Il tormento della modernità. Religione, etica, filosofia dalla storia. Studi su Ernst Troeltsch 9788898694464, 9788885716063

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Il tormento della modernità. Religione, etica, filosofia dalla storia. Studi su Ernst Troeltsch
 9788898694464, 9788885716063

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Giuseppe Cantillo Il tormento della modernità Religione, etica, filosofia della storia Studi su Ernst Troeltsch a cura di Anna Donise

Au dedans, au dehors

Collana diretta da: Giuseppe Cantillo, Danielle Cohen-Levinas, Jean-François Courtine, Elio Matassi †

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Giuseppe Cantillo

Il tormento della modernità

Religione, etica, filosofia della storia Studi su Ernst Troeltsch

a cura di Anna Donise

Volume pubblicato con un contributo del MIUR - PRIN 2010-2011 (Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Napoli Federico II)

© 2017, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 – 00136 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Au dedans, au dehors ISSN: 2282-5282 n. 11 – marzo 2017 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694464 ISBN – E-book: 9788885716063 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Old compass and old telescope on vintage map world ex © Dreamstudios – Fotolia.com

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Prefazione di Anna Donise

Il nome di Troeltsch l’ho sentito pronunciare per la prima volta ormai più di venticinque anni fa da Giuseppe Cantillo, durante una delle sue affollate lezioni: un nome difficile che a noi matricole restituiva tutto il senso della nostra inadeguatezza, ma allo stesso tempo ci sfidava e ci incuriosiva. Il tema della lezione, era il rapporto tra apriori e storia, e Troeltsch era il pensatore che metteva a confronto la pretesa di una normatività assoluta con ciò che è storicamente rela­tivo. Io all’epoca non potevo saperlo, ma durante quelle lezioni noi studenti eravamo condotti all’interno di un vero e proprio laboratorio teorico che in quegli anni Cantillo dedicava al tema. Il nostro era un osservatorio privilegiato che ci consentiva, nel progredire delle lezioni, di comprendere gli autori (insieme a Troeltsch, nel tempo, anche Kant, Husserl, Bloch, Jaspers e soprattutto Hegel), imparando a leggere i classici, ma anche a inquadrare i problemi. Parte di quei problemi riecheggiano nelle pagine di questo libro, anche se ad una prima lettura il filo conduttore del lavoro è senz’altro il Cristianesimo e la riflessione sul religioso come tale. Del resto, il percorso teoretico di Troeltsch ha origine da una indagine sulla religione e sin dallo scritto sull’Autonomia

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della religione (1895-6) viene delineata una Religionswissenschaft che deve articolarsi in un’analisi dell’esperienza religiosa (o psicologia della religione) e in una storia della religione. Ma già con il saggio del 1902, L’assolutezza del Cristianesimo, emerge l’esigenza di rispondere al problema se sia possibile affermare che il Cristianesimo sia la forma relativamente più compiuta di religione. Nel riflettere sul diritto che ha il Cristianesimo di pretendere una “va­lidità assoluta ed esclusiva” Troeltsch «ha dovuto necessa­riamente pervenire al confronto tra lo storicamente rela­tivo e l’oggettivamente (sachlich) assoluto» (infra, p. 19). Da questo necessario confronto Cantillo fa derivare le due linee fondamentali del pensiero troeltschiano: «la relazione tra Cristianesimo e storia, più in generale tra Cristianesimo e modernità, e la questione dello storicismo, vale a dire l’esigenza di porre un argine all’esito relativistico e nichilistico del pensiero storico, o, come anche si può dire, la questione della relazione tra apriori e storia» (infra, p. 18). È di qui che emerge la ricerca di un apriori religioso che costituirà uno dei tratti salienti del pensiero troeltschiano, ma che diventa ancora più esplicito nella fase in cui si avvicina al neocriticismo, e in particolare alle riflessioni di Heinrich Rickert1. La scienza della religione – che aspira a essere universalmente valida e necessaria – riesce a costituirsi solo se il molteplice materiale dei dati psicologici, così come quello storico, relativo alle concrete religioni, perviene, come scrive Cantillo, a «riconoscere un principio formale di organizzazione dell’esperienza universalmente valido, un’evidenza ultima della ragio-

1. Il riferimento di Troeltsch è in particolare alle Grenzen di Rickert. Cfr. H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung. Eine logische Einleitung in die historischen Wissenschaften, Mohr, Tübingen und Leipzig 1902 (tr. it. I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale. Una introduzione logica alle scienze storiche, a cura di M. Catarzi, Liguori editore, Napoli 2002).

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ne, un apriori che definisca struttu­ralmente e trascendentalmente l’ambito dei fenomeni religiosi» (infra, p. 163). È proprio in questa tensione tra la ricerca di norme universalmente valide e il rispetto del dato storico ed empirico che si può individuare il vero centro nevralgico del lavoro di Cantillo che – come tutti i veri interpreti – usa i suoi autori per rispondere ai suoi problemi teorici. E se da un lato il Cristianesimo diventa il simbolo della ricerca dell’universale, dall’altro è lo storicismo a rappresentare le istanze del divenire nel quale siamo calati. Nell’opera Lo storicismo e suoi problemi, in cui rielabora i saggi sulla filosofia della storia pubblicati tra il 1916 e il 1922, Troeltsch – scrive Cantillo – ha visto «i vantaggi dello storicismo», ma contemporaneamente ha denunciato apertamente i suoi “svantaggi”, i suoi limiti e pericoli (infra, p. 279): pensare la storicità come nozione fondante ed assoluta dell’uomo significa fare i conti in primis con il problema classico del rapporto tra storia, vita e valori, che ha nel Nietzsche della seconda Inattuale il suo migliore e più frequentato interprete. Il pensiero storico nato dal senso della mobilità e “creatività della vita” è destinato, come ogni forma culturale, a ritirarsi dalla vita limitandosi a una contemplazione delle infinite individualità storiche. Inoltre, portando alle estreme conseguenze le sue premesse, si vede costretto a riconoscere la relatività di ogni norma, valore e ideale. Se tutto è storia, e solo la storia insegna, ci si consegna ad un relativismo che rischia di essere senza sbocchi. La storia, più di ogni altro sapere, parla degli uomini nella loro individualità e irripetibilità; e il problema, almeno nella prospettiva di uno storicismo etico2, consiste allora nel riflettere 2. Cfr. F. Tessitore, Troeltsch e lo storicismo etico, in F. Tessitore, Dimensioni dello storicismo, Guida, Napoli 1971, pp. 115-137.

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sulla possibilità di riconoscere e formalizzare norme, regole e “leggi” anche di queste individualità. Non a caso il pensiero di Troeltsch è caratterizzato da una forte tensione etica, oltre che teorica, giacché è soprattutto sul piano etico che uno storicismo relativista rischia di risultare insoddisfacente. Come uscire dall’impasse che viene a costituirsi tra la mutevole relatività del flusso vitale e l’assolutezza della norma etica? La soluzione di Troeltsch consiste – come emerge chiaramente dall’analisi di Cantillo – nel proporre un’etica che, pur avendo a suo fondamento il Cristianesimo, aspira ad essere universale. L’etica deve essere tratta fuori dal flusso della vita naturale e storica, ma non può pretendere di essere assoluta, e deve cercare di collegare l’aspirazione ideale razionale alle concrete situazioni empiriche, alla storicità dell’esistere umano. La storia è, per Troeltsch, il luogo del “compromesso” dove nasce e si istituisce l’etica, il luogo in cui si realizza quell’idea di “sintesi culturale” che rappresenta il punto culminante della sua concezione etica. In questo quadro, la relazione tra storia e princìpi, norme o valori è duplice: da un lato la storia deve individuare dei valori che permettano, nella molteplicità, di selezionare gli eventi; dall’altro – e questo è il punto più problematico per una filosofia storicista – deve chiedersi se sia possibile costruire, a partire non da un appello ad una qualche trascendenza, ma dalla storia stessa, un sistema di norme e valori che guidino l’azione umana. In questo senso la riflessione sulla storia è sempre intrecciata a quella sulla religione; e anche qui la storia è il luogo del compromesso tra fini religiosi e fini intramondani. Ma importa sottolineare un punto: il compromesso non è mai, per Troeltsch, accettazione dell’esistente, ma sempre attiva trasformazione, affinché servire Dio sia anche trasformare il mondo. Il concetto di “compromesso” è quindi alla base dell’idea troeltschiana di un’etica della situazione, un’etica che sia capace

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di tenere insieme sia il principio dell’individualità, che fonda la propria vita spirituale sulla libertà, sull’autonomia, sulla decisione personale che caratterizza l’etica moderna, sia i valori intersoggettivamente validi, che siano oggetto di un dovere condiviso. È proprio qui che, come Cantillo mette in rilievo, Troeltsch avverte «il tormento del mondo moderno», che «conosce solo soluzioni individuali, che giocano l’una accanto all’altra», ma manca di una vera sintesi sovraindividuale che possa essere una guida. Il mondo moderno emancipatosi da autorità confessionali o politiche con l’affermazione dei principi del liberalismo, per il ripresentarsi dell’aspirazione umana all’assoluto, rischia di riproporre «la prevalenza di atteggiamenti confessionali, autoritari, fondamentalisti» (infra p. 285). Per fronteggiare questo rischio, l’obiettivo della riflessione su etica e filosofia della storia che costituisce il tema degli ultimi scritti troeltschiani – è quello di cercare o ritrovare le vie per pervenire alla formazione di uno spirito comune. Mostrandoci ancora una volta la questione teorica che guida la sua lettura, Cantillo ci invita a cercare una “traccia” di ciò che potrebbe essere il contenuto di questo spirito comune; e la individua nella riflessione troeltschiana sull’Europa e sul futuro della Germania. L’Europa stessa deve essere il frutto di una “sintesi culturale” tra la cultura e la politica dell’Europa centrale in particolare tedesche con la cultura e la politica dell’Europa occidentale. E proprio attraverso l’indagine sull’etica sociale cristiana e sulla sua storia Troeltsch perviene a riflettere su una teoria giusnaturalistica cristiana e moderna dei diritti umani, incentrati sull’idea di personalità e sull’affermazione della democrazia come “principio etico”. Questa teoria aveva portato Troeltsch soprattutto negli anni della fine della Grande Guerra, a sottolineare la necessità in Germania di una «trasformazione dell’ordine sociale», che implicava la considerazione delle giuste rivendicazioni dei «ceti più deboli e poveri». Il che significò concretamente la sua adesione «sin-

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cera e senza riserve» alla Repubblica di Weimar e la proposta politica di un compromesso tra borghesia e classe operaia. Ed è proprio qui che il diritto naturale non può fare a meno – nell’interpretazione di Cantillo – di congiungersi al pensiero utopico e divenire uno strumento per un importante ripensamento complessivo del «pensiero etico, politico e storico tedesco». Nell’idea dei diritti umani che non vengono concessi dallo Stato, ma al contrario sono “naturali” e perciò servono allo Stato come “presupposti ideali”, scrive Troeltsch nel saggio su Diritto naturale e umanità del 1922, c’è un «nucleo di verità e di esigenze dell’ethos europeo che non deve essere trascurato». Ed è allora nell’incontro tra storicismo, giusnaturalismo e pensiero utopico3 che Cantillo ci indica la traccia contenutistica di quello spirito comune che deve servire a «trasformare il presente e a costruire il futuro» (infra, p. 294). Napoli, 15 ottobre 2016

3. Sul tema, sviluppato anche in relazione a Ernst Bloch, si veda G. Cantillo, Libertà e giustizia. Storicismo, giusnaturalismo, pensiero utopico, in Filosofia interculturale, a cura di S. Achella e R. Diana, Mimesis, Milano 2011, pp. 263-275.

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Introduzione

Quando si ripercorre la vasta e variegata produzione di Ernst Troeltsch – in cui si rispecchia la nervosa sensibilità moderna della sua personalità, su cui richiamò l’attenzione Friedrich Meinecke – seguendola nelle diverse regioni delle scienze dello spirito (dalla teologia alla Geistes-und Kulturgeschichte, dalla filosofia della religione alla filosofia della storia, dalle indagini sociologiche a quelle etico-politiche fino alle riflessioni sull’arte), si può certo provare alla fine un’impressione di dispersione in una massa di frammenti, che sembrano sfuggire alla ricomposizione del pensiero1. .E ciò non solo per la plu*1.Abbreviazioni: Soziallehren, GS I = E. Troeltsch, Gesammelte Schriften, Bd. I: Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, Neudr. 2. Aufl. (Mohr. Tübingen 1922), Scientia Verlag, Aalen 1965 [1. Aufl. 1912] – tr. it. di G. Sanna: Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, La Nuova Italia, Firenze, vol. I, 1941, vol. II, 1964; GS II = E. Troeltsch, Gesammelte Schriften, Bd. II: Zur religiösen Lage, Religionsphilosophie und Ethik, Neudr. 2. Aufl. (Mohr, Tübingen 1922), Scientia Verlag, Aalen 1962 [1. Aufl. 1913]; Historismus, GS III = E. Troeltsch, Gesammelte Schriften, Bd. III: Der Historismus und seine Probleme, Neudr. Ausgabe Mohr, Tübingen 1922, Scientia Verlag, Aalen 1961 – tr. it.: Lo storicismo e i suoi problemi, a cura di G. Cantillo e F. Tessitore, Guida Editori, Napoli, vol. I, 1985, vol. II, 1989, vol. III, 1993); GS IV = E. Troeltsch, Gesammelte Schriften, Bd. IV: Aufsätze zur

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ralità e lo specialismo dei diversi ambiti disciplinari in cui la ricerca si è esercitata, tematizzandone ad un tempo oggetti e metodi, e profili storici, ma anche per la inquietudine che la ricerca rivela in ogni territorio in forza della sua peculiare connessione di intenzione storica e teorica, che tanto la provoca a rimettere sempre in questione i propri risultati, ad affrontare il problema da punti di vista nuovi o differenti, quanto la spinge sovente fino al limite di un dispersivo eccesso di sapere storico1. Eppure, a ben guardare, in questa pluralità di interessi, emergono con evidenza sostanzialmente due linee di ricerca dominanti: la relazione tra Cristianesimo e storia, più in generale tra Cristianesimo e modernità, e la questione dello storicismo, vale a dire l’esigenza di porre un argine all’esito relativistico e nichilistico del pensiero storico, o, come anche si può dire la questione della relazione tra apriori e storia. In Meine Bücher del 1922, che è l’autopresentazione dell’itinerario del proprio pensiero attraverso l’analisi dei propri scritti, dopo aver indicato il contenuto e il senso dei saggi raccolti nel primo volume di Der Historismus und seine Probleme (pubblicato nello stesso anno), Troeltsch – riferendosi a Die Geistesgeschichte und Religionssoziologie, hrsg. v. H. Baron, Neudr. Ausgabe Mohr, Tübingen 1925, Scientia Verlag, Aalen 1966; KGA, 8 = E. Troeltsch, Kritische Ausgabe, Bd. 8: Schriften zur Bedeutung des Protestantismus für die moderne Welt, hrsg. v. T. Rendtorff u. S. Pautler, De Gruyter, Berlin-New York, 2001; KGA, 17 = E. Troeltsch, Kritische Gesamtsausgabe, Band 17: Fünf Vorträge zu Religion und Geschichtsphilosophie für England und Schottland, hrgs. v. G. Hübinger u. A. Terwey, de Gruyter, Berlin-New York 2006. 1. Su questi aspetti della personalità e della produzione di Troeltsch ho richiamato l’attenzione nel saggio Leben und Formen. Bemerkungen über Ernst Troeltsch und die Kultur seiner Zeit, «Troeltsch-Studien»,Bd. 4: Umstrittene Moderne. Die Zukunft der Neuzeit im Urteil der Epoche Ernst Troeltschs, hrsg. v. H. Renz u. Fr. W. Graf, Gütersloher Verlagshaus G. Mohn, Gütersloh 1987, pp. 67-72.

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Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte, lo scritto del 1902 che a ragione egli considera come «il nucleo di tutto il seguito» – afferma che questo studio è nato dalla esigenza di rispondere al problema del diritto che ha il Cristianesimo di pretendere una «validità assoluta ed esclusiva e perciò ha dovuto necessariamente pervenire al confronto tra e l’oggettivamente (sachlich) assoluto» e con ciò «alla domanda fondamentale (Grundfrage) di tutta la filosofia della storia»2: una domanda che viene in primo piano sia quando, come in Moderne Geschichtsphilosophie, del 1903 o in Der Historismus, che raccoglie e rielabora saggi compresi tra il 1916 e il 1922, Troeltsch si chiede come sia possibile ricavare norme e valori dalla storia, sia quando, come ancora in Der Historismus o nella prima conferenza su «Ethik und Geschichtsphilosophie» si chiede come sia possibile mediare la «vita» con le «forme», dare senso al fluire della vita storica, cogliere nel divenire il permanente, nel transeunte l’eterno. Questa «domanda fondamentale» può essere considerata come il filo conduttore, l’elemento di continuità della ricerca di Troeltsch, il quale, infatti, in Meine Bücher, riferendosi ai saggi di filosofia della storia raccolti in Der Historismus, afferma: «Essi erano inseriti intrinsecamente nella direzione dei miei interessi originari. La mia filosofia della religione aveva innanzi tutto bisogno di chiarire il problema dell’essenza e dei principi dello sviluppo storico della religione. Il tentativo di sviluppare in modo concreto e in uno spazio determinato questa idea mi fece immergere nel problema sociologico. E una volta sospinto, al di là della sfera religiosa, nell’intero ambito della cultura, mi vidi condotto, proprio come a suo tempo Schleiermacher, ad uno stretto legame di filosofia della storia ed etica. Da tutti questi punti emerse come problema

2. E. Troeltsch, Meine Bücher, GS IV, p. 9.

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essenziale della mia situazione presente l’aspetto teorico e filosofico della storia, il suo rapporto con la indagine empirica da un lato, con una teoria dei valori culturali o etica dall’altro. È il problema che avevo sollevato e a cui avevo cominciato a rispondere in numerosi saggi ora raccolti nel secondo volume delle mie opere»3. «Der Historismus und seine Probleme» è allora non solo il titolo dell’opera più significativa, per quanto incompiuta, di Ernst Troeltsch, ma ben di più è il titolo sotto cui si raccoglie la «domanda fondamentale» del suo pensiero che si ritrova già alle origini della sua ricerca e, con maggiore o minore evidenza, l’accompagna e l’orienta nel suo intero sviluppo. E proprio in quanto riflessione sul Historismus, essa è anche un tentativo di una «visione d’insieme» del «mondo moderno», di comprensione della sua «essenza» e del suo «sviluppo», di interrogazione sulla sua crisi e sul suo destino, che sono poi la crisi e il destino dell’umanità e della cultura europea. Ciò che è in gioco nel problema del Historismus, infatti, non è semplicemente il rapporto Cristianesimo/storia e più in generale la sopravvivenza del Cristianesimo nel mondo moderno, ma più radicalmente, è in gioco il rapporto tra il «mondo moderno» e la tradizione cristiano-platonica nel cui orizzonte esso è sorto: «la gravità della situazione – scrive Troeltsch in Das Neunzehnte Jahrhundert – non riguarda soltanto il destino futuro del Cristianesimo, ma il destino futuro dei fondamenti religiosi, metafisici ed etici della nostra cultura»4. La riflessione sul Historismus si scopre intimamente connessa con quella sul «nichilismo europeo», sul «maggiore degli avvenimenti più recenti – che “Dio è morto”, che la fede nel Dio cristiano 3. Meine Bücher, GS IV, p. 13. 4. E. Troeltsch, Das Neunzehnte Jahrhundert, in GS IV, p. 649 (tr. it. di G. Cantillo in E. Troeltsch, L’essenza del mondo moderno, a cura di G. Cantillo, Bibliopolis, Napoli 1977, pp. 343-344).

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è divenuta inaccettabile»: un avvenimento che «comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa», come annunciava Nietzsche sulla soglia del «fine secolo»5. A questo avvenimento e alle sue ombre, nel frattempo divenute più spesse, si è ben presto rivolto il pensiero di Troeltsch, che ha riconosciuto il carattere radicale e decisivo dei problemi posti da Nietzsche. Egli non ha aggirato le ombre, anzi vi si è addentrato, e, riconoscendo il nichilismo come un fenomeno essenziale nello sviluppo del mondo moderno, ha cercato di comprenderlo e di prendere posizione di fronte ad esso. Così come, all’indomani della catastrofe della “grande guerra” ha sentito il bisogno di avviare una riflessione critica sul senso dell’Europa nella speranza di riconciliare la cultura e la politica dell’Europa centrale e specificamente tedesche con la cultura e la politica dell’Europa occidentale, di conciliare le ragioni dello storicismo («lo spirito tedesco») e quelle del giusnaturalismo («l’Europa occidentale»), come mostra l’importante conferenza Naturrecht und Humanität in der Weltpolitik tenuta alla “deutschen Hochschule für Politik” nel 1922. Nell’articolata posizione della «domanda fondamentale» – qui appena delineata – si lascia scorgere poi, nel suo strato più profondo, come ha riconosciuto Friedrich Meinecke, «la fede in un comune divino fondamento originario (Urgrund), dal quale emergono (emporsteigen) tutte le individualità»6. Al di là del suo contenuto, questa «ultima professione metafisica»7 testimonia dell’interesse speculativo di Troeltsch, 5. F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it. di F. Masini, in Opere, ed. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. V, t. II, Adelphi, Milano 1965, p. 204. 6. F. Meinecke, Ernst Troeltsch und das Problem des Historismus, in Zur Theorie und Philosophie der Geschichte, hrsg. v. E. Kessel, Koehler Verlag, Stuttgart 1959, p. 376 (cors. ns.). 7. Ibidem.

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del suo essere consapevole che il problema della storia, anche quando si definisca nei termini di una «teoria della conoscenza storica», rinvia necessariamente al problema «metafisico» della «storia», che ha al suo «centro» la questione della possibilità della «conoscenza dell’altro»8, che tanto come altro “soggetto” quanto come “individualità” del mondo storico è irriducibile a semplice oggetto della coscienza. La soluzione di questo problema non si può raggiungere con l’immediata assunzione del presupposto della comune natura umana o ricorrendo all’esperienza della congenialità9, ma esige piuttosto di imboccare la via leibniziana (che a suo modo sarà imboccata anche da Husserl nelle Meditazioni cartesiane) dell’originario rapporto della monade, della coscienza finita, con l’Allbewusstsein, con la coscienza infinita10, che fonda la possibilità della relazione tra le monadi, tra le coscienze finite, e della loro relazione con il mondo storico, il mondo delle loro azioni e oggettivazioni intersoggettive: «L’altra vita spirituale può essere riconosciuta solo perché noi la portiamo intuitivamente in noi stessi in forza della nostra identità con la coscienza universale e possiamo percepirla e comprenderla come nostra vita proprio nell’atto in cui la percepiamo come vita spirituale altra dalla nostra, appartenente ad una monade individuale»11.

8. Historismus, GS III, p. 679 (tr. it. vol. II, p. 442). 9. Ivi, p. 680 (tr. it. vol. II, p. 443). 10. Ivi, p. 675 (tr. it. vol. II, p. 438). 11. Ivi, p. 684 (tr. it. vol. II, pp. 446-447). Oltre che alla monadologia di Leibniz, Troeltsch si richiama in questo stesso punto alla teoria della partecipazione di Malebranche (p. 676; tr. it. vol. II, p. 439; cfr. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo [1956], Edizione di Comunità, Milano 1994, p.461). A Leibniz Troeltsch ha dedicato nel 1902 un significativo saggio, Leibniz und Anfänge des Pietismus (in Der Protestantismus am Ende des XIX Jahrhunderts in Wort und Bild, hrsg. v. C.Werckshagen, Wartburg, Berlin 1902, pp. 353-376, poi in GS IV, pp. 488-531), tradotto in italiano da Rossella Bonito Oliva, Leibniz e gli inizi del Pietismo, in Dilthey-Troeltsch,

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Con questa professione di fede metafisica, che sottrae la storia all’impressione di irrealtà ch’essa aveva nella concezione neo-kantiana, la fine dell’Entwicklungsgeschichte del pensiero troeltschiano si ricongiunge con il principio. Ripensando in Meine Bücher le ragioni che, all’atto di intraprendere gli studi universitari, lo spinsero verso la teologia, Troeltsch scrive: «Nella teologia si trovava allora, bene o male, il solo accesso alla metafisica, e, al tempo stesso, si mostravano problemi storici di estremo interesse. E metafisica e storia erano i due problemi che mi attiravano contemporaneamente e congiuntamente»12.

Leibniz e la sua epoca, a cura di R. Bonito Oliva, Guida Editori, Napoli 1989. – Si tratta di una idea di metafisica “critica”, che nasce dalla stessa problematica gnoseologica, nient’affatto «un’idea antidiluviana di metafisica» come la definisce Martin Heidegger in una lettera a Rickert del 15 marzo 1921, probabilmente per compiacere l’antico maestro, che aveva in corso una polemica peraltro molto corretta con Troeltsch. Nella lettera Heidegger attribuisce a Troeltsch una etichetta di “hegelianismo” che, com’è noto, non appartiene affatto al suo pensiero: «Ritengo – scrive Heidegger – che sia estremamente necessario un confronto con Troeltsch. Penso addirittura che Lei rispetto alla sua idea antidiluviana di metafisica lo abbia trattato con fin troppa accortezza […] E il suo hegelianismo, e come questo un po’ tutto, mi sembra essere motivato in modo troppo poco originario» [M. Heidegger-H. Rickert, Carteggio (1912-1933), tr. it. a cura di A. Donise e A. P. Ruoppo, in corso di stampa presso le edizioni Orthotes, Napoli-Salerno. Ringrazio le curatrici per aver richiamato la mia attenzione su questa lettera (in cui Heidegger fa riferimento anche al suo corso Introduzione alla vita religiosa in cui si è confrontato con Troeltsch) e per avermi consentito di utilizzare la loro traduzione]. Sul confronto Troeltsch – Rickert si vedano le pagine ad esso dedicate da Pietro Rossi ne Lo storicismo tedesco contemporaneo (cit., pp. 454-460) e mi sia consentito rinviare al cap. II della III parte del mio volume L’eccedenza del passato. Per uno storicismo esistenziale (Morano, Napoli 1993), Metafisica critica e teoria della conoscenza. Il confronto di Troeltsch con Rickert (in particolare le pp. 290-298). 12. Meine Bücher, GS IV, p. 4.

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Religione, etica e filosofia della storia delineano nelle loro molteplici specificazioni e connessioni l’orizzonte in cui si è dispiegato il pensiero di Troeltsch e in cui si muovono gli scritti raccolti in questo volume. Ma Religione, etica e filosofia della storia è anche il titolo suggerito da Fulvio Tessitore per la raccolta di scritti troeltschiani da lui ideata, di cui mi affidò la cura, sollecitandomi allo studio del teologo, sociologo della religione e filosofo della storia di Augsburg, studio che non ho più abbandonato. A Fulvio Tessitore il volume è dedicato con affetto e sincera gratitudine; anche come un piccolo dono in occasione del suo ottantesimo compleanno. Un particolare, caldo ringraziamento rivolgo ad Anna Donise per la bella Prefazione e l’attenta cura del volume. E un ringraziamento altrettanto sentito a Lorella Ventura e a Marilena Anzalone per la loro preziosa collaborazione.

Salerno, 5 ottobre 2016

Parte prima Etica e religione

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I Etica generale ed etica cristiana

1. La riflessione sull’etica Troeltsch non ha lasciato un sistema compiuto di etica. Tuttavia non v’è dubbio che il problema etico sia stato sempre al centro dei suoi interessi. La conferma di ciò ci è data da lui stesso nella prima delle tre conferenze scritte per un seminario che avrebbe dovuto tenere all’Università di Londra nel marzo 1923, se non fosse sopraggiunta improvvisa e immatura la morte. La conferenza reca un titolo estremamente significativo: Ethik und Geschichtsphilosophie, e Troeltsch, commentandolo, afferma di aver scelto «un tema che presenta il nocciolo» di tutta la sua «attuale elaborazione teorica» e al tempo stesso si ricollega alle origini delle sue ricerche1.

1. E. Troeltsch, Ethik und Geschichtsphilosophie, in E. Troeltsch, Ethik und Geschichtsphilosophie, in Der Historismus und seine Überwindung. Fünf Vorträge von Ernst Troeltsch, eingeleitet von Fr. von Hügel/Kensington, Pan Verlag Rolf Heise, Berlin 1924, Neudr. Scientia Verlag, Aalen 1966, p. 1 (tr. it. di F. Donadio, in E. Troeltsch, Lo storicismo e i suoi problemi, cit., vol. III, Appendice II: Lo storicismo e il suo oltrepassamento, p. 123) [KGA, 17, p. 68].

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Una prima tematizzazione dell’etica, sul duplice versante dell’etica generale e dell’etica cristiana, si trova già nel saggio del 1893/94 Die christliche Weltanschauung und ihre Gegenströmungen, in cui Troeltsch prende in esame le tendenze fondamentali del pensiero etico moderno e contemporaneo. Nel 1895 egli ritorna sui problemi dell’etica del presente nel saggio Atheistische Ethik e successivamente dedica all’etica i corsi di lezione dei semestri estivi del 1899 e del 1911, per quanto riguarda l’etica in generale, e dei semestri invernali del 1907/08 e del 1911/12, per quanto riguarda l’etica cristiana, come risulta dai Hefte ed essi relativi2. Nel 1902 pubblica poi il saggio fondamentale Grundprobleme der Ethik in cui muovendo dall’esame critico della Ethik di Wilhelm Herrmann (1901) sviluppa la propria concezione sia dell’etica generale che di quella cristiana, che riprende, nell’ultimo anno della sua vita, nelle tre conferenze su Ethik und Geshichtsphilosophie, affrontando i problemi del rapporto tra storicismo ed etica già posti in Der Historismus und seine Probleme (1922). Altrettanto costanti e significativi sono i suoi interessi per il rapporto tra etica e politica e per la dimensione sociale dell’etica cristiana. A questo riguardo si devono ricordare l’importante saggio storiografico sulle origini dell’etica moderna (Englischen Moralisten del 1903), gli scritti relativi al rapporto tra etica e politica (Politische Ethik und Christentum del 1904, il saggio Privatmoral und Staatsmoral del 1916, la conferenza su Politik, Patriotismus, Religion pubblicata dopo la sua morte, assieme a quelle su Ethik und Geschichtsphilosophie in Der Historismus u. seine Überwindung) e, per la storia dell’etica

2. Cfr. H. Benckert, Ernst Troeltsch und das ethische Problem, Vandenhoeck u.Ruprecht, Göttingen 1932, p. 9. Il corso del 1911/12 è stato pubblicato nel 1991 nel Bd. VI delle «Mitteilungen der Ernst-Troeltsch-Gesellschaft»: Praktische christliche Ethik. Diktate zur Vorlesung im WS 1911/12. Aus dem Nachlass G. von le Forts, hrsg. v. E. von la Chevallerie u. F. W. Graf.

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sociale cristiana, le Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen del 1912, l’Augustin (die christliche Antike und das Mittelalter) del 1915, i saggi sul «diritto naturale» (Das stoischchristliche Naturrecht und das moderne profane Naturrecht del 1911 e Naturrecht und Humanität in der Weltpolitik del 1922) e il saggio del 1922 Die Sozialphilosophie des Christentums. Il caratteristico nesso tra storia e teoria proprio del pensiero di Troeltsch si riflette nell’approccio ai problemi dell’etica, sicché le sue posizioni teoriche sono sempre fondate sull’esame dello sviluppo storico del pensiero etico. Le sue riflessioni sull’etica, anche quando riguardano l’etica cristiana, si situano nella linea di sviluppo del pensiero etico moderno inaugurato dalle analisi psicologiche e storiche dei moralisti inglesi del sei-settecento. Questi, analogamente a quanto nello stesso periodo hanno fatto i deisti inglesi nell’ambito della scienza della religione, «hanno prodotto la rottura con i presupposti concettuali della morale che, fondata in modo dogmatico, fino ad allora aveva regolato la vita privata, la Chiesa e lo Stato, e hanno creato lo schema concettuale dentro il quale è sorta la moderna etica scientifica»3. Un punto caratterizzante di questo schema è costituito dalla fondazione scientifica – mediante il metodo dell’«analisi psicologico-immanente» – di quell’autonomia della morale che, per Troeltsch, nell’etica pratica, nella vissuta esperienza morale, è stata introdotta da Gesù con la sua opposizione alla esteriore obbedienza alla legge. In modo esemplare nel §4 (Die Autonomie des Sittlichen) del corso di lezioni di Heidelberg del semestre invernale 1905/06 sulle Grundfragen der praktischen christlichen Ethik, Troeltsch

3. E. Troeltsch, Die englischen Moralisten des 17. und 18. Jahrhunderts, in Realencyklopädie für protestantische Theologie3, Bd. 13, 1903, pp. 436-461, poi in GS IV, pp. 374-375 (da cui si cita; abbreviazione: Die englische Moralisten, GS IV).

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afferma che «il primo e più appariscente aspetto della pretesa morale di Gesù è l’opposizione verso la legge statutaria e quindi la fondazione delle esigenze etiche mediante la convinzione interiore della loro necessità»: un atteggiamento, certo, già presente nei profeti, ma che in Gesù non si limita a contrastare la esteriorizzazione della legge nel culto, ma contrasta nel suo insieme e radicalmente l’atteggiamento di obbedienza alla legge rivelata, che si cristallizza nella semplice adesione alla lettera di essa. Il riconoscimento della legge deve passare, invece, in una convinzione interiore della coscienza morale. Questa è la scoperta dell’autonomia della morale che Paolo, sviluppando il pensiero di Gesù, determinerà concettualmente nell’opposizione tra lo spirito e la lettera, tra la libertà e la legge esteriore 4. Lungo la linea di sviluppo tracciata dai moralisti inglesi i due punti di riferimento principali di Troeltsch sono il pensiero morale di Kant e quello etico-religioso di Schleiermacher. Perciò fin dalle prime trattazioni tematiche dell’etica, che si trovano nell’ampio saggio del 1893-94 Die christliche Weltanschauungen und ihre Gegenströmungen e nei quaderni relativi al corso di lezioni del SS 1899, Troeltsch afferma che nell’indagine sull’etica si deve muovere dall’osservazione del fenomeno morale quale si presenta immediatamente, per risalire poi ai suoi tratti comuni ed essenziali, alle sue condizioni di possibilità. Nel saggio sui moralisti inglesi questo metodo viene indicato come «psicologia analitica»: essa, senza alcun ricorso a presupposti metafisici sull’essenza dell’anima o ad azioni divine in esse, cerca di ricavare dall’analisi e dalla chiarificazione

4. E. Troeltsch, Grundfragen der prakt.[tischen] christl.[ichen] Ethik [Heidelberg, Winter 1905-06], eingel. u. hrsg. von F. W. Graf, in «Mitteilungen der Ernst-Troeltsch-Gesellschaft», Bd. VII (1993), pp. 84-85. Si veda egualmente il §4 (Die Autonomie des Sittlichen) del corso di lezioni di Heidelberg del semestre invernale 1911/12, cit., pp. 140-141.

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dell’esperienza della coscienza le leggi che regolano il suo agire e gli scopi corrispondenti alla sua natura. L’analisi psicologica investe non solo la vita individuale, ma anche la storia, promuovendone una interpretazione causale non ricondotta immediatamente all’operare di finalità divine. Da questa combinazione di analisi psicologica e storica deriva l’idea fondamentale dell’autonomia dell’agire, della «libertà individuale», senza di cui non c’è un effettivo agire morale, non c’è scelta, responsabilità, imputazione. In virtù del principio dell’autonomia, «la necessità interiore, che spinge i credenti rinati alla vita grazie alla vittoria di Cristo sul peccato, si trasforma in una necessità razionale. La sovranità intangibile della fede si trasforma nei diritti umani, sottratti a ogni influenza dello Stato e fondati sulla natura stessa dell’uomo»5. E se con Kant la fondazione dell’etica si sposta dal piano della psicologia, sempre in pericolo di svoltare nel soggettivismo o nel naturalismo, al piano dell’analisi trascendentale della coscienza, in grado di collocarsi in una dimensione di universale validità, o di validità intersoggettiva, con Schleiermacher si delinea il progetto di un’etica materiale capace di «ordinare e elaborare in un sistema di beni i contenuti concettuali della sfera morale, cioè l’etica dell’umanità e l’idea di civiltà»6, o come si può egualmente dire, l’idea della storia come integrazione ogni volta individuata di ragione e natura7.

5. Cfr. Die englischen Moralisten, GS IV, pp. 406-407. 6. Ivi, p. 428. 7. «I singoli esseri – scrive Schleiermacher nell’Etica (1812/13) – vanno posti soltanto come gli organi e i simboli originari della ragione; ma l’agire della ragione sulla natura è un agire dell’intera ragione sull’intera natura; il processo etico non è compiuto se non in quanto l’intera natura, mediante la natura umana, è fatta propria, organicamente o simbolicamente, dalla ragione, e la vita dei singoli esseri non è vita per essi stessi, ma per la totalità della ragione e per la totalità della natura» (F.D.E. Schleiermacher, Etica

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2. Fenomenologia dell’esperienza morale; etica e religione In Die christliche Weltanschauung und ihre Gegenströmungen8 Troeltsch riconosce due tendenze fondamentali nelle diverse formazioni del pensiero etico moderno (entro cui l’etica cristiana deve ridefinire la propria «essenza»): l’«intuizionismo etico» (o «etica degli imperativi») e l’«etica teleologica». Attraverso la ricognizione e il reciproco confronto delle due tendenze emerge l’idea che un’analisi critica della sfera dell’etico, rivolta all’accertamento delle condizioni di possibilità dei fenomeni etici, dimostra la presenza di due elementi costitutivi di essa: l’elemento del dovere o normativo e l’elemento dello scopo o teleologico. Ogni concezione etica che privilegi l’uno o l’altro non riesce a comprendere la realtà etica, sovrapponendo perciò ad essa uno schema astratto di interpretazione. Il problema etico fondamentale consiste proprio nella ricerca di una soluzione di questa antinomia tra i due elementi, che in questo contesto significa l’antinomia tra apriori e storicità, tra soggettività e oggettività9. La conferma di questa antinomia e insieme la via per risolverla si trovano nella descrizione fenomenologica della vita spirituale. Questa da un lato rivela che «soltanto una parte delle attività dello spirito appare […] come specificamente etica, quella che è sottoposta a determinate norme vincolanti e alla coscienza del dovere». Il dovere è, quindi, «l’elemento specificamente etico», «ciò che soltanto fonda la dignità dello spirito

(1812/13), Introduzione, §78, in Scritti filosofici, ed. it. a cura di G. Moretto, Utet, Torino 1998, p. 415). 8. E. Troeltsch, Die christliche Weltanschauung und ihre Gegenströmungen, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», Jg. 3, 1893, H. 6, pp. 493-528 e Jg. 4, 1894, H. 3, pp. 167, 231, poi in GS II, pp. 227-327 (da cui si cita, abbreviazione: Die christliche Weltanschauung, GS II). 9. Cfr. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 259.

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umano». Anche quando si riconosce il valore di beni ideali, di scopi autenticamente etici, questo riconoscimento «presuppone un comando della ragione o un impulso razionale a tendere verso questi beni, [...] che viene avvertito sempre come un impulso interiore, come l’impulso di un dovere vincolante». È quindi insito nell’etico il carattere dell’immediatezza, della spontaneità, dell’apriorità, per cui la norma morale è categorica, «valida di per sé», «non derivata» e perciò sentita come un «dovere». Dall’altro lato la fenomenologia dell’esperienza etica riconosce che il dovere non potrebbe agire sulla volontà senza avere un’adeguata «forza motivazionale», se non vi fosse, cioè, un «interesse» del soggetto agente, «un piacere specificamente etico, l’avvertimento del valore dell’etico come intensificazione dell’esistenza». Un interesse implica però un fine, un bene da realizzare o da raggiungere, quindi uno specifico «fine etico», «un fine ultimo oggettivo, che conferisce valore e senso all’esistenza e indirizza l’agire dell’uomo verso uno scopo unitario»: un «sommo bene», che non può consistere unicamente «nel conseguimento di un ideale valore della personalità, ma anche nella normale e ordinata conformazione della vita esteriore». L’antinomia tra i due principi etici di fronte a cui si trova l’analisi della coscienza – l’agire incondizionato della volontà per il dovere e l’agire in rapporto ad un fine oggettivo – può essere superata dal riconoscimento di «una fondamentale unità della ragione posta al di là e alle spalle (jenseits und hinter) della coscienza umana». L’etica perciò, in definitiva, esige necessariamente «convinzioni metafisiche e religiose», da cui scaturiscono i suoi fondamenti ultimi, i quali, come accade in ogni altra scienza e specialmente nelle scienze dello spirito, includono sempre un elemento di decisione, di scelta personale10.

10. Cfr. ivi, pp. 258-259.

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A questo riguardo, a supporto di quanto afferma Troeltsch, si può ricordare che in Kant, come appare in modo particolare ne La religione nei limiti della semplice ragione, all’origine del rapporto tra «morale» e «religione» si trova egualmente il rapporto tra «dovere» e «fine». È vero, infatti, che la moralità, nel suo fondamento, «non ha bisogno in generale di un motivo materiale di determinazione del libero arbitrio, cioè di un fine, né per conoscere che cosa sia il dovere né per spingere ad adempierlo; ma può, anzi deve, quando si tratta di dovere, fare astrazione da ogni fine»11. Tuttavia, continua Kant, «può darsi che essa abbia un rapporto necessario con un fine [...], inteso però non come principio ma come conseguenza necessaria delle massime adottate in conformità alle leggi». Il rapporto con il fine è infatti «necessario» per la determinazione della volontà dell’uomo, che richiede un effetto del suo agire, un risultato e quindi la rappresentazione di questo effetto e risultato12. Quindi «dalla morale deriva un fine, perché non è possibile che la ragione resti indifferente di fronte alla soluzione del seguente problema: quale sarà il risultato della nostra buona condotta [...]?»13. Questo fine «non potrà essere che [...] l’idea di un sommo bene nel mondo», l’idea della congiunzione tra la «condizione formale di tutti i fini quanto al modo della loro determinazione (il dovere)» e «l’insieme delle condizioni di tutti i fini che così perseguiamo (la felicità corrispondente al compimento del dovere)». Ma il postulato di questa congiunzione «praticamente» necessaria, è «un essere 11. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it. in I. Kant, Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Torino 1970, pp. 323-324; cfr. Critica della ragion pratica, tr. it. di P. Chiodi, in I. Kant, Scritti morali, cit., p. 223. 12. Cfr. I. Kant La religione nei limiti della semplice ragione, cit., p. 324; Critica della ragion pratica, cit., pp. 197 ss. 13. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, cit., p. 325; cfr. Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. di P. Chiodi, in I. Kant, Scritti morali, cit., pp. 110 ss.

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morale supremo santissimo e onnipotente, il solo capace di riunire in sé questi due elementi»14. «La morale quindi – conclude Kant – conduce inevitabilmente alla religione, innalzandosi così all’idea di un legislatore onnipotente, al di là dell’uomo nella volontà del quale consiste quel fine ultimo (della creazione del mondo) che può e deve essere, al tempo stesso, il fine ultimo dell’uomo»15. In Troeltsch è certamente più direttamente esplicitata questa intima relazione di morale e religione e altrettanto si prefigura in ciò – come ha opportunamente rilevato H. Benckert – la Grundkonzeption del pensiero etico di Troeltsch, la caratteristica «partizione» della regione etica (e quindi della Ethik überhaupt) in morale della personalità (o etica soggettiva) e etica dei valori culturali (o, seguendo Schleiermacher, etica dei beni, etica oggettiva) che si presenta poi in Grundprobleme der Ethik, nel Heft del 1911, in Ethik u. Geschichtsphilosophie16. 3. Per la storia dell’etica cristiana In Grundprobleme der Ethik, l’ampio saggio del 190217, nato come recensione dell’Ethik di Wilhelm Herrmann, Troeltsch 14. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, cit., p. 325; cfr. Critica. della ragion pratica, cit., pp. 257, 266, 272 ss. 15. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, cit., pp. 326-327 e nota a. di p. 326; cfr. Critica della ragion pratica, cit., pp. 277-78): l’ideale dell’«umanità (l’essere razionale mondano in generale) in tutta la sua perfezione morale, da cui consegue immediatamente, nella volontà dell’essere supremo, la felicità, come dalla sua condizione suprema» (La religione... cit., p. 381). 16. Cfr. H. Benckert, Ernst Troeltsch und das ethische Problem, cit., p. 14. Si veda anche K.Tanner, Der lange Schatten des Naturrechts:eine fundamentalische Untersuchung, Kohlhammer, Stuttgart-Berlin-Köhln 1993: Ethik zwischen Autonomie und Güterlehre, pp. 88 ss. 17. E. Troeltsch, Grundprobleme der Ethik. Erörtet aus Anlass von Herrmanns Ethik, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», Jg. 12, 1902, H. 1,

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muove dalla storia dell’etica cristiana, sviluppando le linee tracciate da Herrmann nella Einleitung18, osservando che la teologia proto-cristiana non si pose il problema di una esposizione dell’etica come specifica elaborazione del pensiero cristiano, ma l’etica cristiana, «nel concetto della legge morale naturale, confluiva con le concezioni stoiche e platoniche ad essa molto affini e con ciò poteva essere considerata come fissata e dimostrata per natura»19. Nell’articolo Naturrecht, christliche in Die Religion in der Geschichte und Gegenwart del 191320 Troeltsch affermerà che quasi tutti i concetti scientifici dell’etica cristiana furono tratti dalla tradizione dello stoicismo, che, al pari del Cristianesimo, costituiva un risultato «dello sviluppo religioso del mondo antico»21. L’etica stoica delineava «una morale individuale della personalità superiore alla natura, libera e colma di elementi divini e una morale sociale cosmopolitica della humanitas e dell’amore tra gli uomini» e sosteneva «una duplice legge naturale: la legge naturale assoluta del mondo delle origini, caratterizzata dalla libertà, dall’eguaglianza e dal possesso comune, e la legge naturale relativa delle epoche successive, caratterizzata dal duro ordinamento dello Stato e del diritto, dalla proprietà giuridicamente garantita, dalla guerra e dalla violenza, dalla schiavitù e dal dominio»22.

pp. 44-94 e 1903, H. 2, pp. 125-178, poi in GS II, pp. 552-672 (da cui si cita, abbreviazione: Grundprobleme der Ethik, GS II) [tr. it.: E. Troeltsch, Problemi fondamentali dell‘etica, a cura di G. Cantillo, presentazione di F. Tessitore, Guida, Napoli 2007, pp. 37-182)]. 18. Cfr. W. Herrmann, Ethik, Mohr, Tübingen 1901, pp. 1-6. 19. Grundprobleme der Ethik, GS II, p. 554 (tr. it. cit., p. 40). 20. Poi con il titolo Das christliche Naturrecht. Ueberblick, in GS IV, pp. 156166 (da cui si cita) [tr. it. di G. Cantillo, in E. Troeltsch, L’essenza del mondo moderno, cit., pp. 85-87]. 21. Grundprobleme der Ethik, GS II, p. 158 (tr. it. cit., p. 85). 22. Ibidem (tr. it. cit., pp. 85-86).

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La legge naturale relativa venne identificata con il decalogo e, nonostante il suo contrasto con l’ideale etico autenticamente cristiano della «comunità fondata sull’amore, senza Stato e diritto, libera dalla forza e dal potere», doveva essere accettata e rispettata come poena et remedium peccati e costituire il modello per il diritto positivo: di qui – osserva Troeltsch – il carattere conservatore rispetto alla società costituita assunto dall’etica cristiana, anche se in essa non è mai scomparsa «la corrente radicale come reminiscenza della legge naturale assoluta e dell’autentico ideale cristiano, che non è mai possibile eliminare completamente»23. Sul piano della moralità personale «dalla definizione della verità religiosa scaturivano di per sé le conseguenze morali» e su quello dell’etica sociale, dei prin23. Grundprobleme der Ethik, GS II, pp. 158-159 (tr. it. cit., pp. 86-87). Sul raporto del Cristianesimo con lo stoicismo cfr. Soziallehren, GS I, pp. 52 ss. 144 ss. (tr. it. cit., I, pp. 68 ss. 188 ss.). Per la complessiva interpretazione troeltschiana dell’etica e delle teorie sociali del Cristianesimo antico, oltre i saggi sul «diritto naturale» (assieme all’articolo citato, l’ampio saggio del 1911 Das stoisch-christliche Naturrecht und das moderne profane Naturrecht, ora in GS IV, pp. 166-191, tr. it. di G. Cantillo, Il diritto naturale stoicocristiano e il moderno diritto naturale profano, in E. Troeltsch, L’essenza del mondo moderno, cit., pp. 95-124) e il primo capitolo delle Soziallehren (in particolare GS I, pp. 83-178 – tr. it. cit., I, pp. 107-231), è fondamentale lo studio del 1915 Augustin, die christliche Antike und das Mittelalter (Oldenbourg, München; ristampa: Scientia Verlag, Aalen 1963; tr. it. di Goldstein – De Fidio, S.Agostino, il cristianesimo antico e il medioevo, a cura di F. Tessitore, Morano, Napoli 1970). Sull’etica di Agostino cfr. capp. IV-VI. «L’etica di Agostino – scrive Troeltsch all’inizio del cap. VI – è la prima grande etica culturale del Cristianesimo», ma «non è l’etica di una cultura nuova e, meno di tutto, il programma di questa», in quanto si inscrive completamente nell’orizzonte della cultura antica. Il mondo ideale di Agostino – scisso tra l’idea della unità del Cristianesimo con la cultura antica e quella del contrasto insanabile tra regno di Dio e mondo naturale e culturale, tra etica cristiana dell’amore e istituzioni politiche e sociali fondate sulla violenza, sull’egoismo, sull’economia – «è assai lontano dal modo di pensare e di sentire medioevale», ed è perciò «il risultato finale dell’Antichità e non […] il principio del Medioevo» (cfr. tr. it. cit., pp. 223-227).

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cipi del comportamento cristiano nelle istituzioni mondane, si faceva riferimento alla tradizione del diritto naturale. Questa impostazione, secondo Troeltsch, si mantiene sostanzialmente fino alle soglie del mondo moderno, quando questa situazione si modifica24 in connessione con le trasformazioni politiche, sociali, economiche, e soprattutto in rapporto «alla crescente secolarizzazione della vita sociale e statale». Di fronte a ciò, come testimonia il pietismo, «il sentimento religioso, ravvivato in periodi di crisi profonda e di grandi eventi, si rivolse completamente al mondo interiore, quindi al centro dell’etica cristiana». Di conseguenza, si ripropose con forza ed urgenza «l’antico, originario problema dell’etica cristiana – di come la morale puramente religiosa, tutta gravitante su Dio e sulla comunità di quanti sono uniti in Lui, debba comportarsi verso i beni e gli scopi della vita mondana, verso lo Stato e il diritto, la guerra e la forza, l’arte e la scienza». Emblematico a questo proposito è il tentativo di istituire uno Stato ispirato essenzialmente dall’etica cristiana compiuto dal puritanesimo in Inghilterra25. Proprio in rapporto con questo tentativo, con le sue lacerazioni e contraddizioni, cominciarono a prodursi «ricerche specificamente etiche», libere non solo dalla tradizione teologico-ecclesiastica, ma anche da quella aristotelico-scolastica. I concetti di legge morale, di giudizio morale, di sentimento morale furono autonomamente indagati nel quadro di «una psicologia empirica» – ispirata dalla psicologia e dalla gnoseologia lockiane – «e tenendo conto della loro applicazione all’intero ambito degli scopi umani». In questo modo l’etica si venne per la pri-

24. Per Troeltsch Rinascimento e Riforma sono ancora “fenomeni di transizione” verso il mondo moderno, che nel senso più pieno si afferma con l’Aufklärung. 25. Grundprobleme der Ethik, GS II, pp. 561-562 (tr. it. cit., p. 48).

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ma volta costituendo come «scienza autonoma, con problemi complessi e gravidi di conseguenze», e «da questo punto si è poi sviluppata tutta l’etica filosofica moderna», che ha decisamente influenzato lo sviluppo dell’etica teologica26. Tanto più che, in rapporto con le ricerche tendenti alla «formazione di un nuovo concetto generale dell’etico» in base a cui dovevano essere comprese e valutate le etiche storiche, e in dipendenza dal «conflitto tra le confessioni» e dall’«orizzonte aperto dalla storia delle religioni», si venne istituendo un’analoga ricerca su «un concetto universale di religione, fondato psicologicamente e includente in sé anche il Cristianesimo». La religione venne interpretata «come un comportamento essenzialmente pratico dello spirito umano», quindi fu avvicinata sempre di più all’etico, come «rafforzamento e fondazione» di esso e la scienza della religione «diventò sempre più dipendente dall’etica, dai suoi problemi e dalle sue soluzioni concettuali». «Il rapporto di etica e dogmatica venne ora completamente rovesciato». L’etica, «pensata prevalentemente dal punto di vista soggettivo e individuale», «come teoria delle determinazioni soggettive della volontà agente», divenne «la scienza fondamentale includente in sé la dogmatica»; la religione fu concepita come religione puramente razionale, «naturale», in sé «non dogmatica, o solo subordinatamente dogmatica», «sostegno e forza della morale». Questa strada fu inaugurata da Shaftesbury e Locke, da Rousseau e dagli scozzesi, ma il punto più alto fu raggiunto dall’etica kantiana. Kant «sottrae l’etico al dominio del naturale, del relativo e dell’utile, presentando l’etica come teoria delle determinazioni necessarie, a priori, della volontà soggettiva» e quanto più «mette in risalto nell’e-

26. Ivi, pp. 562-63 (tr. it., p. 49). Cfr. Die englischen Moralisten, GS IV, pp. 404 ss.

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tica il carattere ideale e sovraempirico, tanto più risolutamente assoggetta il pensiero religioso ai postulati dell’etica»27. Dopo Kant, però, questo rapporto tra etica e religione si modifica di nuovo, nella fervida stagione dell’Idealismo tedesco. Da un lato, soprattutto con Schleiermacher, De Wette e Hegel, la religione riacquistò la sua autonomia rispetto all’etica e rispetto alla metafisica, in quanto fu compresa «come una fondamentale presa di posizione di tutta la personalità di fronte all’essere e alla essenza della realtà, come apprensione, nell’esperienza e nell’atto di vita, di un assoluto valore e significato spirituale dell’esserci»28. In essa, «nell’idea di Dio e nel concetto del fine religioso di un’elevazione dell’anima nella vita divina», fu vista una specifica ed autonoma «determinazione [...] oggettiva dell’agire». Dall’altro lato si modificò anche il concetto della vita morale e dell’etica. La vita morale non riguardò più soltanto le determinazioni soggettive della volontà agente, ma comprese in sé l’intero ambito dei beni o valori storici, delle istituzioni, dei fini. Vita morale e cultura si apparentano ad indicare il campo della prassi specificamente umana, come luogo intersoggettivo di tutti i fini e valori concreti, oggettivi, che determinano razionalmente l’agire e di cui vive la ragione nella storia: la hegeliana totalità del «diritto», «il regno della libertà realizzata, il mondo dello spirito, espresso da sé medesimo, come una seconda natura»29. In questo modo «l’etica diventa filosofia della cultura dal punto di vista morale», si potrebbe anche dire 27. Grundprobleme der Ethik, GS II, p. 564 (tr. it. cit., p. 51). Cfr. Die englischen Moralisten, GS IV, pp. 417- 427. 28. Grundprobleme der Ethik, GS II p. 565 (tr. it. cit., p. 52). Cfr. Die englischen Moralisten, GS IV, p. 429. 29. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, tr. it. di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1987, §4, p. 27.

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«filosofia materiale della storia», nel senso in cui Troeltsch afferma, in Der Historismus und seine Probleme, che «l’etica di Hegel era l’autocomprensione del processo storico-universale come dispiegamento totale della ragione e su questa base poneva lo Stato di diritto e razionale al centro della dottrina dei beni, per collegarvi poi i valori dello spirito assoluto nell’arte, nella scienza, nella religione e nella filosofia»30; o nel senso in cui Schleiermacher definisce l’etica come esposizione di «una configurazione potenziata e ampliata dell’unificazione della ragione con la natura, che comincia con l’organismo umano in quanto costituente una parte della natura universale, in cui però è già presupposta una unificazione con la ragione»: «l’etica in quanto esposizione della sintesi di ragione e natura è la scienza della storia»31. L’etica diventa scienza, cioè «sistema», conoscenza dell’intero, della totalità (comunque poi si debba intendere tale totalità) dei beni oggettivi che determinano nel «visibile» dell’azione storica le volontà umane: il suo contenuto sono «i fini concreti dello Stato, della società, dell’arte, della scienza, della famiglia, della religione», che «sono sì sociali, ma ad un tempo elevano gli individui al loro proprio vero valore», a riconoscere come loro essenza, come loro fondamento e telos l’originaria, intemporale «comunità». Con l’etica dell’Idealismo, e in particolare con la Güterlehre «storicisticamente orientata» di Schleiermacher – che secondo Troeltsch ne segna «il punto più alto» – si avvia alla conclusio-

30. Historismus, GS III, p. 81 (tr. it. cit., I, p. 122). 31. F.E.D. Schleiermacher, Werke, Bd. 2, Neudruck der 2. Aufl. Leipzig 1927, Scientia Verlag, Aalen 1967, pp. 249-250, 251. Cfr. p. 497. Sull’etica di Schleiermacher come «scienza storica», come «descrizione delle forme in cui si realizza l’unità della ragione con la natura» si vedano le acute considerazioni di G. Vattimo in Schleiermacher, filosofo dell’interpretazione, Mursia, Milano 1968, pp. 82-88.

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ne lo schema della storia dell’etica (non più soltanto dell’etica cristiana, ma dell’etica in generale). Al tempo stesso si è anche già delineato lo schema della sua teoria etica, in oscillazione, criticamente trattenuta, tra «persona» e «cultura», tra «apriori» e «storicità». Troeltsch, infatti, nell’etica, si sforza di «ripetere», nella mediata immediatezza e insorgenza dell’azione storica, che è insieme decisione e rischio, la verità dell’una e dell’altra teoria, di Kant e di Schleiermacher, di ripensare insieme il diritto della persona, della comunità interiore, invisibile, vivente nel Gewissen, e quello del mondo oggettivo della cultura, della comunità visibile vivente nelle istituzioni sociali e storiche. 4. Il confronto con l’etica di Wilhelm Herrmann Il programma delineato da Schleiermacher con la sua «grandiosa visione» dell’etica generale il cui oggetto è costituito dal sistema dei fini, ciascuno individualmente determinato e tuttavia reciprocamente comunicanti nell’ideale del bene supremo, dev’essere ripreso e sviluppato. In questa prospettiva si situa il confronto con l’etica di Wilhelm Herrmann, che consente di trovare «l’approccio più idoneo ad una discussione dei problemi fondamentali dell’odierna etica cristiana». Dal momento che in Herrmann s’intersecano singolarmente le due linee «dell’etica kantiana dell’universale validità formale», cui egli esplicitamente si ricollega, e «dell’etica schleiermacheriana dei beni oggettivi», nel comune progetto di affrontare «il problema religioso [...] sul terreno dell’etica generale»32. Come Troeltsch mette in evidenza, nella sua concezione della religione e del rapporto con l’etica Herrmann si distacca dallo «schema kantiano» e da quello «deistico». Dio è concepito

32. Grundprobleme der Ethik, GS II, p. 570 (tr. it. cit., p. 58).

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piuttosto come «una vivente potenza personale» che ci viene incontro nel Cristo e «il legame del religioso con l’etico viene rigidamente ristretto […] alla rivelazione salvifica in Cristo», che non solo rende possibile «l’agire morale», ma dà «la garanzia della realtà e dell’esistenza di Dio come potenza che assoggetta il mondo al bene»33. In questo modo – osserva Troeltsch – Herrmann ha inteso accogliere l’istanza idealistica e specialmente schleiermacheriana dell’«autonomia della religione»34, ma ad un tempo ha prodotto «un singolare privilegiamento apologetico del Cristianesimo»: non si tratta più di fondare il passaggio dai principi morali universali al Cristianesimo, ma al contrario di trovare nel Cristianesimo l’unica possibilità e garanzia di realizzazione dei principi morali: soltanto «in Cristo si trova la moralità perfetta, perché soltanto in Lui alla moralità si unisce la religione, e soltanto per questa unione con la religione la moralità diventa una forza»35. Troeltsch, evidentemente, dalla sua prospettiva storico-religiosa non può accogliere questo risultato della ricerca eticoteologica di Herrmann, che ripropone una posizione «eccezionale» del Cristianesimo, una forma di soprannaturalismo interiorizzato. Tuttavia, pur avendo una concezione diversa della moralità, della religione e del Cristianesimo, egli riconosce all’Ethik herrmanniana una corretta impostazione metodologica in quanto muove da un’analisi del fenomeno etico che mira a portarne allo scoperto le condizioni di possibilità e individua l’elemento specifico, essenziale, di esso nel «concetto puramente formale di un fine assoluto, [...] che ha il suo valore e la sua forza in una necessità apriorica [...] e presuppone

33. Cfr. ivi, pp. 613-614 (tr. it. cit., p. 108). 34. Ivi, p. 613 (tr. it. cit., p. 108). Cfr. W. Herrmann, op. cit., p. 67. 35. Grundprobleme der Ethik, GS II, p. 614 (tr. it. cit., p. 110).

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nell’uomo [...] un puro [ideale] sentimento di valore»36. Il giudizio sulla necessità dell’azione può essere espresso dalla coscienza morale solo in quanto riconosciuto come un giudizio che scaturisce unicamente dal suo «essere spirituale», quindi come un giudizio autonomo, indipendente sia da ogni autorità estranea, sia da ogni interesse o inclinazione patologica. L’essenza dell’etico è perciò «l’intenzione morale», la profonda «convinzione personale» dell’«universale validità del giudizio morale espresso e l’agire conformemente al dovere interiormente sentito». Ma questo concetto, secondo Troeltsch, non si può esprimere soltanto nell’etica della legge incondizionata, ma implica anche il concetto di un fine etico, che lo stesso Kant aveva «incidentalmente messo in rilievo» e che Herrmann ha «posto esplicitamente in luogo del semplice concetto di legge»: «il fine della formazione della personalità, in quanto la personalità designa il nucleo di una superiore vita interiore – sovraordinata ed opposta alla semplice natura psichica, alla mera individualità e soggettività – che scaturisce dalla subordinazione al fine assolutamente necessario»37.

36. Ivi, p. 616 (tr. it. cit., p. 113); cfr. pp. 576-77, 579 (tr. it. cit., pp. 65-66, 69); W. Herrmann, op. cit., pp. 29-31. 37. Grundprobleme der Ethik, GS II, p. 617 (tr. it. cit., pp. 113-114). «La personalità – scrive Herrmann è l’unica cosa che possiamo pensare come fine in sé, come fine ultimo a cui ogni altra cosa è subordinata come mezzo» (Ethik, cit., pp. 50-51). La fonte tanto per Herrmann, quanto per Troeltsch è Kant, che nella Critica della ragion pratica, ponendo la domanda intorno alla «radice» del «dovere», afferma che questa radice non può che essere «la personalità e l’indipendenza nei confronti del meccanismo dell’intera natura, considerata tuttavia contemporaneamente come facoltà di un essere sottostante a leggi pure pratiche, che la sua stessa ragione gli fornisce; pertanto la persona, in quanto appartenente al mondo sensibile, è sottoposta alla propria personalità perché appartiene nello stesso tempo al mondo intellegibile» e per questo aspetto «l’uomo [...] è fine in se stesso» (I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it. cit., pp. 229-30; cfr. p. 313: «l’io invisibile»).

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Intorno al concetto del fine della formazione della personalità si costituisce l’etica soggettiva ovvero la moralità, «l’etica delle determinazioni – necessarie, ma assolutamente soggettive – del volere per mezzo della pura ragion pratica»38, articolandosi secondo la duplice esplicazione di esso nel fine individuale della «pro-duzione del valore della propria personalità» e nel fine sociale della «reciprocità nel riconoscersi e nel promuovere il valore della personalità di ognuno»39. In questa fondazione e delineazione dell’etica soggettiva la posizione di Troeltsch concorda con quella di Herrmann, che sotto il titolo di «moralità» intende parimenti «un comportamento in cui la vita umana supera la sua forma data dalla natura e attinge un livello più elevato», nel senso che «in luogo del precedente isolamento entra l’esigenza di una comunità interpersonale e in luogo del dominio degli impulsi naturali una vita personale che a sé li assoggetta»40. L’adesione di Troeltsch all’etica herrmanniana e alla sua ispirazione kantiana si ferma a questo punto. Egli non condivide infatti il contenuto esclusivamente soggettivo del concetto dell’etico, la restrizione del carattere formale dell’etico soltanto alle «finalità soggettive riguardanti il rapporto del soggetto con se stesso o con l’analogo rapporto di altri con se stessi, mentre sarebbe completamente escluso che anche dei fini obiettivi pos38. Grundprobleme der Ethik, GS II, p. 564 (tr. it. cit., p. 51). 39. Ivi, p. 617 (tr. it. cit., p. 114). «Moralità individuale» e «moralità sociale» sono correlate come i due aspetti dell’etica della personalità, della Gewissensmoral (morale dell’intenzione), le cui virtù, suggerisce Troeltsch, sono, dal lato del fine individuale, la sincerità, il valore, la serietà, la prudenza, l’autocontrollo, il pudore, l’ordine, la coscienziosità (e simili) e, dal lato del fine sociale, l’amore del prossimo, la giustizia, la pazienza, l’indulgenza, la gratitudine, la pietà, la fedeltà (e simili): virtù «analitiche», ovvero deducibili dal fine della formazione della personalità propria e da quello del riconoscimento della personalità altrui e della sua promozione. 40. W. Herrmann, op. cit., p. 60.

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sano avere il carattere della necessità formale ed oggettiva»41, cioè una validità intersoggettiva, universalmente riconosciuta. In questa prospettiva, che scaturisce dalla fondazione trascendentale dell’etico, «ogni cosa», ogni contenuto psicologico e storico dell’esperienza, viene considerata come «materia moralmente del tutto indifferente per l’autolegislazione che deve agire su di essa», e «il valore morale» scaturisce soltanto dal «giudizio morale» di volta in volta espresso sulla «necessità dell’azione», senza mai potersi fondare «sulla necessità universalmente riconosciuta di un oggetto»42. Troeltsch ritiene, invece, che la relazione tra il «carattere apriorico della necessità» e l’«esperienza» sia «diversa e più complessa di quella dedotta dall’etica kantiana, con il suo semplice riferimento dell’apriorica necessità morale alla materia dell’esperienza moralmente indifferente». La considerazione fenomenologica della vita etica rivela, infatti, chiaramente la distinzione tra i valori soggettivi, relativi al comportamento del soggetto verso se stesso e verso gli altri, e i valori oggettivi «della famiglia, dello Stato, della società, della scienza, dell’arte e della religione», cui l’uomo ha il dovere di tendere. Questi beni (o valori) non esprimono una mera soddisfazione di bisogni, ma la loro validità si impone alla coscienza morale in forza di una «necessità oggettiva» che li rende partecipi «del carattere formale dell’etico, cioè del carattere della necessità in sé»: sono, si potrebbe dire, degli «apriori materiali»43. In quanto, poi, nel perseguire tali beni oggettivi «si conquista un valore della personalità che è sempre intimamente legato con il riconoscimento e con la promozione degli stessi beni negli altri», anche

41. Grundprobleme der Ethik, GS II, p. 618 (tr. it. cit., p. 115). 42. Ibidem. 43. Il concetto di a priori materiale rimanda a Husserl (cfr. Historismus, GS III, pp. 596-597, tr. it. cit., vol. II, p. 364). Sugli apriori materiali in Husserl cfr. A. Masullo, Struttura soggetto prassi, LSE, Napoli 1962, p. 100.

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essi presentano il duplice aspetto di fini individuali e sociali. Le due serie di valori, soggettivi ed oggettivi, sono perciò analoghe e solo la tensione verso la realizzazione di entrambe può costituire il compimento dell’esperienza morale (come è già emerso dalla ricostruzione della storia del pensiero morale). In questo modo Troeltsch approfondisce e sviluppa l’intenzione herrmanniana di una integrazione tra l’etica soggettiva di Kant e quella oggettiva di Schleiermacher. Il riconoscimento dei beni oggettivi, dei valori culturali fa emergere la dimensione storica dell’etico; il principio kantiano del «fine razionale autonomo» fonda e delinea l’orizzonte, la regione dell’etico, ma l’analisi deve poi «assumere, in modo puramente empirico, la determinazione dei beni oggettivi dalla storia, in cui nascono e con incessante lavoro sono prodotti secondo la loro essenza necessaria». Mentre l’etica soggettiva, per il suo carattere essenzialmente astorico, «è relativamente semplice», nell’etica oggettiva, per il suo radicarsi nel divenire storico si presentano «i problemi fondamentali dell’etica» concernenti «la formazione di ogni singolo scopo preso per sé» e la «concezione del rapporto reciproco tra questi beni», soprattutto il problema della conciliazione tra «le finalità intramondane, certamente varie e diverse e spesso anche in conflitto tra di loro, ma tuttavia legate dalla comune tendenza verso fini il cui oggetto e il cui ambito sono il mondo» e «il fine religioso che concentra tutta la prassi nella dedizione dell’individuo e della comunità a Dio, raccoglie tutte le forze e tutti i pensieri in vista di un unico fine supremo, durevole ed eterno, di fronte a cui tutti gli altri sono soltanto transeunti». L’etica oggettiva esige perciò necessariamente «lo sfondo di un orizzonte di filosofia della storia, un punto di vista sul divenire e sullo sviluppo della cultura». Nell’accentuazione del nesso tra etica e storia emerge «il principale contrasto con l’etica

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herrmanniana», che «di fatto dà così poco valore alla storia, nonostante il rilievo che le dà in linea di principio»44. Alla critica dell’etica generale di Herrmann, vincolata al punto di vista kantiano, segue in Grundprobleme der Ethik la confutazione della identificazione herrmanniana tra moralità cristiana e morale dell’intenzione e, nel quadro della polemica sull’«assolutezza del Cristianesimo», la critica della tesi apologetico-dogmatica secondo cui l’etica cristiana costituirebbe la compiuta realizzazione dell’etica in generale o comunque l’unica via per realizzare il pensiero etico. Il principio dell’autonomia rappresenta per Troeltsch soltanto un presupposto dell’etica cristiana, non l’essenza di essa che si specifica invece in rapporto con un fine oggettivo45. Il problema dell’etica cristiana è un problema di «moralità oggettiva», di etica concreta, che include essenzialmente il rapporto con gli altri fini e beni oggettivi storicamente determinati. Il messaggio di Gesù indica il compito della realizzazione di un fine o bene oggettivo, il regno di Dio, che si distingue in un fine individuale (la dedizione a Dio e in suo nome al prossimo) e in un fine sociale (la comune vocazione di tutti a partecipare della grazia di Dio, a realizzare la comunione in Dio). Il suo centro è l’amore come «purezza di cuore» e «amore dell’altro». La comunione con Dio è espressione della volontà divina riguardo al mondo, in quanto «essendo Dio l’unità del tutto, pretende altrettanto l’unità di tutti»46. Ciò chiarisce la prevalenza del fine sociale

44. Grundprobleme der Ethik, GS II, pp. 624-625 (tr. it. cit., p. 123). Sul confronto tra l’etica di Troeltsch e quella di Herrmann e sul suo significato per una teoria del valore si veda W. Wiesenberg, Das Verhältnis von Formal- und Materialethik erörtet an dem Streit zwischen Wilhelm Herrmann und Ernst Troeltsch, Buchdruckerei G. A. Kranich, Königsberg 1934, in particolare pp. 51 ss. 45. Cfr. ivi, pp. 627-628 (tr. it. cit., pp. 127-128). 46. Cfr. ivi, pp. 628-635 (tr. it. cit., pp. 130-135).

