Il tempo dei romani: La Sardegna dal III secolo a.C. al V secolo d.C. 886202407X, 9788862024075

L'indagine dell'universo archeologico della Sardegna propone quest'anno un nuovo percorso alla conoscenza

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Il tempo dei romani: La Sardegna dal III secolo a.C. al V secolo d.C.
 886202407X, 9788862024075

Table of contents :
Copertina
Indice
Storie
L’espansione di Roma nel Mediterraneo
Tra Cartagine e Roma: le due stagioni della Sardegna
La Sardegna e Roma
Organizzazione del territorio
La Natio Sarda e le sue articolazioni territoriali: i popoli della Sardegna
Natio Sarda, Populi, Gentes, Civitates, Pagani
I populi celeberrimi: Illenses, Balari, Corsi
I tanti etnici: cittadini, comunità locali non urbanizzate, immigrati
I popoli della Barbaria
Altri popoli
La popolazione rurale (la rustica plebs)
Etnici locali più antichi (-enses) e più recenti (-itani)
La conquista e il culto di Iuppiter fino alla Barbaria
L’insediamento rurale e il paesaggio: Campidano e Marmilla
Nurac: i nuraghi in epoca romana
La rete stradale
Stationes e mansiones
Il limes: Romània e Barbària
Colonie, Municipi, Civitates stipendiariae della Sardinia
Le colonie di cittadini romani
I municipi di cittadini romani
Alcune Civitates stipendiariae sine foedere: i peregrini della Sardegna
Carales
Nora
Sulci
Tharros
Olbia
Colonia Iulia Turris Libisonis
Comunità rurali e territorio
Al servizio della comunità. Strutture e infrastrutture
Pietra e argilla. Le tecniche costruttive
Le reti stradali delle città
Le vie dell’acqua
Vita quotidiana
Abitare nella Sardegna romana
I quartieri abitativi di Nora
L’area orientale e il litorale sud-orientale
Il quartiere centrale
La “kasbah”
il quartiere settentrionale
Il quartiere occidentale
Il quartiere sud-occidentale
Aspetti generali
Le evoluzioni tardo-antiche
La villa romana di Santa Filitica
Abitazioni signorili a Carales: la Villa di Tigellio
La decorazione pittorica
La decorazione musiva
La decorazione architettonica
Strutture per il benessere e il tempo libero
Le terme di Fordongianus
L’anfiteatro di Cagliari
Lavoro, produzione, economia
Le attività agricole e l’allevamento del bestiame
L’agricoltura
I luoghi di consumo
I luoghi di produzione
I centri religiosi e culturali
I bovini per uso agricolo
La pastorizia
L’allevamento dei maiali
Equini e cani
Allevamento di uccelli e pesci
I doni di Aristeo. Produzione olearia e vinicola
L’oro dei campi. Grano e panificazione
L’alimentazione
Il corredo da mensa e il suo utilizzo in ambito alimentare
Pesca, peschiere e salagioni del pesce
Resti
Impianti di produzione e processi di trasformazione: piscinae e vivaria
Processi di trasformazione e impianti di salagione
Alcuni casi sardi
Macellazione e consumo delle carni
Due esempi di ricette da Apicio (De re coquinaria)
Le attività minerarie ed estrattive
Le cave di pietra di Nora
Le attività artigianali
Le produzioni ceramiche
Le terrecotte architettoniche
Le gemme
I gioielli
La ritrattistica e la scultura decorativa
Società e potere
Organizzazione politica e sociale. Il governo provinciale
La nascita delle prime province
L’amministrazione in età repubblicana
L’amministrazione in età imperiale
Società, Chiesa e Stato in età tardo-antica
La monetazione
Le istituzioni
Istituzioni politiche
Istituzioni sociali
Il mondo militare
La comunicazione nel mondo antico: il linguaggio epigrafico
L’epigrafia delle aeree interne
Le scritture antiche: la gente comune
La trilingue di San Nicolò Gerrei
I sigilli
Per una ricontestualizzazione della Tavola di Esterzili. Il sito di Corte Luccetta
Il mondo dei morti
I paesaggi funerari
I riti e le cerimonie funebri
Il trattamento del cadavere
La tomba
Il corredo funerario
La cerimonia funebre e le celebrazioni in onore dei morti
Perpetrare la memoria
Le deroghe alla norma: sepolture non convenzionali e anomale
La necropoli di mitza de Siddi di Ortacesus
La necropoli di Pill’e Matta di Quartucciu
L’ipogeo di Atilia Pomptilla
La scultura funeraria
Il sarcofago con scena di thiasos marino del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari
Le stele funerarie
Culti e riti
Dei e uomini: i luoghi di culto fra tradizione e innovazioni
Il santuario La Purissima di Alghero
Il Tempio romano di Nora
Antas, il tempio del Sardus Pater
La voce degli dei
Culti italico-romani
Interpretatio romana
Le statue di culto e di ambito sacro
La dea venuta dal mare
Dei di argilla
I rituali apotropaici e le maledizioni
Tabellae defixionum. Riti di maleficio come desiderio di rivincita personale
Traffici, scambi e merci
Merci, rotte e traffici commerciali
I contenitori da trasporto
L’utilizzo delle vie d’acqua
Le anfore
Il caso sardo delle anfore di tradizione punica
Porti e approdi
Imbarcazioni e relitti
Oltre la Sardegna romana
La Sardegna oltre l’epoca romana (dalla metà del V alla metà del VI secolo d.C.)
Primi segnali verso la fine dell’età romana
L’arrivo dei Vandali
L’età dei Vandali
La questione religiosa
Bibliografia

Citation preview

La Sardegna

dal lii secolo a.e. al Vsecolo d. C.

ILISSO

In copertina: Statua /oricata di Druso minore, I sec. d.C. , Cagliari , Museo Archeologico Nazionale.

La Sardegna dal lii secolo a.e. al Vsecolo d.C. a cura di Romina Carboni Antonio Maria Corda Marco Giuman

ILISSO

CULTURA, STORIA E ARCHEOLOGIA DELLA SARDEGNA collana diretta da Tatiana Cossu

La preistoria in Sardegna. Il tempo delle comunità umane dal X al II millennio a.C. Il tempo dei nuraghi. La Sardegna dal XVIII all'VIII secolo a.C. Il tempo dei Fenici. Incontri in Sardegna dall'VIII al III secolo a.C. Il tempo dei Romani. La Sardegna dal III secolo a.C. al V secolo d.C.

Coordinamento editoriale: Anna Pau Si ringrazia per la preziosa e imprescindibile collaborazione la Direzione Regionale Musei Sardegna, il direttore Francesco Muscolino insieme alla funzionaria Silvia Caracciolo; il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari e il direttore Francesco Muscolina insieme alle funzionarie Federica Doria e Manuela Puddu; il Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna" di Sassari e la direttrice Elisabetta Grassi; il Museo Archeologico Nazionale "G. Asproni" di Nuoro e il Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano e il direttore Stefano Giuliani; l'Antiquarium Arborense, il direttore Raimondo Zucca e la funzionaria Simona Scioni; il Museo Diocesano Arborense e la direttrice Silvia Oppo; il Museo Civico "G. Marongiu" di Cabras e la direttrice Carla Del Vais; il Museo Archeologico Comunale di Dorgali, il direttore Giuseppe Pisanu e la Soc. Cooperativa Ghivine del GRA; il Museo Archeologico "Genna Maria" di Villanovaforru; il Civico Museo "Villa Abbas" di Sardara; il Museo Archeologico Comunale "Villa Sulcis" di Carbonia; il Museo della Valle dei Nuraghi del Logudoro-Meilogu di Torralba; il Civico Museo Archeologico "G. Patroni" di Pula; il Museo Archeologico Comunale " F. Barreca" di Sant'Antioco; il Museo Navale "Nino Lambroglia" di La Maddalena; il Museo Civico di San Vero Milis; l'associazione Imago Mundi di Cagliari; l'associazione Archeofoto Sardegna. Un sentito ringraziamento va inoltre, per la costante collaborazione, alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna e alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Sassari e Nuoro. "L'espansione di Roma nel Mediterraneo" di W. Eck è stato tradotto dal tedesco da NSC Traduzioni S.r.l. Le tavole illustrate n. 70-71, 153,157,378 (Inklink Musei) e le n. 198,393,408 (Matteo Gabaglio) sono state appositamente realizzate per questo volume e afferiscono ali' Archivio Ilisso.

Referenze fotografiche: Su concessione Ministero della Cultura: Museo Archeologico Nazionale di Cagliari: nn. 42-44, 122, 132-133, 166-167, 174, 177-180, 182, 223-225, 232, 234-246, 257-259, 271, 273,293,314,316, 360-361, 374-375, 381, 384-386, 389; Museo Archeologico Etnografico Nazionale"G.A. Sanna" di Sassari: nn.173, 185, 214-215, 227-231, 233, 247-256, 263,266, 285-288, 291, 298-299, 301,365,367,382,398; Museo Archeologico Nazionale"G. Asproni" di Nuoro: nn. 161, 190-193, 294,359; Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano: nn. 72-78, 134-135, 264-265, 267-268, 315,321, 345-346, 351,390; Museo Archeologico Nazionale di Olbia: nn. 59-62, 165,181, 213,415; Musei Reali di Torino,Museo di Antichità, nn. 124-126, 395; Parco Archeologico di Ostia Antica, nn. 409-411. Afferiscono all'Archivio Ilisso Edizioni: le n. 13-14, 18, 52-54, 83-85, 92-93, 98, 110-111, 131,142-144,206-211,214-215,228,231,263-264,266-267,276,285-288,291,301,307, 315,319,321,345,349, 355-359, 398 (foto Marco Ceraglia); le n . 23, 44, 59-64, 154,161, 166,168,170-171,173,177-180, 185,190-193,196-197,205,213, 226-227,229-230,233, 246-256, 294, 361, 382, 396-397, 415-416 (foto Pietro Paolo Pinna); le n. 7, 26-27, 3334, 42-43, 45-46, 49, 89-91, 97, 102-105, 114, 120-121, 123, 132-133, 141, 158-160, 172, 183-184,212,216,232,259-261,269-271,274-275,293,317,322-326,346-348,360,373375, 381, 385-386, 412 (foto Pierpaolo Tuveri); l, 17, 20-21, 69-70, 72-78, 128-130, 134136, 149-150, 156, 175-176, 186, 188-189,217-222,262,265, 268, 272,302, 308, 314, 316,318,320, 350-351 (foto Nicola Castangia). Afferiscono agli archivi privati dei fotografi che hanno realizzato le immagini: le n. 1112, 15, 19, 22, 25, 65, 67-68, 79-80, 82, 90, 86, 122,145-146, 151,155,194, 196-197,257258, 273,304, 343-344, 362,372, 413-414, 417 (foto Nicola Castangia); le n. 16, 66, 100101, 108-109, 127-130, 148,152,300 (foto Maurizio Cossu). Quando non diversamente specificato i materiali pubblicati sono stati forniti dagli autori.

Grafica e impaginazione: Ilisso Edizioni Stampa: Lito Terrazzi

© 2021 !LISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it

ISBN 978-88 -6202-407-5

Indice STORIE 10

L'espansione di Roma nel Mediterraneo Werner Eck

15

Tra Cartagine e Roma: le due stagioni della Sardegna Antonio Maria Corda

19

La Sardegna e Roma Romina Carboni, Marco Giuman

ORGANIZZAZIONE DEL TERRITORIO 26

La Natio Sarda e le sue articolazioni territoriali: i popoli della Sardegna Attilio Mastino APPROFONDIMENTI

33

Nurac: i nuraghi in epoca romana Enrico Trudu

36

La rete stradale Nadia Canu

42

Stationes e mansiones Ciro Parodo

44

11

/imes: Romània e Barbària

Enrico Trudu

46

Colonie, Municipi, Civitates stipendiariae della Sardinia Attilio Mastino APPROFONDIMENTI

51

Cara/es Giovanna Pietra

56

Nora Jacopo Bonetto

72

Su/ci

76

Tharros

Carlo Tronchetti Carla Del Vais

84

Olbia

88

Colonia lulia Turris Libisonis

Giovanna Pietra Nadia Canu

100

Comunità rurali e territorio Dario D'Orlando

102

Al servizio della comunità. Strutture e infrastrutture Emiliano Cruccas APPROFONDIMENTI

108

Pietra e argilla. Le tecniche costruttive Emiliano Cruccas

110

Le reti stradali delle città Emiliano Cruccas

114

Le vie dell'acqua Emiliano Cruccas

VITA QUOTIDIANA 118

Abitare nella Sardegna romana Arturo Zara APPROFONDIMENTI

124

I quartieri abitativi di Nora Jacopo Bonetto

134

La villa romana di Santa Filitica Elisabetta Garau

138

Abitazioni signorili a Cara/es: la Villa di Tigellio Maria Adele lbba

140

La decorazione pittorica Federica Stella Mosimann

142

La decorazione musiva Simonetta Angiolillo

154

La decorazione architettonica Simonetta Angiolillo

158

Strutture per il benessere e il tempo libero Ilaria Frontori APPROFONDIMENTI

172

Le terme di Fordongianus Ciro Parodo

180

L:anfiteatro di Cagliari Enrico Trudu

LAVORO, PRODUZIONE, ECONOMIA

188

Le attività agricole e l'allevamento del bestiame Barbara Wilkens APPROFONDIMENTI

194

I doni di Aristeo. Produzione olearia e vinicola Emiliano Cruccas

199

L:oro dei campi. Grano e panificazione Emiliano Cruccas

202

L'alimentazione Bianca Maria Giannattasio APPROFONDIMENTI

208

Il corredo da mensa e il suo utilizzo in ambito alimentare Gianna De Luca

215

Pesca, peschiere e salagioni del pesce Ignazio Sanna

218

Macellazione e consumo delle carni Barbara Wilkens

220

Le attività minerarie ed estrattive Caterina Previato APPROFONDIMENTO

228

Le cave di pietra di Nora Caterina Previato

232

Le attività artigianali Bianca Maria Giannattasio APPROFONDIMENTI

240

Le produzioni ceramiche Carlo Tronchetti

244

Le terrecotte architettoniche Maria Adele lbba

246

Le gemme Miriam Napolitano

250

I gioielli Romina Carboni

255

La ritrattistica e la scultura decorativa Simonetta Angiolillo

SOCIETÀ E POTERE 264 Organizzazione politica e sociale. Il governo provinciale Attilio Mastino

271

Società, Chiesa e Stato in età tardo-antica Danila Artizzu APPROFONDIMENTO

278

La monetazione Dario D'Orlando

281

Le istituzioni Tiziana Carboni

286

Il mondo militare Antonio lbba

291

La comunicazione nel mondo antico: il linguaggio epigrafico Antonio Maria Corda APPROFONDIMENTI

294

L:epigrafia delle aree interne Claudio Farre

299

Le scritture antiche: la gente comune Piergiorgio Floris

302

La trilingue di San Nicolò Gerrei Antonio lbba

304

I sigilli Maria Bastiana Cocco

306

Per una ricontestualizzazione della Tavola di Esterzili. Il sito di Corte Luccetta Nadia Canu

IL MONDO DEI MORTI 310

I paesaggi funerari Donatella Salvi

318

I riti e le cerimonie funebri Chiara Pilo APPROFONDIMENTI

326

La necropoli di Mitza de Siddi di Ortacesus Gianna De Luca

329

La necropoli di Pill'e Matta di Quartucciu Donatella Salvi

334

L'.ipogeo di Atilia Pomptilla Ciro Parodo

336

La scultura funeraria Alessandro Teatini APPROFONDIMENTI

344

Il sarcofago con scena di thiasos marino del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari Ciro Parodo

346

Le stele funerarie Carla Del Vais

CULTI E RITI 35'2

Dei e uomini: i luoghi di culto fra tradizione e innovazioni Romina Carboni APPROFONDIMENTI

358

Il santuario La Purissima di Alghero Alessandra La Fragola

360

Il Tempio romano di Nora Arturo Zara

364

Antas, il tempio del Sardus Pater Giuseppina Manca di Mores

368

La voce degli dei Paola Ruggeri APPROFONDIMENTI

376

Le statue di culto e di ambito sacro Simonetta Angiolillo

378

La dea venuta dal mare Romina Carboni

380

Dei di argilla Romina Carboni

381

I rituali apotropaici e le maledizioni Marco Giuman APPROFONDIMENTO

384

Tabellae defixionum. Riti di maleficio come desiderio di rivincita personale Alessandra La Fragola

TRAFFICI, SCAMBI E MERCI 388

Merci, rotte e traffici commerciali Carlo Tronchetti APPROFONDIMENTI

394

I contenitori da trasporto Ignazio Sanna

397

Porti e approdi Ignazio Sanna

402

Imbarcazioni e relitti Ignazio Sanna

OLTRE LA SARDEGNA ROMANA 408

La Sardegna oltre l'epoca romana {dalla metà del V alla metà del VI secolo d.C.) Rossana Martore/li

417

Bibliografia

Storie

• L'espansione di Roma nel Mediterraneo Werner Eck

• Tra Cartagine e Roma: le due stagioni della Sardegna Antonio Maria Corda

• La Sardegna e Roma Romina Carboni, Marco Giuman

1. Lucerna, I sec. d.C. , ceramica , lungh. 9,8 cm, Oristano, Antiquarium Arborense.

9

L'espansione di Roma nel Mediterraneo Werner Eck

La nascita di Roma fu un processo lento e la sua trasformazione nella potenza politica che nei primi decenni del III secolo a.C. aveva sottomesso l'Italia intera durò diversi secoli. Le relazioni di Roma con le potenze che influenzarono la penisola italica si svilupparono presto; la penisola, infatti, con le sue estese aree costiere, attirava molteplici interessi: Cartaginesi e Ateniesi, tribù celtiche o tiranni di Sicilia come Dionisio di Siracusa e infine Pirro re d'Epiro entrarono quindi in contatto con Roma - non di rado sul campo di battaglia -, che ebbe presto un ruolo fondamentale nelle tensioni politico-economiche del Mediterraneo. Soprattutto Cartagine divenne, già nel VI-V secolo, una potenza rivale di Roma, come indicano chiaramente le notizie di trattati tra le due città, riportate principalmente dallo storico greco Polibio. Il primo trattato sarebbe stato stipulato l'anno dopo la cacciata dei re di Roma, mentre l'ultimo, se è mai esistito, risalirebbe al 306 a.C. Polibio contesta il fatto che questo trattato, di cui fa menzione lo storico Filino, sia mai stato siglato, giudicando filocartaginese il resoconto di quest'ultimo. Anche in questo accordo, come nei due precedenti, sarebbero state delimitate le sfere di influenza delle due potenze: la Sardegna compare sempre come area di interesse cartaginese. Stando a Filino, la disposizione più importante dell' ultimo trattato impediva ai Cartaginesi di intromettersi nelle questioni italiche e viceversa ai Romani di occuparsi delle vicende siciliane. La contraddizione tra i due storici non è risolvibile. Se il resoconto di Filino dovesse essere corretto, l'inizio dell'espansione romana oltre la terraferma italica costituirebbe una violazione del trattato. Roma intervenne infatti nel 264 a.C. in Sicilia, chiamata in soccorso dai Mamertini, una truppa di mercenari campani. Quando il loro dominio sulla città di Messana fu minacciato da Gerone di Siracusa, questi chiesero aiuto a Roma e Cartagine. Qualunque sia stata l'esatta evoluzione di questo scontro, alla fine Cartagine dovette lasciare Messana, mentre Roma rimase. Poiché però Cartagine considerava, a ragione, parti della Sicilia come proprio possedimento, la guerra fu inevitabile e sconfinò presto anche in Africa. A seguito

10

della vittoria di Roma nella battaglia navale presso le isole Egadi, entrambe le parti concordarono la pace. I Cartaginesi si ritirarono dalla Sicilia che ora, a parte il regno di Gerone di Siracusa, sottostava al dominio di Roma, diventando il primo territorio romano fuori dalla penisola italica. Nei tumulti provocati da mercenari cartaginesi in Africa e in Sardegna in seguito al trattato di pace con Roma, nell'anno 237 quest'ultima costrinse Cartagine a cedere anche quest'isola con una mossa di ricatto politico-militare eclatante. Fu comunque solo dieci anni dopo che Roma legò entrambe le isole in modo duraturo; queste vennero trasformate in province, ovvero possedimenti stranieri di Roma in qualità di praedia populi Romani, per citare Cicerone, tenute a pagarle tributi. Esse furono affidate a un magistrato romano con mandato annuale, al quale era inoltre assegnato un questore preposto al controllo della riscossione delle tasse. In Sicilia i questori erano perfino due. Il dominio di Gerone II di Siracusa divenne romano nel contesto della seconda guerra punica; parti della Sardegna tentarono invece - almeno fino all'inizio del I secolo d.C. di respingere la dominazione romana. Incorporando le due isole, Roma aveva dimostrato in modo concreto che considerava il mare a occidente dell'Italia sua zona di interesse specifico. Quasi contemporaneamente alla costituzione di queste prime province, Roma mise in chiaro la stessa ambizione anche per la costa opposta, sul Mare Adriatico, quando nell'anno 229, a seguito della vittoria sulla regina Teuta, occupò alcune aree dell'Illiria. In tal modo divenne subito evidente che Roma aveva messo gli occhi anche sul bacino mediterraneo orientale, provocando la reazione immediata del re di Macedonia, che vedeva Roma come un intruso. Il conflitto con Cartagine si riaccese quando questa espanse in modo rapido e tangibile il proprio dominio sulla penisola iberica. I contrasti scoppiarono nel 219 a. C. per via della città di Sagunto. Quando Roma decise di risolvere direttamente il conflitto nella penisola iberica inviandovi un esercito nell'anno 218, Annibale arrivò con le sue truppe in Italia attraversando le Alpi. Negli anni seguenti fino

al 201 la guerra si svolse prevalentemente in Italia e in Sicilia; contemporaneamente però Roma si stabilì anche in Spagna tramite alleanze militari con singole tribù. Quando un duro trattato di pace pose fine al conflitto con Cartagine nell'anno 20 l, Roma si era già assicurata parti della penisola iberica come avamposto permanente, che fu infine organizzata in due nuove province nell'anno 197: Hispania Citeriore Hispania Ulterior. Nei decenni successivi, diversi pretori romani che detenevano il potere in quelle zone tentarono di espandere i possedimenti provinciali di Roma, il che richiedeva uno stazionamento permanente di legioni. L'impatto sul reclutamento in Italia finì per produrre - tra l'altro - i problemi all'origine dei tentativi di riforma dei Gracchi. I territori settentrionali e occidentali della penisola iberica restarono però contesi; soltanto nell'età augustea Marco Agrippa, lo stratega militare accanto ad Augusto, riuscì finalmente a sottomettere in maniera definitiva anche il Nord (entro il 20 a.C.). Dall'inizio del periodo dei Flavi solo una legione rimase di stanza nel Nord, a Le6n, fino al III secolo d.C. I possedimenti territoriali cartaginesi in Africa inizialmente (201 a.C.) non furono annessi da Roma in modo diretto, poiché il re di Numidia, Massinissa, provvedeva già a controllare e indebolire il potere di Cartagine a favore di Roma. Senza il benestare di Roma Cartagine non poteva rispondere militarmente agli attacchi del re, e quando infine si oppose alla sua continua espansione, scoppiò la terza guerra punica del 149-146, al termine della quale la città fu completamente distrutta. Questa volta Roma non si ritirò dall'Africa, bensì trasformò i domini cartaginesi in una provincia, anche per contenere il regno di Numidia che Massinissa aveva esteso notevolmente. Durante la seconda guerra punica Annibale aveva stretto un'alleanza con il re Filippo V di Macedonia, il quale in questo modo intendeva scacciare nuovamente Roma dall'Illiria, che egli considerava una propria area di influenza. Tuttavia, tramite un'alleanza con la Lega Etolica, Roma riuscì a neutralizzare queste ambizioni e strinse infine una pace separata con il re nell'anno 205. Così furono gettate le basi per una lunga interferenza di Roma a Oriente. Appena pochi anni più tardi Roma si lasciò coinvolgere in una nuova guerra contro Filippo V, quando questi si mosse

minacciosamente a Oriente mettendo a rischio gli interessi della repubblica insulare di Rodi e dei re di Pergamo. La seconda guerra romanomacedone fu combattuta nel 199-197 a.C. in Grecia, senza però che Roma vi si stabilisse in modo permanente. Poco più tardi Eumene II di Pergamo coinvolse Roma anche nella guerra contro il sovrano seleucide Antioco III, durante la quale legioni romane intervennero per la prima volta in Asia Minore. Quando, dopo la battaglia di Magnesia (190 a.C.), Antioco dovette rinunciare ai propri possedimenti in Asia Minore a seguito della Pace di Apamea dell'anno 188, Roma affidò quei vasti territori a Pergamo e Rodi, "accontentandosi" di un pagamento di 12.000 talenti. Roma portò avanti la strategia di non stabilire un dominio diretto nell'Oriente greco anche dopo la sconfitta di Perseo, figlio di Filippo V, avvenuta a Pidna nell'anno 168; dalla dissoluzione del suo regno furono formate quattro "Repubbliche" autonome. In questo modo Roma esercitava un potere indiretto. Fu soltanto quando un presunto figlio di Perseo, Andrisco, organizzò una nuova rivolta che la Macedonia, nel 146, fu resa una provincia, il cui governatore ebbe anche la supervisione sulla Grecia. La Macedonia divenne così la prima provincia a est del Mediterraneo. Pochi anni dopo Roma estese i suoi domini provinciali a Oriente in un modo sino ad allora sconosciuto. Alla morte di Attalo III di Pergamo nell'anno 133, questi lasciò il suo regno in eredità ai Romani, a condizione che le città greche in Asia rimanessero libere. Il Senato accettò questa eredità, ma Roma la dovette prima conquistare sul campo di battaglia contro l'usurpatore Aristonico, un figlio illegittimo di Eumene II, il predecessore di Attalo III, assicurandosela finalmente nell'anno 129. Si può spiegare l'accettazione dell'eredità con i contrasti tra Tiberio Gracco e parti della nobiltà romana, poiché entrambi volevano rafforzare la propria causa mediante successi in Asia. Analogamente ad Attalo III, oltre mezzo secolo più tardi, nell'anno 74, Nicomede IV lasciò il suo regno di Bitinia in eredità a Roma, come seconda provincia in Asia Minore. Anche Tolomeo Apione aveva lasciato il regno di Cirene in eredità a Roma nel 96 a.C., ma in quel caso il Senato inizialmente rifiutò l'acquisizione diretta; solo a partire dall'anno 74, ovvero contemporaneamente all'eredità della Bitinia, vi fu inviato un questore per stabilizzare le tensioni che si 11

erano generate. Quando infine nel 66 a.C. fu conquistata anche l'isola di Creta per porre fine al pericolo della pirateria che da lì proveniva, questa venne unificata con Cirene a formare una provincia. Tale misura faceva parte della riorganizzazione dell'intero Mediterraneo orientale voluta da Gneo Pompeo, al quale nel 67 era stato assegnato un ampio potere di comando nella lotta contro i pirati; la Cilicia, il loro territorio principale, venne organizzata per alcuni decenni come provincia romana. · Quando gli ampi poteri di Pompeo vennero integrati un anno dopo con l'incarico di eliminare Mitridate di Ponto, ne conseguì il riordinamento dell'intero Oriente. Pompeo incorporò il regno di Ponto e la Bitinia in una nuova provincia, che comprendeva la parte settentrionale dell'Asia Minore. Principalmente pose fine all'Impero seleucide in Siria, che nel 63 fu trasformato in una provincia, cosicché Roma si trovò per la prima volta faccia a faccia con il regno dei Parti; questa decisione determinò la politica di Roma in Oriente per i secoli successivi. Pompeo organizzò, perlopiù mediante l'impiego di forza militare, le potenze minori di Giudea e del regno nabateo, le quali però passarono soltanto sotto la supervisione del governatore di Siria. Infine il Senato incaricò Catone Uticense nell'anno 58 di annettere per Roma l'isola di Cipro, la quale fu unificata alla provincia di Cilicia fino all'età cesariana. In tal modo, verso la fine della Repubblica, una buona parte dei territori circostanti il Mediterraneo orientale era già incorporata nel sistema di governo romano; tuttavia, tutte queste province erano più o meno isolate, senza un rapporto organico tra loro. Una situazione analoga si ebbe per lungo tempo anche in Occidente. L'Italia settentrionale, che dalla fine della seconda guerra punica sottostava a un magistrato romano come provincia di Gallia, per molto tempo non fu collegata via terra alla provincia Hispania Citerior. Quando però la città greca di Massalia chiese aiuto contro alcune tribù galliche, tra il 125 e il 121, le truppe romane, rompendo la resistenza degli Allobrogi e degli Arverni, conquistarono la linea costiera meridionale, che venne organizzata come provincia, denominata Gallia transalpina. Così fu creato per la prima volta un collegamento via terra fino alla penisola iberica: la via Domizia, che portava dall'Italia settentrionale fino alla Spagna. Durante le

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tensioni tra Pompeo, Cesare e parti della nobiltà che dominarono la politica dal 62 al 59 a.C., Cesare riuscì ad assicurarsi, oltre all'Illiria, le province della Gallia cisalpina e transalpina; il controllo di questi territori gli permise di intervenire nei conflitti politici della Gallia cornata. Alla fine degli scontri con diverse tribù galliche, che si protrassero dal 58 al 51, tutto il territorio fino al canale della Manica e fino al Reno venne assoggettato alla dominazione romana. In quegli anni, due spedizioni di Cesare oltre il Reno e in Britannia rivelarono la politica futura di Roma. Le guerre civili dei decenni tra il 49 e il 30 a.C. furono combattute all'interno dei territori già conquistati; solo in Africa venne formata la provincia di Africa Nova con l'annessione della parte orientale del regno di Numidia nell'anno 46, per essere unificata poco più tardi alla provincia d'Africa esistente dal 146 a.C. Con la fine della guerra tra Ottaviano -.r•"'•"'w ~ o•s101>,a•~•"1~ ~ •••101>,a•"'•"'~ ~ •,.m101> -.r•• •"1$ D 0 1"



Centri abitati sulle cui coordinare concordano le tradizioni Centri abitati sulle cui coordinare non concordano le tradizioni • Porri sulle cui coordinare concordano le tradizioni O Porri sulle cui coordinare non concordano le tradizioni + Isole sulle cui coordinare concordano le tradizioni Isole sulle cui coordinare non concordano le tradizioni

Cod. X /1' redazione tolemaica/

~

Cod. z. E } Cod. S, B, P

/2' redazione tolemaica/

Cod. O(tradizione post-tolemaica)

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5. Carta tolemaica della Sardegn a (rielaborazione da tre distinte carte di P. Meloni).

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la Sardegna e per i loro discendenti, dove non avrebbero dovuto subire il dominio di altri popoli. Quindi Diodoro poteva constatare che gli Iolei avevano saputo resistere ai Cartaginesi e ai Romani; si erano rifugiati sui monti, avevano preso dimora in luoghi inaccessibili, abitando in gallerie e in ambienti sotterranei da loro costruiti, dedicandosi alla pastorizia, nutrendosi di latte, di formaggio, di carne e facendo a meno del grano; così, lasciate le pianure, si erano sottratti anche alle fatiche di coltivare la terra. Infine continuavano a vivere sui monti, senza la preoccupazione del lavoro, contenti dei cibi semplici, mantenendo quella libertà che nemmeno i Romani, all'apice della loro potenza, erano riusciti a soffocare.

I tanti etnici: cittadini , comunità locali non urbanizzate, immigrati Oggi arriviamo a elencare una cinquantina di populi più o meno urbanizzati, come quelli collegati a civitates urbane, municipi, colonie. Nella Geografia di Tolomeo di Alessandria se ne ricordano solo otto legati a centri abitati (p6leis): i Tibulatioi di Tibula, i Solkitanoi di Sulci-Tortolì e i Solkitanoi di Sulci-Sant' Antioco, i Noritanoi di Nora, i Loukouidonénsioi di Luguidonis castra o di Castra Felicia (Oschiri), i Kornénsioi-Aichilénsioi di Cornus, i Neapolitai di Neapolis, i Oualentinoi di Valentia. Per Tolomeo i veri e propri populi insediati (katéchontes) da nord a sud in Sardegna erano solo 11 _ Nella cartina (fig. 6) li elenchiamo utilizzando le fonti letterarie, geografiche e itinerarie (in particolare l'Itinerario di Antonino ), i diplomi militari, i cippi terminali, le sentenze dei governatori, le dediche sacre, con un costante confronto con l'onomastica e la toponomastica giudicale e moderna. Tra gli immigrati non originari dalla Sardegna dobbiamo ricordare almeno: i primi coloni di Turris Libisonis (arrivati da Roma) e della colonia augustea di Uselis; i Falisci arrivati in Sardegna dopo la prima guerra punica: li si localizza abitualmente a Feronia (Posada), dove si collocano anche gli Aisaronenses apparentemente di origine etrusca, arrivati dall'Etruria e dalla media valle del Tevere; i Buduntini, sodales devoti di Minerva, provenienti da Bitonto sulla via Traiana in Apulia (il ritrovamento dell'iscrizione è avvenuto a breve distanza dal lago Baratz); ancora i Patulcenses dalla Campania; i Siculenses dalla Sicilia, che localizziamo sulla costa orientale alla fo ce del Saeprus flum enFlumendosa, forse a Muravera; gli ebrei Beronicenses provenienti dalla Berenice di Cirenaica (Benghazi) in età Adrianea relegati nell'Isola durante la repressione del tumultus Iudaicus, incolae nel municipio di Sulci (essi avevano perso la cittadinanza romana al momento della deportatio in sulcitanam insulam, erano stati inizialmente forse destinati alle vicine miniere, probabilmente si erano organizzati con un'assemblea popolare che collaborava con i cittadini romani divisi in tribù elettorali); si possono aggiungere i prigionieri condannati ad metalla e nei latifondi imperiali; infine gli appaltatori addetti al duro lavoro nelle saline di Carales con i loro schiavi salinarii; i mercanti come quelli provenienti

dalla Gallia; infine i Mauri-Maurusii del Sulcis. La realtà emersa anche di recente dagli studi scientifici sulla popolazione sarda è che permane anche in età romana una notevole omogeneità di fondo: ci concentreremo allora sul nucleo più significativo, rappresentato da oltre trenta gentes sicuramente sarde (si è parlato di "autoctoni" o di manifestazioni di una profonda Sarditas opposta alla Romanitas, con una cultura originale e autonoma). Si va dai grandi populi che hanno combattuto a lungo contro i Romani fin dal loro affacciarsi militarmente sul porto di Olbia: Balari, Corsi, Ilienses, Sardi Pelliti. Un nucleo consistente è quello dei populi della Barbaria interna, ma arriviamo fino a microscopici raggruppamenti di popolazioni rurali, concentrate in vici o in pagi peregrinorum anche all'interno del territorio delle colonie, ma in posizione decentrata entro la pertica con le particelle catastali definite da cardines e decumani come nel caso di Uselis: nelle campagne va localizzata gran parte della popolazione, impegnata nei lavori agricoli e nell'attività pastorale affidata spesso a schiavi, specie per le esigenze legate all'economia di sopravvivenza che hanno limitato notevolmente il processo di urbanizzazione. Tra i popoli più famosi ricordiamo, gli Ilienses del Marghine-Goceano, confusi con i Diaghesbei di Strabone, i Troes, gli Iolei: popoli che alcuni autori classici volevano nobilitare ipotizzando un'antica origine greca (gli Iolei discendenti dei Tespiadi figli di Eracle) oppure troiana, secondo un mito ribaltato in Sardegna nell'età del poeta Ennio (Ilienses) . Al di là del mito, il popolo sardo degli Ilii è effettivamente documentato a Malaria (oggi Mulargia), presso il nurac Sessar: essi occupavano la Campeda, il Marghine e il Goceano ed erano separati dal fiume Tirso da altri popoli sardi autoctoni insediati in piena Barbaria, sulla riva sinistra del fiume, come i Nurr(itani) della località Porgiolu presso le acque termali di Oddini, tra Orotelli e Orani. I Corsi arrivati dalla vicina Corsica occupavano gran parte della Gallura; uria lòro traccia compare nell'onomastica dei peregrini sardi a Olbia e Telti. Si è già detto delle vicende del popolo dei Balari-Perfugae del Logudoro collocati alle porte di Olbia, dal fiume Scorraboes (tra Monti e Berchidda) fino a Perfugas sul Coghinas. Assieme ai Balari, Strabone (V, 2,7) ricorda gli Aconites, i Paratoi e i Sossinatoi collocati sulle montagne della Sardegna settentrionale.

I popoli della Barbaria Possiamo collocare in questo primo livello i Barbaricini della Barbaria (forse organizzati in piccole comunità semi-urbane dotate comunque di una qualche struttura politico-sociale): ancora nel VI secolo d.C. si confrontavano col comandante militare, il dux Sardiniae. Già dalla prima età imperiale sono ben documentate le civitates Barbariae del Gennargentu, certamente nell'età di Tiberio, sottoposte a un rigido controllo militare se conosciamo da una iscrizione di Preneste un Sesto Giulio Rufo, un ufficiale richiamato in servizio e inviato in Sardegna con lo scopo di reclutare soldati e di riscuotere i tributi in Barbagia, tramite il suo reparto di Corsi. Il titolo di praefectus portato da Giulio Rufo ci consente di individuare non solo la funzione militare ma anche di delimitare un distretto territoriale che è probabile risalisse a epoche precedenti e che comunque vediamo autonomo rispetto alla provincia bizantina nell'età di Gregorio Magno; in epoca giudicale appare strategicamente frantumato in curatorie controllate da tutti i quattro giudici. Collocate sui Montes Insani, le popolazioni comprendevano ormai anche gli Ilienses, i Balari e i Corsi, i populi celeberrimi di Plinio il Vecchio, resistenti e ribelli, che sembra abbiano perso alla fine della Repubblica una loro individualità, per essere ora chiamati con il titolo "dispregiativo" di "Barbari" o di "Barbaricini" della Barbaria, quando la guerra finì per degenerare in brigantaggio: per Ettore Pais si tratterebbe di un chiaro indizio «di mutamento di opinioni e contegno» da parte dei Romani, che dimostrerebbe un ipotetico «disprezzo per la povertà degli isolani», impegnati in una resistenza che poteva ormai solo molestare e provocare i Romani, ma non preoccuparli seriamente. All'interno della vasta definizione di civitates Barbariae ora emergono i popoli della Barbagia ai piedi del Gennargentu, come ad esempio i Nurritani che da Nuoro dovevano arrivare alla riva sinistra del Tirso, i Celes(itani) e i Cusin(itani) del cippo terminale di Sorabile (oggi Fonni), sicuramente da identificare con Kunusitanoi e i Kelsitanoi di Tolomeo; e gli stessi Sorabenses insediati nel Nemus Sorabense, la foresta sacra di Fonni dove si veneravano Diana e Silvano. È opportuno a questo proposito citare la Tavola di Esterzili (fig. 301), uno splendido documento in bronzo, che ci fa conoscere la controversia che si trascina tra la fine del II secolo a.C. e la metà del I secolo d.C. tra i Galillenses sardi (Gerrei) e i contigui Patulcenses campani.

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Che i Sardi fossero pastori e i Campani agricoltori è un'ipotesi molto probabile se pensiamo alle frasi di Diodoro Siculo, che poteva constatare come ancora al tempo di Cesare la feracità delle «amenissime pianure iolee» attirò successivamente la cupida attenzione di molti popoli: pensando ai Sardi (ma più precisamente ai discendenti di Eracle) egli afferma che rifugiatisi nella regione montana, si dedicarono alla pastorizia, facendo a meno del grano. Seppero così conservare quella libertà che, ai Tespiadi, era stata effettivamente assicurata, in eterno, da Apollo.

Altri popoli La geografia umana della Sardegna romana è arricchita anche da altri popoli che abitavano nelle diverse parti dell'Isola. Tra il territorio di Cuglieri ( Gurulis Nova ), Sennariolo e Tresnuraghes, immediatamente a nord di Cornus, lungo il Riu Mannu, l'antico Flumen Olla, conosciamo dal I secolo a.C. una serie di popoli come ad esempio i Ciddilitani!Giddilitani e gli Uddadhaddar(itani) Numisiarum la cui storia è intrecciata con quella dei Sardi Pelliti alleati di Hampsicora, in quanto sarebbero stati collocati nel territorio rimasto alla civitas di Cornus espugnata nel corso della seconda guerra punica. Al Campidano orientale ci porta la localizzazione, recentemente proposta, a Barumini, dei Barsanes; in epoca più tarda un cippo di confine separava i Maltamonenses dai contigui Semilitenses a Sanluri, nelle terre del clarissimus Cens (orius) Secundinus e della h(onestissima) f( emina) Quarta, ricordati sui cippi terminali che erano stati strappati (ebulsi, da evellere) e nuovamente collocati con l'impiego di monumentali blocchi monolitici. La popolazione rurale (la rustica plebs ) Si arriva così al pagus degli Hypsitani sul fiume Tirso, nella parte più settentrionale della Colonia Iulia Augusta Uselis, prima della nascita del Forum Traiani, scorporato dalla pertica della colonia sotto Traiano, nel punto terminale dei due tronchi della strada centrale sarda, a Turre e a Karalibus: le Aquae Hypsitanae sono le acque calde dove si praticava un antico culto medico di Esculapio e delle Ninfe salutari. Il vicus relativo, al centro del pagus, era gestito da magistri (del vicus o del pagus) all'interno del territorio della colonia di Uselis. Gli Hypsitani in epoca tarda diventano Forotraianenses, dopo la decurtazione del territorio della colonia

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Uselis e la costituzione del Forum nel 111 d.C., che arriva a comprendere il villaggio vicino alle sorgenti termali, dove si svolgevano le pratiche di sanatio; successiva è la promozione di Forum Traiani alla condizione di civitas in età severiana e poi probabilmente di municipio. Una conoscenza più approfondita abbiamo dei Pagani Uneritani peregrini di un pagus rurale nel territorio sempre della colonia augustea Uselis, oggi in comune di Las Plassas ai piedi del colle della Marmilla: grazie alle ultime scoperte essi rappresentano un caso esemplare per definire la condizione della diffusa popolazione rurale della Sardegna, in continuità con l'età preistorica. Un documento epigrafico recentemente scoperto a Las Plassas ci porta indietro nel tempo, alle origini dell'organizzazione paganica in Sardegna, probabilmente nel I secolo d.C., prima della generalizzata diffusione della cittadinanza romana nella provin~ia; e ci conduce in un'area, a ridosso della Giara di Gesturi, che geograficamente gravitava sulla Colonia Iulia Augusta Uselis. Non riteniamo che l'organizzazione paganica sia stata introdotta dai Romani solo in alcune aree della Sardegna, in particolare nei territori delle coloniae civium Romanorum, nel territorio delle assegnazioni viritane a proletari o militari immigrati; è probabile invece che siamo di fronte a distretti territoriali e comunità locali originarie eredi dell'amministrazione punica. Il pagus si riconosceva attorno a un santuario presso il quale «dovevano organizzarsi l'attività economica (fiere e mercati) e quella amministrativa (assemblea del pagus, elezione dei suoi magistrati)»; e ciò spiegherebbe come mai «la stragrande maggioranza delle opere pubbliche curate dai magistrati del pagus o comunque in esecuzione di delibere del pagus riguardi un santuario e i suoi annessi, senza che si debba necessariamente supporre che il pagus avesse competenze esclusivamente religiose»; si spiega la "funzione aggregativa" dei santuari rurali, moltissimi dei quali erano dedicati a Giove oppure, meno frequentemente, a Ercole, isolati o collocati entro uno dei vici del territorio. Particolarmente rilevante è la collocazione geografica di Las Plassas, inserito nell'antico territorio della diocesi di Usellus (poi Ales), che sostanzialmente sembra coincidere con l'originaria pertica della colonia romana di Uselis, ai margini meridionali di quello che sarebbe stato il Giudicato di Arborea, sul Riu Mannu. Com'è noto i confini diocesani e i

Galillenses, Alticienses, Carenses, Coracenses, Corpicenses, Fifenses, Maltamonenses ecc. Più recente il suffisso in -itani: i casi più significativi sono quelli, sicuramente di origine paleosarda, dei Ciddilitani-Giddilitani e Uddadhaddar(itani) a Cuglieri, dei Celes(itani) e dei Cusin(itani) a Sorabile, l'attuale Fonni in Barbagia, dove sul Tirso e al confine con gli Ilienses, si conoscono i Nurr(itani) di OrotelliOrani. Più comune è il suffisso -itani con riferimento a popolazioni urbane, come per Caralitani, Noritani, Sulcitani, Turritani ecc.; vedi ora l'enigmatico caso di un Sicositanus a Sulci, che però va messo in rapporto forse con la città di Icosium (Algeri), nella Mauretania Cesariense. Mi pare debba ricavarsi conclusivamente che il suffisso -itani rappresenti un elemento suffissale non necessariamente preromano, utilizzato per indicare gruppi etnici o addirittura popoli; è comunque meno significativo del suffisso pre-romano ben più attestato -enses. La presenza di etnici e di antroponimi di origine protosarda nell'area circostante la Marmilla è ben nota, pur in un quadro di avanzata romanizzazione: si sono citati i Maltamonenses e i Semilitenses di Sanluri; oppure i Moddol(itani?) di Villasor, contadini che lavoravano in un fundus lungo la strada per Turris, a una ventina di miglia da Carales; i Galillenses, i pastori sardi del Gerrei, impegnati a occupare ancora in età neroniana le pianure (fino alla Trexenta?) assegnate dall'autorità romana ai Patulcenses Campani.

confini giudicali in Sardegna conservano traccia dell'originaria appartenenza dei diversi territori a singoli municipi e colonie in età romana; anche le curatorie medioevali e gli stessi comuni moderni ( che nelle pianure della Marmilla hanno territori microscopici, senza confronti con altre aree dell'Isola) possono essere utili per ricostruire l'aggregazione del territorio e la sua ripartizione interna in età antica e tardo-antica, frutto di precise condizioni economiche e ambientali che hanno condizionato l'insediamento.

6. Carta dei popoli della Sardegna (rielaborazione di A. Mastino da S. Ganga) .

Etnici locali più antichi {-enses) e più recenti (-itani) Se partiamo dagli Uneritani, i suffissi degli etnici attestati in Sardegna sono significativi per creare anche una qualche priorità sul piano cronologico. Il suffisso più antico e più diffuso è quello in -enses indicante popolazioni rurali: Ilienses,

La conquista e il culto di luppiter fino alla Barbaria Il culto di Giove non è estraneo alla Barbaria sarda, come dimostra la recente scoperta di Raimondo Zucca, che ha localizzato sul colle di Monti Onnarìu a Bidonì, sulla riva sinistra del fiume Tirso, un tempio raso al suolo, con una scalinata terrazzata e un altare rupestre dedicato a Iuppiter: il tempio di Giove fu elevato significativamente «proprio nell'area delle comunità organizzate dai Romani nella Barbaria sarda (civitates Barbariae) », cioè «in un luogo vergine di culti della Barbaria», sulla riva sinistra del fiume Tirso, vera e propria frontiera fortificata tra i monti occupati dalle popolazioni sarde resistenti e l'area costiera più romanizzata. Forse quel tempio doveva accogliere alla fine dell'età repubblicana degli «ex voto per una vittoria dei Romani sui Sardi, un templum Iovis, il dio del quale rivestivano le insegne i generali vittoriosi nel triumphus». A tale contesto è stato

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spesso associato il santuario nuragico di Santa Vittoria di Serri, distrutto da un incendio che Giovanni Lilliu ha voluto collegare alle stragi e agli incendi evocati da Strabone, a proposito dei barbari isolani che, concluse le loro razzie, venivano sorpresi con degli stratagemmi dai comandanti romani mentre celebravano per parecchi giorni i loro festini, dopo aver raccolto un abbondante bottino (Strab. 5, 2, 7). L'insediamento rurale e il paesaggio: Campidano e Marmilla La presenza di numerosi corsi d'acqua, di aree verdi irrigue (le attuali iscras), di resti di impianti termali (gli attuali bangius) è coerente con l'ipotesi di un insediamento agricolo sparso, testimoniato dai numerosi ritrovamenti di ceramica a vernice nera, di ceramica aretina, di sigillata africana, tra la fine dell'età repubblicana e l'età antonina e oltre: i numerosi altri ritrovamenti di età imperiale hanno suggerito a Lilliu l'esistenza di una molteplicità di vici rurali, entro latifondi collocati nelle terre della Marmilla, vero e proprio granaio di Roma. Per Lilliu «si tratta di conduzione economica schiavistica, a servi della gleba, cioè contadini asserviti non solo al padrone, ma legati organicamente alla terra, cioè non in grado di liberarsi passando ad altri servizi, lavori e gradi sociali. Siamo in presenza di poveri contadini, senza salario alcuno, il cui stato servile si manifesta anche nella semplicità delle tombe e modestia dei loro corredi e nei micro aggregati rurali dove trascorrevano una vita senza storia e impersonale. Questo sistema di latifondo privato o imperiale, caratterizzato dalle zone romanizzate a cultura cerealicola, di puro sfruttamento coloniale a base servile, dura nel territorio di Las Plassas, come altrove nei luoghi di produzione granaria della Sardegna, anche in periodo vandalico e bizantino; ciò si dice pure per Las Plassas sebbene al momento non si abbia alcuna evidenza archeologica, come per l'età romana». Un quadro che ora si può aggiornare leggendo le belle pagine di Andrea Roppa e Peter van Dommelen sugli insediamenti rurali del Campidano a partire dall'età punica. I Pagani Uneritani aggregati alla colonia di Uselis, sono solo l'esempio meglio conosciuto dell'insediamento, sull' ager publicus isolano, di una ricca comunità umana, composta da popolazioni locali originarie, sottoposte allo stipendium o alla decima, insediate con vici e case sparse su un distretto territoriale che forse traeva le sue origini da un'epoca molto antica

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che precede lo scorporo delle parcelle catastali assegnate in età augustea ai coloni cittadini romani di Uselis; e ciò a prescindere dalla consistente presenza di schiavi e liberti impiegati nel lavoro agricolo o nella pastorizia transumante. Il territorio dové mantenere una sua organizzazione e un suo orientamento ancora in età medioevale, quando il villaggio centrale, che forse mantenne il nome di Uneri ( uno dei vici oppure l'unico vicus del pagus romano) e tutta la Marmilla dovevano essere inseriti nella diocesi di Usellus e nel Giudicato d'Arborea. La costruzione e la dedica di un santuario rurale del dio romano Giove Ottimo Massimo, presso il colle della Marmilla, in un luogo di passaggio obbligato per la viabilità rurale tra le due strade che collegavano Carales con Turris Libisonis e con Olbia, forse rappresentò veramente il momento in cui si definì un nuovo "polo di attrazione" economica, amministrativa e religiosa delle popolazioni sparse attorno a un vicus entro il più vasto pagus, amministrato dai magistri (e magari da aediles addetti al santuario di Giove). Non può escludersi che il nuovo santuario, forse da ricercare alle pendici del colle della Marmilla (il Campidoglio locale), piuttosto che sulla sommità della collina, alla periferia settentrionale di quello che sarebbe divenuto in età medioevale il villaggio di Las Plassas, abbia rappresentato un elemento di discontinuità con il passato e abbia sostituito un più antico santuario rurale collocato in aperta campagna, magari dedicato a una divinità locale (come pensiamo sia avvenuto a Sorabile, oggi Fonni, con la foresta sacra a Diana e Silvano). In ogni caso la dedica rappresentò forse, al margine meridionale del territorio della colonia Uselis, un'orgogliosa rivendicazione di identità e di autonomia dei peregrini-stipendiarii rispetto al capoluogo lontano. Ci rimane solo uno squarcio, un raggio di luce, in una società che ci appare articolata, divisa e ingiusta. Nota bibliografica Per l'espressione natione Sardus e il riconoscimento della condizione dei Sardi da parte dell'ostile Cicerone, vd. MASTINO 2015. MURONI 2014 ha recentemente ridimensionato il giudizio di Cicerone. Per i Sardo-libici, vd. FgrHist. 90 F 103r, 4 F 67, Nic. Dam. Frg. 137; MASTINO 2016a, p. 41. Per l'iscrizione sull'architrave del nuraghe Aidu 'entos, MASTINO 1990a; GASPERINI 1992b, pp. 303-306, n. 5; MASTINO 1993a. Per gli Ilii del nurac Sessar a Mulargia, vd. BONELLO LAJ 1993a, pp. 161-164; PAULIS 1993. Per il diploma di Posada (con il toponimo o l'etnico NVRALB), vd. SANCIU, PALA, SANGES 2013; IBBA 2014a; FAORO 2019.

Enrico Trudu

7. Nuraghe Arrubiu, Orroli, officina artigianale di epoca romana per la produzione di olio e di vino.

Gli oltre ottomila nuraghi attualmente conosciuti sono un landmark che caratterizza ancora oggi fortemente il territorio sardo. È comprensibile, dunque, che un elevato numero di queste strutture sia stato riutilizzato, soprattutto in epoca romana, benché siano scarse le fonti antiche che parlano di questi monumenti. Un'importante testimonianza epigrafica, l'iscrizione del nuraghe Aidu 'entos di Mulargia, fornisce la prima attestazione del termine nurac. Due studiosi principalmente - G. Lilliu e P. Pala si sono occupati del riuso di queste strutture, riconoscendo varie finalità residenziali/agricole, funerarie, cultuali - ma non arrivando a tracciare un quadro interpretativo complessivo del fenomeno. L'idea comune a quasi tutti i ricercatori è che il reimpiego abbia come agente le popolazioni locali e sia da inquadrare in una continuità

d'uso da parte di etnici indigeni. Ultimamente l'analisi per sub-regioni del territorio dell'Isola sta fornendo nuove indicazioni, evidenziando come la sovrapposizione delle culture punica e romana sul sostrato paleo-sardo abbia dato luogo a esiti spesso diversi. Se consideriamo le attestazioni di riutilizzo con finalità cultuali conosciute, si può notare come siano documentate principalmente in settori dell'Isola punicizzati, e come tale processo, in realtà, abbia inizio spesso prima dell'arrivo dei Romani. Possiamo citare Su Mulinu di Villanovafranca, dove l'impiego con finalità cultuale è attestato già dal IX secolo a.C., i nuraghi Genna Maria di Villanovaforru, Su Nuraxi di Barumini, Cuccurada di Mogoro, Santu Miali di Pompu, S'Uraki di San Vero Milis, Lugherras di Paulilatino, Santa Barbara di Macomer e altri otto individuati nella Sardegna nord-occidentale. Tali strutture

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usati come magazzini di pertinenza di una villa rustica costruita sopra il villaggio - e il nuraghe San Pietro di Torpé, dove una torre fu adattata a granaio/magazzino. Nel nuraghe Arrubiu di Orroli gli scavi hanno evidenziato l'impianto, nel I secolo d.C., di due officine artigianali per la produzione di olio e vino, legate a un piccolo abitato sorto intorno al monumento. Questi nuraghi, parzialmente crollati nel~ secolo a.C.,

rimasero abbaìidonàti per seooll prima dell~epoca romana, e anche i pochi edifici delrintemo dell1so~ di cui abbiamo dati di scavo, forniscono indicazioni simili. Ulteriori esempi di impiego con finalità residenziale sono il Marfudi di Barumini - dove il nuraghe stesso fu restaurato e dotato di una copertura in embrici - e i nuraghi Mannu di Dorgali e Orgono di Ghilarza, entrambi oggetto di recenti pubblicazioni. Per le zone centroorientali e nord-occidentali gli studi evidenziano la presenza di un elevato numero di nuraghi rifunzionalizzati soprattutto in epoca imperiale, con una bassissima percentuale di persistenza di utilizzo dopo l'epoca nuragica. Il fenomeno non sembra, dunque, riferibile a una continuità di frequentazione indigena, quanto essere spia di un nuovo approccio, un pragmatico e "romanissimo" riuso funzionale, legato all'occupazione e al ripopolamento del

territorio da parte di gruppi di cultura romana, di :militari congedat4 ma anche di popolazioni sarde romanizzate provenienti da altre aree. Indicatori di questa dinamica possono considerarsi i diplomi militari di classiari ritrovati nei nuraghi di Fonni e Seulo e, soprattutto, il rinvenimento in agro di Posada del diploma di un milite sardo congedato, in cui si menziona il suo luogo di origine: Nur(ac) Alb(us), un abitato ubicato presso un nuraghe.

Nota bibliografica Sul riutilizzo dei nuraghi: LILLIU 1990; PALA 1990b; STIGLITZ 2005; TRUDU 2012b. Per le fonti antiche: PERRA 1997. Per le iscrizioni citate: MASTINO 1993a; IBBA 2014a; FARRE 2016b. Per la Sardegna nordoccidentale: BONINU, ET AL. 2016. Per la Sardegna centro-orientale: TRUDU 2012b; DELUSSU 2016; TRUDU 2016b. Per i nuraghi menzionati nel testo: SANGES 1985; D'ORIANO 1986; MORAVETTI 1988; LILLIU 1989; LILLIU 1990, con ulteriore bibliografia; Lo SCHIAVO, SANGES 1994; CANU, CiCILLONI 2015; UGAS, SABA 2015; ATZENI, ET AL. 2016; USAI, SANNA 2016.

8. Nuraghe Santu Antine, Torralba , elementi di colonna e capitello pertinenti alle strutture romane realizzate sopra il villaggio nuragico. Al momento del rinvenimento la colonna era ubicata presso l'ingresso; attualmente è al Museo della Valle dei Nuraghi del Logudoro-Meilogu di Torra lba . 9. Nuraghe Santu Antine, Torral ba, si notano le strutture di epoca romana addossate al villaggio nuragico.

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costruzione di strade e ponti, necessari al

RTUS

GUIDONIS

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eredità dell'epoca nuragica, raggiunse un apice ineguagliato fino all'età contemporanea, tanto che i percorsi fissati in quest'epoca segnano notevolmente il paesaggio ancora oggi: la rete stradale era eccezionalmente sviluppata e percorreva l'intera Isola. Tuttavia gli autori antichi che trattano dell'organizzazione territoriale della Sardegna non sono molti (tra questi Plinio e Tolomeo); neanche il principale itinerarium pictum giunto fino ai giorni nostri, la Tabula Peutingeriana, ne riporta l'assetto viario. Più accurato è il principale itinerarium scriptum, l'Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti, che nell'iter Sardiniae distingue sette percorsi, che possono essere schematizzati nelle seguenti direttrici: la litoranea orientale; la strada interna della Barbagia, che collegava Olbia e Carales; la strada centrale sarda, che collegava Carales e Turris Libisonis; la litoranea occidentale. Le strade erano percorse dal servizio a cavallo del cursus publicus, ovvero il servizio postale, istituito in età augustea, e dal cursus clabularis, ovvero il traffico pesante deputato principalmente al trasporto del frumento e dei prodotti minerari (in Sardegna il piombo, il rame e l'argento del Sulcis e della Nurra) verso i principali porti, dai quali le navi onerarie li imbarcavano. Lungo la strada si trovavano sia le mansiones, luoghi di sosta attrezzati con locande, alloggi e scuderie, posti a una distanza di una giornata di viaggio o all'ingresso dei principali centri abitati, sia, a distanze minori, le mutationes, presso le quali era possibile sostare e cambiare le cavalcature o gli animali da traino. Le strade avevano carreggiata variabile in base al traffico e all'importanza della via, in genere compresa tra 3 e 5 metri, ai quali si devono aggiungere da 0,60 a 1 metro per parte per i marciapiedi. Spesso i marciapiedi erano

10. Carta della viabilità rom ana in Sardegna con il posizionamento dei miliari stradali (rielaborazione da Mastino 2005).

rialzati o delimitati da fossati; la strada aveva una superficie convessa ed era fornita di canalette di drenaggio ai lati, per impedire all'acqua piovana di riversarsi sulla carreggiata. In Sardegna una minima parte delle strade (alcuni tratti delle arterie più importanti o, di norma, all'interno dei principali centri urbani) era silicae strata, cioè con il summum dorsum

lastricato con un basolato; la maggior parte era glarea stratae, ovvero costituita da una massicciata formata da ciottoli e pietrame. Questa tecnica, la glareatio, non garantiva la stessa solidità delle vie basolate: il continuo passaggio di mezzi pesanti, quali i carri carichi di merci e i convogli militari, ne provocavano una rapida usura. Pertanto erano necessari

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14. Tratto di strada romana presso l'antica città di Neapo/is, Guspini. 15-16. Tracce della viabilità antica legate, con molta probabilità, al percorso della via a Turre Cara/es, in corrispondenza della necropoli neolitica di Su Crucifissu Mannu, Porto Torres. Nella doppia pagina seguente: 17-19. Alcuni tra i più suggestivi esempi di ponti di impianto romano in Sardegna: il ponte di Usellus (fig. 17), quello di Santa Giusta (fig. 18) e il ponte Oinu, al confine tra Pozzomaggiore, Macomer e Sindia (fig. 19).

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continui restauri e riparazioni, anche a distanza di brevi intervalli di tempo, per mantenere efficiente il sistema viario. Solo quando necessario venivano realizzati ponti, inizialmente in legno, poi in pietra: il ponte su arcate, contrariamente ai tracciati che in molti casi ricalcano precedenti percorsi nuragici e punici, è elemento precipuamente romano; inoltre, così come per i miliari ritrovati nel contesto originario, i ponti costituiscono elementi fissi nel quadro della viabilità, con il vantaggio di definire anche la direzione del tracciato e fornire un aiuto fondamentale per la ricostruzione del sistema viario, che in molti casi ha lasciato tracce labili e di difficile lettura a causa del riutilizzo nel corso dei secoli. Le distanze erano indicate da monoliti di forma normalmente cilindrica (miliaria), nei quali veniva indicato il nome del percorso e la distanza dal caput viae, espressa in passi (passus) o in miglia; il passo corrispondeva a 5 piedi, ovvero 1,48 metri; un miglio conteneva mille passi, ed era pari a 1480 metri. I miliari sono la principale fonte diretta sui rifacimenti e i restauri della strada, perché in essi viene spesso riportato il nome dell'imperatore o del governatore sotto il quale avvenne il posizionamento del segnale

stradale e i lavori correlati. La cura viarum, affidata a magistrati appositamente preposti, era un elemento importantissimo per l'assetto territoriale delle province, perché la funzionalità delle strade garantiva maggiore controllo e coesione dell'Impero: in Sardegna la cura viarum ricadeva sotto le competenze del governatore. La cronologia dei miliari sardi è compresa tra il I e il IV secolo, con una maggiore concentrazione nell'età dell'anarchia militare, confermando quanto risulta per altri contesti, cioè la frequenza di restauri eseguiti in questo turbolento periodo, e mostrando l'intensità delle esigenze di natura economica e il carattere anche politico che i miliari assumono: infatti alle opere di sistemazione di cui la rete viaria dell'Isola aveva effettivamente necessità, si affiancava la professione di devozione e di riconoscimento ufficiale da parte dei governatori isolani nei confronti dell'imperatore di turno.

Nota bibliografica Fors 1964; M ELONI 1980; ADAM 1988; B ELLI 1988; 1988; REBUFFAT 1991; G ALLIAZZO 1994; C ALZOLARI 1996; MASTINO 2005c; A TZORI 2006; C ANU, G IULIANI 2010; P IANU, C ANU 2011; C ANU, P IANU 2012.

MASTINO

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Stationesemansioflés Ciro Parodo

Il termine stationes fu utilizzato dai Romani per indicare spazi diversificati connessi all'amministrazione statale, tra cui le stazioni adibite al servizio postale e al trasporto di persone e merci comprese entro un sistema · governativo, prima noto come vehiculatio e a partire da età traianea come cursus publicus, istituito da Augusto tra il 27 e il 23 a.C., in concomitanza con la riforma provinciale (Svetonio, Augusto 49, 3). La fruizione di tale servizio statale, finalizzato all'ottimizzazione del complesso informativo e di controllo imperiale, era permessa solo a funzionari governativi muniti di apposito diploma e, a partire da età costantiniana, ai vescovi per consentire loro di raggiungere le sedi sinodali. Le stationes, la cui gestione, inizialmente affidata alle comunità municipali, fu centralizzata a partire dal IV secolo d.C., si distinguevano in due tipologie: le mansiones, luoghi di sosta destinati al pernottamento e al ristoro, talvolta connesse a impianti termali, collocate a una distanza di 20-30 miglia l'una dall'altra, corrispondente a una giornata di

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viaggio, e le mutationes, posti di ricambio dei cavalli, del veicolo o del conducente, ubicate ogni 8-9 miglia. Nel corso del processo di implementazione infrastrutturale del cursus publicus si verifica, come confermato dalle fonti giuridiche e itinerarie, una coesistenza tra le stazioni di tipo governativo e quelle di carattere privato, variamente definite come cauponae, hospitia, stabulae e tabernae deversoriae, sebbene tali differenziazioni a livello nominale non siano pienamente percepibili sul piano archeologico. Per quanto riguarda la Sardegna, il sistema stradale di età romana era dotato di numerose stationes, visto che nell'Itinerario Antonino ne sono indicate 46, e altre sono riportate in fonti più tarde, quali la Cosmografia dell'Anonimo Ravennate (VII sec.) e la Geografia di Guidone CXII sec.). La rete stradale isolana era articolata in 7 percorsi, riducibili a 4, in cui le stazioni non risultano distribuite uniformemente, essendo più diradate nella Barbagia e più frequenti nella zona costiera occidentale, ipoteticamente sulla base di una maggiore

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20. Mansio di San Cromazio, 11laspeciosa, veduta complessiva dell'aula osaicata. ritrovamento di pavimenti usivi a occidente del complesso termale di San Cromazio documenta un successivo mutamento della estinazione d'uso del sito, come testimoniato dalla presenza di un vasto vano osaicato (14 x 8 m) e di una vaschetta, parimenti ornata con un mosaico pavimentale, databili tra la fine del IV e gli · izi del VI secolo d.C. e ipoteticamente attribuibili a un edificio di culto cristiano di ambito rurale. 21. Mansio di San Cromazio, 1llaspeciosa, vaschetta mosaicata. La vaschetta rettangolare, adiacente all'angolo nordorientale dell'aula mosaicata, è ipoteticamente riferibile al battistero dell'edificio di culto cristiano. Il mosaico, cronologicamente inquadrabile tra la fine del V e gli inizi del VI secolo d.C., presenta uno schema decorativo che trova riscontri a Efeso e in area nordafricana e consiste in un reticolato obliquo di linee dentate con spazi di risulta ornati da un motivo a rosetta in bianco, nero e ocra.

disponibilità economica di quest'area, interessata da rilevanti processi di urbanizzazione fin da età fenicio-punica. Più specificamente nell'Itinerario Antonino sono citate le 14 stationes, collocate a una distanza media di 12-38 miglia, della litoranea orientale che attraversava la Gallura, la Baronia e l'Ogliastra (246 miglia); le 5, distanziate ciascuna di 40-45 miglia, lungo il percorso interno barbaricino, che collegava Olbia a Cagliari (172 miglia); le 10, ubicate ogni 12-36 miglia, comprese nel tragitto che attraversava centralmente l'Isola, dalla Gallura al Campidano (2 13 miglia); infine le 17 stationes, poste a una distanza minima di 12 miglia e massima di 30, della litoranea occidentale, da Castelsardo a Sant'Antioco (351 miglia). Esiguo è il numero delle mansiones sarde indagate archeologicamente, tra le quali uno dei casi più interessanti è costituito da quella di San Cromazio a Villaspeciosa, probabilmente destinata a servire la strada che da Carales (Cagliari) conduceva a Sulci (Sant'Antioco). Il suo impianto, originariamente realizzato nel I secolo d.C. ma modificato ancora fino al VI secolo, documenta l'evoluzione della mansio da tradizionale luogo di sosta in micro-realtà insediativa polifunzionale, a seguito delle dinamiche socio-economiche tardo-antiche. Il sito di San Cromazio si còmpone di una struttura abitativa articolata in quattro vani disposti intorno a un cortile dotato di pozzo, con un'area produttiva annessa a sud

comprensiva di uno o due cortili attorno a tre vasche impermeabilizzate verosimilmente utilizzate come fullonica, un impianto di tipo artigianale funzionale al lavaggio e alla smacchiatura degli indumenti. Procedendo nella medesima direzione sono disposti sei ambienti, uno plausibilmente identificabile con una cucina, tre pavimentati con basoli, probabilmente le stalle, e due con malta, verosimilmente utilizzati come uffici o luoghi di ristoro. Segue quindi l'edificio della mansio vera e propria composto di un ampio vano rettangolare munito di dalia (vasi in terracotta di grandi dimensioni destinati a contenere derrate alimentari come olio, vino, grano e legumi) e un cortile scoperto con abbeveratoio, adibito a luogo di ristoro per i viandanti e di ricovero per i cavalli. Completano la struttura un edificio termale a pianta rettangolare, databile al III secolo d.C., di cui rimangono il frigidarium dotato di due vasche, il tepidarium e il calidarium, i vani rispettivamente destinati ai bagni freddi, tiepidi e caldi.

Nota bibliografica Sulle stationes e mansiones nel mondo romano: CORSI 2000; KOLB 2000; BASSO, ZANINI 2016. Sulla mansio di San Cromazio a Villaspeciosa e le stationes romane in Sardegna: MASTINO 2005b, pp. 333-339; PIANU 2006; PIANU 2017.

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t

mai esistito davvero un limes romano in Sardegna? Secondo la storiografia moderna, sostanzialmente debitrice dell'interpretazione di Ettore Pais e in parte condizionata dalla teoria della "costante resistenziale sarda" di Giovanni Lilliu, la Sardegna in epoca romana era divisa in due aree distinte e contrapposte. Da una parte la Romània, romanizzata e corrispondente ai territori costieri e pianeggianti già colonizzati in epoca punica, e dall'altra la Barbària, culturalmente refrattaria agli apporti esterni, poco o per niente romanizzata e abitata da popolazioni indigene mai realmente pacificate e inclini alle rivolte. Oggi questo schema dualistico che vede la presenza di un popolo invasore e di un fiero popolo indigeno appare sempre meno sostenibile scientificamente e troppo semplicistica risulta essere la schematica divisione in Romània e Barbària, che sembra priva di un reale fondamento documentale. Per quanto riguarda la Romània, è possibile riconoscere traccia del termine nel toponimo Romangia, la regione attorno alla colonia di Turris Libisonis intensamente romanizzata, ma non esistono fonti antiche che ne parlino

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espressamente-e ne permettano una reale definizione geografica. t invece accertata dalle fonti epigrafiche, letterarie e dalla toponomastica l'esistenza di una regione definita come Barbària, che potrebbe corrispondere ai territori montuosi compresi tra gli altipiani di Bitti, Orune e il Marghine a nord, il Barigadu a ovest e, a meridione, le Barbagie fino al Sarcidano. Le attestazioni più antiche del termine sono rappresentate da due iscrizioni, risalenti a età augustea, rinvenute a Palestrina (Praeneste) e a Fordongianus (Forum Traiani) in cui si menzionano le civitates Barbariae, i cui populi sono in parte conosciuti grazie alle fonti epigrafiche. La teorica contrapposizione tra questi due ambiti culturali ha portato gli studiosi a ipotizzare che i Romani avessero organizzato un limes, un sistema strutturato di presidi militari di contenimento e controllo per fronteggiare gli attacchi delle popolazioni indigene dell'interno. Questa zona di confine militarizzata avrebbe, in parte, ripreso le postazioni di difesa create dai Cartaginesi. Dalle fonti abbiamo notizia di ribellioni continue, tra la fine del III e la prima metà del II secolo a.C., dei Corsi e dei Sardi, dei Bàlari

Zl. uraghe Aidu 'entos, argia. · ·one posta sull 'architrave nuraghe; il testo menziona ico degli 1/ienses e menta il primo utilizzo iuta del termine nurac. 23. Tiscali, Dorgali, strutture ~ rarie perti nenti - nsediamento.

e degli Iliensi - questi ultimi due etnici collocati dalle iscrizioni nella zona intorno a Berchidda e nell'areale di Bortigali - mentre non sembra che si faccia riferimento alle aree montuose centrali della Sardegna. Alla fine del I secolo a.C. il console Marco Cecilio Metello intraprese una massiccia operazione di divisione territoriale che, come testimoniato dalla Tavola di Esterzili, rimase immutata per lungo tempo. Sembra, dunque, che i territori più turbolenti fossero quelli collocati oltre il fiume Tirso e nella parte settentrionale dell'Isola. Le fonti letterarie menzionano l'esistenza di un asse viario che da Olbia raggiungeva Cagliari passando per le regioni interne centro-orientali. La strada, realizzata nelle prime fasi dell'occupazione della Sardegna probabilmente con finalità militari, fu anche tramite per la diffusione della cultura romana nelle zone interne. Gli itinerari tardo-imperiali elencano varie stationes pertinenti al percorso; questi centri, in origine presidi di controllo, ben presto assunsero anche la funzione di testa di ponte per la progressiva occupazione e romanizzazio'ne delle aree contermini, finalizzata al popolamento e allo sfruttamento del territorio. Il villaggio di Tiscali testimonia questa dinamica di interscambi e circolazione di beni: tradizionalmente interpretato come roccaforte dei sardi ribelli, ha restituito materiali, quali 'anfore vinarie di II secolo a.C., che provano scambi commerciali con la componente romana. In età augustea e giulio-claudia è documentato un notevole

sviluppo delle città sarde e fu rilevante verosimilmente anche la proiezione verso le zone interne, come testimoniato dalla realizzazione di nuove arterie stradali e di centri quali Austis e Fordongianus. In conclusione non sembra possibile riconoscere un vero e proprio limes strutturato e votato alla difesa, quanto piuttosto un sistema di insediamenti, realizzati ai margini delle aree interne, originariamente nati con finalità di controllo e collegati da un'estesa viabilità che consentisse un rapido spostamento delle truppe in caso di necessità. Queste prime enclaves ben presto diventano veicolo di trasmissione di romanità, di distribuzione di beni e basi per una proiezione nel territorio che già nel II secolo a.C. appare tangibile e che vede un ulteriore forte impulso nella prima età imperiale, portando avanti un processo di romanizzazione dei territori interni dell'Isola che, tra la fine del I secolo d.C. e il II secolo d.C., si può considerare ormai pressoché compiuto. Nota bibliografica Sul limes punico: PAIS 1923; BARRECA 1986; BARTOLONI 2009a. Sintesi storica: MELONI 1990; MASTINO 2005c; lBBA 2015. Per la costante resistenziale sarda: LILLIU 2002. Studi, indagini territoriali e recenti rinvenimenti: ROWLAND 1981 ; ZUCCA 1988; LILLIU 1990; STIGLITZ 2004; GUIDO 2006; DELUSSU 2009b; PIANU, CANU 2011; TRUDU 2012a; MELE 2014; CANU 2015; CANU 20 16; FARRE 2016a; TRUDU 2016c; CONTI 2019. Per Tiscali: DELUSSU 2009b. Sulla Tavola di Esterzili: MASTINO 1993b. Per le fonti antiche: PERRA 1997. Per l'epigrafia delle zone interne: FARRE 2016b, con ulteriore bibliografia.

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Colonie, Municipi, Civitates stipendiariae della Sardinia Attilio Mastino

Le colonie di cittadini romani La colonia di fondazione più antica in Sardegna è Turris Libisonis colonia Iulia (la denominazione ufficiale è conservata fino al VII secolo d.C.; sul sito insiste ora il moderno centro di Porto Torres): nata con l'arrivo di mezzo migliaio di famiglie provenienti da Roma (una traccia nella moneta coloniale di Marco Lurio, nel culto di Marsia, nella magistratura dei duoviri), era abitata da cittadini romani forse iscritti inizialmente alla tribù urbana Collina. Collocata al centro della fascia costiera che si affaccia sul Golfo dell'Asinara, presso la foce del Riu Mannu, sorgeva in un'area che era stata marginale rispetto agli interessi fenici e punici e non aveva conosciuto un vero sviluppo urbano come altre parti dell'Isola. Il toponimo classico (in greco Purgos Libusonos) è ben documentato e si compone di due distinti elementi: il primo sarebbe legato alla presenza sul territorio di una o più turres di età nuragica, le tholoi greche, forse con un richiamo al mito dell'etrusco Tirreno e della sposa Sardò (i Tirreni sarebbero stati costruttori di torri). Il secondo elemento, di diretta origine mediterranea, è stato collegato al nome della Libya e richiama le relazioni dei Sardo-libici con il Nord Africa, in rapporto forse con l'arrivo di Cesare alla foce del Riu Mannu dopo la vittoria di Tapso sui Pompeiani. Fondata probabilmente dal legato di Ottaviano Marco Lurio, in esecuzione di un indirizzo dato proprio da Cesare, la colonia aveva un territorio vasto (la pertica) che fu suddiviso dagli agrimensori in parcelle catastali definite in una forma conservata nell'archivio cittadino ( tabularium) con cardines e decumani e comprendeva i fertili territori della Romangia, la Nurra e la Flumenargia. Il retroterra di Turris - la Romània - , cioè il territorio abitato dai Romani, da proletari e da militari congedati, conosceva un insediamento sparso abbastanza eccezionale nell'Isola ed era stato in parte assegnato in proprietà ai coloni immigrati, impegnati anche nell'attività estrattiva. Numerose fattorie e agglomerati rustici sorsero accanto alle costruzioni preistoriche e protostoriche ormai abbandonate (i nuraghi, le tombe di giganti,

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i pozzi sacri); alcune di queste ville, ampie e provviste di stabilimenti termali e ambienti con pavimenti a mosaico, riportate alla luce dagli scavi, hanno confermato la tendenziale autosufficienza dell'impianto agricolo: La Crucca, a sud di Porto Torres, Bagni e Santa Filitica di Sorso, Zunchini, Porto Conte nel Golfo delle Ninfe presso l'attuale località di Sant'Imbenia (Alghero) . La colonia era amministrata dai duoviri iure dicundo (i supremi magistrati locali) e da edili scelti dalle 23 curie; conosciamo anche patroni, seviri e sacerdoti (auguri, flamini). La città era sede ~el culto imperiale gestito da esponenti dell'aristocrazia locale. Qui sorgevano i magazzini della ripa Turritana, dove le merci erano sottoposte a controllo doganale; in occasione dell'anniversario dei mille anni di Roma in città operava con una sua nave (esentata dai dazi) la Vergine Vestale Massima Flavia Publicia, impegnata nel trasporto di grano verso Ostia, esentata dal pagamento dei dazi; siamo in corrispondenza con le celebrazioni del Millenario di Roma, quando arriva in Sardegna anche un distaccamento della cohors II Vigilum, legata a operazioni di ammasso nei magazzini e di imbarco sulle navi di merci destinate a rifornire l'Urbe, mentre Turris era amministrata da un funzionario imperiale, un curator rei publicae militare. Il primo vescovo noto partecipa al concilio di Cartagine nel 484. La condizione di colonia per Uselis è espressamente indicata sulla tavola di patronato e clientela del 158 d.C. ritrovata a Cagliari: fondata nel II secolo a.C. alle spalle del Monte Arei (oggi Usellus), con motivazioni strategiche e di controllo; essa potrebbe essere citata da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia come Colonia Uselitana. Raimondo Zucca ha pensato al riconoscimento da parte di Cesare come municipio latino e poi colonia degli ultimi anni di Augusto: come Colonia Iulia Augusta la conosciamo dalle fonti; lo stesso Tolomeo, che erroneamente la colloca sulla costa occidentale della Sardegna, le attribuisce il titolo di polis e di colonia (unica nell'Isola). Sappiamo che era governata dai duoviri iure dicundo . La pertica

comprendeva un vasto territorio che originariamente arrivava fino al vicus delle Aquae Hypsitanae (poi Forum Traiani ), raggiungeva il Barigadu, la Parti Usellus, la Marmilla fino a Las Plassas e la Part' e Montis. La circoscrizione della colonia fu drasticamente ridotta quando, con la costituzione nel 111 d.C. del Forum Traiani, perse i territori immediatamente a Nord. La città si trovava a 49 miglia da Carales sull'originario percorso della centrale sarda ed era collegata a Neapolis da una variante. Gli studiosi oggi anticipano di secoli la nascita del villaggio di Cornus (S'Archittu) presso le cave di calcare utilizzate alla fine dell'età nuragica per scolpire le statue di Mont' e Prama; occupata dai Cartaginesi, accolse probabilmente molti Sardolibici, gruppi di popolazione arrivati dal Nord Africa. Dopo la costituzione della provincia romana, la città partecipò attivamente, guidata da Hampsicora e Hostus, alla guerra annibalica dalla parte di Cartagine ed è considerata da Tito Livio la capitale della regione in rivolta contro Roma. Dopo l'assedio e l'occupazione romana, la civitas stipendiaria (città tributaria) fu punita, perse il territorio a sud del Rio Pischinappiu e vide l'altopiano costiero al piede del Montiferru occupato da popolazioni immigrate, rimaste ai margini della conquista fino alla costruzione della strada militare costiera per Bosa costruita verso la fine del II secolo a.C. L'organizzazione del culto imperiale (ospitato nell'Augusteo da dove proviene la statua loricata forse di Traiano e la statua di Vibia Sabina moglie di Adriano) testimonia il ruolo rilevante della città all'interno della provincia: Cornus (con Bosa e Sulci ) fu una delle tre città per le quali sappiamo che il fiamen cittadino divenne il più alto sacerdote della provincia Sardinia. Raimondo Zucca immagina la promozione da civitas stipendiaria a municipio di cittadini romani in età flavia o traianea e infine la promozione a colonia onoraria nel III secolo. Sul colle di Corchinas e a Campu 'e Corra si è individuata l'acropoli, il foro con l'area monumentale, un santuario, l'acquedotto, una basilica cristiana, mentre le terme estive erano collocate originariamente a breve distanza dal mare. È documentata la presenza del porto e delle tonnare. Nel periodo bizantino è ricordata la Sancta Cornensis ecclesia, il cui vescovo Boethius partecipò al Concilio Lateranense Romano del 649. Alla condizione di colonia onoraria arrivò Tharros, fondazione fenicia di VIII secolo in un'area nuragica del promontorio di San Giovanni; secondo Mario Torelli in età punica

potrebbero esser stati i Cartaginesi di Tharros a spazzar via l'antico santuario di Mont'e Prama, collocato a metà strada con Cornus, al piede del Montiferru: le due città sarebbero state collegate in età repubblicana dalla strada proconsolare costiera che a nord raggiungeva Bosa. Per il Pais «Tharros era un comune ancora al tempo di Costantino I», mentre i Tarrenses sono ricordati a Ostia dall'epigrafe che menziona la costruzione di un macellum fornito di [pon]dera. Noi oggi sappiamo che forse Tharros divenne municipio sotto l'imperatore Claudio e poi ottenne lo statuto onorario di colonia pensiamo in età severiana. Nella prima metà del VI secolo d.C. Tharros era sede vescovile: in una lettera di Ferrando a Fulgenzio di Ruspe si tratta il tema di una contesa tra il vescovo di Tharros e il giudice civile in relazione al processo a un maleficus, un mago colpevole del reato di magia nera. La condizione di colonia romana per Neapolis è solo probabile: definita splendi(di )ssima civitas in un'iscrizione di Sulci del II secolo d.C., era stata una città nuova (la Cartagine di Sardegna), fondata forse dai Cartaginesi insediati presso un emporio greco facilmente accessibile nella parte lagunare del basso Golfo di Oristano (in comune di Guspini). La città controllava un territorio che andava dalle miniere di piombo e zinco di Montevecchia fino alle pianure del Campidano, collegata direttamente con il municipio di Sulci a sud e con la Colonia Giulia Augusta Uselis a est: la denominazione Aquae Calidae Neapolitanorum (per Santa Maria de is Aquas di Sardara) indica il punto più sud-orientale del territorio, al confine col municipio di Carales.

I municipi di cittadini romani Indicata inizialmente con l'espressione munitus vicus attribuita da Cincia Alimento, Carales nel corso del II secolo a.C. era retta da sufeti, così come è dimostrato dalla trilingue di San Nicolò Gerrei (fig. 295 ), che testimonia la continuità tra età punica e romana in alcune attività produttive, come la raccolta del sale forse affidata a privati (societas publicanorum). Capitale della provincia Sardinia fin dalla sua costituzione nel 227 a.C., risulta tra le città sociae (alleate non federate) dei Romani che si opposero alla rivolta di Hampsicora durante la guerra annibalica; nel corso della repressione di Tiberio Sempronio Gracco, Flora la ricorda come la città principale dell'Isola, amministrata dai sufeti di tradizione punica. Quando l'antica colonia fenicia divenne municipio di cittadini romani iscritti alla tribù Quirina, forse nel

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decennio successivo alla visita di Cesare (15-28 giugno 46 a.C.), controllava un territorio vastissimo che arrivava alle Aquae calidae Neapolitanorum, era amministrato dai quattuorviri (titolo dei supremi magistrati): il municipio ottenne il cognomentum Iulium, testimoniato dall'onomastica degli schiavi pubblici liberati. La città era da tempo "la metropoli dell'Isola", la sede del governo provinciale e del principale conventus giudiziario, con l'archivio, il tabularium provinciae citato nella Tavola di Esterzili (fig. 301), diverso forse dall'archivio cittadino. La più antica colonia fenicia della Sardegna, Nora, fu costituita in età augustea come municipio di cittadini romani e aveva continui rapporti con la capitale provinciale come testimonia la base in onore di Favonia Vera, che donò a Cagliari un alloggio liberamente utilizzabile dai Norensi che si trovavano in città per affari. A Nora Cicerone ambienta nel febbraio del 54 a.C., durante la ricorrenza dei Parentalia, la vicenda delle misteriose uccisioni di Bastare (originario proprio di Nora) e della moglie di Gaio Valerio Arine, molestata dal governatore Scauro. Importante sede di molti culti salutiferi, Nora fu frequentata dai governatori della Sardegna nell'ambito delle loro competenze giudiziarie. Per l'antica colonia di Sulci i Fenici avevano scelto la Sulcitana insula Sardiniae contermina, isola che Tolomeo chiama Molib6des, da cui era possibile controllare il vasto retroterra. La civitas peregrina e la sua aristocrazia pompeiana furono punite da Cesare nel giugno del 46 a.C. con una multa di 10 milioni di sesterzi, con l'aumento della decima e l'esproprio dei beni. L'attuale Sant' Antioco, collocata in quella che i Romani chiamavano anche Plumbaria insula, l'isola del piombo, doveva tutta la sua economia ai traffici marittimi e alle miniere, ai metalla, del suo territorio, che vennero espropriate da Cesare ed entrarono nel patrimonio imperiale. Erano collegati i centri punici di Monte Sirai (abbandonato verso il 110 a.C.) e l'insediamento costiero di Poupoulon, di incerta collocazione (Matzaccara?) . Da un punto di vista culturale assistiamo all'incontro fra tradizione punica e innovazione ellenistica di matrice romano-italica legata all'immigrazione di metallari: la ricostruzione del tempio del dio nazionale "pinnato" Sardus Pater ad Antas da parte di Ottaviano forse sottintende il "perdono" da parte di Augusto nei confronti dei Pompeiani. La promozione

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alla condizione di municipio latino è però più tarda, forse con Claudio negli anni 40 del I secolo d.C.: pian piano non solo i magistrati ma tutta la popolazione, suddivisa da un punto di vista elettorale in tribù gentilizie, ottenne la cittadinanza romana, con l'esclusione dei Beronicens, ebrei probabilmente deportati da Berenice in Cirenaica dopo che Adriano riuscì a soffocare la rivolta giudaica. Sulci ha in effetti restituito testimonianze più tarde di una comunità giudaica che occupava un'area cimiteriale ipogeica adiacente a quella cristiana. Alla condizione di municipio di cittadini romani arrivò con tutta probabilità anche Bosa, città interna e non costiera secondo Tolomeo, collocata sulla riva sinistra del Temo (Sa Idda 'ezza) e sulla riva destra (Prammas), con i quartieri collegati dal ponte al servizio della strada proconsolare che a sud raggiungeva Cornus e a nord Carbia (Mont' e Carru, Alghero) già in età repubblicana. L'elemento principale per ipotizzare la promozione istituzionale è rappresentato dalla sicura testimonianza dell'Augusteo in età antonina e dalla presenza di un sacerdote addetto al culto imperiale, divenuto fiamen provinciale e incluso, per volontà del concilio provinciale, nell'ardo decurionum, nel senato cittadino della capitale Carales (come è documentato solo per Sulci e per Cornus). Probabilmente fondata dai Fenici, porta d'ingresso per la scrittura cananea attestata nel retroterra fino a Villanova Monteleone, Bosa aveva un orda decurionum citato nella tavola di patronato e clientela di Cupra Marittima nel Piceno. Il dio patrio della città sembra essere Dioniso (di cui possediamo un ritratto di età antonina), collegato alla coltivazione della vite sulle colline calcaree circostanti. Olbia, dopo una fase fenicia poco conosciuta (VIII-VII sec. a.C.), fu fondata alla fine del VII secolo a.C. dagli Ioni di Focea, impegnati lungo la rotta tirrenica orientale, che toccava Alalia in Corsica e giungeva sino alla foce del Rodano e a Marsiglia: il mito collega la colonia greca ai figli di Eracle, in particolare ai gemelli Ippeus e Antileone. Dopo la battaglia del Mare Sardonia (535 a.C.) Olbia e Alalia furono abbandonate dai Greci; i Cartaginesi si insediarono nel vasto Golfo di Olbia, mentre gli Etruschi occuparono la Corsica. Già citata negli anni della prima guerra romano-cartaginese per lo stratagemma che consentì a Lucio Cornelio Scipione di sconfiggere Annone (259 a.C.), Olbia fu definitivamente occupata dai Romani nel 23 7 a.C. con Tiberio Sempronio Gracco: da allora

fu utilizzata come testa di ponte per le spedizioni romane contro i Balari del Logudoro, i Corsi della Gallura, gli Iliensi del Marghine e del Goceano. La condizione municipale per Olbia è suggerita non solo dalla presenza di un procuratore responsabile del kalendarium, il registro dei prestiti concessi dai decurioni ma dall'importanza del suo porto, dove operavano i Navicularii attestati nei mosaici del Piazzale delle Corporazioni presso il teatro di Ostia (figg. 410411). Fino all'età di Costantino è documentata la presenza di governatori provinciali. Da Olbia probabilmente partirono nel 455 i Vandali di Genserico per il secondo sacco di Roma: all'andata o al ritorno incendiarono e fecero affondare tutte le imbarcazioni che si trovavano sui moli (fig. 415). Da allora il centro si spostò più all'interno, dando luogo al locus qui dicitur Pausania di età bizantina. Dubbia è la condizione di municipio per Forum Traiani, che fu fondata nel 111 d.C. a breve distanza dal vicus delle Aquae Hypsitanae sul Tirso: qui, presso le fonti calde di Caddas e l'antico santuario di Esculapio e delle Ninfe salutari, è documentata ceramica a vernice nera di età repubblicana. ell'area aveva operato la cohors I Corsorum e qui, sotto Tiberio, le civitates Barbariae avevano posto una targa a un edificio in onore dell'imperatore. Presso le sorgenti, il vicus ospitava settimanalmente il mercato, le nundinae. Si eleggevano i magistri del vicus o del pagus all'interno del territorio della colonia di Uselis, che però non avevano una propria iurisdictio. Sono documentati dei servi publici. Anche urbanisticamente separato dal vicus originario doveva essere il Forum Traiani, costituito forse nel 111 d.C. con l'intento di celebrare la conclusione del secolare conflitto fra le civitates Barbariae e l'area romanizzata al piede occidentale dei Montes Insani. Il proconsole Lucio Cossonio Gallo poté dare attuazione alla volontà di Traiano con la fondazione di un nuovo centro: conosciamo le linee urbanistiche con cardines e decumani, che assomigliano a un centro di nuova fondazione e fanno pensare a una deduz10ne di cittadini in un'area di circa 12 ettari. Qui si incontravano i due tronconi viari a Turre e a Karalis nella via a Karalibus Turrem, ottenuta con l'edificazione del ponte sul fiume Tirso presso le Aquae Hypsitanae e con la costruzione della via da Aquae Hypsitanae ad Aquae Neapolitanae, attraverso Othoca, con la contemporanea realizzazione del ponte sul Rio Palmas, a sud di Othoca. Trasformato in civitas Forotraianensium

in età severiana, Forum Traiani potrebbe essere arrivato nel III secolo alla condizione di municipio di cittadini romani, come fa immaginare la presenza dei decurioni e di una flaminica responsabile del calendario delle feste religiose per il culto delle imperatrici divinizzate.

Alcune Civitates stipendiariae sine foedere: i peregrini della Sardegna Bithia può essere localizzata grazie a Tolomeo nella piana costiera di Chia, a est del Bithia limén, il porto, a breve distanza dal Porto di Ercole, sulla rotta per le Colonne d 'Ercole (Capo Malfatano) e Lilibeo. Città fenicia, importante porto di collegamento verso Cartagine e conosciuta per il santuario di Eshmun-Bes frequentato sino ali' età di Costantino, è uno dei quattro oppida citati da Plinio il Vecchio. Ancora in età imperiale Bithia era una civitas stipendiaria che continuò a essere amministrata dai sufeti almeno sino alla fine del II secolo. Othoca, la "città vecchia" (in rapporto a Neapolis oppure a Tharros), è stata localizzata nell'Oristanese, a Santa Giusta, nell'area che va dalla basilica romanica al ponte romano sul Rio Palmas (fig. 18) parzialmente conservato al servizio della strada costiera occidentale e della variante per Carales che evitava Uselis: il nome è lo stesso di Utica, in Nord Africa, alla foce del Bagradas, la più antica colonia fenicia che si data all'XI secolo a.C., divenuta capitale della provincia d'Africa dopo la distruzione di Cartagine. Non conosciamo la condizione giuridica della città, probabilmente una civitas stipendiaria nel cui fertile territorio (attraversato dal basso Tirso) si localizzano i praedia Aristiana: forse siamo ali' origine in età bizantina di Aristianis, oggi Oristano. Tibula polis, localizzata con qualche dubbio a Castelsardo (dove ci portano le coordinate di Tolomeo), era il punto di partenza della litoranea occidentale ( via a Tibulas Sulcis) e della centrale sarda (a Tibulas Caralis): la distinguiamo dal Portus Tibulas (San Pietro a mare, alla foce del Coghinas, la tarda Ampurias) che era invece il punto di partenza della litoranea orientale (a Portu Tibulas Carales) e della variante per la Gallura interna (a Tibula Olbiam per compendium). La presenza a Viddalba della necropoli con stele a specchio inscritte di età repubblicana rimanda all'antichità dell'insediamento (figg. 356-358), confermato dalla presenza di ceramica a vernice nera. Feronia era una colonia romano-etrusca fondata, sulla base di una notizia di Diodoro

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Siculo, nella prima metà del IV secolo a.C. sulla costa orientale della Sardegna presso il territorio dell'attuale comune di Posada; poi forse divenuta civitas peregrina. La testimonianza di Diodoro, inizialmente considerata fantasiosa, è stata al contrario ritenuta plausibile da Mario Torelli e collegata a vicende di politica interna romana relative ai rapporti tra patrizi e plebei. Un gruppo di 500 plebei, composto per la maggior parte da debitori insolventi fuoriusciti dalla capitale, dopo aver ricevuto aiuto e sostegno economico da parte di Marco Manlio Capitolino e con le navi etrusche di Caere, si sarebbe insediato nel territorio dell'attuale Posada, intorno al 378 a.C., dando vita al primo nucleo di presenza romana in Sardegna, in un'epoca in cui l'Isola si trovava sotto il controllo cartaginese. Ciò avrebbe provocato la reazione di Cartagine, sfociata poi nella stipula di un secondo trattato con Roma, attraverso il quale si sanciva il divieto di commerciare e di fondare città in Sardegna. Sulci (San Lussorio di Tortolì) fu fondata dai Cartaginesi sulla costa orientale della Sardegna, come espressamente afferma Claudiano alla fine del IV secolo, quando una parte della flotta di Mascezel inviata in Africa contro l'usurpatore Gildone fu colta dalla tempesta all'altezza dei Montes Insani (tra Dorgali e Baunei), e si rifugiò a Olbia e a Sulci. Omonima del municipio romano collocato sull'isola Plumbaria lungo la costa sud-occidentale della Sardegna, quella ogliastrina fu una civitas stipendiaria che l'Itinerario Antoniniano conosce sulla litoranea orientale tra Viniolae e Porticenses. Augustis (attuale Aùstis) era un centro romano della Barbaria (Barbagia) sarda, posto a 800 metri di altitudine alle falde sud-occidentali del Gennargentu, a breve distanza da Sorabile (Fonni) e da Forum Traiani (Fordongianus) e dalla strada a Karalibus Olbiam per mediterranea. Augustis nel nome ricorda l'imperatore Augusto e testimonia la primitiva romanizzazione della Sardegna interna: già in età augustea fu probabilmente sede di un distaccamento della corte ausiliaria formata originariamente da Lusitani. Il toponimo moderno Aùstis è chiaramente derivato da un'antica forma latina Augustis, conservatasi fino al XII-XIII secolo ( Condaghe di Santa Maria di Bonarcado ). Valentia risulta l'unica città interna dell'elenco di Tolomeo che si veda attribuito il titolo di polis; i suoi abitanti, i Valentini, sono i soli residenti all'interno dell'Isola tra quelli degli 50

oppida celeberrima della formula provinciae di Plinio. Localizzata in territorio comunale di Nuragus (sul breve altopiano di Santa Maria 'e Alenza) oppure a Bidda Beccia di Isili, in alternativa a Genna Orani di Nurallao, aveva un nome "augurale" tipico delle fondazioni romane della tarda Repubblica, forse in relazione alle lunghe campagne militari di Lucio Aurelio Oreste o di Marco Cecilio Metello tra il 126 e il 111 a.C. e in sincronia con la fondazione di Pollentia nelle Baleari. Gurulis Vetus (la Gouroulìs palaia di Tolomeo), oggi Padria, è stata avvicinata alla colonia greca di Ogryle-Agrylé che secondo il mito sarebbe stata fondata dagli Ateniesi che accompagnarono Iolao e i 50 figli di Eracle in Sardegna: i ritrovamenti archeologici potrebbero confermare una presenza greca di VI secolo a.C.; in epoca imperiale fu una civitas stipendiaria. Gurulis Nova (la Gouroulìs néa di Tolomeo), oggi Cuglieri al piede del Montiferru, faceva probabilmente parte del territoriÒ di Cornus e ospitava sull'altopiano attraversato dal ftumen Olla (Riu Mannu) sino a Foghe alcuni gruppi di popolazione stanziati a conclusione della guerra annibalica (tra tutti gli Uddadaritani Numisiarum ). Il villaggio era collegato da una variante interna rispetto alla strada proconsolare che univa Cornus con Bosa: questo fu poi l'unico percorso utilizzabile a partire dal Medioevo.

Nota bibliografica Per §1: Turris Libisonis: BoNINU, LE GLAY, MASTINO 1984; BONI U, PANDOLFI 2012; AZZENA, ET AL. 2018. Uselis: MASTINO, ZUCCA 2011 , pp. 555-560; PORRÀ 2012; per la tabula patronatus: CIMAROSTI 2016. Cornus : MASTI o 1979; RUGGERI 2016; per le fasi tarde sono fondamentali i volumi della serie "Mediterraneo tardoantico e medievale. Scavi e ricerche", con gli atti dei convegni di Cuglieri a partire dal 1985; Neapolis: MASTINO, ZUCCA 2011 , pp. 511-537. Per §2: Cagliari : FLORIS 2005a; MASTINO 2005c, pp. 21 7-230; Nora, vd. Pavonia Vera in CIL X 7541. Per l'epidemia ora collegata alla dedica di Nora, vd. JONES 2005; MASTI o 2005c, pp. 230-236; Su/ci: BARTOLONI, ET AL. 2016, pp. 243-331 ; Bosa: MATTONE, Cocco 2016, passim; Olbia: D'ORIANO 1994; MASTINO, RUGGERI 1996; PIETRA 2013; Forum Traiani: MASTINO, ZUCCA 2011, pp. 560-578; MASTINO, ZUCCA 2012b; :MASTINO, ZUCCA 2014a; Othoca: MASTI o, ZUCCA 2011 , pp. 538542; Tibula: ZUCCA 1988-89; MASTINO, PITZALIS 2003. Per §3: Feronia: TORELLI 1981; D'ORIANO 1989; RUGGERI 1999b; Sulci- Tortolì, MASTINO, RUGGERI 2008; Augustis: RUGGERI 1987-92; Valentia : PORCI 2011a; FLORIS 2011; Gurulis Vetus: MASTINO, ZUCCA 2011, pp. 578-581; Gurulis Nova: ZUCCA 2006; MASTINO, ZUCCA 2011 , pp. 581-601.

Cara/es Giovanna Pietra

. Cagliari, anfiteatro ano. Eccezionale e complesso numento, con le sedute, scalinate di accesso, oercorsi e gli ambienti erranei scavati nella roccia sttaordinario equilibrio, · ettonico e scenografico, le parti costruite, in pietra = opera cementizia.

Nel II secolo a.C. si intraprende a Carales, eletta capitale della provincia della Sardegna, una imponente opera di rinnovamento che disegna, in sovrapposizione a quella punica, una scenografica città a terrazze, a rappresentare a chi vi arriva dal mare la forza e la grandezza di Roma. L'impianto è scandito dal ripetersi di modelli architettonici di grande impatto: ideologico, come il tempio su podio (riproduzione del templum, lo spazio occupato sulla terra dalla divinità, ritagliato e sopraelevato); monumentale, come la porticus (sequenza di ambienti porticati) e la platea (esteso basamento in pietra) funzionali a regolarizzare il terreno mosso dei colli cagliaritani. Nel lungo

tempo della sua romanità lo spazio pubblico si arricchisce di edifici e ornamenti e si ammoderna (con strade e fognature nuove nel I secolo d.C. e con l'acquedotto nel seguente) per assecondare sia il mutare di bisogni, usi e gusto della comunità che pensa e vive Carales sia la volontà, di governanti e cittadini illustri, di mettere in scena potere e ricchezza. Il programma di rinnovamento e i successivi completamenti hanno come fulcro la zona di piazza del Carmine, largo Carlo Felice e piazza Yenne, dove si ipotizza essere il foro, cuore pulsante di ogni città romana, di fronte al porto, tra i Moli Sabaudo e Ichnusa, in uso fin dal VI secolo a.C. Avvalora l'ipotesi la concentrazione di edifici pubblici, nessuno

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dei ~l)UÒ, pere>,;edité identi&att, am: certezza con qudllnòti dalle:js.çdiioni o menzionati in fonti agiografiche (come la passione di Sant'Efisio): il praetorium, sede di rappresentanza del governatore; il tabularium, l'archivio della provincia; il tribunal, per amministrare la giustizia; il carcere; il Capitolium, tempio principale del foro dedicato a Giove, Giunone e Minerva; il tempio di Ercole Vincitore. Un'estesa platea raccorda l'area del porto al declivio retrostante, segnato a diversi livelli da templi su podio (largo Carlo Felice, via Angioy), ristrutturati nel II secolo d.C. con portici e fontane. La risalita culmina in un altro tempio, ancora su podio e con recinto porticato, in piazza Yenne. Oltre uno spazio "vuoto" (nel quale, cioè, non sono documentati rinvenimenti archeologici, tra via Roma e piazza del Carmine), all'inizio di via Trieste è un'area adibita a mercato, forse il macellum menzionato in un'iscrizione del 27 a.C.-14 d.C. rinvenuta a poca distanza, e successivamente collegato all'acquedotto. Di fronte è un tempio su podio, in età imperiale demolito a favore di una diversa, non chiara, sistemazione lungo una strada. Poco distante, sul lato opposto di un'altra strada, è una porticus absidata, interpretata da chi la vide nell'Ottocento come basilica forense (edificio utilizzato per

25-26. Cagliari , Sant'Eulalia . Tratto di strada basolata e porticato monumentale, visibile per circa 24 m, con colonne, rivestite di stucco, che poggiano su basi di marmo. Nel pavimento è l'imboccatura, originariamente chiusa da una lastra di pietra , di una cisterna scavata nella roccia e rivestita in cocciopesto.

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assèinèlee, affari, commerci e per amministrare fa giustizia), madie-potrebbe avere avuto funzione di cisterna o di horreum (magazzino). Alle spalle, su una successione di piani sostruiti da platee, si estende il santuario di via Malta. La terrazza più bassa (presso il Palazzo delle Poste), porticata e adorna di statue e iscrizioni, ospita più ambienti che si affacciano su un lastricato, non si può dire se strada o piazza, e un castellum aquae con fontana, per la distribuzione dell'acqua. Nel livello intermedio è un teatro, nel più alto un tempio, forse di Venere, su podio e recinto da un porticato a due piani. A monte, oltre una strada, nel quartiere detto di Marte ed Esculapio, porticus, abbellite da pregevoli affreschi e disposte su più livelli, sostruiscono altri terrazzamenti per ospitare il tempio di Esculapio, ipotizzato tra la chiesa di Sant'Anna e la Cripta di Santa Restituta dal rinvenimento di una statua del dio e di un deposito votivo connesso al culto dell'acqua e, nell'area dell'Orto Botanico, un campus con ambulationes (luogo per praticare sport, attività ricreative, addestramento militare e fare passeggiate, noto da un'iscrizione della fine del I secolo a.C.) e un tempio di Iside, per la presenza di due statue di sfinge e un piccolo pschent (la doppia corona dei sovrani egiziani). Domina dall'alto, maestoso,

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l'anfiteatro, realizzato in equilibrio tra parti scavate nella roccia e parti costruite, nella seconda metà del I secolo d.C. (figg. 24, 156-160). Nel quartiere, oggi, di Marina sono un edificio sacro per offerte monetali, pozzi e cisterne e, nel volger di tempo, terme Evia Baylle) e un monumentale porticato, lungo strade lastricate che risalgono dal porto (chiesa di Sant'Eulalia) (figg. 25-26, 136).

Ancora porticus, in via Manno decorate con fini pitture parietali, si dispongono su più piani nella ripida ascesa di Castello. Il luogo più alto della città, «imponente acropoli naturale» secondo Antonio Taramelli, profondamente trasformata dal tempo, ricorda la vita in età romana con cisterne, sporadiche strutture murarie, un'area sacra, sotterranea, nel bastione di Santa Caterina e un'altra dedicata a Iside, si pensa da due statue di sfingi, presso il Duomo.

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27. Cagliari, Villa di Tigellio. In primo piano la Casa del Tablino dipinto. Sullo sfondo due colonne dell'atrio della Casa degli Stucchi.

