Il Tao della liberazione 9788876255144

Un libro che affronta temi di grande attualità, come la minaccia ecologica e la crescita delle disuguaglianze. L’umanità

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Il Tao della liberazione
 9788876255144

Table of contents :
Indice......Page 5
Frontespizio......Page 4
Introduzione......Page 7
Sul Tao Te Ching......Page 19
Prologo......Page 21
Il Tao della liberazione......Page 27
Esergo......Page 28
1. Cercare la saggezza in un tempo di crisi......Page 29
Parte prima......Page 46
2. Smascherare un sistema patologico......Page 47
3. Oltre il dominio......Page 118
4. Oltre la paralisi......Page 154
Parte seconda......Page 216
5. Riscoprire la cosmologia......Page 217
6. La cosmologia della dominazione......Page 236
7. Trascendere la materia......Page 279
8. Complessità, Caos e Creatività......Page 322
9. Memoria, risonanza morfica ed emergenza......Page 359
10. Il cosmo come rivelazione......Page 402
Parte terza......Page 501
11. Spiritualità per un’era ecozoica......Page 502
12. L’ecologia della trasformazione......Page 557
Il viaggio continua......Page 636
Bibliografia......Page 637
Consigli bibliografici......Page 655

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I edizione digitale: febbraio 2014 I edizione: marzo 2014 © 2009 Mark Hathaway - Leonardo Boff © 2009 Orbis Books, Maryknoll, New York, USA © 2014 Fazi Editore srl Via Isonzo 42, Roma Tutti i diritti riservati Titolo originale: The Tao of liberation Traduzione dall’inglese di Michele Zurlo ISBN: 978-88-7625-514-4 www.fazieditore.it www.ebookfazieditore.it Il blog di Campo dei fiori http://www.campodeifiorifazi.it

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Mark Hathaway - Leonardo Boff

IL TAO DELLA LIBERAZIONE ESPLORANDO L’ECOLOGIA DELLA TRASFORMAZIONE traduzione di Michele Zurlo

Indice Introduzione Sul Tao Te Ching Prologo Il Tao della liberazione 1. Cercare la saggezza in un tempo di crisi Parte prima 2. Smascherare un sistema patologico 3. Oltre il dominio 4. Oltre la paralisi Parte seconda 5. Riscoprire la cosmologia 6. La cosmologia della dominazione 7. Trascendere la materia 8. Complessità, Caos e Creatività 9. Memoria, risonanza morfica ed emergenza 10. Il cosmo come rivelazione Parte terza 11. Spiritualità per un’era ecozoica 12. L’ecologia della trasformazione Il viaggio continua Bibliografia Consigli bibliografici

A mia figlia, Jamila, e a mia moglie, Maritza, che nel corso di questo viaggio mi hanno sostenuto con il loro amore e incoraggiamento. Ai miei maestri, che mi hanno ispirato con la loro sapienza e le loro intuizioni. E al cosmo vivente, la cui continua bellezza mi accende di stupore. MARK HATHAWAY

A Mirian Vilela e a Steven Rockefeller, per il loro profondo amore nei confronti della Terra vivente e per il loro contributo essenziale al processo di stesura della Carta della Terra. LEONARDO BOFF

Introduzione di Fritjof Capra Con l’avanzare del nuovo secolo, due fenomeni sono destinati ad avere un impatto fondamentale sul benessere dell’umanità. Uno è l’ascesa del capitalismo globale, l’altro è la costruzione di comunità sostenibili fondate sulla messa in opera della progettazione ecologica. Il capitalismo globale si associa alle reti elettroniche di flussi finanziari e informativi, l’ecoprogettazione alle reti ecologiche di flussi energetici e materiali. L’obiettivo dell’economia globale, nella sua forma attuale, è massimizzare la ricchezza e il potere delle élite, quello dell’ecoprogettazione è massimizzare la sostenibilità della rete della vita. Oggi questi due scenari sono in rotta di collisione. La nuova economia, nata dalla rivoluzione della tecnologia dell’informazione degli ultimi trent’anni, si struttura perlopiù attorno a reti di flussi finanziari. Grazie a sofisticate tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il capitale finanziario può spostarsi rapidamente in tutto il pianeta alla continua ricerca di opportunità di investimento. Tale sistema poggia su un modello informatico capace di gestire l’enorme complessità generata dalla rapida deregolamentazione e da una sconcertante varietà di nuovi strumenti finanziari. Questo tipo di economia è talmente complesso e turbolento da sfuggire a qualsiasi analisi tradizionale. Ci troviamo di fronte a un casinò globale gestito elettronicamente. I giocatori non sono anonimi speculatori, bensì grosse banche di investimento, fondi pensionistici, multinazionali e fondi aperti, organizzati in modo tale da favorire la manipolazione finanziaria. Il cosiddetto mercato globale non è in realtà un vero e proprio mercato, ma una rete di macchine programmate a partire da un valore unico – il denaro – che esclude tutti gli altri valori. In altre parole, la globalizzazione economica ha sistematicamente escluso la dimensione etica del mercato.

Negli ultimi anni, tra gli studiosi e i leader di comunità si è discusso molto dell’impatto sociale ed ecologico della globalizzazione. Dalle loro analisi emerge che la nuova economia sta provocando una serie di dannosissime reazioni a catena. Essa ha arricchito un’élite globale composta di speculatori finanziari, imprenditori e professionisti dell’high tech. In cima alla piramide vi è stata un’accumulazione della ricchezza senza precedenti. Per il resto, le ripercussioni sociali e ambientali sono disastrose, e ciò mette a repentaglio il benessere economico della popolazione a livello mondiale, come dimostra l’attuale crisi finanziaria. Il nuovo capitalismo globale ha contribuito all’aggravarsi della disuguaglianza e dell’esclusione sociale, al crollo della democrazia, al rapido ed esteso degrado ambientale, all’aumento della povertà e dell’alienazione. Esso minaccia e distrugge le comunità locali in tutto il mondo e, in nome di una mal concepita biotecnologia, viola la sacralità della vita tentando di trasformare la diversità in monocoltura, l’ecologia in ingegneria e la vita stessa in una merce. È ormai evidente che il capitalismo globale nella sua forma attuale è insostenibile – socialmente, ecologicamente e persino finanziariamente – e deve essere ripensato dalle fondamenta. Il principio su cui si basa, ossia che fare denaro debba avere la precedenza sui diritti umani, sulla democrazia, sulla tutela dell’ambiente e su qualsiasi altro valore, è garanzia di catastrofe. Tale principio, tuttavia, può essere modificato: non è una legge di natura. Le reti elettroniche di flussi finanziari e informativi possono incorporare altri valori. Il nodo della questione non è la tecnologia ma la politica. La grande sfida del XXI secolo sarà cambiare il sistema di valori sotteso all’economia globale così da renderlo compatibile con l’istanza di dignità umana e sostenibilità ecologica. In realtà, il processo di riformulazione della globalizzazione è già cominciato. A questo scopo all’inizio del secolo si è formato uno straordinario fronte di organizzazioni non governative (ONG) a livello

mondiale. In concomitanza con i vertici del World Trade Organization (WTO), del G7 e del G8, tale fronte, o movimento per la giustizia globale, come viene anche denominato, ha coordinato diverse manifestazioni di protesta che hanno avuto grande successo e ha organizzato svariate riunioni del Forum Sociale Mondiale, soprattutto in Brasile. Durante questi incontri, le ONG hanno proposto una serie di politiche commerciali alternative, tra cui alcuni progetti concreti per ristrutturare radicalmente le istituzioni finanziarie globali, trasformando in tal modo la natura della globalizzazione. Il movimento per la giustizia globale rappresenta una nuova forma di movimentismo politico tipica della moderna era dell’informazione. Grazie al sapiente uso di Internet, le ONG che fanno parte di questa coalizione possono mettersi in rete, condividere le informazioni e mobilitare i propri affiliati a velocità inaudite. Le nuove ONG globali vanno dunque affermandosi quali incisivi attori politici, indipendenti dalle istituzioni tradizionali a livello nazionale e internazionale. Esse costituiscono una nuova forma di società civile globale. Per poter inserire questo discorso politico in una prospettiva sistemica ed ecologica, la società civile globale fa affidamento su un network di studiosi, istituti di ricerca, think tank e centri di cultura che operano per la gran parte al di fuori delle istituzioni accademiche, delle organizzazioni economiche e delle agenzie governative ufficiali. Esistono ormai decine di istituti di ricerca e di cultura di questo tipo in tutto il mondo. Il comun denominatore è che essi svolgono la loro attività all’interno di una cornice ben definita di valori condivisi. Tali centri sono costituiti perlopiù da comunità di studiosi e attivisti impegnati in diversi progetti e iniziative. Si possono enucleare tre aree d’interesse che costituiscono gli epicentri dei movimenti di base più ampli e dinamici. La prima riguarda la riformulazione delle regole e delle istituzioni della globalizzazione. La seconda è la lotta agli alimenti geneticamente modificati e la promozione di un’agricoltura sostenibile. La terza è la progettazione ecologica: un

lavoro sinergico per ridisegnare le nostre strutture fisiche, le città, le tecnologie e le industrie in modo da renderle ecologicamente sostenibili. La progettazione, in senso lato, consiste nel plasmare flussi di energia e di materia per scopi umani. La progettazione ecologica è invece un processo in cui gli scopi umani vengono armonizzati con gli schemi e i flussi del mondo naturale. I principi dell’ecoprogettazione rispecchiano i principi organizzativi sviluppati dalla natura per preservare la rete della vita: il continuo riciclo della materia, l’uso dell’energia solare, la biodiversità, la cooperazione, la collaborazione ecc. Fare progettazione in un contesto simile richiede un cambiamento radicale del nostro atteggiamento nei confronti della natura: non più la ricerca di ciò che possiamo estrarre dalla natura, ma la ricerca di ciò che possiamo imparare da essa. Negli ultimi anni sono aumentati considerevolmente pratiche e programmi improntati all’ecoprogettazione, tutti ormai ben documentati. Tra questi, la rinascita a livello mondiale dell’agricoltura biologica; l’organizzazione di settori industriali diversi in cluster ecologici in cui gli scarti di uno diventano una risorsa per l’altro; il passaggio da un’economia orientata al prodotto a un’economia di “servizi e flussi”, con un ciclo continuo di materie prime industriali e componenti tecniche tra produttori e utenti; edifici progettati per produrre più energia di quanta ne consumano, che non generano sprechi e monitorano il proprio rendimento; automobili ibride che possono raggiungere livelli di efficienza energetica molto più elevati delle auto tradizionali e così via. Le tecnologie e i programmi di ecoprogettazione si incardinano sui principi basilari dell’ecologia e dunque ne condividono alcune caratteristiche cruciali. Di norma sono progetti su scala ridotta improntati alla diversità e all’efficienza energetica, non inquinanti, rivolti alla comunità e ad alta intensità di lavoro: creano cioè molta occupazione. Le tecnologie oggi a disposizione dimostrano

chiaramente che la transizione verso un futuro sostenibile non è più un problema tecnico o concettuale. È un problema di valori e di volontà politica. Negli ultimi anni, però, tale volontà sembra essere aumentata notevolmente. Prova ne è il film di Al Gore Una scomoda verità, che ha contribuito non poco a risvegliare la coscienza ecologica. Nel 2006, nel Tennessee, Gore ha istruito personalmente milleduecento volontari su come presentare il suo famoso slide show e diffondere il messaggio in tutto il mondo. Da allora al 2008 sono state realizzate quasi ventimila presentazioni a un pubblico di due milioni di persone. In quel periodo l’associazione di Gore, il Climate Project, ha addestrato alla stessa missione più di mille volontari in Australia, Canada, India, Spagna e Regno Unito. Ad oggi operano duemilaseicento presentatori, che hanno raggiunto un pubblico di quattro milioni di persone in tutto il mondo. Una tappa altrettanto importante è stata la pubblicazione del libro Piano B 3.0. Mobilitarsi per salvare la civiltà di Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute e autorità in materia di ambiente. La prima parte del volume è una dettagliata documentazione della profonda interconnessione esistente tra tutte le grandi problematiche moderne. Brown dimostra con impeccabile lucidità che il circolo vizioso fatto di pressione demografica e povertà non può che portare al depauperamento delle risorse – abbassamento dei livelli freatici, prosciugamento dei pozzi, deforestazione, crollo della pesca, erosione del suolo, desertificazione delle distese erbose e così via – e che a causa di tale depauperamento, aggravato dai cambiamenti climatici, molti Stati sono destinati al fallimento, perché i governi non sono più in grado di garantire la sicurezza ai propri cittadini, i quali, spinti dalla disperazione, si votano in alcuni casi al terrorismo. Se la prima parte del volume, com’è ovvio, è sconfortante, la seconda – un piano d’azione dettagliato per salvare la civiltà – è ottimista e stimolante. Esso prevede una serie di iniziative simultanee

che interagiscano tra loro, rispecchiando così l’interdipendenza dei problemi che intendono affrontare. Ciascuna proposta può essere messa in pratica con le tecnologie già esistenti, e tutte sono illustrate facendo riferimento a esperienze di successo che si sono effettivamente verificate nel mondo. Il Piano B di Brown è forse la testimonianza ad oggi più convincente del fatto che possediamo già le conoscenze, le tecnologie e i mezzi finanziari per salvare la civiltà e costruire un futuro sostenibile. Con l’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti, infine, si sono fatti non pochi passi avanti, quanto a volontà e leadership politica, per progredire verso la sostenibilità. La storia familiare di Obama è molto variegata, dal punto di vista razziale e culturale. Il padre era keniota, la madre americana, il patrigno indonesiano. Obama è nato alle Hawaii ed è cresciuto in parte lì e in parte in Indonesia. La grande eterogeneità del suo background ha plasmato la sua visione del mondo: egli è a suo agio tra persone diverse per razza ed estrazione sociale. Avendo lavorato per anni come organizzatore di comunità e avvocato specializzato in diritti civili, Obama è un ottimo ascoltatore, facilitatore e mediatore. Oltre a modificare la cultura politica degli Stati Uniti, la sua elezione sta contribuendo a trasformare l’immagine dell’America all’estero e l’auto-percezione degli americani in patria. Il programma politico del presidente Obama prevede un radicale cambiamento di rotta degli USA. Tra i suoi punti principali, l’eliminazione del fondamentalismo di mercato, la fine dell’unilateralismo americano e l’elaborazione di politiche di green economy per fronteggiare la crisi ambientale globale. Obama è perfettamente conscio della profonda interconnessione esistente tra i grandi problemi con cui il mondo deve fare i conti, e ci sono autorevoli scienziati e attivisti pronti ad aiutarlo a trasformare tale consapevolezza in politiche concrete. Eppure, alcuni interrogativi fondamentali rimangono. Perché ci è voluto tanto tempo per rendersi

conto delle gravi minacce alla sopravvivenza dell’umanità? Perché facciamo tanta fatica a modificare la nostra percezione, le nostre idee, il nostro stile di vita, e a cambiare le istituzioni che perpetuano l’ingiustizia e annichiliscono la capacità del nostro pianeta di alimentare la vita? In che modo possiamo accelerare il cammino verso la giustizia sociale e la sostenibilità ecologica? Sono questi i temi al centro di questo libro. Gli autori – uno proveniente dal Sud del mondo, l’altro dal Nord – hanno riflettuto a fondo su questioni di teologia, giustizia ed ecologia. La loro risposta agli interrogativi appena formulati è che la sfida fondamentale non consiste solo nel diffondere la conoscenza e nel modificare le vecchie abitudini. Tutte le minacce con cui dobbiamo fare i conti, dal loro punto di vista, sono sintomi di un più profondo male culturale e spirituale che affligge l’umanità. «È nostra convinzione che una grave patologia sia connaturata al sistema che oggi domina e sfrutta il mondo», affermano. Individuano nella povertà e nella disuguaglianza, nel depauperamento della Terra e nell’avvelenamento della vita i sintomi principali di tale patologia, e fanno notare che «le stesse forze e ideologie che sfruttano ed escludono i poveri stanno anche devastando l’intera comunità vivente sulla Terra». Per guarire da questa grave patologia, sostengono gli autori, c’è bisogno di un cambiamento profondo nella coscienza umana. «Siamo chiamati a reinventare noi stessi in quanto specie». Il nome che essi danno a questo processo di profonda trasformazione è “liberazione”, nell’accezione con cui il termine viene usato nella tradizione della teologia della liberazione: sia nel senso individuale di realizzazione spirituale, o illuminazione, sia in quello collettivo del popolo che cerca di liberarsi dall’oppressione. È mia opinione che sia questo duplice uso del termine “liberazione” a rendere unico questo libro, perché consente di integrare tra loro la dimensione sociale, politica, economica, ecologica, emotiva e spirituale dell’attuale crisi globale.

Come affermano Hathaway e Boff nel Prologo, il Tao della liberazione è la ricerca della saggezza necessaria per compiere profonde trasformazioni liberatrici in tutto il mondo. Rendendosi conto che tale saggezza non si può però esprimere pienamente a parole, gli autori hanno scelto di definirla ricorrendo all’antico termine cinese Tao (‘la Via’), che indica sia un percorso spirituale individuale sia il modo in cui funziona l’universo. Secondo la tradizione taoista, la realizzazione spirituale si raggiunge quando si agisce in armonia con la natura. Secondo quanto si legge nel classico cinese Huainanzi, «colui che segue l’ordine naturale scorre nella corrente del Tao». In questo libro la ricerca della saggezza necessaria per passare da una società ossessionata dalla crescita illimitata e dal consumo materiale a una civiltà equilibrata e a sostegno della vita comporta due tappe fondamentali. La prima è l’individuazione degli ostacoli concreti che si frappongono tra noi e la trasformazione liberatrice. La seconda consiste nella formulazione di una “cosmologia della liberazione”: nelle parole di Thomas Berry (citato nel libro), essa è una visione del futuro «avvincente abbastanza da sostenerci nella trasformazione del progetto umano attualmente in corso». Gli ostacoli molteplici e interdipendenti esaminati da Hathaway e Boff sono generati dalle nostre strutture politiche ed economiche, consolidati da una visione del mondo meccanicistica e deterministica e interiorizzati da sentimenti di impotenza, negazione e disperazione. Inoltre, nel libro si affronta diffusamente il tema degli ostacoli “sistemici” esterni, tra cui l’illusione di una crescita illimitata in un pianeta finito, il potere eccessivo delle corporation, il sistema finanziario parassitico e la tendenza a monopolizzare la conoscenza e imporre le «monocolture della mente», secondo l’azzeccata definizione di Vandana Shiva. Come spiegano gli autori, questi ostacoli esterni sono rafforzati da sistemi di istruzione oppressivi, da mass media manipolatori, da un consumismo esasperato e da ambienti artificiali – specie nelle aree urbane – che ci isolano dalla

natura vivente. Secondo gli autori, per vincere l’impotenza interiorizzata, che può assumere la forma della dipendenza e dell’avidità, della negazione, del torpore psichico o della disperazione, dobbiamo espandere la nostra percezione del sé. Dobbiamo migliorare la nostra capacità di provare compassione, costruire la comunità e la solidarietà e risvegliare il nostro senso di appartenenza alla Terra, riscoprendo così il nostro “sé ecologico”. Gli autori sostengono che dovremmo «riflettere sulle cose che davvero ci rallegrano e ci danno piacere [...] stare con gli amici, passeggiare all’aria aperta, ascoltare musica, gustare un semplice pasto». Quasi tutto ciò che ci dà davvero gioia costa poco o nulla. Tuttavia, per poterci risvegliare e riconnettere pienamente, abbiamo anche bisogno di una nuova comprensione della realtà e di una nuova concezione del posto che l’umanità occupa all’interno del cosmo. Abbiamo bisogno di una «cosmologia vivente e vitale». Gli autori usano il termine “cosmologia” nel senso di una visione del mondo condivisa che dia significato alla nostra esistenza, e contrappongono la “cosmologia della liberazione” che va pian piano facendosi strada alla “cosmologia della dominazione”, in cui rientra quella “cosmologia dell’acquisizione e del consumo che ne è surrogato” che domina le moderne società industriali. Secondo gli autori, sta nascendo dalla scienza moderna una nuova visione del cosmo che sotto molti aspetti richiama le antiche cosmologie aborigene. A differenza di queste, però, la nuova visione del mondo scientifica prospetta un universo in evoluzione, ed è quindi la cornice concettuale ideale per quella trasformazione liberatrice di cui abbiamo bisogno. Per portare avanti questa tesi, Hathaway e Boff attingono a un ampio bacino di pensatori contemporanei: filosofi, teologi, psicologi e scienziati naturali. Viene vagliato un ampio spettro di idee, modelli e teorie, invero non tutti

compatibili tra loro: alcuni sono arcani e decisamente estranei alla scienza ufficiale, e di quando in quando gli autori giungono a conclusioni che si spingono ben oltre la scienza moderna. Nondimeno, riescono mirabilmente a dimostrare che una nuova e coerente visione scientifica della realtà va affermandosi. Fulcro dell’indagine scientifica contemporanea è l’universo, che non è più visto come una macchina composta di tanti piccoli pezzi. Si è ormai appurato che il mondo materiale è in sostanza una rete di schemi relazionali inseparabili tra loro e che il pianeta nel suo complesso è un sistema vivente che si autoregola. Alla visione del corpo umano come una macchina e della mente come un’entità separata se ne va sostituendo un’altra in base alla quale non solo il cervello ma tutto il sistema immunitario, i tessuti corporei e ogni singola cellula costituiscono un sistema vivente e cognitivo. L’evoluzione non è più considerata una lotta per l’esistenza bensì una danza collaborativa, i cui motori sono la creatività e il rinnovamento costante. Accanto all’attenzione per la complessità, le reti e gli schemi organizzativi, si fa strada anche una “scienza della qualità”. Gli autori sostengono inoltre, a mio avviso giustamente, che la nuova cosmologia scientifica è assolutamente compatibile con la dimensione spirituale della liberazione. Essi ricordano al lettore che, all’interno della tradizione cristiana, il termine “spirito” – ruha in aramaico o ruah in ebraico – significava in origine ‘soffio di vita’. Quest’ultimo era anche il significato originario di spiritus, anima, pneuma e altre parole antiche per “anima” o “spirito”. L’esperienza spirituale, dunque, è innanzitutto esperienza dell’essere in vita. La presa di coscienza fondamentale di tale esperienza, stando a numerose testimonianze, è un profondo senso di unità con il tutto, un senso di appartenenza all’universo nel suo insieme. Tale senso di unità con il mondo naturale è pienamente accolto dalla nuova concezione della vita maturata dalla scienza contemporanea. Se comprendiamo che le radici della vita affondano

nei concetti basilari della fisica e della chimica, che il dipanarsi della complessità è cominciato ancor prima che si formassero le prime cellule viventi e che la vita si è evoluta per miliardi di anni usando sempre gli stessi schemi e processi, allora possiamo renderci conto di quanto siamo congiunti con l’intero tessuto vivente. È l’ecologia, in particolare, ad avere piena consapevolezza della connessione con la natura. I concetti di connessione, relazione e interdipendenza sono fondamentali nell’ecologia. Peraltro la connessione, la relazione e l’appartenenza costituiscono l’essenza dell’esperienza spirituale. L’ecologia sembra dunque essere un ponte ideale tra la scienza e la spiritualità. Non a caso, Hathaway e Boff auspicano una «spiritualità ecologica» che si occupi in primo luogo del futuro del pianeta Terra e dell’umanità. Ciascuna religione, evidenziano gli autori, possiede una visione e un approccio ecologici, e questa varietà di insegnamenti va considerata una risorsa, non una minaccia. «Ciascuno di noi deve volgersi di nuovo alla propria tradizione spirituale», si legge, «per trovarvi idee che ci spingano al rispetto per tutte le forme di vita, a un’etica della condivisione e della cura, a una visione del sacro incarnato nel cosmo». Il Tao della liberazione contiene inoltre numerosi suggerimenti su quali obiettivi, strategie e politiche perseguire per un’efficace azione trasformatrice che porti a una società giusta ed ecologicamente sostenibile. Due strategie analizzate nel dettaglio sono il bioregionalismo, che si fonda sull’idea secondo cui occorre riconquistare a livello locale la connessione profonda con la natura, e la Carta della Terra – «un sogno di vera liberazione per l’umanità» –, che enuncia come suo primo principio il rispetto e la cura per la comunità vivente. In un momento di svolta nella storia dell’umanità, i lettori troveranno in questo libro una messe di idee e di riflessioni approfondite sui fondamentali cambiamenti della coscienza umana e

sulle radicali trasformazioni ormai indispensabili nel mondo. Tra tutte, l’idea forse più importante e convincente è quella che costituisce il fulcro di questa avventura: invece di considerare la transizione verso una società sostenibile in termini di limiti e restrizioni, Hathaway e Boff propongono con solide argomentazioni una nuova e inoppugnabile concezione della sostenibilità come liberazione. Fritjof Capra Berkeley, Prima Giornata Internazionale della Terra 22 aprile 2009

Sul Tao Te Ching Abbiamo scelto di usare il Tao Te Ching (o Dao De Jing)1, un antico testo cinese scritto approssimativamente duemilacinquecento anni fa, come fonte di ispirazione per questo libro. Il testo è tradizionalmente attribuito a Lao-tzu (Laozi), saggio che si ritiene sia vissuto dal 551 al 479 a.C. circa, anche se molti studiosi pensano che si tratti in realtà di una raccolta da fonti diverse di detti tradizionali. Esso fu elaborato probabilmente tra il VII e il II secolo a.C. Secondo Jonathan Star, possiamo interpretare il significato del titolo Tao Te Ching come segue: Il Tao è la Realtà suprema, il sostrato che pervade ogni cosa, è l’intero universo e il modo in cui opera l’universo. Il Te è la forma e il potere del Tao, è il modo in cui il Tao si palesa: il Tao che si manifesta in una forma e in una virtù particolari. Il Tao è la realtà trascendente, il Te è la realtà immanente. Ching significa ‘libro’ o ‘opera classica’. Dunque, Tao Te Ching letteralmente significa ‘il Libro classico della Realtà suprema (Tao) e della sua Manifestazione perfetta (Te)’, ‘il Libro della Via e il suo Potere’, ‘il Classico del Tao e la sua Virtù’. (2001)

Dopo la Bibbia, il Tao Te Ching è il libro più pubblicato al mondo. Esistono innumerevoli traduzioni, alcune più accademiche e letterali, altre più poetiche. Essendo il cinese antico una lingua concettuale, ogni parola del testo evoca una serie di immagini che possono essere tradotte in molti modi. Nessuna traduzione coglie quindi l’intera portata e profondità del testo. In un certo senso, ciascuna traduzione è una sorta di interpretazione, e nessuna di esse ci può fornire il quadro completo di ciò che vi è contenuto. Dal momento che il nostro intento non è quello di elaborare un trattato accademico sul testo, abbiamo scelto di raccogliere una serie di traduzioni, molte delle quali sono più poetiche che letterali, e di combinarle per creare una versione utile a introdurre i diversi capitoli ma allo stesso tempo fedele al testo originale. A questo scopo abbiamo usato le traduzioni di Mitchell (1988), Muller (1997), e Feng e English (1989), rifacendoci al contempo all’eccellente traduzione letterale di

Jonathan Star con C.J. Ming (Star, 2001) come guida generale. 1 La traslitterazione moderna dal cinese è in realtà “Dao De Jing”, che corrisponde alla sua corretta pronuncia, ma abbiamo scelto di usare “Tao Te Ching” perché è in questa forma che è maggiormente conosciuto al lettore medio.

Prologo C’era un che di informe e perfetto, caotico e completo. Prima del Cielo e della Terra. Silente, vasto, vuoto, solitario. Pervade tutto, perennemente in moto, tutto sostiene eppure mai si esaurisce. È la madre del cosmo. In mancanza di un nome, lo chiamerò Tao. Scorre attraverso tutto, all’interno e all’esterno, per poi ritornare alla fonte di tutto. [...] Gli Uomini seguono la Terra. La Terra segue il Cielo. Il Cielo segue il Tao. Il Tao segue solo se stesso. TAO TE CHING §25 Il Tao della liberazione è la ricerca della saggezza necessaria per compiere profonde trasformazioni nel mondo. Abbiamo scelto di definire questa saggezza attraverso l’antica parola cinese Tao, che vuol dire ‘via, cammino verso l’armonia, la pace e le giuste relazioni’. Il Tao può essere inteso come un principio d’ordine che costituisce il sostrato comune del cosmo: esso è sia il modo in cui funziona l’universo sia la struttura cosmica in movimento, che non può essere descritta ma solo percepita2. Il Tao è la saggezza che risiede nel cuore stesso dell’universo e che racchiude l’essenza della sua finalità e della sua direzione. Pur usando l’immagine del Tao e i testi dell’antico Tao Te Ching, il nostro non è un libro sul taoismo di per sé. Anzi, l’idea che abbiamo in mente allorché usiamo il termine Tao trascende in un certo senso qualsiasi specifica filosofia o religione. Concezioni simili possono

ritrovarsi anche in altre tradizioni. Ad esempio, nel buddhismo il Dharma è «il modo in cui le cose funzionano» o il «processo ordinato» (Macy, 1991a). Analogamente, il termine aramaico usato da Gesù normalmente tradotto come ‘regno’ – Malkuta3 – si riferisce ai «principi di governo che guidano le nostre vite verso l’unità» ed evoca «l’immagine di un “braccio carico di frutti” in procinto di creare, o di una serpeggiante primavera che è pronta a sbocciare con tutto il verdeggiante potenziale della Terra» (Douglas-Klotz, 1990 [2002, p. 53]). Anche se il Dharma e il Malkuta inquadrano il concetto in modo differente, ai fini di questo libro possiamo ipotizzare che essi si riferiscano in qualche modo alla stessa realtà del Tao: una realtà che sfugge a una rigida definizione e può solo essere intuita a un livello più profondo. L’ideogramma cinese usato per il Tao combina i concetti di saggezza e di cammino, restituendo l’immagine di un processo che mette in pratica la saggezza: in altre parole, una sorta di prassi. Nel Tao della liberazione, cerchiamo appunto questa “saggezza in cammino”, intrinseca nella struttura stessa del cosmo.

In questa ricerca della saggezza, prendiamo spunto da campi diversi come l’economia, la psicologia, la cosmologia, l’ecologia e la spiritualità. Eppure è impossibile delineare perfettamente la forma del Tao della liberazione. Il Tao è un’arte, non una scienza esatta. Per la precisione, il Tao è un mistero: possiamo fornire delle indicazioni che mostrino il cammino da seguire, ma non possiamo tracciare una mappa dettagliata. Andiamo alla ricerca della saggezza nella speranza di individuare delle idee che consentano all’umanità di allontanarsi da percezioni, pensieri, abitudini e sistemi che perpetuano l’ingiustizia e

annichiliscono la capacità del nostro pianeta di alimentare la vita. Lo facciamo nella speranza di trovare un nuovo modo di vivere che possa soddisfare equamente i bisogni degli esseri umani, ma in armonia con i bisogni e il benessere dell’intera comunità terrestre, e anzi di tutto il cosmo. Per definire questo processo di trasformazione usiamo la parola “liberazione”. Tradizionalmente, questo termine è stato usato o in senso individuale, come realizzazione spirituale, o in senso collettivo, riferito al popolo che tenta di liberarsi da strutture politiche, economiche e sociali oppressive. È nostra intenzione accoglierne entrambe le accezioni, ma inquadrandole in un contesto più ampio, ecologico e persino cosmologico. Per noi la liberazione è il processo in base al quale ci si orienta verso un mondo in cui tutti gli esseri umani possono vivere con dignità e in armonia con la grande comunità che compone Gaia, la Terra vivente. Liberazione significa dunque porre rimedio al terribile danno che abbiamo inflitto l’uno all’altro e al nostro pianeta. A un livello più profondo, la liberazione è la realizzazione delle potenzialità degli esseri umani in quanto creativi e vitali partecipanti alla continua evoluzione di Gaia. Possiamo poi inserire la liberazione in una prospettiva cosmica, ossia come un processo attraverso cui anche l’universo cerca di realizzare le sue potenzialità, dotandosi di una differenziazione, di un’interiorità (o autoorganizzazione) e di una condivisione sempre maggiori. In questo contesto, gli individui e le società sono liberati nella misura in cui essi: — diventano sempre più diversi e compositi, rispettando e onorando le differenze; — approfondiscono l’interiorità e la coscienza, favorendo processi creativi di autoorganizzazione; — rinsaldano i legami di comunità e di interdipendenza, compresa

la comunione con l’intera comunità vivente della Terra. Questo libro parte dal seguente interrogativo: come avviene la trasformazione? O, più precisamente, perché è così difficile attuare quei cambiamenti indispensabili per salvare Gaia, la comunità vivente della Terra di cui facciamo parte? Un contributo fondamentale di questo libro potrebbe risiedere nel fatto stesso di formulare tale domanda. Speriamo che il nostro lavoro possa servire come punto di partenza per cercare nuovi approcci creativi alla trasformazione liberatrice. La nostra opera costituisce il punto di confluenza delle correnti di pensiero di due autori, uno proveniente dal Sud e l’altro dal Nord4. Leonardo Boff sarà certamente ben noto a molti lettori. Da teologo, egli ha studiato a fondo i temi della liberazione e dell’ecologia e ha pubblicato oltre cento opere su questi argomenti. Insegna da anni teologia nel suo paese, il Brasile, così come in diverse altre regioni delle Americhe e dell’Europa. Nel 2001 ha inoltre ricevuto il Right Livelihood Award. Mark Hathaway lavora da venticinque anni come educatore per adulti, occupandosi di giustizia ed ecologia. Di questi venticinque anni, otto li ha trascorsi lavorando come educatore popolare e agente pastorale nei quartieri poveri di Chiclayo, cittadina sulla costa settentrionale del Perù. Studia da anni matematica, fisica, teologia, spiritualità della creazione e formazione per adulti e collabora a iniziative cattoliche, ecumeniche e di giustizia interreligiosa ed ecologica. Attualmente vive in Canada, il suo paese natale, dove lavora sia come coordinatore del programma sudamericano per la Chiesa Unita del Canada sia come “ecologo” freelance, studiando l’interconnessione tra ecologia, economia, cosmologia e spiritualità. Il nucleo originario di questo progetto è da far risalire a un saggio scritto da Mark mentre ultimava la tesi di master dal titolo “Formazione trasformatrice”. Fu in occasione di un viaggio di

Leonardo a Toronto nel 1996 che avemmo modo di conoscerci. Dopo aver letto la tesi, Leonardo suggerì di lavorare insieme alla stesura di un libro in cui fosse contenuta anche la prospettiva del contesto latinoamericano. Il presente volume è dunque il frutto di questo sforzo comune. Due punti di riferimento cruciali del testo sono l’attenzione privilegiata nei confronti dei poveri e l’interesse prioritario per la Terra. A nostro avviso, queste due visioni sono intimamente collegate: le stesse forze e ideologie che sfruttano ed escludono i poveri stanno anche devastando l’intera comunità vivente sulla Terra. In questo libro analizzeremo la relazione esistente tra i numerosi ostacoli che si frappongono tra noi e un’autentica trasformazione. Nostro intento, al contempo, è comprendere meglio le modalità con cui il cambiamento si verifica naturalmente nel mondo. Combinate insieme, queste analisi potranno fungere da guida per quanti lottano per una trasformazione promotrice della vita. Abbiamo tratto ispirazione da un ampio spettro di prospettive e di visioni, attinte da persone diverse e diverse tradizioni spirituali. Proviamo dunque profonda gratitudine per tutti coloro che hanno condiviso con noi la loro sapienza. È nostro auspicio che questi fili possano intrecciarsi nel corso del nostro volume per formare un arazzo che sia al tempo stesso nitido e vivace. È un compito impegnativo, sotto molti aspetti. Abbiamo optato per una visione di ampio respiro più che per un’analisi circoscritta e dettagliata delle singole parti. Speriamo di riuscire in questo modo ad avvicinare i lettori a dimensioni che potranno poi esplorare più approfonditamente per conto proprio. L’immagine che si potrebbe usare per descrivere il metodo con cui è stato scritto questo testo è quella della spirale. Di quando in quando si avrà la sensazione di trovarsi di fronte a una rivisitazione degli stessi temi, ma da una prospettiva differente. Man mano che ci si addentrerà in questa spirale, tali diverse prospettive consentiranno di

cogliere il tutto, che è qualcosa di più della somma delle parti: è il mosaico che si rivela solo astenendosi da un’analisi dettagliata dei singoli pezzi. Auspichiamo che, a quel punto, si comincerà anche a sentire il flusso e la trama del Tao della liberazione a un livello profondo e intuitivo, perché è lì che la sua misteriosa saggezza può fungere da guida dell’agire umano nella missione di rinnovare il mondo. 2 Le definizioni di Tao sono attinte da Dreher, 1990; Heider, 1986; Feng, English, 1989; Star, 2001. 3 È praticamente impossibile conoscere le parole precise proferite da Gesù in aramaico palestinese. In questo libro abbiamo scelto di usare queste parole nel modo in cui compaiono nei vangeli della versione aramaica (siriaca) della Bibbia usata oggi dai cristiani aramaici: la Peshitta. Molti studiosi cristiani aramaici sostengono che tali versioni dei vangeli potrebbero essere antiche quanto quelle del Nuovo Testamento greco. Le traslitterazioni e le interpretazioni delle parole attinte dalla Peshitta sono ricavate dall’opera di Neil DouglasKlotz (1990, 1995, 1999, 2006), il quale rileva che Gesù parlava di norma in aramaico poiché era quella la lingua comunemente usata dal suo popolo. Perciò usare una fonte così attendibile in aramaico (come la versione Peshitta) contribuisce sicuramente a penetrare meglio la figura di Cristo, come anche il senso profondo celato nelle sue parole e la natura della sua spiritualità. Come ci spiega Douglas-Klotz: «La Peshitta è, tra le antiche versioni del Nuovo Testamento, la più semitica, la più ebraica, se vogliamo. Quantomeno ci offre uno scorcio del pensiero, della lingua, della cultura e della spiritualità di Gesù attraverso la lente della primissima comunità di cristiani ebrei orientali. Nessun testo greco ci può fornire una simile visuale» (1999). L’autore afferma inoltre che le parole chiave usate da Gesù sono di radice identica (e quindi anche di identico significato) sia in aramaico palestinese sia in aramaico siriaco. Per il metodo usato da Douglas-Klotz, cfr. The Hidden Gospel (1999). 4 Nel testo useremo spesso il termine “Nord” (o “Nord globale”) per riferirci alle società ipersviluppate e consumistiche situate perlopiù al nord, e il termine “Sud” (o “Sud globale”) per riferirci alle società povere collocate prevalentemente al sud, in particolare nelle fasce tropicali e subtropicali del pianeta.

IL TAO DELLA LIBERAZIONE

Ci troviamo ad una svolta critica nella storia del Pianeta, in un momento in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro. A mano a mano che il mondo diventa sempre più interdipendente e fragile, il futuro riserva allo stesso tempo grandi pericoli e grandi opportunità. [...] La scelta sta a noi: o creiamo un’alleanza globale per proteggere la Terra e occuparci gli uni degli altri, oppure rischiamo la distruzione, la nostra e quella della diversità della vita. [...] Dobbiamo decidere di vivere con un senso di responsabilità universale, identificandoci con l’intera comunità terrestre, oltre che con le nostre comunità locali. CARTA DELLA TERRA

Quale nome i nostri figli e i figli dei nostri figli useranno per definire la nostra epoca? Parleranno con rabbia e frustrazione dell’epoca del Grande Disfacimento [...] oppure gioiosamente commemoreranno la grandiosa era della Grande Svolta, quando i loro avi trasformarono la crisi in opportunità, seguirono le più nobili potenzialità della loro natura, suggellarono un’alleanza creativa su cui fondare la convivenza tra loro e con la Terra vivente e diedero vita a una nuova era piena di promesse per l’essere umano? DAVID KORTEN

Non ci mancano certo le forze dinamiche per costruire il futuro. Viviamo immersi in uno sconfinato oceano di energia. Ma questa energia, in definitiva, è nostra non per dominio ma per invocazione. THOMAS BERRY

1. Cercare la saggezza in un tempo di crisi Se i migliori tra chi è in cammino incontrano il Tao, vogliono incarnarlo. Se i normali tra chi è in cammino incontrano il Tao, a volte lo seguono, a volte lo dimenticano. Se gli stolidi tra chi è in cammino incontrano il Tao, ridono forte. Se non ridessero, non sarebbe il Tao. Per questo si dice: la via della luce sembra oscura, la via che avanza sembra andare indietro, la via diritta sembra contorta, il più grande potere appare debole, la vera purezza appare macchiata, la grande abbondanza sembra povera, la vera solidità sembra instabile. Il vasto spazio non si può contenere, il più grande talento impiega molto a maturare, la nota più alta è dura da udire, la forma perfetta non si può incarnare. Non v’è luogo dove si trovi il Tao. Eppure tutto nutre e tutto porta a compimento. TAO TE CHING §41 Oggi siamo probabilmente a uno dei più importanti crocevia nella storia dell’umanità, e anzi della Terra stessa. Le dinamiche della povertà in aumento e dell’accelerazione del degrado ecologico, combinate insieme, stanno dando vita a un vortice terribile di disperazione e devastazione al quale è sempre più arduo sfuggire. Se non agiremo con la dovuta energia, tempestività e saggezza, ci condanneremo presto a un futuro in cui una vita dotata di senso, di

speranza e di bellezza sarà ormai una possibilità remota. In realtà la vita di gran parte del genere umano, quella parte che arranca ai margini dell’economia globale, sembra già in bilico sull’orlo dell’abisso. Il divario tra ricchi e poveri cresce di anno in anno. In un mondo che vende l’illusione di un paradiso consumistico, i più devono faticare per conquistare il minimo indispensabile per sopravvivere. Il sogno di raggiungere uno stile di vita semplice ma dignitoso rimane perennemente inafferrabile. Per molti, dunque, vivere diventa con il passare degli anni sempre più difficile. Le altre creature che condividono il pianeta con l’umanità stanno sperimentando una crisi ancora più profonda. Mentre gli esseri umani si appropriano di una fetta sempre più grande dei doni della Terra, le altre forme di vita ne hanno sempre meno a disposizione. Mentre noi guastiamo l’aria, l’acqua e la terra con sostanze chimiche e scorie, i sistemi complessi che sostengono la rete della vita sono vieppiù minacciati. Molte specie stanno scomparendo per sempre. Il nostro pianeta, di fatto, sta vivendo una delle più gravi estinzioni di massa di tutti i tempi. Vi sono, naturalmente, alcuni segnali di speranza: innumerevoli individui e organizzazioni lavorano con creatività e coraggio alla trasformazione. Alcuni hanno dato vita a movimenti ormai diffusi a livello globale. Il loro impegno sta facendo la differenza per tante comunità in tutto il mondo. Intanto, i nuovi mezzi di comunicazione creano opportunità di dialogo tra persone di differenti culture e religioni: si possono condividere idee e saperi come mai prima d’ora. In tanti sono oggi più consapevoli dei propri diritti fondamentali e più attivi nel difenderli. Concreti passi avanti sono stati fatti in campi come l’assistenza sanitaria e l’accesso ai servizi di base. C’è maggiore conoscenza delle questioni ecologiche, e molte comunità si sforzano di operare in armonia con la natura, non contro di essa. Tutte queste tendenze schiudono nuove possibilità per il rinnovamento del mondo. Eppure, sotto molti aspetti, non si tratta che di lampi di luce in

mezzo alle tenebre. Non si scorge ancora un’efficace azione concertata di portata tale da bloccare concretamente la sempre maggiore povertà e il disfacimento ecologico, né tantomeno capace di avviare un processo in grado di guarire la comunità terrestre. Le istituzioni globali, in particolare i governi e le multinazionali, continuano ad agire con modalità che non tengono minimamente conto dell’urgenza di modificare radicalmente il nostro modo di vivere. Al contrario, le idee, i moventi, i costumi e le scelte politiche che hanno provocato tanta devastazione e ingiustizia continuano a dominare i nostri sistemi politici ed economici. Come ha dichiarato Michail Gorbacëv: Sebbene crescano le iniziative, anche coraggiose, di alcuni capi di governo e privati per salvaguardare l’ambiente, non mi sembra che si stia affermando una leadership tale da fronteggiare seriamente l’attuale situazione né che vi sia una reale disponibilità ad assumersi dei rischi. Aumentano gli individui e le organizzazioni che si impegnano attivamente affinché vi sia maggiore consapevolezza e cambi il modo in cui trattiamo la natura, eppure non vedo ancora una visione chiara e un fronte unito che spingano l’umanità a reagire in tempo e correggere la rotta. (2001)

Joanna Macy e Molly Brown (1998) definiscono «Grande Svolta» la sfida cruciale della nostra epoca, ossia la transizione dalla società industriale della crescita a una civiltà a sostegno della vita. Non sappiamo però se riusciremo a realizzare in tempo questa fondamentale trasformazione, scongiurando così la distruzione di quella rete intricata che alimenta le forme di vita complessa. Quel che è certo è che se non riusciremo a concretizzare il cambiamento non sarà per la mancanza di tecnologia o di sufficienti informazioni, o di alternative creative, ma piuttosto per la mancanza di volontà politica e per il fatto che i pericoli dinnanzi a noi sono così gravi che si preferisce scacciarli dalla mente per paura. Tuttavia siamo convinti che questo circolo vizioso di disperazione e devastazione possa essere interrotto, e che abbiamo ancora il margine per agire e cambiare rotta. C’è ancora tempo perché si verifichi la Grande Svolta e il pianeta ne sia guarito. Scopo di questo libro è, appunto, la ricerca di una via che indirizzi a tale trasformazione, un cambiamento che ci spinga a un

nuovo modo di essere nel mondo: una modalità che preveda relazioni giuste e armoniose sia all’interno della società umana sia all’interno dell’intera comunità terrestre. È dunque la ricerca di una saggezza – un Tao – che ci porti a una liberazione integrale. È nostra convinzione che la forza per operare questi cambiamenti sia già presente tra noi. I suoi semi sono contenuti nello spirito umano. Essa è presente nei processi evolutivi di Gaia, la nostra Terra vivente. Anzi, essa è intrecciata nel tessuto stesso del cosmo, nel Tao che scorre attraverso tutto e in tutto. Se troveremo il modo di entrare in sintonia con il Tao e di allinearci alla sua energia, allora troveremo anche la chiave per mettere in pratica una trasformazione davvero rivoluzionaria che porti a una liberazione autentica. Il Tao, tuttavia, non è qualcosa di cui ci possiamo appropriare o che possiamo dominare: piuttosto, dobbiamo consentire che esso agisca attraverso di noi aprendoci alla sua energia trasformatrice, cosicché la Terra possa essere guarita. Nelle parole di Thomas Berry: A noi non mancano le forze dinamiche necessarie per costruire il futuro. Viviamo immersi in un oceano di energia inimmaginabile. Ma questa energia, in definitiva, è nostra non per dominio ma per invocazione. (1999)

Prima di lanciarci in quest’impresa, però, dobbiamo comprendere gli ostacoli concreti che si frappongono tra noi e la trasformazione liberatrice. Forse il primo passo verso la saggezza è semplicemente quello di riconoscere l’esigenza di cambiamento. Molti di noi ancora non si rendono conto della portata e della gravità delle crisi che abbiamo dinnanzi. Ciò è dovuto in gran parte al fatto che la nostra percezione della realtà è stata plasmata in modo tale da occultare ciò che altrimenti sarebbe subito evidente. Tendiamo a vedere il mondo da una prospettiva molto ristretta, sia rispetto al tempo sia rispetto allo spazio. Raramente spingiamo il nostro sguardo al di là del passato o del futuro immediati, o al di là della nostra comunità e della nostra regione. Parte della questione risiede anche nel fatto che i problemi con cui

dobbiamo fare i conti si acuiscono con estrema gradualità, specie se rapportati alla durata relativamente breve della vita umana. Tendiamo ad abituarci rapidamente alle nuove realtà – almeno a un livello superficiale –, e per questo non ci rendiamo conto della gravità delle crisi che ci si presentano. Un paragone illuminante è quello della rana esposta a temperature sempre più elevate: se mettete una rana nell’acqua bollente, quella cercherà di scappare immediatamente, ma se la mettete nell’acqua fredda e aumentate gradualmente la temperatura, la rana non si accorgerà del pericolo finché non sarà troppo tardi e morirà.

La crisi della Terra: una prospettiva cosmica Per capire appieno la gravità delle crisi con cui abbiamo a che fare dobbiamo quindi abbandonare per un momento la nostra consueta visione della realtà e adottare una prospettiva “cosmica”. Poniamo che tutta la storia dell’universo, lunga quindici miliardi di anni, si possa condensare in un unico secolo5; in altre parole, che ogni “anno cosmico” equivalga a 150 milioni di anni della Terra6. Da questo punto di vista, la Terra nasce il settantesimo anno del secolo cosmico e la vita compare a sorpresa negli oceani subito dopo, nell’anno 73. Per quasi due decenni cosmici, la vita è composta quasi esclusivamente di batteri unicellulari. Eppure questi organismi contribuiscono notevolmente a trasformare il pianeta, modificandone radicalmente l’atmosfera, gli oceani e la geologia, in modo che essi possano sostenere forme di vita più complesse. Nell’anno 93 comincia una nuova fase creativa, con l’avvento della riproduzione sessuale e la morte degli organismi unici. In questa nuova fase, il processo evolutivo accelera rapidamente. Due anni dopo, nell’anno 95, compaiono i primi organismi pluricellulari. I primi sistemi nervosi si sviluppano nell’anno 96 e i primi vertebrati meno di un anno dopo. I mammiferi arrivano a metà dell’anno 98, due mesi dopo il debutto dei dinosauri e delle prime piante infiorescenti.

Cinque mesi dopo, un asteroide colpisce la Terra distruggendo numerose specie viventi, tra cui i dinosauri. Ma in poco tempo il pianeta recupera e anzi supera la sua antica bellezza. In quest’era, il Cenozoico, vi sono un’abbondanza e una varietà di forme viventi mai viste. È durante quest’epoca meravigliosa che nascono gli esseri umani. Dodici giorni dopo, i nostri antichi antenati cominciano a camminare eretti. Sei giorni dopo, l’Homo habilis inizia a maneggiare degli strumenti e, un giorno fa, l’Homo erectus addomestica il fuoco. L’uomo moderno, l’Homo sapiens, nasce circa dodici ore fa. Per gran parte del pomeriggio e della sera di questo giorno cosmico viviamo in armonia con la natura, a contatto con i suoi ritmi come con i suoi pericoli. In effetti, la nostra presenza ha scarso impatto sulla vasta comunità biotica fino a quaranta minuti fa, quando addomestichiamo per la prima volta animali e piante con l’invenzione dell’agricoltura. I nostri interventi continuano a espandersi, pur se lentamente, e circa venti minuti fa alcuni di noi cominciano a costruire e ad abitare le città. L’impatto del genere umano sugli ecosistemi del mondo diventa più pesante solo due minuti fa, quando l’Europa si trasforma in una società tecnologica e comincia a espandere il proprio potere con l’avventura coloniale. È in questo momento che, tra le altre cose, aumenta rapidamente il divario tra i ricchi e i poveri. Negli ultimi dodici secondi (dal 1950), accelera drasticamente il ritmo dello sfruttamento e della devastazione ecologica. In questo breve lasso di tempo7: • Abbiamo distrutto quasi metà delle grandi foreste della Terra, i polmoni del pianeta. Molte tra le più importanti ed estese – tra cui le grandi foreste boreali, quelle pluviali tropicali e quelle delle zone temperate – registrano tuttora un tasso di distruzione in accelerazione. Ogni anno si disbosca un’area pari all’estensione del Bangladesh.

• Abbiamo emesso nell’atmosfera quantità immense di diossido di carbonio e di altri gas serra, innescando un pericoloso meccanismo di riscaldamento globale e instabilità climatica. Le temperature globali sono già aumentate in media di 0,5 °C e potrebbero aumentare tra i 2 e i 5 °C nei prossimi venti secondi cosmici8. • Abbiamo creato un buco enorme nell’ozono, lo strato protettivo del pianeta che filtra le radiazioni ultraviolette nocive. Come risultato, i livelli UV hanno raggiunto cifre record, minacciando la salute degli organismi viventi. • Abbiamo minato la fertilità del suolo e la sua capacità di sostenere la vita vegetale: il 65 per cento della terra un tempo arabile ormai non lo è più – quasi la metà negli ultimi nove secondi cosmici –, mentre un ulteriore 15 per cento della superficie terrestre va desertificandosi. Negli ultimi cinque secondi cosmici, la Terra ha perduto una quantità di terreno superficiale pari a quello che ricopre tutte le terre coltivate di Francia e Cina messe insieme. Due terzi di tutta la terra agricola sono stati moderatamente o gravemente danneggiati dall’erosione e dalla salinizzazione. • Abbiamo immesso nell’aria, nel suolo e nell’acqua del pianeta decine di migliaia di nuove sostanze chimiche, molte delle quali sono tossine resistenti che avvelenano lentamente i processi biologici. Abbiamo prodotto scorie nucleari mortali che rimarranno pericolosamente radioattive per molte centinaia di migliaia di anni, un periodo ben più lungo delle dodici ore cosmiche vissute dagli uomini moderni. • Abbiamo distrutto centinaia di migliaia di specie vegetali e animali. Circa cinquemila specie scompaiono ormai ogni anno, quasi tutte a causa delle attività umane. Si stima che il tasso di estinzione sia diecimila volte più elevato di quello presente prima che gli umani occupassero il pianeta, e che potremmo sperimentare la più grande estinzione di massa nella storia della Terra. Gli scienziati prevedono

che tra il 20 e il 50 per cento di tutte le specie scomparirà nei prossimi trent’anni (sette secondi cosmici) se questo trend dovesse continuare. • Gli esseri umani usano o consumano il 40 per cento di tutta l’energia disponibile per gli animali terrestri (si parla in questo caso di “produzione primaria netta”, PPN, del pianeta), e a questo ritmo nel giro di otto secondi cosmici (trentacinque anni) se ne accaparreranno l’80 per cento, lasciando agli altri animali solo il 20 per cento. Tanta distruzione in così poco tempo! E per cosa? I “benefici” di questo processo sono andati a una fetta molto piccola dell’umanità: la fascia più ricca della popolazione mondiale, pari al 20 per cento, guadagna circa duecento volte di più del 20 per cento più povero9. All’inizio del 2009, i 793 miliardari presenti sul pianeta avevano complessivamente un “valore” netto pari a 2,4 trilioni di dollari (Pitts, 2009), una cifra più elevata del reddito complessivo annuale della metà più povera del genere umano (all’inizio del 2008, prima dello scoppio dell’attuale crisi economica, si contavano 1.195 miliardari per un valore totale di 4,4 trilioni di dollari, ossia circa il doppio di quanto guadagna in un anno il 50 per cento più povero!). In termini di reddito, la fascia di popolazione più ricca, pari all’1 per cento, ha ricevuto quanto l’intera fascia dei più poveri, pari al 57 per cento10. Il nostro pianeta, frutto di oltre quattro miliardi di anni di evoluzione, viene oggi divorato da una piccola parte dell’umanità, ma neanche questa cerchia privilegiata può sperare di reggere tale sfruttamento ancora per molto. Non deve quindi sorprendere se, nel 1992, un gruppo di milleseicento scienziati, tra cui oltre un centinaio di premi Nobel, abbia deciso di riunirsi attorno a un tavolo per elaborare un “monito all’umanità”: Mancano pochi decenni prima che si perda ogni chance di scongiurare le minacce che si profilano oggi e le prospettive per l’umanità si restringano incommensurabilmente [...] è necessaria una nuova etica, un atteggiamento nuovo che ci spinga ad assolvere al dovere di prenderci cura di noi stessi e della terra. Questa etica deve fare da propulsore a un grande movimento e convincere i leader riluttanti, i governi riluttanti e persino i popoli riluttanti a mettere in atto i

cambiamenti necessari. (Brown et al., 1994)

Sono passati quasi vent’anni da quando questo monito fu lanciato per la prima volta. Sebbene alcuni leader abbiano cominciato, forse, a prendere più seriamente la questione della povertà e del degrado ecologico, non esiste ancora un movimento coordinato che mobiliti le energie dell’umanità per affrontare con decisione le crisi che ci sono dinnanzi. Al contrario, vengono spese molte più energie nella cosiddetta guerra al terrorismo (che in realtà è più che altro una guerra per salvaguardare le forniture petrolifere e perpetuare il “business as usual”) che non per le minacce che stanno distruggendo la vita a una velocità mai vista.

La ricerca della saggezza Per la prima volta nella storia evolutiva dell’uomo, tutte le situazioni di crisi – la distruzione degli ecosistemi, la povertà opprimente di miliardi di persone, frutto dell’avidità e di un’ingiustizia sistemica, e la minaccia costante del militarismo e della guerra – le abbiamo create noi stessi. Combinate tra loro, queste crisi possono distruggere non solo una singola cultura o una singola regione del mondo, ma l’intera civiltà umana, e addirittura l’intera rete della vita sul pianeta. Sono in pericolo non soltanto le generazioni attuali, ma anche quelle future della comunità terrestre. I rischi che corriamo, ovviamente, generano paura. È importante rendersi conto non soltanto della situazione, ma anche dei sentimenti che essa suscita in noi. Nell’evidenziare l’immediatezza di queste minacce, è però di vitale importanza evitare moniti apocalittici che conducano alla paralisi indotta dalla disperazione. Dobbiamo tenere a mente che queste crisi sono prodotte da noi, e quindi c’è la speranza di fronteggiarle in modo incisivo. Molte persone brillanti e creative hanno profuso le loro migliori energie per formulare alternative concrete che consentano all’umanità di vivere dignitosamente senza mettere a repentaglio la salute degli ecosistemi terrestri.

Siamo convinti che l’uomo possegga già le informazioni e le conoscenze necessarie per superare le crisi attuali. Come scrivono Macy e Brown: Possiamo scegliere la vita. A dispetto di tutte le più tragiche previsioni, possiamo ancora agire per garantire un mondo vivibile. È fondamentale rendersi conto di questo: possiamo soddisfare i nostri bisogni senza annientare il sistema che sostiene la vita. Possediamo le conoscenze tecniche e i mezzi di comunicazione per farlo. Abbiamo il buon senso e le risorse per coltivare cibo a sufficienza, garantirci aria e acqua pulite e produrre l’energia necessaria attraverso il sole, il vento e le biomasse. Se abbiamo la volontà, avremo anche i mezzi per controllare la popolazione umana, smantellare le armi ed evitare le guerre, dando voce a tutti nell’autogoverno democratico. (1998)

Ovviamente serviranno impegno, azioni concertate e organizzazione per mettere in pratica queste alternative. Soprattutto, abbiamo bisogno dell’energia, della lungimiranza, della perspicacia e della saggezza per orientare la nostra azione trasformatrice: abbiamo bisogno di un autentico Tao che ci guidi verso la liberazione. Abbiamo bisogno di comprendere le diverse dimensioni della crisi globale e delle dinamiche che contribuiscono a perpetuarla; abbiamo bisogno di trovare una strada per superare gli ostacoli sul nostro cammino; abbiamo bisogno di una comprensione sempre più profonda della realtà, ed anche della vera natura della trasformazione; infine, abbiamo bisogno di affilare il nostro intuito e sviluppare nuove sensibilità per essere capaci di agire creativamente ed efficacemente. In questa ricerca di saggezza, dobbiamo innanzitutto capire che tutte le minacce che si presentano possono essere viste, in un certo senso, come sintomi di un più profondo male culturale e spirituale che affligge l’umanità, in particolare quel 20 per cento di persone che consumano la fetta più cospicua della ricchezza del mondo. Ciò ci costringe a riflettere più a fondo sulle nostre culture, i nostri valori, i nostri sistemi politico-economici e su noi stessi. Come afferma lo psicologo Roger Walsh, le crisi che sono intorno a noi possono servire a far crollare «le nostre difese e aiutare a confrontarci con la vera condizione del mondo e il nostro ruolo nel crearla» (1984 [1991, p.

160]). Possono indurci a cambiare profondamente il modo in cui viviamo, pensiamo e agiamo, e persino il modo in cui percepiamo la realtà. I periodi di crisi possono essere tempi creativi, tempi in cui si schiudono nuove visioni e nuove possibilità. L’ideogramma cinese per ‘crisi’, il wei-ji, è composto dai caratteri che rappresentano il pericolo e l’opportunità (raffigurati da una lancia inarrestabile e da uno scudo impenetrabile). Non si tratta di una contraddizione o di un paradosso: i pericoli che corriamo ci stimolano a riflettere più a fondo, a cercare alternative, a cogliere le opportunità. La parola “crisi” deriva dal greco krinein, che vuol dire ‘dividere’: implica dunque una scelta tra diverse alternative. Non agire per cambiare la situazione, ossia la povertà in aumento e la devastazione ecologica, vuol dire scegliere di continuare a sprofondare in un abisso di disperazione.

Ma un’altra scelta è possibile: abbiamo la possibilità di optare per un nuovo modo di vivere sul pianeta, un nuovo modo di vivere tra di noi e con le altre creature del mondo. Numerose sono le fonti di ispirazione per un mondo in tale maniera trasfigurato. Alcune di esse sono antiche e provengono dalle diverse tradizioni culturali e spirituali presenti nel mondo. Altre stanno nascendo adesso da ambiti come l’ecologia profonda, il femminismo, l’ecofemminismo e la nuova cosmologia che si fa strada a partire dalla scienza. Una nuova visione della realtà, un nuovo modo di essere nel mondo stanno diventando possibili. Scrivono Macy e Brown: L’aspetto maggiormente degno di nota di questo momento storico sulla Terra non è che siamo sul punto di distruggere il mondo: in realtà ci siamo già da un po’. È invece che stiamo cominciando a risvegliarci, come da un sonno millenario, a una relazione del tutto nuova con il mondo, con noi stessi e con gli altri. Questo nuovo sguardo sulla realtà rende possibile la Grande Svolta.

(1998)

Esaminare gli ostacoli Se un’autentica trasformazione che porti a un mondo fondato su una nuova visione sembra un compito arduo, ciò è dovuto ai numerosi ostacoli, tra loro interdipendenti, che contribuiscono a far sembrare impossibile il cambiamento. Un passo importante nella ricerca di un Tao della liberazione è quindi il riconoscimento dei fattori che intralciano realmente il cambiamento. Per capire meglio, esamineremo questi ostacoli da tre differenti prospettive. Un modo per leggere la situazione è considerarla come un processo in cui si rimuovono man mano diversi strati. A volte ritorneremo sullo stesso ostacolo, ma osservato a un livello differente, più sfumato. I diversi strati o prospettive, tuttavia, sono in certa misura modi complementari di vedere un’unica realtà. Da un primo punto di vista, gli ostacoli sono sistemici. Le strutture politiche ed economiche del mondo non solo devastano direttamente la Terra, ma bloccano qualsiasi azione efficace per risolvere i problemi odierni. Sempre più il potere è nelle mani di un numero ristretto di corporation transnazionali che sempre meno è tenuto a rendere conto alle strutture democratiche. L’economia del capitalismo globale è fondata sull’ideologia della crescita e del progresso quantitativo. Una fetta vieppiù cospicua di profitti è generata dalla speculazione, mentre sempre meno valore viene attribuito alle attività realmente produttive legate alla natura e all’economia sociale. Sempre meno persone beneficiano di questo sistema, e una fascia sempre più ampia dell’umanità ne è totalmente esclusa. La vita della natura e la vita dei poveri sono convertite in capitale inanimato attraverso il denaro, un’astrazione che di per sé non ha un valore intrinseco. Non essendo questo un sistema sostenibile, persino la minoranza di persone che ne beneficia al momento non può sperare di continuare così a lungo. Insomma, il mondo è governato da un sistema patologico e fuori controllo che, lasciato a se stesso, minaccia di distruggere la Terra.

Nell’esaminare tale sistema patologico, cercheremo di comprenderne meglio le dinamiche e di smascherarne la fondamentale follia. Dimostreremo quanto il capitalismo transnazionale sia radicato nel patriarcato (il dominio degli uomini sulle donne) e nell’antropocentrismo (il dominio dell’uomo sulla natura). Parte della missione di creare un sistema alternativo è riconcettualizzare la natura stessa del potere: non più controllo bensì potenzialità creativa intrecciata ai vincoli dell’influenza reciproca. Da una seconda prospettiva, le strutture dello sfruttamento e della supremazia globale contribuiscono a indebolire la nostra capacità di cambiamento a livello psico-spirituale. L’oppressione oggettiva produce un’eco psicologica che assume la forma dell’impotenza interiorizzata. La gravità delle crisi con cui ci dobbiamo confrontare tende inoltre a generare dinamiche di negazione, di colpa e, se abbiamo il coraggio di guardare in faccia la realtà, anche di disperazione. Le dipendenze si rivelano un meccanismo di difesa per evitare di affrontare realtà dolorose. Il nostro spirito si anestetizza e smettiamo di vivere pienamente da esseri umani. I media, i sistemi di istruzione, il consumismo e (in molte nazioni) la repressione militare – insieme a una serie di dinamiche culturali più subdole – non fanno che rinforzare questo assoggettamento dello spirito. Finanche la nostra percezione della realtà è distorta da un sistema che cerca di blandirci e di bloccare ogni serio processo di cambiamento. Allo scopo di superare gli impedimenti psico-spirituali alla trasformazione, prenderemo in esame l’importanza di riconoscere le nostre paure, di costruire la comunità e di alimentare la creatività e la solidarietà. Rifletteremo inoltre sull’esigenza di superare la nostra alienazione dalla natura e di recuperare una reale salute psichica, in modo da accedere a quella forza interiore di cui abbiamo bisogno per lavorare alla trasformazione profonda del mondo. Infine, nostro fine è risvegliare lo spirito e sviluppare una compassione profonda, ossia la capacità di immedesimarsi nelle gioie e nelle sofferenze di tutte le

creature della Terra. Ciò implica vivere a un livello dell’essere molto più profondo e ricco di quello diffuso nelle società moderne.

Scavare più a fondo: cosmologia e liberazione Osservando il male spirituale dell’impotenza, siamo indotti a esaminare una terza e forse più importante prospettiva: la nostra percezione della natura della realtà. Tale prospettiva, da noi definita “cosmologica”, è forse la più difficile da assumere, ma anche potenzialmente la più feconda di nuove alternative. La nostra cosmologia comprende l’interpretazione dell’origine, evoluzione e finalità dell’universo e del posto che gli esseri umani occupano all’interno di esso. Il modo in cui viviamo e interpretiamo il cosmo – la nostra “cosmovisione” – è al cuore delle nostre convinzioni circa la natura della trasformazione. Negli ultimi tre secoli, una cosmologia meccanicistica, deterministica, atomistica e riduzionista ha prevalso nel genere umano. Il consumismo ha poi ristretto e involgarito ulteriormente questa percezione della realtà. Questi fattori, combinati tra loro, hanno contribuito a schiacciare la nostra capacità di immaginare il cambiamento e di agire creativamente. Negli ultimi cento anni, tuttavia, una nuova interpretazione del cosmo ha cominciato a farsi strada a partire dalla scienza. Sotto molti aspetti, essa richiama una più antica cosmologia – ancora diffusa tra molti popoli aborigeni – in base alla quale l’universo è un unico organismo che funziona in modo olistico. Nondimeno, a differenza delle cosmologie tradizionali, la nuova cosmologia che scaturisce dalla scienza immagina un universo in evoluzione: il cosmo non è un’entità statica ed eterna, bensì un processo che si dispiega e si ricrea costantemente. Come scopriremo più avanti, questa cosmovisione mette in discussione il modo stesso in cui consideriamo le dinamiche del cambiamento. Allorché ci si rende conto dell’interconnessione tra noi e il cosmo, la trasformazione comincia a essere inquadrata in una nuova cornice che sradica i presupposti dai quali partiamo: la

causalità lineare e la cieca casualità. L’importanza dell’intuito, della spiritualità e delle sapienze antiche si fa più evidente. Invece che consumatori o spettatori passivi in una partita del puro caso, cominciamo a percepirci come partecipanti attivi nel sottile mistero della finalità cosmica in divenire.

L’ecologia della trasformazione Nel momento in cui analizziamo i molteplici livelli degli ostacoli al cambiamento ed esaminiamo la nuova cosmologia che si fa strada a partire dalla scienza, cominciamo anche a notare l’interrelazione tra le diverse dimensioni del complessivo processo di trasformazione, che si potrebbe definire un’ecologia. La parola “ecologia” si riferisce di norma alla relazione tra gli organismi e l’ambiente circostante. In sostanza, si tratta di uno studio sull’interrelazione e l’interdipendenza. Letteralmente, è lo “studio della casa” (laddove oikos, ‘casa’, potrebbe essere interpretata come la Terra stessa). Pare appropriato, dunque, parlare di una “ecologia della trasformazione” per descrivere i processi interrelati che debbono essere messi in moto per guarire la nostra casa comune: la Terra. Un’efficace ecologia della trasformazione richiederà una nuova visione della realtà che funga da obiettivo concreto e ci restituisca la speranza. Con la sconfitta del “socialismo reale” degli ultimi vent’anni (il quale, nonostante i suoi limiti, quantomeno infondeva la speranza in un’alternativa possibile), è diventata quanto mai urgente l’esigenza di una visione organica che prospetti un mondo completamente trasfigurato. È proprio immaginando delle strade praticabili per vivere dignitosamente e in armonia con la Terra che possiamo avviare una diversa corrente di ispirazione che sia a sostegno della vita e ci spinga verso un futuro migliore. Una visione del mondo realistica che consentirebbe agli umani di vivere con dignità e in armonia con le altre creature è quella del “bioregionalismo”. Il bioregionalismo immagina una società fondata su piccole comunità locali legate tra loro da una rete di relazioni

basate sull’eguaglianza, la condivisione e l’equilibrio ecologico invece che sullo sfruttamento. Questo modello intende costruire comunità che si sostengono e si rigenerano da sole. L’estensione di tali comunità dovrebbe corrispondere alle “bioregioni” naturali fondate sull’ecologia, la storia naturale e la cultura di un’area specifica, e dovrebbe rispecchiare i valori dell’autonomia e dell’armonia con la natura: si instaurerebbe il controllo da parte della comunità, i bisogni individuali verrebbero soddisfatti e si costruirebbe una cultura locale (Nozick, 1992). Una siffatta visione potrà sembrare poco realistica, persino utopica, ma andando avanti nella lettura di questo libro ci si renderà conto che questo modello è molto più in sintonia con i bisogni dell’umanità e del processo evolutivo cosmico rispetto alle strutture di dominio e sfruttamento che violentano oggi il nostro pianeta. Anzi, adottare un modello che contenga queste direttrici potrebbe essere la nostra unica speranza in una vita degna di essere vissuta. Infine, rivedremo, approfondiremo e integreremo le nostre riflessioni analizzando alcuni possibili processi di apertura e di assimilazione del Tao della liberazione. In tal modo risulteranno meglio delineati anche i contorni dell’ecologia della trasformazione. Speriamo che ciò stimoli a sua volta nuove riflessioni e processi che arricchiscano l’agire di chi lotta per la salute e il benessere della comunità della Terra. Scopo del libro è ridare speranza e ispirare nuova creatività a quanti si impegnano per migliorare la qualità e il vigore delle comunità viventi della Terra, sia umane che non umane. In questo si percepisce l’urgenza di questa nostra missione. Il cammino che ci aspetta non è facile. Duane Elgin parla del tempo a venire come di una «compressione planetaria»: le crisi legate al degrado e al depauperamento ecologici, ai cambiamenti climatici e alla povertà ci

trascineranno inevitabilmente in un gorgo in cui «la civiltà umana sprofonderà nel caos oppure si innalzerà, in un processo a spirale di profonda trasformazione» (1993). Possiamo scegliere di non intraprendere una vera trasformazione, e scivolare così in un futuro di infelicità, povertà e degrado ecologico ancora peggiori, oppure renderci conto di quanto debbano essere immediati e radicali i cambiamenti da fare e metterci alla ricerca del Tao della liberazione. Se scegliamo la seconda strada, possiamo sperare in un risveglio spirituale collettivo dell’umanità e in una nuova civiltà planetaria in cui la bellezza, la dignità, la diversità e il rispetto assoluto per la vita siano al centro di tutto: un’autentica Grande Svolta. La nostra speranza è che le riflessioni di questo libro possano contribuire al raggiungimento della saggezza necessaria per lavorare concretamente a una tale trasformazione. 5 La tempistica qui indicata per il secolo cosmico si basa sulla cronologia indicata nel libro The Universe Story (Berry-Swimme, 1992). In base a una stima più recente, il cosmo ha 13,73 miliardi di anni. 6 Un mese cosmico equivale quindi a 12,5 milioni di anni, un giorno cosmico a 411.000 anni, un’ora cosmica a circa 17.000 anni, un minuto cosmico a circa 285 anni, un secondo cosmico a circa 4,75 anni. 7 Le cifre di questa sezione provengono da diverse fonti: Sale, 1985; Nickerson, 1993; Brown et al., 1991; Brown et al., 1997; Ayres, 1998; Graham, 1998. E dal terzo Rapporto di Valutazione del Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici (2001), dal Worldwatch Institute (2000 e 2005) e dal Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (2006). 8 Per rendere l’idea di questo cambiamento, la temperatura della Terra è attualmente tra i 5 e i 7 °C più elevata rispetto all’ultima era glaciale. 9 In base alle stime del Rapporto sullo Sviluppo del 1992 elaborato dall’UNDP, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, il divario tra il 20 per cento più ricco delle nazioni e il 20 per cento più povero era in media di 60 a 1. Prendendo però in considerazione il reddito individuale effettivo, il divario era di 150 a 1 (Athanasiou, 1996). Nel Rapporto UNDP del 2005, il divario era in media di 82 a 1, e dunque il divario del reddito reale era probabilmente di circa 200 a 1. 10 Le cifre sono attinte da Milanovic, 1999: la disparità nella distribuzione del reddito si è in realtà aggravata da quando questi dati sono stati elaborati per la prima volta.

PARTE PRIMA

Esaminare gli ostacoli

2. Smascherare un sistema patologico In armonia con il Tao, il cielo è limpido e puro, la Terra è serena e unita, lo spirito è rinnovato nel potere, le sorgenti sono piene, la miriade di creature del mondo fiorisce, nella gioia, i capi sono in pace e le loro nazioni governate [con giustizia. Quando l’umano interferisce con il Tao, il cielo si sporca, la Terra è consumata, lo spirito si esaurisce, le sorgenti si svuotano, l’equilibrio crolla, le creature si estinguono TAO TE CHING §39 Se i governanti vivono nello splendore e prosperano [gli speculatori mentre i contadini perdono la terra e si svuotano [i granai; se i governi spendono in ostentazione e armi; se i ricchi sono spreconi e incoscienti, si concedono tutto e hanno più di quel che possono [usare, mentre i poveri non sanno dove voltarsi. Tutto questo è furto e caos. Non è la via del Tao. TAO TE CHING §53 Il primo passo per individuare il cammino verso un mondo in cui vita, bellezza e dignità possano fiorire è rendersi conto della

situazione reale del pianeta. Come abbiamo già visto, viviamo in un’epoca in cui gli ecosistemi della Terra sono distrutti a velocità inaudite e una piccola minoranza del genere umano monopolizza le ricchezze del pianeta. Nel frattempo, le modalità con cui strutturiamo la società cambiano tanto rapidamente quanto radicalmente. Ci troviamo dunque a un crocevia. Dal punto di vista tecnologico, le scoperte nel campo delle comunicazioni, dell’informatica e della genetica amplificano il potere dell’uomo come non mai. Dal punto di vista economico, il mondo è soggiogato a tutti i livelli dai dettami del “mercato” e del profitto. Dal punto di vista politico, le corporation transnazionali stanno diventando i poteri dominanti a livello globale, grazie al sostegno della forza militare delle nazioni al servizio dei loro interessi. Dal punto di vista culturale, i mass media impongono in tutto il mondo i valori e i desideri del consumismo. Molti considerano questa forma di “globalizzazione” ormai inevitabile: i megafoni dei poteri forti ci assicurano che è così. Dobbiamo adattarci, e forse anche influenzare in qualche modo queste tendenze. Non c’è alternativa. E se invece la povertà e la devastazione ecologica oggi in atto non fossero meri effetti collaterali o “disturbi della crescita” dei nostri sistemi economici, politici e culturali? Se non bastasse qualche blando palliativo a curarli? Se, al cuore di queste crisi, ci fosse una patologia intrinseca? Non saremmo costretti a riconsiderare la strada che stiamo percorrendo e a cercarne altre? Non saremmo indotti a pensare e agire in modo nuovo e creativo per cambiare ciò che sembrava inevitabile? È nostra convinzione che una grave patologia sia connaturata al sistema che oggi domina e sfrutta il mondo. In questo capitolo cercheremo di smascherare questa patologia. Non è però nostra intenzione scoraggiare o abbattere i lettori. Al contrario, il primo passo verso la guarigione è proprio riconoscere e comprendere la malattia. Viviamo una sorta di illusione collettiva in cui ciò che è illogico e distruttivo viene visto come normale e inevitabile.

L’esistenza di un disordine strutturale è sicuramente scontata per chi ne è maggiormente colpito: tutte le creature i cui habitat vengono devastati e la stragrande maggioranza degli uomini, ormai ai margini della nuova economia globale. Per quanti raccolgono (almeno nell’immediato) i benefici del sistema questa patologia è invece meno evidente. Ma un’analisi più approfondita offrirà a tutti spunti utili per fronteggiare il dis-ordine dominante11 e immaginare strade alternative. Qual è la natura della malattia che affligge il mondo? Il primo passo da fare è osservare più da vicino i sintomi del male, un male che ha le sue origini nel modo in cui è strutturata la moderna società umana. In particolare, prenderemo in esame il problema della povertà e della disuguaglianza e la crisi ecologica derivante dall’aver “oltrepassato” i limiti della Terra con lo sfruttamento e la contaminazione. Povertà e disuguaglianza Un primo sintomo della patologia è l’acuirsi delle disparità tra ricchi e poveri. Si potrebbe obiettare che, almeno in termini monetari, l’umanità è più ricca oggi che in qualsiasi altra epoca. Viviamo in un mondo pieno di meraviglie che i nostri antenati, un secolo fa, non avrebbero neanche immaginato: rapidità negli spostamenti e nelle comunicazioni, medicina avanzata, sistemi automatizzati per ridurre il lavoro, lussi e comfort. Secondo alcune stime, esiste ormai più varietà di prodotti di consumo che specie viventi. Gli esseri umani producono pro capite circa cinque volte di più rispetto a un secolo fa (Little, 2000). Eppure quest’incredibile incremento della ricchezza non ha portato all’eliminazione o perlomeno a una significativa riduzione della povertà. Al contrario, negli ultimi cinquant’anni la fascia di popolazione che vive in povertà è rimasta sostanzialmente uguale

(Korten, 1995). Si sono fatti dei concreti passi avanti nella riduzione della mortalità infantile, nell’aspettativa di vita, nell’alfabetizzazione e nell’accesso all’assistenza medica di base, ma quasi un terzo della popolazione mondiale vive ancora con meno di un dollaro al giorno. A ben guardare, specie se si considera l’erosione delle culture e degli stili di vita tradizionali, nonché degli ecosistemi che li sorreggevano, la qualità della vita per i poveri della Terra è forse addirittura peggiorata. Il divario tra ricchi e poveri si è trasformato in un baratro. In termini relativi, Asia, Africa e America latina sono più povere di quanto non lo fossero un secolo fa. A livello globale, la disparità di reddito tra ricchi e poveri è raddoppiata. Il peggio è che enormi porzioni di ricchezza continuano a essere trasferite dalle nazioni povere a quelle più ricche: per ogni dollaro che il Nord dà in aiuti umanitari, tre dollari ritornano sotto forma di servizio del debito. Il trasferimento netto di ricchezza aumenta ancor più drasticamente se si considerano le inique condizioni dettate dagli scambi commerciali, che condannano le nazioni più povere a salari esigui e a prezzi delle commodity ridotti. In termini di ricchezza, la disuguaglianza è ancor più sconcertante. Le tre persone più ricche al mondo dispongono di beni che superano il prodotto interno lordo complessivo delle quarantotto nazioni più povere. Come abbiamo già evidenziato, i miliardari posseggono una ricchezza netta complessiva di oltre 2,4 trilioni di dollari, più elevata rispetto al reddito annuale complessivo della metà più povera dell’umanità. Per contro, si è stimato che per garantire istruzione e assistenza medica di base, un’alimentazione adeguata, acqua e scarichi fognari sicuri a quanti oggi non hanno accesso a questi servizi essenziali basterebbero 40 miliardi di dollari l’anno, ossia meno del 2 per cento della ricchezza degli individui più ricchi (Rapporto sullo Sviluppo del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo – UNDP, 1998). Più di recente, la Banca mondiale ha calcolato che le spese aggiuntive necessarie per raggiungere gli

Obiettivi di Sviluppo del Millennio, che oltre a quelli appena elencati prevedono la riduzione dell’HIV/AIDS e della malaria e la sostenibilità ambientale, ammonterebbero a circa 40-60 miliardi di dollari l’anno. Secondo l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, nel 2007 sono invece stati destinati circa 25 miliardi di dollari la settimana alle spese militari. L’osservazione immediata, quando si riflette su questa realtà, è che la povertà è dovuta non alla mancanza di ricchezze o di risorse nel mondo, bensì piuttosto alla loro cattiva distribuzione. Come diceva Gandhi, «la Terra soddisfa i bisogni di tutti, ma non può placare l’avidità di chi è dedito al folle consumo». Una seconda considerazione è che, se l’indigenza provoca sofferenze indicibili, la disuguaglianza non fa che aggravarle. Tanto più è vero nel mondo moderno, in cui anche le persone più povere entrano in contatto con la radio, la televisione e la pubblicità. I mass media offrono l’immagine di un “paradiso” consumistico di cui godono in pochi, e intanto crescono l’alienazione e la disperazione tra i poveri. La prospettiva dei media minaccia anche le fonti tradizionali di sostegno sociale (cultura, famiglia e tradizioni). Contemporaneamente si aggrava il degrado ecologico, e così scompare anche il sostegno materiale e spirituale garantito da stili di vita tradizionali, senza contare la bellezza della natura. Sfruttare la Terra L’altro importante sintomo della patologia è il rapido esaurirsi delle ricchezze della Terra, tra cui acqua e aria pulite, suolo fertile e una moltitudine composita di comunità organiche. La stessa avidità che genera povertà tra gli esseri umani impoverisce anche la Terra. Il consumo umano usurpa una fetta sempre più grossa della ricchezza naturale del pianeta, una ricchezza il cui valore trascende il denaro perché serve a mantenere la vita. Tecnicamente, assistiamo ormai all’esaurimento delle “fonti” terrestri: il mondo sta entrando in un’era di “declino” in cui l’umanità divora le ricchezze comuni del pianeta

più velocemente di quanto queste riescano a rigenerarsi12. Questo processo di “declino” mette a repentaglio la nostra capacità di provvedere alla produzione alimentare. L’agricoltura moderna usa sostanze chimiche per stimolare la crescita delle piante e incrementare i raccolti nel breve termine, ma gli elementi essenziali vanno perduti senza avere il tempo di riprodursi, portando al degrado del suolo e alla diminuzione delle qualità nutritive del cibo. Il suolo viene trattato come un mero “terreno di coltura” più che come un complesso ecosistema in cui ogni grammo di terreno può contenere un miliardo di batteri, un milione di funghi e decine di migliaia di protozoi: «La terra produce la vita perché essa stessa è viva» (Suzuki-McConnell, 1997). Ci vogliono cinquecento anni per costruire un solo pollice (2,5 cm) di strato superficiale, mentre ogni anno vanno perduti 23 miliardi di tonnellate di suolo, il che significa che negli ultimi vent’anni si è persa una quantità di terra pari a quella che ricopre i terreni agricoli di Francia e India messe insieme. Ogni anno sfruttiamo, ci appropriamo o distruggiamo il 40 per cento dei cento miliardi di nuove tonnellate di suolo prodotte dagli ecosistemi della Terra. L’irrigazione estensiva, inoltre, provoca una diffusa salinizzazione, mentre l’automazione e la coltivazione in terreni marginali aggravano l’erosione del suolo. Combinati con gli effetti dei cambiamenti climatici, questi fattori portano alla desertificazione delle terre arabili: tra il 1972 e il 1991 le aree desertificate erano più vaste di quelle destinate alle colture di Cina e Nigeria messe insieme. Si è stimato che il 65 per cento della terra un tempo arabile sia ormai diventata un deserto. Anche le foreste, gli ecosistemi terrestri più ricchi dal punto di vista biologico, sono ormai sulla via della distruzione. Negli ultimi vent’anni si è disboscata un’area più larga del territorio degli Stati Uniti a est del Mississippi. Più della metà di tutte le foreste presenti sul pianeta nel 1950 sono state ormai abbattute. Anche se si sta

procedendo a una qualche forma di rimboschimento, questi boschi sono poco più che piantagioni di alberi con una varietà e densità di vita molto minori rispetto alle foreste vergini che hanno sostituito. Non sorprende dunque che centinaia di migliaia di specie vegetali e animali siano scomparse per sempre e che altre siano in via di estinzione a un ritmo migliaia di volte superiore che in passato, sin dai tempi della scomparsa dei dinosauri. Anche gli oceani, che costituiscono il 99 per cento dello spazio vivente sul pianeta, e nei quali ha la sua casa il 90 per cento di tutti gli esseri viventi, subiscono trasformazioni sostanziali. Almeno un terzo del CO2 e l’80 per cento del calore generati dai cambiamenti climatici è assorbito dagli oceani. Ciò sta modificando l’acidità, la calotta glaciale, il volume e la salinità del mare e potrebbe alterare le correnti oceaniche, che hanno una grande influenza sul clima globale. Un quarto di tutte le barriere coralline – gli ecosistemi marini con il maggior grado di biodiversità – è già andato distrutto, e la metà di quelle rimaste è in pericolo. I radicali cambiamenti che si stanno verificando nella chimica degli oceani potrebbe mettere in pericolo il plancton, che è fonte essenziale di sostanze nutritive per le altre creature marine e costituisce il polmone primario del nostro pianeta, in quanto produce ben il 50 per cento dell’ossigeno della Terra (Mitchell, 2009). L’acqua freatica accumulatasi nell’arco di milioni di anni nelle gigantesche falde acquifere si è rapidamente ridotta nell’ultimo secolo, mentre il ricorso a queste fonti aumenterà probabilmente di un ulteriore 25 per cento nei prossimi venticinque anni. Molte persone devono già fare i conti con la cronica carenza d’acqua, e sicuramente nei prossimi decenni la situazione peggiorerà in diverse aree del globo. Il petrolio e il carbone, formatisi nell’arco di 500 milioni di anni, potrebbero esaurirsi entro la metà del prossimo secolo (e il carbonio che la Terra ha con tanta prudenza sepolto per stabilizzare la sua atmosfera sarà di nuovo liberato). Siamo già sul punto di raggiungere

il picco della produzione petrolifera, e presto la domanda supererà l’offerta. Come se non bastasse, minerali fondamentali come il ferro, la bauxite, lo zinco, il fosfato e il cromato si esauriranno quasi completamente nel corso di questo secolo. Dunque, ogni minuto di ogni giorno (Ayres, 1999b): • perdiamo foreste tropicali per un’area pari a cinquanta campi da football, perlopiù a causa di incendi; • desertifichiamo mezzo chilometro quadrato di terra; • consumiamo una quantità di energia da combustibili fossili che la Terra ha impiegato diecimila minuti a produrre catturando la luce solare. Si stima che già ora il 20 per cento più ricco dell’umanità usi oltre il 100 per cento dell’output sostenibile, mentre il restante 80 per cento ne usa un ulteriore 30 per cento (e sono stime piuttosto al ribasso). In altre parole, stiamo già oltrepassando i limiti della Terra. È evidente che responsabile di questa situazione è una fascia piuttosto ristretta dell’umanità: l’iperconsumo di pochi sta depauperando l’intera comunità terrestre. In base alle stime di alcuni ecologi, almeno un terzo del “capitale naturale” della Terra è andato perduto nei venticinque anni intercorsi tra il 1970 e il 1995 (Sampat, 1999), e da allora il ritmo di questo depauperamento non ha fatto che accelerare. Non si può continuare a saccheggiare le ricchezze del pianeta senza che vi siano gravi ripercussioni sulla vita. Avvelenare la vita Il terzo sintomo della patologia è forse il più pericoloso. Producendo una montagna sempre più alta di scorie, annientiamo la capacità delle “discariche” naturali del pianeta di assorbire, scomporre e riciclare gli agenti contaminanti. Fatto ancor più grave, stiamo introducendo veleni chimici e nucleari che permangono nel lungo periodo e trasformano la chimica stessa dell’atmosfera. La resistenza di queste sostanze minaccia gravemente la salute di tutte le creature viventi, come pure degli habitat che le sostentano. Si

considerino i seguenti esempi: • Settantamila agenti chimici prodotti dall’uomo sono stati rilasciati nell’aria, nell’acqua e nel terreno – perlopiù negli ultimi cinquant’anni –, mentre ogni anno viene creato oltre un migliaio di nuovi prodotti chimici. La produzione annuale di sostanze chimiche organiche sintetiche è aumentata da sette milioni, nel 1950, a quasi un miliardo di tonnellate (Karliner, 1997). Sull’80 per cento di queste sostanze non sono mai stati effettuati test di tossicità (Goldsmith, 1998). Ogni minuto muoiono cinquanta persone per avvelenamento da pesticidi (Ayres, 1999b), e ogni giorno si produce un milione di tonnellate di rifiuti pericolosi (Meadows et al., 1992). • Si continuano a produrre scorie nucleari, alcune delle quali rimangono pericolosamente radioattive per duecentocinquantamila anni, senza metodi sicuri di smaltimento. Nel mondo esistono oltre milleottocento tonnellate di plutonio, ma quest’elemento è talmente tossico che anche solo un milionesimo di oncia può essere letale per un essere umano: ne bastano otto chili per produrre una bomba atomica potente quanto quella che distrusse Hiroshima. • Abbiamo immesso nell’atmosfera un’immensa quantità di carbonio – tre volte superiore a quella che i cicli naturali possono assorbire –, innescando un pericoloso meccanismo di riscaldamento globale e instabilità climatica. Ci sono buoni motivi per ritenere che questo sia il più significativo cambiamento del clima terrestre dall’inizio dell’Eocene, circa 55 milioni di anni fa (Lovelock, 2006). Distruggendo foreste ed ecosistemi marini abbiamo gravemente indebolito la capacità della Terra di rimuovere il diossido di carbonio dall’aria. I livelli di CO2 sono i più elevati degli ultimi centosessantamila anni, e le temperature globali sono già aumentate in media di 0,5 °C. Con questi ritmi, nei prossimi cinquant’anni i livelli di CO2 raddoppieranno ed entro la fine del secolo le temperature globali cresceranno di altri 2-5 °C (IPPC – Intergovernmental Panel on Climate Change, ‘Gruppo intergovernativo di esperti sul

cambiamento climatico’). Il risultato è che le condizioni meteorologiche sono diventate più instabili e vanno aumentando i danni causati da cicloni. Il numero di persone colpite ogni anno da disastri legati alle condizioni meteorologiche è salito da 100 milioni nel 1981-85 a 250 milioni nel 2001-5 (Worldwatch 2007). La resistenza rappresenta un problema di non facile soluzione, a causa dell’impatto persistente, a lungo termine, di quelle sostanze. Anche se dovessimo interrompere la produzione di sostanze chimiche tossiche a partire da domani, anche se tutte le centrali nucleari fossero chiuse all’improvviso, anche se smettessimo di emettere gas serra come il metano e il CO2, i loro effetti nocivi persisterebbero per secoli, millenni o – nel caso delle scorie nucleari – per centinaia di milioni di anni. Eppure la produzione di queste sostanze non fa che aumentare, in alcuni casi a un ritmo ancora più veloce. James Lovelock (2006) sostiene che alcuni cambiamenti da noi avviati potrebbero essere addirittura irreversibili. Se non facciamo nulla per ridurre al più presto le emissioni di gas serra, potremmo raggiungere il punto critico e il riscaldamento del pianeta sarebbe definitivo. Può capitare di non cogliere subito l’interconnessione tra resistenza delle sostanze tossiche, depauperamento delle risorse, povertà e disuguaglianza. Non è facile percepire la correlazione tra la dimensione ecologica e quella sociale della crisi. In parte è dovuto al fatto che i mass media tendono a presentare la questione mettendo in contrapposizione bisogni umani e salvaguardia ambientale. Dobbiamo preservare una foresta vergine o abbatterla per creare nuovi posti di lavoro? Dobbiamo mantenere un fiume incontaminato o aprire una nuova miniera per stimolare un’economia depressa? Dobbiamo usare sostanze chimiche e ingegneria genetica per incrementare la produzione alimentare? Dobbiamo costruire una nuova diga per fornire energia utile allo sviluppo industriale?

Ma se facciamo un passo indietro e adottiamo un punto di vista più ampio, ci rendiamo conto che l’idea per cui o si affronta il problema della povertà o si proteggono gli ecosistemi (ma non entrambe le cose) è una menzogna perpetuata da chi vorrebbe continuare a sfruttare la Terra e i membri più poveri e vulnerabili dell’umanità. Le stesse patologie che impoveriscono gli esseri umani impoveriscono anche il pianeta. Per capirlo meglio, esaminiamo sei caratteristiche fondamentali dell’attuale dis-ordine globale indotto dal capitalismo industriale della crescita: 1. dipendenza dalla crescita illimitata; 2. visione distorta dello sviluppo; 3. assoggettamento sempre maggiore al dominio delle multinazionali; 4. debito e speculazione quali generatori di profitto; 5. tendenza a monopolizzare la conoscenza e a imporre una cultura uniforme a livello globale; 6. potere come strumento di sopraffazione, che comprende anche la forza militare e la violenza.

Il cancro della crescita In un certo senso, la fede diffusa nella crescita è giustificata, perché la crescita è un aspetto fondamentale della vita [...] Quel che è sbagliato nell’attuale concezione di crescita economica e tecnologica, piuttosto è la mancanza di limitazioni. Si crede comunemente che ogni crescita sia buona senza riconoscere che, in un ambiente finito, dev’esserci un equilibrio dinamico tra crescita e declino. Mentre alcune cose devono crescere, altre devono diminuire, così che gli elementi possano essere rilasciati e riciclati. La maggior parte del pensiero economico moderno si fonda sulla nozione di crescita indifferenziata. L’idea che la crescita possa essere paralizzante, insana o patologica non viene presa in considerazione. Ciò di cui abbiamo

urgentemente bisogno, perciò, è una differenziazione e precisazione del concetto di crescita. (Capra, 1982 [2005, p. 117]) Nel mondo moderno, la crescita è diventata sinonimo di salute economica. Se la crescita è stagnante o peggio ancora immobile, se l’economia “affonda”, allora siamo in recessione e seguiranno certamente la disoccupazione e altri mali sociali. Nessuno è disposto a mettere in discussione il pensiero dominante in base al quale un’economia in continua espansione è indispensabile. Ma la crescita economica, per come viene tradizionalmente intesa, implica l’uso di ulteriori risorse naturali e la produzione di altri sottoprodotti pericolosi, tra cui sostanze chimiche e nucleari inquinanti. Nel frattempo però, come abbiamo già evidenziato, diversi input essenziali per un’economia in crescita vanno rapidamente esaurendosi. Per quanto gli “ottimisti” possano postulare che si troveranno dei sostituti sintetici, non ci sono prove certe che confermino le loro speranze. Il punto della questione è che il pianeta in cui viviamo è limitato: c’è solo una data quantità di aria e acqua pulite e una data quantità di terreno fertile. Anche l’energia disponibile non è infinita (è rigenerata dal sole, certo, ma a un ritmo ben preciso). Poiché tutte le economie e tutti gli esseri umani hanno bisogno di questi elementi essenziali ma non infiniti, è evidente che sussistono dei limiti alla crescita. Perché allora molti economisti insistono nel dire che la crescita economica illimitata e indifferenziata è giusta e necessaria? Questa convinzione è da imputare in parte alla confusione tra crescita e sviluppo. Come evidenzia l’economista Herman Daly, «la crescita è l’incremento quantitativo per assimilazione e accumulo di materiali», mentre «sviluppo è miglioramento qualitativo, realizzazione di potenzialità» (1996 [2001, p. 21]). La nostra economia ha bisogno di svilupparsi in senso qualitativo, senza per questo dover crescere quantitativamente. «Il pianeta Terra», afferma Daly, «si sviluppa nel

tempo senza crescere. Poiché l’economia è un sottosistema di un ecosistema finito e non crescente, diventa necessario che il comportamento dell’economia si approssimi sempre più a quello dell’ecosistema» (1996 [2001, p. 233]). Nelle epoche antiche, quando la popolazione umana non era molto numerosa e le tecnologie a disposizione erano piuttosto rudimentali, ci si poteva comportare come se la Terra fosse un serbatoio infinito di materie prime. È pur vero che l’Impero romano, gli abitanti dell’Isola di Pasqua, la civiltà Maya che viveva nella giungla dei bassopiani e altre culture inflissero gravi danni agli ecosistemi locali, provocando in tal modo il crollo delle loro società. Ma la salute dell’ecosistema globale non fu mai veramente messa a repentaglio e, con il passare del tempo, gli ecosistemi locali riuscirono a rigenerarsi. Oggi la popolazione mondiale si è espansa rapidamente, e ancor più rapidamente sono cresciuti i consumi. Siamo passati da quella che Daly chiama l’economia di «un mondo vuoto» a quella di «un mondo pieno»: La crescita economica ha riempito il mondo di noi e delle nostre cose, ma lo ha reso relativamente vuoto di ciò che c’era prima – ciò che è stato ormai assimilato in noi e nelle nostre cose, vale a dire i sistemi naturali necessari alla vita che abbiamo recentemente iniziato a chiamare “capitale naturale”, in seguito al tardivo riconoscimento sia della loro utilità che della loro scarsità. Ora, un’ulteriore espansione della nicchia umana aumenta spesso i costi ambientali più rapidamente di quanto aumenti i benefici produttivi, inaugurando una nuova era di crescita antieconomica, crescita che impoverisce più di quanto arricchisca, perché al margine costa di più di quanto valga. Questa crescita antieconomica rende più difficile anziché facilitare la cura della povertà e la protezione della biosfera. (1996 [2001, p. 299])

Una strada insostenibile Abbiamo già accennato a una delle possibili chiavi di lettura dello spostamento verso l’economia del «mondo pieno»: quello della produzione primaria netta (PPN). L’uomo consuma oggi oltre il 40 per cento dell’energia prodotta attraverso la fotosintesi sulla terraferma: il 3 per cento viene utilizzato direttamente, mentre il resto va

semplicemente sprecato o distrutto (attraverso l’urbanizzazione, la deforestazione, i rifiuti agricoli ecc.). La quantità di PPN utilizzata aumenta ancora se si considerano gli effetti devastanti dell’inquinamento, del riscaldamento globale e della riduzione dell’ozono (Meadows et al., 1992 [1993]). Con gli attuali tassi di crescita, ci approprieremo dell’80 per cento del PPN terrestre entro il 2030 (Korten, 1995). Un altro angolo visuale per comprendere i limiti della crescita è esaminare il concetto di “impronta ecologica” elaborato da William Rees e Mathias Wackernagel dell’università della British Columbia. Un’impronta ecologica si fonda sul calcolo della quantità di terra necessaria per produrre cibo, legno, carta ed energia per abitante di una data regione o nazione geografica. Solo il 12 per cento della superficie terrestre è lasciato alla conservazione delle specie non umane (una percentuale scandalosamente ridotta), mentre ai bisogni umani sono riservati 1,7 ettari pro capite (1,8, se si includono anche le risorse marine). L’impronta ecologica media pro capite è già di 2,3 ettari13. In altre parole, stiamo già consumando il 30 per cento in più della quantità sostenibile nel lungo periodo, soprattutto attraverso lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili. Se dovessimo riservare alle altre specie una quota più ragionevole, intorno al 33 per cento, rimarrebbero 1,3 ettari a persona: consumeremmo comunque il 75 per cento in più della quantità sostenibile. Già a un primo sguardo si può dedurre che la popolazione mondiale dovrebbe diminuire di almeno un terzo. Certamente queste cifre in sé hanno una loro importanza, ma non dicono tutto. Un abitante del Bangladesh, ad esempio, ha in media un’impronta ecologica di soli 0,6 ettari, un peruviano di 1,3 ettari. Le nazioni più ricche, invece, hanno bisogno di una quantità di terreno che va dai 5,4 ettari dell’Austria ai 12,2 ettari degli USA. Se tutti gli abitanti della

Terra usassero la stessa quantità che spetta in media a un abitante del Nord (intorno ai 7 ettari), avremmo bisogno di tre o quattro altri pianeti come la Terra per il nostro sostentamento. Evidentemente, dunque, è l’iperconsumo del Nord la causa principale dello stress ecologico.

Un altro indicatore dell’impossibilità di una crescita economica illimitata lo fornisce una complessa simulazione al computer analizzata dagli autori del volume I nuovi limiti dello sviluppo: la salute

del pianeta nel terzo millennio (Meadows et al., 2004 [2006]). Se continueremo a seguire questo modello economico di crescita, senza sostanziali modifiche alle politiche oggi in atto, il tenore di vita e il benessere umano cominceranno a precipitare dopo il primo decennio di questo secolo, probabilmente intorno al 2015, al massimo entro il 2025. A seconda delle diverse strategie e dei diversi scenari utilizzati, naturalmente, viene ritardato l’avvio del declino. Il dato sorprendente è che persino raddoppiando le risorse non rinnovabili a disposizione si avrebbe un effetto tutto sommato trascurabile. Maggiormente incisiva sarebbe l’introduzione di tecnologie più avanzate, unita a una maggiore disponibilità di risorse, ma solo ricorrendo alle premesse più ottimistiche – raddoppiamento delle risorse conosciute, efficace controllo dell’inquinamento, crescita sostanziale dei raccolti, contrasto all’erosione del suolo, tecnologie per migliorare l’efficienza delle risorse – si potrà evitare il collasso, sebbene anche in questo caso l’aspettativa di vita diminuirebbe intorno alla metà del secolo. Tuttavia, nel lungo periodo (oltre il 2100) i costi aumenteranno comunque e gli attuali livelli di vita diverranno insostenibili. Non solo: modificando anche una sola delle premesse appena elencate si avrebbe un drastico crollo del benessere umano (eliminando l’ipotesi che si possano sviluppare e implementare tecnologie avanzate per migliorare l’efficienza delle risorse, ad esempio, le proiezioni prevedono il collasso intorno al 2075). È possibile peraltro che questo modello addirittura sottovaluti l’impatto dei cambiamenti climatici a cui abbiamo già dato avvio (si veda, ad esempio, l’immagine a pagina 1 del volume di Meadows et al., 2004 [2006] in cui si illustrano le possibili ripercussioni del cambiamento climatico).

In definitiva, come scrive Dennis Meadows: Finché vi sarà una crescita esponenziale della popolazione e dell’industria, finché questi due inseparabili aspetti della crescita continueranno a lievitare, innescando una sempre maggiore domanda alla base, i possibili sviluppi della tecnologia, delle risorse, della produttività non faranno alcuna differenza. Alla fine si raggiungerà il limite, lo si oltrepasserà e si arriverà al collasso. [...] Le più ottimistiche previsioni sulla tecnologia e sulle risorse non fanno che ritardare il crollo di un decennio o giù di lì. È sempre più difficile elaborare degli scenari che consentano al modello di produrre un risultato sostenibile. (citato in Gardner, 2006)

D’altra parte, se si riesce a stabilizzare la crescita demografica e a

ridurre significativamente il consumo pro capite (tenendo al contempo sotto controllo l’inquinamento e salvaguardando i terreni coltivabili), il collasso economico ed ecologico si può ancora evitare. A differenza dello scenario precedente, in questo caso non si ipotizza un raddoppiamento, alquanto irrealistico, delle risorse non rinnovabili a disposizione. Ma il tempo gioca un ruolo decisivo. In base alle proiezioni elaborate da Meadows e gli altri autori, se si fosse cominciato vent’anni prima a mettere in atto i radicali cambiamenti indispensabili per tradurre in realtà questo scenario, ci sarebbe stato meno inquinamento, più risorse non rinnovabili per tutti e un indice di benessere umano un po’ più elevato. Di contro, quanto più aspettiamo a frenare la crescita, tanto più disastrose saranno le ripercussioni e più difficile la transizione verso la sostenibilità. Scrivono gli autori: La crescita, e soprattutto la crescita esponenziale, è tanto insidiosa proprio perché essa riduce il tempo disponibile per un’azione efficace: essa grava su un sistema a ritmi sempre più accelerati, fino a che i meccanismi che erano stati in grado di reggere ritmi inferiori di variazione cominciano a cedere. [...] Una volta che la popolazione e l’economia abbiano superato i limiti fisici del pianeta [ciò che gli autori ritengono sia già avvenuto], vi sono solo due modi per tornare indietro: il collasso non voluto, provocato da penurie e crisi sempre più gravi e ravvicinate, o una riduzione controllata dell’attività a seguito di consapevole scelta sociale. (Meadows et al., 1992 [1993, p. 218 e 228])

E più di recente: Rinviare la riduzione dei flussi e la transizione a mezzi sostenibili significa, nella migliore delle ipotesi, ridurre le possibili scelte delle generazioni future e, nella peggiore, accelerare il collasso. (Meadows et al., 2004 [2006, p. 302])

Il fascino della crescita Pur avendo oltrepassato tutti i limiti di un’economia sostenibile, non ci siamo ancora decisi a ridurre il consumo, il “throughput economico”. Anzi, molti economisti e politici si ostinano nel dire che la crescita è un fattore fondamentale in un’economia sana. Perché la crescita attrae ancora così tanto?

I suoi promotori sostengono che una crescita costante è indispensabile per ridurre la povertà. È sotto gli occhi di tutti che moltissime persone, probabilmente la maggior parte del genere umano, non hanno sufficienti risorse per vivere dignitosamente. La crescita è vista come una via “facile” per risolvere il problema: non c’è bisogno di dividere la torta, basta renderla più grande. Ma esistono limiti molto concreti che rendono questa via impraticabile. Entro questo secolo, la popolazione mondiale arriverà a nove o dieci miliardi di persone: l’economia dovrebbe quindi crescere almeno di venti volte per poter garantire a tutti quei livelli di consumo di cui oggi gode solo il 20 per cento più ricco. Se ci affidassimo alla sola crescita per arginare la povertà, l’economia umana dovrebbe crescere come minimo, stando alle stime ONU, tra le cinque e le dieci volte perché si possa raggiungere un livello di vita accettabile per quanti oggi vivono in stato di indigenza (McKibben, 1998). Poiché l’economia è già cresciuta oltre i livelli sostenibili, in quel caso si avrebbe un immediato collasso ecologico ed economico, ben prima di raggiungere l’obiettivo. Perché allora i politici e gli economisti continuano a invocare la crescita come strumento per eliminare la povertà? Stando al Worldwatch Institute: La visione evocata dalla crescita – una sorta di torta di ricchezze lievitante – è uno strumento politico potente e conveniente, poiché consente di evitare gli spinosi problemi della disparità dei redditi e dell’ineguale distribuzione dei patrimoni. Si presume che, finché c’è la crescita, esista anche la speranza di veder migliorare le vite dei poveri senza cambiamenti nello stile di vita dei ricchi. In realtà, invece, non è possibile raggiungere un’economia mondiale ambientalmente sostenibile senza che i più fortunati [sic] limitino i loro consumi per dar modo ai poveri di aumentare i loro. (Brown et al., 1991 [1992, p. 120])

In ogni caso, un secolo di “crescita” inaudita non ha portato a una riduzione consistente della povertà, né è probabile che ciò accada in futuro. Anche se il tasso di crescita economica delle nazioni povere dovesse raddoppiare, solo sette riuscirebbero a colmare il divario con le nazioni ricche nel prossimo secolo, e solo altre nove nel prossimo millennio (Hawken, 1993)!

David Korten, esperto in materia di sviluppo, evidenzia addirittura che proprio le politiche che promuovono la crescita possono aggravare la povertà, trasferendo «reddito e patrimoni a chi detiene le proprietà, a spese di chi deve lavorare per vivere» (1995). Favorendo l’agricoltura da esportazione, ad esempio, si può anche aumentare la crescita, ma ciò avvantaggerà le grandi imprese a danno dei piccoli agricoltori. Intensificare il disboscamento potrà anche incrementare la crescita, ma danneggerà i mezzi di sussistenza tradizionali basati sulle risorse forestali, aggravando al contempo l’erosione del suolo e riducendo le piogge. Quel che si fa rientrare nella nozione di crescita corrisponde spesso a uno spostamento dall’economia non monetaria a una monetaria. Questo passaggio non di rado si realizza privando i poveri della loro tradizionale base economica e costringendoli a lavorare alle dipendenze dell’economia del denaro. Scrive Korten: La corsa alla crescita economica quale principio cardine delle politiche pubbliche sta accelerando il crollo della capacità rigeneratrice dell’ecosistema e del tessuto sociale che sostiene la comunità umana. Essa sta al contempo inasprendo la lotta per l’accaparramento delle risorse tra ricchi e poveri: una lotta in cui i poveri sono destinati a perdere. (1995)

L’unico modo per risolvere il problema della povertà e della disuguaglianza, dunque, è che chi ha di più riduca drasticamente i consumi, così che si possano distribuire più equamente le non infinite ricchezze del mondo. Tale riduzione potrebbe realizzarsi in parte con un utilizzo più efficiente delle risorse esistenti: ad esempio scegliendo tecnologie energetiche sostenibili e sottraendo risorse alle spese militari. Oltre alla riduzione del consumo complessivo e al contestuale aumento delle risorse da destinare ai poveri, sarebbe comunque necessaria anche una radicale modifica dello stile di vita del 20 per cento più ricco (e potente) dell’umanità. Ridurre i consumi del Nord e ridistribuire la ricchezza al Sud potrà sembrare una missione impossibile, ma sarebbe a vantaggio di tutti. I

benefici sarebbero innanzitutto ambientali. Come evidenziato dal Worldwatch Institute, l’enorme divario tra ricchi e poveri è uno dei fattori cruciali della devastazione ecologica. Coloro che si trovano in cima alla scala del reddito infliggono i danni ecologici più sostanziosi, a causa del consumo elevato e della produzione di grandi quantità di scorie e di inquinamento. D’altra parte, anche quanti vivono nella povertà estrema contribuiscono alla rovina degli ecosistemi, proprio perché marginalizzati: sono costretti a sfruttare eccessivamente terreni di scarso valore, a depredare le foreste per la legna o a coltivare su versanti fragili e soggetti a erosioni. La fascia di popolazione che dispone di mezzi modesti ma sufficienti tende invece ad avere l’impatto minore sulla più ampia comunità terrestre. Una maggiore equità, quindi, eliminerebbe molti danni associati agli estremi della ricchezza e della povertà (Brown et al., 1994). Senza contare che, ridistribuendo la ricchezza mondiale, miliardi di persone verrebbero liberati dalla disperazione e dallo squallore di una povertà opprimente, e potrebbero sviluppare pienamente le proprie potenzialità umane e contribuire alla costruzione di un futuro sostenibile. I benefici per il Nord non sono così immediatamente evidenti, ma è innegabile che affrancarsi dalla cultura consumistica avvantaggerebbe in definitiva anche il mondo ipersviluppato, perché rigenererebbe le comunità liberando da stili di vita ossessivi e competitivi. Insomma, una migliore distribuzione del reddito e della ricchezza potrebbe migliorare la salute di tutti. Come osserva Korten: Acqua pulita e servizi sanitari adeguati sono forse i fattori più importanti per rimanere sani e avere una vita lunga. Da alcune esperienze in luoghi come lo stato del Kerala, in India, si evince che determinati bisogni si possono soddisfare anche con livelli di reddito relativamente modesti. Per contro, nei paesi con livelli di reddito elevati si registra l’aumento dei casi di cancro, di malattie respiratorie, di stress, di disturbi cardiovascolari e di difetti congeniti, oltre che la diminuzione della concentrazione di spermatozoi. Si evidenzia sempre di più un collegamento tra questi fenomeni e gli effetti collaterali della crescita economica: inquinamento dell’aria e dell’acqua, additivi chimici e residui di pesticidi nel cibo, inquinamento acustico e maggiore esposizione alle radiazioni elettromagnetiche.

(1995)

Una maggiore equità implicherebbe un beneficio ulteriore: tenere sotto controllo l’eccessiva crescita demografica. In genere, i tassi di crescita della popolazione cominciano a calare una volta soddisfatti i bisogni primari, quando le persone si sentono abbastanza sicure da avere meno figli (che costituiscono una forma elementare di assistenza previdenziale). Non a caso, quando negli anni Settanta i redditi cominciarono ad aumentare nel Sud del mondo, i tassi di crescita demografica calarono considerevolmente. Con l’inizio della crisi del debito e l’imposizione di severe misure di rigore negli anni Ottanta, i redditi diminuirono drasticamente e i tassi di crescita demografica cessarono di rallentare, anzi in alcuni casi aumentarono. Fu solo negli anni Novanta che ripresero a scendere, anche se circa un terzo di quel calo è forse da attribuirsi alle morti causate dall’epidemia di AIDS. Insieme alla certezza del reddito, la chiave per la stabilizzazione demografica è l’emancipazione femminile, che contempla anche la possibilità per le donne di decidere quanto dev’essere numerosa la famiglia. Tale emancipazione, tuttavia, si può promuovere più facilmente in una società caratterizzata da un tasso di disoccupazione ridotto e da una contenuta violenza sociale; anche queste condizioni, del resto, si ritrovano solo laddove si sia raggiunta quantomeno un po’ di equità nel reddito e la povertà sia diminuita. In definitiva, la certezza del reddito è essenziale per frenare la crescita demografica in tempi rapidi. Un indicatore fallace, una falsa prospettiva Tra i principali problemi legati all’economia della crescita c’è la modalità con cui essa è calcolata. Il prodotto interno lordo (PIL)14, il criterio principale per misurare la crescita economica, è un indicatore alquanto fallace. Fondamentalmente, il PIL rappresenta il valore complessivo dei beni e dei servizi prodotti e comprende tutte le attività economiche in cui è previsto l’uso di denaro. Dunque una costosa bonifica disinquinante, la fabbricazione di una bomba

nucleare o i lavori per abbattere una foresta vergine sono ugualmente conteggiati nel PIL e interpretati come benefici economici. Paradossalmente, altre attività economiche che non prevedono l’uso del denaro come l’agricoltura di sussistenza (la produzione di cibo per uso familiare e della comunità), il volontariato o l’educazione dei figli non sono invece conteggiate. Guidare un’auto per un chilometro contribuisce al PIL molto più che percorrere la stessa distanza a piedi o in bicicletta, anche se queste due ultime modalità non generano costi ambientali. In sostanza, il PIL valuta positivamente attività che distruggono la vita, mentre tante altre che la promuovono rimangono invisibili. Così si calcola il valore dell’ammortamento di capitale su edifici, fabbriche e macchinari, ma calcoli simili non si fanno per il depauperamento del “capitale naturale”, ossia la riduzione della capacità portante della Terra. La “ricchezza” artificiale spesso si “produce” nascondendo i costi della devastazione della ricchezza reale del pianeta, che si tratti di foreste, di acqua, di aria o del terreno. Ad esempio, abbattere una foresta pluviale genera crescita, ma nessuno tiene conto dei costi della ricchezza perduta in termini di esseri viventi, aria, suolo e acqua prima alimentati da quell’ecosistema. A tal proposito, Korten afferma che il PIL non è altro che «una misura del ritmo con cui trasformiamo le risorse in rifiuti» (1995). Nel suo film Who’s Counting?, l’economista femminista Marilyn Waring illustra un esempio interessante delle distorsioni introdotte dal PIL. Waring evidenzia che, grazie all’attività economica generata dalla perdita di petrolio della Exxon Valdez al largo della costa dell’Alaska, quella della petroliera è diventata la traversata più “produttiva” di tutti i tempi dal punto di vista della crescita. Nel PIL sono stati calcolati come crescita la bonifica ambientale, i rimborsi assicurativi e persino le donazioni alle organizzazioni ambientaliste. Nulla invece sul versante del debito: i costi in termini di uccelli, pesci e mammiferi marini morti, e la devastazione della bellezza originaria,

non sono stati affatto conteggiati. Sia dal punto di vista etico sia da quello pragmatico, quindi, usare il PIL come parametro per misurare il progresso economico è alquanto discutibile. Il genere di crescita economica indifferenziata che il PIL calcola non è necessariamente positivo, anzi spesso può essere nocivo. Come scrive Herman Daly: «C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel considerare la terra come se fosse in liquidazione» (citato in Al Gore, La Terra in bilico). È esattamente ciò che facciamo nel momento in cui distruggiamo il capitale reale del pianeta – la sua capacità di sostenere la vita – per accumulare un capitale artificiale, astratto, morto, sotto forma di denaro (che non ha un valore intrinseco reale). In questo modo prendiamo qualcosa in prestito dal benessere futuro di tutti gli esseri viventi per produrre un guadagno immediato per una piccola porzione dell’umanità. Si tratta di una forma molto pericolosa di finanziamento in disavanzo. Oggi va facendosi strada una proposta alternativa: sostituire il PIL con il GPI (Genuine Progress Indicator, ‘Indice di progresso effettivo’). Il GPI distingue tra attività che producono la vita e attività che la distruggono. Le prime sono calcolate come produttive, le seconde come costi. In questo indicatore, inoltre, sono contemplate tutte le attività, comprese quelle che non prevedono l’uso di denaro. Ciò consente una valutazione più accurata del progresso economico reale: un progresso basato sullo sviluppo qualitativo più che sulla crescita quantitativa. Dalle prime applicazioni di tale indicatore si è notato che, nei venticinque anni precedenti al 1992, il GPI degli Stati Uniti è calato, anche se il PIL è aumentato (Nozick, 1992). I dati successivi sembrano confermare questa tendenza: nel 2002, il GPI era ancora leggermente inferiore rispetto ai livelli raggiunti nel 1976.

Per poterci affrancare dall’economia tradizionale della crescita quantitativa misurata dal PIL dobbiamo adottare un approccio qualitativo. I concetti tradizionali di profitto, efficienza e produttività vanno messi in discussione e riformulati. Abbiamo bisogno della crescita? Certamente. Abbiamo bisogno di crescere in conoscenza e in saggezza, nell’accesso ai servizi primari per tutti, in dignità umana. Dobbiamo inoltre promuovere la bellezza, preservare la biodiversità e prenderci cura della salute degli ecosistemi. Non abbiamo invece bisogno che crescano i consumi superflui. Né abbiamo bisogno di una crescita cancerogena che distrugge la vita solo per accumulare un capitale morto a beneficio di una piccola fetta dell’umanità.

Uno sviluppo distorto Quando nel 1975 l’antropologa Helena Norberg-Hodge si recò per la prima volta nella regione del Ladakh, nel Kashmir (India), entrò in contatto con un popolo che viveva da sempre isolato dall’economia globale. La qualità della vita di quella gente era però elevata. Gli ecosistemi locali erano in buona salute e l’inquinamento quasi non esisteva. Certo, alcune risorse erano difficili da reperire, ma si lavorava solo per quattro mesi l’anno, dedicando il resto del tempo alla famiglia, agli amici e ad attività creative. Il risultato era che il popolo del Ladakh produceva una ricca varietà di espressioni

artistiche. Si viveva in case spaziose e adeguate a quel territorio. Tutti i bisogni primari, compresi l’abbigliamento, l’alloggio e il cibo, erano prodotti e distribuiti senza ricorrere ai soldi. Quando Norberg-Hodge chiese a un abitante del luogo dove vivessero i poveri, quello sulle prime rimase un po’ perplesso, poi rispose: «Non ci sono poveri qui» (1999). Con il passare degli anni, però, l’economia locale ha cominciato a “svilupparsi”. Dapprima sono arrivati i turisti, portando con sé i prodotti e i marchingegni dell’economia globale. A quel punto gli abitanti hanno cominciato a sentire il bisogno di denaro per poter acquistare beni di lusso. Così, poco a poco, si sono orientati verso un’economia monetaria. Con l’introduzione dell’agricoltura da reddito, l’economia locale è diventata dipendente dal petrolio, essendo necessari dei trasporti moderni per spedire la produzione. Anche l’ecosistema locale ha cominciato a deteriorarsi, quando in agricoltura si sono fatte strada le sostanze chimiche. L’economia tradizionale precipitava, e intanto anche la cultura Ladakh si impoveriva e gli abitanti cominciavano a perdere la loro identità. La prima reazione, ascoltando questa storia, è forse di nostalgia per un’epoca e una cultura più semplici. Per molti probabilmente quel che è accaduto al popolo del Ladakh è triste ma in qualche modo inevitabile. Altri si chiederanno se non c’era un’altra via per aprirsi al mondo, una via che non implicasse il deterioramento della cultura e dell’ecosistema locali. In ogni caso, non è sbagliato domandarsi se il processo di crescita vissuto da quella gente sia stato di reale progresso o “sviluppo”. Come già evidenziato, lo sviluppo dovrebbe contemplare un miglioramento qualitativo dell’esistenza. Nel caso del Ladakh, i “benefici” dell’economia globale (televisione, accesso ai beni di consumo per chi se li può permettere, trasporti moderni) superavano i costi in termini di povertà, degrado ecologico ed erosione culturale? Pare di no. Definire “sviluppo” un tale processo è un’evidente

distorsione. Eppure a partire dalla seconda guerra mondiale moltissime nazioni si sono lanciate in un’avventura di “sviluppo” massiccio che ha diversi tratti in comune con il processo vissuto dal popolo del Ladakh. È innegabile che negli ultimi sessant’anni si siano fatti concreti passi avanti nel controllo delle malattie, nell’innalzamento dell’aspettativa di vita e nell’accesso all’istruzione. È però preoccupante che finanche queste conquiste siano oggi in pericolo e che la povertà si acuisca in molti paesi dell’Africa e in alcuni dell’America latina e dell’Asia. Anche nel caso dei “miracoli” economici asiatici tanto cari agli ideologi dello sviluppo, si verificano puntualmente delle gravi battute d’arresto provocate dalle crisi finanziarie. Lo sviluppo della povertà Non di rado questo processo di sviluppo è in realtà un esempio di “malsviluppo” che si fonda sui presupposti tipici dell’economia della crescita poc’anzi esaminati. Ciò è tanto più vero nel caso dei megaprogetti come le dighe, i piani di irrigazione, le aree di libero scambio e molte altre iniziative industriali. Questi progetti possono effettivamente produrre “crescita” nell’economia del denaro così come viene calcolata dal PIL (sebbene possano anche generare un onere del debito alquanto gravoso), ma spesso impoveriscono una grossa fetta della popolazione e minacciano la salute degli ecosistemi. Si considerino i seguenti esempi: • In base al progetto irriguo Narmada, attualmente in corso in India, si costruiranno trenta dighe grandi, centotrentacinque di medie dimensioni e tremila piccole per sfruttare le acque del fiume Narmada e dei suoi affluenti. Si stima che a causa di questo progetto più di un milione di persone verrà sradicato dalle proprie terre e si distruggeranno 350.000 ettari di foresta, portando così all’estinzione di molte preziose specie vegetali e al massacro della fauna selvatica. I più colpiti saranno gli adivasi (popoli indigeni), i quali perderanno le terre

su cui abitano da millenni. • In tutto il mondo, l’introduzione delle sementi ibride della “rivoluzione verde” ha portato vantaggi di breve termine per la produttività agricola, ma a caro prezzo. Le nuove colture richiedono dosi massicce (e costose) di fertilizzanti e pesticidi chimici, a danno della salute dell’acqua, del terreno e degli agricoltori. Molte colture richiedono inoltre una quantità maggiore d’acqua, e dunque un’irrigazione estensiva (il che porta all’elaborazione di imponenti progetti per la costruzione di dighe come quello di Narmada). Gran parte delle nuove sementi ibride sono piantate come monocolture, eliminando così le tradizionali colture miste e rendendo l’agricoltura più vulnerabile alla siccità, alle calamità e alle infestazioni (Dankelman-Davidson, 1988). Di recente, l’introduzione di colture realizzate con l’ingegneria genetica, come la soia resistente agli erbicidi del Sud America, ha provocato un’ulteriore concentrazione della ricchezza nelle mani dei grandi proprietari terrieri, favorendo l’allontanamento dei piccoli produttori e la distruzione degli ecosistemi complessi. • La comunità agricola di Singrauli, in India, un tempo produttiva, è diventata un’area di degrado ambientale da quando nella zona sono state aperte una decina di miniere di carbone a cielo aperto e una serie di generatori a carbone. La contaminazione del suolo, dell’aria e dell’acqua ha contribuito alla diffusione quasi epidemica di tubercolosi, malattie della pelle e altri disturbi. Settantamila persone, molte delle quali un tempo coltivavano la terra, ora lavorano nelle miniere. Secondo quanto riferito da Patricia Adams, la stampa indiana ha paragonato Singrauli ai «gironi più bassi dell’Inferno dantesco» (1991). • Nel Lesotho, il governo sudafricano e la Banca mondiale stanno realizzando l’Highlands Water Project, con cui nasceranno cinque grosse dighe, 200 chilometri di tunnel e un impianto idroelettrico. Per questo progetto, però, ventisette mila residenti sono stati già

espropriati delle loro campagne a causa dell’allagamento della diga di Mohale. A tutti è stata promessa una nuova sistemazione nelle aree urbane, ma quasi nessuno ha ricevuto risarcimenti per le perdite (Chiesa Unita del Canada, 2007). • Nei pressi di Cajamarca, sugli altipiani del Perù, è stata aperta la miniera d’oro di Yanacocha, la più grande del Sud America. Questo ha portato grande ricchezza per una piccola fetta della popolazione, ma il resto degli abitanti è stato penalizzato dall’aumento dei prezzi della terra e dei prodotti essenziali. Crescono anche il crimine e la prostituzione. Nella falda acquifera è cominciato a penetrare il cianuro, avvelenando molte fonti idriche locali. Diversi corsi d’acqua mostrano già tracce di contaminazione. Non solo: nel 2002 una perdita di mercurio da un camion proveniente dalla miniera ha inquinato un tratto di strada lungo 40 chilometri, provocando l’avvelenamento di quasi un migliaio di residenti. • Al confine tra gli Stati Uniti e il Messico è stata creata un’area di libero scambio, la cosiddetta “maquila”, per dare impulso allo sviluppo economico del Messico. Gli operai (perlopiù donne) che vi lavorano percepiscono salari esigui e sono soggetti a una serie di abusi dei diritti umani. Come se non bastasse, l’area di confine è piena di inquinanti tossici e sono comuni gravi malformazioni congenite. Questi “progetti di sviluppo” creano il genere di crescita calcolata dal PIL, ma non migliorano la qualità della vita di una fascia consistente della popolazione. Sono inoltre devastanti per gli ecosistemi naturali e minacciano la capacità della Terra di alimentare la vita. Eppure molti economisti ed “esperti di sviluppo” si ostinano nel dire che la strada verso il progresso risiede in questa sorta di malsviluppo. Perché? Distruggere la sussistenza Una delle questioni cruciali è che lo sviluppo dell’Occidente, fondato su indicatori distorti come il PIL, non tiene in considerazione le tradizionali economie di sussistenza: economie basate sulla

produzione per il consumo immediato e locale. Com’era per il popolo del Ladakh diversi decenni fa, in un’economia di sussistenza si può godere di una qualità della vita piuttosto elevata e si ha il tempo per la famiglia e le attività culturali, ma vi sono pochi scambi di denaro. Usando le lenti distorte dell’economia moderna, questa mancanza di transazioni è interpretata come povertà, come un “problema” che va “curato”. L’ecofemminista indiana Vandana Shiva scrive invece: «La sussistenza [...] non implica necessariamente una qualità fisica di vita insufficiente» (Shiva, 1989 [2002, p. 21]). I cibi locali, non lavorati e prodotti senza input chimici, sono spesso più sani di quelli delle diete occidentali; i vestiti e gli edifici fatti con materiali naturali sono più adatti ai climi locali oltre che più convenienti. Shiva mette in rilievo che il «progetto, viziato da un pregiudizio culturale», per rimuovere la povertà percepita «annienta stili di vita sani e sostenibili e crea un’effettiva povertà materiale, ovvero la miseria, negando perfino i bisogni legati alla sopravvivenza, poiché storna le risorse a beneficio della produzione di merci che le consumano in modo massiccio» (1989 [2002, p. 21]). «Le materie prime disponibili sono aumentate, ma la natura è impoverita. La miseria del Sud nasce da una crescente scarsità d’acqua, cibo, foraggio e combustibile, associata al consolidarsi del malsviluppo e alla distruzione ecologica» (1989 [2002, p. 16]). La “cura” prescritta dallo sviluppo è dunque promuovere i megaprogetti, introdurre colture da reddito per le esportazioni e intensificare lo sfruttamento delle risorse naturali. Queste misure incrementano il flusso di denaro ma privano i poveri dei loro mezzi di sussistenza. In genere sono le donne le più colpite da questa deriva. «Questa crisi colpisce più severamente le donne, in primo luogo perché esse sono le più povere tra i poveri, e poi perché, con la natura, sono le principali sostentatrici della società» (Shiva, 1989 [2002, p. 16]). Gli agricoltori di sussistenza, perlopiù donne, sono spesso messi ai

margini dall’agricoltura commerciale, e questo lascia senza reddito intere famiglie. Tutto questo non fa che accelerare il processo di urbanizzazione: privati della loro economia tradizionale, i nuclei familiari si spostano verso le città in cerca di lavoro, in settori in cui i salari sono esigui, come nel caso delle maquilas del Messico e dell’America centrale. Gli ecosistemi locali, intanto, sono minacciati dall’abbattimento delle foreste, dai pesticidi introdotti in agricoltura e dall’inquinamento del terreno, dell’acqua e dell’aria provocato dalle fabbriche e dalle miniere. Osserva David Korten: Dopo trent’anni di lavoro nel campo dello sviluppo, solo di recente mi sono reso conto fino a che punto l’avventura di sviluppo in cui si è lanciato l’Occidente ha in realtà allontanato le persone dai mezzi di sussistenza tradizionali e rotto i vincoli di sicurezza garantiti dalla famiglia e dalla comunità, inducendo invece la dipendenza dal lavoro e dalle merci prodotte dalle moderne multinazionali. È la prosecuzione di quel processo cominciato con la recinzione, o privatizzazione, delle terre comuni in Inghilterra per concentrare i benefici della produzione nelle mani di pochi invece che di molti. [...] I sistemi agricoli, sanitari, di istruzione e di mutuo soccorso gestiti a livello locale [sono ormai sostituiti] da sistemi che si prestano di più al controllo centralizzato. (1995)

Adeguarsi al malsviluppo Circa un decennio fa alcuni ricercatori dell’università di Yale, in collaborazione con due importanti giardini botanici degli Stati Uniti, hanno pubblicato uno studio sul valore dei cosiddetti “prodotti forestali secondari” ricavati da una foresta pluviale sana. Il valore complessivo medio del lattice, dei frutti commestibili e di altri beni prelevati dalla foresta arrivava a oltre 6.000 dollari per ettaro, più del doppio di quanto si guadagnerebbe pascolando bestiame su un terreno disboscato o raccogliendo legname da piantagioni di alberi a crescita rapida. Ciononostante, ogni anno decine di milioni di ettari di foresta pluviale vengono abbattuti o semplicemente incendiati. Alcuni governi, come l’Indonesia o il Brasile, offrono incentivi diretti o indiretti a questo tipo di attività. Perché? Al contrario delle produzioni

forestali tradizionali, che si vendono per la maggior parte nei mercati locali per soddisfare bisogni locali, il bestiame, la soia e il legname possono essere venduti sul mercato globale, dove essi generano «una quantità sostanziosa di valuta estera». Si tratta «evidentemente di commodity da esportare, controllate dal governo e sostenute da cospicui finanziamenti federali» (citato in Adams, 1991). Questa capacità di generare valuta estera sul mercato mondiale è di fondamentale importanza, dal momento che servono valute forti per affrontare il pagamento dei gravosi debiti esteri. Una fortissima pressione è infatti esercitata sulle nazioni indebitate perché procedano al pagamento del debito. Le istituzioni finanziarie internazionali come il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca mondiale impongono pesanti misure di austerity – denominate “programmi di aggiustamento strutturale” (SAP, Structural Adjustment Programs) – come condicio sine qua non per la concessione di nuovi prestiti. Obiettivo dei SAP è assicurare la disponibilità di valuta estera per pagare i debiti. I governi nazionali devono quindi tenere sotto controllo l’inflazione (riducendo il consumo interno), tagliare la spesa pubblica, promuovere le colture da reddito e le industrie estrattive, allentare i vincoli ambientali e occupazionali e incoraggiare gli investimenti esteri (perlopiù delle multinazionali). Paradossalmente, il problema del debito che i SAP si propongono di risolvere può farsi risalire in larga misura ai megaprogetti associati alla pratica del malsviluppo, oltre che alle condizioni sfavorevoli del prestito e agli elevati tassi d’interesse. Insomma, è raro che i SAP riducano l’onere del debito che dovrebbero invece ripianare. Anzi, possono anche aggravare il problema. Per tenere sotto controllo l’inflazione, i SAP spesso inducono la recessione alzando i tassi di interesse interni. Se calano i consumi interni, l’occupazione e i salari, anche le entrate fiscali diminuiscono. Sempre più nazioni, intanto, incrementano la produzione delle commodity da esportazione, aumentando così l’offerta e la

competizione internazionale e facendo crollare i prezzi, le entrate e i salari. I debiti continuano a crescere a ritmi ancor più elevati. A quel punto sono necessari nuovi prestiti solo per pagare gli interessi sul vecchio debito (il che può portare anche a nuovi SAP!), e non di rado si devono innalzare ulteriormente i tassi di interesse interni per attrarre più denaro. La strategia dei SAP per garantire il pagamento del debito si rivela dunque un fallimento clamoroso, eppure i creditori del Nord si ostinano a concedere nuovi prestiti. Perché? Vero scopo dei SAP sembra essere la formazione di una manodopera a basso costo alla disperata ricerca di lavoro, esportazioni di materie prime per i mercati internazionali a condizioni vantaggiose e nuovi mercati per le multinazionali. Di solito si descrive questo processo come l’imposizione di una “economia neoliberista”: un modello di capitalismo selvaggio che sacrifica il benessere della stragrande maggioranza dell’umanità e della Terra per l’arricchimento di pochi. In un certo senso, i SAP possono considerarsi una sorta di moderna prigione dei debitori, che tiene reclusi interi popoli ed ecosistemi. In un’intervista rilasciata nel 1999, poco prima di morire, alla rivista «New Internationalist», l’ex presidente della Tanzania Julius Nyerere raccontava in che modo i SAP avevano impoverito milioni di persone e azzerato i progressi conquistati dal suo paese grazie a un autentico sviluppo umano: Mi trovavo a Washington l’anno scorso. Alla Banca mondiale la prima domanda che mi fecero fu: «Come ha fatto a fallire?». Risposi che avevamo preso in consegna un paese con l’85 per cento della popolazione adulta analfabeta. Gli inglesi ci avevano governato per quarantatré anni. Quando sono andati via, c’erano in tutto due ingegneri specializzati e dodici medici. Questo è il paese che abbiamo ereditato. Alla fine del mio mandato, il 91 per cento delle persone era alfabetizzato e quasi tutti i bambini andavano a scuola. Abbiamo formato migliaia di ingegneri, medici, insegnanti. Nel 1988 il reddito pro capite della Tanzania era di 280 dollari. Ora, nel 1998, è di 140 dollari. Quindi chiesi io a quelli della Banca mondiale di spiegarmi cos’era andato storto, visto che negli ultimi dieci anni la Tanzania ha firmato qualsiasi cosa e ha fatto tutto quello che volevano l’FMI e la Banca mondiale. Le iscrizioni scolastiche sono

sprofondate al 63 per cento e le condizioni dei servizi sanitari e sociali sono peggiorate. Ho chiesto di nuovo: «Cos’è andato storto?». (Bunting, 1999)

Il fallimento dei SAP non è evidente soltanto dall’impoverimento di larga parte dell’umanità, ma anche dalla devastazione della Terra: le colture da reddito richiedono l’uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi chimici; per esportare il legname si disboscano le foreste pluviali, distruggendo così intere specie, causando l’erosione del suolo e in ultimo la desertificazione; le delicate paludi di mangrovia sono convertite in allevamenti di gamberi; miniere e fonderie creano una miscela mortale di sostanze chimiche tossiche. Non solo: i SAP neutralizzano anche l’unico meccanismo di mercato che potrebbe promuovere la conservazione delle ricchezze naturali del pianeta. In teoria, quando scarseggiano le merci i prezzi aumentano, costringendo i produttori a diventare più efficienti e a cercare alternative più sostenibili dal punto di vista ambientale. Parallelamente, se i prezzi aumentano i consumi calano, promuovendo la conservazione delle risorse. Purtroppo i SAP hanno gravemente distorto questa forma di regolamentazione del mercato. Il modello neoliberista imposto attraverso di essi costringe le nazioni a competere nella produzione di beni da esportazione per guadagnare più valuta estera. Il legno, i minerali, il petrolio e i prodotti agricoli sono esportati a livelli insostenibili, creando così un momentaneo “eccesso di offerta” e mantenendo bassi i prezzi. In tal modo non si innesca quindi quel meccanismo di mercato che potrebbe invece favorire la salvaguardia o la ricerca di alternative più sostenibili. È probabile che i prezzi aumenteranno solo quando le risorse della Terra saranno ormai in via di esaurimento, portando al rischio del collasso economico invece che alla graduale transizione verso un’economia più sostenibile. Ripensare lo sviluppo Sia i SAP sia le pratiche di malsviluppo che essi promuovono

stanno creando un debito enorme, insolvibile per la maggioranza del genere umano, ormai impoverita, e per la comunità di creature che dividono la Terra con noi. Se vogliamo porre rimedio al problema del debito, dobbiamo ripensare e mettere profondamente in discussione quello che oggi denominiamo “sviluppo”. In particolare, dobbiamo passare al setaccio tutto ciò che mette in pericolo le culture e le sapienze tradizionali, che intacca la partecipazione e la democrazia e che minaccia la salute degli ecosistemi. Anche quei progetti che sembrano soddisfare i bisogni primari dell’uomo vanno in alcuni casi messi in discussione. Ad esempio, costruire scuole può avere un impatto negativo se il sistema di istruzione adottato induce ad abbandonare uno stile di vita tradizionale in favore del consumismo e dell’economia del denaro. Ospedali e cliniche possono essere usati per imporre la medicina occidentale, escludendo i guaritori e le medicine tradizionali. Le strade possono aumentare la dipendenza dal petrolio e incoraggiare la produzione di colture da reddito per le esportazioni. Ciò detto, non tutto quello che va sotto il nome di sviluppo è negativo. Anzi, sono assolutamente necessarie misure per migliorare la salute, l’alimentazione e l’istruzione. Visti i danni inflitti dal malsviluppo, molto si deve fare anche per risanare le comunità. La chiave sta nell’indirizzare lo sviluppo in modo da dare potere ai popoli, promuovere le diverse culture e salvaguardare gli ecosistemi locali. Lo sviluppo dunque, come la crescita, deve essere riformulato in chiave qualitativa più che quantitativa (specie se le quantità che vengono misurate – laddove si usano come criteri di misurazione il denaro e il PIL – hanno di per sé un valore discutibile). Lo sviluppo non deve più privilegiare il vantaggio e il profitto immediato di pochi, ma interessarsi al miglioramento a lungo termine della qualità della vita di tutti gli uomini e di tutte le creature della Terra. Forse dovremmo anche trovare un nuovo linguaggio in cui il termine

“sviluppo” non abbia l’accezione negativa che gli viene associata oggi. Si comincia a parlare di “sviluppo sostenibile”: in teoria è uno sviluppo che non mette a repentaglio il benessere delle generazioni future. In pratica, si dà ancora la priorità allo sviluppo rispetto alla sostenibilità. Un’altra alternativa è “comunità sostenibile”: l’espressione sembra migliore in quanto descrive il fine che ci si prefigge (specie se nel termine “comunità” comprendiamo anche le altre creature), anche se forse è un po’ troppo statica. Potremmo pensare a espressioni più appropriate del tipo: “ecosviluppo”, “evoluzione sostenibile della comunità” o persino “coevoluzione partecipativa”. Per poter formare delle comunità davvero sostenibili, dobbiamo imparare dalla saggezza degli ecosistemi sani, in cui gli scarti sono riciclati da altri organismi per produrre nuovamente la vita. Un esempio affascinante si può trovare nel metodo aigamo di coltivazione del riso sviluppato da Takao Furuno, in Giappone. Nelle risaie piene d’acqua sono allevate delle anatre che forniscono un fertilizzante naturale alle piante e mangiano le erbacce (ma non le piantine di riso, che non sono di loro gradimento), evitando così un lavoro massacrante. Si usano inoltre delle felci acquatiche per fornire azoto al riso e cibo aggiuntivo alle anatre. Oltre settantacinquemila agricoltori in Asia ricorrono ormai a questo metodo. La produzione aumenta in media tra il 50 e il 100 per cento senza bisogno di usare input chimici, e le anatre forniscono agli agricoltori una fonte aggiuntiva di proteine o di introiti (Ho, 1999). In tutto il mondo esistono molti esempi simili di pensiero creativo ed ecologico. Questa forma di “ecosviluppo” dimostra che è possibile migliorare la vita delle comunità umane preservando al contempo la salute della Terra. Nel momento in cui intraprendiamo un cammino di ecosviluppo, dovremmo sforzarci di emulare la sapienza dei popoli indigeni delle Americhe, che valutano le conseguenze delle loro azioni per le successive sette generazioni. Mike Nickerson scrive: «Ci sono

volute la cura e la fatica di oltre settemila generazioni per rendere possibili le nostre esistenze. Esse ci hanno dato il linguaggio, i vestiti, la musica, gli utensili, l’agricoltura, lo sport, la scienza e una vasta comprensione del mondo dentro e intorno a noi. Di sicuro abbiamo il dovere di trovare dei modi per preoccuparci di almeno altre sette generazioni» (1993).

Il dominio delle multinazionali Non possiamo sperare di affrancarci dalla crescita illimitata e indifferenziata come dal malsviluppo se non riconosciamo le vere potenze globali che scatenano entrambe le patologie: le corporation transnazionali (TNC, transnational corporations). Le cinquecento società di capitali più grandi del mondo impiegano solo lo 0,05 per cento della popolazione mondiale, eppure controllano il 25 per cento della produzione economica globale (così come viene calcolata dal PIL) e il 70 per cento del commercio internazionale. La metà delle prime cento entità economiche del mondo non sono nazioni bensì corporation. Le prime trecento (escluse le istituzioni finanziarie) possiedono circa un quarto degli asset produttivi del mondo, mentre le prime cinquanta società finanziarie controllano il 60 per cento di tutto il capitale produttivo (Korten, 1995). Scrive Tom Athanasiou: Le TNC sono sia gli architetti sia i mattoni dell’economia globale. [...] Sono loro a dettare le condizioni. [...] Sono attori regionali e globali in un mondo frammentato in nazioni e tribù. Mettono un paese contro l’altro, un ecosistema contro l’altro, semplicemente perché fare così porta affari. Salari esigui e scarsi standard di sicurezza, saccheggio ambientale, desideri in continua espansione: sono tutti sintomi di forze economiche, incarnate nelle corporation transnazionali, così potenti da spezzare tutti i vincoli di quella società di cui a parole sono al servizio. (1996)

Le TNC hanno fatto di tutto per piegare le regole dell’economia globale al loro tornaconto. Nelle nazioni grandi come in quelle piccole, esse sono capaci di esercitare una notevole influenza: • coltivando “relazioni amichevoli” con i partiti attraverso contributi politici; • promettendo (o minacciando) di spostare gli investimenti e i

posti di lavoro; • esercitando pressioni sui mercati finanziari globali affinché esprimano il loro “voto” sulle politiche di un governo, attraverso attività come la speculazione monetaria. Dato il controllo esercitato sull’economia globale, negli ultimi venticinque anni l’influenza politica delle corporation si è fatta davvero pesante. Non sorprende dunque che le politiche incardinate nei programmi di aggiustamento strutturale siano favorevoli alle grandi multinazionali. Non solo: le nuove regole economiche previste dagli accordi e dalle istituzioni che governano il commercio e gli investimenti – come l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO, World Trade Organization), il NAFTA (North American Free Trade Agreement, Accordo nordamericano per il libero scambio) e l’Accordo multilaterale sugli investimenti (per il momento fallito) – sono perlopiù una “dichiarazione dei diritti” delle TNC. Secondo Martin Khor, direttore del Third World Network, gli accordi sul commercio globale fungono da «poliziotti economici del mondo per far rispettare le nuove norme che massimizzano le operazioni sregolate delle corporation transnazionali» (Khor, 1990). Questa nuova piattaforma globale rende sempre più difficile per governi e cittadini proteggere il benessere dell’uomo e dell’ambiente. Il governo canadese, ad esempio, è stato costretto a rimuovere il bando sul commercio interprovinciale dell’additivo metallico per carburante MMT – una potente neurotossina ormai comprovata – a causa delle regole del NAFTA, che proibiscono di fatto tali restrizioni. Paradossalmente, l’uso dell’MMT non è consentito negli Stati Uniti, il paese in cui la Ethyl Corporation fabbrica questa sostanza chimica. Un altro esempio lo si può ritrovare nelle modifiche proposte dal WTO per eliminare le tariffe doganali su tutti i prodotti forestali e consentire agli investitori un accesso incondizionato ai boschi degli altri paesi, senza l’obbligo di rispettare le leggi nazionali in materia di lavoro e ambiente.

Le corporation transnazionali e la devastazione ecologica Oltre a promuovere un contesto economico globale che rende praticamente impossibile la salvaguardia dell’ambiente e del lavoro, le TNC hanno un ruolo diretto in quasi tutte le attività più devastanti dal punto di vista ecologico. Producono oltre la metà dei carburanti fossili e sono direttamente responsabili di più del 50 per cento delle emissioni mondiali di gas serra. Sono inoltre loro a produrre quasi tutte le sostanze chimiche nocive per l’ozono. Controllano anche l’80 per cento della terra destinata all’agricoltura da esportazione. Appena venti società gestiscono oltre il 90 per cento della vendita complessiva di pesticidi (Athanasiou, 1996). Infine, colossi come General Electric, Mitsubishi e Siemens hanno fortissimi interessi nel campo dell’energia nucleare. Di recente, le TNC hanno assunto un controllo sempre maggiore sull’offerta mondiale di sementi e persino di materiale genetico, grazie ai brevetti su forme viventi e su singoli geni. Dal 1995, la coltivazione di OGM, organismi geneticamente modificati (o frutto di ingegneria genetica) prodotti e controllati da multinazionali come la Monsanto e l’Aventis, si è diffusa rapidamente fino a raggiungere più di cento milioni di ettari (più o meno l’estensione della Bolivia, o di Francia e Germania messe insieme). Il 60 per cento della soia e il 25 per cento del mais mondiali contengono già geni provenienti da altre specie. Il pericolo di queste colture “transgeniche” è duplice. Da un lato, poiché il seme è di proprietà della multinazionale che lo produce, le colture sottraggono agli agricoltori il controllo della fornitura di sementi (un processo già avviato in forma minore con l’introduzione di varietà ibride nel secolo scorso). Per poter usare queste sementi, gli agricoltori sono costretti a firmare dei “contratti per l’utilizzo di tecnologia” che proibiscono di conservare le sementi per più di un anno. Le corporation transnazionali hanno persino tentato di introdurre forme di controllo genetico nelle sementi per renderle sterili: finora

tuttavia questa tecnologia “sterminatrice” non è stata approvata. Ancor più inquietante è che le colture transgeniche si ottengono introducendo artificialmente i geni di una specie in un’altra attraverso l’uso del DNA ricombinante. Questo inserimento sostanzialmente casuale di geni estranei può avere effetti inaspettati sul genoma di una pianta, e in effetti solo una piccola percentuale di esperimenti di ingegneria genetica va in porto. Ma i geni si replicano e si diffondono, e qualsiasi effetto indesiderato – tra cui la susseguente mutazione dovuta a un genoma meno stabile – potrebbe espandersi velocemente in specie colturali di cruciale importanza attraverso l’impollinazione incrociata. Visti i potenziali rischi, perché non bandire gli OGM? Le multinazionali chimiche e agricole sostengono che le colture transgeniche sono necessarie per aumentare la produzione alimentare e addirittura ridurre l’uso di sostanze chimiche in agricoltura. Nessuna di queste argomentazioni, però, pare avere grande fondamento. Come abbiamo visto, la causa principale della fame e della povertà è la cattiva distribuzione della ricchezza e il depauperamento degli ecosistemi. Poiché le colture transgeniche garantiscono il controllo delle multinazionali sulla fornitura di sementi e introducono la contaminazione genetica negli ecosistemi, esse in realtà non fanno che acuire questi problemi. Anche se si aumentasse la produzione alimentare in modo considerevole, è molto improbabile che ciò possa avere un impatto di qualche tipo sulla povertà. Anzi, spesso l’incremento della produzione fa precipitare i prezzi, impoverendo i piccoli coltivatori. Peraltro, nessuna coltura OGM per uso commerciale creata finora serve a incrementare davvero la produzione agricola o l’alimentazione. Quasi tutte le modificazioni si concentrano sulla tolleranza agli erbicidi (per uccidere le erbe infestanti senza danneggiare le colture) o sulla resistenza agli insetti. Le colture tolleranti agli erbicidi fanno quindi aumentare l’uso di sostanze

chimiche nocive per gli ecosistemi. E consentono alle grosse compagnie e ai grossi proprietari terrieri di espandere le loro coltivazioni. Addirittura, in Argentina e Paraguay i grandi proprietari terrieri hanno indiscriminatamente spruzzato erbicidi sui campi vicini per uccidere le colture dei proprietari più piccoli e cacciarli via dalle loro terre. Il modo migliore per garantire la sicurezza alimentare è usare un’ampia varietà di piante a impollinazione aperta: ciò garantisce la diversità genetica e dunque una combinazione di tratti che possono adattarsi a diverse condizioni meteorologiche e del suolo. I semi dell’impollinazione aperta, però, non possono essere brevettati e controllati dalle multinazionali come avviene nel caso degli OGM. Come scrivono Lovins e Lovins (2000): «La nuova botanica tende a giudicare lo sviluppo delle piante non in base al loro successo evolutivo ma in base al successo economico: la sopravvivenza non del più forte ma del più grasso, di quello in grado di approfittare delle vendite massicce di prodotti sotto monopolio». Dal momento che investono grosse cifre in tecnologie distruttive per l’ambiente, le corporation transnazionali sono una forza che si oppone a strategie ecologicamente salutari. Negli ultimi quarant’anni si sono investiti molti più soldi nell’energia nucleare che nelle tecnologie per l’energia solare o eolica, soprattutto perché è più semplice per le multinazionali guadagnare da questo tipo di tecnologia centralizzata (e dagli spin-off militari che essa porta con sé). Parallelamente, le compagnie petrolifere hanno messo in piedi massicce campagne pubblicitarie per seminare il dubbio circa l’evidenza scientifica del riscaldamento globale, nonostante la scienza sia unanime nell’affermare che l’attività umana sta avendo un impatto sensibile (e, secondo molti, preponderante) su tale fenomeno. Ci sono anche corporation che promuovono il benessere ecologico.

Le grosse compagnie assicurative, preoccupate dai danni causati dagli uragani, da ricollegarsi al riscaldamento globale, hanno cominciato a fare pressioni perché si riducano le emissioni di gas serra. Alcune società, soprattutto quelle più piccole, stanno sviluppando tecnologie più ecologiche come i pannelli solari, i generatori eolici e le celle a combustibile a idrogeno. In generale, però, le TNC più grosse e potenti sono ancora restie alle energie alternative, a meno che non trovino il modo di controllarle e avere il predominio su di esse. È chiaro dunque che la responsabilità principale della devastazione ecologica che stiamo sperimentando oggi è da imputare alle grosse multinazionali. È improbabile che la situazione cambi fino a quando non si modificheranno radicalmente la struttura e le regole di queste società. Paul Hawken (1993) scrive che le corporation al momento «se la passano bene» dal punto di vista dei bilanci, se si trascura il fatto che di fatto rubano al futuro per guadagnare oggi. Per diventare etica, giusta ed ecologica, una corporation deve affrontare spese che altri non hanno. Di fatto, molte multinazionali stanno mettendo in pericolo la loro redditività nel lungo termine, ma le quotazioni raramente tengono conto delle prospettive di lungo periodo. Le “superpersone” corporative Secondo diversi analisti, il problema dell’attuale modello corporativo è da farsi risalire in gran parte al momento in cui i tribunali statunitensi (e più tardi anche quelli di altre nazioni) riconobbero alle corporation il diritto di essere considerate persone giuridiche. Da ciò derivò il riconoscimento di una serie di diritti, tra cui quello della libera espressione e della partecipazione politica. Ma le aziende non sono persone reali, come rileva Kalle Lasn: Una corporation non ha né cuore, né anima, né principi morali. Non sente dolore e non si lascia intimidire. Una corporation non è un essere umano, ma un processo: un mezzo per ottenere un guadagno. [...] Per la sua “sopravvivenza” è necessaria una sola condizione: nel lungo termine, le entrate devono per lo meno eguagliare le uscite. Detto questo, la corporation è un organismo che, potenzialmente, può esistere

all’infinito. Quando una corporation fa del male alla gente o danneggia l’ambiente, non sente alcun dolore o rimorso, dato che è incapace di provare emozioni. [...] Siamo soliti demonizzare le corporation per la loro insaziabile ricerca di espansione, potere e ricchezza. Eppure, guardiamo le cose come stanno: esse non fanno altro che mettere in atto degli ordini impartiti. È questo il motivo per cui sono state create. (1999 [2004, pp. 229-231])

Secondo Joel Bakan sono state create delle superpersone corporative che sono esseri patologici. Non possiamo aspettarci che si comportino in modo etico visto che sono strutturati per pensare e agire da psicopatici: Il modello societario della corporation è intrinsecamente concepito in modo da sottrarre alla responsabilità legale coloro che ne detengono la proprietà e la amministrano, facendo diventare la corporation, una “persona” caratterizzata da una forma di disprezzo psicopatologica per i vincoli giuridici, il bersaglio principale di un’eventuale incriminazione o procedimento penale. [...] Come un soggetto psicopatico, la corporation non può riconoscere né agire secondo principi etici che le inibiscano di nuocere agli altri. La sua natura giuridica non fissa alcun limite a quello che può fare agli altri nel perseguimento dei suoi scopi egoistici; di fatto, laddove i benefici superano i costi, la corporation è perfino obbligata ad arrecare danni. Solo la pragmatica considerazione dei propri interessi e i vincoli imposti dalle leggi locali possono frenarne gli istinti predatori, e spesso ciò non costituisce un ostacolo sufficiente ad impedirle di distruggere vite, danneggiare comunità e mettere in pericolo l’intero pianeta. (2004 [2004, pp. 81 e 102])

David Korten segnala che le “superpersone” corporative sono ormai fuori controllo: persino chi le “gestisce” è ormai diventato sacrificabile. Le corporation esistono come «entità a sé stanti» senza alcun legame con persone o luoghi. Anzi, secondo Korten, gli interessi degli esseri umani e dell’intera comunità terrestre sono ormai del tutto divergenti rispetto a quelli delle corporation. Eppure esse vanno assumendo un controllo sempre maggiore sulle nostre esistenze: «è come se fossimo invasi da alieni intenzionati a colonizzare il nostro pianeta, riducendoci in schiavitù ed escludendo quanta più gente possibile» (1995). Secondo John Ralston Saul (1995 [1999]), questa tendenza ricorda

da vicino gli obiettivi dei movimenti corporativisti come il fascismo degli anni Venti e Trenta, che mirava a: 1) trasferire il potere dai popoli e dai governi ai gruppi d’interesse economico; 2) «estendere l’iniziativa imprenditoriale in aree normalmente riservate agli enti pubblici» (quella che noi chiamiamo “privatizzazione”); 3) eliminare i confini tra interesse pubblico e privato. A leggere la sua analisi si ha l’impressione che, nonostante la seconda guerra mondiale, il corporativismo abbia di nuovo trionfato in una forma diversa, più subdola e potente. È arduo immaginare un modello di governance globale meno democratico e meno ecologico di questo. Lo schiacciante potere patologico delle corporation può apparire invincibile, ma già compaiono le prime crepe nell’armatura. In alcune aree d’Europa e del Brasile, e persino in alcune province degli Stati Uniti, sono nate delle zone OGM-free. I governi progressisti, in particolare nell’America del Sud, cominciano a mettere seriamente in discussione l’agenda neoliberista promossa dalle TNC. Le proteste a livello globale contro l’FMI, la Banca Mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio – preziosi strumenti internazionali del dominio delle multinazionali – stanno assumendo sempre maggior vigore. È in gran parte grazie a questi movimenti e all’ascesa di governi critici verso l’agenda del WTO se negli ultimi anni non si è fatto praticamente nessun “passo avanti” nei negoziati dell’Organizzazione. Secondo Korten, l’attuale capitalismo corporativo globale somiglia molto alle economie centralizzate dell’ex blocco sovietico: «L’Occidente sta ormai percorrendo un cammino ideologico estremista [analogo a quello dell’ex blocco sovietico], con la differenza che puntiamo dritto alla dipendenza da corporation ineffabili che non rendono conto di nulla, invece che da uno Stato ineffabile che non rende conto di nulla» (1995). Entrambi i sistemi concentrano il potere economico in istituzioni centralizzate restie a rispondere delle loro azioni e alla partecipazione popolare; entrambi poggiano su grandi

strutture intrinsecamente inefficienti e insensibili ai diritti umani e ai bisogni autentici; entrambi creano un’economia distorta che tratta le altre creature e gli ecosistemi come risorse da sfruttare senza conseguenze. Come sappiamo, il sistema sovietico – un tempo ritenuto inaffondabile – crollò nel giro di qualche anno. Anche se il capitalismo corporativo globale è un sistema più sofisticato di controllo e di sfruttamento, ci sono ottimi motivi per ritenere che anch’esso soccomberà, altrettanto rapidamente, se non farà una decisa inversione di rotta. Come rileva Korten, «un sistema economico può sopravvivere solo fintanto che la società possiede i meccanismi per contrastare gli abusi del potere statale o del mercato e l’erosione del capitale naturale, sociale e morale che tali abusi di solito acuiscono» (1995).

