Il Settecento
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La nuova scienza Serie di linguistica e critica letteraria

Storia della lìngua italiana

Tina Matarrese

a cura di Francesco Bruni

Q uesta serie si propone di fornire agli studiosi, e in particolare agli studenti universitari, un quadro aggiornato su particolari periodi del­ l’evoluzione storica dell’italiano, mettendo a loro disposizione strum enti intermedi tra lo specialismo delle ricerche monografiche e le generalità dei manuali. Ogni volume com prende, insieme con una chiara e aggior­ nata ricostruzione storico-linguistica del periodo considerato, u n ’an to­ logia di testi legati strettam ente alla ricostruzione stessa, e concepita com e una verifica concreta delle linee fondamentali del discorso storico. U n’appendice di ‘Applicazioni ed esercizi’ intende favorire ed attivare l’utilizzazione degli strumenti di base della ricerca linguistica (gram m a­ tiche storiche e dizionari storici ed etimologici in prim o luogo), con il fine di incoraggiare alla consultazione delle grandi opere di riferim ento coloro che si accostino almeno una volta allo studio della storia della lingua italiana.

Il Settecento

Sono usciti: II Quattrocento, di Mirko Tavoni Il secondo Cinquecento e il Seicento, di Claudio Marazzini Il Settecento, di Tina M atarrese Il prim o Ottocento, di L u ca Serianni Il secondo Ottocento, di L u ca Serianni La lingua di M anzoni, di Giovanni Nencioni

In preparazione: Il M edioevo, di Paola Sgrilli Il prim o Cinquecento, di Paolo T rovato Il N ovecento, di Pier Vincenzo Mengaldo

Società editrice il Mulino

Indice

Premessa

p.

9

PARTE PRIMA: LA LINGUA ITALIANA NELL’ETÀ DELLE RI­ FORME

I.

IL

III.

ISBN 88-15-04128-1

Copyright © 1993 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la ripro­ duzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotoco­ pia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

IV.

Scuola ed educazione linguistica

21

1. Istruzione e ‘riform e’ 2 . D idattica dell’italiano 3. L a scuola superiore

21 31 33

Stampa e standardizzazione

41

1. I giornali 2 . I libri. L e traduzioni 3. La lingua in tipografia

41 44 48

Francese e francesismi

53

1. La ‘gallomania’ 2 . I francesismi 3. La sintassi francesizzante

53 60 69

Verso le lingue speciali

73

1. 2. 3. 4.

73 86 88 91

La La La La

lingua lingua lingua lingua

delle scienze dell’economia dell’amministrazione legale

6

V.

Indice

Indice

Verso un italiano ‘medio’ 1. 2. 3.

La predicazione Il teatro com ico Goldoni: da Venezia all’Eu ro p a passando per Firenze

p.

97

1.

Autoritratto muratoriano

105

2.

Giornali

L a lin g u a p a rla ta

113

V I I.

L a lin g u a e gli s c r i tto r i

119

1.

119 122 125 128 133 136 138 140

2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

10.

V ili. La 1. 2.

L ’identità dell’italiano La prosa in Arcadia La prosa e l’impegno erudito Il classicismo volgare. L ’“an tico ’ della lingua Toscanità ‘libresca’ e toscanità ‘viva’ Storia e filologia La lingua ‘com une’ italiana La lingua ‘illuminista’ M elchiorre C esarotti: La ‘filosofia’ applicata alla lingua italiana Il nuovo classicismo

lin g u a p o e tic a L a poesia dall’Arcadia all’illuminismo Il m elodramma

PARTE SECONDA: ANTOLOGIA DI TESTI

97 100

V I.

3.

153 153 161

L e s s ic o g r a f ia e g r a m m a tic h e 1.

2. 3. 4.

Dizionari generali Dizionari settoriali Fran cesco D ’Alberti di Villanuova: «D iziona­ rio universale» Le gram matiche

165 173 175 178

5.

190

200

Prosa scientifica e di divulgazione

203

Prosa illuminista 4 .1 . C esare B eccaria, «D ei delitti e delle pene» (1 7 6 6 ) 4 .2 . P ie tro V erri, «O sservazion i sulla to rtu ra» (1 7 7 0 -1 7 7 7 ) 4 .3 . Lo ‘stile instruttivo’ di Paolo Frisi

165

p. 187

2 .1 . “In trodu zion e” del «G iorn ale d e’ L etterati d’Italia» (Venezia 1710) 2 .2 . L ’‘estratto ’ erudito: dalle «L ettere famigliari sopra le Novelle letterarie oltram ontane» (V e­ nezia 1749) 2 .3 . Una pagina di cronaca locale: dalla «G azzetta veneta» (1760) 2 .4 . L ’articolo di econom ia: dal «C affè» (Milano 1764) 2 .5 . L ’informazione politica: dal «G iornale enci­ clopedico di Letteratu ra Italiana ed O ltrem on­ tana» (Firenze 1784)

3 .1 . La scienza in salotto: Francesco Algarotti, «Dia­ loghi sopra l’ottica neutoniana» (17 5 2 ) 3 .2 . Lazzaro Spallanzani, «Saggio di osservazioni m icroscopiche» (1 7 6 5 ) 3 .3 . Una lingua per l ’econom ia: Antonio G enove­ si, «D elle lezioni di com m ercio o sia d ’econ o­ mia civile»

144 146

4. IX .

7

190

193 194 196

203 210

215

216 216 220 225

Prosa letteraria

228

5 .1 . P ier Ja co p o M artello e la p r o s a ‘ro co cò ’ 5 .2 . Giam battista V ico: una lingua ‘an tica’ per una «Scienza nuova» 5 .3 . Il neoclassicismo: Alessandro V erri, «L e av­ venture di Saffo» (1 7 8 3 )

228 231 234

8 6.

Indice

Letteratura in versi 6.1. 6.2. 6.3. 6.4.

7.

8.

Premessa La poesia in A rcadia Loren zo Da Ponte, da «C osì fan tu tte» (1 7 9 0 ) Giuseppe Parini, da «Il G iorno» Alfieri e la poesia tragica

p. 237 237 243 247 251

Teatro comico

255

7.1. «T artu fo» in T oscana 7.2. L ’italiano dalla ‘m aschera’ al ‘personaggio’

255 257

Traduzioni e letteratura di consumo

260

8.1. «Il con tad in o in civilito» ossia « L e paysan parvenu» di M arivaux 8.2. «L a donna galante ed erudita»: «L ib retto di m em orie d ’una dama di uno spirito singolare» (1786) 8.3. Un rom anzo di consumo: Antonio Piazza, «Il teatro ovvero fatti di una veneziana che lo fan­ no con oscere» 8.4. T ra autobiografia e rom anzo: lettera a G iaco ­ mo Casanova

270

Un esempio di ‘veneto stil’: «L’avvocato ve­ neziano»

273

10.

Un sermone di Alfonso de Liguori

276

11.

U n a ‘consulta’ di Cesare Beccaria

278

12.

Scritture di semicolti

281

12.1. Una lettera del servo Elia 1 2 .2 . Una lettera dal carcere di Portolongone

281 288

9.

260

265

266

Applicazioni ed esercizi

297

Bibliografia e riferimenti

307

Indice analitico

321

Indice dei nomi

329

Delle «ondate successive» di italianizzazione1che segnano la storia linguistica del nostro paese, particolarmente decisiva per le sorti dell’italiano moderno sembra essere quella che si deter­ mina nel Settecento, nel quadro del processo che vede in tutta Europa la definitiva affermazione delle lingue e delle letterature nazionali. Dappertutto e in tutti i settori si assiste a un movi­ mento crescente di adesione all’italiano, a un allargamento della comunicazione sia in orizzontale tra le diverse ‘nazioni’, italiane ed europee, sia in verticale, tra le diverse classi, il cui risvolto più evidente è l’entrata dell’italiano come materia d’insegnamento nell’iter scolastico (cap. I). Nuovi parlanti e nuove situazioni d’uso intervengono a met­ tere in moto un processo destinato a trasformare l’italiano da lingua prevalentemente letteraria a strumento di comunicazione più ampio e articolato, adeguato a una lingua nazionale vera­ mente tale. Si modifica un quadro generale che aveva visto per secoli contrapporsi i dialetti, nei quali era immersa la stragrande maggioranza della popolazione, da un lato, e l’italiano, lingua soprattutto scritta e formale, dall’altro. Si ‘libera’ insomma la gamma di possibilità dell’italiano rimaste finora seppellite sotto il filone della lingua letteraria, e cominciano a delinearsi le diverse varietà della lingua. Il fenomeno è trattato nei capitoli IV, V e VI, dove si è inteso abbozzare un embrionale repertorio delle varietà dell’italiano, dalle più formali, partorite dal grem­ bo della lingua letteraria e dal latino, come la lingua delle scien­ ze, degli usi ufficiali e del diritto, a quelle pratiche della ammi­ nistrazione, delle quali ho cercato di illustrare la direzione in cui si muovono alla ricerca della propria specificità testuale. 1 La formula è di Francesco Bruni nella introduzione al recente volume, da lui curato, L ’italiano nelle regioni (B runi 1992: X X X I).

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Premessa

Ci sono poi i settori più a contatto con la comunicazione parlata, la commedia, la predicazione, la pratica epistolare, dove comincia a prendere corpo una varietà media di italiano scritto, in cui si accolgono quei tratti appartenenti alla grammatica del ‘parlato’, minoritari nell’italiano della tradizione ma che sono destinati ad affermarsi nella norma moderna (cap. V). Emerge un quadro estremamente differenziato, di fronte al quale risalta la staordinaria omogeneità della lingua poetica nel suo compito di preservare e di istituzionalizzare i tratti peculiari della tradi­ zione alta e propri del ‘genio’ linguistico nazionale. Ma anche la poesia contribuisce alla diffusione della lingua nazionale, attra­ verso un esercizio generalizzato del far versi, favorito dai model­ li arcadici, dal teatro e da quel melodramma che sancisce la fortuna dell 'italiano in Europa. L ’espansione avviene per un verso nella dimensione europea del movimento illuministico, guidato dalla nuova lingua di cul­ tura, il francese, che interferisce con l ’italiano nei diversi usi, influenzandone profondamente l’evoluzione a tutti i livelli (cap. III). C ’è poi l’influsso del latino, che viene recuperato sotto forma di lessico tecnico. È la direttrice culta dello sviluppo lessicale in cui convergono tutte le lingue europee di cultura e che vede l’immissione di parole dotte, derivati e composti gre­ co-latini, quei neologismi che saranno tanto aborriti dai puristi dell’Ottocento (v. cap. IV. 1). L ’impulso a creare nuove parole restando nell’alveo della tradizione contagia i vocabolaristi che mettono a lemma tutte le possibili forme suffissali (v. il caso del Bergantini), ma anche gli scrittori (v. Baretti e Alfieri). Per un altro verso ci si muove nella dimensione locale in cui sono politicamente circoscritte le diverse ‘nazioni’ italiane, e quindi sotto l’influsso delle diverse parlate dialettali, alle quali sono indissolubilmente legate tradizioni e usi regionali. Con le parole dialettali devono fare i conti per esempio gli economisti riformatori nella loro attività di governo, come il Beccaria in Lombardia e il Galiani a Napoli. E proprio l’abate Galiani, una delle figure più cosmopolite del secolo, è l’autore di D el dialetto napoletano, prima monografia storico-descrittiva di un dialetto (1779) e testimonianza di quel forte interesse per i dialetti, come richiamo esercitato dalla realtà popolare e strumento di espres­ sività da contrapporre a un italiano sentito estraneo e spesso malamente posseduto, che si registra verso la fine del secolo e che è direttamente proporzionale alla forza con cui si impone il

Premessa

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modello unitario. Il consolidarsi dell’italiano provoca come con­ traccolpo uno sviluppo della letteratura dialettale, si potrebbe citare la miriade di traduzioni del teatro francese nei diversi dialetti, o per rifarsi al caso più noto, l’impulso della poesia dialettale a Milano. Va da sé che in questa sede dei dialetti si è tenuto conto per quegli aspetti in cui essi vengono a contatto con la lingua nei suoi usi pratici e concreti. Si delinea infatti più chiaramente e prende consistenza tra i due poli della lingua e del dialetto un nuovo polo, quello degli italiani regionali, varietà idiomatiche intermedie, di cui si ritro­ vano testimonianze così negli scritti di utenti del ceto medio­ basso come negli usi più informali dei ceti colti. Si vedano per esempio i meridionalismi nelle prediche di Alfonso de Liguori, o i settentrionalismi nelle commedie italiane del Goldoni (cap. V). Non mancano infine documenti di una varietà anche più ‘popolare’ di italiano, testimonianza di un avvicinamento alla lingua anche da parte dei ceti più bassi e culturalmente sprovve­ duti (Testo 12). Insomma una pluralità di dimensioni, che prelude alla situazione odierna dell’italiano, caratterizzato nei confronti di altre lingue europee dall’ampiezza della gamma di variazione, in cui si combinano la dimensione diatopica, diastratica e diafasica (B erretta 1988: 763). È sotto l’insegna del ‘secolo illuminato’ che si può collocare il quadro di questa crescita. La metafora dei ‘lumi’ nel suo aspetto di calco dal francese2 di impronta europea si presta a rappresentare il senso di un cambiamento in stretta sintonia con il movimento delle idee guidato dalla Francia e sotto l’influsso di quel francese che nel corso del secolo è promosso a lingua universale dell’Europa colta. Le coordinate sono quelle traccia­ te da Gianfranco Folena in II rinnovamento linguistico del Sette­ cento italiano, che ha segnato una tappa fondamentale nel cam­ po degli studi linguistici sul Settecento (il lavoro è del 1962, ora lo si legge in F olena 1983: 5-66). Folena partiva dal tema della «crisi linguistica», proposto venticinque anni prima da Alfredo Schiaffini in un saggio intitolato appunto A spetti della crisi lin­ guistica italiana del Settecento (1937, ora in Schiaffini 1965: 2 La prima comparsa di illuminato, che si alterna per tutto il secolo con rischiarato, si deve ad A.M. Salvini (1685; cfr.D ardi 1992: 440-442); sulla immagine dei lumi e del secolo illuminato, come espressione chiave di un atteggiamento ideologico dell’apertura, della tolleranza, della lotta ai pregiu­ dizi e dell’ottimismo della ragione, ancora D ardi e L eso 1991: 103-105.

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Premessa

Premessa

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129-165), che poneva in una prospettiva nuova, libera da «recri­ minazioni puristiche e nazionalistiche», il problema dei profon­ di mutamenti indotti nella nostra lingua dal contatto con il francese. Un mutamento a dimensione europea, i cui aspetti linguistico-culturali sono stati ulteriormente approfonditi e do­ cumentati da Andrea Dardi nel recente lavoro dal titolo signifi­ cativo Dalla provincia a ll’Europa (D ardi 1992). Con la fine della potenza spagnola e del suo predominio nella penisola, sancita dai trattati di Utrecht e di Rastadt (1713 e 1714), e col nuovo assetto politico dell’Italia3, si pongono dunque le premesse per una «ripresa» della sua vita intellettua­ le4: una nuova coscienza civile e nazionale mette in moto, in una Italia politicamente divisa, forze convergenti nel riconoscere e valorizzare la comune tradizione linguistica. A rivendicare l’uso del volgare nell’erudizione, nelle scienze, nella filosofia, negli argomenti giuridico-legali si è cominciato dagli ultimi decenni del Seicento. Col nuovo secolo si aggiunge l ’aspirazione, propria dei lumi, alla diffusione del sapere, all’allargamento della cultura a un pubblico nuovo, e pertanto alla ulteriore promozione delle lingue volgari. Dappertutto in Europa l’élite letterata filosofica, cioè le comunità di dotti, ha abbandonato il latino e si esprime nelle lingue nazionali: una scelta che da noi ha bisogno di essere continuamente ridiscussa e riaffermata per il pregiudizio classicistico che vuole la lingua italiana adatta solo alla letteratura. «Se noi col nostro usato, e proprio idioma scrivessimo, tutti coloro, che o non possono, o non vogliono ora, sgomenti dalla fatica, apprender la lingua latina, potrebbono tuttavia divenir dotti, e letterati», scrive Ludovico Antonio Muratori. «Primo rappresentante di una cul­ tura nuova» (Folena), il Muratori, che intrattiene dalla Modena estense continui e vitali contatti con i dotti di tutta Europa, guidando una eccezionale ripresa di studi storico-eruditi, ag­

gancia il suo «disegno» di rinnovamento culturale a una valorizzazione del volgare che coinvolge l’istruzione scolastica. Agli inizi del secolo l’eclissi della tradizione umanisticorinascimentale di fronte ai nuovi valori razionalistici usciti dalla «crisi della coscienza europea»5, è all’origine di quell’acuto sen­ so della scissione tra ‘antichi’ e ‘moderni’ che dà luogo sullo scorcio del Seicento alla celebre querelle des anciens et des modernes. Nasce nei nostri ‘letterati’ una nuova consapevolezza degli specifici caratteri ‘italiani’ di fronte alla perdita di un primato letterario che è adesso passato alla Francia. È il momen­ to del confronto tra le diverse lingue e le diverse specificità nazionali, cioè tra genio delle lingue e genio delle nazioni, sulla base della nuova nozione di genio della lingua, come insieme delle sue particolarità formali in relazione con le particolarità di storia, geografia, costume, cioè con il genio della nazione6. Si apre adesso un nuovo capitolo della ‘questione della lingua’: un argomento ormai ben arato, per il quale è disponibile l’ampia trattazione di V itale 1978. Per questo mi è sembrato più eco­ nomico trattare del dibattito intorno alla lingua congiuntamente con la pratica degli scrittori in un capitolo articolato in prospet­ tiva diacronica e che vorrebbe in un certo senso fare da cardine dell’intero lavoro (cap. V II). La nuova mentalità razionalista e cartesiana che comincia a delinearsi nella prima età arcadica ad opera di ‘letterati’ e ‘eru­ diti’, quali Muratori, Gravina, Maffei, Vallisnieri ecc., vede i ‘letterati’ impegnati a coniugare lettere e scienze, e ad allargare la letteratura alle nuove esigenze della divulgazione e della co­ municazione scientifica, nei modi chiari ed eleganti, consoni al ‘genio’ italiano, sperimentati dall’Algarotti (v. Testo 3.1). Accademie e giornali ‘letterari’ si aprono a un pubblico più ampio nel quale far circolare idee e libri in una Italia divisa in stati rivali. L ’Arcadia, fondata a Roma nel 1690, con il proposito di riformare il ‘gusto’, liberandolo dagli eccessi del barocco,

3 Che vedrà l’Austria asburgica insediarsi durevolmente in Lombardia; il Regno di Napoli, includente l’autonomo viceregno di Sicilia, costituirsi stato indipendente sotto una dinastia borbonica; il Piemonte sabaudo estendersi alla Sardegna, fregiandosi del titolo di Regno di Sardegna; in Toscana al­ l’estinta dinastia medicea succedere quella dei Lorena; e per il resto la miriade di stati e staterelli già esistenti. 4 «La ripresa dell’Italia» si intitola il capitolo dedicato al periodo 17001750 del saggio di Stuart J. Woolf, La storia politica e sociale, in Storia d ’Italia, 3, Dal primo Settecento all’Unità, Torino, Einaudi, 1973.

5 Secondo la formula diffusa da un libro importante di P. Hazard intito­ lato appunto La crise de la conscience européenne (H azard 1935). 6 La nozione di «genio della lingua», comparsa con sfumatura negativa nella Grammaire e nella Logique di Port-Royal a definire la proprietà delle lingue non riconducibili alle categorie universali della «grammatica genera­ le», ha avuto una evoluzione conforme alla nuova coscienza della storicità e individualità delle lingue che si sviluppa tra Sei e Settecento (Rosiello 1965 e Simone 1990).

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Premessa

svolge all’inizio anche un ruolo di costruttivo rinnovamento della vita culturale e di educazione a una poetica mirante a uno stile più ‘naturale’ e conforme al rinato mito della classicità, che influenza tutti i generi. Attraverso la capillare diffusione delle sue ‘colonie’ orienta e uniforma il gusto letterario medio, contri­ buendo alla formazione di un nuovo pubblico, una nuova classe colta nobiliare e borghese. E «dal punto di vista linguistico, anche gli aspetti quantitativi, la produzione di serie e di massa quale si verifica nell’Arcadia, hanno un’importanza notevole» (F olena 1983: 26-27). L ’aspirazione dei dotti all’unità culturale conferisce un si­ gnificato nuovo alla parola nazione, «non più etnico ma cultura­ le»: è il mito di una «Repubblica letteraria italiana» che nel suo ideale di «lingua colta nazionale», di «lingua comune», rinnova la nozione dantesco-trissiniana di «volgare illustre». Il Muratori nei Primi disegni della Repubblica letteraria d ’Italia (1703) lancia la proposta di una «Repubblica federativa, che a guisa delle repubbliche civili... abbia un piano di regolamenti comune», «una lega di tutti i più ragguardevoli letterati d’Italia, di qualun­ que condizione e grado», che si preoccupi di indirizzare gli interessi «letterari» verso quelle materie «utili e sode», che si­ gnificano ammodernamento degli istituti letterari e linguistici. Nazione e lingua entrano adesso in relazione: il contatto diretto e il confronto con altre civiltà europee fa cogliere con lucidità per esempio a un Algarotti lo stretto rapporto intercor­ rente tra lingua e storia nazionale, tra «genio» della lingua e «genio» della nazione, tra lingua e società. Si pone il problema della popolarità della lingua, acutamente avvertito dai riforma­ tori lombardi (cap. V II.8). L ’esigenza di unitarietà si fa sentire nei settori pratici, tecni­ ci e scientifici, promuovendo una vasta attività lessicografica. «Le cose le più comuni non s’intendono da una città all’altra·, e sfido chi che sia esperto italiano a descrivere la struttura d’un Armadio, o altro, in tal guisa che colla sola lettura della descri­ zione potesse mettersi in pratica a Firenze, a Roma, a Napoli, a Venezia, a Milano. Così pure va nelle Scienze, e particolarmente nelle moderne», scriveva il lessicografo Giampietro Bergantini, lamentando «il peso di un gran male nella società civile», cioè «il non poter accomunare per difetto di lingua le invenzioni, le sco­ perte, le cose altrui» (M organa 1985: 158; cfr. qui il cap. IX). A proposito di prospettiva nazionale esemplare è il caso di

Premessa

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una terra ‘di frontiera’ come il Piemonte, in cui disponibilità e reazione rispetto alla lingua e alla cultura transalpina sviluppa­ no un filoitalianismo dai precoci contenuti nazionali e patriotti­ ci, ma che si differenzia dai caratteri retorico-formali e conser­ vativi che prende la valorizzazione dell’italiano in altre regioni. Gli intellettuali piemontesi riuscirono a «giudicare lucidamente i difetti ed i pregi della lingua e della cultura italiana, proprio perché guardarono a questa lingua come ad una possibilità, con il distacco e la diffidenza di chi sta in una posizione di confine». Come mostra la vicenda di Alfieri: la sua conquista dell’italiano si deve a un’opera oltre che di «spiemontizzazione» anche di «sfrancesizzazione», cioè di «liquidazione di quella cultura fran­ cese di cui si era inevitabilmente nutrito il rampollo di una famiglia nobile dello stato sabaudo». E fu proprio la sua forma­ zione francese a orientarlo in «maniera personalissima» nella cultura italiana (M arazzini 1992: 4). Nella situazione di valorizzazione del ‘genio’ linguistico na­ zionale può accadere che anche il modello più arcaico, quando assunto sotto una spinta culturale innovatrice, sortisca effetti di larga diffusione dell’italiano. E quanto sembra accadere a Na­ poli: la più antica tradizione linguistica toscana, riconosciuta come modello italiano da una stretta cerchia di autori, per la quale rappresentava, nella particolare congiuntura culturale a cavallo tra Sei e Settecento, un veicolo di rinnovamento, si estende ben presto, attraverso l ’assunzione in ambiente forense, alla lingua parlata, divenendo «un dato concreto e sociale della civiltà dotta e borghese napoletana già dal Settecento» (V itale 1986: 233), e promuovendo l’uso di una varietà regionale d’ita­ liano con oltre un secolo d’anticipo sulle altre zone non toscane, Roma a parte (D e M auro 1970: 317). Una situazione del tutto particolare ci presenta a questo proposito Venezia, dove fin dal Rinascimento il dialetto s’è conquistato «dignità e compattezza» fino a crearsi «tradizione di lingua, intrecciando col toscano rapporti che non sono mai di sostrato a superstrato social-culturale, ma appunto di lingua a lingua» (M engaldo 1960: 20-21). Pertanto la coscienza di una piena autonomia del dialetto produce non tanto una varietà regionale di italiano, quanto forme mistilingui, rese possibili anche dalla vicinanza strutturale delle due lingue, e che è sem­ brato interessante documentare (cap. VI e Testo 9). Il Veneto si presenta anche come un esempio di radicato