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Se negli spazi pubblici l'impronta di Roma appare manifesta già dal II secolo a.C., in ambito privato si esprime un contesto sociale composito e un linguaggio originale, nel quale agli elementi della tradizione locale si combinano gli apporti della cultura romana. Case a corte colonnata e con pavimenti in cementizi a tessere, talora decorati con simboli astrali e il segno di Tanit, sorgono nel II secolo a.C. nella zona di Santa Gilla, in via Falzarego, via Zara e nel complesso noto come Villa di Tigellio (figg. 2 7, 114-115). Le case, edificate talora in sovrapposizione alle strutture di età punica, hanno, per lo più, vita breve. Nel corso del secolo successivo il quartiere di Santa Gilla, periferico, viene, infatti, dismesso. Non se ne conoscono le ragioni, è possibile un ripensamento dell'organizzazione delle attività produttive e commerciali, che si distinguono, ora, nettamente dai contesti abitativi e lasciano gli spazi lagunari e il relativo approdo per riallocarsi altrove. Un impianto per il lavaggio e la tintura dei tessuti (fullonica) in via XX Settembre (figg. 28-29) e granai pubblici (horrea), che sappiamo da un'iscrizione restaurati nel III secolo d.C. a breve distanza, fanno pensare che sia stata prescelta l'area suburbana contigua al porto e alle strutture a esso connesse rinvenute in via Campidano. Isolati di abitazioni, con più fasi di ristrutturazione, si articolano lungo le strade della Marina (chiesa di Sant'Eulalia). Nell'area tra corso Vittorio Emanuele Il, via Palabanda,

via Sant'Ignazio da Laconi, viale Trieste, viale Trento, viale Merello e via Vittorio Veneto si sviluppa un quartiere residenziale di rango, con abitazioni impreziosite da mosaici pavimentali con pesci e uccelli e decori geometrici, con Orfeo tra gli animali (figg. 124-126) -, affreschi e stucchi, anche dorati (Villa di Tigellio, viale Trieste e viale Trento). Alcune si dotano di bagni privati, in virtù della vicinanza con l'acquedotto, che ha in questa zona il condotto principale, diramazioni secondarie e un impianto di distribuzione. Edifici termali pubblici sono in via Nazario Sauro, viale Trieste e via Tigellio. Nelle necropoli, a est tra viale Regina Margherita, la basilica di San Saturnino e il colle di Bonaria, a ovest lungo le strade dirette a Turris Libisonis (Porto Torres) e a Sulci (Sant'Antioco), sepolture semplici, a incinerazione e a inumazione, talora segnate da cippi ad ara o a botte, monumenti costruiti e sepolcri scavati nella roccia rappresentano la composita società cagliaritana e la pluralità dei modi di raccontarsi oltre la vita. Si distinguono le circa 50 tombe a camera ricavate, per emergere in modo scenografico all'ingresso della città, sui piani sfalsati delle pendici del colle di Tuvixeddu (fig. 313), tra le altre: la tomba di Lucio Cassio Filippo e Atilia Pomptilla (Grotta della Vipera) (figg. 303-304, 343-344), nelle forme di un tempio e con 14 poesie in greco e in latino a rendere eterna la loro struggente storia d'amore; quella di Caio Rubellio Clizio e

28-29. Cagliari, via XX embre, fu/Ionica. pianto per il lavaggio la tintura dei tessuti, · ito da vasche di diverse

pavimento in mosaico con a teoria di motivi marini; su n lato, in una fascia più larga ecorata con fiori a sei petali o cerchi neri, è l'iscrizione M(arcus) Plot(ius) · isonis f(ilius) Rufus ( oto P. Dessì/ Confini Visivi , ivio Immagini Monumenti Aperti/ Imago Mundi).

delle sue due mogli (figg. 305-306), con la grande scalinata semicircolare e l'insolito monito ai viandanti O tu che leggerai, queste righe ti ricorderanno che sei mortale; la Tomba con pesci, spighe e altri fregi, la più vasta e imponente con l'ingresso sopraelevato su un basamento che la isola dallo spazio adiacente. Le pareti sono scandite da 8 nicchie e, di fronte all'ingresso, 3 vani - quello centrale inquadrato da un'edicola - per la deposizione dei defunti. Uno straordinario ciclo di stucchi policromi con tralci, racemi, fiori, maschere, candelabri, ghirlande, corone, spighe e il mare pieno di pesci - mette in scena l'augustea età dell'oro.

È difficile, e non sempre possibile, ricostruire la Cagliari romana dai brandelli che sopravvivono nella città che vive, ininterrottamente. L'insieme, nell'incalzare di quei brandelli da ricucire l'uno all'altro, sembra restituire, senza inganno, la Carales dello storico Anneo Floro: l' urbs urbium - la città delle città - della Sardegna.

Nota bibliografica 1859; SPANO 1861a; CRESPI 1862; TARAMELLI 1905; S CANO 1922; MINGAZZINI 1949; SALV1 1987-92; SALVI 1997, pp. 16-31; MAR.TORELLI, MUREDDU 2006; SALV1 2012; PIETRA 2019a; P IETRA 2019b; MARTORELLI, M UREDDU 2020; PIETRA 2020a; PIETRA c.s. CRESPI

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Al termine della prima guerra punica la rivolta dei mercenari di Cartagine in Sardegna portò Roma a invadere l'Isola e a prenderne possesso, trasformandola (assieme alla Corsica) nel 227 a.e. in provincia governata da un funzionario romano. A quel tempo Nora era una ricca colonia punica dotata di uno spazio urbano molto articolato, in cui si ponevano spazi abitativi, aree pubbliche, centri di culto e una vasta periferia segnata da due necropoli con tombe a camera ipogea. Oltre, già nell'area di terraferma (spiaggia di Sant'Efisio ), si sviluppava il santuario tofet per le deposizioni infantili, e, ancora più all'interno, si apriva un'ampia pianura costellata da fattorie in grado di generare surplus agricolo tale da alimentare i commerci trasmarini.

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I:ingresso pacifico nell'orbita romana è evidente dalla conservazione di questo assetto urbano e territoriale per un lungo periodo dopo il 227 a.e., e da molti chiari segni, tra cui assume particolare evidenza il deposito presso il santuario punico sottoposto al Tempio romano; qui vennero donati una maschera fittile (fig. 365) e un prezioso tesoro di 18 monete d'argento coniate a Roma e in altri centri italici (figg. 281-284). Si tratta molto probabilmente di una forma di deferente devozione di un funzionario di Roma verso una divinità locale e verso la cultura sacra punica. Per molti decenni dopo l'ingresso nell'universo romano la città non conobbe grandi cambiamenti, conservando i caratteri urbani, sociali e culturali (lingua, tradizioni, sistema di gestione) propri della tradizione cartaginese;

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30. Veduta aerea (da nordovest) della penisola di Nora nei primi anni Cinquanta del secolo scorso. L'. awio delle ricerche di G. Pesce ha riportato alla luce il centro monumentale della città antica (foto Archivio Pesce, Università di Padova). 31. Veduta aerea (da nordovest) della penisola di Nora alla fine del secolo scorso (foto Archivio P. Bartoloni). Nella doppia pagina seguente:

32. Ricostruzione virtuale della parte centrale della città di Nora nell'età romana imperiale (IKON, Gorizia e Università di Padova).

tuttavia i crescenti contatti commerciali con le altre regioni controllate da Roma (particolarmente l'Italia centro-meridionale) e la presenza di mercanti italici nell'Isola mutano dal II secolo a.C. in avanti le tradizioni culturali, la compagine sociale, i modi di vivere del centro punico, adeguando sempre più Nora al modello delle città ellenistico-romane. A evidenziare rapporti sempre più stretti con il resto del Mediterraneo (e l'Italia in particolare), in città compaiono materiali d'importazione, come il vasellame a vernice nera prodotto nella penisola. L'apertura "internazionale" dei commerci dovette generare ricchezza economica e incremento demografico, così da stimolare una rapida crescita dell'abitato. L'insediamento punico, già concentrato nei settori meridionali e orientali della penisola, venne allora a espandersi verso ovest con nuovi edifici residenziali, produttivi e commerciali. Dal II secolo a.C. anche nelle necropoli si avvertono decisi cambiamenti con l'abbandono dei vecchi sepolcreti a camera ipogea per le

inumazioni e il probabile spostamento dei cimiteri in settori più settentrionali. Sul piano dell'assetto urbanistico e delle architetture i mutamenti più consistenti si notano solo a partire dall'avanzato I secolo a.C. La colonia punica viene trasformata in municipium optimo iure e i suoi abitanti ottengono i pieni diritti nello Stato romano (voto, commercio, coniugio, accesso alle magistrature ecc.). Si definiscono nuove magistrature (come i quattuorviri Q. Minucius Pius e Aristius Rufus), mentre i contatti politici ed economici sempre più stretti con Roma generarono le prime radicali modifiche del quadro della città: nel centro dell'insediamento vennero demoliti interi quartieri con la realizzazione del nuovo complesso del foro, simbolo di Roma e della sua amministrazione nelle città di tutto il nascente Impero. La grande piazza lastricata (34 x 44 m) era circondata da portici su tre lati, dotati di ambienti per funzioni civiche e commerciali, e vedeva un tempio tetrastilo su podio affacciarsi

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33. Nora, strada lastricata. La strada univa il complesso monumentale centrale ai quartieri occidentali della città. Sottoposta alla strada si trova una condotta fognaria che faceva defluire le acque reflue verso il mare della baia occidentale. Nelle doppie pagine seguenti: 34. Nora, teatro. Veduta della scena (con iposcenio), dell'orchestra e della cavea del teatro della città, l'unico edificio di questo genere a oggi noto in Sardegna. Il teatro fu il primo edificio di Nora a essere dissepolto nei primi anni Cinquanta del secolo scorso all'awio dei grandi interventi di scavo di G. Pesce. 35-37. Ricostruzione virtuale del teatro di Nora (IKON , Gorizia e Università di Padova).

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dal~lato a ~.sede::e funziom di un pi'tl antico-edificio sacro { ~ 3841). Poco dopo (nei primi deéeni1i del I sec. d.C.), a fianco della piazza pubblica cittadina sorsero un altro edificio templare (al di sotto del più

~ ~ : i l ~ santuario d ttadmo p0$to .sùila punta meridi.oilale della~ (Punta )e su coloro) (figs. 363-364) e del Tempio romano (figg. 367-371); contemporaneamente

tardo Tempio romano), sulle rovine dei più antichi centri di culto punici, e poco più a ovest venne realizzato il primo e unico teatro della Sardegna romana, dotato di una cavea dal diametro di 38 metri suddivisa in due ordini che potevano accogliere circa 1200 spettatori (figg. 34-37). Nel corso della prima età imperiale romana la città venne dotata anche di una serie di abitazioni signorili di cui restano esempi significativi, come nel caso della Domus dell'atrio tetrastilo (figg. 97, 105-107) e della domus del Direttore Tronchetti, dotate di impluvia e di stanze ornate da pitture parietali ad affresco e celebri mosaici policromi, anche figurati; altre abitazioni presentavano assetto molto articolato, anche a più piani, come nel caso delle domus addossate alle pendici sudoccidentali del colle di Tanit, o molto più semplice con ambienti giustapposti e aperti sulle strade urbane o sul profilo costiero, come lungo la via del porto o nell'area dell'ex base militare al centro della penisola. La linea di costa (in ragione di un livello marino inferiore di circa 1 m) era avanzata di alcune decine di metri e lungo i lati orientale e meridionale del promontorio era consolidata da terrazzamenti (oggi erosi e crollati) su cui stavano edifici pubblici e privati. Va anche notato che molte delle case, come diverse officine urbane, vennero dotate dalla tarda età punica e per tutta l'età romana di cisterne, rivestite di malte idrauliche impermeabilizzanti; grazie al recente studio delle quasi 100 conserve d'acqua presenti in città e riferibili genericamente all'età punico-romana, si è potuto capire che queste (con gli associati pozzi) garantivano agli abitanti un approvvigionamento idrico per l'intero arco dell'anno (fig. 96). Nel corso della media età imperiale romana la città si trasformò profondamente. Le ricerche degli ultimi trent'anni hanno evidenziato come tra il II e il III secolo d.C. si completò la lastricatura delle strade con grandi basoli di andesite e si tracciarono canali per il pulito deflusso degli scarichi urbani a mare sottoposti alle principali arterie cittadine (fig. 33). Al contempo, nel giro di meno di un secolo il volto architettonico della città venne a mutare: tra tutti gli interventi spiccano la

ex novo di ben cinque impianti termali (Terme Centrali, Terme a Mare, Terme Orientali, Piccole Terme, Terme del Porto) (figg. 137-141) e di un acquedotto su arcate, che garantirono agli abitanti un tasso di igiene, pulizia e benessere decisamente rivoluzionari Allo stesso periodo medio-imperiale è riferibile anche la realizzazione di una grande piazza lastricata, recentemente individuata, dotata di strutture (vasche e fontane) volte alla distribuzione dell'acqua presso il limite settentrionale dell'abitato (fig. 94). Nello stesso periodo la città accentuò anche le sue mai sopite vocazioni commerciali, dettate dalla sua posizione al centro del Mediterraneo occidentale, attraverso la costruziÒne di un grande horreum a ridosso della linea di riva occidentale della penisola; è possibile che questo edificio svolgesse anche le funzioni del mercato alimentare (macellum) citato in un graffito parietale recentemente individuato. La corte centrale venne raddoppiata nella prima metà del IV secolo d.C. e vide l'edificio assumere la doppia funzione di magazzino e . di spazio residenziale. La posizione dell'edificio si motiva con la presenza nell'antistante cala marina del porto della città, ubicato lungo la riva nord-occidentale della penisola e negli spazi limitrofi dell'attuale pescheria/laguna. Questi spazi erano anche segnati da poderose barriere frangiflutti, ma non sono note strutture portuali utilizzate per l'assistenza alle attività di carico e scarico delle merci. A poca distanza dal porto, verso nord, si sviluppavano le necropoli, lungo la strada che attraversava il suburbio seguendo l'attuale viale che conduce alla chiesa alto-medievale di Sant'Efisio e verso il paese di Pula; tombe di diverse cronologie e ritualità sono state individuate fino a circa un chilometro dalla città antica. All'uscita della città e all'inizio degli spazi necropolari il centro si dotò anche di un piccolo anfiteatro (arena di 34 x 28 m), realizzato perlopiù in legno e mal noto in seguito a scavi sommari del 1901. Completava il quadro di Nora romana la pianura retrostante l'insediamento, ricca di ville, fattorie e campi coltivati che ne garantivano benessere economico e commerciale.

iicostmZÌOJW~del~ d i

r area urbana e suburbana vide la realizzazione

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38. Veduta aerea del Foro nel settore orientale della città . Il complesso è stato oggetto di una ricerca decennale (1997-2006) e di un successivo intervento di restauro (foto Teravista , Cagliari). 39. Veduta aerea del portico

orientale del Foro. 40. Ricostruzione virtuale del tempio del Foro (da est) (I KON , Gorizia e Università di Padova).

Nella doppia pagina seguente: 41. Ricostruzione virtuale del Foro di Nora (da sud) (IKON, Gorizia e Università di Padova).

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42-43. OtlètenttJI sac. a.e., t.enacotta, h 25 çm, ~ da Nora, cag)iari, Museo Areheolc>dco Na1Jonale. Statue flUIU rinvenute nel 1953

presso il santuario detto di Esculapio, situato sulla Punta 'e su coloru.

La città fu interessata dal V secolo d.C. da nuove costruzioni legate alla fede cristiana (Basilica del porto), ma già dal VI secolo mostra segni di trasformazioni profonde con la progressiva perdita di potenzialità produttiva, commerciale e di solidità demografica, così da risultare ormai quasi spopolata nel tardo VII secolo d.C.

Nota bibliografica La bibliografia su Nora romana è molto estesa ed è cresciuta in modo esponenziale dall'avvio della Missione interuniversitaria nel 1990. Per una raccolta sistematica dei lavori sulla città antica vedi l'utile regesto di MARcHET, ZARA 2020; per l'edizione analitica dei contesti indagati negli ultimi diciotto anni (200219) vedi i rapporti di scavo puntualmente presentati nei fascicoli 1-8 della rivista Quaderni Norensi (disponibile in open access). Una presentazione a carattere divulgativo degli esiti delle ricerche su tutta la città antica è in BONEITO, ET AL. 2018. La trasformazione della colonia punica nell'età della romanizzazione è discussa in BEJOR 1994, BEJOR 2012 e in BONETTO 2016, mentre diversi aspetti della fase repubblicana sono trattati nei contributi presentati al convegno Nora

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antiqua II del 2018, edito in BoNEITo, ET AL. 2020a. Sulla città romana si vedano poi le raccolte di saggi edite in TRO CHETI! 2000a, TRO CHETI! 2000b, LANx 2013, ANGIOLILLO, ET AL. 2016 e l'edizione di diversi complessi urbani o contesti con fasi che si estendono per tutta l'età romana, come nel caso del Foro (BONEITO, ET AL. 2009), dell'area urbana occidentale (ALBANESE 2013; GIANNAITASIO 2013), del Tempio romano (BONEITO, MANTOVANI, ZARA 2021) e del deposito votivo dell'area residenziale settentrionale (CARBONI 2020b). Sugli articolati sistemi di approvvigionamento, conservazione e smaltimento delle acque vedi i contributi di: BONEITO 2000; CESPA 2018; FRONTORI, REsTELLI 2018; sulla cultura artistica vedi ANGIOLILLO 1981, pp. 3-62 (mosaici) e STELLA MOSIMANN, ZARA 2020 (pitture parietali). La fase imperiale della città è trattata in vari contributi con sintesi e puntualizzazioni in BEJOR 1994 e ASOLATI, BONEITO, ZARA 2018. Le variazioni del livello marino e i diversi scenari geomorfologici sono discussi in BONEITO, ET AL. 2020b. L'area extraurbana è stata indagata per alcuni aspetti specifici: sulle cave della penisola di Is Fradis minoris è stato condotto uno specifico studio da parte di PREVIATO 2016c, mentre per l'assetto del territorio si può consultare la raccolta dei materiali romani recuperati nel corso di una ricognizione pluriennale in NERVI 2016. Sulla città tardo-romana due sintesi sono in BEJOR 2008 e BONEITO, GHIOTTO 2013.

44. Dormiente awolto dai serpenti, Il sec. a.e., terracotta , h 76 cm , proveniente da Nora, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. La statua votiva è stata ritrovata presso il santuario detto di Esculapio (o Eshmun), a Punta 'e su coloru.

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La città di Sulci ha una lunga storia e la persistenza e sovrapposizione della vita nello stesso luogo rendono perciò abbastanza complessa la comprensione dell'organizzazione della città durante l'epoca romana. Sicuramente in età punica e tardo-punica il centro era molto fiorente; anche se dell'abitato abbiamo solo tracce, la grande estensione della necropoli a tombe ipogeiche e la loro ricchezza ce ne rendono edotti. E proprio dalle tombe emergono le prime testimonianze romane. Infatti alcuni ipogei restituiscono un notevole numero di deposizioni familiari succedutesi nel tempo, che presentano sia il mutamento di rito funerario, dall'inumazione alla cremazione, sia il cambiamento della cultura materiale che accompagnava i defunti, passando dai vasi tipicamente punici a quelli di tradizione artigianale romana. La continuità di vita fra l'età punica e quella romana è segnalata anche da altri numerosi indizi, uno dei quali è la prosecuzione dell'uso della lingua e dell'alfabeto punico in iscrizioni pubbliche e private. L'essere lo sbocco naturale al mare del bacino minerario del Sulcis portò la città a rivestire

45. Sant'Antioco, acropoli. Veduta dal supposto tempio verso le fortificazioni sorte in epoca tardo-repubblicana e a lungo riutilizzate.

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un ruolo di rilevante importanza, e le testimonianze dell'età repubblicana (II-I sec. a.C.) ne sono un esempio lampante. Da ritrovamenti in diverse parti dell'abitato moderno possiamo ricostruire l'immagine di Sulci dominata da una sorta di "acropoli" con i resti di un tempio, collocata nella pendice settentrionale del colle di Castello (figg. 45-46), il punto più elevato della zona dove si trova il Castello di età Sabauda. Immediatamente sul pendio orientale di questo colle si trova un apprestamento estremamente significativo. È stata messa in luce una rampa che sale verso il tempio, affiancata da terrazzamenti, in uno dei quali erano state reimpiegate due monumentali statue di leone di epoca punica arcaica (fig. 47). Lo scavo indica per questa sistemazione una datazione nel corso del II secolo a.C., senza poter essere più precisi. La struttura terminava in alto con il tempio ricordato sopra, di cui rimane parte del colonnato. Siamo di fronte a una sistemazione monumentale che rientra a pieno diritto nei santuari legati alla presenza di mercanti provenienti dalla penisola italica, un esempio dei quali è noto anche a Cagliari.

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46. Sant'Antioco, veduta del colonnato del supposto tempio dell'acropoli (Il sec. a.C.). Il tempio si trovava al culmine di una struttura terrazzata sul modello dei coevi santuari italici. 47. Sant'Antioco, muro di terrazzamento del complesso santuariale repubblicano (Il sec. a.C.) in cui sono state reimpiegate due statue di leone di epoca punica arcaica.

L'attestazione epigrafica di un più tardo tempio, databile tra l'età flavia e quella adrianea, dedicato a Iside e Serapide, divinità, la prima, connessa con ambiti di mercatura, ci conferma dell'importanza commerciale del porto anche in seguito. Nell'area dell'acropoli, come nel tofet punico a circa 500 metri di distanza a nord, si trovano cospicui tratti di potenti muri di fortificazione, databili in epoca romana, che lo scavo di un settore porta a concentrare attorno alla metà del I secolo a.C. L'abitato si stendeva ancora più in basso sulle

pendici orientali del colle, spingendosi verso il mare e ampliandosi per una estensione ancora da determinare. Si trovano ancora resti di epoca repubblicana: una sepoltura monumentale definita Sa Presonedda, costituita da una struttura piramidale in blocchi e pietre, che aveva in origine un rivestimento in materiale più pregiato, con una apertura con porta "a macina" cioè di forma rotonda, che scorreva in un solco. La camera all'interno è decorata con una cornice architettonica ancora legata a stilemi di ambito nordafricano, ma l'utilizzo

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dell'opus caementicium e altri~ uidiamo chiaramente la sua datazione i n ~ romana repubblicana. Parimenti si deve datare una struttura simile rinvenuta nei primi decenni del secolo scorso, ma non conservata, situata a poca distanza. Praticamente gli unici resti consistenti dell'abitato antico sono stati messi in luce nel cortile del Cronicario in via Gialeto. La fase visibile è quella di una importante ristrutturazione di età imperiale che oblitera · fasi precedenti, ampiamente testimoniate dalla cultura materiale rinvenuta. Solo in un ristretto settore si mantiene la prosecuzione in uso di un luogo di culto sorto in età repubblicana, dedicato verosimilmente alla dea Cerere unita ad altre divinità, che ha restituito una ricca serie di ex voto fittili. Uno di questi reca un'iscrizione bilingue punica e latina e testimonia probabilmente il culto di Shadrapa, divinità punica salutifera (fig. 48). Conosciamo alcune importanti vicende di età tardo-repubblicana grazie al Bellum Africanum, opera appartenente al Corpus Caesarianum, in cui si ricorda che Sulci si schierò dalla parte

48. Iscrizione bilingue, I sec. a.e., Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "F. Barrecca". !:iscrizione riporta la dedica, da parte di lmilcone, di una statua al padre che aveva curato la costruzione di un edificio sacro in onore di una divinità femminile, identificata con Tanit.

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alcune persone, evidentemente cittadini eminenti di parte pompeiana. Non per niente la gens Pompeia è quella con il maggior numero di attestazioni epigrafiche. È verosimile che le fortificazioni di cui abbiamo parlato sopra siano state erette proprio in occasione di questa guerra civile. Sin dai primi decenni del Novecento dalla zona urbana chiamata Su Narboni provengono reperti e strutture di epoca imperiale. Gli scavi del Cronicario hanno messo in luce un ampio settore di abitato che si impianta, in gran parte asportandole, su precedenti strutture di epoca punica e repubblicana, con un intervento programmato unitario che si può datare attorno alla metà del I secolo d.C., in concomitanza con il principato di Claudio. Sappiamo che questo imperatore aveva possedimenti nella regione sulcitana, gestiti da servi addetti al patrimonium Caesaris, e sempre a epoca claudia sono

49. Mosaico, 11-111 sec. d.C., Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "F. Barrecca". Il mosaico è stato rinvenuto ai primi del Novecento durante la costruzione del Municipio cittadino.

attribuiti tre ritratti imperiali: Druso Minore (figg. 260, 269), Tiberio e Claudio, nonché altre statue di personaggi eminenti (magistrati). In piena età imperiale la città si dotò di anfiteatro, situato alle pendici orientali del colle di Castello. Costruito con uho zoccolo in pietre intonacato e dipinto a festoni, era edificato su aggere, cioè su una struttura di terra coperta da gradinate lignee. Adiacente l'anfiteatro, più a nord, si stendeva la necropoli di tombe alla cappuccina, coperte da tegole a spiovente, e incinerazioni entro vasi. I materiali indicano ancora la ricchezza della città, pienamente immersa nei traffici con l'Africa settentrionale da cui provenivano olio e ceramiche.

La presenza di una comunità ebraica di epoca tardo-imperiale è testimoniata da tombe dipinte recanti i simboli di quella religione. La vita a Sulci non ebbe interruzioni: in epoca bizantina si sviluppò il culto di Sant'Antioco, con la costruzione di un edificio cultuale e l'utilizzo delle antiche tombe puniche ipogeiche come luogo di sepoltura cristiano.

Nota bibliografica Su Sulci in generale: M ASTINO 2005c. Sulla topografia e i monumenti T RONCHETTI 1995 e MARCONI 2005-06; sulle sculture ANGIOLILLO 1975-77; sulla documentazione epigrafica C ENERINI 201 7.

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Tharros Carla Del \éis

La città di Tharros, localizzata all'estremità della penisola del Sinis a controllo del settore settentrionale del Golfo di Oristano, mostra un tessuto urbano che è il risultato di una continuità di vita che va dall'età punica all'epoca alto-medievale. Gli scavi condotti da Gennaro Pesce tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento sui colli di San Giovanni e di Su Murru Mannu, integrati da indagini di scavo successive in settori più limitati, hanno messo in luce un vasto settore abitato fortemente compromesso da attività di estrazione di materiale lapideo a danno di strutture che, già nel corso degli ultimi secoli di vita, avevano subito interventi di trasformazione. Pertanto, a oggi, risulta assai

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problematico ricostruire l'evoluzione urbanistica della città nelle sue diverse fasi e la storia dei singoli edifici. La stessa conformazione dell'abitato, costituito da un settore disposto sul versante orientale del colle di San Giovanni, con strade e isolati irregolari, e da uno sviluppato sull'altura di Su Murru Mannu, a schema ortogonale imperniato su due strade parallele in direzione nord-sud, è in genere ricondotta alla giustapposizione di un nucleo di origine punica, sostanzialmente rispettato nelle epoche successive, e di uno di età romana imperiale, anche se i pochi dati relativi alla topografia del centro preromano non consentono di andare oltre le ipotesi.

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50. Tharros, veduta aerea del centro monumentale della città, sviluppato sul versante orientale del colle di San Giovanni. 51. Tharros, fortificazioni sul colle di Su Murru Mannu: fossato compreso tra il rifascio delle mura puniche e il muro di controscarpa, entrambi realizzati in grandi massi di basalto in età tardo-repubblicana; venne riutilizzato in epoca imperiale come area funeraria. Nella doppia pagina seguente:

52. Tharros, area delle due colonne con edificio sacro colonnato, situata al centro della città sul versante orientale del colle di San Giovanni.

Ciò che però sembra evincersi dalla lettura generale dei contesti è la profonda trasformazione che il centro dovette subire in età imperiale, mentre a epoca repubblicana sono finora riferiti limitati interventi. Nel caso delle fortificazioni ubicate al limite settentrionale della città, sul colle di Su Murru Mannu, si ritiene che nel II secolo a.C. la preesistente cortina punica sia stata potenziata con un rifascio in massi di basalto dotato di due postierle, forse preesistenti ma risistemate in questa fase; sul lato esterno, inoltre, un muro di controscarpa andava a definire un ampio fossato, riutilizzato da epoca imperiale come area funeraria (fig. 51). Allo stesso secolo viene riferito anche l'impianto del cosiddetto Tempietto K (fig. 56), un edificio sacro localizzato a mezza costa del colle di San Giovanni, inglobato in età imperiale e tardo-antica in un complesso monumentale solo parzialmente indagato. La struttura, dotata di cinque gradini sulla fronte e preceduta da due pilastri, si compone di un'unica cella che presenta sul fondo un altare intonacato con cornici a gola egizia; l'edificio, che è stato ricondotto ad ambiente italico, dovette sostituire un tempio punico la cui esistenza è solo ipotizzata sulla base del reimpiego nell'area di due blocchi iscritti. A età imperiale sono invece riferiti interventi di urbanizzazione più strutturati, quali la sistemazione del sistema viario, la costruzione di imponenti edifici pubblici e lo sviluppo del quartiere di Su Murru Mannu. Gli assi viari

della città, originariamente a fondo naturale, vennero dotati, forse nel II secolo d.C., di una pavimentazione in basoli di basalto; assume particolare rilevanza la principale arteria che attraversa il colle, denominata cardo ma.ximus (fig. 58), che va a incrociare una strada più irregolare, convenzionalmente nota come decumano. Contestualmente, al di sotto del piano stradale venne realizzata una capillare rete di cloache che consentiva lo smaltimento a mare delle acque reflue e meteoriche provenienti dagli edifici pubblici e privati. È stato proposto che Tharros in età romana fosse dotata di un Foro, a oggi non ancora localizzato con sicurezza. Al centro della città vennero impiantati tre grandi edifici termali, due dei quali scavati da Gennaro Pesce, il terzo solo individuato a ridosso del cardo ma.ximus. Le Terme n. 1 (fig. 53), assai mal conservate sul lato a mare, erano articolate secondo un percorso anulare e comprendevano un apodyterium, tre vani riscaldati (due calidaria e un tepidarium), due praefurnia e vari ambienti di servizio; l'edificio, datato generalmente al tardo II secolo d.C., era costruito in laterizio negli ambienti caldi, in opus vittatum mixtum negli altri vani. In età tardo-antica e alto-medievale lo stesso subì numerosi interventi di risistemazione che ne modificarono in parte l'aspetto e la funzione. Le Terme n. 2, dette di Convento vecchio (fig. 54), comprendono un apodyterium, dotato di un bancale in muratura con stipetti triangolari per riporre i calzari, un frigidarium con due vasche e pavimento mosaicato, due

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tepidaria e due calidaria, uno dei quali con due absidi I:alimentazione idrica era assicurata da un grande serbatoio rivestito in cocciopesto, sostenuto da un ambiente voltato. Il mosaico del frigidarium, costituito da tessere policrome a creare dei motivi geometrici, è stato datato, così come l'intero edificio, alla fine del II secolo d.C. Strettamente legato al funzionamento degli edifici termali è il sistema di adduzione delle acque, che andò a integrare la fitta rete di cisterne e di pozzi che in età punica rappresentavano l'unica fonte di approvvigionamento idrico. Si è ipotizzato che l'acquedotto, i cui resti sono ancora visibili lungo il versante occidentale di Su Murru Mannu, portasse in città l'acqua attinta da un pozzo localizzato poco fuori l'abitato. Questo doveva alimentare il cosiddetto castellum aquae (fig. 55), una struttura a pianta quadrata situata al centro della città tra il cardo maximus e il decumano; essa è suddivisa in tre navate da otto pilastri che dovevano in origine sostenere la copertura e presenta pareti rivestite da uno spesso strato di cemento idraulico con funzione impermeabilizzante. Di grande rilevanza sono inoltre gli edifici sacri, per lo più impiantati in corrispondenza di luoghi di culto di età punica. Uno dei più significativi doveva aver sostituito in età tardorepubblicana o primo-imperiale il cosiddetto "tempio delle semicolonne doriche", che fu smontato e obliterato; ne sono state proposte diverse ipotesi ricostruttive basate sulla lettura della documentazione di scavo e degli elementi architettonici presenti in situ, senza tuttavia alcuna possibilità di riscontro a causa dei pesanti interventi di manomissione perpetrati a danno dello stesso. Immediatamente a sud di questo, il cosiddetto Tempio a pianta di tipo semitico (fig. 57) consta di un'area quadrangolare scavata nell'affioramento di arenaria e delimitata su tre lati dalla parete di roccia, rivestita da intonaci policromi, e su quello frontale da un muro; al centro, un peristilio, poi occluso da un muro continuo, delimitava un pavimento mosaicato a motivi geometrici che è stato datato alla metà del III secolo d.C. Benché lo scavo condotto dal Pesce nel 1960 sia rimasto inedito, sembra trovare conferma l'ipotesi che la struttura romana, verosimilmente sottoposta a diversi interventi di risistemazione, sia stata impiantata in corrispondenza di un luogo di culto punico a cui vengono riferiti i numerosi manufatti provenienti da un pozzo scavato al centro dello spazio.

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53. Thanos, Terme n. 1. Cosl come pn paaw dei monumenti della città, le tsrme vennero messe in luce ne;i anni Cinquanta dal Soprintendente Gennaro Pesce; impiantate in età medio-imperiale e sviluppate secondo un percoiso anulare, queste subirono importanti interventi di sistemazione in età tardo-antica e altomedievate, probabilmente in connessione con la costruzione e l'uso di un battistero e di un edificio chiesastico ubicati a breve distanza.

A breve distanza dal preceden~ nella cosiddetta area delle due colonne (fig. 52), fu messo in lutey nel corso delle stesse indagini, un complesso monumentale di difficile lettura, nel quale è stato identificato un edificio colonnato di carattere sacro; l'attribuzione al tempio di un capitello di tipo corinzio-italico, che dopo lo scavo è stato collocato su una

delle due colonne rimstruite in- calcestruzzo, ha s~erito una datazione della struttura al I secolo a.C, non confermata, tuttavia, dàll'analisi generale del complesso. Gli edifici pubblici si trovano inseriti in un tessuto urbano, solo parzialmente messo in luce, costituito principalmente da strutture abitative realizzate in pietrame cementato

54. Tharros, Terme n. 2. !.'.edificio, costruito in epoca medio-imperiale, in un settore adiacente al mare, è noto anche con il nome di Terme di Convento Vecchio, toponimo che alluderebbe a un suo riutilizzo come monastero presumibilmente in età altomedievale. Così come le Terme n. 1, la struttura conobbe un uso cimiteriale, testimoniato nell'apodyterium, evidentemente riferibile a un momento in cui essa aveva perso la sua funzionalità originaria.

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55. Tharros, castellum aquae. Si tratta di una struttura a pianta quadrata, suddivisa in tre navate e con pareti interne rivestite da cemento idraulico, localizzata al centro della città all'incrocio tra il decumano e il cardo maximus ; questa doveva avere la funzione di deposito idrico collegato all'acquedotto che adduceva l'acqua in città per alimentare gli edifici termali.

con malta di fango, anche con tecnica "a telaio" di tradizione punica, o, più raramente, ritagliate nel banco roccioso affiorante; le vicissitudini legate allo scavo e alle manomissioni successive all'abbandono della città non ne consentono tuttavia una lettura stratigrafica, ma appare probabile che esse debbano riferirsi a età romana o successiva. Quanto ai contesti funerari, le due necropoli puniche del Capo San Marco e presso la borgata marina di San Giovanni di Sinis continuarono a essere frequentate sino a età alto-imperiale ed episodicamente anche in epoca più tarda. In queste fasi tuttavia tutto il versante occidentale della penisola, dal Capo San Marco all'area della borgata, conobbe un uso funerario, in particolare lungo la strada in uscita dalla città. Sono documentati diversi tipi tombali, in specie semplici fosse terragne, tombe alla cappuccina, spesso senza o con scarso corredo, sarcofagi in arenaria, tombe a cupa monolitiche o realizzate in muratura

e intonacate, strutture monumentali in blocchi o in laterizio. Sono attestate sia la pratica inumatoria sia l'incinerazione con deposizione secondaria in urna fittile o in piombo. Le tracce della frequentazione romana si riscontrano copiose anche nell'immediato entroterra tharrense; per l'epoca repubblicana è evidente la sopravvivenza di numerosi piccoli insediamenti rurali impiantati in età punica in funzione di un capillare sfruttamento agricolo del territorio, mentre in epoca primoimperiale si assiste a una riorganizzazione dell'agro, forse con carattere latifondistico, marcata dalla comparsa di alcune strutture monumentali in laterizio.

Nota bibliografica 1966; Z UCCA 1993b; GIUNTELLA 1995; B ERNARDlNl 1996; A CQUARO, ET AL. 1997; T RONCHETTI 1997; A CQUARO, ET AL. 1999; G HIOTTO 2004; M ORlGl 2004; N IEDDU 2008; T OMEl 2008, pp. 114-157; D EL VAIS 2014; MARANo 2020. P ESCE

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56. Thamls, HCOSlddetto Tempietto K. Il tempio venne costruito probabilmente In età tardorepubblicana nell'area di un precedente edificio sacro punico, Ipotizzato sulla base del riutilizzo nell'area di blocchi iscritti; costituito da un unico vano preceduto da due pilastri e accessibile da una breve gradinata, esso presenta sul lato di fondo un particolare altare intonacato con comici a gola egizia. La struttura venne inglobata in età imperiale o tardoantica in un complesso monumentale molto ampio e accessibile dalla strada tramite una rampa realizzata in età tardo-antica. 57. Tharros, il cosiddetto Tempio a pianta di tipo semitico. Presenta, al centro di uno spazio quadrangolare delimitato su tre lati da pareti tagliate nella roccia e intonacate, un peristilio che delimita un pavimento mosaicato; è probabile che l'area sacra sia stata sistemata in età imperiale in corrispondenza di un precedente santuario punico. L:architettura in negativo, vale a dire con elementi strutturali risparmiati nella roccia, è una caratteristica peculiare della città che si sviluppa su un vasto affioramento di arenaria sfruttato fin da epoca punica come area di cava. 58. Tharros, cardo maximus. Attraversa il colle di Su Murru Mannu da sud a nord, fa parte di un reticolo viario regolare verosimilmente impiantato in età imperiale al momento della riorganizzazione urbanistica di quel settore della città; esso presenta un basolato in elementi di basalto poggiato su un preesistente piano stradale a fondo naturale che conserva, all'incrocio con il decumano, traccia del passaggio dei carri. Al centro della via corre il condotto della cloaca che in origine era coperto da lastre in basalto. 57

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Olbia Giovanna Pietra

59. Askos, I sec. d.C., terracotta, h 13,1 cm, proveniente da Olbia, Olbia, Museo Archeologico Nazionale. La terracotta di produzione siriana, raffigurante un dromedario con due musicanti sul dorso, rimanda al culto orientale della Duplice Fortuna.

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La posizione geografica, che aveva indotto Cartagine dopo il trattato del 348 a.C. a fondare una colonia nell'antico insediamento, prima fenicio e poi greco, di Olbia per rafforzare la propria posizione nei confronti · di Roma, favorisce il maturare di una familiarità tra la città sarda e la penisola italica che va oltre i confini dello scambio commerciale e che, nella seconda metà del III secolo a.C., vede accogliersi elementi culturali e forse anche persone provenienti dall'Italia. Con l'inasprirsi del conflitto tra Roma e Cartagine, quella familiarità, alimentata da aspettative di arricchimento, insoddisfatte da Cartagine e dalla sua politica di sfruttamento delle risorse locali, giustifica l'atteggiamento accondiscendente, se non proprio il consenso, di Olbia nei confronti di Roma. Ne è testimone

Ercole (fig. 60), identificato con Melqart, la divinità protettrice di Olbia punica, nella statua di culto dedicata da Roma subito dopo la conquista nel santuario del dio cittadino (chiesa di San Paolo). Roma non applica in Sardegna la stessa politica coloniale, con la fondazione di città e l'invio di cittadini romani e latini, attuata in Italia e, poi, nelle altre province. Nell'Isola, che sente altro rispetto a sé, Roma consolida il suo potere assicurandosi, con tributi a carico della popolazione locale, le risorse per rifornirsi, soprattutto, di grano. Così Olbia, ora romana, si mantiene quale era prima, punica, fino alla metà del II secolo a.C. Solo allora i due mondi iniziano a fondersi. Nelle campagne gli imprenditori romani introducono un sistema produttivo nuovo, basato sul modello italico della villa/fattoria, e avviano attività diverse come la viticoltura (ad esempio a S'Imbalconadu (fig. 81)) e l'abitato punico è sostituito da altri edifici, anche con colonnati e pavimenti cementizi a tessere (via Regina Elena, via delle Terme). Ma chi vive e lavora nella nuova realtà, anche grazie all'apporto di persone provenienti dall'Africa settentrionale trasferite dopo la vittoria definitiva su Cartagine, mantiene viva la cultura punica, negli oggetti d'uso comune, nei forni in terracotta (tabouna), nei graffiti in alfabeto punico, nei bruciaprofumi a testa femminile, nei segni di Tanit a ornamento di pavimenti (in via Porto Romano) o di blocchi di pietra (a S'Imbalconadu e Grisciuras). Nei corredi funerari, accanto al repertorio tradizionale di accompagno dei defunti, si attestano, non sporadicamente, elementi del tutto nuovi come gli strigili, oggetti per detergere il corpo dal sudore e dall'olio dopo il bagno o gli esercizi sportivi. Simbolo, in Grecia, dell'ideale atletico, nel mondo romano lo strigile è usato nelle terme, che si immagina essere state occasione di incontro, in strutture pubbliche o in ambito privato, tra Romani e Olbiesi. Le matrici in terracotta, produzione tipica dell'artigianato punico per decorare pani e dolci sacri, che recano, anziché i consueti motivi vegetali o maschere, l'immagine dell'unione di Dioniso e Arianna, iconografia

60. Testa di MelqarVErco/e, Il sec. a.e., terracotta, h 41 cm, proveniente da Olbia, Olbia, Museo Archeologico Nazionale. La statua, della quale si conservano anche due dita di una mano e una zampa leonina, era parte del carico di una nave naufragata poco dopo la partenza dal porto di Olbia. Per lo stile e la raffinatezza , si ritiene essere una copia della statua di culto, forse di bronzo, del santuario cittad ino.

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61-62. Matrice, Il sec. a.e., terracotta, lungh. 7,8 cm, proveniente da Olbia, Olbia, Museo Archeologico Nazionale. La matrice, tipica della produzione artigianale punica, per decorare pani o dolci, riporta su un lato l'immagine dell'unione tra Dioniso e Arianna e sull'altro una testa di Gorgone. 63. Olbia, località Sa Rughittula, acquedotto. !.'.acquedotto convogliava in città l'acqua delle sorgenti di Cabu Abbas, attraverso un percorso di circa 3,5 km che terminava in una serie di cisterne in prossimità del foro. Due diramazioni sono ipotiuate per alimentare le terme di via Nanni e di via delle Terme, ubicate a breve distanza dal percorso principale. 64. Olbia, località Sa Rughittula, cisterna. Alimentata direttamente dall'acquedotto mediante un apposito canale, la cisterna costituiva la riserva idrica di una o più villefattorie che si trovavano nelle campagne immediatamente a nord della città.

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mitologica a esso estranea, sono rappresentative del clima del momento (figg. 61-62). Olbia sembra sospesa tra le sue radici e la tensione verso un futuro sempre più attraente e ineludibile, che si scioglie nella seconda metà del I secolo a.C. Si costruiscono i primi edifici pubblici, due templi, uno su podio, nel santuario di Ercole e il Foro davanti al porto (corso Umberto I). Si abbandonano alcune parti dell'abitato per concentrare la vita vicino al porto. Si dissolve il sistema delle ville/fattorie, forse per episodi di brigantaggio ed epidemie di malaria, comunque a favore della nascita di latifondi e per soddisfare un nuovo, importante, mandato: rifornire di grano Roma. Il mandato, per il quale viene inviato a Olbia nel 57-56 a.C. Quinto Cicerone, fratello del famoso oratore, si inserisce tra le iniziative promosse da Pompeo per provvedere alle gravi difficoltà di approvvigionamento in una Roma in inarrestabile crescita demografica. La scelta di Roma non sarà in futuro, per Olbia, priva di conseguenze; sul momento, significa il divenire, a tutti gli effetti, una città romana. La ricchezza dei commerci dei secoli dal I al III d.C. rivela una fitta trama di relazioni oltremarine che si intreccia alla crescita delle attività produttive locali.Nell'entroterra sorgono nuove ville/fattorie, anche di lusso, borghi rurali e i centri abitati di Telti e Cares, in luoghi cruciali per il controllo del territorio che gravita su Olbia: a nord fino a Santa Teresa

Gallura, a sud fino a San Teodoro, a ovest fino al Monte Acuto. Qui si estendono i latifondi di proprietà della famiglia imperiale, affidati da Nerone alla sua favorita Atte e dopo recuperati al patrimonio pubblico. In città sorgono ora, nel I secolo d.C., gli edifici pubblici noti: il tempio dedicato a Cerere da Atte a San Simplicio, due edifici termali (via delle Terme e via Nanni). Durante il principato di Domiziano si porta a termine il risanamento del porto, reso in parte impraticabile da un'alluvione, rilanciandone l'attività, e si celebra l'occasione con il rinnovamento monumentale dei santuari di Ercole e di Cerere e del Foro, dove sono, anche, dedicati i ritratti dello stesso Domiziano e della moglie Domizia o della figlia Giulia. Tra la fine del II e l'inizio del III secolo d.C. si realizzano l'acquedotto e l'adeguamento a esso degli edifici termali. È, quella di Olbia, una struttura dinamica, che riflette le potenzialità di un territorio ampio e con risorse diversificate, complementari e subordinate alla produzione di grano, ma abbastanza redditizie, come lo sfruttamento delle cave di granito, da giustificare investimenti anche privati. Roma è il mercato privilegiato e il vero motore della ricchezza di Olbia, e causa prima del suo declino quando sceglie di approfittare di quelle potenzialità esclusivamente a proprio vantaggio. Nel III-IV secolo d.C. l'impegno dell'economia olbiese nel rifornire di grano

Roma è testimoniato dai 103 miliari della strada che unisce il porto di Olbia alle riserve di grano del Monte Acuto. I miliari, nei quali sono menzionati tutti gli imperatori, anche gli effimeri e gli usurpatori, da Settimio Severo a Magno Massimo e Flavio Vittore, come già i ritratti di Nerone e di Traiano (figg. 257-258), sono veri e propri strumenti per propagandare l'interesse degli imperatori per Olbia e le sue risorse e l'impegno a garantire a Roma i

necessari rifornimenti. In un contesto simile si inserisce anche la straordinaria matrice con la scena del corteo trionfale celebrato da Diocleziano e Massimiano nel 303 d.C. per la vittoria sui Parti, ricavata forse da un medaglione commemorativo dell'evento per riprodurne altri a Olbia e imprimere il ricordo della gloria e della potenza dei due imperatori, menzionati in ben cinque miliari. Nello stesso periodo si registra la drastica diminuzione delle attività produttive e delle relazioni commerciali complementari, che avevano contribuito in modo decisivo alla ricchezza della città dei secoli precedenti. Molti dei contesti urbani e degli insediamenti dell'entroterra sono abbandonati. Le sole iniziative, tra la fine del III e l'inizio del IV secolo d.C., sembrano legarsi all'esigenza di adattare i templi pagani alla professione del Cristianesimo, nel Foro e nei santuari di Ercole e di Cerere, questo forse da mettere in relazione al martire Simplicio, al quale è intitolata la chiesa medievale ancora oggi insistente sullo stesso sito. È in questo contesto già di crisi che intervengono i Vandali, con una spietata azione di forza testimoniata dai relitti di dieci navi onerarie affondate nel porto olbiese nel 420-450 d.C. (fig. 415 ). Ciò che resta, dopo, è un modesto borgo, che ha perduto, ma non per sempre, il suo carattere: l'essere crocevia di merci, genti ed esperienze, ponte tra la Sardegna e l'Italia, luogo di frontiera.

Nota bibliografica 64

D 'ORIANO 1994; MASTINO 1996; SANCIU 1997; PIETRA 2010a; RUGGERI 2010; PIETRA 201 3; PIETRA 2015; D 'ORIANO 201 8.

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65. Porto Torres, il ponte in prossimità della foce del Riu Mannu. Con i suoi 135 metri di lunghezza rappresenta una delle più imponenti testimonianze architettoniche lasciate dai Romani in Sardegna.

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Il Golfo riparato dall'isola dell'Asinara, la foce navigabile del Riu Mannu e il collegamento con il fertile retroterra della Nurra sono gli elementi alla base del primo nucleo insediativo di Turris Libisonis, probabilmente originata da un emporio nato sull'asta fluviale. r:area viene prescelta per la deduzione di quella che Plinio definisce l'unica Colonia della Sardegna, avvenuta a opera di Giulio Cesare, che nel 46 a.C. soggiorna nell'Isola dopo la battaglia di Tapso, oppure di suo figlio adottivo, Ottaviano, tramite il legato Marco Lurio, attivo in Sardegna tra il 42 e il 40 a.C.; il carattere proletario della Colonia è provato dall'iscrizione dei cittadini nella tribù Collina. Il territorio di pertinenza, detto pertica, è di incerta delimitazione, nonostante il ritrovamento di un'iscrizione che cita il tabularius della pertica di Turris e Tharros. Escludendo l'area archeologica attualmente visitabile, una piccola parte rispetto all'estensione raggiunta dalla Colonia, la sovrapposizione della città moderna sull'area della città antica e le relative necropoli non ha ancora permesso di effettuare scavi estensivi o di identificare con certezza il Foro cittadino o altri edifici pubblici, alcuni citati nelle iscrizioni, come la Basilica o il Tempio della Fortuna. Secondo la teoria più accreditata, il centro monumentale della città può essere identificato in corrispondenza del cosiddetto Peristilio Pallottino, uno spazio lastricato e porticato che non si trovava troppo discosto dal porto fluviale. La tumultuosa crescita della città moderna, con le esigenze legate al porto e alla zona industriale, ha reso oltremodo difficoltosa la ricostruzione urbanistica della Colonia, ma grazie agli interventi di archeologia preventiva coordinati dalla Soprintendenza nel corso degli ultimi decenni, effettuati in particolare sotto la direzione di Antonietta Boninu, sappiamo che il centro urbano antico ha mutato le sue forme nel corso dei secoli, ed è stato organizzato con vere e proprie pianificazioni urbanistiche. Il nucleo originario dell'insediamento, databile tra la fine del I secolo a.C. e il I secolo d.C., è individuato in corrispondenza del porto fluviale, sulle rive del Riu Mannu.

Le prime grandi infrastrutture di cui viene dotata la città sono quelle viarie e per l'approvvigionamento dell'acqua. L'impianto viario è scandito da un reticolo di cardini e decumani, con orientamento degli assi NNO/SSE e ENE/OSO, che originano insulae

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66. Porto Torres, veduta dell'°ISOlato deHe Tenne Centrali o Palazzo di Re Barbaro, delimitato da cardine (con andamento da nord a sud} e decumano (con andamento da est a ovest}. Il volume coperto sul lato meridionale del complesso, sulla destra nell'immagine, è noto come "Criptoportico", definizione che indica un passaggio coperto. 67. Porto Torres, il cardo a occidente delle Terme Centrali, fiancheggiato dal porticato che immetteva nelle tabemae.

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68. Porto Torres, una delle vasche del frigidarium delle Terme Centrali, con rivestimento mosaicato policromo di tipo geometrico. 69. Porto Torres, interno del "Criptoportico" delle Terme Centrali. Interpretato in genere come vano di servizio delle Terme Centrali, in particolare degli adiacenti vani caldi (ca/idaria). Ipotizzato anche un suo uso come mitreo, che doveva esistere a Turris Libisonis come attestato dal ritrovamento di una statuetta di Cautopates, uno degli attendenti del dio Mitra. Nella doppia pagina seguente: 70. Ricostruzione delle Terme Centrali. Sono stati posizionati i rivestimenti musivi noti per il frigidarium e il tepidarium. Non vi sono dati disponibili sull'apparato decorativo dei vani caldi (il settore posizionato sulla destra), in quanto ancora non sono stati oggetto di scavo (tavola illustrata di lnklink Musei).

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71. Il porticato mosaicato delle Terme Centrali e il terrapieno che lo sosteneva sono stati indagati con lo scavo, rivelando la presenza nei livelli inferiori di una lussuosa domus, nota come Oomus di Orfeo, di cui nella ricostruzione sono stati posizionati i mosaici pavimentali (tavola illustrata di lnklink Musei). 72- 75. Porto Torres, Terme Centrali, vasca mosaicata. Nella Oomus di Orfeo sono stati riconosciuti almeno 5 ambienti mosaicati, in uno dei quali è presente una vasca trilobata con mosaico marino riproducente 18 tipi di pesci e molluschi (sono riportati nei dettagli, dall 'alto: seppia , triglia, mustela). 76. Porto Torres, Terme Centrali, mosaico. Uno dei due mosaici policromi con motivi geometrici che pavimentavano gli ambienti della Domus accanto a quello con Orfeo. 77. Porto Torres, Terme Centrali, mosaico. Particolare del mosaico delle Grazie, purtroppo conservato solo in parte. Sono riconoscibili due Grazie, ornate di corone di foglie e monili, raffigurate entro un pannello centrale a ottagono.

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79-80. Porto Torres, intonaci dipinti, Sassari, Centro di Restauro di Li Punti. Oltre ai mosaici, gli scavi della Oomus di Orfeo hanno restituito numerosi intonaci dipinti. In quello della fig. 79 sono riconoscibili eroti recanti una cesta. La fig. 80 rappresenta lo stesso mito di Orfeo, nel momento della discesa agli Inferi per riportare in vita la sposa Euridice: la perderà per sempre nel solo rivolgerle lo sguardo.

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Le sorgenti di~~~ sono ubiéate nella wcia peiiuit,ana di~ri Dalle foliti déll~ Ciara e Le Conce si dipartivano i due rami principali, che si unificavano in corrispondema di Predda Niedda per poi raggiungere la Colonia e alimentare la città, in particolare i diversi edifici termali. L'acquedotto venne edificato in parte in rilevato, con murature piene e arcate portanti, in parte scavato nella roccia. L'intera struttura doveva risultare parallela e a breve distanza dal tracciato della strada proveniente da Carales, per facilitare il controllo e la manutenzione dell'acquedotto. La tecnica costruttiva in innumerevoli tratti è l'opus reticulatum, databile all'età augustea, cioè, anche in questo caso, alle prime fasi della Colonia. L'organizzazione dello spazio nel corso del I secolo d.C. vede l'abitato concentrato a est del fiume, mentre sulle rive dello stesso sono presenti impianti produttivi, tra cui le fornaci scavate da Cinzia Vismara, dove si producevano lucerne e busti fittili raffiguranti una dea delle messi da lei denominata Sarda Ceres. Diversi di questi busti sono stati ritrovati in numerosi santuari rurali della pertica, dedicati come ex voto. Entro il I secolo d.C. si registra un'espansione edilizia anche a carattere privato che occupa i dolci pendii a est del fiume e il colle del Faro, con affaccio sul mare e in connessione con il porto fluviale, come dimostra l'esempio della Domus del Satiro; questa fase edilizia si prolunga fino alla metà del II secolo d.C. Tra il II e il III secolo d.C. assistiamo a un'ulteriore fase di espansione, sia della città sia delle necropoli, che continuano a svilupparsi lungo le principali direttrici viarie. Le modifiche più importanti a livello urbanistico sono diverse. Si riscontra l'occupazione di spazi in origine destinati all'edilizia privata per la costruzione di edifici pubblici, come accade nell'insula delle Terme Centrali (figg. 66-70); il grande complesso, del quale si conservano imponenti alzati, si imposta su un'area occupata da ricche domus, tra le quali spicca quella di Orfeo (figg. 71-80), che viene sigillata dal nuovo intervento. Si procede alla costruzione di una cinta muraria, dotata probabilmente di porte monumentali, che indirizza l'espansione dell'abitato verso est, come prova la sovrapposizione di strutture abitative alla necropoli del corso Vittorio Emanuele. Ma la modifica più sostanziale dal punto di vista urbanistico è lo spostamento del distretto portuale, dalla foce del fiume verso

di una tabella immunitatis, ovvero una targa bronzea, dove si attesta l'esenzione dai dazi doganali per la nave Porphyris della Vestale Massima Flavia Publicia. Il reperto è databile alla metà del III secolo d.C. A partire dalla fine del III secolo d.C. a livello urbanistico si assiste a un progressivo processo di destrutturazione, con l'abbandono di molti edifici, usati anche come cava di materiali, e la rottura dell'unitarietà dell'abitato. A seguito di un evento distruttivo, collocato intorno alla metà del V secolo d.C. e relativo con grande probabilità all'invasione vandala, come si riscontra a Olbia, le mura vengono sistematicamente spoliate; in questa fase, a fronte del mantenimento in attività degli spazi portuali, funzionali alla prosecuzione dei traffici commerciali, si registra l'abbandono di molti edifici pubblici. Numerose strutture vengono spoliate e l'abitato si contrae. Restano attivi in questa fase due nuclei principali: uno costituito dal porto, l'altro dal polo martiriale di San Gavino presso il Monte Agellu, che assume un ruolo centrale come luogo marcatamente cristiano e che sarà l'epicentro della Torres di età medievale.

Nota bibliografica Fors 1964; V ISMARA 1980; B ONINU 1984; G ALLIAZZO 1994; MASTINO, V ISMARA 1994; C AZZONA, R UGGERI, U GHI 1998; AzZENA 1999; 5 ATTA 2000; AzZENA 2002; MASTINO 2005c; BONINU, ET AL. 2008; C ANU 2011; GIANNOTTU 2011; B ONINU, PANDOLFI 2012; R UGGERI 2015; ANGIOLILLO, BONINU, P ANDOLFI 2016b; B ONINU 201 7; AzZENA, MASTINO, P ETRUZZI 2018.

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Le comunità rurali rivestono un ruolo

importante per la comprensione del rapporto tra l'uomo e l'ambiente nella Sardegna di età · romana. Proprio lo studio del paesaggio agricolo, infatti, offre spunti importanti in relazione alle interazioni culturali che contraddistinguono i contatti tra l'elemento locale sardo-punico e la presenza romana. Tali comunità ci sono note tramite la denominazione antica, per lo più conosciuta attraverso i dati epigrafici e l'analisi dalle fonti scritte. Nel primo caso, si tratta in particolare dei cosiddetti cippi limitanei, veri e propri indicatori dei confini amministrativi tra le varie comunità. Tra queste, risultano particolarmente documentate quelle dell'agro di Gurulis Nova a nord di Cornus (Cuglieri), identificate nei gruppi denominati Patulcenses

Eutychiani, Giddilitanorum, Uddhaddar(orum) e Numisiae, popolazioni che dovevano condividere il possesso e lo sfruttamento agricolo di questa parte dell'Isola (fig. 271). Nel medesimo ambito, possiamo ricordare le popolazioni locali dei Balari (Monti), dei Nurritani (Orotelli) e degli Iliensi (Bortigali), identificate con le cosiddette civitates Barbariae delle aree interne e ritenute ostili alla presenza romana.

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Un altro aspetto importante relativo al popolamento rurale dell'Isola in età romana è riferibile all'analisi delle strutture amministrative che contraddistinguevano i rapporti tra territorio e centri urbani. Tale modalità insediativa si poteva sviluppare attraverso la creazione di una rete, più o meno fitta, di piccoli villaggi o agglomerati identificati come vici e pagi, dove la routine quotidiana della produzione agro-pastorale sembra perpetuarsi con continuità dalle fasi puniche a quelle tardo-imperiali. Per quanto riguarda gli aspetti che caratterizzavano la vita religiosa d1 queste comunità rurali, può risultare interessante una testimonianza proveniente dal pagus degli Uneritani, area a vocazione agricola dipendente dalla colonia di Uselis, l'odierna Usellus, consistente in un'epigrafe dedicata a Giove Ottimo Massimo. Un'altra testimonianza, che combina aspetti devozionali e amministrativi, è rappresentata da un'epigrafe proveniente dall'area rurale di Bau Tellas, a poca distanza dall'importante centro urbano di Santu Teru/Monte Luna (Senorbì). L'iscrizione, ascrivibile verosimilmente al I secolo d.C., è relativa a lavori di restauro di una struttura sacra dedicata a Liber Pater, interventi promossi a proprie spese da M. Arrecinus Helius, Praefectus Civitatis della città di Valentia, sito variamente identificato tra Nuragus e Isili. La vita di queste comunità rurali doveva essere primariamente dedita alla produzione agricola e all'allevamento. Nonostante gli studi relativi a questo argomento risultino ancora limitati ad alcune aree del territorio regionale, essi sembrano suggerire interessanti contributi per la ricostruzione dell'economia della Sardegna romana. Un elemento chiave di questo assetto territoriale era certamente costituito dalle ville rustiche e dalle fattorie rurali, come sembra ben dimostrare il contesto repubblicano di S'Imbalconadu riportato alla luce nel territorio di Olbia (fig. 81). Tale sistema produttivo era molto diffuso nell'Isola, come provano le numerose strutture termali rinvenute in aree rurali e spesso riconducibili proprio alla

81. Olbia, S'lmbalconadu, fattoria di epoca repubblicana . Collocata a sud del fiume Padrongianus, la fattoria era adibita alla produzione di vino e cereali . Il sito è attivo dal Il fino agli inizi del I secolo a.e. 82. Ussana, località San Lorenzo, terme . !.'.edificio, secondo Giovanni Lilliu che lo indagò nel 1949, era probabilmente collegato a una fattoria rustica . Sulle strutture di epoca romana si sviluppò successivamente la chiesa di San Lorenzo che dà il nome alla località.

presenza di ville rustiche (fig. 82 ). Queste, in numerosi casi, restituiscono testimonianze che suggeriscono la presenza di attività legate alla produzione di olio, vino e alla lavorazione dei cereali. Nel primo caso, ad esempio, conosciamo un discreto numero di palmenti, ovvero vasche destinate alla spremitura di olive e/o uva, realizzate direttamente nella roccia (figg. 162-163). Tra queste, sembra essere di particolare interesse il complesso di S' Abba Druche di Bosa (I sec. a.C.-1 sec. d.C. ), articolato in una serie di vasche comunicanti collocate all'interno di un piccolo villaggio con necropoli. Per quanto riguarda invece la lavorazione dei cereali, sono attestati numerosi ritrovamenti pertinenti a macine manuali o a trazione animale, spesso realizzate in basalto. Alle attività connesse all'allévamento del bestiame, infine, possiamo ascrivere pochi elementi. Tale esiguità nelle attestazioni è principalmente dovuta alla difficoltà nell'individuazione delle attività legate alla pastorizia, che risultano poco percepibili nell'analisi del paesaggio. Ld sviluppo degli studi di carattere archeozoologico e delle analisi scientifiche relative ai suoli potranno certamente portare nuove conoscenze, utili per

una miglior comprensione dello sfruttamento pastorale del territorio. Un'interessante testimonianza di carattere epigrafico relativa a quest'aspetto è costituita dalla nota epigrafe di Esterzili, relativa a una disputa tra i pastori del Gerrei - Galillenses - e gli agricoltori Patulcenses Campani - per il possesso di alcune aree agricole (fig. 301). Un ulteriore importante contributo alla conoscenza delle comunità rurali e dei loro assetti socio-economici è fornito dai dati provenienti dai contesti funerari. Proprio quest'ambito, infatti, restituisce fondamentali informazioni circa la percezione che le popolazioni locali sarde avevano della propria complessa identità culturale durante la fase romana. È questo il caso, ad esempio, delle stele di Viddalba, caratterizzate da un forte influsso italico nella raffigurazione stilizzata del defunto, ma contraddistinte dalla persistenza di caratteri di tradizione locale (figg. 356-358).

Nota bibliografica SANCIU

1997; M ASTINO, PITZALIS 2003; F ORCI 201 lb;

M ASTINO, Z UCCA 2011 ; l BBA, MASTINO 2012; R OPPA 2013; C ANU 2016; C RUCCAS 2016; FARRE 2016a; FARRE

2016b; Lor 201 7; Puoou 2019.

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Al servizio della comunità. Strutture e infrastruttu re Emiliano Cruccas

È noto a tutti come la politica di controllo che

83-85. Porto Torres, ponte romano. Il ponte dell'antica Turris Libisonis è l'esempio più importante di questa tipologia di infrastrutture in Sardegna; collocato all'ingresso occidentale dell'area urbana della colonia romana.

Nella doppia pagina seguente: 86. Allai, ponte romano. Attraverso queste infrastrutture, Roma costruisce in tutto l'Impero una fitta rete di comunicazioni, consentendo al contempo un efficace controllo delle diverse aree e uno strumento importante per lo spostamento di genti e merci.

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Roma esercita sui territori che progressivamente conquista si esplichi attraverso diversi meccanismi culturali che, in tempi e con modalità diversi, sono evidenziati da importanti resti archeologici di strutture e infrastrutture costruite per volontà di imperatori, funzionari inviati da Roma e amministratori locali desiderosi di adoperarsi per le comunità locali, compiacendo allo stesso tempo il potere centrale. L'opera programmata di realizzazione di strade, acquedotti, fognature e altri complessi di pubblica utilità sono una testimonianza tangibile di questi meccanismi, comuni a tutti i centri abitati e ai territori del Mediterraneo che interagiscono con Roma, in maniera subalterna dal punto di vista amministrativo, ma secondo complesse e articolate dinamiche di scambi e apporti culturali. Per comprendere quanto questi aspetti siano fondamentali nelle dinamiche sociali e culturali di Roma sin dalle sue origini, basti qui ricordare come l'opera di progettazione e costruzione della città e dei suoi elementi fosse inscindibile dalla sfera religiosa. La strutturazione, l'orientamento e la collocazione di un centro urbano erano subordinati a precise operazioni cultuali, che i sacerdoti compivano

preliminarmente all'edificazione vera e propria della città. Il cosiddetto auspicio, divinazione connessa con l'operazione di acquisire la visuale in direzione della città e della campagna (Livio I, 18: «Prospectum in urbem agrumque capere»), era un'operazione compiuta dai sacerdoti sulla base degli elementi dell'ambiente naturale, e permetteva una distribuzione degli spazi a seconda delle funzioni. In particolare, rivestiva un'importanza fondamentale la collocazione della linea del pomerium, il confine sacralizzato che separava l' urbs dall' ager, che costituiva il caposaldo fondamentale per la ripartizione ~ dei diversi settori. Questo sistema religioso, che avrà particolare fortuna nella Roma monarchica, ma sarà in parte mantenuto anche durante l'età repubblicana, rivelerà una sua forte eco anche in età imperiale. I vari principi che si succederanno, infatti, dimostreranno sempre grande attenzione agli aspetti dell'edificazione di strutture e infrastrutture, secondo un linguaggio di propaganda che interesserà sia Roma che le province. Si pensi all'introduzione del noto trattato De Architectura nel quale l'autore, Marco Vitruvio Pollione, dedicando l'opera ad Augusto, sottolinea come l'imperatore si preocupasse non solo dell'organizzazione della vita pubblica, ma ritenesse fondamentale per il suo buon governo la costruzione di opere e di edifici pubblici. La Sardegna presenta, in relazione a questi aspetti, una situazione complessa, legata alla distribuzione non capillare dei centri abitati, che sembrano gravitare principalmente nelle aree costiere, per evidenti motivazioni di carattere economico e commerciale connesse al mercato esterno, e in sporadiche piccole comunità nei territori dell'interno, per necessarie politiche di controllo delle aree periferiche e degli insediamenti dislocati in regioni più isolate. Ma, dove Roma posiziona i suoi funzionari più importanti, sono rilevabili numerose testimonianze relative a infrastrutture che garantivano spostamenti e attività connesse alle produzioni, ai commerci e alle normali attività quotidiane. Le iscrizioni

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87. Nora, Terme Centrali. Struttura in laterizi ed embrici di un condotto fognario di età imperiale.

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ritrovate in tutto l'Impero dimostrano l'importanza per le autorità, dall'imperatore al singolo funzionario inviato nelle province, di affermare l'orgoglio civico nel promuovere la realizzazione di opere per il bene pubblico. Esistono, infatti, tantissime testimonianze di queste autocelebrazioni dei rappresentanti politici e degli eminenti cittadini di centri urbani e di più piccole comunità. Prove concrete di un sentire comune che da Roma arriva ai più lontani abitati e che testimonia l'importanza dell'operare per il benessere comune, secondo un indirizzo politico che ora ci può parere anacronistico, ma che è principio della cura della res publica. Fondamentali per il controllo del territorio e per le comunicazioni interne sono le principali

arterie stradali che, in una regione diversificata e caratterizzata da un'orografia piuttosto discontinua, consentivano il trasporto di merci nelle diverse zone dell'Isola. Tra le infrastrutture che dimostrano un'attenta pianificazione delle rotte commerciali interne tra città ed entroterra, vanno sicuramente segnalati i numerosi ponti costruiti in prossimità di corsi fluviali, spesso all'ingresso dei principali centri abitati (figg. 17-19). Ne è un esempio notevole, per qualità della realizzazione e imponenza architettonica, il ponte sulla foce del Riu Mannu, costruito nei primi anni di vita della Colonia Iulia Turris Libisonis (figg. 65, 83-85). Come già notava il canonico Giovanni Spano nel XIX secolo, la struttura sorprende per la sua monumentalità, costruita in grossi blocchi di calcare tenero locale, con sette arcate a sesto ribassato, di dimensioni decrescenti verso est e distribuite per una lunghezza di circa 135 metri e per una larghezza di circa 6 metri per la sede stradale, pavimentata con basoli in trachite. Indagini effettuate in anni recenti hanno permesso di individuare infrastrutture idriche sottostanti il piano stradale, finalizzate al deflusso delle acque. Così come accade per i sontuosi monumenti pubblici, per gli edifici per spettacoli e per il benessere personale, la costruzione di strutture che portano l'acqua nelle città, di sistemi di canalizzazione per l'approvvigionamento idrico e per lo smaltimento delle acque nere costituiscono delle prove materiali di questa politica attuata da Roma nei territori sotto il suo controllo, compresa la Sardegna. Nel sistema di gestione del territorio e dei centri urbani, giocano sicuramente un ruolo fondamentale gli acquedotti. Queste importanti infrastrutture, già utilizzate in ambiente greco, ma poi diventate caratteristica precipua dell'ingegneria e della tecnica costruttiva romane, presuppongono un'approfondita conoscenza del contesto topografico, poiché la loro edificazione doveva tenere conto di distanze e pendenze, così da agevolare il percorso dell'acqua che, dalla fonte, doveva giungere in città. Le imponenti arcate di queste strutture, diffuse in tutte le province dell'Impero e che ancora residuano per lunghi tratti, testimoniano le notevoli conoscenze costruttive degli ingegneri romani. In Sardegna permangono numerosi resti di queste opere, in particolare quelli legati alle città di Nora, Olbia (figg. 63-64), Carales e Turris Libisonis. Il territorio su cui si snodava l'acquedotto che

riforniva quest'ultima è collocato nella zona della Nurra, un'area caratterizzata da un andamento prevalentemente pianeggiante, al di sopra del quale si eleva solo il Monte Forte (464 m). Questo comparto geografico, caratterizzato da terreni composti in maggioranza di calcari morbidi, marne e arenarie facilmente escavabili e lavorabili, rendeva ideale la realizzazione di un progetto di questo tipo. I tratti residui di questa importante infrastruttura, che presentava una lunghezza totale di circa 21 chilometri e che si originava nei pressi dell'odierna Sassari, mostrano caratteristiche tipiche di questo genere di costruzioni: le porzioni sotterranee sono dotate di pozzetti di ispezione per i periodici lavori di manutenzione, mentre le strutture in superficie presentano arcate alte fino a 2,5 metri, costruite in opera reticolata che rivelano importanti interventi di restauro. La struttura presenta, nel suo tratto iniziale, un nucleo in opera cementizia e paramenti in opera mista a fasce, con il canale di conduzione (specus) rivestito internamente di malta idraulica. Il percorso, secondo un sistema attestato negli altri acquedotti diffusi in tutto l'Impero, era interrotto per brevi tratti da piccole vasche, le cosiddette piscinae limariae, costruite per rallentare il flusso dell'acqua e fungere da bacino di decantazione. In prossimità del centro abitato di Turris Libisonis, la condotta dell'acquedotto risulta in par:te scavata nella roccia con porzioni ristrutturate in muratura, atte a convogliare l'acqua nelle condutture idriche (fistulae), queste ultime realizzate in piombo o in terracotta. Fatto erigere con molta probabilità in età augustea, l'acquedotto di Turris Libisonis faceva il suo ingresso nella colonia dall'area del Monte Agellu, immettendosi in grandi vasche che a loro volta rifornivano tutto il centro abitato, compresi i grandi impianti termali e un lacus, una grande cisterna offerta alla comunità da Titus Flavius Iustinus, un magistrato vissuto nel II secolo d.C., di cui rimane testimonianza scritta su una cornice marmorea. Anche la città di Cornus era rifornita da un sistema di approvvigionamento idrico costruito secondo i dettami della tecnologia romana. L'acquedotto, alimentato da una sorgente che aveva origine dal massiccio montuoso del Montiferru, raggiungeva l'insediamento della collina di Corchinas percorrendo l'area pianeggiante di Campu 'e Corra. Alcuni tratti dell'acquedotto, individuati a est del colle su

cui era ubicato l'insediamento, erano già stati individuati dagli eruditi e viaggiatori del XIX secolo. Indagini recenti hanno permesso di individuare i resti della struttura, con porzioni del canale (specus) a sezione rettangolare (22 x 30 cm), rivestito di cocciopesto e malta di calce, e murature spesse 1,3 metri, caratterizzate da un paramento in opus vittatum mixtum, una tecnica che prevede l'alternanza di filari di laterizi e materiale lapideo, mentre il nucleo era realizzato in opera cementizia. L'adduzione idrica nei vari settori della città aveva come riflesso il problema dello smaltimento delle acque nere, fatto non di secondaria importanza per la qualità della vita di un abitato. Le fognature, caratteristica ricorrente dei centri urbani, seguono generalmente il reticolato delle strade, diramandosi in maniera speculare al di sotto di queste. Tra le tipologie più diffuse nella Sardegna di età romana, vanno sicuramente ricordati i canali con copertura a doppio spiovente, ai quali si accedeva dalla sede stradale, attraverso pozzetti di ispezione che consentivano l'ingresso a operai che realizzavano interventi di manutenzione periodici e straordinari. Strutture di questo tipo sono attestate in tutta l'area urbana di Nora. Qui, i recenti scavi operati nell'ex area della Marina Militare hanno permesso di individuare due di questi pozzetti, posti in corrispondenza di un tratto di strada basolata, a una distanza di soli 22 piedi romani (circa 6,5 m), forse per la scarsa pendenza di questo tratto, e caratterizzati da un'apertura a sezione quadrangolare di 60 centimetri di lato. Una di queste strutture indagate presenta una profondità di 1,48 metri rispetto al piano stradale, costruita in laterizio, con copertura a doppio spiovente e con le spallette rivestite con un sottile strato di malta idraulica (fig. 87). I liquami provenienti dagli edifici confluivano in questi canali da tubazioni in terracotta. La realizzazione "a schiena d'asino" della carreggiata stradale, con la parte centrale a quota più alta, consentiva all'acqua piovana di defluire nel sistema fognario attraverso piccoli fori di captazione presenti nel pavimento basolato.

Nota bibliografica 1976; TOLLE-KASTENBEIN 1993; BODON, RIERA, 1994; MASTINO, VISMARA 1994; SATTA 2000; BONINU, PANDOLFI 2012; BLASETTI FANTAUZZI, DE VINCENZO 2013; PIRA, DORE 2015; LANTERI 2016; BONETTO, GHIOTTO 2017. BONINU

Z ANOVELLO

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apgrofomlltneìrtl Pietra e argilla. Le tecniche costruttive Emiliano Cruccas

L'analisi degli edifici delle città romane della Sardegna e dei coevi insediamenti rurali mostra un impiego piuttosto variegato di tecniche edilizie e materiali, con scelte da un lato segnate da un forte tratto conservativo, legato a tradizioni consolidate, dall'altra aperte a soluzioni innovative tipiche dei dettami costruttivi del mondo romano. In relazione ai materiali impiegati, la ricerca archeologica, coadiuvata dai dati provenienti da puntuali analisi scientifiche pertinenti alle cosiddette "scienze dure", permette di annoverare tra le scelte impiegate nell'erezione degli edifici l'utilizzo di una grande varietà di materie prime, in particolare legno, materiale lapideo, prevalentemente estratto in cave locali, e argilla. Se per la prima tipologia possiamo avvalerci quasi esclusivamente di tracce in negativo, per gli altri materiali possiamo contare su numerose strutture ancora parzialmente conservate. L'argilla, in particolare, è un elemento che offre un'ampia varietà di utilizzi: oltre a costituire un'importante componente nella maggior parte delle malte impiegate negli edifici costruiti nei centri abitati a matrice culturale

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punica, è impiegata anche negli alzati di molte di queste strutture. È nota infatti, tra le tipologie costruttive più diffuse, la cosiddetta "opera a orditura di ritti", una tecnica di derivazione nordafricana, costituita da una scansione regolare di grossi blocchi lapidei, tra i quali venivano realizzate delle colmate di pietrame di pezzatura varia, ciottoli e materiale di reimpiego legato da malta prevalentemente composta da argilla (fig. 88). Comè testimoniato dai quartieri abitativi delle città di Nora e Tharros, le strutture di questo tipo erano impiegate limitatamente allo zoccolo degli edifici che presentava, generalmente, uno sviluppo in mattoni crudi di argilla, secondo una tecnica documentata in Sardegna dall'età punica fino ai giorni nostri. L'impiego dei cosiddetti [adiri, mattoni di terra e paglia posizionati al di sopra di uno zoccolo in pietrame legato con malta, è infatti attestato ampiamente in alcune zone della Sardegna centro-meridionale in edifici eretti fino al XX secolo. Pur permanendo una certa tendenza conservatrice nell'utilizzo e nella posa in opera dei materiali da costruzione, l'arrivo dei Romani in Sardegna stimola un'apertura delle comunità isolane a nuove soluzioni, generando a volte sintesi originali tra sostrato locale e influssi esterni, in particolare per ciò che riguarda gli edifici a carattere pubblico. Questo fatto è testimoniato, per esempio, dalle numerose strutture in opera quadrata, una tecnica realizzata con grossi blocchi squadrati in pietra locale (calcare, arenaria, biocalcarenite) e utilizzata principalmente in edifici sacri o nelle strutture murarie che proteggevano i centri urbani (Tempio di via Malta a Cagliari e Mura di Sant'Antioco). Tra le innovazioni generate dal contatto con Roma e le genti del mondo italico che segnarono maggiormente un cambiamento nelle tecniche edilizie nell'Isola, va sicuramente segnalato l'apporto dell'opera cementizia.

88. Nora, quartiere alle pendici meridionali del colle di Tanit; opera a orditura di ritti. Si tratta di una tecnica muraria di derivazione punica , che mostra una lunga continuità di vita e viene utilizzata anche nelle fasi di età imperiale. 89. Nora, Terme a Mare; esempio di coesistenza di tecniche miste, con laterizi e pietre legati con malta. 90. Ussana, località San Lorenzo, terme . Gli ambienti termali, pensati al contempo per lo svago e l'igiene personale, potevano trovarsi sia in ambiente urbano che nei centri periferici e spesso in strutture paragonabi li alle locande e agli alberghi di età moderna.

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Si tratta di un'importante novità nelle costruzioni anche di dimensioni notevoli, che permetteva di erigere rapidamente edifici e strutture. Il caementicium era composto da calce, sabbia, pietrame di forma irregolare e di dimensioni contenute e scarti di manufatti in argilla cotta. Altre tecniche edilizie tipicamente romane, attestate in diversi centri urbani e rurali dell'Isola, sono l'opera reticolata e l'opera laterizia, entrambe riscontrabili nelle strutture pertinenti ad acquedotti. L'impiego di laterizi nelle strutture di età romana è attestato con continuità in Sardegna a partire dalla fine del I secolo a.C. Com'è noto, questi elementi in argilla cotta presentavano una tipologia che

rispondeva a precise caratteristiche metrologiche, che negli esemplari rinvenuti nell'Isola non mostrano sempre una puntuale corrispondenza. Le fornaci che producevano laterizi sono diffuse in tutto il territorio regionale: tra le varie produzioni di questa tipologia di manufatti, spicca sicuramente quella recante i bolli di Atte, la liberta e concubina dell'imperatore Nerone, che aveva numerosi possedimenti nell'area di Olbia. Nota bibliografica ADAM 1988; GHIOTTO 2004; C AMPOREALE, D ESSALES, PIZZO 2008; B ONETTO, C AMPOREALE, PIZZO 2014; P REVIATO 2016c; B ONETTO, GHIOTTO 201 7.

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faa:esso alle ~atllreda. pozzetti di ~one, rèalii.zati al fine di effèttlìare operazioni perfodiéhe di manutenzione e pwìzia. Una caratteristica tipica delle strade urbane delle città romane è la presenza di solchi carrai, che paiono assenti nei tratti basolati di Nora.

Emlllano Cruccas

La pianificazione urbanistica è un aspetto

91. Nora, strada cittadina basolata. I grossi blocchi sono realizzati in andesite viola, una pietra estratta dalle cave collocate in prossimità del centro urbano.

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cruciale nell'analisi delle dinamiche culturali dei centri di età romana. L'immagine che la città restituisce di sé, sia attraverso i monumenti e gli edifici più importanti, sia attraverso la distribuzione degli spazi, è il riflesso di ideologie e messaggi che il potere centrale, quello amministrativo locale e le diverse comunità diffondevano intenzionalmente. Per comprendere l'importanza della costruzione delle strade per le finalità di organizzazione del territorio e delle città in età romana, è utile qui ricordare un passo del poeta latino Stazio (Silvae 4, 3, 40-55) che, nell'intento di celebrare la costruzione del tratto che dalla via Appia doveva condure a Pozzuoli, realizzato per volontà dell'imperatore Domiziano, ci informa di alcuni dei passaggi fondamentali nella costruzione delle strade. A operazioni preliminari, come l'impostazione di solchi paralleli (incohare sulcos) che dovevano fungere da orientamento per la direttrice e i limiti di carreggiata, facevano seguito importanti lavori di scavo (alto egestu penitus cavare terras), di profondità e larghezza sufficienti a raggiungere uno strato solido, che assicurasse stabilità alla struttura generale e alla parte superiore del manto stradale (summum dorsum). Per garantire ciò, tali fosse venivano riempite con materiale compattato (haustas aliter replere fossas), così da impostare più piani di allettamento per il piano stradale (gremium parare). Queste fasi, realizzate all'interno di cantieri altamente specializzati, erano comuni sia alle grandi arterie che mettevano in comunicazione il territorio e i centri abitati, sia al reticolato stradale delle diverse città. Nel caso della Sardegna, i centri urbani presentano differenti genesi e sviluppi, che si riflettono nella strutturazione del reticolo viario interno. È il caso di città come Sulci, Tharros e Nora, dove i preesistenti insediamenti costituiscono la base di partenza per l'organizzazione dell'assetto urbano in età romana. Infatti, se in una città di nuova fondazione come Turris Libisonis l'organizzazione della rete viaria mostra uno schema che riflette la regolarità di molti altri

centri di età romana, basato sull'alternanza a distanze regolari di cardines e decumani, l'esempio di Nora ci mostra un'organizzazione delle strade basata su un adattamento alla preesistente conformazione urbanistica. Gli scavi, svolti negli ultimi decenni da diverse équipes, mostrano una rete principale con carreggiate di diversa larghezza e piani pavimentali realizzati con grossi basoli di pietra locale (andesite viola), che segue l'orografia del terreno e la disposizione preesistente dei nuclei edilizi e degli spazi (figg. 38, 91). Il materiale da costruzione dei piani stradali,

Questo fatto, unito alla presenza di punti in cui la carreggiata si restringe fino a poco più di un metro, aveva fatto supporre che le strade norensi avessero una vocazione esclusivamente pedonale. Le recenti indagini hanno tuttavia evidenziato la presenza di alcuni basoli sopraelevati, con funzione di paracarro, atti a impedire ai mezzi di salire sugli spazi pedonali.

Nota bibliografica ADAM 1988; QUILICI 2006; MATIEAZZI 2009; PREVIATO 2016c; BONETIO, GHIOTIO 2017.

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92 . Tharros, strada cittadina . Sotto le lastre in basalto si nota il condotto fognario.

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Il ruolo che l'acqua svolge per Roma all'interno della politica di gestione dei territori conquistati è di primaria importanza. L'analisi delle diverse province dell1mpero dimostra come la costruzione di strutture connesse all'adduziont, allo smaltimento e alla conservazione dell'acqua costituisse uno degli aspetti più cari a imperatori, amministratori ed eminenti cittadini per dimostrare alla comunità il proprio buon governo. In questo senso, le strutture legate all'acqua costituiscono un fondamentale veicolo di messaggi propagandistici che hanno, in diversa misura, segnato la storia del mondo romano. Non fa differenza in questo la Sardegna, come testimoniato dalla costruzione già negli ultimi anni del I secolo a.C. dell'acquedotto che alimentava la Colonia Iulia Turris Libisonis, l'attuale Porto Torres. L'acquedotto che approvvigionava la città di Cagliari, invece, presenta una successione di fasi piuttosto articolata, dovuta alla crescita della popolazione conseguente all'aumento di importanza del centro urbano. È infatti noto dalle indagini archeologiche che, al momento dell'arrivo dei Romani, la città presentasse un articolato sistema di captazione delle acque meteoriche, evidenziabile nei numerosi pozzi, cisterne e canalizzazioni restituiti dagli scavi urbani. Il boom demografico che dovette interessare Cagliari a partire dal I secolo d.C. è sicuramente alla base della scelta di dotare la città di un acquedotto adatto a rifornire un centro abitato di queste dimensioni. Il percorso si snoda per quasi 50 chilometri, con tratti in

93. Tharros, terme. Il complesso è perfettamente inserito nel tessuto urbano del la città di età romana, ded icato alle attività di svago dei cittadini .

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superficie alternati ad altri sotterranei, che dalla sorgente di Cabudacquas, presso Villamassargia, segnava un percorso sostanzialmente parallelo all'attuale arteria SS 130, passando per i centri abitati di Decimomannu, Assemini ed Elmas. La struttura, realizzata anche qui in opera cementizia e rifasciata con laterizi, presentava un andamento che si adattava alle caratteristiche altimetriche del terreno ed era segnato da numerosi pozzetti di ispezione e da tratti dello specus con copertura in laterizi a doppio spiovente, secondo una tecnica denominata "alla cappuccina': attestata anche nella costruzione di fognature e in alcune tipologie funerarie. Tratti di acquedotti, costruiti secondo dettami piuttosto standardizzati, sono individuabili in tutti i principali centri urbani della Sardegna, sintomo di una politica di radicamento nel territorio che si basava anche e soprattutto sulla costruzione di infrastrutture che garantissero alle comunità un buon tenore di vita. L'importanza dell'edificazione e della manutenzione di queste infrastrutture si mantiene per tutta la durata dell'occupazione romana in Sardegna, come testimoniato da un'iscrizione delle ultime fasi di vita dell'Impero, relativa al restauro dell'acquedotto di Nora, compiuto da un Flaviolus, praeses provinciae e curato da un [V]alerius Euhodius, principalis ac primoris del municipium norense. I resti di questo impianto sono tuttora visibili nel territorio di Pula, in prossimità della costa, e mostrano una commistione piuttosto articolata di materiali e tecniche, con

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94. Nora, ex area militare, fontana circolare di età imperiale. La struttura, ancorét in fase di scavo, potrebbe essere l'unico esempio sinora noto in Sardegna di grandi fontane circolari con saliente centrale. Il modello originario, costituito dalla cosiddetta Meta Sudans di Roma , presenta numerosi esempi derivati dal mondo romano, in particolare in Nord Africa. 95. Nora, quartiere delle Case a mare, fontana circolare di età imperiale. Si tratta di un piccolo apprestamento collocato in uno spazio aperto all'interno di un quartiere abitativo, finalizzato alle esigenze quotidiane degli abitanti. 96. Nora, ex area militare, cisterna geminata. Le due parti sfruttano la pendenza del terreno e presentano un cordolo interno per favorire la decantazione e isolare le impurità dei liquidi.

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fondazioni in blocchi di arenaria che sorreggevano una struttura composta da un nucleo in opera cementizia fasciata da filari di laterizi di differenti misure. Il percorso dell'acquedotto, che cominciava nei pressi di una fonte locale, collocata non lontano dall'abitato, è segnato dai resti di alcuni piloni e delle arcate, oltre che dai resti di piscinae limariae a pianta quadrata. L'acquedotto di Nora, le cui ultime tracce sono individuabili nell'area dove sorgeva l'anfiteatro, doveva giungere all'interno dello sp'azio urbano, per poi dividersi in più segmenti che andavano ad alimentare i diversi settori della città. Il punto in cui questa diramazione aveva luogo era sicuramente segnato dal cosiddetto castellum aquae, un grande edificio con camere e vasche espressamente concepite per la decantazione, spesso costruito in uno spazio monumentalizzato con attorno fontane e giochi d'acqua atti a rimarcare l'opera

compiuta dall'imperatore o dall'eminente cittadino che aveva finanziato la costruzione. A Nora questo spazio potrebbe essere stato collocato nei pressi di un'ampia area aperta recentemente riportata alla luce, forse una piazza, segnata dalla presenza di una struttura semicircolare (esedra) e da un ampio spazio circolare risparmiato nella pavimentazione in basoli, forse riferibile a una fontana monumentale a saliente, sul modello di quelle presenti in altre parti dell'Impero (fig. 94). Gli strati sottostanti a questa grande piazza e alle coeve arterie stradali che percorrono l'abitato di Nora fotografano una situazione articolata di infrastrutture comune a tutti i centri urbani di età romana: a condutture in piombo per l'adduzione delle acque si alternano canalizzazioni in terracotta, spesso realizzate con anfore riutilizzate, per il deflusso delle acque all'interno di una fitta rete di fognature. Quest'ultima, collocata sotto il manto stradale, presenta per lunghi tratti una struttura realizzata con spallette in laterizi e una copertura "alla cappuccina': con aperture dall'esterno in corrispondenza di piccoli pozzi di ispezione, per consentire interventi di manutenzione periodica e straordinaria. Anche il centro urbano di Tharros presenta una sistemazione monumentale delle strutture legate all'adduzione dell'acqua in città, con uno spazio ricavato all'incrocio (compitum) del sistema viario principale e segnato dalla presenza di un grosso edificio interpretabile come castellum aquae, davanti al quale è presente una grande fontana monumentale (fig. 55 ), parte di un unico grande progetto inquadrabile tra il II e il III secolo d.C. Il ruolo che queste strutture a carattere decorativo svolgono nelle città delle province romane è ben noto: attraverso l'abbellimento di un qualcosa di non solo utile, ma necessario, come l'acqua, il potere centrale e gli eminenti cittadini che curavano l'amministrazione locale celebravano il loro buon governo a favore della comunità. A rimarcare queste azioni, sono pervenute fino a noi numerose iscrizioni, che testimoniano con puntualità i tempi e i luoghi di questo evergetismo e costituiscono uno strumento indispensabile per la ricerca archeologica. Nota bibliografica 1993; P AOLETTI 1997; B ONETTO 2000; SATTA 2000; CASAGRANDE 2008; LONGFELLOW 2011 ; B ONETTO, GHIOTTO 201 7; B uoRA, MAGNANI 2018; CESPA 2018; F RO TORI , RESTELLI 2018; R OGERS 2018; LAMARE 2019.

T OLLE- KASTENBEIN

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Vita quotidiana

• Abitare nella Sardegna romana Arturo Zara APPROFONDIMENTI

I quartieri abitativi di Nora Jacopo Bonetto

La villa romana di Santa Filitica Elisabetta Garau

Abitazioni signorili a Cara/es: la Villa di Tigellio Maria Adele lbba

La decorazione pittorica Federica Stella Mosimann

La decorazione musiva Simonetta Angiolillo

La decorazione architettonica Simonetta Angiolillo

• Strutture per il benessere e il tempo libero Ilaria Frontori APPROFONDIMENTI

Le terme di Fordongianus Ciro Parodo

!.'.anfiteatro di Cagliari Enrico Trudu

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Abitare nella Sardegna romana Arturo Zara

La maggior parte dei centri urbani della Sardegna romana ha restituito tracce di edifici domestici, sia abitazioni signorili che complessi destinati alla popolazione meno abbiente. Nonostante ciò, permangono oggi notevoli lacune conoscitive sull'edilizia privata romana della provincia Sardinia, da una parte derivanti dalla frammentarietà delle attestazioni - solo parzialmente colmata dagli scavi degli ultimi decenni-, dall'altra dalla lunga continuità di vita che è propria dei complessi conservati, frequentati spesso ininterrottamente dall'età punica all'avanzata età romana e oltre, con periodiche attività di ristrutturazione e ricostruzione. Da ciò sovente deriva una certa difficoltà nell'individuazione del singolo lotto abitativo all'interno di più ampi quartieri messi in luce, così come generalmente problematiche sono l'identificazione della funzione dei vani e la determinazione di cronologie in termini assoluti, sebbene il riesame delle strutture permetta di stabilire in varie circostanze affidabili datazioni relative. Gli abitati di Tharros e Nora sono senz'altro uno specchio evidente della persistenza delle tradizioni puniche nell'edilizia domestica della Sardegna romana sin dalla tarda età repubblicana e nei secoli successivi. A Tharros, due assi stradali suddividono tre quartieri abitativi: quello occidentale, alle pendici della collina di San Giovanni, quello orientale, articolato lungo il tratto di litorale del Golfo di Oristano, e il settore centrale, che, sebbene fosse sede dei principali complessi pubblici e sacri della città, appare comunque occupato da abitazioni private. In questi comparti urbani, così come nelle case di Nora sulle pendici del colle di Tanit o lungo il tratto di litorale meridionale della penisola, le strutture si adeguano all'andamento declinante del terreno e si delineano gruppi di ambienti divisi da spazi aperti comuni, in alcuni casi contraddistinti da vasche o fontane. Portato punico è senz'altro la presenza di una corte scoperta, talora dotata di due colonne destinate a sorreggere una copertura a spiovente: principale fonte di luce dell'abitazione, il cortile è lo spazio aperto attorno a cui gravita una serie di ambienti articolati su differenti livelli, raccordati da brevi

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gradinate. Le strutture sono comunemente realizzate, sempre secondo la tradizione locale, con zoccoli in blocchi irregolari legati da argilla ed elevati in mattoni crudi, rivestiti di intonaco, sul quale nei contesti più prestigiosi vengono realizzati affreschi; diffusa appare pure l'applicazione dell'opera a orditura di ritti (fig. 88), con massicci ortostati verticali alternati a specchiature in scapoli lapidei, mentre molto più contenuto in ambito privato è l'impiego dell'opera cementizia. La corte è abitualmente pavimentata in battuto, così come molti dei vani annessi, sebbene pavimentazioni in cementizio o in mosaico sono stese anche contemporaneamente nei contesti più facoltosi. Particolare cura è destinata ai sistemi di approvvigionamento idrico, con cisterne (spesso della tipologia "a bagnarola': pure di ascendenza punica) e pozzi di attingimento, non di rado inseriti nei muri divisori tra due lotti abitativi, così da servire entrambi i proprietari. Sono inoltre documentati spazi riservati a botteghe aperti verso le strade. A Tharros come a Nora, inoltre, fori sulla parte alta delle murature meglio conservate, così come tratti di scalinate, suggeriscono la presenza di secondi piani nelle abitazioni; pure frequente è la realizzazione di tamponature dei varchi e la costruzione di nuovi setti murari, testimonianze di come nel tempo sia variata la circolazione interna delle case e si siano accorpati o ripartiti i lotti abitativi dell'impianto originario. Abitazioni con corte colonnata di età repubblicana, note a Nora al di sotto del quartiere centrale medio-imperiale, sono ben attestate anche a Cagliari, dove la datazione fra la tarda età punica e la prima fase dell'amministrazione romana dell'Isola conferma come la presenza dello spazio aperto centrale sia più un'evoluzione di una forma architettonica locale che non un'importazione del modello dell'atrio italico. Presso Campo Scipione, area prossima alla laguna di Santa Gilla, G. Lilliu indagò una casa il cui impianto, datato tra la seconda metà del III secolo a.C. e, più probabilmente, gli inizi del secolo successivo, si articola in un settore di servizio e un'area residenziale, gravitante attorno a una corte con due colonne centrali,

98. Tharros, quartiere abitativo occidentale, articolato lungo le pendici della collina della Torre di San Giovanni, a monte dell'asse stradale lastricato che risa le il pendio della collina di Su Murru Mannu.

pavimentazione in cementizio e un pozzetto per l'approvvigionamento idrico. Poco più a sud, alle pendici del colle di Tuvix:eddu, si situa invece la Casa degli emblemi punici, che già nel nome, derivante dalle decorazioni delle pavimentazioni in cementizio, tradisce l'ascendenza culturale di un edificio inquadrabile in età repubblicana, pure dotato di una corte con cisterna sotterranea, sulla quale si affaccia un vano definito "tablino", affiancato da due presunte alae. Entro la prima metà del I secolo d.C. si data invece il settore di abitato scavato a Sant'Antioco, la Sulci romana, in località Su Narboni, presso l'area del Cronicario. Anche in questo contesto i lotti abitativi, distinti in due isolati separati da una strada, sorgono lungo il pendio e si articolano con ambienti spesso pavimentati in cementizio e disposti attorno a un cortile munito di un pozzo; di frequente piani superiori sono stati documentati grazie allo scavo delle pavimentazioni in crollo al di sopra dei livelli di calpestio del pianterreno. Entro i primi decenni del II secolo d.C. si colloca il precoce abbandono di questo settore urbano. All'inizio dell'età imperiale si fa risalire anche la prima fase del quartiere di abitazioni signorili di Cagliari noto come Villa di Tigellio (figg. 27, 114), dal nome del poeta sardo alla corte di Augusto riportato nelle false Carte di Arborea, dove si favoleggia pure sulla sua fastosa casa. L'area, che per primo indagò il Canonico Spano nel 1876 e che fu a più riprese riscavata sino al 1963-64, con l'intervento di G. Pesce, è articolata su più livelli e ben inserita nella rete viaria urbana, con la Casa del Tablino dipinto che conserva un vestibolo d'ingresso

dalla strada. Impropria anche per questo edificio la definizione di casa "ad atrio" di tipo italico, in quanto l'ambiente letto come tablino è scostato dall'asse dell'edificio e non risulta aperto sulla corte tetrastila. Lo schema canonico è invece rispettato nella vicina Casa degli Stucchi (di cui non è però noto l'ingresso), con una serie di vani, forse con funzione di cubicula, articolati attorno a una corte con quattro colonne, sul cui lato di fondo si apre un tablino. A nord-ovest della Casa degli Stucchi sorge una terza domus, scavata solo parzialmente, che presenta pure una corte tetrastila con impluvio. In special modo nelle Case del Tablino dipinto e degli Stucchi sono ricche le pavimentazioni musive, così come gli affreschi e gli stucchi parietali (fig. 115) e, se le prime testimonianze si datano su base stilistica a età augustea, sono attestati rifacimenti degli apparati decorativi sino al III-IV secolo d. C. Nuove forme di edilizia abitativa sono note a Nora a partire dal II secolo a.C., con l'impianto di un quartiere di case-bottega, dotate di vani destinati alle attività commerciali disposti lungo la via che conduce al porto della città e di ambienti privati sul retro. Tale settore urbano viene profondamente ristrutturato e ampliato nel corso del III secolo d.C. e proprio tra la fine del II secolo d. C. e il secolo successivo che a Nora trova spazio anche la costruzione di grandi domus signorili, su tutte la Casa dell'atrio tetrastilo, ben nota per i prestigiosi pavimenti in tessellato, che testimoniano come l'apparato decorativo sia stato rinnovato e ampliato (figg. 97, 105-107, 123). Meno conservata è la Casa del Direttore Tronchetti, edificata subito a nord, che presenta una comune impostazione:

Nella doppia pagina seguente: 99. Ricostruzione virtuale del patio della Casa dell'atrio tetrastilo a Nora (IKON , Gorizia e Università di Padova). Si tratta di una delle domus meglio conservate della Sardegna romana, con i ricchi mosaici che si datano a partire dalla fine del Il secolo d.C. !.'.edificio era accessibile da un portico con sei colonne, che fungeva da diaframma tra lo spazio esterno alla casa e il corridoio che conduceva alla corte tetrastila .

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un vestibolo d'ingresso aperto sulla corte tetrastila, che dà adito a nuclei di ambienti articolati su più livelli e raggiungibili talora mediante corridoi. A Nora sono attestate in questa fase anche domus dotate di peristili mosaicati, oppure di un ricco giardino colonnato, presente nella Casa del Viridarium, già nota col nome improprio di "fullonica", o ancora fastosi spazi di rappresentanza pure ornati da pavimenti in tessellato, come nel caso del Ninfeo (fig. 102), e persino le Piccole Terme, nella loro prima fase, sono ritenute un balneum privato: si tratta nel complesso di espressioni del generale fl.oruit edilizio e monumentale che prese avvio dai decenni finali del II secolo, con il principato dei Severi, e perdurò per tutto il secolo seguente nella città antica e, in generale, nell'intera Sardinia, continuando a esprimere un'evoluzione delle forme puniche dell'abitare e acquisendo modelli sviluppatisi in ambito provinciale africano. Ricche domus mosaicate di età medio-imperiale sono note anche nei centri urbani del nord dell'Isola, in particolare a Turris Libisonis dove, al di sotto delle Terme Centrali (figg. 71-77), si trova la Domus dell'Orfeo, riccamente decorata con intonaci dipinti (figg. 79-80) e mosaici policromi, tra i quali spicca quello che alla casa dà il nome, datato alla metà del III secolo d.C. su base stilistica (fig. 78). Tra la fine del III

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e l'inizio del IV secolo d.C. si colloca invece la Domus dei mosaici marini, articolata sul declivio che si affaccia sul Riu Mannu e sul mare, con due piani collegati da una scalinata e vani dotati di pavimenti riscaldati; le ricche decorazioni pavimentali e parietali tradiscono una committenza elevata. Al di fuori dei centri urbani, sono senz'altro le villae e gli edifici di carattere rurale le testimonianze più consistenti dell'attività edilizia nell'ambito privato della Sardegna romana. Nel territorio di Olbia, presso la località di S'Imbalconadu, è stata scavata una fattoria datata tra la metà del II e la metà del I secolo a.C.: strutturata su più livelli, presenta ambienti dedicati alla produzione del vino e altri destinati alla panificazione, articolati attorno a una vasta corte (fig. 81). Lungo la costa settentrionale si situa, invece, la villa di Santa Filitica a Sorso, della quale è nota una porzione della parte residenziale del complesso, corrispondente all'impianto termale pavimentato a~mosaico (figg. 108-113 ); risalente all'età imperiale, subisce una fase di crollo e abbandono tra la fine del V e il VI secolo d.C., dopo la quale diviene sede di un'attività produttiva riconducibile alla metallurgia del ferro. Più a sud, sulla baia di Porto Conte (Alghero), il Nymphaeus Portus di Tolomeo, sorge alla metà del I secolo d.C. la villa marittima di Sant'lmbenia, la quale è attribuita

riprese tra il III e il V secolo d.C. (figg. 100-101). Un'ultima nota va riservata alla mansio di San Cromazio a Villaspeciosa, con un impianto originario del I secolo d.C. e numerosi interventi sino al VI secolo (figg. 20-21) : alla prima fase è riferibile una struttura abitativa, con una corte munita di un pozzo, attorno alla quale si sviluppa una serie di vani, e con annessa una piccola fullonica; poco lontano sono stati individuati ambienti basolati adibiti a stalla, vani di rappresentanza e di ristoro; la mansio vera e propria presenta invece un grande spazio porticato, destinato ai viandanti e allo stoccaggio delle loro merci, mentre gli animali erano ospitati in un contiguo cortile scoperto dotato di abbeveratoio. Solo nel III secolo d.C. parte dell'abitato più antico fu obliterato da un piccolo impianto termale.

Nota bibliografica

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100-101. Marrubiu, località Muru de Bangius, praetorium cum balineo. Il complesso, ritenuto possibile sede temporanea dei governatori della provincia nei trasferimenti tra Cara/es e Forum Traiani, fu probabilmente edificato nel corso del Il secolo d.C. e ristrutturato nel secolo successivo, sino all'abbandono che ebbe luogo nel VI secolo d.C.

a un'altissima committenza, se non forse a una proprietà imperiale: oggi parzialmente sommersa, ha restituito un settore residenziale dotato di impianto termale, con ricchi mosaici e pitture parietali, e una serie di vani adibiti allo stoccaggio delle messi prodotte nel territorio retrostante. Una villa maritima è anche quella di Capo Frasca, all'estremità occidentale del Golfo di Oristano, il cui impianto originario risale alla seconda metà del II secolo d.C. e presenta successive ristrutturazioni; anche qui sono stati scavati ambienti termali mosaicati e si è individuata una serie di strutture attualmente sommerse, forse da ricondurre a un impianto per la piscicoltura. Nell'entroterra di Carbonia è invece la villa di Bacu Abis, scavata da F. Vivanet alla fine dell'Ottocento, con una pars dominica e una pars rustica, attrezzata con dalia e vasche; l'edificio è stato letto in alternativa come praetorium, ossia sede dei procuratori e dei prefetti della provincia. Tale funzione è attribuita anche all'edificio di Muru de Bangius, presso Marrubiu, pretorio con annessi bagni termali e altri locali residenziali e di servizio, risalente al II secolo d.C. e ristrutturato a più

Sintesi di carattere generale dedicate all'edilizia domestica in Sardegna si devono ad A.NGIOLILLO 1987a, pp. 87-93; ANGIOLILLO 2008, pp. 45 -52; GHIOTIO 2004, pp.157-178; GHIOTIO 2016, pp. 111-112, 118, con approfondimenti e bibliografia di riferimento su molti dei complessi citati in questa sede. Sui quartieri abitativi di Tharros si veda ora, con ampia bibliografia di riferimento, la sintesi di MARANo 2020, frutto di un riesame combinato dei dati editi e inediti degli scavi condotti nel secolo scorso da G. Pesce (PESCE 1966; cfr. FALCHI 1991, pp. 30-32, con un tentativo di ripartizione tipologica degli edifici privati tharrensi) . Per una silloge bibliografica sull'edilizia domestica di Nora, si veda infra il contributo di J. Bonetto. Per i riferimenti relativi agli scavi urbani di Cagliari, si rinvia in generale a COLAVITII 2003; sulla casa di Campo Scipione a Cagliari si veda in particolare LILLIU 1947, pp. 253-254 (cfr. TRONCHETTI 1990a, p. 14, per le precisazioni sulla cronologia), mentre lo scavo della casa "degli emblemi punici" è edito in PUGLISI 1943. Una sintesi sulle evidenze relative agli scavi condotti da P. Bartoloni, P. Bernardini e C. Tronchetti presso l'abitato romano di Su Narboni a Sant'Antioco, si ha in MARCONI 200506, pp. 178-181. Per il complesso abitativo noto come Villa di Tigellio, si rimanda ora a PIETRA 2018, con ampia bibliografia di riferimento e infra il contributo di M.A. Ibba. Solo parzialmente edite sono le domus di Porto Torres: alla casa dell'Orfeo è dedicato il volumetto a più mani ORFEO 2011, mentre per la Domus dei mosaici si rimanda a BoNINU, PANDOLFI 2012, pp. 454-457; gli apparati musivi dei due complessi sono approfonditi in A.NGIOLILLO 2017. Alle ville extraurbane della Sardegna romana è dedicata la monografia di Cossu, Nrnoou 1998. In particolare: alla fattoria di S'Imbalconadu sono dedicati i lavori di SANCIU 1997; SANCIU 1998; sulla villa di Santa Filitica a Sorso, si veda ROVINA 2003 e infra il contributo di E. Garau; per la villa di Sant'Imbenia, in particolare TEATINI 1993; per la villa di S'Angiarxia presso Capo Frasca, da ultimo ZUCCA 1987, pp. 119-120; per la mansio di San Cromazio a Villaspeciosa, PIANU 2006 e infra il contributo di C. Parodo.