La finanza parassitaria I problemi della crescita, del malsviluppo e del dominio corporativo sono aggravati dal parassitario sistema finanziario che sempre più sposta l’economia dalla produzione e distribuzione di beni e servizi alla produzione di profitto attraverso la manipolazione di denaro. Nel 1993, due tra le maggiori multinazionali del mondo – la General Electric e la General Motors – generarono più profitti grazie alle loro controllate finanziarie che con la costruzione di prodotti elettronici o automobilistici (Dillon, 1997). L’“economia finanziaria” globale ha velocemente sopravanzato l’economia basata su beni e servizi reali. Le transazioni finanziarie ormai “valgono” (con il denaro come metro di misura!) oltre sette volte di più del commercio mondiale di merci tangibili. Il valore monetario delle azioni scambiate sulle principali Borse mondiali è salito da 0,8 trilioni di dollari nel 1977 a 22,6 trilioni nel 2003. Scrive Korten: «Ciò determina un incremento enorme nel potere d’acquisto della classe dirigente rispetto al resto della società. Crea l’illusione che le politiche economiche stiano aumentando la ricchezza reale della società, quando invece la stanno erodendo» (2006).

Nel 1997, le transazioni quotidiane di azioni, valute, future sulle commodity e obbligazioni avevano raggiunto nel complesso circa 4 trilioni di dollari, mentre oggi in base ai calcoli della Banca dei Regolamenti Internazionali sono le transazioni di valuta estera a raggiungere da sole quella cifra (rispetto ai 1,5 trilioni di dollari del 1997). Scrive Dillon: «La maggior parte di queste transazioni [il 95 per cento] è di tipo speculativo: non sono di per sé necessarie a finanziare la produzione di beni e servizi» (1997). L’introduzione di nuove tecnologie non ha fatto che aumentare il ritmo e il volume delle transazioni finanziarie. Quasi tutte usano ormai il «cyber-denaro»: trasferimenti elettronici che usano computer e mezzi di comunicazione quasi istantanei in tutto il mondo. Nelle parole di Dillon: «Niente di tangibile passa di mano. Gli speculatori si arricchiscono senza fare nulla di particolarmente tangibile, se non riorganizzare gli zero e gli uno sui chip del computer quando comprano e vendono il cyber-denaro» (1997). Sono passati molti anni da quando l’economista John Maynard Keynes ammoniva: «Gli speculatori possono non causare alcun male, come bolle d’aria in un flusso continuo di intraprendenza; ma la situazione è seria quando l’intraprendenza diviene la bolla d’aria in un vortice di speculazione». È un’analisi perfetta dell’attuale economia globale. La volatilità generata da questa situazione può precipitare le cose velocemente e inaspettatamente. Nel 1995, un operatore finanziario che lavorava a Singapore mandò in bancarotta la britannica Barings Bank, vecchia duecentotrentatré anni, perché perse 1,3 miliardi di dollari in una transazione che riguardava derivati giapponesi per un valore di 29 miliardi di dollari. Ancor più devastanti furono le crisi finanziarie del 1994 in Messico e del 1998 in Asia: gli investitori ritirarono all’improvviso i soldi da quelle regioni, provocando lo scoppio della “bolla speculativa” e portando quelle economie al collasso. In entrambi i casi l’enorme, e volatile, afflusso di capitale speculativo creò le condizioni che portarono alla crisi. E in

entrambi casi, a proteggere dalle perdite gli investitori esteri (che nel frattempo avevano realizzato straordinari profitti speculativi) furono i pacchetti di salvataggio finanziati a livello internazionale. Ad accollarsi il costo di questi pacchetti, però, furono i popoli e gli ecosistemi delle nazioni colpite, specie attraverso l’aumento del carico debitorio e l’imposizione di nuovi programmi di aggiustamento strutturale. Su scala ancor più vasta, c’è infine la crisi dei mutui subprime: partita dagli Stati Uniti, essa ha provocato il crollo dei mercati finanziari in tutto il mondo. Ancora una volta la speculazione, in particolare il trading di mutui subprime venduti come investimenti su titoli di credito, ha portato alla rovinosa fine della bolla speculativa, questa volta però a livello globale e non più regionale. Scrive l’economista Herman Daly: La turbolenza che colpisce l’economia mondiale, scatenata dalla crisi del debito dei subprime USA, non è in realtà una crisi di “liquidità”, come spesso viene definita. Ciò implicherebbe che quell’economia è in crisi perché le imprese non riescono più a ottenere credito o prestiti per finanziare i loro investimenti. In realtà, questa crisi è il risultato di una crescita eccessiva dei titoli finanziari rispetto alla crescita della ricchezza reale: insomma, l’opposto della mancanza di liquidità. I problemi degli USA di cui siamo testimoni sono sorti perché l’ammontare della ricchezza reale non è un pegno sufficiente a fare da garanzia per lo sconcertante debito, esploso come conseguenza della possibilità da parte delle banche di creare denaro, dei prestiti concessi su titoli incerti e del deficit del governo statunitense, alimentato dalle spese per le guerre e dal recente taglio delle tasse. [...] Per mantenere viva l’illusione che la crescita ci renda più ricchi, abbiamo dilazionato i costi emettendo titoli finanziari praticamente illimitati, opportunamente dimenticando che questi cosiddetti titoli sono, per l’intera società, debiti da rifondere con la crescita futura della ricchezza reale. Ma la crescita futura è molto incerta, data la dilazione dei costi reali, mentre il debito continua ad aumentare a livelli inauditi. (2008)

Ancora una volta, i governi sono stati costretti a puntellare il sistema finanziario concedendo massicci prestiti e persino acquisizioni di istituzioni finanziarie, lasciando però trilioni di dollari sulle spalle dei contribuenti. Nel frattempo lo scoppio della bolla sta producendo costi molto reali: la disoccupazione cresce, la gente perde la casa e il

commercio globale rapidamente si contrae. La speculazione finanziaria, dunque, pur essendo ormai avulsa dalla realtà produce costi molto reali per gli esseri umani e per l’intera comunità terrestre. Gli speculatori finanziari detengono un immenso potere economico: come dimostrano le crisi in Messico e in Asia, possono spostare velocemente i loro fondi quando vogliono, lasciando che le economie crollino a causa delle loro scelte. Persino le politiche delle nazioni più ricche sono soggette a questo tipo di pressione. Agli inizi degli anni Novanta, ad esempio, il governo canadese addusse la minaccia di rappresaglie finanziarie come giustificazione per il drastico taglio della spesa pubblica. I finanzieri internazionali esercitano una sorta di potere di veto sulle politiche di tutti i paesi del mondo, spingendoli ad approvare leggi e regolamenti che incrementano la redditività delle aziende attraverso politiche di investimento aperto (che aumentano ulteriormente la volatilità), di “libero commercio”, di riduzione delle tasse e di minori protezioni per il lavoro e gli ecosistemi. Gli investitori esercitano il proprio potere anche sulle singole corporation. Per tagliare i costi, aumentare la redditività e incrementare i prezzi delle azioni, le compagnie eliminano posti di lavoro o li spostano dove i salari sono più bassi. Analogamente, distruggere gli “asset naturali” consumando le ricchezze della Terra a ritmi insostenibili aumenta i profitti e i prezzi delle azioni nell’immediato. Le corporation che si sforzano di essere responsabili, che preferiscono la sostenibilità a lungo termine rispetto al profitto immediato, sono soggette a forti pressioni finanziarie perché agiscano in modo diverso. Quelle che non lo fanno sono esposte agli attacchi degli “scalatori” di multinazionali. Ned Daly cita l’esempio della Pacific Lumber Company, che estrae legname dalle antiche foreste di sequoie della costa californiana. Negli

anni Ottanta era considerata una compagnia modello per le politiche sul lavoro e sull’ambiente, tra cui benefit generosi per i lavoratori e metodi innovativi e sostenibili per il taglio e il trasporto dei tronchi. A causa di queste scelte, tuttavia, l’azienda generava profitti modesti e aveva di conseguenza un valore azionario contenuto. Divenne così bersaglio di un’OPA ostile da parte dello scalatore Charles Hurwitz. Non appena Hurwitz assunse il controllo dell’azienda, raddoppiò il taglio di legname e prosciugò il fondo pensionistico della compagnia di oltre la metà dei titoli. Ciò gli consentì di pagare i titoli spazzatura da lui usati per finanziare l’acquisizione e di ottenere cospicui profitti. Per realizzare quei guadagni fu accelerata la distruzione di una delle più imponenti e preziose foreste del mondo (N. Daly, 1994). Il sistema finanziario globale può essere quindi visto come un parassita che succhia la vita all’economia reale. Con questo non si vuol dire che non sia necessario investire: perché vi sia autentica innovazione e progresso, spesso sono indispensabili investimenti produttivi che creino posti di lavoro con salari minimi, purché si conduca uno stile di vita sostenibile rispettando i vincoli degli ecosistemi. La maggior parte degli investitori mondiali, invece, sembra ormai dedita ai cosiddetti “investimenti estrattivi” che non creano ricchezza ma semplicemente «estraggono e concentrano la ricchezza esistente. [...] Nel peggiore dei casi, un investimento estrattivo diminuisce la ricchezza [e la salute] complessiva della società, mentre garantisce un guadagno considerevole a un singolo individuo» o a un gruppo di investitori (Korten, 1995). Le operazioni di Charles Hurwitz sono un esempio perfetto di investimenti parassitari. Una ricchezza illusoria Al centro degli investimenti estrattivi e della finanza parassitaria vi è una visione sbagliata del denaro. Persino Adam Smith era contrario all’idea di fare denaro dal denaro: il denaro era inteso come uno strumento, non un fine in sé. Scrive John Ralston Saul: «L’esplosione

di mercati monetari avulsi dal finanziamento di attività reali è inflazione pura. Perciò, è anche una forma pura e molto esoterica di ideologia» (1995 [1999, p. 147]). L’economista Herman Daly (1996 [2001]) parla di «inganno della concretezza mal riposta»: confondiamo il denaro (o gli zero e gli uno che sfrecciano nel cyberspazio e hanno praticamente rimpiazzato la moneta fisica) con la ricchezza reale che esso dovrebbe rappresentare. Ciò che si assume per vero per il simbolo astratto della ricchezza si presuppone valga anche per la ricchezza reale. La ricchezza reale, però, tende a deteriorarsi: non si può accumulare per sempre il grano nei granai e nei silos; i vestiti prima o poi si logorano o sono mangiati dalle tarme; gli edifici poco a poco si deteriorano. Le ricchezze naturali (come le foreste o le colture) possono crescere, nel migliore dei casi, secondo i tempi dettati dagli input del sole, dell’acqua e dell’aria pulite e di un terreno sano. La ricchezza reale non cresce mai a ritmi esponenziali per un periodo troppo lungo, e con il passare del tempo può anche deperire. Il denaro, invece, non si rovina. Identificando il simbolo (il denaro) con la realtà (la ricchezza), la ricchezza diventa una quantità astratta, libera dalle leggi della fisica e della biologia. Può accumularsi per sempre senza decomporsi. Attraverso il gioco di prestigio del debito e di altre più sofisticate manipolazioni finanziarie, il denaro può persino crescere, non di rado a ritmi esponenziali. È l’inganno della concretezza mal riposta a far credere a molti economisti (così come a politici, investitori, e anche a persone normali adescate dall’illusione del denaro) che anche la ricchezza reale cresca esponenzialmente. In realtà, il denaro che si accumula non è affatto una ricchezza reale: è semplicemente una sorta di pegno sulla produzione futura che, per consenso sociale, può essere riconvertito in ricchezza reale in un secondo momento15. Per rispettare le garanzie sempre più elevate sui future generati da questa forma di accumulazione di capitale

l’economia deve crescere costantemente, oppure bisogna ridurre il valore del denaro attraverso l’inflazione, affinché vi sia corrispondenza con la ricchezza realmente esistente (altrimenti, come nel caso della crisi del debito dei subprime, la bolla scoppia innescando una reazione a catena che può portare al crollo di svariate compagnie o all’evaporazione del valore dei titoli virtuali). Cominciamo dunque a comprendere come la ricerca di profitto dell’economia finanziaria concentri la ricchezza nelle mani degli investitori, impoverendo ancora di più i poveri e tutta la comunità terrestre. Per poter rispettare un pegno sulla produzione futura sempre più elevato, il mondo è costretto a perseverare in questa ossessione della crescita illimitata, consumando così la ricchezza naturale del pianeta. Parallelamente, le pressioni inflazionistiche impoveriscono in particolare i poveri, i quali di certo non percepiscono redditi da capitale a ritmi esponenziali. Ecco un esempio concreto per capire meglio. Tra il 1980 e il 1997, le nazioni più povere del mondo hanno trasferito 2,9 trilioni di dollari per pagare debiti alle banche, ai governi del Nord e a istituzioni finanziarie internazionali quali la Banca mondiale e l’FMI. Eppure, nello stesso periodo, il loro debito complessivo è aumentato ancora: da 568 miliardi di dollari a oltre 2 trilioni. Grazie al debito, cospicue risorse passano dai poveri ai ricchi attraverso il “gioco di prestigio” dell’interesse composto. Il pegno sempre più elevato sulla produzione futura delle nazioni più povere non potrà mai essere rispettato. Ma il parassitico sistema finanziario mondiale continua a dissanguare i poveri e la Terra, ostinandosi nell’idea che tutta la ricchezza estraibile vada usata per arricchire l’economia finanziaria. Il denaro colonizza la vita Per molti l’economia è la scienza (o l’arte) di produrre, distribuire e consumare la ricchezza. In parole povere, l’economia sarebbe l’arte di fare denaro. Ma in greco “economia” si dice oikonomia, ossia l’arte di curare e gestire la casa, sia essa la comunità, la società o la Terra. La

radice di “economia” è infatti la stessa del termine “ecologia”: lo studio della casa. Aristotele fece una distinzione netta tra economia e “crematistica”, ossia le attività speculative che non producono nulla di valore e che tuttavia generano profitto. La crematistica è «la branca dell’economia politica relativa all’uso della proprietà e della ricchezza in vista della massimizzazione del valore di scambio monetario per il proprietario nel breve periodo» (H. Daly-Cobb, 1989 [1994, p. 200]). Aristotele fa l’esempio del filosofo Talete di Mileto per illustrare la differenza tra economia e crematistica. Per anni, Talete era stato schernito dalla comunità per il suo stile di vita semplice. «Se la filosofia è così importante», gli chiedevano, «perché non sei capace di accumulare ricchezza?». Talete decise allora di dimostrare il contrario. Grazie alle conoscenze di astronomia, il filosofo riuscì a prevedere che vi sarebbe stato un eccezionale raccolto di olive. Durante l’inverno prese in affitto per pochi soldi tutti i frantoi della regione. Quando il raccolto eccezionale alla fine arrivò, sfruttò il suo monopolio per procurarsi un grande profitto, ma a danno della comunità. Ciò che fece Talete somiglia per molti aspetti a quello che avviene oggi sui mercati finanziari globali. Egli però lo vedeva per ciò che era: una pratica crematistica più che economica. Dopotutto, il filosofo non aveva creato nulla che avesse un valore: non aveva inventato un nuovo uso dell’olio d’oliva, non aveva costruito nuovi frantoi, non aveva piantato ulivi. Semplicemente, si era arricchito a spese degli altri. Gran parte della nostra prassi “economica” non è altro che una forma sofisticata di crematistica. Le attività che generano i maggiori guadagni spesso hanno poco o nessun valore (non sostengono né promuovono la vita, anzi possono distruggerla), mentre le attività davvero produttive – prendersi cura dei bambini, produrre cibo, proteggere la natura – rendono poco in termini monetari. Ecco perché pensiamo che il banchiere d’investimento “valga” di più della

contadina che si spacca la schiena per nutrire la terra e la famiglia. Scrive Vandana Shiva: Il riduzionismo finale viene raggiunto quando la natura viene collegata a una visione dell’attività economica in cui il denaro è l’unica misura del valore e della ricchezza. La vita cessa di essere il principio organizzatore degli affari economici. Ma il problema con il denaro è che la sua relazione con la vita e i processi vitali è asimmetrica. Lo sfruttamento, la manipolazione e la distruzione della vita nella natura possono essere fonte di denaro e di profitti; ma questi ultimi non saranno mai fonte della vita nella natura, né della sua capacità di sostenere la vita. È questa asimmetria che spiega l’acuirsi delle crisi ecologiche e la riduzione del potenziale naturale di produzione della vita, insieme con l’incremento dell’accumulazione del capitale e l’espansione dello “sviluppo” come processo che sostituisce il corso della vita e della sussistenza con la circolazione del denaro e dei profitti. (1989 [2002, p. 37])

David Korten afferma che la nostra è un’epoca in cui il denaro ha colonizzato la vita. è un’espressione azzeccata. Già cinquant’anni fa il grande storico economico Karl Polanyi metteva in guardia sul fatto che «la nozione di guadagno» rischiava di sopravanzare la cornice sociale (e, aggiungeremmo, ecologica), così da trasformare la società umana (e tutta la comunità terrestre) in un mero «accessorio del sistema economico». Egli segnalava che se le leggi del commercio (o, più precisamente, della crematistica) avessero prevalso sulle leggi della natura e sulle leggi di Dio, il «mercato autoregolato» non sarebbe potuto esistere «per un dato periodo di tempo senza demolire la sostanza sociale e naturale della società» (citato in Athanasiou, 1996).

Monocoltura della mente Non è escluso che il sistema patologico che domina il globo stia effettivamente trasformando la comunità umana e le altre comunità biotiche in «meri accessori del sistema economico». Esso impone una cultura globalizzante (o meglio, una caricatura culturale) che distrugge le culture e le sapienze locali, impoverendo così l’umanità e mettendo a repentaglio la sopravvivenza stessa della nostra specie. Secondo Vandana Shiva, la «cultura globale» imposta al mondo dal capitalismo corporativo finge di essere universale ma è il prodotto di una cultura particolare (che nasce nell’America del Nord e in Europa):

«è semplicemente la versione globalizzata di una tradizione locale e provinciale» (Shiva, 1993 [1995, p. 13]). Questa cosiddetta cultura globale, opportunamente irradiata dalla pubblicità, dai mass media e dall’istruzione occidentalizzata, tende a rifiutare i saperi e le saggezze locali tradizionali, dichiarandole illegittime o proprio inesistenti. Nel migliore dei casi, la cultura globalizzata assorbe qualche elemento simbolico come la musica, l’abbigliamento o l’arte delle culture non occidentali, ma la loro essenza e i loro valori sono perlopiù ignorati. Allo stesso tempo, la cultura globalizzante «rimuove le alternative cancellando o distruggendo la realtà che quelle alternative cercano di rappresentare. La linearità frantumata del sapere dominante sconvolge l’integrazione tra i diversi sistemi. Si eclissano insieme con il mondo a cui si riferiscono. Il sapere scientifico dominante alimenta dunque una monocoltura della mente, che apre un vuoto in cui le alternative locali scompaiono» (Shiva, 1993 [1995, p. 13]). Frammentare e monopolizzare la conoscenza Paradossalmente, uno dei metodi per frammentare e distruggere la conoscenza è la moltiplicazione delle informazioni, molte delle quali hanno un valore effettivo molto marginale. Un caso tipico è quello della pubblicità. Prima ancora di arrivare sui banchi di scuola, un bambino dell’America del Nord ha già visto in media tremila spot, mentre i ragazzi passano più tempo a guardare la pubblicità che in classe (Swimme, 1996). Questo lavaggio del cervello prolungato e persistente, che comincia fin dalla tenera età, non può non restringere la nostra prospettiva e indottrinarci in modo tale da considerare normale l’attuale dis-ordine globale. È incredibile, ad esempio, che un abitante degli Stati Uniti sia in grado di riconoscere oltre un migliaio di loghi aziendali ma non altrettante specie animali o vegetali del suo territorio (Orr, 1999). La monocultura dominante ci riempie di informazioni “vuote”, ma ci impedisce di acquisire un sapere autentico.

Anche il medium televisivo tende a suddividere la conoscenza in frammenti di informazioni isolate. I notiziari televisivi, confezionati con “messaggi telegrafici”, ci abituano a trattare problematiche complesse scomponendole in frammenti dissociati da un quadro complessivo di analisi. Anche i programmi TV, che variano dai trenta ai sessanta minuti, tendono ad affrontare questioni semplici (se mai ne affrontano!) che possono essere “risolte” rapidamente, evitando i temi più complessi. Questi programmi anestetizzano la mente e allontanano la gente da attività culturali tradizionali, come la narrazione, la conversazione, la musica, l’arte e la danza. È un processo che ricorda alcuni versi di T.S. Eliot contenuti nei cori de La Rocca: Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?

Ne potremmo aggiungere un terzo, adatto alla nostra epoca: Dov’è l’informazione che abbiamo perduto nella distrazione?

La cultura globalizzante allunga i suoi tentacoli, e intanto cerca di monopolizzare anche quelle sapienze tradizionali che possono rivelarsi redditizie. Tra gli esempi più evidenti, la pulsione delle corporation transnazionali a brevettare la vita stessa. L’Organizzazione mondiale del commercio ha spianato la strada a questa pulsione allorché ha permesso la protezione dei brevetti su sementi e materiale genetico. Vandana Shiva spiega che due multinazionali USA hanno approfittato di queste disposizioni per richiedere il brevetto sul riso basmati e sul neem – un pesticida e fungicida naturale –, entrambi sviluppati secoli fa dalle comunità contadine dell’India16. È una forma di “biopirateria” ormai dilagante. Si è tentato persino di brevettare dei geni provenienti da alcuni popoli indigeni. Che una follia simile possa apparire logica all’interno del dis-ordine globale che domina oggi il pianeta è la prova evidente che esiste una patologia intrinseca. Distruggere la diversità

Man mano che la “monocoltura della mente” avanza, essa annienta le altre culture, le lingue e i saperi come una metastasi. Come vanno perdendosi le specie animali e vegetali locali, sostituite da poche varietà economicamente convenienti, così vanno scomparendo interi sistemi culturali. Molti hanno impiegato migliaia di anni per evolversi e si adattano perfettamente a un ecosistema specifico, in particolare nel caso delle culture autoctone. Ogni cultura perduta implica un impoverimento della diversità, oltre che un depauperamento delle ricchezze autentiche della Terra. Come la distruzione di specie vegetali nelle foreste pluviali può determinare la perdita di una cura per il cancro o di un nuovo, prezioso alimento, così pure la distruzione dei pezzi del mosaico culturale globale implica la perdita di potenziali soluzioni alle crisi attuali. Non solo: tali perdite comportano anche il depauperamento della bellezza e del mistero della vita, che non si possono mai pienamente misurare o quantificare. Un esempio di questa tendenza è costituito dalla riduzione delle lingue parlate nel mondo. La lingua è un aspetto centrale della cultura, in quanto incarna un determinato modo di pensare: l’estinzione di una lingua, dunque, implica la perdita di una prospettiva unica in sé, di un modo ben preciso di concepire il mondo. Secondo i linguisti, circa diecimila anni fa esistevano dodicimila lingue, parlate dai 5-10 milioni di abitanti del pianeta. Oggi ne rimangono solo settemila, nonostante la popolazione sia schizzata a oltre 6 miliardi di persone. Anche il ritmo con il quale le lingue si estinguono è accelerato notevolmente, soprattutto nell’ultimo secolo: perdiamo ormai quasi una lingua al giorno. A questo ritmo, tra un centinaio di anni rimarranno solo duemilacinquecento lingue. Altri esperti sono ancor meno ottimisti: secondo costoro entro il 2100 scomparirà il 90 per cento delle lingue rimaste (Worldwatch, 2007). Nel suo studio sull’ascesa e il declino delle civiltà nel mondo, lo storico culturale Arnold Toynbee affermava che le civiltà in declino

tendono all’uniformità e alla standardizzazione. Al contrario, le civiltà in ascesa sono caratterizzate dalla diversità e dalla differenziazione. L’uniformità è un segnale di stagnazione e di decadimento (Korten, 1995). La sempre maggiore omogeneità della cultura globalizzante va di pari passo con l’imposizione di un’economia globale sempre più uniforme. Nel suo libro The Ecology of Commerce (1993), Paul Hawken paragona l’economia globale a una comunità di piante pioniere infestanti. Nelle aree appena bonificate, le piante fanno a gara per ricoprire il terreno quanto più rapidamente possibile. Sprecano molta energia, ma la biodiversità non è elevata. Le piante presenti in queste comunità biotiche non sono granché utili alle altre specie, neanche all’uomo. Gli ecosistemi con le maggiori potenzialità evolutive sono invece quelli che presentano un grado più elevato di biodiversità (come le foreste vergini e le barriere coralline). Analogamente, l’ossessione dell’economia globale per la crescita e l’espansione senza vincoli trascura qualità più importanti come la complessità, la cooperazione, la conservazione e la diversità. È un sistema immaturo. La stessa analogia è utile per riflettere sull’affermarsi di una monocultura globale. In definitiva, la perdita di diversità culturale e di saperi locali rappresenta per la comunità umana lo stesso tipo di minaccia che la perdita di diversità degli ecosistemi rappresenta per il pianeta in generale. Stiamo sostituendo un “ecosistema” di culture diverse con una monocultura simile alle piante infestanti, che crescono rapidamente ma non sono di alcuna utilità. Non solo: è come se questa cultura infestante che va diffondendosi contenesse un gene letale – come la varietà geneticamente modificata di cotone che produce il pesticida BT – che la rende in un certo senso incompatibile con la vita.

Il potere come dominio Al cuore della patologia globale che pervade la Terra vi è la concezione del potere come dominio. Per potersi imporre in tutto il

pianeta, il capitalismo (e il suo predecessore, il mercantilismo) ha sempre usato la forza, inizialmente attraverso il colonialismo. Tra il XVI e il XIX secolo, le potenze europee conquistarono o soggiogarono alla propria dominazione gran parte del pianeta. Ma all’inizio del XIX secolo, le popolazioni locali cominciarono a ribellarsi a tale dominio, in particolare nell’America latina. Anche se questi movimenti indipendentisti (prevalentemente) borghesi non introdussero un cambiamento significativo per le fasce più povere della società, quelle lotte costrinsero le potenze egemoniche a ripensare la loro strategia. Alla fine degli anni Sessanta, il colonialismo tradizionale fondato sul controllo politico diretto era stato ormai quasi completamente rimpiazzato dal neocolonialismo economico. Negli anni successivi, le TNC (insieme con le nazioni che ne fanno gli interessi politici) hanno esteso il loro controllo prima attraverso i SAP e più di recente tramite la “liberalizzazione” del commercio e degli accordi di investimento, che annullano l’autorità locale e la sovranità dei cittadini garantendo invece i “diritti” dei poteri economici sfruttatori, in particolare delle grosse multinazionali. Queste armi economiche sono persuasivi strumenti di sopraffazione, ma sono puntellate anche dalla minaccia delle armi. Le spese militari fagocitano ancora una quota gigantesca delle risorse mondiali. Secondo l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, nel 2007 i governi hanno speso complessivamente oltre 1,3 trilioni di dollari (pari al 2,5 per cento del PIL globale) per finanziare le forze armate. Forse ancor più degno di nota è che molte tra le menti più brillanti e dotate del mondo siano tuttora al servizio della ricerca militare: cosa accadrebbe se quelle stesse risorse venissero impiegate per risolvere i gravi problemi con cui il pianeta deve fare i conti? Senza contare che la guerra continua a distruggere vite e intere comunità, specie nei conflitti interni legati alla povertà, alla carenza di risorse e agli interessi delle corporation. Concreta rimane anche la minaccia delle armi atomiche: nel mondo esistono ancora circa

dodicimila testate nucleari, sufficienti a distruggere la Terra più di una volta. Per numerosi popoli del mondo, quindi, la guerra e la repressione militare sono ancora un pericolo tangibile. Negli ultimi anni questo pericolo si è concretizzato ancora di più nei conflitti, nelle tattiche repressive e nelle violazioni dei diritti umani legati alla cosiddetta guerra al terrorismo. Bollare una persona o un gruppo come “terrorista” dà la libertà di tenere imprigionato qualcuno per un tempo indefinito, di torturare e persino di uccidere. Più in generale, le metafore e i modi di pensare militaristi continuano a caratterizzare la patologia globale. Parliamo di “sconfiggere la malattia” invece che di promuovere il benessere; parliamo di “sopravvivenza del più forte”, o addirittura di “distruggere o essere distrutti”, più che di cooperazione per la sopravvivenza di tutti. Vediamo la sopraffazione – sia essa del ricco sul povero, dell’uomo sulla donna, di una nazione su un’altra, degli uomini sulla natura – come qualcosa di naturale o comunque inevitabile. Non deve quindi sorprendere se gli esseri umani cercano di manipolare e di controllare persino i processi che regolano la vita attraverso l’ingegneria genetica. Ma esistono anche altre tecnologie in grado di amplificare il potere della sopraffazione, in particolare la robotica e le nanotecnologie (queste ultime potrebbero addirittura sviluppare macchine autoreplicanti poco più grandi di una molecola che imitano i microrganismi). Bill Joy (2000) mette in guardia sul fatto che tali tecnologie celano potenzialità nocive inaudite. A differenza delle testate nucleari, le nuove tecnologie non hanno bisogno di materie prime di difficile reperimento. Sono inoltre potenzialmente autoreplicanti. E sono tutte sviluppate da grosse multinazionali senza troppa vigilanza da parte dei governi nazionali, sfuggendo così ai meccanismi dell’accountability. Il pericolo costituito dalle nuove tecnologie è molto concreto. I geni

delle colture transgeniche sono già passati ad altre piante, e persino ad altre specie. I microscopici “naniti” potrebbero anche riprodursi da soli, rendendo in teoria possibile, ad esempio, la creazione di micromacchine che invadano ed erodano la Terra riducendola in polvere, o che annientino sistematicamente i batteri essenziali per la vita sul pianeta. Con l’avanzare dell’intelligenza artificiale, i robot potrebbero anche replicare se stessi, magari rimpiazzando in futuro il genere umano. Sono previsioni che potranno suonare come pura fantascienza, ma ci sono buoni motivi per credere che queste tecnologie diverranno realtà mentre molti di noi saranno ancora in vita: il genio della genetica è già fuori dalla lampada. Scrive Joy: Il vaso di Pandora della genetica, della nanotecnologia e della robotica è ormai quasi scoperchiato, anche se non ce ne siamo accorti. [...] Siamo catapultati nel nuovo secolo senza alcun progetto, senza controllo, senza freni. Ci siamo già spinti troppo in là per cambiare rotta? Non credo, ma ancora non ci proviamo neanche a cambiarla, e intanto si avvicina l’ultima chance per imporre il nostro controllo, si avvicina il punto di non ritorno. Abbiamo già i nostri primi robot domestici, esistono tecniche di ingegneria genetica disponibili a livello commerciale, le nanotecniche avanzano rapidamente. Lo sviluppo di queste tecnologie procede per gradi [...], ma la virata verso l’autoreplicazione selvaggia nella robotica, nell’ingegneria genetica o nelle nanotecnologie potrebbe arrivare all’improvviso, cogliendoci di sorpresa esattamente come avvenne per la clonazione di un mammifero. (2000)

Le facoltà dell’uomo sembrano aumentare più rapidamente della sua saggezza. Secondo Joy ci sono tuttavia buone ragioni per sperare. L’autore fa notare che l’umanità è riuscita a rinunciare alle armi chimiche e biologiche perché si è resa conto che erano troppo terribili e devastanti per poterle usare. Possiamo rinunciare al sapere e al potere che queste nuove tecnologie comportano, o quantomeno imporre su di esse vincoli stringenti ispirati al principio di precauzione? Ciò dipenderà, in definitiva, dalla disponibilità del genere umano – in particolare di chi esercita una più forte influenza all’interno del sistema patologico che governa il nostro pianeta – a rinunciare alla brama di potere, di controllo e di dominio.

Dalla patologia alla salute È possibile abbandonare la strada della patologia e sceglierne una che porti alla salute e alla vita? Il dis-ordine globale ha una portata e una forza tali da apparire schiacciante. Senza contare che la follia evidente nell’irrazionalità di tale sistema può spingerci alla negazione (com’è possibile che ciò accada?) oppure alla disperazione (come riusciremo a fermare tutto questo?). Paradossalmente, però, proprio quell’irrazionalità può trasformarsi in un segnale di speranza. I sistemi economici, politici e ideologici dominanti cercano di convincerci che il tipo di “globalizzazione” fondata sul “libero mercato”, sulla speculazione finanziaria, sulla deregolamentazione, sul potere corporativo e sulla crescita illimitata è inevitabile. Non c’è altra strada: possiamo fare qualche piccola variazione, ma un cambio radicale di rotta è impossibile. In realtà, un sistema così patologico e irrazionale qual è l’attuale dis-ordine globale non è affatto inevitabile. È un artificio fasullo e irrazionale che contraddice miliardi di anni di evoluzione cosmica e terrestre.

Opinioni e convinzioni di partenza Se gli uomini come individui cedono al richiamo dei loro istinti elementari, rifuggendo dal dolore e cercando la soddisfazione solo per se stessi, il risultato che ne traggono, tutto considerato, non può che essere uno stato di insicurezza, di paura e di promiscua infelicità. (Einstein, 1995 [2005, p. 21]) Per capire meglio, passiamo per un momento in rassegna alcune opinioni e convinzioni intrinseche alla patologia che affligge oggi il mondo e raffrontiamole con quello che potremmo definire il “buon senso ecologico”, ossia un modo di pensare che incarni la saggezza del Tao. In primo luogo, l’attuale sistema è ossessionato dalla “crescita”

quantitativa, indifferenziata e illimitata, così come viene percepita attraverso le lenti distorte del PIL. Un throughput (il ritmo al quale le risorse vengono utilizzate) in crescita è considerato un segno di buona salute, anche se in questo processo di malsviluppo si consuma la ricchezza naturale e la povertà aumenta. Parallelamente, la mentalità monoculturale mira a imporre all’intero pianeta un’unica cultura e un unico modello economico, dando vita a società immature e “infestanti”, ossia con un elevato utilizzo di energia e una scarsa diversità. Al contrario, gli ecosistemi sani sono caratterizzati dalla stabilità: Herman Daly parla di «economie dello stato stazionario». Ciò non significa che il cambiamento non sia possibile, o addirittura desiderabile – tutti gli ecosistemi evolvono nel tempo – ma è un cambiamento perlopiù qualitativo, con una crescita della diversità che porta a una sempre maggiore stabilità del sistema. In tale contesto, vi è inoltre una grande varietà di ecosistemi caratterizzati dalla diversità, e ognuno di essi si adatta perfettamente a un clima specifico e a una specifica area geografica. Il Tao risiede nella diversità, nella differenziazione e nella stabilità, non in una monocultura in metastasi. In secondo luogo, l’attuale dis-ordine globale dà preminenza alla nozione di guadagno e al profitto a tutti i costi. È un sistema incentrato sull’ossessione del guadagno immediato a scapito della sostenibilità a lungo termine, sulla priorità data al profitto di pochi a spese dei più. Le attività che generano i maggiori “profitti” sono le stesse che minano la qualità della vita, mentre quelle che davvero sostengono e promuovono la vita sono considerate “antieconomiche”. Il “guadagno” è definito in termini puramente finanziari: è il denaro «l’unica misura del valore e della ricchezza», anche se la qualità della vita e la biodiversità risultano minacciate dall’accumularsi del “capitale” inanimato. Dalla prospettiva degli ecosistemi, il denaro è semplicemente un’astrazione creata per facilitare gli scambi. Non ha valore in sé

(quale valore può avere il denaro se non ci sono più cibi sani, aria e acqua pulita da acquistare?). Solo la salute e la diversità della rete della vita hanno un valore reale. Le attività che la mettono in pericolo – come l’annientamento della vita per accumulare capitale – sono un male, non un bene. Tutte le attività vanno in definitiva giudicate in base al loro valore durevole, a lungo termine. Il guadagno immediato a prezzo del benessere di lungo periodo non è un vero guadagno bensì una perdita. Il Tao attribuisce grande valore alla vita e guarda al bene delle sette generazioni successive e ancora più in là. Terzo, il dis-ordine sistemico egemonico concentra il potere e la ricchezza nelle mani delle “superpersone” corporative, entità fasulle che non rendono conto alle comunità entro cui operano. Il potere è inteso ed esercitato sostanzialmente come sopraffazione. La competizione è considerata il motore del cambiamento e del progresso (anche se le grosse corporation tendono a sabotarla monopolizzando i mercati e il potere). Nella prospettiva degli ecosistemi, la ricchezza è utile alla comunità quando viene condivisa da tutti. Il potere è decentrato: in un ecosistema sano, non domina nessuna specie. Le dinamiche della competizione esistono, ma ancor più importanti sono la cooperazione e l’interdipendenza. Nella logica di un ecosistema, una specie che comincia a espandersi oltre i suoi confini naturali è patologica, come le cellule cancerogene nell’organismo. Le specie che espandono la propria nicchia al di là di ogni ragionevole limite esauriranno inevitabilmente le riserve alimentari, provocando il crollo demografico. Il Tao guarda all’equilibrio e all’interdipendenza, in modo tale che tutte le specie e tutti i popoli coesistano in armonia. Dal punto di vista ecologico, dunque, non c’è nulla di logico o naturale nel dis-ordine che domina oggi il pianeta. Esso è in contraddizione con il Tao. Anche nell’ottica dell’etica e dei valori umani l’attuale sistema appare irrazionale. David Korten sintetizza

così alcune opinioni sulle dinamiche umane implicite nell’ideologia dominante: 1. Gli esseri umani sono essenzialmente spinti dall’avidità e dall’interesse egoistico, che si manifestano in particolare come desiderio di guadagno monetario; 2. Misura del progresso e del benessere umani è la crescita dei consumi: come a dire che realizziamo pienamente il nostro essere uomini nell’accaparramento; 3. Il comportamento competitivo (e, presumibilmente, il desiderio di prevalere) è più fruttuoso per una società rispetto alla cooperazione; 4. Le azioni che apportano maggiore guadagno finanziario sono le più vantaggiose per la società e per l’intera comunità vivente. Perseguendo l’avidità e l’accaparramento, in definitiva, si arriverà al migliore dei mondi possibili (Korten, 1995). Esposte in modo così nudo e crudo, è difficile concordare con simili affermazioni. Di certo non trovano riscontro in nessuna religione o filosofia del mondo. Nel Tao Te Ching (§33), ad esempio, si legge: Solo chi sa di avere abbastanza è davvero ricco.

Persino Adam Smith, considerato il faro del capitalismo e dell’economia del “libero mercato”, avrebbe rigettato con forza dei principi tanto grotteschi: egli riteneva che il carattere costitutivo dell’umanità fosse la simpatia (o compassione), non lo spirito di competizione o l’avidità. La virtù si componeva, secondo il filosofo, di tre elementi: decoro, prudenza (assennato perseguimento dei propri interessi) e benevolenza (incoraggiare la felicità degli altri) (Saul, 1995 [1999, p. 152]). Assumere una nuova prospettiva In che modo possiamo prendere le distanze da una visione distorta che sovverte i valori facendoli diventare degli antivalori? In che modo

possiamo passare dal sistema attuale, fondato sulla crematistica, la monocultura e la sopraffazione a uno in cui vi sia un’autentica oikonomia, la cura della nostra casa, ossia la Terra? In che modo possiamo creare un mondo in cui l’umanità viva entro i confini ecologici del pianeta ed elimini le terribili disuguaglianze tra ricchi e poveri? Nel porsi queste domande, bisogna tenere a mente che il disordine dominante non ha ancora trionfato completamente, nonostante il suo immenso potere economico, politico e culturale. Il mondo accoglie ancora un’ampia varietà di culture. In tutto il pianeta esistono numerose sacche di resistenza che continuano a combattere contro le tendenze omologanti. Ciò vale soprattutto per le fasce più emarginate e oppresse dal sistema dominante, come le donne, i popoli indigeni e quanti vivono nelle economie di sussistenza. Ma vale anche per coloro che si trovano a contatto con i “centri” del potere: ovunque ci sono comunità che cercano un’alternativa all’economia e alla cultura globalizzanti. Ovunque nascono movimenti che resistono all’imposizione del sistema egemonico e puntano a creare un nuovo ordine basato su equità, giustizia, legittimazione e salute ecologica. Ovunque ci sono persone e organizzazioni che progettano politiche innovative e tecnologie creative. Non c’è nulla di inevitabile nell’attuale dis-ordine: possiamo ancora scegliere un cammino alternativo che conduca alla Grande Svolta, e molti lo stanno già facendo. Secondo Korten, la scelta è tra quello che egli chiama «Impero», ossia l’attuale sistema globale di dominio (Macy e Brown lo definiscono «Società industriale della crescita»), e la comunità della Terra, che è invece l’ordine basato sui principi di una comunità sostenibile che si prende cura della casa: un’autentica oikonomia. Si può schematizzare il contrasto tra gli assunti e i valori dei due sistemi alternativi come segue:

Al fine di elaborare una piattaforma, una visione alternativa su cui fondare un’autentica oikonomia, si può visualizzare la nostra economia in modo nuovo usando un diagramma a torta (di seguito, adattato da Henderson, 1996). A differenza della moderna patologia economica, che mette al di sopra di tutto l’”ipereconomia” finanziaria tralasciando sia le economie non umane che quelle di sussistenza, questo modello riconosce il ruolo preminente dell’economia non umana. Subito dopo vengono le attività umane che sono a sostegno della vita, come l’assistenza all’infanzia e l’agricoltura di sussistenza (perlopiù svolte dalle donne, senza retribuzione): esse sono considerate il fondamento delle altre attività economiche. Poi viene il contributo del settore pubblico e dell’economia sociale, tra cui le attività svolte da organizzazioni popolari e non governative. Infine, il settore privato (cooperative, piccole imprese e solo dopo le aziende più grosse) e il settore finanziario (una vera e propria “ciliegina sulla torta”, concepita per essere utile agli altri livelli, non essenziale in sé).

Il principio alla base di questo modello è sovvertire completamente l’economia attuale: non più un’economia finanziaria e corporativa che succhia la vita ai livelli sottostanti, ma una finanza e un’impresa al servizio dell’intera comunità. La comunità umana, da parte sua, riconosce di dipendere dalla comunità della Terra e dà la priorità all’ecosistema in quanto fondamento della vita e di tutte le attività umane. In tale contesto, il valore economico va calcolato in base a quanto un’attività promuove relazioni sane ed è a sostegno della vita, non in base al profitto monetario da essa generato. A livello pratico, ci sono diverse politiche che possono indirizzarci verso questa oikonomia rinnovata. La patologia moderna perpetua se stessa premiando le attività più dannose e al • Correggere gli indicatori economici allineandoli all’Indice di progresso effettivo sopra citato, cosicché il consumo del capitale naturale sia visto come un costo invece che come un introito. Usare l’indice alternativo per riconoscere il valore delle attività umane non monetarie e il contributo degli ecosistemi al mantenimento della vita. • Tassare meno il lavoro e il reddito e di più il throughput di risorse. Attualmente sono i lavoratori a sopportare il peso maggiore del carico fiscale. Le imposte “verdi” potrebbero costituire

un’alternativa molto più fruttuosa. Si dovrebbero tassare l’energia, il consumo idrico a livello industriale, l’inquinamento, i pesticidi e il confezionamento, che produce molti rifiuti, per promuovere l’efficienza e ridurre la produzione nociva. Contemporaneamente si dovrebbero concedere incentivi alle energie alternative, ai trasporti pubblici, all’agricoltura biologica e alle tecnologie efficienti per promuoverne l’utilizzo. Poi una piccola tassa sulle transazioni finanziarie (chiamata “Tobin Tax” dal nome dell’economista che per primo avanzò la proposta) ridurrebbe notevolmente le attività speculative e creerebbe dei fondi da utilizzare per la riduzione della povertà, per la cancellazione del debito e per il ripristino ecologico. • Cancellare i debiti delle nazioni più povere e trovare un modo per ridurre gradualmente e poi eliminare quelli dei paesi cosiddetti “a reddito medio”. Come abbiamo visto, il debito e i programmi di aggiustamento strutturale che lo accompagnano sono meccanismi cruciali del malsviluppo. Molti dei debiti in questione sono già stati appianati più volte (e tanti erano ingiusti e illegittimi fin dall’inizio). Stornare il denaro dalle spese militari oppure istituire una tassa sulle transazioni finanziarie sarebbe probabilmente più che sufficiente per alleggerire i poveri dell’onere debitorio. • Adottare una serie di misure per arginare il potere corporativo: proibire le donazioni ai partiti politici; porre fine all’artificio giuridico secondo cui le corporation sono “persone” dotate di diritti come la libertà di espressione e di partecipazione politica; fare in modo che gli azionisti siano giuridicamente responsabili per i danni provocati dalle società, così da incoraggiare investimenti etici; elaborare delle disposizioni che revochino lo statuto societario a quelle compagnie che violano ripetutamente le leggi anti-inquinamento, danneggiano i dipendenti o commettono reati. Non mancano certo le buone idee per elaborare politiche e tecnologie che contribuiscano a creare un futuro sostenibile ed equo. Né mancano le risorse economiche. Come scrive Paul Hawken:

Gli Stati Uniti e l’ex Unione Sovietica hanno speso più di 10 trilioni di dollari per la guerra fredda, una cifra sufficiente a ricostruire tutte le infrastrutture del mondo, ogni singola scuola, ospedale, strada, edificio o azienda agricola. In parole povere, abbiamo comprato e venduto il mondo intero al solo scopo di annientare una corrente politica. Affermare adesso che non ci sono le risorse per fondare un’economia rigenerativa è davvero paradossale, soprattutto perché le minacce con cui abbiamo a che fare oggi sono reali, mentre nello stallo nucleare post guerra fredda il rischio di devastazione era una mera possibilità. (1993)

Cosa occorre dunque perché la Grande Svolta diventi realtà? In che modo possiamo progredire verso la totale liberazione dell’umanità e della Terra? Rendersi conto che questo stato di cose non è inevitabile, ed è anzi irrazionale e patologico, è già un passo avanti. Il prossimo passo da fare è individuare l’origine di alcune convinzioni, atteggiamenti, modi di vedere e di agire su cui si fonda il sistema attuale. 11 Ci sono molti modi per definire la patologia sistemica che affligge il pianeta. In questo libro usiamo perlopiù il termine “dis-ordine” per indicare un sistema, un “ordine” fondamentalmente patologico: in sostanza, un sistema che ricorda da vicino una malattia simile al cancro. Altri, come David Korten e alcune associazioni ecumeniche, definiscono tale dis-ordine “Impero”. Secondo Korten, ad esempio, l’Impero prevede «un ordine gerarchizzato delle relazioni umane, fondato sul principio dell’egemonia. L’Impero approva i surplus di beni materiali delle classi dirigenti, celebra il potere dominatore della morte e della violenza, misconosce il principio femminile e reprime la realizzazione delle potenzialità dell’umanità matura» (2006). Analogamente, l’Alleanza mondiale delle Chiese riformate (WARC, World Alliance of Reformed Churches) definisce l’Impero «il punto di convergenza di interessi, sistemi e network economici, politici, culturali, geografici e militari che mirano a controllare il potere politico e la ricchezza economica. Di norma esso condiziona e indirizza il flusso di ricchezze e di potere dalle persone, le comunità e le nazioni più vulnerabili verso quelle più potenti. L’Impero travalica ogni confine, distrugge e ricostruisce identità, sovverte culture, subordina nazioni e Stati e marginalizza oppure coopta comunità religiose». Un vantaggio del termine Impero è che ricollega immediatamente l’attuale sistema a un modello sociale, cominciato circa cinquemila anni fa, che prevede l’uso della forza militare. D’altra parte, la forma moderna di Impero ha caratteristiche uniche che questa parola non può evocare: in particolare, la vorace devastazione dei sistemi viventi della Terra. Un terzo modo, complementare a questi, di chiamare questa patologia sistemica è “Società industriale della crescita”. Tale espressione è stata coniata dall’ecofilosofo Sigmund Kvaloy e serve a evidenziare la dipendenza del sistema dal consumo sempre maggiore di risorse, come pure una mentalità che considera la Terra «un deposito di risorse e una discarica» (Macy-Brown, 1998). In definitiva, le tre definizioni sono valide, utili e tra loro complementari, e sono usate

in diversi punti del volume, insieme ad altre come “capitalismo corporativo globale”. 12 Gran parte delle cifre contenute in questo capitolo è presa da Brown, Flavin e Postel, 1991 e da Sale, 1985, con degli aggiornamenti attinti dal volume Vital Signs 2006-2007 del Worldwatch Institute e dal libro di Suzuki e McConnell The Sacred Balance: Rediscovering Our Place in Nature (1997), oltre che da fonti aggiuntive come la FAO. 13 Secondo alcune stime, la media si attesta addirittura intorno ai 3,1 ettari. Si veda: http://www.nationmaster.com/graph/env_eco_foo-environment-ecological-footprint. 14 Un indicatore precedente, un po’ diverso, è il prodotto nazionale lordo (PNL). Presenta in sostanza gli stessi limiti del PIL. 15 Un esempio illuminante di come tali pegni si possano accumulare in proporzioni assurde attraverso la crescita esponenziale si trova in un articolo scritto dal ricercatore venezuelano Luis Britto García (1990): nel pezzo l’autore finge che un capo indigeno guatemalteco scriva una lettera ai leader d’Europa. Nella lettera si evidenzia che, se l’Europa dovesse ripagare a «tassi di mercato» il «prestito amichevole» di 185.000 chili di oro e di 16 milioni di chili d’argento forniti dalle Americhe più di trecento anni fa, l’Europa dovrebbe dare «185.000 chili di oro e 15 milioni di chili d’argento elevati a una potenza di 300. Equivarrebbe a un numero a trecento cifre, e a un peso che supera di gran lunga quello del pianeta Terra». L’esponente di 300 è, evidentemente, un’esagerazione, ma è vero che a un tasso d’interesse del 13,5 per cento la quantità di oro e argento necessaria per restituire il prestito dopo trecento anni supererebbe il peso della Terra. 16 Fortunatamente, dopo una battaglia legale, il brevetto sul neem è stato rigettato e quello sul riso basmati soggetto a diverse restrizioni. È andata così anche grazie al grande clamore suscitato dalla vicenda. Purtroppo, di solito, le richieste di brevetto non arrivano mai all’attenzione dell’opinione pubblica.

3. Oltre il dominio Il Tao del Cielo è come un arco: abbassa ciò che è in alto, solleva ciò che è in basso. Prende da chi ha troppo, dà a chi ha troppo poco. La via degli umani è all’opposto: usano il potere per prendere da quel che è [consumato, da quelli che hanno poco, e dare a quelli che hanno molto. Il saggio che segue il Tao continua a dare, perché reca frutti senza sforzo. Agisce senza aspettative, ha successo senza prendersi meriti, non deve dimostrare il suo valore a nessun altro. TAO TE CHING §77 Chi guida gli altri in armonia con il Tao non usa la forza per soggiogare, non domina il mondo con la forza delle armi. Per ogni forza c’è una forza contraria. La violenza, anche se ben intenzionata, sempre rimbalza su se stessa. TAO TE CHING §30 Com’è potuto nascere un sistema tanto irrazionale e distruttivo come l’attuale dis-ordine patologico? Secondo l’ecopsicologo Theodore Roszak, le crisi ecologiche e sociali che si verificano oggi devono essere considerate «qualcosa di più che una serie casuale di sbagli, di errori di valutazione e di false partenze a cui si può porre rimedio con un po’ di competenza in più nei posti giusti». Come si è detto, sono i valori, le convinzioni e le opinioni al centro dei sistemi di

dominio a essere distorti, e alimentano una violenza che mette a repentaglio la vita. Per questo «serve innanzitutto una sensibilità radicalmente diversa, un’integrità mentale completamente nuova che [...] sovverta dalle fondamenta i principi della vita industriale» e della globalizzazione corporativa (Roszak, 1992). In questo capitolo esamineremo la prospettiva dell’ecologia profonda e dell’ecofemminismo, in quanto strumenti per mettere in discussione la logica sottesa a quella che potremmo definire “l’ideologia del dominio”. A partire da quella prospettiva, ripercorreremo poi la genesi storica di questa ideologia ed esamineremo il modo in cui si è concretizzata nell’attuale capitalismo globale. Infine, useremo questi nuovi spunti per analizzare e rivedere il concetto di potere.

L’ecologia profonda Come molte altre filosofie ecologiche, l’ecologia profonda si occupa della devastazione in atto ai danni della biosfera terrestre e dei modi per rigenerare i sistemi viventi. Ma è ben altra cosa rispetto ad alcune forme “superficiali” di pensiero ecologico che consigliano di salvare “l’ambiente” solo perché serve all’umanità. Dal punto di vista dell’ecologia profonda, le altre specie e gli altri ecosistemi hanno un valore intrinseco che non deriva dalla loro utilità o dal valore estetico per gli esseri umani. Al contrario, secondo l’ecologia profonda molte versioni dell’ambientalismo sono antropocentriche perché continuano a vedere il mondo come se gli uomini fossero la misura di tutti i valori, l’apice nella gerarchia della creazione. Nelle parole dello psicologo Warwick Fox, «chi si occupa di questioni ambientali perpetua di solito, seppur inconsapevolmente, il pregiudizio arrogante secondo cui noi uomini occupiamo il centro del dramma cosmico e, insomma, il mondo è fatto per noi» (1990). L’ecologia profonda, invece, contesta il concetto di “ambiente” separato dal genere umano. L’umanità è considerata parte del mondo naturale, una parte della grande “rete della vita”. Ciò vale sia a livello

fisico sia a livello spirituale o psichico. Nel momento in cui avveleniamo l’aria, l’acqua e il terreno, avveleniamo noi stessi. Nel momento in cui degradiamo la bellezza e la diversità della comunità planetaria, degradiamo anche la nostra umanità. Come scrive Wendell Berry, «il mondo che ci circonda, che è intorno a noi, è anche dentro di noi. Noi siamo fatti di quel mondo: lo mangiamo, lo beviamo, lo respiriamo, è sangue del nostro sangue e carne della nostra carne» (citato in Hawken, 1993). L’ecologia profonda punta a superare l’approccio sintomatico di certe versioni dell’ambientalismo per scovare le radici profonde della crisi ecologica: «L’ecologia profonda sa che soltanto con una radicale rivoluzione della coscienza si potrà veramente preservare i sistemi che alimentano la vita sul nostro pianeta» (Seed et al., 1988). Rivoluzionare la coscienza Qual è dunque la natura di questa “rivoluzione della coscienza”? Secondo Arne Naess (1912-2009), che per primo avanzò l’idea dell’ecologia profonda nel 1973, i suoi due elementi caratterizzanti sono l’autorealizzazione e l’uguaglianza biocentrica17. L’autorealizzazione presuppone che gli uomini siano intimamente connessi con l’intera ecosfera. Gli esseri umani non sono al di là o al di sopra della rete della vita. Tutti gli organismi, compreso l’uomo, sono «nodi in una rete o campo biosferico di relazioni intrinseche» (Arne Naess citato in Roszak, 1992). L’autorealizzazione scaturisce quindi dall’empatia e dalla compassione che ci connettono con tutte le creature viventi. Nelle parole di Naess: «Con la maturità, gli esseri umani proveranno gioia quando anche le altre forme di vita la proveranno, e proveranno dolore quando le altre forme di vita lo proveranno» (citato in Kheel, 1990). Grazie a questa profonda interconnessione, siamo arricchiti dalla diversità e dalla molteplicità delle specie e degli ecosistemi terrestri: L’autorealizzazione che sperimentiamo identificandoci con l’universo è intensificata dall’aumento delle modalità in cui si realizzano gli individui, le società e

anche le forme di vita e le specie. Maggiore è la diversità, tanto più grande sarà l’autorealizzazione [...]. Molti ecologisti profondi hanno avuto la sensazione – di solito, ma non sempre, quando si trovano a contatto con la natura – di essere legati a qualcosa più grande del loro ego, più grande del loro nome, della loro famiglia, delle particolari individualità [...]. Senza questa identificazione non si viene coinvolti nell’ecologia profonda. (Devall-Sessions, 1985 [1989, p. 83])

L’uguaglianza biocentrica deriva da un’analoga visione del mondo. Ogni essere vivente e ogni ecosistema ha il diritto intrinseco di esistere, e questo diritto non dipende dalla maggiore o minore utilità al genere umano. Naturalmente, un organismo può aver bisogno di eliminarne un altro per sopravvivere, ma nessun organismo (nemmeno l’essere umano) ha il diritto di uccidere senza motivo e nessun organismo ha il diritto di annientare un’intera specie. Gli uomini possono uccidere per soddisfare dei bisogni primari – e possono prendere dalla Terra il necessario per conservare la salute e la dignità –, ma non hanno il diritto di distruggere la biodiversità per accumulare capitali e ricchezze, né per produrre beni di lusso non necessari. Ciò significa che gli esseri umani devono abbandonare la sete di dominio, sulle altre specie come sugli altri uomini: La consapevolezza ecologica e l’ecologia profonda sono in netto contrasto con l’ideologia dominante delle società industrial-tecnocratiche che considerano l’uomo isolato e fondamentalmente separato dal resto della natura, superiore ad essa e designato a esercitarne il controllo. Questa immagine dell’uomo rispetto alla natura rientra in più ampi modelli culturali. Per migliaia di anni l’idea di dominio ha progressivamente ossessionato la cultura occidentale: il dominio degli uomini sulla natura non umana, dell’uomo sulla donna, dei ricchi e dei potenti sui poveri, dell’Occidente sulle culture non occidentali. La consapevolezza dell’ecologia profonda ci mette in condizione di smascherare queste illusioni pericolose ed errate. (Devall-Sessions, 1985 [1989, p. 74])

Critica all’antropocentrismo Dal punto di vista dell’ecologia profonda, l’atteggiamento alla base della crisi ecologica è l’antropocentrismo, ossia la convinzione che solo gli esseri umani abbiano un valore intrinseco. Il resto ha un valore relativo, importante solo nella misura in cui serve agli interessi umani.

L’antropocentrismo ci separa dal resto della comunità terrestre e ci fa ritenere al di sopra delle altre creature. Riduciamo la sfera della vita – la biosfera – a un ambiente separato da noi. Al centro della nostra antiecologica teoria e prassi economica vi è appunto l’antropocentrismo. È il linguaggio stesso – con espressioni come “materie prime”, “risorse naturali”, o anche “preoccupazione per l’ambiente” – a tradirci, evidenziando la percezione secondo cui il mondo non umano sarebbe al servizio e a disposizione dell’umanità. La maggior parte di noi non ha mai messo veramente in discussione questa logica. Sembra scontato considerare l’umanità come qualcosa di superiore o separato dal resto della comunità terrestre. Pensiamo di avere il diritto di sfruttare la Terra, anche se questo danneggia o annienta le altre specie. Alcuni sostengono che possiamo essere antropocentrici e allo stesso tempo salvaguardare le altre forme di vita; anzi, è ovvio che per poter preservare la specie umana bisogna proteggere almeno una parte della natura. Ma sorge spontanea una domanda: quanta natura deve essere preservata, e quali specie possiamo permetterci di perdere? È un ragionamento che porta su una “brutta china”, rischiando di distruggere l’umanità insieme con altri membri della comunità terrestre. Peraltro, quel tanto che basta per la sopravvivenza dell’uomo potrebbe non essere sufficiente per alimentare l’amore, la bellezza e lo spirito. Secondo lo storico culturale ed ecologo (o “geologo”) Thomas Berry (1914-2009), l’evoluzione umana si sarebbe potuta verificare solo in un pianeta bello come il nostro. La bellezza della Terra è dunque essenziale per preservare ciò che c’è di più prezioso nell’umanità. Forse anche alcune di queste argomentazioni possono sembrare antropocentriche. D’altra parte, dire che gli esseri umani hanno bisogno delle altre specie, nel senso più ampio del termine, significa ammettere che siamo interconnessi con tutte le forme di vita. In definitiva però, come spiega Warwick Fox (1990), l’antropocentrismo è

irrazionale e limitante perché: 1. Non è coerente con la realtà scientifica. Né il nostro pianeta né l’umanità si possono considerare il centro dell’universo. La biosfera terrestre costituisce un tutto dinamico in cui gli esseri umani sono interdipendenti con tutte le altre specie. Né ci possiamo ritenere i sovrani della creazione: l’evoluzione è una realtà ramificata, non una piramide gerarchica. 2. I comportamenti che esso ha generato si sono rivelati disastrosi: ci hanno fatto distruggere intere specie ed ecosistemi a ritmi vertiginosi sin dai tempi della catastrofe cosmica che provocò la scomparsa dei dinosauri. 3. Non è una posizione logica, poiché non esiste alcuna divisione netta tra noi e le altre specie, né da un punto di vista evolutivo né da un punto di vista fisico. Persino il nostro corpo è una comunità simbiotica: è composto quasi per la metà di altri organismi come i lieviti e gli enterobatteri dell’intestino, che ci aiutano a metabolizzare il cibo e a produrre vitamine essenziali. 4. è moralmente opinabile perché non si accorda con un atteggiamento aperto verso l’esperienza. In sostanza è una posizione egoistica che ci intrappola in un inganno, rendendoci ciechi alla verità. Se l’antropocentrismo può sembrare “naturale”, esso però nega la visione ecologica secondo cui gli esseri umani sono profondamente legati all’intera rete della vita e da essa dipendono. Non possiamo esistere senza la Terra: facciamo parte di un tutto più grande. Non esiste un “ambiente” al di fuori di noi. Scambiamo continuamente materia con il mondo circostante, immettendovi ossigeno, acqua e sostanze nutritive che prima facevano parte di altre creature. Tutte le forme viventi del pianeta condividono lo stesso meccanismo di codificazione genetica. Gli altri esseri viventi sono nostri “parenti”. Siamo dunque chiamati ad abbandonare la prospettiva antropocentrica per abbracciarne una “biocentrica” o “ecocentrica”. L’antropocentrismo è invece una mentalità essenzialmente egocentrica.

Abbiamo il dovere di migliorare l’empatia con le creature viventi e persino con il terreno, con l’aria e l’acqua, che pure fanno parte di noi. Un’alternativa antropoarmonica Stephen Scharper (1997) propone un’alternativa alla mentalità antropocentrica: la mentalità “antropoarmonica”. Invece di “conquistare la natura”, gli esseri umani devono svilupparsi e progredire in armonia con l’ecosfera. Con questo non si vuole negare che l’umanità sia in qualche modo unica: al contrario, dovremmo onorare questa unicità riconoscendo la nostra interdipendenza con le altre creature. Né significa che gli uomini non possono in nessun caso uccidere altre forme di vita: non c’è modo di sopravvivere senza consumare altri organismi. Vivere secondo l’etica antropoarmonica significa invece sviluppare profondi rispetto e amore per la vita nel suo complesso; significa smettere di dominare, manipolare, divorare e inquinare la Terra come se fosse di nostra proprietà; significa consumare solo ciò che è necessario per una vita dignitosa e sana (ponendo così fine all’accumulazione illimitata). Arne Naess afferma che l’ecologia profonda ci richiama in ultima analisi a riflettere su ciò che significa essere umani. Non si tratta di negare la nostra identità – il nostro ruolo straordinario nella costante evoluzione della Terra – ma piuttosto di inquadrarla nel contesto più ampio del “Sé ecologico”. Questo cambio di prospettiva deve andare oltre la mera accettazione intellettuale, per permeare ogni aspetto del nostro essere e delle nostre azioni. In particolare, l’ecologia profonda richiama gli uomini a mettere da parte la brama di possesso, di consumo e di dominio, perché questo cammino non potrà mai portare all’autentica realizzazione dell’umanità. Al contrario, dobbiamo cercare la sicurezza, l’amore e la comunità nell’armonia con l’intera ecosfera. La conversione a una nuova etica è una sfida molto impegnativa, ma è l’unica che possa garantire all’umanità uno stile di vita davvero appagante.

L’ecofemminismo L’ecofemminismo approfondisce la critica che l’ecologia profonda muove all’ambientalismo e integra l’analisi esaminando anche le ingiustizie fra esseri umani. Si può intendere l’ecofemminismo come una sintesi tra la visione del femminismo e quella dell’ecologia profonda, sebbene il risultato sia più radicale (nel senso di andare alla radice delle cose) e più ampio della semplice somma delle parti. Il femminismo è un movimento variegato e multiforme che sfugge a una definizione univoca. In questa sede, lo possiamo intendere come una critica profonda del patriarcato, laddove con questo termine si intende il sistema di dominio degli uomini sulle donne. Le forme più radicali di femminismo, tuttavia, individuano anche un legame causale tra dominio e sfruttamento di genere e tutte le altre forme di oppressione, ad esempio quelle basate sul ceto, la razza, l’etnia e l’orientamento sessuale. Il patriarcato ha dunque un significato molto ampio. Il femminismo radicale non è tanto la ricerca dell’uguaglianza tra uomini e donne all’interno del dis-ordine dominante (che in ogni caso non sarebbe realizzabile): è piuttosto la critica di tutti i sistemi che perpetuano l’oppressione e lo sfruttamento. Vandana Shiva (1989 [2002]) afferma che il femminismo è in ultima analisi una filosofia e un movimento transgender. Esso ritiene che la mascolinità e la femminilità siano delle costruzioni sociali e ideologiche e che il principio femminile della creatività sia incarnato non solo nelle donne ma anche negli uomini e nella natura. Per combattere il patriarcato occorre recuperare questo principio, ma ciò richiede una nuova apertura mentale da parte delle donne, chiamate a essere produttive e attive, e degli uomini, chiamati a propendere per attività che promuovono la vita. Se sono state le donne le capofila del movimento femminista – com’è giusto che sia, dal momento che la liberazione di norma parte dalle categorie oppresse –, anche gli uomini devono assumere una posizione attiva a favore del

femminismo e della lotta contro il sistema patriarcale. Il femminismo è probabilmente uno dei movimenti più importanti e originali di tutti i tempi. Fritjof Capra (1982 [1990]) afferma che fino a poco tempo fa il patriarcato era così radicato e inveterato da non essere mai stato messo in discussione. Questa realtà ha plasmato tutte le relazioni umane e il nostro rapporto con il mondo. Oggi, il movimento femminista è invece diventato una delle correnti culturali più potenti della nostra epoca: ha ormai varcato i confini e le barriere di classe ed è diventato davvero globale. Il legame tra patriarcato e antropocentrismo Proprio in quanto sintesi di femminismo ed ecologia profonda, l’ecofemminismo postula un legame dinamico anche tra patriarcato e antropocentrismo. Dalla prospettiva ecofemminista, non è una coincidenza se il pensiero patriarcale occidentale identifica le donne con la natura: questa costruzione sociale è servita per sfruttarle e dominarle entrambe, perché entrambe sono rappresentate come inferiori agli uomini. Scrive Vandana Shiva: «Le metafore e i concetti privi del principio femminile si sono fondati su una visione della donna e della natura come entità senza valore e passive, e dunque, alla fin fine, non indispensabili» (1989 [2002, p. 222]). Le donne e la natura sono ritenute passive, mentre gli uomini sono visti come esseri razionali, forti e non emotivi. Nella società patriarcale, il ruolo maschile così com’è stato costruito a livello sociale è considerato superiore, mentre la natura e le donne sono viste sostanzialmente come oggetti da sfruttare. Per questo gli ecofemministi sostengono che è giusto parlare di androcentrismo più che di antropocentrismo. Charlene Spretnak afferma: La moderna società tecnocratica è alimentata dall’ossessione patriarcale per il dominio e il controllo. Essa nutre un ethos manageriale che pone al di sopra di tutto l’efficienza della produzione e il guadagno immediato: al di sopra dei principi etici e morali, al di sopra della salute della comunità vivente, al di sopra dell’integrità dei processi biologici, soprattutto di quelli che costituiscono il principale potere femminile. Gli esperti che guidano la nostra società cercano un rifugio dalla paura

della natura, con cui essi non sono in comunione e con cui non hanno un rapporto profondo [...] Secondo gli ecofemministi, questo sistema ci sta portando all’ecocidio e al suicidio della specie perché si basa sull’ignoranza, la paura, l’inganno e l’avidità. Secondo noi le persone, uomini o donne che siano, irretite dai valori di questo sistema non sono in grado di prendere decisioni razionali. (1990)

Per l’ecofemminismo, dunque, la chiave per conquistare la liberazione delle donne e della comunità terrestre è smantellare le fondamenta del patriarcato e dell’androcentrismo, ponendo fine a tutte le forme di dominio, a cominciare dal controllo maschile sulle donne e sul mondo non umano. Per raggiungere l’obiettivo, il movimento punta ad affermare il valore intrinseco della natura e a «restituire valore alla cultura e alle attività delle donne» (T. Berman, 1993). Allargare il campo di analisi Nell’ottica dell’ecofemminismo la stessa logica usata per soggiogare le donne e la natura viene applicata, con qualche piccola variazione, per giustificare l’oppressione razziale e sociale e quella legata all’orientamento sessuale. Come le donne e la natura sono considerate deboli, passive e inferiori, così i “non bianchi” sono dipinti come più vicini al mondo animale e meno “civilizzati” dei “bianchi”. Analogamente, la classe lavoratrice è considerata più vicina agli istinti animali “elementari” e dipinta come “proletari” che si accoppiano facilmente. I gay sono condannati perché assumono atteggiamenti “effeminati”, mentre le donne omosessuali sono esecrate perché usurpano ruoli maschili. In tutti i casi, funziona la logica della mente dominatrice e patriarcale. L’ecofemminismo allarga quindi la prospettiva dell’ecologia profonda istituendo un legame tra tutti i sistemi di dominio e controllo. Allo stesso tempo vuole superare l’idea un po’ astratta, cara ad alcuni ecologi profondi, di una generica identificazione con la natura. Gli ecofemministi ritengono che un legame emotivo con luoghi e persone reali sia indispensabile per convincersi a lottare per

la giustizia e l’armonia ecologica. Dobbiamo ancorarci all’esperienza reale – non identificarci con una mera astrazione – se vogliamo aprirci a quello stupore, a quella meraviglia e a quella empatia che ci possono nutrire: «Il pericolo di un’astratta identificazione con il “tutto” è che non si riesca a riconoscere e a rispettare l’esistenza di esseri viventi, autonomi. [...] La consapevolezza profonda, olistica dell’interconnessione tra tutte le forme di vita deve essere coscienza vissuta, che esperiamo nella relazione con specifici esseri viventi così come nella relazione con il tutto» (Kheel, 1990).

Le origini del patriarcato e dell’antropocentrismo La prospettiva ecofemminista può fornire alcuni spunti per capire come mai l’avidità, lo sfruttamento e il dominio siano arrivati a esercitare un’influenza così forte sui sistemi economici, politici e culturali che oggi governano le società umane. In particolare, ci aiuta a comprendere in che modo le convinzioni, le opinioni e i “valori” tipici dell’attuale dis-ordine globale sono generati dalle dinamiche del patriarcato e dell’antropocentrismo (o androcentrismo). È utile a questo punto ripercorrere le origini storiche e l’evoluzione del patriarcato e dell’antropocentrismo. Così facendo, si sveleranno i processi da cui sono scaturite queste costruzioni sociali e si troveranno gli spunti per creare alternative giuste, eque e sostenibili che le rimpiazzino. In numerose culture indigene, antiche e moderne, si è notata una notevole parità tra i sessi, associata a una relazione armoniosa con la natura. In queste culture il lavoro è spesso suddiviso in base al sesso, ma questo non indica necessariamente un rapporto tra i sessi fondato sullo sfruttamento. Anzi anticamente, prima dell’invenzione dell’agricoltura estensiva e della domesticazione degli animali, le civiltà umane erano abbastanza egualitarie e molte anche matricentriche: le divinità principali erano femminili e le donne godevano di grande prestigio sociale. Moltissime tribù di cacciatoriraccoglitori, le società neolitiche dell’Europa antica e dell’Anatolia e le

culture

andine matricentrico18.

sembrerebbero

conformarsi

a

questo

schema

Le origini del patriarcato Con ogni probabilità il patriarcato prese piede in Europa e nel Medio Oriente intorno al 5000 avanti Cristo. In Asia centrale sarebbe emerso ancor prima, mentre in molte altre zone del pianeta sarebbe nato dopo, talvolta sotto la spinta delle invasioni e del colonialismo (vi sono tuttavia alcune culture, come quella balinese e quella dei Khoisan del deserto del Kalahari, nell’Africa meridionale, che hanno mantenuto uno schema di relazioni maschio-femmina improntato all’eguaglianza fino ai nostri giorni). Maria Mies (1986) ipotizza che il patriarcato abbia fatto breccia per la prima volta tra i nomadi dediti alla pastorizia: quando cominciarono a osservare e a comprendere i processi riproduttivi degli animali, gli uomini si resero conto del loro ruolo generativo. Ciò modificò il loro rapporto con la natura e portò a una nuova suddivisione del lavoro in base al sesso. Nelle società nomadi delle regioni aride, il tradizionale ruolo femminile di procacciatrice di cibo divenne secondario. Per questo le donne furono relegate a un ruolo subordinato, addette alla cura dei figli. Cominciò così a evolvere un nuovo metodo di produzione, basato sulla coercizione, il controllo e la manipolazione. Nelle società agricole, il patriarcato potrebbe essere nato con l’invenzione dell’aratro. Rosemary Radford Ruether scrive: «L’aratro fu lo strumento della dominazione maschile sugli animali e la terra. Insieme alla spada, questi strumenti vennero a costituire i mezzi per la sottomissione maschile di altri uomini e, infine, delle loro donne» (1992 [1995, p. 233]). Ken Wilber (1996) da parte sua evidenzia che l’uso dell’aratro richiede una grande forza fisica. Le donne incinte che tentano di usare l’aratro spesso abortiscono, dunque è opportuno evitare questo tipo di

lavoro. Con l’introduzione dell’aratro, le attività agricole passano dalle donne agli uomini: questi ultimi vanno così assumendosi il compito di produrre il cibo, mentre le donne sono sempre più relegate a ruoli domestici. Non solo: l’aratro contribuisce a generare eccedenze di cibo, e ciò consente agli uomini di svolgere attività che vanno al di là delle incombenze necessarie al sostentamento quotidiano, mentre le donne rimangono sostanzialmente legate alla riproduzione e alla cura della casa. Nel tempo, queste dinamiche hanno portato all’allontanamento pressoché totale delle donne dalla sfera pubblica. Wilber afferma che invece nelle società orticole (con un’agricoltura basata sulla zappa o sul bastone da scavo), in cui le donne producono circa l’80 per cento del cibo, esistono relazioni paritarie tra uomini e donne (sebbene i ruoli siano differenziati) e molte divinità importanti sono femminili. Al contrario, oltre il 90 per cento delle società agrarie (quelle in cui si usa l’aratro) è a predominio maschile, e le divinità principali sono tendenzialmente uomini. La produzione predatoria Fin dal Neolitico, i progressi dell’agricoltura consentirono ai villaggi di produrre eccedenze e di accumulare la ricchezza nel tempo. Mies osserva che fu questo a rendere economicamente vantaggiosa la guerra per la prima volta nella storia: era più facile accaparrarsi con la forza la produzione degli altri che produrre per conto proprio. Nacque così la “produzione predatoria” (in sostanza, una produzione non-produttiva!), attraverso la conquista e il saccheggio. Si costruirono mura attorno ai villaggi e si svilupparono le “arti” della guerra. Gli uomini cominciarono ad acquisire il monopolio delle armi (probabilmente per la loro stazza più grande e perché non erano vincolati alla cura dei figli) e questo portò a una nuova concentrazione del potere e del prestigio in mano maschile, e dunque all’evoluzione del patriarcato. Mies scrive che «la relazione tra i sessi fondata sullo sfruttamento e il dominio» e la «asimmetrica suddivisione del lavoro

tra uomini e donne» furono in definitiva «create e manipolate» dalla violenza e dalla coercizione permesse dal monopolio maschile sulle armi (1986). Con lo sviluppo delle società agrarie, questo processo accelerò. Si accumulavano maggiori ricchezze, e sempre più uomini erano affrancati dalla produzione di cibo. Se da un lato ciò rese possibile la nascita della scrittura, dell’astronomia, della metallurgia e della matematica, dall’altro liberò forza lavoro da usare per formare gruppi specializzati nella guerra. Per la prima volta emersero eserciti professionisti, e persino intere classi guerriere. Con il tempo, l’aumento della popolazione nelle città-Stato fece emergere la competizione per accaparrarsi le sempre più carenti ricchezze naturali: terreni fertili, acqua per l’irrigazione, metalli preziosi e così via. Con la guerra nacque anche la prassi di catturare gli schiavi. Attraverso questo complesso processo, le società furono sempre più suddivise secondo criteri di classe, genere e razza. Mies scrive che «il metodo predatorio di appropriazione» divenne infine il «paradigma di tutte le relazioni tra gli esseri umani fondate sullo sfruttamento» e, potremmo aggiungere, tra gli uomini e l’intera comunità terrestre. In questo processo, alcuni gruppi umani (e la Terra) cominciarono a essere considerati delle mere “risorse naturali” da usare per l’arricchimento di altri. Lo sfruttamento generato dalla “produzione predatoria” non si limitava alla «appropriazione unilaterale delle eccedenze prodotte molto al di sopra dei bisogni primari di una comunità», ma andava ben oltre: era «la rapina, il saccheggio e la razzia dei bisogni primari di altre comunità. Questo concetto di sfruttamento, dunque, implica sempre una relazione nata e tenuta in piedi dalla coercizione e dalla violenza» (1986). L’ascesa dell’antropocentrismo Le stesse dinamiche che progressivamente aumentarono il potere del patriarcato contribuirono anche all’ascesa dell’antropocentrismo. In molte società di cacciatori-raccoglitori, la relazione tra esseri umani

e mondo non umano è intima e diretta. Si assiste, ovviamente, a un certo timore nei confronti della natura, ma in generale non esiste una rigida separazione tra gli uomini e il resto della comunità vivente. Neanche il metodo di produzione presuppone il controllo sulla natura, bensì piuttosto l’armonia con essa. Quando le società sviluppano l’orticoltura, si introduce un elemento di controllo, ma si tratta di un cambiamento relativamente marginale. Si continua a vivere in comunione con la Terra, e l’intervento umano è ancora minimo. Nelle società nomadi dedite alla pastorizia, la domesticazione degli animali conduce forse a un maggior controllo e dominio. Questi aumentano nelle società agrarie, in cui si usa il lavoro degli animali per arare, e ancor di più quando nascono i primi progetti di irrigazione estensiva. Con l’evoluzione delle città e delle città-Stato in società agrarie, lo spostamento verso l’antropocentrismo si accentua ulteriormente. Una separazione psicologica dalla comunità non umana era cominciata già all’epoca dei villaggi neolitici, specie una volta che furono costruite mura e fortificazioni, ma fu con la genesi delle città che questo processo accelerò rapidamente. Una città è una creazione umana: un habitat artificiale in cui la natura è tenuta sotto controllo e le costruzioni dell’essere umano acquistano sempre maggior preminenza. Duane Elgin (1993) osserva che le culture delle città-Stato erano molto più gerarchiche rispetto ai piccoli villaggi. La società si divide sempre di più in classi e caste, con una precisa suddivisione del lavoro tra governanti, sacerdoti, guerrieri, artigiani e mercanti. Allo stesso tempo, le città-Stato contribuiscono allo sviluppo dei metodi «predatori» di acquisizione, essendoci molta più ricchezza da difendere e tecniche belliche sempre più sofisticate. Si assiste inoltre a un cambiamento nella psicologia sociale, con la misurazione e l’accumulazione della ricchezza e la nascita di una nuova visione del mondo fondata sulla «sistemazione matematica dei cieli». Le divinità

si spostano dalla terra al cielo, il che potrebbe simboleggiare il distacco dell’umanità da una relazione diretta con il mondo naturale. Durante questo processo, si fa strada a un certo punto l’idea della proprietà privata. Con l’espandersi delle città-Stato e la divisione della società in classi, grandi distese di terra sono riservate, come fonte di ricchezza, ai settori più potenti della società (sovrani, sacerdoti ecc.). Queste proprietà sono spesso coltivate anche grazie al lavoro degli schiavi. Si riducono dunque le terre comuni dei villaggi e le classi contadine ne sono impoverite. La terra comincia a essere considerata una proprietà personale invece che un patrimonio comune da condividere (per quanto nell’antichità questo cambiamento non fu totale, e anzi le terre comuni resistettero in molte culture fino all’epoca moderna). Questo processo è il segno di un mutamento importante della sensibilità: la terra viene vista come una risorsa, come una proprietà privata nelle mani degli esseri umani, spesso uomini. Fino a quel momento era stata percepita come qualcosa che non poteva essere posseduto ma solo condiviso, come accade ancora oggi in molte culture indigene. La terra non apparteneva agli esseri umani: piuttosto, erano gli esseri umani che appartenevano a essa e, per estensione, al pianeta Terra. L’ascesa della cultura delle città-Stato fu spesso accompagnata da pratiche ecologicamente distruttive. Nel volume The Story of Wood and Civilization (2005), John Perlin collega la deforestazione delle antiche culture della Mesopotamia, di Creta, della Grecia e di Roma al declino della loro civiltà. Analogamente, molti imputano l’abbandono delle città nella giungla dei Maya alle ripercussioni ecologiche della deforestazione, spesso esito di un’eccessiva domanda di legname da costruzione (che serviva, tra le altre cose, per la fabbricazione di imbarcazioni) o di legna per alimentare le fornaci e la lavorazione dei metalli. In altre epoche, la deforestazione servì a liberare le terre per destinarle all’agricoltura. In entrambi i casi, il disboscamento era legato a una nuova visione del mondo che autorizzava il dominio e lo

sfruttamento delle “risorse”, umane e naturali, per accumulare ricchezza. Alcune implicazioni per il presente Cosa possiamo imparare da questa storia? Certamente l’evoluzione del patriarcato e dell’antropocentrismo è complessa, ma è evidente che tutte le forme di dominio, di oppressione e di sfruttamento hanno un’origine comune. Bisogna però andare oltre il resoconto storico e cercare di discernere i processi psicologici in gioco. Rosemary Radford Ruether (1992 [1995]) suggerisce ad esempio che le prime culture matricentriche contenessero già i semi della loro distruzione. A differenza di quello femminile, legato per natura alla riproduzione e alla conservazione della vita, il ruolo maschile ha bisogno di essere costruito socialmente. Nelle società di cacciatori-raccoglitori presenti intorno alla fine dell’era glaciale, i cacciatori maschi avevano ancora un ruolo cruciale nella produzione di cibo, per via della presenza di grossi mammiferi da cacciare. Il ruolo del maschio cacciatore, socialmente costruito, aveva ancora grande rilevanza e dava agli uomini la certezza del proprio contributo alla società. Con la fine dell’era glaciale, la caccia gradualmente divenne meno importante e crebbe il ruolo delle donne, in quanto erano loro le principali raccoglitrici. Nell’era neolitica le donne erano spesso le principali produttrici di cibo, oltre che le figure genitoriali preminenti. È possibile che in questo tipo di società – ad esempio quelle dell’Europa antica e dell’Anatolia – gli uomini non siano riusciti a sviluppare un ruolo sufficientemente assertivo e rilevante, dando così la stura al risentimento maschile per il prestigio intrinseco delle donne. Come evidenziano Mary Gomes e Allen Kanner (1995), il dominio potrebbe essere un modo per negare la dipendenza. Fu in questo contesto che gli uomini cominciarono a definire la propria mascolinità in funzione ostile alla donna, gettando così le basi del patriarcato. Fino a quando questo risentimento latente non sarà risolto, è improbabile che si possa

superare il sistema patriarcale nella sua forma attuale. Ruether suggerisce che un’implicazione concreta di questa analisi dovrebbe essere l’elaborazione di nuove forme di parità tra i generi che passino dalla dipendenza all’interdipendenza. Priorità assoluta della società moderna è soprattutto la costruzione di una nuova figura maschile che sia completamente coinvolta nel ruolo genitoriale e nel lavoro domestico così necessario alla vita. In generale, il ruolo dei due sessi deve diventare più fluido e flessibile, consentendo a entrambi di partecipare ad attività che generano la vita anziché distruggerla. L’autrice indica nella società balinese tradizionale un esempio di come si possa raggiungere una relazione stabile tra i sessi non improntata allo sfruttamento. Il dominio come meccanismo di negazione della dipendenza, enucleato da Gomes e Kanner, richiama peraltro la relazione degli esseri umani con l’intera comunità terrestre. L’uomo tende a dominare la Terra e le creature viventi nel tentativo di negare la dipendenza dalla grande rete della vita: «Noi che apparteniamo alla civiltà urbana-industriale abbiamo incentrato la nostra identità di specie sulla rinuncia a questa verità. L’uomo dipende in tutto e per tutto dall’ospitalità della Terra, e ciò costituisce una minaccia per l’io separativo» (Gomes-Kanner, 1995). Questo processo pare dunque essersi avviato molto tempo fa con l’avvento delle culture agrarie e delle città-Stato, ma l’alienazione si è acuita con lo sviluppo delle società industriali.

Il capitalismo globale: un sistema androcentrico Dalla prospettiva ecofemminista, il capitalismo moderno rappresenta il sistema patriarcale e antropocentrico più sofisticato e sfruttatore. Il capitalismo globale corporativo, come tutti i sistemi di dominio imperiale che lo hanno preceduto, ha come suo fondamento una «relazione oggettuale, estrattiva, non reciproca con la natura, che si stabilisce tra gli uomini e le donne e tra gli uomini e la natura» (Mies, 1986). Come abbiamo già evidenziato a proposito della

patologia della crescita illimitata e del malsviluppo, l’attuale sistema economico occulta il contributo dell’economia non umana (spesso femminile, in particolare il lavoro non retribuito). Fulcro delle società industriali della crescita edificate dal capitalismo corporativo è la distruzione della ricchezza naturale della Terra per un’artificiosa e illusoria accumulazione di capitale. Allo stesso tempo, come già emerso dall’analisi sul dominio corporativo e sulla speculazione finanziaria, «coloro che controllano il processo di produzione e i prodotti non sono essi stessi produttori, bensì accaparratori» (Mies, 1986). Sono quindi i «mezzi di produzione predatori» il cuore del capitalismo. La nascita del capitalismo Secondo il pensiero ecofemminista, le origini del capitalismo sono da ricollegarsi a numerosi processi storici: l’espansione del colonialismo e della schiavitù, la persecuzione delle donne durante la grande caccia alle streghe in Europa e lo sviluppo della moderna scienza e della tecnologia che ha portato alla rivoluzione industriale. Questi processi combinati tra loro hanno sovvertito l’immagine della natura: da Madre Terra a macchina inanimata al servizio del bisogno “maschile” di un serbatoio di materie prime e di un deposito per le scorie. Parallelamente sono sorti nuovi e più sofisticati tipi di patriarcato tesi ad assoggettare le donne a nuove forme di sfruttamento. Molti storici sostengono che l’”accumulazione originaria” del capitale, che avrebbe gettato le basi del capitalismo, fu possibile solo grazie alla violenta usurpazione delle ricchezze delle colonie europee che si trovavano nelle Americhe, in particolare l’oro, l’argento e i prodotti agricoli delle colonie spagnole e portoghesi. Nella già citata finta lettera di Guaicaipuro Cuauhtémoc ai leader europei si parla ironicamente del «primo di numerosi prestiti amichevoli concessi dall’America per lo sviluppo dell’Europa», ossia i 185.000 chili di oro e i 16 milioni di chili d’argento spediti da Sanlúcar de Barrameda tra il

1503 e il 1660 (Britto García, 1990). La verità è che quelle ricchezze furono acquisite a prezzo di lacrime e sangue, oltre che della vita di centinaia di migliaia di indigeni che lavoravano nelle tante miniere sparse in America latina. Per rimpinguare quella manodopera milioni di africani furono prelevati a forza dalle loro case, privati della libertà e portati come schiavi nelle Americhe. Molti altri furono ridotti in schiavitù per lavorare nelle piantagioni, garantendo così preziosi prodotti da esportare in Europa. Spagna e Portogallo non usarono questa ricchezza per finanziare il proprio sviluppo industriale ma per creare un bacino di ricchezza e una domanda di beni di lusso che gettarono le basi dell’espansione industriale dell’Europa nordoccidentale. Più o meno nello stesso periodo, soprattutto tra la metà del XV e la metà del XVIII secolo, dilagò in Europa la grande persecuzione delle “streghe”, nota anche come “il tempo dei roghi”. In base alle stime, l’80-90 per cento delle vittime erano donne e morirono in tutto circa due milioni di persone, con modalità spesso brutali. La maggior parte delle donne ammazzate, quasi tutte povere, praticava forme tradizionali di guarigione e di ostetricia. Pur avendo avuto avvio in seno all’Inquisizione cattolica (espandendosi anche in America Latina), la persecuzione delle streghe prese piede ben presto anche nell’Europa protestante (e, più tardi, nel New England). Il tempo dei roghi può essere interpretato come una manifestazione della paura per il potere delle donne e per il potere della natura, visto che bersaglio principale erano le donne che praticavano forme di guarigione tradizionali (pratiche che richiedevano la conoscenza delle erbe e dei luoghi selvatici in cui si potevano raccogliere). Non a caso in inglese la parola witch, ‘strega’, deriva da wita, che significa ‘il sapiente’. Le “streghe” erano dunque coloro che possedevano una forma di sapienza legata alla natura. Mies (1986) evidenzia che la caccia alle streghe rappresentò anche l’assalto alla sessualità delle donne e al controllo femminile sulla

fertilità (di qui la persecuzione delle ostetriche). Più in generale essa servì a tenere lontane le donne dalla sfera pubblica: a causa di quella persecuzione, persero il lavoro di artigiane e le loro proprietà furono confiscate. A livello psicologico, il trauma collettivo scaturito da una persecuzione tanto massiccia e terrificante dev’essere stato enorme. Sicuramente le donne si resero conto che il modo migliore per difendersi era tenersi quanto più possibile in disparte e mostrarsi mogli docili e obbedienti e figlie totalmente dedite alla cerchia familiare. È interessante notare la coincidenza temporale tra la caccia alle streghe e la prima ondata del colonialismo europeo. Mies ritiene che non si tratti di un caso: Il corrispettivo europeo della tratta di schiavi in Africa fu la caccia alle streghe. [...] Come il processo di “naturalizzazione” delle colonie si basò sull’uso massiccio della violenza e della coercizione, così il processo di addomesticamento delle donne europee non fu affatto pacifico o idilliaco. Le donne di certo non consegnarono volontariamente il proprio controllo sulla produttività, sulla sessualità o sulle capacità generatrici ai mariti e ai “Grandi Capi” (la Chiesa, lo Stato). (1986)

Il terzo processo storico avviatosi all’incirca nello stesso periodo fu la rivoluzione scientifica. Se ne parlerà più diffusamente in seguito; basti qui rilevare che essa influenzò profondamente la visione del mondo degli europei, in particolare delle élite intellettuali e politiche. La Terra non fu più considerata terra mater, e il terreno, le foreste e tutti gli esseri viventi furono trasformati in una macchina inanimata e in una fonte inesauribile di “materie prime” al servizio dell’uomo. Questo mutamento, come spiega Vandana Shiva, rimosse «ogni ostacolo etico e gnoseologico alla violazione e allo sfruttamento» (1989 [2002, p. 6]). Anche le donne (come pure i popoli indigeni) – ritenute più vicine alla natura e quindi meno razionali e di minor valore – divennero esseri di poco superiori a strumenti “al servizio dell’uomo”. Dalla prospettiva ecofemminista, la scienza moderna è un progetto palesemente patriarcale in quanto favorisce nuove forme di

assoggettamento e di sfruttamento. Essa dà infatti la stura al malsviluppo (nato con il colonialismo e perpetuato nelle forme moderne di dominio economico) perché si fonda su modelli di percezione riduzionisti (che tentano cioè di comprendere il tutto scomponendolo in piccole parti), dualistici (una cosa dev’essere in un modo oppure in un altro, non entrambi) e lineari (relazioni dirette di causa ed effetto). Secondo Shiva, questi schemi dominanti di percezione non possono competere con l’uguaglianza nella diversità, con forme e attività che sono significative e valide, pur se differenti. Il pensiero riduzionista sovrappone i ruoli e le forme di potere dei concetti occidentali orientati in senso maschile alle donne, a tutti i popoli non occidentali e anche alla natura, rendendoli tutti «carenti» e bisognosi di «sviluppo». La diversità, e l’unità e l’armonia nella diversità, diventano epistemologicamente irraggiungibili in questo contesto di malsviluppo, che quindi diventa sinonimo di sottosviluppo per le donne (aumentando così la discriminazione sessista) e di sfruttamento per la natura (accentuando la crisi ecologica). (1989 [2002, p. 16])

Shiva ritiene che questo modo di pensare e la rivoluzione industriale che esso ha ispirato abbiano in definitiva trasformato l’economia da avveduta gestione delle risorse finalizzate alla sussistenza e alla soddisfazione dei bisogni fondamentali a processo di produzione di manufatti per la massimizzazione dei profitti. L’«industrialismo» ha creato un appetito di risorse naturali che non conosce limiti e la scienza moderna, dal canto suo, ha fornito l’autorizzazione etica e conoscitiva che ha reso un tale sfruttamento possibile, accettabile e persino desiderabile. Il nuovo rapporto di dominio e signoria dell’uomo sulla natura è stato di conseguenza associato a nuovi modelli di dominio e supremazia sulle donne, che sono state escluse da qualunque partecipazione «alla pari» sia nella scienza sia nello sviluppo. (1989 [2002, p. 6])

Capitalismo e sfruttamento Il capitalismo nacque dunque nello stesso periodo in cui l’androcentrismo andava radicandosi nella coscienza degli intellettuali e delle classi dirigenti d’Europa. L’“uomo”, definito come entità razionale e autonoma («Penso, dunque sono»), era considerato il vertice di una gerarchia alla cui base c’era il “selvaggio”, ossia la

natura non addomesticata, e al centro le donne, i popoli indigeni, le persone di colore e i contadini. Il patriarcato, inteso qui come sistema unitario di dominio e sfruttamento, fu la base sulla quale si sarebbe edificato il capitalismo. Anche Maria Mies è dell’idea che non possa esistere capitalismo senza patriarcato. L’accumulazione capitalistica si basa sull’appropriazione della ricchezza prodotta dalla natura, dalle donne e dai poveri di tutto il mondo (specialmente i popoli non europei). In altre parole, il suo fulcro è il metodo “predatorio” (o parassitario) di produzione, giustificato e alimentato dal patriarcato. Il capitalismo poggia sul lavoro non retribuito delle donne, sul saccheggio delle risorse del pianeta e sul lavoro sottopagato delle classi e delle razze sfruttate. Questa illimitata accumulazione di capitale inanimato succhia la vita alla Terra e alle sue creature. Senza contare che coloro che controllano e traggono profitto dalla produzione non sono essi stessi produttori bensì usurpatori. Questo è particolarmente evidente nel caso della moderna “economia finanziaria”. Come tutte le forme di produzione predatoria, il capitalismo ha bisogno della violenza. Talvolta essa è diretta e prevede l’uso o la minaccia delle armi. Per tutta l’epoca coloniale e fino a oggi, si è ricorsi alla “diplomazia delle cannoniere” per preservare il dis-ordine globale (come testimoniano le due guerre in Iraq, in cui milioni di persone innocenti sono stati uccisi per garantire le forniture petrolifere all’Occidente). Oggi ancor più diffuso è invece l’uso di meccanismi repressivi all’interno delle diverse nazioni. I governi che impongono i diktat dei programmi di aggiustamento strutturale, ad esempio, lanciano soldati e polizia contro il loro stesso popolo per sopprimere le legittime proteste. La forma più pervasiva di violenza esercitata dal capitalismo, tuttavia, è la violenza strutturale rappresentata dalla coercizione economica. Il debito e i SAP sono già un ottimo esempio di tale coercizione, imposta su interi popoli e nazioni. Più in generale però il

capitalismo usa l’iniqua suddivisione del lavoro come sistema per appropriarsi della ricchezza. I lavoratori retribuiti sono pagati meno del valore che essi creano, consentendo così l’accumulazione di capitale, ma persino maggiore è lo sfruttamento delle donne e degli ecosistemi, perché il loro contributo all’economia semplicemente non è riconosciuto (è reso invisibile, ad esempio, da indicatori come il PIL). Il mancato riconoscimento di attività così necessarie alla vita non è solo una svista: si basa su una divisione di genere del lavoro che attribuisce più valore al lavoro “umano” (perlopiù maschile) rispetto alle attività “naturali” (tra cui la produzione di sussistenza, il lavoro domestico e tutti i “doni” della comunità terrestre). Il lavoro non retribuito, svolto in larga misura dalle donne, è considerato meno prezioso, pur essendo indispensabile per la conservazione e la produzione della vita19. Né si tiene conto dei servizi resi a tutti da una comunità biotica, ad esempio una foresta, in termini di produzione di ossigeno, di purificazione e conservazione dell’acqua e di formazione di terreni sani. Eppure «questa produzione di vita è da sempre condizione necessaria per tutte le forme di lavoro produttivo, comprese quelle che sottostanno alle regole dell’accumulazione capitalistica» (Mies, 1986). Queste modalità di lavoro tanto misconosciute costituiscono invece la fonte primaria della vera ricchezza, e il loro sfruttamento è alla base del metodo parassitario e predatorio di produzione su cui si fonda il capitalismo moderno. Se il marxismo vede nello sfruttamento del lavoro retribuito la fonte primaria dell’accumulazione di capitale, l’analisi ecofemminista si spinge oltre affermando che il capitalismo poggia tanto sullo sfruttamento dei lavoratori salariati quanto sull’ipersfruttamento delle donne e dell’intera comunità terrestre. Conclude Mies: L’oppressione delle donne è ormai parte integrante delle relazioni di produzione patriarcali e capitaliste (o socialiste), del paradigma della crescita illimitata, delle sempre maggiori forze di produzione, dello sfruttamento illimitato della natura, della produzione illimitata di merci, dei mercati in perenne espansione e dell’infinita accumulazione di capitale morto. [...] Le donne, che tanto devono lottare per

riconquistare la loro umanità, non hanno nulla da guadagnare dalla perpetuazione [del paradigma dell’infinita accumulazione di capitale e della ‘crescita’ illimitata]. [...] è palese ormai che il processo stesso di accumulazione distrugge il fulcro dell’essenza umana in qualsiasi angolo del pianeta, perché si basa sull’annullamento dell’autarchia delle donne [la capacità di esercitare il controllo] sulla propria vita e sul proprio corpo. Proprio perché le donne non hanno nulla da guadagnare, quanto a umanità, dalla perpetuazione di questo modello di crescita, esse possono sviluppare una visione della società che non sia più basata sullo sfruttamento della natura, delle donne e degli altri popoli. (1986)

Non è possibile quindi per le donne eliminare lo sfruttamento e l’oppressione se domina il paradigma economico attuale, come è impossibile salvaguardare l’integrità della comunità terrestre. Dal punto di vista ecofemminista, serve una battaglia a trecentosessanta gradi per modificare le relazioni tra uomini e donne, tra esseri umani e natura, tra Nord e Sud. Oltre il capitalismo: le alternative ecofemministe Quale alternativa può elaborare l’ecofemminismo per rimpiazzare il sistema del capitalismo globale e corporativo? Al posto della produzione predatoria fondata sullo sfruttamento, l’ecofemminismo immagina una nuova economia tesa alla produzione e alla conservazione della vita. Per eliminare lo sfruttamento, le relazioni economiche devono essere reciproche e non gerarchiche, sia tra le persone sia tra gli esseri umani e la natura. Si rigetta la separazione dualistica e soggiogante tra uomini e donne e tra umanità e natura, così come quella basata sul ceto e sulla razza. Allo stesso tempo, la fede nella crescita e nel progresso infiniti è considerata una pericolosa illusione che genera disuguaglianza e devastazione. La Terra è accettata nella sua finitezza, e l’umanità deve sforzarsi di vivere in armonia con essa (Mies, 1986). Di cruciale importanza in questa nuova visione è il modo di concepire il lavoro. Scopo della fatica umana non è più la crescita, nel senso di espansione quantitativa ai fini dell’accumulazione, ma piuttosto il miglioramento dei processi vitali e la felicità degli esseri

umani. Il lavoro non è più solo un peso da sopportare, bensì un’unione armonica di piacere e fatica, che pure è necessaria. Da questa prospettiva acquista particolare valore il lavoro che prevede un contatto diretto, sensuale con la natura. C’è ancora posto per le macchine e la tecnologia, ma il loro fine non è più quello di isolarci dalla materia organica, dagli organismi viventi o dal mondo materiale. Il lavoro deve innanzitutto avere uno scopo, dev’essere utile e necessario alla produzione di vita e alla sua conservazione. Ciò comporta anche una nuova concezione del tempo in base alla quale non esiste una rigida separazione tra lavoro e gioco, ma un’alternanza da noi decisa liberamente. I processi di produzione e consumo devono essere riunificati e le comunità locali a livello regionale devono sviluppare un’economia autosufficiente: ciò che la comunità produce deve anche essere da essa consumato. La nuova tipologia di lavoro non potrà però esistere fino a quando non sarà eliminata la suddivisione sessista dei compiti. Secondo Mies, la modifica dell’attuale suddivisione del lavoro dev’essere il cardine del processo di formazione di una nuova economia: Qualsiasi ricerca di autarchia [autosufficienza] ecologica, economica e politica deve partire dal rispetto per l’autonomia del corpo delle donne, per la loro capacità produttiva di creare nuova vita e darle sostentamento attraverso il lavoro, per la loro sessualità. Per superare l’attuale suddivisione sessista del lavoro occorrerebbe innanzitutto che la violenza che contraddistingue ovunque le relazioni capitalisticopatriarcali tra uomo e donna fosse eliminata non dalle donne, ma dagli uomini. (1986)

Rosemary Radford Ruether (1992) si spinge oltre, non limitandosi a segnalare l’esigenza di una revisione della suddivisione di genere del lavoro, ma del ruolo dei sessi in generale. Le donne devono potenziare l’autonomia e l’individualità nella loro vita, non attraverso la sopraffazione (l’affermazione di sé a spese degli altri) bensì armonizzando il loro essere “persone per gli altri” con l’essere “persone per se stesse”, il tutto all’interno di una comunità a sostegno

della vita. Ruether concorda con Mies sul fatto che debba trasformarsi innanzitutto lo stile di vita degli uomini: «I maschi devono superare l’illusione e l’individualismo autonomo, con la sua estensione nel potere egocentrico sugli altri, a cominciare dalle donne con le quali sono in relazione» (Ruether, 1992 [1995, p. 375]). Il modo migliore per farlo, suggerisce l’autrice, è che gli uomini instaurino con le donne relazioni autenticamente vitali, assumendosi parte dei loro compiti come la cura dei figli, il bucato, la cucina, il vestiario, le pulizie: Solo quando gli uomini saranno pienamente integrati nella cultura della quotidiana conservazione della vita, uomini e donne potranno cominciare a riplasmare insieme i grandi sistemi della vita economica, sociale e politica. Potranno cominciare ad avere di mira una nuova coscienza culturale e nuove strutture organizzative che connettano questi sistemi più grandi alle loro radici nella terra e alla conservazione della terra di giorno in giorno e di generazione in generazione. (1992 [1995, p. 375])

Alla trasformazione del lavoro e del ruolo dei sessi si deve accompagnare un cambiamento profondo nella percezione della realtà. Vandana Shiva evidenzia che la versione maschile della «razionalità» che domina l’Occidente moderno è in realtà un «fascio di irrazionalità che minacciano la sopravvivenza dell’umanità». Dobbiamo invece riscoprire il principio femminile del «rispetto per la vita nella natura e nella società. Questo consentirà alla fine a tutti i popoli – del Nord e del Sud – di orientarsi verso un nuovo modo di pensare e di essere nel mondo» (1989 [2002, p. 222]). Quando si mina il principio femminile nella donna e nella natura, lo si può distorcere fino a farlo diventare un principio di passività. Negli uomini lo stesso processo porta a una deriva «del concetto di attività, da creazione a distruzione, e del concetto di potere da legittimazione a sopraffazione». Quando il principio femminile muore contemporaneamente negli uomini, nelle donne e nella natura, «la violenza e l’aggressività diventano il modello maschile di attività, e la donna e la natura vengono trasformate in oggetti passivi della

violenza» (Shiva, 1989 [2002, p. 65]). Per invertire questo processo, lo studioso junghiano Gareth Hill invoca il recupero del “femminile dinamico” nella società umana. In questo caso il “femminile” non si riferisce alle sole donne, ma a un insieme di valori e di tratti distintivi che sono stati sistematicamente respinti dal patriarcato. Il femminile dinamico va oltre l’immagine statica della nutrizione e delle cure materne, sebbene indubbiamente racchiuda anche qualità come la compassione e il desiderio di conservare la vita. Esso contiene anche un’essenza giocosa, vitale. È allo stesso tempo attivo e ricettivo, flessibile e persistente. Ricorda la parte del Tao Te Ching (§78, S. Mitchell) in cui si parla della forza dell’acqua: Nulla al mondo è morbido e flessibile come l’acqua. Eppure nulla quanto lei dissolve ciò che è duro e inflessibile. Il morbido dissolve il duro; il leggero supera il rigido. Tutti sanno che è vero, pochi lo mettono in pratica.

Il femminile dinamico è anche creativo, perché è in grado di far erompere dalla prevedibilità un elemento di caos e di sorpresa. È agli antipodi del paradigma di dominio e controllo (Gomes-Kanner, 1995). L’integrazione del femminile dinamico nella nostra prassi economica, politica e culturale ci aiuterebbe quindi a concepire ed esercitare il potere in modo del tutto nuovo: non come dominio, sfruttamento e controllo ma come qualcosa di positivo e creativo.

Ricostruire il potere Fintanto che il potere sarà inteso come dominio e sfruttamento, il patriarcato continuerà a imperversare, minacciando i sistemi ecologici e sociali che alimentano la vita. Occorrono una teoria e una prassi del potere completamente nuove, così che il principio femminile ne sia rinnovato e rigenerato. La parola “potere” evoca pensieri e immagini anche molto diversi

tra loro. In alcuni ambienti ha ormai assunto una connotazione completamente negativa, come imposizione del volere di un individuo o di un gruppo su un altro. Eppure l’etimo della parola “potere” è il latino posse, ‘essere capace’, un’accezione che si ritrova anche, per esempio, nello spagnolo poder. Il potere è ciò che rende capaci. La radice del termine evoca quindi qualcosa di produttivo e persino creativo, non qualcosa di distruttivo. Ma nelle società patriarcali il potere è sempre stato visto come qualcosa di posseduto da un solo gruppo o individuo a spese di un altro. Si tratta di una concezione profondamente distorta. Michel Foucault afferma che il potere non è statico, né è qualcosa che può essere posseduto. Piuttosto, esso circola attraverso un reticolo di relazioni. Somiglia piuttosto a un insieme di fili che collegano gli esseri viventi: «Il potere non si applica agli individui, ma transita attraverso gli individui» (1980 [1998, p. 33]). Si è già detto che Shiva istituisce un legame tra l’esercizio del potere assertivo maschile e la costruzione sociale della natura e del femminile come realtà passive. Poiché il potere è relazionale, il primo dipende dalle ultime. La sfida è riformulare il potere in modo che non sia più una relazione tra attivo e passivo, oppressore e oppresso, sfruttatore e sfruttato, bensì una relazione fondata sulla reciprocità e la creatività. Per capire come fare, però, è necessario analizzare nel dettaglio il potere. Analisi del potere Nell’opera Truth or Dare (1987), la scrittrice, attivista e psicologa Starhawk delinea tre forme o modalità di base attraverso cui il potere esprime se stesso: il potere-su [«power-over»], il potere-dall’interno [«power-from-within»] e il potere-con [«power-with»]. Il potere-su è quello che limita e controlla. È il modo in cui si concepisce e si esercita di norma il potere nella moderna società patriarcale, ed è radicato nel paradigma meccanicistico dominante di cui si parlerà più diffusamente nel sesto capitolo. Il potere-su tende a

strutturarsi gerarchicamente e opera attraverso sistemi di autorità e di dominio. È la forma di potere che consente al capitalismo patriarcale di accaparrarsi la produzione attraverso lo sfruttamento. Siamo talmente abituati al potere-su e alle sue implicite minacce che esso opera ormai a livello subconscio, come un carceriere insediatosi nella nostra testa. In genere ci accorgiamo del potere-su solo nelle sue manifestazioni più estreme, ad esempio la violenza esplicita. Pur essendo però il potere delle armi e della forza l’esempio più lampante del potere-su, di solito esso agisce attraverso subdoli meccanismi di coercizione, di manipolazione e di controllo indotti dalla paura. Non va dimenticato che a suo modo il potere-su “consente di fare”: «Il potere-su consente a un individuo o a un gruppo di prendere decisioni che riguardano gli altri e di esercitare il controllo» (Starhawk, 1987). Tuttavia la sua essenza è negativa: è il potere usato per reprimere e schiacciare il potere degli altri. Un altro tipo di potere, contrapposto al potere-su, è il cosiddetto “potere-dall’interno”. È quello che alimenta la vita: il potere della creatività, della guarigione e dell’amore. Se ne fa esperienza, in particolare, quando si agisce di concerto con gli altri per opporsi al controllo del potere-su. Il potere-dall’interno è quindi il fulcro di ciò che spesso si definisce con il termine empowerment, e dunque di molti modelli emancipativi di istruzione e di azione politica. Va rilevato che nel Tao si può individuare la forma più pura ed essenziale di tale potere: il potere intrinseco presente al centro stesso del cosmo20. Il potere-dall’interno si ricollega anche al concetto cinese del Te (la seconda parola del Tao Te Ching): il Te è rappresentato da un ideogramma che unisce l’immagine del procedere diritti con quella del cuore (Dreher, 1990). Significa dunque vivere in modo autentico, dal cuore (il centro vitale), conciliando intuito e compassione. Da un’altra prospettiva, il Te è la forza individuale che consente di vedere

con lucidità e di agire con decisione nel posto giusto al momento giusto. Il Te è anche la forza intrinseca dei semi, la forza di venire alla luce. Possiamo dunque interpretare il Te come la forza dell’energia vitale presente in tutti gli esseri, una forza che mette in connessione con la forza cosmica del Tao e la incanala. La terza modalità con cui si esprime il potere è il cosiddetto “potere-con”, ossia il “potere di influenzare” o “potere come processo”. Esso scaturisce dalla disponibilità degli altri ad ascoltare le nostre idee. È il potere-con che ci consente di agire di concerto con gli altri e di associarci in forme autenticamente partecipative. Se il poteresu usa l’autorità garantita dalla posizione per imporre il proprio volere attraverso l’obbedienza, il potere-con confida nel rispetto guadagnato con le azioni: «Il potere-con è più sfumato, fluido e leggero di quello derivante dall’autorità. Si fonda sulla responsabilità individuale, sulla nostra creatività, sul nostro coraggio, e sulla volontà degli altri di darci risposta» (Starhawk, 1987). Secondo Joanna Macy, buddhista, ecologista e pacifista militante, questa forma di potere è una sorta di sinergia basata sull’apertura agli altri: «L’esercizio del potere come processo esige che denunciamo e rigettiamo l’uso della forza in ogni sua forma in quanto ostacola la nostra e l’altrui partecipazione alla vita» (citato in Winter, 1996). Il potere come processo richiede che si coltivi la dote dell’empatia. In attività come l’educazione popolare o l’organizzazione di movimenti di base si usa questa forma di potere. Nella realtà le tre forme di potere coesistono e interagiscono tra loro. Il potere-dall’interno e il potere-con, ad esempio, sono spesso intrecciati (anche se a livello concettuale sono agli antipodi). In fondo, il dominio poggia su una certa dose di creatività, per quanto distorta. Inoltre, capita spesso che una persona imponga le proprie idee e la propria creatività su un’altra, trasformando così il potere-dall’interno in potere-su. Starhawk segnala che, all’interno della cultura dominante, queste due forme di potere non di rado si confondono.

L’influenza può facilmente sfociare nell’autorità, soprattutto perché siamo stati indottrinati a pensare al potere come dominio. L’idea che il potere-con si intrecci spesso con il potere-su e con esso si confonda fu analizzata a fondo dalla filosofa Hannah Arendt. Parlando della violenza, la forma più estrema di potere-su, e del potere di agire di concerto con gli altri (che corrisponde al potere-con di Starhawk), Arendt scrive: Potere [il potere-con] e violenza [il potere-su], per quanto siano fenomeni distinti, in genere appaiono insieme. Dovunque siano combinati, il potere, come abbiamo visto, è il fattore primario e predominante. La situazione tuttavia è completamente diversa quando abbiamo i due elementi allo stato puro [...]. La violenza può sempre distruggere il potere; dalla canna del fucile nasce l’ordine più efficace, che ha come risultato l’obbedienza più immediata e perfetta. Quello che non può mai uscire dalla canna di un fucile è il potere. [...] Politicamente parlando è insufficiente dire che il potere e la violenza non sono la stessa cosa. Il potere e la violenza sono opposti; dove l’una governa in modo assoluto, l’altro è assente. La violenza compare dove il potere è scosso, ma lasciata a se stessa finisce per far scomparire il potere. La violenza può distruggere il potere; è assolutamente incapace di crearlo. (Arendt, 1970 [2001, pp. 56-57 e 61])

In modo simile Starhawk afferma che «i sistemi di dominio distruggono il potere-con, poiché esso può esistere soltanto tra pari e tra coloro che riconoscono di essere tali» (1987). A differenza del potere-su, il potere-con può sempre essere revocato da un gruppo: non invade la libertà dell’altro. Il rapporto tra potere-con e potere-dall’interno è forse più chiaro. In un gruppo in cui le opinioni di ciascuno sono tenute in considerazione (ossia dove vige il potere-con), è più probabile che riusciremo a esprimere e a sviluppare il nostro potere-dall’interno. Allo stesso tempo, man mano che crescono le nostre potenzialità creative e vitalizzanti, aumenteranno anche le probabilità di guadagnarci il rispetto degli altri. Per illustrare il modo in cui interagiscono tra loro i poteri si può usare l’immagine dell’organizzazione reticolare di Michel Foucault a cui si è accennato poc’anzi. Il potere-dall’interno può essere

rappresentato come dei nodi da cui si origina il potere; il potere-con come le linee che uniscono gli individui e i gruppi attraverso l’influenza; il potere-su come le barriere che bloccano le relazioni del potere-con e soffocano l’esercizio del potere-dall’interno.

Trasformare i rapporti di potere Passare dalla riformulazione del concetto di potere alla sua concreta ricostruzione non è compito facile, eppure è un passo che si deve fare. Il metodo predatorio di produzione del patriarcato si regge sull’esercizio del potere-su, il potere del dominio. Se non si può contrastare questa forma di potere, se non si possono coltivare nuove forme che promuovano la vita invece che la morte, allora le chance di trasformare il mondo secondo le direttrici pensate dagli ecofemministi sono davvero poche. È utile a questo punto ricordare che il potere non è statico né quantitativamente prestabilito. La politica della trasformazione tradizionale ha sempre parlato di “presa del potere”. Esiste però un’altra possibilità: creare nuove sorgenti del potere, a partire dai margini. Naturalmente uno scontro con chi detiene il potere-su può diventare inevitabile, ma la priorità è quella di coltivare il poteredall’interno e il potere-con a livello popolare. Il movimento globale della società civile incarnato nelle organizzazioni popolari, come pure in numerose organizzazioni non governative, dimostra che queste

forme di potere sono già in fase di formazione e vengono già coltivate. Un modo per alimentare il potere-con e il potere-dall’interno è dunque quello di dare vita a organizzazioni partecipative caratterizzate da un clima di apertura che faccia sentire i suoi membri liberi di essere se stessi e di esprimersi. Può essere utile a questo scopo ricorrere alla visualizzazione guidata, a tecniche ludiche e a forme creative di espressione. Chi si prefigge di facilitare i processi trasformativi deve anche garantire un senso di sicurezza all’interno del gruppo, per consentire alle persone più inibite o vulnerabili di esprimersi apertamente senza timore. Sarebbe opportuno in taluni contesti fissare alcune “regole di base”. Una seconda strategia per coltivare il potere liberatorio è promuovere la presa di coscienza. Scrive Joanna Macy: «Il “poterecon” richiede attenzione all’ambiente fisico e mentale circostante e prontezza di riflessi nel cogliere le reazioni proprie e altrui. È la capacità di agire in modo da aumentare la partecipazione totale e consapevole alla vita» (1995). E Starhawk: «è dalla consapevolezza che comincia qualsiasi forma di resistenza. Possiamo opporci al dominio solo diventando e rimanendo consapevoli: consapevoli del sé, consapevoli di come è costruita la realtà intorno a noi, consapevoli delle nostre scelte, anche quelle all’apparenza insignificanti, consapevoli del fatto che stiamo facendo una scelta» (1987). Solo all’interno di un gruppo si può sviluppare il potere-con. Per sua natura, questa forma di potere è la più relazionale. Chi partecipa ad attività liberatrici può coltivare il potere-con solo se il gruppo consente una partecipazione autentica e se vi è una reale condivisione della leadership. Scrive Starhawk: «Per poter restituire potere, un movimento non deve soltanto essere strutturato secondo modalità che siano al servizio della liberazione, ma deve conoscere il modo in cui il potere si sposta e circola all’interno di un gruppo» (1987). Le forme liberatrici del potere incarnate dal potere-dall’interno e dal potere-con si coltivano meglio se ci si impegna in interazioni che

producono valore. A tal proposito, Macy parla di «scambi sinergici», i quali producono «qualcosa che prima non c’era e che potenzia le capacità e il benessere di quanti ne sono coinvolti» (1995). In effetti, la parola “sinergia” riassume bene ciò che intendiamo per potere-con. Per ristrutturare il potere all’interno dell’intera società occorrono però delle strategie che vanno ben oltre questi primi passi. Il patriarcato si è sviluppato nell’arco di migliaia di anni, e il capitalismo globale corporativo – la manifestazione più recente di questa mentalità imperiale – tiene stretta nella sua morsa la maggior parte del mondo. Per poter costruire nuove forme di potere e contrastare quelle più antiche, abbiamo bisogno di grandi risorse interiori e di una comprensione profonda dell’essenza della realtà e della trasformazione. Il primo compito è liberarsi dai sortilegi del patriarcato, dell’antropocentrismo e dell’attuale sistema di dominio: dobbiamo destarci dalla paralisi che ci tiene imprigionati all’oppressione, alla disperazione, alla negazione e alla dipendenza. Il cammino per arrivare a questa meta sarà esaminato quando arriveremo alla prossima tappa del nostro viaggio a spirale. 17 Naess (1989 [1994]) enuclea i seguenti principi cardine dell’ecologia profonda: 1) la prosperità della vita umana e non umana sulla Terra ha un valore intrinseco. Il valore delle forme viventi non umane è indipendente dall’utilità che possono avere per i meri scopi umani; 2) la ricchezza e la diversità delle forme viventi sono valori in sé e contribuiscono alla prosperità della vita umana e non umana; 3) gli esseri umani non hanno il diritto di ridurre tale ricchezza e diversità se non per soddisfare bisogni vitali; 4) l’attuale interferenza umana nel mondo non umano è eccessiva e va rapidamente aumentando; 5) la prosperità della vita e delle culture umane è compatibile con un decremento sostanziale della popolazione umana. La prosperità della vita non umana necessita di tale decremento [questo principio sembra basarsi su presupposti un po’ semplicistici: sarebbe forse più opportuno inquadrarlo nell’ambito del decremento del consumo umano, che nel tempo potrebbe richiedere anche una riduzione della popolazione]; 6) perché cambino in modo sostanziale le condizioni di vita occorre un’inversione di rotta delle scelte politiche, che dovrebbero toccare alla radice le strutture economiche, tecnologiche e ideologiche; 7) il cambiamento ideologico fondamentale dev’essere quello di apprezzare la qualità della vita (che alberga in situazioni che hanno un valore intrinseco) invece di anelare a uno standard di vita elevato. Ci si renderà conto allora della profonda differenza tra il tanto e il buono; 8) chi approva questi principi ha il dovere di

partecipare, direttamente o indirettamente, alla missione di mettere in atto i cambiamenti necessari. 18 Occorre precisare che la ricerca di un’idilliaca età dell’oro in cui le relazioni tra uomo e donna erano paritarie, così come è stata presentata da certa letteratura recente, andrebbe tenuta entro gli opportuni confini. Opere come Il calice e la spada (Eisler, 1987 [1996]) hanno romanzato le culture neolitiche dell’Europa antica e dell’Anatolia, come pure la cultura preclassica della Creta minoica, presentandole come società in cui vi era un’armoniosa relazione tra i sessi. Definite matrifocali o matricentriche (invece che matriarcali, che sottintende un dominio femminile) e adoratrici di divinità femminili, queste civiltà ci restituiscono una potente mitologia che rivela la non essenzialità del dominio patriarcale e antropocentrico. Tuttavia, non si può dimostrare con certezza che in queste società prevalessero effettivamente relazioni così armoniose tra i sessi. Ecco perché una certa cautela è opportuna. 19 È tanto più vero oggi alla luce del programmi di aggiustamento strutturale. Le donne spesso accettano lavori non retribuiti per reagire alla crisi economica generata dai SAP. Le mense comuni (comedores populares) dell’America latina, ad esempio, garantiscono un meccanismo di sopravvivenza grazie al quale la popolazione ha di che sfamarsi in un periodo di rialzo dei prezzi e di disoccupazione elevata. Il lavoro non retribuito delle donne sovvenziona di fatto un’intera economia della sopravvivenza. Se ne può dedurre che la restituzione del debito avviene attraverso il lavoro non retribuito delle donne. 20 Anche la parola usata da Gesù in aramaico, hayye, connota questa forma di potere, che si può tradurre in questo caso come “forza vitale” o “energia originaria che pervade il cosmo” (Douglas-Klotz, 1999).

4. Oltre la paralisi Rinnovare la psiche Il saggio desidera la libertà dal desiderio, non si cura delle cose preziose. Il saggio impara a lasciar andare il sapere. Il saggio riporta solo gli altri a ciò che hanno perduto, aiuta tutti gli esseri a trovare la loro vera natura, senza mai osare usare la forza. TAO TE CHING §64 Guarda il mondo come fosse il tuo corpo, ama il mondo come te stesso, e ti sarà consegnata la cura di tutte le cose. TAO TE CHING §13 Comprendere le patologie che minacciano le società umane e la rete della vita è il primo passo verso la liberazione. Una volta smascherati questi disturbi grazie a un’attenta riflessione sulle modalità con cui l’antropocentrismo e il patriarcato influenzano la nostra percezione e plasmano le nostre azioni, cominciamo a scrollarci di dosso la convinzione che la situazione attuale sia inevitabile e immutabile. Ma le patologie che colpiscono il mondo hanno radici profonde anche nella psiche; ecco perché, a un livello più profondo, ci si può comunque sentire incapaci di operare un cambiamento radicale nel nostro modo di vivere e nella convivenza con l’intera comunità terrestre. Se è vero che i sistemi di sfruttamento e la struttura del potere dominante sono ostacoli non da poco alla trasformazione liberatrice, il senso di impotenza può essere un impedimento ancora più grande. Dove affonda le radici la nostra paralisi? Perché ci sentiamo incapaci di agire, o quantomeno di pensare che un’altra strada sia possibile? Cosa intorpidisce e indebolisce il nostro spirito?

L’impotenza può essere definita come quel qualcosa che ci impedisce di realizzare con pienezza sia il potere-dall’interno (la potenzialità creativa su cui deve fondarsi la nostra nuova visione) sia il potere-con (la capacità di agire di concerto con gli altri). Per poter ripensare il potere e riconnetterci a esso, dobbiamo quindi innanzitutto affrontare la realtà dell’impotenza: in quali forme si manifesta? In che modo ci colpisce? Da dove trae origine? Come possiamo superarla? Lo psicologo e rabbino Michael Lerner ha studiato a fondo questo fenomeno. Negli anni Sessanta e Settanta, Lerner militava nel movimento di protesta contro la guerra in Vietnam. Notò allora per la prima volta che le persone che partecipavano alla lotta agivano spesso in modo tale da sabotare i loro stessi obiettivi: per loro l’impotenza era un dato incontrovertibile, e questo li portava a progettare e a intraprendere azioni che finivano col confermare la loro convinzione. Più ancora dell’impotenza strutturale creata dai sistemi dominanti, fu questa impotenza “in eccesso” – o interiorizzata – a rivelarsi fatale per il movimento. Non che Lerner neghi l’esistenza di fonti “esterne” o oggettive di impotenza, ossia gli strumenti con cui le strutture politiche, economiche e sociali impediscono agli esseri umani di mettere in pratica le loro potenzialità e di realizzare il cambiamento. Indubbiamente esistono, ma sono acuite dall’impotenza interiorizzata (in eccesso): «Gli esseri umani contribuiscono all’impotenza in quanto la loro struttura emotiva, intellettuale e spirituale impedisce di concretizzare possibilità che pure esistono» in seno a quella realtà che ha indotto l’impotenza sistemica (Lerner, 1986). Le dinamiche dell’impotenza interiorizzata svolgono un ruolo cruciale nell’inibire oggi un’autentica trasformazione a livello globale. Dobbiamo fare i conti con minacce tra le più gravi nella storia umana, eppure non riusciamo ad agire o agiamo secondo modalità che in definitiva mettono a repentaglio il nostro benessere. Le dinamiche

dell’impotenza interiorizzata sono diventate così forti e pervasive da toccare tutti i settori della società umana. Persino le classi dirigenti agiscono secondo modalità che, pur vantaggiose nel breve termine, in realtà mettono in pericolo il loro futuro e quello dei loro figli. Osserva Lerner: «L’impotenza ci contamina direttamente. Ci cambia, ci trasforma, ci distorce» (1986). La convinzione che le grandi trasformazioni siano impossibili diventa una profezia che si autoavvera. È ovvio che le attuali strutture di potere costituiscono un ostacolo concreto al cambiamento, ma uno degli espedienti con cui lo bloccano è proprio sfruttando e rafforzando il nostro senso di impotenza: Il mondo può essere cambiato. Una delle ragioni principali per cui rimane com’è risiede nella profonda convinzione che nulla possa cambiare né cambierà. Si tratta di un’evoluzione del tutto nuova nella storia. Nelle epoche precedenti, il motivo per cui tutto rimaneva fermo aveva poco a che fare con le opinioni, le convinzioni e la percezione di sé. [...] La novità fondamentale dell’epoca moderna è che le classi dirigenti governano per consenso: sono riuscite a ottenere la partecipazione attiva delle persone su cui governano al processo di tutela dell’ordine stabilito. Siamo diventati i carcerieri di noi stessi. (Lerner 1986, pp. 3-4)

Se riusciremo a guardare in faccia la nostra impotenza interiorizzata, se riusciremo a fuggire dalle prigioni che ci hanno costruito nella psiche, allora ci saranno maggiori chance di cambiare i sistemi politici, culturali ed economici. Come segnala Lerner, per quanto schiacciante possa essere il potere delle strutture di dominio, esse non detengono il potere assoluto. E possono quindi essere detronizzate. Il potere dominatore dell’attuale sistema patriarcale, incarnato nel capitalismo globale corporativo, esiste proprio grazie al modo in cui sfrutta l’impotenza interiorizzata. Vi è quindi un forte legame tra l’impotenza oggettiva prodotta dai sistemi di dominio e la realtà psicologica dell’impotenza interiorizzata. Nei prossimi paragrafi cercheremo innanzitutto di distinguere le diverse forme di impotenza interiorizzata e il modo in cui interagiscono tra loro. Poi esamineremo

le modalità con cui i sistemi di dominio le rafforzano e se ne avvantaggiano per perpetuare e potenziare se stessi. Rifacendoci all’ecopsicologia, approfondiremo quindi la relazione tra il nostro senso di impotenza e l’alienazione dalla comunità terrestre. A partire da questo, esploreremo infine alcune strategie concrete per andare oltre la paralisi e orientarci verso un empowerment e una liberazione autentici.

Le dinamiche dell’impotenza Secondo quanto scrive lo psicologo Roger Walsh (1984 [1991]), il buddhismo classico fornisce un’analisi della patologia individuale e sociale che può aiutare a comprendere le dinamiche dell’impotenza interiorizzata. Tutte le forme patologiche sono suddivise dal buddhismo in tre categorie di “veleni”: avversione, dipendenza, illusione. L’avversione può manifestarsi in diversi modi: elusività compulsiva, rabbia, paura, atteggiamento difensivo, aggressività. Quando assume la forma della paura, l’avversione si concretizza in due modalità tipiche dell’impotenza interiorizzata: la negazione e l’oppressione interiorizzata. La negazione prevale tra quei soggetti che beneficiano delle attuali strutture di potere, i quali temono che riconoscere la realtà della crisi significhi rinunciare alla sicurezza e alla comodità. L’oppressione interiorizzata, al contrario, si riscontra soprattutto in chi subisce gli effetti diretti dell’impotenza strutturale e tenta di difendersi dalle forme più brutali di violenza. Con il termine “dipendenza” ci si riferisce a qualcosa di più ampio delle dipendenze da sostanze come l’alcol e le droghe: nella psicologia buddhista, la dipendenza comprende anche tutte le forme di avidità e di attaccamento. La dipendenza si ricollega all’avversione, in quanto è un altro modo per nascondersi o sfuggire alle proprie paure. Può essere vista anche come un tentativo di riempire il vuoto di una vita vissuta nell’illusione con qualcosa – qualsiasi cosa – che allevi il dolore della mancata speranza. La dipendenza si combina con l’avversione

per annebbiare ulteriormente la nostra percezione, facendoci sprofondare ancora di più nell’illusione. La forma forse più pura di impotenza interiorizzata è l’illusione della disperazione. Cominciamo a percepire il mondo come privo di speranza, il cambiamento come una cosa impossibile. Ci si ritrova talmente ingabbiati nella disperazione da considerare “realistica” questa visione del mondo, e utopica e impraticabile qualsiasi proposta alternativa. Rassegnati a questo triste destino, si cerca magari una falsa via di fuga nelle dipendenze, oppure si esprimono la frustrazione e la rabbia con comportamenti irrazionali e aggressivi. Analizzando queste diverse modalità di impotenza interiorizzata, si comprende che esse tendono a combinarsi e a rafforzarsi reciprocamente, mentre solo di rado si ritrovano in forma isolata. La loro complessa interazione forma una rete aggrovigliata che imprigiona la psiche. Per provare a districarla, occorre innanzitutto esaminare ciascun filo così da far emergere il quadro completo di tutte le possibili interazioni. L’oppressione interiorizzata William Reich sosteneva che la domanda fondamentale della psicologia moderna dovrebbe essere: «Quali sono le forze psicologiche che impediscono alle persone di ribellarsi contro un ordine sociale oppressivo che non le fa essere ciò che potrebbero essere?» (Lerner, 1986). Tale interrogativo si attaglia in particolare a coloro che traggono pochissimi benefici – o addirittura nessuno – dagli attuali sistemi politici, economici e sociali. Perché non si ribellano? La maggior parte dell’umanità deve convivere ogni giorno con pericoli molto concreti. Il mancato soddisfacimento dei bisogni primari, la vulnerabilità a malattie potenzialmente mortali e la minaccia della violenza (sia essa domestica, sociale o politica) rendono la sicurezza una condizione perennemente irraggiungibile. L’esito scontato di questo stato di cose è la paura, la quale sottrae potere alle persone perché le immobilizza e inibisce così l’azione trasformatrice.

Certamente la paura che caratterizza l’oppressione interiorizzata è il prodotto dell’impotenza e dell’oppressione strutturali; eppure è da essa distinta. In un certo senso, è l’impronta psicologica lasciata da una lunga storia di soggiogazione e violenza. Si prendano ad esempio i popoli dell’America latina21. Da secoli hanno sviluppato quella che si potrebbe definire una cultura della sopravvivenza, soprattutto i popoli indigeni. Tale cultura di norma evita lo scontro diretto con le strutture dell’oppressione e dello sfruttamento, preferendo invece (almeno in superficie) assoggettarsi e salvare il salvabile, resistendo alla dominazione con modalità più sottili. Questa strategia probabilmente si è resa necessaria in determinati momenti, e può anche essersi rivelata vincente, ma il prezzo da pagare è stato l’aver interiorizzato l’oppressione. La cultura della sopravvivenza non implica una pura passività rispetto all’oppressione, né vanno sminuite le storiche lotte dei popoli latinoamericani, spesso sfociate in coraggiose forme di ribellione. Ma queste rivolte si sono rivelate nella maggior parte dei casi fallimentari, e ogni volta le si è pagate a caro prezzo. Anzi, a ogni battaglia persa il potere dei dominatori si è rafforzato e la resistenza è diventata “sotterranea”, soprattutto in senso psicologico. Intanto la speranza in un cambiamento reale diminuiva e la disperazione si accumulava. Nell’ultimo secolo qualcosa è cambiato nella storia dell’oppressione, grazie al successo delle lotte per il lavoro, dei movimenti rurali e indigeni, delle organizzazioni popolari e persino delle rivoluzioni, sebbene alcune di queste conquiste si siano rivelate di breve durata. Di recente nel continente latinoamericano sono stati eletti, con il sostegno dei movimenti popolari, numerosi governi progressisti determinati a reindirizzare radicalmente la società (altri, meno radicali, stanno comunque realizzando riforme importanti per migliorare la vita della popolazione povera). Nonostante questi successi, i vecchi schemi di pensiero e di azione sono duri a morire:

l’impronta dei passati fallimenti persiste nell’oppressione interiorizzata. Paulo Freire interpreta tale realtà in questi termini: gli oppressi si sono in qualche modo adattati alla situazione ed è probabile che, pur desiderando una vita migliore per sé e per i propri figli, abbiano al tempo stesso timore della libertà. Hanno timore in particolare di combattere per la liberazione perché questo rappresenta una minaccia concreta alle loro vite: le violente repressioni che si sono succedute nella storia si sono impresse profondamente nella loro psiche. È quindi del tutto naturale che la gente scelga di “distrarsi” da ciò che invece può costituire la chiave per la liberazione. Scrive Freire: La coscienza ingenua [dell’oppresso] non è poi così ingenua: è anche riflessiva. È la coscienza del possibile: più precisamente, è la massima lucidità di coscienza che ci si possa rappresentare senza rischiare di scoprire qualcosa che può essere fortemente destabilizzante. (citato in Torres, 1986)

La «coscienza ingenua» cui fa riferimento Freire è insomma una sorta di illusione creata dalla psiche in risposta alla paura della repressione, della sofferenza e della violenza. Se in passato ha avuto un senso (ed è invero comprensibile anche oggi), tale coscienza impedisce però l’azione trasformatrice e va dunque a svantaggio degli oppressi. Né va trascurato che le dinamiche dell’oppressione interiorizzata svolgono un ruolo cruciale anche nella sottomissione delle donne all’interno della società. I meccanismi di potere all’interno della famiglia, della scuola e della società in generale avviano il processo di interiorizzazione dell’oppressione nelle donne fin dalla tenera età. La costante minaccia della violenza e dell’abuso sessuale sia in casa che fuori contribuisce non poco al senso di insicurezza da cui nasce l’oppressione interiorizzata. Le dinamiche dell’impotenza interiorizzata rafforzano altresì il razzismo, così come l’oppressione derivante dall’orientamento sessuale. Chi lavora a contatto con le fasce più emarginate e soggiogate della

società deve tenere conto dell’oppressione interiorizzata allorché si cimenta in una prassi trasformatrice (ossia in un’azione trasformatrice che combini teoria – o visione – e pratica). Gli educatori e gli attivisti popolari si limitano talvolta ad attività di “coscientizzazione”, le quali però sono spesso inefficaci perché l’oppressione interiorizzata inibisce l’apprendimento e l’azione che ne consegue: “Capire” cosa succede non vuol dire riuscire a cambiarlo. Siamo assillati dalla “sicurezza” del modo in cui abbiamo imparato a essere, la “sicurezza” di ciò che è conosciuto, familiare. [...] Sconvolgere tutto questo terrorizza, soprattutto perché quel modo di essere non ci appartiene in quanto individui, ma è prescritto, imposto a livello sociale. La nostra paura del cambiamento, il senso della minaccia che incombe, è giustificato. (Rockhill, 1992)

Questo pensiero trova un’eco nelle osservazioni di Charlotte Bunch: «L’autocoscienza femminista ci ha aiutato a verbalizzare la nostra oppressione; tuttavia solo di rado ci ha portato ad assumere il controllo della nostra vita e a cambiare le condizioni che provocano quell’oppressione» (1987). Superare l’oppressione interiorizzata, dunque, richiede qualcosa in più dell’essere informati: richiede una prassi liberatoria che ne affronti le cause primarie e le dinamiche che la sottendono. La negazione Come per l’oppressione interiorizzata, fulcro della negazione è l’avversione sotto forma di paura. Per quelli che subiscono direttamente minacce mortali da parte del sistema di dominio la negazione è più difficile: è arduo, anche se non impossibile, dire che tutto va bene quando ogni giorno bisogna lottare per la sopravvivenza o sopportare la violenza (sebbene la negazione possa ancora entrare in gioco nel caso delle minacce ecologiche, se non se ne fa esperienza diretta). La negazione è senza dubbio più profonda e pervasiva tra coloro che traggono qualche beneficio dal sistema. In questi casi si limita a tenere lontani dalla mente certi aspetti della realtà e a rimuovere

determinate informazioni. Se le minacce più gravi alla sopravvivenza di un individuo sono tenute a distanza dall’esperienza immediata nel tempo e nello spazio, il meccanismo di negazione è agevolato. È il caso di molte minacce alla sopravvivenza globale con cui dobbiamo fare i conti oggi. Per chi vive una vita tutto sommato confortevole, il problema della povertà e dell’iniqua distribuzione delle risorse mondiali può essere tenuto lontano dalla mente evitando il contatto con i poveri. Il pensiero dei danni ecologici può essere evitato se i loro effetti non sono troppo visibili. Il pericolo della guerra atomica può anche essere una minaccia reale, ma nella vita di tutti i giorni c’è ben poco a ricordarcelo. Tenere i problemi «lontano dagli occhi, lontano dal cuore» sicuramente favorisce la negazione22. Non v’è dubbio che tutto questo sia favorito anche dal modo in cui i mass media selezionano e diffondono (o bloccano) le informazioni. In sostanza, però, la negazione dipende dai filtri interiori con cui teniamo lontane le informazioni dolorose. La negazione è un meccanismo di difesa talmente efficace che spesso non ci rendiamo neanche conto di adoperarlo. Quando ci si presenta un’informazione che potrebbe far vacillare quella falsa sicurezza che ci siamo costruiti, tendiamo a reagire in diversi modi (Macy, 1995): • Incredulità: tendiamo a ignorare il problema, grazie al fatto che molte situazioni di crisi non sono immediatamente visibili (l’assottigliamento dello strato d’ozono, ad esempio, o l’esaurirsi delle risorse idriche) oppure si sviluppano solo gradualmente (come il riscaldamento globale). • Contestazione: se è impossibile ignorare il problema, tendiamo a contestare i fatti o a dire che la situazione non è poi così grave. Oppure ci rifugiamo nel “tecno-ottimismo”, sostenendo che l’ingegno umano (o la crescita economica!) risolverà magicamente il problema, anche se non si intravede per il momento alcuna soluzione.

• Doppia vita: se è impossibile far finta di nulla o contestare i fatti, ci rifugiamo in una doppia vita, relegando la piena conoscenza della realtà in un angolo buio della mente e fingendo di vivere come se tutto fosse normale. Come afferma Macy, «tendiamo a vivere la nostra vita come se nulla fosse cambiato, pur sapendo che invece tutto è cambiato». Viviamo in una realtà che tutto è fuorché normale. Le minacce presenti sono qualitativamente diverse rispetto a quelle di ogni altra epoca della storia umana. Macy rileva che «fino alla fine del XX secolo, ogni generazione ha vissuto con l’intima certezza che altre generazioni sarebbero seguite» (1995). Quali che fossero le avversità o le minacce alla sopravvivenza individuale, rimaneva l’assoluta certezza che altre generazioni sarebbero venute a calpestare la Terra, almeno finché il Creatore non avesse deciso altrimenti. Quella certezza non c’è più. È questa perdita la «realtà psicologica centrale della nostra epoca». Questa pena genera una paura così forte che è più opportuno chiamarla terrore, o sgomento. Eppure non si parla mai di questa realtà. È troppo doloroso. Ci rifugiamo invece nella negazione: «Quei segnali di pericolo che dovrebbero attirare la nostra attenzione, farci raccogliere le forze e spingerci all’azione collettiva sortiscono invece l’effetto opposto. Ci fanno desiderare di chiudere gli occhi e occuparci di qualche altra cosa» (Macy-Brown, 1998). La paura che questo sgomento scatena in noi è così profonda da sfociare in una sorta di “torpore psichico” con cui tentiamo di preservarci dalla piena esperienza del dolore. Scrive Laura Sewall: «La piena consapevolezza ferisce. [...] In una cultura che può concedersi questo lusso, semplicemente si abbassa il volume» (1995). Tuttavia, innescando la negazione non facciamo entrare neanche la bellezza e la gioia. E autorizziamo noi stessi a perpetuare comportamenti e atteggiamenti che alimentano un sistema distruttivo per la comunità terrestre. La negazione è quindi provocata dalle attuali situazioni di crisi ma è anche ciò che le perpetua.

L’omertà sui nostri sentimenti più profondi riguardo al futuro della nostra specie, il torpore, l’isolamento, il sovraffaticamento e la confusione cognitiva che ne risultano: tutto cospira a creare un senso di inutilità. Ciascun atto di negazione, conscio o inconscio, è una rinuncia alla forza di reagire. (Macy, 1983)

La paura del dolore che è fulcro della negazione è acuita dal fatto che le società occidentali considerano il dolore una disfunzione. Non solo: abbiamo paura di dare angoscia agli altri o di seminare il panico, abbiamo paura di sentirci in colpa perché siamo in parte responsabili dei problemi che ci affliggono, abbiamo paura di apparire stupidi o impotenti (perché non è ammesso sviscerare un problema senza averne la soluzione). Sono paure comprensibili, ma reprimerle comporta un costo concreto ed elevato. Le energie necessarie per ragionare lucidamente e agire in modo creativo finiscono per indebolirsi o dissolversi, e le potenzialità si assottigliano ancora di più. Scrive Roger Walsh: La negazione, la repressione o altre difese vengono sempre fuori a spese della consapevolezza, dell’autenticità e dell’efficacia. Quando neghiamo la realtà neghiamo anche tutta la nostra potenzialità e umanità. Quando operiamo una distorsione della nostra immagine del mondo, distorciamo anche l’immagine di noi stessi. Quindi rimaniamo all’oscuro della forza e delle potenzialità che si trovano dentro di noi e che noi stessi siamo: quella forza e quelle potenzialità sono le maggiori risorse che abbiamo da offrire al mondo. (1984 [1991, p. 158])

Poiché non siamo più in contatto con il nostro potere-dall’interno, la negazione inibisce le potenzialità di un potere-con strutturato, che è invece indispensabile per sfidare i sistemi fondati sul potere-su. Come vedremo più avanti, il torpore psichico indotto dalla negazione blocca anche la bellezza e la compassione, le quali possono invece motivarci e sostenerci nella lotta per la trasformazione. La negazione può anche portare a comportamenti distruttivi come il vandalismo, la violenza o il suicidio, a proiezioni psicologiche che ci spingono a demonizzare gli altri (è il caso del razzismo, del sessismo, dell’intolleranza religiosa ecc.) e a una minore produttività intellettuale e creativa. Altra possibile conseguenza è il rifugiarsi in dipendenze di vario genere per

compensare la vitalità perduta nei meccanismi repressivi di negazione. In ogni caso, negare significa in sostanza vivere una menzogna: negare la verità della nostra situazione. Inevitabilmente si arriva all’illusione, la cui principale manifestazione è oggi la disperazione. La dipendenza La parola “dipendenza” è immediatamente associata all’abuso di qualche sostanza: dipendenza dall’alcol, dal tabacco, dalle droghe. Sicuramente queste ultime sono quelle più diffuse e procurano un danno enorme alla società umana, ma la dipendenza di cui si discute in questa sede ha un’accezione più ampia. Secondo la psicologia buddhista (Walsh, 1984 [1991]), la dipendenza comprende qualsiasi bisogno compulsivo di possedere o di sperimentare qualcosa. È caratterizzata dalla convinzione che «devo avere… per essere felice». Si può essere dipendenti dall’accumulazione di capitale, dai beni materiali, dallo shopping, dal potere, dal lavoro, dai divertimenti, dal cibo o dal sesso. La schiavitù e l’ossessione che caratterizzano le dipendenze restringono drasticamente la prospettiva. Esse si concentrano infatti sull’esperienza immediata, sulla gratificazione momentanea dei desideri. Direttamente o indirettamente, tendono a intorpidirci e a ridurre la nostra consapevolezza. Come spiega Ed Ayres, in questo modo la dipendenza annienta la capacità di immaginare e di essere in empatia con gli altri. «Essere umani significa invece essere capaci di immaginare, di vedere nel senso letterale del termine, di essere in empatia con gli altri così come di ascoltare i propri bisogni» (1999a). La dipendenza è dunque profondamente disumanizzante. Tra le forme di dipendenza più diffuse (e interconnesse) del mondo moderno ci sono quelle dalla crescita economica e dal consumo, come pure quelle, a esse collegate, dalla televisione e dalle tecnologie. A differenza di altre, queste dipendenze sono accettate e anzi incoraggiate dal capitalismo corporativo. Come già osservato, la

“crescita” quantitativa indifferenziata e l’accumulazione di capitale sono considerati gli obiettivi economici prioritari, pur non avendo finora generato un maggiore benessere e avendo al contrario arrecato danni incalcolabili. A livello popolare si incoraggia il consumo come se fosse la chiave per la felicità, e un fiume di spot pubblicitari alimenta questa dipendenza. David Korten afferma: Invece di insegnarci che il cammino verso la soddisfazione è vivere al meglio grazie alla relazione con la famiglia, la comunità, la natura e il cosmo vivente, i media asserviti alle multinazionali non fanno che proporci una falsa promessa: quali che siano i nostri desideri, il mercato è la via per la gratificazione immediata. Il nostro fine è quello di consumare: siamo nati per comprare. Incantati dalle sirene del mercato, sottovalutiamo l’energia vitale che impieghiamo per ottenere denaro e sopravvalutiamo i presunti benefici in termini di energia vitale derivanti dallo spenderlo. (1995)

Così, mentre la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è allettata dal sogno di un paradiso consumistico che non potrà mai raggiungere, una piccola cerchia che invece possiede i mezzi si affanna ad acquisire quanti più beni possibile. Eppure il bisogno di consumare non è mai appagato. Chi vive nelle società consumistiche non è certo più felice oggi rispetto agli anni Cinquanta, anche se il potere d’acquisto è più che raddoppiato (Winter, 1996). Negli Stati Uniti, la percentuale di persone che si definiscono “molto felici” è scesa dal 35 per cento del 1957 al 30 per cento di oggi (Gardner, 2001). Ciò che caratterizza le dipendenze è proprio il fatto che i bisogni compulsivi a esse sottesi non possono mai essere soddisfatti. Questo perché il bisogno umano di gioia, amore e significato non può essere colmato da nessuna sostanza, da nessuna merce o piacere immediato. Nonostante questo vuoto, la sofferenza che soggiace alle dipendenze è spesso mascherata: un certo grado di negazione si accompagna sovente alla dipendenza, qualsiasi forma essa assuma. L’alcolista che continua a bere cercherà di mantenere un’apparenza normale, e negherà che ci sia un problema. Anche le società

dipendenti dalla crescita infinita e dal consumo illimitato negano i problemi, quasi che la finitezza delle risorse si potesse liquidare con una fede cieca e irrazionale in soluzioni ancora da elaborare. In ultima analisi, la dipendenza ci costringe a vivere in una menzogna, a vivere nell’illusione. La disperazione Le dipendenze, la negazione e l’oppressione interiorizzata tendono a paralizzarci, distogliendoci dall’impegno di costruire comunità più eque e a sostegno della vita. Il tentativo di difendersi dalla paura e dal dolore, però, spinge verso una forma ancor più profonda di sofferenza. Nel momento in cui scegliamo di non impegnarci in prima persona per cambiare le cose, «la nostra vita comincia a sembrare così disperata e sconfortante che molti [di noi] finiscono in un circolo vizioso di autocommiserazione e di autodistruzione che è altrettanto negativo, e anzi spesso peggiore di qualsiasi prezzo eventualmente da pagare» nella lotta per la trasformazione (Walsh 1984 [1991]). La disperazione, che spesso si manifesta in forme più o meno subdole di depressione, è più nociva della sofferenza legata all’accettazione della verità dolorosa della nostra realtà e al tentativo di cambiarla. Perdere la speranza, cadere nella disperazione, è forse la forma più pura di impotenza interiorizzata. Alla base vi è la totale rinuncia al nostro potere-dall’interno, al potere creativo, alla facoltà di dare un contributo significativo al mondo. Questo può portare a una negazione ancora più profonda o alla dipendenza, in quanto si cerca di evitare o di fuggire dall’inevitabile sofferenza che la disperazione porta con sé. La disperazione è essenzialmente uno stato di illusione perché ci fa percepire la realtà attraverso un velo di falsità che ci separa dalla gioia di vivere. Ed è intimamente collegata al torpore psichico che comincia con la negazione. Quante più energie impieghiamo per reprimere le nostre paure e il nostro dolore, quanto più cerchiamo di isolarci dalle sofferenze del mondo che ci circonda, tanto più cadiamo in un buco

nero che risucchia la gioia di vivere. Quest’isolamento ci esclude dalla comunità umana e da quella terrestre in generale, privandoci di una sorgente di amore, di speranza e di energia e impedendoci di esperire il potere-con. Secondo Joanna Macy da tutto questo scaturisce la perdita della sensibilità, come se un nervo fosse stato reciso. Come ha detto Barry Childers: «Ci rendiamo immuni dalle necessità della situazione riducendo la nostra consapevolezza». Questa anestetizzazione tocca anche altri aspetti della nostra vita. L’amore e la perdita sono meno intensi, il cielo è meno vivido, perché se non permettiamo a noi stessi di provare dolore non sentiamo neanche il resto. «La mente paga il suo intorpidimento nei confronti del mondo», afferma Robert Murphy, «rinunciando alla sua capacità di provare gioia e alla sua elasticità». (1995)

La disperazione può colpire persino chi è direttamente impegnato nella lotta per la trasformazione. Guardare con onestà a ciò che succede nel mondo può opprimere e gettare nella disperazione. Questa condizione può peggiorare se le nostre attività ci inducono a operare ossessivamente per il cambiamento, al punto da sentirci sovraccaricati e sempre più spossati. L’azione compulsiva non è che una forma ulteriore di dipendenza. Di certo le situazioni di crisi sono talmente gravi da non lasciare molto spazio all’ottimismo. I problemi sono complessi e il tempo è limitato. Forse è anche utile esprimere le nostre paure, ammettere di pensare che è troppo tardi per compiere i cambiamenti necessari a costruire un futuro giusto ed ecologicamente armonioso. Ma il confine tra speranza e disperazione è sottile. Esprimere le nostre paure dev’essere il primo passo per andare oltre la paralisi che esse generano. Insomma, abbiamo bisogno di una speranza realistica che riconosca i pericoli, le difficoltà e le paure del presente ma sia capace di superarli grazie a un’ispirazione che scorre profonda quanto la vita nella Terra.