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su quello individuale, ma non ne stabilisce l’assoluta sovraordinazione; il fine individuale è altrettanto importante quanto quello sociale, e la composizione dei conflitti è affidata al giudizio individuale sempre determinato dalla valutazione dei fini ultimi della vita religiosa: anche qui si pone il problema di produrre ogni volta una sintesi originale. In quanto ha il suo centro in uno specifico fine oggettivo religioso, l’etica cristiana si confronta con il complesso dei fini oggettivi «intramondani». Il rapporto tra i valori interiori e mistici della religione e i fini pratici intramondani si può definire soltanto storicamente; la loro sintesi esprime unicamente un ideale, il termine di una approssimazione in quanto la loro polarità scaturisce da una profonda contraddizione della vita stessa47. Mentre la comunità evangelica, concentrata nell’attesa dell’imminente avvento del regno di Dio, pur non combattendo il mondo, lo svaluta in quanto transeunte, lo spostamento del regno di Dio nella lontananza futura fa rientrare la civiltà mondana in una prospettiva di durata: la storia riacquista valore di fronte all’escatologia48. Troeltsch muove dalla considerazione della situazione presente e in relazione a questa indica una possibilità di soluzione fondata sul riconoscimento della specifica eticità del mondo moderno, proponendo il modello di una moralità che nel dispiegarsi dei valori intramondani del presente (progresso tecnico, sviluppo economico, lotta di classe, libertà) affermi anche i valori della religiosità e dell’amore: «l’etico non è naturalmente unitario, ma molteplice e multiverso, [...] l’uomo si sviluppa in mezzo ad una pluralità di fini etici la cui uni-

47. Cfr. Grundprobleme der Ethik, GS II, pp. 637-639, p. 659 (tr. it. cit., pp. 137-140, 165-166). 48. Cfr. ivi, p. 659 (tr. it. cit., p. 165).

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ficazione costituisce il termine problematico, non il punto di partenza»49. Il carattere multiverso dell’etico indica che i fini umani non sono semplici mezzi per il fine sopramondano, ma sono fini in sé che non «saranno mai totalmente determinati dall’idea cristiana»; essi possono solo indirettamente «preparare al fine supremo in quanto spezzano l’egoismo sensibile e la pigrizia naturale e, attuandosi, accennano al di là di se stessi»50. «Il vecchio problema – conclude Troeltsch – sta di nuovo dinanzi a noi e di nuovo dal concreto flusso della vita dobbiamo produrre la sintesi nel miglior modo possibile. È la sintesi che vale per il presente e, poiché questo non si lascia a lungo incantare da esigenze e speranze, deve produrre i suoi pensieri in armonia con il presente». Se ciò significa per Troeltsch la ricerca concreta del compromesso tra fini religiosi e fini intramondani secondo l’ideale di un «approfondimento etico-cristiano dei fini umani», dei valori oggettivi culturali (società, Stato, diritto, scienza, arte) e di «una umanizzazione dei fini cristiani», questo «compromesso» non è mai da concepire come quietistica assunzione dell’esistente, in quanto il suo obiettivo è che «la vita al servizio dei fini della civiltà possa essere insieme un servizio di Dio e il servizio di Dio sia ad un tempo una trasfigurazione del mondo»51. 5. Etica oggettiva e storia Nei corsi di lezioni sull’etica pratica cristiana del WS del 1905/06 e del 1911/12, Troeltsch riconosce i «concetti fondamentali» dell’etica nel concetto del dovere o della legge mora-

49. Ivi, p. 657 (tr. it. cit., p. 164). 50. Ivi, p. 661(tr. it. cit., p. 168). 51. Ivi, pp. 663-665 (tr. it. cit., pp. 170-172, cors. ns.).

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le, nel concetto del male o di ciò che è contrario alla morale, e nel concetto di un sistema di fini morali o di valori oggettivi o culturali52. Nel concetto di «dovere» o di «legge morale» si rivela «una tendenza della coscienza umana verso ciò che è moralmente necessario, che è analoga alla tendenza teoretica verso ciò che è logicamente necessario»53. Il carattere doveroso, vincolante, del giudizio morale si fonda sulla coscienza della sua necessità, e la libertà consiste proprio nell’autonoma scelta che il soggetto agente fa in forza della percezione di questa «necessità ideale», interiormente percepita. Con un evidente riferimento a posizioni rickertiane, Troeltsch afferma che «noi possiamo arrestare la nostra corrente di coscienza mediante l’idea del necessario». In questo determinarsi in base all’«idea necessaria» opponendosi «alla corrente dell’accidentale» consiste la «libertà» e la sua «affermazione» trasforma l’io in «personalità»54. L’avvertimento del necessario in ciò che si presenta di volta in volta come dovere, cioè «la coscienza della doverosità, dell’obbligazione», è ciò che «esprime il carattere morale di un atto»55. Si tratta quindi di un carattere formale che qualifica l’atto morale e, come Troelrsch sottolinea nel corso del 1905/06, si presenta «difficile la questione del contenuto del

52. Cfr. E. Troeltsch, Grundfragen der prakt.[tischen] christl.[ichen] Ethik [Heidelberg, Winter 1905-06], cit., p. 73 (d’ora in poi abbreviato con la sigla Ethik 05/06); E.Troeltsch, Praktische christliche Ethik. Diktate zur Vorlesung im Wintersemester 1911/12, cit., p. 133 (d’ora in poi abbreviato con la sigla Ethik 11/12). 53. Ethik 05/06, p. 73; cfr. Ethik 11/12, p. 133: «Il primo concetto indica una tendenza della coscienza umana verso ciò che è necessario e verso ciò che deve essere, che è analoga alla tendenza teoretica verso ciò che è logicamente necessario» (il corsivo indica un’aggiunta nel testo dell’11/12). 54. Cfr. Ethik 05/06, pp. 73-74. 55. Cfr. Ethik 05/06, p. 74.

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dovere». Quest’ultimo è insito nella natura dell’uomo, ma dal punto di vista del contenuto «si sviluppa con l’educazione», sicché la riflessione morale «deve considerare i principi morali nella storia, per compiere in essa mediante l’apprendimento una selezione, che di nuovo accade attraverso un giudizio autonomo»56. Tuttavia, come appare più esplicitamente nel corso del 1911/12, il carattere formale del dovere non impedisce una sua articolazione in una costellazione di idee che si impongono con il sentimento dell’evidenza e della doverosità, e che diventano valori morali a cui il soggetto deve aspirare nel suo formarsi e affermarsi come personalità: vale a dire le idee del dominio di sé, dell’autolegislazione, della ragione pratica, della libertà e della imputazione, da un lato, e l’idea del riconoscimento dell’altro uomo altrettanto come soggetto in grado di affermarsi come personalità, dall’altro. Ed ora la validità universale, sopraindividuale, dell’autolegislazione della ragione pratica viene fondata attraverso il necessario radicamento della legge morale nella «ragione divina»57. Nel secondo concetto fondamentale, ovvero nel concetto del male, si rivela la libertà, ma come arbitrio. La volontà soggettiva è segnata dall’irrazionalità di un uso della libertà «in opposizione al sentimento dell’obbligazione», all’imperativo della ragione pratica. Nel male la volontà «obbedisce agli impulsi sensibili ed egoistici», invece di sottoporli alla coscienza morale ponendoli al suo servizio. Il male per Troeltsch – che qui sembra seguire direttamente le considerazioni svolte da Kant sul “male radicale” nelle pagine della Religione entro i limiti della semplice ragione, su cui aveva qualche anno prima

56. Ethik 05/06, p. 74. 57. Cfr. Ethik 11/12, p. 133.

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scritto un importante saggio58 – è essenzialmente il rinchiudersi del soggetto nella propria singolarità empirica, ovvero l’inversione del rapporto di subordinazione tra legge morale e amore di sé. «Questo male – continua Troeltsch – è di fatto e empiricamente molto esteso e lotta dappertutto con il bene. Con ciò è legata la necessità della reazione contro il male, che ogni sistema culturale etico cerca a suo modo di creare»59. Quanto al terzo concetto fondamentale, quello di un sistema di valori, esso indica che, oltre al valore etico-soggettivo della personalità che si conquista nell’obbedienza alla legge morale, vi è «un altro oggetto dell’agire, cioè i beni culturali, necessari, oggettivi, ideali», che – scrive Troeltsch nel corso del 190506 – «consistono nella famiglia, nella società produttiva, nello Stato, nella scienza, nell’arte e nella religione». Essi «si sviluppano a partire da basi naturali, psicologiche, e si devono organizzare in un sistema muovendo da un centro unitario»60. Solo realizzando questi beni e valori culturali – osserva Troeltsch nel corso del 1911/12 – «l’etica formale della legge morale si riempie di un contenuto concreto e la personalità etica acquista la vera e propria materia della sua attività»61. È qui inevitabilmente in gioco una «decisione», una scelta esistenziale, dal momento che «le idee sul bene predominante sono molto diverse. Per molti è la famiglia lo scopo vitale principale, per altri è la vita politica; più raramente anche la scienza, la ricerca della verità o l’arte. Così anche la religione può essere un bene

58. E. Troeltsch, Das Historische in Kants Religionsphilosophie, in «KantStudien», 9 (1904), pp. 21-154 (tr. it. di S. Sorrentino in E. Troeltsch, Religione Storia Metafisica, a cura di S. Sorrentino, presentazione di G. Cantillo, Libreria Dante&Descartes, Napoli 1997, pp. 177-345). 59. Ethik 05/06, p. 74; cfr. Ethik 11/12, pp. 133-134. 60. Ethik 05/06, p. 74. 61. Ethik 11/12, pp. 133-134.

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singolo, unico»62. In ultima istanza tale decisione o scelta non può che rinviare ad una fondazione metafisica in una intuizione universale del mondo63. Queste considerazioni vengono riprese in Ethik und Geschichtsphilosophie, anche se l’interesse che orienta le conferenze preparate per il seminario londinese è differente: non più il problema della definizione dell’ethos cristiano all’interno di una teoria moderna dell’eticità, ma la riflessione – peraltro già accennata nel saggio del 1902 – sul rapporto tra etica e storia, al fine di evitare le conseguenze relativistiche della storicizzazione dell’etica e di corrispondere all’esigenza di fondare teoricamente una «sintesi culturale del presente», in grado di rimediare alla «catastrofe» della prima guerra mondiale. Anche in Ethik und Geschichtsphilosophie il fine che immediatamente si presenta alla «coscienza morale» come suo oggetto aprioricamente correlato è quello dell’«acquisizione ed affermazione della personalità libera, unitaria e fondata in se stessa». Il «dovere» che qualifica l’agire morale consiste appunto nel formare «dal flusso e dal disordine della vita naturale impulsiva l’unità e la compiutezza della personalità», che non è un attributo naturale, bensì il risultato dell’attività della ragione, della mediazione dell’immediatezza naturale: «Nessuno nasce come personalità, ognuno deve trasformarsi in personalità obbedendo ad un impulso che porta ad unità e sintesi»64. L’uomo è un essere storico, «non è naturalmente

62. Ethik 05/06, p. 76. 63. Cfr. Ethik 11/12, p. 134: «La validità di questo scopo supremo a sua volta è fondabile in ultima istanza solo in termini metafisici, attraverso l’universale intuizione del mondo (durch die allgemeine Welteinsicht)». 64. Ethik und Geschichtsphilosophie, cit., p. 9 (tr. it. cit., p. 129) [KGA, 17, p. 73].

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ciò che dev’essere», ma è un divenire-se-stesso65, sorretto dalla «obbedienza e dedizione ad una tendenza alla liberazione dalla motivazione meramente naturale e contingente, ad una tendenza al dovere, che è analoga alla tendenza alla verità e come questa emerge da strati spirituali profondi del nostro essere»66. In questa definizione della personalità è indicata l’essenza dell’eticità in generale, in quanto movimento di negazione dell’immediatezza della vita naturale e sua mediazione e trasformazione razionale, da cui si origina parimenti l’eticità dei valori culturali, in quanto forme di mediazione della ragione con la natura. Tuttavia, malgrado la comune radice nel movimento di emersione dello spirito dalle limitazioni naturali, Gewissensmoral e Kulturethik si distinguono, in primo luogo perché, mentre la Gewissensmoral, «in forza della sua formalità porta fuori della storia in ciò che è intemporalmente valido», la Kulturethik, invece, «riporta nella storia e nello sviluppo, soprattutto nel regno dell’individuale»67. Un altro elemento di differenziazione tra le due forme di etica è dato dal rapporto con la struttura-di-base naturale. Nel caso della morale della coscienza è un rapporto di «completa e netta opposizione», in quanto «al contingente e al mutevole», che caratterizzano la vita naturale, «si contrappongono la necessità e l’unità», che caratterizzano la vita personale, «all’eudemo-

65. Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. di G. Calogero e C. Fatta, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1963, pp. 41-42. Il riferimento a Hegel va poi fatto più in generale per la distinzione tra morale della coscienza e etica dei valori culturali, che pur se trasposta in una differente concezione della teoria della storia e dell’etica in generale, richiama certamente la distinzione hegeliana di “moralità” e “eticità”. 66. Ethik und Geschichtsphilosophie, cit., pp. 9-10 (tr. it. cit., pp. 129-130) [KGA,17, pp. 73-74]. Cfr. E. Mazzarella, Eticità e storia in Ernst Troeltsch, “Rassegna di Teologia”,1976, pp. 510-522. 67. Cfr. ivi, pp. 29-30 (tr. it. cit., p. 144) [KGA,17, p. 85].

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nistico sentimento del piacere [si contrappone] il sentimento di una obbligazione, all’arbitrio soggettivistico [si contrappone] un contenuto oggettivo e universale»68. Diversamente si pone il rapporto nel caso dell’etica culturale: i valori culturali non sono posizioni immediate del «pensiero etico», ma sono posizioni che scaturiscono dalla «base naturale degli istinti» al di sopra di cui si innalzano e ne conservano in sé la determinazione; essi sono originariamente «mediazioni», «potenze» attraverso cui la ragione penetra nella struttura naturale e questa primieramente si umanizza e si fa, da mera vita psichica e animale, storia, Umwelt umana. L’etica dei valori culturali è perciò radicalmente storica e connessa con la situazione già-data, la cui trasformazione – negazione e conservazione insieme (Aufhebung) – è la storia. Da ciò deriva la difficoltà di costruire un «sistema» di valori culturali, di beni oggettivi: costruzione che esigerebbe una «radice unica» e un «fine unico» e quindi una «formazione pratica unitaria». Essendo l’etica culturale intimamente connessa «con i diversi territori reali della vita», sul suo piano si può solo produrre una sintesi di valori all’interno di una data cerchia culturale. Questa produzione originariamente non accade «mediante una prassi consapevole e una costruzione vera e propria», ma si realizza piuttosto «nella sfera dell’inconscio», attraverso un sotterraneo «impulso della ragione, che si eleva sulla natura e la organizza». Si forma così «il sistema dei valori come puro fatto, non generato dal pensiero e non diretto dalla volontà»69. Senonché nel dinamismo della storia, di tanto in tanto, entra in crisi il fisiologico rapporto tra l’inconscio fondamento comunitario e le autocoscienze individuali, si spezza l’esserci immediato dello «spirito comune» e allora diventa necessa-

68. Ivi, pp. 30-31 (tr. it. cit., pp. 144-145) [KGA,17, p. 85]. 69. Ivi, pp. 37-38 (tr. it. cit., pp. 149-150) [KGA, 17, pp. 89-90].

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ria «una sintesi consapevole» risultante da una progettata costruzione. Ma questa «costruzione» non è deducibile apriori, tale, cioè, che possa essere ricavata dall’essenza della ragione o in base ad una legge naturale; essa è aposteriori, tale che per pensarla e realizzarla «si devono conoscere i presupposti del proprio presente, la storia e il destino della cerchia culturale a cui si appartiene», così come «le condizioni geografiche e biologiche del proprio ambito di vita, la interna logica dello sviluppo già avviato, l’azione reciproca degli aspetti necessari e contingenti»70. Da questo punto di vista ogni tentativo di produrre una nuova sintesi culturale, un nuovo sistema di valori, trova già tracciati – come degli apriori storici – determinati sentieri in cui si definiscono i confini della propria cerchia culturale, la sua «individualità storica». D’altra parte, per la costruzione del sistema di valori è necessario un «valore centrale», che non si dà in modo oggettivo, ma sia la scelta di questo valore centrale, sia il modo in cui intorno ad esso si raccolgono gli altri valori dipendono dalla posizione personale: come nell’applicazione della Gewissensmoral ai complessi rapporti della realtà, quel che qui decide sono «l’azione creativa e la coscienza responsabile»71. La «coscienza personale» deve anche produrre responsabilmente, autonomamente, il nesso tra «sistema dei valori culturali» e «morale della coscienza». Anche questo legame non consente un «sistema apriori», anch’esso è affidato all’energia della decisione personale, dello spirito che agisce e forma arrischiando un atto di vita storico «fondato sulla comprensione dello sviluppo che conduce fino a noi e sul coraggio di trasformarlo e di farlo proseguire». Chi nell’agire storico ritiene di cogliere la verità, chi ha questo «coraggio» di proporre una

70. Ivi, p. 39 (tr. it. cit., pp. 150-151) [KGA,17, p. 90]. 71. Cfr. ivi, pp. 39-40 (tr. it. cit., p. 151) [KGA,17, p. 91].

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nuova «sintesi culturale», non può che invitare gli altri a seguirlo: ma che egli sia un uomo della verità, in modo da poter invitare gli altri ad ascoltare la sua voce, questo può essere soltanto oggetto della sua fede e, in ultima istanza, può «convalidare» questa sua fede solo «impegnandovi la sua stessa vita»72. Il concetto della Kultursynthese rappresenta il punto culminante dell’etica generale73, e il valore centrale intorno a cui essa si organizza è sempre un valore storicamente condizionato, relativo ad una cerchia di cultura e alla sua storia, ad un particolare spirito comune in cui e di cui vive l’individualità personale e senza di cui «non è possibile in generale alcuna formazione etica [...] della corrente della vita»: la stessa «idea della personalità, che è determinante come libertà nella Gewissensmoral, come contenuto e valore oggettivo (Sachgehalt) nella Gütermoral, è una fede del mondo occidentale, che in questa forma il lontano Oriente non conosce, e che, soprattutto, costituisce il nostro individuale destino europeo». Ma questa consapevolezza della relatività del valore della personalità, in quanto relativo alla tradizione europea, non modifica la nostra convinzione per cui «non possiamo fare a meno di credere, in rapporto a tutta la nostra storia, che essa sia la verità per noi»74.

72. Cfr. ivi, p. 40 (tr. it. cit., pp. 151-152) [KGA,17, p. 91]. 73. Cfr. H. Benckert, Ernst Troeltsch und das ethische Problem, cit., pp. 79 ss. 74. Ethik und Geschichtsphilosophie, cit., p. 41 (tr. it. cit., p. 152) [KGA, 17, p. 92]. Sull’etica di Troeltsch si vedano, tra gli scritti più recenti, l’introduzione di Marion Marquardt alla riedizione di Ethik und Geschichtsphilosophie (Beltz/Athenäum, Landsberg 1995), il saggio di Friedrich Lohmann, Ernst Troeltschs Überlegungen zur Grundlegung der Ethik, in «Mitteilungen der Ernst-Troeltsch-Gesellschaft», Bd. 14, 2001, pp. 1-31; la Presentazione di Fulvio Tessitore («Una nota sull’etica “storicisticamente orientata” di Ernst Troeltsch») a E. Troeltsch, I problemi fondamentali dell’etica, tr. it. cit., pp. 7-13.

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6. Etica ateistica ed etica cristiana L’idea dell’autonomia dell’etica rispetto alla religione e insieme la convinzione di un intimo rapporto tra esperienza morale ed esperienza religiosa erano già presenti in uno dei primi scritti troeltschiani sull’etica, vale a dire il saggio Atheistische Ethik del 189575, sollecitato da un articolo su “Ateismo e idealismo” apparso sui «Preussische Jahrbücher», in cui si sosteneva la modernità dell’etica ateistica e la sua superiorità rispetto all’etica cristiana e più in generale all’etica religiosa. Troeltsch vi riconosce la serietà della posizione di quanti si sono proposti e si propongono un’etica ateistica fondata esclusivamente sugli ideali della ragione, anche se non può non rilevare che essi hanno un’idea molto riduttiva della religione e dell’etica fondata sulla religione. L’idea portante espressa nell’articolo da cui prende spunto il saggio è che l’ateismo costituisce il risultato dello sviluppo culturale moderno e il principio dello sviluppo futuro76 nel quadro di una ottimistica fede nel progresso. Non si può negare, osserva Troeltsch, che la religione, e nella nostra cerchia culturale il Cristianesimo, nelle sue varie confessioni, stia attraversando «una profonda crisi»; questo, però, non comporta di per sé che l’ateismo sia diventato l’atteggiamento dominante. Una grande impressione ha certamente prodotto l’annuncio nietzscheano della “morte di Dio”, ma da tale annuncio, se, come fa Nietzsche, si traggono coerentemente le conseguenze, esse vanno in una direzione opposta all’etica ateistica del positivismo, cioè l’etica dell’altruismo, del benessere del maggior numero possibili di uomini o dello sviluppo della specie. Esse, infatti, portano piuttosto «alla eliminazione di ogni vincolo 75. In «Preussische Jahrbücher», Bd. 82, 1895, H. 2, pp. 193-217, poi in GS II, pp. 525-551 (da cui si cita). 76. Cfr. Atheistische Ethik, GS II, pp. 528-529.

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sopraindividuale e spingono verso un mondo oscuro dove dominerebbe l’enorme accrescimento dell’esserci puramente individuale»77. Tuttavia, su una via completamente diversa da quella dell’«oltreuomo», vi è un nucleo di assoluto valore nell’etica ateistica, che scaturisce dalla «rinuncia ad ogni autorità e legittimazione divina della legge morale e alla forza motivazionale che ne consegue», sicché «la legge morale viene fondata interamente su se stessa e il bene comune viene voluto per se stesso»: si tratta insomma del riconoscimento dell’autonomia della moralità che si esprime in «un’etica dell’amore per l’umanità fondata puramente su se stessa»78. Un’etica fondata in una fede «eroica» – e decisamente «ottimistica» – nel senso di «dignità» e di «responsabilità» degli uomini; un’etica che «in opposizione alla trascendenza cristiana e alla svalutazione cri-

77. Ivi, p. 530. Questa osservazione viene ripresa all’inizio di Grundprobleme der Ethik (GS II, pp. 552-553, tr. it. cit., pp. 37-38). Troeltsch muove dall’affermazione che «l’etica, in quanto teoria dei fini e degli scopi ultimi dell’esistenza umana, non può sussistere senza confrontarsi con le grandi intuizioni del mondo da cui soltanto si origina la valutazione dell’esistenza […] o senza di cui una tale valutazione sarebbe privata di ogni stabile sostegno». Ora, contro tale sostegno si è riproposta con maggiore forza «l’antica opposizione naturalistica e relativistica verso ogni forma di pensiero metafisico-religioso», ma soprattutto si è levata la critica radicale di Nietzsche che da essa ha tratto le estreme conseguenze, in forza di cui «l’etica positivistica dell’altruismo laico mostra tinte sempre più sbiadite». Anzi, continua Troeltsch, l’impatto dell’opera di Nietzsche rappresenta per essa «in misura sempre maggiore una crisi disgregatrice»». «La rimozione dal mondo, e quindi anche dall’etica, di Dio e di ogni ordinamento spirituale sovra empirico e sovra individuale» comporta «l’idea di uno sviluppo che tutto dissolve» e la percezione della «naturalistica insensatezza di tutte le cose», sicché quel che resta non può essere altro che «l’accrescimento dell’individuo fino ad un’altezza misurabile e valutabile solo da se stesso». 78. Atheistische Ethik, GS II, p. 533.

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stiana della vita» afferma «la santa maestà della vita»79 ed esige dall’individuo il massimo impegno delle proprie forze vitali. Troeltsch riconosce la validità di questi principi, si spinge, anzi, perfino a considerare una possibile superiorità dell’etica ateistica nella sua forma più rigorosa, ma, al tempo stesso, osserva che essa certamente non si adatta alla maggior parte degli uomini, e soprattutto, contesta l’immagine che dell’etica cristiana viene assunta polemicamente dai sostenitori dell’etica ateistica. L’etica cristiana, infatti, nella sua forma autentica, corrispondente alla sua essenza, poggia proprio sull’idea della interiorità della legge divina nella coscienza umana, sul sentimento dell’intima unione dell’anima con Dio, per cui è completamente errato ritenere che essa ponga il proprio fondamento in un’autorità esteriore. Inoltre Troeltsch acutamente fa notare come l’etica ateistica, perdendo il riferimento al fondamento divino, indebolisca di fatto la legge morale, in quanto la inserisce «come un corpo estraneo in un mondo puramente meccanicistico, privo di vita e fatto di individui assolutamente equivalenti»80. Fermo restando il valore del nucleo essenziale di un’etica puramente umanistica – l’etica della responsabilità e, in termini kantiani, del dovere per il dovere – Troeltsch sottolinea come «la fede, se è autentica, con i suoi sentimenti di timore e riconoscenza verso Dio, non può che rafforzare l’energia dell’agire morale». Soprattutto può soccorrere la fragilità degli uomini, che difficilmente possono attuare «la purezza rigorosa della legge morale dell’etica ateistica». In realtà l’ateismo solo in particolarissime personalità raggiunge la sua forma più elevata di etica, mentre per lo più porta a forme di scetticismo o di indifferenza, come dimostra, secondo Troeltsch, «la gioventù [del

79. Ivi, p. 534. 80. Cfr. ivi, pp. 535-536.

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suo tempo, che] è incline all’ateismo», ma da questo ateismo non produce «un rafforzamento dell’energia morale», ma per lo più «l’atteggiamento […] di un lasciar andare le cose, cercando solo la soddisfazione dei propri impulsi individuali»81. Quanto alla sua forma più elevata Troeltsch osserva ancora che essa ha comunque bisogno «di una fede nella potenza e nel progresso del bene», una fede in inevitabili presupposti metafisici, «che la portano non lontano dalla fede religiosa»: si deve presupporre infatti «una connessione razionale che trascende i singoli fenomeni […], una teleologia immanente del progresso e dello sviluppo»82: una fede che, specialmente nell’ambito della cultura tedesca, si esercita prevalentemente nella polemica con l’etica cristiana e «non si interroga troppo sui suoi presupposti», limitandosi «con leggerezza a collegare le dottrine scientifico-naturali e materialistiche con residui dell’eredità dell’Idealismo classico»83. C’è, infine, un’altra importante osservazione che va messa in rilievo nel saggio del 1895 ed è che, contrariamente a quanto pensano i positivisti e più in generale i sostenitori dell’etica ateistica, la connessione dell’etica con la religione non si esaurisce nell’aggiunta di un fondamento esteriore, di una legittimazione da parte di un’autorità esteriore della legge morale, ma investe e qualifica il contenuto stesso dell’etica. Non si tratta di sottomettere la propria volontà alla legge morale imposta da Dio, ma questa legge è «un impulso dello spirito nei cuori» e orienta intimamente la volontà a realizzare «una vivificante comunione con Dio», che costituisce il modello di ogni rapporto con il prossimo che non può porsi che come «un rapporto d’amore»84. 81. Cfr. ivi, pp. 536-537. 82. Cfr. ivi, p. 540. 83. Ivi, p. 543. 84. Cfr. ivi, pp. 545-546.

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In conclusione, pur apprezzando l’etica ateistica nella misura in cui pone come suo fondamento il genere umano e come suo fine il bene comune, Troeltsch non ritiene che essa possa pretendere una superiorità sull’etica cristiana, specialmente se si tiene presente la straordinaria ricchezza di contenuto di quest’ultima: «si pensi solo a Paolo e Agostino, a San Francesco, a Tommaso da Kempen, a Milton, a Bunyan, a Kant e a Schleiermacher. Quale tenerezza e profondità di interiore vita spirituale e quale ricchezza di scopi personali, quale pienezza di beni morali nella comunione con Dio dei cuori e quale potente effetto sulla vita comunitaria degli uomini!»85. Rispetto a questa profondità di vita spirituale, che sa prendere su di sé anche le sofferenze che le strutture esteriori della società e il lavoro in esse comportano, l’etica ateistica con il suo calcolo del benessere del genere appare «fredda e seriosa», «lontana dalle aspirazioni e dalle attese» della vita personale86. Certamente l’etica cristiana implica la fede, la convinzione che la realtà naturale, «il mondo sensibile non è tutto», che «nella vita di questo mondo l’anima si prepara ad una più alta esistenza» nell’al di là, perché «l’attuazione del regno di Dio», dell’ideale di una comunità d’amore fondata sull’amore di Dio, è sempre parziale e rinvia sempre oltre, verso la fine dei tempi87. 85. Ivi, p. 548. 86. Ibidem. 87. Cfr. ivi, p. 550. Un accenno ad Atheistische Ethik si trova in una nota del libro di H.-G. Drescher, Ernst Troeltsch. Leben und Werk, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1991, nota 148 a p. 301, nell’ambito della trattazione di Grundprobleme der Ethik. Drescher osserva che prima del saggio-recensione all’Ethik di Herrmann Troeltsch aveva trattato di questioni etiche solo in Atheistische Ethik (in realtà, come si è visto, l’etica era stata trattata ampiamente in Die christliche Weltanschauung und ihre Gegnströmungen) che egli considera riduttivamente solo come «un prudente scritto apologetico», in quanto fa vedere i presupposti e le conseguenze dell’etica ateistica, mostrando come anche «dal punto di vista di una teleologia idealistica “non vi sono impossibilità” nei principi metafisico-religiosi». In effetti quello che a

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E ancora oggi per fronteggiare il dominante nichilismo non v’è dubbio che l’etica cristiana dell’eguaglianza, della giustizia e dell’amore, che scaturisce dalla comune filiazione da Dio, può riscaldare i cuori molto di più del pur apprezzabile altruismo ricavabile dalle varie declinazioni dell’utilitarismo delle etiche naturalistiche. Nella profonda crisi del senso della vita umana che caratterizza i nostri giorni, proprio dalla variegata eredità del Cristianesimo sembra poter venire, almeno nell’ambito della nostra cerchia culturale, una possibilità di salvezza e di orientamenti per il futuro. I valori della persona (irriducibile non solo a Körper ma altrettanto a Leib), della giustizia, della solidarietà, della speranza in un mondo diverso, più rispettoso del divino che è nell’umano, sembrano poter costituire un patrimonio accomunante su cui costruire un nuovo progetto di convivenza sociale fondato sul rispetto degli universali diritti umani e in grado di fare incontrare e interagire culture diverse. 7. L’etica cristiana: dall’origine religiosa alla sua dimensione sociale Secondo Troeltsch l’etica cristiana, presa per sé, è un’etica specificamente religiosa, perché la predicazione di Gesù ha un contenuto puramente religioso, dominato dagli ideali della personalità interamente consacrata a Dio e all’amore fraterno in Dio, e parimenti dall’idea del regno di Dio che sta per venire. L’attesa dell’imminente regno di Dio non comporta una negazione del mondo, ma certamente una sua relativizzazione, una “indifferenza” verso di esso: perciò la predicazione di Gesù e la fede della prima comunità cristiana non presentano una vera e propria etica sociale, né un programma di riforma sociale. Al loro posto c’è l’appello a vivere con gli lui interessa è solo «conquistare un luogo teoretico-sistematico in cui situare la decisione per la fede. Il resto è solo questione di convinzione personale».

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altri credenti nel Dio di Gesù in un rapporto fraterno, ovvero «nella comunione puramente religiosa dell’amore». Essi devono agire dentro gli ordinamenti terreni preesistenti e durevoli conformemente alla volontà santa di Dio, seguendo gli ideali eroici del discorso della montagna, al fine di prepararsi con la santificazione personale, che impegna parimenti l’amore del prossimo, all’avvento del regno. Quest’ultimo – osserva Troeltsch – non è però pensabile secondo i modelli storici di dominazione, ma «crea sulla terra un ordine nuovo, che [...] non ha nulla in comune con lo Stato, la società, la famiglia» e solo Dio può sapere, nella sua imperscrutabile volontà, quale figura avrà88. I tratti fondamentali dell’originaria etica cristiana risultano essere allora da un lato «l’individualismo illimitato e incondizionato», ovvero la personale decisione per la santificazione di sé nella comunione con Dio e nel servizio di Dio, dall’altro lato l’idea della «comunione d’amore», ovvero «il fatto che coloro che si santificano per Dio s’incontrano nel medesimo fine» e sono chiamati ad attuare «la volontà divina d’amore», non solo all’interno della comunità dei credenti, ma anche «verso gli estranei e i nemici»89. L’amore del prossimo, l’amore fraterno, non indica, quindi, soltanto una disposizione soggettiva alla bontà e alla carità, alla comprensione e al rispetto dell’altro, ma ad un tempo un reale «collegamento» tra quanti sono «uniti in Dio», collegamento che tende ad espandersi universalmente. Certo il «comunismo religioso dell’amore» che nasceva dalla predicazione di Gesù non trasferiva l’eguaglianza dal piano religioso a quello sociale ed economico, né implicava l’idea di una proprietà collettiva, ma riguardava unicamente il consumo, la volontaria messa in comune dei beni per la loro

88. Soziallehren, GS I, pp. 49-51 (tr. it. cit., vol. I, pp. 65-66). 89. Cfr. ivi, pp. 34-35, 39-41, 48-49 (tr. it. cit., I, pp. 45-46, 50-53, 63-64).

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utilizzazione, mentre ammetteva, anzi, «il guadagno privato continuativo come condizione della possibilità di donare e di sacrificarsi». Tuttavia – osserva Troeltsch – esso costituisce un ideale essenziale dell’ethos cristiano originario dal quale successivamente sono state tratte le conseguenze sociali più radicali: «il monachesimo, i moti comunistici del Medioevo, gli Anabattisti, gli entusiasti ed idealisti: tutti hanno seguito questa traccia» ed «anche la Chiesa ha avvertito e riconosciuto molto bene questa coerenza logica», solo che nella teoria del diritto naturale assoluto ha spostato la «comunità d’amore» nel paradiso perduto90. Se la predicazione di Gesù è indifferente verso il mondo e le sue strutture, specialmente con l’affievolirsi dell’attesa dell’imminente avvento del regno e con l’affermarsi dell’organizzazione istituzionale della comunione dei credenti nella Chiesa si modifica l’atteggiamento del Cristianesimo verso il mondo, che tende a porsi nei termini di un compromesso. Già nella comunità riunita nel ricordo di Gesù comincia a delinearsi un minimo di organizzazione interna, per l’esercizio della carità, della beneficenza. Tuttavia non siamo ancora di fronte alla Chiesa come tipo definito di formazione sociologica, la quale implica l’assestarsi del culto del Cristo, crocefisso e risorto, e le operazioni sacramentali quali il battesimo e l’eucaristia, che determinano l’oggettiva partecipazione alla grazia di Dio e alle conseguenze salvifiche della morte e della Resurrezione del Cristo91: «la Chiesa – scrive Troeltsch – è un istituto di salvezza, un’opera di Dio, non dell’uomo, una istituzione miracolosa, dotata di verità e di forze soteriologiche divine». Rispetto all’originario carattere individuale e personale del rapporto con Gesù e con il Dio di Gesù, la Chiesa in qualche

90. Cfr. ivi, pp. 49-51 (tr. it. cit., I, pp. 65-66). 91. Cfr. ivi, pp. 48-49, 58-60 (tr. it. cit., I, pp. 63-64, 76-78).

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modo «depersonalizza» la relazione religiosa e «pone al posto della prestazione personale la santificazione oggettiva»92. Lo schema sociologico predominante che, soprattutto a partire da Paolo, la Chiesa antica cominciò a delineare (senza peraltro elaborare ancora una teoria generale della società), è indicato da Troeltsch come «il tipo del patriarcalismo cristiano», che, affermando l’ideale religioso dell’eguaglianza, riconosce però le differenze sociali esistenti e intende superarle esclusivamente su un piano etico-religioso personale. Da ciò deriva che il Cristianesimo assume per lo più un atteggiamento «conservatore» verso le strutture politiche e le articolazioni sociali esistenti. Anche se egli non manca di sottolineare adeguatamente che resta altrettanto operante la tendenza radicale e rivoluzionaria, che scaturisce dagli ideali del discorso della montagna e che, sia pure indirettamente e talora sotterraneamente, finisce per incidere profondamente sul destino delle stesse formazioni sociali e politiche mondane. «L’atteggiamento prescritto dal paolinismo – scrive Troeltsch – è di riconoscere le formazioni sociali e servirsene in quanto divenute non senza la volontà di Dio e contenenti un certo elemento di bene, ma nello stesso tempo di rifiutarle e mantenerle indipendenti in quanto esse appartengono a un mondo tramontante e sono intrecciate dappertutto col paganesimo»93. Dall’insegnamento di Paolo derivano la concezione organicistica della società e dello Stato e l’orientamento a conservare l’ordine sociale nelle sue differenziazioni. Nell’epistola ai romani 12,4-6 Paolo delinea la concezione della Chiesa come un solo corpo in Cristo e più in generale la comunità come

92. E. Troeltsch, Die Sozialphilosophie des Christentums, Klotz, Gotha 1922, pp. 16-17. 93. Soziallehren, GS I, p. 73 (tr. it. cit., I, p. 96); cfr. pp. 60-62, 67-68, 73-74 (tr. it. cit., I, pp. 78-79, 88-89, 96-97).

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organismo: «Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri». E vi delinea anche il carattere di vocazione che ha ciascuna funzione e il dovere di conformarsi a questa funzione – il futuro concetto di Beruf: «Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi l’insegnamento, all’insegnamento; chi l’esortazione all’esortazione. Chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia». E successivamente, in 13, 1-7, Paolo afferma chiaramente il principio della derivazione del potere delle autorità costituite da Dio e quindi il dovere di sottomettersi ai pubblici poteri: «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio […]. Vuoi non aver timore da temere l’autorità. Fa il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male». Sicché il rispetto delle autorità costituite non nasce solo per il timore della pena, ma «anche per ragioni di coscienza», perché sia mantenuto l’«ordine stabilito da Dio». Di qui la conclusione di Paolo: «Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto. A chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto». Si tratta certo di un insegnamento che dà fondamento a un «diritto naturale relativo moderatamente conservatore» come suggerisce Troeltsch, anche se non va trascurato che il mantenimento dell’«ordine stabilito» e il rispetto delle autorità costituite si fondano in ultima istanza su un principio etico-religioso a suo modo rivoluzionario, per il quale il precetto fon-

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damentale dell’essere cristiani è l’amore in quanto è «il pieno compimento della legge»94. Nel comandamento dell’«amore vicendevole», afferma Paolo, si riassumono tutti gli altri comandamenti: «Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (13,8-10)95. Un precetto che si iscrive nella convinzione apocalittico-escatologica dell’imminente avvento del regno di Dio, cioè della finale salvezza: «è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce» (13, 11-12). Sicché – ammonisce Paolo – «comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie». E da questo punto di vista, come suggerisce Taubes96, anche la sottomissione alle autorità costituite, il conservatorismo politico, si potrebbe spiegare con la fede nell’imminente salvezza, quindi nella prospettiva apocalittico-escatologica.

94. Si vedano in questo senso le acute osservazioni di Jacob Taubes: «Dai Vangeli sappiamo del doppio precetto. A Gesù viene chiesto: qual è il precetto più importante? Ed egli risponde: devi amare il Signore con le tue forze e la tua anima […]; poi aggiunge: ama il prossimo tuo come te stesso. Paolo non esprime un doppio precetto [...] il fulcro del discorso è l’amore non già verso il Signore, ma verso il prossimo. Non vi è alcun doppio precetto, ma un unico precetto. A mio giudizio si tratta di una scelta assolutamente rivoluzionaria» (J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, tr. it. di P. Dal Santo, Adelphi, Milano 1997, 2a ediz. pp. 101-102). 95. Sull’importanza decisiva di questa seconda parte del cap. 13 insiste Taubes che la interpreta nel senso «del credo apocalittico-escatologico», che per lui resta immutato nel pensiero paolino dal tempo di Tessalonica «fino alla Lettera ai Romani» (La teologia politica di San Paolo, cit., p. 102). 96. Ivi, p. 103.

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Questa originaria ispirazione duplice e contraddittoria, difficilmente componibile in una dottrina, non verrà mai del tutto meno nella storia dei rapporti tra Cristianesimo e mondo, così come nella stessa storia dell’autoconfigurazione delle comunità cristiane. Tuttavia questa situazione contraddittoria esige sempre una risoluzione, specialmente per motivi pratici. E quando la Chiesa antica si trovò di fronte ai nuovi e difficili problemi posti dall’enorme espansione della cristianità, dal suo progressivo inserimento nelle articolazioni della società e dello Stato, dal mutamento stesso della composizione sociale delle comunità ecclesiastiche, non poté fare a meno di cercare una via di uscita e di elaborare una concezione sociologica generale. Questa via d’uscita fu trovata nell’assimilazione e nella cristianizzazione della dottrina stoica del diritto naturale, che presentava notevoli punti di contatto e di affinità con le idee cristiane. Si realizzò così un compromesso con il mondo riducendo la distanza tra il piano naturale e razionale e quello soprannaturale e religioso: «L’attesa della Civitas Dei, della Gerusalemme celeste resta, e il mondo resta un regno del peccato e delle tenebre. Ma in questo regno delle tenebre si fa ancora strada un residuo della luminosità del Paradiso, la ragione naturale che promana da Dio e forma gli ordinamenti sociali razionali come basi e integrazioni degli ordinamenti della Chiesa e del loro supremo ideale, che ora si rifugia nell’ascesi»97. Se si tiene presente l’intera storia dell’etica sociale cristiana – come Troeltsch ha fatto analiticamente nelle Soziallehren – si può affermare che la filosofia sociale del Cristianesimo «è il diritto naturale cristiano con un’applicazione ora più conservatrice, ora più radicale»98. Questa diversità di applicazione è connessa con le varie forme di comunità prodotte dal Cristia-

97. Die Sozialphilosophie des Christentums, cit., p. 9. 98. Ivi, pp. 13-14.

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nesimo e rinvia quindi alla tipologia delle autoconfigurazioni sociologiche dell’idea cristiana proposta da Troeltsch. Accanto al tipo della chiesa, che è stato certamente dominante, si è presentato fin dall’inizio (e anzi racchiude in sé le prime comunità dei discepoli e seguaci di Gesù) il tipo della setta, cioè di una comunità ristretta di credenti in Gesù e nella sua predicazione, i quali vogliono seguire in modo radicale ed entusiastico i principi della santificazione personale e dell’amore. Mentre la chiesa ha carattere prevalentemente oggettivo ed istituzionale, «la setta è invece la comunione della volontarietà e dell’adesione cosciente. Tutto vi dipende dall’effettiva azione e partecipazione personale» e la comunità non è sorretta «dal patrimonio comune», ma «si attua immediatamente in una relazione personale di vita». La setta risale direttamente alla predicazione di Gesù, al rigorismo del discorso della montagna, «raduna gli eletti della vocazione e li contrappone recisamente al mondo»99. Questi due tipi ideali, che sono entrambi «impliciti nella consequenzialità logica del Vangelo e che soltanto presi insieme esauriscono l’ambito dei suoi effetti sociologici»100, si distinguono, proprio in connessione con il diverso principio sociologico, sul piano della dogmatica e della morale, e in particolare sul piano dell’etica sociale per il diverso riferimento al diritto naturale. Furono dapprima i Padri della Chiesa nel contesto culturale della tarda Antichità e poi il Cattolicesimo medievale a sviluppare la dottrina cristiana del diritto naturale, distinguendo, come già aveva fatto lo Stoicismo, tra diritto naturale assoluto e relativo. Per l’etica stoica il diritto naturale assoluto riguarda uno stato ideale presente nella condizione originaria dell’umanità dominata dalla ragione e dall’idea di una comunità di

99. Soziallehren, GS I, pp. 372-73 (tr. it. cit., I, pp. 481-82). 100. Ivi, p. 375 (tr. it. cit., I, p. 484).

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uomini liberi, senza autorità, senza differenze sociali, senza proprietà privata. Il diritto naturale relativo riguarda invece l’umanità storica, uscita dall’età dell’oro in un’epoca e in un mondo in cui la ragione è costretta a lottare con le passioni – con l’egoismo, la sete di potere, la violenza – e perciò ad introdurre lo Stato, il sistema giuridico coercitivo, il matrimonio, la proprietà, un sistema di regole per attenuare le diseguaglianze sociali. La Chiesa antica, assimilando la dottrina stoica per l’esigenza di trovare un compromesso con il mondo le cui strutture sociali e politiche apparivano immutabili, identificò il diritto naturale assoluto con l’ideale della libertà dei figli di Dio e della comunione fondata sull’amore – ideale realizzato soltanto in Paradiso – e si richiamò al diritto naturale relativo come al diritto adeguato allo stato di peccato e concepito ad un tempo come pena e rimedio del peccato. Il diritto naturale relativo, al quale doveva commisurarsi il diritto positivo, fu, indubbiamente, lo strumento con cui la Chiesa ha realizzato l’integrazione con il mondo, ha riconosciuto e legittimato le istituzioni e le formazioni economicosociali esistenti; ma al tempo stesso, come Troeltsch giustamente osserva, mediante il diritto naturale relativo la Chiesa ha anche potuto regolare, giudicare e condannare tali istituzioni e formazioni. Questa duplicità di funzione si può scorgere tanto nel diritto naturale relativo elaborato nel modo più sistematico e compiuto nell’ambito della Chiesa cattolica e specialmente con il tomismo, quanto anche nel riferimento ad esso presente sia nel Luteranesimo che nel Calvinismo. Anche se in quest’ultimo viene messo in primo piano, piuttosto che il carattere di rimedio allo stato di peccato, quello della sua razionalità. Calvino, infatti, si proponeva di realizzare una società cristiana, e ciò comportava un reciproco avvicinamento tra diritto naturale e ideale cristiano e un superamento della separazione luterana tra «Cristianesimo del cuore» e «morale dell’ufficio e della vocazione professionale». Con ciò egli avviò un processo di enfatizzazione degli aspetti ideali ed as-

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soluti del diritto naturale rispetto a quelli relativi allo stato di peccato e rese possibile il successivo avvicinamento tra il diritto naturale cristiano del Calvinismo anglo-sassone e il giusnaturalismo moderno razionalistico e liberal-democratico101. Per questo aspetto il Calvinismo assimila elementi del tipo della setta. Le sette, infatti, aspirando a realizzare piccole comunità di credenti che perseguono la santità e non avendo alcun interesse a realizzare compromessi con il mondo, si richiamano direttamente al diritto naturale assoluto identificato con la legge dell’amore predicata e testimoniata da Gesù Cristo e raccolta nel discorso della montagna. Nel tipo della setta, tuttavia, Troeltsch distingue due tendenze fondamentali: la setta che si mantiene fedele all’ispirazione puramente religiosa del discorso della montagna ed è orientata a sopportare con pazienza le sofferenze e i mali del mondo, rinviando il trionfo della legge naturale assoluta alla fine dei tempi, e la setta combattiva e riformatrice che si ricollega, oltre che al discorso della montagna, al pensiero del regno di Dio e della sua realizzazione che comincia già nel mondo102. Sul terreno della setta paziente e sofferente si compie prevalentemente, come nel caso dei Fratelli moravi, «il ritiro dei veri cristiani dal mondo pieno di pericoli per restringersi in una comunione fraterna», e il ritorno quindi all’ideale sociale del Cristianesimo antico, che si esprimeva nella «rinuncia al mondo» e nell’«astensione dal diritto, dal giuramento, dalla proprietà, dalla guerra, dal potere» e nella pratica del servizio e della carità103.

101. Cfr. Das stoisch-christliche Naturrecht und das moderne profane Naturrecht, GS IV, pp. 169-184 (tr. it. cit., pp. 106-117); Soziallehren, GS I, pp. 158 ss. 172-174, 260 ss. (tr. it. cit., I, pp. 205 ss. 223-26, 332 ss.). 102. Cfr. Das stoisch-christliche Naturrecht und das moderne profane Naturrecht, GS IV, pp. 184-185 (tr. it. cit., p. 118). 103. Cfr. Soziallehren, GS I, pp. 407-408, 363, 367-368, 373-374, 379 (tr. it. cit., I, pp. 526-527, 469, 474, 482,489-490).

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Sul terreno della setta combattiva, in particolare, si formano le idee democratiche e comuniste più radicali, alle quali si possono ricondurre indirettamente gli ideali del socialismo moderno laico e si richiamano direttamente le posizioni del socialismo cristiano che, pur respingendo la lotta di classe, «si rifiuta – scrive Troeltsch – di divinizzare l’ordine borghese vigente» sulla base del diritto naturale relativo e riconquista per l’etica cristiana «il suo carattere utopistico e rivoluzionario». La setta combattiva – ammette Troeltsch – è fedele «all’interpretazione letterale del Vangelo» che essa vuole attuare «anche nelle sue conseguenze sociali dell’individualismo radicale e dell’amore del prossimo» senza arrestarsi «dinanzi a nessuno dei beni della civiltà». Il suo dramma, però, è che essa può instaurare il suo principio del diritto naturale assoluto solo ricorrendo a ciò che contrasta proprio con le stesse norme evangeliche, vale a dire ricorrendo alla forza e alla violenza o alla potenza dello Stato. Altrimenti non le resta che rifugiarsi nell’escatologia104. Perciò Troeltsch, convinto che «la rivoluzione sociale non scorre nel sangue del Cristianesimo»105, che per lui non s’identifica soltanto con il Vangelo, si sente certamente più vicino alla religiosità della setta paziente e sofferente, che si avvicina a quella della mistica e dello spiritualismo. Pochi legami con il diritto naturale cristiano ha, invece, il terzo tipo di autoconfigurazione sociologica indicato da Troeltsch come comunità mistica o spiritualistica. «Il misticismo [die Mystik]» non ha una propria, autonoma etica sociale cristiana; esso, infatti, è «la riduzione a interiorità e immediatezza del mondo di idee consolidatesi nel culto e nella dottrina, che diventa possesso puramente interiore e personale dell’anima, 104. Cfr. Das stoisch-christliche Naturrecht und das moderne profane Naturrecht, GS IV, p. 185 (tr. it. cit., p. 119); Soziallehren, GS I, pp. 843-846, 424 (tr. it. cit., II, pp. 523-27; I, p. 549). 105. Soziallehren, GS I, p. 961 (tr. it. cit., II, p. 675).

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intorno a cui possono formarsi soltanto gruppi fluidi e determinati affatto personalmente», mentre tendono a scomparire le forme esteriori del culto, i dogmi e i legami con la tradizione106. I tre tipi fondamentali di auto-configurazione sociologica dell’idea cristiana sono sorti fin dall’inizio come possibili soluzioni dei problemi sollevati dal contrasto tra i principi ideali e le leggi sociologiche e psicologiche naturali sia all’interno della stessa formazione comunitaria cristiana, sia nel rapporto con altre formazioni sociali religiose e specialmente mondane. Essi, essendo tipi ideali107, non trovano una realizzazione pura 106. Ivi, p. 967 (tr. it. cit., II, p. 684). Avverto che Sanna traduce con «misticismo» «Mystik» («mistica») che è il termine impiegato da Troeltsch nelle Soziallehren. In altri saggi Troeltsch adopera oltre che Mystik anche Mystizismus. 107. Si può adoperare certamente anche per Troeltsch il concetto introdotto da Max Weber. Sul rapporto di amicizia e di collaborazione, con Max Weber, così come sull’influenza di Weber sui suoi studi, si veda il Necrologio per Max Weber pubblicato da Troeltsch sulla «Frankfurter Zeitung» il 20 giugno del 1920 (Nachruf auf Max Weber) ora in Deutscher Geist und Westeuropa, hrsg. von H. Baron, Mohr, Tübingen 1925; Neudr. Scientia Verlag, Aalen 1966, pp. 247-252 (tr. it. di A. Carcagni in E. Troeltsch, La democrazia improvvisata. La Germania dal 1918 al 1922, a cura di F. Tessitore, Guida editori, Napoli 1977, pp. 393-398). Si veda inoltre la recensione polemica di Troeltsch al saggio del 1909 Calvinismus und Kapitalismus di Felix Rachfahl («Internationale Wochenschrift», IV, 1910, ora in GS IV, pp. 783 ss.), nella quale difende la tesi weberiana sulla influenza del Calvinismo nelle origini del capitalismo moderno. Su Troeltsch e Weber cfr. W. Bodenstein, Neige des Historismus. Ernst Troeltschs Entwicklungsgang, Gerd Mohn, Gütersloh 1959, pp. 101-109, in particolare le pp. 105-109; W. Pauck, Harnack and Troeltsch. Two Historical Theologians, Oxford University Press, New York 1968, pp. 69-76; H.-G. Drescher, Ernst Troeltsch. Leben und Werk, cit., pp. 209-215 (in particolare sulla loro amicizia); M. Miegge, Troeltsch e Weber, in Ernst Troeltsch. Religione, Chiese, Modernità, a cura di E. Pace e M. Piccinini, «Humanitas», LXXI, n. 2, 2016, pp. 278-286. Una precisa, equilibrata, analisi delle reciproche influenze e della concreta cooperazione scientifica tra Weber e Troeltsch è quella presentata da Fr. W. Graf, Max Weber und

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e compiuta nella storia effettiva della cristianità, e tuttavia ognuno di essi si può riconoscere come prevalente in una determinata epoca storica, per la maggiore corrispondenza a una determinata «situazione spirituale», «per la consonanza con le altre tendenze generali e fondamentali della situazione storica del momento». Cosi, se l’Antichità e il Medioevo hanno richiesto il tipo della Chiesa con la sua forte tendenza organizzatrice e la capacità di rivolgersi alle masse e di produrre una complessiva civiltà cristiana unitaria, «la maturazione dell’individualismo tardo-medievale e le crisi sociali dell’epoca, lo sviluppo della civiltà cittadina, artigianale, commerciale» costituivano «un terreno fecondo» per lo sviluppo delle sette e delle loro idee giusnaturalistiche radicali108. die protestantische Theologie seiner Zeit, «Zeitschrift f. Religions- und Geistesgeschichte», Jg. 39, 1987, pp. 125, 133-137; sempre di Friedrich Wilhelm Graf è da vedere il saggio Friendship between Experts: Notes on Weber and Troeltsch, in Max Weber and his contemporaries, edited by W. J. Mommsen and J. Osterhammel, The German Historical Institute, Unwin Hyman, London 1987, pp. 215-233. Per un confronto tra Troeltsch e Weber in relazione al problema dello storicismo rinvio al saggio di F. Tessitore, Troeltsch, Weber e il destino dello storicismo (1993), in F. Tessitore, Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1998, vol. IV, pp. 149-158. In relazione alla sociologia della religione cfr. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, cit., pp. 415-422 e Id. Introduzione a Lo storicismo tedesco, a cura di P. Rossi, Utet, Torino 1977, pp. 44-47. 108. Nella concettualizzazione del tipo della setta Troeltsch ha presente, com’egli stesso ricorda, l’elaborazione di Max Weber. Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, tr. it. in M. Weber, Sociologia della religione. I. Protestantesimo e spirito del capitalismo, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 2002, pp. 112-113: qui Weber fa vedere come dall’applicazione dell’«idea [calvinista] della necessità della conferma della fede nella vita professionale mondana», e della conseguente «ascesi», si sia formata la coscienza di un’«aristocrazia spirituale» che si riteneva predestinata da Dio alla santità e quindi «separata dal resto dell’umanità dannata ab aeterno» e perciò da disprezzare e odiare: «questo modo di sentire poteva essere talmente forte da sfociare, in certe circostanze, nella formazione di sette», come nel caso degli «indirizzi “indipendentistici” del secolo XVII»;

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Parimenti, se nell’età degli Stati moderni nazionali e dell’assolutismo le Chiese riformate e la Chiesa cattolica della Controriforma riaffermarono il tipo della Chiesa e rinnovarono la filosofia sociale cristiana, poi con il progressivo movimento di emancipazione politico-culturale ed etico-religioso della società europea dal dominio della civiltà ecclesiastica e dall’assolutismo, l’esperienza religiosa si è concentrata nell’interiorità spirituale e nell’intenzione etica, e si è prodotta una «modernizzazione delle idee mistico-religiose» in uno spiritualismo cristiano che separa la religione da ogni elemento politico e pp. 139-142: a proposito del «movimento battistico con le sette che ne derivarono nel corso dei secoli XVI e XVII […] ossia i Battisti, i Mennoniti e soprattutto i Quaccheri», Weber osserva che si tratta di «comunità religiose la cui etica riposa su un fondamento eterogeneo, in linea di principio, rispetto alla dottrina riformata», vale a dire l’idea della «chiesa dei credenti (belivers’ Church)», vale a dire una «chiesa visibile» concepita non più come «un’istituzione comprendente necessariamente i giusti e gli ingiusti […] ma esclusivamente come una comunità degli individui personalmente credenti e rinati, e soltanto di questi; in altre parole non come una “chiesa” ma come una “setta”». In una integrazione alla nota 179, inserita nell’edizione del 1920 de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, compresa nel I volume dei Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, Weber rinvia al «saggio successivo», cioè al saggio del 1906 Chiese e sette nel Nord-America, nella versione ampliata e modificata, pubblicata nello stesso I volume, con il titolo Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo, e aggiunge: «il concetto di “setta” qui impiegato è stato usato contemporaneamente e – suppongo – indipendentemente da me anche da F. Kattenbusch nella Realenzyklopädie für protestantische Theologie (alla voce “Sekte”). Ernst Troeltsch lo accetta e ne parla diffusamente nelle sue Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen». Come suggerito da Weber, cfr. anche Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo, tr. it. cit., pp. 189-230. Per una precisa determinazione della ricerca weberiana sul rapporto tra etica protestante e capitalismo moderno cfr. P. Rossi, Introduzione a M. Weber, Sociologia della religione. I. Protestantesimo e spirito del capitalismo, tr. it. cit., pp. VII-XI, XVII, XXXIV-XXXVI. Tematicamente al concetto di setta in Weber e Troeltsch è dedicato il saggio di Robert E. Lerner, Waldenser, Lollardene und Taboriten. Zum Sektenbegriff bei Weber und Troeltsch, in Max Webers Sicht des okzidentalen Christentums, hrsg. von W. Schluchter, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1988, pp. 326-354.

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sociale, fondandola con una moderna teologia in una regione autonoma della vita spirituale. È questo il terreno del misticismo e delle sue molteplici e variegate forme di piccole aggregazioni sociali, che prendono le distanze, già prima dell’epoca della Riforma, anche dalle sette, spesso caratterizzate da un rigido ordinamento comunitario109. Certamente non mancano nelle sette disposizioni e forme di entusiasmo mistico, ma «mentre le sette fondano oggettivamente la loro comunione sulla rivelazione biblica, sulla legge di Dio, sull’adempimento di essa controllato dalla comunità, la mistica, in generale, in sé non contiene alcun principio comunitario e conosce la comunione solo come incontro di compagni nel modo di sentire»110. Anche in queste conventicole si avvertono spesso le spinte ad una più determinata regolamentazione sociale, ma allora finiscono per assumere i caratteri della setta. Il misticismo – suggerisce Troeltsch nelle Soziallehren alla fine della trattazione del Cattolicesimo medievale – si inserisce come un terzo tipo nei contrasti tra ecclesiasticismo e settarismo, come un «individualismo religioso privo di organizzazione»111. Anticipando gli svolgimenti successivi, Troeltsch descrive già qui la difficile situazione in cui «le teorie sociali cristiane si trovano nel mondo moderno», in cui l’orientamento «verso la convinzione soggettiva, la spontaneità, la viva affermazione etica», in breve la tendenza alla individualità e all’autonomia della coscienza, anche di quella religiosa, mette in crisi sia l’istituzione ecclesiastica sia la setta con il suo rigido senso della comunità «aderente alla interpretazione letterale del

109. Cfr. E. Troeltsch, Die Sozialphilosophie des Christentums, cit., pp. 2325. 110. Soziallehren, GS I, pp. 382-383 (tr. it. cit., I, p. 494). 111. Ivi, p. 424 (tr. it. cit., I, p. 549).

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Vangelo»112. Il misticismo appare perciò più adeguato allo spirito moderno. Nel Cristianesimo primitivo non mancano, certo, estasi, visioni, attestazioni della presenza dello spirito, entusiasmi per la sua discesa in mezzo ai credenti. In effetti, il misticismo ha attraversato tutta la storia del Cristianesimo e rimanda al Cristianesimo originario, rimanda a Paolo per il quale «la cena del Signore, il centro del nuovo culto, [diviene] cibo e bevanda mistici, unificazione sostanziale» e l’unione con Cristo, con il Figlio e tramite suo con il Padre si trasforma in una concreta vita spirituale, in una concreta comunione: «Cristo [diviene] una sfera reale di vita di natura soprasensibile, nella quale il credente vive, sente e pensa, e diventa nuova essenza “pneumatica”»113. Ma nel mondo moderno, riflesso in sé, il misticismo si rende autonomo dalla istituzione ecclesiastica, così come dalla setta rigorosamente vincolata alla legge, e, proiettandosi anche al di fuori della tradizione cristiana, si avverte come «un principio religioso autonomo, anzi come il vero nucleo universale di ogni processo religioso, di cui le varie manifestazioni mistiche sono soltanto il rivestimento»114. La sua dimensione è la riflessione filosofico-religiosa e in questo senso, secondo Troeltsch, si deve parlare di misticismo «in senso stretto e tecnico»115. I suoi caratteri, che si riconoscono altrettanto nel misticismo cristiano, sono l’instaurazione di una immediata unione con la divinità, che è indipendente rispetto ad ogni religione positiva, anche se ne costituisce il centro; il rinnegamento di sé del credente, della propria egoità, e la sua ascesi verso Dio per unirsi a Lui, per farsi una sola cosa con Lui. La mistica è un itinerarium in Deum, che è un ritorno dei molti all’Uno, degli individui finiti all’Infinito: dove si avverte 112. Ibidem. 113. Ivi, p. 852 (tr. it. cit., II, p. 534). 114. Ivi, p. 854 (tr. it. cit., II, pp. 535-536). 115. Ivi, p. 853 (tr. it. cit., II, pp. 536-537).

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chiaramente la presenza della tradizione neoplatonica rispetto alla quale Dionigi l’Areopagita – scrive Troeltsch – «costituisce, se non l’unico, certo il più ragguardevole tramite di collegamanto [con la tradizione ebraico-cristiana]», anche se vi hanno contribuito i teologi alessandrini e lo stesso Agostino116. In questa prospettiva filosofico-religiosa l’esperienza religiosa si presenta, quindi, come essenzialmente mistica. Essa la si ritrova nel misticismo speculativo brahmanico117, o in quello volontaristico buddista, o nel misticismo domenicano della conoscenza o in quello francescano della volontà e dell’amore118. Troeltsch nell’ambito della mistica cristiana ripercorre le varie correnti e le varie personalità, ricordando Bernardo e i Vittorini, il misticismo tedesco precedente alla Riforma, lo stesso Lutero e i mistici della Riforma, e a questo riguardo afferma: «soltanto sulla base dell’individualismo e del paolinismo protestanti lo specifico misticismo cristiano potè giungere a un nuovo svolgimento creatore ed autonomo, destinato ad avere profonda efficacia sul Protestantesimo ecclesiastico, e a rimaner tuttavia da esso separato»119, quale si è espresso nelle personalità più profonde dello spiritualismo protestante, da Sebastian Franck a Valentin Weigel, a Dirck Coornheert120.

116. Ivi, p. 857 (tr. it. cit., II, 540). 117. Si può pensare,in particolare, alla Bhagavadgītā (per es. Ottavo Discorso, 12-13,14, Diciottesimo Discorso, 51, 52, 53, cfr. Bhagavadgītā (con il commento di Šri-Šānkāracārya), tr. it. di G. Marano, Luni editrice, Milano 2016. 118. Cfr. Soziallehren, GS I, p. 856 (tr. it. cit., II, pp. 538-539). Come risulta esemplarmente in San Bonaventura, nell’esperienza mistica «è sempre l’iniziativa divina a rendere possibile, nelle sue diverse fasi, il cammino dell’uomo verso Dio» (L. Mauro, Introduzione, in Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario dell’anima a Dio, testo latino a fronte, tr. it. a cura di L. Mauro, Bompiani, Milano 2002, p. 28, cfr. Itinerario dell’anima a Dio, pp. 142-145). 119. Soziallehren, GS I, p. 861 (tr. it. cit., II, 545). 120. Cfr. ivi, p. 862 (tr. it. cit., II, p. 546).

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Proprio dall’ambito di questo rinnovato misticismo e spiritualismo cristiano provengono, secondo Troeltsch, le più vitali idee religiose e morali che possiede lo spirito del mondo moderno. In particolare essi hanno profondamente influenzato la formazione del «Prostestantesimo ascetico» che ha fatto scaturire dal concetto protestante di fede le conseguenze che portano alla concezione religiosa moderna fondata non più sulla «rivelazione oggettiva esteriore», ma sulla rivelazione «interiore e soggettiva» e quindi sulla «convinzione della coscienza personale»121. Nel Protestantesimo ascetico Troeltsch, collegandosi alle ricerche di Max Weber, individua una formazione religiosa unitaria in cui si raccolgono «il Calvinismo e il complesso delle sette battistiche, metodistiche, salutistiche» e, attraverso il pietismo, anche il neo-luteranesimo. Esso costituisce «un grande tipo sociologico complessivo dell’idea cristiana» diffuso specialmente nel mondo anglo-sassone e nelle regioni influenzate dal Calvinismo, ma operante anche nei paesi di tradizione luterana122. Le idee confluite nel Protestantesimo ascetico hanno costituito le «radici» della cultura e della coscienza moderne: la separazione di Chiesa e Stato, la sovranità popolare, la tolleranza religiosa, la formazione volontaria delle comunità ecclesiali, la libertà di opinione, la riflessione morale autonoma, il principio dell’autonomia individuale. Quanto al carattere sociologico della mistica e dello spiritualismo, esso non tende al rapporto tra uomo e uomo, ma diretta-

121. Sul concetto di “chiese libere” si veda il discorso accademico tenuto da Troeltsch il 22 novembre 1906, Die Trennung von Staat und Kirche, der staatliche Religionsunterricht und die theologischen Fakultäten (UniversitätsBuchdruckerei von J. Hörning, Heidelberg 1906, pp. 5-6, 17). 122. Cfr. Soziallehren, GS I, pp. 792, 984-86 (tr. it. cit., II, pp. 459, 707-709. Acute osservazioni sul ruolo del Protestantesimo in rapporto alla modernità si trovano in C. Prandi, Ernst Troeltsch. Il modello triangolare, la modernità, in Ernst Troeltsch. Religioni, chiese, modernità, cit., pp. 349-350.

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mente al rapporto con Dio, è cioè – afferma qui più nettamente Troeltsch – un individualismo molto più radicale di quello della setta, che come comunità resta attiva nel proprio presente, in particolare nel caso della «setta combattiva». Tuttavia una qualche forma di “comunione” si realizza anche nell’ambito del misticismo e dello spiritualismo, e si esprime nell’idea della “chiesa invisibile”, dal momento che in ciascuna coscienza religiosa individuale opera lo spirito, l’incontro con Dio123. Ma, osserva Troeltsch, questa libertà e questa tolleranza che nasce dall’assoluto prevalere della dimensione soggettiva, personale, interiore dell’esperienza religiosa, vanno incontro alla perdita dell’identità cristiana, più in generale della stessa dimensione religiosa, dal momento che viene meno qualsiasi forma di «organizzazione comunitaria» e di «culto», che sono essenziali per l’insedirsi della religione nelle condizioni reali della vita e la cui mancanza ha come «conseguenza soltanto l’evaporazione e l’infiacchimento del tutto». D’altra parte Troeltsch, anche se non intende rinunciare completamente al significato e alla funzione del tipo della Chiesa, è convinto che nella complessa articolazione sociale e culturale del mondo moderno le chiese non hanno più la possibilità di produrre una «sintesi culturale»: «le anime dei popoli – egli scrive nella Conclusione delle Dottrine sociali – sfuggono alle Chiese, e buona parte delle funzioni di esse è passata alla scuola, alla letteratura, allo Stato, alle associazioni»124. Ma anche le sette, come si è già accennato, non riescono a corrispondere alle esigenze dello spirito del mondo moderno. Perciò la possibilità per il Cristianesimo di trovare una nuova configurazione adeguata alla realtà presente si trova proprio sviluppando i caratteri del Pro-

123. Ivi, pp. 866-867 (tr. it. cit., II, pp. 552-553). 124. Ivi, p. 982 (tr. it. cit., II, p. 704). Cfr. E. Pace, Organizzare il regno tra setta, chiesa e misticismo, in Ernst Troeltsch. Religioni, chiese, modernità, cit., pp. 237-238.

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testantesimo ascetico, vale a dire realizzando «una reciproca compenetrazione delle tre forme sociologiche fondamentali» al fine di rendere possibile la conciliazione di un “minimo di Chiesa” con la più ampia libertà di coscienza. Una prospettiva che Troeltsch aveva già espresso nel saggio del 1910 Die Zukunftsmöglichkeit des Christentums im Verhältnis zur modernen Philosophie, dove, in maniera molto problematica, ma ad un tempo appassionata, sostiene la possibilità (e la speranza) che, malgrado la crescente secolarizzazione e mondanizzazione, si affermi un «Cristianesimo moderno» o, com’egli preferisce dire, un «Cristianesimo libero», in grado di mediare le forze religiose provenienti dal passato con le forze sociali, intellettuali e morali della modernità»125. Proprio questa prospettiva di un nuovo radicamento del Cristianesimo nella modernità contribuisce a fare in modo che il riconoscimento dell’estrema difficoltà di elaborare una nuova filosofia sociale cristiana nella situazione del presente, in cui sempre di più tendono a separarsi l’elemento religioso e quello economico-politico, non comporti per Troeltsch una rassegnata rinuncia a infondere nell’agire sociale e politico gli ideali dell’etica cristiana con il suo specifico orientamento escatologico. «Il pensiero del futuro regno di Dio – egli scrive nelle Soziallehren – [...] non toglie già valore, come ritengono avversari di corta vista, al mondo e alla vita del mondo, ma rinvigorisce le forze e [...] rende forte l’anima nella sua certezza di un ultimo assoluto senso e fine futuro del lavoro umano»126.

125. Cfr. E. Troeltsch, Die Zukunftsmöglichkeit des Christentums im Verhältnis zur modernen Philosophie (1910), in GS II, pp. 837-862. 126. Ivi, p. 979 (tr. it. cit., II, p. 700). Sulla funzione sociale e umana della religione cfr. P. Gisel, Introduction, in E. Troeltsch, Histoire des Religions et destin de la Théologie, Cerf, Paris 1996, pp. XXXVI-XXXVII.

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Questo orientamento, però, appare molto indebolito dopo le drammatiche vicende della guerra e dei primi anni di Weimar. Nello scritto del 1922 Die Sozialphilosophie des Christentums Troeltsch accentua fortemente il pensiero della distinzione tra religione, economia e politica, e la convinzione che i problemi sociali e politici debbano essere affrontati con una mentalità assolutamente laica ed esigano «soprattutto conoscenze specifiche e forza di volontà». Al tempo stesso non manca di osservare che «problemi di così grande portata non si lasciano risolvere senza un approfondimento e un rinnovamento etico, senza avere il senso del bene e della giustizia, senza disponibilità al sacrificio e alla solidarietà, senza una visione del mondo e della vita sostenuta profondamente dalla fede» e in questo modo afferma l’influenza indiretta dell’etica cristiana e più in generale della religione sulla politica: «lo spirito che la religione può risvegliare con la sua stessa presenza gioverà ad una ricostruzione sociale e politica»127.

