Il silenzio delle sirene. La matematica greca antica 9788843055791

La matematica greca antica è raramente presentata al lettore come oggetto di attenzioni storiche o filologiche. L’autore

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Il silenzio delle sirene. La matematica greca antica
 9788843055791

Table of contents :
Copertina......Page 1
Indice......Page 7
Fonti di uso frequente e loro sigle......Page 9
Nota liminare......Page 11
1 Metodi......Page 15
1.1 Che cos'è la matematica greca: una mappa per sottogeneri......Page 16
1.2 Come è scritta la matematica greca......Page 21
1.2.1. La topografia di un trattato......Page 23
1.2.2. La topografia di una proposizione; il problema della generalità......Page 31
1.3 Come venne diffusa la matematica greca......Page 56
1.4 Come muore la matematica greca......Page 59
1.5 Come ci è giunta la matematica greca: la trasmissione diretta......Page 65
1.6 Come ci è giunta la matematica greca: le fonti greche indirette......Page 71
1.7 La collocazione cronologica dei matematici antichi......Page 79
2 Problemi......Page 87
2.1 Contesto e interpretazione......Page 88
2.1.1. Il carattere costruttivo della geometria greca; il pregiudizio geometrizzante......Page 89
2.1.2. L '«algebra geometrica» e altri anacronismi......Page 98
2.1.3. Matematica e ricerca filosofica in interazione: la questione dei fondamenti......Page 110
2.1.4. Il linguaggio dei «dati»: l'ossessione formalizzatrice......Page 120
2.1.5. L '«algebra» di Diofonto......Page 134
2.1.6. L insegnamento della matematica......Page 144
2.2.1. Pitagora matematico e la matematica pitagorica......Page 149
2.2.2. Le notizie biografiche su Archimede......Page 153
2.2.3. Erone il «meccanico»......Page 163
2.2.4. Ipazia matematico......Page 166
3 Tecniche......Page 171
3.1 Teoria delle proporzioni......Page 173
3.2 La classificazione delle linee irrazionali e dei poliedri regolari......Page 183
3.3 Le quadrature e il cosiddetto «metodo di esaustione»......Page 196
3.4 Elementi di teoria delle sezioni coniche; le proprietà caratteristiche; il metodo di «applicazione delle aree»; il luogo a 3 e 4 linee......Page 209
3.5 Curve speciali; la classificazione dei problemi e dei luoghi......Page 221
3.6 Sistemi numerici, algoritmi e tradizione metrica......Page 229
3.7 Teoria dei numeri......Page 239
3.8 Trigonometria e geometria sferica......Page 260
A1 Le opere principali......Page 269
A1.1. Un solo manoscritto, conservato, a capo di tutta la tradizione: Collectio di Pappo, Coniche di Apollonio, Metrica di Erone......Page 270
A1.2. Due recensioni differenti per varianti marginali: Elementi e Data di Euclide......Page 283
A1.3. Due recensioni antiche radicalmente differenti: Ottica e Fenomeni di Euclide......Page 290
A1.4. Una recensione (tardo)-antica e una bizantina: i Commentari di Pappo e Teone all'Almagesto e di Teone alle Tavole facili di Tolomeo; gli anonimi Prolegomena all'Almagesto......Page 302
A1.5. Tradizione antica a più rami:Almagesto di Tolomeo e corpus archimedeo......Page 318
A1.6. Tradizione bizantina e bipartita: Arithmetica di Diofonto......Page 330
A1.7. Mostri filologici: Geometrica e Stereometrica inclusi nel corpus eroniano......Page 334
Al. 8. Palinsesti......Page 339
A2 La formazione di corpora settoriali......Page 341
A2.1. Il corpus astronomico minore......Page 342
A2.2. Il corpus analitico......Page 350
A2.3. Un corpus astronomico-matematico tardo-bizantino......Page 358
A2.4. I corpora scoliastici......Page 362
A3 Traduzioni arabe e arabo-latine......Page 368
Onomasticon......Page 377
Tavole 1-11......Page 385
Bibliografia......Page 396
Indice dei manoscritti e dei papiri......Page 422
Indice dei nomi......Page 426
Indice dei nomi geografici e astronomici......Page 432
Indice dei passi citati da autori non matematIcI......Page 434
Indice analitico......Page 444

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Il silenzio delle sirene La matematica greca antica

Fabio Acerbi

Carocci

La matematica greca antica è raramente presentata al lettore come oggetto di attenzioni storiche o filologiche. L'autore di questo volume, invece, si propone di farlo, descrivendo i metodi di analisi dei testi matematici antichi, conducendo il lettore dietro le quinte delle mode storiografiche e sfatandone alcuni miti, offrendo un quadro dettagliato della tradizione testuale delle opere principali. Il "contenuto matematico" delle ricerche antiche è adeguatamente contestualizzato, ed esposto per grandi linee tematiche privilegiando le tecniche dimostrative e il linguaggio utilizzato nella loro elaborazione. Viene dato spazio a domìni di ricerca solitamente trascurati come i fondamenti e la teoria dei numeri. Ne risulta un quadro organico, ricco di informazioni, forse spiazzante per la messa in prospettiva decisamente inusuale.

Fabio Acerbi è chargé de recherches al Centre National de la Recherche Scientifique (Villeneuve d'Ascq). Si occupa di matematica greca antica, in particolare delle sue interazioni con le dottrine logiche antiche e dell'edizione critica di testi (sua la cura di Euclide, Tutte le opere, Bompiani, 2007).

€ 40,00

Fabio Acerbi

Il silenzio delle sirene La matematica greca antica

Carocci editore

A G. M, per gli stessi motivi

la

edizione, novembre 2010

© copyright 2010 by Carocei editore S.p.A., Roma Finito di stampare nel novembre 2010 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino ISBN 978-88-430-5579-1

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Siamo su Internet: hrtp://www.carocci.it

Indice

Fonti di uso frequente e loro sigle Nota liminare 1.

Metodi

9

11

15

1.1. Che cos'è la matematica greca: una mappa per sottogeneri 1.2. Come è scritta la matematica greca 21 La topografia di un trattato / problema della generalità

1.2.1.

1.2.2.

16

La topografia di una proposizione; il

1.3. Come venne diffusa la matematica greca 56 1.4. Come muore la matematica greca 59 1.5. Come ci è giunta la matematica greca: la trasmissione diretta 1.6. Come ci è giunta la matematica greca: le fonti greche indirette 1. 7. La collocazione cronologica dei matematici antichi 79

2.

Problemi

65 71

87

2.1. Contesto e interpretazione

88

Il carattere costruttivo della geometria greca; il pregiudizio geometrizzante / 2.1.2. L'«algebra geometrica.» e altri anacronismi / 2.1.3. Matematica e ricerca filosofica in interazione: la questione dei fondamenti / 2.1.4. Il linguaggio dei «dati»: l'ossessione formalizzatrice / 2.1.5. L'«algebra» di Diofanto / 2.1.6. L'insegnamento della matematica 2.1.1.

2.2.

Miti storiografìci

149

Pitagora matematico e la matematica pitagorica / 2.2.2. Le notizie biografiche su Archimede / 2.2.3. Erone il «meccanico» / 2.2-4- Ipazia matematico 2.2.1.

3.

Tecniche

171

3-1. Teoria delle proporzioni 173 3.2. La classificazione delle linee irrazionali e dei poliedri regolari

7

183

3.3. Le quadrature e il cosiddetto «metodo di esaustione» 196 3.4. Elementi di teoria delle sezioni coniche; le proprietà caratteristiche; il metodo di «applicazione delle aree»; il luogo a 3 e 4 linee 209 3.5. Curve speciali; la classificazione dei problemi e dei luoghi 221 3.6. Sistemi numerici, algoritmi e tradizione metrica 229 3.7. Teoria dei numeri 239 3.8. Trigonometria e geometria sferica 260 Appendice. La tradizione manoscritta Al. Le opere principali

269

269

fu.l. Un solo manoscritto, conservato, a capo di tutta la tradizione: Collectio di Pappo, Coniche di Apollonio, Metrica di Erone / A1.2. Due recensioni differenti per varianti marginali: Elementi e Data di Euclide / A1.3. Due recensioni antiche radicalmente differenti: Ottica e Fenomeni di Euclide / Al4 Una recensione (tardo)-antica e una bizantina: i Commentari di Pappo e Teone all'Almagesto e di Teone alle Tavole focili di Tolomeo; gli anonimi Prolegomena all'Almagesto / AI.5. Tradizione antica a più rami: Almagesto di Tolomeo e corpus archimedeo / AI.6. Tradizione bizantina e bipartita: Arithmetica di Diofanto / AI.7. Mostri filologici: Geometrica e Stereometrica inclusi nel corpus eroniano / AI.S. Palinsesti

A2. La formazione di corpora settoriali

341

A2.1. Il corpus astronomico minore / A2.2. Il corpus analitico / A2.3. Un corpus astronomico-matematico tardo-bizantino / A24 I corpora scoliastici

A3. Traduzioni arabe e arabo-latine Onomasticon

Bibliografia

368

377

385

Indice dei manoscritti e dei papiri Indice dei nomi

411

415

Indice dei nomi geografici e astronomici

421

Indice dei passi citati da autori non matematici Indice analitico 8

433

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Fonti di uso frequente e loro sigle

I titoli degli scritti degli autori classici sono abbreviati come nd Liddell-ScottJones; le pagine sono quelle delle edizioni canoniche Il menzionate. Quando l'edizione sia differente, è identificata dal nome ddl' editore. Le abbreviazioni dei titoli delle opere matematiche sono autoevidenti; alle proposizioni è fatto riferimento tramite libro e numero, come ad esempio più grande» (Kunitzsch, 1974, pp. 115-25), attestato in greco solo in Simeone Seth, Vtil corpo Il,110 (seconda metà dell'XI secolo). Già solo il qualificativo di grado zero IlEyaì..'T) «grande» sembra però essere stato aggiunto tardivamente al titolo del trattato tolemaico. Lo si ritrova a più riprese negli anonimi Prolegomena, scritti in ambiente neoplatonico tra ve VI secolo, in Eutocio (AOO III, 232), che a dire il vero cita anche il titolo senza aggettivo (ivi, 260), e Cassiodoro, Inst. II.7.3. Le sole occorrenze in commentatori aristotelici sono in Asclepio, in Metaph., 359, e Michele d'Efeso, in EN, 582. Nella voce su Tolomeo, la Suda chiama l'Almagesto Iléyaç aO'tQov61l0ç il'wt O'Ùvta;tç «grande astronomo o composizione» ma, nella notizia su Pappo, menziona il suo commentario alla IlEyaì..'T) O'Ùvta;tç (II 3033, IV, 254, e II 265, IV, 26). Prima di queste fonti estremamente tardive, né Pappo né T eone né, prima di loro, un frammento di commentario anonimo all'Almagesto scritto intorno al 213 Oones, 1990, pp. 30 ss.), né, dopo di loro, Proclo, che sia nell'Hypotyposis o altrove, aggiungono l'aggettivo. In questi autori, il titolo più frequente è semplicemente O'Ùvta;tç «composizione». Sulla base delle citazioni interne all'Almagesto, delle sottoscrizioni dei manoscritti e della citazione in Pappo, Coli. VIII.18, Heiberg sostiene che la denominazione primaria dovesse essere lla8'T)lla'tt%a, alla quale T olomeo stesso aggiunge O'Ùvta;tç per identificare il genere di prodotto letterario di cui l'Almagesto è una specie: ne risulta lla8'T)llatt%tì O'Ùvta;tç, che in effetti significa semplicemente «Opera matematica» (POO II, cxl-cxli). Da questa denominazione si sarebbe passati per metonimia ed antonomasia a O'Ùvta;tç ( I::..ZE.

'EXeL oùv LOTJ eO'tLv ~ I::..A T[i I::..B, LOT)

Poiché dunque I::..A è uguale a I::..B, anche un angolo I::..AE è quindi uguale a I::..BE; e poiché risulta prolungato avanti un solo lato AEB di un triangolo I::..AE, l'angolo I::..EB è quindi maggiore di I::..AE.

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2.

'Eàv XUXMru eXL 'tijç XEQLEQEf.aç ÀT)6fi Mo 't1JX6vta OTJJ.LELa, ~ eXL 'tà

aQa ?!. Riferimento a nomi di oggetti tramite lettere collocate in posizione appositiva; i gruppi di lettere o i sintagmi preposizionali più complessi con la stessa funzione sono necessariamente dotati di articolo. g) Riferimento a enti posti a cortissimo raggio d'azione (di norma all'interno della stessa frase) tramite pronomi dimostrativi. Essi sono estremamente frequenti in testi che descrivono algoritmi come i Metrica di Erone. In questo balletto di convenzioni citazionali non è semplicemente in gioco un' applicazione del meccanismo generale che De Morgan chiama principium et exemplum. Viene in entrambi i casi ricalcata la forma linguistica (inde6.nita) dell' enunciato cui è fatto riferimento, ed è questo il meccanismo validante dell' asserto istanziato, che conferisce altresl pertinenza alla citazione. Non c'è, dunque, alcuna necessità di quanti6.care gli enunciati delle proposizioni geometriche, semplicemente perché il principio che guida la loro applicazione nelle dimostrazioni non passa attraverso l'esempli6.cazione universale, ma attraverso il riconoscimento di un'identità di forma linguistica, per quanto non sempre vi sia una sola forma di riferimento. Questa soluzione non ha motivo per apparirci sorprendente. Non si vede perché i meccanismi di riconoscimento della generalità e dell' adesione ad una forma logica ben de6.nita debbano sottostare a regole anche solo lontanamente analoghe a quelle elaborate al termine di un percorso articolato e ora d'uso corrente. I Greci usavano solo il linguaggio naturale (con la notevole eccezione delle lettere denotative); noi moderni siamo profondamente imbevuti di notazioni simboliche. Non possiamo assumere che la nostra percezione di che cosa pertenga alla forma logica coincida con la loro. Se viene impiegato solo il linguaggio naturale, le regolarità delle strutture linguistiche sono tutto ciò che è a disposizione per riconoscere, ed eventualmente per creare, argomentazioni la cui validità non dipenda dai termini effet-

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tivamente esposti in esse (termini singolari, lettere schematiche ecc.), cioè argomentazioni di cui sia possibile dire che concludono in virtù di una certa forma.

1.3 Come venne diffusa la matematica greca

La diffusione delle opere matematiche non avveniva per tramite di canali ufficiali. Esse erano normalmente indirizzate a qualche destinatario, e il proemio costituiva una sorta di lettera di accompagnamento. Sono preceduti da considerazioni introduttive di questo genere i singoli libri delle Coniche di Apollonio salvo il terzo, il compendio arabo del trattato Sugli specchi ustori di Diocle, tutte le opere geometriche di Archimede che ci siano giunte in forma passabilmente completa, ed inoltre l'Arenario e il Metodo. Le epistole prefatorie si costituirono in seguito a sottogenere letterario: vere e proprie introduzioni, curate dal punto di vista dottrinale e retorico, replete di topoi e miranti ad offrire al lettore un quadro erudito atto a giustificare la composizione e le principali assunzioni dell' opera, si trovano in autori post-ellenistici, in particolare Erone, Pappo e Tolomeo (Vitrac, 2oo8a): la presenza di un destinatario in incipit a queste introduzioni va ormai considerato un tratto ~tilistico. Infine, certe opere contengono introduzioni posticce, redatte nel corso della tarda antichità e a volte veri estratti di lezioni, incentrate sulla giustificazione di certe assunzioni o su questioni lessicali (Fenomeni e Ottica B di Euclide). A queste ultime due tipologie fa probabilmente allusione Proclo quando afferma che «alcuni congegnarono degli apparati preliminari contro quelli che distruggono i principi» (iE, 73). Una rapida rassegna di alcuni elementi contenuti nelle lettere prefatorie scritte nel periodo ellenistico ci fornisce anche indicazioni utili sulla maniera di diffusione e sulla circolazione delle opere matematiche, a partire dal momento della loro prima comunicazione a una cerchia ristretta o della loro «edizione» (per il senso che ha il termine nell' antichità cfr. van Groningen, 1963; Dorandi, 2007). Apollonio spedisce i libri delle Coniche singolarmente e a singole persone: i primi tre a Eudemo di Pergamo, dal quarto al settimo ad Attalo. Dunque i vari libri furono originariamente diffusi in copia unica, quella destinata al dedicatario. Nella breve prefazione al II libro (AGE I,

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192), il cui latore è il figlio di Apollonio, Eudemo riceve questa raccomandazione: «lavoraci sopra con cura e danne diffusione tra quelli che sono degni di condividerle; e Filonide il geometra, che ti avevo presentato ad Efeso, qualora capiti mai dalle parti di Pergamo, rendilo partecipe». Dunque Apollonio ritiene necessario indicare ad Eudemo qualcuno cui trasmettere il proprio trattato, anche se ciò può avvenire solo nell'eventualità che si verifichi un incontro casuale. Nella prefazione al I libro raccogliamo un elemento ulteriore (ivi, 2): Apollonio afferma di aver preparato due redazioni delle Coniche. La prima l'aveva consegnata «in tutta fretta» e «mettendoci tutto quello che [gli] era venuto in mente, per ritornarci sopra alla fine», al geometra Naucrate, sotto il cui stimolo si era cimentato nell'impresa, alla partenza di quest'ultimo da Alessandria. Apollonio aveva anche fatto circolare i primi due libri tra «certi altri tra quelli che [lo] frequentavano». La seconda redazione, corretta, era appunto quella che iniziava a spedire a Eudemo. In entrambi i casi si trattava di consegnare personalmente o inviare copie ai diretti interessati. Nella prefazione al IV libro la preistoria di alcune delle tematiche in esso affrontate si riduce a: i) uno scritto di Conone sulla prima di esse, indirizzato ad un certo Trasideo altrimenti sconosciuto; ii) la reazione violenta di Nicotele, che reputa la trattazione del tutto insoddisfacente dal punto di vista matematico; iii) l'osservazione dello stesso Apollonio su come, nello scritto polemico di Nicotele, venga solo annunciata la soluzione di problemi relativi ad una seconda tematica. Apollonio conclude dicendo di non aver trovato questa soluzione «dimostrata né da lui né da qualcun altrO» (AGE II, 2-4); lo stesso vale per le restanti tematiche del IV libro. Apollonio era solito ritornare più volte sullo stesso soggetto, che fosse per correggere radicalmente quanto già pubblicato o nel corso di trattazioni affini: in ogni caso la diffusione originaria avveniva sempre tramite singole persone, e le copie in circolazione erano di difficile riperimento, forse casuale. Ipsicle, che pure si trovava ad Alessandria e che visse verosimilmente poco dopo Apollonio, sembra darne implicita conferma nella prefazione al cosiddetto XIV libro degli Elementi, dove afferma che un trattato apolloniano sul confronto tra il dodecaedro e l'icosaedro inscritti nella stessa sfera era stato redatto due volte, il secondo «messo in circolazione dopo essere stato riscritto, cosi sembra, con cura» (EOO V,l,l). Qualche pagina dopo (ivi, 4), Ipsicle identifica più precisamente l' «altro libro» di Apollonio come una «se57

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conda edizione». Sembra dunque che Apollonio fosse affezionato alle doppie edizioni. La traduzione araba cui dobbiamo la trasmissione dell' opera di Diocle non ha preservato il nome del destinatario, ma l'autore si rivolge ad una seconda persona per spiegare le proprie motivazioni e ci offre uno spaccato dell' attività di ricerca a lui precedente del tutto in linea con quanto abbiamo trovato nella prefazione di Apollonio al suo IV libro. Apprendiamo in effetti che «Pythion di T aso il geometra scrisse una lettera a Cono ne in cui gli chiede come trovare una superficie riflettente tale che, posta di fronte al sole, il raggio da essa riflesso incontri la circonferenza di un cerchio», e che un certo Ippodamo chiese allo stesso Diocle come trovare una superficie che concentrasse i raggi solari in un punto (Toomer, 1976, p. 34 = CG,98). Le lettere di accompagnamento alle opere di Archimede rivelano che egli inviava elenchi di problemi aperti e congetture, e in seguito eventualmente le loro dimostrazioni. Alcune delle congetture rivelatesi poi false, egli si curava di mostrare perché, ma non pare che qualcuno dei suoi corrispondenti si fosse impegnato a risolvere i problemi proposti: «pur essendo trascorsi molti anni dalla morte di Cono ne, nessuno dei problemi [scii. da me propostigli] è stato smosso da nessuno» (AOO II, 2). Proprio come farà più tardi Apollonio, le opere erano inviate a singoli matematici, in alcuni casi con l'invito a darne diffusione tra «coloro che sono familiari con le matematiche» (ADO I, 4), o scritte per il tiranno Gelone come Ar., e tale «edizione» aveva luogo in copia unica, come conferma l'affidamento ad Eraclide delle dimostrazioni da consegnare a Dositeo ed attualmente raccolte in Sph. cyl. I e II. Non possediamo alcuna opera inviata a Conone, e non è improbabile che a lui fosse indirizzata soltanto la missiva contenente una serie di problemi aperti menzionata nella prefazione a Spir., cui fece seguito solo a distanza di anni l'invio a Dositeo delle opere contenenti le soluzioni. Lo stesso vale molto probabilmente per Eratostene. Il testamento intellettuale di Archimede, il Metodo, inizia appunto con l'affermazione: «Ti avevo spedito in precedenza teoremi < da me > scoperti, scrivendo i loro enunciati < e > dicendoti di trovare le dimostrazioni, che non < ti > dissi al momento» (AOO II, 426). È chiaro che Conone era stimato da Archimede in quanto geometra, non perché facesse parte di una qualche istituzione. Da quanto scrive Archimede traspare invece una netta sfiducia nelle capacità di Dositeo, interlocutore non tra i più qualificati e in un certo senso minore.

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Nella lettera prefatoria a Spiro Archimede afferma esplicitamente che Dositeo, il destinatario, viene per ultimo, dopo che colleghi evidentemente più competenti avevano già esaminato le dimostrazioni (AOO II, 2). Si tratta del fenomeno della prima diffusione di un'opera in una cerchia limitata, precedente alla vera e propria «edizione», che abbiamo già visto in atto nel caso dei primi due libri delle Coniche di Apollonio (cfr. Dorandi, 2007, cap. 4). In quella a Sph. cyi. I sembra invece che Archimede assegni a Dositeo il compito di fungere da tramite per far pervenire le proprie opere a persone «versate in matematica» (AOO I, 4). Si tratta di un atteggiamento che non rintracciamo nelle epistole d'accompagnamento di altrI autori. Viene il sospetto che lo scopo di Archimede fosse piazzare strategicamente i propri scritti nel luogo potenzialmente migliore per garantirne la conservazione: e in effetti le sue sono le uniche opere avanzate rimaste, nonostante il sostanziale disinteresse dei matematici arabi.

1.4 Come muore la matematica greca

Che la matematica greca muoia è fuor di dubbio. Si estingue ancor prima della civiltà greca nel suo insieme, e potremmo far terminare la sua corsa creativa fra T olomeo e Pappo. Perché muoia richiede già un chiarimento. Il suo formato stilistico-dimostrativo non verrà superato fino alla nascita dell'analisi, e i matematici arabi si muoveranno all'interno del modello greco, pur aprendo campi di ricerca fondamentali. Il fatto è, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, che la rete dei matematici greci era estremamente fragile: pochi individui sparsi nel bacino del Mediterraneo, scarso e comunque accidentale sostegno istituzionale, sporadico e a volte casuale accesso alle fonti ed agli scritti avanzati. Si aggiunga che la nascita dell'astronomia matematica e dell'astrologia sistematica tolsero spazio e talenti alle ricerche geometriche. In altri termini, si tratta di un banale fenomeno di dinamica delle popolazioni: quando il tasso "riproduttivo", determinato dalla possibilità di interazione tra individui, si abbassa a causa delle mutate condizioni socio-economiche e delle fratture nella koinè culturale ellenistica, l'esigua popolazione dei matematici scende sotto soglia e si estingue rapidamente. Come muore la matematica greca è la questione veramente interessante: il protrarsi della sua agonia ben oltre i limiti fisiologici, fin nel 59

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pieno del VI secolo, richiede un' esposizione più articolata. Questa deve spiegare perché si continui ostinatamente a praticare matematica ad un livello" medio-basso" quando la ricerca di punta non esiste più. Il motivo è che la tradizione matematica è trattata come un genere letterario, che viene sottoposto alle normali operazioni erudite. È insomma l'impostazione libresca di tutta la cultura ellenistica e massimamente tardoantica che le garantisce una sopravvivenza. Se la matematica è un genere letterario su cui riflettere e da studiare, non possiamo valutare i prodotti di questo periodo secondo il criterio dell' originalità, che già ha poco senso nel caso delle opere del periodo ellenistico. Il parametro corretto da utilizzare è invece quello della molteplicità delle attività erudite poste ad operare sulla tradizione costituita da un canone ormai definitivamente chiuso con Tolomeo. Un tale approcio scholar/y si fonda come presupposto ineliminabile su di una formazione retorico-grammaticale che comporta l'adesione rigida ad un canone di testi, e che comprende tra i propri strumenti il sincretismo intellettuale ad ogni livello (filosofico, linguistico, logico-matematico), l'interesse per la struttura e il gusto per la variazione. A ciò si aggiunga una concezione differente del rapporto tra testo e configurazione geometrica in quanto rappresentata da un diagramma. Essa induce una proliferazione di casi fittizi, che faranno la delizia di quasi tutti i commentatori. Le loro sono opere di scuola, a volte redazioni di corsi, hanno lo scopo di chiosare, variare, completare o interconnettere un corpus matematico ritenuto compiuto ed eretto a canone. Le fonti usate sono altri luoghi del corpus, in particolare i trattati più elementari, e lo stile è la sublimazione di quello "euclideo": potremmo definirlo «atticismo matematico». La disponibilità di fonti è condizione necessaria per redigere commentari, realizzabile solo in centri che possiedano biblioteche ben fornite. La tradizione del commento scientifico, ben diverso da quello di impianto più marcatamente filosofico che verrà proposto ad esempio da Proclo ad Atene, si sviluppò in età imperiale ad Alessandria, dove in epoca ellenistica si era formato il genere, con la nascita del commento letterario di stampo filologico (Pfeiffer, 1968). Occorre supporre una buona continuità di accesso alle fonti se questa tradizione si perpetuò da Erone fino ad Eutocio. Anche se è probabile che esistessero" copie ufficiali" di opere matematiche ad Alessandria del periodo ellenistico, la deperibilità del papiro in ambienti umidi rende impossibile che tali opere siano sopravvissute fino al VI secolo senza essere state ricopiate più volte.

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Per gli Elementi, ad esempio, ciò può essere avvenuto in concomitanza sia con il commento di Erone che con l'edizione di Teone, quest'ultima forse già su codice di pergamena. Non ci si rivolgeva però solo ai discendenti degli esemplari preservati nelle grandi concentrazioni librarie ellenistiche: Eutocio, che interpretava il proprio ruolo di commentatore in termini forse più filologicamente corretti di altri, non perde occasione di mettere in rilievo la propria abilità di cacciatore di manoscritti, segnatamente riguardo al ritrovamento di un'appendice perduta a Sph. cyL II di Archimede (cfr. AOO III, 130-2). L'edizione che ancora leggiamo del testo greco dei primi 4 libri delle Coniche di Apollonio fu preparata da Eutocio per collazione di versioni divergenti. Le tappe di uno sviluppo indirizzato da questi parametri sono state le seguenti. 1.

Costituzione, forzosa o meno, di una tradizione. Il fulcro ne è il cor-

pus euclideo, assurto al ruolo di enciclopedia sia dal punto di vista dei contenuti che della pratica stilistica. Per i commentatori Euclide segna la "giusta misura", e si danno a giustificare retrospettivamente le sue "scelte", in particolare in polemica con i critici successivi. 2. Apollonio esplora domini matematici di grande originalità ma, al tempo stesso, dalla forte connotazione metamatematica e savante, che lo rendono la figura chiave di tutta l'evoluzione successiva. Ne riparlerò in dettaglio nel PAR. 2.1.3. 3. Erone è il primo a proporre testi ramificati, in quanto dotati di un commento che ne amplifica le potenzialità inespressç. Egli dette forse inizio alla tradizione del commentario tecnico alessandrino, scrivendone uno agli Elementi di cui possiamo farci un'idea solo tramite fonti indirette. Egli stabili probabilmente i canoni del genere: aggiunta di casi mancanti, di lemmi e corollari oppure di complementi matematici; dimostrazioni alternative atte a rinforzare la struttura deduttiva o a semplificarla; sostituzione di dimostrazioni per assurdo con prove dirette o, più raramente, viceversa; elaborazione di controesempi (a quanto pare una specialità di Porfirio: uno sulla necessità della clausola «non dalla stessa parte» in El. 1.14; altri due all' esistenza di un quarto criterio di uguaglianza dei triangoli - due lati e un angolo non compreso uguali - e ad una versione di El. 1.26 in cui gli angoli uguali non siano correttamente identificati; cfr. Proclo iE, 297-8, 347-52); aggiustamenti strutturali come cambiamenti dell' ordine di certe proposizioni; soppressione o aggiunta di definizioni o assiomi. Egli è interessato ad aspetti di coeren61

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za logica e struttura deduttiva, e adatta tecniche dimostrative da altri campi, come ad esempio nel caso delle dimostrazioni di El. II.2-10, riscritte nel formato di analisi e sintesi e che non prevedono la costruzione di figure sulle rette date. La prova parte da un'uguaglianza di base e procede per somma o sottrazione di domini e per sostituzioni di segmenti o domini uguali, quest'ultima mossa basandosi sempre su teoremi precedenti appartenenti alla sequenza II.1-10. In questo modo la sezione II.1-10 è trasformata da una successione disconnessa di teoremi in una catena deduttiva dalla struttura ben definita (cfr. PAR. 2.1.4). Ad Erone è anche attribuita una raccolta di Definizioni, nel loro assetto attuale sicuramente una compilazione bizantina ma contenenti un nucleo eroniano di cui ci sono poche ragioni di dubitare, sebbene la sua identificazione sia compito improbo. 4. Lo stesso Erone pratica sistematicamente, nelle proprie opere, un sincretismo matematico che lo porta a mescolare i sottogeneri geometrico e aritmetico, le pratiche analitiche e algoritmiche, lo stile puro e misto (cfr. PARR. 2.2.3 e 3.6). 5. Sereno estremizza la tradizione savante apolloniana: afferma di averne commentato l'opera (Opuscula, 52) e, al tempo stesso, scrive due trattati in forma "tradizionale" che estendono o amplificano elaborazioni apolloniane. Nella Sezione di un cono affronta esclusivamente lo studio delle sezioni triangolari di un cono passanti per il vertice, argomento solo sfiorato nelle proposizioni iniziali delle Coniche. Nella Sezione di un cilindro mostra che la generica sezione cilindrica coincide con l'ellisse, definito beninteso come sezione conica. Sereno imposta le definizioni e le prime 20 proposizioni della propria trattazione in stretto parallelo con quella in Con. I (le def. 4-7 sono una citazione esplicita), in modo da ritrovare in successione le proprietà principali dell' ellisse. Ecco le corrispondenze (nelle prime 4 colonne le definizioni; i «termini secondi» sono preceduti dal segno II): Sect. cyL

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Conica

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II.1 11·3

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6. Menelao scrisse degli Elementi geometrici, oggi perduti. Probabilmente da quest' opera è tratta la dimostrazione diretta di El. 1.25 trascritta da Proclo (iE, 345-6). Altri frammenti dagli Elementi geometrici pro-

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vengono da fonti arabe (Hogendijk, 2000). Al-Biruni menziona un problema risolto nella seconda proposizione del III libro: inscrivere in un semicerchio dato una retta inflessa di lunghezza data. Al-Sijzi asserisce che all'inizio del suo libro Menelao dimostrò in modo incompleto «la proprietà di uguaglianza < che risulta> dal tracciare le perpendicolari in un triangolo equilatero fino al suo perimetro». La proprietà in questione afferma che la somma delle tre distanze dai lati di un triangolo equilatero di un qualsiasi punto interno ad esso è costante (ed uguale all'altezza del triangolo), ma il testo di al-Sijzi contiene anche una generalizzazione parziale al caso in cui il punto sia esterno al triangolo, e non è implausibile che anch' esso fosse stato trattato da Menelao. I primi teoremi degli Sphaerica, per quanto riferiti a triangoli sferici, possono essere letti come una riscrittura, con diverso ordine deduttivo e senza usare dimostrazioni indirette, dei corrispondenti teoremi di El. I, come vedremo nel PAR. 3.8. 7. Pappo disintegra il corpus in una costellazione di lemmi, rettifiche, complementi e trattazioni monotematiche del tutto disconnesse tra loro, ed è il primo di cui siano documentabili digressioni di carattere antiquario. Atticista geometrico e stilistico, Pappo si dedicò con gusto particolare alla pratica di montare enunciati complessi, inglobando sotto un unico asserto più configurazioni geometriche ottenute una dall'altra per variazioni nei dati, con una forte impronta formale per quanto riguarda l'uso dei connettivi. La formazione dialettica era una tappa obbligata nei cumcula retorico-filosofici dominanti: gli operatori logici venivano quindi impiegati dagli autori di formazione "alta" con una consapevolezza tale da trasformarli da mezzo a fine espressivo. Ne risulta che l'elaborazione di enunciati logicamente e sintatticamente complessi appartiene più al dominio retorico che a quello matematico: vanno considerati veri e propri pezzi di bravura prima che mali minori sintattici dettati da necessità espositive (come ad esempio lo erano i lunghi enunciati in Apollonio o Teodosio). Nel libro VII della Collectio, Pappo abbraccia con un solo enunciato generale l'intera Sectio determinata e i teoremi iniziali dei Luoghi piani di Apollonio; si rammarica addirittura del fatto che i Porismi euclidei non gli permettano di realizzare il proprio exploit (Coli. VII.9, 23, 15 rispettivamente). Egli è il primo dei grandi commentatori di cui ci sia giunto qualcosa: gli è attribuito un commento al x libro degli Elementi (attestato solo in versione araba) e ci sono pervenuti due libri del suo commento all'Almagesto. Quest'ultima era un' opera di scuola: un commentario cursivo in cui Pappo chiosa in

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dettaglio, frase dopo frase e sempre su aspetti tecnici anche molto elementari. Egli si fece interprete e collettore della tradizione esegetica delle Coniche (ColI. VII.233-3U), e discusse l'opportunità di aggiungere nozioni comuni a quelle euclidee (Proclo, iE,196-8). 8. Teone commenta certi testi per scopi didattici e cura recensioni di altri; si mise nella scia di Pappo come commentatore, attingendovi non poco, e causò l'eclisse delle corrispondenti opere di quest'ultimo. Teone curò anche un' edizione canonica degli Elementi e mise mano al testo dei Data. Va però sottolineato che nessuna edizione tarda delle opere dei matematici ellenistici sembra essere legata a esigenze pedagogiche. Questa convinzione, espressa ad esempio da Heiberg nei Prolegomena critica alla propria edizione degli Elementi (EEv,1, lviii), non ha nessun fondamento documentario: a partire dalla constatazione che l'edizione di Teone non raggiunge il livello di quelle dei grandi grammatici alessandrini e dall'attestata appartenenza di Teone al Museo (ma solo in Suda e 205, II, 702), Heiberg inferisce che questa può essere stata composta solo a fini didattici. In quest' ottica non si capisce però come l'edizione di T eone possa differire in modo così trascurabile dal punto di vista matematico da quella trasmessa nell'unico codice non-teonino conosciuto, il Vat. gr. 190. L'accento sul carattere erudito, e non scolastico, di questi interventi è dovuto (cfr. PAR. 2.1.6). 9. Eutocio commenta a scopo non didattico, estende il gusto per la digressione antiquaria. Forse successore di Ammonio (cui dedica il commentario a Sph. cyl. di Archimede) a capo della scuola neoplatonica di Alessandria, egli salda a quella matematica la tradizione di commentario filosofico di matrice neoplatonica, che aveva comunque prestato una certa attenzione all'approfondimento di carattere matematico: al suo condiscepolo Simplicio, redattore di commenti alle opere di Aristotele, dobbiamo quasi tutto quel che sappiamo sulla matematica pre-euclidea. Il tratto più saliente dei commentari di Eutocio è però l'appropriazione esplicita di pretese filologiche, laddove gli editori precedenti si erano limitati ad interventi di normalizzazione dello stile. La sua edizione delle Coniche di Apollonio ha sicuramente apportato modifiche cospicue al testo su cui fu basata. O per meglio dire ai testi: nel suo commento, Eutocio afferma che ancora ai suoi tempi «c'erano più edizioni» delle Coniche, e che ritenne opportuno «riunirle, ponendo nel testo, per comodità di esposizione, le dimostrazioni più chiare tra quelle che si presentavano, segnalando le varianti all' esterno, in un apparato di scolii collocati opportunamente» (AGE II,176). Si tratta di una delle pochissime testi-

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monianze esplicite sulla collocazione di commentari come marginalia ad un testo, pratica resa più agevole dall' avvento del codice. lO. Prodo e il suo allievo Marino commentano certi testi in chiave filosofica. Il primo compila più o meno abilmente commentatori e compilatori precedenti. La sua opera ha un notevole valore storico. Molte delle operazioni messe in atto dai "matematici" da Apollonio in poi sono dunque di secondo livello, comuni a tutta l'attività erudita e distinguibili solo quanto all'oggetto di studio: 1. preparazione di edizioni e recensioni, con interventi sui testi canonici; 2. redazione di commentari eruditi, sotto forma di espansione lemmatica, soluzione di difficoltà, commenti cursivi, monografìe; 3. redazione di commentari scolari; 4. operazioni su larga scala come la formazione di corpora monotematici, connesse ad aggiustamenti caratteristici dei testi raccolti. Di questi punti, decisivi per la loro incidenza sulla trasmissione delle fonti più antiche, ci occuperemo nell' appendice.

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Come ci è giunta la matematica greca: la trasmissione diretta L'editore dei Metrica di Erone, Hermann Schone, «homo grammaticus mathematices parum peritus» per propria ammissione, afferma che di Erone e in generale degli autori matematici «emendatio facilis est eademque difficilis: facilis, quia illi in angusto verborum et sententiarum gyro quasi circumaguntur; difficilis, quia in eis rebus explicandis versantur, quae a litteratorum studiis plerorumque alienae sunt» (HOO III, xxi). La professione di falsa modestia nell'affrontare un autore il cui livello letterario riteneva nullo non impedl a Schone di approntare un' edizione scadente - Tannery proporrà nel 1904 una decina di pagine di correzioni. Il caso dei Metrica è particolare, in quanto sono trasmessi da un solo manoscritto, ma la situazione con gli altri testi matematici è analoga. Tannery, in una prima recensione dell'edizione di Schone, avallò la posizione di quest'ultimo sulla limitatezza dei mezzi espressivi degli autori tecnici e suggerl che un giovane grecista non possa trovare niente di più adatto ad iniziarlo all'arte dell'edizione che un testo matematico, basta che si familiarizzi un poco con il linguaggio tecnico (1903-04, pp. 132-3). Tutto ciò servirà allo stesso giovane per riconosce-

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re, «par sa propre expérience, la supériorité, en principe, de la critique conservatrice sur la critique conjecturale». L'opinione di Schone-T annery sulla banalità dell' emendatio di un testo tecnico è indirettamente (e parzialmente) confutata da]. Mogenet (1975, pp. 304-5). Egli si abbandona ad un esercizio sadico avente come oggetto la magnifica ed incompleta edizione dei commentari di Pappo e Teone all'Almagesto adibita dal proprio maestro A. Rome, che aveva sostanzialmente fatto propria la stessa opinione (iA, xxiv e 754 n. 2). Quest'ultimo aveva integrato ampie lacune del commento di Teone al III libro, testo a dire il vero ben più complesso di quello eroniano, conservato anch' esso in un solo manoscritto. Mogenet rintracciò ampi stralci dell'intero commentario di Teone, ed in particolare di quello allibro III, tra gli scolii in margine ad uno dei manoscritti principali dell'Almagesto, il Vat. gr. 1594, trascritti in blocco come corpus scoliastico nel Vat. gr. 184. Ebbene, forse memore delle staffilate assestategli da Rome quando era suo studente, Mogenet mette a confronto le integrazioni congetturali del maestro, a quell' epoca ormai defunto, con il testo degli scolii. Il risultato è facilmente immaginabile. Mogenet ne conclude che «la preuve est faite une nouvelle fois qu'il est toujours extremement dangereux de vouloir compléter un texte lacuneux. Si l'éditeur a sauvegardé le sens des textes, il est loin d'en avoir sauvé la littéralité». Immediatamente dopo, Mogenet ammette che al di fuori delle lacune il testo degli scoIii presenta innumerevoli varianti rispetto a quello del commentario, ma non sembra disposto a trarre da ciò la conclusione che il parallelo appena istituito a discredito di Rome perde cosi di valore. Questa storia edificante suggerisce per quale motivo un' edizione di uno scritto matematico differisca molto da quella di un testo letterario. La critica interna permette quasi sempre di risolvere in modo coerente gli eventuali problemi testuali causati da corruzione meccanica o da errore di copista, se questi intaccano il senso matematico. Le varianti lessicali e sintattiche, invece, non incidono praticamente mai sul contenuto tecnico, sono quasi sempre adiafore dal punto di vista della lingua e quindi fuori controllo. Le varianti cui è interessato l'editore di testi matematici, se vuole ricostruire la storia del testo e restituirne uno matematicamente sensato, sono pertanto di taglia differente da quelle che si riscontrano in opere di altri generi. Il fatto è che i trattati matematici non venivano semplicemente letti, ma usati e ripensati da matematici. A ciò si aggiunga che lo stile matematico greco produce tipicamente testi non "saturi" dal punto di vista linguistico o logico-deduttivo, ma com-

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pletabili in maniera pressoché univoca. Come conseguenza, nella tradizione degli scritti matematici assume un'ampiezza senza paragone il fenomeno delle recensioni plurime, prodotte a scopo erudito o, raramente, didattico. Se ne sono approntate in tutte le epoche, da quella alessandrina al Rinascimento, intervenendo in modo estremamente variabile (modifiche cosmetiche o matematiche, volte o no a sanare mende testuali o corruzioni di copia, anche molto pesanti) su testi il cui grado di compiutezza tecnica o il cui linguaggio fossero ritenuti inadeguati o che fossero state messe in circolazione in forma di abbozw. Esempio paradigmatico sono le Coniche di Apollonio, sottoposte a questo genere di attenzioni a più riprese (anche da parte dell'autore, come abbiamo visto nel PAR. 1.3). Ne conosciamo in effetti: 1. l'edizione tardo-antica primaria di Eutocio, composta per collazione di recensioni differenti. Non abbiamo più accesso alle redazioni precedenti, neanche in traduzione araba, contrariamente a quanto sostenuto di recente (PAR. A3). Il commentario che Eutocio scrisse in margine alla propria edizione è conservato, ma ha seguito una linea di trasmissione del tutto indipendente da quella delle Coniche. 2. Una recensione bizantina anonima, all'interno di un più ampio progetto di corpus matematico-astronomico, contenuta nei manoscritti Par. gr. 2342, Ambros. A 101 sup., Upsaliensis gr. 50 (Decorps-Foulquier, 1987, e PAR. A2.3 infta). 3. Più recensioni rinascimentali indipendenti, su cui si sono eventualmente basate traduzioni latine come quella di Memmo del 1537 (recensione anonima da cui deriva il Bodi. Canon. gr. 106) o edizioni che hanno fatto epoca come la magistrale princeps di Halley del 1710 (condotta su apografi del Par. gr. 2356, annotato da Pierre de Montdoré), oppure che costituivano copie personali di scienziati di fama (recensione anonima da cui deriva il Nor. Cento v,App. 6, appartenuto a Regiomontano). Le tipologie attestate degli interventi si dispongono su più livelli, a seconda dell'estensione dell'unità linguistica considerata; le recensioni bizantine o posteriori accedono di norma solo alle prime due fattispecie. 1. Piano stilistico. Aggiustamenti puntuali di ogni genere: aggiunta di articoli (ad esempio nelle espressioni designatrici degli angoli) e particelle, in particolare connettivi, e di vocaboli quali «angolo» o «retta»; adeguamento reciproco di parti specifiche della proposizione; reimpostazione delle lettere denotative e della figura; normalizzazione della sintassi o di espressioni formulari. Nei prolegomena di Heiberg e Menge

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alle proprie edizioni di Elementi e Data troviamo un campionario completo di questo genere di modifiche (EE V,l, xxxix-Iviii, e EOO VI, xxxii-xlviii). 2. Piano logico mesoscopico. Inserimento di brevi passaggi omessi, di espressioni miranti a rendere esplicita la generalità matematica (Acerbi, 2oo3a); correzione di argomentazioni matematicamente inconsistenti e riempimento di lacune; aggiunta di tratti specificamente metamatematici: spiegazioni posposte, citazioni istanziate e non di enunciati di proposizioni o di definizioni, rinvio ad ipotesi, richiami all' evidenza o alla figura, richiami di dimostrazioni analogiche o potenziali, identificazione di oggetti (sintagmi preceduti da «cioè»). 3. Piano logico macroscopico ed eventualmente strutturale. Dimostrazioni alternative, aggiunta o soppressione di casi, aggiunta e spostamento di definizioni. 4. Piano logico macroscopico ed eventualmente strutturale con possibili diramazioni: lemmi atti a dimostrare assunzioni tacite fatte nel corso di una dimostrazione. Queste varianti possono essere direttamente inserite nel testo, nel caso di una nuova recensione, oppure figurare originariamente come annotazioni marginali, poi accorpate al testo in qualche fase di copia. Il vero parametro nella valutazione delle varianti è quindi la volontarietà delle alterazioni; tra queste, le più rilevanti ed indicative sono quelle macroscopiche: segmenti di testo o intere proposizioni aggiunti o riscritti da editori posteriori per motivi che possono essere estremamente variabili. La tradizione degli Elementi presenta, tra le opere matematiche antiche, il campionario più ricco di alterazioni di questo genere: materiale aggiunto o soppresso, cambiamenti d'ordine di principi o proposizioni, cambiamenti di ruolo (ad esempio da porisma a proposizione), fusione di due dimostrazioni o separazione di una in due, sostituzione di dimostrazioni, dimostrazioni alternative (Vitrac, 2004), aggiunta o soppressione di casi all'interno della stessa proposizione - e, ad un livello più fine, inserimento di clausole esplicative (spesso posposte), abbreviazione di passaggi. Tra questi, sono da ritenersi sospetti a priori quegli elementi testuali che tendano a perfezionare, o ancor peggio a saturare, la struttura deduttiva in maniera "non naturale": lemmi, corollari, spiegazioni posposte, casi addizionali di proposizioni. Chiaramente, qui il problema risiede nel cosa si consideri "naturale" da un punto di vista deduttivo, ma può accadere che una ricca tradizione indiretta dia 68

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la possibilità di dirimere questioni che quella greca da sola non permetterebbe di risolvere o, in certi casi, neanche di percepire. Nel caso degli Elementi, un secolo abbondante di studi ha messo in rilievo tre dicotomie fondamentali: l. quella tra le due famiglie in cui si ripartisce la tradizione manoscritta greca, la meno marcata dal punto di vista delle varianti strutturali; 2. quella all'interno delle tradizioni latine medievali fatte a partire dall'arabo, che riflette probabilmente le differenze tra due traduzioni arabe primarie e che offre più varianti della prima; 3. infine quella fra la tradizione greca e quella indiretta araba e arabo-latina, caratterizzata da un'ingente massa di varianti. La prima dicotomia coinvolge un numero limitatissimo di unità testuali, e non offre nessuna sostituzione di dimostrazione, nessun cambiamento d'ordine, nessun lemma che compaia in un ramo e non nell'altro. Nel caso di dimostrazioni doppie, queste si trovano nello stesso ordine nelle due famiglie greche. La seconda dicotomia si riduce a zero per i libri stereometrici, coinvolgendo nel resto poco meno di 20 definizioni, una decina di proposizioni e 2 corollari. Il fenomeno più saliente è l'elevato numero di dimostrazioni alternative raccolte da Gerardo da Cremona, uno dei due traduttori latini. Quanto all'ultima dicotomia, essa coinvolge l'esistenza o meno di una ventina di definizioni ed altrettanti porismi e di una buona dozzina di proposizioni, molti cambiamenti d'ordine, quasi tutte le sostituzioni di dimostrazione, ed infine, ovviamente, tutto il materiale "aggiuntivo". Quest'ultimo fu in buona parte relegato da Heiberg, sulla base di altri criteri, nelle appendici alla propria edizione degli Elementi (cosi la massa di dimostrazioni alternative), ma include anche materiale rimasto nel testo critico principale, come lemmi e casi addizionali. Heiberg (EEv,l, lxi-Ixiii) guarda a priori con sospetto ad entrambe le tipologie, cosi come sono questioni di principio la sua perplessità di fronte alle dimostrazioni multiple e la scelta sistematica di privilegiare la prima tra le alternative. Resta il fatto che tutte le dimostrazioni alternative finiscono in appendice, mentre molti lemmi e casi addizionali restano nel testo principale. In linea generale, le versioni arabe sono sensibilmente meno ricche ma introducono più varianti nell' ordine di presentazione. Il lettore non deve pensare che le dicotomie appena illustrate implichino che un canonico stemma bipartito (e bipartito anche nelle diramazioni) rappresenti le relazioni tra le famiglie di manoscritti che costituiscono il complesso della tradizione degli Elementi. Al contrario, la variabilità delle divergenze tra le famiglie in cui si divide la tradizione ara-

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ba, e le divergenze tra le versioni latine medievali, rendono impossibile anche solo ipotizzare la presenza di un archetipo greco alla base di tutta la tradizione indiretta. Il risultato più rilevante è dunque la presa d'atto che la tradizione greca e ancor più quella araba degli Elementi sono completamente contaminate: Heiberg stesso lo riconosce per la tradizione greca, rifiutandosi di proporre uno stemma della famiglia teonina (EE V,l, xxxvii). Il lavoro di compilazione spiega la presenza di buona parte del materiale addizionale e un fenomeno tutto sommato sorprendente come l'abbondanza di dimostrazioni alternative nella tradizione greca: la loro frequenza è probabilmente, ed in molti casi sicuramente, conseguenza della compilazione di dimostrazioni differenti, conservate come uniche in rami diversi della tradizione. A peggiorare questo stato di cose sta l'applicabilità non sempre sicura, per difetto d'informazione, dei criteri usati per valutare le varianti strutturali. Il fatto è che, semplicemente, quelli utilizzati possono spingere in direzioni opposte, ed addirittura il medesimo criterio può farlo, se fondato su presupposti differenti. Di delicata applicazione è già il principio che i testi matematici antichi subiscano un processo di accrescimento o impoverimento monotòno nel corso della loro tradizione. Contro l'applicazione generalizzata della prima ipotesi, che pure rende conto abbastanza bene della terza dicotomia, stanno, oltre ovviamente alla pratica della compilazione, le testimonianze su versioni abbreviate sia da parte greca che araba: la redazione di un' epitome degli Elementi è attribuita da Prodo (iE, 361) ad un certo Egei di Ierapoli, che avrebbe riunito le due proposizioni 1.27-8 in una sola; nel caso arabo si tratterebbe della seconda traduzione di al-I:Iajjaj (cfr. il PAR. A3). Analoga a questa è l'ipotesi che varianti che non siano semplicemente causate da corruzioni meccaniche, ma da intervento consapevole, vadano inevitabilmente nella direzione di un miglioramento del contenuto matematico. In un certo senso, una dimostrazione scorretta è vista come una lectio difficilior, e quindi più vicina al "testo originale". Basta però osservare che una dimostrazione scorretta può essere conseguenza di una corruzione testuale seguita da un tentativo senza successo di ricostruzione dell'argomento coinvolto (un «rabberciamento») per mostrare che un punto di vista di questo genere è alquanto naif. trova una giustificazione solo nell'ideologia che la matematica sia l'attività intellettuale per eccellenza che procede per accumulazioni e miglioramenti, in un processo di crescita lineare. Criteri più specifici per valutare le varianti locali, specialmente se si avvalgono di un confronto con la tradizione in70

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diretta, sono in linea generale più affidabili (Acerbi, 2oo3a; Vitrac, 1990-2001, IV, pp. 32-71). Essi incorrono però tutti nella difficoltà di poter essere impiegati nei due sensi. Un criterio si basa sul rafforzamento della struttura deduttiva: questa può privilegiare le connessioni interne tra segmenti di testo a scapito dei legami con altre porzioni, eventualmente collocate in altri libri, oppure operare in senso inverso. Altro criterio è relativo ai registri linguistici: ad un linguaggio del primo ordine, che si riferisce ad oggetti geometrici, si contrappone un linguaggio di secondo ordine, incentrato su relazioni (uguaglianze, proporzioni) intercorrenti di norma tra segmenti (gli oggetti geometrici matematicamente più astratti!). Il lettore troverà in appendice i tratti salienti della tradizione testuale di un certo numero di trattati matematici antichi.