I rinforzi sistemici L’impotenza interiorizzata serve a perpetuare i sistemi che sfruttano la comunità umana e l’intera comunità terrestre, ma è anche

in certa misura il prodotto di quei sistemi. Come già rilevato, il capitalismo moderno ci domina con il nostro consenso, ma questo consenso – per usare il lessico di Noam Chomsky – è “fabbricato” premeditatamente. Tuttavia, è come se chi muove i fili del sistema dominante fosse rimasto impigliato nella stessa tela che ha tessuto. La negazione e la dipendenza, in particolare, sembrano dilagare tra i ricchi e i potenti esattamente quanto negli altri settori della società (e forse anche di più). Quando si prendono in esame i rinforzi sistemici occorre quindi tenere a mente che molti di essi (specie quelli legati all’istruzione e ai mass media) servono a controllare e a circoscrivere anche l’agire dei potenti. Questo certamente non significa che nessuno è responsabile dell’attuale sistema di dominio, ma mette in luce quanto sia diventato totalizzante. In un certo senso sembra aver assunto una vita propria. Nei successivi sottoparagrafi esamineremo alcuni rinforzi sistemici usati per fabbricare il consenso. Per cominciare, analizzeremo il modo in cui la minaccia della violenza e i sistemi educativi contribuiscono a creare e mantenere l’impotenza interiorizzata. La maggior parte del paragrafo sarà però incentrata sul ruolo dei mass media nel favorire la negazione, nell’alimentare la dipendenza e nel tenerci in uno stato di illusione. Repressione, militarismo e violenza In diverse parti del pianeta la forza impiegata da esercito e polizia è tra gli strumenti principali per perpetuare l’impotenza strutturale. La forza repressiva è uno dei mezzi più diretti e brutali nelle mani del sistema di potere, ed è riservato quasi esclusivamente ai poveri e agli oppressi. La repressione agisce però contemporaneamente sulle dinamiche dell’oppressione interiorizzata. Perché ciò accada non c’è bisogno di esercitarla davvero, è sufficiente la minaccia. Ogni volta che si reprime con la violenza una protesta, ogni volta che un attivista viene arrestato o un prigioniero torturato, gli effetti dell’uso della forza riverberano

ben oltre coloro che la subiscono direttamente. Rafforzando l’oppressione interiorizzata, la violenza si amplifica oltre i confini del suo esercizio diretto. Peraltro, per potersi strutturare, la repressione ha bisogno dell’oppressione interiorizzata. Le forze militari e di polizia sono spesso composte da persone povere e oppresse. È possibile controllare la massa solo se un numero consistente di oppressi è cooptato per farne a sua volta una forza repressiva. Questo tipo di organizzazione si destabilizza però piuttosto facilmente. Si pensi alla “rivoluzione popolare” che nel 1986 portò al crollo del regime di Marcos nelle Filippine o alla destituzione di Slobodan Miloevic´ in Serbia: in quei casi la polizia e l’esercito cambiarono fronte in un momento cruciale rinunciando a intervenire o addirittura unendosi al popolo, e consentendo così alla rivolta popolare di rovesciare un regime dittatoriale. In tutto il mondo l’uso della forza repressiva va oggi scontrandosi con pressioni sempre più forti a salvaguardia dei diritti umani. Per quanto sia improbabile che la forza bruta scompaia del tutto e non venga più usata come strumento di dominio, è ormai un meccanismo grossolano riservato ai casi estremi. Sempre di più il sistema predilige mezzi più sofisticati per agire sull’impotenza interiorizzata. Più pervicaci e difficili da sradicare sono le minacce della violenza domestica e dell’aggressione sessuale, usate per rafforzare l’oppressione interiorizzata nelle donne di tutte le classi sociali in tutto il mondo. Anche in questo caso non è necessario l’uso effettivo della forza: una donna non ha bisogno di essere aggredita sessualmente per temere per la propria incolumità e limitare le attività per evitare guai. Gli abusi verbali, ad esempio, possono avere un impatto altrettanto devastante, anche se meno facile da misurare in quanto poco dimostrabile. Anche i mass media condizionano l’oppressione interiorizzata quando mostrano atti di violenza ai danni delle donne (eppure, nonostante queste minacce, i movimenti femministi hanno

fatto notevoli progressi nel rendere la violenza sulle donne sempre meno accettabile). Non si può tralasciare infine la pervasiva minaccia della guerra atomica: una minaccia che tuttora ha un effetto dirompente sulla psiche collettiva del pianeta, anche dopo la fine della guerra fredda. Come ha dimostrato (1983) Joanna Macy, la minaccia atomica è fonte di profonda disperazione e opera in modo subdolo ma vigoroso per tenerci incatenati all’impotenza interiorizzata. Fino a quando non vi sarà un disarmo nucleare su scala globale, essa continuerà a snaturare le nostre esistenze usando la paura di una catastrofe improvvisa per erodere il nostro spirito. L’istruzione L’istruzione, specie attraverso le sue istituzioni ufficiali, svolge un ruolo importante nell’adattamento ai valori e alle idee del capitalismo corporativo e all’ideologia dell’impero. Essa tende anche a rafforzare i meccanismi dell’impotenza interiorizzata, seppure con modalità più subdole. Nel Sud globale, in particolare, i metodi educativi si basano ancora sulle dinamiche dell’oppressione interiorizzata. L’istruzione si fonda sull’autorità dell’insegnante, in quanto colui che trasmette la conoscenza. L’apprendimento si riduce spesso alla memorizzazione di fatti e formule, e gli studenti sono trattati come ricettori passivi della conoscenza. Gli educatori popolari dell’America latina definiscono questo modello “educación bancaria” perché evoca l’immagine di un mero “deposito” di conoscenze nella mente degli studenti. Nel migliore dei casi si trascura il potere-dall’interno, nel peggiore lo si reprime. La creatività e la curiosità sono considerate sovversive, o al limite fastidiose. Questa metodologia allena gli allievi a vedere il potere come autoritario e statico. Si insegna agli studenti a essere obbedienti e passivi e a non mettere nulla in discussione. Questo a sua volta consolida l’oppressione interiorizzata. I contenuti del processo

educativo possono rafforzare ulteriormente tale tendenza. L’insegnamento della storia, ad esempio, può magnificare le virtù degli oppressori (ed evidenziare i fallimenti degli oppressi), mentre la letteratura e la religione possono idealizzare la visione patriarcale delle relazioni di genere. Chi ha avuto a che fare con sistemi educativi più progressisti considera un’istruzione così autoritaria un retaggio del passato, eppure è ancora diffusissima in molte parti del mondo. Peraltro i modelli di istruzione più illuminati, che danno valore allo spirito critico, alla creatività e alla collaborazione, sono ancora soggetti a molte restrizioni. Quasi tutti i sistemi educativi incoraggiano le dinamiche della negazione trasmettendo una visione distorta della realtà che ignora le crisi che colpiscono il pianeta oppure le affronta in modo molto superficiale. Ogni materia è trattata come una cosa a sé stante, rendendo più difficile cogliere l’interconnessione tra i differenti problemi. Ci insegnano a pensare nell’immediato, a riflettere poco sulle conseguenze a lungo termine di un’azione o di un progetto. I bambini sono particolarmente sensibili a minacce come la guerra atomica o il disastro ecologico, eppure questa sensibilità raramente viene sviluppata in modo costruttivo. In questo caso entrano in gioco le paure degli adulti; innanzitutto la paura di generare angoscia o di riconoscere il dolore. Poiché spesso sono gli educatori i primi a vivere un certo grado di negazione, la trasmettono inconsciamente anche agli studenti. Se è vero che i sistemi educativi tendono a scoraggiare le dipendenze da sostanze nocive, essi tendono però ad alimentare l’ossessione sociale per il consumo illimitato, incoraggiando i ragazzi a lottare per un lavoro ben retribuito che garantisca il benessere materiale. Persino nelle società più povere e tra le popolazioni emarginate, dove realizzare quest’aspirazione è pressoché impossibile, si sfrutta il mito del “migliorare grazie all’istruzione” per

consolidare il potere del sistema educativo ufficiale e fare in modo che abbia grande prestigio sociale. L’idea che l’azione trasformatrice sia inutile – un messaggio di disperazione – è trasmessa subdolamente anche per altre vie. I bambini che sognano di cambiare il mondo ricevono spesso in cambio un sorriso o un commento condiscendente invece che un vero incoraggiamento. La storia è presentata da una visuale deterministica pensata apposta per reprimere l’utopica speranza in un futuro migliore. Ci insegnano a essere “pratici” e “realisti” e ad accettare la nostra impotenza intrinseca. Ovviamente esistono correnti che viaggiano in direzione opposta rispetto a quelle or ora descritte. Ci sono tanti educatori che si sforzano di risvegliare l’immaginazione e la creatività degli studenti, che cercano di fornire un quadro preciso dei problemi che affliggono il mondo e coltivano nei ragazzi la maturità emotiva e la capacità di affrontare il dolore in modo costruttivo. In moltissimi casi, però, il risultato finale del sistema educativo è di rendere gli studenti ancora più vulnerabili alle dinamiche dell’impotenza interiorizzata. Quel che è più grave è che pochissimi sistemi educativi ed educatori trasmettono una concezione della realtà che dia il giusto valore al rapporto con la grande comunità terrestre. Di rado si dà risalto ai saperi tradizionali e alla storia dei popoli indigeni. Gli studenti trascorrono il tempo in aule asettiche senza quasi nessun contatto con il mondo naturale, a parte qualche occasionale animale domestico tenuto in classe o la dissezione di qualche “campione” durante l’ora di scienze. La logica sottesa a questo sistema di istruzione è allenare gli studenti a competere nell’economia globale, a diventare consumatori e magari anche buoni cittadini rispettosi degli altri. A differenza dei sistemi educativi delle società aborigene, l’istruzione moderna non inizia gli studenti a una relazione con la grande comunità terrestre e con il cosmo che la comprende. Ai ragazzi si insegna a comportarsi da individui autonomi in una società

competitiva, non da membri della grande comunità vivente. I mass media I mezzi di comunicazione di massa, primo fra tutti la televisione, si possono a buon diritto considerare lo strumento più importante attraverso cui si rafforza l’impotenza interiorizzata nelle società moderne, sia al Sud che al Nord. Il potere e il raggio d’azione dei mass media sono ormai enormi: il 97 per cento delle famiglie negli Stati Uniti, il 90 per cento in Cina e oltre l’80 per cento in Brasile possiedono almeno un televisore. Se nelle nazioni più povere la percentuale è notevolmente più bassa, altri media (soprattutto la radio) hanno una penetrazione quasi universale. L’ascesa dei mass media è un fenomeno relativamente recente. Fino agli inizi del secolo scorso la stragrande maggioranza della popolazione acquisiva le informazioni e il sapere da persone che conosceva e di cui si fidava: genitori, anziani, insegnanti, medici e capi religiosi. Oggi i mezzi di comunicazione hanno quasi del tutto soppiantato queste fonti. Negli Stati Uniti, ad esempio, un bambino di cinque anni trascorre in media quindici ore la settimana davanti alla TV e vede migliaia di spot pubblicitari (Swimme, 1997). Una volta cresciuti, quei bambini trascorreranno più tempo davanti al televisore che non a scuola. Da adulti ne vedranno cinque ore al giorno, il che significa che quest’attività assorbe più tempo di tutte le altre, se si eccettuano il lavoro e il sonno (Korten, 1995). Calcolando anche il tempo dedicato ad altre fonti – giornali, radio, Internet e persino manifesti pubblicitari – ci si renderà conto di quanto sia schiacciante l’influenza dei mass media. Altrettanto inquietante è il controllo sui mezzi di comunicazione: ad oggi, cinquanta grosse corporation reggono l’industria mediatica mondiale e nove di queste detengono il dominio assoluto (HermanMcChesney, 1997)23. Inoltre, sono solo cinquanta le aziende di pubbliche relazioni che producono il grosso della pubblicità a livello

mondiale, e ad appena dieci di queste va il 70 per cento di tutti gli introiti pubblicitari (Karliner, 1997). Ed Ayres conclude che «la nostra ricezione delle informazioni è sempre più filtrata da strutture di grandi dimensioni, siano esse le corporation che possiedono i giornali o le radio, le loro agenzie pubblicitarie o il settore delle lobby che aiuta a stabilire le regole [...] grazie alle quali i media traggono i loro profitti» (1999a). Non sorprende quindi che Paul Hawken affermi: «La nostra mente è indirizzata» – o sarebbe meglio dire “forgiata”? – «dai media al servizio delle corporation che li sponsorizzano» (1993). Nei paragrafi successivi esamineremo la seconda parte dell’affermazione di Hawken, ossia che i media puntano a «riorganizzare la realtà in modo da far dimenticare agli spettatori il mondo che li circonda». Come si può riorganizzare la realtà? A quale scopo? E come può questo rafforzare il senso di impotenza? BLOCCARE LA PERCEZIONE, PERPETUARE LA NEGAZIONE

Uno degli stratagemmi con cui i media ci rendono impotenti è favorendo la negazione. In parte lo fanno inibendo la percezione, così da impedirci di avere un quadro preciso di ciò che accade nel mondo e delle ragioni per cui accade. Sulle prime potrà suonare strano: mai come adesso ci sono state tante informazioni accessibili per una fascia così ampia della popolazione mondiale. Ed Ayres paragona questa situazione a un enorme quadro di cui però si riescono a vedere soltanto i puntini o i pixel. Siamo sommersi da piccoli frammenti di informazioni, ma non ci viene permesso di prendere le distanze e osservare il quadro completo. È difficile soprattutto con un medium come la televisione, i cui programmi sono confezionati con “messaggi telegrafici” pensati apposta per catturare l’attenzione e produrre un impatto immediato, non per favorire una comprensione ragionata degli eventi e del perché si verificano24. I media non si limitano però a ricorrere alla frammentazione – che

potrebbe anche sembrare casuale –, ma arrivano a occultare artatamente le informazioni e a seminare il dubbio. Nel dibattito sui cambiamenti climatici, ad esempio, la principale linea difensiva di quanti hanno interesse a mantenere lo status quo (come l’industria petrolifera) è negare del tutto il fenomeno, o al più affermare che esso è provocato da eventi “naturali” come i cicli solari. Organizzazioni ben finanziate come la Global Climate Coalition sono state istituite proprio per propalare queste argomentazioni. Nonostante l’evidente faziosità di questi enti, i media si ostinano a concedergli “eguale spazio” in nome della presunta par condicio; una strategia che potremmo definire della “falsa obiettività”. Poiché però la comunità scientifica è ormai pressoché unanime riguardo all’origine umana dei cambiamenti climatici, i media hanno dovuto cambiare tattica: seppur costretti a concedere un po’ d’attenzione ai rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che raccolgono il consenso di migliaia di esperti internazionali in materia di clima, continuano però a pubblicare o a mandare in onda le opinioni dello scienziato eretico di turno che dice il contrario (e con tempistiche precise, quando quelle opinioni producono l’impatto maggiore). Sono giudizi facilmente confutabili, ma ormai il danno è fatto: si semina un dubbio sufficiente ad alimentare lo scetticismo e la negazione. I media sminuiscono inoltre la portata delle informazioni a disposizione. Si sostiene ad esempio che i cambiamenti climatici non si verificano con tanta rapidità, che potrebbero non essere poi così gravi, che abbiamo ancora tempo per pensare alle contromisure, che gli esseri umani saranno in grado di adattarvisi, o addirittura che se ne potrebbe ricavare qualche beneficio. Quasi mai si riportano le raccomandazioni dell’IPCC sulla necessità di ridurre dell’80 per cento le emissioni di gas serra entro i prossimi quarant’anni. Al contrario, il dibattito si riduce alla questione se dobbiamo oppure no ridurre le emissioni del 5-10 per cento rispetto ai livelli del 1990 e se vi sia

davvero un’urgenza tale da adottare queste pur minime riduzioni. In realtà dal 1990 le emissioni degli Stati Uniti – i maggiori produttori di gas serra del pianeta – sono aumentate del 16 per cento, e quelle del Canada di un incredibile 50 per cento25. I mezzi di comunicazione possono circoscrivere con grande efficacia i termini di un dibattito in qualsiasi ambito. Secondo Noam Chomsky le democrazie sono consapevoli di non poter soffocare del tutto il dibattito, né d’altronde hanno interesse a farlo. Fintanto che si mantiene la discussione entro una sfera circoscritta di opinioni, non c’è il pericolo di impensierire davvero chi detiene il potere. Il dibattito non può essere messo a tacere, né sarebbe opportuno farlo, perché in un sistema propagandistico ben funzionante esso può avere una funzione di appoggio alle istituzioni se incanalato entro limiti adeguati. Ciò che è necessario è che tali limiti siano ben precisi. Le polemiche possono anche essere violente fintantoché si attengono a quei presupposti che definiscono il consenso delle elite, anzi entro tali confini vanno addirittura incoraggiate, perché contribuiscono all’affermazione di queste dottrine e contemporaneamente consolidano l’impressione che la libertà imperi. In breve, ciò che è essenziale è il potere di decidere gli argomenti all’ordine del giorno. (Chomsky, 1989 [1991, p. 98])

Frammentando e occultando le informazioni, seminando il dubbio, delimitando il dibattito, i media impediscono il formarsi di una visione complessiva delle crisi che colpiscono l’umanità e la grande comunità terrestre. Certamente ci sono persone in grado di squarciare questo velo di distorsione e di inganno, ma possono essere tranquillamente escluse dal dibattito ufficiale perché sono percepite come una frangia al di fuori dei confini di un discorso razionale. Queste tattiche sono dunque sufficienti a tenere in piedi e rafforzare la negazione. INCULCARE L’INADEGUATEZZA, SVIGORIRE L’IMMAGINAZIONE

I mass media ci rendono impotenti ricorrendo anche ad altri mezzi, più subdoli ma altrettanto potenti. Michael Lerner (1986) sostiene ad esempio che la televisione acuisca l’impotenza interiorizzata proprio grazie ai suoi format. I programmi durano

perlopiù tra i trenta minuti e l’ora, un tempo durante il quale si presenta un problema con un taglio ben preciso per poi trovarne anche la soluzione. Nel tempo questa semplificazione della vita può generare a livello inconscio un senso di inadeguatezza, facendoci dubitare della forza del nostro potere-dall’interno. Seguendo la stessa logica ci vengono mostrate solo persone belle (quantomeno secondo l’idea mediatica di “bellezza”) e “di successo”. Si crea così l’impressione che sia “normale” essere ricchi e belli, negando la realtà della stragrande maggioranza della gente, che ha pochi mezzi e una concezione diversa della bellezza. Anche questo genera un senso di inadeguatezza e persino di autocommiserazione («ci dev’essere qualcosa che non va in me se non sono così») che sfocia in una sorta di oppressione interiorizzata. I mezzi di comunicazione sono anche ampiamente responsabili di quell’omologazione culturale che Vandana Shiva definisce «monocoltura della mente». Se si presenta come normativa un’unica cultura, tutte le altre ne vengono di conseguenza sminuite. Anche questo rafforza l’oppressione interiorizzata. Un altro strumento per renderci impotenti è l’isolamento e l’alienazione dalla comunità. In passato durante il tempo libero si stava perlopiù in gruppo. Ascoltare musica, raccontare storie, ballare o assistere a un’opera teatrale erano attività che si svolgevano insieme; c’era tempo per parlare con i vicini e con gli amici e per una partecipazione reale, immediata. Al contrario, i media moderni sono per natura individuali e passivi26. La televisione, in particolare, tende a isolarci dagli altri, anche quando la vediamo in gruppo. Ci rapisce e ci assorbe. Ci allontana così dalla comunità che ci circonda e riduce le occasioni di agire di concerto con gli altri, di creare e conservare il potere-con. Allo stesso tempo ci aliena dal rapporto con la grande comunità terrestre, separandoci ancora di più dalla natura. Infine, la televisione, i film e simili (si potrebbero includere i

videogiochi) tendono a ridurre e distorcere l’immaginazione, delimitando così la creatività e la prospettiva. Siamo assorbiti dalla natura visiva di questi mezzi di comunicazione, che riescono a proiettare delle immagini nella nostra mente. Lo stato di rilassamento in cui siamo quando ne fruiamo produce un effetto quasi ipnotico nel quale si accettano acriticamente valori e idee in un processo di assorbimento passivo. A differenza di quando leggiamo o ascoltiamo una storia, non abbiamo bisogno di creare da noi le immagini, non c’è bisogno di usare l’immaginazione. Intanto però ci esponiamo a una subdola distorsione dell’anima. Negli Stati Uniti, un ragazzo vede in TV circa quarantamila omicidi fino ai diciotto anni (Ayres, 1999a), e con i videogiochi può anche uccidere per finta, ma in maniera realistica. Come può tutto questo non avere un impatto sul modo in cui i ragazzi vedono il mondo, sulla visione del futuro che svilupperanno? È proprio sull’immaginazione – e sulla creatività che l’accompagna – che si fonda la nostra capacità di sviluppare il poteredall’interno. RAFFORZARE LE DIPENDENZE

I mezzi di comunicazione di massa non soltanto rafforzano la negazione e svigoriscono l’immaginazione: essi alimentano e intensificano la dipendenza predominante nel capitalismo moderno, l’avidità, attraverso pubblicità e immagini che incoraggiano al consumo. Siamo bombardati ogni giorno da centinaia, migliaia di messaggi che ci dicono in modo più o meno subdolo che il nostro valore intrinseco dipende dalla nostra capacità di acquistare. Per quanto insignificante e vuota possa essere la ricerca della felicità attraverso il consumo, questo messaggio ci colpisce tutti riducendoci a meri ricettacoli degli ultimi prodotti dell’economia corporativa. L’epoca del capitalismo consumistico cominciò negli Stati Uniti all’indomani della seconda guerra mondiale. Fu in quel periodo che Victor Lebow, un analista vendite, formulò una delle dichiarazioni più esplicite sul bisogno di inculcare la dipendenza dal consumo:

La nostra enorme capacità produttiva [...] ci chiede di fare del consumismo il nostro stile di vita, di convertire l’acquisto e l’uso di beni in un rituale, di ricercare la nostra soddisfazione spirituale, la soddisfazione del nostro ego, nel consumo. [...] Abbiamo bisogno che le cose siano consumate, distrutte, scartate e rimpiazzate sempre più velocemente. (citato in Durning, 1995)

Per poter fare del consumismo uno stile di vita, il capitalismo moderno ha avviato quello che gli psicologi Allen Kanner e Mary Gomes definiscono «il più grande progetto psicologico mai intrapreso dalla razza umana» (1995). La quantità di denaro spesa per questo progetto di indottrinamento di massa è sconcertante, e nel 2008 ha sfiorato il trilione di dollari: più di 80 dollari l’anno per ogni uomo, donna e bambino del pianeta, circa sei volte in più rispetto agli investimenti annuali necessari per garantire cibo, assistenza sanitaria, acqua e istruzione all’umanità intera. è sconfinata la quantità di competenze psicologiche e ricerche che si possono acquistare con quel denaro. Non sorprende dunque che i messaggi più frequenti e persistenti siano veicolati da spot pubblicitari. Come agiscono? Instillandoci subdolamente un senso di inadeguatezza e di infelicità. Spesso lo fanno creando l’immagine del “consumatore ideale” che poi noi vorremo emulare. Ci viene detto che se vogliamo essere belli, se vogliamo avere successo ed essere felici, dobbiamo comprare un certo prodotto. Insomma, la pubblicità cerca costantemente di creare in noi falsi bisogni dicendoci che dobbiamo possedere “solo un’altra cosa” per essere davvero felici; essa dunque incoraggia i comportamenti da dipendenza. Stranamente, si ricordano con precisione solo pochi spot. In un certo senso il vero scopo della pubblicità è infatti vendere il consumismo in sé, creare una cultura consumistica e incline alla dipendenza. Il risultato è che in ciascuno di noi si costruisce quello che Kanner e Gomes chiamano «il sé consumistico»: un falso sé che «nasce dalla spietata distorsione degli autentici bisogni e desideri umani»

(1995). La nostra vera identità è deformata e travisata dall’impresa consumistica. Fulcro della pubblicità è una menzogna in base alla quale il successo e la felicità dipendono da ciò che si possiede. Bisogni primari a parte, è un’idea evidentemente falsa ma è ripetuta così spesso che si finisce col credervi. Cerchiamo di soddisfare bisogni autentici come l’amore, la bellezza, l’amicizia e la ricerca di senso attraverso dei vacui sostituti (non a caso le società ricche sono spesso meno felici rispetto a quarant’anni prima!). Viviamo in uno stato di illusione. Questa malattia non appartiene però soltanto ai ricchi. Gli stessi messaggi sono dati in pasto a miliardi di persone che ogni giorno devono faticare solo per poter soddisfare i bisogni primari. Per loro le sirene del consumismo sono una continua beffa: non potranno mai sperare di raggiungere i livelli di consumo messi in mostra dalla pubblicità. Il messaggio che arriva a costoro, dunque, è che non potranno mai sperare di essere felici, di avere successo o di essere belli. Al limite possono provare per un momento quel piacere comprando una bibita, delle sigarette o un pacchetto di patatine che forse neanche possono permettersi. Insomma, il messaggio consumistico rafforza anche nei poveri il senso di oppressione interiorizzata, o addirittura di disperazione. Al Nord come al Sud, il consumismo acuisce il senso di alienazione e indebolisce la comunità. Più energie si impiegano nella caccia al consumo (o al surrogato mondo consumistico creato dalla televisione e dagli altri media), meno ne rimangono da dedicare alle relazioni autentiche, alla contemplazione della natura, alla comunità e alla formazione del potere-con. Questo genera un senso ancora più profondo di alienazione e di vuoto, che a sua volta alimenta la febbrile dipendenza dal consumo. ALIMENTARE L’ILLUSIONE

L’ideologia consumistica è così pervasiva e vigorosa da essere diventata di fatto la cosmologia delle moderne società capitaliste. Con

il termine “cosmologia” intendiamo la visione della natura, della realtà e della finalità della vita: un argomento che esamineremo più approfonditamente nei successivi capitoli. Brian Swimme (1996; 1997) spiega bene la questione. Ricorda che nelle società tradizionali la sera i bambini sedevano attorno al fuoco ad ascoltare le storie degli anziani sulla nascita dell’universo, sulla comparsa degli esseri umani e sul posto che l’umanità occupa all’interno della grande comunità terrestre. Dove avviene tutto questo, oggi?, si chiede Swimme. Qual è la fonte della nostra cosmologia funzionale? Ecco la sua risposta: Prendiamo i nostri figli, li teniamo al buio e accendiamo la TV, ma non ci sono programmi, c’è la pubblicità. [...] La pubblicità è il racconto cosmologico dei tempi moderni. [...] La pubblicità, in forma molto sintetica, ci dice tutto ciò che conta: ci spiega la natura dell’universo, la natura dell’essere umano, dà dei modelli di riferimento. La natura dell’universo? Un deposito di materia prima. La natura dell’essere umano? Trovare un lavoro e comprare delle merci. L’uomo ideale? Uno che a bordo piscina ride mentre sorseggia una Pepsi. (1997)

Durante quella conferenza, Swimme criticò le migliaia di psicologi, tra i più dotati al mondo, che lavorano instancabilmente per trovare il modo di impiantare questo messaggio nell’anima di ogni singolo bambino27. Le altre fonti di trasmissione culturale impallidiscono al confronto. Come già evidenziato, prima ancora di cominciare la scuola i bambini sono sommersi da trentamila messaggi pubblicitari. Da ragazzi, trascorreranno più tempo a guardare spot che in classe. Fin da piccoli siamo dunque indottrinati a una cosmologia involgarita che ci fa sentire perennemente inutili e vacui. Ci viene insegnato a sostituire con dei beni materiali il nostro bisogno di significato, di amore, di creatività e di comunione. La nostra esistenza si riduce sempre di più al lavoro, al guadagno e a comprare quante più cose possibile. C’è sempre meno spazio per quello che ci fa sentire davvero appagati. Siamo sempre più distaccati dalla sorgente profonda del nostro intrinseco potere-dall’interno. Allo stesso tempo, l’isolamento e

l’alienazione tra gli uomini e tra questi e gli altri esseri viventi indeboliscono la facoltà di agire in modo sinergico per realizzare un vero cambiamento. I sistemi di dominio tessono una tela di illusioni che ci separa dal nostro potere. Come scrive Roger Walsh: Il nostro abituale stato mentale, dicono le psicologie orientali, non è lucido, né ottimale né è completamente razionale. Piuttosto, i nostri attaccamenti, le nostre difese e false opinioni influenzano e distorcono la nostra esperienza con mezzi tanto efficaci quanto sottili e non riconosciuti. Siccome non vengono riconosciute, tali distorsioni costituiscono una forma di illusione (maya la chiamano gli orientali), una forma che raramente viene compresa perché è condivisa culturalmente. Sebbene questa affermazione possa suonare strana all’inizio, in realtà è compatibile con il pensiero di molti eminenti psicologi occidentali. «Siamo tutti ipnotizzati sin dall’infanzia. Non percepiamo noi stessi e il mondo intorno a noi come realmente sono ma come siamo stati persuasi a vederli», ha detto Willis Harman della Stanford University. (1984 [1991, p. 82])

Scavare più a fondo: la prospettiva dell’ecopsicologia Esiste una via di fuga dalla rete dell’oppressione interiorizzata, della negazione, delle dipendenze e della disperazione che intrappola e paralizza la maggior parte dell’umanità? Sulle prime, i legacci che ci stringono sembrano indistruttibili. Eppure la vacua cosmologia del consumismo che tenta di blandirci con l’autocompiacimento non può spegnere del tutto la nostra sete di comunione, di creatività e di bellezza. In cuor nostro sappiamo che qualcosa è sbagliato, che in qualche maniera siamo incompleti. Qui può forse trovarsi il segreto della nostra liberazione. Un indizio del fatto che lo stile di vita consumistico non riesce a soddisfarci è l’epidemia di depressione che dilaga nelle società ricche. L’Organizzazione mondiale della salute mette la depressione al secondo posto nella classifica delle malattie più diffuse nelle nazioni ricche del Nord; in altre parole è ancora più comune del cancro. Non solo: in base a numerose evidenze scientifiche, man mano che le società passano dal soddisfacimento dei bisogni primari al consumo massiccio la depressione si diffonde sempre di più. Negli Stati Uniti, ad esempio, la probabilità che gli adulti nati nel decennio successivo

alla seconda guerra mondiale soffrano di depressione è tre volte superiore (e anche più di tre volte) rispetto a quelli nati prima della prima guerra mondiale. Lo psicologo inglese Oliver James sostiene addirittura che «più una nazione si avvicina al modello americano, ossia a una forma molto avanzata e tecnologica di capitalismo, più sarà alta la percentuale di malattie mentali tra i suoi cittadini» (Gardner, 2001). Alla luce delle analisi precedenti, questi dati non sorprendono: tentare di soddisfare il bisogno di comunione e di bellezza con la dipendenza dal consumo non potrà mai portare alla vera felicità. Come contraltare, Gary Gardner (2001) cita alcuni studi sul popolo Amish del Vecchio Ordine, in Pennsylvania, che vive ancora a contatto con la terra e mantiene forti vincoli comunitari. La vita semplice di queste persone non contempla la televisione, l’elettricità, le automobili e altre comodità. La loro forte economia locale consente però di soddisfare i bisogni primari come il cibo, il vestiario e l’alloggio. Lo stile di vita è austero ma la percentuale di malattie mentali tra gli Amish è esigua: un quinto di quella registrata tra chi vive con tutti i comfort nella vicina Baltimora. Quale insegnamento possiamo trarne? Sicuramente non dobbiamo desumerne che tutta la moderna tecnologia e il benessere materiale siano di per sé da biasimare. Indubbiamente anche tra i poveri che vivono tra la violenza e il degrado urbano la percentuale di malattie mentali sarà elevata. La differenza cruciale tra gli Amish e i loro vicini di Baltimora è che i primi vivono all’interno di una comunità affiatata, non contaminata dall’ideologia e dallo stile di vita del consumismo. A ben guardare, il loro spirito comunitario non si limita solo alle persone. Gli Amish coltivano la terra in modo tradizionale, e questo li fa vivere a stretto contatto con essa. Abitano da generazioni nello stesso posto, in seno a una comunità di cui fa parte anche la terra, e di essa si prendono cura perché è la loro fonte primaria di sussistenza. Le moderne società urbanizzate, al Nord come al Sud, sono invece

sempre più alienate dalla comunità, lontane dal prossimo sia umano sia non umano. Oltre il 45 per cento della popolazione mondiale vive nelle città, e la percentuale continua a crescere. In America latina, Europa e Nord America spesso si supera il 70 per cento. Per contro, la popolazione è sempre meno radicata in un luogo specifico. Negli Stati Uniti questo sradicamento ha raggiunto il culmine: il 20 per cento della popolazione cambia residenza ogni anno (Sale, 2001). Queste tendenze, unite all’influenza della cultura consumistica (che di per sé è uno dei motori dell’urbanizzazione e della mobilità), rendono sempre più difficile coltivare lo spirito comunitario. Siamo ormai disconnessi dal nostro prossimo, dalla Terra e dalle creature che la condividono con noi. Per meglio esaminare questo senso di separazione e di alienazione è opportuno rifarsi all’ecopsicologia, una disciplina che va facendosi sempre più strada. A differenza di altre branche della psicologia, che di rado guardano al di là delle relazioni familiari, l’ecopsicologia sostiene che occorre considerare una più ampia rete di relazioni, compresa quella con la Terra. Fulcro di questa disciplina è la convinzione che, nel profondo della nostra psiche, siamo ancora fondamentalmente e inestricabilmente «legati alla Terra che ci ha dato la vita». Analizzando la spietatezza con cui sfruttiamo il pianeta, questo abuso si rivela una proiezione «di bisogni e desideri inconsci», come un sogno o un’allucinazione. Secondo l’ecopsicologia, la soggiogazione del pianeta vivente svela però «la condizione collettiva della nostra anima» molto più dei sogni, che difficilmente confondiamo con la realtà. «Più importanti sono i sogni che [...] rendiamo “reali”, di acciaio e cemento, in carne e ossa, con le ricchezze strappate al pianeta» (Roszak, 1995). Ecopsicosi: vivere in uno stato di disconnessione Nell’esaminare lo stile di vita disfunzionale tipico delle società moderne, l’ecopsicologia sostiene che viviamo una sorta di psicosi collettiva. Se si intende per psicosi il tentativo di vivere nella

menzogna, la radice dell’attuale psicosi (o illusione) collettiva è allora la nostra disconnessione dagli altri, la percezione che esistiamo in quanto ego isolati. Vivere disconnessi dagli altri esseri – umani e non umani – implica accettare la menzogna secondo cui non si hanno obblighi etici nei confronti di chicchessia, non bisogna prendersi cura degli altri esseri viventi né esiste alcun legame autentico con la Terra che ci sostenta. Molti autori hanno provato a descrivere la natura di questa psicosi, e ciascuno ha messo in luce nuove sfumature di questo disturbo collettivo dell’anima. Thomas Berry, storico culturale e religioso poi diventato “geologo” (o “studioso della Terra”), sostiene che «siamo diventati autistici rispetto al mondo naturale. Lo consideriamo tollerabile ma lo teniamo fuori da noi» (citato in Scharper, 1997). Come chi soffre di autismo, anche noi non riusciamo a sentire, udire o percepire realmente la presenza degli altri. Ci siamo preclusi la possibilità della relazione e della comunione, compresa quella con la grande comunità terrestre. Come scrive Ralph Metzner, «siamo diventati ciechi alla presenza psichica del pianeta vivente e sordi alle sue voci e alle sue storie, che sono state invece fonte di nutrimento per i nostri antenati delle società preindustriali» (Metzner, 1995). Come si è sviluppata questa specie di autismo? In gran parte attraverso quel processo di torpore psichico già esaminato a proposito della negazione. Scrive Sarah Conn: Molti di noi hanno imparato a camminare, respirare, guardare e ascoltare di meno, a intorpidire i propri sensi sia rispetto al dolore sia rispetto alla bellezza del mondo naturale, vivendo la cosiddetta vita privata, soffrendo secondo modalità che si percepiscono come «puramente individuali», tenendo nascosto il dolore persino a se stessi. Sentendoci vuoti, proiettiamo quindi i nostri sentimenti sugli altri o ci lanciamo in attività compulsive, insoddisfacenti, che non ci nutrono né contribuiscono a sanare il contesto che ci circonda. L’incidenza oggi così alta della depressione è forse in parte un segnale del nostro sanguinare alle radici, ormai tagliati fuori dal mondo naturale e incapaci di piangere per le sue sofferenze o di emozionarci per la sua bellezza. (1995)

Il torpore psichico e l’autismo da esso generato sono dunque intimamente connessi ai comportamenti compulsivi e a quelli legati alle dipendenze. A tal proposito Metzner afferma che «l’incapacità di fermare il nostro comportamento suicida ed ecocida rientra nella definizione clinica di dipendenza o compulsione»: non riusciamo a smettere di comportarci così anche se sappiamo che è nocivo per noi e per gli altri (1995). In modo simile David Korten: Nessuna persona sana di mente vorrebbe un mondo abitato da miliardi di emarginati che vivono nell’assoluta privazione e da una cerchia ristretta che custodisce lussi e ricchezze dietro mura fortificate. Nessuno gioirebbe alla prospettiva di vivere in un mondo fatto di sistemi sociali ed ecologici in disfacimento. Eppure continuiamo a mettere a repentaglio la sopravvivenza della civiltà umana e della nostra specie [oltre a quella delle altre specie] per consentire a un milione di persone o giù di lì di accumulare denaro oltre ogni ragionevole necessità. Continuiamo ad avanzare in una direzione in cui nessuno in realtà vorrebbe andare. (1995)

Perché lo facciamo? Innanzitutto perché la percezione di ciò che è normale e sano è stata fortemente distorta. Per gran parte della storia umana abbiamo vissuto in piccole tribù o in comunità a stretto contatto con gli ecosistemi che ci garantivano il sostentamento. Osservata da questa prospettiva, la civiltà urbana e tecnologica moderna non è affatto normale. Come rileva Edward Goldsmith, «nella prospettiva dell’esperienza complessiva dell’umanità su questo pianeta questo è altamente atipico, necessariamente di breve durata, e totalmente aberrante». Considerare normale la realtà presente è come considerare un tessuto canceroso un «organismo sano» (1992 [1997, p. 5]). Secondo Theodore Roszak, l’industrialismo urbano si trova «al limite estremo di un’oscillazione esasperata» (1992). Gli uomini si sono evoluti in un contesto ricco di tradizioni e di comunità e attraverso il contatto sensoriale e diretto con il mondo naturale. Per questo mal ci adattiamo all’isolamento delle nostre moderne esistenze tecnologiche. La psicologia, come qualsiasi altra scienza, è nata in una cornice distorta, condizionata da questo stato aberrante. Essa analizza di

norma gli esseri umani come individui relativamente isolati, prestando attenzione ai rapporti immediati con la famiglia per allargarli talvolta ad amici e colleghi. Il mondo circostante è visto come qualcosa di freddo, oggettivo e persino inospitale. Eppure un tempo (e ancora oggi in molte società indigene) la psicologia si inseriva in un contesto più ampio: C’era un tempo in cui tutte le psicologie erano “ecopsicologie”. Chi si occupava di guarire l’anima dava per scontato che la natura umana fosse fortemente integrata con il mondo che condividiamo con gli animali, le piante, i minerali e tutti i poteri invisibili del cosmo. Come la medicina in passato era considerata “olistica” – guarigione del corpo, della mente e dell’anima – e non c’era bisogno di specificarlo, così la psicoterapia era naturalmente connessa con il cosmo. È la psichiatria della moderna società occidentale ad aver separato la vita “interiore” dal mondo “esterno”, come se quello che è dentro di noi non fosse anche all’interno dell’universo: qualcosa di reale, consequenziale e inseparabile dallo studio del mondo naturale. (Roszak, 1992)

Quasi tutte le correnti psicologiche occidentali sono quindi inadatte ad analizzare e comprendere la psicosi collettiva che ci disconnette e ci isola dalla grande comunità degli esseri viventi. La moderna psicoterapia si concentra sull’individuo e si pratica nello spazio ristretto di uno studio o di un consultorio. Proprio in quanto tende a dissociare l’individuo dal contesto comunitario ed ecologico, mostra di essere radicata in quella stessa visione distorta della realtà che qui cerchiamo di esaminare. Al contrario, la prospettiva ecopsicologica può aiutarci a inquadrare la psicosi collettiva in un contesto più ampio che ci faccia individuare la sua genesi e i possibili modi per guarirla. La genesi dell’ecopsicosi Com’è nata la psicosi di cui soffriamo oggi? Come siamo arrivati a uno stadio che, dal punto di vista della storia umana, è «altamente atipico» e addirittura «totalmente aberrante»? è come se avessimo dimenticato qualcosa che prima era un dato scontato: abbiamo perso il contatto con il nostro bisogno di comunità, il legame profondo con la terra, la relazione vitale con la comunità biotica, il rispetto e la

devozione per la Terra che ci nutre, il timore reverenziale del cosmo che abbraccia tutto. Le culture tradizionali dei nostri antenati conoscevano queste cose e vivevano in questo modo. Com’è possibile che questa sapienza, questo modo di vivere, siano andati perduti? Secondo Ralph Metzner (1995) soffriamo di amnesia traumatica collettiva. Come la vittima di qualche terribile atto di violenza che rimuove i ricordi, anche noi potremmo essere stati indotti da un trauma collettivo (o da una serie di traumi) a perdere progressivamente la nostra antica saggezza. Interessante quel che afferma Chellis Glendinning a proposito del trauma come fondamento di tutti i comportamenti da dipendenza: la dipendenza si sviluppa «perché abbiamo subito un’inaudita violazione». L’autrice sostiene: Il trauma subito dal popolo tecnologico [...] è l’allontanamento sistemico e sistematico delle nostre esistenze dal mondo naturale: dai viticci intrecciati alla terra, dai cicli del sole e della luna, dallo spirito degli orsi e degli alberi, dalla forza vitale stessa. È anche l’allontanamento sistemico e sistematico della nostra vita da quelle esperienze sociali e culturali che i nostri antenati davano per scontate perché vivevano in sintonia con il mondo naturale. (1995)

Pur non essendo ben chiaro a chi si riferisca Glendinning quando parla del «popolo tecnologico», è evidente che i popoli moderni, sia al Nord sia al Sud, hanno sperimentato questo processo. Tra i traumi che si sono succeduti nelle diverse generazioni vi sono: • L’antico trauma associato al passaggio dalla cultura dei cacciatori-raccoglitori a quella agricola e delle città-Stato. Non è stata quasi mai una transizione pacifica, bensì il risultato di un’imposizione violenta per mezzo di guerre e conquiste. • I traumi vissuti dai popoli europei a causa della peste nera (metà XIV secolo), della “piccola era glaciale” (XV secolo) e della caccia alle streghe. Questi eventi, combinati insieme, hanno alimentato una sempre maggiore ostilità verso le donne e il mondo naturale che fu poi estesa anche agli altri popoli quando gli europei cominciarono a invadere e colonizzare nuove terre.

• I traumi di coloro che furono allontanati o cacciati con la forza dalle loro terre a causa della schiavitù e delle conquiste in Africa, in Australia, in Asia e nelle Americhe. La gravità di questi traumi non va sottovalutata, soprattutto perché a essi si accompagnarono stragi e sofferenze provocate da violenze, maltrattamenti e malattie. • I traumi legati alle migrazioni di massa degli europei nelle Americhe, in Australia e in altre parti del mondo. Tali migrazioni si verificarono spesso attraverso la coercizione. Molti scappavano da una persecuzione, altri erano poveri contadini che provavano a sfuggire alla fame e alla miseria, spesso attirati con false promesse in qualche “nuovo mondo”. Poi c’erano quelli trasferiti contro la loro volontà, come i prigionieri poveri della Gran Bretagna e dell’Irlanda spediti in Australia. • Il trauma dell’industrializzazione che, direttamente o indirettamente, ha costretto (e continua a farlo) molta gente ad abbandonare la terra per riversarsi in città sovraffollate e violente. Questo trauma perdura ancora, soprattutto nel Sud globale: si emigra dalle aree rurali verso le città nella speranza di sfuggire alla povertà e di trovare lavoro, istruzione e assistenza sanitaria. Questi traumi hanno sfilacciato gli antichi legami che ci univano alla terra e ai nostri simili. Alcune culture indigene li conservano ancora, almeno fino a un certo punto. Per molti di noi, invece, quei vincoli si sono erosi nel tempo. Nel profondo, portiamo ancora le cicatrici di quei traumi. Riguardano tutti, gli oppressi come gli oppressori, gli sfruttati come gli sfruttatori, i poveri come i ricchi, anche se i modi per affrontarli o esprimerli possono essere differenti. Chellis Glendinning giunge quindi a questa conclusione: La dislocazione della società tecnologica dall’unica vera casa che abbiamo mai avuto è un evento traumatico verificatosi nel corso di diverse generazioni, che si ripete nell’infanzia e nella vita quotidiana. Di fronte a una tale frattura, i sintomi da stress traumatico non sono più quei rari fenomeni provocati da un evento straordinario o da una catastrofe atmosferica, ma sono all’ordine del giorno per tutti. (1995)

Glendenning spiega inoltre che la reazione classica al trauma è il processo di dissociazione attraverso cui «separiamo la coscienza, reprimiamo interi campi dell’esperienza e ci rendiamo sordi a una percezione completa del mondo» (1995). Manifestazione di questa coscienza divisa sono le dicotomie costruite dall’uomo come corpo/mente, maschile/femminile, materia/spirito, uomo/natura, selvaggio/addomesticato. Analogamente Robert Greenway (1995) afferma che le culture industrializzate hanno ingigantito il processo di «differenziazione» al punto tale che esso domina completamente la nostra coscienza. Il dualismo è diventato il nostro modello culturale. Viviamo la coscienza come separazione, anche se non potremo mai essere davvero separati dalla biosfera che ci sostenta. Gli ambienti artificiali che ci siamo costruiti, soprattutto nelle aree urbane, aggravano questa dislocazione isolandoci ulteriormente dal mondo non umano. Theodore Roszak sostiene che le città sono nate come megalomani fantasie imperiali dei re e dei faraoni: «Nacquero da manie di grandezza, furono costruite dalla violenza disciplinata e pensate per irreggimentare spietatamente la natura [e l’umanità]» (1992). Le città moderne perpetuano sotto molti aspetti questa tradizione. La moderna città industriale, in particolare, è una sorta di “armatura” collettiva della nostra cultura, uno «sforzo patologico di tenerci lontani dal contatto diretto con il continuum naturale dal quale ci siamo sviluppati» (1992)28. Anche James Lovelock riflette su questo stato di cose: Come possiamo venerare e rispettare il mondo vivente se non siamo più in grado di ascoltare il canto degli uccelli in mezzo al rumore del traffico, o di respirare aria fresca e profumata? Come possiamo chiederci di Dio e dell’Universo se non vediamo mai le stelle a causa delle luci cittadine? Se pensate che questa sia un’esagerazione, ripensate all’ultima volta che vi siete stesi sull’erba a prendere il sole e avete colto l’odore fragrante del timo e avete udito cantare le allodole.

Ripensate all’ultima notte in cui avete guardato il profondo blu del cielo e siete riusciti a scorgere la Via Lattea, l’adunanza di stelle che costituisce la nostra galassia. (1988 [1991, p. 212])

Secondo Lovelock, chi vive in città vede il mondo solo attraverso lo schermo televisivo. Siamo intrappolati in un mondo nel quale non siamo attori ma meri spettatori, un mondo costruito e filtrato dalla sopraffazione umana. «La vita cittadina», conclude Lovelock, «rafforza e corrobora l’eresia dell’umanesimo, la dedizione narcisistica agli esclusivi interessi umani» (1988 [1991, p. 212]). L’ecopsicosi si trasmette e si rinforza anche grazie al modo in cui si educano i figli. La creazione del sé separativo comincia fin da piccoli, spesso fin dalla nascita. La medicina moderna – almeno fino a pochi anni fa (e ancora oggi in diversi luoghi) – separa il neonato dalla madre subito dopo la nascita per metterlo nell’ambiente asettico del nido, circondato da altri bambini altrettanto stressati. Non di rado un biberon subito rimpiazza il legame dell’allattamento. La notte si fanno dormire i bimbi da soli, e ai genitori è sconsigliato di tenerli in braccio troppo spesso. Conclude Roszak: A quale scopo tutto questo se non per rompere il vincolo tra madre e figlio quanto prima possibile e spingere il bimbo a essere autonomo? [...] A differenza delle società tradizionali, dove la fase in cui il bambino si tiene in braccio si prolunga fino al primo anno di vita [e spesso si continua ad allattare per molto più tempo], nell’Occidente moderno si costringe il bambino a un’autosufficienza a-relazionale fin dal primo vagito. Dai bimbi appena usciti dal grembo materno, la forma più profonda di relazione, ci si aspetta che diventino subito degli individui, volenti o nolenti. (1999)

La psicologia femminista segnala che questo processo è particolarmente accentuato nel caso dei maschi, a cui si chiede di formare una propria identità di genere fondata sulla separazione e sulla differenziazione dalla madre. Dai maschi ci si aspetta che sradichino la propria “donna interiore”. Questo richiede un enorme atto di volontà fin da piccoli, ed è qualcosa che distorcerà e bloccherà definitivamente l’identità maschile. Osserva Marti Kheel: «L’identità

soggettiva del ragazzo si fonda in questo modo sulla negazione e l’oggettificazione dell’altro» (citato in Roszak, 1999). I maschi sono lasciati emotivamente isolati, intrappolati entro i rigidi confini del loro ego. Per difendere tali confini e affermare l’autonomia si deve negare la dipendenza, spesso attraverso la competizione, il dominio, lo sfruttamento o la violenza. Potremmo ravvisare quindi in questo processo la radice psicologica fondamentale del patriarcato. Il filosofo ecologico Paul Shepard ritiene che nelle società industrializzate la creazione fin dall’infanzia del sé separativo sfoci in una menomazione dello sviluppo fin dai primi anni di vita (in particolare nei maschi). Siamo quindi quelli che «possiedono la più inconsistente struttura identitaria al mondo: secondo gli standard paleolitici, siamo degli adulti infantili». Conseguenza di questa patologia collettiva è la tendenza ad «aggredire quel mondo naturale che sentiamo confusamente averci abbandonato» (citato in Metzner, 1995). Il bisogno di lanciarci in un’infinita competizione tra di noi può essere visto come una manifestazione della stessa patologia. Non è dunque così strano che possa sussistere una relazione tra l’alienazione dalla grande comunità terrestre e la sete di dominio. L’esperienza della separazione e dell’autonomia che caratterizza ormai la coscienza moderna è «la condizione essenziale del dominio», e «il dominio è la radice dello sfruttamento» (Greenway, 1995). Perché è così? Secondo gli psicologi, il dominio è spesso un tentativo di negare la realtà della dipendenza. Come gli uomini con una mentalità patriarcale tendono a negare la dipendenza dalle donne sottomettendole, così le società tecnologiche negano la dipendenza dalla Terra attraverso il dominio. Mary Gomes e Allen Kanner sostengono che «la dipendenza dell’essere umano dall’ospitalità della Terra è totale, e questo terrorizza il sé separativo. Dominando la biosfera e tentando di controllare i processi naturali, possiamo conservare l’illusione di essere completamente autonomi». I due autori rilevano inoltre che la negazione della dipendenza conduce non

di rado a un tipo di relazione parassitaria, come già evidenziato a proposito della ricerca capitalistica della crescita illimitata: «La non accettazione della dipendenza ci fa agire nei confronti del pianeta come dei parassiti che sterminano chi li ospita» (Gomes-Kanner, 1995). Ampliare il senso del sé: risvegliare la psiche ecologica Come possiamo superare la nostra psicosi collettiva? Come possiamo guarire la nostra anima e lasciarci alle spalle quella tendenza al dominio e allo sfruttamento che ci induce a farci del male a vicenda e a danneggiare la grande comunità terrestre? L’ecopsicologia insegna che il primo passo è provare ad allontanarsi da questo senso del “sé” così limitato. Il moderno pensiero occidentale di cui fa parte la psicologia ufficiale ha circoscritto il “sé” a quello che risiede entro i limiti della carne: tutto ciò che c’è al di fuori è il “mondo esterno”. Sin da piccoli impariamo a reprimere quella che si potrebbe definire “empatia cosmica” o “coscienza oceanica”. Attraverso un processo di progressivo torpore psichico, ci isoliamo sempre di più dalla comunità vivente in modo da agire come “individui normali” nel mondo contemporaneo. È interessante notare che persino secondo Freud29 «il nostro presente senso dell’Io è soltanto un avvizzito residuo di un sentimento assai più inclusivo, anzi di un sentimento onnicomprensivo che corrispondeva a una comunione quanto mai intima dell’Io con l’ambiente» (citato in Roszak, 1995). Theodore Roszak ravvisa in quest’affermazione una lontana anticipazione della prospettiva ecopsicologica. Si può definire l’ecopsicologia «il rifiuto di accontentarsi di quell’”avvizzito residuo”» (1995). Essa cerca al contrario di ampliare il nostro concetto del sé, di espanderlo oltre i rigidi confini della carne. L’idea di un senso del sé amplificato potrà suonare strana a menti forgiate dalla moderna civiltà tecnologica. Ma la saggezza tradizionale ha spesso postulato che una grossa parte dell’anima risieda al di fuori

del corpo, che sia il corpo a essere dentro l’anima, non il contrario. Anche da un punto di vista puramente fisico, l’idea che vi sia un confine netto tra il sé e il mondo esterno è un’illusione. Il corpo scambia continuamente materia con “il mondo esterno”: ogni anno si sostituisce il 98 per cento degli atomi nel nostro corpo. Oltre la metà del nostro peso netto è composta da cellule non umane, perlopiù batteri intestinali, lieviti e altri microrganismi simbiotici essenziali per la sopravvivenza (Korten, 1999). Anche al livello mentale scambiamo costantemente idee e informazioni: i nostri pensieri sono il frutto dell’interscambio con gli altri. Ciascun “individuo” è dunque un sistema aperto e dinamico che può sopravvivere solo grazie all’interazione con le persone, con altri organismi, con l’ecosfera e con il cosmo intero. Con questo ovviamente non si vuole negare che ciascuno di noi abbia bisogno di un senso di unicità, di una propria identità: questa identità, però, non deve formarsi in contrapposizione alle altre. Una volta il filosofo francese Jacques Maritain scrisse: «Apriamo gli occhi su noi stessi nel momento in cui apriamo gli occhi sulle cose» (citato in A. Barrows, 1995). Più che considerare prescrittivo il sé separativo, dovremmo cercare di apprezzare e coltivare quello che alcuni psicologi femministi chiamano il sé relazionale: «Invece di pensare che uno sviluppo sano si ottiene aumentando l’autonomia, la teoria relazionale suggerisce che maturare significa confrontarsi con una sempre maggiore complessità nelle relazioni» (Gomes-Kanner, 1995). L’ecofilosofo Arne Naess sostiene parimenti che il processo di maturazione psicologica implica lo sviluppo dell’identificazione con gli altri, che consente al sé di abbracciare cerchi dell’essere sempre più ampli fino a includere la grande comunità della Terra (Barrows 1995). Questa espansione è anche un approfondirsi del sé. Gli ecopsicologi sono infatti convinti che fulcro della nostra psiche sia il cosiddetto “inconscio ecologico”. In qualche modo misterioso, questa forma di inconscio collettivo contiene un archivio vivente del processo

evolutivo cosmico. Al contempo è caratterizzato dalla percezione di una perdurante connessione con la Terra. Questa saggezza interiore, nascosta nelle profondità della nostra psiche, ha guidato la nostra evoluzione e ci ha consentito di sopravvivere. Roszak la definisce «l’intelligenza unificata della specie, la sorgente dalla quale scaturisce la cultura in quanto riflesso autocosciente di una sempre affiorante mente della natura». La repressione dell’«inconscio ecologico è la vera radice della complice follia che colpisce la società industriale». Al contrario, «il libero accesso all’inconscio ecologico è la via per raggiungere la salute mentale» (1992). Aprendo gli occhi sulla nostra connessione con la Terra e tutti gli esseri viventi, apriamo gli occhi anche su noi stessi. Per rigenerare l’inconscio ecologico occorre un processo attraverso cui recuperare «l’innata natura animistica dell’esperienza» tipica dei bambini, cosicché «l’io ecologico» possa nascere a nuova vita. Quando ciò si verifica, «l’io ecologico matura un senso di responsabilità etica verso il pianeta» che «essa cerca di intrecciare [...] alla trama delle relazioni sociali e delle decisioni politiche» (Roszak, 1992). Per ampliare e approfondire questo senso del sé in espansione dobbiamo migliorare la capacità di provare empatia e compassione. Nelle parole di Warwick Fox, è lo sviluppo di una «identificazione di stampo cosmologico» grazie alla quale «si ha la percezione vivida dello schema complessivo delle cose, così da giungere a provare un senso di comunanza con tutte le altre entità (che se ne abbia contatto diretto o meno)» (W. Fox, 1990). Albert Einstein sembra riferirsi allo stesso processo quando afferma: [Gli esseri umani sono] parte di un tutto da noi chiamato “Universo”, una parte limitata nel tempo e nello spazio. Facciamo esperienza [di noi stessi], dei [nostri] pensieri e sentimenti come qualcosa di separato dal resto: una sorta di illusione ottica della [nostra] coscienza. Quell’illusione è per noi come una prigione che ci rinchiude nei nostri desideri individuali e nell’affetto per qualche persona a noi vicina. Il nostro compito deve essere di liberarci da questa prigione ampliando il cerchio della compassione, per abbracciare tutte le creature viventi e tutta la natura nella sua bellezza.

(citato in Chang, 2006)

Potrà forse sembrare un compito troppo grande: la compassione e l’interconnessione, tenute in grande considerazione dalle grandi tradizioni spirituali di tutto il mondo, hanno ormai scarso valore nella cultura del capitalismo competitivo. Molti ritengono che le moderne società industriali della crescita siano caratterizzate da una sorta di «Thanatos»30, ossia una morte dell’anima provocata dalla nostra riluttanza a «oltrepassare i confini dell’individuo» per «paura della disintegrazione personale» (Sliker, 1992). Il pensiero di dover allargare i nostri confini o espandere il senso del sé può terrorizzare. Ma la grande apertura generata dalla compassione dischiude anche l’energia dell’Eros – l’abbraccio appassionato alla vita – e la bellezza e la meraviglia del cosmo. Riconoscendo il nostro dipendere dagli altri, dalla grande comunità terrestre e dal cosmo che la avvolge, «facciamo in modo che la gratitudine e il senso di reciprocità fluiscano liberamente e spontaneamente» (Gomes-Kenner, 1995). Liberiamo così una nuova energia, un fuoco che ci può ispirare e sostenere nella lotta per salvare il mondo. Bellezza, meraviglia e compassione Certamente è una prospettiva stimolante, ma come possiamo concretizzarla? Bisogna tenere a mente che la nozione della profonda connessione con la Terra e i suoi processi evolutivi è già presente in noi grazie all’inconscio ecologico. Non dev’essere creata ex nihilo: piuttosto, va risvegliata attraverso un processo che ne riporti alla coscienza la memoria profonda. Questo risveglio dev’essere alimentato dall’amore, dalla bellezza e dalla meraviglia: forze che ci aprono alla parte migliore di noi. A tale proposito l’ecopsicologia richiama l’attenzione su un aspetto di vitale importanza per chi opera per una liberazione totale e per la guarigione del pianeta. Se si parte dal presupposto che le persone sono avide e incivili per natura, oppure stupide e autodistruttive, i discorsi e gli atteggiamenti non potranno che essere sprezzanti,

dispotici e autoritari. Si cominceranno a usare gli stessi strumenti del potere-su, che rende impotente chi invece si dovrebbe motivare all’azione. Tra gli strumenti autoritari, la colpa e la vergogna sono certamente i più pericolosi. Molti di noi, nel profondo del cuore, si sentono sicuramente in colpa per lo stato in cui si trova il mondo e per essere in parte responsabili di questa situazione. È naturale, ed entro certi limiti può anche essere salutare. Ma incoraggiare il senso di colpa, tentare di traumatizzare e far provare vergogna per indurre all’azione è controproducente: «La vergogna è tra le spinte più aleatorie della politica, e troppo facilmente scivola nel risentimento. Mettete in discussione l’intero stile di vita di qualcuno e tutto quello che riuscirete a ottenere sarà una rigida posizione difensiva» (Roszak, 1995). La vergogna ci chiude in noi stessi, ci paralizza. Sentirsi in colpa aumenta la percezione della disarmonia, e questo porta a un maggiore isolamento, all’alienazione e alla negazione. Far leva sul senso di colpa può avere anche altri pericolosi effetti collaterali. Secondo Roszak, «la politica autoritaria si radica nella coscienza della colpa», che nasce quando si «convincono le persone a non fidarsi l’una dell’altra, a non fidarsi di se stesse» (1992). In modo simile, Roger Walsh afferma: La colpa cerca sempre qualcuno da condannare e non fa particolare attenzione a chi sia. Se si tratta di noi stessi, ci condanniamo e ci denigriamo, con ciò esacerbando l’indegnità e l’inadeguatezza che aveva dato inizio all’intero problema. Se sono gli altri, cerchiamo qualcuno che faccia da capro espiatorio. Tra queste persone potrebbero essere comprese le vittime stesse. (1984 [1991, p. 159])

Secondo l’ecopsicologia dovremmo invece partire dal presupposto che le persone sono fondamentalmente sensibili e compassionevoli. Nel profondo, tutti noi amiamo il mondo e le creature che lo abitano. Siamo tutti capaci di farci commuovere dalla sua bellezza, siamo tutti capaci di provare stupore e venerazione. Partendo da questo punto fermo si possono introdurre le persone al potere che risiede nel

profondo di se stesse e intorno a esse, il misterioso Tao che scorre attraverso tutto e in tutto. Se riusciremo ad «ampliare il cerchio della compassione» e a espandere il senso del sé, non avremo bisogno di motivazioni esterne per agire. Come osserva Arne Naess, «il voler bene viene naturale se il “sé” viene ampliato e approfondito. [...] Come non occorre una morale per respirare [...] così, se il “sé” amplificato abbraccia un altro essere, non c’è bisogno di un’esortazione morale per volergli bene» (citato in W. Fox, 1990). Quando il nostro agire è radicato nel sé espansivo ed ecologico, il “dovere” morale associato alla colpa e alla vergogna diviene superfluo. L’amore e la bellezza, più che l’obbligo, diventano il fondamento dell’azione: un’idea da sempre tramandata dalle grandi tradizioni spirituali di tutto il mondo. La preghiera del “Sentiero della Bellezza” del popolo navajo, negli Stati Uniti sudoccidentali, esemplifica questa visione dell’etica: «I miei pensieri saranno belli, le mie parole saranno belle, le mie azioni saranno belle, percorrerò la mia vita lungo il Sentiero della Bellezza». Espandendo il nostro senso del sé fino a includere la bellezza intorno a noi e ad armonizzarci con essa, diventiamo noi stessi parte di questa bellezza in continua evoluzione. Vivere un sé ampliato – che comprende l’inconscio ecologico – genera inoltre un senso di appagamento che libera dalla rete di inadeguatezza, negazione, dipendenza e disperazione che ci intrappola. Ciò vale in particolare per la dipendenza dal consumo: man mano che cresce il sé ecologico, al vuoto del sé consumistico si sostituisce un senso di sempre maggiore soddisfazione e integrazione. La brama infinita di possesso cessa nel momento in cui il vuoto del nostro essere è finalmente colmato. Il rituale dello shopping perpetuo può essere sostituito da attività più gratificanti come costruire la comunità, impegnarsi in imprese artistiche, contemplare la bellezza della natura. Quando facciamo questo salto, si liberano nuove energie

da dedicare a combattere l’ingiustizia e a guarire il pianeta.

Dalla paralisi alla riconnessione Abbiamo creato una situazione mondiale che sembra richiedere una maturazione psicologica e sociale senza precedenti per la nostra sopravvivenza. [...] Dal momento che richiede maggiore sviluppo e maggiore maturazione da parte nostra, la crisi globale può quindi funzionare da catalizzatore evolutivo. La necessità può essere la madre non solo dell’invenzione, ma anche dell’evoluzione. Questo ci dà una visione totalmente diversa della nostra situazione. Pertanto da questa prospettiva la nostra attuale crisi può essere vista non come un disastro totale ma come una sfida evolutiva, non tanto come uno strattone verso la regressione e l’estinzione, ma come una spinta verso nuove vette evolutive. [...] Questa prospettiva ci dà sia una visione del futuro sia un motivo per lavorare in quella direzione. (Walsh, 1984 [1991, pp. 167-169]) La crisi vissuta dal nostro pianeta sicuramente richiede una maturazione psicologica collettiva, un nuovo modo di essere umani nel mondo. L’ecopsicologia ci fornisce alcuni spunti su cosa dovrebbe contenere questa nuova modalità d’essere umani, ci presenta una concezione della vita in contatto con il potere della bellezza, dello stupore, del rispetto e della compassione, ripristinando i vincoli comunitari tra noi, con le altre creature e con l’intero cosmo. In che modo mettere in pratica questa visione? Non esistono ricette facili. Ci sono ostacoli molto concreti a impedire il cammino verso la trasformazione. Fin qui abbiamo esaminato in che modo le dinamiche dell’oppressione interiorizzata, della negazione, delle dipendenze e della disperazione ci ostacolano e come i sistemi di dominio rafforzano tali dinamiche per perpetuare la paralisi collettiva. Nell’approcciarci a una nuova visione e a un nuovo modo d’essere nel mondo, dobbiamo quindi chiederci come possiamo liberarci da queste trappole. Dobbiamo anche domandarci cosa fare

per aprirci a nuove sorgenti di potere e liberare le energie necessarie all’azione trasformatrice. Nell’ultimo paragrafo di questo capitolo, esamineremo i processi utili a liberarci dalle forze che ci intrappolano e a riconnetterci con il potere creativo del Tao. Un primo processo riguarda lo sviluppo della nostra consapevolezza. Essere consapevoli significa aprirsi alla realtà, una realtà che contiene bellezza e gioia ma anche paura e dolore. Si potrebbe partire da quegli aspetti della realtà che più facilmente favoriscono l’apertura: l’esperienza della bellezza, dello stupore e della devozione. Quando le barriere che sono dentro di noi cominciano a dissolversi, possiamo far affiorare alla coscienza la realtà della disarmonia, ossia che la bellezza è stata infangata, che abbondano le sofferenze gratuite, che le cose non sono come dovrebbero o potrebbero essere. Riconoscere e analizzare le reazioni emotive, in particolare quella legata alla realtà del dolore, è un altro processo di cruciale importanza per riconnettersi al potere autentico. Come rileva Joanna Macy, provare dolore per la nostra condizione è naturale e salutare; è morboso o disfunzionale solo se lo neghiamo o lo reprimiamo. Reprimere richiede un’energia inaudita: succhia via la nostra vitalità e intorpidisce la mente e lo spirito. Sbloccando ed esprimendo il dolore, sblocchiamo anche l’energia del potere-dall’interno. Condividere ed esprimere il dolore aiuta inoltre a mettersi in connessione con gli altri e con l’intera rete della vita, e a far nascere il potere-con (Macy, 1995). Scavando più a fondo nel nostro comune dolore, ci apriamo all’interconnessione profonda che ci lega alle persone, agli esseri viventi, alla Terra e al cosmo intero. Possiamo a quel punto cercare un modo per ampliare la compassione e costruire la comunità e la solidarietà. Così facendo ci si avvia anche a una comprensione più profonda della propria condizione e alla ricerca di nuove fonti di saggezza che indirizzino l’agire. Approfondendo la compassione e costruendo la comunità, si può imparare a concentrare l’attenzione e a

usare l’energia in modo più efficace. Si può individuare poi una nuova visione e uno scopo che guidino e spronino alla lotta per risanare la comunità terrestre. Quando esamineremo più a fondo questi processi nei seguenti sottoparagrafi, ci accorgeremo che essi sono in realtà parti complementari di un unico, grande processo di riconnessione con il potere. Non vanno intesi in maniera lineare: non si tratta di intraprenderne uno, poi un altro in sequenza. Bisogna al contrario intraprenderli tutti come in una spirale che va sempre più a fondo. È però utile dare un nome a questi processi ed esaminarli singolarmente. Si comincerà così a vedere con più chiarezza come possiamo vincere la paralisi e connetterci con il Tao della liberazione.

Il risveglio attraverso la bellezza Parlare di bellezza [...] non è un mero esercizio di estetica o un farfugliamento sull’ineffabile. È un bisogno vitale e impellente, assolutamente rilevante ai fini della possibilità di sopravvivenza, quantomeno di una sopravvivenza dignitosa e umana. Non possiamo quindi che concordare con Platone, il quale nella Repubblica afferma che «scopo dell’educazione è insegnarci ad amare la bellezza». (Ferrucci, 1982) Come vincere il torpore psichico indotto dall’oppressione interiorizzata, dalla negazione, dalla dipendenza e dalla disperazione? Lo psicologo James Hillman (1996 [2013]) suggerisce che dovremmo innanzitutto risvegliare l’anima attraverso la bellezza e il piacere. Recuperando il nostro senso estetico, potremo ritrovare anche la sensualità e dissolvere i confini che ci separano dagli altri esseri. Come rileva Laura Sewall, cominceremo a quel punto «a interessarci a ciò che vediamo e, si spera, ad amare il mondo materiale, la nostra Terra. Poiché l’amore modifica i nostri comportamenti, potrebbe essere cruciale per la salvaguardia del pianeta onorare l’esperienza sensuale e sensoriale» (1995). In ultima analisi, risvegliare i sensi e riavvicinarsi alla bellezza aiuta a modificare la percezione della realtà. Ci si

affranca così dai confini intorpidenti dell’ego per avvicinarsi a un’esperienza aperta e consapevole del mondo. Fulcro di questo processo è l’acquisizione di nuovi livelli di consapevolezza. Il silenzio e la solitudine possono aiutare: serve tempo per fermarsi, ascoltare il proprio respiro, diventare consapevoli del proprio corpo e delle sensazioni che si provano. In questo modo sviluppiamo una maggiore coscienza. Per chi è preso da attività frenetiche, è importante prendersi del tempo per essere, semplicemente, senza una tabella di marcia prestabilita. Come ci ricorda il monaco buddhista Thích Nhât Hanh (1997), anche i gesti semplici – lavare i piatti, pulire casa, bere una tazza di tè o camminare – possono essere un’occasione per meditare, se ci si concentra su ciò che si fa invece che sui pensieri che si affollano nella mente. Non è un processo facile, eppure poco a poco si impara a focalizzare la consapevolezza al di fuori della prigione dell’ego e ad ampliare il senso del sé. All’inizio questa maggiore consapevolezza potrebbe limitarsi al corpo e alle proprie sensazioni, ma lentamente si potrà espanderla fino ad abbracciare cerchi sempre più ampi del mondo che ci circonda. A livello pratico, un esercizio interessante è riflettere sulle cose che davvero ci rallegrano e ci danno piacere. Ci si renderà conto che la maggior parte di queste cose costa poco o nulla: stare con gli amici, passeggiare all’aria aperta, ascoltare musica, gustare un semplice pasto. Questo fa capire innanzitutto quanto è discutibile il consumismo come via verso l’autentica felicità. Quello che ci dà gioia si può trovare anche in uno stile di vita semplice. Anzi, se quello stile di vita contempla più tempo libero, può offrire anche più occasioni per provare il piacere autentico. Tuttavia, ancor più importante è che le attività che ci danno gioia e ci rendono felici costituiscono una sorta di “varco verso la devozione”. Poiché è più facile prestare attenzione a qualcosa che si ama, ogni volta che ci impegniamo in qualcosa che ci piace possiamo fare uno

sforzo cosciente per esercitare la consapevolezza. Questo aiuterà a essere attenti anche negli altri settori della vita. Dovremmo sforzarci di dedicare più tempo a queste attività, perché donano gioia e rinnovano lo spirito (e possono anche indirizzarci verso uno stile di vita più sostenibile). Anche fare esperienza della natura è fondamentale per espandere la consapevolezza e sviluppare la coscienza. Impiegare del tempo per passeggiare in un bosco o vicino a un fiume o sulla spiaggia ritempra straordinariamente lo spirito. Aprendoci al suono degli uccelli, del vento tra gli alberi e dello scorrere dell’acqua il nostro senso del sé si può espandere oltre i confini dell’ego. Quando contempliamo la bellezza di un fiore, la scintillante danza del sole sull’acqua, la soffice sensazione dell’erba sui piedi nudi, ci rendiamo disponibili alla comunione con tutti gli esseri viventi. Per alcuni riprendere il contatto con il mondo naturale può essere un’impresa non da poco. È difficile in particolare per chi vive nei quartieri poveri delle grandi città. Eppure anche in questi casi le possibilità ci sono. Alcune comunità, ad esempio, hanno cominciato a coltivare dei giardini comunitari nei terreni abbandonati. Sono iniziative che portano benefici straordinari: creano spazi in cui riunirsi per lavorare insieme ed entrare dunque in relazione; producono cibo sano che integra e arricchisce l’alimentazione di queste persone; danno l’opportunità di stabilire un contatto diretto, sensoriale e salutare per l’anima con la terra, i semi e le piante. Esistono altri progetti altrettanto benefici, come il ripristino degli spartiacque locali o la coltivazione degli alberi di quartiere. Riconnettendoci alla bellezza, in particolare quella del territorio in cui abitiamo, cominciamo anche a superare l’alienazione spaziale, il senso di sradicamento. Ci si potrebbe a questo scopo impegnare per migliorare l’”alfabetizzazione rurale”, imparando a riconoscere le specie autoctone, studiando la geografia locale e cercando di comprenderne l’interrelazione all’interno dell’ecosistema locale.

Questi processi ci aiutano a ritrovare il senso del nostro essere “indigeni” di un luogo, indipendentemente dal fatto che vi siamo nati o meno. Non penseremo più di “possedere” la terra ma ci sentiremo parte di essa; cominceremo anzi a pensare che siamo noi ad appartenere a essa. Scopo di queste attività è sviluppare la querencia, una parola spagnola che secondo la definizione di Kirkpatrick Sale identifica «un profondo senso di benessere interiore derivante dal conoscere un luogo ben preciso della Terra, i suoi cicli quotidiani e stagionali, i suoi frutti e i suoi profumi, il suo suolo e i suoi canti d’uccello. Un posto in cui, in qualsiasi momento si ritorna, dall’anima si leva un sospiro interiore di identificazione e di riconoscimento» (2001). Quando si approfondisce la consapevolezza, si espande la percezione e si ristabilisce il contatto con un luogo, si comincia anche a provare profondo rispetto e amore per la Terra e le sue creature. Nel lessico dell’ecopsicologia, si sviluppa il sé ecologico. Si comincia allora a prendersi cura di tutte le forme viventi spontaneamente, non per un “dovere” morale ma spinti dall’amore. Scrive Sewall: Se è alimentata dalla bellezza e dalla sensualità, la nostra relazione con il mondo visibile può smuovere il nostro cuore. Quando il mondo visibile diventa cosciente e vitale, lo possiamo percepire fin nel nostro corpo. Così, il mondo sensoriale si incarna dentro di noi: è una relazione viscerale, l’esperienza soggettiva diventa carnale. Ci innamoriamo. Partecipare in questa maniera è essenziale per potersi prendere cura della Terra: dobbiamo vederla «con gli occhi dell’amore». (1995)

Elaborazione della disperazione e opera di potenziamento Come la bellezza e il piacere inducono in noi un senso di maggiore interconnessione, altrettanto può fare l’analisi delle emozioni associate all’attuale condizione di crisi, soprattutto il dolore e la paura. Come già rilevato, la paura è in larga parte sottesa all’oppressione interiorizzata, alla negazione, alla disperazione e alle dipendenze. Anche il dolore gioca un ruolo importante, poiché la paura è in larga misura paura del dolore: il dolore che proviamo oggi e il dolore che

potremmo provare in futuro, il nostro dolore e quello delle persone che amiamo. L’impotenza arriva quando cerchiamo di sfuggire alla paura attraverso l’avversione, le dipendenze e l’illusione. Il dolore è però un’emozione talmente forte da riportarci alla realtà e costringerci a riconoscere le nostre paure. Questo crea nuove opportunità per crescere. Scrive Walsh: Le minacce senza precedenti di oggi possono forse richiamarci a una vita più attenta e ad un contributo maggiore. Se decidiamo di permetterglielo, potrebbero far crollare le nostre difese e aiutare a confrontarci con la vera condizione del mondo e il nostro ruolo nel crearlo. Potrebbero richiamarci ad esaminare la nostra vita e i nostri valori con un’urgenza e una profondità nuove e ad aprirci pienamente, forse per la prima volta, alle questioni fondamentali della nostra esistenza. (1984 [1991, p. 160])

Riconoscendo ed esperendo le emozioni si edifica il senso della solidarietà e della comunità, si sbloccano le energie represse, si acquisisce maggiore lucidità e ci si prefigge uno scopo. Insomma, analizzare il dolore e la paura risveglia lo spirito e offre nuove risorse da incanalare nella lotta per la trasformazione. Come suggerisce Joanna Macy, dobbiamo avviare una «elaborazione della disperazione e un’opera di potenziamento» (o «un’elaborazione che ci rimette in connessione») che è simile all’elaborazione del lutto di chi ha subito una perdita: Come l’elaborazione del lutto è il processo attraverso il quale si sbloccano le energie intorpidite riconoscendo la perdita di una persona cara e addolorandosi per essa, così tutti noi dobbiamo sbloccare i nostri sentimenti per il pianeta minacciato e la possibile scomparsa della nostra specie. Fino a quando non lo faremo, il nostro potere di immaginare una reazione creativa rimarrà bloccato. (1983)

Macy individua diverse fasi dell’elaborazione della disperazione e dell’opera di potenziamento. La prima è il riconoscimento del dolore e della paura. Come già evidenziato, il dolore è morboso solo se è negato. Anche il potere paralizzante della paura è amplificato se essa rimane inespressa. Occorre dunque riabilitare la paura e il dolore, riconoscendo che è naturale e sano provare queste emozioni. Come rileva Macy, «per la prima volta nella storia contempliamo la

possibilità della morte della nostra specie. Guardare in faccia la disperazione e l’angoscia per il mondo costituisce una sorta di rito iniziatico necessario alla nostra crescita, al compimento di quella promessa che è dentro di noi» (1983). Una volta riconosciuti il dolore e la paura, si dovrà trovare il coraggio di provare fino in fondo queste emozioni. Non basta ricevere delle informazioni: molti di noi già sanno che siamo in pericolo e che il nostro futuro è minacciato. Abbiamo però difficoltà ad ammetterlo per paura di sentirci vulnerabili o disperati. Per andare oltre la paralisi bisogna abbassare le difese e partecipare al flusso del dolore, permettendo a noi stessi di esprimerlo. Questo implica un processo di “disintegrazione positiva” attraverso il quale impariamo ad abbandonare difese e modi d’essere ormai superati. L’arte, il movimento o il rituale possono favorire questa pratica del lamento. Aprendosi al flusso delle emozioni, si potranno attraversare queste ultime fino a quando non se ne raggiungerà la sorgente autentica. Il dolore e persino la disperazione sono infatti radicati nella compassione, nella capacità di con-patire: Dove si colloca, dunque, la disperazione? E perché il nostro dolore per il mondo è così importante? Perché queste reazioni manifestano il nostro essere interconnessi. Il sentimento delle afflizioni sociali e planetarie è un varco verso una coscienza sociale sistemica. Per usare una metafora, è un sorta di “arto fantasma”: come una persona amputata continua a sentire prurito e fitte all’arto reciso, così noi proviamo dolore in quelle estremità di noi stessi – il nostro corpo – di cui dobbiamo ancora diventare pienamente coscienti. (Macy, 1983)

Anche la paura affonda le radici nell’amore: abbiamo paura di veder soffrire o morire ciò a cui teniamo. Sbloccando i sentimenti repressi si libera l’energia: «Quando superiamo i vecchi tabù e le reazioni condizionate, cominciamo ad avvertire la promessa che è dentro di noi. Sentiamo schiudersi nuove possibilità. Siamo come organismi che si risvegliano dal sonno: stendiamo un braccio, pieghiamo una gamba, emettiamo dei suoni» (Macy, 1983). Si tratta in un certo senso di un processo catartico, eppure è anche qualcosa di

più: Presentare l’elaborazione della disperazione e l’opera di potenziamento come una semplice catarsi equivarrebbe a dire che, dopo aver ripreso possesso e condiviso le nostre emozioni per la sofferenza generale e il possibile annientamento di massa, potremmo andarcene via purgati dal dolore per il mondo. Non è possibile né è adeguato ai nostri bisogni, dal momento che ogni giorno ci sono notizie che causano nuovo dolore. Riconoscendo la capacità di patire con il mondo, ci apriamo invece a nuove dimensioni dell’essere. Dove il dolore c’è ancora, ma c’è anche molto altro. C’è meraviglia e persino gioia nel constatare il nostro reciproco appartenerci. E c’è anche una nuova forma di potere. (Macy, 1983)

La fase finale di questo processo consiste dunque nel recuperare il potere dell’interconnessione. Sbloccando il nostro dolore e riconoscendo le nostre paure, ci apriamo nuovamente alla grande rete vivente di cui facciamo parte. Siamo liberi di allontanarci dal guscio soffocante costituito dall’illusione dell’ego e di riconnetterci con il potere del Tao che scorre attraverso tutte le cose. Possiamo quindi considerare l’elaborazione della disperazione e l’opera di potenziamento come una strada ulteriore per acquisire una maggiore consapevolezza e non farci «schiacciare dal terrore, dalla pena, dalla rabbia e dal senso di impotenza» che il dolore e la paura generano in noi (Macy, 1983). In realtà l’elaborazione della disperazione e il risveglio attraverso la bellezza sono complementari. Ricongiungerci alla bellezza può rafforzarci e darci il coraggio per affrontare il dolore. D’altra parte, proprio il dolore è alla radice dell’amore e della compassione per la rete della vita che è intorno a noi. Combinati insieme, questi processi sono senza dubbio più potenti ed efficaci di quanto lo sarebbero se invece fossero separati. Coltivare la compassione Insieme all’ampliamento della consapevolezza, l’elaborazione della disperazione e il risveglio attraverso la bellezza mirano entrambe a coltivare e accrescere la capacità di provare compassione. La compassione comporta un’espansione del sé oltre l’ego in modo che l’aver cura fluisca da un’estensione naturale del nostro stesso

essere. Essere realmente compassionevoli significa identificarsi con gli altri e anzi con l’intera rete della vita. La compassione ci consente quindi di fare esperienza dell’interconnessione. Spesso si pensa che la compassione sia soltanto l’identificazione con le sofferenze degli altri; in realtà essa implica anche la condivisione della gioia, del piacere e dell’estasi. La bellezza ci fa uscire da noi stessi e ci spinge a sviluppare la sensibilità e la consapevolezza. Siamo stimolati a provare devozione, meraviglia e rispetto: tutti aspetti fondamentali per la coscienza ecologica dell’interconnessione. Di norma non si associano la compassione e la consapevolezza al potere, probabilmente perché si pensa a esso in termini di dominio (o potere-su) e la compassione può addirittura sembrare una debolezza. La sinergia del potere-con, al contrario, poggia proprio sulla consapevolezza e sull’interconnessione. Esso «richiede attenzione all’ambiente fisico e mentale circostante e prontezza di riflessi nel cogliere le reazioni proprie e altrui. È la capacità di agire in modo da aumentare la partecipazione totale e consapevole alla vita» (Macy, 1995). Man mano che potenziamo la compassione e la consapevolezza ci riconnettiamo e recuperiamo il nostro potere di agire di concerto con gli altri. Non a caso Michael Lerner afferma che compito fondamentale di una psicologia di massa dell’empowerment dovrebbe essere quello di stimolare la compassione (1986). Coltivare la compassione è un processo, anzi un percorso di vita. Risvegliando i sensi attraverso la bellezza e il piacere e facendo esperienza della paura e del dolore si sviluppa la compassione per se stessi e per gli altri. Prestare attenzione all’esperienza del corpo può inoltre liberare le facoltà intuitive, aumentare la sensibilità, espandere i propri limiti al di là dell’ego e mettere in contatto con nuove fonti di potere. Anche le attività creative possono connetterci con il nostro potere-dall’interno, dandoci la forza interiore di abbandonare le difese che ci isolano e di espandere noi stessi al di là dei confini dell’ego.

Una volta alimentata la compassione, si potranno raggiungere nuovi livelli di coscienza neutralizzando gli effetti limitanti dell’impotenza interiorizzata. Si potrà allora cogliere intuitivamente la natura della realtà e la fondamentale connessione tra tutte le cose e tutti gli esseri. Costruire la comunità e la solidarietà Non si può però coltivare la compassione e la consapevolezza isolandosi dagli altri. La compassione è autentica solo se l’interconnessione diventa una realtà vitale grazie alla comunità e alla solidarietà. Non possiamo sperare di trasformare il nostro modo d’essere umani nel mondo senza il sostegno e lo stimolo di altre persone che condividono lo stesso percorso. Inoltre, il potere-con necessario per modificare strutture e atteggiamenti si può esercitare solo di concerto con gli altri. Va peraltro ricordato che numerosi meccanismi usati dal sistema dominante per rafforzare l’impotenza mirano proprio a isolarci gli uni dagli altri e a inibire lo sviluppo del potere-con, come già evidenziato a proposito dell’impatto dei mass media. Allo stesso tempo le dipendenze come quella dal consumo servono a placare il bisogno di relazioni umane e di comunità con dei falsi surrogati. Costruire la comunità e il senso di solidarietà riduce quindi l’impotenza interiorizzata perché allevia il bisogno di comportamenti dipendenti e ci libera dalla mutilante prigione dell’isolamento. Lerner (1986) segnala tuttavia che formare una comunità non deve significare ritornare alle strutture del passato, come le famiglie disfunzionali che tante ferite hanno procurato. Per essere veramente liberatrice, la comunità non deve fondarsi su relazioni oppressive né su diversi gradi di potere e di rispetto. Serve una nuova forma di comunità, basata sulla reciprocità e sul comune impegno alla crescita e all’azione trasformatrice. Come afferma Marcia Nozick, questo tipo di comunità è un elemento fondamentale della riscoperta del potere individuale. Se è

vero che la conoscenza di sé è essenziale per lo sviluppo del poteredall’interno, è altrettanto vero che tale conoscenza «di rado emerge nell’isolamento, ed è invece di solito innescata da un processo interattivo di identificazione con gli altri all’interno di un percorso comune. Chi ha la stessa visione e vive una situazione analoga alla nostra diventa uno specchio che restituisce l’immagine di ciò che siamo e di ciò che potremmo diventare». La comunità è quindi essenziale per «mettere in pratica le nostre facoltà di agire e realizzare il cambiamento nella nostra vita» (1992). Per essere davvero liberatrice e favorire l’empowerment, la comunità deve anche aiutarci a coltivare e praticare la compassione. Lerner da par suo afferma che bisogna imparare a essere compassionevoli innanzitutto con se stessi, perché sforzarsi di cambiare implica «commettere degli errori. Scopo della compassione dev’essere prendere atto di questo, combattere lo sconforto e accettare i limiti della propria trascendenza senza smettere di provare a superarli». Dobbiamo anche imparare a perdonare chi ci circonda e ad accettarne gli errori. Questo ci impone di «conoscere e riconoscere nel dettaglio le esperienze di vita di ciascuno e di giungere a una comprensione profonda dell’influenza dell’ambiente sociale, economico e politico su quelle esperienze» (Lerner, 1986). La comunità e la solidarietà sono quindi impegnative. Ma sono di cruciale importanza se vogliamo crescere e cambiare, se vogliamo davvero guarire dalla patologia che ci affligge e ci rende impotenti. Secondo Roszak, «la strada per guarire dalla nostra complice follia non può [...] essere quella della terapia individuale. Non abbiamo né il tempo né gli strumenti medici per riporre le nostre speranze in questa strategia» (1992). Dev’essere la comunità il contesto all’interno del quale cerchiamo di guarire e di stimolarci l’un l’altro ad acquisire nuovi modi di essere. Coltivare la volontà Una volta che si comincia a recuperare il potere e a riconnettersi

con esso, come lo si può incanalare e rendere efficace? Possono essere utili al riguardo le intuizioni psicologiche di Roberto Assagioli, fondatore della psicosintesi. Di particolare interesse in questa sede è la sua idea di volontà. Il ruolo della volontà è spesso frainteso e sottovalutato perché viene scambiato con l’idea vittoriana della forza di volontà: la volontà non va confusa con una rigida autolimitazione o con un inutile e faticoso ricorso alla forza bruta. Nella visione di Assagioli, la vera funzione della volontà è indirizzare, non imporre. La volontà può talvolta comportare uno sforzo, ma è uno sforzo simile a quello richiesto per guidare un veicolo, non per spingerlo su per una ripida collina (Ferrucci, 1982). Potenziare la volontà ci consente di agire liberamente in accordo con la nostra natura più profonda invece che spinti da una pulsione esterna (Sliker, 1992), e questo ci fa riconnettere con il nostro poteredall’interno. Fulcro delle tecniche descritte da Assagioli per coltivare la volontà è lo sviluppo della concentrazione. Piero Ferrucci, uno degli allievi più autorevoli di Assagioli, cita il filosofo Hermann Keyserling per spiegare perché la concentrazione è così importante: La capacità di concentrazione è la forza propulsiva di tutto il meccanismo psichico. Niente migliora la capacità di azione quanto il suo sviluppo. Qualsiasi successo, in qualsiasi ambito, si può spiegare con l’uso intelligente di questa capacità. Nessun ostacolo può frapporsi in modo permanente all’eccezionale potere della concentrazione massima. (citato in Ferrucci, 1982)

Imparare a concentrarsi, a focalizzare l’attenzione, è dunque il primo passo per coltivare la volontà e recuperare il potere di agire. È importante ricordare che la concentrazione è in sostanza una forma mirata di attenzione e di consapevolezza. Come abbiamo visto, la capacità di attenzione è anche il fulcro della compassione: essa ci consente di espandere la nostra capacità di identificazione e di abbracciare cerchi dell’essere sempre più ampli. Lo sviluppo della volontà può dunque aiutarci ad approfondire il senso

dell’interconnessione con gli altri, e quindi la capacità di esercitare il potere di concerto con gli altri. Recuperare la visione e la finalità Roberto Assagioli (1965 [1966]) individua cinque fasi nel processo attraverso cui si esercita la volontà. Innanzitutto occorre definire un obiettivo o una motivazione verso cui orientarsi, una visione che ci ispiri e ci illumini. Solo allora si potrà passare alle altre fasi: deliberazione (o discernimento), affermazione, pianificazione e controllo dell’esecuzione del piano. Cruciale nell’intero processo di esercizio della volontà e del potere è la presenza di una visione e di una finalità ben definite. Se non si sa in quale direzione muoversi si rimane paralizzati. Come spiega Meredith Young-Sowers: Se non abbiamo una visione, il nostro corpo e il corpo del pianeta non capiscono se accettiamo o meno l’attuale stato di depressione, afflizione, malattia e annientamento. Senza una visione, le energie interiori del nostro corpo e le emozioni rimangono in sordina, e cominciano a resistere al movimento e al cambiamento. [...] La paura nasce dal non avere un piano o una storia interiore che ci diano speranza. In poche parole, una visione. (1993)

David Korten insiste su questo punto. A suo avviso, molti di noi hanno già un’idea abbastanza precisa dei cambiamenti indispensabili per sopravvivere come specie e garantire l’integrità della biosfera. Eppure «scongiurare l’estinzione non è una ragione sufficiente per indurci a compiere i difficili cambiamenti che sono richiesti». Per poter «fare una scelta di vita, serve una visione coerente che prospetti nuove possibilità dotate di senso» (1995). Abbiamo già provato a delineare per sommi capi questo tipo di visione. Sicuramente essa dovrà comprendere un sistema economico che promuova uno stile di vita semplice e dignitoso e che rispetti e si prenda cura della “grande economia”, ossia la Terra e la sua rete della vita. Dovrà inoltre prevedere nuove modalità di relazione tra gli uomini e tra questi e tutti gli esseri che convivono con loro sul pianeta,

modalità che si allontanino dal patriarcato e dall’antropocentrismo per orientarsi verso un nuovo modo di esercitare il potere creativo, in armonia con il Tao. Questa visione dovrà anche aiutare a superare la paralisi generata dall’oppressione interiorizzata, dalla negazione, dalla disperazione e dalle dipendenze. Essa implicherà altresì l’abbandono della nostra ecopsicosi e l’espansione del senso del sé grazie a una nuova concezione dell’interconnessione e della compassione. Infine, fondamento di questa nuova visione deve essere una nuova comprensione della realtà e una nuova concezione del posto che l’umanità occupa all’interno del cosmo: sarà dunque richiesta una cosmologia vivente e vitale. Scrive Jim Conlon: Nella nostra psiche vi è creatività quando la nostra coscienza non è più umanocentrica ma creatocentrica. Tale atto di creatività è una sorta di resurrezione della psiche. Rende possibile il misticismo e ci salva da una visione del mondo antropocentrica. Otto Rank, un collega di Freud, scriveva: «Quando la religione ha perduto il cosmo, [l’umanità] è diventata nevrotica e ha inventato la psicologia…». Il dottor Stanislav Grof, il profetico psichiatra autore del volume La mente olotropica, vede la psiche come coestensiva all’universo. Il contesto della guarigione diviene dunque il cosmo, non la persona. Ci rendiamo conto che noi siamo nel cosmo e che il cosmo è in noi. La psiche non è un oggetto da sondare e analizzare: piuttosto, è una fonte di meraviglia, di sacralità e di celebrazione. (1994)

Nei capitoli seguenti esamineremo le nuove idee cosmologiche che si fanno strada a partire dalla scienza moderna. Ci affacceremo così a nuove, sorprendenti intuizioni sulla natura dell’universo e della trasformazione. Ne risulterà un più profondo senso della finalità ed emergeranno le linee guida di una visione organica che ci stimoli a intraprendere un’autentica trasformazione. 21 David Suzuki e Peter Knudtson (1992), per esempio, rilevano: «Un gruppo di nativi della Columbia Britannica ha tradotto la parola che nella loro lingua è la più prossima al concetto occidentale di “risorse naturali” con questa brillante espressione: “Afferrare il manico dell’intera Vita”. Per una società aborigena – passata o presente – con un’etica e un vocabolario visceralmente legati al mondo naturale, i tentativi di avviare uno sviluppo economico delle terre tribali sacre potrebbe rappresentare un processo molto più doloroso e introspettivo di quanto non lo sia stato storicamente per l’Occidente».

22 Un esempio interessante di questo “tenere le cose lontano dagli occhi” è il disboscamento delle foreste della British Columbia, in Canada: le compagnie forestali e il governo hanno creato dei “corridoi scenografici” lungo le principali arterie stradali per nascondere la devastazione. Solo percorrendo le strade secondarie o sorvolando la provincia si può notare fino a che punto è giunta la deforestazione. 23 Nel 2006 il mercato USA era controllato da otto colossi mediatici, tre dei quali sono “new media”: Yahoo, Microsoft e Google. Le altre cinque corporation in cima alla classifica erano: Disney (ABC), AOL-Time Warner (CNN), Viacom (CBS), General Electric (NBC) e News Corporation (FOX). Quasi tutte sono realtà molto potenti anche a livello globale. 24 La frammentazione della conoscenza avviene anche in altri ambiti: si ravvisa ad esempio nel culto della specializzazione ormai diffuso ovunque, dalla scienza alla politica, che impedisce di integrare tra loro le informazioni per desumerne un quadro complessivo. 25 Il piano discusso al Congresso USA nel giugno del 2009 prevedeva ad esempio una riduzione entro il 2020 delle emissioni statunitensi di gas serra del 4 per cento rispetto ai livelli del 1990: molto meno rispetto all’obiettivo del 7 per cento entro il 2012 fissato dal Protocollo di Kyoto. In base al piano, le emissioni si dovrebbero ridurre in modo più consistente nel lungo periodo (fino all’85 per cento dei livelli attuali entro il 2050), ma questa riduzione, almeno per il momento, sembra procedere a rilento. Numerosi esperti sostengono che dovremmo ridurre entro il 2020 le emissioni dell’80 per cento rispetto ai livelli attuali per poter scongiurare gli effetti più disastrosi del cambiamento climatico. 26 Si potrà obiettare che Internet è diverso dagli altri mezzi di comunicazione, se non altro perché ci consente di metterci in contatto e di interagire con gli altri. Eppure anche in questo caso le corporation inondano ormai la rete di pubblicità, di materiali che incoraggiano lo sfruttamento sessuale delle donne e di giochi spesso pieni di violenza. L’uso costruttivo del web si deve soprattutto a individui e organizzazioni popolari che riescono a piegare questo nuovo medium a favore dell’azione trasformatrice. 27 Lo illustra bene una dichiarazione di Carol Herman, da anni vicepresidente della Grey Advertising: «Non basta fare pubblicità in televisione. [...] Bisogna raggiungere i ragazzi a ogni ora del giorno: a scuola, al centro commerciale [...], al cinema. Bisogna entrare a far parte della loro vita» (citato nell’articolo “Selling America’s Kids: Commercial Pressures on Kids of the 90’s” della Consumers Union). 28 Naturalmente molti – forse la maggioranza – non lo fanno volontariamente. Probabilmente sono stati costretti a emigrare in città a causa delle condizioni economiche o perché speravano in un’istruzione migliore. Eppure l’isolamento è lo stesso. I più colpiti sono sicuramente gli abitanti dei sobborghi poveri, perché di rado varcano i confini della città e nei loro quartieri l’ambiente è spesso degradato. 29 Va ricordato che Freud in altre sedi ha parlato della natura come di qualcosa di «eternamente estraneo» che «ci distrugge con freddezza, crudelmente e inesorabilmente» (citato in Roszak, 1995). 30 ‘Morte’ in greco. Thanatos era anche il dio greco della morte.

PARTE SECONDA

Cosmologia e liberazione

5. Riscoprire la cosmologia Il Tao dà origine a tutte le cose, il potere del Te le sostiene. Ogni cosa assume una forma fisica, modellata dal suo ambiente. Ogni cosa onora il Tao, e venera il Te, non per costrizione, ma per sua stessa natura. Il Tao dà vita a tutti gli esseri, il potere del Te li nutre, li coltiva, guida la loro evoluzione, li conforta e li protegge. Creare senza possedere, agire senza aspettative, guidare senza controllare, questo è il mistero del potere del Te. TAO TE CHING §51 Per la maggior parte di noi la parola “cosmologia” evoca l’immagine di qualcosa di astratto, slegato dalla nostra esistenza quotidiana e certamente molto distante dalle grandi sfide di trasformazione che l’umanità si trova a fronteggiare. Consideriamo la cosmologia qualcosa che appartiene al regno dei filosofi, degli astronomi e dei fisici. Quantunque possa essere un campo di ricerca affascinante, sembra che nella migliore delle ipotesi essa possa svolgere un ruolo alquanto marginale nella soluzione dei problemi che attualmente affliggono il nostro pianeta. Eppure noi tutti ci facciamo delle idee – sebbene perlopiù inconsce – sulla natura stessa della realtà. Queste idee influenzano la nostra capacità di percepire i problemi che abbiamo di fronte e possono altresì limitare la nostra immaginazione, rendendo più difficile

individuare una via verso l’autentica liberazione. Nondimeno, raramente mettiamo in discussione questi presupposti, anche perché non siamo nemmeno consapevoli di possederli. Ognuno di noi, tuttavia, ha imparato a vedere il mondo da una prospettiva particolare. Ognuno di noi possiede una visione del mondo, una visione del cosmo. Donde proviene? Quali sono gli assunti di fondo che la sorreggono? Che tipo di rapporto c’è tra questa visione e la nostra attuale comprensione scientifica dell’universo, da un lato, e con il pensiero filosofico e religioso dall’altro? Sono tutti interrogativi cosmologici. La cosmologia può essere considerata un’indagine sull’origine, l’evoluzione, il destino e il fine dell’universo. È una ricerca probabilmente vecchia quanto l’uomo. Brian Swimme (1996) racconta di come i nostri lontani antenati – circa trecentomila anni fa – abbiano dato avvio all’impresa cosmologica riunendosi sotto il cielo stellato per riflettere sui grandi misteri del mondo, raccontare storie e celebrare rituali. Sicuramente si saranno posti le stesse domande fondamentali che sono state poste nei secoli: come ha avuto origine il mondo? Qual è il nostro posto nell’universo? Che relazione esiste con gli altri esseri che abitano la Terra? E infine, come possiamo vivere in armonia gli uni con gli altri e all’interno della più grande comunità della vita di cui siamo parte? La cosmologia è collegata ai concetti di visione del mondo e di paradigma. Un paradigma, nel senso originariamente impiegato da Thomas S. Khun, riguarda la «costellazione di concetti, valori, percezioni e pratiche condivisa da una comunità, che forma una particolare visione della realtà, visione che rappresenta la base del modo in cui quella comunità si organizza» (Capra-Steindl-Rast, 1991 [1993, p. 47]). Se un paradigma dev’essere condiviso da una società, una visione del mondo può anche appartenere solo a un singolo individuo. Di contro, la cosmologia, quantunque sia più sistematica di una visione del mondo soggettiva, dà meno importanza alla

diffusione delle concezioni sostenute da una società. Alla base della cosmologia vi sono modelli scientifici, religiosi e filosofici – e, soprattutto, un racconto delle origini dell’universo. Sotto molti aspetti, la cosmologia è il mito fondativo del nostro modus vivendi, laddove con “mito” s’intende una narrazione che fornisce un senso (che può essere vero alla lettera o meno). Come tale, la cosmologia condiziona profondamente la nostra percezione della realtà, ivi comprese le nostre ipotesi sulla natura stessa del cambiamento. Inoltre, le sue implicazioni per la prassi trasformativa sono fondamentali. Thomas Khun ritiene che gli esseri umani non possano vivere senza elaborare una cosmologia, perché è la cosmologia che ci assicura una visione del mondo condivisa e onnipervasiva, dando senso alle nostre esistenze (Heyneman, 1993). Storicamente, al cuore della cultura umana vi è una cosmologia, la quale orienta e infonde a tale cultura un’idea di fine. Eppure, come rileva Louise Steinman: «In Occidente, non c’è più una sola Grande Storia a cui tutti crediamo e che ci dica come è stato fatto il mondo, come ogni cosa è diventata quel che è, come dovremmo comportarci per mantenere l’equilibrio in cui coesistiamo con il resto del cosmo» (citato da Heyneman, 1993). In realtà, è molto probabile che la cultura della modernità sorta in Europa sia la prima cultura umana ad aver smarrito una cosmologia funzionale. Questo processo ha inizio all’incirca quattrocento anni fa con l’Illuminismo e la rivoluzione scientifica avviata da pensatori come Copernico, Galileo, Cartesio e Newton. Martha Heyneman mostra come il filosofo Immanuel Kant, riflettendo sulle leggi scientifiche formulate da Newton, giunse in realtà alla conclusione che era impossibile sapere se l’universo fosse finito o infinito e se avesse avuto origine nel tempo. Nel far ciò Kant di fatto ha rinunciato all’indagine cosmologica, considerandola inutile. Nonostante le conclusioni di Kant, l’ortodossia scientifica del XIX secolo arriva alla fine a pensare l’universo come infinito ed eterno. Eppure, un siffatto universo non può essere considerato un cosmo,

per il semplice fatto che un’espansione infinita non ha forma. Di conseguenza, in un simile universo noi non possiamo né orientarci né sentirci a casa. Conseguenza ancora più importante, forse, è che la natura statica ed eterna di un tale universo implica che esso può altresì essere privo di storia, di mito e, in ultima analisi, di senso. Fino a poco tempo fa, al di fuori degli scienziati esistevano poche persone in grado di abbracciare in maniera incondizionata questa concezione, che potremmo definire “pseudocosmologia”. Molti, anche in Europa e in Nord America, hanno trovato nella religione quella cosmologia alternativa che ha continuato a riempire di senso il mondo. Ma nel momento in cui l’insegnamento della scienza moderna è diventato sempre più diffuso, tante persone hanno inconsciamente praticato una scissione tra le proprie convinzioni scientifiche e le proprie credenze religiose. Nelle loro esistenze la cosmologia ha finito per essere relegata alla “sfera religiosa”. Con l’avanzata del secolarismo l’idea di un universo infinito e privo di scopo si è radicato profondamente in un numero sempre maggiore di individui, tra cui molti di coloro che detenevano l’enorme potere di influenzare le forze politiche, economiche e ideologiche dominanti nel mondo.

Cosmologie tradizionali Per comprendere meglio cosa significhi aver di fatto perso, nella cultura della modernità, una cosmologia funzionale, può essere utile prendere in considerazione il modo in cui le cosmologie tradizionali hanno instillato un senso nel mondo. Occorre ricordare che in molte culture tali cosmologie esercitano ancora una forte influenza. Se prendiamo l’intera storia dell’umanità, è la cultura del capitalismo e della tecnologia moderna ad aver costituito un’eccezione alla norma. Naturalmente, nel mondo esiste una grande varietà di culture indigene e tradizionali. Nel parlare di questi popoli e delle loro cosmologie, poi, si corre il rischio di generalizzare troppo. Eppure, è possibile individuare ampi modelli di caratteristiche comuni, sebbene ci siano anche molte eccezioni. Così, pur riconoscendo i limiti di un

simile approccio, è comunque utile guardare agli aspetti più comuni delle cosmologie dei popoli aborigeni, per confrontarli con la pseudocosmologia che è oggi alla radice delle moderne società industriali avanzate. Al cuore della maggior parte delle culture indigene vi è la creazione del mito. La storia della creazione degli irochesi, per esempio, narra di una Donna del Cielo che scende dal cielo e viene aiutata dagli animali del mare, i quali raccolgono del fango sulla corazza della Grande Tartaruga per formare il continente del Nord America. Nel mito degli aborigeni australiani, Madre Sole risveglia gli spiriti delle creature e dà loro forma. Nel mito del !Kung-San sudafricano le creature in un primo tempo vivono in pace sottoterra insieme a Käng, il Sommo Padrone e Signore della Vita, finché sopra non viene creato il mondo e la prima donna viene spinta fuori da un buco posto accanto alle radici di un meraviglioso albero, seguita poi da altre creature e persone. La maggior parte di questi miti non narra solo di come tutto ha avuto inizio, ma anche delle relazioni tra gli uomini, e tra questi ultimi e il resto della creazione. Spesso le norme culturali scaturiscono in un certo senso dalla creazione del mito: per esempio, gli Hopi raccontano che la Donna Ragno assegnava responsabilità e ruoli specifici tanto agli uomini quanto alle donne. La creazione di miti può inoltre chiarire come la discordia e la disarmonia siano penetrati nel mondo, e alludere a come ripristinare l’originario stato di equilibrio. Nella maggior parte dei miti indigeni gli esseri umani sono visti come parte di una famiglia più grande che include gli altri animali e che spesso si estende fino ad abbracciare anche gli insetti, le piante e gli “esseri geografici” come i fiumi, i mari o le montagne. Come questi miti dimostrano, nella maggior parte delle culture indigene la natura è concepita come una comunità strettamente interconnessa di esseri viventi. Ogni cosa – sia essa animale, pianta, roccia, fiume o montagna – ha uno spirito. Tutto ciò che è nel cosmo

viene considerato vivo. Il mondo possiede una natura incantata per cui gli uomini si sentono a casa, sentono di essere parte di una più grande comunità vivente. È pur vero che non tutti gli esseri viventi di questa estesa comunità possono essere amichevoli, quantomeno non sempre; eppure tutti sono allo stesso modo soggetti dotati di una dignità e una collocazione, e non semplici oggetti da usare o da sfruttare. In siffatte cosmologie gli esseri umani non sono osservatori distaccati, bensì partecipanti attivi alla storia del cosmo (M. Berman, 1981). La Terra stessa è vista come un organismo vivente. Infatti anche in Europa, per tutto il Medioevo, si è pensato che il mondo avesse un’anima: l’anima mundi. In queste cosmologie animistiche viene posto l’accento sul rispetto di tutte le cose viventi, non solo degli animali e delle piante, ma anche delle rocce, dell’acqua, della terra e dell’aria. La Terra è spesso vista come una madre che nutre, ma che merita altresì profondo rispetto (e che, se maltrattata, può anche seminare distruzione). In una simile visione del cosmo, scavare buche profonde nel terreno in cerca d’oro o di pietre preziose equivale ad aprire le viscere dell’essere vivente che sostiene l’intera vita. Inquinare un corso d’acqua significa corrompere la linfa vitale della Madre Terra. Non a caso, fintanto che la Terra è stata vista come qualcosa di vivo e di sensibile, c’è stata una naturale inibizione a mettere in atto tutta una serie di comportamenti dannosi. Ovviamente, i popoli che vivono di queste cosmologie tradizionali hanno ancora bisogno di uccidere per sostentarsi, ma lo fanno solo entro certi limiti. I cacciatori possono uccidere altre creature per soddisfare un reale bisogno di cibo, ma lo fanno esprimendo un senso di gratitudine e di rispetto e mai prendendo più di quello che davvero serve per vivere; e poi utilizzano l’animale in ogni sua parte, avendo cura di non sprecare nulla. Per esempio, nella cultura navajo del Sud degli Stati Uniti i cacciatori tradizionalmente recitano una preghiera quando devono uccidere un cervo: Un navajo non recita una preghiera a una forma interiore di cervo per spiegare il

suo bisogno di cervo e per chiedere l’indulgenza al cervo solo perché è un atto buono e gentile; egli lo fa per ricordare a se stesso il diritto alla vita del cervo e la necessità di non essere esagerato o troppo indulgente nel fare uso del cervo, perché con un tale eccesso il mondo intero rischierebbe di allontanarsi dall’armonia e dall’equilibrio e ciò sarebbe pericoloso per la sua stessa sopravvivenza. (G. Witherspoon, citato in Winter, 1996)

Infatti, nelle culture animistiche le idee di equilibrio, rispetto e reciprocità sono spesso centrali. Nelle società basate su tecniche di produzione di sussistenza il concetto di persona che lavora per il proprio tornaconto economico a spese degli altri è visto come un’aberrazione. Spesso, per redistribuire la ricchezza all’interno della comunità, sono stati concepiti complicati rituali (come il potlatch tra le popolazioni indigene della costa nordovest del Pacifico, sia del Canada che degli Stati Uniti). Cooperazione e armonia vengono preferiti rispetto alla competizione e al successo personale. È rara l’idea di proprietà privata, o comunque molto limitata. Di certo, il possesso della terra è un concetto che appartiene a quei popoli. Come si può possedere la Terra o qualsiasi creatura che abiti su di essa, se ogni cosa viene considerata un essere vivente degno di rispetto? Ciò non vuol dire che le culture tradizionali e le cosmologie animistiche siano perfette. Talvolta, l’idea che vi siano spiriti ostili può indurre paure che paralizzano o che limitano le possibilità. La forte esigenza di armonia può anche generare conformismo e perdita di indipendenza e di libertà individuale. Allo stesso tempo, la maggior parte delle cosmologie tradizionali non presenta un forte aspetto evolutivo. Il tempo è pensato come un qualcosa cha ha natura ciclica. Ciò, a sua volta, corrobora una tendenza conservatrice che a volte può diventare opprimente. Per esempio, se una cosmologia giustifica la sottomissione delle donne all’uomo o i privilegi di una classe sociale, può essere molto difficile cambiare quello che viene percepito come “l’ordine naturale”, per quanto sia intrinsecamente ingiusto. Quanto detto serve solo per evidenziare che esistono grandi differenze tra cosmologie e culture tradizionali, e che molte cosmologie hanno

determinato un livello di eguaglianza e di partecipazione al processo decisionale alquanto elevato. Traendo spunto dall’opera di Deborah Du Naan Winter (1996), e integrandola con alcune nostre osservazioni, possiamo elencare sette caratteristiche chiave proprie delle cosmologie tradizionali: 1. Al centro della cosmologia c’è il mito della creazione (dell’origine e della fine del cosmo), che risponde a interrogativi riguardanti il posto che occupa l’uomo nel mondo, le nostre relazioni con le altre creature e tra di noi e il modo di ristabilire l’armonia malgrado lo squilibrio. 2. La natura, compresa la Terra e l’intero cosmo, è vista come un essere vivente, come una rete di esistenze interconnesse, e non come qualcosa d’inerte costituito da unità distinte. 3. Gli essere umani si considerano parte della natura – il cosmo è la nostra dimora – e pertanto si sforzano di operare in armonia con essa. Una forte etica del rispetto pervade l’interazione dell’uomo con le altre creature. La natura è qualcosa che va onorato – perfino riverito – e non sopraffatta, sfruttata o addirittura “sviluppata”. 4. La terra è intesa olisticamente non come una porzione di “terreno” o un insieme di “risorse naturali”31, ma come una comunità di esseri viventi. Di conseguenza, la terra non può essere posseduta ma è tenuta in comune. Le persone non posseggono la terra, vi appartengono. 5. La società umana assegna un valore al senso di affinità, di inclusione, di collaborazione e di reciprocità piuttosto che alla competizione e al tornaconto economico personale. 6. Il tempo viene concepito fondamentalmente in maniera circolare o ciclica, piuttosto che lineare. Il tempo segue l’avvicendarsi delle stagioni e i cicli di nascita, morte e rinascita. 7. Lo scopo ultimo della vita è l’armonia, l’equilibrio e la sostenibilità e non il progresso, la crescita e lo sviluppo economico.

Thomas Berry, analizzando le culture indigene, sintetizza l’essenza della cosmologia animistica nel modo seguente: L’universo, in quanto manifestazione di una primordiale grandiosità, è stato considerato il referente ultimo di ogni interpretazione umana del meraviglioso nonché spaventevole mondo che ci circonda. Ogni essere vivente ha raggiunto la sua piena identità in virtù di un allineamento con l’universo stesso. Nel caso degli indigeni del Nord America, ogni attività formale è stata in primo luogo posta in relazione con le sei direzioni dell’universo, i quattro punti cardinali insieme alla volta celeste in alto e alla Terra in basso. Solo così qualunque attività umana può essere pienamente legittimata [...]. L’universo era un mondo di significati, referente fondamentale per l’ordine sociale, la sopravvivenza economica, la guarigione dalla malattia. In questa ampia cornice dimoravano le Muse, da cui proveniva l’ispirazione per la poesia, le arti e la musica. Il tamburo, battito dell’universo stesso, scandiva i ritmi della danza, mentre gli uomini entravano nell’incantevole movimento del mondo naturale. La dimensione arcana dell’universo s’imprimeva nello spirito attraverso l’enormità dei cieli e il potere rivelato nel tuono e nel fulmine, così come attraverso il primaverile rinnovarsi della vita dopo la desolazione dell’inverno. Ma anche la generale impotenza dell’essere umano davanti a tutte le minacce alla sua sopravvivenza mostrava l’intima dipendenza dell’uomo dal generale funzionamento delle cose. Il fatto che l’essere umano avesse un rapporto così intimo con l’universo circostante era possibile solo perché era lo stesso universo ad avere un rapporto intimo e privilegiato con l’uomo in quanto fonte materna da cui gli esseri umani hanno origine e in cui trovano sostentamento nel corso dell’esistenza. (T. Berry, 1999)

La perdita della cosmologia in Occidente Per coloro che vivono nelle società moderne industrializzate la prospettiva cosmologica può apparire insolita e assai remota, separata da noi da un abisso di tempo e spazio psichico. Molti, infatti, ritengono che l’umanità si sia gradualmente allontanata dalle cosmologie animistiche più o meno nel corso degli ultimi cinquemila anni, nel momento in cui emerse la cultura delle prime città-Stato. Come abbiamo mostrato nell’analisi delle origini del patriarcato e dell’antropocentrismo, con l’avvento di simili forme di cultura l’ideologia del dominio e dello sfruttamento si radicò in maniera sempre più profonda. Crebbero anche le stratificazioni sociali, le forme di oppressione legate al genere, la schiavitù e, in molti casi,

pratiche ecologiche distruttive. Sarebbe semplicistico affermare che i cambiamenti in queste società furono generati dai cambiamenti nelle loro cosmologie, ma sicuramente cambiando le strutture sociali sono cambiate anche le credenze e le visioni del mondo. L’una trasforma e rafforza l’altra. Insomma, senza una cosmologia che in un certo senso autorizzi la distruzione delle altre vite per generare e accumulare ricchezze è difficile capire come simili pratiche di sfruttamento possano aver acquisito tanto potere. Dopo la caduta dell’Impero romano l’Europa si trasformò decisamente in una civiltà fatta di piccole comunità rurali influenzate sia dal cristianesimo che dalle antiche visioni del mondo. Nella cosmologia medioevale il mondo era concepito come un qualcosa dotato di anima – l’anima mundi – e il cosmo era immaginato come una serie di sfere avvolte dai regni celesti. In altre culture, e in altre zone del mondo, esistono ovviamente cosmologie molto differenti tra loro, ma l’idea di un cosmo conchiuso e ordinato si è mantenuta quasi universalmente fino agli albori dell’era scientifica, appena quattrocento anni fa. Anche allora le nuove idee sull’universo e sulla natura della realtà penetrarono lentamente nella coscienza popolare, e si diffusero ampiamente solo attraverso la combinazione di processi di migrazione, rivoluzione industriale, urbanizzazione e sistemi di istruzione moderni. Oggi, tuttavia, coloro che vivono nelle società industrializzate hanno in larga misura smarrito il senso della Terra in quanto entità vivente. La materia è stata di fatto liberata dallo spirito per essere concepita ormai come una semplice “cosa” inerte da consumare. Il regno celeste che una volta avvolgeva la Terra si è trasformato in un’estensione infinita di freddi spazi con stelle e galassie distanti (in effetti, coloro che vivono nelle grandi città illuminate di notte di rado riescono a vedere il cielo stellato, e così è difficile che siano toccati dall’arcana maestosità delle stelle e dei pianeti). Morris Berman parla a tal proposito di un processo di progressivo «disincanto»

caratterizzato da una rigida separazione tra soggetto e oggetto che ci priva del senso di reale partecipazione al dipanarsi della storia del cosmo. Raramente facciamo esperienza dell’unione estatica con l’universo, forse solo durante i brevi momenti trascorsi nella natura, quando il vecchio senso di connessione trova un varco in noi, illuminandoci di meraviglia. La nostra “normale” esperienza, nondimeno, riguarda un mondo che si è trasformato in un insieme di oggetti e non è più una comunità di esseri viventi. L’oggettivazione del mondo, però, ci ha reso a nostra volta oggetti. Come ha osservato Morris Berman: «Il mondo non è una mia creazione; del cosmo non m’importa nulla, e non avverto alcun senso di appartenenza a esso. Ciò che provo, in realtà, è un profondo malessere spirituale» (1981). Martha Heyneman, analizzando questo processo di disincanto, sottolinea: Da una sorta di cattedrale piena di vita, luce e musica il nostro mondo è stato magicamente trasformato – come quegli edifici fatti saltare con la dinamite che per un momento vediamo sospesi a mezz’aria prima che esplodano in miliardi di frammenti e si accascino al suolo – in ciò che Alfred North Whitehead definì in maniera così precisa «una cosa noiosa, senza suoni, senza aromi né colori, semplicemente un’accozzaglia di materia, infinita e senza senso». (1993)

Brian Swimme ritiene che l’interrogativo cosmologico fondamentale possa, in realtà, essere formulato così: «L’universo è un luogo accogliente?». Per le persone che vivono fuori da una cosmologia animistica la risposta a questo interrogativo può essere un insieme di cose, e senza dubbio dipende dalla cultura tradizionale a cui facciamo riferimento. In linea di massima, però, l’animismo avrebbe probabilmente risposto che, se siamo ben disposti nei confronti del cosmo, se lo rispettiamo e ci sforziamo di vivere in armonia con esso, il cosmo a sua volta sarà altrettanto ben disposto nei nostri riguardi, almeno nella maggior parte dei casi. Per quelli che hanno adottato la pseudocosmologia di un universo sconfinato, eterno e amorfo, la risposta è probabilmente molto più

pessimistica. Il matematico e filosofo Bertrand Russell, per esempio, riflettendo su quello che a suo avviso è un universo guidato dal caso e privo di un fine, conclude che «la dimora dell’anima» può essere costruita in modo sicuro solo «sulla base di un’incrollabile disperazione». Più di recente, il biologo premio Nobel Jacques Monod ha osservato che siamo soli «nell’immensità indifferente dell’universo, da cui [siamo] emersi per caso. Il [nostro] dovere, come il [nostro] destino, non è scritto in nessun luogo». Allo stesso modo il fisico e premio Nobel Steven Weinberg, che considera la vita il semplice risultato del caso, conclude che viviamo in un «universo estremamente ostile» e che quanto più esso ci appare comprensibile tanto più si mostra senza scopo (citazioni da Roszak, 1999). Nelle civiltà industrializzate, dunque, gli essere umani sono come dei vagabondi, alla deriva nello spazio e nel tempo. Abbiamo smarrito una narrazione onnicomprensiva che ci dia l’impressione di avere un posto nel mondo. L’universo è diventato un luogo freddo e ostile, in cui dobbiamo lottare per sopravvivere e guadagnarci un rifugio in mezzo a tutta l’insensatezza che ci circonda. Tutto ciò ha profonde implicazioni per lo spirito umano. Perché, come chiosa Heyneman: Qualunque cosa sia un’immagine cosmologica per un fisico in quanto fisico o un astronomo in quanto astronomo, essa è per noi tutti l’ossatura su cui poggia l’ordine della nostra psiche, la pelle dell’immaginazione che tutto avvolge e il contenitore della nostra conoscenza. È la dimora dello spirito in cui tutti noi, membri di una data cultura, viviamo. In ogni istante, noi ci orientiamo all’interno di certe immagini della totalità delle cose, facciamo congetture su ciò che è reale, decidiamo cosa è possibile e cosa non lo è. L’immagine cosmologica rappresenta il nostro mondo interiore. Tutto ciò che sappiamo o immaginiamo è contenuto, consciamente o meno, al suo interno. Se il contenitore va in frantumi e l’immagine perde forma, le impressioni non hanno più alcun significato. Non le vogliamo più – non c’è dentro di noi alcun posto in cui trattenerle. Siamo immersi in esse, scorrono sulla nostra superficie come un flusso incessante, ma noi non siamo in grado di ricavarvi alcun nutrimento da aggiungere alla struttura e alla sostanza di una comprensione di noi stessi, su cui radicare una vita coerente e consapevole. (1993)

Cosmologia e trasformazione

Come risultato della perdita di una cosmologia viva in grado di nutrire e sostenere in maniera autentica il nostro spirito, ci siamo aggrappati al vuoto – invece di provare a riempirlo – attraverso una cosmologia dell’acquisizione e del consumo che ne è surrogato. Nel corso di questo processo, come ho evidenziato in precedenza, siamo diventati sempre più autistici nei nostri rapporti con gli altri esseri viventi nonché gli uni con gli altri. Non siamo più capaci di sentire la voce degli alberi, delle montagne, dei fiumi e del mare; né riusciamo a sentire il grido dei poveri e degli emarginati nelle società umane. Siamo ormai pieni di disperazione e abbiamo smarrito una visione in grado di ispirarci e di motivarci per fronteggiare la crescente crisi in cui siamo immersi. La pseudocosmologia nata dalla scienza dal XVII al XIX secolo, insieme al surrogato cosmologico del consumismo, ci ha menomati, in un modo che Brian Swimme (1985) paragona a una lobotomia: siamo ormai incapaci di provare quel timore reverenziale, quello sgomento e quel rispetto che la vera natura del cosmo istintivamente evoca. Allo stesso tempo, la nostra immaginazione e la nostra creatività sono state fortemente limitate. È diventato difficile immaginare un modo radicalmente diverso di vivere, ed è pressoché impossibile vedere come possano realmente verificarsi quelle profonde trasformazioni di cui abbiamo bisogno. Nelle parole di Fritjof Capra, tutte le crisi mondiali non sono che «sfaccettature diverse di un’unica crisi, che è in gran parte una crisi di percezione. [...] Le soluzioni per i maggiori problemi ci sono; alcune sono perfino semplici. Ma richiedono un mutamento radicale nelle nostre percezioni, nel nostro modo di pensare, nei nostri valori» (Capra, 1996 [2006, p. 14]). Per illustrare questa idea, Ed Ayres (1999a) narra la storia del primo incontro che James Cook ebbe con gli aborigeni australiani. Quando la nave Endeavour entrò nella baia di Botany, sulla costa orientale dell’Australia, stando alle parole dello storico Robert Hughes era «un oggetto così imponente, complesso e talmente alieno da

sfidare la capacità di comprensione degli indigeni». In effetti, sembrerebbe che gli aborigeni semplicemente non videro la nave nel porto perché non erano in grado di far rientrare quel tipo di oggetto nella loro visione del mondo. Fu solo dopo che i membri dell’equipaggio dell’Endeavour furono saliti a bordo delle loro scialuppe da sbarco diretti verso la riva che quasi tutti gli aborigeni scapparono nascondendosi in mezzo agli alberi, ad eccezione di due guerrieri che rimasero piantati lì. Solo una volta viste le imbarcazioni più piccole – qualcosa che rientrava nella loro esperienza – gli aborigeni furono in grado di reagire. Forse noi ci troviamo in una situazione simile. Ayres fa ricorso a quell’esempio per mostrare la nostra capacità di ignorare le prove schiaccianti della crisi che ci circonda: «I sei miliardi di abitanti della Terra [...] si trovano a fare i conti con qualcosa di così totalmente alieno dalla nostra esperienza collettiva che in realtà finiamo per non vederla, anche quando le prove sono schiaccianti» (1999a). Eppure, probabilmente è altrettanto vero che siamo anche incapaci di individuare una via verso una sostenibilità e un equilibrio autentici, perché la nostra immaginazione è stata limitata da una determinata comprensione della realtà, dalla nostra cosmologia. Ma cosa accadrebbe se la natura della realtà fosse radicalmente diversa da ciò che siamo abituati a credere? Cosa accadrebbe se non vivessimo in un universo infinito ed eterno governato dalle leggi della matematica e dal cieco caso, bensì in un cosmo che si evolve in maniera creativa? Cosa accadrebbe se l’evoluzione fosse mossa non dalla spietata competizione ma dalla cooperazione e da una spinta verso la complessità, e forse perfino la mente e la coscienza? Cosa accadrebbe se non vi fosse una rigida divisione tra materia, mente e spirito, bensì un forte intreccio e una mescolanza? Cosa accadrebbe se il rapporto di causa ed effetto fosse molto più misterioso e creativo di quanto abbiamo mai immaginato? Come potrebbe un simile cambiamento delle nostre percezioni e delle nostre credenze creare

nuove possibilità che mai siamo stati in grado di concepire prima d’ora? Come afferma Lewis Mumford: «Ogni trasformazione sociale [....] poggia sempre su basi metafisiche e ideologiche nuove; o meglio, su sommovimenti e intuizioni più profondi la cui espressione razionale assume la forma di una immagine del cosmo e della natura [dell’umanità]» (citato in Goldsmith, 1998). Oggi, forse come mai prima, necessitiamo di una nuova visione del cosmo che sappia ispirare e guidare le profonde trasformazioni necessarie alla sopravvivenza delle forme di vita complesse sulla Terra. Per molti aspetti, la nuova visione del cosmo deve recuperare alcuni degli elementi chiave che hanno dato forma alle cosmologie tradizionali per oltre il 99 per cento della storia umana. Come abbiamo visto, l’umanità si è in genere considerata parte di un cosmo vivente intriso di spirito, un mondo dotato di una specie di incanto. Come afferma Morris Berman: «Il rovesciamento completo di questa percezione avvenuto appena quattrocento anni fa ha distrutto la continuità dell’esperienza umana e l’integrità della sua psiche. Ha quasi distrutto il pianeta. L’unica speranza, o almeno così mi pare, è in un re-incantamento del mondo» (1981). Eppure, è difficile immaginare che le persone finiscano per fare semplicemente ritorno a una visione animistica, quantomeno alle sue forme tradizionali. Siamo stati segnati dalla rivoluzione scientifica, e le nostre coscienze sono mutate per sempre, probabilmente sia nel bene che nel male. È difficile, per esempio, immaginare che coloro i quali vivono nelle moderne società industrializzate siano capaci di assimilare, in modo significativo, i miti tradizionali che hanno ispirato le culture indigene. Abbiamo bisogno di andare avanti, non di tornare indietro, anche se questo avanzamento alla fine integrerà numerosi elementi di una concezione più tradizionale. Heyneman utilizza la metafora del diluvio per descrivere l’insensatezza e la mancanza di un fine dell’universo nel quale stiamo

andiamo alla deriva – a diversi livelli – da quattrocento anni. Nondimeno, più ottimisticamente, l’autrice lascia intendere che potrebbe anche darsi «che stiamo attraversando un oceano, come i nostri avi attraversarono l’oceano per raggiungere una terra nuova e inesplorata» (1993). Nel corso del secolo scorso dalla scienza stessa è emersa una nuova visione del cosmo, una visione che sotto molti aspetti è radicalmente differente dalla pseudocosmologia del XIX secolo, come anche dalla cosmologia dell’animismo. Il cosmo è nuovamente concepito come qualcosa dotato di una forma e di un principio, e alcuni scienziati arrivano perfino a parlare di qualcosa che può essere descritto solo in termini di finalità, o perlomeno di orientamento. Adesso possiamo guardare indietro nello spazio e nel tempo, a una distesa di circa quattordici miliardi di anni luce32 per scrutare l’origine dell’universo. È solo ora, in quest’epoca, che abbiamo sviluppato la sensibilità – attraverso i mezzi della scienza moderna – per farlo. Eppure, come osserva Swimme (1996), la traccia dell’inizio è sempre stata presente, piovendoci addosso nei fotoni della luce presenti fin dal primo bagliore della deflagrazione avvenuta parecchi eoni fa. Contrariamente alla pseudocosmologia dello spazio eterno e delle leggi deterministiche, la storia del cosmo che cominciamo a intravedere è segnata dall’evoluzione e dalla nascita – un processo di sviluppo fatto di passaggi unici e spesso irripetibili. Come è mutata la nostra visione del macrocosmo, così anche il microcosmo ha subito un profondo cambiamento. Gli atomi e le particelle subatomiche non sono più considerati la pura e semplice “materia” [stuff] inanimata, i “mattoni” della materia [matter]. Il microcosmo è un mondo di attività dinamiche che sfugge alla descrizione di ogni linguaggio umano. Alcuni fisici paragonano le entità subatomiche a pensieri o idee che possono solo essere descritti matematicamente, ma mai visualizzati chiaramente. Il microcosmo mostra una fondamentale unità: ogni “particella” è in un certo senso

collegata a tutte le altre, fino a risalire ai primi momenti dell’avventura cosmica. Causa ed effetto non sono più intesi in senso lineare, ma si mescolano e s’informano a vicenda. Non esiste nemmeno una stretta distinzione tra l’osservatore e l’osservato, i quali interagiscono formando un sistema. Il pensiero e la materia stessa sembrano essere misteriosamente intrecciati in un modo tale che è arduo capire se il pensiero emerga in qualche modo dalla materia o viceversa la materia dal pensiero; o forse coemergono in qualche modo insieme? Riguardo al nostro pianeta e alla vita che ha generato, la nuova cosmologia evoca dinamiche sempre più complesse circa l’evoluzione e la nascita dell’universo. In un certo senso, sembrerebbe che la Terra funzioni in modo analogo a un unico organismo – Gaia – che ha attentamente conservato e regolato le condizioni ideali per la vita. Sebbene la competizione tra organismi svolga un ruolo importante, collaborazione e simbiosi sembrano di gran lunga più importanti, così come lo sono la spinta verso la complessità e la diversità. Una volta ancora la Terra, con le rocce, l’acqua e l’aria, ci appare in un certo senso come qualcosa di vivo, qualcosa che forse è persino pervaso di ciò che potremmo chiamare un’“anima”. Di primo acchito la nuova cosmologia emersa dalla scienza può apparire disorientante. Certamente vi sono dei misteri che non possono essere disvelati in virtù di semplici spiegazioni. Molte cose possiamo esprimerle sono ricorrendo alla lingua del paradosso, e spesso sembra che tentando di cogliere concetti che oltrepassano la nostra comprensione brancoliamo nel buio. Eppure c’è anche una profonda speranza nella creatività che emerge in un cosmo non più governato dal determinismo meccanicistico e nemmeno dal cieco caso. Entrano in gioco ovunque concetti come comunità, relazione, complementarietà e reciprocità. La nuova cosmologia scaturita dalla scienza è in grado di ravvivare la nostra immaginazione e fornirci una nuova speranza?

Sicuramente si tratta di un’importante risorsa per una nuova visione, soprattutto se integrata da intuizioni provenienti da altre fonti di saggezza. Come evidenzia Swimme: La nostra epoca ha l’opportunità di integrare la comprensione scientifica dell’universo con le più antiche intuizioni sul senso e il destino dell’uomo. Dietro quest’opera c’è la promessa che attraverso una tale impresa la specie umana nel suo insieme potrà iniziare ad abbracciare un significato condiviso e un programma di azione coerente. Un modo per comprendere il significato di ciò che sta avvenendo è affermare che la scienza oggi è entrata in una fase di saggezza [...]. La sfida che abbiamo davanti è comprendere il significato dell’attività umana all’interno di un universo in evoluzione. Dall’esito di questa sfida dipende la vitalità di tanta parte della Comunità della Terra, compresa la qualità della vita di cui tutti i figli venturi potranno godere. (1996)

Nel corso dei prossimi capitoli indagheremo più approfonditamente la nuova cosmologia sorta dalla scienza, e al contempo delineeremo i rapporti con le più antiche fonti di saggezza che arricchiscono e animano ciò che si sta rivelando. A tal fine, dobbiamo riconoscere che il semplice studio della cosmologia in sé non sarebbe sufficiente al nostro scopo. In ultima analisi, un mutamento nella nostra visione del cosmo richiede un’autentica “rivoluzione del pensiero”, una svolta interiore, una conversione profonda. Deve, fondamentalmente, riorientare il nostro modo di essere al mondo, il nostro modo di relazionarci alle altre creature e la nostra comprensione dello stesso cambiamento. In primo luogo, però, dobbiamo individuare in maniera più chiara le caratteristiche e le radici della pseudocosmologia che attualmente esercita una così forte influenza sulle persone nelle società industriali. Così facendo speriamo di poter abbattere il muro che imprigiona la mente e limita la nostra creatività. Solo allora potremo davvero cominciare ad apprendere un nuovo modo di vedere e una comprensione nuova della realtà. 31 David Suzuki e Peter Knudtson (1992), per esempio, rilevano: «Un gruppo di nativi della Columbia Britannica ha tradotto la parola che nella loro lingua è la più prossima al concetto occidentale di “risorse naturali” con questa brillante espressione: “Afferrare il

manico dell’intera Vita”. Per una società aborigena – passata o presente – con un’etica e un vocabolario visceralmente legati al mondo naturale, i tentativi di avviare uno sviluppo economico delle terre tribali sacre potrebbe rappresentare un processo molto più doloroso e introspettivo di quanto non lo sia stato storicamente per l’Occidente». 32 L’attuale stima più precisa dell’età dell’universo è di 13,73 ± 0,12 miliardi di anni, ovvero circa 14 miliardi di anni.

6. La cosmologia della dominazione Pensi di poter imporre il tuo ordine al cosmo? Cerchi di plasmare il mondo per migliorarlo? Non si può! Il cosmo è il recipiente sacro del Tao. Non può essere migliorato. Se provi ad alterarlo lo rovinerai. Se tenti di governarlo lo distruggerai. TAO TE CHING §29 Il nostro senso comune non proviene direttamente dalla nostra esperienza, e nemmeno è qualcosa di arbitrario e accidentale. Al contrario, la nostra visione del mondo è forgiata da secoli di tradizioni culturali, così completamente radicata nelle nostre istituzioni educative e sociali che spesso è difficile apprezzarla e apprezzarne gli effetti. (Winter, 1996) Di primo acchito, probabilmente è difficile, se non impossibile, per chiunque di noi definire in maniera esauriente le caratteristiche della nostra visione del mondo. I presupposti, per loro stessa natura, sono difficili da identificare. Consideriamo la nostra concezione della realtà come qualcosa di assiomatico e dato. Sebbene le opinioni che ci facciamo siano per molti aspetti uniche, abbiamo assorbito un mucchio di convinzioni dal milieu culturale in cui siamo immersi. In un certo senso, la cosmologia può essere insegnata, ma i suoi insegnamenti avvengono perlopiù a livello inconscio. In genere, adottiamo una cosmologia attraverso un processo che assomiglia più a un’osmosi che a una forma classica di apprendimento. Eppure, se è vero che la moderna cosmologia dominante circoscrive la nostra immaginazione e limita la possibilità di determinare quelle trasformazioni radicali che l’attuale crisi richiede, allora dobbiamo cominciare col nominare e definire questa visione del

mondo in maniera quanto più chiara possibile. Quali sono le sue caratteristiche principali? E come sono arrivate a prendere forma? Non esiste probabilmente un solo termine in grado di cogliere appieno la visione del cosmo che attualmente domina nelle moderne società industrializzate. C’è chi parla di “materialismo scientifico”, altri di “meccanicismo”, altri ancora di “riduzionismo”. Sebbene siano tutte definizioni valide, e tutte parzialmente descrivano ciò di cui parliamo, nessuna tuttavia è completa. Per adesso, nondimeno, la chiameremo “cosmologia della dominazione”33, perché, come vedremo nel corso di questo capitolo, tale visione del mondo ha in larga parte autorizzato la “sottomissione della Terra” nonché lo sfruttamento e il depredamento del pianeta. Attingendo alle opere di Theodore Roszak (1999) e David Toolan (2001), possiamo cominciare a delineare le caratteristiche fondamentali di questa pseudocosmologia come segue: 1. C’è una realtà oggettiva che esiste al di fuori della propria mente. Anche gli altri hanno i loro centri di coscienza unici. 2. Mente e materia, così come mente e corpo, sono entità separate34. 3. L’universo è composto di materia, una sostanza inanimata e senza vita formata di minuscoli atomi, in genere indivisibili, e di particelle elementari ancora più piccole e immutabili. 4. Tutti i fenomeni reali possono essere percepiti dai sensi, spesso con l’ausilio di strumenti. Qualunque cosa non possa essere percepita in questo modo – fatto salvo forse la mente stessa – è considerata illusoria, o al massimo soggettiva. Spirito e anima sono perciò scartati, ignorati o confinati in una sfera personale o al piano emotivo. Il mondo reale è ridotto al mondo materiale e questo mondo può essere misurato e quantificato. Riprendendo le parole di Galileo: «Il libro della natura è scritto in lingua matematica» (citato in Roszak, 1999). 5. La modalità di pensiero privilegiata è di natura discorsiva e

analitica, vale a dire è un approccio che categorizza, divide in parti e poi circoscrive. La realtà viene studiata più accuratamente attraverso un’osservazione rigorosa e obiettiva nonché ricorrendo all’applicazione della logica. Più distaccato è l’osservatore e più accurata sarà l’osservazione. 6. La natura e il cosmo sono considerati in termini meccanicistici. L’universo in sé assomiglia a un gigantesco orologio esemplificato dal movimento dei pianeti e delle stelle. 7. Poiché la natura della realtà è meccanicistica, possiamo ottenere una conoscenza completa del tutto penetrando i suoi elementi costituenti – o riducendo il tutto a essi – e studiandoli singolarmente (questo approccio viene in genere chiamato “riduzionismo”). 8. La natura o il cosmo non hanno un fine. Ci sono, però, leggi eterne e immutabili che governano e dispongono ogni cosa da sempre. Date le stesse condizioni di partenza, dunque, un esperimento produrrà sempre il medesimo risultato. 9. Il tempo procede come una linea retta, in modo che la causa preceda sempre l’effetto. Ogni effetto ha una causa precisa o un insieme di cause, e la sequenza delle cause è strettamente unidirezionale. 10. Il cosmo è essenzialmente deterministico, basato su cause meccanicistiche. Se si riuscisse ad avere una conoscenza completa dello stato attuale delle cose, allora sarebbe possibile prevedere il futuro con certezza. Vere e proprie novità sono essenzialmente impossibili35. 11. L’universo ha una natura eterna e immutabile36, come mostrano le sue leggi immodificabili. Preso nell’insieme, l’universo non cambia nel tempo. L’evoluzione sulla Terra viene considerata un’anomalia isolata, non la norma. 12. Tutta la vita sulla Terra è impegnata in un’inesauribile lotta per la sopravvivenza. L’evoluzione è guidata dalla supremazia, la

“sopravvivenza del più adatto”. Il cambiamento, quando si verifica (e sempre nei rigidi confini del determinismo), è guidato dalla competizione o addirittura dalla violenza. Se veramente andassimo ad analizzare in maniera critica ciascuna delle tesi summenzionate, ci renderemmo subito conto che non stiamo parlando di verità inoppugnabili; eppure, la maggior parte delle persone, nelle moderne società industrializzate, in un modo o nell’altro le accetta come tali. Di sicuro, fino a poco tempo fa, le basi della scienza poggiavano su tutti questi principi, con relativamente pochi cambiamenti nel corso degli ultimi secoli. E perfino gli scienziati moderni continuano ad accettare molti di questi assunti con scarsa coscienza critica. Eppure, come mostra Roszak (1999), la sola logica non impone che si debbano accettare queste tesi. I buddhisti, basandosi sulla loro analisi estremamente logica dell’esperienza, giungono a conclusioni totalmente differenti (per esempio credono che il senso del sé individuale, e la maggior parte di ciò che normalmente consideriamo realtà, sia in un certo senso illusorio – o al limite qualcosa che abbiamo in un certo modo costruito noi stessi). In effetti, se esaminiamo la nuova cosmologia nata dalla scienza nel corso degli ultimi secoli, appare sempre più chiaro che molte di queste tesi possono essere contestate; che molte di queste tesi sono, nel migliore dei casi, discutibili, e che alcune, alla luce della nostra attuale conoscenza, paiono del tutto false. Eppure, buona parte di queste credenze continuano a essere le idee dominanti che informano la visione della realtà degli individui nelle società post-tradizionali, per quanto anche altre tesi, come quelle provenienti dalle credenze religiose, giochino indubbiamente un ruolo di primo piano. Presumibilmente questi assunti alterano anche la nostra capacità di percepire la realtà in maniera chiara e di agire creativamente. Vandana Shiva considera la cosmologia della dominazione qualcosa di fondamentalmente riduzionista, non solo perché frammenta il tutto

in parti più piccole, ma anche perché riduce «la capacità degli esseri umani di conoscere la natura» attraverso l’esclusione sia degli «altri agenti di conoscenza sia di altre vie di conoscenza», e perché «manipolando la natura come materia inerte e frazionata, ne riduce la capacità di rigenerarsi creativamente e di rinnovarsi» (1989 [2002, p. 28]). Le metafore meccaniciste del riduzionismo hanno ricostruito socialmente la natura e la società. Contrariamente alle metafore organiche, in cui i concetti di ordine e potere si basavano sul collegamento e sulla reciprocità, la metafora della natura come macchina si basava sull’assunto della divisibilità e della manipolazione. [...] [Il dominio sulla natura e sulla donna] è intrinsecamente violento, nel senso che viola l’integrità. La scienza riduzionista è una fonte di violenza contro la natura e le donne perché le assoggetta e ne espropria la produttività, l’energia e la potenzialità. (1989 [2002, pp. 28-29]).

Thomas Berry fa notare che questa visione meccanicista del cosmo ha contribuito allo «sviluppo dell’invenzione tecnologica e del depredamento industriale» e ritiene che il suo obiettivo sia stato «rendere le società umane quanto più possibile indipendenti dal mondo naturale e il mondo naturale quanto più possibile soggetto alle decisioni umane» (1999). Non dovrebbe sorprendere allora la scoperta che la cosmologia della dominazione ha guadagnato un consenso sempre più ampio perché posto al servizio delle esigenze delle classi governanti che volevano promuovere il capitalismo, il colonialismo e l’espansione economica. Ha saputo conquistarsi un rapido consenso perché si adatta alle esigenze economiche e alle politiche di chi è al potere. Inoltre, ha guadagnato sempre maggiore consenso all’interno delle società perché le classi dirigenti sapevano come «convincere le persone che la manipolazione del mondo fisico avrebbe prodotto una vita migliore e più felice». Conclusione: «Il trionfo della scienza fu in ultima istanza politico» (Lerner, 1986). Una cosmologia meccanicista e riduzionista non è un fatto scientifico dimostrato, tanto meno qualcosa che deriva direttamente da un insieme di leggi eterne dell’universo. È invece una costruzione sociale. Se arriviamo a comprendere questo fenomeno più

chiaramente, se arriviamo a capire le forze storiche e ideologiche che hanno contribuito alla sua genesi, possiamo anche cominciare a decostruirla e a interrompere così il suo potere di distorcere le nostre percezioni. Per fare ciò dobbiamo passare ad analizzare alcune delle persone, delle idee e delle forze economiche che hanno forgiato la pseudocosmologia che ha finito per dominare il pensiero e le percezioni di così tanti individui nelle società moderne.

Dall’organismo alla macchina: la morte del cosmo vivente Nel corso della storia, in quasi tutte le culture umane, il mondo è stato considerato un organismo vivente con al centro un’anima o uno spirito. La materia era concepita come qualcosa di dinamico – e, almeno in un certo senso, di vivo. La parola “materia” infatti deriva dall’indoeuropeo mater, che vuol dire ‘madre’. Materia era dunque la sostanza vivente proveniente dal corpo della Terra, la nostra madre. Non esisteva una rigida separazione tra coscienza umana e regno materiale, e non esisteva alcuna pretesa di pura oggettività. In Europa questa forma di consapevolezza è durata per tutto il Medioevo e oltre, fino agli albori dell’età scientifica. Morris Berman analizza questa condizione facendo riferimento alla visione del mondo dell’alchimia. Per l’alchimista non esisteva una netta distinzione tra fenomeno mentale e fenomeno materiale. Ogni cosa, in un certo senso, era simbolica perché ogni processo materiale aveva un equivalente psichico simultaneo. Berman fa notare che «se fosse mai possibile immaginare lo stato mentale [dell’alchimista]» dovremmo «dire che l’alchimista non sta di fronte alla materia, bensì la permea» (1981). In un tono molto simile, Jamake Highwater parla della capacità degli aborigeni di «conoscere qualcosa trasformandosi temporaneamente in essa» (citato in Heyneman, 1993). Berman arriva a sostenere che le persone non si limitavano semplicemente a credere che la materia possieda uno spirito; per costoro in un certo senso era proprio così. La visione animistica del mondo era pienamente efficace per coloro che vivevano di essa:

I nostri antenati costruirono la realtà in un modo che normalmente produceva risultati verificabili, e questa è la ragione per cui la teoria della proiezione di Jung è sbagliata. Se la nostra consapevolezza subisse un’altra rottura pari a quella rappresentata dalla rivoluzione scientifica, coloro che si trovassero in questa nuova condizione potrebbero concludere che la nostra epistemologia in una certa misura è un meccanicismo “proiettato” nella natura. (M. Berman, 1981)

La visione animistica in Europa si trovava non solo nell’alchimia ma anche nella filosofia scolastica di Tommaso d’Aquino (1225-1274), che dominò la Chiesa Cattolica per secoli. Secondo l’Aquinate tutta la natura è viva e una grande varietà di esseri viventi possiede l’anima, sebbene egli credesse che solo quella dell’uomo fosse immortale. La sua filosofia attinge dall’opera di Aristotele, il quale riteneva che ogni cosa in natura avesse un’anima immanente da cui trae il suo scopo e da cui è condotto verso il suo obiettivo. L’anima di una quercia dirige lo sviluppo di quest’ultima dal seme all’arboscello, fino all’albero maturo. Anche una roccia cade al suolo perché la sua anima la conduce verso il suo luogo, la Terra. Nel corso del Rinascimento, tuttavia, si ebbe in Europa un rilancio del pitagorismo e degli studi platonici. I pitagorici erano affascinati dalla matematica e dai numeri. Ritenevano che ogni numero avesse una propria natura unica dotata di qualità mistiche. Ma ancor di più, la matematica era considerata una chiave per comprendere il cosmo. Platone, che attinse da questa tradizione, concluse che sebbene il mondo stesso fosse pervaso dal cambiamento, il regno delle idee, delle forme e della conoscenza era immutabile ed eterno. Questa concezione filosofica ispirò i primi scienziati in Europa. Niccolò Cusano (1401-1464), per esempio, riteneva che il mondo affondasse le radici in un’infinita armonia basata su proporzioni matematiche misurabili. Cusano credeva che «la conoscenza è sempre misura» (citato in Sheldrake, 1988 [2011, p. 36]). Parimenti, Copernico (1473-1543), fautore del modello eliocentrico del cosmo (che mutua dai pitagorici), credeva che l’intero universo fosse composto di numeri.

Dunque, ciò che è vero per la matematica deve esserlo anche nel mondo della realtà oggettiva, ivi compresa l’astronomia. Dapprincipio l’idea copernicana di un cosmo eliocentrico ebbe un impatto relativamente modesto, in parte perché non esistevano prove empiriche per puntellare tale concezione. Copernico non fondò la sua tesi su osservazioni scientifiche, ma semplicemente sul fatto che gli sembrava la più razionale e perché conduceva a una maggiore «armonia geometrica del cielo» (Sheldrake, 1988 [2011, p. 36]). Ovviamente i matematici furono attratti dalle sue idee, ma il suo modello era ancora basato su congetture, e non su dati scientifici (va detto, in ogni caso, che anche in una prospettiva geocentrica le orbite dei pianeti e il moto del sole possono essere descritti matematicamente, solo che il moto diventa molto più semplice da comprendere e da descrivere dal punto di osservazione eliocentrico). Fu Giovanni Keplero (1571-1630) a fornire un solido fondamento alle idee copernicane attraverso una teoria matematica del moto dei pianeti basata sui dati forniti dall’osservazione dei cinque pianeti all’epoca conosciuti. Nella sua teoria Keplero concepisce tre “leggi” del moto dei pianeti. Ancora una volta l’ispirazione per questo lavoro giunge dalla filosofia di Platone. Infatti Keplero scoprì, «per la sua felicità, che le orbite dei pianeti avevano una certa somiglianza con le sfere ipotetiche che potevano essere iscritte nei, e circoscrivere i, cinque solidi regolari platonici». Per Keplero «l’armonia matematica scoperta nei fatti osservati [era] la causa di quei fatti, la ragione del loro essere in quel modo. Dio ha creato il mondo in accordo con il principio dei numeri perfetti» (Sheldrake, 1988 [2011, pp. 37-38]). Galileo (1564-1642), utilizzando il telescopio da lui inventato per osservare le stelle e i pianeti, finì per avallare le teorie di Copernico e di Keplero. Come loro fu influenzato da una visione matematica del cosmo. Postulò che l’ordine dell’universo fosse governato da leggi immutabili che la natura non trasgredisce mai. Egli credeva anche che «ciò che non può essere misurato e riportato ai numeri non è reale»

(citato in Goldsmith, 1998). La nuova visione del cosmo esposta da Copernico, Keplero e Galileo mise fortemente in discussione l’intera sintesi aristotelicotomistica illustrata dalla filosofia scolastica (sebbene Copernico continuasse ad accettare molte delle idee aristoteliche). La Terra non era più al centro dell’universo e, di conseguenza, non era più il centro dell’azione di Dio e il suo fine. L’intera visione di un mondo circondato dalle sfere celesti in alto e dall’inferno in basso cominciò a sgretolarsi, per quanto si trattò di un processo lento che impiegò secoli prima di penetrare nella cultura popolare. Allo stesso tempo, cominciò a frammentarsi e a sgretolarsi quella visione integrale della realtà che per più di un millennio aveva permeato le culture europee caratterizzate dall’idea di avere un posto nell’universo. Parlando di questo processo, Martha Heyneman commenta: La rivoluzione del sedicesimo secolo, privando l’universo nel suo insieme di ogni forma immaginabile, soppresse l’immagine di una scala di sfere che l’anima individuale poteva aspirare a risalire dalla terra fino al cielo; privò Dio e gli angeli delle loro dimore; li mise, per così dire, alla porta. Ma costoro potrebbero aver continuato a soggiornare da qualche parte fuori nello spazio infinito [...] se non fosse stato per un altro processo che si stava verificando al contempo. Tale processo, che E.J. Dijksterhuis definisce “la meccanizzazione dell’immagine del mondo” e Carolyn Merchant “la morte della natura”, trasformò il mondo in una macchina che funzionava da sola, che non necessitava di angeli e anime per render conto dei suoi movimenti, e Dio in un “ingegnere in pensione”. (1993)

Mano a mano che si affermava l’idea che l’universo fosse governato da leggi eterne, si cominciò a eliminare anche quella che tutte le cose possedessero un’anima. Le leggi universali mitigarono la necessità di un’anima individuale che guidasse ogni cosa verso il proprio fine. Tra il 1596 e il 1623, per esempio, Keplero decise di apportare un cambiamento al suo Misterium cosmographicum sostituendo, in riferimento ai pianeti, il termine “anima” con “vis”. In questo modo sembra passare dal concetto di natura in quanto essere divinamente animato a un essere che assomiglia decisamente a un

orologio, o a una macchina. Eppure Keplero era ancora una figura di transizione, poiché continuò a credere in un’anima del mondo «in cui è impresso il Sembiante divino» (Heyneman, 1993). È stato Cartesio (1596-1650) ad aver formulato la prima vera cosmologia meccanicista. Per Cartesio la mente trascendente dell’uomo è posta al di sopra della materia. L’anima è composta di una sostanza pensante che è completamente separata dal corpo e la cui natura è eterna. Ciò che distingue gli esseri umani da qualunque altra cosa è la loro capacità di ragionare: «Penso dunque sono». Le emozioni appartengono alla sfera corporea e non fanno altro che contaminare il puro regno della razionalità rappresentato dalla mente. Il mondo fisico può essere compreso attraverso l’applicazione della matematica ed è governato da leggi immutabili che provengono direttamente da Dio. Parte della dignità della mente, infatti, sta nella sua «capacità, simile a quella divina, di comprendere l’ordine matematico del mondo» (Sheldrake, 1988 [2011, p. 39]). La stessa verità è concepita come una conoscenza matematica. Per Cartesio l’intera realtà – fuori dal regno trascendente della mente (in cui Cartesio include Dio) – ha una natura fondamentalmente meccanica. Ogni altra cosa è semplicemente materia inanimata. Perfino gli animali sono “automata”, solo apparentemente sono vivi, ma di fatto altro non sono che macchine complesse. Poiché non hanno un’anima non possono veramente provare dolore o gioia, e dunque gli uomini possono usarli come meglio desiderano. La cosa stupefacente è che molti cristiani ancora oggi danno ampiamente per scontata la visione cartesiana del mondo, ritenendo che gli uomini siano i soli a possedere un’anima. Eppure, quando apparve per la prima volta, quest’idea strideva con la visione, in seguito divenuta ortodossa, di un mondo vivo abitato da creature viventi create da Dio. Come sottolinea Rupert Sheldrake : «Cartesio proponeva insomma una forma di monoteismo ancora più estremo di

quello della dottrina ortodossa della Chiesa. Riteneva questa concezione più elevata di Dio» (1988 [2011, p. 40]). Eppure, nel corso dei secoli la stessa Chiesa sembrò aver inconsciamente adottato buona parte del pensiero cartesiano come sua nuova ortodossia. È altresì difficile immaginare una visione del mondo più brutalmente antropocentrica di quella proposta da Cartesio. Gli esseri umani – in particolare la mente umana – appartengono a una realtà completamente distinta da quella delle altre creature e dall’intero regno materiale. Essi hanno mano libera per esercitare il loro potere sulla Terra e su ciò che essa contiene, anche se questo significa arrivare a distruggere altri organismi (che sono solo “automata”, non veri e propri esseri viventi). Allo stesso tempo, la preferenza accordata a questa forma di conoscenza “razionale” – o, per essere più precisi, discorsiva –, insieme alla svalutazione sia delle emozioni che del corpo, sembra altresì aver corroborato il patriarcato, soprattutto in virtù del fatto che le donne sono sempre state tradizionalmente identificate con la sfera emotiva e con la natura stessa. L’affermazione della superiorità della mente sul corpo, inoltre, conferisce maggiore dignità alla ricerca intellettuale (della quale fanno parte la matematica e la scienza) – condotta in genere dagli uomini di elevata condizione sociale – rispetto al lavoro manuale, generalmente svolto da individui appartenenti agli strati più poveri e dalle donne. La visione del mondo cartesiana diventa così una giustificazione del dominio e dello sfruttamento sugli altri esseri viventi da parte degli uomini e altresì dell’uomo sulla donna. Sir Isaac Newton (1642-1727) partì dal pensiero cartesiano e lo applicò alla scienza, arrivando a formulare le leggi meccaniche del moto e della gravitazione, verificabili attraverso la sperimentazione e l’osservazione. Utilizzando queste leggi Newton poté prevedere matematicamente il moto delle stelle e dei pianeti. Il successo delle teorie di Newton aprì la strada a una diffusa accettazione della visione del mondo meccanicista fondata sull’ordine matematico. Come

sottolinea Deborah Du Naan Winter: L’opera di Newton fornisce le basi per l’odierna visione del mondo: la materia è qualcosa di intrinsecamente inerte, composta di oggetti mossi unicamente da forze esterne, le cui direzioni e i cui movimenti possono essere previsti con certezza di risultato come palle del biliardo. Sebbene convenisse con Cartesio che solo Dio può aver creato un universo così magnificamente ordinato, Newton contribuisce a spianare la strada alla nostra visione del mondo secolare dimostrando con quale ordine e quale precisione siano prevedibili i movimenti degli oggetti. (1996)

La sintesi cartesiano-newtoniana ha progressivamente conquistato terreno – innanzitutto nel mondo della scienza, ma alla fine nella società in generale. In questo modo anima e spirito sono stati effettivamente estirpati dal mondo. Il cosmo, che un tempo era una specie di cattedrale di luce, si è trasformato in un preciso quanto ottuso orologio. La Terra da madre ricca di vita è diventata materia inanimata, un mero deposito di materie prime che aspettano di essere sfruttate dall’uomo. Persino gli animali, i nostri più vicini compagni creaturali, hanno finito per trasformarsi in stupide bestie incapaci di veri sentimenti o di emozioni. Il mondo, senza dubbio, è diventato più prevedibile, e forse anche un luogo su cui la scienza può esercitare i suoi poteri di controllo, si è trasformato in un luogo addomesticato e meno spaventoso; eppure, paradossalmente, il mondo si è tramutato in una dimora ancora più fredda e minacciosa, allorché l’uomo ha cominciato a percepirsi come isolato, separato dalla più grande comunità della vita e davvero, per la prima volta, senza una casa.

