exploit bellico, che riposarsi. Già prima della guerra, del resto, erano visibili i segni di un incipiente edonismo in Inghilterra e in Francia, tali da indurre i dittatori, Hitler e Mussolini, a

credere che gli inglesi e i francesi non avrebbero combattuto; e per la Francia avevano ragione. Dopo il 1945 si è parlato molto di unione: ma in senso

pacifista, per chiudere definitivamente il capitolo delle guerre, piuttosto che a fini di potenza. Come si è detto, i tentativi di unificazione sono stati vani tanto nella Grecia antica quanto nell'Europa moderna. Basta vedere chi sono stati gli europeisti più convinti per comprendere che l’insuccesso era inevitabile. Con l'eccezione di alcuni uomini di Stato che avevano, essi sì, un grande senso politico, Adenauer, De Gasperi, Schuman, Monnet, si è trattato

quasi sempre di idealisti; di personaggi, se vogliamo cer-

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care paralleli nella storia italiana, paragonabili a Mazzini piuttosto che a Cavour. Può darsi che anche Mazzini abbia contribuito all’unificazione dell’Italia; ma si sarebbe

mai unificata la penisola senza Cavour e senza Garibaldi? Gli idealisti ottengono risultati solo quando riescono a ispirare, e quindi a muovere all’azione, gli uomini dotati di senso politico. Dopo De Gasperi e Adenauer, non ci sono più riusciti. Ma il parallelo fra la Grecia antica e l'Europa moderna non si ferma qui; non è solo questione di mancata unità. Esse hanno in comune la grande tradizione culturale, che affascina in un caso e nell'altro la potenza imperiale, e la mette in soggezione. Il viaggio in Europa è un obbligo per gli americani di un certo rango sociale, come quello in

Grecia lo era per gli antichi romani. Gli splendidi musei americani, bella testimonianza di cultura «alessandrina»,

ospitano i capolavori della pittura e della scultura europea. E d'altra parte gli intellettuali europei di successo, gli scrittori, i filosofi, gli uomini dello spettacolo, gli scienziati vanno in America se vogliono raccogliere il riconoscimento più lusinghiero. Le mode più raffinate nascono in Europa e sono adottate dagli americani. 4 In senso inverso si diffonde invece la cultura di massa,

nello spettacolo, nell’alimentazione, nell’organizzazione della vita quotidiana. L'élite americana si adegua ai canoni europei, ma le masse europee vivono sempre più all'americana. Il risultato complessivo di questi scambi è una crescente uniformità di tutto quello che in altri tempi si sarebbe chiamato l'impero, da una parte e dall'altra dell'oceano, e che ora si chiama, più pudicamente, la comunità atlantica. Nei grandi club esclusivi di New York si imitano le usanze dei grandi club di Londra, si imitano gli arredamenti, le boiseries, le regole e gli statuti di Saint Ja-

mes e di Pall Mall; e intanto gli inglesi «degli ordini sociali inferiori» si nutrono di hamburger e di hotdog e bevono Coca-Cola. Gli spettacoli di massa, cinema e televisione,

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completano l’opera. L'amalgama è quasi perfettamente riuscito. A tutti gli effetti, la capitale del mondo è New York; non solo capitale politica, non solo finanziaria, ma anche

culturale, perché là si raccolgono alla fine dei conti le persone più intelligenti, le più brillanti, le più incisive, provenienti da tutto il mondo, dall'Europa e dall'Asia, in un co-

smopolitismo sfrenato, al quale New York imprime tuttavia il suo suggello, il suo marchio. Il resto è provincia; anche Londra, anche Parigi, anche Berlino sbiadiscono gradatamente al confronto di New York, perdono le loro caratteristiche, diventano satelliti. Così accadde con

Roma, centro dell'impero: nella fase avanzata di una civiltà, nel periodo del declino, tutte le tinte del passato perdono smalto, tutto si appiattisce nei vari centri della politica e della cultura, e sopravvive un unico polo, sempre più vasto, sempre più smisurato. Il processo di concentrazione è identico e irreversibile. Come sarebbe mai possibile tornare indietro? È ora il momento di tentare alcune previsioni. Quando una civiltà è al tramonto, i rapporti fra gli Stati evolvono secondo linee analoghe: lo si è visto soprattutto nelle somiglianze fra la civiltà occidentale e quella grecoromana, ma l'analogia si riscontra anche nelle altre. È quindi presumibile che i prossimi stadi della nostra civiltà, quelli che raggiungeremo nei prossimi decenni, somiglino a loro volta agli stadi equivalenti delle civiltà che ci hanno preceduto. Insomma: potremmo specchiarci nel passato.

Oggi si contrappongono, quando si discute sul nostro avvenire, due scenari (se è lecito usare questo neologismo per indicare le prospettive davanti a noi) diversi e incompatibili. C'è chi prevede la formazione di un unico governo mondiale, che assicurerà pace e prosperità; e c'è chi prevede il ritorno, dopo la felice parentesi che stiamo vivendo, alle guerre fra gli Stati: non le piccole guerre locali,

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gli scontri fra tribù, come in Bosnia, ma guerre in grande stile, fra grandi Stati. Ebbene: secondo le esperienze del passato, diciamo che nessuno dei due scenari è credibile, Possiamo prevedere invece un lungo periodo di pace, di Pax Americana, che

grazie all'egemonia degli Stati Uniti eviterà gli scontri di Stati all'interno della comunità occidentale. Quest'ultimo

riferimento alla nostra comunità è importante. La pace che si può prevedere esclude le guerre sanguinose, quali si sono combattute negli ultimi due secoli, fra le nazioni europee; non può escludere invece combattimenti anche prolungati fuori della nostra comunità, per esempio in Afghanistan o in Georgia. È inoltre prevedibile che l'egemonia americana, già molto salda, si rafforzi ancora. L'unità europea, d'altra

parte, si rivelerà impossibile. Potrà perfezionarsi in Europa la collaborazione economica, potranno stringersi i rapporti politici fra i vari Stati, ma non si arriverà mai alla creazione di un unico Stato federale europeo, paragonabile agli Stati Uniti d'America, e dotato dello stesso peso nelle relazioni internazionali. Un avvenire di pace, dunque, sotto la protezione di Washington? Sì, con una grande incognita: i rapporti con il Terzo Mondo (e vedremo in seguito se anche la Russia sia da includere nel Terzo Mondo), Queste previsioni sono fondate sull’analogia con quel che è successo nella storia delle altre civiltà, precedenti alla nostra. Il metodo analogico è assai più valido nell’ambito della storia di quello puramente razionale, fondato cioè sul ragionamento; perché ragionando si rischia sempre di sbagliare, e si può dimostrare tutto e il contrario di tutto: si può dimostrare anche che Achille non raggiungerà mai la tartaruga. L'analogia, più che sul ragionamento, si fonda sull'esperienza. Possiamo ora sottoporre all'analisi i singoli scenari, e spiegare meglio il senso delle nostre previsioni. Perché riteniamo improbabile un unico governo mon-

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diale? Coloro che vi aspirano fondano'il loro auspicio su una visione ottimistica della storia. Secondo tale visione, l'umanità percorre un cammino lineare, partendo dalle

condizioni selvagge della preistoria, quando gli uomini vivevano nelle foreste e non erano molto diversi dalle scimmie, e avviandosi verso forme di convivenza sempre più civili, dettate dal buon senso, dalla logica, dalla carità

e dall'amore per i propri simili. Poiché si tratta di una fede, è inutile sottoporla a esame critico: coloro che sono animati dalla fede continuano a crederci, qualunque cosa si dica, e tutt'al più, di fronte ad argomentazioni in senso contrario, esclamano: ma sarebbe così bello, perché non

sperare in un governo mondiale? Rispondiamo che c'è libertà di speranza. Noi non crediamo, tuttavia, nella continuità della storia, nella sua linearità. È vero che di tanto in tanto, in determinate epoche, si nota una tendenza, diciamo così, alla

aggregazione, quando i grandi imperi assorbono gli Stati preesistenti. Nascono allora quelli che Toynbee chiama gli Stati universali. L'impero romano costituisce un esempio; quello americano, oggi, è un altro esempio; e coloro che concepiscono queste speranze sull’avvenire dell'umanità sono convinti che, «prima o dopo», si unificherà anche l'Europa. Dopo di che, si unificherà il mondo. Ma la storia insegna anche che gli Stati universali del passato, come sono nati, così sono morti, si sono cioè di-

sgregati, confermando che il cammino dell'umanità è un susseguirsi di salite e di discese, non una salita continua. E probabile che in un lontano avvenire l'impero americano si disgreghi a sua volta; è invece improbabile che si allarghi a poco a poco fino ad abbracciare i cinque continenti; e che, anche qualora vi riesca, si mantenga poi unito

fino alla fine del mondo. Non solo: l'approdo al governo mondiale, nelle speranze di coloro che ci credono, sarebbe il frutto di movimenti idealistici, e dovrebbe instaurare una nuova età felice,

superando gli egoismi e le ambizioni imperiali dei singoli

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popoli. Ma gli Stati universali indicati da Toynbee, o i grandi imperi come preferiamo chiamarli noi, sono invece, invariabilmente, il risultato di conquiste; di un popolo più egoista, più imperiale, e soprattutto più forte degli altri. Essi non costituiscono dunque un buon precedente per quel traguardo finale su cui gli utopisti appuntano le loro speranze. Dobbiamo aggiungere che l’improbabilità di questo scenario ci dispiace? Certamente sarebbe bello se l'umanità fosse diversa da quella che è; se potessimo tutti credere in un Paradiso Terrestre, nel quale i leoni convivessero lietamente con le pecore, i bianchi coi neri, i

forti coi deboli. Purtroppo, ciò non è accaduto negli ultimi diecimila anni; è improbabile che accada nei prossimi diecimila. All'estremo opposto è lo scenario pessimistico: si tornerà a combattere come nel passato, ci saranno altre gran-

di guerre, più o meno mondiali. A lungo termine, il secondo scenario è certamente più credibile del primo. Se l'umanità esisterà ancora per molti secoli, se non si auto-

distruggerà con malefici ordigni, o se non sarà distrutta da eventi cosmici, è prevedibile che vi siano tante altre

guerre nel suo avvenire. Ma nell’avvenire della civiltà occidentale (che consideriamo, come ormai è evidente, limi-

tata nel tempo), e fra gli Stati che ne fanno parte, è piuttosto prevedibile un lungo periodo di pace: vari decenni senza carneficine. Vediamo di riassumere il ragionamento dei pessimisti, per scoprire il suo errore. La seconda guerra mondiale ha creato, essi dicono, gravi squilibri fra gli Stati dell’Occidente; la Germania è stata distrutta e ridotta all’impotenza. Era rimasta in piedi l'Unione Sovietica; il crollo del comunismo ha distrutto anche quella. Mancano pertanto sull’arena i contendenti in grado di confrontarsi con le armi in pugno. Ma la Germania sta ora ritrovando l’antica potenza sul versante economico, presto la recupererà sul

versante politico e militare. Anche la Russia risorgerà. Il popolo tedesco e quello russo costituiscono due realtà

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Il tramonto della nostra civiltà

geopolitiche che non sarà possibile cancellare dalla storia. Quando la Germania e la Russia saranno ricostituite, cia-

scuna per conto suo, in una realtà politico-militare, gli scontri saranno inevitabili. L'ultima guerra ha inflitto ai tedeschi, in particolare, amputazioni territoriali e mortifi-

cazioni, che provocheranno, come già accadde dopo il trattato di Versailles, volontà di rivincita.

C'è chi obietta che, sebbene lo scenario pessimistico sia credibile fino a questo punto, lo scoppio di una guerra nell’èra nucleare è impossibile, perché le bombe atomiche distruggerebbero il mondo; nessuno oserà farne uso. Non siamo già stati salvati, negli anni della guerra fredda fra America e Russia, dalla tregua del terrore, cioè dallo stallo

nucleare fra le due superpotenze? Così ragionano molti; ma i pessimisti rispondono che la disponibilità di armi distruttive non impedirà agli uomini di combattersi, se vorranno farlo: piuttosto di starsene tranquilli, decideranno di combattersi senza farne uso. Gli strateghi dei due campi hanno ipotizzato la guerra fra le superpotenze con armi convenzionali. Se si vuole fare la guerra, si trova sempre il modo di farla. Già nel passato le due parti in campo avevano convenuto di non usare armi particolarmente micidiali, quali i gas asfissianti. Pur di avere il piacere di ammazzarsi a vicenda, si può rinunciare ad ammazzarsi

troppo in fretta. Nonostante la validità di questi ragionamenti, riteniamo improbabile, come abbiamo detto, il ritorno alle guerre fra gli Stati nell'ambito della comunità occidentale. È vero che i popoli hanno una tendenza di fondo all’autoaffermazione, quindi all'espansione, all’imperialismo,

e

all'uso delle armi per raggiungere i loro obiettivi. Ma questa tendenza non si manifesta in ogni periodo e in ogni circostanza; al contrario, vi sono periodi di conflittualità e

altri di pacifica convivenza. Abbiamo già osservato che le nazioni attraversano periodi alterni; vivono particolari stati d'animo, secondo le

epoche: si può parlare di vere e proprie mutazioni. I po-

L'impero americano

229

poli che in determinate epoche sono bellicosi e aggressivi diventano in seguito tranquilli, amanti della pace; e viceversa. Gli svedesi e i danesi si sono combattuti con accanimento nel passato; adesso vivono in pace, e l'antico odio si è affievolito in un bonario antagonismo, esprimendosi nelle storielle umoristiche che si raccontano alla fine del pranzo per prendersi reciprocamente in giro. Sarebbe mai ipotizzabile, in un avvenire prevedibile, cioè nei prossimi cinquant'anni, una guerra fra gli inglesi e i francesi, nonostante i trascorsi? O fra gli italiani e gli austriaci? La mutazione è avvenuta dopo il 1945 anche fra i tedeschi. Gli eventi degli ultimi anni dimostrano quanto fossero nell'errore coloro che consideravano il popolo tedesco un'entità immutabile nel tempo. Un commentatore autorevole e intelligente quale Walter Lippman scrisse per anni che i tedeschi non avrebbero mai accettato la divisione del loro paese in due metà. Egli partiva dalla premessa che una grande nazione, animata da volontà di potenza, pervasa da sentimenti patriottici, non poteva subire una partizione umiliante, che riduceva il suo potenziale, che feriva i suoi sentimenti. Ma Lippman, e tutti coloro che ragionavano come lui, non si erano accorti che le priorità dei tedeschi, nel frattempo, erano cambiate. Non aspiravano più, come nel passato, a fare guerre e a fondare imperi, tutti obiettivi, questi, che la divisione in due della Germania avrebbe ostacolato; ma desideravano piuttosto, borghesemente,

pace e benessere. L'obiettivo della riunificazione è rimasto per molti anni in Germania un motivo retorico ricorrente nei discorsi ufficiali, ma non riproposto in modo assillante e angoscioso, tale da turbare i rapporti internazionali. Quando poi la riunificazione è diventata non solo possibile, ma inevitabile, perché è scomparso il polo sovietico che teneva in piedi (in stato di tensione vitale) la Germania dell'Est, la reazione dell'opinione pubblica nella Germania dell'Ovest (e, paradossalmente, anche in quella dell'Est) ha indicato quanto fossero cambiati i tedeschi. La

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Il tramonto della nostra civiltà

ricostituzione della grande nazione tedescaè stata accolta con indifferenza e, presto, con fastidio. Vi sono stati alcuni

giorni di festa, soprattutto di impronta familiare e sentimentale, perché molte separazioni fra parenti cessavano; un po' di abbracci lungo l’antica frontiera, qualche lacrima. Presto è intervenuto però il disappunto perché la riunificazione andava in senso contrario alla nuova priorità nazionale del benessere materiale, cioè il massimo guada-

gno e il minimo prelievo fiscale. E Kohl, il cancelliere che per un comprensibile senso della storia aveva anticipato di qualche anno il suggello giuridico e costituzionale di una riunificazione ormai inevitabile, ha dovuto giustificarsi di fronte al Parlamento e all'opinione pubblica per non essere stato più prudente. Molti tedeschi hanno acidamente detto: prima di agire, poteva almeno chiedere il nostro parere.

Il popolo tedesco riunificato pone senza dubbio sul tappeto numerosi problemi; le sue dimensioni creano squilibri all’interno dell'Europa, domani susciteranno apprensioni e diffidenza. Ma anche riunificato, il popolo tedesco vive in uno stato d'animo di tipo svedese; è passato il tempo delle grandi ambizioni, e la classe che amava le armi e gli eserciti, cioè la nobiltà prussiana, è stata cancellata dalla storia. Gli umori di segno pacifista, nettamente antimilitaristici, sono visibili in tutti gli Stati europei, Germania inclusa, e non sono dovuti a idealismo ultranazionale, a sentimen-

ti di fraternità fra i popoli. Non è per un'ondata di improvviso amore cristiano che francesi e inglesi, tedeschi e italiani non vogliono più impugnare le armi, gli uni contro gli altri. È piuttosto per una quieta saggezza; per un comprensibile desiderio di vivere in pace, e di vivere bene, dopo tante guerre che ormai, retrospettivamente, sembrano stupide e inutili. Saggezza dovuta a stanchezza: e l'una e l’altra sono sintomi di età avanzata, diciamo pure di vecchiaia, quando si è visto abbastanza, quando si è fa-

L'impero americano

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ticato e sofferto abbastanza, e si è capito che non vale la pena di continuare a soffrire. Anche gli americani vivono questo stato d'animo, saggio e stanco; ed è per questo che il loro, tutto sommato, sembra un imperialismo riluttante: intervengono per evitare guai, soprattutto guai per se stessi, in linea subordinata guai per gli altri; non per irrefrenabile volontà di potenza. Questo è vero per la grande maggioranza dell'opinione pubblica negli Stati Uniti, e per una parte preponderante della classe dirigente. E altrettanto vero, bisogna aggiungere, che in America esiste anche un centro di potere di se-

gno militare, esiste una classe militare che potrà rafforzarsi col tempo, e forse la pensa in modo diverso. Ma per ora non è determinante. L'egemonia americana è destinata a continuare. Potrebbe trovare un contrappeso in un'Europa unita; ma l'Europa, abbiamo detto, non si unirà, e qui veniamo all'ultima

delle previsioni che abbiamo esposto. Da quel che si è detto finora emergono con chiarezza, mi sembra, le ragioni per cui la federazione europea appare impossibile. Mancano le premesse. Due sono infatti gli impulsi che potrebbero fare il miracolo. Il primo è tipicamente idealistico: i popoli europei decidono di fare causa comune, di fondersi in un unico Stato perché sono spinti da sentimenti di fratellanza universale; da quegli stessi sentimenti, cioè, che dovrebbero spingere l'umanità verso la formazione di un unico governo mondiale. Ebbene: non è mai successo,

non si vede come si possa sperare che succeda domani, e che le nobili motivazioni, assenti nella Realpolitik di alcuni

millenni, debbano cominciare a funzionare proprio adesso, alla soglia del Duemila. Certo è che non se ne vedono i

segni intorno a noi. L'altro impulso potrebbe essere di segno opposto: non più una motivazione idealistica all'origine di un'unione europea, ma l'unificazione a opera di uno Stato egemone. È così che sono avvenute tutte le unificazioni del passato:

232

Il tramonto della nostra civiltà

gli Stati della penisola italiana si sono fusi insieme quando il Piemonte li ha conquistati; in Germania il processo si è svolto a opera della Prussia; in Gran Bretagna è stata l'Inghilterra ad assoggettare la Scozia, ad assorbire il Galles e l'Irlanda; in America è stato il Nord ad assumere il

conirollo del Sud. C'è in Europa uno Stato in grado di unificare per amore o per forza il continente? L'unico che potrebbe farlo è la Germania: per le ragioni già esposte, è sommamente improbabile che la Germania si trovi nello stato d'animo adatto per un'operazione forzosa. Manca la volontà di potenza che in altri tempi spinse il Piemonte, la Prussia o l’Inghilterra ad agire. Resta il fatto che già oggi la Germania, per le sue dimensioni, esercita grande influenza negli affari europei. Le decisioni della Bundesbank hanno ripercussioni in tutto il continente, condizionano la velocità di sviluppo e il livello di occupazione nel resto dell’Europa. Tutto ciò è destinato a continuare, probabilmente ad accentuarsi. Ma questa non è l'unione politica. E siccome le unificazioni non si decidono a tavolino, in seguito a operazioni diplomatiche, possiamo escludere la creazione degli Stati Uniti d'Europa. L'esperienza insegna che le nazioni che dovrebbero unirsi si fermano a un passo dalla decisione finale e irreversibile: è accaduto quando si progettava la formazione di un esercito europeo integrato dopo il 1950, è nuovamente accaduto quando si è tentata, col trattato di Maastricht, la strada dell'unica valuta europea invece di quella dell'unico esercito. Un'unica valuta presuppone un'unica banca centrale in Europa; una banca centrale

presuppone un unico governo, perché è inconcepibile una banca centrale che non risponda ad alcun governo sopra di essa. Le nazioni europee hanno capito dove conduceva la strada di Maastricht, e hanno rifiutato di percorrerla fi-

no al capolinea. Non si vuole rinunciare all'identità nazionale: e non è solo questione di fierezza politica; ma si vogliono conservare le proprie caratteristiche, il proprio

L'impero americano

233

modo di vita. Si teme che l'unione cancelli tutto. I danesi,

tanto per intenderci, non vogliono che Copenaghen somigli a Napoli. E come rinunciare, nei paesi più progrediti, alla buona amministrazione, alle buone protezioni sociali,

e alla pulizia nelle strade? Prevale ormai, in pratica, la tesi inglese: il massimo di

cooperazione possibile senza la rinuncia alla sovranità nazionale, quindi con la possibilità di tornare indietro. Oltre non si andrà. Lo spirito europeista di oggi non è più dominato dal degno intento di rendere impossibili le guerre fra tedeschi e francesi, fra inglesi e tedeschi: le guerre si

evitano anche senza l'unificazione del continente. Lo spirito europeo non è pervaso dall’idealismo di alcuni nobili personaggi che sentivano nel passato il fascino di un'unione supernazionale. Oggi si parla di collaborazione europea per obiettivi più modesti: agevolare la circolazione delle merci e dei capitali, aumentare il benessere materiale, proteggere di volta in volta l'industria o le campagne, tenere a bada le automobili giapponesi e le banane delle isole atlantiche. L'Europa non si farà; come non si fece la Grecia unita. Quando cadde il Muro di Berlino, quando FUnione Sovietica si afflosciò su se stessa, la guerra fredda russoamericana ebbe termine, e molti pronosticarono con un

respiro di sollievo la pace perpetua. Si disse: è la fine della storia. In realtà quella era la fine del periodo di guerre fra i grandi Stati. Le complicazioni successive, i conflitti locali, l'invasione irakena del Kuwait, indussero quelle stesse persone a ricredersi: dissero che avevano sbagliato, che non era ancora scoccato il momento della pace mondiale, che forse non sarebbe venuto mai. Ma hanno dovuto ricredersi soltanto perché avevano espresso la prima profezia, quella ottimistica, in termini errati. Avevano commes-

so il solito errore: non capivano che bisogna dividere l'umanità in due gruppi, da una parte la comunità appar-

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Il tramonto della nostra civiltà

tenente alla civiltà occidentale, dall'altra parte il resto del mondo, il Terzo Mondo.