1.6 Come ci è giunta la matematica greca: le fonti greche indirette Raccolgo qui qualche esempio di testi che ci sono giunti in epitome. Essi ci danno due tipi di informazioni: sulle opere trasmesse e su intenti e metodi di chi le ha trasmesse. Ovviamente, i due aspetti sono strettamente intrecciati. Le fonti greche tardive cui dobbiamo il ritrovamento e la presentazione di testi non altrimenti accessibili non esitavano a riscriverli, per adattarli a canoni stilistici ben stabiliti o semplicemente alle proprie esigenze di compilazione. Ad esempio, ciò che sappiamo della matematica pre-euclidea proviene interamente da fonti secondarie, e non sempre gli autori coinvolti furono matematici: tra le fonti troviamo letterati come Plutarco, filosofi come Aristotele e tutti i suoi commentatori più o meno tardivi, in particolare Alessandro di Mrodisia e Simplicio. I problemi che derivano dall'avere accesso a questo genere di testimonianze sono molteplici. Come detto, le fonti tecniche tendono spesso a riscrivere ciò che compilano da autori sentiti come arcaici. Il processo di riscrittura stravolge sicuramente lo stile, ma può anche toccare gli strumenti matematici utilizzati, ad esempio nel caso le dimostrazioni originali fossero condotte per analisi e sintesi. Le fonti non tecniche, di norma, operano a loro volta su fonti secondarie, di solito compendi a carattere enciclopedico, e spesso non sono in grado di padroneggiare il 71

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contesto matematico. Queste ultime sono dunque dipendenti dal filtro delle grandi scritture (e quindi riscritture) della storia: quella di stampo peripatetico o accademico, quella neopitagorica, protrattasi dal pieno dell' età ellenistica fino alla tarda età imperiale, quella neoplatonica, cui afferiscono le ultime, e spesso decisive fonti che abbiamo. Comune a tutti gli indirizzi è l'accento sul ruolo dei precursori, del primus repertor, la mancanza di scrupoli filologici, la tendenza a confezionare falsi. D'altra parte, tutta l'antichità è caratterizzata da una fedeltà stupefacente alla tradizione. È chiaro dunque che più forze operano, e spesso in maniera controvariante, a corroborare o ad intaccare l'attendibilità di una fonte secondaria. Per districarsi occorre lavorare su ipotesi, che per quanto attendibili vanno comunque riconosciute come tali. Esempio principe è l'assunzione che il linguaggio matematico greco si sia fissato sul suo canone stilistico tipico solo a partire dagli Elementi. I testi di supposta origine pre-euclidea possono quindi essere accreditati come tali sulla base di pretesi arcaismi linguistici. Purtroppo, neanche questi dati danno indicazioni univoche. Oltre a descrivere alcune linee di tradizione e a fornire un elenco ragionato dei principali reperti greci, cercherò in questo paragrafo di fornire qualche indicazione su alcune delle tecniche correntemente impiegate per separare i vari livelli di scrittura. Occorre in primo luogo chiedersi per quale motivo certi autori, matematici e non, siano interessati a riprodurre spezzoni di matematica precedente. 1. L'allievo di Aristotele Eudemo redasse un'opera storico-antiquaria, in linea con lo sviluppo enciclopedico della scuola peripatetica, dal titolo Storia della geometria (fr. 133-142 Wehrli). Interessi analoghi sono presenti anche nella Teoria delle matematiche di Gemino (Acerbi, 201ob). A questi scritti attingono largamente, mediatamente e sicuramente in misura maggiore di quanto ci sia possibile rilevare, fonti posteriori come Proclo o Eutocio. 2. Pappo compone una vera enciclopedia matematica, il cui scopo è duplice. In primo luogo, illustrare paniti presi metamatematici, ad esempio la classificazione dei problemi in piani, solidi e lineari e la conseguente necessità di impiegare tecniche minimali in relazione al rango "naturale" del singolo problema (Coli. III-IV). In secondo luogo, portare a saturazione testi matematici canonici per mezzo di un apparato di lemmi e correzioni (ColI. VI-VII). Egli è dunque al tempo stesso bacino

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collettore di una tradizione esegetica puntuale anteriore e luogo di emersione di trattazioni autocontenute atte a corroborare posizioni fondazionali ben definite (Coli. IV-V). 3. Proclo commenta il I libro degli Elementi e non può quindi fare a meno di compilare dimostrazioni alternative e materiale complementare, dragandolo da una pluralità di fonti. 4. Un commentatore come Eutocio, rappresentante della scuola neoplatonica alessandrina, è animato al tempo stesso da interessi antiquari e filologici, specialmente nell' opera indirizzata al proprio maestro Ammonio. Include infatti digressioni come la lunga compilazione di metodi di duplicazione del cubo accanto a veri e propri coups de théatre quale il ritrovamento della perduta appendice archimedea. I suoi scopi sono fornire al lettore spaccati storico-tecnici che motivino affermazioni puntuali nei testi commentati e, indirettamente, accreditare le proprie competenze. 5. I commentatori di opere filosofiche della stessa scuola si avvalevano di una provvista di esempi canonici con cui illustrare passaggi-chiave dei testi aristotelici. Ho studiato come caso paradigmatico le residue menzioni degli Pseudaria euclidei, di cui Alessandro riporta forse due dimostrazioni (Acerbi, 2oo8a). Simplicio spicca tra questi autori per le sue propensioni antiquarie, spesso motivate dall'intento di far meglio e di più di Alessandro. Un altro esempio interessante è costituito dalle menzioni antiche del problema isoperimetrico (Acerbi et al., 201OC). Di seguito elenco i principali testi che ci sono pervenuti per via indiretta. Tre fonti riportano «in epitome» il trattato di Zenodoro De figuris isoperimetris. i) Pappo, Coli. V.3-19 (solo la parte relativa alle figure piane), con materiale addizionale in V.20-32: massimalità del semicerchio tra i segmenti determinati da archi uguali; V.33-7: solidi semiregolari di Archimede; V.38-40: massimalità della sfera in rapporto ai poliedri regolari e a particolari coni e cilindri isoperimetri; V.41-71: dimostrazioni alternative di certi risultati archimedei; V.72-103: confronto tra i poliedri regolari isoperimetri; V.104-5: perché esistano solo 5 poliedri regolari. Si tratta dunque delleitmotiv del libro v. ii) Teone, in Alm. 1.3, iA 356-79, a giustificazione dell'asserzione di Tolomeo (Alm. 1.3) che «dato che, tra le figure differenti che hanno un pe1.

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rimetro uguale la più poligonale è maggiore, il cerchio è maggiore delle figure piane, la sfera di quelle solide». iii) Seconda sezione degli anonimi Prolegomena all'Almagesto, presumibilmente a giustificazione della stessa asserzione. Le differenze fra le tre redazioni sono estremamente sottili (Knorr, 1989, pp. 689-751, e Acerbi et al., 201OC). Il nome di Zenodoro è legato al trattato da tre sole testimonianze: Teone (iA, 355), che presenta la propria esposizione dichiarando di trarla, «in epitome, da ciò che è stato dimostrato da Zenodoro nel suo Sulle figure isoperimetriche»; Simplicio, in Cael., 412, che si limita ad un accenno di seconda mano; Prodo, iE, 165, che asserisce che Zenodoro inventò il termine 'itoLÀ.oyOOVI.OV «concavangolo» per designare i quadrilateri concavi che altri chiamavano «a punta di freccia». Il termine appare in effetti nella versione dei Prolegomena. 2. Raccolte di soluzioni del problema di costruzione di due medie proporzionali tra rette date (= duplicazione del cubo; analisi e bibliografia in Knorr, 1986, pp. 50-66, 1989, pp. 11-129). La più corposa si trova in Eutocio in Sph. cyL II.1, indotta dalla semplice affermazione archimedea «risultino trovate» relativa appunto a tali medie. La lunga digressione eutociana contiene nell' ordine (AOO III, 56-106): un accenno alla soluzione eudossiana, scartata in quanto fallace, e poi Platone (!), Erone «nelle Introduzioni meccaniche e nei Belopoiika», Filone di Bisanzio, Apollonio, Diode «negli Specchi ustori», Pappo «nelle Introduzioni meccaniche», Sporo, Menecmo I e II, «la trovata di Archita, come la racconta Eudemo», Eratostene, Nicomede ((nel libro Sulle linee concoidi». Tra queste, sono del tutto analoghe le soluzioni di Erone, Filone ed Apollonio da una parte, quelle di Diode, Pappo e Sporo dall'altra. La soluzione di Eratostene, ottenuta per mezzo di uno strumento atto a determinare un numero arbitrario di medie proporzionali, è accompagnata da una lettera al re T olomeo e da un epigramma in cui l'autore magnifica la propria impresa. Pappo offre una raccolta alternativa, limitata a un metodo fallace di un allievo di Pandrosion e alle soluzioni di Eratostene, Nicomede, Erone e Pappo stesso (Coli. III.1-27; soluzione pappiana riproposta in vIII.26); ritroviamo Nicomede da solo in ColL IV.39-44. Filopono approfitta di un accenno aristotelico in APo. A 7, 75b12, per proporre una soluzione anonima (= metodo di Filone in Eutocio) ed una che attribuisce ad Apollonio (= metodo di Erone in Eutocio) sulla base di un certo Parmenione (in APo., 103-5). La soluzione di Filone è attestata nei suoi Belopoiika (Marsden, 1971, p. 110), quella di Erone nei suoi Belopoiika (ivi, pp. 40-2) e in Meccanica 1.11. 74

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3. Quadrature per mezzo della quadratrice (con critiche di Sporo) e proprietà della curva in Pappo, Coli. IV.45-52; vari metodi di trisezione e ripartizione di angoli in Coli. IV.57-77. 4. Varie altre porzioni nella Collectio di Pappo presentano trattazioni più antiche, rielaborate in misura non determinabile. Le elenco in ordine di apparizione. a) Serie di problemi ((sorprendenti» di un certo Erykinos in Coli. III.60-73, con ampliamenti in III.58-9 e 111.74. Il teorema in Coli. 111.58 è ripetuto quasi alla lettera da Prodo (iE, 327) e, in forma leggermente modificata, da Eutocio nel suo commento ad uno dei postulati di Sph. cyL I di Archimede (AOO III, 12-4). Eutocio sembra trarre altro materiale dallo stesso corpus; si veda l'intera parte dedicata ai postulati (ivi, 6-14). b) Molto probabilmente le costruzioni dei cinque poliedri regolari in ColL 111.75-95, condotte per analisi e sintesi ed alternative a quelle in El. XIII.13-7. Pappo non offre indicazioni quanto alla loro provenienza. c) Le costruzioni di cerchi mutuamente tangenti in Coli. IV.19-29, senza indicazioni d'autore. d) Il trattamento delle spirali in Coli. IV.30-8 e IV.53-6, forse risalente a materiale archimedeo (Knorr, 1978d). 5. Altri testi in Eutocio. La ritrovata appendice archimedea, e le soluzioni alternative di Diode e Dionisodoro allo stesso problema (AOO III, 130-46, 152-60, 160-76 rispettivamente; cfr. Netz, 2oo4b e Acerbi, 2005b). Una parte del materiale preliminare alle Coniche di Apollonio, di provenienza ignota: un teorema di luogo apolloniano, massimi e minimi tra le generatrici di un cono obliquo (AGE II,180-4,190-8 rispettivamente; qui Eutocio dipende dalla Sezione di un cono di Sereno). 6. Testi compilati da Prodo nel suo commento al I libro degli Elementi. Impossibile elencarli tutti. Troviamo dimostrazioni alternative ed ampliamenti attribuiti ad Apollonio, Gemino (Acerbi, 201Ob), Erone (Vitrac, 2004), Menelao (iE, 345-6), Tolomeo (sul postulato delle parallele in iE, 365-7), Porfirio (dimostrazioni alternative di 1.18 e 20, controesempi relativi a 1.14 e 26), Pappo (complementi ad 1.47). Una fonte non greca analoga è il commentario di an-NayrizI ad El. I-X. 7. Il frammento più importante di matematica pre-eudidea ci è giunto accidentalmente e l'occasione si è presentata in un contesto filosofico. Aristotele si occupa in effetti di fallacie deduttive in più opere e in più luoghi; in particolare, introduce due generi di false dimostrazioni: quelle che sono in accordo con i princìpi di una certa scienza e quelle che non lo sono. Nel corso di alcune esposizioni menziona tentativi di quadratura del cerchio non andati a buon fine come esempi di entrambe le 75

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tipologie (APr. B 25, 69a29-34, APo. A 9, 75b37-76a3, SE 11, 171b12-8 e 171b34-172a7, Ph. A 2, 185a14-7). Tra di essi figura quello effettuato da Ippocrate di Chio a mezzo di lunule, cioè di domini delimitati da due archi di circonferenza con la concavità nella stessa direzione. Commentando il passaggio di Ph. A 2, Simplicio riporta prima un estratto dall' analogo commento di Alessandro di Mrodisia contenente due dimostrazioni tratte dallo scritto di Ippocrate, per poi sortire dal cappello una lunghissima citazione dal II libro della Storia della geometria di Eudemo, riportata «parola per parola» salvo «qualche richiamo agli Elementi aggiunto per chiarezza» (in Ph., 54-69; cfr. Acerbi, 2oo7a, pp. 28-69). Quest'ultimo item permette di aprire una parentesi sulle metodologie messe in campo per trattare testi di questo genere. Il problema è separare dalle postille di Simplicio quanto di Eudemo fosse riportato «parola per parola»; i criteri impiegati si basano sulle seguenti considerazioni linguistiche: i) la presenza di espressioni complesse per designare enti geometrici. La logica che guida il criterio, usato per la prima volta da G. J. Allman (1889), è la seguente. Negli autori classici gli enti geometrici sono designati con gruppi di lettere preceduti invariabilmente dall'articolo opportuno. In certi testi i gruppi di lettere sono invece introdotti da espressioni linguistiche più complesse, che hanno, nell'interpretazione corrente, la funzione di mettere in rilievo il carattere iconico della designazione per mezzo di lettere: si trovano cioè espressioni come ~ è' ~ç AB «la < retta> presso cui AB», oppure 'tò è' 'tò A «il < punto> presso cui la < lettera> A». Espressioni di questo genere sono assenti negli autori classici, mentre sono la norma in Aristotele e sono appunto presenti nel testo di Simplicio contenente il frammento eudemiano. Quindi le locuzioni complesse sono tipiche di uno strato arcaico nella pratica espositiva della matematica greca antica e furono abbandonate da autori posteriori. La loro presenza ci permette pertanto di identificare con una certa sicurezza passi attribuibili ad autori pre-euclidei. Inversamente, la loro assenza in contesti contenenti anche espressioni complesse fa sospettare che ci si trovi di fronte ad un'interpolazione più tarda. Il tutto è reso più interessante dalla presenza, in certi passaggi dei Meteorologica aristotelici ma anche in Ph. e Cael., di un' espressione intermedia come ad esempio ~ 'tÒ AB «quella che la AB», e, ad esempio in Problemata XV.9, di varianti del sintagma locativo del tipo 0-0 'tò A «dove la < lettera> A».

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Sulla validità del criterio furono espressi da subito forti dubbi, e riconosciuta relativa la sua portata. H. Diels aveva giustamente osservato che niente poteva concludersi dall'assenza di formule complesse (cfr. anche Becker, 1934-36b), e F. Rudio lo aveva addirittura rigettato in blocco (1902). Tannery (1883,1902) riconobbe che anche in autori tardi si trovano locuzioni complesse (lo studioso francese si riferiva a Filone di Bisanzio), e che molto poteva anche dipendere dallo zelo del copista. Inoltre, nelle opere ottiche attribuite ad Euclide, che pur presentano particolarità linguistiche arcaizzanti, non è dato riscontrare locuzioni complesse, eccettuato un unico caso. Vitrac (2002) ha mostrato definitivamente che la presenza di tali locuzioni può essere impiegata al massimo come criterio di supporto, esponendo in dettaglio come esse occorrano anche in autori ben posteriori quali Apollonio ed Archimede - ma sono assenti in Sph. cyl. e Circ., opere prive di coloritura dorica -, ed in misura ancora maggiore in trattatisti di matematica applicata come appunto Filone di Bisanzio. D'altro canto, in Aristotele le espressioni complesse sembrano avere la funzione di "battezzare" un'entità geometrica, di etichettarla cioè con una o più lettere alla sua prima apparizione nel corso di una dimostrazione. ii) L'uso del dativo di relazione ~uva!J.EL «in potenza» come qualificativo di una retta allo scopo di indicare il quadrato costruito su di essa (cfr. PAR. 3.2). L'espressione alternativa, geometricamente più esplicita, denota il quadrato con 'tò 'tE'tQaywvov &:n:6 ... «il quadrato su», ed è ad esempio regolarmente usata nel libro XII degli Elementi. Allo stesso modo, viene impiegato il verbo «potere» per segnalare che il quadrato su una retta è uguale ad una certa altra superficie (la retta «può» la superficie). Il criterio può essere applicato solo in una direzione: dove si trovi t'espressione in termini di quadrato il passaggio è da attribuirsi a Simplicio. In realtà anche Simplicio utilizza la prima espressione in clausole indiscutibilmente sue (per il criterio iv esposto più oltre), nonostante di norma si serva della seconda. Si osservi poi che la formulazione in termini di potenza non è esclusivamente arcaica: essa è rintracciabile in tutti i periodi della matematica greca, da Ippocrate a Pappo (Vitrac, 2008c) anche se la sua introduzione come termine tecnico risale probabilmente a Teeteto (e cfr. Men. 84C2). È però vero che la grande maggioranza delle occorrenze si trova nei libri X e XIII degli Elementi, cioè in stretta connessione con la teoria di linee e domini irrazionali. Negli autori posteriori si assiste ad una netta rarefazione delle occorrenze: soltanto due, ad esempio, nelle Coniche di Apollonio. Nel corpus archimedeo 77

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ciò avviene nelle opere tarde, al punto che il fenomeno è stato utilizzato come criterio ausiliario di datazione dei trattati archimedei (Knorr, 1978a, 1978b). Il numero relativamente alto in Pappo può ricevere una spiegazione parziale dal fatto che costui si rifacesse a fonti antiche, ad esempio nell' esposizione di argomenti connessi con la costruzione e il confronto di solidi regolari. La maggior parte delle occorrenze si riscontra in effetti nei libri III e v della Collectio, dove si trovano trattazioni di questo genere. Ci troviamo insomma di fronte ad un fenomeno di non riuscita canonizzazione linguistica, probabilmente a causa del carattere settoriale della terminologia in gioco: l'espressione in termini di «potenza», divenuta tipica della teoria degli irrazionali, fini per rarefarsi nell'uso, con l'esaurirsi prematuro del campo di ricerca in cui si trovava impiegata. La sua presenza in clausole esplicative da attribuirsi a Simplicio può essere dunque spiegata con le tendenze mimetiche dei commentatori, e con la percezione dell'inopportunità di variare la terminologia di un passo matematico che si voglia integrare quando ancora non sia percepita come arcaica una parte di quella impiegata in esso. iii) Lo stile di Eudemo è detto «compendioso» da Simplicio. Dobbiamo quindi attenderci dal primo delle dimostrazioni ridotte all'osso ed eventualmente condotte senza l'ausilio della figura; questo significa ad esempio che vadano guardate con sospetto le giustificazioni di passi deduttivi ad essi posposte (facilmente riconoscibili, e di solito introdotte da «infatti»), in quanto probabilmente attribuibili a Simplicio. La norma dei chiosatori tardi dei trattati matematici era infatti quella di inserire le clausole esplicative a margine, segnalando il loro carattere con un opportuno connettivo. Una volta che tali clausole marginali risultino inserite nel testo nel corso di successive copiature, il loro posto naturale sarà quindi dopo il passaggio che intendono spiegare. Allo stesso modo, questa sembra essere stata la norma quando gli editori si prendevano la briga di esplicitare passaggi impliciti: è uno dei criteri principe con cui identificare interpolazioni al testo degli Elementi. iv) La presenza di citazioni dagli Elementi. Simplicio afferma di averle aggiunte, ed è ben difficile che ce ne fossero di presenti nel testo di un autore pre-euclideo come Eudemo. Si tratta dunque di un criterio infallibile, una volta definiti i limiti della citazione. Dobbiamo anche attenderci che Simplicio aderisca piuttosto strettamente al linguaggio formulare degli Elementi, e che le sue osservazioni abbiano spesso (che l'abbiano sempre sarebbe pretendere troppo da un commentatore) una certa pertinenza. Giova in effetti ricordare che Simplicio commentò anche le

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definizioni del I libro degli Elementi, e che è il commentatore aristotelico cui dobbiamo più passaggi matematicamente interessanti. v) L'uso dell'operatore modale di necessità per sottolineare la cogenza di un passaggio. Il costrutto è assente nel corpus euclideo ed apolloniano, mentre Archimede lo utilizza poche volte. La sua scomparsa in autori più tardi fa ritenere plausibile l'ipotesi che esso possa servire da indicatore di passi di origine eudemiana. Non è da escludersi che la sua presenza in Eudemo sia da ricollegarsi all'enfasi aristotelica sulla matematica come disciplina per eccellenza in cui si stabiliscono connessioni necessarie (cfr. ad esempio Ph. B 9, 20oa15-27). vi) La presenza di richiami all' evidenza in certi passaggi dimostrativi, di solito introdotti da espressioni quali «è manifesto», «è chiaro». Quando si trovino nel corpo di una dimostrazione, solitamente sono interpretati, ed è tale ad esempio il caso negli Elementi, come indicatori di interventi editoriali posteriori. L'alta frequenza di richiami all'evidenza nei trattati archimedei fa però ritenere che il loro uso fosse comune prima della canonizzazione post-euclidea. Rintracciarne nel testo eudemiano non potrà quindi costituire una sorpresa, anche se Simplicio stesso, in quanto commentatore, ne fa largo uso.

1.7 La collocazione cronologica dei matematici antichi Le determinazioni cronologiche di gran lunga più attendibili si ottengono per quegli autori che menzionano oppure descrivono ben precisi ed identificabili fenomeni astronomici. Anche se spesso indicazioni di questo genere possono solo fornire dei termini a quibus, gli interpreti tendono di solito ad adottare l'ipotesi semplificativa che l'autore abbia assistito al fenomeno da lui stesso descritto. Con analoghe ipotesi semplificative, testimonianze di generica dipendenza intellettuale sono a volte lette come veri rapporti tra maestro e discepolo; casi di omonimia tra matematici sono esclusi a meno che le fonti non dichiarino esplicitamente il contrario. Estrapolazioni come queste possono sembrare indebite e metodologicamente inaccettabili, ma occorre anche tener conto del carattere spesso ineffabile ed estremamente controverso delle testimonianze a disposizione. Si ricordi infine che non è sempre chiaro se le durate di vita dichiarate dalle fonti vadano computate inclusivamente o

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esclusivamente. Discuto alcuni esempi paradigmatici, iniziando dalle datazioni su base astronomica. I casi più semplici sono quelli di T olomeo ed Ipparco. Tolomeo riporta nell'Almagesto un certo numero di proprie osservazioni astronomiche. La prima è del 26 marzo 127 (Saturno in opposizione al Sole), mentre l'ultima è del 2 febbraio 141 (Mercurio in massima elongazione). A ciò si aggiunga che in alcuni manoscritti che contengono sue opere è riportata la cosiddetta Inscriptio Canobi, presentata come una copia di un'iscrizione dedicata dallo stesso Tolomeo, nel decimo anno di regno di Antonino Pio (1471148), al «Dio Salvatore» e posta nella città di Canopo, sul ramo occidentale della foce del Nilo. Olimpiodoro afferma che T olomeo visse e studiò astronomia per 40 anni «nelle cosiddette ali di Canopo» (in Phd. 10.4,142-3). Ipparco è databile con sicurezza a partire dalle numerose osservazioni a lui esplicitamente attribuite e che vengono utilizzate nell'Almagesto. La prima di esse riguarda l'equinozio d'autunno osservato il 26127 settembre 147 a.C (Alm. 111.1), mentre l'ultima è una posizione lunare del 7 luglio 127 a.C (Alm. V.5). In realtà, Tolomeo trae da Ipparco dati che arrivano fino al 168 a.C, ma non si è certi se le osservazioni più antiche siano state fatte da Ipparco in persona. T olomeo è una buona fonte anche per la datazione di Menelao: in Alm. VII.3 segnala due osservazioni lunari (occultazione di Spica e allineamenti tra punti notevoli sul disco lunare e certe stelle fisse) effettuate da quest'ultimo e datate entrambe al gennaio 98. Un papiro contenente un frammento di teoria planetaria proviene molto probabilmente da un trattato di Menelao e contiene un'osservazione datata al 1041105, forse fatta a Roma (POxy. 4133, cfr. Jones, 1999a, pp. 73-5). Sono a volte problematiche le datazioni per mezzo di eclissi. Nel suo commento ad Alm. VI.4, Pappo fa riferimento ad un' eclisse di Sole che può essere identificata con sicurezza con quella del 18 ottobre 320 (iA, 180-1). Ci sono motivi per credere che Pappo avesse osservato di persona il fenomeno in tempi relativamente vicini a quelli in cui scrive (iA, X-XIII). In effetti, Alessandria non era nell'area di totalità di quest'eclisse (ma Pappo non lo dice), mentre lo era per quella del 6 giugno 346. D'altra parte, la serie di cinque eclissi parziali visibili ad Alessandria dal 291 al 295, la prima delle quali paragonabile a quella del 320, è un fenomeno celeste di notevole interesse. Pappo avrebbe quindi quasi sicuramente utilizzato uno o l'altro di questi due fenomeni, più eclatanti di quello del 320 e quindi più facilmente riconoscibili come riferimento da 80

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parte dei suoi allievi, se la compilazione del suo commento all'Almagesto avesse seguito di non molto la loro data. Se ne conclude che, quando Pappo scrive, le cinque eclissi in successione erano troppo distanti nel tempo e quella del 346 non era ancora avvenuta. Sicuramente databile anche Teone di Alessandria: sappiamo che venne dopo Pappo, di cui ricopia largamente il commentario all'Almagesto, e che sua figlia Ipazia fu massacrata nel 415. Nel VI libro del proprio commento all'Almagesto, Teone menziona inoltre due eclissi osservate, probabilmente di persona, ad Alessandria nel 364: quella solare del 16 giugno e quella lunare del 26 novembre. Nel Piccolo Commentario alle Tavole facili egli propone esempi di calcoli che corrispondono a date del 360; un'allusione ad una congiunzione avvenuta ilI? novembre 377 è un'interpolazione (Tihon, 1978, pp. 205, 209, 213, 224, 232 e 262). Più complessa la situazione con Erone. In Dioptra 35 egli descrive brevemente un' eclisse di Luna: Risulti dunque osservata sia ad Alessandria che a Roma la stessa eclisse di luna: se infatti la troviamo negli almanacchi, useremo quella, sennò ci sarà possibile osservarIa noi stessi, dato che le eclissi di luna avvengono ad intervalli di 5-6 mesi. Risulti dunque trovata alle suddette latitudini questa eclisse, ad Alessandria nella quinta ora della notte, la stessa a Roma nella terza ora della notte - chiaramente della stessa notte, e distante, nella direzione del solstizio d'inverno, dieci giorni dall'equinozio di primavera.

L'eclisse fu identificata da Neugebauer (1938) con quella che ebbe luogo il 13 marzo 62, sebbene l'equinozio cadesse il 20. L'argomento venne completato (Drachmann, 1950) con la supposizione che Erone debba aver realmente osservato l'eclisse, dal momento che la vicinanza di quest'ultima all'equinozio la rende particolarmente poco adatta alla soluzione grafica del problema analemmatico che Erone risolve in

Dioptra 35. L'identificazione è stata recentemente messa in discussione sulla base di due argomenti. Il primo è di tipo statistico (Souffrin, 2000). Riferimenti di Pappo ad Erone e di quest'ultimo ad Apollonio lasciano aperta una finestra di circa 500 anni. In tale intervallo la probabilità che un'eclisse di Luna visibile cada in un giorno fissato è di circa 3'4, che si riduce a 1110 se inseriamo il vincolo sull' ora. Il fatto che sia stata rintracciata un' eclisse che si accorda con i dati proposti da Erone non rende 81

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dunque certo che la sua descrizione si riferisca ad un evento reale e non sia piuttosto un esempio fittizio. Il secondo argomento riguarda l'identificazione dell' eclisse stessa (Sidoli, 2005). Ce ne sono altre due che soddisfano i dati orari altrettanto bene, e la data ancor meglio: quella dellO marzo 134 a.c. e quella del 12 marzo 4 a.C. In ognuno dei tre casi, tuttavia, occorre concedersi dei margini cospicui d'imprecisione quanto alla determinazione (antica) della data dell' equinozio e delle ore in cui l'eclisse ebbe luogo ad Alessandria e Roma (si tenga anche conto del fatto che un' eclisse di Luna può durare nel suo complesso fino a tre ore e mezzo): ci si può ben chiedere quanto margine possa essere tollerato perché la descrizione eroniana continui a mantenere lo statuto di un resoconto osservativo accurato. L'argomento che l'eclisse è inadatta ad una soluzione grafica non sta in piedi, in quanto ogni eclisse vicina all'equinozio lo è, ed inoltre il problema in Dioptra 35 può essere risolto esattamente. Si aggiunga che il riferimento eroniano è formulato in maniera peculiare: la mera esistenza dell' eclisse è supposta, e ne sono esposti i termini, usando il modo suppositivo tipico delle esposizioni geometriche. Ciò rafforza il sospetto che i dati siano stati inventati da Erone. Altre determinazioni temporali che si accordano con quella di Neugebauer (ad esempio Keyser, 1988) non sono indipendenti in quanto assumono la sua correttezza e vanno quindi alla ricerca di indizi testuali consistenti con essa. Riferimenti temporali fissati da altri fenomeni astronomici permettono di datare due autori. Gemino è sicuramente posteriore a Posidonio, di cui commenta un'opera, e cita inoltre Ipparco come un'autorità in materia di costellazioni (Isag. IV). Le lunghezze delle stagioni astronomiche elencate in Isag. I sono i valori che Ipparco aveva usato per derivare un modello del moto solare. Ulteriori indicazioni si traggono da Isag. VIII.20-3, dove Gemino afferma che buona parte dei Greci «ritengono che le Isia degli Egiziani e l'equinozio invernale secondo Eudosso abbiano luogo nello stesso momento». Ciò avveniva 120 anni prima, egli afferma, mentre ora sono intervallate da un mese. È possibile stabilire con sufficiente esattezza in quali giorni e mese del calendario egiziano cadessero le Isia: ne risulta che lo slittamento di un mese è compatibile soltanto con una data compresa tra il 66 ed il 50 a.c. Oones, 1999b). Gemino entrò anche in polemica con il filosofo peripatetico eterodosso Senarco, e questo fatto permette di raffinare la datazione di quest'ultimo.

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Ci è pervenuta una Vita di Proclo di Marino di Neapoli, da cui traiamo informazioni cronologiche straordinariamente precise Oones, 1999c): Proclo nasce tre ore prima di mezzanotte del 7 o 8 febbraio 412 e muore il 17 aprile 485. Nei passi in questione (Vìta Procli 26,35-7) Marino scrive che Proclo mori settantacinquenne nel centoventiquattresimo anno del regno di Giuliano (che prese il potere nel 361), il 17 aprile del calendario romano. Sono poi menzionate due eclissi, ed è addirittura trascritto l'oroscopo. Le due eclissi sono identificabili con certezza come quelle del 14 gennaio 484 e del 19 maggio 486. Alcuni dei numeri e delle indicazioni riportati nell' oroscopo di Marino sono corrotti, ma i dati sicuri permettono di concludere il 7 o 8 febbraio 412 come data di nascita. Resta la discrepanza con la lunghezza della vita riportata da Marino. Sappiamo datare con sicurezza anche Eutocio, sebbene non su base astronomica: nella prefazione al commento a Sph. cyl. sottopone il proprio lavoro al giudizio del suo maestro Ammonio, che sappiamo essere stato allievo di Proclo (AOO III, 2); invia il proprio commento ai primi quattro libri delle Coniche ad Antemio di Tralle, morto nel 534 (A GE II, 168); almeno tre commenti di Eutocio ad opere archimedee, cioè a Sph. cyL I e II e a Circ., furono raccolti ed editi da allievi di Isidoro di Mileto, come risulta dalle sottoscrizioni a questi commenti (AOO III, 48, 224, 260). Eutocio fu forse successore di Ammonio a capo della scuola neoplatonica di Alessandria (Westerink, 1963). Se la morte di Archimede risale sicuramente al 212 a.c., data della presa di Siracusa da parte dei Romani, quella di nascita è solo un' estrapolazione dell'asserzione di Tzetze (Chil. II.105, Hist. 35) che Archimede «aveva passato i settantacinque»; correntemente si assume che questa fosse l'età esatta alla sua morte. Occorre tener presente che le Chiliades di Tzetze sono redatte in versi, il che impone dei vincoli a priori sul tipo e la forma di date ((esprimibili». Va però aggiunto che il ((verso politico», accentuativo, adottato da Tzetze ne impone di meno restrittivi di un qualsiasi metro quantitativo antico. Forse il miglior partito è ritenere che l'età fornita da Tzetze sia una sua invenzione in cifra sufficientemente tonda, quando resoconti più antichi qualificano Archimede semplicemente di ((vecchio» al momento della morte (ad esempio Polibio, Hist. VIII.7.8). Ultime vengono le datazioni su base non astronomica; gli interpreti possono finalmente sbizzarrirsi nelle congetture. Particolarmente interessante il groviglio pressoché inestricabile di menzioni incrociate che coinvolge quasi tutti i matematici noti operanti a cavallo tra III e II se-

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colo a.c. Non si regge in piedi da solo, ma quasi. Il punto fermo è la datazione di Apollonio. Eutocio (AGE II, 168), sulla base della Vita di Archimede di Eraclio, afferma che Apollonio «nacque a Perge in Panfilia ai tempi di Tolomeo Evergete» (regnò nel 246-221 a.c.), mentre Tolomeo Chenno (II secolo), citato da Fozio (IX secolo) nella sua Bibliotheca (codex 190, III, 66 Henry) afferma che Apollonio era divenuto famoso per i suoi studi astronomici ai tempi di Tolomeo Filopatore (221-204 a.c.). Apollonio stesso, nella lettera prefatoria al II libro delle Coniche, inviato ad Eudemo di Pergamo, lo invita a passare una copia del libro al «geometra» Filonide, che Apollonio stesso gli aveva presentato ad Efeso. Di un Filonide di Laodicea figlio di Filonide, epicureo, diplomatico ed insegnante di prestigio in Siria, abbiamo informazioni grazie al PHerc. 1044, che contiene frammenti di un suo bios (Gallo, 1980), e a tre epigrafi. Egli era uno dei notabili della sua città, in contatto personale con i re Seleucidi Antioco IV Epifane (regnò nel 175-163 a.c.) e Demetrio I Sotèr (162-150 a.c.); quest'ultimo sembra averlo sostenuto con entusiasmo. Nel papiro si menziona un certo Zenodoro in contesti che non hanno niente di matematico e che riguardano fatti che si svolgono ad Atene (fr. 31 e 34), e vi figura ancora Eudemo di Pergamo (fr. 25), da identificarsi dunque con il destinatario dei libri I-III delle Coniche. Sempre nel papiro, un Dionisodoro figlio di Dionisodoro di Cauco è menzionato dopo Eudemo come maestro di Filonide (fr. 25; nel fr. 32 è detto che Filonide, quand'era piccolo, «aveva ricevuto un'istruzione elementare» da parte di Dionisodoro). Filonide ne segue le lezioni (fr. 7), ma da nessuna parte sta scritto che questo Dionisodoro fosse un matematico. Eppure, a partire da Cronert (1900) si tende a identificare quest'ultimo con il Dionisodoro matematico - citato per nome da Eutocio, che espone la sua soluzione di un problema lasciato aperto da Archimede (AOO III, 152-60), da Erone (Metrica II.13) per un trattato Sul toro, da Vitruvio (Arch. Ix.8.1) per la progettazione di una meridiana conica - in particolare in virtù del legame indiretto con Apollonio, e Zenodoro con l'autore del trattato Sulle figure isoperimetriche, mentre è evidente che entrambe le identificazioni sono totalmente congetturali. Altre fonti offrono in effetti informazioni su un certo numero di persone chiamate Dionisodoro che si è tentato di identificare con il matematico (cfr. l'articolo di Hultsch nella Pauly-Wissowa; egli opta senza esitazioni per il primo). Strabone (Geogr. xII.p6) cita un matematico Dionisodoro d'Amiso nel Ponto tra le personalità originarie della regione e rinomate come studiosi, dicendo che è «omonimo del geometra di

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METODI

Melo». Quest'ultimo è menzionato anche da Plinio il Vecchio (NH II.248): «Melius hic fuit, geometricae scientia nobilis; senecta diem obiit in patriam». Plinio racconta un aneddoto che gli attribuisce un' epistola, trovata nella sua tomba, in cui Dionisodoro fornisce un valore del raggio della terra di 42.000 stadi, il che non è molto lusinghiero: ciò gli fa ammettere un valore di 3 per il rapporto tra circonferenza e diametro, in quanto nello stesso passaggio la lunghezza del meridiano terrestre è fissata da Plinio in 252.000 stadi. Si vede bene che tutto l'argomento, che pretende di creare un circolo di matematici in contatto stretto con la figura di Filonide, si fonda unicamente su coincidenze onomastiche. Se esse costituiscono una base molto fragile per quanto riguarda il nome Dionisodoro, la rarità del nome Zenodoro potrebbe dissipare le incertezze al suo riguardo; Toomer (1972, p. 186) trova in effetti che questo dato statistico corrobori in modo decisivo la ricostruzione di Cronert. L'identificazione dello Zenodoro del papiro con il matematico, per quanto altrettanto congetturale, permetterebbe di collocarlo nella prima metà del II secolo a.c. Alla fine di una lunga discussione ono mastica T oomer dà degli argomenti notevolmente deboli (tra cui il fatto che il PHerc. 1044 collochi il suo Zenodoro ad Atene) per identificarlo con uno dei numerosi personaggi con questo nome appartenenti alla famiglia ateniese dei Lamptrai, e assegna cosi il suo floruit al 180 a.c. circa. Questo perché Diocle, nel proemio ai suoi Specchi ustori, menziona, oltre a Pythion di T aso, Conone e Dositeo, un «astronomo» il cui nome può essere letto, con due leggere emendazioni (ivi, pp. 190-2), come la traslitterazione araba di «Zenodoro», mentre Rashed (CG, 143) legge risolutamente Ippodamo. Conone, tra l'altro, oltre a essere insieme a Dositeo uno dei destinatari delle opere di Archimede, è citato ancora da Apollonio, insieme con un Trasideo e un Nicotele non altrimenti noti, nella prefazione al IV libro delle Coniche. Ma non è finita qui. /psicle, nel proemio al cosiddetto XIV libro degli Elementi indirizzato a Protarco, menziona Apollonio come ispiratore immediato della propria ricerca, ed afferma che Basilide di Tiro aveva già studiato la questione insieme a suo padre una volta che era venuto in visita ad Alessandria (EE V,l, l). Ora, Basilide di Tiro fu scolarca del Giardino a partire dal201hoo a.c., ed è menzionato ancora nel PHerc. 1044 (fr. 11) tra i maestri di Filonide, mentre un Protarco di Bargiglia, epicureo di spicco, visse circa 60 anni dopo. Come si vede, la faccenda è nel suo insieme piuttosto complessa, e mette in scena un numero sor-

IL SILENZIO DELLE SIRENE

prendentemente alto di epicurei, la cui pretesa avversione per la matematica va evidentemente rivista in una luce differente. Riferimenti del tutto casuali in altri autori permettono di datare approssimativamente certi matematici. Vitruvio (seconda metà del I secolo a.c.) include Teodosio in un elenco di costruttori di meridiane, in cui troviamo anche Apollonio e Dionisodoro (Arch. Ix.8.1). Strabone, contemporaneo di Vitruvio, lo nomina in una lista di personalità notevoli della Bitinia, insieme con Ipparco e riferendosi anche ai suoi figli matematici (Geogr. XII-4-9). Se assumiamo che Strabone segua un ordine cronologico, Teodosio sarebbe dunque posteriore ad Ipparco. Nicomaco cita Trasillo (circa 36) nell'Enchiridion (MSG, 260) e la sua 1ntroductio arithmetica fu tradotta da Apuleio (fine II secolo) in latino (Cassiodoro, 1mt. 11.4.7). La data di Sereno di Antinoe è parzialmente determinata dal figurare il suo nome nella seguente menzione, contenuta nel f. 145V del Par. gr. 1918, del filosofo medioplatonico Arpocrazione, vissuto alla fine del II secolo: ((Arpocrazione, l'interprete di Platone cui usa riferirsi Sereno il geometra per quanto riguarda il pensiero platonico» (Whittaker, 1979). Il fatto che ci si riferisca ad un filosofo medioplatonico suggerisce che non si debba discendere la data di Sereno oltre il IV secolo. L'unico riferimento temporale relativo a Diofonto si basa su di un passaggio contenuto in una lettera dell' erudito bizantino Michele Psello (XI secolo), dove si afferma che ((il dottissimo Anatolio» redasse un'epitome contenente ((la parte più essenziale della dottrina come viene riportata da costui, dedicando quest' opera a un altro Diofanto» (DOO II, 38-9). Questo Anatolio venne identificato da Tannery (1896) con colui che fu vescovo di Laodicea a partire dal 270. Una pretesa conferma si trova nell'identificazione del dedicatario degli Arithmetica, Dionisio, con il maestro di Anatolio che resse la scuola cristiana dal 231 e che fu vescovo di Alessandria dal 247 al 265. Data la diffusione del nome, l'argomento non è probante. Infine, Euclide. Me ne sono occupato a lungo (Acerbi, 2oo7a, pp. 177-212). Le testimonianze più attendibili sono due. Primo, alcuni ostraka provenienti da Elefantina contenenti proposizioni degli Elementi e non più recenti della seconda metà del III secolo a.c. (PAR. A1.2). Secondo, Apollonio menziona Euclide nella prefazione al I libro delle Coniche; è il più antico riferimento pervenutoci (AGE I, 4). Meno rilevante Proclo che lo colloca, su basi puramente inferenziali, al tempo del ((primo Tolomeo» (iE, 68). Euclide andrà ritenuto uno stretto contemporaneo di Archimede e il suo jloruit assegnato al 250 a.c. circa, il che sposta di circa 50 anni la sua datazione tradizionale. 86

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Problemi

Questo capitolo è dedicato alla discussione di alcuni problemi storiografici. Cercherò di mostrare tramite esempi che la storia della matematica antica, a dispetto dell' oggetto di studio, è esposta ad oscillazioni interpretative anche selvagge, a mode ermeneutiche che appaiono, con lo stesso grado di evidenza, prima del tutto naturali e dopo del tutto assurde. Esporrò argomenti che presentano ancora problemi interpretativi. Ne approfitterò per proporre al lettore del materiale che non trova posto in altri paragrafi. Sarà chiaro da tutto quanto segue che la storia della matematica greca necessita di un energico lavoro di ripulitura da una spessa crosta di guano storiografico. È un problema di metodo storico. Non ci sono alternative all' analisi critica dei documenti - chi ci dice cosa e perché, su che stadio di elaborazione danno informazioni i testi pervenutici - eppure un atteggiamento di questo genere è tuttora minoritario. Ad esso vengono di solito contrapposti argomenti aprioristici (gli antichi non potevano non ... ), circolari (inevitabili quando le informazioni siano scarse), anacronistici, sia in positivo (i precursori) che in negativo (argomenti di impossibilità). Tutto ciò nel tentativo di corroborare, dietro il paravento dell'" interesse storiografico", speculazioni infondate, elaborate solitamente da studiosi provenienti da altre discipline che si fanno prendere la mano dall'illusione di giocare un gioco a informazione completa e che pensano che le fonti tardo-antiche non fossero preda della deformazione tipica di chiunque studi l'antico: leggere nelle testimonianze anteriori quello che ha deciso a priori di leggerci - esempi paradigmatici analizzati di recente sono le menzioni degli Pseudaria euclidei e del problema isoperimetrico (Acerbi, 2008a; Acerbi et al., 2010C). Uno dei terreni prediletti di questi voli congetturali sono le ricostruzioni selvagge della matematica pre-euclidea, basate sul presupposto fallace che gli Elementi fossero semplicemente un bacino collettore di elaborazioni precedenti. Qui si son battuti tutti, e con particolare accanimento

IL SILENZIO DELLE SIRENE

ex matematici (Artmann) ed ex filologi (Szab6), ma in primo luogo Tannery. Ad esempio, la sua pretesa (1877, cap. 10) che i paradossi di Zenone abbiano avuto un ruolo nello sviluppo della matematica greca è tuttora oggetto di dibattito, sebbene la tesi sia stata confutata senza pietà da G. E. L. Owen più di 50 anni or sono (1958). La rilevanza del rozzo centone matematico nell'Epinomide è asserita sull'unica base della pretesa che un allievo di Platone non potesse scrivere delle banalità (Rabouin, Vitrac, 2010). Si tratta, parliamoci chiaro, di ciarpame storiografico, che appare avere maggiore cogenza per il fatto di occuparsi di matematica, ma che va liquidato come ametodico e non benevolmente accolto tra le interpretazioni possibili. Tra gli anacronismi più insidiosi vi è quello che fa sentire il bisogno di "spiegare" le strutture argomentative che non hanno riscontro nella pratica moderna di scrittura della matematica, come se quelle che lo hanno dovessero considerarsi "naturali". L'esempio principe è costituito dal metodo di analisi, e Knorr è arrivato a proporre un intero libro, peraltro mirabile (1986), in cui ricostruisce analisi soggiacenti a buona parte dei problemi conservati nel corpus matematico greco, come se questi fossero delle sintesi amputate dell'analisi. Niente di più arbitrario: il libro di Knorr è in larga misura solo un monumento alla sua abilità analitica. Resta il fatto che pretendere un approccio puramente descrittivo allo studio della matematica greca è privo di senso: anche solo la semplice descrizione della struttura di una proposizione si può fare a più livelli (linguistico, logico, matematico), ed implica un costante lavoro di interpretazione e contestualizzazione.

2.1 Contesto e interpretazione I testi dei matematici greci non parlano un linguaggio univoco, ed a volte neanche immediatamente esperibile. Chi guardi alla matematica del passato è naturalmente portato a leggerla con le categorie tecniche tipiche del proprio tempo, dato che i risultati raggiunti anche in epoche lontane sono, in linea di principio, immediatamente traducibili in un linguaggio contemporaneo, meglio se simbolico. Questa "traduzione" è spesso assunta essere innocua, in quanto preserva il supposto" contenuto matematico". Si tratta di un errore rovinoso: se infatti le risposte che la matematica si dà sono in qualche senso definitive, le domande cui 88

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PROBLEMI

queste danno risposta, ed il linguaggio impiegato per esprimere entrambe, sono delle entità eminentemente storiche. È per questo motivo, e non solo per la scarsità di fonti, che la matematica greca offre cosÌ tanti problemi interpretativi. Studiandola si ha la chiara percezione che certe categorie concettuali siano incommensurabili con le nostre, e che la rivoluzione algebrica e più ancora lo sviluppo dell' analisi abbiano introdotto uno iato insanabile.

Il carattere costruttivo della geometria greca; il pregiudizio geometrizzante

2.1.1.

La questione di cosa sia una «costruzione» non è oziosa: come abbiamo visto nel PAR. 1.2.2, le riflessioni antiche di impronta metamatematica trasmettono una divisione in parti specifiche di una proposizione geometrica in cui essa è inclusa, ma non ci danno criteri per identificarla univocamente. Occorre in primo luogo distinguere le costruzioni tout court dai problemi di costruzione. Questi sono una delle due specie principali di proposizione che la tradizione geometrica greca ha canonizzato, l'altra essendo i teoremi. Come sempre accade, è un dato lessicale che permette di differenziare le due specie: i teoremi sono enunciati in forma condizionale o come frasi dichiarative col verbo all'indicativo, i problemi hanno il verbo reggente dell' enunciato all'infinito, come ad esempio in EL 1.2: «Porre su un punto dato una retta uguale ad una retta data». Al termine della dimostrazione, che è preceduta da una costruzione intesa nel senso che vedremo tra un attimo, a questo enunciato risponde una conclusione dotata di lettere denotative, in cui all'infinito si sostituisce il perfetto e che fa da modello alla ripresa della costruzione ogni volta che sia necessario impiegarla all'interno di una dimostrazione successiva: «Risulta quindi posta su un punto dato A una retta AA uguale ad una retta data Br». Ovviamente, il confine tra un problema e un teorema è labile: sappiamo (da Proclo, iE, 77-8) di una controversia accademica tra Menecmo, fautore del carattere problematico di ogni proposizione geometrica, e Speusippo ed Arnfinomo, sostenitori di quello teorematico. È però immediato trasformare un tipo di enunciato nell' altro, e se ne trovano esempi misti, come ad esempio quelli delle costruzioni dei poliedri regolari in EL XIII, tra i quali leggiamo l'enunciato di XIII.17 (EE IV, 174):

IL SILENZIO DELLE SIRENE

Costruire e circondare con una sfera, con cui anche le predette figure, un dodecaedro e dimostrare che il lato del dodecaedro è un'irrazionale, quella chiamata apotome.

L'imperativo nella prima richiesta è quello canonico per un enunciato di tipo problematico. La seconda parte va più propriamente classificata tra gli enunciati di tipo teorematico, adattata per motivi stilistici al formato con imperativo della prima parte. Per fare ciò è necessario introdurre nell' enunciato il verbo «dimostrare», ovviamente appartenente al registro metamatematico. Un problema di costruzione è potenzialmente soggetto alla «determinazione» «)LOQLO/lÒç) delle condizioni di risolubilità, come ad esempio la limitazione incorporata nell'enunciato di El. 1.22 (EE I, 30-1): Costruire un triangolo a partire da tre rette che sono uguali a tre date: occorre pertanto che due sostituite in ogni modo siano maggiori della restante.

Le determinazioni delle condizioni di risolubilità sono frequenti anche nei problemi contenuti negli Arithmetica di Diofanto, in quanto essi ammettono come soluzioni solo quantità positive, esprimibili in numeri: in termini moderni questi sono numeri razionali positivi. Ne discuteremo più in dettaglio nel prossimo paragrafo; leggiamo intanto un esempio inAr. 1.9 (DOO 1,26): Da due numeri dati sottrarre lo stesso numero e fare si che i resti abbiano tra loro rapporto dato. Occorre pertanto che il rapporto dato sia maggiore del rapporto che ha il maggiore dei dati rispetto al minore.