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Premessa

conservatorismo, pur conoscendo episodi di autonomia lingui­ stica nei riguardi della tradizione, come mostra il caso del Goldoni o del già citato Bergantini. Si pensi alla Verona di Scipione Maffei, dove l’interesse per le antichità greco-latine imprime quel particolare carattere classicistico-umanistico alla rivendi­ cazione della tradizione volgare, che nel corso del secolo diven­ terà sempre più angusto e avverso alle novità del pensiero euro­ peo e all’influsso delle letterature straniere (V itale 1986: 3 9 0 ), sfociando subito dopo nel purismo di un Antonio Cesari. Il periodo di pace e di relativa stabilità di cui gode la peni­ sola dopo il trattato di Aquisgrana (1 7 4 8 ), la mette in grado di partecipare attivamente al movimento propriamente illuministico che ha per fulcro la Parigi dell’Encyclopédie. E l’età dei «filosofieconomisti» e riformatori, che vede gli intellettuali impegnati nel rinnovamento di leggi e istituzioni, in una ventata di riforma nella quale si distinguono le nuove amministrazioni (Napoli, Milano, la Toscana). Si contestano poteri stabiliti e idee ricevu­ te. Una grave scossa subisce la Chiesa, messa in discussione nei suoi princìpi di autorità oltre che nei suoi poteri giurisdizionali, e colpita, ma più clamorosamente che profondamente, dallo scioglimento della Compagnia di Gesù (1 7 7 3 ), organo che da secoli aveva il monopolio dell’istruzione e della preparazione delle classi dirigenti. Il ricambio di interessi e di orientamenti culturali, maturato lungo il corso del secolo, comporta sul piano della coscienza linguistica un profondo mutamento. Se in periodo arcadicoerudito ci si dispone a parlare a un pubblico allargato realizzan­ do un travaso della tradizione classicistica nei nuovi generi didascalici, nelle nuove forme della comunicazione scientifica, in un giudizioso adeguamento alla frase chiara e distinta, l ’acce­ lerazione del movimento riformatore a metà del secolo, chiama la lingua a misurarsi più direttamente sul piano delle ‘cose’, dei nuovi interessi pratici e tecnici, costringendola a ‘rinunciare’ alla Crusca, nella fiducia che la forza delle idee, cioè la luce della Ragione, fosse sufficiente a plasmare un nuovo e più adeguato strumento di comunicazione. Ma le strutture di una lingua mutano più lentamente delle idee, come mostra la prosa degli scrittori illuministi, in cui si manifestano amplificate tutte le incertezze e le disomogeneità di uno strumento non ancora passato attraverso «quel processo di decantazione e di unificazione che solo l’uso vivo e comune della

Premessa

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lingua avrebbe potuto determinare», come osserva P atota 1987: 154, a conclusione di uno studio sulla prosa del secondo Sette­ cento. Permangono le oscillazioni fonetiche (del tipo delicato / dilicato, rumore / remore, nutrire / nodrire, devo / debbo / deggio) ; nella morfosintassi resiste il sistema pronominale tradizionale, con l’uso degli anaforici {egli, ella), le diverse forme ereditate dal passato {et, eglino, elleno), e il modulo interrogativo verbopronome, tratto che registra anzi un incremento nella prosa della seconda metà del secolo. La tradizione normativa esercita ancora il suo potere, imponendo per esempio il tipo in -a per l’imperfetto, e altro che si avrà modo di indicare nel corso della trattazione. La sintassi oscilla tra il nuovo tipo diretto e spezza­ to, che vede l ’estendersi delle strutture nominali, e quello classicheggiante che privilegia la struttura inversa, conserva la collocazione anticipata di certi tipi di aggettivo. Ci si muove insomma tra vecchio e nuovo, per cui più che di «rinnovamen­ to» sarà bene parlare di «crisi di crescenza», secondo la illumi­ nante metafora di Folena. L ’allargamento dell’uso e il conseguente abbassamento di livello provoca alla fine una reazione conservativa, un ripiega­ mento verso la tradizione e un nuovo culto della forma sul quale rinasce la scissione tra cultura scientifica e cultura umanistica. Si è ormai alle soglie della rivoluzione, alla quale ci arrestiamo, lasciando al Primo Ottocento di Luca Serianni, il volume imme­ diatamente seguente, l’età dei «filosofi-politici», dei patrioti e dei giacobini, in cui il fenomeno del francesismo, il filo ‘rosso’ della storia linguistica italiana settecentesca, prende una più rapida accelerazione preludendo a un riassestamento su nuove direttrici, verso una unificazione linguistica dominata da una nuova coscienza nazionale.

Parte prima La lingua italiana nell’età delle riforme

Capitolo primo Scuola ed educazione linguistica

1. Istruzione e “riforme” Come si configura, nella nuova sistemazione territoriale, il dominio ufficiale della lingua italiana, divisa tra diversi stati? L ’attribuzione della Sardegna ai Savoia (1718) riporta l’isola ■nell’orbita italiana e l’uso dell’italiano è incoraggiato da subito dalle autorità piemontesi. Una istruzione di Vittorio Amedeo II al viceré di Sardegna, datata 20 maggio 1720, così richiede: «Pratticarete... per quanto vi sarà possibile la lingua Italiana, senz’affettare per altro di non volervi servire della spagnuola». Successivi provvedimenti dispongono che leggi e regolamenti vengano tradotti dallo spagnolo nella lingua italiana1, «stata già per ordine sovrano surrogata alla prima in ambe le università sovra gli studi, e dalle persone nobili, e colte con molta pulizìa e facilità pressoché universalmente adoperata» ( F io r e l l i 1984: 134). L ’atteggiamento è coerente con la politica di italianizza­ zione seguita dallo stato sabaudo in Piemonte; qui il francese, abitualmente parlato, accanto al dialetto, dai ceti alti e usato dalla classe dirigente, era un fatto di costume, e non tanto di diritto: ciò determina una decisa politica a favore dell’italiano. In Corsica, dopo la cessione nel 1768 alla Francia da parte dei Genovesi, la lingua italiana si perde gradualmente, non senza un ultimo episodio: nel 1794 il rivoluzionario Pasquale Paoli pro­ mulgherà, a sanzione del suo effimero regno, il primo esempio di una costituzione scritta in lingua italiana, consacrando una 1 Testi pratici e legislativi, già in latino e in sardo, avevano conosciuto traduzioni anche in catalano e castigliano, in cui si continuano generalmente a pubblicare gli statuti corporativi dell’isola nel corso del Settecento, tradotti in italiano solo nell’ultimo terzo del secolo (F iorelli 1984: 132-133 e Loi Corvetto 1992: 902).

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presenza dell’italiano ben radicata nell’uso ufficiale e consolida­ ta nel corso del Settecento sul piano culturale (F iorelli 1984: 134 e N esi 1992: 920 e 933). Ai confini: Nizza è ancora italiana e stampa nella nostra lingua i nuovi statuti del 1784. La Val d’Aosta, gravitante nell’orbita francese, scrive in francese i pro­ pri regolamenti. Nelle terre italiane della Svizzera, l’attuale Ticino, l’italiano continua pacificamente il proprio corso (B ianconi 1989). Nel territorio dell’Alto Adige domina il tedesco, ma gli statuti delle fiere di Bolzano sono pubblicati più volte nel corso del secolo in testo bilingue (F iorelli 1984: 135). Bilinguismo anche nel Trentino, dove il tedesco, lingua familiare nella nobiltà, era stato un forte concorrente del latino negli usi ufficiali e ammini­ strativi, più di quanto non lo fosse stato l’italiano; ma quest’ul­ timo conquista ampi spazi nel corso del Settecento, e nel 1776 il Consiglio aulico deciderà l’uso dell’italiano in luogo del latino nei tribunali principeschi e nei relativi Atti (C oletti 1992: 195). Gli ordinamenti di Trieste si mantengono italiani o latini, ma il governo di Vienna cerca di incentivare la conoscenza del tede­ sco; il Regolamento di Maria Teresa del 1774 prescrive la lingua tedesca nelle scuole elementari del Friuli austriaco e Giuseppe II avverte che nel conferimento di impieghi si favorirà «quello che saprà bene la Lingua Tedesca» (da un decreto del 27 agosto 1784): provvedimenti che non impediscono all’italiano e alla cultura italiana di espandersi soprattutto nella seconda metà del secolo (F iorelli 1984: 135 e M organa 1992: 297-298)2. Non del tutto pacifico è l’uso dell’italiano per l ’amministra­ zione borbonica, insediatasi a Napoli nel 1734 e che seguiterà per tutto il secolo ad alternare in prammatiche e dispacci italia­ no e spagnolo, «lingua, questa, che in vari secoli di dominazione aveva cominciato a metter radici nel nostro Mezzogiorno» (F iorelli 1984: 136). Più precisamente, per quanto riguarda la Sicilia, si continuano a redigere di norma in italiano nella forma ibrida tipica delle scritture amministrative, gli atti destinati ai sudditi, e in spagnolo o in latino quelli indirizzati rispettivamen­ te ai castigliani residenti in Sicilia e a notai o religiosi. Ma un provvedimento ufficiale del 1738 dispone l’uso dell’italiano in 2 Per completare il quadro un cenno alla sponda orientale dell’Adriatico: l’italiano sembra ancora forte nell’Istria e nella Dalmazia venete, e a Ragusa; ed è lingua ufficiale a Corfù e nelle isole Ionie. Anche a Malta la presenza dell’italiano si rafforza come lingua di cultura e in italiano sono le leggi municipali del 1723 e del 1784 (F iorelli 1984: 136).

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luogo del latino o dello spagnolo negli atti del Supremo Magi­ strato di Commercio e nelle Segreterie di Stato. La motivazione, «essendo Sua Maestà re Italiano, debba usare la lingua italiana», sancisce ufficialmente il carattere italiano della monarchia borbonica (A lfieri 1992: 821-823 e 831). L ’avanzata generale dell’italiano consolida abitudini già av­ viate da tempo nella prassi amministrativa spicciola: leggi, de­ creti, statuti vengono totalmente convertendosi al volgare, ma sono stampati in una lingua ancora lontana da una relativa unità (v. IV .4), nell’ibridismo tipico di tutte le forme di scrittura che esulano dàlia letteratura e dall’erudizione, dai libri di conti ai diari privati alle lettere familiari, dove si presenta un italiano variamente diversificato e mescidato di tratti locali a seconda del genere di scrittura, del grado di alfabetizzazione e della competenza di chi scrive. Un breve campionario di scritture pratiche prodotte da strati bassi può fornirci una idea indicativa di come si diversifica la competenza linguistica. Mi avvalgo delle testimonianze forni­ te da uno studio storico sull’infanzia abbandonata: biglietti di parroci, di levatrici e di genitori, ritrovati tra le fasce dei bambi­ ni abbandonati (riportati in C appelletto 1983, ma in trascrizio­ ne non del tutto affidabile). I biglietti stilati da parroci, quando non sono in latino - l’italiano è conquista recente negli atti ufficiali ecclesiastici e giuridici - esibiscono in genere una lingua saldamente ancorata nella formularità burocratica a una sintassi subordinativa. Così scrive un parroco del veronese in un docu­ mento del 1718: attesto io sottoscritto parroco della chiesa di Santa M aria di G azo aver batezato [ . . . ] il presente fanciullo et averlo nominato per nome G iovan­ ni, nato d ’illegittimo matrimonio, cioè di padre incognito, di m adre povera, cosicché merita la creatura d ’essere ammessa nel Luogo pio ad essere allevata.

Più intrisa di dialetto, pur nel rispetto della formula, la scrittura di «massari», responsabili amministrativi delle comu­ nità, come indicherebbero le seguenti registrazioni di ritrovamenti di bambini abbandonati, risalenti allo stesso anno e pure di area veronese: Atestiam o noi masari e conselieri del sudeto Comun che alli 4 del sudeto, in hore 3 di note, il m ercordì, habiamo ritrovato un putino in

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una cesta in uno capetilo in m ezo della sudeta villa, sula strada publica, con un boletin in le fascie e un agnus.

levarla dal late, e custodirsela a casa. E d io faccio piena fede di sua indigenza e necessità (ivi: 4 2 9 ).

Faccio fede io G iò B attista Comein massaro della com unità di Costerm an si com e da F ran cesco da M onte sula sua porta circa le ore cinque hanno trovato una creatura nuda, chera p ocho ora nata, dove dato le habia alli consiglieri et al prete, subito si fece batezar; dove si spedisce con il presente a una dona abile che la potria arlevar e nutrirla.

Qui interessano soprattutto le testimonianze più umili, qua­ le spiraglio sull’alfabetismo prima dell’Ottocento, sui cui livelli mancano dati sicuri. Si può sommariamente dire che al tramon­ to àù Y an cien régim e se nelle classi dominanti il tasso di alfabetismo è alto e pressoché pari tra maschi e femmine (diver­ so il discorso per l’istruzione superiore), nelle classi intermedie il saper leggere e scrivere è una realtà variabile, dipendente essenzialmente dall’attività esercitata. Il contado, dove per la stragrande maggioranza della popolazione, maschile e femmini­ le, leggere e scrivere erano realtà estranee alle necessità della attività quotidiana, si trova all’ultimo gradino della scala (Vico 1983: 827). Tra artigiani e piccoli commercianti il tasso di alfabetismo può toccare anche il 50-60 per cento, un dato rela­ tivamente elevato, che riguarda però i soli maschi. Fino a quan­ do nel corso dell’Ottocento non sarà l’autorità statale ad assu­ mersi il compito dell’istruzione popolare, l’analfabetismo reste­ rà dunque molto elevato. Ancora all’altezza del 1850 l’Italia risulta occupare, tra i paesi europei, il penultimo posto, seguita dall’impero russo, nella graduatoria dell’alfabetismo tra la po­ polazione adulta (V igo 1983: 806). Al permanere per tutta l’età moderna di un diffuso analfa­ betismo aveva concorso anche un sistema educativo e di istitu­ zioni scolastiche monopolizzato dalla Chiesa, attraverso il clero secolare e ordini e congregazioni, con in testa la Compagnia di Gesù. La Chiesa postridentina si era sì preoccupata di sviluppa­ re l’alfabetizzazione, assolvendo un compito analogo a quello svolto dalla Riforma nei paesi protestanti, ma all’istruzione for­ nita dalle scuole della dottrina cristiana, basata sull’apprendi­ mento mnemonico e la lettura collettiva del catechismo su testi indifferentemente latini o volgari, era mancata quella strategia a favore della lingua volgare che aveva caratterizzato la Riforma luterana. In alcune aree però l’azione della Chiesa nell’istruzione po­ polare era stata più ampia, capillare e continua nel tempo; è qui che nel Settecento si registra un tasso più elevato di alfabetismo: così nel Trentino (B rizzi 1982: 906 e V igo 1983: 806); nella Lombardia, dove l’attività catechistica organizzata da Carlo Borromeo tra Cinque e Seicento, aveva costruito una solida rete

Le forme dialettali emergono a tutti i livelli: nella caduta delle vocali finali, negli scempiamenti, nell’esito e in atonia (conselieri), nella forma arlevar “allevare” (< re -levare con pre­ fisso a-), nel lessico {mercor dì, putivo, boletin “biglietto”, capetilo, per il quale congetturo “capitello”). Nel secondo esempio si noti la sintassi di tipo ‘popolare’ con nesso generico affidato a dove. Nei biglietti lasciati dai genitori manca l ’aspetto formulare burocratico e il messaggio è più diretto. In documenti della fine del secolo troviamo scritto da anonimi genitori, costretti dalla indigenza delle loro condizioni ad affidare il loro neonato al­ l’ospizio: Questa putina è ricom andata ala Santa Casa e di fare tuto il possibile per non lasciarla m ancare di niente e il più presto che se poterà se anderà a torla, e allora sarano fate delle ellemosine a la Santa Casa e p er nome à d ’avere Rosa N ata il giorno venticinque febraro alle ore una dopo il mezzogiorno, è ancora da battizare e si averebbe piacere che li mettesse per nome prim o Rosa, e Scolastica. Nel annesso viglietto vi è un segno, cioè la m ettà, e la m ettà la teniamo appo di noi, perché al caso di una ricerca posciassi confrontare e viglietto e segno di mezo bambino. Di tanto è pregati chi sovrintende nel santo luogo pio (C appelletto 1983: 4 2 9 -4 3 3 )

Lo sforzo di italianizzazione non cancella i segni della lingua parlata. Da notare il raddoppiamento consonantico in mettà, l’antica'forma doppo, lo scambio pure ipercorrettivo se/ss in posciassi, la forma veneta torla “prenderla”. Più corretta la se­ guente scrittura di un curato, libera in parte dai modi della registrazione burocratica (per la forma venghiv. 8.2 n.): Rosa Stanziai felicemente diede alla luce una bambinella, ma disgra­ ziatamente due ore dopo improvvisamente morì. P ietro Stanziai padre ritrovandosi in somma necessità supplica i Signori G overnatori del S. Luogo di Pietà a volerla accogliere fino a tanto che venghi in stato di

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di istituzioni educative (T oscani 1984: 761-762)34; e nella Lom­ bardia svizzera, pure toccata dal modello borromeiano delle scuole della dottrina cristiana·1. Un altro centro di relativo mag­ gior sviluppo dell’alfabetismo è Roma. Tra Sei e Settecento la crescita dell’attività economica porta a un’aumentata richiesta di istruzione. L ’autorità pontificia favorisce lo sviluppo del­ l’istruzione elementare, si aprono nuove scuole popolari ma­ schili, e nascono anche scuole femminili, come quella delle Orsoline (1688). Ma l’insegnamento non andava oltre la lettura, essendo la scrittura riservata a un momento successivo (T rifone 1992:51). Occorre infatti tenere presente che nelle società d’an­ tico regime, dove l’apprendimento del leggere, dello scrivere e del far di conto appartiene a momenti diversi, essere alfabeti poteva significare saper soltanto leggere (M archesini 1985). In conclusione, attraverso il sistema di acculturazione gesti­ to dalla Chiesa si era perpetuata una situazione fortemente diversificata: gran parte del proletariato urbano e rurale confinato nel semianalfabetismo, funzionale alla lettura del catechismo e del libro di preghiere o alla capacità di apporre la propria firma; per le classi superiori lo studio della lingua latina, «indispensa­ bile per le professioni liberali e per qualsiasi funzione dirigente nell’apparato burocratico e amministrativo pubblico, la cui co­ noscenza rappresenta la discriminazione determinante fra chi poteva accedere ai livelli superiori dell’istruzione e quanti ne restavano esclusi» (B rizzi 1982: 904). E il Muratori imputa la debolezza dell’italiano all’assenza di una istruzione linguistica: il lodevolissimo sì, ma troppo zelo d ’instruire i giovani nel Linguaggio L atino, giunge a segno di non perm etter loro l’esercizio dell’Italiano, e di lasciarsi uscir dalle pubbliche Scuole ignorantissimi della lor favella natia [ ...] P roprio de gli anni teneri è un sì fatto studio; e perciò dovreb­

3 «Nella seconda metà del Settecento e in età napoleonica, nell’Italia del Nord la carta dell’alfabetismo (certo non ancora compiutamente delineata) sembra ricalcare la carta della diffusione e del radicamento delle scuole della dottrina cristiana di rigoroso modello carolino», cioè borromeiano (T oscani

1984: 762). 4 La maggior parte della popolazione impegnata in attività lavorative di tipo artigianale e mercantile, e aperta verso l’esterno dalle necessità dell’emi­ grazione, presentava a metà Settecento un certo livello di alfabetismo e un relativo possesso della lingua italiana, mentre la minoranza, legata a una economia rurale che non richiedeva nessuna forma di competenza scritta, risultava «sicuramente analfabeta e dialettofona» (Bianconi 1989: 70-77).

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be con quel della Lingua Latina congiungersi l’altro dell’Italiano [ ...] affinché i giovani per divenir dotti in una Lingua straniera, e m orta, non sieno sempre barbari, e stranieri nella propria, e viva loro favella (Mura­ tori 1972: 6 2 6 )5.

Sarà rilluminismo a dare uno scossone a questo sistema. Con la progressiva affermazione nello stato moderno - anche nel caso della frammentata realtà politica italiana - di un appa­ rato amministrativo-burocratico fondato su un ricorso sempre più massiccio allo scritto, per il quale servono impiegati e fun­ zionari e in cui si instaurano più concreti contatti del cittadino con le istituzioni, cresce la domanda di quella istruzione attra­ verso la quale si può fissare una norma standard per la lingua scritta. La tendenza poi a limitare i privilegi della Chiesa, sottraendole il monopolio dell’educazione, dà impulso alla scuola pub­ blica e popolare. La soppressione della Compagnia di Gesù in diversi stati nel porre il problema della gestione della istruzione, apre la strada all’esigenza di una scuola primaria estesa a ogni categoria di cittadini e pertanto di un insegnamento pubblico e uniforme. Come riconosce l’autore di un A becedan o del 1776 per le scuole di Modena e Reggio, lo studio del leggere e scrivere correttam ente occupa senza dubbio uno de’ primi posti nella pubblica educazione e, m algrado l’ingiusto disprez­ zo, cui parve fin qui condannato dalla m ediocre L etteratu ra, egli ha pur m eritato a’ dì nostri le riflessioni benefiche della filosofia, e le provvide cure della politica (D el N egro 1984: 2 5 3 ).

Si pongono dunque adesso le premesse per quell’allargamento dell’istruzione che è la base per una più diffusa conoscenza della lingua italiana. L ’assunzione dell’istruzione da parte dello stato pone il problema dell’educazione linguistica. Le riforme scola5 A riprova del discorso del Muratori, uno degli scienziati contemporanei più avanzati, appassionato fautore dell’uso dell’italiano negli argomenti scien­ tifici, Antonio Vallisnieri, medico e naturalista dello Studio di Padova, in una lettera al Muratori del 1710 lamenta la propria difficoltà a «unire quattro linee in lingua non cattiva italiana, per l’esercizio, che infra l’anno per otto mesi tralascio, dovendo parlar in Cattedra Latino; onde s’immagini, che quando torno al volgare, stento a entrar nella vena, e mi dimentico le regole, che sò, ma per l’uso cattivo di parlare, che abbiamo, per il Latino, che ho adoperato per tanto tempo, e, diciamola pure, per la mia naturale rozzezza, cado in erro re...» (M organa 1976: 165).

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stiche del Settecento «sono anzi un’occasione per verificare la realizzazione di veri e propri programmi di politica, nei quali si esercita l’impegno di intellettuali portatori di idee di rinnova­ mento che quasi sempre toccano proprio la questione dell’inse­ gnamento della lingua» (M arazzini 19 8 5 : 7 7 ). Nel ducato di Parma, centro vivacissimo e aperto alla cultu­ ra francese, all’avanguardia del movimento riformatore (cfr. P etrolini 1992:351 ), la Costituzione p er i nuovi regj studj (1768), ispirata dal padre Paolo Maria Paciaudi, disegna un Piano p er le scuole gratuite d ei fan ciu lli che prevede un insegnamento p u bbli­ co del leggere e scrivere, con la tassativa esclusione del latino. Anche in Lombardia, dove funzionavano scuole di latinetto, ma preparatorie ai successivi corsi di grammatica, si provvede a istituire «scuole normali», cioè primarie, a partire dal 17866. E a Napoli, dove un Piano di riforma era stato stilato da Antonio Genovesi già nel 1767, con il progetto di una specifica scuola «di leggere, scrivere ed abbaco» (L ucchi 1985: 35), si istituisco­ no negli stessi anni scuole elementari che guardano al «sistema normale» dei domini austriaci e reclamano lo studio dell’«italiana favella» (L ibrandi 1992a: 658). Ma si tratta in genere di tentativi riformatori destinati a restare sulla carta, che mettono però in moto un processo irreversibile verso una istruzione laica, uni­ forme, gratuita e obbligatoria. Le novità tecniche nei diversi settori produttivi richiedono un’alfabetizzazione diffusa. Uno studio su A lfabetism o e società a Torino nel secolo X V III evidenzia, per il periodo compreso tra il 1710 e il 1790, una graduale e costante diminuzione dell’anal­ fabetismo, sia in città sia in provincia, pur permanendo una notevole differenza tra le due condizioni. L ’incremento maggio­ re riguarda la categoria dei commercianti, e si lega alla necessità, «divenuta sempre più ineliminabile alla fine del Settecento, in una città come Torino, di saper scrivere il proprio nome su documenti, contratti e tutto quanto ha relazione con la vita pubblica» (D uglio 1971: 499). Diventa importante l’istruzione pratica e professionale, la quale implica l’insegnamento dell’italiano, concepito come al­

6 II provvedimento faceva seguito alla riforma scolastica voluta un decen­ nio prima da Maria Teresa per tutto il suo impero, mirante a una scuola elementare pubblica e gratuita (G onzi 1972).