Ridurre il tutto in parti: materialismo atomico Colui che rompe un oggetto per scoprire cos’è ha abbandonato il sentiero della saggezza. (Discorso di Gandalf, in J.R.R. Tolkien, 1999 [2000, p. 327]) Sostituire una visione organicista del cosmo con una meccanicista ha avuto profonde ripercussioni sulla nostra comprensione della realtà. Siamo passati da una dimora vivente ricca di mistero a una macchina più simile a un orologio, che attende solo di essere sezionata

e controllata. Il mondo è diventato comprensibile in un modo nuovo, un modo che favorisce il predominio dell’uomo sulla natura. Come evidenzia Diarmuid O’Murchu, quella nuova visione del mondo era «nitida, efficiente e facile da comprendere» (1997). Per illustrare alcune delle sue caratteristiche salienti O’Murchu ricorre all’esempio del funzionamento di un televisore. Innanzitutto, causa ed effetto si susseguono in maniera semplice, diretta e lineare. Se spingo il pulsante la TV si accende. Succede qualcosa perché qualcos’altro lo ha causato. Analogamente, non vi sono anime che dirigono la crescita di una quercia, ma meri processi biologici governati da sostanze chimiche dette geni. In secondo luogo, l’universo è prevedibile e deterministico. Se spingo il bottone la TV si accenderà sempre, salvo guasti o mancanza di elettricità. Premere il pulsante ON non darà luogo, per esempio, a un cambiamento del canale o a una modulazione del colore. Le cose funzionano in modo prevedibile e predeterminabile. Allo stesso modo, un esperimento scientifico dovrebbe sempre produrre risultati coerenti e ripetibili. Alla fine, ogni insieme è composto di parti più piccole. Se qualcosa non va con la TV, basta trovare la parte o le parti difettose e sostituirle, e tutto tornerà a funzionare come prima. Utilizzando la stessa logica possiamo comprendere come funziona un televisore studiando il funzionamento di ciascuna delle sue parti e osservando poi come ognuna di esse si relaziona alle altre. Lo stesso discorso vale per tutte le cose del cosmo: scomponiamo qualcosa di complesso in parti semplici per comprenderlo. Quest’ultima caratteristica della cosmologia materialistica classica è detta riduzionismo, e rappresenta un momento fondamentale dell’approccio scientifico alla realtà. Stando al pensiero riduzionista, per comprendere le leggi fondamentali dell’universo bisogna andare alla ricerca dell’elemento più piccolo che compone la materia. Questo elemento piccolissimo, indivisibile e indistruttibile è l’atomo. Newton

e altri scienziati dell’epoca postularono l’esistenza degli atomi non perché fossero riusciti a provarne l’esistenza attraverso dati sperimentali ma perché siffatta idea era per loro filosoficamente seducente. In un mondo in cui ogni cosa può essere scomposta in parti più piccole e semplici, gli atomi semplicemente dovevano esistere, sebbene fosse impossibile osservarli. L’idea degli atomi, nondimeno, è molto più vecchia di Newton e dei suoi contemporanei. Il filosofo greco Anassagora (500-428 a.C.), seguito poi da Leucippo e Democrito (460-370 a.C.), fu il primo a ipotizzare che la materia fosse composta di piccolissimi atomi eterni. Essendo fisicamente indivisibili, gli atomi erano dunque eterni e indistruttibili. La realtà era composta di atomi e dallo spazio in cui questi si muovevano spostandosi in tutte le direzioni, urtandosi come palle di biliardo o aggregandosi quando erano dello stesso tipo, per andare poi a congiungersi per formare le sostanze. Nell’elaborare questa concezione, tali filosofi presero come punto di partenza la filosofia di Parmenide di Elea (inizio del V secolo a.C.), secondo il quale la realtà era permanenza e immutabilità – in contrasto con Eraclito (ca. 535-475 a.C.), che considerava la realtà come qualcosa di dinamico, simile a un flusso continuo in costante divenire. Per gli atomisti il cambiamento era semplicemente movimento e ricombinazione di particelle reali e indivisibili. Alla base di tutta la realtà c’erano dunque gli atomi eterni e immutabili. Theodore Roszak (1999) pone un interessante interrogativo: perché l’atomismo attrasse così tanto i filosofi greci? Per Roszak il motivo va ricercato principalmente nel fatto che l’atomismo li liberava dalla necessità di dover credere al capriccio degli dèi. «L’atomo impersonale, sottoposto alla legge, ci rende sicuri: nessuno sull’Olimpo ce l’ha con noi». Insomma, è probabile che «l’atomo avesse fatto il suo ingresso nella storia come un minuscolo tranquillante filosofico, una soluzione di ordine intellettuale alle nostre più profonde paure emotive [...]. Si tratta di terapia, non di

scienza». Per i materialisti greci che postulano l’esistenza degli atomi, dunque, non c’era bisogno né dello spirito né degli dèi. Gli esseri umani erano entità materiali come tutte le altre. Gli atomisti della prima rivoluzione scientifica, tuttavia, coniugarono l’atomismo con il concetto platonico di forme eterne, traducendolo nella nozione di leggi universali. Dio creò gli atomi e poi impresse il moto all’universo affinché fosse governato dalle leggi che egli aveva stabilito. Come sottolinea Rupert Sheldrake, questo «dualismo di realtà fisica e leggi matematiche» formulato in principio da Isaac Newton «è sempre stato implicito nella visione del mondo della scienza» (1988 [2011, p. 42]). L’atomismo newtoniano differiva dalla cosmologia di Cartesio, secondo il quale lo spazio era pieno di vortici di materia sottile. Per Newton, come per Leucippo e Democrito, gli atomi si muovono nel vuoto. Ciò significa che la forza di attrazione gravitazionale doveva agire misteriosamente a distanza attraverso lo spazio. Secondo Newton la gravitazione dipende perciò direttamente da Dio, ed è espressione della volontà divina. Successivamente, tuttavia, gli scienziati attribuirono direttamente alla materia la forza di attrazione gravitazionale. Quel che «rimase all’interno di uno spazio e di un tempo matematici assoluti, fu un mondo meccanico, contenente forze inanimate e materia, e totalmente governato da leggi matematiche eterne» (Sheldrake, 1988 [2011, p. 43]). L’atomismo continuò a svilupparsi. Nel XIX secolo il chimico inglese John Dalton (1766-1844) utilizzò la nozione di atomo per garantire un fondamento matematico alla chimica. Se gli atomi possono essere pesati e contati, allora possono anche fornire una base per il calcolo delle formule chimiche. Questo, insieme alla tavola periodica di Dmitrij Mendeleev, portò l’atomismo di Newton a uno stadio nuovo. La sola differenza negli elementi fu una differenza di quantità – il peso dei rispettivi – e non una differenza di qualità. Come evidenzia Roszak:

Era tutto meravigliosamente semplice. Gli atomi davano al mondo visibile un fondamento puramente fisico. Si pensava che rispondessero alle stesse leggi meccaniche che descrivevano accuratamente i movimenti dei corpi celesti. Con l’unica differenza, ovviamente, che i corpi celesti potevano essere osservati e gli atomi no. Ma gli atomi offrivano qualcosa di molto più prezioso della visibilità. Gli atomi offrivano la finalità. Erano il sostrato della realtà. Gli scienziati con tendenze religiose erano liberi di credere che Dio avesse creato gli atomi e che li avesse messi in movimento, ma gli atei erano altrettanto liberi di affermare che gli atomi erano eterni e non necessitavano di alcun Dio che li creasse e li mettesse in movimento. In ogni caso, non c’era null’altro in natura da chiarire al di là e al di sotto degli atomi. (1999)

Alla fine, ovviamente, si scoprì che gli atomi (o quantomeno le entità a cui abbiamo dato questo nome) non erano in realtà gli elementi più piccoli che componevano la materia. Furono scoperte altre “particelle elementari”; ma si scoprì anche che queste particelle erano divisibili. Oggi i fisici continuano ad andare a caccia di particelle di materia sempre più piccole facendo uso di macchinari sempre più grandi. Ogni volta che scoprono una nuova particella, tuttavia, la loro ricerca sembra farsi più evanescente. Alla fin fine non sembra esserci alcun fondamento ultimo, ma solo una realtà misteriosa che sfugge a qualsiasi tentativo di descrizione in base alla nostra esperienza normativa. Atomi e particelle subatomiche sembrano addirittura eludere alle leggi della meccanica descritte da Newton, per seguire qualcosa di più strano e insolito. Gli atomi, se ancora possiamo dire che esistono, sono qualcosa di totalmente diverso da ciò che avevano immaginato Leucippo, Democrito o Dalton.

Soggiogare la natura: la ricerca del controllo Dietro l’originale teoria dell’atomismo sta il desiderio di un mondo prevedibile e deterministico. Come i primi filosofi greci cercavano tranquillità e sicurezza, così gli scienziati furono attratti da una concezione degli atomi che avrebbe garantito loro la comprensione, la prevedibilità e in ultima analisi il controllo delle forze della natura. «Una volta scoperto il frammento originario», sottolinea Diarmuid

O’Murchu, «sapremo come ha avuto inizio l’universo, come è destinato a funzionare, come le diverse forze al suo interno possono essere conquistate e poste sotto controllo, e come potrà alla fine terminare» (1997). Se immaginiamo l’universo come un’immensa macchina composta di semplici “mattoni” che funzionano in modo deterministico, possiamo acquisire un certo controllo sulla natura nella misura in cui raggiungiamo la conoscenza delle leggi universali che governano tutte le cose. Concependo il cosmo come un essere composto di materia inerte e inanimata – e postulando anche che le altre creature viventi non sentano dolore –, i vincoli etici al dominio e allo sfruttamento vengono per la maggior parte rimossi. Ma fino a che punto la formulazione e l’adozione di una cosmologia meccanicista è stata realmente motivata dal desiderio di controllare, dominare e persino sfruttare la natura? Francesco Bacone (1561-1626) viene in genere considerato il “padre” del metodo scientifico. Per Bacone l’universo è essenzialmente un problema in attesa di soluzione. Nei suoi scritti egli afferma che «il sapere è potere» e che la verità, in alcuni casi, può essere considerata l’equivalente dell’utile. Edward Goldsmith (1998) osserva che la sostituzione operata da Bacone dei tradizionali valori di bene e male con quelli di “utile” e “inutile” autorizzò di fatto lo sfruttamento proprio nell’epoca in cui l’espansione coloniale nel Nuovo Mondo cominciava a offrire opportunità quasi infinite di spoliazione, schiavizzazione e di profitto economico. Ne La grande instaurazione Bacone scrive che la natura svelerebbe i suoi segreti più facilmente se solo fosse «costretta e tormentata [...] rimossa a forza dal suo stato ordinario e premuta e forgiata mediante l’arte e il ministero umano». Parimenti, ne Il parto mascolino del tempo egli scrive: «In tutta verità vengo a portarti la natura con tutti i suoi figli per costringerla al tuo servizio e renderla schiava». Il tono patriarcale di questi brani salta all’occhio. La natura è vista come una

donna, “lei”, che dev’essere premuta, forgiata, legata e schiavizzata dall’”uomo”. Non sorprende che molti autori femministi considerino Bacone un misogino. Egli viene spesso accusato di usare metafore che hanno a che fare con la tortura come «mettere la natura alla ruota», anche se sembra improbabile che questa frase così spesso citata sia davvero stata utilizzata da Bacone37. Eppure, è evidente che la concezione che Bacone ha della scienza è di uno strumento per mezzo del quale l’“uomo” potrebbe soggiogare in maniera violenta la natura “femminile”. Rosemary Radford Ruether sostiene che Bacone ricorre al racconto cristiano della caduta e della redenzione per corroborare questo concetto: Attraverso il peccato di Eva la “natura” è caduta al di fuori del controllo dell’“uomo”, ma attraverso la conoscenza scientifica questa caduta sarà superata e la “natura” sarà restituita al dominio del maschio quale rappresentante del dominio di Dio sulla terra. Per Bacone la conoscenza scientifica è fondamentalmente uno strumento di potere, la capacità di sottomettere la “natura” e di governarla. (1992 [1995, p. 280])

Anche la filosofia di Cartesio ha contribuito a rimuovere i vincoli etici contro lo sfruttamento indiscriminato. Ruether ritiene che la separazione dualistica tra mente e materia operata da Cartesio consenta anche una separazione tra valori e fatti. La verità scientifica è qualcosa di “oggettivo” e di “privo di valore”. Etica e valori, a loro volta, sono relegati nella sfera tutta privata dell’anima. Questa scissione dell’etica dalla scienza è utile poiché consente agli scienziati di indagare liberamente, senza doversi preoccupare delle implicazioni religiose delle loro scoperte. Allo stesso tempo, però, l’aver confinato l’ambito etico alla sfera privata consente di affrancare molte altre attività “materiali” da considerazioni di carattere etico. Sicuramente, distruggere tutto ciò che non è dotato di mente – tutto tranne l’uomo – non ha una reale rilevanza etica. Ma anche quando l’etica potrebbe entrare in gioco – come nel caso dell’uomo – coloro che svolgono attività materiali (le donne e gli strati sociali inferiori) possono

implicitamente trovarsi ad avere meno valore rispetto a coloro che svolgono attività intellettuali. Nel caso della fisica newtoniana, la creazione di una struttura cosmologica basata su un ordine rigido e su leggi universali sembra essere legata, almeno in certa misura, al personale bisogno di sicurezza di Newton. Egli era nato diversi mesi dopo la morte di suo padre, e quando sua madre si risposò fu mandato via per essere cresciuto dai nonni. Nella sua giovinezza veniva descritto come un pensatore sobrio e taciturno, con pochi amici. All’università i suoi interessi riguardavano non solo la matematica e la filosofia naturale ma anche l’alchimia. Molte delle principali scoperte di Newton, inclusa l’invenzione del calcolo, lo sviluppo della teoria della gravitazione e i primi studi sulla natura della luce, avvennero tra il 1665 e il 1667, quando l’università di Cambridge fu chiusa a causa di un’epidemia di peste. Senza dubbio il tempo trascorso in solitudine lo aiutò a stimolare il suo genio creativo, ma il clima generato dalla peste e dalla morte che vedeva intorno a sé può anche aver impercettibilmente guidato il corso del suo pensiero. Certamente, l’immagine di un universo ordinato che funziona come un orologio sarà stata di conforto in un periodo simile. Morris Berman ritiene che l’evoluzione del pensiero newtoniano sia stato influenzato dai suoi bisogni psicologici, oltre che dalla moralità puritana fondata sull’«austerità, la disciplina, e soprattutto la colpa e la vergogna» (1981). La vita di Newton, in particolare la sua giovinezza, fu segnata da un clima per molti versi ostile. Per Newton, infatti, l’universo non era un “luogo ospitale”, bensì qualcosa che aveva bisogno di essere controllato e disciplinato. «Una delle fonti principali del bisogno di conoscenza di Newton era la sua inquietudine e la paura dell’ignoto [...]. Un sapere che poteva essere matematizzato pose fine ai suoi tormenti [...]. [Il fatto] che il mondo obbedisse alle leggi matematiche fu la sua tranquillità» (F.E. Manuel, citato in M. Berman, 1981).

Berman conclude che Newton, per quanto non psicotico, rasentò la follia. E sottolinea altresì che i dipinti che lo ritraggono nel corso della sua vita sembrano testimoniare un processo di progressivo irrigidimento. Da giovane ha un aspetto delicato, quasi etereo, indice di una certa sensibilità. Fattosi adulto – mentre le sue idee diventavano sempre più meccaniciste e riduzioniste – pare assumere una sorta di “indole corazzata” che alla fine cancella quell’immagine iniziale di uomo dotato di un animo sensibile. L’adozione da parte di Newton del meccanicismo e dell’atomismo va altresì collegato al contesto sociale nel quale viveva. Sembra evidente che l’alchimia esercitasse su di lui un’enorme attrazione, probabilmente mai svanita del tutto. Le nozioni alchemiche, però, passarono in secondo piano e alla fine furono espunte dalle sue opere pubblicate. Berman osserva che la ritrattazione delle sue concezioni giovanili avvenne negli anni che precedettero la Gloriosa Rivoluzione, quando gli animi sia dei Livellatori che dei Repubblicani cominciavano a infiammarsi. L’idea, presente nei suoi primi lavori, che la natura fosse «in continua trasformazione e infinitamente feconda» sollevò inquietanti parallelismi politici che rischiavano di farli apparire pericolosi. Alla fine, a partire dal 1706, quando il suo discepolo Samuel Clarke lavorava alla traduzione dell’Ottica in latino, frasi come: «Non possiamo dire che tutta la Natura non sia viva» furono espunte prima che le bozze andassero in stampa; e, cosa più importante, Newton adottò la posizione secondo cui la materia era considerata qualcosa di inerte, posizione che modificò in maniera non dialettica (cioè interiormente), ma solo attraverso un processo formale. Di conseguenza, nell’Ottica [...] Newton aveva posto che «la natura potrebbe essere durevole», in altre parole, che poteva essere stabile, prevedibile, regolare – come dovrebbe esserlo anche l’ordine sociale. Da giovane Newton era stato affascinato dalla fecondità della natura. Ora in qualche modo contava la sua presunta rigidità. (M. Berman, 1981)

Se il bisogno di sicurezza e di prevedibilità di Newton plasmò inconsciamente la sua scienza, le motivazioni dei suoi contemporanei come Robert Boyle erano molto più esplicite. Boyle scorse chiaramente

che uno dei principali vantaggi della nuova filosofia materialista consisteva nella sua capacità di dare potere all’umanità – o forse, più precisamente, all’”uomo” – e di rimuovere i vincoli etici, trasformati dallo scienziato in meri “scrupoli di coscienza”: La venerazione di cui sono pervasi gli uomini verso ciò che essi chiamano natura ha scoraggiato e impedito il dominio dell’uomo sulle creature inferiori a Dio. Molti infatti non solo l’hanno considerata una cosa impossibile da realizzare, ma addirittura un sacrilegio tentare di rimuovere quei limiti che la natura sembra aver posto e stabilito tra sue creazioni; e mentre essi guardano a lei come a una cosa così degna di venerazione, altri sono colti come da uno scrupolo di coscienza tanto dinanzi all’impegno di emulare le sue opere quanto a quello di esaltarle. (Robert Boyle, citato in Roszak, 1999)

Per Boyle non era sufficiente conoscere semplicemente la natura; bisognava “renderla utile” per qualche scopo particolare. Sicché, ovviamente, per Boyle e altri come lui la scienza doveva essere utilizzata come un metodo di controllo e di dominio. Questa ricerca del potere attraverso la scienza – pensata come “potere su”, ovvero potere dominante dell’”impero dell’uomo” – esiste tuttora. Nonostante la nuova visione del mondo propria di discipline come la fisica quantistica e la teoria dei sistemi, gli scienziati continuano a far urtare tra loro le particelle elementari nella speranza di trovare il Santo Graal del “fondamento” ultimo della natura. Nel campo della biologia i geni attualmente svolgono una funzione simile a quella degli atomi della fisica classica. I geni vengono codificati deterministicamente e meccanicisticamente per specifici tratti, forse anche per specifici comportamenti. Tutto è riducibile ai geni, così, se fossimo in grado di tracciare una mappa completa del genoma e di comprendere le singole funzioni di ogni singolo gene, potremmo allora magicamente scoprire tutti i segreti della vita e riuscire a riplasmare gli organismi come meglio crediamo. La psicologia comportamentale estende il meccanicismo al regno stesso della mente: il cervello è solo una macchina e i comportamenti possono essere compresi in termini di reazioni stimolo/risposta senza complicati rimandi alla coscienza, alle motivazioni o all’etica. Manipolando il

comportamento possiamo plasmare e riprogrammare la stessa psiche. Rifacendosi a Roszak, lo psicologo Abraham Maslow ritiene che l’intero progetto scientifico moderno «sia inconsciamente dominato da un metodo di ricerca fondato sulla paura e di conseguenza guidato dal bisogno di controllo» (Roszak 1999). Per Maslow, se questa esigenza viene spinta troppo oltre, potrebbe provocare una specie di “patologia cognitiva” che di fatto «distorce più di quanto non chiarisca». È interessante notare come, per esempio, la fisica classica si sia limitata a ignorare il problema dei sistemi non-lineari e caotici, giacché non potevano essere compresi in termini di prevedibilità e nell’ambito della scienza meccanicista. Analogamente, Aldous Huxley una volta fece notare che la concezione della natura in Europa nasce dalla prospettiva privilegiata di un giardino ben curato piuttosto che dalla misteriosa complessità di una foresta tropicale. Anche Huxley vide nella paura una delle principali motivazioni che governano la scienza eurocentrica: «È la paura del flusso labirintico e della complessità dei fenomeni che ha spinto l’uomo verso la filosofia, la scienza, la teologia – la paura della realtà complessa che spinge gli uomini a inventare storie sempre più semplici, ragionevoli e quindi consolanti» (citato in Roszak, 1999), compresa, ad esempio, la confortante storia di universo-orologio riducibile ai suoi atomi inerti. Arrivati a questo punto è importante evidenziare una delle caratteristiche più lampanti dell’impresa scientifica fino almeno alla fine del XIX secolo, e sicuramente per buona parte del XX: la scienza era una prerogativa quasi esclusivamente maschile. La scienza, per definizione, era una scienza “maschia”. Roszak osserva che alle donne è stata tradizionalmente assegnata la responsabilità delle caotiche incombenze della vita quotidiana: accudire i figli, cucinare e pulire. Questa realtà «le ha portate ad aspettarsi poco quanto a pulizia, ordine o chiarezza nella vita. Forse non possono fare a meno di coltivare una sagace consapevolezza circa i lati oscuri, le sottili

sfumature e le relazioni imperfette. Potrebbero persino imparare ad accettare il disordine come parte integrante del mondo reale» (1999). Roszak fa poi notare che la recente tendenza della scienza a contemplare l’ipotesi della “teoria del caos” al fine di comprendere i fenomeni non-lineari potrebbe essere dovuta unicamente all’ingresso nella comunità scientifica di una presenza femminile più nutrita. Dato il pregiudizio maschilista della scienza classica, non deve sorprendere che la scienza sia stata tanto segnata da metodi e comportamenti chiaramente patriarcali. Come mostra Jane Goodall, questa “scienza maschia” escluse dai suoi metodi qualità “femminili” come «la sensibilità, la delicatezza, il calore umano, la compassione e l’intuizione» (Roszak, 1999). L’esclusione di queste qualità dalla scienza finì per rimuovere anche quei vincoli etici che limitano l’uso della violenza e delle tecniche di sfruttamento, come testimonia l’eccessivo ricorso alle sperimentazioni sugli animali, eseguite sovente per ricerche di dubbia natura. Se, da un lato, le tendenze patriarcali della scienza possono essere tranquillamente considerate il risultato della divisione sessuale del lavoro tipica dell’epoca, dall’altro un simile approccio possedeva anche un che di cosciente e intenzionale. Henry Oldenburg, per esempio, il primo segretario della Royal Society inglese, affermò che la priorità per la società doveva essere l’affermazione di una “filosofia maschile”. «La donna che è in noi», disse, è «un’Eva tanto funesta quanto la Madre delle nostre miserie» (Roszak, 1999). Data la piega patriarcale della scienza occidentale, non deve dunque sorprendere che il filosofo francese Michel Serres arrivi alla conclusione che la fisica classica sia la «strategia assassina» dove tutto è «stabile, immutabile, ridondante» e dove «non c’è nulla da imparare, da scoprire, da inventare [...] C’è solo e sempre morte» (citato in Toolan, 2001). Anche Vandana Shiva (1989 [2002]), come abbiamo in precedenza osservato, ritiene che la scienza patriarcale sia stata determinante nel favorire il processo d’industrializzazione

convertendo la Terra da terra mater in una macchina inanimata e in un deposito di materie prime abolendo così di fatto tutti i vincoli etici allo sfruttamento, il quale, da parte sua, ha condotto a nuovi modelli di dominazione sulle donne e alla loro esclusione, in quanto partner, sia dalla scienza che dallo sviluppo socio-economico.

Eternità, determinismo e perdita di scopo Mentre l’idea di un universo-orologio meccanicista acquisiva potere, anche la concezione scientifica del cosmo si faceva sempre più deterministica e immutabile. Sebbene l’ispirazione del nuovo modello fosse stata ampiamente platonica, il suo Dio era il motore immobile di Aristotele, impassibile, onnipotente e immutabile. All’inizio questo Dio serviva per “dare la carica all’orologio” e mettere di volta in volta tutto in moto, ma all’inizio del XIX secolo il cosmo era diventato una specie di macchina dal moto perpetuo. Il fisico francese Pierre Laplace (1749-1827) credeva infatti che se si fosse riusciti a conoscere tutte le forze che agiscono nell’universo, nonché la precisa posizione di ogni corpo in un dato momento nel tempo, sarebbe stato teoricamente possibile elaborare un’unica formula che avrebbe consentito di vedere tutto il passato e di prevedere in maniera infallibile tutto il futuro, senza alcun margine di dubbio. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole: tutto è fissato, tutto è determinato. Come afferma Rupert Sheldrake: Il meccanismo era eterno e avrebbe sempre funzionato, così come aveva sempre fatto, in modo totalmente deterministico e prevedibile, o almeno prevedibile in linea di principio da un’intelligenza sovrumana onnisciente, sempre che un’intelligenza del genere fosse esistita. [...] Dio non era più necessario per “caricare” le cose e per metterle in moto. Era diventato un’ipotesi superflua. Le sue leggi universali rimanevano, ma non più come idee nella sua mente eterna. L’esistenza delle cose non aveva una motivazione ultima: non vi era bisogno di alcuno scopo perché esse esistessero. Tutto, compresi gli stessi fisici, era materia inanimata che agisce in dipendenza di leggi fisiche. (1988 [2011, p. 18])

Nucleo di questa concezione deterministica è l’idea di una causalità lineare o di “trasformazioni unitarie”. Se ogni evento

nell’universo è il risultato delle cause che lo hanno preceduto, allora «il presente si sviluppa incessantemente dalle brume del passato e contiene in sé tutto ciò che potrà accadere nel futuro» (Peat, 1991). Questo flusso unidirezionale della causalità è lineare perché gli input determinano direttamente gli output. La linearità, a sua volta, è collegata al riduzionismo: le variabili sono ridotte a quelle che possono essere di volta in volta controllate, isolate e verificate. Anche se tale metodo ha dato risultati importanti, resta comunque limitato fintanto che la complessa interazione di variabili non potrà essere esaminata nella maniera adeguata. L’obiettivo è analizzare, controllare e prevedere i risultati, i quali presuppongono una causalità a senso unico (Macy, 1991a). Il bisogno di un universo lineare era così forte nella scienza classica che i sistemi non-lineari, come abbiamo già mostrato, furono ampiamente ignorati fino al XX secolo. Eppure, anche nei sistemi planetari – che in origine avevano ispirato l’universo-orologio – possono esservi dinamiche caotiche e non-lineari, allorché interagiscono tre o più corpi. Verso la fine del XIX secolo la concezione del cosmo della scienza occidentale si fece ancora più sconfortante. Il mondo non poteva più essere considerato una macchina dal moto perpetuo perché le nuove leggi della termodinamica avevano dimostrato che una macchina siffatta non era possibile: tutto tendeva a uno stato di equilibrio energetico; tutto si muoveva gradualmente verso uno stato di maggior disordine. Alla fine, l’intero universo sarebbe morto di morte termica, diventando niente di più che un brodo informe di materia ed energia. Ancora nel XX secolo l’idea di un universo statico ed eterno era così profondamente radicata che portò Albert Einstein a “truccare” le equazioni di campo nella sua teoria della gravitazione universale. Le equazioni che per primo Einstein sviluppò fornirono solo soluzioni non-statiche, che indicavano che il cosmo doveva essere in espansione. Einstein, credendo che ci fosse un errore, “fissò” le sue equazioni aggiungendovi una “costante cosmologica” per offrire una

soluzione statica. In seguito, Einstein stesso l’avrebbe definita la più grande cantonata della sua vita. La cosa, tuttavia, illustra bene quale potere possano avere idee forgiate per distorcere la scienza, perfino nel caso di un pensatore originale come Einstein. Una volta confermato che l’universo era in espansione, la teoria della creazione continua ha contribuito a fornire un modo per immaginare il cosmo in una sorta di costante “stato stazionario”. I modelli statici dell’universo in realtà continuarono a dominare la fisica fino agli anni Sessanta. In una siffatta visione del mondo, novità e cambiamento avevano poco spazio. L’universo era privo di fini o scopi. La vita, e perfino la mente, erano considerati meri accidenti cosmici senza alcun reale significato. Ancora oggi gli scienziati sono estremamente attenti a rimuovere ogni traccia di finalismo dalle loro descrizioni della realtà. Qualsiasi traccia di “teologia” – o di una qualche sorta di fine ultimo – è inesorabilmente espunta dalle teorie scientifiche. Perfino gli organismi viventi devono essere considerati privi di obiettivi o di mire, salvo forse la mera sopravvivenza. Ovviamente, questo tipo di credenze influenza il nostro modo di pensare il cambiamento. In un universo deterministico e privo di un fine, idee quali la rivoluzione e la trasformazione radicale non trovano posto. Ciò che sarà è determinato da ciò che fu. La creatività autentica, ogni sorta di genuina manifestazione della novità, è essenzialmente impossibile. Questa visione disperata forse può essere meglio sintetizzata citando per esteso le parole di Bertrand Russell già menzionate in precedenza: Che l’uomo è il prodotto di cause prive di previsioni circa le loro finalità; che la sua origine, le sue speranze e le sue paure, i suoi amori e le sue credenze, non sono altro che il risultato di collisioni accidentali di atomi; che nessun ardore, nessun eroismo, nessuna intensità di pensiero o sentimento, possono preservare la vita individuale al di là della tomba; che tutte le fatiche delle varie età, tutta la devozione, tutta l’ispirazione e tutto lo splendore del genio umano sono destinati all’estinzione alla morte del sistema solare; e che l’intero tempio dell’opera dell’Uomo sarà inevitabilmente sepolto sotto i detriti di un universo crollato; tutte queste cose, benché non esenti da disputa, sono una certezza così chiara che nessuna filosofia che

vi si opponga può sperare di reggersi. Solo con l’impalcatura di queste verità, solo sul solido fondamento di un’inflessibile disperazione, si può costruire la dimora dell’anima. (citato in Sheldrake, 1988 [2011, pp. 20-21])

L’assenza di un fine del cosmo non solo scaturisce dall’idea che la scienza sia scevra da preoccupazioni etiche, ma corrobora un tale assunto. L’etica diventa del tutto superflua, o al massimo una mera convenzione sociale: «L’universo “lì fuori”, salvo che per gli esseri umani, è intrinsecamente privo di valore e di scopo. Il valore è il prodotto della sola mente umana e di conseguenza non può essere un aspetto oggettivo del cosmo» (Haught, 1993). Come dimostra Martha Heyneman, in una simile visione anche gli esseri umani finiscono in ultima istanza per perdere il loro senso dello scopo: Se immaginiamo l’universo come una “cosa” – un universo fatto di “materia inanimata e cieche forze” – anche in noi qualcosa si spegne e diventa cieco. Possiamo dedicarci senza rimorsi (fino a che non comprendiamo che la nostra stessa esistenza è minacciata) alla totale distruzione della natura. Ma se per di più immaginiamo un universo senza scopo, ci coglie allora, nella delusione che segue l’esaltazione temporanea di aver raggiunto un obiettivo immediato, un confuso sentimento di depressione. Se l’universo non ha un senso, la mia vita può mai avere un qualunque significato ultimo? Se il tutto non ha uno scopo, può averlo la parte? (1993)

Interesse privato, progresso e sopravvivenza del più adatto Il vuoto di senso proprio della visione del mondo meccanicista, insieme alla ricerca del controllo sulla natura da parte della scienza, ha portato alla formulazione di quella che potremmo definire la prima “cosmologia surrogata”. In un universo inanimato e ostile l’umanità troverebbe il suo scopo migliorando le proprie condizioni di vita per mezzo dell’accumulazione della ricchezza e dello sviluppo del “progresso” economico e sociale. Nel tempo, questi obiettivi sono stati integralmente fusi nel perseguimento della “crescita” economica. Morris Berman (1981) osserva che, per la maggior parte della storia umana, lo sforzo cosmologico è stato guidato da interrogativi sul “perché” di tale impresa, poiché consideravamo il cosmo qualcosa di vivo, con i suoi scopi e i suoi fini. Ma nel corso della rivoluzione

scientifica siamo passati al “come”, e l’universo è stato trasformato in un insieme di atomi senz’anima che si muovono meccanicisticamente senza scopo. Abbiamo sostituito a un approccio basato sulla qualità un approccio basato sulla quantità. Perfino il fine dell’uomo, sempre che ne esista uno, finisce per essere descritto in termini quantitativi: Atomismo, quantificabilità e l’atto deliberato di concepire la natura come un’astrazione da cui ci si può distanziare, tutto questo schiude quella possibilità che Bacone dichiarò essere il vero obiettivo della scienza: il controllo. Il paradigma cartesiano o tecnologico [...], l’equazione tra verità e utilità, con la deliberata manipolazione dell’ambiente [...]. Non l’olismo, ma la dominazione della natura; non il ritmo eterno dell’ecologia, ma la consapevole gestione del mondo. (M. Berman, 1981)

Considerato l’approccio quantitativo del meccanicismo, non è sorprendente che bisognasse trovare un modo per misurare la manipolazione, il controllo e il dominio stesso. Il denaro rappresenta lo strumento più adatto a tale scopo. Nell’indagine sui legami tra economia capitalista e cosmologia della dominazione occorre evidenziare che la crescita dell’economia monetaria fu fortemente collegata all’inizio della rivoluzione scientifica. È durante il Rinascimento che finanza e accumulazione del capitale divengono le dinamiche motrici in Europa. Il sociologo tedesco Georg Simmel sostiene che un’economia fondata sul denaro crea «l’ideale di un calcolo numerico esatto» che a sua volta porta «all’interpretazione matematicamente esatta del cosmo» come «controparte teorica dell’economia monetaria» (citato in M. Berman, 1981). La capacità, apparentemente infinita, del denaro di riprodursi «ha anche avvalorato la nozione di universo infinito» (M. Berman, 1981), che infine, a sua volta, dà sostegno all’idea di sviluppo e di crescita economica illimitata. I mercanti che acquisivano potere nella nuova economia arrivarono a considerare il calcolo finanziario un modo d’intendere l’intera realtà, compreso il cosmo. La “quantificazione” ha finito per essere considerata «la chiave del successo personale, poiché si pensava

che solo la quantificazione potesse garantire il controllo sulla natura attraverso la comprensione razionale delle sue leggi». Giacché denaro e matematica non avevano un “contenuto tangibile”, potevano allora essere «piegati a qualsiasi scopo» e «in ultima analisi, divennero essi stessi lo scopo» (M. Berman, 1981). Berman sottolinea, inoltre, che durante quello stesso periodo penetrò nella coscienza europea una visione quantitativa del tempo. Gli orologi divennero un oggetto d’uso comune e il tempo passò da una concezione ciclica a una lineare. L’idea che il “tempo è denaro”, associata all’economia monetaria, fu formulata per la prima volta nel XVI secolo. Berman conclude che «la nascita del tempo lineare e del pensiero meccanicista», così come «l’identificazione tra tempo e denaro e tra orologio e ordine mondiale, furono parte della stessa trasformazione, e ogni elemento contribuì a rafforzare gli altri» (1981). L’idea di un tempo lineare è anche strettamente collegata al concetto di trasformazioni unitarie e, a sua volta, alla concezione deterministica della realtà. In maniera analoga, la nascita dell’individualismo che segna l’inizio dell’era moderna ha indubbiamente reso più seducente agli occhi dei primi scienziati il riduzionismo e l’atomismo. Ciò rafforzò altresì l’idea che gli essere umani fossero distinti dalla natura e che gli scienziati dovessero avere il ruolo di osservatori distaccati. Eppure, allo stesso tempo, questi stessi principi scientifici servirono a rafforzare nozioni legate all’individualismo, alla proprietà privata e ai diritti individuali. L’idea che la materia sia inerte e senza vita e che la natura non fa che attendere la mano trasformatrice dell’”uomo” per essere migliorata si fece strada all’interno di ideali politici ed economici di un’Europa impegnata nello sfruttamento coloniale. John Locke (1632-1704), per esempio, nel suo concetto di proprietà fondiaria utilizza l’“etica” di Bacone. Per Locke la terra inutilizzata è terra sprecata. I popoli indigeni non possiedono realmente le terre che abitano perché non le hanno mai “coltivate”. La terra incolta è

semplicemente “terra vergine” in attesa di essere sfruttata. La proprietà privata della terra è dunque per il filosofo inglese un diritto dato da Dio e una responsabilità: «Dio, comandando di lavorare la terra, ha concesso l’autorità di appropriarsene» (citato in Winter, 1996). Locke propugnava l’uso del lavoro per “recintare” la terra al fine di sottrarla alla “condizione comune”, opponendosi a ogni forma collettiva di proprietà. Nella concezione della democrazia di Locke, solo i proprietari terrieri potevano votare perché solo loro, attraverso l’opera di “coltivazione della terra”, meritavano di avere voce in capitolo per il governo. L’idea odierna di individui in competizione gli uni con gli altri può aver avuto origine da un filosofo ancor precedente, Thomas Hobbes (1588-1679), il cui pensiero precede, e in un certo senso sopravanza, quello di Locke, sebbene inizialmente le sue idee non siano state accolte con favore. Hobbes propende per una visione del cosmo completamente meccanicista in cui ogni cosa, incluso l’uomo, la mente e le idee, possiede una natura completamente materiale. Per Hobbes l’uomo è costantemente impegnato in una lotta con gli altri uomini, sia per il potere che per l’accaparramento dei beni materiali. Gli esseri umani per sopravvivere devono lottare anche contro la natura, la quale è minacciosa e caotica. «Dunque, Hobbes considerò l’interesse personale basato sulla competizione la radice della natura umana; e poiché gli individui sono intrinsecamente in competizione gli uni con gli altri, per creare una parvenza di ordine sociale sono costretti a stipulare un contratto» (Winter, 1996). Tutto è basato sull’interesse personale. Per Hobbes gli esseri umani non devono nulla alla società. L’individualismo propugnato da Hobbes fu rafforzato da Adam Smith (1723-1790), il quale credeva che se agli individui fosse stato consentito di accumulare ricchezze senza alcun intervento dello Stato, il risultato sarebbe stato il benessere sociale. In sostanza: «Comportandosi nel modo più egoistico possibile noi massimizziamo non solo il nostro interesse materiale ma anche quello della società nel

suo complesso – una filosofia ottimista che ha razionalizzato l’individualismo e l’egoismo che segnarono il crollo della società durante la rivoluzione industriale» (Goldsmith, 1998). Nel corso del tempo, la stessa felicità fu vista come qualcosa che poteva essere misurata: il valore di una proprietà e il possesso dei beni materiali. Massimizzare l’accumulazione della ricchezza significava quindi massimizzare anche la felicità. Eppure, se da un lato si decantava l’accumulazione della ricchezza, dall’altro l’uso di questa ricchezza per acquistare beni di lusso veniva scoraggiato dall’influenza del protestantesimo, in particolare del calvinismo. Secondo Deborah Du Naan Winter, «una delle poche cose che in coscienza si poteva fare con i risparmi era “reimpiegarli nell’azienda”; in altre parole: investire. In questo modo il calvinismo incoraggiò la perfetta combinazione di duro lavoro e autoannullamento ascetico che consentì al capitalismo di diffondersi» (1996). Il calvinismo promosse altresì l’accumulazione del capitale considerando le ricompense materiali un segno dell’approvazione di Dio. Di contro, la povertà fu vista come una punizione per coloro che avevano profuso scarso impegno. «Nel modernismo protestante il lavoro e la ricchezza sono il bene; il tempo libero e la povertà il peccato» (Winter, 1996). In questa nascente cosmologia surrogata, dunque, l’individualismo e l’accumulazione del capitale furono considerati una responsabilità comune. La natura aveva valore solo nella misura in cui era “lavorata” – o, come si sarebbe detto in seguito, “sviluppata”. Invece di avere delle responsabilità verso la società nel suo insieme, abbiamo voluto dotarci di diritti e libertà inalienabili e individuali. Come osserva lo storico Richard Tarnas: Mentre la visione del mondo della Grecia classica aveva individuato il fine dell’attività intellettuale e spirituale dell’uomo nell’essenziale unificazione (o riunificazione) dell’uomo con il cosmo e la sua intelligenza divina, e mentre il fine cristiano stava nel riunire uomo e mondo con Dio, il fine moderno consisteva nel generare la maggiore libertà possibile per l’uomo: libertà dalla natura, da strutture

politiche, sociali o economiche oppressive, da credenze religiose o metafisiche restrittive. (citato in Winter, 1996)

Le idee di libertà e di dignità individuali rappresentate dal concetto di “diritti umani”, ovviamente, non sono negative in se stesse. Certo, anche la liberazione dalle oppressive strutture politiche, economiche, sociali e religiose sembra essere un obiettivo encomiabile. Eppure, questi obiettivi si sono talmente individualizzati che il benessere della società, e senz’altro anche il benessere delle altre creature ed ecosistemi, è stato ampiamente obliato. Inoltre, l’obiettivo di essere “liberi da” è una specie di fine per negazione. Può essere chiaro ciò da cui ci si vuole allontanare, ma verso dove si desidera andare? Bastano l’accumulazione della ricchezza e i beni personali? I valori della competizione individuale e del guadagno personale promossi da Adam Smith e dai suoi seguaci alla fine hanno trovato il loro corrispettivo scientifico nella forma della teoria dell’evoluzione di Charles Darwin (1809-1882), fondata sulla competizione e sulla “sopravvivenza del più adatto”. Edward Goldsmith (1998) rintraccia forti parallelismi tra la “mano invisibile” di Smith e la “selezione naturale” di Darwin, poiché entrambe possiedono proprietà quasi magiche che sfociano nel progresso e nel bene comune attraverso la promozione di interessi individualistici. Ovviamente Darwin aveva bisogno di spiegare per quale motivo in un cosmo senza scopo che tende verso un’eventuale morte termodinamica si dovrebbe verificare qualcosa come l’evoluzione. Perché dei semplici organismi dovrebbero evolversi verso una maggiore complessità in un simile universo? Darwin aveva bisogno di una spiegazione che non implicasse nessun tipo di scopo o disegno recondito – ciò che viene definito “teologia” – poiché qualsiasi traccia di una siffatta teologia sarebbe stata, ovviamente, “non scientifica”. L’idea delle variazioni casuali e della “sopravvivenza del più adatto” fornirono al tempo una risposta coerente al paradigma scientifico ed

economico. Come osserva Rupert Sheldrake: La teoria darwiniana dell’evoluzione degli organismi viventi non include nessuna tensione finalistica, e neppure un processo concepito o guidato da una divinità; al contrario, gli organismi mutano imprevedibilmente, i loro figli tendono a ereditare queste mutazioni e, attraverso il cieco operare della selezione naturale, le varie forme di vita evolvono senza alcuno scopo o finalismo, conscio o inconscio. Occhi e ali, alberi di mango e uccelli tessitori, colonie di formiche e termiti, il radar dei pipistrelli e tutti gli aspetti della vita sono venuti in essere mediante l’attività meccanicistica di forze inanimate, attraverso il puro caso e la selezione naturale. (1988 [2011, p. 20])

La competizione tra individui senza un vero scopo, quindi, porta a un progresso dell’intera specie. Oggi, l’idea darwiniana che sia una lotta basata sulla competizione a guidare l’evoluzione continua a esercitare una forte influenza. Richard Dawkins, infatti, biologo riduzionista militante, in realtà considera gli stessi geni in competizione tra loro. Li definisce persino “egoisti”, paragonandoli sia a giocatori di “giochi di guerra” che a “gangster” (Roszak, 1999). La cosa più incredibile è che gli scienziati paiono prendere sul serio simili spiegazioni. Secondo Theodore Roszak, si può anche accettare di attribuire motivazioni egoistiche ai geni, i quali sono in realtà solo molecole complesse; eppure, se si avanzasse l’ipotesi che gli organismi viventi hanno intenzioni o sono mossi da uno spirito di cooperazione o dall’altruismo, si sarebbe immediatamente tacciati di non “scientificità”! Il pensiero evoluzionistico darwiniano ispirò anche altri pensatori, tra cui il filosofo inglese Herbert Spencer (1820-1903), a promuovere un’idea di progresso sociale correlata a quella teoria. Secondo questa prospettiva, le società e le economie evolvono dal semplice al complesso, proprio come le specie. Le società di cacciatori-raccoglitori progrediscono verso società agrarie, e quelle agrarie verso società industrializzate. I popoli partono come semplici “selvaggi” e si evolvono fino a diventare “civilizzati”. Come si può immaginare, questa teoria del progresso funse da comoda giustificazione alla colonizzazione. Attraverso l’espansione dell’impero, l’Europa portò la

civiltà alle società più “arretrate”. Per gli Stati Uniti d’America quest’idea di progresso servì a nutrire la fede nel “destino manifesto” di espansione verso ovest e di conquista sia dei “selvaggi” che delle “terre vergini” da questi abitate. In tal modo, è facile vedere come questa stessa etica del “progresso” possa essere utilizzata per giustificare il razzismo facendo appello alla “civilizzazione” delle razze arretrate o “inferiori”. L’idea di progresso è stata spesso associata alla precedente concezione di Locke di “sfruttamento” della terra e al concetto di proprietà privata. Come osserva Winter: «Si ha progresso quando gli individui applicano la tecnologia» – e, potremmo aggiungere, il lavoro umano – «per convertire la terra in guadagno» (1996). Col tempo, l’idea di convertire la terra è stata estesa fino a includere tutti i tipi di “materie prime” o di “risorse naturali”. Il progresso divenne così sinonimo di “crescita economica”, espresso dall’incremento del PIL. L’intera idea è intimamente legata alla nostra cosmologia e alla nostra concezione del potere. Come conclude Winter: Il progresso, attraverso il possesso della terra e la crescita economica, è un tratto fondamentale della nostra visione del mondo. L’idea che la vita dell’uomo stia appollaiata sul tempo lineare, contrassegnato dal progresso verso una condizione migliore, si riflette tal quale nella concezione greca e cristiana dell’uomo appollaiato su un ordine di potere lineare. Nella tradizionale visione del cosmo occidentale Dio regna sull’uomo, il quale a sua volta regna sulla donna, i bambini, le piante e la materia inorganica, in quest’ordine. (1996)

Una cosmologia dello sfruttamento e della disperazione La cosmologia della dominazione che si è sviluppata in Occidente nel corso degli ultimi quattro secoli circa è una cosmologia che autorizza l’oppressione e lo sfruttamento, promuove l’individualismo e la competizione e dà luogo a una sorta di disperazione esistenziale generata da un senso d’inutilità. Questa cosmologia, comunque, non è ineluttabile e nemmeno è la sola cosmologia “razionale” e “obiettiva” che può essere concepita data la nostra attuale conoscenza delle

società umane, della Terra, dei suoi organismi viventi e del cosmo che tutto avvolge. Piuttosto, la cosmologia della dominazione è un costrutto sociale creato in un determinato contesto storico per sostenere una determinata visione del mondo, che pare funzionale a chi detiene il potere. In quanto tale, una simile cosmologia può essere decostruita e sostituita. Per quanti desiderassero un cambiamento radicale, invece, la cosmologia della dominazione deve essere sostituita. Come abbiamo visto, la cosmologia della dominazione – soprattutto quella che si è sviluppata negli ultimi quattrocento anni38 – ha soppiantato una cosmologia più antica che considerava la Terra, e anzi l’intero cosmo, un organismo vivente pieno di vita e dotato di un fine. Al suo posto è subentrato un universo che somiglia a un’enorme macchina composta di materia inerte e inanimata. Quest’universo funziona in base ai principi della forza cieca e delle leggi universali. Comprendendo queste forze e queste leggi l’umanità – generalmente pensata come “uomini” – avrebbe potuto dominare e controllare la natura, piegandola ai propri interessi. Il cosmo non era più una comunità di soggetti, bensì una collezione di oggetti senza vita. Theodore Roszak ritiene che l’idea di un universo morto possa condurre a uno “stupro della natura” e che lo stupro, in questo caso, non sia una semplice metafora. Lo stupro è radicato nella «mentalità che autorizza la dominazione» e «la brama di potere tutt’altro che metaforici [...]. Lo stupro trae origine da uno stato mentale preciso che non cambia nel caso in cui la vittima sia una donna o la foresta pluviale. Lo stupro comincia nel momento in cui si negano alla vittima dignità, autonomia e sentimenti. Gli psicologi chiamano questo comportamento “oggettivazione” della vittima» (1999). Roszak sostiene che lo stupro nasce da un «bisogno compulsivo di controllo, di controllo completo», e che ciò a sua volta proviene da un senso d’inadeguatezza dello stupratore nei confronti della donna. Alla

paura subentra la rabbia e il desiderio di punire o di soggiogare. Parimenti, il bisogno di sottomettere e controllare la natura scaturisce dalla paura che nasce da un senso d’inferiorità o di inadeguatezza. La donna difficile dev’essere plasmata secondo il volere dell’uomo e messa sotto controllo. Per ottenere ciò, viene trasformata in un oggetto e «marchiata con l’immagine del suo padrone» (1999). In tutto questo, entra in gioco un senso di diritto dell’”uomo” sia al corpo della donna che ai frutti della natura. Nel caso della natura, non abbiamo bisogno di scusarci o di ringraziare per quello che prendiamo o distruggiamo, perché il mondo è essenzialmente qualcosa di morto. La morte della natura significa che noi abbiamo diritto di prendere ciò che vogliamo senza alcun rimorso morale. Siamo liberi di stuprare la Terra. Come abbiamo visto nell’analisi dell’ecopsicosi, la paura della natura che pare aver motivato il passaggio da una visione del cosmo in cui essa era considerata un essere vivente e fecondo a una in cui si è trasformata in qualcosa di morto, in materia inerte, può essere in parte collegata alla morte nera provocata dall’epidemia di peste bubbonica che sterminò quasi un terzo della popolazione europea tra il 1347 e il 1350. Inoltre, l’inizio della “piccola era glaciale” nel XIV secolo contribuì sicuramente a rafforzare il desiderio di controllo sulle forze della natura considerate distruttive. Come abbiamo avuto già modo di dire, il clima di caccia alle streghe e l’uso della tortura può aver fatto la sua parte nella formazione di un atteggiamento “inquisitorio” nei confronti della natura vista in termini femminili. La natura doveva essere “tartassata” affinché fosse “lei” a svelare i suoi segreti; e solo poi sarebbe stata modellata secondo le esigenze e i fini dell’”uomo”. La cosmologia del meccanicismo e della materia inanimata rimuove la gran parte, se non tutti, dei vincoli etici che si frappongono allo sfruttamento del mondo naturale. Allo stesso tempo, la rigida separazione tra mente e materia, che concerne il paradigma cartesiano, ha portato a una svalutazione di tutto il regno organico, compreso il corpo umano. In questo modo, viene svalutato anche il

lavoro fisico e chi lo svolge. Ne consegue che viene favorita l’oppressione delle donne, degli schiavi e di tutti coloro che appartengono alle classi operaie. Intanto, l’idea che la materia sia composta di piccoli atomi, distinti e indivisibili, non fa che rafforzare una concezione individualistica della realtà, in cui la relazione reciproca e la cooperazione finiscono per perdere ogni reale importanza. In un universo senza scopo non c’è posto per l’altruismo o la compassione. Tanto l’evoluzione quanto il progresso sono guidati da una spietata competizione che fa sì che solo il più adatto sopravviva. Gli esseri umani, come gli animali, sono impegnati in un’interminabile lotta per la sopravvivenza che si svolge in un mondo freddo e ostile. I più adatti acquisiscono ricchezza – e la ricchezza è segno della benedizione divina –, mentre coloro che sono meno capaci di adattarsi vivono nella povertà, che è indice di svogliatezza e inferiorità. In un universo-orologio tutto può essere previsto se solo siamo in grado di acquisire sufficienti conoscenze delle leggi eterne che governano il moto e la materia. Nessuna vera novità è davvero possibile. L’evoluzione sulla Terra è, al massimo, una curiosa anomalia. Ciò che sarà viene determinato da ciò che è stato. Come osserva Michael Lerner: Se gli esseri umani sono davvero come le complesse leggi della fisica [classica], allora è alquanto ridicolo lottare per cambiare le cose. Le nostre stesse battaglie diventano prevedibili, e come hanno sempre fallito nel passato, così falliranno nel futuro. «Si citi una sola rivoluzione che abbia prodotto una vera e propria trasformazione», ci dicono provocatoriamente. «Non potete farlo, e la ragione è che la scienza sociale ha già stabilito che questo genere di cambiamenti radicali è impossibile. Dunque, smettetela di prendervi in giro». (1986)

Lerner ritiene che «l’inconscio sociale» – basato sui presupposti profondi che formano la nostra cosmologia – sia infatti alla radice di ciò che egli definisce «surplus di impotenza», ossia «l’insieme delle nostre credenze e idee su come è il mondo e come può essere cambiato». Persino il marxismo, che è considerato la «più profonda ed

efficace critica alla società capitalista», alla fine ha fallito, poiché aveva le sue radici in quella cosmologia meccanicista che legittima l’idea secondo cui l’essere umano è qualcosa che «può essere soggetto alle leggi scientifiche» (1986). Secondo Kirkpatrick Sale la nuova concezione scientifica della realtà trovò in Europa un’accoglienza così immediata perché soddisfaceva le esigenze di coloro che erano al potere: «Forniva inoltre la struttura intellettuale e il meccanismo pratico per la costruzione dello Stato/Nazione – oltre il localismo feudale – nella direzione di un capitalismo mercantile e industriale e in vista di un progetto di colonizzazione e sfruttamento globali» (1985 [1991, p. 36]). Per esempio, il nascente nazionalismo trovò nella nozione di leggi immutabili l’idea giusta per imporre l’autorità. Nel frattempo il capitalismo poté prosperare – o meglio, essere considerato naturale e inevitabile – in un universo materialistico governato dalle forze della competizione e dell’iniziativa individuale. Il processo di colonizzazione fu sostenuto dalla ricerca scientifica volta al controllo e alla sottomissione della natura, laddove la teoria dell’evoluzione alla fine apportò un’ulteriore giustificazione per lo “sviluppo delle terre vergini” e la “civilizzazione” dei “selvaggi”. La cosmologia della dominazione non solo rimuove i limiti etici allo sfruttamento, ma giustifica di fatto lo sfruttamento e lo fa apparire “naturale” e “scientifico”. Non si tratta semplicemente di un’osservazione storica, perché la stessa cosmologia continua a sostenere gli sforzi di coloro che vogliono continuare a trasformare la Terra da organismo vivente a capitale morto e inanimato. Continuiamo a vivere nel retaggio della cosmologia della dominazione, anche se molti dei suoi fondamenti “scientifici” si sono da tempo polverizzati.

Oltre il meccanicismo La vera trasformazione sociale richiede che si modifichino le nostre categorie di pensiero fondamentali, che si cambi l’intera

struttura intellettuale con cui formuliamo la nostra esperienza e le nostre percezioni. Dobbiamo, in effetti, cambiare completamente la nostra “mentalità”, imparare un nuovo linguaggio. (Zohar-Marchall, 1994) Se da un lato bisogna riconoscere i limiti del progetto scientifico e della relativa visione del mondo – allorché riconosciamo il ruolo che esso ha nella legittimazione del patriarcato, della colonizzazione, del consumismo e della distruzione ecologica –, dall’altro occorre però anche riconoscerne i contributi positivi. Nelle società moderne in pochi desidererebbero far semplicemente ritorno, per esempio, allo stile di vita dell’Europa medioevale. A pochi piacerebbe vivere in una struttura sociale rigida con poche comodità e molti rischi per la vita. La maggior parte di noi apprezza l’ideale democratico e i diritti umani, i quali faticosamente hanno guadagnato consenso. La scienza ha portato dei benefici concreti alla società umana, sebbene ai benefici si siano mischiati i guai (e nonostante i suoi effetti sullo stato di salute del nostro pianeta siano stati quasi del tutto nocivi). Esiste un modo per preservare alcuni dei benefici associati alla scienza e alla cosmologia che ha contribuito a farla nascere mitigando o eliminando al contempo i suoi aspetti nocivi? Il filosofo Ken Wilber (1996) indica tre caratteristiche principali che considera costitutive della “dignità della modernità” – quel che chiama il “Grande Albero”. In primo luogo, la differenziazione del sé individuale o “io” dalla propria cultura o dalla società che ha contribuito a dare origine alle moderne istituzioni democratiche, inclusi i governi eletti e i diritti umani. In secondo luogo, la differenziazione della mente dalla natura può davvero aver contribuito ai movimenti di liberazione, nella misura in cui la “possibilità biologica” o la forza bruta non poterono più fungere da giustificazione alla dominazione. In ultimo: la differenziazione della cultura dalla natura ha rappresentato il fondamento della scienza empirica in cui la verità non era più sottomessa alle ideologie dello

Stato o alla religione. Dal punto di vista di Wilber la «cosa buona è che la modernità aveva imparato a differenziare il Grande Albero» – il che vuol dire: differenziare il sé dalla cultura, la mente dalla natura e la cultura dalla natura; «quella cattiva era che la modernità non aveva ancora capito come integrarle» (1996). In realtà, invece di una mera differenziazione, siamo arrivati a una vera e propria dissociazione. Conclude Wilber: L’ecocrisi è in gran parte il risultato di una continua dissociazione del Grande Albero. Non possiamo allineare natura, cultura e coscienza; non possiamo allineare natura, principi morali e mente. Siamo tutti frammentati in questa modernità che sta lentamente perdendo il senno. (1996)

Parimenti, Morris Berman lamenta la nostra perdita di coscienza partecipativa, la capacità di identificarsi con qualcosa – di diventarlo, per così dire –, che chiama “mimesis”. Fino al Rinascimento «l’io coesisteva con la partecipazione più di quanto non provasse a negarlo, e per molti secoli questo comportamento lo aveva reso una struttura vitale. Negando la partecipazione, però, l’ego nega la sua stessa fonte, perché [...] esso non dispone di risorse energetiche autonome e separate. L’inconscio è il fondamento dell’essere» (1981). La nostra attuale fissazione sull’io e sull’analisi è un’oscillazione esagerata che si traduce in tendenze distruttive perché non integra la coscienza partecipante. Tuttavia Berman non sostiene che dovremmo semplicemente abbandonare la capacità di analisi e di differenziazione. Mostra invece come le società caratterizzate da una forte componente di coscienza non partecipativa, come l’antica Grecia e il Rinascimento italiano, abbiano prodotto culture di uno «splendore meraviglioso». In tutto il Medioevo non si sono prodotti artisti e pensatori della statura di Michelangelo, Shakespeare o Leonardo da Vinci. La strada per un’autentica salute psichica e una vera fecondità, dunque, si trova nell’integrazione delle modalità mimetiche e analitiche della coscienza: Il dualismo cartesiano e la scienza eretta sulle sue false premesse sono in linea di

massima l’espressione cognitiva di un profondo disturbo biopsichico. Portati alla loro logica conclusione, essi hanno finito per rappresentare la cultura più antiecologica e il tipo di personalità più distruttivo che il mondo abbia mai visto. L’idea di dominio sulla natura e quella di razionalità economica non sono che impulsi parziali nell’essere umano, che nell’epoca moderna sono diventati principi di organizzazione dell’intera esistenza umana. Per riconquistare la nostra salute ed elaborare un’epistemologia più accurata non serve tentare di distruggere la nostra autocoscienza, ma piuttosto, come suggerisce Bly, un processo che implichi una fusione tra coscienza materna e paterna o, più precisamente, un sapere mimetico e cognitivo. È per questa ragione che considero il tentativo contemporaneo di creare una scienza olistica il grande progetto, e il grande dramma, della fine del XX secolo. (M. Berman, 1981)

Certo, durante il secolo scorso abbiamo assistito alla nascita in diverse discipline di una nuova cosmologia, a cominciare dalla fisica fino ad arrivare oggi alla biologia, all’ecologia e alle scienze sociali. Può essere che ci troviamo sulla soglia di un modo del tutto nuovo di vedere la realtà, una “nuova grande sintesi” che considera il cosmo come un processo in evoluzione, «il fenomeno dinamico complesso ma olistico di un universale dispiegarsi di un ordine che diventa manifesto in molti modi, in quanto materia ed energia, informazione e complessità, consapevolezza e autoriflessione» (Jantsch, 1980). Sotto molti aspetti, per la cosmologia meccanicista, così ben radicata in noi, sarebbe difficile immaginare un’antitesi più sorprendente, eppure questa nuova prospettiva è già comprovata in molte delle sue sfaccettature. Non dobbiamo sorprenderci se questa nuova cosmologia è praticamente sconosciuta alla maggior parte delle persone, inclusi parecchi di coloro che hanno un elevato livello di istruzione. Come la vecchia cosmologia meccanicistica e determinista fu promossa dalle élite dominanti per il sostegno che offriva ai loro interessi, così la nuova cosmologia può essere ignorata (o anche sottilmente repressa) per il suo potenziale sovversiva nei confronti del sistema dominante. Perfino nella stessa comunità scientifica il meccanicismo continua a predominare in quasi ogni disciplina, eccezion fatta per la fisica quantistica e la teoria dei sistemi, quantunque in tutti i campi ci siano

pionieri che cominciano ad adottare approcci non meccanicisti. La riluttanza degli stessi scienziati ad abbracciare il cambiamento è dovuta in parte alla natura autoalimentantesi dei paradigmi, i quali filtrano ciò che possiamo e non possiamo vedere. L’errore di Einstein, che stava nell’architettare una “costante cosmologica” per generare un cosmo statico, è un esempio emblematico, come lo è la tendenza della scienza a ignorare, fino a pochissimo tempo fa, i sistemi non-lineari. In effetti, una cosmologia più olistica potrebbe rivelarsi profondamente minacciosa per l’attuale dis-ordine sociale. Come osserva Edward Goldsmith, finché considereremo la natura, e l’umanità stessa, come una macchina complessa, potremo sostenere che i nostri bisogni siano solo materiali e tecnologici – in modo tale che la crescita economica e lo “sviluppo” possano continuare a soddisfarli tutti e noi continuare a seguire la pseudocosmologia del consumismo. D’altra parte, se la realtà è davvero fatta di relazioni e tutta la natura è viva, allora possiamo concludere che i nostri reali bisogni – «quelli biologici, sociali, ecologici, spirituali e cognitivi – sono sempre meno soddisfatti dal progresso o dallo sviluppo economico» (1998). Nonostante le resistenze, però, dalla scienza sta nascendo una nuova cosmologia. Sotto molti aspetti si tratta di una cosmologia particolarmente degna di nota, perché emerge nonostante i secolari pregiudizi e le distorsioni della vecchia visione del mondo scientifica. «Come nel dispiegarsi di un’immagine frattale, così l’universo continua a schiudersi senza posa, mostrando più di quanto non possa essere studiato. Quanto più la scienza studia il mondo tanto più trova. E a ogni livello, scopre strutture sottili e relazioni complesse» (Roszak, 1999). Questa nuova cosmologia offre un terreno fertile per la nostra immaginazione, aprendoci a nuove prospettive e nuove possibilità. Integrata con le intuizioni provenienti dalle più antiche fonti di saggezza, questa nascente cosmologia può offrire stimoli

completamente nuovi alla lotta che portiamo avanti per la liberazione integrale. Al posto di un universo atomistico composto di particelle discrete che possono essere comprese solo smembrando ciò che è complesso in parti più piccole e più semplici, il cosmo si mostra sempre di più come qualcosa di relazionale e interconnesso, un tutto molto più grande della somma delle sue parti. Infatti, la natura della materia stessa, intesa come qualcosa di statico e senza vita, a un esame più attento si dissolve, lasciando il posto a una danza dinamica di energia e di relazionalità. La Terra, e l’intero cosmo, cominciano nuovamente ad assomigliare a un organismo vivente, un organismo segnato da accessi sorprendenti di creatività e di insorgenza della vita, un organismo nuovamente colmo di una profonda e durevole finalità – da non intendersi però come destinazione finale o modello statico, ma come una direzionalità che manifesta la saggezza di fondo del Tao. 33 Nell’usare questo termine non intendiamo sostenere che si tratti dell’unica cosmologia che storicamente abbia favorito la dominazione e lo sfruttamento. Potrebbe benissimo essere vero, però, che la pseudocosmologia che stiamo analizzando possa averlo fatto in una maniera molto più ampia rispetto a qualunque altra cosmologia del passato. 34 Anche se, nelle interpretazioni più recenti, la mente viene talvolta vista in termini puramente materiali, come l’emergere di un epifenomeno nel cervello, il quale a sua volta è considerato in termini meccanicistici. 35 Secondo un modello più recente anche il cieco e insensato caso gioca un ruolo, soprattutto a livello atomico e molecolare. 36 Quando la termodinamica iniziò a indicare la graduale morte dell’universo e si scoprì che il cosmo era in espansione, per preservare la natura eterna dell’universo si avanzò l’idea di una “creazione continua”. 37 È interessante notare, tuttavia, che Bacone fu accusato di aver torturato un prigioniero mentre era al servizio del Lord Cancelliere d’Inghilterra, il che fa pensare che metafore tratte dalla tortura possano aver giocato un ruolo nel suo pensiero. 38 Come abbiamo evidenziato, la moderna cosmologia della dominazione è coesistita con cosmologie di transizione che non erano né totalmente animistiche né del tutto meccaniciste/riduzioniste. L’attuale processo di allontanamento dall’animismo ha probabilmente impiegato millenni, come mostrano i nostri riferimenti alle versioni greche dell’atomismo. Eppure gli ultimi quattrocento anni hanno segnato l’apice dell’allontanamento dalle antiche cosmologie animistiche.

7. Trascendere la materia Il microcosmo olistico Il Tao è come un vuoto vorticoso, sempre all’opera e tuttavia inesauribile. È come un abisso senza fondo, origine di tutte le cose, e principio guida che plasma tutti gli esseri. Smussa la lama tagliente, scioglie i nodi che avviluppano. Attenua il bagliore della luce, spazza via la polvere, lasciando tranquillità. È nascosto ma sempre presente, Non si può dire da dove venga, Esisteva prima della creazione stessa. TAO TE CHING §4 Gli atomi sono formati da particelle, e queste particelle non sono fatte di alcuna sostanza materiale. Quando li osserviamo, non vediamo mai alcuna sostanza; quel che osserviamo sono strutture dinamiche che si trasformano di continuo l’una nell’altra: la danza continua dell’energia. (Capra, 1982 [1990, p. 78]) Verso la fine del XIX secolo la scienza meccanicista e materialista sembrava aver raggiunto il suo culmine, soprattutto nel campo della fisica. Alcuni professori addirittura scoraggiavano gli studenti dall’intraprendere gli studi di fisica, poiché vedevano poche opportunità di apportare un contributo davvero originale in quel campo. Lord Kelvin, uno dei fisici più autorevoli al tempo, scorgeva solo due “piccole nuvole” all’orizzonte che restavano irrisolte. Per il resto, la nostra comprensione del regno materiale sembrava praticamente completa. Non poteva sapere Lord Kelvin che queste due “piccole nuvole” avrebbero portato a scoperte che avrebbero

dissolto le certezze del meccanicismo per rivelare una nuova, e forse molto più misteriosa, visione della realtà. Una di queste “piccole nuvole” riguarda la possibilità di predire la distribuzione dell’energia radiante a differenti frequenze dai cosiddetti “corpi neri”39 – un problema che avrebbe presto schiuso un nuovo campo d’indagine, quello della fisica quantistica. La seconda “nuvola” riguardava il fallimento dell’esperimento di MichelsonMorley volto a individuare l’”etere”, attraverso cui si credeva che la luce e altre forme di radiazioni dovessero viaggiare. Questa “piccola nuvola” divenne l’ispirazione per la teoria della relatività speciale di Einstein. Secondo la fisica newtoniana la velocità della luce varia a seconda che l’osservatore si muova in direzione della sorgente di luce o se ne allontani. La luce, come ogni genere di onda, richiede un mezzo attraverso cui viaggiare e quel mezzo – l’ipotetico etere – deve esso stesso muoversi (o restare fermo) rispetto al “sistema di riferimento” dell’osservatore. Per fare un esempio, se ci si muove verso una sorgente di luce si ha la sensazione di spostarsi più velocemente rispetto a quando ci si allontana da essa. Nel 1881, grazie allo sviluppo di nuove strumentazioni, Albert Michelson cercò di verificare questa teoria, ma non riscontrò differenze nella velocità della luce indipendentemente dal movimento dell’osservatore. Nel 1887 Michelson ripeté lo stesso esperimento con Edward Morley utilizzando strumenti ancora più accurati, ma anche questa volta ottennero lo stesso risultato. Ma come era possibile? In un universo governato dalle leggi di Newton era una cosa del tutto assurda. Nel 1905 Albert Einstein (1879-1955) postulò che non vi fosse alcun etere e che la velocità della luce nel vuoto fosse costante, indipendentemente da quanto veloce un osservatore si muovesse in

direzione della sorgente di luce o se ne allontanasse. Al contempo, Einstein sostenne che tutti gli osservatori che si muovono a una velocità costante devono osservare le stesse leggi fisiche. Combinando questi due postulati, Einstein dimostrò che gli intervalli di tempo e le lunghezze dovessero cambiare in base alla velocità del sistema in moto relativo al punto di vista dell’osservatore, o che dovesse cambiare il “sistema di riferimento”, sebbene questi effetti diventassero apprezzabili solo in sistemi in moto vicini alla velocità della luce (come per le particelle subatomiche). Secondo la sua teoria della relatività speciale, le osservazioni possono cambiare in base al sistema di riferimento dell’osservatore. Da questa nuova visione dell’universo scaturiscono strani paradossi. Per fare un esempio: un corpo che accelerando si allontana dall’osservatore e che poi, parimenti accelerando, ritorna verso l’osservatore apparentemente invecchierà molto più lentamente di quest’ultimo. Quest’effetto è stato poi dimostrato attraverso un orologio atomico estremamente preciso, anche se il fenomeno diventa significativo solo a velocità che rasentano la velocità della luce. Inoltre, due corpi che in assenza di moto sono della stessa lunghezza appariranno di misure differenti se uno dei due si muovesse rispetto all’altro a velocità prossime a quelle della luce. Per di più, quale dei due corpi appaia più lungo dipende dal proprio sistema di riferimento (per esempio dal “punto di vista” del corpo dal quale si osserva). Dimostrando questo tipo di effetti, la teoria della relatività cominciò a minare l’idea di osservazione obiettiva che è alla base della scienza occidentale classica. Un’altra implicazione della teoria di Einstein è che la materia e l’energia siano essenzialmente intercambiabili, come dimostra la famosa equazione E=mc2 (l’energia è uguale alla massa moltiplicato per la velocità della luce al quadrato). È così che la relatività mette in crisi quella visione statica e immutabile della materia che ha dominato la fisica classica. La materia è semplicemente una forma particolare di

energia, e gli atomi stessi non possono più essere considerati eterni e indivisibili. Inoltre, secondo la relatività, anche il tempo è un continuum con lo spazio. Einstein parla del cosmo come di una quarta dimensione geometrica in cui il tempo è considerato in maniera analoga alle altre dimensioni spaziali. In tal modo, emergono nuove modalità di percezione dell’universo che modificano l’idea stessa di moto e cambiamento. Con l’elaborazione, nel 1916, della teoria della relatività generale, Einstein propose che la gravitazione non fosse più considerata una forza che agisce a distanza, ma una curvatura dello spazio-tempo. Il tempo scorre molto più lentamente, dunque, se è posto sotto l’influenza di un campo gravitazionale. La teoria della relatività generale è in grado di spiegare l’apparente deviazione dell’orbita di Mercurio che la fisica newtoniana non aveva previsto. Arthur Eddington fornì anche un puntello sperimentale alla teoria della relatività generale, allorché osservò una stella la cui traiettoria luminosa era stata “deviata” dal campo gravitazione del sole durante l’eclissi del 1919 (fenomeno dovuto alla curvatura dello spaziotempo). Secondo le teorie relativistiche, la massa e la dimensione degli oggetti – e perfino lo stesso scorrere del tempo – non sono più concetti assoluti, ma dipendono dal sistema di riferimento dell’osservatore. Con la relatività, la concezione di una realtà regolare, ordinata, di “buon senso” di Newton cominciò a sgretolarsi. Al contempo, subentrarono nuove dinamiche della totalità, che comprendevano l’unità dello spazio e del tempo e la complementarità della massa e dell’energia. È nel campo della fisica subatomica e della teoria dei quanti, tuttavia, che le scoperte scientifiche hanno minato più profondamente

la sintesi newtoniana-cartesiana. Il mondo dell’estremamente piccolo – il microcosmo – sembra essere una realtà che mette in discussione la nostra immaginazione a ogni livello. Semplicemente, non possiamo visualizzarlo o concepirlo nei termini della nostra esperienza quotidiana. Per molti aspetti ci appare una realtà fatta d’imperscrutabili koan, i paradossi logici utilizzati nel buddhismo zen per portare la meditazione a un nuovo stadio di consapevolezza che trascenda il pensiero discorsivo. Perfino gli scienziati sembrano spiazzati dal comportamento del mondo subatomico, in cui viene utilizzato il campo della meccanica quantistica per descrivere la realtà. Pare, per esempio, che il premio Nobel Richard Feynman abbia dichiarato: «Penso di poter tranquillamente affermare che nessuno capisce la meccanica quantistica». Di fondo, la fisica quantistica esordisce affermando che l’energia è composta di piccoli pacchetti chiamati quanti. Come abbiamo già detto, fino alla fine del XIX secolo si riteneva che la luce e le altre forme di energia elettromagnetica consistessero di onde, le quali si muovevano presumibilmente attraverso uno specie di medium sottile chiamato etere. Gli esperimenti sulle radiazioni dei corpi neri (che avevano il compito di esaminare il modo in cui i corpi che assorbono radiazioni emettono calore) e l’effetto fotoelettrico (in cui la luce che colpisce un metallo genera il passaggio di corrente elettrica), tuttavia, portarono a una nuova concezione. Max Planck (1858-1947) fu il primo a dimostrare che la radiazione di un corpo nero viene emessa in multipli discreti di una minima quantità di energia, che egli definì “quanti”. Successivamente, Einstein dimostrò che si produce un effetto fotoelettrico quando quanti di luce (chiamati “fotoni”) colpiscono la superficie di un metallo, trasmettendo la loro energia agli elettroni ivi presenti, e così generando elettricità. Queste scoperte prepararono il terreno per lo sviluppo della teoria dei quanti durante la prima metà del XX secolo. Nick Herbert identificò tre caratteristiche chiave della fisica

quantistica che contribuiscono a distinguerla in modo chiaro dalla visione del mondo classica della fisica newtoniana. È interessante notare che furono proprio queste caratteristiche a turbare Einstein: «Einstein rimase colpito dal successo della teoria dei quanti, ma non riusciva ad accettare il concetto che in fondo il mondo fosse un fenomeno aleatorio, non fosse fatto di cose e che presentasse connessioni che sembravano in un certo senso mettere alla prova tanto il senso comune quanto la sua stessa teoria della relatività» (Herbert, 1993). La prima caratteristica del mondo subatomico della fisica dei quanti può essere definita inconsistenza. Atomi, elettroni e altre particelle subatomiche non posseggono attributi oggettivi di per sé fintanto che non vengono osservati. Fino al momento dell’osservazione esistono, per così dire, solo come modelli di probabilità: li si potrebbe quasi immaginare come entità potenziali, non ancora manifeste nella realtà. Il modo in cui li si osserva influenza anche ciò che si andrà a scoprire. Si può misurare la posizione di una particella, ma in questo caso non si può determinare il suo momento, e viceversa. Inoltre, entità come le particelle subatomiche e i fotoni si comportano sia come onde che come particelle. Per dirla in altri termini, la materia è stata elevata al livello di “campi e forze immateriali”, in cui la materia stessa risulta essere “un’idea defunta” o un “non concetto”. Come Karl Popper affermò una volta, nel nuovo universo quantistico, «la materia ha trasceso se stessa» (Roszak, 1999). Una seconda caratteristica del microcosmo quantistico strettamente collegata a quanto detto è l’aleatorietà o indeterminazione. In un mondo fatto di modelli di probabilità semplicemente non c’è modo di sapere con certezza quale possibilità si realizzerà. Come sottolinea Nick Herbert, un altro modo per comprendere questo aspetto è affermare che «situazioni identiche possono dare risultati differenti. Nel mondo newtoniano identiche situazioni portano sempre a identici risultati, ma nel regno quantistico due atomi

fisicamente identici sotto ogni aspetto possono mostrare comportamenti differenti» (Herbert, 1993). Di fatto, con questa nuova realtà il mondo del determinismo lineare si dissolve, se non altro quando tocca la dimensione subatomica. Infine, il mondo dei quanti è caratterizzato da inseparabilità, relazionalità ed entanglement. Una volta che due oggetti interagiscono restano connessi a un certo livello (o entangled) per sempre. Per di più questa connessione è istantanea indipendentemente dalla distanza, cosa che a un primo sguardo sembra violare il divieto posto dalla relatività circa la possibilità di comunicazioni che oltrepassino la velocità della luce. Per quanto davvero misteriosa sia una simile connessione tra particelle – e in realtà inutile dal punto di vista della comunicazione proprio a causa del suo elemento aleatorio –, essa esiste. Il cosmo non è una semplice collezione di oggetti discreti, ma una rete di sottili relazioni intrecciate. Come osserva Fritjof Capra: Nella fisica moderna l’immagine dell’universo [cartesiano-newtoniano] è stata trascesa nella condizione che vede in esso un tutto indivisibile, dinamico, le cui parti sono essenzialmente interrelate e possono essere intese solo come strutture di un processo di vastità cosmica. Al livello subatomico le interrelazioni e le interazioni fra le parti che compongono il tutto sono più fondamentali delle parti stesse. [...] c’è un’attività ma non ci sono attori; non ci sono danzatori, c’è solo danza. (1982 [1990, p. 79])

Nei paragrafi successivi esploreremo le caratteristiche del microcosmo quantistico in maniera più approfondita, attingendo delle idee lungo il precorso. Nel far ciò proveremo ad avvicinarci a questa strana realtà come faremmo con un paradosso creativo o un koan, con la consapevolezza che, se da un lato potremmo non essere in grado di comprendere il mondo che si rivela attraverso l’analisi, dall’altro, se saremo in grado di adottare una forma di comprensione più intuitiva e olistica, ci troveremo davanti a un mondo suggestivo e creativo.

Inconsistenza Dalla seconda metà del XIX secolo la scienza ha dimostrato che l’atomo newtoniano non era che un parto dell’immaginazione

teoretica. Non è mai esistito; e non ci sono mai stati motivi fondati per credere che esistesse. Il nucleo dell’atomo ha dato prova di essere sempre più poroso, così come ogni sua nuova parte ha rivelato una struttura interna ancora più profonda. «Gli atomi, come la galassie», racconta lo storico della scienza Timothy Ferris, «sono cattedrali di spazio cavernoso». E come le cattedrali hanno un’architettura splendidamente complessa che diventa vieppiù barocca quanto più in profondità andiamo a cercare. O forse una metafora più adatta sarebbe che l’atomo si è schiuso per rivelare un mondo infinitesimale altrettanto complesso quanto qualunque altro ecosistema presente nella natura macrocosmica. Si potrebbe quasi pensare che gli atomi abbiano un’ecologia, una struttura coerente di parti connesse tra loro. (Roszak, 1999) La materia sembra non essere altro che un’energia effimera che scorre con mirabile coerenza per produrre forme d’onda dotate di stabilità dinamica e di un’apparente solidità. (Elgin, 1993) La maggior parte di noi ha studiato l’immagine tradizionale dell’atomo. Ci è stato insegnato a immaginarlo come una palla compatta composta di piccole sfere – protoni e neutroni – circondata da altre sfere orbitanti chiamate elettroni. Già quest’atomo è diverso da quello di Newton, il quale sicuramente non concepì mai particelle più piccole dello stesso atomo. Per Newton gli atomi erano, per definizione, il frammento di materia più piccolo e per sua stessa natura indivisibile. Verso la fine del XIX secolo, però, J.J. Thomson scoprì l’elettrone, una piccola particella carica negativamente e di gran lunga più piccola di un atomo. Thomson propose quello che oggi chiamiamo il modello atomico “a panettone”, un modello cioè composto da elettroni conficcati sulla superficie esterna del nucleo carico positivamente. Nel 1911 Ernest Rutherford scoprì che la carica positiva al centro

dell’atomo doveva essere concentrata in un piccolo nucleo, ed elaborò così un’immagine dell’atomo formato da un denso nucleo e da elettroni che gli orbitano intorno. Nel 1914 Niels Bohr spiegò che gli elettroni dovevano orbitare in gusci distinti a seconda del loro livello di carica. In seguito Arnold Sommerfeld e Wolfgang Pauli determinarono la forma delle orbite e il comportamento degli elettroni al loro interno. Ma fu nel 1919 che Rutherford scoprì il protone, una particella con una massa 1,836 volte quella dell’elettrone. Nel 1936 James Chadwick scoprì il neutrone, con una massa leggermente più grande di quella del protone. Tutte queste scoperte e modelli hanno fatto progredire la nostra conoscenza dell’atomo, ma sono tutte immagini in un certo senso fuorvianti, specialmente se volessimo darne una rappresentazione o disegnarle. Tanto per cominciare, nessun diagramma può catturare la pura spaziosità di un atomo. In media oltre il 99,99999999999 per cento del volume di un atomo è spazio vuoto. Visto da un’altra prospettiva, se il nucleo dell’atomo avesse il diametro di un pisello (circa 4 mm), il suo diametro sarebbe di circa 100 m (l’estensione di un campo da football o da calcio). Se consideriamo che anche gli elettroni sono molto, molto più piccoli del nucleo, possiamo cominciare a comprendere la prima cosa fondamentale: la gran parte dell’atomo è composto da spazio vuoto. Già così sembra che non vi sia che pochissima “roba” solida e dura. Ma cosa dire delle stesse “particelle”? Anche queste entità, che normalmente rappresentiamo come sfere compatte, hanno una natura essenzialmente eterea. Nel 1924 Louis de Broglie ottenne l’equazione del dualismo onda-particella (grazie all’utilizzo dell’equivalenza di Einstein tra massa e energia E=mc2), dimostrando in tal modo che le particelle potevano anche essere pensate come onde. Come oggi sappiamo, le particelle non sono realmente delle “cose”, così come normalmente possiamo intenderle. Sono piuttosto “pacchetti di onde” o addirittura dei semplici “eventi”. Theodore Roszak osserva anche

che «nella teoria delle superstringhe, una delle più esoteriche scuole di pensiero della fisica, le particelle sono concepite come vibrazioni di piccole stringhe avviluppate in dieci dimensioni». A partire da questa immagine, possiamo rappresentare le particelle «come note musicali che “ci” sono, in maniera palpabile, come “c’è” un accordo suonato su un pianoforte» (Roszak, 1999). E in effetti, per il grande fisico Werner Heisenberg il cosmo era composto da qualcosa che somigliava molto di più alla musica che non alla materia o all’energia. Secondo lo studioso sufista e mistico Neil Douglas-Klotz, la cosmologia mediorientale tradizionale rispecchia un’idea prossima a quella del dualismo onda-particella in cui vibrazione e manifestazione concreta sono viste come due aspetti di una sola realtà. Per esempio, in aramaico la parola “cielo” (shemaya) evoca l’immagine di “una vibrazione sacra (shem) che si propaga in tutto l’universo manifesto (aya)”, mentre la parola utilizzata per dire “terra” (ar’ah) può riferirsi all’”intera natura dotata di una forma individuale, dalla pianta a una stella”. Nella Genesi entrambi questi archetipi sono creati in principio, ma non hanno una natura dualistica quanto piuttosto complementare. «Dal punto di vista della “terra” noi siamo una serie di esseri infinitamente diversi e unici. Dal punto di vista del “cielo” siamo in contatto con ogni essere nell’universo attraverso un’onda di luce o di suono» (Douglas-Klotz, 1999). Siamo completi solo quando possiamo riunire entrambe le visioni della realtà. In un certo senso, il “cielo” è un regno di possibilità, potenzialità e visioni, mentre la “terra” è un regno di forme che si sono manifestate in un luogo e in un tempo concreti. Una concezione della realtà simile si riscontra nella fisica quantistica. Non solo le particelle non sono “cose” nel senso classico del termine, ma in un certo senso non sono nemmeno qui o lì finché qualcuno non le osserva. Secondo il principio d’indeterminazione di Heisenberg è impossibile sapere allo stesso tempo la posizione e il momento di una particella. Quanto più accuratamente conosciamo un

attributo, meno precisamente conosciamo l’altro. In un certo senso ciò è dovuto alla natura stessa dell’osservazione scientifica. Per osservare qualcosa dev’essere utilizzato almeno un quanto di energia. Per fare un esempio: usiamo la luce – composta di fotoni – per vedere qualcosa o localizzarla con uno strumento. I quanti di energia che usiamo – quand’anche si trattasse di un singolo quanto – influenzeranno ciò che osserviamo perché le particelle con cui abbiamo a che fare sono così piccole che i quanti di energia andranno a disturbarle. Così, se determiniamo la posizione di una particella con precisione, avremo influito durante il processo sul suo momento, e viceversa. Eppure il principio di indeterminazione di Heisenberg comporta implicazioni più profonde che oltrepassano i limiti della nostra capacità di misurazione a livello subatomico. La natura ondulatoria delle particelle è costituita da onde di probabilità. In un certo senso, finché non viene osservata, una particella esiste in maniera potenziale ma non in un luogo in particolare: semplicemente è la probabilità di sapere dove potrebbe trovarsi. L’atto stesso dell’osservazione costringe, in un certo senso, la particella a manifestarsi in un luogo determinato (e imprevedibile). Come osserva Nick Herbert: Per decidere quale attributo si vuole misurare e per utilizzare lo strumento adeguato, si invita quell’attributo, ma non il suo attributo partner, a manifestarsi nel mondo reale. In un mondo inosservato di pure possibilità possono esistere senza contraddizione attributi incompatibili [come posizione e momento], ma nel mondo della realtà c’è posto solo per uno dei due attributi. La descrizione quantistica non specifica quale dei due appaia, lo decide il tipo di misurazione [l’osservatore]. (1993)

Se è vero che le particelle hanno una natura ondulatoria, è altrettanto vero che anche l’energia, e dunque la luce, possiede una natura particolare. Pertanto entità come gli elettroni e i fotoni esistono simultaneamente sia come onde di energia che come particelle. In entrambi i casi si applica il principio di indeterminazione: Non si può mai dire con sicurezza se erano particelle o onde di energia, né se esistevano in determinati momenti e luoghi o se sarebbero esistite come onde di probabilità. Oggi si tende a vederle come onde non-lineari, conosciute col nome di

solitoni, la cui stessa esistenza ha senso solo in virtù del mezzo di propagazione, e cioè della ricchezza di informazioni del campo sub-quantico, secondo la definizione data da Laszlo (1993): i quanta sono flussi osservabili simili ai solitoni all’interno mezzo sub-quantico altrimenti non osservabile. (O’Murchu, 1997)

Un’altra implicazione del principio di indeterminazione di Heisenberg è che, nel microcosmo subatomico della fisica quantistica, non può esservi una rigida distinzione tra osservatore e osservato, poiché essi formano un unico sistema. In un certo senso l’atto stesso dell’osservazione determina il “collasso” della funzione d’onda di probabilità, costringendo una particolare realtà a manifestarsi o come onda o come particella. Il fisico Wolfgang Pauli (1900-1958) sosteneva che ogni osservazione implica tanto la scelta quanto il sacrificio: scegliendo di conoscere una cosa sacrifichiamo la conoscenza dell’altra (Wilber, 1985). Allo stesso tempo, ciò che troviamo dipende da ciò che stiamo cercando. Il che implica un’epistemologia – o una forma di sapere – profondamente diversa da quella della fisica classica. Scrive Erwin Schrödinger (1887-1961), uno dei principali fisici coinvolti nell’indagine sul dualismo onda-particella dei fenomeni quantistici: A quanto pare l’idea di soggettività è molto antica e nota. Quel che c’è di nuovo nel contesto attuale è questo: non solo le impressioni che riceviamo dall’ambiente dipendono moltissimo dalla natura e dallo stato in cui si trovano i nostri sensi, ma, inversamente, l’ambiente stesso che desideriamo cogliere viene da noi modificato, soprattutto dai dispositivi che abbiamo predisposto per osservarlo [...]. Il mondo mi è offerto una sola volta, non c’è separazione tra mondo reale e mondo percepito. Il soggetto e l’oggetto sono una sola cosa. Non possiamo dire che la barriera tra loro sia stata infranta a causa dei recenti progressi della fisica, poiché quella barriera non esiste. (Wilber, 1985)

Niels Bohr (1885-1962), riflettendo sul principio di indeterminazione di Heisenberg, riteneva che fosse sbagliato sostenere che entità subatomiche come l’elettrone potessero avere anche una traiettoria, una posizione o una velocità. Secondo Bohr «il concetto stesso di traiettoria è ambiguo a livello quantistico» (Peat,

1990). In questa prospettiva più radicale il mondo dei quanti è reale – le cose vi accadono davvero – ma non è concreto, nel senso che non contiene res, cose, così come noi le percepiamo e le identifichiamo nei vari aspetti della realtà. «Secondo la scuola di Copenaghen», scrive Thompson (1990), «fino a che non viene eseguita l’osservazione, le particelle si trovano in uno stato ambiguo, “fantasmatico”, l’osservazione non fa che “ridurre” le particelle agli stati particolari che osserviamo [...]». Zohar (1993) adotta un punto di vista simile allorché considera la realtà come un vasto mare di potenzialità rispetto al quale lo scienziato (e in realtà ciascuno di noi) si comporta come una levatrice, portando fuori a ogni istante uno o più aspetti del vasto potenziale sottostante. (O’Murchu, 1997)

Per la maggior parte di noi l’idea che una singola entità esista come un’onda di probabilità fino a quando non si manifesta come una particella è una cosa che sfida l’immaginazione. Un fenomeno correlato può servire a illustrare quanto strana sia la realtà dei quanti. Si tratta del famoso esperimento della doppia fenditura. In quest’esperimento la luce viene fatta passare attraverso una singola fenditura molto stretta per poi colpire un pezzo di pellicola fotografica, su cui resterà impresso un singolo fascio di luce. Se però abbiamo due fenditure poste una accanto all’altra, le onde di luce allora si sovrapporranno, rafforzandosi l’un l’altra in alcuni punti e cancellandosi in altri, in modo da formare un modello di interferenza a più fasci. Tutto ciò è perfettamente comprensibile dal punto di vista della fisica classica. Cosa accadrebbe però se si indebolisse l’intensità della luce in modo da emettere solo un fotone per volta? È quello che è stato fatto, rilevando la luce attraverso una pellicola fotografica. Come previsto, con una singola fessura emerge uno schema in cui appaiono dei piccoli punti lì dove ogni singolo fotone – un indivisibile quanto di luce – ha colpito la pellicola, come volevasi dimostrare. Adesso, però, ripetiamo l’esperimento emettendo sempre un solo fotone alla volta, ma con due fessure. Poiché ogni fotone è indivisibile, dovremmo aspettarci due fasci di puntini, ciascuno dietro ognuna delle due fessure. Ma non è quello che accade. Accade invece che si genera uno

schema di interferenza. Com’è possibile? Se ogni fotone è stato emesso individualmente, come può interferire con l’altro? Non c’erano altri fotoni nei paraggi con cui interferire! L’inevitabile conclusione è che la teoria dei quanti ha gettato alle ortiche il senso comune e che i fisici sono stati costretti a riconoscere che i fotoni singoli e indivisibili si comportano come se potessero passare al contempo attraverso due fessure ed essere in due posti diversi nello stesso tempo. Oppure che siamo di fronte a qualche nuova e misteriosa comunicazione che sembra poter informare un fotone che si trova in una determinata parte dell’universo di ciò che accade in altre parti. (Peat, 1990)

I risultati dell’esperimento sono identici se, invece della luce, utilizziamo una “particella” come l’elettrone. L’esperimento della doppia fenditura non solo dimostra quanto strano sia il mondo del dualismo onda-particella, ma può altresì indicare la presenza di una qualche profonda, sottostante unità che guida il comportamento delle parti. Come abbiamo sottolineato in precedenza, l’esperimento della doppia fenditura sembra anche implicare la possibilità che una particella o un quanto di energia sia, nello stesso tempo, in più luoghi. In un certo senso, la cosa non dovrebbe sorprenderci. Se una particella non si trova in nessun luogo in particolare finché non viene osservata, vuol dire che in un certo modo è presente – almeno potenzialmente – in molti posti contemporaneamente40. In effetti, nozioni come traiettoria e posizione hanno poco senso quando abbiamo a che fare con fenomeni quantistici. Per esempio: è effettivamente possibile per un’entità quantistica spostarsi da un posto a un altro senza mai occupare lo spazio intermedio tra i due luoghi. Questo capita, ad esempio, quando un elemento radioattivo emette una particella elementare dal suo nucleo. Un momento prima è nel nucleo e il momento successivo schizza via ad alta velocità, eppure non si trova mai nel processo di fuga. Ma c’è di più: il salto è istantaneo. È come se la particella scomparisse dal nucleo e riapparisse semplicemente fuori di esso. Niels Bohr sosteneva che non possiamo rappresentare o creare

modelli del mondo atomico perché ogni volta che lo facciamo intervengono le nostre concezioni di fisica classica e le percezioni della nostra realtà quotidiana. Come scrive David Peat: «Tutto ciò che ha a che fare con traiettorie, orbite e proprietà intrinseche rappresenta un retaggio del pensiero classico e del modo tradizionale di immaginare l’universo. Non appena proviamo a formarci un’immagine dell’atomo, subentrano siffatte idee e il risultato è il paradosso e la confusione». La cosa migliore che possiamo fare è ricorrere all’approccio della complementarità, per il quale non esiste «una singola e chiara descrizione del mondo dei quanti» (Peat, 1990). Dobbiamo usare coppie di parole come spazio e tempo, o particella e onda. Una particella elementare ha sia la forma individuale e localizzata che la forma diffusa e ondulatoria; ovvero, secondo la concezione della cosmologia mediorientale, è contemporaneamente parte del regno dello shemaya (‘cielo’) e parte del regno dello ar’ah (‘terra’). Sul piano della realtà subatomica, dunque, sembrano non esserci cose nel senso in cui normalmente le intendiamo. Il premio Nobel Steven Weinberg conclude: «Dalla fusione della relatività con la meccanica quantistica si è sviluppata una nuova visione del mondo, quella in cui la materia ha perso la sua centralità» (citato in Roszak, 1991). Parimenti, come abbiamo avuto modo di osservare, Werner Heisenberg giunse alla fine a vedere l’universo come qualcosa che è composto di musica, più che di materia e di energia. Parlando delle particelle subatomiche Heisenberg osservò: «Le unità più piccole della materia non sono, in effetti, oggetti fisici nel senso classico del termine; sono piuttosto forme, strutture o – in senso platonico – Idee» (Wilber, 1985). In una conversazione con David Peat, Heisenberg affermò che «i “mattoni della materia” costituivano una rappresentazione fuorviante e confusa della natura della realtà quantistica. Si trattava piuttosto di manifestazioni superficiali di processi quantistici sottostanti. Le simmetrie erano la cosa più

fondamentale [...], non le particelle» (Peat, 1994). Un altro fisico, David Bohm (1917-1992), ha descritto le particelle subatomiche come «concentrazioni e nodi in un campo fondamentale e continuo» (citato in Roszak, 1999). Sono entità che in un certo senso modellano e danno solidità alla materia, ma che in se stesse sono prive di sostanza. Al suo fondamento il cosmo non si compone di “cose” o di “sostanze”, ma di strutture dinamiche e relazionali derivanti da qualcosa di ancor più profondo e sottile.

Relazionalità radicale Per i fisici dopo Einstein divenne fluida anche la distinzione tra esistente e non esistente. Modelli ondulatori posti in rapporto interdipendente mostravano probabili “tendenze a esistere” come eventi o come particelle. Anziché decomporre il mondo in entità ultime come “blocchi da costruzioni”, gli scienziati arrivarono a un tessuto di relazioni simile al vuoto in cui gli eventi sorgono collegati gli uni agli altri. Questo tessuto relazionale è coestensivo all’interno del cosmo, in cui tutto è connesso con tutto, non solo attraverso lo spazio, ma anche attraverso il tempo. (Ruether, 1992 [1995, p. 59]) Nel regno del microcosmo quantistico il mondo delle cose si dissolve in un mondo di processi e di rapporti. «Una particella elementare», scrive il fisico Henry Stapp, «non è un’entità [...] dotata di un’esistenza indipendente. Essa è, essenzialmente, un insieme di rapporti protesi all’esterno verso altre cose» (citato in Capra, 1982 [1990, p. 70]). Analogamente, Stapp descrive l’atomo come «una rete di relazioni in cui nessuna parte può sussistere da sola; ogni parte deriva il suo significato e la sua esistenza unicamente dal posto che occupa nell’insieme» (citato in Roszak, 1999). Le prove sperimentali sulla natura profondamente relazionale del microcosmo ci giungono in parte dall’enorme acceleratore utilizzato per scindere le particelle subatomiche. Più piccole sono le particelle

che scopriamo, più forte sembra che diventi la forza della relazione che le lega. Le particelle subatomiche che chiamiamo quark41, per esempio, coesistono in famiglie saldamente unite. Persino ricorrendo a una forza titanica è possibile separarli solo per un istante – meno di un milionesimo di miliardesimo di secondo – prima che ritornino nuovamente al loro stato di partenza. Basandosi su quest’esempio, Roszak osserva: «La complessità dei modelli d’insieme a livello atomico e subatomico si sta dimostrando più tenace e resistente alla rottura di qualunque altra cosa costruita a partire da essi. È quasi come se la natura provasse a dirci che la relazionalità viene prima e non può essere significativamente ridotta a qualcosa di ancor più fondamentale» (1995). La rete di relazioni alla base del cosmo esiste anche attraverso quelle che vengono chiamate connessioni “non-locali”, le quali sono allo stesso tempo istantanee e indipendenti dalla distanza. Questo fenomeno, chiamato talvolta entanglement quantistico, avviene se due particelle interagiscono tra loro. Da quel momento le due particelle restano misteriosamente in contatto: lo stato dell’una resta collegato per sempre con quello dell’altra. Le implicazioni di questo tipo di entanglement furono discusse per la prima volta nel 1935, allorché Einstein, insieme a Boris Podolsky e Nathan Rosen, pubblicò un saggio in cui si affermava che la meccanica quantistica era incompleta. Nel saggio fecero ricorso a un “esperimento mentale” con cui dimostrarono che la teoria dei quanti implica che la misurazione di un attributo di una singola particella influenza necessariamente ogni altra particella che si trovi “intrecciata” (entangled) con essa attraverso una precedente interazione. Poiché un simile effetto dovrebbe essere tanto istantaneo quanto indipendente dalla distanza che separa le due particelle, Einstein e i suoi colleghi conclusero che qualcosa nella teoria

quantistica doveva essere errato, poiché tale comunicazione istantanea e non-locale tra due particelle sembrava violare il divieto, sancito dalla teoria della relatività, che vi siano comunicazioni che oltrepassano la velocità della luce. Nel 1964 John Bell (1928-1990) ribaltò la tesi di Einstein e dei suoi colleghi proponendo il cosiddetto “teorema di Bell”. Invece di ritenere impossibili le connessioni non-locali, egli affermò che siffatte connessioni esistono realmente. Se si osserva una particella e quindi si fa “collassare la sua funzione d’onda”, costringendola a manifestarsi in un determinato modo, anche la funzione d’onda di un’altra particella a essa intrecciata dovrà simultaneamente collassare. Esperimenti effettuati in seguito hanno confermato questo fenomeno. Tali connessioni istantanee sono tuttavia sottili e non implicano comunicazioni significative, perché accadono sotto la superficie manifesta delle cose. Possiamo dimostrare l’esistenza di tali connessioni, ma non possiamo vederle direttamente. Le connessioni tra le particelle trascendono non solo lo spazio, ma anche il tempo. Come evidenziano Robert Nadeau e Menas Kafatos, esistono esperimenti che dimostrano come «il passato si mescoli inesorabilmente al presente e [come] perfino il fenomeno del tempo sia legato a specifiche scelte sperimentali» (1999). Il teorema di Bell e il fenomeno dell’entanglement suggeriscono una più profonda e soggiacente unità che connette l’intero cosmo al livello della realtà quantistica. Infatti, date le nostre attuali conoscenze sull’origine del cosmo, in cui energia, spazio e tempo si dispiegano insieme nel cosiddetto Big Bang, sembra lecito pensare che tutte le entità quantistiche abbiano in realtà interagito l’una con l’altra, diventando entangled: Il fisico N. David Mermin ha dimostrato che l’entanglement quantico cresce esponenzialmente in base al numero delle particelle coinvolte nello stato quantistico originale e che in teoria non esiste un limite al numero di queste particelle entangled. Se così stanno le cose, a un livello molto elementare l’universo potrebbe essere un’enorme rete di particelle, le quali restano in contatto l’una con l’altra a qualsiasi

distanza, in una dimensione “senza tempo” e in mancanza di passaggio di energia o di informazione. Ciò suggerisce, per quanto strano e bizzarro possa sembrare, che tutta la realtà fisica è un unico sistema quantistico che risponde all’unisono alle nuove interazioni. [...] La non-località e la non-separabilità [...] si possono tradurre in una nozione molto più ampia di non-località, o non-separabilità, in quanto condizione effettiva dell’intero universo. (Nadeau-Kafatos, 1999)

L’idea di connessioni non-locali, anche se di natura estremamente ineffabile, fu un tale choc per Einstein e i suoi colleghi che semplicemente non riuscirono ad accettarla. La non-località, infatti, mette profondamente in discussione alcune delle tesi più care alla scienza fin dai tempi di Cartesio e Newton. Intendere l’universo come un’enorme macchina significava pensare un cosmo di oggetti che si urtano gli uni con gli altri. Le cose si muovono perché qualcos’altro agisce su di esse. La causalità non era solo lineare; era anche locale e sostanzialmente meccanicista. Eppure, nel caso dell’entanglement quantico, non c’è nulla che spinga direttamente un’altra cosa. Tutto il rapporto di causa-effetto diventa più misterioso e complesso. In un certo senso, infatti, è l’intero regno dei quanti che sembra essere governato dal cieco caso e della probabilità – condizione che uno scienziato come Einstein trova difficile da accettare: «Non posso credere che Dio giochi a dadi con l’universo» (citato in Herbert, 1993). Eppure l’esistenza di connessioni non-locali schiude nuove possibilità di pensare la causalità sul piano del regno quantistico: Nella teoria dei quanti gli eventi individuali non sempre hanno una causa ben definita. Per esempio, il salto di un elettrone da un’orbita atomica a un’altra, o la disintegrazione di una particella subatomica, possono aver luogo spontaneamente, senza alcun singolo evento che li causi. Noi non possiamo mai predire quando e in che modo un evento del genere si verificherà; possiamo predirne solo la probabilità. Ciò non significa che gli eventi atomici si verifichino in modo completamente arbitrario, ma solo che non sono determinati da cause locali. Il comportamento di una qualsiasi parte è determinato dalle sue connessioni non-locali al tutto, e poiché noi non conosciamo con precisione tali connessioni, dobbiamo sostituire l’angusta nozione classica di causa ed effetto col concetto più ampio di causalità statistica. (Capra, 1982 [1990, p. 74])

Forse, invece di “causalità statistica” sarebbe meglio parlare di “causalità olistica”. Viviamo in un cosmo le cui fondamenta poggiano su una relazionalità profondamente radicata, o radicale. A un livello più impercettibile, ogni cosa ne influenza un’altra. Causa ed effetto non sono né lineari né locali, e non sono nemmeno semplicemente aleatori; sono invece entrambi misteriosi e creativi. L’immagine dell’universo come un orologio è andata in frantumi, e ciò che emerge al suo posto è qualcosa che possiede una natura di gran lunga più olistica, qualcosa che somiglia molto di più a un enorme organismo che non a una macchina.

Il vuoto gravido La trama dello spazio-tempo è [...] coinvolta nella danza della creazione. Il cosiddetto spazio vuoto non sarà più visto come un vuoto informe, così com’era concepito nella fisica classica. Lo spazio non è una semplice assenza di forma che attende di essere riempita dalla materia; lo spazio è invece una presenza dinamica, piena di un’incredibile e complessa architettura. (Elgin, 1993) Nella fisica classica il corrispettivo della dura e solida materia era il vuoto dello spazio. Come abbiamo visto, la dura materia di Newton e dei suoi seguaci ormai si è dissolta in qualcosa di molto più sottile ed etereo. Gli atomi stessi sono composti di scintillanti forme d’onda; somigliano molto più a vortici dinamici che a qualcosa di sostanziale. Gli elettroni vibrano quasi cinquecento miliardi di volte al secondo, tante oscillazioni quante ne può effettuare il ticchettio di un orologio in sedici milioni di anni. Ha scritto il fisico Max Born (1882-1970): «Più a fondo andiamo e più irrequieto diventa l’universo; tutto turbina e vibra in una danza selvaggia» (citato in Elgin, 1993). Eppure, non solo la fisica moderna ha mutato la nostra concezione della materia, ma anche lo spazio e il tempo hanno finito per intrecciarsi, per formare un’unità dinamica. In ogni momento, e in maniera spontanea, una particella e la sua antiparticella possono

improvvisamente emergere da questo apparente vuoto, e il momento successivo annullarsi reciprocamente. Da dove vengono? Sembrano nascere dal vuoto – eppure non è chiaro se quel vuoto sia semplicemente lo spazio-tempo così come lo percepiamo o una realtà nascosta da cui lo stesso spazio-tempo proviene. In ogni caso, questo “vuoto gravido” sembra essere una specie di enorme oceano di energia che ribolle di possibilità. Alcuni fisici ipotizzano addirittura che, talvolta, onde di energia possano unirsi nel vuoto e che questo breve impulso possa dar vita a un universo del tutto nuovo. La fisica classica ci ha insegnato a considerare la materia come qualcosa di fondamentale; lo spazio era solo una specie di tela su cui esisteva e si muoveva la materia. Nondimeno, nella nuova concezione del cosmo è lo spazio ad aver assunto una posizione preminente: «Lo spazio non è un vuoto statico, ma un processo di continua apertura che fornisce l’ambito affinché la materia possa manifestarsi. Poiché lo spazio-tempo è inseparabile dal movimento, e il movimento è un altro modo per descrivere l’energia, ne consegue che occorrono enormi quantità di energia per generare l’apertura degli enormi volumi di spazio-tempo che esistono nel nostro cosmo» (Elgin, 1993). Secondo la teoria quantistica dei campi ciò che noi percepiamo come “spazio vuoto” in realtà contiene un’elevata quantità di “energia di punto zero”, che proviene dalla combinazione di tutti i campi quantistici che include. È il vuoto “vuoto”, non la materia, a essere fondamentale: la materia è semplicemente una piccola perturbazione in un immenso oceano di energia. Secondo alcune stime c’è più energia in un singolo centimetro cubo di vuoto (o di spazio che diventa manifesto dal vuoto) di quanto se ne potrebbe generare se tutta la materia conosciuta nell’universo si disintegrasse (Bohm-Peat, 1987). La stessa natura dell’atomo può offrire delle prove di questo vasto oceano di energia. Nella fisica classica ci si aspetterebbe di vedere un elettrone emettere energia e poi gradualmente muoversi a spirale

verso l’interno e cadere nel nucleo. Eppure, ciò non accade. Questo è uno dei problemi che fin dall’inizio hanno ispirato la teoria quantistica: gli elettroni sono trattenuti in determinate orbite, o livelli di energia. Il che significa che gli elettroni non emettono costantemente energia fino a quando non saltano da un’orbita a un’altra. In quel caso, emetteranno energia come multipli discreti di un singolo quanto. Ciò tuttavia non spiega esattamente perché gli elettroni ai più bassi livelli di energia alla fine non cadano nel nucleo. La risposta che in genere viene data è semplice: perché non possono. Una teoria che offre una risposta alternativa – e forse più soddisfacente – proviene da Harold Puthoff, un fisico dell’Università del Texas. Puthoff ritiene che gli atomi attingano costantemente all’energia presente nel vuoto per compensare quella emessa dagli elettroni. Rifacendosi a Duane Elgin (1993), Puthoff sostiene che «la stabilità dinamica della materia dimostra l’esistenza nascosta di un oceano di energia d’immensa potenza e presente ovunque». Alcuni fisici parlano anche di un nuovo tipo di cosmologia della creazione continua. Poiché la materia si comprende meglio se pensata come un processo in continuo svolgimento – «modelli che si perpetuano; vortici d’acqua in un fiume che scorre incessantemente», come dice il matematico Norbert Wiener (1894-1964) –, gli oggetti materiali possono essere intesi come «modelli di risonanza costruiti in maniera dinamica che esistono all’interno di un più ampio modello di risonanza di quell’”onda stazionaria” che è il nostro cosmo» (Elgin, 1993). Da questo punto di vista, in ogni istante l’intero universo è un continuo guizzare dentro e fuori l’esistenza. Noi percepiamo la materia come qualcosa di solido solo perché le oscillazioni avvengono in maniera troppo rapida. La realtà è come una vibrazione che scaturisce dal vuoto gravido, onde in un vasto oceano di energia. Brian Swimme paragona il vuoto all’«oscurità superessenziale di Dio», che è «il fondamento di tutto l’essere» (citato in Scharper, 1997).

Zohar e Marshall (1994) lo paragonano al concetto buddhista di sqnyatb, un vuoto pieno di pura potenzialità. Lo possiamo paragonare allo stesso Tao: Il Tao è come un vuoto vorticoso, sempre vivo e tuttavia inesauribile. È come un abisso senza fondo, origine di tutte le cose, e principio guida che plasma tutti gli esseri. (Tao Te Ching §4)

Riflettendo sull’immensa energia presente nel vuoto gravido, vengono alla mente le parole di Thomas Berry citate all’inizio di questo libro: «Non ci mancano certo le forze dinamiche per costruire il futuro. Viviamo immersi in uno sconfinato oceano di energia. Ma questa energia, in definitiva, è nostra non per dominio ma per invocazione » (1999). Magari Berry non si riferiva all’energia di punto zero della teoria quantistica dei campi, ma in un certo senso le due immagini sembrano coincidere. È possibile invocare la vasta energia presente nel vuoto per realizzare nuove possibilità? Come possiamo farlo? Ovviamente non è questione di forza di volontà, poiché non possiamo sperare di dominare o controllare simili enormi energie. Nondimeno, esistono modi per evocarla, per portare alla luce queste nuove possibilità dal vuoto gravido? Forse la chiave di questo processo è nelle pratiche tradizionali di meditazione, ideate per condurci in uno stato di vuoto ricettivo. In ogni caso, riflettere sul grande potenziale presente intorno a noi può offrire una nuova speranza alla possibilità di muovere verso una liberazione profonda e radicale, che cambierebbe in maniera sostanziale il nostro rapporto con il cosmo, la Terra e tutte le comunità di esseri a cui apparteniamo.

L’immanenza della mente Oggi vi è un ampio consenso, che nella fisica raggiunge quasi l’unanimità, sul fatto che il flusso della conoscenza si stia dirigendo verso una realtà non meccanica; l’universo comincia a somigliare

più a un grande pensiero che non a una grande macchina. La mente non appare più come un intruso che accidentalmente è entrato nel regno della materia; si comincia a sospettare che dovremmo invece salutarla come creatrice e governatrice di tutto questo regno – non parliamo, ovviamente, della nostra mente individuale, ma della mente in cui gli atomi a partire dai quali le nostre menti individuali si sono sviluppate esistono come pensieri. (Sir James Jeans, citato in Wilber, 1985) La visione del mondo cartesiana fu costruita sullo stretto dualismo che separava la mente dalla materia. La fisica dei quanti, tuttavia, sembra in gran parte dissolvere questa distinzione. La natura della materia è stata trasformata in ciò che il fisico Arthur Eddington (18821944) ha definito “materia mentale” (Wilber, 1985). Il principio di indeterminazione di Heisenberg dimostra che ciò che viene osservato è influenzato dalle scelte dell’osservatore. L’atto dell’osservazione non solo interferisce con ciò che viene misurato, ma in realtà sembra invitarlo a manifestarsi in un determinato modo; o forse, per dirla in forma più poetica, lo chiama a essere. Heisenberg sostiene che, fino al momento dell’osservazione, le entità quantistiche come gli atomi e le particelle elementari «formano un mondo di potenzialità e di possibilità piuttosto che un mondo di oggetti o di fatti» (citato in Peat, 1990). A partire da quest’idea, il matematico John von Neumann (1903-1957) pensò che l’intero mondo fisico si trovasse in uno stato di pura possibilità (ad esempio come onde di probabilità) finché una mente cosciente non «decise di elevare una porzione del mondo dal suo stato usuale di indefinitezza alla condizione di esistenza reale» (Herbert, 1993). Ecco come Nick Herbert definisce la concezione di Neumann: L’idea generale di von Neumann e dei suoi seguaci è che il mondo materiale di per se stesso non è affatto materiale, non potendo consistere che di possibilità vibratorie inesorabilmente irrealizzate. Fuori da questo mondo di pura possibilità, interviene la mente per concretizzare tali possibilità e per assegnare al mondo fenomenico che ne scaturisce quelle proprietà di solidità, valore singolo e affidabilità

tradizionalmente associate con la materia. (1993)

Nella concezione di von Neumann, la coscienza fondamentalmente non fa che portare la realtà all’esistenza. È un’idea intrigante, che ci rimanda a una questione filosofica profonda: in mancanza di un centro di coscienza possiamo dire che è stato osservato qualcosa? Per fare un esempio: uno strumento che emette un quanto di energia per rilevare la posizione di una particella elementare di per sé non può realmente “collassare una funzione d’onda” più di quanto un qualunque fotone di luce non possa collidere con la medesima particella. Dev’esserci un osservatore in carne e ossa che registri la misurazione, e ciò implica la coscienza. Dunque, se la coscienza è considerata una conditio sine qua non per l’osservazione, la tesi di von Neumann sarebbe una logica conseguenza del principio di indeterminazione di Heisenberg. Come osserva Morris Berman (1981), questo genere di interpretazione della meccanica quantistica implica una nuova forma di coscienza partecipante, qualcosa che è più prossimo alla visione del mondo dell’alchimia che alla scienza classica. Alcuni hanno definito tale concezione “animismo quantistico”. Questa prospettiva – e cioè che la nostra mente in qualche modo renda manifesta o determini una realtà – coincide con quella propria di molte religioni e filosofie orientali. Ma una simile idea non sembra profondamente antropocentrica? Privilegiando questa forma di coscienza non stiamo assegnando all’uomo un ruolo centrale? Sì, ma solo se crediamo che mente e coscienza siano attributi appannaggio esclusivo dell’essere umano. In realtà, non ci sono ragioni per credere che gli animali, per esempio, non abbiano una qualche forma di coscienza. Di fatto, è pressoché impossibile dimostrare se qualcosa possiede o meno una coscienza. Noi stessi sappiamo di possederla solo perché ne abbiamo un’esperienza diretta. Riteniamo che anche gli altri l’abbiano perché sostengono di possederla, altrimenti non ne

avremmo alcuna prova diretta. Non potrebbe darsi che la coscienza sia molto più diffusa di quanto si possa pensare? Certamente, potrebbero esistere diverse forme di coscienza in diversi tipi di esseri, ma cosa esclude che anche le piante non abbiano un qualche genere di coscienza? Non possiamo sapere con certezza se sia così o meno. Se, come sosteneva James Jeans (1877-1946), il cosmo stesso assomiglia a un grande pensiero, non può essere che esiste una mente immanente al cosmo? Come approfondiremo nel capitolo 10, oggi sembra molto improbabile che l’universo abbia preso forma per puro caso o in seguito a una cieca mescolanza di particelle, energia e materia nascente. Non potrebbe darsi, dunque, come credeva Jeans, che la mente possa essere concepita come l’autore e il creatore dell’intero regno della materia o addirittura dell’intero cosmo? Se non altro, se consideriamo la coscienza, inclusa quella autoriflessiva, come una proprietà che emerge dall’intero processo evolutivo del cosmo, allora possiamo affermare che l’universo stesso è in un certo senso cosciente. Sicuramente gli esseri umani rappresentano quantomeno un aspetto del cosmo divenuto cosciente; ma se tale coscienza è emersa negli esseri umani allora potrebbe benissimo essere emersa anche in molte altre specie, inclusi gli altri organismi terrestri (ancorché in forme diverse, che possono variare nella loro capacità autoriflessiva). Come scrive Roszak: Finché si ritiene che il tempo abbia avuto un inizio, e dunque che la scienza, in un certo senso, non abbia ancora trovato un linguaggio per fare luce su ciò, la mente che uso per scrivere queste parole, la mente che usiamo per leggerle, è lì da sempre, avviluppata nella prima radiazione che si è sprigionata per creare lo spazio. Le leggi e i modelli di sviluppo erano lì, l’impulso strutturante del tempo era lì, per arrivare a questa conclusione. Ora, quando riguardando alla storia del cosmo per studiare le radiazioni di fondo dello spazio profondo o il violento proiettarsi dei più lontani corpi celesti noi facciamo ricorso a una coscienza nata da quello stesso processo, cogliamo ciò che vediamo come un’idea: l’idea del cosmo. (1992)

David Spangler sottolinea che le culture intrise di cosmologia meccanicista hanno finito col concepire la mente e la coscienza come

qualcosa di effimero, laddove in alcune tradizioni mistiche e animistiche è l’esatto contrario: la realtà fisica, materia compresa, era considerata una proiezione della coscienza; era la mente che poneva in essere la realtà. Quest’ultima concezione sembra richiamare da vicino quella dell’animismo quantistico. Eppure, sebbene la mente costruisca in un certo qual modo le nostre percezioni della realtà fisica, non lo fa nel modo del controllo e del dominio: «La mente non è “oltre” la materia (né la materia “oltre” la mente). Ciascuna modella e influenza l’altra in una danza universale che crea e dissolve forme e modelli» (Spangler, 1996). Allo stesso modo, il filosofo Peter Koestenbaum scrive: «Non esiste un confine preciso oltre il quale la mente diventa materia [...]. L’area di collegamento è molto più simile a una nebbia che gradualmente si addensa» (citato in M. Berman, 1981). Mente e materia si compenetrano: l’una dà origine all’altra; o forse entrambe sono semplicemente manifestazioni complementari di qualcosa che esiste a un livello ancora più sottile. Sulla base di questa interpretazione della mente e della materia, il fisico Wolfgang Pauli sosteneva che il corpo e la mente dovessero essere considerati come «aspetti complementari della stessa realtà». Morris Berman ritiene che la fisica quantistica implichi che il rapporto tra corpo e mente possa essere pensato come una specie di campo, «diafano e solido allo stesso tempo» (1981). In effetti, proprio come la materia può essere considerata in una certa misura una costruzione della mente, così la mente può emergere dalla materia; o, più esattamente, dai processi quantistici del cervello. Come osservano Danah Zohar e Ian Marshall, semplicemente non c’è processo meccanicistico che possa spiegare il senso fortemente unitario dell’”Io” generato dall’interazione di un centinaio di miliardi di neuroni presenti nel cervello; di contro, forse lo potrebbe fare una nuova «struttura quantistica olistica» (1994). Gli autori ritengono che il nostro cervello sia in grado di generare ciò che va sotto il nome di “condensato di Bose-Einstein”, o quantomeno un fenomeno simile. I

condensati di Bose-Einstein si trovano nei laser, in cui i fotoni diventano correlati nello stesso stato ottico, e nei superconduttori, dove gruppi di elettroni legati detti “coppie di Cooper” occupano identiche possibilità quantistiche. Il fisico inglese Herbert Fröhlich ha teorizzato che i sistemi viventi possono anche essere in grado di ospitare questo stesso tipo di processi ricorrendo al fenomeno della ferroelettricità. A sua volta, Marshall crede che questo genere di sistema ferroelettrico possa esistere anche nel cervello (Herbert, 1993). I condensati di Bose-Einstein sono caratterizzati sia da un ordine fluido e in continua evoluzione che da stati di unità altamente correlati. Un simile processo può giustificare l’unità interna dell’esperienza della coscienza: il risultante campo elettrico ad alta coerenza, generato dal cervello, può formare una sorta di sostrato di coscienza, fornendoci così il senso di un “io” unitario. Questo sostrato sarebbe analogo a uno specchio d’acqua sul quale i nostri pensieri, le emozioni, i ricordi e le immagini si propagano come piccole increspature. Un’altra ragione per credere che il cervello possa implicare processi quantistici some quelli di un condensato di Bose-Einstein è che ciò giustificherebbe le sue impressionanti capacità di elaborazione. Un neurobiologo ha calcolato che un computer standard seriale o parallelo, per elaborare un solo evento percettivo, necessiterebbe di un tempo superiore a quello trascorso dall’inizio del cosmo. Di contro, se il cervello utilizzasse processi quantici sarebbe in grado di esaminare tutte le varie combinazioni possibili di dati simultaneamente, consentendogli di produrre istantaneamente un senso unitario dell’esperienza (Zohar-Marshall, 1994). Se in qualche modo la mente operasse sul piano della realtà quantistica, sarebbe in grado di interagire direttamente con altri fenomeni quantistici? Potrebbe essere addirittura in grado di agire direttamente su ciò che normalmente chiamiamo realtà fisica? Da una ricerca approfondita condotta da Robert Jahn e Brenda Dunne è

emerso che la mente è in grado di influenzare il funzionamento di un generatore di numeri casuali. L’effetto è estremamente esiguo, purtuttavia è misurabile. Dopo sette anni di lavoro, l’effetto complessivo di psicocinesi è stato così significativo che vi era una sola possibilità su un milione che il risultato fosse dovuto a cause puramente aleatorie. «Se gli esperimenti di questo tipo», concluse Nick Herbert, «fossero stati condotti ininterrottamente fin dall’età della pietra, non si sarebbe presentato che un singolo risultato, dovuto al caso, così tanto lontano dalla media» (1993). Un altro esperimento accuratamente ideato dimostra che menti separate possono essere collegate tra loro in un modo che sfida qualsiasi spiegazione fisica ordinaria. William Braud e Donna Shafer hanno separato coppie di persone in due edifici diversi. Un soggetto poteva vedere l’altro attraverso lo schermo di un televisore collegato a una telecamera. Ogni trenta secondi alla persona osservata veniva chiesto se la persona nell’altro edificio la stesse guardando o meno. In base alle probabilità avrebbero dovuto rispondere correttamente solo la metà delle volte, e questo è stato il risultato effettivamente raggiunto; tuttavia, la risposta cutanea galvanica apparsa sul rilevatore indicava che nelle persone osservate vi era un aumento anomalo del livello di stress, segnalando una reazione il 59 per cento delle volte che le persone venivano osservate, ben al di là dunque del 50 per cento che ci si attendeva. Al livello del subconscio, dunque, i soggetti avvertivano di essere osservati, anche se forse non lo erano al livello conscio. La conclusione di Herbert è che «questi esperimenti sembrano suggerire che menti separate possono collegarsi attraverso connessioni che oltrepassano le nostre spiegazioni meccaniche ordinarie. La connessione in questo caso sembra realizzarsi al di sotto del livello della mente conscia, registrato da una minima risposta corporea piuttosto che da una piena percezione conscia» (1993). Questo può essere forse indizio di una qualche specie di connessione non-locale che opera a livello quantistico.

Un terzo esperimento, che riguarda la relazione tra preghiera e guarigione, sembra indicare che pensiero e intenzione possano influenzare a distanza i processi biologici. Randolph Byrd, un cardiologo, ha suddiviso all’incirca quattrocento pazienti malati di cuore in due gruppi grosso modo uguali. I nomi di metà di questi pazienti sono stati dati a dei gruppi di preghiera sparsi in tutti gli Stati Uniti. Per questi pazienti pregavano quattro-sette persone, ma né i pazienti né i loro medici ne sapevano nulla. Ebbene, alla fine dell’esperimento si è scoperto che il gruppo di pazienti che aveva ricevuto le attenzioni dei gruppi di preghiera aveva cinque volte meno probabilità di dover fare uso di antibiotici e tre volte meno probabilità di essere affetti da liquido nei polmoni. Nessuno dei pazienti per i quali si era pregato ha avuto bisogno dell’intubazione endotracheale per favorire la respirazione, laddove nell’altro gruppo è stata necessaria per dodici persone. Allo stesso tempo, l’effetto della preghiera sembrava completamente indipendente dalla distanza (Herbert, 1993). Di certo, questo fenomeno può essere attribuito in egual modo all’intervento divino, ma anche una simile spiegazione sfugge a qualsiasi spiegazione basata su cause puramente meccaniciste. O la mente degli individui che pregavano ha influenzato i malati o ha agito una mente più grande. Se intenzione e pensiero interagiscono in qualche modo con la realtà fisica, allora vi sono importanti implicazioni sul piano dell’azione trasformativa. La liberazione dev’essere una liberazione dalle strutture sociali oppressive e da modi di pensare oppressivi. Visione e intenzione possono avere effetti davvero concreti e diretti sul nostro lavoro in difesa della salute e del benessere del pianeta. In una certa misura, visione e intenzione possono avere un ruolo diretto nel determinare il cambiamento. Ciò non vuol dire che l’azione e l’organizzazione politica non siano importanti o necessarie; ma solo che agiscono su ciò che potremmo considerare il livello d’intenzione (o di spiritualità) che dovrebbe accompagnare tutte le azioni volte a

trasformare le strutture di dominio e di oppressione. Non dovrebbe dunque esservi tra loro alcuna dicotomia o dualismo. Se la mente e la realtà fisica in qualche modo si compenetrano, che implicazioni ha tutto questo sul posto che l’uomo occupa nel cosmo? Tornando all’interrogativo di Brian Swimme – l’universo è un luogo ospitale? –, James Jeans osserva: Questo nuovo concetto ci costringe a rivedere l’impressione che abbiamo di essere capitati in un universo del tutto indifferente nei confronti della vita, se non addirittura ostile. Il vecchio dualismo mente-materia, che era il principale responsabile di questa presunta ostilità, sembra quasi scomparire, non tanto perché la materia diventa in qualche modo più irreale e inconsistente di quanto non fosse prima, e nemmeno perché la mente si risolve in una funzione operante della materia, ma perché la materia si risolve essa stessa in una creazione e in una manifestazione della mente. (Wilber, 1985)

Ovviamente, il rapporto tra la mente e ciò che normalmente concepiamo come realtà fisica è qualcosa di complesso. Ciò che emerge, però, è che il vecchio dualismo cartesiano che divide la mente dalla materia, alla luce delle nostre conoscenze di fisica quantistica, semplicemente non è più sostenibile. La coscienza sembra se non altro capace di far “collassare la funzione d’onda”, inducendo la realtà quantica a manifestarsi in un determinato modo. Al livello dei fenomeni quantistici, la mente sembra in un certo senso porre in essere la realtà. Allo stesso tempo, può essere possibile che la mente stessa funzioni anche in una dimensione quantistica. Sembra probabile che mente e materia interagiscano in modi alternativi, modi che ancora non abbiamo compreso; e sembra altresì che possano perfino esistere connessioni tra mente e mente. In ogni caso, un approccio integrale alla liberazione deve tentare seriamente di unire pensiero, visione e intenzione con gli approcci più tradizionali per l’organizzazione e l’azione trasformativa.

Il cosmo olografico Nel cielo di Indra, si dice che esista una rete di perle, raccolte in modo che guardandone una tutte le altre vi si riflettano, e se

ci si addentra in una qualunque sua parte si sente il suono delle campane che riecheggia in ogni angolo della rete, in ogni parte della realtà. Allo stesso modo ogni individuo, ogni oggetto nel mondo non è solo se stesso, ma coinvolge ogni altro individuo e ogni altro oggetto e, in verità, da un certo punto di vista è ogni altra persona e oggetto. (parafrasi della Avatamsakasutra di Houston, 1982) Nel regno dei quanti, una realtà specifica sembra momentaneamente emergere da un vasto oceano di possibilità. Sembra che la mente e la coscienza giochino un ruolo diretto in questo processo di manifestazione. Esiste tuttavia una realtà più profonda, “dietro il velo”, per così dire, a partire dalla quale le particelle elementari e le onde diventano manifeste? La mente, l’energia, la materia, lo spazio e il tempo possono emergere a un altro livello ancora, un livello che noi non possiamo percepire direttamente, bensì solo attraverso delle inferenze? James Jeans credeva che la conseguenza più importante della fisica quantistica fosse che gli scienziati, per la prima volta dopo secoli, erano costretti a riconoscere che avevano avuto a che fare solo con l’ombra della realtà e non con la realtà in sé. Schrödinger concorda allorché scrive: «Si noti che il recentissimo progresso della fisica quantistica e relativistica non si trova nel mondo di quella stessa fisica che ha acquisito questo carattere di irrealtà, ma esisteva fin dai tempi di Democrito di Abdera e perfino prima, solo che non ne eravamo consapevoli; pensavamo di avere a che fare con il mondo in sé» (citato in Wilber, 1985). Tuttavia, se è vero che abbiamo a che fare in un certo senso con delle ombre, cos’è che proietta le ombre che percepiamo? Una delle teorie più affascinanti che tenta di rispondere a quest’interrogativo riguarda la nozione di “analogia olografica” proposta dal fisico David Bohm. Un ologramma è un sistema di interferenza prodotto su una lastra fotografica da due laser, uno riflesso dall’oggetto che viene registrato, l’altro, il fascio di

riferimento, che colpisce direttamente la lastra. Sebbene l’immagine prodotta sulla lastra sia indecifrabile per l’occhio, viene riprodotta un’immagine tridimensionale dell’oggetto originale quando un laser passa attraverso il film sviluppato. Ma la cosa principale è che anche il più piccolo frammento di lastra fotografica può riprodurre l’intera immagine in dimensioni ridotte. Come le perle di Indra descritte nella sutra buddhista all’inizio del paragrafo, così ogni parte dell’ologramma contiene l’essenza del tutto. L’analogia olografica postula l’esistenza di un livello esplicato e di un livello implicato della realtà. L’ordine implicato, come l’immagine sulla lastra fotografica, è una realtà “avviluppata”; in sostanza, il terreno unificante da cui emergono tutti i fenomeni, il vuoto amorfo a partire dal quale la realtà percepita diventa manifesta (che potremmo interpretare come lo stesso Tao). Di contro, ciò di cui normalmente facciamo esperienza è l’ordine esplicato, o manifesto, dello spazio e del tempo. L’ordine implicato ha una natura olistica e non-locale, mentre quello esplicato corrisponde al mondo delle apparenze composto dai singoli oggetti. Possiamo pensare all’ordine implicato come a un fiume e all’ordine esplicato come al movimento sulla sua superficie, effettivamente creato e sostenuto dal fiume stesso: Il gorgo o vortice in un fiume, per esempio, ha una collocazione definita nello spazio e nel tempo. È anche possibile generare nel fiume un tipo particolare di onde, che sotto molti aspetti si comportano come particelle – perfino nella misura in cui collidono l’una con l’altra. Eppure questi vortici e solitoni non hanno un’esistenza indipendente dal fiume che li sostiene. I vortici esistono nell’atto di essere costantemente creati. (Peat, 1990)

Il concetto di ordine implicato, dunque, equivale forse sotto molti aspetti a quello di vuoto gravido che abbiamo poc’anzi esaminato. Per David Bohm l’ordine implicato abbraccia lo spazio, il tempo, la materia e l’energia. L’ordine esplicato – il mondo delle nostre percezioni normali – è in realtà solo una piccola porzione della realtà.

Le forme che vediamo sono semplicemente un palesarsi temporaneo dell’ordine implicato, che soggiace al tutto e lo sostiene. È interessante notare che nella ricerca di un modello matematico per descrivere l’ordine implicato, Bohm e il suo collega Basil Hiley si rifecero all’algebra di Grassman, originariamente formulata per definire la natura del pensiero stesso (Peat, 1994). Collaborando con Bohm, il neurologo Karl H. Pribram ipotizzò che la stessa mente poteva esistere – se non altro in alcune delle sue dimensioni – nell’ordine implicato, trasformandolo poi nell’ordine esplicato attraverso un processo matematicamente simile alle trasformazioni di Fourier (Peat, 1987). Come il laser che riluce su una lastra fotografica in un sistema d’interferenze costruisce un ologramma, così il centro della coscienza costruisce una percezione della realtà. In sé la mente è analoga a un ologramma avviluppato in un universo olografico. Diversamente da un ologramma, tuttavia, realtà e mente sono elementi dinamici. Per questo motivo David Bohm preferisce usare il termine “oloflusso” (o “olomovimento”) per definire questo concetto (Weber, 1982). La teoria della mente che funziona in maniera analoga a un laser diventa molto più intrigante se la associamo all’idea secondo cui il cervello genera una specie di condensato di Bose-Einstein, lo stesso tipo di fenomeno effettivamente operante in un laser. Come osservano Zohar e Marshall (1994), un ologramma è semplicemente un tipo di increspatura o modulazione del campo uniforme del laser. Parimenti, i pensieri e le percezioni nella mente possono costituire increspature sul condensato di Bose-Einstein generato dal cervello. Uno stato profondamente meditativo, di contro, riporta la mente a una condizione di coscienza pura e indisturbata, simile allo specchio d’acqua di un calmo laghetto o al laser non disturbato da un ologramma. Se la mente è in un certo senso simile a un ologramma, ci aspetteremmo che mostri la stessa dinamica olistica che consentirebbe

a ogni sua parte di includere il tutto. La natura della memoria ne è un esempio calzante. Come ha sottolineato Karl Pribram, la memoria non pare localizzata all’interno del cervello ma piuttosto, e in un modo misterioso, sembra essere distribuita. Un danno al cervello non comporta la perdita della memoria selettiva, anche se il danno è molto esteso. David Peat (1990) si chiede se in questo fenomeno non siano implicate correlazioni non-locali, suggerendo che forse potrebbe essere in azione una sorta di processo quantistico. Altri hanno pensato che la memoria non sia depositata in nessun luogo, ma che la mente sia in qualche modo capace di guardare indietro nel tempo a eventi ed esperienze passate. Oppure ancora, se la mente esiste nell’ordine implicato, forse possiede modi di immagazzinare i ricordi al di fuori del cervello fisico. Magari il cervello serve solo da strumento di accesso ai ricordi, ma non a immagazzinarli effettivamente. Esistono interessanti analogie tra l’idea di un ordine implicato – o di vuoto gravido, a cui sembra corrispondere ampiamente – e le credenze spirituali di molti popoli. Gli aborigeni australiani, per esempio, ritengono che l’universo abbia due lati: uno corrisponde alla realtà “ordinaria” (o all’ordine esplicato) e l’altro, dal quale è sorto il mondo fisico, viene chiamato “tempo del sogno”. Il tempo del sogno, che possiamo considerare corrispondente all’ordine implicato, celebra la realtà materiale esistente, comprese rocce, fiumi, alberi, animali ed esseri umani. Tutto viene costantemente sostenuto dal tempo del sogno (Elgin, 1993). Parimenti, stando alla tradizione buddhista tibetana, i fenomeni vengono dal vuoto e ogni cosa è transitoria. Lama Govinda scrive: «Questo mondo apparentemente solido e sostanziale [è] [...] un turbinio di forme che sorgono e si disintegrano incessantemente» (citato in Elgin, 1993). Tali credenze riguardano anche il concetto di creazione continua discusso in precedenza. L’analogia olografica, infatti, implica che il mondo dei fenomeni sia continuamente sostenuto, e continuamente creato, al di fuori dell’ordine implicato.

Sebbene le complessità della teoria olografica siano difficili da comprendere e sotto molti aspetti ancora troppo speculative, vale la pena di prendere in considerazione alcune implicazioni di tale teoria, molte delle quali coincidono con le nostre precedenti osservazioni sulla natura della realtà quantistica. Innanzitutto, sembra che non esista qualcosa come una pura energia o una pura materia. Ogni aspetto dell’universo esiste come una specie di espressione vibrazionale – qualcosa che coincide, ovviamente, con l’idea di dualismo onda-particella e con il principio di indeterminazione. Questa concezione si avvicina molto alla cosmologia sufi, la quale considera la realtà in termini di vibrazione: La vita assoluta dalla quale è scaturito tutto ciò che si sente, si vede e si percepisce [corrispondente all’ordine esplicato], e in cui nel corso del tempo tutto nuovamente si fonde, è una vita silente, immota ed eterna che i sufi chiamano zat [corrispondente all’ordine implicato]. Ogni movimento che scaturisce da questa vita silente è una vibrazione a sua volta creatrice di vibrazioni. (Inayat Khan, 1983)

In secondo luogo, ogni aspetto del cosmo è un sistema onnicomprensivo che contiene tutte le informazioni su se stesso. Eppure, al tempo stesso, ogni aspetto è anche parte di un tutto più grande, l’ordine implicato che pervade ogni cosa. Poiché tutti gli eventi vibratori si mescolano all’interno di “oloflussi” unificanti, ogni aspetto contiene anche informazioni sul tutto. Questa parte dell’analogia olografica coincide con il concetto di connessioni nonlocali proprie del teorema di Bell, ma altresì lo amplifica e lo estende. Torna alla mente ancora una volta l’immagine delle perle di Indra: ogni parte della realtà in un certo modo rispecchia il tutto. In terzo luogo, il tempo nell’universo olografico non si limita al flusso lineare, ma può esistere in una forma pluridimensionale, che scorre in differenti direzioni simultaneamente. La vecchia cosmologia meccanicista era deterministica, e considerava tutti gli eventi all’interno di una struttura di causa ed effetto. Se da un lato tali spiegazioni possono risultare utili, dall’altro però non sono affatto

complete, come dimostra il verificarsi di molte “sincronicità” (termine introdotto da Jung per indicare coincidenze misteriosamente significative). Nel modello olografico, entrano in gioco l’unità del regno fisico e del regno materiale: la sincronicità si verifica allorché la mente funziona nel suo vero ordine e il suo potenziale creativo è realizzato (Talbot, 1991). Ciò non vuol dire che la realtà sia un’illusione, ma che la nostra psiche può interagire direttamente con l’ordine esplicato. Una cosmologia olografica implica parimenti che ogni cosa sia in un certo senso causata da ogni altra, e che tutti gli eventi siano in qualche modo collegati. Ciò non implica predeterminazione, in quanto ogni istante include nuova creatività. E infatti le intuizioni di un nuovo campo di studi scientifico, la teoria dei sistemi, dimostrano che anche la più piccola azione in un sistema complesso può comportare effetti estremamente rilevanti. Ecco come conclude Peat: Nell’affermare che “ogni cosa causa ogni altra cosa”, si ipotizza che i diversi fenomeni dell’universo provengano dal flusso del tutto, e che siano meglio descritti da una “legge del tutto”. Mentre la causalità lineare può funzionare abbastanza bene per sistemi limitati, meccanicistici e ben isolati, in genere serve qualcosa di più sottile e complesso per descrivere la straripante ricchezza della natura. (1987)

Dunque, la cosmologia olografica ci introduce al vero mistero della trasformazione e ci libera dal freddo determinismo. Le scelte e le azioni individuali possono avere un impatto reale e durevole; anzi, nelle giuste circostanze una minima azione si può amplificare e può diventare molto più potente di quanto non si pensi. All’interno del modello olistico gli individui sono stimolati a vivere le loro piene potenzialità e a rapportarsi alla realtà in maniera creativa. Quest’idea rafforza di conseguenza le potenzialità creative sia del poteredall’interno che del potere-con. Un cambiamento liberatorio è possibile. La chiave per un’azione efficace non si trova nel potere di dominio e di controllo, ma nel saper mantenere la giusta intenzione e nel discernere l’azione giusta al momento e nel luogo giusti.

In ultima analisi, una cosmologia olografica include la coscienza e la spiritualità come parti integranti della realtà. Come osserva Marilyn Ferguson: Nella teoria è infatti implicito il presupposto che gli stati di coscienza e armoniosi e coerenti siano maggiormente in sintonia con il livello primario della realtà, una dimensione, appunto, di ordine e di armonia. Vi sono implicazioni legate all’apprendimento, all’ambiente, alla famiglia, all’autoguarigione. Che cosa è che ci riduce in frammenti? Che cosa è che ci rende inerti? Le descrizioni di un senso di flusso, di cooperazione con l’universo, nel processo creativo, nelle prestazioni atletiche eccezionali e talvolta nella vita quotidiana, riflettono l’unione con la fonte? [...] Il modello olografico aiuta anche a spiegare lo strano potere dell’immagine, il motivo per cui gli eventi sono influenzati da quello che immaginiamo e visualizziamo. (1987 [1999, pp. 223-224])

In questo modello cosmologico sarà fondamentale incoraggiare gli atteggiamenti di amore, gioia, timore reverenziale e profondo rispetto. L’importanza dell’arte, della visualizzazione creativa e delle pratiche di meditazione risulta evidente. Una cosmologia olografica valorizza altresì il ruolo dell’intuizione. L’intuizione non è vista come uno stato “particolare” o alterato della coscienza, bensì come «un accesso diretto a ciò che è implicito, che opera [in maniera analoga a] una scansione di un’interferenza di tipo olografico con un’attenzione diffusa che non impone nozioni preconcette su di essa» (Welwood, 1982). In altre parole, l’intuizione è vista come una comprensione diretta dell’ordine implicato da parte della mente. L’intuizione non è irrazionale; è semplicemente una forma di razionalità distinta dal pensiero discorsivo. Coloro che sono coinvolti nella lotta per la liberazione e la salvaguardia dei sistemi vitali della Terra, dunque, dovrebbero lavorare allo sviluppo della facoltà intuitiva e darle maggiore rilievo. Questo comunque non significa che la logica lineare debba essere accantonata. La concezione olografica della realtà, infatti, è contraria alla creazione di dualismi e cerca di integrare tutti gli aspetti della mente. In sintesi, la metafora olografica ci costringe a considerare la

mente, la materia e lo spirito come un tutto inseparabile: «La materia è riempita dallo spirito, e lo spirito si cinge di materia. Non sono realtà separate» (Weber, 1982). La mente è una specie di interfaccia tra lo spirito e la materia: è essa stessa parte dell’ordine implicato, il fondamento dell’essere che corrisponde allo spirito, ma che interpreta la realtà sul piano dell’ordine esplicato. L’autentica prassi liberatoria, dunque, deve cercare di integrare mente, materia e spirito in un tutto operativo.

Olismo quantico Ogni atomo non fa altro che rivelare le potenzialità presenti nel modello di comportamento degli altri atomi. Ciò che troviamo, pertanto, non sono realtà elementari di spazio-tempo, ma una rete di relazioni in cui nessuna parte può stare da sola; ogni parte riceve il suo significato e la sua esistenza solo dal posto che occupa all’interno del tutto. (Henry Stapp, citato in Nadeau-Kafatos, 1999) Indipendentemente dal fatto che l’analogia olografica si riveli o meno una metafora adeguata della realtà microcosmica, è evidente che le intuizioni della fisica quantistica non fanno che sgombrare il campo da ogni possibilità di interpretazione del cosmo in termini puramente meccanicisti o materialisti. L’universo-orologio di Newton e Cartesio si è dissolto in una visione del mondo molto più complessa e misteriosa, e altresì olistica. Heisenberg una volta disse che il cosmo doveva essere visto come «una complessa trama di eventi, in cui si alternano, si sovrappongono e si combinano rapporti di diverso tipo, determinando la struttura del tutto» (citato in Nadeau-Kafatos, 1999). Gli atomi e le particelle elementari non sono più cose – e in effetti contengono ben poco della “dura materia” – ma eventi o processi, come i vortici in una corrente. Se è mai possibile affermare che la materia esiste, allora esiste non più in quanto sostantivo ma in quanto verbo. Come scrive David Peat: I fisici ci dicono che una roccia è composta da un numero enorme di atomi. E

questi stessi atomi, che a un livello quantistico sono avvolti nell’ambiguità, sono tutti coinvolti in una grande danza la cui manifestazione collettiva è una roccia. La roccia è pura danza. La sua rocciosità, la sua inerzia, la sua voce tutta interiore, sono manifestazioni di questo flusso e di questo costante movimento. (1991)

Il regno quantico mostra di avere una natura profondamente relazionale. Ad esempio, che cos’è in sé e per sé un quark quando si rifiuta ostinatamente di essere isolato e analizzato? Un quark esiste solo in relazione ad altri quark? In altre parole, come possiamo definire qualunque tipo di particella elementare in sé e per sé? Ogni particella rimanda a tutte le altre particelle attraverso connessioni non-locali, il che, ancora una volta, implica che non si possa esaminare una particella in maniera isolata. In un cosmo siffatto, in cui tutto è in un certo senso causato da ogni altra cosa, possiamo comprendere le parti solo in relazione le une alle altre. Materia, energia, spazio e tempo coesistono in una rete dinamica di relazioni. Infatti, tutte queste manifestazioni della realtà possono benissimo scaturire da un livello più profondo di unità, il vuoto gravido, il vasto oceano di energia che crea e sostiene queste manifestazioni momento per momento. Per di più, su una scala quantistica, le entità con cui abbiamo a che fare non sembrano nemmeno avere una posizione, una traiettoria e un momento. Finché una particella elementare non viene osservata, esiste in uno stato di pura potenzialità e possibilità, come una specie di onda di probabilità. Le sue qualità specifiche divengono manifeste solo quando la particella viene osservata. L’osservatore non può mai essere considerato indipendente da ciò che è osservato. La coscienza sembra cogliere solo un certo aspetto, affinché diventi manifesto. Il regno quantistico ha una natura olistica, dunque, che comprende anche la mente e la coscienza. Parimenti la relatività ha dimostrato che la struttura di riferimento dell’osservatore influenza ciò che viene osservato. Una volta ancora l’osservatore non può essere indipendente da ciò che osserva. La natura olistica del regno quantistico è testimoniata anche dalla

sua complementarità. Una particella è anche un’onda; lo spazio e il tempo coesistono come parti di un tutto più grande; materia ed energia sono due aspetti di una sola realtà. Ciò sembra rispecchiare l’idea di complementarità dello yin e dello yang nel taoismo o dello jemal e dello jelal nel sufismo (un analogo del femminile e del maschile, o del ricettivo e dell’assertivo). Una tensione dinamica di apparenti opposti crea un’unità dinamica. Altrimenti detto: possono a loro volta essere manifestazioni complementari di qualcosa di più profondo da cui scaturiscono. La fisica quantistica rivela un autentico olismo in cui il tutto è più grande della somma delle sue parti e in cui anche le parti manifestano il tutto. Ecco come Nadeau e Kafatos descrivono questo genere di olismo: In un tutto autentico i rapporti tra le parti costituenti devono essere “interni e immanenti” alle parti, in contrapposizione a un tutto più spurio in cui le parti sembrano rivelare un’interezza dovuta a rapporti esterni alle parti. L’insieme delle parti che avrebbe formato il tutto in una fisica classica è un esempio di un tutto spurio. La parti formano un tutto vero se il principio ordinante universale è interno alle parti e quindi adegua ognuna di loro a tutte le altre, di modo che si colleghino e diventino reciprocamente complementari. Ciò non solo definisce il carattere del tutto mostrato sia dalla teoria della relatività che dalla meccanica quantistica, ma è anche coerente con la maniera in cui abbiamo cominciato a pensare la relazione tra le parti e il tutto nella moderna biologia. (1999)

Il cosmo scoperto dalla moderna fisica della meccanica quantistica e della teoria della relatività, dunque, è di natura profondamente olistica. Il mondo della materia inerte e del cieco determinismo dell’universo-orologio newtoniano è superato. È altresì superata la rigida separazione tra mente e materia. La mente e la materia sembrano essersi fuse in modo misterioso e perfino giocoso. La coscienza, potremmo dire, evoca una particolare manifestazione della realtà quantistica, essendo forse essa stessa l’espressione di un fenomeno quantistico; o probabilmente dovremmo dire che la mente e la realtà fisica coscaturiscono da qualcosa che è allo stesso tempo più

profondo e più sfuggente. La visione che sta emergendo del cosmo è profondamente relazionale e perciò, per definizione, ecologica. Ogni cosa, se non altro a certi livelli, è connessa con ogni altra. Anche la coscienza sembra essere immanente al cosmo. Gli esseri umani, dunque, non possono ritenersi distinti dal mondo che li circonda. Siamo chiamati a fare nostra questa visione a un tempo nuova e antica del mondo e a tentare di vivere la consapevolezza di questa interconnessione nell’esperienza quotidiana. Allo stesso tempo, il freddo e logico razionalismo della fisica classica ha lasciato il posto a qualcosa cha possiede una natura molto più paradossale. Risulta impossibile formarci un’immagine chiara del regno quantistico. Perfino il vocabolario della fisica è diventato bizzarro, facendo ricorso a termini come sapore, colore, charm (tutte qualità dei quark), gluoni e wimp. I fisici stessi affermano che se comprendiamo ciò di cui stanno parlando, allora vuol dire che non abbiamo capito nulla! Per alcuni la fine di un cosmo prevedibile, deterministico e comprensibile può essere motivo di disperazione; ma se consideriamo il mistero e la complessità come qualcosa di creativo, possiamo in realtà assumere un atteggiamento opposto. Forse il determinismo è un punto di vista comodo per chi desidera che le cose non cambino mai, ma se vogliamo cambiare radicalmente il modo in cui gli esseri umani vivono sulla Terra, allora la natura paradossale e sorprendente del cosmo, così come appare nella fisica quantistica, può in realtà essere vista come un segnale di speranza. 39 I corpi neri sono oggetti che assorbono tutta la radiazione elettromagnetica che li colpisce. Nessuna radiazione li attraversa o viene riflessa; eppure teoricamente questi corpi emettono ogni possibile lunghezza d’onda di energia. Nonostante il nome, i corpi neri non sono letteralmente neri, poiché emettono anche luce, soprattutto ad alte temperature. 40 Per chiarire, un possibile modo per comprendere ciò che accade è che ogni singolo fotone (o elettrone) quando raggiunge le due fenditure è ancora semplicemente un’entità potenziale, in quanto non è stato ancora osservato. Così, un aspetto potenziale del fotone passa attraverso entrambe le fenditure e interferisce con il suo altro aspetto potenziale prima

di raggiungere la pellicola dove sarà finalmente osservato. È solo raggiungendo la pellicola che viene costretto a manifestarsi, ma per allora l’interferenza si sarà già verificata nel regno potenziale, di modo che quel che osserveremo sarà uno schema di interferenza. 41 Protoni e neutroni sono in realtà composti di quark. Esistono quark di diversi “sapori”, tra cui i quark up e down così come i quark charm, strange, top e bottom!

8. Complessità, Caos e Creatività Il Tao genera l’uno. L’Uno genera il due. Il Due genera il tre. Il Tre genera tutta la diversità delle cose. Tutti gli esseri ritornano allo yin e abbracciano lo yang e l’interazione di queste due forze vitali riempie il cosmo. Eppure solo nel punto di quiete, tra inspirazione ed espirazione, possiamo cogliere queste due forze in perfetta [armonia. TAO TE CHING §42 Agisci senza fare, lavora senza faticare, assapora senza gustare. Ingrandisci il piccolo, incrementa il poco. Rispondi con gentilezza quando ricevi uno sgarbo. Affronta i problemi prima che diventino troppo difficili. Risolvi le situazioni complesse con una serie di piccoli passi. TAO TE CHING §64 Nell’agire, la tempestività è tutto. TAO TE CHING §8 [Si immagini] un universo in cui ogni atomo, roccia e stella si abbeveri alla stessa inesauribile fonte della creatività. La natura è una sinfonia in cui temi, armonie e strutture nuove sono in perenne svolgimento. Queste strutture e questi processi restano in costante comunicazione reciproca e sono coinvolti in una danza di forme. La vita nuota in un oceano di senso, in un’attività e una coerenza che stempera le differenze tra ciò che è animato e ciò che è inanimato, tra pensiero e materia. Nuovi valori si sviluppano da questa mappa, poiché, in quanto partecipi di un universo vivente, siamo chiamati a un nuovo modo di agire e di essere.