Si è paragonata la Pax Americana dei nostri giorni alla Pax Romana di duemila anni fa, e il paragone regge. Non scoppiarono infatti conflitti importanti, a partire da una certa data, nel grande bacino mediterraneo dominato da Roma. Ma questo non significa che non vi fossero allora conflitti in assoluto. Il mondo è grande, i popoli sono numerosi e diversi l’uno dall'altro, e anche all’epoca della

Pax Romana vi erano scontri periferici fra i barbari. Allo stesso modo, la Pax Americana significa la pace all’interno della comunità occidentale: ma non esclude la conflittualità fuori dei suoi confini. Gli scontri fra serbi, croati e bosniaci non possono esse-

re evitati grazie all'amicizia fra americani e russi. Essì sono dovuti al fatto che è caduta l'autorità centrale, lo Stato

jugoslavo, che manteneva la pace fra le diverse comunità etniche. La situazione internazionale, i rapporti fra le grandi potenze consentirebbero un intervento euro-americano nell'ex Jugoslavia; la predilezione russa per i serbi, a scapito dei croati, non sarebbe sufficiente per impedire agli Stati Uniti di intervenire, se lo volessero. Gli Stati Uniti non intervengono militarmente, né in forma diretta né attraverso le Nazioni Unite, per altre ra-

gioni: non vogliono impegnarsi in una guerra a oltranza fra le montagne, temono di provocare altri interventi se si ingeriscono in quel conflitto, e a Washington si pensa giustamente che gli americani non possono essere i poliziotti del mondo intero. Vi sono eventi locali che non è facile evitare, né controllare quale che sia il potere di cui si dispone. L'Inghilterra ha piena giurisdizione sull’Irlanda . del Nord; non per questo riesce a disarmare i nazionalisti irlandesi. Come si può credere che, in seguito alla fine

della guerra fredda fra America e Russia, non si spari più un colpo di fucile, non si lanci più una bomba in ogni angolo della Terra? Sarebbe davvero l’Età dell'Oro. Ma l'umanità non cambia, l’Età dell'Oro non è alle porte. La

L'impero americano

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pace tornerà nell'ex Jugoslavia; ci sarà un accordo fra in-

glesi e irlandesi; ma altri conflitti locali scoppieranno altrove. Possiamo esserne certi.

Più grave è l’incognita dei rapporti fra l'Occidente e il Terzo Mondo. Perché le analogie storiche ci dimostrano che vi fu la pace romana; ma dimostrano anche che, alla fine, il Terzo Mondo travolse Roma.

VII

Da che parte stanno i russi?

Il mondo slavo non è ancora entrato nella storia; ma forse una civiltà slava sta ora nascendo davanti ai nostri occhi . 1 rapporti fra l'Occidente e il Terzo Mondo: questa è la vera incognita dei prossimi anni, del prossimo secolo. Il pericolo per i nostri figli non è la rinascita di una Germania aggressiva, non è lo scoppio di guerre in Europa. Il pericolo è nella marea dei popoli, alcuni in via di sviluppo, la maggioranza in condizioni di grande povertà, che non appartengono alla civiltà occidentale. Il pericolo è nel rapporto fra gli haves e gli have-nots, fra quelli che hanno e quelli che non hanno, diciamo pure fra i civili e gli incivili. Affrontiamo ora l'argomento del Terzo Mondo. Ma in primo luogo dobbiamo occuparci della Russia. Da che parte stanno i russi? Da che parte stanno gli slavi?

La Russia è una matassa aggrovigliata. Proviamo a dipanarla. Fino a un passato recente, l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche è stata considerata un problema ideologico: il problema del comunismo. Ronald Reagan, eletto alla presidenza degli Stati Uniti, definì l’Urss l'impero del male. L'opinione pubblica americana era profondamente ostile verso l'Unione Sovietica perché l'Unione Sovietica era comunista, e quello comunista era considerato un sistema politico immorale, che opprimeva gli uomini, con-

Da che parte stanno i russi?

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culcava i diritti umani, ordiva la rivoluzione mondiale per impadronirsi dell'Europa e, se possibile, della stessa America, In certi periodi si arrivò a forme di persecuzione dei comunisti negli Stati Uniti: e lo Stato più libero del mondo, con la Statua della libertà a

New York che saluta

chi arriva dal mare, negava il visto di ingresso agli stranieri compromessi col comunismo,

Quando il comunismo è caduto, l'atteggiamento degli Stati Uniti verso l'Unione Sovietica e poi, quando l’Urss si è sciolta, verso la Russia, è radicalmente cambiato, nel

modo che vedremo. Ma il primo punto da chiarire è che la Russia non era un problema ideologico: era un problema geopolitico. Lenin e Stalin, i dittatori che hanno dominato quel grande coacervo di popoli dal 1917 al 1953, esercitarono il potere nel segno dell'ideologia comunista (o, come dicevano, socialista, in preparazione del vero comunismo, di là da venire), Ma è inutile chiedersi se ci cre-

devano: le intenzioni degli uomini di governo contano poco, quel che conta è ciò che fanno sotto la spinta degli eventi, e i processi alle intenzioni sono esercitazioni superflue. È un dato di fatto che le decisioni politiche di quei due personaggi non furono mai determinate dalla priorità ideologica. È probabile che, da giovani, ritenessero profondamente ingiusto il sistema di potere esistente, e che all'esordio della loro carriera vi fosse il desiderio di abbatterlo, per instaurarne uno migliore. Ma dal momento in cui scesero nell'arena politica diventarono uomini di potere, e ogni mossa fu determinata dall’imperativo di conquistare e di mantenere il massimo potere possibile. La teoria marxista diventò uno strumento di potere, e fu adoperata per comandare meglio. Ogni volta che si delineava incompatibilità fra l'ideologia e l'esercizio del potere, fu sacrificata l'ideologia a favore del potere. Lenin (con il consenso di Stalin) concluse la pace di Brest-Litovsk con gli imperi centrali, contro l'opinione di autorevoli compagni, Trotzki compreso: la Realpolitik

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Il tramonto della nostra civiltà

spingeva in quella direzione. Abbandonò in seguito i princìpi dell'economia socialista e introdusse la Nuova Politica Economica, cioè l'economia di mercato, nel nome

dell'efficienza. Stalin strinse un patto con Hitler, nemico storico del comunismo, nell'interesse della Russia, consentendogli di attaccare le democrazie occidentali; e non

esitò, campione dell’ateismo ufficiale di Stato, a riconciliarsi con la Chiesa ortodossa per avere il suo aiuto in quella che chiamò la Grande Guerra Patriottica contro i tedeschi. Lenin e Stalin furono uomini d'azione, non di pensiero;

appartenevano alla specie umana di Tamerlano e di Attila, non a quella di Mazzini o di Gramsci; e si servirono delle masse come di strumenti di potere, sacrificandole

senza esitazione quando lo ritenevano utile, senza mai credere ai bei discorsi (loro avrebbero detto alle bubbole) sulla mistica della classe operaia. Il comunismo è dunque stato, in termini marxisti, una

sovrastruttura dell’Urss; un elemento del quadro e nulla più. Lo si è detto e scritto tante volte, eppure non se ne è tenuto conto in modo adeguato, né prima né dopo il suo crollo. Bisogna ora ripeterlo in tutta chiarezza se si vuole cominciare a dipanare la matassa, per capire dove stia la Russia.

L'ideologia comunista, prodotto tipico di una civiltà in stadio avanzato, la civiltà occidentale, è stata innestata ar-

tificialmente, nel 1917, sul popolo russo, che invece è al di fuori della civiltà occidentale. Questo è il secondo elemento che deve essere chiarito

se si vuole capire l'essenza del problema Russia: l’estraneità dei russi, e degli slavi in genere, alla civiltà euroamericana, o atlantica che dir si voglia. Di solito si ragiona secondo linee diverse. Si pensa a ogni popolo europeo, più quello americano, come entità separate e distinte, ciascuna delle quali ha la sua storia, le sue caratteristiche, il suo stadio di sviluppo. Si collocano

Da che parte stanno i russi?

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ai primi posti gli Stati Uniti, l'Inghilterra, la Francia, la Germania; si trattano con più o meno rispetto la Spagna e l’Italia; si sa che Grecia e Turchia sono in fondo alla graduatoria; la Russia ha anch'essa il suo posto, con luci e ombre, avanzata nella letteratura e nella musica, tollerabi-

le nelle arti figurative, primitiva nelle condizioni di vita di gran parte della popolazione. Questa classificazione può essere giusta di caso in caso, ma trascura la separazione che conta, quella fra i popoli che hanno creato la civiltà occidentale, e i popoli a essa estranei. Questa è la separazione fondamentale: o si è dentro o si è fuori. Gli slavi sono fuori. Sono estranei. Non appartengono alla nostra storia. Hanno ricevuto impulsi dall’esterno, da civiltà diverse e, negli ultimi tre secoli, in particolar modo dalla civiltà europea. Pietro il Grande cercò di introdurre a viva forza fra i russi gli usi, i costumi e la mentalità dell'Europa; i rivoluzionari dell'Ottocento e del primo Novecento si ispirarono a teorie europee; Gorbaciov, a un certo punto della sua carriera, nella fase finale, cercò a

sua volta l'aggancio con l'Occidente. Ma tutto quanto esiste in Russia di civile, nel senso che in questo libro diamo al termine, tutto quanto può essere considerato la creazione di una grande civiltà, è merce di importazione,

a cominciare dalla religione cristiana orto-

dossa e dall’alfabeto, provenienti da Bisanzio. Gli elementi ricevuti dall'esterno sono stati spesso rielaborati in maniera mirabile. La musica russa, originalmente di ispirazione europea, ha un'impronta inconfondibile. La letteratura russa ha raggiunto grandi vette, e si è anche osservato che, mentre certi autori, per esempio Tolstoi, potrebbero appartenere alla storia della letteratura francese, altri, in primo luogo Dostoievski, esprimono in modo inconfondibile l’anima russa. Anna Karenina, Guerra e Pace

potevano essere scritti da un romanziere a Parigi; Delitto e Castigo, i Fratelli Karamazov potevano essere concepiti e scritti solo a San Pietroburgo. I russi hanno straordinarie qualità; sono intelligenti, generosi, di temperamento arti-

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Il tramonto della nostra civiltà

stico; ma le loro qualità sono allo stato potenziale, e fino-

ra si sono espresse soltanto su impulsi esterni. Ciò significa che gli slavi non hanno ancora creato una loro grande civiltà; sono stati lambiti da civiltà diverse,

hanno subìto la loro influenza e hanno reagito con grande successo; hanno assimilato alcuni elementi delle civiltà altrui, mentre ne hanno rigettato altri, con disprezzo; ne

hanno tratto vantaggi e svantaggi, secondo i casi; ma sono rimasti ai margini, e non hanno ancora creato la loro civiltà originale. Abbiamo usato all’inizio di questa esposizione un concetto, per chiarire il significato di grande civiltà. Abbiamo detto che certi popoli, a una determinata epoca, per impulsi di cui non conosciamo l'origine, entrano nella storia; vi rimangono per vari secoli, per la durata cioè del ciclo della loro civiltà; poi ne escono. In questo senso, si può affermare che gli slavi non sono ancora entrati nella storia. È esattamente quel che scrisse Alexandr Herzen alla metà dell'Ottocento. Qui vorrei aprire una lunga parentesi, e porre un quesito: è cominciata in questi anni, davanti a noi, a nostra in-

saputa, la grande civiltà slava? Pongo il quesito con timidezza, senza la pretesa di dare una risposta, che sarebbe intollerabilmente presuntuosa da parte mia, e senza aderire alle risposte tentate da altri, ben più qualificati di me. È difficilissimo capire quel che succede quando si guardano da vicino gli eventi. Possiamo cercare di dare un senso, bene o male, al passato; è

più problematico darlo al presente. Non si capisce quanto sia alto un grattacielo se guardiamo le vetrine al pianterreno. A Spengler, come si è detto, è sfuggita la «romanità» degli americani del nostro tempo, sebbene la loro romanità fosse già ben visibile nel 1919, e sebbene si inse-

risse alla perfezione nel suo schema. E che cosa avrebbe capito l'immaginario cronista bizantino, se fosse capitato ad Aquisgrana nell’anno 800, e avesse visto qualche

Da che parte stanno i russi?

241

esemplare di architettura carolingia? Si sarebbe reso conto che stava assistendo alla nascita di una nuova civiltà,

diversa dalla sua? Vediamo comunque quali ipotesi si possono arrischiare su quel che succede in Russia. Sappiamo che all'esordio di una nuova civiltà troviamo una classe di cavalieri, che ab-

biamo identificato nei guerrieri omerici per quanto riguarda la Grecia, e nei signori feudali o nei cavalieri della Tavola Rotonda per quanto riguarda la nostra. In quella nobiltà feudale è l'origine della classe politica che darà vita agli Stati, le polis dell'antichità o i regni della civiltà europea; col tempo si ingentilisce, e dal suo seno nascono i grandi uomini di Stato dell'età aurea. Nel mondo slavo non vediamo niente di simile; e sareb-

be strano, in verità, se le controfigure dei guerrieri omerici, o dei cavalieri di re Artù, sbucassero a cavallo dal folto

delle foreste siberiane. Sembra che gli slavi abbiano ormai irrimediabilmente saltato quello stadio. Ma conosciamo anche il fenomeno che Spengler ha chiamato della pseudomorfosi, quando una civiltà nascente assume forme che non sono sue, ma tipiche di strutture preesistenti, importate dall'esterno. Se dunque vi fosse un caso di pseudomorfosi in Russia, si potrebbe pensare che i capi delle varie regioni, in apparenza funzionari di un partito o di un’amministrazione statale, sono l'equivalente di quei capi che troviamo nel primo stadio di altre civiltà: sono loro l'equivalente della classe feudale. Sono cavalieri camuffati; signori feudali sotto mentite spoglie. L'ipotesi sembra assurda, forse ridicola. Gli avvenimenti successivi alla caduta del comunismo, e alla scomparsa dell’Unione Sovietica, la rendono tuttavia un po” meno strampalata. Si è visto infatti che in molte province periferiche di quello che fu l'impero sovietico gli stessi personaggi sono rimasti ai posti di comando, cambiando la denominazione, ma mantenendo i poteri. In Asia centrale,

per esempio, i bey dell’èra zarista erano diventati primi segretari del partito comunista dopo la rivoluzione, e i

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Il tramonto della nostra civiltà

primi segretari si sono di nuovo chiamati bey dopo la caduta del comunismo, ma spesso si trattava delle stesse

persone. Continuiamo il gioco. Stalin, il grande padrone di tutte le Russie, può essere paragonato per la funzione storica a Carlomagno: la figura che si profila all’inizio di una grande civiltà, ne stabilisce l’unità spirituale, ne determina i

confini. Si è già detto che quella raffinata ideologia marxista proveniente dall'Europa è diventata nelle mani di Stalin un docile strumento di potere, mentre le forme statali in Russia erano nettamente primitive,

e avevano poco in co-

mune con i princìpi ideologici del marxismo: la dittatura stalinista fu un caso di potere assoluto, grandioso e crudele allo stesso tempo, suscitatore di sconfinato entusiasmo e di

immenso terrore, quale si può ritrovare soltanto in uno stadio primitivo, nello stadio originario di una civiltà.

La dissoluzione dell’Unione Sovietica (l'impero carolingio?) dà luogo alla costituzione di nuovi Stati, che potrebbero essere equivalenti ai regni costituiti dopo Carlomagno. Gli uomini che li governano sono in buona parte gli stessi che governavano prima, nel nome di princìpi diversi. Gorbaciov, Eltsin, Khasbulatov non erano forse uo-

mini di potere anche nel regime comunista? Le cariche, le denominazioni potrebbero essere semplicemente la sovrastruttura provocata dalla pseudomorfosi; ma l’anima politica che sorregge questo potere potrebbe essere invece l'espressione di una nuova civiltà, di un nuovo ciclo: quello slavo. E non ci sono forse gli scrittori, i poeti, gli intellettuali russi che ripudiano la civiltà dell'Occidente, e si dicono fedeli a un'anima slava di cui cercano l’espressione, non nelle metropoli invase dai simboli di una civiltà estranea, ma nei villaggi delle province orientali, fra i grandi fiumi e le foreste immense della Siberia, sui monti Urali, nelle

pianure abitate da una marea di mugiki ancora primitivi, fuori della storia? Pensiamo alle invettive di Solzhenitsin contro la corruzione di Mosca e di San Pietroburgo, con-

Da che parte stanno i russi?