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ternativo alla scuola di retorica. L ’educazione del «plebeo e del povero» è da tenere separata da quella «nobile e del benestan­ te», scriveva un attivo riformatore lombardo, Pier Domenico Soresi in D ell’educazione d el minuto popolo ( 1775)7. «I Signori Maestri de’ Putti vedano ora, se 12 anni di studio di Lingua latina (come si pratica nelle nostre Scuole) faccia scoprire qual­ che bel ritrovato, utile alla Navigazione, alla Società, o più tosto formi un Giovane, che non sa scrivere una lettera Italiana e molto meno registrare una partita in un Quaderno», denuncia il «Diario Veneto» in una pagina del 1765, reclamando un rinno­ vamento del metodo di studi funzionale alle esigenze di una Venezia dedita alla navigazione e al commercio (D el N egro 1984: 261). Nell’area emiliana e romagnola gli interventi delle diverse comunità sempre più chiaramente lamentano che «tanto studio s’impieghi per la lingua latina, e affatto poi si trascuri la lingua propria, onde avviene che molti la parlan male, e scrivon peg­ gio» (B allerini 1985: 273). A Parma la Costituzione per i nuovi regj studj del 1768 prevedeva per le classi infim e, destinate a coloro che non avrebbero proseguito gli studi, l’insegnamento del solo italiano, stabilendo che s’incominciasse «fin dalle basse scuole ad insegnare la buona e corretta lingua Italiana, di cui quotidiano e necessario è l’uso» (G onzi 1972). Una proposta di riforma scolastica e linguistica che bene incarna l’ideologia illuminista, inquadrandosi nel movimento di riorganizzazione economica e amministrativa del viceregno di Sicilia, è quella dell’abate De Cosmi negli ultimi decenni del secolo. Erede delle idee del Genovesi nella richiesta di diffusio­ ne dell’italiano come premessa per l ’ammodernamento econo­ mico, il De Cosmi si preoccupa della formazione della «classe mezzana»: il Com puterista, il Fattore di campagna, FAgrim ensore, il M ercante, il Sensale, lo Scrivano di banca, l’Intendente di una fabbrica, di una mani-

7 Lo studio del popolo, sostiene il Soresi, deve limitarsi «a leggere, scri­ vere e far conti». I «fanciulli plebei» devono essere esclusi «dalle scuole e dagli studi di Latinità», non permettendo la loro condizione di «passare molti anni negl’intralciati studi del latino» e considerato che «quanto più ignota è la lingua, tanto più lentamente progredirà chi vuol imparare leggere e scrivere»: un’abilità che poteva essere conquistata «con maggior facilità» «instando sul solo italiano» (Del Negro 1984: 259).

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fattura, e tante altre persone di ordine mezzano hanno bisogno di una qualche istruzione per iscriver bene le loro carte e rapporti8.

Ai futuri impiegati in tali professioni la scuola deve insegna­ re a far di conto, a leggere e in particolare a «scrivere il volgare linguaggio con chiarezza, con aggiustatezza, e con mezzana ele­ ganza, senza oscurità, senza equivoci, senza superfluità, e senza barbarismi», evitando il latino, riservato ai giovani destinati alle professioni umanistiche (Lo P iparo 1984: 322). Uno studio su scritture di semicolti, relazioni di amministratori sulla conduzione dei feudi lungo un periodo comprendente tutto l’arco del seco­ lo, mostra puntualmente l’avanzamento dell’italiano in Sicilia (M occiaro 1991). Il De Cosmi estende anche alla sua attività pastorale la scelta dell’italiano. Nel 1764 tiene la prima predica quaresimale in toscano nella cattedrale di Catania. L ’avveni­ mento doveva essere significativo se il De Cosmi lo annota nelle proprie M em orie: «Tutte le altre quaresime erano state da me predicate in lingua di Sicilia: fu questa la prima volta che le predicai in lingua toscana» (Lo P iparo 1984: 324). L ’iniziativa nasceva infatti in un contesto in cui l’insegnamento catechistico era praticato in siciliano (A lfieri 1992: 831). Riserve sulla centralità del latino non mancano anche per quanto riguarda l ’educazione delle classi dirigenti, riflesso delle contestazioni del movimento riformatore verso il potere della Chiesa. In Lombardia Paolo Frisi, scienziato e riformatore al servizio di Giuseppe II, in un memoriale indirizzato all’impera­ tore suggeriva, a proposito dei «religiosi italiani quasi tutti edu­ cati nelle opinioni della podestà temporale della Chiesa», che «l’occhio del civile governo si dovesse stendere ancora sopra le scuole dirette da essi in Italia», accennando all’opportunità di porre le scuole sotto il controllo del sovrano «perché non si perdesse tanto tempo nella lingua latina e in tante inutili que­ stioni e perché non si trascurasse tanto lo studio della geografia, della meccanica, dei diritti del principe ecc.» {Illuministi Italia­ ni 1958: 328 e L ucchi 1985: 38-39).

8 La proposta dei primi anni Novanta è contenuta nel Prospetto delle Scuole Normali di Sicilia e si cita da Lo P iparo 1984: 320.

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2. Didattica dell’italiano L ’introduzione dell’italiano nella scuola poneva il problema degli strumenti didattici, in primo luogo dei manuali per l’inse­ gnamento elementare della lingua, per il quale non si disponeva di utili modelli di riferimento, mancando un insegnamento isti­ tuzionale riservato al leggere, scrivere e far di conto9. Un M odo d’esercitare li fan ciu lli nella nativa favella italiana, edito a Bolo­ gna nel 1734, ricorreva per gli esempi di conversazione elemen­ tare ai dialoghetti di un manuale italiano-francese (B allerini 1985: 282). Al modello del salterio comincia a sostituirsi quello d ell’abbecedario. Un A bbicidario p er uso dei fan ciu lli e delle fanciulle, pubblicato a Milano nel 1756, non si discosta ancora dal modello tradizionale del salterio, composto di preghiere, salmi e formule da impiegarsi durante la messa, in italiano e in latino, preceduti da un frontespizio contenente l’alfabeto e qual­ che esempio di sillaba (D el N egro 1984: 255). Piu nuovo è VAbecedario per l’infima classe ad uso delle scuole di M odena, di Scipione Piattoli (1776). Si tratta del primo esempio di testo fondato sul metodo sillabico, cioè sull’«arte del sillabare o sia di dividere nelle lor sillabe le parole, avvezzando i fanciulli a veder sempre unite le consonanti con le vocali...» (L ucchi 1985: 63), un metodo che si richiamava espressamente alle esperienze d’in­ segnamento di abbaco delle scuole popolari quattro e cinque­ centesche, ma che ancora subordinava «la materna favella» alla lingua latina, e, dopo una lista interminabile di sillabe, si limita­ va a presentare nella sezione delle letture quattro preghiere in latino e due in italiano (D el N egro 1984: 256-257). Un deciso avanzamento sulla via della totale autonomia del­ l’italiano, è compiuto dall’A bbecedario del padre Francesco Soave (1786), attivo operatore nella riforma delle istituzioni educative in Lombardia. Il manualetto è ormai totalmente laicizzato nel contenuto, avendo perso i residui' ereditati dal salterio e dalla dottrina cristiana, e servendosi per gli esempi soltanto di «mas9 Alcuni collegi prevedevano una infima classe delegata all’insegnamento del leggere e scrivere, ma di regola si presumeva che «li Giovanetti» sapesse­ ro «leggere con buona pronunzia l’Italiano e il Latino» e «scrivere con buon carattere e correttamente con le Regole Grammaticali» già prima di essere ammessi tra le mura scolastiche (Del Negro 1984: 260). I primi rudimenti erano affidati a «maestre» private il cui rapporto con la cultura scritta era esclusivamente passivo (L ucchi 1985: 26, 29-30 e 67-69).

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sime e proverbi morali» e di favolette esopiane (D el N egro 1984: 264). Nelle scuole veneziane fa ancora la sua apparizione, probabilmente ultima, il Fiore à i virtù, un testo di autore setten­ trionale dei primi del Trecento, trasmesso da manoscritti tosca­ ni o toscaneggianti, che fu usato fin dal secondo Cinquecento nelle scuole veneziane come «testo di lingua» (B runi 1986: 152153 e C ortelazzo 1992: 256). Il Com pendio del m etodo delle scuole normali per uso delle scuole della Lom bardia Austriaca del Soave, manuale per l ’inse­ gnante che adattava alla realtà lombarda il sistema delle scuole austriache, insiste che «le prime cose, che hannosi a far leggere da’ fanciulli [...] esser debbono Italiane», raccomanda ai mae­ stri di astenersi dall’usare «in iscuola il dialetto Lombardo» e di usare «sempre l ’italiano finito, o, come dicesi comunemente, il toscano» (S oave 1792: 66). L ’«italiano finito» fa pensare al­ l’analoga espressione «parlar finito» che ricorderà Manzoni come ancora in uso «qualche volta a Milano»: espressione quindi corrente tra Sette e Ottocento, e che, come spiega Manzoni, accentuando però il lato dialettale del fenomeno cui allude l’espressione, «voleva dire adoprar tutti i vocaboli italiani che si sapevano, o quelli che si credevano italiani, e al resto supplire come si poteva, e per lo più, s’intende, con vocaboli milanesi, cercando però di schivar quelli che anche ai milanesi sarebbero parsi troppo milanesi, e gli avrebbero fatti ridere, e dare al tutto le desinenze della lingua italiana» (P oma-S tella 1974: 767). Considerato che per bambini lombardi il ‘toscano’ è una vera e propria lingua straniera, il Com pendio consiglia di partire dal dialetto, «di dir loro quando una, e quando altra proposizio­ ne in dialetto lombardo, e farsela or dall’uno, or dall’altro, or da tutti recare in puro ed esatto Italiano». Ugualmente mette in guardia contro i caratteri della pronunzia lombarda, puntualiz­ zando: «Il c si pronunzi ce, ci, non ze, zi, come fassi in più luoghi; Yu si pronunzii tondo alla maniera de’ Toscani; non acuto come si suol da’ Francesi, e da’ Lombardi, la r sia ben distinta dalla z, e si faccia notare a cagion d’esempio la diversità fra passo, e pazzo-, lesione e lezione» (S oave 1792: 19). Preoccupazioni ana­ loghe in un regolamento piemontese del 1772, destinato all’appena istituito insegnamento dell’italiano nella classe più ele­ mentare, e che invitava ad evitare gli errori tipici dei piemontesi, in particolare «i comuni difetti nel suono delle doppie conso­ nanti, e della doppia z diverso da quello della s», e a distinguere

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tra e e o aperte e chiuse, conformemente al modello toscano (M arazzini 1984: 117).

3. La scuola superiore Minori le novità ai livelli dell’istruzione superiore, più con­ dizionata dal peso di una tradizione che prescriveva l’uso della lingua latina all’interno della scuola, anche nella conversazione (B allerini 1985: 232), e ammetteva in alcuni casi lo studio dell’italiano come materia accessoria. Una rievocazione diverti­ ta dell’apprendimento linguistico nell’iter di studi delle scuole gesuitiche è lasciata da Vittorio Alfieri nella Vita: «studi buffoni di umanità e rettoriche asinine», esercizi in latino «sguaiati e sciocchissimi», che aggravavano l’ignoranza dell’italiano. Si tra­ ducevano le Georgiche in prosa italiana, ma si aveva difficoltà ad «intendere il più facile dei nostri poeti», cioè Ariosto. Nel corso del secolo l’insegnamento della lingua italiana si impone come materia a sé stante. Rivolte specificamente ai gio­ vani e intese allo «studio, e alla lettura della patria lingua» sono le L ezioni di Lingua Toscana di Domenico Maria Manni per il Seminario arcivescovile di Firenze, tenute nel 1736 e pubblicate nell’anno successivo (T rabalza 1908-1963: 379 e V itale 1978: 245). In area emiliana e romagnola, territorio a tale riguardo ben studiato, dalla seconda metà del secolo Capitoli e Regolam enti dei diversi stati raccomandano esplicitamente l’insegnamento della lingua italiana ai diversi livelli di istruzione; più avanzati nel rinnovamento si mostrano però gli stati indipendenti, cioè il Ducato di Parma, già citato, e quello estense, rispetto alle Lega­ zioni dello Stato Pontificio (B allerini 1985: 252-278). Sensibile il progresso dell’italiano in Piemonte grazie a una decisa politica scolastica, che segna una diffusione del toscano a un pubblico più largo di quello della corte a cui finora era stato confinato. Fin dagli inizi del secolo da parte delle istituzioni e del Principe si è venuta favorendo una più larga conoscenza della lingua scritta, con norme, regolamenti e l’allestimento di libri di testo e di strumenti specifici, miranti ad estirpare quella mescolanza di piemontese, italiano e francese che caratterizzava la lingua della comunicazione pratica in Piemonte e che conti­ nuerà a restare prerogativa delle classi più basse, escluse dagli studi superiori (v. Testo 12.1 e M arazzini 1984: 106). Tra i consigli al Principe per i provvedimenti del 1729 riguardanti

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La Raccolta d i prose, e poesie qui annunciata è un’antologia

di Girolamo Tagliazucchi, un modenese discepolo del Muratori e docente nell’ateneo torinese, dove dal 1734 gli è affidata la prima cattedra di «eloquenza italiana»: un fatto di rilievo non solo regionale, data la rarità di esperimenti del genere nel primo Settecento (ivi: 112). L ’antologia del Tagliazucchi, contenente testi ordinati per generi e un’appendice grammaticale ordinata alfabeticamente12, circolò anche in altre regioni dell’Italia set­ tentrionale come libro di testo per l’insegnamento superiore13. Il Tagliazucchi ebbe, secondo Marazzini, un’importanza fondamentale nella diffusione dell’italiano in Piemonte, influendo «sulla formazione dei primi ‘quadri’ capaci di trasmettere la cultura volgare nello stato sabaudo in forma di vera e propria ‘scuola’: tra i suoi allievi ci fu ad esempio il Baretti, che gli riconosce appunto un merito speciale nella diffusione dell’ita­ liano in Piemonte. Un nuovo punto a favore del volgare è segna­ to dalle Costituzioni per la scuola del 1772, che istituivano una classe specificamente destinata all’insegnamento dell’italiano» (ivi: 117). Anche il Trentino si distingue per una adesione piena degli intellettuali alla norma toscana, «forse un segno comune alle culture di confine» (C oletti 1992: 187). Il risveglio culturale porta con sé una promozione dell’italiano - dal 1725 la scuola comincia ad adottare testi in italiano —segnata da un impegno a favore della norma toscana trecentesca dai precoci accenti puristici14. Riguardo ai metodi e agli strumenti didattici si dà più spazio alle traduzioni dal latino e agli esercizi di composizione in lingua italiana. Si pubblicano manuali e antologie di testi come quella del Tagliazucchi appena citata. Un manuale complessivo di lin-

10 II Maffei si richiamava all’esempio delle letture pubbliche di letteratu­ ra istituite da tempo in Toscana, «le quali, però (come egli doveva certamen­ te sapere) non erano state mai delle vere e proprie scuole, ma piuttosto delle conferenze rivolte ad un pubblico più vasto» (Marazzini 1984: 108). Si tratta dell opera di Claude Lancelot, Nouvelle méthode pour apprendre facilement et en peu temps la langue latine (1644), che aveva segnato l’inizio di una nuova pedagogia della lingua, fondata più sulla comprensione delle regole che sulla loro memorizzazione, e per l’appunto sull’abbandono del latino. L a prima traduzione italiana della grammatica del Lancelot è del 1722 a Napoli e portava già alcuni brevissimi «avvertimenti per l’italiano» (L ibrandi 1984: 60-62). Riedizioni successive istituiscono frequenti raffronti tra il lati­ no e la lingua materna, tendendo ad ampliare la parte dedicata all’italiano (Ballerini 1985: 247-248).

12 Probabilmente gli Avvertimenti grammaticali dello Sforza Pallavicino, ridotti ad ordine alfabetico dal Facciolati in appendice alla Ortografia moder­ na italiana (per la quale v. più oltre), con l’aggiunta delle coniugazioni verbali tratte dalla grammatica del Buommattei; tale sezione, apparsa dappri­ ma in calce alla Raccolta del Tagliazucchi, viene pubblicata in volume a sé stante nel 1743 (Ballerini 1985: 254). 13 È l’unico testo di lettura cui fa riferimento la Costituzione per i nuovi Regi Studi di Parma del 1768, sopra menzionata (Ballerini 1985: 253 n.). 14 All’“aureo secolo del Trecento” si richiama uno dei letterati locali più noti, Clementino Vannetti, sostenendo che «tutto il tesoro di nostra lingua trovasi racchiuso in que’ libri», con toni ed argomenti che anticipano il campione del purismo dei primi dell’Ottocento, cioè Antonio Cesari (Coletti 187; sul Cesari v. Serianni 1989b e la bibliografia ivi riportata).

l’Università, va segnalato il Parere di Scipione Maffei, che nel proporre una limitazione degli studi di Retorica, suggeriva l’in­ troduzione di un insegnamento di «lettere toscane», facendosi interprete del disagio di qualche suddito sabaudo, dispiaciuto che si tollerasse l ’uso del francese nell’esercito piemontese: pri­ mo emergere di un problema di identità nazionale legato alla lingua, che prenderà particolari accenti puristici in Piemonte nel corso del Settecento (M arazzini 1984: 108). Il suggerimento del Maffei, forse troppo avanzato10*, non fu raccolto, ma l ’italiano fece ugualmente qualche passo avanti, benché dapprima in funzione subalterna all’insegnamento del latino. Già una conquista era la grammatica latina composta finalmente in italiano, sull’esempio della Francia, il cui manuale di grammatica latina era ormai da decenni scritto in lingua francese11. Qualche anno dopo l’italiano avrà una presenza au­ tonoma nel curriculum degli studi, anche se limitata alle ultime classi del corso (che si chiamavano di «grammatica», «umanità» e «retorica»): una circolare ai prefetti delle scuole provinciali, così disponeva: i maestri di gram m atica, umanità e rettorica debbon d ’or in avanti in ogni sabbato istruire i loro scolari nella buona lingua italiana. I gram m a­ tici [ . . . ] detteranno i p recetti della lingua italiana, ricavandoli dal Nuovo metodo, [ ... ] e per esemplare da leggersi avranno il Galateo del Casa. Gli umanisti insegneranno la miglior purità della lingua italiana e per esem ­ plare da leggersi ed imitarsi faranno leggere la Raccolta delle orazioni, lettere e poesie, che parim enti ora si sta imprimendo in questa capitale

(Marazzini 1984: 111).

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gua italiana è 1O rtografia M oderna Italiana con qualche altra cosa di lingua per uso d e l Seminario d i Padova (1721), di Jacopo Facciolati: rivolta alle «Scuole Italiane», comprendeva un dizio­ nario ortografico di voci accompagnate dalla traduzione latina, e con l ’indicazione di quelle «di minor uso», degli A vvertim enti grammaticali, rielaborazione di quelli dello Sforza Pallavicino (1661). L ’opera si arricchisce a partire da una edizione del 1741 (pubblicata anche a Firenze, e alla stampa fiorentina si rifarà l’edizione di Bassano 1747), di Lettere su «materia di Lingua» di Francesco Redi, di Avvertenze per le Lettere fam igliari, manuale per la redazione di lettere, e di un Vocabolario Domestico, dovu­ te, le due ultime parti, a Giovan Battista Chicherio (M asini 1983: 385-388). Il Vocabolario doveva agevolare il reperimento del «termine proprio» che «nello scrivere, e parlar famigliare più co­ munemente occorre, e che con somma difficoltà si può rinvenire ne’ Vocabolarj anche più copiosi» (v. cap. IX . I ) 15. L ’opera go­ dette di eccezionale fortuna nella pratica educativa fino al primo Ottocento, contribuendo a diffondere in ambienti e regioni diverse alcune norme fonetiche e morfologiche unitarie: consi­ gliata, per esempio, al giovane Vittorio Alfieri dal padre Paciaudi, sopra menzionato come ispiratore delle riforme scolastiche nel ducato di Parma; e utilizzata da Alfonso de Liguori per i Brevi avverti­ menti per la lingua italiana destinati ai ragazzi di Deliceto (Fog­ gia) (M asini 1985: 181-182, L ibrandi 1984: 232 e qui cap. V .l). Si allestiscono nuove grammatiche con taglio più didattico, miranti a una più sistematica esposizione degli argomenti: ci si riallaccia al modello del Buommattei, la prima grammatica metodi­ ca del volgare, e si segue lo schema invalso nella grammatica latina, con attenzione alle regole della sintassi. La più rappre­ sentativa quanto a carattere «metodico», e la più diffusa nel secondo Settecento, e anche nell’Ottocento, è la grammatica di Salvatore Corticelli, R egole ed osservazioni della lingua toscana (1745): una grammatica descrittiva che segue «il metodo, con cui suole insegnarsi nelle scuole la Lingua Latina», «già noto, e famigliare» agli studenti, adottandone i termini grammaticali, lo schema dei casi e la classificazione delle parti del discorso (C orticelli 1745: 4-5); divisa in tre libri, dedicati rispettiva­ mente alla morfologia, alla sintassi, alla pronunzia e alla ortogra­ 15 Le citazioni sono da Ortografia Moderna Italiana, Venezia, Bettinelli, 1742.

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fia, in una analitica sistemazione degli argomenti e minuziosa classificazione della materia. Viene nel frattempo divulgandosi anche in Italia il modello, diffuso dalla Francia, delle grammatiche «generali» o «ragiona­ te», tendenti a conciliare il logicismo della Grammatica di PortRoyal (1660), ispirata al razionalismo cartesiano, cioè al presup­ posto universalistico di princìpi comuni a tutte le lingue, e l ’interpretazione più moderna offerta dal pensiero degli enciclopedisti, più attenta alla diversità e storicità delle lingue. Particolare rilievo acquista, nelle trattazioni grammaticali dei gramm airiens-philosophes Du Marsais e Beauzée16, l’analisi della proposizione mirante a individuare e descrivere le varie relazio­ ni logico-sintattiche sussistenti tra le diverse componenti della frase, secondo un metodo che mette capo all’“analisi logica”. Una grammatica generale dell’italiano che si rifà a questo indi­ rizzo è la Grammatica ragionata della lingua italiana di France­ sco Soave, pubblicata a Parma nel 1771 che incontrerà un note­ vole successo fin oltre la prima metà del secolo successivo. Come dichiara nella premessa, il Soave si rifà per la parte teori­ ca, o meglio «metafisica», «ai Signori Lancelot, e Du Marsais», cioè a un’analisi ancorata a princìpi generali di carattere logico­ grammaticale, ai quali rapportare le particolarità della lingua in esame, e distinguere «ciò che dipende dal solo capriccio dell’uso da ciò che nasce da’ principi fondamentali». Ma le novità dell’impostazione, che troverà una applicazione più sistematica nelle «grammatiche ragionate» della prima metà dell’Ottocento, restano estrinseche alla trattazione empirica della grammatica, per la quale il Soave dichiara esplicitamente di rifarsi «al Buommattei, al Cinonio, al Corticelli, al Soresi e alla lettura diligente de’ migliori Italiani Scrittori»17, e che nella sostanza non si discosta dall’atteggiamento normativo tradizionale. Nuo-

16 Collaboratori dell’Encyclopédie per le voci linguistiche, Du Marsais è autore di una Méthode raisonnée pour apprendre la langue latine (1722) e di Les véritables principes de la grammaire (1729) e Beauzée di una Grammaire générale ou exposition raisonnée des éléments nécessaires du langage pour servir de fondem ent à l’étude de toutes les langues (1767): per un primo approccio sulla linguistica di Port-Royal v. Simone 1990: 331-334, per quella enciclopedista Rosiello 1967 e Simone 1990: 381-383; per l’influsso sull’in­ segnamento della grammatica v. B allerini 1985: 249-250. 17 La citazione si riferisce all’edizione 1792 (Venezia), pp. III-IV. Sulla grammatica del Soave v. B allerini 1985: 250-251 e P oggi Salani 1988: 780.

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vo è invece il fatto di portare esempi appositamente coniati, ignorando citazioni d’autori, riservate semmai a una sezione più specialistica. L ’insegnamento della lingua viene a scontrarsi con la con­ creta realtà dialettale in cui è immersa la stragrande maggioran­ za degli allievi e soprattutto con le abitudini di una scrittura intrisa di tratti locali che si intende ricondurre al modello tosca­ no. Più permissivi si è in Lombardia: 1t Avvertenze per le lettere fam iliari, annesse alla Ortografia M oderna, consigliano di atte­ nersi allo stile del parlato dove il «primo fine... si è di farsi intendere», e di evitare quindi certe voci toscane non in uso nel luogo dove si scrive: N on recatevi in oltre, o L etto re, a veruno scrupolo lo scostarvi tal volta da qualche voce Toscana, per appigliarvi ad alcuna volgare, e natia. A che fine volete voi scartabellare la C rusca scrivendo al vostro F atto re, che non intenderà in eterno fogna, pevera, manfanile, e simili, p er ciò che, i buoni Lom bardi nel bisunto lor Dizionario tu tt’altro esprim ono? (F acciolati 1747: 3 2 7 )18.