(Peat, 1991) Siamo all’inizio di una nuova grande sintesi. Il soggetto non è una corrispondenza di strutture statiche, ma una connessione di dinamiche di autoorganizzazione – della mente – a più livelli. Possiamo immaginare l’evoluzione come un fenomeno dinamico complesso – e tuttavia olistico – di un ordine che si dispiega universalmente e che diventa manifesto in molti modi, in quanto materia ed energia, come informazione e complessità, come coscienza e autoriflessione. (Jantsch, 1980)

Sebbene la concezione del microcosmo che emerge dalla fisica quantistica sia affascinante e suggestiva per la visione del cosmo che rivela, essa può sembrarci piuttosto lontana dalla nostra esperienza quotidiana. È vero, ovviamente, che i fenomeni quantistici giocano un ruolo fondamentale nelle nostre vite: per esempio, tutto ciò che vediamo è generato dall’interazione tra i fotoni e le nostre retine. Eppure il regno subatomico sotto molti aspetti è probabilmente troppo misterioso e alieno per incidere in maniera diretta sulla nostra cognizione della realtà. Anche i fisici che hanno a che fare quotidianamente con esso sostengono di non essere in grado di comprendere fino in fondo la sua natura paradossale. Al massimo, forse, la visione del mondo quantistica potrà penetrare lentamente nella nostra coscienza, pervadendoci dell’implicita consapevolezza che la nostra percezione della realtà “solida” proviene da un’intricata danza di vivaci modelli di energia che interagiscono con la mente in maniera impercettibile. Le dinamiche relazionali e olistiche presenti nel microcosmo, comunque, sono osservabili in egual misura nel complesso sistema che rende il mondo accessibile ai nostri sensi. Tuttavia, a causa della visione del mondo che ci è stata tramandata, non sempre si riesce a essere consci di queste dinamiche. Tendiamo ancora a percepire la realtà in termini meccanicisti, come parti materiali che interagiscono in un modo relativamente semplice, il cui rapporto causa-effetto è diretto e intellegibile. In realtà, invece, la fisica classica è in grado di avere a che fare solo con sistemi relativamente semplici, isolati e lineari che agiscono vicino

all’equilibrio. Eppure si tratta quasi sempre di idealizzazioni; tali sistemi sono approssimazioni che corrispondono al mondo reale solo in casi molto specifici. Per esempio, le leggi del moto di Newton descrivono magistralmente l’interazione tra due pianeti, ma l’interazione di tre o più corpi celesti si traduce in equazioni nonlineari che mettono in crisi qualsiasi semplice soluzione matematica, rendendo impossibile prevedere le loro traiettorie con precisione. Allo stesso modo, l’oscillazione del pendolo in un range abbastanza breve può essere facilmente analizzata, ma un pendolo con oscillazioni più ampie produce comportamenti caotici che non possono essere previsti. I limiti della fisica classica sono ancora più evidenti quando tentiamo di applicare i suoi schemi a sistemi aperti (come gli organismi viventi) che scambiano materia ed energia con l’ambiente che li circonda. Secondo le leggi della termodinamica formulate nel XIX secolo, l’entropia dovrebbe crescere costantemente, il che significa che i sistemi dovrebbero sempre tendere a uno stato di maggiore disordine. Eppure, gli organismi viventi in realtà creano e mantengono un ordine, e anzi evolvono verso forme più complesse. Infatti, perfino quei sistemi che non sono organismi viventi – inclusi i sistemi fisici come i laser – danno prova di dinamiche di autoorganizzazione che non possono essere comprese utilizzando gli schemi della fisica classica. Gli scienziati sono da tempo consapevoli di queste limitazioni, ma fino a poco tempo fa semplicemente avevano scelto di ignorarli. Di fatto, avevano escluso la maggior parte dei sistemi del mondo reale dalle loro indagini, perché non potevano essere compresi all’interno dei loro schemi meccanicistici e deterministici. Tuttavia, nel corso degli ultimi cinquant’anni circa, è emersa una nuova prospettiva – detta “teoria dei sistemi” – che tenta di comprendere i sistemi complessi. Sotto molti aspetti la teoria dei sistemi non è affatto una teoria nel senso classico del termine, bensì

«un insieme coerente di principi applicabili a tutti gli insiemi irriducibili» (Macy, 1991a); o, secondo le parole di Ludwig von Bertalanffy, uno dei fondatori della teoria dei sistemi, di un nuovo “modo di vedere” il mondo. Ciò ha generato, in effetti, tutta una serie di teorie applicabili a un’ampia varietà di campi. Per questa ragione alla prospettiva sistemica vengono associate svariate denominazioni, inclusa teoria del caos, dell’emergenza, della complessità e dell’autoorganizzazione. Anche se talvolta possiamo prendere in considerazione sistemi più semplici, il nostro interesse cade perlopiù su quelli in cui si configurano dinamiche di autoorganizzazione e di evoluzione che alcuni definiscono “sistemi viventi”. I sistemi viventi comprendono chiaramente gli organismi, ma anche gli ecosistemi, e a volte il termine viene esteso fino a includere le organizzazioni e le società. La Terra stessa può essere vista come un sistema vivente – cosa che andremo a esaminare più nel dettaglio nel capitolo 10, quando parleremo dell’ipotesi di Gaia – e c’è chi considera anche il cosmo, preso nel suo complesso, un sistema vivente. «I sistemi viventi sono essenzialmente dinamici (da non confondersi con quelli statici). Crescono, cambiano e si adattano. Posseggono una volontà di vivere e una sorprendente e affascinante capacità di rigenerarsi, solitamente attraverso il ciclo nascita-morte-nascita» (O’Murchu, 1997). Alcuni estendono l’idea di sistema vivente a fenomeni che di per sé non sono normalmente associati alla vita, in particolare ad altri sistemi aperti che mantengono la loro coerenza dissipando energia. Senz’altro questi sistemi rivelano molto spesso dinamiche autoorganizzative. In linea di massima, comunque, ci concentreremo in primo luogo su quei sistemi più chiaramente vivi nel senso tradizionale del termine, inclusi gli organismi, gli ecosistemi e le società umane. Rifacendoci alle opere di Joanna Macy (1991a) e di Diarmuid O’Murchu (1997) possiamo individuare alcune delle caratteristiche principali di questi sistemi viventi:

1. In siffatti sistemi l’insieme è spesso più grande della semplice somma delle parti. Un sistema non può essere ridotto alle sue parti costituenti senza alterare la sua struttura caratteristica. Diversamente da un semplice sistema chiuso (come un muro di mattoni), le parti possono essere comprese solo nel contesto e in funzione del sistema nel suo insieme. Se un organismo viene dissezionato cessa di essere un essere vivente, e la sua stessa identità cambia. In un certo senso la struttura, più che le singole parti, è l’essenza del sistema vivente42. 2. Ogni sistema vivente è non solo un insieme, ma una parte di un tutto più grande; ogni sistema vivente è un sottosistema di un sistema più ampio (eccetto, forse, quando consideriamo il cosmo stesso in quanto sistema vivente). Tali sistemi, pertanto, sono analoghi agli alberi, dove i rami (sistemi) si dividono in rami più piccoli (sottosistemi), i quali a loro volta si dividono in rami più piccoli ancora e in ramoscelli. 3. I sistemi viventi sono omeostatici, si stabilizzano nel corso del tempo attraverso processi di retroazione negativa in cui l’output è costantemente regolato per corrispondere all’input. Materiale, energia e informazione vengono scambiati costantemente con l’ambiente circostante, e purtuttavia l’ordine e il modello complessivo del sistema vengono mantenuti. In altre parole, i sistemi viventi esistono sempre in uno stato molto lontano dall’equilibrio termodinamico; infatti un tale equilibrio viene raggiunto solo quando il sistema muore ed effettivamente si scompone. 4. I sistemi viventi si autoorganizzano e si autorigenerano. Se gli input e gli output non possono essere pareggiati, il sistema cerca nuovi modelli attraverso cui funzionare. Questo significa che, laddove può emergere una vera novità, i sistemi viventi sono capaci di sviluppo e di evoluzione; vale a dire che i sistemi viventi mostrano dinamiche creative autonome. 5. L’autoorganizzazione è al tempo stesso un processo di

apprendimento, o un “processo cognitivo”. Per esempio, un sistema immunitario che ha respinto un’infezione “ricorderà” come farlo nuovamente. Questo processo di apprendimento non richiede un cervello o un sistema nervoso: è una caratteristica innata di ogni sistema vivente. Come appare immediatamente evidente scorrendo questo elenco, la teoria dei sistemi condivide molti punti con la fisica quantistica, anche se vi arriva operando sulla natura di un diverso tipo di fenomeno. Per esempio, in una prospettiva sistemica le dinamiche relazionali e organizzative contano molto di più degli elementi materiali. Inoltre, i sistemi viventi mostrano di possedere una dimensione creativa che si traduce in quello che qualcuno potrebbe considerare un processo mentale – o perfino una forma di mente – anche quando non è coinvolto alcun sistema nervoso. Certo è che i sistemi hanno una prospettiva organica e olistica piuttosto che meccanicista e riduzionista. Cosa ancor più importante forse è che un sistema può riplasmare completamente il nostro modo di concepire la relazione tra causa ed effetto, nonché il nostro potere di trasformare le strutture complesse. Per capire come ciò possa avvenire, andremo ad analizzare la teoria dei sistemi in modo più approfondito.

Analisi della teoria dei sistemi La moderna teoria dei sistemi è sorta più o meno nel secolo scorso in diversi campi di studio, uno dei quali è la biologia. Nel corso del XIX e del XX secolo molti biologi cercarono di comprendere gli organismi viventi in termini strettamente meccanicisti – tentativi che, potremmo dire, proseguono tutt’oggi con gli approcci più riduzionisti della genetica. Nondimeno, le interpretazioni riduzioniste hanno cozzato contro limiti molto forti, in particolare per quel che riguarda lo sviluppo e la differenziazione cellulare. In contrapposizione a questa concezione, nel XIX secolo alcuni scienziati avanzarono teorie basate sul vitalismo, in base alle quali per riuscire a comprendere la vita era necessario integrare forze o entità

non fisiche alle leggi della chimica e della fisica. I vitalisti sostenevano anche che il funzionamento degli organismi viventi dovesse essere colto come un tutto integrato, in cui l’attività di ogni parte diventava comprensibile solo all’interno del più ampio sistema in cui era situata. Nel corso degli ultimi ottant’anni è stata elaborata una terza alternativa per l’interpretazione degli organismi viventi: l’organicismo. Al pari del vitalismo, l’organicismo ritiene che la vita debba essere interpretata in maniera olistica, ma a differenza del vitalismo non postula alcun tipo di forza o entità esterna. Sostiene invece che per comprendere le dinamiche della vita sono sufficienti i processi fisici e chimici insieme alla capacità di “rapporti organizzati”. «Poiché questi rapporti organizzati sono schemi di relazioni insiti nella struttura fisica dell’organismo, i biologi organicisti sostengono che non c’è bisogno di alcuna entità separata e immateriale per la comprensione della vita» (Capra, 1996 [2006, p. 36]). L’idea di rapporti organizzati viene ormai ampiamente interpretata in termini di dinamiche autoorganizzative. Sul piano filosofico l’organicismo attinge dalle idee di pensatori come Aristotele, Goethe e Kant. Secondo Aristotele, per esempio, ogni ente, inclusi gli organismi viventi, possiede un proprio sistema di organizzazione – una specie di anima immanente che egli chiama entelechia – che unisce forma e sostanza. Il moderno organicismo porta avanti questa tradizione in maniera nuova, sforzandosi di superare il vecchio dualismo cartesiano tra mente e materia, un dualismo che è ancora presente sotto varie forme sia nel meccanicismo che nel vitalismo. Contrariamente ad Aristotele, tuttavia, l’organicismo e le teorie dei sistemi che esso ha contribuito a ispirare hanno una natura dinamica ed evolutiva: attraverso il processo dell’autoorganizzazione sorgono nuove forme e nuovi modelli. C’è chi estende la concezione organismica all’intera realtà, affermando che, in effetti, siffatto ampliamento sia implicito nella prospettiva organismica. Ecco cosa sostiene, per esempio, Rupert Sheldrake:

Dalla prospettiva organismica, la vita non è qualcosa che emerge dalla materia inerte e che richiede di essere spiegata attraverso i fattori vitali aggiuntivi del vitalismo. Tutta la natura è viva. I principi organizzativi degli organismi viventi differiscono in grado ma non in tipo dai principi organizzativi delle molecole, delle società, delle galassie. «La biologia è lo studio degli organismi più grandi, mentre la fisica è lo studio degli organismi più piccoli», come scrive Whitehead. E alla luce della nuova cosmologia, la fisica è anche lo studio dell’organismo cosmico totale e gli organismi galattici, stellari e planetari che sono venuti in essere al suo interno. (1988 [2011, p. 69])

Un secondo filo conduttore che contribuisce allo sviluppo della moderna teoria dei sistemi è di natura più filosofica. All’inizio del XX secolo, Aleksandr Bogdanov – scienziato, filosofo, economista, fisico e rivoluzionario marxista vissuto in Russia tra il 1873 e il 1928 – fece il primo tentativo di formulare una teoria generale dei sistemi, che chiamò “tectologia”, ovvero “scienza delle strutture”. La tectologia prova a delineare in maniera sistematica i principi dell’organizzazione tanto dei sistemi viventi quanto di quelli non viventi. Dimostrando come una crisi di organizzazione possa condurre al crollo di una struttura vecchia e alla nascita di una nuova, Bogdanov anticipa di mezzo secolo il lavoro di Ilya Prigogine. Egli riconosce in maniera esplicita, e per la prima volta, che i sistemi viventi sono entità aperte che operano in uno stato molto lontano dall’equilibrio termodinamico. Alla fine, Bogdanov formulò un concetto di regolazione simile al meccanismo di retroazione che sarebbe poi divenuto centrale per il futuro campo della cibernetica. Per quanto profetica sotto molti aspetti, l’opera di Bogdanov in Occidente fu anche largamente dimenticata, mentre in Russia – a causa delle sue divergenze politiche con Lenin – fu per molti anni messa ai margini. A partire dagli anni Quaranta fu Ludwig von Bertalanffy (1901-1972) a formulare la celebre teoria generale dei sistemi, che culminò nel 1968 nella pubblicazione della Teoria generale dei sistemi. L’intento di Bertalanffy era interpretare l’evoluzione della vita alla luce dei principi della termodinamica. La seconda legge della

termodinamica afferma che ogni sistema chiuso e isolato tende a passare da uno stato di ordine a uno stato di crescente disordine. Ciò introduceva nella scienza il concetto di “freccia del tempo”, poiché i processi meccanici dissipano energia sempre sotto forma di calore, e quest’energia non può mai essere completamente recuperata. Dunque, l’intero universo avanza in ultima analisi verso una “morte termica” a cui non c’è modo di sfuggire. Di contro, la teoria dell’evoluzione dimostra che gli organismi viventi sono evoluti in stati di essere vieppiù complessi e ordinati. Ma com’è stato possibile? Bertalanffy postulò che gli organismi viventi mal si adattassero alla classica definizione di sistema chiuso sancita dal secondo principio della termodinamica; piuttosto, si tratta di sistemi aperti che funzionano in condizioni lontane dall’equilibrio e che mantengono uno “stato stazionario” attraverso un flusso continuo di energia e materia. Individuò poi nel metabolismo il processo che conserva lo stato stazionario, che egli definì “equilibrio fluente”. Nei sistemi aperti l’entropia (o disordine) può effettivamente diminuire, ma a costo di un aumento dell’entropia dell’ambiente circostante. Pertanto, fermo restando il secondo principio della termodinamica, gli organismi viventi riescono a passare a un crescente stato di ordine assumendo energia e cibo dall’esterno ed espellendo al contempo rifiuti e calore (aumentando l’entropia) nell’ambiente circostante. Il terzo principale aspetto coinvolto nella genesi della moderna teoria dei sistemi proviene dal campo della cibernetica, una disciplina che ha cominciato a svilupparsi nel corso degli anni Quaranta. La cibernetica ha a che fare con sistemi di input-output e sta alla radice della moderna tecnologia computeristica. La cibernetica tenta di creare modelli di organismi viventi nel senso di complesse “macchine che elaborano informazioni”. Come sottolinea Fritjof Capra «questa scuola di pensiero rappresenta ancora una teoria dei sistemi

meccanicistica», ma «è un meccanismo molto sofisticato» (CapraSteindl-Rast, 1991 [1993, p. 83]). John von Neumann, un genio matematico (di cui abbiamo parlato a proposito della sua riflessione sulla fisica quantistica, la coscienza e la costruzione della nostra percezione della realtà), fu uno dei pionieri in questo campo. Von Neumann è considerato l’inventore del computer – e in effetti il computer è un’ottima metafora per comprendere l’approccio alla teoria della cibernetica. Quando negli anni Cinquanta gli scienziati iniziarono a costruire modelli di sistemi binari basati sulla cibernetica, rimasero sorpresi nello scoprire che l’attività casuale, in un arco di tempo relativamente breve, tendeva a risolversi in modelli discernibili. La natura nonlineare dei sistemi costituiti da anelli di retroazione sfociava in una sorta di ordine che emergeva dal caos apparente. Questa nascita spontanea di un ordine divenne nota alla fine come fenomeno dell’”autoorganizzazione”. Norbert Wiener, uno dei primi pensatori della cibernetica, utilizzò un approccio un po’ differente, concentrandosi di più sulle dinamiche dei sistemi di autoorganizzazione, come ad esempio gli organismi viventi. Laddove von Neumann tentava di illustrare attraverso un modello matematico l’azione del cervello in termini di logica, Wiener era più concentrato sulla comprensione dei sistemi viventi naturali. «Mentre von Neumann cercava il controllo, un programma», afferma Capra, «Wiener apprezzava la ricchezza dei modelli naturali e cercava una sintesi concettuale completa» (Capra, 1996). Il pensiero di Wiener ispirò il lavoro di Gregory Bateson (1904-1980), il quale si avvicinò alla teoria dei sistemi da una prospettiva umanistica. Inizialmente, la scuola della teoria dei sistemi di Wiener basata sull’autoorganizzazione fu perlopiù trascurata a favore della cibernetica che si rifaceva a Neumann, che aveva un’ispirazione molto più meccanicistica. Durante gli anni Settanta e Ottanta, tuttavia, si ebbe una rinascita dell’approccio organicista, arricchito dalla

prospettiva di pensatori come Ludwig von Bertalanffy. Tra i personaggi più autorevoli coinvolti in questo nuovo approccio integrato figuravano Ilya Prigogine (1917-2003), James Lovelock, Lynn Margulis, Humberto Maturana e Francisco Varela (1946-2001). Il concetto di autoorganizzazione che emerge da questo lavoro ha una portata molto più ampia di quello che era emerso dalle prime opere sulla cibernetica. Anziché limitarsi a guardare l’ordine proveniente dal caos nelle reti di anelli di retroazione, le nuove teorie prevedono «la creazione di strutture e di modi di comportamento completamente nuovi nei processi di sviluppo, apprendimento e evoluzione» (Capra, 1996 [2006, p. 100]). Inoltre, le nuove teorie si focalizzano sui sistemi aperti che operano in condizioni lontane dall’equilibrio, in cui materia, energia e informazioni vengono scambiate costantemente. Infine, tutte le teorie si basano su sistemi che prevedono anelli di retroazione per regolare l’attività del sistema stesso, che a loro volta si traducono in una complessa interconnessione e interazione tra tutte le parti del sistema. Secondo Ludwig von Bertalanffy tutti i sistemi viventi condividono due proprietà fondamentali. La prima è la “conservazione biologica”, attraverso la quale gli organismi salvaguardano se stessi per mezzo di processi di omeostasi o attraverso la stabilità legata al cambiamento continuo. Questa può essere considerata una proprietà autoaffermativa o di soggettività/soggettivazione, proprietà che Humberto Maturana e Francisco Varela chiamano “autopoietica”, ossia letteralmente della “creazione di sé”. La seconda proprietà si trova in una specie di tensione dialettica con la prima. Von Bertalanffy la considerò una proprietà di organizzazione gerarchica, l’idea cioè che ogni sistema sia un sottosistema di un sistema più grande e a sua volta sia composto di

sottosistemi ancora più piccoli. La si può immaginare come una proprietà di comunione, relazionalità e anche di contestualità. In un certo senso «parti e totalità in senso assoluto non esistono affatto» (Capra, 1982 [1990, p. 39]). L’idea della relazionalità è di fatto intrecciata nel significato stesso della parola “sistema”, che proviene dal greco synhistanai e significa ‘mettere insieme’. «Capire le cose in maniera sistematica significa letteralmente porle in un contesto, stabilire la natura delle loro relazioni» (Capra, 1996, [2006, p. 38]). Riferendosi all’esistenza di queste due proprietà apparentemente contrapposte, alcuni parlano della natura “bifronte” del sistema, alludendo a Giano, l’antica divinità romana con due facce. Possiamo pensare questo aspetto in termini più taoisti rifacendoci allo yin e allo yang. Le due tendenze – autoaffermazione (yang) e comunione (yin) – devono essere in equilibrio e nella giusta tensione perché un sistema vivente possa prosperare. Come osservato in precedenza, i sistemi conservano la loro identità – la loro soggettività – attraverso il processo di omeostasi, che può essere visto sia come una specie di stasi in movimento che come una forma di stabilità nel bel mezzo della corrente e del cambiamento. Contrariamente alla vecchia concezione materialista della fisica classica, un sistema è definito non tanto dalla sostanza bensì dal modello di organizzazione. L’immagine di un vortice può chiarire questo punto: l’acqua che scorre attraverso un vortice cambia continuamente, ma il vortice in sé – il suo modello di organizzazione – resta sostanzialmente il medesimo. Detto con le parole di Norbert Wiener: «Non siamo che vortici nell’eterna corrente di un fiume» (1950). Strettamente legato all’idea di omeostasi è il concetto di autopoiesi, ovvero «la caratteristica dei sistemi viventi di rinnovarsi incessantemente e di regolare questo processo in modo che l’integrità

della propria struttura resti immutata» (Jantsch, 1980). In un sistema vivente ogni parte del sistema reticolare opera per sostenere, trasformare e sostituire le altre parti di modo che il sistema possa continuamente rigenerarsi. Negli organismi umani, per esempio, il pancreas sostituisce quasi tutte le sue cellule nell’arco di un giorno e quasi tutte le proteine nel cervello (il 98 per cento) completano un ciclo nel giro di un mese. Eppure, nonostante questi cambiamenti, i modelli generali di organizzazione restano stabili (Capra, 1996). I sistemi viventi conservano la propria struttura incamerando energia: le piante che assorbono la luce del sole, per esempio, e gli animali che si nutrono di altri organismi. Ciò li porta in uno stato lontano dall’equilibrio. Ilya Prigogine, alludendo ai sistemi aperti che conservano l’ordine utilizzando energia, parla di “strutture dissipative”. Sul piano della termodinamica, un sistema vivente diminuisce la propria entropia interna (creando ordine) aumentando l’entropia nell’ambiente che lo circonda (aumentando il disordine): «Nel mondo vivente, ordine e disordine sono sempre creati simultaneamente» (Capra, 1996 [2006]). Un processo fondamentale coinvolto nel mantenimento della struttura è l’uso degli anelli di retroazione negativi. Per fare un esempio: quando una persona si accalda troppo, entra in gioco un processo che provoca l’emissione da parte delle ghiandole sudoripare di acqua, la quale, attraverso l’evaporazione, raffredda il corpo. Parimenti, quando aumenta il livello di zuccheri nel sangue, il pancreas produce più insulina per consentire al corpo di sintetizzare lo zucchero e convertirlo in energia. Attraverso questo genere di processi i sistemi viventi possono conservare il loro modello di organizzazione generale, anche se scambiano costantemente energia, materia e informazioni con l’ambiente circostante. Sebbene il processo di autopoiesi consenta ai sistemi viventi di

conservare la propria identità nel bel mezzo di un flusso costante, è anche vero che una tale identità è sempre condizionata dalla relazione del sistema tanto ai suoi sottosistemi quanto al sistema più grande di cui, a sua volta, è parte. In altre parole, i sistemi non hanno proprietà intrinseche ma caratteristiche che emergono dal proprio sistema di relazioni. Si tratta qui della natura contestuale o relazionale dei sistemi. Un sistema non può essere dissezionato o ridotto alle sue componenti senza che la sua integrità – la sua vera identità – venga distrutta: «Anche se siamo in grado di discernere singole parti in qualsiasi sistema, la natura del tutto è sempre diversa dalla mera somma delle sue parti» (Capra, 1982 [1990, p. 222]). Nei sistemi le proprietà emergono in un modo che talvolta può sembrare misterioso. Tale fenomeno può essere osservato anche a livello degli atomi, in cui le stesse particelle elementari collaborano alla creazione di quasi un centinaio di elementi naturali differenti. I sottosistemi coinvolti – ossia i protoni, i neutroni e gli elettroni – sono essenzialmente gli stessi (sebbene variino di numero), ma in virtù di differenti modelli di organizzazione producono elementi con proprietà totalmente diverse. Allo stesso modo, idrogeno e ossigeno uniti insieme formano molecole d’acqua che posseggono proprietà molto differenti da quelle dei loro elementi costitutivi. Organismi biologicamente complessi – differenti specie di mammiferi, per esempio – possono avere sottosistemi (organi) simili, ma il modo in cui sono configurati indica che ogni specie può, in realtà, essere molto diversa dalle altre. Vale la pena sottolineare che, nel caso di organismi viventi, è in gioco un alto livello di simbiosi. Lynn Margulis ha mostrato che le cellule eucariotiche (quelle dotate di nucleo) in realtà posseggono più di una sequenza di DNA e probabilmente si sono originariamente formate attraverso un processo che Margulis chiama di “simbiogenesi”, in cui due o più microbi distinti si sono uniti per formare una cellula nuova e più complessa (Capra, 1996 [2006]). Su

scala più vasta, quasi il 50 per cento del peso del corpo umano è prodotto da organismi “non umani”, come gli enterobatteri e i lieviti che ci consentono di metabolizzare il cibo e di fabbricare le vitamine, senza i quali sarebbe impossibile per noi sopravvivere. «Ogni cellula e microorganismo presente nel nostro corpo è un’entità individuale che si autogoverna, eppure insieme essi sono in grado di funzionare come un essere singolo, con capacità ben superiori a quelle delle sue parti» (Korten, 1999). La nostra identità, dunque, è una questione che non riguarda solamente la sostanza – almeno non per ciò che concerne la nostra composizione genetica – quanto piuttosto il modello complessivo di relazioni che costituisce il nostro sistema vivente. Possiamo comprendere la natura relazionale dei sistemi viventi a partire da ciò che Arthur Koestler ha chiamato “oloni”. Gli oloni sono sottosistemi che al contempo rappresentano una totalità e una parte. Ogni olone ha sia la tendenza ad associarsi che ad affermare se stesso. Questo modello di organizzazione, che possiamo indicare con il nome di “olarchia”, somiglia in un certo modo al concetto di gerarchia, e sovente le due nozioni vengono confuse (non a caso Ludwig von Bertalanffy assegna la proprietà della relazionalità in termini gerarchici). L’olarchia, comunque, si basa non sulla posizione o sulla capacità di dominare, bensì su livelli crescenti di inclusione e di profondità. Il sistema più grande include e trascende i sistemi più piccoli che lo compongono. I sottosistemi, a loro volta, non sono dominati dal sistema più grande, ma sono da esso sostenuti e, in cambio, lavorano per esso. In una concezione gerarchica i sistemi erano immaginati come strutture rigide e piramidali. Viceversa, la concezione olarchica dei sistemi è come l’immagine dei cerchi all’interno di cerchi più grandi, i quali a loro volta sono compresi in cerchi ancora più estesi. In alternativa, l’olarchia può essere immaginata come i rami di un albero che si dividono in sottosistemi sempre più piccoli. L’intero sistema (il tronco) deve il suo stato di salute alle ramificazioni – e la salute

dell’albero a sua volta dipende dalla salute dell’ecosistema in cui è inserito. Quantunque vi sia una certa stratificazione d’ordine, tuttavia essa non è mai fondata sull’esercizio di un controllo che viene dall’alto, o del potere-su. Al contrario, nutrimento, informazione ed energia scorrono in entrambe le direzioni, conservando un’interazione dinamica tra sistemi e sottosistemi. In sostanza, nei sistemi il potere testimonia della relazionalità e dell’interdipendenza di un’influenza reciproca – o di un potere-con – piuttosto che del potere-su insito in molte gerarchie umane. Questa differenza tra prospettive gerarchiche e sistemiche diventa ancora più evidente se esaminiamo un’altra caratteristica dei sistemi viventi: la differenziazione. Joanna Macy mostra che, dal punto di vista dei sistemi, ordine e differenziazione vanno di pari passo. I sottosistemi si possono integrare mentre si differenziano (come le cellule nervose del cervello). Ciò è in netto contrasto con la concezione meccanicista e patriarcale che presuppone un ordine uniforme, per meglio subordinarsi a una volontà superiore e separata. In questo caso, invece, l’ordine si manifesta all’interno dei sistemi stessi, laddove le parti si diversificano mentre interagiscono e rispondono all’ambiente. (1983)

Pertanto nei sistemi aperti la salute e l’integrità sono sostenuti e potenziati dalla differenziazione, in netto contrasto con l’ideologia della monocoltura. Un ecosistema vario, per esempio, è intrinsecamente più stabile di uno semplice. Dinamiche di dominio e di omogeneizzazione, viceversa, indeboliscono il sistema e lo rendono più rigido e più esposto alla distruzione. Infatti, per quanto la visione della realtà contenuta nella teoria dei sistemi sia in sé certamente olistica, forse sarebbe più giusto definirla ecologica. «Essa non solo», dice Capra, «coglie il suo oggetto come un intero, ma riconosce anche come questo intero sia inserito in entità globali più ampie. [...] Al livello più profondo, la consapevolezza ecologica è una consapevolezza della fondamentale interrelazione e interdipendenza di tutti i fenomeni, e del loro inserimento nel cosmo»

(Capra-Steindl-Rast, 1991 [1993, pp. 79-80]). David Suzuki e Amanda McConnell fanno notare che questa coscienza ecologica ci costringe a trasformare il modo stesso di percepire e di comprendere il mondo che ci circonda: «Il nostro linguaggio non è all’altezza delle nostre percezioni, a causa del modo in cui ci è stato insegnato a vedere il mondo. Apparteniamo al mondo che ci circonda – e ne siamo composti –, e vi corrispondiamo in modi che vanno al di là della nostra comprensione» (1997). Gli autori propongono di provare a considerare un albero in un modo nuovo, e cioè in rapporto a tutto ciò che lo circonda. L’idea stessa di confine comincia a sgretolarsi. Come dice Neil Evernden in The Natural Alien: Un albero è più di un semplice ritmo di scambio o magari un centro di forze organizzative. La traspirazione causa un flusso d’acqua ascendente e scioglie le sostanze, agevolando l’afflusso dal terreno. Se siamo consapevoli di ciò piuttosto che del sembiante albero, allora possiamo considerare l’albero come il centro di un campo di forza verso cui l’acqua viene aspirata. [...] L’oggetto a cui noi attribuiamo significato è la configurazione delle forze necessarie a essere un albero [...] un’attenzione rigorosa ai confini può oscurare l’atto stesso dell’essere. (citato in Suzuki-McConnell, 1997)

L’emergere della creatività e della mente Questo spontaneo emergere di un nuovo ordine in prossimità di un punto critico di instabilità è uno dei concetti più importanti nell’ambito della nuova visione della vita. Spesso ci si riferisce ad esso semplicemente come a una “emergenza”, anche se – in un linguaggio più tecnico – viene indicato come “auto-organizzazione”. Esso è stato riconosciuto come l’origine dinamica dello sviluppo, dell’apprendimento e dell’evoluzione. In altri termini, la creatività – la generazione di nuove forme – è una proprietà chiave di tutti i sistemi viventi. E dato che questo emergere di nuove forme costituisce una parte integrante della dinamica dei sistemi aperti, possiamo concludere che tali sistemi si sviluppano e si evolvono. Una conclusione, quest’ultima, di particolare importanza, che ci dice che la vita si sviluppa ininterrottamente in realtà sempre nuove.

(Capra, 2002 [2012, p. 41]) L’emergere di realtà nuove e della creatività è forse l’intuizione più suggestiva e sorprendente derivante dallo studio dei sistemi aperti che operano lontano dall’equilibrio. Il cosmo non è destinato a ripetersi eternamente, costretto in un solco tracciato dalle leggi universali. L’universo, invece, evolve e cambia. Genera incessantemente nuove forme. Il cosmo non è più destinato a morire, condannato a una lenta e incurabile morte termica, ma appare piuttosto creativo e prolifico. In effetti, la stessa mente sembra essere una qualità emergente dell’universo. Da un punto di vista matematico, questa creatività è strettamente collegata alla natura non-lineare dei sistemi che operano lontano dall’equilibrio. In tali sistemi «ciò che accade in una regione dipende sensibilmente da ciò che accade in un’altra regione e, a sua volta, esercita una retroazione su essa; [...] parti diverse si comportano in modo da cooperare: [...] la totalità è coinvolta in una specie di danza» (Peat, 1991). Come abbiamo visto, gli anelli di retroazione negativi aiutano a mantenere la stabilità regolando il sistema e mantenendo le funzioni all’interno di uno spettro limitato. Sul piano matematico, il tipo di stabilità-in-flusso sostenuta dagli anelli di retroazione negativa può essere compresa facendo ricorso al concetto di “attrattori”. Un attrattore può essere rappresentato come una regione nello spazio (un insieme di punti) verso cui un sistema “è attratto” o tende a spostarsi nel tempo. Più precisamente, se si traccia una specie di grafico della posizione e della velocità di un sistema durante un intervallo di tempo – come, ad esempio, il movimento di un pendolo – emergerà un’immagine del suo “spazio delle fasi” in cui si palesa un modello. Possiamo immaginare tale modello come un “bacino di attrazione” che può essere tanto un singolo punto (nel caso di un sistema semplice a riposo) quanto una curva o un collettore. Spesso nei sistemi non-

lineari vi sono molti di questi “bacini”, ognuno con il proprio attrattore. Talvolta un attrattore può assumere la forma di un frattale, una forma geometrica complessa in cui le parti assomigliano a versioni in piccolo dell’insieme. Questo tipo di “strani attrattori” è associato a ciò che in matematica può essere definito un’attività “caotica”. Eppure questo caos non è un mero disordine, in quanto l’attività a esso associata non è né casuale né erratica. Piuttosto, si tratta di un ordine estremamente complesso, quantunque non deterministico. Il comportamento di un sistema caotico non può essere previsto con precisione, tuttavia si mantiene effettivamente entro un certo limite, ovvero all’interno del suo bacino di attrazione, caratterizzato dai suoi attrattori. Metaforicamente possiamo immaginare gli attrattori come qualcosa che “attrae” o modella il sistema, eppure in realtà non vi sono impiegate delle forze. L’attrattore è interno al sistema stesso e non è qualcosa che lo orienta dall’esterno: si tratta di una caratteristica del sistema. In un certo senso, possiamo immaginarlo come un modello del sistema, sebbene questo modello possa essere molto complesso e, per quanto ordinato, non sempre prevedibile o deterministico. Accanto alle dinamiche che conservano la stabilità, tuttavia, possono entrarne in gioco altre – caratterizzate da anelli di retroazione positiva –, in particolare quando un sistema è sottoposto a stress. Invece di attenuare le fluttuazioni, le retroazioni positive in realtà le amplificano, generando spesso cambiamenti rapidi e sorprendenti. Per esempio, gli anelli di retroazione positiva sono immediatamente evidenti nei fenomeni di cambiamento climatico. All’inizio di un’era glaciale l’aumento della superficie di ghiaccio e di neve fa sì che la Terra rifletta una maggiore quantità di radiazioni verso lo spazio, raffreddando il pianeta e portando alla formazione di ulteriore ghiaccio. Viceversa, quando il pianeta comincia a riscaldarsi, gli

incendi boschivi possono diventare più frequenti, e poiché il permafrost si scioglie vengono rilasciate maggiori quantità di diossido di carbonio nell’atmosfera, accelerando l’effetto serra e il riscaldamento globale. Nel corso di iterazioni successive, la retroazione positiva può rapidamente moltiplicare gli effetti dei cambiamenti relativamente piccoli. La “retroazione fuori controllo” è stata sempre considerata un evento distruttivo nella teoria cibernetica, ma Prigogine scoprì che non sempre questo vale anche per i sistemi aperti e dissipativi. È vero che, quando il flusso di materia e di energia raggiunge un punto critico – in matematica si dice “punto di biforcazione” –, il sistema diventa instabile. A quel punto gli attrattori del sistema possono, in realtà, scomparire del tutto, e il sistema collassare. Ma esiste anche un’altra possibilità: gli attrattori possono trasformarsi, consentendo al sistema di avanzare verso un ordine del tutto nuovo, un ordine che spesso è molto più complesso del precedente. Dal punto di vista dei sistemi viventi ciò significa che forme di stress (ad esempio nuove condizioni presenti nell’ambiente circostante, o nel sistema più ampio che include il sottosistema) possono portare al collasso come morte del sistema, ma possono anche sfociare nell’evoluzione in forme completamente nuove. Questo avanzamento verso nuove forme non è deterministico – il sistema in un certo senso “sceglie” tra più percorsi possibili di trasformazione. La scelta che verrà compiuta, tuttavia, non è prevedibile, sebbene dipenda sia dalla storia del sistema che dal modo in cui lo stress proveniente dall’esterno guida la trasformazione. La natura non lineare dei sistemi naturali, evidenziata sia dalla loro stabilità “caotica” che dal loro “saltare” a nuovi stati una volta giunti al punto di biforcazione, significa che abbiamo a che fare con sistemi straordinariamente sensibili ai minimi cambiamenti. Questa “vulnerabilità”, tuttavia, non è una debolezza quanto piuttosto un punto di forza, poiché consente un rapido adattamento alle nuove

condizioni. D’altra parte, ciò vuol anche dire che quando abbiamo a che fare con sistemi complessi non possiamo mai prevedere il futuro. Un esempio è dato dal cosiddetto “effetto farfalla”, enunciato per la prima volta dal meteorologo Edward Lorenz (1917-2008) negli anni Settanta. Nel tracciare un semplice modello matematico dei sistemi meteorologici basati su tre equazioni concatenate e non-lineari, Lorenz scoprì con sorpresa che le soluzioni a queste equazioni erano straordinariamente sensibili al punto di partenza da lui posto all’inizio. Infatti, partendo da due serie di condizioni iniziali solo lievemente differenti, si otteneva nel corso del tempo una genesi completamente diversa del sistema. Previsioni a lungo raggio, perfino in un sistema così semplice, diventavano impossibili. Se si applica questo esempio al clima, diventa teoricamente possibile che l’azione delle ali di una farfalla possa dopo un mese “provocare” una tempesta dall’altra parte del mondo. Se da un lato i sistemi complessi segnano la fine del determinismo, dall’altro aprono la via a un impegno creativo. Il fatto che siffatti sistemi siano straordinariamente sensibili significa che perfino l’azione di un singolo individuo può avere un effetto, sebbene quest’effetto non possa mai essere predetto. Eppure, una simile interpretazione può essere estremamente stimolante e ricca di speranza. Per di più, l’argomento secondo cui «niente può accadere che non sia già accaduto prima» perde di senso. Come scrive Capra: «Vicino all’equilibrio troviamo fenomeni ripetitivi e leggi universali. Come ci allontaniamo dall’equilibrio, passiamo dall’universale all’unico, andiamo verso la ricchezza e la varietà» (1996). Il mondo non è condannato a ripetere il passato in eterno, l’effettiva novità, l’autentica trasformazione, sono sempre una possibilità, anche se il processo attraverso cui si verificano conterrà sempre un elemento di mistero e di sorpresa.

La capacità dei sistemi dissipativi di creare spontaneamente nuove strutture li fa apparire dotati, in un certo senso, di una volontà autonoma. Sicuramente l’autoorganizzazione dei sistemi sembra possedere un’intrinseca creatività, che normalmente saremmo spinti ad associare a fenomeni tipici della mente. Gregory Bateson, per esempio, riferendosi a questo fenomeno parlò di un “processo mentale” all’opera. Capra osserva che, per Bateson, «la mente non è una cosa, è un processo. E questo processo mentale è un processo dell’auto-organizzazione, il processo stesso, in altre parole, della vita. Quindi a tutti i livelli il processo della vita è un processo mentale» (Capra-Steindl-Rast, 1991 [1993, p. 113]). Parimenti, Humberto Maturana e Francisco Varela (Capra, 2002 [2012]) immaginano il processo della vita come un processo di conoscenza, o “processo cognitivo”. Tutte le interazioni dei sistemi viventi con i loro ambienti sono in un certo senso atti cognitivi, quindi la mente, in quanto processo mentale, è qualcosa di immanente alla vita, e dunque a ogni sistema vivente, a tutti i livelli. Per comprendere quest’idea in maniera più chiara, dobbiamo prendere in considerazione il processo di autoorganizzazione nei sistemi viventi. Un organismo risponde al proprio ambiente attraverso trasformazioni strutturali, e un organismo al tempo stesso influenza e modifica il proprio ambiente. Come abbiamo visto, nel fenomeno della biforcazione la scelta della nuova struttura non è predeterminata ma creativa. Sottolinea Capra: I sistemi viventi, dunque, rispondono autonomamente agli stimoli dell’ambiente mettendo in atto una serie di cambiamenti strutturali, ossia modificando il proprio modello di connettività. Secondo Maturana e Varela, non possiamo mai dirigere un sistema vivente: possiamo soltanto disturbarlo fornendogli degli stimoli. Inoltre, il sistema vivente non solo stabilisce da sé i propri cambiamenti strutturali; ma stabilisce anche quali stimoli provenienti dall’ambiente devono attivare tali cambiamenti. In altri termini, un sistema vivente conserva la libertà di decidere a che cosa porre attenzione e che cosa sarà in grado di disturbarlo. Si tratta di un punto chiave della teoria di Santiago della cognizione. I cambiamenti strutturali all’interno del sistema sono atti cognitivi. Specificando quali stimoli ambientali attiveranno i cambiamenti, il

sistema viene a delimitare i confini del proprio ambito cognitivo: esso fa «emergere un mondo», come sottolineano Maturana e Varela. (2002)

Analogamente, nella concezione di Bateson la mente implica processi come la memoria, l’apprendimento e la capacità decisionale. Questi processi, tuttavia, cominciano sempre molto prima che un cervello o un sistema siano presenti, come abbiamo potuto osservare poc’anzi nell’esempio del sistema immunitario che impara a rispondere a un’infezione, ne conserva memoria e decide poi quando occorre fornire una nuova risposta. Tutta la vita, fin dalla sua forma più semplice, è associata a questo genere di processi. Per Maturana la cognizione non è la rappresentazione di una qualche forma di realtà esterna, ma una specie di modo di “far emergere il mondo” attraverso l’atto di specificare una determinata realtà, compiendo una scelta. Questo “far emergere il mondo” (o far essere una specifica realtà) è parte integrante del processo stesso di autoorganizzazione, e dunque tutti i sistemi viventi possono essere considerati sistemi cognitivi dotati di un processo mentale attivo. L’idea di “far emergere il mondo”, tuttavia, non dev’essere intesa come se il mondo “materiale” non esistesse, sebbene la nostra analisi sulla realtà quantistica dovrebbe averci chiarito che quanto percepiamo in termini di realtà materiale somiglia molto di più a una complessa danza di energia o di forme d’onda. L’intuizione di Maturana e Varela è in sostanza analoga. Per esempio, il modo in cui una mucca percepisce un filo d’erba sarà molto diverso dal modo in cui lo percepisce un lombrico. Anche gli individui della stessa specie percepiranno le cose in modo differente, sebbene non nella stessa misura. Come sottolinea Capra, quando vediamo un oggetto non evochiamo una realtà dal vuoto, «ma i modi in cui delineiamo oggetti e identifichiamo schemi attraverso l’infinità di stimoli sensoriali che riceviamo dipende dalla nostra costituzione fisica. Come direbbero Maturana e Varela, le maniere in cui ci possiamo accoppiare

strutturalmente al nostro ambiente, e quindi il mondo che generiamo, dipendono dalla nostra struttura» (1996 [2006, p. 271]). Analogamente, ma da una prospettiva buddhista43, afferma Joanna Macy: Noi creiamo il nostro mondo, ma non lo facciamo in maniera unilaterale, poiché la coscienza è condizionata da ciò di cui si nutre, e soggetto e oggetto sono indipendenti [...] L’esperienza sensoriale ci modella e così noi la modelliamo a nostra volta. Vi è un condizionamento reciproco. Il mondo non si dà mai indipendentemente dall’osservatore, né l’osservatore indipendentemente dalla percezione, poiché la cognizione è transitiva. (1991a)

Come per la teoria quantistica, dunque, anche la concezione sistemica della mente implica l’impossibilità di un autentico osservatore “oggettivo”, indipendente dalla realtà che osserva. Da una prospettiva sistemica, gli osservatori sono sempre parte del sistema che osservano, e la loro interazione con il sistema influenza inevitabilmente le loro percezioni. «Ciò che osserviamo non è la natura in sé, ma la natura offerta al nostro metodo d’indagine»; e, potremmo aggiungere, la natura vista dalla prospettiva dell’unicità del posto che occupiamo in un sistema più grande e di cui, nondimeno, siamo parte. Se la mente – o al limite il processo mentale – appartiene a tutti i sistemi viventi, i pensatori sistemici come interpretano la coscienza? Di certo in una visione del mondo sistemica si sosterrebbe che la «natura dinamica è irriducibile dell’attività psichica», e non può essere equiparata o ridotta a «fenomeni osservati dall’esterno» (Macy, 1991a). Ma allora come nasce esattamente la coscienza? Humberto Maturana ritiene che la coscienza non possa essere compresa in termini chimici o fisici, ma solo in termini di linguaggio e contesto sociale. Eppure, se da un lato il suo rifiuto di una visione più meccanicista della coscienza sembra encomiabile e in linea con la prospettiva sistemica, dall’altro appare altresì troppo limitato. Come può, per esempio, una simile teoria spiegare l’esperienza della

coscienza a quegli individui che pensano per immagini, o per mezzo di altre impressioni sensoriali, piuttosto che con il linguaggio? E come spiegherebbe quello che nelle esperienze mistiche molti esperiscono come “stati alterati della coscienza”, in cui parole e linguaggio vengono completamente trascesi? Alla fine, con l’enfasi che pone sul linguaggio, questa concezione della coscienza appare decisamente antropocentrica: possono anche le altre creature, soprattutto i vertebrati più complessi, sperimentare un qualche tipo di coscienza, sebbene in forma diversa da quella umana? In un tale contesto, l’interpretazione della coscienza di Francisco Varela sembra più utile. Per Varela tutti i vertebrati superiori esperiscono probabilmente forme di coscienza che implicano uno “spazio mentale unitario”, anche se potrebbe non ancora possedere una natura autoriflessiva. Mentre «gli stati mentali sono transitori: sorgono e scompaiono di continuo», sensazioni e pensieri sono formati da «un singolo, coerente stato mentale composto di percezioni sensoriali, ricordi e emozioni». (Capra, 1996 [2006, p. 321]). Varela ritiene che questo stato coerente derivi dall’oscillazione ritmica e unitaria della rete neurale, sia nella corteccia cerebrale che in altre parti del sistema nervoso. Ciò sembra supportato da prove sperimentali che dimostrano la sincronizzazione di rapide oscillazioni nella rete neurale che montano e calano rapidamente. Eppure quest’esperienza non è «identificata nei termini di strutture neuronali specifiche. È invece la manifestazione di un processo cognitivo particolare: una sincronizzazione transitoria di circuiti neuronali diversi che oscillano ritmicamente» (Capra, 1996 [2006, p. 322]). Se da un lato lo stesso Capra sembra respingere qualsiasi spiegazione quantistica della coscienza, dall’altro la sua analisi della teoria di Varela somiglia molto, in un certo modo, a quella delle reti neuronali che generano una specie di condensato di Bose-Einstein (come quelli coinvolti nei laser) che abbiamo già visto nel paragrafo “L’immanenza della mente” (nel capitolo 7). Questa coincidenza

diventa sempre più significativa allorché pensiamo i condensati di Bose-Einstein come sistemi di autoorganizzazione che esistono lontano dall’equilibrio. È impossibile allo stato attuale confermare se un condensato di Bose-Einstein sia o meno effettivamente coinvolto, o se non sia in atto un altro fenomeno analogo estremamente correlato che implichi dei sistemi dinamici. In ogni caso, però, le due teorie sembrano avere indubbiamente molti punti in comune.

Complessità e trasformazione Spesso è a causa della nostra concezione della causalità (ossia dalla relazione che intercorre tra causa ed effetto) che abbiamo difficoltà a comprendere l’interazione tra sistemi viventi da un lato e mente e coscienza dall’altro. La cosmologia meccanicista ci ha insegnato a considerare la causalità in termini lineari: così, o il mondo della realtà materiale deve in qualche maniera generare la mente (come postulerebbe una scienza puramente materialista) o la mente deve in qualche maniera far apparire la realtà (come potrebbe postulare un certo tipo di idealismo). Ma cosa accade se entra in gioco qualcosa di più creativo e misterioso? Cosa accade se i sistemi in qualche modo condizionano il processo della mente e il processo della mente a sua volta condiziona i sistemi? Cosa accade se la causalità diventa in un certo senso reciproca? La natura della causalità è una questione centrale per la prassi trasformativa. La causalità riguarda «il modo in cui le cose accadono, come avviene il cambiamento» (Macy, 1991a). Per quanto la teoria quantistica metta in discussione il determinismo della causalità lineare proprio della fisica classica, è tuttavia incapace di formulare un’autentica e soddisfacente alternativa. Joanna Macy osserva che il «gioco cieco e senza scopo degli atomi» e delle particelle subatomiche, governato dalle leggi del caso, se non altro è “deprimente” al pari del determinismo dell’universo-orologio (1991a). Sebbene dunque le connessioni non-locali mostrate dal teorema di Bell indichino la possibilità di una concezione della causalità più

misteriosa e olistica (in cui ogni cosa può in un certo senso essere causa di qualunque altra), questa concezione offre ancora poche idee concrete su come il cambiamento possa davvero aver luogo. La teoria dei sistemi, di contro, fornisce una visione più chiara del rapporto tra causa ed effetto, con interessanti implicazioni per la prassi liberatoria. In sostanza, rappresenta una sorta di “via di mezzo” tra il determinismo e il caso, laddove il caso sia considerato sì misterioso, ma non aleatorio quanto piuttosto creativo. Diversamente dai sistemi lineari, dove gli input determinano gli output, le dinamiche non-lineari dei sistemi viventi producono una relazione estremamente complessa tra causa ed effetto. Come abbiamo visto in precedenza, in simili sistemi gli anelli di retroazione e i comportamenti caotici conducono a elevati livelli di sensibilità, dimodoché quanto accade in una regione finisce per influenzare tutte le altre regioni in modo non deterministico, facendo sì che l’intero sistema cooperi alla creazione di una sorta di “vortice duraturo”. A causa di queste dinamiche olistiche, causa ed effetto interagiscono tra loro in modo che l’effetto diventi a sua volta causa e viceversa. L’idea di anello di retroazione è utile per comprendere il tipo di causalità circolare e interattiva in atto. La causalità, dunque, non è qualcosa di lineare e unidirezionale, ma di reciproco, o anche di circolare. I risultati sono determinati meno dagli input che dalle complesse dinamiche del sistema stesso. In Mutual Causality in Buddhism and General System Theory: The Dharma of Natural Systems, Joanna Macy (1991a) offre un’acuta analisi delle implicazioni della teoria dei sistemi per la comprensione della causalità, integrandola con analoghi concetti tratti dal buddhismo. E poiché, dunque, la causalità è il fondamento su cui poggia la nostra concezione della trasformazione e del cambiamento, è necessario esaminare più nel dettaglio la sua analisi. Nel buddhismo la nozione di Dharma si riferisce non tanto a una sostanza o a un’essenza, ma al modo in cui “funzionano le cose” o al

“processo ordinato stesso” – un’idea molto prossima al Tao. Come nella teoria dei sistemi, anche in questo caso tutti i fenomeni sono considerati interdipendenti, e pertanto anche l’esperienza è vista come qualcosa di più ampio che può essere utilizzata. Al cuore di tutto ciò c’è la dottrina del paticca samuppada, che significa ‘coproduzione condizionata’, ossia la reciproca o mutua causalità. Questa nozione corrisponde alla concezione ecologica e autoorganizzativa propria della teoria dei sistemi, secondo cui la realtà è un processo che coinvolge modelli autoorganizzativi di eventi fisici e mentali. Nella teoria dei sistemi, come nel buddhismo, causa ed effetto derivano da «circuiti di contingenza intrecciati». Mente e spirito non sono avulsi dalla causalità interattiva della teoria dei sistemi e del buddhismo. Entrano qui in gioco le dinamiche intraviste attraverso l’analogia olografica. Materia e mente interagiscono e si influenzano reciprocamente. Quest’idea diventa ancora più chiara se la integriamo con le intuizioni del paticca samuppada: Parte integrante del concetto di coproduzione condizionata è la convinzione che siano i preconcetti e le predisposizioni della mente stessa a forgiare la realtà percepita. Ciò è in contrasto con le nozioni di senso comune appartenenti a un mondo che è “lì fuori”, un mondo distinto e indipendente dall’atto stesso della percezione. Una comprensione autentica della causalità reciproca prevede che si trascenda la tradizionale dicotomia tra io e mondo, una trasformazione del nostro stesso modus vivendi, il che equivale a una revisione delle nostre convinzioni più radicate. Il paticca samuppada non è una teoria a cui si dà il proprio assenso, e nemmeno una verità che siamo invitati a esperire, un’idea che siamo esortati a guadagnarci attraverso la disciplinata introspezione e una profonda attenzione al sorgere e allo svanire dei fenomeni mentali e fisici. (Macy, 1991a)

La nuova concezione della causalità che emerge dalla teoria dei sistemi, con l’aggiunta delle nozioni provenienti dal buddhismo, rivela un mondo in cui le novità diventano realmente possibili. I sistemi aperti, in risposta alla più ampia realtà in cui sono immersi, possono cambiare in maniera radicale – e lo fanno. Vengono rigettati tanto il determinismo dell’universo-orologio quanto l’insensato gioco

delle probabilità del meccanicismo statistico della teoria quantistica. Al loro posto subentra una concezione della causalità che ammette sia la possibilità di un’autentica trasformazione che la nostra capacità di partecipare a essa in modo significativo. Finché la causalità era confinata o al determinismo o al cieco caso, il nostro potere di cambiare il mondo poteva apparire al massimo una pia illusione. Anzi, le nostre convinzioni inconsce sulla causalità possono benissimo essere alla radice di quel senso di disperazione che molti di noi avvertono di fronte alla crisi globale: In una visione della realtà gerarchica, e nella causalità lineare e a senso unico cui questa visione conduce, sia il valore che il potere sono attribuiti a un assoluto – un’entità o un’essenza che sia –, il quale non è minimamente toccato dal gioco dei fenomeni. [...] Anche quando la fede in un assoluto si sgretola, il modo di pensare generato da quella visione unidirezionale continua a persistere nell’idea che il potere sia qualcosa che deriva dall’alto. In un momento in cui assistiamo a forme sempre maggiori di devastazione del pianeta e di povertà, una simile idea è particolarmente pericolosa. Gli individui sono portati a credere che la libertà personale si contrapponga alla sopravvivenza collettiva, e che l’ordine sia imposto dall’alto. In realtà il fanatismo politico e il fondamentalismo religioso del nostro tempo danno voce alla convinzione che il volere comune e l’azione coordinata esigono la sottomissione a un determinato leader o divinità. (Macy, 1991a)

Il concetto di causalità reciproca e interattiva che deriva dalla prospettiva sistemica modifica questo presupposto. La nostra capacità di influenzare la realtà non dipende più dalla forza bruta del nostro intervento, ma dalle sottili reti di relazionalità proprie dell’esercizio del potere-con. Nella concezione sistemica «l’ordine non è imposto dall’alto, da una mente che esercita il suo volere [ossia la forza di volontà] sulle mute forze materiali; esso appartiene alla natura autoorganizzativa dello stesso mondo fenomenico» (Macy, 1991a). Infatti, questo potere intrinseco di autoorganizzazione può essere visto come la fonte del potere-dall’interno. Per questa ragione, l’efficacia di un’azione dipende dalla sua qualità (il tempo, il luogo ecc.) piuttosto che dalla quantità della sua “forza”. Detto con le parole del Tao Te Ching: «Nell’agire, la tempestività è tutto» (§8).

Non solo le nostre azioni hanno un potenziale d’impatto, ma i nostri stessi pensieri e le nostre intenzioni possono influenzare la realtà. In un certo senso, la nostra percezione dei cambiamenti della realtà produce un effetto sul sistema in cui viviamo. Il nostro potere di cambiare il mondo diventa reale. Non ci resta dunque che scoprire il modo di renderlo efficace. Come afferma Macy: «Se riconosciamo la nostra partecipazione ai suoi modelli di coproduzione, possiamo rivendicare il nostro potere di agire. Possiamo allora, attraverso le nostre scelte, dare voce ed efficacia all’opera di coordinamento presente in tutte le forme di vita» (1991a). Secondo la visione buddhista, la tendenza ad aggrapparsi «alle forme e alle categorie fisse create dalla mente invece di accettare la natura temporanea e transitoria di tutte le cose» è la radice della sofferenza umana. Tutte le forme fisse, infatti – siano esse concetti, categorie o cose – sono una specie di velo di maya, un’illusione: «A causa dell’ignoranza (a-vidya), noi dividiamo il mondo delle percezioni in oggetti separati che consideriamo immobili e permanenti, ma che in realtà sono transitori e continuamente mutevoli. Cercando di rimanere aggrappati alle nostre categorie rigide invece di cogliere la fluidità della vita, siamo destinati a sperimentare una frustrazione dopo l’altra» (Capra, 1996 [2006, p. 324]). Quest’analisi della sofferenza, sostiene Macy, è altresì la chiave per comprendere il processo di liberazione, in particolare la liberazione dalla nostra stessa impotenza interiorizzata nella forma della negazione, della disperazione, della dipendenza e dell’oppressione interiorizzata: La nostra sofferenza è causata dall’interazione di questi fattori e in particolare dall’illusione, la brama e l’avversione che derivano dal loro fraintendimento. Siamo fautori della nostra stessa schiavitù perché ipostatizziamo e ci aggrappiamo a quanto ha una natura contingente e transitoria. Le reificazioni che produciamo falsificano l’esperienza, ci imprigionano in un ego che noi stessi ci siamo forgiati, condannano la nostra vita a un incessante circuito di acquisizione e ansia. Considerate le cause, la nostra sofferenza non è endemica – e non è inevitabile. (Macy, 1991a)

Secondo il buddhismo, uno dei principali modi per superare la nostra schiavitù è attraverso la pratica della meditazione, sviluppando cioè uno stato di aperta e pura consapevolezza o di piena coscienza. Questa pratica è anche fondamentale per lo sviluppo di una profonda intuizione della natura della coproduzione condizionata stessa, e un modo quindi di impegnarsi creativamente nella trasformazione. La mente «si libera non allontanandosi dalla dimensione fenomenica, ma aumentando la propria consapevolezza di essa. Questa rigorosa attenzione offre una visione rivelatrice della coproduzione condizionata dei fenomeni» (Macy, 1991a). Riflettendo su causalità, potere e dinamiche dei sistemi complessi, possiamo ricavare moltissime informazioni sulla natura delle trasformazioni economiche, sociali e culturali. Innanzitutto, occorre sottolineare che nessun sistema aperto – a prescindere da quanto sia grande e complesso – è immutabile. Spesso possiamo sentirci sopraffatti dalla totale complessità dei sistemi che vorremmo cambiare. La possibilità di un singolo individuo, o anche di un singolo movimento sociale, di contribuire veramente e in maniera significativa al cambiamento può essere estremamente esigua. Eppure la teoria dei sistemi ci dice che le cose non stanno del tutto così. Più complesso è il sistema e più esso diventa sensibile al cambiamento. Se il sistema è sano e funziona bene, vuol dire che sarà in grado di adattarsi facilmente, rispondendo in modo positivo con i necessari cambiamenti. Viceversa, se il sistema non è più capace di adattarsi alle esigenze del momento – come sembra nel caso del nostro attuale sistema economico e politico – le dinamiche di retroazione positiva possono costringerlo a raggiungere un punto di biforcazione in cui le strutture esistenti possono rapidamente essere sostituite da nuove strutture che meglio si adattano alle mutate condizioni. Questo è quello che accade esattamente nel processo evolutivo: pressioni

esterne conducono a salti improvvisi – spesso con sorprendente rapidità – attraverso un fenomeno chiamato “evoluzione punteggiata” (che affronteremo in modo approfondito nel prossimo capitolo). Quando agiamo per trasformare i sistemi economici, sociali e culturali – compreso il paradigma comune che questi sistemi possono condividere – dobbiamo ricordare che un sistema è spesso più sensibile nei punti in cui è sottoposto a maggiori pressioni. Come è possibile che nuove specie appaiano in un ecosistema sottoposto a stress – ad esempio in aree considerate ai margini –, così la medesima cosa può avvenire nelle società umane; dobbiamo pertanto rintracciare la creatività alla periferia dei nostri sistemi sociali, economici e culturali, perché potrebbe essere proprio in quelle aree che le strutture e i paradigmi stanno cominciando a farsi strada creativamente verso nuove forme. Nel lavorare per l’autentica liberazione, dobbiamo altresì considerare le crisi come un’opportunità in vista di un cambiamento radicale. Nella concezione sistemica, le crisi rappresentano potenziali punti di biforcazione in cui una struttura sociale, un sistema economico o un paradigma culturale può essere particolarmente sensibile al cambiamento. Come osservano Ilya Prigogine e Isabelle Stengers: Sappiamo che le società sono sistemi immensamente complessi che implicano un numero potenzialmente enorme di biforcazioni simboleggiato dalla varietà di culture che si sono sviluppate in un intervallo relativamente breve della storia dell’uomo. Sappiamo che tali sistemi sono estremamente sensibili alle fluttuazioni. Ciò conduce a una speranza e, al contempo, a una minaccia: una speranza, perché perfino le piccole fluttuazioni possono espandersi e cambiare la struttura generale. Di conseguenza, l’attività individuale non è destinata a cadere nel vuoto. Dall’altro lato, si tratta anche di una minaccia, poiché nel nostro universo la sicurezza di leggi stabili e permanenti sembra ormai svanita per sempre. Viviamo in un mondo minaccioso e incerto che non ispira cieca fiducia. (1984)

Se in un siffatto mondo la sicurezza può essere irraggiungibile, non è così per la speranza in una profonda e radicale trasformazione.

Tenendo conto del fenomeno della causalità reciproca e degli effetti di amplificazione della retroazione positiva, i pensieri, le motivazioni e le azioni di ciascun individuo hanno in sé tutto il potenziale per realizzare cambiamenti significativi. In un simile quadro, il ruolo degli individui, delle organizzazioni e dei movimenti sociali può diventare fondamentale. Come evidenzia Macy, da una prospettiva sistemica i nostri sistemi sociali, economici e politici – e, per estensione, i nostri sistemi di valore e la nostra visione del cosmo – non formano un ordine statico e prestabilito a cui i soggetti devono adeguarsi. Sono piuttosto modelli fluidi, a cui partecipiamo e che influenziamo. Le dinamiche della coproduzione condizionata entrano sempre in gioco. Come scrisse Margaret Mead una volta, non dobbiamo «mai dubitare del fatto che un piccolo gruppo di cittadini impegnati e consapevoli possa cambiare il mondo. In realtà, è l’unica cosa che lo abbia mai fatto» (citato in Suzuki-McConnell, 1997). La nostra capacità di realizzare il cambiamento non dipenderà, comunque, dalla semplice forza e dalle dimensioni di un movimento, sebbene in alcune circostanze possa essere necessario creare una certa quantità di “massa critica” per avere successo. La cosa fondamentale, però, resta la nostra capacità di compiere la giusta azione con la giusta intenzione al momento e nel luogo giusti. Se una buona analisi può svolgere un ruolo in questo processo, la contemplazione, intuizione e creatività possono essere persino più importanti. Per influenzare una situazione abbiamo bisogno di cogliere le tendenze latenti in atto e utilizzarle, reindirizzando gradualmente il flusso del sistema in una nuova direzione. Questo tipo di azione sottile e intuitiva può richiedere l’utilizzo di pratiche come la meditazione, la visualizzazione, l’arte e altri metodi normalmente associati ai percorsi spirituali. Possiamo illustrare questo tipo di comprensione intuitiva attraverso la storia del cuoco che macella un bue nel testo taoista del Chuang Tzu:

Tagliare un bue Un cuoco squartava un bue per il principe Wen Hui. A ogni contatto della mano, a ogni sollevarsi della spalla, a ogni movimento dei piedi, a ogni spinta della ginocchia, si staccava un pezzo senza alcun rumore. Il coltello vibrava con un sibilo e tutto si svolgeva con un ritmo perfetto. Come se Ting eseguisse la danza del boschetto di gelsi, come una musica d’altri tempi. Il principe Wen Hui esclamò: «Ah, meraviglioso! La tua destrezza giunge a tanto?». Il cuoco posò il coltello e rispose: «Io seguo il Tao, che è oltre ogni destrezza. Quando ho cominciato a tagliare a pezzi i buoi, non vedevo altro che il bue. Tre anni dopo, non vidi più il bue. Oggi lo considero con lo spirito, piuttosto che vederlo con gli occhi. I miei sensi sono inattivi mentre mi faccio guidare dalla volontà della mente. Procedo in sintonia con le leggi della natura, attacco in grandi interstizi, mi apro la via verso le grandi cavità, seguendone il corso naturale. Persino i luoghi in cui i tendini si legano alle ossa non offrono resistenza, per non parlare delle ossa più grandi! Un buon cuoco consuma un coltello all’anno,

perché egli taglia. Un cuoco medio consuma un coltello al mese, perché egli rompe. Ho usato questo coltello per diciannove anni. Ho squartato migliaia di buoi, ma la sua lama è come appena affilata. Tra le articolazioni vi sono degli interstizi, e la lama non ha spessore, basta far entrare questa lama senza spessore nelle aperture, ed essa vi passerà sibilando, con grande comodità! Questo è il motivo per cui dopo diciannove anni, la lama è sempre come appena affilata. Ogni volta che incontro un punto difficile, analizzo le difficoltà, faccio attenzione, sono prudente, fisso lo sguardo su ciò che faccio, mi muovo lentamente, muovo il coltello con la massima precisione, ed ecco si separa. Il bue non sa nemmeno che è morto, e cade al suolo come una zolla di terra. Io stringo ancora il coltello, e mi guardo intorno. Sono soddisfatto. Pulisco il coltello e lo metto via». Il principe Wen Hui disse: «Eccellente! Ho ascoltato le tue parole, e ho imparato una regola di vita». E se ci accostassimo all’arte della prassi liberatoria nello stesso modo in cui il cuoco si accosta alla macellazione di un bue? E se intuissimo il Tao nello stesso modo e agissimo di conseguenza? Nel

caso della trasformazione sociale e culturale, la sfida è ancora più grande, poiché ci troviamo dinanzi a una serie di sistemi di autoorganizzazione connessi tra loro in maniera complessa e in costante cambiamento. Eppure, serve lo stesso spirito: una comprensione intuitiva dell’insieme, attraverso cui cercare di scegliere il giusto approccio per affrontare la situazione da fronteggiare. È interessante notare che anche la versione aramaica della Preghiera di Gesù (“La preghiera del Signore” o “Il Padre Nostro”) può arricchire le nostre idee per arrivare a un’azione adeguata. La parola che Gesù utilizza per “buono” (taba) essenzialmente significa ‘maturo’, mentre la parola che usa per “male” (bisha) significa ‘immaturità’ o ‘marcio’. Così, avvalendosi delle antiche radici delle parole aramaiche, la frase normalmente tradotta con «non indurci in tentazione, ma liberaci dal male» potrebbe forse essere resa più precisamente come «non farci ingannare dalla superficialità o sedurre dalle apparenze, ma liberaci dalle azioni non appropriate (e infruttuose)», o persino «non farci essere prigionieri dell’incertezza, e nemmeno aggrapparci ad attività inutili». Come Neil Douglas-Klotz (1990; 1999) sottolinea, qui si tratta soprattutto di trovare l’azione giusta per il momento presente: «Coloro che sono “buoni” sono nel posto giusto al momento giusto con l’azione giusta. In questo senso, sono preparati per ogni tipo di evento, sono pronti, pienamente presenti nel momento». Di contro, il male implica che si sia «caduti fuori dal ritmo con la Sacra Unità». Può essere che l’azione non «sia ancora pronta per lo scopo a cui è destinata» (non è ancora abbastanza matura) o che l’azione «non sia più matura: in un determinato tempo e luogo era appropriata, ma ora si è allontanata dal ritmo del sacro “Io Sono” ed è diventata marcia, per così dire» (Douglas-Klotz, 1999). Per incarnare un’autentica prassi liberatoria, dunque, occorre diventare estremamente sensibili al momento presente e mantenere una vigile ricettività nei suoi riguardi. Ciò significa entrare nel mistero

della causalità reciproca, riconoscere che il pensiero discorsivo e analitico da solo non può mai scandagliare gli abissi della complessità. Significa anche utilizzare il potere della relazionalità e della creatività come energia per inaugurare un viaggio di trasformazione. E infine significa superare le illusioni che imprigionano la nostra mente, spezzare i fili di un’impotenza interiorizzata che ci irretiscono e ci legano. La liberazione è un’arte, un processo di autoorganizzazione in cui ciascuno di noi è chiamato a discernere e ad agire tramite la contemplazione, la creatività e l’impegno relazionale. L’esito di un simile processo non è mai prevedibile, ma il valore di ogni individuo, di ogni comunità e di ogni movimento non deve mai essere sottovalutato. Come afferma Macy: «All’interno del contesto di un corpo più grande – o rete vivente – i nostri stessi sforzi individuali possono apparire trascurabili. È difficile misurarne la portata. Eppure, a causa della natura sistemica e interattiva della rete, ogni atto si riverbera in essa secondo modalità che non ci è dato vedere. E ognuno di noi può essere fondamentale per la sopravvivenza della rete» (1983). 42 Un altro esempio può chiarire ulteriormente questo concetto: il corpo umano è un sistema aperto che scambia costantemente materiale con l’ambiente circostante. In media, nell’arco di sette anni, ogni singolo atomo del corpo viene sostituito attraverso un processo di continua rigenerazione (il 98 per cento degli atomi del corpo, infatti, viene ricambiato ogni anno!). Da un punto di vista strettamente materialista, dunque, ogni sette anni siamo persone completamente differenti; eppure, da una prospettiva sistemica, rimaniamo gli stessi, perché la struttura generale della nostra esistenza rimane inalterata, anche se in alcuni aspetti è cambiata a causa della crescita e dell’invecchiamento. 43 Curiosamente, Francisco Verala è diventato un buddhista tibetano negli anni Settanta. Forse è stata proprio la sua visione buddhista ad aiutarlo a forgiare le proprie teorie sul “creare un mondo”.

9. Memoria, risonanza morfica ed emergenza Lo guardi e non può essere visto. Lo ascolti e non può essere ascoltato. Lo afferri e non può essere toccato. Nell’unicità si fonde, elude i sensi. Dall’alto, non è luminoso. Dal basso, non è oscuro. Come un filo ininterrotto che non può essere [descritto, esso ritorna al vuoto. Forma senza forma, che include tutte le forme, immagine senza sostanza, sottile, oltre ogni concetto. Avvicinati a ciò che è al di là degli inizi, segui ciò che non ha fine. Aderisci al Tao senza tempo, e muoviti al ritmo del momento presente, e si potrà cogliere l’origine nel filo ininterrotto del [Tao. TAO TE CHING §14 Le regolarità della Natura somigliano più ad abitudini che a leggi [...] non sono state fissate dall’origine dei tempi. Sono ;abitudini che si sono evolute con la Natura. La Natura, più che una mente matematica eterna, possiede una specie di memoria interna. Ogni cosa possiede una memoria collettiva di ciò che l’ha preceduta. [...] La memoria dipende dal processo che io definisco risonanza morfica, l’influenza del simile sul simile attraverso lo spazio e il tempo. Simili modelli di attività o di vibrazioni vengono trasmessi da precedenti modelli simili. (Fox-Sheldrake, 1996a)

La teoria dei sistemi rappresenta un eccellente punto di partenza per cominciare a comprendere la natura della trasformazione nei sistemi complessi. Eppure il fenomeno dell’emergenza a un certo livello resta misterioso. Gli anelli di retroazione positiva e le matematiche del caos ci aiutano a definire alcuni dei principali fenomeni coinvolti, ma non spiegano con precisione perché sembra che la creatività sia insita nella trama stessa del cosmo. E nemmeno chiariscono alcuni degli aspetti più enigmatici dell’emergere della creatività; in particolare, come nuovi comportamenti e nuovi saperi sembrino “godere di vita propria”, diffondendosi così rapidamente da mettere in discussione i nostri abituali modi di concepire l’apprendimento e il cambiamento. Uno degli esempi più interessanti di questa specie di trasmissione misteriosa dell’apprendimento può essere osservato in una serie di esperimenti condotti da William McDougall ad Harvard nel 1920 (Sheldrake, 1988). Sperando di trovare prove della trasmissione ereditaria dell’apprendimento, McDougall addestrò un gruppo di cavie da laboratorio ad attraversare un complesso labirinto pieno d’acqua e con due sole uscite: una era illuminata (e lì le cavie ricevevano una scarica elettrica) e un’altra era buia (ed innocua). L’uscita illuminata veniva periodicamente spostata. Nel corso del tempo le cavie avevano imparato che era sicuro uscire dal varco buio e che dovevano evitare quello illuminato. La prima generazione di cavie scelse l’uscita illuminata circa centosessantacinque volte prima di imparare che andava regolarmente evitata. La generazione successiva di topi, invece, imparò a evitare l’uscita illuminata dopo appena venti tentativi, nonostante McDougall avesse scelto i topi meno intelligenti tra quelli della seconda generazione per avviare la generazione successiva. Lo scienziato concluse che doveva agire un qualche tipo di memoria ereditaria, la quale apportava un sensibile miglioramento nell’apprendimento della seconda generazione.

Successivamente, a Edimburgo, uno scienziato cercò di replicare l’esperimento di McDougall, partendo con un gruppo di cavie completamente nuovo; la sua prima generazione, però, imparò molto più velocemente di quella di McDougall, evitando regolarmente l’uscita illuminata dopo soli venticinque errori. Allo stesso modo, un altro gruppo di scienziati a Melbourne, in Australia, scoprì che la loro prima generazione aveva imparato molto più velocemente di quella di McDougall. Per di più, dopo aver lavorato con oltre cinquanta generazioni di topi per un periodo di vent’anni, il livello di apprendimento continuava ad aumentare, anche nel caso di topi di controllo che non discendevano direttamente dalla generazione precedente. L’apprendimento delle generazioni successive di cavie – anche quelle prive di un collegamento diretto con le cavie della generazione precedente – continuò a migliorare con l’andare del tempo. Si tratta certamente di un esperimento interessante, che potrebbe avere importanti implicazioni per la prassi trasformativa. Come vedremo nel prosieguo di questo capitolo, non si tratta semplicemente di un episodio isolato, ma di un esempio particolarmente chiaro e scientificamente rigoroso di un fenomeno più diffuso. Che natura ha un tale processo? La sola teoria dei sistemi non sembra fornire una valida spiegazione. Le connessioni quantiche non-locali del teorema di Bell possono suggerire alcune possibilità, ma non è immediatamente evidente il ruolo che tali connessioni possono giocare nella trasmissione dell’apprendimento. Più promettente potrebbe essere l’idea di ordine implicato, soprattutto perché sottende che mente e memoria non siano fenomeni locali, ma che sia semplicemente il cervello ad avere accesso alla memoria, la quale a sua volta esiste nell’ordine implicato – o, se si preferisce dirlo con altre parole – nel vuoto gravido. Come abbiamo visto nella nostra analisi della teoria dei sistemi, la mente – così come il processo della memoria – non ha affatto bisogno

di essere associata al sistema nervoso. Il sistema immunitario, per esempio, ricorda per decenni la configurazione di una sostanza estranea (come un virus o un batterio) una volta identificata. Come evidenzia Diarmuid O’Murchu, possiamo pensare al sistema immunitario come a una sorta di campo di memoria. Parimenti, il DNA delle cellule può essere immaginato come una specie di sistema di stoccaggio per il trasferimento delle informazioni: Il DNA non si sposta mai nemmeno di un millimetro dalla sua precisa struttura, perché ciascuno dei tre miliardi di genomi – frammenti d’informazione nel DNA – ricorda dove va ogni cosa. Questo fatto ci fa capire che la memoria deve essere più stabile della materia. Di conseguenza, una cellula può essere definita come una memoria che ha costruito della materia intorno a sé, dando vita a un modello specifico. Il veicolo d’informazioni, quindi (e osiamo aggiungere noi, di significato), è la memoria, non la materia. (1997)

In questa visione i concetti di forma e di memoria sono strettamente connessi. Come abbiamo visto, nella prospettiva sistemica la forma prevale sulla materia. Nella misura in cui la forma richiede una costante rigenerazione attraverso dinamiche di stabilitàdi-flusso simili a vortici, possiamo allora dire che un sistema è una specie di manifestazione della memoria. Eppure, allo stesso tempo, la natura della causalità reciproca (e della coproduzione condizionata) implica che il sistema a sua volta crei continuamente (o ricrei) la memoria, o al limite contribuisca a ricrearla. In questo capitolo esploreremo più nel dettaglio le dinamiche della memoria. Nel far ciò, vedremo come la memoria, che di per sé può essere considerata un aspetto del concetto più ampio di mente, sembri appartenere a tutti i sistemi, e non solo a quelli che normalmente consideriamo “viventi”. Per esempio, le molecole proteiche e i cristalli chimici possono essere considerati dotati di memoria, come anche le società e gli ecosistemi. Nell’indagine su queste teorie, attingeremo a piene mani dall’opera di Rupert Sheldrake, un biochimico inglese molto poco convenzionale. Se da un lato le teorie di Sheldrake non vengono considerate “mainstream” poiché differiscono molto dalle

visioni ortodosse oggi accettate, dall’altro esse spiegano una serie di interessanti fenomeni che molti scienziati sembrano aver ignorato, forse a causa della sfida che pongono al pensiero scientifico tradizionale. Per lo meno, le teorie di Sheldrake sollevano eccellenti interrogativi e forniscono indizi che possono portare a una nuova comprensione della memoria e allo sviluppo di nuove abitudini e di nuovi comportamenti. Inoltre, le sue teorie sembrano indicare un nuovo modo di concepire la realtà, che può avere importanti ripercussioni sulla prassi trasformativa. Il nucleo della tesi di Sheldrake è contenuto nella sua teoria della “causalità formativa”, in cui si afferma che la memoria è intrinseca alla natura ed è contenuta o compresa in “campi morfici” (dal greco morphe, che significa ‘forma’), i quali sono immateriali (e, in un certo senso, sia locali che non-locali), eppure in qualche modo “fisici”: I campi morfici, come i campi della fisica, sono aree non materiali di influenza che si estendono nello spazio e nel tempo. Sono localizzati dentro e attorno ai sistemi che organizzano. Quando un particolare sistema organizzato cessa di esistere, ad esempio quando un atomo si scinde, un fiocco di neve si fonde e un animale muore, il suo campo organizzativo scompare in quel luogo. Eppure, in un altro senso, i campi morfici non scompaiono: sono modelli organizzativi potenziali e possono riapparire fisicamente in altri momenti e altri luoghi, quando e dove le condizioni materiali siano adatte. Questo è possibile perché contengono al proprio interno la memoria delle loro precedenti esistenze fisiche. (Sheldrake, 1988 [2011, p. 12])

Sotto molti aspetti i campi morfici corrispondono all’idea di “organizzazione delle relazioni” (o di “dinamiche di autoorganizzazioni”) della filosofia dell’organicismo44; Sheldrake ritiene infatti la sua teoria un’estensione o un’elaborazione della prospettiva organicista. Per Sheldrake il campo è immanente al sistema, proprio come l’idea di anima di Aristotele (in contrapposizione al concetto platonico di forme eterne e trascendenti). Nonostante ciò molti critici, incluso Fritjof Capra, considerano le idee di Sheldrake una forma

elaborata di vitalismo, interpretazione che lo stesso Sheldrake respinge con forza. In riferimento all’accusa che nella teoria di Sheldrake siano presenti tendenze vitalistiche, occorre ricordare che i vitalisti insistono sul fatto che il loro concetto di “forza vitale” appartiene unicamente agli organismi viventi, qualcosa di distinto dai campi morfici che si ritiene operino in tutti i sistemi del cosmo. Come abbiamo evidenziato in precedenza, Sheldrake ritiene che «dalla prospettiva organismica, la vita non è qualcosa che emerge dalla materia inerte e che richiede di essere spiegata attraverso i fattori vitali aggiuntivi del vitalismo. Tutta la natura è viva. I principi organizzativi degli organismi viventi differiscono in grado ma non in tipo dai principi organizzativi delle molecole, delle società, delle galassie» (1998 [2011, p. 69]). Inoltre, i campi morfici di Sheldrake sono altrettanto “fisici” degli altri campi della fisica (come quello gravitazionale o elettrico), sebbene la loro natura sia altresì in un certo senso qualcosa di unico. Va sottolineato, poi, che i campi morfici e i sistemi interagiscono attraverso una causalità reciproca, il che vuol dire che la creatività in un sistema interagisce anche con il suo campo morfico, aggiungendo di fatto nuove conoscenze e nuove esperienze al campo collettivo della memoria. Secondo la teoria della causalità formativa, il ricordo – «il processo mediante il quale il passato diventa presente» – avviene attraverso la “risonanza morfica”, che implica la «trasmissione di influssi formativi causali attraverso lo spazio e il tempo» (Sheldrake 1988 [2011, p. 12])45. Poiché i ricordi contenuti in un campo morfico si accumulano nel corso del tempo, le cose diventano sempre più abituali. Nel caso del “comportamento” di cose come atomi, molecole e particelle elementari, siamo di fronte a elementi che ripresentandosi per un arco di tempo tanto esteso oggi possono apparirci immutabili. Eppure le cosiddette “leggi eterne” dovrebbero in realtà essere interpretate come

abitudini molto radicate della natura. Anche se la risonanza morfica può far sì che alcune abitudini appaiano quasi immutabili, lo spirito della teoria della risonanza morfica è interamente di natura evolutiva e dinamica. I campi morfici possono cambiare nel corso del tempo (e lo fanno), e quando ciò accade spesso si producono improvvise esplosioni di creatività46. Alla radice della teoria della risonanza morfica, infatti, c’è la convinzione che, in un cosmo in evoluzione, possano non esserci leggi eterne o fisse. Ogni cosa, compreso lo stesso campo di organizzazione del cosmo, deve evolvere temporalmente. Nel corso di questo capitolo esploreremo diverse aree in cui la teoria della risonanza morfica può contribuire alla nostra comprensione di una nuova cosmologia. In particolare, esamineremo in che modo i campi morfici possono offrire una prospettiva unica della natura della memoria – come della stessa mente – che ci consente di scoprire nuove idee sull’apprendimento e sulle dinamiche di autoorganizzazione e della creatività. Inoltre, vedremo come la prospettiva morfica ci consenta di andare oltre la concezione meccanicistica dei geni, in modo da poter cogliere lo sviluppo e l’evoluzione degli organismi viventi sotto una nuova luce. Analizzeremo anche come i campi morfici ci aiutino a concepire un’autentica cosmologia evoluzionistica, una cosmologia in cui le leggi eterne non regnano più come una sorta di “motore immobile” che governa il cosmo. In conclusione, vedremo come la risonanza morfica possa aiutarci a far emergere nuove idee nella prassi trasformativa.

I riverberi della memoria Ciò che impariamo e ciò che pensiamo può influenzare le altre persone per risonanza morfica. La nostra anima è legata a quella degli altri e al mondo che ci circonda. L’idea di una mente all’interno della nostra testa, di una piccola entità portatile isolata nell’intimità

dei nostri crani è straordinaria. Nessuna cultura nel passato ha avuto questa idea, ed è sorprendente che la cultura più colta e sofisticata mai esistita (come ci piace pensarla) possa averla. (Fox-Sheldrake, 1996a) La maggior parte di noi considera il proprio cervello sia la sede della coscienza che il contenitore dei ricordi. Di certo il cervello è un organo meraviglioso, così complesso che siamo ben lontani dall’aver compreso tutte le misteriose dinamiche in esso presenti. Tuttavia, la ricerca della sede della memoria all’interno del cervello è stata finora fallimentare. I neuroscienziati che operano al di fuori del paradigma puramente materialista hanno postulato che la memoria dovrebbe essere concepita come una sorta di modificazione fisica o chimica del sistema nervoso – una “traccia” materiale – presumibilmente collocata nel cervello. Per trovare prove di questa traccia gli scienziati hanno condotto esperimenti su animali a cui, dopo aver insegnato qualcosa, venivano asportate parti del cervello – in alcuni casi oltre il 60 per cento – per vedere quando l’animale cessava di ricordare. I risultati di questi esperimenti, tuttavia, nel migliore dei casi non hanno prodotto risultati: determinati ricordi non possono essere eliminati rimuovendo determinate parti del cervello. La memoria sembra essere in qualche modo distribuita in tutto il cervello – è ovunque in generale, ma anche in nessun luogo in particolare (Sheldrake, 1990 [1993]). Non è un caso che le persone colpite da amnesia a seguito di traumi al cervello normalmente perdano i ricordi in modo olistico piuttosto che determinati segmenti di memoria. Se la memoria viene recuperata, spesso ritorna in un ordine cronologico, e il ricordo più vecchio viene ritrovato per primo. Questo sembra contrario, ancora una volta, all’idea di “tracce mnestiche” localizzate e immagazzinate nel cervello. Rupert Sheldrake suggerisce che le tracce mnestiche possano anche, in realtà, non esistere affatto. Il cervello potrebbe non serbare

ricordi, ma piuttosto semplici accessi alla memoria, così come un televisore si sintonizza all’interno di un campo di radiazioni elettromagnetiche (un segnale radio). I danni al cervello possono sicuramente influenzare la sua capacità di sintonizzarsi in un campo di memoria, sfociando o nell’incapacità di richiamare la memoria del passato (ricevere) o nell’impossibilità di serbare un nuovo ricordo (trasmissione). Non è possibile, tuttavia, trovare le tracce mnestiche: «Se cercaste nel vostro televisore tracce dei programmi che avete visto la settimana scorsa, per lo stesso motivo non trovereste nulla: l’apparecchio non è in grado di sintonizzarsi su una determinata frequenza per trasmettere programmi che tuttavia non registra» (1990 [1993, p. 113]). Sheldrake ritiene che la memoria sia contenuta in campi morfici e che funzioni attraverso il processo della risonanza morfica, e non come una sorta di deposito mnestico materiale: La risonanza morfica si basa sulla somiglianza. Agisce sulla base di analogie. Più un organismo rassomiglia a un proprio simile vissuto in passato, e più la risonanza è stata specifica ed efficace. In generale qualsiasi organismo tende a essere simile a se stesso in passato, ed è quindi particolarmente soggetto alla risonanza morfica specifica del proprio passato. (1990 [1993, p. 113])

Ciò non significa che i disturbi chimici o fisici nel sistema nervoso non possano influenzare il comportamento, ma solo che questi disturbi sono analoghi ai guasti che possono danneggiare l’hardware di un computer e non i suoi programmi (i software). Infatti, la capacità del cervello di guarire da una perdita di memoria dovuta a un trauma può essere spiegata attraverso i campi morfici: Anche in caso di danni a parti del cervello, questi campi possono organizzare le cellule nervose di altre aree perché svolgano le stesse funzioni. La capacità delle abitudini apprese di sopravvivere a gravi danni cerebrali può essere dovuta alle proprietà auto-organizzative dei campi, proprietà che si esprimono nel regno della morfogenesi nella rigenerazione e regolazione embrionale. (Sheldrake 1988 [2011, p. 198])

L’idea che la memoria sia conservata in campi morfici è strettamente collegata all’idea dello psicologo Carl Jung di “inconscio

collettivo”, una sorta di campo collettivo di memoria condiviso da tutta l’umanità che si esprime in simboli comuni o “archetipi” nei miti e nei sogni. Jung credeva che tutti gli individui condividessero un gruppo di archetipi comuni, ma allo stesso tempo che determinate culture potessero anche condividere una serie di ricordi inconsci più specifici. Marie-Louise von Franz ha ulteriormente sviluppato quest’idea, immaginando l’inconscio collettivo in modo olarchico, in cui l’inconscio individuale si trova nidificato in quello del clan, della cultura ecc., in cerchi sempre più grandi. Per questa ragione, le mitologie di ciascuna cultura possono avere elementi unici come pure elementi condivisi con le culture limitrofe o elementi comuni all’umanità stessa (Sheldrake, 1988 [2011])47. Possiamo immaginare i campi morfici mnemonici in modo simile, e cioè come un sistema di olarchie nidificate che raggiungono cerchi sempre più ampi. È plausibile che questi cerchi possano spingersi al di là della stessa umanità fino ai ricordi delle altre specie, sebbene le nostre capacità di risonanza con quei campi si indebolisca progressivamente col diminuire delle somiglianze. L’idea di una memoria contenuta in campi morfici può spiegare in parte i “ricordi di una vita passata” che alcune persone hanno e che attraverso l’ipnosi sembrano diventare più chiari. Può darsi che, per via di somiglianze nella personalità o nella struttura fisica, si possa in qualche modo “risuonare” con i ricordi di alcuni individui vissuti nel passato, potendo così accedere ed esperire i loro ricordi più facilmente. Lo stesso concetto di campi può sembrare di primo acchito misterioso. Si tratta solo di una specie di astrazione metafisica, un’idea o qualcosa di più concreto? Persino nel porre questa domanda dobbiamo esaminare con attenzione i nostri presupposti materialisti. Come abbiamo già visto, anche realtà “fisiche” come le particelle

subatomiche somigliano a danze di energia o a onde di probabilità che nuotano nel vuoto gravido. C’è un modo, in effetti, per esprimere la natura ondulatoria della materia: sono i “campi quantici” (o “campi quantici di materia”). Come sottolinea Sheldrake: «In questi campi quantici di materia non c’è dualismo fra campo e particella, nel senso di un campo in qualche modo esterno alla particella. La realtà fisica è divenuta piuttosto un insieme di campi, e i campi specificano le probabilità di trovare dei quanti in punti particolari dello spazio. Le particelle sono manifestazioni della realtà sottostante dei campi» (1988 [2011, p. 135]). Nella nuova fisica, dunque, possiamo immaginare i campi (entità organizzative o formative) come qualcosa di più essenziale della materia o della sostanza. Anzi, la nozione di campi morfici va considerata in quest’ottica: i campi morfici possono comportare fenomeni quantistici. Un modo di pensare i campi morfici è vederli come campi di informazione, analoghi in un certo senso al concetto di programma nell’uso convenzionale che se ne fa in biologia. Allo stesso tempo, i campi morfici sono di natura probabilistica, proprio come i campi quantici di materia (infatti, per quanto riguarda gli atomi e le entità subatomiche, Sheldrake suggerisce che quanto descritto nella teoria quantistica dei campi può benissimo equivalere al campo morfico degli atomi e delle particelle subatomiche). In termini di fenomeni biologici, questa natura probabilistica è dimostrata dal fatto che non esistono due organismi o due sistemi biologici identici, anche quando si sviluppano in condizioni simili, e persino quando sono geneticamente indistinguibili. C’è sempre un elemento di indeterminazione che entra in gioco. Al contempo, però, il campo morfico crea una sorta di confine per i comportamenti e le forme. Da questo punto di vista, i campi morfici sono paragonabili agli “attrattori” della teoria dei sistemi, sebbene nella teoria dei sistemi gli attrattori non siano in alcun modo fattori causativi. Anche il fenomeno della risonanza morfica contribuisce alla natura

probabilistica dei campi morfici. Un campo morfico entra in risonanza con innumerevoli campi provenienti da organismi o sistemi simili vissuti nel passato, eppure vi è variazione anche in tutti questi campi passati. Ancora una volta, tali variazioni creano una sorta di confine composito che delinea uno spettro di forme o di comportamenti in modo probabilistico. Pertanto, un campo morfico non può essere di natura strettamente deterministica: è sempre una struttura probabilistica (sebbene in alcuni casi – come quello di determinati fenomeni fisici – lo spettro possa essere così piccolo da risultare impercettibile). La risonanza morfica, diversamente dalla maggior parte delle forme di risonanza fisica (come quella nucleare-magnetica o quella acustica), non implica il trasferimento di energia tra i sistemi, ma piuttosto un “trasferimento di informazioni non energetico”. Non è escluso che la risonanza morfica possa anche somigliare ad altri fenomeni di risonanza, ma solo nella misura in cui «si verifica su modelli ritmici di attività», come ad esempio le vibrazioni di atomi, le oscillazioni di attività cellulari, le onde dell’attività elettrica nel sistema nervoso e gli innumerevoli cicli degli organismi viventi. Secondo l’ipotesi della causalità formativa, la risonanza morfica avviene tra queste strutture ritmiche di attività sulla base della similarità, e mediante questa risonanza i passati modelli di attività influenzano i campi di sistemi simili successivi. La risonanza morfica include una sorta di azione a distanza nello spazio e nel tempo. Secondo questa ipotesi, questa influenza non diminuisce con la distanza temporale o spaziale. (Sheldrake, 1988 [2011, pp. 125-126])

I campi morfici ricordano le entelechie aristoteliche, giacché non esistono come ideali trascendenti indipendenti dagli organismi o dai sistemi reali. Sono molto diverse, per esempio, dal concetto platonico di forme ideali, che plasmano la realtà in maniera deterministica e univoca. Nel caso dei campi morfici, l’informazione non fluisce semplicemente dal campo alla forma, ma anche dalla forma al campo in modo interattivo e reciproco. I campi morfici sono perciò di natura

dinamica ed evoluzionistica. Considerando il modo in cui i campi morfici trasmettono le informazioni attraverso lo spazio e il tempo, Sheldrake ritiene che non abbiamo bisogno di postulare alcuna specie di “etere morfogenetico” o di fenomeno che operi in altre dimensioni, ma dobbiamo «pensare al passato come schiacciato, per così dire, contro il presente, e come potenzialmente presente ovunque» (1988 [2011, p. 129]). Quest’idea può apparire strana, ma dobbiamo ricordare che il concetto newtoniano di leggi immutabili è parimenti misterioso e forse perfino più strano; è solo che ci siamo abituati a pensare in questa maniera e non mettiamo in discussione le nostre convinzioni: Siamo così abituati al concetto di leggi fisiche immutabili che le diamo per scontate, ma se riflettiamo sulla loro natura, queste leggi si rivelano profondamente misteriose. Non sono materiali e non sono energia. Trascendono lo spazio-tempo e sono, almeno in potenza, presenti in tutti i luoghi e in tutti i momenti. Benché la risonanza morfica sembri misteriosa, le teorie convenzionali non lo sono di meno se facciamo un passo indietro e consideriamo i presupposti su cui si basano. L’ipotesi della causalità formativa non è una bizzarra speculazione metafisica che si contrappone a una teoria meccanicistica empirica, rigorosa e realistica. La teoria meccanicistica si basa su presupposti ancora più metafisici del concetto di causalità formativa. (Sheldrake, 1988 [2011, p. 129])

Come abbiamo detto, la nozione di campi morfici può facilmente essere collegata alla teoria dei sistemi allorché consideriamo questi campi in maniera analoga all’idea di attrattore, che costituisce una sorta di confine per i comportamenti e le forme. Sostanzialmente possiamo immaginare un attrattore come una specie di descrizione matematica di un campo morfico. Allo stesso tempo, i concetti di campo morfico e di risonanza morfica sono anche collegati alla teoria dell’ordine implicato e dell’analogia olografica. In un certo senso, l’intera olarchia nidificata dei campi morfici presa nel suo complesso potrebbe essere intesa come corrispondente all’ordine implicato. David Bohm, uno degli ideatori della prospettiva olografica, considera tale relazione nel modo seguente: L’ordine implicato può essere pensato come una superficie al di là del tempo, una

totalità, dalla quale ogni istante viene proiettato nell’ordine esplicato. Per ogni momento proiettato nell’ordine esplicato ci sarebbe un altro movimento in cui quel momento verrebbe iniettato o “introiettato” all’interno dell’ordine implicato. Se si dispone di un gran numero di ripetizioni di questo processo, si potrà iniziare a costruire una componente abbastanza costante di questa serie di proiezioni e introiezioni: verrebbe cioè stabilita una disposizione fissa. Il fatto è che, attraverso questo processo, forme passate tenderebbero a essere ripetute o replicate nel presente, il che è qualcosa di molto simile a ciò che Sheldrake chiama campo morfogenetico [o morfico] e risonanza morfica. Inoltre, tale campo non sarebbe situato ovunque. Quando si proietta indietro nella totalità (l’ordine implicato), poiché lì spazio e tempo non hanno rilevanza, tutte le cose della medesima natura potrebbero connettersi e risuonare nella totalità. Quando l’ordine esplicato si ripiega nell’ordine esplicato, che non ha alcun tipo di spazio, tutti i luoghi e tutti i tempi sono, per così dire, fusi insieme, in modo che ciò che accade in un luogo compenetra in ciò che accade in un altro luogo. (citato in Sheldrake, 1988)

L’idea che la memoria sia contenuta nei campi morfici diventa molto più chiara quando prendiamo in considerazione esempi concreti che sembrano dimostrare questo fenomeno. Se questi esempi, da un lato, non forniscono prove sperimentali definitive sulla risonanza morfica, dall’altro suggeriscono che c’è qualcosa che opera oltre i ricordi che fisicamente vengono serbati nel cervello. Uno di questi esempi riguarda l’acquisizione del linguaggio. Noam Chomsky ha ipotizzato che per spiegare la rapidità con la quale i bambini apprendono il linguaggio non basta semplicemente chiamare in causa un modello di apprendimento comportamentale. Per Chomsky il linguaggio si sviluppa nella mente e le strutture di organizzazione del linguaggio sono essenzialmente innate. Di conseguenza ha ipotizzato che vi sia una sorta di grammatica universale, che egli ritiene essere in qualche modo geneticamente programmata. Una spiegazione alternativa a questo fenomeno, tuttavia, può essere rintracciata nella teoria della risonanza morfica. Se consideriamo i campi morfici di tutti gli esseri umani che hanno parlato lingue diverse nel passato, la risonanza morfica dovrebbe favorire l’apprendimento di queste lingue. Secondo Sheldrake «la

risonanza morfica generale dà ai bambini la tendenza generica ad apprendere un linguaggio, ma appena iniziano a parlare una lingua specifica, supponiamo lo svedese, i bambini entrano in risonanza morfica con le persone che parlano svedese; l’apprendimento del vocabolario e della grammatica di questa lingua è facilitato da questa risonanza» (Sheldrake, 1988 [2011, p. 220]). Rispetto a qualsivoglia programmazione genetica, la risonanza morfica sembra in effetti offrire una spiegazione più soddisfacente della facilità con la quale siamo in grado di apprendere il linguaggio. Se avessimo a che fare con una programmazione genetica, dovremmo attenderci molta meno diversità e molta più rigidità nella struttura linguistica rispetto a quanto in realtà riscontriamo. D’altro canto, la risonanza morfica può dar conto sia di un grado di regolarità nelle lingue – le caratteristiche comuni alle lingue come le parole e le frasi – ma altresì consentire una grande diversità dei sistemi linguistici. Rupert Sheldrake ha ideato un esperimento linguistico che illustra in che modo, nell’acquisizione del linguaggio, entri in gioco la risonanza morfica. Egli ha chiesto a un poeta giapponese di fornirgli tre filastrocche: la prima era una filastrocca tradizionale recitata da generazioni di bambini in Giappone; delle altre due, che assomigliavano alla prima, una in giapponese aveva senso, l’altra no. Queste tre filastrocche sono poi state insegnate a dei bambini statunitensi e britannici che non conoscevano il giapponese. Posto che le tre filastrocche fossero equivalenti per difficoltà, circa i due terzi dei bambini hanno imparato con più facilità la filastrocca autentica, risultato che dal punto di vista statistico è molto significativo. Ancorché non decisivo, quest’esperimento suffraga l’idea che la risonanza morfica favorisca l’acquisizione del linguaggio: la ripetizione di una filastrocca per generazioni di bambini creerebbe un campo di memoria forte, che diventerebbe accessibile attraverso il fenomeno della risonanza morfica. Altri esperimenti, legati al riconoscimento diretto o indiretto di parole scritte, reali o inventate, in

lingue sconosciute ai soggetti su cui veniva condotto l’esperimento, hanno offerto ulteriore sostegno alla teoria della risonanza morfica (Sheldrake, 1988 [2011]). La risonanza morfica può anche spiegare il potere dei rituali tradizionali, dei canti e dei mantra nelle tradizioni religiose del mondo. I riti religiosi ripetuti più e più volte – talvolta per migliaia di anni – creano un potente campo morfico di memoria collettivo. Per questa ragione, siffatti rituali avrebbero accumulato una specie di potere spirituale (associato alla condizione spirituale di coloro che hanno sperimentato tali rituali in passato) che i più recenti rituali non possono avere. Analogamente, i mantra tradizionali – parole di preghiera ripetute più e più volte da milioni di persone su lunghi periodi di tempo – dovrebbero assumere un grande potere attingendo alla memoria degli stati meditativi di innumerevoli individui nel corso dei secoli. È per questo motivo che i mantra tradizionali posseggono una capacità unica di favorire la meditazione. La risonanza morfica potrebbe anche spiegare la rapida diffusione di nuove abitudini nelle popolazioni animali. Un caso particolarmente interessante che illustra questo processo può essere quello della cinciarella, una specie di volatile che vive nell’Europa dell’Ovest. Dagli anni Venti fino agli anni Quaranta si diffuse in tutto il Regno Unito l’abitudine della cinciarella di aprire i tappi delle bottiglie di latte, sebbene raramente le cinciarelle si spostino di oltre venticinque chilometri dalle loro dimore. Sul piano geografico l’abitudine non si diffuse con continuità, ma spuntò in maniera indipendente in località differenti (le bottiglie di latte furono introdotte per la prima volta in Inghilterra nel 1880, quindi ci sono voluti quasi quarant’anni prima che avvenisse la prima scoperta da parte di una cinciarella). Stando a Sheldrake (1988 [2011]), resoconti dettagliati dimostrano che quest’abitudine si diffuse sempre più rapidamente col passare degli anni, e che fu scoperta indipendentemente da almeno ottantanove cinciarelle differenti nell’arco dei decenni in questione. Inoltre,

l’abitudine si diffuse in Olanda, in Danimarca e in Svezia. Nel caso olandese, dove il latte in bottiglia praticamente scomparve durante la seconda guerra mondiale, l’abitudine riapparve rapidamente dopo la fine della guerra, anche se l’occupazione tedesca dell’Olanda (e la sospensione della distribuzione del latte) era durata molto più a lungo della vita media di una cinciarella. L’ipotesi della risonanza morfica è in grado di spiegare perché l’abitudine di aprire le bottiglie di latte sembrava diffondersi più rapidamente col passare del tempo. Più gli uccelli adottava tale abitudine, più la risonanza morfica facilitava l’acquisizione della nuova abitudine, con nuove e indipendenti scoperte vieppiù frequenti. Il fenomeno dei campi morfici può anche estendersi ben oltre la memoria, fino ad abbracciare altri aspetti di ciò che siamo normalmente abituati a considerare la mente. Si tenga presente, per esempio, il complesso comportamento collettivo delle termiti, che consente loro di costruire immense strutture fatte di escrementi e saliva. I nidi delle termiti sono estremamente complessi: per esempio, un nido africano di termiti a forma di fungo può raggiungere i tre metri di altezza e ospitare due milioni di abitanti. I nidi sono progettati in maniera ingegnosa per diffondere calore e mantenere un’adeguata ventilazione. Come osserva E.O. Wilson: Non è agevole concepire come un membro della colonia possa sorvegliare più di un’esigua frazione del lavoro di costruzione, o immaginare nella sua totalità il progetto di un simile prodotto finito. Il completamento di questi nidi richiede molte generazioni di operaie e ogni nuova aggiunta deve in qualche modo adattarsi opportunamente alle parti precedenti. L’esistenza di simili nidi porta inevitabilmente a concludere che le operaie interagiscono in modo ordinato e prevedibile. Come possono le operaie comunicare in maniera così efficace per periodi di tempo tanto lunghi? Inoltre, chi ha il progetto del nido? (citato in Sheldrake, 1988 [2011, p. 284])

Altri naturalisti hanno osservato come le termiti siano capaci di coordinare le loro attività per armonizzare ai lati opposti delle grandi aperture le due parti della struttura, anche se tra loro non è possibile

alcuna comunicazione fisica (per esempio, dopo l’inserimento di una grande lastra d’acciaio tra le due parti). Sebbene non sia stata fornita per questi fenomeni una spiegazione meccanicistica soddisfacente, le ipotesi dell’esistenza di campi morfici e della risonanza morfica potrebbero fornire un modo per comprendere ciò che è accaduto. Sheldrake suggerisce che la struttura del nido delle termiti sia organizzata attraverso campi morfici sociali presenti in tutta la colonia. In un certo senso, si tratta di qualcosa di simile a una specie di mente collettiva condivisa dall’intera colonia. Un simile fenomeno può operare anche nei grandi banchi di pesci, i quali sono capaci di coordinare i loro movimenti con sorprendente rapidità, meno di un cinquantesimo di secondo. Infatti, esperimenti sui pesci mostrano che anche quelli che sono stati privati della vista attraverso l’applicazione di speciali lenti a contatto sono capaci di muoversi come unità coordinate. Una volta ancora, un campo morfico sociale – una sorta di mente collettiva – può essere in grado di dare ragione di quanto accade come una teoria meccanicistica non riesce a fare.

Oltre il determinismo genetico La teoria della risonanza morfica – o della causalità formativa – offre un nuovo nonché affascinante modo di concepire la memoria e, in realtà, la mente stessa. Come abbiamo visto nell’analisi della teoria dei sistemi, tuttavia, il nostro concetto di mente dev’essere ampliato fino a includere tutti i tipi di vita, e non solo gli organismi dotati di sistema nervoso. La memoria e la mente, infatti, appartengono a tutti i sistemi viventi, e forse, volendo allargare ancora di più il raggio, a tutti i sistemi naturali. Un’area specifica in cui questa concezione ampliata della memoria e della mente entra in gioco è il processo ereditario negli organismi viventi. L’attuale ortodossia scientifica attribuisce ai geni un ruolo preponderante nel determinare lo sviluppo della forma di un organismo – la sua morfogenesi – così come lo stesso meccanismo

dell’ereditarietà. Se da un lato la teoria della risonanza morfica non trascura l’importante ruolo dei geni, dall’altro attribuisce loro funzioni molto più modeste. In questo paragrafo esploreremo i limiti dell’attuale teoria genetica ed esamineremo in che modo i campi morfici e la risonanza morfica possono fornire una spiegazione alternativa – e magari più soddisfacente – del processo ereditario e dello sviluppo biologico. Anzitutto, potrebbe sembrare strano contestare l’attuale teoria genetica. Di certo la genetica ha avuto un notevole successo e ha elaborato una teoria preziosa, in grado di spiegare tutta una serie di processi biologici. Molti sostengono infatti che stiamo vivendo l’alba di un’“era genetica” caratterizzata da potenti tecniche come l’ingegneria genetica, che potrebbero tranquillamente riconfigurare il nostro pianeta sotto molti importanti aspetti. Ma si può anche sostenere che la genetica – o la biologia molecolare – sia diventata una delle discipline più atomistiche e riduzioniste della scienza moderna. È quanto sostiene infatti Theodore Roszak, secondo cui i geni oggi svolgono nella biologia un ruolo analogo a quello degli atomi nella fisica del XIX secolo e sono, per molti versi, niente di più che una proiezione mentale che i biologi applicano alla realtà. Alcuni biologi molecolari arrivano addirittura a proiettare sui geni tratti di egoismo48. Questo, forse, non è poi così sorprendente se prendiamo in considerazione le origini del progetto genetico moderno. In Cloning the Buddha Richard Heinberg (1999) sostiene che agli albori della biologia molecolare vi erano due correnti che procedevano parallele. La prima, finanziata da alcune facoltose famiglie negli Stati Uniti, si fondava sul pensiero eugenetico e ha provato a dimostrare come tutto fosse geneticamente determinato. Una conseguenza di questa prospettiva è che i miglioramenti sociali non provengono da cambiamenti politici o economici – e nemmeno dal cambiamento dei paradigmi – bensì da un

miglioramento del “corredo genetico” dell’umanità. Se uno è povero, commette un crimine o soffre di alcolismo o di un disturbo psicologico, i geni, e non le condizioni sociali, ne sono i responsabili. La scienza, e non le trasformazioni sociali, possiede le chiavi per risolvere questi problemi. Ovviamente, una simile corrente di pensiero può essere confortante per chi appartiene alle élite dominanti (il quale, ovviamente, è membro dell’élite perché geneticamente superiore!). La seconda corrente proviene – e la cosa non sorprende – dalla fisica newtoniana. Due studiosi di matematica applicata, Max Mason (1877-1961) e Warren Weaver (1894-1978), lavorarono con la Fondazione Rockefeller per ricostruire la biologia lungo direttrici riduzioniste e meccaniciste. Secondo Philip Regal, professore di Ecologia, evoluzione e comportamento all’Università del Minnesota, Mason e Weaver, erano ancor più fortemente impegnanti a sviluppare un’ideologia deterministica e riduzionistica di quanto non lo fossero i biologi. I biologi erano attratti dall’idea, ma Mason e Weaner ne furono veramente travolti. Tutto questo ha a che vedere con la ragione per cui abbandonarono la fisica: erano disgustati dalla fisica quantistica. L’idea d’indeterminatezza era completamente contraria alla loro natura. Loro conservavano questa vecchia idea newtoniana di un universo-palla da biliardo: una volta compreso il meccanismo, ci baseremo su di esso e tutto sarà ridotto alla meccanica. (citato in Heinberg, 1999)

Regal prosegue sottolineando come i biologi in un primo momento respinsero il metodo riduzionista introdotto da Mason e Weaver (e anche molti chimici e fisici che entrarono nel campo della biologia molecolare negli anni seguenti fecero la stessa cosa). Tuttavia i meccanicisti avevano una “corsia preferenziale” per ottenere finanziamenti sia privati che pubblici, e ciò alla fine portò la biologia verso paradigmi meccanicisti. Considerate dunque le origini della biologia molecolare, dovremmo, forse, nutrire dei sospetti sui suoi apparenti successi. Mason e Weaver, e coloro che la pensavano come loro, infatti,

ritenevano che con il passare del tempo la teoria quantistica si sarebbe dimostrata piena di difetti, cosa che invece non è ancora avvenuta. Se accettiamo che la fisica non ha una natura meccanicista, sarebbe davvero strano scoprire che la biologia, i cui processi chimici e fisici coinvolgono a certi livelli fenomeni quantistici, sia meccanicista e riduzionista. Se non altro, considerata la crescente complessità (e nonlinearità) dei sistemi coinvolti, ci si dovrebbe aspettare che la biologia sia invece la disciplina meno meccanicista e riduzionista di tutte. Paul Weiss (1898-1989), uno dei primi biologi a proporre l’idea dei campi morfogenetici (essenzialmente campi morfici che governano lo sviluppo degli organismi viventi), sostiene che è ridicolo ascrivere attributi mentali ai geni. Egli accusa i biologi molecolari di mascherare la difficoltà del problema attribuendo al gene la facoltà della spontaneità, il potere di “imporre”, “informare”, “regolare”, “controllare” ecc. il processo che mette ordine nel suo ambiente non organizzato, «in modo da trasformare quest’ultimo in un gruppo di lavoro coordinato che culminerà nella formazione di un organismo completo. Ma non spiegano mai come ciò venga realmente fatto». (citato in Goldsmith, 1998)

In realtà, il ruolo accertato dei geni è molto più modesto: i geni (specifiche sezioni della molecola del DNA) codificano per la struttura delle proteine di un organismo, compresi i suoi enzimi, fungendo in un certo senso da calco per le proteine attraverso l’azione mediatrice della molecola dell’RNA. Tuttavia, come vedremo nel prosieguo della nostra analisi, si tratta di un processo niente affatto semplice e lineare come lo abbiamo appena descritto. In ogni caso, però, abbiamo a che fare con un ruolo assai diverso dall’”imporre, informare, regolare e controllare” un organismo. Infatti, se i geni da soli determinassero la struttura e il comportamento di un organismo, allora le cellule con identica composizione genetica dovrebbero essere a tutti gli effetti identiche. Eppure non è così. Le cellule del fegato, le cellule del sangue e le cellule delle ossa presenti nel nostro corpo condividono tutte gli stessi

geni, ma possiedono diverse strutture e diverse funzioni. I nostri organi hanno tutti la stessa composizione genetica, ma sono molto differenti gli uni dagli altri. Come evidenzia Sheldrake, ritenere che «in presenza dei geni giusti, e quindi delle giuste proteine e dei sistemi adeguati per il controllo della sintesi proteica, l’organismo dovrebbe in qualche modo assemblarsi automaticamente» è «più o meno come trasportare i materiali edili giusti in un cantiere nei momenti giusti e pretendere che la casa cresca da sé» (1990 [1993, p. 105]). La teoria meccanicistica dei geni che costituisce il fondamento della biologia molecolare – e dell’ingegneria genetica in particolare – si basa in gran parte su ciò che spesso viene definito il “dogma centrale” della genetica, che fu proposto per la prima volta da Francis Crick (1916-2004), uno degli scienziati che scoprirono la struttura a doppia elica del DNA. Nella sua forma più elementare, il dogma afferma che un gene specifico (essenzialmente una porzione della molecola di DNA), tramite l’azione mediatrice di una molecola di RNA, codifica per una proteina specifica, che alla fine si manifesta nell’organismo come tratto. Per questa ragione dovrebbe esserci una corrispondenza uno a uno tra il numero dei geni che un organismo possiede e il numero delle sue proteine. Il percorso dai geni alle proteine è sempre lineare, e cioè il DNA determina la struttura della proteina in maniera unidirezionale. DNA>RNA>PROTEINA>TRATTO

Sebbene molti biologi molecolari concordino sul fatto che questa versione del dogma sia ormai considerata in certa misura semplicistica, l’idea di fondo che i geni – specifiche porzioni della molecola del DNA – determinino in ultima analisi i tratti in maniera lineare e diretta costituisce, di fatto, il fondamento della moderna “ingegneria genetica”, la quale prova ad aggiungere o a eliminare

specifici tratti di un organismo inserendo i geni attraverso la cosiddetta tecnologia del “DNA ricombinante”. Infatti, se da una parte il “dogma centrale” può risultare affascinante per la sua semplicità, dall’altra si tratta al più di un “caso particolare” che non può essere applicato universalmente. Basandosi sul numero di proteine presenti nel corpo umano, per esempio, secondo i genetisti nel genoma umano dovrebbero esserci all’incirca centomila geni che codificano per le proteine. In realtà, sembra che questi geni raggiungano il numero di venti-venticinquemila (grosso modo simile alla cifra dei diciannovemila geni trovati negli ascaridi). Ovviamente, quindi, non esiste un rapporto di uno a uno tra geni e proteine. Oggi è altresì chiaro che il modo in cui i geni codificano per le proteine è in genere molto, molto più complesso di quanto non si credesse in principio. Contribuisce a questa complessità il processo dello splicing (‘giunzione’) alternativo, che consente a un gene di codificare per molteplici proteine. Per esempio, un singolo gene che codifica per una proteina presente nell’orecchio interno dei polli può dare vita a cinquecentosettantasei proteine differenti, mentre un singolo gene presente nel moscerino della frutta può codificare per oltre trentottomila variazioni di molecole proteiche (Commoner, 2002). Come Barry Commoner spiega: Lo splicing alternativo ha un impatto devastante sulla teoria di Crick: rompe il presunto isolamento del sistema molecolare che trasferisce informazioni genetiche da un singolo gene a una singola proteina. Riorganizzando la sequenza nucleotide in una molteplicità di nuove sequenze di RNA messaggeri, ciascuno dei quali diversi dagli rna-unspliced originari, possiamo dire che lo splicing alternativo genera nuove informazioni genetiche. (2002)

Il processo dello splicing alternativo contraddice il dogma centrale anche in un altro modo, in quanto implica proteine “spliceosome” che influenzano il modo in cui l’informazione genetica viene trasmessa: «Questa conclusione si scontra con la seconda ipotesi di Crick,

secondo cui le proteine non possono trasmettere informazioni genetiche all’acido nucleico (in questo caso all’RNA messaggero), e frantuma l’elegante logica della doppia elica delle tesi genetiche di Crick» (Commoner, 2002), secondo cui i geni codificano per le proteine in una corrispondenza di uno a uno e l’informazione si muove sempre dal gene alla proteina in maniera unidirezionale. Secondo Commoner, lo stesso Crick ha affermato che abbiamo a che fare con «“la scoperta di un nuovo tipo di cellula” in cui le informazioni genetiche passano dalla proteina all’acido nucleico e dalla proteina alla proteina, “scoperta che sconvolgerà l’intero impianto concettuale della biologia molecolare”» (2002). Infatti i geni, da soli, non sono neanche responsabili della fedeltà della loro replicazione: proteine specializzate intervengono per evitare che si compiano molti errori. Così, se i geni giocano un ruolo chiave nel determinare la forma delle proteine, anche le proteine, da parte loro, svolgono un ruolo nel determinare il modo in cui l’informazione genetica viene replicata e trasmessa, suggerendo una sorta di causalità reciproca (e non lineare). Il successo della replicazione del DNA, infatti, dipende olisticamente dall’intero ambiente cellulare (o dal “sistema epigenetico”). La tesi che un gene specifico prelevato da un organismo funzionerà allo stesso modo in un altro organismo in molti casi è falsa. Per esempio, diversi geni associati al cancro nei topi non lo sono negli esseri umani (Capra, 2002 [2012]). Lo stesso gene può svolgere compiti completamente diversi in specie differenti. Il funzionamento dei geni sembra dipendere dal contesto genetico complessivo (e forse cellulare) in cui essi si trovano. Il ruolo di geni singoli in quanto unici trasmettitori dell’ereditarietà, dunque, è stato notevolmente esagerato. In effetti, si potrebbe arrivare a mettere in discussione l’intera nozione di “geni”. L’idea di una sezione specifica della molecola del DNA che codifica per una determinata proteina – e ancor di più, determina un tratto – semplicemente in molti casi non corrisponde al

vero. Non solo un gene può codificare per più di una proteina (contribuendo alla nascita di più tratti), ma a volte un singolo tratto sembra essere determinato da più geni, che si trovano talvolta in cromosomi completamente differenti (Capra, 2002 [2012]). Forse è priva di senso l’idea stessa di separare e di delimitare specifiche sezioni del DNA e chiamarle “geni”? Di certo il materiale genetico sembra funzionare in maniera molto più olistica di quanto non si fosse in un primo tempo ipotizzato. L’intera questione del cosiddetto DNA spazzatura – che in maniera più appropriata dovremmo chiamare “DNA misterioso” – dovrebbe essere considerata in questa luce. Nel caso degli esseri umani, all’incirca il 97 per cento del materiale genetico sembra non svolgere alcun ruolo nella codifica delle proteine. Qual è il ruolo di questo DNA? Alcuni biologi lo considerano un prodotto del materiale genetico non più in uso, ma allora perché lo conserviamo? E perché esistono tante sequenze genetiche ridondanti? È possibile che questo DNA possegga alcune funzioni che semplicemente non comprendiamo ancora? Sicuramente, dato che lo stesso gene può avere differenti ruoli in differenti organismi, non è irragionevole pensare che quest’ampio “contesto genetico” svolga delle funzioni nell’organismo. Ciò che appare chiaro è che il ruolo dei geni – o forse, detto più in generale, il ruolo del DNA – è molto più complesso di quanto all’inizio la biologia molecolare avesse supposto. L’idea di una corrispondenza uno a uno tra geni e proteine (molto meno tra geni e tratti) sembra se non altro semplicistica, un caso piuttosto particolare a partire dal quale non possiamo generalizzare. Adesso sembra, per fare un esempio, che solo il 2 per cento delle malattie umane siano associate a singoli geni. L’idea che possiamo estrarre un gene da una specie e inserirlo a caso in un’altra e che una volta lì esso funzioni normalmente – la premessa dell’ingegneria genetica basata sulla tecnologia di ricombinazione del DNA –, sembra nella gran parte dei casi fallace. Solo circa l’1 per cento, infatti, degli esperimenti genetici

di questo tipo ha successo (Capra, 2002 [2012]) e normalmente coinvolge tratti piuttosto semplici. Ma anche in questo caso, dato che il DNA dipende da processi cellulari complessi per garantire la sua fedele replica, non possiamo sostenere che un DNA estraneo continuerà a replicare fedelmente nelle generazioni future. Se, in effetti, i geni funzionano olisticamente all’interno del più ampio contesto del loro “DNA misterioso”, occorre allora sollevare la questione anche per quanto riguarda il modo in cui un DNA estraneo potrebbe impercettibilmente distorcere il genoma complessivo di un organismo, generando forse effetti non immediatamente apprezzabili. Se l’idea di geni che determinano proteine in maniera lineare e unidirezionale è problematica, l’idea di un “programma genetico” che determini i tratti, la forma e lo sviluppo di un organismo sembra ancora più difficile da accettare. Come abbiamo evidenziato, in un organismo le cellule condividono un genoma comune, eppure si sviluppano e funzionano in modi differenti. Anche i gemelli identici che condividono lo stesso genoma sono concordanti solo al 90 per cento, allorché si comparano le dieci principali caratteristiche fisiche (Hillman, 1996 [2013]). Per esempio Sydney Brenner, professore associato di biologia al Salk Institute, sottolinea che all’inizio si diceva che la risposta alla comprensione dello sviluppo stava per giungere dalla conoscenza dei meccanismi molecolari di controllo genetico. Dubito che si possa ancora credere a ciò. I meccanismi molecolari sembrano noiosamente semplici, e non ci dicono quello che vogliamo sapere. Dobbiamo cercare di scoprire i principi di organizzazione. (citato in Sheldrake, 1988)

Una spiegazione di questi principi di organizzazione può essere fornita, in realtà, attraverso i campi morfici. Il concetto di campo morfico ha origine dallo studio dello sviluppo dell’embrione – o morfogenesi –, in cui l’idea di campo “morfogenetico” fu proposta da scienziati come Hans Spemann (1869-1941), Alexander Gurwitsch (1874-1954) e Paul Weiss per spiegare in che modo le cellule con la

stessa eredità genetica si differenziano e si sviluppano in maniera diversa. Essi sostennero che il campo morfogenetico fosse il responsabile sia dell’organizzazione dello sviluppo dell’organismo che del processo di rigenerazione successivo a una lesione. Nella teoria dei campi morfici di Sheldrake i geni giocano un ruolo, ma quel ruolo è limitato alla codifica delle proteine e non attiene alla programmazione della forma e allo sviluppo dell’intero organismo (data la complessità del processo di codifica delle proteine e il rapporto di causalità reciproca implicato, infatti, i campi morfici potrebbero svolgere un ruolo nella formazione delle proteine). Questo ruolo nel caso dei geni – quantunque importante – è molto più modesto di quanto la maggior parte dei biologi molecolare pensi. Dalla prospettiva dei campi morfici sembra più facile comprendere come gli esseri umani possano condividere tra il 96 e il 99 per cento del loro genoma con gli scimpanzé. Una tale somiglianza non significa che la nostra forma è quasi identica (sebbene ovviamente vi sia una strettissima parentela), ma piuttosto che le nostre proteine (e cioè la nostra composizione chimica) sono quasi identiche. Il 29 per cento dei nostri geni, infatti, codifica per le stesse proteine, e persino le proteine che differiscono variano in genere solo leggermente dai loro omologhi negli scimpanzé. Un possibile ruolo aggiuntivo che i geni possono svolgere è rappresentato per Sheldrake dalla loro possibilità di “sintonizzarsi” con il campo morfico, come una radio o un televisore. Ciò potrebbe anche suggerire un possibile ruolo del DNA misterioso, che rappresenta una così ampia porzione del genoma degli organismi viventi. In ogni caso, dalla prospettiva della risonanza morfica, i soli geni non determinano la forma e lo sviluppo, ma interagiscono con l’olarchia nidificata dei campi morfici che contiene informazioni formative. Questo processo interattivo potrebbe tranquillamente coinvolgere fenomeni quantistici. Come suggerisce David Peat, per esempio:

La stessa molecola di DNA sarebbe costantemente informata su ciò che la circonda e, a sua volta, alcune delle sue “informazioni nascoste” potrebbero, per esempio, essere attivate. È anche possibile che l’intera cellula agisca in maniera intelligente, provocando modificazioni all’interno del proprio DNA. In altre parole, una mutazione dell’organismo sarebbe la risposta di tipo cooperativo a qualche cambiamento complessivo nel contesto globale in cui vive la cellula, piuttosto che un evento meramente casuale e privo di scopo. L’evoluzione diventerebbe un processo di cooperazione, il risultato di un costante dialogo tra altre forme di vita e il loro ambiente. (1991)

Nella prospettiva dei campi morfici, dunque, i geni conservano un ruolo, ma non sono più visti come agenti meccanicistici che contengono un programma per la formazione e lo sviluppo dell’organismo. Sheldrake ritiene infatti che i geni – proprio come il cervello – siano stati sopravvalutati. Sicuramente sia il cervello che i geni sono importanti, ma fungono da interfaccia tra l’organismo e i campi morfici. Primario è il fenomeno della risonanza morfica, evidente nelle dinamiche di autoorganizzazione e della memoria, e non gli agenti materialistici e meccanicistici come i geni e il cervello.

Dalle leggi eterne alle abitudini in evoluzione Come abbiamo visto nell’analisi della natura della mente e dei limiti del determinismo genetico, la risonanza morfica mette in discussione l’interpretazione meccanicistica della memoria, della mente, dell’ereditarietà e dello sviluppo biologico. Un’altra caratteristica fondamentale dei campi morfici, già vista in precedenza, è data dalla loro natura dinamica ed evolutiva. I campi morfici nel corso del tempo cambiano. Nuove informazioni vengono aggiunte, la memoria collettiva cresce ed emergono nuovi campi. In effetti, secondo la teoria della risonanza morfica, il cosmo ha una natura intrinsecamente evolutiva. Questa prospettiva confligge con la visione dualistica che abbiamo ereditato dal XIX secolo e che immagina la vita sulla Terra come un processo evolutivo, continuando però a concepire il resto dell’universo in quanto fondamentalmente statico e governato da leggi eterne. Da allora i fisici hanno

gradualmente compreso che la stessa struttura del cosmo è qualcosa che si evolve; eppure l’idea di leggi eterne e matematiche persiste, praticamente indiscussa. Ciononostante, la credenza nelle leggi eterne non è altro che questo, una credenza, qualcosa che non è mai stato oggetto di un serio esame. Dato che si tratta di un principio che ha avuto origine nella scienza della rivoluzione newtoniana, ci sono fondate ragioni per domandarsi se questa credenza corrisponda, di fatto, alla realtà. Per molti versi, essa sembra provenire da una concezione teologica che vede in Dio il “motore immobile” e l’eterno legislatore. Che cosa succederebbe se le leggi eterne in realtà non esistessero? Cosa succederebbe se fossero solamente delle proiezioni filosofiche imposte al mondo affinché abbia un senso e, magari, per controllarlo? Se accettiamo la teoria cosmologica moderna secondo cui l’universo è sorto da un improvviso dispiegarsi di spazio e tempo in quello che generalmente viene chiamato Big Bang, allora il vuoto che precedette la genesi del cosmo è privo di materia, energia, spazio e tempo. Forse la mente – nella forma che molti di noi concepiscono come Dio – esisteva in quel “vuoto gravido” (o ordine implicato) pieno di possibilità. Ma pensarla così significa voler credere che le leggi della fisica siano state fissate in anticipo, e che non cambieranno mai? Non sembra che tutto ciò sia in contrasto con quella natura evolutiva che pare intrecciata nella trama stessa del cosmo? Come afferma Sheldrake: Il presupposto di leggi della natura eterne è l’ultima grande eredità della vecchia cosmologia, di cui siamo raramente consapevoli. Ma, se consideriamo attentamente questo presupposto, vediamo che è solo una tra le tante possibilità. Forse le leggi della natura sono venute in essere nell’istante del Big Bang, oppure sono sorte per gradi, per poi rimanere invariate in seguito. Ad esempio, le leggi che governano la cristallizzazione dello zucchero possono essere venute in essere quando le molecole dello zucchero si sono cristallizzate da qualche parte dell’universo, e possono essere divenute invariabili e universali a partire da quel momento. Oppure, le leggi della natura si sono evolute assieme alla natura. Forse stanno ancora evolvendo. O forse non sono leggi, ma abitudini. Forse lo stesso concetto di “leggi” è impreciso.

(1988 [2011, pp. 26-27])

Se immaginiamo il cosmo come una specie di sistema vivente, come qualcosa che somiglia più a un organismo che a una macchina, allora l’idea di un cosmo dotato di memoria e di abitudini contenute in un campo morfico in evoluzione apparirebbe plausibile almeno quanto le leggi eterne e immodificabili. Sicuramente, tra le possibilità che Sheldrake delinea, l’idea di abitudini o leggi che evolvono sembrerebbe quella più coerente con una prospettiva evolutiva. In effetti, l’intero concetto di leggi fisiche – a un esame più attento – sembra sotto molti aspetti ben più misterioso di quello di campi morfici. Sappiamo che esistono campi di varie specie, e in una prospettiva quantistica, infatti, i campi sembrano essere addirittura più importanti della materia o dell’energia. Le leggi, d’altro canto, sono molto più ineffabili. Perché allora dovremmo credere che debbano esistere le leggi della fisica? Nel contesto del XVII secolo, naturalmente, la metafora della legge sembra abbastanza comprensibile. Se Dio è considerato il legislatore eterno e immutabile, allora delle leggi eterne devono governare il cosmo. Su un piano più ideologico, quello di leggi eterne e immutabili è un concetto utile anche ai potenti, a coloro che cercano conforto e sicurezza in un universo plasmato a immagine di un bel giardino inglese. Nell’ottica del XX secolo e della fisica moderna, invece, tale visione è molto meno “naturale” di quanto si potrebbe supporre. Perfino nel campo della teologia, l’idea di un Dio legislatore eterno e immutabile appartiene agli elementi più conservatori delle diverse tradizioni religiose. Il Dio dei mistici, il Dio che continuamente crea e rinnova, il Dio che è compassione, il Dio che ascolta le invocazioni dei poveri e che risponde, il Dio liberatore è in contrasto con il Dio che impone rigide leggi eterne. Tornando al campo della fisica, sicuramente possiamo dire che nella natura sembrano esserci delle regolarità. Il cosmo possiede una

forma e un ordine riconoscibili di cui la mente può dare una spiegazione, almeno in una certa misura. Ma, come osserva Sheldrake: «Non c’è nessuna base per supporre che queste regolarità siano eterne. Le regolarità all’interno dell’universo in evoluzione evolvono: questo è il significato dell’evoluzione» (1988 [2011, p. 28]). Invece di leggi, il cosmo può tranquillamente avere abitudini, alcune delle quali profondamente radicate, ma tutte aperte alla possibilità di evolversi nel tempo. L’idea di abitudini che evolvono, più che di leggi eterne, non è del tutto nuova. Si deve pensare che per popoli tradizionali che vedono il cosmo come un organismo vivente una simile idea è naturale, anche se non esplicitata. All’inizio del XX secolo, alcuni filosofi come Charles Peirce (1839-1914) e Friedrich Nietzsche (1844-1900) cominciarono ad avanzare l’ipotesi che l’evoluzione delle abitudini fosse un’estensione naturale della teoria evoluzionistica. Per Peirce il cosmo intero doveva essere considerato un’entità vivente con una mente e, come ha detto egli stesso, «la legge dell’abitudine è la legge della mente». Anche la materia è pervasa dalla mente, sebbene nella materia la mente sia stata «indebolita dallo svilupparsi di abitudini sino al punto in cui infrangere queste abitudini diventa molto difficile» (citato in Sheldrake, 1988 [2011, p. 29]). Nietzsche credeva che le “leggi” della natura si fossero evolute e fossero state sottoposte a una qualche forma di selezione naturale. In realtà, furono molti i filosofi che tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX ragionarono sull’evoluzione delle abitudini del cosmo o delle leggi. Secondo Sheldrake (1988 [2011]), queste idee persero gradualmente d’interesse, in quanto i fisici, tra cui anche Einstein49, insistevano sul fatto che la natura dell’universo fosse eterna e le sue leggi immutabili. Eppure, da quel momento i fisici stessi modificarono le loro concezioni, se non altro in termini di evoluzione e di sviluppo della struttura del cosmo su larga scala. Ormai non si ritiene più che la

vita sulla Terra sia un’eccezione in un universo statico. Sono le leggi eterne, invece, a essere un’eccezione. Eppure, se il carattere di fondo del processo cosmico sembra essere evoluzionistico, l’idea di una natura che ha abitudini che mutano nel tempo (anche se preferiamo chiamarle “leggi dell’evoluzione” per rendere il termine più appetibile alla nostra mentalità consolidata) sembra più logica e coerente nell’ambito della visione del cosmo emersa negli ultimi decenni. È interessante notare che un mondo governato a un livello profondo da leggi eterne è un mondo che ha una natura essenzialmente conservatrice e statica. Una cosmologia basata su leggi eterne – a un livello profondo e, forse, inconscio – non fa che perpetuare le solite tesi sui limiti di un’autentica trasformazione. Siamo arrivati a credere che quello che sarà sarà sempre, nel migliore dei casi, una riorganizzazione di ciò che c’è stato prima. Un’autentica novità sembra impossibile: cambiamenti radicali nell’ordine del mondo semplicemente non possono avvenire. Ovviamente, una visione del mondo evoluzionistica mette in crisi alcune di queste tesi conservatrici – ma non completamente, almeno non fino a quando le leggi eterne resteranno alla base di tutto. Di contro, il concetto di abitudine è molto più promettente. È vero che le abitudini possono essere difficili da cambiare, specialmente se sono radicate, tuttavia la possibilità di cambiamento esiste sempre. Inoltre, un gruppo di persone che lavorano insieme possono sempre plasmare comportamenti diversi e dar vita a nuove abitudini. L’autentica novità è sempre una possibilità, ciò che sarà non è prestabilito da ciò che è stato. Nel caso dei fenomeni generalmente associati alla fisica, è difficile provare effettivamente che siano all’opera abitudini consolidate piuttosto che leggi eterne, poiché le abitudini consolidate, per loro stessa natura, appaiono immutabili, in particolare per quanto riguarda

quel piccolo frammento di tempo che è stato lo sviluppo della scienza moderna. Ciononostante, ci sono alcuni interessanti esempi che corroborano l’idea di un cosmo ordinato attraverso campi morfici che contengono abitudini anziché leggi eterne. Esistono prove, per esempio, del fatto che molte costanti fondamentali della fisica variano nel tempo, anche se di poco. Per esempio la costante gravitazionale (in genere designata dalla lettera G) normalmente corrisponde a (6.674±0,003) x 10-11 m3 kg-1 s2. Eppure, nel 1986, dei ricercatori in Australia hanno determinato che G fosse 6.674±0,002, e altre misurazioni negli Stati Uniti, in Germania, in Nuova Zelanda e in Russia hanno mostrato variazioni anche più significative. Esiste, naturalmente, la possibilità che questi dati siano ricondotti a qualche difetto negli apparecchi usati per l’esperimento, eppure nelle molte misurazioni della costante G si è fatto uso sempre dello stesso tipo di apparecchio (Sheldrake, 1995). Parimenti, in base ad alcune indicazioni la stessa velocità della luce (c) può variare nel tempo. In particolare, risulta che la velocità della luce possa essere calata di 20km/s durante il periodo che va dal 1928 al 1945, prima di ritornare al suo valore consueto (Sheldrake, 1995). Questo dato è particolarmente interessante perché diversi scienziati, in quello stesso arco di tempo, utilizzando metodi differenti ottennero gli stessi risultati. Una volta ancora, non si possono prendere tali dati come prove del fatto che le costanti, di fatto, cambino, ma sicuramente questo tipo di piccole variazioni sono più coerenti con l’idea dell’esistenza di abitudini che si sono consolidate che con quella della presenza di leggi eterne. Nel campo della chimica, la prova della natura evolutiva delle abitudini si mostra in maniera più netta, forse in parte perché continuano a essere sviluppate nuove strutture e sostanze chimiche, il che forse fa sì che le abitudini relative non abbiano il tempo necessario per radicarsi. Sheldrake (1988 [2011]) osserva che i nuovi composti chimici sintetizzati sono spesso estremamente difficili da cristallizzare,

impiegando molte settimane per formare una soluzione supersatura. Col passare del tempo, però, diventa sempre più facile cristallizzare il composto in qualunque parte del mondo. Sembrerebbe che, una volta che l’abitudine della cristallizzazione si sia stabilita, il cristallo in questione diventi più facile da sintetizzare. Avvicinandosi al campo della biologia, il fenomeno del ripiegamento proteico sembra essere altresì coerente con i campi morfici e l’idea di un’attività abituale. Una volta che una proteina è denaturata (cioè sciolta in una catena flessibile di polipeptidi, perdendo la sua forma originaria), essa si riavvolge rapidamente nella sua precedente configurazione. Eppure il modo in cui le catene polipeptidiche possono distendersi è praticamente illimitato. Per esempio, una proteina formata da circa un centinaio di aminoacidi ha pressappoco 10100 (uno seguito da cento zeri, o “googol”) di possibili configurazioni. Se per una proteina fosse necessario tentare a caso ciascuna di queste combinazioni, per trovare la sua forma impiegherebbe un intervallo di tempo di molto superiore all’intera storia del cosmo. Eppure, in realtà, il processo richiede solo una manciata di secondi. Sembra che la proteina in qualche modo abbia “memoria” della corretta configurazione, pur tra le innumerevoli possibili. Come ciò possa avvenire non è del tutto chiaro. Nessuno ha ancora trovato l’informazione necessaria codificata nella proteina. La teoria della risonanza morfica è in grado di offrire una possibile spiegazione per la conservazione di una memoria collettiva delle proteine: si tratta in sostanza di un’abitudine formatasi nel tempo. Come osserva Sheldrake: I campi [...] incanalano il processo di ripiegamento verso un punto finale caratteristico [...] Tra i molti, possibili modi di ripiegamento e le molte, possibili forme finali. [...] I campi morfici sono a loro volta stabilizzati dalla risonanza morfica con innumerevoli strutture precedenti dello stesso tipo. Un lungo processo evolutivo ha stabilizzato le strutture che si sono rivelate adatte e sono state quindi favorite dalla selezione naturale; e il grande numero di queste molecole precedenti esercita un forte effetto stabilizzante sui campi per risonanza morfica. (1988 [2011, p. 145])

A ulteriore sostegno dell’ipotesi della risonanza morfica, Sheldrake osserva che molte proteine hanno strutture simili anche se i loro componenti aminoacidi variano parecchio, il che farebbe pensare che l’informazione per il distendersi della proteina sia contenuta in un campo morfico piuttosto che negli aminoacidi stessi. Per esempio, le molecole di emoglobina trovate in molti animali e in alcune piante condividono una struttura comune, ma solo tre su centoquarantacentocinquanta aminoacidi sono stati riscontrati costantemente nelle molecole di emoglobina di specie differenti. La risonanza morfica può anche spiegare le similarità riscontrate negli ecosistemi composti da specie molto differenti tra loro. Per esempio, Tim Flannery osserva che quindici milioni di anni fa la fauna della savana nordafricana aveva una sorprendente somiglianza con quella presente nell’Africa odierna: Alcuni ricercatori hanno cercato spiegazioni nell’idea della coevoluzione. Costoro sostengono che ogni specie sulla Terra è stata formata dalle interazioni con le altre specie nel suo ambiente e che nella savana le scelte possibili per le varie specie in competizione sono limitate. I grandi erbivori che si cibano di foglie, dicono questi ricercatori, dovevano avere le fattezze delle giraffe per raggiungere il cibo in cima agli alberi, mentre sarebbe stato meglio che gli erbivori che si cibano di erbe fossero stati veloci e migratori come i cavalli, semiacquatici come gli ippopotami o enormi e ben corazzati come i rinoceronti bianchi. Altri ricercatori contestano questa tesi, spiegando che eventuali somiglianze possono essere dovute a una coincidenza. (2001)

Un esempio ancora più sorprendente si trova nella storia evolutiva dell’Australia, dove i marsupiali hanno assunto una grande varietà di forme incredibilmente simili a quelle assunte altrove dai mammiferi placentati. Per esempio, il petauro marsupiale è molto simile allo scoiattolo volante, il lupo della Tasmania è molto simile a un lupo placentare. In un’ottica leggermente diversa, possiamo dire che l’occhio del polpo è strutturalmente molto simile all’occhio umano, sebbene si sia evoluto separatamente. Questo tipo di “evoluzione convergente” è facile da spiegare se si considera la memoria come qualcosa che è contenuto nei campi

morfici, i quali portano a forme che, una volta affermatesi, tendono a ripetersi. Ciò spiega anche perché l’evoluzione possa avvenire attraverso “salti” (una rapida esplosione di nuove specie seguita da lunghi periodi di relativa stabilità). Una volta che nuove abitudini, forme e tratti si sono affermati, essi cominciano rapidamente a diffondersi, ma il primo emergere di un nuovo tratto richiede molto, molto più tempo, poiché il suo campo morfico non è ancora emerso.

Creatività e cambiamento Se da un lato nella natura il concetto di abitudine è più dinamico ed evolutivo rispetto alle leggi eterne, dall’altro implica ancora un elemento conservatore che sembra condizionare la prassi trasformativa. I fenomeni fisici devono seguire modelli riconoscibili, e gli organismi devono comportarsi e svilupparsi lungo linee prestabilite. Ciò non vuol dire che, tuttavia, la novità non emerga di tanto in tanto. L’intera natura evolutiva della vita sulla Terra – nonché l’intero dramma dell’evoluzione cosmica – indica che è all’opera un’innata creatività. Dalla prospettiva della risonanza morfica emergono due ordini di creatività. Il primo – e il più debole dei due – agisce nell’ambito dei campi morfici esistenti. In questo caso c’è un livello di adattabilità, di flessibilità e anche d’intraprendenza che contribuisce all’evoluzione del campo morfico, ma gli attrattori (o modelli di comportamento) caratteristici del campo restano essenzialmente gli stessi. Questo fenomeno è evidente nell’esempio della cinciarella che contrae una nuova abitudine (aprire le bottiglie di latte) che le consente di adattarsi meglio al proprio ambiente. Allo stesso tempo, esiste anche un ordine più alto di creatività, evidenziato dall’emergere di campi completamente nuovi e con tutta una nuova serie di attrattori. La sintesi di un composto chimico del tutto nuovo è un esempio di questo fenomeno. Anche un “salto” nel processo evolutivo, o l’emergere di un nuovo tipo di organizzazione sociale nella società umana, è prova di quest’ordine di creatività più

elevato. Ciò che appare evidente dal punto di vista della risonanza morfica è che i cambiamenti di forma influenzano il campo morfico e il cambiamento del campo morfico a sua volta influenza la forma. Entrambi coevolvono nel tempo in maniera reciproca. Sheldrake (1988 [2011]) sintetizza così le caratteristiche di questo processo da una prospettiva morfica: 1. L’apparire di nuove forme – o di nuovi modelli di organizzazione (o anche di nuovi paradigmi) – è sempre associato all’emergere di un nuovo campo morfico. 2. Non tutti i campi morfici che emergono continueranno a esistere nel futuro: i campi morfici sono soggetti a processi di selezione naturale. Quelli che non sono realizzabili scompaiono, mentre quelli che hanno successo si stabilizzano nel corso del tempo. 3. L’ereditarietà negli organismi viventi si ha in primo luogo attraverso l’ereditarietà dei campi morfici, mediante la risonanza morfica, e non tramite modificazioni selettive dei geni. 4. I campi morfici si differenziano e si specializzano nel tempo, alcuni diventano più probabili e stabili degli altri. Per fornire un esempio tangibile di questo processo evolutivo Sheldrake cita il fenomeno dell’evoluzione punteggiata, in cui sembra che l’evoluzione subisca improvvisi salti per poi stabilizzarsi: Molti paleontologi hanno dedotto dagli studi sui fossili che, quando inizia una nuova linea evolutiva (quando appaiono nuove strutture fisiche), avviene spesso una «forte irradiazione di tipi, una “fase esplosiva”, nella prima parte della loro filogenesi; ma poi solo un numero limitato di rami continua a svilupparsi, e a velocità sempre minore» (Rensch 1959). Un esempio è l’esplosione adattiva dei mammiferi dopo l’improvvisa estinzione dei dinosauri 60 milioni di anni fa. La maggior parte dei mammiferi comparve entro circa 12 milioni di anni: carnivori, balene, delfini, roditori, marsupiali, formichieri, cavalli, cammelli, elefanti, pipistrelli e molti altri. E la maggior parte di questi mammiferi esiste ancora oggi. (1988 [2011, p. 345])

Dal punto di vista dei campi morfici, il fenomeno dell’evoluzione punteggiata è facilmente comprensibile. I campi morfici sono

normalmente abbastanza stabili, ma quando si ha un avanzamento verso una forma completamente nuova (per esempio quando si raggiunge un punto di biforcazione), il nuovo campo morfico che lo accompagna inaugura tutta una nuova serie di modelli o di “variazioni sul tema” che si verificano attraverso il fenomeno della risonanza morfica. Nel corso del tempo, grazie al processo della selezione naturale, alcuni nuovi campi morfici vengono eliminati, mentre altri si stabilizzano, diventando via via sempre più abituali. Ciò non significa, naturalmente, negare che si verifichi anche un processo di selezione naturale a livello genetico. Quegli organismi le cui forme si sono meglio adattate al proprio habitat avranno maggiore successo, e i loro geni, ovviamente, si diffonderanno più rapidamente e col tempo diventeranno più comuni, mentre i geni di quelli che hanno avuto meno successo diminuiranno di conseguenza. La selezione genetica, insomma, avviene; ma dalla prospettiva della risonanza morfica il processo fondamentale in atto a livello evolutivo è la selezione naturale e la stabilizzazione dei campi morfici e delle loro forme o modelli di organizzazione corrispondenti. Sheldrake osserva che, sebbene questo modo di concepire l’evoluzione si accordi con la teoria di Darwin, nel senso che riconosce il potere dell’abitudine, se ne distingue nella misura in cui consente che avvengano cambiamenti sia repentini che graduali nel corso del tempo. Di contro, la teoria di Darwin spiega i cambiamenti graduali abbastanza bene, ma non può spiegare i “salti” improvvisi che caratterizzano la “fase esplosiva” dell’evoluzione. La prospettiva morfica sembra guadagnare ulteriore credito se consideriamo il fatto che l’”evoluzione punteggiata” si verifica non solo negli organismi ma anche in altri fenomeni. Come osserva Sheldrake: «Fasi esplosive simili potrebbero essere avvenute nell’evoluzione dei modelli di comportamento istintivo, nell’evoluzione dei linguaggi umani, e delle forme sociali, politiche e culturali» (1988 [2011, p. 383]).

Perché avviene ciò? Innanzitutto, quando siamo in presenza di un nuovo tema o di una nuova forma, vi è un’ampia sperimentazione con variazioni – ma c’è anche un numero limitato di varianti veramente nuove che possono essere sperimentate. Col tempo, alcune di queste variazioni danno prova di essere migliori di altre. Parecchie vengono scartate o si estinguono, mentre le poche che hanno successo prendono il sopravvento. Queste versioni diventano poi via via sempre più abituali. Inoltre, i campi morfici sembrano avere una sorta di tensione yin e yang tra abitudine e creatività. Da un lato, i modelli o gli attrattori del campo hanno una natura conservatrice. Dall’altro, anche all’interno dei comportamenti abituali, come abbiamo avuto modo di vedere nell’analisi sulla teoria dei sistemi, una certa misura di adattabilità e di flessibilità è essenziale. Ciò corrisponde al comportamento di un sistema intorno a un attrattore. Non è mai prevedibile, ma viene costretto in determinati limiti creati dall’attrattore stesso. Eppure, sporadicamente, avviene un “salto”, e sorge un attrattore completamente nuovo, così come un campo del tutto nuovo. Che cos’è che genera questo evento? Ancora una volta, rifacendoci alla nostra analisi della teoria dei sistemi, possiamo vedere che un forte stress può spingere un sistema oltre i limiti del suo vecchio attrattore, campo o paradigma. In alcuni casi questo stress può causare l’eliminazione a titolo definitivo del vecchio campo morfico e delle forme che vi si accompagnano, ma in altri può sorgere un campo totalmente nuovo, organizzato intorno a un attrattore o a un modello nuovi. Dal punto di vista della teoria della risonanza morfica, la creatività incarnata da questo tipo di salti viene vista come una proprietà intrinseca ai campi morfici. Non bisogna credere, tuttavia, che i nuovi campi siano in qualche modo presenti dall’eternità, come le forme platoniche, in attesa che una forma le incarni. Piuttosto, i campi evolvono e sono essi stessi dinamici. In quest’ottica, dunque, nulla è predeterminato; l’autentica creatività appartiene alla natura stessa del

cosmo. Questo non significa che non possa esserci una meta ultima o un fine nella storia del cosmo, ma il percorso verso una simile meta non è certo predeterminato. È possibile, inoltre, che le stesse mete possano col tempo mutare.

Risonanza morfica e prassi trasformativa Il punto di vista morfico ha importanti implicazioni per la prassi trasformativa. Da un lato, la natura conservatrice dei campi morfici mostra le difficoltà di superamento di abitudini ben radicate. Eppure, l’autentica creatività e i “salti” qualitativi verso nuove forme, paradigmi e pratiche rappresentano spesso anche una possibilità, in particolare nei momenti in cui le vecchie forme sono sottoposte a forti sollecitazioni e non sono più capaci di far fronte alla realtà in tempo di crisi. Un cosmo in cui sono in gioco campi morfici – come il cosmo della teoria dei sistemi – è un cosmo in cui non regnano né il rigido determinismo della causalità lineare né il cieco caso, ma un cosmo in cui l’emergere della creatività è sempre possibile. La forma influenza il campo, e il campo influenza la forma a sua volta. La causalità, quindi, diventa qualcosa di complesso e creativo. Nemmeno le leggi della fisica sono davvero statiche e immodificabili, tutte le abitudini sono aperte al cambiamento. L’autentica trasformazione è sempre possibile; un cambiamento veramente liberatorio può sempre accadere. Come abbiamo visto, i campi morfici ci consentono di comprendere il fenomeno dell’evoluzione punteggiata in maniera nuova. Se questo fenomeno è governato dalla nascita di nuovi campi morfici, lo stesso tipo di “salto creativo” può verificarsi (e si verifica) in ambiti nuovi. Sheldrake stesso ha osservato che la natura conservatrice dei paradigmi rappresenta un ottimo esempio del carattere abitudinario dei campi morfici, ma che la natura creativa ed evolutiva dei campi morfici dimostra anche che un salto verso nuovi paradigmi è sempre possibile. Un simile salto, infatti, può avere una

natura sia improvvisa quanto profondamente creativa. Riferendosi al paradigma scientifico, Sheldrake osserva: La comparsa di nuovi campi morfici e di nuovi paradigmi non può essere completamente spiegata con quello che c’era prima. I nuovi campi cominciano come idee, salti intuitivi, ipotesi o congetture. Somigliano ai cambiamenti mentali. Nuove associazioni o modelli di connessione vengono in essere improvvisamente attraverso una specie di “cambiamento gestaltico”. Gli scienziati spesso usano l’espressione “far cadere le bende dagli occhi” o parlano di “lampo” che “illumina” un problema che era precedentemente impenetrabile, di modo che venga visto per la prima volta in un modo nuovo e dunque risolto. (1988)

Su un piano più spirituale, ciò che il buddhismo zen definice satori (‘illuminazione’) sembra corrispondere a questo stesso tipo di salto creativo. Dopo anni di meditazione e d’intensa pratica spirituale, una persona può improvvisamente avanzare verso un modo totalmente nuovo di percepire la realtà e di vivere nel mondo. L’aspetto interessante di questo esempio è che le pratiche zen in realtà sono pensate per incubare una sorta di crisi interiore – facendo perlopiù ricorso a paradossi chiamati koan –, che fondamentalmente costringe a spingersi oltre il modo abituale di percepire il mondo. Dalla prospettiva morfica è come se il proprio personale campo morfico improvvisamente saltasse in un nuovo stato. È possibile che avvenga un salto così creativo al livello sociale? Può l’essere umano – con sorprendente rapidità e radicalità – passare a nuove abitudini, magari anche a livello planetario? Cosa occorre per provocare un simile cambiamento? Non esistono risposte semplici a questi interrogativi, ma di certo la prospettiva morfica implica la possibilità che avvenga davvero un cambiamento radicale in maniera più rapida di quanto sulle prime ci si possa attendere. In quest’ottica, il fenomeno della risonanza morfica sembra particolarmente incoraggiante. Come abbiamo visto, la risonanza morfica implica che nuovi saperi e nuove abitudini si diffondano nella comunità molto più velocemente – e forse misteriosamente – di quanto si sia mai immaginato. Esistono modi per amplificare questo

fenomeno? Come possono coloro che si battono per un mondo più giusto e sostenibile usare la risonanza morfica per realizzare il cambiamento? Ancora una volta, non ci sono risposte semplici, ma l’idea di creare delle “comunità della visione” può essere un modo per farlo. È solo nella misura in cui cerchiamo di vivere in modi nuovi quel modello di futuro che desideriamo creare che possiamo dare vita a nuove abitudini e a nuovi modi di essere che – attraverso la risonanza morfica – renderanno progressivamente più facile per gli altri fare altrettanto. È come se più le persone mettono in pratica nuove abitudini o nuovi modi di vivere, più il campo morfico in virtù di tali comportamenti si rafforza. Il fenomeno della risonanza morfica, quindi, evidenzia l’importanza di ciò che viene definito “fiducia preventiva”, e cioè essere fedeli a ciò che desideriamo avvenga. Una parte fondamentale di questo processo potrebbe benissimo essere rappresentata dalla stessa capacità di concepire e di immaginare un modo differente di vivere; ma la prospettiva dei campi morfici ci porterebbe a ipotizzare che questa visione di una nuova vita debba in ultima analisi cominciare a cambiare il nostro abituale modo di essere – il quale deve innanzitutto essere messo in pratica – al fine di influenzare veramente, e in maniera più decisiva, gli altri. La teoria della risonanza morfica può anche aiutarci ad approfondire la nostra riflessione sulla natura del potere relazionale. Il potere-con è rafforzato non solo dalla nostra relazione con gli altri, ma anche dalla nostra interazione con un campo morfico collettivo? Le nostre relazioni, dal momento in cui creano una specie di comunità, sviluppano un campo morfico che, attraverso la risonanza, aumenta la loro forza? Se è così, la forza di tale potere relazionale potrebbe dipendere non solo dalla quantità di relazioni coinvolte ma, cosa più importante, anche dalla qualità delle relazioni che tengono insieme la comunità.

Un’ultima serie di domande che meritano un’ulteriore riflessione riguarda il Tao stesso. Quale relazione vi è tra “la Via” – il Dharma, il Malkuta – e la risonanza morfica? Se i campi morfici sono pensati come un’olarchia di campi nidificati, che relazione esiste tra il Tao e questa olarchia, qual è il ruolo che gioca nel formare tali campi? Forse possiamo immaginare il Tao come una sorta di attrattore universale (o forse come un campo morfico generale che attrae) che orienta l’evoluzione cosmica in una direzione generale, senza predeterminare i particolari percorsi evolutivi intrapresi – la «forma senza forma, che include tutte le forme» (Tao Te Ching §14). Se è così, il Tao potrebbe essere considerato l’incarnazione del principio creativo che opera – o meglio ancora, che è in gioco – nel cosmo. 44 Come detto in precedenza (si veda p. 343), l’organicismo sostiene che i processi fisici e chimici, insieme all’”organizzazione delle relazioni”, siano sufficienti per comprendere le dinamiche della vita e, in contrasto con il vitalismo, non postulino l’operato di alcun tipo di forza o di entità. L’idea di organizzazione delle relazioni comincia ormai a essere perlopiù interpretata in termini di dinamiche di autoorganizzazione. 45 D’ora in avanti utilizzeremo prevalentemente l’espressione “teoria della risonanza morfica” al posto di “causalità formativa”, perché quest’ultima sembra evocare l’immagine di campi che “inducono” una forma a nascere in un modo lineare e unidirezionale. Di contro, il termine “risonanza” è fortemente connotato nel senso della reciprocità, e quindi più coerente con un’interpretazione complessa della causalità. 46 In base alla nostra esperienza con la teoria dei sistemi, possiamo tranquillamente affermare che più il sistema è complesso più il suo campo morfico è suscettibile di cambiamento. 47 Parimenti, i campi morfici sono collegati all’idea di “inconscio ecologico” – che Roszak (1992) chiama la «piccola intelligenza ecologica consolidata della nostra specie» – di cui abbiamo parlato sopra, p. 206. 48 Si veda, per esempio, Richard Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, trad. di G. Corte e A. Serra, Milano, Mondadori, 2009. 49 Come abbiamo visto in precedenza (cfr. p. 275), Einstein in realtà “trucca” le sue equazioni di campo, inserendo una “costante cosmologica” per ottenere una soluzione statica – cosa che in seguito riconoscerà come uno dei suoi errori più grossolani. Più di recente, la costante cosmologica è stata ripresa, ma con l’aggiunta di un piccolo valore positivo, non per fornire una soluzione statica ma per dare una soluzione che corrisponda a un’espansione che in realtà sta accelerando la sua corsa a causa della presenza di “energia oscura”.