127. E. Troeltsch, Die Sozialphilosophie des Christentums, cit., pp. 33-34.

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II

Religione e modernità

1. Modernità, Rinascimento, Riforma In Medioevo e Rinascimento Eugenio Garin ha individuato il motivo primario del ripensamento della «cultura umanisticorinascimentale» nel «bisogno di renderci conto fino in fondo delle linee orientatrici essenziali della nostra cultura»1. Con ciò Garin ha messo in evidenza il nesso che lega la riflessione sulla cultura umanistico-rinascimentale con quella sulle origini del mondo moderno e il suo sviluppo fin nella situazione del presente. Questo nesso è anche alla radice delle considerazioni svolte da Troeltsch su Rinascimento e Riforma lungo l’intero arco dei suoi studi di teologia, di filosofia e sociologia della religione, di filosofia della storia, di etica, di storia della cultura. L’interesse di Troeltsch per la comprensione della modernità, della «situazione moderna» e della sua «genesi», risale al suo primitivo progetto di ricerca che intendeva affrontare il «sovraumano» problema (com’egli stesso lo definisce nell’autobiografia) di «una storia universale dello sviluppo della men-

1. Cfr. E. Garin, Medioevo e Rinascimento (1950), Laterza, Bari 1961, pp. 90-91.

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talità religiosa» e della «particolare posizione e valutazione del Cristianesimo» al suo interno2. Questo progetto, però, sotto l’impulso dell’acuta percezione della grave crisi religiosa del proprio tempo, si era poi ristretto al tema del confronto tra Cristianesimo e mondo moderno3. La crisi religiosa di “fine secolo”, infatti, come si è accennato, aveva avuto certamente la propria più recente e sconcertante espressione nell’annuncio nietzscheano della “morte di Dio” e nelle conseguenze relativistiche e nichilistiche del pensiero storico, ma le sue cause erano insite, secondo Troeltsch, nell’intero svolgimento della vicenda del mondo moderno. Già in Die christliche Weltanschauung und ihre Gegenströmungen, Troeltsch indica le origini e il senso della crisi nella nascita della modernità: «Da quando la nuova scienza, dopo la fine delle guerre di religione, ha conquistato gli animi turbati dalle lotte confessionali ed è iniziata la grande trasformazione culturale dei secoli diciassettesimo e diciottesimo, si sono formate grandi correnti spirituali che hanno prodotto nuovi fatti e nuove concezioni e hanno posto la fede cristiana di fronte ad una massa di problemi nuovi che minaccia di soffocarla. È cominciata allora la grave, inquietante crisi religiosa in mezzo alla quale ci troviamo e di cui non siamo in grado di dire quale possa essere l’esito […]. Da allora siamo stati privati dell’unità della nostra vita spirituale che ancora possedevano le generazioni precedenti e si esprimeva nell’armonia tra scienza e fede»4. Comprendere questa crisi significa, perciò, in primo luogo comprendere l’«essenza dello spirito moderno», produrre una «visione d’insieme» dei caratteri dominanti, delle forze e degli ideali che hanno contribuito alla sua formazione e che

2. Cfr. Meine Bücher, GS IV, pp. 6-7. 3. Cfr. ivi, p. 7. 4. Die christliche Weltanschauung, GS II, pp. 229-230.

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agiscono nel suo sviluppo fino al presente e, a partire da questa comprensione, porre il problema della possibilità del Cristianesimo di costituire ancora una forza viva nel presente. Si tratta di una ricerca che si situa al punto di interferenza tra la Historie come indagine storica empirica e la filosofia della storia che Troeltsch in Der Historismus und seine Probleme definirà «materiale», ovvero la costruzione di una immagine della storia universale in cui è sempre coinvolta la posizione del soggetto della conoscenza, il punto di vista dell’osservatore. Come Troeltsch chiarisce nel saggio-recensione del 1903 al libro di Harnack sull’essenza del Cristianesimo, il concetto di “essenza” costituisce «la specifica astrazione della storiografia, in forza di cui l’intero ambito delle formazioni interdipendenti, conosciuto e indagato nei particolari, viene compreso in base all’idea motrice fondamentale e al suo sviluppo»5. La sua determinazione, implicando la connessione tra l’idea motrice fondamentale o anche originaria e le figure in cui si attua e si sviluppa, esige appunto una «visione d’insieme» dell’intero fenomeno storico indagato. E questo vale tanto per un fenomeno spirituale determinato quale il Cristianesimo quanto per una determinata epoca storica6. Comprendere l’essenza del mon5. E. Troeltsch, Was heisst “Wesen des Christentums”? (1903), GS II, p. 393 (tr. it. Che significa “essenza del Cristianesimo”? in E. Troeltsch, Etica, religione, filosofia della storia, a cura di G. Cantillo, Guida, Napoli 1974, p. 270). Cfr. A. Harnack, Das Wesen des Christentums, J. C. Hinrichs, Leipzig 1900 (tr. it. di A. Bongioanni, Bocca, Torino 1903, 19238). 6. «L’analisi e la visione d’insieme del contenuto spirituale di un’epoca – scrive Troeltsch in Das Wesen des modernen Geistes (1907) – costituiscono il compito in cui coincidono l’indagine empirico-critica dello storico e la immaginazione costruttiva del filosofo, dove quindi lo storico deve farsi filosofo e il filosofo storico. Per lo storico esso rappresenta la conclusione e il culmine della sua esplorazione delle grandi formazioni storiche, per il filosofo la base e il presupposto della sua formazione di norme e giudizi di valore, con cui deve definire unitariamente l’agire di un’epoca in base a questo stesso agire» (E. Troeltsch, Das Wesen des modernen Geistes (1907),

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do moderno è però un compito estremamente complesso. In primo luogo perché si tratta di un’epoca non compiuta nel cui svolgimento sono immersi il nostro presente e il nostro futuro, e la cui interpretazione, a cominciare dall’individuazione delle sue origini, è perciò condizionata, più di quella di ogni altra epoca, dallo Standort, dalla posizione e dal punto di vista del soggetto conoscente, dalla prospettiva ch’egli ha sul presente e sulle linee di sviluppo che da questo gli appaiono spingersi verso l’avvenire. In secondo luogo perché il mondo moderno non presenta un’«unità spirituale», un principio in grado di ordinare in un sistema di idee e di valori, in una trama omogenea di vita e di pensiero, le molteplici, differenti o anche contrastanti formazioni nei diversi livelli della realtà storica. «Il mondo moderno – scrive Troeltsch nelle pagine conclusive di Das Wesen des modernen Geistes – non è un principio unitario; è una quantità di vicende e svolgimenti convergenti, ma anche contrastanti, che sono stati resi possibili dall’esaurimento del vecchio mondo. L’impressione di unità dipende prevalentemente proprio dalla opposizione al vecchio mondo, mentre positivamente esso si sfalda nelle più diverse tendenze […]. In conclusione tutte le costruzioni unitarie del mondo moderno che muovono da un unico aspetto – sia questo l’opposizione al Cristianesimo, l’individualismo, la mondanità e l’immanenza, o anche il puro progresso o il processo di disgregazione di culture invecchiate – sono egualmente impossibili»7.

GS IV, p. 297 (tr. it. L’essenza dello spirito moderno, in E. Troeltsch, L’essenza del mondo moderno, cit., p. 127). 7. Das Wesen des modernen Geistes, GS IV, pp. 334, 336 (tr. it. cit., pp. 167, 169). Sulla opportuna insistenza di Troeltsch sulla «complessità» dell’essenza della modernità, irriducibile «ad ogni visione astrattamente unitaria» ha richiamato l’attenzione Giuseppe Cacciatore nel saggio Historismus e mondo moderno. Dilthey e Troeltsch («Giornale critico della filosofia italiana», LXXI(LXX), Fasc.I, genn.-aprile 1992, pp. 15 ss.), al quale rinvio anche per un confronto tra le interpretazioni dei due pensatori del Historismus. Sulla

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In modo esemplare questa valutazione viene ribadita nell’articolo del 1917 Luther und Protestantismus: proprio nella «mancanza di unità ed omogeneità» spirituale – che lo caratterizza malgrado il sussistere di comuni idee e costituisce «il tormento» degli spiriti «più maturi e più grandi» – risiede la differenza principale tra il mondo moderno e «le altre due forme dell’esistenza dell’umanità europea, l’Antike e il mondo ecclesiastico-medioevale», nelle quali «dominava una cultura unitaria fondata su pochi aspetti fondamentali e […] legata con una organizzazione parimenti unitaria della società»8. Una maggiore omogeneità, certamente, si può ritrovare sul piano delle strutture economiche e sociali. Già in Das Wesen des modernen Geistes Troeltsch osserva che «i lineamenti più forti e più saldi» del mondo moderno si devono cercare «nella sfera pratica e istituzionale, nelle formazioni politiche, sociali ed economiche»: lo Stato moderno e il capitalismo «costituiscono i pilastri della nostra esistenza, le basi su cui, lo si voglia o no, si muove tutto il nostro vivere e creare»9. Ancor di più negli scritti intorno al 1910, legati alla svolta verso gli studi di sociologia della religione e verso una concezione della storia più attenta alla problematica marxiana del rapporto UnterbauÜberbau, Troeltsch riconosce con sempre maggiore chiarezza che il carattere unitario del mondo moderno si può trovare, sia pure come tendenza fondamentale e, certo, non senza contraddizioni, nello «sviluppo della struttura economica e problematica indicata dal titolo religione e modernità si devono tener presente i saggi di Domenico Venturelli, Cristianesimo e “mondo moderno” in Ernst Troeltsch, in «Il pensiero. Il tempo», I, 1979, pp. 108 ss. e di Giovanni Moretto, Religione e modernità in Ernst Troeltsch, «Humanitas», 6, 1994, pp. 894-927. 8. Cfr. E. Troeltsch, Luther und Protestantismus, «Die neue Rundschau», XXVIII, 1917, H. 10, p. 1298. 9. Cfr. Das Wesen des modernen Geistes, GS IV, pp. 301, 311 (tr. it. cit., pp. 131, 142).

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politica»10. Permane tuttavia la convinzione della mancanza di unità spirituale e da essa deriva una interpretazione del mondo moderno che muove fondamentalmente dalla sua opposizione alla cultura ecclesiastica. «La cultura moderna – scrive Troeltsch nel Vortrag del 1906 su Die Bedeutung des Protestantismus in der Entstehung der modernen Welt – considerata nella sua connessione più immediata, è nata sullo sfondo della grande età della cultura ecclesiastica, che si fondava sulla fede nell’assoluta e immediata rivelazione divina e sull’ordinarsi di essa rivelazione nell’istituto redentore ed educativo della Chiesa […]. Nell’opporsi a questo mondo culturale viene appunto alla luce l’essenza della civiltà moderna»11. Da questa prevalente caratterizzazione per via oppositiva deriva anche la collocazione delle sue origini in un’epoca di aperta e dispiegata rottura con la cultura ecclesiastica e di consapevolezza teorica intorno all’opposizione ad essa, vale a dire nell’età dell’Aufklärung. È questa la tesi che Troeltsch presenta in una formulazione ancora eccessivamente rigida nella voce Aufklärung della Realencyclopädie für protestantische Theologie und Kirche, del 1897, e nel saggio Geschichte und Metaphysik del 1898, ma che in forme più articolate – più attente agli aspetti di continuità del processo storico, così come alle sue molteplici dimensioni e ai loro differenti ritmi di sviluppo – resta un punto fondamentale della sua interpretazione del mondo moderno. Agli occhi di Troeltsch, soprattutto per chi guarda alla modernità dal punto di vista della storia della

10. Cfr. E. Troeltsch, Das Neunzehnte Jahrhundert (1913), GS IV, pp. 616617 (tr. it. Il secolo diciannovesimo, in E. Troeltsch, L’essenza del mondo moderno, cit., pp. 307-308). 11. Cfr. E.Troeltsch, Die Bedeutung des Protestantismus für die Entstehung der modernen Welt (1906), Oldenbourg, München u. Berlin, 1911, pp. 9, 12 (tr. it. di G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1929, rist. 1974, pp. 6, 9). Abbreviazione: Die Bedeutung des Protestantismus.

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religione e della teologia così come della storia della filosofia e della scienza12, soltanto con l’Aufklärung – che «non è affatto un movimento puramente e prevalentemente scientifico, bensì una vera e propria rivoluzione in tutti i campi della vita» – si verificano una reale cesura nello sviluppo della cultura europea e l’irruzione dei «tratti fondamentali» della cultura moderna: «L’Illuminismo è l’inizio e il fondamento del periodo propriamente moderno della cultura e della storia europea, in opposizione alla cultura determinata in senso teologico ed ecclesiastico, fino ad allora dominante»13. Rispetto ad esso, il tardo Medioevo, la Riforma e il Rinascimento costituiscono soltanto i “presupposti”, che preparano appunto la trasformazione e il tramonto della “cultura ecclesiastica” che era sorta dalla dissoluzione dell’Antike e si fondava sulla doctrina christiana della Chiesa. Come Troeltsch chiarisce in un saggio del 1903, Religionswissenschaft und Theologie des 18. Jahrhunderts, se con “Età moderna” e “Medioevo” si intendono due tipi di cultura e di sistema di valori, due formazioni della vita e del pensiero dell’umanità europea, e in questo senso due epoche della storia, allora «l’Età moderna ha una data di nascita relativamente recente»14. La sua origine si trova infatti nell’epoca in cui si dispiega «una cultura fondata sulla libera, autonoma formazione

12. «Chi si rifà alla storia della religione, dell’etica e della scienza non può sottrarsi all’impressione che soltanto la grande lotta combattuta alla fine del secolo diciassettesimo e nel secolo diciottesimo abbia posto radicalmente fine al Medioevo» (Cfr. Die Bedeutung des Protestantismus, pp. 44-45; tr. it. cit., p. 45). 13. Cfr. E. Troeltsch, Die Aufklärung (1897), GS IV, pp. 338-339 (tr. it. L’Illuminismo, in E. Troeltsch, L’essenza del mondo moderno, cit., pp. 177-178). 14. Cfr. Religionswissenschaft und Theologie des 18. Jahrhunderts (1903), GS IV, pp. 834-835 (tr. it. in E. Troeltsch, L’essenza del mondo moderno, cit., pp. 220-221). Abbreviazione: Religionswissenschaft und Theologie.

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degli scopi umani della vita, indipendente in linea di principio da vincoli ecclesiastici»15 ed implica perciò il completo esaurimento, la completa disgregazione del mondo medioevale e della cultura ecclesiastica. Questo avviene precisamente con l’Aufklärung e con i fenomeni che l’hanno immediatamente preceduta. In particolare con la rottura dell’unità della cristianità nelle guerre di religione, che, perciò, appaiono a Troeltsch come un fattore determinante per la genesi della vera e propria modernità e specialmente per l’affermazione dei nuovi valori mondani dell’arte e della scienza: «Nelle guerre di religione – egli scrive – si era avvertito ormai come insopportabile il peso delle Chiese e si era cominciato ad apprezzare l’aria libera della bellezza e della scienza»16. Riguardo al rapporto tra Rinascimento, Riforma e Aufklärung, nel testo del 1903 sopra ricordato Troeltsch osserva che Rinascimento e Riforma, generalmente considerati come “i punti di partenza” dell’età moderna, in realtà non rappresentano ancora una generalizzata e completa rottura con la cultura teologico-ecclesiastica. Certo, il Rinascimento ha anticipato idee e tendenze fondamentali del mondo moderno – l’individualismo, l’immanentismo, la rivalutazione della vita mondana, il razionalismo – e ha spezzato in più punti la compattezza della cultura ecclesiastica. Infatti ha affermato «un individualismo quasi anarchico», ha «ravvivato l’Antichità», ha sviluppato «la critica filologica» e una filosofia che «con un impeto faustiano di conoscenza ha scandagliato tutte le profondità del pen-

15. Ivi, p. 835 (tr. it. pp. 220-221). 16. Das Wesen des modernen Geistes, GS IV, pp. 333-334 (tr. it. cit., p. 167). Cfr. Religionswissenschaft und Theologie, GS IV, pp. 841-843, dove vengono illustrati i nuovi impulsi religiosi suscitati dall’età delle guerre di religione, riportabili al «carattere comune di una interiorizzazione e individualizzazione della religione ovvero di una sua soggettivazione ed emancipazione dalla istituzionalità ecclesiastica».

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siero». Soprattutto, ha insegnato alle diplomazie e alle dinastie europee il realismo della «politica di potenza» svincolata da ogni principio etico o religioso e «ha creato un’arte intimamente e profondamente in contrasto con lo spirito cristiano, un’arte che ha esaltato con un culto quasi pagano la figura umana»17. Tuttavia, malgrado tutto il nuovo che vi si è espresso, il Rinascimento – afferma Troeltsch, che ribadirà questa valutazione in modo netto anche un decennio più tardi nella importante recensione al libro di Paul Wernle del 1912 su Renaissance und Reformation – non inaugura un’epoca storica radicalmente nuova. In effetti anche Burckhardt ha esagerato il suo significato per la nascita della modernità, dal momento che soltanto «in un ambito sociale limitato il Rinascimento è stato un principio creativo di una nuova vita e di un nuovo pensiero». A causa della sua tendenza aristocratica e del suo ideale culturale individualistico – per giunta fondato sulla imitazione del mondo antico, cioè di una cultura sostanzialmente estranea all’uomo moderno che non può essere sradicato dal terreno della tradizione cristiana – il Rinascimento non ha elaborato sul piano delle condizioni di vita di massa «un principio di vita realmente originario» in grado di produrre una nuova «sintesi culturale» al posto della cultura ecclesiastica. Non ha prodotto, né ha avuto l’intenzione di produrre «un intimo rinnovamento dell’intero», dei rapporti sociali e politici esistenti, e ha lasciato immutati – a livello di massa – «la ristrettezza degli antichi rapporti, e specialmente il dominio della Chiesa»18. La Riforma d’altro canto – continua Troeltsch in Religionswissenschaft und Theologie des 18. Jahrhunderts – pur costituendo «un poderoso movimento religioso e morale, dotato di positi17. Religionswissenschaft und Theologie, GS IV, p. 835 (tr. it. cit., p. 221). 18. Ibidem.

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ve, originali forze di rinnovamento dell’intera vita del popolo, che sono completamente mancate al Rinascimento», ha avuto come «suo immediato risultato […] di nuovo una cultura ecclesiastica», per quanto circoscritta ora in ambiti e Stati nazionali. Nei paesi in cui si è affermata essa ha favorito lo sviluppo di una cultura nazionale ma ad un tempo ha prodotto «un atteggiamento della vita spirituale vincolato in senso confessionale ed ecclesiastico-nazionale», esteriormente non molto differente da quello cattolico e non in grado di «rinnovare sostanzialmente né la vita né il pensiero», anche perché il suo ideale culturale è stato ancora quello della «formazione aristocratica ed antichizzante del Rinascimento», riproducente la separazione tra il popolo e un ceto intellettuale formatosi «sui testi latini e greci»: «la poesia latina, la interpretazione di Aristotele e la recezione del diritto romano formano anche qui il nucleo della vita spirituale, e questo significa che anche qui non potevano sorgere una vita e un pensiero autonomi»19. A differenza della Riforma, l’Aufklärung è caratterizzato dal «distacco dal mondo vincolato dall’autorità ecclesiastica», che, come si è accennato, si è realizzato come «risultato dei grandi conflitti religiosi», e, a differenza del Rinascimento, si è posto il compito di una complessiva trasformazione teoricopratica del mondo e perciò di una diffusione dei suoi ideali, della sua fede nella ragione, dei suoi metodi e principî scientifici, al fine di creare una nuova mentalità. Soprattutto per questo aspetto pedagogico e “propagandistico” Troeltsch pone in essa il reale inizio dell’Età moderna20. Con il compiersi della «disgregazione della cultura ecclesiastico-confessionale», con la penetrazione nella coscienza non solo degli intellettuali e delle classi più elevate, ma di ampi strati della società, «di una

19. Ivi, pp. 835-836 (tr. it. cit., p. 222). 20. Cfr. ivi, pp. 836-837 (tr. it. cit., p. 222).

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criticità individuale svincolata da motivazioni soprannaturali» si delinea la vera e propria Neuzeit come l’epoca in cui – certo preparata da un lungo processo – si verifica «la svolta della vita e del pensiero nel loro complesso verso le proprie forze naturali, cioè immanenti nel mondo spirituale e materiale, [la] creazione di una cultura mondana»21. Che questa svolta sia accaduta soltanto nell’epoca dell’Aufklärung viene confermato da Troeltsch anche quando, come nel saggio del 1910-11 Das stoisch-christliche Naturrecht und das moderne profane Naturrecht, si preoccupa di porre in evidenza gli aspetti di «continuità tra la cultura dell’Aufklärung e quella cristiano-ecclesiastica». Anche se qui Troeltsch tiene a sottolineare come l’Aufklärung «insieme con motivi originali abbia le sue radici nella diversa interpretazione e nella trasformazione delle antiche idee religiose, che, anzi, non sono unicamente quelle cristiane, ma includono parimenti elementi stoici e neo-platonici», non manca, però, di affermare: «Comunque a me sembra che senz’alcun dubbio soltanto l’Aufklärung segni l’irruzione (Durchbruch) della cultura moderna»22. I suoi principî e i suoi metodi, i tratti fondamentali della sua visione del mondo «costituiscono in assoluto una conquista durevole, un radicale rinnovamento e la base di tutta la cultura moderna»23: la concezione della natura con il principio della connessione di tutti gli eventi in base a leggi generali e il meccanicismo; la storia universale con il principio della omogeneità di tutti gli eventi storici e la critica delle fonti e delle tradizioni; la psicologia e il metodo analitico; i tentativi di un’etica capace di mediare immanenza e trascen21. E. Troeltsch, Geschichte und Metaphysik, in «Zeitschr. f. Theol. u. Kirche», VIII, 1898, p. 25. 22. Cfr. Das stoisch-christliche Naturrecht und das moderne profane Naturrecht, GS IV, pp. 188-189, nota 1 (tr. it. cit., p. 122, nota 2). 23. Religionswissenschaft und Theologie, GS IV, p. 837 (tr. it. cit., p. 223).

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denza; il deismo; la politica e la teoria economica razionali; l’orientamento pratico-riformatore delle sue teorie che hanno di mira la trasformazione degli «ordinamenti della vita secondo finalità razionali» e in vista dell’«affermazione della libertà individuale»24. Si può dire quindi che con l’Aufklärung viene consolidato il terreno su cui si pongono «tutti i problemi della vita e dello spirito della modernità»25. Rispetto a queste posizioni iniziali, la successiva ricerca storico-culturale e teologica di Troeltsch lo porta a scorgere nell’epoca dell’Aufklärung, accanto ai «motivi originali» e di rottura e alla funzione di diffusione della cultura moderna, anche i nessi di continuità con il passato, il che gli consente di delineare più ampiamente e precisamente il processo di gestazione dello «spirito del mondo moderno» e ridefinire anche la funzione che in essa hanno avuto Rinascimento e Riforma in quanto espressioni di un’età di transizione, come appare in primo luogo nella recensione del 1913 al libro di Paul Wernle su Renaissance und Reformation e poi nell’ampio saggio dello stesso 1913 intitolato anch’esso Renaissance und Reformation. Nella recensione al libro di Wernle Troeltsch condivide sostanzialmente l’immagine del Rinascimento proposta da Wernle, secondo cui il Rinascimento, riappropriandosi dell’eredità dell’Antike e facendo leva sul «sentimento artistico della bellezza», riscopre «l’essenza naturale, integra, dell’uomo», l’ideale dell’uomo che si realizza pienamente e liberamente nella totalità delle sue disposizioni e potenzialità. E condivide anche l’indicazione dei limiti del Rinascimento coincidenti 24. Cfr. E. Troeltsch, Der deutsche Idealismus (1900), GS IV, pp. 535-536, 540 (tr. it. L’Idealismo tedesco, in E. Troeltsch, L’essenza del mondo moderno, cit., pp. 241-246). 25. Cfr. E. Troeltsch, Sammelreferat über Neuerscheinungen über die Theologie Semlers (1905), GS IV, p. 837 (tr. it. in E. Troeltsch, L’essenza del mondo moderno, cit., p. 224).

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in larga parte con quelli già da lui denunciati nei saggi sopra ricordati. Wernle mette in rilievo infatti la mancanza nel Rinascimento della elaborazione di una «scienza autonoma», così come di «un proprio ideale innovativo di società e di Stato», mancanza, quest’ultima, che si accompagna al suo «carattere aristocratico», che non incide sul piano della vita delle masse, il cui dominio viene lasciato alla Chiesa, sicché il Rinascimento non ha la forza di spezzare il sistema ecclesiastico, e si riduce a produrre «un riformismo cattolico aristocratico» che riguarda prevalentemente le classi colte. A queste considerazioni, che ritiene esatte, Troeltsch aggiunge un’ulteriore osservazione. Il Rinascimento, certo, «non è stato un principio di cultura autonomo», e, piuttosto, si è sempre adattato alle forme istituzionali, politiche e sociali esistenti. Proprio questa capacità di adattamento gli ha consentito però di sopravvivere e durare come forma di cultura superiore tipicamente moderna e di amalgamarsi con le nuove situazioni sia politiche che ecclesiastiche che si sono venute di volta in volta realizzando nei secoli successivi, fino a trasfigurarsi nella cultura dell’Illuminismo, legandosi ai grandi movimenti contro l’assolutismo e contro l’ecclesiasticismo. Anche il rapporto Rinascimento-Riforma delineato da Wernle viene condiviso da Troeltsch. In effetti non si può considerare la Riforma come il movimento religioso parallelo a quello culturale del Rinascimento. La Riforma per tanti aspetti resta molto più legato alla civiltà medioevale26. Tuttavia non può trascurarsi che tanto il Protestantesimo, quanto il Cattolicesimo della Controriforma assimilano ampiamente la cultura ri-

26. Pietro Rossi, riferendosi al saggio del 1906 (Die Bedeutung des Protestantismus für die Entstehung der modernen Welt), ha sottolineato che nell’interpretazione del rapporto tra Rinascimento e Riforma Troeltsch indica che la “convergenza” tra i due fenomeni si limita al “rifiuto del passato più recente” (P. Rossi, L’identità dell’Europa, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 86-87).

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nascimentale27. Vi sono quindi distinzioni ed elementi di continuità, di intreccio, tra Rinascimento e Riforma, così come vi sono elementi di continuità che legano entrambi all‘Illuminismo, per cui si possono configurare come età di transizione. Nell’ampio saggio dello stesso 1913 intitolato Renaissance und Reformation, che presenta la trattazione più sistematica del tema, Troeltsch muove dall’osservazione che la concezione del Rinascimento introdotta da Burckhardt, che ne pone l’essenza nella «scoperta dell’individuo» e fa scaturire da esso lo sviluppo dell’«individualismo moderno» specialmente sul piano filosofico ed estetico, ha portato facilmente «a vedere nella Riforma l’irruzione dello stesso principio dell’individualità sul piano religioso». In effetti – continua Troeltsch – in entrambi i fenomeni si può riconoscere un comune movimento di liberazione dai vincoli della cultura medioevale e un comune sentimento di apprezzamento del mondo, «nel Rinascimento con la completa emancipazione della cultura mondana, nella Riforma con una nuova consacrazione e santificazione della vita mondana»28. Rinascimento e Riforma si radicano nello stesso terreno del processo di crisi e trasformazione della cultura cristiano-ecclesiastica, nello stesso clima spirituale tardo-medioevale caratterizzato dalla lotta tra “via antiqua” e “via moderna” e dalla «speranza in un generale rinnovamento del mondo europeo», in cui emerge – nei mutamenti economico-sociali e politici, nelle correnti spirituali “mistico-riformatrici”, nelle sette – un nuovo sentimento del valore della individualità29.

27. Cfr. E. Troeltsch, Recensione al libro di P. Wernle, Renaissance und Reformation (1913), GS IV, pp. 759-761. 28. E. Troeltsch, Renaissance und Reformation (1913), in GS IV, p. 261 (KGA, 8, p. 529). 29. Cfr. ivi, pp. 261-263 (KGA, 8, pp. 329-332).

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In questo contesto sorge, dapprima come fenomeno italiano, il Rinascimento, che però secolarizza le iniziali aspirazioni di rinascita e riforma religiose ed ecclesiastiche e ad un tempo lascia cadere con queste gli ideali di trasformazione etica e sociale. Esso si caratterizza come «il principio di una visione compiutamente intramondana della vita e della formazione autonoma, puramente individuale di questa». Nel clima generale di ritorno “ad fontes”, di “renovatio” tardo-medioevale il Rinascimento introduce un radicale mutamento nell’«orientamento degli interessi» che si volgono verso i valori e gli scopi puramente mondani ed umani, tanto sul piano della sensibilità estetica, quanto sul piano della vita economica e politica. In considerazione di questi tratti caratteristici, l’essenza del Rinascimento non si può far consistere soltanto nell’individualismo, come vorrebbe Burckhardt. L’individualismo ne costituisce indubbiamente un carattere fondamentale, “generale”, ma rispetto ad esso si potrebbe rivendicare anche la provenienza dalla tradizione cristiana. Piuttosto l’essenza del Rinascimento include una costellazione di altri fattori che rappresentano un novum rispetto alla cultura cristiano-ecclesiastica e si ricollegano all’Antichità, e, soprattutto, esprimono «una crescente riabilitazione della sensibilità, della ricchezza e varietà della vita, dei suoi impulsi creativi», una cura per l’al di qua che segna un distacco dall’«ascesi cristiana»30. Anche se Troeltsch, a conferma della complessità di un fenomeno di transizione quale si rivela essere il Rinascimento e quindi della corrispondente difficoltà di analisi, non può fare a meno di avvertire che la stessa riabilitazione del mondano e la stessa opposizione all’ascesi cristiana non vanno assolutizzate, perché non manca, specialmente nelle grandi personalità autenticamente creative (per esempio Michelangelo), la volontà di

30. Cfr. ivi, pp. 269-271 (KGA, 8, pp. 341-344).

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una fusione «tra la profondità interiore cristiana e la sensibilità e il sentimento della natura nuovamente scoperti»31. Questo nuovo orientamento – prosegue Troeltsch riprendendo la tesi centrale del saggio del 1903 – non si traduce però nella «creazione di un nuovo principio di cultura» compenetrante tutte le dimensioni della vita, «di una nuova società e di un nuovo ordinamento statale», ma comporta unicamente la utilizzazione da parte di forti personalità – dotate di particolari talenti nell’arte del dominio e nell’iniziativa economica ed insieme culturalmente sviluppate – di tutte le forze e le condizioni di vita esistenti32. Il Rinascimento, quindi, piuttosto che mirare a rovesciare le istituzioni esistenti, si appoggia ad esse,

31. Cfr. ivi, p. 270, e la nota 1 (KGA, 8, p. 342, nota 7), dove Troeltsch fa riferimento ai saggi di Simmel su Michelangelo e Rodin. Su questo aspetto dell’accoglimento della riscoperta dell’Antichità e della rivalutazione del sensibile, del vitale, della «bellezza profana» come elemento di differenziazione del «mondo cattolico» rispetto a quello della Riforma ha richiamato l’attenzione Andrè Chastel in un efficace scritto su Renaissance et Réforme nel volume La crise de la Renaissance, Skira, Genève 1969. Per l’ambiente dei riformatori «la purificazione del pensiero cristiano è molto più importante di qualsiasi concessione alla cultura»: da ciò deriva l’atteggiamento di «iconoclastia», di rifiuto delle arti figurative paganeggianti in nome della rigorosa interiorità cristiana. Al contrario, nel mondo cattolico «il rischio della paganizzazione del Cristianesimo sarebbe meno grave che la perdita del “figurativo”», della possibilità di esprimersi attraverso le arti. Per un Raffaello o un Michelangelo – osserva Chastel – l’arte religiosa non poteva non partecipare del movimento di rinascita artistica suscitata dalla riscoperta dell’Antichità, e «sul loro esempio un’aura di paganesimo è entrato incontestabilmente nella Chiesa, prima, contemporaneamente e dopo che Erasmo o Valdés avessero così nobilmente protestato contro il pericolo dell’idolatria. Il santuario è diventato il “tempio”, il Cristo viene modellato alla maniera di Apollo; e ne risultano innumerevoli licenze nell’ambito di opere ingegnose, memorabili, che modernizzano – e così salvano – le forme del Cristianesimo». 32. Cfr. Renaissance und Reformation, GS IV, pp. 268-269 (KGA, 8, pp. 340-341).

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lascia sussistere il loro dominio sulle masse, e lentamente penetra al loro interno. Soltanto in cerchie ristrette della società, nei ceti dominanti e più colti, si affermano i suoi caratteri originali: la rivalutazione del sensibile, della vita mondana nelle sue molteplici forme, l’idea dell’uomo completo, l’individualismo come «completa autonomia del soggetto che liberamente si esprime nella intuizione artistica e nel lavoro intellettuale è vincolato unicamente dalle regole logiche»: «potenza, proprietà e ricchezza, sensibilità e bellezza, pensiero ed arte appaiono in una nuova luce come le condizioni di base e le autonome finalità superiori dell’esistenza umana»33. Lo spirito del Rinascimento si esprime soprattutto nell’arte e nella filosofia ed è su questo terreno che esercita la sua efficacia storico-universale e pone realmente le basi dello spirito moderno34. Solo legandosi con «le potenze del tempo – la Chiesa e il principato assolutistico», il Rinascimento ha diffuso il proprio contenuto ideale. Attenuando il suo carattere puramente mondano, antireligioso e anticristiano, si è amalgamato nella cultura della Controriforma con il Cattolicesimo, di per sé molto più incline del Protestantesimo originario al compromesso con la cultura mondana, alla “complexio oppositorum”, o anche con l’Anglicanesimo e l’assolutismo dei Tudor e degli Stuart. Ha potuto così portare a compimento – nel Tardo-rinascimento – «l’opposizione al mondo medioevale e cristiano-ecclesiastico» e per questa via è divenuto il nucleo ideologico, il presupposto spirituale di «un nuovo, comprensivo, moderno principio di vita», vale a dire il presupposto dell’Illuminismo35. Quest’ultimo, indubbiamente, «non è

33. Ivi, pp. 276, 271 (KGA, pp. 349, 344). 34. Sull’importanza della filosofia rinascimentale cfr. ivi, p. 273 (KGA, 8, pp. 345-346). 35. Cfr. ivi, pp. 288-292 (KGA, 8, pp. 361-366).

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semplicemente una prosecuzione, un rafforzamento, un rendersi autonomo del Rinascimento, ma un principio nuovo estremamente complesso»36, in cui confluiscono altrettanto come momenti determinanti forze, idee e valori del Protestantesimo, specialmente anglicano e calvinista; ma non di meno «esso è intimamente legato con il Rinascimento attraverso la mentalità intramondana e ottimistica e l’ideale di una humanitas immanente e sgorgante dalla ragione, e inoltre attraverso la connessione con la filosofia e specialmente con la nuova scienza della natura prodotta dal Rinascimento»37. In conclusione, in questa più matura interpretazione emerge con più forza e chiarezza – soprattutto attraverso il nesso di continuità tra Tardo-rinascimento e Illuminismo – la funzione del Rinascimento nella formazione dello spirito del mondo moderno e ad un tempo la complessità di questo mondo, l’intreccio di elementi che entrano nella sua origine e nel suo sviluppo 38. Ancor più del problema del rapporto tra Rinascimento e mondo moderno, una nuova impostazione, più articolata e dialettica, rispetto alla trattazione, peraltro appena accennata, nel ricordato saggio del 1903, riceve quello della influenza che sulla formazione del mondo moderno ha avuto il Protestantesimo: più precisamente il Vetero-protestantesimo, secondo la distinzione introdotta da Troeltsch tra la Riforma originaria e il Neo-protestantesimo costituente già un tratto fondamentale del mondo moderno39. Nel Vortrag del 1906 Troeltsch da un 36. Ivi, p. 292 (KGA, 8, p. 366). 37. Cfr. ivi, p. 293 (KGA, 8, p. 366). 38. Per un primo inquadramento del dibattito storiografico sul Rinascimento cfr. M. Ciliberto, Il Rinascimento. Storia di un dibattito, La Nuova Italia, Firenze 1975 (si vedano in partc. le pagine su Burckhardt, pp. 8 ss, e quelle su Burdach pp. 21 ss.). 39. Cfr. Die Bedeutung des Protestantismus, p. 30 (tr. it. cit., p. 29); Das Verhältnis des Protestantismus zur Kultur. Überblick, GS IV, p. 191; Was

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lato pone in evidenza i caratteri di modernità del Protestantesimo, i suoi influssi sulla formazione dello spirito moderno e la sua disponibilità ad assimilare le forze e le tendenze del mondo moderno, dall’altro però sottolinea il fatto che «come manifestazione complessiva» esso è ancora «civiltà ecclesiastica in senso medioevale […] fondata su un’autorità immediata e rigorosamente delimitabile, che dev’essere distinta da tutto ciò che è terreno». Troeltsch vi accentua, cioè, gli elementi di estraneità e antinomicità del Protestantesimo rispetto alla cultura moderna40. Una più precisa caratterizzazione del rapporto tra Riforma e mondo moderno si trova nel saggio su Lutero e il Protestantesimo. Qui, sviluppando una impostazione del problema già contenuta nello stesso Vortrag, Troeltsch definisce il Protestantesimo, al pari del Rinascimento, come un Übergangserscheinung: «Riforma e Rinascimento sono un importante e poderoso fenomeno di transizione, ed invero non nel senso che, come tutte le formazioni storiche, fioriscono e tramontano lasciando spazio a nuove formazioni, ma nel senso che la loro intima essenza, nel suo complesso, si definisce a partire da questa posizione intermedia (Zwischenstellung) e porta in sé – legati in una forma specifica e irripetibile – il vecchio e il nuovo»41. La sua costituzione è in se stessa contraddittoria, in heisst “Wesen des Christentums”?, GS II, p. 447 (tr. it. cit., pp. 326-327). 40. Cfr. Die Bedeutung des Protestantismus, p. 26 (tr. it. cit., p. 25). 41. Luther und Protestantismus, cit., p. 1300. Cfr. anche Die Bedeutung des Protestantismus, p. 46 (tr. it. cit., p. 47). Il concetto di Übergangserscheinung viene riferito da Troeltsch al Rinascimento nell’aggiunta al saggio Renaissance und Reformation, scritta il 16.7.1917: in GS IV, p. 832 (KGA, 8, p. 373): «Il Rinascimento, tra i grandi fenomeni di transizione (Übergangserscheinungen) dal Medioevo all’Età moderna, ha una grandezza e bellezza del tutto peculiari, [ma] ha [anche] una fioritura di breve durata e una propria ridotta consistenza. Per questo riguardo esso era più debole della Riforma, che aveva le sue radici in forze più ampie e profonde della vita europea. Il

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modo tale che i caratteri tradizionali sono di per sé già aperti al nuovo e viceversa gli aspetti di novità sono di per sé limitati dall’intimo rapporto con la tradizione: ogni aspetto è perciò ambivalente, ad un tempo volto in avanti e all’indietro, di qui il carattere di «fenomeno di transizione». L’aspetto di modernità del Protestantesimo che immediatamente si presenta all’osservatore è la disgregazione dell’unità della cristianità medioevale guidata dal potere del Papato. Con questa disgregazione certamente esso ha favorito lo sviluppo autonomo di Stati e culture nazionali, il caratteristico pluralismo socio-politico e ideologico del mondo moderno, assecondando direttamente o mediatamente un processo già in corso, scaturito da un complesso di altri fattori. Tuttavia il Protestantesimo non ha mai rinunciato all’idea di un’unica verità e di un’unica Chiesa universale, in quanto universale comunità dei credenti nella vera fede, e in questo senso si è mantenuto fedele al concetto della cultura ecclesiastico-medioevale42. Anche su questo piano però esso ha ridotto il patrimonio comune della Chiesa universale al nucleo essenziale della rivelazione cristiana e ad una ortodossa amministrazione dei sacramenti direttamente istituiti da Gesù, mentre per il resto, per quanto riguarda gli aspetti liturgici ed organizzativi, il rapporto con il mondo e i valori culturali, le forme sociali e politiche, ha Rinascimento, malgrado certe inclinazioni alla superficialità e alla rassegnazione, non era, certo, privo di nobili tendenze morali, e tuttavia non ebbe le forze etiche capaci di sviluppare un movimento aperto al futuro. In un punto decisivo ha però operato una rottura con il Medioevo: nella valutazione dell’ascesi, cioè proprio in quel punto rispetto a cui invece la Riforma ha solo trasformato le tendenze cristiane originarie e medioevali […]. In realtà, nel Rinascimento vecchio e nuovo sono mescolati […]. Come siffatto fenomeno di transizione il Rinascimento ha certamente una sua immortale bellezza e ha avuto un grande significato per l’irruzione del mondo spirituale e filosofico moderno; ma non ha portato a termine questa irruzione». 42. Luther und Protestantismus, cit., pp. 1300-1303.

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lasciato spazio per la diversità delle Chiese nazionali o territoriali e per le varie comunità. In tal modo l’universalità della Chiesa riformata resta soltanto un concetto teorico, un ideale, mentre di fatto il Protestantesimo ha conribuito al «processo già in corso della divisione e particolarizzazione nazionale della civiltà occidentale»43. Un elemento fondamentale di modernità del Protestantesimo è costituito dall’individualismo religioso, che però, nel VeteroProtestantesimo, presenta anch’esso significative limitazioni. Il Vetero-Protestantsimo, osserva Troeltsch, «è individualistico solo comparativamente, cioè in rapporto all’autoritarismo cattolico». Esso, certamente, fa consistere la convinzione religiosa unicamente nell’esperienza individuale, personale. Tuttavia, continua Troeltsch, «il dato oggettivo, in cui viene acquistata questa certezza, la Bibbia, l’annuncio della salvezza mediante l’opera espiatrice dell’Uomo-Dio e la speciale conferma sacramentale di questa salvezza sono anche per il protestante qualcosa di completamente soprannaturale, di dato, di autoritario». Perciò, specialmente in Lutero, il rapporto con Dio non è mai individuale e soggettivo, «non è mai orientato direttamente a Dio e alla sua presenza nell’anima» – come invece nella religiosità moderna – «ma è sempre mediato oggettivamente» attraverso «la Bibbia e il messaggio della remissione dei peccati in Cristo». Da questo punto di vista l’individualismo religioso protestante si distingue dall’individualismo rinascimentale e moderno inteso come «piena autonomia del soggetto»44. Un’analoga ambivalenza presenta l’«affermazione del mondo», la rivalutazione della vita e dei valori culturali. Certamente il Protestantesimo ha inserito il soprasensibile, l’e43. Cfr. Das Verhältnis des Protestantismus zur Kultur. Überblick, GS IV, pp. 192-193. 44. Cfr. Renaissance und Reformation, GS IV, pp. 275-276 (KGA, 8, pp. 347-349).

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lemento religioso, nell’ambito del lavoro mondano, e in questo senso ha rivalutato la vita, la dimensione mondana, e ha contribuito notevolmente a promuovere la cultura moderna e si è fusa con essa in molteplici modi, al punto che – afferma Troeltsch – «se in generale la cultura moderna può e deve avere un centro e un fondamento religioso-cristiano, questo può essere soltanto il Protestantesimo in una forma adeguatamente sviluppata»45. L’etica protestante non separa più la morale cristiana da quella naturale, ma le unisce in quanto vivifica «il sistema naturale dei compiti e delle professioni con l’intenzione cristiana della serena confidenza in Dio e dell’amore fraterno». Ma proprio perciò le professioni e i compiti naturali – quindi i valori e gli scopi a cui sono rivolti: la famiglia, la società, lo Stato, l’arte e la scienza – non sono «fini in sé», scopi «che hanno in se stessi un valore divino o religioso», ma solo «le forme entro cui viene realizzata l’intenzione cristiana»: «mondo», che dev’essere riempito e trasfigurato mediante «l’intenzione cristiana». Accanto a questa etica dell’«ufficio» e della «professione», resa necessaria dal peccato originario, si affianca anche in Lutero – e in ultima istanza la trascende – «la morale personale del cuore», l’etica oltremondana dell’intenzione fondata sul Discorso della montagna Ci si deve ora chiedere in che misura la caratterizzazione del Protestantesimo più antico come «fenomeno di transizione» o «formazione di transizione» (Übergangsgebilde) possa valere anche per Lutero. A questa domanda Troeltsch dà una risposta ambivalente. Da un lato esclude che quella caratterizzazione possa valere per Lutero, o può valere «in modo molto limitato», perché il pensiero religioso e il magistero di Lutero si muovono «nella regione dell’intemporale e dell’universal-

45. Das Verhältnis des Protestantismus zur Kultur. Überblick, GS IV, p. 198; cfr. Renaissance und Reformation, GS IV, p. 280 (KGA, 8, pp. 352-353).

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mente umano»46. Si tratta cioè di una personalità che attraversa i tempi, perché in lui «la potenza originaria del mondo vitale cristiano acquista una semplicità, una grandezza, una profondità di senso» che prima non erano mai state conseguite47. Dall’altro lato sottolinea come l’originario Erlebnis religioso di Lutero sia difficilmente comprensibile per l’uomo della modernità, perché è caratterizzato profondamente dalla dimensione del «miracolo»: che però non è il miracolo esteriore quale si dà nei sacramenti, ma il «miracolo interiore» della giustificazione mediante la sola fede48. Questa ambivalenza di Lutero viene confermata dall’analisi della sua teologia. Il pensiero fondamentale di Lutero – sostiene Troeltsch – è la concezione della religione come «religione di fede» contrapposta a quella cattolica di religione sacramentale, il che implica anche un diverso significato della grazia e dei sacramenti, intesi da Lutero e da Melantone piuttosto come «segni»49. Nella religione sacramentale le forze etiche e religiose scaturiscono dall’infusione della grazia che si attua attraverso la mediazione della realtà sensibile dei sacramenti e sopperisce alla debolezza del pensiero e delle altre facoltà umane. Il momento soggettivo e puramente spirituale è spostato piuttosto alla fase preparatoria, alla confessione e alla preghiera che rende possibile l’accoglienza della grazia nel sacramento. Il carattere oggettivo del potere salvifico del sacramento consente alla religione sacramentale, quindi al Cattoli46. Luther und der Protestantismus, cit., p. 1310. Su questo aspetto cfr. H. H. Tiemann, Ernst Troeltsch und die “Religion der Menschheit”. Struktur und Dynamik der Konfessionen. Zur Darstellung Luthers und Schleiermachers, «Mitteilungen der Ernst-Troeltsch-Gesellschaft», Bd. IX (1995/96), pp. 9598. 47. Luther und der Protestantismus, cit., p. 1310. 48. Ivi, p. 1311. 49. Cfr. E. Troeltsch, Luther und die moderne Welt (1908), KGA, 8, p. 70.

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cesimo, anche di assicurare la salvezza a tutti i credenti che si avvicinano nelle forme dovute ai sacramenti attenuando l’angoscia dell’incertezza che caratterizza la salvezza attraverso la sola fede. Ma è proprio il carattere oggettivo, cosale, esteriore, del sacramento ciò che Lutero respinge in quanto opposto al carattere soggettivo di «verità vivente» che egli assegna al rapporto di confidenza in Dio. La grazia non è concepita più come una «sostanza miracolosa» trasmessa attraverso il sacramento esteriore, ma è uno stato interiore, una condizione soggettiva, «un senso di Dio – scrive Troeltsch nelle Soziallehren – che si acquista mediante la fede, la convinzione, la sensibilità, la conoscenza e la fiducia; è la volontà amorevole di Dio, condonatrice dei peccati e conoscibile nel Vangelo, nell’amore e nel sentimento di Cristo verso gli uomini»50. Perciò il carattere della soggettività vuol dire l’adesione al contenuto del messaggio evangelico, che accade «in un atto» di fede unico, che è una risposta alla chiamata che viene da Dio. Certo, il miracolo della religione è per Lutero un “miracolo interiore” e consiste nel nostro tenerci saldamente ancorati al riconoscimento della grazia di Dio e della volontà d’amore di Dio verso noi. Ma questo riconoscimento ci è mediato dalla Scrittura, dal Vangelo, e dalla devozione della comunità cristiana che ci trasmette questa certezza. Questo è anche il senso profondo che ha, secondo Troeltsch, l’idea luterana della predestinazione, che vuole indicare il fatto che nella fede, nel pensiero religioso del singolo opera Dio stesso: è Dio stesso che pensa ed agisce in noi51. 50. Soziallehren, GS I, p. 437 (tr. it. cit., vol. II, p. 14). 51. Cfr. Luther und die moderne Welt, KGA, 8, p. 71. Max Weber osserva che «la predestinazione garantisce al credente la misura massima di certezza della salvezza, una volta che egli sia sicuro di appartenere alla ristretta aristocrazia della salvezza, costituita dai prescelti». Lutero, secondo Weber, ha dato rilievo alla predestiniziane «nel periodo fortemente tempestoso delle sue dure lotte col peccato», mentre successivamente l’ha fatta «indietreggia-

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Nel sottolineare questi aspetti possiamo dire che Troeltsch ribadisce implicitamente la sua tesi del persistere in Lutero di una continuità con la cultura ecclesiastica pre-moderna, del suo collocarsi al limite della modernità, in una fase di transizione da un’epoca all’altra. Tuttavia, esplicitamente sembra qui insistere piuttosto sulla novità e la modernità, sottolineando che, malgrado il persistere dell’elemento soprannaturale come “miracolo interiore”, la religione si presenta in lui come esperienza della coscienza, come “pensiero” e “conoscenza”. Dall’elemento esteriore del «miracolo come evento che accade nella natura, che è proprio del sacramento» (sakramentaler Naturwunder) la religione sposta il suo centro «nella sfera del pensiero e dello spirito»52. In questo spostamento Troeltsch vede la svolta fondamentale operata da Lutero che poneva l’essenza della religione nel pensiero di Dio e proprio perciò non riusciva a percepire – come gli si obietta da parte dei cattolici – il potere consolatorio e salvifico dei sacramenti, cioè non poteva scorgere l’essenza dell’atto religioso in «un’azione misteriosa naturale e soprannaturale insieme»53. A questa svolta fondamentale si collega anche il principio del sacerdozio universale. «Ognuno – commenta Troeltsch – è sacerdote per se stesso, e ognuno sta dinanzi al proprio Dio senza alcun’altra mediazione se non quella delle forze storiche che ci trasmettono la conoscenza di Dio. Tradizione storica e trasferimento della religione nel-

re con crescenti compromessi con il mondo». La fede nella predestinazione è centrale, invece, nel Puritanesimo; essa conferisce la certezza dell’agire conformemente alla volontà di Dio, la «conferma quotidiana della virtù» che garantisce «la certitudo salutis» (M. Weber, Economia e società, tr. it. con introduzione di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1974, vol. I, pp. 564-565). 52. Luther und die moderne Welt, loc. cit., 53. Cfr. ivi, p. 72.

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la vita, l’affermazione dell’idea religiosa nelle certezze e nelle azioni personali, questo è tutto e non c’è bisogno di altro»54. È questo il principio dell’individualismo religioso, anche se Lutero, a differenza di Calvino, non ha mancato di porre in evidenza il legame con la tradizione che è a fondamento della fede individuale, la quale perciò non è uno stare del soggetto immediatamente dinanzi a Dio, ma implica la mediazione della storia55. Indubbiamente il principio individualistico anche in Lutero comporta l’opposizione al dogma e all’autorità della Chiesa. E questo atteggiamento si riflette anche sull’etica, che sul piano individuale si presenta come un’etica della convinzione e dell’intenzione (Gesinnungsethik). In linea di diritto, ogni volta la coscienza morale fondata sulla fede trova in assoluta libertà la sua applicazione al singolo caso e non v’è nessun sistema di leggi e di norme: «Il devoto riceve la legge da se stesso dalla sua intenzione rivolta all’idea di Dio, egli l’applica secondo la propria libera convinzione al singolo caso»56, indipendentemente da ogni pensiero relativo a un premio o a un castigo. Tuttavia anche qui non si tratta di soggettivismo, né di individualismo nel senso moderno del termine: c’è infatti la limitazione costituita dal decalogo e dalla legge naturale con cui esso coincide; e soprattutto c’è la limitazione costituita dal contenuto etico-religioso del Vangelo, dalla legge dell’amore predicata da Gesù e riassunta nel sermone della montagna57. Il contenuto dell’etica non è infatti l’affermazione del mondo e della vita, ma l’antico spirito ascetico. I suoi punti cardinali sono: la sofferenza e la consolazione; la negazione di sé, dell’interesse particolare e il sacrificio e il dono di sé in

54. Ibidem. 55. Cfr. ivi, p. 73. 56. Cfr. ivi, pp. 73-75. 57. Cfr. Soziallehren, GS, I, p. 441 (tr. it. cit., vol. II, p. 19).

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nome dell’amore; l’umiltà e la dedizione dell’anima alla vita della comunità e al suo fondatore, al Figlio di Dio; infine il lavoro professionale, a cui ognuno è chiamato per attuare gli ordinamenti che Dio stesso impone al mondo, al fine di porre rimedio al peccato e ai mali del mondo. Conformemente a un tratto originario della predicazione evangelica, solo per l’obbedienza a Dio e per l’amore del prossimo il cristiano accetta di impegnarsi nel mondo, dal quale interiormente aspira a separarsi: «Come persona, vale a dire come cristiano, egli soffre, si consola, ama e si dona nel senso e nello spirito del sermone della montagna; come titolare di un ufficio e di una professione egli lavora, compera e vende, esercita il potere, fa la guerra, punisce, serve»58. L’apertura al mondo comporta che si debba operare nel mondo senza però aderire alle motivazioni e agli interessi del mondo, anzi superando il mondo pur stando in mezzo al mondo. Nel servizio reciproco che gli uomini si rendono nella vita mondana si manifesta l’amore cristiano e la ripartizione delle professioni che scaturisce dalla legge naturale è l’attuazione dell’ordinamento voluto da Dio nel mondo. Legge naturale e volontà divina coincidono nella “vocatio” su cui si fonda «la moralità professionale intramondana», che «è senza dubbio un’affermazione del mondo, ma fatta per obbedienza e devozione». Si delinea così la peculiare «ascesi intramondana» che caratterizza l’etica protestante, che comporta il paradosso del «superamento del mondo nel mondo»59. 58. Luther und der Protestantismus, cit., p. 1317. 59. Cfr. Soziallehren, GS I, pp. 442-444 (tr. it. cit., vol. II, pp. 21-23). Max Weber, ricostruendo la genesi della determinazione del concetto di Beruf come «professione», cioè come un lavoro quotidiano mondano che ha però in sé un significato religioso, osserva ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904) che l’introduzione di questo significato di Beruf si ha proprio nella traduzione che Lutero dà di Siracide, 11,20: «beharre in deinem Beruf» o «bleibe in deinem Beruf» – «persevera nella tua professione» o

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L’etica calvinista della razionalità, metodicità e costanza del lavoro, ancor più di quella luterana, è un’etica ascetica e rigorosa che separa nettamente compiti e professioni assimilabili con l’intenzione cristiana da quelli ostili ad essa, aspetti del “mondo” che il cristiano può assumere – senza peraltro porre in essi il fine ultimo della propria azione – ed aspetti che devono essere respinti. Al suo centro c’è il principio della sottomissione all’assoluta sovranità di Dio che opera l’elezione del credente predestinato a salvarsi60. Proprio grazie alle idee dell’assoluta sovranità di Dio e dell’elezione in essa – osserva Troeltsch che non solo accoglie la tesi weberiana ma la difende in più

«rimani nella tua professione». Nel testo del 1904 Weber accenna anche a una possibile influenza di Taulero in cui compare un’anticipazione di questo significato. La novità apportata dalla Riforma – afferma Weber – consiste nella «valutazione dell’adempimento del proprio dovere nell’ambito delle professioni mondane come il contenuto più elevato che l’attività etica può assumere […] Nel concetto di “professione” si esprime quindi quel dogma centrale di tutte le denominazioni protestanti che [diversamente dal Cattolicesimo] conosce come unico mezzo per vivere in maniera grata a Dio non già un superamento dell’eticità intra-mondana da parte dell’ascesi monastica, ma esclusivamente l’adempimento dei doveri intra-mondani, quali risultano dalla posizione di ciascuno nella vita, che con ciò diventa appunto la sua “professione”». Si afferma quindi con la Riforma, a partire da Lutero, «la qualificazione etica della vita professionale». Il che però non consente, per quanto riguarda Lutero in particolare, che si possa stabilire una diretta connessione con la “mentalità capitalistica”; in realtà come mostra efficacemente Weber (confermando in questo modo le osservazioni di Troeltsch sulla posizione di Lutero rispetto alla modernità) «in Lutero il concetto di professione rimase vincolato a un senso tradizionalistico», in quanto «la professione è ciò che l’uomo deve accettare come disposizione divina, ciò a cui deve “adattarsi” [e] questa intonazione pone in ombra l’altro concetto, pur presente, che il lavoro professionale è un compito, o piuttosto il compito assegnato da Dio. E lo sviluppo del Luteranesimo ortodosso accentuò ulteriormente questo tratto» (M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, tr. it. cit., pp. 62-75). 60. Ivi, pp. 164-165. Cfr. A. Kuiper, Reformation wider Revolution. Sechs Vorlesungen über den Calvinismus, Reich Christi Verlag, Gross Lichterfelde 1904, p. 79.

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di un’occasione dalle critiche – è insito «un apprezzamento religioso del lavoro, che diviene un dovere permanente per ognuno ed obbliga ognuno a prestare la sua opera al servizio dell’intera società civile». Vengono così conferite motivazioni e forze religiose all’attività dell’uomo nei diversi ambiti della vita mondana: nell’economia, nella politica, nell’educazione e nell’insegnamento e si delinea una sfera, sia pur limitata, di valori culturali considerati come «voluti da Dio e perciò non subordinabili ad alcuna Chiesa»61. Nel complesso, contraddittorio rapporto del Protestantesimo delle origini con la nascita dello spirito del mondo moderno è già insita la possibilità che il Protestantesimo, divenendo certo qualcosa di diverso dalle sue forme originarie, contribuisse e partecipasse allo sviluppo della cultura moderna, fino alla elaborazione di «una specifica cultura protestante dell’Illuminismo», in cui sembrano fondersi l’eredità del Rinascimento e quella della Riforma. Ma ciò è potuto accadere, secondo Troeltsch, soprattutto grazie alla ripresa da parte del Protestantesimo moderno del pensiero religioso di quei movimenti sorti sul terreno stesso della Riforma – il Cristianesimo umanistico storico-filologico e filosofico, le sette e in primo luogo l’anabattismo, le correnti mistiche, spiritualistiche e soggettivistiche – che sono stati inizialmente emarginati e repressi anche con sanguinosa violenza da entrambe le confessioni principali, in quanto in una forma o nell’altra negavano «la logica dell’idea ecclesiastica». Proprio riconoscendo come «genuini principi protestanti l’esigenza di coscienza della critica storico-filologica, la formazione libera di comunità ecclesiali indipendenti dallo Stato e la dottrina religiosa relativa alla rivelazione intesa

61. Das Verhältnis des Protestantismus zur Kultur. Überblick, GS IV, pp. 195-196.

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come convinzione e luce interne e personali»62, il Protestantesimo moderno ha potuto costituire ancora una forza storica vitale, come dimostra l’apporto decisivo dato allo sviluppo dello spirito del mondo moderno dal «grande movimento religioso della rivoluzione inglese, dall’indipendentismo» in cui confluivano con il Calvinismo radicale elementi anabattistici e mistici. «Di questo poderoso episodio – scrive Troeltsch nel Vortrag del 1906 – sono sopravvissute le idee della separazione della Chiesa dallo Stato, della tolleranza di diverse comunità ecclesiali, del principio della formazione spontanea e volontaria dei corpi ecclesiastici, della libertà di convinzione e di opinione (anche se da principio relativa) in tutto ciò che riguarda la concezione del mondo e della religione»63. Come Troeltsch chiarisce soprattutto nelle Soziallehren, la fusione del neocalvinismo specialmente anglosassone, ma anche olandese e francese, con il pensiero religioso ed etico delle sette e in modo particolare del battismo, crea una configurazione nuova, un nuovo tipo sociologico del Protestantesimo e più in generale del Cristianesimo, che, seguendo l’indicazione weberiana, egli definisce come «Protestantesimo ascetico» o più precisamente «Protestantesimo individualistico e attivo di santificazione»64. Il Protestantesimo ascetico, assumendo in sé anche motivi ed idee delle correnti mistiche e spiritualistiche, con «il suo concetto della Chiesa trapassante nell’ideale della Chiesa libera, la sua conformazione democratica delle singole comunità e dell’edificio costituzionale complessivo della Chiesa, il suo individualismo autonomo, consolidato nella volontà e nell’atto redentore di Dio, la sua laboriosità metodica o sostanziale» ha costituito «il sostrato per quelle immense

62. Die Bedeutung des Protestantismus, p. 27 (tr. it. cit., p. 26). 63. Ivi, p. 63 (tr. it. cit., p. 65). 64. Soziallehren, GS I, p. 793 (tr. it. cit., II, pp. 460-461).

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trasformazioni della civiltà moderna, che nel campo cattolico e luterano vennero introdotte soltanto dall’esterno, ma che d’altra parte neppure le nuove condizioni economiche, politiche e tecniche del mondo moderno avrebbero potuto creare da sole»65. In questo senso, per quanto non si possa parlare di «un contributo diretto, immediato» del Protestantesimo all’Illuminismo66, non v’è dubbio che «il movimento religioso della rivoluzione inglese» ha aperto la strada all’Illuminismo, segnando «veramente la fine dell’idea culturale del Medioevo», sostituendo alla «cultura repressiva ecclesiastico-statale la moderna cultura individuale indipendente dalla Chiesa»67. Una preziosa indicazione per la più articolata concezione della genesi e dell’essenza dello spirito del mondo moderno si può trovare nella tempestiva recensione dedicata da Troeltsch al libro di Ernst Cassirer del 1917 Freiheit und Form. Una volta riconosciuto come carattere principale della modernità l’autonomia, la libertà dell’uomo in quanto individualità autoformantesi, svincolata dalla dipendenza da autorità collettive ed estranee, elementi decisivi della cultura moderna diventano la «tensione tra libertà e forma» e il bisogno di “superare” questa tensione e di produrre in concreto la «libera formazione» ad un tempo individuale e universale dell’uomo. Questa problematica nel libro di Cassirer viene riferita allo «spirito tedesco» e alla sua «mancanza di forma», e Cassirer – osserva Troeltsch – «indica la soluzione del problema nel XVIII secolo da Leibniz e Lessing fino a Kant e a Goethe». È appunto l’epoca dell’Aufklärung. «La libertà che Cassirer intende – continua Troeltsch – è il prodotto del Rinascimento e dell’Umanesimo, sostenuto dalla religione interiore e autonoma di Lutero. È

65. Ivi, pp. 962-963 (tr. it. cit., II, pp. 676-677). 66. Aufklärung, GS IV, p. 348, pp. 843-844 (tr. it. cit., pp. 189, 232). 67. Die Bedeutung des Protestantismus, p. 63 (tr. it. cit., pp. 65-66).

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quindi essenzialmente l’autonomia scientifica ed estetica della ragione, che proietta il suo riflesso nella religiosità autonoma. Questa autonomia si crea la sua prima grande espressione filosofica in Leibniz e quella artistica in Lessing. La monade, ovvero l’individuo razionale, diviene qui il concetto centrale, ma nello stesso tempo in esso si rappresenta un movimento cosmico-unitario e teleologico, che sotto forma di energia, di forza, è il principio formativo teleologico»68. Si delinea qui, in questo più tardo scritto di Troeltsch una più marcata continuità tra Rinascimento, Riforma e Aufklärung, e della cultura illuministica viene messa in luce non tanto il carattere di decostruzione della cultura precedente, quanto quello di conciliazione fra la tradizione e il novum. Nei secoli XVII e XVIII e in particolare nell’Aufklärung le potenzialità della renascentia, della renovatio e della reformatio trovano una prima piena attuazione69.

68. Cfr. E. Troeltsch, Recensione a E. Cassirer, Freiheit und Form (1917), in GS IV, pp. 696-699. 69. Sulla interpretazione troeltschiana del Rinascimento, del rapporto di esso con la Riforma e della loro influenza sulle origini del mondo moderno si vedano le pagine ad essa dedicate da W.K. Ferguson, Il Rinascimento nella critica storica, tr. it. di A. Prandi, Il Mulino, Bologna 1969, pp. 404-408. Ferguson sostiene che, mentre Dilthey «vede nel Rinascimento e nella Riforma due movimenti strettamente correlati», entrambi distaccatisi dalle «correnti del pensiero medievale» e convergenti nella nascita della «metafisica “naturale”, [del] razionalismo, [dell’]autonomia intellettuale del Seicento e del Settecento», Troeltsch invece marca la distinzione e vede solo nel Rinascimento «l’avvio del mondo moderno». Ferguson in realtà accentua fortemente un lato dell’interpretazione troeltschiana della Riforma, quello relativo al riconoscimento che il Protestantesimo, specialmente nella sua confessione luterana, sia stato nella fase iniziale un fenomeno ancora inserito nella mentalità e nella cultura medievali e abbia condotto allo Stato autoritario e alla Chiesa controllata dallo Stato. Anche a proposito del saggio su Renaissance und Reformation Ferguson sottolinea soprattutto gli elementi di contrasto rilevati da Troeltsch tra Rinascimento e Riforma, ma, probabilmente, opera

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La connessione Rivoluzione inglese/Illuminismo come elemento centrale nella definizione dell’epoca del reale inizio della cultura moderna ritorna nell’ultima elaborazione troeltschiana del problema della Entstehung del mondo moderno nel capitolo quarto di Der Historismus und seine Probleme dedicato alla «costruzione (Aufbau) della storia della cultura europea». Sistematizzando le sue precedenti analisi, qui Troeltsch afferma che è possibile fissare l’inizio del mondo moderno almeno in due differenti periodi storici a seconda che s’intenda «la Neuzeit in senso ampio» o «in senso ristretto»: cioè a seconda che si prenda in considerazione l’intero processo attraverso cui essa si è delineata nelle diverse dimensioni della realtà storica, svincolandosi e differenziandosi progressivamente dalla cultura ecclesiastico-medioevale, oppure soltanto l’epoca in cui si dispiega il suo originale principio culturale nella forma di una consapevole opposizione all’epoca precedente e quindi con la coscienza della propria novità. L’inizio del mondo moderno può essere, infatti, legittimamente posto nel secolo quindicesimo, in cui si trovano le origini dell’espansione della cultura

una semplificazione eccessiva non tenendo conto delle forti oscillazioni che l’analisi treoltschiana dei due fenomeni presenta, anche in relazione al loro rapporto con l’Aufklärung. Molto opportunamente Cesare Vasoli nelle pagine dedicate all’interpretazione troeltschiana del rapporto tra Rinascimento e Riforma, muovendo dalla considerazione delle posizioni teologiche ed eticopolitiche di Treoltsch (teologia liberale e democrazia liberale e sociale) pone al centro della sua analisi la distinzione operata da Troeltsch tra Veteroprotestantesimo e Neo-protestantesimo e richiama l’attenzione sull’importanza che ha per Troeltsch, nella genesi del mondo moderno, l’“incontro” tra l’umanesimo filologico-storico e la teologia che ne derivò, da un lato, e le sette anabattiste e i gruppi mistici e spiritualisti, dall’altro. Dalla diffusione delle loro idee – scrive Vasoli – era nata per Troeltsch «la civiltà moderna, l’individualismo moderno, insomma, quel “gigantesco ampliamento dell’idea di libertà, di personalità”, che, per un protestante liberale, costituiva naturalmente il “contenuto migliore”, del nuovo mondo» (C. Vasoli [a cura di], Umanesimo e Rinascimento, Palumbo, Palermo 1960, p. 191).

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europea oltre gli angusti confini geografici e spirituali medioevali, dello Stato moderno unitario o nazionale, militaristico e burocratico, dell’economia capitalistica, dell’autonomia del pensiero scientifico, dell’orientamento della vita verso fini eocompiti pratici intramondani. Solo che in questo inizio non emerge ancora la peculiarità del contesto storico moderno: il risultato dei nuovi processi avviati – attraverso lo Stato assoluto, il sistema delle grandi potenze, il legame tra assolutismo e confessionalismo – è, infatti, «la creazione di nuovi vincoli e una nuova stabilizzazione della cultura». La vera e propria epoca moderna è sorta invece «dalla rottura con l’assolutismo e il confessionalismo»; questa rottura – afferma Troeltsch – «è stata ed è il suo pathos, il principio delle sue formazioni statali, sociali e religiose, l’impulso del suo pensiero scientifico». Perciò, in senso stretto, essa «comincia con la rivoluzione inglese e l’Illuminismo»70. L’accentuazione – rispetto ai primi saggi – della continuità tra la cultura moderna nel suo primo dispiegato affermarsi con l’Illuminismo e la cultura cristiano-ecclesiastica consente a Troeltsch di delineare una evoluzione della crisi religiosa e più complessivamente culturale del mondo moderno, segnata, per riprendere la precisa indicazione di Die christliche Weltanschauung, dalla perdita «dell’unità della nostra vita spirituale», dal progressivo declino non solo della «doctrina christiana» della Chiesa, ma più in generale del sistema di idee è di valori confluenti nella tradizione platonico-cristiana. Egli può così individuare nella crisi, colta perciò nel suo versante di trasformazione più che di decadenza, una prima fase in cui nell’età dell’Aufklärung e dell’Idealismo tedesco le forze spirituali, le condizioni di vita moderne consentono ancora una sia pure transitoria, parziale e relativa «sintesi culturale», una unificazione, per quanto non più garantita da alcuna autorità 70. Cfr. Historismus, GS III, pp. 762-764 (tr. it. cit., vol. III, pp. 85-88).

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storico-positiva, dei diversi strati di cui si compone la complicata «essenza dello spirito moderno»: una Bildung umana, ancora accordabile nelle sue più profonde radici con la visione cristiana del mondo. In questa Bildung, che costituisce per Troeltsch un ideale per contrastare il nichilismo contemporaneo, un ruolo centrale è svolto dal concetto di individualità come luogo d’incontro tra l’umano e il divino. In essa perciò sembra rivivere la “teologia copulativa” di Cusano nella interpretazione che ne ha dato Cassirer: «Il “De visione Dei”– scrive Cassirer nel primo capitolo di Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento – ci ha insegnato, che la verità dell’universale e la particolarità dell’individuale si compenetrano in modo tale, che l’essere divino non può venire afferrato e visto se non attraverso punti di vista individuali infinitamente molteplici […], perché solo la totalità ci può dare la visione unitaria del divino». E proprio alla “coincidentia oppositorum” di Cusano fa riferimento Ernst Troeltsch al culmine della sua filosofia della storia il cui fondamento può essere colto solo da una «metalogica» in grado di svelare «il mistero della individualità», di pensare cioè l’unità profonda e vivente di finito e infinito, di tempo ed eterno, di individuale e universale. 2. L’autonomia della religione e l’eredità kantiana Nel quadro della riflessione sul rapporto del Cristianesimo con la storia e in particolare con la cultura moderna si situa la elaborazione della filosofia della religione di Troeltsch, che è originariamente caratterizzata dall’esigenza di determinare un ambito di indagine scientifica, rivolta specificamente alla religione e distinta sia dall’indagine teologica, per lo più, a suo avviso, pregiudicata dal soprannaturalismo, sia da quella filosofica, prevalentemente portata a risolvere la religione nella filosofia o a mostrarla come mera illusione. Si tratta, cioè,

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di trarre fuori la considerazione del fenomeno religioso dalle «anguste mura» della teologia. Ma, al tempo stesso, di delineare un’analisi in grado di rivendicare l’autonomia della religione come una specifica forma della vita spirituale. Il riconoscimento dell’autonomia della religione appare, infatti, come un indispensabile «presupposto» rispetto all’intenzione – che muove la ricerca teologica di Troeltsch – di verificare la possibilità di conciliare Cristianesimo e cultura moderna, o, più precisamente, di suscitare una rinnovata vitalità del Cristianesimo, di un’antica forza religiosa, a contatto con lo spirito e il pensiero del mondo moderno. In Die christliche Weltanschauung Troeltsch, ricollegandosi al Lehrbuch der Religionsphilosophie di Hermann Siebeck, apparso proprio nel 1893, muove dal principio che la religione costituisce «un fenomeno autonomo e specifico fondato nell’essenza dell’uomo e nella sua posizione nel mondo, che ha un proprio sviluppo e sue proprie condizioni di vita»71. Nonostante tutte le influenze che, nella generale connessione della vita spirituale e storica, agiscono su di essa, le manifestazioni della religione non sono mai determinate dall’esterno, ma, nel loro valore e carattere specifici ed essenziali, corrispondono sempre ad un proprio sviluppo immanente. La loro origine e il loro sviluppo si riconducono quindi ad «una universale e unitaria disposizione religiosa»72. La centralità della questione dell’autonomia della religione situa, quindi, fin dall’inizio la riflessione troeltschiana sul terreno del pensiero moderno e in particolare della tradizione kantiana. Come Troeltsch osserva nello scritto del 1895-96 intitolato appunto Die Selbständigkeit der Religion (L’autonomia della religione), l’idea stessa della religione come «una regio71. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 267. 72. Ivi, p. 268.