Il Tagliazucchi, convinto filotoscano, polemizza invece con la tesi che «basti farsi intendere», attraverso la quale si perpe­ tuavano regionalismi fonetici e grafici: V orrei, che in mano ti dessero o una lettera, o altra scrittura. Quanti errori in primo luogo osserverai tu, non so se ridendo, o piuttosto stom acandoti, d ’ortografia, com e dispresso per disprezzo, doppo per dopo, qualli p er quali, donque, gionto per dunque, giunto, fo rze per fo rs e 19;

e raccomanda agli insegnanti di badare a fare apprendere le corrette forme verbali, evitando amassimo per amammo, dassi e 18 Si tratta di termini avvertiti come toscanismi di Crusca, il primo dei quali è divenuto d’uso comune, gli altri due significano rispettivamente strumento ad imbuto per imbottare il vino (corrispondente alla voce lombar: da Viària nel Voc. Domestico annesso), e bastone del correggiato, l’arnese per battere il grano. 19 Le abitudini grafiche censurate dal Tagliazzucchi, che hanno una tra­ dizione risalente alle origini della scripta padana, sono la spia dei più comuni tratti fonetici e morfologici settentrionali: i raddoppiamenti ipercorrettivi, la tendenza in forme come dispresso a eliminare la componente occlusiva dell’affricata alveolare (/ts/ > A /, o a cadere nell’errore opposto {forze per forse), e l’esito non anafonetico, cioè il mancato passaggio di o > u davanti a n seguita da velare k o g in donque e gionto (prodottosi nel presente giongo).

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stassi per dessi e stessi, si amiamo per ci am iam o20; e di curare la corretta pronunzia delle consonanti doppie e scempie (M arazzini 1984: 114-115). Come osserva Marazzini, importa non solo che le norme che correggono la fonetica regionale si facciano più precise, ma soprattutto che sia la scuola a farsi carico della divulgazione di tali norme. Si è concordi a opporre alle inveterate abitudini regionali l’insegnamento di un italiano il più possibile regolato e di stam­ po strettamente toscano, non solo negli intendimenti del Tagliazucchi, ma nella generalità degli interventi. I vari R egola­ m enti dell’Emilia e Romagna menzionati, pur non accennando alla realtà dialettale, insistono sulla opportunità di fare appren­ dere agli allievi almeno le strutture fondamentali della lingua italiana. A Parma nel 1777 si istituisce la prima cattedra di Lingua Italiana con la motivazione della «noncuranza, in cui si tiene lo studio della propria lingua»: M uovono qualche volta a riso le scritture di uomini o per dignità o per titolo di scienza qualificati, nelle quali le discordanze abbondano, e i solecismi, e tutte le maniere d ’uno scorretto e guasto parlare.

L ’insegnamento è affidato a un toscano, il pistoiese Giovan Battista Tani, per il «vantaggio della pronuncia» nell’insegnare «le regole, le proprietà, le vaghezze del gastigato italiano idio­ ma, indicandone co’ precetti l’esempio negli antichi e moderni Scrittori» (G onzi 1973: 130). Il testo più esplicito è quello emanato dal Ducato estense, l’Istruzione interinale per le Basse scuole del 1774, che, dopo aver affermato che «il corso de’ Bassi Studi» deve cominciare dalla «gramatica della propria lingua nazionale», chiariva: Q uesta per noi si è l’italiana. O ra se non possono lusingarsi di bene apprenderla dalla viva voce e dal solo uso quei popoli che pur meno corrottam ente o con maggior ampiezza, precisione, eleganza ed eufonia la parlano, tanto meno hanno a pretendere di poterla sapere senza m etodica istituzione quegli assai più num erosi, i parlari de’ quali sono barbari, im perfetti, dimezzati, rozzi, ingratissimi ad ascoltarli, a scriversi sempre malagevoli e talvolta ancora impossibili (B allerini 1985: 2 8 3 ).

In genere gli strumenti indicati dai diversi piani di riforma 20 Tratti morfologici di origine dialettale che nella lingua odierna rientra­ no nella categoria dell’italiano «popolare» (v. Testo 12.1).

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sono, per l’insegnamento del leggere e scrivere e dei primi rudi­ menti grammaticali, YAbecedario, un Vocabolario dom estico, rac­ colte di Esempi italiani e latini', inoltre le Coniugazioni di Bene­ detto Buommattei, per lo studio dei verbi, e gli A vvertim enti grammaticali dello Sforza Pallavicino; per le classi più avanzate, oltre all’Ortografia m oderna italiana del Facciolati, le recenti grammatiche del Corticelli e del Soave; tra le letture consigliate, oltre le novelle del Boccaccio, le Lettere di Annibai Caro e il G alateo (B allerini 1985: 261-262): modelli insomma d’osser­ vanza toscana, di prosa e di stile epistolare, utili ad accrescere una competenza di scrittura funzionale a esigenze fortemente avvertite in ampi strati sociali. Si trattava, come osserva Marazzini dal suo osservatorio piemontese, di «far compiere alla classe dirigen­ te un sostanziale avanzamento nell’uso della prosa, intesa non in senso strettamente letterario, ma a partire dall’italiano ‘regiona­ le’ delle scritture d’uso pratico» (M arazzini 1984: 116 n.). Possiamo pensare che l’introduzione dell’insegnamento del­ l ’italiano improntato al modello dei testi letterari e comunque di una tradizione solo scritta, unico modello disponibile, e con metodi e strumenti ancora inadeguati, abbia avuto scarsa inci­ denza soprattutto ai livelli iniziali dell’apprendimento nel pro­ muovere la competenza attiva della lingua nazionale in ampi strati sociali. Va comunque sottolineato che è nell’epoca delle riforme che la scuola si pone, per la prima volta in modo espli­ cito, il compito della diffusione di una lingua italiana comune.

Capitolo secondo Stampa e standardizzazione

1. I giornali La stampa in tutte le sue forme ha un enorme incremento. Non si può pensare alla spinta riformatrice settecentesca e, più specificamente, all’azione dei ‘lumi’, senza i libri e soprattutto senza i giornali. Ma lo sviluppo della produzione a stampa non ha in Italia l’ampiezza e la qualità che assume in altri paesi europei, dove il fenomeno è caratterizzato da una «forte richie­ sta di opere destinate al pubblico medio urbano». La produzio­ ne di massa, se così si può dire, riguarda prevalentemente da noi opere d’intrattenimento, manuali tecnico-pratici e soprattutto periodici (I nfelise 1992: 969). L ’appello del Muratori a una mobilitazione unitaria delle forze culturali trova una prima autorevole risposta nel «Giorna­ le de’ Letterati d’Italia» (1710), esempio di un’attività giornali­ stica destinata a uno sviluppo straordinario nel Settecento. Nato con compiti di aggiornamento erudito di carattere enciclopedi­ co1, il giornale assume in origine il linguaggio della letteratura più aperta al rinnovamento ma attenta alla continuità con la tradizione, secondo l ’ideale di lingua «comune italiana» propu­ gnato dal Muratori. Con l’evolversi e aprirsi a un pubblico più largo e vario, da tenere informato sulle novità scientifiche e tecniche, su fatti di attualità e costume, il «giornale letterario» si avvicina nel corso del secolo al significato moderno, accoglie

1 Sorto in ambiente enciclopedico secentesco come informatore librario delle novità italiane e straniere, il primo esempio di ‘giornale letterario’ italiano è il romano «Giornale de’ Letterati» (1668), modellato sul parigino «Journal des Sgavants» (1665). Sui giornali settecenteschi in generale: Ricu ­ perati 1986 e B erengo 1962; e per gli specifici aspetti linguistici: F olena 1986 e Morgana 1982.

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spesso alla fine anche la «cronaca degli avvenimenti», delegata finora a smilzi fo g li o avvisi o gazzette, che a loro volta si trasfor­ mano in organi di varia cronaca locale2. Sorge il periodico spe­ cializzato, rivolto a ristretti gruppi professionali (ai medici, ai chimici, agli agricoltori, e così via). Si affermano nuovi generi: scritti brevi e puntuali, note, polemiche, informazioni rapide. Nella seconda metà del secolo nascono i giornali di tenden­ za, impegnati in battaglie di idee, e che «nei libri via via annunziati vedono il protrarsi di quei temi e di quelle discussioni cui i loro redattori sono pienamente partecipi» (B erengo 1962: XV I). Nell’impegno illuministico per la diffusione delle «utili cogni­ zioni» e delle nuove idee che rendono «quasi cittadini di tutta Europa» si distingue nella Milano dell’epoca di Maria Teresa «Il Caffè», anche per la consapevolezza dei riflessi che il nuovo impegno comporta sul piano dello strumento linguistico. Pro­ positi e aspetti linguistici del «foglio» guidato dai fratelli Verri e da Cesare Beccaria sono illustrati da Silvia Morgana in un saggio riguardante la stampa periodica milanese della seconda metà del secolo (M organa 1982). Ad essere interessato dai nuovi argomenti è innanzitutto il lessico, che tende ad accoglie­ re la nuova terminologia dei settori in espansione, pratici, tecni­ ci e scientifici, «quei settori da sempre trascurati dalla lingua letteraria e dalla lessicografia»: termini del commercio e della finanza, in parte ancora in formazione (concorrenza, massa circo­ lante, capitali, abbassare il costo d elle m onete forestiere, innalza­ re quello del cam bio, azioni, compratori, venditori di azioni, paga­ re la tangente, ecc.), quelli dell’astronomia (ricerche e calcoli sulla vera orbita eclettica delle com ete, ipotesi parabolica), i nomi legati alle nuove invenzioni e scoperte scientifiche e all’interesse per le loro applicazioni pratiche, dalla fisica alla meteorologia (.densità dell’aria, dilatazione dell’atm osfera, altezza barom etrica), agli esperimenti sulla elettricità, che hanno grande risonanza e 2 L ’evoluzione delle diverse forme di stampa periodica si riflette anche nella terminologia relativa: la denominazione di giornalista è dapprima circoscritta a «compilatore di giornali letterari», e opposta a gazzettiere, gazzettista, gazzettante o fogliettante, compilatore di gazzette o foglietti-, parallelamente alla evoluzione europea (Journaliste “colui che collabora a un giornale” è datato 1704), sul finire del secolo assume il significato moderno, quando «Journal» e «Giornale» cominciano a prendere il posto di «Gazzetta» («Journal de Paris» 1777, «Giornale Veneto» 1780) (F olena 1983: 17-18, D ardi 1992: 315-316).

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dei cui termini la stampa ci fornisce spesso la testimonianza prima (elettricism o, atmosfera elettrica, conduttori, ecc.): insom­ ma le novità lessicali di cui si tratta nel cap. IV.1-2. Vi troviamo anche i nuovi termini della politica, «di provenienza angloame­ ricana, che si diffondono in gran parte con le notizie riguardanti le vicende delle colonie americane» (dalle forme neologiche come pluralità d e’ voti, regolam enti parlam entari, ai termini già esistenti e risemantizzati per calco dall’inglese come congresso, com missione, convenzione) (M organa 1982: 4 3 0 -4 3 7 ). Comunicare con un «pubblico più vasto di quello a cui erano rivolti i tradizionali mezzi di trasmissione del sapere» (ivi), pone in primo piano il problema del rinnovamento della lingua scritta, dibattuto proprio sulle pagine del «Caffè», con prese di posizioni radicali che culminano nella celebre Rinunzia davanti notaro alla Crusca, di cui si tratta nel cap. V II.8. Scoperte e invenzioni commentate e divulgate dai giornali portano anche i non specialisti a contatto con le nuove termino­ logie. La stampa periodica è insomma il veicolo di una informa­ zione vasta e rapida che non ha precedenti e il «riflesso linguisti­ co più evidente è la sincronia, talvolta stupefacente, con cui neologismi e europeismi compaiono nelle varie lingue di cultu­ ra» (D ardi 1992: 8 ), così da poter dire che «la storia della lingua del Settecento è in larga parte e in maniera progressivamente crescente legata al giornalismo» (F olena 1983: 17). Accanto al giornale ‘letterario’ crescono formule più popo­ lari, concepite per un destinatario non dotto e non specialista, come la gazzetta urbana, che trae spunti e notizie dalla vita cittadina. A Venezia la Gazzetta veneta di Gasparo Gozzi, i cui aspetti linguistici sono studiati da Spezzani 1980, e la «Gazzetta urbana veneta» compilata da Antonio Piazza, che denotano il formarsi di quel pubblico ‘medio’ «che amava leggere senza impegno per informarsi e divertirsi»: tendenze illustrate dai periodici destinati al pubblico femminile, i cui esempi classici sono «Il Giornale delle dame» a Firenze, il «Giornale delle nuove mode di Francia e d’Inghilterra» a Milano, e «La Donna galante ed erudita» a Venezia (I nfelise 1992: 967). Alla forma piana e accessibile richiesta dal giornale non si addice il «labirinteo fraseggiare» della prosa tradizionale. E si­ genze di rapidità ed economia, oltre che di più ampia fruibilità, impongono un periodare più agile: frasi brevi, spesso senza espliciti collegamenti grammaticali, secondo lo stile spezzato e

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paratattico di influsso francese. Queste modalità più moderne si fanno strada soprattutto nella descrizione di fatti e avvenimenti della cronaca minuta delle Gazzette, e favoriscono, come osser­ va M organa 1982: 427-429, l’instaurarsi di fenomeni nominali attraverso serie enumerative di soggetti, di sintagmi apposizionali autonomi. Si veda il seguente esempio del «Caffè» portato da Morgana: Il lungo tem po piovoso, e d e’ cattivi giorni maggiore de’ dì sereni; la quantità delle acque che piovono in un anno; le nebbie dense e umide quasi tutto l’anno; i tem porali frequenti nell’estate; l’aria mal sana, e le acque putride di molti villaggi; i venti freddi del m arzo e dell’autunno; il caldo spossatore del luglio; l’aria grossa e colata delle città; i m orbi cronici; le idropisie, i mali di p etto, di tubercoli, di tossi, cattarri e cc., e la lunga processione di malanni [ ...] ti destano forse il m elanconico prurito di cantare con Virgilio [ ...] .

2. I libri. Le traduzioni Il clima di valorizzazione della tradizione dei primi decenni del secolo favorisce la riproposta di autori in volgare. A Napoli per esempio l’adesione al toscanismo arcaizzante promossa da Leonardo Di Capua (v. V II.4) ha un fecondo risvolto editoriale con la pubblicazione, nei primi decenni del secolo, di una serie di opere di autori toscani antichi o di testi del canone cruscante, pertanto D ante, B o ccaccio, Passavanti, Sacchetti, Berni, Firenzuola, Varchi, ecc., e opere linguistico-grammaticali dal Bembo al Salviati al Bartoli (V itale 1986: 184). Altro caso significativo è quello veneto. Prescindendo dalla nota vitalità editoriale veneziana, a Verona si pubblicano oltre a classici greci e latini in lingua originale e in traduzione, opere volgari e in particolare Dante, nell’ambito del preciso interesse dell’ambiente veronese per la figura dantesca. E così a Padova, dove opera l’importante tipografia del Seminario, ma anche la stamperia dei Volpi, che pubblica «una mole imponente di clas­ sici latini e di scrittori italiani», da Dante, Petrarca, Boccaccio a Sannazaro, Caro, Della Casa, Castiglione ecc., gli autori insom­ ma della linea classicistica (V itale 1986: 388-389). Ma in confronto ad altri paesi europei emerge l’arretratezza della produzione editoriale italiana. Ancora Napoli può esem­ plificare il contrasto tra qualità della produzione intellettuale e

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inadeguatezza di quella editoriale: centro tra i più vivaci del­ l’Italia dei ‘lumi’, eppure con una editoria attardata, come si è visto, e carente a causa della scarsissima risposta del pubblico; pochi i lettori acquirenti di opere nuove. Pietro Giannone nella Vita ricorda l’impossibilità di procurarsi i libri necessari per la propria formazione. Un editore contemporaneo, operante nel Regno tra il 1777 e il 1786, costretto a chiudere per fallimento, considera con rammarico la distanza tra il commercio librario napoletano e quello europeo, soprattutto inglese, «dove tutti leggono, fino i contadini e lo spaccio dei libri che vi si fà eccede ogni immaginazione», e lo stesso mercato italiano, constatando che in «nessuna città del Regno potrebbe sussistere un commer­ cio di stampe come lo veggiamo a Livorno, a Vicenza, a Padova e Verona» (Di Rienzo 1988: 113). C ’è una produzione più popolare come quella dei tipografi Remondini di Bassano dedita a libri devozionali, testi per la scuola, opere d’intrattenimento, poemi in ottava rima, romanzi cavallereschi: una produzione per molti versi rimasta ferma nei contenuti, ma che ha cercato di adeguarsi alle capacità di un pubblico che «per quanto alfabetizzato, aveva una dimestichez­ za col libro abbastanza limitata e che, in ogni caso, voleva legge­ re per divertirsi» (I nfelise 1992: 961). Testi quindi manipolati e adattati alle capacità di comprensione culturale e di lettura della fascia più bassa del pubblico, che favorisce certamente la cono­ scenza, magari più passiva che attiva, di «un po’ di lingua» e forse «in una misura maggiore di quanto non siamo abituati ad ammettere» (B runi 1992: X X X I). Si può portare il caso di Alfonso de Liguori, le cui opere, pubblicate dai Remondini, incontrano, tra i testi di letteratura devozionale, straordinaria fortuna di pub­ blico grazie anche a una lingua più vicina al popolo, a parole «più semplici» e «forme più piacevoli», in grado di essere comprese da un pubblico non letterato (v. cap. V .l). Riguardo a qualità e novità di produzione l’Italia appare dunque al traino dei paesi europei e in particolare della Francia. È da qui che provengono le novità dell’Europa dei ‘lumi’, verso le quali si mostrano subito disponibili centri come Lucca e Livorno, dove un’editoria impegnata fornisce quasi subito ri­ stampe dell’Encyclopédie. E anche Venezia aggiorna i propri cataloghi sulla falsariga della attualità culturale europea. Si pub­ blicano a partire dalla metà del secolo grandi opere illustrate, enciclopedie e dizionari, traducendoli dall’inglese e dal france­

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se. Ci si rivolge al pubblico più ampio della letteratura amena sfornando tempestivamente opere francesi in traduzione, oltre che in originale. Fin dalla metà del Seicento una editoria «di poche pretese» aveva cominciato a sfornare romanzi e drammi, commedie, storie, relazioni di viaggio, traducendoli dal francese (D ardi 1992: 7 )3. La pratica tende via via ad estendersi e si sintonizza sull’attualità. Anche i capolavori della letteratura in­ glese arrivano in Italia tramite la Francia4 e sono tradotti da quella lingua. «Non è cosa strana che una donna si metta a scrivere. In questo secolo, che scosse il giogo di certi pregiudizi [...] anche il mio sesso dimesticato s’è colle lettere [...] Non è.più delitto per noi impiegare alcune ore della nostra vita con qualche libro alla mano, o comunicando al pubblico le avventure nostre e i nostri pensieri», proclama la protagonista del romanzo del Piaz­ za Teatro ovvero fa tti di una veneziana che lo fan n o conoscere (1 7 7 7 ), facendo leva sul nuovo spirito di emancipazione della donna nella società settecentesca, su «quella lusinghevole pre­ minenza» di cui esse godono «in tutta l’Europa non barbara», e in particolare in Francia5. Agli inizi del secolo Pier Jacopo Mar­ tello, «sensibilissimo alle suggestioni francesi, diceva di aver avuto in animo, nei suoi dialoghi, “di trattar materie difficili e critiche con eloquenza popolare, e con qualche grazia, che le possa render accette per sino alle Dame”» (D ardi 1992: 15). E l’Algarotti, evidentemente anche per esigenze editoriali, desti­

3 A livello alto invece, fino al Settecento, osserva Folena, «la stragrande maggioranza delle traduzioni era costituita da versioni poetiche o volgarizza­ menti di classici latini e greci, o anche di moderno latino scientifico, ma attraverso il tramite prevalente delle lingue classiche» (F olena 1986: 197). 4 «Le traduzioni settecentesche dall’inglese, come dalla seconda metà del secolo quelle dal tedesco, hanno avuto spesso una funzione sperimentale, di avanguardia e anche di apertura di nuove tradizioni nostrane: basta pensare al Riccio rapito di Pope tradotto dal padovano Antonio Conti, o all’ Ossian del pure padovano Cesarotti, che costituiscono due archetipi di nuove tradi­ zioni di lingua poetica. La novità delle traduzioni dall’inglese risiede nella novità delle tradizioni letterarie che i traduttori affrontano e nella distanza di queste tradizioni da quelle italiane» (F olena 1986: 197). 5 L ’osservazione è di Bettinelli e la si cita da D ardi 1992: 15, il quale riporta a questo proposito le osservazioni del Magalotti sulla autorità neologica e la dittatura del gusto delle dame francesi che «autorizzano, colle parole, e le frasi, le maniere del parlare, e i lezj del profferire, insino a far la fortuna delle Commedie, e de’ componimenti».

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nava p er le dame il suo N ewtonianism o (1737), che sarebbe stato subito famoso per stare su quelle «tavolette dove (le dame) al lume d’un vetro sogliono far la rassegna delle loro bellezze», a detta di uno scienziato contemporaneo (A ltieri B iagi 1984). Con la seconda metà del secolo sulle «tavolette delle signore» si assiepano i romanzi d’intrattenimento, per esempio i romanzi di Pietro Chiari, come racconta Carlo Gozzi nelle sue M em orie inutili, aggiungendo però, a riprova della diffusione del genere, che essi comparivano anche «sopra a’ scrittoi dei signori, sui banchi dei bottegai e degli artisti, tra le mani dei passeggiatori, nelle pubbliche e private scuole, nei collegi e perfino nei monasteri». Con l’allargamento del pubblico cambia anche, come osser­ va Luca Serianni, «lo status socioculturale dello scrittore, che diventa un professionista (o un mestierante) legato alle leggi della produzione: “I librai oggidì non vendono che romanzi, ed io non devo pertanto scrivere che soli romanzi se scrivere voglio de’ libri che siano venduti”, dice un abate del romanzo La Francese in Italia (1758) del Chiari adombrando la personale vicenda dell’autore» (Serianni 1993:533). Nasce insomma quel­ la letteratura di consumo preoccupata più della larga leggibilità dei testi, che della loro letterarietà, e che si attira le critiche non solo dei tradizionalisti. Assecondano questa tendenza i numerosi romanzi di genere avventuroso, di cui il Chiari e il Piazza sono gli autori più prolifici, dove alla fluvialità del narrare corrisponde un uso più corrente, e a volte corrivo, della lingua. Mancando di un model­ lo, di una tradizione nostrana, il nostro romanziere cade spesso o in forme che risentono del sostrato dialettale o in «ingenue esibizioni classicistiche» (Serianni), come ricercate costruzioni della frase, col risultato di quella «scarsa omogeneità stilistica» che gli ha meritato da parte della critica antica e moderna la fama di scrittore sgrammaticato. C’è poi l ’influsso del francese a cui sono particolarmente esposti questi scrittori che si rifanno per le loro storie spesso ai modelli stranieri, se non li traducono direttamente. L ’esercizio delle traduzioni, con l ’assorbimento di francesismi lessicali e sintattici che poi rifluiscono nei prodot­ ti in proprio, «fa dunque sentire il suo effetto contribuendo alla semplificazione dei periodi, alla riduzione degli arcaismi e quindi alla maggiore leggibilità dei testi» (Serianni 1993 e qui Testi 8.3 e 8.4).