Una costruzione tout court è posta all'interno di una singola proposizione; in essa la configurazione geometrica iniziale è completata con tutti gli enti geometrici necessari al dispiegamento della dimostrazione. Le costruzioni si compongono di norma di passi elementari che coincidono con i primi tre postulati degli Elementi o con qualcuna delle costruzioni di base presentate all'inizio del libro I; sono invariabilmente formulate nel modo imperativo del perfetto medio-passivo: «sia congiunta una < retta> AB». L'uso del perfetto è qui dovuto unicamente alla sua connotazione aspettuale di «presente compiuto», quello del!'imperativo pone le costruzioni nel modo ((suppositivo» della logica stoica (Bobzien, 1997): esse sono dunque assunzioni prive di valore di

2

PROBLEMI

verità, «scaricate» nel corso della dimostrazione; se vogliamo, è come se le impalcature di enti matematici ausiliari fossero "smontate" a fine propOSIZIone. Le costruzioni non sono tipiche delle proposizioni geometriche. Se ne fa uso, ad esempio, anche nel libro v degli Elementi, in cui è sviluppata la teoria generale delle proporzioni (cfr. PAR. 3-1). Tali costruzioni consistono di norma in preliminari all'applicazione della definizione di proporzionalità ed operano su grandezze generiche, come in V.22 (EE II, 33): Siano infatti presi di A, 11 equimultipli H, S, e di B, E altri, quali capita, equimultipIi K, A, e ancora di r, Z altri, quali capita, equimultipli M, N.

Sono eseguite costruzioni anche nei libri aritmetici, come quella in El. VIII.9 -la costruzione iterativa è resa possibile da VIII.2, che è a sua volta un problema aritmetico (EE II, 163): Siano infatti presi due numeri minimi Z, H che siano nello stesso rapporto di A, B,

r, 11, tre S, K, A, e in successione di seguito uno in più, finché la loro molteplicità risulti uguale alla molteplicità di A, r, 11, B. Siano presi, e siano M, N, E, O.

o

quelle estremamente semplici in VII.37, VIII.4 e 15 (EE II, 146, 154, 173) -la seconda autorizzata da VII.34: Quante volte infatti B misura A, tante unità siano in r. Sia infatti preso il numero minimo H misurato da B, r.

r moltiplicando sé stesso faccia infatti E, e 11 moltiplicando sé stesso faccia H, e ancora r moltiplicando 11 [faccia] Z, e uno e l'altro dei r, 11 moltiplicando Z faccia uno e l'altro dei S, K.

Una costruzione ausiliaria si identifica dunque per il fatto di a} introdurre nuovi enti matematici rispetto a quelli già elencati nell' enunciato e b} essere formulata con il verbo all'imperativo. Possiamo dividere le costruzioni in tre categorie. 1. Vere costruzioni ausiliarie: gli enti geometrici introdotti sono necessari alla dimostrazione o alla risoluzione del problema e non sono menzionati nell'enunciato. Prendiamo ad esempio il teorema 1.16 (cfr. PAR. 1.2.2, punto 5), in cui è assegnato solo un triangolo ABr con un lato Br prolungato fino a f1 (EE I, 25):

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Sia secata Ar a metà secondo E, e congiunta BE sia prolungata in < linea> retta fino a Z, e uguale a BE sia posta EZ, e sia congiunta zr, e sia condotta oltre Ar fino aH.

2. Costruzioni che rendono esplicita la configurazione geometrica implicitamente assunta nell' enunciato: esempi variamente ibridati con il caso precedente sono i lemmi lineari in El. II.1-8; in particolare, II.1 ne è un caso puro, in quanto realizza la configurazione di rettangoli adiacenti, costruiti sulla retta Br secata in A ed E, che serve ad esprimere la proprietà predicata nell' enunciato (EE I, 68): Sia infatti condotta da B ad < angoli> retti con Br una < retta> BZ, e uguale a A sia posta BH, e per H parallela a Br sia condotta una < retta> He, e per ~, E, r parallele a BH siano condotte < rette > ~K, EA, re.

3. Costruzioni richieste dall'enunciato (quindi nel caso di problemi), ma in cui non entri nessun ente ausiliario: un esempio è El. 1.46, dove è domandato di costruire un quadrato su una retta data AB (EE I, 62): Sia condotta ad < angoli> retti con la retta AB da un punto A su di essa una < retta> Ar, e uguale a AB sia posta A~; e per il punto ~ parallela a AB sia condotta una < retta > ~E, per il punto B parallela a A~ sia condotta una < retta > BE.

Le costruzioni ausiliarie sono le parti di una dimostrazione che è impossibile ridurre a una procedura meccanica, e costituiscono tutto sommato il cuore duro dell'intera dimostrazione (cfr. PAR. 2.1.4). Anche Aristotele, in un ben noto passaggio di Metaph. El 9, 1051a21-33, sembrò essere di quest' avviso. È importante soffermarsi su come sono formulati gli enunciati dei problemi di costruzione. L'uso dell'imperativo comporta che l'accento sia posto sull'esecuzione effettiva della costruzione, non sulla possibilità che sia eseguita. Non traspare dunque alcun interesse per problemi di costruibilità, che potrebbe facilmente essere espresso con locuzioni del tipo «è possibile», e di conseguenza neanche per l'esistenza degli oggetti in gioco (Zeuthen, 1896, propose di considerare certe costruzioni come dimostrazioni di esistenza; si vedano le critiche in Mueller, 1981, pp. 27-9, Knorr, 1983). L'unica proposizione negli Elementi il cui enunciato asserisca costruibilità è XI.22 (EE IV, 31):

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PROBLEMI

Qualora siano tre angoli piani, due dei quali sostituiti in ogni modo siano maggiori del restante, e li comprendano rette uguali, è possibile costruire un triangolo a partire dalle < rette> congiungenti le rette uguali.

Si tratta di un caso apparente, in quanto la formulazione condizionale è rigidamente tipica di un teorema e la modalità è strettamente funzionale all'applicazione di questo risultato nel problema che segue. Sfumature modali con altri scopi si rintracciano anche nei problemi di teoria dei numeri IX.18-9. Enfasi esplicita sulla costruibilità sembrano invece avere i cosiddetti problemi 3taQubo;a «sorprendenti» di un certo Erykinos descritti a lungo da Pappo in Coli. 111.60-73. Il problema in Coli. 111.58 è ripetuto quasi alla lettera da Prodo (jE, 327) e, in forma leggermente modificata, da Eutocio nel suo commento ad uno dei postulati di Sph. cyL I di Archimede (AOO III, 12-4). Eutocio sembra trarre altro materiale dallo stesso corpus; quasi sicuramente l'intera parte dedicata ai postulati (ivi, 6-14). I problemi variano sul tema introdotto in EL 1.21, dove si dimostra che «Qualora due rette siano costruite all'interno di un triangolo su uno solo dei lati < e > a partire dai < suoi> limiti, le < rette> costruite saranno minori dei restanti due lati del triangolo, e comprenderanno un angolo maggiore» (EEI, 29). Ne leggiamo due enunciati (CoIL 111.60 e 72): In ogni triangolo, eccetto quello equilatero e quello isoscele che abbia la base minore del lato, è possibile costruire sulla base < e > all'interno due certe rette uguali a quelle all'esterno prese insieme. Dato un dominio parallelogrammico è possibile trovare un altro parallelogrammo cosi da essere questo una parte prescritta di quello dato, e ciascun lato multiplo di ciascuno secondo un numero dato.

Nella formulazione modale dei problemi «sorprendenti» l'accento sulla costruibilità è però solo apparente: si tratta semplicemente del formato canonico, con forma verbale reggente finita e quindi di tipo "teorematico", per problemi che ammettono infinite soluzioni. Pappo insiste a più riprese su tale fatto e sembra introdurre la trattazione di Erykinos proprio come esempio di investigazione sistematica di un gruppo di problemi con questa caratteristica (dobbiamo ad Arnfinomo, apud Prodo, iE, 220, una dassificazione dei problemi in accordo con la molteplicità delle loro soluzioni).

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IL SILENZIO DELLE SIRENE

Com'è da attendersi, nelle opere di Archimede troviamo la formulazione modale per le costruzioni impiegata molto più spesso che in altri autori (Sph. cyl. 1.2-4, 6, Con. sph. 7-9, 19-20, Spiro 3-9, 21-3). Si osservi però che l'enunciato di Sph. cyl. 1.5, identico a quello di 1.6, è formulato con un semplice infinito, e che in Con. sph. 7-9 non sono eseguite costruzioni; nei casi restanti, si tratta ancora di problemi che ammettono infinite soluzioni. Vanno anche notate le assunzioni con verbo «essere» esplicitamente esistenziale negli assiomi 1 e 3 di Sph. cyl. I. L'affermazione apertamente esistenziale che apre El. x.def.3 è in realtà una distorsione dell'enunciato di El. X.10 ed è quasi sicuramente un'aggiunta posteriore (si veda anche Coli. V.1O-1 discusso al punto iv infra). Quanto all'unicità di un oggetto matematico, essa non era tematizzata in quanto tale nella matematica greca, e le difficoltà che derivano da questa pratica omissiva erano affrontate volta per volta con una varietà di soluzioni stilistiche che risultano ai nostri occhi sicuramente disomogenee e non sempre le più efficaci. Il problema El. 1.7 nega il sussistere (e non la possibilità del sussistere) di due costruzioni a partire dagli stessi dati - noi parleremmo semplicemente di unicità di un triangolo dati i lati (EE I, 14): Su una stessa retta altre due rette rispettivamente uguali alle stesse due rette < e > che hanno gli stessi limiti delle rette in origine non saranno costruite verso punti differenti dalla stessa pane.

La stessa formulazione negativa troviamo ad esempio in XI.13 - unicità della perpendicolare ad un piano -, o in III.16 - unicità della tangente ad una circonferenza per un punto su di essa. La questione trova invece un' espressione più esplicita nel libro x, dove occorre dimostrare che i modi di generazione di certe linee irrazionali la determinano univocamente. Cosi in X.42-7 e in X.79-84; X.42 afferma: «Una binomiale si divide nei nomi secondo un punto soltanto». Si noti però che la determinazione dello stesso teorema è formulata esplicitamente in forma negativa: «Dico che AB non si divide secondo un altro punto [... ]». Sarebbe erroneo pensare che tutti i problemi degli Elementi richiedano di costruire un oggetto geometrico. Ve ne sono in cui si impone di «trovare» l'oggetto. Tipicamente, ed in linea con la pratica costante negli Arithmetica di Diofanto, enunciati di questo genere si rintracciano in teoria dei numeri o delle linee irrazionali (El. VII.2-3, 33-4, 36, 39, VIII.2, 4, IX.18-9, x.3-4, lO, 27-35, 48-53,85-90), quando cioè la richiesta verta su un 94

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ente che ha caratteristiche di particolarità e unicità che lo rendono "meno generico" di quelli abitualmente trattati in ambito strettamente geometrico. Lo stesso può essere detto per le poche costruzioni in «trovare» presenti nei libri geometrici, come III.1 ((Trovare il centro di un cerchio dato», e VI.11-3. I problemi del libro x sono ulteriormente caratterizzati dali' assenza di specificazione di oggetti ((dati» sulla cui base eseguire la costruzione, ad esempio ((Trovare un'apotome seconda» (x.86), mentre in tutti gli altri casi ciò avviene regolarmene. È una tesi classica, riaffermata con forza in tempi recenti (Knorr, 1986), che i problemi di costruzione siano il motore interno della matematica greca. lo sarebbero ovviamente i tre problemi classici (PAR. 1.6): duplicazione del cubo, trisezione di un angolo, quadratura del cerchio, ed ancora le costruzioni dei poligoni regolari in EL IV e dei poliedri regolari in EL XIII, che chiudono intere sezioni del trattato euclideo. Più in generale, tutta la matematica greca sarebbe finalizzata alla risoluzione di problemi, i teoremi assumendo cosi un ruolo ancillare. Si tratta né più né meno della riproposizione, adattata a strumenti storiografici più raffinati, della tesi di Menecmo, secondo cui tutte le proposizioni geometriche sono problemi e come tali andrebbero formulate. Altre considerazioni suggeriscono di accogliere con cautela questa posizione storiografica. i) Un'enfasi non dovuta sugli aspetti costruttivi può risultare dalla confusione, spesso volutamente perseguita, tra la fine e ilfine di un trattato; cosi andranno interpretate le osservazioni di Proclo sulla costruzione dei poliedri regolari, che egli chiama ((figure cosmiche», come oxo:n:òç degli Elementi (iE, 70-1). Più in generale, occorre fare attenzione al fatto che molti resoconti sugli sforzi costruttivi dei geometri greci risultano distorti dal passaggio per due filtri storiografici tipici dell' antichità tardiva. Il primo è quello dell'ideologia dell' euristica soggiacente al procedimento di analisi e sintesi. Il suo testo archetipico è Pappo, Coli. VII.1, che discuteremo nel PAR. A2.2. Per Pappo l'intero corpus analitico, di cui elenca 12 trattati per un totale di 32 libri, fu composto allo scopo di facilitare la risoluzione dei problemi di costruzione. Il carattere tendenzioso di quest'affermazione mi pare evidente. Il secondo filtro è costituito dal fatto che abbiamo accesso alle soluzioni antiche dei problemi classici solo tramite compilazioni effettuate da commentatori tardivi, il che tende ovviamente ad accentuare l'effetto di massa. In realtà, le raccolte di soluzioni alternative della duplicazione proposte da Pappo ed Euto95

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cio danno l'impressione di una concentrazione di sforzi dimostrativi solo se dimentichiamo il carattere compilativo sia dell'intero elenco che di alcune di queste soluzioni, che ne ricalcano altre in modo per noi sorprendente. ii) I tre problemi classici non furono oggetto delle stesse attenzioni; se abbiamo molte soluzioni, pur con le riserve appena viste, per la duplicazione del cubo, ne sono state trasmesse molte meno per la trisezione di un angolo, e solo un paio per la quadratura del cerchio: quella di Archimede e quella tramite quadratrice, la seconda riposando in realtà su una fallacia che fu già rilevata nell'antichità, la prima non costituendo una soluzione del problema secondo i criteri antichi (la circonferenza rettificata per mezw della spirale non è «data»). iii) In tutta la geometria greca sono evidenti intenti sistematici, ad esempio nei grandi trattati degli Elementi e delle Coniche, e metodologici, ad esempio nell'intero corpus eroniano e nelle "lezioni di analisi" apolloniane costituite dalle sue opere analitiche più avanzate, che sono irriducibili ad una prospettiva costruttiva. Non è ovvio, oltretutto, quanto i problemi siano stati decisivi nello sviluppo e nell' evoluzione di certe tecniche dimostrative. La geometria greca si muove dunque su traiettorie più complesse di quanto i volenterosi ma aprioristici tentativi di unificazione tendano a propagandare. iv) Nella geometria greca vengono fatte molte assunzioni di tipo non costruttivo, come ad esempio l'esistenza di un quarto proporzionale tra grandezze generiche (cfr. Becker, 1932-33b, 1934-36a, e il sano e molto ben argomentato scetticismo in Mueller, 1981, pp. 40-1, 119-22, 127-8, 173-4,231-4). Un esempio molto interessante proviene dal trattato Sulle figure isoperimetriche di Zenodoro, trasmesso in forme leggermente divergenti da una pluralità di fonti tardive (cfr. PAR. 1.6). La progressione deduttiva è la seguente. a) (Teorema 1) Il poligono regolare con più lati è il maggiore tra i poligoni regolari che gli sono isoperimetrici. La dimostrazione confronta gli apotemi di due poligoni regolari isoperimetrici "generici". b) (Teorema 2) Un poligono regolare è maggiore dei poligoni non regolari che gli sono isoperimetrici e che hanno lo stesso numero di lati. La dimostrazione è articolata e adibisce in successione 4 lemmi: 1. Costruzione, sulla stessa base, di un triangolo isoscele isoperimetrico ad un triangolo non isoscele dato e dimostrazione che il primo è maggiore del secondo (Pappo, Coli. V.10-1 dà una sfumatura esplicitamente esistenziale a questo problema, che offre in forma generalizzata); 2. Costruzio-

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ne, sulle stesse basi, di due triangoli isosceli simili che siano isoperimetrici, se presi insieme, a due triangoli isosceli non simili dati; 3. I lati omologhi dei triangoli rettangoli simili, presi a coppie come una sola retta, verificano ancora El. 1.47 (si tratta in realtà di un sottolemma del seguente); 4. Due triangoli isosceli simili sono maggiori di due triangoli isosceli non simili che abbiano i quattro lati obliqui uguali, che siano sulle stesse basi e che, se presi insieme, siano isoperimetrici ai primi. Lo scopo dei lemmi è dotarsi di strumenti per dimostrare il Teorema 2 per "simmetrizzazione locale": si suppone che il poligono massimale non sia né equilatero né equiangolo e si dimostra come costruire, rendendo uguali due suoi lati (lemma l) o due suoi angoli (lemmi 2 e 4), un poligono isoperimetrico maggiore. È essenziale per la correttezza della dimostrazione che venga svolto prima il caso equilatero e poi quello equiangolo (da cui la clausola sui quattro lati obliqui uguali nel lemma 4, che ritroviamo solo nella versione di Teone). c) (Teorema 3) Il cerchio è maggiore di ogni poligono regolare isoperimetrico. La dimostrazione confronta l'apotema di un generico poligono regolare con il raggio del cerchio isoperimetrico. Il problema è la portata del risultato di Zenodoro, come di tutte le soluzioni del problema isoperimetrico fino alla metà del XIX secolo. La difficoltà risiede nel fatto che l'esistenza del poligono massimale con un numero assegnato di lati è data per scontata nel Teorema 2, che vi fa riferimento esplicito, ma non dimostrata. In più, il procedimento di simmetrizzazione locale di Zenodoro non è effettivo: non è in grado di produrre, a partire da un poligono dato, il poligono massimale (regolare) in un numero finito di passi. Siamo dunque di fronte ad un approccio eminentemente non-costruttivo, e nessuno dei redattori delle tre versioni esprime la minima preoccupazione al riguardo. Solo nella versione anonima dei Prolegomena sembra affiorare un certo disagio, nella forma di oscillazioni tra una formulazione dell' enunciato in forma di comparativo ( da essi per un quadrato. Ma ciò è plasmatikon.

Nel testo greco trasmesso degli Arithmetica, strutture identiche a questa (enunciato-determinazione-glossa) si trovano ancora nelle sole prop. 1.28 e 30. La crux è il significato del termine plasmatikon, un punto controverso sin dalla prima traduzione di Xylander del 1575. Riassumo traduzioni e parafrasi della glossa in uno specchietto: Xylander (1575) Bachet de Mézil'iac (1621) Cossali (1797-99) Nesselmann (1842) Wertheim (1890) Tannery (DOO I) Heath (1910) ver Eecke (1926) Gandz (1937) Allard (1983) Caveing (1994-98) Vitrac (20053.)

hoc autem est effictum aliunde id a quo aliud quippiam effingi et plasmari potest cosa altronde [... ] formata das lasst sich aber bewerkstelligen undrnannkannimmersolcheZahlenalsgegeben annhemen, dass diese Bedingung erfilllt ist hoc est formativum this is of the nature of a formula chose qui est d'ailleurs figurative this may be demonstrated by a geometrie figure apte à rendre le problème convenablement déterminé laconditionnécessairequenousallonsénoncerest lisible sur une fìguration graphique et ceci est une condition formelle

Occorre in primo luogo spiegare che forma assumano le determinazioni dei problemi degli Arithmetica. Essi sono sempre soggetti a due vincoli generali che restringono lo spettro delle soluzioni. Sono infatti ammesse come tali solo quantità positive, esprimibili in numeri: in termini moderni questi sono numeri razionali positivi; Diofanto scarta esplicitamente una soluzione quando essa sia un aQL8""òç où QTJ't6ç «numero non esprimibile», e allo stesso modo un'uguaglianza non risolubile in campo razionale è detta «non esprimibile». Ciò comporta che ogni problema 101

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negli Arithmetica è soggetto ad una specie di determinazione preventiva. Come nel caso geometrico, il vincolo agisce imponendo certe condizioni sui dati del problema. Di conseguenza, le determinazioni negli Arithmetica possono assumere la forma di una disuguaglianza, quando sia da assicurare la positività della soluzione, oppure di un'identificazione di specie, quando sia in gioco la razionalità della soluzione, oppure, nello stesso caso, di una condizione (negativa) di «congruenza» (V.9, 11; la determinazione di V.11 stabilisce che il numero dato non può essere della forma 8n + 2; il testo della determinazione di V.9 è corrotto ma la condizione richiesta può essere ricostruita). Con «identificazione di specie» si intende che la condizione sia formulata con la richiesta che una espressione ben definita dei dati numerici del problema sia un quadrato, un cubo, o una potenza singola, cioè una delle «specie)) numeriche descritte da Diofanto fin dall'introduzione degli Arithmetica (DOO 1,2-6). Una condizione di questo genere garantisce che l'espressione dei dati numerici del problema che appare nella condizione di vincolo produca un numero razionale quando ne sia presa la radice quadrata, cubica, ... , come risulterà richiesto dalla procedura effettiva di soluzione. Il prospetto seguente elenca i problemi degli Arithmetica che hanno una determinazione (11.6-7 sono probabili interpolazioni). Alcuni ne sono privi pur richiedendola. greco

arabo

razionalità

1.27-8,30,IV.34-5

IV.17-22, V.7-12, vII.6

positività congruenza assente

1.5-6, 8-9, 14, 16-7, 19, 21, 21 a/iter, Il.6-7 v.9, II 1.7, IV.1-2, 15, V.10, 20

V.13

Ritorniamo al plasmatikon. Il punto dato per scontato da tutti gli interpreti moderni è, come abbiamo accennato in precedenza, la connessione "ovvia" traAr. 1.27-8 e 30 e la risoluzione di equazioni di secondo grado. In effetti, i tre problemi richiedono di trovare due numeri di cui siano dati rispettivamente la somma e il prodotto (27), la somma e la somma dei quadrati (28), la differenza e il prodotto (30). Se formiamo le equazioni di secondo grado associate "naturalmente" ai problemi 1.27 e 30, le determinazioni di questi problemi danno nient'altro che le condizioni per cui il discriminante delle equazioni associate sia un quadrato perfetto (cfr. 102

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la trascrizione algebrica di Ar. 1.27 data sopra). Gli interpreti a panire da Bachet de Méziriac hanno messo in rilievo questa connessione, proposto che i problemi e le loro determinazioni fossero già visti originariamente in questa prospettiva e letto la glossa metamatematica di conseguenza. Il punto controverso è quindi diventato stabilire quale sia l'esatto significato di plasmatikon (la radice greca rinvia ad un dominio semantico analogo a quello del nostro «plasmare»), in particolare se sia attivo o passivo. Qui entra in gioco la somiglianza delle determinazioni di Ar. 1.27-8 e 30 con le condizioni di El 11.5, 9-10 e 8, rispettivamente. Ricordiamoci dell'enunciato di El. 1I.5 letto all'inizio di questo paragrafo. I due «segmenti disuguali» in quell' asserto corrispondono ai due condotte perpendicolari dai punti su una o sull' altra fino a quella che resta» (nell'ordine iE, 143-4, 170-1, 168, 176 = fr. 196, 198,197 EK, escluso il terzo passaggio). Critiche puntuali furono avanzate nei confronti di certi postulati degli Elementi. Spiccano quelle di Gemino, che propone una distinzione tra postulati ed assiomi al termine di una lunga discussione sulla natura dei princìpi (iE, 178-82): «Il postulato ci prescrive, per la messa in rilievo di una proprietà, di costruire e produrre un certo oggetto di semplice e immediata comprensione, mentre l'assioma asserisce un qualche attributo intrinseco immediatamente noto agli interlocutori». Gemino si scaglia poi contro due categorie di geometri con scarsa consapevolezza filosofica: «coloro che concepirono dimostrazioni di ciò che è indimostrato e misero mano a costruire ciò che è noto a tutti a partire da medi meno conosciuti» (Apollonio), «e quelli che finirono per assumere come non dimostrato anche ciò che richiede dimostrazione, come Euclide stesso fa con il quarto e quinto postulato» (ivi, 183-4). Se in effetti i primi tre postulati sono ritenuti da Gemino essere correttamente identificati come tali, e derivano dalle nozioni di linea come ((Russo di un puntO» e di retta come ((Russo uniforme e privo di inclinazioni laterali» di un punto, che si muove di moto ((uniforme e minimale» (ivi, 185), il quarto non può esserlo secondo la definizione di Gemino, e tanto meno lo sarebbe se potesse essere dimostrato (ivi, 188-9). Gemino fa anche osservare che le converse degli ultimi due postulati si dimostrano: ((fion è quindi il caso di far posto alle loro converse tra gli indimostrati». Come converse dei postulati v e IV Gemino prende rispettivamente El. 1.17 «((Due angoli di ogni triangolo, sostituiti in ogni modo, sono minori di due retti») e l'asserzione che ((l'angolo uguale a quello retto non è in generale retto», da lui stesso dimostrata (Pro113

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do riporta le dimostrazioni, attribuendole a Pappo, in iE, 189-91). Infine, riferendosi a coloro che ritengono che quello delle parallele sia stato posto tra i postulati perché il fare meno di due retti ci convince immediatamente della convergenza e dell'incidenza delle due rette, Gemino mette in guardia contro l'uso di argomenti solo plausibili nell'identificazione delle assunzioni geometriche di base. Egli offre come controesempio l'esistenza di linee che convergono indefinitamente ma non incidono (ivi, 192). Occorre ovviamente anche ricordare i tentativi antichi di dimostrare il postulato delle parallele. Straordinariamente interessante quello di Apollonio, trasmesso in arabo sotto il nome di Thabit ibn Qurra (Acerbi, 2010a). Prodo (iE, 365-7) trascrive la dimostrazione di Tolomeo. I nomi di alcuni matematici greci che si cimentarono in questo esercizio sono elencati, sull'autorità di Simplicio, da an-NayrIzI (Tummers, 1994, p. 55): tra loro figura un Diodoro che va forse identificato col celebre gnomonista. Segue la dimostrazione, basata su una definizione di parallelismo in termini di equidistanza, di un misterioso matematico Aganiz, socius di Simplicio (ivi, pp. 56-62). Infine, l'adeguatezza dei princìpi è in questione nelle discussioni antiche sul numero di assiomi, una controversia che ha lasciato come tracce varianti di peso al testo degli Elementi. Prodo (che ne elenca solo cinque) riferisce le opinioni di Erone, che ne voleva mantenere tre, e di Pappo, che ne aggiungeva altri a quelli attestati (iE, 196-8). 3. Validità dei princìpi. Attacchi alle definizioni a fondamento della geometria sono esposti dallo scettico pirroniano Sesto Empirico, in particolare in M III (Mueller, 1982). Lo scopo immediato di Sesto è mostrare che la geometria è senza fondamenti, quello strategico essendo provare che essa non può essere usata per descrivere e spiegare il mondo fisico, privandola cosi della funzione di corroborazione delle dottrine fisiche della filosofia dogmatica (Dye, Vitrac, 2009). Sesto inizia attaccando il metodo ipotetico, per poi passare ai princìpi della geometria: tre argomenti contro la nozione di punto, sette argomenti contro le varie definizioni di linea, con applicazione particolare alla retta, due argomenti contro la definizione di superficie, tre argomenti contro il corpo. Sesto si rivolge infine ai princìpi di genere più specifico, ritornando alla retta, e quindi all'angolo ed al cerchio. Per non passare per un sofista, egli attacca brevemente anche ciò che deriva dai princìpi, cioè i teoremi, limitandosi però alla bisezione di retta e cerchio e a difficoltà generali con le sezioni. Come conseguenza di tutto ciò, cosi pretende Sesto, la 114

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geometria stessa è inconsistente, e la sua macchina dimostrativa non può neanche prendere avvio. 4. Importanza dei princìpi. Non si tratta di un punto banale: dopo tutto, gli autori che erano interessati ai principi per motivi filosofici generali, cioè come esempi particolarmente interessanti di «punti di partenza» (aQxaL), preservano quasi tutta la documentazione storica riguardante tematiche fondazionali. Questi autori possono avere motivazioni polemiche, come Sesto, o intenti dogmatici e pedagogici, come i filosofi neoplatonici e i commentatori aristotelici tardivi. Basti ricordare che Simplicio scrisse un commentario alle definizioni di El. I, ampi estratti del quale sono compilati da an-NayrIzI, e che 114 pagine dell'edizione di Friedlein del commentario di Prodo ad El. I sono dedicate ai principi (93 delle quali alle sole definizioni), mentre 238 alle rimanenti 48 proposizioni. Nel commentario di Prodo un genuino interesse filosofico per le aQxal, nozione centrale nella metafisica neoplatonica, è sempre intrecciato con gli intenti compilativi. Esse sono l'oggetto della vera conoscenza, e la matematica si muove avanti e indietro verso e da esse, o, per meglio dire, dalle loro ipostatizzazioni come oggetti discorsivi, grazie al procedimento di analisi e sintesi (iE, 69). In particolare, tra i principi una posizione preminente è accordata agli oggetti matematici di base, la cui esistenza deve essere postulata (in accordo con Aristotele, APo. A lO, 76b3-6) o, in una prospettiva platonica, è assicurata dalla dialettica (Rsp. VII, 533B-D, un passaggio discusso a lungo da Prodo, iE, 29-32, allo scopo di sollevare la matematica dall'accusa platonica di sterilità). D'altro canto, gli intenti compilativi di Prodo consistono nel presentare una raccolta ampia e significativa di fonti - un'attitudine pedagogica ed erudita, questa, che era tenuta in gran conto da tutti i commentatori tardivi - ma anche nel rintracciare paralleli ed esemplificazioni di dottrine platoniche o aristoteliche particolari. Questo è il motivo per cui Pro do raccoglie cosÌ tanto materiale su tematiche fondazionali. Egli è però poco interessato a questioni deduttive o strutturali, un fatto che può deludere il lettore moderno. Quando critica certi principi, lo fa principalmente a fini dialettici (cioè pedagogici). Non è sicuramente interessato a riformarli: può accettare modifiche e critiche proposte da altri, ma ne avanza di proprie molto raramente, ed in generale si mantiene su posizioni conservatrici. Tutto ciò può dare origine a risultati straordinariamente importanti dal punto di vista storico, come trasmettere quasi tutti i documenti che attestino degli sforzi fondazionali di Apollonio.

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Come anticipato nel PAR. 1.4, la figura chiave di buona parte della linea evolutiva della geometria greca è in effetti Apollonio, matematico sommo ed erudito sottilmente allusivo operante ad Alessandria e contemporaneo del filologo Aristofane di Bisanzio. Molte delle caratteristiche della sua opera possono essere lette in una chiave metateorica; egli è il primo ad occuparsi di fondamenti della matematica in modo esplicito. Vediamo la questione in dettaglio. Proclo gli attribuisce uno scritto Sulla coclea, dove Apollonio mostrò che l'elica cilindrica è una linea omeomera (iE, 104-5). Marino di Neapoli, allievo di Proclo, asserisce che scrisse un Trattato generale (EOO VI, 234). Pappo, a sua volta, scrive che Apollonio propose una classificazione dei teoremi di luogo «prima dei propri [scii. di Apollonio] Elementi (O'tOLXEra)>> (Coli. vn.21). Forse non si tratta dell'unica menzione di Elementi apolloniani, ma di un riferimento al Trattato generale, oppure di princìpi o proposizioni elementari posti all'inizio dei Luoghi piani. In effetti, la denominazione di Marino «Trattato generale» potrebbe essere semplicemente una caratterizzazione di un particolare scritto, e non il suo titolo. Lo stesso può però dirsi degli O'tOLXEra di Pappo. I problemi con il "titolo" non tolgono che Apollonio scrisse un trattato su aspetti di base della matematica. I documenti che vado a presentare ci permettono di farci un'idea dei suoi contenuti, assumendo che non siano da moltiplicarsi preater necessitatem le opere apolloniane di carattere fondazionale. 1. Proclo ci informa dei seguenti interventi su aspetti base degli Elementi: chiarimenti sulle nozioni di linea e di superficie (iE, 100 e 104), una definizione generale di angolo (123-5), tentativi di dimostrazione di nozioni comuni, in particolare «gli uguali allo stesso sono anche uguali tra loro», utilizzando il concetto di «sovrapposizione» (183, 194-5), costruzione alternativa del trasporto di un segmento (227-8), del punto medio di un segmento (279-80), di come condurre una perpendicolare ad una retta per un punto su di essa (282), di come trasportare un angolo (335), del teorema sull'uguaglianza degli angoli alla base di un triangolo isoscele (249-50). Come già accennato, Apollonio propose una dimostrazione del V postulato degli Elementi, trasmessa in arabo sotto il nome di Thiibit ibn Qurra. 2. Uno scolio afferma che le definizioni 13-5 dei Data di Euclide gli vanno attribuite (EOO VI, 264). Secondo Marino di Neapoli, Apollonio avrebbe anche cercato di riformare la terminologia specifica dei Data, introducendo 'tE'taY!lÉvov «ordinato» nel senso di «univocamente determinato», come sostituto di «dato» sia nelle Inclinazioni che nel 116

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Trattato generale (EOO

Possiamo instaurare una connessione con il probabile conio apolloniano t'Et'aY!J.Évwç «in maniera ordinata» in teoria delle sezioni coniche (da qui deriva la denominazione moderna delle «ordinate»). 3. Apollonio scrisse un trattato sugli Irrazionali non ordinati, che si poneva esplicitamente come estensione del x libro degli Elementi (Pappo, in x EL 1.1 e II.1, Proclo, iE, 74, e lo Scolio liminare al x libro degli Elementi in EEv,2, 83). 4. Nell'introduzione allibro XIV degli Elementi Ipsicle afferma di aver composto il testo sotto io stimolo delle ricerche di Apollonio sul confronto tra dodecaedro e icosaedro, che erano intese probabilmente completare EL XIII (EEv,l, 1). 5. Pappo afferma che ( data ciascuna delle rette AB Bf f L\ L\A: dimostrare che la < retta> che congiunge i punti L\ B è data.

Difficoltà ancora più gravi si presentano se leggiamo l'enunciato di uno dei Porismi euclidei, nella forma trasmessa da Pappo, Coli. VII.18: Qualora da due punti dati siano inflesse rette su una < retta> data in posizione, ed una sola stacchi < un segmento> da una retta data in posizione fino ad un punto dato su di essa, anche l'altra staccherà da un' altra < retta data in posizione un segmento> che ha un rapporto dato < rispetto al primo> . 121

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Questi enunciati mettono in luce due fatti. 1. Il predicato «dato» ha due modi d'impiego: un oggetto è dato a) in quanto assegnato per ipotesi oppure b) perché è ottenibile dai dati di partenza per mezzo di costruzioni geometriche o teoremi. In questo secondo caso l'oggetto è dimostrato dato. Distinguere tra le due fattispecie non è sempre immediato, specialmente nel caso dei porismi; ci ritorneremo tra un attimo. 2. Sono specificate più forme dell'«essere dato», e cioè «in grandezza», «in posizione» o «in forma», a seconda dell' oggetto geometrico considerato e del rispetto in cui esso viene visto. Quest'ultimo punto è chiarito dalla lettura delle archetipiche definizioni Data 1-4, cui aggiungo la 9 per confronto (EOO VI, 2-4): Sono detti dati in grandezza sia domini che linee che angoli di cui possiamo produrre uguali. Un rapporto è detto essere dato a cui possiamo produrne uno identico. Figure rettilinee sono dette essere date in forma di cui sono dati sia gli angoli uno per uno che i rapporti dei lati tra loro. Sono detti essere dati in posizione sia punti che linee che angoli che occupano sempre lo stesso luogo. Una grandezza è maggiore di una grandezza per una data quando, sottratta quella data, quella restante sia uguale alla stessa.

Analogamente, un cerchio è dato in posizione e grandezza quando il suo centro sia dato in posizione e il suo raggio in grandezza, solo in grandezza quando solo il raggio sia dato in grandezza (Data def. 6 e 5). Un triangolo può essere dato indipendentemente in posizione, grandezza o forma. Le definizioni mettono in rilievo alcuni aspetti fondamentali. Che si tratti dell'introduzione di un predicato è reso esplicito dalla formulazione, contenente la forma verbale ì..ÉyE'tm «è detto». Essa è tipica delle definizioni di predicati: nel caso di termini e relazioni si usa «essere» (cfr. la def. 9 appena letta) o «chiamare» (che queste ultime due modalità siano equivalenti si ricava dal confronto di El. vII.def.17-8); uniche eccezioni apparenti in El. v.def.n e x.def.l. Ancora, l'uso del verbo 3toQI.oao8m «produrre» rimanda ad aspetti costruttivi e al ruolo del matematico (si notino anche la forma media e l'uso della prima persona), mentre la connotazione modale «possiamo» sottolinea la portata 1.

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esistenziale. Infine, le definizioni vanno intese come riferite a tutte le forme del verbo «dare», per quanto nelle definizioni 1-4 si usino solo forme nominali del perfetto. Nel corso del trattato sono però altrettanto comuni il participio aoristo, il solo che figuri negli Elementi, o forme verbali finite. 2. Il linguaggio dei dati è il pendant formale" predicativo" di certe relazioni, che sono largamente predominanti sia in geometria che in teoria dei numeri e le cui trasformazioni innervano il tessuto deduttivo di ogni dimostrazione. Le relazioni in questione sono uguaglianza (cui corrisponde «dato in grandezza»), identità ( perpendicolare Br: anche < l'angolo> su B è pertanto dato. Il rapporto di ilB rispetto a Br è quindi dato. E il rapporto di Bil rispetto a BA è dato: anche il rapporto di AB rispetto a Br è quindi dato. Ed è dato l'angolo su B: anche BAr è quindi dato. Mh!t!Jl.!L~Lc::ttA.?l!.~_~~~.?.._!!tp_q~!~~q!!.c:.~_§H.H.I1-.:sJ2!Jl.!!~2·__~JQ.A: rh_~_g.Y!!!.';!.uI1-p_q§!;!Q!!!;~ Ed è anche in posizione la sezione: r è quindi dato. E ril è tangente: r il è quindi in posizione. Il problema sarà pertanto sintetizzato cosi: sia in primo luogo come sezione di cono data una parabola, asse della quale AB, e un angolo acuto dato EZH, e sia preso un punto E su EZ, e sia condotta una < retta > perpendicolare EH, e sia secata a metà ZH con e, e sia congiunta una < retta> eE, C::_Jllill~!;__~r~I}g.Q!~__H§>];:__§!~ çQ§J!.!!!tQ_!!!L~~~lQ2__1}_~r, e sia condotta una < retta> perpendicolare Br, e uguale a BA sia posta una < retta> Ail, e sia congiunta r il. r il è quindi una tangente alla sezione. Dico ora che r ilB è uguale a EZH. Poiché infatti è come ZH rispetto ad He, cosi ilB rispetto a BA, ed è anche come eH rispetto a HE, cosi AB rispetto a Br, tramite uguale quindi è come ZH rispetto a HE, cosi ilB rispetto a Br. E sono retti gli angoli su H, B: l'angolo Z è quindi uguale all'angolo il. 12 7

IL SILENZIO DELLE SIRENE

La «catena dei dati» con cui termina l'analisi si chiude con l'asserto che il predicato «dato in posizione» si applica allo stesso oggetto posto sin dall'inizio risolvere il problema; potremmo dire che esso è «potenzialmente costruibile», ed aver cosÌ stabilito la sua «esistenza e unicità». L'analisi ha però la fastidiosa caratteristica di aprirsi e chiudersi predicando due proprietà diverse dello stesso oggetto: la sintesi non può quindi consistere in una semplice inversione dell' analisi; occorrerà smontare e rimontare quest'ultima in un altro modo. A priori, inoltre, il legame che sussiste tra una catena di dati e una serie di costruzioni con cui risolvere il problema resta ineffabile. Di certo i Data non ci dicono come fare. Si noti però il ruolo decisivo di Data def. 1 nel permettere alla macchina analitica di mettersi in moto. Le inferenze che seguono, e che costituiscono la catena di dati, saranno trasformate e ricombinate per essere inserite nella sintesi. Il sistema di grassetti, corsivi e sottolineature con cui ho presentato il testo serve appunto a mettere in rilievo le corrispondenze tra passaggi dell'analisi e della sintesi. Gli aspetti più degni di nota sono i seguenti. l. La forma verbale che inizializza l'analisi yeyovf:tw «si trovi ad essere» è un tratto stilistico invariante con un significato matematico forte. È un perfetto con valore di stato che non asserisce che il problema è risolto: è possibile farlo solo eseguendo la costruzione, e non "mostrando" la configurazione finale. 2. Alcune delle costruzioni della sintesi corrispondono nell' analisi a passaggi che fanno parte di catene deduttive espresse nel linguaggio dei dati. La direzione della progressione deduttiva e l'ordinamento delle costruzioni sono gli stessi. (Sottolineatura a tratteggio e frasi in corsivo.) 3. I passaggi propriamente deduttivi nella sintesi si ritrovano, in ordine (molto) approssimativamente invertito ed espressi nel linguaggio dei dati, nell'analisi. (Sottolineatura a tratto continuo.) 4. L'oggetto fittizio che compare in Data def. 1-4 al solo scopo di "saturare" una relazione si attualizza nella sintesi come «dato» del problema o come sua immediata evoluzione (in questo caso il triangolo 1:Ò EZeH), che sarà riprodotto in corso di dimostrazione come triangolo 1:Ò r L\AB per generare l'oggetto cercato. Analogamente, enti logici o geometrici che compaiono una sola volta nell' analisi si rintracciano in duplicato nella sintesi. (In grassetto la costruzione della perpendicolare, ~ Br o ~ EH/Br, in corsivo l'analoga duplicazione della proprietà della sottotangente, trasformata in due costruzioni.) 128

1.

PROBLEMI

Le corrispondenze esatte costituiscono un vero ginepraio, come ho mostrato altrove (Acerbi, 2oo7a, pp. 454-61). Da un punto di vista logico-deduttivo generale, però, la situazione è abbastanza chiara. Le catene dei dati hanno due funzioni fondamentali. I. Formulare questioni di esistenza e unicità. 2. Formulare come deduzione una catena di precondizioni (le inferenze della sintesi percorse "all'indietro") e trasformare in deduzione una sequenza di costruzioni, che non ha un ordine deduttivo naturale. Vediamo in dettaglio la prima funzione, più facilmente identificabile nel caso dei teoremi di luogo. Il loro enunciato, in una forma condizionale che ne denuncia il carattere di teoremi e non di problemi, utilizza illinguaggio dei «dati» per descrivere le condizioni di vincolo e per identificare l'oggetto soluzione del problema. Il teorema di luogo veniva risolto per analisi e sintesi. L'analisi di un luogo, condotta appunto nell'idioma dei «dati», consisteva nell'identificare come data la linea che il punto soggetto ai vincoli assegnati veniva a «toccare»; la curva soluzione, si badi bene, è già stabilita nell' enunciato: per questo motivo le analisi dei luoghi non sono introdotte da yEyOVÉT,OO. In termini moderni: se un punto verifica le condizioni di vincolo allora appartiene ad una curva nota ed univocamente determinata - è cruciale osservare che ciò corrisponde sia all'esistenza che all'unicità del luogo: nella geometria greca le questioni di esistenza e di unicità non sono cosi rigidamente e facilmente separabili come nell' approccio moderno. Nei pochi resoconti, d'altronde tardivi, l'enfasi è però sempre sull'esistenza, probabilmente perché l'unicità è presa per garantita: ad esempio, una certa proprietà caratteristica con parametri fissati determina una sola conica (cfr. il PAR. 3.4). Questa interpretazione è corroborata da osservazioni, peraltro piuttosto criptiche, di Pappo su certi autori recenti che, applicando i Porismi euclidei, si disinteressavano a problemi di costruibilità, «dimostrando soltanto che esiste quanto ricercato senza però produrlo» (Coll vn.14). Poiché i Porismi contenevano solo analisi, ne concludiamo che già ad autori precedenti a Pappo era chiaro che queste ultime potevano essere interpretate come dimostrazioni di esistenza. Fare la sintesi di un luogo significava invece costruire la linea sulla base dei dati del problema e dimostrare che questa costituiva effettivamente il luogo cercato. È evidente che, dovendo la soluzione del luogo essere una linea ben definita (retta, circonferenza, conica, ... ), molti teoremi di luogo possono apparirci, da un punto di vista logico, semplicemente l'inverso di teoremi noti (ad esempio, la proposizione El. 1.39 è un'inversa parziale di 1.37), quelli cioè in cui la condizione di vin129

IL SILENZIO DELLE SIRENE

colo è vista come proprietà di un ente geometrico: Proclo chiama «teoremi di luogo» proprio il gruppetto 1.35-8 (iE, 394-5, e menzioni a 405, 412 e 431). Teoremi di luogo quali troviamo ad esempio in Pappo hanno normalmente una sintesi. Il formato dei teoremi di luogo subì però un' evoluzione. In una prima fase, del luogo veniva proposta solo l'analisi. In effetti, i lemmi che Pappo dimostra per i Luoghi su superficie euclidei e certi problemi che lo stesso Pappo molto probabilmente trae dai Luoghi solidi di Aristeo rendono quasi certo che questi contenessero solo delle analisi. Del resto, l'enunciato di un teorema di luogo richiede di mostrare che il punto tocca una curva ben determinata data in posizione, e l'analisi termina esattamente con quanto richiesto. In un secondo tempo, all'analisi è giustapposta una sintesi in cui la curva soluzione veniva costruita a partire dai dati del problema. Apollonio è rappresentativo di questa fase: che egli proponesse sicuramente le sintesi risulta da fonti arabe (Hogendijk, 1986). Terza fase: resoconti tardivi di teoremi di luogo, come quello di Eutocio relativo alla soluzione di Apollonio dello stesso problema affrontato nei Meteorologica di Aristotele (AGE II, 180-4), si attengono ad una presentazione puramente sintetica, e sono quindi forzati a fornire una dimostrazione dell' «unicità» (che compete all'analisi del luogo ) in tale forma: occorre far vedere che nessuno dei punti che non appartiene alla linea soddisfa le condizioni di vincolo, come nel formato attuale di tali problemi. La presentazione sintetica comporta inoltre che nell'enunciato si cambi formulazione nell'identificare la curva soluzione, ponendo come richiesta il dimostrare che «è possibile tracciarla». Ci si può chiedere perché non ci si fosse accontentati dell' analisi dei luoghi, come probabilmente avveniva nella prima fase sopra accennata. Non deve sorprendere che il formato dimostrativo si sia evoluto ma la formulazione dell'enunciato sia rimasta stabile: quest'ultima ha un'inerzia notevole, in quanto si inserisce in una tradizione stilistica ben precisa e che permette tra l'altro di stabilire a colpo sicuro che una certa proposizione è un teorema di luogo. Più fenomeni possono aver contribuito alla formazione della percezione che una sintesi fosse necessaria nei teoremi di luogo, e in ogni caso il ruolo di Apollonio sembra essere stato decisivo. Il requisito di costruibilità effettiva della curva soluzione, cui solo una sintesi può provvedere, rientra fra le preoccupazioni di tipo «fondazionale» che gli sono tipiche. D'altronde, occorre che tali sintesi costruttive possano essere portate a termine. Esse impiegano di solito in 13 0

2

PROBLEMI

modo cruciale teoremi di teoria delle coniche, e questi si trovarono a disposizione dei matematici solo mano a mano che essa veniva sviluppata. Una provvista adeguata di ferri del mestiere fu disponibile solo con Apollonio, come osserva egli stesso nelle prefazioni a Con. I e IV (AGE I, 4, e II, 4). La generalità del suo approccio (PAR. 3.4), in particolare la "scoperta" delle sezioni opposte, permette di trattare una serie di luoghi (solidi) e problemi connessi enormemente più ampia; la sua trattazione completa delle intersezioni tra coniche permette di condurre in porto le analisi dei diorismi (Saito, Sidoli, 2010). Arriviamo dunque alla seconda funzione, che giova inquadrare in una prospettiva più generale. La soluzione dei matematici greci al problema di rappresentare linguisticamente la cogenza di certe inferenze passa attraverso il riconoscimento del fatto che convenzioni linguistiche e stilistiche perseguite in maniera coerente hanno una ricaduta matematica diretta. La rigidità di formulazione in un linguaggio naturale sostituisce il formalismo. Essa può essere considerata il risultato di una lotta per minimizzare la componente intuitiva all'opera in una proposizione matematica. Sono in effetti necessarie" intuizioni": 1. a ogni conclusione, che sia quella di una singola inferenza o quella che traiamo dalla dimostrazione di un'intera proposizione. Al problema di validare la seconda conclusione, che è quello della generalità matematica, risponde la struttura indefinita che ho analizzato in dettaglio nel PAR. 1.2.2. Al problema di convalidare la prima risponde, anche se solo in parte, la rigidità della struttura formulare. Certe deduzioni, in particolare quelle che coinvolgono le relazioni, possono essere dette concludere per forma: la conclusione si mostra in qualche senso da sé in una notazione opportuna. 2. Nelle costruzioni ausiliarie. Come capire quali costruzioni ausiliarie imbastire? Non che ci sia una risposta. Si possono però introdurre strumenti per circoscriverne la componente intuitiva. In primo luogo, la struttura matriciale delle costruzioni (PAR. 1.2.2, punto 5): essa introduce una forma linguistica rigida che non interagisce con le deduzioni ma che nondimeno ne ricalca in qualche modo la formulazione. In un certo senso, c'è una sola operazione di congiunzione di una retta correlata al postulato 1, una specie di relazione geometrica a due posti, occupati dalle lettere denotative dei due punti estremi. In secondo luogo, e principalmente, le catene di dati come strumento per trasformare sequenze costruttive in sequenze deduttive, le prime ordinate da un principio di mera giustapposizione, le seconde dalla direzione del procedimento deduttivo. In senso 131

IL SILENZIO DELLE SIRENE

forte, dunque, in un' analisi costruzioni e deduzioni si trovano sullo stesso piano (ma solo allivello deduttivo: nelle proposizioni dei Data, così come in ogni analisi, figurano anche costruzioni ausiliarie). 3. A ogni nuovo passaggio deduttivamente autosufficiente. Chi ci dà una regola per capire quale sia il passaggio successivo? Ovviamente nessuno, ma si può fare in modo che le possibili scelte siano limitate. Esempio paradigmatico sono le analisi e sintesi sviluppate da Erone come dimostrazioni alternative di El. II.2-10. In primo luogo, esse sono programmaticamente prive di costruzioni ausiliarie «proprie» (PAR. 2.1.1), e dunque anche la loro parte «analitica» è priva del linguaggio dei dati. In secondo luogo, sono strutturate come un puro processo di riduzione. La riduzione si compie su due livelli. Al primo livello si situano due espressioni costruite a partire dagli oggetti in gioco in una certa configurazione geometrica, che occorre dimostrare uguali. Si prenda ancora l'enunciato di II.5: Qualora una linea retta sia secata in < segmenti> uguali e disuguali, il rettangolo compreso dai segmenti disuguali della < retta> totale più il quadrato su quella tra le due sezioni è uguale al quadrato sulla metà.