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ne della vita autonoma nel proprio nucleo centrale e che si configura e si sviluppa secondo una propria forza»73 nasce nel mondo moderno ed è «un prodotto del movimento scientifico moderno»74. Questa idea non si ritrova nel mondo antico, che ha considerato la religione soprattutto nel suo legame con le condizioni naturali e politiche, concependola come religione popolare o tutt’al più – come nella sua crisi finale – una «miscela» di varie religioni popolari. Né essa appartiene alla tradizione ecclesiastica del Cristianesimo, sia cattolica che protestante, dove la religione non è considerata ancora come una esperienza a partire dalla coscienza, ma come una comunicazione divina di verità religiose: «comunicazione unica e soprannaturale», dotata di assoluta ed esclusiva validità75. Soltanto nel mondo moderno da un lato le terribili conseguenze delle guerre di religione, dall’altro la nascita e lo sviluppo delle scienze naturali e del metodo storico-critico hanno messo in crisi il soprannaturalismo e la pretesa di assolutezza delle singole confessioni religiose, e hanno suscitato, come ha osservato Dilthey, «l’aspirazione alla pace religiosa, all’accordo su un nucleo originario del Cristianesimo» sottratto alle lotte confessionali e alle posizioni settarie76.

73. E. Troeltsch, Die Selbständigkeit der Religion, «Zeitschrift f. Theologie und Kirche», Jg. 5, 1895, H. 5, p. 361 (tr. it. L’autonomia della religione, a cura di F. Ghia, Loffredo, Napoli 1996, p. 55). 74. Ivi, p. 365 (tr. it. cit., p. 61). 75. Ibidem. 76. Cfr. W. Dilthey, Der Streit Kants mit der Zensur über das Recht freier Religionsforschung, in W. Dilthey, Gesammelte Schriften, Bd. IV, hrsg. v. H. Nohl, Vandenhoeck u. Ruprecht, Göttingen 1968, p. 295: «Così dai bisogni vitali della società europea è scaturito il problema che Herbert of Cherbury e Locke, Wolff e Kant, il deismo e l’illuminismo tedesco hanno cercato di risolvere: di indicare, cioè, il nucleo del Cristianesimo in una fede razionale universalmente valida e di unificare in questa fede i dotti di tutte le chiese».

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Si sono create, quindi, le condizioni per una indagine che intenda «far chiarezza sul fenomeno religioso nel suo insieme», risalendo, com’è proprio del metodo scientifico, dal singolare al generale, dalla singola religione alla religione in generale, dalla rivelazione soprannaturale, che è storica, particolare, positiva, alla rivelazione naturale, che è insita nella stessa ragione umana e perciò è universale77. È soprattutto con il pensiero di Kant che si compie il passo decisivo per la nascita della filosofia della religione e, al tempo stesso, per il riconoscimento dell’autonomia della religione. Kant – osserva Troeltsch – ha spostato «il punto di partenza di ogni indagine scientifica nell’analisi della coscienza umana e nella critica dei suoi poteri conoscitivi». Con ciò ha giustificato criticamente l’autonomia della religione svincolandola dalla metafisica e ha aperto la via verso «una più penetrante analisi psicologica» dell’esperienza religiosa e soprattutto verso il riconoscimento del suo «carattere eminentemente pratico»78. Come ha messo in rilievo Dilthey, nella lotta contro la censura Kant ha rivendicato un’autonoma interpretazione della Bibbia alla competenza del filosofo della religione, che «al fine di ricondurre la fede ecclesiastica statutaria al pensiero religioso universalmente umano», ha bisogno di applicare «la fede razionale morale» alla «interpretazione in senso morale» anche dei testi cristiani79. Nell’opposizione tra pensiero scientifico e 77. Cfr. Die Selbständigkeit der Religion (1895), cit., p. 366 (tr. it. cit., p. 62). In questo orientamento Dilthey scorge anche l’origine di quella che egli presenta come «l’idea fondamentale della filosofia della religione tedesca» e che certamente è un elemento centrale del pensiero religioso di Kant, vale a dire l’idea secondo cui «l’elemento storico nella fede religiosa è il linguaggio simbolico di una vicenda etica intemporale» (W. Dilthey, Der Streit Kants mit der Zensur über das Recht freier Religionsforschung, cit., p. 295). 78. Die Selbständigkeit der Religion (1895), p. 366 (tr. it. cit., pp. 62-63). 79. Cfr. W. Dilthey, op. cit., p. 292.

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religione razionale da una parte e fede ecclesiastica dall’altra, Kant tenta di imboccare una via su cui è possibile stabilire la loro «convivenza», e questo è possibile, osserva Dilthey, perché in fondo, anche al di là della sua consapevolezza, Kant delineava la sua religione razionale morale muovendo dall’esperienza storica della religione cristiana, allo stesso modo in cui i maestri del diritto naturale prendevano le mosse dal diritto romano80. Ragione e storia, in effetti, si intersecano, nei due principi su cui, secondo Dilthey, si fonda l’«interpretazione morale» della religione in Kant, principi che rinviano a Lessing, alle dottrine delle sette, a Leibniz. Vale a dire: 1) il principio, si potrebbe dire, della “vitalità” storica interiore, per cui l’«attestazione» del valore divino della tradizione di una religione positiva affidata ai suoi testi sacri, nel caso del Cristianesimo alla Bibbia, non dipende da «una narrazione storica» e dalla sua fondazione scientifica, ma «dalla sua provata capacità di fondare la religione nel cuore dell’uomo», come Kant scrive ne Il conflitto delle Facoltà81; e 2) il principio, preparato da Leibniz e parimenti formulato da Lessing, per cui la fede storica rivelata è «un semplice veicolo» per la «fede religiosa pura», nella quale un giorno dovrebbe risolversi come nel suo «vero fine», ma per la quale continua ad essere indispensabile, finché vige la condizione sensibile-razionale della natura umana, come Kant suggerisce ne La religione nei limiti della semplice ragione 82.

80. Cfr. ivi, p. 297. 81. Cfr. I. Kant, Il conflitto delle facoltà, tr. it. di A. Poma, in I. Kant, Scritti di filosofia della religione, a cura di G. Riconda, Mursia, Milano 1994, p. 273. 82. Cfr. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it. di P. Chiodi, in I. Kant, Scritti morali, cit., pp. 443, 445, 448-51; W. Dilthey, op. cit., p. 297.

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Alla impostazione kantiana, e ai suoi sviluppi specialmente nel pensiero teologico di Schleiermacher, deve ricollegarsi, secondo Troeltsch, una filosofia della religione che non voglia determinare filosoficamente un’idea di Dio su cui costruire un concetto «normativo» di religione, ma voglia essere una «considerazione delle religioni effettive e viventi» e attenersi al fenomeno della religione così come si dà nella esperienza interiore e nella storia. Essa deve considerare la religione come un «fenomeno unitario», che è, certamente, inserito nella totalità della vita spirituale, ma è caratterizzato da «proprie leggi» e ha un proprio «contenuto di verità», che si manifesta storicamente. Di qui l’esigenza di concentrare l’analisi su due ordini di problemi principali: quelli della psicologia della religione, che «cerca il luogo, l’origine e il significato della religione nella coscienza umana», e quelli della storia della religione che «cerca una legge e una connessione nelle particolarizzazioni storiche della religione e la fondazione di un criterio di valutazione di queste particolarizzazioni»83. 3. Cristianesimo e storia All’origine di questa concezione dei compiti della filosofia della religione, che si richiama all’esperienza interiore e alla storia, si trova certamente la formazione teologica di Troeltsch nell’ambito della scuola di Albrecht Ritschl84. Come lo stesso 83. Die Selbständigkeit der Religion (1895), p. 370. 84. Cfr. W. Köhler, Ernst Troeltsch, J. C. B. Mohr, Tübingen 1941, pp. 5, 5455, 62-63; E. Lessing, Die Geschichtsphilosophie Ernst Troeltschs, Herbert Reich-Evangelischer Verlag, Hamburg-Bergstedt 1965, pp. 9 ss.; G. Médevielle, L’Absolu au coeur de l’histoire, Les Édition du Cerf, Paris 1998, pp. 37 ss. Geneviève Médevielle mette bene in luce il distacco di Troeltsch da Ritschl che avviene nella tesi del 1891 Vernunft und Offenbarung bei Johann Gerhard und Melanchton (Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen) a proposito della interpretazione del rapporto tra Protestantesimo e modernità, dal

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Troeltsch suggerisce in un suo schizzo di storia della teologia tra Ottocento e Novecento, la teologia ritschliana, ricollegandosi alle posizioni di Kant, di Herder e soprattutto di Schleiermacher, riconosce una specifica conoscenza religiosa autonoma rispetto alla conoscenza teoretica e scientifica, fondata «in modo pratico-sentimentale» e dotata di un proprio linguaggio simbolico attraverso il quale «è possibile un accesso ai reali fondamenti della vita»85. La distinzione di principio nella vita spirituale tra una sfera teoretico-conoscitiva, limitata kantianamente alla conoscenza dell’esperienza fenomenica e quindi ai saperi positivi delle scienze empiriche, e una sfera praticoreligiosa impegnata in questioni di senso consente un peculiare rapporto di coesistenza tra Cristianesimo e pensiero scientifico moderno. Da un lato vengono accolti i risultati critici della riflessione scientifica e filosofica sul piano gnoseologico e metafisico, così come viene accolta la storiografia moderna sviluppatasi dall’affermazione del metodo storico-critico, nel cui ambito devono essere indagate anche le vicende delle Chiese e le dottrine confessionali. Dall’altro lato – osserva Troeltsch – con una singolare oscillazione tra «Historie e mistica soggettiva»86, viene sottratto alla considerazione storiografica e al pensiero critico l’evento fondamentale del Cristianesimo, il «fatto» della persona di Gesù e della sua predicazione87, e viene affermata l’incondizionata validità nella sfera pratica del messaggio di salvezza di Gesù. Quest’affermazione si basa sugli effetti che esso esercita sulla coscienza religiosa e morale,

momento che egli pone l’origine del mondo moderno non nella Riforma, ma nell’Aufklärung e distingue in relazione a quest’ultima un Vetero-protestantesimo e un Neo-protestantesimo (cfr. pp. 40-41). 85. Cfr. E.Troeltsch, Rückblick auf ein halbes Jahrhundert der theologischen Wissenschaft (1908), GS II, p. 200. 86. Ivi, p. 219. 87. Cfr. ivi, pp. 211, 213, 218.

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accertabili immediatamente nell’«esperienza interiore», in un Werturteil, in un giudizio che esprime il sentimento del valore che l’incontro con Gesù e l’ascolto della sua parola hanno per l’esistenza del credente e per la sua vita spirituale. Nella prospettiva aperta dalla teologia ritschliana il pensiero cristiano non si presenta come un sistema immutabile di dogmi, ma come «un’attiva formazione etica del mondo» che nell’idea di Dio rivelata dalla predicazione di Gesù trova garantita «la supremazia del mondo morale della libertà sulla natura». La visione del mondo cristiana si esprime in una forma concettuale rigorosa, in una disciplina che adopera conoscenze e metodi scientifici e però non è una scienza, ma si presenta piuttosto come «una interpretazione dell’elevazione etico-religiosa a Dio, che si poggia sulla persistente efficacia della persona di Gesù: una interpretazione che si dispiega in immagini di Dio, del mondo e dell’uomo, le quali non fondano una spiegazione scientifica della realtà, ma un vivente legame etico-religioso della comunità unita in Cristo ed aiutano a esprimere e rafforzare questo legame»88.

88. Ivi, p. 208. Sulla teologia di Albrecht Ritschl e sulla scuola ritschliana cfr. B. Gherardini, La seconda riforma. Uomini e scuole del Protestantesimo moderno, Morcelliana, Brescia 1964, pp. 386-445. Sul pensiero di Troeltsch e il contesto del “liberalismo teologico” e della “Religionsgeschichtliche Schule” si veda il cap. I del vol. II. Su Troeltsch in particolare il §4. Sul rapporto di Troeltsch con l’insegnamento di Ritschl si veda p. 59 in cui Gherardini sottolinea il legame di Troeltsch con Ritschl nel tentativo di realizzare un «compromesso tra le esigenze dei valori assoluti e trascendenti e l’esperienza mistica» e vede questa via di compromesso nel peculiare storicismo antihegeliano di Troeltsch («uno storicismo sollecito [delle] particolari formazioni storiche, disposto anzi a riconoscere in ognuna di esse un valore compiuto e nel loro insieme un significato unitario»), e le pp. 71-72 in cui sottolinea invece il distacco dalla «Offenbarungstheologie del Ritschl» e il passaggio ad una prospettiva teologica «caratterizzata dall’a-priori religioso e dagli altri principi della critica storica». La valutazione critica di Gherardini è riassumibile nella critica al “modernismo” di Troeltsch, che egli, in modo piuttosto

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Il principio dell’autonomia della religione, l’orientamento verso la storia come luogo della Rivelazione, l’accentuazione del legame tra religione ed etica costituiscono i motivi della teologia ritschliana che hanno più profondamente influenzato il pensiero di Troeltsch. Essi, ovviamente, subiscono notevoli modificazioni entrando in contatto con altre prospettive teologiche e filosofiche cui Troeltsch si ricollega, e tuttavia anche il distacco dalla scuola ritschliana può essere considerato come la conseguenza di una più rigorosa interpretazione del principio dell’autonomia della religione. Si definisce in Troeltsch, infatti, una più precisa delimitazione tra religione ed etica e si approfondisce il nesso tra teologia e storia attraverso una più coerente applicazione del metodo storico-critico nell’ambito teologico, che si riflette soprattutto nella evoluzione della problematica dell’“assolutezza” del Cristianesimo. Va osservato, però, che, risalendo, attraverso Ritschl, a Schleiermacher, l’obiettivo della ricerca teologica di Troeltsch non consiste unicamente nell’affermazione del metodo storico di

riduttivo, interpreta come il «tentativo di piegare la fede alla cultura (storia e filosofia della religione)», contrapponendolo all’impegno teologico che consisterebbe nello sforzo «di spiegare la fede anche con gli strumenti della ragione e della scienza». – Sul rapporto di Troeltsch con il Modernismo si devono tener presenti in primo luogo il saggio di Troeltsch pubblicato su «Die Neue Rundschau» nel 1909 Der Modernismus (ripreso in GS II, pp. 45-57) e le lettere a Friedrich von Hügel, «il vescovo laico dei modernisti» con cui Troeltsch ha avuto un fecondo rapporto di amicizia e di confronto intellettuale durato fino alla sua immatura scomparsa (E. Troeltsch, Briefe an Friedrich von Hügel, herausg. von K.-E. Apfelbacher und Peter Neuner, Verlag Bonifacius-Druckerei, Paderborn 1974). Si vedano inoltre la Einleitung di Apfelbacher e Neuner al volume dei Briefe (pp. 11-49) e per quanto riguarda specialmente il Modernismo italiano il saggio di Giovanni Moretto Ernst Troeltsch e il modernismo, estratto da Nuovi Studi di filosofia della religione, «Archivio di Filosofia», Cedam, Padova 1982, pp. 134-168 con in Appendice la pubblicazione delle lettere e cartoline scritte da Troeltsch a Stefano Jacini Junior tra il 1907 e il 1915 (pp. 169-180).

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fronte a quello dogmatico, quindi nell’affermazione della centralità della Religionsgeschichte nella teologia, ma nel complessivo progetto di una «scienza della religione» comprendente tanto il lato sistematico quanto quello storico89. Già abbozzato nei paragrafi IV e V di Die christliche Weltanschauung und ihre Gegenströmungen (1893/94), questo progetto trova la sua prima definizione negli scritti teologici compresi tra il 1895 e il 1900, nel contesto di una concezione della vita spirituale che tende ad armonizzare i risultati dello sviluppo contemporaneo della teoria della conoscenza e delle scienze dello spirito (in primo luogo la psicologia e la storiografia) con una «ontologia dello spirito umano» e una «filosofia della storia» fondate su una peculiare assimilazione dell’eredità dell’Idealismo tedesco. La possibilità di un «compromesso» tra Cristianesimo e visione del mondo moderno è stato un motivo costante della teologia e della filosofia della storia di Troeltsch: «compromesso» nel particolare significato che questo termine ha in Troeltsch, come necessaria mediazione tra fede e storia. Questo compromesso si fonda nell’abbandono di una concezione dogmatica dell’idea cristiana come immutabile e isolata dal mondo storico e dal suo divenire. Ad essa si devono riconoscere, come ad ogni altro fenomeno storico, «il diritto e la possibilità di uno sviluppo in rapporto alle condizioni del mondo», sicché – af-

89. A questo riguardo vanno richiamate le osservazioni di Roberto Garaventa sul passaggio nella teologia protestante tedesca indicato da Troeltsch dalla «teologia liberale» ottocentesca alla «teologia scientifica» degli inizi del Novecento (R. Garaventa, Storia e dogma in Ernst Troeltsch, in Divinarum Rerum Notitia. La teologia tra filosofia e storia. Studi in onore del cardinale Walter Kasper, a cura di A. Russo e G. Coffele, Studium, Roma 2001, pp. 632-648, in particolare pp. 636-639). Per una più complessiva interpretazione del pensiero religioso di Ernst Troeltsch da parte di Roberto Garaventa rinvio al volume Religione e modernità in Ernst Troeltsch (Luciano, Napoli 2004), che per tanti aspetti incrocia i temi di questo libro.

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ferma Troeltsch – non è lecito «commisurare senz’altro la sua posizione nel mondo moderno a quella assunta nel mondo pagano che le era assolutamente ostile»90: il mondo moderno, infatti, è anche il risultato dell’affermazione universale dei principi cristiani, che ne costituiscono uno strato fondamentale e insopprimibile. Il riferimento allo sviluppo dell’idea cristiana evoca necessariamente il confronto del pensiero teologico con l’idea dello sviluppo e con il metodo genetico, che si sono affermati in tutti gli ambiti della conoscenza scientifica specialmente nel corso dell’Ottocento e in cui, come opportunamente suggerisce Troeltsch, si manifesta «una nuova concezione del rapporto dell’essere con il divenire, cioè del permanente, del vero e dell’incondizionatamente valido con il mutevole e il relativo, dell’idea con la realtà»91. La storia ha invaso l’essere e la ragione e ciò ha posto alla teologia e alla Weltanschauung cristiana nuovi complessi problemi, innanzi tutto quello di conciliare l’autocomprensione immediata del Cristianesimo come religione assoluta, come verità religiosa incondizionatamente valida in quanto rivelata da Dio, con la nuova consapevolezza della storicità delle forme spirituali e quindi della stessa religione. L’assolutezza del Cristianesimo diviene problema e per la soluzione di questo la teologia – come ha già indicato Schleiermacher inserendo il sistema teologico nella cornice dell’etica come scienza della storia – deve necessariamente cercare la propria fondazione nella filosofia della storia. Si inserisce qui il confronto critico con la teoria dello sviluppo positivistica e soprattutto con quella estetica e idealistica e in questo confronto si possono cogliere i lineamenti fondamentali ed originari della visione della storia di Troeltsch e in particolare la sua connessione con

90. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 280. 91. Ivi, p. 296.

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la teoria della storia di Ranke. Di quest’ultima Troeltsch mette in rilievo la «nettissima opposizione – in nome di una conoscenza che intende limitarsi a ciò che è realmente conoscibile – verso l’ideale di una conoscenza totale dello sviluppo umano, che pretende di conoscere l’intero processo e di svelare, in base alle proprie leggi, i suoi fattori e il suo contenuto e significato»92. La conoscenza storica si riferisce sempre a realtà individuali e determinate, a «singoli ambiti della vita storica», ad una determinata epoca o a un determinato popolo. Anche quando Ranke, alla fine della sua attività, riprende il progetto di una storia universale, l’idea che ha di questa si oppone sia alle «costruzioni di Herder, Schelling e Hegel», sia alle «schematizzazioni naturalistiche del processo storico»93. Pur riconoscendo nella storia «una profonda, intima connessione [...], che tutto abbraccia»94 – nel duplice aspetto dell’«interna necessità del succedersi delle cose», della loro concatenazione causale che deve essere accertata dall’indagine storico-empirica, e dell’orientamento «provvidenziale» di questo succedersi che può essere solo religiosamente presentito95 – Ranke afferma che «ogni epoca deriva immediatamente da Dio, e il suo valore non risiede in ciò che vien fuori da essa, ma nella sua stessa esistenza, nella sua peculiarità»96; più in generale, nella storia «nulla esiste completamente solo per qualcos’altro, e nulla si risolve 92. Ivi, p. 314. 93. Ivi, p. 315. 94. L. v. Ranke, Über die Epochen der neueren Geschichte, in Weltgeschichte, hrsg. v. A. Dove, vol. IX, Duncker und Humblot, Leipzig 1888, p. XIV. 95. Cfr. F. Meinecke, Interpretazione di un detto di Ranke, in Aforismi e schizzi sulla storia, tr. it. di G. Cassandro, Esi, Napoli 1962, pp. 106, 112 ss. 120 ss. 96. L. v. Ranke, Über die Epochen der neueren Geschichte, cit., p. 5 (tr. it. di G. Valera, Le epoche della storia moderna, a cura di F. Pugliese Carratelli, Bibliopolis, Napoli 1984, p. 104).

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totalmente nella realtà di qualcos’altro»97. Ciò è possibile perché l’unità della storia non è concepita come unità teleologica, come il continuo, progressivo sviluppo verso un fine determinato già implicito nella origine, ma come unità genealogica, in quanto «in ogni momento può cominciare qualcosa di nuovo, che si può riportare solo alla prima e universale origine di ogni agire e patire umano»98, al comune fondamento di ogni individualità storica, di ogni azione storico-universale come di ogni atto di vita personale in cui si afferma l’essenziale dell’uomo: l’aspirazione al divino, all’ideale99, che è la fonte della libertà e della forza originaria, creativa. L’unità genealogica della storia non indica un fine necessario dello sviluppo storico, ma un fine possibile, il telos di un agire morale, l’oggetto di una fede religiosa nella sua provvidenziale realizzazione. Alle idee di Ranke sui poteri e i limiti della conoscenza storica, al suo concetto di Weltgeschichte, alla sua convinzione che la Historie non possa mostrare le ragioni ultime dell’accadere storico, che devono essere lasciate alla religione, si richiama Troeltsch nel saggio del 1893/94, per legittimare la visione religiosa e cristiana della storia come l’unica adeguata risposta alla «incessante aspirazione dell’uomo ad una salda verità capace di dare senso alla vita»100, che proprio l’affermarsi della coscienza storica ha reso estremamente problematica. 97. Ivi, p. XIV. 98. Ibidem. 99. L. Ranke, Weltgeschichte, Bd. I, I, Duncker und Humblot, Leipzig 1881, 2a ed., p. 3 (tr. it. di A. Neppi Modona, Sansoni, Firenze 1932, p. 13). Sulla teoria della storia di Ranke cfr. F. Tessitore, Teoria del Verstehen e idea della Weltgeschichte in Ranke (1978), ora in F. Tessitore, Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1995, vol. II, pp. 747-810; F. Tessitore, Il giudizio di Croce su Ranke (1993), ora in F. Tessitore, Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1997, vol. III, pp. 367-378. 100. Die christliche Weltanschauung, GS II, pp. 309-310.

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Alla rassegnazione che sembra inevitabilmente derivare dalle insormontabili contraddizioni in cui terminano i tentativi filosofici di fondare, «a partire dallo sviluppo», una «salda verità», una unità di senso della storia101, Troeltsch, con una sorta di «superamento della storia (Historie) per mezzo della storia (Historie)»102, contrappone la «verità storica» costituita da «una certezza intorno al senso e all’immutabile verità dell’esistenza [...] sperimentata e affermata dagli uomini nella religione, nella fede in una verità eterna, di cui essi si sono ritenuti debitori all’autorivelazione di Dio»103. Il senso della storia può svelarsi quindi soltanto in un rapporto verticale con Dio fondato in un’azione teandrica, che ha il suo centro nel fatto storico della rivelazione divina. Dio, infatti, è «l’essere, il centro, l’assoluto in questo eterno fluire e divenire di eventi ed esistenze finite che, sia pur relativamente, si condizionano» e solo rivelandosi nel finito e nel tempo, «irrompendo» in un determinato punto del processo storico, può, «a partire da questo punto, diffondere la sua luce a tutto il resto»104. A questo punto, però, sorge una difficoltà, connessa con la problematica dell’assolutezza, che Troeltsch non si nasconde. Dal momento che «l’assoluta verità religiosa» deve necessariamente rivelarsi in un punto del tempo, in una determinata situazione dello sviluppo storico e in una «particolare corrente storica» (in questo caso, il Cristianesimo), è innegabile che di fronte a tale rivelazione e alla religione che su di essa si fonda, tutti gli altri fenomeni religiosi, così come tutte le altre forme di sapere puramente umano, non possono 101. Cfr. ivi, pp. 309, 311. 102. L’espressione è usata da Troeltsch a proposito della “scuola ritschliana”, in Rückblick auf ein halbes Jahrhundert der theologischen Wissenschaft, GS II, p. 205. 103. Die christliche Weltanschauung, GS II, pp. 311-312. 104. Ivi, p. 311.

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che rappresentare «verità relative» e perciò intere generazioni ed epoche, precedenti o anche contemporanee e seguenti, ma non in vivente contatto con essa, sono escluse dalla «partecipazione» all’assoluta verità. E allora, non si dovrebbe porre anche qui l’obiezione di Ranke alla hegeliana filosofia della storia, secondo cui sarebbe «un’ingiustizia divina» ridurre una serie di epoche e generazioni a semplici momenti di transizione, portatori, tutt’al più, di verità soltanto relative, rispetto alla manifestazione della verità assoluta? E non si sarebbe costretti ad affermare la spietata idea di una predestinazione o di una selezione?105 Troeltsch ritiene di poter superare questa difficoltà, osservando che la conseguenza di un tragico sacrificio di individui, di generazioni, di epoche sarebbe inevitabile solo nell’ambito di una concezione della storia come «totalità in sé conclusa». Ma, come dimostra la scienza storica, la storia, compresa nel suo reale e concreto accadere, non legittima una tale «costruzione» della totalità dello sviluppo storico. «La storia – in quanto storia di individualità che sono sì legate in una connessione unitaria, ma esigono altrettanto, ognuna per sé, il compimento della propria esistenza – non è una totalità in sé conclusa, ma una successione di cominciamenti, di iniziative interrotte e sempre di nuovo riprese, che hanno la loro origine e il loro fine nel soprasensibile». Se dunque la storia, in ogni punto del suo accadere, si apre, oltre la successione orizzonta105. In relazione al pensiero storico di Ranke e alla critica della filosofia della storia Fulvio Tessitore ha efficacemente osservato che la teoria della storia rankiana, in quanto fondata sulle idee di libertà e di individualità, «negava risolutamente ogni filosofia della storia e ogni Weltgeschichte teologica o teleologica in quanto prendeva posizione contro il cardine di quelle concezioni: l’idea della giustizia della storia riposta nel fine (che è anche la fine) della storia da raggiungere quali che fossero i sacrifici richiesti agli individui singoli e concreti, provvisorie e intermittenti incarnazioni dell’Assoluto. Idea terribile, poggiata negli anni di Ranke, e anche dopo, sulla coniugazione di machiavellismo e hegelismo» (F. Tessitore, Il giudizio di Croce su Ranke, cit., p. 378).

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le degli eventi e la loro connessione, al sovrasensibile, all’ideale, al divino ed all’eterno, allora non si può escludere, ma è anzi presumibile che «nell’eterno» possano «partecipare» alla verità assoluta anche «coloro che sulla terra hanno potuto partecipare solo ad un grado inferiore della rivelazione»106. Nella trattazione delle idee rankiane si riconoscono già i «principi» del pensiero storico di Troeltsch, anche se per ora il suo interesse si volge soprattutto al fatto che le teorie di Ranke confermano il carattere astratto delle costruzioni filosofiche dello sviluppo, tanto idealistico-estetiche quanto positivistiche (una «mitologia di formule» in contraddizione con la realtà) e confermano, ad un tempo, che «le antiche domande intorno alle vive sorgenti degli accadimenti e al valore permanente, l’antico bisogno di una rivelazione del fondamento divino della vita e di un disvelamento del senso profondo di ogni vita conservano il loro diritto e continuano ad essere rimesse alla religione. Ogni filosofia che intende rispondere a queste domande deve trarre i valori e le norme dalla vita e quindi proprio dalla vita religiosa […] Nella religione si trova l’unica apertura sul fine assoluto dello sviluppo»107. Il problema, quindi, non è tanto quello di giustificare la possibilità di una rivelazione in generale, quanto quello di accertare «se noi nella nostra religione abbiamo il diritto di venerare questa rivelazione»108. Al termine dell’Auseinandersetzung con il pensiero storico, in quanto elemento caratteristico del pensiero contemporaneo109, si pone così la problematica dell’assolutezza del Cristianesimo, che, come si è già osserva106. Cfr. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 312. 107. Ivi, p. 317. 108. Ibidem. 109. Ovviamente lo era molto di più tra fine Ottocento e la prima metà del Novecento di quanto lo sia stato nella seconda metà del Novecento e, soprattutto, lo sia oggi.

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to, costituisce un motivo originario e centrale della riflessione troeltschiana, il luogo teorico in cui si intrecciano teologia e storia, filosofia della religione e filosofia della storia. Nelle pagine del 1893/94 questa problematica viene affrontata nel contesto di una sostanziale adesione alla «teologia della pretesa» (Anspruchstheologie) della scuola ritschliana, che sarà ancora avvertibile nelle considerazioni conclusive della quarta parte di Die Selbständigkeit der Religion, mentre lascerà il posto ad una più coerente elaborazione storico-religiosa già in Christentum und Religionsgeschichte e soprattutto in Die Absolutheit des Christentums. Fin da ora, però, Troeltsch prende le distanze dalla concezione «storico-evolutiva» dell’assolutezza che si ritrova nella teologia liberale e ha il suo fondamento nella interpretazione hegeliana della religione cristiana come «religione assoluta»110. Se, sulla base della storia della religione e del suo sviluppo, si può dimostrare che il Cristianesimo rappresenta la forma più alta di religione rispetto alle altre religioni storico-positive, non si può invece dimostrare che esso sia anche la forma perfetta, l’assoluta realizzazione del concetto di religione, la «insuperabile» rivelazione di Dio, a meno di non aver già prima implicitamente assunto il contenuto della religione cristiana proprio come il concetto di religione111. Ancor più insostenibile appare poi a Troeltsch la concezione soprannaturalistica, ecclesiastico-ortodossa, dell’assolutezza, che non regge al confronto con il pensiero storico e più

110. Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it. a cura di R. Garaventa e S. Achella, vol. I, Guida, Napoli 2003, p. 88: «La religione compiuta è quella in cui il concetto è ritornato a sé, l’oggetto è l’idea assoluta – Dio in quanto spirito, secondo la sua verità ed il suo essere rivelato per la coscienza». 111. Cfr. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 319.

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in generale con il pensiero scientifico moderno. I «sostegni» tradizionali della «pretesa» del Cristianesimo all’assolutezza, consistenti nella «prova del miracolo, della profezia e della ispirazione», sono crollati insieme con «l’antico, ingenuo soprannaturalismo»112. Di fronte ai problemi posti dal pensiero storico alla «pretesa» del Cristianesimo di costituire la «rivelazione assoluta di Dio», Troeltsch riconosce (come farà anche in Die Absolutheit des Christentums113) che ad essi si può rispondere, in ultima istanza, solo con «la nostra convinzione 112. Ivi, p. 317. 113. Cfr. E. Troeltsch, Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte, J.C.B. Mohr, Tübingen 1902, 2a ed. ampliata, 1912, 3a ed., 1929, ristampa della seconda (e terza) edizione in E. Troeltsch, Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte, und zwei Schriften zur Theologie, Einleitung von T. Rendtorff, Gütersloher Verlagshaus Mohn, Gütersloh, 19852, pp. 65-66 (tr. it. L’assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni, a cura di A. Caracciolo, Morano, Napoli 1968, pp. 119-120). [E. Troeltsch, Kritische Gesamtsausgabe, Bd. 5: Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte (1902/1912), hrsg. v. T. Rendtorff u. S. Pautler, de Gruyter, Berlin/New York 1998 (tr. it. L’assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni (1902-12), a cura di S. Miniati, Queriniana, Brescia 2006)]. Sull’“assolutezza” si vedano l’Introduzione di A. Caracciolo alla tr. it. citata (pp. VI-LVIII), l’Einleitung di T. Rendtorrf alla ristampa della seconda edizione citata, e l’Einleitung dello stesso Rendtorrf al Band 5 della Kritische Gesamtausgabe, che inserisce lo scritto sull’assolutezza (nato come «conferenza tenuta nella riunione degli amici della “Christliche Welt” a Mühlacker il 3 ottobre 1901») nel contesto della teologia contemporanea e della problematica dei rapporti tra teologia e scienze della cultura (pp. 150). Certamente l’edizione critica rende possibile un confronto tra la prima e la seconda edizione ed è quindi preziosa per l’analisi filologica del testo e per una specifica trattazione del tema dell’assolutezza. Per quanto riguarda i saggi qui raccolti ho ritenuto di continuare ad attenermi al testo della seconda e terza edizione e alla eccellente traduzione italiana di Alberto Caracciolo. A proposito dell’edizione critica e della nuova traduzione italiana si veda lo scritto di Fulvio Tessitore A proposito dell’edizione critica dell’Absolutheit troeltschiana, in Logica, ontologia ed etica. Studi in onore di Raffaele Ciafardone, a cura di D. Bosco, R. Garaventa, L. Gentile, C. Tuozzolo, Franco Angeli, Milano 2011, pp. 542-556 (contiene una ricostruzione della

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personale», che però non è qualcosa di «puramente individuale», ma nasce dalla «esperienza interiore» del sentirsi «afferrati» dal «principio cristiano», da una «potenza spirituale» che «opera su di noi» attraverso la mediazione della vita della «comunità» su di essa fondata. Tuttavia, se l’adesione al principio cristiano non può che fondarsi su una «esperienza interiore», non è però possibile arrestarsi all’evidenza di questa esperienza, assumendola in modo acritico, ma si deve problematizzare il suo contenuto, in primo luogo chiarire e giustificare nella sua possibilità l’affermazione della «unicità e singolarità» e dell’«origine soprasensibile» della verità religiosa cristiana, che sempre si accompagna alla «decisione pratica» per un orientamento cristiano della vita. Proprio sulla base della considerazione storica delle diverse religioni si può dimostrare che, per il suo specifico contenuto religioso, «il Cristianesimo si contrappone nettamente a tutto il resto dello sviluppo religioso», come «un principio assolutamente nuovo». Per quanto le altre formazioni religiose storico-universali presentino un vario grado di «moralizzazione» e «spiritualizzazione», «esse conservano tutte, di fronte al Cristianesimo, un carattere comune, di essere cioè religioni naturali». Il loro oggetto, ciò che esse esprimono resta pur sempre «la natura già data, il mondo e l’uomo così come di fatto sono». Anche quando presentano l’idea di una redenzione, la cercano e la trovano sempre nella sfera naturale, come, secondo Troeltsch, accade in forme diverse nel Buddismo e nel Neoplatonismo. Come ha messo in evidenza la più recente scienza religiosa e come ha affermato anche Ranke, soltanto il Cristianesimo «costituisce, in netta opposizione a tutte le molteplici forme di religione naturale, la religione universale puramente etico-spirituale, che ha creato

recezione del pensiero troeltschiano in Italia, con riferimento in particolare alla “scuola napoletana” e alla “scuola genovese”).

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l’intero mondo della vita personale, che si eleva al di sopra dell’immediatezza naturale»114. Rispetto al problema dell’«origine soprasensibile» del Cristianesimo, Troeltsch afferma che ogni indagine storica sulle sue origini è condotta a riconoscere la misteriosa presenza del mondo soprasensibile. Per quanto sia storicamente accertato che esso è sorto dal terreno del profetismo ebraico e che nella sua formazione concorrono una serie di altri influssi ed apporti, non si può disconoscere che la sua «autentica fonte» si trovi nell’eccezionale, «miracolosa» personalità di Gesù, da cui proviene la sua forza spirituale. La persona di Gesù, la sua auto-comprensione ed auto-affermazione mediano un rapporto speciale, unico con Dio, in cui si compie l’inserzione dell’eterno nel tempo, del mondo soprasensibile nella realtà umana e naturale115. Indubbiamente, l’affermazione della unicità ed esclusività del Cristianesimo, della sua contrapposizione di principio a tutte le altre religioni, così come il riferimento alla pretesa e all’affermazione di sé come assoluta e definitiva rivelazione di Dio, sono principi della scuola ritschliana da cui ben presto Troeltsch prende le distanze. Tuttavia non si devono trascurare una serie di motivi fondamentali di questa prima formulazione della problematica dell’assolutezza che sono ripresi e sviluppati successivamente e in modo particolare in Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte: la ricerca della soluzione del problema su una via diversa sia dalla concezione soprannaturalistica sia da quella storico-evo-

114. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 321. Cfr. R.J. Rubanowice, Crisis in Consciousness,The thought of Ernst Troeltsch, University Presses of Florida, Gainsville 1983, pp. 37-38. 115. Cfr. Die christliche Weltanschauung, GS II, pp. 322-23. Cfr. Die Absolutheit des Christentums, cit., p. 120 (tr. it. cit., p. 188).

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luzionistica116; il riconoscimento della necessità di mostrare la unicità, la individualità del Cristianesimo non tanto attraverso una considerazione della differenza formale nel modo della rivelazione, quanto attraverso la riflessione sul contenuto essenziale del pensiero cristiano e la sua comparazione con il contenuto delle altre religioni, in cui si mostra il Cristianesimo come l’unica religione che ha realizzato completamente il superamento degli elementi di «religione naturale» (che invece, in misura diversa, limitano il valore universale ed etico-spirituale delle altre religioni) e quindi ha prodotto un’immagine puramente spirituale e personale di Dio e altrettanto dell’uomo, nella misura in cui partecipa della essenza divina117; la centralità, infine, del riferimento alla persona di Gesù e alla sua esperienza religiosa, su cui si fonda anche l’assolutezza del Cristianesimo, che si può riconoscere in una prospettiva «storico-religiosa»118: il fatto, cioè, che il Cristianesimo possa e debba essere valutato come la forma relativamente «più alta» di religione119. 4. La figura di Gesù Il significato, la novità di Gesù non si devono però cercare nella sua dottrina, i cui motivi fondamentali appartengono alla tradizione israelitica e giudaica, bensì «nella pretesa di portare a compimento tutte le precedenti azioni divine, nella certezza di una definitiva rivelazione di Dio, nel sentimento dell’immi116. Cfr. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 318 e Die Absolutheit des Christentums, cit., pp. 10-20 (tr. it. cit., pp. 48-61). 117. Cfr. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 319 e Die Absolutheit des Christentums, cit., pp. 72 ss. (tr. it. cit., pp. 128 ss.). 118. Cfr. Die christliche Weltanschauung, GS II, pp. 321 ss. e Die Absolutheit des Christentums, cit., pp. 120 ss. (tr. it. cit., pp. 188 ss.). 119. Cfr. Die Absolutheit des Christentums, cit., p. 75 (tr. it. cit., p. 132).

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nenza della fine del mondo e del giudizio finale, che è intimamente legato con l’apparizione del “Messia”, nella subordinazione della vita a queste ultime e supreme prospettive»120. Proprio nell’elemento messianico ed escatologico che caratterizza la personalità e la predicazione di Gesù, annunciante la venuta del «regno di Dio» – nella coscienza quindi di un’assoluta e definitiva rivelazione divina – consiste, secondo Troeltsch, la vera sorgente del Cristianesimo e la testimonianza della sua origine nel mondo soprasensibile. Questa considerazione della personalità e della predicazione di Gesù non sono in contrasto con la volontà di «trarre le conseguenze del metodo storico in modo sempre più stringente»121, perché, anzi, proprio la conoscenza storica fa vedere la particolarità della fede cristiana, il cui evento è, almeno finora, l’unico «punto» in cui «la forza di Dio», in essa operante, «ha spezzato» il limite della finitezza naturale, nel contesto dello

120. Cfr. Die christliche Weltanschauung, GS II, pp. 321-322. – Nella nota 19 a p. 322, aggiunta da Troeltsch nel 1913 ripubblicando il saggio nel secondo volume delle GS, egli osserva che negli studi sull’escatologia di Gesù contemporanei alla prima edizione del saggio l’elemento escatologico viene identificato con quello «giudaico», mentre si cerca l’aspetto «originale» e «duraturo» del messaggio cristiano negli «elementi intramondani della predicazione». Al contrario, secondo Troeltsch, «le idee decisive – religiose ed etiche – del Vangelo scaturiscono proprio dal pensiero idealistico e apocalittico del regno di Dio. Proprio perciò esse si innalzano al di sopra dell’etica puramente umana e immanentistica». Nasce di qui il problema fondamentale del Cristianesimo nelle epoche successive a quella delle origini, consistente nella necessità di affermare la profonda visione della vita scaturita dalla prospettiva escatologica anche quando era ormai svanita l’attesa della imminente fine del mondo. – Sul significato di Gesù e della sua predicazione come «suprema forza religiosa» cfr. Die Abolutheit des Christentums, pp. 79, 84-85, 120 ss. (tr. it. cit., pp. 137, 143-144, 188 ss.). 121. E. Troeltsch, Über historische und dogmatische Methode in der Theologie (1900), GS II, p. 747 (tr. it. Metodo storico e metodo dogmatico in teologia, in E. Troeltsch, Scritti scelti, a cura di F. Ghia, Utet, Torino 2005, p. 470).

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sviluppo di un tradizione religiosa determinata, qual è stata «la religione dei profeti di Israele» e in una persona dotata di una personalità eccezionale irriducibile ai valori mondani preesistenti: «nella persona di Gesù, in cui il Dio distinto dalla natura produce una personalità sovrastante la natura nonché dotata di scopi eternamente trascendenti e di una forza di volontà che agisce in opposizione al mondo»122. A questo riguardo Niebergall denuncia, non senza qualche ragione, una incoerenza nell’applicazione del metodo storico da parte di Troeltsch, che indubbiamente, riconosce un carattere eccezionale e unico alla fede cristiana. Troeltsch stesso avverte la difficoltà e osserva perciò che questo riconoscimento della relativa superiorità della fede cristiana non intende affatto essere l’affermazione di «un’assolutezza dogmatica», che voglia contrapporre il Cristianesimo alla storia, estrapolandolo «dal flusso, dal condizionamento e dalla mutevolezza della storia», ma è piuttosto il risultato che scaturisce dall’esame stesso dello sviluppo della storia delle religioni e, più in generale, dallo sviluppo della storia della vita spirituale, quale si è presentata in particolare nella cerchia della cultura europea. Si delinea così nel saggio del 1900 il peculiare concetto di “assolutezza”, che sarà sviluppato da Troeltsch nel saggio del 1902 L’assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni: un concetto di assolutezza che, nella consapevolezza della storicità e relatività di tutte le formazioni della vita spirituale, scaturisce da un «convincimento soggettivo», che ha però «il suo fondamento oggettivo nella comparazione attenta, nella immedesimazione libera da chiusure e pregiudizi, nella valutazione coscienziosa»123 della molteplicità delle formazioni storiche individuali.

122. Ibidem. 123. Die Absolutheit des Christentums, cit., pp. 74-75 (tr. it. cit., p. 104).

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La considerazione comparativa della storia delle religioni consente l’elaborazione di un canone di giudizio che, ritrovando nelle individualità un elemento comune, universalmente valido124, può riconoscere nel Cristianesimo non la religione assoluta, ma la «verità religiosa più alta valida per noi»125. L’«assolutezza» indica quindi «la validità più alta e la certezza» che ci si è collocati su un cammino che porta verso la verità perfetta»126; e in questo riconoscimento e in questa certezza è fondamentale l’affermazione del carattere eccezionale della persona di Gesù e della sua predicazione, la cui «forza religiosa» si rende evidente proprio nella comparazione tra le varie forme di religioni, richiesta dall’applicazione del metodo storico. Al suo termine – scrive Troeltsch – «si è ricondotti alla predicazione di Gesù […] alla pura e genuina grandezza, al vasto e libero respiro di quel messaggio di Gesù, che rappresenta quanto di più alto e grande noi conosciamo. A questo punto la potenza di Gesù ci afferra con tale violenza e ci riempie lo spirito di tale venerante rispetto che non sappiamo più di vie faticose, diritte o tortuose per giungere a Lui. A Gesù possiamo affidarci come alla suprema forza religiosa, né dobbiamo dimenticare che, se da Lui non movesse quella violenza di cui si è detto, mai una generazione irretita nei meandri della storia potrebbe arrivare a Lui. Al sentimento religioso è possibile ed è lecito ridimenticare la storia: esso vive, col sentimento immediato dell’assolutezza della sua esperienza, nella presenza di Dio, distruggendo il tempo nella visione del Termine ultimo ed unico del suo tendere, che in quel momento gli si disvela»127.

124. Cfr. ivi, p. 83 (tr. it. cit., p. 118). 125. Ivi, p. 84 (tr. it. cit., p. 119). Cfr. pp. 88-91 (tr. it. cit., pp. 125-130). 126. Ivi, p. 92 (tr. it. cit., p. 132). 127. Ivi, p. 120 (tr. it. cit., p. 188).

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Per quanto anche nella concezione dell’esperienza cristiana delineata da Troeltsch, specialmente nel saggio sull’assolutezza del Cristianesimo, dalla personalità di Gesù si sprigiona una superiore «forza religiosa» che rivela la presenza di Dio alla coscienza dell’uomo, sottraendola al tempo e alla storia, non si può certo parlare di «una cesura rispetto all’abituale causalità storica», qual è quella che, secondo la critica di Troeltsch, sarebbe attribuita alla personalità di Gesù da Niebergall, nel quadro di una persistente «teologia del miracolo», solo estrinsecamente rivestita di argomentazioni storiche. Peraltro, in questa posizione di mediazione tra fede e storia la presenza dell’elemento soprannaturale tende a scolorirsi sempre di più, man mano che si sviluppa la «teologia fondata sulla storia delle religioni», che trova il suo documento più sistematico nel saggio del 1913 Die Dogmatik der “religionsgeschichtliche Schule”128. Sicché l’orizzonte entro cui si situano le considerazioni intorno alla figura di Gesù si può indicare proprio con il titolo di «religionsgeschichtliche Schule» o anche più generalmente «religionsgeschichtliche Methode», cioè una prospettiva di storia della religione, caratterizzata dalla consapevolezza della pluralità delle formazioni in cui storicamente si manifesta quella disposizione della coscienza a percepire il rapporto con Dio che altrove Troeltsch ha definito come «apriori religioso»129. La Bibbia e gli altri documenti della tradizione cristiana devono essere indagati senza eccezioni con «i generali metodi della psicologia e della storia» e va esclusa

128. E. Troeltsch, Die Dogmatik der “religionsgeschichtlichen Schule”, in GS II, cit., pp. 500-524 (tr. it. di A. Caracciolo, La dogmatica della “Religionsgeschichtliche Schule”, in E. Troeltsch, L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni, cit., pp. 193-228). 129. Cfr. E. Troeltsch, Zur Frage des religiösen Apriori, GS II, pp. 756-758 (tr. it. La questione dell’apriori religioso, in E. Troeltsch, Scritti di filosofia della religione, cit., pp. 206-208).

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ogni attestazione scientificamente valida di una verità soprannaturale130. Le ricerche storiche sul Cristianesimo – osserva Troeltsch – hanno posto in evidenza la distanza tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Inoltre si è affermata la consapevolezza di una discontinuità tra la predicazione di Gesù come viene presentata nei sinottici, per la cui comprensione si deve far riferimento «al profetismo e all’escatologia del tardo Giudaismo», e il Cristianesimo del Cristo, la religione «propria di una comunità e di una chiesa nuova […] che presenta nettissimi tratti di differenziazione rispetto alla predicazione del regno di Dio [da parte] di Gesù»131. La riflessione attuale sul Cristianesimo, al fine della costruzione di una dogmatica o di una dottrina della fede, deve tenere presente non solo questa differenziazione, ma ancor di più l’intero svolgimento della storia del Cristianesimo attraverso la Chiesa antica, la Chiesa medievale, l’irruzione della Riforma, le molteplici forme assunte dal confronto delle diverse confessioni cristiane con il pensiero scientifico e filosofico moderno e contemporaneo. Sicché – è questa la convinzione fondamentale di Troeltsch – «il Cristianesimo […] non può essere […] semplicemente la concezione e l’etica del Nuovo Testamento», ma dev’essere pensato come un concetto dinamico, un concetto di sviluppo, che deve oscillare, per così dire, continuamente tra l’origine e i vari momenti dello sviluppo, i vari punti di svolta che lo caratterizzano: «accanto all’epoca delle origini – scrive Troeltsch già nel saggio del 1903 Was heisst “Wesen des Christentums”?, scritto in margine al celebre scritto di Harnack – anche lo sviluppo successivo assume un’importanza egualmente fondamentale per la determinazio-

130. Die Dogmatik der “religionsgeschichtlichen Schule”, GS II, p. 503 (tr. it. cit., p. 199). 131. Ivi, p. 508 (tr. it. cit., p. 205).

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ne dell’essenza»132. L’essenza infatti non può fissare, assolutizzandolo, un aspetto della tradizione cristiana, ma deve rispecchiare l’insieme delle varie e molteplici forme storiche assunte dal Cristianesimo, che non si lascia rinserrare in uno statico concetto unitario: «l’essenziale nel Cristianesimo non è ciò che coincide e si garantisce con una verità universale, oltre che immutabile, [ma] è invece unicamente l’insieme (Inbegriff) delle idee religiose fondamentali, che emerge con evidenza dalla sua stessa manifestazione storica, […] e non è mai tutto già dato e concluso, fintanto che fa parte in modo vivo della storia»133. Inoltre, il concetto di essenza dev’essere considerato come un «concetto di ideale»134, nella cui determinazione entrano lo spirito del tempo, il grado delle conoscenze, ma soprattutto l’esperienza vissuta cristiana del singolo, la sua personalità. La comprensione dello sviluppo dal passato al presente si slarga nella prospettiva del futuro, nell’idea di ciò che il Cristianesimo deve diventare: «la storia accaduta, e non più modificabile, si lega con quella futura e da noi configurabile […]. Nel concetto di essenza concorrono non solo la fantasia intuitiva dell’astrazione, ma anche l’immaginazione prospettica che progetta uno svolgimento futuro delle idee fondamentali»135. L’essenza è, allora, il contenuto di una sintesi di oggettività e soggettività; una «connessione che risult[a] ad un tempo da un’ampia visione oggettiva e da un intenso approfondimento interiore»136. Questa connessione «è un atto creativo», che non 132. E. Troeltsch, Was heisst “Wesen des Christentums”?, GS II, p. 414 (tr. it. cit., p. 292). Sull’essenza come “concetto di sviluppo” cfr. op. cit., pp. 41142 (tr. it. cit., pp. 289-302). 133. Was heisst “Wesen des Christentums”?, GS II, p. 396 (tr. it. cit., p. 273). 134. Die Dogmatik der “religionsgeschichtlichen Schule”, cit., p. 511 (tr. it. cit., p. 210). 135. Was heisst “Wesen des Christentums”?, GS II, p. 416 (tr. it. cit., p. 305). 136. Ivi, p. 428 (tr. it. cit., p. 307).

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nasce dal nulla, ma dalla consapevolezza dell’intero percorso storico che risale fino alle radici del fenomeno cristiano, per raccogliersi in una sintesi137. E Troeltsch non manca di proporre la propria sintesi, la propria idea di essenza: «la fede religiosa cristiana è la fede nella rinascita e nella elevazione della creatura estraniata da Dio nel mondo, grazie alla conoscenza di Dio in Cristo: la fede nel ricongiungimento della creatura con Dio e delle creature tra loro, nel che consiste il regno di Dio»138. Quanto alla figura di Gesù, nella dogmatica che dovrebbe scaturire da questa definizione dell’essenza, Troeltsch si muove, potremmo dire, tra l’“opzione esistenziale” (quale verrà proposta qualche decennio più tardi da Bultmann)139 e una prospettiva storicistica. Da un lato, infatti, egli afferma nettamente che la dottrina della fede deve presentare la fede in Dio e nella redenzione come il dato di un’esperienza vissuta personale del presente. Dall’altro lato, però, fa osservare che «quell’esperienza religiosa si attua sì nella novità del presente, ma trae la sua forza, la sua vitalità, la sua evidenza, ma soprattutto la sua capacità di farsi fondamento di comunità dalla corrente di forze religiose che viene dalla storia e […] in modo specialissimo dai profeti e da Gesù»140. Gesù assume quindi un valore decisivo come una sorgente di esperienza religiosa, che dev’essere rivissuta, attualizzata. Un compito precipuo

137. Cfr. ivi, pp. 428-429 (tr. it. cit., pp. 307-308). 138. Die Dogmatik der “religionsgeschichtlichen Schule”, cit., p. 512 (tr. it. cit., p. 211). 139. Traggo l’espressione «opzione esistenziale» dalle pagine dedicate alla interpretazione bultmanniana di Gesù nel denso e suggestivo studio di Giancarlo Gaeta dedicato alla ricerca storica sulla figura di Gesù, Il Gesù moderno (Einaudi, Torino 2009, pp. 35 ss.). 140. Die Dogmatik der “religionsgeschichtlichen Schule”, cit., p. 513 (tr. it. cit., p. 213).

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della dogmatica della Religionsgeschichte dev’essere appunto quello di mettere in evidenza che in questa ricognizione delle forze religiose, che provengono dalla storia, «in primo piano sta, per ciò ch’essa rappresenta per la pietà individuale ed ecclesiale, la persona di Gesù»141. E il riferimento alla persona di Gesù è essenziale per Troeltsch al fine di contrastare l’obiezione più netta che può essere mossa alla sua dottrina della fede: che non sarebbe fondata sulla Bibbia, ma concepita come una proposta soggettiva di sintesi tra attualità personale della fede in Dio (e nella redenzione) e la storia, sicché sarebbe «assai problematico il [suo] carattere cristiano»142. Troeltsch ribadisce, di fronte a questa obiezione, la impossibilità di unificare in una dottrina fondamentale immutabile la molteplicità delle forme che il Cristianesimo ha assunto nella storia, ogni volta adattandosi a situazioni culturali nuove e diverse; e nel proporre la propria sintesi riafferma la fiducia nella inesauribilità del Cristianesimo, la cui unità è salvaguardata «dal fatto che tutta questa pienezza di vita e di pensieri continua ad avere il proprio centro di riferimento nell’ideale della persona di Gesù, e proprio nella professione di fede in Lui, e non in altro, ritrova l’elemento che salda insieme la comunità»143. Del resto, aspetti fondamentali di questa dogmatica o dottrina della fede sono «il teismo personalistico, la lotta dualistica di peccato e redenzione, la speranza nel futuro quale speranza che trascende il mondo», aspetti che storicamente «risalgono ai profeti d’Israele e a Gesù»144. In un saggio di qualche anno precedente – del 1911 – Troeltsch si era già chiesto quale significato può avere per la fede una fi-

141. Ibidem (tr. it. cit., p. 214). 142. Ivi, p. 519 (tr. it. cit., p. 221). 143. Ibidem. 144. Ibidem (tr. it. cit., pp. 221-222).

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gura di Gesù esposta alla critica storica e da essa delineata, in altri termini un Gesù storico, che contrasta con una fede «che secondo la sua essenza è orientata all’eterno, all’intemporale, all’incondizionato, al soprastorico»145. La critica storica rende sempre più problematica la continuità tra il Gesù storico e il Cristo della fede, così come tra «il Cristianesimo di Cristo», ovvero il Cristianesimo primitivo già distante dalla predicazione di Gesù146, e «il Cristianesimo della Chiesa», che stringe compromessi con la cultura mondana – assumendo dentro di sé elementi del Platonismo, dello Stoicismo, della scienza moderna – e con le istituzioni sociali, politiche ed economiche, per cui si riduce sempre di più la separazione «tra mondo e regno di Dio, tra aldiqua e aldilà»147. Proprio l’ampliarsi della coscienza della storicità del Cristianesimo conduce a pensare il Cristianesimo come un’idea religiosa che sembra doversi rendere «indipendente da qualsiasi correlazione essenziale con gli elementi storici, che soggiacciono a tutte le condizioni della scienza, e nel caso di un’indagine scientifica mostrano un’immagine così distante dalla vita religiosa odierna»148. Ora quale sia questa idea religiosa cristiana adeguata alla cultura moderna, alle conoscenze e ai modi di sentire dell’umanità moderna, è detto chiaramente da Troeltsch, in questo saggio con più nettezza che in altri scritti. Secondo questa idea, il Cristianesimo dev’essere compreso come «una fede in Dio 145. E. Troeltsch, Die Bedeutung der Geschichtlichkeit Jesu für den Glauben [1911], in E. Troeltsch, Die Absolutheit des Christentums und zwei Schriften zur Theologie, cit., p. 132 (tr. it. Il significato della storicità di Gesù per la fede, in E. Troeltsch, Religione, storia, metafisica, cit., p. 347). 146. «Già ai primi inizi della formazione della comunità l’ideazione religiosa del Cristianesimo primitivo – scrive Troeltsch – aveva sottratto Gesù alla storia e ne aveva fatto un Cristo eterno, Logos e Dio, che ci appare in forma storica» (ibidem). 147. Ivi, p. 133 (tr. it. cit., p. 348). 148. Ivi, p. 134 (tr. it. cit., p. 350).

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[…] che sia vivente e nuova a ogni momento» e concepisca «la redenzione […] come un’opera di Dio sempre nuova, attiva nell’anima mediante, appunto, l’azione della fede in Dio»149. La relazione con Dio si fonda, in ultima istanza, su un’esperienza personale, su un sentimento o più propriamente su un Erlebnis, nel quale «una conoscenza religiosa tradizionale [si trasforma] in un proprio sentimento di rivelazione divina»150. Il che comporta che non c’è bisogno di una Chiesa come istituzione depositaria della rivelazione e della grazia salvifica, dei poteri oggettivi della redenzione. In questa prospettiva la Chiesa è una comunità della fede cristiana, che può assumere differenti forme di organizzazione e si trova sullo stesso piano di altre comunità puramente umane. Per chi condivide questa prospettiva (e Troeltsch esplicitamente vi si riconosce) l’assunzione senza riserve del metodo storico-critico nella conoscenza della storia evangelica si coniuga con l’adesione al Cristianesimo riconosciuto come la fede nella redenzione, che si attua «mediante la personale conoscenza credente di Dio», una conoscenza fondata in un atto di fede che si configura in forme sempre nuove. Un’adesione che nasce dalla convinzione che nella molteplicità di posizioni di pensiero, di visioni del mondo, di confessioni religiose, proprie del mondo moderno, «la conoscenza di Dio profetica e cristiana» sia «l’unica fonte di una conoscenza di Dio insieme profonda e salvifica, e che al tempo stesso non si chiude al diritto di una visione storicocritica senza residui delle cose umane»151. Si conferma qui il nucleo essenziale non solo della teologia e della filosofia della religione di Troeltsch, ma, più in generale e in profondità, del suo intero pensiero: la conciliazione di Cristianesimo e mondo moderno, o come si esprime qui Troeltsch, la volontà di 149. Ivi, p. 135 (tr. it. cit., p. 350). 150. Ivi, p. 136 (tr. it. cit., pp. 351-352). 151. Ivi, p. 143 (tr. it. cit., p. 360).

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«[riconoscere] il pensiero moderno e insieme di [vedere] nel Cristianesimo forze religiose inalienabili»152. Quanto alla questione del rapporto tra l’idea cristiana e la persona di Gesù, si possono assumere posizioni diverse rispetto alla storicità di Gesù, a secondo che si ritenga o meno essenziale la persona di Gesù al principio cristiano e al suo dispiegarsi in ogni momento della storia del Cristianesimo, così come in ogni singola esperienza vissuta di esistenza cristiana. Si può ritenere che la fede nasca nella storia, ma abbia una sua intrinseca verità e validità indipendente dalla storia, e distinguere, come fa F. D. Strauss, «[tra] il principio del Cristianesimo (ossia la conoscenza dell’unità tra Dio e uomo) e la persona di Gesù (ossia il punto di partenza storico della propagazione di questo principio)»153. Oppure si può ritenere che il rapporto con la «personalità religiosa» di Gesù, la «conoscenza e l’attualizzazione della [sua] personalità storica», siano necessariamente implicati nella fede cristiana in Dio con la sua sempre rinnovantesi efficacia redentiva. Troeltsch si riferisce in particolare a Schleiermacher, Ritschl e Herrmann154, e si può ricordare qui il §14 de La dottrina della fede di Schleiermacher: «Non v’è altro modo di avere parte alla comunità cristiana che attraverso la fede in Gesù come redentore». La fede in Cristo – spiega Schleiermacher – è la certezza che grazie all’«impressione» (Eindruck) ricevuta da Lui si è prodotto il superamento del bisogno di redenzione e l’inizio della redenzione stessa155. Su questa stessa linea si muove la riflessione 152. Ibidem. 153. Ivi, p. 137 (tr. it. cit., p. 354). 154. Ivi, p. 138 (tr. it. cit., pp. 354-355). 155. F.D. Schleiermacher, Opere scelte. 3/1: La dottrina della fede, vol. I, tr. it. a cura di S. Sorrentino, Paideia Editrice, Brescia 1981, §14, p. 229. A questo paragrafo sembra riferirsi Troeltsch quando afferma che «per Schleiermacher è la forza di suggestione della personalità [di Gesù], che,

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di Troeltsch, che, malgrado la crescente attenzione alla critica storica, resta sostanzialmente ispirata all’Erlebnis espresso nello scritto sopra ricordato del 1902 sull’assolutezza del Cristianesimo, dove con più forza pone al centro dell’esperienza vissuta dell’esistenza cristiana la personalità di Gesù. L’uomo religioso moderno, nella sua personale ricerca della relazione con Dio, sentirà presente nel Cristianesimo, rispetto a tutte le altre religioni, «la rivelazione più vigorosa e più semplice del mondo superiore»156, e questo accade perché gli è testimone la persona di Gesù da cui promana la forza della speranza nel regno di Dio: «Il presente – scrive Troeltsch – è per lui rimandato a Gesù, che è il punto sorgivo, l’“evidenza” di tutto questo mondo-della-vita: ove nella nostra fede venisse a mancare questa centralità di Gesù, non è pensabile una comunità religiosa capace di continuarla. Il legarsi a Gesù di ogni futuro per noi immaginabile è per il credente una fede, che è data con il legame a Gesù e da esso proviene, ma non una teoria dogmatica, dietro la cui accettazione soltanto sarebbe possibile avere in generale la fede cristiana»157. In questa forte riaffermazione della centralità della personalità di Gesù Troeltsch non sembra interessato a entrare nella questione del Gesù storico e del Cristo della fede, ma assume la figura di Gesù in una sostanziale, sia pure indeterminata,

continuando ad operare attraverso la mediazione della sua comunità e diventando visibile nella figura dei vangeli, vince l’impotenza religiosa, che risulta insuperabile ovunque al di fuori della sfera d’influenza di Gesù, e genera il vigore, la certezza, la gioia e la stabilità della conoscenza di Dio. Quello che senza l’influenza (Eindruck) di Cristo generante la fede rimane semplice idea e presentimento, mediante questo influsso personale portato avanti nella comunità diventa forza vincente ed efficace» (Die Bedeutung der Geschichtlichkeit Jesu, cit., pp. 138-139; tr. it. cit., p. 355). 156. Die Absolutheit des Christemtums, cit., p. 95 (tr. it. cit., pp. 136-137). 157. Ivi, pp. 95-96 (tr. it. cit., pp. 137-138).

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continuità tra il Gesù dei sinottici e il Cristo della comunità successiva. La ricerca storica riconosce, certo, che è stata la comunità cristiana primitiva a fare del Gesù storico il Figlio di Dio, che con la sua passione e morte attua la redenzione promessa per il futuro, e con ciò esclude il carattere soprannaturale del Salvatore, l’«isolamento» del Cristo rispetto a tutto il resto della storia umana. Tuttavia Troeltsch è convinto che anche nella sua storicizzazione «Gesù rimane la fonte di ogni più alta energia religiosa e di ogni speranza di vittoria e, proprio per questo, il Cristianesimo – mancando ogni traccia di una qualsiasi forza religiosa superiore – resta giustificato nella sua fiducia e nella sua pretesa che da esso soltanto debba durevolmente provenire la superiore vita religiosa dell’umanità»158. Indubbiamente, nel saggio del 1911 Troeltsch contrappone più nettamente l’idea cristiana «maturata nella Chiesa antica» e ancora dominante nella dogmatica delle Chiese, tanto cattolica quanto protestanti, al pensiero moderno e a un Cristianesimo libero, non confessionale e in armonia con il metodo storico-religioso. Per la concezione ortodossa dell’idea cristiana – che implica la redenzione operata da Gesù Cristo in quanto Figlio di Dio, l’autorità della fede che deriva dall’essenza soprannaturale di Gesù e la Chiesa come istituzione depositaria della grazia e amministratrice dell’eredità redentiva del Cristo – è assolutamente necessaria l’affermazione della persona storica di Gesù: affermazione indipendente dalla critica storica, in quanto fondata puramente su «una sottomissione alle autorità soprannaturali della Chiesa e della Bibbia»159. Una tale posizione è però insostenibile dal punto di vista del pensiero moderno caratterizzato dalla razionalità e dall’esercizio della

158. Ivi, pp. 97-98 (tr. it. cit., p. 140). 159. Die Bedeutung der Geschichtlichkeit Jesu, cit., p. 143 (tr. it. cit., pp. 360-361).

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critica storica, sulla cui base non si può mai pervenire ad una conoscenza assoluta intorno alla persona storica di Gesù. Piuttosto, la coscienza cristiana moderna «si rivolge di nuovo alle idee degli antichi mistici e spiritualisti, che individuavano il Cristianesimo nell’azione interiore di Dio sulle anime, un’azione che si perpetua eternamente, e non lo legavano intrinsecamente e necessariamente al riconoscimento e alla conoscenza della personalità storica di Gesù»160. In questa prospettiva la figura di Gesù diventa solo «il punto di partenza storico dell’universo di vita cristiano», assumendo un significato pedagogico come «simbolo del Cristianesimo»161. Portata alle sue estreme conseguenze, questa posizione, spezzando il legame tra la convinzione interiore e l’elemento storico, determina la perdita della comunità e del culto, che costituisce «la vera e propria malattia del Cristianesimo moderno e della religiosità moderna in generale»162. Infatti, uno dei risultati più importanti della ricerca storico-religiosa e degli studi di psicologia della religione è la consapevolezza che l’essenziale nella religione non si trova nel dogma o nell’idea, ma proprio nel culto e nella comunità, nella relazione vivente, soggettiva e intersoggettiva insieme, con la divinità, e questa relazione, nelle grandi religioni spirituali, implica il rapporto con la persona dei fondatori e dei profeti163. Di fronte alla “malattia” della religiosità moderna, Troeltsch si ricollega, come si è visto, alla linea Schleiermacher-Ritschl-Herrmann, ma svincolandola ulteriormente dai «residui dell’antica dottrina del peccato originale», che portano ad affermare l’unicità ed esclusività della «forza di redenzione […] del miracolo della riconciliazione

160. Ivi, p. 142 (tr. it. cit., pp. 358). 161. Ibidem (tr. it. cit., pp. 358-359). 162. Ivi, p. 147 (tr. it. cit., p. 365). 163. Cfr. ivi, pp. 147-148 (tr. it. cit., pp. 365-367).

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con Dio» operato da Gesù Cristo e «dato in proprietà alla comunità cristiana»164. Senza avere questa pretesa di esclusività nel perseguimento della salvezza, Troeltsch riafferma, però, la «centralità cultuale di Cristo», il riferimento vivente alla «tradizione e conservazione della figura di Cristo»; riafferma cioè il legame con la personalità storica di Gesù, senza di cui anche la religiosità cristiana moderna non potrebbe svilupparsi nella vita concreta di una comunità165. Proprio nella vicenda di pensiero di Schleiermacher – dai Discorsi sulla religione alla Dottrina della fede – è possibile cogliere una caratteristica oscillazione nella valutazione del significato del Gesù storico. Nei Discorsi – osserva Troeltsch – il significato dell’elemento storico era in secondo piano, mentre nella Dottrina della fede, «la persona di Gesù divenne l’oggetto centrale dell’intera prospettiva, come simbolo e sorgente energetica della fede cristiana e come fulcro della predicazione e del culto»166. Da questo punto di vista la storicità di Gesù come sostrato del Cristo interiore o del Cristo della fede appare un elemento ineludibile. D’altra parte, malgrado tutte le incertezze e le criticità prodotte dalla scienza storica, «è fuori discussione che [essa] ci offre un nocciolo di fatti su cui possiamo fondare la nostra comune interpretazione e il nostro comune apprezzamento di Gesù come incarnazione della fede». E questo – afferma Troeltsch nella conclusione del saggio – è sufficiente, se non si tratta di dimostrare «il dogma ecclesiastico relativo a Cristo», ma piuttosto di afferrare «la verità redimente della conoscenza cristiana di Dio» e di consentire la formazione di «una comunità dalla quale questa verità è riprodotta ed è resa efficace»167.

164. Ivi, p. 145 (tr. it. cit., p. 362). 165. Cfr. ivi, 149-150, 158, 160 (tr. it. cit., pp. 368-369, 378, 380). 166. Ivi, p. 159 (tr. it. cit., p. 380). 167. Ivi, p. 162 (tr. it. cit., p. 385).

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Come Troeltsch aveva già affermato nel saggio del 1910 sulle «possibilità future del Cristianesimo», «la forza della fede cristiana in Dio e l’immagine di Gesù rimarranno sempre inseparabilmente vive», e il culto di Gesù come «rivelazione di Dio», che si tramanda e si rafforza attraverso i secoli, «rimarrà sempre il nocciolo di un’autentica e vera cristianità, fin tanto che ve ne sarà una»168. Questa interpretazione della centralità di Gesù costituisce il filo conduttore anche della Glaubenslehre pubblicata postuma, nel 1925, sulla base dei corsi del semestre estivo del 1912 e di quello invernale 1912-1913169. Come scrisse Marta Troeltsch nella prefazione, non si tratta di «un sistema dottrinale e scientifico compiuto, bensì in primo luogo di un documento umano, il cui fulcro è costituito dalla spontanea e vivida professione di fede»170. Al centro di questa professione di fede si trova la convinzione che, pur nella considerazione dello sviluppo storico del principio cristiano, la fonte principale dell’esperienza cristiana è costituita dalla personalità di Gesù e dal suo annuncio. Quest’ultimo non va considerato come un insieme di affermazioni dottrinali indiscutibili, ma come la «presentazione di una vita personale etico-religiosa», in cui si è incarnato un altissimo ideale di umanità e si è espresso con assoluta evidenza un nuovo rapporto con Dio, che agisce nell’interiori-

168. E. Troeltsch, Die Zukunftmöglichkeiten des Christentums im Verhältnis zur modernen Philosophie, GS II, pp. 847-848 (tr. it. a cura di A. Aguti, in «La società degli individui», 13, 2002, 1, p. 122). 169. E. Troeltsch, Glaubenslehre (Nach Heidelberger Vorlesungen aus den Jahren 1911 und 1912), hrsg. von G. von le Fort, mit einem Vorwort von M.Troeltsch, Duncker & Humblot, München u. Leipzig 1925 (tr. it. a cura di R. Garaventa, Dottrina della fede, Guida, Napoli 2005). Alla densa Introduzione di Roberto Garaventa rinvio per un’analisi della composizione e una valutazione complessiva della Glaubenslehre. 170. Ivi, p. V (tr. it. cit., p. 53).