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3. La lingua in tipografia Fiorente è il commercio delle ristampe, che promettono «aggiunte», «osservazioni» e «correzioni» anche linguistiche, facendo leva sulla crescente esigenza di una norma corretta sul piano grafofonetico e morfologico. Oscillazioni e incertezze sono presenti anche nelle persone colte, soprattutto nelle scritture familiari e nei manoscritti, più esposti agli influssi dell’uso par­ lato. Per esempio il Muratori, nelle lettere più antiche, della fine del Seicento, presenta oltre a tratti latineggianti (h eb b i, h a bb ia , hauto, havrà, manuscritti, fattioni), ancora normali nell’uso gra­ fico contemporaneo, ma destinati a perdersi nel secolo successi­ vo, anche tratti che riflettono la pronuncia settentrionale (rad­ doppiamenti come doppo, che è anche del toscano antico, riccevuto\ forme come leggigli “leggìi”, cavaglieri, pransaio) (da lettere del 1695 in M uratori 1964). I fenomeni più comuni di resistenza alla norma dell’italiano letterario fino a tutto il Settecento, riguardanti le scritture di tipo pratico o familiare, ma che filtrano anche in quelle più elevate, sono nella fonetica il dittongamento soprattuttto di o tonica, da cui forme come duopo, puoco al Nord, o a Roma il monottongo in luogo del dittongo; la conservazione di ar atono; la mancata anafonesi, per esempio longo sia al Nord che al Centro e al Sud (spulciando nel carteggio dei Verri non è raro incontrare gionto, onto, e in atonia annonciare)6, fenomeno del quale si lamentano gli insegnanti, come abbiamo visto nel capi­ tolo precedente. Nel consonantismo vi è oscillazione nella grafia dei raddoppiamenti. Al Nord gli scempiamenti per influsso del­ la fonetica dialettale trovano a volte il sostegno del modello latino, ci sono poi le reazioni ipercorrettive e conseguenti rad­ doppiamenti arbitrari. A Roma raddoppiamenti di b e g intervocaliche (tipo robba, raggione)·, l’uso della sibilante (il tipo piasa per piazza al Nord, il tipo penziero al Centro e Sud). Nella morfologia il tipo -aro per -aio (a Roma: solare “solaio”, vascellaro “vasaio”; al Nord il tipo prestinaro in una consulta del Beccaria); le desinenze -amo, -emo, -imo a Roma, -assimo per il passato remo­ 6 Più raro il tipo non anafonetico relativo alla vocale anteriore, come conseglio che troviamo in lettere del Vallisnieri riportate in Morgana 1976: 165 (tipo che si estende al derivato conselieri incontrato in scritture pratiche esaminate in 1.1).

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to e -essimo per il condizionale al Nord7. Ma un po’ ovunque ormai l’oscillazione tra la norma centrale dell’italiano e le sue varianti di k o in é è riducibile «tutta dentro la diversa “abilità” linguistica delle fonti e la differente occasione e destinazione di scrittura, ma non certo più a un’alternativa di modelli tra loro concorrenti» (C oletti 1992: 195). Alle oscillazioni dell’uso scritto determinate dai sostrati dialettali occorre aggiungere le varianti endemiche dell’uso let­ terario, rispecchiate nelle oscillazioni del Vocabolario della Cru­ sca, che non forniva un canone univoco, presentando varianti numerose e spesso «senza una netta dichiarazione di preferen­ za», osserva M igliorini 1978: 532, portando esempi dal primo volume della IV impressione: acquidotto e aquidoccio·, apostolo e appostolo-, circonstanza e circostanza, circonstanzia e circostanzia, circunstanza, circunstanzia e circustanza. Un importante ruolo dunque può continuare ad avere la stampa nel favorire una norma tendenzialmente unificata in senso toscano letterario, per quella azione svolta dai tipografi nella progressiva standardizzazione grafica dei testi e nella cura della loro correzione, che è stata messa a fuoco per i secoli precedenti8. Come si sa, la ricerca di più ampie fasce di lettori «obbligò tipografi ed editori ad offrire un prodotto sempre riconoscibile, che non disorientasse, ma nello stesso tempo in grado di adeguarsi con una certa rapidità alle sue capacità lin­ guistiche». Si trattava di «rendere comprensibile un testo ad un pubblico il più possibile ampio, maldisposto verso usi gramma­ ticali, ortografici o sintattici che ne alterassero la fluidità» (Infelise 1992: 961-962): un processo la cui ultima fase, si può dire, si compie adesso, benché continuino a sopravvivere doppioni e allotropi fonetici e morfologici, destinati a scomparire solo nel corso dell’Ottocento e per impulso del modello dei Promessi Sposi del 1840 (cfr. P atota 1987). Per esemplificare prendiamo un testo popolare come i R eali di Francia, che si era continuato a stampare fin dalla prima comparsa del 1491, con progressivi adattamenti dei tratti grafi­ ci, fonetici e morfologici alla norma che mutava. Confrontiamo nelle edizioni curate dai citati Remondini, la ristampa di fine 7 Cfr. per Roma T rifone 1992: 70-71. 8 Come studio specifico, per il primo secolo della stampa, cfr. Trovato 1991; e in generale I nfelise 1992: 957-972.

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’600 con quella del 1767, un’«edizione novissima, da vari errori purgata e diligentemente corretta»9: La notte seguente vide Costantino in visione due vestiti di bianco, & domandarongli se volea guarire, rispose di sì. Li dissero, fà à senno di Siluestro, ilqual predica la F ed e di Christo, ilqual farà vn’acqua, che ti guarirà. C ostantino non cred ette la prima, ne la seconda; la terza dom an­ dò chi essi erano, risposero. Siamo Pietro, e Paolo discepoli di Christo; per questo C ostantino cred ette. La mattina sentì vna voce, laqual disse: Fà quello, che hai vdito, & habbi fede che sarai guarito. C ostantino chiamò vn suo B arone c ’haueua nome Lucio Albonio, & era Capitano di Caualieri, e cornandogli, che andasse al m onte Sirach, e menassegli Silvestro, il qual Predica la vita di Christo. La notte seguente vide Costantino in visione due vestiti di bianco, i quali d o m a n d a to g li se voleva guarire, loro rispose di sì. Questi gli dissero, fà a senno di Silvestro, il quale predica la Fed e di Cristo, il quale farà « n ’acqua, che ti guarirà. Costantino non credette la prim a, nè la seconda; la terza domandò chi essi erano; risposero: Siamo Pietro, e Paolo discepoli di Cristo; p er questo Costantino credette. L a mattina sentì «na voce, la quale disse: F à quello, che hai «d ito, ed abbi fede, che sarai guarito. Costantino chiam ò «n suo Barone che aveva nome Lucio Albonio, ed era Capitano di Cavalieri, e cornandogli, che andasse al monte Sirach, e menassegli Silvestro, il quale predica la vita di Cristo.

Mutamenti più sostanziosi erano già avvenuti nel passaggio dalla versione precedente del 1610 (per esempio in quella edi­ zione compariva dui per due, disseno e risposeno per dissero e risposero), qui si apprezza soprattutto la regolarizzazione grafica con la distinzione di u e v e la divisione delle parole secondo la norma corrente, la sostituzione di et (&) con e, la caduta di h, l’ehminazione delle apocopi, l’adeguamento della desinenza -ea a -eva, di li a gli con grafia toscanizzata10. Infine nella sintassi si razionalizza eliminando una coordinazione di due proposizioni con soggetti diversi, e introducendo una struttura subordinativa di tono scolastico («i quali domandandogli..., loro rispose...»). Un caso che può illuminare sulle precise tendenze tipografi­ che dell’epoca è quello riguardante le opere di Sperone Speroni, che nel 1740 sono pubblicate per la prima volta in edizione completa, «da’ manoscritti originali», a Venezia presso Occhi. I 9 Ci si serve dell’esempio portato da Infelise 1992: 962. 10 Una rassegna delle norme grafiche che si stabilizzano nel corso del secolo è in M igliorini 1978: 534-536.

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curatori Natale Dalle Laste e Marco Forcellini, componenti della puristica Accademia dei Granelleschi, dichiarano nella Prefazione di non aver voluto usar «arbitrio neppur nella orto­ grafia, se non di rado e ove fosse mestieri, e sempre dietro alle leggi degli Accademici della Crusca, siccome in opera di loro giurisdizione». Il fatto è che alla «giurisdizione» della Crusca sono sottoposte anche le lettere familiari dell’autore padovano, dove più spiccato è il colorito dialettale nelle forme e nei voca­ boli. Non si limitano pertanto a normalizzare grafia e fonetica regolarizzando l’uso di doppie e scempie, introducendo il dit­ tongo in forme come om o, boni, pò, nòcere, soi, toi ecc., volgen­ do per esempio dependa in dipenda, asena in asino, ditto in detto, volentiera in volentieri ecc.; sostituendo forme come lui, elio soggetto con esso, ei·, ma vanno anche oltre quando portano bianchezato a biancheggiato, zenaro a gennaro, baso a bacio, m oneghe a m onache, piegore a pecore, lovo a lupo, mogliera a moglie, ridesto a riso-, fino a vere e proprie traduzioni di vocaboli come disnare > pranzo, àm eda > zia, nezza > nipote, renga > aringa, musegar > borbottar e così via, in una operazione in cui si perde totalmente l’idiomaticità dell’originale ( L o i - P o z z i 1986: 400-403). L ’ampia libertà di revisione che si riservava dunque lo stampatore trovava anche l’acquiescenza dell’autore, specie se di origine non toscana. Per esempio gli illuministi milanesi, che si professavano indifferenti alle cure ‘grammaticali’, tacciate di «pedantismo» degno della «implacabile autorità de’ parolai», riconoscevano volentieri allo stampatore la facoltà di interveni­ re nelle loro opere e regolarizzare usi grafofonetici e morfologici molto disomogenei e divisi tra cultismi e regionalismi. L ’opera di Cesare Beccaria D ei delitti e delle pene nel passaggio alla stampa definitiva presso l’editore Aubert di Livorno (1766) subisce un toscaneggiamento in senso letterario, giustificato anche dalla dovizia di varianti delle versioni manoscritte. L ’opera ave­ va già avuto una prima revisione da parte di Pietro Verri, che era intervenuto su alcuni tratti regionali, regolarizzando l’uso del raddoppiamento consonantico, correggendo gionti in giunti e avressimo in avremmo, sopprimendo un dessa - ma gli sfugge un confermarete, che penserà la stampa a correggere - , e cercando di realizzare più chiaramente quella medietà letteraria cui ten­ deva la lingua di Beccaria. La stampa introduce qualche elemen­ to conservativo in più (per esempio scuopresi, scuoprirassi, men­

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tre il manoscritto presenta monottongo), volge toscanamente li a gli per pronome atono oggetto («li mette» > «gli mette»). Beccaria oscilla tra vorrebbono e vorrebbero e le stampe norma­ lizzano sul tipo -ono di più stretta osservanza toscanista; e tra veggo e vedo optano per il tipo veggio, veggiamo ecc., che è la forma indicata dalle grammatiche (C artago 1990: 152)11. Il manoscritto ha secreto, forma lasciata passare anche dal Verri, e nella cui scelta avrà contato anche il convergente influsso del francese e del latino; le stampe comunque lo convertono in segreto, forma più usata nella prosa e presentata come primaria dai vocabolari. Una contemporanea edizione pirata dei Delitti, che si annunciava come «seconda rivista e corretta», ed era opera di un tipografo fiorentino, mostra una pesante revisione grafica e morfologica, e anche lessicale. Per esempio è espunto il francesismo regrettarono, sostituito da compiansero, con di­ sappunto del Verri il quale inveisce contro «quel purista di lingua», che «per paura del nuovo verbo regrettare ha voluto sostituirvi com piangere», rifiutando «una idea, perché non v’è nella nostra lingua un vocabolo che vi corrisponde, invece di dare la cittadinanza a un francese che rende l ’idea perfettamen­ te» (lettera del 23-12-1764: B eccaria 1984: 398-400): una rea­ zione coerente con le posizioni linguistiche di uno scrittore del «Caffè», preoccupato più delle idee e delle cose che delle parole. Per portare un altro esempio, un ruolo determinante gioca la stampa nell’iter della riforma teatrale goldoniana. Nel passaggio alle stampe è normale che l’autore rimaneggi i testi, ma nel caso del Goldoni l ’operazione è condotta ben più a fondo, mirando «a conferir loro, nella forma stabile del libro, una fisionomia culta, affrancandoli il più possibile dalle contingenze e dai condizionamenti materiali dello spettacolo». Lo scrupolo è tan­ to più rilevante perché applicato a un genere ‘minore’ come la commedia, assunta nell’olimpo letterario e «nell’universo alto dei libri» (P ieri 1991: X X V e X L V III). La progressiva limatura delle diverse stampe vede anche un progressivo toscaneggiamento della lingua, benché nella seconda edizione, fiorentina, molti toscanismi siano da attribuire a interventi del tipografo (v. V.3).

11 Revisione in senso toscano letterario subisce pure la raccolta del «Caf­ fè» nell’edizione veneziana del 1766.

Capitolo terzo Francese e francesismi

1. La ‘gallomania’ L ’egemonia che la Francia ha iniziato a esercitare su tutta Europa a partire dalla seconda metà del sec. X V II, trova da noi un terreno particolarmente permeabile per la mancanza di una salda compagine e coscienza nazionale e per il frazionamento politico-culturale, come spiega Andrea Dardi, illustrando nelle sue implicazioni culturali oltre che nei riflessi linguistici la pri­ ma fase di questo influsso, in cui germinano quasi tutti gli atteggiamenti mentali che sfoceranno nella Rivoluzione francese (D ardi 1992). È il periodo tra il 1650 e il 1715, dominato dal lungo regno di Luigi X IV : la potenza politica della Francia, lo «spirito di unità e di centralizzazione, l’eccezionale fioritura letteraria e scientifica favorita da un mecenatismo ufficiale at­ tentissimo alle esigenze di propaganda e d’hmmagine’ del pote­ re assoluto, il circolare rapido della cultura nel corpo del Paese: tutto doveva colpire l’immaginazione di un’Italia parcellizzata in stati e staterelli debolmente comunicanti, in cui i letterati, privi d’incentivi, erano costretti negli spazi angusti concessi dall’opprimente potere politico ed ecclesiastico» (ivi: 14-15). La particolare debolezza dell’italiano, sezionato in molteplici regi­ stri e frazionato in diversi usi regionali lo esponeva dunque a una penetrazione del francese destinata a diventare, nelle nuove condizioni politiche, sempre più massiccia e capillare. Essa si catalizza in alcuni centri1. Si può richiamare il caso

1 Un quadro dei rapporti con la Francia e la relativa bibliografia è in D ardi 1984 e 1992: 18-35, alle quali opere si rinvia per una discussione esaustiva sull’influsso francese, sull’estensione, le forme e la varia fenomenologia connessa.

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del Piemonte, terra di frontiera da sempre esposta al bilinguismo, e che tra Sei e Settecento vede aumentare l ’influsso del francese negli usi pratici e familiari, ciò che genererà, come si avrà occa­ sione di dire, un conflitto e un precoce moto di rifiuto; Venezia, grande centro editoriale e di smistamento librario, che diventa una fucina di traduzioni di opere francesi; Bologna, in cui si recepiscono per tempo i lavori di volgarizzazione scientifica del Fontenelle, si mette in scena il teatro comico e tragico francese, e si replica alle critiche del Bouhours sulla poesia italiana attra­ verso l’intervento dell’Orsi del 1703 (v. cap. V IL I); Roma, cen­ tro artistico internazionale, nel quale i francesismi arrivano pri­ ma che in altre città d’Italia, e dove già nel Seicento si trovano grammatiche francesi per italiani; Milano, che assurge nella se­ conda metà del secolo a centro propulsore della cultura illuministica, e in cui il francese diventa normale lingua della comunicazione colta; Parma, con la sua corte francese e sede nella seconda metà del secolo di una vera e propria colonia francese (P etrolini 1992: 351-352). Una menzione a parte per la Toscana, che intrattiene da sempre con la Francia rapporti a tutti i livelli, diplomatici, cul­ turali e commerciali, e da cui muove l’importante lavoro di D ardi 1992. Centrata su Lorenzo Magalotti, figura emblematica del cosmopolitismo del secondo Seicento, l’indagine di Dardi si estende a tutti i testi in grado di dare «un quadro il più fedele possibile della lingua dell’uso, di un uso non specificamente letterario», fornendo dati che integrano lo schema di periodizzazione proposto da Folena (v. cap. I) e retrodatano largamente quell’influsso del francese soprattutto nei settori della vita e del costume quotidiani, nella moda e nei linguaggi speciali. «Si copiarono l’abbigliamento civile e militare, le abitudini gastro­ nomiche, i passatempi, i caratteri della comunicazione epistolare, le legature dei libri, la struttura e l ’arredamento delle abitazioni, lo stile dei giardini, i mezzi di trasporto» (D ardi 1992: 40). Veicolo furono i viaggiatori, numerosi in un secolo di grande mobilità delle persone e in cui il francese è la lingua «itineraria» per eccellenza, e le diverse figure professionali, dai cuochi ai parrucchieri, ai maestri di danza, e di lingua, alle compagnie teatrali. Agli inizi del secolo un letterato di tendenze classiciste e conservatrici, Giusto Fontanini, imputava alla moda· di leggere libri francesi la corruzione della lingua, individuando con preci­

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sione i due settori in cui si esplica l’influenza del francese, cioè il lessico e la sintassi, e gli ambiti più ricettivi, i «discorsi» e le «lettere»: impiegano tutto il loro tem po in leggere i libri di simil fatta, che scritti nella lingua franzese ci vengono portati in Italia; i quali non prima giunti, fanno a gara di chi può leggerli prima; e [... ] non pur le frasi, ma anco le voci per tal uso raccolgono, talché poi ne’ discorsi e nelle lettere famigliari si m ostrano schifi di dire racconto e relazione, credendo che con più tersa eleganza debba dirsi dettaglio-, e anziché spartimento e divisione sogliono dire partaggio. Nella medesima guisa non dicono già io ho letto ora, ma io vegno di leggere, ed altresì: il tale è troppo saggio e prudente p er approvar la tal cosa, invece di dire: egli è tanto saggio e prudente che non è capace d i approvar la tal cosa (citato da F olena 1983: 9).

C’è chi prende atto del fenomeno e propone l’inserimento nella lingua dei francesismi «necessari», cioè quei tecnicismi indispensabili alla denominazione di precise realtà veicolate dal francese. Il toscano Gerolamo Gigli riconosce che i francesismi «si praticano francamente», nonostante la Crusca non li ammet­ ta, e nelle R egole per la Toscana fav ella (1734), facendo proprie posizioni già avanzate nel secolo precedente dallo Sforza Pallavicino, difende il ricorso ai termini stranieri specificando da dove «conviene» mutuarli: Prim a dalle scienze perché avendo queste i nomi particolari defini­ tivi delle cose, non si può quegli m utare senza fare un giro di molte parole nostre toscane per esprimere quel tale termine scientifico [ ...] Secondariamente convien ricevere molti term ini dalle arti per qualche nuovo strum ento, o foggia introdotta, che anticam ente non avevasi; così Parrucca, Calesse, ecc. (A ltieri B iagi 1980: 125).

E a Venezia il Bergantini, con spirito liberamente cosmopo­ litico, propone di rimediare alla mancanza di unità terminologica accogliendo i «termini forestieri», in particolare francesi, per quei settori come «l’esercizio della danza», «la Cucina», «le mode del vestire», dove erano già ben inseriti e «nel Volgar famigliare pronunziati in desinenza italiana» (M organa 1985: 159) e ne dà ampia documentazione nel suo inedito Dizionario universale italiano (v. cap. IX . 1). Ad attirare non sono solo le forme esterne della civiltà francese, i simboli ammirati dal Martello (v. Testo 5.1), le mode (e «m oda è appunto, quasi simbolicamente, un francesismo che entra in

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italiano proprio alla metà del secolo» precedente), ma anche gli stili della vita associata che si esprimono «nell’affabilità e nella piacevolezza del porgere, nell’aprirsi al commerce du m onde e a\Yesprit de société», due espressioni della «socialità settecente­ sca», che passano in italiano allo scorcio del Seicento e si diffondo­ no nel corso del secolo successivo (D ardi 1992: 15, 342-343). Si ammira la letteratura del grand siècle, innanzitutto il tea­ tro, quello tragico (Racine, Corneille), che comincia ad essere tradotto e adattato al pubblico italiano, e in seguito quello comico, innanzitutto Molière, la cui prima traduzione {La scuola delle m ogli, 1680) è fatta a Bologna. I libri francesi sono parte essenziale del nuovo galateo letterario, e sempre più si diffonde la moda dei romanzi francesi, che trovano traduttori e imitatori. Inoltrandoci nel secolo il francese si impone sempre più con la forza di una cultura all’avanguardia nel dibattito delle idee, nella guerra ai pregiudizi e nel rinnovamento delle scienze. La poderosa Encyclopédie, cominciata ad uscire a Parigi nel 1754, conosce subito in Italia, nonostante il notevole costo dell’impre­ sa, due ristampe in lingua originale, a Lucca (1758-1771) e a Livorno (1770-1779), incontrando una grande fortuna di vendi­ te, segno di una diffusa conoscenza diretta della lingua. I filo s o fi sono imbevuti di cultura francese. Il francese è la normale lingua della diplomazia e occupa ormai il posto del latino nella comu­ nicazione intellettuale e scientifica. D ’Alembert a metà del seco­ lo nell’osservare l’imporsi dell’uso di scrivere tutto «en langue vulgaire», annotava: «Notre Langue s’étant répandue par toute l’Europe, nous avons cru qu’il étoit temps de la substituer à la Langue Latine» (D ardi 1984: 348). Algarotti rilevava il clamore che levavano «anche tra noi i libri francesi. Ad essi si ha ricorso per ogni materia di studio; essi soli si leggono, ad essi si dà fede». E Pietro Verri guardava ai libri francesi come all’unico «mezzo col quale poter avere comunicazione colle idee d’Euro­ pa» (lettera del 30 maggio 1770, cit. da D ardi 1984: 351). La conoscenza del francese è dunque, nella seconda metà del seco­ lo, indispensabile bagaglio delle persone colte, strumento per tenersi aggiornati sulle novità politiche, letterarie e scientifiche, e anche per accedere a opere importanti scritte in lingue meno note, come il tedesco e l’inglese. Il francese entra nella conversazione mondana nei grandi centri del Nord Italia. A Venezia è fenomeno di costume, segno di distinzione della classe elevata, lo si usa insieme all’italiano,

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come testimonia un romanziere contemporaneo che si diverte a ritrarre il fenomeno: La nostra lingua com parire non osa nella sua purità naturale, nelle m oderne conversazioni, e in b occa d ’una dama non è mai bella se non si mescola colla francese. E vero che basta saper quattro parole, per com ­ parire una donna di spirito, e cacciarle per tutto ci vadano, o non ci vadano: «O ui M on sieu r... Adieu mon cher A m i... Com m ent vous portez v o u s?... E xcu sez-m o i... Q u ’avons nous de nouveau? Quelle heure estil? ... P oint du to u t... Ma fo i... Cela est v ra i... Avec votre permission V otre servan te... Vous vous moquez de m o i... Mon aimable en fan t... Moitié de moi m e m e...». E cco il dizionario francese delle femmine nobili che può servir a te pure, p er salutare, per congedarti, per in terro­ gare, p er affermare, per far all’am ore e per infranciosare ogni periodo italiano2.

Si vedano per Milano le considerazioni di M organa 1992: 116-118, sull’uso del francese nella «buona conversazione in società ma talora anche in famiglia, come appunto in casa Verri, dove si parlava francese anche a tavola». La familiarità col francese è tale che molti lo usano per la corrispondenza, nella stesura di diari, come l’Alfieri e il Gallarli, o Casanova per citare il nome più celebre. Già dalla fine del Seicento i collegi di educazione istituiscono corsi di lingua fran­ cese. Aumenta il numero delle grammatiche francesi ad uso degli italiani e dei vocabolari bilingui. Usatissima quella di Ludovico Goudar, Nuova grammatica italiana e francese, che conosce una trentina di stampe negli ultimi decenni del secolo3. Contemporaneamente cresce la pratica delle traduzioni di opere scientifiche: Spallanzani traduce il naturalista svizzero 1 La pagina, in cui parla un personaggio che fornisce ammaestramenti sul come imitare i nobili, è dal romanzo del Piazza I Zingani (1769), cit. da A uzzas 1984: 587. 3 Essa comprendeva oltre a un’analisi delle parti del discorso e a un dizionario metodico, una serie di modelli epistolari e di conversazione, con traduzione a fronte, che variavano a seconda del pubblico cui era destinata l’edizione. La traduzione, per lo più in un italiano convenzionale, la «lingua spropositata, tutta intessuta di complimenti e cerimonie», che si ritrova nelle grammatiche italiane per francesi (F olena 1983: 407 e D ardi 1984: 359), doveva fare i conti con i problemi di comprensione dello stesso testo italiano. Per esempio nell’edizione milanese molte parole italiane erano «annotate a piè di pagina con sinonimi spesso marcatamente dialettali, come gratirola per grattugia, pristinaio p er fornaio, moietta per arrotino, cervellate per pizzica­ gnolo (fr. charcutier)...» (Marazzini 1989: 108).