10. Il cosmo come rivelazione All’inizio era la Madre del cosmo. Se conosci la Madre, conosci anche le sue creature. Se conosci le sue creature, ritorni alla Madre, e ti liberi dalla paura e dalla pena. TAO TE CHING §52 Il grande Tao scorre ovunque, raggiunge ogni direzione, pervade ogni cosa. Tutti gli esseri da esso dipendono ed esso non ne respinge alcuno. Realizza il suo fine, eppure non chiede riconoscimento. Nutre ogni essere nel cosmo, eppure non cerca di determinarne il corso. È privo di desiderio e sembra piccola cosa, eppure è la dimora a cui tutti gli esseri ritornano. Anche così, non rivendica alcuna signoria [per se stesso, non persegue la grandezza, eppure compie grandi cose. TAO TE CHING §34 Quando riveriamo la Terra per ciò che è, creiamo la possibilità di un’azione culturale profetica. Abbiamo sperimentato che cosa è successo quando la cultura non riesce a capire la realtà della storia della Terra: essa viene separata dai popoli e dal pianeta. È a questa morte culturale che siamo ora: siamo di fronte alla rovina e alla devastazione del pianeta. Questo momento di svolta del collasso culturale risveglia in noi l’opportunità di una

nuova comprensione e di nuova salute. C’è una nuova storia da raccontare. Questa storia parla dell’universo. Non abbiamo saputo comprendere che l’universo è vivo. Il modo migliore per entrare in contatto con l’immenso concetto di universo vivente è la storia. In questo modo possiamo arrivare a comprendere che la storia dell’universo è, in realtà, la nostra stessa storia. (Conlon, 1994) Questa storia, come racconta la sua espansione galattica, la sua formazione della Terra, la sua nascita della vita e la sua stessa coscienza autoriflessiva, adempie nella nostra epoca al ruolo che avevano i racconti mitologici di un universo che esisteva fin dall’inizio dei tempi, quando la conoscenza umana era dominata da una forma di consapevolezza spaziale. Siamo passati dal cosmo alla cosmogenesi, dal viaggio mandala verso il centro di un mondo duraturo a un viaggio irreversibile dello stesso universo, simile al sacro viaggio primordiale. Questo viaggio dell’universo è il viaggio di ogni singolo essere nell’universo. (T. Berry, 1999) L’intera natura dell’universo si rivela nelle sue azioni. (T. Berry-Swimme, 1992) Una delle più importanti rivoluzioni nella conoscenza scientifica degli ultimi cinquant’anni è stata il passaggio da una visione statica ed eterna del cosmo a una dinamica ed evolutiva. La maggior parte degli scienziati concorda ormai sul fatto che l’universo ebbe inizio circa quattordici miliardi di anni fa e che da quel momento non ha mai cessato di espandersi e di trasformarsi. Possiamo pensare il cosmo non tanto come una cosa, quanto piuttosto come un’entità vivente in divenire o in continua evoluzione. In effetti, la stessa idea di spazio-tempo in quanto realtà singola sembra confortare questa visione. Il cosmo che ha un inizio, un cosmo che cambia nel tempo, è un cosmo che ha anche una storia. E la storia

dell’universo che ci viene rivelata dalla scienza è, forse, il più maestoso, grandioso e misterioso mito cosmologico di tutti i tempi; ed è un mito non perché sia in qualche modo falso, ma perché è una storia che ci consente di comprendere il posto che occupiamo nell’universo. In questo senso, il cosmo non è solo la nostra dimora, non è solo la nostra storia, ma anche un processo continuo di rivelazione che può guidare e orientare le nostre vite. Il cosmo è il nostro maestro. Come sottoliena David Peat (si veda p. 338), gli esseri umani sono partecipanti attivi in questa storia: partecipiamo attivamente a questo processo di evoluzione e di rivelazione. In quanto soggetti che partecipano attivamente in un cosmo vivente, non possiamo considerarci semplici spettatori, e nemmeno possiamo accontentarci di usufruire dei frutti della natura, come se fossimo in un certo senso dei parassiti o, peggio ancora, un cancro. No, noi siamo chiamati a essere molto più di questo. Come partecipanti a pieno titolo al cosmo, anche la nostra consapevolezza, la nostra creatività e le nostre idee fanno parte di un più grande processo cosmico di autoriflessione e di scoperta. Siamo chiamati, dunque, a cercare di capire il cosmo, a cercare di trovare il nostro posto in esso e a partecipare al suo processo creativo. Impegnandoci in quest’impresa di proporzioni mitiche, in realtà non facciamo che ritornare all’antico sforzo cosmologico che è stato parte dell’intera storia dell’umanità – salvo, forse, per l’anomala cultura scientifica occidentale degli ultimi cinquecento anni circa. Così facendo, forse riusciremo a sanare la frattura tra noi e il resto della comunità cosmica: l’autismo culturale che ci ha imprigionati in un mondo da noi stessi creato e che ci ha reso ciechi alla realtà del nostro attuale rovinoso cammino. Possiamo cominciare a prestare ascolto, ancora una volta, alle voci della natura, presenti tanto nella sfolgorante furia di una supernova quanto nel tocco carezzevole di una brezza primaverile.

Per aprirci veramente a queste voci, abbiamo bisogno di una cosmologia viva; abbiamo bisogno di vivere la storia nei nostri cuori, nel nostro sangue, nelle nostre stesse ossa. Non basta riflettere sulla storia, abbiamo bisogno di viverla per comprendere davvero che fa parte di noi e che noi siamo parte di essa. E, in realtà, al di fuori della storia cosmica noi non abbiamo un vero e proprio significato. Come osserva Jim Conlon: «Noi esseri umani siamo quella dimensione di questa storia attraverso cui l’universo emerge come coscienza di sé. [...] Io non posso sapere nulla della mia cultura al di fuori del dispiegarsi dell’universo. Attraverso il racconto della storia della Terra sono arrivato a comprendere di essere profondamente connesso a una comune avventura evolutiva» (1994). Siamo fortunati a vivere proprio nell’epoca in cui abbiamo sviluppato, come osserva Brian Swimme, la capacità di percepire, per la prima volta, l’eco stessa della nascita del cosmo. Forse non si tratta di una pura coincidenza, quanto piuttosto di una felice sincronicità; forse abbiamo bisogno di questa rivelazione a questo punto della storia umana per aiutarci a intraprendere un nuovo cammino verso la salute e l’integrità, un cammino che ci permetta di operare in armonia con il Tao mentre ci conduce verso il dispiegarsi del suo fine ultimo. Non solo ora siamo in grado di percepire i riverberi della deflagrazione primordiale, ma siamo anche arrivati a comprendere con maggiore chiarezza la serie di passaggi irripetibili che delineano il profilo della storia cosmica. Questa storia ha un cominciamento preciso e può anche avere una determinata fine, sebbene ciò non sia ancora chiaro. Nelle sue varie fasi, possiamo anche cogliere una sorta di trama, un modello, un attrattore o una forza attrattiva che dà forma al cosmo nel suo avanzare verso il futuro. Nel suo dispiegarsi, il cosmo sembra muoversi verso una maggiore complessità, varietà e relazionalità. Alcuni, infatti, vedono all’opera una sorta di finalità, una “Via” che sembra orientare la storia cosmica. Come osserva Theodore Roszak:

Mentre la natura che ci circonda si sviluppa rivelando sempre maggiori livelli di complessità strutturata, cominciamo ad accorgerci che abitiamo un universo ecologico estremamente ramificato in cui nulla è “solo” una semplice cosa isolata e scollegata. E nemmeno qualcosa di accidentale. La vita e la mente, se viste come singolari eccezioni alle leggi dell’entropia, attraverso le loro strutture fisiochimiche affondano le radici nelle condizioni iniziali seguite al Big Bang. (1992)

Nel corso di questo capitolo analizzeremo la natura e il significato della storia cosmica così come oggi appare, e in particolare la storia del nostro pianeta e della comunità della vita che costituisce la biosfera. Cercheremo così di scorgere la direzione, la finalità, la Via o il Tao che sembra essere intessuto nella trama stessa del cosmo. Non si tratta di una serie di leggi eterne ma di qualcosa di più profondo, di più dinamico e creativo. Che cos’è questa saggezza che il cosmo ci rivela? Cosa ha da dirci sul nostro ruolo, in quanto esseri umani, all’interno di una storia più grande? Ma l’interrogativo principale, forse, è il seguente: come possiamo aprirci al mistero del Tao in modo da diventare davvero soggetti che partecipano in maniera creativa e armoniosa al dipanarsi della storia cosmica?

Cosmogenesi È molto semplice. Ecco tutta la storia in un rigo. [...] Si prende l’idrogeno e lo si lascia tranquillo, e lui si tramuta in roseti, giraffe e uomini. (Swimme, 2001) Il Big Bang è una sorta di orgasmo primario, il momento generatore, o l’attimo in cui si schiuse l’uovo cosmico. Il cosmo è come un organismo in crescita che forma nuove strutture al proprio interno. La storia è affascinante in parte perché ci fa capire che tutto è correlato. Tutto deriva da una fonte unica, tutte le galassie, le stelle e i pianeti; tutti gli atomi, le molecole e i cristalli, tutti i microbi, le piante e gli animali, e tutti gli uomini di questo pianeta. Noi stessi siamo correlati, in forma più o meno diretta, con tutti gli altri, con ogni organismo

vivente e, infine, con tutto ciò che è ed è stato. (Sheldrake, 1990 [1993, p. 121]) All’inizio non c’era nulla, non c’erano cose; e nemmeno c’erano il tempo, lo spazio, l’energia. Che cosa c’era allora? Un vuoto gravido, il fondamento dell’essere, il pensiero generativo, che è oltre il pensiero e le cose e l’essere: il Tao. Non possiamo dire con esattezza che cosa fosse, poiché nessuna definizione, nessuna concettualizzazione può afferrarlo. È il mistero dietro ogni mistero che pone tutto in essere. Gli scienziati non sanno cosa c’era prima della nascita del cosmo. In realtà, la stessa parola “prima” potrebbe non avere alcun significato in questo caso. Quando il cosmo venne all’essere, il tempo nacque con esso. Stephen Hawking, utilizzando una terminologia matematica, parla del cosmo come di qualcosa dotato di confini aperti, privo in un certo senso di un chiaro cominciamento e di un termine50. Se ciò è vero, possiamo spingerci sempre più vicino al momento iniziale della nascita del cosmo, ma non potremo mai raggiungere l’effettivo istante in cui il cosmo schizzò fuori dal vuoto gravido. Eppure, esiste ancora un inizio da cui tutto ciò che è scaturì, un momento iniziale che Martha Heyneman chiama «il punto o l’accesso zero tra l’assenza di tempo e il tempo, l’assenza di spazio e lo spazio» che è «anche qui e ora, ovunque e sempre» (1993). Le nostra immaginazione e la nostra comprensione sono messe a dura prova quando proviamo a figurarci i primi istanti della nascita del cosmo, ciò che comunemente chiamiamo Big Bang. Quest’espressione alquanto infelice evoca l’immagine di chi osserva da lontano lo scoppio di un’enorme esplosione nello spazio, forse qualcosa che può somigliare a una supernova, ma su scala molto più grande. Eppure un’immagine del genere è fuorviante. Non c’era un “fuori” da cui osservare l’evento. Non c’era spazio “vuoto”; tutto ciò che era era intrappolato nella tempesta primordiale. Il fisico Stephen

Weinberg la descrive come «un’esplosione che avvenne simultaneamente ovunque» (citato in Heyneman, 1993). Non solo l’energia ma anche lo spazio e il tempo sono nati in quel primordiale momento generativo. Il calore e la furia di quell’istante sfidano la nostra comprensione. Quel che è certo è che questa nascita è stata in un certo senso eccessivamente violenta – almeno dalla nostra prospettiva di organismi viventi che non potrebbero sopravvivere in simili condizioni –, ma si è trattato di una violenza più simile al dolore e alla fatica della nascita che a un cataclisma dirompente. Come osservano Thomas Berry e Brian Swimme osservano: In quella realtà primordiale le più maestose montagne himalayane si dissolverebbero più velocemente di quanto non farebbe un castello di sabbia fatto da un bambino nell’impatto con uno tsunami. La solidità della Terra diventa fumo all’inizio. In quel momento primordiale, la più rapida fantasticheria umana, un guizzo inosservato della mente in un giorno d’estate, corrisponde all’intervallo di tempo in cui la deflagrazione nucleare primordiale risuona con mille annichilazioni dell’universo e altrettante rinascite. Al cuore della serena foresta tropicale c’è quest’urgano cosmico. Al cuore della colonna dell’alga marina del tempo c’è lo scoppio a trilioni di gradi di temperatura che dà inizio a tutto. Tutto ciò che esiste nell’universo trae origine da questo eccezionale, inafferrabile evento germinale, un microscopico granello, una realtà stratificata con il potere di scagliare un centinaio di miliardi di galassie nella vastità degli abissi in un volo che dura da quindici milioni di anni. La natura dell’universo e di ogni essere che esiste è integralmente collegata alla natura di questa primordiale deflagrazione. L’universo è un unico sviluppo multiforme in cui ogni evento è intessuto insieme a tutti gli altri nella trama del continuum spaziotemporale. (1992)

La potenza e il mistero della tempesta primordiale incutono un tale sgomento che sembrano richiedere tutto un immaginario spirituale per riuscire a coglierlo. Le grandi tradizioni religiose del mondo, infatti, spesso evocano il ricordo dell’inizio nelle loro frasi più sacre. Per esempio, nell’islam la prima parola del Sura Fâtiha (il capitolo, o sura, iniziale del Corano) – e in realtà di ogni singola sura – evoca l’immagine di una nascita cosmica: Bismillâh, generalmente tradotto con ‘Nel nome di Allah’, evoca l’immagine del SM (‘nome’, ‘luce’, ‘suono’, ‘vibrazione’) che scaturisce da Allah, il quale può

essere interpretato come l’Uno, l’”Unità Cosmica” che è «l’estrema forza che sta dietro l’essere e il nulla» (Douglas-Klotz, 1995). Allo stesso modo, il primo verso della preghiera di Gesù in aramaico evoca l’immagine dello shem (ancora una volta ‘nome’, ‘luce’, ‘suono’ o ‘vibrazione’) che emana (o è insufflato) dall’Uno, l’unità, che dà origine a tutto (Douglas-Klotz, 1990 [2002, p. 41]). Sia il Corano che la preghiera di Gesù (comunemente chiamata “Preghiera del Signore” o “Padre Nostro”), dunque, ricordano in un certo senso il primo momento di scaturigine del cosmo così come l’unità sostanziale che lega tutte le cose e tutti gli esseri tra loro. In effetti, ogni volta che ricordiamo il momento dell’inizio, non facciamo che affermare la fondamentale unità del cosmo. Noi tutti scaturiamo dalla stessa fonte. Tutte le cose e tutti gli esseri hanno un’origine comune. Eppure, quest’unità non è un ricordo ma una realtà vivente. Riprendiamo per un attimo la nostra analisi del teorema di Bell (cfr. pp. 311-312): il fenomeno quantistico dell’entanglement implica che tutte le particelle elementari nell’universo restino in qualche modo collegate attraverso misteriose e istantanee connessioni. Una fondamentale unità lega tutti. Come osservano Berry e Swimme: «L’esplosione da cui tutto è scaturito si manifesta come un quintilione di particelle separate e le loro interazioni, ma la natura di queste particelle narra di un universo che è un tutto indivisibile. Nessuna parte del presente può essere isolata da nessun’altra parte del presente, del passato o del futuro» (1992). Dopo essersi sprigionato dal seme generativo, dopo solo un centesimo di secondo circa, il cosmo si raffreddò rapidamente arrivando a una temperatura di appena cento milioni di gradi e diventando una poltiglia di energia e materia (in forma di nucleo d’idrogeno, cioè di protoni liberi). Dopo tre minuti, i primi nuclei di elio cominciarono a organizzarsi. In quei tre minuti, la gran parte della materia primordiale – idrogeno e nuclei di elio – era venuta all’essere e, allo stesso tempo, l’universo era diventato per la prima volta

trasparente (la luce, cioè, poteva viaggiare liberamente attraverso di esso). Occorsero altri settecentomila anni di espansione e di raffreddamento, tuttavia, per creare condizioni che permettessero la formazione di atomi stabili costituiti da nuclei ed elettroni. Alla fine del primo miliardo di anni, i semi della galassie erano stati piantati. Nei successivi quattro miliardi di anni si formarono le grandi nebulose galattiche, seguite dalle prime stelle. Queste stelle costituiscono il crogiolo per la formazione di forme di materia più complessa, ma è solo con le prime supernovae che elementi come il carbonio e l’ossigeno – e tutti gli elementi pesanti come l’elio – sono stati immessi nell’universo per la prima volta. La seconda e la terza generazione di stelle, come la nostra, si formarono a partire dai residui delle esplosioni di queste supernovae. Infatti, è solo in questi sistemi stellari composti dall’ultima generazione di stelle che la vita organica come noi la conosciamo ha potuto alla fine formarsi. Il nostro intero sistema solare – compresi noi stessi – è composto di questa antica polvere stellare. Questa storia cosmica rivela un’incessante creatività e una continua evoluzione. Se da una parte la deflagrazione primordiale preparò il terreno per ciò che sarebbe dovuto venire in seguito, dall’altra l’universo continuò a generare nel tempo nuove forme di creatività. La creazione non avviene una volta per tutte; piuttosto, la creatività è un processo continuo che si manifesta in una serie – spesso irripetibile – di passaggi o di stadi. C’è stato, per esempio, un solo momento in cui le galassie potevano formarsi. Se quest’opportunità non avesse prodotto risultati, il nostro cosmo sarebbe rimasto un informe brodo di energia e di materia primordiale senza una vera forma o una struttura. In un cosmo simile, la vita e la mente non sarebbero mai emerse. E parimenti, le galassie non avrebbero mai avuto bisogno di dar vita alle stelle. Ci sono attualmente due tipi di galassie. Le galassie a spirale, come la nostra, che sono in grado di partorire una stella.

Tuttavia, la maggior parte delle galassie sono di un altro tipo: si tratta delle galassie ellittiche. Queste mancano di struttura interna e in esse non si formano nuove stelle. Se una galassia ellittica collide con una galassia a spirale, la capacità di generare nuove stelle della galassia che ne risulta può risultare compromessa. Le stelle gradualmente si consumano e muoiono, e nessuna nuova stella prende il loro posto. La creatività, dunque, non è inevitabile. La creatività del nostro cosmo, infatti, viaggia sul filo di una lama immaginaria. Ci sono due forze fondamentali che si contrappongono, che si mantengono in un delicato equilibrio che ha permesso alla struttura di evolvere: una forza che contrae creata dall’azione della gravità sulla materia e una forza che espande che scaturisce dalla deflagrazione primordiale. Queste forze costituiscono il fondamentale yin e yang della fisica del cosmo. Se la forza di gravità fosse stata solo leggermente maggiore, l’intero universo si sarebbe rapidamente contratto su se stesso, per finire inghiottito in un buco nero. Se la forza di gravità fosse stata solo leggermente più debole, il cosmo non sarebbe mai stato in grado di formare galassie o qualunque tipo di struttura. Una differenza di appena uno su 1059 (10 seguito da cinquantanove zeri!), ovvero meno di un trilionesimo di trilionesimo di trilionesimo di trilionesimo dell’1 per cento in entrambi i casi, e il cosmo con le sue galassie, i suoi pianeti e la vita non sarebbero mai esistiti. Thomas Berry ritiene che questo delicato equilibro tra attrazione (o limitazione) ed espansione (o vitalità selvaggia) sia la «prima espressione e il modello primordiale della disciplina artistica». Egli considera «il selvaggio e il disciplinato» come «le due forze costituenti dell’universo, la forza espansiva e la forza che contiene, legate in un singolo universo e presenti in ogni essere dell’universo» (1999). È da questo yin e yang che tutte le espressioni della creatività nel cosmo sono nate. Stranamente, la quantità di materia conosciuta nell’universo non

tiene conto dell’opera dell’attrazione gravitazionale. Si ipotizza che la maggior parte del cosmo sia invisibile – o “oscuro” –, poiché consisterebbe di particelle ed energia che difficilmente interagiscono con le cose visibili, e dunque non sono rilevabili dagli strumenti scientifici. Attualmente si stima che la materia oscura formi il 22 per cento dell’universo e che l’energia oscura tocchi il 74 per cento, il che significa che appena il 4 per cento del cosmo può essere percepito direttamente. Rupert Sheldrake osserva: «È come se la fisica avesse scoperto l’inconscio. Proprio come la mente consapevole galleggia – per modo di dire – sulla superficie dei processi mentali inconsci, il mondo fisico galleggia su un oceano cosmico di materia oscura» (1990 [1993, p. 74]). Il delicato equilibrio tra espansione e contrazione suggerisce che la natura del cosmo non è il risultato del puro caso. Le forze fondamentali del cosmo e tutte le “leggi” della fisica, infatti, sembrano essere state scelte per consentire la possibilità che emergesse un cosmo in grado di autoorganizzarsi. È possibile che nei suoi primi baluginanti istanti, quando gli universi furono creati e annientati innumerevoli volte, sia stato selezionato tra quei pochi il cosmo – forse l’unico – capace di rendere possibile l’autentica creatività? O che le abitudini del cosmo, i suoi campi morfici, si siano evolute in modo da consentire la creatività? Esamineremo nel dettaglio queste questioni più avanti nel capitolo, per adesso basti osservare che la spinta alla creatività e alla complessità sembra essere intrecciata nella trama stessa del cosmo fin dall’inizio. Paul Davies (1988) sottolinea che esiste una differenza tra predestinazione e predisposizione. Il cosmo non era “predestinato” a generare le galassie, le stelle, la vita o la mente. Non erano conseguenze inevitabili delle condizioni iniziali della deflagrazione originaria; piuttosto, la possibilità dell’autoorganizzazione – e anche, forse, una direzione o inclinazione – era qualcosa di già presente. Il cosmo era “predisposto” a ospitare la creatività e la nascita ma, come

l’esempio delle galassie ellittiche dimostra, le dinamiche autoorganizzative non sono inevitabili. La vera libertà esiste. Come è detto nel Tao Te Ching (§34), il Tao «realizza il suo fine. [...] Nutre ogni essere nel cosmo, eppure non cerca di determinarne il corso». Brian Swimme crede che il momento in cui viviamo sia una congiuntura critica nella storia del cosmo, o almeno nella storia della Terra. Abbiamo una scelta da compiere in quanto esseri umani, ma il tempo a nostra disposizione per compiere questa scelta è in un certo qual modo limitato. Una volta trascorso, non tornerà più. È come l’istante in cui si sono generate le prime galassie: C’era un momento in cui le galassie poterono formarsi, non prima e non dopo. È lo stesso momento che adesso viviamo noi, credo. È il momento che il pianeta si risvegli per opera dell’umanità, di modo che le effettive dinamiche dell’evoluzione abbiano la possibilità di risvegliarsi e di cominciare a funzionare a quel livello. Ecco, non poteva succedere prima. E la cosa sorprendente è che probabilmente non potrà succedere neanche dopo. Se non operiamo questa transizione, molto probabilmente la creatività del pianeta si troverà in uno stato di tale degrado che non saremo più in grado di compiere quel passo. La cosa agghiacciante è che, nell’universo, i luoghi veramente creativi possono perdere la loro creatività. [Per esempio] le galassie ellittiche stanno lì, e le stelle al loro interno muoiono una a una, e così è. Insomma, ci si può realmente allontanare dalla sequenza principale della creatività nell’universo. (Swimme, 2001)

Se da un lato la creatività e la nascita non sono, dunque, inevitabili – e vi siano scelte concrete da compiere –, dall’altro c’è anche un’immensa speranza che traspare dalla storia del cosmo. Nonostante tutte le previsioni in senso contrario, la creatività ha prevalso. Non possiamo sapere, ovviamente, quali possibilità sono andate per sempre perdute, ma sappiamo che il sorgere creativo delle cose prosegue e che l’universo sembra continuare a tendere verso una maggiore complessità e, in ultima analisi, forse, verso una maggiore bellezza e una maggiore profondità della mente. In un certo senso, adottando questa prospettiva ci pare di comprendere meglio l’intero cosmo e di intenderlo come un essere vivente, un organismo che cresce e si sviluppa nel tempo. Sicuramente, le dinamiche dell’emergenza che la storia moderna del

cosmo rivela chiariscono che il cosmo non somiglia in nulla a una macchina. Piuttosto, esso è un’entità vivente con la sua libertà e le sue dinamiche creative. Ciò diventa ancora più evidente se consideriamo la storia del nostro pianeta, la Terra vivente, di cui noi stessi siamo parte.

Il dispiegarsi della vita L’evoluzione avviene non in risposta alla domanda di sopravvivenza, ma come gioco creativo e necessità di cooperazione di un universo intero che evolve. (Lemkow, 1990) La forza che dirige l’evoluzione va ricercata non negli eventi fortuiti delle mutazioni casuali, bensì nella tendenza intrinseca della vita a creare novità, nella manifestazione spontanea di un ordine e di una complessità crescenti. (Capra, 1996 [2006, p. 252]) L’aiuto reciproco è una legge della vita animale tanto quanto la lotta reciproca, ma [...] come fattore di evoluzione, ha probabilmente un’importanza maggiore, in quanto favorisce lo sviluppo di abitudini e caratteri che assicurano la conservazione e l’ulteriore sviluppo della specie, assieme alla massima quantità di benessere e godimento della vita per l’individuo, con il minimo spreco di energia. (Peter Kropotkin, citato in Goldsmith, 1992 [1997, p. 219]) Riteniamo ingenua la prima concezione darwiniana di una “natura dai denti e gli artigli insanguinati”. Ormai ci consideriamo il prodotto di una collaborazione tra cellule, cellule costruite da altre cellule. Le cooperazioni tra cellule che un tempo furono estranee se non nemiche le une alle altre è alla radice stessa del nostro essere. (Lynn Margulis, citato in Suzuki-Knudtson, 1992) La vita non prese il sopravvento del globo nella lotta, ma istituendo interrelazioni. (Capra, 1996 [2006, p. 256])

Le dinamiche della creatività e dell’emergere della vita intessute nella trama del cosmo sono rivelate, forse con maggiore chiarezza per noi, nella storia dell’evoluzione della vita qui sulla Terra. La storia del nostro pianeta mostra una tendenza verso una sempre maggiore complessità, consapevolezza e bellezza che non può essere spiegata completamente con la dominante teoria evoluzionistica neodarwiniana, fondata sulle mutazioni casuali, sulla competizione e sulla sopravvivenza del più adatto. Qualcosa di più sottile sembra essere all’opera, qualcosa che allude a un obiettivo o, al limite, a una direzione verso la quale la vita stessa sembra spingersi. L’origine della vita sul nostro pianeta resta per molti aspetti velata dal mistero. Le teorie più recenti sostengono che le molecole organiche fondamentali come gli aminoacidi si formarono in qualche modo nel brodo primordiale e che i lipidi diedero origine alle prime membrane cellulari. In seguito, sorsero RNA e proteine, e alla fine le prime forme cellulari. Ad oggi, tuttavia, nessuno è stato in grado di produrre una cellula vivente in laboratorio. Non escludo affatto che la ricerca possa portare i suoi frutti in questo settore, ma ci sono davvero grosse difficoltà a immaginare quali processi potrebbero aver dato origine alle complesse molecole organiche necessarie alla nascita della vita, e ancor di più alla creazione delle cellule vitali. Per questa ragione, alcuni scienziati si chiedono se la vita – o almeno i suoi immediati precursori – non possa avere avuto un’origine extraterrestre, arrivando fin qui attraverso la collisione di una cometa o di qualche altro corpo celeste con la Terra. Perfino questa teoria, tuttavia, si limita in un certo senso a sollevare il problema senza risolverlo. Ad ogni modo, “il cieco caso” da solo non pare sufficiente a spiegare la nascita dei primi organismi viventi. Quello che sembra chiaro, invece, è che i batteri primitivi si evolverono molto rapidamente sul nostro pianeta: solo mezzo miliardo di anni dopo la formazione della Terra nacquero i primi procarioti (cellule senza nucleo). Nel giro di altri cento milioni di anni

le cellule svilupparono il processo della fotosintesi, che permetteva loro di sfruttare l’energia del sole. Attraverso la fotosintesi, però, queste cellule produssero ossigeno libero, che in realtà, per via delle concentrazioni troppo elevate, le uccise. La fotosintesi, infatti, alterò profondamente la chimica dell’atmosfera, degli oceani e del suolo terreste. Inoltre, l’emissione di gas serra nell’atmosfera consentì al pianeta di raffreddarsi considerevolmente, il che portò alle prime ere glaciali, circa 2,3 milioni di anni fa. Ci vollero quasi due milioni di anni dallo sviluppo della fotosintesi perché le cellule imparassero a fare uso dell’ossigeno, quel gas pericoloso che oggi è essenziale per la nostra vita. Nello stesso arco di tempo nacquero le prime cellule eucariotiche (dotate di nucleo). Occorse un altro miliardo di anni circa perché la vita riuscisse a sviluppare la riproduzione sessuale. All’incirca nello stesso periodo, sorsero i primi eterotrofi, ossia organismi che si nutrono di altri organismi per procacciarsi la propria fonte di energia. Trecento milioni di anni dopo (ovvero settecento milioni di anni fa) apparve il primo organismo pluricellulare. Da questo momento in poi il ritmo dell’evoluzione sembra accelerare rapidamente (T. Berry-Swimme, 1992). Qual è la forza che muove quest’esplosione di creatività e diversità? Perché gli organismi evolvono in forme più complesse? E quali processi fanno sì che avvengano questi cambiamenti? Charles Darwin ritiene che vi siano variazioni naturali nei singoli organismi di ogni specie data. Alcune di queste variazioni sono più vantaggiose di altre. Per esempio, un certo colore nella pigmentazione della pelle può consentire a una specie di lucertole di confondersi con l’ambiente in maniera più efficace, come la pelle verde al posto di quella marrone nelle lucertole che vivono in una foresta. La pigmentazione verde rende le lucertole meno vulnerabili ai predatori, e anche la loro progenie, che eredita queste caratteristiche, ha maggiori probabilità di sopravvivere e di riprodursi. La “sopravvivenza del più adatto”

significa che, nel corso del tempo, la pelle di colore verde diventa più frequente, almeno in habitat come le foreste e le praterie, in cui garantisce una mimetizzazione più efficace. Alla fine, la popolazione di lucertole verdi in questi habitat può diventare una specie distinta dalle lucertole marroni, le quali, ad esempio, potrebbero continuare ad avere maggior successo di sopravvivenza nel deserto, dove la loro pelle si confonde meglio con l’ambiente circostante. La teoria darwiniana della selezione naturale venne alla fine fusa con la teoria dei geni di Mendel, e questa nuova sintesi è conosciuta come neodarwinismo. Secondo questa prospettiva, tutte le variazioni nelle specie insorgono in virtù di mutazioni genetiche spontanee. Molte di esse non apportano alcun beneficio, ma di tanto in tanto si verificano delle mutazioni utili. Nel caso dell’esempio summenzionato, il gene che codifica la pigmentazione della pelle marrone muta e si traduce invece in un gene che codifica la pigmentazione verde. I geni che codificano tratti che riscontrano maggior successo vengono trasmessi più frequentemente, in modo che – attraverso il processo della selezione naturale – diventano col tempo più comuni. Sicché, in base a tale concezione, la combinazione di caso (mutazioni spontanee) e necessità (la sopravvivenza del più adatto) guida l’evoluzione. Per usare le parole di Jacques Monod: «Soltanto il caso è all’origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera» (citato in Capra, 1996 [2006, p. 249]). Il neodarwinismo è ancora la teoria dell’evoluzione più studiata nelle scuole. Per molti aspetti si tratta di una teoria brillante nella sua semplicità, ma nondimeno soffre di gravi carenze. Innanzitutto, l’idea di una semplice mutazione genetica sembra assumere una corrispondenza uno a uno tra geni e tratti. Sicuramente, in alcuni casi, una tale corrispondenza esiste anche, tuttavia, come abbiamo visto, non è sempre così. Spesso è tutta una serie di geni – talvolta situati in cromosomi diversi – a essere collegata alla manifestazione di un singolo tratto. Nella concezione neodarwiniana, questi geni

dovrebbero presumibilmente mutare in maniera spontanea, per poi tradursi in un tratto utile che possa diventare più comune attraverso la selezione naturale. È difficile credere che questo sia un evento abbastanza probabile da diventare la chiave del processo evolutivo. Allo stesso modo, un gene può influire su più tratti. Se sopravviene una mutazione spontanea, uno di questi tratti può risultare vantaggioso, ma è improbabile che tutte le modifiche apportate al tratto di rivelino utili. È molto più probabile che la maggior parte sarà dannosa, di modo che sarà estremamente difficile che la mutazione spontanea di quel gene possa mai tradursi in un evidente vantaggio per l’organismo. Alla fine, dunque, la maggior parte delle mutazioni genetiche in un organismo avrebbe bisogno di essere altamente coordinata all’interno del genoma per funzionare. A complicare le cose, oggi sappiamo che gli errori casuali nella replicazione genetica sono molto più rari di quanto non si pensasse un tempo (Capra, 1996 [2006]). Per di più, quando avvengono siffatte mutazioni, esistono dei meccanismi cellulari che eliminano questi errori. Mettendo insieme queste osservazioni, possiamo dire che la mutazione spontanea – nel senso dei cambiamenti genetici casuali e fortuiti – appare un processo estremamente improbabile per spiegare l’adattamento e l’emergere di nuovi tratti utili. Nel caso dei batteri, almeno, le mutazioni non sembrano essere per nulla casuali, bensì decisamente orientate. Il biologo dell’università di Harvad John Cairns e Berry Hall della Rochester University sono giunti alla conclusione che «alcune mutazioni nei batteri avvengono più frequentemente quando risultano utili ai batteri che quando non lo sono» (Goldsmith, 1998). Qual è il processo che decide quali mutazioni devono avvenire? Non è ancora chiaro, ma sembra essere all’opera qualcosa di molto più selettivo delle mutazioni casuali, qualcosa, si potrebbe dire, di molto più intenzionale. In secondo luogo, il neodarwinismo non spiega affatto

l’evoluzione degli organismi complessi pluricellulari. Dal punto di vista della “sopravvivenza del più adatto”, non ci sono dubbi sul fatto che i batteri siano l’organismo di maggior successo del pianeta. I batteri, infatti, sono in grado di scambiare a piacimento il loro materiale genetico con altri batteri, cosa che consente loro di adattarsi molto più rapidamente rispetto agli organismi più complessi. Il batteriologo Sorin Sonea arriva a ipotizzare che i batteri non dovrebbero essere divisi in specie separate perché, fondamentalmente, attingono tutti a uno stesso set di geni. Ogni “singolo” batterio cambia in genere circa il 15 per cento del proprio materiale genetico ogni giorno, il che porta Sonea ad affermare che «un batterio non è un organismo unicellulare, è una cellula incompleta [...] che appartiene a differenti chimere a seconda delle circostanze». In un certo senso, dunque, «tutti i batteri fanno parte di un’unica trama di vita microcosmica» (citato in Capra, 1996 [2006, p. 254]). Dal punto di vista dell’adattabilità e della sopravvivenza, si può certamente affermare, dunque, che la rete batterica è il più vecchio, il più adattabile e il più riuscito organismo della Terra. Non avevano “bisogno” di evolvere in eucarioti o di svilupparsi in organismi che utilizzano la riproduzione sessuale, e ancor meno in quelle che vengono comunemente considerate forme di vita pluricellulari. È chiaro, poi, che la competizione e la lotta per la sopravvivenza non possono da sole guidare il processo evolutivo verso una maggiore complessità. Una terza obiezione al neodarwinismo riguarda la sua incapacità di spiegare l’evoluzione di adattamenti più complessi. Questa teoria, è vero, può spiegare i piccoli cambiamenti come il colore della pelle, di cui abbiamo parlato in precedenza. Analogamente, la teoria neodarwiniana potrebbe spiegare l’emergere di un tratto che consente alle piante di resistere al glifosato erbicida (controllato da un gene), ma cos’è che dà conto dell’evoluzione di strutture molto più complesse come l’occhio o l’orecchio? Si potrebbe immaginare che una

cellula fotosensibile sia emersa spontaneamente (sebbene la sua utilità per un organismo più grande sembri dubbia senza una connessione a un qualche tipo di sistema nervoso), ma riesce più difficile pensarlo per tutte quelle strutture di supporto che collaborano al funzionamento di un occhio. Allo stesso modo, un orecchio non può funzionare senza tutta una serie di strutture che lavorano di concerto: i nervi acustici, gli ossicini dell’orecchio medio, il timpano e anche l’orecchio esterno. Eppure queste strutture – finché non sono complete e lavorano insieme in maniera coordinata – non danno alcun vantaggio a un organismo. Perché, allora, si sono sviluppate? Persino Darwin trova questo dato in contrasto con la sua teoria: Supporre che l’occhio, con tutti i suoi inimitabili congegni per l’aggiustamento del fuoco a differenti distanze, per il passaggio di diverse quantità di luce, e per la correzione dell’aberrazione sferica e cromatica, possa essersi formato per selezione naturale sembra, lo ammetto francamente, del tutto assurdo. (citato in Goldsmith, 1992 [1997, p. 180])

In quarto luogo, se il neodarwinismo bastasse da solo a spiegare l’evoluzione, ci aspetteremmo di rinvenire reperti fossili che mostrino come sono avvenuti i graduali cambiamenti delle specie del tempo. Eppure, in realtà, ciò che vediamo è un fenomeno di “evoluzione punteggiata” caratterizzata da lunghi periodi di relativa stabilità seguiti da periodi relativamente brevi di creatività esplosiva e di sperimentazione evoluzionistica. Cosa fa sì che in certi periodi vi siano così pochi cambiamenti mentre in altri assistiamo a cambiamenti che avvengono in maniera molto più rapida di quanto ci si potrebbe attendere? Come abbiamo visto, sia la teoria dei sistemi sia le ipotesi dei campi morfici offrono spunti preziosi per la comprensione di questo tipo di fenomeno. Di contro, l’evoluzione punteggiata sembra essere quasi del tutto in contrasto con le spiegazioni fornite dalla teoria neodarwiniana. Edward Goldsmith osserva infatti che il neodarwinismo rischia di porre troppo l’accento sul cambiamento e non abbastanza sulla stabilità. Che cosa spiega la costanza delle specie, una costanza che

abbraccia periodi di centinaia di migliaia, se non milioni, di anni? Nella prospettiva neodarwiniana, i cambiamenti graduali – piccoli aggiustamenti degli organismi – costituirebbero un processo continuo e sempre in corso. Eppure raramente è così. In parte, ciò si spiega attraverso quei processi di stabilità genetica di cui abbiamo parlato. Le mutazioni vengono in gran parte riparate prima che si diffondano, e quelle che non vengono riparate sono quasi sempre dannose e possono persino condurre alla morte dell’organismo. L’ipotesi dei campi morfici può schiudere una prospettiva nuova: il campo di un organismo ha una natura abitudinaria e cambia con molta difficoltà. È solo quando sorge una nuova condizione di stress – una crisi che minaccia l’esistenza di una vecchia forma abituale – che una nuova forma può emergere. Nella prospettiva sistemica, uno stato caotico alla fine conduce alla formazione di attrattori completamente nuovi, e con essi, all’apparizione di nuove forme. Poi, può benissimo entrare in gioco la selezione naturale, mettendo alla prova le nuove forme che sono emerse e contribuendo a determinare quali siano le più adatte per la sopravvivenza sul lungo periodo. Un’obiezione finale al neodarwinismo riguarda i suoi assunti di fondo. Come abbiamo notato in precedenza, Darwin fu parecchio influenzato dalle teorie economiche del tempo, nella fattispecie le “leggi” della popolazione di Thomas Malthus (1766-1834), che immagivano la vita come una competizione per l’accaparramento delle risorse. Come evidenzia Theodore Roszak: Tutti gli assunti rigidi e basati sulla competizione di Malthus e della scuola di Manchester sono stati incorporati nei fondamenti della biologia darwiniana. Lungi dal vedere l’ethos della giungla nella società civile, Darwin viceversa vide l’ethos del capitalismo nella giungla, arrivando alla conclusione che la vita doveva essere quello che era diventata nelle prime città industriali: una crudele “lotta per la sopravvivenza”. (1992)

Non tutti i biologi coevi di Darwin o dei suoi successori credettero che la competizione fosse la forza motrice dell’evoluzione. Lo zoologo

Pëtr Kropotkin (1842-1921), per esempio, riteneva che le complesse dinamiche cooperative tra gli animali fossero molto più importanti. Persino l’azione dei predatori può essere compresa da questa prospettiva cooperativa. Attraverso l’eliminazione dei più deboli e malati, essi rafforzano la loro preda e contribuiscono ad assicurare che le risorse di cibo non vengano mai a esaurirsi. In realtà, le intricate relazioni tra le specie così come le dinamiche degli ecosistemi complessi sono oggi molto più chiare per la maggior parte di noi di quanto non lo fossero ai tempi di Darwin (con la fondamentale eccezione, naturalmente, dei popoli indigeni, che in genere sono ben consapevoli di tali relazioni). Per esempio, quando furono reintrodotti i lupi nel Parco di Yellowstone, negli Stati Uniti, si scoprì che l’alce era molto meno propenso a pascolare vicino agli alberelli lungo gli argini dei fiumi, dove era facile preda dei nuovi cacciatori introdotti. Ne conseguì la riduzione dell’erosione del suolo lungo i corsi dei fiumi, il che provocò la comparsa di famiglie di pesci più sane nei fiumi e nei torrenti. Per quanto strano possa sembrare, i lupi giocarono un ruolo fondamentale nella prevenzione dell’erosione del suolo e della salute dei pesci d’acqua dolce. In effetti, nuove ricerche scientifiche ipotizzano che la collaborazione e la simbiosi siano dinamiche centrali del processo evolutivo. Come abbiamo visto, i batteri condividono abitualmente il loro materiale genetico, costituendo una rete di vita microcosmica. Ciò non toglie però che singoli batteri possano, in un certo senso, competere tra loro per il cibo e altre necessità; ma in genere sono organismi che cooperano, condividendo, in un certo qual modo, conoscenze ed esperienze attraverso gli scambi genetici. I batteri possono condividere, di fatto, l’intero patrimonio di informazioni genetiche nel giro di pochi anni. È questa rete batterica ad aver in realtà creato le condizioni di base per la nascita di forme di vita più complesse sulla Terra:

Durante i primi due miliardi di anni dell’evoluzione, i batteri erano gli unici abitanti della Terra, e l’emergere di forme di vita più complesse deve essere associato alla creazione di reti e alla simbiosi. Dunque, in questi due miliardi di anni i procarioti, gli organismi composti di cellule senza nucleo (ossia i batteri), trasformarono la superficie della Terra e l’atmosfera. Fu l’interazione di questi semplici organismi a dare origine ai complessi processi di fermentazione, fotosintesi, respirazione dell’ossigeno ed eliminazione del gas [CO2] dall’aria. Siffatti processi non si sarebbero sviluppati, tuttavia, se questi organismi fossero stati isolati in senso darwiniano, o se la forza d’interazione tra le parti fosse esistita solo al di fuori dalle parti. (Nadeau-Kafatos, 1999)

Lynn Margulis ha dimostrato recentemente che tutte le cellule eucariotiche sono in sé il risultato di un’alleanza simbiotica di organismi semplici. Ciò è particolarmente evidente nel caso del mitocondrio, l’organello che consente alla cellula di utilizzare energia attraverso reazioni chimiche che richiedono ossigeno. Il mitocondrio in realtà ha un proprio DNA distinto da quello del nucleo cellulare. Sembra plausibile che gli eucarioti siano il risultato di un’alleanza tra i primi batteri che bruciavano ossigeno (i quali andarono a formare i mitocondri) e altri organismi, dando vita così a insiemi simbiotici più complessi. Forse i batteri mitocondriali inizialmente invasero o “infettarono” le cellule ospite, ma in seguito rinunciarono alla loro indipendenza in cambio di protezione e di un costante rifornimento di sostanze nutritive. Gli altri organelli cellulari possono aver avuto origini simili. Margulis arriva a vedere nelle cellule dotate di nucleo dei “collettivi microbici” o “confederazioni di batteri” che «collaborano e accentrano, e così facendo formano nuovi tipi di governo cellulare» (citato in Roszak, 1999). Come osserva Fritjof Capra, questa «teoria della simbiogenesi comporta uno spostamento radicale di percezione nell’ambito del pensiero evolutivo. Mentre la teoria convenzionale vede nel dispiegarsi della vita un processo in cui le specie si limitano a divergere una dall’altra, Lynn Margulis sostiene che la formazione di nuove entità composite per mezzo della simbiosi di organismi

precedentemente indipendenti ha rappresentato la forza evolutiva più potente e significativa» (1996 [2006, p. 256]). Le simbiosi esistono non solo all’interno delle cellule, ma anche all’interno degli organismi pluricellulari. Come abbiamo detto in precedenza (si veda p. 352), quasi il 50 per cento del peso del nostro corpo è composto da altri organismi – soprattutto batteri –, molti dei quali necessari alla nostra stessa sopravvivenza. Ogni essere umano, ma altresì ogni organismo pluricellulare, è una specie di confederazione coesa di organismi differenti. Noi dipendiamo da tutta una rete di organismi – molti dei quali microscopici – per mantenere quelle condizioni di fondo che alla fine servono a rendere possibile la vita. Tutti gli organismi sulla Terra vivono in questa specie di relazione simbiotica. Tutti gli esseri viventi non solo si adattano al loro ambiente, ma modificano e trasformano il loro habitat. Gli esseri viventi, in particolare gli organismi microbici, hanno sensibilmente alterato la composizione chimica dell’atmosfera, la geologia e il clima sul nostro pianeta. Su un altro piano, le singole specie, come il lupo del Parco Nazionale di Yellowstone, svolgono un ruolo spesso sorprendente nel contribuire a mantenere la salute e la vitalità di altre specie con le quali hanno apparentemente solo interazioni minime. È possibile, dunque, che tutta l’evoluzione sia in realtà una specie di coevoluzione? Come osserva lo studioso di mammiferi marini Victor Scheffer: «Mai dall’epoca degli achei un essere vivente si è evoluto da solo. Tutte le comunità si sono evolute come se fossero un grande organismo. Dunque, tutta l’evoluzione non è altro che una coevoluzione e la biosfera è oggi una confederazione di reciproche dipendenze» (citato in Suzuki-Knudtson, 1992). Sulla base di questa prospettiva, occorre reinterpretare l’intera idea di “sopravvivenza del più adatto”, che equivale non tanto alla capacità di uccidere e distruggere le altre specie ma a quella di adattarsi e contribuire al resto della comunità biotica. Ciò non vuol

dire che la competizione non giochi alcun tipo di ruolo, ma che il suo è un ruolo complementare – e in genere secondario – a quello della cooperazione. La competizione sembra svolgere un ruolo più decisivo nei primi ecosistemi, in quanto contribuisce a creare maggiore spazio tra gli organismi viventi e a favorire nel tempo lo sviluppo di una maggiore diversità. «Con l’evoluzione degli esseri viventi, con lo sviluppo degli ecosistemi dai loro stati iniziali verso condizioni di climax [...] la competizione lasciò il posto alla cooperazione [...] e, di conseguenza, aumentò anche l’omeostasi» (Goldsmith, 1998). L’idea di coevoluzione può aiutarci a pensare la relazione tra la farfalla e il fiore. I fiori si sono evoluti per attrarre insetti impollinatori come le farfalle, mentre le farfalle dipendono dal nettare dei fiori per il loro sostentamento. Gli uni non possono esistere senza le altre. Chi, dunque, viene prima? Non hanno avuto bisogno di evolversi insieme? Come dobbiamo considerare la loro relazione? Il fiore ha in qualche modo ingannato la farfalla costringendola a impollinare o viceversa è la farfalla che ha in qualche modo ingannato il fiore costringendolo a offrirle il nettare? Potremmo decidere di considerare le cose in questo modo: supporre che ciascun organismo sia concentrato sulla propria sopravvivenza e sui propri bisogni. Ma non potrebbe essere altrimenti? Non potrebbe essere che il fiore, in un certo qual modo, ci tenga alla sopravvivenza e al benessere della farfalla, e viceversa? Non potrebbe operare in questo caso qualcosa di simile all’amore? Molti lo considererebbero un punto di vista “non scientifico”; eppure c’è qualche valida ragione per sostenere che l’egoismo e l’esclusivo interesse personale siano più “scientifici” dell’amore, della compassione e della cura reciproca? Se la cooperazione e la simbiosi sono davvero più fondamentali della competizione e della “lotta per la sopravvivenza”, forse l’amore – o al limite una qualche specie di attrazione, di adescamento o di cura – è magari più essenziale – o al limite altrettanto essenziale – dell’autoaffermazione o dell’egoismo.

La concezione creativa e cooperativa dell’evoluzione che emerge tanto dalla teoria dei sistemi quanto dalla teoria della simbiogenesi sotto molti aspetti differisce profondamente dalla prospettiva neodarwiniana. L’evoluzione non viene più vista come il risultato di una mera combinazione di caso (mutazioni casuali) e necessità (sopravvivenza del più adatto). Sembra infatti che agisca una spinta verso una cooperazione, una complessità, una diversità e perfino una consapevolezza maggiori. Anche lo scambio mondiale di informazioni genetiche in tutta la microcosmica rete batterica in qualche modo evoca l’immagine mentale della condivisione di “memorie” e di “esperienze” genetiche. Come è stato possibile, dobbiamo chiederci ancora una volta, che la miriade di cambiamenti interconnessi necessari allo sviluppo di strutture complesse come l’occhio o l’orecchio si sia verificata? Di certo, questo tipo di evoluzione sembra aver richiesto una serie di mutazioni genetiche altamente coordinate perché si generasse qualcosa che fosse veramente funzionale. Eppure, come abbiamo visto, i geni da soli potrebbero tranquillamente non determinare una forma. Se davvero esistono i campi morfici, o qualcosa di simile, non potrebbero aver avuto un ruolo nel coordinamento delle trasformazioni necessarie? Ciò potrebbe aiutarci a spiegare come mai un occhio, una volta che si è evoluto, possa essersi più facilmente sviluppato in un’altra specie completamente indipendente, come abbiamo visto nella nostra analisi sull’evoluzione convergente. Ma il necessario coordinamento per l’evoluzione del primo occhio in assoluto – o di qualunque altra struttura complessa simile – come ha fatto inizialmente a verificarsi? Se da un lato non ci sono ancora risposte chiare a tale interrogativo, sembra tuttavia che siano avvenuti una serie di cambiamenti che hanno condotto a un determinato obiettivo, ossia lo sviluppo di un occhio. Un obiettivo che sembra richiedere una sorta di finalismo o, al limite, una direzione. È interessante notare che

l’originaria teoria dell’evoluzione fu proposta sia da Alfred Russel Wallace (1823-1913) che da Charles Darwin. Sebbene i due concordassero sul processo di selezione naturale, Wallace col passare del tempo si discostò da Darwin, poiché non credeva che il cieco caso da solo potesse dare ragione dei cambiamenti che guidavano l’evoluzione, ritenendo invece che essa fosse guidata da una qualche intelligenza creativa, da lui concepita come un coordinamento di spiriti, analogo in un certo senso all’idea di campi morfici (Sheldrake, 1988). Questo non significa che abbiamo bisogno di adottare una qualche forma di “disegno divino”, che evoca l’immagine di un piano predisposto fin dall’inizio dei tempi. Le intuizioni della teoria dei sistemi ci aiutano a immaginare qualcosa di più creativo. Essa però sembra richiedere una specie di attività consapevole che opera al centro del cosmo, qualcosa in grado di guidare l’evoluzione verso una maggiore complessità e diversità, qualcosa che possiamo chiamare Tao, Dharma o Malkuta. Comunque lo si voglia immaginare, si tratta di qualcosa che è intrecciato nella trama stessa dell’universo. Non si tratta, tuttavia, di un che di statico al pari di una “legge”, ma di qualcosa di dinamico, che può evolvere e dispiegarsi nel corso del tempo. Possiamo concepire tale attività cosciente pensando il cosmo come qualcosa che si muove verso un attrattore, o ancor meglio verso una visione, che in quanto tale può evolvere ulteriormente. Somiglia all’idea del gesuita paleontologo Pierre Teilhard de Chardin (18811955), il quale postulò che l’evoluzione non fosse «orientata nei suoi singoli dettagli da un qualche progetto preesistente, ma che invece nel suo complesso è plasmata in modo da convergere verso uno stadio superiore e finale ancora-da-raggiungere, chiamato “punto Omega”» (Davies, 1988). Non possiamo dire con esattezza a cosa somiglierà questo punto Omega, ma sembra chiaro che il procedere verso di esso coinvolge livelli di complessità, di interrelazioni, di diversità e di

autocoscienza sempre maggiori.

Gaia: la Terra viva L’intera gamma della materia vivente presente sulla Terra, dalle balene ai virus e dalle querce alle alghe, si può considerare come costitutiva di un’unica entità vivente, capace di manipolare l’atmosfera terrestre in modo da soddisfare i suoi bisogni complessivi, e dotata di facoltà e poteri assai superiori a quelli delle parti che la costituiscono. (James Lovelock, citato in Goldsmith, 1992 [1997, p. 107]) L’ipotesi di Gaia afferma che le condizioni della superficie della Terra sono regolate dalle attività della vita. [...] Questa manutenzione ambientale viene effettuata dalla crescita e dalle attività metaboliche dell’insieme degli organismi, e cioè il biota. L’ipotesi implica che se la vita dovesse scomparire, le condizioni della superficie della Terra tornerebbero a quelle interpolate di un pianeta che si trova tra Venere e Marte. Sebbene i meccanismi specifici di controllo della superficie della Terra siano poco conosciuti, essi coinvolgono interazioni tra circa tre milioni di specie di organismi. (Lynn Margulis, citato in Joseph, 1990) Le dinamiche cooperative, evidenti nell’evoluzione della biosfera della Terra, hanno portato James Lovelock e Lynn Margulis a ipotizzare che il clima sul pianeta, gli oceani e la composizione dell’atmosfera siano in realtà regolati dagli organismi viventi, i quali operano insieme in maniera coordinata per conservare le condizioni necessarie alla vita. Secondo la versione più accreditata della teoria, questo coordinamento avviene attraverso complessi anelli di retroazione cibernetica, come quelli che abbiamo incontrato nell’analisi della teoria dei sistemi. Questo sistema di conservazione della vita comprende l’intera biosfera della Terra (o ecosfera)51, cioè i suoi organismi viventi con in più l’acqua, l’aria e il suolo con cui la

vita interagisce. James Lovelock arriva a dichiarare che questo sistema funziona in realtà come un’unica entità vivente. Margulis e Lovelock chiamano questa entità “Gaia”, dal nome della divinità greca della Terra. Sotto molti aspetti, il rapporto tra la biosfera e il pianeta nel suo complesso può essere paragonato a un albero. C’è solo un sottile strato esterno di cellule viventi in un albero, poiché il 97 per cento di esso è composto in realtà di legno inerte. Allo stesso modo, la biosfera è come un sottile rivestimento che avvolge il pianeta; se il pianeta fosse grande quanto un pallone da pallacanestro sarebbe più sottile di una patina di vernice. La biosfera è composta sia da organismi biologici che da rocce, suolo, aria, oceani, fiumi e falde acquifere, in cui questi organismi abitano. Si estende insomma nelle profondità degli oceani e per diversi chilometri all’interno della crosta terrestre, e raggiunge quasi dieci chilometri d’altezza nell’atmosfera. Proprio come la corteccia protegge dai possibili danni il sottile strato del tessuto vivo dell’albero, la vita sulla Terra è circondata dallo strato protettivo dell’atmosfera, che ci fa da scudo contro la luce ultravioletta e altri influssi nocivi, e mantiene la temperatura del pianeta al livello giusto perché la vita fiorisca. Né l’atmosfera sopra di noi né le rocce sotto di noi sono vive, ma entrambe sono state foggiate e trasformate in misura notevole dagli organismi viventi, esattamente come la corteccia e il legno dell’albero. Lo spazio esterno e l’interno della Terra fanno entrambi parte dell’ambiente di Gaia. (Capra, 1996 [2006, p. 238])

La biosfera agisce come un sistema vivente integrato più grande della semplice somma delle sue parti. Come rimarca Lovelock: «Gaia, in quanto organismo totale planetario, ha proprietà che non sono necessariamente riconoscibili attraverso l’osservazione di singole specie o di popolazioni di organismi che vivono insieme» (Lovelock, 1988 [1991, p. 35]). Da una prospettiva sistemica, l’autoregolazione è vista come una proprietà emergente di questo sistema integrato. In un tale sistema, i batteri giocano un ruolo chiave. Come osserva Margulis, nel corso della storia del pianeta oltre il 99 per cento delle specie si sono estinte. Di contro, la rete batterica è sopravvissuta nel

corso dei miliardi di anni di vita sul pianeta, giocando un ruolo chiave nella regolazione delle condizioni necessarie alla vita: «L’idea di una rete autopoietica planetaria è giustificata dal fatto che tutta la vita è inserita in una trama auto-organizzantesi di batteri, di cui fanno parte reti elaborate di sistemi sensori e di controllo che stiamo appena cominciando a riconoscere. Una miriade di batteri, che vivono nel suolo, nelle rocce e negli oceani, come pure all’interno di vegetali, animali ed esseri umani, regolano senza sosta la vita sulla Terra» (Capra, 1996 [2006, p. 240]). Le prove dell’attività autoregolatrice dell’ecosfera sono molto solide. Se consideriamo Gaia come un’entità vivente, l’atmosfera è paragonabile alla membrana semipermeabile di una cellula, la quale consente ad alcune sostanze di entrare (ad esempio la luce del sole) mentre altre vengono respinte (le radiazioni dannose, la maggior parte dei meteoriti). Naturalmente, si potrebbe obiettare che anche molti pianeti privi di forme viventi posseggono l’atmosfera, il che è ovviamente vero. Eppure, nella misura in cui si trova in uno stato lontano dall’equilibrio chimico, l’atmosfera della Terra è qualcosa di unico, almeno nel nostro sistema solare e rispetto a quel poco che sappiamo degli altri. Senza la costante attività della vita, la sua composizione sarebbe profondamente diversa. Sia Venere che Marte, per esempio, hanno atmosfere composte fondamentalmente da CO2 (rispettivamente per il 96,5 per cento e il 95 per cento), mentre l’anidride carbonica compone solo lo 0,3 per cento dell’atmosfera della Terra. L’azoto costituisce appena il 3 per cento dell’atmosfera di Marte e di Venere, ma il 79 per cento di quella della Terra. Su Marte e su Venere sono presenti solo tracce di ossigeno, mentre la sua concentrazione nell’atmosfera della Terra raggiunge il 21 per cento (Lovelock, 1988 [1991]). James Lovelock ritiene che, senza la vita, l’atmosfera della Terra somiglierebbe moltissimo a quella di Marte o di Venere. L’ossigeno libero, infatti, reagisce così rapidamente con altri gas o sostanze

chimiche che la sua presenza sulla Terra viene garantita solo perché è costantemente prodotto dalla fotosintesi. Parimenti, l’azoto libero proviene dall’attività dei batteri. Nel frattempo, gli organismi biologici hanno trovato il modo di rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera, principalmente interrando carbonio (in forma di petrolio e carbone, creato dal riscaldamento e dalla compressione di antichi organismi) oppure imprigionandolo nella roccia (in forma di carbonato di calcio che compone il calcare, formatosi dai gusci di plancton oceanico depositatisi sul fondo del mare). L’eliminazione di CO2 dall’atmosfera è stata la ragione fondamentale del fatto che la Terra abbia mantenuto una temperatura superficiale relativamente costante nel corso degli ultimi quattro miliardi di anni, anche se il Sole è diventato tra il 30 e il 50 per cento più caldo in questo lasso di tempo. All’inizio la CO2 formava una coltre protettiva di gas serra che ha consentito alla vita di svilupparsi sul pianeta. Se, tuttavia, questa CO2 non fosse stata gradualmente eliminata dall’azione degli organismi viventi, la temperatura superficiale sulla Terra avrebbe oggi toccato i 240-340 °C, molto più simile al clima infernale di Venere che non ai 13 °C di media di cui attualmente godiamo. Un altro importante veicolo per la regolazione della temperatura si trova nelle grandi foreste pluviali che – in misura sempre maggiore – stanno scomparendo dal nostro pianeta. Le foreste tropicali, grazie all’evaporazione di grandi quantità di acqua e alla formazione di nuvole riflettenti, agiscono sull’aria terrestre condizionando il sistema. Se dovessimo assegnare, infatti, un valore monetario alla loro opera di raffreddamento, esso si aggirerebbe intorno ai 450 trilioni di dollari all’anno (Lovelock, 1988). Oltre alla temperatura e ai livello di CO2, Gaia regola anche il livello di ossigeno nell’atmosfera. Se il livello di ossigeno calasse troppo, il pianeta non potrebbe più tollerare molte delle attuali forme di vita, mentre se crescesse di solo pochi punti percentuali, si avrebbe

una combustione spontanea che in una tempesta di fuoco e fumo distruggerebbe gran parte della biosfera. Insomma, nonostante la continua attività della fotosintesi, la concentrazione non raggiunge mai livelli pericolosi. Fu l’emissione di ossigeno nell’atmosfera che portò alla formazione dello strato di ozono che protegge la vita respingendo le radiazioni ultraviolette più dannose. Prima della formazione di questo scudo protettivo, la vita era limitata agli oceani. Indirettamente, dunque, l’emissione di ossigeno libero attraverso il processo di fotosintesi degli organismi creò le condizioni necessarie affinché la vita si diffondesse sulla terraferma. A quanto pare, nei mari la vita è anche in grado di regolare il livello di salinità delle acque. Gli oceani del pianeta hanno mantenuto una concentrazione di sale quasi costante negli ultimi 3,5 miliardi di anni. Se la concentrazione di sale si innalzasse di appena un 3,5 per cento, la maggior parte degli organismi marini non sarebbe più in grado di sopravvivere. Eppure costantemente viene aggiunto sale agli oceani: le rocce si deteriorano e il suolo si erode, e le piogge trasportano il sale nei fiumi e infine negli oceani. Sulla base del tasso di sale aggiunto in questo modo, basterebbero ottanta milioni di anni per raddoppiare la quantità di sale attualmente presente negli oceani. Come mai, allora, la salinità degli oceani rimane pressoché costante? Sebbene i processi non siano ancora del tutto chiari, si pensa che vi siano microorganismi che possono avere un ruolo nel separare le lagune evaporitiche dal mare, spostando di fatto il sale dal mare alla terraferma (Sheldrake, 1990 [1994]). Sembra, in ogni caso, molto più di una coincidenza il fatto che la salinità degli oceani si mantenga entro livelli che permettono la fioritura della vita. È anche probabile che la costante presenza di acqua sul pianeta sia il risultato di processi vitali. L’acqua e la CO2 reagiscono con l’ossido di basalto per produrre una serie di carbonati. Nel corso di questo processo, l’idrogeno libero viene emesso nell’atmosfera, e alla fine ne

esce completamente in quanto troppo leggero per essere trattenuto dall’attrazione gravitazionale del pianeta. David Suzuki e Amanda McConnell osservano che, durante il primo miliardo di anni della storia del pianeta, tutta l’acqua della Terra poteva andare perduta attraverso questo processo. Fortunatamente, gli organismi viventi impedirono che ciò si verificasse: Invece, quando le piante svilupparono la fotosintesi e come effetto collaterale cominciarono a produrre ossigeno, parte dell’idrogeno dell’acqua fu legato alla catena di carbonio del glucosio, trattenendo così l’idrogeno sul pianeta. Inoltre, l’idrogeno libero prodotto dall’ossidazione del ferro nella roccia fu sfruttato dai batteri come fonte di energia. Ossigeno, idrogeno e zolfo reagiscono chimicamente per produrre acqua e acido solforico, il quale all’interno della propria struttura ha energia recuperabile. Ecco come le forze vitali hanno potuto evitare la disidratazione del pianeta catturando l’idrogeno necessario per l’acqua e quindi impedendo che fluttuasse nello spazio. (1997)

Non solo l’atmosfera terrestre e gli oceani sono stati plasmati e regolati dalla vita, ma anche le rocce e la terraferma. Come abbiamo già evidenziato, la stessa roccia calcarea è il sottoprodotto dei gusci di piccoli organismi marini. Il calcare è sufficientemente pesante per sprofondare sotto il mantello terrestre. Taluni sostengono che la pressione sul mantello terrestre generata da questo processo possa svolgere un ruolo nel mantenimento dell’attività geologica della Terra, e forse persino nella formazione dei continenti. Altri hanno ipotizzato che la presenza di granito – una roccia che sembra essere unica sulla Terra, se non addirittura nel nostro sistema solare, nonché elemento fondamentale nella formazione dei continenti – potrebbe anche dipendere dai processi vitali. Minik Rosing (citato in McLeod, 2006) ritiene che la fotosintesi possa aver giocato un ruolo chiave rendendo disponibile energia sufficiente per i processi geochimici necessari alla formazione del granito52. Un modo concreto attraverso cui ciò è avvenuto potrebbe essere l’azione di forme di vita microbiche che vivono nei pressi dei camini termici e scompongono il basalto in argilla illite e smectita, che contribuiscono entrambe alla formazione

del granito. Poiché il granito è più leggero del basalto trovato nel mantello terrestre, esso galleggia in superficie, contribuendo alla formazione di una crosta continentale stabile. Sebbene sia ancora da stabilire in che misura i processi vitali abbiano contribuito alla formazione delle rocce e dei continenti terrestri, è evidente che il suolo è decisamente una creazione della vita, anzi, potremmo addirittura dire che si tratta di un essere vivente. Ogni centimetro cubo di terra contiene miliardi di elementi di microflora e microfauna che comprendono batteri (fino a un miliardo per milligrammo), funghi (fino a un milione per milligrammo), alghe (centomila per milligrammo), protozoi (centomila per milligrammo), nematodi (cento per milligrammo) e lombrichi (fino a trecento per metro cubo). Come osservano Suzuki e McConnell: Quasi tutto l’azoto essenziale per la vita è reso disponibile dall’azione di microorganismi azotofissatori, la maggior parte dei quali si trova nel suolo. Il suolo è un microcosmo in cui si manifestano tutte le relazioni che avvengono a un livello più ampio; in questo elemento, la terra, gli altri tre elementi – aria, acqua e energia – contribuiscono a creare la vitalità del suolo. [...] Gli organismi del suolo comprendono una parte considerevole della complessiva diversità della vita. In questo mondo oscuro e brulicante, minuscoli predatori inseguono la loro preda, piccoli erbivori pascolano sulle alghe, migliaia di microorganismi acquatici affollano un’unica goccia d’acqua nel suolo, e funghi, batteri e virus recitano la loro parte su quest’invisibile palcoscenico. Con il loro ciclo di vita e di morte questi organismi creano e mantengono la consistenza e la fertilità del suolo; sono i custodi del misterioso materiale che crea la vita da cui loro, e noi, dipendiamo completamente. (1997)

Gli organismi del suolo costituiscono in realtà una percentuale molto elevata della biomassa complessiva del suolo, soprattutto se si calcola che si spingono ben al di sotto della superficie della Terra. Sono state trovate alcune carote di roccia prelevate a quattro chilometri di profondità con un numero elevatissimo di microorganismi. Come affermano Suzuki e McConnell, le stesse rocce terrestri sono in un certo senso vive.

Sebbene molti aspetti della teoria di Gaia siano corroborati da solide prove, su di essa non vi è grande consenso scientifico. In parte, il grado di consenso dipende da quale versione della teoria si presenta. Quella che possiamo chiamare Gaia debole – secondo cui la vita ha esercitato un’influenza, anzi, un’influenza forse molto marcata, su molti aspetti non biotici della Terra come l’atmosfera e gli oceani – è probabilmente accettabile per la maggior parte degli scienziati. Una posizione in un certo senso più forte, che possiamo chiamare Gaia moderata, sostiene che la biosfera in realtà modifica il suo ambiente e che organismi e habitat coevolvono. Questa versione, quantunque sia in un certo qual modo più controversa, sembra tuttavia raccogliere un consenso abbastanza diffuso. Dall’altra parte, le versioni della teoria che potremmo chiamare Gaia forte sono molto più dibattute, in quanto sostengono che gli organismi viventi, operando insieme, in qualche modo di fatto regolano o controllano il loro ambiente per conservare – o forse anche per ottimizzare – le condizioni necessarie alla vita. Un’obiezione alle versioni forti della teoria di Gaia è che tali tesi non possono mai essere dimostrate attraverso esperimenti scientifici. Può benissimo darsi, infatti, che in questo senso Gaia non sia un’ipotesi nel senso tradizionale del termine, ma ciò non toglie che possa essere vera. Sicuramente sotto molti aspetti sembra rappresentare la spiegazione che più chiaramente corrisponde ai fatti così come li conosciamo. Un’altra obiezione riguarda il sospetto con cui la scienza guarda a tutto ciò che potrebbe alludere a un’attività intenzionale da parte di organismi non umani. Asserire che gli organismi operino in qualche modo insieme per raggiungere un obiettivo rappresenta insomma una sfida seria all’ortodossia scientifica. Per cercare di rispondere a quest’obiezione, James Lovelock ha creato un semplice modello matematico chiamato Daisy World, il quale immagina un pianeta in cui sono presenti solo due tipi di margherite – una bianca (che riflette

il calore) e una nera (che lo assorbe) – che riescono a regolare la temperatura superficiale della Terra attraverso la selezione naturale. In sostanza, se il pianeta si raffredda le margherite nere aumentano rispetto a quelle bianche, perché assorbono calore in maniera più efficace e questo, a sua volta, provoca il riscaldamento il pianeta (poiché le margherite nere riflettono meno le radiazioni solari). Se il pianeta però diventa troppo caldo le margherite bianche, che riflettono il calore, sono favorite, e la loro azione riflettente contribuisce a raffreddare il pianeta. Questo modello ha lo scopo di dimostrare, in una forma molto semplificata, come gli anelli di retroazione cibernetica possano dare ragione dell’attività regolatrice di Gaia. Va precisato, inoltre, che vi sono alcune differenze tra le teorie di Gaia proposte da Lovelock e quelle proposte da Margulis. Lovelock parla spesso di Gaia come un’entità vivente, o anche come un organismo vivente. Molti scienziati, incluso Margulis, respingono questa terminologia. Che cosa si intende per organismo in questo caso? Un organismo non dovrebbe essere in grado di riprodursi53? Margulis sostiene che la Terra è semplicemente un sistema altamente complesso, una «serie di ecosistemi che interagiscono, i quali compongono un unico, enorme ecosistema sulla superficie della Terra. Punto». Ma poi aggiunge che «la superficie del pianeta si comporta, entro certi limiti, come un sistema psicologico», che in un certo senso sarebbe «meglio considerarlo vivo» (1998). Dal nostro punto di vista, le prove che Gaia sia davvero in grado di regolare le condizioni che consentono alla vita di prosperare sembrano abbastanza solide da indurci a considerare il pianeta un’entità realmente vivente, paragonabile in un certo qual modo a un organismo, o forse a una specie di super-organismo. Sebbene l’ortodossia scientifica tenti ancora di ridurre la complessa attività altamente coordinata del nostro pianeta vivente a una serie di anelli di

retroazione cibernetica o, ancora peggio, a una serie di eventi fortuiti, a nostro avviso l’attività della Terra, nella misura in cui si sforza di mantenere le condizioni necessarie affinché la vita prosperi sul nostro pianeta, sembra in realtà possedere un che di intenzionale. Un esempio particolarmente interessante di questo tipo di attività si può osservare nel ciclo dello zolfo. Lo zolfo è un elemento essenziale per gli organismi viventi, ma sul terreno esso (in forma di ioni solfato) va continuamente perduto nel deflusso dei fiumi. Lo zolfo, in effetti, da tempo si sarebbe esaurito sui continenti e sulle isole se non fosse stato rimpiazzato da grandi quantità di dimetilsolfuro emesso da molti organismi marini. Come osserva Lovelock, tuttavia, «perché le alghe marine dell’oceano dovrebbero preoccuparsi della salute e del benessere degli alberi, degli animali e degli uomini che stanno sulla superficie?» (1988 [1991, p. 152]). Se da un lato egli ipotizza un processo evolutivo che potrebbe aver dato vita ad alghe che emettono dimetilsolfonio, dall’altro ciò non sembra spiegare in maniera adeguata questo processo in altri organismi marini. Inoltre, Lovelock osserva che la presenza di organismi terrestri, a sua volta, giova alla vita marina aumentando l’erosione della roccia e altresì il flusso di nutrimenti essenziali per il mare54. Non potrebbe essere questa la prova di qualcosa che somiglia all’altruismo o, al limite, di una specie di coevoluzione cooperativa che richiede una visione d’insieme più ampia? Non potrebbe darsi che tutti gli organismi viventi lavorino insieme in un modo misterioso, per migliorare davvero le condizioni della vita sul pianeta? Da questo punto di vista, il contributo fornito dagli organismi terrestri a quelli acquatici e viceversa sembra alquanto coerente. Quanto meno, la teoria dei sistemi sostiene che un sistema vivente come quello della Terra funziona in un modo al contempo cosciente e intelligente. Capra (1996 [2006]) ritiene che questo tipo di consapevolezza non necessiti di un disegno complessivo o di un fine, ma solo che è così che appare a

noi: sebbene cioè un disegno o un destino potrebbero non essere necessari, nello sforzo volto a mantenere le condizioni necessarie alla vita e nel movimento verso una sempre maggiore complessità, diversità e comunione, sembra esservi nondimeno una specie di finalismo. In molte culture, come anche in Europa fino al Medioevo, le persone spesso credevano che la Terra (o addirittura l’intero cosmo per come era concepito allora) avesse un’anima: l’anima mundi. Rupert Sheldrake ritiene che l’idea di un mondo animato corrisponda al campo morfico della Terra stessa e che questo campo sia collegato a un campo ancora più grande su scala cosmica. Non potrebbe un simile campo, in un certo qual modo, contribuire a coordinare le attività delle parti per il bene della più grande totalità? Ciò non richiede consapevolezza, sebbene possa implicare al limite una specie di attività cosciente. Come abbiamo visto, i campi morfici hanno una natura formativa, ed evolvono anche nel tempo. Come osserva Sheldrake: Il campo finalistico di Gaia può essere considerato una specie di campo morfico di Gaia. [...] Sulla base di questi principi generali, quindi, ci si aspetta che il campo morfico di Gaia funga da coordinatore dei vari elementi da cui è costituita, come la circolazione delle pietre liquefatte nel suo interno, la dinamica della magnetosfera, i movimenti delle piattaforme continentali, i movimenti circolatori degli oceani e l’atmosfera, nonché le rispettive composizioni chimiche, la regolazione della temperatura globale e l’evoluzione degli ecosistemi. Tali attività di controllo, simili a quelle dei campi morfici dei sistemi a tutti gli altri livelli di complessità, comprenderebbero l’ordinamento di funzioni probabilistiche altrimenti indeterminate. (Sheldrake, 1990 [1993, p. 157])

Dal punto di vista della prassi trasformativa, un vantaggio della teoria di Gaia è che essa comporta una forte connotazione mitica, la quale potrebbe contribuire a incentivare l’umanità a intraprendere l’opera di risanamento del nostro pianeta. Il concetto di Gaia – Madre Terra – ha echi antichi che possono ridestare in noi un atteggiamento più sacro e reverenziale nei confronti della nostra dimora. All’interno

della dimensione di Gaia, ci percepiamo più come parte di una comunità di vita più grande, una comunità che opera insieme per mantenere le condizioni che consentono alla vita di prosperare ed evolvere. Ciò risveglia in noi sia un senso di responsabilità sia un senso di connessione con un tutto più grande di cui siamo parte. Allo stesso tempo, però, come Deborah Du Nann Winter sottolinea, c’è un pericolo nell’immaginario femminile che Gaia evoca: I termini Madre Terra e Gaia (nella misura in cui le persone intendono l’identità femminile di Gaia nella mitologia greca) veicolano altresì i nostri atteggiamenti sessisti inconsci sullo status e le capacità delle donne e degli uomini. Se le madri e le donne fossero considerate infinitamente generose, premurose e amorevoli, allora saremmo più propensi a sopravvalutare la capacità rigenerativa del pianeta. Di contro, considerando la natura come una femmina ostinata e disobbediente, come sia Freud che i pensatori illuministi facevano, alimenteremmo i nostri tentativi di dominarla e controllarla. (1996)

Ci chiediamo, tuttavia, se queste obiezioni non possano essere superate nella misura in cui anche noi superiamo i vecchi stereotipi sulle donne e sulla natura. Sicuramente non c’è alcun bisogno di pensare la Terra come qualcosa di femminile o di maschile, e tuttavia molti popoli antichi che hanno pensato la Terra in quanto madre hanno anche avuto un grande rispetto tanto delle donne quanto del pianeta. In ogni caso, che si pensi o meno Gaia come una donna, la sua personificazione serve a rendere più reale l’entità vivente che essa rappresenta, e altresì a suggerire una dimensione spirituale. Sebbene tale idea abbia avuto il vantaggio di contribuire a conquistare l’immaginazione di tante persone, purtroppo ha anche allontanato alcuni scienziati che, forse, non hanno preso nella dovuta considerazione questa teoria, proprio per il suo immaginario mitologico. Da un punto di vista della prassi trasformativa, la prospettiva di Gaia può aiutarci a riformulare questioni e problemi in un contesto più ampio, permettendoci di interpretare le situazioni in un modo nuovo. Nel caso dell’attuale crisi climatica, dobbiamo interpretare

l’aumento dei gas serra come l’effetto dell’attività umana alla luce dell’intera storia di Gaia. Gli organismi della Terra hanno lavorato nel corso degli ultimi tre o quattro miliardi di anni per rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera di modo che la temperatura della Terra non aumentasse. In effetti, dalla prospettiva di Gaia, il raffreddamento del pianeta può essere considerato preferibile poiché, durante le ere glaciali, a causa della diminuzione del livello dei mari, appaiono grandi distese di terra, il che consente di fatto una maggiore estensione delle foreste tropicali e, con esse, una maggiore biodiversità. Allo stesso tempo, mentre i gas serra sono stati sistematicamente eliminati dall’atmosfera, le piante si sono adattate a sopravvivere a livelli di concentrazione di CO2 sempre più bassi. Eppure, in un batter d’occhio – due secoli o quasi – gli esseri umani hanno scavato alla ricerca del carbonio (petrolio e carbone) per così tanto tempo sepolto e, bruciandolo, lo hanno reintrodotto nell’atmosfera. In questo lasso di tempo abbiamo avviato il cambiamento climatico del pianeta. Negli ultimi cinquant’anni la temperatura globale è già aumentata di 1 °C, e probabilmente salirà di 1-2 °C nei prossimi cinquant’anni e forse di 3-4 °C entro la fine del prossino secolo. Se guardiamo le cose in prospettiva, possiamo dire che la temperatura adesso è di appena 5 °C più elevata rispetto all’era glaciale. E in realtà, attraverso gli anelli di retroazione positiva, il danno che abbiamo fatto può essere ulteriormente aggravato nel corso del tempo. Dalla prospettiva di Gaia è evidente che stiamo agendo in modo davvero sconsiderato, annullando, in quello che da una prospettiva planetaria è solo un istante di tempo, il lavoro che la rete biotica ha svolto in centinaia di milioni di anni. Come nota Lovelock: Se l’attuale periodo di surriscaldamento rappresenta una febbre planetaria, dovremmo aspettarci che la Terra lasciata a se stessa si distenda nella sua normale e tranquilla era glaciale. Tale stato di comfort potrebbe essere irrealizzabile perché abbiamo fatto di tutto per rimuovere la sua pelle e trasformarla in terre coltivabili, estirpando gli alberi che sono uno strumento di guarigione. Inoltre, aggiungiamo al paziente, già febbricitante, anche un’ampia coltre di gas serra. È più probabile che

Gaia rabbrividisca, per poi passare a una nuova condizione di stabilità, adatta a un biota diverso e più favorevole. Potrebbe trattarsi di uno stadio molto più caldo, ma qualunque cosa sia, non sarà più il mondo confortevole che conosciamo. Queste previsioni non sono scenari apocalittici frutto della fantasia, ma qualcosa di tremendamente plausibile. Abbiamo già modificato l’atmosfera in una maniera che non ha eguali nella recente storia geologica della Terra. Forse ci stiamo dirigendo verso una china che ci condurrà a un mare che si sta ingrossando per inghiottirci. (1988)

Personalmente siamo meno pessimisti di quanto non sia Lovelock circa il destino dell’umanità, ma il suo monito non è infondato. Di certo non dobbiamo partire dal presupposto che Gaia possa essere in grado di conservare le condizioni ideali per gli esseri umani di fronte alle nostre attuali pratiche. L’umanità, infatti, può benissimo distruggere se stessa e tutta una serie di altre specie se non si rende conto di essere solo una parte di un tutto molto più grande, un tutto con il quale dobbiamo collaborare se desideriamo veramente prosperare su questo pianeta. Se saremo capaci di raccogliere questa sfida e di comprendere il nostro ruolo all’interno del ben più grande sviluppo e fine di Gaia, e anzi di quello del cosmo intero, allora anche noi riusciremo a imparare a vivere e ad agire in modi che contribuiscano davvero al benessere collettivo dell’intero nostro pianeta.

Finalità L’idea di fine è onnipervasiva e profondamente intessuta nella trama dell’universo. Persino la curvatura dello spazio ha un orientamento estremamente delicato – tra la scomparsa dovuta al collasso di un enorme buco nero, se l’iniziale curvatura fosse stata un poco più grande, e un’esplosione in una dispersione di particelle, se fosse stata poco più piccola. (O’Murchu, 1997) L’idea che la complessità [del cosmo] sia il risultato di un’interazione casuale non è più praticabile. [...] C’è una forte tendenza nel dibattito scientifico a pensare che in un modo o nell’altro fin dall’inizio l’universo fu spinto verso [...] comunità complesse.

(Swimme, 1997) Esiste [...], sul piano della fisica più fondamentale, una tesi molto suggestiva secondo cui vi è un solo principio evolutivo che seleziona la vita e la coscienza in ogni stadio dell’universo dispiegato. (Zohar-Marshall, 1994) La prova che vi sia una finalità nei processi vitali a ogni livello di organizzazione nella gerarchia dell’ecosfera è così schiacciante che negarla sembra inconcepibile. (Goldsmith, 1998)

Senza una direzione verso una meta non possiamo spiegare i

fenomeni che osserviamo. Se vediamo che il finalismo è presente perfino nelle particelle subatomiche, finiamo per porre l’uomo al di sopra della natura. Noi esseri umani sappiamo cos’è lo scopo, noi agiamo in senso finalistico. Questo ci contraddistingue dal resto della natura? Direi di no. (Capra-Steindl-Rast, 1991 [1993, p. 199]) Se l’umanità vuole orientarsi all’interno della storia del cosmo, e in particolare all’interno del dipanarsi della storia della Terra stessa, il problema dell’esistenza di un fine diventa centrale. Come abbiamo notato in precedenza, una cosmologia vivente è una cosmologia che ci aiuta a trovare un significato nelle nostre esistenze. Eppure, se il cosmo è in se stesso qualcosa di casuale e privo di scopo, che speranze abbiamo di rintracciare un tale significato? Se noi stessi non siamo che un mero evento fortuito, parte di una lunga serie di eventi fortuiti, come può la vita avere un qualunque autentico fine? Stando alle parole di Bertrand Russell, che abbiamo citato in precedenza, noi saremmo in realtà solo un «prodotto di cause prive di previsioni circa le loro finalità; che la sua origine, il suo sviluppo, le sue speranze e le sue paure, i suoi amori e le sue credenze, non sono altro che il risultato di collisioni accidentali di atomi; [...] e che solo sul solido fondamento di un’inflessibile disperazione, si può costruire la dimora dell’anima» (citato in Sheldrake, 1988 [2011, pp. 20-21]). Se il cosmo non dovesse rivelare alcun senso, le nostre vite sarebbero in ultima istanza ridotte a una lotta per la sopravvivenza, o forse al conseguimento di un appagamento monetario. Conterebbe davvero qualcosa, in seno a un quadro più ampio, lottare per una liberazione autentica, cercare un modo per vivere in armonia all’interno della più ampia comunità biotica terrestre? Forse alcuni potrebbero ancora trovare un fine nobile in questa disperata visione del mondo che ci circonda, ma pare quanto mai improbabile che un tale fine abbia il potere di coinvolgere tutta l’umanità. Se davvero non ci fosse scopo nel cosmo, bisognerebbe

realmente pensare che la maggior parte di questo libro sia stato scritto invano. Eppure, le nostre analisi sulla cosmologia sembrano in effetti mostrare che esiste una sorta di finalità intessuta nella trama del cosmo. Perché l’universo, contro ogni previsione, forma galassie, stelle e pianeti? Perché emerge la vita? Perché i batteri, perfettamente adattati al nostro pianeta, evolvono in organismi più complessi? Tutti questi fatti suggeriscono un movimento, una spinta verso la complessità che non può essere spiegata dalla sola casualità. Con finalità, però, non intendiamo predestinazione. La cosmologia che emerge tanto dalla fisica subatomica quanto dalla teoria dei sistemi non tollera l’idea di un universo laplaciano in cui, se solo fossimo a conoscenza delle iniziali e precise condizioni di partenza di tutto, potremmo predire l’intero corso della storia. No, quando parliamo di finalità abbiamo in mente qualcosa di più sottile e più creativo. Non si tratta tanto di una destinazione intesa come direzione o orientamento verso un’evoluzione del cosmo che preveda un significato più profondo e, in un certo senso, un obiettivo. L’obiettivo stesso potrebbe evolvere, e potrebbe comunque esservi un’infinita varietà di vie che muovono nella stessa direzione generale. Si tratta piuttosto di un Tao, di una specie di saggezza ambulante e che evolve, il quale è intrecciato nella trama stessa del cosmo. Non può essere definito, ma può essere percepito. Come l’idea del Malkuta, che è un principio creativo, un «“braccio carico di frutti” in procinto di creare, o di una serpeggiante primavera che è pronta a sbocciare con tutto il verdeggiante potenziale della terra. È ciò che dentro di noi si dice spesso “Io posso” ed è la volontà di procedere, a dispetto di tutte le opposizioni, in una nuova direzione» (Douglas-Klotz, 1990 [2002, p. 53]). È come il Dharma che in qualche modo orienta «il modo in cui le cose funzionano», qualcosa che può anche essere definito «il processo organizzativo stesso» (Macy, 1991a). Più che per predeterminazione, il dispiegarsi del cosmo avviene attraverso dinamiche di autoorganizzazione che non possono mai

essere previste a causa dell’interazione di una causalità reciproca, o della “coproduzione condizionata”. Eppure, questa creatività implica in quanto tale una sorta di direzione, un movimento verso una maggiore complessità, diversità, relazionalità e consapevolezza. In un cosmo siffatto, c’è spazio per senso e scopo, ma non esiste un piano definito. Si possono seguire alcune strade per poi scoprire che sono vicoli ciechi. Altre si riveleranno migliori, magari per una determinata fase del viaggio. I modelli cambiano nel tempo e si spostano, almeno in senso lato, in una certa direzione, ma la forma futura del disegno non può mai essere conosciuta in se stessa. Non è «né casuale né determinata ma creativa» (T. Berry, 1999). Vi è, in effetti, un’ampia gamma di prove scientifiche a sostegno dell’idea che l’universo possa non essersi evoluto come ha fatto per puro caso. Come abbiamo già evidenziato, se il tasso di espansione del cosmo fosse stato infinitesimamente più piccolo, o se la forza di gravità fosse stata infinitesimamente più forte, il cosmo non avrebbe mai potuto sviluppare nessun tipo di struttura. Parimenti, Brian Swimme (1997) sottolinea che la configurazione precisa delle quattro forze fondamentali (gravità, elettromagnetismo, interazione nucleare debole e forte) ha bisogno di essere perfettamente equilibrata per consentire all’evoluzione di strutturare il cosmo. In effetti, è stato calcolato che la probabilità che si determini questo equilibrio per puro caso è di uno su 10299 (ossia, uno su 1 seguito da duecentoventinove zeri!). In quest’ottica, si calcola che il numero totale delle particelle elementari nell’universo sia di soli 1090 (1 seguito da novanta zeri). Probabilità come queste sono così minime che la mente umana non riesce a immaginarle. L’impressione è che l’equilibrio delle forze sia stato selezionato da determinati processi: ma come mai sono emerse proprio così? Forse la loro forma definitiva [...] dipese in parte dalla sperimentazione e dall’esplorazione avvenute in un’era più antica e più libera. Forse le loro strutture furono determinate in una certa misura da ciò che aveva preceduto il momento della simmetria, quando un’attività pura o se non altro originaria si era fissata in una

determinata forma. Se così stanno le cose, queste quattro interazioni possono essere considerate qualcosa di analogo alle abitudini che l’universo ha adottato nelle sue azioni primitive [...] L’universo ha stabilito le sue fondamentali interazioni fisiche in maniera simile a come ha dispiegato il suo spazio: con un’eleganza sbalorditiva. Se avesse optato per un’interazione forte leggermente differente, tutte le stelle future sarebbero esplose in pochissimo tempo, rendendo impossibile lo sviluppo della vita. Se l’universo avesse optato per un’interazione gravitazionale leggermente più forte, nessuna delle galassie future avrebbe preso forma. L’intera natura dell’universo si mostra nelle sue azioni. L’universo nella sua espansione e nella sua fondamentale coerenza rivela l’eleganza dell’attività necessaria a tenere aperte tutte le possibilità immensamente complesse del suo futuro dischiudimento. (T. Berry-Swimme, 1992)

Se prendiamo in considerazione la possibilità che la vita emerga da un’attività casuale, ci troviamo di fronte agli stessi livelli di improbabilità. Per esempio: • Tutte le forme di vita che conosciamo dipendono dagli atomi di carbonio. Eppure, se la risonanza nucleare del carbonio fosse stata anche solo infinitesimamente differente, in pratica non si sarebbe formato nessun atomo di carbonio nel cuore delle stelle e la vita sulla Terra non sarebbe mai nata (O’Murchu, 1997). • Stando ad alcuni calcoli, dall’inizio del cosmo non è trascorso abbastanza tempo perché possa aver luogo una collisione casuale di atomi per dare forma a un singolo aminoacido, eppure gli aminoacidi esistono, non solo sulla Terra ma in tutta la galassia (T. BerrySwimme, 1992). • La probabilità che un enzima composto di una piccola catena di venti o trenta aminoacidi si formi per puro caso è semplicemente inconcepibile: Fred Hoyle e Chandra Wickramasinghe stimano che la probabilità che ciò accada attraverso un processo casuale è di una su 1040,000, vale a dire uno su 1 seguito da quarantamila zeri (Roszak, 1992). Simili livelli di probabilità hanno portato gli scienziati a formulare il cosiddetto “principio antropico cosmologico”. Nella sua versione debole, questo principio afferma che «i valori presi in considerazione

di tutte le quantità fisiche e cosmologiche non sono ugualmente probabili, ma determinano i loro valori a condizione che l’esistenza possa evolvere in luoghi in cui la vita si basi sul carbonio e che l’universo sia abbastanza vecchio perché ciò possa accadere» (BarrowTipler, 1986). Una versione alternativa della stessa idea, tratta dal Dizionario Merriam-Webster, dice semplicemente che «le condizioni che vengono osservate nell’universo devono permettere l’esistenza dell’osservatore». In base a questa versione del principio antropico non c’è bisogno di credere che esista realmente un qualunque tipo di scopo o direzione. Potremmo addirittura dire che ci troviamo di fronte alla mera affermazione di un’ovvietà: dato che la vita esiste nell’universo, le condizioni e le “leggi” fisiche (o abitudini) del cosmo devono avere una determinata forma per permettere l’esistenza della vita. Secondo una certa concezione, potrebbero anche esserci un’infinità di universi, gran parte dei quali non sviluppano mai alcun tipo di struttura né tantomeno forme di vita. Ci è semplicemente capitato di abitare in una delle infinitesimamente piccole porzioni di universo in cui la vita è possibile55. Si tratta di una sorta di appello finale al cieco caso, qualcosa di analogo all’idea secondo cui, dato un infinito numero di scimmie che picchiano a casaccio sui tasti di una macchina per scrivere, almeno una di esse creerà per caso l’opera completa di Shakespeare. Come osserva Theodore Roszak: «Simili idee hanno più o meno il carattere di un koan buddhista zen: disorientano la mente attraverso la contraddizione. Sembrano dire, allo stesso tempo, che noi ci troviamo in una condizione unica nel suo genere ma che non è nulla di speciale» (1992). Un’altra versione del principio antropico, considerata più “forte”, segue una rotta diversa. In essa si afferma che «l’Universo possiede quelle proprietà che permettono alla vita [o, più in generale, agli osservatori] di svilupparsi al suo interno a un certo punto della storia»

(Barrow-Tipler, 1986). Una volta ancora, una simile affermazione ha una sorta di retrogusto tautologico: se vi sono degli osservatori nell’universo, allora esso deve possedere quelle proprietà che permettono l’esistenza di siffatti osservatori. Tuttavia, è una versione fortemente controversa, in quanto allude a una qualche sorta di finalità, o perfino di disegno, presente nel cosmo. Il vero significato del principio antropico – in ciascuna delle sue versioni – potrebbe essere che gli scienziati non stanno discutendo affatto di simili questioni. Come Theodore Roszak osserva, anche nella sua «formulazione più frivola, il principio antropico riecheggia un certo sommesso stupore di fronte al fatto che qualcosa come l’intelligenza esista. Esso indugia nello stupore di fronte al fatto che l’universo ha generato una vita autocosciente in grado di sopravvivere all’interno di un campo di probabilità così esiguo». Roszak prosegue notando che «l’originalità del principio antropico sta nel fatto che esso pone la vita e la mente al centro della cosmologia come questioni con cui occorre fare i conti e che meritano la nostra considerazione» (1992). Uno degli scienziati che sembra abbracciare convintamente questa concezione è il fisico matematico Paul Davies, il quale arriva a sostenere che «sembra all’opera un principio nascosto capace di organizzare il cosmo in modo coerente» (citato in Roszak, 1992). Eppure, per generazioni gli scienziati hanno completamente evitato qualsiasi allusione all’esistenza di una finalità nel cosmo. Persino oggi c’è una forte resistenza nella maggior parte della comunità scientifica a qualunque accenno alla “teleologia” – ovverosia all’idea che vi sia nella natura un disegno, uno scopo, un principio organizzatore o una finalità. Per esempio, quando l’ipotesi di Gaia venne criticata perché troppo teleologica – in quanto sembrava implicare che il superorganismo Gaia agisse finalisticamente per conservare le condizioni necessarie alla vita –, Lovelock rispose ai critici creando il modello Daisy World (con Andrew Watson) per dimostrare che la semplice combinazione degli anelli di retroazione

cibernetica e della selezione naturale poteva spiegare le funzioni regolatrici di Gaia (sebbene in verità questo modello rudimentale paia troppo semplicistico per spiegare il comportamento apparentemente intenzionale del nostro pianeta). In realtà, la maggior parte degli sforzi degli scienziati volti a evitare la teleologia – in particolare riguardo agli organismi viventi – sembra un esercizio di semantica. Goldsmith (1998), per esempio, evidenzia che se da un lato non ci si può limitare ad affermare che «la funzione del cuore è di pompare sangue» (cosa che la maggior parte di noi considera ovvia), si può invece affermare che «il cuore è una condizione necessaria per la circolazione del sangue nei vertebrati». Questa cosiddetta “teleonomia” è accettabile perché è di natura essenzialmente meccanicistica ed evita qualsiasi accenno alla metafisica: ci si può domandare il “perché”, ma solo entro limiti molti angusti. Un simile arzigogolo equivale a dire che solamente gli organismi sembrano avere un fine. Julian Huxley, per esempio, sostiene che «a prima vista, il settore biologico sembra pieno di scopi. Gli organismi sono costruiti come se perseguissero intenzionalmente un obiettivo cosciente. Ma la verità sta in queste due parole “come se”» (citato in Goldsmith, 1992 [1997, p. 33]). Allo stesso modo, Charles Darwin affermava che qualsiasi traccia di uno scopo è solo apparente, poiché gli organismi non agiscono finalisticamente ma attraverso la capacità di “cogliere le opportunità”. Ma la capacità di “cogliere le opportunità”, sottolinea Goldsmith, implica essa stessa un fine: «Un individuo adattivo non coglie un’occasione per realizzare un mutamento casuale, ma solo un mutamento adatto ai suoi scopi, quello che giudica “ipoteticamente migliore” per se stesso e per la gerarchia dei sistemi di cui fa parte» (1992 [1997, p. 34]). La “lotta per la sopravvivenza”, infatti, è di per sé un fine. Perché mai un animale, una pianta o un microorganismo dovrebbe lottare per sopravvivere se non avesse uno scopo? Se il suo

obiettivo è sopravvivere, e presumibilmente propagarsi, allora uno scopo è già presupposto. Il biologo Richard Dawkins, come abbiamo già notato, sostiene addirittura che i geni siano “egoisti”. In sostanza, dunque, si può attribuire uno scopo a una molecola (DNA) fintantoché esso è basato sull’interesse personale, ma non appena si fa riferimento a qualunque tipo di finalità che indichi una natura più altruistica e collaborativa – anche in organismi complessi con sistemi nervosi molto sviluppati – allora l’idea di scopo non è più accettabile. Analogamente, la stessa selezione naturale implica uno scopo. Perché gli esseri vengono selezionati? Come afferma lo zoologo francese P.P. Grassé: «Non ci può essere selezione senza scopo (intention)» e «spiegando l’evoluzione del più adatto in termini di selezione, essi [i neodarwinisti] attribuiscono a tutti gli esseri viventi uno scopo intrinseco» (citato in Goldsmith, 1992 [1997, p. 35]). Alla fine, dunque, il rifiuto della teleologia nella scienza – in particolare nella biologia – è fondamentalmente un’illusione. La biologia non ha respinto la teleologia, ma solo gli argomenti teleologici non basati sull’egoismo, la competizione e la sopravvivenza: vale a dire che essa accetta quei fini che sono in sintonia con la mentalità del capitalismo, salvo poi rifiutare quelli che non lo sono. Parimenti, privilegia le descrizioni meccaniciste della finalità rispetto a quelle di natura organicistica. Il ricorso ai processi casuali come motore della creatività del cosmo affonda altresì le radici in un presupposto ideologico legato all’ideologia capitalista. Come osserva Goldsmith: La causalità è considerata essenziale perché è impossibile giustificare l’impresa prometeica nella quale la nostra società industriale è impegnata e che insiste a trasformare sistematicamente la biosfera in modo che possa meglio soddisfare interessi di breve periodo se questa è organizzata in modo da realizzare un proprio grande progetto globale. Considerando casuale la biosfera, d’altra parte, è possibile dare a intendere che l’ordine che c’è nel mondo sia stato creato dalla scienza, dalla tecnologia e dall’industria invece che da Dio o dal processo evolutivo. Come scrive A.J. Bernal (1905-1971), «la tendenza fondamentale del progresso è la sostituzione di un ambiente indifferente con uno creato deliberatamente».

(1992 [1997, p. 152])

Infine, va rilevato che il rifiuto della teleologia è profondamente radicato nell’antropocentrismo. Si presume che l’uomo abbia un fine, però si presume anche che gli uomini siano gli unici ad averlo. Ma perché gli esseri umani dovrebbero essere i soli dotati di questa caratteristica? Se altre creature mostrano comportamenti che sembrano animati da un’intenzione, non sarebbe molto più semplice, basandosi sulla propria esperienza, concludere che quel dato comportamento è intenzionale? A dire il vero, forse si fa un po’ di confusione proprio su quello che intendiamo per “finalità”. Per esempio Fritjof Capra afferma che «l’assunzione teleologica per la quale vi è una finalità intrinseca nei fenomeni naturali è soltanto una proiezione umana, proprio perché lo scopo è una caratteristica peculiare della coscienza riflessiva e non della semplice natura in quanto tale» (2002). Eppure lo scopo, nell’accezione che qui adoperiamo, non richiede una coscienza autoriflessiva. Non c’è bisogno di essere consci di un obiettivo per averne uno; infatti, molte persone sono ispirate da obiettivi che restano inconsci. No, lo scopo come noi lo intendiamo è molto simile a un principio organizzatore, una saggezza nascosta che si manifesta nel dispiegarsi del cosmo. Alla fine, l’aggiramento della teleologia sembra derivare più da un preconcetto che dalla logica. Vi è, infatti, una prova lampante del fatto che il cosmo si sia evoluto in una certa direzione, che a sua volta implica sia un obiettivo che un fine. La probabilità che solo per puro caso il nostro cosmo sia stato in grado di sviluppare la complessità che ha generato è, a tutti gli effetti, nulla. L’universo, come hanno detto alcuni scienziati, è “messo a punto” per favorire lo sviluppo della complessità e, in ultima analisi, la vita e la coscienza stesse. Per quanto riguarda il nostro pianeta, la prova a supporto dell’ipotesi di Gaia, ancora una volta, indica una specie di scopo planetario collettivo, nel senso di un movimento verso una complessità, una diversità, una

cooperazione e una consapevolezza maggiori. Come sottolinea Edward Goldsmith: «È solo in termini di un’ecologia teleologica che possiamo comprendere il ruolo degli esseri viventi nell’ambito della gerarchia gaiana, in particolare il loro carattere fondamentale [...] che soprattutto rende possibile l’ordine, l’integrità e la stabilità del mondo vivente. [...] L’ecologia deve essere teleologica, poiché l’intenzionalità è probabilmente la caratteristica più essenziale degli esseri viventi» (1992 [1997, p. 36]). L’umanità stessa è nata da una Terra vivente, e anche noi siamo chiamati a operare per quello scopo più grande che si palesa nelle dinamiche olistiche del pianeta e, in verità, dell’intero cosmo. Come evidenzia il teologo John Haught: Il cosmo non è costretto, ma invitato, a far sì che al suo interno nascano continuamente forme più diverse di novità che seguono un disegno. Il cosmo non sempre accoglie questo invito in maniera semplice. Può divagare e sperimentare le diverse forme di bellezza. Merita la nostra cura, quindi, non perché sia precario, ma perché è un esempio di bellezza divinamente ispirata. (1993)

Il ricorso al concetto di “invito” è davvero illuminante. Non c’è un progetto, e forse nemmeno un obiettivo chiaro e definito, ma c’è una dinamica di attrazione (o un attrattore) che muove il cosmo verso una certa direzione. In questo senso, l’attività del cosmo è sicuramente consapevole. Inoltre, nella misura in cui facciamo parte del cosmo – e siamo qui solo perché una miriade di forze, entità, sistemi ed esseri viventi hanno creato le condizioni di possibilità per la nostra esistenza – sappiamo che la stessa possibilità di sviluppare un’autocoscienza è parte integrante della trama dell’universo fin dall’inizio. Una volta ancora, non c’è predestinazione – le cose potevano andare diversamente (e infatti probabilmente sono andate diversamente in altre parti del cosmo) –, ma la possibilità che il nostro particolare tipo di mente si manifestasse esisteva fin dal momento in cui il seme cosmico per la prima volta venne all’essere. Quel che è chiaro è che l’umanità deve comprendere che noi, e il

pianeta che abitiamo, non siamo semplici accidenti cosmici. In un certo senso, l’universo per quasi quattordici miliardi di anni ha tentato di dare vita a noi. Questo non vuol dire che ci troviamo al vertice di una specie di gerarchia: ogni creatura e ogni cosa ha il proprio posto nel cosmo. Noi siamo tutti, in un certo senso, speciali e necessari. Di certo, dalla nostra prospettiva, la stessa Gaia potrebbe essere interpretata come il più prezioso figlio del cosmo. Gaia, considerata nella sua totalità, è molto più complessa – e, potremmo dire, molto più bella – di qualsiasi altro essere che fa parte di questo superorganismo planetario. Come sottolinea Roszak, nonostante «gli sforzi disperati per affermare l’onnipotenza dell’accidentale, in un senso che è sia poetico che astronomicamente corretto, possiamo ormai dire che l’intero cosmo ha dato alla luce la Terra vivente» (1999). Per quanto riguarda l’umanità, siamo davvero figli del processo cosmico e della stessa evoluzione di Gaia. Il nostro ruolo e il nostro fine devono essere intesi all’interno del ben più onnicomprensivo fine di Gaia, e del cosmo stesso in realtà. Nella misura in cui possiamo allinearci – come individui e come specie – a questa finalità più grande, nuove possibilità possono emergere, possibilità che a stento riusciamo a immaginare. Ma per fare ciò, dobbiamo innanzitutto provare a discernere in maniera più chiara che cosa sia questo fine: qual è la saggezza che il cosmo ci rivela?

La saggezza del cosmo Il principio cosmogenico afferma che l’evoluzione dell’universo sarà caratterizzata dalla differenziazione, dall’autopoiesi e dalla comunione attraverso lo spazio e il tempo a ogni livello della realtà. Questi tre termini – differenziazione, autopoiesi e comunione – riguardano i temi guida e le intenzionalità fondamentali dell’intera esistenza. (T. Berry-Swimme, 1992) L’impulso di fondo dell’evoluzione consiste nell’accrescere la profondità. [...] La coscienza si dispiega sempre di più, si

realizza sempre di più, si manifesta sempre di più. [...] Poiché l’evoluzione oltrepassa ciò che è venuto prima, ma deve altresì inglobare ciò che è venuto prima, ciò significa che la sua natura più autentica sta nel trascendere e nell’includere, e in ciò essa possiede un’intrinseca direzionalità, un impulso segreto, verso un’estensione, un valore interiore e una coscienza sempre maggiori. [...] Noi – e tutti gli esseri – siamo immersi in questo significato, fluttuanti in una corrente fatta di cura e di profondo valore, di senso ultimo, di intrinseca consapevolezza. (Wilber, 1996) L’ecologia [...] è una fede nella saggezza di quelle forze che hanno creato il mondo naturale e il cosmo di cui esso fa parte; è una fede nella sua capacità di fornirci straordinari benefici: quelli necessari per soddisfare i nostri bisogni più fondamentali. È una fede nella nostra capacità di elaborare modelli culturali che ci consentano di mantenere l’integrità e la stabilità del mondo naturale. (Goldsmith, 1992 [1997, p. 91]) Come abbiamo scritto nel prologo di questo libro, il Tao della liberazione è una ricerca della saggezza, quella saggezza necessaria per generare un cambiamento profondo e liberatorio nel nostro mondo. Abbiamo scelto di descrivere questa saggezza ricorrendo all’antico Tao del mondo cinese, una via o un percorso che conduce all’armonia, alla pace e a una relazione equa. Il Tao può essere considerato il principio ordinatore che costituisce il terreno comune della creazione; è la struttura fluente dell’universo che non può essere definita, ma solo esperita. Il Tao è la saggezza che sta al cuore stesso del cosmo, che racchiude l’essenza del suo fine e della sua direzione. La nostra esplorazione della cosmologia è stata più un tentativo di saggiare il Tao, di sentirne i contorni, di intuire i suoi itinerari. Alla fine, questa saggezza non può essere racchiusa nelle parole, ma le parole possono almeno servire a indirizzarci sulla giusta via. Al fine di contemplare questa saggezza del cosmo, può essere utile

passare brevemente in rassegna alcune delle idee che la nostra esplorazione della cosmologia ha messo in evidenza: 1. Dalla macchina all’organismo Nella cosmologia meccanicistica e riduzionista che abbiamo chiamato “cosmologia della dominazione”, l’universo era concepito come una grande macchina. Scomponendo le cose nelle loro parti costituenti, fu possibile raggiungere una comprensione fondamentale della realtà che a sua volta consentiva all’umanità (o “all’uomo”) di esercitare un controllo – o una “supremazia” – sulla natura. Si riteneva che la materia consistesse di piccole entità indivisibili chiamate atomi. La materia, l’energia, lo spazio e il tempo venivano concepite come entità distinte. Nella cosmologia olistica ed evolutiva che abbiamo definito “cosmologia della liberazione”, la metafora fondamentale è quella dell’organismo. L’essenza della realtà si trova non nella materia ma nei sistemi e nelle loro relazioni. Un sistema è come un vortice che conserva la propria identità organizzativa anche se la materia al suo interno cambia. Tutti i sistemi sono inseriti in sistemi più grandi, e tutti i sistemi sono formati da sistemi più piccoli, il che vuol dire che i sistemi esistono sempre in relazione a qualcos’altro, e la loro identità è sempre una identità-in-relazione determinata in parte dall’intera “olarchia”. In questa nuova concezione gli atomi si sono dissolti in vortici effervescenti di pura relazionalità. Quanto più in profondità ci si spinge nel microcosmo, tanto più profondamente relazionale e interconnesso esso ci appare. Attraverso lo spazio e il tempo tutte le onde/particelle subatomiche appaiono come qualcosa d’interconnesso. Materia, energia, spazio e tempo coesistono in una rete dinamica di relazioni. Tutte queste manifestazioni della realtà, in verità, possono benissimo scaturire da un livello di unità più profondo, il vuoto gravido, un grande oceano di energia potenziale che le crea e le sostiene in ogni momento.

Nella cosmologia della liberazione la materia non è più qualcosa di morto o inerte; piuttosto, l’intera realtà è in un certo senso viva. Tutti i sistemi hanno la capacità di originare nuove forme attraverso processi di emergenza creativa. Nella misura in cui tutti i sistemi sono collegati tra loro, anche il cosmo dev’essere considerato qualcosa di vivo. In particolare, il nostro pianeta dimostra di possedere dinamiche coerenti che consentono sia di conservare le condizioni necessarie alla vita che di continuare a dar vita a nuove forme. 2. Dal deterministico e casuale all’emergenza creativa di nuove forme Nelle sue prime manifestazioni, la cosmologia della dominazione aveva una natura essenzialmente deterministica. Conoscendo le precise condizioni di partenza di ogni corpo nel cosmo e grazie alla comprensione delle leggi eterne della fisica, era teoricamente possibile prevedere tutto ciò che sarebbe accaduto in futuro. Causa ed effetto erano collegati in maniera chiara e diretta. Successivamente, il determinismo fu sostituito dalla casualità e dalle leggi della probabilità, in particolare a livello atomico e molecolare. In entrambe queste concezioni, però, non esisteva la vera e propria possibilità di una causalità creativa o l’emergere di un’autentica novità. Nella cosmologia della liberazione la vera creatività e la novità rappresentano una dinamica fondamentale del cosmo. Nei sistemi complessi niente può essere previsto con certezza. Causa ed effetto sono collegati attraverso dinamiche non-lineari: ciascuno dipende dall’altro, producendo così una causalità reciproca o una coproduzione condizionata. Esiste un ordine caratterizzato dagli attrattori (ed eventualmente formato dai campi morfici), ma questi attrattori non determinano completamente ciò che dovrà essere. Inoltre, un attrattore può essere trasceso e uno nuovo può sorgere, consentendo così una vera dinamica creativa. La trasformazione autentica è sempre una possibilità e, date le giuste condizioni, il cambiamento radicale può avvenire in un lasso di tempo assai breve.

In un simile quadro, il potere trasformativo non è dato dalla forza bruta, bensì dalla sensibilità di intuire il momento e il luogo giusti. 3. Dall’eternità all’evoluzione Nella cosmologia della dominazione l’universo è considerato essenzialmente eterno e perlopiù immutabile. Eppure i principi della termodinamica implicano anche che il cosmo alla fine possa morire di una lenta quanto inesorabile morte termica. Le dinamiche evolutive sulla Terra erano considerate un’eccezione, e queste stesse dinamiche erano guidate da mutazioni casuali, dalla lotta per la sopravvivenza e dalla concorrenza spietata. Nella nuova cosmologia l’universo è visto non tanto come un luogo ma come un processo, una storia di cosmogenesi che si dipana attraverso livelli crescenti di complessità, diversità, autoorganizzazione e comunione. Il cosmo ha un’origine precisa e può anche avere una fine precisa. Lo sviluppo del cosmo avviene attraverso stadi contrassegnati da una serie di momenti irripetibili. C’era un tempo perché il cosmo nascesse, un tempo perché l’idrogeno si organizzasse, un tempo per la formazione delle galassie. Gli elementi più pesanti necessari alla vita non furono disponibili finché non ebbero a formarsi nel cuore delle stelle, per poi essere dispersi nelle galassie attraverso la forza esplosiva delle supernovae. Sul nostro pianeta c’erano pochi momenti propizi in cui la vita avrebbe potuto evolversi prima che il calore del sole rendesse quest’evento impossibile. Fortunatamente, la vita colse quel momento e cominciò a trasformare il nostro pianeta, mettendo a punto le condizioni per continuare a svilupparsi e a prosperare. Sulla Terra l’evoluzione non può essere spiegata solamente – o anche principalmente – attraverso le mutazioni frutto del caso e la sopravvivenza del più adatto. L’evoluzione, infatti, è caratterizzata da dinamiche di cooperazione e di simbiosi, e le mutazioni sembrano avvenire in modo coordinato e intenzionale. L’evoluzione è orientata verso livelli sempre maggiori di complessità e profondità; si potrebbe

addirittura dire verso un grado maggiore di coscienza. In un cosmo in evoluzione, le cosiddette “leggi” della fisica potrebbero esse stesse evolvere nel corso del tempo. Il sottile equilibrio delle quattro forze fondamentali, per esempio, potrebbe in realtà essere un’abitudine accuratamente scelta. L’evoluzione del cosmo, infatti, potrebbe benissimo essere accompagnata dall’evoluzione di campi di memoria – i campi morfici – essi stessi legati l’un l’altro in olarchie nidificate e che insieme possono formare un grande campo cosmico analogo in qualche modo all’anima mundi del passato, ma con una natura evolutiva e dinamica. 4. Dall’oggettività alla partecipazione Nella cosmologia della dominazione l’osservatore è separato da ciò che osserva. L’intero fondamento dell’oggettività scientifica poggia su questa separazione. L’idea di relazione implica un legame emotivo che veniva considerato qualcosa che poteva compromettere il sapere oggettivo. Idealmente, uno scienziato è tanto più efficiente quanto più è distaccato dall’oggetto del suo studio. Nella nuova cosmologia pensiamo che l’osservatore sia sempre legato a ciò che osserva. La fisica subatomica, infatti, teorizza che l’osservatore sia influenzato da ciò che osserva in virtù dell’atto stesso dell’osservazione. Ciascuno di noi è parte di un tutto più grande, e questo significa che non possiamo mai separarci da quanto vorremmo tentare di capire. In questa prospettiva, relazione e partecipazione sono visti come momenti fondamentali di una conoscenza autentica. Possiamo conoscere veramente solo ciò di cui noi stessi siamo parte. La conoscenza, dunque, è in un certo senso legata all’amore che proviamo per ciò che desideriamo conoscere. 5. Dall’assenza di un fine al senso La cosmologia dominante degli ultimi secoli respingeva con forza qualsiasi finalità posta al di fuori della sfera delle azioni umane. Lo sviluppo del cosmo era concepito come qualcosa che si fondava sulle leggi della casualità congiunte alle leggi eterne. Nella migliore delle

ipotesi, la vita stessa non era che il risultato di circostanze fortuite, ma non c’era alcun fine, alcuna guida e nessuna palese direzione nell’evoluzione del cosmo. Anche gli organismi viventi – eccetto gli esseri umani – erano privi di scopo. Potevano avere apparentemente una sorta d’intenzionalità, ma per molti versi erano poco più che macchine, o automata, che semplicemente davano l’illusione di agire per uno scopo. Nella cosmologia della liberazione l’intero universo è intriso di una profonda e durevole finalità. Non si tratta, tuttavia, di un disegno o di un progetto, ma di una sorta di attrazione che trascina l’evoluzione del cosmo in una particolare direzione o verso un modello non-determinativo quale può essere un “attrattore” o una saggezza nascosta (o “Tao”), che impercettibilmente dà forma al dispiegarsi della realtà. In un certo senso, ciò può anche implicare un obiettivo, ma è un obiettivo che può esso stesso evolvere. L’umanità, in quanto creazione del cosmo, è indirizzata verso un proprio fine. Le nostre scelte, forse, possono a volte impedire il dispiegarsi della finalità cosmica, e possiamo perfino ostacolare alcuni percorsi che potrebbero incoraggiare l’evoluzione del cosmo. In ultima analisi, però, il nostro compimento sta nel riuscire ad aderire al Tao e a dare il nostro contributo unico alla scrittura della storia del cosmo. Ma come possiamo realizzare tutto ciò? Nel cercare questa via può essere utile individuare alcune di quelle dinamiche fondamentali in cui sembra manifestarsi il Tao che è intrecciato nella trama del cosmo. Un strumento utile allo scopo è il cosiddetto principio cosmogenico, delineato da Thomas Berry e Brian Swimme nel loro poetico libro The Universe Story (1992). Secondo questo principio, tre caratteristiche fondamentali caratterizzano la storia dell’evoluzione del cosmo: la differenziazione, l’autopoiesi e la comunione56. Si tratta, in effetti, di

tre caratteristiche talmente fondamentali che da esse dipende l’esistenza stessa della struttura del cosmo: «Senza differenziazione, l’universo sarebbe collassato in un densa nube omogenea; senza soggettività [o autopoiesi], l’universo sarebbe collassato in un’estensione inerte, morta; senza comunione, l’universo sarebbe collassato in uno stato di singolarità isolata». La differenziazione interviene in relazione alle dinamiche cosmiche associate alle parole «diversità, complessità, variazione, disparità, natura multiforme, eterogeneità [e] articolazione» (T. Berry-Swimme, 1992). Nel corso del tempo l’universo ha dato continuamente vita a nuove forme, a nuovi esseri. Come mostrano gli autori, l’universo ha «una marcata predisposizione al romanzo, all’effetto sorpresa che si rivela in dimensioni prodigiose attraverso tutto il vasto spettro dell’esistenza». Non solo, ma la «creatività di ogni luogo e tempo differisce da quella di ogni altro luogo e tempo». In un certo senso, possiamo pensare alla differenziazione come a una tendenza cosmica verso l’ampiezza, una capacità espansiva che non riguarda la quantità ma la molteplicità. Il cosmo non è rimasto un brodo indifferenziato di particelle elementari, ma ha scelto di formare una struttura. Come abbiamo già osservato, ciò è stato reso possibile dal fatto che la grande spinta espansiva della nascita del cosmo è stata sapientemente bilanciata da dinamiche di attrazione gravitazionale. Grazie a queste delicate tensioni di yin e yang sono emerse le quattro forze fondamentali, gli atomi di idrogeno si sono formati, le galassie si sono fuse e le stelle e i pianeti sono sorti. Alla fine, sul nostro pianeta si è sviluppata la vita, e con essa ha avuto luogo una nuova esplosione di creatività e di differenziazione. Da ognuno di questi stadi sono scaturiti individui unici: non esistono due galassie, due stelle, due cellule viventi identiche. Conoscere una cosa significa sempre, in parte, riconoscerne

l’unicità: La multiforme affinità richiesta a un universo differenziato riposa sul fatto che ogni singola cosa nell’universo è ineffabile. La conoscenza scientifica attiene in ultima analisi al modo in cui le strutture si somigliano, siano esse stelle, atomi, cellule o società. Ma nell’universo essere significa essere diversi. Essere significa essere una manifestazione unica dell’esistenza. Quanto più a fondo indaghiamo ogni singola cosa nell’universo – la Via Lattea, la caduta di Roma, le specie di un determinato albero nella foresta tropicale – tanto più scopriamo la sua unicità. La scienza approfondisce contemporaneamente la nostra comprensione della struttura delle cose e la loro unicità ineffabile. Alla fine, per quanto profonda sia la nostra comprensione, ogni cosa resta sconcertante come lo era all’inizio. (T. Berry-Swimme, 1992)

Sulla Terra la diversità delle forme di vita si è arricchita nel corso del tempo. Questa differenziazione, come abbiamo visto, non è mossa principalmente dalla necessità di sopravvivere; i batteri, infatti, la forma di vita più primitiva, sono in un certo modo anche la forma di vita più resistente e adattabile. Che cos’è, dunque, che spinge il cosmo a differenziarsi sempre di più? Non potrebbe darsi che l’universo si sforzi di generare bellezza? Che, in un certo senso, si diletti nella creatività? Sembrerebbe, in effetti, che la sua stessa natura risieda in questo tentativo di generare novità. La spinta alla diversità e alla differenziazione sembra in netto contrasto con la mentalità monocolturale che sta alla base della moderna impresa imperiale del capitalismo industriale. L’idea di far crescere in un campo un solo tipo di coltura o di creare una piantagione gigantesca, la tendenza a imporre al globo una singola monolitica cultura (anche se attinge, almeno superficialmente, da molte espressioni culturali) o la tendenza a promuovere a livello mondiale un unico modello economico o politico sembrano tutte cose in contrasto con il percorso evolutivo del cosmo. Su un piano personale, la ricerca dell’”adattamento” come qualcosa che si contrappone al coraggio di esprimere la propria unica disposizione naturale e il proprio modo di essere può anche essere visto come un rifiuto di agire in sintonia con il Tao. In effetti, come sottolinea Bruce

Bochte, la via della differenziazione richiede forza e coraggio poiché «la differenziazione è un percorso che porta con sé un’intrinseca solitudine» (1990). Infatti, la mortalità e la morte sono in un certo senso legate alla differenziazione. Nella misura in cui esistono individui unici, anche la morte diventa una realtà. I batteri, essendo una specie di rete microcosmica collettiva, sono pressoché immortali: sono nati quattro miliardi di anni fa e continueranno probabilmente a esistere per miliardi di anni ancora57. Lo stesso non si può dire degli altri organismi, in particolare di quelli che si riproducono sessualmente per creare individui geneticamente unici e irripetibili. Possiamo anche concepire la morte come un processo che crea spazio per la nascita di nuovi individui, affinché la creatività del nostro pianeta si possa costantemente rinnovare. In quest’ottica, dobbiamo anche imparare a capire che «la mortalità è per noi una benedizione, è la consapevolezza che il nostro tempo è finito. Abbiamo [solo] questo momento per essere ciò che siamo» (Bochte, 1990). Da una prospettiva più cosmica potremmo dire che la differenziazione e la creazione di novità sono inseparabili da dinamiche di violenza e di perdita. L’universo fa continuamente spazio alla novità attraverso la distruzione di ciò che è venuto prima. La creazione stessa è spesso violenta. Il seme cosmico originario deflagrò con una violenza che non possiamo neanche lontanamente concepire, eppure quella violenza si è rivelata la madre della creatività. Le supernovae esplodono con un’intensità capace di distruggere i sistemi planetari che le circondano, eppure senza gli elementi pesanti che si sono formati nel corso di queste esplosioni la vita sul nostro pianeta non sarebbe stata possibile. Le estinzioni di massa sul nostro pianeta sono sempre state seguite da picchi di creatività evolutiva. Nel corso della storia della Terra, infatti, il 99 per cento delle specie esistite in passato sono ormai estinte. Senza una

simile perdita, tuttavia, la varietà delle forme che conosciamo oggi non avrebbe mai visto la luce. Come la danza di Shiva, alla creazione segue la distruzione e alla distruzione segue la creazione. Non può esserci novità senza perdita. Osserva Bochte: L’esplosione primordiale è andata per sempre. Il nostro sole in cinque miliardi di anni perirà, per sempre. I dinosauri erano creature magnifiche. Hanno fatto il loro tempo. Senza l’eliminazione dei dinosauri i mammiferi non si sarebbero mai sviluppati (come hanno fatto). Allo stesso modo, anche i mammiferi dovranno fare i conti con le esigenze dell’universo. Dobbiamo accettare la perdita come la realtà ultima. Il male è il desiderio che la perdita non sia reale. La nostra società si è organizzata in modo da negare tale realtà. [...] La negazione della perdita è il rifiuto di entrare nell’evento sacrificale dell’universo. Se accogliamo la perdita, ogni momento della nostra vita è visto come un dileguarsi nella storia ininterrotta dell’universo. La nostra creatività rinvigorisce il tutto. (1990)

Anche se la perdita della realtà può essere difficile da accettare, essa porta con sé la possibilità di un rinnovamento e un cambiamento continui, e altresì di un’autentica liberazione. La tendenza cosmica alla differenziazione, alla diversità, alla novità e alla complessità implica che l’impulso creativo è intrecciato nella trama stessa dell’universo. In altre parole, il Tao è sempre orientato verso la nascita di nuove forme. Ciò che verrà sarà edificato su ciò che è stato, ma non ne sarà determinato. Per quanto l’umanità allo stato attuale sembri intrappolata in abitudini, pratiche e sistemi oppressivi e distruttivi, ciò non determina il nostro futuro. Possiamo andare verso qualcosa di nuovo, anche se questo richiederà inevitabilmente che si abbandoni il passato. Nel caso di coloro che beneficiano in maniera sproporzionata del sistema attuale, ciò comporterà il sacrificio di qualcosa di prezioso; ma se riusciremo ad accettare questa perdita, allora apriremo la strada a un’autentica liberazione della creatività. La seconda principale dinamica cosmica, l’autopoiesi, attiene alle

dinamiche cosmiche associate alla «soggettività, all’automanifestazione, alla sensibilità, all’autoorganizzazione, ai centri dinamici dell’esperienza, alla presenza, all’identità, al principio interiore dell’essere, alla voce [e] all’interiorità» (T. Berry-Swimme, 1992). Possiamo pensarla come una tendenza del cosmo verso una maggiore profondità, che comprende la spinta verso una consapevolezza, se non una coscienza, crescente. L’autopoiesi è strettamente legata alla differenziazione. Allorché le entità cominciano a distinguersi le une dalle altre, le loro stesse identità di individui unici diventano più chiare. Allo stesso tempo, la conservazione delle loro identità individuali dipende dalle dinamiche di autoorganizzazione. L’essenza di ogni entità, infatti, non riposa sulla sua sostanza – materia ed energia possono costantemente essere scambiate con l’ambiente circostante – ma sulla coerenza delle sua dinamica organizzativa interna, sull’autopoiesi. Berry e Swimme osservano che l’autopoiesi «riguarda il potere che ciascuna cosa ha di partecipare direttamente allo sforzo della creazione del cosmo». Una stella, per esempio, organizza l’idrogeno e l’elio al suo interno per generare energia. «Ciò che organizza questa grande entità di elementi e di azioni è proprio ciò che intendiamo quando parliamo di potere di autoarticolazione della stella» (1992). Analogamente, un atomo organizza le particelle subatomiche al suo interno, e una cellula – sebbene in un flusso costante – conserva la sua coerente struttura organizzativa. Come abbiamo visto, possiamo anche immaginare la stessa Terra vivente – o Gaia – come un sistema autoorganizzativo con caratteristiche che trascendono i suoi elementi costitutivi. Nel tempo, la profondità dell’interiorità che si manifesta nel cosmo è aumentata: L’autopoiesi indica la dimensione interiore delle cose. Anche il più semplice atomo non può essere compreso tenendo conto della sua sola struttura fisica o del mondo delle relazioni esteriori con altre cose. Le cose emergono con un’intrinseca capacità di automanifestazione. Persino un atomo possiede un quanto di radicale spontaneità. Negli sviluppi più recenti dell’universo questa dimensione di

spontaneità minima è aumentata fino a diventare un fattore dominante del comportamento, come nella vita di una balena grigia. (T. Berry-Swimme, 1992)

Potremmo anche pensare questa crescita della spontaneità come una crescita della giocosità. La creatività e il gioco vanno di pari passo. Un artista dev’essere disposto a provare nuove cose, deve osare esperimenti che potrebbero benissimo rivelarsi un fallimento. Si potrebbe addirittura sostenere che un artista è all’apice quando non si preoccupa affatto del successo o del fallimento, ma semplicemente penetra il momento presente e gioisce dell’atto della creazione. Lo stesso vale per il cosmo, il quale opera sperimentando nuove forme, molte delle quali presumibilmente non approdano a nulla. Nell’evoluzione del nostro pianeta il fenomeno dell’evoluzione punteggiata ha qualcosa che ricorda una sperimentazione giocosa. Può esserci un’esplosiva creazione di nuove forme in un breve lasso di tempo, ma poche di queste avranno successo nel lungo periodo. Nella sfera del comportamento animale possiamo osservare lo sviluppo di quelli che potremmo considerare gli aspetti più stravaganti del gioco. I mammiferi e gli uccelli, per esempio, sembrano mostrare comportamenti più tendenti al gioco rispetto ai rettili, ai pesci e agli insetti. Buona parte del comportamento dei mammiferi, infatti, sembra promanare una sorta di libertà gioiosa non direttamente correlata in alcun modo evidente alla sopravvivenza, sebbene ciò possa rafforzare il legame sociale (si pensi, per esempio, alla giocosa spensieratezza dei delfini e delle foche). Nel caso degli esseri umani, Brian Swimme (1985) osserva che ciò che ci differenzia dal nostro parente genetico più prossimo – lo scimpanzé (che condivide il 98 per cento del nostro patrimonio genetico) – è una caratteristica chiamata neotenia, o sviluppo ritardato. Anche Stephen Jay Gould (1977) sostiene che gli esseri umani siano essenzialmente una specie neotenica di scimpanzé, in quanto la nostra struttura ossea assomiglia a quella di un giovane scimpanzé. Diversamente dagli

scimpanzé, che hanno difficoltà ad apprendere nuove informazioni una volta raggiunta la maturità, gli esseri umani conservano la capacità di imparare lungo tutto l’arco della vita. In sostanza, sotto certi aspetti noi restiamo bambini per tutta la vita, con tutta la giocosità e il senso della meraviglia che ciò comporta. Come per l’universo, anche noi siamo fatti per il gioco creativo. Non possiamo interpretare questa disposizione al gioco come un’espressione della crescita dell’interiorità del cosmo stesso? Un altro modo di pensare la sempre maggiore profondità e soggettività del cosmo riguarda la sua tendenza verso una crescente consapevolezza. Come abbiamo visto nell’analisi della teoria dei sistemi, questa crescita della consapevolezza del cosmo implica processi come la memoria, l’apprendimento e la capacità di decidere che consentono alle entità autoorganizzative di “generare un mondo” attraverso l’atto di specificare una determinata realtà. Questo processo non richiede una coscienza, ma di certo lo sviluppo della coscienza autoriflessiva nel cosmo può essere vista come parte di questo movimento evolutivo verso una profondità, un’interiorità e una consapevolezza maggiori. Perché il cosmo si muove proprio in questa direzione? È un mistero, ovviamente, ma forse – come abbiamo visto nell’analisi della fisica quantistica – la mente è in un certo modo immanente al cosmo, presente fin dall’inizio nell’ordine implicato. Nel corso del tempo, il processo di evoluzione cosmica rende la mente un fenomeno sempre più manifesto nell’ordine esplicato. L’umanità è certamente un esempio di questa manifestazione, ma noi non possiamo essere gli unici esseri viventi dotati di questa consapevolezza. Sul nostro pianeta, in effetti, possono esistere altre forme – forse a modo loro altrettanto complesse – di coscienza. Sicuramente, in un cosmo così vasto quale è il nostro, possono esservi molteplici ordini di coscienza. Il filosofo Ken Wilber considera il movimento verso una profondità, interiorità e una coscienza maggiori come la capacità del

cosmo di dar vita, in un certo senso, al divino nel regno della manifestazione o dell’ordine esplicato: Siamo parte integrante di quest’immensa intelligenza, questo Spirito-in-atto, questo Dio-nella-creazione. Non dobbiamo pensare a Dio come a una sorta di figura mitologica che dirige lo spettacolo da dietro le quinte. E nemmeno dobbiamo raffigurarlo come una divinità puramente immanente, persa nelle forme frutto della sua stessa produzione. L’evoluzione è sia Dio che Divinità, trascendenza e immanenza. È immanente al processo stesso, intessuto nella trama del Cosmo; ma trascende ovunque le sue produzioni, e genera sempre di nuovo in ogni istante. (1996)

In questa prospettiva, possiamo intendere l’attività consapevole dell’umanità come parte di una più profonda consapevolezza dell’universo stesso, e forse persino come una manifestazione di un “Dio-nella-creazione”. Non possiamo conoscere tutti i modi in cui il cosmo sta evolvendo la coscienza, ma perlomeno sappiamo che esso è diventato cosciente attraverso noi. Come, allora, in quanto specie, possiamo contribuire all’attività consapevole dell’universo? Nella misura in cui approfondiamo il nostro stesso spirito, non possiamo fare altrettanto con lo spirito del cosmo? Non possiamo, parafrasando il grande mistico cristiano Meister Eckhart, far nascere Dio nel nostro tempo? In un certo senso, quindi, la nostra responsabilità in quanto specie non è solo verso la nostra eredità, e nemmeno nei confronti del nostro splendido pianeta; piuttosto siamo chiamati a contribuire all’approfondimento dell’interiorità e dello spirito del cosmo. La terza grande dinamica cosmica, la comunione, è associata alla «interrelazione, alla interdipendenza, alla parentela, alla mutualità, alla relazione interiore, alla reciprocità, alla complementarità, all’interconnessione e all’affiliazione» (T. Berry-Swimme, 1992), così come alla contestualità. Potremmo anche pensare a questi aspetti in termini di crescita della relazionalità, o anche dell’intimità, che in un certo senso tiene insieme il cosmo. Nella tradizione mistica dei Sufi, questa dinamica fondamentale della comunione o dell’attrazione è

chiamata Ishq: si tratta di un profondo amore divino che agisce come una specie di collante cosmico, legando insieme il tutto. Questa comunione si manifesta in parte attraverso il fenomeno dell’entanglement quantistico, che misteriosamente connette ogni onda/particella nell’universo a tutte le altre, e che risale al momento in cui tutto era uno. Pertanto, ciò che influenza una particella subatomica in un certo senso influenza tutte le altre. Gli stessi atomi, più che sostanze, sono una specie di nessi di pura relazionalità. Su un altro piano la gravità lega insieme l’intero universo, consentendo alle galassie, alle stelle e ai pianeti di formarsi. Il nostro intero sistema solare – dal Sole ai più piccoli microorganismi terrestri – è unito in comunione con le altre stelle che sono esistite nel passato e che hanno dato vita a tutti gli elementi pesanti come l’elio. Come osservano Berry e Swimme: L’universo evolve in esseri che si sono differenziati gli uni dagli altri, e che si organizzano. Ma oltre a ciò, l’universo progredisce in comunità – in una rete differenziata di relazioni tra centri di creatività sensibili. [...] Proprio nell’istante in cui le particelle primitive furono scagliate fuori, ognuna di loro fu connessa a tutte le altre particelle nell’intero universo. In nessun momento, nella futura esistenza dell’universo, potranno mai disconnettersi. L’isolamento per una particella è teoricamente impossibile. Anche per le galassie, le relazioni sono un dato di fatto. Ogni galassia è direttamente connessa alle cento miliardi di galassie dell’universo, e non accadrà mai che il destino di una galassia non coinvolgerà quello di tutte le altre galassie dell’universo. Niente è se stesso senza tutto il resto. (1992)

Sulla Terra tutti gli organismi sono collegati in una profonda interdipendenza reciproca; questa comunione, per la verità, è così forte che essi formano un’entità unica – Gaia – che trascende la semplice somma delle parti e agisce olisticamente per mantenere le condizioni necessarie affinché la vita prosperi, modificando l’atmosfera, l’idrosfera e la geologia del pianeta. Allo stesso modo, la natura simbiotica e cooperativa del processo evolutivo sul nostro pianeta rivela la saggezza relazionale del cosmo. Ciò non nega le dinamiche della competizione e dell’autoaffermazione – che possiamo

concepire in quanto collegate sia alla differenziazione che all’autopoiesi –, ma persino le dinamiche competitive sono coinvolte in un tutto più grande che funziona come una comunità vivente. Un aspetto particolare della natura relazionale del cosmo – e della vita sulla Terra in particolare – spicca: la generosità. L’universo è pieno di sontuosi eccessi, ma siffatti eccessi alimentano anche i legami relazionali che sostengono le dinamiche cooperative del tutto. Come scrive Martha Heyneman: Da un punto di vista termodinamico, gli esseri viventi sono sistemi dissipativi che producono entropia. Si consumano enormi quantità di energia per far sì che evolvano e per sostenerli. Proprio come in chimica sono necessari enormi eccessi di reagenti per guidare una reazione lontano dall’“attrattore” dell’equilibrio, così sono richiesti enormi dispendi di energia, che generano entropia, solo per “restare vivi”. Sono come i sontuosi eccessi della natura, che spreca miliardi di ghiande per generare una quercia – salvo che lo spreco dell’uno è anche il cibo dell’altro. Lo scarto [in un essere] è un piatto prelibato per qualcun altro. Le ghiande decomposte fertilizzano gli altri alberi. Il sole produce enormi quantità di energia, e una piccola frazione di questi “rifiuti” è sufficiente a sostenere la vita sulla Terra. Noi esseri viventi siamo come piccoli bicchieri di carta nel generoso Niagara del sole. Questo eccesso immane sembra necessario per tenerci in vita. Siamo costosi. Siamo stati comprati a caro prezzo. (1993)

Si potrebbe credere che la differenziazione, l’autopoiesi e la comunione siano tre dinamiche distinte, ma in realtà esse fanno parte di un unico principio cosmogenico: il cosmo espande il suo respiro, la sua profondità e la sua relazionalità in quanto parti di un unico movimento. Di primo acchito potrebbe sembrarci strano. Forse il rapporto tra differenziazione e soggettività è più chiaro: nel momento in cui un ente si differenzia dagli altri, non è poi così sorprendente che anche la sua autoidentità diventi più profonda. Ma tutto questo non rischia di indebolire la sua comunione con gli altri? La cosa stupefacente è che una maggiore diversità e una maggiore complessità in realtà rafforzano i legami di comunione. Questo può essere forse visto in maniera più chiara nell’esempio sulla maturazione degli

ecosistemi. Come osserva Goldsmith (1998), i sistemi semplici e meno integrati – come i primi sistemi – sono in grado di adattarsi a un’ampia varietà di condizioni ambientali, ma hanno una capacità relativamente scarsa di regolare effettivamente le condizioni, il che li espone a un certo tipo di vulnerabilità. Diventando più evoluti, gli ecosistemi si fanno anche più complessi e le specie che vanno a formare la comunità ecologica diventano più specializzate. Per esempio, le capre sono generaliste poiché possono mangiare quasi qualsiasi cosa, e spesso abitano in ecosistemi relativamente semplici. Di contro, le specie della foresta pluviale tendono a essere molto più specializzate. Un particolare albero può preferire condizioni molto particolari, laddove animali e insetti possono mangiare solo determinate piante, o persino solo certe parti di certe piante, cosa che consente loro di fare un uso migliore dell’ambiente che li circonda. Parimenti, i predatori possono scegliere un tipo estremamente particolare di preda. Ecco perché l’ecosistema della foresta pluviale può accogliere una più ampia varietà di specie. Eppure, il livello di specializzazione contribuisce anche a rendere le specie più indipendenti. Pertanto, una maggiore differenziazione in realtà richiede una maggiore integrazione o comunione. Con l’aumento della differenziazione e della comunione, cresce anche il livello di complessità dell’intero sistema, ossia le sue dinamiche di autoorganizzazione si approfondiscono. Allo stesso tempo, l’ecosistema ne guadagna in capacità di creare e di sostenere concretamente le proprie condizioni ambientali. Una foresta pluviale, per esempio, in realtà controlla la propria temperatura e facilita la formazione delle nuvole, che a loro volta garantiscono la pioggia. L’esempio degli ecosistemi è istruttivo per le società umane. Si potrebbe sostenere che, nell’epoca della modernità, abbiamo dato troppo peso a un particolare tipo di soggettività, l’individualismo. Abbiamo accresciuto, sotto certi aspetti, le nostre conoscenze, e

sicuramente ci siamo vieppiù specializzati. Eppure, sarebbe difficile sostenere che tutto questo abbia portato sempre a una maggiore profondità in termini d’interiorità. Si potrebbe addirittura arrivare ad affermare che se abbiamo acquisito più sapere, nondimeno ne abbiamo perso in saggezza. Inoltre, noi cerchiamo sempre più la felicità, però ciò non avviene attraverso attività creative, pratiche spirituali o legami di comunione, bensì perseguendo il guadagno materiale nella forma del consumismo. In realtà, quindi, pare che abbiamo scelto di privilegiare l’esteriorità rispetto all’interiorità. Nel frattempo, il nostro senso della comunità si è andato erodendo. In molte società urbane moderne abbiamo finito per rintanarci in famiglie nucleari, e anche queste stanno sempre più venendo meno. Pochi conoscono davvero i propri vicini. I legami relazionali e comunitari si sono via via allentati, in alcuni casi in maniera irreparabile. Allo stesso tempo, come abbiamo notato in precedenza, siamo stati perlopiù inglobati in una monocoltura superficiale che minaccia l’autentica diversità. Sicuramente non tutto è negativo. In molti luoghi c’è un crescente interesse per la diversità: razzismo, sessismo e intolleranza religiosa cominciano a essere messi in discussione. Vi è, infatti, un movimento che si spinge oltre la semplice tolleranza per celebrare davvero la diversità. In alcuni luoghi, altresì, le persone stanno sperimentando nuove forme di comunità capaci di trascendere le vecchie compartimentazioni in famiglia, tribù, villaggio o Stato. Eppure, nel complesso, non abbiamo creato una società che miri veramente ad ampliare la diversità, a rendere più profonda l’interiorità e a rafforzare la relazionalità. Ciò diventa particolarmente evidente se consideriamo il grande abisso che separa i ricchi dai poveri, e forse lo è ancor di più se consideriamo la separazione fisica della società umana dalla più grande comunità della vita del nostro pianeta. In realtà, stiamo distruggendo sistematicamente la diversità

della vita e sostituendo ecosistemi complessi con altri più semplici e frammentati. Se vogliamo davvero raccogliere la sfida della crisi che abbiamo dinnanzi, dobbiamo reimmaginare completamente il nostro posto nell’universo, e in particolare nella comunità della Terra, la quale attinge dalla saggezza del cosmo, il Tao, come illustrano le dinamiche del principio cosmogenico.