I "fatti" matematici di cui ci si occupa sono certe configurazioni di oggetti geometrici, e non le relazioni tra le configurazioni stesse. Nel procedimento eroniano, una delle due configurazioni viene assunta come punto di partenza, l'altra come punto di arrivo; una viene ridotta all'altra grazie a teoremi precedenti nella stessa catena II.2-10 (11.1 funge da "principio"). Ad un secondo livello, però, lo scopo dichiarato raggiunto alla fine dell' analisi è proprio questa riduzione a teoremi precedenti. L'uguaglianza da dimostrare è quindi ridotta ad uguaglianze dimostrate in proposizioni precedenti, e ciò costituisce un' analisi in senso forte. Lo scopo della dimostrazione è in realtà questo: l'esplicitazione dei passaggi sottintesi, leggibili sia come dispiegamento in forma completa della struttura deduttiva che come decomposizione della figura stessa in termini delle componenti equivalenti più fini. Per fare ciò, Erone trova un terreno ideale nei lemmi lineari, ma si ispira probabilmente anche a dottrine prettamente logiche. Si tratta dell'analisi di quegli argomenti formalmente validi che nella tradizione stoica venivano chiamati «indimostrati non semplici» (Sesto Empirico, M. VIII.228). Indimostrati semplici sono le inferenze tali che sia «immediatamente chiaro il fatto che concludono validamente, cioè il fatto che

2

PROBLEMI

per essi la conclusione sia validamente dedotta dalle premesse» (ibid.). Crisippo ne individuò cinque tipi di base, tra i quali oggi riconosciamo forme di modus ponens, modus tollens ecc. Gli indimostrati costituiti da concatenazioni di indimostrati semplici erano detti non semplici. Anch' essi concludevano validamente, ma questo fatto poteva venir apprezzato solo dopo che fossero stati ricondotti alle loro componenti semplici; questo procedimento era chiamato «analisi». L'analisi procedeva per applicazione di regole per manipolare deduzioni, chiamate themata. Erano noti anche «teoremi» che riassumevano i themata in un'unica prescrizione; la scuola stoica lo chiamava «teorema dialettico»: «quando abbiamo le premesse che permettono di dedurre una cena conclusione, abbiamo anche quella conclusione che è in potenza in queste, anche qualora non venga espressa esplicitamente» (ivi, vm.229). Carattere essenziale dell' analisi stoica dei sillogismi è che la riduzione è completata una volta che siano resi espliciti gli indimostrati semplici componenti. Non si tratta quindi di una dimostrazione ma soltanto di un metodo di riduzione: esso lavora inserendo inferenze elementari intermedie ed in qualche modo dispiegando un argomento nella sua formulazione completa, quando cioè questo sia dotato dei passaggi sottintesi. Lo scopo è quello di renderne più trasparente la formulazione in modo che la validità risulti immediata. Il risultato, cioè l'indimostrato non semplice da ridurre, è assunto come noto: il metodo è quindi analitico. La progressione deduttiva va "all'indietro" ma non nel senso di cercare precondizioni: in effetti è un' operazione eminentemente metalogica, e non ha quindi una struttura formale. Ebbene, sia nella riscrittura eroniana di El. Il.2-10 che nell'analisi stoica sono note, e programmaticamente finite, le strutture inferenziali irriducibili, e questo rende in qualche modo più semplice la scelta del passaggio successivo. 4. Per "vedere" la dimostrazione. Ci si rivolse all'analisi come strumento euristico. Si tratta solo di un mito, come vedremo nel PAR. A2.2, ma la cripto-citazione aristotelica di Pappo mostra che l'illusione della ponata euristica si appoggiava sull'idea dell' esistenza di un repenorio finito e decidibile di strutture deduttive. In questa prospettiva si inserisce l'impiego del linguaggio dei dati, che si applica alla determinazione di un qualsiasi oggetto matematico, vuoi per via costruttiva vuoi per via astratta, ad esempio tramite catene di uguaglianze. Tale linguaggio costituisce dunque un tentativo di unificare, nella forma di una logica di singolo predicato le cui regole di inferenza di base sono formulate nei Data, le seguenti strutture argomentative.

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IL SILENZIO DELLE SIRENE

Deduzioni, in primis manipolazioni di relazioni. 2. Costruzioni, per cui un ordinamento deduttivo rimpiazza il semplice ordine pospositivo: due costruzioni non sono una comeguenza dell' altra, ma possono al massimo venire una dopo l'altra, la prima creando una situazione geometrica che renda possibile la seconda; nelle catene di dati è invece sempre un'inferenza deduttiva che è in gioco. 3. Calcoli. Le catene di dati hanno una connotazione algoritmica molto pronunciata: essa si connette in modo naturale con la funzione, appena delineata, dell'analisi quale procedimento dimostrativo atto a dirimere questioni di esistenza e, specialmente, unicità. Tutta una tradizione di matematici antichi, da Erone a Tolomeo (cfr. il PAR. 3.6) a Diofanto (PAR. 3.7), lesse unicamente l'analisi sotto l'aspetto algoritmico: presso questi autori, «dato» è inteso nel senso di «univocamente determinato» e quindi «calcolabile» a partire dalle posizioni numeriche iniziali di un problema, mentre le catene di dati sono immediatamente interpretabilì come i) giustificazione della validità di una "formula" per esprimere una certa grandezza, il cui valore sarà calcolato nella sintesi in accordo con la formula stessa (ad esempio in Metrica 1.14, di cui l'enunciato in Pappo, ColI. IV.11, letto sopra è una variazione in puro stile geometrico), oppure come ii) procedura per esplicitare una delle grandezze coinvolte in una formula (Alm. 1.10). Si aggiunga che lo stesso linguaggio formula (= formalizza) certi tipi di enunciati, contribuisce cioè a fissare dei campi di ricerca matematica: è una funzione metalinguistica che induce una partizione degli enunciati in categorie trasversali a quella canonica tra problemi e teoremi. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, tali attenzioni rimandano a questioni ontologiche: in questo caso è in gioco la demarcazione tra esistenza e costruibilità. 1.

2.1.5. L '«algebra» di Diofonto

Diofanto l'oscuro, maledetto dagli scoliasti «per la difficoltà dei [s] uoi teoremi» (DOO II, 260). Diofanto il non-greco, uscito dal niente e Il rientrato. Nessuno lo cita salvo Teone (iA, 453), non cita nessuno salvo Ipsicle (DOO I, 470-2). Invia gli Arithmetica ad una persona il cui nome è tra i più comuni dell' antichità greca. Infine, e quel che è peggio, Diofanto l'algebrista.

134

}.

PROBLEMI

Andiamo per gradi. Mi atterrò al Diofanto rimasto in greco. Egli stesso fornisce nel proemio, indirizzato a un certo Dionisio, un'introdu,.ione al proprio linguaggio (DOO I, 2-12); per una volta, un' epistola prefatoria dà anche indicazioni di metodo (ivi, 14-6). Eccone un breve riassunto. Come Dionisio sa sicuramente, i «numeri sono composti da una certa molteplicità di unità» (cfr. El. vII.def.2), e all'interno della loro illimitata molteplicità vengono identificate le «specie», ognuna «elemento della teoria aritmetica». Esse sono i numeri «quadrati», «cubi», bUVullobuvallELç «potenze di potenza» (il termine si trova anche in Erone, Metrica 1.17, HOO III, 48), «potenze di cubo, che derivano da quadrati moltiplicati per i cubi sui loro stessi lati», xUf36XUf3OL «cubi di cubo». Una «specie» (Elboç) è cosi denominata in quanto il numero è visto nel rispetto della «forma» che assume; il termine designa forme geometriche qualsiasi per lunga tradizione (cfr. El. VI.31). Diofanto introduce poi il termine bUvUIlLç «potenza» come sinonimo di numero «quadrato», e descrive il sistema dei segni che userà come «denominazioni concise»: rispettivamente L\ Y, K Y, L\YL\, L\KY, KYK. Segue «quello che non possiede nessuna di queste proprietà, ma che ha in esso una molteplicità indeterminata di unità, sia chiamato numero (àQL81l6ç), e il suo segno sia ç». Il termine àQL81l6ç è dunque tecnico in Diofanto e non ha niente a che vedere con il «numero» degli Elementi o della tradizione filosofica, con buona pace di J. Klein (PAR. 2.1.2). «Vi è anche un altro segno, quello costante dei < numeri> determinati, l'unità, e il suo segno è una M con una O soprascritta, ~). Questa è nient'altro che l'abbreviatura ilO per Ilovaç «unità». Vengono poi denominate le specie inverse «(una volta denominati i numeri, le parti omonime saranno chiamate in modo simile ai numeri»), con l'aggiunta del suffisso -mov alle denominazioni dei numeri corrispondenti; il loro segno si ottiene da quello delle specie per aggiunta di un ulteriore segno )( a sormontare, uguale per tutte. Sono esposte le regole di moltiplicazione tra specie o loro inverse e specie o loro inverse; le divisioni tra le specie sono dichiarate evidenti. Sono infine descritte le regole dei segni, e introdotto il segno di difetto l' «una 'II troncata e che punta verso il basso» (il segno si trova anche in Erone, Metrica 111.7, HOO III, 156). Terminata la parte descrittiva, Diofanto passa alla caratterizzazione del metodo con cui trattare le uguaglianze tra specie numeriche di cui è oggetto il trattato. Le specie che vi figurano hanno sempre "coefficienti" positivi, quindi il loro segno dipende dal fatto se siano sommate «(sussistenti») o sottratte «(difettanti»), e possiamo «sommare specie sussisten135

IL SILENZIO DELLE SIRENE

ti e difettanti, non della stessa molteplicità, ad altre specie, che siano esse stesse sussistenti, oppure similmente sussistenti e difettanti», e cosl per la sottrazione di specie. Giungono infine le operazioni di «restaurazione» (sommare specie ad entrambi i membri in modo che quelle che figurano con segno negativo scompaiano) e «riduzione» (sottrarre specie simili da entrambi i membri finché ogni specie figuri ad un solo membro): Dopo di ciò da un certo problema risultano certe specie uguali alle stesse specie, ma non di simile molteplicità. Sarà necessario sottrarre da uno e dall'altro membro simili da simili, fino a che risulti una sola specie uguale a una sola specie. E qualora in uno o nell' altro o in entrambi persistano certe specie difettanti, sarà necessario sommare le specie difettanti in entrambi i membri, fino a che le specie di entrambi i membri risultino sussistenti, e di nuovo sottrarre simili da simili, fino a che a uno e all'altro dei membri rimanga una sola specie. Che la propria abilità tecnica si indirizzi a questo nelle supposizioni degli enunciati, affinché rimanga, qualora possibile, una sola specie uguale a una sola specie; dopo ti mostreremo anche come si risolve il caso in cui siano lasciate due specie uguali ad una sola.

Di questo secondo caso non c'è traccia negli Arithmetica, né in greco né in arabo, anche se proposizioni come VI.22 presuppongono che si sappia come risolverlo (suggerendo che gli attuali libri IV-VI in greco fossero gli ultimi del trattato). Le «supposizioni» sono la parte iniziale di un problema diofanteo, dove i numeri da determinare sono espressi in termini del numero o di opportune combinazioni di specie (noi parleremmo di «assegnare le incognite»). Si tratta della parte più delicata della risoluzione, in cui esce fuori l'abilità tecnica del solutore; non a caso, Diofanto sottolinea questo aspetto (forma verbale più lo stesso < numero> dato faccia un quadrato, essi [scii. i due quadrati risultanti] vengono fuori da due quadrati consecutivi. Per ogni coppia di quadrati consecutivi si trova in aggiunta un altro numero, quello che è due volte la somma aumentata di due, tale da fare il numero maggiore di tre numeri, tali che il < rettangolo> da due quali si vogliano, sia che prenda in ag- . giunta la loro somma sia quello che resta, faccia un quadrato. La differenza di ogni coppia di cubi è < la somma di due> cubi.

Viene da chiedersi per quale motivo risultati di questo genere siano chiamati «porismi». Sembra da escludersi il significato canonico di «corollario», vista ad esempio la rilevanza del terzo. Il loro formato è teorematico: frasi condizionali o dichiarative contenenti forme verbali finite. Il verbo «trovare» nel secondo non deve ingannare: la specificazione di quale sia il numero aggiuntivo toglie ogni sfumatura problematica all'enunciato. Né tali enunciati hanno una connotazione esistenziale particolarmente spiccata, il che potrebbe farli apparentare ai Porismi euclidei. Forse il termine serve a segnalare che l'oggetto principale della «teoria aritmetica» sono i problemi, e che le proposizioni di carattere teorematico hanno una funzione puramente ancillare.

2.

PROBLEMI

Nel problema II.8 quanto richiesto nell' enunciato è impiegato immediatamente nella determinazione delle soluzioni. Si tratta di una spia che il procedimento è di tipo analitico. Il fatto è confermato dall'uso frequente, in corso di dimostrazione, di espressioni introduttive di asserti quali «occorre quindi», tipiche di chi voglia formulare come deduzione "in avanti" una ricerca di precondizioni. Diofanto si spinge oltre in questa direzione. In certe proposizioni, ad esempio i lemmi IV.33t34 e 34135 e la proposizione v.16, egli espone in primo luogo un procedimento che risolve il problema in un caso numerico, che ripercorre poi "a ritroso", in modo da proporne una soluzione esplicitamente indeterminata. Leggiamo il lemma IV.34f35 (DOO I, 280-2): Trovare due numeri indeterminati cosi che il < rettangolo> da essi meno uno e l'altro insieme faccia un numero dato. Sia s. Sia assegnato il primo lç, il secondo 3U, e il < rettangolo> da essi meno uno e l'altro insieme fa 2ç l' 3U uguale ad Su. E il numero risulta 5 112 u. Alle supposizioni: sarà il primo 5 112 u, il secondo 3U. Considero dunque di nuovo da dove il numero sia risultato 5 112 u. Dall' essere 11 stato diviso in 2; ma 11 è quello dato più il secondo; e i numeri sono 2, < cioè> il < numero> minore del secondo per un'unità. Qualora dunque assegno il secondo di quanto si voglia e lo sommiamo a quello dato, e ciò che risulta lo dividiamo per il < numero> minore del secondo per lU, troveremo il primo. Sia il secondo lçlU: questi più Su fanno lç9U. Li divido per il < numero> minore del secondo per lU, cioè per lç, e risulta lU9ç. E risulta risolto nell'indeterminato, cosi che il < rettangolo> da essi meno uno e l'altro insieme fa Su.

Un procedimento analogo, a volte segnalato dall'avverbio interrogativo «da dove» come nel testo appena letto (cfr. DOO 1,276,282,352, 356,392), è all'opera in una cinquantina di proposizioni e in particolare in IV.28, il cui enunciato è «Trovare due numeri tali che il loro < rettangolo> , sia che prenda in aggiunta l'uno e l'altro insieme, sia che gli facciano difetto, faccia un cubo». In esso coesistono due livelli di problemi: la determinazione delle soluzioni e la determinazione di assegnamenti (il valore dei due cubi) tali che il problema sia risolubile (in IV.19 uno degli assegnamenti dipende a sua volta dal numero). Diofanto pone in effetti inizialmente 64 e 8 i due cubi cui deve essere uguale il prodotto più o meno la somma dei due numeri cercati. Sommando e sottraendo JtÒ8EV

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IL SILENZIO DELLE SIRENE

le due espressioni egli riduce il problema alla determinazione di due numeri tali che somma faccia 28 e il prodotto 36. La procedura di Ar. 1.27 fornisce «L\Y uguale a 160u. E se 160u fossero stati quadrati, quanto da noi richiesto sarebbe risultato risolto». Ma 160 non è un quadrato: il problema non è risolubile. Come nell' esempio precedente, Diofanto mette allora in moto un ragionamento a posteriori, percorrendo a ritroso i passaggi tramite i quali è stato ottenuto 160, e conclude che il problema di determinare assegnamenti acconci «risulta dunque ridotto a trovare due cubi tali che 1/4 della loro differenza, per sé stesso, e meno 112 dell'uno e dell'altro insieme, faccia un quadrato». Risolto questo problema, Diofanto ritorna a trattare quello principale. Ecco le caratteristiche delle proposizioni precedenti che le fanno apparentare a dei problemi algebrici risolti algebricamente; in realtà, la corrispondenza è presa per ovvia dai fautori di tale lettura, ed è il primo punto che pesa veramente. I problemi degli Arithmetica con i loro simboli si prestano, molto di più dell' algebra araba che fa uso unicamente di linguaggio naturale, ad una trascrizione immediata in termini algebrici. 2. L'approccio diofanteo è strettamente analitico: quanto richiesto nell' enunciato è impiegato nel corso della dimostrazione allo scopo di determinare le soluzioni. Le sintesi sono banali, in quanto consisterebbero nella verifica che i numeri trovati verificano le condizioni poste, e, salvo rare eccezioni, sono preterite e limitate a frasi come quelle trascritte sopra. Nella versione araba le sintesi sono aggiunte sistematicamente, cosi come una ripetizione dell' enunciato in cui al «numero dato» è sostituito il valore effettivamente assunto. Viene però da chiedersi se Diofanto avrebbe considerato le proprie soluzioni delle analisi oppure delle costruzioni: egli non parla mai di «sintesi», ma solo di dimostrazione. Forse il paradigma analitico è semplicemente inadeguato in questo caso. 3. Diofanto tematizza l'uguaglianza e ne fa un oggetto matematico. Egli parla ripetutamente di ì.o6'tTjç e Luwmç, sostantivi che non appartengono alla tradizione euclidea. Egli usa denominazioni come blJtÀ,OL06'tTjç o blJtÀ,fj Lo6'tTjç «doppia uguaglianza» per denotare un particolare sistema di due uguaglianze (prima occorrenza in Ar. II.11), rtaQl.O"6'tTjç «parauguaglianza» per denotare la determinazione di uno o più quadrati di somma data in modo che siano tutti ((approssimativamente uguali» allo stesso numero; la procedura è spiegata tramite esempio ed applicata in 1.

l.

PROBLEMI

V.9-14. Il passo dalle uguaglianze alle equazioni è breve, visto che le (."spressioni diofantee contengono delle "incognite"; i problemi degli Arithmetica risolverebbero dunque "equazioni", che siano determinate come 1.27 o indeterminate come II.8. 4. I due termini con cui gli algebristi arabi designano il proprio campo di ricerca, al-jabr e al-muqiibala, corrispondono esattamente alla «restaurazione» e «riduzione» di Diofanto, che in II.8 sono indicate dalla frase formulare «Sia sommato il difetto comune e < sottratti> simili da simili». A questi argomenti si possono contrapporre i seguenti.

a) Negli Arithmetica non vi sono simboli: già il traduttore arabo Qusta ibn Liiqa, che pure dà un taglio algebrico deciso alla propria versione, scioglie tutte le abbreviazioni e ci offre un testo in puro linguaggio naturale: la cosiddetta «algebra retorica», termine fuorviante che mostra da sé la propria prospettiva distorta. Non bisogna fare confusione tra segno e simbolo: L\ Y non è lo stesso che il quadrato di ç, e infatti il secondo viene definito dopo ed anzi come per opposizione al primo: è «il numero che non possiede nessuna di queste proprietà»; tra le due nozioni di numero e di «potenza» non sussiste la stessa relazione che tra x e r. I segni di Diofanto, oltre a non simboleggiare alcunché, non denotano neanche il risultato di operazioni: quando ç compare in una frase e non in un' espressione è preceduto dalI'articolo: si tratta dunque di una pura abbreviazione. Si potrebbe obiettare che egli scrive pur sempre che «(fiUmero moltiplicato per potenza fa cubo», cioè che ç per L\Y dà K Y • Non dobbiamo però farci fuorviare dal nostro abito mentale: non si tratta della «stessa ç» come in;xX2 = x 3• Gli oggetti in questione sono semplicemente quantità numeriche indeterminate, con in più una determinazione di specie: il risultato è un «cubo» perché ottenuto per moltiplicazione di un quadrato per il proprio lato. Che i segni diofantei siano abbreviazioni di vocaboli è ulteriormente confermato dalla posizione di particelle come il «quindi» verso la fine della dimostrazione di II.8: in greco esso si trova canonicamente in seconda posizione, dopo il segno per «potenza» (L\ Y aga EWaL ç Lç). b) I termini al-jabr e al-muqiibala hanno designato due operazioni algebriche specifiche, diventando eponimi dell'intera disciplina, fin dal trattato di al-KhwarizmI, composto sotto il califfato di al-Ma'miin (813-33). La traduzione diofantea di Qusta ibn Liiqa risale alla seconda

141

IL SILENZIO DELLE SIRENE

metà dello stesso secolo, ed introduce, sin dal titolo Arte dell'Algebra, una connotazione algebrica esplicita: vengono appunto impiegati termini come al-jabr e al-muqiibala, sostantivi che non hanno corrispondente negli Arithmetica, jidhr «radice» o shay' «cosa» per il numero. In realtà, le due operazioni diofantee corrispondono esattamente alle operazioni geometriche canoniche di sommare/sottrarre termini comuni che sono frequentissime anche solo negli Elementi (ad esempio nel libro II) e che sono sancite come valide in tutta generalità in El.nc.2 e 3. Si noti inoltre che «restaurazione» e «riduzione» hanno in al-KhwarizmI una funzione sistemica, in quanto servono a ridurre ogni equazione ad una forma normale, mentre in Diofanto si applicano soltanto a semplificare le specie sottratte o ridondanti in ogni singolo problema specifico. c) Non si può insistere troppo sul fatto che Diofanto tematizzi le uguaglianze; dopotutto, non va molto oltre l'introduzione di un sostantivo. Già il suo lessico è però molto oscillante. Si consideri il verbo «fare», che leggiamo nell'enunciato di 1.27: «Trovare due numeri in modo che la loro somma e il prodotto facciano numeri dati». Esso è tipico degli enunciati. Nel corso della dimostrazione, tuttavia, Diofanto lavora su esempi numerici concreti e numeri, e il verbo è molto spesso rimpiazzato, in asserti corrispondenti all'enunciato, da «essere uguale a» o semplicemente da «essere». L'equivalenza delle tre formulazioni appare evidente da passaggi come ad esempio l'ultima inferenza di Ar. 1.29, dove in un argomento per transitività appaiono in successione «fare», «essere» e «essere uguale a» (DOO 1,64). d) Negli Arithmetica le uguaglianze non sono assunte quale paradigma di riferimento per unificare il trattamento di problemi geometrici e aritmetici, oppure afferenti a una delle scienze subordinate (geodesia, logistica... ), cioè come una specie di super-matematica in grado di convalidare branche della matematica stessa. Questo approccio è esplicito e posto come passo preliminare solo in al-KhwarizmI: egli elenca, discute e risolve le 6 forme normali delle equazioni di secondo grado in cui siano uguagliate solo somme di quantità sicuramente positive, giustificandone la formula risolutiva, ottenuta per completamento del quadrato, per mezzo di considerazioni geometriche; il tutto prima di passare alle loro applicazioni. Solo molto più tardi, e grazie a Viète che farà reagire certe procedure con il metodo di analisi, una supposta algebra antica si è "naturalmente" identificata con la teoria dei numeri diofantea e, in virtù di acrobazie ermeneutiche supplementari, con spezzoni di discorso puramente geometrico quali El. II. È Diofanto che è tradotto in linguaggio

l

PROBLEMI

algebrico, non Diofanto che induce la rivoluzione algebrica. Se vogliamo rintracciare i tenui prodromi in ambito greco di concezioni che vadano oltre la divisione canonica tra discipline dello scibile, dobbiamo rivolgerci alla «matematica generale» identificata da Proclo con la teoria delle proporzioni o con El. II (iE, 7-10, 60; cfr. Rabouin, 2009), o a Erone, che nei Metrica persegue sistematicamente l'idea di giustificazione geometrica di procedure algoritmiche preesistenti, adottando illinguaggio dei dati, mentre, a dire di Pappo, Collo VIII.1, fa della «meccanica razionale» una metadisciplina che comprende, e quindi precede, aritmetica, geometria, astronomia e «fisica». e) Come abbiamo visto nel PAR. 2.1.2, negli Arithmetica non v'è traccia di utilizzo di lemmi geometrici quali El. II. 5 o 6 per giustificare le procedure risolutive delle uguaglianze proposte. Tale prospettiva di commistione di generi, basata ancora sul linguaggio dei «dati», sarà invece abbracciata dai primi algebristi arabi, in particolare Thabit ibn Qurra. Diofanto fa ben uso dei lemmi lineari del libro II per enunciare identità numeriche, ed è ben consapevole che si tratti di identità (cfr. ad esempioAr. IV.19, DOO 1,230). Egli impiega però questa e altre identità solo come regole di sostituzione, e si inserisce semplicemente nella tradizione euclidea: non c'è necessità (Vitrac, 2oo5a) di presupporre una versione aritmetica di El. II come quella che sarà proposta da Barlaam (EE V,2, 351-62). f) Per quanto i problemi degli Arithmetica siano risolti su casi numerici fittiziamente particolari, le indicazioni procedurali esplicitamente generali sono molto scarse o assenti. Il "metodo" diofanteo si riduce ad una congerie di tecniche: l'opera non è che una topica di problemi esemplari. Eccezioni solo parziali sono i problemi risolti ÈV'tU àOQlo't

l: scriverò, in forma simbolica, (A, C) = n(B, D). La nozione, lasciata indefinita, è studiata all'inizio del libro v: la serie di risultati proposta in v.I-6 è una piccola teoria indipendente della nozione di ((equimultiplo»; ce ne occuperemo tra un attimo. Prima affrontiamo il cuore della teoria delle proporzioni: la def. 5 del libro v, che definisce la relazione di proporzionalità (EE II, l): Grandezze sono dette essere nello stesso rapporto, prima rispetto a seconda e terza rispetto a quarta, quando, secondo quale si voglia multiplo, gli equimultipli della prima e terza o eccedano insieme rispettivamente gli equimultipli della seconda e quarta presi in ordine corrispondente, oppure siano insieme uguali, oppure facciano insieme difetto.

Sono in gioco quattro grandezze, A, C, B, D, a priori non sullo stesso piano: la prima coppia dà origine ad un rapporto, e cosi la seconda. Di A, B sono presi equimultipli, e cosi di C, D. Occorre specificare che questi equimultipli sono arbitrari e indipendenti: la locuzione ((secondo quale si voglia multiplo» ha questa funzione; la generalità della definizione è tutta 173

IL SILENZIO DELLE SIRENE

racchiusa qui. Gli equimultipli sono poi messi a confronto per mezzo delle relazioni «maggiore di», ((uguale a» e ((minore di». La formulazione è esplicita quanto al fatto che gli equimultipli di A e B «((gli equimultipli della prima e terza») vadano messi in relazione con gli equimultipli di C e D «((gli equimultipli della seconda e quarta»). Resta il problema del modo in cui la prima coppia sia da confrontarsi con la seconda. Una costante stilistica di tutto il corpus greco, quando due grandezze siano nominate in congiunzione, è di intendere che sia presa la loro somma. Se dunque vogliamo che i multipli siano comparati singolarmente e non in quanto somma occorre specificarlo: questa è la funzione di ((rispettivamente». Ne risulta dunque la formazione di due coppie ordinate, ma resta l'ambiguità se occorra confrontare, ad esempio, i multipli di A con quelli di C o con quelli di D. L'ambiguità è sciolta dall'ultima locuzione, ((presi in ordine corrispondente»: il primo menzionato della prima coppia di equimultipIi, A, con il primo della seconda, C, e cosi per i secondi menzionati. Per arrivare ad una trascrizione simbolica compatta di v.def.5 è utile partire da v.def.7, che stabilisce quando un rapporto sia maggiore di un altro (la connessione che propongo va intesa come un aiuto alla comprensione: non ha alcun fondamento testuale o storico). Osserviamo in effetti che, se due rapporti sono differenti, possiamo sempre interpolare tra di essi un rapporto numerico:

A:B > C·D - 3m,n E N I AIB > nlm ò!!: ClD. Da questa discende immediatamente una formulazione simbolica di v.def.7, più semplice di v.def.5 e quindi più trasparente (EE II,2): Quando degli equimultipli, il multiplo della prima ecceda il multiplo della seconda, e il multiplo della terza non ecceda il multiplo della quarta, allora la prima rispetto alla seconda è detta avere rapporto maggiore che la terza rispetto alla quarta.

In simboli:

A:B > C:D - 3m,n E N I (mA > nB A mC:s nD). Analogamente per il caso ((minore di»:

A:B < C:D - 3m,n E N I (mA < nB A mCò!!: nD). 174

3

TECNICHE

Negando la disgiunzione logica delle due caratterizzazioni precedenti si ottiene che per ogni coppia di multipli le disuguaglianze nelle due definizioni qui sopra devono andare in versi concordi. Ragioni di completezza suggeriscono di introdurre anche l'uguaglianza, caso che a rigore è superfluo, accanto alle due disuguaglianze. Trascrivo dunque v.def.5 in simboli con connettivi:

A:B::C:D - V m,n E N«mA > nB-mC> nD) v (mA = nB-mC= nD) v(mA < nB - mC < nD)). È del tutto evidente che questa definizione è operativa in senso forte: non definisce un oggetto ma una relazione tra oggetti, fornendo una procedura effettiva per stabilire se la relazione tra gli oggetti in gioco sussista o meno. È la relazione di proporzionalità ad essere studiata nel libro v, non quella di rapporto, se non nel senso estremamente debole che sono studiate identità di rapporti. Ci si può chiedere come possa funzionare una condizione che richiede una verifica su una molteplicità illimitata di oggetti, quali sono gli equimultipli della definizione. In realtà, se andiamo a leggere una qualsiasi dimostrazione che applichi la def. 5, osserviamo che le verifiche sono poco più che materia di rouUne. In primo luogo l'applicazione della definizione si limita al caso «maggiore di» e a stabilire un'implicazione invece di un' equivalenza logica. Siccome la definizione è simmetrica rispetto al verso delle implicazioni, la verifica è sempre formulata in modo indipendente da quello della disuguaglianza e il caso dell'uguaglianza è automaticamente soddisfatto una volta che lo siano gli altri, questa sola verifica tra le sei possibili è sufficiente. Il vero trucco risiede però nella scelta di equimultipli generici, una mossa che, come d'abitudine, non è sottolineata dalla presenza di qualificazioni atte a esprimere tale genericità. È istruttivo leggere le dimostrazioni per vedere come il requisito di genericità sia soddisfatto. Nel caso delle applicazioni geometriche di v.def.5, in VI.l, VI.33, XI.25 e XII.13, la prova si riduce al conteggio dei rispettivi multipli e, come conseguenza non dimostrata ma banale di risultati elementari di congruenza, all'asserzione che la (dis)uguaglianza tra multipli di una coppia vale anche per l'altra coppia. Si tratta di dimostrazioni dal contenuto geometrico esiguo ed in cui la verifica della condizione della definizione è immediatamente evidente data la configurazione geometrica. 175

IL SILENZIO DELLE SIRENE

Un tratto peculiare della teoria del libro v rende semplice il compito nel caso delle applicazioni astratte di v.def.5. Buona parte dei teoremi dimostra la stabilità della relazione di proporzionalità sotto opportune manipolazioni dei termini; nei casi in cui ciò non avvenga, V.7 stabilisce un risultato che banalizza la richiesta di genericità e rende immediata la verifica della definizione, V.15 non usa gli equimultipli per verificare la def. 5, v.8 e V.13 fanno storia a sé, in quanto vi si trova applicata la definizione 7. Negli altri teoremi del libro v, la maniera di dimostrazione è sempre la stessa, e comporta un'applicazione di v.def.5 nei due versi: una relazione di proporzionalità è già assunta tra le ipotesi, ed è sufficiente che le trasformazioni degli equimultipli indotte da quelle richieste in enunciato per i rapporti non introducano vincoli sulla scelta iniziale di multipli perché la genericità si preservi anche alla fine, quando la definizione 5 è applicata di nuovo in verso opposto a quello iniziale. Che non vengano introdotti ulteriori vincoli è dimostrato appunto nelle cruciali proposizioni V.1-2 e 4, con l'unica eccezione della transitività dell' equimultiplicità, proprietà non dimostrata e che lo fa in maniera da considerarsi evidente. Veniamo al contenuto del libro v, ed occupiamoci in primo luogo della teoria degli equimultipli sviluppata in v.1-6. Le proposizioni V.1, 2, 4 sono usate in maniera cruciale nella teoria delle proporzioni, V.3 è applicata solo nella dimostrazione di V.4, mentre V.5, 6 non trovano impiego nel libro v e quindi neanche negli Elementi. È però possibile indicare proposizioni di teoria delle proporzioni che, in un senso ben preciso oltre che per specifiche identità di formulazione (con asterisco nel prospetto), corrispondono a quelle del gruppo v.1-6: teoria degli equimultipli

1*

2

3

4*

5*

6

teoria delle proporzioni

12*

18

22

15* 19*

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La corrispondenza si coglie immediatamente se esplicitiamo il "contenuto matematico" delle proposizioni v.1-6, espresso in forma simbolica. I sei teoremi stabiliscono la stabilità dell' equimultiplicità sotto certe trasformazioni: 1. se (A, C, ... ) = n(B, D, ... ), allora (A, A + C + ... ) = n(B, B + D + ... ); 2. se (A, C) = n(B, D) e (E, F) = m(B, D), allora (A + E, C + F) = k(B, D); 3. se (A, C) = n(B, D) e (E, F) = m(A, C), allora (E, F) = k(B, D);

3

TECNICHE

4. se A:B::C:D allora, per ogm coppla di multipli n ed m,

nA:mB::nC:mD; 5. se (A, C) = n(B, D) con C, D minori di A, B, allora (A - C, A) = n(B-D, B); 6. se (A, C) =n(B, D) e (E, F) =m(B, D) con E, F minori di A, C, alloraA -E=B e C -F=D oppure (A -E, C -F) =k(B, D). Una volta che l'interesse vena sulla stabilità della relazione, è del tutto superfluo specificare, ad esempio, che k = n + m in V.2 o che k = nm in V.3. Le proposizioni corrispondenti di teoria delle proporzioni sono quelle in cui è questione della stabilità dell'identità di rapporto sotto: i) somma di antecedenti e conseguenti: se A:B::C:D::E:F... , allora (A + C + E ... ):(B + D + F... )::A:B (V.12); ii) componendo: se A:B::C:D, allora (A + B):B::( C + D):D (v.18); iii) tramite uguale: seA:B::C:D e B:E::D:F, alloraA:E::C:F (V.22); iv) passaggio ad equimultipli: A:B::nA:nB, con n multipli qualsiasi (V.15); v) sottrazione di antecedenti da antecedenti e di conseguenti da conseguenti: seA:B::C:D, allora (A - C):(B - D)::A:B (V.19); vi) dividendo: seA:B::C:D, allora (A - B):B::(C - D):D (v.q). Nessuna delle proposizioni del primo gruppo è usata per dimostrare, neanche parzialmente, le proposizioni corrispondenti del secondo. Ciò accade invece nel libro VII, dove è in effetti esposta una teoria delle proporzioni del tutto indipendente da quella del libro v, ma che non ha neanche l'ambizione di ridimostrare tutti i risultati validi per le grandezze. Nella tabella seguente troviamo le proposizioni corrispondenti nelle due esposizioni: V VII

l

5

5-6 7-8

19

12

16

22

II

12

13

14

L'elaborazione del libro VII è dunque parziale, mirante a dimostrare i risultati strettamente necessari al prosieguo della trattazione. Come in v.1-6, il segmento iniziale (VII.4-1O) studia le relazioni di «essere parte! parti» (si veda il PAR. 3.7) indipendentemente dalla teoria delle proporzioni cui esse verranno immediatamente applicate. In VII.4 si stabilisce che tra ogni coppia opportunamente ordinata di numeri differenti vige la relazione «essere parte» oppure «essere parti». Seguono tre coppie, 5-6,

177

IL SILENZIO DELLE SIRENE

7-8, 9-10, che servono a stabilire per numeri che sono uno «parte» (risp. «parti») di un altro la relazione da cui discenderà, in accordo con la definizione, la corrispondente proposizione di teoria delle proporzioni. Le tre proposizioni corrispondenti alle coppie non sono date nello stesso ordine di queste, che sarebbe stato 12-11-13. VII.14 dimostra la proprietà «tramite uguale». Nella 15, a rigore solo una conseguenza della teoria, è provata valida una forma di «alternando» applicata alla relazione a 4 posti «misurare le stesse volte». Ritorniamo allibro v. La corrispondenza stabilita sopra tra i teoremi della teoria dell' equimultiplicità ed alcuni di teoria delle proporzioni è la manifestazione di una dualità in senso forte tra le due relazioni. Questo può tra l'altro fornire un motivo, strutturale anche se storicamente non corroborabile, per la presenza di proposizioni come V.5-6. L'idea è la seguente. L'equimultiplicità consiste in due relazioni a due posti annidate, E:F, allora A:B> E:F (V.13); ix) alternando: seA:B::C:D, alloraA:C::B:D (v.16); x) convertendo e invertendo: stabilite come ovvie nei porismi, quasi sicuramente inautentici, a V.19 e a v.7; xi) tramite uguale in proporzione perturbata: se A:B::D:F e B:E::C:D, allora A:E:: C:F (V.23); xii) somma degli antecedenti in proporzioni differenti con conseguenti uguali: se A:B::C:D e E:B::F:D, allora (A + E):B::( C + F>:D (V.24); e le "interazioni" fra (dis)uguaglianze tra termini e identità di rapporti: xiii) A:B::C:B e B:A::B:C se e solo seA = C (V·7, 9); xiv) A:B> C:B e B:A < B:Cse e solo seA > C (v.8, lO); xv) se A:B::C:D e A> C, allora B> D, e lo stesso per = e < (V.14); xvi) tramite uguale: se A:B::C:D e B:E::D:F e A > E, allora C> F, e lo stesso per = e < (V.20); xvii) tramite uguale in proporzione perturbata: se A:B::D:F e B:E:: C:D, eA >E, allora C>F, e lo stesso per = e < (V.21). 4. Risultati di teoria della primalità in VII.23-30. La primalità relativa è stabile sotto: passaggio ad un divisore di uno dei primi (23), al prodotto tra due numeri primi relativi ad un terzo (24) e tra coppie di primi relativi (26), al quadrato di uno dei primi (25), ai quadrati o cubi di entrambi (27), alla somma (28).

180

3

5.

TECNICHE

Teoria delle linee irrazionali. Stabilità della relazione di commensurabilità sotto identità di rapporto (x.n) e sotto somma (15); stabilità della relazione di in commensurabilità per passaggio a grandezze commensurabili (13) e sotto somma (16); stabilità della relazione «potere di più per il quadrato su una retta commensurabile con sé stessa» per passaggio a grandezze nello stesso rapporto (14); stabilità delle mediali e dei domini mediali sotto commensurabilità (23 e porisma); stabilità sotto commensurabilità delle 6 irrazionali ottenute per somma (66-70) e delle 6 ottenute per sottrazione (103-7). Come vedremo, la classificazione delle linee irrazionali nel libro x può essere compresa al meglio se vista nella prospettiva di ricercare classi minimali di rette stabili sotto due operazioni: la formazione di domini rettangolari compresi tra rette e l'applicazione parabolica di un dominio su una retta. 6. Stabilità dell' operazione di sezione in rapporto estremo e medio sotto l'addizione del segmento maggiore (XIII.5). 7. Nei Data. Stabilità del predicato «dato» sotto composizione o sottrazione di grandezze date (3-4). Stabilità della relazione «avere rapporto dato» sotto dividendo (5) e componendo (6). Transitività della relazione «avere rapporto dato» (8), e sua estensione al caso di molteplicità uguali di grandezze in rapporto dato (9). Se due grandezze sono sommate alla stessa, e le somme sono date, le grandezze sono uguali oppure differiscono per una grandezza data (12). 8. Ancora nei Data, proposizioni 10-1 e 13-21: analisi dettagliata della relazione «grandezza maggiore che in rapporto di una grandezza per una data» ( =1), in simboli, A è maggiore che in rapporto di B per una grandezza data C quando (A - C):B sia un rapporto dato; stabilità della relazione sotto le operazioni di comporre e scomporre (10-1); sue connessioni con la relazione «avere rapporto dato» (= 2.): transitività nella combinazione delle due (13). Se a grandezze in rapporto dato si sommano (14) o si sottraggono (15) grandezze date, le grandezze risultanti sono nella relazione 1 o nella 2.; se invece da una si sottrae e all'altra si somma sussiste solo la relazione 1 (16). Se due grandezze sono nella relazione 1 rispetto alla stessa grandezza, sono tra loro nella relazione 1 o nella 2. (17). Se la stessa grandezza è nella relazione 1 rispetto a due grandezze, queste sono tra loro nella relazione 1 o nella 2. (18). Transitività della relazione 1 (19). Da due grandezze date sono sottratte (20) o sommate (21) grandezze in rapporto dato: quelle risultanti sono tra loro nella relazione 1 o nella 2.. 181

IL SILENZIO DELLE SIRENE

La questione dello statuto della teoria delle proporzioni prima dell' elaborazione di El. v ha fatto sbizzarrire gli interpreti (cfr. PAR. 2.1.2). I dati testuali sono magri. In due scolii allibro v troviamo il contenuto del libro attribuito ad Eudosso (EEv,l, 211 e 213). Data ed origine degli scolii sono tuttavia ignote, e le affermazioni cosi vaghe da non meritare di considerarle testimonianze di peso. La loro formulazione suggerisce inoltre una dipendenza dal commento di Proclo, il quale afferma che Eudosso «fu il primo ad aumentare il numero dei teoremi cosiddetti generali», ma che Euclide «mise in ordine molti risultati di Eudosso» (iE, 67-8). Un frammento della Academicorum historia di Filodemo è altrettanto vago: «Pertanto in questo modo la teoria generale delle misure raggiunse un culmine allora per la prima volta e i problemi circa le definizioni poiché Eudosso rinnovò il metodo antiquato di Ippocrate» (PHerc. 1021 Y 10-2; il testo segue Dorandi, 1991, pp. 126-7; c'è da dire che varie lezioni del papiro sono incerte: si veda il commentario ivi, pp. 208-9 e il testo differente dato per esempio in Lasserre, 1987, p. 31). In APo. A 5, 743-17-25, A 24, 85a36-9 e B 17, 99a8-1o, Aristotele attesta, molto più solidamente a mio avviso, un recentemente avvenuto guadagno in generalità nella formulazione di certi teoremi sulle proporzioni, in particolare quello che stabilisce la validità della manipolazione in «alternando» (Acerbi, 2oo3a). Una Ur-teoria ancora più antica è stata postulata sulla sola evidenza di un passo aristotelico (Top. e 3, 158b29-35), in cui egli afferma che avere «la stessa sottrazione reciproca (àvtavalQEOLv») «è la definizione di "stesso rapporto»», e del commentario di Alessandro di Afrodisia in merito (in Top., 545), dove egli sostiene che questa era proprio la definizione che impiegavano gli antichi, solo che Aristotele chiama àv'tavaLQEOLV il procedimento che nella definizione era in realtà detto àVeUaLQEOLç. La testimonianza di Alessandro non vale niente: l'affermazione appena riportata è un truismo se si ha a propria disposizione il testo di Aristotele ed EL VII.I-2 e X.2-3, dove il procedimento di sottrazioni reciproche è appunto identificato dal secondo verbo; il resto non è niente più che una parafrasi di quanto scrive Aristotele. Su queste basi esigue è stato costruito nel corso di quasi un settantennio un gigantesco edificio composto unicamente di congetture, che prende il nome di «teoria antiferetica delle proporzioni», basata tra l'altro su un'indebita identificazione tra una teoria dei rapporti e una delle proporzioni. Attribuita a T eeteto in mancanza di alternative praticabili, avrebbe costituito la base teorica che poi sarebbe stata sostituita dalla forma eudossiana che leggiamo nel

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TECNICHE

libro v. In realtà, dalla testimonianza di Aristotele possiamo al massimo inferire che egli vedesse quella in termini di sottrazioni reciproche come una buona definizione di «stesso rapporto». Inoltre, qualsiasi definizione che proceda per divisioni si adatta all'osservazione aristotelica, in quanto nel riferimento geometrico addotto da Aristotele (domini con la stessa altezza hanno lo stesso rapporto delle basi) le altezze sono" messe a fattore". Che dietro a questa defihizione ci fosse una teoria non abbiamo alcun elemento per sostenerlo.

3. 2 La classificazione delle linee irrazionali e dei poliedri regolari Il libro x degli Elementi è l'unico segmento rimasto del corpus matematico greco in cui sia proposta una classificazione, con ambizioni di completezza, di una classe di oggetti geometrici (presentazioni in Euclide, 1999-2001 III; Mueller, 1981, pp. 260-95; Taisbak, 1982; Pappo in Junge, Thomson, 1930). Gli oggetti classificati sono certe specie di linee e di domìni irrazionali. Nelle definizioni sono già contenuti alcuni degli elementi base della classificazione: due grandezze sono commensurabili quando hanno una misura comune (def. 1). Due rette sono commensurabili «in lunghezza» quando ammettono un segmento come misura comune; lo sono «in potenza» quando i quadrati su di esse ammettono un dominio come misura comune (2); lo sono dunque «in potenza soltanto» quando lo sono in potenza ma non in lunghezza. Fissata una retta di riferimento detta Q'T)'tTJ «esprimibile», ogni retta commensurabile con essa in lunghezza o in potenza soltanto sarà anch' essa detta «esprimibile»; le rette incommensurabili con l'esprimibile di riferimento sono dette liÀ-OyOL ((irrazionali» (3). Domini piani commensurabili con il quadrato costruito sull' esprimibile sono anch' essi esprimibili, altrimenti sono irrazionali; in quest'ultimo caso, se ridotti a forma quadrata, anche il loro lato è una retta irrazionale (4). Come si vede, il linguaggio della teoria delle irrazionali si rifà tutto al registro semantico della dicibilità. La distinzione tra segmenti commensurabili in lunghezza e in potenza soltanto, ed il fatto che entrambe queste specie di commensurabilità identifichino rette esprimibili, risultano sorprendenti agli occhi nostri e di molti autori antichi. L'origine della distinzione va ricercata nel fatto che la classificazione delle irrazionali si fonda su una parallela classificazione dei domini, e questi ultimi stanno dalla parte del dicibile se e

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solo se vi stanno le rette su cui sono costruiti. Di conseguenza, per i domini l'esprimibilità può solo coincidere con la commensurabilità tout court con il dominio di riferimento. Ciò ha ricadute sul piano lessicale: il libro x utilizza un linguaggio molto peculiare per esprimere la serie di fatti matematici legati alla relazione tra una retta e il quadrato costruito su di essa. L'idioma mette in campo lemmi legati al verbo bilvaa8m «potere». i) Come visto, due rette sono commensurabili bUVUILEL «in potenza» quando i quadrati su di esse ammettono un dominio come misura comune. ii) Una retta Mva't:aL «PUÒ» un dominio quando è il lato del quadrato equivalente al dominio. Con tipico sintagma nominale abbreviato, la retta che «PUÒ» il dominio è detta ~ buvaILÉVYJ < ai,.tò > «quella che PUÒ». iii) Date due rette, la maggiore ILEu;,OV Mva't:aL «PUÒ più)) della minore, di solito per il quadrato su una terza retta, quando la differenza dei quadrati sulle prime due rette è equivalente al quadrato sulla terza. Dal punto di vista logico, «essere (in)commensurabile com) è una relazione simmetrica a due posti, la cui transitività (ovviamente valida solo per la commensurabilità) è dimostrata in X.12. Risultati preliminari riguardanti la relazione di commensurabilità per grandezze sono esposti all'inizio del libro x: come stabilire, con il procedimento delle sottrazioni reciproche, se due grandezze sono incommensurabili (2); altrimenti come trovare la misura comune di due o tre grandezze (3-4); condizione necessaria e sufficiente perché due grandezze siano commensurabili è che abbiano un rapporto che un numero rispetto a un numero (5-8); stabilità della relazione di commensurabilità sotto identità di rapporto (11) e sotto somma (15); stabilità della relazione di incommensurabilità per passaggio a grandezze commensurabili (13) e sotto somma (16). Se, nella relazione di commensurabilità ristretta a linee, saturiamo uno dei due posti con una retta di riferimento, l' «esprimibile)), otteniamo una relazione ad un posto, cioè un predicato che si applica a rette e che introduce una partizione modulo commensurabilità: una retta commensurabile, in uno dei due sensi ammessi, con un' esprimibile è ancora esprimibile. Ovviamente, che si operi la scelta dell' esprimibile è un fatto puramente convenzionale, in quanto da nessuna parte è specificato quanto questa retta sia "lunga" (cfr. Acerbi, 2oo8b). La scelta è però necessaria, dato che l'irrazionalità di una retta dipende da quella di riferimento. Rette commensurabili in lunghezza sono caratterizzate dal fatto

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che i quadrati su di esse hanno un rapporto che un numero quadrato rispetto a un numero quadrato (X.9). Rette commensurabili in lunghezza lo sono anche in potenza, ma ovviamente il viceversa non vale (porisma a X.9): da qui l'introduzione della nozione di rette «commensurabili in potenza soltanto». Nozioni complementari a queste sono quelle di rette incommensurabili in lunghezza soltanto, oppure anche in potenza. X.lO dimostra che esistono rette incommensurabili in ognuno dei due sensi. La prima apparizione (19-20) dei domini irrazionali mette subito in gioco due degli strumenti chiave della classificazione: la formazione di domini rettangolari compresi tra rette date e l'applicazione parabolica di un dominio dato su una retta data, cioè la trasformazione del dominio in un rettangolo avente la retta data come lato. Le due proposizioni mostrano che queste due operazioni fanno restare all'interno della classe delle rette (e domini) esprimibili, se le esprimibili di partenza sono commensurabili in lunghezza (19) o se il dominio e la retta su cui esso è applicato sono esprimibili (20). L'analogo di X.19 non vale per rette esprimibili commensurabili in potenza soltanto: il dominio rettangolare che formano è irrazionale, e sarà detto mediate. Esso può essere trasformato in un quadrato secondo la teoria esposta in 1.42-7 e II.14: anche il lato di questo quadrato sarà quindi irrazionale (21): tale retta è chiamata mediate. La prima delle rette irrazionali, la mediale, è quindi ottenuta tramite formazione di un dominio compreso tra rette di una classe nota e passaggio al lato del quadrato equivalente. Si tratta dell'unica irrazionale ottenuta con questa tecnica, anche se il teorema finale (X.1l5; quasi sicuramente spurio) mostra che è possibile iterare il procedimento in modo da trovare una molteplicità illimitata di mediali tutte differenti tra loro. Una piccola teoria delle linee mediali segue la loro introduzione: un dominio mediale applicato ad un' esprimibile dà un' esprimibile incommensurabile in lunghezza con l'altra (22); stabilità delle mediali e dei domini mediali sotto commensurabilità (23); domini rettangolari compresi tra mediali commensurabili in lunghezza sono mediali (24); se invece le mediali sono commensurabili in potenza soltanto i domìni possono essere o mediali o esprimibili (25); due domini mediali non differiscono per un dominio esprimibile (26). Si noti che, la formazione di domìni rettangolari compresi tra rette date e l'applicazione parabolica di un dominio dato su una retta data essendo operazioni in qualche senso una inversa dell'altra, le coppie di proposizioni X.19-20 e X.21-2 stabiliscono delle equivalenze logiche: due rette esprimibili sono commensurabili in lunghezza (in potenza soltanto) se e solo se il rettangolo tra esse compreso è un dominio