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Charles Bonnet, Dandolo trasferisce in italiano il nuovo lin­ guaggio della chimica, riformato da Lavoisier (v. IV. 1); si tradu­ cono vocabolari di arti e mestieri (v. IX .2). Della letteratura, romanzi, teatro, si traducono non solo le opere del grand siècle, ma anche le contemporanee. Insomma si traduce di tutto, anche giornali letterari e periodici, con grande libertà di adattamento al gusto della nazione e al suo ‘genio’ linguistico. L ’importante era «piacere al pubblico, un pubblico sempre più vasto e composito, nel cui ambito le donne - vere divoratrici di opere teatrali e romanzesche - assumeranno un ruolo e un’importanza sempre maggiori, contribuendo in maniera decisiva a decretare il successo della moda francese in Italia» (S antangelo -V inti 1981: 168). Tutto ciò andava evidentemente a scapito della bontà delle traduzioni. «Gli stessi editori, resisi conto delle enormi possibilità di guadagno che la nuova moda permetteva, ben poco si curavano della purezza della lingua e della fedeltà al testo originale» (ivi: 169). A tradurre non sono più pochi iniziati nella letteratura francese4, ma uomini delle più svariate condi­ zioni; ai letterati di chiara fama (Gasparo Gozzi trasforma la sua casa in una ‘officina’ di traduzioni) si affiancano scribacchini e avventurieri della penna (ivi: 170 e v. qui Testo 8.1). L ’esempio della Francia stimola una riflessione sul legame tra condizioni linguistiche e situazione politica, ricca di conse­ guenze per il futuro. Francesco Algarotti imputa alla «picciolezza e divisione degli stati» la decadenza letteraria italiana e oppone l’opportunità di una capitale o di una corte «dove i comodi della vita, i piaceri, la fortuna vi chiamino da ogni provincia il fiore di una gran nazione», additando i «grandissimi vantaggi» dei Fran­ cesi dall’«essere una nazione grande ed unita», dove il sapere «circola senza interruzione d’una in altra provincia, ogni cosa fa capo a Parigi, e quivi s’affina»: «ci sarà allora un’arte della conversazione, si scriveranno lettere con disinvoltura e con gra­ zia, la lingua diverrà ricca senza eterogeneità, e pura senza affettazione» (in una lettera a Voltaire del 1746, si cita da V itale 1978: 262). Alla forza espansiva del francese contribuisce anche l’imma­ gine di lingua compatta e unitaria, adatta alla conversazione e alla prosa, una lingua di cui spiccava

4 Sull’attività traduttoria a cavallo dei due secoli v. D ardi 1992: 23-26.

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la sincronia, la tendenziale unità nei registri prosastico e poetico, l’asset­ to ordinato e razionale, conferitogli dalla «syntaxe segmentée» e dalla «séquence progressive»; nel vaglio dell’uso cortigiano e mondano la lingua francese aveva inoltre acquistato doti di eleganza, comunicatività e conversevolezza che poterono apparire quasi sue qualità intrinseche, indipendenti da chi se ne servisse (D ardi 1992: 36).

Al confronto risalta la conservatività dell’italiano, povero di terminologia settoriale, e intralciato da una sintassi dal periodare complesso e ricco di inversioni. La ‘modernità’ del francese era la conseguenza di una riforma, operata nel corso del Seicento sotto le direttive di un organo centrale, VAcadémie franqaise, voluto dalla stessa corte5, e preposto a regolamentare e unificare l’uso secondo criteri di chiarezza e linearità. Si abbandonano forme arcaiche o dialettali, e nella sintassi si impone l’ordine SoggettoVerbo-Complemento, quell’ordine diretto che sarà vantato come più razionale nelle polemiche linguistiche che seguiranno (v. cap. V IL I). Come scrive Algarotti nel tratteggiare la storia della lingua francese e la funzione in essa avuta daiY Académ ie: ella si mise a purgarla di moltissime voci e maniere di dire, o come troppo ardite, o come rancide, o com e malgraziose o di tristo suono. Di moltissimi diminutivi e superlativi la spogliò, di parecchi addiettivi che esprimevano le qualità delle cose, di alcuni relativi che non poco faceva­ no alla chiarezza. La volle meno contorta, nella locuzione più piana ed agevole che non era dianzi, di un andamento sempre eguale, talmente che nel periodo la collocazione delle varie particelle della orazione fosse sempre la istessa, e la venne assoggettando alle regole più severe ed inesorabili della sintassi; e fu chi disse che l’A ccadem ia dando a’ F ran ce­ si la gram m atica, avea loro levato la poesia e la rettorica (Saggio sopra la lingua francese, 1750, in A lgarotti 1963: 2 5 1 ).

Si tocca qui il tema della querelle italo-francese sul primato linguistico, che impegna i letterati italiani ai primi del Settecen­ to e si protrae per tutto il corso del secolo (v. cap. V IL I). L ’ordine diretto nasconde il pericolo dell’impoverimento espres­ sivo della lingua, irrigidita in una struttura sintattica dove il nominativo deve sempre aprire «la marcia del periodo tenendo il suo addiettivo per mano; sèguita il verbo col fido suo avver­ bio, e la marcia è sempre chiusa dall’accusativo, che per cosa del 5 L ’Académie fu fondata da Richelieu nel 1634 allo scopo di dare direttive unitarie all’attività letteraria e normalizzare l’uso della lingua.

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mondo non cederebbe il suo posto», come osservava ΓAlgarotti, ripetendo un giudizio di Fénelon ( A l g a r o t t i 1750: 2 5 3 ). Il tema interesserà pure la diversa disponibilità delle due lingue al canto e alla musica per cui un Rousseau o un Diderot preferiranno le inversioni dell’italiano alì’ordre didactique del francese e Diderot avvertirà la propria lingua «raide, sourde, lourde, pésante, pédantesque et monotone» (F olena 1983: 2 2 7 ). Il confronto tra l’Accademia francese e quella della Crusca porta l’Algarotti a considerare la diversità di percorso dell’ita­ liano rispetto al francese: «la nostra venne in tempo che per il corso di due secoli e più era stata da’ più rinomati scrittori stabilita e regolata la lingua», e pertanto «non altro ebbe a fare, che da tutti gli autori che per così lungo tempo e trattando così diverse materie, formata aveano, accresciuta e nobilitata la lin­ gua italiana, raccoglier voci e modi di dire, e nel suo Vocabola­ rio mettere ogni cosa a registro». L ’Accademia francese invece, sorta «in tempo che di buoni autori scarseggiava pur troppo la Francia... non potè, come fece la nostra della Crusca, cogliere il più bel fiore degli scrittori che non aveano fiorito per ancora; ma pensò di mondare, purificare e venir formando la lingua a benefizio degli scrittori che doveano venire dipoi» ( A l g a r o t t i 1 9 6 3 :2 4 9 -2 5 1 ).

Insomma l’esempio della Francia «insegna a riconoscere vera rivoluzione copernicana - il fondamento della prosperità e della salute di una lingua non più nella sola copia e eccellenza degli scrittori, ma nella vitalità politica, culturale, sociale della nazione che in essa si esprime» ( D a r d i 1992: 11). Un riconosci­ mento di grande novità e portata per l’affermarsi di una consi­ derazione sociologica della lingua, che ha qui le sue premesse e che arricchita di risonanze nazionali troverà matura conclusione nella riflessione manzoniana. Di qui quella immagine dell’italia­ no come lingua «morta» —già per Magalotti «il toscano è più tosto una lingua m orta...», e per Algarotti «notre langue n’est, pour ainsi dire, ni vivante ni morte» - che resterà topica fino a Manzoni.

2. I francesismi A documentare il francesimo si prestano le scritture di carat­ tere familiare, dai carteggi ai diari, alle relazioni di viaggio. Una

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preziosa fonte dei francesismi relativi al vestiario è quella del giornale veneziano «La Donna galante ed erudita», pubblicato a Venezia tra il 1786 e il 1788 (v. Testo 8 .2 ). C ’ è poi il teatro comico, canale di trasmissione orale, e quindi di forme adattate e ricche di varianti (per esempio: tuppè/toppé/topé, ecc). E anzi una testimonianza utile quella del teatro: nel Raguet, una com­ media di Scipione Maffei che mette in satira la moda francesiz­ zante, troviamo un concentrato di francesismi lessicali, semantici e fraseologici. Un campione è riportato da M i g l i o r i n i 1 9 7 8 :5 2 7 (cfr. anche C i g n a 1957). Una fonte studiata è la commedia toscana della prima metà del secolo ( A l t i e r i B i a g i 1980). Può risultare utile un confronto con il teatro goldoniano per cogliere diversità di acclimatamento e di coscienza linguistica dei diversi centri della penisola. Nella commedia toscana si può trovare per esempio tualette e varianti in bocca a personaggi alla moda o del livello borghese, altrimenti compare specchio, tavolino, tavolo. I francesismi settoriali, della moda, della cucina, del costume (fisciù , manto, entrem è, ecc.) nella commedia toscana risultano più esibiti, dotati di maggior valore ‘espressivo’, asserviti allo specifico gusto della tradizione comica toscana per la caricatura linguistica («Siete tutti plongiati nella derniera ignoranza», «Se non mi trompo», dangerosi, coeffura, sottisa, e così via): un uso abnorme del francesismo, privo di valore documentario, ma che può fare intravedere l’esistenza di un pubblico che intende del francese almeno quel tanto che serve per ridere della mescolan­ za linguistica e apprezzare gli equivoci semantici6. Nel Goldoni i francesismi ‘tecnici’ risultano perfettamente inseriti nell’uso comune, parimenti nelle commedie in lingua e in quelle in vene­ ziano, partecipano della realtà linguistica da osservare fuori di caricatura. Si osservi nel seguente esempio, la didascalia iniziale del Ventaglio, la naturalezza con cui il francesismo si inserisce nel contesto:

6 C o m e o s s e r v a A ltieri B iagi 1 9 8 0 a g g iu n g e n d o c h e n e l c a s o di q u e s ti fr a n c e s is m i ir o n iz z a ti e c h e p o i a v r a n n o « u n a s to r ia “ s e r i a ” (s p e s s o c o n c lu s a d a u n v it t o r i o s o in s e r im e n to n e lla lin g u a ) la d o c u m e n t a z io n e “ i r o n i c a ” d el t e a t r o t o s c a n o d iv e n ta i m p o r ta n te p e r c h é illu m in a , n e lla s t o r i a d e lla p a r o la , u n a fa s e a g o n is tic a d e l s u o in s e r im e n to , q u a n d o e s s a o p e r c h é o s t a c o la t a d a f a t t o r i a m b ie n ta li (m in o r e p e r m e a b ilità d e ll’a m b ie n te t o s c a n o , p iù d i r e t t a s o r v e g lia n z a e s e r c it a t a d a lla C r u s c a , e c c .) è s e n tita a n c o r a c o m e e s t r a n e a e q u in d i s o g g e tta a lla s a n z io n e lin g u is tic a » .

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Disposizione e colpo d ’occhio di questa prima scena. - G eltruda e Candia a seder sulla terrazza. L a prima facendo de’ gruppetti, la seconda deH’entoilage. Evariso ed il Barone vestiti propriam ente da cacciatori, sedendo su seggioloni [ ...] Il C o n ted a campagna con rodengotto7.

Il grado di inserimento e normalizzazione nell’uso comune è tale che anche un purista come Carlo Gozzi adopera nelle M emorie inutili e negli scritti di carattere personale un gran numero di francesismi, per esempio capidopera, cochetteria, cochettina, partaggio,parterre, tavoletta, tuppè, ecc. (AltieriB iagi 1980:123). Ci sono poi i francesismi generici, calchi che si mimetizzano nella lingua comune, per esempio, restando alla documentazio­ ne teatrale, il lessico galante, del tipo adorare, adorabile, rapito, incantare, oppure felicitare, furioso, furiosam ente iperbolico, rango “livello sociale”; o locuzioni come fa r e il diavolo a quattro, fa re gli occhi dolci, aver l’onore (A ltieri B iagi 1980: 144-159), o il colpo d’occhio del passo goldoniano appena citato. E, importan­ tissime, le parole del vocabolario intellettuale europeo. Più che una rassegna di francesismi8, conviene forse in questa sede dare una campionatura secondo i diversi aspetti linguistici interessati dal fenomeno. Sul piano del lessico distinguiamo il prestito integrale di parole, dal calco, cioè l’adozione di significati nuovi annessi a parole già esistenti o di modelli formativi. Il prestito, general­ mente legato alle cose, riguarda il settore della vita pratica, e comporta una trasmissione delle parole spesso di tipo orale, con diverso grado di adattamento alla lingua ricevente: dal crudo forestierismo, legato però a un tramite scritto, a forme che tendono ad assimilarsi in modi diversi dipendenti dall’affinità delle due lingue. Per esempio da bas roulés “calze arrotolate” (Magalotti) a barulè, barolè (toscano, veneziano e di altri dialet­ ti: D ardi 1992: 126; Z olli 1971: 28); da rendez-vous “appunta­ m ento” (Magalotti) al rendevos, rendevosse, registrato dal D ’Alberti come «voce francese, e dell’uso»; da toilette e tualette, con grafia che ricalca la pronuncia originale, a tavoletta9, attra­ 7 Entoilage

“g u a r n iz io n e d i t r i n e ” ,

rodengotto

t o d a ll’in g le s e riding coat. 8 P e r la q u a le v. Migliorini 1 9 6 3 : 5 7 4 - 5 8 0 ,

“ s o p r a b i t o " , f r a n e , d e r iv a ­

Mura P orcu

1 9 9 0 : 1 3 4 -1 5 7 ,

e p a r t ic o l a r m e n t e D ardi 1 9 9 2 . 9 Tualette è r e g i s t r a t o d a l Dizionario universale d e ll ’A lb e r ti ( p e r il q u a le v . c a p . I X . 3 e Mura P orcu 1 9 9 0 : 1 3 9 ) ; tavoletta, d i a m b ito v e n e t o , si s p ie g a

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verso la gamma dei diversi adattamenti toeletta, toaleta, toletta, teletta (A ltieri B iagi 1963; Z olli 1971: 25). E così andrienne, andrien, andrié “tipo di veste”; amoerre, amuerre, moerre, muerre, moare “stoffa di seta marezzata”10. Molti dunque i prestiti adat­ tati ma ancora molto vicini al modello originale: tupé, tuppè, toppé < toupet, bigiù < bijou (in toscano e, tra le varianti dialettali, piem. bisò, venez. bisù)·, antrem è “pietanza tra una portata e l’altra” < entrem ets (ma Algarotti sostituisce con il calco frammesso-, per le varianti dialettali: D ardi 1992: 114), e così per fricandò, ragù, fisciù [fissù in molti dialetti), ponsò (ponceau) “rosso scuro”), manto, falpalà, cuppè, landò, interessanti in quanto denotano un’aumentata tolleranza della lingua per le finali ossitone, prima generalmente evitate (D ardi 1992: 76). Nei dia­ letti settentrionali è più facile incontrare adattamenti del tipo gridefer, linon, perter, parter “àiòlà”, ecc.11, con finale consonan­ tica, che rispecchia la pronuncia originale, e a cui corrisponde nel toscano una più piena assimilazione, per cui parterro, e così cignone “chignon” contro cignon, tignon, nel veneziano; o bucchetto rispetto al piem. bochet, mil. bocché, venez. boché, o tirabuscione rispetto al venez. tirabusson (rispettivamente in D ’Alberti 1805 e in Goldoni 1752: DEI; forma sostituita in seguito dal calco cavatappi), e gariglione “carillon”, gheridone “mobiletto da camera” (nel venez. giridon), gazzone “erbetta” (D ardi 1992). Comunque la grande maggioranza dei prestiti risulta completamente integrata e la varia presenza nei dialetti, dove la penetrazione può essere contemporanea ma anche più antica, mostra come il francesismo possa rappresentare una forma di convergenza interregionale per il lessico quotidiano e tecnico. Si tratta di termini dei diversi settori, da quello militare: baionetta (per il venez. bagionetta e per altri dialetti, Z olli 1971: 155156), blocco e bloccare (anche in venez., ivi: 158-159), brigadiere, brulotto “vascello incendiario” (per i dialetti, ivi: 159 e D ardi come rifacimento popolare fondato su un accostamento di toletta al dialettale tòla “tavola” (F olena 1 9 8 3 : 1 2 0 ) . 10 Si t r a t t a d i v a r ia n ti d i a d a tt a m e n to d e l fr . moire, « i n t e r e s s a n t i a n c h e d a l p u n t o d i v is ta f o n o lo g i c o : moare [ . . . ] r i s p e c c h ia la p r o n u n c ia p o p o la r e o r m a i c o m u n e in F r a n c i a n el ’7 0 0 , m e n t r e le a ltr e f o r m e r a p p r e s e n ta n o la p r o n u n c ia o r m a i a r c a i c a (e a r i s t o c r a t i c a ) o é o ué»; a n a lo g o d is c o r s o p e r toelette (F olena 1 9 8 3 : 8 5 n .) e boetta, buata, bueta c o m e a d a tt a m e n to d i botte (Dardi 1 9 9 2 : 6 9 ) . 11 T u t t e f o r m e r e g i s t r a t e d a l D ’A lb e r ti

(Mura P orcu

1 9 9 1 : 1 4 5 -1 4 6 ).

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1992: 139-140), caserm a, plotone·, della marina: diga, rada, scia­ luppa, paccabotto e pachebotto (daH’ingl. packet-boat, ma giunto tramite il francese); dei mezzi di trasporto: calesse (calesse nella quarta ediz. della Crusca, e per le varianti dialettali v. Z o l l i 1971: 144-143), fiacchere “vettura da noleggio”, oscillante con Poriginale fiacre (e presente anche nei dialetti, per es. il mil. fiaccher)·, del gioco (biglia, bigliardo, gettone, fisce); della cucina, di cui s’è già dato qualche esempio; del vestiario e del costume (gallone, giustacuore, giarrettiera, parrucca nel nuovo significato di “capigliatura posticcia”, parruccato e parrucchiere), delle stof­ fe (batista, mussolina-, anche il termine stoffa è un francesismo, di fine Seicento, designante per tutto il Settecento “tessuto pregiato”); di arti e mestieri (frisore, tappezzare, attrezzi, cernie­ ra e chincaglie, diffusi pure nei dialetti) ( D a r d i 1992: 42). Adattamenti sono anche non pochi vocaboli astratti e termi­ ni di significato generale, alcuni penetrati nel secolo precedente ma con piena diffusione nel Settecento: alleanza, alleato, azzardo (e gioco d ’azzardo sostituisce gioco d i fortuna)1213,azzardare, detta­ glio, equipaggio, mina “fisionomia”, moda, acclimatatosi preco­ cemente e già registrato dalla terza edizione della Crusca, pro­ prietà, rango'’0, risorsa·, locuzioni come guardare dall’alto in bas­ so. Alcuni prestiti sono destinati a vita effimera, come cocchetta “civetta” e cocchetteria, che non raggiungono la lingua parlata, reveria o badino “scherzoso”, derniero “ultimo”, tromparsi “in­ gannarsi”, regretto “rimpianto” e regrettare, marcati da un ec­ cesso di adattamento o da una accentuata connotazione ironica ( D a r d i 1992: 54). Ancora più importante l’apporto determinato dal calco, un fenomeno per il quale una lingua imita le strutture di un’altra lingua, valendosi di mezzi propri. «I calchi si foggiano in abbon­ danza quando una lingua sta ampliando il proprio lessico in qualche campo (terminologie scientifiche, vocaboli astratti), appoggiandosi culturalmente a un’altra lingua che si sia già 12 M a l ’e s p r e s s io n e d iv e r r à c o r r e n t e p iù t a r d i: C e s a r o tt i in u n ’o p e r a d el 1 7 6 8 s c r iv e v a « g iu o c h i d i f o r t u n a » , c h e s o s titu ir à n e lla ris ta m p a d e l 1 8 0 8 c o n « g iu o c h i d ’a z z a r d o » (D ardi 1 9 9 2 : 1 2 0 ) . 13 N e l s ig n if ic a to d i “liv e llo s o c i a le ” la p a r o la d o v e v a e s s e r e e n t r a t a n e lla lin g u a d e lla c o n v e r s a z io n e m o n d a n a , m a e v ita ta n e g li s c r it t i e le v a ti; u s a ta d a A l g a r o tt i n e l N ew tonian ism o, m a s o s titu ita n e l r if a c im e n to c o n grado (v. T e s to 3 .1 ) ; p re s e n te n e l v e n e z . o ltr e ch e in altri d ia le tti (G o ld o n i: « d o m e r c a n ti d e ra n g o , d e c o n s id e ra z io n » ) (Dardi 1 9 9 2 : 2 2 1 - 2 2 3 e Zolli 1 9 7 1 : 2 0 2 ) .

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largamente sviluppata in quel campo» (Migliorini 1957: 13). Il calco semantico comporta il mutamento di significato di una parola già esistente: per esempio per influsso del francese la parola abortire prende il senso di “fallire, non riuscire” nel linguaggio diplomatico ai primi del Settecento, estendendosi in seguito a quello comune; adorabile, prima riferito solo alla divi­ nità, si laicizza ed è usato iperbolicamente nel linguaggio mon­ dano; felicitare da “rendere felice” passa a “congratularsi con”. Il calco strutturale comporta la creazione di un derivato o di un composto, o di una locuzione nuovi, coniati con elementi indi­ geni sullo schema della lingua straniera. Esso richiede pertanto che la forma sia analizzabile in «unità minori interpretabili nel loro significato e funzione» (Dardi 1992: 77), come per esempio nel derivato civilizzare, calco del frane, civiliser, e analizzabile in civil(e) + izzare, che si inserisce nella serie suffissale dei verbi in -izzare molto produttiva anche in periodo illuminista, o nel composto contrordine, modellato sul frane, contre-ordre, e ana­ logo alla serie di formati indigeni con contro-, o nella sequenza di elementi lessicali stabilmente uniti come capo d ’opera, gioco di parole, modellati su ch ef d ’oeuvre, jeu de mots. Tale processo, favorito dall’affinità genetica e storica delle due lingue, compor­ ta una maggiore integrazione della parola o forma nuova nella lingua ricevente, che meno la espone a reazioni di rigetto puristico, costituendo pertanto un importante stimolo per l’italiano a pro­ durre successivamente in proprio il modello, o meglio a riattivare la produzione di tipi che fanno parte del patrimonio tradiziona­ le dell’italiano. Per impulso dei modelli francesi è promosso l’uso sistemati­ co di serie di suffissati e prefissati: tra i più produttivi i derivati verbali con suffisso -izzare (criminalizzare, divinizzare, legalizza­ re, simpatizzare ecc.) e relativi derivati sostantivali in -izzazione, una serie morfematica che troverà in seguito largo impiego nei linguaggi scientifici (v. cap. IV. 1 ); si incrementano serie in -ismo, -ista, e -istico, un microsistema suffissale fortunatissimo nel lin­ guaggio astratto deH’illuminismo, utilizzato nella denominazio­ ne di professioni, correnti o ideologie (giornalism o, giornalista, giansenismo, giansenista, materialista, probabilista, quietista)·, e derivati in -iere, -iera, -mento, -aggio, -tore. Tra i prefissati la serie con pre- (pregiudizio, presentim ento) esemplifica un feno­ meno che acquisterà sempre più peso. Le famiglie di parole si allargano, per esempio allarm are, calcato su alarmer, frequente

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in Magalotti, ma non nei suoi contemporanei, si affermerà nel corso del Settecento, accompagnato dai derivati allarm ante, vocabolo alla moda che penetra in Italia con le vicende rivolu­ zionarie, e allarmista, anch’esso di diffusione rivoluzionaria ( D a r d i 1992: 245 e L e s o 1992: s. v.); o ancora rimarcare, su remarquer, per “osservare, notare”, rimarcabile, -ev ole, rimarco e la locuzio­ ne d i rimarco, calchi comuni anche se non accettati da tutti14. Si potenziano insomma le capacità derivative e compositive del­ l’italiano, e i relativi processi neologici, la possibilità cioè di formare parole nuove. In alcuni casi il francese promuove la reintroduzione di arcaismi e di modi caduti in disuso, come il tipo in + gerundio (in andando), avverbi come tutto giorno (toujours) “sempre”, altre volte (autrefois) “un tempo”, espres­ sioni come tutto il m ondo (tout le m onde) “tutti”: un incontro ricercato e messo a frutto per esempio da Algarotti nell’intento di conciliare aspetti moderni e scrupoli cruscanti (v. Testo 3.1). Diversamente dall’adattamento il calco si forma in zone astrat­ te del lessico. Tra i settori più ricettivi quello politico-diploma­ tico e militare, «uno dei campi più fecondi d’interpenetrazione fra lingue europee» (autorizzazione, colpo di stato, rimostranza, salvaguardia-, espressioni come pescare n el torbido, tastare il p o l­ so, m ettere sul tappeto)·, quello giuridico-amministrativo, in atte­ sa di imporsi più stabilmente con l’occupazione napoleonica (dipartimento, intendenza, legalizzare, processo verbale)·, quello della letteratura artistica (belle arti, e il neologismo di pertinen­ za europea m anierista). Tra i numerosi altri neologismi ricordo ancora il termine giornalista per “redattore di una rivista lettera­ ria”, e quello di linguista nel senso di “poliglotta” ( D a r d i 1992: 332): tutti termini che hanno in genere un inizio secentesco ma che trovano piena acclimatazione nel Settecento. Molti calchi passano stabilmente nel linguaggio comune e quotidiano, segno di un inserimento totale nella lingua, così buon senso, chiaroveg­ gente, circostanziato, povero diavolo, gioco di parole, inesauribile, presentim ento, simpatizzare-, locuzioni avverbiali come a colpo sicuro, press’a poco·, espressioni come fa r la corte, valer la pena, saltare agli occhi, ecc. Merita una apposita scheda la parola patria·, «ancora all’ini­

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zio del secolo riferito al luogo d’origine, la città o regione, ha un valore etnico che si carica progressivamente di valori etici e politici sul modello del francese, insieme con la nota evoluzione àipatriotto, patriota da “concittadino” ad “amante della patria”: e solo dopo la metà del secolo patria acquista un significato etico-politico», arricchendosi nel frattempo dei derivati patriot­ tico e patriottism o, e congiungendosi con il nuovo valore di nazione, così definita da un illuminista del «Caffè»: «origine di nazione io chiamo quel momento in cui l’interesse, e l’onore la unisce e lega in un corpo solo, e in un solo sistema» ( F o l e n a 1983: 22 e 59). Nazione sp atria troveranno la loro «congiunzio­ ne e reazione esplosiva» in età rivoluzionaria (ivi: 23). Quello che interessa è la convergenza europea realizzata tramite calchi semantici e formali, per esempio per parole come fam iliarizzare, naturalizzare, formalizzarsi. Ma esaminiamo alcu­ ni casi di mots-témoins, parole chiave del clima culturale del­ l’epoca, per esempio fanatism o, la cui prima testimonianza è di Muratori (1708), e per il quale v. ingl.fanatism , ted. Fanatismus, spagn. fanatismo·, calcato sul francese fanatism e ma «semanticamente elaborato nel generale movimento di idee del secolo. Prediletto dai riformatori, presso i quali il fanatism o designava la resistenza, in tutte le sue forme (principalmente quella con­ fessionale), all’irradiazione delle lumières» ( D a r d i 1992:534). A conferma del suo potenziale di irradiazione, fu sfruttato anche in funzione antilluministica e, con nuova carica ‘ideologica’, dalla pubblicistica giacobina e controrivoluzionaria (ivi). Deismo, deista, del linguaggio filosofico-teologico e, in ambiente cattoli­ co, sinonimo di ateismo. Libertinaggio, diffuso in tutta Europa dal francese libertinage (ingl. libertinage, ted. Libertinage, spagn. libertinaje), nel corso del secolo definisce concetti di “incredu­ lità” e “dissolutezza”, e si lega alle correnti di pensiero francese. In ambito classicista definisce “licenza”, “sprezzo delle rego­ le”15. Civilizzare, calcato su civiliser: il suo uso si diffonde nella seconda metà del secolo in ambiente illuministico ad esprimer­ ne uno dei concetti più nuovi della civiltà dei lumi, cui si affian­ ca politezza e polito, calco dal francese nel significato di “distin­ zione, civiltà”16. 15 N e l s e c o lo s u c c e s s iv o p a s s e r à a d e s ig n a re s o lo “ d is s o lu te z z a .