Reinventare l’uomo [La soluzione alla crisi] sarebbe reinventare noi stessi, a livello di specie, in un modo che ci renda capaci di vivere migliorando reciprocamente le relazioni. Migliorare reciprocamente le relazioni non solo con gli esseri umani ma con tutti gli esseri, in modo che le nostre attività migliorino il mondo. Allo stato attuale, le nostre interazioni degradano tutto. (Swimme, 2001) Quando abbiamo cominciato la nostra esplorazione della cosmologia, abbiamo evidenziato che l’interrogativo fondamentale per l’umanità è se l’universo sia o meno un luogo accogliente. Quel che è certo è che siamo, e lo siamo davvero molto, creature del cosmo. La Terra è la nostra dimora e noi siamo parte di una più ampia entità planetaria che fa sì che le condizioni perché la vita possa prosperare si conservino. Possiamo persino immaginarci come un’espressione dell’affermarsi della mente stessa del cosmo. In un certo senso, occorre andare completamente oltre la questione: l’universo non è tanto un luogo quanto un processo, o una storia, di cui noi facciamo parte. Eppure, per un altro verso, nella misura in cui siamo davvero “a casa” nel cosmo, nella misura in cui la Terra ci dà la vita, è possibile affermare che sì, siamo fondamentalmente in un luogo accogliente. Questo non significa negare la realtà della sofferenza, la necessità del sacrificio, i momenti di pena o il dolore della perdita. La maggior parte di noi ama ancora il dono della vita. Sappiamo altresì che la Terra – insieme al sole che ci inonda di energia – ci dà sostentamento, sia materiale che spirituale, e sappiamo di essere totalmente

dipendenti dalla sua generosità per la nostra stessa esistenza. Sfortunatamente, a quanto pare non siamo molto amichevoli nei confronti del cosmo, e in particolare verso il nostro pianeta e la comunità di creature con cui lo condividiamo. Anzi, la maggior pare delle nostre azioni sembra ostacolare il corso dell’evoluzione sulla Terra. Invece di favorire la complessità e la diversità degli ecosistemi, stiamo sostituendo vecchie foreste, savane e paludi con monocolture primitive e insostenibili. In questo processo, decine di migliaia di specie ogni anno rischiano l’estinzione. Sul piano culturale, migliaia di lingue umane cominciano a scomparire, e con loro migliaia di modi unici di immaginare e interagire col mondo. E poiché le persone finiscono per abbandonare le loro terre tradizionali per trasferirsi nelle città, anche questi linguaggi si allontanano ulteriormente dalla più ampia ecosfera, con una conseguente erosione della diversità culturale. Con l’avanzare dell’evoluzione, la competizione dovrebbe cedere il passo a una maggiore cooperazione, ciò che gli ecologisti chiamano “mutualismo”. Di contro, stiamo riducendo la complessità e accentuando l’elemento competitivo. Sul piano culturale, questa dinamica si esprime come “progresso”, il quale porta alla rottura delle comunità e delle famiglie tradizionali. Al suo posto stiamo creando società che valorizzano la competizione rispetto alla cooperazione, distruggendo la profonda relazionalità che dà significato alla vita. Parimenti, con l’avanzare dell’evoluzione i sistemi diventano sempre più autosufficienti, in quanto imparano a riciclare materiali ed energia in maniera più efficiente. Le culture indigene hanno sempre mostrato una grande capacità di produrre e sostenere gli elementi essenziali alla vita attraverso le risorse locali. Di contro, la società moderna ha creato una quantità senza precedenti di rifiuti e d’inefficienza. Le comunità locali non sono più autosufficienti ma dipendono dall’esportazione per generare introiti e per importare merci da luoghi lontani, con enormi consumi di energia dovuti al

trasporto di questi beni. Non sorprende, dunque, che Edward Goldsmith abbia concluso che l’umanità nell’era moderna ha subito «un’inversione della successione ecologica» che ha trasformato una complessa ecologia in un’ecologia più semplice, meno efficiente e meno sostenibile: «Attualmente, con la globalizzazione del progresso, stiamo rapidamente puntando verso un climax ecosferico globale, in cui l’uomo moderno avrà effettivamente invertito tre miliardi di anni di evoluzione per creare un mondo impoverito e degradato che è sempre meno capace di sostenere forme di vita complesse come l’uomo» (1992 [1997, p. 391]). Thomas Berry definisce questo processo di inarrestabile degrado “biocidio” e “geocidio” – che potremmo chiamare anche “ecocidio” – e lo considera la più grande sfida etica che l’umanità si sia mai trovata ad affrontare: Ci ritroviamo eticamente impoveriti proprio nel momento in cui, per la prima volta, siamo messi di fronte a questa dimensione ultima: l’irreversibile cessazione delle funzioni della Terra nei suoi principali sistemi di vita. Le nostre tradizioni etiche sanno come affrontare il suicidio, l’omicidio e persino il genocidio, ma vanno del tutto in crisi quando sono poste dinanzi al biocidio, l’estinzione dei sistemi viventi vulnerabili della Terra, e al geocidio, la devastazione della Terra stessa. (1999)

Ma non dobbiamo necessariamente continuare su questa strada. Come abbiamo visto, non c’è nulla di naturale – né tantomeno d’inevitabile – in questa rotta. L’umanità è parte di un processo cosmico, il che vuol dire che il principio cosmogenico dev’essere parte della nostra natura fondamentale. Ripercorrendo la lunga storia delle culture indigene sul nostro pianeta, infatti, possiamo vedere come la diversità, l’interiorità e la cooperazione siano tutte caratteristiche tipiche dei popoli autoctoni. Perfino nelle società agricole queste dinamiche hanno giocato un ruolo importante. È solo nell’era moderna – allorché il progetto di costruzione dell’impero raggiunge le dimensioni globali – che la distruzione ecologica si è davvero diffusa

su scala planetaria diventando sistematica; è solo ora che abbiamo creato società che sembrano inchiodate alla monocoltura, al consumismo e alla competizione. Thomas Berry parla a proposito della nostra epoca antiecologica di era “tecnozoica”. Egli propone di lasciarsi alle spalle questo paradigma distruttivo per inaugurarne uno nuovo, l’era “ecozoica”: Viviamo un momento cruciale, che va ben oltre quello che possiamo immaginare. Ciò che possiamo dire è che le basi di una nuova epoca storica, l’era ecozoica, sono state gettate in ogni campo delle cose umane. La concezione mitologica è stata messa a punto. L’immagine distorta di un paradiso tecnologico industriale è stata sostituita dal sogno più realizzabile di un reciproco rafforzamento della presenza umana all’interno della comunità organica della Terra in continuo rinnovamento. Il sogno guida l’azione. Nel più ampio contesto culturale il sogno diventa il mito che guida e orienta l’azione. (1999)

Allo stesso tempo, però, Berry avverte che questo “momento di grazia” non durerà per sempre. La trasformazione deve avvenire presto, oppure l’opportunità andrà per sempre perduta. Eppure c’è ancora speranza: Nell’immensa storia dell’universo, che ha superato con successo così tanti di questi momenti di pericolo, è un indizio importante sapere se l’universo è con o contro di noi. Perché le cose vadano bene abbiamo solo bisogno di raccogliere le forze. È difficile credere che gli scopi dell’universo o del pianeta Terra verranno alla fine vanificati, sebbene la sfida lanciata dall’uomo a questi scopi non debba mai essere sottovalutata. (1999)

E in effetti dobbiamo capire chiaramente che in quanto specie – a prescindere dai nostri apparentemente ampi poteri – non possiamo, da soli, sperare di guarire il pianeta che noi stessi abbiamo così gravemente danneggiato. La nostra unica speranza è far sì che il cosmo stesso agisca attraverso la nostra azione. Non possiamo controllare questo processo, ma possiamo fare in modo di diventarne parte. La Terra, infatti, sta facendo senza dubbio tutto il possibile per guarire, ma gli esseri umani spesso e volentieri ostacolano tale processo. Non possiamo “controllare” il potere della Terra di dare la

vita, ma possiamo evocarlo. Non possiamo orientare il processo di guarigione, ma possiamo collaborare attivamente e parteciparvi. In sostanza, tutto ciò richiede che ci apriamo al Tao, che ci sintonizziamo in maniera ricettiva sulla sua sussurrata saggezza e che gli consentiamo di operare attraverso di noi. In questo modo si potrà garantire l’incessante fiorire della vita sulla Terra? Non possiamo assicurarlo. Quando fu chiesto a Brian Swimme se abbiamo ancora tempo per operare i cambiamenti necessari per superare la crisi che abbiamo davanti, egli rispose: Be’, penso che l’universo stia facendo proprio questo. Ma dobbiamo parteciparvi in maniera consapevole. A dire il vero, è molto importante che vi partecipiamo. Allo stesso tempo, è molto importante ricordare che siamo noi i fautori. Intendo dire, l’universo sta operando in questo senso da molto tempo, e proprio adesso questo mutamento si sta manifestando in tutta la sua urgenza all’interno della coscienza umana. Ma noi non ce ne siamo ancora fatti carico. Sicché non ho la minima idea se vi sia abbastanza tempo. È una questione secondaria per me. Mi sembra solo che sia profondamente giusto che ci stiamo pensando e che ci stiamo lavorando. Penso che tutte le tradizioni spirituali evolveranno più in fretta non appena sapranno di questa nuova cosmologia e del momento che stiamo vivendo in quanto specie. Si avrà un arricchimento. Potrebbe essere molto rapido o impiegare migliaia di anni. Non lo so. (2001)

Possiamo concepire la partecipazione consapevole dell’umanità al movimento verso una maggiore diversità, interiorità e comunione come un processo di liberazione. In altre parole, nella misura in cui collaboriamo attivamente al principio cosmogenico, ci poniamo da soli sulla via della liberazione. Su un piano personale, questo processo può essere illustrato da quel tipo di liberazione che i buddhisti chiamano illuminazione, o satori. Il satori può essere interpretato come la svolta radicale che fa sì che un individuo apprenda la realtà in maniera diretta, arrivando a percepire la natura stessa nella sua quiddità. In tal modo, l’illuminato diventa pienamente consapevole della comunione con tutti gli altri esseri e con il cosmo stesso. Il buddhismo zen, infatti, non si esprime in termini di dualità, superando così la distinzione soggetto/oggetto. Questo non significa, tuttavia, negare la realtà della diversità quanto piuttosto favorire un

nuovo tipo di differenziazione. Un individuo illuminato può benissimo essere un sé unico, distinto da tutti gli altri, ma al contempo non aver bisogno di cambiare gli altri. In effetti, il rapporto che instaura con gli altri esseri è caratterizzato da un profondo senso di rispetto e di compassione. Al contempo, l’illuminazione conduce a una più profonda interiorità. Infatti, l’aspetto fondamentale del satori è un profondo senso di consapevolezza e di piena coscienza. Su un piano sociale, si può anche pensare alla liberazione in termini di principio cosmogenico. Liberazione significa creare una società in cui la diversità – inclusa la diversità di genere, quella sessuale, spirituale, culturale ed ecologica – sia qualcosa di veramente apprezzato, celebrato e il più possibile condiviso. Ciò richiede la rinuncia al paradigma della monocoltura in tutte le sue manifestazioni. La liberazione esige anche un approfondimento della soggettività e dell’interiorità, valorizzando la nostra partecipazione allo “sforzo della creazione del cosmo”; non dobbiamo più cercare la nostra realizzazione nel conseguimento di ricchezze materiali e nel consumismo, ma dobbiamo sforzarci di incrementare quelle espressioni fatte di una creatività rigenerativa, che si tratti di ciò che tradizionalmente consideriamo attività artistiche o della creativa partecipazione al ripristino degli ecosistemi complessi. Liberazione significa anche valorizzare quelle che potremmo chiamare “arti spirituali” e che includono le pratiche meditative, la danza e il movimento spirituale, la coltivazione dell’identificazione mistica con la Terra e il cosmo stessi, ognuna delle quali mira direttamente all’approfondimento dell’interiorità. Inoltre, la liberazione è un processo di continuo approfondimento della comunione e della relazionalità a ogni livello. Questo significa che, in quanto individui, abbiamo bisogno di rivalutare e recuperare il “sé relazionale” muovendoci verso relazioni più complesse e ampliando il nostro senso di identificazione con gli altri esseri, ossia

estendendo il nostro sentimento di compassione. Sul piano della società umana significa sconfiggere le ingiustizie che dividono i popoli tra loro e dalla comunità vivente della Terra nel suo insieme, operando per il superamento della grande disuguaglianza tra ricchi e poveri e per la ricostruzione di un’autentica comunità. In ultima analisi, è necessario trovare forme di coesistenza pacifica con le altre creature che abitano il nostro pianeta, cercando nuovi modi di vivere veramente in armonia con la più ampia comunità della vita di cui anche noi siamo parte. Possiamo interpretare la liberazione come un processo che ci porterà dall’era tecnozoica a quella ecozoica, realizzando così la Grande Svolta. Ma questo processo richiederà, anzitutto, un profondo cambiamento nella coscienza dell’uomo. In pratica, siamo chiamati a reinventare noi stessi in quanto specie; un aspetto centrale del nostro processo liberatorio, infatti, consiste proprio in questa reinvenzione. Anche se non si tratta di una sfida da poco, non è al di là delle nostre capacità. Tra tutte le creature l’uomo sembra essere quella meno abitudinaria. Abbiamo bisogno di imparare quasi tutto e abbiamo pochissimi istinti, se non nessuno. In quanto esseri neotenici abbiamo la capacità di imparare anche dopo aver raggiunto la maturità. In effetti, nella nostra storia – relativamente breve – su questo pianeta abbiamo reinventato noi stessi tante volte. Siamo nati nelle foreste e nelle savane dell’Africa, ma siamo stati capaci di adattarci alla vita durante l’era glaciale. Abbiamo cominciato come cacciatoriraccoglitori, siamo diventati coltivatori e poi ci siamo reinventati creando società industriali e diventando abitanti delle città. Non c’è alcun motivo per cui non possiamo reinventarci ancora una volta. Anzi, dovrebbe essere più facile tendere a un paradigma che è in armonia con il processo evolutivo di quanto non sia stato realizzare la transizione verso il nostro attuale e antiecologico modo di vivere. Se ci apriamo alla saggezza del cosmo, al Tao, senza alcun dubbio saremo in grado di riconfigurare radicalmente noi stessi una volta ancora. Ma

come facciamo a farlo? Non esiste una risposta semplice a tale interrogativo, ma appare evidente che dobbiamo affrontare quattro sfide cruciali tra loro collegate: • Dobbiamo imparare ad accettare i limiti, rinunciando definitivamente alla pseudocosmologia del consumismo e a un’economia di crescita. • Dobbiamo trovare il nostro significato e la nostra realizzazione nella partecipazione attiva al processo dell’evoluzione cosmica, e in particolare a quello che possiamo chiamare “il sogno della Terra”. • Dobbiamo accrescere la nostra comunione col pianeta vivente, che è la fonte materiale e psichica del nostro sostentamento. • Dobbiamo cercare un nuovo tipo di etica basata sulla cura e sulla valorizzazione della vita, della creatività e della bellezza. Accettare i limiti Con la crescita del potere degli esseri umani sono cresciuti anche i loro appetiti. Come abbiamo visto, la sconfinata e cancerosa crescita economica minaccia il benessere del nostro pianeta, minando pericolosamente la sua capacità di sostenere gli ecosistemi complessi. Nel corso di questo processo, viene compromessa anche la diversità della vita, generando la più grande estinzione di massa dalla scomparsa dei dinosauri, avvenuta sessantacinque milioni di anni fa. Allo stesso tempo, se l’umanità intera dovesse consumare la generosità della Terra a un ritmo pari a quello del Nord America o dell’Europa, avremmo bisogno all’incirca di altri quattro pianeti come la Terra per garantire un simile livello di consumo sul lungo periodo (al livello attuale di popolazione). Se vogliamo raggiungere uno stile di vita equo e sostenibile per tutti, allora coloro che consumano di più dovranno drasticamente ridurre il loro livello di consumo. Una sfida fondamentale per gli esseri umani in quanto specie, pertanto, implica la necessità di accettare i limiti, rinunciando di fatto alla dipendenza dal consumismo. In realtà, come sottolinea Thomas Berry (1999), la “legge dei limiti” è un principio cosmologico ed

ecologico fondamentale, riconosciuto quale esigenza integrale per l’uomo sia nel principi del Dharma che in quelli del Tao. Eppure, la modernità in massima parte ha rappresentato un rifiuto di questo fondamentale imperativo: Recentemente l’umanità ha tentato di rapportarsi alle [...] realtà cosmiche distruggendo la resistenza, negando il suo costo intrinseco e aumentando l’intensità dei propri desideri. Se incontriamo una qualche resistenza, ci adoperiamo per eliminarla. Se l’universo ci chiede il tributo necessario per lo sviluppo, noi rispondiamo non pagando il conto. Da un lato, se scopriamo nuovi desideri umani, profondiamo sforzi immani per fomentare questi desideri, indipendentemente da quanto superficiali e onerosi siano per gli altri membri della Terra. Il nostro rifiuto di accettare qualunque limitazione dei nostri spostamenti nello spazio ha prodotto sistemi di trasporto distruttivi, imposti al pianeta senza alcun riguardo per il resto della comunità terreste. Il rifiuto di accettare la possibilità di limitazioni al nostro desiderio di consumo ha determinato la distruzione delle comunità ecologiche in tutto il pianeta. Il desiderio di avere figli senza alcun riguardo per la capacità del bioma ha prodotto l’esplosione del numero di esseri umani e le conseguenti sofferenze inflitte a miliardi di loro. (T. Berry-Swimme, 1992)

La cultura della modernità è arrivata a considerare le limitazioni qualcosa di negativo, eppure ogni autentico equilibrio richiede un certo grado di contenimento. L’impulso creativo del cosmo, per esempio, scaturisce dalla tensione creativa tra yin e yang, il delicato equilibrio delle forze di espansione e di contrazione che permettono all’universo di sviluppare la struttura o le complesse dinamiche di reciprocità che sono al cuore di un fiorente ecosistema. Come abbiamo notato in precedenza, “l’universo cresce sul filo di lama di un coltello”. Senza equilibrio, senza limiti, la creatività cessa e, in ultima analisi, veniamo distrutti nel processo stesso. Morris Berman (1981), sulla base dell’opera di Gregory Bateson, suggerisce che dobbiamo rinunciare all’”etica dei maxima” e sostituirla con un’”etica degli optima”. Ottimizzare è diverso dal massimizzare. Per esempio, abbiamo bisogno di una certa quantità di cibo per conservarci in salute, ma il cibo in eccesso provoca obesità e malattie. Allo stesso modo, abbiamo bisogno di bilanciare i tipi di cibo

che ingeriamo. L’attuale stile di vita di molte persone che vivono nel Nord del mondo ha superato di gran lunga i limiti dell’ottimo, determinando la distruzione della biodiversità, l’acuirsi delle ineguaglianze tra ricchi e poveri e l’indebolimento dei sistemi che sostengono la vita del pianeta stesso. Di contro, l’etica degli optima riprende le intuizioni della teoria dei sistemi, evidenziando come tutti i sistemi viventi cerchino di ottimizzare – e non massimizzare – alcune variabili. Il sostentamento della vita, come anche la realizzazione e la felicità, dipende dal raggiungimento di un equilibrio. In effetti, si potrebbe sostenere che il tentativo di massimizzazione che avviene nel regno materiale ci ha indotto a trascurare altri aspetti dell’esistenza: la nostra ossessione per l’esteriorità ci ha portato a smarrire l’interiorità. Accettare l’autolimitazione nella sfera materiale ci costringe a spostare la nostra idea di “progresso” dal piano dell’accumulazione della ricchezza a quello dell’approfondimento della sfera spirituale, dell’ampliamento della diversità e del rafforzamento dei legami basati sulla relazionalità e sulla reciprocità. Il riequilibrio, a sua volta, può davvero portare a un maggiore senso di realizzazione e di appagamento. Come osserva Thomas Berry: Poiché le risorse fisiche diventano meno disponibili, l’energia psichica deve sostenere il progetto umano in una maniera particolare. Questa situazione ci porta a una nuova forma di dipendenza dai poteri presenti nell’universo e altresì a un’esperienza del sé più profonda. L’universo deve essere vissuto come un Grande Sé. Ognuno si realizza nell’altro: il Grande Sé è realizzato nel sé individuale, il sé individuale è realizzato nel Grande Sé. L’alienazione è superata non appena esperiamo questa travolgente ondata di energia proveniente dalla scaturigine che ha mosso l’universo nei secoli. Nuovi campi di energia diventano disponibili per sostenere l’avventura umana. Queste nuove energie trovano espressione e sostegno nella festa. Perché alla fine l’universo può essere spiegato solo in termini di festa, la quale è tutta una sovrabbondante manifestazione della stessa esistenza. (1999)

Il sogno della Terra La capacità di accettare i limiti, dunque, dipende in larga misura dalla capacità di approfondire la nostra interiorità attraverso la

partecipazione consapevole alla stessa creatività del cosmo. Se pensiamo il movimento dell’evoluzione come un processo di crescente complessità e consapevolezza, possiamo allora considerarci un aspetto della manifestazione della mente del cosmo. In quest’ottica, quando agiamo nell’interesse della Terra, le nostre prospettive cambiano. Per esempio, come sottolinea John Seed: «Non voglio più considerarmi uno che tutela la foresta pluviale», ma piuttosto «io sono una parte della foresta pluviale che difende se stessa. Io sono parte di quella foresta pluviale recentemente emersa al pensiero» (Seed et al., 1988). Ken Wilber parla della nascita di questo tipo di coscienza come di un’esperienza del “Sé Eco-Noetico”, affermando che ciò non significa che ci limitiamo a riconoscere che siamo “fili di una tela”, ma che proviamo a cogliere la realtà dalla prospettiva globale della tela. «Si sta facendo qualcosa che nessun semplice filo può mai fare – si sta sfuggendo al proprio “essere filo”, lo si sta trascendendo, e si sta diventano una sola cosa con l’intero disegno. Essere consapevoli di tutto il sistema dimostra appunto che non si è semplicemente un filo» (1996). È solo adottando questa prospettiva più ampia che possiamo veramente trovare quella saggezza che ci consentirà di porre un limite agli immensi poteri di cui disponiamo per metterli al servizio del più grande tutto. Se non riusciremo ad ampliare il nostro senso del sé per accogliere la Terra, e forse il cosmo intero, vivremo sempre nel pericolo di usare i nostri poteri per mirare a obiettivi limitati e di corto raggio, obiettivi che alla fine si riveleranno nocivi per il più grande tutto, incluse le future generazioni dell’umanità. Dall’altro lato, se riusciamo ad adottare questa nuova prospettiva, se riusciamo a ripensare il progresso in termini di accrescimento della nostra identificazione consapevole al processo dell’evoluzione cosmica, allora possiamo sperare di incanalare la nostra creatività in modi che davvero ci consentiranno di passare finalmente all’era ecozoica. Possiamo ripensare la tecnologia stessa, facendo in modo che la nostra

creatività operi con, e non contro, il mondo della natura. Scienza e innovazione dovranno dunque essere esercitate in armonia con i bisogni della Terra ed essere sviluppate in un contesto ecologico. Infatti «la nostra principale preoccupazione dev’essere il ripristino dell’economia organica di tutto il pianeta», al fine di favorire la sua «intera gamma di sistemi vitali» e di stabilire «le nostre fonti di cibo e di energia primarie nel sole, il quale fornisce l’energia per la trasformazione della materia inanimata in sostanza vivente capace di nutrire il più vasto biosistema della Terra» (T. Berry, 1999). Un modo per muovere verso questa nuova forma di coscienza che funge da fondamento per un’armoniosa creatività è la rimitizzazione della storia del cosmo affinché si avverta, al livello più profondo del nostro essere, il suo movimento e se ne comprenda l’orientamento. Così facendo, possiamo acquisire il senso della finalità del cosmo nei termini di una visione che va dispiegandosi, se non perfino di sogno. Thomas Berry, infatti, parla del nostro coinvolgimento consapevole nella creatività e nei processi della Terra che sostengono la vita in termini di partecipazione all’”esperienza di un sogno condiviso” – qualcosa che riecheggia l’antica saggezza dei popoli indigeni dell’Australia: Il processo creativo, sia esso umano o cosmologico, è troppo misterioso per una spiegazione semplice [...]. Si può parlare di questo processo in molti modi, come un tentativo, un sentimento, o come un processo immaginativo. Il modo più corretto per descrivere tale processo sembra quello della realizzazione di un sogno. L’universo sembra essere il compimento di qualcosa di così fortemente immaginativo e di così sconvolgente che dev’essere stato sognato in un’esistenza. Questo risveglio è la nostra partecipazione in quanto esseri umani al sogno della Terra, quel sogno che viene realizzato nella sua integrità non nelle espressioni culturali della Terra, bensì nel profondo del nostro codice genetico. In esso la Terra si esprime con una profondità che va ben oltre le nostre capacità di pensiero attivo. Possiamo essere sensibili unicamente rispetto a ciò che ci viene rivelato. Probabilmente non abbiamo una tale partecipazione al sogno della Terra sin dalle prime epoche sciamaniche, ma proprio qui sta la nostra speranza per il futuro, per noi stessi e per l’intera comunità della Terra. (1999)

Comunione e coscienza L’appello ad approfondire la nostra interiorità è dunque, al tempo stesso, un appello ad approfondire la nostra comunione con la Terra e con il cosmo intero. Per certi aspetti, questo movimento somiglia a un ritorno alle prime forme di coscienza, qualcosa che è ancora possibile osservare in svariate popolazioni indigene della Terra. Eppure si tratta di un ritorno con una sottile e tuttavia importante differenza. Joanna Macy (1991b), per esempio, mostra che nelle culture tradizionali esistevano delle forme di “partecipazione mistica” in virtù delle quali gli individui non avvertivano alcuna separazione dal mondo naturale che li circondava. Poi, in una fase successiva, gli esseri umani sono entrati nell’autocoscienza, e lì, a partire dalle prime culture agricole, passando per l’Illuminismo e la modernità, ci siamo progressivamente allontanati dalla natura. Come abbiamo mostrato in precedenza, questo passaggio ha determinato dei progressi reali, nel senso di nuove forme di conoscenza, l’ideale dei diritti umani, così come di significative (e spesso provvidenziali) innovazioni, ma è stato anche accompagnato da alti costi in termini di profonde iniquità e di distruzione dell’ambiente. Adesso stiamo entrando nella terza fase, non appena saremo davvero pronti a fare ritorno al senso del tutto. Lo faremo, tuttavia, solo dopo aver sviluppato una coscienza autoriflessiva e una nuova visione del cosmo che è il frutto della scienza. Diversamente dalla seconda fase, adesso dobbiamo ampliare il nostro senso dell’io per includere l’abbraccio dell’interno cosmo. Sebbene infatti abbiamo cominciato come fili della tela – tentando dolorosamente di separarcene –, adesso facciamo ritorno alla tela abbandonando il nostro senso di separatezza ma conservando la capacità di autoriflessione che ci permette di concepire la tela come un tutto. Per riprendere le parole di Macy, «siamo il mondo che conosce se stesso. Possiamo ritornare a casa – e fare parte del nostro mondo in un modo più ricco, responsabile e più intensamente bello di prima, nella nostra

infanzia [...]. [Il mondo] può apparirci ormai come io e come amante» (citato in M. Fox, 1994). Thomas Berry avverte che è necessaria una riflessione critica se vogliamo evitare qualunque romanticismo mentre avanziamo verso una coscienza ecologica. Egli arriva a sostenere che «la nostra intimità con il mondo naturale non deve nascondere il fatto che siamo impegnati in una costante lotta con le forze della natura». Eppure, rimarca Berry, anche queste lotte «rafforzano la sostanza profonda del mondo vivente e generano l’emozione infinita della grande avventura». In ultima analisi, «le maggiori scoperte dell’uomo nel futuro saranno la scoperta dell’intimità del genere umano con tutti gli altri tipi di esseri che vivono insieme con noi su questo pianeta, che ispirano la nostra arte e la letteratura, che rivelano il mondo arcano da cui tutte le cose vengono all’essere e con cui scambiamo la sostanza stessa della vita» (1999). Una nuova etica Nel quadro di una comunione sempre più profonda con la Terra, si palesa un nuovo terreno per l’etica. Da una prospettiva ecologica «una cosa è giusta se tende a conservare l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica. È sbagliata se tende a qualcos’altro» (Aldo Leopold, citato in Goldsmith, 1992 [1997, p. 93]). Anche Erich Jantsch definisce «il comportamento etico un comportamento che accresce l’evoluzione» (1980). Parimenti, lo stesso principio cosmogenico fornisce le basi per un’etica nel suo triplice appello a una diversità più ampia, a un’interiorità più profonda e a un consolidamento dei legami di relazionalità. Tutti questi fondamenti dell’etica ci inducono a ripensare – o almeno ad approfondire – quanto tradizionalmente abbiamo pensato sotto il nome di “bene” e “male”. Eppure, in qualche misura si rifanno a tradizioni più antiche. Per esempio, come abbiamo notato in precedenza (p. 374), nell’aramaico parlato da Gesù la parola

generalmente tradotta con ‘male’ – bisha – esprime l’immagine di un frutto che è o acerbo o marcio, e indica un’azione che per un determinato tempo e luogo appare inappropriata. Di contro, essere ‘benedetti’, ‘felici’ o ‘in sintonia con l’uno’ (la parola in aramaico è tubwayhum) significa dare frutti maturi e appropriati (Douglas-Klotz, 1990 [2002]). Una buona azione è considerata, dunque, un’azione che è appropriata a quel tempo e quel luogo. Un modo per interpretare quest’idea è dire che le nostre azioni sono appropriate quando sono espressione della creatività del cosmo. Altrimenti non porteranno buoni frutti. In aggiunta, è qui opportuno ricordare una concezione proveniente dalla cultura degli indigeni navajo del sudovest degli Stati Uniti, per i quali la spiritualità è concepita in termini di Via della Bellezza (si veda p. 211). Un’etica basata sul pensare bei pensieri, su un linguaggio fatto di belle parole e su azioni belle è un’etica che davvero mira alla promozione dell’armonia e di relazioni eque. Inoltre, un siffatto modo di essere nasce non dalla forza di volontà ma dall’ampliamento del nostro senso dell’io fino ad abbracciare la bellezza che ci circonda e a entrare in sintonia con essa, in modo da diventare noi stessi parte dell’espressione di questa bellezza. Così facendo, veniamo guidati dal desiderio di accrescere la bellezza della Terra, di conservare l’armonia e di dar vita a relazioni eque. Agiremo quindi naturalmente in accordo con l’etica ecologica. Il filosofo Immanuel Kant osserva che, quando siamo guidati da una morale del “dovere”, non troviamo piacere nel bene ma lo consideriamo un fardello. Di contro, l’etica basata sulla creazione e il sostegno della bellezza rende l’azione giusta qualcosa di allettante e persino di gioioso. La morale del dovere si basa sul senso di colpa che, come abbiamo visto, tende a paralizzare più che a motivare. Il suo contraltare, l’etica della bellezza, si basa sulla seduzione e sulla passione. Come osserva Jim Conlon, quando siamo «adescati, sedotti, incantati da una passione o proviamo desiderio o attrazione per la bellezza [...], qualcosa erompe e muta. Viviamo la sensazione di essere

attratti e avvolti dall’energia dell’universo» (1994) o di essere coinvolti nel Tao stesso, o di essere investiti da quell’”io posso” caratteristico del Malkuta. È un tipo di etica che può rappresentare un potente stimolo per la liberazione e la guarigione del nostro pianeta. Brian Swimme (1997) sostiene che dobbiamo creare «una cultura che ci renda capaci di compiere atti virtuosi con gioia». Non solo l’etica, ma la sfida stessa di reinventare completamente l’uomo richiede visione e passione. Non realizzeremo i cambiamenti di cui abbiamo bisogno coltivando il senso di colpa o costringendo gli individui ad agire. È vero, dobbiamo riconoscere la gravità della situazione che abbiamo di fronte, ma alla fine saremo in grado di reinventare l’umanità solo se con passione ci lasceremo attrarre da un nuovo modo di vivere nel mondo, se avvertiremo una forte attrazione nella creazione di un’era ecozoica. Bellezza, stupore e meraviglia, insieme a un profondo amore verso tutti gli esseri viventi, devono essere le principali fonti di energia nella lotta futura. Solo se comprenderemo il nostro ruolo all’interno del più ampio fine del cosmo potremo operare questa transizione. Si tratta di una sfida immensa, ma anche eccitante e vivificante. Inoltre, se riusciremo a imparare ad avere fiducia nel cosmo, a intuire il Tao che sta al cuore di tutto, potremo aprire la strada a un’energia più grande di quanto mai prima d’ora abbiamo potuto immaginare.

La Carta della Terra come piattaforma comune Riflettendo sulla reinvenzione dell’uomo e sulla necessità di un nuovo modo di concepire l’etica, una risorsa fondamentale da cui possiamo attingere è la Carta della Terra, un documento che è probabilmente frutto del più grande processo di consultazione con la società civile mai avvenuto nella storia dell’uomo. La Carta della Terra rappresenta un importante contributo a una visione olistica e integrata dei problemi socio-ecologici che l’umanità attualmente deve fronteggiare. In sostanza, la Carta ha selezionato molte delle migliori e più solide intuizioni provenienti dall’ecologia e dalla nuova

cosmologia per dar vita a una feconda visione della realtà, basata su una nuova spiritualità e una nuova etica. La carta non interpreta l’ecologia in modo riduzionista – cioè come amministrazione delle esigue risorse naturali – bensì come un nuovo paradigma di relazione con la natura in cui tutti gli esseri sono connessi, formando un sistema immenso e complesso. Uno dei principali vantaggi di ancorare i principi della nostra visione trasformativa alla Carta della Terra sta nel fatto che non si tratta del pensiero di una sola persona, di un’organizzazione o anche di una comunità; si tratta piuttosto di qualcosa che proviene dalla saggezza e dall’intuizione di quasi un centinaio di migliaia di persone provenienti da culture molto diverse tra loro in tutto il pianeta. In quanto tale, essa rappresenta un “terreno comune” straordinariamente ampio e inclusivo, che ci permette di riconfigurare il rapporto dell’umanità con la più ampia comunità della Terra. In realtà, lo stesso processo di redazione della carta riflette un nuovo paradigma – un nuovo modo di riflettere e di creare collettivamente in quanto esseri umani – che ci ha permesso di immaginare una piattaforma condivisa capace di unirci tanto nella diversità quanto nella nostra comune eredità in quanto parti di una comunità della vita planetaria. Origini e storia della Carta della Terra Nel 1992, nel corso del vertice sulla Terra tenutosi a Rio de Janeiro, si propose di redigere una Carta della Terra che in seguito sarebbe stata discussa in tutto il mondo sia da organizzazioni non governative che dai governi nazionali. La Carta avrebbe funzionato da “collante etico” per dare unità e coerenza a tutti i progetti avanzati in quell’importante vertice, ma in particolare al principale piano d’azione: l’Agenda 21. Non si trovò l’accordo tra i governi sulla proposta della Carta, forse perché il testo non era sufficientemente maturo, o forse perché molti partecipanti al vertice ancora mancavano di quella consapevolezza necessaria affinché la Carta della Terra

potesse essere davvero accettata. Il vertice adottò invece la Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo. Il rifiuto della Carta della Terra generò grande delusione in quei settori più consapevoli che si erano maggiormente battuti per il futuro ecologico della Terra e dell’umanità. A due organizzazioni non governative internazionali – Green Cross International ed Earth Council – fu chiesto di affiancare il governo olandese nel compito di redigere la Carta della Terra. Nel 1995 queste organizzazioni sponsorizzarono un vertice che si tenne all’Aia in cui sessanta delegazioni provenienti da settori molto diversi tra loro, insieme ad altre parti interessate, diedero vita alla commissione per la Carta della Terra allo scopo di organizzare un processo di consultazione globale della durata di due anni che sarebbe culminato nella stesura del documento. Allo stesso tempo, nel vasto corpus dei documenti ufficiali in materia ecologica furono individuati ed estrapolati i principi fondamentali e gli strumenti del diritto internazionale. Il risultato fu un rapporto intitolato “Principi di salvaguardia dell’ambiente e sviluppo sostenibile: analisi e conclusioni” (Rockefeller, 1996). Nel 1997 fu creata la commissione per Carta della Terra, composta da ventitré autorevoli figure provenienti da ogni continente del pianeta. Il compito della commissione era seguire il processo di consultazione e redigere la prima bozza della Carta sotto la supervisione dell’allora sottosegretario delle Nazioni Unite, il generale Maurice Strong, e del presidente della Green Cross International Michail Gorbacëv. Tra il 1998 e il 1999 ci fu un ampio dibattito sulla Carta della Terra a cui parteciparono organizzazioni diverse come le scuole elementari, le comunità religiose, le ONG, i think tank e i Ministeri dell’Educazione. Alla fine, più di centomila persone provenienti da quarantacinque paesi furono coinvolte in questo processo, il quale produsse una grande quantità di proposte per la Carta.

Poi, nell’aprile del 1999, Steven Rockefeller, buddhista nonché docente di religione ed etica, stilò la seconda bozza della Carta, raccogliendo i principali spunti e convergenze da tutto il mondo. Tra il 12 e il 14 marzo del 2000 l’UNESCO, a Parigi, assemblò i contributi finali e ratificò la Carta della Terra. Dal 2003 l’UNESCO ha ufficialmente adottato la Carta della Terra in quanto efficace strumento da utilizzare nelle scuole per educare la coscienza ecologica. La Carta della Terra nasce da una visione olistica e integrale. Essa considera la povertà, il degrado ecologico, la giustizia sociale, i conflitti etnici, la pace, la democrazia, l’etica e la crisi spirituale questioni interdipendenti che richiedono soluzioni inclusive e integrate. La Carta è un grido d’allarme di fronte alle minacce che incombono sulla biosfera e sul progetto planetario dell’uomo. La carta rappresenta anche un’affermazione di speranza nei confronti della Terra e dell’umanità. Gli autori della Carta della Terra – inclusi Michail Gorbacëv, Steven Rockefeller e Leonardo Boff – affermano senza mezzi termini: La Carta della Terra è stata concepita come una dichiarazione dei principi etici fondamentali e come guida pratica il cui valore, ampiamente condiviso dai popoli, resterà nel tempo. Analogamente alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, la Carta della Terra verrà utilizzata come codice di condotta universale per guidare i popoli e le nazioni verso un futuro sostenibile.

Una visione olistica La Carta ingloba creativamente i quattro grandi filoni del discorso ecologico: ecologia ambientale, ecologia sociale, ecologia profonda ed ecologia integrale. La Carta della Terra arricchisce la visione ambientale inserendo l’ambiente nel contesto della più ampia “comunità della vita”. La Terra stessa è presentata come «viva e ospita una comunità della vita unica», che di fatto comprende l’idea di Gaia come superorganismo vivente. L’ecologia sociale emerge nei temi che riguardano la democrazia, la giustizia sociale ed economica, la non violenza e la pace.

L’ecologia profonda emerge allorché la carta affronta le questioni del «senso di responsabilità universale», «lo spirito di solidarietà umana» e «il rispetto per il mistero dell’esistenza, la gratitudine per il dono della vita e l’umiltà riguardo al ruolo che occupa l’essere umano nello schema complessivo della natura». E infine, l’ecologia integrale si esprime nella consapevolezza che l’essere umano è «parte di un vasto universo in evoluzione» e che la «Terra fornisce le condizioni essenziali per l’evoluzione della vita». Questa visione olistica è l’unica che ci consente di comprendere che le nostre «sfide ambientali, economiche, politiche, sociali e spirituali sono interconnesse, e che insieme possiamo costruire soluzioni inclusive». Queste soluzioni dovrebbero effettivamente essere inclusive e abbracciare i diversi ambiti dell’attività umana – personale, sociale e planetaria –, poiché l’umanità è arrivata a uno snodo critico della sua storia e «le fondamenta stesse della sicurezza globale [cominciano a essere] minacciate»58. L’umanità deve quindi «scegliere il proprio futuro» e «dar vita a una collaborazione globale per prendersi cura della Terra e gli uni degli altri, oppure rischiamo la distruzione di noi stessi e della diversità della vita». Se scegliamo la vita, questo cambiamento genererà una nuova etica, frutto di una nuova prospettiva – un’etica della vita, della cura, della tutela, della solidarietà, della responsabilità e della compassione. Dovendo sintetizzare in una sola frase la grandiosa proposta politico-etica-spirituale-culturale della Carta della Terra, un sogno di vera liberazione per l’umanità, potremmo dire: uno stile di vita sostenibile. Questo stile di vita sostenibile presuppone la consapevolezza che gli esseri umani e la Terra hanno lo stesso destino e che le loro sorti sono indissolubilmente intrecciate. O ci prendiamo cura insieme gli uni degli altri, garantendo così un futuro comune, o tutti correremo il rischio della distruzione.

Uno stile di vita sostenibile permetterebbe alla Terra – con tutta la sua bellezza e la sua integrità, e con la sua abbondante ancorché limitata ricchezza – sia di rispondere agli autentici bisogni dell’umanità (per la generazione attuale e per quelle future) sia, allo stesso tempo, di riprodursi, generare ed evolversi così come è stato negli ultimi 4,5 miliardi di anni. Lo stile di vita che abbiamo nel mondo è ormai assolutamente insostenibile. Continuando su questa strada arriveremo a condividere lo stesso destino dei dinosauri. Mai nella sua storia l’umanità ha affrontato una sfida così seria. Per rispondervi dobbiamo intraprendere urgentemente profonde trasformazioni. Altrimenti andremo incontro alla tragedia. È in questo che risiede l’importanza della Carta della Terra: serve a risvegliare in noi la drammatica dimensione di vita o di morte che abbiamo innanzi. Allo stesso tempo, ispira fiducia e speranza, perché la situazione non è ancora irreversibile: «Insieme nella speranza» possiamo trovare soluzioni in grado di liberarci, come si evidenzia dai quattro principi e dalle sedici vie fondamentali verso la trasformazione. Come ha detto magistralmente Michail Gorbacëv in Perestroika: «Questa volta non c’è un’arca di Noe che salverà alcuni lasciando gli altri perire. O ci salviamo insieme o periamo insieme» (1987). Se saremo in grado di realizzare le proposte della Carta della Terra, avremo ancora un futuro e saremo testimoni di un nuovo sviluppo della civiltà umana, unita nella sua diversità dalla condivisione di una dimora comune. La centralità della comunità della vita Con grande saggezza – e forse in maniera sorprendente – la Carta della Terra non focalizza la sua attenzione sullo sviluppo sostenibile, un tema normalmente dominante nei documenti ufficiali dei governi e delle organizzazioni internazionali. La Carta si concentra piuttosto su ciò che è maggiormente minacciato: l’intera comunità della vita in tutta la sua splendida diversità. Inoltre pone l’accento su quegli atteggiamenti che più chiaramente sono connessi alla tutela di questa comunità: il rispetto e la cura. Per questa ragione, il suo primo

principio è intitolato Rispetto e cura per la comunità della vita. Perché il documento fa riferimento alla “comunità della vita” invece di riferirsi semplicemente alla vita? Perché, secondo le scienze della Terra e la moderna biologia, tutti gli esseri viventi – a cominciare dai primi batteri che apparvero circa quattro miliardi di anni fa, fino alle piante, agli animali e, infine, agli esseri umani – possiedono lo stesso alfabeto genetico di base. Tutti gli esseri viventi della Terra hanno gli stessi venti aminoacidi e le stesse quattro coppie di fosfati di base. Per questa ragione siamo tutti parenti, tutti fratelli e sorelle. In realtà, non esiste un “ambiente”, ma piuttosto una vera e propria comunità della vita in cui tutti gli esseri sono interdipendenti e intrecciati in una trama di interrelazioni che garantisce la biodiversità e la sussistenza di tutti, anche dei più deboli. Poiché la vita e la comunità della vita non possono esistere senza l’infrastruttura fisico-chimica da cui dipendendo e che dà loro nutrimento, anche questi elementi devono essere inseriti nella nostra comprensione della vita. Perché scaturisca la vita, il cosmo intero ha dovuto adoperarsi dai suoi primi istanti di creatività caotica fino a ora, spingendosi verso livelli sempre più profondi di ordine e di complessità. La stessa vita nacque quando la materia, in un avanzato processo di evoluzione, divenne più complessa venendo fuori dal caos in un atto di autoorganizzazione. In questo modo misterioso la vita prese forma come un “imperativo cosmico”, per riprendere le parole del biologo premio Nobel (1974) Christian de Duve. La vita, dunque, è un capitolo della storia dell’universo in cui la materia non ha nulla di veramente materiale, poiché è essenzialmente energia altamente condensata e stabilizzata intrecciata in un campo che coinvolge interazioni colossali. Gli esseri umani sono un paragrafo del capitolo della vita, un anello di questa corrente vitale e un membro unico di questa comunità della vita. Nei secoli scorsi, tuttavia, l’umanità ha scelto di allontanarsi da questa comunità, cercando di porsi al di sopra e, spesso, contro di

essa – dimostrando di essere il “demone” della Terra, proprio mentre eravamo chiamati a essere buoni angeli. Come la Carta della Terra afferma assai bene, gli esseri umani hanno sì il «diritto di possedere, gestire e utilizzare le risorse naturali», ma ciò comporta altresì il «dovere di prevenire i danni ambientali» (sezione 1.2). Oggi gran parte dell’umanità avverte il pressante bisogno di fare ritorno alla comunità di sorelle e fratelli e di assumere una doppia funzione: da un lato sentirsi nuovamente immersi nella comunità della vita insieme ai suoi altri membri, dall’altro – quanto sembra emergere in rapporto alla comunità della vita – essere in grado di intervenire creativamente (ma con umiltà e riguardo) per potenziare il processo evolutivo e, responsabilmente, divenire i custodi delle altre specie. Questa è la missione etica formulata nel libro della Genesi, laddove si dice che gli esseri umani devono essere i “giardinieri dell’Eden” che si prendono cura, proteggono e completano – con il lavoro e la creatività – l’opera del Creatore. Nell’ambito della comunità della vita non dobbiamo più pensare gli esseri umani in maniera individualistica (come la cultura dominante globale tende a fare), bensì come una comunità e una società. La comunità si conforma meglio alla natura dei singoli esseri umani, poiché questa forma nasce dall’esperienza culturale dei popoli come anche dal nostro pensiero politico e della pratica della democrazia. Nella comunità noi esprimiamo la volontà di partecipare e di costruire insieme, il senso del bene comune e il senso di corresponsabilità per tutto ciò che concerne lo stare insieme. È a ragion veduta, dunque, che sotto il primo principio – rispetto e cura per la comunità della vita – trova posto l’imperativo Costruisci società democratiche che siano giuste, partecipative, sostenibili e pacifiche. RISPETTARE LA COMUNITÀ DELLA VITA

Passiamo ora ad analizzare due comportamenti fondamentali che sono importanti per coltivare con rispetto la più grande comunità della vita: rispetto e cura.

Il rispetto presuppone, in primo luogo, il riconoscimento dell’altro nella sua unicità e “alterità” e, in secondo luogo, la cognizione del suo valore intrinseco. L’intervento umano sulla natura ha origine circa 2,3 milioni di anni fa, quando l’homo habilis per la prima volta fece uso di strumenti. Con questo intervento aumentò anche il rischio di non rispettare la natura, così come il rischio di negare l’”alterità” degli altri esseri o di intendere l’altro non come un soggetto ma come un oggetto, considerato solo in virtù della sua utilità per il genere umano. È questa la pecca principale dell’antropocentrismo, così diffuso in quasi tutte le culture del mondo con l’eccezione di quelle indigene, che ancora vivono in profonda comunione con la comunità della vita. L’antropocentrismo cerca di farci credere che tutti gli altri esseri hanno un senso e un valore solo nella misura in cui l’uomo può organizzarli e utilizzarli a propria discrezione. Eppure l’uomo è apparso sulla scena evolutiva solo dopo che il 99,98 per cento della storia della Terra era già trascorsa. Quindi, evidentemente, la natura non ha bisogno dell’uomo per dare un principio ordinatore alla sua grande complessità e biodiversità. Piuttosto, l’umanità considererà di aver trovato il proprio giusto posto solo quando si concepirà come qualcosa che vive in comunione con la più ampia comunità della vita, come un anello nella grande catena della vita. Se da un lato è vero che quest’anello è unico, in quanto possiede una coscienza che ovviamente fa sì che possa agire (se lo vuole) in maniera sia etica che responsabile, dall’altro è altrettanto vero che, essendo uno degli ultimi anelli della catena, dipende da coloro che sono venuti prima. Il rispetto implica che ci rendiamo conto che gli altri esseri vengono prima di noi e che, ancora di più, meritano di esistere e di coesistere con noi. Rispettandoli, imponiamo un limite alla nostra volontà di potenza sugli altri, nonché alla nostra arroganza. In realtà, comunque, gli esseri umani non hanno storicamente

quasi mai limitato davvero il loro potere; raramente abbiamo vissuto davvero nel rispetto della creazione. Il noto ricercatore sulla biodiversità Edward Wilson, facendo un bilancio del rapporto di rispetto/non rispetto che gli uomini hanno avuto nei confronti della natura, arriva a questa pesante conclusione: La drammatica archeologia delle specie scomparse insegna che: il buon selvaggio non è mai esistito; l’occupazione dell’Eden fu un mattatoio; un paradiso scoperto è un paradiso perduto. Finora, l’umanità ha avuto il ruolo di killer planetario, preoccupandosi soltanto della propria sopravvivenza a breve termine. L’etica della conservazione, che sia espressa in forma di tribù, di totemismo o di scienza, in generale è arrivata troppo tardi e ha fatto troppo poco per salvare le forme di vita più vulnerabili. (2002 [2004, p. 100])

Oggi siamo a un’impasse che possiamo superare solo se recuperiamo un atteggiamento di rispetto, sia come limite alla nostra capacità di distruggere sia come condizione per la preservazione della natura e per la nostra stessa sopravvivenza. In secondo luogo, il rispetto implica il riconoscimento del valore intrinseco dell’altro essere vivente. Ogni essere vivente ha un valore in sé e per sé, in quanto esiste e, nell’atto di esistere, esprime qualcosa dell’Essere stesso – della fonte originaria di energia e di virtù da cui tutti gli esseri provengono e a cui tutti gli esseri fanno ritorno, il vuoto quantico, il vuoto gravido. In termini religiosi, ogni essere manifesta il Creatore. Per questa ragione il valore appartiene al regno dell’eccellenza. Ogni essere, e in particolare gli esseri viventi, è portatore di quest’eccellenza «indipendentemente dal suo valore per gli esseri umani» (1.1a). Comprendendo il valore di ogni essere sentiremo destarsi dentro di noi sentimenti di rispetto e di venerazione. Buddha e l’induismo in Oriente e San Francesco, Arthur Schopenhauer e Albert Schweitzer in Occidente elaborano etiche basate sul rispetto e la venerazione, in cui si afferma che tutto ciò che esiste merita di esistere e tutto ciò che vive merita di vivere. Il principio guida di queste etiche del rispetto e della venerazione

(Ehrfurcht e Verehrung) venne formulato da Albert Schweitzer: «Il bene è tutto ciò che conserva e promuove gli esseri, specialmente gli esseri viventi, e tra gli esseri viventi i più deboli; il male è tutto ciò che minaccia e diminuisce gli esseri o che causa la loro scomparsa». E continua affermando che «l’etica è l’estrema forma di rispetto e responsabilità per tutto ciò che esiste o vive». PRENDERSI CURA DELLA COMUNITÀ DELLA VITA CON COMPRENSIONE, COMPASSIONE E AMORE

Passiamo ad analizzare ora il secondo atteggiamento fondamentale verso la comunità della vita, la cura. Quest’atteggiamento ha una lunga tradizione in Occidente, come è evidente dalla celebre favolamito sulla cura (favola #220) raccontata dal famoso schiavo di Cesare Augusto (in seguito libero) Gaio Giulio Igino (64 a.C. – 17 d.C.)59. Questo mito è stato oggetto di un commento molto approfondito del filosofo Martin Heidegger in Essere e Tempo (§§39-44). Da tale mito deriva l’idea che la cura sia l’essenza concreta dell’essere umano. La cura è la precondizione che consente all’essere cosciente, razionale e libero di emergere. Solo mediante l’esercizio della cura un essere può, nell’atto stesso di vivere, plasmare la propria esistenza insieme agli altri allorché avanzano tutti verso il futuro. Sul piano cosmologico, senza la premurosa sinergia di tutte le energie dell’universo, la vita e la coscienza non sarebbero mai scaturite, e non staremmo qui a riflettere su simili questioni. Praticamente, la cura è la guida fondamentale di ogni condotta. Tutto ciò che facciamo con cura è ben fatto. Quello che facciamo senza cura può essere distruttivo. Lo stato di degrado della Terra e lo stato di erosione della vita sul nostro pianeta sono dovute, fondamentalmente, alla mancanza di cura da parte dell’uomo. Lo psicoanalista Rollo May lo tematizza in maniera eloquente: La situazione in cui ci troviamo è che al culmine della nostra vicenda razionalistica e tecnologica abbiamo perso di vista l’essere umano e la preoccupazione per lui; e ora dobbiamo umilmente tornare al semplice fatto della

cura. [...] È il mito della cura – e spesso credo che sia davvero solo questo mito – che ci permette di resistere al cinismo e all’apatia, le vere malattie mentali del nostro tempo. (2007)

La stessa idea fu presentata con fervore dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, dal Programma Ambientale delle Nazioni Unite e dal WWF, che nel 1991 pubblicarono insieme un libro di raccomandazioni pratiche sull’ecologia che recava un titolo programmatico: Prendersi cura della Terra: una strategia per una vita sostenibile. Il tema della cura orientava tutte le pratiche necessarie per la tutela, la rigenerazione e il trattamento della natura, ponendo l’accento sul fatto che l’etica della cura è la più universale delle etiche, perché può essere esercitata e sperimentata a tutti i livelli, da quello personale a quello globale. La cura è una relazione amorevole e per nulla aggressiva con la realtà. La cura è attenta ai processi vitali e si preoccupa che tutti gli esseri possano continuare a partecipare alla comunità della vita in modo che nessuno sia escluso e abbandonato alla sua sofferenza. È attraverso la cura, come si afferma nella Carta, che possiamo «assicurare che le comunità a tutti i livelli garantiscano i diritti umani e le libertà fondamentali e forniscano a tutti le opportunità per realizzare appieno il proprio potenziale» (1.3a). La Carta sottolinea anche che la cura dev’essere esercitata con comprensione (1.2). La comprensione non è un processo astratto di acquisizione della verità sulle cose, bensì una forma di comunione con esse – essenzialmente, una forma di amore. In realtà, possiamo conoscere solo ciò che amiamo. La Carta afferma inoltre che dobbiamo prenderci cura della comunità della vita con compassione (1.2). L’idea di “compassione” si comprende meglio se prendiamo a esempio la prospettiva buddhista, che include due dimensioni. La prima è il rispetto di tutti gli esseri viventi e la completa rinuncia al desiderio di possederli (distacco). La seconda è prendersi cura di ogni essere vivente, e stare insieme con gli

esseri in ogni circostanza – nella gioia e nella tristezza – e, soprattutto, non permettere che soffrano da soli. Infine, è necessario prendersi cura della comunità della vita con amore (1.2). L’amore è la più potente energia che esiste nell’essere umano e nell’universo. È una forza d’indomabile attrazione e unione, che cerca una sorta di fusione o forse, più precisamente, un’esperienza della non dualità. Se siamo, oggettivamente, sorelle e fratelli perché condividiamo lo stesso codice genetico, l’amore a sua volta ci muove soggettivamente a desiderare di essere fratelli e sorelle e a vivere consapevolmente questa realtà. Profondere una cura amorevole significa essere in grado di dire con trasporto: «Tu sei infinitamente importante per me; tu non puoi soffrire ingiustamente; tu non puoi scomparire; tu devi vivere». Nel concludere le nostre riflessioni sula Carta della Terra, possiamo affermare che la conseguenza ultima di quest’etica del rispetto e della cura sarà la pace sulla Terra e con la Terra. Dopo migliaia di anni di ostilità tra gli esseri umani e la natura, e la devastazione che abbiamo generato sui doni della nostra Grande Madre, ora dobbiamo, se vogliamo avere un futuro, siglare un accordo di pace. Dobbiamo fare nostre le parole dell’alleanza che Dio fece con i sopravvissuti del grande diluvio: «Non sarà più distrutto nessun essere vivente; [...] al contrario, io ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e tra ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra» (Genesi 9,11;16). L’arcobaleno è il simbolo di quest’alleanza per la vita. Siamo tutti chiamati a essere figli e figlie dell’arcobaleno. 50 Facendo ricorso alla teoria quantistica, si può ipotizzare che lo spazio-tempo formi una superficie chiusa senza confini, il che implica che non vi siano inizio e fine: «Così le strutture complicate dell’universo potrebbero essere spiegate dalla condizione dell’assenza di confini nell’universo congiuntamente con il principio di indeterminazione della meccanica quantistica» (Hawking, 1998). 51 Lovelock, in realtà, a differenza di Margulis, crede che questa entità possa comprendere la Terra fino al suo stesso nucleo, ma il grosso della questione si concentra sulla biosfera. 52 Attualmente, la fotosintesi fornisce «energia al complessivo ciclo energetico geochimico della Terra tre volte più di quanta non ne fornisca l’attività geologica prodotta dall’interno

della Terra» (McLeod, 2006). 53 Sebbene ci siano alcuni, come Carl Sagan, che ritengono che gli esseri umani potrebbero in ultima analisi servire per riprodurre Gaia attraverso i viaggi nello spazio. In questo senso, Gaia semplicemente non ha ancora raggiunto uno stadio di maturità riproduttiva. 54 Un altro esempio interessante fornito da Lovelock in La rivolta di Gaia (2006 [2006, p. 33]) riguarda il ciclo dell’urea, il quale sembra anche rivelare una sorta di altruismo illuminato. L’azoto che gli animali espellono sotto forma di urea nelle urine potrebbe, per esempio, essere secreto in maniera più efficiente (con minor perdita d’acqua) se gli animali semplicemente espirassero azoto. Ma allora la nostra urea non fornirebbe un elemento essenziale per le piante. Ovviamente, aiutare le piante, in ultima analisi, serve comunque agli animali, ma Lovelock conclude: «Come abbiamo potuto evolverci in modo da diventare così altruistici, e al tempo stesso da agire nel nostro stesso interesse con questa lungimiranza?». 55 Se da un lato non possiamo confutare la teoria dell’universo infinito, dall’altro il suo appello all’esistenza di processi casuali non sembra essere in contraddizione con il comportamento osservato nei sistemi autoorganizzati. Certo, per esempio, non sembra che dei meri processi casuali siano in grado di spiegare il rapido ri-ripiegamento di una proteina denaturata di cui abbiamo parlato in precedenza (si veda p. 410). Parimenti, anche se i processi casuali possono spiegare la formazione di un aminoacido – o anche di differenti aminoacidi – in un numero infinito di universi, diventa difficile immaginare che questi si possano mai formare in quantità sufficienti per diffondersi in luoghi privi di vita. Naturalmente quando abbiamo a che fare con l’infinito tutto è possibile, ma un simile argomento sembra in ultima analisi più un gioco matematico che una realtà. 56 Sono le stesse dinamiche che abbiamo presentato in precedenza dal punto di vista della teoria dei sistemi; cfr. pp. 349-351. 57 Poiché ogni batterio si riproduce per mitosi, o semplice divisione cellulare, c’è effettivamente una continuità tra ciascun batterio moderno e il primo batterio che vide la luce quattro miliardi di anni fa. 58 Salvo diversa indicazione tutte le citazioni in questo paragrafo sono tratte dal preambolo della Carta della Terra. 59 Un’analisi dettagliata di questa favola-mito si trova in Leonardo Boff, Essential Care: An Ethics of Human Nature (2008a).

PARTE TERZA

Il Tao della liberazione

11. Spiritualità per un’era ecozoica Abbraccia pienamente la vita, dimorando [nella Madre, e condividerai la gloria della creazione. La Madre stessa sarà il tuo custode, e l’intera sua creazione la tua guida [...] Ritorna alla tua luce interiore, sii consapevole della tua consapevolezza. Nelle notti più buie non metterai il piede in fallo, nei giorni più luminosi non socchiuderai gli occhi. Questo si chiama “Coltivare l’Eterno”. TAO TE CHING §52 Esprimiti appieno, ma usa poche parole. Segui la via della natura: il vento non spira tutta la mattina; la pioggia non scroscia tutto il giorno; quando passa la tempesta, il sole torna a splendere [...] Apriti al Tao, diventa uno con il Tao, e diverrai la sua incarnazione. Poi fidati delle tue risposte naturali; e riceverai tutto ciò di cui hai bisogno con gioia. TAO TE CHING §23 Nel riflettere sulla necessità di reinventare il modo in cui, in quanto esseri umani, viviamo nel mondo, è evidente che ciò che serve è una vera e propria rivoluzione spirituale. Come rileva Thomas Berry, la minaccia di ecocidio ci pone di fronte a profonde questioni etiche che le nostre tradizioni spirituali e religiose non hanno mai avuto bisogno di analizzare in passato. Questa crisi, però, ci esorta

anche ad aprirci un varco verso una nuova interpretazione del mondo e del posto che in esso occupiamo. In tal modo, essa chiama l’intera umanità a un grandioso risveglio spirituale. In realtà, la sopravvivenza di noi esseri umani, così come di una miriade di altre forme di vita complesse sul nostro pianeta, potrebbe dipendere proprio da tale risveglio. Nel capitolo 4, esaminando la necessità di un rinnovamento della psiche, abbiamo già iniziato ad analizzare alcune questioni spirituali; in effetti, il significato originario della parola “psiche” è appunto “anima”, ovvero qualcosa di intimamente legato allo spirito. L’appello ad ampliare il nostro senso dell’io potrebbe benissimo essere riformulato come l’esigenza di trascendere l’io; un concetto chiave, questo, in molte tradizioni spirituali, così come lo è l’importanza di accrescere la nostra compassione. Anche cosmologia e spiritualità intrattengono un rapporto stretto. Nella misura in cui ha a che fare con questioni legate all’origine, all’evoluzione, al destino e al fine dell’universo, la cosmologia si rivolge al nostro senso della finalità e del posto che occupiamo nel più ampio disegno delle cose, il che può senz’altro includere il nostro rapporto con l’Origine di tutte le cose, ovvero Dio. Si potrebbe pensare la spiritualità intendendola come il modo concreto in cui incarniamo, o viviamo, la cosmologia nella vita quotidiana. Come possiamo prendere parte all’evoluzione e al dispiegarsi del fine del cosmo e trovarvi il nostro significato e la nostra realizzazione? E in che modo possiamo aprirci alle energie e alla saggezza della grande “Via” – il Tao, il Dharma o il Malkuta – che opera nel cosmo? Si tratta, in fondo, di interrogativi spirituali. Nel capitolo precedente abbiamo parlato anche dell’importanza di approfondire l’aspetto dell’interiorità o della soggettività per superare l’ossessione per l’acquisizione di ricchezze materiali. Per accettare i limiti, abbiamo detto, dobbiamo mutare la nostra idea di “progresso”, passando dall’accumulazione delle ricchezze all’approfondimento

dello spirito, all’ampliamento della diversità e al rafforzamento dei legami relazionali e di reciprocità. Dunque nel corso del libro abbiamo già, in larga misura, cominciato a riflettere su molti aspetti della spiritualità; semplicemente non li abbiamo definiti tali. Abbiamo parlato poco della religione, pur avendo mutuato idee da diverse tradizioni religiose. Ma la religione e la spiritualità, ancorché non identiche, sono senza dubbio strettamente intrecciate. La spiritualità può esistere al di fuori di tradizioni religiose ufficiali. Anzi, la spiritualità di ciascun individuo è in un certo senso unica, e la nostra spiritualità, al pari della nostra esperienza, può attingere da una varietà di tradizioni religiose o filosofiche. Ciò detto, la maggioranza degli esseri umani attinge dalle tradizioni religiose, considerate una delle principali fonti di intuizione spirituale. È quasi impossibile analizzare la spiritualità senza analizzare al contempo l’influenza – potenzialmente sia positiva che negativa – della religione. Dalla prospettiva di un’ecologia della trasformazione, dunque, è importante esaminare il ruolo della spiritualità e della religione in questo nostro tentativo di abbandonare la via della distruzione che stiamo percorrendo per incamminarci su un’altra via, in cui gli esseri umani partecipino attivamente alla tutela e alla valorizzazione dell’integrità, della bellezza e dell’evoluzione della vita sulla Terra.

Interpretare la spiritualità Il termine spiritualità deriva da spirito. Per capire cos’è lo spirito dobbiamo elaborare una concezione dell’essere umano più profonda e feconda di quella convenzionale tramandata dalla cultura dominante, la quale afferma che gli esseri umani sono composti di corpo e anima, ossia di materia e spirito. Anziché interpretare tale concezione in una forma olistica e integrata, la cultura dominante continua a sostenere una visione dualistica e frammentata, in cui questi due aspetti sono giustapposti. È per questo motivo che alcune discipline si concentrano

sul corpo e sulla materia (scienze naturali) mentre altre sono legate allo spirito e all’anima (scienze umane e sociali). Abbiamo perduto la visione della sacra unità dell’essere umano vivente inteso come una coesistenza dinamica, interconnessa e interrelata di materia, energia e spirito. La spiritualità attiene al tutto o alla parte? Spiritualità, in questa concezione frammentata, significa coltivare un solo aspetto dell’essere umano – lo spirito – attraverso la meditazione e l’introspezione, al fine di trovare il proprio sé più profondo o Dio. Queste forme di disciplina vengono spesso usate per affermare l’esigenza di allontanarsi dalla dimensione materiale o corporea. Considerata in quest’ottica, la spiritualità è vista come un compito – un compito fondamentale, certo, ma solo uno tra tanti. La spiritualità è considerata una parte e non un tutto. Vivendo in una società caratterizzata da rapidi processi storici e sociali, per coltivare la spiritualità – intesa in questo modo – dobbiamo cercare uno spazio in cui trovare quelle condizioni di silenzio, pace e tranquillità che favoriscono l’introspezione. Sotto un certo aspetto, tale interpretazione non è del tutto erronea. Il silenzio e la solitudine, ad esempio, giocano senz’altro un ruolo utile nel coltivare lo spirito. Talvolta aiuta anche prendersi un po’ di tempo allontanandosi dalla quotidianità per assumere una prospettiva nuova. Ciononostante, questa concezione frammentata che scinde corpo e spirito è fondamentalmente riduzionista, in quanto non è in grado di esplorare le risorse presenti nell’essere umano concepito in maniera più olistica. La spiritualità dovrebbe essere intesa non meramente come un modo per vivere certi momenti della nostra esistenza, ma piuttosto come un modo di essere una persona. Prima di proseguire è cruciale porre l’accento sul fatto che un essere umano, considerato nella sua concretezza, è costituito come un tutto complesso. Con il termine “tutto” intendiamo che non vi sono

parti giustapposte, ma che ogni cosa è saldata dinamicamente come un sistema vivente, interconnesso e armonizzato. Con il termine “complesso” intendiamo che l’essere umano non è semplice, ma è una sinfonia di molteplici fattori e dimensioni che insieme formano l’essere. Più esplicitamente, all’interno della coerente unità dell’essere umano possiamo distinguere tre dimensioni fondamentali: esteriorità, interiorità e profondità. ESTERIORITÀ INCARNAZIONE

Nell’accezione qui utilizzata, esteriorità si riferisce alla variegata gamma di relazioni che gli esseri umani intrattengono con il cosmo, con la natura, con la società, con gli altri e con la realtà che li circonda e li sostiene: l’aria che respirano, il cibo di cui si nutrono e di cui godono, l’acqua che bevono, i vestiti che indossano e l’energia che vivifica i loro corpi. In genere, questa viene considerata la dimensione corporea, ma il corpo non è un cadavere. Al contrario, ogni essere umano è un tutto, immerso nel tempo e nello spazio, ma vivo. In sintesi, gli esseri umani possono essere definiti come animali appartenenti al phylum dei vertebrati, classe dei mammiferi, ordine dei primati, famiglia degli ominidi, genere homo, specie sapiens: un essere dotato di un corpo composto di un centinaio di trilioni di cellule che si rigenerano continuamente grazie al proprio sistema genetico, un essere formatosi nel corso di 3,8 miliardi di anni (o forse, per essere più precisi, considerando i precursori della vita, quattordici miliardi di anni) di storia evolutiva. L’essere umano potrebbe essere inoltre definito come un essere dotato di un cervello complesso composto di circa un centinaio di miliardi di neuroni (e oltre un quadrilione – 1015 – di sinapsi) e organizzato in tre livelli: il cervello rettiliano, apparso per la prima volta circa duecentoventi milioni di anni fa, corrisponde alle nostre azioni istintive; esso è circondato dal cervello limbico, che cominciò a formarsi all’incirca centoventicinque milioni di anni fa e corrisponde

alle emozioni, all’affettività e al senso della cura; e, infine, la corteccia cerebrale, sviluppatasi appena tre milioni di anni fa, che garantisce la facoltà di concettualizzare e il pensiero astratto. L’essere umano è inoltre capace di sentimenti, intelligenza, amore, compassione ed estasi. Il corpo inteso come un tutto vive all’interno di un complesso intreccio di relazioni che si protendono sia all’interno che all’esterno. Se s’intende così l’essere umano, allora è più corretto parlare di essere umano in quanto essere incarnato che non di essere con un corpo. INTERIORITÀ: LA PSICHE UMANA

L’interiorità è formata dall’universo della psiche, un universo complesso quanto il mondo esterno, abitato da impulsi, desideri, passioni, potenti immagini e archetipi ancestrali. Senza dubbio, il desiderio costituisce la struttura più basilare della psiche umana. La sua dinamica sembra non conoscere limiti. In quanto esseri capaci di desiderio, non ci limitiamo a desiderare una cosa o un’altra. Desideriamo tutto e il Tutto. L’oggetto recondito e costante del desiderio è l’Essere nella sua totalità. La tentazione, tuttavia, è di identificare l’Essere con una delle sue manifestazioni, come la bellezza, i beni, il denaro, la salute, la carriera, la persona amata, i figli e così via. Quando ciò accade, si produce una fissazione per l’oggetto desiderato, che rappresenta la fallace identificazione dell’Assoluto con qualcosa di relativo, dell’Essere illimitato con un’entità limitata. La conseguenza è, in ultima analisi, la frustrazione, in quanto la dinamica del desiderio è caratterizzata dal volere tutto, non solo una parte; dunque, desiderare un’entità limitata si risolve sempre in un fallimento. Ne deriva, a sua volta, un senso di non realizzazione e, di conseguenza, di vuoto esistenziale. In quanto esseri umani, dobbiamo sempre avere cura di orientare i nostri desideri in modo tale che, passando attraverso i vari oggetti a cui sono diretti (il che è inevitabile), non perdano la sacra memoria

dell’Uno, la grande entità che consente loro di aver pace: l’Essere, l’Infinito, l’Origine o Fonte della Realtà, ovvero ciò che convenzionalmente chiamiamo “Dio”. Il Dio che emerge qui non è il semplice Dio della religione, ma piuttosto il Dio di un percorso personale, l’origine ultima del valore, la dimensione sacra dentro ciascuno di noi, che è al contempo non negoziabile e non trasferibile. Tali qualità e definizioni denotano colui il quale, sul piano esistenziale, comunemente chiamiamo Dio. L’interiorità può anche essere definita in termini di spirito umano, inteso qui come totalità dell’essere umano rivolta all’interno che coglie tutte le risonanze che il mondo esterno provoca. PROFONDITÀ: LO SPIRITO

Infine, l’essere umano possiede profondità. Noi abbiamo la capacità di andare oltre le mere apparenze, oltre ciò che vediamo, sentiamo, pensiamo e amiamo. Siamo in grado di cogliere l’altro lato delle cose, la loro profondità. Le cose non sono soltanto “cose”. Ogni cosa possiede una dimensione ulteriore: sono simboli e metafore di un’altra realtà che le trascende e che esse ricordano, presentificano, indicano. Pertanto, una montagna non è soltanto una montagna. Nel suo essere montagna trasmette altresì il senso della maestosità. Il mare evoca la grandezza, il cielo stellato richiama l’immensità e lo sguardo profondo di un bambino fa pensare al mistero della vita. Gli esseri umani percepiscono valori e significati, non solo eventi e azioni. Ciò che davvero conta non sono le cose che ci capitano bensì il significato che esse hanno per la nostra vita e le esperienze che ci forniscono. Tutto ciò che accade, dunque, ha una natura simbolica, sacramentale, potremmo dire. Ogni evento ci ricorda quello che abbiamo vissuto e alimenta la nostra interiorità. È per questo motivo che riempiamo le case e le stanze di foto e oggetti cari dei nostri genitori, dei nonni e degli amici, di tutti coloro i quali entrano nella nostra vita e sono importanti per noi. Può essere l’ultima camicia indossata dal papà morto d’infarto, il pettine di legno

di una zia defunta o la lettera appassionata in cui un fidanzato dichiara il suo amore. Queste cose non sono meri oggetti: sono sacramenti, nella misura in cui rievocano, ci ricordano e presentificano le persone per noi più care e importanti. Cogliere, in tal modo, la profondità del mondo, di noi stessi e delle cose è ciò che chiamiamo spirito. Lo spirito non è una parte dell’essere umano, è piuttosto un momento di coscienza attraverso il quale esperiamo il significato e il valore delle cose. Più ancora: è quello stato di coscienza attraverso il quale cogliamo il tutto e il nostro io in quanto parte e particella di questo tutto. Lo spirito ci consente di fare esperienza della non-dualità. «Tu sei questo mondo – tutto», recitano le Upanirad dell’India, riferendosi all’universo. O ancora: «Tu sei tutto», come dicono molti yogi. «Il Malkuta d’Alaha [“Regno di Dio” o “Principi guida che conducono all’Uno”] è dentro di te», proclama Gesù. Tali affermazioni rimandano a un’esperienza vissuta più che a una dottrina. L’esperienza dell’essere legati o ri-legati (significato originario della parola “religione”) gli uni agli altri e alla Fonte Originaria. Un filo di energia, di vita e di significato che attraversa tutti gli esseri, facendo di essi un cosmo anziché il caos, una sinfonia anziché una cacofonia. Una pianta, dunque, non è soltanto qualcosa che mi sta davanti: è una risonanza, un simbolo e un valore dentro di me. Esistono in me anche le dimensioni della montagna, del vegetale, dell’animale, la dimensione umana e quella divina. Spiritualità non significa avere di ciò una conoscenza intellettuale, bensì vivere e fare di questa realtà la mia esperienza. Come Blaise Pascal ha detto magistralmente: «È il cuore che sente Dio, non la ragione» (Pensieri). Da quest’esperienza ogni cosa è trasfigurata. Ogni cosa viene permeata di venerazione e sacralità. La specificità di noi esseri umani risiede nella capacità di esperire la nostra profondità. Ascoltando attentamente noi stessi riusciamo a percepire nella nostra profondità il richiamo della compassione e

dell’armonia e l’identificazione con gli altri e con il grande Altro, Dio. Prendiamo coscienza di una Presenza che sempre ci accompagna, di un Centro attorno al quale organizziamo la nostra vita interiore e dal quale scaturiscono sia i grandi sogni sia il senso ultimo dell’esistenza. Parliamo qui di una primordiale e primigenia energia, con lo stesso diritto di appartenenza delle altre energie – come quella sessuale, emotiva o intellettiva – che sono in noi. Parte integrante del processo di individuazione è accogliere tale energia, fare spazio a questo Centro e ascoltare attentamente questi richiami che integrano il progetto vitale dentro di noi. Questa è la spiritualità intesa nella sua fondamentale accezione antropologica. Per avere e alimentare la spiritualità, un individuo non ha bisogno di professare un credo o di aderire a un’istituzione religiosa. La spiritualità non è monopolio di nessuno; si trova invece in ogni individuo nei diversi stadi dell’esistenza. Questa profondità dentro di noi rappresenta la condizione umana spirituale che chiamiamo spiritualità. Ovviamente, in genere i credenti chiamano questo Centro Dio e tali richiami sono concepiti come provenienti da Dio, come Parola di Dio. Tuttavia, il nome che utilizziamo per denotare tale realtà, che va al di là di qualsiasi descrizione o concettualizzazione, non ha alcuna importanza. Infatti, alcune religioni, come il buddhismo o il taoismo, non parlano direttamente di Dio, pur occupandosi ciascuna in maniera unica del grande mistero che si trova al cuore di ogni cosa (il buddhismo, ad esempio, parla di sqnyatb, o ‘vacuità’). Le religioni esistono a partire da quest’esperienza. La formulano in termini di dottrine, riti, celebrazioni e attraverso percorsi spirituali ed etici. Questa funzione primordiale consiste nel creare e offrire le condizioni necessarie per consentire a ogni individuo e comunità di immergersi nella realtà divina e di raggiungere una personale esperienza di Dio. Tale esperienza – proprio perché è un’esperienza e non una

dottrina – sfocia nell’irraggiamento di una serenità e di una pace profonda unite all’assenza di paura. Ci sentiamo amati, accolti e abbracciati nel Grembo Divino. Ciò che accade a noi avviene nell’amore di questa Realtà amorevole. Perfino la morte non ammanta più la vita di paura; anzi, la morte è percepita come parte della vita, come il grande momento alchemico di trasformazione che ci consente di essere pienamente nel Tutto, nel cuore di Dio. SPIRITUALITÀ

La spiritualità è, in questo senso, un modo di essere, un atteggiamento fondamentale da vivere in ogni momento e in ogni circostanza. Mentre sbrigano le faccende domestiche, lavorano in fabbrica, guidano l’auto, chiacchierano con gli amici, vivono un momento di intimità con la persona amata, coloro i quali hanno fatto spazio alla profondità e all’elemento spirituale restano quadrati, sereni e pervasi di pace. Irradiano vitalità ed entusiasmo, perché sono interiormente pieni di Dio. Questo Dio è l’amore che, parafrasando Dante, move i cieli, le stelle e i nostri cuori. La profondità spirituale sembra avere una manifestazione biologica. Da una ricerca condotta alla fine del secolo scorso dai neuropsicologi Michael Persinger e V.S. Ramachandran, dal neurologo Wolf Singer, dal neurolinguista Terrence Deacon e da vari esperti usando i moderni metodi immaginativi del cervello è stato individuato in esso ciò che alcuni hanno definito il “Punto Dio” (o “Modulo di Dio”). A quanto pare, negli individui che vivono quelli che potremmo definire “stati mistici” è possibile rilevare un’eccitazione dei lobi frontali del cervello superiore a quella riscontrata normalmente. I lobi temporali sono collegati al cervello limbico, il centro delle emozioni e dei valori. Il che sembrerebbe indicare che la stimolazione del “Punto Dio” non è legata a un’idea o a un pensiero, bensì a fattori emotivi o esperienziali; ovvero, in altri termini, a una spiritualità vivente. Studi più recenti sembrano indicare che potrebbero essere diverse

le regioni del cervello stimolate da un’esperienza mistica, come a dire che il “Punto Dio” in realtà potrebbe essere una sorta di “Rete Dio”, comprendente regioni in genere associate a funzioni cerebrali quali l’autocoscienza, le emozioni e la rappresentazione corporea. Altri ricercatori come Eugene D’Aquili e Andrew Newberg hanno definito tale realtà “mente mistica”. Questa mente mistica è emersa all’interno del processo cosmoantropogenico per realizzare un processo evolutivo: cogliere e rendere cosciente – negli esseri umani – la presenza di Dio (l’Uno, il Creatore) in seno alla dinamica evolutiva universale e in ogni cosa. È nell’essere umano che tale coscienza del Sacro emerge. È nell’essere umano che la spiritualità si sviluppa. Per questa ragione, come sostengono il filosofo Danah Zohar e lo psichiatra Ian Marshall, gli esseri umani sono dotati non solo di un’intelligenza intellettiva ed emotiva, ma posseggono altresì un’intelligenza spirituale. Nel trasformare tale realtà oggettiva – l’intelligenza spirituale – in un progetto cosciente, dobbiamo rafforzare la spiritualità quale dimensione centrale di un’esistenza aperta, ricettiva e attenta alle molteplici dimensioni dell’esperienza umana. Tale spiritualità ci esorta ad avere cura della vita in tutte le sue manifestazioni, poiché ci consente di vedere l’eccellenza e il valore di ciascun essere umano. Tutto ciò che esiste è degno di esistere. Tutto ciò che vive è degno di vivere. La spiritualità ci aiuta a superare la perniciosa logica egoistica oggi imperante, la quale ci spinge a dominare e ad appropriarci delle cose per la nostra utilità e il nostro piacere. La spiritualità fa posto alla logica della coesistenza, della cordialità e della riverenza al cospetto della realtà unica – la diversità – di ciascun essere umano e alla comunione con tutte le cose e con Dio. L’integrazione tra l’intelligenza spirituale e le altre forme di intelligenza (cognitiva, emotiva ecc.) ci apre alla comunione amorevole con tutte le cose in un clima di rispetto e riverenza nei confronti degli altri esseri – la maggior parte

dei quali, da un punto di vista evolutivo, è molto più antica di noi – così da poter essere nuovamente accolti come compagni della grande avventura planetaria e cosmica. L’universo è autocosciente o spirituale? Le riflessioni provenienti dalla cosmologia moderna e dalla fisica quantistica che abbiamo esaminato nel corso di questo volume suggeriscono che la coscienza e lo spirito potrebbero essere collegati a fenomeni quantistici che emergono dall’infinito sfondo virtuale, la fonte di nutrimento di Tutto, il vuoto gravido o – con un linguaggio più scientifico – il vuoto quantico. Il nostro essere spirituale è nato, così come il nostro essere fisico, dal processo cosmogenico. Entrambi sono, in un certo senso, vecchi come l’universo stesso, dal momento che entrambi erano presenti – almeno in forma potenziale – sin dal primo istante della deflagrazione primordiale. In termini cosmologici lo spirito può essere inteso come la capacità delle energie primeve e della materia stessa di interagire tra loro in modo da autocrearsi, autoorganizzarsi e costituirsi in sistemi aperti (autopoiesi) che comunicano tra loro e formano una trama vieppiù complessa di interrelazioni le quali, in ultima analisi, sostengono l’intero cosmo. Fin quasi dal primo istante della deflagrazione primordiale si sono formate relazioni e interazioni, entità primordiali e primigenie (quark e protoni) che interagivano e si scambiavano informazioni con crescente complessità. Possiamo considerarlo l’alba di ciò che chiamiamo spirito. Il cosmo, sotto questo aspetto, è traboccante di spirito, in quanto è interattivo, panrelazionale e creatore. In base a questa prospettiva, non esistono esseri inerti – non vi è materia morta – contrapposti agli altri, gli esseri viventi. Ogni cosa, ogni entità – dalla particella subatomica alle galassie – partecipa in qualche misura dello spirito, della coscienza, della vita. La differenza tra lo spirito di una montagna e lo spirito umano non è di principio, bensì di grado. I principi di interazione e di creazione sono presenti in entrambi, ma in forme

diverse. Lo spirito umano è lo spirito cosmico diventato auto-cosciente e che ora consapevolmente parla e comunica. Lo spirito che scorre attraverso le cose raggiunge una diversa profondità di cristallizzazione nelle donne e negli uomini. Nondimeno, lo spirito è presente negli uomini perché, fin dall’inizio, era presente nel cosmo. Se lo spirito è vita e relazione, allora il suo contrario non è la materia ma la morte, ovvero l’assenza di relazioni. La materia è un campo profondamente permeato di energia, interazione e informazioni. La spiritualità, in questo contesto, rappresenta il massimo grado di potenziamento della vita, e costituisce pertanto un impegno a tutelare ed espandere la vita. Non solo la vita umana, ma la vita in tutta la sua incommensurabile varietà, in tutte le sue sfaccettate manifestazioni. Vivere la realtà di un cosmo che è esso stesso un essere vivente, vivere la realtà della Terra intesa come Gaia – la Grande Madre, o Pachamama nella lingua dei popoli andini – significa sentire la natura come la fonte dell’energia vivente ed entrare in comunicazione con ogni essere che incontriamo in quanto entità dotata di un fine, sorella o fratello nella grande avventura dell’universo, significa dimostrare che siamo davvero esseri spirituali e vivere profondamente una spiritualità ecologica; cosa assolutamente necessaria di questi tempi per la sopravvivenza della biosfera. Il futuro della Terra inteso come pianeta antico, piccolo e limitato; il futuro di un’umanità la cui popolazione non smette di aumentare; il futuro di ecosistemi prosciugati dall’eccessiva pressione dovuta ai processi industriali; il futuro di persone confuse, smarrite e spiritualmente obnubilate che però al contempo anelano a un’esistenza più semplice, chiara e autentica: questo futuro dipende dalla nostra capacità di elaborare una spiritualità veramente ecologica. Non basta essere razionali e religiosi. Più di ogni altra cosa, dobbiamo essere ricettivi gli uni verso gli altri, collaborativi nelle nostre attività e rispettosi nei confronti degli altri esseri che esistono in natura; in una

parola, dobbiamo essere autenticamente spirituali. Solo allora diventeremo esseri responsabili e benevoli verso tutte le forme di vita, che amano la Madre Terra e adorano l’unica Fonte da cui provengono tutti gli esseri e tutte le benedizioni, Dio.

Ecologia, spiritualità e tradizione cristiana Nel corso di questo libro abbiamo attinto da una vasta gamma di tradizioni spirituali quali fonti di saggezza per capire in che modo possiamo realizzare la trasformazione verso un mondo che affermi la vita. È nostra ferma convinzione che tutte queste fonti di saggezza siano importanti e che dobbiamo imparare ad ascoltare in modo aperto e rispettoso le diverse voci. Ciononostante, ci sono ottimi motivi per esaminare più nel dettaglio il ruolo che il cristianesimo può giocare in un’autentica spiritualità ecologica. Perché? In primo luogo, molti lettori di questo testo sono radicati nella tradizione cristiana, che siano o meno praticanti. Coloro che vivono nelle Americhe o in Europa sono, in larga misura, eredi di valori e percezioni formate dal cristianesimo. Inoltre è la cultura dell’Europa, che ha radici cristiane, a essersi imposta su altri popoli in tutto il mondo; in origine attraverso lo sfruttamento coloniale e, più di recente, mediante l’attuale dis-ordine promosso dal capitalismo corporativo globale. È dunque quantomeno ragionevole chiedersi: in che misura il cristianesimo ha avuto un ruolo nel plasmare l’attuale cultura, disfunzionale e patologica, di saccheggio industriale e consumismo? È davvero il risultato degli insegnamenti di Gesù o non ne è forse una distorsione? Una diversa interpretazione di Gesù e delle idee teologiche fondamentali che emergono dai Vangeli potrebbe contribuire a guarire il nostro pianeta? A un primo sguardo sembra evidente che il cristianesimo ha giocato un ruolo nella genesi dell’attuale dis-ordine mondiale. Sono stati gli europei che professavano il cristianesimo ad aver conquistato mezzo mondo, spesso devastando vaste foreste e distruggendo gli

ecosistemi, e ad aver sfruttato i popoli colonizzati. È stato in Europa e nel Nord America che ha preso avvio la rivoluzione industriale ed è sorto il capitalismo. Inoltre, come abbiamo visto esaminando la cosmologia della dominazione, alcuni filoni del cristianesimo – in particolare certe forme di puritanesimo – sembrano aver contribuito a un’ideologia in base alla quale le foreste, i fiumi, i minerali, la terra, le creature e perfino i popoli sono considerati risorse da sfruttare e beni da vendere e comprare. In effetti, tali idee sono diventate quasi sinonimo della civiltà “occidentale” che si è sviluppata sotto l’influenza del cristianesimo. Eppure, nei primi quindici secoli dopo la nascita di Gesù la società europea si fondava su una cosmologia molto più olistica ed ecologica. In particolare le comunità monastiche cristiane hanno contribuito al recupero ecologico di molte aree un tempo dominate dal rovinoso Impero Romano. Risalendo fino alle radici del cristianesimo, la vita e gli insegnamenti di Gesù sono caratterizzati da una netta contrapposizione all’ideologia imperiale fondata sullo sfruttamento dei poveri e della Terra stessa. Ciononostante, è indubbio che alcune interpretazioni delle Scritture sia ebraiche che cristiane siano state utilizzate per corroborare una Weltanschauung che separa gli esseri umani dalla più ampia comunità della vita e che sembra contrapporre corpo e anima. In base all’interpretazione di molti cristiani, ad esempio, il primo capitolo della Genesi implica che gli esseri umani debbano sottomettere e dominare la natura. Altri hanno distorto gli insegnamenti di san Paolo, sostenendo che la “carne” è male, mentre lo “spirito” è bene. Secondo tale concezione, dobbiamo dimenticare le cose “terrene” e perseguire il “regno dei cieli”. Il corpo è considerato fonte di tentazione e, per estensione, la natura stessa è vista come una forza corruttrice. Il mondo che abitiamo, in base a questa prospettiva, è peccaminoso e frutto della caduta, sicché dobbiamo concentrarci sulla futura vita nei cieli. Alla fine, tali distorsioni, associate alle nuove

idee emerse durante l’Illuminismo, si sono trasformate in una sorta di licenza di utilizzare e distruggere la Terra a nostro piacimento. In realtà, molte di queste idee derivano più dal neoplatonismo e da altre scuole filosofiche greche che non dagli insegnamenti delle Scritture ebraiche e cristiane. Infatti, la scissione tra corpo e spirito è del tutto estranea alla cosmologia e alla psicologia mediorientali tradizionali. Anzi, lo spirito è concepito come “soffio” (ruha in aramaico, ruah in ebraico60) che dà vita al corpo. Una lettura più approfondita dei primi capitoli della Genesi, ad esempio, rivela in primo luogo che l’intera creazione appartiene solo a Dio e che tutto ciò che Dio ha fatto è «cosa buona» e benedetta. Queste parole, spesso tradotte in modo da lasciar intendere che dobbiamo sottomettere la Terra e dominare le sue creature, possono essere interpretate anche in termini di un potenziamento della coscienza umana – o approfondimento dell’interiorità –, il che comporta nuove potenzialità e nuovi rischi. Neil Douglas-Klotz fa notare che il termine ebraico khabash, in genere tradotto con ‘sottomesso’ può altresì essere inteso come «la capacità della coscienza umana di agire con più libero arbitrio», che «qui è ampliata fino a includere la capacità di prevalere sul proprio sé subconscio, sugli istinti e sulle altre facoltà interiori, le quali sono un retaggio dell’interiorità di esseri più antichi» (1995). Analogamente, il termine ebraico radah, generalmente reso con ‘dominare’, «indica una particolare facoltà di irradiare diversità e differenziazione, una facoltà che per sua natura si estende, si dispiega e occupa spazio, che agisce con fermezza e persevera nella sua volontà» (1995). In entrambi i casi, queste parole possono essere interpretate in modo da rappresentare una creazione che entra in una nuova fase in cui agli esseri umani viene concessa la facoltà di esercitare il proprio libero arbitrio, di agire in maniera cosciente e di operare delle scelte per differenziarsi e diversificarsi. Tutto ciò è ben

lontano dal dare licenza di sfruttare e distruggere. Il testo sembra sottendere piuttosto un forte senso di responsabilità che deriva dalla partecipazione all’azione creatrice di Dio. Data tale lettura, non abbiamo più bisogno di dare un’interpretazione antropocentrica del testo della Genesi. Anziché essere il “coronamento della creazione”, gli esseri umani possono considerarsi una nuova fase che dipende da tutto ciò che è accaduto prima. In effetti, l’avanzare della creazione di giorno in giorno quale descritto nel primo capitolo della Genesi può essere tranquillamente interpretato in questo modo. Brian Swimme spesso parla di umanità quale coscienza emergente (o forse un aspetto della coscienza emergente) della Terra. Invece di considerarci al di sopra del resto della creazione, possiamo interpretare questo testo in termini analoghi, ovvero nel senso che attraverso la nascita dell’umanità al nostro pianeta è stata data una nuova facoltà di agire in maniera cosciente e di creare nuove possibilità. Il teologo ebreo Arthur Waskow propone un’ipotesi simile nel suo commento alla prima parte del capitolo 2 della Genesi. Egli nota che il termine usato per “uomo”, adam, è strettamente connesso al termine usato per la terra (nel senso di “suolo”), adamah. Pertanto, una buona traduzione di adam dovrebbe essere “terrestre” o “creatura della terra”. Si noti che “terra” in questo caso non è “ambiente”, dal momento che non c’è qualcosa di esterno per l’uomo. Non è fuori, separato, totalmente “altro”. Di contro, l’adam è intrecciato nell’adamah, e l’adamah è profondamente intessuto nell’adam. Come districarli? Intrecciato eppure distinto. L’ultima lettera/sillaba del nome della terra, l’“ahh” di adamah, corrisponde alla lettera “hey”, il suono del soffio, l’unica lettera che compare due volte nel Nome di Dio – YHWH –, che può essere pronunciato unicamente con un semplice soffio (non ha vocali, sebbene si senta parlare di “Jehovah” o “Yahweh”). In qualche modo Dio insuffla quest’unica lettera, il “soffio vitale”, dalla terra vivente fin dentro le narici del Terrestre che, in questo modo, viene alla vita. La lettera del soffio, la “hey”, svanisce dalla visibilità, svanisce dal nome del Terrestre perché penetra all’interno: narici, polmoni, sangue, ogni centimetro del corpo. Il

soffio si fa immanente e quindi invisibile, scompare. L’ultima lettera/sillaba del nome della terra, l’“ahh” di adamah, è anche la desinenza femminile di molti nomi ebraici. La “formazione” di adam è una sorta di parto dal grembo materno in cui i due erano profondamente intrecciati; ma è diverso da un parto comune, in quanto qui anche il neonato continua a contenere la madre, come in una serie di “grembi cinesi” in cui ciascuno contiene l’altro in un modo sempre più ampio e profondo. (1997)

Dunque, nella Genesi l’umanità è considerata una manifestazione della Terra. In effetti, in un certo senso siamo stati creati in modo da avere uno speciale collegamento con il pianeta, formati dal suo stesso sé, come se fossimo figli della Terra. Noi siamo la Terra in cui il soffio si è fatto immanente. Noi siamo la Terra venuta alla coscienza in un modo nuovo. Non siamo al di sopra della Terra, piuttosto ne siamo parte. Siamo pertanto chiamati a vivere in una relazione profonda e cosciente con la Terra e con il suo processo creativo. Ripristiniamo la nostra umanità nel ripristino della nostra terrestrità, nel riconoscimento che facciamo parte della grande comunità della Terra61. Analizzando in maniera più esplicita la teologia cristiana, possiamo considerare l’incarnazione di Cristo come un’affermazione della bontà del corpo e, di fatto, dell’intero regno della materia. Dio si fa uomo, si fa carne e sangue. Spirito e corpo non sono in opposizione, come già emerge dall’intreccio tra soffio e terra nel secondo capitolo della Genesi. In realtà, il Divino stesso è immanente alla materia. Il cosmo stesso è infuso del Sacro. Nei Vangeli anche il legame di Gesù con il mondo naturale è immediatamente evidente. Gesù prega quasi sempre all’aperto. Predica presso il mare di Galilea, circondato dalla bellezza del creato. I suoi insegnamenti sono pieni di riferimenti agli animali (pecora, pesce, uccelli), alle cose che crescono e alla fecondità della Terra. Egli

parla della cura di Dio verso tutte le creature: «Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio» (Luca 12,6). Nelle Beatitudini Gesù ci insegna che l’umile – in aramaico colui che davvero si è abbandonato a Dio e ha addolcito tutto ciò che è rigido dentro di sé – riceverà il vigore e la forza della Terra stessa (Matteo 5,5). Anche la lingua aramaica parlata da Gesù si fonda largamente su immagini agricole legate alla coltivazione delle cose viventi. Gesù pensava e parlava in questo idioma. Tutto il suo insegnamento presuppone una cosmologia in cui la Terra è intesa come un soggetto vivente, non come un oggetto di sfruttamento. In seguito la tradizione cristiana ha continuato a sviluppare molte di queste idee. San Basilio (329-379), padre del monachesimo nella Chiesa Orientale, insegnava la seguente preghiera: O Signore, accresci in noi il senso di fratellanza con tutte le cose viventi, i nostri fratelli e sorelle animali, a cui hai dato la Terra come dimora in comune con noi. Con vergogna ricordiamo che in passato abbiamo esercitato su di essi un violento dominio con spietata crudeltà, così che la voce della Terra, che avrebbe dovuto innalzarsi a te in un canto di lode, è diventata un lamento di dolore. Fa’ sì che capiamo che essi non vivono solo per noi, ma per se stessi e per te, e amano la dolcezza della vita. (citato in Fitzgerald-Fitzgerald, 2005)

Come analizzeremo più nel dettaglio nel corso di questo capitolo, san Francesco ci ha insegnato a pregare Dio per Fratello Sole, Sorella Luna, Fratello Vento e Sorella Acqua. In realtà, molti santi e mistici cristiani hanno vissuto e celebrato la presenza di Dio nel creato. Ha scritto il grande teologo san Tommaso d’Aquino: «Tutto l’universo partecipa e rappresenta la divina bontà più perfettamente di qualsiasi creatura particolare». Il mistico renano Meister Eckhart diceva: «Ogni creatura è piena di Dio, ed è un libro su Dio. Se non avessi trascorso tanto tempo con le creature più piccole, perfino un bruco, non avrei mai preparato un sermone. Tanto piena di Dio è ogni creatura». Analogamente, Lutero ha scritto: «Dio scrive il Vangelo non solo nella Bibbia, ma sugli alberi, sui fiori e sulle stelle».

In questo paragrafo, dunque, vorremmo approfondire il modo in cui possiamo integrare la spiritualità cristiana in un paradigma ecologico. Non si tratta di innestare qualcosa di nuovo nel cristianesimo, bensì di tornare alle sue radici e tracciare i collegamenti tra queste radici e gli spunti della cosmologia e dell’ecologia moderne. Nel fare ciò, esamineremo l’immagine cristiana di Dio nonché le nostre idee sulla rivelazione, sulla grazia, sulla salvezza e sul destino degli esseri umani nel cosmo. Come dovrebbe essere ormai chiaro, la nuova cosmologia è concepita nell’ambito di un’evoluzione ampliata. Il processo di evoluzione non è lineare. È caratterizzato da battute d’arresto, retromarce, avanzamenti, distruzioni e nuovi tentativi. Eppure, nonostante tutti questi giri, riguardando il corso dell’evoluzione possiamo discernere una direzione inconfutabile, una freccia del tempo che avanza e abbraccia ogni cosa. Tuttavia, come sappiamo, molti famosi scienziati rifiutano di accettare l’idea che l’universo si evolva con una direzionalità. Per costoro, l’universo non ha un significato intrinseco. Altri invece non concordano con questa concezione; ad esempio, il noto fisico britannico Freeman Dyson afferma: «Quanto più esamino l’universo e studio i particolari della sua architettura, tanto più numerose sono le prove che l’universo, in un certo senso, doveva già sapere che saremmo arrivati» (1979 [1981, p. 289]). In effetti, guardando il processo dell’evoluzione che si dispiega ormai da 13,7 miliardi di anni, non possiamo negare che si è avuta una progressione costante: l’energia si trasforma in materia, il caos si organizza, il semplice diventa più complesso, da un’entità complessa sorge la vita e dalla vita emerge la coscienza. C’è un fine – una progressione che suggerisce un significato – che non può essere negato. È ciò che viene chiamato principio antropico (cfr. pp. 466-467),

in base al quale se le cose non fossero accadute così come sono accadute – spesso fin nei minimi particolari –, noi esseri umani non saremmo qui a parlare di queste cose. È dunque a ragione che nel suo libro Breve storia del tempo il noto matematico e fisico Stephen Hawking ha scritto: Le leggi della scienza, quali le conosciamo oggi, contengono molti numeri fondamentali, come la grandezza della carica elettrica dell’elettrone e il rapporto della massa del protone a quella dell’elettrone [...]. Il fatto degno di nota è che i valori di questi numeri sembrano essere stati esattamente coordinati per rendere possibile lo sviluppo della vita. Per esempio, se la carica elettrica dell’elettrone fosse stata solo lievemente diversa, le stelle o sarebbero incapaci di bruciare idrogeno ed elio o non potrebbero esplodere [...]. Pare comunque chiaro che gli ambiti di variazione per i numeri cui abbiamo accennato che siano compatibili con lo sviluppo di qualsiasi forma di vita intelligente devono essere molto modesti. La maggior parte degli insiemi di valore darebbero origine a universi che, pur potendo essere bellissimi, non conterrebbero alcun essere in grado di contemplarne la bellezza. Possiamo considerare la nostra posizione privilegiata o come la prova di un disegno divino nella Creazione e nella scelta delle leggi della scienza, o come un sostegno al Principio antropico forte. (1998 [2007, pp. 146-47])

Come emerge Dio all’interno della nuova cosmologia? La questione di Dio, a nostro parere, sorge allorché ci poniamo quest’interrogativo: cosa c’era prima dell’inizio, prima della deflagrazione primordiale comunemente chiamata Big Bang? Chi ha impresso l’impulso iniziale? Chi ha sostenuto l’universo nel suo insieme e, al suo interno esso, ogni singolo essere in modo che continuasse a esistere e a espandersi? Il nulla62? Ma dal nulla nulla può derivare. Se, ciononostante, gli esseri appaiono, è un segno che Qualcuno o una Qualche Realtà ha chiamato gli esseri all’esistenza e li ha nutriti nel tempo. Ciò che possiamo ragionevolmente affermare, senza formulare da subito una risposta teologica, è che, prima dell’istante della nascita del tempo e dello spazio, esisteva l’Inconoscibile, viveva il Mistero. Sul Mistero, sull’Inconoscibile, per definizione, non possiamo dire nulla. Per sua natura tale realtà esiste prima delle parole, dell’energia, della

materia, dello spazio, del tempo e del pensiero. Ora, si dà il caso che il Mistero e l’Inconoscibile siano precisamente i nomi che le religioni, cristianesimo compreso, usano per riferirsi a Dio. Dio è sempre sia Mistero sia Inconoscibile. Meglio il silenzio delle parole dinnanzi a questa realtà. Ciononostante, lui/lei può essere percepito attraverso l’uso riverente della ragione e sentito dal cuore come una Presenza che riempie il cosmo e ingenera in noi un sentimento di grandezza, maestosità, rispetto e venerazione. Posti tra la Terra e il cielo a guardare le miriadi di stelle, restiamo col fiato sospeso e ci sentiamo pieni di riverenza. Naturalmente sorge in noi questo interrogativo: chi ha fatto tutto questo? Chi si nasconde dietro la Via Lattea? Chiusi nei nostri uffici climatizzati o tra le quattro mura di un’aula non possiamo dire nulla e dubitiamo di tutto. Ma immersi nella complessità della natura e intrisi della sua bellezza non possiamo rimanere in silenzio. È impossibile disprezzare lo spuntare dell’alba, rimanere indifferenti di fronte a un fiore in boccio o non restare strabiliati alla vista di un bambino appena nato. Quasi spontaneamente siamo indotti a proclamare che Dio ha messo in moto tutto questo e che è Dio a sostenerlo. Lei/lui è la Fonte originaria e il Vuoto che nutre ogni cosa. Allo stesso tempo, sorge un altro importante interrogativo: perché esiste proprio questo universo e non un altro? E perché siamo qui? Cosa voleva esprimere Dio attraverso la creazione? Rispondere a tali interrogativi è cura non solo della coscienza religiosa, ma di tutta la scienza. Ancora una volta, le parole di Stephen Hawking possono essere illuminanti: «Perché l’universo si dà la pena di esistere? [...] Se riuscissimo a trovare la risposta a questa domanda, decreteremmo il trionfo definitivo della ragione umana: giacché allora conosceremmo la mente di Dio» (1998 [2007, pp. 196-197]). Perfino oggi, dunque, gli scienziati e gli eruditi continuano a indagare e a cercare il disegno nascosto di Dio.

Da una prospettiva religiosa, possiamo brevemente dire che il significato dell’universo e della nostra esistenza cosciente risiede nella nostra capacità di fungere da specchio nel quale Dio possa guardarsi. Dio ha creato un universo come straripamento della sua pienezza di essere, della sua bontà e della sua intelligenza. Dio crea affinché altri possano partecipare della sua sovrabbondanza. Gli esseri umani sono stati creati con una coscienza affinché possano ascoltare il messaggio che il cosmo desidera comunicarci; affinché possano apprendere le storie degli esseri creati, dei cieli, dei mari, delle foreste, degli animali e dello stesso processo umano, e possano ri-legare (come già detto, dal latino re-ligare, la radice di “religione”) ogni cosa alla Fonte originaria da cui deriva. L’universo, e ogni essere al suo interno, non rivela tutto ciò che essi sono e tutto ciò che contengono, dal momento che si trovano ancora in un processo di evoluzione e di espansione. Il cosmo sta ancora nascendo, si trova ancora in un processo di genesi. Per questo motivo ciascun essere e ciascuna entità sono pieni di potenzialità non ancora realizzate. L’universo – e in particolare l’essere umano – porta dentro di sé una promessa e un futuro (Haught, 1993). Ciò verso cui tendono tutte le cose è la realizzazione e la manifestazione delle loro potenzialità nascoste. Pertanto, espansione ed evoluzione significano anche rivelazione. Solo quando ogni cosa sarà pienamente realizzata, la rivelazione del disegno del Creatore sarà completa. Soltanto allora scopriremo la formula che Dio ha usato per far apparire questo splendido sistema che è l’universo nelle sue relazioni e nei suoi esseri correlati gli uni agli altri. Dio si manifesta in questo processo – animando, attraendo e fondendo – sostenendolo dall’alto e portandolo avanti da dietro le quinte. Dio è il Punto Omega, il grande Attrattore di tutte le energie e di tutte le forme della materia, che le attira affinché arrivino al culmine ultimo in cui la promessa si realizza e in cui ciò che ora è virtuale (o che esiste solo come potenzialità) diventa un’incantevole

concretizzazione. Come chiamare Dio nella nuova cosmologia? In che modo dovremmo chiamare questo Dio-che-è-mistero, questo Dio-oltre-la-conoscenza dalla prospettiva di una cosmologia evolutiva? La prima idea è chiamare questa realtà Energia, un’energia suprema, cosciente, che organizza, sostiene e ama. L’energia, come abbiamo detto, è la più primordiale e misteriosa delle realtà, viene prima dell’universo che conosciamo, è presente nel vuoto gravido. Possiamo altresì intendere Dio in termini antropologici e dire che Dio si manifesta come infinita Passione di comunicazione ed espansione, dal momento che il cosmo, nella sua incessante espansione, è pieno di movimento, tempo creatore, spazio, informazioni e – infine – di esseri. Possiamo anche dire che Dio prorompe come Spirito che permea tutto e ogni singola parte in modo da creare continuamente un ordine di fondo a cominciare dal caos iniziale e generativo e aprendosi verso forme vieppiù complesse, aperte, intelligenti e interrelate. Infine, Dio appare come Futuro assoluto, il Punto Omega in cui tutte le promesse presenti nell’evoluzione trovano piena realizzazione. Tutte le cose entrano in comunione le une con le altre e, dunque, con la Fonte Originaria. Dio è un Dio-in-Comunione, un Dio-inRelazione. Quest’idea ci introduce alla comprensione dell’esperienza cristiana di Dio come Trinità, come comunione di Persone divine, Madre/Padre, Figlio/Bambino e Spirito Santo, che a breve esamineremo più nel dettaglio. Panenteismo: Dio in tutto e tutto in Dio Come è evidente, la visione del cosmo ecologica pone l’accento sull’immanenza di Dio nel processo di cosmogenesi. Dio accompagna tutti i processi dall’interno, senza perdersi in essi perché, in quanto Mistero e Inconoscibile, trabocca e li avviluppa da ogni parte. Inoltre, Dio orienta la freccia del tempo verso l’emergenza di livelli di ordine

sempre più complessi, dinamici e intenzionali. Dio è presente nel cosmo e il cosmo è presente in Dio. La teologia classica esprimeva questa interpenetrazione reciproca attraverso il concetto di perichoresis (greco), che letteralmente significa ‘ruotare o danzare intorno’ o ‘interpenetrazione dell’uno nell’altro’. La moderna teologia ecumenica ha coniato un’altra espressione “panenteismo”, dal greco pan (‘tutto’), en (‘in’), theos (‘Dio’): in altri termini, Dio in tutto e tutto in Dio (Moltmann, 1993). Occorre operare una netta distinzione tra panenteismo e panteismo. Il panteismo (dal greco pan + theos, ‘tutto-Dio’) afferma che tutto è Dio e Dio è tutto. Esso sostiene che Dio e il cosmo sono identici, che il cosmo non è la creazione di Dio bensì una modalità fondamentale dell’esistenza di Dio. Il panteismo non accetta differenze: tutto è identico, tutto è Dio63. Se tutto è Dio e Dio è tutto, allora non fa differenza se mi occupo dei bambini di strada di Rio de Janeiro uccisi o me la spasso durante il carnevale, se gioco a calcio o difendo i popoli indigeni Kayapó a rischio estinzione, se lavoro con i malati di AIDS o guardo un film in televisione, se spruzzo pesticidi nel mio prato ben curato o avvio un progetto di giardino comunitario ispirato all’agroecologia. Qualsiasi cosa io faccia, faccio esperienza della realtà di Dio. Dio è tutto, dunque non ci sono differenze concrete. Eppure, tale concezione sembra contravvenire apertamente al buonsenso e violare qualsiasi senso etico. Una cosa non è un’altra. Una cosa è dire che Dio è presente in ogni cosa, altro è dire che Dio è tutto. Ci sono differenze nel mondo, tali differenze vengono rispettate dal panenteismo ma negate dal panteismo. Non tutto è Dio. Ma Dio è in tutto e tutto è in Dio. Fin dall’atto stesso della creazione, Dio lascia la propria impronta su ogni cosa e su ogni essere, garantendo la sua presenza permanente in ogni creatura. È questo l’autentico significato della “provvidenza”: ogni creatura

dipende sempre da Dio e porta Dio dentro di sé. Dio e il mondo sono diversi – l’uno non è l’altro –, ma essi non sono separati né isolati l’uno dall’altro. Ciascuno è aperto all’altro in modo tale da essere inestricabilmente legato e interpenetrato dall’altro. Proprio perché sono diversi, possono comunicare ed essere uniti attraverso la comunione e la presenza reciproca. Una delle più belle espressioni di quest’idea si trova in un inno del vescovo Ildeberto di LeMans [più noto come Ildeberto di Lavardin, n.d.t.], vissuto tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo: Super cuncta, subter cuncta Extra cuncta, intra cuncta Intra cuncta, nec inclusus, Extra cuncta, nec exclusus; Super cuncta, nec elatus, Subter cuncta, nec substratus; Super totus, praesidendo, Subter totus, sustinendo, Extra totus, complectendo, Intra totus est, implendo. Al di sopra di ogni cosa, al di sotto di ogni cosa, Al di fuori di ogni cosa, all’interno di ogni cosa, All’interno di ogni cosa, eppure non incluso, Al di fuori di ogni cosa, eppure non escluso; Al di sopra di ogni cosa, eppure non elevato, Al di sotto di ogni cosa, eppure non sottostante; Interamente al di sopra, presiedendo, Interamente al di sotto, sostenendo, Interamente al di fuori, cingendo, Interamente all’interno, colmando. In virtù di questa presenza reciproca, vengono superate sia la semplice trascendenza che la pura immanenza. Tali categorie, derivate dal pensiero greco, di fatto aprivano un abisso tra Dio e il mondo, ma

noi possiamo riconcettualizzare questi termini in modo che non siano più contrapposti ma inseriti in una dinamica di perichoresis in cui l’immanenza e la trascendenza si interpenetrano a vicenda. Emerge così una diafanità (trasparenza) là dove la trascendenza è presente nell’immanenza e l’immanenza è presente nella trascendenza. Così intesi, Dio e il cosmo diventano reciprocamente trasparenti l’uno all’altro. Pierre Teilhard de Chardin ha vissuto, più di chiunque altro nel XX secolo, una profonda spiritualità della diafanità. Egli lo ha espresso in maniera magistrale: «Il grande mistero del cristianesimo non è esattamente l’apparizione, bensì la Trasparenza di Dio nell’Universo. Sì, o Signore, non soltanto il raggio che sfiora, ma il raggio che penetra. Non la tua Epifania, ma la tua Diafania, o Gesù» (1964 [1994, pp. 155-156]). O come ha detto in questa preghiera: «O Signore, ancora una volta, di queste due beatitudini qual è la più preziosa: che tutte le cose siano per me un contatto con Te? Oppure che Tu sia così “universale” che io possa subirti e afferrarti in ogni creatura?» (1964 [1994, p. 150])64. Nella cosmogenesi l’universo ci esorta a vivere a fondo l’esperienza sottesa al panenteismo: perfino nelle minime manifestazioni dell’essere, in ogni singolo movimento e in ogni espressione della vita, dell’intelligenza e dell’amore siamo avvolti dal Mistero del cosmo in fieri. Coloro i quali sono ricettivi al sacro e al mistero testimoniano, come fece san Paolo, del fatto che in Dio «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (Atti 17,28). Fare di ciò un’esperienza vissuta è l’origine dell’autentica spiritualità. La Santa Trinità come interazione di relazioni inclusive Un discorso ecologico rende possibile e plausibile parlare di Dio quale Trinità di Persone, così come fanno i cristiani, i quali credono nella coesistenza, simultaneità e coeternità di Madre/Padre, Figlio/Bambino e Spirito Santo65. L’ecologia,

come

abbiamo

sempre

affermato

nelle

nostre

riflessioni, può essere intesa come una trama di relazioni interdipendenti e inclusive che sostengono e abbracciano il nostro universo. Insieme all’unità (un solo cosmo, un pianeta Terra, una specie umana) regna anche la diversità (ammassi galattici, sistemi solari, biodiversità, una molteplicità di razze, culture e individui). La coesistenza tra unità e diversità schiude uno spazio in cui collocare l’interpretazione trinitaria e comune di Dio. L’atto stesso di parlare della Trinità anziché semplicemente di Dio presuppone che si vada oltre una concezione semplicisticamente monoteistica o sostanzialista della divinità. La Trinità ci pone al centro di una concezione fatta di relazioni, reciprocità e intercomunione che è in linea con il pensiero e la percezione ecologici. Dunque, nel dire che Dio è Trinità – Madre/Padre, Figlio/Bambino e Spirito Santo –, i cristiani non fanno semplicemente una somma numerica del tipo 1+1+1 = 3. Se dovessimo parlare di Dio in termini numerici, allora Dio sarebbe Uno e non Trino. Quando noi cristiani ci riferiamo al mistero della Trinità non intendiamo moltiplicare Dio, ma piuttosto esprimere la nostra singolare esperienza di Dio-comecomunione, non come solitudine. Proprio su questo aspetto pose l’accento papa Giovanni Paolo II nel 1979 a Puebla, in Messico, durante la sua visita in America latina: «Si è detto, in forma bella e profonda, che il nostro Dio, nel suo mistero più intimo, non è solitudine, ma è famiglia, poiché ha in se stesso paternità, filiazione e l’essenza della famiglia, che è l’amore. Questo amore nella famiglia divina è lo Spirito Santo». Dio-Trinità è, dunque, la relazionalità per eccellenza. Nelle tradizioni filosofiche e teologiche del Medioevo le persone della Trinità sono definite “relazioni sussistenti”, a indicare una totale relazionalità di ciascuna nei confronti delle altre, tale che ciascuna è reciprocamente coinvolta e inclusa nelle altre sempre e in ogni momento senza che mai l’una sia l’altra. In base a questa logica, dovremmo intendere che ciascuna Persona

della Trinità è unica e non ce n’è un’altra come lei/lui: Madre/Padre è unico; Figlio/Bambino è unico, lo Spirito Santo è unico. Ciascuna di esse è unica. E l’Uno, come sanno i matematici, non è un numero bensì l’assenza di numero. Abbiamo dunque tre Uno? Tre Dio? Sarebbe un ragionamento logico, ma la logica della Trinità è diversa. Non è sostanzialista e statica ma processuale e relazionale. Tale logica asserisce che questi Uno si relazionano tra loro in maniera così assoluta, che sono così intimamente e inestricabilmente intrecciati, che si amano in maniera così radicale da diventare Uno. Non è una comunione che scaturisce dalle Persone che, una volta costituitesi in e da se stesse, cominciano a interrelarsi. No, questa comunione esiste simultaneamente alle Persone fin dall’inizio. Esse esistono, fin dall’eternità, come Personein-comunione, Persone-in-relazione. Dunque vi è un solo Dio-incomunione-relazione-di-Persone. Ciascuna Persona è irriducibile. L’una non è l’altra, ma esse esistono sempre in connessione tra loro. Non basta, quindi, considerare la Persona in sé e per sé, occorre considerare la circolarità che sempre le coinvolge e le avvolge in un’interazione intrinseca e ininterrotta di relazioni. Sono le stesse parole Madre/Padre, Figlio/Bambino e Spirito Santo a suggerire tale circolarità. Madre/Padre esiste sono in quanto genitore del Figlio/Bambino. Figlio/Bambino è sempre figlio del Genitore Divino. E lo Spirito Santo è sempre il soffio vitale (ruha o ruach) della Madre/Padre e del Figlio/Bambino. Nel De Trinitate sant’Agostino, che illustrò magistralmente questa concezione del Dio-in-comunione, scrisse a proposito di ciascuna delle Persone divine: «Tutte sono in ciascuna, ciascuna in tutte, tutte in tutte e tutte sono una sola cosa» (libro VI, 10, 20). Sarebbe difficile per un ecologista moderno esprimere quest’interazione di relazioni meglio di come l’ha formulata la fede cristiana, soprattutto perché tale interazione costituisce la logica di

base della cosmogenesi e della visione ecologica. Se Dio è comunione e relazione, allora tutto nel cosmo vive in relazione e tutto è in comunione con tutto in ogni punto e in ogni momento, come abbiamo già detto. Tutto emerge come un sacramento della Santa Trinità. Usando un linguaggio più diretto, basato su una fede vissuta più che sulla dottrina, potremmo esprimere la Trinità in questo modo: noi chiamiamo Madre/Padre il Dio che è sopra di noi e che è la nostra Fonte originaria; chiamiamo Figlio/Bambino il Dio che è al nostro fianco e che si mostra quale fratello/sorella. E chiamiamo Spirito Santo il Dio che vive dentro di noi e che si rivela come esuberanza. Essi sono un unico Dio-in-comunione-e-amore. Lo Spirito Santo dimora nella Creazione Uno dei nomi di Dio che le tradizioni religiose e spirituali hanno utilizzato è Spirito. Vale a dire che parlare dello Spirito, del soffio divino, significa parlare di vita, dinamismo, interazione e finalità. Per i cristiani lo Spirito è la terza Persona della Santa Trinità, ovvero lo Spirito Santo. Esso/a è tradizionalmente chiamato Spiritus Creator, Spirito Creatore. Esso/a riempie la Terra e rinnova ogni cosa: affermazione, questa, essenzialmente ecologica. Lo Spirito Santo è presente nella prima creazione (Genesi 1,2). È attivo e copiosamente presente in Gesù di Nazareth. I Vangeli attribuiscono l’incarnazione del Figlio/Bambino allo Spirito: «Quel che è generato in lei [Maria] viene dallo Spirito Santo» (Matteo 1,20). Il Vangelo di Luca dice che lo Spirito stende la sua ombra e abita Maria, il che significa che Maria è quasi innalzata a una condizione divina; per questa ragione ciò che è nato da lei è Santo ed è il Figlio di Dio. È ancora lo Spirito che resuscita Gesù, inaugurando una nuova e completa pienezza della vita, libera dall’entropia e ormai con le caratteristiche della divinità (Romani 1,4; 1 Timoteo 3,16). Lo Spirito dà altresì origine alla chiesa, la comunità che trasmette la memoria e il retaggio di Gesù nell’arco della storia (Atti 2,32). È lo Spirito che si fa

presente come entusiasmo, esuberanza e vita in ciascun essere umano. La molteplicità degli esseri, la diversità della vita, l’immensa varietà delle energie creative del cosmo: tutto ciò rappresenta una testimonianza dell’azione diversificata dello Spirito, che apprezza le differenze. E lo ritroviamo anche nella comunità umana con la sua diversità di talenti: «Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito», per riprendere le parole di san Paolo. Vediamo la stessa cosa nell’ecologia: vi è una varietà di energie, particelle, esseri, forme di vita e tipi di intelligenza, ma esiste un unico Spirito misterioso, che è sotteso a tutto ciò e lo sostiene, un unico cosmo e una sola Terra. Ciò che vale per la comunità dei fedeli cristiani vale altresì per la comunità cosmica, planetaria e umana: «E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1 Corinzi 12,7), che non è mai soltanto umana, ma piuttosto onnicomprensiva e cosmica. Lo Spirito è un fattore di comunione e comunicazione. Come nel giorno di Pentecoste tutti ascoltano lo stesso messaggio di liberazione in una diversità di lingue (Atti 2,11), così anche la diversità di energie e di esseri torna alla stessa fonte creatrice, al Dominus vivificans, il Dio che «dà la vita», come recita il Credo niceno. L’incarnazione del Verbo è una delle dottrine centrali del cristianesimo, sebbene in pochi siano abituati a sentir parlare dello Spirito che abita la propria creazione. Come il Figlio/Bambino «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Giovanni 1,14), così lo Spirito Santo «venne ad abitare» in mezzo a noi attraverso Maria (cfr. Luca 1,35) e «pose la sua dimora» nell’universo. Dire che esso/a viene ad abitare e pone la sua dimora nella creazione significa che partecipa dei progressi e delle regressioni che vi hanno luogo. Lo Spirito gioisce nella creazione, soffre con essa e geme con le altre creature in attesa della pienezza della redenzione e della liberazione. Poiché essa/o ama e viene a dimorare nella creazione, può essere «spento» e «rattristato» dal suo dramma, come

lasciano intendere le Scritture (1 Tessalonicesi 5,19; Efesini 4,30). Questo panspiritualismo è espresso in un componimento proveniente dall’Oriente: «Lo Spirito dorme nella pietra, sogna nel fiore, ricorda nell’animale e sa ciò che ricorda nell’essere umano». Lo Spirito permea ogni cosa come un groviglio dell’universo con se stesso; come un risveglio della coscienza, del desiderio e dell’entusiasmo; come un grido di liberazione e una forza di comunicazione e comunione. Tale concezione ci fornisce un misticismo cosmico-ecologico. Ci ritroviamo immersi in un campo di Energia assoluta – lo Spiritus Creator – che manifesta le energie dell’universo e la nostra stessa energia vitale e spirituale. Formiamo un tutto con e nello Spirito. La spiritualità nata da questa fede sente il legame con i processi naturali e cosmici. Fare in modo di essere intrisi e riempiti da questi processi significa vivere secondo lo Spirito in maniera naturale e consapevole. Il Cristo cosmico L’affermazione secondo cui il Figlio/Bambino di Dio è fatto di carne e abita tra di noi (Giovanni 1,14) appartiene essenzialmente al cristianesimo. Formulato nei termini di un’ecologia integrale, ciò significa che il Figlio/Bambino è fatto di polvere cosmica (Duve, 1995 [2001]) e degli stessi elementi di cui sono composti gli esseri umani. Oggi sappiamo che, ad eccezione dell’elio e dell’idrogeno (che sono gli elementi più semplici, originari e irriducibili), quasi tutti gli elementi del cosmo si sono formati all’interno di grandi stelle mediante un processo chiamato “nucleosintesi” (T. Berry-Swimme, 1992). Il nostro sistema solare, la Terra e ogni singolo essere e individuo contengono materiale riciclato che proviene da queste stelle ed è stato rilasciato nel cosmo attraverso le esplosioni di supernovae. Il corpo di Gesù, pertanto, aveva questa stessa origine ancestrale ed era fatto di polvere cosmica nata all’interno di antiche stelle che esistevano ben prima del nostro pianeta e del sistema solare. Il ferro che scorreva nelle sue vene, il fosforo e il calcio che fortificavano le sue ossa, il

sodio e il potassio che favorivano la trasmissione dei segnali attraverso i nervi, l’ossigeno di cui era composto il 65 per cento del suo corpo e il carbonio che ne componeva un altro 18 per cento, tutto ciò rende l’incarnazione un autentico evento cosmico. Il Figlio/Bambino si calò in questa realtà allorché emerse dal processo di cosmogenesi (Boff, 2008b). Il concilio cristologico di Calcedonia (450 d.C.) riaffermò che Gesù nella sua umanità è consustanziale a noi, sia nel corpo che nell’anima. Nella nostra cosmologia ciò significa che anche Gesù è il prodotto della deflagrazione primordiale e delle giganti rosse che morirono nelle esplosioni di supernovae (spargendo così i semi elementari da cui scaturì la vita). Il che significa che le radici di Gesù si trovano nella Via Lattea, che la sua culla è il sistema solare e la sua dimora è il nostro pianeta Terra. Gesù ha preso parte al dispiegamento della vita e all’emergere della coscienza, al pari di qualsiasi altro essere umano: figlio dell’universo e della Terra. Egli è un membro della famiglia umana, e ogni essere umano è un essere in cui il cosmo stesso ha raggiunto l’autocoscienza e ha scoperto il Sacro, un luogo biologicoantropologico in cui la divinità prorompe dall’interno della materia. Tale realtà ci consente di capire il motivo per cui l’incarnazione include non solo la persona di Gesù ma tutta l’umanità. Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et Spes), afferma esplicitamente: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (22). In quanto fratelli e sorelle di Gesù, tutti noi siamo chiamati a essere assunti – a modo nostro – dal Verbo. L’incarnazione è un processo ancora in corso. Il Verbo continuerà a emergere dalla materia, dal cosmo e dall’immensa massa dell’umanità fino a quando non verbalizzerà l’intero universo e lo porterà appieno nel regno di Dio (malkuta d’Alaha), la perfetta espressione del fine che ci guida verso l’Uno.

L’incarnazione radica Gesù nel cosmo, ma lo limita anche attraverso vincoli di spazio-tempo. L’incarnazione è un atto di limitazione, di accettazione delle restrizioni, di spostamento dall’universale al particolare; e, in virtù di ciò, implica un processo di svuotamento (kenosis), un lasciar andare. Gesù era ebreo e non romano, era uomo e non donna, è nato homo sapiens sapiens e non australopithecus, all’epoca di Cesare Augusto, è morto sotto Ponzio Pilato. È stato entro questi limiti, e non malgrado essi, che il Verbo è stato rivelato ed è venuto a santificarci. Con la resurrezione, nondimeno, tutti i vincoli di spazio e di tempo sono andati distrutti. Cristo ha assunto un’autentica dimensione cosmica. Attraverso tale processo l’evoluzione ha conosciuto un’autentica rivoluzione. Il Cristo cosmico prorompe, dunque, quale forza motrice dell’evoluzione che libera e riempie a un tempo. San Paolo dice che «Cristo è tutto in tutti» (Colossesi 3,11) e che in Cristo «tutte le cose sono state create» (Colossesi 1,16). Senza Cristo ogni cosa sarebbe semplicemente un torso, poiché mancherebbe della parte più espressiva: la testa. Per questa ragione l’Epistola agli Efesini afferma che è importante «riunire tutte le cose sotto un unico capo» (1,10) [qui, per non interferire con l’interpretazione degli autori, la citazione è tratta dalla Bibbia Interconfessionale; nella versione CEI è «ricapitolare», n.d.t.]. Cristo ricapitola e comprende tutto. Il testo più significativo di questa cristologia cosmica si può trovare in un agraphon (un detto di Gesù non contenuto nei Vangeli canonici), nel frammento 77 del Vangelo Copto di Tommaso. Qui l’ubiquità del Cristo cosmico assume pienamente la sua forza: «Io sono la luce: quella che è sopra ogni cosa; io sono il Tutto; il Tutto è uscito da me e il Tutto è tornato in me. Fendi il legno, e io sono là. Solleva la pietra, e là mi troverai». Ci troviamo davvero di fronte a ciò che potremmo chiamare

“panCristicismo”, derivante da una visione globale del mistero di Cristo. Ciò che abbracciamo nel mondo, ciò che penetriamo nella materia, ciò che sentiamo nei campi di forza e di energia, ciò che esperiamo nei lavori più umili e faticosi come tagliare la legna o sollevare le pietre sono tutti punti di accesso che ci consentono di essere in contatto con il Cristo cosmico risuscitato. Si apre qui uno spazio per esperire l’ineffabile comunione con il Cristo nella sua interezza, che continuamente si attualizza nel mistero dell’Eucarestia. Il pane e il vino non sono soltanto una porzione di materia, un pezzo di pane e una coppa di vino sull’altare. Attraverso la fede nel Cristo cosmico e nello Spirito che lo abita, l’intero universo è trasformato in pane e vino per diventare il corpo e il sangue del Cristo cosmico. Il Malkuta e il Tao Nessuna idea è più cruciale per la vita e l’insegnamento di Gesù di quella del “regno di Dio” o “regno dei cieli”. Questa realtà si trova al cuore stesso del messaggio di Gesù. Egli parla per parabole – piantare semi, prendersi cura del gregge, la vedova che cerca giustizia – per spiegare questa saggezza misteriosa. Ascoltando tali parabole, acquisiamo il senso di un principio organico e vivente, o di un processo che si dispiega nel mondo; eppure, le parole usate per tradurre quel concetto – “regno”, o addirittura “reame” – sembrano evocare qualcosa di ben diverso: qualcosa di più statico e, nel caso del “regno dei cieli”, perfino di ultraterreno. Tuttavia, il termine utilizzato da Gesù in aramaico – malkuta – è molto più simile al concetto del Tao o al Dharma buddhista che non a una qualche forma di “regno” immaginabile. Ciò che Gesù proclama, infatti, è una realtà di gran lunga più dinamica, nonché più impercettibile e potente, di qualsiasi sorta di reame possiamo concepire. L’antica radice di malkuta è legata alla parola malkatuh, il nome della grande Madre (la Terra) in Medio Oriente. Come sottolinea

Douglas-Klotz: «Gli antichi vedevano nella terra e in tutto ciò che li circondava una qualità divina che ovunque si assume la responsabilità e dice “io posso”. Più tardi, coloro che manifestavano chiaramente di avere questa qualità venivano riconosciuti come leader naturali – quelli che chiamiamo regine e re» (1990 [2002, p. 53]). Il Malkuta, dunque, è ciò che ci dà il senso di questo “io posso”, una visione abilitante che affonda le radici non nel dominio bensì nella presenza del divino nel cosmo stesso: un potere che può essere invocato, ma che appartiene a Dio soltanto. Il Malkuta indica i principi di governo che guidano il processo evolutivo del cosmo stesso. Si possono interpretare questi principi guida o di governo del Malkuta in termini di liberazione, nel senso di un processo che conduce il cosmo verso una comunione, una differenziazione e un’interiorità sempre maggiori. Si tratta di un processo essenzialmente creatore e cosmogenico. Come abbiamo sottolineato nell’Introduzione, le radici del mondo suscitano «l’immagine di un “braccio carico di frutti” in procinto di creare, o di una serpeggiante primavera che è pronta a sbocciare con tutto il verdeggiante potenziale della Terra» (Douglas-Klotz, 1990 [2002, p. 53]). Parlando di malkutakh d’bwashmaya (‘regno dei cieli’), Gesù non si riferiva a una realtà avulsa dal mondo. In aramaico il termine d’bwashmaya si fonda sulla radice shem, che designa la realtà di tutte le forme di vibrazione, siano esse luce o suono, e perfino ‘atmosfera’ o ‘nome’66. In un certo senso, possiamo immaginare il “cielo” come il regno di ciò che esiste in potenza, la sfera della visione e delle possibilità. Tale concetto è strettamente legato all’idea, di cui abbiamo parlato poc’anzi, secondo cui ogni entità e ogni essere sono pieni di potenzialità non ancora realizzate e il cosmo è un processo di cosmogenesi in cui le potenzialità future si manifesteranno nel corso del tempo. Chiedendo al Malkuta di “venire” noi cerchiamo di armonizzare le

nostre aspirazioni personali e collettive con quelle del divino. Per esprimere ciò, nella sua preghiera Gesù usava il termine teytey, che evoca l’immagine di una camera nuziale in cui «viene soddisfatto il desiderio reciproco ed inizia il concepimento» (Douglas-Klotz, 1990 [2002, p. 52]). In altre parole, possiamo pensarlo come un armonizzare i nostri desideri con quelli del Malkuta, un agire e pensare in accordo con la grande Via o Tao. Dal punto di vista di una cosmologia evolutiva, possiamo intendere il Malkuta come i principi, le tendenze e gli impulsi che guidano il cosmo verso la sua realizzazione ultima, il Punto Omega. Il Malkuta è presente sia dentro di noi che attorno a noi (tant’è vero che quando Gesù dice che il Malkuta è tra noi e dentro di noi, in aramaico usa la stessa preposizione – hem – per entrambe le espressioni!). La visione di Dio per il mondo è già a portata di mano, dobbiamo semplicemente aprirci alla sua presenza – evidente nella storia del cosmo stesso – e lasciarci guidare da essa. Allora esperiremo quell’”io posso” creatore che ci consente di partecipare in maniera consapevole al dispiegamento della creazione del cosmo. In realtà, possiamo considerare tale compito l’essenza stessa della spiritualità nella tradizione cristiana. Spiritualità ecologica Tali riflessioni fungono da base per una spiritualità ecologica, ovvero un’esperienza di Dio in contatto con la natura e con il processo dispiegantesi di cosmogenesi e liberazione. Ma la teologia è una cosa e la spiritualità un’altra. La teologia lavora con i concetti e pensa in termini di concetti. La spiritualità esperisce e opera attraverso emozioni profonde. La spiritualità emerge allorché dalla testa passiamo al cuore. La spiritualità non è pensare Dio nel cosmo, è esperire Dio in tutte le cose. Un ottimo modo per entrare in un’esperienza ecologica e cosmica spirituale è contemplare l’immagine della Terra riprodotta in miriadi di forme attraverso i vari mezzi di comunicazione. Il globo iconico

trasmette un’esperienza di sacralità e riverenza: il pianeta Terra incorniciato dalla tela nera dell’universo, piccolo e fragile ma pieno di evocazioni (Macy-Brown, 1998). Gli astronauti che ci hanno trasmesso queste immagini del nostro pianeta ci hanno anche offerto testimonianze toccanti del loro immenso potere ispiratore. Ad esempio, James Irwin, parlando della Terra vista mentre era in viaggio verso la Luna, ha raccontato: La Terra ci ha fatto pensare alla pallina di un albero di Natale appesa nell’oscurità dello spazio. Man mano che ci allontanavamo si rimpiccioliva. Alla fine si era ridotta a una biglia, la biglia più bella che si possa immaginare. Quell’oggetto splendido, caldo, vivente sembrava così fragile, così delicato che solo a toccarlo con un dito si sarebbe sbriciolato e disintegrato. Una visione del genere cambia un uomo, lo induce ad apprezzare la creazione di Dio e l’amore di Dio. (Reagan, 1999)

Analogamente, Gene Cernan ha ammesso: Nel dicembre del 1972 sono stato l’ultimo uomo a camminare sulla Luna, me ne stavo in quell’oscurità blu a guardare quasi intimorito la Terra dalla superficie lunare. Quello che ho visto era troppo bello per essere frutto del caso. Che si scelga o meno di adorare Dio [...] [Dio] deve esistere per aver creato quello che ho avuto il privilegio di vedere. (White, 1998)

Riverenza, venerazione e riconoscenza insorgono spontaneamente nell’animo umano quando facciamo esperienza di tale bellezza, maestosità e meraviglia. È per questo che gli esseri umani esistono nel cosmo. Guardando la Terra da oltre la Terra, nell’essere umano si ridesta l’idea di formare un’unità con la Terra e che tale unità a sua volta è parte di un’unità più ampia e comprensiva chiamata sistema solare, il quale a sua volta è circondato dalla galassia e da un ammasso galattico e, infine, dall’intero cosmo. E ciò, dunque, ci rimanda alla Fonte originaria di tutto: Dio. «Credo che quello spettacolo da centomila miglia di distanza sia un modo impagabile per spingere gli individui a collaborare per trovare soluzione condivise», osserva l’astronauta Michael Collins. «Il pianeta che condividiamo ci unisce in una maniera più profonda e ben più importante delle differenze del

colore della pelle o di religione o di sistema economico» (White, 1998). Siamo tutti uniti in quest’unico pianeta Terra. È questa totalità che, da un punto di vista ecospirituale, consideriamo il tempio dello Spirito; questa totalità appartiene alla realtà assunta dal Verbo. Sentire nel proprio cuore la realtà onnicomprensiva dell’essere, vivere la sensazione che vibra, percepire ciò che si estende in eterno, permettere al cuore di essere inondato dalla compassione e dalla tenerezza: questo significa avere un’esperienza ecospirituale. Dalla prospettiva ecospirituale, la speranza ci garantisce che, nonostante le minacce di devastazione derivanti dalla macchina distruttiva che gli uomini hanno costruito e che usano contro la Terra, avremo un futuro buono e benefico, in quanto la Terra e il cosmo sono i templi dello Spirito e del Verbo. E in quel futuro qualcosa della nostra umanità – sia femminile che maschile – si è già eternato insieme all’universo stesso. Qualcosa ha varcato la soglia della realizzazione dinamica assoluta, qualcosa di noi è già nel cuore della Trinità stessa. Da un punto di vista ecospirituale, l’amore ci induce a identificarci sempre più con la Terra, poiché l’amore è la grande forza unificante e integrativa dell’universo. Per secoli abbiamo riflettuto sulla Terra. Noi eravamo i soggetti del pensiero e la Terra ne era l’oggetto e il contenuto. Ora, una volta presa coscienza del fatto che la Terra e l’umanità formano un’unica realtà, è importante che arriviamo a pensare come la Terra, a sentire come la Terra, ad amare come la Terra. Non siamo semplicemente sulla Terra. Noi siamo la Terra stessa che in questa fase della sua evoluzione ha cominciato a sentire, pensare, amare, venerare e avere cura. Per questo la parola uomo deriva da humus, ‘terra fertile’. Analogamente, in ebraico, il termine adam, ‘uomo’, deriva da adamah, ‘suolo’, ‘terra fertile’. Noi siamo il frutto del suolo fecondo della Terra. Attraverso l’amore approfondiamo questa identificazione intrinseca con la Terra. Abbracciamo il mondo, la terra e tutte le cose e, così facendo, abbracciamo Dio, entriamo in comunione con lo

Spirito che agisce nei processi naturali e storici, abbracciamo altresì il Cristo cosmico, che spinge l’evoluzione verso il suo culmine nel Malkuta. Per la nostra epoca abbiamo bisogno di questa spiritualità ecologica e trasformativa che ci aiuterà a prenderci cura della Terra e di tutto ciò che circonda. Ci consentirà perfino di esperire Dio nella forma in cui Lui/Lei desidera essere incontrato, conosciuto e servito nella fase storica in cui viviamo, una fase in cui stiamo raggiungendo un nuovo livello di consapevolezza della Terra e dell’umanità, una fase in cui ci è stata concessa una conoscenza della storia del cosmo e del nostro posto in esso accanto agli altri esseri che mai avevamo avuto in passato; ma anche una fase in cui, per la prima volta, ci troviamo di fronte alla minaccia concreta di ecocidio, una fase in cui, come mai prima, avremo bisogno di questa nuova saggezza che ci guidi verso la salute e il benessere per tutti i membri della comunità terrestre. Francesco d’Assisi: icona della spiritualità ecologica In Occidente troviamo un cristiano con eccezionali qualità umane e religiose che ha vissuto una profonda spiritualità cosmica. È Francesco d’Assisi (1182-1226). In un articolo del 1967 intitolato “The Historical Roots of Our Ecological Crisis”, Lynn White Jr. accusava la tradizione ebraico-cristiana di essere – a causa del suo viscerale antropocentrismo – il principale fattore della crisi che ormai, ai nostri giorni, è diventata clamorosa. Dall’altra parte, però, l’autore riconosceva che lo stesso cristianesimo aveva trovato l’antidoto a questa crisi nel misticismo cosmico di san Francesco. Per corroborare tale idea, egli suggeriva di proclamare san Francesco “santo patrono degli ecologisti”, cosa che papa Giovanni Paolo II ha poi fatto il 29 novembre 1979. Non sorprende che tutti i biografi di san Francesco, come Tommaso da Celano e san Bonaventura, nonché la Leggenda perugina e altre fonti dell’epoca, attestino «lo straordinario affetto [di Francesco]

per tutte le creature di Dio; lo riempiva di una gioia mirabile e indicibile, quando guardava il sole, o la luna, o le stelle del firmamento». Diede il dolce nome di sorelle e fratelli a ogni creatura, agli uccelli del cielo, ai fiori dei campi e al lupo di Gubbio. Tommaso da Celano racconta che «aveva un tale profondo amore per le creature che perfino quelle senza ragione riuscivano a riconoscere il suo affetto e percepivano la sua amorevole gentilezza». Al contempo entrava in comunione con gli esseri più discriminati ed emarginati dell’epoca, compresi i lebbrosi. Né i suoi rapporti erano legati alla religione, come dimostra l’amicizia con i musulmani incontrati in Egitto. Il filosofo Max Scheler, nel suo famoso studio Essenze e forme della simpatia, ha dedicato a san Francesco pagine profonde e magistrali. Scheler sostiene che «mai più nella storia dell’Occidente si è di nuovo raggiunta una figura dalle energie simpatetiche quale si delineò in san Francesco. Mai più si è raggiunta anche l’unità e l’armonia nella loro simultanea attività nella religione, nell’erotismo, nell’operare sociale, nell’arte, nella conoscenza» (Scheler, 1926 [2010, p. 115]). Forse è per questo che Dante Alighieri lo chiama “sole” d’Assisi (Paradiso XI, 50). Questo misticismo cosmico si rivela in tutta la sua bellezza nel Cantico di Frate Sole di san Francesco. Abbiamo qui la sintesi compiuta tra ecologia interiore ed esteriore. Come ha dimostrato il filosofo e teologo francese Eloi Leclerc (1977), gli elementi esterni come il sole, la terra, il fuoco, l’acqua, il vento e altri non sono soltanto realtà oggettive ma anche emotive, veri e propri archetipi che dinamizzano la psiche in direzione di una sintesi e di un’esperienza di unità con la Totalità. Sono questi i sentimenti, nati dalla ragione sensibile e dall’intelligenza cordiale e compassionevole, di cui oggi c’è urgente bisogno se vogliamo ristabilire un patto di sinergia e benevolenza con la Terra e i suoi ecosistemi. A giusta ragione il grande storico inglese Arnold Toynbee ha osservato:

Per mantenere una biosfera abitabile per i prossimi duemila anni noi e i nostri discendenti dovremmo dimenticare l’esempio di Pietro Bernardone (il padre di san Francesco) – un importante mercante tessile del XIII secolo che perseguiva le ricchezze materiali – e cominciare invece a seguire il modello del figlio, san Francesco, l’uomo migliore mai vissuto in Occidente. L’esempio di san Francesco è ciò che noi in Occidente dobbiamo emulare con tutto il nostro cuore, poiché egli è l’unico occidentale ad aver salvato la Terra. (1972)

Oggi san Francesco è diventato il fratello universale che trascende confessioni e culture. L’umanità può essere fiera di aver prodotto un figlio con un amore, una tenerezza e una cura tali verso tutto ciò che esiste e vive. Egli è il punto di riferimento naturale per una condotta ecologica che rispetti tutti gli esseri, per chi vive in armonia con loro e li difende dalle minacce, per chi si prende cura di loro come sorelle e fratelli. San Francesco sapeva cercare Dio in tutte le cose. Ha accolto con gioia le sofferenze e le contraddizioni della vita. È arrivato perfino a chiamare sorella la morte. Ha stabilito un patto con le radici più profonde della Terra e con grande umiltà si è unito a tutti gli esseri per cantare – insieme a loro, e non soltanto attraverso di loro – lodi alla bellezza e alla totalità della creato. In quanto archetipo, san Francesco è entrato nell’inconscio collettivo dell’umanità, in Occidente e in Oriente, e da qui ha fatto scaturire le benefiche energie che ci aprono a un rapporto amorevole con tutte le creature, come se vivessimo in un paradiso terrestre. Egli dimostra che non siamo condannati a essere in eterno gli aggressori della natura. Di contro, possiamo scegliere di essere gli angeli custodi che proteggono, si prendono cura e trasformano la Terra nella dimora comune a tutti, all’intera comunità terrena e cosmica.

Il ruolo delle religioni San Francesco incarna indubbiamente un’autentica spiritualità ecologica, una spiritualità caratterizzata dalla cura per la comunione (in particolare con i poveri e gli emarginati, oltre che con altre creature), dal rispetto per la diversità (compresa l’apertura verso altre fedi, come l’islam) e da un’interiorità sempre più profonda. Il suo

esempio ha ispirato milioni di persone; non solo cristiani, ma individui di ogni confessione, perfino persone senza un’esplicita tradizione religiosa. La forza dell’esempio di san Francesco illustra chiaramente la potenziale forza che hanno le figure religiose nell’ispirarci e nello spronarci a modificare il nostro modo di vivere. Le tradizioni religiose – che spesso nascono come movimenti di seguaci di guide spirituali di tale levatura – hanno una forza analoga. Tuttavia, questa forza può essere usata nel bene o nel male. Non è arduo, ad esempio, trovare casi di movimenti religiosi che violano i principi della diversità pretendendo di essere gli unici depositari della verità e di essere i soli a seguire il cammino che conduce alla salvezza. Di fatto, questo tipo di fondamentalismo religioso – in sostanza, un’ideologia religiosa della monocultura – ha spesso generato discriminazione, emarginazione, conflitti e violenza. Ciò non significa, però, che dobbiamo semplicemente abbandonare la religione e la saggezza che essa può offrire al mondo. Il fondamentalismo dovrebbe essere considerato una distorsione della religione, qualcosa che si verifica quando la religione viene manipolata e usata come strumento del potere dominante. Il fondamentalismo rappresenta in realtà un tradimento del fine e del progetto di Dio per il mondo; non è mai la via che conduce all’armonia, alla pace autentica e a rapporti equi. Manca dell’atteggiamento fondamentale di rispetto per l’altro, che è la conditio sine qua non dell’amore. È contrario al Tao e alla liberazione che il Tao incarna. La religione dev’essere intesa piuttosto come un modo per “rilegarci” (re-ligare) alla Fonte, per aiutarci ad armonizzare le nostre vite con il Tao. Religioni, chiese e tradizioni spirituali – soprattutto – devono servire a tutelare la sacra memoria dell’esperienza del Mistero di Dio. Esse non dovrebbero mai consentire agli esseri umani di cadere nell’oblio. Per questa ragione hanno una funzione educativa.

Possono insegnarci a nutrire rispetto e riverenza non solo verso i testi e i luoghi sacri, ma anche nei confronti di ogni singola creatura del creato e dell’immensa varietà che caratterizza la storia cosmica. Ciascun essere scaturisce dal cuore di Dio. Ciascun essere rivela qualcosa della maestosità e della grandezza di Dio. Senza questo senso di rispetto e di riverenza sarebbe estremamente difficile imporre limiti alla voracità del consumismo, dell’industria e della produzione predatoria che colpisce gli esseri umani e devasta gli ecosistemi. Ecologia e religione L’ecologia, come abbiamo già mostrato, è ormai l’ambito entro il quale dobbiamo analizzare tutti i problemi umani. Nella concezione ecologica la natura non è più considerata come qualcosa di scontato, una sorta di dato primordiale che abbraccia l’immensa varietà dei fenomeni. La natura è vista, di contro, come un sistema aperto, un insieme intrecciato di relazioni o un’intricata trama di energie in costante movimento che passano dal caos a profondità di ordine sempre più complesso. Più precisamente, la materia esiste soltanto a livello tendenziale: ciò che esiste, in base alla teoria della relatività e alla fisica quantistica, è un universo di energia. Un certo tipo di cristallizzazione delle energie in equilibrio si manifesta come materia. Un’altra forma, estremamente complessa, emerge come coscienza e spirito. Ma ciascuna di esse è immersa in un tutto dinamico, vario e unificato. In quest’interpretazione della natura la legge fondamentale è quella della relazione. Nulla esiste al di fuori della relazione con altre entità. Ogni cosa si rapporta a tutto il resto in ogni punto e in ogni momento. Partendo da questa prospettiva, dunque, non dobbiamo preoccuparci per le specie a rischio prese singolarmente, bensì considerandole all’interno della loro relazione con l’ecosistema regionale, con la biosfera, con il pianeta e, in ultima analisi, con l’intero cosmo di cui facciamo parte. In virtù di ciò, non dovremmo rinchiudere il sapere in discipline

isolate. È importante elaborare una concezione trasversale (natura interconnessa o interdisciplinare) del sapere, rendersi conto di quanto un contributo si rapporti a un altro, integrandolo, correggendolo e dando vita a una grande sintesi. In questo processo dobbiamo badare a non prestare attenzione unicamente ai contributi che provengono dalla nostra cosmologia, dalla nostra visione del mondo, dalla nostra religione o dalla nostra cultura. Devono entrare in gioco tutti i contributi delle altre tradizioni culturali e spirituali: quelli provenienti dal sapere ancestrale, dalla cultura popolare nonché dalle convinzioni e dai sogni di ciascun individuo. Ognuno di essi rappresenta una finestra che ci dà accesso alle diverse e complementari dimensioni della natura. Pertanto, è essenziale che ci mettiamo in ascolto. Dobbiamo ascoltare il nostro io interiore, ascoltare il nostro codice genetico, ascoltare le pulsioni più profonde del nostro desiderio. Dobbiamo ascoltare i messaggi che ci giungono da ogni singola cosa, poiché esse, oltre a essere cose, sono portatrici di un significato e varchi verso nuove idee. Dobbiamo ascoltare la voce di ciascun popolo e di ciascun individuo, come pure la voce di ogni singola tradizione spirituale. E dobbiamo imparare da queste voci. Da questo processo di ascolto e di apprendimento nascerà una sinfonia universale. Di fatto, l’esistenza stessa della dissonanza e del caos ci esorta a creare una sinfonia che dev’essere alimentata e tutelata. Risvegliare l’umanità Si dà il caso che l’immenso equilibrio dinamico della vita sul nostro pianeta sia oggi minacciato dall’incontenibile aggressività dell’essere più complesso e misterioso della Terra: l’uomo. Negli ultimi secoli l’umanità ha ferito così profondamente il pianeta che ormai, con il suo febbrile riscaldamento, esso mostra i sintomi della sua malattia. Possiamo percepire questa patologia anche nelle relazioni umane da un capo all’altro del mondo: viviamo in una società globale ferita, lesa e contraddistinta da troppi segnali di morte.

Dobbiamo considerare la minaccia di biocidio, o ecocidio, la questione spirituale e religiosa più importante della nostra epoca. In che modo possiamo spezzare tale dinamica? Come possiamo collettivamente arginare il desiderio di possesso e di accumulo privati? Come possiamo sviluppare un senso di autolimitazione, di giusta misura e di solidarietà tra la generazione presente e quella futura? Dobbiamo salvaguardare le condizioni ecologiche che consentiranno alla creazione di rigenerarsi, di continuare a essere feconda e creatrice e di coevolversi, raggiungendo forme sempre più sinergiche fino a prorompere nel divino. L’intero sistema della vita, e con esso l’umanità, è sotto minaccia. Ad attenderci non c’è un’arca di Noè che salverà alcuni lasciando perire gli altri. O ci salviamo tutti insieme oppure corriamo il rischio di un costante degrado della vita che infine condurrà alla morte. La questione fondamentale non è il futuro di una determinata tradizione religiosa. Quante religioni sono ancora concentrate soprattutto sulla propria espansione numerica? Quante si preoccupano ancora principalmente della propria sopravvivenza organizzativa, e non della sopravvivenza del complesso ordito della vita stessa? No, le principali preoccupazioni religiose e spirituali del nostro tempo devono essere: qual è il futuro del pianeta Terra e dell’umanità nel suo complesso? In che misura le chiese, le religioni e le tradizioni religiose ci aiutano a tutelare la buona creazione di Dio e come facciamo a trovare il nostro posto al suo interno? È questa la questione cruciale, fondamentale per tutte le fedi della nostra epoca. Entro questa prospettiva dobbiamo relativizzare i problemi intrasistemici e intraecclesiali e subordinare il nostro discorso a quello che è il dibattito veramente importante, quello sulla totalità della Terra e sugli esseri interdipendenti che la abitano: esseri diversi, complementari e solidali, in quanto condividiamo un destino comune. Ancora oggi gran parte degli esseri umani si fa guidare non tanto

dalle ideologie e dagli interessi economici quanto da valori religiosi che sono alla base dei beni spirituali. Di fatto, circa l’85 per cento dell’umanità appartiene a una delle circa diecimila differenti tradizioni religiose esistenti sul nostro pianeta. Due terzi dell’umanità seguono una delle tre maggiori confessioni: cristianesimo, islam e induismo (Gardner, 2006). Dunque, è difficile sopravvalutare la potenziale forza della religione nello spronare gli uomini a un nuovo risveglio che, rispetto all’attuale crisi, conduca a un’azione efficace e trasformativa. Ciò è vero soprattutto perché le tradizioni religiose e spirituali già recano in sé i valori chiave che sono fondamentali per lo sviluppo di una cultura ecologica. Esse parlano della sacralità di tutta la vita, pongono l’accento sull’importanza dell’amore, della collaborazione, della compassione, della cura e dell’interesse verso i poveri; esortano a cercare la giustizia e la pace. Si tratta di atteggiamenti benevoli che di fatto ci conducono a una relazione con la natura più rispettosa e non aggressiva. Questi stessi valori ci insegnano a vivere in modo semplice e frugale, a controllare il nostro impulso a possedere e dominare e a cercare di aver cura di tutti gli esseri, in particolare i deboli e i bisognosi. Al contempo, ogni religione e ogni tradizione spirituale porta le proprie idee e il proprio approccio unico. Ciascuna ha un proprio particolare modo di cercare la Fonte di tutto, un proprio cammino verso l’armonia con il Tao. Ad esempio: • Molte tradizioni spirituali indigene pongono l’accento sull’importanza del rispetto verso la Madre Terra e si considerano in rapporto con tutte le altre creature che condividono la nostra comune dimora: non solo gli animali e le piante, ma anche l’acqua, l’aria, le pietre e il terreno viventi. Ci insegnano a pensarci nell’ambito di “tutte le nostre relazioni” e a valutare le implicazioni che le nostre azioni potrebbero avere di qui a sette generazioni. «La spiritualità aborigena

insegna che, se si ha cura di ciò che il Creatore ci ha donato, allora quelle cose avranno cura di noi. È una relazione simbiotica» (Sanderson, 2004). • Nella tradizione induista «il cosmo è il corpo divino dello spirito Divino. Le galassie, i sistemi solari, i pianeti, tutta la vita, compreso il genere umano, sono tutti sottosistemi del cosmo. L’essere umano è soltanto una cellula del corpo divino. E la totalità è più grande della somma delle parti» (Sharma, 2004). Dunque, l’umanità, la Terra e tutte le sue creature formano un ordito interdipendente, come raffigurato nell’immagine della rete di Indra (cfr. p. 326): «Ciascun individuo, ciascun oggetto nel mondo non è semplicemente se stesso, ma implica ogni altro individuo e oggetto e, in realtà, a un dato livello è ogni altro individuo e oggetto» (Avatamsakasutra). • Spesso nel corso del libro abbiamo fatto riferimento agli insegnamenti del taoismo (daoismo), in particolare a quelli del Tao Te Ching. Come abbiamo evidenziato nell’Introduzione, il Tao può essere inteso come un principio ordinatore che costituisce il terreno comune del cosmo; è al contempo il modo in cui l’universo funziona e la struttura cosmica fluente che non può essere descritta, solo sperimentata. Il Tao è la saggezza che si trova al cuore stesso dell’universo, racchiudendo l’essenza del suo fine e della sua direzione. Il taoismo ci insegna che la vera saggezza consiste nell’entrare in armonia con il Tao, il che implica vivere in maniera semplice e rinunciare a qualsiasi forma di dominio. Anziché usare e sfruttare la natura, dobbiamo cercare di osservarla e di comprenderla. Per i taoisti il benessere di una comunità si misura non attraverso l’accumulazione di beni, bensì mediante la diversità della vita che supporta (ARC). • In questo volume abbiamo fatto molti riferimenti anche al buddhismo. Il buddhismo è particolarmente adatto a spiegare la psicologia umana del desiderio e della sofferenza, nonché il pericolo dei tre veleni: avversione, dipendenza e illusione (cfr. p. 168 e la

trattazione della dinamica dell’impotenza). Il buddhismo ci fornisce inoltre importanti spunti circa la natura del cambiamento attraverso la sua interpretazione della causalità complessa/reciproca o “coproduzione condizionata” (cfr. p. 365). Inoltre, la comprensione del Dharma, il “modo in cui funzionano le cose”, fornisce un concetto complementare al Tao o al Malkuta. Infine, i buddhisti attribuiscono grande valore alla compassione e cercano la liberazione dalla sofferenza di tutti gli esseri senzienti. • Dal giudaismo abbiamo mutuato le intuizioni ecologiche inerenti il primo capitolo del libro della Genesi, che dipingono gli esseri umani sia come una nuova fase nella creazione capace di esercitare il libero arbitrio, di agire in maniera consapevole e di operare delle scelte, di differenziarsi e diversificarsi, sia come “creature della Terra” formate dalla mescolanza di soffio divino e suolo vivente. Il giudaismo è altresì una religione fortemente in sintonia con il ritmo delle stagioni, e infatti le principali festività seguono il calendario lunare. La tradizione ebraica insegna l’importanza dello shabbat: astenersi dal lavoro al fine di godere del creato, concedendo così anche alla Terra un riposo ogni sette giorni. Inoltre, l’idea del giubileo provvede alla ridistribuzione della ricchezza; infatti, nel giudaismo l’etica della giustizia è al cuore della legge e della tradizione profetica. • L’islam, che significa “pace”, considera la pace il frutto della sottomissione all’Uno, Allah, il quale dà vita alla compassione e alla misericordia. Essere musulmano significa sottomettersi. L’intera creazione è intesa come musulmana, dal momento che ogni creatura si sottomette all’Uno e segue il volere di Allah. In questa interpretazione, ogni creatura può essere considerata maestra, in quanto può istruirci sul cammino della sottomissione. Gli uomini sono buoni musulmani – si sottomettono unicamente all’Uno – nella misura in cui limitano l’uso della Terra al soddisfacimento dei loro reali bisogni. «Tutta la creazione è la famiglia di Dio, giacché il suo sostentamento proviene da Dio. Pertanto, è amato da Dio colui il quale fa del bene alla famiglia

di Dio» (il profeta Maometto, citato in Motiar, 2004). Nelle loro cinque preghiere quotidiane i musulmani si prostrano, richiamando con questo gesto il rapporto con le creature a quattro zampe che vivono sulla Terra. Parimenti, toccano il suolo vivente con la testa per ricordare che siamo fatti di terra e che alla terra ritorneremo alla nostra morte. Si tratta solo di un breve campione di alcune delle risorse di saggezza ecologica che le diverse tradizioni ci offrono67. Ciò che è chiaro è che ogni percorso spirituale offre spunti unici che approfondiscono la nostra comprensione del Creatore, del cosmo, del rapporto con le altre creature, della psicologia umana e della natura dello stesso processo di liberazione. Ogni tradizione è pervasa dal Tao, ma in ciascuna vengono rivelati aspetti unici della Fonte. È come se ognuna rivelasse nuove sfaccettature di una realtà che non può mai essere compresa e descritta appieno. Ognuna di esse ci consente di avvicinarci alla verità; ognuna di esse arricchisce la nostra comprensione del fine nascosto al cuore del cosmo. Da una prospettiva ecologica, dovremmo considerare quest’immensa diversità di insegnamenti e idee non come una minaccia, bensì come un punto di forza. Un ecosistema è sempre più forte e resiliente quanto più è variegato. Analogamente, le innumerevoli vie per percepire e avvicinarsi al grande Mistero costituiscono un’enorme miniera di saggezza da cui dobbiamo attingere in quest’epoca di crisi. Se possiamo farlo, lavorando con spirito di collaborazione tra le differenti tradizioni con rispetto e apertura, possiamo fare tanto per risvegliare l’umanità alla realtà delle crisi che dobbiamo fronteggiare e, allo stesso tempo, dare speranza e spunti pratici che condurranno a un mondo più giusto e sostenibile. Lavorare per la trasformazione Sotto molti aspetti abbiamo appena iniziato a utilizzare l’autentico potenziale che le tradizioni religiose e spirituali hanno nel mobilitare

il genere umano per cercare soluzioni alle crisi attuali. Molto resta ancora da fare per sfruttare appieno e in maniera durevole l’immensa forza trasformativa che tali tradizioni possono sprigionare. Ciò detto, è utile mettere in evidenza alcuni casi concreti che mostrano come le religioni e le organizzazioni religiose stanno lavorando su temi legati all’ecologia e alla giustizia. Molti di questi esempi derivano da chiese cristiane e organizzazioni ecumeniche, ma non dubitiamo che esistano altrettanti esempi anche in altre organizzazioni: • In seno alla tradizione cristiana la Chiesa Cattolica ha promosso in vari paesi campagne di sensibilizzazione sulla responsabilità dell’uomo nel futuro della vita. Ad esempio, nel periodo quaresimale, attraverso la Campagna della fratellanza, la Conferenza Episcopale Brasiliana (CNBB) si è concentrata su temi come l’acqua, l’Amazzonia e i popoli indigeni. Tali temi sono stati discussi in tutte le parrocchie e le comunità ecclesiastiche di base (CEB), contribuendo a sensibilizzare i fedeli sull’importanza dell’ecologia. • In Canada l’alleanza ecumenica Kairos: Canadian Ecumenical Justice Initiatives (www.kairoscanada.org) si occupa da anni di una serie di problemi ecologici, integrandoli con i problemi di giustizia in una prospettiva cristiana. In quest’attività è rientrata anche una grande campagna per l’acqua e un’altra sull’uso energetico e sul cambiamento climatico. • Negli Stati Uniti il Web of Creation (www.webofcreation.org) promuove un movimento di trasformazione personale e sociale a partire da una prospettiva religiosa, concentrandosi in particolare sulla nascita di congregazioni cristiane verdi. • Nello Sri Lanka il movimento di ispirazione buddhista Sarvodaya Shramadana opera in quasi due terzi dei ventiquattromila villaggi del paese per promuovere ecosistemi salutari e belli e per garantire il soddisfacimento di esigenze fondamentali come l’acqua potabile, una dieta equilibrata, l’alloggio, l’istruzione e le cure mediche. Così facendo, si adopera per integrare sostegno ecologico,

culturale, spirituale e materiale. • A livello globale, il Consiglio mondiale delle chiese (World Council of Churches, WCC), composto da circa trecentocinquanta chiese protestanti e ortodosse di tutto il mondo, da ormai vent’anni ha fatto del tema della giustizia, della pace e dell’integrità della creazione il punto nodale della propria attività. Di recente, ha collaborato con altre organizzazioni ecumeniche, tra cui l’Alleanza mondiale delle chiese riformate (World Alliance of Reformed Churches, WARC), sul tema “Povertà, salute ed ecologia” per chiarire l’interconnesione tra i sistemi iniqui che creano immense accumulazioni di “ricchezza” a discapito dei poveri e della Terra68. • Inoltre, il WCC collabora sia con le chiese cristiane che con altre tradizioni religiose per fronteggiare i problemi legati al cambiamento climatico, e ha raccolto la sfida dei due imperativi lanciati dal Comitato intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC): mitigazione e adattamento. La mitigazione affronta le cause che producono il riscaldamento globale e altre manifestazioni del cambiamento climatico, in particolare il nostro sistema di produzione predatorio e di consumo senza limiti e senza solidarietà. L’adattamento, invece, si rivolge agli effetti del cambiamento climatico, in particolare nel Sud del mondo, più vulnerabile, che chiede compassione e solidarietà da parte di tutti, dal momento che il mancato adattamento sfocerà in una grande perdita di vite umane. • Sono emerse anche importanti iniziative interreligiose su questioni di ecologia e giustizia. Dal 2004 in Canada la Faith and Common Good (www.faithandcommongood.net) lavora sul tema del «rinnovamento del sacro equilibrio», che comprende una grande iniziativa per gli edifici religiosi verdi così come per l’elaborazione del manifesto della “Regola verde” che metta insieme idee ecologiche provenienti da tredici tradizioni religiose. • Esistono anche numerose iniziative per raccogliere spunti

ecologici dalle varie tradizioni religiose, tra cui l’ARC, l’Alleanza delle religioni e della conservazione, e il Forum su religione ed ecologia dell’Università di Yale. • Il Forum su religione ed ecologia dell’Università di Yale è il più grande progetto multireligioso internazionale di questo tipo. Attraverso le conferenze, le pubblicazioni e il suo sito web (http://fore.research.yale.edu) il Forum esplora le varie Weltanschauung religiose, le tradizioni etiche e i testi in un dialogo con le altre discipline, al fine di cercare soluzioni organiche per i problemi ecologici sia locali che globali. • Il patriarcato ecumenico della Chiesa Ortodossa ha organizzato un’iniziativa chiamata “Religione, scienza e ambiente” (http://www.rsesymposia.org) che ha sponsorizzato una serie di simposi comprendenti diverse fedi e tradizioni religiose in modo da attingere alle varie tradizioni teologiche per affrontare l’imperativo di proteggere il mondo naturale. Sono tutti esempi positivi, e senza dubbio ne esistono molti altri in ogni tradizione spirituale e in ogni parte del mondo. Eppure, in generale, non abbiamo ancora visto i leader religiosi e le comunità di fedeli riconoscere l’ecocidio e la minaccia del dis-ordine globale dominante quali principali sfide spirituali della nostra epoca. Non abbiamo ancora visto il potere delle tradizioni spirituali focalizzarsi appieno sui problemi globali urgenti di fronte ai quali ci troviamo. È tempo, dunque, che ciascuno di noi faccia la propria parte all’interno della propria tradizione spirituale per riorientarne energie e interessi. È ormai tempo di riconoscere che viviamo – e che, di fatto, molti popoli vivono ormai da secoli – senza rispettare le leggi fondamentali della vita, incluse le leggi dell’equilibrio e dell’autolimitazione. Abbiamo dimenticato l’antica saggezza che ci insegna che non siamo noi a comandare la natura, ma che anzi siamo totalmente dipendenti dalla sua generosità e dalla sua benevolenza. È più facile mandare le persone sulla Luna e riportarle sulla Terra che non convincere gli

esseri umani a rispettare i ritmi della natura e i limiti degli ecosistemi. A causa di ciò, oggi raccogliamo i frutti avvelenati della desacralizzazione della vita operata dal potere della tecnoscienza al servizio dell’accumulazione di pochi. Ciascuno di noi deve volgersi di nuovo alla propria tradizione spirituale per trovarvi idee che ci spingano al rispetto per tutte le forme di vita, a un’etica della condivisione e della cura, a una visione del sacro incarnato nel cosmo. Se riusciremo a fare ciò, potremo attingere da una fonte di ispirazione profonda e duratura che potrà servire a scatenare una rivoluzione spirituale davvero in grado di guarire la Terra e, al contempo, di arricchire la qualità della vita umana. 60 Tali termini possono essere traslitterati anche come rucha e ruach, dal momento che il suono “h/ch” (corrispondente rispettivamente alle lettere het in aramaico e heth in ebraico) è una “h” aspirata simile al suono della “j” spagnola. 61 Per un’ulteriore indagine sul rapporto tra cristianesimo ed ecologia, si veda il volume della serie Harvard su religione ed ecologia a cura di Hessel e Ruether intitolato Christianity and Ecology: Seeking the Well-being of Earth and Humans (2000). 62 In alcuni passi di questo libro abbiamo attinto dall’immagine del “vuoto gravido”, ma si tratta più di un modo mistico o metaforico per parlare di qualcosa che va oltre la nostra immaginazione e la nostra facoltà di percepire. Il cosiddetto vuoto quantistico, per esempio, è un oceano di energia che trascende la nostra comprensione. Analogamente, il vuoto gravido non è il nulla, ma piuttosto una pienezza che va oltre la “cosità” da cui tutto è nato. 63 È quantomeno opportuno notare che molte tradizioni religiose in passato etichettate dall’Occidente – in particolare dal cristianesimo – come panteistiche potrebbero in realtà essere panenteistiche. Spesso la percezione che una religione sia panteistica si è fondata su un’interpretazione superficiale o incompleta di quella tradizione. 64 Per approfondire il pensiero di Teilhard de Chardin, si veda A. Fabel - D. St. John, Teilhard in the 21st Century: The Emerging Spirit of Earth (2003). 65 La terminologia tradizionale della Trinità è “Padre, Figlio e Spirito Santo”, il che risulta problematico per l’immagine prettamente maschile di Dio che sottende. Il termine usato da Gesù per riferirsi a Dio nella Preghiera del Signore era Abwoon, che al tempo in cui Gesù è vissuto non aveva una netta classificazione di genere tra maschile e femminile. Può essere tradotto in molti modi, compreso ‘Madre Divina’, ‘Padre’ o ‘Genitore’ (genitorialità in senso spirituale). Nella sua accezione mistica designa una fonte di unità dalla quale promana un soffio primigenio nella vibrazione, rievocando l’immagine del creatore cosmico. La parola aramaica usata per “Figlio”, bar, è indubbiamente maschile. Ciò detto, Gesù era anche considerato l’incarnazione della Santa Saggezza (hokhmah o chokhmah), che ancora una volta in aramaico è femminile. Il termine per “Spirito”, ruha, è indubbiamente femminile in aramaico

(così come lo è ruach in ebraico). Esso è stato tradotto in greco con pneuma (neutro) e infine con spiritus (maschile) in latino. 66 Per ulteriori dettagli, cfr. p. 304, la discussione su shemaya (‘cielo’) e ar’ah (‘terra’). 67 Per ulteriori esempi, si veda il sito dell’Alleanza delle Religioni e della Conservazione all’indirizzo www.arcworld.org. Un’altra eccellente risorsa è la cosiddetta “Regola verde”, disponibile attraverso l’iniziativa “Fede e bene comune” all’indirizzo www.faithcommongood.net. 68 Si veda, ad esempio, “Alternative Globalization Addressing Peoples and Earth” (AGAPE) all’indirizzo www.oikoumene.org.