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esprimibile (mediale). lo stesso varrà per le proposizioni corrispondenti nelle esadi X.54-9 e 60-5, 91-6 e 97-102, come vedremo tra breve. Le proposizioni X.27-35 richiedono di trovare coppie di esprimibili o mediali commensurabili in potenza soltanto, o rette incommensurabili in potenza che soddisfino dei vincoli ulteriori su certi domini costruiti a partire da esse. Le motivazioni non sono trasparenti, ma queste proposizioni sono alla base di tutta l'estensione del sistema delle irrazionali che segue. Supponiamo in effetti di voler allargare lo spettro dei modi di produzione delle irrazionali con due nuove tecniche: somma e sottrazione di rette appartenenti a classi già note. Consideriamo per semplicità il caso della somma. Una volta fissata un 'esprimibile di riferimento, le classi che abbiamo finora identificato sono le rette esprimibili e quelle mediali. Volendo generare un'irrazionale per somma a partire da due rette soltanto, saranno rilevanti le relazioni di commensurabilità tra di esse. Sono possibili tre casi: a) le rette sono commensurabili in lunghezza e quindi anche in potenza; b) le rette sono commensurabili in potenza soltanto; c) le rette sono incommensurabili in potenza. Il libro x introduce tacitamente un vincolo che permette alla classificazione di non divergere irrimediabilmente: v) i domini costruibili a partire dalle rette (e cioè i due quadrati sulle rette e il rettangolo compreso da esse) possono solo essere o esprimibili o mediali. (Per capire il motivo dell'introduzione di questi domini, supponiamo di sommare due rette a e b e costruiamo il quadrato sulla loro somma - cfr. figura della pagina seguente. Il quadrato risulta composto da due rettangoli uguali R, compresi tra le rette componenti, e da due quadrati Q e q, descritti sulle rette componenti.) Perché questo vincolo e non altri è una domanda che non ammette risposta. Se vogliamo produrre delle irrazionali per somma di due rette, dobbiamo dunque analizzare una serie di casi e sottocasi, alcuni dei quali andranno eliminati in quanto non soddisfano i vincoli posti. 1. Se due rette a e b sono esprimibili commensurabili in lunghezza, per definizione i quadrati su di esse sono esprimibili: la loro somma è quindi esprimibile. Quanto ai rettangoli, essi sono esprimibili (19) e commensurabili con i quadrati. Per dimostrare quest'ultimo punto, osserviamo (VI.1) che Q:R::a:b e che le rette componenti a e b sono commensurabili 186

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a

b

R

q

b

Q

R

a

in lunghezza e quindi hanno rappono che un numero rispetto a un numero. Se ne conclude (x.n) che R è commensurabile con Q (e con q per un motivo del tutto analogo) e quindi anche con la somma Q + q (15). Il quadrato sulla retta somma di a e b è quindi esprimibile e lo è per definizione anche il lato. Questo caso non genera quindi nuove linee irrazionali. Se invece due rette sono esprimibili commensurabili in potenza soltanto, per definizione i quadrati su di esse sono entrambi esprimibili: la loro somma è quindi esprimibile. Quanto ai rettangoli, essi sono per definizione mediali (21) in quanto le rette sono commensurabili in potenza soltanto: dato che i due rettangoli sono uguali, anche la loro somma è mediale. Il quadrato sulla retta somma, di conseguenza, è somma di un dominio mediale e di uno esprimibile, che sono necessariamente incommensurabili tra loro: non può perciò essere né mediale (26) né esprimibile (x.def.4). È quindi un dominio irrazionale, il cui lato è anch'esso irrazionale (36): questa retta è chiamata binomiale (lett. «da due nomi»). 2. Se due rette a e b sono mediali commensurabili in lunghezza, un argomento del tutto analogo a quello appena esposto per le esprimibili commensurabili in lunghezza mostra che la retta somma è ancora una mediale (si usa X.24). Se due rette a e b sono mediali incommensurabili in potenza, si può dimostrare che i domini costruibili a panire dalle rette sono irrazionali non mediali e quindi non ammissibili per il vincolo v). Se due rette a e b sono mediali commensurabili in potenza soltanto il gioco si fa più complesso. In effetti, i quadrati sulle rette componenti sono sicuramente mediali (21), e quindi anche la loro somma (porisma a X.23; in effetti, i quadrati su rette commensurabili in potenza soltanto sono commensurabili per x.def.2; la somma dei quadrati è pertanto una somma di grandezze commensurabili ed è quindi commensurabile con

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ognuno degli addendi per X.15), ma il rettangolo compreso tra due rette mediali commensurabili in potenza soltanto può essere o esprimibile oppure mediale (25); che entrambi i casi si diano è mostrato nelle costruzioni esplicite di X.27-8. Ci sono quindi due sottocasi. 2Il. Se il rettangolo compreso è esprimibile, allora il quadrato sulla retta somma è somma di un dominio mediale e di uno esprimibile, che sono sicuramente incommensurabili tra loro: non può quindi essere né mediale (26) né esprimibile (x.def.4). È quindi un dominio irrazionale, il cui lato è anch'esso irrazionale (37): questa retta è chiamata bimediale prima. 2b. Se il rettangolo compreso è mediale, non è immediato che sia incommensurabile con il dominio mediale costituito dalla somma dei due quadrati. Osserviamo però ancora (VI.1) che Q:R::a:b e che le rette componenti a e b non sono commensurabili in lunghezza e quindi non hanno rapporto che un numero rispetto a un numero. Se ne conclude (x.n) che R è incommensurabile con Q (e con q per un motivo del tutto analogo) e quindi anche con la somma Q + q (15). Il quadrato sulla retta somma è quindi somma di due domini mediali incommensurabili tra loro. È quindi un dominio irrazionale, il cui lato è anch' esso irrazionale (38): questa retta è chiamata bimediale seconda. 3. Consideriamo ora due rette a e b non ulteriormente specificate incommensurabili in potenza. Occorre supporre, e non verificare, che i quadrati su di esse e il rettangolo compreso soddisfino il vincolo v). Ora, se tali domini sono esprimibili, il dominio somma è esprimibile e la retta somma è quindi anch' essa esprimibile. Si danno pertanto solo tre possibilità (che tutte e tre si diano è mostrato nelle costruzioni esplicite di X.33-5, che applicano X.29-32): 3a. la somma dei quadrati è esprimibile, il rettangolo compreso mediale. Il quadrato sulla retta somma è quindi un dominio irrazionale, il cui lato è anch'esso irrazionale (39): questa retta è chiamata maggiore; 3b. la somma dei quadrati è mediale, il rettangolo compreso esprimibile (40): il lato del dominio somma è un'irrazionale, chiamata < retta> che

può esprimibile e mediale; 3C. sia la somma dei quadrati che il rettangolo compreso sono mediali, ma incommensurabili tra loro (41): il lato del dominio somma è un'irrazionale, chiamata < retta> che può due media/i. 4. Se due rette a e b sono una esprimibile e l'altra irrazionale (mediale o altro), il rettangolo R compreso da esse non può essere né esprimibile (20) né mediale (22), in quanto in ogni caso, applicato all'esprimibile a,

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dovrebbe produrre una retta esprimibile: esso è quindi irrazionale non mediale e pertanto non ammissibile per il vincolo v). Ne risultano quindi 6 specie di linee irrazionali ottenute per somma. Si dimostra subito dopo (X.42-7) che le specie sono identificate univocamente dalle costruzioni, cioè che la loro divisione in rette componenti è unica. Lo stesso meccanismo è impiegato per generare per differenza 6 linee irrazionali (X.73-8): le due rette di base non sono sommate ma sottratte una dall'altra. I domìni di riferimento sono i quadrati sulle due rette e il rettangolo compreso tra la retta totale e quella sottratta. Poiché non c'è simmetria tra le rette componenti, la retta sottratta ha una funzione marginale e riceve una denominazione curiosa: «la retta che si adatta». Vediamo in un prospetto le corrispondenze tra le denominazioni delle 6 specie ottenute per somma e quelle delle 6 per sottrazione, con indicazione delle proposizioni dove sono definite: somma

differenza

X·3 6 binomiale

X·73 apotome

X·37 bimediale prima

X·74 apotome prima di una mediale

X·3 8 bimediale seconda

X·75 apotome seconda di una mediale

X·39 maggiore

X·7 6 mmore

X·4° < retta> che può esprimibile X·77 < retta> che con un' esprimibile fa e mediale il totale mediale X·41 < retta> che può due mediali

X·7 8 < retta> che con un mediale fa il totale mediale

I nomi delle ultime quattro si riferiscono esplicitamente alla maniera della loro formazione. Non è difficile intuire che le quattro specie con le denominazioni meno piattamente descrittive preesistessero alla classificazione del libro x: Pappo le attribuisce esplicitamente a Teeteto (in x El. n.17) e due sono nominate nel De lineis insecabilibus pseudo-aristotelico (968b2o). Apotome e minore appariranno nel libro XIII. Il resto del libro X contiene la dimostrazione che le 6 irrazionali definite per somma e le 6 per differenza sono univocamente determinate ed identificano classi distinte di irrazionali. A questo compito sono dedicate

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5 proposizioni, una per ogni specie; sono incluse la definizione e la costruzione di 6 sottospecie di binomiale e di 6 sottospecie di apotome. Siccome le dimostrazioni sono ripetute per ognuna delle 12 irrazionali, la mole del libro x si spiega facilmente: 1 proposizione in cui è introdotta la specie + 5 di classificazione, che moltiplicato per 12 dà 72 proposizioni. In realtà ne troviamo 70: le proposizioni 67 e 104, d'altronde strettamente parallele, inglobano eccezionalmente due specie (le due bimediali e le due apotomi di una mediale) in un solo teorema. La teoria vera e propria inizia dalla proposizione 36, il che fa arrivare a 105 proposizioni; si aggiungano 5 teoremi che esplicitano il legame con il vincolo sui domìni e di cui ci occuperemo tra breve (71-2 e 108-10) e il teorema con cui si dimostra che un'apotome non è identica a una binomiale (111), e resta lo spazio per 4 risultati finali, d'altronde concordemente riconosciuti spuri. Tutto ciò è condito da una nutrita serie di lemmi e porismi, frutto sicuramente di strati di interpolazioni successive. Nel prospetto seguente è esposta la struttura delle 70 proposizioni "centrali" ripartite per esadi: somma

sottrazione

costruzione delle specie di irrazionali

36-41

73-8

unicità della divisione in rette componenti

4 2 -7

79-84

costruzione delle 6 sottospecie

48-53

85-90

prima relazione tra le 6 specie e le 6 sottospecie

54-9

91-6

seconda relazione tra le 6 specie e le 6 sottospecie

60-5

97-102

66-70

103-7

stabilità delle specie sotto commensurabilità

Le 12 sottospecie hanno il nome del primo rappresentante della classe delle irrazionali definite per somma o sottrazione: si chiamano quindi binomiale prima, seconda, ... , sesta, ed apotome prima, seconda, ... , sesta. Il loro modo di generazione è descritto nelle definizioni seconde e terze, che precedono immediatamente le esadi 48-53 e 85-90, in cui un rappresentante di ognuna di queste sottospecie è costruito esplicitamente. Prendendo ad esempio il caso della binomiale, il criterio con cui sono costrui-

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te le sottospecie è il seguente: si forma il dominio differenza dei quadrati sulle rette componenti la binomiale e si considera la retta «che lo PUÒ» (cioè il lato del dominio quadrato equivalente). Questa retta può essere: i) commensurabile in lunghezza con la retta componente maggiore; ii) incommensurabile in lunghezza con la retta componente maggiore. Ricordandoci ora che una retta è una binomiale solo se abbiamo preventivamente fissato una retta esprimibile, ognuno di questi due casi si dirama in tre sottocasi: x) la retta componente maggiore della binomiale è commensurabile in lunghezza con l'esprimibile (e quindi la minore non può esserlo); y) la retta componente minore della binomiale è commensurabile in lunghezza con l'esprimibile (e quindi la maggiore non può esserlo); z) né la retta componente maggiore della binomiale né quella minore sono commensurabili in lunghezza con l'esprimibile. Il caso in cui entrambe le componenti siano commensurabili in lunghezza con l'esprimibile non può darsi, altrimenti non sarebbero commensurabili in potenza soltanto tra loro, come è invece richiesto dalla definizione di binomiale. Dato che i 6 sottocasi risultanti sono mutuamente esclusivi, le 6 sottospecie della binomiale sono tutte distinte tra loro, e lo stesso vale per quelle dell' apotome. A che cosa servono le 12 sottospecie? Servono a dimostrare che le 13 (inclusa la mediale) specie principali sono distinte. In effetti, la quarta e la quinta esade di ogni serie dimostrano che ogni specie di irrazionale corrisponde esattamente ad una ed una sola delle sottospecie introdotte, nell' ordine in cui le specie principali sono presentate. La corr~onden­ za è realizzata tramite i due strumenti già impiegati in X.19-20. la formazione di domini rettangolari compresi tra rette e l'applicazione parabolica di un dominio su una retta. I domini in gioco sono il quadrato sulla specie principale e il rettangolo compreso dall'esprimibile e dalla sottospecie corrispondente. La corrispondenza stabilisce che, dati due degli elementi lineari in gioco, purché una sia l'esprimibile, il terzo è univocamente determinato in quanto specie o sottospecie; come abbiamo visto sopra, nelle esadi corrispondenti (54-9 e 60-5, 91-6 e 97-102), le dimostrazioni sono a coppie una l'inversa dell'altra. Leggiamo per chiarezza gli enunciati di X.54 e x.60 (EE 111,90 e 103): Qualora un dominio sia compreso da un' esprimibile e da una binomiale prima, la < retta> che può il dominio è irrazionale, quella chiamata binomiale.

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Il < quadrato> su una binomiale applicato a un' esprimibile fa come larghezza una binomiale prima.

La chiave di volta dal punto di vista tecnico sono le proposizioni X.17-8: esse permettono di trasformare biunivocamente le 6 condizioni caratterizzanti le classi di irrazionali ottenute per somma (risp. differenza) in corrispondenti condizioni di sottoclasse della binomiale (risp. apotome), le quali sono per stipulazione incompatibili tra loro. Poiché dunque le sottospecie sono tutte distinte, dalla corrispondenza si inferisce che anche le specie principali lo sono (porismi a 72 e 111). In X.111 si dimostra che un' apotome non è identica a una binomiale: le 12 specie di irrazionali sono quindi tutte distinte. Allo stesso modo, poiché il quadrato su una mediale applicato a un' esprimibile fa come larghezza un' esprimibile incommensurabile in lunghezza con quella a cui il quadrato è applicato, anche la mediale è distinta, sulla base dello stesso criterio, dalle altre 12 specie. I teoremi X.71-2 e 108-10 mostrano che le irrazionali principali possono essere ottenute come rette «che possono» la somma di opportuni domini. Si ricordi in effetti che i domini che intervengono in maniera decisiva nella formazione delle 6 specie sono i quadrati sulle rette componenti e il rettangolo compreso da esse. Se andiamo a rileggere il modo di generazione delle irrazionali per somma descritto sopra, vediamo che nei casi 1, 2tl, 3a e 3b uno di questi due domini è esprimibile, l'altro mediale. Nei casi 2b, 3C entrambi i domini sono mediali. Ebbene, questo stato di cose vale in generale: la retta che «PUÒ» la somma di un generico dominio esprimibile e di un generico dominio mediale è una delle prime quattro (71), quella che «PUÒ» la somma di due domini mediali incommensurabili è una delle ultime due (72). Lo stesso vale per le specie ottenute per differenza, solo che i domini vanno sottratti. Nel primo caso occorre dunque specificare se sottraiamo il dominio mediale da quello esprimibile (108) o viceversa (109). Ne risultano tre teoremi che si ripartiscono equamente le 6 specie di irrazionali. In un senso ben preciso, dunque, il sistema delle irrazionali risulta "chiuso" rispetto a certe operazioni. I teoremi 112-3, sicuramente spuri, dimostrano uno splendido risultato che mette ancora in campo la tecnica dell' applicazione su un' esprimibile del quadrato descritto su un'irrazionale: l'apotome e la binomiale si corrispondono sottospecie per sottospecie in questa corrispondenza, i «nomi» della binomiale essendo commensurabili e proporzionali a quelli dell'apotome. Infine (114), la retta che «PUÒ» il rettangolo compreso da

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apotome e binomiale che abbiano i «nomi» commensurabili e proporzionali è esprimibile. L'ultima proposizione (115) mostra come costruire una gerarchia infinita di mediali distinte; è un' aggiunta posteriore, molto probabilmente di origine apolloniana (Vitrac, 1990-2001, III, p. 411). N egli Elementi non troviamo una definizione dei poliedri regolari come classe: lo sono singolarmente, eccettuato il tetraedro, in xl.def.25-8. Il cuore del libro XIII tratta il problema dell'inscrizione dei cinque poliedri regolari in una sfera data in grandezza (El XIII.13-7). La prassi costruttiva è quella già al lavoro nel libro IV: le costruzioni sono effettuate con riferimento ad un cerchio (sfera) in cui inscrivere il poligono (poliedro); nessuno dei poligoni o dei poliedri è costruito a partire da un suo lato (spigolo), come invece accade per il triangolo equilatero e per il quadrato in El 1.1 e 1.46 rispettivamente. Le stesse proposizioni del libro XIII contengono anche la determinazione degli spigoli dei poliedri regolari in rapporto al diametro della sfera. Per quanto riguarda gli spigoli, risulta che il diametro della sfera è: i) 312 in potenza di quello del tetraedro, denominato tout court «piramide» (l'espressione significa che il quadrato sul diametro e quello sullo spigolo del tetraedro hanno un rapporto di 3:2); ii) doppio in potenza di quello dell' ottaedro; iii) triplo in potenza di quello del cubo. Se il diametro della sfera è assunto esprimibile iv) lo spigolo dell'icosaedro è una minore, v) quello del dodecaedro un'apotome. La proposizione XIII.18 esibisce nella stessa costruzione i cinque spigoli, e li confronta tra loro. Le relazioni tra i primi tre sono ovvie; quella tra gli spigoli del cubo e dell'icosaedro evidente dalla costruzione, per quanto non enunciata esplicitamente. Ciò che richiede dimostrazione è che lo spigolo dell'icosaedro è maggiore di quello del dodecaedro, mentre una conseguenza immediata di XIII.l? (parzialmente stabilita in un porisma) è che lo spigolo del cubo è maggiore di quello del dodecaedro. Un lemma finale, che ritroviamo identico in Coli. V.104-5, dimostra che esistono solo cinque poliedri regolari. Le costruzioni sono precedute dal seguente materiale preparatorio. XIII.1-6 presentano proprietà di una retta secata in rapporto estremo e medio, cioè tale che il quadrato sul segmento maggiore sia uguale al rettangolo compreso da quello minore e dall'intera retta (è la cosiddetta "sezione aurea"; cfr. El. II.11 e VI.30). In particolare, XIII.5 dimostra la stabilità dell' operazione di sezione in rapporto estremo e medio sotto l'addizione del segmento maggiore; XIII.6 stabilisce che ognuno dei segmenti di un' esprimibile secata in rapporto estremo e medio è un' apoto193

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me. Le 5 proposizioni che seguono riguardano proprietà del pentagono regolare, eccettuata XIII.9, che asserisce che il lato di un esagono e di Un decagono inscritti nello stesso cerchio, se giustapposti, formano una retta secata in rapporto estremo e medio. La 12 stabilisce che il lato di un triangolo equilatero è triplo in potenza del raggio del cerchio circoscritto. Particolarmente forte il risultato di XIII.10: i lati di pentagono, esagono e decagono regolare inscritti nello stesso cerchio formano un triangolo rettangolo (Hogendijk, 1987b; Taisbak, 1999). La tradizione attribuisce a T eeteto l'invenzione della nozione di poliedro regolare (Scolio liminare ad EL XIII, in EE V,2, 291, e si vedano Sachs, 1917, e Waterhouse, 1972-73), anche se alcuni di essi erano sicuramente noti prima. T eeteto fu probabilmente il primo a darne una definizione, stabilendo che ve ne sono solo cinque. Il punto cruciale è in effetti isolare questa nozione come rilevante, per mezzo di una buona definizione: ciò permette di dare dignità all' ottaedro, solido altrimenti insidiosamente poco significativo. Il tema di El. XIII dette origine a sottili variazioni, che coinvolsero quasi tutti i principali matematici posteriori. Si tratta di una vera impresa collettiva, condotta per varianti ed accrezioni successive. È decisiva la testimonianza del cosiddetto XIV libro degli Elementi, redatto da Ipsicle in pieno II secolo a.c. (EEv,l, 1-4): Aristeo (forse contemporaneo di Euclide) scrisse un trattato intitolato Confronto delle cinque figure, dimostrando tra l'altro che la faccia triangolare dell'icosaedro e quella pentagonale del dodecaedro inscritti nella stessa sfera si trovano inscritte nello stesso cerchio. Apollonio scrisse un Confronto del dodecaedro e dell'icosaedro e dette lo spunto a Ipsicle per riprende la questione in una breve trattazione; il contributo di quest'ultimo non è facile da valutare: è relativamente semplice individuare le aggiunte del recensore che trasformò lo scritto nel XIV libro degli Elementi, ma è alquanto complicato capire se Ipsicle riporti oppure no interi frammenti delle opere dei suoi due predecessori. In un decrescendo dimensionale, il rapporto tra i due solidi è prima dimostrato essere lo stesso di quello delle loro superfici e poi di quello di due grandezze lineari, lo spigolo del cubo e quello dell'icosaedro inscritti nella stessa sfera. La riduzione finale esce dall' ambito stereometrico: il rapporto è lo stesso di quello di due rette che, rispettivamente, ((possono» la somma dei quadrati su una qualsiasi retta secata in rapporto estremo e medio e sul suo segmento maggiore e la somma dei quadrati sulla stessa retta e sul suo segmento minore. Archimede classificò i 13 solidi semiregolari, come risulta da Pappo, ColL V.33-6: una piccola modifica alla definizione di solido regolare, con 194

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la caduta della condizione che le facce siano tutte simili, permise di identificare una nuova classe di oggetti. Pappo offre costruzioni dei 5 solidi, alternative a quelle degli Elementi e caratterizzate dall'uso di analisi e sintesi. A lui dobbiamo anche la comparazione dei volumi dei poliedri regolari di uguale superficie, all'interno di una trattazione più ampia del problema isoperimetrico (CoIL 111.75-95, V.72-102). Il cosiddetto libro xv degli Elementi è una compilazione molto tarda, forse di inizio VI secolo. In esso troviamo risolto, anche se solo in alcuni casi, il problema di inscrivere un poliedro regolare in un altro, procedure per calcolarne il numero di spigoli e vertici e costruzioni per determinarne il valore degli angoli diedri. Le differenze tra le costruzioni euclidee e quelle di Pappo sono degne di menzione. Negli Elementi, le costruzioni dei tre solidi più semplici sono condotte in maniera caratteristica, esponendo in primo luogo una loro sezione "massimale", determinata da un piano che sechi la sfera circoscritta al solido in modo da passare per il centro della sfera stessa e per almeno un vertice del poliedro. Data la simmetria dei poliedri regolari e il metodo di generazione della sfera, viene esposta solo metà della figura piana risultato della sezione. Ciò comporta che un semicerchio con diametro uguale a quello della sfera sia legato in modo naturale al solido da costruire. Questa mossa preliminare è dettata dalla necessità di dover poi generare, per rotazione del semicerchio massimale in accordo con El. xI.def.14, la sfera circoscritta uguale a quella data. Da qui il formato un poco eccentrico delle costruzioni proposte: i poliedri regolari non sono inscritti nella sfera assunta data, ma in una uguale ad essa e quindi anch'essa data (Data def. 1). La figura piana risultato di questa sezione massimale è dunque un semicerchio contenente una parte di una sezione piana del solido: rispettivamente un triangolo rettangolo passante per uno spigolo e per l'altezza del tetraedro, metà di uno dei quadrati in cui si saldano le due piramidi che costituiscono l' ottaedro, metà di un rettangolo avente come lati due spigoli paralleli e due diagonali di facce opposte del cubo. A partire dalla sezione piana viene costruito il corrispondente solido regolare, anche se il tetraedro necessita di un passaggio intermedio. Nel caso dell'icosaedro la situazione non è cosi semplice. La figura piana di riferimento è un semicerchio massimale, ma quella inscritta non è una sezione del solido; le sezioni a partire da cui esso è costruito sono invece due pentagoni uguali e paralleli, distanti quanto il raggio di ciascuno dei cerchi in cui sono inscritti: sono le basi di due calotte opposte, ognuna di 5 triangoli equilateri, del poliedro. La costruzione del dodecaedro è condotta con un metodo del tutto differente, basato sull' os195

IL SILENZIO DELLE SIRENE

servazione che esso è circoscritto al cubo inscritto nella stessa sfera: ognuno degli spigoli del cubo coincide con un' opportuna diagonale di una ed una sola delle facce pentagonali del dodecaedro, queste ultime risultando ovviamente esaurite dalla corrispondenza con i 12 spigoli. Le costruzioni di El. XIII sono dunque particolarmente poco perspicue. Quelle di Pappo in Coli. 111.86-95, che egli quasi sicuramente mutua da una fonte ben più antica, sono precedute da materiale preparatorio elementare e devono la loro maggiore trasparenza a due fattori: operano per analisi e sintesi ed inscrivono i poliedri direttamente nella sfera data, a partire da sue sezioni piane contenenti facce opposte e parallele dei solidi (uno spigolo per il tetraedro). La costruzione di icosaedro e dodecaedro richiede anche la produzione delle due sezioni circolari parallele che contengono i vertici residui, 3 e 5 per ciascuna rispettivamente. Come bonus, Pappo ottiene che lo spigolo del tetraedro e le facce di cubo ed ottaedro inscritti nella stessa sfera si trovano inscritti nello stesso cerchio, il cui diametro è 2/3 in potenza di quello della sfera, mentre le facce dell'icosaedro e del dodecaedro risultano inscritte in un cerchio il cui raggio è 1/3 in potenza della retta che rispetto al diametro della sfera ha lo stesso rapporto che il lato di un decagono rispetto a quello di un pentagono inscritti nello stesso cerchio (!).

3·3 Le quadrature e il cosiddetto «metodo di esaustione» Il libro XII degli Elementi è un' applicazione sistematica del cosiddetto «metodo di esaustione», con cui sono dimostrate le proposizioni seguenti: i cerchi tra loro sono come i quadrati sui diametri (2); le piramidi che sono sotto la stessa altezza e che hanno basi triangolari sono tra loro come le basi (5) e di conseguenza ogni piramide è terza parte del prisma che ha la sua stessa base e altezza uguale (porisma a 7); ogni cono è terza parte di un cilindro, quello che ha la sua stessa base e altezza uguale (10); i coni e cilindri che sono sotto la stessa altezza sono tra loro come le basi (11); i coni e cilindri simili sono tra loro in rapporto triplicato < di quello> dei diametri nelle basi (12); le sfere sono tra loro in rapporto triplicato < di quello> dei propri diametri (18). Le proposizioni XII.l, 3-4, 6-8 e 16-7 sono preparatorie a quelle menzionate. Il libro XII non si occupa quindi di "misurare" certe figure piane o solide. I risultati elencati sono infatti tutti formulati sotto forma di pro-

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TECNICHE

porzione: il rapporto tra due figure della stessa classe - eventualmente vincolate da restrizioni opportune; a volte simili - è lo stesso del rapporto, in caso triplicato, di loro elementi caratteristici corrispondenti. Nel porisma a XII. 7 e in XII.1O il secondo rapporto è semplicemente numerico e le figure non appartengono strettamente alla stessa classe: vedremo sotto come sono trattati questi casi. Indichiamo la proporzione in questione negli altri con A:B::a:b. Lo schema di dimostrazione è una riduzione all'assurdo. Si suppone che la proporzione non sia realizzata dalla figura B - è sempre la seconda delle figure. La proporzione sarà dunque realizzata da un dominio o un solido Z minore o maggiore di B e quindi omogeneo ad esso: A:Z::a:b. Intervengono due assunzioni mai rese esplicite: esistenza di un quarto proporzionale omogeneo alla grandezza sostituita ed ordinamento totale tra grandezze omogenee. Fin qui niente di nuovo rispetto ad altre dimostrazioni negli Elementi; come si dimostra che ognuna delle ipotesi dell'assurdo non sussiste è ciò che viene comunemente denominato «metodo di esaustione». A grandi linee, il metodo usato nel libro XII è il seguente. Viene prima considerato il caso in cui Z sia minore di B. La loro differenza sarà quindi un dominio omogeneo ad entrambe. L'idea è quella di trovare una figura S contenuta in B tale che Z < S < B e che, insieme con una figura S' simile ad essa e contenuta in A, realizzi la proporzione richiesta S':S::a:b. Da questa proporzione e da A:Z::a:b segue immediatamente (El. v.n) A:Z::S':S. Ma Z < S e quindi (El. V.14) A < S', il che è impossibile dato che S'è contenuta in A. Il caso in cui Z è maggiore di B viene liquidato con il trucco seguente. Invertiamo la proporzione primaria in cui interviene Z ed otteniamo Z:A::b:a. Ma possiamo sempre trovare un dominio X < A tale che Z:A::B:X e perciò B:X::b:a. Poiché B è della stessa specie di A, e così b della stessa di a, siamo ricondotti al caso precedente. In conclusione, la proporzione può essere realizzata solo da una figura uguale a B, e quindi anche da B stessa. Ovviamente, il trucco finale funziona solo se A e B sono figure strettamente dello stesso genere, ad esempio due cerchi o due piramidi. Occorrerà ricorrere ad un altro espediente per dimostrare il porisma a XII.7 e XII.IO. Ce ne occuperemo tra un attimo. Ora il punto è: come trovare la figura S? La figura S viene trovata con la procedura iterativa che caratterizza il metodo di esaustione. Essa prende le mosse da una figura So che soddisfa, con una variante, le stesse condizioni richieste per S: So è contenuta in B, è maggiore della metà di B, e realizza, insieme con una figura S~ si197

IL SILENZIO DELLE SIRENE

mile ad essa ed inscritta inA, la proporzione richiesta: S~:So::a:b. Trovare una figura siffatta è reso possibile da teoremi precedenti (che impieghino o no il metodo di esaustione poco importa): per XII.2 fa questa vece XII.1, per 5 la fanno 3-4, per il porisma a 7 non ce n'è bisogno (si veda sotto), per 10 lo stesso porisma a XII.7, per 11 la fanno 6 e 1-2, per 12 la fanno 6 e 8, per 18 la fa il porisma a 17 unito al porisma a 8. Bene; a partire da So viene costruita una sequenza Sn di figure ordinate dalla relazione di inclusione stretta e che soddisfano la prima e la terza condizione su So: dovremo quindi immaginare una corrispondente sequenza costruita a partire da S~. La seconda condizione è sostituita dalla richiesta che l'eccesso di una figura della sequenza sulla precedente sia maggiore della metà della porzione di B lasciata fuori. Si tratta dell'ipotesi principale del crucialissimo teorema El. X.1, il quale garantisce che (EE III, 2) Fissate due grandezze disuguali, qualora dalla maggiore sia sottratta < una grandezza> maggiore che la metà e da quella restata fuori una maggiore che la metà, e questo avvenga in successione, risulterà restare una certa grandezza, che sarà minore della minore grandezza fissata.

La rilevanza di questo risultato è palese: scegliamo in primo luogo opportunamente le due grandezze fissate. La grandezza maggiore sarà la figura B, la grandezza minore sarà la differenza B - Z. La prima «sottrazione» richiesta in X.1 corrisponderà a sottrarre So da B. La figura successiva della sequenza "approssima un po' meglio" B; sottrarremo dunque da B - So - cioè dalla grandezza «restata fuori» dell'enunciato di X.1 -la differenza tra le prime due figure nella sequenza, cioè Sl - So, ed otterremo B- Sl' e così via, dove le grandezze intermedie nelle sottrazioni successive si cancellano l'una con l'altra ad ogni passo. Il teorema X.1 garantisce che arriveremo ad una figura S tale che B - S < B - Z, cioè Z < S < B, dove la seconda disuguaglianza è automaticamente soddisfatta da ogni figura nella sequenza. In più, la proporzione S':S::a:b è realizzata in quanto lo è per c0struzione da ogni figura nella sequenza. Con questo la dimostrazione è terminata. Il lettore può ripercorrerla tenendo a mente l'esempio del cerchio (XII.2). Le figure A e B sono due cerchi di diametri differenti, a e b i quadrati su questi diametri. La figura So con cui parte la sequenza di approssimanti è un quadrato inscritto nel cerchio B; di conseguenza, S~ è un quadrato inscritto nel cerchio A. So è maggiore della metà di B (dimostrazione immediata). Le altre figure sono ottenute bisecando suc-

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TECNICHE

cessivamente gli archi sottesi dai lati della figura precedente e congiungendo vertici e punti di bisezione consecutivi. Ne risulta una sequenza di poligoni regolari con un numero di lati che raddoppia ad ogni passo. Si dimostra facilmente che l'eccesso di un poligono sul precedente è maggiore della metà della porzione di cerchio lasciata fuori. Le «sottrazioni successive» devono quindi ogni volta garantire che più di metà di ciò che resta sia sottratto: ciò dipende dalla situazione geometrica di partenza e dalla scelta della sequenza di figure approssimanti. Sono quindi indissolubili dalla configurazione geometrica particolare in esame. Per questo motivo lo schema dimostrativo è generale ma non è applicabile automaticamente ad ogni figura particolare assegnata: una quadratura effettuata con il metodo di esaustione necessita di una specifica sequenza approssimante, e sta al genio del matematico trovarla. Di questo fatto sono testimoni anche le variazioni al metodo che troviamo nel libro XII stesso. Vediamo prima come funziona la sequenza approssimante nelle proposizioni che si conformano allo schema delineato; il caso di XII.2 è stato appena descritto come paradigmatico. i) XII.5: sia il passo iniziale che quelli iterativi della sequenza sono contemplati dallo splendido teorema XII.3: ((Ogni piramide che ha base triangolare si divide in due piramidi che hanno basi triangolari, sia uguali che simili tra loro che [simili] a quella totale, e in due prismi uguali; e i due prismi sono maggiori che la metà della piramide totale». È essenziale che le piramidi residue siano simili a quella totale. A mano a mano che la figura composta dalla somma dei prismi invade la piramide di partenza, ciò che resta sono due piramidi simili a quella di partenza e collocate in due dei suoi vertici. Il teorema XII.4 garantisce, fatto in questo caso non proprio ovvio in quanto le piramidi dell' enunciato di XII.5 non sono simili, che la proporzione S~:Sn::a:b sia realizzata dalle sequenze di poliedri contenuti nelle due piramidi sebbene i poliedri di uguale posto non siano simili. ii) XII.1l: il caso considerato è quello dei coni. Quello dei cilindri è ovvio una volta dimostrata XII.IO. La doppia sequenza è la stessa di XII.2, applicata alle basi dei due cilindri. Essa genera una doppia sequenza di piramidi che soddisfa ancora le condizioni di X.l (si usano XII.6 ed argomenti che erano stati offerti nel corso di XII.lO). iii) XII.12: il caso considerato è quello dei coni. Quello dei cilindri è ovvio una volta dimostrata XII.IO. La doppia sequenza è la stessa di XII.2, applicata alle basi dei due cilindri. Questa genera una doppia sequenza 199

IL SILENZIO DELLE SIRENE

di piramidi che soddisfa ancora le condizioni di X.I (si usano xII.6, 8 ed argomenti che erano stati offerti nel corso di XII.IO). Torniamo ora alle variazioni significative del metodo. La prima è banale: iv) porisma a XI!.7: è una conseguenza di XI!.5 tramite l'intermediazione di XII.7, che stabilisce che «Ogni prisma che ha base triangolare si divide in tre piramidi uguali tra loro che hanno basi triangolari». v) XII.IO: si dimostra che il cilindro è triplo del cono stabilendo che non può essere né maggiore né minore. Supponiamo infatti sia maggiore. Si costruisce un' unica sequenza, la stessa di XII.2, applicata alle base comune di cono e cilindro. Questa genera una sequenza di prismi che soddisfa le condizioni di X.I e la proporzione richiesta con la corrispondente sequenza di piramidi avente stessa base ed altezza uguale (per il porisma a XII.7). Supponiamo poi sia minore. Le due figure A e B non appartengono alla stessa classe e pertanto il trucco dell'inversione non può funzionare nella forma descritta sopra. In realtà, invertire la proporzione fa ancora buon gioco. In effetti, poiché è immateriale quale sia il particolare rapporto numerico a:b, la dimostrazione del secondo caso ricalca quella del primo, le sequenze di prismi e piramidi scambiandosi i ruoli. vi) XII.18: la dimostrazione è radicalmente semplificata dall'assunzione di un quarto proporzionale Z in forma di sfera. Ciò permette di cortocircuitare il procedimento dell' esaustione, in quanto è sufficiente produrre un singolo poliedro S inscritto nella sfera B ma che non tocca la sfera Z, e viceversa. Come realizzare questa costruzione è mostrato in XII.l?, problema lungo e dal testo sottilmente controverso (cfr. Knorr, 1996, pp. 242-53 e 261-74; Vitrac, 1990-2001, IV, pp. 355-71); il porisma a questa proposizione mostra che il poliedro realizza la proporzione richiesta. La caratteristica comune delle dimostrazioni per esaustione consiste dunque nella sottrazione ripetuta di parti di una figura fino a che non sia soddisfatta una ben precisa condizione di arresto, tipicamente che la figura residua sia minore di un dominio o solido assegnato. Il processo di sottrazione è ricorsivo, dal momento che lo stesso tipo di costruzione è effettuato, ad ogni passo, sulla figura che risulta da quello precedente. L'ultimo passaggio non è la fine della procedura, nel qual caso essa non sarebbe genuinamente iterativa: si tratta soltanto della verifica di una condizione esterna. Quest'ultima è semplicemente un parametro di controllo che non è fisso a priori, ma funzionale allo sviluppo della riduzione all'assurdo, e per questo motivo è posto arbitrariamente lontano dal primo passo dell'iterazione. Il parametro, che può essere letto anche 200

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TECNICHE

come un limite prefissato alla precisione richiesta in un calcolo esplicito, non determina la lunghezza dell'iterazione, che è quindi indefinitamente prolungabile. Ci sono dunque, in un senso ben definito, infiniti passi nel procedimento per esaustione; il punto cruciale è che l'intera procedura sia formulata in maniera da costituire un singolo passaggio in una dimostrazione, come andiamo a vedere. Uno strumento linguistico molto compatto fu infatti sviluppato piuttosto presto per esprimere la procedura ricorsiva di bisezioni successive su cui sono basate sia le quadrature che le sottrazioni reciproche tra numeri e grandezze (EL VII.1-2; X.1-3). Le formulazioni di base sono due. Sono di norma composte da due proposizioni, una subordinata all'altra; la prima descrive il processo iterativo, la seconda formula la condizione di arresto. Quando la prima proposizione è subordinata alla seconda, vi compaiono forme participiali, come in XII.10 (EE IV, 106): Secando pertanto gli archi restati fuori a metà e congiungendo rette e erigendo su ciascuno dei triangoli dei prismi di altezza uguale al cilindro e facendo questo in successione faremo restare fuori certi segmenti del cilindro, che saranno minori dell'eccesso con cui il cilindro eccede il triplo del cono.

o una costruzione con genitivo assoluto molto più compatta, come in XII.9

della redazione b (ivi,

221):

Avvenendo pertanto in successione tale investigazione, saranno presi dal cilindro totale certi segmenti che saranno minori del solido P.

Inversamente, la seconda è una subordinata introdotta da «finché» quando la proposizione principale sia la prima, come in XII.5 (ivi, 93): E di nuovo le piramidi che risultano dalla divisione siano divise similmente, e questo avvenga in successione, finché dalla piramide ~Eze siano restate certe piramidi, che sono minori dell'eccesso con cui la piramide ~Eze eccede il solido 'P.

Due proposizioni principali connesse da un bit troviamo invece in Archimede, Quadr. 24 (AOO II,312). La presenza dell'avverbio «in successione» nella prima proposizione è la norma, con l'eccezione notevole di Sph. cyl. 1.11, dove compare «di seguito». Forme del verbo «restare» nella seconda proposizione costituiscono il formato canonico, le uniche eccezioni essendo rappresentate da EL VII.31 e dalla redazione b del libro 201

IL SILENZIO DELLE SIRENE

dove è impiegato «prendere». La presenza del primo formato linguistico (nella formulazione genitivo assoluto + proposizione principale) in VII.31, che stabilisce che ogni numero composto è misurato da un certo numero primo, dove non è certo questione di bisezioni successive, mostra che esso non era specificamente associato al principio di bisezione, ma concepito come la formulazione canonica di quelle procedure iterative di cui il principio di bisezione doveva diventare l'esempio paradigmatico. L'aspetto linguistico rivela quindi un notevole grado di uniformità, il che conferma in pieno l'idea che le procedure iterative fossero riconosciute come tecniche dimostrative indipendenti. Nel resto del corpus matematico greco la procedura di esaustione ammette variazioni significative; il repertorio è dispiegato in tutta la sua ampiezza da Archimede (Dijksterhuis, 1987, pp. 130-3). La caratteristica principale delle applicazioni archimedee è che danno spesso origine, contrariamente a quanto avviene in El. XII, a delle vere quadrature, cioè a determinazioni dell' estensione di domini o solidi. Eccole riassunte in un prospetto: XII,

Sph. cyl. 1.13-4 La superficie senza la base di ogni cilindro (cono) retto è uguale al cerchio il cui raggio è medio proporzionale tra il lato del cilindro (cono) e il diametro della base del cilindro (cono). Sph. cyl. 1.33

La superficie di ogni sfera è quadrupla del cerchio massimo in essa.

Sph. cyl. 1.34

Ogni sfera è quadrupla del cono che ha base uguale al cerchio massimo in essa, altezza il raggio della sfera.

Sph. cyl.

1.42

La superficie di ogni segmento di sfera minore di una semisfera è uguale al cerchio il cui raggio è uguale alla < retta> condotta dal vertice del segmento alla circonferenza del cerchio che è base del segmento della sfera.

Sph. cyl. 1.44

Ad ogni settore di una sfera è uguale il cono che ha base uguale alla superficie del segmento della sfera identificato dal settore, altezza uguale al raggio della sfera.

Circ.

Ogni cerchio è uguale al triangolo rettangolo, uno dei < lati> intorno all'angolo retto del quale è uguale al raggio, la base al perimetro.

202

l

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TECNICHE

Con. sph. 4

Ogni dominio compreso da una sezione di cono ottusangolo rispetto al cerchio che ha il diametro uguale al diametro maggiore della sezione di cono ottusangolo ha lo stesso rapporto che il suo diametro minore rispetto al maggiore (o rispetto al diametro dd cerchio).

Con. sph. 21-2

Ogni segmento di conoide rettangolo secato con un piano (non) perpendicolare all' asse è 3h dd cono che ha la stessa base e lo stesso asse dd segmento.

Con. sph. 25-6

Ogni segmento di conoide rettangolo secato con un piano (non) perpendicolare all'asse rispetto al cono che ha la stessa base dd segmento e altezza uguale ha il rapporto che ha la < retta> uguale all'asse dd segmento e al triplo di qudla che si aggiunge all'asse, una e l'altra insieme, rispetto alla < retta> uguale all'asse dd segmento e al doppio di quella che si aggiunge all'asse, una e l'altra insieme.

Con. sph. 27-8

Secata ogni figura sferoidale con un piano per il centro (non) perpendicolare all'asse, metà dello sferoide è doppio dd cono che ha la stessa base e lo stesso asse dd segmento.

Con. sph. 29-30 Secata ogni figura sferoidale con un piano non per il centro (non) perpendicolare all' asse, il segmento minore rispetto al cono che ha

la stessa base e lo stesso asse dd segmento ha il rapporto che ha la metà dell' asse ddlo sferoide e l'asse dd segmento maggiore, una e l'altro insieme, rispetto all'asse dd segmento maggiore.

Spir.24

Il dominio compreso dalla spirale tracciata nella prima rivoluzione e la prima retta di quelle all'origine della rivoluzione è la terza parte dd primo cerchio.

Spir.25

Il dominio compreso dalla spirale tracciata nella seconda rivoluzione e la seconda retta di quelle all'origine della rivoluzione rispetto al secondo cerchio ha il rapporto che 7 rispetto a 12 [ .•• ].

Quadr.24

Ogni segmento compreso da una retta e una sezione di cono rettangolo è 4/3 dd triangolo che ha la sua stessa base e altezza uguale.

A questi vanno aggiunti Quadr. 16 e Meth. 15; il primo dimostra lo stesso risultato di Quadr. 24 con un metodo meccanico, il secondo cuba la famosa unghia cilindrica, ottenuta resecando da un cilindro inscritto in 20 3

IL SILENZIO DELLE SIRENE

L

un parallelepipedo la porzione delimitata da metà del cerchio di base e da un piano passante per un diametro e per un opportuno spigolo del prisma (cfr. figura qui sopra). La dimostrazione in Quadr. 20-4 è particolarmente notevole: il processo di sottrazione di più della metà della figura è completamente sotto controllo, in quanto i triangoli con cui viene "esaurito" il segmento di parabola formano una progressione geometrica di ragione 1/4. La stessa successione di triangoli compare in Aequil. II.1-8, il cui scopo è determinare la posizione del centro di gravità di un segmento di parabola. Archimede lo fa con un'applicazione non canonica del metodo di esaustione che merita descrivere. Leggiamo in primo luogo il passo, all'inizio di Aequil. II.2, in cui viene definita la classe di figure approssimanti (AOO II, 168): Qualora in un segmento compreso da una retta e una sezione di cono rettangolo sia inscritto un triangolo che ha la stessa base del segmento e altezza uguale, e di nuovo nei segmenti che restano fuori siano inscritti triangoli che hanno le stesse basi dei segmenti e altezza uguale, e in successione nei segmenti che restano fuori siano inscritti triangoli nello stesso modo, la figura che risulta sia detta essere inscritta nel segmento in modo ben definito (YVOOQLIlOOç).

Con un solo termine, l'avverbio yvroQL""roç (che ricorre una quindicina di volte nei teoremi in esame, e solo qui nel corpus archimedeo), egli definisce l'ente generico di un'intera classe di figure, ottenibile ricorsivamente dal primo: un triangolo che risulta naturalmente inscritto yvroQ4-troç anch' esso. Questo gli permette di economizzare sulla formu20 4

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lazione dei teoremi che seguono. La scelta del vocabolo non è casuale, dato che la procedura determina univocamente, per un segmento dato, ogni figura inscritta YVWQtl,I.{Oç. Il fatto che il numero dei venici sia arbitrario è cruciale, dato che esattamente questo è richiesto nel metodo, e non costituisce una limitazione alla determinazione univoca dell' oggetto: in quanto l'oggetto è generico all'interno della classe definita, esso è determinato univocamente. La dimostrazione procede come segue. Appoggiandosi a risultati dimostrati in Aequil. I (posizione del centro di gravità di un triangolo e di un trapezio, prop. 14-5) e ricalcando ne la progressione deduttiva, Archimede dimostra che il centro di gravità di una figura inscritta «in modo ben definito» in un segmento di parabola si colloca sul diametro di quest'ultima (prop. II.2), e che i centri di gravità di figure inscritte in modo ben definito in due segmenti di parabola simili secano i due diametri in proporzione (11.3). Segue poi la dimostrazione che il centro di gravità del segmento di parabola stesso si trova sul suo diametro (11.4), e che i centri di gravità delle figure inscritte in modo ben definito formano una successione monotòna il cui estremo superiore è quello del segmento di parabola (11.5-6). Infine, i centri di gravità di segmenti di parabola simili secano i due diametri in proporzione (11.7), e il centro di gravità di un segmento di parabola si trova a 3/5 del diametro a panire dal venice (11.8). La proposizione dove si applica lo schema di esaustione è la II.7: se infatti i due diametri non sono secati in proporzione, sia M un punto sul diametro di uno dei due segmenti che realizzi la proporzione, diverso dal centro di gravità A del segmento. Il ruolo della figura S nell' esposizione che ho fornito sopra è svolto da un' opponuna figura inscritta in modo ben definito, tale che il suo centro di gravità X disti da M meno della retta MA. Se nell' altro segmento inscriviamo in modo ben definito una figura simile a quella con baricentro S (la S' nell' esposizione precedente), il suo centro di gravità si troverà tra quello del segmento ed il vertice (per 11.3), il che è impossibile per 11.5. Il risultato di similitudine in II.7 permette ad Archimede di tagliare corto nella dimostrazione che il limite della successione dei centri di gravità delle successive figure inscritte in modo ben definito è effettivamente quello del segmento di parabola:gli basta osservare che i due segmenti risultanti dall'inscrivere la prima di tali figure (un triangolo) sono simili a quello di partenza ed effettuare la combinazione lineare dei loro centri di gravità e di quello del triangolo (procedura la cui validità è dimostrata in 1.8).