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tro il materialismo e la prostituzione della decadenza; già Dostoievski rifiutava la contaminazione della Russia eterna e pura. Sentiamo quel che dice Valentin Rasputin (il nome è suggestivo), scrittore siberiano, al giornalista che gli chiede se preferisca il villaggio alla città: «Tutto è più naturale nel villaggio. La gente è più sincera, l’acqua più pulita. Mi piace svegliarmi la mattina e uscire dalla mia izba per andare al gabinetto in fondo al cortile: il freddo siberiano mi ringalluzzisce. E poi nel villaggio si è costretti a lavorare molto. Se hai tanto da fare, non hai tempo di guardare la tivù...». Villaggio e città; simbolo il villaggio di una civiltà nascente, la città di una civiltà matura: non è questa l’antinomia che si viveva in Palestina, duemila anni fa, quando

accanto alle città alessandrine viveva nei villaggi gente semplice, in mezzo alla quale c'era un predicatore di nome Gesù? Il parallelo è impressionante. Conclude Rasputin: «Sarei felice di vedere una rinascita nazionale a Mosca, nella nostra capitale storica. Ma non penso che sia possibile. E allora la Russia dovrà sorgere in Asia, in Siberia, dove rimangono quasi intatte le nostre grandi riserve e ricchezze umane, naturali, spirituali. Sarà una Russia

più piccola. Ma più vera di quella che esiste oggi». Non si sente, in queste espressioni, il rigetto di una civiltà estranea, la nostra? E non vi è il segno premonitore di una nuo-

va grande civiltà, la civiltà slava? Pongo il quesito e mi guardo bene dal rispondere. Una risposta affermativa sarebbe temeraria; forse lo sarebbe

anche una risposta negativa. Le riserve potranno essere sciolte fra cento anni, e il termine è troppo lungo per me che scrivo e per voi che leggete. Per ora ci limitiamo a dire che la grande civiltà slava, quella di cui Herzen sentiva le prime pulsazioni un secolo e mezzo fa, potrebbe essere ai suoi primi stadi; o potrebbe fiorire più tardi, in un avvenire ancora lontano; e potrebbe non fiorire mai: si può mori-

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Il tramonto della nostra civiltà

re giovani, dice Herzen. Non esistono regole. La sola cosa sicura, mi sembra, è che finora non c'è stata.

E qui chiudo la lunga parentesi. Da che parte sta la Russia: dalla parte dell'Occidente, o

del Terzo Mondo? Quando era retta da un regime comunista, l'Unione So-

vietica cercava di competere con gli Stati Uniti d'America, ma si schierava dalla parte del Terzo Mondo. È impossibile dire se fosse mossa piuttosto dai timori sulla sua sicurezza, 0 da mire aggressive: voleva difendersi o voleva attaccare? Il quesito invade il campo della psicologia, e non è facile rispondere. Certo è che le considerazioni geopolitiche prevalevano anche nell'ultima fase del regime comunista su quelle ideologiche: l’Urss comunista era in contrasto con la Cina comunista, perché i russi temevano che le popolazioni cinesi straripassero in Siberia, e l’identità ideologica non importava né all'una né all'altra. L'Urss era comunque la grande alleata del Terzo Mondo. Cercava così di compensare la sua palese inferiorità di fronte agli Stati Uniti? Il sistema sovietico era inefficiente;

era del tutto incapace di reggere il passo degli americani. Già nel 1966, all’inizio dell'era Breznev-Kossighin, uno

studioso che era stato fra i consiglieri di Kennedy, Brzezinski, mi disse perentorio, in un colloquio a New York: «Ormai c'è al mondo una sola superpotenza: gli Stati Uniti». Aveva ragione: l'Unione Sovietica era fuori gara. Può darsi dunque che l'appoggio al Terzo Mondo rientrasse in una strategia esclusivamente difensiva. Dopo la dissoluzione dell’Urss lo squilibrio è diventato drammatico, perché quel po’ di efficienza che il sistema sovietico riusciva a conservare si è prontamente disperso. La transizione dall'economia dirigista all'economia di mercato, in assenza di un potere politico, ha gettato la Russia nel caos. I suoi governanti, per un riflesso condizionato, hanno cercato l’aiuto dell'Occidente, e gli ameri-

cani hanno subito risposto all'appello.

Da che parte stanno i russi?

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Gli Stati Uniti perseguono infatti, dal momento del crollo del comunismo, un obiettivo ambizioso: vogliono includere la Russia nell’area occidentale. Se è vero che l'Occidente è sotto l'egemonia americana, se è vero che la comunità occidentale costituisce de facto, come abbiamo argomentato, un territorio imperiale americano, è lecito

affermare che gli Stati Uniti vogliono estendere l'impero alla Russia. I consiglieri diplomatici, economici e militari americani si sono insediati a Mosca per aiutare i russi nelle decisioni più importanti, e si è assistito a un evento simbolico di grande significato quando Bill Clinton, il presidente degli Stati Uniti in visita all'Urss, ha patrocinato un accordo russo-ucraino in materia nucleare. Sarebbe concepibile il patrocinio di Eltsin, durante un viaggio in America, per un accordo fra Stati Uniti e Messico?

Accanto all'intervento politico si svolge l'invasione consumistica della Russia da parte dell'Occidente. Gli americani e gli europei, in primo luogo i tedeschi, sperano di trovare in Russia e negli altri paesi dell'Est il mercato che risolverà i loro problemi di sovrapproduzione. La Germania fa grandi investimenti nell'Europa orientale. E nelle città arrivano i simboli del consumismo americano: jeans e Coca-Cola, jazz e videocassette. È insomma in corso un'operazione gigantesca per conglobare la Russia, a tutti gli effetti, nel campo occidentale: come alleato, come

mercato,

come

settore di investimento.

Riuscirà

l'operazione? i Gli anticorpi entrano in azione. È stato chiesto al già citato Rasputin se la Russia possa e debba essere diversa dall’Occidente: «Assolutamente sì» ha detto. «Abbiamo tradizioni e abitudini diverse dalle vostre. Se siamo nati con lineamenti diversi, se parliamo lingue diverse, se abbiamo una storia diversa, perché dovremmo unificare

tutto? Ognuno deve rimanere fedele a se stesso. Invece oggi nel nostro paese si esalta solo ciò che è straniero... La tivù manda in onda una pubblicità dietro l’altra di prodotti americani, interpretate da attori americani, gira-

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Il tramonto della nostra civiltà

te per un pubblico americano. Ma a chi è destinata quella . pubblicità? Il 90 per cento dei russi non ha i soldi per comperare quei prodotti. È una forma di umiliazione culturale che ci entra a poco a poco nel cervello, e distrugge la nostra anima.» Secondo Rasputin, i giovani delle grandi città, appassionati di hamburger Mc Donald's, travolti «dal sudiciume morale, dalla pornografia dilagante», manipolati dalla propaganda consumistica, sono già «una generazione

perduta». Mosca «è una città di politicanti e di prostitute. Non solo le prostitute di mestiere, le donne di vita: c'è anche una prostituzione sociale, politica. Tutti si vendono, nelle strade di Mosca. E in quelle di Pietroburgo». Gli uomini come Rasputin non sono certamente i fautori di una politica aggressiva: il loro sogno è piuttosto un ritorno alla semplicità, alla purezza del villaggio siberiano. Ma il rifiuto che essi esprimono della civiltà occidentale può essere il punto di partenza per uomini di specie diversa, quale Zhirinovski, che già sognano grandi alleanze con l'India o con la Cina per mettere sotto scacco le potenze occidentali. Accanto agli amici dell'Europa sono sempre esistiti in Russia gli assertori di una politica asiatica, in antagonismo con l'Europa. L'antagonismo potrà risorgere domani. Possiamo riassumere. La Russia, come le altre nazioni

slave, non appartiene alla civiltà occidentale; è sempre rimasta ai margini. L'innesto di una teoria europea, quella marxistica, estranea alla cultura russa, ha dato luogo a

una lunga, dolorosa parentesi che ora si è chiusa. Il paese, intanto, si è sviluppato economicamente, è diventato una

potenza industriale. Sviluppo economico e inurbamento offrono il terreno ideale per la seduzione consumistica; e gli Stati Uniti cercano di conglobare la Russia nella sfera occidentale. Ma correnti politiche e culturali si oppongono alla occidentalizzazione. È ora in corso una grande partita. Può darsi che vinca la

Da che parte stanno i russi?

247

corrente filo-europea. I motivi di dissidio fra Russia e Occidente, tuttavia, non mancano, come ai tempi di Disraeli

e di Palmerston fra l'impero zarista e quello inglese per la Crimea, il Caucaso e l'Afghanistan. L'esito è incerto; e la

preda russa è troppo grande perché l'Occidente possa inghiottirla senza difficoltà.

IX I nuovi barbari

I greci chiamavano barbari i popoli che non appartenevano alla loro civiltà, e noi chiamiamo Terzo Mondo quelli che non appartengono alla nostra: saremo sopraffatti anche noi? Gli europei sono presuntuosi. Ogni nazione situata fra l'Atlantico e la Vistola crede di essere la più civile del mondo. I francesi si ritengono superiori, in particolare, ai tedeschi; i tedeschi agli slavi; e gli inglesi, pur senza dirlo apertamente, si sentono superiori a tutti. Perfino gli italiani sono soggetti a complessi di superiorità. Gli europei nel loro insieme, se non altro per diritto di anzianità, ritengo-

. no inoltre di essere più civili degli americani; ma di questo, col passar del tempo, sono sempre meno sicuri. La presunzione di essere migliori degli altri porta con sé un obbligo: quello di migliorare gli altri, cioè di civilizzarli, il che significa, nell'accezione comune, renderli si-

mili a noi. Quando andavo a scuola, mi insegnarono che l'antica Roma aveva svolto una missione civilizzatrice nel mondo, e che l’Italia fascista aveva il nobile compito di proseguirne l’opera, sia pure a due o tre millenni di distanza. Convinzioni analoghe sono emerse in tutte le nazioni europee in tutte le epoche, col tentativo di esportare, ogni volta, quelle che in un dato periodo sembravano le loro caratteristiche più preziose. I crociati volevano diffondere la religione cristiana. Nei secoli successivi, i conquistatori che invasero i territori abitati da altri popoli, o che stabilirono teste di ponte in

I nuovi barbari

249

altri continenti, furono quasi sempre accompagnati da frati missionari: gli uni brandivano la spada o sparavano il fucile, gli altri agitavano il Vangelo. Adesso l'impulso di diffondere la religione è meno forte, perché i popoli cristiani sono nel complesso meno cristiani, ma il desiderio di trasmettere agli altri ciò che si ritiene il meglio del proprio modo di vita, per incivilirli, non si è attenuato. Ora si

cerca di insegnare a tutti la democrazia parlamentare e l'economia di mercato. Si spera così, in Europa e in America, di convertire il Terzo Mondo al nostro modo di vita (magari per approdare, nel sogno degli idealisti, a quell’unico governo mondiale di cui abbiamo scritto, con scetticismo, nelle pagine precedenti), Però c'è anche un altro scenario, profondamente diverso: quello del mondo civile sommerso dalla marea che, tracimando dal Terzo Mondo, finirà col travolgerlo. Vediamo quali previsioni, secondo la nostra chiave di lettura della storia, siano più credibili.

Cominciamo col chiederci che cosa sia il Terzo Mondo. La definizione è ormai superata. Essa indica l'insieme dei popoli non allineati afro-asiatici, e presuppone l’esistenza di altri due mondi, quello occidentale,il primo, e quello comunista, il secondo. Ora, il mondo comunista non c'è più: quello dei popoli non allineati, a rigor di termini, non è più il terzo, mancando il secondo; e il concetto

di non allineamento, comunque, ha perso rilevanza. Ma anche se la definizione è superata, la sostanza sussiste. Un insieme di popoli equivalente a quello che noi chiamiamo Terzo Mondo è sempre esistito, per lo meno da quando sono fiorite le grandi civiltà. Per i greci e i romani, i popoli del Terzo Mondo erano «i barbari». Sappiamo che ognuna delle grandi civiltà della storia fu circoscritta nello spazio, oltre che nel tempo. La civiltà egizia era in Egitto; quella indiana in India; e così via.

Ognuna era quindi circondata da un'umanità che a quella civiltà, a quella grande avventura culturale, non parteci-

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Il tramonto della nostra civiltà

pava. I popoli che non partecipavano, i popoli che mantenevano le loro forme di vita e le loro espressioni culturali, erano i barbari; erano il Terzo Mondo dell’epoca. Anche coloro che appartenevano alle civiltà del passato erano, come oggi gli occidentali, enormemente presuntuosi. Anche loro si sentivano superiori; credevano di essere i più progrediti, i più civili. E lo erano, giacché ogni civiltà antica era circondata da popoli in condizioni di vita semplici, di livello primitivo. È comprensibile chei cretesi guardassero dall'alto in bassoi guerrieri micenei, dall'altra parte del mare. Ma vi sono stati anche incontri fra uomini appartenenti a civiltà diverse. Gli ambasciatori di Giorgio III, re d'Inghilterra, provarono

una certa sorpresa, come ho già raccontato, quando furono accolti a Pechino, alla fine del Settecento, da un imperatore

altezzoso, Cien Lung, il quale subito riaffermò con bella sicurezza, ricevendoli, la superiorità della Cina sul resto del mondo, come se fosse stata la cosa più naturale. L'imperatore aggiunse che quel lontano re d'Inghilterra, avendo avuto la cortesia di mandare una missione a Pechino, dava giustamente segno di umiltà, e mostrava di essere consa-

pevole del primato dell'impero celeste. Per ricambiare la cortesia, l’imperatore accettava i doni dell'inglese, pur non sapendo che farsene. Gli inglesi, inviati laggiù per aprire la strada ai commerci frai rispettivi paesi, preferirono non entrare nel merito della questione; in verità, l'imperatore di Cina si riferiva alle glorie di una civiltà ormai spenta e pietrificata, la sua, che continuava a esistere solo perché nessuno aveva perso tempo a distruggerla, ma era priva di forza creativa, mentre l'Europa era al culmine della sua civiltà. Resta il fatto che l’incontro di uomini di civiltà diverse, a così grande distanza, dopo viaggi interminabili e avventurosi, costituisce uno dei

momenti più suggestivi della storia. Anche la civiltà occidentale, lo abbiamo ripetuto varie volte, è circoscritta nel tempo e nello spazio. I suoi confini sono chiaramente discernibili, da quell’anno Mille intorno

I nuovi barbari

251

al quale una nuova vitalità si manifesta nei rapporti politici, nei traffici, nell'attività culturale, insieme con un’im-

provvisa crescita demografica; ma si manifesta in determinate regioni, e soltanto in quelle. Si afferma una nuova mentalità, si crea uno stile, che si mantiene unitario pur

nell'evoluzione attraverso i secoli: non c'è forse un’affinità straordinaria fra la cattedrale gotica, con le sue guglie tendenti verso l'alto, verso l'infinità del cielo, e il gratta-

cielo di New York? La civiltà occidentale, circoscritta nello spazio, è a sua

volta circondata dai «barbari», ed è ora ovvio che usiamo il termine secondo l’accezione degli antichi greci, per indicare i popoli non appartenenti alla nostra civiltà. È anche chiaro che vi sono, fra questi barbari, differenze

profonde: gli uni rimangono a un livello culturale primitivo, e questo è vero per tutti gli africani ed è vero, a un livello profondamente diverso, lo abbiamo affermato nel

capitolo precedente, per gli slavi; gli altri hanno alle spalle grandi civiltà ormai spente. Proprio poiché sono spente, i popoli di questa seconda categoria rimangono fedeli ai princìpi e alle convinzioni del passato, ma sono incapaci di innovare; sono pertanto paragonabili, oggi, ai primitivi, essendo ugualmente passivi: ricevono dall'esterno, ma non creano nulla. Questo è vero per l'India ed è vero per l'Islam. La divisione fra civili e barbari, fra occidentali e (usia-

mo il termine improprio) Terzo Mondo, è netta, inequivocabile; ci aiuta a guardare con maggiore consapevolezza, se la accettiamo, ciò che vediamo nei nostri viaggi attraverso il mondo; ci aiuta a comprendere l'ostilità degli ayatollah musulmani, i furori dell’integralismo. Noi e loro: la separazione è netta. Noi apparteniamo a una comunità, diciamo a un club; loro sono fuori.

Vi è tuttavia una situazione nuova, oggi, rispetto al passato. Le civiltà diverse dalla nostra rimasero anche nei momenti di maggior fulgore sul loro territorio, tranne qualche sconfinamento; gran parte dell'umanità rimaneva

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Il tramonto della nostra civiltà

esclusa, remota, per lo più ignorata. I barbari costituivano pertanto un'entità ben distinta. I romani sapevano che a nord delle Alpi e di là dal Reno c'erano barbari molto in gamba, i germani. Conoscevano abbastanza bene la loro

cultura, le loro forme di vita. Potevano anche avventurarsi fra loro, e instaurare qualche scambio di merci nelle zo-

ne di frontiera. Però i romani rimanevano di qua dal confine, i germani di là; e gli uni e gli altri continuavano a vivere a loro modo, senza compenetrazione reciproca. I tentativi di fuoruscita dai propri confini furono nel passato, a paragone dei nostri, abbastanza modesti. Giulio Cesare assoggettò la Gallia, popolata da barbari, e si avventurò nella Britannia. Alessandro, prima di lui, si

spinse fino all'India, e fece dell'Anatolia e del Medio Oriente una vasta zona di civiltà ellenica: una zona coloniale. Ogni civiltà ha manifestato la tendenza all’espansione oltre i confini; ma nessuna è stata capace di espandersi come la nostra. E non si dica che la maggiore capacità espansiva della nostra è dovuta alla disponibilità degli strumenti tecnici. Questa ingenua affermazione non tiene conto del fatto che l'espansione della civiltà occidentale comincia in un'epoca nella quale i mezzi di trasporto di cui gli europei dispongono sono allo stesso livello, su per giù, dei mezzi di trasporto di civiltà precedenti: piccoli velieri, cavalli, muli. L'Inghilterra, l'Olanda, il Portogallo, la Spagna occuparono l'America e buona parte dell'Asia quando si viaggiava alla maniera dei greci e dei romani. Il ragionamento deve essere rovesciato: non è la tecnica a permettere agli occidentali di dominare il mondo: ma è piuttosto il desiderio di dominare il mondo, di varcare tutte le frontiere e di tendere verso l'infinito, all'origine della tecnica

moderna. Ci si procurano i mezzi tecnici per soddisfare le proprie aspirazioni. Conta lo spirito, conta la volontà. Pensiamo alla conco-

mitanza della civiltà europea con quella precolombiana in America. Due civiltà progredite, grandiose, superbe: la lo-

I nuovi barbari

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ro, forse, superiore nel Quattrocento alla nostra, se è vero

che le loro città sono più grandi, i loro palazzi più fastosi, come riferiscono i primi europei che hanno la ventura di scoprirli. Nessuna delle due sa che esiste l’altra. Perché sono gli europei ad avventurarsi attraverso l'oceano, a

spingersi fin sull'altopiano del Messico o oltre le montagne andine; e non gli americani a giungere in Europa? Le spiegazioni talvolta offerte dagli storici, per rispondere a quesiti siffatti, mi sembrano banali. Si tenta di spiegare il movimento delle scoperte da Levante verso Ponente osservando che gli alisei soffiano, per l'appunto, da Levante verso Ponente. Ma questo è vero solo in una certa fascia di latitudine, circa venti gradi a nord dell'Equatore, fra le isole di Capoverde e i Caraibi: e allora che cosa diremo dei vichinghi, che per primi andarono in America a una latitudine ben più settentrionale, dove gli alisei non soffiano? Talvolta si spiegano grandi viaggi, grandi migrazioni con l'adozione di una forma di vela diversa, o con una modifica della forma della carena; come se fosse concepi-

bile che i popoli si mettano a viaggiare, anzi a trasmigrare da una terra all'altra, magari da un continente all’altro, solo perché un bel giorno dispongono sulle loro navi di una vela al terzo. Ma perché quella data veta al terzo appare in un dato periodo, e non prima e non dopo? L'interpretazione della storia attraverso gli accorgimenti tecnici mi sembra molto riduttiva, quasi mortificante. Gli europei sono arrivati in America, e non viceversa,

perché gli europei erano dotati di spirito intraprendente; ci sono arrivati in quel periodo, e non prima (ma gli alisei soffiavano anche prima), perché solo in quel periodo la civiltà occidentale, da loro plasmata, è giunta allo stadio di sviluppo espansivo, alla maturità necessaria per tentare la grande avventura: come un giovane che solo quando raggiunge una certa maturità lascia la casa paterna e va per il mondo. La scoperta dell’ America, la sua rapida conquista, non avvengono per caso: si inseriscono nel quadro di

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Il tramonto della nostra civiltà

un movimento grandioso che si proietta in tutte le direzioni, e si estende in tutto l’orbe terracqueo. Il secolo fatale è il Quattrocento; i protagonisti sono i

portoghesi, gli italiani, gli inglesi, gli scozzesi. Vi sono state in periodi precedenti altre migrazioni attraverso il mare: folti gruppi di greci lasciarono le loro città sull’Egeo per trasferirsi in Sicilia e in Puglia; i fenici disseminarono colonie nell'Africa del Nord e lungo le coste dell'Europa occidentale. Ma nel Quattrocento si intraprendono viaggi di natura ben diversa, viaggi di scoperta, compiuti da sparuti equipaggi su piccole navi; ci si avventura verso Sud, lungo coste sconosciute, e verso Ovest, attraverso

l'oceano: rispetto al passato è tutta un’altra storia. Perché lo si fa? Le spiegazioni di tipo utilitario, che procedono col metodo di casualità, sono ingenue e banali. Si dice che i popoli europei erano spinti da interessi mercantili: ma Colombo si avventurò sull'oceano contro il parere degli spagnoli, e fece fatica per ottenere il finanziamento di tre misere caravelle; né coloro che lo finanziarono erano mercanti con interessi nelle Indie, dove Colombo dice-

va che sarebbe arrivato veleggiando verso Occidente. È probabile che Colombo stesso, al quale poco importava dei commerci con l'Oriente o con altre parti del mondo, e che certo non aveva l’anima del mercante o dell’uo-

mo d'affari, abbia tanto insistito sulla possibilità di tentare la strada dell'Occidente per arrivare in Oriente con l’unico fine di ottenere il finanziamento in questione; ciò che lo spingeva, in realtà, era semplicemente lo spirito di avventura, il bisogno di navigare verso l'ignoto, per vedere che cosa c'era oltre l'orizzonte. Tutta la sua biografia dimostra che quello fu l’unico suo desiderio, ossessivo, irresistibile.