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tà dell’uomo operando la sua redenzione171. Ponendo la questione del significato di Gesù per la fede, Troeltsch ribadisce l’esigenza di distinguere tra ricerca storica e interpretazione religiosa. Ciò che è storicamente accaduto, la storia di Gesù, può essere accertato soltanto con i metodi storici applicati per tutti gli eventi, quindi attraverso una critica delle fonti e una ricostruzione degli eventi rigorosamente delineata sulla base di dati utilizzabili. Quindi – afferma Troeltsch – «bisogna anche tenere conto della possibile inattingibilità di ciò che è accaduto nel passato, laddove mancano le fonti»172. Certamente, la fede «può affidarsi al proprio istinto per determinare ciò che è storicamente essenziale della tradizione evangelica […] anche se non lo potrà dimostrare scientificamente»173. Tuttavia per dare un fondamento di legittimità alle proprie decisioni, alle proprie intuizioni, deve comunque riferirsi a un quadro di eventi credibili sulla base della ricerca storica. A questo riguardo, va riconosciuto che è impossibile avere documenti sulle origini del Cristianesimo che non provengano dalla comunità cristiana stessa, per cui è molto probabile che queste fonti interne siano celebrative. Malgrado ciò, si può ritenere che esse sono valide, dal momento che – come nel caso dei documenti più antichi quali gli Atti degli Apostoli, ma anche delle lettere di Paolo e dei vangeli sinottici – contengono documenti fondati sul ricordo e, nell’essenziale, il loro resoconto è attendibile174. La ricerca storica da un lato impone di considerare che la forza religiosa di Gesù va sempre collocata nel contesto del suo rapporto originario con il Vecchio Testamento: «egli è il

171. Cfr. Glaubenslehre, cit., p. 20 (tr. it. cit., p. 75). 172. Ivi, p. 100 (tr. it. cit., p. 143). 173. Ibidem. 174. Cfr. ivi, pp. 109-110 (tr. it. cit., pp. 149-150).

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compimento della religione dei profeti e dei salmi», supera indubbiamente lo spirito ebraico, ma senza che vi sia in lui «il cosciente distacco dalla legge e dal messianismo»; e solo nella comunità cristiana più antica si compie la vera e propria trasformazione di Gesù da «Messia nazionale» a «salvatore universale»175. Dall’altro lato essa attesta il carattere di novità non solo delle idee, ma anche del modo di essere e di comportarsi di Gesù: «Dobbiamo rappresentarci – scrive Troeltsch – questa figura di Gesù in grado di suscitare un incredibile scalpore con la sua sottolineatura del valore infinito dell’anima, rispetto a cui tutto il resto è indifferente. […] E dobbiamo rappresentarci la comunità d’amore intesa da Gesù, in cui gli uomini si uniscono in Dio, si vedono sub specie aeternitatis e tutto ciò che è terreno sprofonda»176. L’annuncio del regno di Dio che verrà sulla terra a porre fine al dominio dell’egoismo, della guerra, dell’ingiustizia, e a realizzare il regno dell’amore è una costellazione di idee «del tutto originali e che vanno ben al di là della sapienza rabbinica»177. Esse non potevano non impressionare i suoi discepoli e la gente con cui veniva a contatto. Altrettanto significative sono le guarigioni di malati, di cui la storia non ha motivo di dubitare, e soprattutto la straordinaria coscienza che egli aveva della propria missione; e, infine, vanno considerati la storia tragica della passione e morte in croce e l’evento eccezionale della resurrezione, che ci viene testimoniato dai discepoli, dalla loro certezza che Gesù è vivo. A partire da tutte queste straordinarie circostanze e influenze risulta spiegabile l’applicazione a Gesù della fede nel Messia e si può comprendere come da questa fede si sia potuto sviluppare l’oggetto di un culto di

175. Ivi, p. 26 (tr. it. cit., p. 80). 176. Ivi, p. 111 (tr. it. cit., p. 151). 177. Ivi, p. 112 (tr. it. cit., p. 152).

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Gesù Cristo quale rivelazione di Dio. Certamente la critica storica può porre ulteriori domande e suscitare nuovi dubbi e problemi. Tuttavia «la predicazione di Gesù e la coscienza della missione che egli aveva sono fatti storici accertati, e questo basta come nucleo» della fede. La questione si sposta piuttosto sul senso che questi fatti hanno per la coscienza dell’uomo del presente: «scorre in essi anche per noi una vita che vogliamo e dobbiamo accettare, oppure le nostre fonti mormorano da qualche altra parte?»178. La risposta a tale domanda, però, non è ricavabile dalla ricerca scientifica, ma è una decisione personale, esistenziale: «il fatto che, tramite Gesù, noi conosciamo il Padre che ci chiama tutti e ci destina tutti alla reciproca comunità d’amore con Lui: questa è una presa di posizione specificamente etico-religiosa. Noi dobbiamo interrogare il nostro intimo, per sapere se ci vogliamo lasciare vincere, umiliare e innalzare dal Dio che Gesù ci ha portato»179. La redenzione è opera di Dio, ma Gesù è il tramite di quest’opera, in quanto «conduce le anime a Dio» ed è il «signore della comunità, il caput mysticum del corpus mysticum»180. Non è possibile, per Troeltsch, andare oltre nel senso della dottrina tradizionale, e neppure nel senso dell’unità delle volontà umana e divina sostenuta dalle teologie più recenti. L’una e l’altra concezione della Menschwerdung implicherebbe una posizione del Cristianesimo al centro della storia, una sua assoluta distinzione da tutto il resto della storia. Perciò, in un passaggio che possiamo considerare conclusivo riguardo alla sua concezione della figura di Gesù, Troeltsch aggiunge: «Per quel che ci riguarda personalmente ci atteniamo a ciò che è raggiungibile. Ci poniamo sotto la giurisdizione di questa personalità e riconosciamo in essa il nostro capo mistico. Chi in buona coscienza 178. Ivi, p. 113 (tr. it. cit., p. 153). 179. Ivi, pp. 113-114 (tr. it. cit., p. 153). 180. Ivi, p. 116 (tr. it. cit., p. 155).

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se la sente di andare oltre il significato psicologico, lo faccia pure. Troverà così più facilmente l’aggancio con l’ortodossia, in quanto in un certo senso è in grado di parlare della divinità di Cristo»181. 5. Il progetto di una filosofia della religione Nel corso del confronto con il pensiero moderno, che costituisce l’obiettivo del saggio del 1893/94 Die christliche Weltanschauung und ihre Gegenströmungen, la riflessione sull’autonomia della religione e l’impostazione della problematica dell’assolutezza hanno posto le premesse per il progetto di una «fondazione della teologia nell’ambito delle scienze dello spirito»182, che Troeltsch sviluppa in Die Selbständigkeit der Religion da lui considerato come lo scritto più importante prima di Die Absolutheit des Christenturns183. Anche qui il punto di partenza è costituito dall’idea dell’ambivalenza del pensiero moderno rispetto alla religione e al Cristianesimo e la riflessione sulla crisi religiosa e teologica è inserita nel più ampio contesto del ripensamento dello sviluppo del pensiero moderno. La possibilità di una scienza della religione – osserva Troeltsch – è sorta soltanto nel mondo moderno, in seguito all’affermazione della scienza della natura e della critica storica che hanno messo in questione il soprannaturalismo ecclesiastico. Preparata dal deismo e soprattutto dal pensiero kantiano, nell’epoca della Romantik e dell’Idealismo tedesco si è prodotta «una filosofia della religione che consiste nella considerazione non tanto dell’oggetto della religione, quanto della 181. Ivi, p. 117 (tr. it. cit., p. 156). 182. Cfr. W. Pannenberg, Epistemologia e teologia, tr. it. a cura di D. Antiseri, Queriniana, Brescia 1973, p. 101; ma cfr. l’intero paragrafo dedicato a Troeltsch (pp. 99-111). 183. Die Absolutheit des Christentums, cit., p. 21 (tr. it. cit., p. 22).

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religione stessa, concepita come una regione autonoma della vita spirituale, avente una propria struttura e sviluppantesi in base a proprie leggi»184. Senonché la filosofia della religione idealistica con la tendenza in essa implicita all’umanismo e all’immanenza, è anche all’origine di una interpretazione «antropologica» della religione, che ha trovato la sua espressione esemplare in Feuerbach185 e ha aperto la strada alla «spiegazione illusionistica» del fenomeno religioso divenuta dominante con il positivismo. «È accaduto, quindi, che si è creduto di poter considerare la religione soltanto come una forma primitiva dello sviluppo del pensiero [...] e di dover spiegare come illusione tutto ciò che in essa eccede il contenuto puramente razionale o pre-razionale, cioè la fede in un fondamento posto nella vivente rivelazione di sé della personalità divina»186.

184. Cfr. Die Selbständigkeit der Religion (1895), cit., pp. 365-68 (tr. it. cit, pp. 62-64). 185. Su Feuerbach cfr. Die Selbständigkeit der Religion (1895), cit., pp. 395, 397-98, 406-08 (tr. it. cit., pp. 92, 94-95, 103-105). Die Selbständigkeit der Religion, «Zeitschrift f. Theologie u. Kirche», Jg. 6, 1896, H. 2, p. 176 (tr. it. cit., p. 179). Su Feuerbach e Troeltsch cfr. G. Cantillo, Troeltsch e la Religionskritik di Feuerbach, «Archivio di storia della cultura», 1997, pp. 293309. 186. Die Selbständigkeit der Religion (1895), cit., p. 369 (tr. it. p. 65). Per una critica della “teologia romantica”, nella cui tradizione viene inserito anche il pensiero teologico di Troeltsch cfr. F. Gogarten, Contro la teologia romantica (1922), in Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, tr. it. di M. C. Laurenzi, Brescia 1976, pp. 550-63. Sulla “teologia del momento assoluto” di F. Gogarten Troeltsch nel 1921 aveva pubblicato un breve intervento nella «Christliche Welt»: E. Troeltsch, Ein Apfel vom Baume Kierkegaards («Christliche Welt», Jg. 35, 1921, n. 11, Sp.186-189), ora in Anfänge der dialektischen Theologie, Bd. II (R. Bultmann, Fr. Gogarten, E. Thurneysen), hrsg. v. J. Moltmann, Kaiser Verlag, München 1963, pp. 134-140 (tr. it. in op. cit., pp. 543-549). Di fronte alla netta contrapposizione di Dio e mondo operata da Gogarten, Troeltsch osserva: «L’essenza di Dio e la creazione eterna può essere completamente superiore ad ogni fondazione e alla logica. In quanto continua, nuova creazione, è possibile che produca una realtà sem-

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Tuttavia, nell’ultimo tratto dell’Ottocento, nella generale reazione al positivismo e al naturalismo, di fronte alle «teorie illusionistiche» si è riproposto il compito di una scienza della religione non riduttiva, e ricondotta «ai suoi punti di partenza kantiano-schleiermacheriani»187. In questa prospettiva si riafferma il principio che «la religione costituisce un fenomeno unitario, che è sì in connessione con l’intera vita spirituale, ma si articola e si sviluppa secondo proprie leggi, affermando una relativa autonomia rispetto a tutte le altre regioni della vita; il suo contenuto di verità dev’essere, quindi, cercato in lei stessa, tenendo presente che essa riceve e rivela il suo intero contenuto soltanto nella storia in cui si particolarizza e si sviluppa»188. Muovendo da questo presupposto, la scienza della religione, secondo Troeltsch, deve articolarsi in un’analisi dell’esperien-

pre nuova dalla profondità della sua vita. Ma non si contrappone al mondo, come in Gogarten, anzi porta in sé il mondo, è essa la vita del mondo, la continua autoscissione in infinite forme di vita e in un superamento del finito [...]. Questo provoca per l’essere finito la necessità di una rivoluzionaria trasformazione di sé, di un fondamentale mutamento di direzione nel, corso della sua vita e del suo divenire. Ma questo viene dal suo essere più interiore» (p. 548). In queste affermazioni Gogarten individua l’eredità della teologia romantica operante nel pensiero di Troeltsch (op. cit., p. 550). 187. Die Selbständigkeit der Religion (1895), cit., p. 369 (tr. it. cit., p. 65) – Alla linea kantiano-schleiermacheriana – com’è stato osservato – si ricollega «sostanzialmente […] tutta la speculazione del Troeltsch sul religioso, anche là dove essa non è esplicitamente formulata con terminologia tratta da quegli autori e con riferimento a quegli autori» (A. Caracciolo, Introduzione alla tr. it. di Die Absolutheit des Christentums, cit., p. XXVIII). In effetti, dal momento che Troeltsch ha sempre criticato una nozione puramente formale di “apriori”, si può dire che l’idea di un “apriori religioso” è già implicita nella considerazione del fenomeno religioso svolta in Die Selbstdändigkeit, prima della c. d. svolta verso il trascendentalismo dei primi anni del Novecento. 188. Die Selbständikeit der Religion (1895), cit., pp. 369-370 (tr. it. cit., pp. 65-66). Cfr. W. Bodenstein, Neige des Historismus. Ernst Troeltschs Entwicklungsgang, cit., p. 18.

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za religiosa (psicologia della religione) e in una storia delle religioni, che ne costituisce l’obiettivo finale189. L’articolazione della filosofia della religione in psicologia della religione e storia della religione, che caratterizza l’abbozzo contenuto in Die Selbständigkeit der Religion, costituisce l’impalcatura anche per la elaborazione sistematica di un progetto di filosofia o scienza della religione190 perseguito da Troeltsch – senza peraltro portarlo a compimento – nel corso degli anni del suo insegnamento di filosofia della religione a Heidelberg e documentata da una serie di importanti scritti: da Religionsphilosophie, Psychologie und Erkenntnistheorie in der Religionswissenschaft e Wesen der Religion und der Religionswissenschaft, rispettivamente del 1904, 1905 e 1906, a Zur Frage der religiösen Apriori, Logos und Mythos e Empirismus und Platonismus in der Religionsphilosophie, rispettivamente del 1909, 1910 e 1912. Vi è però nella elaborazione di questi anni una sostanziale novità. Psicologia e storia della religione non si inseriscono più nel quadro di una “metafisica” o “ontologia dello spirito” di ispirazione schleiermacheriana e hegeliana, ma trovano la propria fondazione in una “teoria della cono-

189. Die Selbständikeit der Religion (1895), cit., p. 370 (tr. it. cit., p. 66). 190. Troeltsch oscilla nell’uso dei due termini “filosofia della religione” e “scienza della religione”. “Scienza della religione” dovrebbe indicare l’ambito più vasto includente la psicologia della religione, la Erkenntnistheorie della religione, la storia delle religioni, la filosofia della storia delle religioni (dove il termine “filosofia della religione” dovrebbe essere riservato alla Erkenntnistheorie). Ma questa distinzione non viene per lo più rispettata e i due termini finiscono per essere interscambiabili, ferma restando l’articolazione “per strati”. Sulla questione cfr. H.-G. Drescher, Ernst Troeltsch. Leben und Werk, cit., p. 314; ma per un’analisi del progetto troeltschiano di “filosofia della religione” si vedano le pp. 312-335. Cfr. anche G. Cantillo, Ernst Troeltsch, Napoli 1979, pp. 117-135 e 143-151.

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scenza” della religione che si richiama al neo-kantismo e alla “filosofia della validità” windelbandiano-rickertiana191. L’idea fondamentale che guida questo progetto, infatti, è che la scienza o filosofia della religione, nella sua richiesta di universale validità e necessità, può realizzarsi soltanto se nel materiale dei molteplici e mutevoli dati psicologici e storici si può riconoscere un principio formale di organizzazione dell’esperienza universalmente valido, un’evidenza ultima della ragione, un apriori che definisca strutturalmente e trascendentalmente l’ambito dei fenomeni religiosi: «un principio apriorico della formazione di idee religiose insito nell’essenza della ragione, che, a sua volta, è inserito in una organica connessione con gli altri apriori della ragione», da quello gnoseologico, a quello etico, a quello estetico. Viene compiuto così il «passo indietro» dal fenomeno religioso colto nella sua originaria datità psicologica – l’«Urphänomen» della religione, come «fede nella presenza e nell’azione di potenze sovraumane e nel possibile legame intimo con esse» – alla funzione razionale originaria che ne fonda la validità e verità universale, vale a dire all’«apriori religioso», il quale consiste «nella relazione ad una sostanza assoluta ricavabile dall’essenza della ragione, in forza di cui tutto il reale e in particolare tutti i valori vengono riferiti ad una sostanza assoluta come punto sorgivo e come criterio di valutazione»192. Il progetto si sviluppa, quindi, attraverso il passaggio – che mancava nel primo abbozzo del 1895-96 – dalla psicologia della religione alla teoria della conoscenza della religione, ri191. Sull’avvicinamento di Troeltsch al neo-kantismo windelbandiano-rickertiano cfr. G. Cantillo, Metafisica critica e teoria della conoscenza. Il confronto di Troeltsch con Rickert, in G. Cantillo, L’eccedenza del passato. Per uno storicismo esistenziale, cit., pp. 247 ss. 192. E. Troeltsch, Wesen der Religion und der Religionswissenschaft, GS II, pp. 493-494.

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tenuta necessaria per fondare il valore di verità e il significato universalmente valido dell’esperienza religiosa. Come Troeltsch afferma nella conclusione del saggio del 1912 su Empirismus und Platonismus, dedicato all’analisi psicologica della religione svolta da W. James e al confronto di questa con la tradizione razionalistica, la filosofia della religione, se non vuole soccombere al «caos della realtà», non può fare a meno delle «astrazioni del metodo trascendentale» e tuttavia «deve fare in modo di infondere più vita reale in queste astrazioni»193. Proprio sulla base di questa intenzione di tenere insieme ragione ed esperienza, Troeltsch elabora nel saggio del 1906, Wesen der Religion, uno schema di «scienza della religione», secondo cui la comprensione del fenomeno religioso esige un’indagine «per strati». Essa deve muovere dalla psicologia della religione, che coglie il «fenomeno nella sua fattualità e nella sua specificità di contenuto» e procedere di qui, sulla base della descrizione pura del fenomeno, alla teoria della conoscenza, cioè al livello della riflessione trascendentale in cui si pone «la domanda circa il valore e la validità» della religione, il suo «contenuto di verità». Da questo «concetto di validità» deve poi «cercare di nuovo il cammino verso la realtà e la molteplicità psicologico-storica della vita religiosa», per accertare come nelle forme psicologiche e storiche individuali si situa questa aspirazione e questo impulso verso «un contenuto di verità religiosa». La scienza della religione termina perciò nella storia della religione e nella costruzione di una sua «visione di insieme», ovvero in una filosofia della storia della religione, che comporta una teoria dello sviluppo fondata, in ultima istanza, in una metafisica: non però «una metafisica

193. E. Troeltsch, Empirismus und Platonismus in der Religionsphilosophie, GS II, p. 385.

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deduttiva dell’Assoluto», ma una «metafisica dell’inferenza», o «ipotetica», che scaturisce dall’analisi dei «fatti»194. 6. Apriori e storia: la riflessione sulla filosofia della religione di Kant Nel quadro del progetto di filosofia della religione elaborato negli anni dell’insegnamento a Heidelberg, il riferimento a Kant si fa più determinato rispetto al semplice richiamo all’«analisi critica della coscienza». L’esemplarità della posizione kantiana viene ora fatta consistere, in particolare, nel modo in cui anche sul piano della filosofia della religione viene affrontato il problema di una sintesi tra l’elemento razionale e quello empirico. Questo dipende dal fatto che, secondo Troeltsch, Kant proclama un razionalismo «formale», «immanente all’esperienza», che si limita a constatare «il vigere dell’apriori logico all’interno dell’esperienza immediata»: un razionalismo, che volge perciò la massima attenzione all’«elemento fattuale e psicologico», all’«irrazionale» e all’«empirico», dal quale soltanto il pensiero può trarre fuori l’elemento razionale, universalmente valido, la forma o la struttura apriorica, che si mostra precisamente nell’atto di applicarsi al molteplice empirico. Kant – scrive Troeltsch – «cerca, analogamente alle leggi della ragione teoretica, le leggi della ragione pratica, le leggi fon194. Cfr. E. Troeltsch, Wesen der Religion und der Religionswissenschaft, GS II, pp. 492-495. Sulla filosofia della religione di Troeltsch rinvio alla bibliografia contenuta nella mia Introduzione a Troeltsch (Editori Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 165-172). Qui mi limito a segnalare, oltre la classica monografia di Edmond Vermeil, La pensée religieuse de Troeltsch (Librairie Istra, Strasbourg-Paris 1922; ristampa, con una introduzione di H. Ruddies, Labor et Fides, Genéve 1990), il fascicolo della “Reveu de l’histoire des religions” (Tome 214, Fascicule 2, April-Juin 1997) Ernst Troeltsch ou la religion dans les limites de la conscience historique, con saggi di H. Wismann, T. Rendtorff, P. Gisel, D. Korsch, H. Lehmann, V. Drehsen.

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damentali della coscienza etica, estetica e religiosa, le quali sono già contenute a priori nei fenomeni elementari di questi ambiti». Si tratta di «cogliere la legge apriorica che opera nella molteplicità e varietà dei fenomeni», di cercare «la legge apriorica della coscienza, che si esprime nella effettività della vita religiosa»195. Il principio della sintesi di empirico e razionale, che è al centro del pensiero kantiano, non è stato attuato costantemente e coerentemente da Kant, specialmente sul piano della ragione pratica. Qui, infatti, nei campi dell’etica, dell’estetica, della religione, Kant, secondo Troeltsch, ha da un lato sottolineato egualmente «il carattere formale» dei principi, delle leggi, delle strutture aprioriche, ma ha poi perduto di vista «la realtà psicologica», che dovrebbe fornire il contenuto, e ha trasformato le «vuote forme» in «astratte verità razionali», che dovrebbero prendere il posto delle «confusioni della coscienza ordinaria». Sul piano della filosofia della religione questo significa produrre una concezione puramente razionale, «normativa» della religione, ridurre la religione «alla fede razionale in un ordinamento morale del mondo», escludendo tutta la molteplicità e varietà della realtà psicologica e storica. Con ciò va perduta l’originaria funzione dell’«apriori religioso», che dovrebbe «servire soltanto a fissare l’elemento di necessità del fenomeno empirico», senza eliminarne la varietà, la molteplicità, l’individualità. Si tratta di una funzione dell’apriori religioso che, peraltro, lo stesso Kant non ha mancato di esercitare, spingendosi anche a concepire «la religione empirica oggetto della psicologia» come una forma di «simbolizzazione» necessaria all’«attualizzazione» dello stesso apriori religioso196.

195. E. Troeltsch, Psychologie und Erkenntnistheorie in der Religionswisswnschaft, J.C.B. Mohr, Tübingen 1905, 2a ed., 1922, pp. 22-23, 25, 26-27. 196. Ivi, pp. 44-45.

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Questa problematicità della posizione kantiana verso la filosofia della religione, che nel testo della conferenza su Psychologie und Erkenntnistheorie in der Religionswissenschaft, tenuta nel 1904 al Congresso internazionale di arti e scienze di St. Louis, costituisce il punto di partenza per la delineazione dell’idea troeltschiana di filosofia della religione come integrazione di psicologia, teoria della conoscenza e storia della religione, rappresenta il filo conduttore dell’ampia indagine sulla filosofia della religione e sulla filosofia della storia di Kant condotta da Troeltsch nello scritto pubblicato nello stesso 1904 su Das Historische in Kants Religionsphilosophie (Zugleich ein Beitrag zu den Untersuchungen über Kants Philosophie der Geschichte). La questione che è al centro dello scritto, come si può arguire già dal titolo, è la determinazione del posto e della funzione che Kant assegna all’elemento empirico, psicologico e storico, all’interno della sua filosofia della religione. Il punto di riferimento principale dell’analisi troeltschiana è costituito dallo scritto kantiano del 1793 Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, nel quale Troeltsch, al di là delle peculiari ambiguità derivanti dal rapporto di Kant con la censura, vede realizzato un tentativo di «compromesso» e di «coalizione» tra pura religione razionale e religione rivelata cristiana, tra filosofia della religione e teologia biblica. Più in profondità nello scritto si esprime una tendenza alla sintesi tra elemento razionale ed elemento empirico, psicologico e storico, che, nella interpretazione troeltschiana, sembra essere presente, sia pure in modo contraddittorio, nella concezione kantiana della religione. Indubbiamente – osserva Troeltsch – la filosofia della religione di Kant, come tutto il suo pensiero, è caratterizzata in primo luogo dall’«orientamento al normativo», dalla messa in evidenza del «contenuto razionale a priori della ragione»

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come sua «verità e validità»197. Questo orientamento al normativo pregiudica la valutazione dell’elemento storico, psicologico, empirico, che si presenta come non essenziale rispetto al valore di verità dell’esperienza religiosa, come un elemento «puramente fattuale», «contingente», aggiuntivo. Senonché questo stesso elemento si rivela per nulla «irrilevante» o «ignorabile», dal momento che da esso non solo proviene «la materia della conoscenza», ma provengono «su ogni piano stimoli e incoraggiamenti o impedimenti e turbamenti»198. Dall’interesse prevalente per il contenuto di verità razionale della religione, per la pura religione razionale, deriva certamente una «ritrosia» (Sprödigkeit) verso la dimensione psicologica e storica della religione e quindi verso le religioni positive. Tuttavia questa “ritrosia” non può mai significare «esclusione e ignoranza», innanzitutto perché le forme a priori della coscienza non possono non riferirsi al contenuto dell’esperienza fenomenica, psicologica e storica. Inoltre, la considerazione della storia in Kant non si esaurisce nella connessione causale di una successione di singoli eventi e fenomeni, ma si pone anche come considerazione della totalità della storia, considerazione dal punto di vista del genere umano, nella prospettiva del giudizio teleologico che mette in relazione la storia nella sua totalità con il fine morale razionale: il “regno dei fini”. Da questo punto di vista diventa indispensabile ammettere una graduale compenetrazione tra realtà storica e idea, tra elemento empirico, psicologico e storico, ed elemento razionale199.

197. Das Historische in Kants Religionsphilosophie, cit., pp. 46, 49. 198. Ivi, pp. 49-50. 199. Cfr. ivi, pp. 51-55.

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Anticipando il risultato complessivo della sua ricerca, Troeltsch osserva quindi che «la filosofia della religione kantiana in linea di principio è del tutto indipendente dalla storia e dalla realtà psicologica della religione» e suo aspetto centrale è costituito dalla elaborazione delle «pure idee religiose». Di fatto però «essa intrattiene rapporti positivi e negativi con la storia della della religione»200, dal momento che, per la natura sensibile dell’uomo, non si dà mai una pura religione razionale e c’è sempre bisogno di un «involucro», di un «veicolo» sensibile, empirico, in cui devono essere calate le idee religiose201. Il problema diventa, allora, quello di mostrare la possibilità di conciliare la religione razionale con quella positiva, di far emergere cioè il contenuto razionale, «morale», insito nella religione cristiana, che, come Kant afferma, si presenta come l’unica «religione morale» e non «di semplice culto»202. Questo compito si impone tanto più nell’«epoca nuova» caratterizzata dall’«illuminismo» e dalla uscita dell’uomo dallo «stato di minorità», nella quale, quindi, si avvia a terminare il predominio dell’elemento positivo, empirico, autoritario. La mediazione è necessaria perché non è possibile produrre «la civiltà del futuro con una rivoluzione, con l’imposizione repentina dell’elemento puramente razionale», bensì si deve produrla gradualmente «con un lento adeguamento di positivo e razionale»203. Sul piano religioso questo significa il «compromesso» tra religione razionale e fede ecclesiastica. Un siffatto compromesso è reso possibile dalla «interpretazione morale» del Cristianesimo204. Quest’ultimo si profila, infatti, come «la più pura in-

200. Ivi, p. 56. 201. Cfr. ivi, p. 65, nota 1. 202. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it. cit., p. 370. 203. Das Historische in Kants Religionsphilosophie, cit., p. 60. 204. Ivi, p. 78.

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carnazione della verità religiosa», come la «chiesa visibile» più aderente all’ideale della «chiesa invisibile», della «comunità etica», per un tempo di cui non è prevedibile la fine. Anche se non v’è dubbio che l’idea portante della storia della religione delineata nello scritto del 1793 è la progressiva purificazione della religione cristiana dagli aspetti esteriori, storici, rivelati, e questa progressiva riduzione della fede ecclesiastica al nucleo razionale della religione viene considerata da Kant come l’«avvicinarsi del Regno di Dio». Scrive Kant ne La religione nei limiti della semplice ragione: «È quindi una conseguenza necessaria delle disposizioni fisiche e morali che si trovano in noi – le quali ultime sono insieme il fondamento e le interpreti di ogni religione – che la religione si vada progressivamente liberando da ogni principio empirico di determinazione, da tutti gli statuti fondati sulla storia, i quali attraverso la fede ecclesiastica riuniscono provvisoriamente gli uomini per promuovere il bene, affinché la religione pura della ragione giunga a dominare su ogni altra religione “al fine che Dio sia tutto in tutti”»205. Certo, si tratta di un processo graduale, di cui non si intravede il termine, e che si potrà realizzare solo «a poco a poco con riforme progressive, essendo opera umana». E tuttavia si può già dire che «il Regno di Dio è giunto in mezzo a noi», dal momento che si è affermato «pubblicamente» questo «principio del trapasso graduale dalla fede ecclesiastica alla religione universale razionale»206. Si mostra così ancora una volta l’ambivalenza dell’elemento storico: da un lato esso va progressivamente ridotto a vantaggio della religione pura della ragione; dall’altro lato quest’ultima non può manifestarsi che in una religione positiva, fondendosi con essa. La religione razionale non è solo un canone critico con cui valutare 205. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it. cit., pp. 448-449. 206. Ivi, pp. 449-450.

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le religioni positive e orientarsi nella storia delle religioni, ma diviene anche un principio che si realizza progressivamente nella storia e attraverso la storia, sul fondamento, in ultima istanza, metafisico, di una comune radice nascosta di razionale ed empirico207. Nella quarta parte del suo scritto su Das Historische in Kants Religionsphilosophie Troeltsch si prova a precisare ulteriormente «la vera e propria dottrina di Kant» sulla religione. In essa il ruolo svolto dall’elemento psicologico-storico non è affatto secondario. Kant, infatti, scorge nella natura umana «un bisogno di traduzione sensibile della ragione», di simbolizzazione delle idee religiose razionali, da cui deriva «uno “schematismo dell’analogia”, che illustra le idee religiose mediante la loro analogia con la vita umana e che, per la diversità con cui si presenta negli individui, produce l’infinita molteplicità di idee religiose antropomorfiche nell’ambito cristiano e non cristiano». Questo stesso bisogno di rendere visibili, oggettive, le idee religiose razionali porta alla creazione di «formazioni comunitarie religiose ovvero di istituzioni ecclesiastiche», le quali riuniscono i credenti intorno a un comune patrimonio di tradizioni, di dottrine, di miti e leggende, di dogmi, raccolto in propri «libri sacri»208. Tanto più necessaria è questa formazione di una comunità religiosa empirica, di una «chiesa visibile», nel caso di una religione morale, qual è quella cristiana, in cui, a causa della debolezza degli uomini, l’impegno a rispettare la legge morale e ad operare la conversione interiore, che deve portare alla restaurazione della disposizione naturale verso il Bene, ha bisogno di potenziare la volontà nella socializzazione, nella creazione di una «volontà generale». Ma la creazione di questa “volontà generale” e della comunità effettiva dei

207. Cfr. Das Historische in Kants Religionsphilosophie, cit., p. 138. 208. Cfr. ivi, pp. 96-97.

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credenti esige il potere della «simbolizzazione», il «veicolo», appunto, che traduce nell’immaginazione, nel sentimento, nell’affettività, le idee religiose pure. Indubbiamente, proprio qui si annida il «rischio» della riduzione della religione a semplice culto esteriore, il rischio del soprannaturalismo, del fanatismo, della superstizione. Ma è un rischio inevitabile, perché «senza veicolo non si dà alcuna comunità» e «senza comunità organizzata non si dà alcuna durata e alcuna vitalità della religione pura». Ed è per questo che, secondo Troeltsch, la filosofia della religione, nella impostazione kantiana, non può fare a meno della storia della religione, ovvero non può fare a meno di rendere oggetto della propria indagine «i diversi veicoli, le diverse chiese, i diversi libri sacri e le diverse, pretese rivelazioni»209, al fine di accertare quale «veicolo» sia più adatto ad esprimere le idee religiose pure, a tradurre sensibilmente «la religione che opera la rinascita e il regno della virtù»210. Questo compito esige, poi, una storia della religione che non si limiti soltanto a raccogliere dati sulle varie religioni storiche, ma sia in grado di cogliere il senso della storia, il telos che la sorregge; vale a dire una «storia sistematica» o una filosofia della storia della religione, che veda in essa una evoluzione, che proceda dall’iniziale prevalere, nelle religioni positive, della «sensibilità» ad un graduale affermarsi della «ragione»211. Da questo punto di vista il Cristianesimo è la religione positiva che più di ogni altra si è «avvicinata» all’«ideale» della religione razionale; anzi «questa approssimazione ha avuto luogo in modo decisivo, chiaro ed efficace solo nel Cristianesimo»212. 209. Ivi, p. 143. 210. Ivi, p. 344. 211. Ivi, pp. 106-107. 212. Ivi, p. 128.

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La Bibbia, certamente, contiene in sé anche «materiali in larga parte mitici e statutari», ma «nella predicazione di Gesù presenta le verità fondamentali della religione pura, espresse in modo incomparabilmente chiaro»213. Ovviamente, anche il Cristianesimo «non è eterno», ma è una «incarnazione della religione razionale», in cui soltanto risiede «l’elemento immutabile e normativo»: una incarnazione in linea di principio provvisoria, che potrebbe essere superata o dalla religione razionale completamente purificata da ogni “veicolo” o da una nuova religione più vicina all’“ideale”. Senonché – osserva Troeltsch – da un lato per Kant la ragione è sempre legata «con mezzi di realizzazione sensibili e psicologici», e dall’altro lato, anche quando parla della «pura religione razionale del futuro», sembra pensare per lo più ad una forma di Cristianesimo «definitivamente razionalizzato». In effetti Kant si è allontanato dallo schema deistico, perché a causa della consapevolezza della «costituzione psicologica fattuale dell’uomo», ha affermato «la necessità del veicolo della religione positiva»214. Il riconoscimento della necessità del veicolo della religione positiva determina, secondo Troeltsch, la specificità della posizione kantiana, il suo «razionalismo formale», per cui la religione nel suo «contenuto di verità» è assolutamente indipendente dall’esperienza psicologica e storica, ma «non ha mai una realtà effettiva puramente razionale, indipendente da ogni sensibilità e densità psicologica»215, così come da ogni incarnazione storica. Perciò Kant non si propone di elaborare «una religione sulla base della pura ragione», ma «una rettifica della

213. Ivi, p. 97. 214. Ivi, p. 137. 215. Ivi, p. 140.

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religione positiva mediante la religione razionale»216. Questa “rettifica” può riguardare però solo il Cristianesimo, che ha già in sé un «contenuto razionale morale». Scrive Kant ne La Religione nei limiti della semplice ragione: «Se si vuole eliminare ogni illusione religiosa, o prevenirla, la regola fondamentale della religione ecclesiastica deve far sì che la fede comporti, insieme ai dogmi statutari momentaneamente indispensabili, anche un principio che faccia della religione della buona condotta il fine autentico che deve proporsi di realizzare, per potere un giorno fare a meno dei dogmi stessi»217. La “rettifica”, cioè, non può mai significare la soppressione del “veicolo”, dell’“involucro” sensibile, immaginativo, simbolico, né della comunità religiosa. La religione, quindi, non può vivere senza storia, anche se la sua validità non deriva dalla storia, ma è fondata in un apriori della ragione. In questo senso, è vero che, in teoria, per riprendere la frase di Kant citata da Troeltsch, «l’elemento storico serve solo come illustrazione, non come dimostrazione»218, ma è anche vero che, di fatto, costituisce qualcosa di più di una semplice illustrazione. Vi sono, infatti, fondati motivi per dire che il ruolo della “storia” nella dottrina della religione di Kant si può verificare anche nell’ambito dello stesso contenuto della religione razionale. Troeltsch ricorda che già Schweitzer nella sua monografia sulla “filosofia della religione di Kant” aveva visto un superamento della prospettiva puramente «trascendentale» e l’introduzione di un riferimento al «mutamento» e alla «storia» a proposito del rapporto tra le idee fondamentali della teoria kantiana del «male radicale» e della «rinasci216. Ivi, p. 130. 217. I. Kant, La Religione nei limiti della semplice ragione, tr. it. cit., p. 505. Sul dovere della “buona condotta” come principio della religione razionale pura cfr. ivi, p. 500. 218. Das Historische in Kants Religionsphilosophie, cit., p. 151.

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ta», ovvero della «restaurazione della disposizione innata al bene». Inoltre – aggiunge Troeltsch – il riconoscimento della necessità della comunità etico-religiosa implica egualmente una «rottura» del principio della «rigorosa immanenza nella coscienza» e l’apertura alla dimensione della storia219. Come ha scritto lo stesso Kant nel secondo abbozzo della Vorrede (riportato da Dilthey in Der Sreit Kants mit der Zensur über das Recht freier Religionsforschung), La religione nei limiti della semplice ragione costituisce il luogo teorico in cui la filosofia riflette sul «passaggio dall’ambito delle pure idee pratiche al terreno su cui devono (sollen) essere attuate», e, nel far questo, non supera i propri confini se prende in considerazione quella «religione positiva» in cui ritiene che si presentino «nel modo

219. Sulla interpretazione troeltschiana del rapporto tra “religione e storia” in Kant si sofferma J. Bohatec nel Vorwort al suo ampio studio sulla filosofia della religione di Kant [Die Religionsphilosophie Kants in der “Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft” (1938), Olms, Hildesheim 19662, pp.8-11.] Bohatec sottolinea la connessione indicata da Troeltsch nella filosofia della religione kantiana tra la considerazione antropologicocausale, la storia sistematica o filosofia della storia e la storia della religione e in particolare del Cristianesimo, e il richiamo ad uno sfondo metafisico, che rende verosimile una comune radice di sensibilità e intelletto e consente a Kant di vedere insieme l’elemento intelligibile e quello psicologico, quindi di non separare nettamente «la psicologia della religione dall’essenza della religione assicurata dal punto di vista gnoseologico». E Bohatec aggiunge: «Resta un merito di Troeltsch aver mostrato che Kant, malgrado i principi apriorici della sua critica, non può venire a capo, senza l’ausilio psicologico, del fatto che l’idea e la storia, la fede razionale e la fede ecclesiastica non siano da concepire come un’assoluta opposizione, e che il principio dello sviluppo, che sorregge e muove la storia, domini anche sul terreno della storia della religione» (p. 11). Tra le critiche di Bohatec va segnalata quella relativa all’opinione di Troeltsch secondo cui Kant non avrebbe avuto dimestichezza con la letteratura teologica (p. 25), mentre Bohatec porta numerose testimonianze sulle conoscenze teologiche di Kant. D’altra parte Bohatec ritiene importante che Troeltsch abbia richiamato il contesto del deismo razionalistico moderno.

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migliore […] le condizioni sotto le quali soltanto può essere realizzata l’idea di una religione» 220.

220. Cfr. W. Dilthey, Der Sreit Kants mit der Zensur über das Recht freier Religionsforschung, in W. Dilthey, Gesammelte Schriften, Bd. IV, hrsg. v. H. Nohl, Vandenhoeck und Ruprecht 1968, p. 306. – Sulla religione in Kant mi sia consentito rinviare al mio saggio Religione nel volume L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere, a cura di S. Besoli, C. La Rocca, R. Martinelli, Quodlibet Studio, Macerata 2010, pp. 437-464, di cui qui ho tenute presenti le pp. 460-464.

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III Il messianico. Profetismo ebraico e chiesa antica

1. Il pathos del messianico «Ecco il mio servo, che io sorreggo, /il mio eletto, in cui l’anima mia si compiace./ Ho posto su di lui il mio spirito, /egli porterà il diritto tra le genti.// Non griderà e non farà clamore,/ non farà udire in piazza la sua voce,/ non spezzerà la canna rotta,/ né spegnerà il lucignolo fumigante;/ ma con fermezza promuoverà il diritto,/ senza cedere, né lasciarsi abbattere, finché abbia stabilito il diritto sulla terra// […] Io il Signore, ti ho chiamato nella giustizia,/ e ti ho preso per mano;/ ti ho formato e stabilito alleanza del popolo,/ luce delle nazioni,/ perché tu apra gli occhi dei ciechi,/ liberi i prigionieri dal carcere,/ dalla prigione gli abitanti delle tenebre» (Isaia, 42,1). In questo passo di Isaia, per riprendere un’espressione di Ernst Bloch, si manifesta «il pathos messianico», che dal profetismo ebraico si è trasmesso nel Cristianesimo e in varie forme della cultura occidentale. Il passo di Isaia è emblematico perché in esso, al di là della missione interna al popolo d’Israele, si fa chiaramente riferimento alla missione universale, alla prospettiva messianica che riguarda l’intera umanità, la storia universale, attraverso un’opera di illuminazione ed emancipazione

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delle coscienze, «per accendere dovunque le scintille della speranza nella giustizia, nella libertà, nella democrazia», come ha scritto Jürgen Moltmann, il quale ha fatto osservare che «la raccapricciante autodistruzione dell’Europa nella prima guerra mondiale indusse molti pensatori ebrei in Germania [tra cui Ernst Bloch] a ritornare con straordinaria intensità al loro Giudaismo e in particolare alla sua componente messianica», e «dalle rovine della ragione storica essi hanno salvato la speranza come categoria teologica»1. Da un altro versante, nel prendere coscienza di questa situazione di crisi, Troeltsch ricorre alla tradizione del diritto naturale, le cui radici si spingono fino al profetismo ebraico e al messianismo, su cui egli scrive proprio negli anni della guerra tra il 1916 e il 1917. Considerando la storia dell’etica sociale cristiana, che ha ricostruito nei suoi scritti e specialmente nelle Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, Troeltsch può affermare che essa si identifica con il diritto naturale cristiano interpretato e applicato in una forma «ora più conservatrice, ora più radicale»2, vale a dire come diritto naturale relativo o come diritto naturale assoluto. Per quanto Troeltsch, a differenza di Bloch, inclini per il diritto naturale relativo, specialmente nello sviluppo in senso democratico-riformatore che ha avuto nel “Protestantesimo ascetico”, anch’egli riconosce che l’eredità del diritto naturale assoluto come utopia sociale ha continuato a vivere nel Cristianesimo, ad animarne la presenza storica come messaggio di fede e di speranza in un mondo più giusto, in un mondo di uomini liberi, in un mondo di pace.

1. J. Moltmann, Ernst Bloch e la rinascita della speranza messianica, in Attualità e prospettive del “Principio speranza”, a cura di G. Cunico, La Città del Sole, Napoli 1998, pp. 17-18. 2. Die Sozialphilosophie des Christentums, cit., pp. 13-14.

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2. Fede ed ethos dei profeti ebraici Nella sua opera principale di sociologia della religione, Die Sozialleheren der christlichen Kirchen und Gruppen, Troeltsch, anche se non affronta direttamente il tema del messianismo, ne tratta implicitamente esponendo le varie configurazioni delle relazioni tra Cristianesimo e questione sociale, in primo luogo riflettendo sulla predicazione di Gesù e sulla chiesa antica. Troeltsch afferma immediatamente e nettamente che che le idee predicate nel vangelo di Gesù «non furono affatto il prodotto di un moto sociale», non derivarono da una lotta di classe, né «si collegano», più in generale, «ai rivolgimenti sociali della società antica»3. La loro origine è «meramente religiosa»4 e culminano nell’ideale messianico: «Malgrado tutta l’incertezza della tradizione, il pensiero fondamentale della predicazione di Gesù è tuttavia facilmente riconoscibile. È l’annunzio della grande decisione finale, dell’avvento del regno di Dio in cui si compie in terra la volontà divina, come ora si compie solamente in cielo, senza peccato, senza dolore o sofferenza, in cui i veri valori dello spirito e della volontà pura risplenderanno in tutta la maestà loro spettante»5. Sulla natura del regno, sul quando e il come si attuerà, la predicazione di Gesù – osserva Troeltsch – non dà indicazioni precise, ma quel che è importante «è la preparazione per il regno di Dio, ed essa può esser portata così a fondo, che la medesima comunità aspettante il regno di Dio può esser chiamata in precedenza regno di Dio» e la sua missione è di indicare «a quanti più è possibile la via che conduce alla salvezza, la salda roccia su cui essi debbono edificare la loro casa»6. 3. Soziallehren, GS I, pp. 15-16 (tr. it. cit., p. 21). 4. Ivi, p. 34 (tr. it. cit., p. 44). 5. Ibidem (tr. it. cit., p. 45). 6. Ivi, p. 35 (tr. it. cit., p. 46).

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Al centro dell’etica religiosa di Gesù vi è il riferimento «alla presenza di Dio», che ispira e guida «ogni volontà morale»7: «il Dio che scruta cuori e reni, che scorge tutto fino nei più intimi penetrali e nei più sottili inganni di se stesso, e che al tempo stesso è volontà viva e operosa alla maniera del profetismo»8. Per Troeltsch, quindi, nell’idea della preparazione all’avvento del regno di Dio è racchiuso il nucleo dell’etica di Gesù fondata sul pensiero di Dio, e da questo punto di vista non ha neppure importanza «la questione della novità rispetto all’ambiente giudaico»9. Qualche anno dopo la pubblicazione delle Soziallehren, in un momento storico drammatico qual è stata la prima guerra mondiale, che aveva posto fine, nel mondo tedesco, alla quiete apparente dell’“età guglielmina”, Troeltsch, tra il 1916 e il 1917, pubblica due saggi, Glaube und ethos der ebräischen Propheten e Die alte Kirche, nei quali è coinvolta la riflessione sul messianico all’interno di un più ampio progetto di ricerca sulle forme di vita religiosa nella storia della cultura occidentale. Particolarmente significativo è il saggio su fede ed ethos dei profeti ebraici, dal momento che si inserisce in un dibattito sul carattere del profetismo ebraico, in cui sono coinvolte da un lato le tendenze antisemitiche presenti nel mondo germanico, dall’altro il rapporto tra la teologia cristiana, protestante in particolare, e la teologia ebraica, quest’ultima a sua volta divisa tra le tendenze riportantesi al sionismo e la teologia giudaico-liberale. Il punto centrale della discussione, talora dello scontro, è il carattere particolaristico e nazionalistico oppure universalistico e umanistico dell’ethos del profetismo ebraico,

7. Ivi, pp. 36-37 (tr. it. cit., pp. 47-48). 8. Ivi, p. 37 (tr. it. cit., p. 48). 9. Ivi, p. 35 (tr. it. cit., p. 46).

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la sua possibilità o meno di essere ricondotto nei termini del razionalismo moderno. Certamente, lo studio di Troeltsch, per quanto non vi faccia riferimento esplicito, ha come una sua contraparte argomentativa la prospettiva di Cohen10. E in effetti il suo saggio assume una valenza polemica nei confronti di un pensiero fondamentale della interpretazione di Cohen del profetismo, vale a dire la sua concezione come espressione di principi razionali universalmente validi e fondanti anche per una giusta organizzazione della società. Mentre Troeltsch, legando il profetismo alla situazione storica, ne scorge prevalentemente il carattere religioso e, come sottolinea Wendell S. Dietrich, di utopia politica11. A parte altre motivazioni di ordine culturale e politico, legati alle vicende della prima guerra mondiale, il motivo principale del contrasto emerge nella convinzione di Troeltsch che gli aspetti più significativi ed essenziali del profetismo ebraico trovino la loro attuazione soltanto nella predicazione di Gesù e nello sviluppo del Cristianesimo12, in cui assumono un significato e un valore universalmente umano.

10. Si deve tener presente il libro del 1929 di Hermann Cohen Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums (H. Cohen, Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, edizione italiana a cura di A. Poma, tr. e note di Pf. Fiorato, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, in particolare il cap. XIII: L’idea del Messia e l’Umanità, pp. 358-400; e il cap. XIV: I passi messianici nei profeti, pp. 401-433. Cfr. U. Sieg, Der Streit um das “Ethos der ebräischen Propheten”, «Mitteilungen der Ernst-Troeltsch-Gesellschaft», Bd. 15, pp. 1-20, qui pp. 8-9. 11. Cfr. W.S. Dietrich, Cohen und Troeltsch. Ethical Monotheistic Religion and Theory of Culture, Brown Judaic Studies, 120, Atlanta 1986, pp. 1-2. 12. Per una esposizione accurata della polemica rinvio al saggio di Ulrich Sieg sopra citato, che richiama l’attenzione sulle critiche rivolte a Troeltsch da esponenti del “Giudaismo liberale” come il rabbino berlinese Benzion Kellermann, allievo di Cohen, che contesta sia il metodo che il contenuto delle analisi troeltschiane (pp. 11-13). Troeltsch ritenne del tutto insussistenti le critiche di Kellermann. D’altra parte la polemica si inseriva nel con-

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Nella sua analisi dei caratteri del profetismo Troeltsch comincia con l’affermare che la profezia non ha niente da fare con la speculazione, ma opera con visioni, oracoli, rivelazioni. Essa si fonda sulla volontà di mantenere pura la religione di Jahvè da ogni mescolanza con altre religioni, con altre divinità. I messaggi profetici sollecitano la fedeltà assoluta a Jahvè, condannano tutte le deviazioni, giustificano le sofferenze, le sconfitte, le distruzioni cui va incontro Israele con l’infedeltà, i peccati e la giusta punizione di Jahvè. Così l’intero Antico Testamento può essere considerato come una grande teodicea suscitata dalla percezione della colpa; ma l’intenzione dei profeti non era tanto quella di spiegare un destino, quanto di provocare una decisione pratica: la teologia politica del profetismo ha al suo centro la certezza della indistruttibilità d’Israele se essa si manterrà fedele a Jahvè13. Il centro dell’interesse è originariamente di natura politica, mirando a difendere l’identità del popolo ebraico attraverso la fedeltà a Jahvè. Certo, una volta costituito come signore e guida dei popoli, come signore della storia, Jahvè dovette diventare anche il signore della natura, il creatore e reggitore dell’intero universo. Ma resta inamovibile la relazione esclusiva tra l’unico Dio e il suo popolo eletto. Anche se, osserva Troeltsch, da dove nasca questa fede nell’unico Dio, questa fede esclusiva, resta non spiegato, «uno di quei mondi immediatamente, spontaneamente percepiti (eine der unmittelbaren spontanen Empfindungswelten)», che si posso-

trasto tra le due scuole neokantiane, del Baden e di Marburgo, contrasto che contribuiva certamente a rendere difficili i rapporti tra Troeltsch e Cohen, malgrado i tentativi di mediazione di Cassirer. Nello specifico il punto centrale nelle critiche di Cohen è il disconoscimento da parte di Troeltsch dell’universalismo del profetismo, che rende impossibile «un avvicinamento tra Giudaismo e Cristianesimo» (p. 14). 13. E. Troeltsch, Glaube und Ethos der ebräischen Propheten (1916), in GS II, pp. 34-65, qui p. 44.

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no solo «comprendere», ma non «spiegare» derivandoli da qualche altra cosa14. Questo nucleo della profezia proveniente dalla più remota tradizione non è però immodificabile, al contrario nel corso delle vicende storiche conflittuali, spesso catastrofiche, si è venuto trasformando, nel senso che la relazione tra Dio e popolo ha assunto un carattere di maggiore interiorità, di personale relazione reciproca di fede e fedeltà, che ha comportato anche il sorgere di nuovi sentimenti e nuovi pensieri religiosi. L’angusto legame di comunità tra stirpe e divinità, si è trasformato nella scelta che per grazia Dio fa del suo popolo, nella chiamata del Signore del mondo, a cui si può rispondere solo con l’umiltà, l’obbedienza, la fedeltà. Troeltsch ricorda i profeti della maestà e della santità di Dio, Amos e Isaia, che, si deve aggiungere, sono anche i profeti del Dio della giustizia e del valore dell’Alleanza, e Isaia in particolare è il profeta che più d’ogni altro ha annunciato il Messia. Essi – sottolinea giustamente Troeltsch – annunciano una religione della dedizione personale, dell’intenzione, dell’interiorità, e non del sacrificio e del culto esteriori. Nuovi sentimenti e nuovi pensieri si trovano testimoniati nei profeti dell’amore e dell’intimità sentimentale come Osea e Geremia, che presentano l’amore di Dio come un amore paterno. O ancora in Geremia e nel Deutero-Isaia si presenta «la religione del sacrificio e della sofferenza, dove la sofferenza del profeta per il suo popolo è soltanto la piena conferma della comunità con Jahvè e il mezzo per la conversione dei membri del popolo non credenti»15. Questi nuovi sentimenti e questi nuovi pensieri di una religiosità più intima, più personale, si riconducono però ancor sempre ad una fede

14. Cfr. ivi, p. 45. 15. Ivi, p. 46.

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che ha il suo centro nel rapporto di comunità di Jahvè con il suo popolo16. L’annuncio di salvezza dei profeti riguarda in particolare quel «resto di Israele» che si è salvato dalle catastrofi e che «vedrà la signoria messianica». E già essi stessi sono parte di questo «resto», sono «il nucleo di una nuova Israele, come testimoni, che comprendono e sono capaci di trarre dagli eventi le giuste conseguenze», in primo luogo la convinzione che «il timore del Signore è l’inizio della saggezza e che soltanto la fedeltà può contare sul dono di Jahvè»17. Ma solo più tardi questo «resto» diventerà realmente «una comunità (Gemeinde) in cui dominano la rigorosa purezza e l’esclusione d’ogni elemento pagano, la fedeltà a Dio e l’umiltà». Sarà allora attuato «il regno di Dio, il nuovo regno di Davide» annunciato dai profeti. Si apre qui la speranza escatologica di «una nuova alleanza, in cui ognuno, ispirato da Jahvè nel suo cuore, con gioia cambierà sorretto da tutta la forza e la virtù della fede interiore». Un pensiero nuovo che è anche al «cuore della predicazione di Gesù». Si viene delineando, quindi, una nuova visione del futuro della storia universale, con l’idea di un fine unitario che abbraccia tutti i popoli: «una teodicea pratica che fa superare le miserie del presente mediante lo splendore del futuro e la forza educatrice della sofferenza, in un’alleanza tra Dio e l’anima per cui alla sofferenza come pena fa riscontro come premio lo splendore del giorno del giudizio»18. Sono nuovi pensieri religiosi che però rinviano ai presupposti del profetismo. E, continua Troeltsch, si afferma una nuova concezione del tempo, che si contrappone all’idea dell’eterno ritorno del processo naturale: l’idea di uno sviluppo verso un fine ultimo

16. Ivi, p. 47. 17. Ibidem. 18. Ivi, p. 48.

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assoluto, verso una redenzione divina, come più tardi sarà formulata da Agostino. Che questo processo di redenzione possa compiersi, esige però una condizione: che Israele, così come è caduto in disgrazia a causa dei suoi peccati, con la sua purificazione ristabilisca l’alleanza con Jahvè, rispettando i suoi comandamenti, che in parte sono precetti religiosi, riguardano il culto e si riassumono nell’esclusione di ogni elemento di paganesimo, in parte sono regole morali e giuridiche provenienti dagli antichi costumi d’Israele. Da questo punto di vista il Dio dell’alleanza appare come il reggitore dell’ordine etico: «Israele è il popolo in cui devono risiedere diritto e giustizia» ed è eletto e formato per costituire il modello etico dell’umanità19. In questo modo, osserva Troeltsch, polemizzando probabilmente con Cohen, si è vista nel profetismo una tendenza a fare di Dio il principio dell’etica, a fondare una specie di filosofia della religione kantiana prima di Kant e prima dello stoicismo, che avrebbe bisogno soltanto di perdere il legame tra Dio e il popolo ebreo, per essere concepita come «la pura religione etica dell’umanità»20. Una simile interpretazione sarebbe «un fraintendimento dei profeti», del loro stesso modo di concepire l’eticità. L’etica dei profeti è un’etica religiosa, e non un’etica razionalistica; questo vale ancora per Gesù e per i primi cristiani. Condividendo indicazioni di Weber, Troeltsch sostiene che si tratta di un’etica che ha i caratteri prevalentemente di una società contadina e artigiana e mantiene ancora le tracce di una società nomade, che ha un atteggiamento ostile verso le attività commerciali, verso la cultura, la burocrazia e l’economia monetaria cittadina, che condanna il lusso e il potere delle grandi potenze mondiali. Anche l’analisi più dettagliata dei contenuti in essa prevalenti dimostra che l’etica dei profeti non ha nulla a che fare con il diritto razionale né 19. Ivi, p. 49. 20. Ivi, p. 50.

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con un annuncio di eticità sociale, ma neppure con l’idea di Humanität, né con la libertà o con la democrazia e, mancando un condizionamento di classe, è ben lontana dal socialismo nel senso moderno. Il sentimento di solidarietà verso i poveri ha una particolare tonalità religiosa, quella stessa per cui l’ideale dell’uomo è segnato non dalla ricchezza e dall’onore dinanzi al mondo, ma dalla giustizia e dalla umiltà di fronte a Jahvè21. D’altra parte, questa morale religiosa profetica non deriva dal risentimento dei deboli verso i forti o degli schiavi verso i signori come vuole Nietzsche, ma «proviene in verità e in primo luogo dalla incorruttibilità della fede in Jahvè e da una contrapposizione del mondo interiore verso il potere del mondo esterno»22. Questa sua profonda religiosità contrasta con le condizioni della società del loro tempo – con i regni, gli eserciti, la cultura cittadina dominante, i commerci – per cui difficilmente poteva essere accolta, né c’erano le condizioni per sostenere le profonde trasformazioni sociali che avrebbe richiesto. Perciò apparve come un’utopia e in essa venne in primo piano la dimensione del messianico, che appare in modo speciale nella figura del «resto», che si presenterà come «un ideale di perfezione religiosa e morale», una condizione che per l’azione miracolosa di Jahvè non prevede guerre né sofferenze23. Allora, nel regno messianico, com’è detto in Isaia 2, 4, «Egli [il Signore] sarà giudice fra le genti, e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci», e ancora in Isaia 11,6: «il lupo dimorerà con l’agnello,/ la pantera si sdraierà accanto al capretto; /il vitello e il leoncello pascoleranno insieme/ e un fanciullo li guiderà». Allora Jahvè farà piovere di primavera e d’inverno, anzi farà

21. Ivi, pp. 51-55. 22. Ivi, pp. 55-56. 23. Ivi, p. 58.

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sgorgare miracolosamente sorgenti nel deserto; in modo tale che ognuno possa sedersi sotto il suo fico e sotto la sua vite, e i figli d’Israele abiteranno intorno al loro tempio dove tutti i pagani andranno in pellegrinaggio, per sottomettersi a Jahvè, al Dio d’Israele. Certamente questa profezia non si sarebbe avverata, e tuttavia la volontà di un mondo più giusto non viene meno. Particolare rilievo Troeltsch dà al «programma per il futuro» contenuto in Ezechiele, che egli così riassume: nuova divisione delle terre tra coloro che non possiedono terra; cura e sostentamento di poveri e sacerdoti (che non hanno terra); centralizzazione del culto e della legislazione morale e dell’amministrazione della giustizia in Gerusalemme nel nuovo tempio (il progetto della cui costruzione è minuziosamente dettato da Jahvè al profeta: “La nuova Gerusalemme”, Ezech. 40-48); una vita purificata attraverso la penitenza, l’umiltà, l’amore e la bontà; la rigorosa corrispondenza tra merito e premio, tra pena e peccato anche nel destino individuale. Questo – osserva Troeltsch – non è il progetto di «uno stato sacerdotale o ecclesiastico, ma un’utopia, un contrappasso profetico-orientale della repubblica platonica; non un parallelo delle contemporanee legislazioni delle città-stato greche razionalizzanti, che misuravano gli eventi con la ragione etica, ma piuttosto un sogno messianico proprio di una religione orientale»24. E qui si presenta una delle tesi interpretative più interessanti di Troeltsch, vale a dire la tesi che le utopie messianiche appartengono all’essenza del profetismo, non sono un’eccedenza rispetto ai messaggi profetici. Le idee morali e politiche dei profeti si configurano come «un’etica religiosa» caratterizzata dal teismo e da un orientamento volontaristico e finalistico. Le sono estranei sia la dimensione mistica e contemplativa 24. Ivi, p. 60.

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accompagnata dal sentimento della finitezza, sia un atteggiamento realistico rivolto alla soluzione dei problemi della vita quotidiana e all’organizzazione della società. Soprattutto, in perfetta antitesi con l’eticità greca e romana che nascono sulla base della polis, all’etica profetica «manca ogni idea di Stato e di ciò che gli appartiene»25. Né vi si può rintracciare il carattere dell’ascesi mondana perché «anche il lavoro e l’attività formativa sono intimamente dipendenti dalla bontà di Dio e dalla sua presenza nel mondo da lui creato». Più in generale la religione e l’etica del profetismo hanno un orientamento di indifferenza verso le forme della cultura mondana, più in generale di opposizione verso il mondo, le cui strutture vengono subite con sofferenza, e questo comporta una volontà di distanziamento dal mondo, di immaginazione di un mondo diverso per il futuro, e quindi la formulazione di un pensiero utopico. «Il profetismo – scrive ancora Troeltsch – è la religione di un Dio volitivo, personale, trascendente il mondo, e della personalità umana che si forma nella comunità con lui […] Perciò è un’etica dell’attività e della tensione volontaristica nell’uomo, un’etica che ha il suo modello nella creazione da parte di Dio […] Ogni sentimento etico naturale del valore dell’uomo e della comunità umana viene completamente assorbito in questi unici valori veri che sono relativi al rapporto con Dio»26: una visione del mondo religiosa che raggiunse la sua massima efficacia storico-universale solo con il Cristianesimo, dopo che un vero e proprio risveglio e rinnovamento del profetismo si realizzò nella predicazione di Gesù.

25. Ivi, pp. 60-61. 26. Ivi, p. 61.

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3. La Chiesa antica Proprio la relazione tra Cristianesimo e profetismo ebraico, mediata dalla comune aspettativa messianica, compare all’inizio della riflessione di Troeltsch sulla Chiesa antica. Secondo Troeltsch l’impulso originario alla formazione della Chiesa si riconduce senza dubbio alla persona di Gesù e al suo inserimento di un elemento di profonda umanità e interiorità nel profetismo ebraico, un elemento originale, irriducibile nei termini della cultura religiosa ellenistica. Il confronto con le religioni ellenistiche hanno semmai condotto ad un risveglio dell’Ebraismo della sua tensione apocalittica e della sua avversione verso il mondo. Attraverso queste condizioni il genio religioso di Gesù è diventato il Messia, o già in forza della sua stessa consapevolezza o per la coscienza dei suoi fedeli, cosa questa che è difficile accertare: «Ma è sicuro – scrive Troeltsch – che il mondo ideale messianico è il primo impulso alla comunità dei discepoli e quindi alla Chiesa»27. È nella figura messianica di Gesù che è il cuore della Chiesa. Ed è in questo centro che ha le sue radici «una fede in Dio, che è la fede irrazionale, vivente, dei profeti e che ha poco a che fare con i concetti greci di unità e di legge come altrettanto con le fantasie dualistiche di un orientalismo gnostico»28. Nasce da questo terreno l’esperienza di una comunità che traduce in realtà l’idea del popolo di Dio, del popolo eletto e governato da Dio, che costituisce, osserva Troeltsch, un ideale sociologico di tipo completamente diverso da quello delle città greche protette dagli dei o dell’impero governato dal dio-imperatore, ma diverso anche dai tipi razionalmente deducibili su un piano puramente umano-mondano, cioè di formazioni comunitarie scaturite

27. E. Troeltsch, Die alte Kirche (1916-1917), GS II, pp. 65-121, qui p. 71. 28. Ivi, p. 71.

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dalla violenza o dalla guerra o anche fondate sulla base di una ragione universale identica in ogni individuo. Nel rinnovamento del messianismo si trovano inoltre «le radici dell’ottimismo escatologico che nella variegata esperienza cristiana si presenta sotto forma di utopia, di chiliasmo», o anche tradotto nella più storicistica idea del «progresso, [che] come speranza di un futuro compiuto eccita (erregt) dall’interno e lancia in alto l’intero mondo europeo, il suo lavoro, quella fondamentale tendenza che distingue l’Occidente da tutto il resto del mondo»29. In particolare, Troeltsch sottolinea il fatto che proprio il rinnovamento della tradizione profetica contribuisce a distinguere la cultura europeo-occidentale anche dalla stessa Grecità, per la quale la verità consiste nella conoscenza dell’essere statico, immobile, che «dal processo cosmico, che sempre di nuovo si ripete, lascia emergere sempre di nuovo la ragione verso uguali scopi della conoscenza e non sa nulla dello scopo dell’assoluto compimento di una storia dell’umanità irripetibile»30. La stessa etica dominante nella cerchia culturale europeooccidentale, grazie alla valorizzazione dell’uomo presente nel Giudaismo, si avvicina sì all’umanesimo greco, ma non è propriamente un umanesimo, perché al suo centro restano il pensiero profondamente religioso della filiazione da Dio, accompagnata dalla negazione del soggetto empirico naturale, e il comandamento dell’amore del prossimo sul fondamento dell’amore di Dio che tutti unisce. Pensieri da cui procede certamente una spinta a raggiungere le più alte finalità umane, che però non provengono da una ragione autosufficiente, ma hanno bisogno della grazia divina. Un’etica che si trova quindi sempre problematicamente divisa e oscillante tra la prevalenza 29. Ibidem. 30. Ibidem.

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dei valori religiosi e trascendenti e i valori mondani, storicoculturali, tra le istituzioni ecclesiali e sociali e quelle politiche. Al centro dell’etica cristiana – osserva ancora Troeltsch in un passaggio molto suggestivo – c’è «il grande pensiero profetico di un radicale ribaltamento della volontà e della trasposizione della volontà finita nella volontà imperscrutabile e incognita di Dio, in cui tramonta il dominio di sé della creatura e le volontà singole si mescolano, ma in cui, in ogni momento, la fiducia che nasce dalla fede ci avvolge con così tanta luce che noi possiamo dedicarci incondizionatamente ai fini universali [che la parola di Dio ci indica]»31. È questa l’origine dell’idea di personalità, che si fonda proprio sul distacco dalla totalità naturale, dall’immediatezza della vita naturale in forza della sua dedizione a Dio, e con l’idea di personalità si lega intimamente l’idea dell’amore come ricerca e rispetto nell’altro della personalità. La tesi forte di Troeltsch è che non c’è nulla della cultura greca, né di quella ellenistica, né vi sono elementi di gnosticismo-orientale in questa originaria etica cristiana: essa è esclusivamente di derivazione profetica ed è opera originale di Gesù. Rispetto a questa originaria formulazione della religione e dell’etica evangeliche, va però considerata come altrettanto fondamentale per la genesi della Chiesa la fede nella resurrezione di Gesù, che per la sua soprannaturalità diviene l’oggetto di un nuovo culto, il centro di una nuova religione, che è anche qualcosa di nuovo rispetto alla stessa predicazione di Gesù. E si pone, con il carattere soprannaturale di Gesù, il problema della conciliazione di questa fede con il rigoroso monoteismo ebraico; di qui la dottrina della trinità. I credenti di questa nuova religione si trovavano anche dinanzi al problema posto da un Messia sconfitto e da una natura umano-divina che va incontro alla morte. Dall’av31. Ivi, p. 72.

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vertimento di questi problemi «nacque quell’idea della sofferenza come prova dell’amore vicario e come precondizione di ogni signoria celeste, che già apprezzata dai Profeti, diede ora una più profonda e durevole espressione al pensiero di una organica solidarietà, interdipendenza e vincolatezza dell’umanità»32. E sofferenza ed amore si coniugano con un altro carattere che segna profondamente il cristianesimo della chiesa antica nel suo distaccarsi dal mondo antico, che è la centralità dell’esperienza e dell’idea dell’ascesi33.

32. Ivi, p. 73. 33. Ivi, p. 96.

Parte seconda Religione e filosofia della storia

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I Esistenza e storia. Troeltsch e Kierkegaard tra teologia e filosofia

1. Cristianesimo e cultura Come ha fatto osservare Hans-Georg Drescher, è piuttosto sorprendente che Troeltsch, quando nel 1891, dopo l’abilitazione conseguita a Gottinga, presenta il proprio curriculum per l’Anstellungsprüfung nella chiesa bavarese, riferendosi ai teologi e ai pensatori che lo hanno influenzato nomina, assieme a Rothe e Harnack, Kierkegaard1. Sorprendente, perché il pensiero kierkegaardiano qualche decennio più tardi sarebbe divenuto il punto di riferimento della corrente teologica che ha contestato la teologia liberale o moderna di cui Troeltsch è uno dei maggiori interpreti, vale a dire la teologia dialettica, da Karl Barth a Friedrich Gogarten: il pensiero teologico di quest’ultimo, in particolare, viene definito da Troeltsch come «un frutto dell’albero di Kierkegaard»2. Ma sorprendente an1. Cfr. H.-G. Drescher, Entwicklungsdenken und Glaubensentscheidung. Troeltschs Kierkegaardsverständnis und die Kontroverse Troeltsch-Gogarten, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», Bd. 79, 1982, p. 80. Sulla prove dell’esame di assunzione si veda H.-G. Drescher, Ernst Troeltsch. Leben und Werk, cit., pp. 77-80. 2. E. Troeltsch, Ein Apfel vom Baume Kierkegaards («Christliche Welt», Jg. 35, 1921, n. 11, Sp. 186-189), in Anfänge der dialektischen Theologie, Bd. II,

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che perché una conoscenza più approfondita di Kierkegaard lo stesso Troeltsch la situa nel corso del periodo di Heidelberg3, dove ha tenuto corsi su scritti di Kierkegaard nel Wintersemester 1912/13 e nel Sommersemester 19144. Tuttavia, oggettivamente, il richiamo kierkegaardiano a una più autentica coscienza cristiana può avere impressionato il giovane teologo e la sua iniziale riflessione, nella situazione culturale caratterizzata, alla svolta dal XIX al XX secolo, dal declino della metafisica e dell’etica platonico-cristiana; una situazione che

cit., pp. 134-140. 3. Quando Troeltsch nel 1913 ripubblica il saggio del 1893-1894 Die christliche Weltanschauung und ihre Gegenströmungen nel secondo volume delle Gesammelte Schriften, in una nota a proposito del confronto tra visione del mondo cristiana e visione del mondo umanistica osserva che a quel tempo conosceva molto poco di Kierkegaard, la cui opera «nel frattempo», quindi negli anni di Heidelberg, ha conosciuto «approfonditamente» (gründlich). Cfr. GS II, p. 293, nota 17. Mark Chapmann nel suo saggio Ernst Troeltsch: Kierkegaard, Compromise and Dialectical Theology ricorda i riferimenti a Kierkegaard che si trovano in due recensioni di Troeltsch nel «Theologischer Jahresbericht» del 1897 e del 1899, rispettivamente dedicate alla monografia di H. Höffding Sören Kierkegaard als Philosoph del 1896 e all’articolo di P. Graue Sören Kierkegaard’s Angriff auf die Christenheit del 1898, dove Kierkegaard viene presentato da Troeltsch come una personalità «melanconica» impegnata a sostenere la netta opposizione del Cristianesimo verso il mondo e quindi nella contestazione, spesso accompagnata da una sottile ironia, dei compromessi della cristianità con la cultura moderna. Cfr. M. Chapmann, Ernst Troeltsch: Kierkegaard, Compromise and Dialectical Theology, in Kierkegaard’s influence on Theology: German Protestant Theology, a cura di J.B. Stewart, Ashgate, Burlington 2012, pp. 377 ss. 4. Cfr. Ernst Troeltschs Heidelberger Seminarberichte. Neuentdeckte Quellen zu seiner Lehrtätigkeit, hrsg. von K.-H. Fix und Ch. Nees, in Mitteilungen der Ernst-Troeltsch-Gesellschaft, VII, Augsburg 1993, pp. 62-64. Nell’avviso per il semestre estivo del 1914 sono indicati anche gli argomenti trattati e i relativi scritti: teologia ed etica di Kierkegaard attraverso l’analisi di 1) Einübung in das Christentum e 2) Stadien auf dem Lebensweg. Invece il resoconto per il WS 12/13 indica genericamente «opere di Kierkegaard e Tolstoj».