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approfondimenti I quartieri abitativi di Nora Jacopo Sonetto

Nora è il centro urbano della Sardegna che ha restituito il più alto numero di edifici privati di età romana. Gli scavi condotti da G. Pesce negli anni Cinquanta del secolo scorso e le recenti attività della Missione interuniversitaria hanno riportato alla luce oltre venti abitazioni private genericamente riferibili al periodo che va dal II secolo a.C. fino al V secolo d.C. Tale ricco panorama rende la città del capo di Pula il caso di studio più rappresentativo per comprendere quali fossero in questo periodo le forme dell'abitare nell'Isola mediterranea e quali le sue particolarità rispetto alle tradizioni italiche e di altre regioni del mondo antico. A fronte dell'ampio panorama di abitazioni indagate e visibili bisogna però notare che le informazioni disponibili sono di diseguale

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qualità, perché derivate perlopiù da scavi parziali e inediti. Il quadro delle architetture private è inoltre frammentario e spesso complesso da interpretare per il sovrapporsi fisico di altri edifici del continuum urbano. Un altro aspetto che limita la lettura è la carenza di dati sulla cronologia dei resti delle domus, che rende complesso tracciare una storia evolutiva del vivere nella città e di inserire le abitazioni nelle dinamiche urbane e sociali dèl lungo periodo di vita dell'insediamento. Nonostante queste limitazioni, che gli scavi in corso stanno progressivamente riducendo, il panorama di testimonianze si presenta articolato nelle forme architettoniche e diffuso su tutto lo spazio della penisola dove ha sede la città antica.

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102. Nora, il cosiddetto Ninfeo. Si trova nel quartiere centrale della città, ed è probabilmente l'accesso a una lussuosa dimora. 103. Nora, veduta di un settore del quartiere centrale della città . Si nota la successione tra i pavimenti in cementizio a inserti lapidei delle domus tardo-repubblicane e le più tarde case imperiali.

L'area orientale e il litorale sud-orientale L'area dei maggiori complessi pubblici (Foro, Tempio romano, Teatro) non registra la presenza di case; tuttavia a partire dal limite ovest della piazza pubblica una serie di abitazioni si dispone lungo la linea della costa attuale, molto arretrata per l'innalzamento del livello marino. Qui si trova una delle più imponenti domus (Casa del Viridarium), articolata attorno a una corte colonnata che circonda un giardino dotato di canaletta. Gli ambienti sono posti a ovest di questo spazio verde, ma non se ne intuiscono le funzioni. Da qui si allineano per alcune centinaia di metri almeno altre cinque abitazioni, venute nel tempo a sovrapporsi su precedenti strutture di età punica e sulle tracce di una frequentazione ancora più antica. Per queste i recenti scavi hanno individuato una fase di età tardo-repubblicana (II-I sec. a.C.) e una fase di rinnovamento edilizio di prima età imperiale (I-II sec. d.C.). Le singole domus, tra cui si apre una piazzetta dotata di ·fontana, sono accessibili dalla strada lastricata che unisce il Teatro al santuario di Esculapio/Eshmun ed erano organizzate su terrazze aperte

scenograficamente verso il mare. L'articolazione delle singole case è difficile da ricostruire a causa della pesante erosione marina che ne ha demolito ampie porzioni verso sud.

Il quartiere centrale Il quartiere centrale è in larga parte occupato dalle Terme costruite all'inizio del III secolo d.C. Al di sotto di queste sono stati individuati i lacerti difficilmente ricomponibili di varie abitazioni, databili già dalla tarda età repubblicana e poi vissute in continuità nella prima fase imperiale romana. In quest'area, particolarmente tra le Terme e il Teatro, già G. Pesce aveva riconosciuto quella che sembra la più antica abitazione norense con caratteri romani, identificabili nelle pavimentazioni in cementizio a inserti lapidei e soprattutto nello spazio centrale con portico a quattro colonne. Realizzata probabilmente nella prima parte del I secolo a.C., questa casa ripropone la diffusa architettura dell'atrio/ corte colonnata, che troverà fortuna nella stessa Nora pure nelle fasi successive. La stessa area della città ha restituito anche tracce importanti di altre più tarde domus (III sec. d.C.) con pavimenti

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irregolàte,die non permette di *iimre~corst interni, divisione di fundoni e funitì di

Si tratta di un edificio che vede il succedersi di almeno due fasi edilizie; nella seconda più fastosa articolazione prevedeva un impluvium centrale pavimentato in lastre marmoree, limitato da muri a nicchie intonacate e circondato da un portico (peristilio) a pilastri e colonne, pavimentato in mosaici geometrici · policromi. Già interpretato come struttura legata alla gestione spettacolare dell'acqua, viene recentemente visto come possibile "vestibolo di rappresentanza" di una lussuosa domus, che tuttavia al momento non è identificata o visibile.

La "kasbah" Oltre la strada che unisce il Teatro alla costa occidentale si trova un altro grande quartiere di abitazioni, noto con il termine "kasbah': introdotto da G. Pesce per indicare un'area dalla difficile lettura e dalla complessa articolazione. Si tratta di un vero e proprio isolato racchiuso dalla grande strada lastricata e da tre vicoli. La leggibilità degli edifici è molto modesta, ma sicuramente vi è presente una serie di residenze private, combinate con botteghe e spazi produttivi, sviluppate lungo il piede del versante meridionale della collina di Tanit. Questa disposizione determina un assetto su più livelli, a terrazze, in cui si riconoscono in forma ipotetica almeno tre nuclei edilizi dall'assetto

104. Nora, veduta d'insieme del quartiere di case tardoantiche nell'area centrale della città.

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proprietà. Si tratta.di abitazioni piuttosto modeste sul piano edilizio e architettonico connotate da pavimenti in cementizio e da cinque cisterne che garantivano la riserva idrica alle abitazioni. Da notare che questi edifici potevano disporre di un vantaggio essenziale proprio grazie alla vicinanza con una grande riserva d'acqua (quasi un castellum aquae) e a una fontana pubblica che si trovavano all'estremità occidentale dello stesso quartiere. Poco più a ovest, oltre un vicolo, altre abitazioni occupavano la pendice occidentale della collina ed erano inserite in un altro isolato delimitato dalla strada lastricata diretta verso il centro della penisola e da un vicolo minore. Anche in questo caso la disposizione su pendio determinava un assetto a più livelli, denotato anche da una scala che conduceva a piani superiori. Queste abitazioni sono state paragonate alle ricche domus su più piani dell'emporio ellenisticoromano di Delo per il pronunciato sviluppo in verticale su più piani, che le portava a dominare il quartiere commerciale e portuale della città. Vi si notano almeno due abitazioni. La prima è rivolta verso la piazzetta della fontana pubblica ed è dotata di sofisticati sistemi di gestione delle acque e di pavimenti in cementizio; mentre la seconda è spostata più a nord-ovest e vi troviamo l'atrio/corte con quattro colonne che doveva costituire il nucleo centrale dell'abitazione, pure sviluppata su più piani.

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105. Nora, Casa dell'atrio tetrastilo. Situata nel settore occidentale della città , ha conservato buona parte dei suoi ricchi pavimenti musivi geometrici policromi. Nelle doppie pagine seguenti:

106. Ricostruzione virtuale della corte centrale della Casa dell'atrio tetrastilo a Nora (IKON , Gorizia e Università di Padova). 107. Ricostruzione virtuale del triclinio della Casa dell'atrio tetrastilo a Nora (IKON, Gorizia e Università di Padova).

Il quartiere settentrionale Alla documentazione relativa all'area centrale dell'abitato si sono recentemente aggiunte importanti informazioni grazie agli scavi condotti dall'Università di Cagliari lungo la strada che dal settore occidentale del centro conduceva verso l'entroterra. Qui le ricerche (in corso) hanno riportato alla luce tracce di altri edifici per cui è possibile ipotizzare una funzione abitativa, sebbene l'articolazione spaziale e funzionale non sia ancora del tutto definita. In due distinte aree, separate da un vicolo, si giustappongono una serie di ambienti posti a quote diverse per seguire l'andamento del pendio. Il quartiere occidentale Anche nel quartiere occidentale rivolto verso l'area del porto e occupato per la maggior parte dal macellum/horreum erano presenti alcune abitazioni, indagate dall'Università di Pisa e di Genova. Con certezza una domus di alto livello occupava l'angolo sud-orientale dell'isolato (Domus del quadrivium ); anche in questo caso

sembra certo che almeno nella sua fase iniziale essa prevedesse un atrio colonnato come fulcro aperto sulla via. Altri ambienti e strutture per la conservazione dell'acqua completavano l'abitazione disponendosi lungo la strada che conduce verso il centro della penisola. Poco a nord un altro edificio domestico si allineava sulla fronte della strada diretta verso l'entroterra. Anche in questo caso il fronte strada è occupato da un vano interpretato come bottega, mentre alle sue spalle si trovano pochi vani concentrati attorno alla stanza principale, forse aperta su un cortile. Pure qui sembra vi fosse un secondo piano. Nello stesso isolato, lungo la via parallela al litorale occidentale ("via del porto") sono state messe in luce, negli anni Novanta del secolo scorso, alcune case di modesto livello caratterizzate da impianto modulare e semplice che prevedeva una bottega con singolo o doppio spazio residenziale posteriore. Una terza casa-bottega è pure articolata in una bottega sul fronte strada e in un vano retrostante, ma vede aggiungersi altri spazi posteriori

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stmttuìae in akime funzioni{~ a(q\Ul e luce, convergenza dei percorsi). Attorno a questa èòrte/atrio si aprivano le stanze di

ambiente coperto nella zona più lontana dal fronte strada; questi spazi accoglievano una grande cisterna poi in parte riutilizzata come cantina nella fase medio-imperiale. Altre abitazioni legate alle strutture commerciali si trovavano probabilmente al secondo piano del grande magazzino (macellum/horreum) completato tra III e IV secolo d.C.; secondo alcune ricostruzioni, il secondo piano dell'area adibita a mercato ospitava le abitazioni dei commercianti che utilizzavano la struttura. Di queste case non vi è però traccia archeologica.

Il quartiere sud-occidentale L'area dove è più fitta la presenza di residenze private è quella del settore sud-occidentale della penisola di Nora, indagata dall'Università di Milano. In quest'area discosta dal nucleo più antico della città si viene a costituire in età imperiale un piccolo quartiere organicamente articolato attorno a una piazza, posta in posizione dominante tra il massimo santuario cittadino (di Esculapio) e la zona portuale. È probabilmente lo specchio di un ceto sociale di medio e alto livello, che nel momento di massima crescita economica riorganizzò un'area distinta da quella centrale dell'insediamento, dominata da costruzioni pubbliche e difficile da aggiornare sia per fisiologica inerzia architettonico-urbanistica sia forse anche per consolidati assetti di proprietà duri da sradicare. Spicca in questo quartiere la Casa dell'atrio tetrastilo, nota per le quattro colonne rialzate dopo lo scavo degli anni Cinquanta (figg. 97, 105-107). Questa domus presenta un'articolazione pressoché completa per un'estensione di circa 900 mq e una decorazione molto ricca. L'ingresso avveniva da una piazzetta e da un portico e conduceva direttamente al centro della casa, costituito da una corte a quattro colonne con impluvio centrale e pozzo per la raccolta dell'acqua. Questo spazio era il nucleo centripeto e centrifugo dell'abitazione e, sebbene non sia possibile instaurare paralleli con lo schema delle "case ad atrio" italiche, sicuramente l'assetto ben diffuso a Nora riprendeva il modello nella

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rappresentanza, come l'ambiente conviviale con mosaico figùrato (Nereide su mostro marino), runico del panorama urbano, e altri tre ambienti con tessellato a disegno geometrico. Come in diverse altre residenze della città la Casa dell'atrio tetrastilo rivolgeva attenzione al rapporto scenografico con l'ambiente e venne dotata di una lunga terrazza affacciata sul bacino portuale occidentale, ora solo in parte conservata. A sud della Casa dell'atrio tetrastilo si trovano almeno altre due abitazioni: la prima e più orientale (Casa del Signinum) è conservata solo in parte ed era dotata di pavimenti in cementizio a base fittile che suggeriscono una datazione piuttosto antica, mentre la seconda (Casa del Thermopolium) è dotata difauces e corte centrale che è pavimentata in cementizio e risulta dotata di impluvium che alimentava un pozzo-cisterna. Botteghe affiancavano il passaggio di ingresso, una delle quali collegata all'abitazione e l'altra dotata di bancone assumendo le funzioni di thermopolium. A nord-ovest della Casa dell'atrio tetrastilo si trova una terza residenza (Casa del Direttore Tronchetti) che richiama il modello illustrato per le prime due. Per questa lo scavo recente ha documentato una prima fase riferibile alla seconda metà del I secolo d.C., cui vanno collegati ricchi apparati decorativi (cornici in stucco e affreschi figurati); successivamente la corte viene dotata di quattro colonne, di impluvio e di una cisterna da cui attingere l'acqua, mentre una nuova ristrutturazione dell'inizio del III secolo d.C. vede l'eliminazione delle parti coperte della corte, e il rifacimento di molti pavimenti. Anche in questo caso la residenza era accessibile sia dalla piazzetta sia dalla riva marittima. La decorazione ad affresco denota l'alto livello socio-economico dei residenti di questa casa, proprio di tutte le abitazioni di questo quartiere. Anche in questo caso troviamo botteghe ai lati delle f auces. Si tratta di motivo ricorrente in questa zona, così da far immaginare un quadro di committenti e fruitori delle residenze legati alla vivacità mercantile che costituiva il tratto dominante della fase medio-imperiale dell'insediamento. Almeno un'altra casa (Casa del pozzo antico) era posta tra la Casa del Direttore Tronchetti e le Terme a Mare ( a ridosso del cosiddetto "Pozzo nuragico"). In corso di scavo, non ne

è possibile ricostruire fartkolàziòne planimetrica, ma sembra una delle residtriu riferibili alle fasi pre-sevmane (I-Il sec. d.C.), poiché pare defunzionàli7.zata dalla costruzione della Casa del Direttore Tronchetti e dalla costruzione delle Terme a Mare, anche attraverso la trasformazione di uno dei suoi vani in calcare per la produzione della calce. Aspetti generali Pur da uno sguardo generale e sommario fin qui offerto sulle forme dell'abitare a Nora in età romana emerge qualche aspetto caratterizzante che può essere sottolineato. In primo luogo si nota con evidenza una capillare e ubiquitaria diffusione delle residenze private nello spazio urbano fino a ora riportato in luce. Certamente le domus realizzate dal II secolo a.C. in poi mostrano alcuni richiami alle tradizioni italiche, evidenti soprattutto negli spazi centrali organizzati in forma di corti/atri tetrastili (definiti anche "compluvia su 4 colonne") che, pur non inseriti in un'articolazione funzionale e ideologica della tipica "casa ad atrio" italica, ne ricordano l'assetto e trovano riscontri in altri centri sardi e mediterranei. Un'altra chiara eco di scenari mediterranei italici e orientali appare l'attenzione verso l'apertura scenografica al contesto naturale, seguendo la tendenza tardo-ellenistica di articolare gli spazi domestici su contesti acclivi e su più livelli per arricchire le vedute di paesaggio e aumentare le superfici d'uso. L'esistenza di questi e altri tratti ricorrenti non limita però la vasta gamma delle soluzioni architettoniche adottate in città per le residenze private, che appaiono molto variegate sia per adeguarsi a situazioni morfologiche diverse sia anche per assecondare le esigenze di committenti di differente spessore sociale ed economico. Da questo punto di vista si può notare che una parte di quanti risiedevano in città disponeva di grande attenzione per le migliori soluzioni architettonico-decorative e buone possibilità economiche di realizzarle, come dimostrano i raffinati aettagli nella decorazione architettonica, nei mosaici e nelle pitture parietali. Si tratta quasi certamente del riflesso di una middle class di un centro che se non può essere paragonato alle grandi metropoli mediterranee del periodo, poteva peraltro vantare solide basi economiche derivate dalla produzione agricola di una fertile pianura e da ampi commerci facilitati dalla posizione geografica di prim'ordine. A una connotazione

mercantile:di1mooa:parte dei residènti iJ.l città: senibtano rimàndarele ~ t i preseme di spazi commerdali a ridosso e in diretta

comunicazione con le case. ntenore medio-alto della vita in città e il benessere diffuso, in relazione agli standard dell'epoca, emerge anche dalla documentata fitta presenza di apparati per l'approvvigionamento e la conservazione dell'acqua, che dovevano garantire piena disponibilità della basilare risorsa a tutte le domus in tutte le stagioni dell'anno, anche prima della costruzione dell'acquedotto.

Le evoluzioni tardo-antiche A completamento di questo panorama riferibile genericamente alla fase alto e medio-imperiale, vanno infine citati i recenti studi che hanno permesso di comprendere anche alcuni aspetti dell'edilizia domestica nelle ultime fasi di vita della città, particolarmente nel corso del V secolo d.C. I dati più chiari emergono dallo studio del quartiere centrale, dove la trasformazione delle domus imperiali vede una commistione tra attività produttive e funzioni abitative che ricorre con frequenza in molte abitazioni del Mediterraneo tardo-antico. Una di queste abitazioni, aperta a sud sulla strada che dal Teatro conduce al santuario di Esculapio, prevedeva la presenza di una fornace, di torchi, di magazzini e forse di stalle attorno ad alcuni piccoli cortili, mentre una scala conduceva quasi certamente ai piani superiori dove trovava posto la specifica funzione residenziale.

Nota bibliografica Non è a oggi disponibile un contributo che prenda in esame nel loro complesso le residenze private di Nora. L'unico contributo di visione allargata è BEJOR 2016, che dedica attenzione agli impluvia a quattro colonne, tipologia diffusa nella città. Sulle abitazioni dell'area sud-occidentale si veda un primo importante contributo di NOVELLO 2001. Inoltre sulla stessa area sono decisivi i recenti contributi dei ricercatori dell'Università di Milano editi nei fascicoli 6, 7, 8 dei Quaderni Norensi (https://quaderninorensi.padovauniversitypress.it) e nel fascicolo 27 del periodico Lame. Per le abitazioni sottoposte al complesso delle Terme Centrali e presenti in questo quartiere: FRONTORI 2013; MIEDICO 2013; BEJOR 2012. Sul quartiere occidentale si vedano le sintesi di: GUALANDI, RlZZITELLI 2000; GIANNATIASIO 2013; FABIANI, GUALANDI 2016; GIANNATIASIO 2020. Alcuni temi specifici che riguardano l'intero panorama delle abitazioni norensi sono trattati in: CARRARO 2016 (numero abitanti) e CESPA2018 (cisterne). In generale sulle pavimentazioni della città è fondamentale ANGIOLILLO 1981; mentre per i cementizi, molto diffusi in tutte le residenze private della città: RrNALDI 2002.

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Il complesso archèologico di Santa Filitica, situato in agro di Sorso, sulla linea di costa

parte del settore residenziale della villa stessa, per alcuni dei quali non è chiara la destinazione

compresa tra Porto Torres e Castelsardo, è costituito dai resti di una villa imperiale e di due insediamenti rurali, rispettivamente di età vandalica e bizantina. La lunga occupazione del sito, tra il III (sebbene non manchino tracce di frequentazione almeno da età alto-imperiale) e il IX secolo d.C., è legata alla posizione privilegiata in un territorio caratterizzato da suoli fertili e dalla ricchezza di risorse marine e collegato alla direttrice viaria che metteva in comunicazione i centri di Turris Libisonis e Tibula. Della villa romana sono noti vari ambienti di un impianto termale (fig. 108), che facevano

funzionale a causa degli interventi edilizi e delle ristrutturazioni di età successiva. A partire da est si distingue un corridoio d'ingresso da cui si raggiungeva un vano con banchi/sedili in muratura disposti su due lati, forse identificabile come spogliatoio (apodyterium); a nord si apriva un ampio spazio quadrangolare con pavimento mosaicato, dal cui lato ovest, rivolto verso il mare, è accessibile, attraverso tre gradini-sedili, una vasca esagonale destinata ai bagni d'acqua fredda (frigidarium); un'altra vasca, riscaldata e oggi non visibile perché coperta, è posta sulla parte settentrionale della grande sala.

108. Sorso, Santa Filitica, veduta del complesso termale. 109. Sorso, Santa Filitica, veduta generale da nord.

A est si sviluppa un edificio a pianta cruciforme, con ambienti per bagni in acqua tiepida (tepidarium) e/o calda (calidarium), di cui si conserva una parte apprezzabile degli elevati, e con un possibile ingresso a nord. Dell'impianto di riscaldamento (ipocausto) sono visibili, in alcuni ambienti, le · intercapedini parietali e i pilastrini di mattoni (suspensurae) su cui poggiano i pavimenti, tra i quali circolava l'aria calda proveniente da vani di servizio in cui erano accesi i fuochi (praefurnia). Due vasche dotate di sediligradini erano destinate ai bagni, forse anche di vapore: l'una, absidata, a sud, l'altra nel vano orientale. Il complesso termale è realizzato prevalentemente con l'uso di materiale litico (arenaria, marna ecc.), riservando l'impiego di laterizi, prodotti con argille locali, per volte, archi, aperture, intercapedini parietali, suspensurae; con il cocciopesto si rivestivano

pareti - rifinite poi con intonaco - e pavimenti, entrambi decorati talvolta a mosaico. Un efficiente sistema idraulico, alimentato da una cisterna di raccolta dell'acqua, presumibilmente piovana (non essendo presenti fonti termali naturali), garantiva il rifornimento, la distribuzione e il deflusso dell'acqua dopo l'uso. Tale struttura era collocata a nord delle terme e a una quota più alta per favorirne l'approvvigionamento idrico attraverso un tubo di piombo ancora parzialmente visibile. L'acqua utilizzata confluiva per lo più nella latrina ubicata nella parte sud-occidentale dell'edificio termale per essere infine scaricata in mare tramite un canale. Oltre che per gli aspetti costruttivi e tecnici, il complesso termale di Santa Filitica costituisce una testimonianza significativa anche per l'apparato decorativo dei mosaici pavimentali, che doveva rispondere all'esigenza

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110-113. Mosaico pavimentale proveniente dalla grande sala dell'edificio termale di Santa Filitica, Sorso, Palazzo Baronale. Nel mosaico che decorava l'ingresso al disimpegno che immette agli ambienti riscaldati si riconoscono oggetti solitamente utilizzati nelle terme: ampolle, sandali e strigili (fig. 112); interessante anche il particolare raffigurante un cratere (vaso utilizzato per miscelare vino e acqua da servire nei banchetti) e una figura maschile, barbuta, con il capo coronato da un tralcio di foglie di vite , forse riferibile alla divinità del vino, Dioniso (fig. 113).

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di lusso e ricercatezza della committenza. Accanto alla rappresentazione di motivi geometrici spicca la ricchezza del pavimento della sala quadrangolare, in parte andato perso a causa di interventi clandestini, poi staccato e attualmente esposto all'interno del Palazzo Baronale di Sorso (figg. 110-113). Il mosaico, definito da un motivo a onde sul bordo esterno, è realizzato con tessere regolari di vari colori e si compone di due campi giustapposti. Il primo è costituito da esagoni incorniciati dal decoro a treccia nei quali sono raffigurati elementi vegetali e animali: fiori, frutta, ortaggi, diverse specie di pesci e molluschi, cesti di varia forma ricolmi di frutta o pesci che possono rimandare al tema delle offerte (xenia); si riconoscono inoltre un delfino che nuota tra le onde rappresentate a zig-zag e con linee di differenti tonalità e volatili; resta isolato un ritratto femminile (la proprietaria della villa?) purtroppo perduto. Questi motivi decorativi, presumibilmente legati alle risorse ambientali e naturali del territorio, alla ricchezza del mare e forse alle attività del proprietario, appaiono consoni a una sala di rappresentanza destinata all'accoglienza di ospiti. A ovest, nello spazio, meno esteso, antistante alla vasca esagonale, risaltano un cratere

alludere, forse, alla vocazione vitivinicola del territorio in cui è ubicata la villa. L'impianto termale si data tra la fine del III e gli inizi del N secolo d.C. sulla base della cronologia suggerita dal mosaico pavimentale sopraindicato; tuttavia, alla luce dei vari interventi edilizi che hanno interessato il complesso, non si esclude che la decorazione a mosaico sia riferibile a una fase di ristrutturazione, e non a quella iniziale della villa, quest'ultima suggerita dai materiali ceramici di 1-11 secolo d.C. provenienti da livelli di riutilizzo delle terme e dall'abbandono del villaggio bizantino. I dati finora noti consentono di affermare che per l'età romana ( e poi tardo-antica) il contesto di Santa Filitica costituisce un tassello importante per ricostruire il sistema insediativo e l'organizzazione economico-produttiva del territorio della Romània (attuale Romangia), nonché la rete di rapporti commerciali e culturali che legavano strettamente questa parte dell'isola alla colonia di Turris Libisonis e al Golfo dell' Asinara.

Nota bibliografica Riguardo alle testimonianze di età romana e alle diverse fasi di occupazione del sito di Santa Filitica: ROVINA, ET AL. 1999; R OVINA 2003; ROVINA 2007; GARAU, ET AL 2015. Il mosaico della grande sala è trattato in ANGIOLILLO 1987b. Per i motivi raffigurati sul pavimento mosaicato NOVELLO 2007.

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Unico esempio dell'edilizia privata di epoca romana dell'antica Carales giunto fino a noi è il complesso di domus situato nell'odierna Valle di Palabanda e conosciuto ai più con il nome di Villa di Tigellio. Il complesso era situato ai piedi del declivio che ospita l'anfiteatro e a poca distanza dall'area del Foro nel quale dovevano svolgersi le principali attività commerciali, politiche e religiose del centro urbano. Esso si inseriva, a partire almeno dal I secolo a.C., in un quartiere residenziale costituito da abitazioni signorili appartenenti certamente ai ceti agiati cittadini. Una testimonianza di questo è data dalla ricchezza dei rinvenimenti effettuati nella zona, a partire dal XVIII secolo, tra i quali emergevano due mosaici raffiguranti scene con Eracle e con Orfeo tra gli animali (figg. 124-126). Di essi, staccati per essere inviati in Spagna e a Torino, si conservano oggi, nel Museo di Antichità di Torino, solo la parte centrale del secondo con Orfeo che suona la lira e il disegno del pavimento completo realizzato da Domenico Colombina al momento della sua scoperta. Fu proprio a seguito del ritrovamento di questi mosaici che Giovanni Spano decise di intraprendere uno scavo archeologico per individuare l'area dove erano collocati. Un ulteriore impulso all'inizio delle indagini fu dato anche dalla pubblicazione nel 1863 da parte di Pietro Martini delle cosiddette Carte di Arborea, poi risultate false, nelle quali erano

114. Cagliari, Villa di Tigellio. Veduta generale del complesso archeologico. In primo piano è visibile un ambiente con pavimento in cementizio decorato con tessere bianche, pertinente alla cosiddetta "quarta domus". Individuata durante gli scavi degli anni Sessanta diretti da Gennaro Pesce, questa casa fu scavata solo in parte. Essa è costituita da alcuni ambienti posti a nord-est della Casa del Tablino dipinto, sulla quale sembrerebbe non presentare alcuna apertura.

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stati inseriti magistralmente alcuni manoscritti di un fantomatico scrittore di nome Sertonio, nei quali veniva raccontata la vita di antichi personaggi nati nell'Isola. Tra queste era narrata quella di un celebre musico nato a Nora e noto per la sua eccentricità, Tigellius, realmente vissuto nel I secolo a.C. e amico di Cesare e di Ottaviano, del quale scrissero anche Cicerone e Orazio. In queste Carte veniva indicata la localizzazione della lussuosa dimora che il cantante possedeva a Carales, vicino all'anfiteatro; tra le altre cose si forniva una dettagliata descrizione dei pavimenti musivi di due ambienti nei quali erano raffigurate le scene con Eracle e Orfeo. Di fatto, esse prendevano spunto dai rinvenimenti realmente effettuati, nel 1707 e nel 1762, nel quartiere e quindi ben note all'epoca della loro redazione. Gli scavi, iniziati nel 1876 da Giovanni Spano e proseguiti con lunghi periodi di sospensione fino agli anni Ottanta dello scorso secolo, hanno restituito un complesso residenziale inserito in una zona a impianto ortogonale, del quale le cosiddette Casa degli Stucchi e Casa del Tablino dipinto formano il nucleo principale. Il pendio del terreno sul quale si sviluppa e la presenza di una scala hanno fatto ipotizzare che fosse organizzato su più livelli, con gli ingressi, mai individuati, posti a una quota inferiore verso l'attuale corso Vittorio Emanuele. I nomi attribuiti a queste domus sono esplicativi dei rinvenimenti effettuati durante il loro scavo,

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modo~.nprimo stende l a ~ una do~ die aitvàìidosi un poco verso.di lui, p appiesta un largo piatto con la sì:nt$tta, mentre colla destra stringe un mestolo, per metà tuffato in una grande pentola. A questa pentola fanno da tripode alcune pietre. Vedesi indi altra donna,

115. Frammento cti cornice in stucco, proveniente dal complesso della Villa di Tigellio, Casa degli Stucchi, Cagliari , Università degli Studi, Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni Culturali. Organizzata su tre fasce, la decorazione è costituita in alto da un kyma ionico (un motivo "a ovoli" separati da una freccetta) e in basso da un kyma lesbio trilobato, molto semplificato (una serie di archetti con un elemento all'interno e un fiore nel punto di incontro tra loro). Nella fascia centrale è rappresentata una serie di aquile con ali spiegate e la testa rivolta a destra. S. Angiolillo, che lo data, sulla base di confronti , alla tarda età adrianea (primi decenni del Il sec. d.C.), lo rimanda per la presenza delle aquile ai rilievi trionfali che esaltavano la virtus dell'imperatore.

costituiti da frammenti di ricche decorazioni parietali e pavimentali. La Casa degli Stucchi, che fu la prima a essere indagata, è la più complessa nella planimetria, anche se non si è potuto scavarla in tutta la sua estensione, tanto da aver fatto ipotizzare che si trattasse di due case inizialmente distinte e poi riunite. Al momento dello scavo gli ambienti restituirono pavimenti mosaicati, uno dei quali, per quanto rovinato, conservava ancora le immagini di pesci, molluschi, uccelli marini e parte di una imbarcazione con un uomo a bordo. Ormai staccati dalle pareti e dai soffitti che avevano abbellito, si rinvennero numerosi frammenti di intonaci dipinti e di stucchi, molti dei quali conservanti tracce di rivestimento dorato, modellati a rappresentare colonne, capitelli, modanature, teste, figurine umane e animali, oltre a elementi vegetali (fig. 115). Di un ambiente, che conservava un buon elevato delle pareti ma che oggi non siamo in grado di identificare, l'archeologo Giuseppe Fiorelli ci ha lasciato la descrizione dell'affresco, in "vivi colori': con una scena di ambientazione campestre: «Verso un angolo è dipinto un campo di biade ed agricoltori a· capo scoperto, che con falci messorie tagliano al sommo le spighe, lasciando le stoppie alte sul campo. Tre altri agricoltori un poco distanti sono in atto di riposo, col capo coperto da petaso. Pare che alludano al riposarsi dalla prima operazione della mietitura, dal taglio cioè delle spighe, come si usa tuttodì in molte parti dell'isola. Uno di questi contadini è seduto su di un rialzo di pietra, e gli altri hanno le gambe incrociate al

che porta sull'omero un'anfora, e pare si avvicini a questi che si riposano. Vengono poi due carri a due ruote, pieni di biada, tirato ciascuno da due buoi, e la loro forma è assai somigliante ai carri odierni della Sardegna. Uno di questi carri è guidato da un contadino. Dopo un tratto, ove la pittura è perduta, comparisce un contadino con corbola (corbis messoria) sull'omero, volgendo i passi verso i carri. Finalmente è un gruppo di altri tre, intenti a misurare il grano sul modio di forma rettangolare. Due di essi versano con una corbola le spighe, mentre il terzo col rasiere (radula) ne toglie il di più. Quivi accanto è altra persona con una verga, quasi in atto di sorvegliare alla misura». A fianco della Casa degli Stucchi, a sud-est, sorge la Casa del Tablino dipinto, che deve il suo nome alle pareti affrescate dell'ambiente adiacente all'atrio la cui decorazione, che si conservava nella parte inferiore, imitava un rivestimento in marmo policromo. Caratteristica comune alle due domus è la presenza di un ambiente con quattro colonne, l'atrio, sul quale si aprivano vari ambienti tra cui il tablino. Un'ultima domus è stata ipotizzata a monte di quella degli Stucchi alla quale si appoggiava pur rimanendone separata. Di essa, non essendo stata scavata del tutto, si conoscono solo alcuni vani e resti di colonne. All'isolato composto da queste case se ne affianca un altro, separato da un vicolo che corre a lato della Casa del Tablino dipinto, costituito da un'altra struttura identificata come edificio termale. Questa interpretazione è motivata dalla presenza di un ambiente, presumibilmente il calidarium, rivestito nella parte sottostante il pavimento con lastre di terracotta sulle quali, al momento del rinvenimento, erano sistemate le suspensurae, cioè i pilastrini posti per far passare l'aria calda, oggi andate perdute. I dati a disposizione al momento non permettono di chiarire se si trattasse di un edificio termale a uso pubblico o privato.

Nota bibliografica Per saperne di più: FIORELLI 1877; ANGIOLILLO, ET AL. 1981; VILLA DI nGELLIO 1981; .ANGIOLILLO, ET AL. 1982; .ANGIOLILLO 1987a, pp. 90-92; SALVI 1993; MALLOCCI 2003; GHIOTTO 2004, pp. 165-168; I BBA 2009; PIETRA 2018.

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Eco indiscussa dei profondi mutamenti storici,

116. Ricomposizione di cupola decorata della villa romana di Sant'lmbenia, Alghero, Museo Archeologico della Città.

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politici, sociali e culturali che interessarono la Sardegna in età romana sono le testimonianze pittoriche a oggi rinvenute nell'Isola. Tra le aree urbane, la città di Nora ha restituito · il più consistente corpus di attestazioni pittoriche in diversi settori dell'abitato, riflesso dello sviluppo urbano e dei cambiamenti socioculturali che interessarono la città in età romana. Contestualmente al grande fervore edilizio che si registra a partire dall'età imperiale e che si potenziò, con intense opere di ristrutturazione e monumentalizzazione, dall'età severiana, Nora raggiunge l'apice anche della sua espressione e vivacità pittorica, come ci testimoniano alcuni interessanti contesti. Tra questi, la domus medio imperiale dell'area AB, lungo il quartiere del porto, reca un apparato decorativo con sistema lineare a pannelli e pregevoli cornici in stucco, attribuito a una classe sociale media agiata che, seppur con una certa povertà lessicale, proprio mediante le

decorazioni pittoriche voleva autorappresentarsi in un momento di ascesa sociale e grande fermento edilizio e artistico in città. Tali soluzioni decorative, datate a cavallo tra il II e il III secolo d.C., riflettono una più diffusa semplificazione di moduli consueti della pittura post pompeiana, tipicamente attestata in contesti a carattere produttivo-commerciale; il gusto locale risulta percepibile nella scelta delle cromie e nella semplificazione di tecniche e schemi che attingono a repertori ampiamente documentati nel Mediterraneo. Altri puntuali indicatori dell'utilizzo di questi repertori in città sono le decorazioni della cella del cosiddetto Tempio romano, nella sua fase del I secolo d.C., e quelle rinvenute nell'area retrostante le Piccole Terme (fine III sec. d.C.), che sembrano suggerire la presenza di un gusto decorativo ben definito nella città antica, da attribuire probabilmente a una stessa bottega specializzata. Ben più evidente risulta la funzione della pittura quale strumento di affermazione sociale in altri edifici di prestigio di Nora, dai quali emergono varietà di repertori e di schemi compositivi, secondo sistemi decorativi non ascrivibili a un unico orizzonte. È il caso delle ricche abitazioni del quartiere centrale, con raffinate e minuziose decorazioni documentate per alcuni nuclei residenziali, come la Casa del Pozzo Antico, nella quale spicca la rappresentazione di un "Lare danzante" al di sopra di un piedistallo in marmo giallo antico. Presso le Terme Centrali, invece, si conservano in situ porzioni della decorazione parietale del frigidarium, recanti motivi geometrici a imitazione dell'opus sectile. A completare il quadro produttivo della città sono infine le straordinarie stratigrafie di crollo documentate presso il cosiddetto Edificio a est del Foro, dalle cui ricche e articolate pitture emergono l'elevato tenore ornamentale e l'accentuato decorativismo, che dovettero caratterizzare il gusto artistico della città sul finire del III secolo; è evidente come tale gusto aderisse a modelli circolanti nella penisola, adattati e rielaborati dalle maestranze operanti a Nora secondo esigenze, gusti e competenze prettamente locali. Tra queste, spiccano rappresentazioni di grandi pavoni entro timpani inseriti in un'ambientazione

117. Plaques rappresentanti un pavone stante inserito in un'ambientazione vegetale entro timpano, Nora, edificio a est del Foro, vano VIII, parete ovest (ricomposizione dell'autrice). 118. Putti su fondo azzurro entro un quadretto delimitato da una banda rossobordeaux, Nora, edificio a est del Foro, vano IX. 119. Parte destra del volto di una figura femminile, da identificarsi verosimilmente con la personificazione dell'Estate, proveniente da Cagliari, Villa di Tigellio, Casa degli Stucchi, Cagliari, Università degli Studi, Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni Culturali.

vegetale (fig. 117), una vivace e raffinata decorazione a modulo ripetuto, scandita da elementi fitomorfi e figurati e un quadretto con rappresentazione di amorini alati, al di sopra di grandi e articolate decorazioni a imitazione di lastre marmoree (fig. 118). A integrare il panorama pittorico dell'Isola sono altri interessanti rinvenimenti, come quelli nella vicina Cagliari presso la Casa degli Stucchi nell'area della cosiddetta Villa di Tigellio e nel centro urbano, con apparati pittorici raffinati e di elevata perizia tecnica riconducibili a maestranze specializzate di provenienza italica (fig. 119); spostandosi più a nord, infirie, si segnalano le eccezionali decorazioni della villa romana di Sant'Imbenia, oggi parzialmente ammirabili presso il Museo Archeologico di Alghero, tra le quali spicca un soffitto articolato in cupole emisferiche con base piana ottagonale (fig. 116) e, infine, alcuni nuovi nuclei·pittorici provenienti dal centro urbano di Olbia, con rappresentazioni di motivi figurati di grandi dimensioni all'interno di un'ambientazione vegetale.

Nota bibliografica Sulla produzione pittorica della Sardegna romana si menziona il contributo ANGIOLILLO 1987a, pp. 195-199; a oggi non è ancora stata prodotta un'edizione completa e aggiornata ai nuovi contesti di ricerca. Per quanto riguarda Nora, a partire dagli anni Novanta sono stati realizzati contributi con un approccio storico-artistico e iconografico (per i riferimenti bibliografici essenziali si vedano: GHEDINI, SALVADOR! 1996; COLPO, SALVADOR! 2000; GHEDINI 2000; DONATI 2004; COLPO 2009; DONATI 2020; STELLA MOSIMANN 2021; si vedano inoltre i rapporti di scavo raccolti nella rivista Quaderni Norensi, disponibile in open access) così come, negli ultimi tempi, con una specifica attenzione all'aspetto tecnologico-produttivo attraverso il supporto scientifico delle analisi archeometriche (per le quali si vedano: ALINGHELLI, ET AL. 2009; COLPO 2014; STELLA MOSIMANN, SECCO c.s.). Per una panoramica sui nuovi contesti di ricerca si vedano i più recenti lavori in: STELLA MOSIMANN, ZARA 2019; STELLA MOSIMANN, ZARA 2020 (per l'edificio a est del Foro); FRONTORI, REA 2021 (per il quartiere centrale). Si vedano infine COSTANZI COBAU, ROVINA 2019 per la villa romana di Sant'Imbenia e COLOMBI 2020 per i più recenti rinvenimenti nel centro urbano di Olbia.

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120. Sant'Antioco, area del Cronicario, particolare di un pavimento in cocciopesto con inserzione di tessere lapidee formanti un motivo a greca e una figura di Tanit.

Sia l'edilizia privata che quella pubblica facevano largo uso di mosaici per la decorazione dei pavimenti e, talvolta, delle pareti. Durante il periodo repubblicano e per tutto il· I secolo dell'Impero le forme più diffuse di decorazione pavimentale, soprattutto nella Sardegna centro-meridionale, sono costituite da cocciopesti, talvolta con inserzione di tessere che formano motivi geometrici o simboli religiosi di tradizione preromana (fig. 120). A Cagliari si sono conservati vari esemplari di case così decorate - la cosiddetta Casa Lilliu, in via Brenta; la Casa degli Emblemi punici, sulle pendici del colle di Tuvixeddu; la Casa del Tablino dipinto e quella degli Stucchi, nell'area della Villa di Tigellio - e anche una fullonica, cioè una tintoria, che vede, inserita nel pavimento in cocciopesto, una fascia in tessere bianche e nere con raffigurazioni di timoni, ancore, bipenni e delfini, e un'iscrizione recante il nome del proprietario (fig. 29). Nel corso del II secolo d.C. il mosaico tessellato si afferma in modo quasi esclusivo, affiancato solo dall'opus sectile, una pavimentazione formata da lastre di marmi diversi e

diversamente colorati, generalmente usata negli edifici pubblici. Per il pregio del materiale impiegato, questi pavimenti sono stati molto spesso distrutti per recuperare il marmo: è il caso della cella del Tempio di Esculapio a Nora, che conserva solamente minime tracce delle lastre, mentre altri piccoli frammenti documentano l'originaria presenza di un rivestimento marmoreo anche alle pareti. E lo stesso destino ha subito l'opus sectile in marmo rosso dell'orchestra del teatro di Nora, ora massicciamente restaurato (fig. 34). Anche nell'architettura pubblica è comunque maggiormente usato il meno costoso mosaico a tessere in pietra, o più raramente in marmo. A Nora, tra lo scorcio del II secolo e almeno la metà del Ili, è possibile individuare una bottega musiva attiva soprattutto nei grandi edifici pubblici. È caratterizzata da un repertorio geometrico a cromia limitata al bianco-ocra-nero, dalla predilezione per schemi non attestati altrove con le stesse peculiarità e infine dall'uso di rielaborare composizioni note sì da farne spunto per creazioni nuove e originali. Sono riportabili a questa officina pavimenti della basilica nel Foro,

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121. Nora, Piccole Terme, mosaico dell'apodyterium, in bianco, nero e ocra. 122. Cagliari, particolare del mosaico delle terme in regione Bonaria , riquadro decorato da motivo floreale stilizzato, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

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del tempio situato tra il Foro e il teatro, di alcuni edifici termali (figg. 121, 141) e di domus. Più o meno contemporaneamente, a Cagliari, il pavimento di un ambiente delle terme extraurbane in regione Bonaria (fig.122) viene coperto da un intreccio multiplo policromo nel quale sono inseriti alternativamente riquadri decorati da motivi floreali e da scene di tiaso marino, con eroti su delfino, nereidi, tritoni. Mentre a Santa Filitica, a Sorso, il mosaico di un ambiente presumibilmente termale sottolinea la funzione del vano con motivi a questa legati: sandali infradito, strigili per detergersi, boccette per unguenti (fig. 112). Anche a Porto Torres i vari complessi termali, Palazzo di Re Barbaro e Terme Pallottino, sono interamente mosaicati con composizioni geometriche policrome (figg. 68, 76). Molto più semplice e lineare è la decorazione del pavimento del Tempio del Sardus Pater ad Antas: un campo bianco incorniciato da un bordo nero. Per quanto riguarda l'edilizia privata, a Nora la Casa dell'atrio tetrastilo riceve una ornamentazione musiva unica per ricchezza di colori, schemi e motivi decorativi, per l'accuratezza e il livello qualitativo, tanto da far pensare a una ricca committenza in grado di commissionare il lavoro a maestranze non locali bensì africane (figg. 97, 105, 123). Il cubicolo, la camera da letto, custodisce anche l'unico mosaico figurato conservato a Nora, un emblema con nereide su tritone. Unica nel panorama sardo è anche la decorazione di un vano della Casa degli Stucchi di Cagliari; è databile al III secolo d.C. e riunisce otto emblemata, quadretti in tessere minutissime raffiguranti nature morte, pesci, anatre. Sono più antichi di due secoli rispetto al pavimento e con molta probabilità furono eseguiti fuori della Sardegna e importati. Abitazioni con elaborata decorazione musiva sono state messe in luce anche a Porto Torres: sia la Domus dei mosaici che quella di Orfeo presentano raffinate composizioni geometriche accanto a mosaici figurati (figg. 76-77). Nella Domus dei mosaici riquadri con diverse raffigurazioni di pesci sono inseriti in un fitto intreccio policromo; la Domus di Orfeo, oltre

123. Nora, Casa dell 'atrio tetrastilo, particolare di uno dei pavimenti eseguiti da maestranze africane, come

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testimoniano la complessità di schemi , la raffinatezza , la qualità e la ricchezza cromatica e decorativa,

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di pesci ditttio tipo {liji.:12-75), conserva quadri mko1ogid: Orfeo èhè suona la lira davanti agli animali (fig. 78) e una originale riproduzione delle 'lre Grazie, purtroppo frammentaria. Di molti pavimenti non si è in grado di comprendere la destinazione delr edificio di provenienza: è il caso di un secondo mosaico con Orfeo tra gli animali (figg. 124-126), conservato a Torino, rinvenuto alla fine del '700 a Cagliari non lontano dall'area della cosiddetta Villa di Tigellio, insieme a un altro, andato perduto, con Ercole, o di due mosaici a soggetto marino in bianco e nero da Porto Torres (fig. 131), riportabili a una bottega locale per la presenza di varianti iconografiche del tutto inedite, come l'insolita raffigurazione di una foca e di un coccodrillo con la parte anteriore del corpo resa in modo realistico e quella posteriore caratterizzata da una lunga coda a volute con pinna caudale trifogliata, un tipo normalmente riservato agli esseri mitici, come i cavalli marini o i tritoni. A età tardo-antica è riferibile il grande mosaico di Villaspeciosa (figg. 127-130}, in un ambiente con molta probabilità destinato al culto cristiano. Articolato in una serie di pannelli, il mosaico combina motivi simbolici, allusivi alla ricchezza e alla felicità che attende il credente in Paradiso, come il ramo di miglio, il kantharos e l'edera, a raffinate composizioni geometriche delineate con elementi vegetali. Per questa caratteristica e per il tipo di composizioni e di motivi decorativi, il mosaico, inquadrabile nel IV secolo avanzato, mostra legami tanto stretti con il repertorio dell'Africa proconsolare da far supporre ancora una volta la presenza di manodopera africana. Lo stesso gusto per una interpretazione vegetale di composizioni geometriche ritorna in un interessante mosaico di Settimo San Pietro che ripropone un modello attestato a Cartagine e a Maiorca; al momento è impossibile comprendere la destinazione dell'edificio cui appartiene.

Nota bibliografica Per una panoramica generale sulla decorazione musiva si vedano ANGIOLILLO 1981, il catalogo di tutti i mosaici noti fino a quella data, e ANGIOLILLO 201 7, una sintesi aggiornata. Per singoli pavimenti o problematiche si vedano: ANGIOLILLO 1987b; ANGIOLILLO 1999; RINALDI 2002; ANGIOLILLO 2011; ANGIOLILLO, Bo INU, PANDOLFI 2016a; ANGIOL!LLO, BONINU, PANDOLFI 2016b.

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124-126. Mosaico di Orfeo, proveniente da Cagliari, Torino, MiC Musei Reali, Museo di Antichità. Il pavimento, rinvenuto intero, fu tagliato in pannelli prima della spedizione a Torino. Al centro , seduto, Orfeo suonava agli animali, tutti disposti lungo i lati del pavimento. Particolare della figura del cantore (fig. 126), del capriolo (fig. 124) e della parte anteriore di un cavallo in corsa (fig. 125).

Nella doppia pagina seguente:

127. San Cromazio, Villaspeciosa , veduta complessiva del pavimento. La parte centrale, eseguita in un momento successivo rispetto alla fascia a "U" circostante, probabilmente per un restauro , riprende motivi simbolici già presenti nel pavimento: il ramo di miglio, l'edera e il kantharos.

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128. San Cromazio, Villaspeciosa, pannello con embricatu ra di kantharoi ; negli spazi di risulta, edera e rami di miglio. 129. San Cromazio, Villaspeciosa , pannello con composizione di ottagoni tangenti che determinano stelle a quattro punte. Nella doppia pagina seguente:

130. San Cromazio, Villaspeciosa , particolare del pannello con cerchi tangenti delineati da tralci di acanto. 131. Particolare di un mosaico marino proveniente da Porto Torres, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna ". In alto a destra è visibile la parte anteriore della foca.

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132-133. Antefisse marmoree, provenienti dalle terme site nell'attuale via G.M . Angioy a Cagliari; sono attualmente custodite al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.

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Colonne con i capitelli e le basi erano presenti un po' dappertutto nelle città romane, nell'architettura pubblica e in quella privata, e la Sardegna non faceva eccezione, anche se pochissimi casi possono ancora documentare · la presenza della originaria decorazione architettonica. Le case sin dall'età repubblicana avevano al centro un atrio porticato: talvolta con due sole colonne, come a Cagliari nella Casa Lilliu di via Brenta e in quella degli Emblemi punici a Tuvixeddu, e poi con quattro, come nella Casa degli Stucchi e in quella del Tablino dipinto, sempre a Cagliari nell'area della cosiddetta Villa di Tigellio (fig. 27), in realtà un frammento di un elegante quartiere residenziale, tra la fine della Repubblica e gli inizi dell'Impero. La Casa degli Stucchi al momento dello scavo mostrava tracce consistenti della sua ricca decorazione pittorica, musiva e architettonica, ora quasi del tutto perduta (fig. 115). Dell'atrio tetrastilo restano due colonne con capitelli ionici in calcare rivestito di stucco, secondo una tecnica propria dell'età repubblicana che, oltre a garantire una migliore finitura, proteggeva la pietra sottostante. Nel tablino invece, l'ambiente più importante della casa, le pareti erano scandite da lesene, cornici, festoni e fregi figurati eseguiti direttamente in stucco; solo esigui frammenti ne restano a documentazione. A Nora nel quartiere a nord-ovest del teatro,

nonostante il degrado, è ancora riconosaòile una ampia domus signorile di età repubblicana i cui vani si aprono su un ambiente porticato centrale, con capitelli originali nei quali si combinano caratteri tipici dell'ordine dorico e del tuscanico. Il quartiere si apre poi sulla strada con un colonnato, come un porticato orna anche la facciata della più tarda Casa dell'atrio tetrastilo. Più numerose le attestazioni di elementi decorativi architettonici provenienti dall'edilizia pubblica. A Nora capitelli ionici della tarda età repubblicana, in arenaria rivestiti di stucco, sono stati rinvenuti nel complesso del Tempio di Esculapio, sulla Punta 'e su coloru, e nelle Terme a Mare. Capitelli ionici in marmo con collare di foglie, databili all'avanzato II secolo d.C., provengono dallo scavo di un edificio termale a Cagliari in via G.M. Angioy, insieme ad alcune antefisse ugualmente in marmo (figg. 132-133). E portici decorano spesso le vie e le piazze cittadine, in primo luogo i fori: se ne conservano testimonianze ancora a Nora nel Foro (fig. 39) e intorno al teatro, a Cagliari nell'area sottostante la chiesa di Sant'Eulalia (fig. 136), a Porto Torres nelle vie circostanti le Terme di Re Barbaro e nel peristilio Pallottino (fig. 67). Molto numerosi sono poi gli elementi giunti a noi fuori contesto, molto spesso reimpiegati in chiese medievali: le cattedrali di Santa Giusta e di Terralba, le basiliche di San Gavino a Porto Torres e di San Saturno a Cagliari, la chiesa di San Giuliano a Selargius contengono una gran parte dei capitelli della Sardegna romana. Altri sono esposti in strade o piazze, a Quartu Sant'Elena, Villasor, Decimoputzu; altri ancora sono di proprietà privata o sono entrati nelle collezioni archeologiche dei musei senza che ne fosse nota la provenienza: è il caso di un capitello e di un plinto in marmo bianco conservati nel museo comunale di Pula, datati, per confronto, tra il II e il I secolo a.C. e caratterizzati da una decorazione complessa e insolita che, nel capitello, combina tra loro elementi di ordine dorico e ionico. Nel patrimonio della Sardegna sono presenti gli ordini canonici dorico con echino ad arco di cerchio e abaco, ionico caratterizzato dalle

134. Capitello ionico in marmo, pnweniente dall'area di Turris Ubisonis, attualmente conservato al Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano di Porto Torres. 135. Capitello corinzio in marmo, proveniente dall'area di Turris Ubisonis, attualmente conservato al Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano di Porto Torres.

doppie volute (fig. 134) e corinzio a tronco di cono ricoperto da tralci di acanto (fig. 135), con la variante a foglie lisce, e il tipo composito, che combina elementi dello ionico e del corinzio. Accanto a questi, si è conservato anche un piccolo numero di capitelli figurati, reimpiegati rispettivamente nella cattedrale di San Gavino a Porto Torres, nella chiesa di San Giuliano a Selargius e nella piazza Azuni di Quartu Sant'Elena. In essi, tra il fogliame di un capitello corinzio è inserita una coppia di colombe o di delfini, o un serpente; in un caso di controversa cronologia, da Nora, al centro di un capitello ionico è una testa umana molto rovinata. Per la maggior parte i capitelli in marmo sono di importazione, opera di officine lapidarie specializzate della penisola, che distribuivano nell'Impero i loro prodotti in forma non

rifinita; quest'ultima lavorazione veniva eseguita dalle botteghe locali. Il rinvenimento di alcuni esemplari non finiti a Porto Torrese a Cagliari conferma questa modalità di lavorazione; l'esistenza in Sardegna di botteghe lapidarie è indiziata dalla produzione di elementi architettonici in pietra locale, soprattutto nei primi due secoli dell'Impero e poi nuovamente in epoca tarda, e da interventi di restauro su capitelli importati, come dimostra il rinvenimento di alcuni esemplari aggiustati. A quanto visto sinora si possono aggiungere basi, fusti di colonna e un esiguo numero di frammenti di cornici e di fregi, tra i quali uno in marmo, di età augustea, proveniente probabilmente dal teatro di Nora, decorato da girali di acanto e fiori in mezzo ai quali svolazzano uccellini.

Nota bibliografica Per una panoram ica generale sulla decorazione architettonica si veda NIEDDU 1992 e SALVI 201?b. Per singole problematiche: Nrnoou 1981-85; SALVI 1990-91; T EATINI 1999; MAMELI, NIEDDU 2003; MAMELI, NIEDDU 2005.

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136. Particolare del portico, area archeologica sotterranea di Sant'Eulalia, Cagliari.

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Strutture per il benessere e il tempo libero Ilaria Frontori

Tra i complessi di età romana dedicati al benessere e al tempo libero, tanto le terme quanto gli edifici per spettacoli rientrano tra i principali indicatori di un processo di romanizzazione ormai completo e si configurano come elementi chiave nella comprensione delle dinamiche di pianificazione urbanistica e di adeguamento monumentale delle città. Se le prime abbondano in tutta l'Isola, dalle fasce costiere ali' entroterra, i secondi sono rappresentati in misura assai minore, ma entrambe le categorie rispettano i canoni edilizi e architettonici tipici del resto dell'Impero. Gli edifici termali erano tra i centri nevralgici della vita pubblica e privata del cittadino romano, spazi d'incontro e di negoziazione,

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ma in prima istanza luoghi deputati al benessere e alla cura della persona. Variamente articolati sotto l'aspetto planimetrico e strutturale, sviluppavano i propri ambienti lungo percorsi di tipo assiale o circolare, garantendo così il passaggio tra i frigidaria , aule fredde dotate di piscine, e i calidaria, vani con vasche o bacini colmi di acqua calda, talvolta attraverso i tepidaria, locali a temperatura intermedia che mitigavano il brusco sbalzo termico. Gli edifici potevano inoltre comprendere latrinae, apodyteria (vani di ingresso o di passaggio con funzione di spogliatoi), laconica e sudationes (ambienti ad alta temperatura con clima secco), palaestrae per l'esercizio ginnico e basilicae thermarum (ampie aule dedicate

137. Nora, panoramica del quartiere centrale, dal teatro alle Terme a Mare (foto Archivio Nora, Università degli Studi di Milano). 138. Nora, Terme a Mare (foto Archivio Nora, Università degli Studi di Milano).

Nella doppia pagina seguente: 139. Ricostruzione del frigidarium delle Terme a Mare di Nora con le due vasche a immersione (IKON , Gorizia e Università di Padova).

all'intrattenimento, al passeggio e alla riunione). Per garantire il regolare funzionamento delle pratiche balneari, le terme erano servite da complessi sistemi di approvvigionamento, distribuzione e smaltimento idrico, solitamente collegati all'acquedotto e al sistema fognario cittadino. Erano anche supportate da efficienti impianti di riscaldamento, così da mantenere costante la temperatura dell'aria e dell'acqua. L'aria, riscaldata da appositi forni di norma collocati ai margini dell'edificio, circolava grazie al sistema dell'ipocausto nelle intercapedini ricavate sotto i pavimenti e tra le pareti, raggiungendo vani più lontani dalle zone di combustione grazie a una fitta rete di condotti. L'acqua, invece, smistata da tubature in terracotta e fistulae in piombo, poteva essere intiepidita da caldaie e da testudines, dispositivi in bronzo per la termoregolazione idrica a forma di "testuggini" dislocati nei pressi dei praefurnia e delle vasche. Tra le decine di edifici termali conservati in tutta la Sardegna, si enumerano monumentali

complessi urbani ed edifici extraurbani ben più modesti, spesso isolati, distribuiti lungo le principali arterie stradali o connessi a stationes e ville rustiche. Le terme cittadine, di natura pubblica o privata, rispondendo agli standard del resto del mondo romano, si caratterizzano per l'ampiezza degli spazi, per l'imponenza delle strutture e per i sontuosi apparati decorativi, che comprendono mosaici, sectilia e raffinate pitture parietali. Le strutture private, generalmente di dimensioni minori, presentano una maggiore variabilità degli schemi sia in termini strutturali sia negli elementi accessori. A Nora si contano a oggi quattro complessi: le Terme a Mare, le Terme Centrali e le Piccole Terme, che conservano perfettamente le forme della loro sistemazione di II-III secolo d.C., e le Terme di levante, leggermente più tarde, risalenti invece al IV secolo d.C. Le Terme a Mare (figg. 137-138), le più estese di tutta la Sardegna romana, sono articolate intorno a un frigidarium dotato di due vasche, pavimentato

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in opus sectile e coperto da una volta rivestita da un mosaico in pasta vitrea, affiancato a due calidaria e a un laconicum absidato. Nelle Terme Centrali, invece, l'ampio frigidarium è decorato da un tessellato raffigurante una scacchiera di bipenni nei toni del bruno, dell'ocra e del bianco che tenta di rappresentare la deformazione ottica prodotta dalla superficie dell'acqua (fig. 141): l'ambiente, che in una prima fase doveva essere pavimentato in lastre marmoree, è delimitato da pareti dipinte e provvisto di un pozzetto per lo scolo delle acque, oltre a essere affiancato da una piccola natatio, una vasca quadrata destinata ai bagni freddi. Nello spogliatoio delle Piccole Terme, costruite lungo la via del porto su probabile committenza privata, è ancora possibile ammirare il bancone frazionato in stipetti triangolari destinati ai calzari e agli oggetti personali dei bagnanti. A Carales strutture termali sono state portate in luce tra via Sassari e largo Carlo Felice, in viale Trieste, in via Nazario Sauro e in via Angioy, mentre sono solo menzionate da un'epigrafe le terme cosiddette Rufianaee, restaurate tra il 200 e il 209 d.C. da Domizio Tertullo. Lo sviluppo urbano moderno ha in linea di massima ostacolato l'ottimale conservazione delle vestigia antiche, consentendo di recuperare nel peggiore dei casi soltanto gli elementi decorativi o di arredo: del lussuoso edificio termale extraurbano di III secolo d.C. identificato nel 1907 dal Soprintendente Antonio Taramelli in via Nuoro, località Bonaria, i pannelli musivi sono in parte custoditi nelle sale del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, ma nulla si conserva sul terreno (fig. 122). Tharros conserva le strutture di almeno tre complessi termali: le Terme n. l, o "Terme di San Marco': le Terme n. 2 (figg. 53-54) e le Terme n. 3, così nominate secondo l'ordine di rinvenimento. Le seconde, installate alla fine del II secolo d.C. sopra un più antico impianto balneare, sono abitualmente chiamate "Terme di Convento Vecchio" per il presunto monastero che ne avrebbe reimpiegato parte delle strutture. Articolate su tre livelli, vi si accedeva da un apodyterium collegato a un frigidarium mosaicato e dotato di due vasche a immersione, per poi attraversare uno dei due tepidaria, raggiungere il calidarium biabsidato e ripercorrere il circuito in senso inverso. A Sulci, dove l'esistenza di edifici pubblici di età romana è menzionata perlopiù da fonti epigrafiche, un impianto termale doveva occupare il limite settentrionale della cala di Maladroxia, verso

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Capo Sperone, in corrispondenza di alcune sorgenti di acqua calda. Nella parte settentrionale dell'Isola, la Colonia Iulia Turris Libisonis conserva un buon numero di edifici termali: le Terme Centrali, le Terme Pallottino, le Terme Maetzke e le terme private della Domus dei mosaici marini. Nelle imponenti Terme Centrali, anche dette Palazzo di Re Barbaro, da un porticato era possibile accedere ali' apodyterium, al frigidarium, al tepidarium e a tre calidaria (figg. 66-69). L'apparato decorativo, che comprendeva pavimenti in tessellato geometrico policromo, rivestimenti parietali in marmo e mosaici in pasta vitrea a copertura delle volte, ha consentito di datare l'ultima sistemazione dell'edificio tra la fine del III e l'inizio del IV secolo d.C., in nome di una continuità d'uso delle pratiche termali anche in una fase piuttosto avanzata della romanità. A Olbia, lungo l'attuale corso Umberto (l'antico decumano massimo), tra la fine del II secolo d.C. e l'inizio dèl successivo, un complesso termale di probabile età neroniana fu risistemato e allacciato al nuovo acquedotto di Sa Rughittula, confermando l'attitudine all'adeguamento infrastrutturale e alla monumentalizzazione tipica dell'età severiana. Più o meno coeva parrebbe la realizzazione di un secondo complesso termale identificato in via Nanni, in prossimità del limite settentrionale della cinta difensiva. Grazie alla capillare rete di acque minerali che ancora oggi attraversa l'Isola, in alcuni casi più fortunati i complessi erano alimentati da sorgenti termali, divenendo in tal modo fulcro attrattivo per le speciali proprietà salutari e terapeutiche. A Fordongianus, l'antica Forum Traiani, il celebre complesso delle Aquae Hypsitanae naque sfruttando una polla di acqua ad azoto prevalente a 54 °C, convogliata in un'ampia natatio per abbassarne la temperatura (figg. 146, 151-155). Più a nord, alla confluenza del Riu Mannu nel fiume Tirso, presso Benetutti, dovevano sorgere anche le Aquae Lesitanae, entro un'area in cui è stato censito oltre un centinaio di sorgenti con temperature variabili tra i 34 e i 44 °C. A Sardara, in località Santa Maria de is Acquas, erano collocate invece le Aquae Neapolitanae, dedicate con ogni probabilità a Esculapio e prossime ad altre cinque sorgenti termominerali frequentate sin dalla preistoria. Sebbene la documentazione archeologica sia meno consistente, segni della presenza di impianti termali di carattere pubblico e privato

140. Nora, panoramica delle Terme Centrali: sullo sfondo, la torre del Cortellazzo (foto Archivio Nora, Università degli Studi di Milano).

Nella doppia pagina seguente: 141. Mosaico a bipenni del frigidarium delle Terme Centrali di Nora.

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provengono anche dai centri meno monumentalizzati. Recenti scavi potrebbero aver individuato a Cornus i resti di un edificio termale corrispondente alle Thermae aestivae, menzionate dalle fonti epigrafiche e restaurate tra il 379 e il 383 d.C. A Neapolis si sono invece conservati i resti di almeno due edifici, le Piccole Terme e le Grandi Terme (figg. 142-144): le strutture di queste ultime, allacciate tra la fine del II e la metà del III secolo d.C. al nuovo acquedotto cittadino, furono reimpiegate in età vandalica dalla chiesa dedicata a Santa Maria di Nabui. La rioccupazione di ambienti termali di epoca romana a scopo religioso - in particolare con l'installazione di cappelle e oratori in spazi absidati reimpiegando vasche e bacini a scopo battesimale - è ben documentata in tutta la Sardegna già dall'età tardo-antica e per tutto il Medioevo: in molti casi i nuovi edifici di culto

impostano le proprie strutture sulle murature preesistenti, che influenzano profondamente planimetrie e masse volumetriche. Tra gli esempi più celebri di questa pratica possiamo citare Santa Maria di Mesumundu a Siligo, che presenta una pianta anomala con due absidi discordanti tra loro tanto per dimensioni quanto per opera costruttiva, o Santa Maria di Bonacattu a Bonarcado, realizzata tra VI e VII secolo con un'irregolare struttura a quattro bracci raccordata da un corpo cupolato. Lungo la costa settentrionale, nel complesso di Santa Filitica a Sorso, l'antica chiesetta di Santa Felicita reimpiega gli ambienti termali e una vasca riscaldata di una villa tardo-imperiale (figg. 108-109), mentre nell'Iglesiente, a Vallermosa, il nucleo originario della chiesa di Santa Maria de Paradiso, menzionata dalle fonti medievali, è costituito dai muri in opus vittatum mix tum e opus testaceum di un edificio termale di II secolo d. C. Venendo alle strutture per spettacoli, sebbene le indagini più recenti abbiano in parte colmato le lacune, in tutta l'Isola attualmente si conservano soltanto un teatro e cinque anfiteatri. Com'è ampiamente noto, i teatri erano destinati alle rappresentazioni sceniche (come le commedie, le tragedie e i mimi), a differenza degli anfiteatri, riservati invece allo svolgimento di combattimenti gladiatori, battute di caccia, o venationes, lotte tra animali feroci o naumachie. Nora si distingue fra tutti i centri sardi per l'unico teatro romano al momento attestato, se si esclude l'ipotesi, peraltro mai verificata, della cavea individuata a fine Ottocento ali' estremità settentrionale della collina del Faro di Porto Torres, a sud di via Ponte Romano. Il monumento norense fu ricavato nella prima metà del I secolo d.C. nelle pendici sud-orientali del colle di Tanit e più volte ristrutturato fino alla dismissione avvenuta intorno al 400 d.C., quando fu in parte rioccupato a scopo abitativo. Oggetto di un massiccio restauro negli anni Cinquanta del secolo scorso, conserva parte dell'edificio scenico in grossi blocchi di arenaria, l'orchestra pavimentata a mosaico e opus sectile e undici gradoni della ima cavea, per circa metà dell'altezza originale (figg. 34-37, 147). Poggiante su possenti sostruzioni in blocchi di arenaria per un diametro di circa 53 metri, doveva complessivamente contenere tra i 1000 e i 1200 spettatori: era divisa in quattro cunei e vi si accedeva dalle scalinate in parte conservate lungo l'emiciclo, da porticine situate dietro la scena o dai due vomitoria voltati sottostanti i

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142-144. Neapolis, Guspini, Grandi e Piccole Terme.

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palchi principali. L'orchestra semiellittica, restaurata in antico e in tempi recenti, reca una fascia esterna pavimentata a mosaico a riquadri e tondi iscritti che incornicia un opus sectile in lastre di cipollino e onice della Mauretania. L'edificio scenico fu ritoccato probabilmente in età severiana, in concomitanza con una più generalizzata monumentalizzazione del centro urbano: in quest'occasione fu abbassato il piano dell'iposcenio e avanzata la facciata del palcoscenico, con la creazione di nicchie semicircolari e rettangolari destinate a nuove statue. Nella stessa occasione potrebbe essere stata realizzata la porticus a pilastri retrostante la scena, dove un recente scavo ha portato in luce sia parte del cantiere per la costruzione dell'edificio, sia una serie di muri, piani pavimentali e strutture idrauliche pertinenti a nuclei abitativi più antichi. Oltre al teatro, Nora conserva uno dei cinque anfiteatri noti nell'Isola: si stagliava all'ingresso della città antica, in corrispondenza dell'istmo che oggi conduce all'ingresso dell'area archeologica, dove la sua ellisse è rispettata dal profilo del piazzale adiacente alla spiaggia

di Sant'Efisio. Individuate da Giovanni Patroni nel 1901, le strutture sono state riportate alla luce nel 2008 da Carlo Tronchetti in occasione della riqualificazione della passeggiata pedonale e nuovamente interrate. Il monumento fu costruito nel I o nel II secolo d.C. come luogo di aggregazione destinato alla rappresentazione dei munera gladiatorum: l'arena destinata ai combattimenti si estendeva per 34,5 metri lungo l'asse maggiore e per 28,5 lungo l'asse minore. Tra le strutture individuate, conservate solo in fondazione, si è riconosciuto un tratto del muro curvilineo con tracce dei possibili punti di accesso; l'assenza dei resti dell'alzato degli altri muri ha fatto ipotizzare la presenza di strutture lignee, molto comuni anche nel resto dell'Isola. Oltre al più monumentale e ben conservato anfiteatro cagliaritano, cui è dedicata una sezione specifica (figg. 156-158), resti più o meno consistenti di questi complessi sono stati identificati a Fordongianus, Tharros e Sant'Antioco. A sud-ovest del centro di Forum Traiani, tra i rilievi di Montigu e Iscalleddu nella piccola valle di Apprezzau, si conservano i resti di un anfiteatro suburbano di origine militare

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145. Su Angiu, Collinas, vasca termale. 146. Fordongianus, terme.

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collocato lungo la direttrice stradale diretta a Othoca e a Carales (fig. 148). Alcune recenti indagini ne hanno riportato in luce le strutture, note già nei secoli precedenti, ricostruendo le misure dell'anello esterno e dell'arena, che dovevano in origine estendersi rispettivamente su due ellissi di circa 52 x 41 metri e 40 x 30 metri, ospitando così fino a 1900 spettatori. Si sono individuati, nel dettaglio, il muro del podio in blocchi di trachite grigia decorato con affreschi, un sacello probabilmente dedicato al culto dei gladiatores e dei venatores e la possibile posizione della porta triumphalis, al limite dell'asse maggiore in direzione del centro urbano. Si sono inoltre riconosciute almeno due fasi costruttive: nella prima, forse risalente alla prima età imperiale e alla natura castrense dell'insediamento, è preponderante l'opera quadrata con impiego di trachite proveniente da cave locali; nella seconda, che approfitta del consueto fervore edilizio di età severiana per aggiungere una nuova facciata ritmata da fornici, è ampiamente adoperato il cementizio con paramenti in opus vittatum mixtum, come nel resto della città e dell'Isola. Durante questa seconda fase l'ampliamento dei volumi della cavea avrebbe portato alle dimensioni di circa 60 x 48 e 40 x 30 metri, e di una ricezione di oltre 3000 spettatori. Le tecniche costruttive e i reperti rinvenuti hanno dunque suggerito per la fondazione dell'edificio una prima datazione al I secolo d.C., con una successiva fase di

risistemazione al III d.C. Il definitivo abbandono deve essersi verificato necessariamente entro il VII-VIII secolo, quando alcune sepolture in nuda terra di orizzonte bizantino ne invasero gli spalti e l'arena. el 2013 indagini sistematiche hanno permesso di definire alcuni aspetti del piccolo anfiteatro di Tharros, le cui strutture curvilinee erano state inizialmente attribuite a una "porta a tenaglia" della cortina muraria di prima età imperiale. Collocato sul colle di Su Murru Mannu, non lontano dal villaggio nuragico e dal tofet, doveva estendersi con un diametro esterno di circa 45 metri e un profilo pressoché circolare, con la porta triumphalis rivolta a sud verso l'abitato. Le strutture reimpiegano elementi architettonici e scultorei di età precedente, quali blocchi basaltici nuragici, stele del tofet e materiale edilizio punico e romano. Alcuni reperti ceramici rinvenuti nel riempimento di un cassone della cavea, frammisti a materiale residuale di tradizione punica, incoraggiano a datare la costruzione di questa parte dell'edificio a un momento posteriore al II-III secolo d.C. Degli altri anfiteatri sardi non si dispone di dati altrettanto puntuali. La penuria di tracce archeologiche spinge a credere che fossero dotati di strutture poco monumentali e di cavee con gradinate in materiale deperibile, denotando la propensione a soluzioni architettoniche ed edilizie piuttosto povere. A Sulci nel 1984

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è stato identificato un piccolo anfiteatro di forma ellittica (30 x 20 m ca. ) ai piedi dell'altura del Fortino, al limite orientale dell'abitato. Fondato non prima del II secolo d.C. direttamente nel banco roccioso, conservava un podio in grossi blocchi lapidei dipinti a imitazione di un rivestimento in marmi pregiati: nessuna traccia invece dei gradoni della cavea, presumibilmente lignea. Dalle fonti e da alcuni resoconti ottocenteschi proviene infine la notizia dell'esistenza di presunte strutture anfiteatrali a Olbia e a Turris Libisonis, al momento prive, tuttavia, di riscontri sul terreno.

Nota bibliografica T RONCHETTI

1985b; TRONCHETTI 1989; B EJOR 1993;

M ASTI O, VISMARA 1994; C ossu, N IEDDU 1998; R OVINA 2001; SALVI 2002a; B EJOR 2003; C OLAVITTI 2003; P ORRÀ

2003;

GHIOTTO

2004;

PIETRA

2005; SPANU 2005b;

BACCO, ET AL. 2010; U SAI, ET AL. 2012; BLASETTI FANTAUZZI, D E VINCENZO 2013; B ERNARDI I, SPANU, Z UCCA 2014; SALVI 2014b; CISCI, M ARTORELLI 2016; IBBA

2017c;

B ONETTO, ET AL.

G ASPERETTI, C ONDO

170

2019.

2018;

fRO NTORI

2019;

14 7. Panoramica del teatro di Nora (foto Archivio Nora, Università degli Studi di Milano). 148. Panoramica e rilievo dell 'anfiteatro di Fordongianus. 149-150. Gladiatore, Il sec. d.C., bronzo, h 8,3 cm , proveniente da Valentia (Nuragus), Oristano, Antiquarium Arborense.

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Le terme di Fordongianus Ciro Parodo

151. Fordongianus, Terme I, natatio e porticato meridionale. La natatio di forma rettangolare (12,20 x 6,10 x 1,60 m di profondità), realizzata con la tecnica edilizia dell'opus quadratum (opera quadrata), era riservata ai bagni per immersione ed era fiancheggiata sui lati lunghi da due porticati, di cui oggi si conserva solo quello meridionale. La piscina, plausibilmente in antico voltata a botte, presenta molteplici interventi di ristrutturazione, riscontrabili in particolare nei gradini che la contornano dove figurano numerosi cippi votivi inscritti e resecati provenienti dal contiguo Ninfeo. Nella doppia pagina seguente:

152. Fordongianus, veduta area delle Terme I e Terme Il. Al complesso delle Terme I si affianca a sud quello delle Terme Il (32 x 13 m), preceduto da due ambienti interpretabili come atrio e palestra, articolato nei caratteristici vani funzionali alla balneazione, quali l'apodyterium (lo spogliatoio), il frigidarium , il tepidarium , un ipotetico laconicum e due calidaria (rispettivamente per i bagni freddi , tiepidi, di vapore e caldi) , disposti secondo il percorso di tipo anulare che consente lo svolgimento di un circuito balneare evitando di percorrere a ritroso i medesimi vani.

La rilevante presenza degli impianti termali nella Sardegna di età romana sia in ambito urbano che extraurbano, dove rappresentano la classe architettonica più diffusa con circa cinquanta tra edifici pubblici e privati, conferma quanto il processo di romanizzazione, inteso come il complesso delle interazioni tra sistema culturale romano e autoctono, e di cui la pratica della balneazione costituiva una delle più efficaci espressioni (Tacito, Agricola, 21, 3), fosse radicato nell'Isola. In Sardegna sono documentate due tipologie planimetriche di strutture termali. In quelle realizzate secondo un percorso di fruizione di carattere "anulare", edificate sulla base di un modello particolarmente attestato in area nordafricana, il frigidarium costituisce l'ambiente di partenza, secondo un itinerario circolare che consente di ritornarvi evitando di compiere il medesimo tragitto a ritroso, come nel caso degli impianti delle Terme a Mare di Nora e del Convento vecchio a Tharros, realizzati sotto i Severi, e delle Terme Centrali di Porto Torres, risalenti alla fine del III-inizi IV secolo d.C. La seconda tipologia si riferisce alle terme ad andamento "rettilineo", disposte su un unico asse, di impianto non monumentale e quindi destinate alla fruizione di un esiguo numero di utenti, a loro volta suddivisibili nella duplice categoria del percorso di carattere "assiale", come nei casi delle Terme di via Angioy/via Sassari a Cagliari, realizzate tra l'età severiana e la seconda metà del III secolo d.C., e di quelle turritane di Pallottino, edificate tra il 250 e il 350 d.C., nonché di quello di tipo "angolare", utilizzato nelle Piccole Terme di Nora e di Neapolis, risalenti agli inizi del III secolo d.C. Entro il panorama dell'architettura balneare sarda di età romana, la struttura termale di Fordongianus costituisce una delle testimonianze più interessanti, in quanto per il suo approvvigionamento idrico era impiegato 151

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l5S. Rlcoslrlmone ~ del compressD delle 1mne l,Temle li, piazza lastricata ed edifici adiacenti di Forum Traianl. Il piazzale, ipoteticamente identificato con il Foro, consiste in una vast.a area pavimentata con lastre trachitiche caratterizzata da una planimetria irregolare e attraversata da una canalizzazione che conduce l'acqua dagli invasi presenti nel pendio soprastante verso le terme a nord. La piazza è delimitata a sud da una scalinata monumentale che conduceva verso un'ipotetica area templare, a ovest da alcune strutture di età altomedievale e a est da un complesso edilizio polifunzionale con pianta a ·r dalla destinazione d'uso incerta, plausibilmente di tipo abitativo-commercialeospitativo (tavola illustrata di lnklink Musei).

154. Fordongianus, scalinata monumentale. La scalinata, che delimita a sud il piazzale di Forum Traiani, conduce attualmente in direzione del moderno centro abitato di Fordongianus, mentre in antico portava verso un'ipotetica area templare dedicata al culto delle divinità salutifere, le Ninfe ed Esculapio, attestato nel complesso termale. 155. Fordongianus, Terme I, porticato meridionale. Il porticato (16 mdi lunghezza, 1,8 mdi larghezza, 3,9 m di altezza), voltato a botte e munito nel soffitto di tre lucernari quadrangolari che assicuravano l'illuminazione e l'areazione del vano, presenta un prospetto archivoltato a sette luci realizzato con la tecnica edilizia dell 'opus quadratum (opera quadrata), mentre di quello settentrionale, attualmente perduto, si conservano esclusivamente i livelli di sostruzione che ne documentano l'originaria presenza in maniera speculare al primo.

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non l'acquedotto cittadino, ma una sorgente d'acqua calda al fine di sfruttarne le proprietà curative, secondo una prassi documentata anche per le Aquae Lesitanae delle terme di San Saturnino a Benetutti e le Aquae Neapolitanae dello stabilimento di Santa Maria de is Acquas a Sardara. L'antico centro urbano di Fordongianus sorse sulla sponda orientale del fiume Tirso, sul sito denominato Aquae Ypsitanae nella Geografia di Tolomeo, assolvendo la triplice funzione di complesso idrotermale, snodo stradale dei due tronconi viari da Turris Libisonis (Porto Torres) e Carales (Cagliari), e di presidio militare con finalità di controllo delle civitates Barbariae, le antiche comunità barbaricine. In età traianea acquisì una tale rilevanza strategica da assumere lo statuto giuridico di forum, ossia centro di mercato, con la conseguente denominazione di Forum Traiani. Alla prima metà del II secolo d.C. risale la realizzazione in forme monumentali dell'impianto termale, gestito da schiavi e liberti imperiali, probabilmente sul sito di una precedente stazione balneare, la cui precocità in ambito isolano deve verosimilmente essere ricercata nella sua originaria funzione igienico-sanitaria, a cui successivamente fu associata quella di natura ricreativa. Il nucleo centrale delle cosiddette Terme I si articola intorno alla natatio (piscina) rettangolare contornata da quattro gradini e affiancata sui lati lunghi nord e sud da due porticati, muniti di lucernai e di sette archi, aperti verso la vasca, in cui l'acqua affluiva attraverso un condotto terminante con un versatoio a protome ferina,

oggi perduto. A est si apre un vano dotato di una vasca centrale con gradini e una teoria di nicchie nelle pareti laterali, di cui una ospitava un'ara votiva con dedica alle Ninfe. L'identificazione dell'ambiente in questione con un Ninfeo, consona alla funzione terapeutica delle acque calde sorgive, è confortata dal ritrovamento presso le terme sia di una serie di epigrafi riferibili al culto delle Ninfe, datate agli inizi del III secolo, sia di due statue di Eshmun-Bes, risalenti al III-II secolo a.C., divinità salutifera associata a Esculapio. Tra il II e il III secolo d.C. al primo complesso termale se ne affiancò un altro sul lato meridionale a un livello altimetrico superiore, le cosiddette Terme II, dotato in questo caso di un impianto a riscaldamento artificiale, in cui sono ancora distinguibili il frigidarium (vano per i bagni freddi), munito di due vasche a pianta semicircolare e rettangolare, il tepidarium (vano per i bagni tiepidi) di forma rettangolare allungata, e i due calidaria (vani per i bagni caldi) intercomunicanti, di cui uno provvisto di vasca rettangolare e nicchia absidata. Il nuovo corpo di fabbrica fu realizzato in concomitanza con l'ampliamento edilizio del centro cittadino, considerato che a sud si apre una piazza lastricata ipoteticamente identificabile con il Foro. Nota bibliografica Sulle terme romane in Sardegna e l'architettura termale nel mondo romano: Cossu, N IEDDU 1998; GHIOTTO 2004, pp. 109-135; YEGOL 2010. Sulle terme di Fordongianus e il relativo culto delle Ninfe e di Esculapio: ZUCCA 1994, pp. 220-222; SERRA, BACCO 1998; lBBA 2017 c.

Enrico Trudu

156. Cagliari , anfiteatro, veduta dall'alto del settore nord-orientale. Sono riconoscibili l'arena e gli ambienti sotterranei di servizio, i tre settori distinti delle gradinate - riservati alle differenti classi sociali e gli interventi di restauro realizzati negli anni Trenta del Novecento.

Nella doppia pagina seguente: 157. Ricostruzione ideale dell'anfiteatro di Cagliari (tavola illustrata di lnklink Musei).

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L'anfiteatro romano cli Cagliari, ubicato tra le pendici meridionali del colle cli Buon Cammino e la valle cli Palabanda, è senza dubbio il più importante tra gli edifici pubblici della Sardegna romana giunti fino a noi. La struttuta, realizzata probabilmente tra il I e il II secolo d.C., si caratterizza per l'utilizzo combinato di due tecniche costruttive differenti: l'arena, gli ambulacri e i vari ambienti cli servizio sono stati ricavati nel banco roccioso calcareo, mentre la facciata e il settore a essa opposto erano costruiti in blocchi di calcare, integrati da murature in opera incerta e in opera laterizia. Di queste strutture, smantellate e riutilizzate come materiale da costruzione nel corso dei secoli, rimangono oggi soltanto alcuni avanzi di scale e murature nel settore sud-occidentale e due grandi plinti di fondazione pertinenti alla facciata, realizzati in conglomerato cementizio. L'edificio, di forma ellissoidale, è orientato a sud-ovest e misura 92,80 x 79,20 m. Le parti ricavate nella roccia sono state interessate da un'intensa attività di cava che ne ha modificato il profilo originario, risparmiando solo un piccolo settore nel lato nord-orientale. Il primo scavo del monumento fu condotto tra il 1866 e il 1868, sotto il controllo di una commissione presieduta dal Canonico Giovanni Spano e della quale facevano parte Gaetano Cima e Vincenzo Crespi. Nel 1937 un restauro, curato dal Soprintendente Doro Levi, ha reintegrato parzialmente le murature e le gradinate con tufelli e blocchi calcarei. La cavea presenta la canonica divisione in tre settori: ima, media e summa cavea. La suddivisione dei livelli rispettava la rigida divisione in classi, nelle quali la società romana era strutturata. Il secondo livello è separato dal terzo da un alto muro, il balteum, coronato da una cornice aggettante modanata; al suo interno è stato ricavato un corridoio anulare, dotato originariamente di dieci aperture, note con il nome di vomitoria. L'arena, di 46,20 x 31 m, è circondata da un muro, il podium , percorso internamente da un ambulacro di servizio provvisto di dieci aperture simmetriche, otto delle quali corrispondenti ad altrettante nicchie scavate nella parete interna, dove venivano sistemate le gabbie per gli animali utilizzati nelle venationes,

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158. Cagliari , anfiteatro, settore occidentale. Sulla destra l'ingresso alla cella Libitina, ambiente di servizio verosimilmente riservato ai gladiatori; al centro la scala di accesso al vomitorium ubicato alla base dell'ima cavea; a sinistra l'ambulacro di servizio interno al podium. 159-160. Cagliari , cisternone dell'Orto dei Cappuccini , veduta dell'ambiente sotterraneo. Si riconoscono i fronti di cava per l'estrazione dei blocchi litici, successivamente ricoperti dalla malta idraulica in cocciopesto; in alto a destra è visibile l'accesso al condotto di collegamento con l'anfiteatro.

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ovvero i combattimenti che simulavano battute di caccia. Gli ulteriori due accessi, posti in corrispondenza dell'asse minore, si aprono su due camere di servizio e sulle scale che conducono ai sotterranei. Altre due aperture, di dimensioni maggiori, erano ubicate rispettivamente alle estremità meridionale e settentrionale dell'asse maggiore. La porta settentrionale, l'unica conservata, dà accesso a un'ampia galleria di servizio con cinque camere scavate nella roccia, nelle quali potevano essere ricoverati gli animali e sistemate le attrezzature sceniche. Dall'ambulacro, inoltre, quattro passaggi muniti di scale conducono ad altrettanti vomitoria posti alla base dell'ima cavea. La camera di servizio orientale, tradizionalmente chiamata Sa Lionera, era probabilmente un carcere riservato ai condannati a morte. La camera occidentale, o cella Libitina, doveva essere uno spoliarium, ovvero un vano di servizio riservato ai gladiatori. Sotto l'arena sono presenti tre ambienti sotterranei - due laterali di dimensioni minori e uno centrale maggiore dove erano verosimilmente approntate le

scenografie per i giochi, che venivano sollevate sul piano dell'arena mediante ascensori e piani mobili. Le fossae erano coperte da tavole di legno, a loro volta nascoste dalla sabbia che ricopriva l'arena; la loro apertura con l'apparizione dei fondali doveva garantire un effetto scenico notevole. L'anfiteatro era provvisto di un velarium, una copertura mobile che offriva al pubblico protezione dai raggi solari durante gli spettacoli. I giochi, come nelle altre strutture per spettacoli del mondo romano, duravano un'intera giornata seguendo un preciso schema: si iniziava con le venationes, con animali feroci ed esotici, cui seguivano le condanne a morte, spesso teatralizzate con la messa in scena di pantomime di miti o avvenimenti storici; infine erano allestiti i combattimenti gladiatorii veri e propri, che proseguivano fino al tramonto. Gli spettacoli erano allestiti solo tra la primavera e l'autunno. In inverno la struttura era utilizzata come bacino di captazione delle acque piovane grazie a un complesso sistema di canali di drenaggio scavati nelle pendici della collina. L'acqua piovana, convogliata nell'arena e nei sotterranei,

confluiva in una grande cistema, ubicata all,intemo dell,attuale Orto dei Cappuccini (figg. 159-160), ricavata intonacaildo in cocciopesto una grande cava sotterranea, probabilmente utilizzata per estrarre i blocchi da costruzione per l'anfiteatro. In seguito, forse in concomitanza con la costruzione dell'acquedotto di Carales alla fine del II secolo d.C., l'ambiente fu trasformato in carcere, sfruttando il condotto idraulico di collegamento come passaggio per i prigionieri destinati al sacrificio nell'arena. Nota bibliografica

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Sugli studi e gli scavi ottocenteschi: SPANO 1868; CRESPI 1888. Per gli interventi degli anni Trenta: LEVI 1942; PALA 1994. Descrizione, analisi architettonica, cronologia e confronti: .ANGIOLILLO 1987a, pp. 79-81; GOLVIN 1988, p. 208, tav. XXVIII, 1-3; PALA 1990a; PALA 2002; .ANGIOLILLO 2003; GHIOTTO 2004, pp. 81-85; DADEA2006.

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161. Ceramiche di epoca romana provenienti da relitti di navi onerarie della costa orientale, Nuoro, Museo Archeologico Nazionale "G. Asproni".

Lavoro, produzione, economia • Le attività agricole e l'allevamento del bestiame Barbara Wilkens APPROFONDIMENTI

I doni di Aristeo. Produzione olearia e vinicola Emiliano Cruccas

l.'.oro dei campi. Grano e panificazione Emiliano Cruccas

• L'alimentazione Bianca Maria Giannattasio APPROFONDIMENTI

Il corredo da mensa e il suo utilizzo in ambito alimentare Gianna De Luca

Pesca, peschiere e salagioni del pesce Ignazio Sanna

Macellazione e consumo delle carni Barbara Wilkens

• Le attività minerarie ed estrattive Caterina Previato APPROFONDIMENTO

Le cave di pietra di Nora Caterina Previato

Le attività artigianali Bianca Maria Giannattasio APPROFONDIMENTI

Le produzioni ceramiche Carlo Tronchetti

Le terrecotte architettoniche Maria Adele lbba

Le gemme Miriam Napolitano

I gioielli Romina Carboni

La ritrattistica e la scultura decorativa Simonetta Angiolillo

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Le attività agricole e l'allevamento del bestiame Barbara Wilkens

L'agricoltura Gli studi paleobotanici in Sardegna sono abbastanza limitati e, se si hanno alcune informazioni per l'Età del Bronzo, in particolare dal villaggio Sa Osa presso Cabras, risultano praticamente assenti per l'età romana. Si suppone che i Romani, al loro arrivo sull'Isola, abbiano trovato le popolazioni locali già in possesso di vegetali di primaria importanza, come frumento e orzo, vite domestica, noci e nocciole, olivo o olivastro, lino, meloni, lenticchie, piselli, fave e fichi; accanto a questi venivano consumati anche alcuni prodotti selvatici. In mancanza di dati archeologici ci si deve rivolgere alle fonti scritte e agli studi sui resti faunistici, dato che molti animali sono legati alla vegetazione. I bovini, ovunque in questo periodo, erano legati alla coltivazione dei cereali. In Sardegna erano di piccola taglia durante l'Età del Bronzo, ma aumentarono di dimensioni con l'arrivo dei Fenici e dei Punici. D'altra parte questi ultimi erano noti per la qualità delle tecniche di allevamento e per l'agricoltura. I Romani trovarono quindi sull'Isola, tra la fauna domestica: bovini, capre, pecore, maiali, cani, cavalli e asini; tra quella selvatica di taglia media o medio-piccola, che poteva fungere da cacciagione: cervi, mufloni, cinghiali e lepri. La microfauna è meno nota, ma c'erano sicuramente il topo campagnolo, il ghiro, il quercino ed erano anche stati introdotti i due mustelidi, la donnola e la martora, come contrasto ai roditori non graditi. In età romana si diffonde il gatto domestico e poi quello selvatico. Gatti domestici sono stati trovati a Flumenelongu, a Nora e al pozzo sacro della Purissima presso Alghero, mentre da Genoni provengono resti di gatto selvatico. In età romana si colloca anche l'arrivo del ratto nero, animale estremamente dannoso per l'uomo, non solo per i furti nei depositi alimentari, ma anche per questioni sanitarie; ne sono state trovate testimonianze a Turris Libisonis e nel pozzo sacro di Genoni. Altri micromammiferi che si trovano a partire dal periodo romano sono

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gli insettivori Crocidura russula ( crocidura rossiccia) e Suncus etruscus (mustiolo). Per questioni alimentari viene introdotto il gallo, identificato a Turris Libisonis, Flumenelongu, Nora, Sulci, la Purissima presso Alghero e Villa Talia a Olmedo. Il gallo, portato in Italia meridionale e in Sicilia già in precedenza a opera dei Greci e destinato ai sacrifici religiosi e ai combattimenti, diventa per i Romani una specie da carne e da uova. I luoghi di consumo I siti di età romana di cui sia stata studiata la fauna non sono molti e nell'analisi dei dati le città (centri di consumo ) devono essere distinte dalle località agricole (centri di produzione). Riguardo alle prime, si ricordano innanzitutto alcuni studi legati agli scavi di Turris Libisonis, l'attuale Porto Torres, colonia romana dell'Isola e città di una certa grandezza con un importante porto. Il gruppo più consistente di resti faunistici, nonché il più antico di questa città, proviene dai livelli di abbandono di una domus, datati al I secolo d.C. I materiali ossei sono particolarmente numerosi e ben conservati e costituiscono il più consistente nucleo faunistico proveniente da questa città e in genere dalla Sardegna romana. Prevalgono i rifiuti di macellazione e di pasto, ma sono stati trovati anche numerosi oggetti lavorati e reperti scheletrici di specie finiti casualmente nel deposito. Tra i mammiferi di interesse alimentare prevalgono, per il numero di frammenti, i bovini, seguiti dal maiale, ma la situazione si inverte se si considera il numero minimo di individui, e i maiali risalgono al primo posto. Questi dati sembrano in accordo con la generale preferenza del periodo verso la carne suina. D'altra parte un certo numero di bovini doveva essere allevato per la carne, come testimonia la presenza di quattro soggetti giovani e di due adulti, mentre la parte restante raggiungeva età più avanzate e probabilmente prima di essere macellata in città veniva sfruttata a lungo per i lavori agricoli. I caprini,

invece, raggiungono percentuali inferiori sia come numero di resti sia come individui. Si può constatare anche l'abbondanza del pollame e la presenza di cacciagione. Erano oggetto di caccia lepri, volpi, cinghiali, cervi e mufloni, mentre si può supporre che le donnole fossero tenute nelle case per il controllo di roditori come il ratto nero, recentemente sbarcato sull'Isola, e il topo campagnolo. I resti di uccelli selvatici sono scarsi ed è difficile dire se si tratti di animali cacciati o di presenze casuali. Sono stati identificati cormorani, taccole, merli e pernici sarde. Tra i materiali studiati da P. Columeau, in un lavoro ormai abbastanza vecchio e superato per interesse da quelli successivi, vengono presi in esame una certa quantità di resti faunistici conservati presso il Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano di Porto Torres e privi di precise indicazioni di provenienza. I reperti sono stati suddivisi in quattro fasi cronologiche, tre romane e una alto-medievale, a partire dal 150 d.C. fino agli anni successivi al 600 d.C. Nella prima fase, dal 150 al 220 d.C. , i resti sono scarsi e le principali specie domestiche sono quasi alla pari; il gallo è presente con un unico frammento. Successivamente, nella fase II, dal 220 al 300, prevalgono i suini, mentre caprini e bovini sono scarsissimi. Nella fase III, dal 300 al 600, che è quella più ricca di resti, prevalgono nettamente i bovini, mentre caprini e maiali quasi si equivalgono. In tutte le fasi è presente il cavallo. Sembrerebbe quindi di vedere alla fine dell'Impero un impoverimento che porta la popolazione di questa città a consumare di preferenza carne di qualità modesta. Il materiale da via Colonia Romana a Porto Torres è datato dal II al V secolo d.C. e presenta scarso interesse, se non per la presenza di un asino completo sepolto in una fossa, che ci permette di riconoscere le caratteristiche degli asini di età romana che Varrone chiamava «asinelli di Arcadia», che tanto erano utili nei fondi agricoli e che risultano molto vicini agli attuali esemplari sardi. Trattandosi di una città che si affaccia sul mare, a Porto Torres non mancano anche i prodotti della pesca, più numerosi nella citata domus del I secolo nella zona delle Terme Centrali, che comprendono anche due frammenti di tartaruga marina (Caretta caretta ). Una presenza insolita dal vicino scavo del porto è un omero completo di balenottera comune, che presenta numerosi

tagli e colpi di attrezzi metallici come se fosse stato usato come tagliere. Nel caso di altre città, come Nora, i resti presi in esame sono in numero minore. Si ha uno studio di C. Sorrentino che tratta materiali del III secolo d.C., dove come numero di frammenti prevalgono i caprini seguiti da maiali e bovini. In un altro contesto norense studiato da G. Carenti prevalgono ancora i caprini, seguiti invece da bovini e suini. Si tratta in quest'ultimo caso probabilmente di un sacrificio affine ai suovetaurilia, ma più variabile in quanto all'età e al sesso delle vittime. Anche in riferimento a Olbia abbiamo studi abbastanza sporadici e di scarso interesse. Dall'acropoli provengono resti di un sacrificio, paragonabile ai classici suovetaurilia, con presenza di un frammento osseo di cane. In località Su Cuguttu, situata nell'antica area urbana, lo scavo di una cisterna ha restituito materiali faunistici datati al II secolo a.C. Visto il tipo di deposito, non si tratta di normali resti di pasto, ma di rifiuti di varia provenienza, compresi animali morti per cause naturali e non utilizzati nell'alimentazione. I cani sono abbondanti e mostrano una notevole variabilità, comprendendo anche un soggetto brachimelico, con altezze che vanno da 33 a 56 cm. Tra gli equini prevalgono gli asini e solo un frammento è stato attribuito a un cavallo. In un altro scavo in corso Umberto, dove sono stati individuati diversi livelli di età punica e romana, i resti provenienti dalla fase che va dalla fine del III secolo a.C. all'inizio del II d.C. mettono in evidenza l'equilibrio tra le principali specie domestiche e la presenza del cervo. Si ricorda infine che a Sulci uno studio sull'avifauna ha messo in evidenza l'arrivo massiccio del gallo, del tutto assente in epoca preromana. I luoghi di produzione Le ville sono strutture di concezione tipicamente romana, centri di produzione, ma anche di svago per i padroni, situate nella zona agricola oppure sulla costa. La villa S'Imbalconadu presso Olbia, del II-inizio I secolo a.C., ha fornito uno dei contesti faunistici romani più antichi di età repubblicana. Si tratta, però, del contenuto di due cisterne nelle quali sono stati gettati rifiuti di varia natura ed è questo il motivo per cui il cane risulta la specie più abbondante.

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Tra i resti di pasto prevalgono i caprini. La villa romana situata a Olmedo, presso il nuraghe Talia, ha restituito un interessante complesso faunistico di età imperiale. I bovini sono la specie più abbondante, seguiti da caprini, cervi e maiali. Si può notare l'abbondanza dei cervi, tipica della zona anche in altri periodi, la presenza del pollame, sebbene in basso numero, oltre ad asini, cavalli e cani. Sono stati identificati i resti di un cigno, forse da collegarsi alla parte abitativa. La villa era collocata in un ambiente ricco di acqua ed era dotata anche di terme. Nel villaggio presso il nuraghe Flumenelongu, situato presso l'aeroporto di Fertilia, oltre ai materiali nuragici, si hanno anche numerose attestazioni provenienti dai livelli romani. Tra i resti di pasto prevalgono i caprini seguiti da bovini e maiali con percentuali abbastanza equilibrate, a differenza di quanto avveniva in epoca nuragica, quando in questo sito predominava la pastorizia e i bovini erano molto pochi. L'identificazione di parti anatomiche appartenenti a bovini di tutte le età fa ritenere che questi animali non fossero utilizzati esclusivamente per l'aratura o nei lavori pesanti, ma anche nell'alimentazione. Nel nuraghe Mannu presso Dorgali, i cui materiali sono datati tra il II e il IV secolo d.C., gli animali più rappresentati sono i caprini, con una maggioranza delle capre sulle pecore forse a causa della conformazione geografica del territorio. Le capre sono provviste di corna, a sciabola, nei due sessi, più robuste nei maschi, mentre le pecore ne sono prive, almeno in riferimento alle femmine. In questo sito i bovini, anche se numericamente inferiori rispetto ai caprini, forniscono maggiori quantitativi di carne rispetto a questi ultimi e a tutte le altre specie. La presenza di individui anziani, di piccola taglia, fa ipotizzare un certo sviluppo dei lavori agricoli. Si praticava la caccia a cervi, cinghiali e mufloni. Questi dati si riferiscono allo scavo del 1996, successivi lavori confermano queste tendenze che sembrano legate alla tradizione locale più che ai modelli romani. I centri religiosi e cultuali Abbiamo visto come da Olbia si abbia testimonianza di un sacrificio di natura prettamente romana. Ma spesso la nuova cultura si sovrappone ai culti preesistenti di origine nuragica. Tra i materiali recuperati in contesti cultuali, è particolarmente

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significativo quello proveniente dal pozzo sacro di Genoni, nella Sardegna centromeridionale, datato al II secolo d.C. Il materiale è stato recuperato all'interno di un pozzo rituale utilizzato dal periodo nuragico, ma i resti faunistici sono tutti pertinenti ai livelli romani. Questo contesto è particolarmente importante in quanto ha restituito scheletri completi o quasi di animali in eccellente stato di conservazione che possono darci un'idea sulla morfologia della fauna domestica in età romana. I bovini sono rappresentati da due individui completi: una vacca - la cui altezza media è di 122 cm, quindi discretamente grande rispetto a quelle di altri siti - e un vitello (neonato o feto a termine). I maiali sono rappresentati da otto soggetti di entrambi i sessi, di taglia piccola, ma ben conformati, con cranio a profilo diritto. I cani sono almeno sette e costituiscono un gruppo omogeneo con altezza media di 53 cm; si tratta di animali a muso lungo con arti slanciati che potrebbero essere legati ad attività pastorali o venatorie. Tra i caprini è stata riconosciuta una maggioranza di capre e pochi resti di pecore. Tra queste ultime è stato identificato il cranio di una femmina adulta provvista di corna. Le capre sono almeno quattordici di entrambi i sessi. Una delle femmine presenta una perforazione all'occipitale prodotta da uno strumento appuntito, probabile causa della morte. Tra le specie di recente arrivo, si segnalano il gatto selvatico e il ratto nero. Altro pozzo sacro con interessante contesto faunistico è quello della Purissima presso Alghero, una tipica costruzione nuragica ancora in uso in età romana imperiale, relativo probabilmente alla città di Carbia. Tra i resti rinvenuti sono quasi alla pari quelli di caprini, bovini e cervi, mentre il maiale è in numero inferiore; tra le nuove specie sono presenti il gallo e il gatto; tra gli uccelli è attestato un osso di grifone e infine anche numerosi prodotti marini. Come negli altri pozzi sacri, abbondano le corna di bovidi tagliate alla base e, in questo caso, anche i palchi di cervo. Altri resti di natura cultuale, ma di importanza minore, sono stati trovati al nuraghe La Varrosa presso Sorso e a Bosa, nella tomba di un bambino. Alla Varrosa prevalgono i caprini seguiti da bovini e maiali, e sono presenti frammenti di cervo e un osso di asino.