2°5

IL SILENZIO DELLE SIRENE

Come detto, Archimede offre due variazioni significative al metodo di approssimazione "dal basso" che troviamo in El. XII ed in Quadr. par. 24. Entrambe prevedono la costruzione di sequenze approssimanti sia dal basso che dall'alto (metodo detto "per compressione"); si tratta di due successioni di figure che, allo stesso passo di iterazione, sono simili e le cui costruzioni sono immediatamente ottenibili l'una dall'altra, ad esempio un esagono inscritto ed uno circoscritto ad un cerchio i cui vertici si trovino in linea con il centro. La prima variazione considera la differenza tra due figure approssimanti allo stesso passo di iterazione; il fatto che possa essere resa minore di ogni grandezza omogenea prefissata conduce ad un assurdo in modo analogo a quanto visto sopra. La troviamo all'opera in Con. sph. 21-2, 25-6, 27-8, 29-30, Spiro 24-5, Quadr. 16, Meth. 15. Dato lo stato attuale del testo, non è chiaro se lo fosse anche in Circ. 1, dove si rintracciano solo due applicazioni indipendenti di approssimazioni dal basso e dall'alto tramite poligoni inscritti e circoscritti. Il procedimento si converte immediatamente nella determinazione iterativa del rapporto tra circonferenza e diametro in Circ. 3. La seconda variazione considera il rapporto tra due figure approssimanti allo stesso passo di iterazione. L'assunzione di base è che il rapporto Cn:In tra figure circoscritte ed inscritte allo stesso passo n possa essere reso, per n opportuno, minore del rapporto di due grandezze date (s'intende maggiore rispetto a minore). Consideriamo dunque, con le stesse notazioni di prima, una grandezza Z < B che realizzi quanto richiesto in enunciato e tale che In < Z < Cn. Avremo dunque Cn:In < B:Z, e a maggior ragione B:In < B:Z, dato che la sequenza Cn approssima B dall'alto. Se ne deduce che In > Z, il che è assurdo. Il caso Z> B si tratta analogamente. Il problema, ovviamente, è trovare Z che soddisfa i due vincoli richiesti. Questa è la tecnica esclusiva di Sph. cyl., dove la troviamo in 1.13-4, 33-4, 42, 44. Nelle prefazioni a Sph. cyl. I e Meth. (AOO 1,4, II, 430), Archimede attribuisce esplicitamente ad Eudosso la dimostrazione di ciò che leggiamo enunciato nel porisma a El. XII.7 e in XII.IO. In Quadr. asserisce che, servendosi del lemma che «l'eccesso per cui il maggiore di domini disuguali eccede il minore, sommato a sé stesso, può eccedere ogni dominio limitato dato», fu dimostrato ciò che leggiamo enunciato in XII.2, e di uno «simile» a questo ciò che leggiamo in XII.18, porisma a XII.7 e XII.1O (AOO Il,264). Basandosi su queste testimonianze, gli interpreti hanno ovviamente esaurito lo spettro delle possibili attribuzioni 206

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ad Eudosso di materiale contenuto nel libro XII. Il partito più assennato è quello di attenersi ad una ricostruzione minimale, d'altronde una semplice riproposizione delle asserzioni archimedee: Eudosso applica il metodo di esaustione, non è chiaro da chi e quando perfezionato, alla dimostrazione rigorosa di XII.lO e del porisma a XII.7, d'altronde l'applicazione più sottile del metodo, in quanto richiede la dimostrazione preliminare di XII.3-5, che vanno considerate fare tutt'uno con il porisma a XII.7. Non abbiamo dati che permettano di asserire o negare che la dimostrazione eudossiana fosse analoga a quella negli Elementi. La mancata menzione di Eudosso da parte di Archimede a proposito di XII.2 e 18 suggerisce invece che questi risultati fossero dovuti ad altri geometri. Chiudo questo paragrafo con un'applicazione della teoria dei baricentri. Fluit. di Archimede è diviso in due libri. Il primo di essi inizia (prop. 2) con la dimostrazione che una massa di liquido sottoposta unicamente al proprio peso si configurerà, all'equilibrio, in forma sferica - una" dimostrazione" molto meno soddisfacente dal punto di vista deduttivo ma facente uso di un' argomentazione assai simile a quella archimedea si trova in Cael. B 4, 287b4-l4. Segue una serie di proposizioni (3-7) che indagano, in funzione del peso specifico, il comportamento di una grandezza generica immersa in un liquido; viene anche specificato di quanto risulterà alleggerito un corpo parzialmente o totalmente immerso. Il libro termina (prop. 8-9) con l'analisi delle condizioni di galleggiamento di un segmento sferico: si dimostra che, per qualsiasi peso specifico minore di quello del liquido e per qualsiasi ampiezza del segmento sferico, la posizione in cui l'asse di quest'ultimo sia verticale è di equilibrio stabile. L'idea centrale della dimostrazione è la seguente. Si suppone il segmento immerso con asse obliquo e si dimostra che (i) i baricentri della parte immersa e di quella emersa si trovano da parti opposte rispetto al baricentro dell'intero segmento, (ii) il primo baricentro è sempre situato più in basso del secondo: ne consegue il sussistere di una coppia di forze applicata ai primi due punti, che tende in ogni caso a raddrizzare il segmento. Uno degli aspetti rilevanti del primo libro è che, conformemente con quanto dimostrato nel secondo teorema, la superficie del liquido è sempre assunta sferica: chiaramente, lo scopo è quello di rendere la trattazione più generale possibile. Nel secondo libro, invece, la superficie del liquido è un piano: applicando lo stesso metodo utilizzato nel primo libro, vengono indagate le condizioni di galleggiamento di un paraboloide di rotazione. Esse danno luogo ad una serie di biforcazioni che rendono molto complessa 2°7

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l'analisi delle posizioni di equilibrio nel galleggiamento. Detto in termini grossolani, Archimede mostra che, se il paraboloide è abbastanza "largo", la posizione in cui quest' ultimo ha l'asse verticale è di equilibrio stabile per ogni valore del suo peso specifico che sia minore di quello del liquido. Nel caso il paraboloide sia troppo "stretto", l'equilibrio è stabile solo se il suo peso specifico è sufficientemente alto; altrimenti, la stabilità si ottiene ad asse inclinato, ed Archimede calcola esattamente il valore degli angoli per cui ciò avviene. Più in dettaglio, i risultati sono schematizzabili nel seguente schema di biforcazione, dove p è metà del lato retto della parabola generatrice il paraboloide (si veda il PAR. 3.4; questo parametro determina sostanzialmente la larghezza di una parabola), h il diametro del segmento di paraboloide, k quello della parte immersa di esso, s il rapporto fra i pesi specifici del paraboloide e del liquido, legato ai parametri precedenti dalla relazione s = Irlh 2 (Dijksterhuis, 1987, pp. 382-98). Le proposizioni sono dimostrate a coppie, a seconda che il paraboloide abbia la propria base interamente fuori o dentro al liquido. 1. Paraboloide abbastanza "largo": h :s 3p12: equilibrio stabile con asse verticale per ogni valore di s (prop. n.2-3). 2. Paraboloide" stretto": h > 3Ph. Rapporto tra i pesi specifici abbastanza alto: s ~ (h - 3p12)2Ih2 nel caso di base totalmente emersa (prop. 11.4) e abbastanza basso s:s (h 2 - (h - 3p12)2)lh2 nel caso di base totalmente immersa (11.5); il paraboloide tende a stabilizzarsi: equilibrio stabile con asse verticale. 3. Paraboloide "stretto" ma non abbastanza, nel caso in cui la base tocchi il liquido: 15pl4 > h > 3p12; il segmento non si stabilizzerà in modo che la base tocchi il liquido in un solo punto (n.6). 4. Paraboloide" stretto" ma non abbastanza, nel caso in cui la base sia interamente immersa nel liquido: 15Pl4 > h > 3p12; il segmento si stabilizzerà in modo che la base sia interamente immersa nel liquido (n.7). 5. Paraboloide "stretto" ma non abbastanza, nel caso in cui la base sia interamente emersa: 15p14> h > 3p12; rapporto tra i pesi specifici non sufficientemente alto: s < (h - 3p12)21h2; il paraboloide tende a stabilizzarsi ma non in posizione verticale: equilibrio stabile con asse inclinato di un angolo a rispetto alla verticale tale che tt-a = 4(h - k - 3p12)/3P (n.8). 6. Paraboloide "stretto" ma non abbastanza, nel caso in cui la base sia interamente immersa nel liquido: 15pl4 > h > 3p/2; rapporto tra i pesi specifici sufficientemente alto: s> (h2 - (h - 3p12)2)1h2; il paraboloide tende a stabi208

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lizzarsi ma non in posizione verticale: equilibrio stabile con asse inclinato di un angolo a rispetto alla verticale tale che = 4(h - k - 3p12)/3P (11.9). 7. Paraboloide molto "stretto", abbandonato in modo che la base non tocchi il liquido: h> 15p/4; la situazione analizzata nella prop. 10 finale è estremamente complessa. Il parametro rilevante è il rapporto s, che ammette tre soglie A, B e C determinate geometricamente. Se s ~ A l'equilibrio stabile si ha con asse verticale; se A > s > B l'asse si inclina ad un angolo maggiore di un angolo dato al ma la base resta totalmente emersa; se s = B l'asse si inclina ad un angolo uguale ad al e la base tocca il liquido in un solo punto; se B> s > C l'asse si inclina ad un angolo tale che la base resta parzialmente immersa; se s = C l'asse si inclina ad un angolo uguale un angolo dato a 2 < al e la base tocca il liquido in un solo punto; se C> s l'asse si inclina ad un angolo minore di a 2 ma la base resta totalmente immersa. L'analisi ruota intorno alla determinazione dei centri di gravità dell'intero segmento di paraboloide e della sua porzione immersa, ed Archimede è in grado di determinare con precisione la posizione del centro di gravità di una porzione di paraboloide solo nel caso che questa sia staccata da un piano (e quindi non, ad esempio, se è determinata da una parte di superficie sferica). Quindi il livello di dettaglio del secondo libro poteva essere raggiunto solo supponendo piana la superficie del liquido.

tt:a

3·4 Elementi di teoria delle sezioni coniche; le proprietà caratteristiche; il metodo di «applicazione delle aree»; il luogo a 3 e 4 linee

La teoria delle sezioni coniche è fondamentale in sé e per le sue applicazioni alla risoluzione dei problemi, in particolare dove trovi impiego il metodo di analisi e sintesi. Se il secondo libro delle Coniche contiene proprietà «di utilità generale e necessarie per le determinazioni», il terzo «un gran numero di teoremi sorprendenti, utili per la sintesi dei luoghi solidi e per le determinazioni», come abbiamo letto nelle parole dello stesso Apollonio all'inizio di questa parte, la prefazione del quarto, indirizzata ad Attalo, modula la dovuta enfasi sul carattere ausiliario delle ricerche apolloniane con una nota di orgoglio. Quelle esposte nei primi tre libri continuano a essere utili per le sintesi dei luoghi e per le determinazioni, quelle del quarto per le analisi delle determinazioni, ma «al di là di un'utilità siffatta, saranno degne di approvazione anche per le dimostrazioni

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z A

z

H

stesse; e del resto ci riteniamo soddisfatti di molte altre ricerche matematiche per questo e non per altro» (AGE II,4). La teoria delle sezioni coniche era già estremamente progredita ai tempi di Aristeo ed Archimede (Heiberg, 1880; Dijksterhuis, 1987, pp. 55-118) e fini per esaurirsi come campo di ricerca indipendente già con le Coniche dello stesso Apollonio; nella stessa prefazione a Con. IV egli ci dà uno spaccato di ricerche settoriali che ho riassunto nel PAR. 1.3. Presento in questo paragrafo alcune nozioni e tecniche legate a questa teoria, cercando di dare un'idea della portata della rivoluzione apolloniana e di porla in contesto. Un crU""m:OOJ.L in posizione limitata secondo K, KM in grandezza, e < dato> un angolo retto sia tracciata una parabola, diametro della quale KA, vertice K, lato retto KM, come è stato dimostrato prima: passerà pertanto per A per il fatto di essere il < quadrato> su AA uguale al < rettangolo compreso> da AKM [ ... l.

In ciò che resta del teorema Apollonio determina il lato retto, ovviamente diverso da KM, relativo al nuovo diametro. Egli usa quindi una proprietà che dimostrerà solo in Con. VI.1 e 3: o supponiamo che queste siano interpolazioni, il che mi pare implausibile, oppure dobbiamo concludere che Apollonio le ha inserite nel luogo più opportuno dal punto di vista dell' economia deduttiva del trattato, ma che ciò che dimostrano venisse dato per scontato. È altrettanto chiaro che condizioni espresse in termini di uguaglianze o proporzioni e derivate dalle proprietà caratteristiche originarie tramite catene di identità o di uguaglianze venivano immediatamente percepite come caratteristiche (come in effetti sono): si consideri ad esempio, sempre per la parabola, la condizione che stabilisce che i quadrati sulle ordinate di punti differenti sono in proporzione con le corrispondenti ascisse (Con. 1.20). Allo stesso modo, nei teoremi di luogo (PAR. 2.1.4), le condizioni di vincolo sono a volte ricondotte ad altre condizioni di vincolo, di cui sia però noto quale luogo determinino. Il caso del cerchio è particolarmente interessante, in quanto, contrariamente a ciò che avviene per le sezioni coniche, la sua definizione in El. I.def.15 è direttamente utilizzata come proprietà caratteristica: «Cerchio è una figura piana compresa da una sola linea, tutte le rette che incidono 216

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sulla quale, < condotte> da un solo punto tra quelli che sono posti all'interno della figura, sono uguali tra loro». Sorge però il problema di come trattare una proprietà nel cui definiens si fa riferimento a «tutti» gli oggetti di una data classe, in questo caso le rette condotte da un opportuno punto alla circonferenza, di cui è richiesto che siano «tutte» uguali. Come fare a stabilire se un ente geometrico soddisfa queste definizioni, dovendo fare un controllo su infiniti oggetti? Vediamo come. Negli Elementi la definizione viene sempre utilizzata in un verso: il cerchio è dato e se ne può concludere che tutti i suoi raggi sono uguali o che un certo punto si trova su di esso. La definizione viene ancora utilizzata nello stesso verso quando si asserisca che un cerchio che passa per certi punti transita anche per altri. Mai viene proposta, almeno negli Elementi, una curva di natura ignota con l'intento di verificare che sia un cerchio. Al massimo, dato un cerchio, si dimostra che bastano tre raggi uguali per determinarne il centro (El. 111.9), oppure, dato un arco di circonferenza, si costruisce !'intera circonferenza che lo contiene (m.25). Il problema inverso si presenta però spesso, e ha ricevuto una varietà di formulazioni. La prima è quella della def. 6 dei Data, che stabilisce con il linguaggio dei «dati» ciò che oggi qualificheremmo «esistenza e unicità» di un cerchio di raggio e centro fissati (cfr. PAR. 2.1.4): «ed è detto essere dato in grandezza e posizione un cerchio il centro del quale è dato in posizione, il raggio in grandezza». Nelle analisi, dunque, che un punto sia l'estremo di un segmento dato il cui altro estremo sia dato garantisce che il punto si trovi su una circonferenza data. Carmandro, a quanto riferisce Pappo, aveva riformulato questa definizione come teorema di luogo, e nello stesso formato aveva espresso il risultato che l'uguaglianza degli angoli alla circonferenza che insistono sullo stesso arco (EL m.21) è in realtà proprietà caratteristica del cerchio (CoIL VII.24): «qualora un solo estremo di una retta data in grandezza sia dato, l'altro toccherà un arco concavo dato in grandezza; qualora da due punti dati siano inHesse rette che comprendono un angolo dato, il loro punto comune toccherà un arco concavo dato in grandezza». In Sph.I.1 Teodosio mostra che la sezione di una sfera con un piano è un cerchio, utilizzando la definizione euclidea di cerchio e ponendo come prima degli Sphaerica una definizione di sfera che è un calco di quella. Finalmente troviamo la definizione applicata all'inverso, e la dimostrazione è semplice. Se il piano passa per il centro della sfera, l'uguaglianza di tutti i raggi di quest'ultima comporta immediatamente che la sezione è un cerchio, avente come centro quello della sfera. Se il piano 21 7

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non passa per il centro, è prima identificato un punto che sarà il centro del cerchio, poi si dimostra che due rette dal punto alla curva sezione sono uguali (non vengono presi punti sulla curva), e questo risultato viene infine esteso con una dimostrazione potenziale a tutte le rette siffatte. La forma dell' estensione non è impeccabile dal punto di vista logico, e rasenta la petizione di principio. In Con. 1.4 Apollonio stabilisce che una sezione di cono parallela al cerchio di base è ancora un cerchio, con un procedimento del tutto analogo a quello di T eodosio. Apollonio non si rifà invece a nessuna definizione per stabilire in Con. I. 5 e 11.48 che una particolare sezione conica è un cerchio. Egli sfrutta invece, dandolo per acquisito, il fatto che la proprietà dimostrata in vari modi in EL II.14, III.35, vI.8 e 13 è caratteristica del cerchio, una volta identificata una linea come diametro: la proprietà in questione asserisce che, condotta una perpendicolare da un punto su una circonferenza ad un suo diametro, il quadrato sulla perpendicolare è uguale al rettangolo compreso dai segmenti in cui risulta diviso il diametro (Apollonio generalizza la proprietà a qualsiasi conica a centro in Con. 1.21). Egli offre, nelle due proposizioni citate, due argomenti siffatti, del tutto simili tra loro eccetto per un punto cruciale: solo quella di 1.5 si chiude con un argomento potenziale; l'altra si limita ad asserire la conclusione una volta provata la condizione caratteristica per due punti differenti. Il risultato assunto da Apollonio è infine dimostrato da Sereno in Sect. cyl. 4, da Pappo tra i lemmi che propone a completamento di Con. I, e due secoli dopo da Eutocio nel suo commento a Con. I. 5 (ColI. VII.237 eAGEII, 208-10). Le dimostrazioni applicano in successione EL 11.5 e 1.47 e ricorrono ancora ad un argomento potenziale per estendere la dimostrazione a tutti i punti. In generale, cinque punti determinano univocamente la conica che passa per essi (conseguenza di Con. IV.25, ma costruirla è tutt'altro problema: non sono pervenute soluzioni antiche se non quella parziale di Pappo in ColL VIII.29-31). Il problema è strettamente legato alla risoluzione del luogo a tre e quattro linee, risultato che ha dato origine ad una copiosa letteratura; menziono soltanto Zeuthen (1886, pp. 126-50), Heath (1896, pp. cxxxviii-cl), che si limita come suo solito a copiare Zeuthen, Knorr (1986, pp. 120-7), con un errore iniziale che inficia tutta l'argomentazione. A questo luogo accenna con tratti polemici ApolIonio, come abbiamo letto all'inizio di questa parte, rimproverando ad Euclide di avere sintetizzato solo «una sua parte in cui si era imbattuto, ed anche questa non felicemente; non era infatti possibile completarne 218

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la sintesi senza i teoremi da noi scoperti» (AGE I, 4). Nel corso delle Coniche, Apollonio accenna per enigmi al luogo: le proposizioni 111.53-6, le ultime del libro, dimostrano in effetti che una sezione conica soddisfa alle condizioni del luogo a tre linee, mentre Con. III.q-23 possono essere utilmente impiegate per impostare la stessa dimostrazione relativa al luogo a quattro linee (i due luoghi si riducono l'uno all'altro; una traccia pre-apolloniana di interesse per questi luoghi si trova in Archimede, Con. sph. 3, che inizia enunciando l'equivalente di Con. m.q). Pappo riprende la questione, per difendere la reputazione di Euclide, nella notizia dedicata alle Coniche all'interno del libro VII della Collectio. Ecco l'enunciato pappiano dei luoghi (Coll. VII.36): Qualora, date tre rette in posizione, da un certo punto, lo stesso, siano condotte giù rette in angoli dati fino a quelle tre, e sia dato il rapporto del rettangolo compreso da due condotte giù rispetto al quadrato su quella che resta, il punto toccherà un luogo solido dato in posizione, cioè una sola delle tre linee coniche. E qualora siano condotte giù < rette> in angoli dati fino a quattro rette date in posizione, e sia dato il rapporto del < rettangolo compreso> da due condotte giù rispetto a quello < compreso> dalle due condotte giù che restano, similmente il punto toccherà una sezione di cono data in posizione.

Pappo continua (Coll. VII.37-40) generalizzando in maniera interessante gli enunciati ad n linee, premettendo che «il punto toccherà luoghi non ancora noti, ma chiamati semplicemente "linee"», e «nessuna delle quali, neanche la prima e apparentemente più ovvia risulta sintetizzata». Egli osserva in primo luogo che gli enunciati precedenti si estendono naturalmente a luoghi a cinque e sei linee, basta sostituire dei parallelepipedi rettangoli ai rettangoli. Con i luoghi di ordine superiore sorgono dei problemi, «poiché non esiste un qualcosa compreso da più di tre dimensioni». Pappo rimprovera ai propri predecessori di aver usato un linguaggio inadeguato nel formulare siffatti enunciati (cfr. Acerbi, 2oo5b), mentre «era ben possibile sia enunciarli che dimostrarli in generale per mezzo dei rapporti composti» (il rapporto di a rispetto a b è composto di quello di a rispetto a z e di quello di z rispetto a b per ogni grandezza z omogenea ad a e b). Pappo procede dunque a proporre la propria formulazione generale, che lascio ricostruire al lettore per esercizio. Non è sufficientemente messo in rilievo nella letteratura che i luoghi a una (!) e due linee, ed in effetti una loro generalizzazione, figuravano già tra quelli risolti nei Luoghi piani di Apollonio, come appren21 9

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diamo dall'elenco degli enunciati dei teoremi contenuti in quel trattato, presentato da Pappo, Coli. VII.25: Qualora un solo estremo di una retta data in grandezza e condotta parallela ad una cerra retta data in posizione tocchi una retta data in posizione, anche l'altro toccherà una retta data in posizione. Qualora da un certo punto fino a due rette, parallele o che si incontrano, date in posizione siano condotte giù < rette> in angoli dati, o che hanno tra loro rapporto dato o una sola delle quali, più quella rispetto a cui l'altra ha rapporto dato, è data, il punto toccherà una retta data in posizione.

Le procedure risolutive del luogo a tre e quattro linee (che stabilisce una proprietà caratteristica delle sezioni coniche) furono il campo di battaglia della controversia da cui nacque la geometria moderna. Descartes offre una soluzione "analitica" di quello ad n linee all'inizio della sua Géométrie, come esempio paradigmatico atto a mostrare la potenza del nuovo metodo e a seguito di un celebre errore di Commandino nella sua traduzione del passo pappiano (il testo è a dire il vero un po' incerto). Utilizzando Con. III.17-23, Newton offri una dimostrazione more geometrico nella sezione 1.5, lemmi 17-9 dei suoi Principia, in polemica aperta con Descartes: «Atque ita problematis veterum de quatuor lineis ab Euclide increpti & ab Apollonio continuati noncalculus, sed compositio geometrica, qualem veteres qu:erebant, in hoc corollario exhibetur», afferma alla fine della dimostrazione. Abbiamo accennato sopra all'uso del rapporto composto da parte di Pappo. Nella Collectio, egli propone in effetti varie dimostrazioni doppie, quella alternativa sfruttando appunto il rapporto composto in maniera decisiva. La presentazione di Pappo suggerisce che una tale applicazione sistematica del metodo fosse un suo portato originale e che ne fosse orgoglioso: si vedano ad esempio ColL vII.68, 74-5, 84, 86, 194, 197, 210, 246, 253, 255, 272. La nozione è usata negli Elementi solo in VI.23 e VIII.5. Rapporti composti nel corpus archimedeo si trovano in Con. sph. lO, 23-4: sono tutti riferimenti a proprietà di coni stabilite negli Elementi. Con. sph. 31, Sph. cyl. 11.4 e Il.8 aliter, Fluit. Il.10 sono di natura differente, e l'ultima occorrenza in Fluit. afferma che il rapporto composto di 2:5 e 5=1 è 2:1. In effetti, solo Il.8 aliter, quasi sicuramente spuria, si basa interamente su un'applicazione astuta dei rapporti composti. Nelle Coniche di Apollonio come ci sono pervenute il rapporto composto figura invece in ben 25 enunciati e in almeno altrettante di220

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mostrazioni. Anche se non è detto che tutte le occorrenze siano originali, è con Apollonio che si registra la prima irruzione massiccia del metodo, una cui applicazione importante vedremo nel PAR. 3.8.

3·5 Curve speciali; la classificazione dei problemi e dei luoghi La classificazione delle linee coincideva con quella dei problemi in cui queste linee entrano come strumenti matematici irrinunciabili. Per converso, ciò comporta classificare le tecniche stesse di soluzione dei problemi, e stabilirne limitazioni. In accordo con lo schema prevalente, i problemi erano denominati «piani» se la loro soluzione coinvolgeva solo rette e cerchi, «solidi» se necessitava di sezioni coniche, «lineari» nel caso fossero adibite altre linee (Coli. 111.20-2, IV.57-9, VII.29; i primi due testi sono in buona parte identici); una classificazione analoga per i luoghi si trova in Coli. VII.22. Non c'è però unanimità sull'identificazione dei problemi solidi: sia Proclo (che include l'elica cilindrica tra le linee «solide», cfr. iE, 394) che Eutocio sembrano attenersi all'accezione più ampia, cioè quella di sezioni qualsiasi. Quest'ultimo afferma che «i cosiddetti luoghi solidi ricevono la denominazione dal fatto che le linee tramite le quali si risolvono i problemi su di essi sono generate dalla sezione di solidi, quali sono le sezioni del cono e altre ancora. Ci sono altri luoghi, detti su superficie, che ricevono la denominazione dalla loro proprietà specifica» (AGE II, 184). Per i geometri antichi era scontato che ogni problema piano potesse anche essere risolto via metodi solidi ecc., e del tutto chiaro, per quanto mai argomentato in dettaglio, che ogni singolo problema ricadesse "per sua natura" in una soltanto di queste categorie, se stabiliamo di impiegare risorse tecniche minimali (cfr. Coli. 111.21 e IV.59). Ne risulta la formulazione di uno schema classificatorio le cui conseguenze si facevano sentire ad un livello globale, di organizzazione dell'intera impresa geometrica di problem-solving. Ma classificare le linee dipende in maniera cruciale sia dall'aver stabilito buone definizioni delle nozioni che funzionano come criteri di classificazione (per esempio, la nozione di «semplice») che dall'aver definito in maniera adeguata gli oggetti di studio. È un fatto che i geometri greci non sembrano aver elaborato una caratterizzazione generale ed indipendente di linea geometrica come ente matematico generico su cui poi operare tramite un principio ordinatore: 221

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definizioni del tipo «flusso di un punto» oppure «lunghezza senza larghezza» (El. I.def.2) sono matematicamente sterili. Di conseguenza, una dassificazione delle linee non poteva che farsi après coup, una volta che le singole curve fossero state definite o identificate come oggetti matematici particolari sulla base di una costellazione di tecniche (rassegne di curve speciali: Tannery, 1883-84; Molland, 1976, pp. 23-34; Knorr, 1986, pp. 219-74). Tra queste spiccano: 1. Costruzioni generative. Consistono di solito nel secare una superficie con un piano. In questa maniera venivano definite le sezioni coniche e toriche. Le testimonianze sulle seconde si riducono a poca cosa. Prodo, citando Gemino, le inserisce in una digressione (iE, 111-2) sulle sezioni di solidi. Egli elenca tre specie di superfici toriche ed afferma che furono studiate da Perseo (un autore citato solo da Prodo, qui e a p. 356; le sezioni toriche sono presentate anche ivi, 119 e 127). Sono ottenute per rotazione intorno ad un asse di un cerchio perpendicolare al piano di rotazione. Se l'asse è tangente alla circonferenza si ottiene una superficie torica O'UVExi}ç «connessa»; se cade all'interno, la superficie è detta ÈI1JtEJtÀ-EYI1ÉVTJ «intersecata», se all'esterno, òwxi}ç «disconnessID). Una definizione cinetica della superficie torica, con descrizione delle tre specie, è compilata a De[ 97 (HOO IV, 60-2). La seconda specie assume qui la denominazione di ÈJtuÀ-À-a't'touou «sovrapposta)). 2. Costruzioni geometriche punto per punto. Ne fa impiego ad esempio Diode per generare la curva (oggi nota come «cissoide))) con cui risolve il problema della duplicazione del cubo, oppure per identificare la parabola come la curva che gode della proprietà fuoco-direttrice (AGO III, 66-70; Toomer, 1976, pp. 97-113 e 63-71 = CG, 131-41 e 112-6). Dato che solo un numero finito di punti può essere generato in questo modo, non è chiaro quale sia lo statuto ontologico della prima curva di Diode (egli suggerisce di congiungere i punti per mezzo di segmenti rettilinei) si noti che la curva può essere facilmente generata per via "meccanica". 3. Costruzioni "meccaniche", in cui certi oggetti geometrici, ad esempio delle rette, si muovano in maniera ben definita, la curva essendo generata dal moto di un opportuno punto su di esse. Di tal genere sono le definizioni di buona pane delle curve superiori: i) Tutte le spirali e le eliche. La spirale piana fu definita e studiata (su suggerimento di Conone, se dobbiamo credere a Pappo, Coll IV.30) in Spiro di Archimede: essa è generata da un punto che si muove LoO'taXEwç «con uguale velocità)) lungo una retta che ruota, ancora «con uguale velo222

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cità». Un'esposizione alternativa molto parziale si trova in Coli. IV.31-8 (Knorr 1978c, 1978d). La dimostrazione principale di Pappo (IV.34-6) è differente dalla proposizione archimedea corrispondente (Spir. 24) in quanto non impiega il metodo di esaustione ma una riduzione particolarmente astuta. Pappo fa seguire un risultato (IV.37-8) che è una semplificazione drastica di Spiro 26-8. L'elica sferica è descritta in ColL IV. 53-6, dove è anche determinata la superficie che stacca dalla semisfera su cui giace. Definizioni dell' elica cilindrica, la sola curva omeomera non piana (Acerbi, 2010a), si trovano in De[ 7 (HOO IV, 20), in Simplicio, nell'ambito di una citazione dal filosofo Senarco (in CaeL, 14), e in Pappo (Coli. VIII.49), che probabilmente si rifà a quella in Erone, Meccanica Il.5 (HOO Il, 104-6). ii) La concoide o codoide di Nicomede: leggiamo su generazione e applicazione della curva a risolvere il problema della duplicazione del cubo in Eutocio, AOO III, 98-106, e Pappo, Coli. IV.39-44. Sono dimostrate anche le sue proprietà asintotiche. Essa è ottenuta facendo ruotare una retta intorno ad un punto assegnato ed imponendo che essa trasli lungo sé stessa in modo che un punto dato su di essa si muova su una retta data. Un altro punto dato sulla retta in movimento traccia la concoide. Questo modo di generazione va tenuto distinto dalla «proprietà caratteristica» della curva, la quale asserisce che, su ogni retta che congiunge un punto della curva con il punto assegnato, il segmento staccato tra curva e retta data è uguale ad un segmento dato. iii) La quadratrice: generazione e applicazione della curva a risolvere il problema della quadratura del cerchio in Coli. IV.45-50; Pappo asserisce che la curva fu usata da Dinostrato, Nicomede ed altri, ed è probabile che in origine sia stata concepita per risolvere il problema generale della divisione di un angolo in n parti. Se ci sentiamo di dar credito ad un' af.:. fermazione di Giamblico trascritta due volte da Simplicio (in Ph., 60 = in Cat. 7, 192), Apollonio tentò di quadrare il cerchio «per mezzo di una linea, che egli stesso chiamò "sorella della codoide", ma che in realtà è la stessa di Nicomede, e Carpo per mezzo di una certa linea che chiama semplicemente "da doppio movimento"». La quadratrice è ottenuta per intersezione di un lato di un quadrato, che si muove parallelo a sé stesso spazzando il quadrato, con un lato ad esso adiacente, che ruota con velocità uniforme intorno all'estremo che non ha in comune con il lato che trasla. I due moti sono sincronizzati, in modo che entrambi i lati coincidano alla fine con quello opposto al primo. Le critiche di Sporo all'uso di questa curva sono penetranti (Coli. IV.46). In primo luogo, la 223

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sincronizzazione comporta di aver già risolto il problema della rettificazione della circonferenza. Secondo, l'estremo terminale della quadratrice, decisivo per la risoluzione dello stesso problema, non è ottenibile per intersezione, in quanto a quello stadio del moto i due segmenti coincidono, ma solo per prolungamento, il che implica ancora di supporre il problema risolto. Una critica analoga alla prima di Sporo si applica alla rettificazione che Archimede ottiene grazie alla spirale, in quanto la circonferenza cui si riferisce non è data, ma costruita a partire da una spirale data. Il risultato archimedeo è quindi interpretabile più correttamente come la dimostrazione che è possibile produrre un segmento rettilineo uguale alla circonferenza di un certo cerchio. 4. Intersezioni di superfici ottenute per generazione cinetica (ad esempio superfici coniche, cilindriche o toriche), come nel caso delle curve implicite nel metodo di risoluzione di Archita del problema della duplicazione del cubo (AOO III, 84-8). Alcune testimonianze suggeriscono che fossero stati fatti tentativi per sostituire le generazioni "meccaniche" con altri metodi, considerati più tipicamente geometrici. Pappo, ColL IV.51-2, ne riporta con approvazione due, relativi alla quadratrice, formulati nel linguaggio dei luoghi e forse congegnati come reazione alle critiche di Sporo. In IV.51 dimostra che la curva è la proiezione sul piano di base dell'intersezione di un piano obliquo e di una plectoide (una coclea) generata dall'elica cilindrica. In IV.52 egli propone una variante della costruzione: la superficie plectoidale è generata da una spirale conica ottenuta a sua volta per intersezione di un cono con un cilindroide che ha come base una spirale piana. Si tratta di due delle rarissime menzioni di luoghi su superficie in tutto il corpus antico. Può darsi che la fonte pappiana risalga agli autori che egli menziona in Collo IV.58 e che si occuparono di curve speciali: «Demetrio di Alessandria nelle Investigazioni lineari e Filone di Tiana a partire dall'intersezione di plectoidi e di altre superfici varie». Anche la soluzione ottenuta da Archita è leggibile come intersezione di tre luoghi su superficie. 5. Identificazione di una proprietà che determini la curva in maniera univoca. Di questo genere è la definizione di cerchio in EL I.def.15. Come abbiamo visto nel PAR. 3.4, una nozione chiave della teoria antica delle curve è infatti quella di «proprietà caratteristica», una relazione costante tra elementi geometrici invarianti connessi alla curva. È però vero che la proprietà caratteristica era di norma tenuta distinta dalla definizione della curva, che procedeva canonicamente per via generativa o 224

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TECNICHE

meccanica; il miglior esempio sono le definizioni delle sezioni coniche date da Apollonio in Con. 1.11-3. Questo punto di vista è descritto come l'unico naturale da Pappo in Coli. III.20 ed è accettato esplicitamente nell'esposizione sulle curve speciali in ColL IV.30-59; si ricordi quanto abbiamo visto a proposito della concoide. Lo stesso punto di vista è ribadito da Prodo. Prima di iniziare a commentare il criterio eudideo di parallelismo (El. 1.27-9) egli fa osservare che ciò che segue è la proprietà caratteristica delle rette parallele: «Anche altri matematici erano soliti discutere le linee in questa maniera, fornendo la proprietà caratteristica di ogni specie, Nicomede per le concoidi, Ippia per le quadratrici, Perseo per le spiriche. Dopo la generazione, infatti, ciò che vale per se e in se, una volta che sia stato compreso, differenzia l'una dall'altra le specie che abbiamo costruito» (iE, 356; non si deve credere, come fa ad esempio Knorr, che vi siano necessariamente state più concoidi o quadratrici se ciò non è attestato indipendentemente, come lo è ad esempio per la concoide in Coli. IV.39; l'uso del plurale in elenchi siffatti è un tratto idiomatico della lingua greca). Tuttavia, dato che la proprietà caratteristica è più facilmente maneggiabile dal punto di vista matematico, e dato che stabilisce una condizione necessaria e sufficiente all'identificazione univoca della curva, queste ultime venivano in effetti studiate facendo riferimento ad essa. D'altronde, neanche Descartes, nella sua Géométrie, definisce delle curve a partire da equazioni: si limita sempre a mettere in equazione una proprietà caratteristica. 6. Una vera e propria topica matematica, dalle peculiarità stilistiche distintive, fu concepita per "immagazzinare" proprietà caratteristiche di curve note: si tratta dei teoremi di luogo (cfr. PAR. 2.1.4). Prodo, quasi sicuramente attingendo a Gemino, lo dice in questi termini (iE, 394): «chiamo" < teoremi> di luogo" quelli per cui la stessa proprietà caratteristica vale per la totalità di un certQ luogo, "luogo" la posizione di una linea o superficie che produce una e la stessa proprietà caratteristica». Il loro enunciato, formulato nel linguaggio dei «dati», stabilisce una relazione univoca tra un insieme di vincoli geometrici imposti ad un punto (cioè la proprietà caratteristica) e una curva che il punto è detto «toccare», cioè su cui si trova. La peculiare formulazione in termini dei «dati» e il formato dimostrativo per analisi e sintesi garantiscono che la proprietà caratteristica sia in effetti necessaria e sufficiente alla determinazione della curva. Il trattamento delle curve nei teoremi di luogo mostra chiaramente che esse non erano concepite come fatte di punti. 225

IL SILENZIO DELLE SIRENE

Questa famiglia di tecniche si colloca al cuore delle indagini geometriche greche, e suggerisce che una linea fosse considerata un ente matematico più complesso di quanto siamo soliti supporre. Le classificazioni antiche delle linee dovute a Gemino (iE, 111, 111-3, 176-7, rispettivamente tra i commenti alle definizioni euclidee di linea retta e di rette parallele) sono dunque ancor più significative, in quanto cercano di porre ordine in un dominio ontologico generato da una congerie di tecniche, a volte soggette a critiche (si pensi a quelle all'uso del moto in geometria che furono sollevate in certi ambienti filosofici). Solo le linee omeomere furono definite direttamente in quanto classe come estensione di una proprietà matematica ben definita, indipendentemente dal fatto che i suoi elementi fossero stati identificati come curve note - e dal fatto che tale estensione potesse eventualmente essere vuota (Acerbi, 201Oa). Occorre tenere ben distinta l'origine della classificazione dei problemi e dei luoghi, che ha intenti chiaramente descrittivi, dal presunto divieto ad utilizzare strumenti troppo raffinati per la risoluzione di problemi per i quali siano sufficienti procedure più elementari. L'ideologia normativa è implicita nel passo in Coll. III.20-2 menzionato sopra, se non altro quando Pappo afferma che il problema della ricerca di due medie proporzionali era «solido per natura», ed attribuisce retrospettivamente la stessa consapevolezza agli autori antichi che si erano serviti di costruzioni meccaniche per risolverlo. L'unica altra testimonianza (tardo)-antica cori carattere prescrittivo è questo accenno, ancora in Pappo (Coll. IV.59): Questo appare un errore non piccolo per un geometra, cioè quando si trovi la soluzione di un problema piano per mezzo di < strumenti> conici o lineari, e in complesso quando lo si risolva partendo da un genere che non sia suo proprio, ad esempio il problema sulla parabola nel quinto < libro> delle Coniche di Apollonio, e la neusis solida verso un cerchio assunta da Archimede nel < libro> Sulla spirale.

Pappo prosegue presentando appunto una soluzione al problema della trisezione basata su una neusis (pl. neuseis). Questa particolare tecnica dimostrativa ben si presta ad ampliare la discussione sugli sforzi fondazionali legati alla classificazione delle linee. Effettuare una neusis significa inserire tra due linee date una retta di lunghezza fissata (oppure vincolata in altro modo) cosi che essa «si diriga verso» un punto dato (verbo VEUELV, da cui VEUOLç). S'intende che il segmento posto tra le due linee debba avere i suoi due estremi rispettivamente su una e l'altra di esse. Una neusis che Pappo (Coll. Iv.6o-1) riduce a un problema soli226

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TECNICHE

do è la seguente: dato un rettangolo e prolungatone un lato, adattare nell'angolo esterno una retta data in grandezza che faccia una neusis verso l'angolo opposto a quello da cui è stato eseguito il prolungamento. La tecnica veniva usata largamente già in epocapre-euclidea, come mostra la sua presenza nella breve trattazione della quadratura delle lunule ad opera di Ippocrate di Chio (Simplicio, in Ph., 64): è dato un semicerchio di diametro AB; sia preso un punto a 3/4 del diametro dalla parte di B e da questo punto sia tracciata una perpendicolare al diametro stesso: occorre inserire una retta data in grandezza tra il semicerchio e la perpendicolare cosi da fare una neusis verso B (determinazione delle condizioni di possibilità: retta minore di 3/4 del diametro del semicerchio). È essenziale tener presente che non si richiedeva di effettuare l'inserimento del segmento per mezzo di costruzioni note ed eventualmente più elementari~ Al contrario, veniva semplicemente data per scontata la possibilità di farlo, con la stessa naturalezza con cui si supponeva di poter tracciare un cerchio di raggio e centro dati: la neusis costituiva dunque, sin dai tempi di Ippocrate e probabilmente già in precedenza, una costruzione indipendente ed irriducibile. Pur essendolo in casi particolari, le neuseis non sono riconducibili con procedura uniforme a costruzioni più semplici, la difficoltà di effettuare una riduzione in termini generali derivando dal grado di arbitrarietà implicito nella scelta delle due linee tra cui adattare il segmento. È immediatamente evidente, come Pappo stesso riconosce (Coli. IV.41), che la concoide di Nicomede permette di ridurre tutte le neUseis tra rette ad un problema di intersezione di tali rette con la curva stessa, e sarà stata concepita esattamente a questo scopo. Il problema generale della riduzione cominciò a farsi sentire solo in periodo relativamente tardo: forse con Eraclito, cui Pappo in Coli. VII.128-9 attribuisce la risoluzione di un problema di neusis che è un caso particolare (la figura è un quadrato) della neusis del rombo ridotta da Apollonio; sicuramente con Apollonio stesso, che dedicò appunto un intero trattato a ridurre alcune neuseis a costruzioni piane. L'elenco si trova in Pappo, Coli; VII.27: Dati in posizione sia un semicerchio che una retta ad < angoli> retti con la base, o due semicerchi che hanno le basi in < linea> retta, porre una retta data in grandezza tra le due linee, che faccia unaneusis verso un angolo del semicerchio; e dato un rombo e prolungato un solo lato, adattare sotto l'angolo all'esterno una retta data in grandezza che faccia una neusis verso l'angolo opposto; 227

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e dato in posizione un cerchio, adattare una retta data in grandezza che faccia una neusis verso un < punto> dato.

La prima neusis proposta generalizza quella di Ippocrate di Chio, considerando tutti i casi possibili di posizione del punto da cui erigere la perpendicolare, sul diametro AB o sul suo prolungamento, e di lunghezza e posizione del segmento da inserire, all'interno oppure all'esterno della circonferenza; il caso dei due semicerchi occupava da solo tutto il secondo libro dell' opera di Apollonio. La neusis del rombo generalizza, come detto, quella di Eraclito, ed è della stessa famiglia della neusis solida di Coli. Iv.6o-1, adibita alla risoluzione del problema della trisezione, e di quella di ordine superiore con cui Archimede procede ad inscrivere un eptagono regolare in un cerchio; quest'ultima differisce da quella di Eraclito solo per la condizione di vincolo sulla retta inserita, che deve rendere uguali due triangoli opportuni (Hogendijk, 1984). Nel suo trattato, Apollonio identificò dunque la classe massimale di questa famiglia di neuseis trattabile con metodi piani. Immediatamente prima di elencare le neuseis ridotte nello scritto apolloniano, Pappo afferma che «alcune erano piane, alcune solide, alcune lineari». Si tratta di una classificazione che deriva da quella dei problemi: piane significa «riconducibili a costruzioni con riga e compasso»; solide significa «riconducibili a costruzioni classificabili come solide», cioè all'uso di sezioni coniche. Lineari sono tutte le altre, supposte in ogni caso riducibili ad una qualche costruzione, eventualmente meccanica. Ritornando al passo di Coli. IV.59 letto sopra, il teorema archimedeo li menzionato è Spiro 18; vi si applica una neusis che è appunto riconducibile ad un'intersezione di coniche: in Coli. IV.78-80 Pappo mostra come fare-ma il testo è in pessimo stato. Il problema apolloniano è Con. V.51; in esso si fa uso di un'iperbole ausiliaria che può essere sostituita da un cerchio (Knorr, 1986, pp. 176-8 e 319-21). Non adottare le tecniche più elementari possibili non costituiva dunque un problema né per Archimede né per Apollonio. La neusis di Ippocrate descritta sopra può essere facilmente ridotta ad una costruzione piana; al problema della duplicazione del cubo continuavano a venir date risposte in termini di curve speciali (Nicomede, Diocle) o di neuseis (Erone, Apollonio, Eratostene) anche se fin da Menecmo era chiaro che il problema era non peggiore che solido. La neusis che Archimede impiega nella sua costruzione dell' eptagono regolare è riducibile ad un'intersezione di coniche, come fu riconosciuto dai matematici arabi (Hogendijk, 1984). 228

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TECNICHE

La normatività del resoconto di Pappo è dunque tutta sua, ma ciò non significa che nessuno prima di lui si fosse occupato del problema di ridurre costruzioni note ad altre che impiegassero tecniche più elementari. Con ogni probabilità, però, il problema veniva considerato avere un interesse tecnico in sé, eventualmente interpretato con spirito di sistematicità, e non era legato a richieste di economia fondazionale se non a partire da Apollonio. In particolare, la pretesa "ossessione per la riga e il compasso" è soltanto un mito storiografico, alimentato dall'impostazione degli Elementi e duro a morire (Steele, 1934-36; Knorr, 1986, pp. 341-8) - e la formalizzazione "non naturale" che le operazioni effettuabili con il compasso ricevono nel postulato 3 (il compasso "si chiude" quando viene sollevato dal foglio) suggerisce cautela nell'ammettere il carattere normativo dell'impostazione degli Elementi stessi. Una variazione su questo tema è la costruzione di un triangolo dati i tre lati effettuata con riga e compasso ad apertura fissa, menzionata in Coli. VIII.28 e contenuta solo nella versione araba di questo libro Qackson, 1972, 1980). È insomma poco probabile che la spinta iniziale in direzione di tali raffinamenti sia stata la percezione di una certa ridondanza fondazionale; molto più semplicemente, è immediato vedere che alcune neuseis non possono essere effettuate se non entro determinati limiti di possibilità, e la determinazione esatta di tali limiti è automatica una volta che si effettui una riduzione a costruzioni più elementari.

3.6 Sistemi numerici, algoritmi e tradizione metrica Non ci deve sorprendere che due dei massimi matematici greci si siano occupati del problema squisitamente teorico di come denominare i grandi numeri, e che abbiano inventato, per giustificare questa ricerca, due problemi fittizi in cui tali grandi numeri compaiano. Del primo abbiamo notizia nell'Arenario di Archimede; Apollonio propose il secondo in un trattato perduto (Pappo, Coll II). Il problema archimedeo è determinare il numero di granelli di sabbia contenuti nell'universo. Per fare ciò, si concede il lusso di stimare le dimensioni del modello di cosmo più grande possibile; per questo motivo introduce quello eliocentrico di Aristarto. L'assenza di parallasse delle stelle fisse conduce alla stima desiderata. Il problema apolloniano è ancora più bislacco: calcolare il "valore" di un verso inteso come stringa di lettere. Dato che 271et229

IL SILENZIO DELLE SIRENE

tere dell'alfabeto svolgevano anche la funzione di numerali da 1 a 9, da lO a 90 e da 100 a 900, occorre fare il prodotto dei valori numerici delle lettere nella stringa. Apollonio opera separando le cifre significative di ogni numero dal loro ordine di grandezza (le prime denominate «basi») e fornendo regole per moltiplicare le prime tra loro e le seconde tra loro, per ridurre gli ordini di grandezza risultanti ad ordini di miriadi (in sostanza dividendo il numero d'ordine per 4 e tenendo conto del resto), ed infine per moltiplicare i numeri composti risultato della prima serie di operazioni con il valore dell' ordine di miriadi risultato della seconda. Le difficoltà risiedono nella necessità di fornire regole generali per la moltiplicazione in un sistema in cui alle ((basi» di numeri corrispondenti nei primi tre ordini di grandezza sono associati segni differenti; ad esempio, 1 è a, ma 10 è L e 100 è Q. Il primo passo della notazione archimedea per grandi numeri esposta in Arenarius consiste nel chiamare ((primi numeri» quelli fino alla miriade di miriadi. Questa viene presa come unità dei (mumeri secondi», che sono contati fino a che non sia raggiunta la loro miriade di miriadi. Si continua poi fino ad arrivare alla miriade di miriadi dei (mumeri miriade di miriadesimi». La costruzione va ancora avanti: quelli appena nominati sono chiamati (mumeri del primo periodo», e l'ultimo di tali numeri è preso come unità dei ((primi numeri» del secondo periodo ((e cosi in successione» fino alla fine del miriade di miriadesimo periodo. Il punto rilevante in questa notazione è che (mumeri» sono presi come unità del livello successivo, e che tale procedura può essere estesa indefinitamente. Questo Archimede non lo dice esplicitamente, ma si ricordi che la notazione fu discussa in un intero libro indirizzato a Zeusippo, mentre in Arenarius viene riesumato solo ciò che è strettamente funzionale ai calcoli in oggetto. L'introduzione del tutto inutile del secondo periodo di numeri potrebbe essere vista come un'indicazione dell'indefinita ripetibilità del pro-: cesso. Troviamo un'idea analoga in fonti neopitagoriche: i nomi ((unità di primo percorso», di ((secondo» per lO, 100 ecc.; la nozione è esplicitamente attribuita ai Pitagorici da Giamblico (in Nic., 88-9 e 103). Il sistema di Apollonio era basato su miriadi, quello di Archimede sulle miriadi di miriadi, ma difficilmente questa sarà stata la sola differenza tra i due sistemi. Resta il fatto che la denominazione dei grandi numeri per ordini di miriadi è quella che troviamo, ad esempio, nelle esposizioni antiche sulla misura della terra (Teone di Smirne, Exp., 124-7, Teone, iA, 394-8, Prolegomlna all'Almagesto, Simplicio, in CaeL, 549-50). 23 0

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TECNICHE

Un problema teorico analogo a questo si pose quando entrò in uso, quasi sicuramente su influsso babilonese, la numerazione sessagesimale, che diede origine ad un sistema parzialmente posizionale. Quanto agli strumenti di calcolo, il loro impiego divenne frequente e necessario con lo sviluppo dell' astronomia matematica, ed è in effetti nei commenti all'Almagesto che troviamo le descrizioni di metodi per effettuare moltiplicazioni e divisioni complesse nel nuovo sistema. In precedenza, nessun autore descrive procedure di calcolo, se non Erone. In Metrica 1.8 (HOO III, 18-20) egli presenta un algoritmo per calcolare la radice quadrata di un numero, e afferma esplicitamente che gradi di precisione superiori si possono ottenere iterando il procedimento. Il primo passo dell' approssimazione è descritto in dettaglio sulla base di un esempio: una radice approssimata di 720 si trova prendendo in primo luogo il quadrato più vicino 729, il cui lato è 27. Dividiamo poi 720 per 27, sommiamo il risultato a 27 e dividiamo a metà quanto ottenuto: ne risulta 26 112 1/3, il cui quadrato è 720 1/36. La prescrizione termina cosi: «se vogliamo che la differenza sia minore di 1/36, al posto di 729 poniamo 720 1/36 appena trovato, e facendo le stesse cose troveremo che la differenza è di molto minore di 1/36». L'algoritmo eroniano può ricevere una spiegazione aritmetica ed una geometrica. Nella prima, per stimare la radice quadrata di un numero A si determinano in primo luogo i due quadrati consecutivi più vicini, (a - 1)2 e a2 tali che (a -1)2 su BA sarà dato E di nuovo, i lO per sé stessi: ne risulta 100. E i 20 per sé stessi: ne risulta 400. Somma: ne risulta 500. - è infatti di

500

unità -;

ma anche quello su AB è dato:

E i 13 per sé stessi: ne risulta 169.

sono quindi dati quelli su AB, BA;

Questi più i

500:

ne risulta 669;

e sono maggiori di quello su AA. L' ABA è quindi acuto: i su AB, BA sono quindi maggiori di quello su AA per due volte il < rettangolo contenuto> da AB, BE. Due volte quello da AB, BE è quindi sottrai i 17 per sé stessi: 380 restanti; dato; cosÌ che anche una volta quello da AB, di questi la metà: ne risulta 190; BE è dato. Ed è un lato del < quadrato> su BA per quello su BE. Anche quello su BA per quello su BE è questi per sé stessi: ne risulta 3.6100. quindi dato;

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TECNICHE

e quello su BL1 è dato; anche quello su Questi < applicati> ai 500: ne risulta 72 1/5; BE è quindi dato. Ma anche quello su EA

sottrai questi dai 169: ne risultano 96 112 1/5 1/10 restanti.

per quello su BL1;

Questi per i 500: ne risulta 4.8400.

e suo lato è il < rettangolo contenuto> daBL1, AE. Anche quello da BL1, AE è quindi Di questi, un lato: ne risulta 220; dato. Ed è doppio del triangolo ABL1: anche il triangolo ABL1 è quindi dato.

di questi la metà: ne risulta 110; di tanto sarà l'area di ABL1.

Ma anche BrL1;

Ma anche l' < area> di BrL1 è di 100 unità:

cosi che anche il quadrilatero totale l'area del quadrilatero ABrL1 sarà quindi di ABrL1 sarà dato. 210.

Di importanza primaria è la comparazione dei due registri: impersonale quello della dimostrazione geometrica, interlocutivo quello della procedura. Lo scarto si percepisce nel passaggio dalla diatesi passiva degli imperativi che caratterizzano la costruzione che precede la catena dei dati (non riportata) a quella attiva di «somma» e «sottrai»; analoghi imperativi «moltiplica», «prendi» o «fai» saranno da sottintendersi a buona parte degli altri passaggi. Si tratta in entrambi i casi, come detto, di tratti stilistici convenzionali. Ritroviamo lo stesso formato nel caso di una proposizione di natura squisitamente geometrica: in Metrica III.4 Erone si pone un problema di divisione di una figura e non di semplice misura, legato alla tradizione di trattati di divisione che prende le mosse dalle Divisioni euclidee. Dopo un' analisi come quella proposta nel testo ci potremmo aspettare una sintesi geometrica corrispondente, ma Erone passa direttamente al calcolo delle posizioni dei punti secondo cui vanno secati i lati. L'analisi 237

IL SILENZIO DELLE SIRENE

mostra in effetti che tali punti sono univocamente determinati dalle richieste del problema, e quindi il calcolo può procedere senza titubanze. Variazioni su questo tema si trovano in Alm. 1.10, dove Tolomeo calcola i valori di una tavola delle corde, l'analogo di una moderna tavola dei seni, con una risoluzione di 112 grado. Per fare ciò ha bisogno di procedure per calcolare le corde di archi complementari, o l'analogo delle nostre formule di bisezione, somma e sottrazione (cfr. PAR. 3.8). La sua dimostrazione di come si calcoli la corda dell' arco differenza degli archi relativi a due corde date parte dalle corde date AB, Ar e dal diametro All. e completa il quadrilatero ABrll., che risulta inscritto in un cerchio. Ecco l'enunciato (POO 1.1,37-8) Ciò prefìssato sia un semicerchio ABrL\ su un diametro AL\, e da A siano condotte due AB, Ar, e una e l'altra di esse sia data in grandezza, tale che il diametro sia dato come 120, e sia congiunta una < retta> Br. Dico che anche questa risulta data.