14 P e r e s e m p io il S a lv in i n e lla p e d is s e q u a t r a d u z io n e d i u n ’o p e r a f r a n c e s e « e v i t a s i s t e m a t i c a m e n t e , in c o r r i s p o n d e n z a d i rem arquer e f a m ig lia , il f r a n c e s is m o , s o s titu e n d o lo c o n notare e osservare» (Dardi 1 9 9 2 : 3 8 2 n . ) .

16 E n t r a m b e le p a r o le h a n n o d if fu s io n e n e lle a ltr e lin g u e e u r o p e e , in g l. to e politesse, te d . Politesse, s p a g n . civilizar e polideza. I n t e r e s s a n t e ch e il D ’A l b e r ti n e l Dizionario francese-italiano ( 1 7 7 1 - 1 7 7 2 ) t r a d u c a civiliser c o n

civilize

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A favorire la convergenza è la base culta di molti neologismi diffusi dal francese: calcati sul greco o sul latino, come per esempio analisi, analizzare, diffuso dal francese analyse, -iser, nel significato estensivo di “esame minuto”, a definire «il proce­ dimento euristico per eccellenza del pensiero illuministico in tutti i campi dello scibile» (v. ingl. to analyse, ted. analysieren, spagn. analizar)·, em ozione nel nuovo significato di “reazione affettiva generalmente gradevole”, sempre più diffuso dalla se­ conda metà del secolo; installazione, precauzione. Composti con elementi greci e latini vanno a costituire il lessico delle diverse scienze (cardialgia 1699, etisia 1691, congestione 1687), tipo che avrà un enorme incremento verso la fine del secolo (v. D a r d i ) . Si tratta in genere di elementi scientifici e ideologici che, per quan­ to di diffusione per lo più francese, acquistano subito una nuova cittadinanza europea e sono quindi da distinguere dai prestiti e dai calchi francesi veri e propri, e da considerare propriamente degli europeismi. La definizione è di Leopardi, che con un neologismo di impronta nettamente illuministica distingueva questa «parte della lingua primaria e propria di tutte le nazioni» e che «serve all’uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e parlatori di tutta Europa colta», e portava ad esempio «le parole genio, sentim entale, dispotismo, analisi, analizzare, dem a­ gogo, fanatism o, originalità ecc.», sottolineandone la funzione nel servire ad esprimere «cose più sottili, e dirò così, più spiri­ tuali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e le nostre medesime ne’ passati secoli», e, contro gli atteggiamenti puristici di primo Ottocento nei riguardi dei ‘barbarismi’, ne difendeva la presenza nella lingua italiana: «Si condannino (come e quanto ragion vuole) e si chiamino barbari i gallicismi, ma non (se così posso dire) gli europeismi, ché non fu mai barbaro quello che fu proprio di tutto il mondo civile, e proprio per ragione appunto della civiltà, come l’uso di queste voci che deriva dalla stessa civiltà e dalla stessa scienza d’Euro­ pa» (Zibaldone di pensieri, 26-VI-1821, p. 1216).

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3. La sintassi francesizzante Già dal secolo precedente si osserva «un frantumarsi del periodo dalla complessa architettura contrappuntistica e ricca di subordinate in frasi indipendenti, spesso nominali, o in peri­ odi semplici, franti da interrogative, esclamative, parentetiche, con prevalenza della paratassi sull’ipotassi, con un drastico snellimento dei più ingombranti nessi congiunzionali e preposi­ zionali e più agili collegamenti apposizionali» ( D a r d i 1992: 59). La nuova organizzazione favorisce quell’ordine diretto della frase secondo il tipo Soggetto-Verbo-Oggetto, che i francesi rivendicano come più naturale, in quanto più conforme ai pre­ sunti meccanismi del pensiero. Alla sequenza progressiva viene l’assenso anche dei grammatici, che la giudicano tipo ‘normale’, diremmo ‘non-marcato’, rispetto all’ordine inverso, di tipo ‘mar­ cato’ (v. le posizioni del Facciolati e del Corticelli in IX .4). Lo sfoltimento dei nessi congiunzionali a favore di legami impliciti produce un andamento spezzato, lo stile coupé di cui si vantano i francesi, consistente nel «reunir, sous le plus petit nombre de mots, la plus grande somme d’ideés possibles»17, “riunire sotto il più piccolo numero di parole la più gran quan­ tità di idee”. È lo stile «netto, chiaro, preciso, interrotto, e sparso d’immagini», a cui pensa l’Algarotti per il suo Newtomanismo per le dam e (v. Testo 3.1). E Alessandro Verri coglie in pieno la novità del periodare spezzato rispetto all’architettonico periodare tradizionale: Che im porta avvertire il lettore, col terribile rum ore d ’un risonante e vuoto «conciossiaché» della connessione di un periodo coll’altro? Non basta forse ch ’essa vi sia? Non snerva egli lo stile il non lasciar nulla da supplire al lettore? Non è vero ordine quello che, legando il secondo periodo col prim o, il terzo col secondo, fa m etodicam ente una catena d ’episodi, e m etodicam ente non ha m etodo; ma quello che generosa­ mente getta sulla carta una serie di pensieri, la di cui somma totale s’aggira su di un oggetto, o di più oggetti toccantisi in alcun cam po, la qual serie di pensieri li rischiara, e loro appartien direttam ente, o indi­ rettam ente (Difetti della letteratura, in «C affè» 1960: 3 7 8 ).

Insomma si fa strada uno strumento più flessibile e funzio­ nale alla prosa di «parole atte alle cose» da contrapporre alla dirozzare, render civile, m a lo a c c o l g a n e l s u c c e s s iv o O izionario universale (1 7 9 7 -1 8 0 5 )

(Dardi

1992: 2 7 4 ).

17

L ’a ff e r m a z io n e d i A d r i e n n e -A l b e r ti n e N e c k e r in u n s a g g io p o s tu m o

d e l 1 7 9 8 , c ita t a in

B runot

1966,

è

r i p o r t a ta d a

Serianni

1993.

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«vana pompa oratoria» delle nostre lettere, come sostiene il Martello (v. cap. VII.2). Un tale procedere analitico si afferma soprattutto nei generi meno tradizionali e codificati, nei reso­ conti di esperienze scientifiche (v. IV. 1), nelle scritture diaristiche ed epistolari (v. il campione di lettera di Alessandro Verri in Esercizi 3), nella cronaca giornalistica (v. II.l). Con il ridursi della subordinazione e il conseguente potenziamento del nome rispetto al verbo, si espandono le strut­ ture nominali (v. Testo 1). L ’aggettivo passa nella categoria del sostantivo come in «hanno un bello gentile e grazioso» (P. Verri, cit. da F olena)18; diventano frequentissimi i sintagmi che danno rilievo al sostantivo astratto del tipo «miseria di molti», «impu­ nità di pochi», «fermento delle diverse opinioni» (v. 2.4). L ’ampliamento di possibilità del sostantivo ha riflessi sullo stes­ so vocabolario dando incremento a formazioni pure di impronta francese del tipo avere + sostantivo astratto seguito da infinito (come «avere la bontà d i...»). Si estende l’uso di strutture apposizionali di impronta fran­ cese come la ripresa di una proposizione con elementi astratti generici del tipo cosa, fatto, che comporta un «collegamento più efficace, ma anche più leggero delle proposizioni» (H erczeg 1967: 167 ss. e D ardi 1992: 60, da cui il seguente esempio del Martello: «osservo que’ passaggi, quelle figure, quell’intrecciamento di voci al dispetto della situazione grammaticale, cose tutte nelle quali avete poco fa riposto...»). E anche forme di messa in rilievo del tipo è + complemento + che, la cosiddetta frase scissa (è la prim a volta ch e..., è a lui che...)·, e strutture come quella censurata dal Fontanini sopra citato {«il tale è

18 S tr u t tu r e c h e a v r a n n o g r a n d e s p a z io n e lla p r o s a d e l M a n z o n i, s p e c ia l ­ m e n te n el p r i m o a b b o z z o d e l r o m a n z o , il Ferm o e Lucia, d i f o r t e s a p o r e f r a n c e s e e s e t t e c e n t e s c o . Si v e d a u n c a m p i o n e m in im o : « L ’in v in c ib ile d i t u t te le d if f ic o ltà , l ’a m a r o d i t u t t e le p riv a z io n i, l ’in e s tr ic a b ile d i t u t ti g l’i m p a c c i » ( 3 6 8 ) . F olena 1 9 8 3 : 6 2 a p r o p o s i t o d i q u e s to tip o d i a g g e ttiv o s o s ta n tiv a to c ita u n e s e m p io d a l b r a n o d e s c r i t ti v o d e l p r i m o c a p it o lo d e i P rom essi Sposi·. « e l ’a m e n o , il d o m e s t ic o d i q u e lle fa ld e t e m p e r a g r a d e v o lm e n te il s e lv a g g io , e o r n a v ie p iù il m a g n if ic o d e ll ’a ltr e v e d u t e » . Si v e d a a n c h e q u e s t ’a ltr o b e ll ’e s e m p io s in to n iz z a to c o n l ’a r g o m e n to q u i t r a t t a t o : « b is o g n a c h e a tu t ti sia p r o p o s t a , s o t to il n o m e d i lin g u a ita lia n a , u n a c o s a m e d e s im a , d i c o u n a , n e lla q u a le si t r o v i ... il c o m u n e e l ’e le g a n te , l ’u s u a le e il d o t t o , il d o m e s t ic o e il t e c n i c o ; c h é u n a lin g u a (d i p a e s i c iv iliz z a ti, s ’i n te n d e ) è u n c o m p le s s o di t u t t o c i ò » (D ella lingua italian a).

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troppo saggio... p er approvar la tal cosa, in vece di dire: egli è troppo saggio..., che non è capace di approvare la tal cosa»). Il contatto col francese dà impulso al generalizzarsi di feno­ meni già presenti in italiano, ma che continueranno ad essere avvertiti come estranei alla lingua fino in pieno Ottocento, se si bada alle censure cui sono soggetti da parte puristica. Si tratta, sulla scorta di Serianni 1993, della congiunzione siccome causa­ le ad apertura di periodo, senza un termine correlativo nella reggente. Serianni porta esempi di traduzioni che mostrano chia­ ramente la dipendenza dal modello francese (da una traduzione del Candide di Voltaire: «Siccome Cunegonda aveva moltissima di­ sposizione per le scienze, osservò senza rifiatare...» < «Com m e Mademoiselle Cunégonde avait, ecc.»). L ’uso di che in luogo di se non per introdurre una restrittiva (ancora dalla stessa fonte: «egli non mi ha fruttato che un bacio» < «il ne m’a jamais valu qu’un baiser») (v. 3.1). Il tipo lo è19, dove lo si riferisce a un elemento della frase precedente (pure da Voltaire: «non ardì di dire che era sua sorella perché non lo era nemmeno» < «parce qu’elle ne l’était non plus»). Esempio di ambedue le posizioni, cioè di adesione e di riluttanza a questo tipo, troviamo in 4.2 e

8 . 1. Tra le tante altre strutture che trovano alimento nel bilingui­ smo francese e che la successiva ‘restaurazione’ linguistica riu­ scirà in buona parte a respingere, segnalate da Folena e da Dardi, ricordo l’uso del ‘passato immediato’ {vengo di fare) e del presente progressivo {vanno diventando), il gerundio preposi­ zionale già dell’italiano antico (il tipo in passando), il di partitivo {poco di tem po), l ’uso di a attributivo {«verm i a seta, ricalco fedele di vers à soie», l’ampliamento della preposizione a in contesti che tradizionalmente richiedevano da o di, per esempio restare a desiderare, trovare a ridire (D ardi 1992: 64).

19 S i t r a t t a di u n a s t r u tt u r a n o n d o c u m e n t a ta in s c r i t t o r i t o s c a n i a n tic h i e c h e si g e n e r a liz z a p e r in flu sso s e t te n tr io n a le e f r a n c e s e (c f r . Castellani 1 9 9 0 : 1 0 3 -1 1 2 ).

Capitolo quarto Verso le lingue speciali

1. La lingua delle scienze La comunicazione scientifica e accademica si esprime ormai in tutta Europa nelle lingue nazionali. In Italia il latino, dopo l’eclissi della stagione galileiana1, aveva recuperato tra Sei e Settecento una sua funzione nel garantire il più ampio dialogo internazionale (M organa 1976: 157), ma si trova ora a compete­ re con il francese e con l’inglese in prestigiosi organi di diffusio­ ne scientifica come l’«Académie des Sciences», il «Journal des S5avans» o la «Royal Society». Esigenza di abilitare la nostra lingua alla espressione di contenuti seri e di farla comparire nel concerto europeo, e necessità di un discorso scientifico alla portata di un pubblico non specialista, militano dunque a favore del volgare. Se all’inizio del secolo la scelta è ancora contrastata e Antonio Vallisnieri si batte per l’uso della lingua italiana nei settori scientifici, avvertendo l’obbligo di «scrivere in lingua purgata italiana, o toscana, per debito, per giustizia, e per deco­ ro della nostra Italia»; qualche decennio dopo Lazzaro Spallanzani «non si porrà neppure più il problema. Si presenterà sulla scena europea con la sua lingua, che viene tradotta in altre lingue nazionali, così come i suoi corrispondenti e amici europei si presentano con la loro» (A ltieri B iagi 1976: 448). La scelta tra latino e volgare dipende anche dal grado di accessibilità e dalla tradizione delle diverse discipline, oltre che dalle circostanze d’uso: scienze applicate come l’idraulica, rivol­ te a un pubblico più eterogeneo di tecnici e amministratori, sono, per ragioni evidenti, più disponibili alla «natia favella», mentre scienze ‘pure’ come la matematica e l’astronomia conti1 S u lla lin g u a s c ie n tif ic a g a lile ia n a v . B . M ig lio rin i, G alileo e la lingua italiana ( 1 9 4 8 ) , in Migliorini 1 9 7 3 : 1 1 1 - 1 3 3 e Altieri Biagi 1 9 6 5 .

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nuano a privilegiare il latino. La fisica sperimentale resta fedele al suo ormai consolidato discorso in volgare, e pure le scienze naturali, il cui pubblico è composto non solo di specialisti, ma anche di ‘appassionati’, usufruiscono di una tradizione lettera­ ria costituitasi tra Sei e Settecento ad opera di Magalotti, Redi e Malpighi2. Nei diversi ambiti si stanno ormai imponendo mo­ delli linguistici disponibili a una più diffusa utilizzazione. Con l’abbandono del latino si creano dunque i presupposti per l’affermarsi e, successivamente, il consolidarsi delle lingue spe­ ciali, cioè quelle varietà di una lingua naturale - parafrasando C ortelazzo 1988: 246 - funzionali a un settore di conoscenze o a una sfera di attività specialistiche, di cui intendono soddisfare i bisogni comunicativi. E però prematuro usare per il Settecento la categoria di lingue speciali, dato il dominio che il modello lette­ rario per un verso e il latino per l’altro esercitano sui linguaggi scientifici. Si avvia comunque adesso il processo verso una loro organizzazione testuale autonoma dalla lingua letteraria. Il discorso scientifico, nella sua tendenza a tutelare un livello alto ma aperto al pubblico non specialista, si muove dunque tra lingua letteraria e lingua comune, pur cercando una sua specifi­ cità formale, legata ai nuovi canali di comunicazione, «giornali», «gazzette», «atti» di accademie, che impongono una scrittura essenziale, più «concentrata sugli aspetti euristici e tecnici della ricerca» (A ltieri B iagi-B asile 1983: X IX ). Da una parte c’è l’esigenza della divulgazione, dall’altra la necessità di tecnicizzare un lessico ancora affidato a denominazioni sinonimiche e impre­ cise radicate nella lingua comune. Il rapido progresso delle conoscenze e il mutamento radicale dell’impostazione scientifica impone dunque alle diverse disci­ pline un generale rinnovamento delle modalità espositive e del sistema lessicale. E tutti i linguaggi sono percorsi da una preoc­ cupazione vocabolaristica nella ricerca di fissare una terminolo­ gia in parte nuova e quindi instabile. Piuttosto che al ‘tecnicismo specifico’, cioè al termine o alla locuzione designante in modo puntuale e obbligato una certa nozione, si preferisce in genere

ricorrere a vocaboli del lessico generale o della lingua comune, reimpiegandoli in accezione tecnica, sulla linea quindi della tradizione linguistica galileiana (G iovanardi 1987: 263). L ’at­ teggiamento può essere esemplificato dal seguente brano di Volta, da una memoria del 1780 circa, a proposito di

2 II M a lp ig h i, a lle s o g lie d e l S e t t e c e n t o , u s a il la ti n o n e lla p r o d u z io n e v o lta al p u b b l ic o in te r n a z io n a le , m a s c r iv e in v o lg a r e « d u e o p e r e tt e c h e s o n o fr a le p iù in t e r e s s a n t i d e lla n o s tr a l e t t e r a t u r a s c i e n t i f i c a » , n e ll’i n t e n t o d i e s s e r e l e tt o d a g li « i d i o ti » , c i o è i d ig iu n i d i la tin o (A ltieri B iagi 1 9 7 6 : 4 4 9 , a c u i si rin v ia p e r il lin g u a g g io m e d i c o b io lo g ic o t r a S e i e S e tt e c e n t o ) .

3 A s e g u ito d e ll’in v e n z io n e d i F r a n k l i n r is a le n te al 1 7 5 2 , m a s o lo c o n la p u b b lic a z io n e d e i s u o i E xperim ents and O bservations on Electricity ( 1 7 6 9 ) , d iv e n ta p ie n a la d iv u lg a z io n e d e lla s c o p e r t a e d e lla r e la tiv a d e n o m in a z io n e , c h e in s e g u ito p r e n d e r à il n o m e d i parafu lm in e su l m o d e llo d e l f r a n c e s e paratonnerre (F olena 1 9 8 6 : 2 0 2 ) .

cotal apparecchio, a cui in questo caso meglio che il nome che altronde porta di elettroforo, l’altro già indicato di elettroscopio, anzi pure quello di microelettroscopio potrebbe convenire. Ma io amo meglio di chiam ar­ lo condensatore dell’elettricità, per usare un termine semplice e piano e che esprime a un tem po la ragione e il m odo de’ fenomeni di cui si tratta

(Altieri B iagi - B asile 1983: 1001 ).