Lo spirito di avventura, che spinge verso l’infinità degli spazi, è la malattia del secolo; ed è anche, per la sua intensità, la caratteristica esclusiva della civiltà occidentale,

quella che la rende diversa dalle altre. Non la ricerca dell'equilibrio, non l'esigenza di armonia contraddistinguono l’uomo occidentale, ma la tendenza al dominio as-

I nuovi barbari

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soluto, alla conquista dell'infinito. Nasce quindi una nuova geografia, una geografia totale, che include tutti gli angoli della Terra, anche i più remoti, anche i più misteriosi; per la prima volta nella storia l’uomo conosce il mondo in cui abita nella sua interezza, esplora la profondità del mare, le montagne inaccessibili, le distese di ghiaccio dell’ Artico e dell'Antartide. E così nasce una tecnica fantasmagorica, straordinaria, confinante con la magia, che aspira al dominio assoluto della materia e dello spazio. Le scoperte del Quattrocento mettono in moto un processo espansivo che nel giro di due o tre secoli abbraccia il mondo intero. Gli spagnoli, i francesi, gli inglesi occupano rapidamente le due Americhe, facendo piazza pulita di tutto ciò che colà esisteva prima del loro arrivo; gli inglesi, gli olandesi, i portoghesi, gli spagnoli conquistano l'Asia. La presenza occidentale assume forme diverse secondo le circostanze; si va dall'occupazione militare, e dalla creazio-

ne di colonie e di possedimenti, alla presenza di semplici scali commerciali, paragonabili ai fondachi medievali. Ma l'influenza occidentale è determinante ovunque. Viene anche l'ora dell’Africa: i tedeschi, i francesi, gli olandesi e gli inglesi se la dividono, con gli italiani ultimi arrivati: la data della conquista dell'Etiopia da parte nostra*dimostra che l'operazione è stata compiuta fuori del tempo massimo, con tutto il danno che l’intempestività comporta. L'espansione occidentale infatti era arrivata al compimento alcuni decenni prima dell'impresa etiopica, fra la fine dell'ultimo secolo e l’inizio del nostro. È vero pertanto che sussiste oggidì, come esisteva nel passato, la separazione fra «civili» e «barbari», fra coloro ‘che appartengono a una grande civiltà e coloro che vivono al di fuori; ma succede ora per la prima volta che una grande civiltà congloba nella sua sfera d'influenza tutta quanta l'umanità, cioè anche i barbari; li assorbe, li con-

trolla, trasforma la loro esistenza. Questa è la grande no-

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Il tramonto della nostra civiltà

vità nella storia umana; questo è il fatto nuovo, senza precedenti. Il rapporto col Terzo Mondo è stato contrassegnato da un intreccio aggrovigliato di aspirazioni idealistiche e di interessi mercantili,

e ha attraversato fasi diverse. In un

primo tempo prevaleva una forma di controllo puro e semplice: era la fase del colonialismo, del dominio politico e militare. L'impero britannico era una costellazione di possedimenti in ciascuno dei quali un insediamento di inglesi governava la popolazione locale. Gli inglesi erano poco numerosi in India, per lo più funzionari e militari; più numerosi in Australia o in Nuova Zelanda, nel Sudafrica o nel Canada; la forma costituzionale variava: ma la realtà era sempre la stessa, era il controllo assoluto da par-

te di Londra. Gli europei conquistarono il mondo per trarne un vantaggio economico, essendo ormai la civiltà entrata nell'epoca della razionalità e del guadagno; secondo i marxisti, per sfruttarlo. C'era però anche, invariabilmente, il desiderio di educarlo: in parte, perché si pensava che gli indigeni, istruiti e inciviliti, avrebbero reso meno

gravoso il compito di governarli (col rischio che diventassero in seguito più intrattabili; ma il rischio sembrava lontano); in parte, per istinti sinceramente

altruistici.

Nell'Ottocento nacque l’immagine del «fardello dell’uomo bianco» che trova la sua massima espansione in un grande scrittore, non a caso inglese: Kipling. Il bianco, essendo civile, aveva il compito gravoso di educare i

selvaggi. Condiscendenza, alterigia, paternalismo: tutti questi atteggiamenti, che confluivano in una forma mentis tipicamente ottocentesca, sono stati oggetto di ironia o di sarcasmo nel nostro secolo. Ciascuno dei popoli coloniali ha cercato di educare a modo suo. Gli inglesi sono stati i migliori; dotati essi stessi di una buona classe politica, abituata a governare per tradizione e con naturalezza piuttosto che sulla scorta di princìpi teorici, hanno adottato nei dominii coloniali i più

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promettenti fra i giovani delle buone famiglie, li hanno presi sotto la loro protezione, li hanno accolti nei loro col-

legi, gli hanno insegnato a governare, a fare discorsi in pubblico, a stare a tavola e a bere birra, soprattutto con la forza dell'esempio. Nelle loro ex colonie, ormai indipen

denti, si sono formate classi dirigenti indigene a immagi ne e somiglianza di quella britannica. Un uomo politic indiano sa fare un discorso in Parlamento, o alla fine de

pranzo, meglio di un italiano. I francesi, di intelligenza razionale, amanti della teoria,

hanno esportato, a differenza degli inglesi, piuttosto teorie che modelli di comportamento. Le ottime scuole francesi, in Algeria e in Tunisia, hanno educato gli allievi ai sacri princìpi dell’Ottantanove, all'amore per la libertà. La classe dirigente nordafricana non somigliava, nella men-

talità e nelle maniere, a quella parigina; ma ragionava allo stesso modo, imparava a inseguire gli stessi ideali. Era inevitabile che aspirasse, non appena possibile, all’indipendenza nazionale. Si è poi rimproverato agli inglesi e ai francesi di avere spinto le popolazioni delle loro colonie, attraverso l'insegnamento dei princìpi di libertà, a ribellarsi contro l'Inghilterra e la Francia: rimprovero stupido, perché la storia segue il suo corso, e la politica a lungo raggio nei rapporti fra i popoli non è decisa a tavolino, è dettata dalla storia. C'è la controprova: altri colonizzatori, i belgi, gli olandesi, gli italiani, i portoghesi, non hanno educato gli indigeni, o li hanno educati pochissimo; eppure le loro colonie sono insorte lo stesso. Con una differenza: che l’India, grazie alla buona politica inglese, è stata affidata a una buona classe dirigente locale; e la Libia è governata da Gheddafi. Gli americani, ufficialmente, non hanno colonie, anche

se noi affermiamo che hanno un impero. Certo è che non sono immuni dalla volontà di educare; anzi, oggi manife-

stano l'entusiasmo più vivo quando si tratta di educare gli altri popoli. La loro merce di esportazione preferita è la democrazia parlamentare, unita all'economia di mercato,

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Il tramonto della nostra civiltà

ben sapendo che a lungo termine l’una è condizionata dall'altra, anche se per brevi periodi possono andare disgiunte (Cile, Cina). Il proselitismo in cui si esercitano è sempre straordinario, talvolta patetico. Vorrebbero vedere libere elezioni,

e parlamenti simili al loro Congresso, fra

popolazioni in gran parte analfabete, in condizioni di vita primitive. Come si fa a pensare a libere elezioni in Cina, con un miliardo e duecento milioni di abitanti mentre scrivo, certo un po’ di più quando voi leggerete? Non è strano che in Russia la metà dei potenziali elettori non sia andata alle urne: che cosa significa, per gran parte dei russi, un Parlamento? Che gliene importa?

Pochi argomenti mostrano meglio di questo quanto sia netta e profonda la separatezza fra le nazioni appartenenti alla civiltà occidentale, e le nazioni a essa estranee.

I rapporti col Terzo Mondo hanno dato luogo a un lungo dibattito, tedioso perché fazioso: il colonialismo è stato utile o dannoso? benefico o malefico? La faziosità è riscontrabile da una parte e dall'altra. Raramente si è cercato di affrontare il tema con serenità. Non c'è dubbio che le potenze coloniali abbiano cercato di trarre il massimo vantaggio economico dalle colonie, sostanzialmente in due modi: ricavandone materie prime, e smerciandovi i loro prodotti. La prima funzione, quella dello sfruttamento delle materie prime, è stata di gran lunga preponderante nella prima fase; la creazione di mercati è venuta dopo, e fino a un passato recente è stata

meno importante, perché le popolazioni delle colonie non avevano potere d'acquisto. Lo sfruttamento è stato brutale? Certamente sì: ma anche la mano d'opera delle nazioni europee è stata usata in modo brutale nella prima fase del capitalismo. Il sistema di produzione era allora retto da metodi che non avevano alcun riguardo per il prestatore d'opera; gli orari di lavoro erano estenuanti, le paghe misere, e si mandavano i bam-

bini nelle miniere. Dobbiamo dedurne che i datori di lavo-

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rO, i capitalisti, erano belve? Il sistema di produzione funzionava a quel modo indipendentemente dalla volontà dei singoli operatori e, se si vuole parlare di colpa, si può solo mettere sotto accusa la natura umana: Marx se la prendeva infatti col sistema, non con coloro che lo gestivano. Lo stesso discorso va ripetuto per quanto riguarda i colonizzatori nelle colonie. Il rapporto economico fra colonizzatori e colonizzati rispondeva a una sua logica, aveva una sua funzionalità, ed è continuato anche dopo che le colonie, a una a una, han-

no conquistato l'indipendenza. Si è avuta addirittura l’impressione per un certo periodo di tempo che il controllo politico, il «possesso», fosse superfluo. Si potevano trarre vantaggi economici senza bisogno di occupazione politico-militare. Certo era meno sicura la continuità del rapporto: lo si vide quando i produttori di petrolio imposero un embargo, e poi quadruplicarono il prezzo. Ci si può chiedere se ciò sarebbe stato possibile allorché sussisteva il controllo politico-militare. Resta il fatto che, per la logica del sistema se non per la malvagità degli uomini, le colonie hanno dato vantaggi economici alle potenze coloniali; 0, se si preferisce, sono state sfruttate. Fin qui possono avere ragione inemici del colonialismo. Però hanno ragione anche i loro contraddittori, quando osservano che non ci sarebbe stato progresso economico nel Terzo Mondo se non fossero intervenuti gli occidentali. E noi sappiamo perché. I popoli del Terzo Mondo, in Asia o in Africa, non avrebbero mai messo in

moto di loro iniziativa un sistema industriale simile al nostro; e non lo avrebbero messo in moto, non già per pigrizia, per ignavia o per inferiorità intellettuale, come stupidamente sostengono i più rozzi fra i colonialisti, ma per il semplice fatto che non appartengono alla civiltà che ha creato tale sistema, cioè alla nostra.

Le nostre conquiste tecnologiche, che sono la conseguenza delle nostre scoperte scientifiche, sono il frutto di una civiltà che per la sua natura, per le sue esigenze spiri-

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tuali, tendeva precisamente a questi risultati. Gli occidentali vi sono pervenuti, non perché siano migliori degli altri esseri umani, ma soltanto perché sono diversi, e perché si trovano ancora, diciamo così, in fase produttiva; la loro civiltà è ancora attiva, come un vulcano in eruzione, men-

tre le altre civiltà sono vulcani spenti. Ai russi non sarebbe mai venuto in mente di produrre acciaio, ai giapponesi di fabbricare automobili, se la Krupp o la General Motors non gliene avessero dato l’idea e non gli avessero insegnato il metodo. Si tratta di verità che, nel momento in cui si

esprimono, sembrano fin troppo ovvie. Eppure non se ne tiene conto: ecco perché il dibattito sui rapporti fra l’Occidente e il Terzo Mondo appare, oltre che tedioso, stupido.

Si è aperta ora nei rapporti col Terzo Mondo una nuova fase, piena di incognite. Le nazioni sottosviluppate, avendo conquistato l’indipendenza politica, vogliono conquistare l'autonomia economica; vogliono apprendere il know-how industriale, e produrre a loro volta beni di consumo, in concorrenza con coloro che gli hanno insegnato, e continuano a insegnargli, il metodo di produzione. Ciò è vero, tanto di quei popoli che non hanno alcuna civiltà originaria alle spalle, quanto degli altri che, avendo alle spalle una civiltà totalmente diversa dalla nostra, e ormai estinta, sono «barbari», sono «incivili», cioè estranei alla civiltà occidentale,

esattamente come i primitivi. Ma si direbbe che il retaggio di un'antica cultura sia pur sempre utile; si direbbe che i popoli che furono civili siano un po’ meno rozzi degli altri quando devono imparare cose nuove, e che imparino più in fretta. Si pensa soprattutto, così dicendo, al Sud-Est asiatico, alla Cina, al Giappone.

La storia dell’apprendimento presenta aspetti suggestivi; la voglia di imparare è commovente. Gli occidentali all’inizio erano indifferenti; pensavano che i popoli del Terzo Mondo si sarebbero limitati alla produzione industriale nei settori più semplici; non si aspettavano che i

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giapponesi avrebbero fabbricato così bene le automobili. Gli esordi della produzione di automobili in Giappone sono stupefacenti. Gli ingegneri con gli occhi a mandorla non sapevano da dove cominciare. Andarono a Detroit con poco denaro in tasca, presero alloggio in pensioni a buon mercato, cominciarono il tirocinio da zero. Poi tor-

narono in patria, provarono ad applicare quel che avevano imparato. Quando la loro prima automobile si mise in moto, fecero festa.

La loro è una perizia imitativa, anche se un complesso di circostanze gli permette di conseguire risultati superiori a quelli dei maestri. E il carattere imitativo delle loro operazioni indica in modo inequivocabile quanto sia vera quella visione della storia secondo cui gli occidentali creano e gli altri, ben distinti dagli occidentali, applicano una cultura a loro estranea: copiano. L'estraneità sussisterà anche nell’avvenire, perché la forza creativa di una civiltà non si trasmette da una nazione all'altra. Gli uomini del Terzo Mondo guardano, apprendono, mandano a memoria ciò che hanno appreso, producono. Se inventassero a loro volta, se riprendessero il discorso svolto fin qui dagli occidentali per portarlo al suo stadio successivo, al suo successivo sviluppo, diventerebbero essi stessi portatori di questa nostra civiltà, diventerebbero essi stessi occidentali. Ciò è impossibile. La tendenza all’imitazione, con tutti i suoi limiti, si ve-

de anche nelle espressioni culturali minori; anche nelle piccole vicende quotidiane. Un tedesco ha assistito a una lezione di musica in una scuola giapponese: le ragazze della scuola avevano formato un'orchestra di jazz. A chiudere gli occhi, riferisce il tedesco, sembrava di ascoltare Glenn Miller. Ma le suonatrici, a guardarle, erano molto

diverse: serie, compunte, non avevano nei volti la gioia spensierata con cui gli americani suonano il jazz; facevano anche loro le improvvisazioni, a turno la tromba o il sassofono o il clarinetto si staccava dall'insieme e partiva baldanzoso per un assolo, ma quelle erano esattamente le

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imitazioni di improvvisazioni inventate da qualcun altro, la solista eseguiva immobile, rigida nel corpo, come se avesse recitato la lezione di storia. Non c'è invenzione fra i produttori del Terzo Mondo quando imparano dall’Occidente. C'è invece l’adattamento delle invenzioni occidentali alla loro cultura: alla cultura giapponese, cinese, e così via. Il risultato può essere esplosivo. I giapponesi producono automobili secondo i metodi industriali di Detroit, ma organizzano le aziende secondo i concetti atavici delle loro tradizioni; l'azienda

diventa un'entità mistica, una famiglia alla quale tutti i lavoratori sentono di appartenere. La dedizione è completa; col risultato che il controllo sulla qualità del prodotto raggiunge vette altissime, le automobili giapponesi battono la concorrenza occidentale perché sono costruite meglio, si rompono meno spesso. È vero che i giapponesi imparano a vivere, come gli occidentali, in grandi città moderne,

in edifici mastodontici, paragonabili ai grattacieli di Los Angeles o di New York; ma poi rimangono fedeli all’antica parsimonia, abitano in appartamenti minuscoli, la mattina arrotolano i materassi per soggiornare (e per studiare) nelle stesse stanzette in cui hanno dormito. Così si conquistano i mercati. Ed eccoci, sulla soglia del Duemila, alla grande esplosione industriale del Terzo

Mondo. Il Sudamerica impara a produrre beni di consumo. In Asia, Hong Kong, Singapore, Taiwan, la Corea hanno aperto la strada verso la rivoluzione industriale,

sulla scia del Giappone, e adesso è l'ora della Cina. Le regioni costiere cinesi hanno uno sviluppo economico pauroso, a una velocità che atterrisce i responsabili dell’economia nazionale e gli osservatori stranieri; c'è sempre il pericolo che la locomotiva esca dai binari, che la situazione sfugga di mano. La Cina attira investimenti massicci da tutto il mondo; gli investitori stranieri devono accetta-

re la formula imposta dal governo cinese, investire in joint-ventures per la creazione di stabilimenti industriali a

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capitale misto. I cinesi sono disposti a diventare un grande mercato per la produzione occidentale, sono disposti a integrare la loro economia con l'Occidente, ma vogliono

dagli stranieri capitali e know-how, vogliono imparare. Bisogna andare a Pechino, a Shanghai per capire le dimensioni del fenomeno: bisogna vedere quelle strade piene di gente, di biciclette che sciamano ovunque; le au-

tomobili procedono a passo d'uomo negli ingorghi di traffico, e le biciclette le superano, le lambiscono, le som-

mergono. Bisogna vedere tutta quella gente vestita in modo decente, quei negozi affollati di clienti che vorrebbero comperare più di quel che trovano; bisogna andare agli aeroporti rigurgitanti anch'essi di viaggiatori, che prendono d'assalto gli aerei, e sentire le conversazioni nervose e gioiose di tanta gente che va in aereo, lo si capisce subito, per la prima volta; bisogna assistere a questo spettacolo per capire che lì c'è l'esplosione demografica,

l'esplosione industriale, il leviatano che può tutto travolgere, la marea che può tutto sommergere. Le cifre lo confermano: fra dieci o quindici anni il prodotto nazionale cinese supererà quello americano. L'Estremo Oriente costituisce oggi la linea avanzata del Terzo Mondo; la Cina e il Giappone (che erreneamente si colloca nel campo occidentale, come si è spiegato nelle pagine precedenti) sono nel Terzo Mondo i complessi etnici ed economici più dinamici. La storia dei loro rapporti con l'Europa e con l'America è passata attraverso tutte le esperienze possibili, ha conosciuto tutti gli stati d'animo: l’agnosticismo, la condiscendenza, il complesso di superiorità, l'aggressività, la guerra, con vicende drammatiche,

dalla rivolta dei boxer al bombardamento di Pearl Harbor. Da ultimo si è approdati alla collaborazione, all’entusiasmo imitativo, al desiderio di integrazione con l’Occidente. Si è molto lontani dal giorno in cui l'imperatore cinese (nel 1793) diceva all’ambasciatore di Giorgio III: «Se voi affermate che la vostra deferenza per la nostra Celeste Dinastia vi ispira il desiderio di adottare la nostra civiltà,

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ebbene sappiate che le nostre cerimonie e le nostre leggi tanto differiscono dalle vostre che, anche qualora foste capaci di acquisire i rudimenti della nostra civiltà, non potreste mai trapiantare il nostro modo di vita e i nostri costumi sul vostro suolo. E non se ne trarrebbe alcun vantaggio». L'imperatore cinese mostrava uno straordinario intuito quando si diceva consapevole delle differenze profonde, e quindi dell’incomunicabilità, fra la sua civiltà

e quella europea. Ora il miracolo è avvenuto, ma in senso inverso a quello di cui parlava. Il Giappone, la Cina e i paesi limitrofi sono impegnati a battere l'Occidente con le sue armi: è in corso l’occidentalizzazione dell'Oriente, quella che Toynbee chiama la politica «petrina», con riferimento a Pietro il Grande che voleva occidentalizzare la Russia. I cinesi lavorano negli stabilimenti industriali, adottano i nostri metodi di produzione e i nostri brevetti, sia pure con la fantasia gioiosa e disordinata che li rende tanto diversi da noi (e diversi dai giapponesi, compunti, precisi, metodici, pe-

danti). Poi vanno ai Mc Donald's, ordinano hamburger e Coca-Cola. A poca distanza da Pechino la Grande Muraglia, la stupenda opera equivalente al Vallo Romano, costruita duecento anni prima di Cristo, per proteggere nell’eternità la civiltà del Celeste Impero ormai alla fine del suo ciclo, e benedetto dalla «pace cinese», equivalente

alla «pace romana», la Grande Muraglia è diventata un'attrazione turistica, bene ripulita e restaurata dall’autorità locale, con le comparse travestite da guerrieri antichi, per l'edificazione dei visitatori che arrivano in comitiva sugli autobus. Così finiscono, nella banalità del nostro

tempo, le grandi opere della storia. Tutto a posto, dunque? Non c’è più alcun pericolo? Il Terzo Mondo è in via di integrazione con il mondo occidentale?