Ora, il «teorema di T olomeo», dimostrato in altra forma già in Data 93, afferma che per siffatti quadrilateri vale r(AB, rll.) + r(All., Br) = = r(Ar, Bll.). Ma tutte le grandezze nell'espressione, a parte Br, sono dati, rll. e Bll. in quanto complementari di corde date. La catena dei dati proposta da T olomeo spiega semplicemente come ricavare Br da quest'espressione: si tratta dunque di esplicitare una variabile contenuta in una formula chiusa, e questo asserisce l'enunciato. Il calcolo corrispondente non è eseguito ma è chiaro da quanto segue che lo scopo è esattamente quello di produrre un valore numerico. Alcuni commentatori antichi dell'Almagesto si trovarono in qualche imbarazzo di fronte a calcoli effettuati senza spiegazione del perché sia seguita proprio la procedura adottata. Ad esempio, in Alm. V.5 Tolomeo determina la direzione dell' apogeo medio della Luna. Egli descrive solo in parte il diagramma correlato, procedendo direttamente al calcolo con i dati numerici effettivi. Pappo chiosa nel suo commento: «analizzeremo il 5° teorema della Composizione in questo modo» (iA, 35). L'analisi proposta è una catena di dati esattamente parallela ai calcoli di T olomeo, non comprende una chiarificazione del diagramma in gioco e occupa ben 36 righe nell' edizione di Rome. Tale ((analisi» non va molto al di là di riformulare tutta la procedura di T olomeo senza far riferimento a valori numerici. Per due volte, giungendo a mostrare che quantità intermedie di un qualche interesse sono date, Pappo si ferma un attimo

3

TECNICHE

e commenta: «una volta inseriti i numeri si dimostra... » facendo seguire il valore numerico della quantità cercata.

3·7

Teoria dei numeri Il primo risultato di teoria dei numeri è attribuito ad Archita (Boezio, III.11 = fr. 47 A 19 DK). Il suo teorema affronta una questione strutturale: identificare unità non decomponibili tra i rapporti. La nozione di «decomponibilità» in gioco richiede che esista un numero medio proporzionale tra i due termini del rapporto: se ad esempio questo è A:C, un numero B tale cheA:B::B:C (i tre numeri sono in «proporzione continua»). È sufficiente restringere la ricerca a medi proporzionali che siano numeri interi, dato che l'esistenza di un medio proporzionale razionale implica l'esistenza di uno intero. Scrivendo dunque A:C come (A:B)(B:C), cosa ovviamente sempre possibile, il rapporto A:C risulta decomposto in A:B e B: C. Il teorema di Archita mostra che i rapporti «epimorici» sono indecomponibili. In essi l'antecedente eccede il conseguente di una parte (cioè di un divisore) di quest'ultimo: se ridotto ai minimi termini, un rapporto epimorico è quindi tale che l'antecedente eccede il conseguente di un'unità (una classificazione molto dettagliata dei rapporti si trova in Nicomaco, Ar. 1.17-23 e II.1-5). Dal momento che gli intervalli musicali sono «sommati» moltiplicando i rapporti corrispondenti, ne risulta che i rapporti epimorici sono adatti a corrispondere a intervalli musicali minimali, la cui esistenza è una caratteristica cruciale della teoria armonica pitagorica. L'interesse per l'inserimento di medi proporzionali tra termini dati non si limitò alla teoria armonica. Il soggetto divenne un dominio di ricerca indipendente, quello delle sequenze di numeri in proporzione continua, tanto da costituire l'argomento principale dei libri VIII e IX degli Elementi. Sono indagate molte proprietà particolari di tali sequenze, in stretta connessione con l'operazione di interpolazione di medi proporzionali. In relazione a quest'ultima, viene fornita (El. VIII.18-21) una proprietà caratteristica - cioè una condizione necessaria e sufficiente - di due numeri che ammettono uno o due medi proporzionali: devono essere numeri piani oppure solidi simili, aventi cioè i lati in proporzione; dato che l'individuazione dei lati non è univoca, occorre intendere che esista almeno una rappresentazione piana di uno dei nume-

Inst. muso

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ri avente i lati in proporzione con quelli di una rappresentazione piana dell'altro. Il criterio è preceduto (VIII.1l-2) dall'individuazione di una condizione soltanto sufficiente, consistente nell' essere i numeri in questione ambedue quadrati oppure cubi perfetti. Tali risultati si basano su di una procedura, descritta in VIII.2, per generare un numero arbitrario di interi in proporzione continua, fissato il rapporto tra due termini consecutivi della successione. Di particolare interesse sono le prop. vIII.8-1O, la prima delle quali generalizza il risultato di Acchita appena visto, ed in effetti colma una lacuna nella dimostrazione. Tra due interi dati è possibile interpolare solo una collezione finita di medi proporzionali, e, se si prendono coppie di interi aventi lo stesso rapporto di quelli di partenza, allora tra tutte le coppie di interi così fissate è possibile interpolare esattamente lo stesso numero di medi proporzionali (vlII.8). VIII.9 stabilisce invece che lo stesso numero di medi proporzionali potrà essere interpolato anche tra un'unità e ciascuno dei numeri di partenza, posto che questi ultimi siano primi tra loro; ad essa segue, eliminata la condizione di primalità relativa, la proposizione inversa. Il libro IX specializza la discussione alle successioni il cui primo termine sia un'unità, salvo poi ritornare nella prop. 35 a sommare i termini di una sequenza generica (ed ovviamente finita). Il gruppetto IX.11-3 è il più interessante. IX.ll dimostra che se numeri a partire da un'unità sono in proporzione continua, l'ultimo termine della sequenza è diviso da uno qualunque dei termini precedenti e il quoziente è un altro numero nella stessa sequenza. IX.12 prova che i divisori del secondo termine nello stesso tipo di sequenza sono un sottinsieme dei divisori dei termini seguenti. IX.13 ne è una specie di conversa: se il secondo termine in una sequenza è primo, l'ultimo ha come soli divisori i termini che lo precedono. Il teorema di Acchita si ritrova, in versione leggermente differente e migliorata, come prop. 3 della Sectio canonis euclidea. Le prime nove proposizioni di questo scritto sono il primo mini-trattato di teoria dei numeri. I risultati dimostrati, ovviamente funzionali ad un' applicazione in teoria armonica sin dal lessico, sono i seguenti (intervallo = rapporto; sesquialtero = 312; sesquiterzo = 4/3; sesquiottavo = 9/8): un intervallo multiplo composto con sé stesso è multiplo (1); se un intervallo composto con sé stesso dà come risultato un intervallo multiplo, quello in origine è multiplo (2); in un intervallo epimorico non possono essere interpolati medi proporzionali (3); se un intervallo non multiplo è composto con sé stesso, il risultato non è né multiplo né epimorico (4); se

3

TECNICHE

un intervallo composto con sé stesso dà come risultato un intervallo non multiplo, quello in origine non è multiplo (5); l'intervallo doppio si compone degli intervalli sesquiterzo e sesquialtero (6); componendo un intervallo doppio e uno sesquialtero risulta un intervallo triplo (7); sottraendo un intervallo sesquiterzo da uno sesquialtero ne risulta uno sesquiottavo (8); componendo sei intervalli sesquiottavi si ottiene un intervallo maggiore di quello doppio (9). Un frammento di Archita costituisce anche la prima testimonianza di ricerche sulle medie; il testo è scritto in dialetto dorico, e Porfìrio asserisce di stare citando Archita alla lettera (in Harm., 93 = fr. 47 B 2 DK). Ci sono tre medie in musica, la prima aritmetica, la seconda geometrica, la terza subcontraria, che chiamano armonica. Aritmetica è quella in cui tre termini sono in proporzione secondo un certo qual eccesso: di quanto il primo eccede il secondo, di questo il secondo eccede il terzo. Ed in questa proporzione accade che l'intervallo dei termini maggiori sia minore, quello dei minori maggiore. La geometrica è quella tale che il primo rispetto al secondo, anche il secondo rispetto al terzo. I < termini> maggiori e quelli minori di queste medie formano un intervallo uguale. La subcontraria, che chiamiamo armonica, è quella in cui, di quale parte di sé stesso il primo termine eccede il secondo, della stessa parte del terzo il medio eccede il terzo. In questa proporzione l'intervallo dei termini maggiori risulta maggiore, quello dei minori minore.

Autori successivi ad Archita operarono una classificazione completa delle medie, identificandone undici. Essa è esposta con dettaglio variabile in Nicomaco,Ar. II.21-9, Teone di Smirne, Exp., 106-11 e 113-9, Pappo, ColI. III.28-57. La parte aritmetica in quest'ultima è Coli. 111.44-57, e all'inizio è menzionato esplicitamente «Nicomaco il Pitagorico»; le sezioni precedenti si occupano del problema di «trovare le < prime> tre medie in al più cinque rette»; con al più 6 si riescono a riferire tutte allo stesso semicerchio (111.43). Le fonti non sono concordi quanto all'attribuzione del lungo processo di classificazione; esso non fu però appannaggio di autori neopitagorici, in quanto vi troviamo implicati personaggi come il peri patetico Adrasto (la fonte di Teone di Smirne) ed Eratostene. Nicomaco assegna genericamente le prime tre medie ad un periodo arcaico, in quanto erano «riconosciute da Pitagora, Platone ed Aristotele». Giamblico fa risalire le successive tre prima ad Eudosso, poi al circolo di Archita ed Ippaso (in

IL SILENZIO DELLE SIRENE

le ultime quattro ai due Pitagorici Mionide ed Eufranore (ivi, 116). Pomrio asserisce che una delle prime sette fu scoperta da Simo di Posidonia (VP3 = fr. 562 DK). Teone di Smirne assegna ad Eratostene un ruolo tale da far supporre che ai tempi di quest'ultimo la classificazione si fosse già chiusa. Queste oscillazioni offrono un esempio significativo dell'attendibilità storica dei resoconti dei neopitagorici. Una media è una terna di numeri a > b> c, e per traslato viene a volte così designato anche il termine intermedio b. Il principio della classificazione è il seguente. Si considerano le tre differenze a - b, b - c, a - c, che autori definiti «recenti» da Pappo (Coli. III.46) chiamarono primo, secondo e terzo eccesso. Una media è determinata identificando il rapporto di due dei tre eccessi con quello di due dei tre termini, prendendo eventualmente due volte lo stesso termine. Ne risultano 11 medie; vediamo come. Il rapporto (a - b):(b - c) tra i primi due eccessi può essere maggiore, identico o minore di 1. Nel primo caso potrebbe coincidere con a:b, b:c, a:c, ma è immediato vedere che i primi due sottocasi sono equivalenti. Nel secondo caso il rapporto tra i due primi eccessi può solo coincidere con a:a = b:b = c:c. Nel terzo caso le tre possibilità di identificazione con c:b, b:a, c:a possono verificarsi indipendentemente. In tutto otteniamo 6 medie. Il rapporto del terzo al primo eccesso (maggiore rispetto a minore per non creare doppioni) può solo essere maggiore di 1 e quindi coincidere con a:b, b:c, a:c, possibilità che possono verificarsi indipendentemente. Anche il rapporto del terzo al secondo eccesso può solo essere maggiore di 1, ma va eliminata (a - c):(b - c)::a:b in quanto implica a = b. In tutto sono 6 + 3 + 2 = 11 medie. Le medie sono 11 ma negli elenchi di Nicomaco e Pappo ne troviamo lO. Il fatto curioso è che ognuno dei due autori descrive una media che non si trova nell' altro: incrociando i due resoconti otteniamo dunque un panorama completo. Il motivo dell' omissione è presto detto: la decade è numero sacro per un (neo)pitagorico, e Nicomaco afferma esplicitamente che le ultime 4 furono scoperte da autori «recenti, completando così il decimo numero, in accordo con i Pitagorici che lo ritengono il più perfetto» (Ar. II.22.l). Pappo avrà utilizzato una fonte neopitagorica differente da Nicomaco, in cui però l'inopportunità di introdurre 11 medie avrà generato la stessa decurtazione. Seguendo l'ordine di presentazione in Pappo, che coincide con quello di Nicomaco quanto alle prime 6, ecco le medie esposte in una tabella, con i nomi tradizionalmente loro assegnati:

Nic.,

100-1

e

113),

3

TECNICHE

aritmetica

(a - b):(b - c)::a:a

geometrica

(a - b):(b - c)::a:b

armOnIca

(a - b):(b - c)::a:c

quarta o subcontraria all'armonica

(a - b):(b - c)::c:a

quinta o subcontraria alla geometrica

(a - b):(b - c)::c:b

sesta

(a - b):(b - c)::b:a

settima

(a - c):(a - b)::b:c

ottava

(a - c):(a - b)::a:b

nona

(a - c):(a - b)::a:c

decima

(a - c):(b - c)::b:c

(omessa)

(a - c):(b - c)::a:c

Le denominazioni convenzionali per le medie inventate dagli autori posteriori indicano che esse furono ottenute semplicemente come risultato dell' applicazione sistematica del criterio di classificazione; in un senso forte, è tale criterio che inventa queste medie, e non viceversa. Il principio della classificazione non si ottiene per generalizzazione delle tre caratterizzazioni di Archita, che usano gli eccessi in modo non sistematico e assegnano un ruolo essenziale alla nozione di «parte». Tra l'altro, questo implica che la media armonica di Archita non coincida con quella della classificazione (fatto sfuggito ad esempio a Pappo, che presenta le due definizioni come equivalenti in Coli. III.30): ciò accade solo se ci restringiamo a rapporti epimorici. Pappo (Coli. 111.47-57) descrive anche un. metodo interessante per la generazione delle medie a partire dal rapporto di uguaglianza e dalla media geometrica. Il metodo è descritto anche da T eone di Smirne (Exp., 106-11), che lo estrae da Adrasto, la cui fonte è a sua volta dichiarata essere Eratostene, da Nicomaco (Ar. 1.23.6-11.2.2), Giamblico (in Nic., 44-6) e Proclo (in Ti., II, 18-20), ma in questi casi serve a mostrare soltanto come generare successive medie geometriche a partire dal rapporto di uguaglianza, cioè dalla "media degenere" l, l, 1. Il metodo è in 243

IL SILENZIO DELLE SIRENE

questi autori lo strumento che permette di classificare i rapponi (e non le medie) in lO specie differenti; si tratterà di un adattamento di quello originario, in quanto la presenza della media geometrica di riferimento è immotivata se lo scopo è solo classificare rapporti (Vitrac, 2008b). La procedura di generazione funziona cosi. Consideriamo tre termini a, b, c che costituiscano una media geometrica. Prendendone opportune "combinazioni lineari" si generano tre nuovi termini A, B, C che danno origine a tutte le medie, ivi compresa ancora quella geometrica. Se poniamo a, b, c = l, 1, l, i tre nuovi termini forniscono ogni volta le terne minime di interi tra quelle che realizzano le rispettive medie. Ad esempio, una nuova media geometrica si ottiene se poniamo A = a + 2b + c, B = b + c, C = c, la terna minima essendo quindi A, B, C =4, 2, 1. Pappo si limita a elencare le nuove terne e a verificare che realizzino le medie, ma non spiega in che modo siano state ottenute. A dire il vero, egli non riduce in questo modo la media aritmetica e la settima, ma si tratterà di un'omissione dovuta a cause accidentali (un motivo del tutto differente, e privo di fondamento, è accampato in Tannery, 1880a, pp. 95-8). Ecco la tabella delle combinazioni lineari e delle triple minime; con asterisco le relazioni non attestate in Pappo: *aritmetica

A = Ul + 3b + c, B = a + 2b + c, C = b + c

geometrica

A = a + 2b + c, B = b + c, C = c

armOnIca

A = Ul + 3b + c, B = 2b + c, C = b + c

quarta

A '=

Ul

+

3b + c, B = Ul + 2b + c, C = b + c

6,4,2 4,2,

l

6,3,2 6,5,2

quinta

A = a + 3b + c, B = a + 2b + c, C = b + c

sesta

A = a + 3b + 2C, B = a + 2b + c, C = a + b - c

6,4,

l

*settima

A = a + b + c, B = b + c, C = c

3,2,

l

ottava

A = Ul + 3b + c, B = a + 2b + c, C = 2b + c

6,4,3

nona

A=a+~+~B=a+b+~C=b+c

4,3,2

decima

A = a + b + c, B = b + c, C = c

*(omessa)

A = a + 2b + c, B = a + 2b, C = a + b

244

5,4,2

3,2,

l

4,3,2

3

TECNICHE

Le due trattazioni di teoria dei numeri più cospicue del corpus greco sono gli Arithmetica di Diofanto e i libri VII-IX degli Elementi. La loro natura è diametralmente opposta: gli Arithmetica contengono solo problemi, gli Elementi quasi unicamente teoremi. Dei primi ci siamo occupati nel PAR. 2.1.5; vediamo alcune caratteristiche dei secondi. Il libro VII è preceduto da definizioni di oggetti numerici, che caratterizzano già da sole l'approccio greco alla teoria dei numeri. Sono definite unità (1) e numero (2); parte e parti (3-4); multiplo (5); pari, dispari, pari volte pari, pari volte dispari ecc. (6-11; una classificazione molto dettagliata dei numeri sulla base della dicotomia pari/dispari si trova in Nicomaco, Ar. 1.1-16); numero primo, numeri primi tra loro, composti e composti tra loro (12-5). Si passa poi alla definizione di moltiplicazione come addizione ripetuta (16), di numeri piani e solidi e dei loro lati (17-8), di numeri quadrati e cubi (19-20). Infine la definizione di proporzione tra numeri (21), di numeri piani e solidi simili (22) e di numero perfetto (23). Un numero è una molteplicità composta di unità (def. 2). Un'unità è qualcosa di molto concreto, e può correttamente essere interpretata come un qualsiasi oggetto privato di ogni altra determinazione che non sia quella di essere un oggetto: questo è il senso della def. 1. Dobbiamo supporre di avere una riserva illimitata di unità a nostra disposizione: in effetti, in prima occorrenza in una proposizione dei libri aritmetici mai troviamo menzionata (unità, ma un'unità. Un'unità non è un numero nel senso della definizione 2, ma ciò non crea alcun problema: le def. 1 e 12 implicano che un'unità sia una parte, cioè un divisore, di qualsiasi numero, e questo è ciò che conta. Più problematica la nozione di «parte». Essa è ricondotta (def. 3) alla nozione primitiva di «misurare completamente». Dato che un'unità è «parte» di ogni numero, la def. 3 si limita a stabilire cosa sia per un numero essere una «parte» di un altro: lo è «il minore del maggiore, quando lo misuri completamente». La definizione non dice che un numero non può essere una parte di sé stesso, ed in effetti già nella proposizione VII.2 è detto esplicitamente che un numero misura sé stesso. D'altro canto, se un numero è una parte di sé stesso, la def. 23 di numero perfetto non può funzionare. Occorre dunque interpretare queste testimonianze apparentemente contraddittorie stabilendo che, per quanto un numero misuri sé stesso, la clausola «il minore del maggiore» nella def. 3 intenda escludere un numero dalle proprie parti. 245

IL SILENZIO DELLE SIRENE

Il problema più grave con la nozione di «parte» deriva però dal fatto che nella def. 4 è introdotta quella di «parti»: «parti» di un numero è un numero minore di esso che non sia una sua «parte». È chiaro che questa terminologia dà origine ad ambiguità, dal momento che il plurale «parti» può riferirsi sia a più di una «parte» che a una pluralità di «parti». Il problema è azzerato, nei testi a nostra disposizione, dalla constatazione che il plurale non è mai impiegato nel secondo senso (si dice che un numero è parti di un numero): la definizione di numero perfetto sarebbe altrimenti banalmente vuota. In realtà, la denominazione «parti» come plurale di «parte» si giustifica osservando che, se un'unità è sempre una «parte», allora ogni numero minore di un altro è una qualche pluralità di oggetti, ognuno denominabile «parte»: in questo senso molto sforzato «parti» è plurale di «parte». Che questa sia l'interpretazione corretta sembra suggerito dall'applicazione delle due nozioni in vII.6, 8, lO. Un'ulteriore ambiguità è legata alla nozione di numeri piani e solidi, quelli cioè ottenuti come prodotto di due o tre altri numeri (i suoi «lati»). Siccome non è richiesto che i lati dei numeri piani o solidi siano primi, uno stesso numero può benissimo essere piano e solido, ed in più i «lati» di uno di questi numeri non sono univocamente determinati. In generale, occorre dunque sempre interpretare le asserzioni che riguardano (ad esempio) coppie di numeri piani simili dando per inteso che siano state fatte scelte opportune di «lati» per questi numeri. Così, la def. 22 va letta «Numeri piani e solidi simili sono quelli [per cui esiste una scelta di lati tale che] i lati [siano] in proporzione». Con questa lettura, e rinforzando un poco l'argomento, si possono rendere rigorose le dimostrazioni di VIII.22-3, troppo sintetiche nel testo greco ricevuto. La prima proposizione del libro VII fornisce una condizione sufficiente, legata all'algoritmo delle sottraZioni reciproche, perché due numeri siano primi tra loro. Leggiamone l'enunciato (EE II, 105): Fissati due numeri disuguali e sottratto reciprocamente in successione il minore dal maggiore, qualora il resto non misuri mai completamente quello prima di sé stesso, fino a che resti un'unità, i numeri in origine saranno primi tra loro.

L'algoritmo è applicato alla determinazione della massima misura comune di due (VII.2) o tre numeri non primi tra loro (3). Buona parte delle proposizioni successive si ripartisce naturalmente in due tronconi: teoria delle proporzioni (4-15); teoria della primalità (16-33). Seguono proprietà del minimo comune multiplo di due o tre numeri (34-6) e la

3

TECNICHE

costruzione del numero minimo che abbia le parti date (37-9). Lo studio della teoria della primalità (VII.16-33) è basato sulla nozione di «numeri minimi tra quelli che hanno lo stesso rapporto». La nozione è introdotta dopo alcuni risultati preliminari molto elementari, quali commutatività del prodotto e conservazione del rapporto sotto il prodotto per lo stesso numero (16-8), e dopo il teorema che stabilisce che in una proporzione numerica il prodotto dei medi è uguale al prodotto degli estremi (19). Vengono dimostrate tre proprietà base di questi «numeri minimi», cioè che essi misurano, presi in ordine opportuno e rispettivamente, tutte le coppie di numeri aventi lo stesso rapporto (20) e che i minimi tra quelli che hanno lo stesso rapporto sono esattamente quelli primi tra loro (21-2). In VII.33 si insegna a costruire tali numeri minimi. Gli altri teoremi (23-32) contengono i risultati veri e propri di teoria della primalità. La primalità relativa è stabile sotto passaggio ad un divisore di uno dei primi (23), al prodotto tra due numeri primi relativi ad un terzo (24) e tra coppie di primi relativi (26), al quadrato di uno dei primi (25), ai quadrati o cubi di entrambi (27), alla somma (28). Inoltre, un numero primo è primo relativamente a ogni numero che non misura (29), e se un primo misura il prodotto di due numeri, allora misura almeno uno dei due fattori (30). Il teorema VII.31 non utilizza nessun risultato precedente e mostra che ogni numero composto è misurato da un numero primo. Il testo va completato con un'aggiunta che troviamo nei manoscritti teonini, ed utilizza una forma debole di induzione, cioè che non può esistere una sequenza illimitata di interi strettamente decrescente. Come conseguenza immediata, ogni numero o è primo o è misurato da un primo (32). Tra i libri VIII e IX non c'è reale soluzione di continuità, e non sono preceduti da definizioni. Il filo conduttore è quello della teoria delle sequenze di numeri in proporzione continua. Troviamo immerse nel tema principale alcune digressioni, identificabili facilmente e più o meno strettamente legate al tema principale. Il libro VIII dichiara sin dall'inizio l'intento, proponendo (1-7) alcuni teoremi preliminari allo studio dei numeri in proporzione continua, con applicazione della teoria della divisibilità. Unica eccezione (5) la dimostrazione che i numeri piani tra loro hanno come rapporto quello composto da quelli dei lati. Dei teoremi (8-10) sull'inserimento di uno o più medi proporzionali tra numeri preludono al dispiegamento (11-27) della teoria dei numeri piani e solidi simili. Le prime due proposizioni (11-2) stabiliscono che tra due quadrati (cubi) si interpola un numero medio proporzionale (due medi) e che 247

IL SILENZIO DELLE SIRENE

hanno tra loro rapporto raddoppiato (triplicato) di quello dei lati. Dopo una nuova proposizione (13) sui numeri in proporzione continua, le quattro che seguono (14-7) stabiliscono che un numero quadrato o cubo ne misura un altro se e solo se ciò è vero per i lati. Viene poi offerta una caratterizzazione di numeri piani e solidi simili (18-21): tra di essi si interpola un numero come medio proporzionale (due). La proprietà di essere un numero quadrato (cubo) si trasferisce ad ogni secondo (terzo) termine di una sequenza in proporzione continua, se il primo termine è quadrato (cubo) (22-3). Se due numeri hanno come rapporto quello di un quadrato rispetto ad un quadrato e il primo è un quadrato, anche l'altro è un quadrato. Lo stesso per i cubi (24-5). Numeri piani (solidi) simili hanno inoltre (26-7) lo stesso rapporto che un quadrato rispetto a un quadrato (cubo rispetto a cubo). Buona parte delle proposizioni del libro VIII va a coppie (quaterne se sono dimostrate anche le converse o le inverse): lo stesso risultato viene mostrato per numeri piani e solidi. Sono dunque strettamente analoghe 6-7, 9-10, 11-2, 14-7, 18-21, 22-3, 24-5, 26-7. Il libro IX si apre a completare la teoria dei numeri piani simili (1-2) e ne offre una seconda caratterizzazione: sono tutti e soli quelli che, moltiplicati tra loro, danno come risultato un quadrato. Il seguito propone alcuni risultati accessori (3-7). I primi quattro sono variazioni sullo stesso tema: un numero al quadrato dà un cubo se e solo se è un cubo (3 e 6); un numero per un cubo dà un cubo se e solo se è un cubo (4-5). Infine (7), un numero composto con un numero genera un numero solido. Seguono alcune proprietà delle successioni di numeri in proporzione continua a partire da un'unità (8-13). Le prop. 8-11 stabiliscono quali termini della successione siano quadrati, cubi, ... , a seconda che condizioni analoghe siano imposte o no sul termine successivo all'unità. L'accento in 11-3 è su quali divisori ammettano i termini della sequenza in funzione di quelli del termine massimo. Le quattro proposizioni che seguono (14-7) combinano teoria della divisibilità e numeri in proporzione. Due problemi investigano se e quando sia possibile trovare un terzo o un quarto proporzionale di numeri dati (18-9). Uno stacco netto introduce la ben nota dimostrazione, priva di accenni a molteplicità infinite, che i numeri primi sono più di ogni molteplicità proposta di numeri primi (20): altrimenti basta prendere il minimo comune multiplo di tale molteplicità finita e sommargli un'unità; se il numero risultante è primo, è ovvio che non fa parte della molteplicità posta, se non è primo, sarà misurato da un primo che non ne fa parte, altrimenti tale numero misurerebbe l'unità. Segue (21-34) una parte estremamente elementare, la cosiddetta «teoria

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TECNICHE

del pari e del dispari» (Becker, 1934-36c), che mena al teorema che «somma» una progressione geometrica di ragione qualsiasi (35) e infine al meraviglioso risultato che stabilisce una condizione sufficiente a che un numero sia perfetto (36), vero 'tÉÀoç dei libri aritmetici. L'invenzione della nozione risale molto probabilmente a Teeteto (Acerbi, 2oo5a), ma.come si sia arrivati a "vedere" la dimostrazione resta un problema aperto e soggetto, con i dati a nostra disposizione, solo a speculazioni (Taisbak, 1976). La condizione stabilisce che, se la somma di una progressione geometrica di ragione 2 e primo termine un'unità è un numero primo, allora il prodotto di questa somma per l'ultimo termine della progressione è perfetto, cioè uguale alla somma delle proprie parti. Osserviamo in effetti che la somma S di una progressione geometrica di ragione 2 e primo termine un'unità è uguale al termine successivo a quello con cui la progressione si arresta, meno un'unità (IX.35). Tale "termine successivo" è quindi uguale a S + 1. D'altronde, per IX.13, i divisori del "termine successivo" sono tutti e soli i termini della progressione considerata: ogni termine di una progressione geometrica di ragione 2 è quindi" quasi" un numero perfetto, in quanto la somma dei suoi divisori gli è minore di un'unità. Per ovviare a questa difficoltà, si osservi che, se moltiplichiamo il "termine successivo" S + 1 fissato sopra per un qualsiasi numero primo p, i divisori del prodotto (S + l)p saranno i) i termini della progressione di partenza più quello "successivo" S + 1 (la cui somma dà 2S + 1) ed in più ii) ognuno di questi termini, escluso S + 1, moltiplicato per il numero primo, la cui somma dà ovviamente Sp. Dunque la somma di tutti i divisori di (S + l)p fa pS + 2S + 1. Di conseguenza, (S + l)p è perfetto se p è uguale a 2S + 1, cioè alla somma della progressione che include il "termine successivo" S + 1. La dimostrazione di IX.36 è in realtà piuttosto lunga, in quanto occorre mostrare che solo i numeri elencati in i) e ii) sono divisori di (S + l)p. Il problema è come fare a capire quando la somma di una progressione geometrica di ragione 2 è un numero primo. Purtroppo, solo tramite un calcolo esplicito: le fonti greche attestano la conoscenza dei primi 4 numeri perfetti, 6, 28, 496, 8128 (Nicomaco, Ar. 1.16, cui dobbiamo la solita esposizione di tipo descrittivo, con qualche congettura personale un po' azzardata). Ipsicle nell'Anaphoricus e Diofanto nel De polygonis numeris si mettono esplicitamente nella scia di El. IX.35-6: sommano serie aritmetiche invece che geometriche e ci danno come conseguenza una caratterizzazione delle varie specie di numeri poligonali, che sostituiscono in qualche senso quelli perfetti. I numeri figurati e poi poligonali (da non confondere 249

IL SILENZIO DELLE SIRENE

con i numeri piani e solidi degli Elementi) furono oggetto di attenzione fin dai primi sviluppi dell' aritmetica pre-euclidea, come testimoniano vari passaggi aristotelici, ad esempio Ph. r 4, 203all-5, Metaph. N 5, 1092b9-13, la discussione in Platone, Tht. 148A-B, il frammento di Speusippo (basato sugli scritti di Filolao) riportato in [Giamblico], Theot. ar., 83-5, e l'assegnazione a Filippo di Oponte di un trattato Sui numeri potigonati (Suda cl> 418, IV, 733). Ne troviamo esposizioni, compiute per quanto limitate alla parte descrittiva e ad esempi paradigmatici, in T eone di Smirne, Exp., 31-41, e specialmente in Nicomaco,Ar. II.6-12. Il breve tratto di Diofanto (DOO 1,450-80), probabilmente incompleto, ha finalità non divulgative ed è a mio avviso un piccolo capolavoro. Ne offro una discussione piuttosto dettagliata, frutto del lavoro preparatorio ad una nuova edizione del testo greco. Lo scritto si apre con una prefazione che dichiara gli intenti dell'autore: Ciascuno dei numeri aumentando di un'unità a partire dalla triade è poligonale primo dall'unità, e ha tanti angoli quanta è la molteplicità delle sue unità; e suo lato è il numero successivo all'unità, il 2. Sarà pertanto il3 triangolare, il4 quadrato, il 5 pentagonale, e questo di seguito. Ora, dei quadrati essendo più che chiaro che si costituiscono quadrati per il fatto di essere il risultato di un certo numero moltiplicato per sé stesso, si può congetturare che ciascuno dei poligonali, moltiplicato per un certo numero in proporzione alla molteplicità dei suoi angoli, e prendendo in aggiunta un certo quadrato, di nuovo in proporzione alla molteplicità dei suoi angoli, si riveli quadrato: il che esporremo mostrando inoltre come da un lato dato si trovi il poligonale prescritto, e come si prenda il lato ad un poligonale dato; e dimostreremo prima ciò che viene assunto per questo.

L'affermazione di apertura è la constatazione che un numero n è poligonale con n vertici. Se immaginiamo di rappresentare il numero con una disposizione poligonale di segni, quali le a delle esposizioni di T eone di Smirne e Nicomaco o i «sassolini» menzionati nel frammento 23 B 2 DK di Epicarmo o da Aristotele in Metaph. N 5, 1092b9-13, risulterà immediato il perché dell' affermazione che la lunghezza del suo lato è 2. Diofanto offre quindi una congettura che in qualche senso generalizza la relazione quadrato = t . t: che P(v, t)h(v) + k(vY = quadrato, dove h(v) e k(v) sono numeri che dipendono (egli dice «in proporzione», ma non sarà cosi) dal numero di angoli v del numero poligonale P di lato l. Sulle ragioni che possono averlo spinto ad avanzare una congettura cosi poco trasparente ritornerò tra breve. Seguono 4 proposizioni intere, l lemma ed l proposi-

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TECNICHE

zione finale, mutila, di cui non mi occuperò. Ecco le 4 proposizioni, con in parallelo i teoremi corrispondenti nell'Anaphoricus di Ipsicle. Prop. 1. «Qualora tre numeri si eccedano tra loro per uguale < quantità> , otto volte quello < compreso> dal maggiore e dal medio, prendendo in aggiunta il quadrato sul minore, risulta quadrato, il laro del quale è uguale al < numero> composto sia dal maggiore che da due medi». In trascrizione algebrica: se tre numeri a, b, c, sono in progressione aritmetica e a> c, allora 8ab + tf2 = (a + 2b)2. La dimostrazione applica 2 volte El. II.3 e II.8. Non vi è analogo nell'Anaphoricus. Prop. 2. «Qualora siano numeri quanti si voglia in eccesso uguale, l'eccesso del maggiore e del minore è multiplo del loro eccesso secondo il < numero> minore per un'unità della molteplicità dei numeri fissati». Se una progressione aritmetica ha n termini a, ... , w, con w> a, e ragione r, allora w - a = (n - 1)r. L'analogo nell'Anaphoricus è la prima proposizione: se una progressione aritmetica ha 2n termini al' ... , a2n , con a2n > al' e ragione r, allora (a2n - an + J - (a n - al) = n2r. Prop. 3. «Qualora siano numeri quanti si voglia in eccesso uguale, il maggiore e il minore composti e moltiplicati per la loro molteplicità fanno un numero doppio di quello composro da quelli fissati». Se una progressione aritmetica ha n termini a, ... , w, con w> a, ragione r e somma S, allora (w + a)n = 2S. Vi sono due dimostrazioni differenti a seconda se la molteplicità dei termini sia pari o dispari. L'analogo nell'Anaphoricus sono le restanti due proposizioni. La prima stabilisce che se una progressione aritmetica ha 2n + 1 termini al' ... , a2n +1' con a2n +1 > al' ragione r e somma S, allora S = an +A2n + 1). La seconda asserisce che se una progressione aritmetica ha 2n termini al' ... , a2n , con a2n > al' ragione r e somma S, allora S = (ai + a2n _ i +I)n. La dimostrazione per molteplicità dispari è pressoché identica a quella di Diofanto, nel caso di molteplicità pari la prova di quest'ultimo è più elegante. Il linguaggio di Ipsicle è lo stesso di quello diofanteo; ecco l'enunciato della sua prop. 3: «Qualora siano numeri quanti si voglia in eccesso uguale, posti di seguito tra loro, pari in molteplicità, quello composto da tutti è multiplo di due tra quelli in congiunzione secondo la metà della molteplicità dei termini fissati» (De Falco, Krause, 1966, p. 35). I numeri nella progressione «in congiunzione» sono quelli ad uguale distanza dagli estremi. Prop. 4. «Qualora siano a partire da un'unità quanti si voglia numeri in eccesso uguale, il totale composto, moltiplicato per l' ottuplo del loro eccesso e prendendo in aggiunta il quadrato sul < numero> minore per una diade del loro eccesso, risulta un quadrato, il lato del quale

IL SILENZIO DELLE SIRENE

meno una diade sarà multiplo del loro eccesso secondo un certo numero, che prendendo in aggiunta un'unità è doppio della molteplicità di tutti quelli fissati con l'unità». Se una progressione aritmetica di n termini ha come primo termine l'unità e ragione r, e se S è la sua somma, allora (*) S8r+ (r- 2)2 = (2 + r(2n -1))2. La dimostrazione è una lunghissima riduzione in forma di analisi teorematica ed applica le prop. 2 e 3, ed inoltre i corrispettivi numerici di El. II.7-8. Fin qui solo la dimostrazione dell'ultima proposizione presenta aspetti interessanti, di cui mi sono già occupato (Acerbi, 2oo7a, pp. 508-12). Il bello comincia ora, in quanto la logica dell'argomentazione si articola su livelli di profondità sorprendenti. Diofanto continua cosÌ: «Essendo quanto proposto, diciamo che, qualora siano numeri quanti si voglia a partire da un'unità in quale si voglia eccesso, il totale composto è poligonale: e in effetti ha tanti angoli quanto è il < numero> maggiore per una diade del loro eccesso, e il suo lato è la molteplicità dei < numeri> fissati con l'unità». Dunque: se una progressione aritmetica 1, a, ... , w con n termini compresa l'unità e ragione r ha somma S, allora S è un numero poligonale, con numero di angoli v =r + 2 e lato 1= n. La dimostrazione è la seguente. Diofanto osserva che, come conseguenza della prop. 1 applicata ai tre numeri in progressione aritmetica r + 2, r, r - 2, il numero S «risolve lo stesso problema», per n arbitrario, della somma parziale a 2 termini, 1 e a, cioè del numero a + 1 =r+ 2 per n =2. In effetti, sostituendo a + 1 = r + 2 ad S nel membro di sinistra di (*), si ha 8(a+1)r+(r- 2)2=8(r+2)r+(r- 2)2=(r+2+2r)2= (2+3r)2= (2+r(2n

-lW,

l'ultima uguaglianza valendo in quanto n = 2. Ma a + 1 è «arbitrario ed è il primo numero poligonale dopo l'unità» con numero di angoli v = a + 1 = r+ 2, e ovviamente lato 1= 2. Ne consegue che, se una progressione aritmetica 1, a, ... , w con n termini e ragione r ha somma S, allora S è un numero poligonale «equiangolo ad a + l», con numero di angoli v = r + 2 e lato 1= n. Prima di commentare gli aspetti stranianti di questa dimostrazione, andiamo avanti. Salta fuori il nome di Ipsicle: «E si è anche dimostrato quanto detto da Ipsicle in una definizione che, qualora siano numeri quanti si voglia da un'unità in eccesso uguale, se l'eccesso rimane un'unità il totale composto è triangolare, se è una diade è quadrato, una triade pentagonale; e la molteplicità degli angoli è detta secondo il < numero > maggiore per una diade dell' eccesso, e il suo lato è la molteplicità dei < numeri> fissati con l'unità». Non è detto che la definizione fosse contenuta nella redazione originale dell'Anaphoricus, allo stato attuale

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TECNICHE

sicuramente mutilo. Può anche darsi che le tre proposizioni che vi troviamo, ovviamente rilevanti per la teoria dei numeri poligonali, siano un adattamento per estratto, forse d'autore, da uno scritto che se ne occupava esclusivamente. È interessante che lo scopo polemico di Diofanto sembri essere quello di dimostrare una definizione (!), dal carattere già sufficientemente operativo. Probabilmente non lo era abbastanza da poter essere applicata nell'ultima proposizione, dal testo incompleto e sospettata del tutto a sproposito di autenticità, che si propone di mostrare in quanti modi un numero dato può essere poligonale. Dimostrata la definizione di Ipsicle, spetta dunque a Diofanto proporne una nuova. Lo fa al termine della seguente argomentazione. Egli osserva in primo luogo che un numero triangolare è tale che il suo lato coincide con il massimo dei termini fissati nella progressione che lo determina, e che il prodotto di questo termine massimo e del numero maggiore di esso per un'unità è doppio del triangolare in questione. Si tratta della ben nota caratterizzazione dei numeri triangolari 2T = n(n + 1}. Ricorda in secondo luogo che a + 1, che è (si noti bene, non: ha) tanti angoli v quante sono le unità in esso, moltiplicato per il numero che gli è minore di due unità, cioè a - 1 = r, e aumentato del numero che gli è minore di quattro unità, cioè a - 3 = r - 2, dà un quadrato: 8(a + 1}r + (r - 2}2 = quadrato. Ecco dunque la nuova definizione: «Ogni poligonale, moltiplicato per l' ottuplo di quello minore per una diade della molteplicità degli angoli, e aumentato del quadrato sul < numero> minore per una tetrade della molteplicità degli angoli, fa un quadrato». Un numero poligonale p con numero di angoli velato 1è dunque definito dal soddisfare la relazione 8P(v - 2} + (v - 4)2 = (2 + (v - 2}(2/- 1})2 o, come dice Diofanto, 8P(v - 2) + (v - 4}2 = quadrato. Se il lettore prova un vago senso di vertigine ne ha buone ragioni: il De polygonis numeris è a mio avviso il testo più stupefacente di tutto il corpus greco. Discuto brevemente alcuni punti chiave dell' argomentazione che ho appena esposto. L'uso delle serie aritmetiche serve a formalizzare l'idea che i vari poligonali a numero di vertici fissato si ottengono tutti per aggiunta di gnomoni, che fanno aumentare di un'unità il lato. Rappresentato il poligonale minimale a + 1 con una disposizione poligonale di segni, lo gnomone va disposto opportunamente: un segno in più per ognuno dei v vertici escluso uno, un segno ulteriore in più nello spazio compreso tra 1.

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IL SILENZIO DELLE SIRENE

quelli appena aggiunti per aumentare di un'unità il lato (il lettore provi con un pentagono): ricordando che v "" a + l "" r + 2, ne risultano (v - l) + (v - 2) "" a + r segni in più, il che significa che i successivi gnomoni formano una progressione aritmetica di ragione r. 2. È sempre interessante veder dimostrare una definizione. Quella di Ipsicle aveva il difetto capitale di risultare particolarmente poco efficiente, e sicuramente incapace di sciogliere possibili ambiguità, per chi voglia determinare numero di vertici e lato di un numero dato in quanto poligonale (ricordiamoci che ogni numero è un qualche numero poligonale). Per raggiungere il suo scopo Diofanto introduce per la prima volta un oggetto alieno alle ricerche precedenti, ed unico nel corpus greco: una partizione esaustiva ma non esclusiva dei numeri sulla base di una formula chiusa, che esprime una proprietà caratteristica di un numero che sia ottenuto per somma di una progressione aritmetica. Non è in effetti azzardato apparentare la definizione di Ipsicle a quella generativa di una curva, quella di Diofanto ad una proprietà caratteristica della curva stessa. 3. Diofanto identifica la somma di una progressione aritmetica con un poligonale mostrando che «risolve lo stesso problema» di un particolare numero, cioè il primo poligonale con quel numero di angoli. Questo accenno a «risolvere lo stesso problema» apre prospettive vertiginose: quale «problema»? Soddisfare una certa espressione chiusa, analogamente ai problemi indeterminati che troviamo negli Arithmetica. Ma qui il «problema» ha una connotazione geometrica ben precisa. L'intera progressione di ragione v - 2 rappresenta un oggetto numerico generico corrispondente al generico v-go no costruito su di una retta data. La lunghezza arbitraria della progressione corrisponde a quella della retta data, la ragione fissa al dato del tipo di poligono da costruire. Diofanto legge quindi il problema della determinazione della somma della progressione come un vero problema di costruzione, dove l'assunzione quale parametro libero del valore del lato permette di trovare come soluzione «la stessa figura». Tra l'altro, ciò è in accordo con il fatto che i successivi v-goni ad l crescente sono ottenuti per aggiunta di gnomoni. Per questo motivo il lato l non compare né nelle considerazioni preliminari dove Diofanto avanza la propria congettura né nella definizione finale, 8P(v - 2) + (v - 4)2 "" quadrato, per quanto questo quadrato abbia un' espressione ben definita e contenente il lato. Quest'ultimo ritornerà in ballo solo alla fine, quando Diofanto spiega come ricavare il numero poligonale di vertici dati noto il lato e viceversa. Si tratta dunque di un 254

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TECNICHE

dato accessorio, che pertiene allogistico e non al teorico dei numeri, interessato soltanto a caratterizzare i poligonali in quanto entità astratta, allo stesso modo in cui il "valore" di un lato di un poligono interessa il metrico e non il geometra. 4. Diofanto dice esplicitamente che sta generalizzando espressioni ben note. Va bene, ma quali? Nell'introduzione afferma che la sua congettura P(v, l)h(v) + k(V)2 =quadrato si basa sul fatto che quadrato = I· I, ma viene da chiedersi perché questa generalizzazione e non un' altra. Osserviamo che l'espressione di Diofanto incorre in problemi nel caso di v = 3, 4 in quanto viene aggiunto il quadrato di un numero negativo o nullo. Hultsch (PWV.11066) ha osservato che ciò non potrebbe costituire un problema per Diofanto, in quanto nell'introduzione degli Arithmetica è esposta la regola dei segni (DOO I, 12), mentre (4 - 4)2 = o doveva essere autoevidente. L'osservazione di Hultsch si basa sulle supposizioni del tutto immotivate che la regola dei segni sia equivalente all'elaborazione della nozione di numero negativo (di cui non v' è traccia nel mondo greco) e che vada da sé che si possa fare il quadrato di zero. Tutto ciò è privo di fondamento, e si scontra con la banale osservazione che nel corso della dimostrazione della prop. 4 il numero v - 4 = r - 2 è esplicitamente costruito, e ciò rende impossibile che la si possa applicare ai casi r = 1, 2. Diofanto è dunque del tutto in linea con la concezione geometrica, per la quale né un triangolo né un quadrilatero sono poligoni. Per questo motivo egli inserisce quell'intermezzo sui numeri triangolari e preterisce il caso dei quadrati (per i quali non sussiste nessun quadrato aggiunto) in quanto già menzionato nell'introduzione. La sua congettura si baserà dunque sulla generalizzazione di espressioni chiuse già note. La prima sarà quella relativa al quadrato: Q =1 . I, che implica 8Q(v - 2) =161 . 1=quadrato, poiché in questo caso v = 4. La seconda andrà probabilmente ricercata in un' espressione che coinvolge il generico numero triangolare T, attestata solo inPlutarco, Quaest. plat. V.2, lO03F, ed il cui scopo è mostrare che anche un'unità è triangolare (la definizione di Diofanto comporta che un'unità è poligonale con numero arbitrario di vertici): 8T + 1 = quadrato, che implica 8 T(v - 2) + 1 = quadrato dato che in questo caso v = 3. Anche se Diofanto non la menziona, occorrerà assumere che la sua caratterizzazione dei numeri triangolari abbia come conseguenza immediata quest' espressione. Non è difficile vedere come da qui si possa arrivare alla generalizzazione ai poligonali. Il colpo di genio di Diofanto è richiedere una ge,.. neralizzazione minimale in due rispetti: i) coinvolge soltanto l'espressio-

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IL SILENZIO DELLE SIRENE

ne aggiunta nel membro di sinistra del caso triangolare, ii) impone che il lato non compaia in questa stessa espressione. 5. C'è di più. In tutto l'edificio dimostrativo entra in gioco in maniera cruciale una versione numerica di El. II.8. Il teorema stabilisce che, se una retta AB è secata in un punto arbitrario C, e si prolunga AB di un segmento BD =BC, allora 4r(AB, BC) + q(AC) =q(AD). Il lettore tracci la figura e vedrà che si tratta di un doppio gnomone che viene giustapposto ad un quadrato per generare un quadrato. Possiamo dunque azzardarci ad intravedere una sorta di dualità tra (doppi) gnomoni di quadrati e numeri poligonali, mettendo in parallelo l'espressione finale di Diofanto ed El. II.8: la prima stabilisce che 8P(v - 2) + quadrato = quadrato, il secondo che gnomone + quadrato = quadrato. Le due espressioni sono strutturalmente analoghe; la seconda esplicita i gusci successivi di gnomoni che nella prima scompaiono. Può anche darsi che nella forma della generalizzazione di Diofanto intervenga l'intento diaccennare per enigmi al risultato chiave della propria dimostrazione. Diofanto insegna infine a ricavare il poligonale di numero di vertici dato noto il lato e viceversa; per noi si tratterebbe di ricavare P oppure l dalla formula appena vista una volta che v sia fissato. Vi troviamo un'applicazione del formato della catena dei dati per validare una procedura di calcolo, in questo caso per ricavare un parametro in funzione di un altro in una formula chiusa. Un testo latino del corpus gromatico di datazione estremamente incerta, i cosiddetti «estratti di Epafrodito e Vitruvio Rufo», presenta un'interessante particolarizzazione della procedura diofantea al calcolo delle aree di poligoni regolari, dal pentagono al dodecagono inclusi (Guillaumin, 1996, pp. 164-86). Essi sono trattati come numeri poligonali; due algoritmi permettono di trovare l'area del poligonale assegnato il lato e viceversa; l'espressione utilizzata nel primo caso è una drastica semplificazione di quella data sopra: 2P= (v - 2)/2 - (v - 4)1. Non è chiaro se questa uguaglianza sia stata effettivamente ottenuta per semplificazione di quella diofantea o se costituisse una formulazione anteriore; essa sembra però ciò a cui mira l'incompleta prop. 5 del De poi. num. Vedremo che l'attribuzione a un certo «Diofane» di una raccolta di problemi analoghi sui poligoni è corretta da una seconda mano del manoscritto principale in «Diofanto» (PAR. Al.?); le procedure risolutive di questi problemi sono del tutto differenti da quelle attestate negli estratti gromatici latini, ma, curiosamente, i nomi dei poligoni sono

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tutti maschili: si tratta quindi di numeri poligonali, e non di figure geometriche. I cosiddetti numeri di Ipparco sono menzionati in un passaggio plutarcheo di Stoico rep. 1047c-E, ripetuto quasi identico in Quaest. conu. VIII.9, 732F: Ma ora [Crisippo] stesso afferma che il numero di congiunzioni prodotto per mezzo di dieci asserti eccede le cento miriadi, per quanto non abbia mai investigato la questione con attenzione né abbia ricercato il vero con l'aiuto di esperti. [... ] Confutano Crisippo tutti gli aritmetici, tra cui è anche Ipparco, che dimostra che il suo errore di calcolo è enorme, in quanto l'affermazione dà 10.3049 asserti congiunti e la negazione 31.°952.

L'identificazione di questi numeri ha permesso di proporre una rivalutazione della combinatoria antica (Acerbi, 2oo3b, a cui rimando per altri esempi di calcoli di natura combinatoria, molto più elementari di quello che vado ad esporre). Il primo dei due numeri coincide con il decimo dei numeri di Schroder, che furono introdotti per risolvere problemi di messa in parentesi. Supponiamo di avere una stringa di n lettere: è richiesto di trovare tutte le maniere di porre le lettere tra parentesi. La messa in parentesi di una lettera è sempre omessa, così come una parentesi che racchiuda l'intera stringa di lettere e parentesi. Una messa in parentesi di una stringa di lO lettere ha questo aspetto: (x(xx)x )xx(xx) (xx) .

Se s(n) denota il numero delle possibili messe in parentesi di una stringa di n lettere, ne risulta S(l), S(2), ... , S(11), ... = 1, 1, 3, 11, 45, 197, 903, 4279, 20793, 103049, 518859, ...