I bovini per uso agricolo Per la scelta di bovini da allevare, Varrone indica una serie di caratteristiche che tendono a selezionare bestiame robusto, sano e di buona conformazione fisica. I tori si facevano accoppiare dai due ai dodici anni, le vacche dai quattro ai dieci; la monta avveniva in luglio perché i parti cadessero in primavera dopo una gestazione di dieci mesi. Tutti gli autori latini consigliano la castrazione tardiva, non prima dei due anni, e sappiamo che esisteva una speciale machina nella quale i bovini venivano bloccati per questa e altre operazioni. Varrone (De re rustica I, 20) consiglia di prendere i buoi da quelli che vivevano allo stato brado, fra i tre e i quattro anni di età, forti e di pari forza, con grandi corna, fronte larga, narici camuse, petto largo e cosce grosse. La doma richiedeva un certo periodo di addestramento: i giovani venivano appaiati a esemplari anziani, già addestrati e pratici del lavoro, abituandoli gradualmente al peso dell'aratro e alla durezza del terreno; altri venivano preparati a tirare i carri. I bovini da lavoro dovevano essere aggiogati in modo alterno a destra e a sinistra, perché il corpo non si sviluppasse sbilanciato. Si può osservare che tutti gli autori concordano nel considerare il lavoro dei campi come lo scopo principale dell'allevamento bovino e solo in misura secondaria la produzione di latte, mentre quella di carne viene ignorata. Columella riporta alcune ricette per la cura dei bovini, ai cui problemi si cercava di porre rimedio con diete appropriate e con infusi di erbe. Il lavoro poteva causare ascessi, ferite e infezioni agli zoccoli, dolori ai tendini e alle articolazioni, escoriazioni e dolori al collo. Venivano curati con incisioni, applicazioni e impiastri vari e le estremità delle zampe venivano protette con suole vegetali. Il vomere poteva causare ferite (Columella VI) di cui spesso si trovano le testimonianze archeologiche. I buoi venivano tenuti con cura, all'aperto nei mesi caldi e al chiuso durante l'inverno, e venivano nutriti con mangimi freschi e secchi. La pastorizia Come abbiamo visto, in Sardegna la cultura romana porta a un maggiore interesse per la coltivazione di cereali e quindi per i bovini. Solo siti più legati alla tradizione o più condizionati dal territorio aspro, come il nuraghe Mannu di Dorgali, mostrano una

tendenza più netta verso la pastorizia. I Romani distinguevano le pecore in due gruppi: quelle coperte e quelle rustiche (genus tectum et colonicum). Le prime si portavano di rado fuori, in genere si allevavano al chiuso, ed erano nutrite con grande cura. Da questa razza non si ricavava latte e, anche se una parte degli agnelli veniva uccisa poco dopo la nascita, ogni agnello rimasto era affidato a due nutrici. In queste greggi si tenevano in vita più maschi rispetto alle altre razze; essi infatti venivano castrati e uccisi intorno ai due anni e le loro pelli, per la bellezza della lana, erano considerate le più pregiate. Le pecore erano tenute coperte con una pelle, che spesso veniva tolta per rinfrescarle, pettinarle e bagnarle con olio e vino. Tre volte all'anno si faceva loro un bagno. È difficile dire se in Sardegna si allevassero pecore di questo tipo che preferivano i prati e i campi in piano. I resti ossei sono in genere frammentari e poco adatti per individuarne le caratteristiche morfologiche. Il fatto che a Genoni abbiamo una pecora femmina dotata di corna, mentre le femmine del nuraghe Mannu ne sono prive, fa pensare all'esistenza di almeno due gruppi con caratteristiche differenti. Secondo Varrone la buona pecora si distingue dalla brevità delle zampe e dalla presenza di lana sul ventre; esistevano anche incroci tra pecore domestiche e mufloni, chiamati umbri. Come ricorda ancora Varrone, si praticava sia la transumanza di tipo tradizionale, sia l'allevamento al chiuso con uscite giornaliere per pascolare. Columella sembra privilegiare gli allevamenti non transumanti. D'inverno le pecore si tenevano al chiuso e si rifornivano di fieno. Sappiamo che si preferiva la pecora bianca perché la lana poteva essere utilizzata al naturale o tinta e, nella scelta degli animali da riproduzione, viene consigliato di scartare quelli che presentano macchie anche in parti nascoste, come all'interno della bocca. Per preservare la qualità della lana, si consigliava di evitare sui pascoli la presenza di rovi, lappole o altre piante che si attaccano al pelo. Secondo la tradizione riportata da Varrone, l'uso di tosare le pecore fu introdotto in Italia dalla Sicilia greca nell'anno 453 dalla fondazione (circa 300 a.C. ), mentre prima di questa data la lana veniva strappata a mano. In questo caso si usava tenere le pecore a digiuno per tre giorni, perché questo facilitava il distacco del vello. 191

Gli agnelli non si castravano prima di cinque mesi e gli arieti erano ritenuti adatti per la riproduzione da tre a otto anni, mentre le femmine da due a sette. Il pastore doveva intendersi di veterinaria per aiutare la pecora nel parto, eventualmente estraendo il feto a pezzi se c'erano problemi, per salvaguardare la madre. Dopo la nascita, l'agnello e la madre venivano chiusi al caldo per qualche giorno, in seguito si mandava al pascolo la madre e si tratteneva l'agnello al chiuso. Per evitare la scabbia si facevano bagnare in mare le pecore oppure si lavavano con acqua salata. Nel caso di fratture si usava steccare, come per le ossa umane. Si curavano diverse malattie, ma il carbonchio ematico era considerato incurabile e le pecore colpite . . vemvano ucC1se. Le capre venivano allevate in maggior numero in ambiente montuoso e boscoso, poco adatto alle pecore. Comunque se ne teneva sempre un piccolo numero, perché il latte di capra era ritenuto più adatto per i bambini. Della capra si utilizzava anche il pelo per tessuti grossolani come tende militari o vele. Per quanto riguarda, invece, la produzione dei formaggi abbiamo informazioni da Columella. Il latte doveva essere freschissimo e il caglio poteva essere di origine animale, ricavato da agnello o capretto, ma anche vegetale, ottenuto dai fiori di cardo selvatico, semi di cartamo e latte di fico che viene indicato di ottimo sapore. Un altro metodo di cagliare il latte era mettere sul fondo dei secchi della mungitura delle pigne verdi, oppure aggiungere pinoli tritati o timo. Il latte cagliato veniva versato in panieri o nelle forme e pressato. Una volta levato dalle forme lo si cospargeva di sale e si metteva a seccare; poteva anche essere impiegato il fumo di paglia.

L'allevamento dei maiali Se le altre specie domestiche potevano essere utilizzate per diverse finalità, il maiale era per i Romani il tipico animale da carne. Secondo quanto è riferito da Varrone e Columella, il maiale pregiato doveva essere di corporatura grossa, con cosce robuste ma gambe corte, ventre basso, muso corto e incavato (Columella VII, 9). Questi animali non venivano allevati al chiuso né allo stato brado, ma avevano a disposizione una porcilaia dalla quale uscivano sotto la guida e il controllo di uno o più porcari.

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D'estate venivano portati al pascolo facendoli riposare all'ombra nelle ore calde, specie in vicinanza dell'acqua, d'inverno solo in assenza di brina o gelo. Il pascolo poteva essere di vario genere: non solo i tradizionali querceti, ma anche frutteti, campi coltivati e terreni aperti. Secondo Columella il pascolo migliore è il bosco misto, con diverse specie di alberi e frutti selvatici. Quindi la Sardegna, con i suoi diversi paesaggi ricchi di vegetazione, era particolarmente propizia a questo tipo di allevamento, anche se morfologicamente i maiali isolani erano di taglia piccola e lontani dagli esemplari massicci esaltati dagli autori latini. I prosciutti di produzione locale erano particolarmente pregiati. Le scrofe coi nuovi nati venivano tenute in stalli singoli dai quali, nei primi giorni, poteva uscire solo la madre. Il numero dei lattonzoli veniva limitato perché la madre non si esaurisse con l'allattamento, cosa che spiega la frequenza di porcellini da latte tra i resti di pasto nei siti che usufruivano di allevamenti bene avviati. I maschi non destinati alla riproduzione si castravano a un anno e mai prima dei sei mesi. In Sardegna resti di maiali sono presenti in tutti i siti studiati, con percentuali variabili.

Equini e cani Nei lavori agricoli si utilizzavano anche altri animali come il cavallo, che poteva essere impiegato per l'aratura, in determinate condizioni di terreno, e per la trebbiatura (Varrone, De re rustica I, 52). Ma il cavallo nel mondo romano aveva altri ruoli di primaria importanza: nell'esercito, nei trasporti, nei giochi, nella caccia e nelle attività sportive. I resti di equini non sono molto frequenti in Sardegna; quelli più numerosi provengono da una cisterna di Olbia e dalla necropoli di Cornus. Columella (VI, 27-28) distingue tre razze di cavalli: la generosa, da cui si traevano i cavalli per il circo e per le gare sacre, la mularis utilizzata per produrre muli, e la vulgaris per gli usi comuni. I cavalli destinati ad alcuni usi, soprattutto ai trasporti, venivano castrati e prendevano il nome di cantherii (Varrone, De re rustica II, 15). I cavalli di razza generosa venivano trattati con più cura: allevati separatamente, si facevano accoppiare all'equinozio di primavera e i parti avvenivano l'anno successivo nella medesima stagione. Si facevano partorire le femmine un anno sì e uno

no. I cavalli di razza vulgaris invece pascolavano insieme e si accoppiavano liberamente; le femmine partorivano tutti gli anni. Anche l'asino poteva essere adibito ali' aratura, alla mola e al trasporto di diversi prodotti. La sua diffusione doveva essere capillare, anche se i resti ossei non sono particolarmente abbondanti, dato che non entrava nell'alimentazione comune. Il più importante reperto di questa specie in Sardegna è il già citato scheletro completo da Porto Torres in via Colonia romana. Columella (VII, 12) ricorda, inoltre, il ruolo del cane da guardia (villae custos), che doveva essere di grossa taglia, meglio se nero o comunque scuro, per incutere terrore nei malintenzionati, di corporatura forte e quadrata, con la testa grossa, coda corta, grosse zampe e artigli. La velocità non era invece ritenuta importante. Il cane pastore (pecuarius canis) al contrario doveva essere di corporatura snella, robusto e battagliero. Era considerato importante che essi fossero imparentati tra loro, perché questo li spingeva ad aiutarsi a vicenda (Varrone, De re rustica II, 6) . Era preferito il colore bianco, per distinguerlo dal lupo in caso di lotta, ma, dato che in Sardegna non esistevano lupi, nei siti locali questa caratteristica probabilmente veniva trascurata. Esistevano inoltre cani da caccia adattati alle diverse specie di selvaggina. Allevamento di uccelli e pesci Altra specie animale destinata alla produzione di carne era costituita dal pollame, che si diffonde in Sardegna proprio con i Romani. Secondo Columella (VIII, 2), la razza italica indigena era maggiormente apprezzata per gli

usi pratici e se ne consigliava l'allevamento per la carne e le uova. Le galline bianche erano ritenute più delicate e meno feconde e si preferivano quelle colorate. Una parte dei galli veniva castrata per farne capponi. Varrone consiglia di lasciare l'allevamento e la proprietà dei polli agli schiavi, in modo che ne avessero piccoli guadagni. Altri uccelli suscettibili di allevamento erano le anatre, le pernici e i piccioni, tutti presenti nei depositi archeologici di alcuni siti, anche se resta difficile dimostrare che non si tratti di fauna selvatica. Anche l'allevamento dei pesci era abbastanza sviluppato in età romana, a partire dalla tarda repubblica. Dapprima si allevarono, con un certo guadagno, i pesci di acqua dolce, poi si passò all'allevamento di specie marine nelle ville costiere. Le piscine e i pesci d'acqua dolce restarono in uso tra il popolo, mentre venivano considerati con un certo disprezzo dal ceto più ricco. In Sardegna questa attività è confermata dal ritrovamento di un frammento osseo di carpa a Sulci, una specie originaria del bacino del Danubio, mai attestata precedentemente in Sardegna e anche attualmente estranea alla fauna locale.

Nota bibliografica 1989; M ANCONI 1990; M ANCONI 1995; 1996; D ELUSSU 1997; M ANCONI 1997; M ANCONI 1999; D ELUSSU 2005; W ILKENS 2005; S ORRENTINO 2009; MASALA 2012a; M ASALA 2012b; WILKENS 2012a; C ARENTI 2015; C osso 2015; LoNGu 2015; B ERNAL-CASASOLA, ET AL. 2016; C ARENTI 2016; U SAI, ET AL. 2016. C OLUMEAU

WILKE S

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I doni di Aristeo. Produzione olearia e vinicola Emiliano Cruccas

forse figurava il geniale costruttore Dedalo, che avrebbe contribuito alla creazione dei Nuraghi (Pausania 10, 17, 3-4). Secondo altre fonti (Diodoro Siculo 4, 82),Aristeo sarebbe arrivato in Sardegna, con i coloni al seguito, passando per l'isola di Ceo e la Libia, fondando la città di Carales (Solino 4, 2). Un'immagine di questo personaggio del mito potrebbe esserci restituita da un bronzetto collocabile tra la fine del II e l'inizio del III secolo d.C., proveniente da Oliena, con una figura maschile recante una sacca con tre vasi, contenenti i tre doni fatti agli uomini: oltre all'olio, il latte e il miele, quest'ultimo evidenziato dalla rappresentazione di api sul petto dell'eroe. La funzione civilizzatrice di Aristeo è ben nota nei racconti mitici del mondo greco e questo ruolo potrebbe essere confermato dalle testimonianze antiche che indicano questo personaggio come unificatore delle genti di Sardo e Norace, già stanziate nell'Isola e provenienti dall'Africa e dalla Spagna (Solino 4, 1-2). Aristeo viene anche indicato come fondatore della città più antica dell'Isola, Carales, notizia tuttavia smentita da Pausania (10, 17, 5), secondo cui la prima città della Sardegna sarebbe stata Nora.

La coltivazione dell'ulivo e della vite, con la conseguente produzione di olio e vino, com'è noto, è un aspetto fortemente connesso con lo sviluppo delle civiltà del Mediterraneo, sia nelle dinamiche socio-economiche relative alle strutture sociali antiche, sia nei racconti mitici dei diversi popoli. Per quanto concerne l'ulivo, basti citare l'episodio riguardante Atena, la dea protettrice della capitale dell'Attica, che vince la gara divina contro Poseidone per il possesso della regione, donando agli abitanti l'albero di ulivo, che poi verrà simbolicamente onorato nel sacello sull'Acropoli di Atene. Anche lo sviluppo della civiltà nella Sardegna antica sembra essere connesso, nelle fonti classiche, all'acquisizione delle tecniche agricole legate alla coltivazione dell'ulivo. L'Isola viene rappresentata come una terra selvaggia che acquisisce, attraverso l'arrivo di elementi esterni, le conoscenze per lo sviluppo delle tecniche agricole e, di conseguenza, della civiltà. Secondo il mito, sarebbe stato Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, a insegnare alle genti dell'Isola i principi dell'agricoltura e in particolare la coltivazione dell'ulivo e della vite, oltre alle tecniche casearie e all'apicoltura. Il semidio sarebbe giunto in Sardegna da Tebe di Beozia con un seguito di uomini, tra i quali

162-163. Palmenti in pietra per la produzione di olio e vino rinvenuti nel territorio di Ai domaggiore.

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164. Orroli , nuraghe Arrubiu, laboratorio enologico di età romana dove sono stati rinvenuti: una grande vasca rettangolare in calcare, probabilmente usata per la pigiatura dell'uva, con un canale versatoio che sovrastava un'altra più piccola , parzialmente interrata; la base di un torchio in basalto; numerosi bacili in arenaria di varie dimensioni.

Il rapporto tra questo tipo di produzioni legate all'ambito agricolo e lo sviluppo della civiltà, in Sardegna come nel resto del Mediterraneo, deriva da un parallelo concettuale che risiede nell'addomesticamento di piante selvatiche. Nel caso dell'ulivo (Olea europaea var. europaea), la sua coltivazione finalizzata alla produzione dell'olio si può ricondurre all'addomesticamento dell'oleastro ( Olea europaea var. sylvestris). In età romana, come testimoniato dalle fonti letterarie, la produzione dell'olio costituiva una delle attività principali per l'economia agricola, con aree rinomate per la qualità dei loro prodotti e dislocate principalmente tra il Lazio e la Puglia e nell'area tra Liguria e Toscana. L'importanza della coltivazione dell'ulivo è evidenziata dalla centralità che il commercio dell'olio rivestiva nel mondo antico. Significativo, a questo proposito, il ruolo giocato nei commerci dalle anfore olearie provenienti dalla Betica fino alla media età imperiale e dal Nord Africa a partire dal III secolo a.C. Per dare una misura del volume delle importazioni di questo prodotto, basti pensare ai dati restituiti dagli scavi archeologici del centro dell'Impero: a Roma è noto che il colle Testaccio presenti un enorme riempimento artificiale costituito da resti di materiali ceramici, tra i quali la presenza di esemplari delle anfore della tipologia Dressel 20, espressamente prodotte per il trasporto di olio dalla Betica, risulta assolutamente maggioritaria

rispetto a quella degli altri reperti, per una percentuale di attestazione che si aggira intorno all'80%. Dopo il III secolo, saranno i mercati nordafricani a prendere il sopravvento, con una maggiore incidenza delle merci, e conseguentemente dei contenitori da trasporto, importate da quest'area in tutti i porti del Mediterraneo, compresa la Sardegna. Il ruolo che l'Isola esercitava all'interno dell'economia di Roma nella produzione dell'olio appare limitato e probabilmente circoscritto a un mercato interno. È noto come le fonti antiche indichino l'Isola come luogo deputato alla coltivazione del grano per le esigenze di Cartagine prima e di Roma poi (Mir. Ausc. 838b, 20-29). In realtà, questa notizia costituirebbe un topos letterario ripreso in maniera pedissequa dalla storia degli studi, o comunque un aspetto sovradimensionato relativo a una tendenza generale che, tuttavia, non può essere ridotta a una secolare monocultura cerealicola. È probabile, alla luce di quanto evidenziato dalle ricerche archeologiche, che la coltivazione di alberi da frutto e di ulivi non fosse del tutto interdetta, come testimoniato dalla presenza di impianti per la produzione dell'olio e di macine. In relazione a questi rinvenimenti legati a strutture, all'analisi archeologica si affianca lo studio dei resti archeobotanici che attesta l'uso di un prodotto meno pregiato come l'olio ottenuto dai frutti del lentisco (Pistacia

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185.Anfola vlnn. llHI sec.

a.e.. ceramica. h..38 em,

Olbfa. Museo M:tteokJglce Nazionale. Anfora di tipolod3 ,ec»,italica. 166. Anfom vinarta tipo DresseJ I, H-1 sec. ac., ceramica, h 123 cm, cagliali, Museo Archeologico Nazionale. tanfora presenta il marchio di un'officina di Sant'Antioco.

lentiscus L.). r; oleum lentiscinum, il cui uso in campo alimentare è noto anche dalle fonti (Palladio, Opus agriculturae XVIII e XX), presentava una più ampia gamma di utilizzi, non ultimi quelli relativi alla cura delle ferite del bestiame e l'illuminazione attraverso l'impiego di lucerne (figg. 227-231). Anche la coltivazione della vite deriva dall'addomesticamento di una pianta selvatica, la Vitis vinifera subsp. sylvestris, attraverso la quale si ottiene la cosiddetta Vitis vinifera subsp. sativa. È probabile che questo processo possa aver avuto origine nelle aree del Vicino Oriente nella seconda metà del IV millennio a.C. I dati archeologici riguardanti la Sardegna evidenziano un diffuso processo di coltivazione della vite almeno a partire dal periodo di passaggio tra Bronzo Medio e Bronzo Recente. Il consumo di vino come ritualità si inserisce in un complesso sistema di interazioni sociali, scambio di doni tra gruppi diversi e condivisione di conoscenze e tecniche. Tra i vari siti dell'Isola nei quali è testimoniata un'attività finalizzata alla produzione vinicola e al commercio del prodotto finito, vanno sicuramente citati i due contesti del nuraghe di Genna Maria di Villanovaforru e il villaggio di Sant'Imbenia, presso l'insenatura di Porto Conte (Alghero). In particolare, in quest'ultimo

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caso, le anfore della tipologia Sant,Imbenia, prodotte localmente a partire dal IX secolo a.C. e rinvenute in diversi siti del Mediterraneo, testimoniano una centralità dell'Isola nei commerci e nello scambio di materie prime e prodotti finiti, contestualmente a dinamiche di interazione culturale relative allo scambio di saperi e tecniche. L'attestazione, in numerosi altri siti a carattere rurale, di "pressoi" litici e palmenti (figg.162-163), questi ultimi diffusi nella tipologia delle due vasche comunicanti, una per la pigiatura e una per la raccolta, confermano la diffusione di strutture e conoscenze connesse con la produzione vinicola. Per quanto attiene ali'età punica, le fonti scritte sembrano restituirci un'immagine della Sardegna nella quale la produzione e il consumo del vino dovevano essere molto diffusi. È noto il passo dello storico Nicolò Damasceno che, parlando dei Sardi di origine africana, rileva come essi non conoscessero altra forma vascolare che la kylix, la coppa per bere di tradizione greca. Numerosi progetti di ricerca a carattere territoriale, principalmente nell'area dell'Oristanese, hanno evidenziato uno sfruttamento capillare dei contesti rurali in questo periodo, con diverse fattorie e insediamenti a carattere agricolo. Tra i vari siti, va sicuramente citato come esempio quello di Truncu 'e Molas, nei pressi di Terralba, nel quale sono stati riportati alla luce i resti di un impianto vinicolo, attivo tra il V e il I secolo a.C., la cui funzione legata alla pigiatura dell'uva è supportata dalle analisi dei resti presenti sull'intonaco delle pareti interne delle vasche e dalla presenza di vinaccioli nei pressi dell'impianto. In età romana, il vino continua a essere prodotto nell'Isola, ma le fonti sembrano tramandarci i sintomi di una flessione qualitativa, come testimoniato da Plutarco (Gr. I, 5), che indirettamente ci riporta la notizia secondo la quale i funzionari inviati da Roma erano soliti portare con sé le scorte vinarie per il soggiorno, a causa della scarsa qualità del vino reperibile nell'Isola. Gli scavi archeologici dei centri urbani principali provano la costante importazione di vini, provenienti in età repubblicana dalle coste tirreniche dell'Italia, per essere poi progressivamente sostituiti da prodotti dell'area iberica e del bacino nordafricano. Le anfore contenenti vino, rinvenute in grande quantità nei contesti urbani e periurbani di Cagliari, Nora, Tharros e Turris Libisonis, testimoniano una forte vitalità del mercato isolano, che riflette in maniera evidente la situazione di

altri'Siti costièrl del Meditetntneo di età romana. Più-articolata e apparentemente ìn contimùtà con le epoche precedenti appare la situazione dei contesti rurali, con impianti di vinificazione articolati e contestuali a insediamenti agricoli o a nuraghi, come nei casi della fattoria in località S,Imbalconadu a Olbia (fig. 81) e delle strutture presenti nel complesso del nuraghe Arrubiu di Orroli (figg. 7, 164). Nonostante questi importanti rinvenimenti, rimane attuale il problema relativo alla reale dimensione della coltivazione della vite e della produzione di vino in Sardegna sotto il controllo di Roma, che solo ulteriori ricerche e analisi paleobotaniche potranno chiarire. Tuttavia, va messo in rilievo come gli indicatori culturali legati a questa bevanda siano individuabili anche in età romana. Ne sono un concreto esempio le testimonianze relative al culto di Dioniso-Bacco, riscontrabili sia in dediche epigrafiche al dio, sia negli esemplari della statuaria rinvenuti in particolare a Cagliari e a Tharros (fig. 386). Ma oltre a questi esempi, anche la cultura materiale e gli elementi connessi ai rituali funerari sembrano porre il vino al centro della vita delle popolazioni della Sardegna in età romana. Per quanto riguarda il primo aspetto, il vasellame rinvenuto nei depositi archeologici dei siti dell'Isola testimonia una centralità delle forme concepite per bere, sia in rapporto alla vita quotidiana sia in relazione alla vita comunitaria e alle forme di ritualità a essa connesse. Per ciò che concerne l'aspetto funerario, invece, sembra che i meccanismi culturali, diffusi in tutto il Mediterraneo antico e legati ai significati che il vino assume nei rituali legati alle sepolture, possano essere letti anche nella Sardegna di età romana con le stesse chiavi interpretative. In questo senso, potrebbero rivestire un significato particolare le cupae, monumenti funerari realizzati in muratura o blocchi monolitici e conformati a botte vinaria (fig. 314). Collocati al di sopra di sepolture a incinerazione e a inumazione, questi monumenti sono stati rinvenuti in diversi siti dell'Isola e potrebbero derivare la loro forma, secondo le ipotesi più accreditate ma non del tutto confermate, da una committenza legata alla produzione del vino o alla devozione nei confronti di Dioniso-Bacco. Nota bibliografica V ODRET 1993; M ASTINO 1995a; R UGGERI 1999a; B ERNARDINI 2003; SANGES 2010; B OTTO 2016; LO! SEGENNI

201 7;

2019.

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167. Anfora olearia da trasporto, 1-11 sec. d.C., ceramica, h 42 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. !.'.anfora è di produzione iberica. 168. Anfora olearia, Il sec. a.e., ceramica, h 78 cm, La Maddalena, Museo Navale "Nino Lambroglia". Anfora ovoidale olearia, appartenente al carico di una nave oneraria di età romana affondata presso Spargi. Poteva contenere 40 litri di olio.

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r: arrivo dei Romani in Sardegna e la conseguente costituzione di un'unica provincia insieme alla Corsica nel 227 a.C. si configurano come eventi che incidono su aspetti legati all'organizzazione territoriale e alle strutture amministrative dell'Isola, ma che si inseriscono nelle dinamiche culturali, nei processi produttivi e nei commerci in maniera sostanzialmente continuativa rispetto al passato, con l'influsso del sostrato punico che continua a essere fortemente presente in numerosi aspetti della vita quotidiana. Nell'Isola, la lavorazione dei cereali finalizzata alla cottura di pani e focacce risulta essere un aspetto fortemente testimoniato da elementi della cultura materiale già prima dell'arrivo dei Cartaginesi. A epoca nuragica sono riferibili, infatti, statuette in bronzo di offerenti con rappresentazioni di focacce date in dono alla divinità. Allo stesso orizzonte cronologico si fanno risalire anche le cosiddette "coppe di cottura", grandi tegami con diametri compresi tra i 40 e gli 80 centimetri, con fondo concavo-convesso, che venivano rovesciati e ricoperti di braci per creare una camera di cottura e la cui funzione e utilizzo sembrano testimoniati anche dalla presenza di fori di sfiato nelle pareti. I pani espressamente concepiti come dono per le divinità erano caratterizzati da una decorazione ottenuta con l'utilizzo delle cosiddette pintaderas, matrici in terracotta, di forma circolare e di piccole dimensioni, inquadrabili cronologicamente tra la fine dell'Età del Bronzo e l'Età del Ferro (X-VIII sec. a.C.), caratterizzate da decorazioni in negativo con motivi geometrici. Questa tipologia di reperti sembra essere in continuità con esemplari affini, ma di dimensioni maggiori, ascrivibili all'età punica e caratterizzati da una decorazione più complessa, con elementi fitomorfi e zoomorfi che si alternano a motivi geometrici e figure umane, riconducibili alla cottura del punicum, la tipica focaccia dolce cartaginese. La decorazione di pani rituali è testimoniata anche in epoca romana, grazie al rinvenimento di alcune matrici a semicalotta sferica nell'area urbana di Nora e decorate con figure di

animali (fig. 169). Si tratta di reperti inquadrabili in età imperiale e diffusi in altre zone del Mediterraneo, quindi connessi a un ambiente culturale differente rispetto a quello che vede l'arrivo dei Romani in Sardegna. Gli autori antichi raccontano come il pane fosse giunto piuttosto tardi a Roma, a differenza di quanto avviene presso gli Egizi, che Ecateo di Mileto definisce come "popolo di mangiatori di pane" (Ateneo, Deipn. 10, 13, 2). Come testimoniato da Plinio, l'alimento più diffuso nell'Urbe era la puls, una sorta di purè di farro (Plinio, Nat. 18, 83), che costituiva la base per la maggior parte dei pasti delle classi mediobasse. I cambiamenti nelle abitudini alimentari del mondo romano, connesse ai prodotti derivati dalla lavorazione del frumento, sembrano coincidere con l'introduzione di alcuni apporti tecnici e tecnologici che influirono in maniera importante su questi aspetti, tra i quali vanno sicuramente segnalati l'arrivo di cereali di migliore qualità, come il triticum turgidum, dalla Sicilia e dall'Africa (fine V sec. a.C.) e l'introduzione della tecnica della fermentazione e l'uso della mola per la macinazione dei cereali, forse a partire dal II secolo a.C. L'uso di impastare, far fermentare e cuocere dei pani sembra dunque essere stato introdotto a Roma in diverse fasi e attraverso il contatto con le altre popolazioni del Mediterraneo. Catone riteneva l'introduzione di queste novità alimentari uno degli elementi maggiormente connessi con il rischio di decadenza dei costumi degli avi. Le ricette riportate nel suo trattato, infatti, riguardano solo pani privi di lievito (Catone, Agr. 74-87), forse in connessione con proibizioni legate alle usanze religiose: alcune fonti, infatti, ci informano del fatto che le focacce per i sacrifici dovevano essere prive di lievito, poiché altrimenti era proibito al sacerdote (flamen) toccarle (Gellio, 10 .15 .19). A Roma, i lavori connessi alla panificazione sono legati, come molte altre attività, al controllo dello Stato e al lavoro di un'associazione professionale, quella dei pistores. Questo termine, con il quale verranno designati genericamente i fornai, deriva dal

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venne successivamente organizzato nell'associazione professionale del collegium pistorum, almeno a partire dall'età di Traiano. La centralità di questi aspetti nella vita quotidiana nel mondo romano è testimoniata anche dalle cerimonie religiose, con l'importanza rivestita dai Fornacalia, le feste connesse con la torrefazione del farro e collocate il 17 febbraio, nel periodo di chiusura dell'anno. Si tratta del periodo di passaggio tra il vecchio e il nuovo anno, coincidente quindi con il momento centrale del ciclo agrario, connesso con l'inizio del consumo del nuovo raccolto del farro e molto probabilmente legato alle feriae sementivae, la celebrazione della semina consacrata alle dee Ceres e Tellus, rispettivamente legate ai cereali e alla terra feconda. Si tratta di rituali complessi che testimoniano una contiguità tra ciclo agrario, ciclo della vita dell'uomo e culto dei morti, legame sancito dalla celebrazione nello stesso 169. Matrice per pani, Il sec. d.C., proveniente da Nora, ex area militare, Magazzini Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna.

periodo delle feste private in onore dei propri defunti (Pàrentalia). Per quanto concerne la Sardegna, gli aspetti legati alla panificazione sembrano essere connessi maggiormente agli ambiti rurali e a una produzione locale legata alle singole comunità. Sono ascrivibili all'età romana alcuni insediamenti a carattere agricolo, caratterizzati da vani e impianti chiaramente legati alla lavorazione di prodotti della terra. Nel territorio di Olbia, in località S'Imbalconadu (fig. 81) sono da tempo stati messi in luce e studiati i resti di una fattoria, attiva almeno a partire dal II secolo a.C., all'interno della quale venivano eseguite, tra le altre, operazioni connesse con la lavorazione del pane: provengono infatti da uno dei vani di questa struttura polifunzionale i resti in basalto di una mola manuaria pumicea, secondo una tipologia nota sia a Cartagine che nella penisola italica. Dall'area urbana di Nora provengono numerosi manufatti legati alla lavorazione di questi prodotti, come mortai, macine a sella e tavole molitorie, oltre a un capitello figurato rinvenuto nei pressi del colle di Tanit e reimpiegato come base per una meta di macina rotatoria manuale. Per quanto riguarda la cottura del pane, sono noti in Sardegna e in tutto il Mediterraneo di tradizione punica, i cosiddetti tabouna o tannur: si tratta di forni fittili, realizzati in più parti saldate tra loro a formare una struttura troncoconica a sezione circolare, piazzati a terra e caratterizzati da una piccola apertura alla base per il posizionamento delle braci e da un'altra alla sommità per l'introduzione dei pani crudi, che venivano fatti aderire alle pareti del forno, che costituivano le superfici di cottura. Gli esemplari presentano generalmente altezze comprese tra gli 80 e i 100 centimetri, con un diametro che oscilla tra i 60 dell'apertura e gli 80 della base. Questa tipologia di forno presenta una forte continuità di vita, inquadrabile almeno tra il V secolo a.C. e i giorni nostri, essendo ancora riscontrabili strutture simili nei cortili delle abitazioni di molti insediamenti del Nord Africa.

Nota bibliografica 1991 ; SANCIU 1991; PORCI 1999; 2001 a; CAMPANELLA 2001 b ; CAMPANELLA 2005; Cossu 2005; PALMER! 2007; BRACONI 2008; CAMPANELLA 2009; SATTA, LOPEZ 20 10; DI GENNARO, D EPALMAS 2011 ; B UONOPANE 2015; ANDRÉ 2016; ZARA 202 1.

P ROSDOCIMI

CAMPANELLA

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170. Ricostruzione di una macina rotatoria , pietra , h 30 cm , Villanovaforru , Museo Civico Archeologico. Questa tipologia di piccola macina è detta "del legionario". 171. Parte superiore di macina "a clessidra", pietra, h 39 cm , proven iente da San Gavino, Villanovaforru , Museo Civico Archeologico.

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L'alimentazione Bianca Maria Giannattasio

Il cibo esprime l'anima di un popolo e così avviene anche per i Romani: sono le consuetudini alimentari e gli oggetti correlati, come la ceramica da mensa, da preparazione e da cucina, a indicare che un territorio è diventato a tutti gli effetti patrimonio di Roma. Nel caso della Sardegna, nonostante questa sia divenuta provincia romana alla fine del III secolo a.C., la dieta alimentare punica sembra sopravvivere fino all'età augustea, anche perché aveva elementi in comune con quella dei cittadini dell'Urbe. Infatti in ambedue i popoli sussisteva una sorta di dieta mediterranea, se vogliamo esprimerci con uno schema moderno: alla base dell'alimentazione vi erano i cereali e i loro derivati (pane, puls), legumi, verdura e frutta; a livello settimanale il consumo di pesce, uova e carni bianche; a livello mensile la carne rossa, tutti indispensabili fonti di grassi, proteine e vitamine. Della puls punica Catone (De agri cultura 85 ) lascia una preziosa ricetta: «La puls punica si cuoce così: metti in acqua una libbra di semola di grano e lasciala bene a mollo; poi versala in un recipiente pulito e aggiungi tre libbre di

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formaggio fresco, mezza libbra di miele e un uovo, amalgama bene tutti questi ingredienti e travasa in un'altra pentola». Il risultato è un piatto unico, ma ricco e nutriente, che richiede una cottura lenta, prolungata, senza necessità di una grande sorveglianza in cucina. Anche il contenitore era molto semplice, in pratica un'olla globulare con il fondo arrotondato e l'imboccatura ridotta per evitare la dispersione del vapore. Non molto differente la puls dei Romani, dove al posto del grano si utilizza il farro; veniva sempre cotta in un'olla, in acqua e sale, fino a essere ridotta a una specie di polenta che si condiva a seconda delle stagioni con legumi, verdure, mandorle, frutta, formaggi, pesciolini salati (gerres o maenae) e, raramente, con carne. Se diversi scrittori latini parlano di alimenti, o per meglio dire di come si ottengono e coltivano le materie prime ( Catone, De agri cultura; Columella, De re rustica; Varrone, De re rustica libri III; Plinio, Naturalis Historia; Gargilio Marziale, apud Medicina Plinii), non esiste un testo tecnico sulle scelte alimentari e sulla preparazione dei cibi; l'unico ricettario tramandatoci, De re coquinaria di Apicio (IV sec. d.C. ), è una summa di ricette più o meno confuse e poco dettagliate, i cui ingredienti risultano per lo meno strani al palato moderno; molte riportano l'uso smodato di erbe forti e spezie varie: pepe, cumino, timo, finocchio e il prezioso silfio, coltivato in Cirenaica. In Sardegna la grande disponibilità di cereali, determinata dal divieto cartaginese di impiantare alberi da frutta, favorisce da un lato il perpetuarsi nei secoli della puls punica e dall'altro la produzione del pane, che doveva presentarsi sotto forma di focaccia rotonda non lievitata, nota col nome di punicum (Pesto, s.v. punicum): in pratica si tratta di farina impastata con acqua e sale poi schiacciata, che veniva cotta nel tannur, ossia un forno di argilla troncoconico, alla cui parete calda veniva fatta aderire. Queste focacce, con l'aggiunta di frutta secca e miele, potevano divenire anche dei dolci confezionati in occasioni di celebrazioni civili e religiose; per tali occorrenze venivano decorati con motivi vari: geometrici, floreali, narrativi, adoperando

172. Calice , I sec. d.C., ceramica , h 12 cm , proveniente dalla necropoli di Nora , Pula , Civico Museo Archeologico "G. Patroni". Calice in terra sigillata italica , decorato a bacellature, prodotto da un'officina aretina in età augustea. 173. Calice , prima metà I sec. d.C., ceramica , h 15,5 cm, proveniente da Turris Libisonis, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G .A. Sanna". Calice in terra sigillata italica, decorato con maschera di Sileno e grappoli d'uva.

delle matrici fittili bivalve (figg. 61-62 , 169). I legumi (lenticchie, fave, ceci e piselli) e gli ortaggi (cipolle, aglio, porri, cardi, cavoli, erbe commestibili) dovevano essere una componente importante della dieta giornaliera, anche se difficilmente, tranne per alcune eccezioni dovute alla loro carbonizzazione, se ne trovano tracce negli scavi archeologici a causa della loro deperibilità e della difficoltà di individuarne i resti durante lo scavo, ma anche perché solo in anni recenti si presta attenzione a questi dati. Lo stesso problema si presenta per la frutta, che viene documentata soprattutto da fonti letterarie e da riproduzioni in argilla per offerte votive o funebri; si può supporre che nell'Isola si conoscessero le mele, le pere, le pesche, le susine, le sorbe, le mandorle, le noci, le nocciole, le castagne, i fichi (Santa Filitica di Sorso), il melograno, definito malum punicum da Plinio e da Catone. La frutta non sempre veniva consumata fresca, ma spesso essiccata o secca era una risorsa per tutto l'anno, che doveva apportare la giusta dose di zuccheri. In tal senso si sfruttava il miele, che, utile anche per le

libagioni, costituiva un ingrediente importante della puls punica; mescolato all'acqua con l'aggiunta di lievito ed erbe aromatiche e fatto fermentare si trasformava in bevanda alcolica: l'idromele. Non si conosce un contenitore ad hoc, ma i cosiddetti sombreros de capa, vasi cilindrici di origine iberica (II-I sec. a.C.), dovevano contenere frutta secca o miele (Cagliari, Nora, Bithia, Tharros, Perfugas, Olbia). Le proteine nobili si ricavavano dal consumo di latticini e di pesce, più facili a essere reperiti, piuttosto che dalla carne. Del latte e dei suoi derivati poco si riesce a documentare, poiché non si riscontrano recipienti specifici per contenere il latte o per lavorare il formaggio. È facile che si usassero contenitori di pelle, di vimini e di altri materiali deperibili; il gran quantitativo di resti ossei di ovicaprini, nonché di bovini, permette di supporre che latte e latticini fossero alimenti molto utilizzati nella dieta. Un elemento fondamentale della nutrizione è fornito dalla fauna ittica, sia consumata a pasto sia lavorata e conservata. Non è facile reperire resti di lische, ma sovente negli scavi si

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recuperano parti delle vertebre (Nora, Turris Libisonis, Olbia); come già dall'età punica molto presenti sono i molluschi, in particolare chiocciole marine, patelle, mitili, vongole e arselle, bocconi e ricci (Cagliari, Nora, Turris Libisonis, Olbia, nuraghe Flumenelongu, Alghero), ma anche, sebbene più rare, le pregiate ostriche (Cagliari-vico III Lanusei, Nora). I pesci consumati sono quelli propri di tutto il Mediterraneo, ossia pesce azzurro, orate, murene, cefali, pagri, pagelli, zerri, seppie. Il prodotto ittico si presta a essere conservato a lungo, di solito con il semplice metodo dell'essiccamento o della salagione, sistemi facilmente applicabili in Sardegna, ma anche sotto olio. Due anfore da Olbia (II sec. d.C. ) documentano chiaramente il sistema conservativo con delle precise scelte: in una sono stati inseriti pesci di 15-20 cm di lunghezza, in caso di specie di taglia maggiore si sono scelti pesci giovani che non superassero quella misura, pescati in primavera; nella seconda c'è un miscuglio di piccoli pesci, soprattutto sardine, di cui solo le più piccole intere, mentre i pesci più grandi sono disarticolati: probabilmente il prodotto doveva avere la consistenza di una pasta tipo allec. Questo, insieme al garum e al liquamen, è il risultato della lavorazione del pesce azzurro, in particolare dei tonni, che dall'Atlantico attraversano il Mediterraneo fino al Mar Nero per riprodursi. Si tratta di un condimento, a vari stadi di preparazione, dal più pregiato, il flos liquamini, a quello più dozzinale, l' allec, riservato ai poveri e agli schiavi; se ne conserva una ricetta del III secolo d.C. (Gargilio Marziale 62): «Si usino pesci grassi come sardine e sgombri cui vanno aggiunti, in porzione di 1/3, interiora di pesci vari. In un vaso di stagno della capacità di 26-35 litri su un fondo fare un alto strato di erbe aromatiche secche e dal forte sapore . .. Su questo fondo disporre le interiora e i pesci piccoli interi, mentre quelli più grossi vanno tagliati a pezzetti. Sopra si stende uno strato di sale alto due dita. Ripetere gli strati fino all'orlo del recipiente. Lasciare riposare al sole per sette giorni. Per altri venti giorni mescolare sovente. Alla fine si ottiene un liquido piuttosto denso che è appunto ilgarum. Esso si conserverà a lungo». Il garum , oltre alle proprietà alimentariconservative, era conosciuto anche per quelle medicamentose; è citato per lo meno in venti ricette del De re coquinaria, ma anche da Orazio, quando descrive la cena di Nisidieno (Hor., Sat. II, 8) e da Petronio per la cena di 204

Trimalcione (Petr., Satyr. 29, 7). Diverse anfore, recuperate in Sardegna, che presentano impeciatura interna a resina, o l'iscrizione sull'esterno flos liquamini, dovevano contenere questo condimento, che anche per tradizione - famoso era il garum sociorum gestito dai Cartaginesi - era parte essenziale dell'alimentazione sarda. Non solo le anfore preposte, ma anche altre, già utilizzate per il trasporto dell'olio o del vino, potevano essere riciclate a questo scopo, visto il gran consumo che si faceva di questi tipi di salse. A Nora (Area C) i resti di un'officina alimentare (III-II sec. a.C.) in cui si procedeva sia all'essicazione del pescato che alla lavorazione del garum al momento sono l'unica documentazione in Sardegna, ma anche altre città, soprattutto quelle che vedono il passaggio dei tonni come Turris Libisonis e Sulci, dovevano avere degli spazi riservati alla lavorazione del pesce. Le analisi di resti faunistici, ormai }ISO comune negli scavi più recenti ( Cagliari, Nora, Sulci, Tharros, Santa Filitica di Sorso, Olbia), consentono generalmente di verificare la gran presenza di ovicaprini, che venivano macellati a ogni stadio di età, perché servivano, oltre che per la carne, per la produzione del latte e della lana, seguiti dai suini e dai bovini, che, rappresentando una notevole forza lavoro e non solo in campo agricolo, venivano per lo più abbattuti in tarda età. Dai vari ritrovamenti per l'età romana (Nora, Bosa, Genoni, Alghero, nuraghe Flumenelongu, nuraghe Talia, nuraghe Mannu) si nota un aumento, rispetto alla fase punica, del consumo di carne di bovini e soprattutto di suini, anche se non sempre è facile distinguere i resti di maiale domestico da quelli di cinghiale; con il tardo-antico si ha un cambio di tendenza con la diminuzione dell'apporto dei suini. Questi vengono macellati anche giovani, un antecedente dell'attuale porceddu; si procedeva al taglio e alla scarnificazione degli arti anteriori, mentre il quarto posteriore restava più integro; dei bovini le tracce di macellazione indicano che venivano fatti a pezzi di grande dimensione per il consumo della carne, che risultava più stopposa e meno pregiata, data l'età avanzata dell'animale; normalmente le scapole venivano scarnificate presentando troncature e numerosi segni di lavorazione, poiché è da questa parte dell'animale che si possono ricavare manufatti in osso (bottoni, fibbie, rondelle, elementi decorativi), mentre dalle tibie oggetti a punta (aghi, spilloni, stili, punteruoli).

174. Scodella , V sec. d.C. , ceramica, 0 10 cm, proveniente da Quartucciu, necropoli di Pill 'e Matta, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Scodella in terra sigillata africana, all'interno decorazione a stampo con motivi a losanghe ripetuti.

Gli ovicaprini, data la loro taglia, subivano una macellazione di tipo domestico come sembra dalla presenza di tagli non netti; si riducevano in pezzi piccoli gli arti inferiori e i posteriori, mentre le parti meno carnose erano tagliate in grossi pezzi. I rinvenimenti di anfore con carni stoccate dal porto di Cagliari e da Nora (Scavi Cassien) testimoniano come spesso fosse la carne di bovino a essere conservata macellata e disossata, talvolta anche essiccata, per venire inserita in grandi contenitori, come le anfore, con aggiunta di sale, ma anche di olio o di vino, documentato dalla presenza di vinaccioli. La triade alimentare suini, ovicaprini, bovini rappresenta la classica successione di animali da sacrificio (suovitaurilia), come comprovano anche i resti nel santuario La Purissima presso Alghero; una volta effettuato il sacrificio e l'incinerazione delle interiora in onore delle divinità, il resto degli animali veniva distribuito e consumato dai fedeli, costituendo un'integrazione alla loro dieta. La caccia, così come la pesca, testimoniata dalla presenza di numerosi ami, aghi e pesi da rete, doveva completare l'alimentazione, ma nei resti faunistici noti non è frequente la presenza di selvaggina tipo 1 volatili, le pernici, le lepri; più numerosi i frammenti ossei di cervi (Nora, villa S'Imbalconadu, Olbia, nuraghe Flumenelongu, Alghero, villa romana di Talia, nuraghe Genna Maria). In ogni caso si tratta di uno o due individui; quando sono presenti più esemplari, in aree che hanno un retroterra boscoso, oltre al consumo delle carni, doveva avere notevole rilevanza la lavorazione dei palchi.

Importante doveva essere l'impiego di pollame, in sostituzione della carne più pregiata, anche se la documentazione scarseggia e di solito si tratta di resti di galli (Nora, Santa Filitica, Turris Libisonis, Alghero, Olbia), che vengono allevati anche come animale da sacrificio. Il rinvenimento di gusci di tartaruga terrestre con segni di macellazione lascia supporre l'uso alimentare anche di questo animale, mentre è più difficile definire l'utilizzo di chiocciole terrestri, che possono essersi introdotte posteriormente negli strati antichi, e di ghiri, di cui i Romani erano particolarmente ghiotti. L'olio costituiva il giusto apporto di grassi per equilibrare la dieta mediterranea: serviva come condimento in tutte le preparazioni sia fresche che conservative, oltre essere utile in cosmesi, in medicina, nell'illuminazione; sicuramente esistevano degli uliveti, anche se gli indicatori (frantoi, palmenti) non sono molto numerosi. La produzione non doveva essere però sufficiente, poiché da tutta la Sardegna e dai relitti della costa occidentale provengono numerose anfore Dressel 20, contenitori di olio betico e anfore africane con la stessa funzione (figg. 167-168). Diversamente il vino non rappresenta un alimento quotidiano: ha qualità nutrizionali trascurabili, per di più era appannaggio delle classi sociali più elevate e poteva essere ben sostituito, per valori alcolici, dal più economico idromele. Rispetto all'età punica, in epoca romana il consumo è decisamente in aumento: si beveva di sicuro ancora il vino dell'Oristanese e della Nurra, ma grande era l'importazione dalla Campania del noto Falernum (relitti di Spargi, di Mal di Ventre), dalla Gallia (relitti

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175-176. Piatto, fine I sec. d.C. , ceramica, 0 18 cm, proveniente da Tharros, Oristano, collezione archeologica del Seminario Arcivescovile, Museo Diocesano Arborense. Piatto in terra sigillata sud-gallica di età augustea.

Lavezzi A, Lavezzi B), e la ricerca di vini più pregiati come quello di Chio o delle isole egee (Nora). Come consuetudine non era bevuto da solo, probabilmente perché la vinificazione lasciava tracce non sempre gradevoli al palato, e quindi era tagliato con spezie varie, con miele o semplicemente allungato con acqua, anche se forse sopravviveva ancora la pratica greca di grattugiarvi dentro del formaggio. L'uso degli alimenti, però, non permette di ricostruire la dieta quotidiana né tanto meno di individuare le differenze di alimentazioni tra le varie classi sociali: i ricchi avevano un mangiare variato, denso di proteine e molto abbondante, che probabilmente portava ad avere anche una serie di disturbi di salute. Invece le classi più povere e gli schiavi avevano un maggiore consumo di cereali, come dimostra spesso la dentatura dei morti che presenta una particolare usura dei denti, dovuta a carenze

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alimentari, anche se già Catone (De agri cultura 56 ) suggeriva al dominus una dieta variata e differenziata secondo le stagioni, con cui nutrire gli schiavi addetti ai lavori agricoli. Come già detto, mancando manuali di tecniche culinarie e ricettari, solo gli oggetti correlati possono offrire delle notizie, in particolare il vasellame da mensa, che per il suo carattere di status symbol può essere una cartina al tornasole del variare delle abitudini, mentre quello da dispensa e da cucina, proprio per la sua funzionalità, muta meno attraverso i secoli. Quando per influenze esterne, soprattutto ellenistiche (III-II sec. a.C.), si passa a una alimentazione più variegata ed equilibrata, abbandonata la puls punica per cibi più solidi, si assiste a mutamenti anche delle forme vascolari. La grande produzione di ceramica a vernice nera, che indica l'avanzata di Roma nel Mediterraneo, è costituita prevalentemente

da forme aperte: coppe e piatti. In particolare cambia il modo di mangiare il pesce, non più semplicemente bollito o arrostito, ma ridotto a piccoli bocconi, forse anche crudi, condito da più appetitose salse, prima fra tutte il garum. È proprio adatta a questa moda di mangiare la fabbricazione di piatti da pesce, sia decorati con diverse specie di pesce sia in ceramica acroma, caratterizzati da una cavità centrale, dove poteva essere messo direttamente il condimento oppure una coppetta-salsiera. Questo nuovo modo di cibarsi, ossia ridurre il cibo solido in bocconi e non più a grandi porzioni, porta a servire le diverse pietanze in piccoli piatti. Sul finire del I secolo a.C. inizia ad aumentare il consumo di cibi a base di carne, ancora cotti a fuoco lento, sebbene all'olla si tende a sostituire il caccabus, ossia una pentola con imboccatura più larga e dotata di coperchio; si tratta di una forma più versatile e decisamente più capiente, che consente sia di bollire che di stufare le pietanze. È soprattutto con la prima età imperiale, però, che si assiste al prevalere del consumo di proteine animali, che porta a scegliere una cottura più complessa per arrostire o stufare le carni. Lo strumento che caratterizza le nuove abitudini alimentari è la patina, un tegame basso e largo, più volte citato nel ricettario di Apicio, che si può coprire di ceneri calde o inserire in forni, anche da campo. Una ricetta del De re coquinaria ha proprio questo nome e indica una specie di frittata a base di uova sbattute e verdure. La semplicità di questo piatto fa sì che si trovi utilizzato facilmente in ogni territorio romano, compresa la Sardegna. Sulla mensa il servizio da tavola passa dalla vernice nera alla rossa (Terra Sigillata) ma conserva forme aperte ( coppe e piatti) di non grandi dimensioni. Solo con il III secolo d.C. si assiste a un nuovo tipo di commensalità, non più individuale ma corale, per cui il cibo è servito in un grande recipiente centrale da cui ognuno attinge e di conseguenza sulla mensa compaiono grandi forme (piatti e vassoi). Il diminuire del consumo di carni di bovini, e anche di suini, indica per il periodo tardoantico (dal VI sec. a.C. ) un ritorno a una dieta più povera, legata a cotture lente e prolungate per zuppe e bolliti, e infatti aumenta la presenza di pentole/casseruole, olle, piatti/coperchi di varie ·misure, fatti anche a tornio lento o a mano, che manifestano un cambiamento di nutrizione, che si prolunga fino all'Alto-Medioevo.

Il variare della dieta si ricollega anche alle vicende storiche in cui è coinvolta la Sardegna, che, inserita nel centro del Mediterraneo occidentale, si trova sulle rotte tra la penisola italica e le coste iberiche e soprattutto è, per lunga tradizione, legata all'Africa settentrionale. Quindi è evidente che al momento della romanizzazione l'influenza di Roma si faccia molto sentire anche nelle scelte alimentari, e di conseguenza predomina una dieta proteica, a base di carne rossa, ma in ogni caso si mantiene il consumo del pesce e dei suoi derivati, di cui i Romani stessi erano ghiotti. Quando la dinastia dei Severi (III sec. d.C.), imperatori di origine africana, prende il potere, si assiste a un cambio di abitudini legato non tanto agli alimenti, in quanto la carne viene sempre molto consumata, ma al modo con cui si sta a mensa, per cui non più porzioni individuali, ma piatti da portata da condividere tra più commensali. Questo porta a pensare che si facesse meno uso di salse e condimenti e forse maggiormente di olio, che fornisce di per sé una giusta riserva di grassi, e di cui l'attuale Tunisia deteneva il monopolio. Ancora sotto i Vandali, a giudicare dalle testimonianze vascolari, si mantiene inalterata questa situazione, che invece sembra degenerare con il VII-VIII secolo d.C. allorché la Sardegna entra a fare parte dell'Impero Bizantino e, propaggine dell'estremo Occidente, perde anche di importanza commerciale. Questo si riflette in un ritorno a una dieta basata più su legumi e ortaggi e meno ricca di proteine, di cui il maggior consumo viene dagli ovicaprini, sia per i latticini che per le carni, cotte a lungo in lessi o stufati e probabilmente servite nei piatti-coperchio, così denominati dalla loro duplice funzione. Il quadro tracciato lascia molte ombre ed è limitato alle informazioni che si possono ricavare dalle fonti letterarie, per quanto generiche, dallo studio dei prodotti vascolari e dalle indagini archeozoologiche, paleobotaniche, archeogenetiche e paleopatologiche, che negli ultimi decenni di studio si effettuano normalmente nelle campagne di scavo. In ogni caso difficilmente si riuscirà a ricostruire in modo esatto l'alimentazione romana, poiché troppi fattori eduli non si conservano.

Nota bibliografica La bibliografia sull'argomento è generica; si indica qui una bibliografia essenziale: DOSI, SCHNELL 1986a; DosI, SCHNELL 1986b; SALSA PRINA RICOTTI 1993; GRIMAL 1998; C AMPANELLA 2008; T UBALDI 2009-10; GIANNATTASIO 2010; WILKENS 2012a; BOTTE, LEITCH 2014.

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approfondimenti Il corredo da mensa e il suo utilizzo in ambito alimentare Gianna De Luca

Per il mondo romano, la grande rilevanza assegnata alle pratiche alimentari è testimoniata da numerosi tipi di fonti, come quelle letterarie, iconografiche ed epigrafiche, ed è documentata inoltre dalle grandi quantità di ritrovamenti archeologici relativi ai frammenti degli utensili destinati all'uso culinario - sia da cucina sia da mensa - che, analizzati mediante strumenti sempre più puntuali, ci raccontano dei modi di vita degli antichi. Con il rinvenimento dei resti dei manufatti utilizzati in passato infatti, oggi

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siamo in grado di conoscere quali fossero i cibi di cui si faceva uso e come questi venissero preparati, e di fare luce, inoltre, sui circuiti commerciali che consentivano ai prodotti di giungere fin nei punti più remoti dell'Impero. Grazie a queste analisi, conosciamo con sempre maggior precisione quanto importante per la cosiddetta "romanizzazione" sia stàta l'esportazione di usi e costumi alimentari, un fenomeno che possiamo immaginare condotto attraverso un doppio binario: direttamente, per mezzo dei cibi che i Romani sentivano

177-179. C9PPI., ~ patera, Il sec. ceramica,

a.e.,

rispettivamente b 5;8 em-,

h 7 cm e 019 cm. Sassari, Museo Areheologjco

Etno(JBfleo Nazionale "G.A. Sanna". I tra manufatti in ceramica a vernice nera sono di produzione campana (Campana A). 180. Piatto, fine I-inizio Il sec. d.C., ceramica, 0 14 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Il piatto, in terra sigillata sud-gallica •marmorizzata", è un prodotto dell'atelier La Graufesenque. 181. Bicchiere monoansato con raffigurazione antropomorfa, I sec. d.C., ceramica, h 8 cm, Olbia, Museo Archeologico Nazionale. Il bicchiere è realizzato in ceramica a pareti sottili.

più legati alla propria tradizione e, indirettamente, attraverso i contenitori destinati al loro trasporto e consumo. I rinvenimenti archeologici riconducibili all'ambito culinario della Sardegna romana, relativi in larga prevalenza a manufatti in ceramica, testimoniano da un punto di vista alimentare la progressiva adozione di usi e consuetudini importate dalla penisola. Tali attestazioni sono numerose e provengono sia dai siti costieri sia dai centri dell'interno dell'Isola, sebbene i caratteri marcati del preesistente mondo sardo-punico rimangano per lungo tempo ben percepibili. Alla fine del III secolo a.C., si datano le prime importazioni di vasellame romano a vernice nera, utilizzato come servizio da mensa sia per bere sia per mangiare e che almeno per qualche decennio sembra affiancarsi ai vasi prodotti in Sardegna che imitano forme più antiche, derivanti dalla tradizione diffusa da Cartagine. Con il passare dei decenni si aggiungono nuove importazioni

dalla penisola, collegate al commercio del vino italico, come i bicchieri a pareti sottili che riproducono vasi in metallo pregiato e nuove produzioni di ceramica a vernice nera, che diventa sempre più abbondante. Tra i vasa coquinatoria invece, cioè i recipienti destinati alla cottura dei cibi, l'olla è senza dubbio la più diffusa e la più antica. Questa pentola ci viene descritta da Columella come alta, dalla pancia larga e con l'imboccatura stretta, una forma che permetteva una cottura lenta dei cibi attraverso la bollitura in acqua. L'uso di questo contenitore è da sempre connesso al consumo delle celebri pultes, le zuppe di cereali che costituivano la pietanza base dell'antico mondo mediterraneo greco, punico e romano. Dalla metà del I secolo a.C. si assiste a una vera e propria rivoluzione alimentare, collegata a un nuovo sistema produttivo ed economico basato su un'agricoltura di tipo latifondistico organizzato soprattutto nelle grandi proprietà terriere della Campania f elix e della Magna Grecia, dove prevalgono le produzioni di vino, olio e grano. Proprio quest'ultimo prodotto, immediatamente dopo la sua introduzione a Roma, si afferma in maniera sempre più evidente tra gli alimenti cerealicoli più diffusi, rimpiazzando l'antica farina di farro, legata alla più arcaica tradizione italica. A questo fenomeno si lega indissolubilmente il rinvenimento di nuovi vasi per la cottura dei cibi, caratterizzati ora da profili bassi e larghi, come le nostre moderne teglie da forno, e rivestiti di una vernice dalla funzione antiaderente. Questi tegami da forno ci segnalano così un cambiamento importante nella percezione degli usi alimentari romani, diventando una traccia archeologica significativa per comprendere come si sia diffuso anche in Sardegna tale habitus romano. Verso la fine del I secolo a.C. si afferma sul

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183. Calice, I sec. d.C., ceramica, h 12 cm, proveniente dalla necropoli di ls Pirixeddus, Sant'Antioco, Museo Archeologico Comunale "F. Barreca". Il calice, realizzato in terra sigillata, è bollato dal ceramista M. Perennius Crescens di Arezzo. La decorazione riporta una teoria di danzatrici distanziate da ghirlande.

184. Coppa, seconda metà I sec. d.C. , ceramica , h 15 cm, proveniente dalla necropoli di Su Cunventeddu presso Nora, Pula, Civico Museo Archeologico "G. Patroni ". La coppa, realizzata in terra sigillata sud-gallica, è decorata con motivi vegetali.

2 10

185. Brocchetta a corpo globulare, primi decenni Il sec. d.C., ceramica, h 23 cm, proveniente da Comus, Sassari, Museo Afcheologlco EtnofO'afico Nazionale ·s.A. Sanna".

Il versatore è realizzato in terra sigillata africana.

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mercato un nuovo tipo di ceramica destinata alla mensa. In sostituzione dei vasi verniciati di nero. nelle officine dell'Italia centrale si producono ora coppe e piatti in ceramica sigillata, caratterizzata dal tipico rivestimento rosso brillante e spesso anche decorata. Questa ceramica si accompagna letteralmente al processo di conquista politico-militare delle nuove province e per mezzo delle decorazioni poste sui vasi viene spesso investita anche di un ruolo propagandistico, dimostrando ancora una volta come per i Romani le abitudini alimentari possano considerarsi una parte essenziale dell'essere cittadini. A partire dalla metà del I secolo d.C., gli scambi commerciali che coinvolgono la Sardegna cominciano ad ampliarsi e nuovi prodotti giungono nell'Isola da diverse province, come Gallia e penisola iberica e, verso la piena età imperiale, soprattutto dall'Africa romana. In questa regione, una nuova trasformazione produttiva a basso costo determina l'affermazione dell'olio africano come derrata commerciata in grandi quantità in tutto il Mediterraneo, esportata insieme a una nuova ceramica da mensa e da cucina, che si impone per tutta l'età imperiale e fino al V secolo d.C. Con la tarda antichità, la nuova sigillata africana diventa la ceramica più diffusa, caratterizzata da piatti e scodelle piuttosto grandi, che sembrano suggerire un cambiamento importante nelle abitudini di consumo dei pasti, caratterizzati ora da grandi piatti condivisi da cui tutti i partecipanti al banchetto possono attingere.

Nota bibliografica G IARDINA, SCHIAVONE 1981 ; M OREL 1981 ; G OODY 1982; BATS 1988; ETTLI GER, ET AL. 1990; TRONCHETTI 1996; MASTINO 2005c; Dr G IUSEPPE

2012; 0 LCESE, COLETTI 2016.

1212

186. Brocca , età imperiale, terracotta, 0 23 cm , proveniente da Tharros, Oristano, collezione archeologica del Seminario Arcivescovile, Museo Diocesano Arborense. 187. Piatto, età imperiale, ceramica , 0 18 cm, proven iente da Tharros, Oristano, Antiquarium Arborense. 188-189. Pentole , età imperiale, terracotta , rispettivamente h 14,5 cm e h 16,5 cm , proven ienti da Tharros, Oristano, collezione archeologica del Seminario Arcivescovile, Museo Diocesano Arborense.

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190. 0/pe , 1-111 sec. d.C., ceramica , h 20,5 cm , Nuoro, Museo Archeologico Nazionale "G. Asproni ". 191. Olla biansata, I sec. d.C., ceramica , h 14,2 cm , Nuoro, Museo Archeologico Nazionale "G. Asproni". 192. Coppa biansata, I sec. d.C., ceramica , h 5,8 cm , Nuoro, Museo Archeologico Nazionale "G. Asproni". La coppa è in ceramica a pareti sottili, decorata alla barbottina. 193. Coppa biansata , I sec. d.C. , ceramica , h 6,7 cm , Nuoro, Museo Archeologico Nazionale "G. Asproni ". La coppa è in ceramica a pareti sottili con decorazione a rotella .

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Fin dalla preistoria la pesca e il trattamento conservativo del pescato hanno rivestito un ruolo importante nel reperimento del cibo, sia in mare che in acque interne, non solo per l'ampia disponibilità di fauna marina, ma anche per la qualità e il gusto del pescato. Tutto ciò viene confermato dalle fonti, in particolare quelle iconografiche, che, a partire dall'arte rupestre, illustrano pesci, scene e sistemi di pesca, imbarcazioni e attrezzature. Il mondo romano non è stato da meno, le rappresentazioni a tema ittico sono diffuse e presenti nei mosaici, negli affreschi, nelle monete, negli oggetti d'uso quotidiano, come piatti, vasi, coppe e lucerne. Le raffigurazioni musive nordafricane del II-III secolo d.C., conservate nel Museo di Sousse in Tunisia, ci forniscono un vero catalogo delle specie ittiche presenti nel Mediterraneo, associate ad attività di pesca effettuate dalle barche con nasse, fiocine, canne da pesca e reti. Una coppa da mensa di produzione africana, rinvenuta nelle acque di Nora, in un contesto databile al III-IV secolo d.C., riporta in rilievo sull'orlo la rappresentazione di polpi e cernie. Il valore del mondo marino e della sua fauna è il tema rappresentato negli affreschi delle pareti della Tomba dei Pesci di Cagliari, ai piedi della necropoli di Tuvixeddu. Rispetto ai periodi precedenti, in età romana, le tecniche di pesca non cambiarono molto, come ci rappresentano i citati mosaici di Sousse o ci descrive con dovizia di dettagli il poeta Opiano verso la fine del II secolo d.C., negli Halieutika (III, 640-648), un prezioso trattato tecnico sui sistemi di pesca. Le imbarcazioni erano realizzate con caratteristiche adatte ai diversi tipi di pesca, mutandone le forme e la stazza, dotandole in molti casi di appositi pozzetti quadrangolari a centro barca, dove tenere m acqua il pescato ancora vivo, come la barca rinvenuta a Fiumicino. Il bronzo sostituì materiali organici o metalli ferrosi, aumentando la durata e le qualità di ami e fiocine. I pesi da rete potevano essere realizzati con lamine di piombo ripiegate sul bordo della rete, di pietra o di ceramica, con una forma a "ciambella appiattita", che non appesantiva troppo la rete alla quale venivano fissati con legacci, come i pesi rinvenuti nel

fondale-tfèl porto di Cagliari in un contesto del

a.e.

I secolo Altri ritrovamenti provengono da Olbia: un peso da lenza, pesi da rete in pietra, un amo e un'ancoretta da pesca in bronzo. Resti Più difficile è rinvenire i resti di pescato, in quanto i materiali organici sono degradabili nel tempo, in base alle condizioni di giacitura. I resti ittici sono spesso ridotti a minute dimensioni e rintracciabili nel corso degli scavi solo con setacci fini e flottazioni in acqua. Diversi casi sono attestati anche in Sardegna, datati tra il II secolo a.C. e il IV-V d.C., quasi tutti riferibili a pesci d'acqua salata. La maggior parte dei resti è riconducibile a contenuti di anfore provenienti dalle province ispaniche, dalla Lusitania, dal Nord Africa e dalla costa della Narbona. A Olbia sono stati rinvenuti anche resti di allec, un particolare elaborato di pesce, probabilmente di produzione locale, conservatisi perché ancora contenuti in anfore tipo Africana, probabilmente riutilizzate; il prodotto era composto da vari tipi di pesci tra i quali giovani sardine e orate. Per quanto riguarda i resti ittici non contenuti in anfore, le identificazioni hanno rivelato una varietà di pesci tipica del mare di Sardegna, tra i quali triglie, orate, saraghi, spigole, muggini, sardine, labridi, dentici, murene e gronghi, come i casi dei siti di via Brenta a Cagliari, Nora, Sulci, Bosa, La Purissima e Flumenelongu ad Alghero. È ricorrente il tonno, in particolare a Turris Libisonis, Alghero, Olbia e Sulci, anche in questi casi riferibile a pescato locale. Impianti di produzione e processi di trasformazione: piscinae e vivaria Le capacità organizzative e produttive romane si svilupparono anche nel settore alimentare della pesca, già nella fase repubblicana, ma soprattutto dal I secolo d.C. fino a tutto il II secolo, con peschiere e impianti d'allevamento su media e grande scala dislocati lungo la costa tirrenica, quella adriatica, in Sicilia e nelle province ispaniche e nordafricane. Le piscinae marittime potevano garantire prodotto fresco e immediata risposta alle esigenze di mercato, che in linea di massima riguardava le classi più facoltose. Sono noti gli allevamenti di murene,

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L'area economica relativa alle salse e salagioni si sviluppa dal periodo repubblicano ai primi secoli dell'età imperiale e prosegue fino al V-VI secolo, sebbene la sua massima crescita sia registrata tra il I secolo a.C. e il I d.C. I negotiatores italici, punici ispanici e nordafricani, con mercati in grande espansione e un'ampia varietà di prodotti che assecondavano tutti i gusti, proponevano non solo prezzi elevati ma anche a misura delle classi popolane. Gli elaborati del pesce contenuti nelle anfore viaggiavano nelle navi e a terra fino ai limiti più lontani, in Europa e in Oriente, anche per l'approvvigionamento delle truppe impiegate nelle aree conquistate. Un passo di Plinio riportava che il garum pompeianum doveva giungere a Clazomene (Turchia) e Leptis Magna (Libia). Nel corso del I secolo d.C. il commercio e l'importazione dei prodotti ittici si associa all'esportazione dei vini prodotti nelle province, come quelle ispaniche, galliche e nordafricane. Questo fenomeno commerciale si osserva nei carichi misti di vari relitti, come il Sabaudo 3 del porto di Cagliari, dove gli elaborati del pesce contenuti in diversi tipi di anfore della Betica sono associati nel medesimo carico ai vini di varia origine: catalani, provenzali, campani e altri greci ed egiziani.

Processi di trasformazione e impianti di salagione Il processo di trasformazione si realizzava in apposite vasche di salagione e comprendeva due linee di prodotti, le salagioni di pesci interi o sezionati in parti (salsamenta ) e le salse dense (allec) o liquide (garum e liquamen ), perché finemente filtrate. In tutti i casi il sale era indispensabile per cospargere e ricoprire i pesci durante i processi di trasformazione, evitandone la putrefazione. Per ottenere le salse si utilizzavano le interiora dei pesci e le parti non

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descrivono le tecniche, ma riferiscono anche degli odori e degli aspetti gustativi: i sapori non erano piccanti e salati, ma forti e aromatizzati, non dissimili dai prodotti moderni che si usano oggi per insaporire i cibi. Di norma gli impianti di salagione erano parte di ville litoranee, considerati pars fructuaria della struttura abitativa. I sistemi costruttivi erano quasi canonici, oltre alla contiguità con la riva marina, dovevano rispettare l'orientamento preferenziale: nord per la parte abitativa della villa, sud per la parte produttiva. Le vasche, non necessariamente di uguale misura, erano quadrangolari, a volte con gli angoli interni arrotondati, allineate in batterie e realizzate con pareti murarie solide e larghe, per consentire di camminarvi sopra durante le lavorazioni. In genere le vasche erano rivestite da intonaci e pavimentate in opus signinum, oppure con tavolati. Si è detto del sale e del calore, ma l'altro elemento indispensabile era l'acqua dolce fornita da corsi d'acqua prossimi all'impianto o da appositi pozzi, quasi sempre realizzati tra le vasche. Per garantire il corretto evolvere dei processi di trasformazione l'impianto doveva essere coperto da tettoie, rette da pilastri, per mantenere l' aereazione naturale. In alcuni casi sono stati rinvenuti elementi strutturali che riconducono ad ambienti chiusi riscaldabili, degli ipocausti, simili a quelli degli impianti termali: attraverso temperature calde controllabili si potevano accelerare i processi di fermentazione dei prodotti in trattamento.

Alcuni casi sardi L'approfondimento delle ricerche e lo studio dei contesti subacquei costieri indagati negli ultimi decenni stanno evidenziando nuovi scenari per la Sardegna, in relazione agli impianti di elaborazione del pesce. Ai casi già noti in letteratura per la presenza di possibili resti di impianti di salagione, come Turris

Libisonis, Alghero e fòTse là. villa costiera-di S,Angiargia a Capo Frasca (Arbus), altri casi sono sotto esame, due in particolare meritano d'essere presentati, entrambi nel Golfo di Cagliari. Si tratta dei resti, oggi interrati, della villa romana di Su Loi-località Frutti d'Oro (Capoterra) e di quelli della villa romana di Sant'Andrea (Quartu Sant'Elena). In entrambe le situazioni la struttura della villa, sia pure parziale, presenta due diversi tipi di ambienti, uno abitativo, l'altro articolato in vasche e cortili e spazi di lavoro. Lo schema è quello delle ville produttive già citate, realizzate in prossimità del mare o nel caso di Sant'Andrea in un promontorio avanzato sul mare. La scelta ubicativa si adeguava alle risorse ittiche che le acque e i fondali del Golfo di Cagliari potevano abbondantemente fornire, non solo le varietà locali di pagelli, sardine, saraghi e orate, ma anche il passaggio dei tonni, attestato dai resti della vicinissima tonnara di Is Mortorius e quella successiva di Villasimius. La villa di Su Loi, situata a circa 150 metri dalla riva del mare, conservava i resti della parte abitativa, comprendenti anche un piccolo impianto termale a uso familiare e un prezioso pavimento a mosaico geometrico. La parte "rustica" molto ampia presentava un largo cortile acciottolato e una serie allineata di ambienti non comunicanti. Lo schema sembra coerente con gli impianti di salagione o forse anche di vivaria. Dopo la scoperta, avvenuta negli anni Cinquanta del secolo scorso, durante lavori di bonifica, il complesso è stato rinterrato e nella zona sono state realizzate successivamente le abitazioni moderne. La villa di Sant'Andrea è orientata con la parte abitativa a nord, purtroppo sovrastata o forse distrutta da edificazioni moderne, mentre i probabili impianti di salagione sono rivolti a sud. Nonostante l'azione marina invasiva e demolitrice è possibile ancora una buona lettura dei fabbricati e delle funzioni a cui essi erano probabilmente adibiti, altri sono sommersi e coperti dai sedimenti sabbiosi. Le vasche di forma quadrarigo1are sono allineate in tre file parallele e su livelli differenti, degradanti verso la riva, alcune hanno gli angoli interni arrotondati. Dal tipo di costruzione muraria sembra potersi datare alla fine del II secolo d.C. A circa 40-50 metri di distanza dal fronte sud della batteria di vasche è presente un accumulo organizzato di massi che in parte affiorano dall'acqua, si tratta di una barriera frangiflutti a profilo sinuoso,

realizzata evidentemente in una fase avanzata dell'attività dell'impianto, quando il mare in costante risalita cominciò a creare problemi di inondazione. Per assicurare la riuscita dei processi di lavorazione, l'impianto era probabilmente riparato da una tettoia sostenuta da pilastri e/o porzioni murarie portanti, senza pareti di chiusura. Oltre all'acqua marina, la disponibilità di acqua dolce durante le lavorazioni era assicurata dalla presenza di due pozzi circolari disposti accanto alle vasche. La parte ancora visibile mostra tre file di vasche allineate, ma forse era presente una quarta fila verso terra, indiziata da alcune porzioni di muratura che sporgono dal promontorio. Lo spazio occupato dalle strutture visibili fuori dall'acqua e quelle sommerse misura circa 50 metri sul lato sud fronte mare e circa 26 metri sui lati est e ovest, pari a 1160 mq, ma l'indagine subacquea e lo scavo per la rimozione dei sedimenti coprenti potrebbero confermare l'ipotesi che la struttura continui ancora fino al frangiflutto, quindi un'area complessiva di circa 1450 mq. Si tratterebbe di notevoli dimensioni, al pari degli impianti più grandi finora noti in Spagna e Nord Africa. Sul lato ovest della villa è ancora presente un ambiente chiuso, praticamente integro, la cui funzione era probabilmente legata all'attività produttiva dell'impianto di salagione: un ipocausto. L'ambiente ha pianta rettangolare, lungo 11 metri e largo 3 circa, coperto all'interno da una volta a sezione subtriangolare con vertice arrotondato, che regge uno spesso riempimento di calcestruzzo, il pavimento è in cocciopesto. L'intera superficie interna è rivestita da embrici mammati, cioè forniti di distanziatori che nella messa in posa lasciano un'intercapedine tra loro e la parete; in questo spazio, tra embrici e parete, poteva circolare aria riscaldata da un forno esterno. In pratica era un ambiente a climatizzazione controllabile dove poter far "maturare" i prodotti ittici, accelerando con il calore i processi chimici e i tempi di lavorazione.

Nota bibliografica 1999; SLIM, BONIFAY, TROUSSET 1999; 200 1; SLIM, ET AL. 2004; CARRE, AURIEMMA 2009; RODRIGUEZ ALCANTARA, ET AL. 2014; B ERNAL, CORRALES AGUILAR 2016; WILKENS, CARENTI 2017; PECCI, ET AL. 2018; BERNAL 20 19. GIANFROTTA

LAGOSTENA B ARRIOS

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Barbara Wilkens

Le tracce lasciate dall'uomo sulle ossa, a partire dall'uccisione dell'animale per giungere al loro trattamento durante e dopo il pasto, costituiscono i segni di macellazione e di consumo e si distinguono a seconda del periodo storico e delle attrezzature disponibili. Le modalità di abbattimento sono in genere difficili da riconoscere perché, successivamente alla morte, il corpo dell'animale viene ulteriormente tagliato, cosicché questi primi segni si confondono con quelli successivi. In genere si tratta di colpi di varia natura, inferti con differenti strumenti sul cranio o nelle parti limitrofe come le vertebre cervicali; in altri casi l'animale può venire sgozzato con un taglio sotto la gola, una modalità che può lasciare segni di coltello sull'osso ioide o sulla faccia ventrale delle vertebre cervicali. I segni sul cranio sono i più complessi da riconoscere, come del resto è assai difficile trovare intero questo elemento osseo, eventualità che può ricorrere più facilmente in contesti rituali e nei casi in cui la testa della vittima non entri nel circuito alimentare ma sia conservata come trofeo o come testimonianza dell'avvenuto sacrificio. A tale riguardo, si può citare il caso di due crani integri recuperati dal pozzo sacro di Genoni, in un contesto di età imperiale: il primo era pertinente a un cane, abbattuto con un colpo di bastone sui frontali appena sopra le orbite; il secondo era invece relativo a una capra, uccisa con un oggetto perforante dello spessore di uno spiedo penetrato nella zona occipitale. Entrambi i crani, in questo caso, non erano stati ulteriormente frantumati, permettendo in tal modo di riconoscere le cause della morte. Se l'animale ucciso entra nel circuito alimentare o comunque viene utilizzato in qualche modo per motivazioni rituali o anche solo per recuperare la pelle, deve essere scuoiato, un procedimento che lascia dei graffi sulle estremità distali degli arti e sul muso; nei piccoli animali le estremità delle zampe possono restare attaccate alla pelle. L'addome viene aperto e svuotato dei visceri. Questo processo lascia tagli e graffi sulla faccia ventrale delle costole. Nel caso di macellazioni rituali i visceri erano esaminati per trarne auspici, in

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quella a fini alimentari invece molte parti venivano recuperate. Infine si procede alla macellazione delle parti ossee e muscolari. I Romani erano provvisti di una robusta attrezzatura metallica e non avevano problemi anche di fronte ad animali di grossa taglia, in genere però si assiste a una specializzazione nella macellazione. Mentre nel caso di caprini e maiali quest'ultima può avvenire a livello domestico, soprattutto nelle campagne, nel caso dei bovini capita di trovarsi di fronte a veri e propri macelli specializzati, all'interno dei quali trovano trattamento gli animali di grossa taglia. Corna e parti delle ossa degli arti, soprattutto metacarpi e metatarsi, poveri di carne, ma forti e di forma diritta e regolare, venivano accantonati per la lavorazione del corno e dell'osso. Una parte residua delle ossa eliminate poteva essere destinata ai cani. Se i rifiuti non venivano rapidamente interrati, erano rosicchiati da cani e da roditori e si deterioravano restando esposti agli agenti atmosferici. Mentre durante la preistoria, quando si utilizzavano strumenti in selce, le vertebre e le ossa degli arti venivano disarticolate, nel periodo romano, disponendo di attrezzi adatti, le vertebre venivano troncate longitudinalmente al centro del corpo oppure sulle apofisi laterali ottenendo due mezzene. Da queste, sempre con colpi possenti venivano staccati gli arti che erano avviati al mercato, dove venivano ulteriormente tagliati per preparare le porzioni. Questo procedimento restò più o meno inalterato fino a un secolo fa, quando iniziarono a essere utilizzati attrezzi elettrificati. Le ossa lunghe, liberate dalla carne, venivano frammentate per l'estrazione del midollo, utilizzato come emolliente per il trattamento del pellame. Le porzioni potevano quindi essere cucinate e consumate e anche durante questo processo si producevano bruciature e graffi per il distacco della carne. Nei piccoli animali, che venivano arrostiti interi, si producevano le caratteristiche "bruciature distali" nei casi in cui parte dell'osso delle zampe non era protetto dalla carne. Parte dei frammenti veniva ancora una

volta consumata dai cani, causando la perdita dei resti di animali giovani o di piccola taglia. Un modo di eliminare i rifiuti, e contemporaneamente di utilizzare un,ultima volta gli ossi, poteva essere quello di gettarli nel fuoco. Nella cucina dei Romani va distinto un periodo antico, in cui dominava la frugalità tipica del mondo agricolo e pastorale dell'Età del Ferro, e un periodo successivo, nel quale i contatti con gli altri popoli insegnano un diverso modo di vita. La cucina si arricchisce ora di spezie e di prodotti importati e costosi e le ricette per la preparazione delle pietanze si fanno più elaborate. In numerosi autori si trovano riferimenti alla frugalità degli antenati, che viene contrapposta al lusso sfrenato e dissipatore del mondo romano del periodo imperiale. In qualche caso si fa riferimento al divieto vigente in passato dell'uccisione dei bovini: «Il bue è compagno dell'uomo nel lavoro dei campi ed è al servizio di Cerere. Per questo gli antichi volevano che fosse a tal punto rispettato, da colpire con la pena di morte chi lo avesse ucciso» (Varrone, De re rustica Il, 5, 4). Dai dati provenienti dagli studi archeozoologici, è evidente che la carne bovina veniva tuttavia consumata e che questo divieto, se veramente sussisteva, doveva essere limitato ai bovini aratori nel loro periodo di attività. Dell'età romana imperiale ci restano numerose ricette. Tra le raccolte più importanti si può segnalare il De re coquinaria di Apicio, testo dalla cui lettura appare chiaro come le ricette fossero destinate ai membri della classe abbiente o comunque ai benestanti. Le carni utilizzate erano quelle di capretto, agnello, maiale, porcellino di latte, ma anche di manzo e di vitello; altrettanto evidente è poi l'interesse per i prodotti del mare, pesci, crostacei e molluschi. Erano consumate anche specie esotiche come lo struzzo e il pappagallo e gli alimenti potevano essere insaporiti con erbe aromatiche e soprattutto con una salsa (garum, liquamen), prodotta dalla fermentazione di diverse specie di pesce, che sostituiva il sale, e può essere paragonata all'attuale "colatura di alici" prodotta ancora oggi in Campania. I Romani apprezzavano l'agrodolce ed erano pertanto frequenti gli accostamenti tra sapori dolci e sostanze aspre o salate. Non mancavano infine verdure, polpette, frittate, legumi. Si trovano diverse ricette a base di volatili e nelle quali si citano uccelli selvatici e domestici: la pernice, l'anitra, la gru, il pollo, il pollo

partico, la gal1ina faraona, l'oca, il francolino, il fénicottero, la tortora, il colombaccio e il piccione. Tutte queste specie, a parte il francolino, potevano essere allevate o cacciate in Sardegna. Venivano apprezzate le chiocciole e la cacciagione come cinghiale, cervo, muflone, lepre e il camoscio nelle regioni in cui si trovava. I ghiri venivano allevati in appositi vasi contenitori. Le classi povere si nutrivano dei vecchi bovini aratori che venivano uccisi al termine della loro carriera, e dei prodotti della terra. Non è un caso dunque che resti ossei di bovini e altri animali anziani ricorrano frequentemente tra i rifiuti dei quartieri popolari. Agli schiavi erano destinati gli avanzi, tanto che Plinio dice che l' allec, una pasta di pesce poi molto apprezzata, era in origine derivata dagli scarti della produzione di garum che gli schiavi utilizzavano per insaporire il loro cibo. Varrone tuttavia consiglia di trattare gli schiavi con liberalità per quanto riguarda il cibo e il vestiario e di consentire loro di tenere qualche animale personale (Varrone, De re rustica I, 17). In Columella, nel dodicesimo libro del De re rustica, più che vere e proprie ricette di cucina, troviamo formule per preparare e conservare diversi prodotti della campagna, come alcuni tipi di formaggio, frutta, olive e per aromatizzare il vino o preparare l'aceto e la sapa. Due esempi di ricette da Apicio (De re coquinaria) • Luganeghe (libro Il, Sarcoptes, capo IV) Si trita pepe, cumino, santoreggia, ruta, prezzemolo, condimento, bacche d'alloro, garum. Si mescoli la polpa bene sminuzzata, mescolando di nuovo il composto insieme al garum, pepe intero, molto grasso e pinoli. Farcisci un budello tirandolo quanto più sottile possibile, e così sospendilo al fumo. • Prosciutto (libro VII, Polyteles, capo IX) Il prosciutto, quando lo avrai lessato con molti fichi secchi e tre foglie di alloro, levata la pelle, incidi a tasselli e riempi di miele. Quindi impasta della farina con olio e rivestilo come fosse pelle, e quando la farina sarà cotta, levalo dal forno e servi.

Nota bibliografica WILKENS

2012b.

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Le attività minerarie ed estrattive Caterina Previato

194. Altare, lii sec. d.C., area archeologica di Forum Traiani. L:altare, ritrovato nel Ninfeo delle terme di Forum Traiani (Aquae Hypsitanae), è dedicato dal liberto imperiale Servatus alle Ninfe e al suo superiore, il procurator Augustorum e praefectus provinciae Sardiniae Q. Baebius Modestus. L:iscrizione presente sul manufatto è un importante documento, in quanto attesta che in Sardegna la gestione delle miniere spettava al procurator metallorum et praedorium, subalterno del governatore dell 'Isola.

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Com'è noto, la Sardegna è un'isola molto ricca di risorse naturali, che furono largamente sfruttate dall'uomo fin dall'età preistorica. Tra queste si possono annoverare le risorse minerarie, spesso poco visibili in quanto nascoste nel sottosuolo, ma abbondanti e caratterizzate da un'estesa diffusione nel territorio, e le risorse lapidee, ovvero i numerosi affioramenti rocciosi dell'Isola, da cui è possibile estrarre una vasta gamma di pietre di ottima qualità. Per quanto riguarda le prime, possiamo affermare che fu proprio l'abbondanza e la varietà di materie prime presenti nel sottosuolo della Sardegna (tra cui ferro, piombo argentifero, rame, oro) a determinare l'avvio, già in età nuragica, di una fiorente attività mineraria e metallurgica, che proseguì poi nei secoli successivi dapprima a opera delle popolazioni locali e quindi dei Cartaginesi. Dopo la conquista dell'Isola, nel 238 -23 7 a.C., il controllo delle miniere venne quindi assunto dai Romani. Sebbene le tracce dell'attività estrattiva in Sardegna siano poco evidenti, se confrontate con quelle di altre regioni del Mediterraneo, come ad esempio la Spagna, vari indizi permettono di affermare con certezza che lo sfruttamento delle risorse minerarie fu particolarmente intenso in età romana. In quest'epoca l'attività estrattiva sembra essersi concentrata nella zona dell'Iglesiente, nel sud-ovest dell'Isola. In questa regione infatti, ben nota per la presenza di copiosi giacimenti di piombo argentifero, sono stati individuati numerosi pozzetti e gallerie, al cui interno sono stati ritrovati manufatti di vario genere ascrivibili all'età romana: monete, strumenti di lavoro (picconi, scalpelli, cunei) o funzionali al lavoro (lucerne per illuminare le gallerie). L'intenso sfruttamento dei giacimenti della regione trova conferma inoltre nelle strutture, nelle tombe di età romana e nei cumuli di scorie individuati nei pressi delle miniere. Tali evidenze si concentrano nei siti di Monteponi, Malacalzetta, San Giovanni, San Giorgio presso Gonnesa e, in misura minore, presso Montevecchio (Guspini) .

Proprio da quest'ultima località provengono dei manufatti di estremo interesse: si tratta di alcuni secchi in bronzo, oggi esposti al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, che probabilmente venivano utilizzati nelle miniere per rimuovere l'acqua che, affiorando dal sottosuolo, ostacolava l'attività estrattiva. Tali secchi, identici per forma e dimensioni, erano tra loro collegati da una cinghia in cuoio, di cui al momento del ritrovamento rimaneva un piccolo lacerto. Dalla stessa zona proviene anche un altro manufatto probabilmente funzionale all'attività estrattiva, forse utilizzato per la prima cernita e per il lavaggio del minerale: si tratta di un tubo a sifone in piombo unito a vasche rotonde con diametro di mezzo metro, munite di tubo laterale alla base. A conferma di uno sfruttamento delle miniere dell'Iglesiente in età romana va ricordata inoltre la testimonianza offerta dall' Itinerarium Antonini, in cui compare la statio di Metalla, località equidistante da Sulci e da Neapolis (da cui distava 30 miglia, ovvero circa 44 km), il cui nome rimanda chiaramente all'attività mineraria della regione. Sebbene il sito non sia ancora stato identificato in maniera certa, considerata la distanza dagli altri due centri si ritiene che sia da localizzarsi presso Antas, sede del tempio del Sardus Pater, o nei pressi di Grugua. Strettamente connessa e funzionale all'attività estrattivo-mineraria della regione era anche la vicina "isola del piombo" ( citata da Tolomeo lii, 3, 8), ovvero l'isola di Sant' Antioco, il cui porto costituiva un punto di smercio e un importante snodo nel commercio dei prodotti delle miniere. Un'altra importante testimonianza dello sfruttamento delle risorse minerarie dell'Iglesiente è data infine da due lingotti in piombo ritrovati nei pressi di Fluminimaggiore, su cui sono impressi marchi che provano l'esistenza di miniere di proprietà imperiale. Si tratta in particolare di un lingotto di piombo ritrovato nei pressi della miniera di Colombera, che reca impresso il marchio CAESARIS AUG(usti), accompagnato dall'indicazione del peso CVII (35,585 kg),

e di un secondo lingotto del peso di 34 kg proveniente dal sito di Carcidanas (San Nicolao), oggi esposto al Museo Nazionale di Cagliari, che reca la scritta in rilievo IMP(eratoris) CAES(aris) HADR(iani) AUG(usti). Quest'ultimo marchio è attestato anche su almeno altri 30 lingotti in piombo ritrovati in mare, a 50 metri dalla costa occidentale della Sardegna, nei pressi di Pistis (Arbus), che costituivano il carico di un'imbarcazione naufragata sotto costa, in circostanze sconosciute. Al di fuori dell'Iglesiente, le tracce dell'attività estrattiva romana scarseggiano. Ancora una volta, preziose informazioni ci vengono fornite dall' Itinerarium Antonini, che ci informa dell'esistenza, sulla strada tra Cagliari e Olbia, di un'altra località legata all'attività mineraria. Si tratta di Ferraria, sito il cui nome rimanda probabilmente allo sfruttamento di giacimenti di ferro, da localizzarsi forse in corrispondenza di San Gregorio, nel settore sud-orientale dell'Isola. Oltre ai giacimenti di piombo argentifero e di ferro, in età romana vennero sfruttati probabilmente anche alcuni giacimenti di rame del Nuorese, come suggerito da ritrovamenti effettuati nei pressi della miniera di Funtana Raminosa, presso Gadoni. Per quanto riguarda la cronologia di sfruttamento delle miniere sarde, i due lingotti ritrovati nell'Iglesiente costituiscono una prova che durante il regno di Augusto e di Adriano le miniere erano sicuramente attive. È probabile però che le risorse minerarie della Sardegna siano state oggetto di estrazione già in età repubblicana, come suggerito da alcune lucerne di età ellenistica ritrovate nelle miniere dell'Iglesiente, nonché dalla testimonianza di Dione Cassio (XLII, 53, 6), da cui apprendiamo che nel 47 a.C. le città sarde (così come quelle siciliane) furono in grado di inviare all'esercito dei Pompeiani armi e ferro non lavorato. L'attività estrattiva proseguì quindi sicuramente per tutto il II secolo d.C., dato che ai tempi di Commodo (180-193 d.C.) numerosi cristiani, tra cui Callisto, divenuto poi papa nel 217 d.C., furono inviati nelle miniere sarde come damnati ad metalla. Successivamente, la coltivazione delle miniere continuò senza soluzione di continuità almeno sino alla fine del IV secolo d.C., come dimostrano due disposizioni imperiali emesse rispettivamente nel 369 d.C. e nel 378 d.C.,

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195. San Giovanni di Sinis. Tracce di attività estrattiva visibili nel settore meridionale della cosiddetta Sala da Ballo, una cava situata lungo la costa, a circa 3 km dalla città di Tharros. Nell'immagine si riconoscono in modo chiaro le tracce in negativo dei blocchi estratti e gli alloggiamenti trapezoidali per i cunei utilizzati per il distacco degli stessi dal piano roccioso. 196-197. Capo Testa, spiaggia delle colonne romane. Fusti di colonne in granito semi-lavorate abbandonate in cava .

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che stabilirono sanzioni pecuniarie e pene severe per i capitani delle navi e per i custodi dei porti che avessero imbarcato o favorito la partenza di metallari i (e in particolare aurileguli, ovvero lavoratori delle miniere di metalli preziosi) verso la Sardegna. Per quanto riguarda le modalità di gestione dell'attività estrattiva, preziose informazioni ci vengono fornite da un'iscrizione apposta su un altare ritrovato nel Ninfeo delle terme di Forum Traiani (Aquae Hypsitanae, oggi Fordongianus), dedicato dal liberto imperiale Servatus alle ninfe e al suo diretto superiore, il procurator

Augustorum e praefectus provinciae Sardiniae Q. Baebius Modestus (fig. 194). Tale iscrizione costituisce un'importante prova del fatto che in Sardegna la gestione delle miniere non era affidata direttamente al governatore dell'Isola, ma a un suo subalterno, che rivestiva la carica di procurator metallorum et praedorium. A sua volta il liberto Servatus doveva avere alle sue dipendenze dei funzionari, distribuiti nelle diverse regioni minerarie. Il compito di sorvegliare le miniere e coloro che vi lavoravano, così come di proteggere dai briganti i prodotti dell'attività estrattiva,

spettava invece all'esercito, come testimoniano varie iscrizioni di militari ritrovate nell'Isola, soprattutto nella zona dell'Iglesiente. In particolare, un'iscrizione databile tra la fine del I e l'inizio del II secolo d .C., ritrovata presso Grugua, attesta la presenza di un soldato della coorte I Sardorum; un centurione della stessa coorte è attestato a Campingeddus nel II secolo d.C.; sempre da Grugua proviene una seconda iscrizione di un soldato che risale al II secolo d.C., mentre un'altra attesta la presenza, nei pressi delle miniere di Gonnesa, di un membro della flotta di Miseno (prima metà II sec. d. C. ). Passando a considerare le risorse lapidee, anch'esse furono largamente sfruttate in epoca antica e in età romana in particolare. La pietra veniva impiegata sia per la produzione di manufatti sia a scopo edilizio, ovvero per ricavarne materia prima da utilizzare nella costruzione di edifici e infrastrutture. Sebbene le più antiche tracce di attività estrattiva finora individuate in Sardegna risalgano al Neolitico, la maggior parte delle cave di pietra attualmente visibili nel territorio sono attribuibili all'età punica e all'età romana.

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Le cave a oggi note si collocano principalmente in corrispondenza di affioramenti di graniti, vulcaniti e rocce carbonatiche disposti perlopiù lungo la costa (più raramente nell'entroterra) e generalmente nei pressi di insediamenti o centri urbani. La ridotta distanza tra cave e città/insediamenti che caratterizza il territorio sardo non stupisce particolarmente, in quanto di consueto nel mondo antico si privilegiava lo sfruttamento degli affioramenti rocciosi più prossimi ai cantieri cui la pietra da costruzione era destinata, al fine di ridurre al minimo i costi e i tempi del trasporto. Molto spesso lo stesso centro urbano si avvaleva di più siti estrattivi per l'approvvigionamento della pietra, ma questi erano sempre collocati a una ridotta distanza dalla città e facilmente raggiungibili, ove possibile, per via marittima. Le più estese e spettacolari cave di pietra a oggi note sono senza dubbio quelle presenti nel settore nord-orientale dell'Isola, in Gallura, che vennero largamente sfruttate in età romana per l'estrazione del granito. In questa regione infatti sono presenti numerosi siti estrattivi distribuiti sia lungo la costa, in particolare in corrispondenza della penisola di Capo Testa ( Cala Romana, Guardia del Corsaro, Petri Taddati, Capicciolu, Cava Grande del Torre), sia sulle isole limitrofe (isola sud de La Marmorata, isola di Municca). Altre cave di granito sono state individuate nei pressi di Olbia (Gabbia, Su Lizzu, Cabu Abbas, Maronzu, Porto Rotondo ). In entrambe le aree all'interno delle cave si conservano numerose tracce delle antiche attività estrattive (incassi per cunei, segni di piccone, debris), oltre ad alcuni manufatti semi-cavati, tra cui blocchi parallelepipedi e fusti di colonne, anche di notevoli dimensioni. Lo sfruttamento di queste cave in età romana è confermato dal ritrovamento, nei pressi dei siti estrattivi, di resti strutturali e di tombe, nonché di ceramica e laterizi attribuibili a tale epoca. Le evidenze più consistenti sono state individuate nel sito di Capicciolu, dove sono presenti parti di edifici, numerose tombe a inumazione e a cremazione, e un consistente quantitativo di frammenti ceramici, perlopiù di classi ceramiche diffuse tra il II e il IV secolo d.C. Manufatti ceramici con la medesima cronologia sono stati individuati anche presso il sito di Petri Taddati e di Cala Romana. Il trasporto del granito dalle cave ai cantieri avveniva per via marittima, sfruttando la posizione costiera dei siti estrattivi: una prova

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in tal senso è data dal ritrovamento, a Capicciolu, di resti di banchine e rampe evidentemente utilizzate per caricare il granito sulle imbarcazioni destinate al trasporto. Molto suggestive e in ottimo stato di conservazione sono anche le cave di pietra presenti lungo la costa occidentale dell'Isola, in particolare nella regione del Sinis (Oristano). In questa zona si incontrano infatti numerosi siti estrattivi lungo la costa (spesso in parte semi-sommersi) o nell'immediato entroterra, che vennero ampiamente sfruttati in epoca storica (fig. 195) . In particolare, alcune di queste cave furono sicuramente utilizzate quale bacino di approvvigionamento della pietra in età punica e romana dalla città di Tharros, come emerso dal confronto archeometrico tra campioni lapidei presi da alcuni edifici urbani e campioni prelevati nelle cave. Meno studiate sono invece le cave presenti lungo le coste sud-occidentali della Sardegna, quali ad esempio quelle 1egate all'insediamento di Sulci, nell'attuale area urbana di Sant' Antioco, e quelle sfruttate per la costruzione dell'abitato di Monte Sirai. Analogamente, poco note sono anche le cave presenti lungo il tratto costiero tra Matzaccara e Paringianu e quelle di Piscinnì (Domus de Maria), poste in prossimità del sito di Bithia, nonostante la loro ampissima estensione e l'ottimo stato di conservazione dei segni di estrazione. Procedendo verso est, cave di pietra sono presenti e ancora oggi visibili lungo la costa e nell'entroterra in prossimità di Nora: la più estesa e meglio conservata si trova sulla penisola di Is Fradis minoris, a poche centinaia di metri dalla città antica (figg. 199-200, 202) . Questo come gli altri siti estrattivi del territorio vennero estesamente sfruttati in età punica e romana da parte dei costruttori norensi al fine di ricavarne pietra per edifici e infrastrutture. Altri siti estrattivi attribuibili all'età romana sono stati individuati nella città di Cagliari, in particolare sul colle del Buoncammino, nell'area dell'anfiteatro e sulle colline di Tuvixeddu e Tuvu Mannu. In questi luoghi, sfruttati sin dall'età repubblicana, si estraevano diversi tipi di calcari, noti con i nomi di pietra cantone, tramezzario e pietra forte. La continuità di sfruttamento di queste cave nel corso dei secoli ha determinato purtroppo la quasi totale cancellazione delle antiche tracce di cavatura nella maggior parte dei siti estrattivi cagliaritani. Fanno

Nella doppia pagina seguente:

198. Ricostruzione di una cava di pietra di età romana. !.'.immagine mostra due uomini intenti a estrarre dei blocchi di pietra con la tecnica della tagliata a mano, che prevedeva la realizzazione, per mezzo di un piccone, di trincee rettilinee lungo i lati del blocco da estrarre, e quindi lo stacco definitivo dal banco roccioso attraverso l'uso di cunei (tavola illustrata di M. Gabaglio).

eccezione due cave recentemente individuate nell'area di Tuvu Mannu e sulla collina di Tuvixeddu, al cui interno sui fronti rocciosi sono ben visibili i segni lasciati impressi dagli strumenti di lavoro. In età romana anche l'entroterra sardo era caratterizzato dalla presenza di siti di estrazione della pietra. Ad esempio, nel territorio di Fordongianus l'antica Forum Traiani, sono state individuate cave di piroclastiti che vennero sfruttate per l'approvvigionamento della pietra necessaria alla costruzione del complesso termale posto sulla riva sinistra del fiume Tirso. Ad Antas invece, a soli 500 metri di distanza dal noto tempio dedicato al Sardus Pater, sono ancora oggi visibili alcune cave che vennero sfruttate in età romana per la costruzione di parte dell'edificio. I litotipi estratti nelle cave sarde conobbero una diffusione prettamente locale e furono in genere impiegati per attività edilizie e per la produzione di manufatti nei centri urbani o negli insediamenti posti nelle loro immediate vicinanze. L'unica eccezione è data dal granito della Gallura, che in età romana venne largamente esportato e impiegato in varie regioni del Mediterraneo come marmo di sostituzione di alcuni graniti egiziani (datala sua somiglianza con la facies rosa della Sienite, o granito rosso di Assuan, e con il granito rosa del Bir Umm Fawakhir, Deserto Orientale Egiziano). Manufatti in granito sardo, in particolare colonne, sono stati finora individuati a Roma (Domus Aurea, Terme di Caracalla, Terme di Diocleziano) e in Italia centrale ( Ostia, Grottaferrata, Pisa, Arezzo, Paestum, Amalfi, Benevento ), ma anche in Nord Africa (Cartagine, Sousse, Leptis Magna ) e, seppure in quantitativi minori, in Sicilia (Catania), nella penisola iberica (Siviglia/Italica) e in Corsica (Aleria). Benché la maggior parte dei manufatti provenga da contesti di reimpiego, i pochi elementi ritrovati in contesti di giacitura primaria suggeriscono che il granito sardo sia stato esportato fuori dalla Sardegna a partire dal'I secolo d.C., e soprattutto nel II e III secolo d.C. Oggetto di commercio su larga scala fu anche la pietra vulcanica estratta nel territorio di Mulargia (Sardegna centro-occidentale). Essa infatti, in virtù della sua particolare resistenza, venne largamente utilizzata in età ellenistica e romana per produrre macine che furono esportate in tutto il Mediterraneo. Anche altri litotipi estratti nelle cave della

Sardegna furono oggetto di commercio in età romana, ma su scala più ridotta, ed esclusivamente in ambito regionale. È questo ad esempio il caso della cosiddetta "pietra cantone", estratta nelle cave cagliaritane ma attestata anche, seppure in quantitativi piuttosto ridotti, in alcuni edifici della città di Nora.

Nota bibliografica In generale, sull'attività mineraria in Sardegna: LILLIU 1986 e ZUCCA 1993a. Per l'età fenicia e punica si veda inoltre BARTOLONI 2009b, mentre per quanto riguarda l'età romana, BINAGHI 1939; VARDABASSO 1939; LE BOHEC 1995; SANNA MONTANELLI 2015; SANNA MONTANELLI 2019, e gli accenni presenti in MELONI 1980; MASTINO 2005c; HIRT 2010. Una dettagliata descrizione del bacino minerario di Montevecchio e dei ritrovamenti archeologici effettuati nel territorio si deve ad AGUS 1990. Sui lingotti in piombo ritrovati in Sardegna: ZUCCA 1991, con riferimenti anche ai rinvenimenti archeologici effettuati nell'area di Grugua. Sui lingotti di piombo ritrovati in mare, lungo le coste della Sardegna, si veda invece BONELLO LAI 1986-87 e SALVI 1992. Sull'iscrizione di Forum Traiani che attesta l'esistenza, in Sardegna, di un procurator metallorum et praediorum : BRUUN 2001. Per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse lapidee e le cave di pietra dell'Isola, si vedano i numerosi contributi contenuti in Tocco, MARINI, NAITZA 2007. Alle cave di granito della Sardegna nord-orientale sono dedicati inoltre una serie di articoli specifici, sia di carattere archeologico che archeometrico: SUSINI 1977; LAZZARINI 1987; WILSON 1988; MASSIMETTI 1991; BRUNO 2002; MASSIMETTI 2002; POGGI, LAZZARINI 2005; WILLIAMS-THORPE, RlGBY2006. Sulle cave del Sinis e sul loro sfruttamento in epoca storica, in particolare in relazione al sito di Tharros: ARMIENTO, PLATANIA 1995; DEL VAIS, GRILLO, NAITZA 2014a; DEL VAIS, GRILLO, NAITZA 2014b; DELVAIS, GRILLO, NAITZA 2014c. Per quanto riguarda invece le cave della costa sudoccidentale dell'Isola si vedano gli accenni in BARRECA 1965, pp. 164-165; BARTOLONI, BONDI, MOSCATI 1997, pp. 88-90; COLUMBU, ET AL. 2007; MARINI, ET AL. 2007. Ai testi citati si aggiunge un recentissimo, seppur sintetico, contributo dedicato alle cave di Piscinnì (Domus de Maria): FENU, NAITZA, SALIS 2019. A proposito delle cave di Nora si rimanda a PREVIAIO 2016c e al contributo di C. Previato in questo volume, con ulteriore bibliografia di riferimento. Un'altra cava semi-sommersa è stata recentemente individuata poco più a est di Nora, lungo la costa, in località Perd'e Sali (Villa San Pietro): PREVIATO 2016b. Sulle cave di Cagliari si veda invece: SALVI, ET AL. 2006; BORDICCHIA, ET AL. 2007; mentre su quelle dell'entroterra: ARGIOLAS, ET AL. 2006 (Fordongianus); MARINI, ET AL. 2007, pp. 112-114 (Antas). Sull'uso della pietra di Mulargia per la produzione di macine e sul loro commercio nel Mediterraneo: PEACOCK 1980; WILLIAMS-THORPE, THORPE 1989; ANTONELLI, ET AL. 2014; INSINNA 2020.

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Le cave di pietra di Nora Caterina Previato

199. Penisola di ls Fradis minoris. !.:estremità orientale di ls Fradis minoris, penisola situata a ovest di Nora, venne ampiamente sfruttata in epoca antica per l'estrazione della pietra. In età romana in questo settore vi era un edificio residenziale abitato probabilmente da chi si occupava della gestione della cava e dell'attività estrattiva. !.:edificio era dotato di una grande cisterna per la raccolta dell'acqua, ancora oggi visibile, che aveva una capacità di circa 25 m3 .

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Come si può notare ancora oggi passeggiando per la città, la pietra costituisce senza dubbio il materiale da costruzione maggiormente diffuso nei complessi architettonici e nelle infrastrutture norensi. Elementi lapidei di varie forme e dimensioni si trovano infatti impiegati in strutture murarie, soglie, scalinate e pavimentazioni degli edifici urbani, così come nelle superfici delle strade che attraversano la città. Il largo impiego che la pietra conobbe a Nora è strettamente legato alla presenza, nel territorio circostante, di numerosi affioramenti rocciosi in grado di fornire materiali lapidei di qualità. La maggior parte della pietra impiegata nell'edilizia norense è infatti di provenienza locale, sebbene in città siano attestati anche, in minima parte, litotipi importati da altre regioni della Sardegna e,

per quanto riguarda i marmi di rivestimento, anche da diverse aree del Mediterraneo. Le cave da cui Nora si rifornì di pietra nel corso della sua storia si collocano in un raggio massimo di 7 km dal centro urbano antico. Sebbene alcune di esse siano state attive fin dall'età punica, il periodo di massimo sfruttamento coincide con l'età romana. La maggior parte delle cave a oggi note è posta direttamente sul mare, lungo la costa, o a ridotta distanza da essa. È questo il caso ad esempio di quella di Is Fradis minoris, collocata su una penisola a ovest della città, che costituisce senza dubbio il sito estrattivo che venne maggiormente sfruttato dagli abitanti di Nora, in virtù della ridotta distanza che lo separava dalla città e della possibilità di trasportare i blocchi estratti per via marittima.

200. Penisola di ls Fradis minoris, lato meridionale. Blocchi semi-cavati abbandonati in cava prima che il processo estrattivo fosse completato, oggi visibili in prossimità della linea di costa . 201. Cava di arenaria situata sull'istmo che conduce a Nora, in prossimità della cala nord-orientale. In questo sito le tracce dell'attività estrattiva antica si estendono per circa 200 m2 , e consistono in tagli rettilinei e blocchi parallelepiped i sem i-cavati, alcun i dei quali di dimensioni standardizzate (ca . 50 x 100 cm ).

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202. 1s fradi& m1nmis. fleftte di cava Sb'Ultlnto a ~ situato 8'11 lato merfdion8le della penisola.