Se lo chiedeva Edward Gibbon quando scriveva, nel Settecento, La Decadenza e la Caduta dell'Impero Romano;

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una lettura d'obbligo se si vuole parlare della nostra decadenza. Gibbon considerava l'Europa del suo tempo, al di sopra delle differenze nazionali, «una sola grande repubblica», con le sue felici condizioni di vita, con le arti, le leggi e i costumi allo stesso livello «di cortesia e di istruzione». Ma c'erano, contrapposte, «le nazioni selvagge della Terra», e costituivano un pericolo per la società civile. Gibbon si chiedeva, «con ansiosa curiosità», se avremmo fatto la fi-

ne dei romani. La sua prima riflessione è preoccupante: «I romani ignoravano le dimensioni del pericolo, e il numero dei loro nemici». Li ignoriamo anche noi? Il Settecento fu un secolo ottimista, e Gibbon non poteva dare una risposta affermativa a un interrogativo così inquietante. Nella prosa elegante e armoniosa, si affrettava a rassicurare il lettore. Nell'antichità, egli osservava, l'Europa settentrionale e l'Asia erano popolate da tribù innumerevoli di cacciatori e di pastori, «poveri, voraci e turbolenti»; nel Settecento, le stesse regioni erano abitate da gente civile, e nella sola

Germania c'erano duemilatrecento città fortificate. Potevano sempre sbucare da luoghi sconosciuti altri barbari bellicosi e feroci; ma se anche fossero comparsi, se anche fossero avanzati, ipotesi improbabile, fino all’Atlantico,

«diecimila vascelli avrebbero messo in salvo quel che restava della società civile; e l'Europa sarebbe risorta e rifiorita nel mondo americano, che già ospita le sue colonie e le sue istituzioni». Intuizione stupenda, destinata a diventare di attualità nel 1940, quando Churchill dichiarò che gli inglesi avrebbero continuato la guerra contro Hitler, se necessario, dal continente americano.

Ma il grande argomento di Gibbon era un altro. Gli europei, egli proseguiva, avevano sui selvaggi una grande superiorità nella matematica, nella chimica, nella meccanica, nell’architettura, e avevano messo le loro conoscenze

al servizio della guerra: ciò li rendeva invincibili fino a quando i selvaggi fossero rimasti selvaggi. Gli europei sa-

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pevano come difendersi dalla cavalleria dei tartari. Se poi i selvaggi, ed ecco il grande argomento, avessero imparato a loro volta l’uso delle armi da fuoco, se avessero appreso, diremmo noi, la tecnologia degli uomini civili, allora avrebbero posto fine alla propria inferiorità: «Non sarebbero più barbari. I loro graduali progressi nella scienza bellica sarebbero accompagnati, come dimostra l'esempio della Russia, da un uguale progresso nelle arti della pace e della civiltà; ed essi meriterebbero a loro volta

di essere collocati fra le nazioni civili da loro sottomesse». È quel che sta succedendo. Gibbon è stato profetico: non solo la Cina e il Giappone, ma altre popolazioni del Terzo Mondo compiono rapidi progressi nell'industria e, di conserva, nell'arte della guerra; le armi nucleari sono ormai il mezzo d'’offesa finale e definitivo, ed è inevitabile

che anche le nazioni del Terzo Mondo ne entrino in possesso. La Cina è sul punto di disporne; la Libia, tanto per fare un esempio, ha chiesto ai cinesi già da tempo l’assistenza necessaria per diventare a sua volta una potenza

nucleare. Tante altre nazioni in via di sviluppo aspirano a fare altrettanto. I barbari cessano dunque di essere barbari, da questo punto di vista. Il ragionamento di Gibbon è logico. Ma possiamo condividerlo?

Purtroppo, la risposta è negativa. Gran parte dell'umanità rimane povera, ridotta alla fame, assalita dalle malattie, e la pressione demografica è destinata a crescere. L'immigrazione dai paesi sottosviluppati a quelli progrediti assumerà dimensioni immani,

diventerà travolgente; si porranno problemi forse insolubili. Le risorse di cui l'umanità dispone non sono illimitate: nella gara fra la crescita demografica e l'aumento delle risorse, non possiamo

sapere chi vincerà.

L'invasione

dell'Europa e degli Stati Uniti da parte di immigrati poveri può diventare altrettanto disgregatrice, per la civiltà occidentale, quanto l'invasione armata lo fu nel passato. Il Terzo Mondo dei diseredati è animato da grande osti-

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lità verso i paesi ricchi, un’ostilità alimentata e accresciuta in certi casi, per esempio fra gli arabi, da motivi religiosi. Gli integralisti musulmani considerano gli occidentali, non solo affamatori dei poveri, ma anche peccatori infedeli, che vogliono cancellare dalla Terra la vera fede, quella del Corano: devono essere sterminati. Non si aggrediscono i pullman di innocui turisti? Stanno covando grandi scontri. E dobbiamo chiederci quale atteggiamento assumeranno, di fronte alle rivendicazioni del Terzo Mondo

povero e diseredato, quegli altri popoli, anch'essi del Terzo Mondo, che sono sulla via del progresso, quei barbari

che non sono più barbari, secondo il sillogismo di Gibbon. Fino a ieri, l'atteggiamento di questi altri popoli più o meno progrediti, quando erano in grado di nuocere, appariva fin troppo chiaro: la Russia comunista, la Cina di Mao si schieravano senza esitazione dalla parte del Terzo Mondo povero, ne reclamavano la guida, per sferrare grandi offensive propagandistiche contro l'Occidente, per minacciare la guerra. Ora la situazione è cambiata, lo stato d'animo è diverso. La Cina e la Russia chiedono all’Occidente aiuti e capitali per diventare anch'esse occidentali a tutti gli effetti. Fino a ieri ostili, oggi sono amichevoli. Rimarranno tali per sempre? Anche il Giappone è amico: non si ripeterà mai più una Pearl Harbor? Qui la nostra visione della storia non ci aiuta: perché si può prevedere il decorso di una grande civiltà, che ha le sue leggi di sviluppo e di declino, ma i popoli del Terzo Mondo, non facendo parte di una civiltà attiva, essendo fuori della storia, sono imprevedibili. Chi si aspettava i conflitti fra serbi, croati, bosniaci? fra georgiani e abkhazi? All’incognita militare bisogna aggiungere quella industriale. Le nazioni in via di sviluppo possono svolgere una funzione positiva, integrandosi con l'Occidente, ma possono anche fargli concorrenza, come già accade. Il loro tenore di vita è nettamente inferiore a quello occidentale: l'integrazione con l'Occidente può avere conseguenze ne-

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Il tramonto della nostra civiltà

gative sul benessere di cui l'Occidente gode, e ciò provocherebbe tensioni sociali. Si possono insomma formulare, quando si tentano le previsioni per il prossimo secolo, due ipotesi. Poiché la differenza di ricchezza e di benessere fra i paesi avanzati dell'Occidente e i paesi del Terzo Mondo è difficilmente sostenibile a lungo termine, essa porterà o allo scontro, se

i poveri aggrediranno i ricchi; o all'integrazione, ma allora l'integrazione produrrà un livello di benessere uniforme, quindi inferiore a quello attuale dell'Occidente. Queste sono ipotesi dettate da una logica elementare: così schematiche, sono poco credibili, e vi saranno senza

dubbio molte varianti. La storia, lo sappiamo, non obbedisce alla logica; talvolta è un bene che non vi obbedisca,

talvolta è un male. Quel che tuttavia appare certo è un pericolo crescente per gli occidentali, nei rapporti col Terzo Mondo; i numeri sono a loro sfavore. Nella formulazione

delle varie congetture ci si accorge che la scelta dipenderà, in modo crescente, da decisioni prese fuori dell'Europa e degli Stati Uniti. Decideranno a Pechino, a Tokio, a Mosca

se sarà preferibile la collaborazione o se si lancerà la sfida, se sarà pace o guerra. Si può sperare, con l'elegante ragionamento di Gibbon, che tutto andrà per il meglio; ma è difficile condividere, alle soglie del Duemila, l'ottimismo settecentesco.

Quel che appare certo, secondo la nostra visione della storia, è il declino dell'Occidente. Gli occidentali, in primo

luogo gli americani, sarebbero in grado di resistere alle sfide economiche o militari, e qualora il Terzo Mondo decidesse di fare la guerra sarebbero anche in grado di vincere la guerra, se mantenessero quel vantaggio che oggi innegabilmente detengono verso il Terzo Mondo, compresa la Cina, compreso il Giappone. Ma è questione di volontà: per rimanere in testa bisogna avere la ferma intenzione di rimanervi, pagando tutti i prezzi necessari. Occorre lo spirito di sacrificio, il senso di disciplina, il ri-

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gore, la severità verso se stessi, tutte qualità senza le quali non si può essere i primi. La chiave nel confronto col Terzo Mondo è in primo luogo nell'animo degli occidentali; e questo è il fatto più preoccupante. L'impero romano si disgregò per l’ignavia dei suoi difensori prima ancora che per il valore di chi lo attaccava. Si è indicato, fra le tante cause del declino, il

lungo periodo di pace, che avrebbe addormentato lo spirito delle popolazioni. È vero il contrario: la pace è stata piuttosto la conseguenza della stanchezza che si era impadronita di loro. Oggi, la vitalità del Terzo Mondo è in contrasto con la crescente indifferenza del mondo civile. In questa contrapposizione è indicato, con ogni probabilità, il destino dell'Occidente. È difficile immaginare, nella vita pubblica come in quella privata, situazioni diverse da quelle in cui ci troviamo. Quando abbiamo successo, crediamo che continuere-

mo ad averlo per sempre; quando siamo malati, crediamo che non guariremo mai; non riusciamo a immaginare lo stato di salute se siamo sofferenti. Oggi viviamo nei paesi occidentali in regime di democrazia parlamentare, e diamo per scontato che non cambierà mai: tutt'al più speriamo che migliorerà, che funzionerà meglio. Fukuyama sostiene addirittura che è finita la storia: abbiamo raggiunto tutto quello che potevamo desiderare di raggiungere, abbiamo la forma di governo ideale, ce la terremo per sempre e il grande romanzo di cappa e spada cheè la storia è finito, punto e basta. Ma si tratta di illusioni. È sempre possibile scivolare dalla democrazia alla dittatura. Abbiamo già detto nelle pagine precedenti che nel nostro avvenire possono comparire forme di cesarismo; è infatti il cesarismo la fase finale di una civiltà.

Torniamo sull'argomento, perché esso si collega col tema che abbiamo trattato in questo capitolo, cioè coi rapporti fra l'Occidente e il Terzo Mondo. Ma vediamo di

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Il tramonto della nostra civiltà

chiarire innanzi tutto che cos'è il cesatismo. In una società indifferenziata, nella quale si sono cancellate le classi sociali, e che ha abbandonato le ideologie perché ha smesso

di crederci, chi va al potere? Ci va chi si presenta meglio ai cittadini; chi fa meglio la propaganda sulla propria persona; chi piace di più. Nei periodi pacifici, gli artifici per piacere di più sono spesso ingenui. Ronald Reagan è diventato presidente degli Stati Uniti perché, attore di professione, sapeva recita-

re; aveva inoltre imparato a fare discorsi politici, a pagamento, alla fine dei pranzi, per conto di associazioni. Piacciono i candidati di aspetto giovanile, con la faccia simpatica. Nell'antica Roma erano importanti le apparizioni nel Foro; adesso è decisiva la televisione. Poiché il tempo televisivo costa, occorre molto denaro per compe-

rarlo; una grande disponibilità di denaro è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per vincere. Occorreva

denaro anche a Roma. I vincitori devono poi pagare i debiti, con gli interessi: è breve il passo verso la corruzione, coloro che conquistano il potere politico si sdebitano procurando lauti guadagni ai loro sostenitori. In una società decadente, l'elettorato della metropoli

manda dunque al potere i candidati secondo criteri eminentemente personali. Ma finché la situazione generale è tranquilla sussistono le regole democratiche: l'elettorato è libero di cambiare gli uomini di governo a intervalli regolari, secondo le scadenze previste dalla costituzione o (in Inghilterra) dalla consuetudine. Il candidato è scelto per quello che è, non per quello che rappresenta, dato che la rappresentanza perde rilevanza in una società priva di ideologie; le campagne elettorali si combattono con slogan privi di contenuto, importa non quel che si dice, ma come lo si dice e questo è il primo passo verso il cesarismo; però il governo può essere rovesciato dagli elettori, e sostituito da un governo diverso. Le cose cambiano quando l'equilibrio sociale è sconvolto. Allora non si scelgono più i candidati secondo il taglio

I nuovi barbari

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dei capelli (pare che una visita dal parrucchiere abbia grandemente giovato a Bill Clinton durante la campagna elettorale negli Stati Uniti) o secondo la radiosità del sorriso. In circostanze burrascose contano i rapporti di forza. E forza significa armi. Quando la pace è in pericolo, quando la gente scende in piazza, e la lotta è senza quartiere, vince chi ha l’esercito dalla sua. Così è avvenuto a Mosca nell'estate del 1993, quando è esploso un conflitto costitu-

zionale fra il presidente e il Parlamento. Così avvenne a Roma, quando Giulio Cesare varcò il Rubicone. Ma chi

conquista il potere a questo modo non lo abbandona in seguito a causa di un responso elettorale: lo mantiene fino a quando disporrà della forza che gli ha consentito di conquistarlo. Questo è il cesarismo. Oggi, l'ipotesi del cesarismo nei paesi avanzati dell’Occidente appare assurda. Ma acquisterebbe consistenza se la pressione del Terzo Mondo, in un modo o nell'altro, scon-

volgesse gli equilibri; se creasse situazioni pericolose. Negli Stati Uniti, il Pentagono è un centro di potere distinto dagli altri, con una visione del mondo diversa da quella degli uomini politici, e costituisce in certe circostanze un governo invisibile, alternativo a quello della Casa Bianca. Non c'è dubbio che la Casa Bianca, oggidì, prevale. Quando il generale MacArthur, grande vincitore nell'Estre-

mo Oriente, proconsole americano in Giappone nell’immediato dopoguerra, diede segni di insubordinazione, fu prontamente richiamato in patria. Ma i rapporti di forza fra classe politica e classe militare si rovescerebbero nell'ora del pericolo. È ingenuo credere che la situazione politica,

essendo tranquilla nel presente, rimarrà tranquilla per sempre.

X

L'Italia è civile?

Il rapporto dell'Italia con gli altri popoli della civiltà occidentale è ambiguo; qualche volta gli italiani sono all'avanguardia, in altri periodi perdono terreno

L'Italia si colloca nella grande civiltà occidentale? La semplice domanda può sembrare blasfema. Chi la pone ritiene possibile, evidentemente, una risposta negativa. E che cosa significa una risposta negativa? Significa che l’Italia, questa nostra Italia, col suo passato, con le sue glorie, è fuori della civiltà, quindi barbara e incivile? Si-

gnifica che appartiene, come le tribù dell’Africa, al Terzo Mondo? È comprensibile l'indignazione. Ma possiamo misurarci, d'altra parte, coi popoli più civili del mondo industriale? Crediamo davvero di reggere il confronto con i tedeschi, con gli svedesi, con gli americani del Nord? Le glorie passate sono passate. E il presente? Queste domande accendono gli animi. È sempre con emotività che gli italiani giudicano se stessi; un’emotività che tradisce orgoglio, fierezza, presunzione, e insieme insicurezza, scoramento, come spesso accade fra i giovani,

così facili a passare dall’esaltazione alla disperazione. Gli italiani, insicuri come gli adolescenti, sono sempre ansiosi di paragonarsi con gli altri, per sapere quel che valgono. Quante volte, di fronte a episodi di ovvia arretratezza e di disordine, di fronte a soprusi e ladrocini, esclamano con rabbia: siamo l'Africa, siamo il Terzo Mondo. E poi, sco-

prendo che anche gli altri hanno i loro difetti, hanno le lo-

L'Italia è civile?

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ro magagne, subito si consolano: siamo tutti uguali, tutto il mondo è paese. Il dibattito su noi stessi è una continua oscillazione, una sofferta altalena fra questi due poli. Il quadro è complicato dal nostro passato, è confuso per il contrasto fra le glorie passate e i vizi presenti. Non è solo la faccenda dell'impero romano a confondere le idee; anche col Rinascimento eravamo ben piazzati nella graduatoria, servivamo da modello per tutta l'Europa. Non lo abbiamo fatto forse noi, il Rinascimento? Ma non era-

vamo da buttar via neanche dopo. Nel Settecento, il viaggio in Italia era il momento più bello del grand tour per le persone colte della buona società europea, e non solo per ragioni archeologiche: in Italia c'era molto da imparare. Lord Chesterfield raccomandava al figlio di guardarsi attorno alla corte di Torino, vi si sfoggiavano le buone maniere meglio che in ogni altra parte d'Europa; e Goethe a Napoli trovava affascinanti, non solo il golfo e il vulcano, ma anche le conversazioni con Vico. (Però il danese Andersen, qualche decennio più tardi, scambiava i nobili romani coi barboni.)

Se un giornalista facesse un'inchiesta sulla collocazione dell’Italia, avrebbe difficoltà a scrivere un articolo limpido ed esauriente, Il quesito sull’appartenenza dell’Italia alla civiltà occidentale creerebbe per lui qualche grosso problema. Lo crea anche per noi; l'argomento presenta aspetti contraddittori, nodi difficili da sciogliere. Proverò ad anticipare la mia risposta, che formulo con tutte le cautele, prima di spiegare come ci sono arrivato. Ecco il responso: l’Italia appartiene alla civiltà occidentale; ma la sua è una partecipazione anomala, intermittente, bizzarra, ora smagliante ora sbiadita. Siamo, nel bene e nel male, una marca di frontiera,

Il precedente dell'antica Roma ha, ai fini del nostro odierno grado di civiltà, scarsa importanza. Contrariamente a quel che si insegnava nelle scuole al tempo del re-

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Il tramonto della nostra civiltà

gime fascista, gli italiani moderni non sono i discendenti degli antichi romani. Il fatto che abitiamo negli stessi luoghi non deve montarci la testa. È accaduto molte volte nella storia che lo stesso territorio abbia ospitato i popoli più eterogenei; e noi siamo diversi dai romani di allora. I discorsi sulla continuità etnica, sui legami del sangue, fanno parte del folclore romantico, e ormai nessuno li prende sul serio. Certamente sono privi di base scientifica. Più in generale, possiamo affermare che non è il territorio a stabilire i confini di una civiltà, perché la stessa civiltà può spostarsi durante il suo ciclo di sviluppo da una zona all'altra: quella araba ha invaso la penisola iberica, poi si è ritirata e ha ceduto il terreno alla civiltà occidentale. Né si può identificare una civiltà con un popolo o con una razza; quelli di popolo e di razza sono concetti evanescenti, mutevoli nel tempo. Ormai siamo convinti che non esistono né popoli eletti, né razze pure. Eppure, sappiamo che esiste una linea di demarcazione, e che si appartiene a una civiltà, o se ne è esclusi, secondo che ci si trovi da una

parte o dall'altra di tale linea. Come dobbiamo tracciarla? Sappiamo che determinate comunità si comportano, a partire da un certo periodo, in modo diverso; danno segno di un’accresciuta vitalità, sviluppano in sincronia nuove forme politiche, artistiche, economiche, tecniche. C'è chi parla, per definire questo fenomeno, del risveglio

di «un'anima» che pervade e ispira quella comunità. Noi abbiamo parlato, piuttosto che di un'anima, di una forza creativa che inspiegabilmente si accende (a chi rimane perplesso di fronte a quell’avverbio, «inspiegabilmente», e lo ritiene troppo comodo, chiediamo: è forse spiegabile l'apparizione della vita sul nostro pianeta?). Possiamo anche parlare, invece che di forza creativa, di uno stato di

grazia. Ciascuno può usare il termine che preferisce per descrivere il fluido misterioso che, a un certo momento,

pervade certa gente.