Il primo numero di Ipparco coincide quindi con il decimo numero di Schroder S(IO). Ovviamente, quelli di messa in parentesi rappresentano tutta una classe di problemi combinatori. Ad esempio, s(n) conta in quanti modi possiamo tracciare diagonali non intersecantesi all'interno di un poligono convesso di n + 1 vertici, oppure il numero di alberi con una sola radice e n punti terminali (con la condizione che a 257

IL SILENZIO DELLE SIRENE

nessun vertice è connesso un solo ramo ulteriore). Si osserva anche che (S(IO) + S(l1»12 = 310954. Fin qui la questione dell'identificazione dei numeri di Ipparco. Occorre darle una sostanza storica, che rintracciamo in certe peculiarità della logica stoica. I connettivi della logica stoica erano soggetti a regole sintattiche stringenti. Tra di esse spicca quella dell'anteposizione del connettivo: nel caso della congiunzione veniva anteposto un KaL «e», come in o"Xi Kai ~!!éQa EO'u Kai vÌJ; EO'u «non: sia è giorno sia è notte» (Sesto Empirico, M VIII.26 - si noti anche la posizione della negazione). La regola dell'anteposizione del connettivo permetteva tra l'altro di eliminare possibili ambiguità. È chiaro che, se rappresentiamo gli asserti cui fa riferimento Plutarco con una stringa di 10 lettere, il problema di contare le loro possibili congiunzioni si riduce al problema di contare le possibili messe in parentesi della stringa, dato che la prescrizione stoica distingue tra congiunzioni sintatticamente differenti. Più delicata la questione nel caso della negazione. Occorre in effetti supporre che una sola negazione operasse sui 10 asserti congiunti, e che ciò avvenisse, conformemente alla prescrizione stoica, per anteposizione della negazione. Questa non potrà semplicemente agire sull'intera congiunzione: ne risulterebbero ovviamente ancora 103049 negazioni di congiunzione. La negazione deve quindi agire sul segmento iniziale della congiunzione di asserti, in qualche modo scavalcando alcuni degli «e» iniziali. Nel linguaggio delle parentesi, considereremo dunque il numero di messe in parentesi della stringa .... xx...x, con la convenzione seguente: si prenda la negazione dell'asserto congiunto corrispondente alla parentesi che segue immediatamente il segno .... , altrimenti si prenda la negazione del primo asserto nella congiunzione. Dal momento che le messe in parentesi .... (... ) e ( .... (... danno lo stesso risultato, molti asserti negativi saranno ottenuti in due maniere differenti, gli unici con rappresentazione univoca essendo quelli associati ad un segno .... che agisce sull'intera stringa di lettere e parentesi. Non è difficile vedere che in questo modo il numero di congiunzioni negate è (s(n) + s(n + 1»12. La stringa .... xx...x ha infatti n + 1 simboli, cui corrisponde un numero di messe in parentesi uguale a s(n + 1). Ma lo stesso asserto negativo corrisponde a una coppia di messe in parentesi, l'eccezione essendo costituita da tutte le configurazioni della forma .... (... ), in cui la parentesi contiene tutti gli n simboli x, eventualmente ancora messi in parentesi. Vi sono esattamente s(n) di tali configurazioni: sommandole all'intera collezione di messe in parentesi di .... xx...x;

»

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TECNICHE

sommando cioè s(n) a s(n + 1), ogni asserto negativo corrisponderà ad una coppia di messe in parentesi e una sola, cioè

s(n + 1) + s(n) = 2 volte il numero delle negazioni di congiunzione da cui il risultato. Come esempio riporto la stringa relativa alle 7 negazioni di congiunzioni di 3 asserti. (-..x)xx (-..x)(xx) (( -..x)x)x (-.. (xx))x -.. (xxx) -.. (x(xx)) -.. ((xx)x) -..xxx -..x(xx) (-..xx)x -.. (xx)x

Allo scopo di calcolare il numero di messe in parentesi di una stringa di n lettere, un algoritmo piuttosto efficace mette in evidenza il carattere ricorsivo del processo: (*)

s(n)

I

i 1 + ... +Ù,=n

SUl) ... sUk ),

n "t?

2

dove la somma è su tutte le partizioni ordinate di n in k "t? 2 addendi. Spiegato in parole, si inizia fissando il livello di parentesi più esterno. I suoi componenti sono singole lettere o parentesi. Per calcolare il numero totale di possibili messe in parentesi a livello più esterno fissato occorre moltiplicare i numeri delle possibili messe in parentesi associate a ciascuna componente. I soli contributi non banali provengono da componenti che siano stringhe messe in parentesi di i lettere (2 < i < n) ed eventualmente ulteriori parentesi, di modo che il loro contributo vale sU). Si prenda come esempio la messa in parentesi di 10 lettere vista sopra. Ci sono 5 componenti di livello più esterno: (x(xx)x), x, x, (xx), (xx), che possono essere associati alla stringa seguente di cifre, ognuna corrispondente al numero di x nel componente relativo: 4, 1, 1, 2, 2. Fissata questa partizione di 10, il contributo corrispondente nella somma (*) è S(4)s(1)S(1)S(2)S(2) =s(4) dal momento che S(l) = 1 =S(2). Fissare il livello di parentesi più esterno corrisponde a selezionare una specifica partizione ordinata di n, cioè uno specifico addendo nella somma. Sommando su tutte le possibili partizioni otteniamo il risultato. I numeri s(n) possono essere ottenuti quindi ricorsivamente a partire da S(2) = 1. I.a somma (*) ha 511 termini, che corrisponde al numero di partizioni ordinate di 10 oggetti. Questo risultato non è difficile da ottenere: rappresentati gli oggetti con segni, una partizione viene generata inserendo

IL SILENZIO DELLE SIRENE

un tratto separato re in alcuni degli spazi tra i segni. Per ogni spazio possiamo inserire il tratto oppure no; questa alternativa si ripete per ogni spazio: le partizioni possibili sono quindi 2 9 - 1 (occorre inserire almeno un tratto). Il calcolo non è difficile, e possiamo ancora abbreviarlo osservando che più partizioni ordinate, ognuna delle quali dà lo stesso contributo alla somma, corrispondono alla stessa partizione non ordinata, e che di queste ultime ve ne sono 41.

3.8 Trigonometria e geometria sferica In Alm. 1.10 Tolomeo dimostra una serie di risultati finalizzata alla costruzione di una tavola delle corde, l'analogo di una moderna tavola dei seni. È uno strumento tecnico essenziale per il calcolo trigonometrico, sia piano che sferico (la struttura di una precedente tavola delle corde dovuta ad Ipparco è discussa in Toomer, 1973). I passi sono i seguenti. Unità di misura. La circonferenza è divisa canonicamente in 360 parti. Tolomeo adotta una misura per segmenti rettilinei differente da quella degli archi: il diametro è diviso in 120 parti, in modo che il raggio risulti di 60 parti, valore che nel sistema sessagesimale è uguale a 1. Il rapporto numerico tra lunghezza della circonferenza di riferimento e del suo diametro risulta dunque 3, ma questo non significa che :n; = 3, in quanto le unità di misura sono differenti. 2. Determinazione delle corde identiche ai lati di pentagono, esagono, decagono regolare inscritti in un cerchio, cioè relative ad archi di 72, 60 e 36 parti di circonferenza. Queste tre rette sono esposte nello stesso semicerchio modificando leggermente la costruzione di El. II.11 di una retta divisa in rapporto estremo e medio. 3. Teorema di Tolomeo: si veda il PAR. 3.6. 4. Determinazione della corda relativa all'arco differenza di due archi sottesi da corde date: è un'applicazione del teorema precedente (si veda ancora il PAR. 3.6). Questo teorema permette di calcolare la corda relativa a 12 parti di circonferenza. 5. Determinazione della corda relativa all'arco metà di uno sotteso da una corda data: per quanto fosse possibile adibire ancora il teorema del punto 3, T olomeo fornisce una dimostrazione che ricalca quella che troviamo come prop. 14 dello scritto in arabo presentato come traduzione 1.

260

3

TECNICHE

di un' opera archimedea sulla costruzione dell' eptagono regolare (Tropfke, 1936). Questo teorema permette di calcolare in successione le corde di 6, 3, 312, 3/4 parti di circonferenza. 6. Determinazione della corda relativa all'arco somma di due archi sottesi da corde date: è ancora un'applicazione del teorema del punto 3. T olomeo conclude che in questo modo risulta possibile completare una tavola il cui passo è un arco 312 di parte di circonferenza. Egli vuole però ottenere una tavola di passo 112 parte, ma, osserva, «data una certa retta, come quella sotto 312 di parte, la < retta> che sottende un terzo dello stesso arco non è data con metodi rigorosi». 7. Di conseguenza, Tolomeo determina in modo approssimato il valore della corda sottesa da un arco di l parte. Egli dimostra a questo scopo una disuguaglianza che funziona tanto meglio quanto più sono piccoli gli archi: «Qualora in un cerchio siano condotte due rette disuguali, la maggiore rispetto alla minore ha rapporto minore che l'arco sulla retta maggiore rispetto a quello sulla minore« (POO 1.1, 43). Oltre che nell'Almagesto, la stessa dimostrazione è attestata nel commentario di T eone (iA, 492) e in uno scolio ad Aristarco, Magn. 5. Tolomeo applica due volte la disuguaglianza, in modo da stimare l'arco di l parte grazie a quelli dati di 312 e 3/4 di parte, ottenendo per il primo un valore approssimato di l; 2, 50 (notazione sessagesimale = l + 2/60 + 50/3.600). La tavola è esposta in Alm. 1.11, su 45 righe per colonna, come probabilmente richiesto dai formati dei rotoli del tempo. I valori delle corde sono forniti fino al terzo ordine di sessagesimali (parti comprese) nell'unità di misura rettilinea convenzionale in cui il diametro è diviso in 120 parti; ciò richiede che i calcoli intermedi siano stati effettuati fino al quinto ordine. Gli Sphaerica di T eodosio si occupano di proprietà di oggetti legati ad una sfera, in particolare alla sua superficie: centro e piani tangenti, cerchi e cerchi massimi e loro poli (libro I), cerchi paralleli e mutuamente tangenti o intersecantesi (11.1-10), infine di proprietà specifiche di cerchi sulla sfera, di interesse prettamente astronomico. Se gli Sphaerica di Teodosio restano nell'alveo della geometria solida, quelli di Menelao sono un trattato di geometria intrinseca della superficie della sfera. Egli evita accuratamente il metodo indiretto e lo dichiara nella prefazione, sebbene non sia chiaro se quest' affermazione si trovasse nella redazione originale o se si tratti di un' aggiunta del recensore arabo. Che quella di Menelao sia una scelta pienamente consapevole è però reso del tutto evi-

IL SILENZIO DELLE SIRENE

dente dal testo degli Sphaerica, in cui dimostrazioni indirette non compaiono. Le prime proposizioni, per quanto riferite a triangoli sferici, possono essere lette come una riscrittura, con diverso ordine deduttivo e senza usare dimostrazioni indirette, di quelle del segmento iniziale di El. I. Nel prospetto sono elencate le proposizioni corrispondenti: Sphaerica

l

2

3

4

5

6

7

8

9

lO

11

14-5 17

Elementi

23

5

6

4,8

20

21

19

24

18

16

32

26a 26b

Ovviamente, non sempre i risultati dimostrati sono esattamente analoghi: la prima divergenza si genera con El. 1.16, in quanto il teorema dell'angolo esterno non vale sulla superficie della sfera. Menelao dimostra che un angolo esterno ad un triangolo sferico è maggiore, uguale o minore di ognuno dei due interni non adiacenti esattamente quando la somma dei «lati» opposti ai due angoli interni in questione è minore, uguale o maggiore di un semicerchio. La dimostrazione è molto semplice e sfrutta il fatto che prolungando due lati di un triangolo sferico si ottiene ancora un triangolo sferico, cui si applica la proprietà che il lato maggiore sottende l'angolo maggiore. Da questo risultato discende, anche se non immediatamente, che la somma di due angoli interni di un triangolo sferico è maggiore di quello esterno al terzo angolo. Che Menelao intendesse demarcarsi dalla tradizione geometrica precedente è testimoniato già dal fatto che denomina 'tQiJtÀE'UQOV ((trilatero» il triangolo sferico (Sph. def. 1), come ricaviamo anche da Pappo (Coli. VI.2) e dalle dimostrazioni di Sph. 1.5-6, 34, 37 riportate in Coli. VI.2-5. Nel commentario all'Almagesto di Teone (342-3 dell'edizione di Basilea) si trovano invece il testo completo di 1.14 e l'enunciato di 1.13: ((Qualora due trilateri abbiano un angolo uguale ad un angolo, ed i lati intorno agli altri angoli siano uguali tra loro, mentre i restanti angoli insieme non siano uguali a due retti, avranno a loro volta anche i restanti < angoli > uguali tra loro». Si tratta del criterio di congruenza "mancante" negli Elementi e alla cui validità generale Porfirio offre un controesempio compilato da Prodo in iE, 350-1; il criterio di congruenza in cui i tre angoli interni sono uguali, valido per triangoli sferici, è Sph. 1.18. Il risultato più noto di trigonometria sferica è il teorema del settore, denominato comunemente ((teorema di Menelao» a causa della sua collocazione in Sph. 111.1. Esso è la chiave di volta per alcuni dei risultati

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TECNICHE

più importanti dell'Almagesto (dove è applicato 17 volte): 1. calcolo dei tempi di levata di archi dell' eclittica; 2. determinazione della posizione dell' eclittica ad un dato istante, rispetto all' orizzonte locale; 3. calcolo di tempi di levata simultanei di stelle fisse e fenomeni correlati di visibilità stellare. Non è dunque sorprendente che il teorema del settore si trovi dimostrato anche in Alm. 1.13, dove viene adibito immediatamente al computo della tavola delle declinazioni solari (Alm. 1.14-5) e delle ascensioni rette (I.16), e in una varietà più ampia di casi nel commentario di Teone (iA, 535-70). Il teorema ha una versione piana ed una corrispondente per archi sulla superficie della sfera minori di metà di un cerchio massimo. La configurazione geometrica del caso piano è ben nota fin dai Porismi euclidei e coincide con la cosiddetta disposizione «supina» (Coli. VII.16); il risultato è espresso in termini di composizione di rapporti, il che ha dato origine a esposizioni della nozione in commentatori di Alm. 1.13 come Teone (iA, 532-5) o l'anonimo dei Prolegomena. Con riferimento alla figura nella pagina successiva, l'enunciato in Alm. 1.13 è il seguente (POO 1.1,69): «Due rette BE e GD condotte oltre su due AB eAG si sechino tra loro secondo il punto Z. Dico che il rapporto di GA rispetto ad AE risulta composto di quello di GD rispetto a DZ e di ZB rispetto a BE», che scriverò GA:AE::( GD:DZ) (ZB:BE). Si tratta del caso «per composizione», la denominazione essendo dovuta al fatto che le rette in antecedente e conseguente di ogni rapporto si sovrappongono parzialmente. T olomeo dimostra subito dopo un analogo caso «per divisione», il motivo della denominazione essendo analogo al precedente. Il risultato è il seguente: «il rapporto di GE rispetto ad EA risulta composto di quello di GZ rispetto a DZ e di DB rispetto a BA». Un trucchetto mnemonico per ricordarsi l'ordine dei segmenti nei rapporti composti è spiegato da Teone (iA, 539) e può essere riformulato così: il rapporto al membro di sinistra inizia sempre con un vertice al «piede della configurazione supina» e tocca gli altri due punti che si trovano sul lato esterno corrispondente in modo che il punto intermedio sia contato due volte. Ci sono solo due possibilità: rapporto GA:AE (caso «composizione») e rapporto GE:EA (caso «divisione»). I rapporti al membro di destra si ottengono iniziando e terminando sugli stessi estremi del "percorso" determinato dal rapporto di sinistra, solo prendendo un' altra strada lungo il reticolo della configurazione, con il vinl"Olo che ogni rapporto tocchi solo punti sulla stessa retta. Ebbene, nei due casi esaminati il percorso alternativo è obbligato. Non è difficile ve-

IL SILENZIO DELLE SIRENE

A

G

dere che il teorema vale anche per altri ((percorsi» di sinistra, alcuni di essi ammettendo più percorsi di destra possibili, e la combinatoria risultante è molto ricca; ne troviamo un assaggio nell' esposizione di T eone, e fu indagata a fondo nella tradizone araba (Lorch, 2001). La dimostrazione del caso per composizione traccia la parallela EH a GD dal punto finale del percorso di sinistra e conclude piuttosto rapidamente per proiezioni incrociate e decomposizione di rapporto: GA:AE::GD:EH per triangoli simili, e quindi GA:AE::(GD:DZ)(DZ:HE) per decomposizione; ma DZ:HE::ZB:BE sempre per triangoli simili: sostituendo otteniamo quanto richiesto: GA:AE::( GD:DZ) (ZB:BE). Una dimostrazione del tUttO analoga si applica al caso per divisione. Per quanto il risultato piano possa essere interessante, è quello sferico che è utile. La configurazione geometrica è analoga: quattro archi di cerchio massimo minori di un semicerchio che si intersecano in 6 punti: una configurazione ((supina» sulla superficie della sfera come nella figura della pagina successiva. La relazione da dimostrare sarà esattamente dello stesso genere, le rette del caso piano essendo sostituite da opportune corde degli archi in gioco: risulterà dunque una relazione tra 6 segmenti rettilinei, non tra archi. Di queste 6 corde, 5 sono invariabilmente date, e la relazione serve a calcolare la sesta. La tavola delle corde permetterà infine di ricavare l'arco corrispondente. Com'è da attendersi, il caso sferico si dimostra a partire da quello piano. Consideriamo dunque a) la configurazione supina sferica, generata dagli archi esterni AEG, ADB e da quelli interni GZD, BZE, b) la relazione GE:EA::(GZ:ZD)(DB:BA) valida nel caso per divisione relativo alla configurazione supina piana ottenuta sostituendo "alla cieca" gli archi di quella sferica con segmenti denominati con le stesse lettere denotative: proponiamoci di identifica-

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TECNICHE

A

T

H

re la relazione effettivamente sussistente nel caso sferico. Due sono i problemi tecnici da risolvere. 1. Identificare le corde che rimpiazzino opportunamente i segmenti GE,EAecc. 2. Identificare una configurazione supina piana soggiacente a quella sferica e "sollevare" la relazione che vale per la prima sulla seconda. Il primo compito è assolto da due lemmi piani di dimostrazione immediata, che lascio al lettore. Con riferimento alle figure nella pagina successiva, essi stabiliscono rispettivamente che AE:EG::Crd2arcAB:Crd2arcBG e GE:EB::Crd2arcGA:Crd2arcAB: le corde che sottendono l'arco doppio sostituiscono i segmenti (si noti che, identificando angoli ed archi, 2Sinu = Crd2u). La configurazione del primo lemma suggerisce come affrontare il secondo compito (ancora figura qui sopra). Se identifichiamo l'arco AG con uno di quelli della configurazione supina sferica, vediamo subito che un rapporto del tipo AE:EG, tipico della configurazione piana «per divisione», si solleva ad un rapporto tra corde relative ad archi doppi nella configurazione sferica. Basterebbe dunque che la corda relativa all'arco AG, assunto come detto far parte di una configurazione supina sferica, fosse una delle 4 rette di una configurazione supina piana, e che i 3 punti non estremali in quest'ultima fossero proiettati da un raggio della sfera sui corrispondenti punti non estremali della configurazione supina sferica sovrastante. Il trucco non riesce completamente, per un motivo semplice: è impossibile che le corde relative agli archi di una configurazione supina sferica siano tutte complanari. Prendendo ad

IL SILENZIO DELLE SIRENE

B

E

~----------~----------~--~T

esempio come riferimento il piano che contiene le tre corde AD, DG, GA, la corda BE non interseca in generale la corda DG. Va però osservato che l'arco BE non entrerà nel caso sferico corrispondente a quello piano per divisione, e che neanche in una configurazione piana «per divisione» tutti i rapporti corrispondono a istanze di divisione del segmento. Ad entrambi i problemi ovvia il secondo lemma. Riferendosi ancora alla figura nella pagina precedente, osserviamo infatti che il piano per il centro della sfera e per la corda BE contiene i due raggi HKE e HLZ, cruciali per applicare il primo lemma al sollevamento dalle corde agli archi di 2 dei 3 rapporti del caso per divisione: GK:KA::Crd2arcGE:Crd2arcEA e GL:LD::Crd2arcGZ:Crd2arcZD. Ora, questo piano interseca quello per ADG lungo la retta KL. Basta dunque andare a vedere dove questa retta interseca il prolungamento di AD, diciamo in T, per ottenere una configurazione supina piana identificata dalle corde AG e DG, che sottendono i rispettivi archi con la stessa denominazione, dalla corda AD prolungata fino a T, e infine dalla secante TLK Il fatto non immediato, la cui dimostrazione lascio al lettore, è

266

3

TECNICHE

A

B

che il punto T si trova necessariamente sul prolungamento del raggio HB (suggerimento: TH è l'intersezione dei due piani che identificano gli archi ... ). Il raggio TBH, l'arco AB e la secante TDA generano una configurazione geometrica cui è applicabile il secondo lemma: risulta

DT:TA::Crd2arcDB:Crd2arcBA. Abbiamo dunque "sollevato" tutti i rapporti tra i segmenti coinvolti nella configurazione supina piana prima identificata. Sostituendo si ottiene infine Crd2arcGE:Crd2arcEA:: (Crd2arcGZ:CrtharcZD)(CrtharcDB:Crd2arcBA). Dato che nella relazione occorre sempre prendere archi doppi di archi dati, è chiaro il motivo per cui il teorema è ristretto ad archi minori di un semicerchio. Al contrario di Tolomeo, sia Teone (iA, 566-9) che Sph. III.I derivano il caso sferico per composizione da quello per divisione al termine dell' esposizione. La dimostrazione è interessante, e si appoggia su di un lemma immediato quanto contorto nell'enunciato: la stessa corda sottende l'arco doppio di un arco dato e quello doppio del supplementare di quello dato; in effetti i due archi doppi esauriscono l'intera circonferenza e sono disgiunti. Il passaggio da un caso all' altro prevede un astuto «completamento» della configurazione supina del caso per composizione, come nella figura della pagina successiva. I due archi GA, GD sono prolungati fino al punto T, intersezione comune diametralmente opposta a G. Poiché tutti gli archi in gioco sono ovviamente minori di un semicerchio, possiamo avvalerci del caso per divisione applicato alla configurazione supina di archi esterni TE, EB ed interni TDZ, DBA. Ne risulta Crd2arcTA:Crd2arcAE::(CrtharcTD: Crd2arcDZ)(Crd2arcZB:CrtharcBE). Ma TA e GA da una parte, TD e GD dall'altra sono archi supplementari e quindi, se raddoppiati, sono sottesi dalle stesse corde: Crd2arcGA = Crd2arcTA e cosi per gli altri

IL SILENZIO DELLE SIRENE

due. Sostituendo si ottiene immediatamente Crd2arcGA:Crd2arcAE::

(CrrharcGD:CrrharcDZ) (Crd2arcZB:Crd2arcBE). La figura a p. 265 rappresenta il caso considerato da Tolomeo (intersezione T dalla parte di D); ve ne sono altri due (intersezione T dalla parte di A o AD parallela a BH), che egli non tratta perché non gli servono; sono presi in considerazione negli Sphaerica e in Teone (iA, 555-6 e 560-2). Tra l'altro, il caso «AD parallela a BH» è dichiarato impossibile da T eone, ed in effetti la progressione dimostrativa adottata da T 010meo (caso piano/lemmi/caso sferico) non si applica in quanto nessun lemma è dimostrato in grado di "sollevare" il caso piano su quello sferico in questa configurazione. In realtà, una dimostrazione indipendente permette di stabilire il teorema del settore anche in questo caso, ma è interessante che nel corso di tutto l'Almagesto T olomeo offra una trattazione che sembra evitare accuratamente il caso pericoloso. Questa osservazione ci conduce al problema dell' attribuzione a Menelao del teorema del settore. Il fatto è che gli Sphaerica ci sono giunti in una pluralità di redazioni arabe pesantemente rielaborate e completate, ed anche così certi risultati basilari di trigonometria sferica, quale la conservazione del birapporto per cerchi massimi intersecati da 4 cerchi massimi passanti per lo stesso punto, sono utilizzati negli Sphaerica senza che ne sia fornita dimostrazione (Bjornbo, 1902, pp. 96-9). Le mie menzioni precedenti di Sph. II!.1 si riferiscono al testo della recensione di Abii N~r edito da Krause nel 1936, ma sembra chiaro che la versione lì attestata, molto chiara e completa, derivi da versioni arabe del teorema risalenti ad ibn Sina e al trattato di Thabit ibn Qurra sull'argomento. Versioni presumibilmente più vicine all'originale greco, che non includono il caso di intersezione dalla parte di A né la derivazione di quello per composizione da quello per divisione, si trovano nella recensione di al-Mahani, nota attraverso revisioni posteriori, e nella traduzione latina di Gerardo da Cremona contenuta nel Par. lat. 9335 (Lorch, 2001, pp. 329-30, 340-2, 353-5). La questione dell'attribuzione è stata ripresa recentemente da C. Gori (tesi Università di Roma T or Vergata, 2002, inedita), che conclude a mio avviso correttamente che il teorema sia un'aggiunta posteriore, parallela a quella del materiale preparatorio che è sicuramente tratto da Tolomeo e Teone, e da N. Sidoli (2006), che argomenta soltanto in favore di un utilizzo del teorema sin dai tempi di Ipparco, ritenendo però che Menelao ne abbia effettivamente fornito una dimostrazione nella sua opera.

268

Appendice La tradizione manoscritta

Al Le opere principali In questa appendice presento i tratti salienti della tradizione testuale di un certo numero di trattati matematici antichi. Occorre tener conto del fatto che, in virtù delle peculiarità esposte nel PAR. 1. 5 e per motivi di opportunità (si pensi al numero dei codici degli Elementi o dell'Almagesto), non sempre le edizioni dei testi matematici sono state condotte in tutto rigore, cioè dopo una recensione e collazione completa dell'insieme dei manoscritti. Il materiale è parzialmente organizzato in funzione della complessità della tradizione, nel modo seguente. 1. Il capostipite di tutta la tradizione è unico ed è conservato. È questo il caso della Collectio di Pappo (Vat. gr. 218), dei libri I-IV delle Coniche di Apollonio (Vat. gr. 206), dei Metrica di Erone (Const. palo veto 1). 2. Si conoscono due recensioni antiche che differiscono per varianti cosmetiche: Elementi e Data di Euclide (in entrambi i casi, il testimone principale di una delle due recensioni è il Vat. gr. 190). 3. Si conoscono due recensioni antiche notevolmente differenti: Ottica e Fenomeni di Euclide (in entrambi i casi, il testimone principale di una delle due recensioni è il Vat. gr. 204). 4. Ci sono pervenute una recensione antica ed una bizantina: commentari di Pappo e Teone all'Almagesto di Tolomeo (entrambi incompleti; testimone più autorevole il Laur. Plut. 28.18), commentari di Teone alle Tavole facili di T olomeo (Grande commentario: il capostipite unico di tutta la tradizione antica è il Vat. gr. 190; Piccolo commentario: tradizione pluriramificata), Ottica di Damiano, gli anonimi Prolegomena all'Almagesto (capostipiti della recensione antica il Mare. gr. 313 e il

IL SILENZIO DELLE SIRENE

Vat. gr. 1594), la cui tradizione dipende in parte da quella dell'opera di Tolomeo. 5. La tradizione è solo antica ed ammette più di due rami; a volte è possibile ricostruire uno stemma (parziale), a volte no. Nel caso del corpus archimedeo il primo subarchetipo di una tradizione a tre rami è ricostruibile con sicurezza a partire dai suoi apografi, il secondo è costituito da un unico manoscritto, che ha lasciato traccia di sé solo nella traduzione di Guglielmo di Moerbeke conservata nell'Ottob.lat. 1850, il terzo dal famoso palinsesto. Dell'Almagesto di Tolomeo rimane un testimone in maiuscola (Par. gr. 2389) e più testimoni indipendenti in minuscola (tra cui spiccano Mare. gr. 313, Vat. gr. 1594, 180 e 184); si riesce in questo modo a risalire sicuramente fino ad una recensione prodotta in ambiente neoplatonico nel corso del VI secolo, e probabilmente anche oltre. Le opere del corpus astronomico minore hanno una tradizione complessa, che varia caso per caso; testimone primario è in ogni caso il Vat. gr. 204· 6. Tradizione completamente sotto controllo; è possibile ricostruire uno stemma di tutti i testimoni manoscritti: Arithmetica di Diofanto (Mare. gr. 308, Vat. gr. 191 e 304, Matrit. 4678). 7. Mostri filologici, cioè opere che non sono mai state scritte: accodate al corpus eroniano troviamo Geometrica e Stereo metrica, centone di estratti da manoscritti disparati messi insieme dal loro editore, J. L. Heiberg (Const. palo veto 1, Par. gr. 1670, Par. suppl. gr. 387, Vat. gr. 21 5).

Al.l. Un solo manoscritto, conservato, a capo di tutta la tradizione: Collectio di Pappo, Coniche di Apollonio, Metrica di Erone La Collectio di Pappo è una raccolta di lemmi, complementi e trattazioni monotematiche disconnesse tra loro. Alcuni dei libri, o parti di essi, sono autocontenuti, e i libri III e V-VIII sono dotati di proemi alquanto elaborati dal punto di vista retorico, segno che furono pensati, almeno nei loro segmenti iniziali, per una pubblicazione a sé stante, se non effettivamente pubblicati. Ciò è sicuramente vero per il libro VIII, di cui esiste una traduzione araba come testo indipendente. In effetti, Eutocio (ADO III, 70) cita le J!TJxaVLxai. eLoayooyal «Introduzione alla meccanica» di Pappo, e non la Collectio, a proposito di un teorema che leggiamo come Coli. VIII.26. Nel complesso, però, l'opera presenta ripetizioni,

27 0

APPENDICE. LA TRADIZIONE MANOSCRITTA

inconsistenze interne, promesse non mantenute di dimostrazioni, dimostrazioni scorrette di risultati falsi, parti abbozzate, estratti probabili da altre opere dello stesso Pappo, appendici con materiale aggiuntivo: non può, dunque, essere stata pubblicata dall' autore. Molto probabilmente fu messa insieme da un "esecutore letterario", a partire da scritti editi e da carte sparse dai gradi variabili di finitura, dopo la morte di Pappo. A seconda del peso accordato ai difetti strutturali e alla coerenza di un possibile disegno d'insieme, la composizione materiale della Collectio come ci è pervenuta è stata assegnata alla fine del IV secolo Oones, 1986, pp. 24-6) o a circoli neoplatonici a cavallo tra VI e VII secolo (Decorps-Foulquier, 2000, pp. 47-51). Un'annotazione marginale, proveniente da quest'ultimo ambiente e contenuta nei due manoscritti più antichi degli anonimi Prolegomena all'Almagesto, mette in parallelo la redazione del trattato sulle figure isoperimetriche 11 contenuta con quella del «5° libro dei problemi scelti» del «grande Pappo» (prima mano sia del Vat. gr. 1594, f. 5r, che del Marc. gr. 313, f. 3V, testimoni indipendenti; lo scolio si trovava pertanto nel loro esemplare comune). Può darsi dunque che il titolo originale della compilazione, il cui nucleo sarà da identificarsi con i libri III-V, fosse O1JvayooYIÌ àv81JQwv JtQof3À1J!l6:toov «Raccolta di problemi scelti». Le caratteristiche appena elencate rendono difficile il lavoro del copista, in quanto il testo presenta già in origine ostacoli alla comprensione, ma semplificano quello dell' editore moderno, il quale può attendersi una proliferazione di errori di copia che gli permetta di identificare più agevolmente le varie famiglie. In realtà, la situazione è ancora più tranchée: il solo testimone indipendente dell' opera di Pappo è il Vat. gr. 218 (Treweek, 1957). I suoi primi due fogli contengono anche i Meccanismi sorprendenti di Antemio di Tralle, di cui sono quasi sicuramente l'unico testimone indipendente: i manoscritti noti si interrompono bruscamente allo stesso punto del breve trattato (l'incertezza deriva dal fatto che nessuno li ha collazionati tutti). Il Vat. gr. 218 è un codice di 202 carte della prima metà del x secolo, di grande eleganza nel ductus e nel tracciato delle figure, collocate come di consueto in indentazioni poste all'inizio della proposizione successiva. È scritto da due mani e contiene solo le due opere menzionate. La mano della Collectio è molto simile a quella del notario Baanes, uno dei copisti di Areta. A Baanes è attribuito in particolare un manoscritto datato 913-4 (Follieri, 1977, p. 148, n. 43). La mano del trattato di Antemio trascrive, quasi sicuramente a partire dallo stesso esemplare, passi della Collectio che la prima non era riuscita 27 1

IL SILENZIO DELLE SIRENE

a decifrare. Le due mani sono coeve, ma la seconda ha ductus più corsivo e formicola di abbreviazioni; se non si tratta addirittura di un committente versato in matematica, siamo di fronte ad uno scriba che assolse con puntiglio al proprio compito di revisore del lavoro della prima mano. N. Wilson propose (1996, pp. 139 e 278) di identificare la seconda mano con quella del palinsesto di Archimede. La sua posizione attuale, da me sollecitata, è che questi due scribi siano contemporanei e molto probabilmente facessero parte dello stesso scriptorium. Il Vat. gr. 218 era già in occidente quando Witelo compose la sua Perspectiua (ca. 1270): vi troviamo menzionati risultati contenuti nel trattato di Antemio, ed alcune proposizioni del libro I sono la traduzione di lemmi in ColL vI.80-103 (Unguru, 1974). Questi ultimi completano, per esplicita indicazione marginale di prima mano (f. lo7r), l'Ottica di Euclide. Dato che Witelo non leggeva il greco, è stata emessa l'ipotesi che il suo amico (e dedicatario della Perspectiua) Guglielmo di Moerbeke abbia tradotto per lui le proposizioni in questione. Il nostro manoscritto sembra riemergere nell'inventario del 1311 della biblioteca papale, pur non avendo riscontro in quello del 1295. Ecco la descrizione: «[604.] Item unum librum, qui dicitur Commentum Papie super difficilibus Euclidis et super residuo geometrie, et librum de ingeniis, scriptum de lictera greca in cartis pecudinis, et est in dicto libro unus quaternus maioris forme scriptus de lictera greca, et habet ex una parte unam tabulam» (Paravicini Bagliani, 1983, p. 438). Essa sembra suggerire che il codice fosse ancora integro, e possono essere fatte delle congetture sul suo stato originario, specialmente se identifichiamo il «librum de ingeniis» con lo scritto di Antemio (o con Coli. VIII) ed ipotizziamo che il perduto libro I coincidesse con il commento di Pappo allibro x degli Elementi Oones, 1986, pp. 46-7, con bibliografia su questa proposta). Resta il fatto che il Vat. gr. 1605 sembra adattarsi meglio ad una parte della descrizione (Paravicini Bagliani, 1983, pp. 427-30): contiene la Poliorcetica e una Geodesia di Erone di Bisanzio, che una superscriptio latina a fine codice identifica in blocco come «lib(er) de ingeniis. Ano» (f. 58r; oppure «liber ingenior(um)>> ancora f. 58r); contiene (f. 57V, mano di fine XIII) la noticina «carte scripte.lxxiii», la quale mostra che mancano 15 carte, un cui residuo è forse l' «unus quaternus maioris forme» della voce di catalogo. Il Vat. gr. 218 fu quasi sicuramente nelle mani di Angelo Poliziano (1454-1494). Lo testimoniano un riferimento al V libro della Collectio in una nota marginale a Laur. Plut. 28.18, f. 12V, da lui posseduto anche se la mano dell' annotazione non è stata identificata 272

APPENDICE. LA TRADIZIONE MANOSCRITTA

come sua, ed un paio di parafrasi dell'introduzione di ColL VIII contenute nel Panepistemon (edizione di Basilea del 1553, pp. 466-8). Il manoscritto si trovava all'epoca nella cosiddetta Biblioteca Medicea Privata; il registro dei prestiti (Piccolomini, 1875, pp. 97 e 127) annota che apparteneva in precedenza a Francesco Filelfo (1398-1481). Da qui, al seguito del futuro papa Leone x, mosse a Roma, dove è registrato a partire dal 1533 (Devreesse, 1965, p. 309)· La Collectio occupa 25 quaternioni esatti, ma il manoscrittto nel suo stato attuale è il risultato di una serie di mutilazioni e rimescolamenti, ricostruibili con buon grado di approssimazione a partire dai resti di tre serie di numerazioni dei fascicoli. L'assetto definitivo fu dato nel secondo decennio del XVI secolo da Zacharias Callierges, filologo e stampatore con sede a Roma. Ne risulta che siano andati persi due o, meno probabilmente, sei quaternioni all'inizio, ed almeno uno alla fine, dove il trattato di Antemio, ora mutilo, era originariamente collocato. Anche la Collectio è in effetti incompleta: inizia nel mezzo di una frase del libro Il, di cui probabilmente è rimasto metà testo, e si chiude prima del termine dell'VIII, giusto alla fine di un quaternione; il libro IV è quasi sicuramente mutilo all'inizio. La distribuzione dei libri all'interno del Vat. gr. 218 è la seguente: libro Il (f. 3r-7V), libro III (f. 8r-30v), appendice al libro III (3tr-33r), libro IV (f. 33r-55v, senza soluzione di continuità con il tratto precedente), libro V (f. 56r-87r), libro VI (f. 87V-118r), libro VII (f. 118v-183r), appendice al libro VII (183v-184r), libro VIII (f. 184v-202v). Sono presenti pochi scolii al testo, scritti con una penna più fine dalla prima mano e limitati ai libri V-VII, trascritti in Hultsch, 1876-78, pp. 1166-88. Quelli ai libri V-VI sono di un qualche interesse, e Jones (1986, p. 20) ha proposto che siano ripensamenti pappiani o sue espansioni al testo, inclusi come annotazioni marginali dall' esecutore letterario. L'incompletezza tipica del testo ed il fatto che il copista abbia commesso numerosi errori rendono a priori semplice stabilire che dal Vat. gr. 218 discende tutta la tradizione manoscritta complementare (43 apografi, tra cui due fascicoli indipendenti di figure), che si compone peraltro interamente di copie non anteriori al XVI secolo. Esse furono tutte realizzate durante la rimonta rinascimentale di interesse per la matematica greca: si conoscono esemplari posseduti da matematici o eruditi quali Savile, Dasypodius, Ramo, Coner, Pinelli, Auria, forse Maurolico, Wallis, Guidubaldo dal Monte e Francesco Barozzi. Per questo testo essa culminò nell' edizione con traduzione latina di Federico Comman273

IL SILENZIO DELLE SIRENE

dino. La sua pubblicazione nel 1588 segui una traiettoria piuttosto complessa (Rose, 1975, pp. 2°9-13), coinvolgendo anche Barozzi e Guidubaldo dal Monte. Commandino ebbe a disposizione due manoscritti di seconda o terza generazione (Edinb. Adv. 18.1.3 per i libri III-VI e VIII e Chicago Newberry 110 per il VII; la princeps del libro II si ebbe nel 1688, ad opera di Wallis) e dovette sobbarcarsi un capillare lavoro di correzione di un testo particolarmente scorretto e mal copiato dalla prima mano del Vat. gr. 218. Essa ebbe in effetti a disposizione un esemplare in maiuscola pieno di abbreviazioni (cfr. il PAR. A1.8), e si trovò molto spesso a mal partito. Il lavoro fatto da Commandino, particolarmente efficace nelle parti strettamente matematiche, resta una pietra miliare, e non a caso la sigla Co compare in continuazione nell'apparato delle edizioni moderne. L'edizione di riferimento per l'intera Collectio resta quella di Hultsch del 1876-78, che presenta però gravi pecche: egli, che ad ogni buon conto non aveva effettuato un regesto dei manoscritti esistenti, intui il ruolo del Vat. gr. 218 solo dopo aver stabilito l'edizione sulla base di alcuni apografi parigini (Par. gr. 2440 e 2368) e leidensi (Scal. 3 e Voss. F.18), di cui continuò ad accogliere lezioni e varianti congetturali in apparato. Inoltre, dovette ricorrere ad altri per la collazione degli ultimi tre libri del manoscritto vaticano, inserendo cosi nel testo una messe di errori di lettura. Infine, non si accorse che le parti di testo danneggiate dall'umidità potevano essere lette in sovraimpressione nelle pagine opposte. Edizioni critiche recenti basate su una nuova collazione del Vat. gr. 218 si limitano al libro IV (Sefrin-Weis, 2010), allibro VII Oones, 1986) e ai libri II-V (Treweek, PhD thesis London University, 1950, non pubblicata). Il libro VIII ci è pervenuto anche in arabo (mss. SaraYi, Ahmet III 345711, f. 1-34, e Ayasojja 362412, f. 52-1°3). Questa versione permette di colmare la lacuna finale nel testo greco ed offre un interessante passaggio aggiuntivo sulla costruzione di un triangolo dati i tre lati effettuata con riga e compasso ad apertura fissa, forse testimone di una recensione indipendente anche se esplicitamente menzionato in Coli. VIII.28 Oackson, 1972, 1980). Dopo la tesi di PhD di Jackson (Brown University, 1970, inedita), che si avvalse di un solo manoscritto, un' edizione del libro VIII in arabo è in progetto ma non è stata ancora pubblicata. Delle Coniche di Apollonio sono giunti in greco i primi quattro libri, nell' edizione approntata da Eutocio nella prima metà del VI secolo. I libri V-VII ci sono pervenuti solo in traduzione araba, l'VIII è perduto. 274

APPENDICE. LA TRADIZIONE MANOSCRITTA

L'intera tradizione greca (37 mss., solo 4 dei quali anteriori al xv secolo) dipende da un manoscritto tutto sommato tardivo, il Vat. gr. 206. Scritto da un'unica mano tra fine XII ed inizio XIII secolo, su carta spagnola, contiene soltanto le Coniche (f. tr-160v) e i due opuscoli di Sereno (f. 16tr-194r e 194r-239v). Il codice, molto deteriorato, è stato restaurato in età rinascimentale e nel XIX secolo, ed una mano più recente ha trascritto la fine del secondo trattato di Sereno. Date le sue condizioni, fu corretto poco dopo il 1541 da Matteo Devari sulla base del Vat. gr:205, suo apografo del 1536 copiato da Giovanni d'Otranto. Il codice fu forse portato in Italia nel 1427 da Francesco Filelfo, che, in una lettera ad Ambrogio Traversari (Ep. II, 1010-1), fornisce una lista dei più che 50 manoscritti greci acquisiti, includendo un analitico, diletto Ermodoro, è, preso nel suo insieme, una certa materia particolare predisposta, dopo la composizione degli elementi comuni, per coloro che vogliono acquisire in campo geometrico una capacità di scoperta

35°

APPENDICE. LA TRADIZIONE MANOSCRITTA

dei problemi loro proposti [()UvaiUV EUQE'tLXt)V 'tWV 3tQO'tELVO!lÉVWV au'tQLç 3tQoj3À.TJ!lénwv], e risulta utile per questo soltanto.

Poco oltre (Coli. VIII.3) ne apprendiamo la composizione: L'ordinamento dei predetti libri del < corpus> analitico è il seguente: l libro dei Data di Euclide, 2 della Resecazione di un rapporto, 2 della Resecazione di un dominio, 2 della Sezione determinata, 2 delle Tangenze di Apollonio, 3 dei Pommi di Euclide, 2 delle Inclinazioni di Apollonio, 2 dei Luoghi piani del medesimo, 8 delle Coniche, 5 dei Luoghi solidi di Aristeo, 2 dei Luoghi su superficie di Euclide, l Sulle medie di Eratostene. Risultano 32 libri, i contenuti dei quali fino alle Coniche di Apollonio ho esposto per la tua riflessione, e per ciascun libro la molteplicità delle disposizioni e delle determinazioni e dei casi, ed anche i lemmi richiesti, e non ho tralasciato nessuna pista di ricerca nella trattazione dei libri, almeno cosi credo.

Il numero dei libri dell' opera di Eratostene, la cui presenza qui è forse frutto di un equivoco (Vitrac, 2008b), è il risultato di una correzione. Il libro VII della Collectio, il più lungo dell' opera, è interamente dedicato al corpus analitico: Pappo descrive in primo luogo i trattati fino alle Coniche incluse (VII.4-42), per passare poi a presentare una lunga serie di lemmi, correzioni, sviluppi, aggiunte alle opere commentate. Gli scritti elencati sono andati quasi tutti perduti: restano solo Data e Con. I-IV in greco, Con. V-VII e De sectione rationis in arabo - in greco, dunque, soltanto i due meno avanzati, trasmessi per vie del tutto indipendenti. A fortiori, nessun maxi-manoscritto o redazione pluricodice contenente l'intero corpus ci è pervenuto. È possibile che questi trattati circolassero assemblati nell'antichità? Procediamo per gradi (cfr. Acerbi, in preparazione). In primo luogo occorre togliere alle affermazioni di Pappo una spessa crosta retorica. 1. Nei due testi letti il corpus è identificato dal solo aggettivo avaÀ:u6IlEVOç «analizzato». Un solo passaggio nella Collectio (VII.29) rende chiaro che occorre sottintendere 't6:n:oç «luogo» come sostantivo; altrove nella stessa opera ritroviamo solo l'aggettivo (VII.14, 22). L'espressione è però attestata per intero in Marino (EOO VI, 252), Eutocio (AGE Il, 180) e in uno scolio riassuntivo al primo dei due passaggi della Collectio appena letti (Hultsch, 1876-78, p. 1186). Curiosamente, Eutocio si riferisce ad un risultato che Apollonio aveva redatto «nel corpus analitico», non in qualche sua opera (si tratta del secondo teorema del secondo li35 1

IL SILENZIO DELLE SIRENE

bro dei Luoghi piani); evidentemente, le sue fonti non gli permettevano di dire di più. Pappo aveva impiegato un sintagma simile all'inizio di Coli. VI, chiamando clO'tQOVO!lOU!lEVOç 't6noç il corpus astronomico minore. Non è immediatamente chiaro cosa significhi clvaÀ.u6!lEVOç 't6noç. L'interpretazione corretta «dominio analitico» è dovuta a Newton, che traduceva penus analytica (Turnbull et al., 1959-77, III, p. 331). Il termine 't6noç indicava infatti una ripartizione del sapere in quanto organizzato in uno "schedario" consultabile, indipendentemente dal fatto che fosse o meno oggetto di insegnamento: si trattava appunto di un «dominio» o «corpUS», un «luogo» dove rintracciare le elaborazioni prodotte su un certo argomento; per metonimia il termine si trasferisce naturalmente agli scritti che contengono tali elaborazioni. Ecco qualche esempio. T olomeo inizia il proprio Analemma facendo riferimento allocum gnomonicum (POO II, 189, in traduzione latina). Riferendosi a El. 1.35, Prodo afferma che i geometri avevano elaborato il naQa60sov À.Ey6!lEVOV 't6nov «cosiddetto corpus sorprendente» per indudervi teoremi controintuitivi, esattamente come gli Stoici ne avevano elaborato uno per certe opinioni (iE, 396-7; l'esistenza di un corpus siffatto è confermata da Pappo, Coli. 111.74). Qui Prodo gioca con il fatto che il teorema che sta commentando è poco prima (iE, 395) da lui stesso riconosciuto un 'tOTtLXÒV 8EwQrJ!la «teorema di luogo», il quale, Prodo afferma compilando Gemino, Crisippo riteneva ben rappresentasse le idee. Diogene Laerzio, seguendo Apollodoro (VII.39), denomina 't6nOL le varie sezioni in cui cataloga l'enorme produzione di Crisippo (VII.189-202), sebbene sia chiaro che si tratta di un criterio di comodo, che non riflette l'effettiva strutturazione di un corpus di scritti. Per parte sua, l'uso del participio presente passivo di verba vocalia denominali, in particolare al neutro plurale, divenne, a partire dall' età imperiale ed essendo probabilmente in origine una tournure di scuola, un modo canonico per riferirsi ad un dominio ben preciso. Leggiamo dunque 'tà yEW!lE'tQoU!lEVa per designare la materia geometrica in Plutarco, Quaest. plat. 111.1, 1001F, Giamblico, Comm. math. :XXV, 78, Prodo, iE, 211, nella raccolta tardiva delle Definitiones induse nel corpus eroniano (Def. 136.51, HOO IV, 150). Quest'ultimo passo è un estratto da Prodo in cui il compilatore esplicita il pronome dimostrativo dell' originale. Il participio sostituisce talvolta un aggettivo meno connotato, come in Def. 1 (HOO IV, 14), dove leggiamo ,;Ò f>È OT\!lE'Lov ,;ijç yEW~E­ 'tQOU!lÉVrJç ovoi.aç clQXTJ «il punto è il principio della sostanza geometri35 2

APPENDICE. LA TRADIZIONE MANOSCRITTA

ca». Per metonimia, questi participi furono usati per riferirsi ad una raccolta di risultati di argomento omogeneo, in quanto entità risultanti dall'azione indicata dal verbo corrispondente; essi possono essere organizzati in uno scritto il cui titolo richiama direttamente tale caratteristica: àO'tQoÀ.OyoUJlEVa, 'tEXVOÀ.oyoUJlEVa, YEOOJlE'tQoUJlEVa, O'tEQEOJlE'tQOUJlEva, 8EOÀ.oyoUJlEVa, lÀoOO(pOUJlEVa, YEooYQaoUJlEVa, 'tQayq>{)OUJlEva.

La particolare espressione pappiana potrebbe quindi derivare semplicemente dall'impiego di una consuetudine retorico-linguistica ben radicata e non alludere ad una raccolta di opere. 2. Quanto al termine 't6n:oç, le considerazioni precedenti non esauriscono lo spettro dei riferimenti: Pappo sta citando Aristotele, ben al di là della banale coincidenza con il titolo dei Topica (l'insieme degli 8 libri circolava con questo titolo ben prima di Pappo: cfr. Alessandro, in Top., 5, e Moraux, 1951, pp. 54-69). Basta leggere Top. A 1, 100a18-20, dove Aristotele ne spiega gli scopi: Lo scopo del trattato è scoprire un metodo a partire dal quale siamo capaci di impostare sillogismi su ogni problema proposto [llt8obov dJQELV &' ~ç bUVTJo61lE8u -

Tavola 4. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. P/ut. 28.18, f. 347r. La superscriptio latina «expositio Theonis super primam partem», troncata dalla mutilazione della pagina. La misteriosa abbreviatura And, sospesa in uno spazio vuoto, figura da sola nella seconda metà della pagina.

Tavola 5. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. gr. 206, f. 73V. La lettera v debordante nel diagramma di Con. Il.32 (in alto a sinistra), che permette di determinare la tradizione manoscritta del trattato apolloniano. Si noti il numerale "32» sopra la figura, apposto da qualcuno non abituato alla pratica di collocarla in un'indentazione all'inizio della ptoposizione successiva. I due rami dell'iperbole sono rappresentati da archi di circonferenza.

Tavola 6. Consto pal. veto1, f. 75r. Metrica 1.14-5 con la figura della prima delle due proposizioni, collocata come di consuelO in un'indemazione all'inizio della successiva. I lunghi scolii di mano receme circondano in parre due dei ne scolii della prima mano. La figura in basso si riferisce alla prop. 15 ed è idemica a quella che troviamo al f. 75V; in origine era probabilmeme uno scolio diagrammatico, ricopiaro dalla prima mano e poi completalO da quella receme con le indicazioni di due lunghezze. Si notano imegrazioni di lacune e un passaggio aggiunlO in imerlinea, sempre ad opera della stessa mano.

Tavola 7. Comt. pal veto 1, f. 78v. Due mani vergano una serie di scolii a Metrica 1.20 (misura di un eptagono regolare); una di esse aggiunge commenti in interIinea. AI termine del testo principale si trova in compendi la dicitura ÉSTjç ~ xm:oYQo

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