Sulla parete rocciosa sono visibili delle Incisioni l8ttillnee parallele nelle quali si possono riconoscere le tracce lasciate dal piccone utilizzato

per l'estrazione dei blocchi.

età romana trova inoltre conferma nella presenza, nel teatro di Nora, di blocchi provenienti da questo sito estrattivo, come dimostrato da recenti analisi archeometriche. L'arenaria tirreniana veniva estratta anche in altre località nei pressi del centro urbano, e in particolare in corrispondenza dell'istmo che conduce alla città, nella cala nord-orientale ( dove però le tracce di estrazione sono molto più limitate), e più a nord, lungo la costa, in località Perd'e Sali (Villa San Pietro), dove è stata individuata una cava semi-sommersa la cui pertinenza alla città di Nora è però tutta da dimostrare. Meno numerose sono invece le cave situate nell'entroterra, il cui sfruttamento trova ragione probabilmente nella qualità del materiale in esse estratto, che si prestava alla realizzazione di grandi blocchi. Tra queste, vi è la cava di Su Casteddu, situata a 3 km da Nora, su una collina posta all'estremità occidentale del paese di Pula. Da questo sito, dove le tracce di estrazione sono poco leggibili a causa della fitta vegetazione, provengono i blocchi di andesite della cavea del teatro di Nora.

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Nell'entroterra veniva estratto anche un altro tipo di arenaria, di colore grigio, che a Nora trovò un impiego più limitato rispetto all'arenaria tirreniana e all'andesite, e che venne utilizzata soprattutto per la realizzazione di soglie, gradini e piedritti. Questa pietra proviene dalla cava di Sa Perdera, situata a ovest del paese di Pula, a circa 6,5 km da Nora. Nelle vicinanze di questa cava sono presenti anche altri tre siti estrattivi, di più piccole dimensioni, probabilmente sfruttati con il medesimo scopo. Tutte le cave sin qui citate sono a cielo aperto, e presentano una struttura in parte a fossa, in parte a gradoni. La maggior parte di esse conserva numerose tracce dell'attività estrattiva che si svolse al loro interno. Si tratta di linee con andamento obliquo o "a festoni" incise sui fronti rocciosi, lasciate impresse dal piccone utilizzato in fase di estrazione, ma anche di trincee e solchi di delimitazione dei blocchi, fori di alloggiamento per cunei, e talvolta anche di blocchi parallelepipedi semi-cavati che vennero abbandonati prima di essere completamente cavati. Tutti questi elementi indicano che, come di consueto

203. Cava di arenaria grigia situata in località Sa Perdera, nell'entroterra di Pula, a circa 6,5 km da Nora. t:arenaria grigia estratta in questo sito trovò impiego a Nora sotto forma di blocchi parallelepipedi usati soprattutto come soglie, gradini e piedritti. 204. Tracce di piccone con andamento "a festoni" visibili sulle pareti rocciose della cava di Sa Perdera. I segni sono imputabili all'uso del cosiddetto piccone "pesante", strumento che conobbe ampia diffusione in età romana .

avveniva in epoca antica, la tecnica utilizzata per l'estrazione della pietra nelle cave di Nora era quella della tagliata a mano, che prevedeva la realizzazione, con un piccone, di trincee lungo i lati del blocco che si andava a estrarre, e quindi l'uso di cunei o leve per lo stacco definitivo dalla superficie rocciosa. Nelle cave si estraevano blocchi di forma parallelepipeda in genere di dimensioni non standardizzate, che potevano poi essere ulteriormente lavorati e adattati a seconda delle esigenze del cantiere cui erano destinati.

Nota bibliografica Le cave di pietra di Nora sono state oggetto di un recente progetto di ricerca che ha condotto alla pubblicazione di una monografia (PREVIATO 2016c)

e di alcuni articoli (BO NETTO, ET AL. 2014; PREVIATO 2014; BONETTO, FALEZZA, PREVIATO 2015; PREVTATO 2016a; PREVIATO 2016b) . Sulle cave presenti nel territorio di Nora, in particolare nell'entroterra, si veda anche: BOTTO, FINOCCHI, RENDELI 1998; FINOCCHI 1999; NERVI 2013; NERVI 2015. Sullo sfruttamento delle cave in età punica: FINOCCHI 2000; FINOCCHI 2002. Altre pubblicazioni riguardano nello specifico la cava di Is Fradis minoris, che è stata recentemente presa in esame nell'ambito di studi archeologici (Cossu 2000 ) e geo-archeologici (MELis 2000; MELIS 2002; ANTONIOLI, ET AL. 2007; AURIEMMA, SOLINAS 2009; ANTONIOLI, ET AL. 2012), ed è stata oggetto di un progetto di valorizzazione (BALLETTO, ET AL. 201 O; BALLETTO, NAITZA, DESOGUS 201 8) . Infine, appare opportuno segnalare alcuni studi di carattere archeometrico pubblicati in anni recenti, finalizzati a definire l'area estrattiva di provenienza dei materiali lapidei impiegati negli edifici norensi, e in particolare nel teatro (MELIS, COLUMBU 2000; COLUMBU 201 8) e nel Foro (AGUS, ET AL. 2009).

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Le attività artigiana Ii Bianca Maria Giannattasio

Nel 227 a.C. la Sardegna diviene provincia romana, ma la romanizzazione avviene lentamente anche attraverso scambi commerciali sempre più forti, a opera di negotiatores e mercatores italici a cui si aggiungono funzionari amministrativi, che sostituiscono i Cartaginesi nelle mansioni pubbliche. Si assiste, fino alla grande pax augustea, a un perpetuarsi non solo della mentalità punica, ma anche di tutta una serie di iniziative, che rispondono a esigenze precedenti alla conquista. Nel campo dell'artigianato questo comporta una conduzione del lavoro a "livello familiare" o di modeste officine; solo con l'età imperiale, come avviene nel resto dell'Impero, si imposta un'organizzazione più complessa, anche se è difficile definirne i contorni e le modalità. Al riguardo non esistono fonti letterarie specifiche per la Sardegna (Plinio, Frontino, Palladio offrono notizie generiche) e gli scavi, quando non di urgenza, hanno prediletto aree pubbliche e sacre per definire i contorni delle città. Lo sviluppo delle attività artigianali è legato alle numerose risorse dell'Isola: alimentari, naturali e minerarie, tanto che specializzazioni di lunga tradizione sopravvivono fino ai giorni nostri, come la lavorazione delle oreficerie, o casi in cui si utilizzano le risorse locali insieme a materiale importato, come per la lavorazione del vetro o del piombo. I relitti di San Vero Milis-Su Pallosu e di Mal di Ventre A, uno proveniente e l'altro diretto a un porto sardo, ne sono una testimonianza: il primo (fine III sec. a.C. ) ha un carico in parte composto da più di 20 kg di grumi di vetro grezzo destinato a officine non insulari, il secondo (inizio I sec. a.C.) con circa 1000 lingotti di piombo ispanico, di cui 700 a firma della gens dei Pontilieni, doveva rifornire botteghe sarde (fig. 206). Alcune attività artigianali sono più strettamente collegate a esigenze familiari, come quella alimentare e tessile, lasciando minori tracce sul terreno o per lo meno di difficile lettura, così per gli impianti produttivi

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dell'olio o del vino: è il caso della fattoria di S'Imbalconadu (Olbia) (II-I sec. a.C. ), o del palmento nel territorio di Senorbì collegabile a una villa rustica, mentre l'edificio di Forum Traiani (metà II sec. d.C. ) sembra un laboratorio a livello quasi industriale per la torchiatura delle olive o dell'uva. Alcuni nuraghi- per esempio Arrubiu (Orroli) (figg. 7, 164), Tresnuraghes, Li Luzzani - in età romana si trasformano in impianti produttivi per le comunità locali con l'inserimento di frantoi per le olive, torchi e vasche per il vino. La Sardegna è nota per la ricca produzione cerealicola (regione a sud di Cornus, nell'Oristanese, nel Campidano: Liv. XXIII 40, XLI 6, 7; Varr. I 16, 2, II 3, 1), destinata ali' esercito e al mercato urbano, oltre che al consumo interno, comprovato dal rinvenimento di macine (fig. 171 ), ma, fatta forse eccezione per ora, non sono noti pistrina, anche se numerose matrici fittili da pane, eredi del punicum (Fest. s.v. punicum ), ne documentano i prodotti e la loro diffusione in molti centri dell'Isola (Cagliari, Nora (fig . 169), Tharros, Turris Libisonis, Olbia (figg. 61-62) ). L'attività artigianale legata al mare e ai suoi derivati doveva essere notevole (Ptol. III, 3, 2), sia per la presenza di numerose saline (Cagliari-Santa Gilla, Sulci, nel Sinis, Olbia, Posada), sia per la trasformazione e lavorazione del pescato: l'iscrizione di San Nicolò Gerrei (fig. 295 ) dove è nominato il salinator Cleone ne è una dimostrazione e lascia intravedere un'articolata gestione della produzione del sale, probabilmente a valenza statale. La presenza di tonnare lungo le coste (Sulci, nel Sinis, Cornus, Turris Libisonis, la Maddalena ecc. ), che si collegano al passaggio dei tonni, insieme a scarsi resti di officine per la produzione del garum (Nora), di cui i Romani erano grandi consumatori, rientrano nello sfruttamento del mare anche da parte loro. Come produzione specializzata doveva sopravvivere l'allevamento delle conchiglie negli stagni retrodunali (San Teodoro, spiaggia La Cinta) e la lavorazione del corallo, che sovente si recupera anche grezzo in abitato (Cagliari-tempio di via Malta, Tharros, Nora) o in necropoli (Nora, Cornus). L'attività tessile, erede di quella punica, è legata

205. Fondo di lucerna a disco, Il sec. d.C., ceramica, lungh. 10 cm, proveniente da Tharros, Oristano, Antiquarium Arborense. La lucerna è stata prodotta dall'Officina dei Memmi, a Tharros, a firma di Quintus Memmius Pudentis , che lavorava insieme a Quintus Memmius Karo , ambedue liberti della gens Memmia che aveva possedimenti in Sardegna e in Africa proconsolare. 206. Lingotti, fine I sec. a.e.inizio I sec. d.C., piombo, Cabras, Museo Civico "G. Marongiu ". I lingotti in piombo (peso 33 kg cadauno) provengono dal Relitto di Mal di Ventre A (I sec. a.C.); riportano il bollo Soc(ietas) M(arci et) C(ai) Pontilienorum M(arci) f(iliorum) , che indica la società formata da due fratelli , proprietari della miniera di Cartagena.

alla porpora e alla tessitura del bisso; il processo di manipolazione della porpora è testimoniato dal frequente rinvenimento di murices anche con tracce di porpora e da un'officina di trasformazione a Olbia; per il bisso la documentazione è limitata a qualche valva di pinna nobilis con tracce di impiego (Cagliari) e dal protrarsi fino al secolo scorso di un'industria del bisso nei centri costieri. In età romana è nota la fornitura di toghe militari e tuniche civili (Polluce, s.v. sardonik6s kit6n), forse create nell'officina di Settimo San PietroCarzeranu dove sono stati rinvenuti numerosi pesi da telaio, oppure a Sant' Antioco, dove nel portico romano del Cronicario sono stati recuperati i pesi di un telaio e dei fuselli in osso da tombolo, testimoni di un artigianato locale. Le città più importanti dovevano essere dotate di fulloniche per la tintura dei tessuti, ma non sono note tracce archeologiche, in quanto la cosiddetta fullonica di Nora e le vasche al di sotto della ex-Inps a Cagliari hanno ben altra funzione. Ancora meno rintracciabili sono i resti di concerie, che dovevano essere particolarmente attive, visto che le fonti (Cicerone, De prov. cons. 15; Eliano XVI, 34) ricordano come abito proprio dei Sardi la mastruca, ossia una veste fatta di pelli di capra, che si utilizzava con il vello rivolto all'interno d'inverno e all'esterno d'estate. Di lunga tradizione, che continua anche per tutta l'epoca romana, è lo sfruttamento dei palchi di cervo, di cui a volte si ritrovano gli scarti di

lavorazione (Monte Sirai, Nora, Tharros) e di ossi di bovidi, utilizzati per l'immanicatura di coltelli e di strumenti vari, per decorare vesti (fibule da Santa Filiti ca di Sorso), letti funerari (Bithia), ma anche per produrre aghi e spilloni per le ricche acconciature femminili (Cagliari, Nora, Tharros, Turris Libisonis, Olbia), così di moda a partire dall'età tlavia (figg. 217-221). Il territorio fornisce ulteriori risorse che vengono lavorate localmente, come per esempio il legname preso dalle foreste di lecci (foresta di Montarbu, di Gutturu Mannu, di Montimannu, di Montes nel Gennargentu, nel Supramonte di Orgosolo) che, sebbene poco apprezzato da Plinio (Naturalis Historia XVI, 32), viene esportato per essere impiegato per la flotta di Miseno, ma anche utilizzato per le esigenze dei porti sardi; da una fonte tardoantica (Palladio XII, 15, 3) si apprende anche l'uso del pino nella cantieristica navale: doveva esistere un artigianato specializzato in grado di rispondere a questa richiesta. A Olbia gli scavi del porto antico hanno permesso di individuare un'officina di carpentieri (terzo venticinquennio del I sec. d.C.), di cui sono stati recuperati attrezzi- martelli, mazzuole, scope, spazzole -, grumi di pece e di pittura, parti di una gru, resti di travi e tavolame proveniente dalla demolizione di un'imbarcazione. Molto sfruttate erano le risorse litiche per le strutture delle città, gli arredi pubblici e domestici, ma anche per oggetti di pregio; a latere di questa ricchezza sorge una pluralità e varietà di attività artigianali. Dovevano esistere lapicidi specializzati nella lavorazione sia della pietra calcarea, ben presente in tutti gli edifici romani (a Cagliari, Nora, Fordongianus, Antas, Tharros, Turris Libisonis, Olbia), sia della più tenera pietra di Cagliari; cave di estrazione, sfruttate in epoca romana per scopi edilizi, si trovano in molte zone (Capo Malfitano, NoraCapo Sant'Efisio, Nora-Is Fradis minoris, Cagliari, Porto Pino, Domus de Maria, Monte Sirai-Sa Domu de Perdu, Sulcis, Cabras, Perda Tellada, Capo Sant'Elia, isola di Mal di Ventre). Nella Sardegna centrale l'ignimbrite di Mulargia, utilizzata fino al V secolo d.C., o il basalto dell'area di Cabras vengono adoperati, per le loro caratteristiche geologiche, a fare macine per la panificazione o a clessidra, cosiddetto di tipo pompeiano (meta e catillus), o piccole macine rotatorie più maneggevoli (fig. 170), prodotte in serie, sbozzate e poi trasportate nei luoghi di impiego, come dimostra il carico del relitto di San Vero Milis (fine III sec. a.C.) o dell'Isola

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207-211 . Monili, fine I sec. d.C., oro, provenienti dalla necropoli romana di San Leonardo , Viddalba, Museo Archeologico. I gioielli, tutti afferenti a corredi funebri, ben rappresentano diverse tipologie tipiche dell'oreficeria romana, dagli anelli con castone (anche con l'inserto di pietre dure, in questo caso la scaramantica corniola, fig. 208), ai raffinati fermatreccia in oro (fig. 210), al pendente o fibbia in forma di ruota (fig. 211).

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Rossa (II sec. a.C. ), di Plage 'e Mesu-Gonnesa (II sec. d.C. ) e il rinvenimento e utilizzo di questi manufatti in altri siti, non solo italiani. Il granito, litotipo di maggior pregio, localizzabile in Gallura e alla Maddalena, viene impiegato per la decorazione architettonica e soprattutto per le colonne; nella zona tra Capo Testa e Santa Teresa Gallura sono presenti, tra il II e il N secolo d.C., officinae qualificate nei semi-lavorati, che venivano esportati, facendo concorrenza ai graniti dell'isola d'Elba (figg. 196-197) : una vulgata vorrebbe che le colonne del Pantheon a Roma siano proprio di granito sardo. Le officine si ricollegano alle esigenze dei grandi centri e sono particolarmente attive durante le due grandi fasi di monumentalizzazione dell'Isola (I e III sec. d.C. ), lavorando il materiale locale, come l'andesite, ma anche specializzandosi nella elaborazione di marmi importati sia bianchi che colorati. A queste stesse fabbriche si deve la produzione di pavimenti musivi di III-N secolo d.C.; all'origine esistevano maestranze africane itineranti che portavano con loro i cartoni utilizzati per la decorazione di ville e città dell'Africa settentrionale, ma ben presto devono essere stati sostituiti da artigiani locali, attivi nel sud della Sardegna (Cagliari, Nora e Sulci ), che adottano colori e temi propri, tra cui si segnala la presenza del motivo a pelta regolarmente ripetuto a formare figura di collegamento tra gli elementi geometrici o addirittura come unico motivo decorativo (Basilica di San Cromazio, Villaspeciosa, fig. 127). Anche i ricchi mosaici di Turris Libisonis si devono a maestranze locali (figg. 72-78). Testimonianza di tale attività sono gli scarti di lavorazione che si recuperano negli scavi, come a Nora per la costruzione del mosaico del frigidarium delle Piccole Terme (fig. 141 ). Quando la committenza pubblica, a cui si devono i monumenti pubblici e cultuali, si esaurisce, dopo la grande fioritura di età

severiana, queste stesse botteghe si "riciclano" e producono oggetti per rispondere a una richiesta privata: è il caso del sarcofago di San Lussorio a Selargius e di altri esemplari di area cagliaritana. Una produzione particolarmente specializzata, che affonda le sue radici nell'età punica e sembra esaurirsi nel corso del II secolo a.C. , è la lavorazione del diaspro verde delle pendici del Monte Arei, da cui vengono ricavati scarabei. La creazione di questi oggetti di carattere magico e apotropaico (Plinio, Naturalis Historia XXXVII, 115), per tradizione di studi e per motivi di localizzazione in prossimità dell'area di estrazione, viene attribuita a botteghe di Tharros, che interagiscono e commerciano con similari botteghe cartaginesi. Sebbene non si conoscano firme di gemmarii, gli scarabei sardi presentano una tecnica complessa, con uso del trapano e lavorazione a mano libera per i particolari. Raccolti per la loro peculiarità si ritrovano in collezioni museali, privi di documentazione archeologica, fatta eccezione per pochi esemplari tra cui uno da Neapolis. Erede di questa abilità artigianale potrebbe essere un'officina nell'area di Sant'Antioco (I-II sec. d.C. ), sia per la presenza in loco (isola di San Pietro) o nelle vicinanze di giacimenti di diaspro rosso e di corniola, sia perché da questa zona proviene il maggior numero di gemme romane incise, ritrovate in Sardegna, che mostrano identiche caratteristiche tecniche. L'estrazione delle risorse minerarie (ferro, rame, piombo, galena argentifera e una piccola percentuale di oro) del Cagliaritano (Ferraria/San Gregorio), dell'Inglesiente, di Sant'Antioco, della Nurra (Canaglia, Lampianu), del Nuorese (Lula, Gadoni), da cui si ricava anche l'allume, risale in parte alle precedenti epoche - nuragiche e puniche - e si intensifica in età romana, quando lo sfruttamento viene gestito a livello statale tramite un procurator metallorum, utilizzando ampiamente manodopera servile o condannati ad metalla.

L'uso attraverso i secoli delle stesse miniere - a volte fino all'età moderna - rende pressoché impossibile individuare la fase antica, considerando che spesso la stessa strumentazione estrattiva sopravvive fino al XIX secolo. Non sono note officine di trasformazione presso le cave, che al massimo producevano dei semilavorati, ma l'attività doveva essere intensa in tutta l'Isola, tanto che nel IV secolo d.C. si vieta ai cercatori d 'oro di recarsi in Sardegna. È ben documentata l'abbondanza e la facilità di approvvigionamento, nonché la quantità di materia prima importata - nota dai relitti della costa occidentale e delle Bocche di Bonifacio, naufragati tra III secolo a.C. e I secolo d.C., che trasportano lingotti di piombo e di rame - proveniente dalla Spagna. Inoltre è facile reperire scorie di ferro o di bronzo a diversi stadi di lavorazione nelle aree artigianali (Tharros, Monte Sirai, Nora, Senorbì, Uselis, Santa Filitica di Sorso), che testimoniano una attività rivolta a esigenze quotidiane; più difficile individuare delle officine o delle fornaci come a Santa Filitica (VI sec. d.C. ), anche se esistono vecchie segnalazioni (Nora). Il gran quantitativo di piombo importato si giustifica facilmente poiché questa materia, molto duttile, si presta a diversi utilizzi: edilizio (tubature, chiodi), marinaresco (ami, zavorre), vasellame (piatti e pentole), funerario (sarcofagi, urne). In Sardegna trova impiego anche in una produzione ampiamente diffusa in tutto l'Impero romano, ma che localmente ha particolare fortuna tra il 1 e il III secolo d.C. per i corredi funerari (Pill'e Matta-Quartucciu, San Gavino, Su Luargi-San Lussorio, necropoli di Tharros) o come votivo (CuccureddusVillasimius: santuario di Giunone): si tratta di cornici di specchio con diametro tra 3,5 e 6 cm, per lo più molto semplici, che dovevano racchiudere una superficie riflettente. Il tipo di prodotto modesto dal punto di vista artigianale e la localizzazione dei rinvenimenti porta a

ipotizzare l'esistenza di officine nell'area cagliaritana e a Tharros. Quest'ultima città, nota già in età fenicia e punica, anche per la lavorazione di oreficerie ad alto livello, continua tale attività con la romanizzazione fino al tardoantico; pure in questo caso non sono noti nomi di artigiani, ma la loro abilità tecnica è evidente. Lo sfruttamento delle sabbie silicee fin dall'epoca punica (nuraghe Sirai), a cui si aggiunge la tecnica della soffiatura a partire dalla metà del I secolo a.C. e la capacità romana di organizzare in modo seriale l'attività, permette lo sviluppo della lavorazione vetraria (figg. 212-215), anche se resta sempre difficile, a livello archeologico, l'individuazione delle officine e ancora meno nota è l'organizzazione del lavoro che vi si svolgeva. Le aree interessate a questa attività sono da collocarsi soprattutto nella parte meridionale e occidentale dell'Isola, grazie a rinvenimenti di scorie e scarti di lavorazione (Cagliari, area di Oristano, Cornus) ; la nave di San Vero Milis è una testimonianza di esportazione di semilavorato. A Nora si sono individuati grumi di vetro a diversi stadi all'interno di una fornace "a toppa': probabilmente tardo-antica. I numerosi prodotti, che sfruttano le caratteristiche del vetro e del suo basso costo, dovevano essere rivolti a un consumo familiare; sembrerebbe di produzione sarda un tipo di bicchiere a calice, ampiamente diffuso ( Cagliari, Nora, Cornus, Tharros, Turris Libisonis, Olbia). Probabilmente anche le urne cinerarie (figg. 319-320) e i vetri da finestra che si recuperano negli scavi cittadini sono da ascrivere a produzioni locali, anche se si può avanzare l'ipotesi, per ora non suffragata da dati, che gli artigiani sardi fossero in grado di affrontare le diverse tecniche di lavorazione per produrre vetri a mille fiori o a intaglio. Sicuramente fra tutte le attività artigianali, quella legata all'argilla è meglio conosciuta a partire dalla fase dell'estrazione, di solito in cave a cielo aperto, alla lavorazione della materia prima, alla cottura in fornaci e alla

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commercializzazione finale. La Sardegna è ricca di territori sfruttabili in tal senso: nell'area di Cagliari (Santa Gilla e le pendici del Monte Urpinu), di Nora (Sa Perdosa), di Oristano (Santa Giusta), di Tharros, di Turris Libisonis. I prodotti sono soprattutto vascolari, ma non solo; legati al quotidiano hanno una finalità molto pratica e per funzione sono il prosieguo di similari prodotti di tradizione protostorica. I Romani segnano la loro avanzata di conquista territoriale con la presenza di ceramica a verniée nera di produzione campana e laziale, che viene veicolata da quei mercatores di origine italica presenti da subito nell'Isola con i loro ricchi

212. Bottiglia monoansata, seconda metà Il sec. d.C., vetro, h 18 cm, proveniente dalla Tomba 44 della necropoli di Terra 'e eresia , Sardara, Civico Museo "Villa Abbas". 213. Bicchiere, metà I sec. d.C., vetro, h 4 cm, Olbia, Museo Archeologico Nazionale. Il bicchiere è decorato con una scena raffigurante una corsa di quadrighe.

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commerci (figg. 177-179). Questo vasellame diventa uno status symbol e lo si ritrova nei corredi funerari, ma ben presto si creano una serie di imitazioni locali. Queste utilizzano le argille sarde, differenti da quelle italiche per impasto, ma ne riproducono fedelmente le forme; dapprima si cerca un'imitazione perfetta (III-II sec. a.C. ), poi si ha una rielaborazione, non tanto della forma, quanto dei colori e della tecnica: dal I secolo a.C. alla fine del I secolo d.C. i prodotti si presentano a pasta e vernice grigia, che diviene via via sempre più sottile e meno coprente. Fabbriche si sono individuate a Cagliari, a Monte Sirai, a Nora, a Tharros, a

Olbia e probabilmente anche in altre località, visto il gran numero di reperti. Quando le stesse manifatture italiche passano dalla produzione di vernice nera alla terra sigillata italica, avviene che alcune officine da Pisa si trasferiscano in Sardegna, tra esse forse quella degli Attei, i cui reperti si recuperano in gran numero tra Tharros e Neapolis. Sempre a Tharros i Memmii, che bollano fondi di lucerne (fig. 205) , aprono una succursale (I-II sec. d.C.). La diffusione dei bicchieri a pareti sottili dall'area italica e dalla betica, porta alla creazione di boccalini (cd. tipo Pinna) che ne imitano la decorazione, ma aumentano lo

spessore delle pareti; la loro produzione tende a esaurirsi nel corso del II secolo d.C., quando sono soppiantati dalla diffusione dei bicchieri in vetro, che assolvono la stessa funzione e sono più competitivi sul mercato interno. Dal III sino al IV secolo d.C. compare una classe vascolare molto diffusa e con caratteristiche proprie: la cosiddetta ceramica fiammata, contraddistinta da grandi forme (bacili, brocche, bottiglie, anfore); presenta un impasto fine di colore chiaro, con la tipica decorazione a vernice bruno-rossastra in bande dritte, ondulate o a fiamme contigue. Le officine vengono localizzate a Sulci, ma il gran

214. Ba/samario tipo lsing

101 , 11-111 sec. d.C. , vetro, h 7,2 cm , Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna". Il colore violaceo era ottenuto aggiungendo manganese alla miscela vetrificabile. 215. Ba/samario tipo lsing 82 , 11-111 sec. d.C., vetro, h 15 cm, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna ".

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218

216. Mosaico pavimentale della Casa dell'atrio tetrastilo, Nora, lii sec. d.C.; particolare del mosaico della sala conviviale, opera di maestranze africane. 217-221. Aghi crinali, I-V sec. d.C., osso, lungh. max 14 cm, provenienti da sepolture di Tharros, Oristano, Antiquarium Arborense. Manufatti usati nelle pettinature per dividere le ciocche di capelli (acus discriminalis o discerniculum) , per il fissaggio di crocchie e trecce posticce (acus crinalis o acus comatoria), ma anche per applicare sulle capigliature profumi o altri prodotti cosmetici. 222. Dado a sei facce, 1-11 sec. d.C., osso, h 2,8 cm, proveniente dall'abitato di Neapolis, Oristano, Antiquarium Arborense. I dadi, a/eae, venivano utilizzati in molti giochi lanciandone due o tre per volta .

222

quantitativo di prodotti noti permetterebbe di pensare a fabbriche in ogni città della Sardegna meridionale. La diffusione lungo la costa occidentale raggiunge Turris Libisonis, anche se due esemplari sono noti a Ostia, che in questi secoli è legata commercialmente a Turris. Ancora una produzione peculiare dell'area sud-occidentale è quella della cosiddetta ceramica steccata, che è un'evoluzione della ceramica a pareti sottili, per spessore delle pareti e tipo di impasto molto depurato, ma è caratterizzata da una decorazione esterna a linee translucide ottenute a stecca, a volte accompagnate da una serie di triangolini incisi. Predilige le brocche e le bottiglie, come un'altra produzione più tarda (IV-VII sec. d.C. ), detta

Campidanese poiché le diverse fabbriche si collocano nel Campidano e di più ampia diffusione, che, con un impasto più rossiccio, mostra sempre una decorazione a stecca, ma accanto alle brocche adotta diverse forme aperte (piatti, olle, coppe). Di produzione sarda è buona parte della ceramica da fuoco, specialmente a partire dal IV secolo d.C. per tutta l'età bizantina, quando viene creata per rispondere a esigenze familiari, come per la villa di Santa Filitica di Sorso (VIIVIII sec. d.C.). Dal punto di vista archeologico le uniche tracce di eventuali officine vascolari sono resti di fornaci (Nora, Tharros). L'argilla trova impiego per oggetti votivi da offrire alle divinità, la cui produzione si ricollega direttamente alle aree sacre (CagliariSanta Gilla, Bithia, Nora, Neapolis, Padria), e anche per il più semplice materiale edilizio - mattoni, tegole e coppi - che per praticità e povertà tecnica è di manifattura locale. Le fabbriche erano sparse un po' per tutto il territorio, anche se restano solo tracce di fornaci ( Cagliari, Nora, Teulada, Siligo, Turris Libisonis, San Teodoro) o situazioni particolari come le tegole a bollo Atte, schiava favorita da Nerone (Dio LXI, 7), che aveva possedimenti a Olbia, o il caso del nuraghe Su Angiu di Mandas, dove è stato rinvenuto un vano di stoccaggio (II sec. d.C.) pieno di laterizi, pronti per essere commercializzati. Generalmente, buona parte dell'attività artigianale si svolgeva all'interno dell'abitato, se non addirittura nelle singole case, mentre quella più pericolosa, per esempio fabbriche metallurgiche e vetrerie, si colloca al margine delle città; gli opifici venivano organizzati sfruttando diverse tipologie di lavoratori, dal proprietario, spesso un liberto, al capo bottega, agli operai specializzati e quelli semplici, che di solito erano schiavi. Difficile seguire le diverse fasi di lavorazione, sia perché mancano fonti antiche a carattere tecnico sia perché le tracce archeologiche sono ridotte, ma certo in Sardegna dal III secolo a.C. fino all'arrivo degli Arabi doveva esistere una fitta, complessa e ricca rete di attività artigianali.

Nota bibliografica Data la vastità degli argomenti qui affrontati, si indica una bibliografia essenziale: LONGO 1998; CAMPANELLA 1999; BIGAGLI 2002; ROVINA, G ARAU, MAMELI 2008; GHIOTTO 2009; B ARATTA 2010; Cicu 2010; GAVINI, RlCCARDI 2010; MASSIMETTI 2010; SATTA, LOPEZ 2010; TRONCHETTI 2010; SALVI 2014a; MASTINO, Z UCCA 2016a; PREVIATO 2016c; ANGIOLILLO, ET AL. 2017.

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approfondimenti Le produzioni ceramiche Carlo Tronchetti

223-225. Balsamari, Il sec. a.e.• terracotta, h rispettivamente 19,2 cm, 27 cm e 25,7 cm, provenienti dalla tomba 28 della necropoli di Santa Lucia di Gesico, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. I tre unguentari fusiformi sono verosimilmente di fabbrica sarda. Il loro utilizzo è prevalentemente, ma non esclusivamente, funerario.

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Durante il periodo repubblicano (II-I sec. a.C.) la produzione ceramica in Sardegna prosegue abbastanza a lungo la precedente tradizione artigianale punica, radicata ormai da secoli. Così nelle ceramiche da cucina, pentole, tegami, si assiste a una sostanziale continuità, come pure avviene per la ceramica da mensa. Il vasellame punico a vernice nera, che derivava formalmente da quello attico più antico,

continua a essere fabbricato con una sempre maggiore aderenza ai nuovi modelli di vasi provenienti dall'ambito romano italico. Si attestano così, a fianco delle importazioni, anche i prodotti realizzati in nuove officine che si rifanno alla tecnica e alle forme dei vasi in Campana A (figg. 177-179) e, in quantità minore, Campana B. Ma quella che si afferma in misura assai rilevante, sia quantitativamente

226. Calice, prima metà I sec. d.C. (particolare della fig. 173). Il recipiente, utilizzato per il servito da mensa, era destinato a contenere vino, come mostra chiaramente la decorazione con il volto di un Sileno accompagnato da tralci di vite e grappoli d'uva.

sia come diffusione su tutto il territorio isolano, è la ceramica a vernice nera a pasta grigia, fabbricata in numerose officine, di dimensioni e importanza diverse. Sorte verso la metà del II secolo a.C. segnano una soluzione di continuità con il passato, riprendendo il'patrimonio formale in modo pressoché esclusivo dalle produzioni italiche, realizzandolo con una pasta grigia su cui viene stesa una vernice più o meno nerastra che copre l'interno del vaso e, di norma, esternamente solo la parte adiacente il bordo. La decorazione è minima: solu in pochissimi casi si hanno palmette, mentre relativamente più frequenti sono le rosette singole; la maggior parte dei vasi comunque non è decorata.

Le forme si accentrano sul servito da mensa con patere, piatti, scodelle, coppette e coppe, come detto ampiamente diffuse su tutto il territorio e in tutti gli ambiti: urbano, rurale, abitativo, funerario e sacro. L'importanza di queste produzioni si evidenzia verificando la loro lunga durata. Inequivocabili dati stratigrafici in abitati e le associazioni in corredi monosomi indicano con chiarezza la loro vitalità sino oltre la metà del I secolo d.C., quando sono imitate anche forme della sigillata italica. Siamo certi, invece, della fabbricazione di piatti e coppe che imitano i coevi vasi in sigillata italica del I secolo d.C., e trovano il loro preferenziale utilizzo in aree extra-urbane.

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227. Lucerna, I-li sec. d.C., ceramica, lungh. 11 cm, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna".

228. Lucerna a prese laterali, I sec. a.e., ceramica, lungh. 9 cm, proveniente da Mores, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna".

costieri, con assolutamente minime apparizioni all'interno. Fuori della Sardegna è attestata unicamente a Ostia con rarissimi frammenti. Le forme si articolano in anfore, grandi brocche, brocchette e bacili, di dimensioni rilevanti e più ridotte. I vasi sono tutti caratterizzati dalla superficie biancàstra su cui si stende la decorazione a fasce rossastre diritte, ondulate, e serie di brevi pennellate curve. Si ritrova in ambito sia funerario che di abitato, e tuttora non è stato possibile definire se ne esiste un utilizzo peculiare, al di là della sua owia funzionalità come vaso da dispensa e da mensa. Un'altra ceramica sarda, ampiamente diffusa nella Sardegna centro-meridionale, è la cosiddetta ceramica "campidanese", databile al IV-primi decenni V secolo d.C. Le forme sono abbastanza monotone, limitandosi a brocche, di norma con collo rigonfio, e ampie scodelle. L'argilla marrone è caratterizzata da una decorazione steccata a stralucido; mentre sulle brocche si limita a strie verticali, sulle scodelle le strie si compongono in motivi ad angoli e a griglia. A queste ceramiche, dai caratteri più marcatamente riconoscibili, vanno poi aggiunte, durante tutto il periodo in esame, le produzioni a diffusione eminentemente locale di vasellame comune non decorato, da mensa e da dispensa, semplicemente funzionale per le esigenze quotidiane. Solo una serie di analisi archeometriche consentirà di individuare le zone di fabbricazione e distribuzione territoriale.

Nota bibliografica In generale sulla ceramica romana di Sardegna: 1996. Più specificamente sulle diverse classi ceramiche: SALVI 2010; TRONCHETTI 2010; TRONCHETTI 2014; TRONCHETTI 2018, pp. 13-15. TRONCHETTI

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229-230. Lucerna bicline,

231. Lucerna bicline,

I sec. d.C., ceramica , lungh. 14 cm , proveniente da Turris Libisonis, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna ".

I sec. d.C., ceramica , h 15,5 cm , proveniente da Turris Libisonis, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna". Nella base, su un piedistallo, è raffigurata la dea Minerva.

243

Le terrecotte architettoniche Maria Adele lbba

232. Embrici, coppi e antefisse, I sec. d.C., rinvenuti nelle acque antistanti Cala Sinzias, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Le antefisse si distinguono in due gruppi sulla base dell'altezza e della decorazione costituita da cinque palmette contrapposte, alternate, ma con un disegno che differisce in alcuni dettagli, come mostrato nella ricomposizione museale. La presenza nel relitto di anfore datate al I secolo d.C. fa riportare anche questo materiale allo stesso arco cronologico.

244

Il materiale utilizzato per la copertura dei tetti degli edifici romani era costituito esclusivamente da laterizi, utilizzati nella combinazione di tegulae e imbrices. Le prime erano costituite da lastre di terracotta ripiegate nei lati lunghi a formare un' aletta. I secondi erano coppi semicircolari che venivano collocati sopra le tegole, per incastrarle, nel punto di incontro tra le alette. I bordi del tetto potevano terminare con coppi conclusi con elementi decorati, le antefisse. Al di sotto di esse potevano stare tegulae speciali, di gronda, caratterizzate da un bordo rialzato decorato con motivi vegetali; in alternativa lungo i lati o negli angoli venivano sistemati altri elementi funzionalmente utili per convogliare l'acqua piovana, i gocciolatoi, in genere a testa di leone, inseriti in lastre dette sima. Un interessante esempio di copertura è offerto dai materiali recuperati, nel 1994, da un relitto inabissatosi nelle acque di Cala Sinzias, nella costa sud-orientale dell'Isola. Per quanto scavato solo parzialmente, il giacimento subacqueo ha restituito embrici e coppi. Essi erano, probabilmente, destinati alla copertura di due edifici, come sembrano

testimoniare due serie differenti di decorazione a palmetta sulla cornice di alcuni embrici relativi alla parte perimetrale dell'edificio. Non sappiamo con precisione se questo carico fosse destinato alla Sardegna o al Nord Africa, mentre dal tipo di argilla e dalle anfore presenti tra i materiali si è ipotizzata una provenienza dalla Campania. In Sardegna sono noti pochi rinvenimenti di decorazioni fittili architettoniche sia per l'ambito sacro sia per quello civile. Si tratta, per lo più, di frammenti, isolati o in piccoli gruppi, di antefisse e di gocciolatoi. Suscitano interesse due piccoli leoni rinvenuti nello scavo condotto negli anni Cinquanta presso il santuario cosiddetto di Esculapio a Nora, che, essendo cavi al loro interno, potrebbero essere stati utilizzati o rifunzionalizzati come doccioni. A una produzione di lastre di rivestimento fittile, realizzate a matrice e diffuse in età augustea, note con il nome di "lastre Campana", si rifanno tre esemplari di cui uno rinvenuto a Padria, nell'area di Santa Croce, e due conservati in collezioni provenienti, in un caso con certezza e nell'altro solo per una ipotesi formulata da Gianfranco

Canino che li ha in studio, da Grugua, a poca distanza da Antas. Il tipo di scene raffigurate sono ben note. La lastra da Padria rappresenta una Vittoria su biga mentre i due esemplari da Grugua mostrano una scena di corteo dionisiaco con Menadi danzanti e, infine, quella di provenienza sconosciuta, per quanto in cattive condizioni, presenta un grifo che aggredisce un'Amazzone. Se nel caso di Padria conosciamo l'edificio templare del cui ornamento la lastra con la Vittoria in biga faceva parte, per le altre non abbiamo dati, per cui si può considerare solo il fatto che questo tipo di lastre, in genere, ornavano strutture porticate o ambienti interni come, per esempio, il coronamento di porte sia di carattere pubblico non religioso sia di carattere privato. Il complesso senz'altro più consistente di materiali per numero e omogeneità, però, è dato dalle terrecotte architettoniche

provenienti dagli scavi del tempio di Antas. Il paziente lavoro di ricerca e di sistemazione dei materiali rinvenuti compiuto da Giuseppina Manca di Mores (si veda il contributo in questo volume), ha portato la studiosa a formulare un'ipotesi ricostruttiva, per quanto non ancora definitiva, di tutta la decorazione fittile architettonica del tempio, nella sua fase repubblicana della metà del II secolo a.C. circa che richiamerebbe le origini mitiche dell'Isola rappresentate, in particolare, dalle due figure centrali di un altorilievo che doveva decorare lo spazio frontonale, identificate con Sid!Sardus Pater, con la tiara di penne, ed Eracle/Melqart, con la leontè.

Nota bibliografica P ESCE 1972; SALVI 1994; M ANCA DI MORES 2019; Z UCCA 2019a.

245

233. Gemma con intaglio, 1-11 sec. d.C., corniola, lungh. 1,4 cm, reimpiegata in un anello di VI-VII sec. d.C., proveniente dalla necropoli di Su Bruncu 'e s'Olia, DolianovaSerdiana, cagtiari, Museo Archeologico Nazionale. !.'.anello in oro è fotmato da una sottile lamina decorata a filiVcma da tre ordini di perline in rilievo. In antico era dotato di triplice castone, ma ora ne residuano solo due, avvolti da un giro di grani aurei. Quello più piccolo è privo di gemma, accanto a esso si trova il castone principale ospitante l'intaglio. Quest'ultimo presenta la figura della dea Minerva con elmo, lancia e scudo che, sul palmo della mano protesa in avanti, reca una Vittoria. Il manufatto documenta il singolare reimpiego di gemme d'epoca romana nella gioielleria bizantina, concepite quale simbolo di rango legittimante il legame e la continuità del potere imperiale in epoca tardo-antica. 234. Gemma con intaglio,

Il sec. d.C., diaspro giallo, lungh. 1,2 cm, proveniente da Sant'Antioco, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Nella gemma è intagliato il dio Mercurio stante a reggere il caduceo e la borsa, attributi che lo qualificano quale araldo degli dei e garante dei commerci. La resa piuttosto schematica del dio trova confronti con gemme dalla medesima iconografia realizzate ad Aquileia, città ubicata nella Gallia Cisalpina, permettendoci di ascrivere a quest'ultima la produzione del diaspro in esame.

246

Le gemme romane costituiscono una categoria artistica affascinante e unica per la conoscenza del mondo antico. Le incisioni su pietre semipreziose offrono una comprensione della società classica a più livelli (ad esempio · artigianale, stilistico e figurativo), fornendo un repertorio straordinario di soggetti e schemi che testimoniano in maniera diretta la mentalità e la cultura divulgata nell,Impero romano. Le fonti antiche testimoniano il loro impiego iniziale in funzione sigillare, peculiare dei personaggi di rango sociale elevato, ma comunicano anche un loro uso per altre molteplici valenze: come status symbol, a scopo decorativo-ornamentale, religioso, politico, amuletico e ancora magico-terapeutico (spesso connesso alle virtù riconosciute nei minerali intagliati, eventualmente rafforzate da determinati soggetti raffigurati). Le gemme sardo-romane, prodotte dall'epoca romano-repubblicana (II sec. a.C.) fino all'età tardo-antica (III-IV sec. d.C.), mostrano raffigurazioni tratte dall'immaginario comune greco-romano e riflettono quindi le visioni culturali della popolazione isolana inclusa nell'orbita romana. La maggioranza delle gemme è costituita da intagli privi dell'anello originario realizzato in oro, ferro o bronzo; tali esemplari provengono perlopiù da contesti funerari scavati durante l'Ottocento

(Sant' Antioco, Olbia) e dai principali centri romani dell'Isola (Nora, Porto Torres, Cagliari e Padria), poi confluiti nei musei tramite raccolte antiquarie. Tra le attestazioni più antiche, fortemente influenzate dalle produzioni etrusche e grecoellenistiche, troviamo incisioni di divinità romane e del loro seguito (Apollo e Muse, Venere ed Eros, Bacco e satiri, Minerva ecc.), di eroi, guerrieri e altri temi connessi alla sfera militare, di soggetti tratti dalla sfera teatrale e ancora motivi floreali e animali che, con nuove soluzioni figurative e variazioni, ricorreranno in tutta la glittica sardo-romana. Dalla metà del I secolo a.C. vengono introdotte le combinazioni simboliche a valenza beneaugurale, costituite da cornucopie intrecciate a timoni, globi, palme, spighe e mani unite, alludenti a concetti di abbondanza, benessere, concordia e buon governo. Queste rappresentazioni, concepite a scopo propagandistico e politico-celebrativo, si diffondono attraverso intagli e gemme in vetro, offerte alla schiera di clienti e sostenitori dai politici aspiranti al potere. A cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. compaiono anche scene di vita quotidiana imperniata di religiosità: notevoli sono infatti le raffigurazioni di personaggi come pastori e contadini che offrono i frutti del loro lavoro in prossimità di un altare o un tempietto.

236. Gemma con intaglio, lii sec. d.C., diaspro rosso, lungh. 1,4 cm, proveniente da Sant'Antioco, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Marte, di spalle di tre quarti, è rappresentato incedente con trofeo, lancia e scudo. In ambito glittico, il soggetto divenne molto popolare tra i militari dell'esercito romano che, indossando tali monili , chiedevano al dio della guerra protezione, favore e occasioni di successo.

personificazioni di concetti positivi, soggetti erotici o mitologici, simboli politici e motivi zoomorfi, scelti appositamente per proteggere il loro proprietario. Dal II-III secolo d.C. la qualità delle incisioni diviene sempre più scadente, ma si afferma una nuova categoria glittica costituita dalle gemme magiche, le quali presentano immagini di divinità, creature mostruose, invocazioni e formule magiche, adottate come amuleti apotropaici. Un cospicuo numero di pietre incise è inquadrabile entro i prodotti delle officine localizzate nella città cisalpina di Aquileia che, con Roma e Alessandria, era uno dei principali ateliers dell'Impero. Allo stato attuale degli studi, infatti, non sussistono prove che permettano di circoscrivere una produzione locale, malgrado la precedente esperienza glittica punica. Un unico indizio potrebbe essere fornito dalle incisioni a uno stato di lavorazione non finito, presenti su intagli in diaspro e corniola forse ricavati dai giacimenti degli areali sulcitano e oristanese.

237. Gemma con intaglio, I sec. a.C.-1 sec. d.C., corniola e oro, lungh. 1,8 cm, proveniente da Olbia, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. La corniola riproduce una Vittoria di profilo, con palma e corona ornata da nastri, incisa in un elegante e raffinato stile classicistico .

Il tema delle gemme romane in Sardegna è trattato in generale da ANGIOLILLO 2000; CORRIAS 2004; Crcu 2010. Per un approfondimento sulla collezione glittica d el Museo Archeologico Nazionale di Cagliari: NAPOLITANO 2017.

235. Gemma con intaglio, fine 1-11 sec. d.C., diaspro verde con macchie rosse, lungh. 1,2 cm, proveniente da Oschiri, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. !:intaglio raffigura Minerva/Roma con elmo, lungo chitone, lancia e parazonium, seduta su una catasta di armi, mentre regge una piccola Vittoria alata. La figura fonde l'iconografia propria di Minerva, armata e Nicefora, alla personificazione di Roma, simbolo di culto e'fedeltà nei confronti della patria.

Non mancano le rappresentazioni divine e agresti che celebrano la fecondità della natura, come le immagini di Eroti impegnati nella mietitura, vendemmia e raccolta dei frutti, operazioni connesse al culto di Bacco e indicanti tematiche stagionali. A partire dalla fine del I secolo d.C. le gemme diventano un prodotto diffusissimo e di serie, impiegato principalmente per scopi ornamentali e profilattici. Le raffigurazioni presentano ora soggetti ripetitivi: troviamo le divinità greco-romane accanto a

Nota bibliografica

247

238. Gemma con intaglio, Il sec. d.C. , corniola, lungh. 1,6 cm, proveniente da Nora, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Vi è raffigurato un pescatore, seduto su uno scoglio, intento a recuperare un pesce che ha abboccato alla lenza. La corniola fu rinvenuta in occasione dello scavo dell'anfiteatro di Nora, città dalla forte vocazione marittima e commerciale ove l'attività

248

della pesca doveva essere ampiamente praticata. 239. Gemma con intaglio, 1-11 sec. d.C., diaspro rosso, lungh. 1,3 cm, proveniente da Padria o da Sant'Antioco, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Due uccelli, forse un pappagallo e un pavone, si abbeverano da un cratere a colonnette decorato con baccellature. Il motivo

iconografico costituisce una variante del prototipo musivo con colombe creato da Sosos di Pergamo nel Il secolo a.e., che trovò larga fortuna e diffusione anche nelle gemme romane. 240. Gemma con intaglio, Il sec. d.C. , diaspro rosso, lungh. 1,3 cm , proveniente da Sant'Antioco, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Il diaspro raffigura un

crostaceo e un delfino ed è frammentario proprio in corrispondenza del rostro del cetaceo. Gli animali acquatici si trovano incisi in molteplici intagli romani , volti a celebrare la ricchezza del mare e delle sue risorse. 241. Gemma con intaglio, Il sec. d.C., diaspro rosso, lungh. 1,2 cm , proveniente da Sant'Antioco, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale.

!.:intaglio mostra un Erote alato con berretto da fantino che cavalca un cavallo al galoppo. Le raffigurazioni di Eroti che giocano con animali sono ampiamente documentate in tutta la glittica romana , scelte per illustrare gli immensi poteri di Eros/ Amore, in grado di dominare tutti gli animali.

242. Gemma con intaglio , 11-111 sec. d.C., diaspro giallo, lungh. 1,1 cm , proveniente da Sant'Antioco, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Il diaspro ospita inciso un leone che balza. Per il suo carattere solare, come confermato dal colore della pietra, il soggetto era usato quale amuleto poiché considerato capace di sconfiggere gli spiriti maligni, stimolando forza e

coraggio in tutti coloro che lo recavano con sé. 243. Gemma con intaglio , 11-1 sec. a.e. , corniola, lungh. 1,3 cm , proveniente da Sant'Antioco, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Nell'intaglio è raffigurato un trampoliere con zampa sollevata , motivo attestato nelle gemme greco-romane fin dalla seconda metà del V secolo a.e. e scelto per simboleggiare

te.mi erotici e amorosi , concernenti la devozione e l'affetto familiare. La corniola potrebbe essere stata incisa ad Aquileia, considerando la forma tondeggiante e l'accentuata convessità del profilo, nonché l'impiego di uno stile influenzato dalla tradizione glittica ellenizzante ed etruschizzante.

lungh. 1,2, proveniente da Pad ria o da Sant'Antioco, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. l'.incisione raffigura un Dioniso/ Bacco stante con vaso (kantharos) , tirso e spighe; in numerosi altri intagli, il dio compare anche accompagnato dalla pantera, animale a lui sacro.

244. Gemma con intaglio , I sec. d.C., calcedonio bianco,

245. Gemma con intaglio , seconda metà I sec. a.e. ,

calcedonio bianco, lungh. 1,2 cm , forse proveniente da Tharros, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Vi è rappresentato un offerente che sacrifica una capretta davanti a una colonna sormontata da una statua di divinità barbata , identificabile forse con Priapo, che colloca spazialmente il sacrificio in un ambiente campestre.

249

I gioielli hanno da sempre rivestito un ruolo importante nelle varie fasi della vita di uomini, donne e bambini, grazie al loro valore funzionale, ma soprattutto simbolico. Nel mondo romano i monili costituiscono, infatti, uno status symbol in grado di evidenziare le capacità economiche dei possessori e al contempo uno strumento utile per seguire le trasformazioni e i mutamenti che caratterizzano la società nel corso del tempo. È così che, dopo la morigeratezza che contraddistingue i costumi di epoca repubblicana, si assiste nella società di epoca imperiale a un'inversione di tendenza che porta a uno sfoggio di ornamenti sempre più preziosi e sfarzosi, secondo un'usanza che entrerà a far parte delle abitudini

246. Armilla, seconda metà lii sec. d.C., oro, 0 interno 7 cm , proveniente da Turris Libisonis, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Si tratta di un'armilla d'oro in spessa lamina, con la parte interna cava e quella esterna lavorata a sbalzo con motivi di globetti e archi sovrapposti. 24 7-248. Collana , Il sec. d.C., oro, lungh. 37 cm , proveniente da Porto Conte presso Alghero, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna". La collana è costituita da una robusta maglia multipla, il cui fermaglio, perduto, era ancorato alle due teste di leone.

250

di esponenti dei ceti aristocratici e, più in generale, di famiglie abbienti. La necessità di disporre di maestri orafi altamente specializzati e il costo elevato delle materie prime, spesso da reperirsi in località non facilmente accessibili, sortiscono come conseguenza la creazione di un numero limitato di botteghe dedicate alla creazione di gioielli e di una produzione tipologicamente poco varia e improntata al conservatorismo dei modelli. Le creazioni iniziali risentono di una forte influenza ellenistica che permea, uniformandoli, i prodotti artigianali di Roma e delle province. Non stupisce dunque che i gioielli della Sardegna di età romana non si discostino per fisionomia e standardizzazione da quelli del resto dell'Impero. Questi fattori rendono

249. Collana, 11-111 sec. d.C. , oro e pasta vitrea, lungh . 41 cm, proveniente da Olbia, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna". 250. Collana, 11-111 sec. d.C., oro e pasta vitrea , lungh. 133 cm, proveniente da Su Pidocciu, Sorso, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna". Il monile è composto da un medaglione di forma circolare, lavorato a giorno, e da una catenella articolata in due fili con maglie alternate a grani in pasta vitrea di colore blu.

252

difficile individuare centri di produzione e officine specializzate nella creazione di monili nel territorio isolano, nonché definire un arco cronologico di riferimento per una classe di materiali tesaurizzata e dalle caratteristiche conservative. Tra i gioielli più diffusi nell'Isola in questo periodo si ritrovano le collane, contraddistinte dall'eleganza della fattura, dalla policromia e, frequentemente, dall'alternanza di vaghi in pietre dure, paste vitree e maglie d'oro, secondo un'usanza ampiamente affermata nel territorio isolano nella seconda metà del I secolo d.C., ma già attestata a partire dal II secolo a.C. Significativo, in questo senso,

251

251. Orecchini, 1-11 sec. d.C., oro e granato, 0 1,6 cm, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale ·G.A. Sanna". Ciascun orecchino è costituito da un fiore a cinque petali in oro laminato, trafilato, sbalzato e con granato sfaccettato.

252. Orecchini, 11-111 sec. d.C., oro e pasta vitrea, lungh. 3,5 cm, provenienti da Olbia, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale ·G.A. Sanna". Esemplari articolati in un elemento circolare in lamina d'oro decorato a intaglio con pietra centrale, andata persa, e tre pendenti con verghetta a globetti con castoni in pietra rossa.

253

253. Orecchino , 11-111 sec. d.C., oro e granato, lungh. 4,5 cm , proveniente da Su Pidocciu, Sorso, Sassari , Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna ". Il monile è prow isto di un gancio che aderisce a un disco con granato incastonato a notte ed è arricchito da due pendenti configurati a ghianda e a vaso.

254. Orecchini, 1-111 sec. d.C. , oro e pietra dura, lungh. 5,4 cm, provenienti da Porto Conte presso Alghero, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna ". Ciascun esemplare è costituito da un anello d'oro e da un pendente articolato in un elemento di forma piramidale e un secondo prismatico in pietra grigio-verde.

253

255.Alièllo, 1-11 sec. d.C..

oro e ~ vlltea. fJ.2,2 cm, ~ da

Fono Conte

PRISfO Aldtem, Sassari, Museo

An:lleologlco ano,atlco Nazlonale ·G.A. Sanna·.

256. Anello, 1-11 sec. d.C., oro e pietra dura, 0 2,3 cm, prowniente da Porto Conte presso Alghero, Sassari, Museo Archeologico Etnoefclfico Nazionale "G.A. Sanna". Il castone accoglie una pietra di colore blu incisa con la raffigurazione di un busto femminile.

254

l'esempio fornito da una collana proveniente da Olbia (fig. 249), dove i vaghi in pasta vitrea · di colore viola e forma romboidale si alternano a maglie d'oro decorate a giorno. Stessa accuratezza della fattura e attenzione per la policromia si ravvisa anche negli orecchini, attestati sia nelle forme più complesse con dischi decorati a traforo e pietre dure o paste vitree policrome, sia nella variante semplice costituita da un filo di bronzo annodato oppure a disco con pendenti, secondo un modello di matrice ellenistica. Esemplificativa una coppia di orecchini proveniente da Olbia, dove compare un disco in lamina d'oro decorato a intaglio e arricchito da una pietra centrale, andata persa, e pendenti con castoni in pietra rossa (fig. 252), e una seconda di Alghero in cui gli orecchini sono costituiti da un anello d'oro in filo liscio e pendente rigido, articolato in elemento piramidale e prisma in pietra grigioverde (fig. 254). Risultano, invece, stranamente assenti in Sardegna alcune tipologie ampiamente diffuse in età repubblicana e primo-imperiale, come gli orecchini a spicchi di sfera e quelli decorati con le perle. Anche gli anelli trovano ampia diffusione nel contesto isolano, in particolare con le tipologie a sigillo e a verga piena con castone inciso di pietre preziose, pietre dure o vetri intagliati. Il loro utilizzo, inizialmente circoscritto a occasioni di natura ufficiale, quale emblema del potere delle classi privilegiate, si diffonde poi in modo più capillare, tanto che questi ornamenti vengono notevolmente apprezzati anche nella sfera maschile e, dopo un loro uso limitato al solo anulare, cominciano a essere utilizzati in tutte le dita della mano, con l'esclusione del solo dito medio (Plinio, Naturalis Historia XXXIII, 24). A una funzione non esclusivamente estetica possono poi essere ricondotti alcuni monili che sembrano rivestire anche un potere di carattere magico. Interessante, in questo senso, un monile proveniente da Sorso, inquadrabile tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., costituito da due cerchi in filo godronato uniti, in modo da rimanere mobili, da un terzo elemento circolare analogo

più piccolo. Se l'unione di diversi anelli sembra rimandare al potere magico e terapeutico dei gioielli, la saldatura che ne impedisce il movimento è invece messa in connessione con l'ambito funerario, dal momento che gli esemplari con cerchi saldati dovevano essere destinati ai defunti e impedire all'anima di abbandonare il corpo. A una funzione apotropaica possono essere ricondotte anche alcune tipologie di bracciali, come avviene nel caso di quelli conformati a testa di serpente, animale connesso alla sfera salutare. I bracciali, anche se numericamente limitati a livello di attestazioni, presentano una notevole varietà tipologica, per cui si passa da manufatti molto semplici, costituiti da fili d'oro o di bronzo con le estremità fermate con un doppio giro a spirale, a quelli più ricercati e colorati. L'esame complessivo dei monili di epoca romana rinvenuti in Sardegna permette di osservare come i contatti tra Roma e le altre culture portarono nel corso del tempo ad arricchire i caratteri della produzione artistica con risultati talora originali. È questo il caso dell'utilizzo ampiamente diffuso delle pietre colorate e delle paste vitree, che finirono col prendere il sopravvento sulle parti in oro, o ancora dell'uso del traforo, accanto alla tecnica della granulazione e della filigrana, per gli orecchini. Insieme agli esemplari più preziosi ne sono attestati anche altri in bronzo, che rispondono alle esigenze di una comunità meno abbiente ma comunque desiderosa di far sfoggio di monili che si cerca di impreziosire con l'inserzione di gemme e paste vitree, lisce o decorate.

Nota bibliografica Sui gioielli di epoca romana in Sardegna si vedano: SPANO 1861b; MOSCATI 1988; ANGIOLILLO 1992; ANGIOLILLO 2000; CORRIAS 2004; GIUMAN, CARBONI 2017. Più in generale sulla tematica si rimanda a: D E JULIIS 1984; CRJSTOFANI, M ARTELLI 1985; BENZI, R OCCHETTI, M uSTI 1992; G uzzo 1993; FORMIGLI 1995; MASIELLO 1996; E NDR1ZZI , MARzATICO 1997, pp. 19-54.

la nltattistica e la scultura decorativa Simonetta Angiolillo

Uno dei tipi scultorei maggiormente diffusi nel mondo romano, il ritratto, non fu mai apprezzato dalla Sardegna, che lo accettò solo come strumento di propaganda del centro del potere. Per questo motivo gli esemplari presenti rivestono per lo più carattere ufficiale e sono di importazione. Il più antico, della fine dell'età repubblicana, rappresenta un personaggio maschile, forse un magistrato romano, di cui sono indicate con realismo l'età avanzata e le caratteristiche fisiche. L'ottima qualità della

scultura e la sua unicità nel quadro offerto dalla Sardegna di età repubblicana consigliano di attribuirla a una bottega di Roma. Nei secoli dell'Impero anche in Sardegna, come in tutto il mondo romano, le città rendevano omaggio alla famiglia imperiale dedicando statue ai suoi membri: Augusto a Cagliari; Tiberio, Claudio e Druso minore, l'unico di cui sia giunta la statua intera, loricata, a Sant'Antioco (fig. 260); Ottavia a Tharros; Nerone (fig. 257), Domiziano, Domizia o Giulia,

257 . Ritratto di Nerone,

I sec. d.C., marmo, h 70 cm , proven iente da Olbia, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Il ritratto è collocato su un busto non pertinente.

255

258. Ritratto di Traiano, Il sec. d.C., marmo, h 44 cm, proveniente da Olbia, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. 259. Ritratto di Marco AureHo, Il sec. d.C., marmo, h 33 cm, proveniente da Turris Ublson/s, Porto Torres, Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano.

256

Traiano (fig. 258) a Olbia; Faustina minore e Marco Aurelio a Porto Torres (fig. 259). Accanto alla volontà di mostrare la propria lealtà alla casa regnante, talvolta, come a Sulci e a Olbia, si aggiunge il desiderio di evidenziare un legame particolare tra la città e l'imperatore, proprietario di latifondi nell'agro della città. Le sculture fin qui citate sono riportabili a botteghe di Roma per l'alto livello qualitativo che le distingue (fig. 263), non comparabile a quello delle altre testimonianze scultoree della Sardegna. Queste ultime sono statue iconiche, tutte giunte acefale, di uomini togati e di donne ammantate, esponenti della buona società sarda, funzionari o proprietari terrieri, come la domina la cui statua è stata a lungo reimpiegata come Madonna nella chiesa di Santa Maria a Villasimius (fig. 261), o le statue femminili da Quartucciu e da Uta. Questa, ora nei Giardini Pubblici di Cagliari, riprende il

famoso modello ellenistico della Grande Ercolanese; conserva 1a testa, ma il volto, inserito, è moderno e dunque non fornisce elementi per l'identificazione del personaggio (fig. 262), del quale l'acconciatura dei capelli indica una datazione a età traianea. Talvolta statue iconiche di produzione locale venivano completate con un ritratto ufficiale importato, perché il messaggio politico era affidato al ritratto e dunque questo era commissionato a officine Urbane che lavoravano alla stretta dipendenza dell'imperatore, mentre una simile attenzione non era necessaria per il corpo. Goffaggini nella lavorazione delle vesti e fraintendimenti del modello scultoreo rivelano in genere l'opera di una bottega locale. Le statue femminili e maschili seguono i modelli imperiali; le donne sono sempre coperte da tunica e mantello, mentre per

260. Statua loricata di Druso minore, I sec. d.C. , marmo, h 188 cm , proveniente da Sant'Antioco, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

262. ~ femmiliile, Il~ d.C.. marmo, h 175 cm, ~ da Uta, C&diari, Giardini' Pubblici. La statua riprende il famoso modello ellenistico deRa Grande Ercolanese; conserva

263. siatua femmitiile, f sec. d.C., marmo, h 219 cm, plUVelliente da 1urris Ubisonls, Sassari. Museo An:heologjco Bnowafico Nazionale "GA Sanna•.

gli uomini si seguono vari tipi che accentuano diversi aspetti del personaggio raffigurato. La sua carriera militare e il suo valore sono espressi dalle statue loricate, la gravitas e le qualità morali legate alla tradizione da quelle togate, talvolta arricchite dalla presenza di una capsa piena di rotoli di libri a suggerire un ruolo pubblico o le ambizioni culturali del personaggio rappresentato (fig. 264). Mentre il tipo nudo coperto solo da un mantello attorno ai fianchi ne comunicava allo spettatore il carattere eroico (fig. 266). Prevalentemente a botteghe locali si possono attribuire anche le sculture di tipo decorativo, ornamenti destinati a decorare edifici pubblici (fig. 267) e privati, come testimoniano le case di Pompei: un oscillum che veniva sospeso tra le colonne del peristilio, decorato a rilievo sui due lati (fig. 268); piccole erme, talvolta bifronti,

264. Statua maschile onoraria, I sec. d.C., marmo, h 169 cm, proveniente da Turris Ubisonis, Porto Torres, Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano. Ai piedi del personaggio è raffigurata una capsa.

con teste di satiri, di Bacco o di guerrieri, secondo modelli molto noti. E poi statuette di Muse o di Sileno (fig. 265) o di vecchio. Accanto a queste sculture, tutte in marmo, altre sono in materiali diversi. In stucco è un ritratto di Faustina (o di una sua contemporanea) dalla Casa degli Stucchi a Cagliari, e frammenti di altorilievo figurato provengono da varie città. Il tipo di lavorazione richiesto dallo stucco e la sua fragilità suggeriscono una lavorazione in loco.

Vasto è il repertorio in bronzo, nel quale si deve distinguere tra la piccola e la grande bronzistica. Della prima restano molti bronzetti votivi e ornamentali: gladiatori (figg. 149-150), figure di genere, divinità. Più sfuggente invece è la produzione delle statue in bronzo di grandi dimensioni, di cui sono giunti solo frammenti. In epoca tarda, quando ormai queste opere avevano perso ogni interesse politico e storico agli occhi dei contemporanei, venivano spesso fatte a pezzi per rifonderle e

265. Statua di Sileno, Hsec. d.C., marmo, h 17 cm, pftWeniente da un sito presso il ponte romano dì Turris Ubisonis, Porto Torres, Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano. Il Sileno regge l'otre del vino sulla spalla sinistra e ha il capo coronato da un tralcio di edera.

266. Statua di imperatore seduto raffigurato come Giove, I sec. d.C., marmo, h 112 cm, proveniente dalla collina del faro di Porto Torres, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna".

commercializzarle. Gli scavi eseguiti nel porto di Olbia hanno documentato un esempio di questo commercio. Una delle navi rinvenute, affondata alla metà del V secolo, conteneva molte decine di frammenti di lamine bronzee, in maggioranza illeggibili per le dimensioni minime, presumibilmente appartenenti a un'unica statua loricata raffigurante Nerone. Non sappiamo se la nave fosse in partenza o meno, quindi non abbiamo elementi per capire se la statua fosse stata originariamente esposta a Olbia, poi fatta a pezzi e spedita ad altra destinazione, o se viceversa fosse stata inviata proprio alla città sarda.

Nota bibliografica

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Sulla scultura, ancorché datati, sono utili per una visione generale EQUINI SCHNEIDER 1979 e SALETTI 1989. Per singole opere o problematiche si vedano poi: ANGIOLILLO 1975-77; ANGIOLILLO 1984; TEATINI 2002; A.NGIOLILLO, D'ORIANO 201 2; ANGIOLILLO 2019.

267. Maschera di satiro,

I sec. d.C., manno, h 25 cm, casa del satiro di Turris Ubisonis, Porto proveniente dalla

Torres, Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano. 268. Oscillum, età severiana, marmo, (li 33 cm, proveniente dalle Terme Maetzke di Turris Ubisonis, Porto Torres, Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano. t:oscillum, di fattura locale, è decorato sui due lati rispettivamente con una testa maschile barbata, e con un erote danzante. È stato reimpiegato in un secondo momento in una fontana, come dimostra il foro che lo attraversa.

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Società e potere

• Organiuazione politica e sociale. Il governo provinciale Attilio Mastino

• Società, Chiesa e Stato in età tardo-antica Danila Artizzu APPROFONDIMENTO

La monetazione Dario D'Orlando

• Le istituzioni Tiziana Carboni

• Il mondo militare Antonio lbba

• La comunicazione nel mondo antico: il linguaggio epigrafico Antonio Maria Corda APPROFONDIMENTI

!.'.epigrafia delle aree interne Claudio Farre

Le scritture antiche: la gente comune Piergiorgio Floris

La trilingue di San Nicolò Gerrei Antonio lbba

I sigilli Maria Bastiana Cocco

Per una ricontestua lizzazione della Tavola di Esterzili. Il sito di Corte Luccetta Nadia Canu

269. Statua /oricata di Druso minore, I sec. d.C. (particolare della fig. 260).

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Organizzazione politica e sociale. Il governo provinciale Attilio Mastino

La nascita delle prime province Per capire veramente la storia della Sardegna e della Corsica in età romana occorre prender· atto che le due isole, dopo i primi decenni di dura occupazione militare, furono sottoposte unitariamente a un'amministrazione di tipo nuovo, esclusivamente adottata in ambito extra-italico, sperimentata per la prima volta anche nella Sicilia occidentale: collocate al di là di un grande mare, esse furono costituite in un'unica provincia, sottoposte a un severo regime di controllo armato, a una progressiva penetrazione strategica, a una soffocante egemonia, sotto il coordinamento di un magistrato dotato di imperium militare. Eppure, paradossalmente, proprio per la loro lontananza e la loro articolazione interna, poterono conservare per secoli quella caratteristica "nazionale" poco permeabile alla cultura latina, che oggi possiamo leggere attraverso le persistenze, le eredità preistoriche e protostoriche, le testimonianze - per l'isola maggiore - della cultura fenicia e punica a secoli di distanza dalla distruzione di Cartagine. Parlare di una "Sardegna romana" per i primi secoli di occupazione è dunque un artificio moderno, che ignora la vivace sopravvivenza di un'identità profonda, multipla, variegata, cantonale, in qualche caso capace di proteggersi dall'imperialismo: il cosiddetto processo di progressiva "romanizzazione" fu un fenomeno complesso, che non azzerò le precedenti esperienze sul piano culturale, artistico, religioso, linguistico, soprattutto in aree interne e periferiche, ma anche pienamente in contatto con altre aree del Mediterraneo. Accanto agli interventi repressivi, come ad esempio l'imposizione di uno stipendium (un tributo che Cicerone considerava una specie di ricompensa per la vittoria e di punizione per la guerra fatta contro i Romani), l'occupazione dei territori extra-italici fu sostenuta soprattutto grazie al favore dei popoli alleati, all'attività di gruppi di mercanti italici, alla politica di municipalizzazione che finì per coinvolgere quasi tutte le città provinciali, arrivando più

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tardi alla fondazione di nuove colonie. Del resto non si trattò di un processo a senso unico: la persistenza di istituzioni, abitudini, usi e costumi arcaici all'interno della provincia è una delle ragioni della convivenza tra diritto romano classico e diritto locale, anche se spesso improvvise innovazioni entrarono in contrasto con antiche consuetudini (vedi il caso degli Ilienses ). Solo così si spiega come, accanto all'affermarsi di nuove forme di produzione, di organizzazione sociale, di scambio, in alcune aree siano sopravvissute le istituzioni locali, l'organizzazione cittadina punica retta dai sufeti, la distribuzione della popolàzione rurale sulla base di antiche logiche interne che spesso ci sfuggono, mentre l'onomastica testimonia la persistenza di una cultura tradizionale che a lungo ha mantenuto la lingua paleosarda, documentata ad esempio negli antroponimi, nei teonimi, nei toponimi e negli etnici, come sul terminus (in pratica il cippo di confine) degli Ilii stabilito nel I secolo d.C. dal governatore provinciale presso il nurac Sessar (Aidu 'entos a Malaria, fig. 22); nuova è la documentazione relativa all'etnico (toponimo?) NVR ALB nel diploma di Hannibal Tabilatis f(i lius) di prima età traianea, ritrovato a Posada. Altre problematiche di estremo interesse riguardano il definirsi dell'identità profonda della provincia romana, che deve esser messa in rapporto con l'ambiente naturale che determinava gli insediamenti, il paesaggio agrario, le dimensioni dei latifondi, la pastorizia nomade, le produzioni, i commerci di minerali e di marmi; e poi la lenta trasformazione guidata dai governatori provinciali, con una profonda riorganizzazione che interessò la Sardegna settentrionale (fondazione di Turris Libisonis e potenziamento del porto di Olbia) e corresse il tradizionale orientamento verso la penisola iberica e il Nord Africa delle civitates puniche; poi la municipalizzazione, la delimitazione dei territori cittadini delle colonie e dei municipi e dei latifondi attribuiti ai diversi popoli, i dazi imposti da Roma, i mercati, l'attività dei negotiatores italici in Sardegna e di navicularii

et negotiantes sardi nel porto di Roma (fig. 410); ancora la dinamica di classe, l' evergetismo delle aristocrazie, la condizione dei lavoratori salariati, degli schiavi e dei liberti. La provincia Sardinia fu anche un ambito territoriale di incontro tra culture e civiltà, partendo da quella cultura unitaria mediterranea fondata sul pluralismo, che non appiattì le specificità locali ma che si ancorò profondamente alla realtà geografica, al paesaggio, all'ambiente, ma anche ai popoli e agli uomini: gli studiosi tentano di esplorare il confine tra romanizzazione e continuità culturale, tra change e continuity, al di là della facile tentazione di fissare categorie interpretative astratte e di definire impossibili soluzioni

270. Miliare , 309-310 d.C. , calcare, h 110 cm , Carbonia , Museo Archeologico "Villa Sulcis". Il cippo miliare era collocato all'undicesimo miglio della via Sulcitana che univa Cara/es a Su/ci.

unitarie, con interpretazioni ideologiche artificiose che non sempre rendono conto della complessità delle questioni in campo. C'è poi il capitolo delle eredità che investe l'età romana ma che si allunga fino al Medioevo e addirittura ai nostri giorni. Il termine provincia nel diritto pubblico romano degli ultimi secoli della Repubblica indicava un territorio extraitalico ben definito storicamente e geograficamente, occupato da Roma per annessione o per conquista e sottoposto al potere personale e diretto di un magistrato militare di rango pretorio o consolare (imperium). Eppure, prima della costituzione delle due prime province territoriali (la Sicilia occidentale e la Sardegna, nel 227 a.C.), il termine provincia era stato utilizzato semplicemente per indicare la sfera di competenza esclusiva di un magistrato, anche all'interno della penisola: una sfera di competenza che spesso era indefinita e perciò poteva determinare sovrapposizioni e conflitti con magistrati responsabili di attività affini. E invece col nuovo sistema ogni sovrapposizione fu azzerata e l'accentramento esclusivo del potere in territorio provinciale assolutamente evidente. A partire dalla Sardinia e dalla Sicilia (escluso il Regno di Siracusa), Roma procedette alla organizzazione provinciale di numerosi territori, al cui interno furono spesso mantenute le situazioni di fatto preesistenti e si riconobbe l'autonomia di civitates e di popoli di fronte al magistrato provinciale. La diversificata situazione del territorio provinciale era regolata attraverso l'approvazione di una lex provinciae, votata dai comizi centuriati sentita la consulenza di qualche ex pretore che conosceva l'Isola, che fissava il quadro normativo e istituzionale e stabiliva la misura delle imposizioni tributarie; essa conteneva la formula provinciae che elencava la condizione delle singole città in rapporto a Roma e delle popolazioni rurali; depositato negli archivi pubblici (tabularia) di Roma sul colle capitolino e di Carales (a breve distanza dal porto), il documento veniva periodicamente aggiornato, in relazione alla conquista di nuovi territori, alla stipula di accordi internazionali (foedera), alla nascita di municipi e alla deduzione di colonie. La provincia aveva solo due città di nuova fondazione in età repubblicana (coloniae), entrambe in Corsica: Mariana per opera di Gaio Mario (dopo la guerra giugurtina o 265

27 1. Cippo terminale, 1-199 d.C., trachite rossa , h 108 cm , proveniente da Cuglieri , Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Il cippo indicava i confini tra il territorio degli Uddadhaddar Numisiarum e degli Eutychiani.

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meglio dopo la sconfitta dei Cimbri e Teutoni, verso il 100 a.C.) e Aleria per opera di Silla vent'anni dopo. In Sardegna la colonia di Turris Libisonis si colloca nei primi anni del secondo triumvirato (negli anni immeditamente successivi al 43 a.C.), Uselis in età augustea. Un caso a sé è rappresentato da Feronia, sulla costa orientale (Posada), che potrebbe aver ospitato in età cartaginese una colonia di 500 romani indebitati dopo il sacco di Roma da parte dei Galli del 390 a.C. Per rispondere alle nuove esigenze determinate dalle annessioni, l'aristocrazia romana fu costretta ad ampliare il numero dei pretori in carica, magistrati titolari di un imperium militare, capaci di comandare un esercito e dunque di governare una provincia: al pretore urbano e al pretore peregrino si aggiunsero così nel 227 a.C. due nuovi pretori per la Sicilia occidentale e la Sardegna-Corsica, incaricati di governare le due nuove province. Pressanti esigenze militari, disordini e vere e proprie guerre imposero spesso di inviare a governare una provincia uno dei due consoli in carica oppure di trattenere con funzioni di proconsole o di propretore il governatore dell'anno

precedente, fino all'arrivo del successore. Il sistema della prorogatio imperii fu generalizzato a partire dalla legge fatta approvare dal dittatore Silla nell'81 a.C. che toglieva l'imperium ai magistrati in carica per assegnarlo solo agli ex consoli e agli ex pretori: solo a essi doveva spettare il comando militare e la responsabilità del governo provinciale. Dopo la pausa delle guerre civili (quando la Sardegna fu affidata a dei legati di Cesare, di Ottaviano o di Sesto Pompeo), il sistema fu mantenuto in vita da Augusto per le province pacificate e prive di legioni (provinciae populi Romani), che furono sostanzialmente amministrate dal Senato, la Sardegna con proconsoli ex pretori; tutte quelle sottoposte a occupazione militare furono invece dichiarate province imperiali e affidate a funzionari di rango senatorio scelti dal principe, col titolo di legati Augusti propraetore. La Sardegna sarebbe stata collocata per i primi trent'anni nella "parte migliore dell'Impero" quella costituita dalle province pacificate: dopo le rivolte del 6 d.C. il Senato - impossibilitato a difendere gli interessi romani nelle due grandi isole tirreniche - fu costretto a restituire ad Augusto la Sardegna, che fu considerata provincia imperiale ma, in quanto priva di legioni, governata da funzionari dell'ordine equestre, con il titolo di prefetto, accompagnato da quello di procuratore di Augusto o di preside; da loro per lunghi periodi dipese il procuratore della Corsica. Con Diocleziano e poi con Costantino il sistema dei governi provinciali fu radicalmente trasformato, a causa del progressivo accentramento burocratico: il potere imperiale fu attribuito a due Augusti e a due Cesari, secondo il sistema della Tetrarchia; furono allora costituite quattro prefetture del pretorio con tredici diocesi affidate a vicari dei prefetti del pretorio; le province furono divise, ridotte come territorio con oscillazioni di confini e con suddivisioni successive e collocate sotto la responsabilità di presidi equestri o di funzionari senatori; la riforma dioclezianea segnò una svolta profondissima che irrigidì il tessuto sociale, cercò di potenziare il ruolo dei governatori e di un apparato burocratico parassitario sempre più imponente.

L'amministrazione in età repubblicana L'amministrazione della Sardegna e della Corsica in età romana è stata per lungo tempo congiunta, forse addirittura fino all'età di

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272. Tavola di Uselis, 158 d.C., bronzo, h 42 cm, proveniente da Usellus, Oristano, Antiquarium Arborense. Si tratta di una rarissima Tabula hospitalis et patronatus; i fori ai lati fanno supporre che venisse appesa in luogo pubblico.

Nerone: l'occupazione da parte dei Romani avvenne solo a partire dal 238 a.C., dopo la rivolta dei mercenari cartaginesi nel Nord Africa (all'indomani della conclusione della prima guerra romano-cartaginese), a opera del console Tiberio Sempronio Gracco, che poté procedere all'occupazione delle principali piazzeforti cartaginesi in Sardegna quasi senza combattere. Dopo la conquista, l'insieme del territorio della provincia fu dichiarato, sia pur teoricamente, "agro pubblico del Popolo Romano"; sulle terre

lasciate in precario possesso ai vecchi proprietari oppure ai vecchi assegnatari di età punica dovevano pagarsi una decima sui prodotti e vari tributi; cambiava radicalmente il rapporto tra proprietari, possessori e mano d'opera agricola; nascevano delicati problemi giuridici sulla proprietà della terra che coinvolgevano le popolazioni rurali, con violenze, occupazioni illegali di terre pubbliche, contrasti tra contadini e pastori e immediate esigenze di ripristinare l'ordine con interventi repressivi. Non furono pochi i pretori e i

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questori arricchitisi in Sardegna (Tito Albucio, Gaio Megabocco, Emilio Scauro ) che dovettero render conto del loro comportamento; erano considerate eccezioni virtuose quelle di Marco Porcio Catone pretore nel 198 e Gaio Gracco questore dal 126 a.C. Numerosi cippi di confine (fig. 271) attestano, alla fine dell'età repubblicana, una vasta operazione di centuriazione promossa in Sardegna dai diversi governatori, soprattutto nell'area che era stata interessata dalla rivolta di Hampsicora: la delimitazione catastale che allora fu effettuata per iniziativa del pretore provinciale ebbe lo scopo di accelerare il processo di sedentarizzazione delle popolazioni nomadi, di contenere il brigantaggio e di favorire lo sviluppo agricolo. È costante nelle fonti la preoccupazione dell'autorità di controllare gli spostamenti dei pastori indigeni e di fissare i confini dei singoli latifondi, occupati alcuni da popolazioni locali, altri da coloni - agricoltori soprattutto, ma anche pastori - insediati nelle terre possedute da singole famiglie. Si andò sviluppando una forte "resistenza alla romanizzazione" delle popolazioni locali, gli Iliensi, i Balari e i Corsi all'interno della Barbaria sarda, ma anche quei Corsi della Corsica ribelli e ostili che sono ripetutamente ricordati nei Fasti trionfali romani; quei Vanacini, quei Cervini collocati a valle del Monte Aureo, quegli oscuri Sibroar(enses) con le loro quindici civitates, quelle popolazioni non urbanizzate ricordate, in numero incredibilmente alto, soprattutto dal geografo Tolomeo nel II secolo d.C. A seguito della violenta repressione militare, per la Sardegna repubblicana si è parlato di una vera e propria "depressione demografica" della Barbaria interna, che però oggi pare più aperta alla romanizzazione fin dalla prima età imperiale: si condivide la teoria di una Sardegna pacificata e relativamente romanizzata solo a partire dall'età flavia, ma l'Isola non fu mai completamente smilitarizzata. In questo quadro fu normalmente inviato a governare la Sardegna un ex pretore (propretore) col suo consilium che, in forza della lex provinciae, era composto anche da un legato di rango pretorio, da un questore incaricato di gestire le rendite erariali e da un gruppo di senatori e poi di cavalieri. L'amministrazione in età imperiale Dopo Cesare, l'occupazione romana della Sardegna e della Corsica sembra ancora

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mantenersi unitaria e dovette conoscere forme diverse, come l'intervento militare, la conquista violenta, la colonizzazione, l'esilio di personaggi illustri: Seneca in Corsica, ma anche Cesonio Massimo, Publio Anteio Rufo e Mettio Pompusiano sotto Domiziano; in Sardegna furono esiliati, durante il regno di Nerone, Aniceto, Gaio Cassio Longino, Rufrio Crispino e successivamente i cristiani della Chiesa di Roma (più precisamente damnati ad metalla nell'età di Commodo, compreso Callisto) e, finalmente, sotto Massimino il Trace, il pontefice Ponziano e Ippolito (anch'essi condannati a lavorare nelle miniere, probabilmente nella regione sulcitana). Per il periodo imperiale, a parte l'ipotesi dell'arrivo di truppe legionarie in Sardegna nella tarda età augustea connessa al titolo di prolegato per il governatore della Sardegna nel 14 d.C. (ipotesi ora giustamente corretta da Davide Faoro ), abbiamo la documentazione dell'utilizzo di liberti di origine ebr aica incaricati da Tiberio di reprimere il brigantaggio. ello stesso periodo si registra la costituzione di una serie di coorti, reparti ausiliari di cinquecento o mille peregrini privi della cittadinanza romana, formati da Corsi, Liguri, Aquitani, Lusitani, Afri, Mauri e infine Sardi. Per quel che concerne la flotta, Sardegna e Corsica erano tutelate da due distaccamenti della classis Misenensis, con i comandi collocati rispettivamente nei porti di Carales e di Aleria. Un'opera di profonda riforma del governo delle province si deve a Ottaviano Augusto che nel 27 a.C., concluse le guerre civili con la battaglia di Azio e la morte di Antonio e di Cleopatra, trovò un'intesa con il Senato, che gli consentì di assumere il controllo delle province ribelli e di mantenere il comando degli eserciti. Il sistema della prorogatio imperii stabilito dal dittatore Silla fu mantenuto in vita da Augusto solo per le province più pacifiche e prive di legioni (provinciae populi Romani ), che furono sostanzialmente amministrate dal Senato con proconsoli ex consoli o ex pretori: tale fu il caso della Sardegna, considerata nel 27 a.C. provincia pacificata rimasta al popolo romano e dunque lasciata all'amministrazione senatoria secondo il modello repubblicano. Tutte le province sottoposte a occupazione militare e minacciate dai nemici furono invece dichiarate province imperiali, controllate direttamente dagli Augusti; le province di nuova istituzione e le province restituite dal Senato al principe in seguito a rivolte (come

la Sardegna dopo il 6 d.C.) furono considerate ugualmente province imperiali ma, in quanto prive di legioni, furono governate da funzionari dell'ordine equestre, con uno stipendio che andava dai 60 mila ai 300 mila sesterzi (200 mila per la Sardegna) e con un titolo singolo o doppio che in Sardegna rimane ancorato alle origini di un'antica prefettura. Non sembra che la Corsica già in questo periodo costituisse una provincia autonoma dalla Sardegna, se nel 6 d.C. secondo Strabone (V, 2, 7) e Diane Cassio (LV, 28,1) la provincia conobbe per tre anni gravi disordini e scorrerie di briganti, finendo per diventare la base dalla quale partivano i pirati che arrivavano a saccheggiare il litorale etrusco di Pisa: in quell'occasione i proconsoli nominati dal Senato lasciarono il campo a degli ufficiali cavalieri incaricati da Augusto (che si considerava di fatto un vero e proprio proconsole della Sardegna) di controllare la provincia ancora non interamente pacificata: uno di essi, impegnato nella costruzione della strada militare sul Tirso ben oltre il triennio indicato da Diane, porta il rarissimo titolo di prolegato, che di solito sembra associato a una milizia e non costituisce una carica a sé stante. In questo quadro andrebbe collocata la dedica a un Augusto (con buone motivazioni recentemente ci si è orientati su Tiberio ) delle civitates Barbariae rinvenuta a Fordongianus (le antiche Aquae Hypsitanae ) (fig. 293 ): un atto di omaggio al principe che implica il successo di una profonda azione militare di controllo del territorio barbaricino. Già con Augusto era dunque iniziata l'oscillazione della Sardegna tra amministrazione senatoria e amministrazione imperiale, forse in qualche caso solo per soddisfare le esigenze dell'erario così come del fisco imperiale e per tenere in equilibrio le uscite rispetto alle entrate: allora si rese necessario trovare una compensazione, attraverso quella che è stata definita la "politica di scambio" delle province tra imperatore e Senato, che sembra svilupparsi nel I e nel II secolo d.C. (la Sardegna pare avere un rapporto diretto con provvedimenti analoghi riguardanti la Grecia, il Ponto-Bitinia, la Licia-Pamfilia, la Betica). I disordini erano infatti continuati, tanto che nel 19 d .C., nei primi anni dell'età di Tiberio, il prefetto del prètorio Lucio Elio Seiano decise di rafforzare il presidio militare dell'Isola e quattromila giovani liberti romani seguaci dei culti egizi e giudaici furono costretti

ad arruolarsi: essi furono allora inviati in Sardegna agli ordini del prefetto provinciale per reprimere il brigantaggio. Per ricostruire l'evoluzione dell'amministrazione provinciale della Sardegna in età imperiale si deve partire dalla Tavola di Esterzili (fig. 301 ), con la condanna del popolo dei Galillenses sardi, esempio istruttivo di una politica tendente a privilegiare l'economia agricola degli immigrati italici. Con Vespasiano, dopo la restituzione al Senato della Grecia libera, la Sardegna fu contemporaneamente resa all'amministrazione dei procuratori imperiali, sostituiti nuovamente da proconsoli con Traiano, a partire da Lucius Cossonius Gallus, proconsole nel 111, il fondatore di Forum Traiani (oggi Fordongianus) . Gli studiosi hanno ormai abbandonato la tesi di un lungo ininterrotto periodo di amministrazione senatoria fino a Commodo o addirittura ai Severi: in realtà avevamo già qualche dubbio sulla possibilità di una ricostruzione differente, con lunghi periodi di amministrazione imperiale nel corso del II secolo; e ciò già sulla base di una discussa epigrafe di Turris Libisonis. Del resto dall' Historia Augusta sappiamo che una rivolta di Mauri, arrivati dall'Africa, aveva suggerito all'imperatore Marco Aurelio il temporaneo passaggio della provincia spagnola della Betica dall'amministrazione senatoria a quella imperiale; nell'ambito della "politica di scambio tra imperatore e Senato", la provincia Sardinia negli anni precedenti doveva esser stata amministrata da procuratori imperiali e comunque ridivenne senatoria sotto un proconsole assistito, come questore, dal futuro imperatore Settimio Severo inizialmente sorteggiato per la Betica. A partire dalla metà del II secolo l'Isola conobbe un nuovo periodo di amministrazione imperiale affidata a procuratori equestri. Fu negli ultimi anni di Marco Aurelio che la Sardegna tornò sotto il diretto controllo imperiale: a questo periodo si data ora il governo di Gaio Ulpio Severo, procuratore di Augusto e prefetto della Sardegna, che attraversava la Barbagia ponendo a Sorabile (Fonni) a mille metri di altitudine la celebre dedica a Diana e Silvano del Nemus Sorabense. Con Commodo la Corsica avrebbe riacquistato la sua piena autonomia. Nel III secolo dai miliari o dalle dediche sacre ci rimangono i nomi di quasi tutti i governatori, come in età severiana Marco

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Valerio Optato autore di una dedica alle Ninfe in occasione dei lavori di canalizzazione dell'acqua fredda verso le terme di Forum Traiani; pochi anni dopo, tra il 213 e il 217, il governatore Quinto Cocceio Proculo restaurò il tempio del Sardus Pater ricostruito da Ottaviano Augusto in piena zona mineraria, presso un santuario dalle lontane ascendenze nuragiche (figg. 372-373 ). Nuove scoperte ci forniscono i nomi di governatori di III e IV secolo d.C., Marco Minicio Clodiano all'inizio dell'età di Gordiano III (238 d.C.), Marco Ulpio Vittore (244 d.C.), Publio Elio Valente sotto Filippo l'Arabo, Marco Antonio Settimio Eraclito nell'età di Decio, Marco Aurelio Marco in età tetrarchica, Flavio Amachio sotto Giuliano. Per fare alcuni esempi ricordiamo come, in occasione delle celebrazioni dei mille anni dalla fondazione di Roma volute da Filippo l'Arabo, il procuratore-prefetto Publio Elio Clemente sembra sia stato insediato a Carales il 28 maggio 245 da un distaccamento della II Cohors vigilum Philippiana. Un caso molto significativo è il governo del vir egregius (cavaliere) Marco Aurelio Quintillo durante il principato del fratello Claudio il Gotico: acclamato imperatore dopo aver lasciato l'Isola (in praesidio Italico ), Quintillo fu riconosciuto egli stesso come Augusto per pochi mesi nel 270 su un'iscrizione di Ossi. Con Diocleziano e poi con Costantino il sistema dei governi provinciali fu radicalmente trasformato e subì forse un impoverimento, a causa del progressivo accentramento burocratico: il potere imperiale, come già detto, fu attribuito a due Augusti e a due Cesari, secondo il sistema della Tetrarchia, e furono allora costituite quattro prefetture del pretorio: Oriente con capitale Nicomedia, Balcani con capitale Sirmio, Italia con capitale Milano, Gallia con capitale Treviri; la penisola italiana rientrò nell'organizzazione provinciale. Al di là degli aspetti di dettaglio, la riforma dioclezianea segnò una svolta profondissima, creando una sorta di piramide e una catena di comando al cui vertice erano gli imperatori e i loro prefetti del pretorio. Le province diventarono uno snodo periferico del governo imperiale ma, aumentate di numero, persero quella configurazione "nazionale" storicamente radicata nelle tradizioni locali che le aveva caratterizzate fin dalla loro prima costituzione. Ciò non avvenne in Sardegna, che invece mantenne una sua unità amministrativa sotto

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un preside perfectissimus (raramente clarissimus), che sarebbe stato affiancato da un comandante militare in età bizantina. Infine le città provinciali, collocate alla base della piramide, dovettero rinunciare a ogni forma di autonomia e di autogoverno compendiata nella formula dell'antica "libertas" fiscale, per diventare i terminali delle decisioni prese dall'alto, attuate dai magistrati municipali, depotenziati e spesso trasformati in funzionari della burocrazia imperiale. La Sardegna fu inserita allora nella diocesi italiciana e poi ( con Costantino ) nella prefettura del pretorio d'Italia, alle dipendenze del vicarius urbis Romae che risiedeva nella capitale. L'Isola fu amministrata da un praeses, certamente diverso da quello che soprintendeva alla Corsica. Pur conquistate dai Vandali, Sardegna e Corsica mantennero una qualche forma organizzativa amministrativa interna, che riemei ge in età bizantina e lascia non poche tracce anche in età giudicale dopo il Mille, quando possiamo seguire eredità profondissime, che in questa sede possiamo condensare nell'ampio utilizzo del diritto romano e nella sopravvivenza di una pratica giudiziaria che si organizza attraverso gli itinera del sovrano per le coronas de logu, ad esempio nel Regno del Logudoro: eredità forse dei conventus giudiziari di età imperiale e delle sunodoi bizantine. La geografia continua a svolgere una sua funzione, se è vero che l'arcivescovo di Carales mantiene una posizione di prestigio, affiancato agli altri vescovi responsabili delle diverse diocesi: la circoscrizione diocesana di solito conserva il ricordo e ricalca il territorio controllato dalle colonie e dai municipi, sedi in passato del culto imperiale.

Nota bibliografica La bibliografia relativa al governo provinciale della Sardinia è molto vasta e si può partire da PAIS 1923 (riediz. 1999, II, pp. 11-31 ); MELO r 19 58; BROUGHTON 1986; BRIZZI 1989; BRIZZI 2001; M ELONI 2012, p. 85 ss., pp. 133-143; Z UCCA 2001a; MASTINO 2005c, pp. 91-123 per l'età repubblicana, pp. 125-163 per l'età imperiale; P RAG 2013; MASTINO 2017b. Vedi ora C ASAGRANDE, IBBA, SALIS 2021.

Società, Chiesa e Stato in età tardo-antica Danila Artizzu

273. Bicchiere, IV-V sec. d.C., vetro, h 6,8 cm , proveniente da Sant'Efis, Orune, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Il ritrovamento di questo manufatto - decorato a incisione con la raffigurazione di Cristo e gli apostoli - apre nuove prospettive riguardo la strenua resistenza delle Barbagie alla romanizzazione e poi alla cristianizzazione sotto il dominio di Roma.

Il corpus delle epistole di Gregorio Magno, papa dal 590 al 604, ci propone non solo l'immagine di una Chiesa sarda ormai matura, ma si rivela di grande utilità anche per riuscire a comprenderne l'evoluzione e gli eventi che nel corso dei primi secoli permisero, nell'Impero come nell'Isola, la convivenza di due mondi così diversi, quello cristiano con quello civile romano di tradizione pagana, all'indomani della Pace Religiosa sancita dagli imperatori Licinio e Costantino con l'Editto di Milano del 313. Tuttavia, circa tre secoli dopo quell'evento epocale, il pontefice romano lodava in un suo scritto l'impresa del dux Sardiniae Zabarda che, nel 594, aveva guidato una sortita contro la componente tribale barbaricina, turbolenta e ancora saldamente legata ai culti ancestrali. Nell'esito finale di tali operazioni, che portarono all'emergere di Hospiton come persona di riferimento per i popoli "disobbedienti" in quanto "primo" cristiano della sua gente - un'iperbole da ricalibrare alla luce di ritrovamenti quali il bicchiere di vetro inciso con Cristo e apostoli da Sant'Efis di

Orune (IV-V sec. d.C.) - è possibile individuare l'inizio di una nuova politica di conversione e cristianizzazione di questi popoli, adottata, più che da esponenti del clero cristiano, da parte del potere politico e militare bizantino rappresentato, per la Sardegna, dall'esarca d'Africa Gennadio e dal già citato Zabarda. La tolleranza verso una limitata autonomia religiosa e istituzionale delle tribù locali era stata fino ad allora parte integrante del modello di gestione applicato dall'autorità imperiale nelle diverse regioni dell'Orbe nei confronti di genti e di territori rimasti ai margini dei poli di romanizzazione, anche dopo l'avvento del Cristianesimo. Oltre ai Barbaricini sardi si conoscono infatti i casi degli Angli o delle tribù corse o persino di alcune etnie nel contesto peninsulare. Nell'Isola la persistenza di questa situazione venne imputata dal patriarca romano al tiepido spirito missionario dei vescovi sardi, al quale cercò di ovviare con l'invio del vescovo Felice, dell'abate Ciriaco e probabilmente con la restaurazione della sede vescovile settentrionale di Fausiana, la decadenza della quale forse era stata causata da una sortita degli Ostrogoti fra il 551 e il 552. Ciò che sopra ogni cosa suscitava però la meraviglia e lo sdegno di Gregorio Magno era che le gerarchie ecclesiastiche sarde tollerassero la celebrazione di riti pagani nelle proprietà sotto la loro giurisdizione - non più quindi in contesti territoriali tribali - offrendo con tale atteggiamento lassista un pessimo esempio agli altri possessores che indulgevano in analoghi comportamenti. Gran parte del biasimo era rivolto al vescovo Gianuario di Carales, destinatario di diverse lettere, al quale il pontefice si rivolgeva perché, in quanto metropolita, lo riteneva il principale responsabile di quella anarchia che non risparmiava neanche le istituzioni monastiche maschili e femminili. Dai richiami e dalle osservazioni si evidenzia una differenza fra l'autonomia della Sardegna come provincia ecclesiastica e la situazione della Corsica che continuava a dipendere direttamente dal vescovo di Roma. Quest'ultimo d'altro canto rivendicava a é,

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274-275. Carceri di Sant'Efisio, Cagliari. Il vano ipogeo, al quale si accede dalla via di Sant'Efisio nel quartiere di Stampace, viene indicato dalla tradizione come il carcere dove sarebbe stato imprigionato il Santo eponimo durante la persecuzione di Diocleziano, prima di essere giudicato e poi condotto nel luogo del supplizio presso l'antica città di Nora . In realtà il vano sotterraneo ebbe diverse fasi di vita e frequentazioni a partire dall'età punica fino alla seconda guerra mondiale, ma non ci sono prove che sia mai stato adibito a carcere dei martiri cristiani.