L'Italia è civile?

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Ebbene: lo stato di grazia di cui si parla, che è all’origine della civiltà occidentale, si è esteso anche a sud delle

Alpi, si è diffuso sulla nostra penisola. Ma si è diffuso in modo irregolare; ha lambito le popolazioni che vi risiedono, se ne è impadronito, ma in modo alterno e in misura diversa. Si sono prodotte bizzarrie, di cui è difficile dare una spiegazione.

L'appartenenza dell'Italia (dovremmo dire: di coloro che abitano in Italia) a questa nuova civiltà è, fin dall’esordio, fuori di dubbio. Coloro che vivono sulla penisola esprimono, a partire grosso modo dall'anno Mille, uno stile correlato a quello che fiorisce a nord delle Alpi, e non mi riferisco soltanto alle arti o all'architettura, ormai è

chiaro, ma a tutti gli aspetti della vita civile. Abbiamo anche noi i nostri bravi castelli, fieramente abitati dai signori feudali, dai baroni, dai conti, dalle loro dame; ci sono gli

uomini armati intorno ai castelli, e tengono a bada gli umili contadini nelle campagne: tutto come in Borgogna o in Normandia. Ciò è dovuto al fatto che i popoli nordici, i longobardi, i normanni, e altri, sono venuti fra noi? Certamente il loro

arrivo è determinante. Ma non spiega tutto. Alla furia creatrice non partecipano solo i nuovi venuti, gli uomini scesi dalle fredde terre settentrionali; lo stato di grazia si estende a coloro che sono originari della penisola, e che producono quel che producono, non in pedissequa imitazione delle opere altrui, come succede oggi ai giapponesi o agli arabi quando si occidentalizzano, ma per una loro capacità di creazione. Chi direbbe che i nostri adorati pittori, che gli scultori toscani e umbri sono semplici copisti? È vero l'opposto: gli italiani di quei secoli, e possiamo chiamarli italiani senza perderci in inutili disquisizioni genealogiche, sono all'avanguardia. L'Italia è faro di civiltà, allora? Maestra delle genti? Si direbbe di sì, per allora. Lo fosse stata sempre! Invece la storia è piena di contraddizioni, di distonie, di continui divari, in un senso e

nell'altro. È una corsa in cui avanzano ora gli uni, ora gli

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Il tramonto della nostra civiltà

altri; e non si capisce affatto che cosa dia più vigore, di volta in volta, agli uni o agli altri, anche se ogni storico mette in bell’ordine cinque, dieci, venti cause diverse per

spiegare ogni primato e ogni declino, numerandole con cura: primo, secondo, terzo...

In quei secoli siamo noi all'avanguardia. Abbiamo i castelli, i signori feudali; e abbiamo anche una vivace civiltà

cittadina: ecco i Comuni. Inventiamo il capitalismo, siamo i primi ad aprire le banche (a Genova, a Firenze, a Venezia) e a maneggiare denaro in una maniera nuova, quando in Normandia o nelle Fiandre non pensano ancora a queste cose. Non solo apparteniamo alla civiltà occidentale: ne precediamo le invenzioni, abbiamo un paio di secoli di vantaggio. In Italia c'è gente più brillante, più ricca, più geniale che altrove. Ecco poi le Signorie: è alla corte dei Medici e dei Visconti, è alla corte pontificia che nascono i capolavori dell’arte. Ma non si forma da noi lo Stato nazionale. Che cosa vuol dire? Forse dobbiamo paragonare i Comuni alle città-Stato dell'antichità, alle polis dei greci, per dedurne che gli italiani propendono verso forme statuali simili a quelle della civiltà greco-romana? È attivo un gene mediterraneo che spinge alla frammentazione? No, il paragone non regge: Firenze, Genova, Venezia, con le loro torri e con le loro cattedrali, erano certo assai diverse da Atene, da Corinto, da Roma, diverse nell’architettura, nei costumi, nella mentalità. Altre sono le ragioni, senza dubbio, se lo Stato

nazionale nasce in Italia con tanto ritardo.

I Comuni italiani somigliano, piuttosto che alle polis greche, alle città anseatiche, lassù al Nord. Compare qui un punto di contatto fra Germania e Italia; più tardi ne troveremo un altro. Ma è interessante che sia nato il sospetto di un legame fra l’Italia e l’antichità; sia pure un sospetto subito fugato, perché la parentela fra Comuni italiani e polis grecheè improponibile. È possibile che l’Italia, pur partecipando di pieno diritto al ciclo della civiltà occidentale, che è prevalentemente nordica, senta in modo

L'Italia è civile?

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DÒ vivo l'influenza di quella antica, che fu mediterranea? questione di vicinanza geografica? O di qualche traccia remota di consanguineità, sebbene si sia detto che è vano parlare, a proposito di antichi greci e di antichi romani e di italiani moderni, di legami del sangue?

Non è facile rispondere in modo categorico. Non crediamo, lo abbiamo detto, alla geografia: non crediamo cioè a una continuità fra Roma antica e Italia moderna dovuta al fatto che entrambe si collocano sullo stesso territorio. Non crediamo al legame del sangue, perché gli intrecci genealogici nel giro di mille anni sono aggrovigliati e insondabili. Forse crediamo tuttavia a influenze culturali: nel senso che il ricordo del passato influisce sui comportamenti presenti. Certo è che nel Medio Evo (chiamiamolo così per comodità) è un gran parlare, in tutta l’Italia, di Roma antica; il ricordo è vivo, e qualsiasi cosa si faccia, si

tira sempre in ballo la romanità: ci si sente, e questa è forse la chiave del problema, figli di Roma. Anche se non lo si è, ci si sente tali. Ed è questo che conta. Si arriva così al Rinascimento, altra realtà che distingue in modo netto l’Italia dal resto dell'Europa, e costituisce una sua peculiarità nell’ambito della civiltà occidentale, un suo distintivo, e ovviamente una sua gloria. Qual è l'origine di questa nostra diversità rinascimentale? Nel passato non si esitava a rispondere: è il legame con l’antichità. Abbiamo imparato sui banchi di scuola che l’umanesimo, foriero del Rinascimento, riscopre la cultura anti-

ca, e a essa si ispira. La concatenazione appariva pertanto chiara, lampante: il Rinascimento, momento di rottura e

di svolta rispetto al Medio Evo, che è di ispirazione prevalentemente nordica, si riallaccia alla cultura greco-roma-

na. L'Italia è la patria del Rinascimento perché è l'erede dell'antichità, e quindi la più sensibile alla cultura antica. Così l’Italia sembra antagonistica, addirittura, alla civiltà del Nord. Oggi, queste equazioni non si accettano più. Tutte le

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Il tramonto della nostra civiltà

vecchie convinzioni sono rivedute e corrette. Si è cominciato col demolire la tesi, un po’ ingenua, che il Rinascimento fosse dovuto alla fecondazione della cultura antica;

come se bastasse leggere vecchi testi, o contemplare antiche rovine, per fare scattare un nuovo movimento culturale. Toynbee ha spiegato, e lo abbiamo già visto, che gli

impulsi ricevuti dall'esterno non approdano a nulla se non vi è una capacità creativa in chi li riceve; aggiungiamo che, se tale capacità esiste, non sono più necessari gli impulsi da fuori. Ma questo è solo il primo passo per smontare le vecchie convinzioni. A mano a mano che lo si è studiato da angolazioni diverse, si sono fatte tante altre scoperte sul Rinascimento; lo si è

rivoltato da tutte le parti, fino a renderlo irriconoscibile rispetto al modello iniziale. Si è negato che fosse un momento di rottura col Medio Evo, per scoprire piuttosto gli elementi di continuità: «Da Giotto a Raffaello» scriveva più di cento anni fa Henry Thode «si compie un'evoluzione unitaria, alla cui base è una concezione filosofica e religiosa unitaria. Voler distinguere un'arte gotica, che sarebbe giunta fino al 1400, dal Rinascimento che comincia col 1400, come per lo più si continua a fare nei manuali di storia dell’arte, significa misconoscere l’organicità del tutto». Continuità fra Medio Evo e Rinascimento: da questa premessa, che fra l’altro si inquadra benissimo nella nostra visione della storia, perché conferma l’unitarietà delia civiltà occidentale, discendono conseguenze importanti. E

gli studiosi si sono divertiti a scoprire gli elementi rinascimentali già nel Medio Evo, oppure a scoprire gli elementi medievali nel Rinascimento; e di volta in volta ci si è ac-

corti dell’individualismo e della laicità di grandi personaggi del Medio Evo, contro l'opinione corrente che gli esponenti della cultura europea cominciano a essere individualisti e laici solo in epoca rinascimentale; oppure ci si

è accorti del rigore religioso e gerarchico fra i personaggi del Rinascimento. Si è descritto un Medio Evo rinascimentale, o alternativamente un Rinascimento medievale.

L'Italia è civile?

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La conclusione sicura è che non si possono separare in modo netto i due periodi. Resta il fatto che il Rinascimento è essenzialmente una creazione italiana, e Burckhardt scrisse: «...gli italiani, pri-

ma di ogni altro popolo, si trasformarono in uomini moderni e meritarono per questo di esser detti i figli primogeniti della presente Europa». Ecco serviti coloro che dubitano che l’Italia possa essere collocata nella grande civiltà occidentale. Non solo ha diritto a un posto: ha il diritto di essere definita un faro. Ma ecco che ancora una volta l’Italia, pur trovandosi in posizione ammirevole,

spicca per la sua peculiarità, diciamo pure per una sua diversità: nel bene o nel male, in questo caso nel bene, l’Italia si distacca dal resto della civiltà occidentale, crea un

movimento culturale originale, e lo fa nel ricordo di una civiltà ormai spenta, quella greco-romana. Abbiamo dunque colto in Italia due caratteristiche, nel primo periodo della civiltà occidentale: la tendenza ad anticipare i nordici, e il piacere di ricordare l’antichità grecoromana. Il Rinascimento, il nostro Rinascimento, si inseri-

sce a pieno diritto nell'alveo della civiltà occidentale, le appartiene. Spengler non esita a definire occidentali i grandi artisti italiani del Quattrocento e del Cinquecento,

lui dice «faustiani», in contrapposizione agli artisti dell'antichità: armoniosi e sereni questi, drammatici e trasognati quelli. Ma già quando costruivamo chiese e palazzi in stile gotico, contraddistinti dall’ansia verso l'alto,

dallo slancio verticale, inventavamo un gotico un po’ meno gotico di quello germanico, un po’ meno slanciato; e le linee classiche compaiono decisamente nell’architettura rinascimentale. La visione storica che esponiamo in questo libro non crede nell’osmosi delle civiltà, non ritiene trasmissibili le

loro conquiste; esclude pertanto che una civiltà estinta, quella greco-romana, abbia potuto travasarsi, grazie agli italiani, in una civiltà viva e in pieno sviluppo, quale quella occidentale fra il Quattrocento e il Cinquecento. Ma cer-

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Il tramonto della nostra civiltà

to vi è la possibilità di imitazioni di stile, di ricordi, di

suggestioni. Non si produssero forse in Europa, nel Settecento, tanti mobili di gusto cinese? E infine queste affermazioni, trasmissibilità e impermeabilità, possibilità di comunicazione e incomunicabilità, non possono essere adottate alla lettera. La storia non è una scienza esatta, per fortuna. L'Italia comincia a perdere terreno dopo il Rinascimento. Il faro splende di luce meno forte; forse, non splende più. Gli europei guardano altrove. I figli primogeniti, crescendo, si sono guastati.

Si fanno ancora grandi cose in Italia, anche nell'epoca post-rinascimentale. Si producono opere insigni, nelle arti figurative, nell’architettura, nella musica. I banchieri genovesi sono fra i più forti d'Europa, gareggiando coi Fugger, li battono; i veneziani mantengono i floridi traffici con

l'Oriente. L'Italia è sempre parte attiva della civiltà occidentale. Ma il centro di gravità si sposta altrove, si trasferisce verso il Nord; là c'è la Riforma, c’è la rivoluzione

borghese, e gli italiani perdono colpi. Perché li perdono? Si dice: l'occupazione straniera, la

perdita della libertà. La penisola diventa campo di battaglia di potenze straniere. Ma è questa una buona spiegazione? Si può rispondere con un'altra domanda: perché diventa campo di battaglia? La debolezza di fronte agli stranieri è essa stessa sintomo di declino; è la conseguenza di una nostra inferiorità, piuttosto che la sua causa. Nel Medio Evo, quando gli imperatori tedeschi scendevano a sud delle Alpi, sapevamo reagire. E comunque non è detto che le popolazioni assoggettate dagli stranieri siano incapaci di progresso. L'Olanda è stata occupata, è stata teatro di battaglie, ma

questo non ha impedito agli olandesi di assumere a un certo momento (in coincidenza col nostro declino) posizioni d'avanguardia, in una civile convivenza in cui spiccavano doti eminentemente borghesi: «la semplicità dei

L'Italia è civile?

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costumi,» così le indica Huizinga «la parsimonia, la pulizia». Huizinga ha un bel cercare le cause all'origine di queste virtù, anche lui come tutti gli storici: parla del paesaggio che «offriva già di per sé una vita riposante, con le sue semplici linee e le sue nebbiose distese prive di brusche fratture»; parla di ragioni di natura economica, dice che la fabbricazione del formaggio richiede pulizia, «la minima sporcizia poteva guastare il lavoro di settimane». Ma altro ci vuole. Se gli italiani perdevano terreno rispetto ai nordici, non possiamo spiegarcelo con le osservazioni sul paesaggio o sulla fabbricazione del formaggio. Direi che non possiamo spiegarcelo affatto: dobbiamo limitarci a osservare che lo stato di grazia, il fluido misterioso, come per ragioni imperscrutabili si era miracolosamente esteso fra di noi, così si è attenuato per ragioni altrettanto imperscrutabili (si è attenuato, si badi, non si è

spento): è tutto un giuoco di flussi e riflussi, per un ritmo biologico che non consente a nessuno di essere sempre al vertice, nella forma migliore. Purtroppo, il riflusso è stato lungo, dura tuttora (ma era stato lungo, dobbiamo dirlo, anche il flusso vincente). La

rivoluzione borghese, la crescita del capitalismo, la rivoluzione industriale hanno le loro capitali altrove. Gli italiani seguono col fiato grosso, arrancano; e se si paragonano le nostre città o le nostre campagne a quelle del Nord, includendo nel paragone le condizioni di vita quotidiane, il grado di ordine e di pulizia, l'istruzione media, la civiltà di maniere, siamo perdenti su tutta la linea. Gli stranieri

illustri che scendono in Italia sono estatici di fronte alle bellezze naturali e artistiche, trovano un buon livello quando frequentano le classi alte, ma sono sorpresi per l’arretratezza della gente comune, rispetto ai loro paesi. L'Italia diventa davvero marca di frontiera: un po’ grossolana, un po’ stracciona. La civiltà delle macchine, che domina il nostro tempo, è arrivata in Italia in ritardo, come un'onda lunga che si è formata altrove. Sono stati gli stranieri, nell'Ottocento, a

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Il tramonto della nostra civiltà

fondare stabilimenti nella pianura padana, ad aprire banche, per insegnarci l’arte: alsaziani, svizzeri, inglesi. Sono

in maggioranza stranieri i brevetti di cui ci serviamo. E sono andati all’estero, fra gli stranieri, gli italiani che volevano imparare i nuovi mestieri: il primo Pirelli in Germania, fingendosi operaio, per vedere come si lavora la gomma; gli ingegneri della Fiat a Detroit, per vedere come si fabbricano le automobili. Abbiamo anche avuto difficoltà ad affrontare i problemi sociali creati dalla civiltà delle macchine; a gestire il passaggio da una società rurale a una società industriale. Una borghesia sparuta, impaurita, ha sentito il bisogno di arroccarsi, per proteggersi dalle masse incolte che la circondavano. Così è nato il fascismo. Quando si discute la collocazione dell’Italia nella civiltà

occidentale, il fascismo pone nuovi problemi; diventa anch’esso un nodo da sciogliere, un fenomeno anomalo ri-

spetto alle altre nazioni della comunità industriale. Ricapitoliamo gli eventi, in modo che risalti l'anomalia. Fino alla prima guerra mondiale, l’Italia è una democrazia parlamentare, più o meno come la Francia, l'Inghilterra, la Germania, gli Stati Uniti. Ciascuna di queste democrazie ha le sue particolarità, ha il suo assetto costituzionale; ma

tutte sembrano appartenere allo stesso gruppo, adottano gli stessi metodi di governo; tutte rispettano le libertà fondamentali. È anche vero che la nostra democrazia è piuttosto rozza rispetto a quelle nordiche, più pasticciona, meno autentica; ma anche da noi la stampa è libera; si ten-

gono libere elezioni. In apparenza, l’Italia si è unita alla schiera delle potenze europee; gli italiani credono finalmente di avere esaudito il sogno risorgimentale, di avere recuperato il terreno perduto.

Poi, di fronte ai problemi sociali del dopoguerra, compare un personaggio di nuovo tipo, e il quadro cambia. Benito Mussolini è nato in un piccolo villaggio, è povero, ha modesta cultura; è di una specie diversa rispetto ai go-

L'Italia è civile?

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vernanti europei allora predominanti, italiani compresi. Questo popolano raccoglie intorno a sé manipoli di squadristi, che si fanno largo coi manganelli, somministrando olio di ricino agli avversari; e nel giro di pochi mesi conquista il potere. Da questo momento le strade divergono: l’Italia si stacca dal gruppo delle nazioni europee, per vivere un'avventura diversa. La classe dirigente italiana, nell'insieme, si adegua, sia pure con diverse sfumature di entusiasmo; i pochi che non sono d’accordo sono emargi-

nati, vivono in disparte. Il regime che si instaura in Italia è meno civile degli altri regimi europei. Tutto ciò costituisce un nuovo passo indietro: come si spiega? Alcuni antifascisti lo hanno definito un’aberrazione temporanea; un errore, una follia. Si dice sempre COSÌ, quando si è preda dello sgomento e non si capisce più niente. Ma come si può accettare una spiegazione del genere? Come si può credere che gli italiani fossero quasi tutti aberranti? Se un’aberrazione è universale, diventa

una regola: non è più un’aberrazione. Oggi, a mente fredda, il fascismo appare piuttosto come uno stadio di sviluppo nell’industrializzazione del paese; uno stadio che raccoglie elementi politici, sociali e culturali del periodo precedente, li trasforma e li elabora, per consegnarli poi al periodo successivo. C'è una continuità fra l’Italia prefascista, quella mussoliniana, e quella postfascista: come c'è sempre, a ben guardare, una continuità nella storia. Ma se è vero che il fascismo è uno stadio di sviluppo nell’industrializzazione del paese, siamo di fronte a un fenomeno tipico del Terzo Mondo: perché sono appunto i paesi del Terzo Mondo, ancora immaturi per il metodo di governo democratico, ancora acerbi e primitivi, che ricorrono alla dittatura di qualche personaggio fermamente determinato a risolvere iproblemi sociali e politici. È nel Terzo Mondo una soluzione obbligata, la dittatura (di destra o

di sinistra, poco importa), quando si passa dalla condizione rurale a quella industriale, dalla società contadina a quella urbana: Castro, Nasser, Pinochet, Ataturk, Ghedda-

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Il tramonto della nostra civiltà

fi... Ed ecco che l’equiparazione di cui si parlava fra l’Italia e le altre nazioni europee si rivela fallace; era una somiglianza apparente, la realtà era diversa. Le altre nazioni sono infatti riuscite a risolvere senza dittature i problemi sorti dopo la guerra; l’Italia non ne è stata capace. Dobbiamo dedurne che l’Italia è uscita dalla comunità occidentale? Certamente il fascismo è sintomo di arretratezza; è la tipica soluzione cui ricorrono le nazioni arretrate quando attraversano un determinato stadio di sviluppo. E allora, dopo essere stati faro di civiltà fino a un certo

periodo, siamo scivolati fra le nazioni arretrate del Terzo Morido? Il quesito si complica quando teniamo conto del fatto che, in realtà, non proprio tutte le nazioni europee hanno democraticamente risolto i problemi sorti dopo la prima guerra mondiale. Non c’è riuscita la Germania. Anche là si è fatto ricorso a una dittatura di tipo fascista. Terzo Mondo anche la Germania?