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si riflette nella teologia contemporanea, specialmente protestante, come smarrimento di fronte ai segni di esaurimento di un “mondo” in cui sembrava radicata la certezza della conciliazione tra Cristianesimo e cultura. In pari tempo, nell’ambito della teologia protestante della fine dell’Ottocento, ad approfondire la crisi interviene «la scoperta che l’escatologia ha una rilevanza centrale per il messaggio di Gesù e così pure per il Cristianesimo primitivo». Come ha osservato Moltmann, questa scoperta ha avuto un effetto sconvolgente e ha scosso come un terremoto non soltanto le fondamenta della scienza teologica, ma anche quelle della Chiesa, della pietà e della fede. «Molto prima che le guerre mondiali e le rivoluzioni avessero provato in occidente la consapevolezza di una crisi – egli scrive – Troeltsch aveva l’impressione, allora quasi inconcepibile, che “tutto [vacillasse]”. La scoperta del carattere escatologico del Cristianesimo primitivo mostrava come l’armoniosa sintesi di Cristianesimo e cultura, da tutti accettata come ovvia, fosse invece una menzogna». Il riferimento è qui alla critica di Franz Overbeck alla teologia moderna5. In effetti, mentre una vasta area della teologia tedesca protestante, che alla fine del secolo si ricollegava, in forme diverse, alla Vermittlungstheologie di Albrecht Ritschl, era convinta della possibilità di «essere cristiani anche nel mondo contemporaneo pieno di realismo, di naturalismo e di critica storica» attraverso l’accentuazione della «fede pratica»6, Overbeck sostiene con forza l’orientamento assolutamente escatologico del Cristianesimo delle origini e trae di qui la conclusione della opposizione radicale della fede cristiana verso il mondo e la scienza: della impossibilità, quindi, di armonizzare Cri5. J. Moltmann, Teologia della speranza, tr. it. A. Comba, Queriniana, Brescia 1970, p. 3. 6. H. Stephan-M. Schmidt, Geschichte der deutschen evangelischen Theologie seit dem deutschen Idealismus, Topelmann, Berlin 1960, p. 252.

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stianesimo e cultura, a meno di non produrre una progressiva, inevitabile autodissoluzione del Cristianesimo. Destino questo che si è deciso, secondo Overbeck, fin dal sorgere di una teologia cristiana come teoria in cui rifugiarsi dinanzi alla «lotta tra la determinazione ascetico-cristiana e quella criticoculturale della vita»7. Nel Cristianesimo moderno – a partire dalla Riforma – si compie la fine del Cristianesimo: la cristianizzazione del mondo non è tanto la via della «sdivinizzazione del mondo», come apparirà più tardi a Heidegger, quanto quella della «mondanizzazione del Cristianesimo», quindi del tramonto della sua originaria verità e forza religiosa: «la semplice fede nella redenzione ad opera di Cristo»8. Troeltsch, da parte sua, pur riconoscendo la gravità della crisi9, non rinuncia però a riprendere il problema della conciliazione di Cristianesimo e cultura, di fede e scienza. Proprio nell’affrontare il tema della scissione che si è prodotta nella seconda metà delI’Ottocento tra «teologia scientifica» e «teologia pratica», egli si riferisce, con un giudizio nettamente critico, a Overbeck: «Una tale scissione però è soltanto un risultato, agevolmente spiegabile, della situazione storica, nient’affatto una necessaria conseguenza della teologia scientifica in sé e per sé. In ogni caso questo risultato non può essere mostrato dalla stessa teologia scientifica a meno di non voler sottoscrivere la propria condanna a morte come teologia, come ha fatto Overbeck, che riteneva l’autocomprensione scientifica come la morte del Cristianesimo e della religione in generale, e considerava il proprio insegnamento teologico come la copertura 7. Cfr. ivi, pp. 230 ss. 8. Cfr. F. Overbeck, Über die Christlichkeit unserer heutigen Theologie, E. W. Fritzsch, Leipzig 19032 [18731], pp. 34, 28. Sul problema Cristianesimocultura in Overbeck cfr. K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, tr. it. di G. Colli, Einaudi, Torino 1959, pp. 591 ss. 9. Cfr. anche Stephan-Schmidt, op. cit., pp. 314-315.

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sotto cui poter attuare in modo più sicuro la propria opera demolitrice con una fredda avversione, senza passione, verso il Cristianesimo. Questo è però certamente un caso singolo. Un’assoluta chiusura della scienza nei confronti della fede religiosa si trova infatti solo in colui che per particolari motivi ha lasciato morire o ha distrutto in sé il pensiero religioso. Chi personalmente continua a vivere religiosamente non potrà mai giudicare in questo modo, ma sarà sempre convinto che in una forma o in un’altra le differenti sorgenti della conoscenza devono coincidere ed armonizzarsi. Con tutta la oggettività e l’autonomia dei metodi e degli interessi puramente storiografici, continua parimenti a sussistere l’interesse pratico-religioso e con questo il carattere della teologia come di una scienza che ha di mira una conoscenza religiosa normativa»10. Questa volontà di tenere comunque insieme la scientificità dell’impianto storiografico e quella della teologia è l’indice di una più generale esigenza di conciliazione e unificazione che nasce da una’acuta percezione della polarità tra i principi della modernità e quelli della tradizione, tra i valori del Cristianesimo e quelli della Humanität, tra orientamento al trascendente e rigido attenersi all’immanenza, che angustia la coscienza cristiana della generazione degli anni ottanta-novanta del XIX secolo e che si trova espressa nelle lettere di Troeltsch al suo amico e collega di studi Wilhelm Bousset. Ad esempio nella lettera del 30 luglio 1885 Troeltsch, riferendosi anche al conflitto tra conoscenza scientifica e prassi religiosa, accenna ad una più generale condizione di scissione: «Io ho due lati e servo due padroni, puoi chiamarli pensiero e sentimento o realismo e idealismo, immanenza e trascendenza, meccanicismo e soprannaturalismo, conoscenza e paticità, o come altro vuoi.

10. E. Troeltsch, Rückblick auf ein halbes Jahrhundert der theologischen Wissenschaft (1908), GS II, p. 198.

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Nello sforzo di rendere il servizio dovuto a ciascuno di questi padroni, consiste tutto il mio impegno, il mio lavoro [… Ma] patisco il destino di tutti coloro che vogliono accontentare due padroni, e alla fine non accontentano nessuno dei due. D’altra parte non posso fare altro che servire due padroni, poiché li riconosco entrambi. Io aspiro puramente al punto di unificazione di entrambi, vale a dire al signore che sta al di sopra degli altri due, e quanto più chiara, a questo riguardo, diventerà la mia conoscenza, tanto più coerente e saldo diventerà sotto tutti gli aspetti il mio agire. Perciò ti prego di non arrestarti mai ad un lato soltanto»11. E in relazione al compito ch’egli assegna alla teologia «di trovare una conciliazione tra le forme del pensiero moderno e il contenuto spirituale essenziale (non il contenuto metafisico) del Cristianesimo positivo», per il quale non si vede una via di soluzione, osserva in un’altra lettera a Bousset: «Finora l’impostazione per la soluzione non riesco ancora a scorgerla […] sono piuttosto molto scettico e quasi desolato rispetto alla cosa. È ben possibile che la Chiesa venga completamente distrutta e che nelle forme estetiche di religione soggettiva ora sorgenti si produca una religione fortemente diversificata per le persone colte e per quelle incolte, e per le persone di mezza cultura non si produca affatto una religione; in breve, che religione e religiosità coincideranno e le forme esteriori non avranno più alcun significato»12.

11. Lettera a Bousset del 30 luglio 1885 citata in H. G. Drescher, Ernst Troeltsch. Leben und Werk, cit., pp. 33-34. 12. Lettera a Bousset del 23 dicembre 1885, in op. cit., pp. 37-38.

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2. Un «netto aut-aut» Nel già ricordato saggio del 1893-94 Die christliche Weltanschauung und ihre Gegenströmungen Troeltsch osserva che la crisi, investendo le stesse condizioni di possibilità di un orientamento religioso della vita, esige una risposta più complessa ed articolata del semplice appello alla evidenza della «esperienza cristiana» dei teologi ritschliani; esige, cioè, che – di fronte alla cultura moderna con le sue tendenze all’immanenza, al naturalismo, all’umanismo – la teologia assolva ancora una volta quello che è stato storicamente il suo «compito autentico», il suo «nervo vitale», vale a dire la verifica della «possibilità di coesistenza» della esperienza cristiana con «gli altri fatti dell’esperienza e le loro elaborazioni scientifiche»13, o, detto con altri termini, del Kompromiss tra la visione cristiana e quella scientifica, culturale, del mondo. Il che comporta la necessità di riflettere nuovamente sulla relazione tra Cristianesimo e mondo. Di per sé, secondo il suo spirito più proprio, il Cristianesimo è «indifferente verso i compiti e gli interessi mondani in quanto tali»14. Il suo scopo ultimo è la formazione della personalità costituita dal riferimento a Dio e alla sua santità. Perciò le idee etiche fondamentali dell’etica cristiana sono la «purezza di cuore» e l’«amore» ed esse devono orientare tanto l’etica individuale quanto l’etica sociale, sfuggendo a quelli che sono gli interessi e i beni puramente mondani. Tuttavia questo non comporta una svalutazione assoluta del mondo; vuol dire, invece, che «con l’eternità nel cuore il cristiano compie nel mondo la sua opera quotidiana, com’è suo dovere e come Dio gli ha comandato», anche se il suo cuore è altrove, «è là dov’è il suo tesoro»15, il suo vero es-

13. E. Troeltsch, Die christliche Weltanschauung GS II, p. 229. 14. Ivi, p. 280. 15. Ivi, p. 281.

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sere. Anche «il Cristianesimo di Lutero» sarebbe frainteso se vi si volesse vedere di più di una «interiorizzazione» della trascendenza e dello spostamento della relazione con essa «dalla solitudine del chiostro nella vita quotidiana». Lo stesso Beruf non è il termine di una scelta, la conseguenza di un’autonoma considerazione degli scopi mondani, ma è piuttosto l’accoglimento della situazione data in cui il cristiano deve permanere fiduciosamente e fedele al proprio dovere. Dalla valutazione moderna delle attività e dei beni mondani, dello sviluppo delle forze naturali, della realizzazione quindi delle potenzialità della natura umana, il cristiano, anche il cristiano della Riforma, resta ancora ben lontano16. In effetti, non solo, o non tanto, dalla secolarizzazione, ma da una vera e propria mondanizzazione è sorta un’autonoma etica specificamente umana, terrena, alternativa all’etica cristiana, e anzi pervasiva anche degli stessi atteggiamenti etici della cristianità, da cui è scaturita la crisi della cristianità nel mondo moderno. Ora, l’emblema dell’autocoscienza cristiana della criticità della situazione moderna è costituita secondo Troeltsch proprio dalla inquietante riflessione critica di Kierkegaard, dalla «ruvida accentuazione ch’egli fa di questa opposizione» presentandola drammaticamente nella forma di «un netto (schroffen) aut-aut», che non ammette mediazioni17. Ma quali conseguenze scaturiscono da questo assoluto aut-aut? Dobbiamo dire – si chiede Troeltsch – che si presenta qui la drammatica lotta tra Cristo e Satana, tra il principio dell’amore di Dio e quello dell’amore per le cose del mondo? O anche che qui si prospetta lo scontro tra la civiltà e l’incultura, oppure tra una concezione realistica della vita guidata dalla ragione e l’utopia di una vita assolutamente spiritualizzata? Se così fosse,

16. Ibidem. 17. Ivi, pp. 283-284.

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se l’opposizione si mantenesse nei termini di un assoluto autaut, «l’ethos cristiano – scrive Troeltsch – starebbe dalla parte della incultura e i suoi legami di fatto con la cultura spirituale sarebbero negazioni della sua essenza, ovvero autoinganni resi necessari dalla vita. Oppure l’ethos cristiano – continua Troeltsch – sarebbe ristretto nei limiti di una cultura utilitaristica, priva di idee, nei limiti di una rettitudine borghese in cui troverebbe spazio per i suoi ideali […]; mentre sarebbe escluso proprio dalla più raffinata cultura artistica e spirituale»18. La posizione di Troeltsch è, invece, caratterizzata dall’idea di una possibile mediazione tra visione del mondo cristiana e cultura umanistica, tra etica cristiana ed etica umanistica, mediazione fondata sulla convinzione della presenza nella natura umana, nella ragione e nel cuore dell’uomo, di una scintilla divina, di un lumen che successivamente si accende con la fede. Per Troeltsch v’è quindi una «disposizione morale» che opera «in vista del valore supremo della personalità spirituale», che esige il superamento dell’egoismo e la dedizione a Dio e al prossimo, valore supremo rispetto al cui conseguimento l’eticità umanistica costituisce solo un primo passo, sia pure determinante, in quanto «spezza la naturale determinatezza sensibile» e rende possibile «una conformazione della vita fondata su più alti motivi spirituali»19. Un valore supremo dell’etica umanistica è certamente la bellezza, la bellezza coincidente con il bene: «L’impulso all’attivazione e al dispiegamento di sé viene sentito come impulso etico, ed è evidente l’inclinazione a trovare la forma e la legge di quest’attivazione nella bellezza dell’armonia estetica»20.

18. Ivi, p. 284. 19. Ivi, p. 288. 20. Ibidem.

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Con la cultura umanistica e neo-umanistica non può non confrontarsi la visione del mondo cristiana. Ed è questo un obiettivo che Troeltsch ritrova e mette in luce nell’opera di Kierkegaard, che però perviene a un risultato differente. Anche per la sua natura malinconica e per la sua educazione pietistica egli spinge fino all’estremo l’ascesi cristiana, rendendo il Cristianesimo una faccenda per «pochi singoli» e condannando il compromesso con il mondo perseguito dalle Chiese. Al tempo stesso Kierkegaard mette in guardia rispetto a quei tentativi di soluzione del problema del rapporto tra Cristianesimo e cultura umanistica analoghi a quello da Troeltsch stesso proposto, vale a dire la riconduzione delle opposte visioni all’interno di uno «sviluppo» della personalità che si innalza fino alla dimensione del sopramondano. Questo perché Kierkegaard, come si è visto, vuole affermare in modo esclusivo l’ascesi cristiana e si muove nella prospettiva del «singolo». Tuttavia, osserva ancora Troeltsch, egli «dispiega appassionatamente e largamente la sua natura estetico-etica», conseguendo un vero e proprio «svuotamento» e una vera e propria «liberazione» da tutto ciò che ha a che fare con la dimensione della sensibilità e dell’estetico, e questo positivamente vuol dire l’innalzamento a una dimensione eticamente più elevata: il che vuol dire uno svuotamento dell’estetico a favore dell’etica cristiana, un risultato che non appare molto lontano dalla posizione dello stesso Troeltsch che, nel suo confronto con il monismo estetico, afferma lo sviluppo dall’etica umanistica all’etica cristiana: «Ma, ora, la proposizione di una istanza di “svuotamento” dell’estetico dinanzi alla esigenza cristiana non è in conclusione un pensiero simile a quello da me sviluppato?»21. Però, si potrebbe obiettare, per Kierkegaard non vi è sviluppo da uno stadio all’altro

21. Ivi, p. 293 nota 17. A questo riguardo osserva Drescher che «in questo contesto dei suoi pensieri per Troeltsch ora va bene Kierkegaard che ha preso posizione a favore dell’ethos cristiano contro l’ethos umanistico, pur

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della vita, da quello estetico a quello etico, a quello religioso. Piuttosto entra in gioco la decisione che implica un taglio, una discontinuità. Come ha finemente osservato Drescher, «l’aggettivo “schroff” in connessione con il pensiero dell’ascesi rende evidente a che cosa mira la critica di Troeltsch. È l’idea della decisione che secondo lui viene spostata troppo in primo piano e per mezzo di questo il principio dello sviluppo, a cui Troeltsch deve la sua propria soluzione di fronte agli attacchi del monismo verso il Cristianesimo, viene spostato indietro»22. La distanza dalla soluzione kierkegaardiana segnata specialmente dall’accentuazione in essa dell’idea dell’ascesi cristiana è confermata dalle successive riflessioni di Troeltsch. Da un lato egli riconosce che «l’eticità completa non può affermarsi senza sofferenze e purificazione» e che il valore più alto dell’etica religiosa cristiana si mostra proprio nella capacità «di conferire al fenomeno più generale della vita, cioè al dolore, alla sofferenza, una sua posizione positiva, feconda, mentre il monismo estetico chiude gli occhi il più possibile dinanzi al dolore e alla sofferenza»23. Dall’altro lato osserva che il radicalismo morale di Gesù poteva essere accolto perché legato all’attesa della imminente venuta del regno di Dio, ma, una volta caduta quell’attesa, il rigorismo può riguardare solo «quelle persone che si dedicano esclusivamente alla propagazione del Cristianesimo, profeti, apostoli, missionari, sacerdoti, o nature specificamente

senza affermare per sé la piena adesione al Cristianesimo» (H.-G. Drescher, Entwicklungsdenken und Glaubensentscheidung, cit., p. 82). 22. Cfr. H.-G. Drescher, Entwicklungsdenken und Glaubenentscheidung, cit., p. 83. 23. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 289.

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religiose»24, mentre nella dimensione più generale l’etica non può trascurare i principi del comportamento nelle cose del mondo, legato alle tendenze, alle passioni, alle inclinazioni dell’umana natura, non può non trovare una mediazione con i valori mondani, sociali, politici: la famiglia, il lavoro, lo stato etc. E sulla base di questa mediazione con l’etica umanistica si creano le condizioni di un ulteriore sviluppo della persona che «si ritrae nell’intima santità dell’essenza, da cui poi soltanto zampilla – attraverso l’approfondimento e la purificazione – il vero ed ultimo senso dell’esistere [e si configura] il regno dell’amore cristiano, nel quale tutti sono legati nella speranza dello svelamento dei beni ultimi della personalità in una vita superiore, più elevata»25. 3. La fedeltà di Kierkegaard al messaggio evangelico Nel saggio apparso in Die christliche Welt nel 1903 Was heisst “Das Wesen des Christentums”?26 si trova un riferimento a Kierkegaard nell’ambito della critica che Troeltsch fa al concetto di essenza come un dispiegamento progressivo e continuo, che toglierebbe senso e valore alla ripresa del Cristianesimo delle origini, che è al centro della riforma. Infatti – scrive Troeltsch – «per quanto si possa riconoscere il fatto che la primitiva missione cristiana sia sfociata direttamente nel Cattolicesimo, [e] che il Protestantesimo abbia come presupposto il Cattolicesimo [con cui all’inizio condivide molti caratteri essenziali], resta tuttavia nel Protestantesimo il dato indiscutibile di una rottura con le idee fondamentali del Cattolicesimo e la sua fondazione in una rivalutazione ed attuazione, sia pur relativa, del

24. Ivi, p. 290. 25. Ivi, pp. 290-291. 26. Cfr. Parte Prima, cap. II, nota 5

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Cristianesimo delle origini»27. Inoltre, anche già l’istituzione della Chiesa cattolica costituisce una svolta rispetto alle primitive comunità cristiane nate dall’«idea […] del regno morale di Dio, senza sacerdoti e sacramenti, predicato da Gesù»28. La problematica della determinazione dell’essenza del Cristianesimo si rivela quindi estremamente complessa perché si deve tener conto non solo della diversità delle Chiese determinatasi con la Riforma, di una molteplicità di forme di vita e di comunità cristiane, che si concretizzano nei variegati fenomeni delle sette e del misticismo, cioè degli altri due tipi sociologici fondamentali che assieme al tipo principale della Chiesa concorrono a delineare la storia del Cristianesimo: «In realtà – scrive Troeltsch – accanto alla forma di vita ecclesiastica, le sette e la mistica sono forme di vita dell’idea cristiana che hanno un proprio significato e un proprio autonomo legame con il vangelo e con il Cristianesimo delle origini e hanno avuto uno straordinario significato storico, dinanzi a cui la storiografia tradizionale chiude volutamente gli occhi. Ma ogni spirito libero non può non vedere che S. Francesco, Kierkegaard o Tolstoj sono senz’altro più vicini all’autentico messaggio di Gesù che non la dogmatica ecclesiastica; che Meister Eckart e Sebastian Franck comprendono alcuni elementi fondamentali del Cristianesimo più profondamente che non il Cristianesimo di massa della Chiesa»29. Il concetto di essenza implica quindi non solo un processo di astrazione, ma anche una «critica immanente», una distinzione tra ciò che è essenziale e ciò che è inessenziale o addirittura 27. Was heisst “Das Wesen des Christentums”?, cit., p. 404 (tr. it. cit., p. 281). 28. Ibidem (tr. it. cit., p. 282). 29. Ivi, p. 406 (tr. it. cit., p. 283). Sulla centralità della mistica nella concezione troeltschiana dell’esperienza religiosa ha richiamto l’attenzione Francesco Ghia nella Introduzione alla raccolta di scritti troeltschiani da lui curata (E. Troeltsch, Scritti scelti, cit., pp. 16-20).

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contrario. Un giudizio che può scaturire soltanto «dalla decisione personale e dalla convinzione interiore», collocandosi quindi, per utilizzare una formula kierkegaardiana, sul piano del «pensiero soggettivo». Troeltsch si riferisce qui in modo significativo a Kierkegaard come a un pensatore religioso cristiano che è più fedele al messaggio evangelico originario rispetto a quanto possano esserlo le Chiese, inserendolo implicitamente nel peculiare tipo del «misticismo». Ma difficilmente potrebbe condividere la singolare esperienza cristiana del filosofo danese drammaticamente sospesa all’aut-aut tra fede e scandalo. Per Kierkegaard l’essenza del Cristianesimo è la fede in Cristo come Uomo-Dio: «che un uomo singolo sia Dio, è Cristianesimo, e questo singolo uomo è l’Uomo-Dio». Una fede che implica un «salto» rispetto a ogni argomentazione razionale e che è l’unica via per sfuggire allo «scandalo» che l’affermazione dell’Uomo-Dio costituisce per la ragione umana: lo «scandalo κατ’εξοχήν», nel senso che è scandaloso sia che un singolo uomo si presenti come Dio, sia che Dio si abbassi a soffrire come un uomo umiliato30. Aut-aut: o la fede o lo scandalo: «La possibilità dello scandalo – scrive Kierkegaard ne L’esercizio del Cristianesimo – è una specie di bivio ovvero è ciò che pone davanti al bivio. Da questa possibilità si partono due vie, l’una porta allo scandalo e l’altra alla fede, ma non si giunge mai alla fede senza passare attraverso la possibilità dello scandalo»31. Un’affermazione che solo parzialmente potrebbe essere condivisa da Troeltsch, che certamente avverte l’inquietudine del dubbio, ma ritiene che la fede possa trovare nella rivelazione un fondamento conciliabile con la ragione, dal momento che la ragione umana partecipa della ragione divina. 30. Cfr. S. Kierkegaard, Esercizio del Cristianesimo, tr. it. in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p. 731, a-b. 31. Ivi, p. 730b.

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Nel quadro del rinnovamento della teologia a partire dalla seconda metà del XIX secolo Troeltsch, nel saggio del 1903 Die theologische und religiöse Lage der Gegenwart, si sofferma sul pensiero del suo maestro di Gottinga Albrecht Ritschl, intorno a cui si è costituita «una nuova grande scuola teologica, [appunto] la scuola di Gottinga, che si assunse l’onere di questi dubbi», cioè dei dubbi, dei problemi, suscitati dalla «teologia scientifica» della prima metà del XIX secolo32. Formatosi all’insegnamento di F. Ch. Baur, Ritschl si era poi distaccato dai principi fondamentali della teologica storica di Tubinga, influenzata dall’idea hegeliana dello sviluppo, per porre al centro dell’indagine teologica la Rivelazione storica di Dio e quindi la figura di Gesù Cristo33. Avversando ogni forma di panteismo o monismo metafisico, Ritschl considera la religione «come un’elevazione etica della volontà che si oppone alla natura e al suo corso», come «l’accettazione di una volontà divina e santa che non si identifica con lo sviluppo del processo necessario dell’universo, ma eleva l’anima al di sopra di questo processo nella sfera della libertà», libertà che esprime «l’indipendenza rispetto al corso della natura e la dipendenza, invece, dalla santa volontà di Dio»34. Vi è quindi nella religione e in specie nel Cristianesimo, che ne è la rivelazione più alta, «un’antitesi irresolubile e fondamentale tra Dio e mondo», che solo la fede può superare. Una fede che per Ritschl «non dipende da teorie o da speculazioni, bensì dall’impressione personale suscitata sulla vita dalla figura di Gesù che […] ci fornisce la prova della realtà di Dio e del

32. E. Troeltsch, Die theologische und religiöse Lage der Gegenwart (1903), GS II, p. 13 (tr. it. in E. Troeltsch, Scritti scelti, cit., p. 494). 33. Cfr. A. Ritschl, Die christliche Lehre von der Rechtfertigung und von der Versöhnung, Bd. III3, A. Markus, Bonn 1988, pp. 14-15. 34. Die theologische und religiöse Lage der Gegenwart, cit., p. 13 (tr. it. cit., p. 495).

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mondo soprasensibile e che ci fa confidare in Dio pur nella nostra miseria e nell’angoscia del peccato»35. In questo passo, in cui Troeltsch espone il concetto di fede di Ritschl, certamente c’è un oggettivo richiamo a motivi kierkegaardiani, e non a caso subito dopo egli osserva che obiezioni simili alle posizioni della teologia speculativa, in particolare alla filosofia della religione hegeliana, erano state avanzate da Kierkegaard, presentandole in una forma «molto più appassionata […] in scritti di somma perfezione artistica e di ineguagliata tecnica analitica»36. Troeltsch mette in luce la differenza di prospettiva di Ritschl e Kierkegaard. Il primo, infatti, si propone una riforma interna alla teologia ecclesiastica luterana, accentuando l’elemento della religiosità pratica di ispirazione kantiana, «vivificata – com’è stato osservato – da una sincera e filiale concezione di Dio come amore, e del Cristianesimo come religione dell’amore»37, con l’obiettivo, sottolinea Troeltsch, di «portare la cultura cristiana a uno stadio di stabilità, chiarezza e salute»38. Al contrario, Kierkegaard contrastava proprio l’istituzione ecclesiastica, e metteva in guardia dal ridurre la religione cristiana a un fenomeno culturale, storico-antropologico. La sua ispirazione era puramente religiosa, era la volontà di corrispondere al «bisogno di salvezza» che egli avvertiva fortemente anche nell’uomo moderno. Perciò egli per redimere l’uomo moderno dalla sua tendenza ad una visione estetica e puramente mondana della vita voleva ripristinare un modo radicale di essere cristiani fondato puramente sulla Bibbia. Troeltsch ricorda poi che Kierkegaard, pur aven35. Ivi, p. 14 (tr. it. cit., p. 495). 36. Ibidem (tr. it. cit., p. 496). 37. B. Gherardini, La seconda riforma. Uomini e scuole del Protestantesimo moderno, vol. I, Morcelliana, Brescia 1964, p. 390. 38. Die theologische und religiöse Lage der Gegenwart, cit., p. 14 (tr. it. cit., p. 496).

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do avuto una formazione teologica, non ha voluto esercitare la professione di teologo, affidando alla scrittura letteraria il compito di «lottare per gli interessi della teologia». Rispetto a Ritschl, Kierkegaard ha una personalità «incomparabilmente più geniale», ma certamente è molto meno dotato di senso della realtà e di competenze storiografiche del fondatore della scuola di Gottinga. Egli è piuttosto «un poeta e un pensatore che ha nel suo cuore il problema religioso», rispetto al quale prende una posizione fortemente polemica nei confronti della filosofia della religione classico-romantica di cui condanna la mentalità immanentistica, la tendenza normativistica, «il sentimento estetico dell’unità». Ed è particolarmente rilevante l’osservazione di Troeltsch secondo cui Kierkegaard «si è scagliato contro la concezione della religione che occultava le lacerazioni e gli abissi della vita e che la intendeva semplicemente come un sentimento (Empfindung) dell’unità di finito e infinito». In queste concezioni la religione viene completamente fraintesa in quanto viene ristretta «nei limiti del mondo e dell’al di qua»39. Soprattutto, l’armonizzazione di finito e infinito, la concettualizzazione metafisica del contenuto della religione, con lo scivolamento verso forme di teologia speculativa monistiche o panteistiche, conducono alla perdita del senso della trascendenza e impediscono «all’uomo di spingersi fino al momento del grande aut-aut, in base al quale egli deve decidersi o per il mondo e per il suo corso naturale autonomamente procedente, o per la forza di Dio che tutto attrae a sé, elevando l’uomo e convertendolo»40, come scrive Troeltsch, probabilmente avendo in mente la prima sezione della terza parte di Esercizio del cristianesimo, dove appunto il cristiano, attraverso la coscienza del peccato, può rispondere

39. Ivi, pp. 14-15 (tr. it. cit., p. 496). 40. Ivi, p. 15 (tr. it. cit., p. 496).

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alla chiamata di Gesù Cristo secondo quanto è detto in Giov. XII,32: «Ed io, quando sarò sollevato da terra, attirerò tutti a me»41. D’altra parte, osserva ancora Troeltsch pensando evidentemente agli stadi dell’esistenza, in Kierkegaard «la bellezza, la poesia, l’armonia da essa percepita e l’unità dell’universo ricevono […] tutti gli onori», perché «nobilitano e rendono morale l’uomo, mostrandogli un fondamento spirituale e il nucleo delle cose»42. Senonché, come si vede in Aut-Aut, la vita estetica è caratterizzata dall’essere frammentata nei momenti e questo la conduce alla malinconia e alla disperazione: l’esistente non riesce a raccogliersi dalla dispersione negli istanti del godimento e l’ultima concezione estetica della vita è la disperazione43. Troeltsch, però, non segue il salto dall’estetico all’etico attraverso le riflessioni di Kierkegaard sulla disperazione. Piuttosto osserva che le varie figure della vita estetica «nulla sanno delle grandi e reali lotte dell’uomo etico e religioso, che è sospeso tra due mondi e che trova la propria pace non nella parvenza estetica e nel gioco, ma solo nella scelta autentica e nella decisione»44. Riferendosi probabilmente alle meditazioni svolte da Kierkegaard nel Vangelo delle sofferenze sull’imitazione o la sequela di Gesù, sulla dialettica per cui la via resa stretta dalle tribo-

41. S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, cit., pp. 765b, 768-769. 42. Die theologische und religiöse Lage der Gegenwart, cit., p. 15 (tr. it. cit., pp. 496-497). 43. Cfr. S. Kierkegaard, L’etico e l’estetico, in Breviario, a cura di M. Bense, tr. it. di D. Tarizzo e P. Panzieri, Linea d’ombra, Milano 1993, pp. 26, 31-37. 44. Die theologische und religiöse Lage der Gegenwart, cit., p. 15 (tr. it. cit., p. 497).

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lazioni porta però alla salvezza45, Troeltsch conclude qui la trattazione, ricordando che «Kierkegaard trova conforto in Gesù allorché questi dice che ciascuno deve perdere la propria vita per guadagnarla, che la via per la salvezza è stretta e solo pochi la trovano, mentre è larga la via che conduce alla perdizione»46. E scegliendo queste espressioni di adesione alla sequela di Gesù, Troeltsch ribadisce ed esplicita il giudizio accennato nel saggio su L’essenza del Cristianesimo, sulla fedeltà di Kierkegaard all’originario annuncio evangelico, concepito essenzialmente nella dimensione della interiorità, della persona piuttosto che dell’istituzione. 4. Vino nuovo nelle vecchie botti Nel 1911 Troeltsch ritorna a riflettere su Cristianesimo e attualità e in particolare sulla situazione delle Chiese e nel saggio Die Kirche im Leben der Gegenwart compaiono due riferimenti a Kierkegaard come esempio di un radicale individualismo religioso e di un Cristianesimo altrettanto radicale. Affrontando il difficile tema del rapporto tra religione e scienza moderna, più in generale tra religione e cultura moderna, Troeltsch perviene alla convinzione che piuttosto che pretendere di creare nuove forme di organizzazione delle Chiese o di creare nuovi dogmi, si tratta piuttosto di affermare il più possibile il principio di libertà, di garantire la più ampia possibilità dell’esperienza religiosa soggettiva. Sono tempi di cambiamento, ma non si può dire se si formeranno nuove religioni, un nuovo pensiero

45. S. Kierkegaard, Scritti edificanti. Vangelo delle sofferenze, in Opere, cit., pp. 870 ss. 879 ss. 46. Die theologische und religiöse Lage der Gegenwart, cit., p. 15 (tr. it. cit., p. 497: in nota F. Ghia rinvia giustamente a Mt. 16,25 e 7,13-14 e osserva che «queste citazioni matteane ricorrono in Kierkegaard, ad esempio nei cosiddetti scritti edificanti»).

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religioso, nuove comunità, nuove Chiese e così via. Quel che si può fare è immettere vino nuovo nelle vecchie botti, ovvero nelle istituzioni esistenti con tutto quello che di solido e di buono esse hanno: sviluppare nuove esperienze, immettere nuove idee, soprattutto uno spirito di libertà, un soggettivismo criticamente fondato, che contribuisce a trasformare le realtà esistenti, senza annullarle. L’unico principio da esigere è il principio della coscienza. È la coscienza che ci attesta il bene e il male. Ma questo principio non può significare la smobilitazione delle istituzioni ecclesiali e neppure la loro esigenza di conciliare valori religiosi e valori culturali. Troeltsch riconosce che un programma di compromesso con il mondo attuale non proviene da motivazioni puramente religiose, e che si tratta ad un tempo di motivi e interessi che appartengono alla cultura nel suo insieme. E per dimostrare questa difficoltà di stabilire un compromesso con la cultura moderna sulla base di una motivazione puramente religiosa, fa riferimento a Kierkegaard: «L’esempio di Kierkegaard – egli scrive – può mostrare come si presenterebbe un programma progettato sulla base di interessi puramente religiosi: nemico delle Chiese, nemico della cultura, assolutamente unilaterale e passionale, una completa emarginazione di tutti i contenuti non religiosi della vita»47. Ma questo tipo di comportamento rigorosamente fedele ai principi cristiani può appartenere solo a singoli individui, ma non può costituire la base per una risposta concreta al problema dei rapporti delle Chiese con il mondo. «La risposta deve necessariamente tener conto di interessi religiosi e di interessi culturali, e questo accade appunto attraverso l’idea di una Chiesa popolare orientata in modo elastico»48. Questa elasticità o più precisamente liberalità deve consentire di avere

47. E. Troeltsch, Die Kirche im Leben der Gegenwart (1911), GS II, p. 105. 48. Ibidem.

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dentro di sé «anche lo spazio per gli spiriti più radicalmente religiosi», portatori di una religiosità vissuta in tutta la sua purezza e con lo sguardo affisso al solo bene religioso, e indipendente, quindi, dai valori e dai beni intramondani. In questo modo religione e cultura possono trovare una forma di conciliazione, anche se, trattandosi di individui mossi da interessi differenti, l’equilibrio, il compromesso è sempre precario. Ma si deve anche riconoscere che vi può essere una fondazione non puramente pragmatica della necessità di un’istituzione come la Chiesa capace di mediare tra valori religiosi e valori culturali, una fondazione idealistica. Essa dovrà essere nettamente distinta «da un individualismo radicale qual è quello di Kierkegaard» e dovrà includere «l’idea della grazia, dello spirito comune che produce e porta in sé gli individui […]: un’idea della Chiesa che può darsi l’organizzazione che vuole, ma non coincide mai con nessuna di esse. Questo divino spirito comune ovvero il Cristo che vive e si perpetua in lui si può conoscere nella «parola di Dio», cioè nella Bibbia, nella libera vivente predicazione, nelle celebrazioni sacramentali della comunità»49. 5. Un frutto dell’albero di Kierkegaard Il confronto con l’individualismo religioso di Kierkegaard e con il suo Cristianesimo radicale trova una espressione compiuta nell’articolo dedicato da Troeltsch nel 1921 nella «Cristliche Welt»50 a Friedrich Gogarten in risposta alla conferenza Die Krisis unserer Kultur da lui tenuta alla Wartburg, ad Eisenach nell’ottobre del 1920, nella riunione dell’associazione “Freunde der Cristliche Welt”, a cui Troeltsch non aveva

49. Ivi, p. 106. 50. Si veda la nota 2.

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potuto partecipare51. Un nucleo portante della conferenza, che muove dalla critica della prospettiva storico-culturale, che si limita a registrare e a descrivere nella crisi i mutamenti, il variare degli eventi, ma non riesce ad afferrare l’assoluta novità dell’attimo (Augenblick) in cui si dà ogni volta l’incontro con Dio. Una critica che comporta, in ultima istanza, l’opposizione di cultura e religione, la irriducibilità dell’evento religioso entro le forme dello sviluppo culturale52. In questa critica radicale della mediazione tra religione e cultura, che si esprime nella rivendicazione dell’assoluta polarità, di una dialettica puramente negativa, priva di sintesi, tra l’incontro con Dio e l’incontro con il mondo, tra l’esserci cristiano e l’esserci puramente umano, giustamente Troeltsch riconosce un attacco alla propria posizione teologica, anche se – osserva preliminarmente – egli «nel rapporto tra Cristianesimo e cultura [ha sempre visto] una questione aperta, estremamente complicata», e proprio per questo ha sempre prestato attenzione e dato valore all’«ascesi» sia nella sua forma cattolica sia in quella protestante: certo, nella convinzione che un atteggiamento puramente ascetico non è generalizzabile, e che l’ascesi costituisce «solo un lato» della realtà, e «le necessità della vita l’hanno sempre in qualche modo integrata o adattata»53. Come il titolo stesso dell’articolo già suggerisce (“Un frutto dell’albero di Kierkegaard”), il pensiero teologico di Gogarten si inscrive nella tradizione del pensiero soggettivo di Kierkegaard e della sua concezione del Cristianesimo come esperienza religiosa personale, sganciata da ogni relazione con le Chiese e contrapposta ai valori mondani della cultura, dello Stato. Non

51. Fr. Gogarten, Die Krisis unserer Kultur («Christliche Welt», 34 Jg. 1920, Nr.49, Sp.770-777, Nr.50, Sp.786-791), in Anfänge der dialektischen Theologie, Teil 2, cit., pp. 101-121. 52. Ivi, pp. 102-103. 53. Ein Apfel vom Baume Kierkegaards, cit., pp. 134-135.

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v’è dubbio che si tratta del Cristianesimo che si accentra nel rapporto con il Cristo e tramite il Cristo nell’«attimo» dell’incontro con Dio, nel quale si è rimessi alla volontà e al giudizio di Dio, nella solitudine della propria coscienza54. La conferenza di Gogarten si conclude, infatti, con la domanda: «che cosa dobbiamo fare ora?» e la risposta è: «si tratta ora per noi di restare là, proprio là, dove siamo venuti infine a trovarci: nell’azione creativa [e] distruttiva di Dio. Proprio là dove Gesù Cristo dice, oggi come duemila anni fa: pentiti, perché il regno dei cieli sta già per venire»55. I caratteri di questo libero Cristianesimo comune a Gogarten e a Kierkegaard sono indicati efficacemente da Troeltsch in una delle sue felici sintesi espositive: «L’incontro con l’assoluto, la sua radicale contrapposizione al mondo, la condanna di sé dell’uomo in questa situazione assoluta e la svalutazione di ogni mediazione tra Dio e mondo, che secondo Kierkegaard è essenzialmente interesse e opera di tutte le Chiese: questo è il Cristianesimo dell’assolutezza o dell’aut-aut, della purezza e profondità dell’anima, della realtà storica e dell’ideale. […] Mentre Kierkegaard si volge soprattutto contro le Chiese, Gogarten si volge contro la cultura, contro le sue istanze sociali e le sue idee scientifiche, che sono tutte intellettualistiche o storicistiche (historisch)»56. Non è possibile in questa sede seguire analiticamente la controversia con Gogarten57, il cui rapporto con Kierkegaard – osserva Troeltsch – riguarda più un comune modo di sentire,

54. Ivi, p. 135. 55. Fr. Gogarten, Die Krisis unserer Kultur, cit., p. 121. 56. Ein Apfel vom Baume Kierkegaards, cit., p. 135. 57. Per un’analitica interpretazione della polemica Troeltsch-Gogarten rinvio alla terza e quarta parte del già citato saggio di H.-G. Drescher, Entwicklungsdenken und Glaubensentscheidung, pp. 95-106.

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una comune atmosfera, che non una condivisione che nasca da una vera e propria conoscenza del pensiero kierkegaardiano. Quanto alla interpretazione di Kierkegaard da parte di Troeltsch, in queste pagine si trovano alcune osservazioni interessanti. Troeltsch ricorda che con l’allontanarsi della venuta del regno la Chiesa dovette ben presto, già a partire da Paolo, stringere una serie di mediazioni con il mondo e contrarre il proprio messaggio più radicale nell’ascesi e nel monachesimo. Non solo la Chiesa cattolica, ma anche le Chiese riformate hanno imboccato questo «cammino di mediazione», non solo per le necessità della vita, ma anche per un ideale «proseguimento della fede nella creazione» e per un sentimento di solidarietà con «tutto ciò che è umano e naturale», che è fondato «nell’idea dell’amore di Gesù»58. Di conseguenza, il radicalismo evangelico è stato confinato nella fede di alcune sette o di piccoli gruppi. Ora, sottolinea Troeltsch, Kierkegaard «appartiene per provenienza e formazione» a questo ambito di religiosità propria delle sette, e ne riprende il tipo di spiritualità e il senso della vita nella pratica di un Cristianesimo interiore e individuale – un Cristianesimo «puramente personale e assolutamente radicale»59. L’attraversamento dell’esperienza estetico-artistica e l’acuto approfodimento psicologico lo hanno condotto agli estremi limiti dell’esperienza etica fino a compiere il salto nell’esperienza religiosa in cui si manifesta l’opposizione verso il mondo storico-culturale, verso l’etica umanistica, «insita nella sua essenza». D’altra parte, la sua resistenza di fronte all’insorgente lato positivo della religione lo ha spinto in un atteggiamento «sempre più eccessivo e amaro nella […] polemica verso i cristiani della mediazione, delle Chiese e del mondo, dopo che

58. Ein Apfel vom Baume Kierkegaards, cit., p. 136. 59. Ibidem.

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egli aveva appassionatamente combattuto le mediazioni tra Dio e mondo nella filosofia speculativa tedesca»60. Tagliando ogni nodo con i valori mondani, Kierkegard resta costretto nel radicale dualismo cristiano, esposto, nella «situazione assoluta», al giudizio di Dio e alla condanna del proprio sé: «In conclusione egli aveva soltanto più aspetti polemici e niente di positivo, rivolgendo a se stesso soltanto la condanna di sé che scaturisce dalla “situazione assoluta” di fronte a Dio»61. Un giudizio che sostanzialmente anticipa quello espresso su Gogarten. Certo, Troeltsch si rende conto che nel mondo moderno è sempre più difficile compiere le necessarie mediazioni che la Chiesa cattolica e le stesse Chiese protestanti hanno realizzato e il Cristianesimo è stato sempre di più portato a misurarsi con i problemi sociali, con la politica, con l’economia, con la scienza moderna, specialmente con il principio che sta alla base della cultura moderna: il principio dell’autonomia umana e della capacità di istituire un regnum hominis. Sicché di fronte all’esigenza di sempre nuove mediazioni, è comprensibile che si possa avvertire, come fa Gogarten, «la perdita dell’aut-aut radicale, del radicale dualismo cristiano», e si possa giungere a sciogliere, «proprio analogamente a Kierkegaard, il nodo al quale, per buoni motivi, millenni si erano annodati, che comunque nel mondo moderno è diventato aggrovigliato e al quale troppi, con mani oneste ma fragili, si sono annodati senza il presentimento della pericolosità e della difficoltà»62.

60. Ivi, p. 137. 61. Ibidem. 62. Cfr. Ivi, pp. 137-138.

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6. Esistenza e storia Una trattazione specifica della filosofia di Kierkegaard viene presentata da Troeltsch in Der Historismus und seine Probleme all’interno dell’amplissimo capitolo dedicato al «concetto di sviluppo storico» e alla «storia universale» e precisamente nel terzo paragrafo che tratta dell’«organologia della scuola storica tedesca». Assieme alle teorie di storici come von Humboldt, Savigny, Boeckh, Droysen viene ampiamente trattata la filosofia di Schelling come nucleo fondamentale del pensiero della Romantik e, come controcanto all’organologia e al Romanticismo vengono presentate le filosofie di Schopenhauer e di Kierkegaard. Scrive Troeltsch: «Per la comprensione del significato e la funzione del Romanticismo e dell’organologia per il pensiero storico, non è però sufficiente caratterizzarne i principali esponenti e mostrare l’influenza che hanno esercitato fino ad oggi. Per una completa comprensione […] è necessario tener conto anche dei due maggiori avversari di questo modo di pensare: Schopenhauer e Kierkegaard»63. Entrambi, pur essendo radicati nella cultura romantica, per vie diverse si propongono di imboccare «una via d’uscita […] dalla situazione romantica e dal suo storicismo intonato in senso estetico-panteistico»64. Della mentalità romantica Kierkegaard condivideva «la […] volontà di comprendere e sperimentare nella sua variegata ricchezza la vita spirituale», la disposizione a «descrivere e interpretare con finezza le situazioni psicologiche ed esistenziali […] ad avvertire l’infinita mobilità della vita, per quanto si sia poco immerso nell’ampia dimensione della storia»65.

63. Historismus, GS III, p. 307 (tr. it. cit., vol. II, p. 94). 64. Ivi, p. 311 (tr. it. cit., vol. II, p. 98). 65. Ibidem.

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L’interesse per la mentalità romantica – ricorda Troeltsch – si manifesta nella sua stessa tesi di dottorato dedicata appunto al concetto di ironia e in tutto «il primo periodo della sua vita [che] egli stesso ha definito come estetico, cioè romantico». Egli però per la sua educazione familiare di carattere religioso era portato a trascendere il piano dell’estetica e a cercare la verità e l’assoluto. Perciò in lui «l’idea metafisica romantica dell’individualità» si è trasformata nell’«interiorità radicalmente personale, che in un modo tutto proprio si spinge fino all’assoluto»66. E l’assoluto può essere raggiunto non mediante l’osservazione empirica e la scienza, e neppure mediante l’arte o l’esercizio della ragione, ma «soltanto per mezzo di un salto e di un atto della volontà, che richiede un’assoluta ed esclusiva dedizione»67. Poiché l’assoluto si lascia intuire nella storia, si può dire che anche Kierkegaard «resta ancora nel quadro dello storicismo»68. Ma una forma di storicismo che si distingue dalla filosofia della storia romantica, tanto dalla dialettica, quanto dall’organologia, cioè da ogni forma di pensiero che riporti l’individuale all’universale, l’esistenza all’essenza. Al contrario l’incontro con l’Assoluto, il salto, è l’atto di una decisione personale, che accade nell’attimo e che determina «la reale “esistenza”»: «si tratta di una creazione ex novo e di una posizione effettiva concreta, di una decisione del momento, a cui tutto è sempre rimesso di fronte all’universale»69. La pecularietà e la forza del pensiero di Kierkegaard stanno proprio nella rottura dello «sfondo panteistico del Romanticismo», nel dissolversi della metafisica di Dio «nell’irrazionalismo della decisione parados-

66. Ibidem (tr. it. cit., p. 99). 67. Ivi, p. 312 (tr. it. cit., p. 99). 68. Ibidem. 69. Ibidem.

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sale e della rivelazione che emergono dalle profondità della vita». E «questo – aggiunge Troeltsch – non era stato fatto neppure dall’ultimo Schelling, malgrado tutto il teismo che lo caratterizza». Si potrebbe pensare piuttosto «alla successiva idea di Bergson di una evoluzione creatrice, salvo che la creazione secondo Kierkegaard si deve spingere ad un più alto grado di irruzione verso l’interiorità dello spirito e dell’amore e ha il suo fondamento ultimo in un movimento della volontà divina d’amore che le viene incontro»70. La teoria della storia può certamente avvalersi della esperienza filosofica e teologica di Kierkegaard proprio in quanto le sue idee del «salto» e dell’immissione nella storia della «corrente tempestosa delle iniziative e creazioni personali ed irrazionali» richiamano l’attenzione su certe debolezze di ogni organologia e dei suoi effetti, educando «all’esistenziale e al realismo»71. Infine – come Troeltsch acutamente suggerisce riflettendo nel secondo capitolo di Der Historismus und seine Probleme sul concetto della sintesi culturale del presente – Kierkegaard, contestando «il panteistico sprofondamento» dell’individuale nella totalità compiuta dell’essere, dell’atto responsabile del singolo nella equivalenza di una legge universale, fa emergere il senso autentico del tempo storico nell’attimo del salto con il quale ci proiettiamo dal passato al futuro, con una decisione di cui ci assumiamo la responsabilità72.

70. Ivi, pp. 312-313 (tr. it. cit., p. 100). 71. Ivi, p. 313 (tr. it. cit., p. 100). 72. Ivi, p. 178 (tr. it. cit., vol. I, p. 207).

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II Troeltsch e Rickert. Una moderna filosofia della storia

1. La fondazione trascendentale della conoscenza storica Uno dei caratteri dell’etica contemporanea è certamente costituito dalla centralità che ha in essa la considerazione, che è insieme presa d’atto e giustificazione, della pluralità e della diversità dei sistemi di norme e valori, della loro relatività, spinta fino a mettere radicalmente in questione la stessa fondabilità delle norme e dei valori1. Questa situazione di insicurezza emerge già tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento come «anarchia delle concezioni del mondo e dei valori» (Dilthey) o «politeismo dei valori» (Weber) – espressioni che scaturiscono dall’affermarsi ed espandersi della “coscienza storica” e dell’analisi sociologica – o, in una prospettiva più radicale, come nichilismo risultante dalla Kulturkritik e in particolare dalla filosofia nietzcheana. Corrisponde certamente a questa situazione e alla crescente consapevolezza dell’intima connessione nella condizione umana di vita e valutazione, il particolare rilievo che assume in quel periodo la riflessione sui valori e sulla loro fondabilità. Di fronte alla crisi delle forme 1. Cfr. P. Piovani, Etica, Estratto dal volume II dell’Enciclopedia del Novecento, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1977, p. 1.

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tradizionali di fondazione tanto teologiche quanto metafisiche una via d’uscita apparve presentarsi in un “ritorno a Kant”, ovvero alla riflessione critico-trascendentale sulle strutture dell’esperienza nelle sue varie regioni, che al tempo stesso era in grado di evitare il disperdimento soggettivistico dell’analisi psicologica empirica. Come osserva Troeltsch, in uno scritto del 1909 Zur Frage des religiösen Apriori, il merito e la funzione più importante della filosofia critica risiedono innanzi tutto «nella distinzione e nell’affermazione dell’apriori di fronte al mero psicologismo», nella dimostrazione dell’«autonomia della ragione» – «intesa come la forza che lavora a partire dall’incondizionato e dall’unitario» – «di fronte alla mera causalità fisica e psicologica e di fronte al relativismo pragmatico»2. La filosofia trascendentale, specialmente nella sua formulazione rickertiana, appare quindi a Troeltsch come un necessario punto di svolta oltre l’analisi psicologica dell’esperienza della coscienza. In essa, infatti, il principio dell’immanenza della coscienza viene sottratto al pericolo del solipsismo e dello psicologismo grazie alla distinzione logica tra «soggetto psicologico» e «soggetto teoretico-conoscitivo» o trascendentale3. A questo riguardo, nella prefazione alla seconda edizione di Der Gegenstand der Erkenntnis del 1904 Rickert scrive: «Sono tra-

2. E. Troeltsch, Zur Frage des religiösen Apriori, GS II, pp. 763 e 762 (tr. it. cit., pp. 214 e 213). 3. E. Troeltsch, Moderne Geschichtsphilosophie (1903), GS II, p. 684, cfr. p. 687 (tr. it. di G. Cantillo in E. Troeltsch, Religione, etica, filosofia della storia, cit., pp. 346-347, cfr. p. 349). Il saggio, nato come recensione a Die Grenzen di Rickert, apparve originariamente nel 1903 in «Theologische Rundschau», 6, pp. 3-28, 57-72, e fu ripubblicato con qualche variazione in GS II, pp. 673-728. – Nella traduzione resi “erkenntnis-theoretische Subject” con “soggetto epistemico”, ma successivamente mi è sembrato preferibile tradurre “soggetto teoretico-conoscitivo” – anche rispetto a “soggetto gnoseologico” – per mantenere il riferimento alla “teoria della conoscenza” nel peculiare significato che ad essa viene dato da Rickert.

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scorsi cento anni dalla morte di Kant e tuttavia in Germania la maggior parte delle ricerche filosofiche si muovono ancora in direzione dello psicologismo e della metafisica. Ciò dimostra che noi siamo ancora agli inizi del movimento prodotto dalla filosofia kantiana e che non si è ancora compreso in che cosa l’analisi e la fondazione dei presupposti logici della conoscenza impostate da Kant si distinguono dalla psicologia o dalla metafisica [...]. Il mio scritto sostiene la convinzione che soltanto nella teoria della conoscenza si può trovare la base per una filosofia scientifica e cerca di mostrare questo mediante la fondazione teoretico-conoscitiva (erkenntnistheoretische) della dottrina del primato della ragione pratica determinante per la nostra “visione del mondo”»4. Inoltre, rispetto alle configurazioni iniziali del “ritorno a Kant”, la Geltungsphilosophie windelbandiano-rickertiana non restringe la riflessione critica alla teoria della conoscenza, ma la estende all’intero ambito dell’esperienza. Il suo punto di volta è il riconoscimento della relazione costitutiva tra soggetto trascendentale «rappresentante» e soggetto trascendentale «valutante». Attraverso questa relazione la critica si amplia in una «filosofia della cultura», cioè in una conoscenza trascendentale delle condizioni di validità di ogni regione della vita culturale e della loro connessione nell’unità della cultura5. Tramite il riferimento a valori «teoretici» e «ateoretici» trovano la propria legittimazione e fondazione critica anche le esperienze non conoscitive della vita – dall’esperienza etica a quella religiosa, a quella estetica – e a tali valori può essere riportato il mon-

4. H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis, Tübingen, Mohr, 1904 2a ed., pp. V-VI (di Der Gegenstand der Erkenntnis nella edizione citata è in corso la traduzione italiana a cura di A. Donise e G. Cantillo presso l’editore Guida di Napoli). 5. Cfr. W. Windelband, Präludien, Bd. 1, Mohr, Tübingen 1921, 7-8 ed., pp. 274-275.

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do storico come ai principi conferenti senso e significato alle vicende e alle azioni degli uomini singoli e delle comunità. In Der Gegenstand der Erkenntnis Rickert conclude la sua ricerca affermando: «Anche se accanto alla filosofia trascendentale non può sussistere più una metafisica come scienza, malgrado ciò, nella filosofia si danno ancora altri problemi oltre quelli relativi alla teoria della conoscenza, e questi problemi, al pari di quelli trattati in questo libro, sono problemi concernenti i valori (Wertprobleme)»6. Altrettanto nella prefazione alla prima edizione di Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung egli aveva precisato che «la teoria logica» non era conclusa in se stessa ma «[era] al servizio della lotta contro il naturalismo e della fondazione di una filosofia idealistica orientata verso la storia»7. Il problema principale che si è posto con lo straordinario sviluppo delle scienze esatte ed empiriche, dei saperi positivi, è stato quello di rivendicare un’autonomia della vita storica, sempre individuata, irriducibile entro un sistema di leggi generali e una rete di relazioni causali e quantitative, di riconoscere quindi – come osserva Troeltsch nell’ampio saggio-recensione a Die Grenzen, Moderne Geschichtsphilosophie – «la specificità del mondo storico rispetto alla natura, e però di non consegnare con ciò il mondo storico all’anarchia dei valori, ma di riferirlo invece ad un ideale sistema di valori»8. Di fronte

6. H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., p. 244. 7. H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung. Eine logische Einleitung in die historischen Wissenschaften, cit., p. IV (tr. it. I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale. Una introduzione logica alle scienze storiche, cit., p. 1). 8. Cfr. Moderne Geschichtsphilosophie, GS II, pp. 676, 678-679 (tr. it. cit., pp. 338, 340-341). Il saggio, nato come recensione a Die Grenzen di Rickert, apparve originariamente nel 1903 in «Theologische Rundschau», 6, pp. 328, 57-72, e fu ripubblicato con qualche variazione in GS II, pp. 673-728.

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a questo problema Rickert sembra indicare la via più giusta per affrontarlo, perché è convinto di dover tenere insieme la prospettiva sull’intero, e quindi la filosofia della storia, con la consapevolezza dei principi e della forme della storiografia. Se è vero, infatti, che la ricerca del senso della storia esige «il riferimento della storia ad un sistema di valori», la soluzione dev’essere cercata muovendo dalla stessa storia empirica, cioè dalla «comprensione del metodo e dell’essenza della ricerca storica empirica», e quindi attraverso il nesso – che caratterizza appunto la ricerca di Rickert – tra «la logica della storia empirica» e «i problemi di filosofia della storia relativi al sistema di valori oggettivamente validi»9. Se il «nucleo centrale» della «filosofia scientifica» non può essere più la metafisica, ma la dottrina della scienza, ovvero se l’esercizio del filosofare consiste nella riflessione critica «sulla struttura universale del nostro conoscere, sul significato e il rapporto dei metodi e sulla relazione delle singole scienze con i problemi della visione del mondo»10, allora la filosofia della storia come teoria dei principi della vita storica, come teoria dei valori culturali, deve radicarsi nella stessa «metodologia dell’indagine empirica della storia», essere cioè richiesta dalla posizione di problemi che nascono dalla stessa «logica della storia». Da questo punto di vista «l’aspetto più importante della filosofia della storia di Rickert è costituito appunto dal fatto che essa si sviluppa direttamente dalla sua metodologia della scienza storica empirica ed è connessa proprio con le caratteristiche della vera e propria storiografia documentaria». Solo così la filosofia della storia può cessare di produrre costruzioni a priori destinate inevitabilmente a naufragare di-

9. Cfr. Moderne Geschichtsphilosophie, GS II, pp. 679, 697 (tr. it. cit., pp. 341, 360). 10. Cfr. Ivi, p. 677 (tr. it. cit., p. 339).

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nanzi «alla ricchezza della storiografia concreta»11. Al tempo stesso, la connessione tra logica della storia e filosofia della storia implica anche il superamento della divaricazione kantiana tra l’elemento storico, puramente fenomenico e sottoposto alla legalità naturale, e l’elemento razionale, normativo, universalmente-valido12, la divaricazione quindi tra storia ed etica, istituendo invece «tra storia e sistema dei valori un fecondo rapporto reciproco, in cui ognuno dei termini è rafforzato dall’altro, ma nessuno dei due è assorbito nell’altro»13. Il criticismo kantiano viene ad essere liberato volta a volta dal monismo metodologico scientifico-naturale, fondato sulla matematizzazione del reale, e indotto a produrre una riflessione trascendentale adeguata alla vita storica e spirituale e perciò in grado di fondare la peculiare scientificità delle scienze storiche e più in generale delle scienze dello spirito. La storia, nella prospettiva di Wildelband e Rickert, viene riferita «ad un’etica che include sì formalmente l’idea del fine ultimo, ma determina poi il contenuto di questo fine esclusivamente in base alla storia»14, conservando così i suoi caratteri di individualità, di creatività, di apertura al novum, di contingenza mai completamente razionalizzabile. Fondata sulla distinzione, già anticipata da Windelband, tra conoscenza nomotetica o generalizzante e conoscenza idiografica o individualizzante, tra concettualizzazione scientifico-naturale e concettualizzazione storica, così come sulla distinzione tra ciò che è essenziale o non essenziale per la determinazione dell’oggetto, la concezione che Rickert delinea della Historie

11. Cfr. Ivi, pp. 716-717 (tr. it. cit., pp. 379-380). 12. Cfr. Das Historische in Kants Religionsphilosophie, cit., pp. 46-57, 102, 137-138. 13. Moderne Geschichtsphilosophie, GS II, p. 715 (tr. it. cit., p. 378). 14. Ivi, p. 714 (tr. it. cit., p. 377).

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riconosce come suo obiettivo quello di organizzare «il molteplice qualitativo», il «mero fattuale, unico, particolare», non riducibile all’universale generico, non sussumibile sotto leggi generali, e in questo senso «irrazionale». Anch’essa, certo, forma concetti e giudizi, ma il «principio di organizzazione» di tali concetti e giudizi universalmente validi non può essere costituito da un «concetto di legge», bensì soltanto dal «concetto di ciò che tiene insieme una serie di singoli eventi connettendoli in un unico intero, individuale e indivisibile», cioè dal «concetto del valore che essi hanno per la coscienza umana che di volta in volta li realizza»15. Gli oggetti storici, conformemente alla determinazione rickertiana, si costituiscono, quindi, come individuali «totalità di valore», connessione di eventi in base ad una «Beziehung auf Werte», rispetto a cui, sul piano della storia empirica, deve restare fuori gioco la valutazione dello storico, che si limita a descrivere «questi nessi di valore di fatto esistenti». Il flusso degli eventi viene raccolto, così, intorno a «centri»16, a «complessi di valore», ai quali di volta in volta si sono riferiti determinati uomini e gruppi sociali, in situazioni determinate e individuate, per organizzare la loro realtà, per dare senso alle loro azioni, alla loro esistenza. Questi complessi di valore, però, non sono statici, né irrelati, ma si sviluppano e entrano in relazioni reciproche, scontrandosi e intrecciandosi, modificandosi e creando nuovi complessi di valore. In questo modo accanto alla categoria «direttiva» della individualità si dispone anche la categoria di sviluppo, si potrebbe dire il concetto-limite «di

15. Ivi, pp. 691-692 (tr. it. cit., pp. 353-354). 16. Sul concetto di “historisches Zentrum” si veda il saggio di E. Massimilla, Max Weber e il concetto rickertiano di “centro storico”, in Metodologia, teoria della conoscenza, filosofia dei valori: Heinrich Rickert e il suo tempo, a cura di A. Donise, A. Giugliano, E. Massimilla, Quaderni dell’«Archivio di storia della cultura», N.S. n. 8, Liguori, Napoli 2015, pp. 87-114.

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uno sviluppo che lega tutti i singoli fatti in una catena di formazioni assiologiche»17. Ma con il concetto di sviluppo, che in Rickert non implica, però, l’idea di progresso18, si presenta necessariamente l’esigenza di una “visione d’insieme” dello svolgimento storico, che esige, come ha messo in rilievo Troeltsch, «il riferimento degli effettivi valori storici ad un sistema di valori che deve (sollendes) valere»19, sicché la logica della storia, ovvero la metodologia della storia empirica, si trova da se stessa condotta dinanzi «al problema filosofico della storia in senso stretto»20, al rapporto tra storia e norme e al circolo che lo caratterizza. La riflessione trascendentale, infatti, accerta sì le condizioni a priori, universalmente valide, che rendono possibili le diverse regioni della vita spirituale e del mondo della cultura, ma può farlo solo in rapporto all’esperienza, quindi in rapporto alla storia. In ogni caso, essa non può dedurre dai valori formali della «coscienza überhaupt» la loro individuata realizzazione, il loro contenuto ogni volta determinato psicologicamente e storicamente. Dal punto di vista del contenuto e dei valori come realtà concrete della vita, è possibile orientarsi solo attraverso la ricostruzione storica del loro sviluppo, attraverso «una ricapitolazione di ciò che è stato storicamente acquisito»21. Il problema del circolo tra storia e norme rinvia ad un problema più generale insito nella filosofia trascendentale che è quello 17. Moderne Geschichtsphilosophie, GS II, pp. 692-693 (tr. it. cit., pp. 354355). Cfr. H. Rickert, Die Grenzen, 1a ed., cit., pp. 145-146, 150-151, 248256, 302-316, 356-359, 364-385, 465-468, 629-642 (tr. it. cit., pp. 80, 82-83, 135-139, 162-171, 192-193, 195-203, 248-250, 334-341). 18. Cfr. H. Rickert, Die Grenzen, 1a ed., cit., pp. 20, 465-468, 650-651 (tr. it. cit., pp. 14, 248-250, 345-346). 19. Moderne Geschichtsphilosophie, GS II, p. 700 (tr. it. cit., p. 363). 20. Ivi, p. 701 (tr. it. cit., p. 364). 21. Ivi, p. 694 (tr. it. cit., p. 357).

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del rapporto tra soggetto psicologico e soggetto teoretico-conoscitivo, tra coscienza empirica e coscienza normativa. In quanto appartiene al soggetto teoretico-conoscitivo, trascendentale, «inoggettivabile» (secondo la già ricordata distinzione rickertiana di Der Gegenstand der Erkenntnis tra soggetto psico-fisico, soggetto psicologico e soggetto trascendentale o teoretico-conoscitivo), l’universalmente valido, il valore, il dover essere, in relazione al quale si definisce la possibilità dell’oggetto storico in quanto al suo centro vi è un riferimento a valore, è e non può non essere formale. Viceversa «l’intero contenuto del pensiero e della posizione di scopi proviene dall’esperienza e dal soggetto psicologico, con la sua corrente in cui scorre la molteplicità del reale»22. Così, anche da questo lato ci si trova dinanzi ad un circolo, che si mostra però insito nella struttura trascendentale della coscienza, e costituisce, anzi, «il fatto fondamentale della nostra vita spirituale», «l’enigma originario di tutta la realtà e di tutto l’umano»23. Proprio questo circolo – tra l’individuale e l’universale, il contingente e il necessario, l’empirico e il razionale, il fatto e il valore, l’essere e il dover-essere – che continuamente tende a spezzarsi, a risolversi, senza peraltro mai pervenire a una risoluzione definitiva, è ciò che esprime tanto la finitezza dell’uomo, quanto la sua dignità, la sua libertà. Ed è esso che conferisce alla storia il suo carattere di individualità e irripetibilità, quella sua peculiare «irrazionalità», in cui consiste «la superiorità della vita e della realtà di fronte all’astrazione, il valore etico dell’azione»24, che di volta in volta spezza il circolo sempre in modo originale e irripetibile.

22. Ivi, p. 708 (tr. it. cit., p. 371). 23. Ivi, p. 709 (tr. it. cit., p. 372). 24. Ivi, p. 710 (tr. it. cit., p. 373).

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Il compito che l’uomo può criticamente assegnarsi, nella sua aspirazione all’universalmente valido, al valore, non può mai essere quello di eliminare l’individualità e la soggettività del giudizio e della valutazione, della decisione, ma quello «di giudicare su una base più ampia possibile, di garantire la continuità del già acquisito, e di decidere in base ad una comparazione». Di qui l’importanza della storia, l’«interesse» per la storia. È proprio l’apriorica tensione della coscienza verso il valore e la sua realizzazione nella vita, commenta Troeltsch, «il motivo che ci spinge alla storia e costituisce ad un tempo il principio di organizzazione del suo metodo». Senza questo costitutivo «interesse» non avrebbe senso rivivere «le valutazioni passate di altri», anzi non sarebbe neppur possibile riviverle. La conoscenza storica si rivolge al passato, ma in vista dell’agire nel presente e per il futuro: essa arricchisce e amplia l’orizzonte di esperienza del soggetto, spezza la sua chiusura egocentrica, lo mette al riparo dalla casualità e dall’arbitrarietà del giudizio e della decisione, dall’immediatezza degli interessi della mera vita pratica. E questa funzione della storia, fondata in ultima istanza nella struttura trascendentale della coscienza, nel circolo tra soggetto trascendentale e soggetto psicologico, è possibile anche perché, come Troeltsch sottolinea riprendendo «un’idea» che in Rickert troverà un più ampio sviluppo in Grundprobleme der Philosophie, le formazioni di valore individuali non sono semplicemente antagonistiche o tra loro irrelate, ma «si integrano, invece, in un contesto storico che nella dimensione strutturale mostra una pluralità di formazioni analoghe e nella successione presenta uno svolgimento, un perfezionamento che sviluppa e valorizza di nuovo le soluzioni precedenti»25.

25. Ivi, pp. 712, 694, 711 (tr. it. cit., pp. 375, 357, 374).

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2. Il soggettivismo teoretico-conoscitivo e la visione del mondo storica In Die Grenzen, nell’ultimo capitolo, Rickert discute ampiamente la possibilità di una considerazione scientifico-naturale del corso storico, specialmente attraverso l’ipotesi di applicare alla storia la teoria dell’evoluzione. La conclusione della sua articolata argomentazione è che se «le leggi generali dell’evoluzione sono realmente leggi di natura […] non possono essere punti di vista che orientano la selezione della materia nella rappresentazione di serie evolutive particolari». Per poter orientare tale selezione dovrebbero essere effettivi «principi di valore», ma allora non sarebbero leggi di natura, cioè non sarebbero affatto leggi, ma rientrerebbero nell’ambito di ciò che è storico26. Infatti una legge generale dell’evoluzione non può essere il criterio per distinguere l’essenziale e il non essenziale nei fatti storici individuali. Altrettanto se si considera l’evoluzione come perfezionamento, come progresso, il suo carattere di legge naturale non potrebbe in nessun modo riconoscere il valore dei «diversi stadi dell’evoluzione, che diverrebbero esemplari di genere di una serie di concetti generali, ordinati secondo il principio di un adattamento sempre maggiore, e non resterebbe nulla della loro peculiarità di individui storici». Perché le leggi dell’evoluzione possano essere considerate come principi di valore, come «valori naturali», si dovrebbe provare che «l’adattamento naturale sia anche un perfezionamento»27. Una ipotesi che Rickert ritiene insostenibile proprio dal punto di vista scientifico-naturale che non ammette l’orientamento teleologico che è implicito nel concetto di perfezionamento. In realtà, conclude Rickert, «ogni fede 26. Cfr. H. Rickert, Die Grenzen, 1a ed., cit., pp. 612-613 (tr. it. cit., pp. 325-326). Per le citazioni da Die Grenzen ho seguito l’ottima traduzione di Catarzi, salvo qualche piccola modifica. 27. Cfr. ivi, pp. 615-616 (tr. it. cit., p. 327).

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in un “progresso naturale” e nei “valori naturali” si fonda su di un antropomorfismo che, dal punto di vista scientifico-naturale, è del tutto ingiustificato»28. Il principio della selezione naturale non può essere scambiato per un principio di valore. Anche se ci spostiamo dal modello biologico a quello psicologico o a quello sociologico, l’atteggiamento naturalistico non appare in grado di produrre una filosofia della storia, una visione d’insieme del processo storico. Il discrimine tra storia e scienza della natura è non tanto l’orientamento idiografico dell’una e nomotetico dell’altra, quanto il riferimento a valori che è essenziale per la storia, mentre non ha posto nelle scienze naturali. Rickert afferma nettamente che la scienza della natura costituisce oggetti che sono esemplari di concetti generali, tra loro equivalenti e sostituibili, mentre la storia ha bisogno di valori per distinguere ciò che è essenziale da ciò che è inessenziale. La natura di cui parla Goethe è certamente altra cosa, è piena di valore, ma si tratta della risonanza della natura nella sensibilità umana, è la natura in relazione all’uomo, ai suoi sentimenti. «Noi sosteniamo quindi che solo il concetto di natura elaborato dalla scienza moderna debba essere pensato come totalmente privo di valori, e vogliamo dire che la concezione della realtà come un ritmo conforme alla legge naturale è connessa con la rinuncia ad ogni tentativo di determinare il senso dell’evoluzione unica[, individuale, irripetibile]. Il mondo come natura diviene una ciclicità priva di senso. Così, con l’idea di una filosofia naturalistica della storia si ripresentano a noi i limiti dell’elaborazione concettuale scientificonaturale. Il concetto di natura esclude quello di sviluppo storico, e non solo una storiografia scientifico-naturale, ma anche una filosofia naturalistica della storia è [come] un ferro di legno»29. Ma proprio perché l’atteggiamento scientifico-natu28. Ivi, p. 619 (tr. it. cit., p. 329). 29. Ivi, pp. 623-624 (tr. it. cit., p. 331).

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rale non ammette riferimenti a valori, il punto di vista scientifico-naturale non ha nessuna legittimazione a negare la validità scientifica di altri ambiti della conoscenza, come per esempio la storia. «Dal punto di vista scientifico-naturale, non si può legittimare l’oggettività scientifica della storia, ma neppure sollevare fondate obiezioni contro di essa»30. Se si assume il punto di vista della «pura esperienza» si vede che sono gli atteggiamenti del soggetto conoscente che decidono ciò che è essenziale o non essenziale in un ambito di oggetti, nella natura o nella storia. Per quanto riguarda la storia, «una rappresentazione storica puramente scientifica» è quella che pone i propri oggetti in relazione a valori culturali, in cui si esprime una concezione della realtà condivisa da tutti i possibili partecipanti a una cerchia o comunità la più ampia possibile e tuttavia mai coincidente con l’universalità31. Da un certo punto di vista si può dire che proprio la storia sia «la vera scienza di esperienza», perché i suoi concetti individuali e i criteri della loro elaborazione, i valori, sono più vicini alla realtà, all’esperienza vissuta; ma si tratta, appunto, di esperienza vissuta, non di empirismo. Non vi può essere infatti generalizzazione, astrazione, costruzione di concetti di legge: «chi vuol conoscere il passato nel suo svolgimento unico e individuale, può coglierlo solo in concetti con contenuto individuale, i cui elementi si compongono in una unità teleologica rispetto a un valore», procedendo nel senso di una specifica elaborazione scientifica, la cui «oggettività […] l’empirismo non può confutare»32. Rickert, d’altra parte, critica anche una prospettiva gnoseologica puramente descrittiva che pretenderebbe di afferrare la realtà nella pura esperienza, al di qua di ogni mediazione o trasformazione concettuale; così come una prospet30. Ivi, p. 626 (tr. it. cit., p. 332). 31. Cfr. ivi, p. 634 Anmerkung (tr. it. cit., p. 337, nota). 32. Ivi, p. 636 (tr. it. cit., p. 338).