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nelle questioni sarde, la prerogativa di avere voce in capitolo sulle sedi rimaste vacanti, soprattutto riguardo le nuove consacrazioni episcopali, giungendo perfino a invitare Vittore di Pausania a partecipare a un'assemblea del clero romano nell'ottobre del 600, come se si trattasse di un suo suffraganeo. In un'altra occasione l'espressione dell'autorità di Gregorio Magno non ammise repliche e si spinse addirittura a ordinare ai suoi emissari in Sardegna - il defensor ecclesiae Savino e il notarius Giovanni - la traduzione forzata di Gianuario di Carales al suo cospetto perché rispondesse di gravi colpe non meglio specificate. A parte le prove delle pressanti ingerenze del pontefice è comunque chiaro che, nei diversi passaggi da possesso dell'Impero a regione assoggettata al dominio vandalico e poi di nuovo a territorio della diocesi d'Africa, dopo la riconquista dell'imperatore Giustiniano, la situazione della provincia ecclesiastica sarda doveva essere mutata rispetto ai primi secoli. Se infatti si guarda alle testimonianze delle fonti anteriori, appare chiaro che i vescovi sardi, fra la prima metà del IV secolo d.C. e presumibilmente l'ultimo ventennio del V secolo d.C., dipendevano dalla Cattedra di Pietro. Ne è la prova la missiva che

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all'indomani del Concilio di Serdica del 343 i vescovi della Pars Occidentis indirizzarono a Roma al pontefice Giulio, pregandolo di trasmettere le notizie ai colleghi che erano rimasti in Sardegna, con un chiaro atto di

riconoscimento dell'autorità in quanto metropolita del presule romano. Il segno di un'avvenuta evoluzione potrebbe essere visto nella convocazione a Cartagine, nel 484, anche dei rappresentanti del clero sardo per partecipare a un confronto di carattere teologico voluto dal re vandalo di fede ariana Unnerico. La Notitia Provinciarum et Civitatum Africae menziona i nomi dei cinque vescovi convenuti: Lucifero da Cagliari, Martiniano da Fordongianus, Bonifacio da Senafer, Vitale da Sulci, Felice da Porto Torres. Il documento associa ai personaggi citati anche i tre vescovi delle Baleari come se fossero suffraganei della principale sede episcopale della Sardegna. Una spiegazione azzardata dell"'anomalia" potrebbe essere che il riconoscimento alla Chiesa sarda di tali prerogative fosse dipeso dall'oggettiva difficoltà da parte di Roma nel mantenere, durante la dominazione vandalica, rapporti costanti con le sponde più occidentali del Mediterraneo. Volendo fendere ancora più coraggiosa l'ipotesi si potrebbe collegare tale promozione a una fiducia resa forte da un legame più stretto con il contesto isolano, se si considera che fra il 461 e il 468 sedette al soglio di Roma papa Ilaro, natione sardus, e che nel 498 fu eletto successore di Pietro un altro sardo, il controverso Simmaco. Riguardo i rapporti con la terra di origine, politicamente staccata dall'Impero ma forse sentita vicina

dal punto di vista affettivo e pastorale, è noto come quest'ultimo papa avesse a cuore la sorte dei vescovi africani, qui esiliati durante le persecuzioni di Trasamondo, ai quali inviò un'epistola di incoraggiamento e consolazione. D'altra parte, se si procede ancora più a ritroso nel tempo, si vedrà come i rapporti fra la Sardegna e il successore di Pietro si intreccino, fin dalle origini del Cristianesimo occidentale, con le vicende delle persecuzioni e degli esili. Il riferimento è all'episodio, ricordato nei Philosophoumena attribuiti, a torto, a Ippolito di Roma, dove l'autore, palesemente di parte avversa, narra le vicende poco edificanti che avevano portato alla condanna ad metalla di Callisto, sul finire del II secolo d.C., prima che la sua brillante carriera ecclesiastica lo conducesse ad assurgere al soglio pontificio. Il motore della vicenda fu Marcia Aurelia Ceionia Demetrias, la concubina dell'imperatore Commodo che, mossa a pietà per le condizioni in cui versavano i cristiani nelle miniere sarde, era riuscita a intercedere per loro e a ottenere un'amnistia. Ciò che più interessa ai fini di questa disamina è che, allo scopo di avere un elenco completo dei nomi di coloro per i quali intercedeva, l'eminente donna non si era rivolta all'autorità civile e giudiziaria, ma sapeva di poter attingere informazioni precise direttamente da papa Vittore, vescovo di Roma fra il 189 e il 198,

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che infatti le fornì un elenco così preciso che Callisto ne risultava escluso in quanto la sua condanna era stata comminata, stando alla fonte citata, per la riconosciuta colpevolezza di bancarotta e tentata sedizione. Un'altra notizia, legata alla Sardegna come terra di deportazione per i cristiani, riguarda papa Ponziano (231-23 5) e, ironia della sorte, il presbitero Ippolito, i quali furono condannati dall'imperatore Massimino il Trace (235-238) e non da Severo Alessandro come vorrebbe il · Liber Pontificalis - a finire i loro giorni in insula nociva. I due morirono a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro per i patimenti subiti, ma le loro spoglie furono traslate qualche tempo dopo a Roma per l'impegno di papa Fabiano (236-250), che forse poté approfittare, sotto il principato di Filippo l'Arabo (244-249), di un qualche provvedimento di indulgenza nell'ambito dei festeggiamenti per il millenario di Roma. Le considerazioni che si possono formulare sulla base delle fonti è che il contesto isolano fra il II e la prima metà del III secolo d.C. era considerato sia dagli imperatori, che qui allontanavano gli elementi forieri di sovversione religiosa, sia dalla più importante comunità cristiana dell'Occidente, che non faceva mancare attenzioni e aiuti ai deportati, come una realtà dove l'endemica scarsità demografica si accompagnava a un grado molto basso di cristianizzazione. La nuova dottrina doveva comunque essersi affermata presso piccoli gruppi, per lo più urbani, che tenevano una corrispondenza con i papi e li aggiornavano costantemente, come dimostra anche il fatto che, diversi anni dopo, Fabiano poté individuare con certezza il luogo di sepoltura dei due martiri Ponziano e Ippolito. È però lecito pensare che i cristiani condannati ai lavori forzati nel Sulcis Iglesiente non avessero occasione di compiere altra attività di proselitismo se non cercare di dare un esempio di vita a quanti facevano parte di quel mondo che orbitava intorno alle miniere. Si aggiunga, inoltre, che la biografia del citato papa Simmaco racconta di come egli non fosse ancora convertito al Cristianesimo al suo arrivo alla Capitale dalla Sardegna, particolare sintomatico di una transizione religiosa che nel V secolo d.C. continuava a essere lenta. Per contro, quando Costantino si fece promotore del Concilio di Arles nel 314 affinché dal confronto tra i vescovi riuniti scaturisse la soluzione per la crisi donatista - una minaccia per la nascente pace religiosa

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a causa della spinosa questione dei lapsi (cristiani che avevano abiurato) - nel numero dei presuli invitati furono compresi il vescovo Quintasio e il presbitero Ammonio da Carales. L'Augusto che, stando a Eusebio di Cesarea, anni dopo definì sé stesso "vescovo di quelli di fuori", in modo da sottolineare la sua responsabilità nei confronti di tutti i sudditi dell'Impero e non solo dei cristiani, volle affidarsi in quel frangente al giudizio delle figure più autorevoli delle principali comunità cristiane di Occidente. Ne deriva che nella compagine sociale della città portuale di Cagliari non solo si annoveravano dei cristiani, ma soprattutto erano guidati da una gerarchia ecclesiastica già organizzata che godeva della stima e dell'ascolto di Costantino. L'attenzione di quest'ultimo per la terra sarda è espressa in maniera esplicita nel Liber Pontificalis che ne riporta la decisione di donare alla chiesa dei Santi Pietro e Marcellino di Roma diverse proprietà nell'Isola del valore di 1Ò24 solidi aurei. Secondo alcuni studiosi sarebbe stata inoltre ispirata proprio dalla testimonianza di viaggio di Quintasio la constitutio (una legge voluta direttamente dall'imperatore) del 315 che censurava alcuni abusi nella gestione del cursus publicus a danno della plebe rurale o, ancora, potrebbe essere effetto dei contatti con il clero isolano l'altro provvedimento, reso pubblico a Cagliari nel 321, con il quale si davano istruzioni al vicarius urbi Helpidius di non autorizzare la celebrazione di processi durante la domenica, ferma restando la possibilità di procedere invece con le emancipazioni degli schiavi. Anche la costituzione del 325, che mirava a risolvere la criticità delle famiglie servili vittime di divisioni e separazioni allorché i fondi imperiali venivano concessi in enfiteusi, per quanto applicabile alla generalità delle province, potrebbe essere stata suggerita nello specifico proprio dalla situazione della Sardegna, dove la problematica era particolarmente grave e dove tali proprietà erano estese. La stessa riorganizzazione costantiniana nell'assetto amministrativo provinciale, che inquadrava i territori sardi nell'Italia suburbicaria con capitale Roma, fu determinante per la Chiesa insulare che mantenne sempre vivo, nell'alternarsi dei passaggi sotto diversi poteri politici, il dialogo con la metropolìa romana. Un legame che si rivelò particolarmente saldo sul finire del IV secolo d.C. quando, sullo

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276. Ambiente sepolcrale ipogeico, chiesa di San Gavino a mare o di Baia i, Porto Torres. In questo ambiente, secondo la tradizione, furono nascosti i corpi di Gavino, Proto e Gianuario, all 'indomani del martirio avvenuto a Turris Libisonis verso il 303 d.C.

sfondo della disputa sulla natura di Cristo fra l'ortodossia nicena e l'eresia ariana sostenuta dall'imperatore Costanzo, emersero come difensori delle posizioni di papa Liberio i due vescovi sardi Eusebio di Vercelli e Lucifero di Cagliari. Accomunati non solo dalle origini e dagli intenti, ma anche dallo sfortunato epilogo del concilio di Milano di cui erano stati i promotori, e che li vide partire esuli in Oriente insieme al vescovo Dionigi di Milano, i due personaggi differivano tuttavia per indole, atteggiamento e, soprattutto, per il loro percorso di formazione. Eusebio si trasferì molto giovane nella penisola e la sua crescita culturale, insieme al percorso religioso, iniziò e si completò su orizzonti più ampi e articolati. Per quanto riguarda Lucifero le notizie biografiche a suo riguardo sono molto vaghe, ma si può supporre che la confidenza nei confronti di papa Liberio, i delicati incarichi che gli furono affidati e l'ascendente che sembra avesse esercitato sugli altri presuli derivassero da un prestigio al quale concorreva un carattere coraggioso, a tratti sfrontato, e certamente una solida preparazione sui testi ·sacri. Al di là dell'intento polemico dei suoi scritti, espresso a chiare lettere già nei titoli (De non parcendo in deum delinquentibus, Moriundum esse pro Dei filio, De regibus apostaticis ecc.), Lucifero supplì alla mancanza di profondità nella riflessione teologica contenuta nei suoi libelli con il ricorso a una grande messe di citazioni desunte dai testi biblici con i quali aveva un'evidente abitudine quotidiana. Sulla base

delle opere si può quindi ipotizzare che l'attività pastorale e catechetica che il presule esplicò nei confronti della comunità cagliaritana che gli si era affidata fosse guidata dall'esempio dei Padri della Chiesa africani - in special modo Tertulliano e Cipriano, con i quali condivideva l'atteggiamento intransigente - e ispirata al continuo rimando alla Vetus Latina anteriore alla Vulgata. Riguardo la catechesi impartita alla comunità cristiana di Cagliari in tempi vicini a quelli di Lucifero, i cicli pittorici del cosiddetto cubicolo di Giona e di quello di Munazio Ireneo, riferibili al pieno IV secolo d.C., offrono un compendio di alcuni dei concetti intorno ai quali ruotava l'insegnamento della fede cristiana nell'Isola. Le rappresentazioni della navicula Petri, del ciclo del profeta Giona, del Buon Pastore, del miracolo di Lazzaro e degli altri simboli che alludono alla salvazione in Cristo, si confrontano con le coeve pitture delle catacombe romane. I temi sono però trattati con un'originalità che denota non una semplice accettazione di un modello, ma l'attenta riflessione e la profonda interiorizzazione del magistero, almeno nell'ambito delle fasce sociali abbienti che commissionarono lo scavo e la decorazione dei sepolcri. Così come l'iscrizione di Munazio Ireneo, che apre uno spiraglio sugli aspetti privati di una famiglia cristiana e sul suo mondo di affetti, il patrimonio epigrafico permette di conoscere più da vicino alcuni degli elementi delle diverse comunità distribuite sul territorio sardo e di

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comprendere se, e come, potevano essere conciliati i doveri della vita civile con le ragioni di una fede che imponeva specifici codici morali e comportamentali. I testi che si possono riportare all'arco cronologico compreso fra il IV e il V secolo confermano, non solo per la Chiesa di Cagliari, ma anche per le altre realtà urbane, quanto già intuito dalle fonti, e cioè l'affermarsi di una gerarchia ecclesiastica organizzata nei diversi ruoli secondo i precetti dettati nel III secolo da papa Cornelio. Ai vescovi, come il cagliaritano Bonifatius e il turritano Vietar, si affiancavano archipresbiteri, presbiteri, arcidiaconi, diaconi (variamente definiti con i termini di minister e levita) e lettori. I fedeli laici dichiaravano il proprio credo e la loro fratellanza in Cristo attraverso l'appellativo di fidelis a indicare che il percorso che li aveva portati al battesimo si era compiuto. Talvolta i testi epigrafici sottolineano l'impegno nelle cariche rivestite al servizio della collettività, come è il caso di Iohannes ex tribunu e del notarius (un notaio) sub regionarius sanctae Romanae Ecclesiae Menas, entrambi defunti a Cagliari e in vita collegati con gli uffici dell'amministrazione ecclesiastica locale o addirittura centrale. Nei testi incisi trova spazio la devozione verso i martiri che, secondo la tradizione agiografica, erano stati uccisi in Sardegna durante le persecuzioni: ne è un esempio l'epitaffio di Adeodata, un'adolescente di appena sedici anni, l'anima della quale fu affidata sul finire del IV secolo d.C. alle cure dei santi martiri. Sebbene sia ancora oggetto di dibattito fra gli studiosi, non è privo di suggestione ritenere che i patroni invocati in soccorso della sfortunata fanciulla fossero Gavino, Proto e Gianuario, i veneratissimi martiri turritani. Oltre la Turritana civitas, le altre sedi che rivendicarono tale gloria furono Cagliari, Nora, Olbia, Forum Traiani, realtà urbane che, secondo le narrazioni delle passiones, furono teatro, durante le persecuzioni dioclezianee, delle storie edificanti di Saturnino, Efisio, Simplicio, Lussorio. Fa eccezione la già particolare vicenda di Antioco di Sulci, che la tradizione agiografica proietta sullo sfondo del principato di Adriano. A rafforzare la storicità e l'antichità del culto di alcuni dei santi menzionati soccorre la testimonianza del Martirologio Geronimiano, un calendario liturgico universale composto in Italia nel corso del V secolo d.C. Laddove poi le fonti si fanno reticenti soccorrono le evidenze archeologiche ed epigrafiche: le indagini antiche

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e recenti, insieme alla rilettura delle cronache e delle relazioni di scavo, hanno confermato, a partire dal IV secolo d.C., l'affermarsi di un'organizzazione delle sepolture cristiane in funzione di una presenza di tombe venerate proprio nei luoghi indicati dalla tradizione. È importante sottolineare come a restituire le testimonianze più complete dell'affermarsi della nuova religione nella società e nelle pratiche cultuali locali siano le più vitali realtà economiche e portuali della Sardegna tardoromana. L'unica città senza sbocco sul mare è, nel quadro appena delineato, Forum Traiani, ma la sua posizione nodale fra le due più importanti arterie viarie che partivano da Cagliari e da Porto Torres fece sì che fosse un punto nevralgico anche per la definizione degli equilibri rispetto alle aree interne isolane. La leggenda corrente vorrebbe che la conversione delle comunità di Cagliari e dell'agro olbiese sia avvenuta a opera di San Paolo, che sarebbe sbarcato presso~l'approdo dove in età medievale sorgeva la chiesa di Santa Maria de Portu Salis, ai piedi del colle di Bonaria, o, costretto da un fortunale, avrebbe trovato riparo nella cala di Porto San Paolo, pochi chilometri a sud di Olbia. Più realisticamente si potranno individuare i primi evangelizzatori in quegli stessi vettori che avevano innescato il processo di romanizzazione delle genti sardo puniche all'indomani della conquista da parte di Roma: i soldati, i mercanti, i funzionari e le altre figure che viaggiavano attraverso il Mediterraneo da Oriente a Occidente e viceversa. A riprova di ciò è già stato notato da diversi studiosi che alcune delle attestazioni più antiche sono collegate a fedeli estranei alla realtà sarda, come il vir spectabilis Pascasius, molto apprezzato a Cagliari e - nell'isola lontana - peregrina morte raptus, oppure l' acoluthus Ammius Innocentius, la cui traslazione dalla Sardegna alla Capitale è ricordata nella lastra che indicava la sua nuova sepoltura presso il cimitero di San Callisto. Anche nella memoria dei santi martiri è sintomatico il fatto che per alcuni sia specificata l'origine alloctona: Efisio ebbe i suoi natali ad Aelia Capitolina (Gerusalemme), Antioco fu mandato in esilio dalla Mauretania, Gavino era un soldato palatino. Un altro evento segnò un'ulteriore fase di crescita per la Sardegna cristiana: la già menzionata conquista vandala. Si trattò di una transizione politica, senza dubbio accompagnata da alcuni episodi traumatici

- quali per esempio il blocco del porto di Olbia - che apparentemente non ebbe, dal punto di vista economico o sociale, gravi ripercussioni. Sotto l'aspetto religioso è proprio nell'intervallo fra il 468 e il 535 che si rafforzò l'identità cristiana degli ambiti urbani, senza trascurare le tracce di un processo di proselitismo in atto almeno nei contesti di quelle comunità rurali che rientravano nell'orbita delle città. Un processo al quale non furono estranei da una parte i nuovi apporti demografici rappresentati dall'afflusso di coloni dall'Africa vandalica e dall'altra l'esperienza, dolorosa per i diretti interessati, dei vescovi africani esiliati in terra sarda durante la persecuzione ordinata dal re Trasamondo. Grazie al vescovo Fulgenzio di Ruspe la città di Cagliari fu un centro religioso e culturale di primo piano nel dibattito del tempo su questioni che erano ancora motivo di rottura tra i fedeli, divisi per esempio sulla reale natura di Cristo oppure sul tema della Grazia o infine sul rapporto tra fides e ratio. Il cenobio urbano del vescovo diventò presto un luogo di riferimento per molte delle famiglie in vista della città quali potevano essere quella del dignus vir Herennius o dell'aristocratico Taurus citati nelle epigrafi coeve. La successiva fondazione del monastero fulgenziano presso il santuario martiriale di San Saturnino, nell'area della necropoli orientale, innescò non solo un processo di sviluppo di qualità urbane legato alle sistemazioni per l'accoglienza dei pellegrini o all'organizzazione economica e produttiva della struttura monastica e delle sue pertinenze, ma servì anche per dare forma nell'Isola al fenomeno del monachesimo a proposito del quale, fino alla testimonianza della Vita Fulgentii di Ferrando di Cartagine, non è dato di conoscere molto. Riguardo lo stretto rapporto epistolare e di stima affettuosa tra i vescovi di Roma e gli esuli africani si è già accennato, così come al supporto materiale che non mancò di arrivare a questi ultimi dalla penisola. È però interessante aggiungere che nella situazione incerta in cui questi novelli confessori si trovarono per non aver voluto cedere all'autorità dei sovrani vandali, paragonata a una vera battaglia, Simmaco acconsentì alla loro richiesta di ricevere le reliquie dei santi soldati Nazario e Romano, definite nell'epistola del pontefice veneranda patrocinia. È il segno di un'evoluzione del culto delle reliquie da un significato memoriale a uno di carattere apotropaico e, secondo alcune

chiavi di lettura proposte, potrebbe essere anche un primo palesarsi in Sardegna dell'idea che la figura episcopale fosse investita di una facoltà di intercessione che trascendeva quella di carattere giuridico. A partire dal VI secolo il riconoscimento di tale prerogativa avrebbe avuto sviluppi di carattere liturgico e cultuale. Riguardo l'atteggiamento delle autorità episcopali locali nei confronti degli esiliati si può ipotizzare che fossero, per quanto concesso dalle condizioni economiche delle diocesi, all'insegna della premura nei confronti dei confratelli in difficoltà: ne è un segno il consenso ottenuto da San Fulgenzio da parte del vescovo di Cagliari per l'utilizzo dell'area dove eresse il suo monastero. Si aggiungerà che la richiesta del santo africano potrebbe essere interpretata come un atto di obbedienza, per lui che sopra ogni cosa si riconosceva nelle vesti del monaco, ai dettami stabiliti nel Concilio di Calcedonia del 451 in merito alla vita monacale e ai rapporti fra i monaci e i vescovi. Per ritornare ali' epistolario gregoriano - e per concludere - la menzione da parte del pontefice della sede episcopale di Tharros e di quella di Pausania, alla quale si è già accennato, in aggiunta alle cinque già note, nonché i dati acquisiti dalla ricerca archeologica sullo sviluppo dell'Insula episcopalis di Cornus proprio fra il V e il VI secolo, sono stati interpretati da alcuni proprio come la prova del nuovo impulso "missionario" impresso dalla presenza dei vescovi africani. Uno slancio che, stando alle accuse e alle recriminazioni di Gregorio Magno alle soglie del VII secolo, dovette presto esaurirsi con il ritorno alle loro sedi di coloro che ne erano stati i principali artefici. Tuttavia nella biasimata "pigrizia" dei vescovi e nella denuncia della generale approssimazione che regnava nei monasteri maschili e femminili si potranno riconoscere i sintomi non di una Chiesa in decadenza, ma semmai di una cristianizzazione in divenire e per la quale si prospettava un cammino ancora lungo, ma che non avrebbe tuttavia conosciuto battute di arresto.

Nota bibliografica 1998; CORDA 1999; MASTINO 1999; GASTONI 2006; TURTAS 2006; MASTINO 2007; D ELUSSU 2008; PIRAS 2008; l BBA 2010; O NJDA 2011-12; C1scr, FLORIS 2015; FIOCCHI NICOLA!, S PERA 2015; M ARTORELLI, ET AL. 2015; P ERGOLA 2015; SPERANDIO 2015; M ASTINO 2016b; CORDA 201 7. M ELONI

2000;

M ARTORELLI

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approfondimento La monetazione Dario D'Orlando

277-278. Moneta, prima metà I sec. a.e., bronzo, Londra, British Museum (© The Trustees of the British Museum). Presenta al dritto un ritratto maschile, un aratro e legenda M L D e P; al rovescio l'immagine di un tempio a quattro colonne con le lettere QA M P C Il V. Esempio di monetazione "provinciale" da attribuire alle emissioni della Colonia /ulia Turris Libisonis o al centro minerario di Metal/a. Sulla base della prima interpretazione la moneta è databile alla tarda epoca repubblicana , momento di fondazione della colonia, e rappresenterebbe il fondatore della città, o deductor, tale M. Lurius. In questa ipotesi sia la moneta che la colonia sarebbero databili tra il 42 e il 40 a.e. In generale la colonia viene collocata tra il 46 e il 27 a.e. grazie al cognomentum legato alla gens lulia e associabile sia a Giulio Cesare che a Ottaviano prima dell 'acquisizione del titolo di Augusto. 279-280. Sestante, prima metà I sec. a.e., bronzo, Londra, British Museum (© The Trustees of the British Museum). Coniata probabilmente in Sardegna su un nominale appartenente alla serie VI delle emissioni puniche tramite un procedimento chiamato "riconiazione"; presenta testa di Mercurio al dritto e prua di nave al rovescio con la scritta ROMA e le tre lettere AVR in legatura a indicare, secondo alcuni studiosi, l'attribuzione di questa emissione a C. Auruncu/eius, pretore in Sardegna nel 209 a.e.

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La monetazione romana in Sardegna vede una massiccia diffusione in tutto il territorio regionale a partire dal momento dell'occupazione avvenuta nel 238 a.C. a seguito delle note vicende legate alla fine della prima guerra punica. Dopo un'esigua presenza di emissioni antecedenti alla conquista - alcuni tipi di aes grave-, infatti, è solo dalla fine del III secolo a.C. che le monete romane si diffondono in tutta l'Isola. Proprio la creazione della provincia di Sardinia et Corsica sembra essere stata celebrata tramite un'importante offerta votiva presso il cosiddetto Tempio romano di Nora con un deposito formato da una maschera in terracotta (fig. 365) e monete argentee greche e romano-campane, queste ultime la più antica emissione romana in argento (figg. 281-284). Relativamente al primo periodo di dominazione della Sardegna è interessante

segnalare la pratica di riconiazione di alcuni tipi di monete puniche per consentirne il legale utilizzo come sestanti caratterizzati dalla testa di Mercurio al dritto e dalla prua al rovescio (figg. 279-280). Le monete più comunemente sottoposte a questa operazione sono quelle della serie VI sardo-punica, con testa femminile al dritto e toro e stella a otto punte al rovescio. Dopo un periodo connotato dalla presenza di normale circolazione monetale, la rase tardorepubblicana consente di segnalare alcune coniazioni particolari ricadenti in quella che viene definita monetazione provinciale, una serie di emissioni relative a specifiche zone di alcune province, spesso utilizzate per brevi periodi. Tra le più importanti vi è senza dubbio la celeberrima moneta del Sardus Pater legata alla figura di M. Azio Balbo, nonno di Ottaviano Augusto, governatore dell'Isola

281-284. Alcuni esemplari in argento della serie RomanoGampana, UI sec. a.e., provenienti dal ripostiglio del cosiddetto Tempio romano di Nora, cagtiari, Museo Archeologico Nazionale. Il ripostiglio è stato collegato a un deposito rituale effettuato in seguito alla creazione della provincia Sardinia et Corsica e sarebbe quindi da associare agli anni immediatamente successivi al 228-227 a.e.

285-286. Moneta del Sardus Pater, 38 a.e. ca., bronzo, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna·. Presenta al dritto un ritratto maschile, identificato grazie alla legenda che circonda il volto con M. Azio Balbo nonno di Ottaviano Augusto e pretore in Sardegna nel 59 a.e.; al rovescio il ritratto della divinità eponima dei Sardi, il Sardus Pater venerato nel tempio di Antas a Fluminimaggiore. La moneta è databile al periodo intorno al 38 a.e. e sarebbe legata alla figura di Ottaviano Augusto che ne decise l'emissione in onore del suo parente.

alla metà del I secolo a.C. (figg. 285-286). La moneta raffigura al recto il ritratto di Balbo (M. ATIVS BALBVS P.R.) e al verso una testa maschile con un copricapo di piume identificata con la divinità eponima della Sardegna, il Sardus Pater, oggetto di devozione presso il santuario di Antas a Fluminimaggiore, come indica la legenda SARD PATER. Un'altra emissione è legata invece alla città di Cagliari (figg. 287-288) e presenta al dritto due ritratti maschili affiancati - pratica piuttosto comune nella monetazione romana di fase tardorepubblicana -, identificati in Aristo e Mutumbal figlio di Ricoce, sufeti di Carales. Al rovescio il nominale mostra invece la rappresentazione di un tempio dedicato alla dea romana Venus, come indica la legenda, forse associato al santuario di via Malta, rinvenuto nel capoluogo isolano. La moneta sarebbe stata emessa a Cagliari come indica

la sigla KAR, abbreviazione di Karales- l'antico nome romano del centro - posta al di sotto dell'immagine dell'edificio. Essa è una prova della persistenza ancora nel I secolo a.C. di magistrati punici alla guida della città, i sufeti appunto, nel centro più importante della Sardegna romana nonché sede del governatore, a riprova di una certa tolleranza di Roma nell'amministrazione delle realtà locali. Accanto a queste monete ne sono note altre tra le quali risultano di particolare interesse quelle legate alle emissioni della Colonia Iulia Turris Libisonis (Porto Torres) o al centro di Metalla (in territorio di Fluminimaggiore) (figg. 277-278). I ritrovamenti monetali possono essere inseriti in categorie profondamente differenti a seconda del contesto archeologico in cui si trovano. Le monete, infatti, possono essere rinvenute sia come manufatto isolato - nei cosiddetti ritrovamenti sporadici - come spesso accade nei siti di abitato dove il reperto può essere facilmente associato a un soldo smarrito casualmente dal possessore, mentre intenzionale è l'inserimento di emissioni in contesto funerario come parte del corredo (figg. 321,325). I rinvenimenti possono però assumere un carattere diverso se parte di gruzzoli più numerosi. Questi vengono denominati ripostigli e possono essere legati alla volontà del possessore di togliere queste monete dalla normale circolazione economica. In una prospettiva domestica questi gruzzoli possono essere associati alla volontà di creare un vero e

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sia sopravvissuto alla crisi. I ripostigli, quindi, sono fondamentali per comprendere la circolazione economica del mondo antico, soprattutto in assenza di fonti scritte che ci informino sulle piccole transazioni quotidiane e sul comportamento delle persone nei confronti del denaro liquido. Essi sono piuttosto comuni e attestati in varie zone della Sardegna romana (fig. 289), come ad esempio nel celeberrimo gruzzolo repubblicano di Berchidda rinvenuto in località Sa Contrizzola nel 1918, costituito da 1398 denari in argento, che riveste una fondamentale importanza storica per il popolamento dell'area. In piena epoca imperiale, invece, è sensazionale quello rinvenuto pochi anni prima del 1858 nella frazione di Matzaccara di San Giovanni Suergiu, dove si ipotizza si trovasse l'antico centro di Poupoulon. Il ripostiglio era costituito da almeno 3000 monete in rame con patina di argento di fine III-inizio IV secolo d.C. in perfette condizioni- fior di conio -, conservate in un'anfora sigillata forse perché ritenute di valore maggiore rispetto alle emissioni in uso fino a quel momento, soggette al contrario a forte svalutazione. La documentazione monetale, quindi, non solo consente di comprendere aspetti legati al popolamento del territorio al pari degli altri reperti archeologici ma, al contempo, agevola analisi e ricostruzioni di quello che è il vero tessuto sociale antico attraverso la definizione degli aspetti economici e delle transazioni di denaro, strumenti molto potenti nella descrizione delle relazioni commerciali sia a livello locale e comunitario sia a una scala più ampia.

Nota bibliografica

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1953; P ERANTONI SATTA 1954; BIROCCHI 1955; 1962; F ORTELEONI 1971; C RAWFORD 1974; R OWLAND 1990; B URNETT, AMANDRY, R!POLLES 1992; P ORRÀ 2008; B ONETTO, FALEZZA 2009.

(j Età repubblicana

H ERSCH

8 Età imperiale

P ERANTONI SATTA

Le istituzioni Tiziana Carboni

287-288. Moneta dei sufeti, prima metà I sec. a.e. , bronzo, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna". La moneta è un ulteriore esempio di coniazione "provinciale" emessa probabilmente a Cagliari nella tarda epoca repubblicana. La sua importanza risiede nella presenza del ritratto di due personaggi affiancati secondo una prassi tipica della monetazione repubblicana . Al dritto la moneta presenta la legenda Aristo Mutumbal Ricoce f(ilius) suf(etes), çhe permette di constatare come la magistratura punica fosse attiva a Cagliari fino al I secolo a.e.; al rovescio vi è l'immagine di un tempio tetrastilo con l'indicazione Veneri S(acrum) al di sopra della struttura e la scritta KAR in esergo che consentirebbe di attribuire l'emissione al centro di Kara/es . In questa prospettiva la struttura sarebbe identificabile con il teatro-tempio di via Malta, dedicato al culto di Venere. !.:emissione è datata al periodo che va dal 42 al 40 a.e. e dal 38 al 36 a.e. escludendo il periodo nel quale l'Isola era sotto la dominazione di Sesto Pompeo. 289. Carta di distribuzione dei principali ripostigli monetali di epoca romana a partire dalla fase repubblicana fino alla caduta dell'Impero.

«Hai creato per popoli diversi un'unica patria; fu un bene per chi non conosceva la giustizia essere assoggettato al tuo dominio. E offrendo ai vinti la partecipazione alle tue leggi, hai fatto una città di quello che prima era il mondo». Queste sono le parole con cui Rutilio Namaziano, un poeta del V secolo d.C., descrive la grandezza raggiunta da Roma, conquistando gran parte del mondo allora conosciuto. I versi citati spiegano in che modo il dominio romano, imposto con le armi, è stato poi consolidato: estendendo la giustizia e le proprie leggi a popoli diversi, i Romani sono riusciti a ridurre le differenze tra ogni popolo e a far in modo che il mondo intero finisse con l'assomigliare alla città di Roma. Questa uniformità culturale è il risultato della diffusione delle istituzioni romane in tutti i territori conquistati. Con il termine "istituzioni", infatti, intendiamo proprio gli ordinamenti politici, sociali, religiosi fondati su una legge, o anche accettati per tradizione. La parola italiana "istituzione" deriva dal verbo latino instituo (etimologicamertte da in + sta tuo), che significa proprio 'fissare un ordine': le istituzioni danno un ordine e una forma alla vita degli abitanti di un territorio. Alcune istituzioni, come la forma in cui devono essere seppelliti i propri defunti e praticato il culto, interessano intimamente la vita degli abitanti, altre, come la forma di amministrazione, possono avere un effetto meno diretto sulla vita quotidiana di chi vive nel territorio. Istituzioni politiche La storia delle istituzioni romane in Sardegna inizia, inevitabilmente, con una data, il 227 a.C., quando nell'Isola arriva un magistrato romano con l'incarico di governarla. Nonostante la conquista armata risalisse ad almeno un decennio prima, solo l'arrivo di un governatore attesta la volontà di Roma di imporre una forma di governo (di creare cioè un'istituzione) nel territorio conquistato, e va evidenziato come questa forma, che è la provincia, fosse quella che i Romani stavano contemporaneamente sperimentando con la Sicilia, già occupata nel 241 a.C. Nel 227 a.C.,

quindi, anche la Sardegna, unita alla Corsica, diventa una provincia romana. Le fonti non ci danno molte informazioni sul modo in cui questa istituzione fosse organizzata ma sappiamo dell'esistenza della cosiddetta lex provinciae, cioè una legge della provincia, stabilita all'inizio del mandato di ciascun magistrato. A questa se ne aggiungevano delle altre, di solito approvate dal Senato e dai comizi a Roma, per stabilire soprattutto i tipi di tasse da imporre, e come riscuoterle, o anche come affrontare le questioni giudiziarie. Niente ci è giunto però di queste leggi. Le uniche informazioni di cui disponiamo per ricostruire una storia della provincia come istituzione politica sono quindi i nomi di una parte dei governatori. In realtà il termine "governatore" (nella sua forma latina gubernator) non è mai utilizzato, ma ogni magistrato romano inviato in Sardegna è definito da un altro specifico titolo. Durante l'epoca repubblicana il governatore è di solito un pretore, cioè un senatore, che, nella carriera, si trova al gradino più basso rispetto al console. Solo in occasioni eccezionali (come nei casi di rivolte) vengono inviati a governare la Sardegna uno o due consoli. Roma comunque, e le istituzioni romane, hanno sempre la capacità di adattarsi alle situazioni contingenti: durante la rivolta di Hampsicora viene inviato in Sardegna Tito Manlio Torquato, un cittadino a cui viene delegato un potere straordinario (in latino è definito privatus cum imperio), che era un console con titolo di proconsole. A seguito delle riforme di Silla, la Sardegna viene governata da un ex pretore. Anche l'Isola risente naturalmente degli sconvolgimenti causati dalle guerre civili e per ritrovare un assetto istituzionale stabile deve attendere la riorganizzazione augustea. Augusto, nel 27 a.C., riordina il governo delle province che erano state create fino a quel momento, assegnandone una parte al controllo del Senato e mantenendone una parte sotto controllo diretto. Nella propaganda augustea questa suddivisione doveva rispondere all'esigenza di imporre una pace definitiva in territori ancora riottosi: le province affidate 281

al Senato erano quelle considerate pacificate, che non necessitavano della presenza di truppe; le province che Augusto mantiene per sé dovevano essere quelle non ancora del tutto pacificate e per questo bisognose dell'esercito nel territorio. La ragione vera di questa suddivisione doveva essere la volontà di mantenere il dominio diretto sul maggior numero possibile di truppe, da cui poteva arrivare in qualunque momento una seria minaccia per la stabilità del neonato Impero. Nel riordino augusteo, la provincia di Sardegna e Corsica venne assegnata al controllo del Senato e governata da un ex pretore, ma la situazione cambiò già a partire dal 6 d.C. Da questo momento in poi, a fasi alterne, la provincia passò dal controllo diretto del principe al controllo del Senato: questi passaggi non erano solo causati dalla necessità di sedare sommosse interne, ma, soprattutto, rispondevano al disegno imperiale di attuare una politica di scambio con il Senato, mantenendo un equilibrio tra le province imperatorie e quelle cosiddette del popolo romano. Delle ragioni profonde che spinsero di volta in volta il principe a tenere per sé la Sardegna oppure a cederla al Senato non sempre siamo informati in maniera sufficientemente chiara. Tuttavia possiamo ricostruire, almeno a grandi linee, una cronologia di queste alternanze nel governo grazie ai titoli posseduti dai diversi governatori della Sardegna di cui ci è rimasta attestazione. Come spesso avviene per le istituzioni romane di età imperiale, queste attestazioni si trovano nelle iscrizioni latine incise su monumenti di varia natura. Il nome del governatore è accompagnato dal titolo con il quale viene inviato a governare la Sardegna. Dall'esame di questi titoli si possono trarre informazioni sullo statuto sociale del governatore (se si tratta di un senatore o di un equestre), sul modo in cui riceve il potere (se deve governare una provincia affidata dall'imperatore o dal Senato) e, di conseguenza, sul modo in cui lo può esercitare. Se si scorre l'elenco di questi titoli emerge che la Sardegna viene governata per lo più da membri dell'ordine equestre, che inizialmente portano il titolo di procuratore (procurator ), cioè il titolo consueto di chi amministra gli interessi diretti dell'imperatore, e successivamente aggiungono il titolo di prefetto, che perde comunque l'originaria connotazione militare. A partire dal III secolo 282

d.C. gli equestri continuano a svolgere la stessa funzione, assumendo tuttavia il nuovo titolo di praeses. Per gran parte della storia imperiale romana, la Sardegna rimane una provincia affidata all'imperatore. Solo in alcuni momenti i titoli dei governatori segnalano che la provincia era stata riassegnata al Senato. Su come concretamente venisse attuata l'attività amministrativa di questi governatori non abbiamo notizie specifiche per la Sardegna, ma possiamo immaginare che non fosse troppo dissimile da quella che ci è nota per altre province. Il governatore, infatti, poteva contare sul supporto di personale subalterno, sia di carattere amministrativo, sia di carattere tecnico, che assicurava la gestione della routine amministrativa. L'unica fonte che dà un'idea di come si svolgesse questa routine è la cosiddetta Tabula di Esterzili (fig. 301), che contiene incisa una decisione del proconsole Lucius Helvius Agrippa del 69 d.C. relativa a una disputa territoriale tra due genti che abitavano la Sardegna, i Galillenses e i Patulcenses, che venivano dalla Campania. Dispute di questo tipo dovevano essere relativamente frequenti, dato che ne abbiamo attestazione anche in altre province, e dovevano essere generate dalla difficoltà a riconoscere gli esatti confini nei territori di pertinenza di un popolo o di una città, soprattutto laddove agivano personali interessi ad accaparrarsi anche ciò che non era stato assegnato legalmente. Chi si sentiva danneggiato o desiderava far valere i propri diritti si rivolgeva al governatore provinciale, come avviene nel caso della popolazione locale dei Galillenses: questo dimostra che gli abitanti della Sardegna nel I secolo d.C. avevano già recepito il ruolo e il potere del governatore provinciale come istituzione romana nel territorio. La Tabula di Esterzili documenta che il governatore, prima di elaborare una decisione, doveva istruire la causa (cognitio ) e per fare questo si avvaleva del personale subalterno che gli consentiva di compiere le azioni necessarie, come ad esempio raccogliere chiare informazioni sulle ragioni della disputa, consultando eventuali sentenze già deliberate dai suoi predecessori. Non era infatti raro che dispute territoriali di questo tipo si protraessero per un certo numero di anni, coinvolgendo più governatori. Anche Lucius Helvius Agrippa tiene presente la decisione assunta anni prima dal procuratore Marcus

luventius Rixa, che aveva governato la Sardegna qualche anno prima, nel 66 d.C., e che a sua volta aveva tenuto presente quanto stabilito da Marco Cecilio Metello, che aveva governato la Sardegna durante l'epoca repubblicana. Deliberazioni di questo tipo venivano di solito assunte dal governatore a seguito di un consulto con i membri di un'assemblea appositamente convocata (che in latino si chiama consilium), di cui in genere facevano parte altri rappresentanti dell'amministrazione imperiale, oppure senatori ed equestri, che avevano qualche titolo per dare un parere sulla questione oggetto della deliberazione. La sentenza così elaborata doveva essere messa per iscritto, resa pubblica e poi archiviata per poter essere ulteriormente consultata in futuro. Tutte queste fasi di elaborazione, scrittura, pubblicazione e archiviazione sono attestate dalla Tabula di Esterzili. Le dispute territoriali che i governatori provinciali dovevano affrontare lasciano intuire quanto delicata fosse la questione dei confini territoriali. Per noi oggi potrebbe essere naturale immaginare che ogni governatore dovesse conoscere chiaramente i confini della . . . . propna provmoa, ma non sappiamo se veramente ricevesse una carta dove questi confini erano tracciati. Le fonti sembrano dirci che per il mondo romano avevano rilievo, più che i confini nel senso moderno del termine, le città che appartenevano a ogni provincia. Ogni governatore, infatti, all'atto del suo incarico riceveva proprio una lista di città, quella che in latino si chiamava formula provinciae: ne esisteva certamente una per ogni provincia, ma sfortunatamente non ci sono pervenute. Oggi possiamo conoscere qualcosa di queste formulae solo grazie a Plinio il Vecchio che, nella sua opera Naturalis Historia, le aveva utilizzate per scrivere la sezione geografica. Proprio sulla base di Plinio, quindi, possiamo dire che ogni provincia coincideva sostanzialmente con una lista di città, sia quelle preesistenti al dominio romano sia quelle fondate dai Romani. Per quanto riguarda la Sardegna, Plinio non fa l'elenco dettagliato di tutte le città e i popoli che effettivamente si trovavano nell'Isola, ma menziona quelli celeberrimi ('più famosi', ma in latino celeber significa anche 'popoloso'). Naturalmente la sua selezione è strettamente dipendente dalle fonti a cui attinge e registra, dunque, le notizie di un determinato periodo, che, per opinione

comune, è la prima età augustea. Già Piero Meloni aveva evidenziato, nel capitolo de La Sardegna romana dedicato ai centri abitati, la distinzione tra popoli che non possiedono un'organizzazione urbana e popoli che invece sono organizzati in forma urbana (genericamente definita oppidum). Questi popoli erano preesistenti all'impianto della dominazione romana e possiamo presumere che possedessero delle istituzioni proprie. Gli altri popoli autoctoni che abitavano la Barbaria ed erano privi di statuto civico potrebbero oggi essere definiti "tribù", ma questo termine non riesce certamente a cogliere la specificità della loro organizzazione interna su cui non sappiamo molto. Questi popoli compaiono nelle fonti come avversari di Roma, come coloro cioè che rifiutano le istituzioni romane: in epoca repubblicana sono protagonisti di rivolte, ma anche all'inizio dell'età imperiale non possono di certo definirsi romanizzati. Gli oppida nominati da Plinio sono per lo più città di origine fenicia rifondate dai Cartaginesi e conservano, anche dopo l'impianto della dominazione romana, istituzioni di matrice punica, come ad esempio i sufeti alla guida della città, così come continuano a utilizzare il neopunico per alcune iscrizioni di epoca repubblicana. Fino almeno alla metà del I secolo a.C. tutte le città preesistenti sono per i Romani civitates stipendiariae, cioè città che sono in qualche modo sottoposte a un regime di dipendenza nei confronti delle istituzioni romane perché devono pagare un tributo. In età imperiale in alcuni di questi centri si impiantano le istituzioni romane dato che alcuni diventano municipi, qualcuno raggiunge il rango di colonia. Colonie e municipi sono anche le due forme in cui i Romani più frequentemente tendono a imporre le proprie istituzioni in ambito cittadino. Sia i municipi che le colonie venivano dotati di apposite leggi all'atto della creazione, di un Senato locale e di magistrati specifici che dovevano amministrarli, duoviri in una colonia, quattuorviri iure dicundo in un municipio. Cosa differenzi nel dettaglio municipi e colonie è difficile chiarirlo esattamente. A grandi linee si può affermare che il municipio viene istituito su un centro preesistente che conserva una parte del proprio diritto: vengono imposte nuove istituzioni, ma senza tralasciare completamente l'esperienza 283

precedente. Questo è quello che avviene ad esempio a Sulci, che diventa municipio con l'imperatore Claudio. Alcuni si distinguono per il fatto che tutti gli abitanti hanno la cittadinanza romana, come nel caso di Carales e di Nora, che Plinio il Vecchio specifica essere "di cittadini romani". La colonia è invece un centro in cui si impongono ex novo le istituzioni di tipo romano. Plinio, dopo aver nominato i popoli e gli oppida preesistenti ai Romani, e i due centri di cittadini romani, menziona anche una colonia, Turris Libisonis, oggi Porto Torres, a cui si può aggiungere quella di Uselis, centro fondato nel II secolo a.C. e promosso a colonia onoraria. Accanto a queste istituzioni cittadine abbiamo attestazione anche di altre forme di organizzazione degli abitanti della provincia, che potrebbero essere segnali di come, talvolta, l'impianto delle istituzioni romane nel territorio avvenga per gradi, seguendo le specifiche esigenze di dominio del territorio stesso.

Istituzioni sociali Sotto il profilo sociale l'istituzione maggiormente densa di significato è la cittadinanza romana. Sia nella Roma repubblicana sia nella Roma imperiale, fino all'editto di Caracalla, che estende la cittadinanza a tutto l'Impero, essere cittadini romani è un -privilegio. Solo i cittadini romani possono avere diritto di voto e partecipare, dunque, attivamente alla vita politica. Esiste una netta distinzione giuridica tra i cittadini romani ( cives) e coloro che non lo sono, gli stranieri (peregrini). La cittadinanza romana si può avere o per nascita o per specifica concessione individuale oppure (nel caso degli schiavi) per manomissione. Naturalmente in ogni provincia di nuova creazione, soprattutto in epoca repubblicana, è immaginabile che i cittadini romani non siano particolarmente numerosi, soprattutto tra gli autoctoni. Spesso poi è difficile fare una stima della quantità di cittadini perché le fonti che abbiamo a disposizione non sempre sono affidabili da questo punto di vista. Ad esempio, una buona parte delle iscrizioni della Sardegna è di carattere funerario. Ma, nella stragrande maggioranza dei casi, queste iscrizioni contengono solo il nome e l'età del defunto. Si pensa che i cosiddetti tria nomina (tre nomi dati da prenome, gentilizio e cognome) siano una sufficiente prova per riconoscere un

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cittadino romano. Tuttavia è stato dimostrato che anche coloro che non erano cittadini romani talvolta sceglievano di assumere i tria nomina. Una prova più sicura poteva essere invece l'appartenenza a una tribù. Infatti ogni cittadino maschio, maggiore di sedici anni, all'atto dell'ottenimento della cittadinanza veniva registrato nelle liste di censo di una città e ascritto a una delle trentacinque tribù romane. L'appartenenza alle tribù aveva un peso specifico soprattutto in epoca repubblicana perché si votava per tribù. Con l'avvento dell'Impero si perde il senso stesso delle votazioni, ma la menzione della tribù di appartenenza rimane, almeno fino al III secolo d.C. Per l'assegnazione di un cittadino a una tribù non esistono norme precise, ma per lo più convenzioni, come quella di essere ascritti alla tribù di cui fanno parte la maggioranza degli abitanti. A Turris Libisonis, ad esempio, la maggior p_arte degli abitanti è ascritta alla Collina, una tribù urbana, a Carales alla Quirina. Con l'istituzione dei municipi e delle colonie e la concessione, dunque, della cittadinanza ai loro abitanti avviene, certamente, un significativo aumento del numero di cittadini. Prima che questo avvenga, nelle fasi iniziali della conquista repubblicana, i cittadini romani sono per lo più immigrati che arrivano nell'Isola per ragioni diverse: negotiatores per esercitare attività commerciali, personale amministrativo inviato da Roma, soldati delle legioni. Inizialmente questi cittadini tendono a stanziarsi nella costa e meno nell'interno dove è più forte la resistenza delle genti autoctone. In un certo senso la diffusione della cittadinanza romana procede di pari passo col fenomeno culturale noto come "romanizzazione", che però possiede un significato ben più complesso della semplicistica opposizione tra Romania e Barbaria o tra città costiere romanizzate e aree interne resistenti. All'arrivo dei Romani in Sardegna esiste già una società in qualche modo stratificata con al vertice l'aristocrazia punica, che aveva surclassato l'antica aristocrazia sardo-fenicia, senza naturalmente eliminarla. Gli eredi dei Fenici e della civiltà nuragica rimangono nell'Isola stabilendo relazioni commerciali, matrimoniali e politiche con la nuova aristocrazia punica. Il risultato di questa commistione sociale è l'élite a cui Roma si rapporta e che diventa uno dei vettori della romanizzazione. In ogni provincia, infatti,

sono proprio le élite i primi interlocutori delle istituzioni romane per una sorta di mutuo beneficio: gli esponenti delle aristocrazie locali traggono vantaggi economici sostenendo i nuovi dominatori e i Romani, a loro volta, hanno interesse a favorire le aristocrazie locali perché sanno che il loro sostegno diventa fondamentale per la stabilizzazione delle istituzioni romane nei nuovi territori conquistati. Scrive lo storico francese Claude Nicolet a proposito dell'età imperiale: «Che un uomo solo governi il mondo intero, ma nel quadro di procedure istituzionali precise e di fronte a un nugolo di città ritenute "libere" e "autonome" significa che questo impero e queste istituzioni funzionano in larga misura senza di lui». Le istituzioni possono funzionare in maniera autonoma solo quando vengono accettate. Questa accettazione può partire solo dalle élite che già abitano i territori conquistati da Roma. Anche nella Sardegna romana avviene questo. L'aristocrazia locale impersona le stesse istituzioni romane, svolgendo il ruolo di amministratori nei municipi e aspirando da lì a entrare nei ranghi dell'aristocrazia, come equestre o come senatore. In epoca imperiale, l'ottenimento del rango equestre dipendeva soprattutto dalla capacità di entrare in relazione con il potere imperiale: la via più consolidata era proprio quella di rivestire tutte le magistrature in patria e poi di entrare nell'ordine equestre ricoprendo gli incarichi militari previsti per quest'ordine, come fa l'anonimo attestato in un'iscrizione rinvenuta nella Casa del Tablino dipinto, presso la cosiddetta Villa di Tigellio, il famoso musico sardo di cui parlano Cicerone e Orazio. Alcuni di coloro che arrivano ai vertici dell'aristocrazia romana vengono scelti come patroni dei loro centri di origine o di quelli in cui vengono cooptati come cittadini, come avviene a Quinto Sergio Quadrato, che diventa patrono di Cornus. Nell'Isola naturalmente non c'è solo l'élite. Sono attestati diversi soldati che avevano militato in una delle truppe presenti in Sardegna, come ad esempio Marco Epidio Quadrato e Sesto Elano Proculo, attestati a Carales, come membri del distaccamento della flotta di Miseno. È alto anche il numero di schiavi e liberti, variamente impiegati nel territorio sardo. Molti di loro, fin dall'età repubblicana, dovevano essere impiegati nei latifondi o anche nelle miniere presenti

nell'Isola. Con l'avvento dell'età imperiale, una parte di queste risorse del territorio diventa proprietà dell'imperatore che vi impiega i propri schiavi e liberti. I liberti imperiali si possono riconoscere con una certa facilità perché, a seguito della manomissione, assumono un gentilizio imperiale. La più famosa è certamente Atte, la liberta di Claudio amata da Nerone, attestata a Olbia. Particolarmente numerosi sono in tutta l'Isola gli schiavi e i liberti di Claudio e Nerone, molti dei quali, probabilmente, impiegati nei latifondi imperiali, che dovevano essere estesi proprio nella zona di Olbia. Sembra che anche la Sardegna in qualche modo confermi che durante la dinastia Giulio-Claudia i liberti assumono un certo rilievo, ben illustrato da un punto di vista letterario dal Trimalcione protagonista del Satyricon di Petronio.

Nota bibliografica Per un profilo generale sulle istituzioni del mondo romano cfr. LICANDRO, PALAZZOLO 2019. Sul significato istituzionale del termine provincia e per un panorama su tutte le province romane cfr. LETTA, SEGENNI 2015: sulla Sardegna, in particolare, cfr. pp. 87-100. Sull'amministrazione della Sardegna romana cfr. M ELONI 2012 (soprattutto capp. V e VIII) e MASTINO 2005c, pp. 91-163. Sulla Tabula di Esterzili, in particolare, cfr. MASTINO 1993b e l'approfondimento relativo in questo stesso volume. Per una contestualizzazione della disputa territoriale tra Galillenses e Patulcenses nel contesto più ampio di altre dispute simili cfr. BURTON 2000. Per l'interpretazione di Plinio il Vecchio che descrive la Sardegna cfr. il recente IBBA 2017a. Sul senso istituzionale di colonie e municipi nel governo romano un utile quadro è presente in JACQUES, SCHEID 1999, pp. 295-311. Sul valore della cittadinanza romana in età imperiale cfr. MAROTTA 2009. Sulle tribù attestate in Sardegna cfr. FLORIS, IBBA, ZuccA 2010. La citazione di Claude Nicolet è tratta da NICOLET 1989. Sugli schiavi e i liberti della Sardegna romana cfr. recentemente MASTINO, Cocco 2019.

285

Il mondo militare Antonio lbba

Terminata la fase della "Prima Conquista", con la nascita della provincia nel 227 a.C., il controllo militare era affidato a una legione (secondo Tito Livio composta normalmente da 5000 fanti, pedites, e 400 cavalieri), arruolata fra i cittadini romani e guidata dal pretore assegnato all'Isola, affiancata da un numero equivalente di fanti ausiliari, organizzati in coorti e reclutati fra alleati (socii ) e Latini. Le truppe erano dislocate presumibilmente

• • •

+ + 290

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I Corsorum Ligurum VII Lusitanorum lii Aquitanorum Sardorum Cohors Il[---]

+ Classis Misenensis O Pretoriani + Vig ili e,. Diploma militare .a. Reparto ignoto .a. Castra

non distante dalla capitale provinciale e dai territori di città alleate, con compiti prettamente di polizia; in momenti particolari, tuttavia, il numero delle legioni e delle coorti ausiliarie poteva essere raddoppiato, come nel 225 a.C., probabile risposta alla misteriosa rivolta dei Sardi nell'anno precedente, e negli anni 215-207 a.C. come conseguenza della rivolta di Ampsicora nel 215 a.C., per un totale, pare, di 22.000 uomini e 1200 cavalieri. Riconducibili a questi eventi sono l'urna cineraria di un Publios Caios e i frammenti di un elmo di bronzo del tipo "Montefortino" rinvenuti nell'area fra San Vero Milis e Riola. A partire dall'anno 200 a.C., al termine della seconda guerra punica, in uno scenario politico ormai totalmente mutato, la legione fu sostituita da un equivalente contingente di coorti ausiliarie, periodicamente rinnovato ogni anno da nuove leve arruolate nella penisola e in parte forse nella stessa provincia fra le tribù considerate fedeli. A queste truppe in caso di emergenza potevano essere affiancate una o due legioni, nei momenti più gravi addirittura aumentate a tre o quattro e coadiuvate da un numero almeno doppio di ausiliari: troviamo così due legioni di 5200 fanti e 300 cavalieri ciascuna più 8000 fanti e 300 cavalieri ausiliari nel 181 a.C., due legioni con 12.000 fanti e 600 cavalieri ausiliari nel 177-176 a.C., durante la cosiddetta "Seconda Conquista", una sola legione con l'aggiunta di 1500 fanti e 100 cavalieri ausiliari nel 175-173 a.C., parte dei quali spediti in Corsica; due legioni di nuovo forse nel 163-162 a.C. per combattere i Corsi, nel 126-122 a.C. durante la spedizione di Lucio Aurelio Oreste, e probabilmente nel 115-111 a.C. per quella di Marco Cecilio Metello; una legione nel 49-47 e nel 43 a.C., portata a due nel 42-40 a.C. quando la provincia fu assegnata a Ottaviano; nel 40 a.C. Sesto Pompeo gli sottrasse la Sardegna con quattro legioni guidate dal suo legato Menodoro che tuttavia, nel 38 a.C., passò dalla parte di Ottaviano consegnandogli tre legioni, una flotta di sessanta navi e altri armati alla leggera che si trovavano nella provincia. Mancano purtroppo i dati relativi ad altri importanti episodi militari che pure interessarono Sardegna e Corsica

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290. Carta delle testimonianze epigrafiche dei militari in Sardegna in età imperiale (I-lii sec. d.C.). 291. Diploma militare, 69 d.C. ca., bronzo, h 14,5 cm, proveniente dalla località Carchinarzu di Anela, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G .A. Sanna". Diploma del legionario, ex marinaio, Ursaris, congedato nel 68 d.C. Faccia esterna della tavoletta principale.

durante l'età repubblicana: potrebbe ricollegarsi a uno di questi episodi l'altare rupestre sul Monte Onnarìu-Bidonì, dedicato a Giove Ottimo Massimo, e il santuario di Santa SofiaLaconi connesso forse a un accampamento. In tempo di guerra la flotta che garantiva la sicurezza delle coste poteva arrivare sino a 120 navi come nel 217 a.C., 50 nel 210 a.C. e probabilmente negli anni seguenti; in tempo di pace la squadra era invece composta da una decina di imbarcazioni, con marinai sia italici, sia orientali, arruolati fra alleati, liberti e raramente proletari, sia fra i Sardi (come ci ricorda un passo di Livio per l'anno 203 a.C.). La base della squadra era a Carales (Cagliari), dotata di importanti cantieri navali, e l'accampamento era forse sistemato nell'area della Marina, vicino a uno dei porti della città e ali' esterno dell'abitato. Questa struttura fu in gran parte smantellata nel 27 a.C., quando propagandisticamente Augusto considerò la provincia fra quelle pacificate e la restituì al controllo del Senato. Al proconsole furono lasciati solo pochi uomini per la normale gestione dell'ordine pubblico e dell'amministrazione: un campo per le esercitazioni dei soldati fu espropriato dal governatore alla periferia della capitale provinciale, probabilmente fra le moderne vie Bonaria, Barone Rossi, Gallura e XX Settembre. In seguito a una preoccupante recrudescenza delle razzie nel 6 d.C., la provincia ritornò sotto il controllo imperiale e probabilmente la sua gestione fu separata da quella della Corsica. Per ripristinare l'ordine pubblico, in Sardegna

furono allora richiamate non legioni ma coorti ausiliare di 480 o forse 800 fanti ciascuna (cohors quingenaria o milliaria), comandate da un prefetto o un tribuno militare di rango equestre, reparti talora rinforzati rispettivamente da 120 o 240 cavalieri (cohors equitata) e stanziati fra le Barbagie e la valle di Chilivani: le iscrizioni permettono di identificare la coorte I (?) dei Corsi, con base presumibilmente Aquae Ypsitanae (Fordongianus), quella dei Liguri, forse nella stessa area, la VII (?) dei Lusitani probabilmente nei dintorni del Vicus Augusti (Austis), la III degli Aquitani con i castra (accampamenti) a San Pietro-Ardara, Luguido (San Simone-Oschiri) e forse lungo la strada centrale che attraverso le Barbagie univa Olbia a Carales. Altri possibili castra forse a Meana Sardo, Valentia (Bidda Beccia, fra i comuni di Nuragus, Nurallao, Isili), Biora (Serri). Ardara ha restituito i resti della cortina muraria del campo, monete, ceramiche, frammenti vitrei, cuspidi di lancia e giavellotto, borchie, una stadera; parti del circuito murario, ceramiche, fibule provengono da Luguido; un'aquila scolpita in rilievo sulla chiave di volta della porta trionfale dell'anfiteatro di Fordongianus potrebbe alludere all'uso iniziale della struttura da parte di militari. Le coorti erano composte da 6 o 1O centurie di fanteria, ognuna comandata da un centurione, e da 3 o 6 turmae di cavalleria, ciascuna affidata a un decurione: la presenza di coorti equitatae è giustificata dalla vasta giurisdizione assegnata ai singoli reparti all'interno di un sistema razionale che omogeneamente ridistribuiva le truppe sul territorio in considerazione anche delle sue caratteristiche morfologiche, senza lasciare sguarnito alcun settore e permettendo un rapido intervento in località distanti fra loro. Le iscrizioni ricordano un tubicen (trombettiere), un signifer (incaricato di portare l'insegna della sua coorte e di sorvegliarne la cassa con il denaro e il mercato del reparto), dei missicii (congedati forse non ancora veterani). Premiati con la cittadinanza romana solo alla fine del servizio militare, alcuni di loro nell'onomastica rivelano una chiara origine dalle aree in cui originariamente erano arruolati i reparti ( Ubasus Niclinus figlio di Chilo, Decumus Cniensis figlio di Cirnetus, fig. 294; Orcoeta Convenus figlio di Bihon, forse Filo figlio di Terentius). Altri, invece, "di seconda generazione': erano nati nell'Isola: il decurione Optatus figlio di Sadecis, che operò in Africa, probabilmente Rufus Valentinus figlio di Tabusus e il commilitone o fratello Spedius; in età posteriore Charittus figlio di Cota, Tunila

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292 . Placca, prima metà IV sec. d.C., bronzo, 0 11 cm , proveniente dalla località Siddai 'e Susu di Dorgali, Dorgali, Civico Museo Archeologico (foto Soc. Cooperativa Ghivine del GRA). La piccola placca bronzea ricorda il prefetto dei Vigili Egnatuleio Anastasio, in carica nella prima metà del IV secolo.

Caresius, Hannibal figlio di Tabilatis dal Nurac Albus, sua moglie Iurinis figlia di Tammuga, Sordia, e i figli Sabinus, Saturninus, Tisarenis, Bolgitta, Bonassonis, Germanus figlio di Nepos, forse Farsonius Occiarius, i marinai Ursaris figlio di Tornalis, C. Fusius figlio di Curadro, D. Numitorius, Fifensis, figlio di Agasinus Tarammonius, e suo figlio Tarpalar, C. Tarcutius Hospitalis, figlio di Tarsalia. Anelli femminili sono stati ritrovati ad Ardara, prova ulteriore che almeno ufficiosamente erano tollerati i matrimoni dei soldati e la presenza di donne presso gli accampamenti. Ai Lusitani si deve inoltre l'introduzione del culto salutifero di Atecina da Turobriga alle Aquae Ypsitanae, dove già si veneravano divinità maschili e femminili delle acque, mentre rimane più incerta l'attribuzione ai militari dei cippi "a capanna" o "a bauletto", diffusi nell'area centrale dell'Isola. Poiché le razzie avevano reso incerte anche le rotte con la penisola, alla provincia fu aggregato un distaccamento della flotta imperiale del Miseno, attestato nel corso del I-II secolo d.C. e il cui cimitero è stato identificato nella parte alta del viale Regina Margherita a Cagliari. La squadra era forse guidata da un navarco mentre un distaccamento era probabilmente stanziato a Olbia, come dimostrerebbe l'epitafio di un marinaio sepolto a Telti. Forse già con

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Claudio, sicuramente con Vespasiano, la flotta assunse l'epiteto di praetoria, probabilmente perché i suoi uomini fungevano anche da supporto ai governatori provinciali nei servizi di polizia a terra e per missioni speciali: questo potrebbe spiegare negli anni successivi la presenza di questi militari nell'area mineraria di Gonnesa. La squadra era composta da triremi, forse quadriremi o ratis (piccole imbarcazioni), e a Olbia da agili liburnae, più adatte al pattugliamento degli isolotti della Gallura; di alcune conosciamo anche il nome: Minerva, Salus Augusta, forse Ops e Salamis. Tra il personale, arruolato fra cittadini romani o latini, conosciamo per il periodo successivo marinai di origine Bessa (nell'attuale Bulgaria), Dalmata (Croazia), Alessandrina (Egitto); i testi ricordano dei centurioni e forse un trierarchus, che comandavano le singole navi, un gubernator (timoniere), forse un archigybernator (il pilota della nave ammiraglia) e un vexillarius (responsabile del vessillo della navè sulla quale era imbarcato). Conosciamo inoltre il figlio e un liberto del marinaio L. Mettenius Mercator, il figlio e la moglie Flora del centurione (?) Valerius Pronto, la moglie Zosime del marinaio C. Iulius Aponianus. La crisi militare non durò a lungo e con essa è possibile che alcuni reparti già con Tiberio venissero trasferiti in altre provincie, come la coorte dei Lusitani, che ritroviamo nella parte occidentale dell'Africa proconsolare (nell'attuale Algeria), forse impegnata contro i Berberi guidati dal ribelle Tacfarinas, mentre sembrano meno probabili i trasferimenti in Mauritania Cesariense (Algeria) dei Corsi e in Britannia (Inghilterra) degli Aquitani; per contro, Tacito e Flavio Giuseppe ci ricordano che nel 19 d.C. 4000 liberti o figli di liberti, adepti ai culti egiziani e alla religione giudaica, forse arruolati fra i Vigili di Roma, furono trasferiti nell'Isola per combattere il brigantaggio: tracce di questa presenza si possono individuare nelle testimonianze di questi culti proprio nelle aree centrali, in particolare ad Austis, Sorgono, Isili, benché talora di età più tarda e comunque mai direttamente collegati al mondo militare; è per altro possibile che nel 31 d.C. lo stesso Tiberio ritirasse questi uomini dall'Isola. Una riorganizzazione delle truppe si ebbe presumibilmente con Nerone: la coorte dei Liguri fu trasferita probabilmente a Luguido, forse con l'incarico di sorvegliare anche le proprietà nell'area di Olbia e del Monte Acuto assegnate dall'imperatore alla sua concubina,

la liberta Atte, mentre per il controllo della parte meridionale dell'Isola è plausibile che alla coorte dei Corsi se ne affiancasse una dei Sardi, le cui prime tracce si potrebbero identificare a Grugua-Buggerru nell'Iglesiente forse in relazione ai metalla (miniere) dell'area; contestualmente una coorte II dei Sardi fu inviata fra Africa proconsolare e Mauritania Cesariense. È possibile, inoltre, che la III degli Aquitani fosse solo ora trasferita in Germania superiore, dove la ritroviamo nel 74 d.C.: ulteriore indizio è l'abbandono definitivo dell'accampamento di Ardara proprio in quegli anni, evidentemente non più funzionale alla sicurezza della provincia. Una nuova trasformazione si ebbe con Vespasiano, come dimostrano i tre diplomi militari di Sorgono, Dorgali e Posada, rilasciati rispettivamente negli anni 88, 96, 102 d.C. a soldati di origine sarda congedati con onore dopo aver prestato il proprio servizio per almeno 25 anni: le disposizioni ci dicono che in Sardegna erano rimaste solo due coorti geminae (gemelle), nate dalla fusione di reparti preesistenti ormai sciolti per ragioni forse riconducibili alla guerra civile del 69 d.C. o alla riforma amministrativa del 73 d.C., la coorte I gemella dei Sardi e dei Corsi e quella II gemella dei Liguri e dei Corsi, presumibilmente entrambe quingenariae e accampate presso le Aquae Ypsitanae e a Luguido; forse la I gemella aveva una base anche a Carales, dove nell'anno 83 d.C. il governatore fece lastricare il già ricordato campo per le esercitazioni. I tre diplomi come quelli di Anela (69 d.C. ) (fig. 291), Ilbono (79-81 d.C.) e Olbia (114 d.C.) dimostrano inoltre la presenza sempre più cospicua di Sardi nella fanteria ausiliaria operante sia nell'Isola sia in altre province (in totale ne contiamo almeno 9) e soprattutto nella due flotte da guerra del Miseno e Ravenna (rispettivamente 20 e 7 marinai), mentre era invece ridottissima la loro presenza nelle legioni (uno o forse due legionari della III Augusta di stanza a Lambaesis in Numidia che si aggiungono a Ursaris, legionario della I Adiutrix, ex marinaio che si ritirò dopo il congedo ad Anela) . Il luogo di rinvenimento dei diplomi potrebbe infine essere indizio di un progetto volto a ricompensare i congedati con terre in aree poco densamente popolate dell'Isola, una pratica che trova conferma in simili documenti rilasciati da Adriano (di nuovo da Olbia e Ilbono, Tortolì) e nel corso del III secolo (da Seulo, Fonni, ancora Sorgono); è invece difficile

immaginare che questi anziani soldati fossero utilizzati come riserva per mantenere il controllo di una provincia progressivamente smilitarizzata. Questa intorno al 111 d.C. ritornò per un breve periodo sotto l'amministrazione senatoria e forse in quell'occasione la coorte II gemella dei Liguri e dei Corsi fu trasferita in Siria dove è ripetutamente attestata fra il 129-153 d.C. e non oltre il 157 (quando se ne perdono le tracce se non vogliamo identificarla con una coorte II ricordata su una dedica alle Ninfe da Fordongianus, databile al 177- 180 d.C.). Non conosciamo invece la sorte della coorte I gemina dei Sardi e dei Corsi, che forse mutò il nome in coorte I dei Sardi, ricordata in Sardegna durante il II secolo su alcuni epitafi da Carales e Sestu (il reparto potrebbe essersi accasermato sul colle di San Michele), dalla miniera di ferro di Campigeddus-Fluminimaggiore e dal forte di Medusa-Asuni (due centurioni), e su due bolli su mattone da Luguido e Oristano: il titolo praetoria talora ricordato su questi testi potrebbe alludere a una stretta collaborazione con il governatore e al suo impiego come guardia personale e in tutta una serie di missioni speciali sul suolo provinciale, come ad esempio la sorveglianza dei condannati ad metalla. La coorte era forse equitata se a lei si potesse riferire il decurione di cavalleria, stra tor (scudiero) del governatore, distaccato presso il pretorio di Carales, e allo stesso reparto apparteneva forse l'optio (aiutante di campo) ricordato nel medesimo contesto; non sappiamo nemmeno se il suo contingente fosse di 480 uomini (come d'altronde la coorte II dei Sardi) o aumentato a 800 fanti forse per sopperire alla partenza della II gemina: suggestivamente ci orienterebbero in questa direzione sia il tribuno militare di rango equestre ricordato in un testo di Djémila (Cuicul) in Africa proconsolare databile poco dopo la metà del II secolo d.C., comandante di una coorte di Sardi che non può essere la coorte II dei Sardi, allora operante nella vicina Mauritania Cesariense, giacché questo reparto era sicuramente comandato in questa fase da un prefetto, sia forse il tribuno militare originario di Telesia nel Sannio, che non oltre la metà del II secolo seppellì sua moglie a Porto Torres (per lui si era però pensato anche al comando della coorte dei Liguri nel I secolo o di una coorte di vigili); per contro si è pensato che avesse militato nell'Isola e non in Africa, in un momento fra il 11 7- 160 d.C., il prefetto di una coorte dei Sardi ricordato su un testo greco da Nysa in Asia Minore.

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A reparti indeterminati appartenevano infine altri militari del II secolo ricordati su epitafi da Ussana (forse un missicius), Grugua-Buggerru, Valentia, Busachi. Sappiamo inoltre che nel III secolo un soldato della VII coorte dei Pretoriani fu sepolto a Tharros e che nel 245 d.C. un distaccamento della coorte II dei Vigili di Roma per almeno tre mesi operò nella provincia, entrambi forse con il compito di sorvegliare i trasporti annonari, una pratica che sembra essere ancora in auge in età costantiniana, quando una piccola targa di bronzo da Dorgali attesta addirittura l'intervento diretto del prefetto dei Vigili (fig. 292), di stanza a Roma: verrebbe allora da chiedersi se al medesimo reparto non appartenessero anche il tribuno militare che nel 244 curò il restauro della basilica giudiziaria e del Tempio della Fortuna a Turris Libisonis e, ancor prima, i già ricordati tribuno originario di Telesia e la coorte II da Fordongianus. Al mondo militare potrebbe ricollegarsi la dedica frammentaria a Giove Dolicheno per la salus (salvezza) e la vittoria dell'imperatore Settimio Severo e della sua famiglia rinvenuta a Ossi, in un'area dove era attestato sin dall'età repubblicana il culto di Ercole, ma anche non distante da Porto Torres. Per il basso-impero le notizie si fanno ancor più rade: oltre alla già ricordata presenza dei Vigili, sappiamo della presenza di palatini (soldati della guardia di palazzo), evidentemente distaccati nell'Isola con compiti speciali, ricordati a Porto Torres nel 394 d.C., e forse a Cagliari, incarico che la passio di San Gavino attribuisce anche al martire turritano al tempo di Diocleziano. Per il resto dobbiamo pensare a una provincia sostanzialmente sguarnita, facile meta delle razzie dei Vandali che probabilmente senza grande impegno poterono conquistarla intorno al 468 d.C. Questi affidarono il controllo a un piccolo presidio di soldati germanici, difficilmente affiancati da quei Mauri che, trasferiti forzosamente dall'Africa con le loro famiglie forse al tempo di Unerico, secondo Procopio di Cesarea erano invece in perenne conflitto con i Vandali: non sarà dunque un caso che Godas, nel tentativo di rendersi autonomo dal re Gelimero, si fosse appoggiato proprio a circa 3000 di questi Berberi che abitavano le campagne e a una piccola guardia personale, invocando aiuti più consistenti da Giustiniano. Ben diversa la situazione con i Bizantini: una costituzione del 13 aprile 534 d.C. ci informa che il comandante dell'esercito provinciale (dux) risiedeva non sulle montagne dove vivevano i

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Barbaricini, ma presumibilmente a Fordongianus. Per il controllo del territorio, dei traffici e delle principali vie di comunicazione, più con funzione di polizia che di difesa dai Sardi e dai Mauri ribelli, disponeva di un contingente fra i 600-800 effettivi, organizzato in piccole unità di fanteria (arithmòi) e cavalleria (tàgmata o banda) di 200 o 400 uomini ciascuna; furono inoltre realizzate torri di guardia e fortini, spesso sfruttando strutture di età nuragica o romana, occupati da piccole guarnigioni, le principali individuate a Sa Paulazza-Olbia, Luguido, San Giorgio di Aneletto-Anela (forse un quadriburgio), Casteddu Ezzu-Fordongianus, Castello di Medusa-Asuni, forse edificato proprio con Giustiniano, Su Casteddu-Senis, Barurnele-Ales, Santa Vittoria-Serri. Nei pressi dei castra non mancano le tracce di insediamenti a uso civile, occupati dalle famiglie dei soldati; contestualmente furono fortificati i principali centri abitati lungo la costa. La presenza dei soldati in questi cÒntesti è spesso testimoniata dai corredi funerari che hanno restituito soprattutto armi, speroni e morsi di cavallo, acciarini, fibule, decorazioni militari, anelli, che ci fanno pensare a limitanei (soldati di frontiera con armamento non pesante) che vivevano soprattutto nelle campagne. Farebbero tuttavia eccezione due testi da Cagliari: un epitafio del VI secolo d.C. dalla necropoli di San Saturnino, dove forse si ricordava un optio dracconarius (responsabile del vessillo che rappresentava un draco, 'serpente', oppure membro di un reparto di soli vessiliferi, altrimenti ignoto), imbarcato per alcuni anni su un dromone, una nave da guerra della flotta bizantina ormeggiata nel portocanale presso l'attuale via Bonaria; una targa che invocava la protezione divina forse su un alloggio per militari (metatum), posto sotto la protezione di San Longino centurione, che potrebbe esser sorto presso la via Simeto, alla periferia nord-ovest della città tardo-antica. Nota bibliografica Per l'età repubblicana: M ELO I 1990, pp. 52-95; Z UCCA 2009b, pp. 24, 28-36; lBBA 2015, pp. 16, 20-22, 26-27, 29; per l'alto-impero: L E BOHEC 1990; Z UCCA 2009a; MASTINO 2012; lBBA 2014a, pp. 215-228; lBBA 2015, pp. 38-40, 47-50; aggiornamenti in C ORDA, IBBA 2018; IBBA 2019; G ANGA, IBBA 2021: per un possibile legionario da Tharros, cfr. IBBA 2011 , pp. 608-614; per il basso-impero e i Vandali, MASTINO 1999, pp. 269, 293-294, 300-302; lBBA 2010, pp. 388-400, 404-409; DELUSSU, IBBA 2012, pp. 2205-2210; IBBA 2017b; per l'età bizantina, SPANU 1998, pp. 173-198; CORRIAS, COSENTINO 2002, pp. 2-3, 127-135, 149-156.

La comunicazione nel mondo antico: il linguaggio epigrafico Antonio Maria Corda

La provincia Sardinia ha restituito finora 1600 testi epigrafici, un numero di ritrovamenti che pur non essendo altissimo è certamente significativo per un'area a bassa densità umana. Le epigrafi, e cioè per usare una classica definizione "i testi incisi su materiale durevole", sono una delle fonti più importanti certamente quella numericamente più consistente - per lo studio del mondo antico. Nelle epigrafi, che sono una delle poche forme di testo scritto che ci arriva dal passato in forma originale, vengono citati luoghi, persone di varia condizione sociale, circostanze storiche, monumenti e in qualche caso interi testi di leggi (si pensi ad esempio alla famosa Lex Manciana). Questo aspetto ne fa certamente un testimone privilegiato che è impossibile ignorare, non fosse altro che per la sua funzione primaria, e cioè quella di comunicare, e quindi quella di fornire informazioni, dati e, in sintesi, di creare un'interazione immediata tra chi scrive e chi legge. Da quanto esposto risulta quindi non solo sbagliato ma anche un po' presuntuoso da parte nostra ritenere che solo la società contemporanea, quella digitale e del web, possa avere il monopolio dell'invenzione dell'idea stessa di comunicazione. Il testo epigrafico, che si compone di una parte scritta e di un supporto fisico su cui esso è inciso, può essere realizzato con diversi materiali e in diverse forme; è presente in maniera capillare in tutti gli spazi pubblici poiché in essi veniva esposto. L'epigrafe quindi, o, per usare il suo sinonimo più usato, l'iscrizione, veniva esposta per un periodo che si prevedeva piuttosto 1{i_ngo e in un'area facilmente accessibile o quantomeno facilmente visibile cosicché tutti potessero leggerne il contenuto. Questa sua funzione di comunicazione di contenuti rimane a tutt'oggi anche quando viene esposta nei nostri musei: normalmente gli allestimenti epigrafici tendono a essere organizzati per la visita del pubblico proprio in base a ciò che recano

inciso. Ma le similitudini finiscono qui. L'esposizione in antico ha un senso molto differente rispetto a quella dei nostri musei: non solo lo scopo è diverso ma soprattutto è diversa la capacità di lettura di uno degli attori fondamentali nel processo comunicativo: il lettore. Per il lettore moderno la difficoltà più importante è certamente rappresentata dalla conoscenza o meno del latino, ma va rilevato come anche per chi ha il piacere di conoscere almeno in maniera elementare questa lingua la lettura non sia facile . Ciò deriva dal fatto che le nostre iscrizioni sono scritte con un codice lingua tutto particolare, composto, tra le altre cose, da formule ripetitive e abbreviazioni che noi, per poter capire, dobbiamo necessariamente apprendere studiandole. Per fare un esempio è come se noi pretendessimo di voler leggere un SMS o un messaggio inviatoci tramite un noto programma di messaggistica istantanea senza conoscere la lingua in cui è scritto e soprattutto se non conoscessimo il gergo, le espressioni particolari e le abbreviazioni in cui è scritto. Il lavoro dell'epigrafista è quindi quello di studiare questa forma particolare di lingua così da capire il significato delle formule e delle abbreviazioni; non solo: di rendere leggibile il testo anche a chi non sa di epigrafia e di proporre un commento di tipo storico. Se volessimo usare l'espressione veramente adeguata a questa pratica dovremmo dire "curare l'edizione di un testo epigrafico". Vengono però usate altre definizioni abbastanza curiose per descrivere il lavoro dell'epigrafista soprattutto nel momento in cui trascrive il testo usando segni particolari come, ad esempio, le parentesi tonde a indicare le parti mancanti del testo relative alle abbreviazioni o quadrate per le lacune dovute al cattivo stato della pietra. In gergo si dice "sciogliere" un'epigrafe proprio quando si fa riferimento al momento della comprensione e della trascrizione delle

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abbreviazioni; ed è chiaro perché si usi questo termine, poiché una volta "sciolto" il testo è leggibile da tutti. In antico non si aveva bisogno di un'epigrafista per capire le iscrizioni esposte, così come noi non abbiamo bisogno di un letterato per leggere e comprendere i grandi manifesti pubblicitari che tappezzano le nostre città. Riusciamo infatti agevolmente a leggerli e soprattutto riusciamo a farlo in pochi istanti perché sappiamo come essi vengono composti e quali saranno i contenuti. Nella pubblicità di un supermercato sappiamo già di trovare l'indicazione della sede e l'offerta di un prezzo vantaggioso; in un cartellone recante l'indicazione di un concerto cerchiamo il nome dell'artista, l'orario e il luogo del concerto. Non leggiamo, cioè, tutto ma selezioniamo già a priori i contenuti. Ciò avveniva anche in antico con le iscrizioni. Il cittadino romano, anche quello con bassa alfabetizzazione e abitante delle località più remote dell'Impero, riusciva con la stessa dinamica a leggere "la scrittura esposta" ( = le epigrafi) e quindi a sapere chi fosse ad esempio l'imperatore in carica - che nella quasi totalità dei casi non aveva mai visto -, il nome del proprio governatore provinciale. Oppure, per fare un caso di utilizzo più immediato, leggere su un cippo miliario la distanza percorsa fino a quel punto a partire da uno dei terminali su una strada consolare. Allo stesso modo gli studiosi, analizzando i testi epigrafici, "sciogliendoli" e soprattutto interpretandoli in chiave storica riescono a disegnare scenari relativi al mondo antico. In questo volume, ad esempio, quando si parla di amministrazione, di popolazione o di spazi pubblici, si può essere sicuri che gli autori abbiano utilizzato a piene mani le fonti epigrafiche. Queste analisi e queste ricostruzioni, molto complesse, sono quindi possibili principalmente grazie alle epigrafi che in origine, e cioè al tempo dei Romani, rappresentavano però non uno strumento creato per chi in futuro avrebbe scritto di storia ma, come si è visto, solo il modo più pratico per fare saper alla gente comune e quindi al grande pubblico tutta una serie di informazioni. Arrivati a questo punto si potrebbe pensare che il processo di comunicazione epigrafica fosse appannaggio esclusivo solo di alcune parti della società romana, quelle più alte, e cioè di coloro

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che esprimevano magistrati, militari di alto rango o prestigiosi sacerdoti. Non è così: non c'è nulla di più sbagliato che pensare che la produzione delle epigrafi servisse solo allo stato o alle classi più elevate per comunicare una propria immagine ufficiale, per esaltare sé stessi e la propria famiglia. Nell'epigrafia più "semplice", e cioè quella funeraria, troviamo infatti sia il grande manufatto officinale con un testo poetico, importante e costoso, collegato a gesta vere o presunte attribuite a una grande famiglia, sia l'epigrafe semplice, poco costosa, di qualche riga e nella maggioranza dei casi autoprodotta o realizzata da maestranze non specializzate, che ricorda un umile schiavo. In entrambi i casi i dati sono importanti: ci fanno infatti conoscere in maniera veramente approfondita e in dettaglio le componenti della società romana e le loro differenziazioni. Si può dire che proprio grazie ai testi della gente comune conosciamo un mondo, quello delle fasce sociali più basse, che altrimenti andrebbe perduto. In definitiva l'epigrafia fornisce un ampliamento di visuale sul mondo antico rispetto alle fonti letterarie e alla cultura materiale, propria dell'archeologia, che potremmo paragonare, per usare una similitudine con il mondo moderno e le sue tecnologie avanzate, con la "realtà aumentata", quasi essa fosse un senso in più fornito agli storici e agli archeologi nei propri studi. Una volta compreso il linguaggio comunicativo degli antichi e il perché gli epigrafisti nello "sciogliere" le iscrizioni usano dei segni convenzionali per fare capire al lettore cosa c'è sulla pietra e ciò che il lapicida (colui che ha inciso la lastra) ha voluto omettere, scatta anche in noi moderni la stessa empatia che caratterizzava il lettore antico in rapporto al testo. Il lettore a questo punto riesce a capire in buona parte dei casi il senso più profondo di un testo epigrafico. Facciamo un esempio citando le iscrizioni del celeberrimum ('famosissimo', così lo definì l'umanista cagliaritano del Seicento Roderigo Hunno y Baeza) ipogeo noto come Grotta della Vipera a Cagliari, cronologicamente collocato a fine I-II secolo d.C. (figg. 305-306, 343-344) Si tratta di un monumento funerario caratterizzato da ben 16 testi epigrafici incisi sulla roccia, 9 in latino e 7 in greco: come ci dice il contenuto stesso delle iscrizioni, il ricordo della matrona romana Atilia Pomptilla

venne fissato sulla pietra così da renderlo immortale. Con questo scopo vengono esaltate tra le virtù di Pomptilla (nel testo Urbis alumna, 'figlia di Roma') quelle che erano ritenute essere le principali per una donna romana: l'amore e la dedizione per il proprio marito L. Cassio Filippo. Questi testi presentano sia in latino che in greco il consueto linguaggio epigrafico e, a partire dalla iscrizione più esterna a quella più interna, hanno come focus proprio la storia della domina Pomptilla, il suo eroismo nel voler morire offrendo la sua vita agli dei in cambio di quella del marito e il fatto che per questa azione fosse degna di essere ricordata al pari delle più grandi eroine della storia e del mito. Il testo con questa descrizione propone un primo piano di lettura come quello più immediato, che possiamo pensare fosse diretto a tutti perché più facile da comprendere. Ne esiste però un secondo che cela un accoramento e una profonda amarezza, diretto forse a coloro che Pomptilla e il marito ritenevano essere loro "pari rango" e cioè le famiglie dell'aristocrazia cagliaritana e quelle ancora residenti in quella Roma che Filippo aveva dovuto abbandonare suo malgrado perché "trasferito in Sardegna". Il monumento, una tomba in forma di tempio che doveva essere vista da lontano a gloria di una famiglia che riteneva di essere più importante di altre, forse fu l'esito di un committente ('colui che ordina il lavoro')

più interessato alla propria "tragedia" personale di "esule" che non ad altro. Il nostro Filippo fa infatti dire alla moglie, nei testi incisi sulla roccia, che seguì la sorte (letteralmente nel testo epigrafico «il destino crudele») del marito facente parte di una grande famiglia dell' Urbs e "relegato" ingiustamente in Sardinia. È forse questo in realtà il vero atto di eroismo della donna e cioè aver seguito lo sposo nel suo destino crudele? Carales andava stretta, possiamo pensare, a entrambi i coniugi, ma soprattutto a Filippo: per il marito di Pomptilla era un luogo evidentemente ritenuto poco adeguato per un esponente, quale lui era, di una famiglia ricca, potente e ambiziosa. Ecco il perché dell'uso del greco, in alcune iscrizioni, in una provincia latinofona (pochissimi avrebbero potuto leggere il testo), quasi a rimarcare la profonda differenza culturale tra chi arrivava dalla grande città in cui le famiglie aristocratiche conoscevano e parlavano il greco e chi aveva invece vissuto sempre in provincia. Una lettura quest'ultima forse non molto romantica, ma che sembra svelare come nelle iscrizioni lo stesso messaggio possa raggiungere diversi obiettivi: la differenza di significato in un testo epigrafico la fanno non solo le mani di chi scrive ma anche (e soprattutto) gli occhi di chi legge. In questo consiste la sua ricchezza.

Nota bibliografica Z UCCA

1992; DONATI 2002.

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L'epigrafia delle aree interne Claudio Farre

La geografia epigrafica rappresenta indubbiamente uno degli elementi più stimolanti dell'articolato e controverso dibattito storiografico sulla romanizzazione della Sardegna interna, una regione considerata, a torto o a ragione, periferica e marginale rispetto al centro di potere di Roma e talvolta ritenuta in netta contrapposizione con le aree costiere e pianeggianti dell'Isola, dove le tracce della presenza romana e della cultura latina risultano maggiormente concrete, secondo un modello dicotomico verso il quale la critica più recente mostra sempre più riserve. L'analisi delle testimonianze epigrafiche provenienti da una determinata area geografica può mostrarsi particolarmente preziosa per decifrare la storia e l'organizzazione del territorio, le dinamiche di popolamento, l'assetto sociale ed economico, offrendo un contributo importante anche allo studio delle diverse specificità, per esempio il grado di alfabetizzazione e più in generale le modalità di diffusione dei modelli culturali esterni: tale approccio metodologico è ancora più necessario in contesti come la Sardegna interna, dove resta 293. Lastra, I sec. d.C., marmo, lungh. 44 cm, proveniente da Fordongianus, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Omaggio all'imperatore Tiberio (oppure Augusto) da parte delle civitates Barbariae (comunità non urbanizzate della Barbaria) : la dedica, inscritta sulla lastra marmorea frammentaria rinvenuta nell'area termale delle Aquae Ypsitanae , testimonia la pacificazione delle popolazioni interne dopo un periodo di instabilità iniziato nel 6 d.C. e localizza indirettamente le civitates (sottoposte all'autorità di un praefectus) a ridosso dell'odierno centro di Fordongia nus.

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complicata la ricostruzione del tessuto socioculturale sulla base delle informazioni deducibili dalle sole fonti letterarie e archeologiche, spesso scarne e superficiali. All'interno di un paesaggio epigrafico già numericamente modesto come quello sardo, la regione corrispondente grossomodo alla Barbaria ha restituito un lotto ancora più esiguo di iscrizioni latine: le cause sono state individuate non soltanto nei differenti indirizzi e livelli di sistematicità della ricerca archeologica e nell'occasionalità dei ritrovamenti, ma soprattutto nel carattere prettamente urbano del fenomeno epigrafico, dunque sostanzialmente proprio delle principali città dell'Isola, perlopiù concentrate lungo le coste e al contrario rare se non del tutto assenti nella regione interna, caratterizzata da una modesta antropizzazione limitata ad agglomerati rurali (per esempio vici o le cosiddette small towns), modesti presidi militari e stazioni stradali. A fronte di un patrimonio epigrafico sardo stimato in circa 1600 documenti, a cui si aggiungono un migliaio di bolli e marchi

294. Iscrizione funeraria, I sec. d.C., granito, proveniente dall'altopiano di Bitti, Nuoro, Museo Archeologico Nazionale "G. Asproni". Ritrovata nei pressi di Bitti, a breve distanza dal centro di Caput Tyrsi, l'iscrizione è realizzata su un piccolo blocco di granito: l'epitaffio fu posto in ricordo del soldato Decumus, Cirneti filius, forse originario di Clunia, nella penisola iberica, o di Cinium, nell'isola di Maiorca, deceduto a 32 anni dopo aver prestato servizio per 15 anni nella coorte degli Aquitani , attiva tra Ardara, Luguido (Oschiri) e il margine settentrionale della Barbaria per tutta l'età giulio-claudia.

realizzati su oggetti della vita quotidiana (instrumentum inscriptum), le aree extraurbane dell'interno dell'Isola hanno restituito circa un centinaio di iscrizioni collocabili in un arco di tempo compreso tra il II secolo a.C. e il IV secolo d.C.: si tratta perlopiù di tituli funerari, come noto nettamente i più diffusi nel mondo romano, ma non mancano epigrafi sacre, monumentali e giuridiche. La distribuzione geografica dei rinvenimenti evidenzia una certa diversificazione anche all'interno di una regione così circoscritta, con una maggiore concentrazione soprattutto nella media valle del Tirso e più in generale nel settore centrooccidentale, lungo la principale arteria viaria tra Carales ( Cagliari) e Turris Libisonis (Porto Torres) e in prossimità di alcuni insediamenti di rilievo come Aquae Ypsitanae - Forum Traiani (Fordongianus), Valentia (Bidda Beccia, tra Nuragus, Nurallao e Isili) o Uselis (Usellus); al contrario, restano limitatissime le iscrizioni del settore centro-orientale e in particolare della regione gravitante intorno al massiccio del Gennargentu e ai rilievi limitrofi, corrispondente alle attuali Barbagie, all'Alto Nuorese e all'Ogliastra più interna, dove la modesta densità demografica di età

romana rappresenta un'indubbia costante nella storia del territorio. Nel complesso le testimonianze epigrafiche sono quasi tutte ascrivibili alla fase imperiale: le episodiche iscrizioni di età repubblicana sono state collegate ad alcuni eventi militari del 11-1 secolo a.C. e si limitano sostanzialmente a un ristretto numero di luoghi di culto rurali, come l'altare rupestre dedicato a Iuppiter sul Monte Onnarìu, presso Bidonì, o il non meglio precisato edificio eretto da un anonimo propretore nel sito di Santa Sofia, a Laconi, verosimilmente coevo di un ulteriore pretore menzionato in un frammento epigrafico proveniente da Valentia. A un contesto militare di epoca tardorepubblicana è stata recentemente ricondotta anche un'iscrizione triviale rinvenuta nel comprensorio comunale di Meana Sardo: pur non escludendo una cronologia lievemente successiva, il testo metrico, di tipo osceno e scherzoso, presuppone evidentemente una precoce romanizzazione della zona, anche in virtù dell'assenza totale nelle aree interne di epigrafi metriche, tipiche dell'epigrafia funeraria di ambito urbano. In età augustea la cosiddetta rivolta del 6 d.C. da parte delle popolazioni dell'interno, forse 295

~ i n sepitoalla ri9rganizzazione ~ sua:ssiva àlta deduzioneddla Colenia Mia Augusta Uselis, portò a una imniediata militarizzazione e all'impiego di corpi ausiliari arruolati almeno originariamente in altre province e spesso dotati di cavalleria, come quello dei Lusitani ad Austis, dei Liguri a Ruinas e degli Aquitani attestati tra l'altopiano di Bitti e il settore centro-settentrionale dell'Isola. Nella zona di Aquae Ypsitanae è possibile localizzare la sede · operativa di un praefectus I cohortis Corsorum et civitatum Barbariae: in questo caso il ricorso a un ufficiale militare per il ruolo di intermediario tra l'amministrazione romana e le comunità indigene costituiva un modus operandi ben documentato nella prima età imperiale, soprattutto in aree periferiche, poco urbanizzate o sottomesse stabilmente in tempi relativamente recenti, per esempio nelle province alpine o nel basso Danubio. L'intervento militare augusteo fu sostanzialmente risolutivo: lo confermano il successivo ridimensionamento dei reparti militari, forse sostituiti almeno in parte da quei 4000 liberti o figli di liberti, seguaci di culti egizi e giudaici, trasferiti in Sardegna nel 19 d.C. per la repressione del brigantaggio, ma soprattutto l'omaggio all'imperatore Tiberio (per altri forse allo stesso Augusto) da parte di tutte o alcune civitates della Barbaria, localizzabili implicitamente sulla base del luogo di rinvenimento della dedica (fig. 293), esposta nel centro termale di Aquae Ypsitanae, evidentemente prossimo al loro territorio che, in sostanza, finì per essere riconosciuto giuridicamente dalla stessa autorità imperiale. Tale quadro si inserisce in un più ampio riassetto territoriale suffragato da alcuni documenti epigrafici, non sempre databili con esattezza, ma che testimoniano una precisa delimitazione degli areali pertinenti alle singole comunità indigene: dalla Sardegna interna provengono ad esempio il cippo di confine dei Nurr(itani) o Nurr(enses) di Orotelli e, nell'agro di Fonni, quello opistografo dei Celes(itani) (noti anche in una seconda iscrizione) e dei Cusin (itani), a cui possiamo aggiungere il terminus rupestre dei Balari tra Monti e Berchidda ma soprattutto la celebre iscrizione degli Ili(enses), incisa in maniera del tutto inusuale nell'architrave del nuraghe Aidu 'entos, presso Mulargia (fig. 22). Ulteriori testimonianze epigrafiche ci illuminano sulle strategie di riorganizzazione

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e valorizzazione delle aree interne messe in atto dàll'autorità romana in età imperiale: alcuni sigilli bronzei, per esempio quelli di lunia Rufina di Neoneli o Claudia Galla di Fonni, suggeriscono l'esistenza di proprietà fondiarie e l'assegnazione di lotti di terra a privati, confermate inoltre da una dozzina di diplomi di congedo, databili tra l'inizio dell'età tlavia e la prima metà del III secolo d.C. (fig. 291); tali documenti, tutti rinvenuti nella Sardegna centro-orientale e in massima parte pertinenti a contesti rurali, costituiscono una prova tangibile del coinvolgimento dei veterani nell'occupazione di aree incolte e poco popolate. Paradigmatica per la mole imponente di informazioni contenute e per le implicazioni storiografiche e ideologiche che ne hanno caratterizzato lo studio è sicuramente l'importantissima Tavola di Esterzili (fig. 301), trascrizione di una sentenza datata 18 marzo 69 d.C. con la quale il proconsole L. Helvius Agrippa poneva fine a un lungo e controverso scontro giudiziario tra due gruppi etnici, condannando la popolazione indigena dei Galillenses a sgomberare definitivamente quei territori occupati per vim e assegnati agli immigrati Patulcenses, presumibilmente nella zona del Sarcidano. Da sempre considerata la testimonianza emblematica di nette e semplicistiche contrapposizioni stereotipate tra mondi diversi (Romania e Barbaria, pianura e montagna, agricoltura e pastorizia, coloni immigrati e ribelli autoctoni), l'evoluzione della disputa, che riprende provvedimenti precedenti ricollegandosi addirittura alla pianificazione territoriale di M. Caecilius Metellus (proconsole nel 114-111 a.C. ), offre preziosi spunti di riflessione sulle dinamiche di acculturazione delle popolazioni locali: per far valere le proprie ragioni i contendenti indigeni, evidentemente lontani dai popoli bellicosi di età repubblicana, dovettero ricorrere al diritto e dimostrarono una certa capacità nel districarsi agilmente nella prassi giudiziaria romana, ottenendo più proroghe per produrre prove negli archivi provinciali e della capitale dell'Impero. Il processo di latinizzazione e più in generale di accettazione culturale di nuovi modelli trova conferma nelle iscrizioni funerarie, da ricondurre a officinae lapidarie locali al servizio di una committenza indigena in grado di recepire gli influssi culturali extrainsulari, rielaborandoli in modo consapevole senza per questo trascurare la propria tradizione.

A semplici supporti standardizzati come lastre e soprattutto stele, spesso di modesta qualità, si affiancano produzioni particolari dove elementi iconografici peculiari del sostrato preromano si intrecciano con il linguaggio formale tipicamente romano-italico: è il caso di stele e betili tendenzialmente antropomorfi e in alcuni casi anepigrafi dove un'esecuzione sommaria, spesso di fattura "rozza': si abbina all'utilizzo della lingua latina e alla volontà, da parte del committente, di ricordare il defunto con un'immagine solitamente stilizzata e tracciata con scarsa perizia tecnica (fig. 358). I pochi testi noti si limitano quasi sempre al nome del defunto, talvolta accompagnato dal dato biometrico e ancora più raramente dall'indicazione del dedicante. Nei contesti rurali dell'Alto Oristanese e del Barigadu l'intento di caratterizzazione fisionomica si manifesta, occasionalmente e in forme ancora più schematiche, in alcune produzioni poco note o addirittura prive di riscontri nel resto della provincia, come i cippi "a capanna", così chiamati perché riproducono più o meno schematicamente una struttura abitativa con tetto displuviato e che mostrano forti assonanze con tipologie celtiberiche, oppure i cippi "a bauletto", forme arcaiche di quei supporti monolitici a sommità centinata noti con la denominazione di cupa e che in Sardegna riproducono spesso la vera e propria botte vinaria (fig. 334). Il richiamo alla tradizione preromana trova conferma negli antroponimi dei defunti e dei loro congiunti, spesso encorici ma sempre inseriti all'interno di un sistema onomastico propriamente latino: si tratta perlopiù di nomi unici e patronimici concentrati in un areale abbastanza circoscritto (per esempio Caritus, Nercau, Urseti, Torbenius, Turus, solo per citare quelli attestati più di una volta) ma non mancano portatori di tria nomina, come Q. Volusius Nercau e L. Valerius Torbenius. L'adesione al nuovo modello culturale si manifesta nella volontà, da parte di peregrini (persone ancora sprovviste di cittadinanza), di assegnare ai propri figli nomi latini molto comuni, quasi per dimostrarne una connotazione romana congenita, come nel caso di un Valerius, figlio di Caritus, o di Sabinus e Saturninus, figli del soldato sardo Hannibal, congedato nel 102 d.C.: in quest'ultimo caso la scelta di allontanarsi da un'antroponimia indigena non riguardò le figlie Tisare, Bolgitta e Bonassonis ma solo

i figli maschi~ quasi presentati come Romani di antica data, evidentemente per facilitarne J>ingresso nella società. Con il procedere della romanizzazione si assiste alla progressiva scomparsa degli elementi onomastici protosardi e al diffondersi di modelli culturali "egemoni" ampiamente noti in tutto il mondo romano, riguardanti la tipologia dei supporti funerari (per esempio le cupae o i cippi-altari in luogo dei precedenti e più schematici segnacoli) o il repertorio decorativo (per esempio il simbolo dell'ascia); allo stesso tempo i testi delle iscrizioni testimoniano una padronanza meno superficiale della lingua latina. Ugualmente interessanti sono le implicazioni storiche e culturali desumibili dalle iscrizioni sacre delle aree interne, offerte a divinità tipiche del pantheon romano-italico (Giove, Esculapio, Ercole, Diana, Silvano, Ninfe) da militari, liberti e talvolta governatori provinciali. L'assenza di elementi esplicitamente autoctoni tra i dedicanti o tra i teonimi e gli epiteti divini non implica necessariamente la scomparsa totale di culti di matrice encorica nella Sardegna interna, anche in considerazione del frequente reimpiego votivo di alcune strutture cultuali protostoriche, evidentemente ancora percepite come tali, o della testimonianza, ancora all'inizio del III secolo d.C., del fanum Carisi, localizzabile tra Irgoli e Orosei e dedicato a una divinità indigena non meglio precisabile. Le testimonianze epigrafiche, archeologiche e topografiche suggeriscono tangibili fenomeni sincretici, come nel caso esemplare dell'area termale di Aquae Ypsitanae, dove a partire dalla fine dell'età repubblicana il culto delle divinità salutifere (le Ninfe e il dio della medicina Esculapio) si sovrappose plausibilmente a quelli delle acque di tradizione indigena e di Bes-Eshmun di età punica, qui attestato da due statuine in trachite: a una divinità idrica femminile fu peraltro associata la dea Ataecina di Turobriga, proveniente dalla penisola iberica e verosimilmente veicolata dai Lusitani di stanza ad Austis. Dal territorio di Fonni, nel cuore della Barbagia, proviene una dedica a Diana e Silvano, divinità protettrici del bosco sacro di Sorabile (nemus Sorabense), posta in età traianea dal procurator Augusti e praefectus provinciae Sardiniae C. Ulpius Severus: resta incerta l'interpretazione della natura del culto, ipoteticamente collegabile a una presenza 297

militare-in uno degli a v ~ più interni dell'hola lungo la via per meditemmea che collegava Carales a Olbia, né può escludersi un santuario sovrappostosi sincretisticamente a una presenza cultuale preesistente, comunqùe di un certo rilievo, come sembrano suggerire la denominazione del nemus e la dedica a opera del governatore provinciale. Nel complesso, la disamina della produzione epigrafica, pur con i limiti connessi a questo tipo di documentazione, può fornire un contributo significativo allo studio delle dinamiche di romanizzazione di una regione circoscritta e omogenea come la Sardegna centrale, integrando un quadro esegetico inevitabilmente influenzato dalla parzialità delle informazioni archeologiche, letterarie e topografiche. Attraverso le iscrizioni latine è possibile decifrare le modalità con cui le aree interne ed extraurbane dell'Isola entrarono sotto il controllo di Roma, le strategie di organizzazione territoriale, economica e demografica messe in campo dall'autorità romana in età repubblicana e alto-imperiale, le dinamiche di integrazione della popolazione locale e il ruolo determinante di diverse categorie sociali come militari, veterani, coloni, schiavi, membri dell'apparato amministrativo: emerge una società provinciale composita e dinamica sul piano culturale, con Sardi tutt'altro che riluttanti o "resistenti" alla cultura romana e latina ma che anzi ne assimilarono abbastanza precocemente ideologie, usi e modelli culturali, lingua e religione, pur senza celare la propria tradizione. Del tutto episodiche sono infine le iscrizioni cronologicamente inquadrabili al basso-impero: alla prima metà del IV secolo d.C. è riconducibile ad esempio una piccola targa in bronzo rinvenuta nel Dorgalese, menzionante un praefectus vigilum e che conferma una presenza strutturale dei Vigili (fig. 292),

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recenti acquisizioni archeologiche, come quelle di Sant'Efis di Orune, dove il rinvenimento di un bicchiere di vetro inciso con rappresentazione di Cristo tra gli apostoli (fig. 273), ascrivibile a una produzione importata dall'Urbe, testimonia l'esistenza di un'élite cristiana (e forse anche ecclesiastica) in piena Barbaria almeno nella prima metà del V secolo d.C.

Nota bibliografica Sulle civitates Barbariae e sulla dicotomia BarbariaRomania, con differenti opinioni: ZUCCA 1988; MASTINO 1993a, pp. 463-470, 487; STIGLITZ 2004; MASTINO 2005c, pp. 168-172, 306-315; GUIDO 2006; MAYER Y 0LIVÉ 2009a; STIGLITZ 2010; MELONI 2012, pp. 108-109, 115-120, 191-199; TRUDU 2012a; IBBA 2015; PARRE 2016a; TRUDU 2016c. Sull'organizzazione militare: ZUCCA 1988; MASTINO 2005c, pp. 393-404; IBBA 2014a; MASTINO, ZUCCA 2014b; aggiornamenti in CORDA, IBBA 2018. Sull'epigrafia delle aree interne: MASTINO 1993a; RUGGERI 2003; STIGLITZ 2010; ANGIOLILLO 2012; MASTINO, ZUCCA 2012a, pp. 423-428; ZUCCA 2013, pp. 237-238, 258-262; PARRE 2018; MASTINO, ZUCCA 2018; un catalogo epigrafico completo in PARRE 2016b; per la Tavola di Esterzili si vedano: MASTINO 1993b; ST!GLITZ 2004, pp. 811-815; IBBA, MASTrNO 2012, pp. 91-92, 98-99; PARRE 2016b, pp. 85-89; sul contesto di rinvenimento cfr. ora CANU 2016, pp. 286-289. Per le attestazioni cultuali nelle aree interne: TRUDU 2012c; IBBA 2015, pp. 51-52; PARRE 2016a, p. 99; PARRE 2016b, pp. 11-12. Sull'insediamento tardo-antico di Sant'Efis di Orune e sulle dinamiche di cristianizzazione delle aree interne: DELUSSU 2009a; NIEDDU 2012.

Le scritture antiche: la gente comune Piergiorgio Roris

Con l'espressione "gente comune" si fa riferimento alla quasi totalità della popolazione romana residente in città grandi, medie e piccole ma soprattutto nelle aree rurali dell'Italia e delle province. Le fonti, nell'insieme non trascurabili per quantità ma qualitativamente disuguali, non permettono la ricostruzione esaustiva dei diversi aspetti che riguardano queste persone. I problemi della documentazione sono più acuti per la Sardegna, ove mancano tipologie fondamentali di fonti come i papiri, mentre le opere letterarie non sono prodighe di notizie. Importanti dati vengono invece dalle fonti archeologiche, su cui non ci soffermeremo nel presente lavoro, incentrato sugli elementi desumibili dalle epigrafi. Quello della gente comune era un mondo di famiglie composte da padri, madri e figli da crescere, educare e istruire, di matrimoni ed eventi familiari, di lavoro e fatica necessari per affrontare spese come quelle dell'alloggio, del vestiario e soprattutto del cibo, di tempo libero fatto di giochi praticati da bambini e adulti, di terme da frequentare, di spettacoli cui assistere nei teatri, nei circhi, negli anfiteatri, di culti, festività religiose e magia, di salute e malattia, di passioni, di funerali e morte. Di alcuni di questi aspetti si trova traccia nelle iscrizioni della Sardegna romana. Ci concentreremo in primo luogo sulle epigrafi funerarie, uno strumento prezioso per indagare la vita e la mentalità della gente comune a cominciare da temi legati alla morte e al ricordo delle persone scomparse. Dalla fine dell'età repubblicana i testi degli epitafi iniziarono ad arricchirsi di particolari sul defunto e su altre persone a lui legate, mentre prima erano tanto stringati che spesso il loro contenuto coincideva con il nome dell'estinto come per Pu(blios) Caios, il cui epitafio fu graffito sul collo di una brocca adoperata come cinerario rinvenuta presso Riola Sardo. Per il personaggio, però, più che a una persona comune si è pensato a un soldato morto durante la rivolta di Hampsicora. Nella cultura romana mancava la prospettiva di una vita dopo la morte che fosse migliore o paragonabile a quella terrena; la menzione del proprio nome nell'epigrafe funeraria consentiva dunque anche alle persone comuni di lasciare

una più o meno durevole memoria di sé. Tale aspirazione fu forse uno dei motivi della grande diffusione in tutto l'Impero romano di questi oggetti iscritti, di cui conosciamo oggi alcune centinaia di migliaia di esemplari. La Sardegna, comprese le aree interne non avvezze a consuetudini scrittorie, non rimase estranea al fenomeno. I? accesso alla memoria non era però alla portata di tutti. Ignoriamo quanto costasse in Sardegna la realizzazione di una pur modesta tomba provvista di epigrafe; in alcuni centri della penisola italica e del Nord Africa l'importo variava da qualche decina ad alcune centinaia di sesterzi. La maggioranza degli epitafi noti riguarda esponenti delle fasce sociali medie o medio-basse, a dimostrazione che tra le persone comuni vi era chi poteva permettersi certe spese. Tuttavia, per quanto i numeri delle epigrafi funerarie note siano rilevanti, rimangono comunque bassi rispetto ai milioni di persone vissute nell'Impero durante l'età romana. I più poveri dovevano quindi forse accontentarsi di tombe senza nome, per quanto sia plausibile che talora i costi delle epigrafi fossero abbattuti ricorrendo a testi eseguiti su materiali deperibili e con tecniche scrittorie poco durature come la pittura. Spesso nelle iscrizioni funerarie erano menzionati anche i dedicanti, persone che, apprestando la sepoltura e ciò che le era connesso, ottemperavano agli obblighi verso il defunto. Le motivazioni dei dedicanti erano probabilmente varie ed erano forse influenzate da sentimenti come l'affetto, la pietas e il senso del dovere verso l'estinto senza escludere l'interesse per l'eredità. Non di rado le epigrafi enunciano la relazione esistente tra dedicante e defunto e permettono agli studiosi di ricavare dati sulle famiglie della gente comune. Di solito ci si deve accontentare di epitafi isolati, ma in casi fortunati come quello dei Sutorii di Carales si dispone di più iscrizioni su persone della stessa famiglia che consentono una conoscenza più approfondita. Lo stesso avviene per quelle cupae, un tipo di segnacolo funerario diffuso a Carales e nella parte occidentale dell'Isola, in cui sono incisi più epitafi di norma relativi a persone legate da qualche vincolo (fig. 334). Come nel resto del mondo romano, anche in

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Sardegna gli obblighi della commemorazione rimanevano per lo più all'interno della famiglia nucleare; i dedicanti, erano quindi di solito genitori, coniugi, figli, figlie, fratelli o sorelle del defunto. Altri tipi di relazioni, familiari (nonni, zii, nipoti, suoceri ecc.) o extra familiari (schiavi, padroni, patroni, liberti, amici ecc.), erano più rari e presumibilmente vi si faceva ricorso quando i congiunti della famiglia nucleare non erano disponibili. Le epigrafi funerarie forniscono inoltre dati soi matrimoni. Si ritiene che per legge i cittadini romani potessero sposarsi dai 14 anni, se uomini, e dai 12 anni, se donne. Dai testi pare però evincersi una realtà diversa. Epitafi come quello caralitano di Flavia Pomponia, morta a 45 anni dopo 20 di matrimonio, sono rari e non sono utilizzabili per trarne considerazioni di portata generale. Utili elementi sembrano però derivare dall'applicazione ai dati sardi della metodologia elaborata dagli studiosi anglosassoni Brent D. Shaw e Richard P. Saller, fondata sulla valutazione dell'età dei defunti allorché tra i dedicanti i coniugi soppiantavano i genitori. Emergono infatti per l'Isola risultati simili a quelli di altre aree dell'Occidente romano: la maggior parte delle donne commemorate risulta sposata a cavallo dei vent'anni, mentre per gli uomini l'età si sposta in avanti di cinque/dieci anni. Nel mondo romano vi era un altissimo tasso di mortalità e secondo alcune ipotesi almeno un coniuge su quattro moriva a dieci anni dalle nozze. Gli epitafi sardi dedicati a mariti e mogli sono infatti numerosi e molti contengono espressioni elogiative rivolte al consorte defunto; sebbene il marito ponga la dedica alla moglie morta con i suoceri, merita una citazione l'epigrafe di Iulia Marcianes di Gergei, in cui ella è definita «incomparabile per bellezza rispetto a tutte [le altre], amabile [e] che ingiustamente troppo presto morì». Tante morti determinavano una forte tendenza a nuovi matrimoni, soprattutto tra gli uomini. Nell'iscrizione sovrastante l'ingresso di un monumentale sepolcro familiare di Cagliari C. Rubellius Clytius ricorda le carissime mogli Marcia Hellas e Cassia Sulpicia Crassilla (figg. 305-306). Poiché la bigamia non era ammessa dalla legge, è plausibile che Rubellio si fosse risposato dopo la morte della prima moglie. Fu invece diverso il contegno della norense Elia Cara Marcellina che, rimasta vedova, si mantenne in tale stato per quasi dieci anni fino alla morte, avvenuta a 60 anni.