Se prendiamo in considerazione il caso tedesco, il quadro diventa più complesso, ma anche più comprensibile. Quell'uomo coi baffi, di origine modesta anche lui (ma un po’ meno modesta di Mussolini), di cultura limitata, che

faceva errori di grammatica quando scriveva, e aveva trascorso gli anni di gioventù come un vagabondo distratto e inconcludente, ma animato a partire da un certo momento da idee ossessive, e capace di irradiare una grande forza ipnotica, quell'uomo non conquistò il potere in un paese arretrato; e il nazismo non può essere spiegato semplicemente come uno stadio di sviluppo nel processo di industrializzazione. La Germania, a parte le glorie culturali passate e presenti, era già una potenza industriale: le sue industrie erano fra le più avanzate del mondo. Come si spiega, allora, il successo di Adolf Hitler? Joa-

chim Fest adduce ragioni di carattere culturale: parla di uno scarso senso politico della nazione tedesca, di una scissione «fra sfera speculativa e sfera politica», e descrive, come esemplare caratteristico della nazione tedesca,

L'Italia è civile?

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un tipo sociale che vive «fra libri e sogni», con lo sguardo pensoso, schivo del mondo, animato da disprezzo per la realtà e da disistima per la politica. Fest ricorda che Richard Wagner scrisse a Liszt: «Un uomo politico è ripugnante». Ma questo significa che mancava in Germania una classe dirigente capace di affrontare la nuova situazione sociale, e di risolverne i problemi. Anche la Germania denunciava insomma

una sua arretratezza; avendo

perso il suo imperatore, essendo stati esautorati gli Junker, i generali, gli alti funzionari intorno alla corte, cioè

coloro che la avevano governata fino alla guerra, aveva bisogno di nuovi capi. Hitler parlava di una grande missione nella storia; respingeva gli ideali della società bor-

ghese, e anche per questo conquistò gli animi. In realtà anche il nazismo, come il fascismo, aiutò il

passaggio dalla società tradizionale a quella urbana e industriale; perché fino al 1933 la Germania, sebbene avesse

grandi industrie, non poteva essere considerata una nazione industriale a tutti gli effetti. La società era ancora, sotto molti aspetti, preindustriale e antiborghese. Anche nel caso tedesco la tesi del nazismo come stadio di sviluppo, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra. Che cosa insegnano, dunque, le vicende italiane e tede-

sche nel periodo fra le due guerre? Insegnano che, come una grande civiltà segue un suo vasto ciclo attraverso i secoli, cresce, fiorisce e muore, così si svolgono al suo interno e nel suo ambito cicli minori, di nazioni che hanno i lo-

ro sviluppi, le loro fioriture, i loro tramonti: ed ecco infatti che l’Italia e la Germania, con una grande storia alle spal-

le, si presentano a certi appuntamenti, quale il progresso industriale nel nostro caso, o la trasformazione sociale nel caso tedesco, con le loro arretratezze, coi loro ritardi. Il giudizio cambia di caso in caso, di situazione in situazio-

ne: ecco perché, parlando della collocazione dell’Italia nella civiltà occidentale, abbiamo parlato di tanti problemi, di tanti nodi da sciogliere.

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Il tramonto della nostra civiltà

Si è delineato ben chiaro un problema di classe dirigente: anche le classi dirigenti seguono i loro cicli. La Francia e l'Inghilterra hanno superato le difficoltà sociali del dopoguerra, dopo la vittoria del 1918, grazie alla presenza di classi dirigenti che, al di sopra dei rispettivi regimi, sapevano governare. Alla fine dei conti importa la sostanza, cioè la qualità delle persone, quali che siano le impostazioni costituzionali. L'Inghilterra disponeva fino alla metà del nostro secolo, e magari anche un po' oltre, di un gruppo di persone, di un establishment, composto di aristocrati-

ci, di altoborghesi cooptati dagli aristocratici, e anche di individui provenienti da altre classi, ma bene inseriti: avevano nel sangue l’arte di governare, sapevano fronteggiare le nuove situazioni, anche quelle totalmente impreviste, inventando di volta in volta la procedura adatta. La classe dirigente francese era di composizione diversa: in Francia non era riuscita l'operazione di amalgama fra aristocrazia e borghesia, c’era stata la frattura della rivoluzione. Però anche in Francia la forza delle tradizioni,

la qualità delle scuole, la fierezza nazionale hanno dato Vita a un gruppo dirigente che, sia pure meno bene di quello inglese, sapeva cavarsela: al punto da sopravvivere, fra il 1940 e il 1945, alla terribile débécle dell’occupazio-

ne tedesca. La Germania si è invece trovata in difficoltà. La classe dirigente tradizionale è stata esautorata senza la possibilità di un soddisfacente ricambio. Si aggiunga quella peculiarità dei tedeschi che consiste in un rigore razionale estremo, esasperato: quando partono da una premessa

vanno fino alle ultime conseguenze, senza esitazioni. Proprio l'opposto dell’arte politica. Nel 1933 hanno preso la strada sbagliata, con quel bel risultato. L'Italia è, per quanto riguarda la classe dirigente, il paese che sta peggio: per lo meno nell’ambito della comunità occidentale. È stata governata attraverso gli anni da uomini provinciali, di mentalità piccolo-borghese, senza il senso dello Stato: la situazione era precaria nei singoli Stati della

L'Italia è civile?

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penisola, e l'unificazione ha prodotto una confusione tota-

le, un miscuglio di Nord e Sud, senza raccogliere quel che c'era di buono tanto al Nord quanto al Sud. Le caratteristiche della classe di governo si sono mantenute quasi identiche nei vari regimi: prima del fascismo, durante e dopo; e ricompaiono nell’avvicendamento di regime che si profila a partire dal 1990. Quanto è esigua la differenza fra certi gerarchi fascisti e certi notabili della Repubblica. Si possono fare le riforme che si vogliono: la classe dirigente è sempre quella. O meglio: cambia anch'essa, ma con altri tempi rispetto alle aspettative. I riferimenti al fascismo e al nazismo, nelle pagine che precedono, hanno portato alla ribalta un fenomeno curioso: il cesarismo fuori tempo. Mi spiego. Il cesarismo è una forma di governo che si presenta, a giudicare dalle esperienze del passato, nel periodo finale di una civiltà. Conosciamo le tappe dell’evoluzione. Si forma (nella terminologia di Toynbee) lo Stato universale. E avanza per impadronirsene, prima o dopo,

un dittatore che sta o quella, non ta solo se stesso Roma, da Giulio

non rappresenta più le classi sociali, queè il portatore di ideologie, ma rappresene si regge solo sulla forza. Gosì è stato a Cesare in poi: donde il nome del fenome-

no. Così è stato, dicono coloro che le hanno studiate, nelle

altre civiltà. E così sarà da noi, secondo le leggi dell’analogia. Ma il Cesare del mondo occidentale non è ancora comparso: non è scoccata la sua ora. Quando comparirà, probabilmente evocato dalle difficoltà create per l'Occidente dal Terzo Mondo, si insedierà a Washington: l'America mo-

derna corrisponde all'antica Roma. Si reggerà anche lui sulla forza militare. Tutto questo è di là da venire: anche se certi aspetti della vita politica moderna sembrano presagirlo, e mi riferisco alla crescente demagogia delle campagne elettorali, all'eterogeneità dei candidati, vorrei dire alla loro casualità, come se la politica stesse distaccandosi

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Il tramonto della nostra civiltà

sempre più dalla logica sociale e dalle necessità culturali della nazione. Sapevamo chi era Roosevelt, e da dove veniva: ma chi era Carter? Chi è Clinton? Il cesarismo della civiltà occidentale è nel nostro avvenire: non è ancora di attualità.

E che cosa dobbiamo dire,

allora, di Hitler, di Mussolini, che appartengono al passato? Anche loro presentano le caratteristiche del cesarismo. Sono due uomini emersi dal nulla. Non hanno un legame con le classi sociali, anche se di volta in volta, per conqui-

stare il potere, stringono alleanze e difendono interessi, secondo l'utilità immediata. Stabiliscono un contatto diretto con le masse; un contatto demagogico, ipnotico, fondato su parole d’ordine, su slogan a effetto, indifferentemente su cose vere e cose false; importante è ripetere gli slogan all'infinito, senza curarsi delle argomentazioni dialettiche, perché solo così la gente ci crede. La forza di questi uomini è innanzi tutto in se stessi, perché si tratta di personalità vincenti, straripanti, di veri uomini d'azione capaci di decidere, anche contro il parere di tutti; e poi è nella violenza di cui fanno uso, senza scrupolo. Tutto questo è cesarismo, nudo e crudo. Ma abbiamo

visto che il cesarismo italiano e tedesco nella prima metà del Novecento non è la fase finale di una civiltà, come

quello vero; quello italo-tedesco è un cesarismo di altra natura, è piuttosto un ponte fra condizioni sociali arretrate e condizioni moderne; quindi è assimilabile (specie nel caso italiano) alle dittature del Terzo Mondo piuttosto che a quelle prossime e venture della civiltà occidentale. Abbiamo dunque un altro intreccio nel grande quadro di una civiltà, assistiamo a fenomeni di crescita all’interno di fe-

nomeni di declino, registriamo significati diversi di eventi in apparenza simili. Qualche cosa di simile ai metodi del cesarismo si intra-

vede anche in Italia in questo scorcio di secolo, nel passaggio fra la prima e la seconda Repubblica. Vengono alla ribalta uomini nuovi, come Bossi, come Berlusconi; ricor-

rono agli slogan, alle frasi ripetitive, senza riferimento ai

L'Italia è civile?

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programmi politici; si staccano dal giuoco politico più di quanto non facessero i loro predecessori. Curioso fenomeno: l’Italia cresce; da quel paese arretrato che era si trasforma in un paese benestante, progredito; e intanto la politica regredisce? Più siamo vicino agli eventi, più è difficile capirli. Sospendiamo il giudizio.

XI

Non siamo pessimisti

L'epoca in cui viviamo, un lungo autunno dorato prima della fine, può essere la più piacevole: è come assistere a un meraviglioso spettacolo Povero Spengler: è giusto definirlo un pessimista. Scontento, misantropo, senza amici, era un uomo infelice; sebbene lo scrivere fosse il suo mestiere, scriveva malvolen-

tieri, controvoglia, Ma vorrei chiarire, mismo era dovuto ni. È vero che egli te: a questo deve

per assolvere un compito che odiava. a scanso di equivoci, che il suo pessial suo carattere, non alle sue previsiopreannunciò il tramonto dell’Occidenla sua fama. Ma si può prevedere il

declino di una civiltà, e addirittura il suo crollo, senza essere, per questo, pessimisti.

Da parte mia, sono convinto, come Spengler, che la civiltà occidentale sia in declino; ritengo la decadenza inarrestabile. Ma non sono mai stato pessimista. Vediamo infatti, per chiarirci

le idee, il significato

del termine:

secondo il vocabolario, è pessimista nel senso filosofico chi ritiene che la vita sia tutta male e dolore; oppure, è

pessimista nel senso comune chi trascura il bene presente per preoccuparsi del male futuro. Tutto il contrario del mio caso. Io penso che la vita, anche la nostra vita, anche

la vita che si conduce in un periodo di decadenza e nella prospettiva di un crollo finale, può essere bellissima; forse, in assoluto, la più bella.

Sono convinto che sia meraviglioso vivere in un'epoca

Non siamo pessimisti

291

come la nostra. Lungi dal trascurare il bene presente per preoccuparmi del male futuro, sono sempre stato portato dalla mia indole a godere il bene presente al massimo grado; e la consapevolezza del male futuro, lungi dal guastare il godimento del bene presente, lo ha piuttosto intensificato. Sono convinto in altre parole che la nostra generazione sia fra le più fortunate nella storia dell'umanità. Può questo mio stato d'animo essere trasmesso a chi già non lo possiede? Sono gli stati d'animo merce di scambio? Forse sì, fino a un certo punto. La nostra allegria, la nostra serenità può rendere allegro e sereno chi sta vicino a noi; o almeno

può renderlo un po’ meno triste. Proviamoci.

Non siamo noi a scegliere l'epoca della storia in cui veniamo alla luce. Crediamo di essere liberi; i filosofi di scuole diverse passano la vita a dimostrare in modo inoppugnabile la nostra libertà: ma quante cose sono decise in partenza per noi, sopra le nostre teste. Questa irripetibile avventura che è la vita umana si svolge in gran parte, fin dall'inizio, fuori del nostro controllo. Ci sono uomini for-

tunati e uomini che hanno sempre sfortuna; ci sono i vincenti e i perdenti. Come si spiegano queste differenze? Si parla di uno stato di grazia che le potenze eelesti elargiscono o negano a loro insindacabile giudizio; ma questa non è una spiegazione, è una constatazione, e dopo averla fatta siamo al punto di prima. Certo è che non siamo noi a scegliere i nostri genitori; né il colore della pelle; né il luogo di nascita, che può essere nelle foreste torride dell’Africa o fra i ghiacci del Settentrione. E non scegliamo il periodo storico. Italiano medio del Ventesimo secolo, posso dirmi fortunato: se fossi

nato a Calcutta, sarebbe peggio. D'altra parte, non avendo vissuto prima della Rivoluzione francese, non ho avuto la possibilità di conoscere, secondo la frase celebre di Talleyrand, la gioia di vivere. La diversità nella sorte di ogni individuo è uno dei misteri della nostra esistenza. Ma c'è un elemento equilibratore. Un esquimese è a suo agio nelle

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Il tramonto della nostra civiltà

tenebre invernali della Groenlandia; un bantù, nel sole

dell’Africa. È straordinaria negli uomini la capacità di adeguamento; e il grado di felicità di ciascuno di noi non

dipende che in parte (forse dovrei dire: in minima parte) dalle circostanze esterne. Felici si nasce, non si diventa. Si

può essere felici in una capanna, disperati in una reggia.

Si è felici quando si colgono gli aspetti positivi di quel che abbiamo ricevuto in sorte. Abbiamo la fortuna di vivere nel momento finale, quello del compimento, della conclusione, della chiusura, in cui si tirano le somme. Lo

spirito della nostra epoca non è dell'artista: è dello storico. Siamo finalmente capaci di vedere quel che è accaduto prima di noi col distacco di chi non è più protagonista, con l’acume dell'osservatore al quale è consentito, come a nessun altro prima di noi, lo sguardo d'insieme. Comprendiamo gli avvenimenti del passato, il loro significato, le loro connessioni. Li esploriamo con la curiosità dell’archeologo. Ma soprattutto proviamo un'emozione estetica: è come se, a teatro, assistessimo a uno spettacolo. Immaginiamo di essere su un'altura, e di ammirare

il

panorama sulla pianura sotto di noi. Quello che si svolge davanti ai nostri occhi è uno spettacolo di fantasmi; di tutti coloro che hanno recitato, attraverso i secoli e i millenni, la commedia umana. Sullo sfondo di un'umanità

sconfinata e indistinta, il coro sempre uguale della tragedia greca, si stagliano le diverse civiltà, quelle di cui vediamo i resti quando facciamo i nostri viaggi. Ed ecco le imprese mirabili delle nostre civiltà, compiute da uomini

che sentiamo nostri fratelli, e che capiamo in ogni segreto dell'animo, perché appartengono al nostro mondo, al nostro modo di essere. Lo spettacolo è illuminato dai raggi dorati del sole basso sull’orizzonte, vicino al tramonto:

ecco le città superbe, le cattedrali e i grattacieli, le opere d’arte, le sanguinose battaglie. Tristezza perché lo spettacolo sta per finire? Perché il sole sta per tramontare, e dopo non vedremo più nulla? Pensiamo che orrore pro-

Non siamo pessimisti

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veremmo se a un tratto il sole si fermasse dove è, se sullo

spettacolo cui assistiamo stesse per scendere il rigor mortis. La caducità del tempo spaventa, ma la sua immobilità ci riempirebbe di terrore. La gioia di cui parlo è contemplativa. Siamo come gli spettatori a teatro: sul palcoscenico, gli attori recitano le loro tragedie, inveiscono gli uni contro gli altri, si amano e si odiano, si combattono, si feriscono, si uccidono; mima-

no gioia e disperazione, secondo il copione; e noi partecipiamo alle loro sventure, ci commuoviamo con loro, fino a versare lacrime, fino a disperarci a nostra volta. Però sap-

piamo che la recita è finzione, e pur fra le lacrime proviamo un senso di liberazione, un piacere estetico, una catar-

si: la gioia contemplativa, appunto. È questa la gioia riservata a noi, uomini del Ventesimo secolo, al declino di

una civiltà: la nostra gioia non consiste più nelle nostre imprese, è già stato fatto abbastanza prima di noi, ma nella contemplazione delle imprese compiute nel passato. Siamo spettatori a teatro: estatici e commossi, secondo la recita, ma anche tranquilli e sereni, perché agli spettatori non può succedere nulla. Il nostro stato d'animo è oraziano. Non visse Orazio in un'epoca simile alla nostra? Guardiamo felici le imprese di altre generazioni; non sentiamo il desiderio di ripeterle. Non abbiamo forse capito che non conviene affannarsi? È inutile accumulare ricchezze, ammonisce Orazio, perché

dal mucchio d’oro, per grande che sia, non possiamo prendere più di una manciata per volta. È inutile cercare il potere, perché anche il potere è illusorio e caduco: a Mecenate, che gli offre qualsiasi dono purché torni a Roma, Orazio risponde che un solo dono desidera, quello di ridiventare giovane e di ritrovare Cinara, fuggita da lui. È il dono che nessuno può dargli, neanche Mecenate. E allora rimane in campagna. La nostra civiltà, come ai tempi di Orazio, è stanca, vuole soltanto riposo.

Abbiamo capito la vanità delle cose: sempre la si capisce quando una civiltà volge al termine. Non è la saggez-

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Il tramonto della nostra civiltà

za il dono della vecchiaia? Non soltanto siamo consapevoli del fatto che non vale la pena di compiere le singole imprese di cui saremmo capaci, cercando potere o guadagni. La civiltà stessa, questa concatenazione di opere insigni su ogni versante dell'attività umana, nella politica e

nella scienza, nell'arte e nella religione, ci appare vana, nel senso che è fine a se stessa, avendo l’unica funzione di

esistere, di prodursi, e di impegnare coloro che la producono, senza perseguire uno scopo superiore. O forse lo scopo superiore c'è; ma a noi non è dato di conoscerlo; e allora è, per noi, come se non ci fosse. È opprimente questa sensazione di vanità? È motivo di disperazione? A me sembra piuttosto liberatoria. È difficile immaginare quale potrebbe essere una finalità superiore, verso la quale dovrebbe tendere tutto questo agitarsi degli esseri umani, su un granello di polvere (come dice il Cardinale Vecchissimo, nel Galileo di Brecht) che rotola

nell’immensità dell'Universo. È difficile immaginarla; anzi, per noi è impossibile. Ma meglio così. Se la scoprissimo, quella finalità diventerebbe banale. Solo il mistero è inebriante.