12. L’ecologia della trasformazione Il bene sommo è come l’acqua, che dà la vita alle innumerevoli creature [senza sforzo. Si accontenta dei luoghi poveri che le persone [disdegnano. Perciò essa è simile al Tao. Nell’abitare, vivi vicino alla terra. Nelle questioni di cuore, cerca in profondità. Nelle relazioni, sii gentile e generoso. Nel parlare, sii onesto e sincero. Nel governare, sii giusto ed equo. Nel lavoro, sforzati di essere competente. Nell’agire, ricorda che la tempestività è tutto. Accontentati di vivere in armonia con la tua natura. Non competere con gli altri, e nessuno sarà risentito [con te. Agisci in armonia con le esigenze del presente, cogliendo le opportunità non appena si presentano. TAO TE CHING §8 Il Tao non agisce, eppure attraverso esso ogni cosa è compiuta. Il Tao non fa nulla, eppure da esso scaturisce l’intera creazione. Se chi governa i popoli riuscisse ad attenersi al Tao, il mondo intero si trasformerebbe in maniera [spontanea e radicale. Se le vecchie abitudini e desideri dovessero [riemergere, l’indicibile semplicità li placherebbe senza indugio. Ogni cosa sarebbe libera dal desiderio

e l’armonia e la pace rinascerebbero [spontaneamente. TAO TE CHING §37 Nel corso di questo libro abbiamo cercato di trovare una Via – una “saggezza ambulante” – che ci guidi nel nostro tentativo di realizzare quelle profonde trasformazioni necessarie per compiere la Grande Svolta che condurrà all’era ecozoica. Questa Via, che chiamiamo Tao della liberazione, è un processo dinamico che si dispiega dal cuore del cosmo stesso: è sia energia creatrice sia un attrattore universale che indirizza il corso dell’evoluzione verso una comunione, una diversità e un’interiorità sempre maggiori. Al pari del Malkuta proclamato da Gesù, esso ci consente di resistere contro ogni avversità e di dire “io posso”; è una forza che accresce la vita e che – come il fragile filo d’erba che spunta dalle crepe del cemento o come l’acqua che erode la roccia – mostra un’ostinazione paziente in grado di trionfare su ciò che altrimenti sembrerebbe invulnerabile. Questa grande Via si è manifestata sin dalla deflagrazione primordiale che quattordici miliardi di anni fa diede vita all’universo. È un principio di organizzazione nascosto come il Dharma – “il modo in cui funzionano le cose” –, un “processo ordinato” che governa il dispiegarsi della storia dell’universo. Il miracolo dell’evoluzione della vita sulla Terra e la dinamica collaborativa di Gaia ne sono una testimonianza. In questo Tao risiede la nostra grande speranza, dal momento che, se impariamo ad attingere alla sua saggezza dinamica, se ci apriamo a essere guidati e alimentati da esso, riusciremo davvero a trovare una Via – contro ogni avversità – verso un mondo molto più equo e sostenibile in cui gli esseri umani prosperino come parte della più ampia comunità della vita sulla Terra. Ciononostante, pur essendo ispirati e supportati dal Tao, non dobbiamo mai sottovalutare l’immensità delle sfide che abbiamo di fronte. Il ritmo della distruzione ecologica e l’abisso di disuguaglianza tra ricchi e poveri non sono mai stati così grandi nella storia

dell’uomo. Gli ostacoli al cambiamento sono innumerevoli, e si sono ormai radicati nella psiche umana e nelle nostre strutture culturali, economiche e politiche. Infatti, il sistema patologico che attualmente impoverisce la Terra, avvelena la vita e genera povertà e disuguaglianza si sviluppa ormai da migliaia di anni – almeno dall’epoca in cui cominciarono a nascere i primi imperi, circa cinque millenni fa – e negli ultimi secoli ha raggiunto nuovi livelli di sofisticazione. Gran parte del genere umano, in particolare il 20 per cento più ricco, ha adottato abitudini nocive per la vita, che mettono a repentaglio l’intero ordito della vita al fine di soddisfare la propria cupidigia. I sistemi culturali, politici ed economici che abbiamo creato sono votati al dominio e allo sfruttamento attraverso la distruzione del benessere vivente del nostro pianeta, allo scopo di accumulare una morta astrazione chiamata denaro. Tali sistemi sembrano aver acquisito vita propria, pervertendo subdolamente i desideri dell’uomo affinché si confacciano ai loro scopi. Coniugando le forze di una crescita cancerosa, di un malsviluppo distorto, del dominio di pseudopersone giuridiche, di una finanza parassitaria e della monocoltura della mente al vecchio esercizio del potere dominante, l’attuale dis-ordine globale è diventato un vero e proprio mostro che divora la vita sul nostro pianeta. Perfino qui, però, vi è un seme di speranza. Sebbene tale sistema sia cresciuto fino a diventare oltremodo potente, una volta emersa la sua natura patologica possiamo vedere in maniera nitida che esso è fondamentalmente irrazionale. Nessuno, neanche i più ricchi e potenti, vuole davvero vivere in un mondo degradato in cui la bellezza e la diversità sono diventate un lontano ricordo. Nessuno desidera vivere in un mondo in cui le divisioni tra ricchi e poveri sfociano nella violenza e nell’insicurezza per tutti. Nessuno vuole vedere minate per i secoli – se non per i millenni – a venire le possibilità delle generazioni future.

Inoltre, ci rendiamo conto che l’attuale dis-ordine patologico si fonda sostanzialmente su falsi presupposti: ad esempio che il consumo possa crescere senza limiti su un pianeta finito, che un’astrazione fittizia chiamata denaro costituisca da sola l’autentica misura del valore e che la sfrenata cupidigia, la concorrenza e il perseguimento del proprio interesse possano portare al benessere per tutti. Come emerge dalla nostra indagine sulla cosmologia, non vi è alcunché di “naturale” o inevitabile nell’attuale dis-ordine mondiale. Esso viola i principi dell’evoluzione che hanno governato il dispiegarsi della vita sul nostro pianeta e, di fatto, la storia del cosmo stesso. Ripercorrendo la storia dell’uomo, abbiamo indagato le origini di alcune credenze, atteggiamenti, prospettive e pratiche che puntellano il sistema di dominio e sfruttamento che sta portando scompiglio nel nostro mondo. In particolare, abbiamo attinto spunti dall’ecologia profonda per criticare l’antropocentrismo – l’idea che soltanto gli uomini hanno un valore intrinseco e che tutti gli altri esseri ed entità hanno valore fintantoché sono funzionali agli interessi dell’uomo –, bollandolo come scientificamente irrazionale, moralmente detestabile e disastroso nella pratica. Ci siamo anche rivolti all’ecofemminismo, per approfondire e ampliare la nostra critica, esaminando il rapporto tra patriarcato e antropocentrismo e le loro origini nella storia dell’uomo, nonché le loro manifestazioni nel capitalismo corporativo contemporaneo. In tal modo, abbiamo scoperto i legami esistenti tra differenti forme di discriminazione e di oppressione – comprese quelle basate sulla razza, sulla classe, sul genere e sull’orientamento sessuale – e il soggiogamento della natura stessa nell’esercizio del potere inteso come dominio (potere su). Abbiamo inoltre analizzato le vie alternative per riconcettualizzare e ricostruire il potere, sia in termini di poteredall’interno (il potere intrinseco del Te, o empowerment) sia di potere-con (il potere della sinergia collettiva). Insieme queste alternative

costituiscono quel tipo di potere abilitante necessario per realizzare la trasformazione liberatoria. Al contempo, però, abbiamo visto in che modo l’attuale sistema patologico di dominio cerchi in realtà di rafforzare la dinamica dell’impotenza per impedire un’autentica trasformazione, promuovendo attivamente i “tre veleni” dell’avversione (negazione e oppressione interiorizzata), della dipendenza e dell’illusione (disperazione). Lo fa sia attraverso l’uso della repressione e della violenza esplicita sia con mezzi più subdoli, compresi i sistemi educativi, che tendono a frammentare la nostra visione, e i mass media, che incentivano la pseudocosmologia del consumismo. Dall’ecopsicologia siamo passati ad approfondire le nostre riflessioni, cercando le radici della crisi nella perdita di una cosmologia funzionale che ci dia una vera collocazione e ci consenta di sentirci a casa nel cosmo. Siamo in pochi a mettere seriamente in discussione gli assunti, in larga misura inconsci, che abbiamo circa la natura della realtà e del “modo in cui funzionano le cose”. Eppure tali assunti influenzano la nostra percezione del mondo e dei problemi che abbiamo dinnanzi. Forse, cosa ancora più importante, essi tendono a limitare la nostra immaginazione e a ridurre l’efficacia dei nostri sforzi per creare un mondo più giusto ed ecologicamente armonioso. L’ecopsicologia ci offre ulteriori spunti sulle radici del nostro depotenziamento – il distacco dalla più ampia comunità della vita – e, in questo modo, ci fornisce importanti chiavi per superare la nostra impotenza ridestando il sé ecologico. In termini pratici, possiamo coltivare questo più ampio senso del sé e superare la nostra impotenza ridestandoci al timore reverenziale e alla bellezza, impegnandoci nell’elaborazione della disperazione e nell’opera di potenziamento (o “opera di riconnessione”), coltivando la compassione, costruendo comunità, coltivando la volontà e recuperando una visione e un fine. In questo capitolo conclusivo riprenderemo alcuni di questi temi per

approfondirli, esaminando al contempo l’importanza della visione e del quadruplice sentiero verso la liberazione. Sebbene molte cosmologie tradizionali attribuissero grande valore al legame dell’uomo con la più ampia comunità della Terra, le concezioni emerse negli ultimi cinquemila anni si sono progressivamente allontanate da tale visione. Ciò vale in particolare per la “cosmologia della dominazione” che si è sviluppata in Europa a partire dall’”Illuminismo”. Concependo il cosmo come una macchina che si contrappone a un organismo vivente e riducendo il tutto dinamico a una somma di parti, abbiamo cominciato a considerare il mondo come un insieme di oggetti morti e non come una comunità di soggetti. Il che, a sua volta, ha portato all’abolizione dei limiti etici allo sfruttamento della natura, favorendo al contempo una concezione deterministica che limita fortemente la nostra capacità di credere nella possibilità di una trasformazione radicale. Inoltre, l’immagine di un universo-orologio eterno, infinito e destinato pian piano a esaurirsi in una morte termodinamica ha rimosso dal cosmo sia il senso della visione che quello dello scopo. Sebbene mostrasse quantomeno un barlume di speranza nell’evoluzione della vita, anche l’evoluzione darwiniana promuoveva un’ideologia della competizione spietata e della “sopravvivenza del più adatto”. Per giunta, in questa cosmologia l’universo è tutt’altro che un luogo accogliente. Gli esseri umani sono concepiti come soggetti impegnati in una lotta spietata con le forze della natura: non siamo davvero “a casa” nel cosmo, piuttosto siamo impegnati in uno sforzo infinito per sottometterlo al nostro volere. Nell’ultimo secolo, tuttavia, dalla scienza ha cominciato a emergere una cosmologia nuova e molto più fiduciosa. Sotto diversi aspetti, tale visione è difficile da comprendere, piena com’è di mistero e paradossi. Ma è anche più piena di speranza e creatività rispetto alla cosmologia della dominazione. Per molti versi somiglia alle cosmologie tradizionali che collocano l’uomo all’interno di una storia

in fieri e della grande comunità della vita. Al contempo, però, presenta delle caratteristiche uniche che possono, per certi aspetti, aprirci a un senso di maggiore timore reverenziale e all’immenso potenziale di una trasformazione creativa che migliori la vita. Invece di un universo-macchina frammentato e composto di cose morte e irrelate, la nuova cosmologia implicita nella fisica quantistica rivela un mondo in cui la realtà fondamentale è quella delle relazioni dinamiche: un mondo in cui spazio, tempo, energia, materia e perfino la mente sono parte di un’unità più ampia. Gli atomi stessi non sono più frammenti di cose ma piuttosto vortici di forme d’onda danzanti. Perfino lo “spazio vuoto” è considerato un vuoto gravido, dinamico, pieno di potenzialità come il sqnyatb del buddhismo. Anche la mente e la coscienza sembrano intrecciate nella trama di un cosmo che, per certi versi, somiglia a un gigantesco ologramma dinamico. In base a tale visione dobbiamo abbandonare sia il conforto che la disperazione di un universo prevedibile, optando di contro per un cosmo fatto di una creatività relazionale complessa, un luogo (o processo che si dispiega) in cui il paradosso e la sorpresa creano uno spazio infinito per il manifestarsi dell’inaspettato. La teoria dei sistemi approfondisce ulteriormente tale visione in cui il tutto è più grande della mera somma delle sue parti. Anziché a una macchina, il cosmo somiglia a un organismo, un sistema vivente fatto di altri esseri viventi in grado di autoorganizzarsi, evolversi, adattarsi e perfino saltare improvvisamente a nuovi modi di essere. Invece che una gerarchia, tali sistemi rivelano un’olarchia, ovvero sistemi nidificati all’interno di altri sistemi in modo tale che da sistemi più piccoli emergano sistemi più ampi con nuove proprietà non contenute nelle singole parti costituenti. Tutti questi sistemi viventi, che includono più di ciò che noi comunemente consideriamo “vivo”, hanno la capacità di autoorganizzarsi e di rispondere alle mutevoli condizioni, il che significa che in essi opera una sorta di mente o di processo mentale. Il cosmo nel suo complesso può essere considerato

un sistema autoorganizzantesi. In seno a una tale realtà il rapporto di causa ed effetto diventa complesso e reciproco: perfino le azioni più piccole possono avere effetti enormi. La natura di questa “coproduzione condizionata” dà speranza per un’azione trasformativa, soprattutto perché quando le condizioni sono mature questi sistemi possono “saltare” a nuovi stati di equilibrio con sorprendente rapidità, in particolare in periodi di tensione o di crisi. In effetti, partendo dalla concezione dei sistemi, possiamo intendere la liberazione stessa come un processo autoorganizzantesi, un’arte che ci esorta a discernere – attraverso la contemplazione, la creatività e l’impegno relazionale – la giusta azione da compiere nel luogo giusto e al momento giusto. La prospettiva dei sistemi si arricchisce ulteriormente allorché si considera la possibilità che la memoria stessa sia in qualche modo implicita nel cosmo, forse in forma di campi morfici. Se così fosse, potrebbe darsi che nel cosmo non vi siano leggi eterne o prestabilite, bensì abitudini che si evolvono. Alcune di queste abitudini, come quelle associate a ciò che comunemente chiamiamo leggi fisiche, potrebbero in realtà essere così salde da renderne improbabile un cambiamento significativo. Altre, comprese la forma delle specie viventi e le strutture sociali, potrebbero essere difficili da modificare, ma ovviamente sono suscettibili di trasformazione, talvolta con una repentinità sbalorditiva. Il fenomeno dell’”evoluzione punteggiata” è una prova di questo tipo di cambiamento. Ciò suggerisce che è possibile per gli individui – e ancor più per i gruppi e le comunità – contribuire a creare nuovi campi morfici praticando nuove abitudini, nuovi modi di essere nel mondo. Dando corpo a una nuova visione, essi fanno sì che, nel tempo, sia più facile che anche altri agiscano allo stesso modo grazie al fenomeno della “risonanza morfica”. La storia dell’universo ci rivela un cosmo evolutivo nato dall’unità della deflagrazione primordiale. Sulla Terra vediamo che la vita si evolve in larga misura mediante processi cooperativi come la

simbiogenesi. Di fatto, il nostro pianeta nel suo complesso rivela dinamiche di autoregolazione e di autoorganizzazione – e perfino di altruismo cooperativo – tali da farlo somigliare, per molti aspetti, a un’unica entità vivente che ormai molti chiamano Gaia. L’evoluzione dell’intero cosmo – e della Terra in particolare – rivela un’idea di fine o del Tao, come se un attrattore universale, o Punto Omega, stesse attirando ogni cosa verso una diversità, una comunione e un’interiorità (o coscienza) maggiori. In quanto esseri umani, possiamo considerarci parte di tale processo: siamo una parte del cosmo – una parte della Terra vivente – che è venuta alla coscienza. Pertanto, siamo esortati a reinventare gli uomini in modo che svolgano un ruolo consapevole nella storia cosmica: non come agenti che agiscono per rovesciare la successione ecologica e il processo di evoluzione, bensì come membri che favoriscono il processo di liberazione cercando di alimentare e accrescere la comunione, la diversità e l’interiorità. Infine, si tratta di una sfida spirituale. Abbiamo bisogno di cogliere il Sacro in ogni cosa, così da andare oltre la perniciosa logica dell’interesse personale; dobbiamo ampliare la nostra coscienza attraverso l’empatia e la compassione per abbracciare l’intera creazione. Le tradizioni religiose, in quanto fonte fondamentale di ispirazione spirituale per la maggior parte dell’umanità, possono pertanto giocare un ruolo chiave nel ridestare negli uomini una nuova coscienza e la connessione che ci lega al cosmo. Nel caso del cristianesimo, ad esempio, la teologia della Trinità ci fornisce molte riflessioni sul Dio-come-comunione-nella-diversità, mentre gli insegnamenti di Gesù sul Malkuta e quelli di san Francesco a proposito della cura verso i poveri e del nostro rapporto con l’intera creazione ci forniscono preziosissimi spunti per una spiritualità della liberazione autenticamente ecologica. Nella misura in cui ciascuna tradizione spirituale riesce a condividere la propria saggezza e ad accogliere le idee delle altre, le religioni possono aiutare gli uomini ad

affrontare la principale sfida etica del nostro tempo: la minaccia di ecocidio. La nostra speranza è che questo viaggio ci consenta di adottare una prospettiva sostanzialmente nuova sul cosmo, e in particolare sull’enorme potenziale per una trasformazione radicale e che promuova la vita, di fatto presente nella grande Via, il Tao. La sfaccettata saggezza che abbiamo esaminato – attinta da campi molto diversi come le tradizioni spirituali, la scienza contemporanea, l’ecopsicologia, l’ecofemminismo e l’ecologia profonda – è insieme fonte di ispirazione e di speranza. Ciononostante, come hanno sottolineato Joanna Macy e Molly Young, queste discipline non ci aiuteranno a liberarci davvero fino a quando rimangono intellettualistici «trastulli della mente» (1998). Esse possono favorire la Grande Svolta solo se le mettiamo in pratica, lasciando che trasformino le nostre vite e il nostro stesso modo di essere e di agire nel mondo. A tal fine tenteremo ora di fondare le nostre riflessioni, sia provando a immaginare come potrebbe essere una società ecozoica sia sforzandoci di abbozzare le linee generali di una forma liberatoria di prassi trasformativa basata sulla nostra nuova visione cosmologica. Punti leva per un’azione trasformativa È ovviamente impossibile fornire una ricetta per un’efficace azione trasformativa che sfoci nella creazione di una società equa ed ecologicamente sostenibile. Al massimo possiamo suggerire alcune considerazioni chiave che possono guidarci nel nostro tentativo di passare dalle riflessioni all’azione. Come punto di riferimento generale dovremmo tenere a mente che non tutte le azioni hanno lo stesso impatto trasformativo. Ad esempio, alcuni tipi di azione tendono a migliorare il sistema esistente senza metterne in discussione gli assunti fondamentali né spingere verso un autentico cambiamento del sistema stesso. Donella Meadows (1999) ha individuato nei sistemi dodici “punti leva”. L’autrice sottolinea che il 95-99 per cento degli interventi dell’uomo nei sistemi avviene a livello

di quelli che lei definisce “parametri variabili”, apportando in sostanza aggiustamenti minimi (come l’abbassamento delle tasse) che raramente, se non mai, modificano i comportamenti in maniera significativa. Di contro, le azioni volte a modificare gli anelli di retroazione – mettendo i sistemi in condizione di regolarsi da sé in maniera più efficace – hanno un impatto molto più vasto. Ad esempio, la riduzione della popolazione e dei tassi di crescita economica riduce gli effetti amplificati degli anelli di retroazione positiva distruttivi, migliorando al contempo l’alimentazione, mentre la medicina preventiva migliora l’autoregolazione di un anello di retroazione negativo. Ancora più efficaci sono le azioni che migliorano il flusso di informazioni, fornendo dati e analisi significativi e accurati. L’accesso alle informazioni sui maggiori inquinatori, ad esempio, può generare una pressione tale da costringerli a contenere o eliminare le emissioni. Ancora più importanti però sono i cambiamenti nelle regole di governo di un sistema, il che includerebbe cose del tipo modifiche costituzionali o negoziati per il commercio internazionale e accordi di investimento. Un altro esempio chiave potrebbe essere cambiare le regole che governano le multinazionali, in particolare abolendo il loro status di persona giuridica e adottando misure per aumentare la loro responsabilità sociale. Una forma di intervento più risoluta consiste nel potere di modificare la natura di un sistema autoorganizzantesi. Si potrebbe, ad esempio, aggiungere un anello di retroazione completamente nuovo. Modificare la tassazione per premiare i comportamenti sostenibili e penalizzare quelli distruttivi potrebbe creare degli anelli di retroazione che effettivamente incentivano l’efficienza energetica e la riduzione dei rifiuti. Rendendo i comportamenti sostenibili economicamente vantaggiosi si libera un vero e proprio potenziale per un cambiamento del sistema. Ancora più importante è modificare l’obiettivo di fondo del

sistema. Ad esempio, se ci ponessimo come obiettivo non la massimizzazione della crescita economica (o PIL) ma quella del benessere sociale e della felicità (come il regno himalayano del Bhutan fa dal 1972), saremmo costretti a riorientare il nostro sistema in maniera sostanziale. Una misura, che sarebbe il riflesso di un siffatto cambiamento di obiettivo, sarebbe abbandonare il PIL quale indicatore di progresso e adottare un indicatore alternativo come l’Indice di progresso effettivo (GPI, Genuine Progress Indicator) o la Felicità interna lorda (GNH, Gross National Happiness) come in Bhutan. Gli ultimi due livelli di trasformazione sono ancora più profondi, ma anche più impegnativi. Il primo è adottare una mentalità, un paradigma o una cosmologia nuovi. Per quanto difficile, afferma Meadows, non c’è niente di inevitabilmente fisico o costoso o perfino lento nel processo di cambiamento del sistema. In un individuo può avvenire in un millisecondo. Tutto ciò che richiede è un click nella mente, far cadere i paraocchi, un nuovo modo di vedere. Le società sono una questione diversa. Esse resistono alla messa in discussione dei loro schemi più che a qualunque altra cosa. Tra le risposte sociali alla messa in discussione degli schemi ci sono state crocifissioni, roghi, campi di concentramento e arsenali nucleari. Quindi come si cambiano gli schemi? [...] In sintesi, continuando a puntare il dito contro le anomalie e i fallimenti del vecchio paradigma, continuando a parlare con forza e sicurezza a partire dal nuovo paradigma, introducendo le persone in luoghi di visibilità pubblica e di potere. Non perdendo tempo con i reazionari; piuttosto collaborando con gli agenti del cambiamento attivo e con i tanti moderati di larghe vedute. (1999)

Meadows prosegue affermando che i sistemisti spesso cercano di «cambiare i paradigmi modellando un sistema su un computer, il che porta fuori dal sistema e costringe a vederlo come un tutto». Forse per certi versi questo libro può essere considerato un esercizio di questo genere: in particolare i capitoli iniziali, in cui abbiamo cercato di comprendere l’attuale sistema che domina il nostro pianeta e di esaminare la sua natura patologica. Il passo successivo, tuttavia, dovrebbe essere plasmare un nuovo sistema basato su una nuova

cosmologia – dar vita a una visione di cambiamento – e poi, nel corso del tempo, testare questa visione nella pratica e, in questo modo, sforzarsi di perfezionarla. Il livello di azione trasformativa più profondo, però, consiste nel trascendere del tutto i paradigmi. Si tratta, forse, di qualcosa di ancora più enigmatico, ma è una sana precauzione contro qualsiasi tentativo di incarnare una nuova concezione del mondo. Nessuna visione, nessun paradigma potrà mai essere perfetto. Dobbiamo sempre essere aperti a nuove idee e a nuove fonti di saggezza. Qualsiasi cosa facciamo, qualsiasi cosa abbracciamo, dobbiamo sempre considerarla come qualcosa di provvisorio, in un certo senso. Come recita un proverbio zen: «Non cercare la verità, smetti semplicemente di coltivare opinioni». Restare aggrappati a un qualsiasi paradigma, per quanto bello possa sembrare, potrebbe portare a quel fanatismo tipico del fondamentalismo, che di certo non è in armonia con il mistero del Tao, il quale, in ultima analisi, è oltre la conoscenza. Nessun paradigma o concezione del mondo umano può mai incarnarlo appieno. Ciò che possiamo sperare è di rimanere aperti e sforzarci continuamente di cercare il giusto modo di essere nel tempo e nello spazio in cui ci troviamo. Nel corso del tempo tutti i paradigmi devono adattarsi ed evolversi, così come fa il cosmo. Il concetto dei punti leva ci aiuta a strutturare le nostre riflessioni sulla prassi trasformativa. Tuttavia, un altro modo per pensare l’azione trasformativa è in termini di ruoli del riformatore, del profeta e del visionario. Sono tutti e tre necessari, ma non ugualmente adatti a una determinata epoca. Le riforme puntano a modificare e migliorare le strutture senza metterne in discussione lo schema sistemico di fondo o il paradigma a esse sotteso. Di fatto, le riforme fanno parte del processo omeostatico che continuamente regola il sistema per accordarlo all’ambiente. L’azione profetica, di contro, critica e mette in

discussione il modello sistemico, aiutandoci a spingerlo verso un bivio e a portarlo a una trasformazione radicale. L’azione visionaria in realtà dà avvio a nuovi modelli, sperimentando modi possibili per concretizzare un nuovo paradigma emergente. In quanto tale, essa svolge una funzione analoga a un nuovo campo morfico, spingendo la trasformazione oltre il bivio verso un nuovo modello di stabilità. In un’epoca di crisi come quella attuale vi è un impellente bisogno di andare al di là della funzione omeostatica del riformista. L’azione profetica continua a svolgere una funzione importante, ma forse l’azione del visionario assume una rilevanza maggiore. Marilyn Ferguson (1987 [1999, p. 543]) riporta un mito della tradizione mistica ebraica della Cabala che ci sembra pertinente: quando il mondo dovrà essere rifatto, i «figli della camera del desiderio» (i profeti) innescheranno uno stato di caos scuotendo il vecchio ordine costituito fin dalle radici, mentre gli «artefici della costruzione» (i visionari) tradurranno il fuoco della rivoluzione in nuove forme. Una prospettiva simile viene da Macy e Brown (1998) allorché parlano dei tre tipi di azione: • Sostenere azioni in difesa della vita punta a evitare ulteriori ingiustizie e danni alla Terra. Tra queste: intraprendere iniziative per migliorare le leggi, ribellarsi all’ingiustizia e boicottare le multinazionali. Tali azioni sono necessarie nella misura in cui possono rallentare, e perfino arrestare, ciò che nuoce alla vita e impoverisce l’umanità, ma non riescono a porre rimedio ai danni già fatti né ci fanno avanzare verso nuovi modi di vivere nel mondo. In certi momenti potremmo considerare tali azioni sostanzialmente riformiste, ma spesso vanno oltre denunciando apertamente l’ingiustizia e la distruzione a livello sistemico e, sotto quest’aspetto, hanno una natura più profetica. • Le azioni volte a cercare le cause strutturali e a dar vita a delle alternative hanno una natura più chiaramente profetica. Esse possono includere iniziative educative finalizzate alla formazione delle

coscienze, a soluzioni abitative in collaborazione come gli ecovillaggi, all’utilizzo di indicatori di progresso alternativi e alla creazione di giardini comunitari o sistemi monetari locali. Molte di queste attività, racchiudendo i semi di un nuovo paradigma, possono comprendere forme di azione visionaria. • Le azioni volte a modificare le percezioni e i paradigmi in maniera attiva cercano di incarnare una nuova cosmologia rintracciata nell’olismo, nella teoria dei sistemi, nell’ecologia profonda, nell’ecofemminismo, nella teoria di Gaia e nella storia emergente dell’universo. Tali azioni potrebbero includere, ad esempio, l’elaborazione della disperazione e l’opera di potenziamento o di rimitizzazione della storia cosmica. Per certi versi, questa è l’area di azione più indefinita, in parte perché può essere la più difficile da concepire in modo chiaro. Ciononostante, probabilmente è anche la sfera con il maggior potenziale di trasformazione radicale. Anche in questo caso, tutte e tre le forme di azione sono importanti, ma la prima (sostenere azioni) non ci porterà mai a superare l’attuale crisi. In ultima analisi, l’autentica liberazione sarà frutto di azioni basate su una profonda comprensione della crisi attuale volte a costruire nuove alternative che incarnino davvero un paradigma ecologico.

Concepire una nuova visione Per intraprendere tali azioni è necessaria una certa chiarezza di visione. Sebbene tutte le visioni siano in fondo provvisorie, rappresentano comunque la principale fonte di ispirazione e di guida. Come abbiamo già notato, avremo bisogno di coraggio e di saggezza per superare la crisi attuale e per affrontare le strutture che impediscono la liberazione. Colpa e paura non ci sproneranno mai ad affrontare i rischi connessi né a fare i sacrifici necessari; anzi, potrebbero paralizzaci, facendoci entrare in uno stato di illusione attraverso dinamiche di avversione, di dipendenza e di disperazione. Di contro, abbiamo bisogno di una visione (o di visioni) avvincente

che possa ispirarci, attirandoci verso una nuova realtà attraverso la bellezza, la speranza e lo stupore. Come nota Duane Elgin: Se riusciamo collettivamente a immaginare una via sostenibile e appagante verso il futuro, allora potremo iniziare a costruire il futuro in maniera consapevole. Abbiamo bisogno di attingere dalla nostra saggezza collettiva e di scoprire immagini del futuro che ridestino in noi l’entusiasmo per l’evoluzione e mobilitino le nostre energie sociali. (1993)

Analogamente, parlando del concetto di volontà (p. 224), abbiamo evidenziato che Roberto Assagioli ha descritto cinque fasi necessarie per l’esercizio della volontà, che qui può essere intesa come facoltà di realizzare il cambiamento. Innanzitutto, occorre definire un obiettivo o una motivazione chiari verso cui desideriamo orientarci: una visione che ci ispiri e ci illumini. Solo allora potremo passare alle altre fasi: deliberazione (o discernimento), affermazione, pianificazione e controllo dell’esecuzione del piano. Per essere davvero avvincente e appagante, tale visione deve basarsi sui valori di ciò che davvero conta nella vita: non il denaro e la corsa al potere, ma le relazioni, l’amore, il senso di appartenenza, la bellezza, il timore reverenziale e il piacere della vita. Non dev’essere un ritorno romantico verso una mitica età dell’oro che non è mai esistita, bensì un andare avanti. Secondo Morris Berman (1981), a tal fine potremmo aver bisogno di recuperare idee e modi di essere che si trovano nelle società tradizionali – in particolare la consapevolezza che siamo parte di una più grande comunità della vita –, ma non deve trattarsi di un ritorno al passato. Anzi, viste le dimensioni della popolazione umana e i danni che abbiamo già fatto, alcune forme di tecnologia contemporanea potrebbero in realtà essere essenziali per qualsivoglia società trasformata riusciremo a creare; ma l’uso che facciamo della tecnologia, oltre che la sua portata e il suo scopo, dovrà cambiare in modo sostanziale. Thomas Berry racconta che spesso un artista esperisce «qualcosa di

simile al sogno cosciente che si chiarisce nel corso del processo creativo stesso». Allo stesso modo, «noi dobbiamo avere una visione del futuro avvincente abbastanza da sostenerci nella trasformazione del progetto umano attualmente in corso» (1999). Ovviamente, non occorre che la visione sia completa fin dall’inizio, dato che vi è un’interazione dialettica tra visione e azione. Man mano che sperimentiamo nuovi modi di essere nel mondo, la visione si perfezionerà e si chiarirà. Alla fine, il cammino diventerà nitido solo una volta che l’avremo percorso. Tuttavia, ciò che ci ispira e ci sostiene durante il viaggio è, per certi versi, sempre il sogno: «Il sogno guida l’azione», per riprendere le parole di Berry (1999). Possiamo pensare tale percorso in termini di «fedeltà preventiva»: dobbiamo restare fedeli alla visione nella quale confidiamo, anche se non è ancora qui. La teologa femminista Letty Russell utilizza l’espressione greca hos me, ‘come se non’. [Dobbiamo] vivere come se non, come se i fatti della situazione fossero solo provvisori a causa dell’orizzonte di libertà. La [...] anticipazione del mondo nuovo sta irrompendo, e tutti gli altri aspetti della vita non si possono prendere veramente sul serio. [...] Vivere hos me è più un atteggiamento verso la vita che una particolare serie di azioni. È una vocazione a guardare criticamente ciò che avviene nel mondo, a vedere i problemi e poi ad agire in modo che il problema stesso sia in qualche modo contestato e la gente cominci a trasformarsi. (1974 [1977, pp. 50-51])

Un modo più positivo per riformulare tale concetto è affermare che dobbiamo vivere come se la realtà che desideriamo vedere fosse già qui; dobbiamo sforzarci di incarnare la visione che desideriamo vedere per il mondo. Dalla prospettiva della risonanza morfica tentiamo di creare e praticare nuove abitudini, nuovi modi di essere per far sì che, nel corso del tempo, sia più facile per gli altri praticarli e diffonderli. Di primo acchito potrebbe sembrare un’impresa estremamente ardua, ma, nella misura in cui recuperiamo anche le percezioni e le abitudini praticate dall’umanità in epoche precedenti (e perfino oggi da alcuni popoli indigeni) e tentiamo di allinearci al grande attrattore universale – il Tao –, non creiamo nuove abitudini dal nulla, piuttosto adattiamo

al nostro tempo e al nostro luogo percezioni e abitudini già esistite.

L’alternativa bioregionale Nel corso di questo libro abbiamo cominciato a intravedere i contorni di un’autentica società umana trasformata che vive in armonia con la più ampia comunità della Terra. Analizzando il patologico dis-ordine globale attuale, è emersa la necessità di passare da un’economia basata su una crescita cancerosa a un’economia a tasso di crescita costante in continua evoluzione in termini qualitativi. A livello politico, abbiamo parlato della necessità di trovare un modo per passare da un potere-su di dominio a un potere-dall’interno e a un potere-con liberatori. A livello culturale, abbiamo visto la necessità di attribuire maggior valore alla diversità e promuovere ruoli di genere più fluidi. Le successive riflessioni sulla teoria dei sistemi hanno fornito preziosi spunti sulla dinamica dell’evoluzione, dell’autoorganizzazione e dell’olarchia e sulla stabilità dinamica, mentre l’analisi della Carta della Terra ci ha radicato in una struttura etica comune. L’attuale ministro degli Esteri boliviano, David Choquehuanca, attingendo alla filosofia indigenza andina, sostiene che si debba passare dall’obiettivo di “vivere meglio” (l’etica di un progresso e uno sviluppo senza fine) a quello di “vivere bene” (ovvero un’etica della sufficienza). Il “vivere meglio” ci spinge alla concorrenza con gli altri e a un’infinita corsa ad accumulare di più. Di contro, “vivere bene” implica sempre un benessere per l’intera comunità: un individuo non può vivere bene se la comunità nel complesso non sta bene. Inoltre, il vivere bene non si fonda sulla ricchezza materiale (anche se postula i beni primari della vita), bensì sul benessere degli individui e delle comunità di ogni dimensione. Del resto, una comunità non può vivere bene in un ecosistema degradato; anzi, dobbiamo ampliare l’idea stessa di comunità fino ad abbracciare le altre creature oltre che l’aria, l’acqua e la terra che le sostengono. Che tipo di società potrebbe riflettere l’obiettivo di vivere bene in

armonia con la più grande comunità della Terra? In che modo possiamo fondare l’etica del rispetto, della cura, della bellezza e dei rapporti equi in una concreta visione sociale? Nel rispondere a tali interrogativi, dovremo tenere a mente che una società umana funzionale e sostenibile dovrebbe attingere dalla saggezza rivelata nei sistemi viventi e autoorganizzantesi come gli ecosistemi maturi. Possiamo ora elencare alcune caratteristiche chiave di una visione sociale alternativa69 basata sulla nostra conoscenza dei sistemi viventi e arricchita dagli spunti acquisiti nel corso delle nostre riflessioni: • Sostenibilità. Dobbiamo accettare i limiti, stare attenti a non consumare più di quanto il nostro ecosistema possa produrre in maniera sostenibile e non creare rifiuti che non possono essere smaltiti e riciclati in modo sicuro. Abbiamo bisogno di muovere verso la creazione di prodotti duraturi che siano funzionali, efficienti e belli. Dobbiamo dar vita a economie che riutilizzino e riciclino i materiali in maniera giudiziosa, imitando, ove possibile, i cicli ecologici. Dobbiamo essere parchi con le risorse ma prodighi di creatività e di amore per far sì che le future generazioni possano vivere nell’abbondanza. • Giustizia ed equità economica. Occorre soddisfare i bisogni autentici di tutti, garantendo uno stile di vita frugale ma dignitoso per ciascun individuo. Equità non significa che tutti devono avere lo stesso livello di ricchezza, ma che le differenze di ricchezza non devono essere così grandi da essere indice di una sostanziale mancanza di equità che genera rancore, indignazione o violenza. Principio di giustizia significa altresì garantire che il soddisfacimento dei bisogni dell’umanità non comprometta il benessere delle altre specie o i bisogni delle future generazioni. • Diversità biologica e culturale. Dovremmo cercare di massimizzare la diversità culturale e di garantire la più ampia diversità possibile di creature ed ecosistemi. La diversità è indice di un sistema maturo e

funzionante, dal momento che rende un sistema più efficiente e più resiliente. Infatti, uno dei modi migliori per misurare il vero benessere di una comunità è proprio attraverso la diversità di vita, arte, cultura e spiritualità che essa armoniosamente supporta. • Radicamento locale. Al pari di qualsiasi altra comunità biologica, anche noi dobbiamo conoscere il nostro ecosistema locale e cercare di vivere, per quanto possibile, entro i limiti da esso imposti. Come abbiamo sottolineato parlando dell’ecofemminismo, per poter davvero essere fonte di ispirazione e sprone ad agire la nostra identificazione con la Terra dev’essere radicata in un legame emotivo con le persone, i luoghi e le comunità biotiche reali. Al contempo, adattandoci al luogo in cui viviamo, impariamo ad adottare stili di vita che rispettano la reale capacità di carico dell’ambiente e a dare un contributo significativo alla più ampia comunità ecologica. Inoltre, se viviamo nei limiti delle risorse locali, l’energia spesa in trasporti viene ridotta al minimo e diminuisce la tentazione di esportare inquinamento e altri problemi “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Se viviamo entro i confini posti dal nostro ecosistema locale, è meno probabile che insudiceremo il nostro nido o prosciugheremo le nostre risorse. • Autonomia e apertura. Sebbene il radicamento locale ponga l’accento sul bisogno di autonomia, le comunità e le economie locali – al pari di qualsiasi sistema vivente – hanno anche bisogno di confini permeabili. Il commercio e gli scambi continueranno sempre a essere necessari, ma la produzione dovrebbe essere, per quanto possibile, locale. Gli individui e le idee devono poter circolare liberamente, e occorre che le comunità locali siano aperte alla creatività e alle espressioni culturali che si manifestano al di fuori dei loro confini. Il noto economista John Maynard Keynes riteneva che «l’interdipendenza economica» dovesse essere ridotta al minimo, ma che altri settori reclamassero una più ampia condivisione: «Le idee, la cultura, la scienza, l’ospitalità, i viaggi, sono tutte cose che per loro

natura dovrebbero essere internazionali. Ma lasciate che i beni siano prodotti localmente ogniqualvolta ciò sia ragionevole e conveniente e, soprattutto, lasciate che la finanza sia principalmente nazionale» (citato in Athanasiou, 1996). • Democrazia, partecipazione e sussidiarietà. Gli individui dovrebbero, per quanto possibile, partecipare attivamente alle decisioni che li riguardano. In base al principio di sussidiarietà, le questioni dovrebbero essere trattate al livello più piccolo e basso, ovvero al livello più locale di entità sistemica. I gradi di olarchia sistemica più ampi e inclusivi dovrebbero occuparsi soltanto delle questioni che riguardano i sistemi più grandi e che non possono essere affrontate in maniera efficace a un livello più basso. • Autoorganizzazione cooperativa. Le economie e le culture devono essere libere di autoorganizzarsi in maniera creativa entro i limiti di valori condivisi e della necessità di garantire il benessere e la sostenibilità della comunità. Ciò implica un grado abbastanza elevato di libertà nelle organizzazioni economiche, politiche e culturali, ma tale libertà implica responsabilità concrete. • Condivisione di sapere e saggezza. Il sapere non dovrebbe mai essere privatizzato, ma dovrebbe essere condiviso nella maniera più ampia possibile. Il flusso di informazioni e la condivisione della saggezza rafforzano i sistemi e li rendono più reattivi e resilienti. • Responsabilità e diritti. Gli individui e le comunità devono essere liberi di esercitare i propri diritti fondamentali alla vita, alla salute, alla partecipazione e all’espressione. Al contempo, l’esercizio di tali diritti non deve minare la responsabilità che la comunità ha di provvedere ai bisogni primari di tutti e di garantire la sostenibilità e la salute degli ecosistemi locali. • Equilibrio. In tutte le cose deve regnare un senso di equilibrio. C’è una tensione di tipo yin/yang tra diritti e responsabilità, tra autonomia e condivisione, tra generosità e conservazione. Noi dobbiamo sempre sforzarci di far sì che, massimizzando un valore, non si

compromettano gli altri, ovvero dobbiamo incarnare l’etica degli optima anziché quella dei maxima. Una visione che riprende e sintetizza tali elementi è quella del bioregionalismo. L’ecofemminista Judith Plant (1990) considera il bioregionalismo «un’idea integrante» che ci consente di mettere in pratica le nostre visioni di un mondo nuovo; si tratta di una prassi (teoria integrata dalla pratica, ovvero una sorta di “saggezza ambulante”) che ci permette di vivere ciò in cui crediamo. Le idee del bioregionalismo non sono nuove: in realtà esse mutuano in parte dai modi tradizionali in cui gli uomini hanno vissuto per millenni prima della nascita dei primi imperi, circa cinquemila anni fa. Nella sua versione moderna, il movimento bioregionale ha ormai oltre vent’anni di vita, eppure molti ancora non ne conoscono i concetti chiave. Una bioregione è un’entità geografica comunemente definita da un bacino idrografico. Essa presenta caratteristiche comuni in termini di vegetazione, configurazione del terreno e fauna (Nozick, 1992). È abbastanza grande da consentire un certo grado di diversità e un’autosufficienza economica di fondo, ma abbastanza piccola da favorire una conoscenza approfondita della regione. È, questo, un punto importante, in quanto l’idea di fondo del bioregionalismo è «tornare a essere nativi di un luogo», recuperare un legame profondo con la natura a livello locale. In base alla visione bioregionale, dobbiamo adeguarci all’ecosistema e all’economia naturale di un determinato luogo anziché cercare di plasmare il luogo per adattarlo ai nostri gusti personali (per quanto, probabilmente, vi sia una certa influenza reciproca). Kirkpatrick Sale sostiene che sia necessario diventare autentici «abitanti della Terra»: Ma per diventare abitanti della Terra, per riapprendere le leggi di Gea [sic], per giungere a conoscere davvero il nostro ambiente, il compito cruciale, forse l’unico onnicomprensivo, è quello di capire il luogo, il luogo immediato e specifico nel quale viviamo. La terra e le rocce che sono sotto i nostri piedi, le sorgenti d’acqua alle quali attingiamo, i diversi tipi di venti, gli insetti, gli uccelli, i mammiferi, le piante e gli alberi; i caratteri del ciclo delle stagioni, i tempi della semina e del raccolto – queste

sono le cose che è necessario conoscere. I limiti delle sue risorse; la capacità di sopportazione della sua superficie, delle acque; i luoghi dove non deve essere esercitato uno sforzo eccessivo; i luoghi dove la sua generosità può essere sollecitata, dove offre i suoi tesori – queste sono le cose che si debbono capire. E le culture della gente, quella che è originaria di un territorio, che vi è cresciuta, gli adattamenti umani, sociali ed economici, che si sono sviluppati in coerenza alle strutture geomorfiche, sia negli insediamenti urbani che rurali – queste sono le questioni di cui si deve tener conto. (1985 [1991, pp. 58-59])

Ciò richiede un radicale riorientamento del nostro modo di vivere. Come affermano Mary Gomes e Allen Kanner: Abbracciare la visione bioregionale significa molto di più che riciclare, usare meno la macchina o ridurre al minimo i consumi, per quanto tutte queste cose siano importanti. Implica un cambiamento nel nostro senso di identità tale da consentire all’ambiente che ci circonda di crescere dentro di noi, alla terra di risanarci come l’edera che cresce su una vecchia casa o gli anemoni che spuntano dalle crepe del marciapiedi. Significa la morte del vecchio io industriale e la nascita di qualcosa di nuovo. (1995)

I cinque obiettivi del bioregionalismo possono essere così sintetizzati: autonomia, armonizzazione con la natura, soddisfacimento dei bisogni individuali, costruzione di una cultura comunitaria e raggiungimento del controllo comunitario. Sale (1985 [1991]) aggiunge che l’attuazione della visione bioregionale esige che si riacquisti una conoscenza del territorio e dell’ecosistema locale; che si imparino le tradizioni locali, ossia la storia e la cultura del luogo; che si ampli il potenziale della bioregione trovando il modo di realizzare le possibilità del luogo entro la sua capacità di carico e coltivando al contempo l’autosufficienza regionale; infine, che si cerchi la liberazione dell’io promuovendo la crescita individuale degli individui nell’ambito di una comunità solidale. La seguente tabella (adattata da Sale, 1985 [1991]) mette a confronto la visione regionale con l’attuale dis-ordine dominante:

Nell’analizzare tale tabella comparativa, dobbiamo stare attenti a non creare dicotomie fallaci. Il fatto che l’unità fondamentale della bioregione sia la comunità locale non significa che le unità sistemiche più ampie e inclusive non siano importanti. Probabilmente, stando al principio di sussidiarietà, sono necessari anche livelli di organizzazione più ampi, interregionali, nazionali (o simili), come pure quelli che operano a livello globale. L’idea di fondo, tuttavia, è che il livello bioregionale diventa per molti aspetti l’unità primaria del processo decisionale e dell’organizzazione della comunità. Ciò detto, facciamo anche parte di una più ampia comunità planetaria e alcune questioni – come il cambiamento climatico – ci riguardano tutti e quindi necessitano di un’azione coordinata, sebbene molte di queste misure implichino di fatto un’attuazione locale. In questo caso ci è utile l’idea di una visione “glocal”: dobbiamo pensare e agire a livello sia locale che globale, e in realtà dobbiamo considerare l’unità fondamentale che collega il locale al globale. Dobbiamo conoscere la

realtà locale e sapere come agire al meglio al suo interno, ma siamo informati anche dalla realtà globale e dalle esperienze delle altre regioni. Parimenti, sebbene la cooperazione e la simbiosi siano valori fondamentali, anche la concorrenza rientra nel gioco. In realtà, il principio di diversità implica l’esistenza di un’ampia varietà di imprese economiche le quali, inevitabilmente, si fanno concorrenza, in certa misura. Come abbiamo visto, la concorrenza è di fatto una componente necessaria in un ecosistema sano, ma su scala più vasta la cooperazione e la simbiosi sono dinamiche più importanti. Ciò deve riflettersi altresì nel nostro sistema economico, magari rifacendosi al modello di «impresa economica comunitaria» di Korten, costituita da «un’economia di mercato composta principalmente, se non esclusivamente, da imprese familiari, piccole cooperative, aziende di proprietà dei lavoratori e corporazioni di quartiere e municipali» (1995). Economia: una comunità sostenibile con radici locali In una visione bioregionale, l’economia deve incentrarsi su valori come l’autonomia, la sostenibilità, l’equità e la giustizia. Al cuore di questa visione vi è l’idea di un’“economia della sufficienza” o del “vivere bene”: un’economia che possa equamente soddisfare i veri bisogni degli uomini (vs. desideri e brame) garantendoci però di poter vivere in maniera autentica e, allo stesso tempo, di rispettare i limiti del nostro ecosistema locale (e globale). Theodore Roszak (1992) lo definisce principio di pienezza, che ci sprona a valutare i nostri bisogni autentici. Dobbiamo chiederci cos’è davvero la ricchezza e a cosa serve realmente. Anziché cercare di acquisire cose oltre il necessario, potremmo cercare altri tipi di ricchezza, in particolare nella forma di tempo da dedicare all’amicizia, alla famiglia, alla riflessione, alla meditazione, alla creatività, alla natura e al gioco. Sotto molti aspetti, l’economia bioregionale somiglia alle economie di sussistenza di cui abbiamo parlato in precedenza (pp. 88). L’attività

economica non è finalizzata alla produzione di denaro e merci per l’accumulo di capitale o l’acquisizione di beni di lusso, bensì alla creazione e ricreazione della vita. Si dà priorità al soddisfacimento dei bisogni primari, sia materiali che spirituali. Ciò richiede una transizione dalla tendenza alla globalizzazione a quella all’autosufficienza locale. Come spiega Marcia Nozick: Primo, concentrandoci sulla produzione locale per i bisogni locali limitiamo al minimo la distanza che le merci devono percorrere per la distribuzione, riducendo così costi di trasporto, uso smodato dell’energia e inquinamento. Secondo, la domanda locale di beni (comunità e regione circostante) può essere soddisfatta da industrie e tecnologie su scala minore che possono essere gestite più facilmente dalla comunità. Lo sviluppo decentrato – usando una tecnologia ridotta per produrre minori quantità di beni per meno persone – disperde l’impatto dello sviluppo in maniera più uniforme attraverso la biosfera, dando così alla natura più tempo per assorbire e ritrasformare i rifiuti. Terzo, decentrando l’industria e creando più imprese su piccola scala che sostituiscano i megaprogetti possiamo incrementare i posti di lavoro e l’accesso a essi, generando così una distribuzione più equa della ricchezza. Quarto, nelle imprese più piccole i lavoratori possono avere più voce in capitolo sulle condizioni di lavoro e, di conseguenza, troveranno il lavoro più costruttivo. (1992)

Un’economia bioregionale è fondata sia sull’ottimizzazione di scala che sul riciclaggio e la conservazione delle risorse. Entrambi questi aspetti garantiscono la sostenibilità, ovvero la capacità di soddisfare i bisogni reali della società senza limitare le possibilità delle generazioni future nella comunità biotica (Capra-Steindl-Rast, 1991 [1993]). Anziché adattare l’ambiente ai bisogni degli individui, questi ultimi devono adattarsi per entrare in armonia con il mondo naturale e conservare l’equilibrio ecologico. L’economia punta a ridurre al minimo l’uso delle risorse non rinnovabili e la distruzione ecologica, massimizzando al contempo la propria capacità di riciclare e di sfruttare la creatività e il lavoro dell’uomo. Un esempio in cui l’idea di un’economia locale come quella immaginata dal bioregionalismo sta già iniziando a decollare è quello del movimento per la “dieta delle cento miglia”, ossia cercare di

mangiare esclusivamente prodotti coltivati nella propria regione. Ovviamente, in alcuni luoghi è molto più arduo riuscirci, a causa di fattori climatici e legati alla produttività agricola, ma il principio di fondo è corretto. I prodotti coltivati a livello locale richiedono meno trasporto e sono più freschi rispetto a quelli provenienti da lontano. Inoltre, mangiare cibi locali contribuisce al radicamento in un luogo. Ciò vale soprattutto se ci impegniamo in qualche progetto di agricoltura sostenuto dalla comunità, in cui un gruppo di persone si organizza per comprare prodotti di coltivatori locali. Spesso tali gruppi danno vita a una relazione vivente tra consumatori e produttori, con i primi che vanno a visitare le fattorie e danno addirittura una mano nell’attività produttiva. Analogamente, coltivare prodotti nel proprio giardino – a casa nostra o in un appezzamento comunitario – ci radica in un luogo e ci consente di avere cibi freschi e coltivati in maniera naturale. Infine, ovviamente, in un modello bioregionale tutta l’agricoltura sarebbe finalizzata a essere realmente sostenibile, basata sui principi della coltivazione naturale e dell’agroecologia. Al cuore dell’economia bioregionale dev’esserci un rinnovamento del lavoro umano inteso come attività di supporto alla vita, lungo le linee che abbiamo indicato nella disamina delle alternative ecofemministe. Anziché creare “occupazione”, dobbiamo cercare di creare un’autentica sussistenza che sia utile, significativa e vivificante. Su scala locale è possibile ricongiungere in maniera creativa consumo e produzione. Il lavoro può diventare meno specializzato e più vario, ed è possibile superare la rigida divisione tra lavoro e divertimento. Cruciale in questa visione dev’essere altresì lo sradicamento della suddivisione del lavoro in base ai generi. In particolare, gli uomini devono assumere un ruolo attivo nelle faccende domestiche volte al sostentamento della vita, compreso l’accudimento dei figli. Parimenti, anziché dare importanza soprattutto alle occupazioni intellettuali, bisognerebbe attribuire maggiore valore alle attività che implicano un

contatto immediato con la natura e a quelle volte direttamente al sostentamento della vita. È plausibile che i computer e le moderne tecnologie delle telecomunicazioni possano contribuire a favorire questo nuovo modello consentendo agli individui di concentrare il lavoro vicino al luogo in cui si vive, come avveniva in passato nell’epoca preindustriale. In generale, invece di usare la tecnologia per tagliare posti di lavoro o accelerare l’accumulazione della ricchezza, dovremmo puntare a ridurre il tempo che trascorriamo al lavoro e incrementare il tempo libero per i rapporti, il divertimento, l’arte e le attività volte a ripristinare gli ecosistemi e a sostenere la vita. Di primo acchito la visione bioregionale sembra un’utopia, ma bisogna ricordare che in passato le economie di sussistenza hanno garantito il sostentamento a milioni di persone, assicurando al contempo un notevole livello di armonia ecologica. Ovviamente, la conversione a un’economia del genere richiederà che si ponga fine ai lussuosi livelli di consumo esistenti nel Nord del mondo, ma non vi è alcuna ragione di credere che i bisogni primari non possano essere soddisfatti. Liberando le enormi risorse oggi dedicate all’accumulo di capitale e al settore militare, è possibile soddisfare sia la sostenibilità ecologica che i bisogni primari. In effetti, per la grande maggioranza della popolazione mondiale, il modello bioregionale promette un notevole miglioramento nell’appagamento dei bisogni materiali. Allo stesso tempo, la maggiore soddisfazione dei bisogni primari, unita all’emancipazione delle donne attraverso la ristrutturazione del lavoro (e del potere), potrebbe creare le condizioni necessarie per una più rapida stabilizzazione della popolazione umana. Cultura: comunità e diversità Il modello bioregionale propone un rinnovamento non solo dell’economia, ma anche della cultura umana. Con la riorganizzazione dell’attività umana su scala locale si rilancia la possibilità di una comunità autentica. L’idea di vivere in maniera ecologica su base etica

comincia a diventare una possibilità concreta, in quanto le conseguenze delle nostre azioni diventano più immediatamente evidenti: ad esempio, l’inquinamento e la povertà non possono più essere esportate “lontano dagli occhi”. È più facile convincere le persone a fare ciò che è giusto, perché diventa più immediatamente evidente che è nel loro interesse personale e in quello della loro comunità. Inoltre, una maggiore conoscenza del luogo e un legame più stretto con il territorio creano una consapevolezza ecologica spontanea da cui può scaturire la nuova etica. Un aspetto chiave della costruzione di autentiche comunità locali è la rinascita della cultura locale. Wendell Berry (1988) sostiene che una solida cultura locale può esercitare una sorta di forza centripeta che tiene insieme il territorio e i ricordi, e le comunità nate attorno a questi due fattori. In passato (e ancora oggi, in alcune culture autoctone) il destino di un figlio era succedere ai propri genitori; i giovani erano impregnati delle tradizioni, delle storie e del patrimonio culturale locale. Oggi i figli vengono educati non a tornare a casa, ma ad abbandonare la casa e a guadagnare denaro in «un futuro provvisorio che non ha nulla a che fare con il luogo o la comunità» (W. Berry, 1988). In mancanza di un’economia locale, le famiglie e i vicini non sono più di alcuna utilità gli uni per gli altri. Gli individui dipendono ormai da estranei che vivono lontano, e l’egemonia e il professionalismo hanno rimpiazzato la cultura locale. In mancanza di un’autentica cultura e di un’economia locali, i luoghi sono ormai «esposti allo sfruttamento e, in ultima analisi, alla distruzione, dal centro» (W. Berry, 1988). Aggiunge Nozick: La cultura è il collante che tiene insieme le comunità e le fa durare nel corso delle generazioni, più ancora del potere economico o politico. La cultura costituisce l’anima e la forza vitale di una comunità: è l’espressione collettiva dei valori, delle percezioni, della lingua, della tecnologia, della storia, della spiritualità, dell’arte e dell’organizzazione sociale all’interno di una comunità. Parlo qui di cultura come stile di vita, distinta dalla cultura come attività “intellettuale”. (1992)

Il successo delle comunità bioregionali, dunque, dipende dallo sviluppo della cultura locale in diretta contrapposizione con la tendenza alla monocultura della mente. Ogni comunità ha cibi, tradizioni, valori e arti peculiari. Parte del compito di costruire una cultura bioregionale vitale sta nel recuperare, ri-creare, affermare e promuovere la cultura autenticamente indigena di un luogo. Come notato più sopra, a tal fine è necessario conoscere il territorio e le sue creature nonché la storia e le storie locali. Lo scopo, tuttavia, non è dare vita a una cultura unica e uniforme, bensì rispettare la molteplicità di espressioni culturali. Ciò vale soprattutto nel mondo contemporaneo, in cui le migrazioni hanno determinato un intreccio di culture, lingue e tradizioni religiose. Un tale incontro non rappresenta una minaccia ma un’opportunità di arricchimento culturale. Al cuore di questa diversità dev’esservi il valore del rispetto, compreso il rispetto per ruoli di genere più fluidi. La diversità dovrebbe essere considerata non una minaccia ma un punto di forza da celebrare (e non soltanto da “tollerare”). Una cultura bioregionale punta altresì ad approfondire l’interiorità attraverso la partecipazione allo “sforzo di creazione del cosmo”. Anziché perseguire l’appagamento nell’accumulazione materiale, una cultura regionale si sforza di migliorare le espressioni vivificanti della creatività, che si tratti delle attività tradizionalmente considerate artistiche o della partecipazione creativa al ripristino di ecosistemi complessi. Parimenti, una cultura siffatta attribuisce grande valore a quelle che potremmo definire le “arti spirituali”, comprese le pratiche di meditazione, la danza e il movimento spirituali e la coltivazione dell’identificazione mistica con la Terra e il cosmo stessi, tutte attività volte direttamente ad approfondire l’interiorità. In ultima analisi, una spiritualità bioregionale sarà sempre strettamente correlata alla Terra e al territorio. In effetti, sviluppando un’autentica relazione con un luogo, il suo suolo e le sue diverse forme di vita, è possibile

sprigionare un enorme potenziale spirituale. Un interessante esempio in merito è dato dalla comunità di Findhorn, situata in un’inospitale regione nel nord della Scozia. Agli inizi degli anni Sessanta, Peter Caddy cominciò a coltivare il suolo sabbioso di Findhorn insieme alla sua famiglia e a qualche amico. Senza alcuna competenza in materia agricola, ma forti di un profondo senso spirituale e delle tecniche del metodo biodinamico di Rudolph Steiner, Caddy e la comunità che pian piano iniziò a sorgere intorno a lui raggiunsero risultati eccezionali. Gli ortaggi raggiungevano dimensioni sbalorditive e le piante registravano tassi di crescita mai visti prima. Sir George Trevelyan, che visitò Findhorn nel 1969, scrisse: Non posso dire di essere un giardiniere, ma sono membro dell’Associazione per il Suolo interessata ai metodi organici, ed ho visto abbastanza per sapere che i migliori composti e concimi mischiati con un suolo povero e sabbioso non sono sufficienti a spiegare il giardino [...]. Ciò che sembra nuovo a Findhorn è che qui c’è un gruppo di dilettanti, che iniziano il giardinaggio dal nulla, e che usano un contatto mentale diretto con il mondo dei Deva, basando in piena coscienza il loro lavoro su questa collaborazione […]. Vanno letteralmente dimostrando che il deserto può far fiorire le rose. Mostrano anche il ritmo stupefacente a cui tutto questo può esser portato avanti. Se ciò può esser fatto a Findhorn, può essere fatto anche nel Sahara. (Hawken, 1975 [1997, pp. 146-147])

Non occorre avere una fede letterale nei Deva e negli spiriti della natura per apprezzare le implicazioni di un’esperienza del genere. Cogliendo il Sacro presente nella creazione, il rispetto e la cura scaturiscono da noi spontaneamente. Sviluppando una relazione intima e amorevole verso la Terra e le sue creature, entrando in armonia con il loro stesso spirito, possiamo imprimere una forte accelerazione al processo di ripristino della salute e dell’equilibrio della Terra. Ciò serve altresì a ingenerare una più ampia compassione, che a sua volta costruisce e sostiene la comunità autentica. Lo sviluppo di una cultura bioregionale vitale dipende non solo dalla capacità di coltivare la relazione con il territorio ma anche da quella di trasmettere e approfondire la conoscenza e la storia locali. La

storia gioca un ruolo importante in quest’opera. Inoltre, la storia contribuisce a radicare il sapere locale in una visione cosmologica più ampia attraverso la rimitizzazione della storia stessa dell’universo. Tutti i membri della comunità locale giocano un ruolo in questi tentativi: sono tutti chiamati a essere creatori e artisti che raccontano la storia attraverso una varietà di mezzi. Il fine della cultura locale è infatti celebrare la ricchezza della diversità dentro e fuori di sé. Come nel contesto culturale globale ogni cultura ha caratteristiche uniche, così la cultura locale testimonia del contributo unico di ciascun individuo. Viene incentivata la crescita, ma è una crescita in termini di diversità e profondità, più che una crescita quantitativa. Di fatto, come fa notare Thomas Berry (1999), mentre l’energia fisica e le risorse materiali diminuiscono con l’uso, le energie psichiche e spirituali in realtà più vengono condivise più aumentano. In una cultura bioregionale, dunque, la ricchezza si misurerà non in base all’accumulo di capitale e al consumo, ma attraverso la ricca varietà di espressioni culturali e artistiche che produce. La cultura bioregionale, al pari di qualsiasi sistema aperto, interagisce e si arricchisce anche della ricchezza delle altre culture; tale condivisione, tuttavia, dovrebbe basarsi sull’uguaglianza e sulla reciprocità anziché sull’egemonia di una cultura sulle altre. Le potenzialità di tale interazione nel promuovere l’evoluzione del sapere e lo spirito umano sono pressoché illimitate, in particolare in un mondo in cui i moderni sistemi di comunicazione e Internet favoriscono, come mai in passato, la condivisione di informazioni. Politica: mettere in atto nuovi modelli di potere La reciprocità di partecipazione deve caratterizzare la comunità regionale in tutti i suoi aspetti: produzione, cultura e governo. All’origine vi è l’importanza data all’affermazione del poteredall’interno e del potere-con. Al contempo, la comunità fornisce un contesto in cui, di fatto, è possibile coltivare tali forme di potere e

superare la dinamica dell’impotenza. Per favorire l’esercizio di forme partecipate di potere e ridurre al minimo l’esercizio del potere-su, le strutture di governo a livello comunitario dovrebbero riflettere i principi del consenso, della sussidiarietà e dell’autoorganizzazione. Il consenso si fonda sull’immagine del cerchio e trae origine dalla credenza quacchera secondo cui ciascun individuo possiede un pezzo di verità. L’obiettivo del consenso è mettere insieme questi pezzi (perfino quelli che paiono contraddittori) e intrecciarli in una decisione che rifletta la saggezza più ampia (Nozick, 1992). Ciò è in linea con la prospettiva dei sistemi che pone l’accento sul ruolo delle fluttuazioni e sulla diversità, considerate fonti di creatività e di trasformazione, in contrapposizione al voto a maggioranza, che di fatto le abolisce (Jantsch, 1980). Un individuo con una solida obiezione etica può addirittura bloccare il processo decisionale. Per essere davvero efficace, tuttavia, il consenso richiede un approccio non oppositivo basato sull’autentico ascolto della voce dell’altro e sulla disponibilità a “farsi da parte” e accettare la saggezza del gruppo. Tale meccanismo funziona soltanto in un gruppo relativamente piccolo di persone che possono incontrarsi fisicamente e comunicare in maniera interattiva le une con le altre70. La sussidiarietà è il riflesso di una concezione sistemica più che gerarchica del potere e riduce gli abusi del potere-su. Al contempo, esprime la natura olarchica dei sistemi viventi, in cui da sistemi più piccoli emergono sistemi più grandi e inclusivi. La sussidiarietà implica che qualsiasi decisione possa essere presa a un livello “più basso” (sottosistema) debba essere presa a quel livello; ci si rimette al livello successivo, “più alto” (più inclusivo) di autorità solo se il livello più basso non riesce a risolvere la questione, ad esempio se non si riesce a raggiungere il consenso a livello della base o se la questione trattata necessita di un approccio più inclusivo e interregionale

(Capra-Steindl-Rast, 1991 [1993]). In linea con ciò, occorre notare che il modello bioregionale non esclude, in materia economica e politica, un coordinamento a un livello più ampio, perfino globale; tuttavia, nel rispetto del principio di sussidiarietà, a queste strutture più ampie non dev’essere accordato un potere egemonico. Anche l’autoorganizzazione è una caratteristica fondamentale dei sistemi viventi. Le società umane si organizzano spontaneamente in famiglie, clan, tribù, villaggi e corporazioni. Quando tali strutture sono veramente sane, il “collante” fondamentale che le tiene unite non è l’autoritario potere-su bensì l’etica della cura e del rispetto reciproco (Roszak, 1992). In ultima analisi, queste piccole strutture sociali sono efficaci nella misura in cui favoriscono la cooperazione e consentono di rispondere in maniera creativa al mutare dei bisogni e delle condizioni. La leadership dovrebbe essere ampiamente distribuita e fluida, dovrebbe cambiare nel corso del tempo mano a mano che l’organizzazione stessa si evolve. È solo in un tale contesto che può svilupparsi un autentico potere-con. Analogamente, il governo di una bioregione dovrebbe basarsi più sulla funzione che sull’autorità. Probabilmente vi sarebbe un’ampia varietà di cariche – magistrati, sceriffi, tesorieri e sacerdoti –, ma si tratterebbe soltanto di funzioni speciali, basate sul servizio e sulla responsabilità più che sull’autorità (potere-su). La comunità nel suo insieme conserverebbe sempre la priorità nell’esercizio del potere. La competizione per il potere politico in un modello siffatto sarebbe tenuta sotto controllo e, in tal modo, si eliminerebbe la scarsa lungimiranza dei tanti politici che tentano di accaparrarsi i voti degli elettori. Educazione: dall’informazione alla saggezza Analizzando il rinnovamento della psiche è emersa l’importanza di recuperare ciò che Roszak chiama «inconscio sociale», «l’innata natura animistica» che esperiamo da bambini. Nel recuperare questa forma di coscienza integrandola con altre forme di percezione e

conoscenza, acquisiamo «un senso di responsabilità etica verso il pianeta» che «cerca di intrecciarsi [...] nella trama delle relazioni sociali e delle decisioni politiche» (1992). Parimenti, David Korten segnala il bisogno di ridestarci «da una profonda trance culturale» (1995). La comunità bioregionale fornisce un contesto in cui tale risveglio può avvenire, un posto in cui possiamo recuperare il nostro io ecologico radicandoci veramente nel luogo e lasciando che la più ampia comunità ecologica diventi nostra maestra. A tutti i livelli – che si tratti di bambini, giovani o adulti – l’educazione nella visione bioregionale deve aiutarci a passare da una cosmologia che considera il mondo un insieme di oggetti a un’altra in cui le relazioni siano concepite come la realtà primaria. Gregory Bateson è arrivato ad affermare che le relazioni dovrebbero essere la base di tutte le definizioni, che possiamo conoscere veramente una cosa solo nell’ambito delle relazioni con gli altri (Capra, 1982 [1990]). In una prospettiva bioregionale questa visione ecologica e relazionale dovrebbe senz’altro essere alla base di qualsiasi progetto educativo. Il termine “educare” deriva dal latino educere che significa ‘tirare o portare fuori’. L’educazione non ha nulla a che fare, dunque, con l’accumulazione di informazioni, per quanto la disponibilità e il flusso di informazioni di qualità siano necessari per mantenere in salute un sistema vivente; l’educazione dev’essere intesa piuttosto come un processo intrinsecamente trasformativo che consente a noi esseri umani di entrare maggiormente in sintonia sia con il nostro ecosistema locale sia con la più ampia storia cosmica, favorendo al contempo un’interazione creativa e armoniosa con altri esseri umani e con la più vasta comunità della Terra. In altri termini, l’educazione dovrebbe avvicinarci al Tao, mettendoci in condizione di agire in maniera consapevole, creativa e in armonia con il fine che si dispiega nel cosmo. In base a questa prospettiva, non cerchiamo un sapere da mandare semplicemente a memoria, ma qualcosa che diventi parte del nostro

stesso essere, che porti fuori il nostro autentico io ecologico e si integri nella coscienza. L’educazione riguarda non solo la mente ma anche il cuore. Anziché concentrarsi sull’informazione, o perfino sul sapere, essa cerca di aiutarci a crescere in saggezza. Matthew Fox allude proprio a questa trasformazione allorché afferma che bisogna passare dalle «fabbriche del sapere» alle «scuole della saggezza» (1994). Alla base di questo mutamento vi è il passaggio dall’idea di sapere come potere (inteso come controllo o dominio) all’idea di sapere come amore. Il sapere concepito come amore implica una sensibilità empatica, lo sforzo di identificarsi con ciò che si cerca di conoscere. In tale concezione, la percezione ha la precedenza sulla concettualizzazione, e la contemplazione attenta assume più importanza dell’analisi. Questo tipo di comprensione olistica e intuitiva si è molto ridotta, fino ad andare quasi perduta, nella razionalità scientifica fondata sul riduzionismo. Ciò non significa che l’analisi non possa svolgere un ruolo utile, ma essa dev’essere integrata con altre modalità di conoscenza. Un modo per farlo è impegnarsi attivamente nell’apprendimento esperienziale. Mente e corpo devono imparare insieme: dobbiamo imparare non soltanto attraverso la vista e l’udito, ma anche attraverso il gusto, il tatto e l’olfatto. Si tratta di un sapere che, come l’andare in bicicletta, non può essere propriamente insegnato; va piuttosto “colto” e assimilato nel nostro stesso essere, così da non dimenticarlo più. Come notato più sopra, Morris Berman (1981) parla di apprendimento mimetico, una sorta di conoscenza integrata con tutto il corpo e basata sulla «coscienza partecipativa» più che sulla mente distaccata dell’osservatore “obiettivo”71 (cfr. pp. 291). Storicamente, l’apprendimento mimetico implicava compiti ripetitivi a contatto diretto con l’esperienza, come ad esempio nell’apprendimento di un mestiere. Esso, però, può aver luogo anche attraverso un’opera teatrale o musicale che spinge gli spettatori a identificarsi

emotivamente con gli attori o gli interpreti. Come possiamo destare questa coscienza partecipativa quando cerchiamo di apprendere gli insegnamenti del territorio per diventare autenticamente “nativi del luogo”? In che modo possiamo ampliare tale coscienza fino a comprendere la più ampia storia del cosmo? Senz’altro il rito, il mito e perfino il gioco creativo possono favorire questo tipo di identificazione emotiva con la comunità ecologica locale, con la Terra vivente e con il cosmo stesso. Nella misura in cui riusciamo a ridestare questo tipo di coscienza ecologica, possiamo andare oltre l’apprendimento dei meri fatti “sulla” bioregione, sul pianeta, sul nostro universo (per quanto importanti) per arrivare a un’identificazione e a un amore empatici. Abbiamo bisogno di esperire la nostra partecipazione alla storia in fieri dell’evoluzione cosmica per apprendere (o “cogliere”) il suo significato nelle nostre vite. Allo stesso tempo, dobbiamo esplorare nuovi modi di imparare che diano rilevanza e incorporino l’apprendimento esperienziale, la coscienza partecipativa e lo sviluppo dell’intuizione. Quando parliamo di intuizione ci riferiamo a una forma olistica di conoscenza distinta dal pensiero discorsivo. L’intuizione, come abbiamo già sottolineato, non è irrazionale, è semplicemente una diversa forma di razionalità che tenta di apprendere in maniera diretta ciò che è implicito. La maggior parte di ciò che percepiamo, infatti, non viene mai pienamente alla coscienza. L’intuizione è un modo per avere un accesso olistico a queste percezioni diffuse e per consentire al subconscio di integrarle in nuove idee. Incorporare l’apprendimento intuitivo non significa abbandonare il pensiero discorsivo o analitico; piuttosto dobbiamo usarli entrambi, in maniera complementare. Possiamo farlo immaginando l’apprendimento come un ciclo. Per certi versi, questo ciclo somiglia al tradizionale metodo osservare-giudicare-agire utilizzato in vari tipi di educazione popolare. Si comincia raccogliendo informazioni su un problema o su una questione su cui cerchiamo delle informazioni,

ricorrendo anche all’esperienza personale (osservare); analizziamo le cause e gli effetti per scoprire l’origine del problema e avanzare possibili soluzioni, talvolta arricchite, come nel caso delle comunità religiose, da riflessioni teologiche (giudicare); e infine sintetizziamo le idee acquisite ed elaboriamo un piano d’azione (agire). Una fase ulteriore del ciclo è considerare le azioni intraprese come un nuovo punto di partenza per ricominciare72. Questo processo della prassi è molto utile, ma potrebbe essere arricchito aggiungendo una componente intuitiva come illustrato nel seguente modello:

1. Preparazione. Si comincia raccogliendo informazioni sul problema che stiamo analizzando. Ciò implica processi discorsivi, compresa la raccolta e l’analisi dei dati, nonché il riferimento alla nostra esperienza personale. Al contempo, si verifica un graduale passaggio da una modalità discorsiva a una intuitiva. 2. Incubazione. Metodi come la meditazione, l’arte, le pratiche corporee, l’attività onirica e la visualizzazione vengono utilizzati per stimolare i processi intuitivi, fare spazio affinché emergano nuove percezioni, idee e ispirazioni. 3. Illuminazione. Le idee inconsce raccolte durante l’intuizione vengono alla coscienza. Si tratta in genere di un processo spontaneo, che avviene in maniera saltuaria; non può essere accelerato né previsto. Una volta emersa un’idea, tuttavia, il pensiero discorsivo

può contribuire a formularla e chiarirla. 4. Verifica. Tentiamo di mettere in atto le idee, le quali vengono valutate nel corso del tempo per la loro efficacia. Il ciclo allora può ricominciare. Dobbiamo intendere questo ciclo di apprendimento come un ciclo continuo. Nella pratica vera e propria le quattro fasi si sovrappongono. Mentre agiamo può improvvisamente tornarci alla mente un’idea. D’altro canto, può capitare che nell’agire quotidiano incorporiamo pratiche che stimolano la nostra intuizione o raccogliamo informazioni che spianano il terreno a ulteriori scoperte. La cosa importante è riconoscere il ruolo fondamentale che l’intuizione e la creatività svolgono in questo processo e cercare volontariamente di stimolare e dare importanza al loro contributo. Anche la raccolta dei dati, la riflessione e l’analisi sono componenti necessarie, ma da sole non bastano a penetrare i livelli più profondi dell’apprendimento trasformativo. Fondare la visione Nell’analizzare la visione bioregionale, il nostro intento è stato delineare una sorta di “attrattore” che possa ispirarci durante il percorso dalla patologia alla salute. Nel corso del tempo, tuttavia, mentre ci muoviamo verso quest’attrattore, esso non smetterà di evolversi: i suoi contorni senz’altro si sposteranno e anche la visione diventerà più chiara e dettagliata. Questa visione – o una simile – diventerà davvero realtà? Al punto in cui siamo in questo momento, sembra arduo credere che possa veramente realizzarsi; ciononostante, se guardiamo più attentamente, rimarremo sorpresi di scoprire che in tanti piccoli modi essa sta già emergendo in numerosi luoghi in tutto il pianeta. David Suzuki e Holly Dressel (2002) hanno raccolto in un libro casi studio di progetti e iniziative che incarnano il tipo di visione di comunità sostenibile di cui ci stiamo occupando qui. Un esempio particolarmente interessante è quello della comunità

di Las Gaviotas, sorta nella savana orientale della Colombia dilaniata dalla guerra (Gardner, 2006). Dal 1971 quest’ecovillaggio lavora per diventare un modello vivente di comunità sostenibile. Ciò che lo rende particolarmente esemplare è che è stato realizzato in uno dei luoghi più violenti della Terra e in una regione con un suolo alquanto povero e con scarse risorse naturali. Nonostante tali difficoltà, Las Gaviotas ha attirato un gruppo di studenti, operai, scienziati e profughi che sono riusciti a sfruttare molte tecnologie sostenibili, tra cui energia solare, biogas, agricoltura organica e una pompa ad acqua, usando quasi soltanto le loro capacità creative. Inoltre, hanno fondato una scuola e un ospedale per provvedere ai servizi necessari per la popolazione locale. Al contempo, hanno avviato un ambizioso progetto di riforestazione che già garantisce impieghi utili nella comunità. Per il fondatore di Las Gaviotas, Paolo Lugari, «Las Gaviotas è soprattutto uno stato mentale. Non è tanto un luogo. È un modo di vivere e di pensare. Non significa solo pensare fuori dagli schemi, ma costante innovazione e reinvenzione». Il villaggio non ha un sindaco, polizia né alcun tipo di cariche ufficiali. In realtà, al cuore della comunità vi sono una serie di principi che favoriscono quel tipo di autoorganizzazione creativa tipico dei sistemi viventi sani (Kaihla, 2007): • La comunità ha ridotto al minimo le assemblee, preferendo trasformare il lavoro e le attività della comunità in una sorta di brainstorming continuo e aperto. • I suoi membri inventano attraverso un processo collettivo di miglioramenti e aggiustamenti continui. • Nell’affrontare un problema la comunità cerca di abbandonare tutti gli assunti precedenti e di aprirsi a idee completamente nuove. • Las Gaviotas rifugge qualsiasi forma di gerarchia e status basato sulla qualifica professionale. Le opinioni e le idee di ciascun membro della comunità vengono prese in esame in virtù del loro merito, non

per lo status o gli studi degli individui. • La comunità promuove una cultura in cui ciascuno è esortato a esprimersi liberamente e a partecipare pienamente. • Las Gaviotas incoraggia la fecondazione incrociata delle idee e il pensiero interdisciplinare grazie a un sistema di rotazione degli esperti in campi estranei ai loro tradizionali settori di competenza ed esortando tutti i membri della comunità a diventare, almeno in certa misura, generalisti. • La comunità evita di iper-programmare il tempo dei propri membri, incoraggiandoli a dedicare il tempo di lavoro alla mansione che più li ispira, in modo da lasciare spazio alla creatività. Uno degli aspetti più interessanti dell’esperienza di Las Gaviotas è che la comunità si è sviluppata nonostante le condizioni proibitive di vita in Colombia. Eppure, per un altro verso, dalla prospettiva dei sistemi, vi è una logica: spesso è proprio ai margini dei sistemi, là dove le tensioni sono maggiori, che è più probabile che abbia luogo l’evoluzione. Lo abbiamo visto nel caso dell’evoluzione punteggiata, tali tensioni possono condurre a un bivio in cui emerge un nuovo ordine sistemico come una sorta di progresso. Possiamo pensarlo in termini di “creatività dai margini”. Coloro i quali lottano per la sopravvivenza, coloro i quali non beneficiano dell’attuale dis-ordine sistemico sono quelli che più probabilmente saranno disposti a correre il rischio di creare qualcosa di nuovo. Spesso la necessità aguzza l’ingegno: le persone che vivono ai margini hanno avuto bisogno di sviluppare e affinare le loro capacità creative per sopravvivere, e se questa creatività riesce a essere imbrigliata possono venir fuori cose incredibili. In questo vi è una forza immensa, solo in parte utilizzata, per una profonda azione trasformativa. Ai margini è possibile altresì rintracciare economie di sussistenza ancora funzionanti. Le «donne che rendono possibile la sopravvivenza» di cui parla Vandana Shiva (1989), ad esempio, rappresentano una miniera di saggezza e di ispirazione nella lotta per

un futuro sostenibile. Utilizzando questa saggezza e basandosi su di essa, si può fare molto per rafforzare le economie di sussistenza e le culture locali minacciate dalla globalizzazione e dalla monocultura. In altri casi, in cui i danni sono a uno stadio più avanzato, potrebbe essere necessario favorire i processi attraverso i quali recuperare, rinnovare e riadottare il sapere, la storia e la saggezza ecologici. In tutti questi processi il compito più importante di coloro che operano per la liberazione radicale e la creazione di comunità sostenibili sarà affermare la dignità dei partecipanti e tenere in considerazione il loro sapere e la loro cultura indigena. Per fare ciò gli attivisti e gli educatori di base devono essere estremamente sensibili alla dinamica del potere nella pratica, anche se condividono con i partecipanti lo stesso bagaglio culturale e la provenienza di classe. Spesso la mistica dell’”esperto” esterno può minare in altri modi il processo trasformativo. Adottando un modello di lavoro partecipativo, incoraggiando la condivisione dei compiti di leadership e alimentando la consapevolezza si può fare tanto per creare uno spazio in cui la dinamica dell’impotenza interiorizzata, in particolare l’oppressione interiorizzata, siano in parte neutralizzate affinché l’essenziale processo dell’apprendimento trasformativo possa davvero avere inizio. Sebbene i margini siano senza dubbio un luogo privilegiato per l’azione trasformativa, vi sono ottime ragioni per collaborare con coloro che più beneficiano delle attuali strutture di dominio politico ed economico. Senz’altro vi è un bisogno impellente di minare la dinamica di sfruttamento delle attuali strutture. Sebbene le alternative concrete emergano e si sviluppino in gran parte ai margini, qualsiasi azione che serva a sovvertire il potere di controllo del centro favorirà le possibilità di trasformazione. Inoltre, nella misura in cui si frena la vorace brama del centro, si guadagna tempo per consentire il

cambiamento. Bisognerebbe ricordare, peraltro, che spesso gli stessi concetti di “margini” e “centro” sono relativi. Molti di coloro i quali per un aspetto si giovano del sistema di dominio potrebbero ritrovarsi oppressi sotto un altro aspetto: ad esempio le donne della classe media che traggono benefici materiali ma subiscono la violenza del patriarcato. Un omosessuale può essere un professionista rampante ma patire al contempo la discriminazione basata sull’orientamento sessuale. Alcuni, attraverso malattie come il cancro, prendono coscienza dei rischi rappresentati per la salute dalla contaminazione chimica degli alimenti e iniziano a organizzare progetti di agricoltura sostenuta dalla comunità. In un certo senso, dunque, vi sono isole di marginalità vicine al centro che forniscono eccezionali opportunità di cambiamento. Dalla ricerca di un modo per sovvertire il centro sembrano emergere in particolare due linee d’azione. La prima si incentra sulla ristrutturazione dei ruoli di genere, questione che riguarda direttamente tutti gli esseri umani. Stando all’analisi di Rosemary Radford Ruether (1992 [1995]), conquistare una maggiore parità nella suddivisione del lavoro in base ai generi potrebbe servire a riorientare gli uomini verso ruoli più vitali. Nel corso del tempo, si minerebbero le fondamenta stesse del patriarcato. Sotto quest’aspetto, il movimento femminista funge da potente strumento di sensibilizzazione delle coscienze delle donne in tutti gli strati sociali. Occorre notare, tuttavia, che l’iniziativa del cambiamento non va relegata alle sole donne: molti uomini sono profondamente insoddisfatti del ruolo che il patriarcato assegna loro. Sfruttando questa insoddisfazione e rendendola cosciente, si possono fare ulteriori passi verso una maggiore parità di genere. Una seconda proposta per sovvertire il centro è praticare un’educazione rivolta al futuro. Sviluppando un legame cosciente con le generazioni future (un obiettivo che la maggior parte degli

individui può raggiungere riflettendo sulla vita dei propri figli e nipoti) è possibile coltivare l’interesse per lo stato del pianeta e per il suo futuro. Tale approccio potrebbe essere efficace perfino con coloro che si trovano più vicino al centro del potere. Tra gli altri potenziali catalizzatori di cambiamento vi sono le pratiche spirituali, la riflessione religiosa e gli incontri interculturali. Tutte queste attività possono aiutarci a uscire dal consueto modo di percepire il mondo aprendoci a un cambiamento radicale della nostra concezione del mondo. In effetti, ci sono storie esemplari di dirigenti d’azienda e politici influenti che hanno vissuto un’autentica conversione a un nuovo modo di vedere il mondo o sono diventati autorevoli portavoce. Si pensi ad Al Gore e al suo film-documentario sul cambiamento climatico Una scomoda verità, nonché al caso di Ray Anderson, presidente della Interface che, dopo aver letto The Ecology of Commerce (1993) di Paul Hawken, ha trasformato la sua impresa in un’azienda leader nel riciclaggio e nella riduzione dei rifiuti. Non dovremmo mai sottovalutare le potenzialità per una conversione al nuovo paradigma: in realtà, come sostiene Donella Meadows, basta il giusto catalizzatore per far cadere i paraocchi e fare un passo avanti verso un nuovo modo di vedere e di essere nel mondo.

Il quadruplice sentiero verso la liberazione L’ultimo passo di questo viaggio è riflettere su come un nuovo stile di prassi possa guidarci verso quella visione di comunità sostenibile che cerchiamo per il mondo. Ma come possiamo lavorare per la liberazione? In che modo possiamo mettere in pratica la nostra cosmologia? Come possiamo aprirci al Tao e lasciare che ci guidi mentre ci adoperiamo per rafforzare la comunione, ampliare la diversità e approfondire l’interiorità della comunità della Terra? Tutte le nostre riflessioni sul paradigma olistico e sulla nuova cosmologia sarebbero vane se non le traducessimo in linee guida e principi pratici che ci consentono di operare in maniera più proficua

per trasformare un sistema che sta divorando l’umanità e il pianeta stesso. Abbiamo bisogno di prendere la visione che abbiamo elaborato, il quadro etico che abbiamo analizzato e le intuizioni spirituali che abbiamo acquisito e metterli in pratica in maniera costruttiva. Da un lato, non possiamo creare una ricetta magica per la trasformazione, ma dobbiamo individuare i processi e i principi che devono guidarci. Al contempo, dobbiamo sempre tenere a mente che il Tao, il Dharma e il Malkuta sono una realtà vivente che è già presente e attiva in mezzo a noi. La sua guida è già inscritta nei nostri cuori: la grazia cosmica ci avvolge. Per diventare agenti del cambiamento non dobbiamo far altro che aprirci a essa, invocarla, farci pervadere dal suo potere liberatore; ma ciò, in sé, implica che apprendiamo nuovi modi di essere e di agire nel mondo. Un’immagine dell’analogia olografica (pp. 187-191) può aiutarci a chiarire il nostro compito. Da un lato, esiste un ordine implicato, un sostrato unificante e onnipervasivo che è anche il Tao, la grande Via che governa il dispiegamento dell’universo. Dall’altro, esiste un mondo manifesto, l’ordine esplicato, che corrisponde al Te, il modo in cui il Tao si incarna in una forma particolare. Più sopra (p. 174) abbiamo evidenziato che nella cosmologia mediorientale si parla di una distinzione diversa ma analoga: esiste la realtà dello shemaya (in aramaico; shemayim in ebraico) e la realtà dell’ar’ah (in aramaico; ha’aretz in ebraico). In sostanza, entrambe le realtà sono il riflesso di un’unità più profonda e fondamentale. In genere questi due aspetti vengono tradotti con ‘cielo’ e ‘terra’, ma lo shemaya può essere considerato l’archetipo della vibrazione, del suono, della luce e delle forme d’onda, laddove l’ar’ah corrisponde all’archetipo delle forme concretizzate, ad esempio una particella (Douglas-Klotz, 1999). Nella fisica quantistica essi esprimono la realtà onda-particella. Sono entrambe presenti, ma quale delle due percepiamo dipende da come focalizziamo la nostra attenzione.

Possiamo intendere il Tao o lo shemaya, in un certo senso, come la sfera della visione, delle possibilità, della potenzialità, mentre il Te o ar’ah è la sfera dell’incarnazione concreta. Quando nella sua preghiera Gesù dice «come in cielo così in terra», si riferisce alla necessità di incarnare il Malkuta nella realtà. In termini pratici, nell’opera di liberazione dobbiamo sempre essere consapevoli dell’unità delle due sfere o archetipi. Preghiera e azione – spirito, energia e materia – non devono essere separate. La sfera dello shemaya e del Tao ci ispira e ci guida, ma essa deve incarnarsi per trasformare il mondo. Misticismo e azione devono sempre essere uniti se vogliamo operare efficacemente per la liberazione. Da tempo il teologo cristiano Matthew Fox (1983 [2011]) sostiene l’importanza di questo connubio tra misticismo e azione profetica, di questa spiritualità autenticamente incarnata. Analizzando tali questioni, Fox ha ideato uno schema utile che può guidarci nelle nostre riflessioni successive e che egli definisce i quattro “sentieri” della spiritualità della creazione. • La Via Positiva è la via per radicarsi nella bontà della creazione; celebrare la presenza del Sacro in ogni cosa; ridestarsi al timore reverenziale, alla bellezza e alla lode. • La Via Negativa è il sentiero dello svuotamento; del far spazio affinché il Sacro possa dimorare, del lamento e del lasciar andare consapevole, dell’esperienza del vuoto gravido. • La Via Creativa è la via per creare e dare vita; per ricongiungerci alla visione potenziante del Malkuta; per riconnetterci alla grande storia cosmica e allinearci al suo fine, che continua a dispiegarsi; per penetrare nuove idee e prospettive. • La Via Trasformativa è il sentiero per incarnare la visione e darvi forma; per lavorare attivamente per trasformare il mondo; per costruire comunità e solidarietà. Nella pratica i quattro sentieri si intrecciano e sono interconnessi. Non passiamo dall’uno all’altro in maniera lineare né circolare. Vi è

una dialettica creativa particolarmente evidente tra la Via Positiva e la Via Negativa da un lato e tra la Via Creativa e la Via Trasformativa dall’altro, ma tutti i sentieri sono in relazione tra loro e spesso, nella pratica, si sovrappongono. Insieme essi creano un modo per dare forma alle nostre riflessioni sui processi e sulle dinamiche coinvolte nella prassi di liberazione. Per questa ragione li utilizzeremo per parlare del cammino in quattro fasi verso la liberazione. Facendo riferimento al cammino in quattro fasi presupponiamo che la via verso la liberazione sia un cammino spirituale, intendendo la spiritualità in un’accezione strettamente ecologica e incarnata. Nella tradizione indù sarebbe concepito come una sorta di “karma yoga”: una disciplina spirituale dell’azione, o “unione attraverso l’azione”. In pratica, tuttavia, si tratta di uno yoga che unisce le altre forme, incluse quelle incentrate più sulla meditazione o sugli aspetti contemplativi. Sappiamo anche che il buddhismo delinea un ottuplice sentiero verso l’illuminazione (o liberazione) che consiste nella retta comprensione, nel retto pensiero, nella retta parola, nella retta azione, nella retta condotta di vita, nel retto sforzo, nella retta consapevolezza e nella retta concentrazione. Nel parlare di quadruplice sentiero partiamo dal presupposto che tali prospettive siano complementari e non contrastanti: infatti, le componenti descritte nell’ottuplice sentiero si manifestano in qualche forma nel quadruplice sentiero che andremo a esplorare. Il quadruplice sentiero emerge immediatamente nelle tradizioni spirituali mediorientali, in particolare nei primi quattro versetti della preghiera di Gesù e nella sura (o capitolo) di apertura del Corano, la sura Fâtiha (‘la Aprente’). Insieme, queste due preghiere vengono recitate regolarmente da quasi la metà del genere umano. Nell’esplorare il quadruplice sentiero attingeremo da entrambe queste fondamentali fonti di saggezza73. Al contempo, il quadruplice sentiero presenta forti analogie anche

con gli insegnamenti delle quattro direzioni che si ritrovano in molte tradizioni indigene dell’America settentrionale. Secondo tale concezione, la Via Positiva corrisponde al sud, la Via Negativa al nord, la Via Creativa all’est e la Via Trasformativa all’ovest (M. Fox, 1991). Ciò fornisce un’altra prospettiva complementare che può arricchire il nostro impianto.

Invocazione: aprirsi al Tao Abwoon d’bwashmaya. O Respiro creatore, Padre-Madre del Cosmo, che fluisci e rifluisci in tutte le forme. O flebile Suono, il Tuo Nome radioso danza dentro e attorno a tutto ciò che è. (Traduzione del primo versetto della preghiera aramaica di Gesù) Bismillahir rahmanir rahim, Alhamdulillahi rabbi-l’alamin, arrahman irrahim. Nella luce dell’uno che genera la compassione, a un tempo intrinseca e ricettiva, affermiamo che qualsiasi cosa, piccola o grande, il Cosmo fa attraverso qualsiasi essere o comunione di esseri che [contribuisca a promuovere il suo fine, quest’atto celebra l’Origine della nostra storia che si dispiega. Pertanto, lodiamo e celebriamo con gioia l’Essere degli esseri che imperscrutabilmente nutre e sostiene, fa crescere e fa giungere a maturazione tutti i mondi, gli universi e i pluriversi, tutti gli aspetti della coscienza e della conoscenza. Questa Fonte è il Grembo Originario dell’Amore in tutti i suoi [aspetti. (Traduzione dei primi tre versetti della sura Fâtiha)

Il primo sentiero verso la liberazione è il sentiero dell’invocazione, dell’apertura alla grazia del Tao, del ricordo del nostro legame con la Fonte e della comunione con tutti gli esseri, della celebrazione e della lode della bontà del creato. Tale cammino è strettamente collegato al tentativo di trovare il nostro posto e di sentirci a casa nel cosmo nonché al sentimento della sacralità della vita. Al contempo, si collega

alla percezione di un significato sotteso alla storia e al fine che si dispiega nell’universo. Possiamo aprirci innanzitutto coltivando la consapevolezza. Ci apriamo al Tao, alla Fonte, diventando consapevoli della sua presenza onnipervarsiva. Inoltre, la consapevolezza è la chiave per dare vita a forme liberatorie di potere – potere-con e potere-dall’interno –, come abbiamo visto nelle precedenti riflessioni. Analogamente, Joanna Macy (1991a) fa notare che il buddhismo insegna che la mente si libera non distinguendosi dai fenomeni bensì attraverso una capacità di attenzione totale che consenta di percepire la dinamica della coproduzione condizionata. Forse è più facile farlo partendo dalle esperienze della bellezza, del timore reverenziale, dello stupore e della riverenza, le quali ci conducono spontaneamente a una maggiore consapevolezza. La bellezza, in particolare la bellezza della natura, rappresenta forse la via più potente per aprirci mediante l’attenzione. Allo stesso tempo, essa ci ricollega al potere-dall’interno. Come scrive Rachel Carson: Coloro che contemplano la bellezza della natura scoprono riserve di forza che durano per tutta la vita. Esiste una bellezza simbolica oltre che reale nella migrazione degli uccelli, nel flusso e riflusso delle maree, nel bocciolo chiuso pronto a schiudersi. C’è qualcosa di infinitamente salutare nei ripetuti ritornelli della natura: la certezza che l’alba sopravviene alla notte, la primavera all’inverno. (citato in Suzuki-McConnell, 1997)

A un livello collettivo, lavorare per “far conoscere la Terra” può servire da via d’accesso a questo genere di consapevolezza, soprattutto se il tipo di apprendimento coinvolto trascende la sfera dell’informazione per fungere realmente da risveglio esperienziale alla bellezza e alla saggezza dell’ecosistema locale. Il maestro buddhista Thích Nhât Hanh racconta come coltivare la consapevolezza nelle nostre attività quotidiane, come lavare i piatti, mangiare, fare le pulizie o lavorare in giardino. Qualsiasi attività – ma forse soprattutto quelle attività semplici che possono essere svolte in silenzio – rappresenta un’occasione per meditare e per sviluppare la

consapevolezza. A livello pratico, potremmo iniziare prendendoci del tempo per fare ciò che davvero ci piace. In effetti, un primo passo potrebbe essere semplicemente riflettere su ciò che veramente ci dà energia, che ci rende felici, qualcosa che ci dà gioia. Se ci impegniamo consapevolmente in tali attività – passeggiare lungo un fiume, bere una tazza di tè o trascorrere del tempo con un caro amico –, esse possono diventare “accessi alla riverenza” che ci consentono di sviluppare un maggiore senso di consapevolezza. Svolgere queste attività regolarmente spesso aiuta anche a riorientare i nostri valori e le nostre priorità, poiché ci rendiamo conto che molte di queste attività non implicano spendere soldi, acquistare beni o sfruttare la Terra. Nel corso del tempo possiamo ampliare questa pratica di consapevolezza fino a includere le attività “mondane”. Spesso, però, imparando a coltivare la consapevolezza, ci accorgiamo che attività prima considerate incombenze possono in realtà diventare occasioni per sviluppare la coscienza, e perfino un senso di pace interiore. Infine, abbiamo bisogno di espandere la nostra consapevolezza fino ad abbracciare anche quei luoghi e quelle situazioni in cui la bellezza è stata contaminata, in cui abbonda il dolore, in cui la vita è stata distrutta e regna l’ingiustizia. Il cammino della consapevolezza, dunque, ci condurrà inevitabilmente alla Via Negativa. In tal modo, tuttavia, possiamo imparare davvero a coltivare la compassione e la nostra capacità empatica. Così facendo, potremo ampliare il nostro senso dell’essere fino a comprendere l’io ecologico. Strettamente legata alla consapevolezza è la pratica del ricordo. Nel sufismo lo zikr, “il ricordo dell’Uno”, costituisce un’attività spirituale cruciale attraverso la quale si cerca di “pulire lo specchio dell’anima” ricordando al livello più profondo dell’essere che non esiste alcuna realtà al di fuori dell’Uno: La illaha illa ‘llahu. Analogamente, l’invocazione nella sura Fâtiha – Bismillah: nella luce/nome (sm) dell’Uno (Allah) – offre l’immagine di una fonte di

unità a partire dalla quale la realtà della luce, del suono e della vibrazione è generata dal grembo (rhm, che si ritrova sia in rahman che in rahim) della compassione. Il primo verso della preghiera di Gesù presenta un’immagine analoga: un’unità genitoriale (Abwoon) da cui prorompe lo shemaya. Entrambi, dunque, possono essere intesi nello stesso senso, ovvero ricordano il momento in cui il cosmo è stato generato nella deflagrazione primordiale. Nell’autentico ricordo del momento della nascita cosmica, l’unità dalla quale ogni cosa è scaturita, ci ricolleghiamo con la storia dell’universo e con la fondamentale parentela di tutte le entità e di tutti gli esseri. Le preghiere tradizionali, in particolare se così rielaborate, possono essere un modo per ricordare, in maniera molto concreta ed esperienziale, la nostra comunione con il tutto e il nostro legame con la Fonte di tutto. Non bisognerebbe mai sottovalutare il potere di queste pratiche poiché, attraverso la dinamica della risonanza morfica, il loro potere di trasformarci si è enormemente moltiplicato nel corso del tempo. Infatti, è particolarmente utile attingere consapevolmente da queste regioni della memoria nel nostro sforzo di ricordare. L’atto stesso della nascita, nel momento in cui ne acquisiamo coscienza, può diventare una via d’accesso al ricordo. A ogni respiro inaliamo atomi che sono stati espirati da ogni singolo essere umano, e anzi da ogni singola creatura vivente che ha abitato la Terra (tranne, forse, i neonati)74. Questi atomi, dunque, un tempo sono stati parte – almeno per un periodo – delle altre creature viventi. Erano anche parte dell’antica supernova che nel nostro sistema ha generato tutti gli elementi più complessi dell’idrogeno e dell’elio. Attraverso il respiro, quindi, siamo connessi gli uni agli altri, ai nostri antenati, all’intera comunità della vita che ci ha preceduti, nonché alla Terra e alle stelle. In questo senso ogni respiro è un sacramento, un’affermazione del nostro collegamento con tutte le altre cose viventi, un rinnovamento del legame con i nostri antenati e un contributo

alle generazioni a venire. Il nostro respiro è parte del respiro della vita, l’oceano d’aria che avvolge la Terra. Unica nel sistema solare, l’aria è a un tempo creatrice e creazione della vita stessa. (Suzuki-McConnell, 1997)

Ma un’altra via verso il ricordo è costituita dall’uso del mito e del rituale per riconnetterci alla storia della Terra e del cosmo. L’uso di tali processi, in particolare quelli che richiamano la coscienza partecipativa, può altresì ridestarci al timore reverenziale, allo stupore e alla consapevolezza. Nella misura in cui arriviamo a comprendere e a vivere la storia del cosmo, essa diventa la nostra maestra. Brian Swimme, ad esempio, sostiene che l’attrazione gravitazionale nell’universo sia una prima forma di amore e compassione (è interessante che tale concezione riecheggi l’idea sufi dell’ishq, la forza di attrazione dell’amore che funge da collante e tiene insieme il cosmo intero, di cui ci siamo occupati più sopra, p. 487). Il rituale può aiutarci a esperire concretamente quest’idea, non solo con la mente ma anche con il corpo e con l’anima. Rimitizzando la storia del cosmo per includervi questi insegnamenti e dare vita a rituali che trasmettano in maniera esperienziale tale saggezza, creiamo altresì l’opportunità di aprirci al potere liberatorio del Tao. Infine, queste esperienze destano in noi la gioia, la lode, la celebrazione e la riconoscenza, in quanto sperimentiamo la Fonte che è il «Grembo Originario dell’Amore in tutti i suoi aspetti». In effetti, un profondo senso di gratitudine e di lode è, forse, una delle forze più potenti che ci spingono ad agire con energia e compassione per trasformare il mondo.

Lasciar andare/lasciarsi andare: abbracciare il vuoto Nethqadash shmakh. Prepara il terreno per il nostro essere e consacra uno spazio per piantarvi la tua Presenza. Penetra i recessi più profondi dei nostri cuori e libera uno spazio in cui il tuo fulgido Nome possa [infiammarci. (Traduzione del secondo versetto

della preghiera aramaica di Gesù)

Iyyaka n’abadu wa iyyaka nasta’ain. Eliminando tutte le distrazioni, le dipendenze, le diversioni [e le forme di illusione, tutti i tabù contrastanti, le ideologie, le teologie, le offese [e le incomprensioni, affermiamo che agiremo solo a partire da questo Fine [dell’Universo, amplieremo i nostri talenti solo al servizio del Reale, ci inchineremo e adoreremo solo la Fonte più profonda [della Vita intera, e attenderemo aiuto e guida solo da questa direzione, la razione di cui abbiamo bisogno, elargita dall’Uno. (Traduzione del quinto versetto della sura Fâtiha)

Il sentiero che porta al consapevole lasciar andare e ad abbracciare il vuoto coesiste in modo complementare con il sentiero dell’apertura e dell’invocazione: riusciamo ad aprirci davvero solo se prima abbiamo sgomberato la mente dalle reti dell’illusione facendo spazio affinché il Sacro possa dimorarvi. Spesso solo quando siamo pervasi da questo senso di soggezione, di bellezza e di lode, che è l’esito del cammino dell’invocazione, troviamo il coraggio di liberarci e di immergerci nella fertile oscurità del vuoto. Riflettendo sul microcosmo olistico ci siamo imbattuti nel concetto di vuoto quantico, solo apparentemente vuoto, da cui le particelle subatomiche in un istante possono apparire e scomparire. Il vuoto è un vasto oceano di energia gravida di possibilità, come il mistero del sqnyatb nel buddhismo. Provare questo consapevole lasciar andare in modo da esperire questo vuoto è, forse, uno dei viaggi più impervi che possiamo intraprendere. Non appena provano a trovare un centro tranquillo, molti di noi si trovano a fare esperienza della realtà delle nostre menti, le quali sono piene di pensieri che reclamano attenzione. Possono volerci anni di pratica prima di riuscire a trovare davvero un punto di quiete che duri più di un breve istante; ciononostante, anche le fugaci esperienze del vuoto possono riempirci di un’energia che rinnova il

nostro essere: un Nome o una Presenza fulgida che ci infiamma e diventa terreno fertile per una nuova ispirazione e nuove idee. Molte forme tradizionali di meditazione e di contemplazione possono condurci a quest’esperienza. Sono perlopiù facili da imparare, almeno in teoria. Alcuni usano un mantra (parola preghiera) o una salmodia per focalizzare l’attenzione, altri semplicemente cercano di seguire il respiro, altri ancora usano la consapevolezza del corpo (come nel tai chi o nella danza spirituale), e alcuni cercano di coltivare un nuovo punto di consapevolezza dal quale guardare i pensieri emergere in maniera distaccata e oggettiva. Sono tutti modi per sviluppare un radicale senso di consapevolezza. Tali pratiche si potenziano se esercitate nell’ambito di una comunità: è come se in un gruppo si sviluppasse una sorta di risonanza che favorisce la concentrazione e il lasciar andare. Come abbiamo notato, Marilyn Ferguson, riflettendo sull’analogia olografica, sottolinea l’importanza di coltivare quelli che lei definisce «stati di coscienza coerenti» come quelli frutto della pratica della meditazione, nonché di altre attività, in quanto sono «maggiormente in sintonia con il livello primario di realtà, una dimensione di ordine e di armonia» (1987 [1999, p. 223]). In effetti, qualsiasi attività in cui entriamo in un «senso di flusso», che si tratti di uno sforzo artistico o di una performance atletica, può contribuire a favorire un’unione più stretta con il Tao. Analogamente, questa stessa consapevolezza ci consente di iniziare a percepire la dinamica della coproduzione condizionata e quindi di sviluppare nuove intuizioni che possano guidare le nostre azioni. Allo stesso tempo, come abbiamo già evidenziato, le idee della causalità reciproca presenti nel paticca samuppada implicano il trascendimento della dicotomia tra mondo e io; dunque, coltivare uno stato mentale armonioso ha un effetto concreto sul mondo. Nella misura in cui purifichiamo le nostre menti da preconcetti e inclinazioni, ci apriamo anche alla possibilità di nuove realtà, alla

possibilità della trasformazione liberatoria del mondo. Strettamente legato a questo tentativo di sgomberare la mente è il bisogno di purificarsi dalle reti dell’illusione che ci assoggettano e ci privano del potere. La meditazione, di fatto, contribuisce anche a svolgere questo compito, favorendo la guarigione dalla dipendenza, dalla negazione, dall’oppressione interiorizzata e dalla disperazione, oltre che aiutandoci a lasciar andare le vecchie abitudini in modo da poter abbracciare nuovi modi di percepire, di pensare e di essere: Tutti gli esseri sono sia relazione che processo. La meditazione ci insegna a essere con l’oscurità, a essere nel presente. Pienamente nel presente significa lasciar andare il passato e il futuro, tutti gli schemi, tutte le proiezioni, tutti i progetti e tutti i sistemi. Pertanto, significa essere aperti al modello futuro, al non ancora, all’inesistente. (M. Fox-Sheldrake, 1996a)

Al contempo, insegnandoci a concentrare e a focalizzare la consapevolezza, le pratiche meditative favoriscono anche la coltivazione della volontà, la facoltà di dirigere l’attenzione e di agire liberamente in armonia con la nostra natura più profonda anziché in base a impulsi esterni (cfr. p. 224). Anche questo ha un ruolo nel liberarci dalle reti dell’illusione che ci tengono intrappolati. Così facendo, si apre la strada al cammino del potenziamento creativo. Su un piano collettivo, l’uso del metodo di elaborazione della disperazione e del potenziamento di Joanna Macy, ovvero dell’«opera di riconnessione», può anche essere un formidabile strumento che ci aiuta a superare l’illusione della negazione, l’oppressione interiorizzata, la dipendenza e la disperazione (cfr. p. 218). Riconoscendo il dolore e la paura nei confronti del mondo e impegnandoci con onestà e coraggio nella pratica del lamento, possiamo altresì aprirci all’interconnessione degli uni con gli altri e con tutte le creature viventi. Molte delle linee guida per portare avanti quest’opera possono essere rintracciate in Coming Back to Life (MacyBrown, 1998). A livello pratico, superare la dipendenza dal consumismo implica

anche imparare a lasciar andare ciò di cui non abbiamo realmente bisogno, a smettere di acquistare cose che sono state prodotte sfruttando i poveri e i sistemi viventi della Terra. Adottando uno stile di vita più semplice e vivendo in maniera più frugale sulla Terra possiamo andare verso altre fonti di valore e di godimento, come le relazioni, il tempo trascorso in mezzo alla natura, i rituali, la preghiera, le attività sportive, la letteratura e l’arte. Così facendo potremo anche avere nuove opportunità di trovare i nostri “accessi alla riverenza”, che ci consentono di aprirci ulteriormente al Tao.

Potenziamento creativo: riconnettersi al Te Teytey malkutakh In questa camera nuziale in cui il desiderio porta frutti concepisci la potenza creatrice che consente di dire “io posso”. Fa’ che il ritmo del tuo consiglio si riverberi attraverso le nostre [vite così da dotarci della tua visione creatrice. (Traduzione del terzo versetto della preghiera aramaica di Gesù)

Maliki yaumadin. Dice “io posso” nel giorno in cui tutti gli elementi si separano e [tornano a casa, in cui i fili intrecciati del destino si districano e si pagano [i conti. L’Essere dell’universo si assume la missione di risolvere [l’irrisolvibile. (Traduzione del quarto versetto della sura Fâtiha)

Il terzo sentiero cerca di riconnetterci al potere intrinseco del Te, che incarna autenticamente la forza del Tao in modo da coniugare intuizione e compassione. Il Te è il potere intrinseco che ci consente di vedere in maniera chiara e di agire con fermezza al posto giusto e nel momento giusto, e che, al pari del Malkuta, ci mette in condizione di alzarci e dire “io posso” contro ogni avversità (o di risolvere ciò che sembra irrisolvibile). Questo senso di potenziamento ci riempie di una sorta di dignità regale, rievocando il senso della guida naturale che incarna la sacra natura caratteristica della Grande Madre, Gaia o

Pachamama. Allo stesso tempo, è un’energia creatrice pronta a sgorgare con il potere della Terra che dà la vita. Nei primi due sentieri ci siamo concentrati sull’apertura al Tao, facendo spazio e liberandoci dei preconcetti e dell’illusione in modo da poter entrare in armonia con il suo fine, la sua visione e il dispiegarsi della sua dinamica. Nel terzo sentiero passiamo più concretamente all’azione e all’incarnazione, anche se in un certo senso si tratta di un punto di svolta o di avanzamento analogo all’illuminazione nel ciclo di apprendimento olistico. L’immagine della parola teytey nella preghiera aramaica di Gesù è quella della camera nuziale: in un’accezione significa ‘venire’ ma in un’altra «comprende le immagini del desiderio reciproco, la definizione di uno scopo» (o fine), «un luogo in cui viene soddisfatto il desiderio reciproco ed inizia il concepimento» (Douglas-Klotz, 1990 [2002, p. 52]). Nelle nostre riflessioni abbiamo visto quanto i sistemi complessi possano essere estremamente sensibili al cambiamento: una minuscola alterazione nelle condizioni, un minima variazione agli anelli di retroazione o un qualsiasi mutamento può avere conseguenze straordinarie (come l’immagine della farfalla che “provoca” un uragano all’altro capo del pianeta). In tali sistemi il determinismo lascia il posto all’impegno creativo. La chiave per la trasformazione è trovare l’azione giusta per il luogo e il momento in cui ci troviamo. Dato il sottile gioco della coproduzione condizionata, anche un piccolo mutamento delle nostre percezioni, dei nostri pensieri e convinzioni – e del modo in cui essi, a loro volta, influenzano le nostre parole, le emozioni e le azioni – può avere un effetto concreto nel mondo. Ciò emerge dalla saggezza dell’ottuplice sentiero buddhista. Insieme alla retta azione, alla retta parola e alla retta condotta di vita (condotta etica), abbiamo anche bisogno della saggezza (retta comprensione, retto pensiero) nonché della disciplina mentale (retto

sforzo, retta consapevolezza e retta concentrazione). Non solo ciò che facciamo, ma anche la comprensione di ciò che facciamo, le intenzioni dietro le nostre azioni e le nostre discipline spirituali influenzano noi e coloro che ci circondano. Il che illustra chiaramente il legame della Via Positiva e della Via Negativa con la prassi trasformativa. Al contempo, trovare la giusta azione per il momento presente pone l’accento sulla necessità di sviluppare un profondo senso di intuizione. Se vogliamo che la nostra azione sia fruttuosa75, affinché sia adeguata ed efficace, avremo bisogno di un’acuta intuizione della situazione. L’analisi e la discussione possono senz’altro assisterci in questo processo, ma alla fine la natura caotica dei sistemi viventi, in particolare in periodi di crisi, quando si allontanano dall’equilibrio, fa sì che sia fondamentale anche una forma più olistica di conoscenza: l’intuizione. Si tratta di un’intuizione essenzialmente fiduciosa, in quanto la capacità di realizzare il cambiamento non dipende dalla forza bruta quanto piuttosto dalle sottili reti relazionali insite nel potere-con e nel potenziale autoorganizzativo del potere-dall’interno. Il consapevole lasciar andare esperito nella Via Negativa gioca un ruolo importante nel preparare il terreno per l’emergere delle intuizioni. Come affermano Danah Zohar e Ian Marshall, mutuando gli insegnamenti dei sistemi quantistici: Quando il cervello ha delle percezioni in un campo molto eterogeneo che non riesce a comprendere con le sue consuete categorie percettive [ad esempio si trova di fronte a qualcosa di “irrisolvibile”], si mette “in attesa”. I vari dati vengono raggruppati nel sistema limbico mentre il cervello passa attraverso un processo di decostruzione che sfocia in una ri-sintesi. Nella decostruzione è come se il cervello si lasciasse andare a uno stato indeterminato: esso lascia andare i vecchi concetti e categorie, “decide” di analizzare i dati daccapo. Allora, durante il processo di risintesi [o illuminazione], si sviluppano concetti e categorie nuovi in grado di assimilare la diversità che ha messo alla prova il cervello. (1994)

L’intuizione non può essere forzata, ma può essere educata. Di fatto, molte delle pratiche descritte nei primi due sentieri preparano il terreno. Inoltre, le arti marziali orientali – in particolare il tai chi e

l’aikido –, nonché le pratiche come il qiqong, dipendono fortemente dal discernimento intuitivo, ed esercitandole se ne possono affinare le facoltà. In generale, il senso cinestetico sotteso al movimento del corpo nello spazio sembra essere un modo particolarmente potente per sviluppare l’intuizione. La danza sacra, ad esempio, trasporta i partecipanti in uno stato di profonda percezione del tutto. Come nota Piero Ferrucci: Ogni movimento nella danza sacra ha un significato che non soltanto viene inteso con la mente, ma è compreso con tutto l’essere: corpo e anima. Le movenze usate nella danza sacra possono avere molti significati, possono includere gli esseri umani nell’armonia delle sfere celesti, collegare ciascun danzatore al Tutto, unire gli uomini con il mondo divino o rappresentare la progressione dalla molteplicità all’unità. Una rotazione vorticosa può simboleggiare il processo del divenire attorno al quieto Centro dell’Essere, e così via. Ma la comprensione mentale è incompleta. Le realtà rappresentate nella danza sacra non possono essere pienamente espresse a parole. La danza sacra dice l’ineffabile. Ha la funzione di ridestare l’intuizione e di aprire l’organismo a un mondo più vasto, proprio in quel momento di ricettività amplificata. (1990)

La pratica delle danze sacre – in particolare di quelle come le “danze della pace universale”, che sono diffuse in natura e attingono anche dalla forza degli antichi mantra – è altresì un modo per ridestare sia il potere-dall’interno che il potere-con. Spesso, partecipando a tali danze, si esperisce molto concretamente il senso dell’“io posso”. Le comunità coinvolte nell’azione trasformativa potrebbero trarre enormi benefici da tali pratiche, non solo creando un terreno fertile per nuove idee ma anche unendosi a un livello più profondo e vivendo un potenziamento che proviene da oltre l’io individuale. Un altro modo per coltivare l’intuizione è sviluppare la consapevolezza della sincronicità, che lo psicologo Carl Jung concepiva come “coincidenze significative”. A volte, ad esempio, ci capita di vedere in sogno qualcosa che poi accade effettivamente nella realtà, oppure di imbatterci in una persona che non vediamo da anni proprio nel momento in cui stavamo pensando a lei. Le nostre riflessioni sul

microcosmo olistico e sui sistemi viventi suggeriscono una profonda unità sottesa, un mondo in cui la relazione tra causa ed effetto va, per molti versi, oltre la nostra comprensione. La sincronicità, per Jung, era una sorta di “principio di nessi acausali”. Come spiega David Peat, Jung riteneva che esistessero «schemi in natura e schemi di nessi nella coscienza [...] che non sono generati da cause meccaniche. Inoltre, questi schemi hanno spesso un significato numinoso per noi. Se l’universo è attraversato da schemi di significato, ciò suggerisce un’attività di significato dentro la natura» (Peat, 1990). In sostanza, quelle che potrebbero sembrare “strane coincidenze” sono in realtà squarci che ci consentono di intravedere un fine più profondo che si dispiega attraverso la complessa dinamica della causalità reciproca. D’altronde, Jung riteneva che la sincronicità fosse la prova di un “ordine significativo” che potremmo chiamare Tao, Dharma o Malkuta. Coltivare la consapevolezza delle coincidenze significative – prestando attenzione alle sincronicità – favorisce lo sviluppo dell’intuizione. Se tale consapevolezza fosse praticata in seno a una comunità, potrebbe essere enormemente amplificata e diventare una miniera di idee per discernere nuovi percorsi creativi d’azione. Jung credeva inoltre che gli antichi strumenti di divinazione come l’I Ching (Il libro dei mutamenti), un testo e una pratica che affondano le radici nel taoismo, potessero costituire dei modi per acquisire maggiore consapevolezza della causalità reciproca e per coltivare il discernimento intuitivo. Per avere il responso dall’oracolo i partecipanti devono innanzitutto individuare una questione chiara per la quale cercano consiglio. La domanda dev’essere formulata in maniera aperta per essere adeguata, non dev’essere una dicotomia del tipo o/o. Dopo che i partecipanti hanno purificato le loro intenzioni e sono entrati in uno stato di attenzione e meditazione, vengono lanciate le monete o gli steli di millefoglie che vanno a formare uno schema corrispondente a una delle sessantaquattro combinazioni

possibili di yin e yang. A quel punto, viene consultato l’I Ching per trovare l’esagramma (in realtà due: uno corrispondente alla situazione attuale e l’altro al suo mutamento) che rappresenta la correlazione che ne è risultata. A ciò si accompagna un breve testo che dà il consiglio in linea con la situazione. In genere il testo è alquanto enigmatico e richiede un’ulteriore contemplazione per essere chiarito. Per quanto “superstizioso” possa sembrare di primo acchito, questo metodo è di fatto in linea con i principali assunti della concezione sistemica della causalità e della relazione tra mente e materia descritta nell’analogia olografica. Ad esempio, Jung Young Lee sottolinea che nell’I Ching «il principio dei mutamenti [...] presuppone una relazione tra causa ed effetto. Il processo dei mutamenti è il processo di transizione dalla causa all’effetto e dall’effetto alla causa» (1971). Vale a dire: il processo si basa su un’interpretazione di causalità reciproca o di coproduzione condizionata. Analogamente, David Peat afferma che, dal punto di vista del microcosmo olistico tenuto insieme da un collegamento non locale, se la mente e il corpo umano potessero entrare in comunione diretta con questo oceano di informazioni attive, avrebbero accesso a forme e schemi che travalicano i confini tra interiore ed esteriore, tra spirito e materia: in altre parole, alla sincronicità. I saggi cinesi avevano una propria versione delle sincronicità dell’I Ching. Il nostro mondo manifesto è, sostenevano, il riflesso di una realtà molto più profonda che si trova al di là della sfera del tempo. Le sincronicità sono momenti embrionali che contengono le potenzialità racchiuse di questa realtà trascendente. Attraverso la contemplazione degli schemi che si riescono a discernere in questi momenti speciali è possibile spiegare le potenzialità dell’universo manifesto. Considerare l’universo come un vasto oceano di informazioni implica parimenti che al suo interno noi possiamo cogliere particolari immagini che contengono indizi del dispiegamento trascendente dell’universo. (1991)

Dalla prospettiva del Tao, «la via che può essere battuta o la via che può essere detta non è il Tao autentico [...]. Il Tao implica un principio che è più profondo [...] e più elusivo [...]. Jung voleva far vedere che questa è la vera natura dell’I Ching, che il suo principio

intrinseco va molto oltre qualsiasi condizione causale stabilita in un determinato momento» (Progoff, 1973). Il segreto dell’efficacia del metodo di penetrare le nostre facoltà intuitive per accedere a informazioni complesse risiede nel nostro stato mentale. Jung Young Lee (1971) paragona il giusto atteggiamento a quello dell’artista taoista che comincia a dipingere solo dopo aver raggiunto l’unità contemplativa con l’oggetto da dipingere; si consulta l’I Ching soltanto dopo aver purificato il cuore dalle intenzioni di controllo ed essersi uniti alla sincera ricerca della verità. In generale, l’I Ching viene usato come strumento di discernimento individuale. Sarebbe interessante, invece, utilizzarlo all’interno di una comunità o nel contesto di un’organizzazione. Ad esempio, usando strumenti tradizionali di analisi e riflessione, un gruppo potrebbe individuare il problema (o la serie di problemi) che vuole comprendere. I partecipanti potrebbero allora usare l’I Ching per avere consiglio. Il gruppo potrebbe a quel punto tornare a riunirsi per condividere i responsi ottenuti e le riflessioni che da essi sono scaturite. Le riflessioni degli altri membri del gruppo potrebbero ulteriormente arricchire tale processo. Nel corso del tempo comincerebbe a emergere un’immagine più inclusiva del modo di procedere. I sogni possono assolvere a una funzione analoga, in particolare quando vengono discussi nell’ambito di un gruppo. Durante l’esame di un determinato problema o di una questione, una comunità potrebbe chiedere ai partecipanti di trascrivere i propri sogni per un periodo di tempo, e ciascun membro del gruppo sceglierebbe un sogno che considera significativo da condividere con la comunità. Il lavoro di Jeremy Taylor (1983), ad esempio, fornisce delle eccellenti linee guida per questo tipo di processo, nonché casi concreti di gruppi che hanno utilizzato questo genere di pratica per accedere al potere creativo dell’intuizione. Più in generale, qualsiasi attività che stimoli la nostra creatività,

compresi l’arte e il gioco, può spronarci a coltivare l’intuizione e a ricollegarci con le forme sinergiche del potere. Da un lato, gli sforzi creativi concentrano la nostra attenzione, aiutandoci al contempo a sospendere il pensiero discorsivo e a impegnarci invece in una forma più olistica di conoscenza. Dall’altro, tali attività possono liberarci dalle costrizioni e dalle pressioni che potrebbero bloccare le nostre percezioni. La creatività, mettendoci in contatto con i livelli più profondi dell’esperienza umana e utilizzando la nostra intuizione, può servire a ripristinare il nostro senso della visione e del fine. Potremo allora andare oltre l’illusione della disperazione e la prigione dei preconcetti per approdare a una nuova speranza e a nuove possibilità.

Incarnare la visione: l’arte della liberazione Nehwey tzevyyanach aykanna d’bwashmaya aph b’ar’ah Allora, pienamente uniti nel vortice del tuo desiderio, incarniamo davvero la luce del tuo fine. Armonizza i nostri scopi e fini ai tuoi; come dall’emanazione e dalla visione, così nella forma. (Traduzione del quarto versetto della preghiera aramaica di Gesù)

Ihdina sirat almustaquim. Ti chiediamo di rivelare il successivo passo armonioso. Mostraci il cammino che recita: «Alzatevi, andate, fatelo!», che ci fa risorgere dal torpore dei drogati e che ci conduce a consumare il desiderio del Cuore, così come tutte le stelle e le galassie in armonia, a tempo, [in modo corretto. (Traduzione del sesto versetto della sura Fâtiha)

Nella Via Trasformativa cerchiamo di incarnare ciò che abbiamo individuato attraverso la Via Creativa; cerchiamo di incorporare pienamente il potere del Te, di “alzarci” e “andare”; ci muoviamo in maniera creativa tra il regno visionario dello shemaya e il regno manifesto dell’ar’ah in un modo interattivo che riflette la coproduzione condizionata. Per fare ciò in maniera onesta e responsabile, tuttavia, dobbiamo sempre cercare di armonizzare i

nostri desideri e i nostri fini con la grande Via del Tao. Da un punto di vista ecologico, dobbiamo sforzarci di agire come membri attivi della più grande comunità della Terra, adoperandoci per trasformare il mondo in cui viviamo in un luogo più giusto e armonioso e per promuovere la sua evoluzione verso una diversità, un’interiorità e una comunione maggiori. David Spangler (1996) definisce questo processo, questo passaggio dalla visione all’incarnazione, l’arte della manifestazione: un processo che coniuga visualizzazione, affermazione e fede. Per molti aspetti, possiamo concepire la manifestazione come collegata alla preghiera, sebbene la manifestazione sia spesso associata a tecniche specifiche e non implichi necessariamente la fede in Dio. L’idea, però, è simile: per far sì che qualcosa diventi realtà, dobbiamo innanzitutto riuscire a vedere nitidamente ciò che desideriamo e poi dobbiamo chiedere, con tutto il nostro essere, che essa si realizzi. Nel caso della manifestazione, la richiesta in genere assume una forma particolare attraverso l’uso dell’affermazione: in sostanza, chiediamo con una tale fede e fiducia che affermiamo che la tal cosa, di fatto, si realizzerà. Per essere efficace, la manifestazione presuppone che, attraverso le dinamiche della Via Positiva, della Via Negativa e della Via Creativa, abbiamo davvero cercato di radicarci nel Tao e di individuare la giusta direzione, il passo armonioso che «conduce a consumare il desiderio del Cuore». Dobbiamo sforzarci sinceramente di armonizzare il nostro fine e i nostri desideri con quelli della Via, il fine del cosmo che si dispiega, il Malkuta. Taluni purtroppo hanno distorto l’idea della manifestazione, contaminandola con la cosmologia del consumismo; per costoro, la manifestazione è soltanto una tecnica per acquisire ciò che desiderano. Tali metodi – se radicati in una cosmologia meccanicistica –, insieme ai nostri desideri gretti ed egoistici, possono di fatto essere molto pericolosi, in quanto consolidano le illusioni del consumismo che creano dipendenza; di certo non sono in armonia con il Tao. Questa

forma distorta di manifestazione non è, in ogni caso, ciò che Spangler descrive e sostiene: La mia idea è che la manifestazione ha molto più a che fare con l’incarnazione – con il plasmare noi stessi e il mondo – che con l’acquisizione. Si tratta di un atto d’amore e di condivisione con il resto del creato. Senza il senso della passione e della presenza, diventa una tecnica di acquisizione scriteriata, che ottunde le nostre esistenze invece di ravvivarle con lo spirito. La manifestazione è un atto di fiducia. È l’anima che si riversa nel suo mondo, come un pescatore che getta la rete per prendere il pesce che cerca; a ogni lancio fatto come si deve prenderemo ciò di cui abbiamo bisogno, ma prima dobbiamo immergerci negli abissi senza sapere cosa c’è sotto di noi. (1996)

In quanto atto di incarnazione, la manifestazione presuppone che innanzitutto ci adoperiamo per purificare i nostri desideri personali, che pratichiamo il cammino dell’invocazione, del lasciar andare e del potenziamento creativo, combinati con il discernimento intuitivo. Solo allora la manifestazione diventa un atto che schiude la strada verso la trasformazione liberatoria. La manifestazione presuppone un cosmo la cui realtà fondamentale è quella della relazione che si dispiega da uno stato di unità primordiale. «Spirito e materia, anima e persona, magia e lavoro, lo straordinario e l’ordinario sono tutti aspetti di un’unica realtà, di un unico flusso di energia e di eventi. Sono la visione e l’esperienza di questa unità che desideriamo coltivare, poiché è questa la fonte di potere dei nostri atti di manifestazione» (Spangler, 1996). La manifestazione presuppone inoltre che l’universo sia un luogo accogliente che si prende cura del benessere dell’intera comunità della Terra, e anche di noi. Al contempo, però, siccome la manifestazione è intesa come un modo per partecipare al fine dispiegantesi del cosmo, diventa più efficace quanto più profondamente entriamo in comunione con il mondo che ci circonda. In genere, il metodo pratico della manifestazione è alquanto semplice. Iniziamo con il visualizzare ciò che desideriamo. Come abbiamo sottolineato, tuttavia, questa fase presuppone innanzitutto

che non ci limitiamo a cercare di acquisire qualcosa per un profitto o una gratificazione personali, bensì che cerchiamo intensamente di trovare la visione necessaria per il momento che stiamo vivendo. Nella visualizzazione tentiamo di vedere, nella maniera più nitida possibile, ciò che desideriamo si manifesti. Allo stesso tempo, la visualizzazione richiede apertura al cambiamento: ciò di cui davvero c’è bisogno potrebbe non essere ciò che in un primo momento immaginiamo. Essere troppo specifici, in particolare all’inizio del processo, potrebbe in realtà soffocare la creatività e limitare la forza della visione. Dobbiamo essere aperti a ricevere nuove idee, una nuova direzione, perfino all’inizio del processo di manifestazione. Nondimeno, nel corso del tempo, dobbiamo riuscire a visualizzare in maniera chiara ciò che stiamo tentando di far manifestare all’occhio della mente. La visualizzazione è sostanzialmente una forma di domanda, un modo per chiarire ciò che desideriamo si realizzi. Il passo successivo è quello dell’affermazione: elaborare una formula che rafforzi la visione. Se visualizzo una nuova organizzazione che operi per ripristinare il mio ecosistema locale, allora la formula potrebbe essere: «Stiamo dando vita a un’organizzazione efficace e vivificante che opera per ripristinare il nostro ecosistema». Sotto un certo aspetto potrebbe sembrare diverso dal fare una richiesta, ma si tratta essenzialmente di un modo per dimostrare che si ha fiducia che ciò che chiediamo effettivamente si realizzerà. Il terzo passo, in genere chiamato “pensiero positivo”, sta nel procedere con lo stesso atteggiamento come se stessimo passando all’azione, esprimendo una fiducia e una fede di fondo che la nostra visione diventerà, di fatto, realtà. Infine, ci adoperiamo per mettere in pratica la nostra visione, passo questo che viene definito talvolta esso stesso manifestazione. All’inizio potrebbe sembrarci un approccio strano. Funzionerà davvero? Eppure, tali metodi (o metodi simili) vengono utilizzati da

anni e con successo dagli atleti e dagli artisti. Perché quelli che lavorano per il cambiamento liberatorio non dovrebbero metterli in pratica? L’efficacia della manifestazione può essere enormemente amplificata in una comunità o nel contesto di un’organizzazione. Ciascun membro dell’organizzazione, ad esempio, può iniziare con il visualizzare ciò che desidera che accada. Tali visioni possono poi essere condivise, e il gruppo può individuare insieme una visione collettiva per l’intera organizzazione. In tal senso, la visione può essere approfondita ponendo alcuni interrogativi: cosa comporterà per le generazioni future? Quali implicazioni potrebbe avere? Cosa implica realizzare questa visione? A quel punto i membri del gruppo cercano di arrivare insieme a una visione ancora più chiara, individuando i passi da compiere e le eventuali insidie da evitare. Dopodiché, si può usare l’affermazione per avanzare verso la visione con l’atteggiamento dell’”io posso”. Infine, ci si avvicina alla manifestazione scegliendo la squadra giusta, in cui tutti i membri siano in sintonia tra di loro e con la visione comune. Dhyani Ywahoo, capo cherokee, mediatrice di pace nonché capo spirituale buddhista, afferma: Il successo dipende dall’avere l’ideale ben chiaro in mente e accertarsi che esso giovi agli individui [e alla più ampia comunità della Terra] fino a sette generazioni. L’idea è nella mente delle persone, non è qualcosa che viene imposto loro. Starsene seduti a pensare che accadrà perché la si visualizza non basta. Bisogna cercare in maniera consapevole i giusti collegamenti, mondare in maniera consapevole il giardino della mente, e in maniera consapevole raccogliere i fondi [necessari]. La costruzione della comunità, della relazione, è un processo molto attivo. (1989)

David Spangler sostiene che usare la manifestazione all’interno di una comunità può essere anche uno splendido modo per acquisire informazioni sui meccanismi e sulla natura del gruppo, esplorando il contesto olistico in cui opera l’organizzazione e rivelando strutture e interconnessioni che potrebbero essere riorganizzate diversamente. In quanto arte dell’incarnazione e del potenziamento, la manifestazione è

un modo per «immergersi nella prospettiva sistemica e co-creatrice propria e del proprio mondo, e di entrare in contatto con le fonti della forza interiore che amplificano sia l’individualità [o la differenziazione] sia lo sforzo di gruppo [o comunione]» (1996). La manifestazione non è una tecnica, una formula magica che usiamo per ottenere risultati, bensì un’arte che richiede sintonia con la realtà presente, passione e anima. L’arte della manifestazione non si basa sul presupposto che possiamo far sì che qualcosa si realizzi semplicemente perché lo pensiamo. L’atteggiamento fondamentale è piuttosto quello della presenza. Per spiegarlo Spangler ricorre all’immagine di una soluzione satura: dobbiamo innanzitutto «far evaporare» le nostre «consuete percezioni, aspettative, abitudini, la nostra storia e il nostro futuro» allentando la loro presa sulla coscienza. Poi, «in questo momento di potenzialità satura», viene fatta cadere un’immagine, una particolare visione che funge da seme per far precipitare una nuova realtà. Il segreto è presentificarsi alla nuova immagine, lasciare che la visione precipiti in modo da emergere nella realtà attraverso il processo di manifestazione (1996). Dall’ottica dei sistemi viventi possiamo immaginare la manifestazione come un’arte che tenta di dar vita a nuovi attrattori che attirino il sistema verso nuove forme. Dal punto di vista dei campi morfici, possiamo intenderla come un modo per creare nuovi campi che favoriscano la formazione di nuove abitudini attraverso il fenomeno della risonanza morfica. Dalla prospettiva dell’analogia olografica ciò che cerchiamo potrebbe già esistere, in forma racchiusa, nell’oloflusso. La manifestazione, dunque, diventa un modo per riplasmare, per creare le condizioni e l’energia adeguate a «riorganizzare le nostre vite nel nuovo schema che stiamo cercando». In base a tale interpretazione, «noi non acquisiamo ciò che desideriamo, lo diventiamo» (Spangler, 1996). Per riuscire, la manifestazione dev’essere pervasa da uno spirito di generosità e di abbondanza. Dobbiamo andare oltre noi stessi e i

ristretti confini dell’io per abbracciare un io più inclusivo, attingendo alle forze intrecciate nelle profondità del nostro essere e «dall’essere di tutte le altre cose nel mondo [...]. Sono le profonde energie creative che danno a ogni cosa forma ed esistenza. Pertanto, a questo livello, la manifestazione è l’arte dell’incarnazione» (Spangler, 1996). Gli insegnamenti di Gesù sulla preghiera possono rappresentare una prospettiva complementare per arricchire la nostra comprensione del processo di transizione dalla visione all’incarnazione. Il versetto di Matteo 7,7, che in genere viene tradotto molto semplicemente: «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto», è particolarmente istruttivo se analizzato nella forma della traduzione estesa dall’aramaico (Douglas-Klotz, 2006): Chiedi intensamente – come una retta scolpita verso l’oggetto che desideri; prega con desiderio – come se interrogassi la tua anima sulle tue brame più profonde, più nascoste; e riceverai copiosamente – non solo ciò che il tuo desiderio chiede, ma là dove il tuo [respiro fondamentale ti ha condotto – alla soglia dell’amore, il luogo che porta frutti e diventa parte del potere di creazione e di empatia [dell’universo. Cerca impazientemente – dall’interno del tuo desiderio fino all’incarnazione esterna lascia che quel tormento e fermento interiori ti conducano ad agire con passione – per quanto i tuoi scopi possano sembrare materiali o grezzi [al principio; allora troverai l’appagamento della pulsione della carne per realizzare il suo fine e vedere il suo [destino. Come una primavera sbrigliata acquisirai la forza della totale quiete dopo uno sforzo – il potere della terra di ricrescere ogni nuova stagione. Bussa innocentemente – come se piantassi il picchetto di una tenda o suonassi una nota [pura, mai udita prima.

Fa’ spazio dentro di te per ricevere la forza che sprigioni; svuotati – mondo dalle speranze e dai timori occulti e si schiuderà agevolmente – una risposta naturale allo spazio creato, parte della contrazione-espansione dell’universo; e penetrerà facilmente – come il cosmo che si apre e si chiude attorno alle parole del [desiderio appagato.

Nel passare dalla visione all’azione dobbiamo avere in mente una forma d’azione in linea con il Tao. Come abbiamo già rilevato, la forza della nostra azione è di gran lunga meno importante della sua adeguatezza al tempo e allo spazio in cui ci troviamo. Al tempo stesso, è importante il modo in cui agiamo. L’immagine presente nel Tao Te Ching (§78; cfr. p. 157) dell’acqua che consuma la roccia è illuminante: l’acqua può erodere la roccia attraverso un flusso persistente che abbraccia più che aggredire. Non si tratta, pertanto, della forza bruta che trionfa, ma piuttosto dell’energia persistente che opera con il flusso naturale del Tao. La filosofia del cedere per vincere si applica, spesso con risultati stupefacenti, al campo delle arti marziali orientali. Soprattutto l’aikido e la forma marziale del tai chi (entrambe di natura quasi esclusivamente difensiva) utilizzano la forza dell’avversario per schivare un attacco. Anziché opporre forza alla forza (yang a yang) si cede in maniera controllata e sottilmente si devia la forza in modo da far perdere l’equilibrio all’aggressore, facendolo così cadere. L’aikido, in particolare, si fonda sul principio della “fusione” con le energie dell’avversario. Nell’aikido il difensore entra nel movimento dell’attaccante, agendo nel cuore del movimento stesso. Non con l’intenzione di far male, ma per iniziare a identificarsi e a fondersi con l’attaccante. La fusione richiede una sorta di empatia con l’aggressore, vedere il mondo dalla sua posizione. Questa nuova prospettiva può in realtà condurre alla compassione, consentendo all’aikidoista di reindirizzare l’energia aggressiva dell’attaccante in

modo da trovare una soluzione non violenta. Possiamo applicare questi principi anche alla vita quotidiana, che si tratti di aggressione fisica o verbale (Saposnek, 1985). In sostanza, l’aikido applica un approccio sistemico che comprende la nozione di causalità reciproca. I praticanti di aikido si considerano all’interno di un sistema totale, che comprende lo sfidante e i fattori spazio-temporali. Essi si collocano al centro della sfera dinamica delle interazioni. L’assioma fondamentale per la reazione è “girarsi quando si è spinti, entrare quando si è tirati”, producendo così movimenti sferici più che lineari. In tal modo, l’aikidoista utilizza la causalità reciproca: «La rapida fusione delle forze rende indistinguibili le relazioni di causa-effetto e fa apparire soltanto la circolarità delle forze fuse per la comune soluzione del problema» (Saposnek, 1985). Il successo della strategia dipende dall’abbandono di un modo di pensare e di agire violento e lineare e dalla pratica di un’altra caratteristica dello yin, l’intuizione. Infatti, uno dei problemi con i principianti dell’aikido è che tendono a metterci troppa foga, usando la forza e il pensiero lineari. Per riuscire, il praticante deve rilassarsi e abbandonare il modo riflessivo e abituale di fare le cose, confidando nel fatto che se si usa l’intuizione e ci si muove seguendo il flusso ne deriverà un esito positivo. In maniera complementare, il fisico David Peat parla della necessità di trovare una nuova modalità per operare per il cambiamento, che lui definisce «azione gentile». Anziché cercare di isolare i problemi individuali, analizzare una situazione specifica e poi proporre una soluzione, l’azione gentile tenta di operare in tutto il sistema in un modo gentile e non locale basato su un’«osservazione attenta e sensibile e sull’istinto gentile all’equilibrio e all’armonia» (1990). In seguito l’autore sviluppò tale concetto: L’azione gentile è globale. Deriva dalla natura e dalla struttura di una particolare questione. Si rivolge non solo a questioni pratiche, come il prezzo del petrolio o l’efficienza di una data industria, ma anche ai valori, all’etica e alla qualità della vita. L’azione gentile ha inizio in modo estremamente razionale e coordinato all’interno di

un’ampia varietà di situazioni. E, come le piccole increspature intorno a un punto, si muove verso l’interno fino a convergere su una particolare questione. L’azione gentile non opera attraverso la forza e l’energia bruta bensì modificando i processi stessi che generano e alimentano un effetto indesiderato o nocivo [...]. L’azione gentile [...] conferisce una nuova dimensione all’idea dell’azione sociale. [...] Al pari della cellula e dell’organismo, anche la società e l’individuo possono essere raffigurati come una danza di significato e di comunicazione [...]. Ciò suggerisce che l’origine di un’azione efficace si trova nelle persone comuni, intese sia come individui che come membri di un gruppo, e nei loro valori, nella loro etica, nei loro obiettivi e nei loro desideri. (1991)

L’immagine delle increspature che convergono in uno stagno evidenzia la necessità di creare connessioni a livello globale. Sebbene molte azioni abbiano luogo localmente, sia il nostro pensiero che la nostra azione devono comprendere il locale e il globale. La combinazione delle tante increspature che da un’ampia varietà di luoghi si propagano moltiplica gli effetti della nostra azione attraverso la risonanza, in particolare se operiamo in modo tale da coniugare comunione del fine e diversità delle manifestazioni. Un’altra dimensione dell’incarnazione della visione attraverso la prassi liberatoria si trova nell’ambito del lavoro che ciascuno di noi svolge. Molti di noi trascorrono la maggior parte delle ore di veglia occupati in qualche tipo di lavoro, che si tratti di un impiego retribuito o di attività legate al mantenimento proprio e delle proprie famiglie e comunità. Dobbiamo passare dalla prospettiva di un’”occupazione” – idea meccanicistica e riduzionista che tende a separare il lavoro dalla vita – a quella di sostentamento, considerato sempre in certa misura un lavoro collegato alla realizzazione della Grande Svolta. In quest’accezione, “giusto sostentamento” significa innanzitutto smettere di impegnarci in attività che danneggiano gli altri; dobbiamo smettere di lavorare in modi che sfruttano direttamente il pianeta o i nostri consimili. Tutto il nostro lavoro, tutte le nostre attività devono essere finalizzate al continuo sostentamento della vita e/o del processo

di trasformazione che conduce a un mondo più giusto e sostenibile. Il che significa che ognuno di noi, ciascuno a modo proprio, deve individuare con grande attenzione la propria vocazione: il proprio fine unico posto all’interno del fine dispiegantesi del cosmo stesso, il Tao. Come facciamo a essere certi che stiamo sviluppando davvero le nostre capacità al «servizio del Reale», che ciò che facciamo serve a venerare «la Fonte più profonda della Vita intera», per riprendere le parole della sura Fâtiha (quinto versetto)? In termini più pratici, ciascuno di noi ha bisogno di capire in che modo porre le doti, le passioni e capacità uniche che ha al servizio della liberazione. A tal fine è utile che ciascuno di noi si chieda: cos’è che mi fa arrabbiare e mi turba più di ogni cosa? Cos’è che mi preoccupa profondamente? Allo stesso tempo, ognuno di noi deve attingere dalla propria passione e dalla gioia: cosa mi piace davvero fare? Con quali talenti e quali doti posso contribuire? Considerando tutte queste cose, possiamo trovare idee nella nostra vocazione più profonda, il fine per il quale siamo venuti al mondo, il ruolo unico che possiamo svolgere nel cosmo: che cosa posso fare che coniughi le mie preoccupazioni, i miei interessi e le passioni nell’opera concreta di trasformazione? Ovviamente, mentre analizziamo questi interrogativi dobbiamo comunque trovare un modo per mantenere noi e le nostre famiglie. Il che significa che potremmo aver bisogno di ri-orientare le nostre esistenze in maniera graduale, ovvero cercando di trovare occasioni per fare volontariato al di fuori del proprio lavoro o “occupazione”. La cosa importante, tuttavia, è prendersi del tempo per capire dove e in che modo possiamo contribuire al meglio per far avanzare il mondo verso la Grande Svolta e poi trovare una via per muovere anche noi, progressivamente, in quella direzione. In ogni azione dobbiamo altresì tenere a mente che il nostro

operato è più efficace quando lavoriamo con gli altri, costruendo le comunità e la sinergia del potere-con. Una comunità, ovviamente, può assumere svariate forme. Può trattarsi di un’organizzazione che si occupa di un problema specifico, un ecosistema o un gruppo di persone; può essere anche una comunità religiosa, o più semplicemente un quartiere, un villaggio o una cittadina. Quando pensiamo la comunità dovremmo sempre cercare di espandere tale visione fino a comprendere la più ampia comunità biotica alla quale apparteniamo. Lavorare con gli altri, ovviamente, può essere faticoso. Per essere davvero una comunità di liberazione, una comunità non può fondarsi su relazioni oppressive o su disuguaglianze di potere e di rispetto. È necessario un nuovo tipo di comunità, una comunità fondata sulla reciprocità e sull’impegno comune per la crescita e l’azione trasformativa in comunione con la più ampia comunità della Terra di cui facciamo parte. Le prospettive del consenso e della partecipazione che abbiamo esaminato nella visione bioregionale potrebbero fungere da principi guida nella nostra riflessione sul tipo di comunità verso la quale desideriamo muovere. Dovremmo altresì cercare dei modi per espandere il nostro senso della comunità, collaborando in maniera solidale con altri che condividono le nostre preoccupazioni o che in vari modi sono coinvolti nella lotta per una comunità sostenibile. Possiamo cercare di dar vita a comunità di comunità, reti che abbracciano un’intera regione, se non addirittura l’intero pianeta. Dando vita a una comunità e lavorando in maniera solidale con gli altri, creiamo anche un contesto per la nostra azione e per la possibilità di un supporto reciproco. Come abbiamo visto, lavorare con gli altri può accrescere la nostra capacità di entrare nel vuoto gravido attraverso la meditazione, di intensificare la nostra intuizione e di arricchire la nostra capacità immaginativa e l’atto della manifestazione. Creando collegamenti sempre più capillari con gli

altri, possiamo utilizzare il potenziale dell’azione gentile per lavorare in un «modo delicato ma globale per cercare di ripristinare l’armonia attraverso correlazioni gentili» (Peat, 1990).

Il sostentamento in tempo di lavoro Hawvlan lachma d’sunqanan yaomana. Washboqlan khaubayn (wakhtahayn) aykana daph khnan [shbwoqan l’khayyabayn. Wela tahlan l’nesyuna, ela patzan min bisha. Metol dilakhie malkuta wahayla wateshbukhta l’ahlam almin. Ameyn. Con passione e coraggio fa’ che possiamo produrre il sostentamento e la comprensione di cui abbiamo bisogno [per compiere il passo successivo. Allenta le corde delle colpe passate e liberaci dalle speranze [frustrate, come noi liberiamo gli altri e restituiamo loro ciò che è stato [usurpato. Fa’ che non restiamo intrappolati nelle reti dell’illusione o che ci smarriamo nell’oblio delle distrazioni che ci distolgono dal nostro fine, ma illumina per noi le opportunità del momento presente. Poiché dal tuo terreno fertile fiorisce la visione che ridà potere, l’energia vitale che crea e sostiene e l’armonioso canto che infiamma lo stupore, di epoca in epoca, lascia che così sia davvero. (Traduzione dal quinto all’ottavo versetto della preghiera aramaica di Gesù) Sirat alladhina an’amta ‘alayhim ghayril maghdubi ‘alayhim wa laddalin. L’orbita di ogni essere nell’universo è piena di gioia. Quando si procede consapevolmente, si leva un sospiro di meraviglia dinnanzi all’aperto, [all’abbondanza. Questo non è il sentiero della frustrazione, della rabbia, [della contrarietà, che si presenta solo allorché per un momento smarriamo la via e ci prosciughiamo, vagando troppo lontano dalla Sorgente dell’Amore. (Traduzione del sesto versetto della sura Fâtiha)

Lavorando per la liberazione attraverso il quadruplice sentiero dobbiamo sempre tenere a mente che, per quanti sforzi profondiamo

per discernere le nostre azioni e radicarle nel senso del Tao, non vi è garanzia che una qualche azione o iniziativa abbia buon esito. La natura stessa dei sistemi complessi implica che non possiamo mai avere la certezza assoluta che ciò che facciamo sia, di fatto, l’azione più adeguata per il tempo e il luogo in cui ci troviamo. Il massimo che possiamo fare è cercare di radicarci in maniera sempre più profonda nel senso del Tao, cercare di armonizzarci con il fine dispiegantesi del Malkuta. Nell’ottica del ciclo d’apprendimento olistico, dobbiamo sempre ricordare la fase della verifica, il momento in cui le cose vengono testate per vedere se possono davvero dare frutti. A volte infatti si impara di più dai fallimenti che non dai successi, e tali insegnamenti possono poi arricchire e guidare il nostro operato. Anche in questo caso, tuttavia, dobbiamo essere cauti. In cosa consiste veramente il successo? Ciò che in un primo momento potrebbe sembrare infruttuoso sul lungo periodo potrebbe rivelarsi molto fecondo, mentre invece ciò che all’inizio appare fruttuoso potrebbe in realtà avvizzire col passare del tempo. Pertanto, abbiamo bisogno di coltivare un atteggiamento di sano distacco dai risultati immediati. Come afferma Vandana Shiva: Dal Bhagavad Gita e da altri insegnamenti della mia cultura ho imparato a distaccarmi dai risultati delle mie azioni, poiché essi non sono in mio potere. Il contesto è fuori dal nostro controllo, ma l’impegno siamo noi a profonderlo, e possiamo profondere un grande impegno con un totale distacco verso l’esito che avrà. Vogliamo che conduca a un mondo migliore, allora dobbiamo plasmare le nostre azioni e assumercene la piena responsabilità, solo allora avremo il distacco. È proprio questo connubio tra profonda passione e profondo distacco che mi consente sempre di raccogliere la sfida successiva, perché non mi paralizzo, non vado in confusione. Agisco come un essere libero [...] credo che ciò che ciascuno di noi deve al prossimo sia la celebrazione della vita e sostituire la paura e la mancanza di speranza con l’audacia e la gioia. (citato in Korten, 2006)

Dunque, dobbiamo sempre fare le cose un passo alla volta, cercando soltanto il sostentamento e la saggezza per la fase del viaggio in cui ci troviamo. Al contempo, dobbiamo lasciar andare gli errori del passato e le speranze frustrate, considerando ogni giorno

come un nuovo inizio. La Via Negativa è fondamentale qui: pur avendo bisogno di imparare dal passato, dobbiamo anche lasciar andare le delusioni passate nonché le reti di illusioni (disperazione, negazione, oppressione interiorizzata e dipendenze) che ci distoglierebbero dal nostro fine. Inoltre, dobbiamo ricordare che, per quanto la lotta per la completa liberazione sia senz’altro una questione seria, non dobbiamo essere gravi. Per essere davvero efficaci, le nostre azioni per il cambiamento devono essere pervase della giocosità e della festa insite in tutti gli sforzi creativi, compresa la creatività del cosmo. Il gioco, in particolare, si trova al cuore stesso del genere umano, come abbiamo visto quando ci siamo occupati della neotenia (p. 485). Se non teniamo conto di quest’aspetto, presto ci sentiremo deprivati della nostra energia e demoralizzati dalla lotta. La Via Positiva – la via della festa, della meraviglia, del timore reverenziale, la via del ricordo e del ricollegamento con la Fonte feconda di ogni cosa –, così come la giocosità e perfino l’umorismo, che possono essere associati alla Via Creativa, svolgono un ruolo importante nel supportarci nella lotta per una comunità della Terra più giusta e sostenibile. In effetti, l’autentica gioia, la festa e il gioco sembrano recuperare uno spirito che è profondamente sovversivo per la dinamica di controllo del sistema dominante: la musica, la danza e il riso si trovano al cuore stesso della lotta per la vita. In Colombia, ad esempio, in uno dei contesti più violenti al mondo, gli attivisti per i diritti umani sanno bene quant’è importante uscire per andare a ballare, in modo da entrare di nuovo in contatto con la fonte profonda della vita che li ispira a continuare la lotta: alcuni di loro lo chiamano “ballare la rivoluzione”. Mano a mano che ci addentriamo nella lotta per rinnovare la Terra, potremmo trovare nelle nostre comunità e nei ritrovati collegamenti con il cosmo una nuova fonte di gioia, una gioia che sgorga dall’approfondimento della nostra compassione. Per definire tale

fenomeno, Joanna Macy (1983) ha utilizzato il termine buddhista muditha, ‘la gioia nella gioia degli altri’ che deriva dal condividere i nostri doni e le nostre capacità nella lotta. Quanto più profondamente ci colleghiamo con gli altri e con il cosmo stesso, tanto più il potere di questa gioia diventa inarrestabile. In fondo, è questa forza – quest’energia vitale che crea e sostiene, questo canto che ci infiamma di passione – che condurrà alla Grande Svolta verso una nuova era per l’umanità e per tutta la Terra. 69 Molte di queste caratteristiche si basano su quelle illustrate da David Korten (1995; 2006). 70 Un altro esempio di processo decisionale che sembra riflettere i principi del consenso è rappresentato dai “circoli di discussione” che si ritrovano in molte tradizioni dei nativi nordamericani. 71 Anche se, in verità, come dimostrano le nostre riflessioni sulla fisica quantistica, partecipiamo sempre in un certo senso a ciò che osserviamo. 72 Sotto molti aspetti questo processo è equivalente al ciclo di apprendimento di Kolb (1984), che parte dall’esperienza concreta (pratica), passa attraverso l’osservazione riflessiva e la concettualizzazione astratta (teoria) e torna alla pratica, arricchita da nuove idee (sperimentazione attiva). 73 In particolare, attingeremo dalle versioni “midrashiche” di queste preghiere proposte da Neil Douglas-Klotz. A differenza delle traduzioni tradizionali, Douglas-Klotz ha utilizzato una sorta di traduzione “estesa” per cercare di rendere i molteplici strati di senso presenti nei significati originari dei termini aramaici e arabi. Nel caso della preghiera di Gesù (il “Padre nostro” o “Preghiera del Signore”), utilizzeremo una nostra versione basata sulla traduzione e sulle riflessioni tratte da Le preghiere per il Cosmo (1990 [2002]) e Desert Wisdom (1995) di Douglas-Klotz, spesso fornendo due versioni complementari. Per ulteriori informazioni (compresi i file sonori della traduzione aramaica completa della Preghiera del Signore), si visiti il sito dell’Abwoon Resource Center all’indirizzo www.abwoon.com. Le traduzioni della sura Fâtiha sono tratte direttamente, salvo piccoli adattamenti (nel primo versetto), da Desert Wisdom. 74 «L’autorevole astronomo di Harvard Harlow Shapley [...] ha calcolato che ogni respiro contiene circa 30.000.000.000.000.000.000, equivalenti a 3 x 1019 atomi di argon, più quintilioni di molecole di biossido di carbonio. Supponiamo di esalare un solo respiro e seguiamo questi atomi di argon. Nel giro di qualche minuto essi si saranno dispersi nell’aria ben oltre il punto in cui sono stati emessi, viaggiando nell’area circostante. Dopo un anno quegli atomi di argon si saranno mescolati nell’atmosfera diffondendosi nell’intero pianeta, cosicché ogni respiro che facciamo comprende almeno quindici atomi di argon emessi nel respiro esalato un anno prima! Tutti gli individui al di sotto dei vent’anni hanno fatto almeno cento milioni di respiri, inalando così atomi di argon che sono stati emessi nel primo respiro di ogni neonato nel mondo un anno prima!» (Suzuki-McConnel, 1997).

75 Si rinvia alla discussione sull’intuizione del Tao e sull’idea del bene (“maturo”) e male (“guasto”, “immaturo”) in aramaico. Cfr. p. 374.

Il viaggio continua Per sua natura, il Tao della liberazione costituisce solo un passo di un cammino che prosegue nel tempo. Chi fosse interessato a continuare a esplorare le idee contenute in questo volume può visitare il sito del libro all’indirizzo: www.taoofliberation.com. Nei prossimi mesi ci auguriamo di aggiornare le fonti che possono contribuire a favorire una discussione più approfondita sugli argomenti e sulle questioni qui introdotte. Ad esempio, abbiamo in progetto di elaborare una guida per gruppi che vogliano riflettere sul libro e analizzarne le implicazioni per la loro vita e per la prassi trasformativa. Inoltre, Mark Hathaway sta lavorando per fondare un nuovo centro di ricerche che continuerà ad approfondire le tematiche che abbiamo esplorato qui e a condividere gli spunti dei lettori. Questo centro cercherà di mettere in contatto attivisti e studiosi, di raccogliere casi studio e di indagare sia le visioni di un futuro sostenibile che i cammini verso l’autentica liberazione. Chi fosse interessato a partecipare al progetto o a contribuire al lavoro, è pregato di visitare il sito del Centre for Transformative Ecology all’indirizzo: www.centreco.org.

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