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Il rilievo di Marcellina sta però anche nella definizione sibi suffide(n)s rivoltale dalla dedicante, che permette di considerarla un esempio dell'autonomia finanziaria cui potevano aspirare alcune donne nella Sardinia della media età imperiale. Tra le principali finalità del matrimonio vi era la generazione di figli. Le fonti non dicono quanti bambini in media fossero partoriti dalle donne romane. Secondo Bruce Frier, però, ammettendo un quadro di modesta crescita demografica, ogni donna avrebbe dovuto dare alla luce almeno 5 o 6 figli. Tante nascite erano necessarie per l'elevatissima mortalità infantile. Eppure, le iscrizioni funerarie di bambini morti prima dei dieci anni sono poche in proporzione ai numeri attesi: in Sardegna sono appena una cinquantina su circa 380 casi valutabili di tutte le età e solo una riguarda un bimbo morto anteriormente al primo compleanno: Lucius Aemilius Pacatus di Tharros, morto a 9 mesi e 21 giorni. In proporzione ai bambini e al loro peso demografico stimato gli anziani sono meglio rappresentati. Conosciamo infatti più di 35 ultrasettantenni e ben 5 tra centenari e ultracentenari a partire dal primatista di longevità [T]arcisius, figlio di Tarinci, che sarebbe morto a 115 anni. La scarsa produzione di epigrafi funerarie per bambini non è quindi da imputare a fattori demografici né allo scarso amore dei genitori per i figli, come dimostrano i testi in cui i giovani defunti sono detti ad esempio innocentes, dulcissimi, carissimi. Le ragioni del fenomeno sono piuttosto da imputare a scelte culturali ed economiche. L'amore si manifesta anche nelle parole dei figli che commemorano i genitori e perfino in quelle di persone non imparentate, come i liberti di Atilia Pomptilla che in un'iscrizione della Grotta delle Vipere di Cagliari definiscono la donna e il marito mamma e tata. Eppure, non tutti i neonati erano cresciuti dalle loro famiglie. L'infanticidio era praticato sui figli nati malformati e non era raro l'abbandono dei neonati indesiderati. Se questi ultimi fossero stati salvati e allevati da qualcuno, sarebbero però entrati nell'ampia categoria degli alumni comprendente orfani, trovatelli, piccoli schiavi, di cui sono noti diversi esempi sardi come Irena di Turris Libisonis, che morì a soli tre anni. Le epigrafi isolane tacciono sui giochi dei bambini. I termini magister e discentes usati in un epitafio di Carales potrebbero invece rinviare all'ambito scolastico ma anche a settori professionali. Nei testi sono registrati

alcuni mestieri che sembrano confermare la povertà del quadro economico sardo; tra essi si trovano contadini come il colonus Marcellus di Siddi e forse minatori come Silvanus, anche lui detto colonus in un'iscrizione di Grugua presso Buggerru. Secondo un'ipotesi, invece, il soprannome Pisciculus del caralitano Marcus Antonius Saturninus indicherebbe un mestiere connesso con la pesca, mentre sempre a Carales il mercante (negotians) non sardo Lucius Iulius Ponticlus per alcuni avrebbe operato nel commercio del sale. Quanto alle attività ricreative, il cognomen Caterbarius di un fanciullo caralitano rimanda forse a un tipo di pugilato di cui parlano le fonti (Suet. Aug. 45; CIL IV, 323), mentre la passione per le corse equestri del circo emerge dalle figure e dal testo di una tazza vitrea olbiense della tarda età giulio-claudia. Alcune brevi iscrizioni incise sui gradini dell'anfiteatro di Carales per segnalare la proprietà dei posti evocano la partecipazione del pubblico agli spettacoli che vi si tenevano. Citeremo solo di passaggio il famoso cantante sardo Tigellio attivo a Roma in età tardo-repubblicana; nell'Isola si svolse invece almeno in parte l'attività artistica di Apollonios, noto da un epitafio greco di Turris Libisonis del II secolo d.C. Il musicista, definito periodonìkes, cioè vincitore nelle gare panelleniche di Olimpia, Delfi, Nemea e Corinto, accompagnava il coro con la lira forse in occasione di spettacoli teatrali. A rappresentazioni simili rimanda probabilmente anche una tessera bronzea iscritta raffigurante Sileno ugualmente rinvenuta nella colonia turritana, mentre alcune tessere ossee caralitane contrassegnate con vocaboli e cifre potrebbero appartenere a un gioco. Sono rare le testimonianze sarde di graffiti, che allora come ora erano tracciati su pareti murarie per comunicare con immediatezza, spontaneità e talora indubbia efficacia gli umori e le intenzioni del momento dei loro autori nei più diversi ambiti, dall'amore all'insulto alla passione sportiva. Alcuni di diversa natura in latino e greco, tra cui uno a tema osceno recentemente edito, sono eseguiti a carboncino nei vani dell'ipogeo di San Salvatore di Cabras, forse sede di un'associazione (sodalitas). Di altri due, realizzati nelle pareti di un ambulacro del praetorium di Muru de Bangius presso Marrubiu, il primo pare richiamare l'amore per il bere, mentre il secondo sembra di contenuto triviale. Benché non sia un graffito,

a proposito di testi osceni si deve segnalare la beffarda epigrafe di Meana, forse pertinente a un contesto militare tardo-repubblicano. L'iscrizione, incisa sotto due falli contrapposti a rilievo, seguendo l'ancor oggi noto meccanismo del valeat qui legerit, spinge il lettore ad assumersi il ruolo di terw fallo. Le epigrafi sarde dimostrano infine che la gente comune non era esente dall'odio. Le circa dieci tabellae defixionis (figg. 391-392) trovate in diverse località dell'Isola, tra cui quelle iscritte plumbee di Orosei, Nulvi, Olbia, forse quella ossea di Sulci e l' òstrakon da Neapolis, prendevano infatti di mira persone ritenute nemiche, ponendole in balia di divinità infere con lo scopo di sottometterle o farle star male, causando loro sofferenze, infermità e persino la morte. I testi, infarciti di termini oscuri e formule di invocazione, erano realizzati da fattucchiere o maghi, di cui sappiamo poco, per conto di persone che si rivolgevano loro per i motivi più diversi che andavano dal fanatismo sportivo a liti giudiziarie, all'ostilità per cause amorose o economiche.

Nota bibliografica Per una rapida sintesi con bibliografia di alcuni aspetti della vita quotidiana della gente comune nell'antica Roma: BRUUN 2014, pp. 478-484. Per la Sardegna si vedano le pagine dedicate ai temi socioeconomici e ai centri urbani in MELONI 2012; per ricchi e poveri: MASTINO 2005a, pp. 189-193. Sul mondo funerario dei Romani: PAOLETTI 1992; CHIOFFI 2014. Sul tema della memoria: LAVAGNE 1987; FLORIS 2005b, pp. 437-438. Aspetti economici delle sepolture: DuNCAN-JONES 1982, pp. 99-101, 161-171. Sull'epigrafe di Pu(blios) Caios: MASTINO, ZUCCA 2011, pp. 441-443. Sulle iscrizioni funerarie di Carales: FLORIS 2005a. Sulla famiglia nell'antica Roma vd. da ultimo RAwsoN 2011; EDMONSON 2014. Sulle cupae della Sardegna: PARRE 2018; FLORIS 2018; MASTINO, ZUCCA2018. Sul matrimonio nell'antica Roma: RAwsoN 1991; TREGGIARI 1991. Studi generali sulla demografia romana: FRIER 2000; SCHEIDEL 2001. Su epigrafi ed età nuziale: SALLER 1987; SHAW 1987. Per la Sardegna: FLORIS 2019a. Su Elia Cara Marcellina: RuGGERI 2008. Sui bambini vd. da ultimo LAES 2011. Per la Sardegna: RUGGERI 201 7. Sugli alumni: NIELSEN 1987. Per la Sardegna: MASTINO 197677. Sugli anziani: PARKIN 2003. Per la Sardegna: FLORIS, DORE, PEs 2021. Per l'economia della Sardegna romana: MELONI 2012, pp. 97-104, 120-132, 143-152; MASTINO 2005a, pp. 176-193. Su epigrafia e spettacoli vd. da ultimo CARTER, EDMONSON 2014. Per la Sardegna: ZUCCA 2003a. Sul cantante Tigellio: CAZZONA 2005. Sul musico Apollonios: MARGINESU 2002, pp. 1819-1 822. Sui graffiti della Sardinia: ZUCCA 2000. Sui testi osceni: MASTINO, ZUCCA 2016b; DI STEFANO MANZELLA, ET AL. 2018; MASTINO, ZUCCA 2020. Sulle tabellae defixionis iscritte e anepigrafi della Sardegna: MASTINO, LA FRAGOLA, PINNA 2021 .

301

la trilingue di San Nicolò Gerrei Antonio lbba

Nel febbraio 1861, a Santu Jacci, nelle campagne di San Nicolò Gerrei (allora Pauli Gerrei), il notaio Michele Cappai rinvenne fra le rovine di un piccolo edificio quadrangolare con annesso un pozzo sacro due frammenti non combacianti di bronzo (15 x 41 cm), verosimilmente la parte anteriore di una piccola base attica che in origine supportava una colonna forse decorata con foglie di alloro. Sul plinto erano incisi in sequenza tre testi in lettere capitali latine e greche e in corsive neopuniche: Testo latino: Cleone, schiavo dell'associazione

che ha in appalto l'estrazione del sale ha fatto di buon grado un dono a Esculapio Merre che lo ha meritato. Testo greco: Cleone, preposto alla gestione delle saline, ha eretto questo altare ad Asclepio Merre, come offerta votiva, per ordine (del dio). Testo punico: Al signore Eshmun Merre. Cippo (o basamento) di bronzo del peso di 100 cento libbre che offrì in voto (oppure che ha dedicato) Cleone, quello dei concessionari che (operano) nelle saline. (Il dio) ha ascoltato la sua voce (e) lo ha guarito. Nell'anno dei sufeti Himilkot e Abdeshmun, figli (o figlio ) di Himilkone. Si tratta dunque di un donario di bronzo di circa 33 chilogrammi, commissionato presumibilmente intorno alla metà del II secolo a.C. dallo schiavo Cleone per ringraziare la divinità della guarigione ottenuta. Pare invece meno convincente una cronologia intorno alla metà del I secolo a.C., fondata sostanzialmente su alcune particolarità linguistiche, sulla paleografia del testo punico e greco e sull'inusuale presenza di un dedicante di origine servile, che però non tiene conto né della frequenza di schiavi nelle iscrizioni in punico (a Cartagine e in Sardegna) e soprattutto in greco, né dei numerosi arcaismi presenti nel testo latino, né della paleografia del testo punico, né delle incertezze nella traduzione in punico di termini tecnicogiuridici latini (impensabili se il testo fosse più tardo ), né delle difficoltà di una bottega locale, abituata a scrivere in punico ma sicuramente meno pronta alla realizzazione 302

di testi in latino e greco e che forse non sempre riusciva a interpretare le richieste di Cleone. Pur riferendosi a un medesimo "miracolo': accanto a indiscutibili similitudini, i tre testi presentano differenze anche notevoli: l'iscrizione in punico è evidentemente quella più lunga e ricca di dettagli (le caratteristiche del dono, il peso scritto in cifre e in lettere, la datazione con i sufeti presumibilmente di Carales, il riferimento a un culto salutifero) ma è perlomeno ambiguo nel ricordare la condizione giuridica del dedicante, affidata non a un termine preciso come in latino (servus) ma a una perifrasi sl:z ('quello che è dei'), un uso che si ripete anche nel testo greco dove tuttavia è meglio comprensibile se lo confrontiamo con le abitudini di questo tipo di epigrafia. Testo latino e in particolare greco, pur in apparenza equivalenti, sembrano destinati infine agli spazi residuali sulla superficie scrittoria ma sono realizzati in maniera tale che il nome della divinità sia centrale nell'impaginato, con l'intento evidente di focalizzare l'attenzione del lettore sulla divinità che il donario deve onorare. Questa viene correttamente declinata nelle tre lingue come Eshmun - Asclepio Esculapio ma sempre accompagnato dall'epiclesi Merre, forse il nome paleosardo ("il giovane maschio") dell'entità che i Galillenses veneravano a San tu Jacci e che in età più recente verrà indentificata con San Giacomo (Jacci), anche lui un santo guaritore, forse un aggettivo di tradizione fenicia con significato di 'colui che guida' o 'colui che allevia', in relazione alle qualità taumaturgiche della divinità. Sembra quasi che il committente volesse parlare soprattutto ai sardo-punici, che evidentemente in maggioranza frequentavano il santuario, per commemorare di fronte a loro la grazia ricevuta e celebrare la sua conseguente generosità, ma nello stesso tempo non si potesse esimere dall'usare anche il latino, la lingua dei suoi padroni e dei funzionari che amministravano la provincia: forse non è un caso che questo sia il primo testo inciso sul plinto ma anche il più freddo, asettico e banale.

295. Base di altare con iscrizione trilingue in greco, latino e punico, Il sec. a.e., bronzo, proveniente dalla località Santu Jacci di San Nicolò Gerrei, Torino, Musei Reali - Museo di Antichità. Donario frammentario di bronzo dedicato a Esculapio dallo schiavo Cleone, responsabile delle saline.

Accanto a due atti ufficiali, quasi dovuti, ve ne è poi un terzo, più intimo, legato alla necessità di comunicare con la divinità utilizzando forme ed espressioni tipiche della sua lingua madre, quella che probabilmente aveva accompagnato le sue preghiere e attraverso la quale era entrato in contatto con la divinità che, secondo un formulario tipico delle dediche ad Asclepio, gli aveva ordinato il dono: abbandonare questo vettore sperimentato e sicuro per sostituirlo con strumenti ufficiali ma impersonali avrebbe potuto rendere inefficace la comunicazione con il dio e vanificare l'offerta votiva. Il latino e il greco a loro volta avrebbero influenzato il testo punico, introducendovi dei calchi linguistici o forzando le espressioni per

esprimere concetti che erano inusuali nel mondo cartaginese. La base è conservata attualmente presso il Museo di Antichità di Torino; una copia è invece esposta a Cagliari nel Museo Archeologico Nazionale, dove funge da basamento al busto del canonico Giovanni Spano, che per primo ne diede notizia e la donò al Regio Museo torinese.

Nota bibliografica 1967, pp. 91-93; CULASSO GASTALDI 2002; ADAMS 2004, pp. 210-213; ZUCCA 2004b, pp. 134-136; CAMPUS 2012, pp. 288-292; CORBIER 2012, pp. 54-58; ESTARAN TOLOSA 2016, pp. 508-512; LLAMAZARES MARTIN 2020. Guzzo AMADASI

2000;

P ENNACCHIETTI

303

I sigilli Maria Bastiana Cocco

296-297. Sigillo, I-IV sec. d.C., bronzo, lungh. 7 cm, proveniente da località Biunisi di Porto Terres, New York, Metropolitan Museum of Art.

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Dalla Sardinia proviene un nutrito gruppo cli signacula in bronzo, ben 38 sigilli cli varie forme (con lamina rettangolare, semilunata, a foglia d'edera, a forma cli pianta cli piede singola o doppia, talvolta con segni divisori a forma cli edera, decorati da palmette o effigi, presenti sul fondo della lamina o sul manubrium, cioè sull'anello cli prensione) utilizzati per autenticare documenti pubblici e privati o per certificare la proprietà e l'autenticità degli oggetti contrassegnati (instrumentum inscriptum). Alcuni signacula rimandano all'esistenza cli proprietà fondiarie e fabbriche nelle zone più fertili, ma anche più interne dell'Isola; le località di rinvenimento dei sigilli sono distribuite sia sulle coste che nell'entroterra, in zone pianeggianti ma anche collinari: Sulci (7 esemplari), Turris Libisonis (7), Carales (3), Tharros (3), Gurulis Nova-Cuglieri (3), Gurulis Vetus-Padria (2), Nora, Tegula, Neapolis, Bosa, Bonorva, Martis, Valentia-Ruinas, Neoneli, Sorabile- Fonni, Galtellì ( 1 esemplare per ogni località citata e 2 esemplari dall'Ogliastra). Fanno riferimento prevalentemente a possedimenti privati e a possessores di status elevato, ma in alcuni casi rimandano direttamente a individui di condizione servile o libertina. Un timbro scoperto nel territorio di Neoneli ricorda una Iunia Rufina appartenente nel

II secolo d.C. a una importante famiglia senatoriale italica, gli Iunii Rufini, titolare cli proprietà in questa zona della Sardegna centrale, dove probabilmente i suoi interessi dovevano essere gestiti da un amministratore (servus o libertus?) che utilizzava il sigillo della donna per marchiare i suoi beni. A famiglie dell'ordine senatorio appartenevano anche Lucilius Rufus (a forma cli edera bipartita da Villa San Pietro, nel territorio dell'antica Nora) e probabilmente anche Annius Largus (da Sulci: il testo del sigillo, recentemente riapparso sul mercato antiquario, in passato è stato erroneamente interpretato come esclamazione augurale) e Antonia Rouphina, ricordata su uno splendido sigillo rettangolare proveniente dal territorio di Bonorva, con testo in lingua greca su due linee e ritratto femminile sul fondo della lamina, oggi conservato al Museo Archeologico Etnografico Nazionale di Sassari (fig. 299). Iscrizioni in lingua greca compaiono anche su altri due signacula sardi: uno rinvenuto a Sulci e l'altro a Tharros (con lamina di forma rettangolare sormontata da delfino). Altri sigilli restituiscono i tria nomina di 8 individui: L. Aienus Dexter (da Ossi, territorio di Turris ); Ti. Iulius Ianuarius (con palma ed edera da Turris ); C. Iul(ius) Vietar (dall'Ogliastra); Cn. Lucretius Varus (semilunato, con edera da Turris); Q. Num[erius} Saturn[inus} (da Ploaghe, territorio di Turris); P. Spurius o Spuril[lius] Iustus (con edera e palma da Gurulis Nova); C. Valerius Herclanus (da Villasor, territorio di Carales); C. Vallius Scipio (da Valentia ); a essi si aggiunge il sigillo di P. Attius Avitus Iunianus (con edera e sigla P. A(tti) I(uniani) sull'anello di prensione, da Gurulis Vetus). Sono noti inoltre i signacula menzionanti Nicerius (con edera, da Martis nel territorio dell'antica Tibula ), Staberius (da Turris, a lamina semilunata, con edera), Pompeianus (territorio di Neapolis ) e Simplicius (da Uta nell' ager Caralitanus), ai quali si aggiunge il sigillo di Claudia Galla dalla Barbaria di Fonni. Alcuni sigilli invece appartenevano direttamente a servi e liberti, che con ruoli di responsabilità lavoravano alla catena di produzione dei manufatti (tegulae, lateres, ceramiche), contrassegnando con il loro nome la serie dei

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298. Sigillo , I-IV sec. d.C., bronzo, lungh . 8 cm, proveniente da Padria, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna ". 299 . Sigillo, li-IV sec. d.C. , bronzo, lungh. 5,7 cm, proveniente da Bonorva, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna".

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:e kv.eritit.a a u ~ iocmncntazione ~mda'da~aTh.Mommseo perilAUO ~ ~i'oiume del 0npus InscriptiJmum LatinanmL l l ~ di C.aracaUa (datato tta il 212 e il 217 d.€.. mila base della preseni.a nella titolatura imperiale del cognome,, Severus, adottato da Caracalla dopo la morte del padre) permette cli ipotiuare che a partire dall'età severiana, a sud cli Bosa e a nord di

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prodotti realizzati. Tra i sigilli sardi si annoverano 5 esemplari direttamente appartenuti a schiavi: Nestor, schiavo dei Nettii o Mettii, forse da Carales; Servandus, schiavo di due domini, da Sulci o Nora; D(---), act(or) di M. M(---) A(---) da Tharros; L(---), Q(uinti) F(---) C(---) (servus) da Sulci e Q(uintus), A(uli) P(---) S(---) (servus) dal territorio di Sulci. Altri 5 sono riferibili a probabili schiavi: Candidus (da Gurulis Nova); Honorata (da Gurulis Vetus); Felix (da Galtellì); Germana (da Tegula, con lettere incavate); Primitivus, servus del dominus S(extus) P(---) P(---) V(---) (con palmetta incisa sul manubrio). Tra gli individui menzionati sui signacula sardi, sono forse liberti P(ublius) Scantus Mopsus (da Sulci o Nora, con edera; sul manubrium presenta la sigla P. S(canti) M(opsi)) e il probabile liberto imperiale Marcus Aurelius Ionicus (da Sulci o Nora). Va riferito al II secolo il Marcianus Aug(usti) n(ostri servus) menzionato su un signaculum da Turris Libisonis (forse lo stesso personaggio ricordato in epoca successiva come Augusti libertus e tabularius, cioè responsabile dell'archivio, del territorio pertinente alle città di Turris e Tharros). Dal territorio di Tresnuraghes nell' ager di Bosa, dove sarebbe stato recuperato da un pastore nella seconda metà dell'Ottocento (meno probabile la sua provenienza da Magomadas, o dalla località S'Utturu de su Clerigu presso Cornus), proviene un signaculum che sulla lamina rettangolare riportava con lettere sinistrorse a rilievo, distribuite su tre linee, il nome dell'imperatore Caracalla accompagnato da un ritratto dell'imperatore stesso; sull'anello di prensione, nel castone secondario, era raffigurata una testa virile rivolta a destra. J. Schmidt lo vide a Bosa nel 1881 nella collezione di G. Battista Mocci, in occasione del viaggio itinerante effettuato nell'Isola per la raccolta

Cornus, fossero localizzate proprietà fondiarie imperiali- sottoposte tra il 176 e il 180 al procurator metallorum et praediorum Servatus Aug(ustorum duorum) lib(ertus), attestato a Forum Traiani su un altare votivo dedicato alle Ninfe pro salute del governatore provinciale Q. Baebius Modestus- cui riconnettere l'attività di personale servile e libertino della f amilia Caesaris che doveva utilizzare il timbro per contrassegnare prodotti o forse, meglio, siglare i documenti di cancelleria relativi all'amministrazione di tali possedimenti appartenenti al patrimonium imperiale. Erano destinati a essere impressi su oggetti votivi i signacula con riferimento a Iuppiter (dal territorio di Tharros: dic(atus) I sum I Iov(i)) e alla Venus Obsequens, legata all'ossequio tributato dai liberti ai patroni (Veneris ob!sequentis, con palmetta stilizzata incisa nella parte superiore del manubrio, proveniente dalla località Biunisi nel territorio della Colonia Iulia Turris Libisonis) (figg. 296-297). Da Gurulis Nova proviene il signaculum eneo tardo-antico, forse cristiano, di proprietà di un Euticianus, rinvenuto nel 1736 (con iscrizione Eut(i)c(iani) sul manubrium, nel castone secondario). De dei I dona(!) è invece il testo che compare sul timbro in bronzo avente foggia di due plantae affiancate, un tempo facente parte della collezione privata del canonico G. Spano e in seguito di quella di Th. Mommsen (da Ulassai, in Ogliastra).

Nota bibliografica Sui signacula in generale sono fondamentali: Dr STEFANO MANZELLA 2011; Dr STEFANO MANZELLA 201 2a; Dr STEFANO MANZELLA 2012b; BUONOPANE, BRAITO 2014. Sui sigilli sardi: SPANO 1852, pp. 19-20, n. l; SPANO 1857, p. 61; SPANO 1860; SPANO 1875; CARA 18 7; PArS 1923; BONINU 1986, p. 153, fig. 218; SOTGIU 2000; ZUCCA 2003b, pp. 44-61; Dr STEFANO MANZELLA 201 0, p. 272 e n. 17; DI STEFANO MANZELLA 2011, p. 354; BRAITO 2014a, pp. 167-168, fig. 6; BRAITO 2014b; Z CC.\ 2014; Cocco 2016, pp. 78-79, p. 105, n. l; Cocco 201 , pp. 301,303,307,314; BRAITO 2018, pp. 270-272, figg. 5-6; Cocco 2018; MASTINO, Cocco 2019, pp. 463-466, 473. Per la data della dedica alle Ninfe per conto di Q. Baebius Modestus vd. ora GANGA, lBBA 2021.

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In un'area di margine tra la valle del Flumendosa e il salto di Escalaplano, lungo la strada che si inerpica verso il massiccio del Gennargentu, è localizzato il sito di Corte Luccetta. Qui, nel 1866, venne rinvenuta la Tavola di Esterzili, acquisita da Giovanni Spano e donata al Museo di Sassari dove è attualmente conservata. Il documento, redatto su una tavola in bronzo, è una delle più importanti testimonianze epigrafiche rinvenute nell'Isola. Databile al 18 marzo del 69 d.C., testimonia la controversia di confine tra due popolazioni della Barbaria sarda, i Galillenses, accusati di aver ripetutamente invaso le terre di cui non erano i legittimi assegnatari, e i Patulcenses, insediati per volere di Roma nel territorio sardo già dal II secolo a.C. Secondo la maggioranza degli studi il ritrovamento, casuale ed estraneo a ogni contesto riconducibile a epoca romana, era da imputare a un latrocinio, perpetrato dai Galillenses, a cui era seguita la dispersione della lastra in aperta campagna. In realtà gli scavi archeologici nell'area, effettuati tra il 1992 e il 1994 con la direzione di Antonietta Boninu, rimasti inediti fino al 2015, hanno messo parzialmente in luce un esteso insediamento di età romana, del quale sono state indagate due grandi strutture, che

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trovano il confronto più stringente con quelle del sito di Sant'Efis di Orune. Le murature hanno andamento rettilineo e sono realizzate a sacco con pietrame di grandi e medie dimensioni; in parte sono lastricate; sul lato meridionale si trova un grande spazio lastricato, forse da identificarsi con una piazza o altro spazio pubblico. Le strutture sono relativamente ben conservate, e anche nelle aree non scavate sono presenti ceramica ed elementi litici, molti dei quali riusati per la costruzione dei muri a secco. Tra i materiali rinvenuti vi sono un sesterzio di Antonino Pio, e un laterizio con bollo {-)ALERIANVS D, elementi èhe testimoniano una cronologia di piena età imperiale. L'analisi delle foto aeree, in particolare quelle della levata 1977, evidenziano numerose anomalie del terreno, che indicano l'esistenza di strutture ed elementi viari ancora sepolti. Sulla base della documentazione recuperata e a seguito dei sopralluoghi sul sito, si ipotizza che l'insediamento di Corte Luccetta, la cui parte attualmente in luce è posta a una quota compresa tra 575 e 600 metri circa s.l.m., possa essere identificato proprio con il punto di confine tra le due popolazioni contendenti: qui si doveva trovare esposta la Tavola, presumibilmente presso un edificio di carattere pubblico. Si tratta effettivamente di un'area di margine, posta presso la valle del Flumendosa e lungo la strada che dalle colline del Gerrei e quindi dal salto di Escalaplano si inerpicava per la montagna. Da qui si raggiungevano le miniere di rame di Gadoni e le miniere di zinco di Monte Nieddu di Esterzili e le falde più meridionali del complesso del Gennargentu la cui cima principale e punto di assoluto dominio visivo è il vicino Monte Santa Vittoria, che raggiunge un'altezza di 1208 metri e si trova a una distanza di appena 5,3 km in direzione nord-ovest da Corte Luccetta. La cima di Santa Vittoria ha rivestito una grande importanza per le popolazioni sarde, in particolare alla fine dell'età nuragica, quando vi sorge un complesso sacro comprendente il Recinto di Monte Santa Vittoria, il complesso sacro di Monte Nuxi, con i suoi tre pozzi sacri, e il tempio a Megaron

300. Corte Luccetta. Il sito è in un 'area di margine tra la valle del Flumendosa e il salto di Escalaplano, lungo la strada che si inerpica verso il massiccio del Gennargentu.

301. Tavola di Esterzili, 69 d.C., bronzo, largh. 61 cm, proveniente da Esterzili, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna".

di Domu de Orgìa. Riveste pertanto particolare interesse la vicinanza con il sito di confine di Corte Luccetta, che si pone in un punto di passaggio obbligato a controllo del passo della montagna e delle sue risorse minerarie. Gli stessi siti di Monte Santa Vittoria e, in particolare di Domu de Orgìa, hanno restituito numerose monete romane che testimoniano la continuità di frequentazione del luogo di culto in età romana, con attestazioni relative ali' età repubblicana. D'altra parte i ritrovamenti di età romana nel territorio di Esterzili sono frequenti: sulla base del censimento del 1990 efféttuato a cura di Grazia Ortu, sono stati individuati nove siti interpretati come insediamenti di età romana, tutti per la gran parte gravitanti intorno all'asse dell'attuale strada comunale tra Esterzili e Escalaplano, che si presenta come l'areale più fertile e meglio esposto del ferritorio comunale. Alla luce dei ritrovamenti degli scavi, si può ipotizzare che a seguito della pronuncia del 69 d.C. a favore dei Patulcenses, questi avessero

fondato come baluardo di confine verso le terre dei Galillenses l'insediamento di Corte Luccetta, nel quale l'iscrizione bronzea doveva trovarsi esposta in corrispondenza di un edificio pubblico, come consuetudine nei centri abitati dell'Impero. Il prezioso documento epigrafico, così contestualizzato, può cessare di essere considerato un ritrovamento sporadico, ma acquisisce valenza di segnacolo di confine, al pari di quanto si riscontra per l'iscrizione degli Ilienses al nuraghe Aidu 'entos di Mulargia e, lungo il corso del Rio Sos Caddalzos, tra Monti e Berchidda, per la pietra dei Balari. Ciò impone una revisione delle teorie sulla dislocazione delle popolazioni citate nella Tavola di Esterzili, con una penetrazione dei coloni romani che nel I secolo d.C. può dirsi ormai saldamente incuneata verso il cuore della Barbaria. Nota bibliografica LAI 1993b; Lo SCHIAVO 1993; 0 RTU 1993; 1993; D ELUSSU 2009a; SALIS 2010; l BBA, MASTINO 201 2; CANU 201 6; l BBA 2016; CANU 201 8. B ONELLO P ITTAU

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Il mondo dei morti

• I paesaggi funerari Donatella Salvi

• I riti e le cerimonie funebri Chiara Pilo APPROFONDIMENTI

La necropoli di Mitza de Siddi di Ortacesus Gianna De Luca

La necropoli di Pill'e Matta di Quartucciu Donatella Salvi

!..'.ipogeo di Atilia Pomptilla Ciro Parodo

• La scultura funeraria Alessandro Teatini APPROFONDIMENTI

Il sarcofago con scena di thiasos marino del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari Ciro Parodo

Le stele funerarie Carla Del Vais

302 . Sarcofago , prima metà lii sec. d.C. (particolare della fig. 351).

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I paesaggi funerari Donatella Salvi

303. Cagliari, viale Sant'Avendrace intorno agli anni Venti del secolo scorso (foto M.L. Wagner). La Grotta della Vipera compresa nella recinzione in muratura realizzata nel 1881 , dopo l'acquisizione allo Stato dell 'area; a destra le casupole addossate al costone che incorporano altre "grotte". 304. Cagliari , Tomba di Atilia Pomptilla , I sec. d.C. La tomba è priva delle colonne che in antico le davano l'aspetto di un tempio. La vicina Tomba di Vinio Berillo conserva nella parete di fondo le nicchie che ospitavano le urne funerarie e un'iscrizione.

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Archeologia del paesaggio e archeologia funeraria hanno avuto negli ultimi anni un notevole sviluppo assumendo una sorta di autonomia di ricerca. La prima, collegando i dati archeologici all'ambiente, ha utilizzato le fonti · - storiche, archeologiche, toponomastiche e le metodologie attinte da discipline diverse per ricomporre il divenire dei luoghi in momenti del passato e in ambiti geografici specifici, per raggiungere il risultato dinamico delle azioni stratificate dell'uomo sui contesti naturali. La seconda ha elaborato nuove teorie di interpretazione dei dati ricavabili dallo scavo e dallo studio multidisciplinare, con approcci metodologici spesso sofisticati che utilizzano i dati materiali (la tipologia della tomba, i resti umani, gli oggetti) e immateriali (l'idea

della morte, le scelte che ne conseguono, l'organizzazione sociale) nel rapporto fra "la società dei vivi e la comunità dei morti". Al di là di questo, però, il paesaggio funerario è il paesaggio della memoria, se si condivide l'affermazione di Cicerone che la vita dei morti è nella memoria dei vivi e se si è consapevoli che, in ogni caso, la sua percezione è negli occhi di chi guarda: vissuta e partecipe per i contemporanei, ricostruita e ricomposta per chi, dopo secoli, da studioso o da osservatore, restituisce una seppur parziale forma di identità ai defunti di una nuova necropoli messa in luce laddove erano campi o strade o abitati moderni. Solo negli ultimi decenni, ma non __sempre, si è proceduto in Sardegna allo scavo in estensione delle necropoli, superando l'occasionalità delle scoperte che, a lungo, avevano portato a indagini sommarie e limitate a poche sepolture. Altrettanto recenti sono gli studi via via più corposi sugli aspetti di antropologia umana, di paleonutrizione, di paleobotanica. Tutto ciò ha fornito una quantità di informazioni che permette livelli diversificati di approfondimento e di confronto per comprendere le forme di vita attraverso quelle della morte. Cogliere i paesaggi funerari dell'intera regione, dove spesso gli skyline naturali sono fusi con la maestosità di lungo periodo dei nuraghi, e che è varia negli aspetti morfologici e orografici ma anche disuguale nella densità demografica in tutti i periodi storici, non può che costituire una sorta di riflessione provvisoria, basata, nella sintesi, su una parte esemplificativa dei molti dati disponibili e su alcuni spunti di studio. Per quanto sia ipotizzabile che tutti i contesti funerari di età romana siano riconducibili alle norme sulla collocazione all'esterno degli abitati, è quasi d'obbligo affrontare l'argomento operando la distinzione fra le necropoli urbane e le necropoli rurali: le prime chiaramente inerenti a un tessuto insediativo articolato del quale sono almeno in parte note le strutture pubbliche e private e la viabilità interna ed esterna, le altre per lo più prive di riferimenti fino a diventare esse stesse uniche testimonianze degli insediamenti - e quindi delle comunità - non altrimenti conosciuti. Le tombe a camera quadrangolare, con nicchie

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305-306. Cagliari , Tomba di Rubellio e delle sue due mogli, I sec. d.C. (foto Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna). !.'.iscrizione costituisce il titolo di proprietà del sepolcro che Caio Rubellio eresse per sé, per le sue mogli Marcia Hellas e Cassia Sulpicia Crassi/la e per gli eredi. Dopo tale enunciazione, tracciata con caratteri progressivamente più piccoli , segue l'ammonimento a chi legge a ricordare di essere mortale. All'interno, sulla parete di fondo, una nicchia centrale , maggiore, e due laterali dovevano ospitare le urne di Rubellio e quelle delle due mogli. In età più tarda sul pavimento furono realizzate delle fosse per tombe a inumazione.

alle pareti, scavate alle pendici di Tuvixeddu (fig. 313) lungo l'attuale viale Sant'Avendrace, sono emblematiche della collocazione esibita e autorappresentativa lungo la strada che da Cagliari porta ancora oggi verso l'interno dell'Isola. Esse tagliano a volte i pozzi di discesa o le celle funerarie, non apprezzabili in superficie, delle più antiche tombe puniche poste a monte della collina che, per i nuovi abitanti della città, non costituiscono più memoria viva. Inoltre, disponendosi a varié quote sul pendio, accompagnano il lutto privato con l'esibizione scenografica e personalizzata, portando sulle facciate insieme al titulus proprietatis anche il segno della propria cultura e di una più generale alfabetizzazione. Destinate infatti a essere lette, le iscrizioni che vi compaiono si rivolgono al passante, informandolo sulle proprie condizioni in vita e formulando osservazioni sulla morte o sull'architettura adottata per la tomba stessa:

Rubellio, nell'epigrafe posta sull'ingresso (fig. 305), cita le sue due mogli e ricorda al viandante la sua condizione di mortale, con un richiamo forse alle parole di Varrone sulla funzione in tal senso svolta da «i monumenti funerari che si trovano ... lungo la strada, per ricordare a quelli che passano che essi stessi sono esistiti e che loro sono mortali». Vinio Berillo sottolinea che la sua tomba è tempio alla Securitas (fig. 304), Atilia Pomptilla ha dediche in poesia che ne esaltano l'amore e il lungo legame coniugale, con tenere composizioni in latino e in greco che, come il richiamo al viandante, sottintendono, e mostrano, la conoscenza di epigrammi di analogo tenore incisi su stele funerarie greche. Sia le tombe citate che i numerosi colombari ormai anonimi ricavati sul pendio di Tuvixeddu erano destinati a ospitare le urne contenenti i resti combusti dei defunti, dopo il rogo del corpo avvenuto probabilmente in un ustrinum - comune? pubblico? - poco distante e fin qui sconosciuto. L'uso di bruciare il corpo, sostituendo la pratica dell'inumazione in fossa che caratterizza a Cagliari l'ultima fase punica, sembra corrispondere all'arrivo in Sardegna di persone con una diversa visione della morte. I busta cioè le sepolture che uniscono in una stessa fossa e in uno stesso momento la combustione e la sepoltura - precedono nel tempo le urne, ultimo atto della cremazione indiretta o secondaria. Busta e poi urne semplicemente interrate, tra la fine del III e il I secolo a.C., si sovrapponevano già sugli avvallamenti terrosi di Tuvixeddu alle ultime tombe puniche, in un paesaggio modificato di volta in volta solo dai tagli e dai livellamenti necessari alle anonime deposizioni, prima ancora che gli affioramenti più consistenti del calcare naturale fossero modellati, fra il I e il II secolo d.C., con le tombe a camera di semplice o complessa architettura interna e di facciata. Destinati a ospitare urne cinerarie erano anche i due monumenti di imponenza tale da segnare il paesaggio circostante con la loro struttura piena in un elevato presumibilmente a gradoni - di cui uno solo pervenuto con la denominazione di Sa Presonedda - a Sant'Antioco. Impossibile invece ricomporre il monumento cagliaritano costruito, di cui residua solo parte del fregio dorico, richiamo a modelli colti della capitale, al quale, pur modesto nelle dimensioni, si affiancava il monumento di Olbia e oggi si aggiunge il monumento a podio quadrangolare dell'area della Scala di Ferro.

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307. Abbasanta, area archeologica nuraghe Lasa . Oltre alle urne cinerarie modellate nel basalto, compaiono anche, in collocazione moderna , urne mobili di forma parallelepipeda , realizzate nella stessa pietra. 308. Norbello, località Mesu 'e cortes, necropoli. Qui, come in altre località della Sardegna centrale, il basalto affiorante è stato gradualmente modellato per ricavarne urne cinerarie fisse , probabilmente in origine coperte da piccole lastre; queste particolari necropoli sono state in uso probabilmente entro il lii secolo d.C.

La pratica della cremazione ha in Sardegna un lungo periodo d'uso ma con collocazioni e spazi per le urne differenti. Diverse anche le urne, dalle comuni pentole attestate a Cagliari, e con forti analogie tra loro, a quelle in ceramica grezza di Muravera, Costa Rei e Villaputzu, semplicemente interrate o protette nella fossa da lastrine litiche. Il panorama però è vario: va dagli ollari in calcare per le urne in vetro dell'area cagliaritana di Bonaria, alla varietà di urne in vetro ritrovate a Cornus (fig. 319) e ad Arborea; dalle cassette con tettuccio in calcare, confrontabili con numerosi esempi di area iberica, o in piombo (figg. 315-316), numerose, da Olbia, alle rare e artisticamente elaborate urne in marmo di Cagliari e di Porto Torres (fig. 345), che presuppongono la conservazione in un edificio coperto. Ben diverse le caratteristiche di alcune necropoli diffuse nella Sardegna centrale - soprattutto a Norbello in alcune aree campestri, ma anche ad Abbasanta presso il nuraghe Losa - che si inseriscono nell'ambiente senza trasformare altro che la superficie della roccia affiorante, creando così, se è possibile prendere a prestito una definizione utilizzata per l'Età del Bronzo, più o meno vasti "campi di urne" (figg. 307-308). Di contro ai contenitori mobili fin qui presi in considerazione, si tratta ora di incavi cilindrici o parallelepipedi scavati direttamente nel basalto che formano necropoli che non si modificano ma possono solo infittirsi o estendersi. A urne in pietra locale, fisse o mobili, si riferisce un gran

numero di piccoli cippi di varia configurazione - a capanna e a bauletto i più diffusi - comuni nella Sardegna centrale, specialmente nel Barigadu e nel Marghine, ma confrontabili con esemplari di area iberica e gallica, che, lisci o decorati, iscritti o anepigrafi, offrono un nutrito catalogo di varianti decorative ed epigrafiche che sono state collegate alla fusione di sostrati culturali ed etnici in un arco di tempo che va dal I al III secolo d. C. La datazione potrebbe essere la stessa per le urne scavate nel basalto, anche se non si hanno riscontri di scavo e se l'unico dato cronologico è fornito dal ritrovamento di una moneta di Adriano in una delle fossette litiche presso il nuraghe Losa. Periodi meglio definiti provengono da un contesto simile nella configurazione e nell'impatto ambientale, ma scavato nella più tenera pietra calcarea, messo in luce negli anni Novanta del secolo scorso in località Iscalaccas, presso Sassari, dove le decine di urne conservate contenevano ancora i resti combusti e i corredi ceramici e vitrei che ne hanno permesso la datazione fra il I e II secolo d.C. Da un capo all'altro dell'Isola lo scavo delle urne nel banco calcareo rimanda a un'area funeraria che fu individuata nel 1952 a Cagliari, via Satta/via Lo Frasso, ma nelle cui urne rettangolari non furono ritrovati materiali datanti. Impossibile dire quali contrassegni ricordassero i defunti riuniti in questa necropoli, ma è certo che i cippi ad ara e i cippi a botte, numerosi in

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309. Cagliari , area archeologica ex albergo Scala di Ferro (foto P. Dessì/ Confini Visivi , Archivio Immagini Monumenti Aperti/Imago Mundi). L'aspetto di quest'area cagliaritana è cambiato più volte. Dopo la dismissione nel 1867 del Bastione di Monserrato - che risaliva al progetto cinquecentesco di Rocco Cappellino - vi furono realizzati i Bagni Cerruti e poco dopo vi fu annessa una struttura alberghiera, primo nucleo del complesso di quello che sarà, nel 1877, l'albergo Scala di Ferro. Tutte queste attività non hanno però intaccato una larga porzione della necropoli romana, messa in luce dai recenti scavi archeologici. Fra le molte novità sono di eccezionale interesse i numerosi cippi funerari dotati di iscrizione, databili fra il Il e il lii secolo d.C., spesso ritrovati ancora associati alle urne e talvolta accostati a sarcofagi, ancora sigillati.

ambito urbano, svolgessero tale funzione, riportando nel testo che vi era inciso il nome del defunto e/o del dedicante e brevi note biografiche. Pochi i casi in cui nel passato sono stati rinvenuti effettivamente associati, almeno fino alla scoperta dei diversi settori che compongono la vasta e pluristratificata area funeraria che prende il nome dall'albergo Scala di Ferro dove questi segnacoli sono stati ritrovati nella loro collocazione originaria (fig. 309 ). Questo contesto, che dimostra anche l'inserimento delle sepolture con cippi in recinti funerari privati in muratura, amplia e completa le informazioni già in parte deducibili dal ritrovamento ottocentesco di cippi e urne che, a brevissima distanza da qui, ospitavano i defunti della flotta misenate di stanza a Cagliari. L'uso di bruciare i corpi, che appare prevalente per i primi secoli dell'Impero, non è però generalizzabile. Lo affianca, per tradizioni locali o per motivi etici e religiosi, quello dell'inumazione, che comporta il seppellimento diretto del corpo e che, gradualmente, diventerà comune nelle molteplici varianti del come e del dove. Ciò determina anéhe modifiche sul paesaggio, sia perché all'aperto gli spazi necessari allo scavo di fosse di dimensioni adeguate devono essere necessariamente più ampi, sia perché, nel caso di strutture chiuse, il numero dei defunti che vi possono essere ospitati può essere ridotto. Il cambiamento si percepisce meglio nelle necropoli pluristratificate e in quelle scavate in estensione, ma anche nelle trasformazioni

subite da alcune delle strutture già utilizzate per la collocazione delle urne. A Cagliari è la stessa tomba di Atilia Pomptilla, ma anche un certo numero di colombari anonimi, a mostrare l'inserimento di ampie e profonde nicchie ad arcosolio a spese dei modesti incavi per i cinerari o lo scavo sul pavimento, prima calpestabile, di formae, ossia di tagli utili a ospitare i corpi. Altre tombe a camera vengono realizzate ex novo con il nuovo assetto - ora anche nella collina di Bonaria, già utilizzata in periodo punico per alcune tombe a pozzo -, ricavando lungo le pareti gli spazi entro cui sono scavate le fosse per il corpo e l'arcosolio che le sormonta. Il caso della Tomba con pesci, spighe e altri fregi, come la definì lo Spano, rappresenta un caso particolare, sia per l'insolita ampiezza dell'ambiente, sia per le differenze che si notano fra le nicchie superstiti e le loro decorazioni in stucco, sia per la spartizione disuguale della decorazione del soffitto, scandito in un largo tratto della parte centrale da cornici a ovuli su fondo rosso e da pesci di varie specie su fondo azzurro solo sul soffitto della più esterna e più profonda delle nicchie della parete opposta all'ingresso, il tutto quasi a riflettere committenti e/o destinatari differenti. A Porto Torres, che con Cagliari condivide per così dire la disponibilità di banchi di roccia calcarea, un ambiente ancora più ampio e una situazione complessa nella distribuzione degli spazi, si registra nell'ipogeo di Tanca Borgona, in uso fra il III e il IV secolo d.C. con arcosoli destinati a ospitare più corpi per un totale di

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310. Cagliari, area archeologica di San Saturnino (foto Teravista per la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna). Le indagini archeologiche portate avanti negli ultimi decenni nell'area hanno dovuto spesso confrontarsi con quelle condotte nel corso del Seicento alla ricerca dei cosiddetti Corpi Santi, che hanno sconvolto sia l'interno della basilica sia i settori contermini dove si conservavano anche i resti di numerosi edifici funerari e tombe di diversa tipologia e cronologia. Nel settore meridionale, però, le indagini recenti hanno evidenziato un ambiente funerario, con l'interno profondamente rimaneggiato, che è in comunicazione con un secondo ambiente nel quale si conservavano intatte le deposizioni. È stato possibile stabilire che il suo elevato era stato in gran parte demolito e il resto colmato con i suoi stessi detriti, fino a pareggiare le quote, in funzione della fase bizantina del complesso basilicale.

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32 deposizioni, molte delle quali ancora provviste delle iscrizioni su mosaico o su lastre di marmo in memoria dei defunti. Iscrizioni in mosaico si sono conservate anche nell'area di via Libio e nel complesso di Scoglio Lungo dove gli ambienti con arcosoli e fosse sono stati ricavati dalla trasformazione di una più antica cava, modificandone così aspetto e funzione. In tutti i casi decorazioni e arredi interni, non visibili dall'ipotetico passante, rivestono qui maggiore importanza solo in rapporto ai defunti e a chi ne conserva la memoria, siano essi familiari e/ o membri di collegia, che in futuro vi troveranno posto. Maggiore visibilità e incidenza sul paesaggio hanno certo gli edifici in muratura di dimensioni diverse che occupano nuovi spazi alla periferia degli abitati, talvolta disposti in semplici sequenze prive di sovrapposizioni, talvolta affollandosi a creare articolazioni di strade interne. Se per il primo caso è possibile citare i pochi esempi di Tharros, posti fra la strada per San Giovanni e il mare - che si aggiungono a un certo numero di cupae disposte lungo il fossato - il secondo è rappresentato soprattutto dall'area cagliaritana di San Saturnino (fig. 31 O) e da quella turritana presso la basilica di San Gavino, le cui strutture funerarie furono messe in luce nel Seicento in occasione della spasmodica ricerca dei cosiddetti Corpi Santi - quando furono definite "chiese" - e sono in parte riaffiorate in occasione degli interventi di scavo degli ultimi decenni. Contesti e motivi tradizionalmente pagani si intrecciano ora con quelli che dichiarano l'adesione alla religione cristiana

con iscrizioni su marmo o su mosaici (fig. 311) che sostituiscono all'invocazione agli Dei Mani l'appellativo di B(onae) M(emoriae) del defunto, che consentì ai promotori delle ricerche secentesche la facile interpretazione di B(eatus) M (artir). È certo però che da questi contesti, che denotano condizioni sociali ed economiche di buon livello, proviene gran parte dei sarcofagi di fabbrica urbana ritrovati e custoditi in Sardegna (figg. 348, 350-351), anche se di alcuni non si hanno che generiche notizie: uno degli ultimi interventi condotti nel Seicento, riferito dall'Aleo, ricorda infatti la scoperta, nella piazza antistante la chiesa di San Saturnino, di un nuovo edificio costruito con mattoni e calce, ben conservato in elevato anche se privo del tetto, nel quale erano ricavate quattro "cappelle" utili a contenere altrettanti raffinati sarcofagi in marmo che, per volere del promotore dello scavo, il viceré cardinal Trivulzio, furono trasferiti a Milano. Più rare le attestazioni di edifici - e di sarcofagi figurati - fuori dai principali centri urbani. Ma è significativo il caso della struttura in muratura in località Cirredis, Villaputzu, che, articolata in due ambienti e coperta in origine da una robusta volta a botte, aveva ospitato sui tre banconi disposti lungo le pareti, accuratamente intonacate e dipinte a riquadri, almeno due sarcofagi in marmo di cui si sono conservati frammenti. Dimensione e presumibile imponenza anche in elevato dell'edificio fanno supporre un diretto, forse gerarchico, forse economico, rapporto con il vasto abitato, ora sconvolto dai lavori agricoli, all'esterno e a breve distanza dal quale fu realizzato.

311. Cagliari , area archeologica di San Saturnino, settore meridionale, vano B, mosaico (foto D. Salvi). Per quanto incomplete, e forse danneggiate durante la demolizione antica, sono state ritrovate in questo ambiente porzioni dei pannelli in mosaico che coprivano il pavimento (IV sec. d.C.). I colori vivaci degli ovoli del contorno e dei decori vegetali, insieme all 'accuratezza nell'esecuzione, caratterizzano il pannello più grande. Nel riquadro centrale compare la sigla B(onae) M(emoriae), che introduce il nome del defunto del quale è pervenuta solo la lettera iniziale.

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Il quadro delle necropoli in ambito urbano appare particolarmente dinamico e mutevole: recinti funerari, strutture ipogee, edifici in muratura, sepolture all'aperto si dispongono lungo la viabilità principale e secondaria esterna in momenti e condizioni diverse, con spazi e tempi differenti, talvolta con sovrapposizioni e modifiche di una stessa area, talvolta occupando, senza sovrapposizioni, spazi che erano rimasti liberi, spesso, come nel caso di Olbia, con estensioni e densità notevoli, talvolta, come nel caso di Sant' Antioco - dove esisteva già la necropoli di Is Pirixeddus - creando ambienti sotterranei nei quali, in maniera eccezionale, sono attestate insieme la religione cristiana e quella ebraica. Seguirne la sequenza può aiutare a disegnare il vuoto e il pieno degli spazi dei vivi, insieme al loro estendersi o concentrarsi nel tempo. Diverso il caso delle necropoli rurali, che per lo più non sono associabili a insediamenti certi o documentati, restituendo perciò un paesaggio incompleto. Esse sono tuttavia, per l'arco di tempo del loro utilizzo, preziosi indicatori del popolamento, della viabilità anche minore, forse della distribuzione delle terre coltivabili e più in generale delle risorse del territorio, inserendosi nel paesaggio circostante senza modificarne la generale percezione. La lunga durata che ne caratterizza alcune, come ad esempio quella di Bidda 'e Cresia a Sanluri, dimostra, nel succedersi delle tipologie tombali e nel confronto dei corredi, che l'insediamento ha mantenuto la propria funzione nel territorio dalla tarda età punica

a quella romano-imperiale; simile sviluppo nel tempo ha la necropoli di Mitza de Siddi a Ortacesus (figg. 322-326), e ancora più lungo quello, dal V secolo a.C. al III d.C., della necropoli di Su Fraigu a Serramanna e, in continuità con la necropoli punica, quella di Santu Teru a Senorbì. Apparentemente limitato il periodo d'uso della vasta necropoli di Terra 'e Cresia di Sardara, con sepolture interamente comprese nell'età romana. Molte delle principali necropoli conosciute sono inserite nelle ampie aree coltivabili del Campidano, della Marmilla e della Trexenta, così come, a nord dell'Isola, Monte Carru presso Alghero, mostra la lunga frequentazione della Nurra. Al loro interno però, nei contesti chiusi che ciascuna sepoltura propone come storia di un solo giorno, e nell'adozione comune di tipiche tipologie di struttura e di offerta - si vedano i casi di particolari forme di incinerazioni oppure la presenza di dispositivi libatori, di oggetti agricoli o di cibi già cotti - sono contenuti elementi distintivi che, connessi ai dati storici disponibili, potrebbero essere utilizzati per comporre reti di rapporti fra le terre e il lavoro, individuando caratteri locali o movimenti di persone con le quali viaggiavano - e viaggiano le idee della morte e le modalità di celebrarla sia nei confronti del singolo defunto sia della comunità, quasi dei marchi etnici, frutto di scelte condivise e ricche di contenuti simbolici. La gran parte delle necropoli rurali sarde non presenta gerarchie interne, né per la posizione delle tombe né per la composizione dei corredi, che appaiono vari nella quantità degli oggetti ma in genere standardizzati nella qualità e più raramente personalizzati in funzione del sesso e dell'età. Differenze, per aree, si notano nella tipologia delle fosse e nella loro copertura, che è composta di tegole alla cappuccina soprattutto in ambito urbano e nei centri più vicini alle città, di lastre di pietra locale in molti altri casi (fig. 323). Talvolta, in questa pur relativa omogeneità, colpisce il caso che se ne discosta, come accade a Mitza de Siddi, dove due sepolture a nicchia laterale sono analoghe e contemporanee alle sepolture di Pill'e Matta a Quartucciu (figg. 327-329), dove per lungo tempo questa è l'unica forma di inumazione. Resta problematico poi, fra tutti, il caso della necropoli di Cantaru Ena, Florinas (e insieme di alcuni centri vicini) i cui defunti erano deposti in ampi ziri che, per ora privi di confronto, denotano l'esistenza di piccole comunità con proprie e radicate forme autonome di congedo.

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Se i temi proposti riguardano le persone, diverse chiavi di lettura sono state avanzate per collegare le necropoli rurali all'ambiente in cui sono inserite, valutando cioè se la posizione rappresenti una scelta basata su criteri per così dire interni - natura del suolo, visibilità - o rientri piuttosto in una organizzazione generale ed esterna degli spazi. L'area funeraria specchio dei gruppi sociali che coltivavano le terre o gestivano le risorse naturali per proprietari che in genere risiedevano e forse morivano altrove - potrebbe infatti aver svolto il ruolo di marcatore di confine e/o aver segnato la parte periferica di grandi proprietà, o aver costituito lo spazio assegnato in rapporto a ville rustiche o a centri produttivi, a loro volta rapportabili a strade, vie d'acqua, sorgenti, disponibilità di materie prime. Ma anche, in un ancora più ampio assetto organizzativo del territorio, ci si è chiesti se le necropoli corrispondano nella collocazione alla centuriazione delle campagne; infine, ma ovviamente in misura minore, se alcuni contesti di modesta estensione, soprattutto nelle aree interne della Sardegna, possano aver riunito nella morte le famiglie dei veterani che avevano avuto assegnazioni private di terre. Dal grande numero delle sepolture scavate negli ultimi decenni- 350 ad Alghero, 200 a Sardara e a Ortacesus, 292 a Quartucciu, per citarne alcune - si potrebbero ricavare altri dati, superando il concetto, o il metro, della stratigrafia orizzontale, che potrebbe definirsi temporale,

312. Cuglieri , Camus, località Columbaris (foto Teravista per la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna). Pasquale Testini ha sottolineato come fra il IV e il V secolo d.C. a Camus si sia avuto il massimo sviluppo dell'area cimiteriale e una intensa attività edilizia che trasformerà il sito in un vasto centro religioso con basiliche ed episcopio. La necropoli, che si data a partire dal IV secolo, comprende sepolture a fossa , "alla cappuccina ", in anfora, in sarcofago. La foto inquadra una porzione dell'area cimiteriale nella quale prevalgono le sepolture in sarcofagi realizzati in pietra locale e disposti con una certa seppur non costante regolarità, alla quale in parte si sovrappone un edificio absidato.

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analizzata nelle singole aree cimiteriali individuando quelle fra loro contemporanee per giungere a una analoga stratigrafia per regioni omogenee o per l'intera Isola. Ciò permetterebbe di valutare meglio i momenti e le modalità delle trasformazioni subite dal territorio, dei processi di romanizzazione, dei movimenti delle persone e forse di comprendere i luoghi, i tempi e i modi nei quali prima la rarefazione delle tombe e poi il progressivo abbandono delle necropoli denuncino insieme cambiamenti economici, sociali e religiosi in atto e un paesaggio funerario ormai separato dalla memoria dei vivi. Per quanto riferito ad altro contesto, un brano di Sidonio Apollinare, V secolo, introduce il senso di questo "silenzio", descrivendo una necropoli ormai coperta dalla terra ed esposta agli eventi atmosferici tanto da farla pensare abbandonata. La terra quindi per secoli copre e nasconde, spesso protegge, talvolta agevola il } accheggio, talvolta porta, o riporta, sulle tombe attività agricole o pastorali, e, in tempi più recenti, è raggiunta dall'espansione delle zone industriali. Sono in qualche caso queste ultime, che implicano interventi estesi e profondi di scavo, - come è accaduto a Sardara e a Quartucciu-, a mostrare l'esistenza delle necropoli antiche in un paesaggio già più volte trasformato. Diversamente ha agito il tempo sulle aree urbane, che si sono estese sulle necropoli e hanno riutilizzato per nuove funzioni monumenti e spazi verticali. Il diffondersi

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313. Cagliari , Tuvixeddu, parte del settore a monte di viale Sant' Avendrace (foto Teravista per la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna). L'.immagine sintetizza le trasformazioni del paesaggio funerario dall'età romana a oggi. Sulla destra la parte alta del colle che sovrasta la necropoli punica. Sullo sfondo a sinistra le case di edilizia popolare realizzate negli anni Settanta del secolo scorso, al centro la torre della cementeria, demolita nel 2016. Al centro in basso la Tomba di Rubellio durante i recenti restauri e, tutto intorno, fra la vegetazione spontanea , quanto resta qui delle numerose tombe a camera romane ricavate su diversi livelli lungo tutto lo sviluppo del pendio occidentale di Tuvixeddu : per lo più prive della parete frontale per i riutilizzi di natura diversa o per la progressiva corrosione del calcare, conservano all'interno nicchie per urne o arcosoli per inumazioni e talvolta decorazioni a rilievo, ormai in gran parte sgretolate.

del Cristianesimo già dal IV secolo fa sì che si creino nuovi punti di riferimento laddove il culto e la pratica religiosa convivono con la realizzazione di chiese sulle tombe e di tombe intorno alle chiese, come mostra l'articolato complesso di Camus (fig. 312) e quello composito di San Saturnino, dove il corpo cupolato centrale e le sue articolazioni sono realizzati sull'abbattimento di una parte degli edifici funerari preesistenti, e molti cippi in pietra, già segnacoli funerari, diventano materiale da costruzione di facile approvvigionamento. A Villaputzu, invece, qui senza connotazioni religiose, il mausoleo di Cirredis continua nell'alto-medioevo a ospitare defunti, ma perde, nel nuovo fitto affollamento dei corpi, la funzione elitaria delle sue origini. Forse una delle più sensibili e insieme drastiche trasformazioni del paesaggio funerario antico è quella che ha riguardato cubicula e arcosoli affacciati a Cagliari sulle pendici di Tuvixeddu (fig. 313). Col tempo, lungo viale Sant'Avendrace che le costeggia, le tombe a camera diventarono quasi tutte case e magazzini di fortuna e i morti furono sostituiti dai vivi: tale modifica era già da tempo in atto alla fine del Cinquecento quando, negli scritti del Brando, la definizione/funzione di tomba era stata sostituita da quella di spazio vuoto generico: cueva (grotta) . La situazione, drammaticamente descritta nell'Ottocento dallo Spano, continua a lungo: nel Villino Serra, ancora negli anni Settanta del secolo scorso, alcuni sepolcri erano diventati ambienti di servizio e gli arcosoli intonacati erano utilizzati come ripiani per oggetti, mentre nella Tomba di Rubellio - trasformata, forse sino a quegli stessi anni, in cucina, con la costruzione di un focolare e con il raccordo a una cisterna-, alcune scansie rettangolari furono ricavate lungo le pareti (fig. 306). Ormai da decenni il

paesaggio funerario, non più del tutto fuori ma non ancora dentro la città, era stato percepito come luogo di degrado, tanto che il Consiglio d'Arte nel 1887 autorizzò nuove costruzioni lungo la strada, presso la Grotta della Vipera, purché comprendessero almeno un piano utile «ad intercettare la vista delle grotte», ennesima versione di un paesaggio non più sacro.

Nota bibliografica È difficile proporre una bibliografia esaustiva sui nuovi approcci metodologici riferibili al paesaggio e ai significati insiti nei contesti funerari. Approcci significativi e diversi sono proposti e/o richiamati in: VALENZA MELE 1991; Cuozzo 2000; CAMBI 2003; CAMBI 2009; BUA 2010; AzZENA, BUA 2011; BIFARELLA 2013; CAMBI 2015; NIZZO 2015; SQUILLA TE 2019; BÉRARD 2021; N,zzo 2021. È altrettanto difficile fare qui riferimento a tutti i quadri d'insieme e agli studi specifici sulle necropoli sarde di età romana. Si citano pertanto: VISMARA 2010, ROPPA 2016, SALVI 2016a per alcuni aspetti della romanizzazione e SIRIGU 2003 per il concetto relativo alla "morte povera" nell'ipertesto museale. Per i contesti citati si rimanda a: ARCA 2013 per il mausoleo di Sant'Antioco; ARRu 2003 per Sardara; BERNARDINI 1996 per gli edifici funerari di Tharros; BONINU, PANDOLFI, DERIU 2011 e BONINU, PANDOLFI, DERIU 20 13 per recenti indagini a Porto Torres; CANEPA, ET AL. 2003 per Serramanna; Cocco, ET AL. 2009 per Ortacesus; CRUCCAS 2014 per Florinas; PARRE 2016b per i cippi della Sardegna centrale; MASTINO 1992 per il complesso rupestre di Tuvixeddu; M uREDDU, ZUCCA 2003 per il contesto di Cagliari, Scala di Ferro; PADERI 1982 per Sanluri; PIETRA 2013 per Olbia; PUDD 2020 per Masullas; ROVINA, LA FRAGOLA 2018 per Algh ero; SALVI 1999 per Cagliari, via Lo Frasso/via D elitala; SALVI 2000a; PIETRA 2020a per Cagliari, Tuvixeddu; SALVI 2002b per Villaputzu; SALVI 2005a per Quartucciu; SALVI 2017a per Cagliari, San Saturnino; SATTA 2003 per la necropoli di Iscalaccas; SANTOJ\'l 1993 per le sepolture a incinerazione di Abbasanta, nuraghe Losa; TRONCHETTI 1990b per Is Pirixeddus, Sant'Antioco; ZuccA 1992 per la Grotta delle ipere.

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I riti e· le cerimonie funebri Chiara Pilo

L'archeologia funeraria è quella branca degli studi del mondo antico che indaga i contesti sepolcrali. Lo scavo e la documentazione di sepolture e necropoli costituisce per l'archeologo una fonte particolarmente importante di informazioni, innanzitutto perché si tratta nella maggior parte dei casi di "contesti chiusi", contesti cioè che, a meno di manomissioni intervenute in un secondo momento, restituiscono una situazione cristallizzatasi al momento della chiusura della tomba, in genere circoscrivibile cronologicamente e caratterizzata da uno stato di conservazione dei materiali superiore rispetto ad altri ambiti. Le modalità con cui gli antichi hanno accompagnato i propri cari nell'ultimo viaggio non solo riflettono credenze sull'aldilà e sulla vita oltre la morte, ma forniscono anche una rappresentazione, seppur simbolicamente mediata, della comunità dei vivi, di cui documentano differenze culturali, di genere, di età e di censo. In tempi recenti l'applicazione allo studio dei resti funerari di discipline scientifiche, quali l'antropologia fisica, la genetica e gli studi isotopici, ha inoltre ampliato notevolmente le prospettive di 314. Monumento funebre detto cupa, età imperiale, calcare, lungh. 14 7 cm, proveniente dall 'ex convento di San Lucifero , Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

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indagine e la conoscenza delle comunità del passato, consentendo di ricostruire aspetti del regime alimentare, delle condizioni di salute e della mobilità di individui e gruppi nell'antichità. Le tipologie di sepoltura e i rituali funerari attestati nella Sardegna in età romana presentano caratteristiche analoghe a quanto documentato in ambiente italico e, più in generale, in gran parte dell'Impero romano. L'annessione della Sardegna ai territori governati da Roma non determina comunque repentini cambiamenti nell'ambito dei costumi funerari che, nel periodo che segue l'istituzione della provincia di Sardegna e Cors~ca nel 227 a.C., permangono nel solco della continuità rispetto alle pratiche di età punica. Il trattamento del cadavere I rituali funerari attestati nella Sardegna romana sono l'inumazione e l'incinerazione. L'inumazione consiste nella deposizione del cadavere nel luogo di sepoltura, dove avveniva il progressivo disfacimento delle parti molli e con il tempo la scheletrizzazione delle ossa.

Sullo stato di conservazione dello scheletro in contesto archeologico incidono le condizioni di giacitura (caratteristiche del terreno, clima, sepoltura in terra o entro spazio vuoto, esposizione ad agenti atmosferici o all'azione di vegetazione e organismi presenti nel suolo, sconvolgimenti e manomissioni della tomba) oltre al sesso e all'età dell'individuo. I resti scheletrici di bambini e infanti, i cui tessuti ossei sono ancora poco strutturati, si conservano infatti meno facilmente. Il rito dell'incinerazione o cremazione prevede invece la riduzione parziale o totale in cenere del cadavere mediante l'esposizione al fuoco. A seconda dell'omogeneità della diffusione delle fiamme e delle temperature raggiunte i resti scheletrici subiscono alterazioni cromatiche (dal nero al marrone e al grigio fino al bianco) e meccaniche (fratturazioni, variazioni di peso e di resistenza, deformazioni). La salma veniva posta su una pira, costituita da una catasta di legna e fascine, che era fatta ardere. Il rogo funebre poteva essere allestito direttamente nel luogo della sepoltura, che prende in questo caso il nome di bustum, oppure in uno spazio dedicato, detto ustrinum, da cui le ceneri e le ossa combuste venivano successivamente raccolte per essere collocate nella tomba, in genere all'interno di un contenitore. Busta e ustrina possono essere presenti nella stessa area funeraria, come

documentato, ad esempio, nella necropoli di Mitza de Siddi a Ortacesus (figg. 322-324) o in quella di Monte Carru ad Alghero. Come in tutto il mondo romano, anche in Sardegna i due rituali coesistono nelle necropoli di età repubblicana e imperiale, sebbene l'incinerazione abbia in genere una maggiore diffusione tra il I e l'inizio del II secolo d.C. A partire dalla seconda metà del III secolo la pratica della cremazione viene progressivamente abbandonata a vantaggio dell'inumazione che, con il diffondersi delle religioni orientali e del Cristianesimo, diventa il rituale funerario esclusivo. La tomba Le tipologie tombali della Sardegna romana variano a seconda del rituale funerario utilizzato, oltre che in relazione al ceto e alle disponibilità finanziarie del defunto e della sua famiglia. La deposizione del cadavere all'interno di una fossa rettangolare o oblunga scavata nella terra o nella roccia rappresenta il tipo di sepoltura più semplice ed economico. Il cadavere era deposto sul fondo della fossa (fig. 326), talvolta adagiato su tavole di legno, e ricoperto di terra. In alcuni individui la posizione contratta delle ossa delle spalle sembra suggerire che il corpo fosse stato avvolto in un tessuto, probabilmente un sudario. In altri casi la disposizione dei resti scheletrici

315. Sarcofago, IV sec. d.C., lamina di piombo, lungh. 140 cm, Porto Torres, Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano. 316. Sarcofago, IV sec. d.C., lamina di piombo, lungh. 148 cm, Oristano, Antiquarium Arborense.

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31 7. Urna cineraria di Claudia Calliste, seconda metà I sec. d.C. , h 27 cm, proveniente da Olbia, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

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attesta invece che la decomposizione è avvenuta in uno spazio vuoto, indice della presenza in origine di una cassa lignea all'interno della quale era stato posizionato il defunto. Abbastanza frequente è l'uso di rivestire i lati e il fondo della fossa con lastre fittili o litiche, utilizzate anche per chiudere superiormente la sepoltura. In età imperiale, come in tutto il mondo romano, ha particolare fortuna l'impiego di tegole disposte a delimitare la fossa e sistemate a doppio spiovente sopra di essa, da cui il nome di tombe "alla cappuccina" (fig. 323) . Secondo un'usanza attestata già in età punica, non è raro che vengano utilizzati per accogliere inumazioni singole o multiple dei grandi vasi in terracotta (fig. 318). Questa tipologia di sepoltura, nota in archeologia come tomba a enchytrismos (dal greco en-chytrizo, 'esporre in un vaso di terracotta'), è destinata soprattutto a infanti e sub-adulti, anche se non mancano deposizioni di adulti, ed è spesso adottata nell'ambito di comunità agrarie, da parte di ceti meno abbienti. I contenitori d'uso

comune riutilizzati a tale scopo sono in prevalenza grandi anfore da trasporto, che venivano usate intere o spesso fratturate e sezionate per inserirvi all'interno il defunto; erano poi adagiate in orizzontale nel terreno, entro fosse. Nel Sassarese e in maniera più sporadica a Olbia, Cornus e Sorgono tra l'età repubblicana e l'età imperiale sono impiegati a tale scopo dei dalia, grandi contenitori di forma globulare o ovoidale per derrate. Il recipiente era alloggiato in orizzontale in una fossa ricavata nel terreno, spesso in pendio. Ben altro impegno economico è chiaramente quello richiesto per i sarcofagi, in genere realizzati in pietra, in marmo per gli esemplari più pregiati (figg . 346-348, 351 ), ma attestati anche in materiale più economico come terracotta o piombo. In Sardegna, ad esempio, sono stati rinvenuti alcuni esemplari in lamina di piombo di età tardo-romana (figg. 315-316), tra cui uno da Tissi con decorazione a palmette datato al IV secolo. el territorio insulare i sarcofagi litici decorati sono oltre ottanta, inquadrabili cronologicamente tra il II e la metà del V secolo d.C. Il numero più consistente è attribuibile a officine della città di Roma, ma non mancano anche importazioni da Ostia, dalla Campania e dal Nord Africa, oltre a prodotti di botteghe locali. I motivi decorativi spaziano dagli ornati più seriali dei sarcofagi strigilati (fig. 349) ai temi marini (fig. 351 ), ai soggetti dionisiaci, alle immagini dei defunti fino alle più rare scene mitologiche. Dalla metà del IV secolo compaiono sarcofagi con iconografie cristiane, come l'esemplare frammentario da Olbia che presenta scene dell'Antico e del uovo Testamento. A partire dalla metà del V secolo si attesta in Sardegna l'uso diffuso in ord Africa di ricoprire e decorare le sepolture a inumazione con mosaici funerari. Anche per quanto riguarda il rituale della cremazione, la tipologia e il materiale dei contenitori usati per raccogliere i resti delle ossa combuste riflette la disponibilità economica della famiglia del defunto. Spesso si tratta di recipienti di uso quotidiano che trovano impiego in ambito funerario, come le olle e i tegami in ceramica comune, particolarmente frequenti nelle necropoli degli insediamenti rurali. on mancano anche più pregiate olle in vetro, di cui sono stati rinvenuti numerosi esemplari datati al I-II secolo d .C. soprattutto nelle aree funerarie di Cornus (fig. 319) e Porto Torres. Indubbiamente

318. Urna cineraria, età imperiale, terracotta, h 15 cm, proveniente da Tharros, Oristano, Antiquarium Arborense.

peculiare nel panorama sardo è invece la pregevole urna in marmo rinvenuta a Olbia che, come recita l'iscrizione, conteneva le ceneri della giovane Claudia Calliste, figlia della liberta imperiale Claudia Pythias, morta nella seconda metà del I secolo d.C. (fig. 317). Tra i contenitori destinati ad accogliere le incinerazioni in età imperiale si registrano anche le urnette litiche, in genere realizzate dalla lavorazione di un blocco parallelepipedo e munite di coperchio, ma anche scavate direttamente nel banco roccioso, come nel caso della necropoli romana in prossimità del nuraghe Losa ad Abbasanta (fig. 307). Eccezionali per la ricchezza dell'apparato decorativo con festoni e animali reali e fantastici sono due esemplari in marmo rispettivamente da Cagliari e da Porto Torres, datati tra il I e gli inizi del II secolo d.C. e attribuiti a officine attive a Roma. L'esemplare di Porto Torres presenta anche un'iscrizione riportante il nome del defunto, il liberto Caio Vehilio Rufo (fig. 345).

Sono associate a sepolture sia a inumazione sia a incinerazione le cupae, monumenti funerari costituiti da uno zoccolo e una copertura semicilindrica, realizzati in muratura o in pietra (fig. 314). Questa tipologia tombale è diffusa soprattutto nelle province occidentali dell'Impero romano, in particolare nel Nord Africa e nella penisola iberica tra II e III secolo. In Sardegna le cupae sono attestate nei centri urbani di Cagliari e Fordongianus (Forum Traiani) e sono caratterizzate da una forma che richiama la botte del vino. Tale tipologia funeraria sembra aver riscontrato un discreto successo soprattutto tra ceti abbastanza umili, dal momento che le iscrizioni funerarie tradiscono la condizione di schiavi o di liberti della maggior parte dei defunti e dei dedicanti. Il corredo funerario È prassi consolidata in età romana deporre all'interno della tomba oggetti e beni che accompagnino il defunto nell'aldilà (figg. 321 , 325). In età repubblicana e imperiale il corredo

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319. Olla con coperchio utilizzata come cinerario , I sec. d.C., vetro, h 24 cm , proveniente da Camus , Oristano, Antiquarium Arborense.

funerario è costituito prevalentemente da forme ceramiche, tra cui soprattutto coppe, coppette e piatti, che dovevano contenere primizie e cibi, e forme chiuse come bottiglie, anforette e brocchette per l'offerta di liquidi e bevande. Frequente è la presenza di lucerne, strumenti per l'illuminazione che alludono simbolicamente alla luce che rischiara le tenebre della morte, e di unguentari, piccoli recipienti in terracotta o in vetro per il contenimento di olii ed essenze profumate che in ambito funerario trovavano impiego per il trattamento del cadavere. Non di rado all'interno della tomba si riscontra anche la presenza di una o più monete, il cosiddetto obolo di Caronte, spesso messo in mano al defunto o talvolta inserito nella bocca. Più rara, ma non isolata, è l'offerta di statuette fittili che riproducono figure umane o animaletti, soprattutto nelle tombe di bambini. La quantità di oggetti che compone il corredo

funerario non è necessariamente correlata alla ricchezza del defunto, dal momento che nella maggior parte dei casi si tratta di recipienti ceramici d' uso comune e di scarso valore. Indicatore invece dell'appartenenza a un censo elevato è senza dubbio la presenza di manufatti più rari e preziosi, come pregiate ceramiche di importazione, vetri o soprattutto oggetti di ornamento. Tra questi vanno annoverati i gioielli (collane, orecchini, bracciali e anelli) rinvenuti nelle sepolture di donne e fanciulle esponenti delle élite locali (figg. 207-211 ). Il corredo funerario è associato sia alle sepolture a incinerazione sia alle inumazioni. Nelle cremazioni la suppellettile è inserita all'interno dell'urna cineraria o in prossimità di essa oppure, nel caso dei busta, può essere disposta assieme ai resti scheletrici nella fossa sepolcrale. Nelle tombe a inumazione gli oggetti sono variamente collocati attorno al defunto, spesso con concentrazione di materiali in prossimità del capo, dei piedi ò lungo i fianchi. Il ritrovamento invece di vasi all'esterno della tomba deve essere ricondotto alla pratica rituale di fare offerte e libagioni in prossimità del sepolcro al momento del funerale o, successivamente, in occasione delle visite al luogo di sepoltura.

La cerimonia funebre e le celebrazioni in onore dei morti La tomba, i resti scheletrici, il corredo e tutti i reperti materiali che compongono il contesto funerario rappresentano importanti testimonianze per ricostruire il sistema di riti che venivano svolti al momento della sepoltura. Sono però soprattutto le fonti letterarie e, in maniera minore, quelle iconografiche ed epigrafiche a completare il quadro dell'insieme delle pratiche rituali e delle cerimonie officiate dalla famiglia e dalla comunità dal momento della morte a quello della sepoltura e successivamente in occasione delle commemorazioni del defunto. Quando una persona moriva, i parenti e i cari chiamavano ad alta voce il suo nome e intonavano pianti e lamenti, che continuavano a più riprese fino alla sepoltura. Il cadavere veniva lavato, profumato e vestito, dopo di che era esposto sul letto funebre. Il trasporto al luogo della sepoltura, che nel mondo romano era in aree dedicate poste al di fuori dell'abitato, avveniva su un feretro, che la famiglia e gli amici seguivano e accompagnavano con lamenti e canti funebri. Si procedeva quindi alla

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deposizione del cadavere nella tomba, nel caso della cremazione preceduta dalla combustione sul rogo funebre, alla sistemazione degli oggetti del corredo e all'offerta di fiori, piccoli animali, primizie e libagioni. Nel periodo che seguiva la morte di un individuo, la famiglia compiva riti di purificazione e in giorni prestabiliti - in genere al terzo giorno dalla morte, al settimo, al nono, al trentesimo o quarantesimo e poi con cadenza annuale - apprestava un banchetto in onore del defunto, in prossimità della tomba. Tale pratica trova conferma anche a livello archeologico, nella presenza di banconi e mense all'interno delle aree sepolcrali. In Sardegna le mense funerarie sono documentate soprattutto nelle necropoli paleocristiane, come quelle di Columbaris a Cornus, di San Cromazio a Villaspeciosa o di San Saturnino a Cagliari, per citare solo alcuni esempi, ma è verosimile che

anche nell'Isola l'usanza dei pasti funerari fosse già ampiamente diffusa in età romana. Piccole quantità di cibo (pane, uova, fave, grano ecc.) e liquidi (acqua, vino, latte, miele, olio e sangue animale) erano offerti anche sulla tomba. A tale scopo questa è talvolta dotata di canalizzazioni o tubi che consentivano l'effettiva penetrazione nella sepoltura di tali offerte. Dispositivi per l'infusione sono stati individuati, ad esempio, su una tomba alla cappuccina nella necropoli di Acciaradolzu a Olbia e sulla tomba di Limenius a Cornus. La principale festa del calendario romano in onore dei defunti era quella dei Parentalia, che cadeva tra il 13 e 21 febbraio e si concludeva con il giorno dei Feralia, riservato allo svolgimento di riti pubblici. Le famiglie portavano sulle tombe dei propri congiunti delle offerte, come chicchi di grano, granelli di sale, fave, lenticchie, pani, vino, ghirlande

320. Olla con coperchio utilizzata come cinerario, seconda metà 1-11 sec. d.C., vetro, h 21 cm, proveniente da Tharros, Oristano, Museo Diocesano Arborense.

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321. Corredo funerario , età imperiale, proveniente da Turris Libisonis, Porto Torres, Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano.

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e fiori, tra cui in particolare rose e violette. La celebrazione di tali feste in Sardegna è ricordata da Cicerone. Nell'orazione Pro Scauro pronunciata nel 54 a.C. in difesa dell'ex propretore Marco Emilio Scauro, accusato dai Sardi di concussione e di altri reati compiuti durante la sua permanenza nell'Isola per amministrare la provincia, Cicerone per scagionare il suo assistito dall'accusa di aver indotto al suicidio la moglie di un cittadino di Nora di nome Aris, ribalta l'accusa sullo stesso· Aris, riportando fatti che si sarebbero svolti a Nora in occasione della festa dei Parentalia, quando gli abitanti erano usciti dalla città in processione per recarsi nella necropoli. Considerando che alla metà del I secolo a.C. la comunità norense, come riporta anche Cicerone, registrava ancora una forte prevalenza della componente punica, è verosimile che si trattasse di festività di tradizione cartaginese in onore dei defunti con caratteri analoghi a quelle romane e per questo a esse assimilate. Altre festività in onore dei morti erano i

Lemuria, nel mese di maggio, quando si credeva che gli spiriti tornassero sulla terra. Anche durante i Rosalia, una festa di carattere non esclusivamente funerario celebrata tra maggio e giugno, venivano offerte rose sulle tombe e alle statue-ritratto dei defunti. Di carattere privato era invece l'usanza di portare offerte sul sepolcro nel dies natalis, il giorno del compleanno del morto.

Perpetra re la memoria La necessità di gestire il momento del distacco e di perpetrare il ricordo del morto accomuna tutti gli strati sociali, sebbene le modalità in cui si esplica tale volontà siano condizionate anche dalle disponibilità economiche della famiglia del defunto. Se segnacoli e cippi funerari dovevano marcare abitualmente le sepolture delle necropoli romane, la monumentalizzazione del sepolcro, che trova nella tomba della Vipera a Cagliari (figg. 343-344) uno degli esempi più significativi e celebri, è senza dubbìo appannaggio esclusivo degli esponenti di

spicco della società. Anche ceti meno abbienti non rinunciano però a monumenti funerari di un certo impegno, come abbiamo già visto per le cupae che sembrano essere predilette soprattutto da schiavi e liberti di origine orientale. Piuttosto rara in Sardegna è la raffigurazione del defunto, che trova nelle stele con riproduzione schematica del busto del tipo "a toppa di chiave" o "a specchio", diffuse nel Sassarese e nell'Oristanese tra la fine dell'età repubblicana e la prima età imperiale, un originale punto di incontro tra produzioni locali e modelli di rappresentazione italica (figg. 352-358). La memoria dei morti è inoltre affidata alle iscrizioni, rinvenute in Sardegna principalmente nei grandi centri abitati, in particolare a Cagliari, seguita per numero di attestazioni da Porto Torres. Le epigrafi funerarie, introdotte spesso dall'invocazione agli Dei Mani, ricordano in genere il nome del defunto, talvolta associato a quello del dedicante, accompagnato dall'indicazione dell'età e da espressioni di elogio nei confronti del morto. Le deroghe alla norma: sepolture non convenzionali e anomale Se i costumi e le pratiche funerarie hanno un carattere convenzionale e conservativo determinato dal fondarsi su riti che per loro natura vengono ripetuti secondo formule precise e prestabilite, non mancano nella documentazione archeologica delle eccezioni. È questo il caso, ad esempio, delle sepolture che riutilizzano spazi precedentemente adibiti ad altro o ad "altri", come le due entro cista litica di età imperiale rivenute a Nurallao in località Aravoras, dove al di sotto dell'inumato accompagnato dal corredo erano conservati i resti incompleti di altri individui, spostati e accatastati sul fondo per far spazio ai nuovi ospiti. Abbastanza diffuso è anche il riutilizzo delle tombe di giganti di epoca nuragica, all'interno delle quali sono state rivenute deposizioni funerarie databili in età romana sulla base degli elementi del corredo. Con il termine di "sepolture anomale o atipiche" sono invece note in letteratura archeologica quelle tombe in cui i resti dei defunti presentano caratteristiche che derogano dalla norma in relazione ad aspetti quali la localizzazione del sepolcro, la posizione del cadavere, la rimozione, la selezione o lo spostamento intenzionale di porzioni dello scheletro. L'adozione di trattamenti del cadavere non

consueti nell'ambito della ritualità funeraria è in genere interpretata come volontà di distinguere il defunto all'interno della comunità dei morti e contestualmente di proteggere la comunità dei vivi da potenziali influssi negativi a esso attribuiti. In realtà non è sempre facile dedurre dalle condizioni di ritrovamento l'intenzionalità di situazioni non consuete, né tantomeno la reale attribuzione a esse di particolari significati. È stato ad esempio verificato nei sepolcreti di Roma come le sepolture prone, con l'inumato cioè deposto con la parte anteriore del corpo rivolta a terra, non si differenziano in genere per tipologia del corredo rispetto alle più usuali in posizione supina e sono convenzionalmente inserite nel tessuto della necropoli, senza che niente lasci ipotizzare una qualche connotazione negativa. Carattere di indubbia eccezionalità presenta invece una sepoltura rinvenuta nella necropoli di Mitza de Siddi a Ortacesus, dove un inumato, di sesso maschile e di età compresa tra i 50 e 60 anni, è stato deposto smembrato in due parti, con la porzione inferiore del corpo, dalla vita in giù, posizionata sopra quella superiore. Le mani inoltre erano serrate attorno alla gola, in un gesto che in età imperiale troviamo associato all'iconografia del malocchio e che potrebbe far pensare che il personaggio in questione fosse stato considerato un portatore di sventura, tanto da giustificare un trattamento dei resti assolutamente anomalo e lontano dalla prassi.

Nota bibliografica Per un inquadramento generale del tema della morte nel mondo romano: TOYNBEE 1993. Per il contesto sardo: SEPOLTURE IN SARDEGNA 1990; CRUCCAS 2012. Sulle tombe romane a enchytrismos: VISMARA 1990. Sui sarcofagi e la scultura funeraria: TEATINI 2011 ; PARODO 2017. Sui banchetti funebri e gli apprestamenti per le libagioni: GIUNTELLA, BORGHETTI, STIAFFINI 1989; TEATINI 2001 ; SPANU 2016. Sulle feste dei Parentalia a Nora: RUGGERI, PLA 0RQUfN 201 7. Per il reimpiego di tombe di giganti in età romana: PARRE 201 7. Sulle sepolture anomale: CESARI, NERI 2009; BELCASTRO, ORTALLI 2010; NIZZO 2018 e, per la sepoltura "anomala" di Ortacesus, PILO 2018. Ampio è il numero di pubblicazioni dedicate a contesti di necropoli della Sardegna romana; a titolo meramente esemplificativo e senza pretesa di esaustività, oltre alle pubblicazioni già citate si veda: TRONCHETTI 1985a; SALVI 1998; GIUNTELLA 1999; GIUNTELLA 2000; LA FRAGOLA 2000; ARRu 2003; SALVI 2005a; BONINU, ET AL. 2008; LA FRAGOLA, ROVINA 2008; Cocco, ET AL. 2009; Bo PANDOLFI 2012 (con bibl. precedente); PIETRA 2013, pp. 109-155; D'ORIANO, PIETRA, PISA 2018.

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La necropoli di Mttza de Siddi di Ortacesus Gianna De Luca

La scoperta della necropoli rurale di Mitza de Siddi di Ortacesus risale al 1995, quando nel corso di lavori agricoli si intercettarono alcune antiche sepolture che furono indagate dalla Soprintendenza attraverso diverse campagne di scavo condotte a più riprese sino al 2004. Si tratta di un sito localizzato nella verdeggiante campagna trexentese, a meridione del piccolo centro cittadino, in prossimità di una fonte d'acqua dolce, in sardo sa mitza, che dà il nome alla zona. Tutta l'area della necropoli, caratterizzata dalla presenza di diverse fosse terragne distribuite con differente orientamento

geografico su una superficie areale di circa 1300 mq, è caratterizzata da terreni di natura alluvionale che nel corso del tempo hanno coperto il più antico basamento di roccia arenaria, su cui sono state direttamente ricavate le fosse destinate alle sepolture. Il loro periodo di realizzazione e di uso si colloca in un arco cronologico abbastanza lungo, che va dal III secolo a.C. al II secolo d.C., e che pertanto corrisponde alla dominazione romana della Sardegna. Come è noto, secondo le fonti antiche, in questa fase la fertile piana del Campidano vive un'intensa stagione di attività

322-323. Ortacesus, necropoli di Mitza de Siddi. Veduta di alcune sepolture dopo l'intervento di musealizzazione messo in atto nel 2009. Il progetto ha contribuito a realizzare un percorso di visita, che si snoda tra le sepolture indagate. Si notano alcune sepolture "alla cappuccina", owero coperte da tegole piatte disposte a imitazione di un tetto a falde spioventi (fig. 323).

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agrarie, che sono finalizzate prevalentemente alla coltivazione del grano, una vocazione che si osserva molto evidentemente anche ai giorni nostri. Questa destinazione di uso dei terreni di tutta la zona, se da una parte può aver compromesso i livelli più superficiali del sito archeologico, ha consentito tuttavia la sua buona preservazione come quella del suo ambiente originario, che per la natura terragna delle deposizioni risultano strettamente legati. Grazie ali' elevato numero di sepolture individuate, circa un centinaio, la necropoli

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326. Ortacesus, necropoli di Mitza de Siddi. Una sepoltura a inumazione in corso di scavo. !.'.inumato era adagiato sul fondo della fossa in posizione supina e con le braccia piegate sul bacino. Il corredo era deposto in corrispondenza dei piedi.

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di Mitza de Siddi di Ortacesus costituisce un caso studio molto importante per analizzare la complessa fase di passaggio dall'età punica a quella romana, una fase interessata da multiformi dinamiche di acculturazione, ancora oggi materia di dibattito tra gli studiosi. L'importanza del sito, inoltre, è da porre in relazione alla sua vicinanza con l'area di Santu Teru-Monte Luna di Senorbì, un luogo che in età punica sembra rappresentare l'epicentro di un grande e agiato sistema territoriale interessato allo sfruttamento agricolo intensivo, a cui dovrebbe fare riferimento anche l'agro di Ortacesus. Data la sua significativa estensione topografica e il lungo periodo di utilizzo, i rituali di sepoltura documentati nella necropoli sono diversi, come pure i corredi che, nella maggior parte dei casi, sono costituiti dagli effetti personali del defunto e dalle offerte alimentari deposte in occasione del funerale. Uno dei

fasi cronologiche di riferimento, ma sembra comunemente interpretata con la tradizione dell'obolo a Caronte, che sottende la concezione della morte come viaggio verso l'oltretomba. Per quanto riguarda invece le ceramiche, a Ortacesus queste si qualificano come un'ampia base documentaria di forme e tipi morfologici, appartenenti a diverse classi di materiali. Molto attestate sono le forme riconducibili a un utilizzo alimentare, come coppe e piatti, sia di importazione sia di produzione locale, brocche, piccole anfore, bicchieri a pareti sottili e balsamari. Molto frequenti, ancora, sono le lucerne, il cui uso in tomba è da ricondurre verosimilmente alla simbolica necessità ultraterrena del defunto di illuminare il suo viaggio verso il mondo dei morti. Altre sepolture sono invece del tipo "a incinerazione". Secondo questo rituale funerario, molto diffuso in epoca tardorepubblicana, i resti combusti del defunto sono raccolti entro urne e deposti nelle fosse (secondo il rituale romano dell'ustrinum) oppure sepolti nel luogo medesimo dell'arsione del corpo, con il rituale del bustum. Nel corso dell'età imperiale, si documenta inoltre un nuovo tipo di sepoltura a inumazione, che si definisce "alla cappuccina". Queste distinzioni tipologiche e i pertinenti materiali di corredo documentano un uso prolungato del sepolcreto rurale di Mitza de Siddi, e nuovi studi sempre più specifici sulla sfera rituale della morte contribuiranno così a far ulteriore luce anche sulla vita della Trexenta punica e romana e sui suoi antichi abitanti. Nota bibliografica 1990; T OYNBEE 1993; B ARTOLONI 2000; Cocco, ET AL. 2009.

COSTA, LILLIU, SALVI

Donatella Salvi.

327. Quartucciu, necropoli di Pitl'e Matta (foto P. Dessl). la necropoli, qui in fase di scavo, è stata messa in luce net 2000 durante i lavori della nuova area industriale; lo sbancamento, che è stato occasione per la scoperta, ne ha però tagliato in due lo sviluppo. Le ampie porzioni residue erano fortunatamente intatte. 328. Quartucciu, necropoli di Pill'e Matta (foto D. Salvi). La tomba 224 è un esempio della tipologia più frequente nella necropoli tra la fine del lii e il V secolo d.C. Dopo la deposizione e la sistemazione degli oggetti, l'apertura veniva chiusa con embrici posti di coltello e la fossa riempita di terra. Non sono stati trovati segnacoli esterni. 329. Quartucciu, necropoli di Pill'e Matta, IV-V sec. d.C. (foto D. Salvi). La tomba 97 ospitava una donna tra i 45 e i 55 anni, alta 155 cm circa, affetta da artrosi e dagli arti gracili. Il corredo, composto da 14 oggetti, era raccolto sul fondo e comprendeva, in varie composizioni, brocche, piatti, lucerne e bicchieri in vetro, ritrovati quasi tutti intatti.

Tra le necropoli rurali della Sardegna quella venuta alla luce in località Pill'e Matta, alla periferia di Quartucciu e a poco più di dieci chilometri da Cagliari, è quella che per le caratteristiche materiali e immateriali che è stato possibile cogliere con lo scavo ha fornito il maggior numero di informazioni. Sovrapposta solo in piccola parte a una più antica area cimiteriale di età e cultura punica - anche questa con proprie caratteristiche nella tipologia delle strutture - ha le più antiche attestazioni in età repubblicana o primo-imperiale, con pochi elementi probabilmente sopravvissuti ai tagli effettuati per l'apertura di una strada che, di contro, ha consentito la scoperta della necropoli stessa (fig. 327). Per il II e III secolo d.C. le sepolture sono costituite prevalentemente da una fossa rettangolare scavata nel terreno sedimentario sul cui fondo è deposto il defunto accompagnato da un corredo ceramico sistemato con cura presso il capo e/ o presso i piedi e a volte con una forma aperta sull'addome. La chiusura è formata da embrici disposti alla cappuccina con coppi a coprirne la sommità. La fossa è poi colmata di pietrame - sui fianchi a reggere gli embrici - e di terra.

Queste caratteristiche, comuni a tante altre necropoli, cambiano nella seconda metà del III secolo quando compare, per poi divenire unica tipologia, la tomba a nicchia laterale. Si tratta anche in questo caso di una fossa rettangolare più o meno profonda che si amplia, su uno o su entrambi i lati lunghi, in una nicchia sufficientemente ampia da contenere agevolmente il corpo del defunto e gli oggetti che lo accompagnano. Sono anche qui presenti gli embrici non più per coprire la fossa quanto per chiudere - disposti accuratamente in verticale e spesso sfruttando, per un risultato ottimale, la forma trapewidale con l'alternanza del lato maggiore con quello minore su cui poggiano-l'intera luce della nicchia (figg. 328329). Il passaggio tra le due forme di sepoltura sembra essere stato graduale seppure breve, considerato che in alcuni casi la stessa fossa contiene una sepoltura a nicchia e, affiancata, una tomba alla cappuccina. Segno ulteriore della contemporaneità, o comunque della vicinanza nel tempo delle due deposizioni, è la somiglianza degli oggetti che costituiscono i rispettivi corredi. Sarà poi la tipologia della fossa a nicchia laterale quella generalmente adottata nei due secoli successivi, comportando anche una significativa modifica nella composizione

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331. Bicchiere troncoconico, IV-V sec. d.C., vetro, h 11 cm, proveniente dalla necropoli di Pill'e Matta (foto C. Buffa per la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna). La decorazione, che ne fa un unicum in Sardegna, è costituita da tre fasce di bande molate: la terza contiene la scritta in caratteri maiuscoli Pie zeses dulcis anima (bevi e vivi dolce anima), formula beneaugurale che unisce i verbi greci all'invocazione latina.

332 . Accessorio di una cintura militare, IV sec. d.C. , lamina bronzea, h 6,4 cm , proveniente dalla necropoli di Pill'e Matta (foto F. Arca per la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna). Il defunto della tomba 100 indossava una cintura complessa , presumibilmente in cuoio, alla quale erano applicati con rivetti , oltre a questo elemento, due fibbie, un elemento "a elica" e una piastrina incisa.

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del corredo. Cambia infatti il numero degli oggetti e la loro tipologia: da un lato l'abbondanza di brocche e piatti di produzione locale - le cosiddette campidanesi-, dall'altra il massiccio impiego di piatti, coppe e lucerne in sigillata africana (figg. 335-337, 339-342) e di bicchieri in vetro di accurata fattura (figg. 330-331, 333-334) denotano insieme un mutato rapporto fra la comunità dei vivi e quella dei morti e un buon livello economico che consente alla prima di sottrarre all'uso e di dedicare alla seconda un certo numero di beni forse appositamente acquistati e comunque non ancora utilizzati. Ciò si deduce non solo dallo stato generale degli oggetti - che conferma l'intenzionalità delle scelte - ma anche dalla possibilità di interpretare episodi volontari e/o

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involontari, collegabili alle fasi della deposizione e della chiusura della tomba che escludono che macchie, segni di usura o interventi sugli oggetti possano essere antecedenti. Tra le importanti novità delle azioni compiute dai vivi per i defunti della necropoli vi è infatti la composizione di moduli d'offerta disposti in punti diversi della nicchia: si tratta, nell'associazione più semplice, di un piatto o una scodella o comunque di una forma aperta all'interno della quale veniva sistemata una lucerna e un bicchiere oppure una lucerna e una brocca di piccole dimensioni. Come dimostra il beccuccio annerito la lucerna veniva accesa al momento del commiato; è stato possibile verificare, però, che, subito dopo la chiusura, in qualche caso la lucerna si sia inclinata provocando la fuoruscita e la bruciatura dell'olio sul piatto sottostante, sul quale è rimasta l'impronta della lucerna stessa e dell'ampiezza dello spargimento dell'olio bruciato. Forse per affrontare l'eventualità di un simile incidente o semplicemente per spegnere la lucerna sono state trovate diverse brocche che, sul collo o sulla spalla, presentano un foro intenzionalmente praticato prima della deposizione, utile, come sembra, a consentire un leggero deflusso d'acqua. Il gran numero degli oggetti presenti in una stessa tomba - legato al ripetersi di più moduli, ma non solo - consente altre osservazioni: la prima, soprattutto nel caso di sepolture singole

333. Bicchiere, IV sec. d.C., vetro, h 10 cm, proveniente dalla necropoli di Pill'e Matta (foto C. Buffa per la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna). La decorazione a reticolo applicato è stata considerata una variante di quella a gocce dei vetri definiti Nuppeng/aser. Bicchieri simili sono ampiamente diffusi in area orientale e considerati fra le produzioni più significative dell'età tardo-romana . 334. Bicchiere, seconda metà IV sec. d.C., vetro, h 10 cm, proveniente dalla necropoli di Pill'e Matta (foto C. Buffa per la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna).

ritrovate intatte, è la sicura contemporaneità d'uso degli oggetti che vi erano contenuti; la seconda è la presenza, non costante ma a volte consistente, di monete che permette di mettere i contesti - e quindi gli oggetti - in reciproco confronto tra loro e in sequenza cronologica con gli altri contesti; la terza, collegata al numero e alla contemporaneità, è quella che deriva dalla presenza in uno stesso corredo di simboli diversi sulle lucerne o sulle forme aperte in sigillata africana: croci di varia tipologia o raffigurazioni tratte dal repertorio iconografico cristiano si affiancano infatti a candelabri ebraici (fig. 341) o a simboli pagani, rendendo improbabile l'adesione della comunità a uno specifico credo religioso. Va inoltre sottolineato che le tante forme africane decorate presentano motivi che raramente si ripetono e talvolta costituiscono assolute novità. È il caso di un piatto che raffigura, unico nel suo genere, Adamo ed Eva presso un albero carico di foglie e di frutti intorno al quale avvolge le sue spire il serpente e, contrapposto a questo, un sécondo albero ricco di fronde; le figure a rilievo sono applicate (fig. 335). Non solo. La grande varietà di immagini che compaiono sui reperti di Pili' e Matta, trova straordinari riscontri con un certo numero di matrici tunisine, sia per singole figure, come nel caso di Eva nel piatto citato, sia dell'intero disco figurato di alcune lucerne, come la composizione con un suonatore seduto sulla porta di una capanna costruita su un albero della

tomba 25 (fig. 340), la pavoncella delle tombe 4 e 91, la croce gemmata circondata da impressioni di monete di Teodosio II della tomba 5. Si contrappone alla grande e ricca quantità di dati offerti dalla necropoli l'incertezza sull'origine e sui luoghi della vita di questa comunità così ben rappresentata nella morte e infine sul come o sul perché con il V secolo anche il ciclo dei suoi morti si chiuda per sempre. L'ipotesi dell'appartenenza a gruppi di origine sarmata, già avanzata, si poggia sulla tipologia delle sepolture a nicchia, rara nel mondo occidentale, sulla ricca composizione dei corredi in periodi nei quali l'adesione di molti gruppi isolani al Cristianesimo comporta la definitiva rinuncia ai reperti d'uso, e infine sull'eccezionale ritrovamento di militaria, cioè di particolari fibbie di cintura (fig. 332), confrontabili con oggetti analoghi provenienti da presidi militari di origine germanica delle quali potevano far uso truppe di confine o adibite al controllo delle strade, forse contadini-soldati, come potevano essere i sarmati gentiles, ai quali fin dall'età di Costantino erano state assegnate in varie località del mondo romano aree da coltivare.

Nota bibliografica Per maggiori approfondimenti sulla necropoli in generale o su alcuni temi specifici si rimanda a: SALVI 2003; SALVI 2005a; SALVI 2007; SALVI 2008; SALVI 2010; SALVI 2013; SALVI 2015; SALVI 2016b.

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337. Scodella In sigillata africana D, V sec. d.C., ceramica, 0 19 cm, proveniente dalla necropoli di Pill'e Matta (foto C. Buffa per la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna).

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338. Brocchetta, metà IV sec. d.C., ceramica , h 19,2 cm, proveniente dalla necropoli di Pill'e Matta (foto C. Buffa per la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna). 339. Brocchetta in sigillata africana, IV-V sec. d.C., ceramica , h 13,5 cm, proveniente dalla necropoli di Pill'e Matta (foto C. Buffa per la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna). 340-342 . Lucerne in sigillata africana, IV sec. d.C., ceramica , rispettivamente lungh.: 14,8 cm; 11 cm e 11 cm, provenienti dalla necropoli di Pill'e Matta (foto C. Buffa per la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna).

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343. Càgliari, Tomba di Atilla Pomptilla. Il prospetto del monumento (2,66 m di altezza e 2,07 m di larghezza) era originariamente prowisto di una scalinata oggi scomparsa a causa di una cava, probabilmente di età medievale. Da qui si accede al pronao di forma rettangolare, munito di sedile a predella per consentire a un possibile visitatore di sostare per leggere i carmina epigraphica (iscrizioni funerarie) incisi sulle pareti del vano, e alle camere funerarie, dove, sulla parete di fondo della seconda, si apre un arcosolio con due arche generalmente attribuite ad Atilia Pomptilla e Cassius Philippus.

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Nonostante in Sardegna siano ampiamente documentate le tipologie di sepolture più diffuse nel mondo romano, dalle urne cinerarie ai sarcofagi, risultano numericamente limitati gli esempi di edilizia funeraria monumentale, come l'ipogeo di Atilia Pomptifla, comunemente conosciuto come "Grotta delle Vipere': Il sepolcro, localizzato alle pendici della necropoli di Tuvixeddu a Cagliari e cronologicamente inquadrabile tra la seconda metà del I e gli inizi del II secolo d.C., è definibile come un heroon, il monumento funerario di una figura eroica, sulla base sia dei caratteri architettonici che di quelli epigrafici. La pianta è articolata in tre ambienti, il pronao più le due camere funerarie, e un prospetto distilo in antis, munito di capitelli ionici, di cui si conserva solo quello destro con

collare di foglie d,acanto. La trabeazione si compone dell'architrave, che conserva riscrizione funeraria con il nome della defunta, e dell'attico, delimitato da una cornice a duplice listello con dentellatura e da due pilastrini laterali di ordine corinzio. Al centro è presente un frontoncino, decorato negli spioventi con due altari in funzione acroteriale, nel cui timpano sono collocati una patera e un praefericulum, recipienti utilizzati per le libagioni sacre, fiancheggiati da due serpenti affrontati, interpretati come i simboli dell'unione coniugale tra Atilia Pomptilla e Lucius Cassius Filippus. Le sedici iscrizioni incise sulle pareti dell'ipogeo (Corpus Inscriptionum Latinarum X, 7563-7578) testimoniano la drammatica vicenda che

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344. Cagliari , Tomba di Atilia Pomptilla. Particolare dell'architrave dell'ipogeo; al centro del frontoncino sono raffigurati i due serpenti che hanno fornito la popolare denominazione di Grotta delle Vipere al monumento: quello di sinistra si contraddistingue per il dettaglio della barba. Tale attributo, che permette di qualificare i due rettili rispettivamente come di sesso maschile e femminile, ha consentito la loro identificazione con il genius e la iuno di Cassius Philippus e Atilia Pomptil/a , owero le divinità protettrici di ambito virile e muliebre, sebbene non sia da trascurare una loro ulteriore associazione con due serpenti agathodaimones (spiriti benevoli), raffigurati anche nei lararia (sedi del culto dei Lari) , e qui assunti a simbolici difensori del luogo di sepoltura.

coinvolse i due personaggi in questione, entrambi originari di Roma. Cassius Filippus fu condannato ali' esilio in Sardegna sulla base di non meglio specificabili motivazioni politiche, ipoteticamente connesse al rapporto di parentela con il giureconsulto Cassius Longinus già confinato nell'Isola nel 65 d.C. a causa di dissidi con Nerone. Atilia Pomptilla ne condivise la sorte e, ammalatasi fino alla morte in occasione delle cure prestate al marito, è celebrata come un esempio di virtù muliebri mediante quattordici epigrammi, sette in latino e altrettanti in greco, verosimilmente realizzati dallo stesso Cassius Filippus e compresi nel complesso epigrafico del monumento funerario. L'analisi dei versi di uno di essi (Corpus Inscriptionum Latinarum X, 7569) ha consentito, grazie al riscontro con un analogo passo di Marziale (1, 36, 6), di fissare il terminus post quem della realizzazione del sepolcro all'88 d.C., quando fu pubblicato il libro di epigrammi del poeta latino, entro un arco cronologico confacente allo stile del sopracitato capitello ionico, attribuibile agli inizi' del II secolo d.C. La presenza di tali iscrizioni nel monumento funerario è inoltre funzionale a esplicitare il nuovo status assunto da Atilia Pomptilla dopo la morte, equiparata sia alle più celebri eroine del mito greco note per la loro devozione coniugale fino all'estremo sacrificio, come Penelope, Evadne, Laodamia e Alcesti, che a Giunone infera ( Corpus Inscriptionum Latinarum X, 7576-7577), epiteto con cui

viene definita Proserpina (Virgilio, Eneide 6, 136-148). I versi di un ulteriore epigramma - «Possano le tue ossa, Pomptilla, sbocciare in viole e in gigli e possa tu fiorire in petali di rosa e di profumato croco e di amaranto che non appassisce, e dei bei fiori della violacciocca, in modo che, simile al narciso e al giacinto assai compianto, il tempo futuro possa avere anche un tuo fiore » ( Corpus Inscriptionum Latinarum X, 7567) -, si riferiscono alla metamorfosi floreale postuma di Atilia, un motivo tematico ricorrente negli epigrammi funerari che allude sia ai superiori valori estetici della defunta che alla sua apoteosi. Analogamente a figure mitologiche come Narciso, Croco, Giacinto e Adone (Ovidio, Metamorfosi 3, 339-510; 4, 283; 10, 162-219, 708-739), la trasformazione di Atilia riguarda in particolare le rose, simbolo della rinascita dopo la morte, grazie al colore rosso associato a quello del sangue (Servio, Eneide 5, 79), nonché i fiori più diffusamente offerti in occasione dei Rosalia, una festività celebrata senza data fissa tra aprile e luglio e semanticamente declinabile secondo l'accezione eroica del culto dei defunti.