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tiva metafisica che pretenderebbe di conoscere la realtà in sé: «bisogna abbandonare definitivamente il concetto di un’oggettività scientifica che si fondi sulla riproduzione della “vera realtà”. Questo ideale è per principio irraggiungibile e può condurre solo allo scetticismo»33. La validità della scienza, sia della scienza naturale sia della storia, non può dipendere quindi che dall’attività del soggetto conoscente che conferisce una forma alla materia, al molteplice eterogeneo. Si può indicare perciò come soggettivismo teoretico-conoscitivo la prospettiva che secondo Rickert garantisce la validità dell’oggettività scientifica sia nell’ambito delle scienze naturali che in quello della storia. Il mondo fenomenico che si presenta al soggetto psicologico si svela come il mondo dell’“essere assoluto” in quanto oggetto della coscienza in generale, del soggetto trascendentale, che, però, non è solo soggetto sovraindividuale della rappresentazione, ma è anche soggetto sovraindividuale che giudica e valuta. Senza il riconoscimento del valore di verità, ovvero senza il sentimento dell’evidenza34 che fonda il giudizio di verità, non vi sarebbe nessuna oggettività scientifica. La verità è altrettanto un valore quanto il bene o il bello o il sacro. Il soggetto teoretico-conoscitivo è insieme un soggetto che valuta, e questo valutare scaturisce dalla volontà che avverte il dovere di aderire ai valori che le si presentano con assoluta evidenza e imperatività. Di qui il primato della volontà: «solo nella volontà che riconosce il dovere (Sollen) come fine a se stesso possiamo cogliere il fondamento ultimo della conoscenza, per il quale non è più possibile una fondazione». Questo vuol dire che «la volontà cosciente del dovere, e quindi “pratica”, precede concettualmente la volontà logica, ossia

33. Ivi, p. 660 (tr. it. cit., p. 350). 34. Sul “sentimento dell’evidenza” si veda H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., pp. 110-116.

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la volontà di verità»35. Affermando il primato della volontà “pratica”, Rickert pone la volontà autonoma che vuole il dovere come il valore assoluto, fondamento e generatore d’ogni altro valore: «Non è […] il valore della verità che fonda il valore della coscienza del dovere, ma al contrario il valore della verità è fondato sul dovere – sulla volontà che riconosce il dovere, il dover essere, e tutto il pensiero logico è sorretto da una volontà sovra-logica»36. Si tratta in effetti di un ultimo fondamento ontologico-formale in cui sono fondati tutti i valori normativamente universali, tanto teoretici che ateoretici, tutti i valori culturali, che solo la storia, anzi – adoperando un concetto di Troeltsch – una «filosofia materiale della storia», può definire dal punto di vista dei contenuti. Di fronte all’incombente nichilismo, alla crisi di valori determinata dalla pretesa assoluta del punto di vista scientificonaturale privo di valori, con Rickert si può quindi affermare che nella nostra finitezza di uomini «noi non sappiamo quale senso, determinato nei contenuti, abbia l’evoluzione della vita culturale dell’uomo, e forse non lo sapremo mai. Ma che essa in generale abbia un senso, ci è garantito, con estrema certezza, dal valore assoluto della volontà cosciente del dovere, perché questo valore è anche il presupposto della conoscenza. Quindi, per quanto questa certezza possa essere solo formale, è tuttavia sufficiente a farci ritenere la concezione storica del mondo altrettanto necessaria di quella scientifico-naturale»37. La visione del mondo storica è costruita sulla base della messa in evidenza di oggetti dotati di senso e significato e perciò comprensibili, che scaturiscono dal riferimento a valori e sono gli oggetti costituenti il mondo della cultura o mondo storico.

35. H. Rickert, Die Grenzen, 1a ed., cit., p. 698 (tr. it. cit., p. 370). 36. Ivi, p. 700 (tr. it. cit., p. 371). 37. Ivi, p. 703 (tr. it. cit., p. 373).

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Mentre gli oggetti che sono immediatamente privi di senso e di significato, puramente percettibili e non comprensibili costituiscono il mondo della natura: in sé privi di riferimenti a valori acquistano significato solo in quanto elaborati dalle categorie della conoscenza scientifico-naturale, a cui fondamento vi è il riferimento al valore della verità. 3. Il regno dei valori In Grundprobleme der Philosophie del 1934 Rickert, ponendo la domanda intorno all’ente, la domanda ontologica, muove dalla immediata esperienza della distinzione tra l’essere corporeo e l’essere psichico e rivendica l’autonomia della vita psichica rispetto al riduzionismo meccanicistico e organicistico. Mette poi in evidenza che oltre i due regni del corpo e dell’anima, della res extensa e della res cogitans, si dà nell’esperienza un terzo regno, che abitualmente viene indicato come la dimensione dello spirito. Ma Rickert preferisce non adoperare il termine spirito, che include in sé già un concetto di valore, indicando una dimensione superiore della vita, mentre l’ontologia dev’essere il più possibile descrittiva, non valutativa. Questa terza dimensione dell’essere può essere invece definita proprio come la dimensione dei valori, il regno dei valori. Questa dimensione dell’essere o, come Rickert dice, il terzo tipo di ente (Seienden)38, si lascia identificare in primo luogo attraverso l’esperienza del senso e del significato, che

38. Cfr. H. Rickert, Grundprobleme der Philosophie. Methodologie – Ontologie – Anthropologie, Mohr, Tübingen 1934, pp. 77-78. Sul concetto di valore in Rickert si veda il saggio di Anna Donise, Fenomenologia e genesi del concetto di valore, in Metodologia, teoria della conoscenza, filosofia dei valori: Rickert e il suo tempo, cit., pp. 27-48. Sulla teoria del soggetto in Rickert cfr. A. Donise, Il soggetto e l’evidenza. Saggio su Heinrich Rickert, Loffredo, Napoli 2002.

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si presentano già nell’analisi del mondo sensibile distinto in mondo corporeo e in mondo psichico: vi sono stati dell’uno e dell’altro tipo di ente che hanno senso o significato. Una dimensione che si manifesta nel linguaggio, anzi nei vari tipi di linguaggio, di espressione, e che si può indicare come la dimensione dell’essere comprensibile, non solo percepibile o rappresentabile, ma oggetto di comprensione, di riferimento a un centro unificante dentro un circolo che stringe assieme le parti e l’intero. Una prima determinazione dell’essere comprensibile è di carattere negativo. Tutto l’essere corporeo e psichico noi – scrive Rickert – lo definiamo come «sensibile», e parliamo di un «mondo sensibile», separando anche un «senso esterno» da un «senso interno», cioè la vita dei corpi dalla vita psichica, includendo nel senso interno anche i sentimenti, le volizioni. Rispetto a questa dimensione, dichiariamo invece come non sensibili (unsinnlich) i significati, gli oggetti della nostra comprensione, ed anche il senso delle nostre azioni, dei nostri atteggiamenti che afferriamo nel verstehen39. Si tratta della distinzione platonica dell’aisthetón dal noetón, della messa in luce di una terza dimensione oltre quella sensibile corporea e sensibile psichica, che può essere indicata come «mundus intelligibilis»40, che non è sottoposto al mutamento, non scorre nel tempo: «il significato della parola “verde” non si muta mai in quello della parola “marrone”. Quel che noi intendiamo con le due parole resta separato e immutato». E questo, osserva Rickert, è valido anche se la parola riceve un nuovo significato, che si aggiunge, ma non modifica il precedente41.

39. Cfr. ivi, p. 81. 40. Contrapponendolo al mondo sensibile fisico e psichico, Rickert parla del «dualismo del mondo dell’esperienza», cfr. ivi, pp. 92 ss. 41. Cfr. ivi, pp. 80-82.

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Tuttavia va considerato che in concreto il significato di una parola, il suo senso, così come il senso di una proposizione, o di un insieme di proposizioni si definiscono in relazione con altre parole, con altre proposizioni, cioè in relazione con l’intero. La dimensione del mundus intelligibilis è caratterizzato infatti dalla relazione intero-parti, proprio come accade nel linguaggio. Gli oggetti della comprensione non sono mai atomi, ma sempre «membri» (Glieder), parti viventi nel tutto. E inoltre essi non nascono, non sorgono, e non passano: «È impossibile, scrive Rickert, dire di un intelligibile che esso è sorto una volta nel tempo e una volta di nuovo passerà. Questo modo di essere sussiste solo per la proposizione esteriore percepibile, attraverso cui l’intelligibile, il senso, viene espresso, e per l’atto psichico con il quale esso viene compreso, non per la formazione-di-senso in quanto tale […] una verità non cessa di essere vera e intemporale, per il fatto che non venga appresa»42. Una caratteristica fondamentale del mundus intelligibilis è il riferimento al valore, il legame tra il senso teoretico, conoscitivo, e il valore. In che modo si presenta questo legame che fa emergere la presenza ontologica del valore? Gli uomini – osserva Rickert – aspirano a comprendere il senso delle cose, a conoscere la verità, e al tempo stesso a non cadere nell’errore, a non incorrere nella falsità. Ma perché cerchiamo la verità o qualsiasi altro bene? evidentemente perché essa ha per noi un valore, e al contrario vogliamo evitare il falso perché è per noi un disvalore. «Da ciò risulta chiaramente quanto segue: verità e falsità sono per gli scienziati una coppia di valori, anzi una opposizione di valori, così come per altri uomini lo sono per es. piacere e dolore, bene e male, bello e brutto. In tutti questi casi si presenta un lato che deve-essere (sein soll) perché ha

42. Ivi, p. 84.

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un valore positivo, mentre l’altro lato non deve essere perché è nemico del valore, è il contrario del valore»43. E Rickert aggiunge a questo punto una precisazione importante che conferma la dimensione ontologica del valore, dei valori: «Con le formazioni di senso teoreticamente comprese noi non solo perveniamo nel territorio di ciò che non è sensibile ed è intemporale, ma ad un tempo ci imbattiamo in un ente, in un essere, che si distingue da ogni realtà semplicemente psico-fisica anche mediante il suo carattere di valore e l’opposizione di valore/disvalore ad esso congiunta»44. C’è quindi, congiunta con quella teoretica, una dimensione ontologica in cui il valore è in sé indipendentemente dall’atto del soggetto, dell’individualità che valuta, una dimensione che si costituisce in un vero e proprio sistema di valori, che si manifesta nel mondo della cultura. Anche nei valori culturali emerge l’autonomia del mundus intelligibilis; nella massima misura questo accade con il valore della verità: «In altri casi si può dubitare del valere del valore posto in se stesso, indipendentemente dalla valutazione del soggetto, ma sul terreno teoretico il valore di verità, che compone unificandoli gli elementi di una totalità di senso, esclude ogni dubbio, e ci autorizza a parlare di un “mondo” teoreticamente comprensibile, che come totalità suprema rende tutti i suoi componenti dei “membri”»45. E – credo senza allontanarsi troppo dal dettato rickertiano – si può aggiungere che ciò accade perché il mondo intelligibile è in rapporto non al soggetto empirico o psicologico, ma al soggetto teoretico-conoscitivo o trascendentale, e quest’ultimo si relaziona non solo con l’ambito teoretico, conoscitivo, dell’esperienza, ma con le varie regioni di essa, dove sono all’opera i valori del bello, del bene, del sacro, che sembrano attraversare tutte le culture, ma 43. Ivi, p. 86. 44. Ibidem. 45. Cfr. ivi, p. 87.

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anche tutti i valori culturali che trovano in essi il loro fondamento. In questo senso si potrebbe pensare a un mondo dei valori che ontologicamente si affianca al mondo della realtà e per quanto possibile lo pervade nel mondo storico-culturale. «Così – scrive Rickert – ci troviamo dinanzi al compito di gettare luce sull’universo dei valori che sono a fondamento della totalità di senso che costituisce il mondo intelligibile, e la dottrina dell’essere comprensibile sfocia necessariamente in una filosofia dei valori»: il che comporta appunto la ricerca di un sistema di tutti i valori, che, al di là della frontiera che restringe il mondo intelligibile al territorio teoretico, si apre, come si è accennato, alla totalità dell’esperienza della coscienza. Questa conclusione di Rickert sarebbe stata condivisa da Troeltsch, se fosse stato possibile passare – per usare una terminologia diltheyana – dal principio dell’immanenza della coscienza al principio dell’Erlebnis, se cioè nell’esperienza della coscienza si fosse riconosciuto l’Erlebnis del rapporto del soggetto con altri soggetti come rapporto tra “esistenze” che non si risolvono semplicemente nell’“essere-per-altro”, nell’“essere per una coscienza”, ma sono ognuna un “essereper-sé”, che come tale si manifesta nelle sue azioni. Ma per Rickert, secondo Troeltsch, questo non è possibile. In Moderne Geschichtsphilosophie Troeltsch scrive: «Indubbiamente si deve riconoscere che rispetto al mondo fisico è possibile soltanto il punto di vista dell’immanenza della coscienza […] Ma le cose stanno diversamente rispetto ad un’altra vita spirituale […] Noi, infatti, non interpretiamo queste esperienze [di un’altra vita spirituale] soltanto a partire da noi stessi, ma al contrario molto spesso interpretiamo noi stessi a partire da queste esperienze. Inoltre, per quanto ciò possa essere incomprensibile, nel rapporto tra uomo e uomo si presuppone che lo stimolo e l’azione provenienti dall’altro costituiscano di fatto la manifestazione di una entità che non coincide con l’esperienza, si riconosce […] una realtà che non è semplicemente

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esperienza». L’Erlebnis dell’altro ci attesta che l’altro non si risolve in un contenuto di esperienza della coscienza che lo intenziona, ma che è per se stesso ed opera come una forza indipendente. «Questa visione – osserva Troeltsch – toglie alla storia quell’apparenza di un mondo di fantasmi che conserva anche in Rickert nella prospettiva della pura immanenza della coscienza»46. Altrettanto venti anni dopo, in Der Historismus und seine Probleme, osserva che per Rickert «ogni tentativo di raccogliere in un’unica visione essere e valore, sviluppo e realizzazione di senso, condurrebbe ai metodi intuitivi assolutamente antiscientifici e alla fusione di entrambi nell’oscuro concetto di vita […] Per Rickert, il concetto della vita è soltanto cattiva metafisica, che confonde quelle differenze»47. Ma con l’eliminazione del concetto di vita, così come con la chiusura verso ogni forma di metafisica e verso la psicologia, si elimina anche il concetto di sviluppo che per Troeltsch è essenziale per la comprensione della storia, sicché non c’è da meravigliarsi se «con il concetto di sviluppo, manchi anche ogni accenno del suo risultato naturale, ogni immagine del processo storico-universale. C’è un sistema universale di valori, ma non una storia universale»48. Nella recensione alla Psicologia delle visioni del mondo di Jaspers Rickert in un passo riportato da Troeltsch scrive: «Si può in generale “comprendere” il reale, se il comprendere è contrapposto allo “spiegare”? Noi non comprendiamo piuttosto solo formazioni irreali di valore e di senso?»49. Alla irrealtà del “regno dei valori”, Troeltsch contrappone la realtà del mondo storico nelle cui formazioni si dispiega il regno dei valori. Replicando alla critica dello stori46. Moderne Geschichtsphilosophie, GS II, p. 725 (tr. it. cit., p. 389). 47. Historismus, GS III, pp. 563-564 (tr. it. cit., vol. II, p. 333). 48. Ivi, p. 564 (tr. it. cit., p. 333). 49. H. Rickert, Psychologie der Weltanschauungen und Philosophie der Werte, «Logos», IX, p. 38, cit., in Historismus, GS III, p. 564, nota 307.

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cismo di Simmel, Troeltsch ne delinea il significato per lui autentico: «l’allargamento dell’esercizio storico ad uno sguardo comparativo, che abbraccia la storia, e la fondazione di tutte le istituzioni e di tutti i valori su un contenuto razionale presente nel divenire concreto»50.

50. Historismus, GS III, pp. 581-582 (tr. it. cit., vol. II, p. 350). Sul rapporto Troeltsch-Rickert, in relazione all’idea di storia universale, si veda l’analitica trattazione di Domenico Conte nel capitolo dedicato a Troeltsch in Storicismo e storia universale. Linee di una interpretazione, Liguori Editore 2000, pp.18-37. Cfr. A. Giugliano, Filosofia trascendentale dei valori, Lebensphilosophie e Historismus nel pensiero di H. Rickert, in Rickert tra storicismo e ontologia, a cura di M. Signore, Franco Angeli, Milano 1989.

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III Il tempo della storiografia nella tradizione storicistica. Croce, Troeltsch, Droysen

1. La contemporaneità della storia nello storicismo di Benedetto Croce Nel fondamentale libro del 1938, La storia come pensiero e come azione1, e in particolare nei primi capitoli della prima sezione, La storicità di un libro di storia e La verità di un libro di storia, Benedetto Croce si chiede come debba essere giudicato un libro di storia. Croce vi sostiene che, proprio essendo la storia la vera conoscenza, il libro di storia non deve essere per forza scritto bene dal punto di vista letterario. Se lo è, tanto meglio; ma non è questo che lo caratterizza come libro di storia. Non appartiene al compito precipuo della storia suscitare commozione, sentimenti, immaginazioni, com’è proprio dei drammi e dei romanzi. Un libro di storia può essere «freddo, difficile e faticoso», perfino «noioso»2. Altrettanto il libro di storia non può essere giudicato con il parametro della verità come riconduzione del particolare a leggi generali, cioè con il parametro della verità astratta, che non è realmente verità. Né

1. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, 3a ed., Laterza, Bari 1939. 2. Ivi, p. 3.

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lo si può giudicare «secondo la maggiore o minore copia ed esattezza delle notizie che offre»3. Per quanto l’esattezza sia «un dovere morale», e certamente sia preferibile che le notizie riportate in un libro di storia siano esatte, non è questo l’elemento specifico del conoscere storico e Croce distingue qui nettamente la storia dalla cronaca e dalla filologia: al «rame dei cronachisti» o al rame «ben lucidato dei filologi» egli contrappone l’«oro degli storici», sempre preferibile anche quando sia «avvolto in iscorie». Perché quel che conta, dal punto di vista del «pensiero storico», è che «il libro di storia [sia] la risposta ad un problema». È questa la tesi di fondo di Croce: il libro di storia rappresenta l’evidenziazione di un problema, di una connessione di problemi posti dalla realtà; è la risposta non immediata, ma conoscitiva a un bisogno, ad una serie di bisogni avvertiti dal soggetto concreto o meglio da una pluralità di soggetti concreti, da una comunità vivente, in un determinato momento, in una determinata situazione, in un determinato “presente”. Il conoscere storico è intimamente legato alla prassi da cui viene richiesto e a cui si rivolge per prepararne lo svolgimento ulteriore. Un’idea che era stata espressa efficacemente da Troeltsch nello scritto sull’essenza del Cristianesimo degli inizi del secolo: «Il senso della storia non consiste mai nel riprodurre un mondo passato semplicemente nel ricordo. Giacché, a parte che non sarebbe possibile, questa rievocazione sarebbe anche vuota ed inutile. La comprensione del presente in base al suo esser-divenuto; la visione d’insieme dell’esperienza del genere umano (o almeno della nostra area culturale o del nostro popolo) ancora attingibile da noi e colta nella sua struttura complessiva; l’educazione storica del nostro pensiero che da essa si sviluppa e le linee direttive per il futuro che grazie ad essa si possono tracciare: è questo il senso della

3. Ivi, p. 2.

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storia»4. Questo stesso atteggiamento verso il pensiero storico che unisce la considerazione del costitutivo nesso della conoscenza storica con l’azione, con la vita storica, e il riferimento originario di esso al presente, ai problemi del presente nel suo spingersi nel futuro, nelle res gerendae, si trova al cuore delle pagine crociane, a testimoniare uno storicismo che nella sua essenza più profonda e più vera non si lascia ingabbiare in una costruzione sistematica o in una teleologia obiettiva del processo storico. Uno storicismo che non vuole correre il rischio di un’assoluta relativizzazione, che si spinge fino «a negare la distinzione delle categorie del giudizio», a negare cioè le categorie come principi del mutamento stesso, in cui si esprime la storicità del reale e delle forme che di volta in volta, di tempo in tempo, le categorie stesse vengono assumendo. Le categorie nella loro materialità formale «non cangiano e neppure di quel cangiamento che si chiama arricchimento». Esse, consentendo l’attuarsi del giudizio, della distinzione – per cui un atto di vita viene qualificato, distinto e quindi conosciuto come un «atto di verità» o «di bellezza» o come un «atto di accorgimento politico», o «di sacrificio morale» – corrispondono all’«esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali»5. Uno storicismo inoltre che non intende farsi attivismo e irrazionalismo, altrettanto quanto non intende farsi filosofia o metafisica della storia. Perciò la considerazione della genesi della conoscenza storica dalla prassi e del suo essere destinato all’orientamento della prassi non intende annullare la distinzione tra conoscenza ed azione, tra pensiero e volontà, ma vuole mantener viva la coscienza della loro intima relazione nella circolarità della vita dello spirito: «Identificato con la

4. E. Troeltsch, Was heisst “Wesen des Christentums”?, GS II, p. 425 (tr. it. cit., pp. 303-304). Cfr. P. Colonnello, Croce, Troeltsch e la “concordia discors” dello storicismo, “Nord e Sud”,1985, n. 3, pp. 72-73. 5. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., pp. 24-25.

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volontà e coi fini della volontà, il pensiero cesserebbe di essere creatore di verità e, facendosi tendenzioso, decadrebbe a menzogna; e la volontà e l’azione, non più rischiarata dalla verità, si abbasserebbe a spasimo e furore passionale e patologico»6. La tesi della circolarità di teoria e prassi richiama più in generale la circolarità della vita dello spirito e della sua scansione temporale. Essa si lega immediatamente con l’altra tesi fondamentale della contemporaneità della storia. La storia è sempre storia contemporanea. Infatti, se la conoscenza storica è quella conoscenza che nasce da problemi, da interpretazioni dei bisogni, delle inquietudini, delle difficoltà suscitate dalla vita, e se la vita è sempre in un atto di vita, in un presente, allora la storia nasce necessariamente nel presente ed è la risposta a problemi del presente. Sicché non ci rivolgiamo al passato per conoscere il passato in quanto tale, ma ci rivolgiamo al passato per comprendere meglio il presente, il suo essere-divenuto. Croce non lo dice, ma qui l’interlocutore dovrebbe essere Nietzsche. Nietzsche aveva scritto nel 1874 uno dei saggi più belli di filosofia che siano mai apparsi, intitolato Sull’utilità e il danno della storia per la vita. È un testo compreso nelle Considerazioni inattuali, e non è un caso che proprio nel 1874 Nietzsche scriva questo saggio dedicato alla storia. Infatti dopo il grande periodo creativo del Romanticismo e dell’Idealismo, la cultura tedesca si era in qualche modo ripiegata su stessa, dedicandosi soprattutto all’indagine storica, alla filologia. È il grande momento della storia e la sua pervasività dà l’impressione a Nietzsche di un’atmosfera soffocante. La storia è come un macigno che pesa su di noi e blocca ogni creatività; la vita non si sviluppa più perché sommersa dall’umanità passata. E questa è quella che Nietzsche chiama la «malattia storica»: quando la storia non serve più la vita, ma l’intristisce, 6. Ivi, p. 28.

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e lo storico diventa come una persona che si aggira nel suo giardino e non fa nulla, sta solo a curare questi suoi fiori che sono le descrizioni di epoche passate7. Questa forte polemica contro l’eccesso di storia riecheggia nell’argomentare di Croce, allorché, nel capitolo VIII della prima sezione della Storia come pensiero e come azione – corrispondendo di fatto all’altro pensiero di Nietzsche per il quale la storia serve alla vita – sostiene che è proprio la storiografia a liberarci dalla storia, cioè dal peso del passato. La conoscenza storica – e con essa lo storicismo, come consapevolezza della storicità del pensiero – non costituisce, come si è voluto far credere, una santificazione del passato, non porta a soffocare la vita presente sotto il peso del passato, ma anzi è l’unica «via d’uscita» dal fatto che «noi siamo prodotto del passato, e viviamo immersi nel passato, che tutt’intorno ci preme», perché attraverso la conoscenza del passato noi possiamo liberarci dall’immediato condizionamento che esso esercita su di noi, possiamo metterlo a distanza, riducendolo «a problema mentale», risolvendolo «in una proposizione di verità» che potrà diventare «l’ideale premessa per la nostra nuova azione e nuova vita»8. In effetti, essendo noi dei soggetti storici, la nostra cultura, la nostra esistenza, senza che noi ce ne rendiamo conto, è intessuta di eventi che non sono stati prodotti da noi, per cui ci troviamo ad essere costruiti dal passato: nel nostro agire spesso siamo guidati dal passato senza rendercene conto. La storiografia, invece, ci fa capire com’è divenuto il presente e che cosa è accaduto prima, per cui ne prendiamo coscienza 7. Cfr. Fr. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali II, tr. it. di S. Giametta, in Opere di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, vol. III, tomo I, Adelphi, Milano 1972, pp. 259, 264, 345, 350. 8. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., p. 31.

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e quindi siamo in grado di dominare quello che è il risultato del processo. Ed allora la storia invece di essere qualcosa che soffoca la vita rende possibile l’azione, perché ci fa capire cosa rappresenta la situazione nella quale siamo stati gettati e dove stiamo andando, dove possiamo andare. In questo modo la conoscenza storica spinge il passato nella vita del presente, fa della sua eccedenza l’elemento costitutivo del novum. Mentre nel vivere senza consapevolezza storica siamo, in qualche modo, gettati nel processo o almeno portati dall’onda del processo, tramite la storiografia, invece, prendiamo coscienza di noi stessi e possiamo orientare il nostro agire, finalizzarlo a scopi consapevolmente posti, agire – per riprendere una efficace espressione di Husserl – mediante atti razionali. A questo punto, possiamo dire che dal discorso di Croce sono emersi per noi due concetti di storicità. Uno di essi è rappresentato dall’invasione, dallo spingersi del passato nel presente, che è un processo oggettivo, per cui la storia è produttiva in quanto il presente è il prodotto, il risultato del divenire. L’altro, che è quello più rilevante e intrinseco al costituirsi del pensiero storico, dello storicismo, è il concetto di storicità a livello della coscienza: il prender coscienza di questo processo, e quindi la tensione del pensiero per sapere da dove possiamo ripartire, da dove e come possiamo aprirci un varco tra il presente ed il passato, aprirci un varco oltre il già-stato verso il non-ancora, verso il novum. La storia è contemporanea in quanto è al servizio della vita, del presente. «Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di “storia contemporanea”, perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella qua-

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le quei fatti propagano le loro vibrazioni»9. Solo se si riferisce al nesso tra passato e presente un libro di storia può trovare la propria unità, che si manifesta nella centralità di un problema o di una costellazione di problemi ed essere quindi veramente un libro di storia, e non soltanto una cronaca o una narrazione o un insieme di documenti. 2. Tempo storico e sviluppo nella teoria della storia di Troeltsch Nella teoria della storia di Troeltsch il concetto di sviluppo costituisce, dopo quello di totalità individuale, il secondo «concetto fondamentale», e proprio in rapporto a tale concetto la logica della storia si differenzia da quella delle scienze naturali anche per la specificità del concetto di tempo, che esige come fondamento della distinzione tra «divenire storico» e «divenire naturale» già definita da Hegel10. La nozione ordinaria di tempo e parimenti quella delle scienze naturali riducono il tempo allo spazio e al movimento spaziale, disgregandolo in una successione di istanti, di singoli punti o di singoli tratti finiti, in cui sono «posti» gli eventi o i complessi di eventi. Il tempo storico è invece legato alla memoria, che «pone il contenuto spaziale e non spaziale al servizio dell’orientamento nel presente e nel futuro». Analogamente alla coscienza vissuta del tempo, il concetto del tempo storico è un concetto qualitativo ed indica «un flusso, in cui niente è isolato e separato, ma ogni cosa passa nell’altra; passato e futuro si compenetrano; ogni presente porta in sé, in modo produttivo, ad un tempo passato e futuro, e non è possibile in generale una misurazione, ma sono possibili soltanto cesure, che vengono ordinate

9. Ivi, p. 5. 10. Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. cit., vol. I, pp. 14 ss. 150 ss.

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più o meno arbitrariamente secondo connessioni e grandi trasformazioni di senso»11. Anche per questo aspetto, in cui Troeltsch si ricollega specialmente a Bergson12, si conferma la sua concezione antimonistica, pluralistica del reale e della logica che vi corrisponde. Mentre per la determinazione dei concetti di individualità e di novità, essenziali per la conoscenza storica, è poi importante il rilievo dato al concetto del contingente come ineliminabile alterità dell’attività apriorica della ragione. Il riconoscimento della contingenza si impone dinanzi al «problema della individuazione», dinanzi al fatto che all’interno anche della più completa trama di leggi razionali si afferma sempre qualcosa di individuale, che non può essere esaustivamente dedotto da quelle leggi, ma è qualcosa di particolare e di irripetibile13. Dalla irruzione del contingente dipende anche la possibilità della storia come il luogo delle decisioni e delle scelte, come la scena di un dramma etico in cui gli esistenti si sperimentano come persone. La logica formale della storia ha mostrato come non sia più possibile concepire una filosofia della storia come «una sistematica del processo storico, una costruzione teleologica della

11. Historismus, GS III, pp. 56-57 (tr. it. cit., vol. I, p. 100). 12. Cfr. ivi, pp. 57, nota 23; 643-644 (tr. it. vol. I, pp. 100-101, nota 27; vol. II, pp. 408-409). «Secondo Bergson – ha scritto esemplarmente Aldo Masullo – sotto l’usuale trama del tempo “spazializzarto”, divisibile e misurabile, della conoscenza fisica funge il tempo autentico. Esso è l’ininterrotto flusso del divenire, la “durata reale”, ossia il moto profondo delle cose, sperimentato nella sua metafisica continuità, “vissuto dall’interno”, nella sua “indivisibilità”, onde il passato fa corpo col presente, e la realtà cresce su stessa» (A. Masullo, Il tempo e la grazia. Per un’etica attiva della salvezza, Donzelli Editore, Roma 1995, pp. 22-23). 13. Cfr. E. Troeltsch, Die Bedeutung des Begriffs der Kontingenz (1910), GS II, pp. 773-75.

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graduale realizzazione di un fine della storia»14. Ad un tempo però essa ha posto l’esigenza di una costruzione del senso complessivo dello sviluppo storico, che può scaturire soltanto dalla comparazione tra le «totalità individuali» di cui si costituisce la storia, dal ritrovare in esse delle comuni tendenze che si prolungano fin dentro la situazione del presente. Infatti non solo la storia non esclude principi normativi e valori, ma non potrebbe neppur costituirsi come «comprensione» e «rivivimento» delle formazioni storiche del passato se non includesse già il riferimento a valori e norme ancora percepibili nel presente, intorno a cui organizzare i molteplici frammenti della memoria: «Se soltanto un’idea di senso e di valore conduce alla costituzione dell’oggetto storico e se questa idea a sua volta viene all’esistenza soltanto attraverso una entropatia ipotetica di unità di senso passate in forza di un sistema di possibilità e di valori ancora presenti, allora è anche logicamente impossibile non procedere da quel regno di possibilità che si anima e si dischiude storicamente ad una propria, personale formazione di senso e non valutare e valorizzare l’intuizione storica per una propria decisione e creazione»15. Questo comporta evidentemente una concezione anti-contemplativa della storia e più in generale un rinnovato legame tra teoria e prassi: «Non si dà alcuna scienza puramente contemplativa, – scrive Troeltsch in Der Historismus – né nella natura né nella storia, né nella motivazione né nel risultato [...]. Così non si dà neppure alcuna storia puramente contemplativa che non sfoci in una comprensione del presente e del futuro. E ciò sia nella motivazione che nei risultati»16. Questa

14. Historismus, GS III, p. 111 (tr. it. cit., vol. I, p. 149). 15. Ivi, p. 69, cors. ns. (tr. it. cit., vol. I, p. 112). 16. Ivi, p. 70 (tr. it. cit., vol. I, p. 112); cfr. pp. 113-117 (tr. it. cit., vol. I, pp. 150-154). Alberto Caracciolo ha sottolineato il «carattere non [...] contem-

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consapevolezza del nesso tra storia e presente costituisce uno degli esiti più significativi della storia della riflessione sulla storia tra Ottocento e Novecento che Troeltsch sviluppa nel lunghissimo terzo capitolo di Der Historismus und seine Probleme. In particolare essa appare a Troeltsch come uno dei risultati più importanti della «istorica» di Croce con «la definizione e considerazione della storia come storia contemporanea, cioè connessa con la propria vita» e con «la trasposizione dell’universale e della storia universale nel momentaneo, cioè nell’ambito di volta in volta messo a fuoco dal punto di vista dell’osservatore»17. Proprio in questa direzione, cioè nella direzione del pensiero del presente e del suo protendersi verso il futuro, si muove il «superamento» del «mero Historismus» in Troeltsch: «presente e futuro devono potersi annodare nella visione storica e dove non si possa parlare di un tale nesso, là manca ogni interesse per la storia – l’unità della connessione vivente, da cui soltanto possiamo infondere al passato il sangue di una vitalità quanto meno storica. Adesione o opposizione verso il nostro presente e la nostra figurazione del futuro: questo è sempre [...] il medio, sia pure inconsapevole, dell’interpretazione storica»18. Il pensiero del presente e del futuro, quindi la destinazione etica dello storicismo, sono all’origine della filosofia materiale della storia, che è «la costruzione del processo storicouniversale dal punto di vista dell’osservatore» – non il puro disinteressato «soggetto epistemico» o «trascendentale», ma il

plativo, ma prospettico», che ha la storia secondo Troeltsch (Introduzione alla traduzione italiana di Absolutheit, cit., p. XV). 17. Historismus, GS III, p. 629 (tr. it. cit., vol. II, p. 395). 18. Ivi, pp. 69-70 (tr. it. cit., vol. I, pp. 112-113). Cfr. Was heisst “Wesen des Christentums”?, GS II, pp. 424-425 (tr. it. cit., pp. 303-304).

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soggetto vivente nella sua interezza, che entra con i suoi valori, le sue idee, le sue scelte nella configurazione stessa dell’immagine dello sviluppo: «la materialità di questa costruzione consiste nella positiva e personale valutazione dei contenuti di senso, che si danno nell’intuizione storica, dal punto di vista della loro visione d’insieme in un processo unitario»19. Finché la storia – o un tratto di essa, un’epoca, una cultura – non è ancora giunta alla fine, la filosofia della storia non può indicare una «teleologia obiettiva», ma soltanto «una teleologia della volontà che al momento-presente plasma e trasfigura il proprio passato in futuro». Il suo significato è essenzialmente etico-pratico: la creazione di una nuova «sintesi culturale» in cui si intrecciano «le valutazioni del passato e quelle del presente, e del futuro che da questo si dispiega»20. Si salda così il circolo tra storia ed etica e il compito della filosofia materiale della storia si articola nei due momenti della elaborazione della «sintesi culturale del presente» e della costruzione della «storia universale», che però non può coincidere con il generale sviluppo dell’umanità (Menschheit) ma sempre in primo luogo con lo sviluppo storico dello «spirito comune» in cui e di cui vive l’«osservatore» – nel caso specifico la cultura europeo-americana, in cui una funzione centrale è

19. Historismus, GS III, p. 73 (tr. it. cit., vol. I, p. 115). 20. Cfr. ivi, pp. 112-113, ma si vedano le pp. 112-119 (tr. it. cit., vol. I, pp. 150-151, pp. 150-156); inoltre: Der Historismus und seine Überwindung, pp. 37-41 (tr. it. cit., pp. 149-152) [KGA 17, pp. 89-92]. I caratteri della «sintesi culturale» sono l’individualità (Historismus, GS III, pp. 75-76,119; tr. it. cit., vol. I, pp. 117-118, 156); l’apriorità ovvero l’originalità o spontaneità (ivi, pp. 166-167, 179 sgg; tr. it. cit., vol. I, pp. 197-198; 207 ss.); l’oggettività (ivi, p. 181-182; tr. it. cit., vol. I, pp. 210-211); il rischio (ivi, p. 181; tr. it. cit., vol. I, p. 210); la relatività del valore (ivi, pp. 183; tr. it. cit., vol. I, p. 211). Sul concetto di sintesi culturale cfr. Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, cit., pp. 462-468.

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svolta dal Cristianesimo21. I due momenti sono intimamente connessi in un rapporto di reciproca implicazione o di «circolarità». La sintesi culturale del presente costituisce l’«apriori soggettivo», «il presupposto soggettivo e l’ideale determinante la scelta, la selezione, che rende possibile la costruzione della storia universale». D’altro canto, proprio la storia universale fornisce all’ideale etico-soggettivo la dimensione oggettiva e il materiale concreto di cui si compone la sintesi culturale22. Solo mediandosi con l’alterità del presente e del passato, rintracciando nel passato quelle possibilità umane che ancora attendono di essere realizzate, la sintesi culturale può diventare un «programma», una norma per l’azione nel presente e nel futuro, che tende ad una validità universale, e limita la sua ineliminabile soggettività, per quanto possibile, attraverso la criticità e l’intersoggettività del conoscere storico23. Ciò che evita a questo rapporto circolare di estenuarsi in un «circolo vizioso» paralizzante la decisione e l’azione è, secondo Troeltsch, il «presentimento […] della reciproca connessione e dell’intima corrispondenza» tra sintesi culturale e storia universale, pre-

21. Cfr. GS III, pp. VII-VIII, 75, 165-69, 187 (tr. it. cit., vol. I, pp. 47-48, 117, 196-199, 214-215); Der Historismus und seine Überwindung, p. 76 (tr. it. cit., p. 179) [KGA 17, p. 114]. Otto Hintze ha sottolineato l’analogia tra la concezione troeltschiana della storia universale riferita al punto di vista dell’osservatore e la teoria della relatività di Einstein (Cfr. O. Hintze, Troeltsch und die Probleme des Historismus, «Historische Zeitschrift», 135, 1927, poi in Gesammelte Abhandlungen, Bd. II, hrsg.v. G. Oestreich, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 1964, p. 362; ma si vedano anche le pp. 361-365, 373). 22. Historismus, GS III, p. 694 (tr. it. cit., vol. III, p. 11). 23. Cfr. Moderne Geschichtsphilosophie, GS II, pp. 709-712 (tr. it. cit., pp. 371-376).

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sentimento che «nasce dalla mescolanza di conoscenze storiche e posizioni etico-pratiche»24. 3. Alle origini della tradizione storicistica: Il tempo storico in Johann Gustav Droysen Le considerazioni di Croce e Troeltsch sul tempo storico rinviano alle origini della tradizione storicistica nel prensiero storico di Droysen che nasce proprio dalla percezione di una rottura tra presente e passato. In una lettera del 1844 a Friedrich Christoph Dahlmann, Droysen, sostenendo il progetto di una storia tedesca, scrive: «Noi viviamo come se non ci fosse alcun passato, alcun condizionamento, alcuna legge e alcun diritto per il presente, come se cominciassimo in ogni attimo da capo, come se fossero recise tutte le radici della nostra esistenza

24. Historismus, GS III, p. 695 (tr. it. cit., vol. III, p. 12). Per questa circolarità tra esistente (la sintesi culturale è sempre personale) e storia si può definire lo storicismo di Troeltsch come “storicismo esistenziale” (“existentiellen Historismus”) seguendo una felice indicazione di Eduard Spranger che mette in rilievo l’avvicinamento di Troeltsch a temi che saranno caratteristici della Existenzphilosophie (Das Historismusproblem an der Universität Berlin seit 1900: Wilhelm Dilthey, Ernst Troeltsch, Friedrich Meinecke, in E. Spranger, Berliner Geist. Aufsätze, Reden und Aufzeichnungen, Rainer Wunderlich Verlag Hermann Leins, Tübingen 1966, pp. 164-165 (ma si vedano le pp. 154-169). In modo autonomo e in un contesto teorico differente, anche se non privo di riferimenti a Troeltsch, Pietro Piovani nell’inchiesta radiofonica sulla filosofia italiana curata da Valerio Verra nel 1972 (Parlano i filosofi italiani, «Terzo programma», 3, 1972) ha definito la propria concezione dello storicismo come “storicismo esistenziale” («questo storicismo esistenziale, pluralistico e antimonistico, è agli antipodi dello storicismo assoluto; è avversario di ogni storia assolutizzata»), in La filosofia dal ’45 a oggi, a cura di V. Verra, RAI- ERI, Torino 1976, p. 512). Cfr. F. Tessitore, Tra esistenzialismo e storicismo. La filosofia morale di Pietro Piovani, Morano, Napoli 1974. L’espressione di Piovani è stata da me ripresa nel titolo del mio libro del 1993 L’eccedenza del passato. Per uno storicismo esistenziale, cit.,).

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storica»25. L’osservazione di Droysen esprime esemplarmente non solo la situazione politica della Germania nel Vormärz, ma più ampiamente un aspetto fondamentale del proprio tempo, che egli – in ciò predisposto dalla familiarità con il pensiero hegeliano – intende appunto come un’epoca di scissione, di rottura della continuità storica. La coscienza della discontinuità della realtà storica – dell’estraneamento tra il presente e la storia (tradizione), della perdita delle radici dell’esistenza storica – e l’intenzione di ricomporre storia e presente animano fin dall’inizio la storiografia di Droysen e sono anche all’origine del suo peculiare storicismo. Riscoprire le radici dell’esistenza storica e, d’altra parte, non dimenticare «che la storia non avanza fino all’ieri, ma creando nell’oggi prefigura il domani»26: sono questi i termini prescrittivi di un pensiero storico e di una prassi storiografica e politica che intendono porsi come una terza via tra l’Aufklärung e la Romantik, così come tra rivoluzione e reazione, al riparo dalle loro unilateralità e al tempo stesso in grado di mediarne le opposte ragioni. Il loro obiettivo è quello di ripristinare le condizioni fisiologiche dell’esistenza storica. La denuncia della «perdita di storia» non può significare per Droysen l’appello alla Historie per contrapporre al presente il passato, per bloccare con le forme del passato l’irruzione della vita nuova nel presente. La funzione della Historik può essere, invece, solo quella di cercare di surrogare (per quanto possibile, e cioè sempre limitatamente e con la consapevolezza di tale limitazione) con una specifica conoscenza scientifica l’infranta mediazione, nella vita, di Er-innerung, memoria, e progetto,

25. J. G. Droysen, Briefwechsel, hrsg.v. R. Hübner, Deutsche Verlags-Anstalt, Berlin und Leipzig 1929, Bd. I, p. 278. 26. J. G. Droysen, Politische Schriften, hrsg.v. F. Gilbert, Oldenbourg, München u. Berlin 1933, p. 105.

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di esperienza e aspettativa27, per fornire al presente non astratti modelli «mediante una sorta di eclettismo di passati»28, ma il terreno da cui produrre nuove forme in grado di ordinare la nuova vita, inserendola nella costruzione di una connessione teleologica dell’accadere storico conferitrice di senso. Si delinea qui il concetto di «sviluppo storico», a cui fondamento vi è la moderna connessione di Geist e Arbeit: la vita storica, infatti, scaturisce dalla oggettivazione della formende Kraft che qualifica la natura spirituale-sensibile dell’uomo e si dispiega come uno «sviluppo progressivo», per quanto non si tratti di uno sviluppo continuo e lineare, ma che si afferma o piuttosto si lascia riconoscere attraverso tutte le interruzioni e le regressioni, le «rovine» e i «tempi dell’abbandono» che la storia nel suo corso indubbiamente conosce29. Il presente – la situazione, il contenuto storicamente divenuto e le idee che in esso sorgono per avviarne il trascendimento – è il tempo reale della Geschichte in cui prendono corpo le estasi irreali del passato e dell’avvenire. Il presente è il fronte mobile del novum che ogni volta risulta come mediazione oggettiva dal Ringen tra il già-stato, il già-divenuto e il non-ancora che vuole divenire, tra il contenuto del presente formato dall’assommarsi trasfigurante dei risultati del passato e l’inoltrarsi del presente nel prossimo avvenire mediante la volontà che determina l’azione per realizzare ciò che esiste ancora soltanto idealmente, come creazione del pensiero, concetto-di-scopo, progetto. 27. Cfr. A. Heuss, Verlust der Geschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1959, 13 ss. m 32 ss.; R. Koselleck, Vergangene Zukunft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979, pp. 349-375. 28. J. G.Droysen, Politische Schriften, cit., p. 105. 29. J. G. Droysen, Historik. Vorlesung über Enzyklopädie und Methodologie der Geschichte, hrsg, v. R. Hübner (1937), Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1972, p. 12 (tr. it. di L. Emery, Ricciardi, Milano-Napoli 1966, p. 13). Successivamente citato come Historik (H).

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Solo non dimenticando di essere gettata nel movimento reale del presente che è divenuto e diviene, la Historie, la storiografia, può costituire un elemento essenziale della Geschichte, può risvegliare – afferma Droysen riprendendo un’espressione di Humboldt – «il senso della realtà», della connessione dinamica dei «fenomeni» con «ciò che in essi viene a manifestazione, l’idea, cioè la loro verità»30. La storiografia può comprendere la realtà del mondo umano nel suo divenire, concependo «il passato come un moto incessante che si svolge fino al presente […], come un grande lavoro che è compito del presente continuare a trasmettere all’avvenire»31. Il concetto di «sviluppo storico» – contrastando la patologia di un presente privo di Erinnerung, senza storia, e ristabilendo il senso della continuità teleologica della vita storica oltre la frattura del presente – diventa per Droysen il concetto-chiave, e la riflessione sulla fondazione scientifica della storia è rinviata alla dimensione temporale costitutiva del soggetto concreto: «Il nostro Io, che afferra e raffigura il mondo dei fenomeni distribuito secondo lo spazio e il tempo, vede spazialmente la natura in una estensione smisurata intorno a lui; temporalmente gli appartiene solo l’istante, egli vive solo nell’istante, avendo dietro di sé il vuoto senza fine di ciò che è passato, dinanzi a sé il vuoto senza fine di ciò che verrà», ma «questo vuoto dietro di sé l’Io se lo riempie con le rappresentazioni di ciò che fu, con ricordi in cui per lui il passato non è tramontato; e il vuoto davanti a sé

30. J. G. Droysen, Historik. Historisch-kritische Ausgabe von P. Leyh, Band 1: Rekonstruktion der ersten vollständigen Fassung der Vorlesungen (1857), Frommann – Holzboog, Stuttgart 1977, p. 5 (tr. it. Istorica. Lezioni di enciclopedia e metodologia della storia 1857, a cura di S. Caianiello, Guida Editori, Napoli 1994, p. 81). Cfr. W. von Humboldt, Über die Aufgabe des Geschichtsschreibers (1821), in Schriften zur Anthropologie und Bildungslehre, Verlag Helmut Küpper, Düsseldorf, 1956, p. 98 (tr. it. di G. Moretto, Il compito dello storico, a cura di F. Tessitore, Esi, Napoli 1980, p. 123) 31. Historik (H), pp. 267, 268 (tr. it. cit., p. 281).

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se lo riempie con le speranze e i disegni, con le rappresentazioni di ciò che vuole realizzare con la sua volontà, e che si aspetta di vedere realizzato da altri»32. Attraverso il riferimento alla sua struttura temporale l’Io appare nella sua interezza: non solo come rappresentare e pensare, ma insieme come sentire e volere; e in quanto vive nel presente, cioè nell’istante riempito di ricordi e speranze, di esperienze e aspettative, esso è essenzialmente storico, fondato nella intersoggettività del mondo storico23, che inscrive, appunto, l’estaticità dell’istante di vita nell’orizzonte della presenzialità del tempo della coscienza e della storia. Nella ulteriore riflessione della tradizione del Historismus, com’è noto, è stato soprattutto Wilhelm Dilthey a sviluppare un’analisi del tempo come struttura costitutiva della vita umana e storica, e, insieme, a rompere nel modo più deciso il cerchio angusto del soggetto concepito come cogito, come puro pensare e rappresentare. La realtà dell’esperienza interna è per lui la «vita stessa» quale si dà «nel tutto del nostro essere volente, senziente e rappresentante», in cui anche la cosiddetta «realtà esterna [...] ci è data in uno col nostro io e con la stessa certezza di questo, quindi come vita, non come puro e semplice rappresentare e pensare»33. La vita – afferma Dilthey – «sta in uno strettissimo rapporto con la pienezza del tempo», e da tale rapporto dipendono tanto la sua «corruttibilità», quanto il suo formare una «connessione» e avere in questa «un’unità (il Sé)»34. Nell’Erlebnis del 32. Ivi, p. 19 (tr. it. cit., p. 20). 33. W. Dilthey, Einleitung in die Geisteswissenschaten, Gesammelte Schriften, Bd. I, hrsg, v. B. Groethuysen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1966, XVII-XVIII (tr. it. di De Toni, La Nuova Italia Firenze 1974, pp. 8-9). 34. W. Dilthey, Plan der Fortsetzung, in W. Dilthey, Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, hrsg, v. M. Riedel, Suhrkamp Ver-

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tempo «il tempo viene esperito come l’incessante procedere del presente», il fluire della vita «in cui sempre il presente diventa passato e il futuro presente»35. Il presente è il continuo divenire del «rapporto delle parti con il tutto», della «connessione» della vita in base ad un significato unitario che ne lega ogni volta le parti in un intero. Il presente indica così la connessione reale che la vita ogni volta è: ciò che in esso è dato è sempre già il ricordo di ciò che era presente, o è il desiderio, il timore, la speranza di ciò che non è ancora, la rappresentazione di uno scopo della volontà. Il tempo della vita umana e storica non è il mero succedersi di istanti, di punti-ora omogenei e indifferenti, ma è la connessione di presenti che racchiudono in sé «la rappresentazione del passato nella memoria e la rappresentazione del futuro nella fantasia»: «così il presente è pieno di passato e reca in sé il futuro» e «questo è il senso del termine sviluppo nelle scienze dello spirito»36. Si riannoda a questo significato della vivente presenzialità il concetto di contemporaneità. E, richiamando alla mente l’immagine crociana della storia come «il Dioniso dei misteri e il “Christus patiens” del peccato e della redenzione»37, mi sembra di poter affermare che la contemporaneità della storia resti un’indicazione estremamente valida ancora oggi e possa costituire un’àncora di salvezza nel mare tempestoso del “nichilismo moderno”. Infatti, come suggerisce Giuseppe Galasso – uno storico particolarmente attento alle istanze dell’“umanesimo civile” – gli eventi emergenti dall’intersecarsi dei processi storici sono il segno della libertà, sia pur finita,

lag, Frankfurt a.M. 1970, p. 283; tr. it. in W. Dilthey, Critica della ragione storica, a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino 1954, pp. 333-334. 35. Ivi, p. 237 (tr. it. cit., p. 295). 36. Ivi, pp. 287-288 (tr. it. cit., pp. 337-338). 37. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., p. 17.

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dell’uomo, e l’ambizioso sforzo della storiografia, che corrisponde tanto a un desiderio di conoscenza quanto a un’esigenza morale e civile, si propone proprio di scoprire e salvaguardare «con una profezia ex post facto, il respiro e il senso di quella libertà e di quella forza creatrice»38. Storia, etica e politica si mostrano così intimamente legate, e dal loro alimentarsi e fondarsi reciproco può nascere anche la speranza di una «città nuova» più moderna e più umana insieme. In questo senso è forse possibile contrapporre alla perdita di storia, cioè alla frattura nella continuità, l’eccedenza del passato che si fa futuro. Come ha scritto Jörn Rüsen: «Con la forza della memoria il pensiero storico fa apparire nello status quo delle condizioni e dei rapporti di vita dati un’immagine della loro trasformazione nel passato, con la quale esso può rompere l’incantesimo dell’essere-così-e-non-altrimenti […]. Il pensiero storico trasforma il presente nel suo proprio passato e fa che nel suo riflesso si manifesti un futuro che può essere atteso e prospettato»39.

38. G. Galasso, Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Il Mulino, Bologna 2000, p. 243. 39. J. Rüsen, Storia viva. Lineamenti di un’istorica, tr. it. a cura di B. May, Aletheia, Firenze 2001, vol. III (Forme e funzioni del sapere storico), p. 137.

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IV Storia e metafisica dello spirito

1. L’autonomia della vita spirituale In Meine Bücher, l’autobiografia intellettuale del 1922, Troeltsch ricorda che già negli anni della sua formazione universitaria, a Erlangen e a Gottinga, si pose chiaramente per lui il problema fondamentale e pregiudiziale di giustificare il diritto di un orientamento religioso della vita di fronte al naturalismo moderno in cui tutto sembrava naufragare1. Questa giustificazione esigeva in primo luogo la riaffermazione dell’autonomia della vita spirituale attraverso la critica del materialismo, che si presentava come la conseguenza rigorosa dell’applicazione dei principi della moderna scienza della natura all’intera realtà, e la dimostrazione razionale, criticamente condotta, della possibilità di un ambito della realtà di principio indipendente dal meccanicismo e dal determinismo dei fenomeni naturali. Da questa esigenza scaturì, sulla traccia dell’insegnamento filosofico del suo maestro di Erlangen, Gustav Class2, lo studio 1. Meine Bücher, GS IV, p. 5. 2. Nel suo insegnamento Gustav Class, influenzato da Steffensen, si richiamava all’Idealismo tedesco e a Leibniz, sforzandosi, attraverso una fenomenologia e ontologia dello spirito, di garantire criticamente l’autonomia della

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accurato degli scritti di Hermann Lotze, che divenne in quegli anni il suo “spirito-guida”, inducendolo al confronto diretto con le opere di Kant, Fichte e Schleiermacher. Dalla stessa esigenza scaturì successivamente il vivo interesse per la “nuova psicologia” di Dilthey, che «si avvicinava alle idee dell’individuale e della creatività della vita psichica già messe in rilievo anche da Lotze»3. In questo quadro si inseriscono gli scritti filosofici e teologici del primo periodo dello sviluppo del suo pensiero, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, nei quali riteneva di avere acquisito una visione della realtà e una teoria psicologica fondamentale, che «garantivano l’essenza della vita spirituale di fronte al mondo fisico» e «rendevano di principio indipendente da ogni naturalismo l’immediata autocoscienza dell’Erleben»4. Il telos che muove questi scritti è la dimostrazione, sul fondamento del pensiero moderno, dell’autonomia dell’esperienza religiosa e all’interno del fenomeno religioso la rivendicazione del Cristianesimo come forma storicamente più elevata di visione religiosa del mondo5. In ordine a questo telos il punto di partenza è costituito dalla riaffermazione dell’autonomia della vita spirituale e della irriducibilità dello spirito ad oggetto di una scienza costruita sul modello delle

vita spirituale e all’interno di questa uno spazio per la religione. Le sue opere principali sono: Untersuchungen zur Phänomenologie und Ontologie des menschlichen Geistes del 1896 e Die Realität der Gottesidee del 1904 (Cfr. H. Stephan-M. Schmidt, Geschichte der deutschen evangelischen Theologie seit dem deutschen Idealismus, cit., p. 208). 3. Meine Bücher, GS IV, pp. 5-6. 4. Ivi, p. 6. 5. Nel saggio su Geschichte und Metaphysik, del 1898, Troeltsch si chiede «se il Cristianesimo possa adattarsi all’enorme trasformazione dell’epoca moderna» e in particolare alla contestazione scientifica del «soprannaturalismo», «e [se] possa dispiegare nuove forze in questa nuova situazione, oppure no» (E. Troeltsch, Geschichte und Metaphysik, cit., p. 39; tr. it. cit., p. 109).

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scienze naturali. Secondo Troeltsch, la considerazione del fondamento filosofico della scienza moderna – quale si presenta nella svolta cartesiana verso la “filosofia della coscienza” e riceve la sua più rigorosa formulazione nella teoria della conoscenza kantiana – dimostra che «la interpretazione materialistica dei fatti definiti dalle scienze della natura non soltanto è evitabile, ma è del tutto impossibile»6. La natura oggetto delle scienze naturali è, infatti, il sistema delle rappresentazioni, dei fenomeni, organizzati in base a leggi generali della coscienza; è il mondo come «rappresentazione»: «La natura come noi la conosciamo esiste unicamente nel nostro spirito e in certo senso è addirittura un prodotto dello spirito, della sua rappresentazione»7. Perciò, di fronte al naturalismo8 non solo è dimostrabile l’autonomia dello spirito, ma si deve anzi affermare che «lo spirito è sotto ogni aspetto il prius dell’intera realtà che viene alla coscienza dell’uomo»9, divenendo il possibile oggetto della conoscenza scientifica. L’analisi della vita spirituale mostra due ambiti di esperienza. Un primo ambito è costituito dal presentarsi alla coscienza di oggetti che provengono dall’esperienza sensibile: «oggetti di quel mondo corporeo […] abitato dai suoni e percorso dalla luce, che i nostri sensi ci mostrano». Un secondo ambito è costituito dalle «idee del bello, del bene e del divino che danno senso e sostegno alla vita interiore e che, pur afferendo solo al

6. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 242. 7. Ibidem. 8. Sotto il titolo di “naturalismo” Troeltsch intende qui le posizioni filosofiche moderne che negano o rendono problematica l’autonomia della vita spirituale (Die christliche Weltanschauung, GS II, pp. 231-232, 235-236, 241). Successivamente il naturalismo – accanto allo storicismo – indicherà una delle due tendenze fondamentali del pensiero moderno (cfr. Historismus, GS III, p. 104; tr. it. cit., vol. I, p. 1429). 9. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 242.

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mondo sensibile e destinate solo in lui ad avere effetto, sono tuttavia chiaramente distinte da esso e conducono un’esistenza autonoma»10. Ora, vi sono teorie, filosofie, di tipo empiristico, che ritengono che la sfera delle idee derivi dall’esperienza sensibile. Esse negano la realtà autonoma dello spirito, lo ignorano del tutto, mentre, in realtà, «lo spirito [...] costituisce la premessa anche per la teoria dell’esperienza fenomenica e di una sua generale ricezione e conoscibilità»11. La dimensione dell’esperienza fenomenica è correlativa allo spirito come percezione e sentimento e, «in funzione della universale uniformità e interpretabilità della percezione», assume la configurazione di una realtà oggettiva, distinta dall’esperienza vissuta del soggetto, come accade nelle scienze della natura. Viceversa, nella dimensione dell’esperienza interiore, “non-sensibile”, gli oggetti intenzionati sono oggetti ideali o sentimenti di valore o anche volizioni: «qui – scrive Troeltsch – non abbiamo da fare con un mondo naturale meramente fenomenico ed estraneo al nucleo interiore dell’essere dell’uomo, ma con il pieno contenuto dello spirito, che accerta se stesso e conferisce all’esistenza un senso e un valore intrinseco immediatamente percepibili»12. Per il mondo fenomenico sensibile, dal momento che «le rappresentazioni possono essere disgiunte quasi totalmente dalla loro concomitanza emotiva»13, c’è il vantaggio di una conoscibilità garantita da regolarità ed evidenze più sicure, generalizzabili; invece, per il mondo delle idee si è rinviati al vissuto personale e perciò è più difficile pervenire a conoscenze oggettive, universalmente valide. D’altra parte, però, il mondo fenomenico rinvia ad una realtà estranea, irraggiungibile, in sé non conoscibile; mentre nell’ambito delle idee 10. Die Selbständigkeit der Religion (1895), cit., p. 387 (tr. it. cit., p. 84). 11. Ivi, p. 388 (tr. it. cit., p. 85). 12. Ivi, p. 390 (tr. it. cit., p. 87). 13. Ibidem (tr. it. cit., p. 88).

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si ha a che fare direttamente con la realtà della vita spirituale, «con la vita autentica dello spirito stesso, intellegibile senza mediazioni, e in grado di determinare il valore della nostra esistenza»14. Tuttavia, per Troeltsch, la vita dello spirito non è chiusa in se stessa, nella sfera della interiorità. Infatti, nel momento in cui applichiamo il principio di causalità alla sfera dei fenomeni spazio-temporali, costituiti, quanto al contenuto, dal molteplice sensibile, cioè da una quantità di dati della coscienza, non è possibile non pensare ad una fonte di tali sensazioni e percezioni, cioè ad «una interazione tra il soggetto e gli influssi del mondo esterno»15. Sicché dall’analisi della coscienza emerge secondo Troeltsch l’esigenza razionale di ammettere «l’esistenza di un mondo trans-soggettivo e di un rapporto in linea di principio, in esso e in noi, tra lo spirito e il mondo sensibile della natura»16. Il cuore della vita spirituale si trova, secondo Troeltsch, nella volontà: è l’impulso, anzi una varietà di impulsi che sono alla base della nostra esperienza religiosa, morale, estetica etc. Quanto all’esperienza religiosa v’è nello spirito umano un impulso a cercare un punto fermo, un sostegno, un aspirare ad un fondamento, un desiderio di Dio. Agostino – ricorda Troeltsch – esprimeva questo desiderio e questa ricerca affermando: «Cor nostrum inquietum est, donec requiescat in Te». In questo senso si può parlare di un originario «impulso religioso». Ma tutta la vita spirituale trae il suo dinamismo, la sua inquietudine dall’impulso che muove la volontà, il che implica un qualcosa di altro dal soggetto che ecciti il sentimento, la volontà. Non solo a livello di coscienza; perché «l’impulso opera nelle profondità inconsce dell’anima e costituisce lo sfondo

14. Ivi, p. 391 (tr. it. cit., p. 89). 15. Die Selbständigkeit der Religion (1896), cit., p. 90 (tr. it. cit., p. 151). 16. Ivi, p. 92 (tr. it. cit., p. 153).

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della vita spirituale»17. La vita spirituale si dispiega attraverso una «connessione organica e teleologica […] con il mondo circostante» che accade originariamente inconsciamente. Proprio da questa connessione sorgono «gli impulsi e gli orientamenti di scopo che precedono la piena determinazione della coscienza e che sollecitano l’uomo ad un cosciente interrogarsi su quegli oggetti, obbligandolo a un conseguimento chiaramente cosciente di quegli scopi»18. L’impulso religioso è «l’“affezione” dell’anima, presente in ogni coscienza, e generata dal fondamento divino della vita»19. Troeltsch ritiene che nella coscienza vi siano principi a priori che rivelano la presenza del divino nello spirito umano: «una legge del dovere, un ordinamento morale, giuridico o sociale, un ideale che determina la vita e da realizzarsi in virtù della volontà o del senso divino del mondo»20. Ed è proprio la percezione di questa presenza del divino nella coscienza che dà all’anima la consapevolezza del suo distanziarsi e distinguersi dall’immediatezza della vita naturale e affermarsi come vita specificamente umana, come vita spirituale. Questa consapevolezza emerge con evidenza nel Cristianesimo. Qui l’anima «muovendo dalla comunione con Dio […] conduce una lotta instancabile con gli impulsi dell’egoismo e del peccato»21. Più in generale dalla separazione di Dio e natura, Dio e mondo, e dalla partecipazione dell’anima all’essenza divina, scaturisce un’antropologia dualistica, segnata dalla distanza tra anima e corpo, tra spirito e natura, e dalla lotta che l’aspirazione dello spirito all’universale e al bene comune ingaggia costantemente con l’impulso naturale alla chiusura singolaristica, all’egoismo, all’amore del 17. Ivi, p. 97 (tr. it. cit., p. 158). 18. Ibidem. 19. Ibidem. 20. Ivi, p. 188 (tr. it. cit., p. 190). 21. Ivi, p. 202 (tr. it. cit., p. 204).

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mondo, perseguendo il fine, morale e religioso insieme, della formazione della personalità, che nella città di Dio si scopre intimamente legata a tutte le altre personalità. 2. Coscienza critica e metafisica dello spirito Tornando all’analisi della vita spirituale come vita del soggetto, anche Troeltsch, come Dilthey, si propone il superamento del «fenomenalismo», ma, condizionato dalla interpretazione intellettualistica del «principio di fenomenalità», scorge l’unica via per questo superamento in «una ontologia o metafisica critica» che, pur muovendo dal punto di vista della «coscienza critica», riproponga la domanda intorno all’essenza delle cose e rielabori «i fatti definiti dalla scienza della natura nel quadro di un’adeguata teoria del rapporto tra natura e spirito»22. Proprio in questo punto si rivela, secondo Troeltsch, l’insufficienza del pensiero contemporaneo, approdante nel suo insieme ad «uno scetticismo di origine gnoseologica, che nella natura e nella vita spirituale si arresta ai fenomeni dati e rinuncia ad andare oltre essi e a svelare l’essere che è a loro fondamento»23. Troeltsch però non elabora un proprio tentativo di soluzione, ma, dichiarandosi in questo campo «riconoscente allievo dei filosofi» si ricollega, come si è già ricordato, a quei pensatori che dal terreno dell’analisi della coscienza e delle considerazioni gnoseologiche «hanno tratto inferenze ontologiche sull’universale essenza delle cose», ovvero una metafisica «inferenziale» dello spirito e della vita, e in modo particolare si ricollega a Lotze che gli suggerisce le argomentazioni decisive24. Se «la natura come noi la percepiamo esiste 22. Die christliche Weltanschauung, GS II, pp. 242-243. 23. Ivi, p. 235. 24. Ivi, pp. 245-246. Cfr. H. Lotze, Mikrokosmos, Bd. 3, Hirzel, Leipzig 1864, pp. 522-576. Su Lotze cfr. Historismus, GS III, pp. 24-25, 472-477 (tr.

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indubbiamente nel nostro spirito», si deve però riconoscere che «questa immagine sorge nello spirito in interazione con delle realtà transubiettive, che in questa interazione costringono lo spirito a reagire ai loro stimoli conformemente alle leggi della sua essenza»25. Anche per Kant «l’effetto sulla capacità di rappresentazione, prodotto da un oggetto, in quanto noi siamo modificati da quest’ultimo, è sensazione» e questa costituisce «la materia», il «molteplice dato» su cui si esercitano le funzioni unificatrici dell’intuizione e dell’intelletto, che rendono possibile l’esperienza26. Ma la domanda circa la realtà in sé di quest’oggetto delle apparenze – «l’oggetto non empirico, cioè trascendentale(=x)»27 – è per Kant improponibile28. Troeltsch con la sua spiegazione della genesi reale dell’esperienza con i concetti di «interazione», di «stimolo» e di «reazione», quindi con i concetti di spirito come soggetto reale e di «realtà transubiettive», viola questa prescrizione “critica”: «La natura e la sua legalità nella immagine universale a noi data» sono certamente «soltanto una rappresentazione dello spirito umano, ma ci sono tuttavia cose al di fuori di questo»29, in quanto presupposti e cause «non sensibili» delle sensazioni. E per quanto queste cose non possano essere direttamente conosciute nel it. cit., vol. II, pp. 71-72, 247-252). Sulla influenza della filosofia di Lotze in questa prima fase del pensiero di Troeltsch cfr. H. G. Drescher, Das Problem der Geschichte bei E. Troeltsch, in «Zeitschr. f. Theologie u. Kirche», 57 (1960), 2, pp. 188-190. 25. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 246. 26. Cfr. I. Kant, Werke in sechs Bänden, hrsg. v. W. Weischedel, Bd. II: Kritik der reinen Vernunft, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1983, pp. 69-70; 138-145(B) [tr. it. Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Einaudi, Torino 1957, pp. 75-76; 161-176(B)]. 27. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 169 (A) [tr. it. cit., p. 177(A)]. 28. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 382(A) [tr. it. cit., p. 441(A)]. 29. Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 246.

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loro essere in sé, esse «possono essere svelate indirettamente», «concepite come cose in sé [...] in analogia con lo spirito umano». Le conseguenze fenomenalistiche della “critica della ragione pura” vengono evitate riprendendo «l’antica idea della dottrina delle monadi, solo con l’affermazione di una interazione che ha luogo tra esse»; l’esperienza, il mondo conoscibile dall’uomo, è lo spazio aperto da questa interazione tra le monadi. La realtà è leibnizianamente concepita come una infinita pluralità di centri di forza e di attività individuali, caratterizzati da un diverso grado di spiritualità, dall’inconscio alla coscienza e all’autocoscienza, che interagiscono tra loro30. Le cose non sono realmente tali, morte oggettività inserite nel meccanismo naturale, quali si presentano nella coscienza e nella conoscenza dell’uomo, ma sono forze, centri di attività, gradi della vita spirituale: l’essere è Leben, Alleben, come Troeltsch ripeterà ancora in Der Historismus und seine Probleme. Delle “cose in sé”, delle altre “monadi”, lo spirito umano accoglie soltanto stimoli a partire da cui, in base alla propria struttura, alle proprie leggi, organizza il mondo dell’esperienza e della conoscenza, il mondo sensibile-intellettuale, che costituisce per lui la “realtà”, oltre la quale però deve pre-

30. Nel saggio del 1902 Leibniz und die Anfänge des Pietismus Troeltsch, sottolineando l’innovazione del pensiero di Leibniz rispetto al meccanicismo del suo tempo, scrive: «[Leibniz] poneva al posto degli atomi le monadi che, come centri di forza intellettuali in tutti i gradi di intensità, costituiscono gli elementi fondamentali della realtà effettiva; al posto della dottrina meccanicistica del movimento poneva la teoria della forza vitale […] nella volontà creatrice di Dio mostrava il fondamento del con-essere e della corrispondenza tra le monadi. Così considerava la prevalenza dello spirituale sulla natura: come tale [come natura] il corso delle cose si mostrava solo alla nostra facoltà rappresentativa; affermava il dominio degli scopi e dei valori divini […] soprattutto […] riusciva a introdurre la storia umana in questa struttura idealistico-teologica, in quanto lo stesso esserci mondano è solo il regno di centri spirituali attivi (E. Troeltsch, Leibniz e gli inizi del pietismo, tr. it. di R. Bonito Oliva, in Leibniz e la sua epoca, cit., p. 183).

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supporre una realtà fondamentale, di cui egli stesso è parte, e in rapporto a cui si definisce la sua “finitezza”, il suo “limite”. Non solo gli altri, le soggettività agenti con cui l’io individuale si sperimenta in rapporto di amore e di conflitto, ma anche le “cose” sono centri di attività, senza la cui azione non si dispiegherebbero le funzioni della vita spirituale. Quel che interessa Troeltsch non è però lo sviluppo coerente di questa «metafisica idealistica»31. Gli basta aver trovato nel pensiero moderno la possibilità di affermare «la priorità dello spirito rispetto alla natura e immette[re] i fatti della natura con la loro rigidità, la loro inerzia cosi morta e mortale, nella calda e mobile vita dello spirito»32. L’idealismo della visione cristiana del mondo, con la sua valutazione della vita spirituale e personale, non è più intralciato dai fatti definiti dalle scienze naturali, nella cui connessione necessaria non può rientrare lo spirito, che si riconosce come il suo “prius”, il suo fondamento, e neppure la realtà esteriore alla coscienza, al soggetto esperiente e conoscente, con cui questo interagisce, da questa interazione producendo la rappresentazione della natura, il mondo come immagine. Al tempo stesso, la metafisica idealistica consente anche di rispondere ai problemi posti dallo sviluppo delle scienze storiche e dal dispiegarsi della coscienza storica. Infatti, una volta messo da parte il soprannaturalismo, il rapporto tra validità assoluta o ideale e storia non può essere pensato che alla maniera dell’idealismo storico-evolutivo, che nella storia vede il progressivo sviluppo e attuarsi dell’ideale, dell’essenza di una determinata regione dello spirito o dello spirito nel suo insieme. «[La] visione storico-evolutiva [...] raccoglie i molteplici 31. «Noi non ci avventuriamo [...] nell’incognita terra della metafisica, ma restiamo agli stadi iniziali delle ricerche che si mantengono più vicini all’esperienza» (Die christliche Weltanschauung, GS II, p. 248). 32. Cfr. ivi, pp. 246-247.