Il cardinale di Brecht rifiuta la visione copernicana dell'Universo; non si rassegna a credere che l’uomo, crea-

tura a immagine di Dio, possa non essere al centro della creazione. Ma la nostra visione della storia è tipicamente copernicana; Copernico affermò che la Terra non è al centro del sistema celeste, non è il corpo intorno al quale ruotano le stelle; e noi diciamo adesso che la nostra civiltà occidenta-

le non è il centro dell'umanità, non è il punto d'arrivo e la ragion d'essere della storia umana. Anche questa affermazione è liberatoria. Non solo dà il piacere della scoperta; ma ci libera da quella arroganza che ci faceva credere di essere superiori agli altri, e in grado di impartire lezioni. Gli individui presuntuosi sono insopportabili; ora non siamo più presuntuosi.

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Siamo consapevoli. Riusciamo finalmente a mettere ordine nel passato; a dare un senso alle civiltà che hanno preceduto la nostra, e a collocare la nostra nella giusta posizione. Ci sbarazziamo della confusione che regnava fra tutte quelle rovine disordinate sparse qua e là, fra tutte quelle testimonianze dell’intelligenza umana attraverso i millenni. Certamente Copernico e Galileo provarono la stessa gioia (a parte i problemi col Santo Uffizio) quando riuscirono a mettere ordine fra le stelle. Sappiamo di non essere in grado di spiegare i misteri supremi dell’Universo; ma è meraviglioso capire fin dove è possibile capire. La nostra generazione è in grado di capire la storia come nessun'altra prima di adesso. La ricostruzione dei fatti che ora facciamo ha un corollario, lo sappiamo: la caducità della civiltà cui apparteniamo. È stolto credere che sia segno di pessimismo, o che inclini alla tristezza. Non riusciamo forse a vivere sereni, a

ridere e a scherzare, pur sapendo che tutti dovremo morire? Oggi ci troviamo, nel ciclo della nostra civiltà, in una fase simile alla vecchiaia dell'individuo, e la vecchiaia

può essere, a saperla vivere, un periodo bello dell’esistenza, magari il periodo più bello, non per le ragioni banali esposte da Cicerone, ma per altre, più sottili.

La consapevolezza che si è accorciato il periodo che ci resta da vivere ne accresce infatti la preziosità; tutto ciò che è raro è prezioso, quindi squisitamente godibile, mentre l'abbondanza di un bene ci rende distratti e indifferenti. Questa considerazione è vera per la vita individuale; può essere altrettanto vera per la sorte di una grande civiltà nella storia umana. Seduti nel nostro anfiteatro, alto

sulla collina, contempliamo lo spettacolo davanti a noi, e sappiamo che presto il sole sparirà, rosso e rotondo, dietro l'orizzonte. Non rende infinitamente più affascinante lo spettacolo, questa certezza? Ho già messo in guardia contro gli orrori dell’alternativa: pensate quale sarebbe il nostro stato d'animo, se sapessimo che la scena davanti ai



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nostri occhi si blocca; che sarà lì per sempre. Finirebbe l'incanto. Le nostre conoscenze hanno un limite; lo sappiamo, e

non ci angustiamo. Lo scetticismo è l'inevitabile ultima spiaggia della conoscenza, in ogni civiltà in declino. Lo si accetta con suprema tranquillità. All’uomo moderno sembra piuttosto inconcepibile che, nel passato, uomini irrimediabilmente irrequieti, i filosofi. e i teologi dapprima, poi gli scienziati, si siano tanto arrovellati per capire ciò che nessun essere umano

capirà mai; e che abbiano

sopportato torture e rischiato la vita, che addirittura siano bruciati sul rogo, per affermare verità così transeunti che oggi hanno perso per noi qualsiasi significato, sbiadite nel ricordo. I dogmi, le eresie: non ci si pensa più. Chi si chiede oggi se nel giudizio universale risorgeranno i corpi? se saremo nell'aldilà giovani o vecchi, se risorgeremo con le nostre deformità e con le nostre debolezze? Dopo i teologi, gli scienziati sono stati gli ultimi a tentare di svelare i grandi misteri; i darwinisti sono stati gli ultimi a offrire una teoria ingegnosa per spiegare addirittura la comparsa dell’uomo sulla crosta della Terra. Ora non si crede neanche più a loro. I darwinisti sono rimpiazzati dai creazionisti, che semplicemente ammettono di non sapere, e torna-

no al punto di partenza: siamo stati creati da Dio. Anche le teorie sulla materia, sulla struttura dell'atomo sono ora

considerate chiavi di interpretazione, non verità assolute. Una civiltà decadente getta la spugna, rinuncia. Come non compie più le grandi imprese di guerra, le spedizioni eroiche, le conquiste (ha già conquistato tutto), così non aspira a svelare le ultime verità. Ha compreso che è inutile. Lo scetticismo impera. In un balletto fra i più famosi dell'Ottocento, Giselle

tenta di ripetere, in prossimità della morte, i passi di danza più belli della sua stagione felice. Gli uomini del nostro

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tempo ripetono, con altro stato d'animo e in circostanze

diverse, i gesti e le azioni dei predecessori. I grandi navigatori europei partirono cinque secoli fa sui loro velieri, salparono da Siviglia, da Porto, da Lisbona, per andare chi nelle Americhe, chi lungo le coste d'Africa, per doppiare il Capo di Buona Speranza e proseguire verso l'Oriente. Vasco da Gama, Colombo, Caboto,

Magellano erano divorati dall’ansia di scoprire il mondo, e furono i primi grandi viaggiatori intercontinentali. Oggi noi, uomini

moderni,

sentiamo

nell'animo

un'eco

di

quell'ansia, e anche noi viaggiamo su quelle stesse rotte, instancabili, anche se i mezzi di trasporto sono diversi,

anche se tutto è cambiato intorno a noi. Gli uomini occidentali hanno l'animo vagabondo; in tutte le epoche, sono

spinti dalla necessità di scorrazzare fra i continenti; sui jet veloci, comodamente seduti sulle poltrone reclinanti, di-

strattamente guardando dal finestrino l’immensità degli spazi e, attraverso gli squarci fra le nuvole, il vasto mare, ripetono i vagabondaggi degli antenati. La civiltà occidentale è dedita ai viaggi. In tutte le epoche, siamo sempre stati giramondo. Le grandi pulsioni, che hanno animato le generazioni passate, sono ancora vive in noi. Il dominio della materia,

come la conquista dello spazio, è stato attraverso i secoli il sogno della civiltà d'Occidente. Gli alchimisti medievali, nel segreto delle loro stanze, cercavano la pietra filosofale. Era impossibile trovarla: non si può trasformare un metallo vile in oro. L'uomo non è onnipotente: neanche l’uomo occidentale. Ma lo è quasi. Oggi il desiderio di dominare la materia è sempre presente: e invasati come gli alchimisti del Medio Evo scomponiamo l’atomo, provochiamo le esplosioni nucleari: non trasformiamo il metallo vile in oro, ma la materia è pur sempre domata. E che altro sono i computer, se non strumenti di magia che ottengono risultati altrettanto misteriosi, altrettanto straordinari quanto quelli invano inseguiti dagli alchimisti, forse più straordinari ancora?

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Il tramonto della nostra civiltà

La medicina moderna, a sua volta; vuole dominare la

vita; la fa nascere in provetta, quasi si illude di ripetere il miracolo della creazione; e pretende di determinare i processi biologici per regolare la vita umana, per abolire gli errori e le degenerazioni della natura, per porre rimedio alle sue distrazioni, per vincere le malattie. Riesce a cambiare il sesso degli individui, spera di sopraffare la vecchiaia. Ecco di nuovo l’antica pulsione: anche la medicina aspira all’onnipotenza. L'uomo

occidentale,

questa è la verità, vuol essere

uguale a Dio; e se nel passato ha fatto grandi scoperte scientifiche (forse dovremmo parlare, più che di scoperte, di invenzioni), adesso ne raccoglie il frutto. Le nostre generazioni, in questo scorcio di civiltà, godono dei risultati di un millennio e adempiono il sogno, nei limiti in cui un uomo mortale può aspirare a essere un dio. Premendo bottoni, girando interruttori, azionando leve di comando, ci alziamo e abbassiamo nello spazio, senza fatica; aboliamo le distanze; trasmettiamo suoni e immagini; ci libriamo nella stratosfera, atterriamo sulla Luna.

Di fronte a questi risultati, finalmente appagata la volontà di dominare la materia e di conquistare lo spazio, l’uomo occidentale può dichiarare: la missione è compiuta.

C'è il rovescio della medaglia. La natura umana, nonostante tutto, non è cambiata; e non si è liberata di quel bisogno di ansia, di affanno, di

difficoltà da cui è afflitta, dai tempi dei tempi. L'uomo ha bisogno di temere e di soffrire, come ha bisogno di dormi-

re e di mangiare; ha bisogno di avere paura. Si direbbe che ognuno di noi nasca con la necessità di una certa dose di sofferenza. Se non abbiamo preoccupazioni vere, ne inventiamo di false. Dobbiamo inventarle per placare un’irrequietudine congenita, insopprimibile. La vita moderna non soddisfa questa esigenza della natura umana: tutto è troppo facile intorno a noi, non conosciamo più né paure né fatiche. Oggidì, una sterminata

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moltitudine di esseri umani, in prevalenza sul territorio della civiltà occidentale, cioè in Europa e in America, ma

ormai anche altrove, riesce a fare con facilità ciò che prima era difficile o impossibile. La tecnologia cambia i termini dell’esistenza; cambia l’ambiente in cui ci muoviamo, e

influisce sul nostro stato d'animo. Nel giro di cento anni tutto si è trasformato, in meglio e in peggio. In meglio, perché ormai è agevole soddisfare i desideri fino a ieri proibiti. In peggio, perché non abbiamo più niente da temere, e niente da desiderare. Le conseguenze più ovvie di questa trasformazione del mondo, quelle di cui si parla spesso, sono anche le meno gravi. Sappiamo tutti che le troppe automobili ingorgano il traffico sulle strade, e i troppi aeroplani ingorgano gli aeroporti. I luoghi sui quali regnava fino a ieri una solitudine sacra, ed erano raggiunti soltanto da pochi individui privilegiati, sono ora invasi dalla folla. Gli autobus, le teleferiche, i vaporetti rovesciano sulla vetta delle montagne, sulle isole verdeggianti e nelle baie un tempo silenziose masse di turisti domenicali. La Girolata in Corsica,

la Laguna Blu a Malta, le isole di Cleopatra in Turchia, le Maldive e le Seychelles, Tahiti e Bali sono costantemente profanate dalla folla. ° Ma la conseguenza più grave non è l’affollamento: la conseguenza più grave riguarda il nostro stato d'animo, ed è psicologica. La facilità della vita uccide il senso dell'avventura. Si pensi alla differenza abissale fra un viaggio intrapreso nel secolo scorso, e un viaggio odierno. La diligenza, il veliero implicavano pericoli, incertezze; e

davano la misura delle distanze. Anche uno spostamento in treno, nell'epoca successiva a quella della diligenza, significava il lento spostamento sulla superficie terrestre: il viaggiatore vedeva sfilare davanti agli occhi le file di alberi, i campi, i villaggi. Una nave, anche se si trattava di un transatlantico, metteva il viaggiatore a contatto con l'oceano; il passeggero della nave vedeva albe e tramonti, i cieli attraversati da nuvole, le onde lunghe e maestose.

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Il tramonto della nostra civiltà

Tutto questo è finito nell'epoca degli aerei; tutto è asettico,

meccanico, anonimo nello spostamento fulmineo da un continente all’altro. Il viaggio non è più un viaggio: è un'operazione che si compie sprofondati in poltrona, un'operazione a tavolino, direi quasi sulla carta. Né si può sottovalutare la differenza profonda fra l’ef‘ fetto che facevano le piramidi o il tempio di Taj Mahal o la Grande Muraglia, su chi vi arrivava a dorso di mulo o di cammello o di elefante, e l’effetto che fanno adesso, su chi

arriva in aereo e in torpedone. Oggi tutto è a portata di mano. Fino a qualche decennio fa, un quartetto di Beethoven o una sonata di Schubert erano un avvenimento: ci si predisponeva al concerto, lo si attendeva per molti giorni, lo si pregustava. Solo pochi privilegiati potevano procurarseli nei loro palazzi, assoldando gli esecutori. Adesso càpita di ascoltarli in ogni momento alla radio, distrattamente, mentre ci infiliamo le scarpe o mentre facciamo una telefonata. Che cosa è più giusto dire: che la tecnologia moderna ci procura un piacere continuo; o che ci priva dei grandi piaceri? I danni provocati dalla nuova situazione sono di due specie. È inevitabile l'involgarimento dell’esistenza. Delle migliaia di persone che l’organizzazione moderna scarica davanti a Taj Mahal o sulla costa della Laguna Blu, solo una minoranza è in grado di apprezzare quel che vede. I più bevono Coca-Cola, masticano chewing-gum, magari ascoltano musica rock. Non è questione di educazione artistica o di livello culturale: è questione di numeri. È impossibile un certo raccoglimento, tanto meno si può provare estasi, in mezzo a mille persone vocianti. Così come è

impossibile capire che il Giappone è lontano se ci si arriva in jet dalla sera alla mattina. Ma dall’involgarimento si passa alla nevrosi. Tutte quelle sensazioni, quei sentimenti, quegli impulsi che il mondo moderno esclude, perché tutto è facile, si comprimono nel nostro animo, poi esplodono in modo disordinato. Se non

ci sono guerre vere, si inventano false occasioni per scarica-

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re violenza. Ragazzi in apparenza normali, cresciuti in famiglie normali, sfasciano i treni per il gusto di sfasciarli, o torturano e seviziano il primo essere umano che càpita, perché la natura si vendica, e ha bisogno di uno sfogo. Chi non trova lo sfogo sta sveglio di notte, si tortura senza sa-

pere perché, e va dallo psicanalista. L'eccesso di benessere diventa un tormento.

La vita contemporanea è priva della dimensione poetica. I fatti della vita sono spiegati, o per lo meno si tenta di spiegarli, su base scientifica. Non abbiamo fatto ricorso noi stessi al concetto di nevrosi, poche righe più su, per rendere conto dei fenomeni di violenza nella gioventù moderna? Non esistono più buoni e cattivi, virtuosi e vi-

ziosi: esistono sani e malati. Per scoprire l'origine di ogni trasgressione non si va dal pedagogo o dal prete: si va dal medico.

All'origine di geniali opere d'arte, di imprese eroiche

non si vedono più i grandi ideali, ma gli scompensi psicologici. I grandi uomini, secondo le spiegazioni oggi correnti, erano individui afflitti da complessi; le loro gesta altro non erano che il tentativo di superare tali complessi, di annegarli. E gli innamorati? Ogni civiltà ha la sua concezione dell'amore fra uomo e donna, e Rougemont ci ha dato una splendida descrizione della visione occidentale, partendo dalla passione di Tristano e Isotta: amore e infedeltà, amore e tradimento. Dante e Beatrice, Romeo e Giulietta, Valois e Merteuil, Wronski e Anna Karenina vissero

momenti esaltanti della passione amorosa nella storia della civiltà occidentale, dalla casta trepidazione del Dolce

Stil novo al folle trasporto dell’epoca romantica. Ora tutto è finito. L'amore ha seguito la sorte di ogni altra pulsione dell’uomo contemporaneo, e diventa questione di ormoni e di endorfine. Chi ha problemi amorosi va dal sessuologo. L'obiettivo è una sana vita sessuale, possibilmente fra sessi diversi ma senza preclusione per i rap-

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Il tramonto della nostra civiltà

porti all’interno di un medesimo sesso, e la passione è considerata un caso clinico. Tutto sconfina nella biochimica. Lo scienziato sostituisce il poeta. La civiltà si ripiega su se stessa. Discreta, tranquilla, stanca per avere tanto prodotto nei secoli precedenti, oraziana nello spirito, trova la sua gioia nella contemplazione del passato, nel compiacimento di quel che ha creato nei

secoli precedenti. Ma non si può vivere di sola contemplazione. È necessario fare qualche cosa; è necessario agire per riempire la propria esistenza. Poiché non agisce più per compiere grandi imprese, l’uomo contemporaneo trova un’altra via d'uscita: giocando. Abbiamo parlato nelle pagine precedenti di una «seconda religiosità», per descrivere il sentimento religioso in periodo di decadenza. Possiamo parlare adesso di una «seconda giocosità», per descrivere il nuovo modo di giocare. Si giocava infatti anche nel periodo radioso della civiltà ancor giovane: quando le attività umane, la guerra, l’amore, la politica, la vita di corte, erano trasformate in

grandi giuochi, ispirati da senso estetico. Allora, il giuoco era una trasfigurazione della vita reale, un modo di nobilitarla. Proprio in questo consisteva la civiltà: voleva abbellire la vita di tutti i giorni. Si combattevano le guerre, si corteggiavano le dame secondo regole e cerimoniali complessi; ma sotto le regole e sotto il cerimoniale c’era l’azione reale, si combatteva davvero e si faceva davvero l’amo-

re. Il giuoco era un ornamento della vita. Nella fase finale di una civiltà, quella che noi viviamo,

il giuoco che si inventa è una cosa diversa. Non si fanno più tornei per mimare la guerra; non si fanno più madrigali per parlare d'amore. Si ricorre a giuochi insignificanti, da bambini, frivoli e inutili, completamente separati

dalla vita reale, che hanno la sola funzione di occupare il tempo. Si giuoca a golf e a tennis. Si fa jogging, che è una corsa avente l’unico scopo di stancare chi corre, per bru-

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ciare un po' di calorie. Potreste immaginare intento al jogging un cavaliere medievale? L'enorme successo di questi passatempi innocui dimostra che rispondono a una profonda esigenza. Ovunque nel mondo industriale si moltiplicano i campi da giuoco; e c'è chi va per mare e chi va sui monti, per cimentarsi in altri modi di giocare. Qualche volta il passatempo diventa più impegnativo, più pericoloso; può anche costare la vita, come sa chi si avventura per suo divertimento sui ghiacciai o attraverso gli oceani. Così si cerca di creare di nuovo quel senso di avventura (e di pericolo) che la tecnologia moderna ha distrutto: si può andare ai Caraibi in poche ore d'aereo, ma chi ci va su una minuscola barca a vela, sospinto dallo stesso aliseo che sospingeva Colombo, impiega tre settimane invece di otto ore, e potrebbe anche non arrivare. Ma si tratta pur sempre, pericolosi o no, di piccoli giuochi inventati al modesto fine di ammazzare il tempo, e di impegnare le risorse fisiche e intellettuali di chi li pratica. Coloro che, armati di apposite mazze, cercano di colpire una pallina bianca, per farla rotolare nelle apposite buche, poco si distinguono dai bambini che, fatti i compiti per la scuola, corrono su un campetto e danno caléi a un pallone. Poi, tutti insieme, grandi e piccoli assistono negli stadi alle partite di professionisti che giuocano per denaro, all'unico scopo di divertirli: i circenses... La seconda giocosità ci fa tornare bambini. È giusto che sia così: la vecchiaia, nella vita degli individui come nel ciclo della civiltà, si riallaccia all'infanzia.

«Il tramonto della nostra civiltà» di Piero Ottone

Collezione Saggi Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Questo volume è stato impresso nel mese di settembre dell'anno 1994 presso lo Stabilimento Nuova Stampa Mondadori - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in Italy

SPEVECEN no,

MBUE

BYURIAKARD

ORAZIO

Piero

Ottone

IL TRAMONTO DELLA NOSTRA CIVILTA ia Edizione

- Sassi

MONDADORI CUR)

6957

Piero Ottone (Genova 1924) è uno dei più noti giornalisti italiani. Direttore del «Corriere della Sera»

dal ‘72 al ‘77, è oggi un

commentatore della «Repubblica». I suoi libri sull'attualità hanno ottenuto un notevole successo di pubblico. Ricordiamo, fra gli altri: La nuova Russia, Il gioco dei potenti, Le re-

gole del gioco, Il buon giornale, La guerra delle rose. Ha anche scritto Giornale di bordo, Aliseo

portoghese e Naufragio, sulle sue avventure di appassionato velista.

Art Director: Federico Luci Graphic Designer: Riccardo Danesi

SIAMO IN UN’EPOCA DI DECADENZA? LA FINE DELLA NOSTRA CIVILTA E PROSSIMA? OPPURE I NOSTRI FIGLI VIVRANNO MEGLIO DI NOI, E I NIPOTI MEGLIO DEI FIGLI?

ISBN 88-04-37918-9

9

"788804"379188