Nota bibliografica Sull'ipogeo di A tilia Pomp tilia e la scultura funeraria nella Sardegna di età romana: ZuccA 1992; ANGIOLILLO 2008, pp. 61-63; PARODO 20 17. Sul culto eroico dei defunti nel mondo romano e la festività dei Rosalia: GRANDINETTI 2002; PARODO 2015, pp. 414-420; PARODO 2016.

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La scultura funeraria Alessandro Teatini

345. Urna cineraria, 50- 70 d.C., marmo, h 32 cm, proveniente da Turris Libisonis, Porto Torres, Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano. Al di sotto del timpano che si innalza dal coperchio la fronte è interamente occupata dalla ricca decorazione e dalla tabula con il nome del liberto Caius Vehilius Rufus, della tribù Collina: una pesante ghirlanda di fiori e frutti pende da due teste di Giove Ammone.

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Il quadro generale della scultura funeraria di età romana in Sardegna muta sensibilmente tra il primo e il secondo secolo del Principato, sia in merito alla natura delle evidenze, sia, soprattutto, per quanto riguarda il loro numero. Nel I secolo d.C. la prevalenza del rito dell'incinerazione determina l'importazione da Roma di urne marmoree, attestate però nell'Isola in misura veramente esigua: conosciamo pochissimi esemplari di questi eleganti cinerari in marmo bianco prodotti quasi esclusivamente nelle officine di Roma durante il I e all'inizio del II secolo d.C., nonostante nuove scoperte si siano aggiunte alle due urne note da tempo, una da Cagliari, custodita al Museo Archeologico Nazionale, e l'altra da Porto Torres, esposta nell'Antiquarium Turritano (fig. 345) . Al di sotto del timpano che si innalza dal coperchio piatto la fronte è interamente occupata dalla ricca decorazione e dalla tabula, inscritta solo nell'esemplare turritano con il nome del liberto Caius Vehilius Rufus, della tribù Collina: una pesante ghirlanda di fiori e frutti pende da teste di Giove Arnmone o, nell'urna a Cagliari, da protomi di ariete, mentre uccelli, sfingi e tritoni popolano gli spazi di risulta. La resa della ghirlanda, caratterizzata dal dato tecnico dei segmenti che ne uniscono gli elementi costitutivi pur senza annullarne l'evidenza plastica, induce a proporre per entrambe le urne una datazione tra la fine del periodo di Claudio e quello di Nerone, dunque nell'ambito del terzo venticinquennio del I secolo. Le nuove scoperte sono parimenti esigue: si tratta di solo due urne da Olbia e da Cagliari, dall'apparato decorativo meno ricco delle precedenti e, purtroppo, segnate da notevoli abrasioni nelle superfici. Uno iato di quasi un secolo separa dunque questi primi arrivi in Sardegna di esemplari della scultura funeraria di Roma dalla grande stagione dei sarcofagi decorati, oggetto di massiccia importazione soprattutto dalla capitale dell'Impero, ma anche, seppure in misura ridotta, da Ostia, dalla Campania e da Cartagine, oltre che realizzati localmente imitando i prototipi dei grandi centri produttori. Nell'Isola sono noti, al momento, poco meno di novanta sarcofagi di età romana, distribuiti in un arco

temporale molto ampio, dalla metà del II secolo, con le prime importazioni da Roma, fino alla metà del V, dunque ben oltre la fine della produzione dell'Urbe, che si arresta all'inizio del V secolo: ciò in virtù della presenza in Sardegna di esemplari usciti dalle officine di Cartagine nell'ambito della stagione produttiva che qui si sviluppa nella tarda antichità. Quello che colpisce primariamente nel panorama generale dei sarcofagi sardi è, accanto all'importanza del dato numerico, la varietà dei soggetti delle decorazioni: si va così dai temi legati alla sfera privata del defunto, a quelli bucolici, ai soggetti di ambito marino, fino ai sarcofagi con eroti, a quelli con Muse e a una lunga serie di esemplari cori' temi stagionali. Anche i temi più genericamente decorativi sono stati assai richiesti dalla committenza sarda di età imperiale, ma è attestata anche la classe dei sarcofagi dionisiaci e di quelli mitologici; pochi esemplari cristiani chiudono questa ampia casistica. Tutte queste categorie decorative sono documentate primariamente grazie alle importazioni di casse in marmo da Roma: del resto il dominio del commercio dei sarcofagi nel contesto dei territori occidentali dell'Impero romano è saldamente detenuto proprio dalle produzioni Urbane, nonostante queste raggiungano una concentrazione abbastanza importante solo in talune regioni, prima fra tutte la Gallia, seguita da certe aree dell'Africa (segnatamente la Numidia e Cartagine con il suo retroterra) e dalla Spagna. Anche la Sicilia e la Sardegna si inseriscono appieno in questo flusso commerciale di matrice squisitamente occidentale, con evidenze numerose e, talora, di notevole livello esecutivo. L'arco cronologico generale delle attestazioni sarde si allinea perfettamente allo svolgimento della produzione principale di Roma: se questa si può far risalire, senza ovviamente considerare le anticipazioni, agli anni tra la fine del principato di Traiano e l'inizio di quello di Adriano, non sorprende il lieve attardamento della documentazione esportata in Sardegna, che difficilmente riesce a rimontare prima della metà del II secolo. L'interruzione delle importazioni sembra invece intervenire subito dopo il periodo di

Costantino, mentre a Roma si continueranno a scolpire sarcofagi, ovviamente con temi quasi esclusivamente cristiani, fino all'inizio del V secolo: ma dalla fine del IV secolo fino alla metà del V la Sardegna sarà aperta ai nuovi traffici commerciali che, per far fronte al crollo della produzione Urbana, veicoleranno nel Mediterraneo occidentale gli esemplari realizzati a Cartagine. I sarcofagi più antichi sono della fase di età antonina e rientrano evidentemente nelle tipologie di precoce creazione da parte

delle maestranze di Roma: dopo le prime importazioni in Sardegna di un sarcofago a ghirlande da Tharros (ora al Louvre) e di due esemplari frammentari con corteggio di esseri marini da Cagliari, databili attorno alla metà del II secolo, giungono in Sardegna alcune casse che forniscono già un'eloquente esemplificazione dell'ampia diversificazione delle tematiche decorative. Olbia impone da subito il suo ruolo fondamentale nella parte settentrionale dell'Isola quale recettore di sarcofagi importati: anche se solo ipotizzabile,

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346-34 7. Sarcofago, 300-31 O d.C., marmo, lungh. 203 cm , proveniente da Cagliari, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Il sarcofago a vasca con geni stagionali e Vittorie clipeofore è un importante esempio di sarcofago dal grande formato, la cui esecuzione si qualifica tra i recuperi classicistici di notevole impegno qualitativo, evidente anche nel ritratto di giovane donna inserito nel clipeo retto dalle Vittorie. L.'.iscrizione sul listello superiore è invece relativa alla deposizione secondaria di un bambino morto a poco più di un anno, per il quale la cassa è stata evidentemente ri uti Iizzata.

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è suggestiva la provenienza dalla città gallurese dell'originale fronte di sarcofago con tabula anepigrafe e centauri in schema simmetrico ora al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, al quale si possono collegare solo altri tre esemplari analoghi, prodotti, come il nostro, tra il 150 e il 180 d.C. da maestranze di Roma. Nello stesso periodo Olbia si rifornisce anche sul mercato ostiense, altrimenti trascurato dalla committenza sarda: solo due sarcofagi importati in Sardegna risultano infatti riferibili con certezza alle officine la cui attività è ben documentata a Ostia. Uno di questi esemplari, conservato al Museo Archeologico di Olbia, è un sarcofago a ghirlande in marmo completo del suo coperchio: in effetti è assai probabile che il coperchio e la cassa facessero originariamente parte della medesima sepoltura, dal momento che entrambi i pezzi provengono dalla chiesa di San Simplicio, inoltre le loro dimensioni coincidono e, infine, si possono attribuire entrambi all'attività della stessa officina ostiense operante negli stessi anni attorno al 180 d.C. Sulla fronte, secondo l'impaginato più tipico di questa classe di sarcofagi, si sviluppano due pesanti ghirlande composte di frutti e sorrette da putti, al cui interno lo spazio semicircolare è interamente riempito da un gorgoneion rotondo; il coperchio reca due Vittorie in volo e una tabula con l'iscrizione di Maria figlia di Zoilo. È possibile separare le casse uscite dalle botteghe ostiensi da quelle prodotte invece a Roma grazie ai caratteri precipui della produzione di Ostia, sia in merito alla resa dei dettagli dei soggetti e nei loro accostamenti, sia nella forma dei corpi

degli eroti o dei putti: in particolare il sarcofago ora in Sardegna si pone nelle fasi finali della produzione di una bottega estremamente prolifica nella media e tarda età antonina e che rifornisce soprattutto il mercato dipendente dalla necropoli dell'Isola Sacra; i lavori di questi scalpellini si riconoscono per la scelta dei singoli soggetti decorativi e per gli atteggiamenti dei putti, ma segnatamente per la forma dilatata delle loro teste, accentuata nella parte inferiore dei volti, e per il loro sguardo del tutto particolare, vagamente trasognato. Nel medesimo ambito cronologico si pone un altro sarcofago a ghirlande in marmo, unico esemplare campano ritrovato nell'Isola, ora al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari: lo schema della decorazione della fronte è accentrato dalla grande tabula ansata con un'iscrizione in greco funzionale al semplice reimpiego del pezzo, avvenuto probabilmente nel VI secolo, ma il motivo decorativo caratterizzante è dato dalle due ghirlande che fiancheggiano la tabula, inquadrata lateralmente da due massicci balaustri quali elementi di sostegno delle ghirlande stesse. Le ghirlande sono composte esclusivamente di una miriade di fiori dai contorni intagliati sulla superficie del marmo, uniti insieme a formare una matassa dal profilo regolare. Le particolarità decorative dell'area campana sono riconoscibili nelle scelte in materia dei motivi, quali la tabula a guisa di elemento centrale oppure i balaustri per sostenere le ghirlande, e nello stile fortemente caratterizzato ben visibile proprio nella resa delle ghirlande, dalla forma compatta e

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348. Sarcofago , 250-270

d.C., proveniente dalla basilica di San Saturno, Cagliari, cattedrale di Santa Maria, cappella di San Saturnino. Un corteggio di sette eroti incedenti a passo di danza e con vari strumenti è raffigurato sulla fronte con uno svolgimento da sinistra verso destra, con la presenza di Psyche in atto di suonare i cembali, connotata dalle brevi ali di farfalla .

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profondamente intagliata a disegnarne gli elementi costitutivi: ne risulta il venir meno del legame con le origini vegetali della decorazione, a favore di un gusto squisitamente ornamentale. La diffusione dei sarcofagi a ghirlande campani deve essere considerata in linea di massima marcatamente locale, poiché non sono attestati esemplari di questo gruppo fuori dalla regione d'origine, tranne appunto questo giunto nell'Isola nel 180-190 d.C. È proprio nel corso dell'età antonina che si concentrano in Sardegna le poche importazioni di sarcofagi estranee alle correnti dei traffici con Roma, da dove è invece veicolata la quasi totalità di tali merci. Forse in questa fase si sono ricercate nell'Isola nuove vie di approvvigionamento per i sarcofagi, in un momento in cui questi prodotti Urbani non erano ancora commercializzati in maniera sufficiente a rispondere alla domanda delle élites provinciali. Addirittura la distribuzione dei ritrovamenti di fabbrica Urbana in queste fasi più antiche non tocca ancora la colonia di Turris Libisonis, ma è interessante sottolineare come proprio qui sia attestato un esemplare di produzione locale che è uno dei pezzi più antichi in assoluto presenti nell'Isola: l'originalissimo sarcofago con grifoni divoranti di Iulia Severa, realizzato nella stessa Turris Libisonis alla metà del II secolo in marmo proconnesio e custodito al Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna" di Sassari, anticipa ogni altro esemplare proveniente dalla colonia di circa un secolo, dal momento che qui le prime importazioni di pezzi Urbani non sono precedenti la fase di età gallienica. La composizione della fronte è organizzata

secondo uno schema rigidamente simmetrico assializzato sulla tabula inscritta centrale, ai lati della quale si susseguono, corrispondendosi due a due, quattro grifoni con le ali aperte in atto di divorare altrettanti animali. Il complesso di simboli adombrato da tali soggetti allude alla violenza della morte, rappresentata dalle belve che sbranano le vittime, contrapponendosi ali' esaltazione della defunta, il cui nome è indicato nella tabula al centro della fronte: è evidente come tale apparato semantico mal si coniughi con la deposizione di una donna, essendo di solito concepito per una committenza precipuamente maschile. Iulius Zosimianus, il dedicante del nostro sarcofago, potrebbe aver commissionato dunque per sé stesso questa cassa (salvo utilizzarla invece per la moglie) in un'officina di Turris Libisonis, quando ancora i circuiti commerciali che veicolano in Sardegna gli esemplari prodotti nelle botteghe Urbane evidentemente non toccano la colonia, ove forse manca, al momento, una èommittenza di ampiezza tale da giustificare le importazioni. Proprio per l'assenza, al tempo di Iulia Severa, di questi circuiti commerciali, è parimenti poco probabile che le maestranze turritane abbiano lavorato una cassa importata con le pareti lasciate grezze, come è la norma per la circolazione del marmo destinato ai sarcofagi: ci sembra più verosimile che sia stato utilizzato un blocco di marmo proconnesio che doveva, in origine, essere adibito ad altri usi, magari in relazione all'architettura pubblica, che vede a Porto Torres, in questo stesso periodo attorno alla metà del II secolo, un'alacre attività, testimoniata dalla documentazione epigrafica. La crescita del volume delle importazioni di

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349. Porto Torres, basilica di San Gavino, sarcofagi romani ricollocati nella cripta seicentesca. Subito dopo la metà del lii secolo d.C., a Turris Libisonis l'esordio delle importazioni dei sarcofagi è segnato da esemplari strigilati, che si diffondono poi in tutte le città dell 'Isola, in virtù della maggior accessibilità economica rispetto agli esemplari a fregio, garantita dalla semplicità del decoro e da una fabbricazione di tipo seriale.

sarcofagi da Roma in Sardegna continua in maniera costante nel periodo successivo, tra i Severi e la fine del III secolo, quando accanto al persistere di soggetti già attestati in precedenza riscontriamo nuove tematiche di carattere squisitamente decorativo, come i sarcofagi con Vittorie o eroti in volo e clipeo centrale, importati nella Sardegna meridionale da Roma ancora nella prima metà del III secolo, quindi abbastanza precocemente, considerando che questo particolare lotto della classe viene creato solo in età severiana. Un sarcofago con Vittorie clipeofore e gruppi di Eros e Psyche proviene dalla basilica di San Saturno a Cagliari, ma ora è murato nella cappella di San Saturnino nella cripta della cattedrale; al suo interno sarebbero state trovate nel 1621 le deposizioni di Vindicius, Alexander, Amicus, Saturnina, Aurelianus, Dominica, Savina, Aemilianus e un'altra Saturnina, qualificati come martiri. La fronte della cassa è quasi interamente occupata dal motivo decorativo principale, costituito da due Vittorie alate disposte simmetricamente in volo orizzontale verso il centro a sostenere il clipeo con il busto-ritratto del defunto. Il ritratto nel clipeo restituisce la precisa fisionomia di un giovane uomo avvolto in tunica e pallio, la cui forte caratterizzazione mostra aspetti in massima parte riconducibili alla tarda età

severiana. L'andamento orizzontale della composizione principale si interrompe per lo sviluppo verticale dei due gruppi laterali, che serrano la fronte della cassa separati dal resto della decorazione, ove sono ripetute, specularmente, le due figure abbracciate di Eros e Psyche: il motivo è una variante dello schema presentato nel "Bacio Capitolino", il noto gruppo statuario ellenistico che ha avuto grande fortuna in età imperiale, con numerose repliche e trasposizioni anche sui sarcofagi. La seconda metà del III secolo è il periodo nel quale in Sardegna si concentra il maggior numero di sarcofagi importati da Roma: l'intensificarsi della produzione Urbana, con la crescita esponenziale di talune classi con temi decorativi di minor impegno economico (quali i sarcofagi strigilati), dilata l'offerta includendo nel mercato nuove fasce della società, mentre i vertici del sistema socio-economico romano trovano ancora soddisfazione nella possibilità di vedersi realizzati, chiaramente su specifica ordinazione, prodotti decisamente più importanti. In Sardegna le correnti commerciali che veicolano questi manufatti si aprono finalmente al promettente mercato della colonia di Turris Libisonis, mentre le altre città principali (Cagliari e Olbia) non subiscono flessioni. Un vero campionario della produzione

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urbana del periodo viene offerto dal lotto di esemplari di età gallienica (ca. 250-270 d.C.), del quale è degnamente esemplificativo un sarcofago cagliaritano con scena di corteggio di eroti e Psyche, proveniente dalla basilica di San Saturno ma conservato nella cappella di San Saturnino nella cripta della cattedrale (fig. 348): il suo ritrovamento è avvenuto nel 1621 nel corso degli scavi nella basilica di San Saturno a Cagliari e le spoglie recuperate all'interno, ove giacciono ancora oggi, sono attribuite a San Saturno. Un corteggio di sette eroti incedenti a passo di danza e con vari strumenti è raffigurato sulla fronte con uno svolgimento da sinistra verso destra, con la presenza di Psyche in atto di suonare i cembali, connotata dalle brevi ali di farfalla. Risulta interessante la possibilità di collegare l'unico personaggio femminile inserito nel corteggio, ben distinguibile dagli altri sette comasti, alla rappresentazione della giovane defunta, la cui anima, mediante questo stratagemma iconografico, viene chiamata a partecipare al komos una volta raggiunto l'aldilà ove è inequivocabilmente ambientata la scena, ottenendo così quale meritata ricompensa una vita ultraterrena di eterno gaudio. Nello stesso periodo a Turris Libisonis l'esordio delle importazioni dei sarcofagi è segnato da esemplari strigilati, che si diffondono ora in tutte le città dell'Isola, così come avviene nella parte occidentale dell'Impero, in virtù della maggior accessibilità economica rispetto agli esemplari a fregio, garantita dalla semplicità del decoro e da una fabbricazione di tipo seriale. Uno di questi esemplari, in marmo lunense, proviene dalla necropoli presso la basilica di San Gavino, dove tuttora è custodito, e presenta un filosofo e una Musa nel riquadro centrale. La sintassi decorativa della fronte è quella tipica dei sarcofagi strigilati: la superficie è compartita in cinque pannelli, tre dei quali figurati e posti al centro e alle estremità, mentre le due campiture maggiori sono decorate da due serie di strigilature contrapposte. Il più ampio dei tre pannelli figurati è quello centrale, in cui un personaggio maschile barbato è raffigurato seduto di profilo verso destra intento a leggere un volumen che sta srotolando tra le mani. La scena è completata da una figura femminile che, in piedi di fronte a lui, si appoggia con le braccia flesse a un sostegno volgendosi di profilo verso sinistra e sorreggendo il mento con la mano destra. Si tratta dunque del gruppo del filosofo nello

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schema ricorrente della "conversazione" con una Musa, per lo più nell'attitudine di Polimnia, come in questo caso. La composizione della fronte è chiusa alle estremità da due stretti riquadri con la riedizione di un filosofo e di una Musa, rappresentazione della coppia dei defunti; solo la figura femminile, atteggiata come Calliope ma gravemente scheggiata nel volto, era probabilmente rifinita nei lineamenti con la fisionomia della defunta. J;imagerie fùosofica sui sarcofagi è il codice simbolico utilizzato per evidenziare le attitudini fùosofiche dei defunti, al fine di ribadire i precetti di ordine morale che sono stati alla base della loro formazione e hanno così costituito i modelli e gli ideali della loro esistenza. Nella fase immediatamente successiva, inquadrabile in età post-gallienica (ca. 270-280 d.C. ), Porto Torres diviene il caposaldo dei commerci con Roma: in questo periodo si inserisce perfettamente la cassa strigilata con porta dell'Ade al centro della fronte~e le figure della coppia dei defunti nei pannelli alle estremità, conservata nella basilica di San Gavino. Compaiono contestualmente i primi sarcofagi con temi bucolici, proprio nel periodo di maggior diffusione di tali soggetti, legata alle mutate aspirazioni spirituali e sociali di questi anni. È indicativo come i sarcofagi sardi di tale classe siano tutti interpretati nella versione che fonde queste tematiche con l'impaginato decorativo a campiture strigilate, ottenendo elaborati di qualità corrente, esito di sistemi produttivi di tipo seriale. Così è infatti per il sarcofago baccellato con ritratto clipeato di Aurelia Concordia da Porto Torres, esposto nell' Antiquarium Turritano, ove la scenetta pastorale si inserisce nel ridotto spazio sotto il clipeo: i pilastrini ermaici alle estremità della fronte, alquanto inusuali, sono forse la spia di un mutamento nella destinazione di questo sepolcro, previsto per un uomo ma aggiornato, con l'ultima rifinitura del ritratto, per una donna. Il nome della defunta è restituito dall'iscrizione su una lastrina in marmo inserita nella fronte dello zoccolo in muratura su cui poggiava la cassa, ritrovata ancora in posto. Supera questo periodo e raggiunge l'avanzata età tetrarchica, nel primo decennio del N secolo, il sarcofago a vasca con geni stagionali e Vittorie clipeofore da Cagliari (figg. 346-347), ora al Museo Archeologico Nazionale, che offre un esempio importante di sarcofago dal grande formato, la cui esecuzione si qualifica tra i recuperi classicistici di notevole impegno qualitativo, evidente anche nel ritratto

di giovane donna inserito nel clipeo retto dalle Vittorie. L'iscrizione sul listello superiore è invece relativa alla deposizione secondaria di un bambino morto a poco più di un anno, per il quale la cassa è stata evidentemente riutilizzata. Appena posteriore, riferibile infatti al principato di Costantino, è il sarcofago con le Muse e Apollo dalla necropoli di San Gavino a Porto Torres, custodito nella basilica: la fronte è occupata da un fregio figurato raffigurante il consesso delle nove Muse, al quale partecipano anche Apollo citaredo, posto al centro, e la coppia dei defunti seduti su seggi alle estremità. La donna è impegnata a suonare la cetra mentre il defunto, in tunica e pallium, tiene in mano un volumen aperto: il modo di presentarli ne riflette le attitudini intellettuali, dunque gli interessi filosofici dell'uomo e l'identificazione della donna con le Muse che la circondano, prefigurandone così la vita oltremondana quando sarà chiamata a far parte del consesso musaico per continuare le attività svolte in questo mondo, che hanno contribuito in maniera rilevante ali' elevazione del suo spirito. I loro volti sono caratterizzati come ritratti, grazie ai quali, in pieno accordo con il linguaggio formale, è stato possibile definire l'inquadramento cronologico di questo esemplare. Nel corso del N secolo, quando nella realtà officinale Urbana dominano le nuove produzioni che sviluppano i temi cristiani, stupiscono le ridottissime attestazioni di queste stesse produzioni nel repertorio dell'Isola, limitate ad appena due esemplari, tra i quali spicca il noto frammento di un sarcofago a doppio registro con scene dell'Antico e del Nuovo Testamento proveniente da Olbia, ma ora al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari: si tratta della più antica evidenza della presenza del Cristianesimo in Sardegna, che può rimontare a età costantiniana. In alto si distinguono l'episodio del Sacrificio di Isacco, con la figura barbata di Abramo che domina la composizione, seguita da un'altra scena individuata soltanto da un personaggio: si tratta della Guarigione del paralitìco, sintetizzata, come di consueto, dal solo momento conclusivo del racconto evangelico, quando il paralitico, ormai risanato, si carica il lettuccio sulle spalle e si allontana. Nel secondo piano resta l'immagine di profilo di un leone accosciato, ormai privo della testa, preceduto da un altro leone nella medesima posa, di cui restano solo le zampe posteriori: è l'episodio biblico di Daniele nella fossa dei leoni, che si sviluppava

nella porzione di rilievo non conservatasi. Del registro inferiore sussistono solo le teste di profilo di quattro personaggi e tracce della capigliatura di un quinto sulla destra, che sembrano organizzati in due scene distinte: si potrebbe riconoscere Cristo, dal volto imberbe, affrontato a un apostolo, seguiti a destra dalla rappresentazione di uno dei miracoli di Cristo, secondo una recente proposta di lettura. Un vuoto di alcuni decenni intercorre tra le ultime importazioni di sarcofagi da Roma nell'Isola durante l'età costantiniana e l'avvio delle nuove esportazioni da Cartagine tra la fine del IV secolo e la metà del V, che toccano anche la Sardegna con l'arrivo di alcuni interessanti esemplari: durante i pochi decenni di questa stagione produttiva tardo-antica delle botteghe africane i sarcofagi, in prevalenza strigilati, sono scolpiti tanto nel marmo proconnesio d'importazione quanto nella pietra di Keddel, un calcare dai toni rosati cavato non lontano dal golfo di Tunisi. L'esportazione di questa classe di manufatti cartaginesi tocca, accanto all'area africana, le province che già da secoli intrattengono solidi rapporti commerciali e scambi culturali con l'Africa: al momento riconosciamo con certezza la presenza di esemplari tardo-antichi di manifattura cartaginese sulla costa orientale della Spagna, in Sicilia e, appunto, in Sardegna. Qui sono attestati soprattutto sarcofagi con un decoro assai semplice, costituito solo da strigili, che forniscono comunque un'eloquente esemplificazione delle caratteristiche della produzione, come evidenziano sia la cassa in marmo, forse proconnesio, reimpiegata nel monumento funerario all'esterno della chiesa di San Pantaleo a Dolianova, sia quella con tabula ansata anepigrafe, probabilmente in pietra di Keddel, inserita nel muro all'esterno della chiesa di San Lucifero a Cagliari e proveniente verosimilmente dalla vicina area cimiteriale di San Saturno. Sono questi gli ultimi sarcofagi scolpiti utilizzati in Sardegna: quando in Africa nell'avanzato V secolo si smette di seppellire nelle casse decorate e quindi di produrne, insieme alle importazioni da Cartagine si interrompe in Sardegna la plurisecolare tradizione di questa forma di sepoltura.

Nota bibliografica SINN

1987; T EATINI 2011 ; C ASCIANELLI 2015; 201 7.

TEATINI

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approfondimenti

350-351. Sarcofago, prima metà lii sec. d.C., marmo, lungh. 205 cm, proveniente dalla necropoli di San Saturno, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

Il sarcofago con scena di thiasos marino del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari Ciro Parodo

L'elaborazione del tema figurato del thiasos marino risale a età ellenistica, allorché viene compiutamente strutturato lo schema iconografico del corteo composto dalle Nereidi, rappresentate come giovani figure muliebri velificate, nude o seminude, in groppa a Tritoni, esseri teriomorfi composti da un busto virile e una coda pisciforme, dotati, nel caso degli Ittiocentauri, anche di zampe equine. La loro relazione amorosa è sottolineata dalla presenza di Eroti impegnati in molteplici attività, dall'intreccio di ghirlande alla pesca, e intenti a cavalcare delfini tra le onde del mare popolate da variegate creature mitologiche, quali arieti, cavalli, draghi, grifoni, leoni, pantere e tori marini. Diffusasi nel repertorio figurativo della scultura funeraria romana a partire dal secondo quarto del II secolo d.C., inizialmente in associazione con decorazioni a ghirlande, la scena del corteggio marino tende in seguito a svilupparsi su tutta la fronte dei sarcofagi, per poi includere, durante la seconda metà del secolo,

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anche un motivo centrale, consistente in un riquadro contenente l'epigrafe funeraria, uno scudo, talvolta decorato con il ritratto della Gorgone, la testa del dio Oceano, e quindi, durante il III secolo, l'imago clipeata, il ritratto del defunto o della defunta modellato o meno a forma di valva di conchiglia, intorno al quale le creature marinè si dispongono simmetricamente. Il tema iconografico del thiasos marino, numericamente il secondo più diffuso nell'ambito della scultura funeraria romana dopo quello di tipo dionisiaco, può essere declinato secondo tre principali letture ermeneutiche che comprendono l'assimilazione del percorso oltremondano delle anime dei defunti a un itinerario transmarino con destinazione le mitologiche "isole dei Beati" (Esiodo, Le Opere e i Giorni 171; Pindaro, Olimpie 2, 70-71; Platone, Menesseno 235 b-c; Platone, Repubblica 540 a-c), la sua interpretazione come un soggetto puramente decorativo, oppure quale tematica utilizzata per

alludere a una condizione di serenità ultraterrena. In Sardegna, quello del thiasos costituisce il motivo più diffuso tra i quindici sarcofagi con temi connessi alla dimensione marina finora documentati, considerato che quattro di questi sono decorati con l'attributo del delfino capovolto, uno con l'immagine di un pescatore, mentre su dieci esemplari è scolpito il caratteristico corteggio delle Nereidi, Tritoni e Ittiocentauri. Tra questi l'unico che si sia preservato integralmente è un sarcofago conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, proveniente dalla necropoli di San Saturno, di fabbricazione Urbana e realizzato in marmo bianco. Il manufatto è decorato sui fianchi sinistro e destro rispettivamente con le immagini di un grifone (fig. 350) e di un ariete marini, e sulla fronte con quelle di quattro Ittiocentauri, ciascuno recante sul dorso una Nereide nuda,

che sorreggono il ritratto centrale della defunta, velificata e munita di liuto, la cui acconciatura, ispirata allo stile adottato dall'imperatrice Giulia Mamea, ha consentito di circostanziare la cronologia del sarcofago agli anni successivi al primo quarto del III secolo d.C. (fig. 351) Al di sotto dell'imago clipeata a forma di valva di conchiglia, le onde sono popolate da Eroti intenti a pescare e suonare, insieme a tre pantere, un drago e un ariete marini. L'impianto iconografico del sarcofago è comparabile con quello di un altro esemplare, di cui rimane un solo frammento dei quattro originariamente documentati, che si articola intorno all'immagine centrale del busto della defunta, raffigurato anche in questo caso entro un disco a forma di valva di conchiglia, sorretto da due Ittiocentauri su cui siedono due Nereidi velificate affiancate da due Eroti. Il manufatto, che è stato datato su base stilistica alla prima metà del III secolo d.C., proviene da Sant'Antonio di Santadi, frazione di Arbus, e conferma la volontà degli strati elevati della società sarda di età romana di adottare i modelli iconografici più affermati a Roma, come nel caso della committenza del sopraccitato sarcofago cagliaritano, il cui rango elitario è esplicitato dalla presenza del motivo del liuto che ne certifica l'elevato status socioculturale. Nota bibliografica Sul tema iconografico del thiasos marino e il suo significato oltremondano: B o RCA 2000, pp. 53-69; M UTH 2000; Z ANKER, E WALD 2004, pp. 117-134, 326331. Sui sarcofagi romani della Sardegna con scena di thiasos marino: T EATINI 2011 , pp. 72-98; P ARODO 201 8; P ARODO 2019.

Le stele funerarie Carla Del va;s

Numerosi contesti funerari della Sardegna romana hanno restituito un ampio repertorio di stele lapidee con caratteristiche peculiari, realizzate a rilievo e a incisione, di frequente connotate da rappresentazioni umane molto schematizzate e compendiarie. Le aree di maggiore diffusione sono l'Oristanese e il Sassarese, ma non mancano attestazioni in altre regioni, prevalentemente dell'interno. Nell'Oristanese, il nucleo più cospicuo proviene dal Sinis, e in particolare dalla necropoli rurale di Bidda Maiore (San Vero Milis). Agli esemplari ritrovati nell'Ottocento in corrispondenza di sepolture a incinerazione in urna di età primoimperiale, se ne sono aggiunti numerosi altri frutto di rinvenimenti occasionali; si tratta di cippi e di stele semplici per lo più con un volto umano inciso, cippi antropoidi con testa distinta dal corpo non altrimenti connotato e "betili"

352. Cippo funerario con figurazione femminile , 1-11 sec. d.C., arenaria, h 54 cm , proveniente da Bidda Maiore di San Vero Milis, San Vero Milis, Museo Civico. 353 . Stele funeraria con volto umano schematizzato, 1-11 sec. d.C., arenaria, h 45 cm , proven iente da Bidda Maiore di San Vero Milis, San Vero Milis, Museo Civico.

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configurati a testa umana, tutti in arenaria e di fattura assai rozza. Nel Sinis di Cabras è di particolare interesse il ritrovamento nella necropoli punico-romana di Mont' e Prama di tre frammenti di stele che si trovavano reimpiegati nella copertura di una tomba; vanno ricordati inoltre alcuni esemplari segnalati dal Canonico Spano presso San Salvatore, in un'area funeraria di età romana imperiale, e altri confluiti in collezioni private; tali manufatti, semplici lastre tagliate nell'arenaria locale, recano in genere rozze figurazioni incise, rappresentate spesso dal solo volto umano. A breve distanza, nella necropoli meridionale di Tharros, era stata identificata nell'Ottocento una lastra utilizzata come chiusino per un ipogeo a camera punico, su cui era inciso un volto umano schematizzato. Si tratta di uno dei pochi

354. Stele funeraria con volto umano schelTlatizzato,

I sec. a.C.-1 sec. d.C., aienaria, h 42 cm, proveniente dal Sinis di Cabras, Cabras, Museo Civico, collezione Sulis.

Nella doppia pagina seguente:

355. Stele funeraria a nicchia, I sec. a.C.-1 sec. d.C., calcare, h 84 cm, proveniente da località campo sportivo di Viddalba, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna". La stele presenta due teste "a specchio" a rilievo collegate a un elemento di base, affiancate da due rami vegetali incisi. 356. Stele funeraria a nicchia, I sec. a.C.-1 sec. d.C., arenaria, h 60 cm, proveniente dalla necropoli di San Leonardo di Viddalba, Viddalba, Museo Archeologico. La stele, con cornice decorata da un ramo vegetale stilizzato inciso, presenta due figure umane, una maschile e una femminile, che si tengono per mano. ~

357. Stele funeraria a sommità centinata, I sec. a.C.-1 sec. d.C., calcare, h 54 cm, proveniente da Santa Filitica di Sorso, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna ". La stele presenta una figura con testa "a specchio" e collo a bulbo, compresa tra due rami vegetali schematizzati. 358. Stele funeraria a nicchia, I sec. a.C.-1 sec. d.C., arenaria, h 60 cm , proveniente dalla necropoli di San Leonardo di Viddalba, Viddalba, Museo Archeologico. La stele presenta una figura antropomorfa "a specchio" con testa circolare e collo trapezoidale inscritta in una cornice decorata da un motivo fitomorfo inciso; sulla base è riportata un'iscrizione latina incisa: Tertius Amu[lii? (filius) an]nos v(ixit) XXXV.

esempi noti in area urbana costiera, che si aggiunge ad altri due di collezione privata attribuiti a Sulci e a uno inedito da Cagliari. Un gruppo di stele da Uras, tutte recuperate fuori contesto ma attribuite a una necropoli rurale, si connota per un inquadramento a edicola con sommità cuspidata e acroteri segnato da rami vegetali schematizzati incisi, di chiara ascendenza africana; nel campo figurativo ribassato sono ricavate a rilievo rappresentazioni umane ridotte alla sola testa con il collo, con il busto o a figura intera. Dal vicino areale di Mogoro, oltre a una stele a nicchia con sommità triangolare e acroteri, nella quale è stato riconosciuto un "segno di Tanit'', ne va ricordata un'altra dello stesso tipo con un motivo a rilievo interpretato come protome taurina, significativamente accompagnato da un'iscrizione punica non ancora letta. La regione che ne ha restituito il lotto numericamente più consistente è però il Sassarese; dal territorio di Viddalba, Ossi, Valledoria, Codaruina, Castelsardo, Tergu, Sorso e Sennori provengono decine di esemplari che costituiscono un gruppo a sé, benché con evidenti legami iconografici e tipologici con le altre aree. I contesti di rinvenimento hanno suggerito una pertinenza a sepolture a incinerazione secondaria datate tra la fine dell'età repubblicana e gli inizi dell'Impero, ma un numero significativo di segnacoli si trovava reimpiegato in tombe a

inumazione di epoca imperiale. La maggior parte delle stele rientra nel tipo definito "a specchio" per la particolare iconografia rappresentata da una testa umana con lungo collo, mentre sono meno frequenti i casi con personaggi a figura intera. Si tratta per lo più di lastre parallelepipede, più raramente centinate o cuspidate con o senza acroteri, nelle quali la figurazione può essere ricavata a rilievo piatto all'interno di una nicchia ribassata ovvero essere incisa sulla superficie piana. Le stele a nicchia mostrano cornice semplice spesso segnata dal ramo vegetale schematizzato di ascendenza africana che si ritrova talvolta anche negli esemplari a incisione. L'iconografia prevalente è costituita da una testa umana, per lo più circolare, con collo che può essere rettangolare, oppure allargarsi alla base in un elemento a "bulbo", o anche assumere forma trapezoidale, dando al motivo un aspetto a "toppa di chiave"; il volto può coincidere con lo "specchio" oppure essere reso a incisione all'interno di esso; i tratti del volto sono assai schematizzati e si riducono a semplici punti o cerchielli e linee. In alcuni casi sono presenti brevi iscrizioni funerarie latine che ne hanno suggerito l'appartenenza a individui di tradizione indigena da poco integrati nella società romana. Dalla vicina Nurra, e in particolare dall'Algherese, provengono altri esemplari, tra cui alcune stele a incisione e un cippo antropoide. Il repertorio sardo non si limita alle aree citate, in quanto segnacoli isolati dello stesso tipo sono attestati in numerosi altri siti tra cui Barumini, Villanovafranca, Nurri, Macomer e Ozieri. Le stele funerarie descritte, benché in molti casi risultino fuori contesto, vengono in genere datate tra la fine della Repubblica e gli inizi dell'Impero. Tale produzione, che si diffonde principalmente in aree rurali, anche al di fuori delle regioni di forte tradizione punica e in zone di confine, ha suscitato notevoli questioni interpretative in relazione ai modelli e alla tradizione culturale di riferimento, in quanto essa si esprime con un linguaggio formale estraneo a quello proprio del mondo romano. Per tale ragione c'è chi ne ha ipotizzato la pertinenza a un filone secondario di cultura punica, di livello popolare e di carattere recessivo, anche sulla base del confronto con tardi manufatti lapidei punici, quali in particolare quelli di Monte Sirai; c'è chi ha invece evocato il riemergere di elementi di sostrato derivati dalla tradizione indigena, come suggerito anche dalle attestazioni 347

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onomastiche del Sassarese, e chi ha attribuito il fenomeno a una nuova immissione in età romana di elementi africani di cultura punica o libica, in quest'ultimo caso anche in ragione delle forti consonanze con una produzione lapidea funeraria e votiva sviluppatasi in terra africana in contemporanea; o ancora c'è chi ha postulato un'influenza romana, in specie del ritratto funerario, conseguente all'arrivo di nuclei di provenienza centro-italica. L'analisi generale dei materiali, a fronte di una certa coerenza interna della classe, rivela l'esistenza di numerose varianti locali e varietà di soluzioni tipologiche e iconografiche che sarebbero quindi da connettere alla compresenza in Sardegna di tradizioni culturali di origine differente, intimamente legate alla storia delle singole regioni. Queste, manifestandosi in forme più vicine ai modelli o interagendo a creare prodotti originali, avrebbero dato vita a un fenomeno complesso e di difficile decodifica, ben inquadrabile tuttavia in un periodo di transizione qual è quello che ha accompagnato il lungo processo di romanizzazione dell'Isola.

Nota bibliografica ToRE 1975; T oRE 1985; B ONDl 1990; MOSCATI 1991 a; MOSCATI, UBERTI 1991; ToRE 199 1; MOSCATI 1992a; MOSCATI 1992b; MOSCATI 1992c; TORE 1992, pp. 189- 191 ; ToRE 1994; ToRE 1995, pp. 49 1-492; MASTINO, PlTZALIS

2003; ANGIOLILLO 201 2; D EL VAIS 201 3; D EL VAIS 2014, pp. 125-1 26; CHERGIA 2015, p . 11 8; P ILO 201 6.

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Culti e riti

• Dei e uomini: i luoghi di culto fra tradizione e innovazioni Romina Carboni APPROFONDIMENTI

Il santuario La Purissima di Alghero Alessandra La Fragola

Il Tempio romano di Nora Arturo Zara

Antas, il tempio del Sardus Pater Giuseppina Manca di Mores

• La voce degli dei Paola Ruggeri APPROFONDIMENTI

Le statue di culto e di ambito sacro Simonetta Angiolillo

La dea venuta dal mare Romina Carboni

Dei di argilla Romina Carboni 359. Ara dedicata a Bubastis, 35 d.C., marmo, h 92 cm, proveniente dalle Terme Centrali di Turris Libisonis, Porto Torres, Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano. Ara di forma cilindrica con decorazione consistente in una ghirlanda di fiori e frutti divisa in quattro festoni. Nei punti di raccordo sono raffigurate, in due casi , una divinità-serpente con fiore di loto sulla testa e nei rimanenti due una fiaccola. Un vaso rituale (situla) e uno strumento musicale caratteristico del culto egiziano di Iside (sistro) completano la decorazione. !.:iscrizione presente sull 'ara è una dedica indirizzata alla dea egiziana Bubastis da parte di un suo sacerdote di nome Gaio Cuspio Felice.

• I rituali apotropaici e le maledizioni Marco Giuman APPROFONDIMENTO

Tabellae defixionum. Riti di maleficio come desiderio di rivincita personale Alessandra La Fragola

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Dei e uomini: i luoghi di culto fra tradizione e innovazioni Romina Carboni

Il panorama religioso della Sardegna di epoca romana presenta, attraverso le diverse attestazioni architettoniche e relative alla cultura materiale, uno scenario variegato e interessante, risultato dei contatti intercorsi nell'Isola durante i secoli tra genti di origine diversa. Come già visto per altri aspetti della cultura isolana di questo periodo, anche la sfera del sacro è connotata da caratteri segnati da una forte continuità con il passato, non senza importanti apporti che affondano in primis nel mondo romano e italico. Un significativo esempio dei legami intercorrenti con la tradizione culturale e cultuale precedente all'arrivo dei Romani è sicuramente fornito dall'utilizzo reiterato nel tempo, già a partire dall'epoca punica, di edifici nuragici. In epoca romana essi evidenziano la presenza di strutture e materiali legati alle attività agricole e produttive, ma anche un utilizzo in chiave sacra di alcuni ambienti. Questo è quanto testimoniato, per citare solo alcuni esempi, dalle nuove fasi di frequentazione a partire dal IV secolo a.C. dei complessi nuragici del Lugherras di Paulilatino, di Su Mulinu di Villanovafranca o ancora di Genna Maria di Villanovaforru. Chiaro indizio della destinazione d 'uso cultuale di parte di questi spazi è dato dai materiali rinvenuti, quali i bruciaprofumi fittili (thy miateria ) configurati a busto femminile (fig. 360) che, ritrovati in gran numero all'interno dei nuraghi, evidenziano meccanismi cultuali di derivazione punica e greca; a questi si aggiungono, a seguito di una fase di transizione (fig. 361 ), anche manufatti di matrice ormai pienamente romana, come nel caso dei piccoli busti relativi a una divinità femminile delle messi inquadrabili nel I-II secolo d.C. La continuità con il passato sembra evidenziarsi con maggiore forza in ambito rurale, dove le piccole comunità, pur accogliendo aspetti di novità, mantengono viva la tradizione culturale nuragica prima e nordafricana poi. Ne è un esempio evidente il piccolo santuario di Strumpu Bagoi a Terreseu (fig. 362), presso Narcao, che sorge laddove si era installato un

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modesto insediamento di età nuragica e che presenta una fase di frequentazione che va dal IV secolo a.C. fino all'età antonina. Si tratta di un luogo di culto sostanzialmente diviso in due settori, comprendenti l'uno un pozzo e una piccola edicola, e il secondo sei altari quadrati allineati davanti al vano maggiore - addossato a un secondo più antico - e un basamento rettangolare di funzione incerta. L'ampio periodo di utilizzo dell'area è testimoniato dalle diverse fasi costruttive, che evidenziano l'uso di una tecnica muraria a pietrame grezzo di medie e piccole dimensioni, cementato con malta di fango e intonacato, ascrivibile all'età punica. A epoca romana sono invece riferibili la copertura dell'ultima fase del santuario, contestualmente all'altare e al sottostante deposito votivo, custodito all'interno di una cassetta litica quadrangolare. La presenza dei resti di suini interpretati come deposizioni sacrificali, insieme al rinvenimento di bruciaprofumi a busto femminile (thymiateria) e statuette m uliebri a schema cruciforme e con fiaccola e porcellino, sembrano rimandare a un rituale legato alla sfera demetriaca e inquadrabile in un orizzonte culturale greco e punico, che pare trovare diffusione in tutta la Sardegna. Allo stesso ambito cultuale si rifanno anche il deposito di età ellenistica proveniente da Santa Margherita di Pula (località Madau de Su Riu Perdosu), probabilmente pertinente a un santuario extraurbano di Demetra e Core, e quello del II-I secolo a.C. rinvenuto presso la chiesa di San Simplicio a Olbia, costituito da 115 statuette fittili prevalentemente femminili. A questo contesto si è ipotizzato di poter collegare anche una testimonianza cultuale di età imperiale, sempre connessa alla dea delle messi. ella città si è infatti rinvenuta parte dell'architrave di un piccolo tempio, recante un'iscrizione che menziona la dedica dell'edificio cui esso apparteneva a Cerere; l'offerta è riconducibile ad Atte, liberta e amante di Nerone, che volle così ringraziare la dea per aver protetto l'imperatore in occasione di una congiura a suo danno intentata nel 65 d.C., nel corso delle cerimonie propiziatorie legate

360. Bruciaprofumi, IV-li sec. a.e., terracotta , h 14 cm, proveniente dal nuraghe Lugherras, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Bruciaprofumi a testa/ busto femminile raffigurante una dea delle messi kernophoros (cioè portatrice di kernos, un vaso usato nel corso di rituali cerimonial i). 361. Busto fittile femminile , 1-11 sec. d.C., terracotta , h 20 cm , proveniente da Padria , Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Busto di figura femminile tagliato in corrispondenza della vita, con l'interno cavo . Il capo è coperto da un polos con decorazione a spighe di grano, chiaro rimando a una divinità delle messi; i capelli presentano una scriminatura centrale e ricadono in boccoli sulle spalle. Completano la raffigurazione gli orecchini emisferici e la veste con scollo triangolare.

al raccolto (feste dei Cerealia). Sebbene non si abbiano prove dirimenti per stabilire la posizione esatta dell'edificio sacro, si è ipotizzata una collocazione per l'appunto nell'area dell'odierna chiesa di San Simplicio. Questa attestazione mostra come la Sardegna sia dunque portatrice anche di alcuni fenomeni cultuali assolutamente romani, come ben esemplificato dalla costruzione del tempio di Giove sulla collina di Onnariu, a Bidonì nel territorio di Oristano. Si tratta di un grande complesso, collocato in una posizione di dominio e controllo dell'area circostante, esteso su un'area di circa 26 x 20 metri e caratterizzato dall'uso di conci in pietra di grandi dimensioni, messi in opera con malta di fango. All'area sacra si accedeva attraverso un'ampia scalinata, che seguiva la naturale pendenza del rilievo collinare. Il complesso è associato a un culto fortemente romano, forse testimoniato dal rinvenimento di un'iscrizione su un altare, e si articola in diversi ambienti, la cui destinazione appare incerta ma che dovevano assolvere alle differenti funzioni di vita del santuario. I reperti

provenienti dagli scavi del contesto parlano di un complesso edificato già nelle primissime fasi dell'occupazione romana dell'Isola, forse all'indomani di una importante vittoria militare degli eserciti di Roma, con l'intento di affermare la propria presenza in un territorio al confine tra la Barbaria e le aree costiere, già passate sotto il controllo delle truppe inviate dall'Urbe. È in ambiente urbano, tuttavia, che riscontriamo una maggiore articolazione delle testimonianze religiose, con esiti originali dovuti a sincretismi tra culti preesistenti e apporti esterni. Esempi interessanti sono forniti dal santuario tardorepubblicano sul colle del Fortino di Sulci o da quello di via Malta a Cagliari, quest'ultimo ora non più visibile poiché obliterato dall'urbanizzazione della città nell'area gravitante attorno a piazza del Carmine. Entrambi sono caratterizzati dalla presenza di impianti terrazzati, che sembrano collocarsi tra le costruzioni di età tardo-repubblicana volute da commercianti italici legati forse, nel caso di Sant'Antioco, al commercio delle attività minerarie. Nel caso del contesto di via Malta

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si può far sicuro riferimento alla tipologia del teatro-tempio, diffusa in ambiente italico in età repubblicana, le cui strutture furono messe in luce durante gli scavi degli anni Trenta del secolo scorso. Il complesso, databile tra il II e il I secolo a.C., era disposto su un sistema di terrazze artificiali, articolato in una superiore, dove si ergeva l'edificio di culto probabilmente circondato da uno spazio adibito a giardino, ed una seconda sottostante, provvista di una cavea teatrale (parte del teatro destinata ad accogliere gli spettatori) funzionale alle rappresentazioni sacre. La scelta di questo preciso impianto architettonico, che trova numerosi riscontri in ambito italico, va interpretata come espressione dell'ideologia di una comunità dirigenziale italica, che si identificava attraverso quel modello. Per quanto riguarda il culto praticato nel santuario, sembra di poterlo inquadrare all'interno della sfera di Afrodite/Venere, sola o in associazione con Adone. Pur essendo la dea una figura connessa con il mondo greco e romano, essa trova un suo parallelo nel sostrato semitico in Astarte, alla quale rimanda un noto reperto epigrafico rinvenuto sul promontorio di Capo Sant'Elia, probabile riferimento a un santuario locale dedicato alla divinità, identificata in età romana proprio con Venere e che aveva a Erice in Sicilia il suo luogo di culto principale. La devozione per Venere, legata, oltre che alla sfera dell'amore, della fertilità e della navigazione, anche all'origine della stirpe fondatrice di Roma, sembra testimoniata in Sardegna da un altro centro costiero, collegato a Carales pure visivamente: Nora. La città, che in età romana assume lo status di municipium, ha infatti restituito diversi rinvenimenti connessi all'ambito afrodisiaco, tra i quali un deposito votivo collocato sul pendio nord-occidentale del colle di Tanit, una statua marmorea di Venere con sandalo rinvenuta nel mare circostante e una statuetta con la dedica alla dea (Veneri sacrum), rappresentata nella sua nudità, appoggiata alla coda di un delfino (fig. 389). Queste rappresentazioni, diffuse in tutto il Mediterraneo, ci restituiscono in questo caso l'immagine della divinità nella sua associazione con il mare, sul quale esercitava il suo influsso, divenendo così il nume tutelare di chi dal mare otteneva il proprio sostentamento. Nora è però centro assolutamente eclettico nelle espressioni religiose, con elementi di forte persistenza culturale punica e altri di chiara matrice italica e romana. Ne sono

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significativi esempi il santuario di Punta 'e su coloru e il cosiddetto Tempio romano. Il primo (figg. 363-364) mostra un'articolata conformazione planimetrica, frutto delle diverse fasi di frequentazione della struttura. A un orizzonte culturale punico rimandano l'imponente muratura in grossi blocchi di arenaria sul lato est del tempio e i resti di un'edicola sacra del tipo ma'abed, inquadrabile nel VI-V secolo a.C. e provvista di un architrave decorato con serpenti urei e disco solare alato. Durante l'età imperiale il santuario, articolato su più livelli accessibili da una gradinata, subisce un'opera di monumentalizzazione. Un cortile con mosaico precedeva l'accesso gradonato al tempio vero e proprio, con la parte più sacra dell'edificio caratterizzata da una pianta con abside bipartito. Sulla base dei materiali votivi rinvenuti, il santuario di Punta 'e su coloru sembra configurarsi come un luogo di culto dedicato alla salute e alla guarigione dei devoti, con una divinità tutelare che può essere identificata con Asclepio/Esculapio, forse parallelo del semitico Eshmun. Il rinvenimento nella struttura del deposito votivo costituito da sei terrecotte del II secolo a.C. rappresentanti devoti che praticano il sonno guaritore, uno dei quali avvolto tra le spire di un serpente (fig. 44), testimonia al contempo un pieno inserimento della Sardegna antica nell'universo cultuale mediterraneo e un'alta qualità della produzione della statuaria fittile secondo modelli di derivazione italica. Differente è il discorso relativo al Tempio romano (fig. 367), collocato nei pressi del Foro e del teatro. La struttura, datata nel secondo quarto del III secolo d.C., si presenta infatti come chiara espressione della presenza di Roma nell'Isola. L'edificio sorge su uno precedente di età tardo-punica ed è inserito all'interno di un recinto in muratura, preceduto da un cortile con decorazione a mosaico e da una breve gradinata con altare. La fronte del tempio è costituita da sei colonne che introducono all'atrio (pronao) e successivamente alla cella, all'interno della quale doveva essere conservata la statua della divinità. Il culto attestato sembra essere stato quello imperiale, come provato da una dedica rinvenuta nel corridoio a ovest della cella, accompagnato forse da uno secondario tributato a Vulcano, menzionato in un'iscrizione con il nome Mulciber. Un dato interessante è fornito dal rinvenimento di un deposito votivo della seconda metà del III

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362. Narcao, località Terreseu , santuario. Il piccolo santuario sorge laddove si era installato un modesto insediamento di età nuragica e presenta una fase di frequentazione che va dal IV secolo a.e. fino all'età antonina. La presenza dei resti di suini interpretati come deposizioni sacrificali, insieme al rinvenimento di bruciaprofumi a busto femminile e statuette muliebri a schema cruciforme e con fiaccola e porcellino, sembrano rimandare a un rituale legato alla sfera demetriaca.

secolo a.C., composto da 18 monete in argento e una maschera in terracotta (figg. 281-284, 365), che venne riposizionato nel III secolo d.C. in occasione della costruzione del tempio di età medio-imperiale. Alla medesima temperie culturale sembra connettersi un altro importantissimo luogo di culto dell'Isola: il tempio di Antas (Fluminimaggiore) dedicato in età punica a Sid Addir B'by, poi monumentalizzato in età repubblicana e ristrutturato sotto Caracalla, come attestato dalla dedica al Sardus Pater Babi (fig. 372-373). Il tempio di età romana, restaurato nella sua forma attuale nel 1976, è costituito da un grande podio (23,25 x 9, 30 x 1,10 m), accessibile da una gradinata sulla fronte, realizzata attraverso la posa in opera di una serie di terrazze digradanti, la più alta delle quali ospitava l'altare, su un é:iislivello di poco più di 3 metri. Al tempio vero e proprio si accede attraverso un vano d'ingresso (pronao) che si presenta oggi con quattro colonne di ordine ionico sulla fronte e altre due nel ripiegamento sui lati. Lo spazio interno del tempio (cella) era scandito da pilastri sulle pareti laterali, nelle quali si aprivano due porte. Sul muro di fondo si trovavano altri due ingressi che permettevano l'accesso a due ambienti gemelli.

Nonostante le numerose incertezze nella ricostruzione della pianta del tempio, di particolare interesse per la definizione dell'orizzonte culturale del santuario è la fase databile intorno al II secolo a.C., che restituisce infatti una decorazione fittile di altissima qualità, relativa alla copertura del tempio, e una serie di figure divine e semidivine che confermano la natura del retroterra culturale della Sardegna all'indomani della conquista di Roma: Sardò-Sid con corona piumata, al fianco di una dea in trono identificabile con Astarte/ Afrodite; Eshmun/ Asclepio, anch'egli seduto e di aspetto giovanile, al fianco di Makeris-Eracle con la pelle di leone. Il culto del semidio, qui associato alla figura di Augusto, ma più in generale ricordato per i racconti mitici relativi alle sue fatiche in tutto il Mediterraneo, è testimoniato in numerosi luoghi della Sardegna antica, dal toponimo Herculis Insula riferito all' Asinara, al contesto votivo di Padria, che ha restituito importanti elementi di figure fittili connesse al culto dell'eroe, e ai resti di un possibile tempio in suo onore rinvenuto sotto la chiesa di San Paolo a Olbia. Se poi, tra le tante testimonianze cultuali della Sardegna di epoca romana, si va ad analizzare un centro di nuova fondazione, come la

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363-364. Nora, santuario di Punta 'e su coloru. Durante l'età imperiale il santuario, articolato su più livelli accessibili da una gradinata, subì un'opera di monumentalizzazione. Un cortile con mosaico precedeva l'accesso gradonato al tempio vero e proprio, con la parte più sacra dell'edificio caratterizzata da una pianta con abside bipartito. Sulla base dei materiali votivi rinvenuti , il santuario di Punta 'e su coloru sembra configurarsi come un luogo di culto dedicato alla salute e alla guarigione dei devoti, con una divinità tutelare che può essere identificata con Asclepio/ Esculapio. 365. Maschera antropomorfa , lii sec. a.e., terracotta , h 17 cm, proveniente dall'area del cosiddetto Tempio romano di Nora, Cagliari . Si tratta di una lastra fittile raffigurante un viso umano schematizzato. La maschera, insieme a 18 monete in argento, è stata rinvenuta in un deposito votivo della seconda metà del lii secolo a.e., che venne riposizionato nel lii secolo d.C. in occasione della costruzione del tempio di età medio-imperiale.

Colonia Iulia Turris Libisonis, collocata in parte sotto il moderno abitato di Porto Torres, si possono cogliere interessanti elementi di alterità rispetto alla tradizione locale. Gli scavi praticati nell'area urbana hanno riportato alla luce numerosi rinvenimenti archeologici ed epigrafici connessi con la diffusione di culti egizi e orientali, forse testimonianza dell'invio nell'Isola di 4000 liberti devoti ai culti egizi, volto alla repressione del brigantaggio episodio da collocarsi sotto il regno di Tiberio, nel 19 d.C., e raccontato da Tacito e da altre fonti letterarie. Una di queste testimonianze è costituita da un'ara cilindrica decorata con festoni, sistro e simboli nilotici, dedicata nel 35 d.C. da un Caius Cuspius Felix alla dea egizia Bubastis, che costituisce un'importante testimonianza di un ambito cultuale la cui principale divinità è Iside (fig. 359). Sempre dalla Colonia Iulia proviene infatti un altare marmoreo con un'iscrizione relativa allo scioglimento di un voto, collocabile tra la metà del I secolo d.C. e l'età adrianea, con la rappresentazione di Iside Thermouthis, caratterizzata dal corpo anguipede. Il culto della dea, che a Turris Libisonis contava probabilmente su una struttura sacra, è attestato anche in altre località dell'Isola,

come confermano ad esempio l'iscrizione di Castelsardo relativa all'erezione di un sacello in suo onore o il tempio, non localizzato, dedicato a Iside e Serapide a Sulci. Nel complesso i contesti religiosi della Sardegna di età romana restituiscono dunque una serie di elementi che riferiscono di articolati fenomeni di interazione, che da una parte riportano a evidenti forme di persistenza delle tradizioni antecedenti all'arrivo dei Romani (si pensi alla continuità nella celebrazione delle divinità locali e al riuso in chiave cultuale di strutture di epoca precedente) e dall'altra evidenziano una forte commistione tra aspetti culturali delle comunità locali e quelli allogeni, strettamente connessi ai fenomeni sociali, produttivi ed economici insulari.

Nota bibliografica Nel testo si sono potuti prendere in esame solo alcuni dei tanti esempi di luoghi di culto attestati nella Sardegna di età romana. Per ulteriori informazioni e per una panoramica di più ampio respiro si rimanda ai seguenti testi: GHIOTTO 2004; IBBA 2004; COMELLA, MELE 2005; SALVI, SANNA 2006; TOMEI 2008; CARBOè\1, PILO, CRUCCAS 2012; D'ORIANO, PIETRA 2012; IBBA 2017d; Rocco 2019; ZUCCA 2019b; CARBONI 2020a; BONETTO, MANTOVANI, ZARA 2021.

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approfondimenti Il santuario La Purissima di Alghero Alessandra La Fragola

Il santuario nuragico romano de La Purissima è situato nell'agro di Alghero, regione storica della Nurra, ricca di giacimenti archeologici dall'età preistorica a quella post-medievale. Risulta immediatamente prospiciente alla città moderna - in località La Purissima, da cui prende convenzionalmente il nome - e consiste in una struttura a pozzo costituita da blocchi isodomi. La realizzazione della struttura risulta in ragione della captazione delle acque ma, considerata la monumentalità e l'accortezza con cui venne edificata, rientra tra le strutturesantuario e fu innalzata, in base al modulo costruttivo e alle poche ceramiche rinvenute, tra XIII e XI secolo a.C. ca. Per l'età romana il territorio in cui ricade è plausibilmente

366. Alghero, località La Purissima, santuario.

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afferibile all'antica stazione itineraria di Carbia. Tale centro fu un luogo di abitazione e di scambio merci di un certo rilievo, testimoniato dalle fonti documentarie del III/IV secolo d.C. (Itinerarium Antonini). Dopo il primo utilizzo di età nuragica, di cui . . . rimangono oggi poca ceramica e nessun elemento bronzeo - già plausibilmente sottratti in antico -, allo stato attuale dei dati si osserva la totale assenza di frequentazione in età punica, mentre in età romana (I-inizi V sec. d.C.) il santuario fu soggetto ad ampio riutilizzo, caratterizzato da una parziale riedificazione al di sopra e all'intorno delle strutture di età nuragica. Da tali sovrastrutture furono risparmiate solo la tholos, in parte già probabilmente crollata, i muri perimetrali

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del vestt1>oloce le ~ e later-ali in pi$a, addossate alrinterno di esso. Il piano di calpestio del vestibolo fu allungato e rivestito sul fondo con laterizi, a formare due nuovi pavimenti legati con malta e suddivisi da un tramezzo in muratura, che dette vita a due vasche comunicanti. Un terzo ambiente, più stretto e senza pavimentazione, andò a costituire quella che a tutti gli effetti sembra essere una piscina limaria alimentata da est a ovest da due condotte di adduzione e deflusso, diversamente rivestite e di differente portata. Questo stretto ambiente caratterizzato da alte spallette contenitive non comunicava con gli altri due vani e fu presumibilmente costruito, in base ai dati archeologici, qualche tempo dopo le due vasche. La realizzazione di quest'ultimo spazio può essere interpretata in ragione di un periodo in cui le acque captate dal pozzo risultarono più scarse e maggiore fu la necessità di approvvigionamento, che avveniva più a est. La condotta di adduzione segue infatti tale direzione. Proseguendo sempre verso est, a poche decine di metri di distanza, si trova un impianto termale che fu possibile indagare solo sotto la strada, mentre il resto ricadeva in terreni privati. Tutto attorno al santuario a pozzo furono individuati resti di murature e ambienti, alcuni di ampie dimensioni, mentre tutta la superficie di calpestio all'intorno restituì tessere di mosaico e frammenti ceramici. Tali produzioni arrivano cronologicamente sino a età post-medievale, a testimonianza di una frequentazione importante in età romana e quanto meno di un assiduo passaggio per tutto il periodo a seguire. I materiali di età romana ritrovati nel sito risultano davvero abbondanti e di varia tipologia, soprattutto ceramica. Ciò che però lo caratterizza maggiormente, oltre a forme utilizzate presumibilmente per depositarvi l'offerta di prodotti alimentari e il consumo sul posto di alcuni di essi, sono i materiali pertinenti ai riti perpetrati all'interno del santuario. Come atto di devozione ai numi sono stati depositati i votivi (oggi in buona parte esposti nel Museo della Città di Alghero) ancora parzialmente allineati sui banconi laterali, mentre i restanti risultano gettati e spezzati, con evidente intento dispersivo, sui pavimenti e all'interno della canna del pozzo. Si tratta di votivi anatomici legati allo scioglimento di voti in seguito a un viaggio andato a buon fine o alla ancora più

probabile richiestà di sanatio, cioè di guarigione in seguito a malàttie o traumi agli arti Tali riproduzioni risultano soprattutto afferenti ad arti inferiori, gambe e piedi, che si attestano sul centinaio. Insieme a essi, maschere, protomi e statuine di terracotta testimoniano la volontà di richiedere una grazia con riproduzioni di individui offerenti, o anche, in qualche caso, con l'intento di riprodurre la divinità stessa da invocare. Le maschere hanno la particolarità di appartenere, almeno in parte, al mondo delle maschere teatrali, un dato non nuovo in ambito santuariale, ma di grande interesse. La divinità titolare del culto non è stata attualmente individuata ma la varietà delle piccole iconografie di numi riprodotte su lucerne, coppe, gemme e coroplastica rimandano a culti panteistici. Il santuario fu definitivamente chiuso agli inizi del V secolo d.C., con un atto abbastanza violento di dispersione dei materiali che coincide con le direttive ormai in atto e concretizzate nel Cristianesimo dall'imperatore Onorio (384-423 d.C.) prima e papa Gregorio Magno (in carica dal 590 al 604 d.C.) a seguire. A tale atto subentrò un rituale di chiusura di soglia davvero molto raro da ritrovare, che sigillò l'entrata del pozzo con un'offerta consistente in almeno 60 differenti parti edibili di animali raccolti all'interno di un focolare posizionato presso lo stipite sinistro del pozzo, nella parte alta dell'apertura. Tali rituali sono ascrivibili a un piaculum, vale a dire un sacrificio di espiazione alla divinità in modo da scongiurarne l'ira in conseguenza della chiusura del varco. Il dio preposto a questi luoghi di passaggio, liminari, era in primo luogo Giano, il nume più arcaico della storia romana, ma la protezione della parte alta delle soglie era affidata da Giano stesso alla ninfa Carna, poi assimilata a Cardea dal poeta Ovidio.

Nota bibliografica Su Carbia e il santuario: ALFONSO, L A F RAGOLA 201 4; R OVINA, LA F RAGOLA 2018, pp. 59-61; sui votivi: ALFONSO, L A FRAGOLA 2018; sui riti: L A F RAGOLA, C ARZEDDA, M ASALA 2017; sulle monete: L A FRAGOLA, C ARZEDDA 2016; C ARZEDDA 2017; sulle ossa animali: MASALA 2012a.

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367. IITemplo romano di Nora,

al termine dello scavo stratlpflco, è stato interessato da un vasto intervento di consolidamento e valorilzazione: Hghiaino chiaro mette in evidenza gli spazi coperti (pronao e vani occidentali); il ghiaino color antracite riveste lo spazio aperto della corte e del corridoio occidentale; con casseri lignei si sono riproposti i volumi della e,adinata, dell'altare e delle basi di colonna, ricostruiti sulla base dello scavo stratie,afico (foto Teravista, Cagliari). 368-369. La corte delTempio romano di Nora doveva essere cinta da un alto muro di peribolo ed era pavimentata da un mosaico con decorazione a labirinto turrito, a oggi unica attestazione in un'area santuariale romana, mentre ampia è la diffusione del motivo in contesti domestici. All'altare principale, situato al centro della gradinata, faceva da pendant un secondo più piccolo monumento nel settore ovest della corte (IKON, Gorizia e Università di Padova).

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L'edificio sacro di Nora noto con il nome convenzionale di Tempio romano sorge tra le pendici occidentali del cosiddetto colle di Tanit e la vallecola presso la quale si sviluppa il complesso monumentale forense. Posto · · lungo il margine della via che collega la piazza del Foro e il teatro, il tempio fu edificato nel secondo quarto del III secolo d.C., nel corso della florida fase di monumentalizzazione urbana che, avviata col principato dei Severi, procedette per tutto il III secolo. Le indagini stratigrafiche dell'Università di Padova (2008-14) hanno documentato come nell'area, in età fenicia, fosse situata una grande capanna absidata, con accesso e asse maggiore orientati esattamente a est, dunque con un ruolo preminente (forse già sacro) nelle più antiche fasi dell'insediamento norense (metà VII-metà VI sec. a.C.). In età tardo-punica (metà III sec. a.C.) sorse il primo edificio a sicura destinazione cultuale, al quale seguirono una serie di ristrutturazioni e interventi costruttivi tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale, sino a culminare con la realizzazione del Tempio romano.

Un portico separa la strada dal complesso templare, cinto da un muro di peribolo, nel quale, superati tre gradini, si apre l'ingresso principale del santuario; un più piccolo passaggio, dal viottolo che perimetra la cavea del teatro, dava adito all'angolo sud-occidentale della corte del Tempio. Quest'ultima, a cielo aperto, era pavimentata da un mosaico di cui restano modeste tracce, che permettono comunque la ricostruzione di due pannelli decorati da un labirinto quadrato a quattro settori, bordato con mura isodome, merli e clessidre. Una breve gradinata in blocchi di andesite mette in comunicazione la corte e il pronao ed è interrotta al centro dall'altare sacrificale, di cui si conserva il basamento in muratura, contraddistinto da un paramento in opera mista a fasce, tecnica che caratterizza la maggior parte delle strutture del complesso. Un secondo monumento doveva trovarsi nel settore occidentale della corte, attualmente ridotto alla sola fondazione in blocchi di arenaria sovrapposti. La facciata del pronao era costituita da un colonnato esastilo corinzio, di cui Gennaro

fittile con rappresentazione di volto umano (fig. 365) associato a 18 didrammi d'argento (serie Romano-Campana e nominali simili delle zecche di Neapolis, Cales e Tarentum) (figg. 281284), deposto una prima volta tra il 230 e il 225 a.C., negli anni della fondazione della Provincia Sardinia et Corsica. Il ripostiglio venne ricollocato nel III secolo d.C. in occasione della costruzione del tempio medio-imperiale, circostanza in cui fu realizzata una serie di altre deposizioni di ex voto fittili, all'interno delle fosse di fondazione del nuovo complesso sacro. Si ritiene che il Tempio romano fosse destinato al culto imperiale, attestato a Nora su base epigrafica: indirizza verso questa lettura il rinvenimento della dedica monumentale Caesari nello scavo di Pesce nel corridoio a ovest della cella; lo scavo del 1952 restituì anche una seconda iscrizione menzionante

370-371. l'.interno della cella del Tempio romano di Nora era riccamente decorato da un mosaico pavimentale e da affreschi parietali. Il grande portale d'accesso era in asse con l'altare, a sua volta inquadrato dalle due colonne centrali del colonnato esastilo corinzio. Sul fondo della cella si apriva il penetrale, che ospitava la statua di culto, con buona probabilità dedicata all'imperatore (IKON, Gorizia e Università di Padova).

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un d(onum) a Mulciber, attributo di Vulcano, forse da ricollegare a un culto secondario.

Nota bibliografica Le indagini archeologiche presso il Tempio romano di Nora condotte tra il 2008 e il 2014 dall'Università di Padova sono state via via edite in rapporti preliminari nei nn. 3-6 della rivista Quaderni Norensi (disponibile in open access) e stanno trovando edizione sistematica nella collana Scavi di Nora, con la recente pubblicazione di due tomi dedicati allo studio dei materiali preromani e romani (BoNETIO, MAN'I'oVANI, ZARA 2021) e un volume di prossima edizione riservato all'analisi stratigrafica dei contesti scavati (BONETIO, GHIOTIO, ZARA c.s.). Una presentazione di carattere divulgativo del complesso si ha in ZARA 2018, mentre in ZARA 2015 viene trattato il tema della dedica dell'edificio di culto medio-imperiale; sul deposito votivo si veda BoNETIO, FALEZZA 2009, con aggiornamenti in BONETIO, FALEZZA 2020; alle attività di consolidamento strutturale e valorizzazione condotte nell'area al termine dello scavo è dedicato BERTO, ZARA 2016.

Pesce fece ricomporre e ricollocare l'unica colonna superstite, rinvenuta in crollo nello scavo del 1952; ai prospetti orientale e occidentale della cella era invece applicato un ordine di semicolonne, di cui restano solo alcuni plinti di fondazione. Oltrepassata una grande soglia in andesite, su cui si incardinava un portale a doppio battente, si accede alla cella, di planimetria prossima al quadrato e di cui si conservano ampi tratti del pavimento musivo, decorato a compartimenti quadrati, campiti da motivi geometrici e risparmiati da un reticolato di clessidre e quadrati. Sul muro di fondo della cella si aprono due ingressi, uno dei quali conserva la soglia in marmo proconnesio; entrambi i passaggi danno adito a un penetrale a pianta rettangolare, pavimentato con un mosaico a tessere bianche, nell'angolo nordoccidentale del quale si distingue una lacuna quadrangolare, con buona probabilità traccia della base per la statua di culto. Se il settore orientale dell'area sacra appare oggi pesantemente intaccato e difficilmente leggibile a causa delle attività di spoliazione di età tardo e post-antica, meglio noto è l'assetto dello spazio a ovest della cella: dalla corte era possibile raggiungere tre ambienti allineati in senso nord-sud, separati dalla cella mediante un ambulacro. Non sussistono elementi per precisare la funzione dei tre vani, probabilmente destinati ad attività accessorie ai culti svolti nel corpo di fabbrica principale. Il recente scavo ha però riportato alla luce nell'ambiente più a sud un deposito votivo costituito da un oscillum

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Giuseppina Manca di Mores

~ singolare, e non senza significato, che due

luoghi come Mont'e Prama (Cabras) e Antas (Fluminimaggiore), forse i più importanti per il racconto della memoria sarda antica, abbiano espresso la loro piena potenzialità dopo i cosiddetti "scavi di magazzino" con materiali "ritrovati" nei depositi della Soprintendenza Archeologica e analizzati per la prima volta a diversi decenni dal loro rinvenimento: quelli di Mont' e Prama nella seconda metà degli anni Settanta, restaurati, ricomposti ed esposti fra il 2007 e il 2011, e quelli di Antas nel 1967, dopo una ricerca, iniziata nel 2008, che ha restituito un'intera fase del tempio di età romana repubblicana raccontata da centinaia di frammenti di terrecotte architettoniche che ne decoravano il tetto. Gli antecedenti nuragici di Antas mostrano, come a Mont' e Prama, l'esistenza di tombe a pozzetto per sepolture individuali, proprie di una fase avanzata e "aristocratica" del mondo nuragico. Entrambi i luoghi ci raccontano di antenati e fondatori mitici: ad Antas il riferimento è alle notizie delle fonti classiche, presumibilmente di radice fenicia, secondo le quali la Sardegna prese il nome da Sardò figlio di Makeris, l'Eracle fenicio, noto come Melqart. La fase punica del tempio, che esprime il culto

a eroi fondatori e guaritori, è ben documentata da una trentina di epigrafi votive in gran parte dedicate alla divinità Sul Addir B'by, così come la fase romana imperiale, peraltro restituita con molta arbitrarietà nel restauro operato negli anni Sessanta del secolo scorso (fig. 372), è nota dall'iscrizione con dedica al Sardus Pater Babi (fig. 373) databile fra il 212 e il 217 d.C., che attesta, sotto Caracalla, il rifacimento del tempio più antico "distrutto dal tempo e rifatto dalle fondamenta". Sardus Pater è presente con questo nome su una monetazione del 38 a.C. circa nella quale è raffigurato con lancia e copricapo piumato (figg. 285-286). Tra queste due fasi, nello spazio poi occupato dal tempio imperiale, si inserisce il tempio repubblicano, probabilmente articolato in una cella su podio e pronao tetrastilo preceduto da una gradinata, con architetture che univano tradizioni italiche, puniche ed egiziane (fig. 377). Databile intorno alla metà del II secolo a.C. in base allo studio delle terrecotte realizzate a matrice che rivestivano e decoravano il tetto, in piena consonanza con quelle realizzate nei coevi santuari italici, il tempio presentava sui lati lunghi (fig. 379) gocciolatoi con due diversi tipi di protome leonina (fig. 375) sormontati dalla figura alata della "donna fiore" nascente

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da un cespo di acanto (fig. 379). Sui rampanti del timpano erano le lastre di coronamento con coppia di grifi trattenuti per le code da un'arpia (figg. 379-380); una seconda serie di figure alate maschili e femminili tra girali vegetali completava la decorazione. I resti di un

altorilievo modellato a stecca appaiono invece debitori, nelle iconografie e nella realizzazione, delle tradizioni puniche. La parte centrale conserva almeno quattro figure (fig. 376): Sardò (Sid con corona piumata) e Makeris (Herakles con leontè), il primo affiancato da una divinità

3 72. Fluminimaggiore, tempio di Antas. Veduta del lato sudoccidentale del tempio nella sua ricostruzione moderna. A poche decine di metri a sud-est del pronao si trovano sei tombe nuragiche; la necropoli sembra potesse continuare nello spazio successivamente occupato dal tempio. 373. Fluminimaggiore, tempio di Antas. La celebre iscrizione di età imperiale può essere così letta: «All'imperatore Cesare Marco Aurelio Anton ino Augusto, Pio, Felice. Il [prefetto della Provincia Sardinia] Quinto Coceio Proculo ha curato che venisse restaurato dalle fondamenta il tempio del dio Sardus Pater Bab(i. ..), rovinato dal tempo».

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374. Testa femminile, 175125 a.e., marme4h 10,5 cm,

C8gliari, Museo Archeofo&1CO Nazionale. La testa, finora attribuita alla fine del V secolo d."C., è stata oggetto di studio da parte di M. Torelli che ha in essa riconosciuto la statua acrolitica di culto della dea fenicia lshtar/Astarte, presumibilmente posizionata con almeno altre due statue (MelqartjHerakles e Sid/Sardò) all'interno della cella del tempio.

375. Gocciolatoio a protome leonina, Il sec. a.e., terracotta, h 20,5 cm, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Si tratta di uno dei due tipi di protome al centro delle lastre della sima laterale del tempio repubblicano. 376. Ricostruzione dell'altorilievo: al centro Sid/Sardò (con copricapo piumato) e MelqartjMakeris. Ai lati Astarte in trono e giovane Eshmun. Sembra doversi riconoscere un Sid giovane, imberbe, vicino al padre Melqartf Makeris. La figura femminile rappresenta Astarte, presente anche nella cella.

femminile seduta in trono, presumibilmente Astarte, della cui statua di culto si conserva la testa in marmo (fig. 374), e il secondo da una divinità maschile seduta, un giovane e apollineo Eshmun/Asklepios. Del rilievo dovevano far parte anche una sorta di alberello e una testa di animale mostruoso. Il racconto è completato da due teorie di fanciulle alate, ognuna delle quali sorregge con due mani un vaso, che incedono in senso opposto (fig. 377). Una proposta di lettura dell'altorilievo deve partire dalla lunga

tradizione del luogo di culto, dove emerge, nell'identificazione fra Sid/Sardò, a sua volta in sincretismo con Iolao, il legame con il culto degli antenati eroici connessa alla fondazione/civilizzazione e a funzioni guaritrici divine. La dea alata assisa fra i leoni e il dio con forti connotazioni ctonie e salutifere, entrambi legati a Melqart, fanno parte del rituale che segna il passaggio dalla morte ali' eroizzazione, mentre le giovani ninfe officiano il rito funebre versando acqua da particolari contenitori e al tempo stesso alludono al corteggio celeste di Astarte. Così, nella sua lunga vicenda dal V-IV secolo a.C. sino al III secolo d.C., il tempio di Antas conserva per noi un prezioso racconto mitico sulle origini dell'Isola.

Nota bibliografica Sul tempio di Antas si veda la recente pubblicazione Z UCCA 2019b che contiene testi di diversi studiosi per una rilettura complessiva del tempio in tutte le sue fasi storiche, con bibliografia relativa. In particolare sul tempio di età romana repubblicana si veda MANCA DI MORES 2019, su quello di età imperiale MASTINO 2019 e Rocco 2019. 376

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3 77. Ricostruzione dell'altorilievo: lastre raffiguranti ognuna una teoria di almeno tre figure femminili alate portatrici di vaso e incedenti. 378. Tempio di Antas, età repubblicana (tavola illustrata di lnklink Musei). Allo stato attuale un'ipotesi ricostruttiva del tempio repubblicano è molto problematica, come appaiono precari i dati sul precedente tempio punico: sono di ostacolo la scarsa affidabilità dei dati stratigrafici degli scavi di fine anni Sessanta e la forte arbitrarietà del restauro operato sui resti del tempio romano imperiale. Gli architetti di Caracalla dovettero ristrutturare, senza grandi modifiche, un tempio prostilo tetrastilo le cui forme esprimevano un insieme di elementi punici e italici, nordafricani, tolemaici. Conseguentemente la ricostruzione del tetto e degli elementi in terracotta che lo decoravano nel Il secolo a.e. pongono problemi insoluti: se appare convincente la collocazione di alcuni elementi a matrice sui lati lunghi e sui rampanti frontonali, diverso è il discorso per l'altorilievo, e le ipotesi di frontone aperto o chiuso in presenza di un fregio sono ancora in corso di studio. Ma la continuità culturale punica in età romana emerge dai personaggi principali dell'altorilievo, con lo straordinario racconto figurato delle vicende di Sid/ Sardò e Makeris alla presenza di Astarte ed Eshmun; la cella probabilmente ospitava l'aerolito di lshtar/ Astarte e forse una grande statua di Sid.

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379. Tempio di Antas, età repubblicana (ricostruzione virtuale). 380. Tempio di Antas, età repubblicana: ricostruzione della lastra di coronamento dei rampanti frontonali che rappresenta una coppia di grifi trattenuti per le code da un'arpia.

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La voce degli dei Paola Ruggeri

Le religioni antiche e nello specifico quella romana, almeno sino all'affermazione del monoteismo, hanno costituito un terreno di incontro, di "libero" scambio e, di solito, non hanno generato conflittualità culturali e ideologiche. Il politeismo consentiva, attraverso il fenomeno dell'interpretatio, ad esempio, di portare nel proprio mondo religioso dei e dee accolti da altre realtà storiche e culturali. In tal modo le divinità greche entrarono a far parte del pantheon romano, mutando il proprio nome da greco in latino come avvenne - solo per indicare alcuni riferimenti - con Zeus, Hera e Atena che ( a partire dall'età del re Tarquinio il Superbo) furono reinterpretati come Giove, Giunone e Minerva, divenendo la triade protettrice più importante della città di Roma, quella Capitolina, che mantiene ed eredita anche i tratti latini ed etruschi. Per la Sardegna, in epoca romana, il rapporto di interscambio religioso trovò terreno fertile poiché si innestarono una serie di "interpretazioni" che partivano dalla religiosità nuragica e da quella fenicio-punica; si confrontarono dei, dee, culti, partendo dai luoghi in cui si praticava un'antica religiosità, espressione di tradizioni locali o mediterranee. La Sardegna, pur nelle difficoltà dovute alla dominazione militare prima dei Punici e successivamente dei Romani, divenne una sorta di laboratorio dove il codice della comunicazione religiosa veicolò un rapporto di interscambio politico. Del resto in nessuna altra cultura come in quella romana era tanto forte il binomio tra religione e politica, e quest'ultima costituiva un vero e proprio instrumentum regni. Nella Sardegna romana tra i casi di "interpretazione", "versione", "assimilazione" maggiormente noti attraverso la documentazione epigrafica vi sono senza dubbio quelli del Sardus Pater-Sid-Iolao padre e di Esculapio-Merre, che legano periodi storici assai differenti, travalicando lo spazio cronologico. Sullo sfondo rimane l'impressione di un progressivo ridursi di culti religiosi e pratiche magiche, espressione di tradizioni etnografiche molto radicate, che sembra caratterizzare in Sardegna il lento passaggio verso il Cristianesimo.

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Il dio che sintetizza l'idea di quella che Cicerone chiama la natio sarda fu il Sardus Pater, reinterpretazione latina di un grande dio nuragico (forse Babai) e fenicio-punico (Sid Baby): nella valle di Antas (Fluminimaggiore), nel cuore dell'area mineraria dell'Iglesiente, una statuina in bronzo rinvenuta in una tomba a pozzetto della prima Età del Ferro (IX-VII sec. a.C.), all'interno di un'area funeraria nuragica, rappresenta Babai, un dio guerriero e cacciatore. Egli è riprodotto con una lancia impugnata nella mano sinistra, con il braccio destro alzato e la mano aperta nell'atto di "benedire': Il teonimo Babai che si attribuisce alla divinità di Antas viene ritenuto di origine nuragica; già in epoca punica, verso la fine del VI secolo a~C. si sovrappose il culto di Sid, quando venne realizzato, a poca distanza dalle tombe nuragiche, un luogo di culto di natura poco complessa, in sostanza un recinto sacro (témenos) di ampie dimensioni con altare. Esso venne ristrutturato e trasformato (in particolare nella decorazione esterna) nel IV secolo a.C. secondo i canoni ellenistici derivati dall'Egitto dei Tolomei. L'area sacra, il cui fulcro era inizialmente costituito da una roccia a cielo aperto che fungeva da altare per i sacrifici, venne dedicata a Sid, il dio fenicio di Sidone, figlio di Melqart (l'antico Eracle venerato a Tiro e a Canopo nell'antico Egitto, nell'area del delta del Nilo) invocato come padre: Baby (ossia Babai). Il nome del dio Sid è testimoniato da una serie di ex voto pertinenti a un deposito, sempre all'interno del recinto sacro, sui quali sono state inscritte le invocazioni e i ringraziamenti dei fedeli per l'aiuto ricevuto da Sid Baby, generalmente denominato Sid potente Baby o Babay (Sid Addir Baby o Babay). Si osserva chiaramente che il teonimo nuragico Babai viene riconvertito, nel contesto della cultura religiosa punica, in un appellativo, un epiteto del dio che ha il senso rassicurante di un'invocazione a Sid, considerato Padre. Del resto il teonimo nuragico, divenuto appellativo, ben si presta con la sua onomatopea, che riproduce il balbettare delle prime incerte parole del bambino che chiama il padre, a evocare il senso di protezione e affidamento alla divinità. Ai passaggi di questa consolidata tradizione religiosa se ne aggiunse

381. /scrizione sacra, 213219 d.C. , bronzo, h 9,6 cm , proveniente dal tempio di Antas, Fluminimaggiore, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale.

un altro quando il tempio punico fu obliterato in tarda epoca repubblicana - pur mantenendone l'orientamento e costringendo ad adattamenti strutturali come la bipartizione del vano accessibile ai soli officianti (adyton) e destinato a due distinte divinità, padre e figlio. Probabilmente in coincidenza con l'avvento dell'epoca augustea, nel nome del ripristino promosso da Augusto di divinità e forme di culto tradizionali che servissero, dopo la stagione delle guerre civili, a veicolare l'idea di pax romana, venne eretto un edificio sacro conforme alle architetture dei templi romano-italici, con un ricco apparato decorativo esterno composto da terrecotte fittili con soggetti tratti dal mito e dalla figurazione religiosa. Il destinatario del culto era, accanto a Eracle-Ercole-MelkartMaceride, il Sardus Pater ancora una volta denominato Baby, un dio con un nome e una vicenda mitografica del tutto originali, trasposti sul piano religioso, nei quali è possibile leggere le eredità e le stratificazioni religiose delle epoche precedenti. Il suo nome è presente ad Antas nell'iscrizione dell'epistilio del tempio (fig. 373) quando, all'inizio del III secolo d.C. con Caracalla, l'edificio venne restaurato a causa delle sue precarie condizioni tra il 212 e il 217 d.C. per il tramite del prefetto della provincia Sardinia, Q(uintus) Co[ce]ius Proculus. Il nome del dio Sardus Pater è poi presente sulla lastra enea, forse un ex voto offerto da Alexander servus regionarius, addetto al

controllo delle proprietà imperiali divise in regiones, risalente al III secolo d.C. (fig. 381 ). Sardus vantava una trama genealogica mediterranea, essendo figlio del libico Makeris e del punico Melqart, e assimilato dunque a id; Pater costituiva un epiteto che accentuava i suoi tratti di dio colonizzatore di cui aveva assunto numerose caratteristiche; in questo senso alcuni studiosi hanno sottolineato l'accostamento con l'eroe greco Iolao padre, nipote e compagno di Eracle, protagonista di una antica saga mitografica greca riferita dapprima nella tarda età della Repubblica da Diodoro Siculo e poi ripresa nel II secolo d.C. da Pausania. Iolao sarebbe giunto in Sardegna per volontà dello stesso Eracle, come colonizzatore nell'Isola a capo di quarantadue figli (i Tespiadi) nati dalle cinquanta figlie del re di Tespie e come ecista degli Io lei. Egli ricevette l'onore di chiamarsi padre, proprio come padre era Sardus. Sulla madre di Sardus non si hanno invece notizie, come pure su una eventuale unione del dio con una divinità femminile, ad esempio una sua paredra (sul frontone del tempio compaiono, accanto a Eracle vincitore del leone e a Sardus, anche Cerere-Demetra e Dioniso): troppo incerto è infatti il binomio, presente nella sola Cartagine, forse nel quartiere di Megara, fra Sid (poi Sardus in Sardegna) e Tanit; di recente A. Mastino ha valorizzato la notizia di Solino (:XXIV, 2) sul fatto che Sardus avesse un fratello, Afer, alle origini l'uno e l'altro di due distinte

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nationes, i Sardi e gli Afri. Conosciamo l'aspetto del Sardus Pater poiché egli viene rappresentato di profilo sul rovescio di una moneta battuta nel 38 a.C. in una zecca sarda per volere di Ottaviano, che intendeva celebrare la propria vittoria su Sesto Pompeo attraverso il ricordo dell'avo materno M. Azio Balbo (pretore nell'Isola nell'anno cruciale del consolato di Cesare, il cui ritratto compare sul dritto) (figg. 285-286): il dio appare con il volto contornato dalla barba, pinnato ossia con una tiara con piume sul capo - simbolo di regalità e divinità nel contempo, secondo i modelli iconografici punico-orientali e anche presenti tra i Nasamoni africani - e un giavellotto sulle spalle. Ritorna con Augusto il tema del ripristino dei valori religiosi tradizionali e una interpretazione romana della divinità "nazionale" dei Sardi in nome del valore della concordia. A San Nicolò Gerrei (località Santu Jacci), nella seconda metà dell'Ottocento, venne ritrovata una dedica trilingue in latino, greco e punico (fig. 295), che proveniva da una struttura dedicata al dio guaritore Esculapio con i suoi diversi nomi, quello originario greco Asclepio e quello punico Eshmun, sebbene sempre affiancati da un enigmatico appellativo appartenente al sostrato sardo-punico, Merre. All'interno del luogo sacro di Santu Jacci, destinato evidentemente a raccogliere invocazioni per la guarigione da malattie di vario tipo, uno schiavo di origine greca, Cleone, che prestava servizio presso le saline di Cagliari, sul finire del II secolo a.C., ringraziava il dio medico e guaritore, figlio di Apollo, di averlo risanato da una malattia, forse contratta presso l'ambiente di lavoro che spesso si presentava malsano. Come ringraziamento, Cleone offriva una piccola ara in forma di colonna circolare in bronzo dal peso notevole (circa 33 kg), sulla base della quale erano incise tre dediche al dio in differenti lingue, con alcune difformità nel testo greco, datato ali' epoca dei sufeti di Carales Himilkat e Abdeshmun al vertice del governo cittadino, e invece con piena corrispondenza nei testi latino e punico. Asclepio fu l'ultimo degli dei greci presi in prestito dai Romani: introdotto a Roma al principio del III secolo a.C. (nel 293), arrivò "fisicamente" in città sotto forma di uno dei serpenti allevati nel famoso santuario di Epidauro in Grecia (Argolide) e nel 291 a.C. gli venne dedicato un tempio presso l'isola Tiberina. Dio della guarigione anche attraverso il sonno terapeutico (incubazione), è ben documentato

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anche nelle terrecotte figurate di Nora (fig. 44), che rappresentano il paziente awolto nelle spire di un serpente; ma ancora una volta eredita una tradizione locale, ben documentata nella Fisica di Aristotele, relativa all'incubazione terapeutica presso le statue degli eroi. La dedica da parte di Cleone mostra come nell'Isola, in una fase ancora interlocutoria rispetto all'affermazione delle divinità romane, Asclepio abbia trovato una forma di assimilazione in Eshmun, dio della Fenicia con antichissime ascendenze mesopotamiche, venerato ad esempio a Sidone e Amrit, entrato poi a far parte del pantheon cartaginese e dal Nord Africa transitato in Sardegna con l'occupazione punica dell'Isola. Le altre peculiarità originarie di Eshmun in Oriente, collegate al suo aspetto di divinità poliade, protettrice di alcune città, nel suo diffondersi in Occidente avrebbero lasciato il posto all'aspetto risanatore, sintetizzato da Asclepio-Esculapio, come pure a una devozione spesso~esercitata individualmente. Ciò viene confermato anche dall'ex voto in terracotta a forma di mano da Cagliari, con una dedica in lingua neopunica da parte di un fedele la cui richiesta di guarigione "era stata ascoltata" dal dio. Con l'età imperiale le testimonianze legate al culto di Esculapio, che rispondeva a profonde aspirazioni legate al mondo della salute, si moltiplicano a Carales [ex pol]licita[tione], e in varie località dell'Isola, spesso in associazione con le Ninfe salutari: dobbiamo ricordare le Ninfe delle acque termali, che scaturiscono presso il Tirso a Forum Traiani e alle Aquae Lesitanae o altrove. Conosciamo infatti dediche ai Numina delle Nimphae o delle Nymphae, accompagnate da Esculapio e alle Nymphae Sanctissimae, alle Nymphae salutares, alle Nymphae Augustae delle Aquae Hypsitanae oggi Fordongianus (fig. 194). L'associazione col culto di Esculapio è documentata, sempre a breve distanza dal Tirso, anche per le Aquae Lesitanae (San Saturnino di Benetutti-Bultei). Culti analoghi si svolgevano pure alle Aquae calidae Neapolitanorum (Santa Maria de is Aquas, Sardara), a Oddini (Orani-Orotelli), a Santa Maria Coghinas e a San Giovanni di Dorgali. Culti italico-romani Già nel IV secolo a.C.- pur nell'epoca della predominanza del pantheon punico mediterraneo, durante l'occupazione cartaginese - si venne a costituire una sorta di enclave romana a Feronia, presso l'attuale

382. Lucerna, I sec. d.C. , ceramica , lungh. 11 cm, proveniente da Turris Libisonis, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna ". La lucerna è decorata con la scena di Eracle e l'albero dei pomi nel giardino delle Esperidi.

Posada, nell'immediato retroterra della costa nord-orientale dell'Isola, attestata più tardi dal geografo Tolomeo. Si trattò di una colonia effimera secondo la notizia di Diodoro Siculo, il cui impianto si deve, tra il 378-377 a.C., a cinquecento plebei debitori insolventi, fuggiti da Roma per non incorrere in pene come quella della schiavitù per debiti. Il nome della colonia evoca la dea Feronia, dea etrusca e italica, protettrice della natura selvaggia, delle fiere come pure delle messi e degli schiavi liberati, con santuari in molte città dell'Etruria laziale e del Lazio antico. Un esempio fra i tanti è quello di Lucus Feroniae, presso l'attuale Capena, ai piedi del monte Soratte; nel santuario di Feronia a Terracina si liberavano gli schiavi che venivano fatti sedere su un apposito sedile dal quale, dopo che il patrono aveva pronunziato la formula di affrancament9, si rialzavano liberi. Il nume tutelare della colonia sarda di Feronia fu probabilmente Ercole nella sua espressione osco-italica: lo si deduce da una statuetta in bronzo ritrovata a Posada, forgiata secondo un'antica iconografia del dio, rappresentato nudo, nell'atto di impugnare la lancia, con la pelle del leone nemeo che gli avvolge il braccio sinistro e ricade all'indietro; la statuetta potrebbe essere giunta in Sardegna portata dai fuggitivi. Nella figura di Ercole in Sardegna

- ancor prima dell'occupazione romana convergono tradizioni religiose molteplici: da quella libica di Melkart, l'Eracle dei Cartaginesi, a quella dell'Eracle greco legato alla tradizione mediterranea delle sue fatiche. Un dato appare oggi rilevante, quello di una venerazione nell'Isola dell'Ercole romano con influenze italiche per tutta l'epoca repubblicana, quasi che il culto di Ercole potesse costituire la chiave di penetrazione in aree legate alla cultura punica e alla tradizione religiosa dei Sardi, sulla rotta verso le Colonne. In questo senso la recente scoperta di una dedica a Ercole Nouritano in Sicilia, all'interno del Parco Archeologico di Lilibeo, apre nuovi scenari. L'iscrizione, con parole in forme latine arcaiche, risale a un'epoca anteriore al I secolo a.C. e riporta la dedica da parte di un Caio Fannio, figlio di Miniato, e di un gruppo di cittadini Frentani residenti in Sicilia, di un luogo di culto a Ercole Nouritano, un epiteto del dio che riconduce ad ambito sardo. Si trattava di un culto che in Sardegna poteva essere praticato a Nora/Nura come esito della devozione al Melkart-Eracle libico; del resto poco lontano, a ovest di Bithia, era posto il Porto di Eracle, presso Capo Malfatano. Ben si comprende il legame tra il Melkart libico e l'Eracle delle fatiche e degli spostamenti mediterranei, poiché anche nel Nord dell'Isola vi era un luogo di culto per Eracle-Ercole presso l'attuale isola dell'Asinara (l'isola di Eracle, l'alluce dell'immaginario piede di Ichnussa-Sandaliotis), tappa di Eracle attraverso lo stretto di Bonifacio verso l'Occidente atlantico. Un santuario a Ercole è stato recentemente ipotizzato presso piazza Tola a Sassari. Il culto sembra parallelo a quello di Astarte Ericina che collega Erice in Sicilia con Carales e Cartagine. Quello per Ercole Nouritano poteva costituire un antico culto autoctono di epoca nuragica, rivisitato in periodo repubblicano e frutto dell'incontro tra gruppi di colonizzatori italici o siculi, i Siculenses, giunti nell'Isola e le popolazioni locali come quella dei Nurritani di Orotelli, che prendono il loro nome dai nuraghi preistorici della Barbagia (confinando, per Diodoro Siculo, sul Tirso con Greci-Iolei e Troiani-Ilienses). Il culto di Ercole ebbe vasta diffusione popolare, soprattutto in epoca imperiale, come attestano le iscrizioni di Ercole vincitore e le tante figurine bronzee dell'eroe provenienti da numerose località dell'Isola (Porto Torres, Ossi, Bisarcio, Olbia, Neapolis, Lanusei e Castiadas), e anche le lucerne, come quella di Porto Torres con la

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rappresentazione di Eracle che uccide il serpente che custodiva l'albero dai pomi d'oro nel giardino delle Esperidi (fig. 382); a questa vicenda alludono il bronzetto di età imperiale da Ossi, con Eracle che raccoglie tre pomi e la statuina marmorea di Neapolis (con un solo porno) . Alcune testimonianze epigrafiche mostrano piuttosto la devozione all'interno di famiglie senatorie, ad esempio la dedica di un'ara a Ercole Vincitore dal Foro di Cagliari, in quanto questa declinazione aristocratica del dio era legata all'Ara Maxima del Foro Boario a Roma, da cui partivano i trionfi dei generali vittoriosi verso il Campidoglio. Legata a un'associazione di ex commilitoni, i Martenses, è poi una dedica alla potenza divina (Numen ) del dio Ercole da Biora (l'attuale Serri). Solo attraverso la documentazione storica si ha notizia del mosaico con le dodici fatiche di Eracle proveniente da un'abitazione romana presso la chiesa dell'Annunziata di Cagliari e dell'applique in bronzo di un carro con la scena mitologica di Ercole con il figlio Telefo bambino, entrambi datati al III secolo d.C., a conferma della longevità di una divinità e di un culto che si configurò, nell'ipogeo di Tharros, in quello di Eracle che salva (Herakles sotér) praticato da un'associazione religiosa che volle raffigurarlo nell'atto della vittoria sul leone nemeo. Con l'occupazione romana della Sardegna e la costituzione della provincia Sardinia, iniziarono gradualmente a diffondersi nell'Isola anche divinità e culti sino a quel momento estranei all'orizzonte locale, tanto fortemente influenzato, come si è constatato per il Sardus Pater, da una religiosità in parte frutto degli esiti di tradizioni precedenti. In questo senso occorre leggere le testimonianze relative al pantheon romano tradizionale che si afferma stabilmente nell'Isola ben prima dell'età imperiale attraverso il culto di Giove Capitolino (Iupiter Optimus Maximus); la testimonianza più antica sembra quella di un santuario dedicato a Giove (dei Iovis ), preceduto da un altare rupestre inscritto, a esso collegato, scoperto a Bidonì nell'attuale Barigadu, alla sornrnita di Monti Onnarìu, in una posizione liminare tra la Barbagia e l'area romanizzata, forse collegato a un trionfo, espressione comunque del potere politico e militare esercitato da Roma sulle aree interne della Barbagia attraverso il culto del re degli dei. Per quanto, secondo gli studiosi, non possa escludersi, ancora una volta, che si tratti di un'interpretazione romana di un radicato culto protostorico sardo del toro.

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Giove occupava il vertice della religione istituzionale romana, rappresentando il collante politico di ogni comunità cittadina: da quelle di maggiore ampiezza e importanza come le colonie e i municipi, sede dei capitolia, ai centri piu piccoli, i villaggi vocati alla produzione agricola (i pagi e i vici). In Marrnilla, alla base della collina di Las Plassas, in un'area che anticamente faceva parte del territorio (pertica) della Colonia Iulia Augusta Uselis (attuale Usellus), gli abitanti di un pagus raccolti in un vicus (i pagani Uneritani) finanziarono la costruzione di un tempio intitolato a Giove Ottimo Massimo, appoggiandosi al colle più simbolico e rappresentativo del territorio, che ricorda una mammella (da cui il toponimo Marrnilla). el corso dell'epoca imperiale, le dediche al dio capitolino divennero espressione di lealismo verso gli imperatori da parte dell'esercito e delle comunità cittadine. Ciò appare con evidenza nella dedica che proviene~da Martis in Anglona (località Sa Balza) a Giove Ottimo Massimo, a Giunone Regina - (l'antichissima dea etrusca Uni, invitata nel 396 a.C. dal dittatore Furio Camilla a "trasferirsi" da Veio a Roma attraverso il rituale dell' evocatio ) e a Minerva; la dedica, rivolta anche alla Speranza e alla Salute, aveva la finalità di assicurare il ritorno in sicurezza e la vittoria all'imperatoresoldato Massimino il Trace, impegnato in una campagna sul fronte danubiano contro Sarrnati e Daci (236-237 d.C. ), e a suo figlio Massimo, con l'augurio di salvezza per tutta la casa imperiale alla vigilia della rivolta dei Gordiani (domus divina). Dediche a Giunone sono documentate a ora già in età augustea. A una fabbrica di oggetti sacri, come ne dovevano esistere tante nei luoghi santuariali dell'Isola - si pensi al caso di Padria -, va ricondotto il marchio su un timbro bronzeo, funzionale alla sua apposizione su oggetti di coroplastica sacra con la dedica a Giove: dic(atus) sum Iov(i), proveniente dal territorio di Tharros. Parallelamente al culto per Giove Ottimo Massimo dovette avere una buona diffusione tra i militari di stanza in Sardegna quello per Giove Dolicheno, che si affermò nell'Impero a partire da Marco Aurelio, con un apice nell'epoca dei Severi; in Sardegna è attestato da un'iscrizione rinvenuta a Ossi ma proveniente da Turris. Nel documento sardo, Giove Santo Dolicheno viene invocato da alcuni personaggi, il cui nome è purtroppo frammentario, perché assicurasse

383. Cabras, ipogeo di San Salvatore, graffiti raffiguranti Venus in conversazione con Mars.

la vittoria agli imperatori Caracalla e Geta. Originario della città di Doliche in Siria, il culto di questo dio si diffuse anche grazie al fatto che l'imperatrice Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, era nata a Emesa in Siria (attuale Homs), sebbene il Giove di Doliche, spesso insignito degli attributi Ottimo e Massimo, tipici di Giove Capitolino, non lo abbia mai surclassato ma piuttosto abbia agito in parallelo e di concerto con quest'ultimo.

lnterpretatio romana Vi erano poi divinità tipicamente latine e romane che, per l'influsso delle caratteristiche del loro corrispondente greco e per l'accentuazione di alcune funzioni peculiari, si presentavano in forme diverse a seconda dei contesti religiosi in cui erano inserite; è il caso di Mars (Marte), dio della guerra collegato al greco Ares ma allo stesso tempo profondamente latino. Membro della triade che comprendeva Giove e Quirino, egli rappresentava la funzione guerriera tipica delle società antiche e allo stesso tempo veniva considerato un dio legato anche all'agricoltura. Nell'ipogeo di San Salvatore a Cabras (IV ambiente), dedicato a Ercole Sotér (fig. 383), Marte viene raffigurato accanto a Venere con un chiaro riferimento al fatto che i due fossero amanti, pronti a coronare il loro sogno d'amore con le nozze, poiché Amor, un erote alato, porge alla futura sposa un velo; tutto ciò sotto gli occhi attenti di due donne: Luna che affianca Venere e Musa seduta su uno sgabello. Marte è raffigurato come dio della guerra con l'elmo,

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una bandoliera sul petto e gli schinieri sebbene l'episodio che ispira la scena sia quello dell'amore e dunque della pace rappresentati da Venere. Marte-Ares è colto però nel momento della passione e dell'amore con Venere, secondo la trama mitografica che riportava all'Odissea e ad autori latini come Ovidio: i due amanti sarebbero caduti nella trappola di Vulcano, fabbro degli dei, sposo di Venere che costruì una rete metallica invisibile ma efficace, imprigionando sul letto i due amanti ed esponendoli ai frizzi e lazzi degli altri dei. A San Salvatore di Cabras ci troviamo di fronte all'unione delle due personalità di Marte - quella del guerriero e quella dell'amante appassionato, a cui fa da compendio Venere dea dell'amorein rapporto con i miti fondativi della città di Roma in quanto egli era il padre di Romolo e Remo, i gemelli concepiti con Rea Silvia, la figlia di Numitore, legittimo re di Alba Longa. Naturalmente Venere, ben documentata in Sardegna, può essere in rapporto con la lunga tradizione preistorica sarda, con il culto punico di Astarte Ericina documentato a Capo Sant'Elia, con il tempio di Venere e Adone di via Malta a Cagliari, che Cesare visitò in occasione del suo viaggio in Sardegna nel 46 a.C., prima della nascita del municipio. Distinto è il culto della Venus obsequens, attestato a breve distanza da Turris Libisonis, presso la località denominata Biunis: luogo di culto con annessa una fabbrica di oggetti sacri, come lascia supporre un sigillo per imprimere il nome della dea; questo culto era diffuso tra gli ex schiavi liberati, i liberti, e connesso alle feste del vino del mese di agosto a Roma, dove a Venus obsequens era dedicato un tempio presso il Circo Massimo sin dal 295 a.C. Anche il richiamo al Marte guerriero, privo del suo doppio votato all'amore, è ben presente in Sardegna. A Biora (Serri, in località Sa Cungiadura Manna), il presidio militare lungo la strada interna per la Barbagia menzionato dall' Itinerarium Antonini, tre membri di un'associazione (collegium o sodalitas) di fra tres (ex commilitoni), i Martenses, rivolgono una dedica alla potenza divina (Numen) del dio Ercole (Deus Herculis): si trattava forse di veterani tra le cui finalità vi era anche quella di provvedere alla sepoltura degli appartenenti alla corporazione presso un'area destinata in una necropoli del posto. Il monumento sardo, un cippo in trachite che simulava nella forma e nella decorazione del campo epigrafico un fusto di colonna rudentata, riporta i nomi di

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tre fratres che si sono occupati della dedica del