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ideali storici nell’unità di una forza motrice fondamentale e di un fine ultimo»33. In questo senso, Troeltsch considera lo storia delle religioni come l’esplicitarsi graduale dello spirito divino nello spirito umano, nella sua lotta «contro il peccato e la natura, in India, in Persia e in Grecia proprio come in Palestina»34. Il Cristianesimo è, per Troeltsch, la forma relativamente più compiuta, «il culmine dello sviluppo religioso che si è avuto finora»; ma che sia «il compimento perfetto della religione», la meta finale dello sviluppo, può essere solo oggetto di fede, ma non può essere speculativamente dimostrato35. Tuttavia la visione storico-evolutiva della filosofia della religione presuppone una «metafisica» o una «ontologia dello spirito umano», vale a dire una «visione d’essenza» dello spirito umano, che si lascia cogliere dalla fenomenologia dell’accadere storico, in cui si manifesta la tendenza all’unità e alla realizzazione di sé dello spirito. Quindi non una «metafisica dell’Assoluto», alla maniera di Hegel, ma una «metafisica della storia ovvero dello spirito umano» che si esprime nella «convinzione […] che lo spirito umano sia un’unità in sé coerente» e «racchiuda in sé disposizioni e tendenze unitarie»36. Qui l’attenzione di Troeltsch si rivolge sia allo spirito individuale che

33. Geschichte und Metaphysik, p. 34 (tr. it. cit., p. 103). 34. Ivi, p. 37 (tr. it. cit., p. 107). 35. Ivi, p. 35 (tr. it. cit., p. 104). Su questo tema, ovviamente, è da vedere il già citato saggio del 1902, Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte (tr. it. L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni, cit.,). 36. Geschichte und Metaphysik, p. 42 (tr. it. cit., p. 112). Circa il rapporto con il pensiero hegeliano Troeltsch osserva che «se [ha] fatto riferimento a Hegel e [ai] filosofi hegeliani della religione, ciò facendo [ha] dichiarato esplicitamente che ciò non [è avvenuto] a motivo della metafisica hegeliana dell’Assoluto, bensì a motivo di quei momenti del concetto di sviluppo che nessuno ha analizzato così acutamente e lucidamente quanto lui, e che sono diventati un patrimonio comune» (Ivi, p. 43; tr. it. cit., p. 113).

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a quello collettivo, sia alle dimensioni dello spirito soggettivo che a quelle dello spirito oggettivo. Si tratta di comprendere come le disposizioni originarie dello spirito umano e le «forze ideali» della vita interiore si realizzino nell’interazione «con le condizioni fisiche della vita, con quelle etno-antropologiche, geografiche, tecniche economiche etc.»37; così come si tratta di descrivere e comprendere le relazioni tra l’individuo e la comunità, tra le personalità e la massa, tra i gruppi sociali e l’intero della vita di un popolo. Malgrado la cautela critica circa la possibilità di una conoscenza metafisica della realtà, quindi di una metafisica della natura e di una fondazione metafisica del rapporto tra natura e spirito, le domande intorno a questi problemi non possono essere in ultima istanza aggirati: «il rapporto ontologico della natura con la vita spirituale che da essa prorompe e la questione della correlazione teleologica di quella con questa sono e rimangono indirettamente anche per il nostro scopo [la filosofia della religione] problemi estremamente importanti»38. La metafisica, osserva acutamente Troeltsch, procede per cerchi concentrici; il cerchio su cui è possibile sviluppare una comprensione e una conoscenza più diretta è quello più interno, più prossimo al Sé, vale a dire la vita spirituale, mentre più difficile è la conoscenza che si può acquisire sui cerchi più lontani, quello della natura, e ancor di più quello della realtà nella sua totalità. Lo spirito è la nostra vita quale si presenta alla coscienza: i suoi momenti, i suoi movimenti, ci sono immediatamente dati nell’esperienza vissuta39. La considerazione dello spirito come «unità in sé coerente», che si manifesta in una molteplicità di fenomeni, sviluppando quindi in forme diverse un nucleo germinale unitario, porta alla definizione 37. Ibidem. 38. Ivi, p. 44 (tr. it. cit., p. 114). 39. Cfr. ivi, p. 45 (tr. it. cit., p. 115).

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di una nozione fondamentale sia per la comprensione dei fenomeni religiosi, sia più in generale per la comprensione dei fenomeni storici, vale a dire la nozione di «principio» (o anche di «essenza»), al punto tale che le due nozioni sono interscambiabili; basta qualche esempio: «principio del Cristianesimo» o «spirito del Cristianesimo», «principio del mondo moderno» o «spirito del mondo moderno», e così via. «Col termine “principio” va denotato ciò che dà a un grande insieme di fenomeni storici l’unità interna che trascende i singoli momenti, ciò che contiene in sé la forza evolutiva che spinge in avanti e si esplica nel movimento di adattamento e di effetto risultante, ossia il mistero di fondo della vita spirituale; in esso si trova la ragione per cui il grande contesto storico di un ambito di vita, nonostante tutta la sua molteplicità, può essere considerato come unità in sé coerente e come guidato da una forza germinale che lo spinge a venire fuori»40. Se riflettiamo su questa determinazione di teoria della conoscenza della storia vi ravvisiamo la specularità con la ontologia dello spirito, e vi possiamo ricavare le principali categorie dello spirito: la vita come dialettica di identità e distinzione, di unità e molteplicità, la forza vitale originaria, l’espressione, il significato, il fine. Altrettanto in esso è compresa la dialettica di individuale e universale, di individuo e comunità, di agire individuale e valori comunitari: «i contenuti della vita spirituale […], benché agiscano soltanto in individui, tuttavia in questi prorompono come una potenza reale dotata di autorità ideale che li sovrasta»41. Anche nella Glaubenslehre, sul piano della riflessione teologica, lo spirito si presenta come un principio, come un centro di forze, che si dispiega nel tempo assumendo figure sempre

40. Ivi, p. 56 (tr. it. cit., p. 129). 41. Ivi, p. 57 (tr. it. cit., p. 129).

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nuove. Con la morte sulla croce lo spirito di Cristo, lo spirito che procede dal Padre e dal Figlio, si è svincolato dall’apparizione storica in cui si era incarnato, e diviene la forza animatrice della comunità, che conserva nella comunità dei credenti i pensieri, gli insegnamenti di Gesù, e ne assicura la presenza nelle sempre nuove situazioni della storia. Lo spirito santo comunica in forme sempre nuove il principio cristiano, «rende il Cristo presente e lo mostra come una forza del divenire e del perfezionamento, dove i semplici pensieri principali religiosi del Vangelo diventano capaci di una sempre nuova, liberamente vivente applicazione»42. Lo spirito, che vive nelle comunità cristiane, presenzializza l’azione redentrice di Cristo, unificando storia e presente, il Gesù storico e il Cristo della fede. 42. Glaubenslehre, cit., p. 348. – «Il nostro vangelo […] non si è diffuso fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo», così afferma San Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi, e nella prima lettera ai Corinzi scrive: «E la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza […] Sta scritto: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano”. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuto conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali». Cfr. S.Paolo, Prima Lettera ai Tessalonicesi, 1, 5 (La Bibbia. Nuovo Testamento, versione a cura della C.E.I. La Biblioteca di Repubblica, Roma 2005, p. 2814; Prima Lettera ai Corinzi, 2, 3- 4; 9-13 (op. cit., pp. 2824-2825). Sul termine “spirito” e sulla dottrina dello Spirito Santo nell’Antico e nel Nuovo Testamento si veda Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, tr. it. di P. Crespi, Queriniana, Brescia 1999, Tomo I, Parte Prima (Le scritture canoniche). In relazione a Troeltsch si vedano anche i capitoli 7. (Gioacchino da Fiore. Fortuna del gioachinismo) e 8. (Pneumatologia nella storia del Protestantesimo) della Parte Seconda.

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L’unificazione, nello spirito, della storia e del presente e la sua apertura al futuro sono anche i caratteri della metafisica dello spirito umano o della storia, in forza di cui è possibile, secondo Troeltsch, porre un argine al «nichilismo europeo», all’illimitato relativismo, che appare come il pericolo estremo dinanzi a cui conducono lo storicismo del pensiero moderno e la sua opposizione al soprannaturalismo. L’atteggiamento ambivalente di Troeltsch verso lo storicismo, che appare già delineato nel saggio del 1897 sull’Aufklärung, viene formulato più compiutamente nel saggio dell’anno seguente Geschichte und Metaphysik, con un riferimento allo schema della seconda considerazione inattuale di Nietzsche su “utilità e danno della storia per la vita”. Troeltsch riconosce apertamente che nella situazione del pensiero moderno «non ci si può liberare daccapo dello storicismo e ripristinare il soprannaturalismo». E procede ad enumerare i vantaggi dello storicismo: «Una conoscenza straordinariamente estesa e intensificata del passato, quale non si era mai avuta precedentemente; un’analisi estremamente raffinata […] sorretta da un mirabile tatto nell’intendimento; una comprensione simpatetica dell’alterità che si spinge fino all’oblio di sé; la risoluzione di tutto quello che sembra stabile nel flusso del divenire: sono questi i pregi di tale situazione scientifica, mediante cui da tutti i punti di vista si è straordinariamente ampliata la nostra conoscenza della effettiva situazione reale»43. Ad un tempo, però, denuncia apertamente i suoi svantaggi, i suoi “difetti”: «il relativismo estetizzante, per cui ogni cosa diviene e tramonta, è relativa e condizionata; l’intellettualistico e camaleontico estraneamento di ogni convinzione personale; la inibizione di ogni produttività e di ogni robusta forza della semplice fede in norme di validità universale; il frammentarsi della scienza nella generazione di infinite imitazioni di ciò che è già stato; l’assuefarsi 43. Geschichte und Metaphysik, p. 68 (tr. it. cit., p. 143).

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alla mera routine dello specialismo storiografico: sono questi i gravi difetti del Historismus»44. Di qui derivano i «pericoli della situazione presente», i quali però devono essere affrontati ormai dal terreno stesso del pensiero storico e della filosofia moderna scaturita dalla cartesiana teoria della coscienza, e «possono essere superati soltanto per mezzo di una metafisica della storia, che sia in grado di far emergere il semplice, il permanente, il vero dello sviluppo storico come suo nucleo e, sul fondamento della fiducia nella razionalità della storia umana, sappia servire la fede»45. L’esigenza di una “metafisica dello spirito” si ripropone nel pensiero di Troeltsch anche quando la sua riflessione si concentra sulla logica della storia, a partire da un confronto con la teoria della storia di Rickert e da un “avvicinamento” alla filosofia dei valori windelbandiano-rickertiana. Come aveva indicato Rickert, gli oggetti storici si costituiscono come individuali totalità di valore, connessioni di eventi organizzati in base ad una «Beziehung auf Werte»46. In Der Historismus und seine Probleme Troeltsch chiarisce che si danno valutazioni di primo e di secondo grado. Le individualità storiche in base al loro «riferimento a valori» sono innanzi tutto valutate per se stesse, «oggettivamente» (critica immanente); ma poi esse vengono considerate nei loro rapporti nell’insieme dello sviluppo

44. Ivi, pp. 68-69 (tr. it. cit., p. 143). 45. Ivi, p. 69 (tr. it. cit., p. 144). 46. Cfr. H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, cit., pp. 339-359; Id. Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft. 4. e 5. edizione migliorata, Mohr, Tübingen 1921, pp. 21-22; M. Weber, L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904), tr. it. in Il metodo delle scienze storico-sociali, a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino 1958, pp. 86 ss.

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storico e vengono perciò valutate anche in base ai criteri di valutazione del presente47. La ricerca dei valori in vista del nostro agire ci orienta necessariamente verso «il campo dell’irripetibile e del particolare», quindi verso la storia, e ciò è possibile perché tra le «individualità» storiche, lungo la linea dello sviluppo, vi è originariamente una «comunanza» che attraversa i «differenti»48. Emerge qui il riferimento alla vita spirituale che stringe assieme individui e comunità, il riferimento quindi ad uno «spirito comune», che contrassegna le individualità storiche tanto singole che collettive e che è alla base dello sviluppo storico. 3. «Il tormento del mondo moderno». Individualità e spirito comune Il tema dello “spirito comune” si presenta nella sua forma più articolata e problematica nella riflessione che Troeltsch svolge sulla situazione dell’etica nel mondo moderno, in rapporto alla teoria della storia, nel testo, già ricordato, delle tre conferenze preparate per un seminario su “Etica e filosofia della storia” che avrebbe dovuto tenere all’Università di Londra nel marzo del 1923 (la terza reca proprio il titolo “Der Gemeingeist”). L’obiettivo del seminario è quello di sviluppare un’analisi della coscienza morale al fine di rispondere alla domanda di come sia possibile che, nonostante «la complessità e la condizionatezza storica delle norme», in ogni presente sia «concepita una posizione normativa»49, in grado di corrispondere al «bisogno

47. Cfr. Historismus, GS III, pp. 172, 177 (tr. it. cit., vol. I, pp. 201-202, 206). 48. Cfr. Moderne Geschichtsphilosophie, GS II, p. 724 (tr. it. cit., p. 388). 49. E. Troeltsch, Ethik und Geschichtsphilosophie, KGA, 17, p. 71 (tr. it. cit., p. 127).

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dello spirito umano di dare forma e porre un limite tramite salde norme alla corrente della vita storica»50. Il dato che immediatamente emerge dall’autoriflessione della coscienza morale (Gewissen) e dalla considerazione delle forme storiche in cui si è oggettivata è la sua peculiare «complessità», per cui si presenta scissa nella sfera delle virtù e dei doveri e in quella dei beni oggettivi, dei valori culturali. Da questa scissione si originano due forme di etica, «la morale della coscienza e della personalità» e l’«etica del valori culturali». La Gewissensmoral ha il suo valore o fine fondamentale nella formazione della personalità che si attua nell’esercizio da parte del soggetto delle virtù e dei doveri sia verso se stesso che verso gli altri, virtù e doveri che implicano una costante lotta tra l’elemento spirituale e quello naturale, tra la ragione e la sensibilità, tra la volontà e l’istinto. Per il carattere finito dell’uomo la personalità è essenzialmente un compito che si attua attraverso «l’obbedienza e la dedizione ad una tendenza verso il dovere (Sollen), che è analoga alla tendenza verso la verità e l’esattezza logica e, come questa, proviene dagli strati spirituali più profondi del nostro essere»51. In relazione al comportamento verso se stessi, il comportamento morale si determina nelle «esigenze puramente formali» della «veridicità e della coerenza», dell’«intenzione di un orientamento verso i valori morali interiori», del «rigore» e della «tenacia nella coerente formazione di sé»: virtù e doveri riassumibili sotto l’unico dovere di acquistare ed affermare la «dignità etica» ovvero «la dignità umana». In relazione al comportamento verso gli altri la celebre formulazione kantiana dell’imperativo categorico contiene «tutto l’essenziale» e, l’agire morale si determina come «comprensione e conside50. Ivi, p. 68 (tr. it. cit., p. 123). 51. Ivi, p. 73 (tr. it. cit., p. 129).

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razione dell’altro non semplicemente come mezzo, ma ad un tempo come fine in sé, che, altrettanto quanto noi, possiede dignità umana o a questa è chiamata»52. Questi principi e valori della coscienza morale attengono anche alle comunità in cui egualmente la vita spirituale deve affermarsi sulle tendenze naturali, dando vita a una «morale della solidarietà», e nei rapporti tra le comunità, tra i gruppi, tra gli Stati, devono valere le stesse «esigenze di giustizia e di bontà, di riconoscimento e di educazione, di rispetto e di promozione». Si viene così configurando «l’ideale dell’umanità e della comunità umana», rispetto al quale si affermano «le dottrine […] della giustizia internazionale, dei diritti umani e del progresso»53. L’attuazione nella realtà effettiva, nella storia, di queste esigenze morali universalmente valide è estremamente difficile, perché lo spirito umano trova sempre la resistenza e il contrasto delle tendenze naturali. «Il conflitto tra natura e morale, tra esigenze dell’autoconservazione e della formazione della personalità non si può mai completamente comporre […] l’uomo è e resta, allo stesso tempo, essenza naturale ed essenza razionale»54. Perciò la regolazione della vita storica attraverso la morale della coscienza o morale soggettiva è sempre problematica e affidata al «compromesso»55, alla mediazione, che ogni personalità riesce ogni volta ad attuare: «è un atto 52. Ivi, p. 74 (tr. it. cit., pp. 130-131). 53. Ivi, pp. 75-76 (tr. it. cit., p. 132). 54. Ivi, p. 78 (tr. it. cit., pp. 135-136). 55. Sul complesso concetto di “Kompromiss” il cui significato, fondato sul piano dell’ontologia dello spirito, si declina nell’ambito della filosofia della religione e della filosofia della storia, e nell’ambito etico-politico, si veda l’importante studio, già ricordato, di Geneviève Médevielle, L’Absolu au coueur de l’histoire. La notion de compromis chez Ernst Troeltsch. Si veda anche M. Piccinini, Teologico e sociologico in Troeltsch. Ancora sulla nozione

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relativo, che realizza norme assolute secondo la possibilità e porta in sé la sua sua stessa assolutezza come decisione e determinazione della personale coscienza»56. Nel suo concreto esercizio la Gewissensmoral diviene perciò etica della responsabilità e della decisione, o, come pur si potrebbe dire, etica della situazione57. Il carettere problematico dell’etica moderna deriva dal suo principio e valore fondamentale, che è il principio dell’individualità, che fonda la propria vita spirituale sulla libertà, sull’autonomia, sulla decisione personale. Sicché ogni volta l’unificazione tra morale della coscienza e etica dei valori culturali o dei beni è il risultato di un compromesso realizzato dal soggetto individuale nella sua autonomia. Senonché una vita etica effettiva richiede che i valori che orientano l’agire siano non meramente soggettivi e individuali, ma siano intersoggettivamente validi, e costituiscano quindi l’oggetto di un dovere condiviso. Il che significa che è necessario il formarsi di uno spirito comune. «Ogni soluzione reale esige convinzioni di massa, spirito comune […] pubblica opinione»58. Proprio in relazione a questa situazione, acutamente Troeltsch scrive: «appunto ciò sembra essere soprattutto la maledizione e il tormento del mondo moderno, il fatto che esso conosce solo soluzioni individuali che giocano l’una accanto all’altra, ma nessuno spirito comune, nessuna autorità, nessuna tradizione, nessuna realtà sovraindividuale di forze spirituali che possano fungere da guida»59. Certo, l’emancipazione da autorità con-

di compromesso, in Ernst Troeltsch. Religioni, chiese, modernità, cit., pp. 309, 313-315, 327-329. 56. Ethik und Geschichtsphilosophie, KGA, 17, p. 79 (tr. it. cit., p. 137). 57. Cfr. cap. I, pp. 54 ss. 58. Ethik und Geschichtsphilosophie, KGA, 17, p. 94 (tr. it. cit., p. 155). 59. Ibidem, cors. ns.

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fessionali o politiche con l’affermazione dei principi del liberalismo costituisce un valore fondamentale del mondo moderno, e tuttavia la tendenza ad un illimitato relativismo o politeismo dei valori rischia di riproporre la prevalenza di atteggiamenti confessionali, autoritari, fondamentalisti. In realtà, secondo Troeltsch, si può contrastare «l’anarchia dei valori», solo prendendo coscienza della pluralità di sistemi culturali, di posizioni etico-politiche, e dispiegando quindi la volontà di costruire uno “spirito comune” per ogni cerchia culturale, per ogni ambito sociale e politico più o meno ampio. La presenza ricorrente di concetti e valori morali universali come quelli di dignità umana e giustizia, purezza e bontà fanno pensare ad uno spirito comune universale, ma la concreta realtà della vita storica si svolge «in una pluralità di cerchie, delle quali ciascuna ha un proprio spirito etico comune»60. Lo spirito comune universale, l’idea della comune umanità, è come «un’atmosfera che ci avvolge e perciò inafferrabile», ma nella effettiva vita storica si mostra «una pluralità di spiriti comuni o di cerchie comunitarie con basi spirituali ogni volta diverse» che, nel caso della storia europeo-americana, vanno dalla cerchia amplissima dell’umanità alla cerchia della cultura occidentale, alle varie nazioni, alle classi sociali, alle famiglie, alle confessioni religiose, alle associazioni della società civile, fino alle scuole di pensiero61. È quindi impossibile costruire una comunità universale unitaria e un corrispondente spirito comune universale, specialmente sul piano delle convinzioni religiose e dei sistemi filosofici. L’unificazione più che nelle idee, negli elementi ideologici e sovrastrutturali, si può trovare nelle strutture economico-sociali; qui gli interessi comuni o anche le situazioni di crisi e di pericolo favoriscono la

60. Ivi, p. 99 (tr. it. cit., pp. 160-161). 61. Ibidem (tr. it. cit., p. 161).

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creazione di uno spirito comune: «Sotto la spinta di interessi materiali per lo più abbastanza chiari e in momenti di pericolo reale o presunto i gruppi crescono insieme fino a diventare spiriti comuni»62. Si tratta di prendere atto di questa pluralità e di riservare alla comunità più ampia, quella universale dell’umanità, uno spazio libero per sviluppare un atteggiamento di comprensione e tolleranza reciproca tra i vari spiriti comuni. All’interno di questi ultimi vanno rafforzati, secondo la loro ampiezza, i possibili elementi di comunanza, senza pretendere impossibili assolute identità. Il che può accadere, secondo Troeltsch, in primo luogo nell’ambito della società civile, accanto o indipendentemente dalle Chiese, attraverso l’incontro tra personalità moralmente motivate, mosse dal desiderio di «allargare in comunità di persone, fondate su sentimenti di amore, quel che nella sintesi individuale è stato colto come universale e necessario»63. Il difficile rapporto tra storia e norme, tra la molteplice e diveniente corrente della vita e le forme, le sue stabilizzazioni e configurazioni di senso, non trova più «una Chiesa unita» in grado di imporre uno spirito comune unitario, e il compito di cercare di produrre questa unione «è toccato a una pluralità di Chiese e accanto ad esse ad associazioni e unioni personali […]. Non c’è una soluzione radicale e assoluta, ci sono solo soluzioni parziali, in lotta tra loro»64. Solo volgendo lo sguardo al di là della storia è possibile anticipare una soluzione degli enigmi e dei disordini, delle contraddizioni e delle lotte che la costituiscono, «in quella terra ignota, alla quale alludono tante cose nella storica lotta dello spirito per innalzarsi fino ad essa,

62. Ivi, p. 100 (tr. it. cit., p. 162). 63. Ivi, p. 102 (tr. it. cit., p. 165). 64. Ivi, p. 103 (tr. it. cit., pp. 166).

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e che tuttavia essa stessa non diventa mai visibile»65. Ma, volendo restare nell’ambito della storia, non si può andare oltre la costruzione di «una storia universale […] organizzata a partire da una sintesi culturale del presente»66, che scaturisce da una ricognizione empirica, il più possibile obiettiva della storia e dalla presa di posizione personale in base ai valori morali avvertiti nella propria coscienza, e la decisione di agire in vista della comunicazione di questa sintesi e del coinvolgimento di altri intorno ad essa 67.

65. Ivi, p. 104 (tr. it. cit., p. 167). 66. Der Historismus und seine Probleme, GS III, p. 692 (tr. it. cit., vol. II, p. 454). 67. Cfr. Ivi, pp. 692-693 (tr. it. cit., vol. II, pp. 454-455).

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V Una possibile sintesi culturale. La costruzione dell’idea di Europa e il destino della Germania

1. Il diritto naturale e il riesame di sé dello storicismo Nella sua critica della dottrina del diritto naturale Hans Kelsen, a proposito della teoria del diritto naturale della Chiesa, osserva conclusivamente che “come lo Stoa anche la religione cristiana con la sua contraddittoria teoria di un duplice diritto naturale mira essenzialmente ad una giustificazione conservatrice del diritto positivo»1, e in nota rinvia al saggio di Troeltsch, del 1911, Das stoisch-christliche Naturrecht und das moderne profane Naturrecht. In questo saggio, come nella più ampia trattazione del diritto naturale nell’ambito delle Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, Troeltsch ricostruisce la storia del diritto naturale dalla sua originaria delineazione nello stoicismo alla recezione di questa nel pensiero cristiano, fino alla sua versione secolarizzata nel pensiero laico giuridico ed etico-politico moderno, sia empiristico che razionalistico.

1. H. Kelsen, Il problema della giustizia, tr. it. a cura di M. G. Losano, Einaudi, Torino 1975, p. 117.

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Come si è già ricordato, Troeltsch distingue – come fa poi anche Kelsen – tra diritto naturale assoluto e relativo, e si sofferma ampiamente sul diritto naturale relativo delle Chiese, osservando che esso, specialmente nell’ambito della Chiesa cattolica e di quella luterana, ha svolto, come ribadisce Kelsen, una funzione prevalentemente conservatrice. Tuttavia Troeltsch, a differenza di Kelsen, rivolge la sua attenzione anche alla storia del diritto naturale assoluto, che ha continuato ad operare sia pure in forma minoritaria nelle stesse Chiese e si è espresso soprattutto nell’ambito delle sette da lui definite “combattive” e “riformatrici”. Inoltre, ritiene che nel Calvinismo e nel Protestantesimo ascetico anche il diritto naturale relativo, assumendo in sé aspetti del diritto naturale assoluto, ha avuto una funzione riformatrice e determinante per la formazione del pensiero liberale e democratico moderno. Ancor più in generale, Troeltsch, sulla base anche della ricostruzione storica proposta da Otto von Gierke (Das deutsche Genossenschaftsrecht e Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien), ritiene che lo stesso diritto naturale relativo della Chiesa antica e medievale, così come delle Chiese luterane, ha esercitato una duplice funzione. Da un lato, per lo più e in superficie, il diritto naturale relativo è servito a giustificare «il processo storico in cui l’ordinamento giuridico si è formato come indiretta istituzione divina», a «divinizzare» quindi «tutte le formazioni del diritto positivo», considerate come «poena et remedium peccati»2. Dall’altro lato, però, «questo stesso diritto naturale relativo si trasforma sottomano in un principio radicale e perfino rivoluzionario di critica verso tutti i poteri, le forme del diritto e gli

2. E. Troeltsch, Il diritto naturale stoico-cristiano e il moderno diritto naturale profano, tr. it. in E. Troeltsch, L’essenza del mondo moderno, cit., p. 111.

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ordinamenti che non adempiono più allo scopo razionale della disciplina, dell’ordine e dell’armonia, ovvero intralciano l’opera salvifica del regno della grazia, cioè della Chiesa»3. In altri termini, malgrado la sua relatività allo stato di peccato, il diritto naturale continua a funzionare, secondo Troeltsch, come criterio di valutazione rispetto al diritto positivo, mentre da Kelsen il diritto naturale relativo viene completamente assimilato al diritto positivo e considerato perciò come una nozione contraddittoria, che infirma l’intera teoria del diritto naturale. Proprio poggiando sulla valenza ideale e normativa del diritto naturale, anche di quello relativo, Troeltsch, all’indomani della “catastrofe” della prima guerra mondiale, ha manifestato l’esigenza di ripensare la tradizione del diritto naturale sia per tentare sul piano etico-politico di ricostruire una comunicazione tra i popoli europei, sia per porre sul piano teorico e ideale le basi per una nuova «sintesi culturale», in grado di fornire criteri ultimi di valutazione universalmente validi (almeno nell’ambito della cerchia culturale europeo-americana). In particolare, mi riferisco al testo della conferenza tenuta da Troeltsch nel 1922 all’Istituto superiore tedesco di politica intitolata “Diritto naturale e umanità nella politica mondiale”4 3. Ivi, p. 112 4. E. Troeltsch, Naturrecht und Humanität in der Weltpolitik. Vortrag in der deutschen Hochschule für Politik (1922), «Weltwirtschatliches Archiv», Bd. 18, H. 3, pp. 485-501, ripreso in E. Troeltsch, Deutscher Geist und Westeurope. Gesammelte kulturphilosophische Aufsätze und Reden, hrsg. von H. Baron, Nachdruck der Ausgabe, Tübingen 1925, Scientia Verlag Aalen 1966, pp. 3-27 (tr. it. di A. R. Carcagni, Diritto naturale e umanità nella politica mondiale, in Appendice al volume che comprende la traduzione italiana degli Spektator-Briefe (Le lettere dello spettatore): E. Troeltsch, La democrazia improvvisata. La Germania dal 1918 al 1922, a cura di F. Tessitore, cit., pp. 371-391. Per una ricostruzione e valutazione del pensiero politico di Troeltsch rinvio in primo luogo a W. Köhler, Ernst Troeltsch, cit., pp. 292-330, F. Meinecke, Introduzione a Le lettere dello spettatore, tr. it.

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che prendeva le mosse dalla distinzione tra due “mentalità”, quella “europeo-occidentale” e quella “tedesca”, a cui sul piano politico corrispondono due distinte e spesso opposte concezioni della società e dello Stato: quella democratica e progressista e quella conservatrice d’impianto storicistico e organicistico. La distinzione è nata, secondo Troeltsch, dal fatto che la Germania si è progressivamente distaccata dalle idee di diritto naturale e di umanità, che costituiscono il fondamento della mentalità europea quale si è venuta edificando a partire dall’età ellenistica e cristiana. Nel pensiero etico-politico europeo-occidentale – argomenta Troeltsch – ha dominato l’idea di «un eterno ordine razionale conforme alla legge divina, che fonda insieme morale e diritto», mentre nel pensiero tedesco ha prevalso l’idea di «una incarnazione individuale, sempre nuova e vivente dello spirito

in E. Troeltsch, La democrazia improvvisata, cit., pp. 15-19 e F. Tessitore, Troeltsch politico, in F. Tessitore, Storicismo e pensiero politico, Ricciardi, Milano-Napoli 1974, pp. 185-241. Cfr. inoltre: G. Schmidt, Deutscher Historismus und der Uebergang zur parlamentarischen Demokratie. Untersuchungen zu den politischen Gedanken von Meinecke-Troeltsch-Weber, Matthiesen Verlag, Lübeck/Hamburg 1964; F. Tessitore, La svolta dello storicismo negli anni di Weimar, in «Rivista storica italiana», XCI, 1979, 4, pp. 591-616; G. Cantillo, Religione, etica e politica nel pensiero di Ernst Troeltsch, in «Archivio di storia della cultura», 1994, pp. 115-140; G. Cantillo, Introduzione a Troeltsch, cit., pp. 51-59 – alla Introduzione rinvio per una visione d’insieme del pensiero di Troeltsch e per la storia della critica e la bibliografia (curate da Fiorella Battaglia); J. Leonhard, «Über Nacht sind wir zur radikalsten Demokratie Europas geworden». Ernst Troeltsch und die geschichtspolitische Überwindung der Ideen von 1914, in «Geschichte durch Geschichte überwinden». Ernst Troeltsch in Berlin, hrsg. v. Fr. W. Graf, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 2006, pp. 205-230; L. Dumont, L’idéologie allemande. France-Allemagne et retour, Gallimard, Paris 1991: L’idée allemande de liberté selon Ernst Troeltsch, pp. 59-74; M. Martirano, «Anni simbolici». Le idee intorno al 1914 di Ernst Troeltsch, in «Archivio di storia della cultura», XXIX, 2016, pp. 615-630; in appendice la traduzione italiana de Le idee del 1914 di Ernst Troeltsch, pp. 631-653.

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storicamente produttivo»5. Ora, se è vero che la concezione della realtà fondata sull’individualità, intesa sia come singola che come collettiva, ha reso possibile la comprensione della storia e della vita umana come vita storica (ed è questo – osserva Troeltsch – il grande merito del pensiero tedesco, e anche il suo progresso rispetto all’Illuminismo e al suo erede, il Positivismo), è altrettanto innegabile che l’idea di individualità ha avuto anche «conseguenze assai scabrose»6. Infatti, mentre il pensiero romantico e la filosofia classica, ovvero l’Idealismo tedesco, avevano ancora un orizzonte storico-universale, una filosofia della storia, lo sviluppo della ricerca in senso particolaristico – con il suo svincolarsi non solo dalla filosofia della storia allora dominante, ma in generale dalla filosofia, e il suo tramutarsi e disperdersi nell’erudizione – «ha in gran parte devitalizzato e reso completamente relativistica la storiografia [tedesca]»7. Per fronteggiare quest’ultima tendenza, Troeltsch ritiene necessario «un ritorno al pensare storico-universale e al sentimento della vita». In questa prospettiva è decisivo riconoscere che «nell’idea dei diritti dell’uomo, che non vengono concessi dallo Stato ma servono allo Stato e ad ogni società come presupposti ideali, è insito un nucleo di verità e di esigenze dell’ethos europeo che non deve essere trascurato, ma dev’essere inserito [nelle] idee [del pensiero storico]»8. Al di là della validità e del rispetto dell’idea di individualità, tanto singolare, quanto nazionale, al di là del carattere individuale di ogni 5. Ivi, p. 7 (tr. it. cit., p. 374). 6. Ivi, pp. 21-22(tr. it. cit., pp. 386-387).«A lungo andare – continua Troeltsch – soprattutto la visione storico-universale è stata dissolta, frantumata, relativizzata e trasferita nel particolarismo metodicamente garantito oppure nell’autonoma visione meramente nazionale». 7. Ivi, p. 22 (tr. it. cit., p. 387). 8. Ivi, pp. 24-25 (tr. it. cit., p. 389).

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comunità, deve persistere «l’orizzonte del cosmopolitismo e della comunità umana», come «un’esigenza e un presupposto morali», come «un ideale a cui non si rinuncia»9. Da questo punto di vista Troeltsch riconosce la validità dell’idea di una Società delle nazioni, così come di ogni forma di organizzazione internazionale o anche statale intesa a vincere e limitare l’egoismo, le forze distruttrici, la violenza. Nelle idee che portano all’affermazione di diritti umani universali c’è «un nucleo morale che non si può perdere»: anche se queste idee trovano difficoltà a realizzarsi, anche se vengono stravolte e strumentalizzate, anche se di esse si è fatto un abuso, non possono essere abbandonate. Qui, oggettivamente, il diritto naturale si congiunge con il pensiero utopico, un pensiero necessario a controllare e trasformare il presente a e costruire il futuro. Di ciò era ben consapevole Troeltsch, che perciò nella ripresa così configurata degli ideali giusnaturalistici scorgeva non tanto, o non soltanto, una delle forme del «riesame di sé» dello storicismo, quanto più in generale un aspetto essenziale del «programma del ripiegamento su di sé del pensiero etico, politico e storico tedesco» in opposizione alle «conclusioni scettiche, amoralistiche, pessimistiche, di politica violenta, e ciniche dell’estetismo e dell’individualismo romantici» che si presentavano in modo paradigmatico in un libro di ispirazione nietzscheana qual era Il tramonto dell’Occidente spengleriano10.

9. Ivi, p. 25 (tr. it. cit., ibidem). 10. Ibidem (tr. it. cit., p. 390). Su Troeltsch e Spengler si vedano le acute osservazioni di Domenico Conte in Storicismo e storia universale, cit., pp. 59-68.

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2. La «costruzione della storia della cultura europea» e la scelta per la democrazia L’attuazione di questo programma di riesame di sé del pensiero etico, politico e storico tedesco dovrebbe portare alla elaborazione di una nuova «sintesi culturale» che esige in primo luogo, secondo Troeltsch, una «costruzione» dell’idea di Europa fondata sulla comprensione della genesi e dello sviluppo del mondo moderno. L’Europa moderna, «il mondo che noi ancora oggi siamo – dice Troeltsch – all’interno del quale ogni cosa può esserci facilmente familiare e comprensibile», è una realtà molto differenziata e complessa, che ha «un contenuto spirituale straordinariamente ricco e variegato, che non proviene soltanto da se stessa, ma in gran parte da tutta la nostra storia a partire dai Greci»11. Di questo contenuto Troeltsch intende mettere in risalto gli elementi fondamentali, ovvero «le forze o potenze fondamentali» che hanno contribuito alla elaborazione delle «stratificazioni» della «cerchia culturale» europea. Premesso che nella «Grecità» sono stati assorbiti e trasfigurati anche la maggior parte degli apporti che sono venuti dall’Oriente, la prima potenza fondamentale è costituita dall’unico elemento dell’Oriente che ha ancora importanza autonoma anche per la civiltà europeo-occidentale, vale a dire «il profetismo ebraico e la Bibbia ebraica»12. La seconda potenza fondamentale è la «Grecità classica», la civiltà della polis, «luogo sorgivo della libera educazione artistica e scientifica»13. La terza potenza fondamentale è «il mondo dell’imperialismo antico, la monarchia ellenistico-romana, che con costruzioni, strade, diritto, amministrazione, lingua e tecnica, costituisce, nel senso più letterale, il

11. Historismus, GS III, p. 765 (tr. it. cit., III, p. 88). 12. Ibidem (tr. it. cit., III, p. 89). 13. Ivi, p. 766 (tr. it. cit., III, p. 89).

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fondamento dei popoli romano-germanici»14. A questa potenza si collegano due idee principali della civiltà europea: l’idea dello Stato burocratico-militare e l’idea di una religione universale. Da quest’ultima idea è nata la Chiesa che «in quanto ultima forma di vita dell’Antichità ha portato Stato e diritto, cultura e scienza ai barbari»15. La quarta potenza fondamentale è costituita per Troeltsch dal «Medioevo occidentale», in cui sono confluite le culture della Chiesa, del mondo bizantino, degli Arabi. È questa potenza, la civiltà medievale, secondo Troeltsch, «l’autentico grembo materno» di tutto ciò che forma «l’essenza» dell’Europa moderna. Anche se la maggior parte degli europei non ne ha coscienza, in essa hanno le loro «radici» non solo «le nostre istituzioni politiche e sociali», ma anche le forme della nostra vita spirituale e quell’elemento che caratterizza l’europeismo e lo distingue da altre civiltà, e che è costituito dal sentimento dell’interiorità e dalla tensione verso l’infinito16. L’approfondimento della storia dello spirito europeo attraverso le quattro potenze fondamentali indicate deve costituire, secondo Troeltsch, la cornice ideologica in cui deve inserirsi la «sintesi culturale del presente», che nella sua concreta determinazione deve attenersi invece più strettamente alla storia del mondo moderno a partire dall’epoca di transizione del XVI secolo e ad un’analisi precisa «del presente ordinamento sociale della vita, delle sue forze che si spingono in avanti, di quelle che si inaridiscono e di quelle che persistono»17. La «costruzione della storia della cultura europea», con cui si conclude it primo libro di Der Historismus può costituire «la 14. Ibidem (tr. it. cit., III, p. 90). 15. Ivi, p. 767 (tr. it. cit., ibidem). 16. Ibidem. 17. Ivi, p. 771 (tr. it. cit., III, p. 95).

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piattaforma» su cui fondare «una nuova creazione», cioè la sintesi culturale del presente, di cui il secondo libro avrebbe dovuto delineare i contenuti. Purtroppo l’immatura scomparsa di Troeltsch non ha reso possibile l’attuazione del progetto di cui peraltro egli ben riconosceva la estrema difficoltà e problematicità. Un siffatto progetto – scrive Troeltsch alla fine di Der Historismus – «è l’azione creativa e la rischiosa impresa di coloro i quali credono nel futuro [...], di uomini credenti e coraggiosi, non scettici e mistici, non fanatici razionalisti e uomini storicamente onniscienti». Inoltre «non può essere l’opera di un singolo», ma di molte individualità, che dapprima lo portano innanzi nella propria silenziosa ricerca personale e poi lo partecipano a cerchie più ampie18. Da parte sua, circa il contenuto della sintesi culturale, una traccia Troeltsch l’ha lasciata. Scavalcando «le idee del ’14», a cui pur aveva dato il suo contributo, già negli anni della guerra, a partire dal 1916, Troeltsch, come Meinecke e Weber, si esprime in favore di una «democratizzazione» della vita politica del Reich e di una «forma costituzionale» che, come ha osservato Schmidt, «confermando la dottrina della ragion di Stato faccia partecipare però i partiti, in quanto organi di integrazione sociale, alla formazione della volontà dello Stato». Poi con la fine tragica della guerra e l’avvio dell’esperienza repubblicana di Weimar, Troeltsch si schiera nettamente per la democrazia19. Come ha scritto efficacemente Fulvio Tessitore, l’evoluzione catastrofica della guerra segna «la crisi della illusoria, pericolosa conciliazione di spirito e potenza su cui poggiava la valutazione positiva dello Stato bismarckiano» e questo poneva Troeltsch, «l’intellettuale deluso che non aveva voluto unire la

18. Ibidem. 19. Cfr. G. Schmidt, Deutscher Historismus und der Übergang zur parlamentarischen Demokratie, cit., pp. 26-28, 36-37, 192-194, 197.

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sua voce ai canti sfrenati del nazionalismo», di fronte ad una drastica alternativa: «abbracciare – contraddicendo se stesso – il revanscismo degli intellettuali borghesi sempre più reazionari, oppure aderire senza riserve, col cuore e con la ragione [con una espressione di Meinecke] alla democrazia uscita dal crollo della monarchia militaristica e imperialistica. È questa la scelta di Troeltsch»20: «Scomparse le vecchie potenze ed autorità – scrive nell’articolo sulla “democrazia tedesca” della fine di dicembre 1918 – [il nuovo Stato] richiede di essere fondato sull’unica cosa che rimane, su una volontà popolare che dà una costituzione, volontà che sola può dare a tutte le nuove formazioni sanzione ed efficacia, richiede l’elaborazione di una nuova vita politica sulla base della democrazia, perché non c’è più altra base»21. La democrazia appare a Troeltsch come l’unica via «per conservare la comunità popolare e insieme i valori della nostra storia»22 dopo il crollo del Reich e la rivoluzione socialista del 9 novembre 1918. «La salvezza – scrive Troeltsch in una “corrispondenza” datata 16 novembre 1918, pochi giorni dopo la proclamazione della Repubblica – può venire solo dai principi della democrazia pura». E – probabilmente di fronte all’«azione operaia»23 che già il 10 novembre nell’assemblea

20. F. Tessitore, Troeltsch politico (1974), in F. Tessitore, Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, vol. IV, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1998, pp. 128-129. 21. E. Troeltsch, La democrazia tedesca (29-dicembre-1918), pubblicato nel «Kunstwart» nell’agosto del 1919, in E. Troeltsch, Le lettere dello spettatore, tr. it. cit., pp. 268-269. 22. Cfr. Fr. Meinecke, Introduzione a Le lettere dello spettatore, tr. it. cit., p. 17. 23. Traggo l’espressione dal titolo di un saggio di Gian Enrico Rusconi (Azione operaia e sistema democratico, in Weimar. Lotte sociali e sistema democratico nella Germania degli anni ’20, a cura di L. Villari, Il Mulino, Bologna 1978, pp. 43 ss. Il saggio si propone di mettere in rilievo la peculiare modalità del rapporto «tra la classe operaia e gli apparati di rappresentanza

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plenaria dei consigli degli operai ha portato alla istituzione del governo dei sei commissari del popolo appartenenti ai socialisti maggioritari e ai socialisti indipendenti24 – aggiunge: «solo il principio maggioritario della democrazia pura può salvarci dalla provvisorietà e dal pericolo del caos, con l’aiuto di un’assemblea nazionale»25, che dovrà rendere possibile la presenza di più formazioni politiche, impedendo che si concretizzi il dominio della «dittatura del proletariato»26. Al di là della situazione contingente della Germania, la democrazia costituisce per Troeltsch «la conseguenza naturale» dei processi economici, sociali, politici e culturali del mondo moderno. Non solo, ma a suo fondamento vi è la teoria giusnaturalistica cristiana e moderna dei diritti umani fondata sulla concezione dell’uomo come personalità. Come Troeltsch ha sostenuto fin dal 1904, nel primo importante scritto dedicato alla politica, Politische Ethik und Christentum, l’idea della democrazia è «un principio puramente etico» che trova una esemplare espressione nel kantiano “regno dei fini” e nel diritto di ogni uomo di essere considerato come valore e “fine in sé”. Da questo principio etico scaturiscono conseguenze politiche e sociali di grande portata, perché – scrive Troeltsch democratica» negli anni di Weimar. La democrazia della repubblica di Weimar secondo Rusconi può essere definita come «democrazia contrattata», che riproduce i «compromessi o patti che si stringono nelle settimane del crollo dell’Impero, nel clima della sconfitta, tra le forze del vecchio potere (élite burocratico-ministeriale, padronato privato, vertici militari) e i rappresentanti delle organizzazioni operaie maggioritarie» (p. 43). In questo orizzonte storico-politico, che trova espressione nella Costituzione del 1919, si inserisce anche l’idea troeltschiana dell’alleanza tra borghesia e movimento operaio. 24. Cfr. A. Rosenberg, Storia della repubblica di Weimar, tr. it. di L. Paggi, Sansoni, Firenze 1972, p. 5. 25. Le lettere dello spettatore, tr. it. cit., p. 30. 26. Ibidem.

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– «questo diritto vale per ognuno che abbia un volto umano […] anche per gli innumerevoli figli della massa oscura» sul cui lavoro si fondano la cultura e la vita sociale nelle sue varie istitizioni27. Grazie a queste sue conseguenze sociali e politiche il principio democratico ha guidato l’intero processo di emancipazione umana nel mondo moderno, sconfiggendo atavici pregiudizi, come mostra specialmente l’emancipazione femminile, e provocando rivoluzionari mutamenti nell’ordinamento della società28. Certamente non sfuggono a Troeltsch le difficoltà che insorgono nell’attuazione delle finalità del principio democratico, specialmente di quelle relative all’eguaglianza sociale, alla distribuzione delle ricchezze, tuttavia il principio democratico non può non mantenere fermo come dovere e come telos «l’ideale di una giustizia non invidiosa e di una ripartizione dei beni il più possibile corrispondente alla effettiva prestazione dei singoli»29. In questa prospettiva la democrazia è più che una forma di governo, è una vera e propria concezione della vita sociale e politica, che per quanto secolarizzata nella modernità, conserva profondi legami con la concezione della democrazia sorta sul terreno delle Chiese e delle sette, come si può vedere specialmente nella democrazia anglo-americana, che ha conservato uno stretto legame con le sue origini cristiane30. Nel saggio del 1904 si trova anche già delineata quella concezione della democrazia che successivamente Troeltsch caratterizzerà come “democrazia conservatrice”, in riferimento

27. E. Troeltsch, Politische Ethik und Christentum, Göttingen 1904, dattiloscritto, Wissenschaftlich-Theologisches Seminar der Universität Heidelberg, p. 13. 28. Cfr. ivi, pp. 13-14. 29. Ivi, p. 14. 30. Cfr. ivi, p.4.

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al calvinismo e specialmente alla democrazia americana. Troeltsch, accanto al riferimento primario al principio democratico, ritiene, infatti, che un’organizzazione sociale e politica ispirata dall’etica cristiana debba tenere conto anche del principio del conservatorismo, al fine di assicurare la sottomissione dei singoli alle autorità e alle istituzioni che provengono dall’ordine naturale voluto da Dio al fine di tenere a freno l’egoismo e la violenza e realizzare il bene comune31. Questa idea della integrazione tra i due principi ritorna nelle riflessioni sulla democrazia nello Spektator-Briefe, nella confusa situazione in cui si svolge l’esperienza della inedita “democrazia tedesca” all’indomani della improvvisa proclamazione della Repubblica. Ma vi ritorna con un significato diverso. Ora il richiamo alla conservazione è interno alla democrazia e si riferisce alla salvezza dell’ordinamento istituzionale di fronte al pericolo di una sua degenerazione nell’anarchia o nella dittatura del proletariato32. Seguendo le indicazioni della classica analisi di Tocqueville sulla democrazia in America, Troeltsch la considera indubbiamente come un fenomeno complesso in cui vi sono luci ed ombre, vantaggi e svantaggi, ma ritiene tuttavia che per la sua inarrestabilità e per la sua corrispondenza alla società moderna, dev’essere accolta, mettendone in risalto soprattutto «gli aspetti grandi e nobili»: «La democrazia – afferma Troeltsch nell’articolo sulla “democrazia tedesca” del 16 novembre 1918 – può raccogliere grandi e larghe cerchie del popolo rendendole straordinariamente produttive, può essere fondamento di amore e di dedizione verso lo Stato comune, può valorizzare al massimo la dignità umana e la personalità di ogni cittadino, può inserire nelle singole volontà responsabilità e iniziativa, 31. Cfr. ivi, p. 31. 32. Cfr. in questo senso F. Tessitore, Troeltsch politico, cit., pp. 132-133.

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operare una utile selezione di nuovi e freschi talenti e volontà: chiaramente, tutte cose del massimo valore etico e del più profondo significato politico». Con ciò Troeltsch non si nasconde i pericoli della democrazia. Non solo quelli già indicati da Tocqueville – l’anarchia, il livellamento, le miserevoli lotte d’interesse, il corporativismo – ma anche quelli determinati dalle lotte tra le correnti dei partiti e dalla loro influenza sul governo, cioè i danni prodotti dalla degenerazione dei partiti, sperimentati in quei primi anni della Repubblica: partiti, che tuttavia egli considera come organi insostituibili in quanto corrispondenti a «raggruppamenti naturali della società»33. Tornando alla situazione del presente in Germania, Troeltsch ammette che la democrazia è «un meccanismo politico, che ha i suoi difetti, come tutti i meccanismi del genere», ma ribadisce che nella situazione del momento ha il «vantaggio» di assicurare alla Germania l’«esistenza» nello scenario internazionale e, all’interno, di «corrispondere alle esigenze di giustizia delle masse», sicché non può trattarsi soltanto di una «democrazia formale», ma deve comportare «una trasformazione dell’ordine sociale» accogliendo le giuste rivendicazioni dei ceti più deboli e poveri. Dev’essere una «democrazia sociale», distinta però dalla socialdemocrazia, perché fondata sulla «giustizia verso tutte le classi», sul Kompromiss tra borghesia e movimento operaio – un sistema politico democratico-parlamentare, in cui possa farsi partecipe della gestione dello Stato l’insieme delle forze produttive e delle forze sociali politicamente espresse e organizzate34. Se questo ideale, esemplifica-

33. Le lettere dello spettatore, tr. it. cit., pp. 113-114. 34. Com’è stato osservato soprattutto da Schmidt il concetto di Kompromiss, che si lega a quello di Kultursynthese, esprime la tendenza fondamentale dell’atteggiamento e del pensiero politico di Troeltsch (G. Schmidt,

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to dalla democrazia americana, «potrà» realizzarsi nel nuovo Stato tedesco, congiungendo anche qui passato e presente, tradizione e innovazione, questo «è affidato alla responsabilità e all’impegno della volontà operante». Per quanto riguarda Troeltsch, egli ancora nell’articolo del 7 ottobre del 1922, in una situazione estremamente difficile profondamente segnata dall’assassinio di Rathenau, fa la sua professione di fede nella repubblica democratica nella sua forma di “democrazia conservatrice”: «Dobbiamo dire di sì interiormente alla repubblica, non all’attuale costituzione nei suoi particolari, ma alla repubblica democratica come principio. Solo aderendovi sinceramente e senza riserve, si può pensare a darle la collaborazione e il contrappeso dei pesi aristocratici e conservatori (indispensabili in ogni società), senza essere sospettati di voler dissolvere il sistema stesso, che ha salvato l’esistenza del Reich e da cui questa esistenza continua a dipendere»35.

Ernst Troeltsch, in AA.VV. Deutsche Historiker, hrsg. v. H. U. Wehler, Bd. III, p. 94.) – Sulla posizione di Troeltsch verso la repubblica di Weimar e in particolare sull’assassinio di Walter Rathenau si vedano le osservazioni di M. Cacciari in W. Rathenau e il suo ambiente, De Donato, Bari 1979, p. 70 ss. Un’accurata analisi dgli scritti politici di Troeltsch tra il 1914 e il 1922 si trova in A. Rapp, Il problema della Germania negli scritti politici di E. Troeltsch (1914-1922), Giuffrè, Milano 1978 (cfr. specialmente la parte II). 35. Le lettere dello spettatore, tr. it. cit., pp. 262-263.

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Nota Bibliografica

Si indicano qui di seguito per ogni capitolo i saggi che, nella complessiva rielaborazione, sono stati ripresi integralmente (anche se modificati) o solo parzialmente. Parte Prima Capitolo Primo: Etica generale ed etica cristiana nel pensiero di Ernst Troeltsch, in Etica trascendentale e intersoggettività, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 141-162; Etica e storia. Introduzione a E.Troeltsch, Problemi fondamentali dell’etica, a cura di G. Cantillo, presentazione di F. Tessitore, Alfredo Guida Editore, Napoli 2007, pp. 15-36; Morale della coscienza ed etica dei valori culturali nel pensiero di Ernst Troeltsch, in Pensare altrimenti. In dialogo con Francesca Brezzi, Babelonline/print, 16-17, 2014, pp. 61-69. Etica ed etica sociale cristiana, in Ernst Troeltsch. Religioni, Chiese, Modernità, a cura di E. Pace e M. Piccinini, “Humanitas”, N. S. LXXI, 2, marzo-aprile 2016, pp. 239-264. Il §7 (Etica ateistica ed etica cristiana) è inedito.

306

Capitolo Secondo: Rinascimento e Riforma nella interpretazione troeltschiana delle origini del mondo moderno, in “Bollettino filosofico”, n. 15: Studi in onore di Franco Crispini, Edizioni Brenner, Cosenza 1999, pp. 75-93; Luteranesimo e mondo moderno in Ernst Troeltsch, in Lutero e i linguaggi dell’Occidente, a cura di G. Beschin, F. Cambi, L. Cristellon, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 423-438; Troeltsch e Kant: “Apriori” e “storia” nella filosofia della religione, in Lo storicismo e la sua storia.Temi, problemi, prospettive, a cura di G. Cacciatore, G. Cantillo, G. Lissa, Guerini, Milano 1997, pp. 334-342; Il Gesù di Troeltsch, in I volti moderni di Gesù. Arte, filosofia, storia, a cura di I. Adinolfi e G. Goisis, Quodlibet, Macerata 2013, pp. 273-289. Capitolo Terzo: Il Messianico tra neokantismo e storicismo. Cohen e Troeltsch, in Filosofia dell’avvenire. L’evento e il messianico, a cura di G. Mascia, A. Nasone e G. Pintus, Inschibboleth Edizioni, Roma 2015, §2 Troeltsch: Fede ed ethos dei profeti ebraici. La chiesa antica, pp. 84-98. Parte Seconda Capitolo Primo: Esistenza e storia. Troeltsch e Kierkegaard tra teologia e filosofia, in «Notabene. Quaderni di studi kierkegaardiani», vol. 9: Kierkegaard duecento anni dopo, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2014. Capitolo Secondo: Etica e storia. Troeltsch e Rickert, in Metodologia, teoria della conoscenza, filosofia dei valori: Heinrich Rickert e il suo tempo, a cura di A. Donise, A. Giugliano, E. Massimilla, Liguori Editore, Napoli 2015, pp. 129-143. Capitolo Terzo: Il Geist nel Historismus. Dilthey.Troeltsch, in Lo spirito. Percorsi nella filosofia e nelle culture, a cura di M. Pagano, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2011, §2: Storici-

307

smo e metafisica dello spirito nel pensiero filosofico-teologico di Ernst Troeltsch, pp. 439-455. Capitolo Quarto: La storia e il presente. Brevi note in margine a La storia come pensiero e come azione, in Croce Filosofo, Tomo I, a cura di G. Cacciatore, G. Cotroneo, R. Viti Cavaliere, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 145-152; La presenzialità del passato: la storia tra memoria e aspettativa, in Natura, storia, società. Studi in onore di Mario Alcaro, a cura di R. Bufalo, G. Cantarano, P. Colonnello, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2010, pp. 599-612. Capitolo Quinto: La concezione della democrazia in Ernst Troeltsch, in Neokantismo, diritto e sociologia, a cura di A. Catania e MP. Fimiani, ESI, Napoli 1995, pp. 7-32 [pp. 29-32]; Cristianesimo, mondo moderno, idea di Europa, in Il Mediterraneo. Incontro di culture, a cura di F. Cacciatore e A. Niger, Aracne Editrice, Roma 2007, pp. 53-80 [pp. 75-80]. Si ringraziano vivamente gli Editori, i Curatori dei volumi, i Direttori di collana, i Direttori delle riviste.

308

Indice dei nomi A

Achella, S. 16n. 135n Adinolfi, I. 306 Agostino d’Ippona, 37n, 63, 80, 185, 269 Aguti, A. 155n Amos, 183 Antiseri, D. 159n Anzalone, M. 24 Apfelbacher, K.-E. 127n Apollo, 100n Aristotele, 94

B

Baron, H. 18n, 75n, 291n Barth, K. 195 Baur, F. C. 209 Benckert, H. 28n, 35, 58n Bergson, H. 221, 252 Bernardo di Chiaravalle, 80 Beschin, G. 306 Bloch, E. 11, 16n, 177, 178 Bodenstein, W. 75n, 161n Boeckh, A. 219 Bonaventura da Bagnoregio, 80n Bongioanni, A. 87n Bonito Oliva, R. 23n, 273n Bosco, D. 136n Bousset, W. 199, 200 Bufalo, R. 307 Bultmann, R. 146, 160n Bunyan, J. 63 Burckhardt, J. 93, 98, 99, 102n Burdach, K. 102n

C

Cacciari, M. 303n Cacciatore, F. 307 Cacciatore, G. 88n, 306, 307 Caianiello, S. 259n Calogero, G. 55n Calvino, G. 72, 110 Cambi, F. 306 Cantarano, G. 307 Caracciolo, A. 136n, 143n, 161n, 253n Carcagni, A. R. 75n, 291n Cassandro, G. 130n Cassirer, E. 115, 116n, 119, 182n Catania, A. 307 Catarzi, M. 12n, 233n Chapmann, M. 196n Chastel, A. 100n Chevallerie, E. von la 28n Ciafardone, R. 136n Chiodi, P. 34n, 123n Ciliberto, M. 102n Class, G. 265 Coffele, G. 128n Cohen, H. 181, 182n, 185 Colli, G. 21n, 198n, 249n, 272n Colonnello, P. 307, 247n Comba, A. 197n Congar, Y. 278n Conte, D. 244n, 294n Coornheert, D. 80 Cotroneo, G. 307 Crespi, P. 278n Cristellon, L. 306 Croce, B. 131n, 133n, 245-250, 254, 257, 262n, 307 Cusano, N. 119

309

D

Dahlmann, F. C. 257 Dal Santo, P. 69n De Fidio, P. 37n De Toni, G. A. 261n De Wette, W. M. L. 40 Deutero-Isaia, 183 Diana, R. 16n. Dietrich, W. S. 181 Dilthey, W. 22n, 88n, 116n, 121-123,175, 176n, 223, 242, 256n, 261, 266, 271, 306 Dionigi l’Aeropagita, 80 Donadio, F. 27n Donise, A. 23n, 24, 225n, 229n, 238n, 306 Drescher, H. G. 63n, 75n, 162n, 195, 200n, 204n, 205, 217n, 272n Drehsen. V. 165n Droysen, J. G. 219, 245, 257260 Dumont, L. 292n

E

Einstein, A. 255n Emery, L. 259n Erasmo da Rotterdam, 100n Ezechiele, 187

F

Fabro, C. 208n Fatta, C. 55n Ferguson, W. K. 116n Feuerbach, L. 160 Fichte, J. G. 266 Fimiani, MP. 307 Fix, K.-H. 196n

Fort, G. von le, 28n, 155n Francesco d’Assisi, 63, 207 Franck, S. 80, 207

G

Gaeta, G. 146n Galasso, G. 262 Garaventa, R. 128n, 135n, 136n, 155n Garin, E. 85 Gentile, L. 136n Geremia, 183 Gesù/Cristo 29-31, 43, 48, 64-73, 79, 100n, 104, 105, 108, 110, 125, 126, 138-159, 173, 179-185, 189-192, 197, 198, 202, 205-210, 212-218, 278, 306 Gherardini, B. 126n, 210n Ghia, F. 121n, 140n, 207n, 213n Giametta, S. 249n Gierke, O. von, 290 Gilbert, F. 258n Gisel, P. 83n, 165n Giovanni l’Evangelista, 212 Giugliano,A. 229n, 244n, 306 Goethe, J. W. 115, 234 Gogarten, F, 160n, 161n, 195, 215-217, 219 Goisis,G. 306 Goldstein, E. 37n Graf, F. W. 18n, 28n, 30n, 75n, 76n, 292n Graue, P. 196n Groethuysen, B. 261n

310

H

Harnack, A. 75n, 87, 144, 195 Hegel, G. W. F. 11, 23n, 40, 41, 55n, 126n, 130, 133, 135, 162, 198, 209, 210, 251, 257, 275 Heidegger, M. 23n, 198 Herbert of Cherbury, E. 121n Herder, J. G. 125, 130 Herrmann, W. 28, 35, 36, 4248, 63n, 150, 153 Heuss, A. 258n Hintze, O. 255n Höffding, H. 196n Hübinger, G. 18n Hübner, R. 257n, 259n Hügel, F. von, 27n, 127n Humboldt, W. von, 219, 259 Husserl, E. 11, 22, 46n, 250

I

Isaia, 177, 183, 186

J

Jacini, S. (Junior), 127n James, W. 164 Jaspers, K. 11, 243

K

Kant, I. 11, 23, 30-35, 39-62, 115, 119-125, 165-175, 176n, 182n, 185, 210, 224, 225, 228, 266, 267, 272, 282, 299, 306, 307 Kattenbusch, F. 77n Kellermann, B. 181n Kelsen, H. 289-291 Kessel, E. 21n Kierkegaard, S. 160, 195, 196,

202, 204-208, 210-222, 306 Köhler, W. 124n, 291n Korsch, D. 165n Koselleck, R. 258n Kuiper, A. 112n

L

Laurenzi, M.C. 160n Leyh, P. 259n Leibniz, G. W. von, 22n, 23n, 115, 116, 123, 265n, 273n Leonhard, J. 292n Lerner, R. E. 77n Lessing, E. 124n Lessing, G. E. 115, 116, 123 Locke, J. 39, 121n Lehmann, H. 165n Lissa, G. 306 Lohmann, F. 58n Losano,M.G. 289n Lotze, H. 266, 271, 272 Löwith, K. 198n Lutero, M. 80, 105-112n, 115, 202, 306

M

Malebranche, N. 22n Marano, G. 80n Marini, G. 40n Marquardt, M. 58n Martirano, M. 292n Mascia, G. 306 Massimilla, E. 229n, 306 Masullo, A. 46n, 252n Mauro, L. 80n May, B. 263n Mazzarella, E. 55n

311 Médevielle, G. 124n, 283n Meinecke, F. 17, 21, 130n, 256n, 291n, 292n, 297, 298 Meister Eckhart, 207 Melantone, F. 107 Michelangelo Buonarroti, 99, 100n Miegge, M. 75n Milton, J. 63 Miniati, S. 136n Moltmann, J. 160, 178, 197 Mommsen,W. J. 76n Montinari, M. 21n, 249n Moretto, G. 32n, 89n, 127n 260n

N

Nasone, A. 306 Nees, C. 196n Neppi Modona, A. 131n Neuner, P. 127n Niebergall, F. 141, 143 Nietzsche, F. 13, 21, 59, 60n, 86, 186, 248, 249, 279, 294 Niger, A. 307

O

Oestreich, G. 256n Osea, 183 Osterhammel, J. 76n Overbeck, F. 197, 198

P

Pace, E. 75n, 82n, 305 Pagano, M. 306 Paggi, L. 299n Pannenberg, W. 159n

Panzieri, P. 212n Paolo di Tarso, 30, 63, 67-69, 79, 156, 217, 278n Pauck, W. 75n Pautler, S. 18n, 136n Piccinini, M. 75n, 283n, 305 Pintus, G. 306 Piovani, P. 223n, 257n Poma, A. 123n, 181n Prandi, A. 116n Prandi, C. 81n Pugliese Carratelli, F. 130n

R

Rachfahl, F. 75n Raffaello Sanzio, 100n Ranke, L. von, 130-134, 137 Rapp, A. 303n Rathenau, W. 303 Rendtorff, T. 18n, 136n, 165n Renz, H. 18n Rickert, H. 12, 23n, 51, 163, 223-244, 280, 306 Riconda, G. 123n Riedel, M. 261n Ritschl, A. 124-127, 132n, 135, 138, 150, 153, 197, 201, 208-210 Rodin, A. 100n Rosenberg, A. 299n Rossi, P. 22n, 23n, 76n, 77n, 97n, 109n, 255n, 261n, 280n Rothe, R. 195 Rousseau, J.-J. 39 Ruoppo, A. 23n Rusconi, G. E. 298n, 299n Russo, A. 128n Rüsen, J. 263

312

S

Sanna, G. 17n, 75n, 90n Savigny, F. C. von, 219 Schelling, F. W. J. 130, 219, 221 Schleiermacher, F. D. E. 19, 30, 31, 35, 40- 43, 47, 63, 107n, 124-129, 150, 153, 154, 161, 162, 266 Schluchter,W. 77n Schmidt, G. 292n, 297, 302n Schmidt, M. 197n, 198n, 266n Schopenhauer, A. 220 Schweitzer, A. 174 Shaftesbury (A. Ashley-Cooper), 39 Siebeck, H. 120 Sieg, U. 181n Simmel, G. 100n, 244 Sorrentino, S. 53n, 150n Spranger, E. 256n Steffensen, K. 265 Stephan, H. 197n, 198n, 266n Stewart, J.B. 196,n Strauss, F. D. 150

T

Tanner, K. 35n Tarizzo, D. 212n Taubes, J. 69 Terwey, A. 18n Tessitore, F. 13n, 17n, 24, 36n, 37n, 58n, 75n, 76n, 131n, 133n, 136n, 257n, 260n, 291n, 292n, 297, 298n, 301n, 305 Tiemann, H. H. 107n Tocqueville, A. de, 301, 302 Tolstoj, L. 196n, 207 Tommaso da Kempen, 63

Troeltsch, Marta 155 Tuozzolo, C. 136n

V

Valdés, J. de, 100n Valera, G. 130n Vasoli, C. 117n Vattimo, G. 41n Ventura, L. 24 Venturelli, D. 89n Vermeil, E. 165n Verra, V. 257n Villari,L. 298n Viti Cavaliere, R. 307

W

Weber, M. 75n, 76n, 77n, 81, 108n, 109n, 111n, 112n, 114, 185, 223, 229n, 280n, 292n, 297 Weigel, V. 80 Werckshagen, C. 22n Wehler, H.V. 303n Wernle, P. 93, 96, 97, 98n Wiesenberg,W. 48n Windelband, W. 163, 225n, 228, 280 Wismann, H. 165n Wolff, C. 121n Nell’indice non sono registrate le occorrenze relative a Troeltsch e all’autore.

313

Indice

Prefazione di Anna Donise

p. 9 p. 17

Introduzione Parte prima Etica e religione Capitolo primo Etica generale ed etica cristiana 1. La riflessione sull’etica 2. Fenomenologia dell’esperienza morale; etica e religione 3. Per la storia dell’etica cristiana 4. Il confronto con l’etica di Wilhelm Herrmann 5. Etica oggettiva e storia 6. Etica ateistica ed etica cristiana 7. L’etica cristiana: dall’origine religiosa alla sua dimensione sociale

p. 25

p. 27 p. 32 p. 35 p. 42 p. 50 p. 59 p. 64

314

Capitolo secondo Religione e modernità 1. Modernità, Rinascimento, Riforma 2. L’autonomia della religione e l’eredità kantiana 3. Cristianesimo e storia 4. La figura di Gesù 5. Il progetto di una filosofia della religione 6. Apriori e storia: la riflessione sulla filosofia della religione di Kant Capitolo terzo Il messianico. Profetismo ebraico e Chiesa antica 1. Il pathos del messianico 2. Fede ed ethos dei profeti ebraici 3. La Chiesa antica Parte seconda Religione e filosofia della storia Capitolo primo Esistenza e storia. Troeltsch e Kierkegaard tra teologia e filosofia 1. Cristianesimo e cultura 2. Un «netto aut-aut» 3. La fedeltà di Kierkegaard al messaggio evangelico 4. Vino nuovo nelle vecchie botti 5. Un frutto dell’albero di Kierkegaard 6. Esistenza e storia

p. 85 p. 119 p. 124 p. 139 p. 159 p. 165

p. 177 p. 179 p. 189

p. 193

p. 195 p. 201 p. 206 p. 213 p. 215 p. 220

315

Capitolo secondo Troeltsch e Rickert. Una moderna filosofia della storia 1. La fondazione trascendentale della conoscenza storica 2. Il soggettivismo teoretico-conoscitivo e la visione del mondo storica 3 Il regno dei valori Capitolo terzo Il tempo della storiografia nella tradizione storicistica. Croce, Troeltsch, Droysen 1. La contemporaneità della storia nello storicismo di Benedetto Croce 2. Tempo storico e sviluppo nella teoria della storia di Troeltsch 3. Alle origini della tradizione storicistica: Il tempo storico in Johann Gustav Droysen Capitolo quarto Storia e metafisica dello spirito 1. L’autonomia della vita spirituale 2. Coscienza critica e metafisica dello spirito 3. «Il tormento del mondo moderno». Individualità e spirito comune Capitolo quinto Una possibile sintesi culturale. La costruzione dell’idea di Europa e il destino della Germania 1. Il diritto naturale e il riesame di sé dello storicismo 2. La «costruzione della storia della cultura europea» e la scelta per la democrazia Nota Bibliografica

p. 223 p. 233 p. 238

p. 245 p. 251 p. 257

p. 265 p. 271 p. 281

p. 289 p. 295 p. 305

Au dedans, au dehors

Collana di Filosofia Contemporanea Diretta da: Giuseppe CANTILLO, Danielle COHEN-LEVINAS, Jean-François COURTINE, Elio MATASSI †

1. Jean-François Courtine, Levinas. La trama logica dell’essere. 2. Carmelo Meazza, L’evento esposto come evento d’eccezione. 3. Miguel Abensour, Emmanuel Levinas. L’intrigo dell’umano. 4. Emmanuel Levinas, Gli imprevisti della storia. 5. Carmelo Meazza, L’evento esposto come evento d’eccezione. II edizione ampliata: Materiali per un pensiero neocritico. 6. Felix Duque, Contro l’umanismo. 7. Philippe Capelle-Dumont, Pensare la religione. 8. Miguel Abensour, L’utopia da Thomas More a Walter Benjamin. 9. Rosaria Caldarone, Lo scambio di figura. Tre studi sulla somiglianza e sulla differenza. 10. M. Barale, R. Bonito Oliva, G. Cantillo, P. CapelleDumont, D. Cohen-Levinas, J.-F. Courtine, G. Dalmasso, S. Mancini, G. Mascia, C. Meazza, F. Miano, B. Moroncini, A. Nasone, Filosofia dell’avvenire. L’evento e il messianico. 11. Giuseppe Cantillo, Il tormento della modernità. Religione, etica, filosofia della storia. Studi un Ernst Troeltsch.

Au dedans, au dehors 11

Nell’anno in cui ricorre il cinquecentesimo anniversario delle 95 tesi di Wittenberg è parso opportuno riproporre in alcuni suoi aspetti fondamentali il pensiero di una delle più significative personalità della cultura cristiana ed europea del Novecento, qual è Ernst Troeltsch. Le sue ricerche, sollecitate, alla svolta dall’Ottocento al Novecento, dall’avvertimento di una profonda crisi della teologia, si sono sviluppate in una molteplicità di ambiti disciplinari (teologia, filosofia della religione, etica, sociologia della religione, politica, filosofia della storia) concentrandosi, però, su due linee principali: la relazione tra Cristianesimo e storia, tra Cristianesimo e modernità, e la questione dello storicismo, al cui fondo è la tensione tra la ricerca di principi e valori universalmente validi e il rispetto dell’individualità e mutevolezza dell’esperienza storica. È qui «il tormento del mondo moderno». Troeltsch non ha aggirato le ombre del «nichilismo europeo», ma ha cercato di comprenderlo e di prendere posizione di fronte ad esso. Così come, all’indomani della catastrofe della grande guerra, ha sentito il bisogno di avviare una riflessione critica sull’identità dell’Europa, anticipando la consapevolezza di problemi, che continuano ad inquietare profondamente il nostro presente e insieme suggerendo anche una traccia per affrontarli.

€ 13,00

ISBN E-book 9788885716063