Mentre elettricità, elettrico, coniato in inglese sul latino mo­ derno scientifico, è ormai ampiamente inserito (D ardi 1992: 86 e 522-523), perii nuovo apparecchio, la «macchina condensatrice di elettricità», ci si avvale di un neologismo semanticamente trasparente, costruito con elementi del sistema linguistico esi­ stente, facendo ricorso a un derivato con suffisso -tore della categoria dei nomi d’agente, impiegato per la designazione di strumenti e dispositivi da laboratorio. Il termine, di origine dotta, è di recente coniazione, ha il corrisponente nel francese condenseur, foggiato sull’inglese condenser (to condense “con­ densare”, lat. condensare), condensatore (di vapore), brevettato da Watt (1769) (DEI 1950-1957, che lo data però al sec. X IX ). Nella stessa serie derivativa troviamo, pure in Volta, i due voca­ boli isolatore e conduttore. C ’è anche chi, secondo un atteggiamento di tradizione galileiana, esita di fronte ai termini, ai nomi nuovi, precisi e univoci. Per esempio, Giovan Battista Beccaria nell’Elettricismo artificiale (1772) preferisce conservare l’antico nome, usato dai primi sperimentatori, di «catena» in luogo del termine che sta affer­ mandosi di «conduttore» (A ltieri B iagi 1976: 420). Si tratta di anglolatinismo, cioè parola dotta (dal latino conductor, -oris) divulgata dall’inglese (lightning) conductor o ellitticamente conductor3. Il termine, un ‘europeismo’, non tarda a fare la sua

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comparsa sui giornali, lo incontriamo per esempio nella milane­ se «Gazzetta letteraria» dello stesso anno ( M o r g a n a 1982: 435), a dimostrazione della rapida diffusione di nozioni e di termini tramite la stampa periodica. La neoformazione fa da «capofila di una numerosa serie di adattamenti italiani nel settore della terminologia elettrica, serie interrotta oggi dal tipo non adattato transistor» ( F o l e n a 1986: 202-203). E il suffissato -tore è la base di nomi d’agente riferiti a persone, dotati di connotazione tecni­ ca (sperim entatore, investigatore, direttore, calcolatori “persone che fanno i calcoli”, ecc.) ( G i o v a n a r d i 1987: 216-17). Il latino classico diventa sempre più largamente il serbatoio per la terminologia tecnico-scientifica di tutta l’Europa colta; latinismi e grecismi penetrano ora nella nostra lingua non diret­ tamente, ma tramite la mediazione di una lingua straniera ( M i g l i o r i n i 1973: 490), nonostante le riserve verso le «mostruo­ se innestature di voci greco-latine-italiane», come le chiama Spallanzani, il quale propende per una loro assunzione fonologicamente e morfologicamente conforme alla lingua ita­ liana ( A l t i e r i B i a g i 1981: 584). Ecco un sommario elenco degli elementi che con più frequenza ricorrono nella formazione di composti specialistici: elettro- citato, idro- (idrostatica, idrom etria, idrografica), micro- (m icroscopio, micrografo e m icrografia), -fero (perlifere vescichette, vasi sanguiferi, sostanza funghifera, raggi frigoriferi), -forme (aeriform e, verm iform e), -metro, -metria (per strumenti di misurazione: barom etro, term ometro, elettrometro-, nella matematica: diametro-, idrometria, geom etria, trigonom e­ tria)-, -scopio (elettroscopio, telescopio), -voro (erbivoro, onnivoro, carnivoro). Il fenomeno riguarda tutte le lingue europee e tende ad aumentare via via che ci si avvicina alla fine del secolo - al punto che il Brunot a proposito dei grecismi scientifici diffusisi in francese in età napoleonica, può parlare di «triomphe du grec» ( B r u n o t 1966: 1221 ss.). Il ricorso al grecismo è partico­ larmente vistoso nel linguaggio medico, dove per altro rientra nella sua tradizione. Ma il fenomeno nelle sue punte più vistose pare circoscritto più alla terminologia raccolta nei vocabolari che non alla concreta prassi linguistica dei medici (come rileva Serianni, Lingua medica e lessicografia specializzata nel prim o Ottocento, in S e r i a n n i 1989a: 77-139). Comunque se intorno alla metà del secolo il fenomeno è avversato da un illustre medico, Andrea Pasta, che in un suo repertorio di voci mediche propone di «sostituire agli oscuri

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vocaboli dal greco o dal latino composti altre più semplici, più piane e più usitate voci», sulla base di presupposti condizionati ancora da ipoteche letterarie (v. cap. IX .2), alla fine del secolo il D ’Alberti nella prefazione del suo Dizionario universale mostra un atteggiamento opposto riguardo ai termini di origine greca. Sostiene di averli registrati con cura, anche quelli privi dell’appog­ gio di scrittori autorevoli, e di essersi limitato a contrassegnarli con la «nota di Grecismo m edico, didascalico, e simili», dato che «quasi tutti i nomi che s’adoprano nelle scienze, anco i moder­ namente imposti, sono di quella lingua», dalla quale è possibile «derivare molte voci proprissime, come già fecero gli Antichi, e come fanno i migliori moderni» ( G i o v a n a r d i 1987: 366). È l’inizio di un fenomeno che acquisterà sempre più impor­ tanza nella costituzione dei linguaggi scientifici ottocenteschi e ancor più novecenteschi, nei quali l’impiego di elementi di ori­ gine greco-latina nella realizzazione delle terminologie speciali­ stiche diventa diffusissimo per la possibilità di fornire «denomi­ nazioni ben definite, di facile impiego, ed organizzate in catego­ rie» ( D a r d a n o 1978: 164-165). In italiano si tratta soprattutto di termini mediati dal francese e dall’inglese, e in seguito dal tede­ sco. Importa inoltre l’aspetto sintagmatico di questo tipo di composti, per l’ordine dei due elementi della sequenza, deter­ minante-determinato, inverso rispetto ai composti di forma ita­ liana con ordine determinato-determinante, dove il secondo elemento ‘determina’ il primo (per esempio copricapo, calzama­ glia). Il primo tipo di ordine sarà destinato a diffondersi nell’ita­ liano di oggi, anche per la convergenza con l’angloamericano, i cui composti possiedono lo stesso ordine dei composti greco­ latini, per esempio mass-media, play-boy ( D a r d a n o 1978: 188). La riflessione di Volta sulla propria scelta terminologica denota non solo l’attitudine metalinguistica che caratterizza l’at­ tività dello scienziato soprattutto in periodi di forte sviluppo della sua disciplina (Altieri Biagi), ma anche la vocazione comu­ nicativa tipicamente settecentesca, che si preoccupa di mante­ nere il collegamento tra linguaggio specialistico e lingua comu­ ne. Abbondano i procedimenti esplicativi, come le dittologie sinonimiche e glossatone, particolarmente frequenti negli scritti di biologia e scienze naturali (album e o siero d ell’uovo, certe tuberosità o gonfietti, picciol feto o em brione, organi spirabili o trachee, verm i o lombrichi, zoofiti o piantanim ali), e di fisica {scudo o lamim. metallica)-, o le parafrasi {le tensioni, ossia azioni

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elettriche, elettricità o sia forza elettrica)·, caratteri propri di «una lingua che vuole essere precisa, ma che non si decide a istituzio­ nalizzare un ‘nome’ fra quelli terminologicamente disponibili» ( A l t i e r i B i a g i 1976: 432) e, al fine di garantire l’identificazione dell’oggetto di cui si tratta, si preoccupa di istituire concordan­ ze di termini, ricorrendo anche alle varianti geografiche, cioè i termini locali di derivazione dialettale, registrati con intento obiettivo e tecnico accanto alle voci più culte. Così, all’inizio del secolo, Vallisnieri tra i termini naturalistici del suo repertorio dà spazio alle diverse varianti regionali: unghia MARINA. Ungula marina detta d a’ Latini, da G reci S o len ... I pescatori veneziani la chiamano Cappa longa...·, assilo... I G reci lo chiamano A estron, i Latini Asilus, il volgo de’ contadini Lom bardi Asiolo; convolvolo. D a’ G reci è detto Ips, da Plauto Involvolus, da’ contadini Lom bardi Tagliadizzo... ; penna marina. È detta da’ veneziani Astura, da Napoletani Verna (M organa 1983: 34-35);

e, alla fine del secolo, anche Spallanzani nella sua esigenza di esatta individuazione del significato fa a volte ricorso alle deno­ minazionilocali: «... una specie di graminacea chiamata alopecuro, la quale per avere delle picciole barbe, o code da’ Toscani appellasi codetta e dai Lombardi covetta» ( A l t i e r i B i a g i 1985: 208). Il matematico Paolo Frisi mette in guardia dalle imprecisio­ ni e dalle insufficienze di certe definizioni lessicografiche, por­ tando i precisi riscontri dai vocabolari, tra i quali la Crusca ( M o r g a n a 1987: 269). E negli scritti di idraulica (1762) fornisce un esempio maturo di organizzazione testuale adeguata al di­ scorso tecnico-scientifico, attento alla descrizione e denomina­ zione esatte dei fenomeni sul piano lessicale e nella strutturazione sintattica: La diversa azione del caldo, e del freddo, dilatando, e restringendo diversamente le loro parti, l’umidità imbevuta dall’aria, e simili cause accidentali, le potrem o qualche volta dividere, e sciogliere. Ma le pietre arenarie, com e si è detto, sono assai rare n e’ nostri fiumi, e dev’essere ancora più rara la combinazione delle cause accennate. Si legge [ ...] che la cavità dentro a cui esercitano le acque il loro m oto dal principio superiore del corso sino alla fine, si chiama alveo, letto, o canale: che le parti laterali, le quali contengono l’acqua ristretta e sollevata di superficie a qualche altezza, si chiamano sponde, o ripe

(M organa 1987: 258-259).

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Anche il linguaggio medico, incline per tradizione a parole difficili e a tecnicismi impenetrabili, sente la necessità di atte­ nuare con perifrasi i tecnicismi: ecco alcuni esempi tratti da Consulti medici·, «altro non sono che tocchi d’apoplessia parzia­ le detta da’ nostri autori paraplegia», «una spezie di lenta febbre che noi chiamiamo linfatica», «quei due corpi glandulosi che gli anatomici chiamano prostate» ( S e r i a n n i 1989a: 129). Uno sforzo di volgarizzare accomuna insomma tutti i diversi linguaggi specialistici, al quale non è estraneo «un atteggiamento tipicamente retorico: quel pregiudizio contro i linguaggi tecnici, ritenuti sconvenienti per il decoro letterario, di cui solo l’Ottocento inoltrato sarebbe riuscito a fare pienamente giustizia» (ivi: 128). La vicinanza con la lingua comune spiega l’alta presenza di alterati diminutivi (ato m etti, borsetta, lam in etta, cannello, funicello, sassolino, cartoncino, scintilluzze, corpicelli, ecc.), spesso con suffissi concorrenti che danno luogo a una fioritura di va­ rianti per uno stesso significato (verm etti, verminetti, vermicelli, vermiciuoli·, corpicini, corpicelli, corpicciuoli), utilizzati a fini stilistici. Il fenomeno sarà stato favorito anche dalla tradizione lessicografica della Crusca, che concedeva ampio spazio agli alterati. Il diminutivo può anche lessicalizzarsi in termine tecni­ co, per esempio in chimica: boccetta, bacchetta, molletta-, in fisi­ ca: particelle della luce,pellicella “membrana”, piattello. Interes­ sante il pennoncelli, usato da Volta, «che è il nome di particolari fenomeni elettrici ed è anche un caso rappresentativo di come un nome della lingua comune venga assunto con un significato specifico in un contesto scientifico»; così definito è infatti pennoncello nel Dizionario della lingua italiana di Tommaseo e Bellini (1865-1879): «quel poco di drappo, che si pone vicino alla punta della lancia, a guisa di bandiera, che anche dicesi banderuola» ( G i o v a n a r d i 1987: 243-44). Diffusissimi sono gli aggettivi elativi in -issimo anche in contesti tecnico-scientifici (icompasso finissim o nelle punte, riga rettissima, attivissim i calco­ latori...). Il fenomeno, destinato a scomparire, lascia tracce in sintagmi cristallizzati della lingua comune (per es. alcool purissi­ mo opposto a alcool denaturato, v. G i o v a n a r d i 1987: 123); esso è meno presente in scritti di matematica, mentre ne abusano quelli di biologia e di scienze naturali, dove si presta a esiti stilistici (come giochi di parole del tipo veri verissimi arciverissimi vermi), che denotano lo stretto contatto di queste discipline con la tradizione letteraria (v. Testo 3.2).

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Rientra nel carattere di un discorso scientifico aperto alla larga divulgazione anche il frequente ricorso a paragoni con oggetti dell’esperienza quotidiana, più evidente negli scritti di fisica in cui è diretto l’influsso del modello galileiano (v. Testo 3.1). Caratteri che vanno progressivamente scomparendo dalla lingua scientifica settecentesca, via via che essa si staccherà dal modello letterario e si doterà di lessici più tecnicizzati. Analoghi procedimenti neologici si registrano in una disci­ plina come la chimica, che si trova a rinnovare totalmente il proprio impianto scientifico: Tutti que’ corpi, che combinandosi al term ico (calorico) elastificante sono capaci di acquistare uno stato aeriforme, di mantenersi in questo stato nelle ordinarie tem perature dell’atmosfera, che sono dotati di som ­ ma elasticità, e trasparenza, siano o non siano respirabili, e sostenitori della com bustione, furono chiamati gas (G iovanardi 1987: 168)

Come ‘tecnicismo specifico’ troviamo gas, vocabolo che nel significato tecnico moderno si impone proprio in questi anni tramite il francese gas, gaz4. Per il resto la connotazione tecnica è affidata a un vocabolo composto con elementi dotti, aeriform e, da poco entrato nella lingua, e a formazioni derivative come il verbo in -ificare (elastificante), suffisso produttivo di una classe di verbi causativi (o fattitivi), indicanti un mutamento di stato o di condizione, frequente nelle opere di chimica (chiarificare, pietrificare, revificare, m ollificare, dolcificare, ecc.); aggettivi di relazione in -ico, qui applicato a due forme alternative, l’una di base greca, l’altra latina: termico, calorico (le due varianti sono oggetto di chiosa in altra sede: «La materia del calore che i chimici moderni chiamano calorico, noi la conosciamo sotto la denominazione di term ico»), e ben usato in sintagmi scientifici (una piccola campionatura: tartaro em etico, materia elettrica, succo gastrico, conduttore atm osferico, ecc.). Sulla denominazio­ ne di tale nozione, centrale nel sistema chimico, si sofferma anche un altro trattato di chimica, dove si coglie lo sforzo di precisione e funzionalità sottostante alla scelta denominativa di una lingua che intende essere ‘rigorosa’:

chaos, g r. chàos “ c a o s ” c o n r if e r im e n to al c o n c e t t o d i “m a t e r ia D EI 1 9 5 0 -1 9 5 7 .

4 D a l la t. in fo rm e ”:

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Essendo questa sostanza, qualunque essa siasi, la causa del calore [ ...] questa non si può, in una lingua rigorosa, indicare col nome di calore, perché la stessa denominazione non può esprim ere la causa e l’effetto. Q uesto appunto mi aveva determ inato [ ...] ad indicarla sotto il nome di fluido igneo, e di m ateria del calore. Nel lavoro [ ...] sulla riforma del linguaggio chimico, abbiamo creduto di dover bandire que­ ste perifrasi che allungano il discorso, che lo rendono più languido, meno preciso, meno chiaro [ ...] Abbiamo in conseguenza indicato la causa del calore, cioè il fluido eminentem ente elastico che lo produce, col nome di calorico (G iovanardi 1987: 177).

La necessità di eliminare «perifrasi che allungano il discor­ so» favorisce procedimenti di concentrazione sintagmatica, come la nominalizzazione e trasformazione dell’aggettivo di relazione in sostantivo astratto: «il calorico». Da rilevare nell’esempio precedente il vocabolo elasticità, come rappresentante di una serie di derivati in -ità impiegati in accezione tecnica [fluidità, densità, capacità, gravità, elettricità, e anche am brità5...). La nominalizzazione è il tratto più rilevante delle lingue speciali, e dà luogo all’impiego di suffissati in -ione, che, con le due varianti -sione e -zione, è uno dei più produttivi nel formare nomina actionis per nozioni specialistiche in tutti i settori scientifici, come il com bustione dell’esempio precedente. Una sommaria campionatura (tratta da G iovanardi 1987: 202208): nella matematica (distensione, divisione, lesione, visione “vista”, rifrazione, com penetrazione, intersecazione. Da segnala­ re flussione, termine-chiave nel calcolo differenziale, introdotto dalla scienziata Gaetana Agnesi in ìnstituzioni analitiche, 1748, che lo trae dal vocabolario della fisica newtoniana, e equazione pure attestato nella stessa opera); nella fisica (vocaboli chiave come attrazione, intensione “intensità”, inclinazione, fluttuazione, supposizioni “ipotesi, assiomi” nel linguaggio newtoniano, e in sintagmi del tipo riflession e e d isp ersion e d ella luce per “scomposizione”, accelerazione dei gravi)·, nelle scienze naturali [espulsione d ell’ova, fu sion e, m oltiplicazione, ferm entazion e, 5 I n t e r e s s a n t e la c h io s a c h e a c c o m p a g n a q u e s to n e o lo g is m o c h e c o m p a r e in u n ’o p e r a d i e le ttr o lo g ia : « e s s e n d o s i t r o v a to a ’ n o s tr i te m p i c h e n o n so lo l ’a m b r a , m a t u t te q u a s i le a ltr e in n u m e ra b ili, s p e c ie d e ’ c o r p i d e ll’u n iv e rs o a c q u is ta n o s tr o f in a ti q u e s ta s te s s a p r o p r i e t à d i a g ita r e e t i r a r e a sé i c o r p e t t i le g g e r i, p e r q u e s to u n a ta l p r o p r i e t à o f o r z a si c h ia m ò f o r z a e l e tt r i c a , c h e s a r e b b e lo s te s s o c h e d ir e fo r z a a m b r a t a , o sia am brità in v e c e d i elettricità»

(G iovanardi 1 9 8 7 : 2 0 9 - 2 1 0 ; c o r s iv o n o s tr o ) .

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liquefazione, aggregazione, generazione “il generare”); nella bio­ logia (digestione, salivazione, ventilazione, fecondazione, vegeta­ zione “il vegetare”). Alla promozione di specifici meccanismi derivativi soprat­ tutto suffissali contribuisce, come si è visto, l’influsso del fran­ cese, grazie anche all’affinità fra le due lingue che fa sì che molti suffissati siano resi mediante formule di corrispondenza. Tra i nomi astratti, oltre ai deverbali in -zione, si espandono quelli con suffisso di antica data in -mento (allungam ento, bollim ento, sfumam ento, aggregamento, ecc.), in -tura {altura, bassura, aper­ tura, manifattura, orditura...), i deaggettivali in -ità, già visti, in -ezza (grandezza, larghezza, grossezza, picciolezza, cedevolezza, lucentezza, scabrezza, sensatezza, prontezza, ecc.). Nonostante la lingua settecentesca prediliga i vocaboli a suffisso pieno, non sono rari i deverbali a suffisso zero (m aneggio, spasimo, transito, ammasso, appoggio.. .). Prendono quota suffissati in -ismo e in -ista, per indicare una corrente di pensiero {cartesianism o...) o feno­ meni particolari {magnetismo, elettricismo) o gli aderenti a una corrente, a una professione {atomisti, elettricisti “elettrologi”, naturalisti, spiritualisti-, cfr. anche S e r i a n n i 1989a: 113-114). Si potenzia la capacità formativa o neologica della lingua con incremento dei derivati: aggettivi denominali in -ico, di cui s’è detto, in -ale {numero decimale, centesim ale, calcolo integrale, m edia proporzionale, aurora boreale, moto spirale; verm i intesti­ nali, verm i seminali, fe b b r i pestilenziali, vasi umbilicali); in -are {moto angolare, m ovim enti circolari, direzioni perpendicolari, glandule tonsillari, protuberanze mammillari, fib re muscolari, ecc.); in -oso {sostanza fungosa, legnosa, lichenosa, membranosa,pietrosa); in -ato e -izzato {carburato, fosforato, solforato); verbi denomina­ li in -eggiare (m aneggiare, verdeggiare, rosseggiare, lampeggiare, scarseggiare, ecc.). Sintomatico che tipi connotati più tecnicamente come quello in -izzare, favorito dai modelli francesi in -iser, e in -ificare, della classe di verbi fattitivi {polverizzare, cristalliz­ zare, volatilizzare, analizzare, elastificare, chiarificare, purificare, vetrificare, ecc.), così come i nomi deverbali in -zione, -ificazione, -izzazione, siano più diffusi nella chimica, la cui lingua raggiun­ ge un grado maggiore di tecnificazione. Tra i procedimenti derivazionali nella formazione delle parole un ruolo meno importante svolge la prefissazione, che è invece molto produttiva nella lingua d’oggi. Si notano nel settore della chimica prefissi con valore negativo o privativo: de-, dis-, in-, s-

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{decomposizione, decom bustione, disgiunge, disorganizza, inodo­ ro, incom bustibile, indecom ponibile, insolubile, svaporare, scolo­ rire, spiacevole) e la propensione a formare microsistemi {decom­ pongono, indecomposti, scom posizione). Si dà un elenco di quelli più frequenti nelle diverse lingue scientifiche: anti-, inter-, re-, ri-, sub- {antipigm ento, an tisettica, interm ezzo, interposto, revivificazione, ricomposizione, subordinati...). Anche il pro­ cedimento per composizione, che nell’italiano d’oggi rappre­ senta una delle fonti più vitali, è piuttosto marginale. Oltre ai composti con elementi colti, di cui s’è detto, vanno notati quelli con elementi indigeni, con base verbale {scaldavivande, acquedotti, cavamacchie, parafuoco) e con base nominale (composti N + N: bagnomaria, acquavite, piedestallo, cartapecora; e composti N + A: carbonfossile, acquafòrte, terraferma, ecc.). Una menzione particolare merita la lingua della chimica per il grado di tecnicizzazione raggiunto e il conseguente maggiore scarto dalla lingua comune, aspetto bene illustrato in G i o v a n a r d i 1987. La disciplina conosce un rinnovamento radicale di paradigma con il passaggio da una prospettiva alchemica a quel­ la di una moderna scienza fondata sul metodo sperimentale. A tale mutamento fa riscontro una innovazione altrettanto radica­ le del suo lessico specifico, sull’esempio della nomenclatura francese stabilita dal grande scienziato Lavoisier {M éthode de nom enclature chymique, 1787) e tradotta in Italia da Vincenzo Dandolo. L ’innovazione porta a un compiuto e coerente sistema di classificazione, affidato a derivati suffissali costituenti serie di coppie minime con valore oppositivo, in cui la serie in -ico e -oso (francese: -ique, -eux) serve a caratterizzare gli acidi secondo la loro valenza, e la serie -ato, -ito, -uro (francese: -ate, -ite, -ure) i sali e gli altri composti. Esemplificando lo schema sullo zolfo (dal lat. sulfur) si realizza la seguente serie terminologica: per gli acidi, solforico e solforoso, per gli altri composti, i termini solfa­ to, solfito, e solfuro. Tutta la terminologia del settore viene ridenominata: alle definizioni vaghe, tratte dalla lingua comune, di tipo descrittivo (per esempio: aria puzzolente guasta sostituito da gas idrogeno solfurato, aria viziata da gas azoto, aria pura da gas ossigeno), o funzionale {sai digestivo sostituito da muriato di potassa, sai catartico amaro da solfato di magnesio), o fondate su toponimi e eponimi, per esempio acqua di Nocera, diR ecoaro, si sostituiscono denominazioni che si limitano a dichiarare i ‘carat­ teri reali’ della sostanza, mentre le vecchie sopravvivono al di

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fuori del vocabolario specialistico (per esempio biacca, sostitui­ to da ossido d i piom bo bianco, creta da carbonato di calcio, o verderam e da ossido d i rame verde, e così via). La lingua della chimica è il primo esempio di una terminologia rigorosa, che, nell’instaurare un rapporto più preciso fra vocabolo e nozione, «rende vana la ricerca di quelle invenzioni formali e semantiche di cui erano stati maestri gli scienziati di formazione galileiana» ( G i o v a n a r d i 1987: 290). Al pieno raggiungimento di quel preciso colorito stilistico che caratterizza le lingue ‘settoriali’ moderne manca ancora il fenomeno dei ‘tecnicismi collaterali’, cioè quelle «particolari espressioni stereotipiche, non necessarie, a rigore, alle esigenze della denotatività scientifica, ma preferite per la loro connota­ zione tecnica», che marca la distanza di un certo lessico settoriale rispetto a quello comune e il cui uso si diffonderà con sicurezza crescente nell’Ottocento. Qualche isolato esempio viene dal linguaggio medico, come accusare, nel tipo accusare un dolore (in un consulto risalente al 1753: «ella accusa ancora qualche diffi­ coltà nel respiro nel salire le scale»), controindicare («gli aiuti accennati... erano manifestamente controindicati»), insulto “ac­ cesso morboso”, regione “distretto anatomico” e stadio “fase di una malattia” ( S e r i a n n i 1989a: 102-108 e 127). Alla maggiore economicità raggiunta mediante i procedi­ menti di condensazione nominale, tendenti a sganciare la scrit­ tura dal modello letterario e ad orientarla verso una comuni­ cazione di tipo referenziale, si accompagna una semplificazione della sintassi, che tende verso strutture più lineari e una organiz­ zazione del periodo paratattica e segmentata, funzionale soprat­ tutto alla osservazione sperimentale, come nel seguente esempio dalla chimica: Si versano tre parti di ossim uriatico semplice sopra una parte di puro iperterm ossido di manganese [ ...] Si adatta al m atraccio un tubo ricurvo, che corrisponda all’apparecchio idro-pneum atico. Si scalda il fondo del m atraccio con alcuni carboni, o con un bagno di sabbia. Si schiude un vapore gassiforme di colore giallo che si raccoglie nelle boccie alla maniera ordinaria. L ’acqua dell’apparecchio è bene che sia tiepida (G iovanardi 1987: 191). Il

Il fenomeno si riscontra in tutte le diverse scienze e riguarda le scritture di appunti, i «giornali», cioè i diari, in cui si annota-

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no le applicazioni sperimentali: un tipo di discorso scientifico in cui si affermano le tendenze più innovative, e che ha già una tradizione letteraria nel filone toscano, dal Redi al Magalotti ( A l t i e r i B i a g i 1976 e 1981). Un brano esemplare è il seguente da Istoria d el cam aleonte affricano di A. Vallisnieri: Cadeva il mese d ’agosto [ . . . ] . M ’accinsi all’opera colle mani trem an­ ti, levando pian piano la terra, e scansando il tu tto con diligenza diligentissima. Trovai l’uovo ancor bello, e turgido, lo sollevai con un cucchiaio, e guardandolo con attenzione, vidi che principiava a trasudar nel bel mezzo, gettando un um or cristallino. Destram ente l’apersi, e trovai il cam aleontino bello, vivo, semovente e totalm ente perfezionato. E ra cop erto colla sua pelle granita a foggia di sagrino6, di color tendente al verde, aggomitolato, come in una pallottola, colla coda, che gli passa­ va davanti, e cerchiava il collo, cogli occhi serrati, gambe rauncinate verso il ventre, tutte compiute, ed arm ate colle sue ugne (O pere fisico­ m ediche, 1733, si cita da M organa 1986: 2 5 8 ).

Alla relazione, «ritmata dal ricorrere dei verbi di percezione che scandiscono le fasi cruciali dell’esperienza», corrisponde il procedere lineare del periodo: sintassi in prevalenza paratattica e spezzata dall’abbondante interpunzione, assenza di congiun­ zioni subordinative (tranne un «che» completivo e uno relati­ vo), abbondanza di sintagmi nominali del tipo «con» + sostan­ tivo. Da notare pure le proposizioni in costruzione diretta, con l’eccezione di un caso di anticipazione dell’avverbio («Destramen­ te l’apersi»), in funzione di discreta mise en relief, e la figura etimologica «con diligenza diligentissima», che conferiscono la dignità stilistica conveniente «alla solennità, per lo scienziato sperimentatore, di questo momento» e a «quel senso della “me­ raviglia” più volte rilevato come tipico della nostra tradizione naturalistica di fronte all’osservazione di un fenomeno biologi­ co e alla verifica della perfetta “macchinetta” di ogni vivente» (l’osservazione è di M o r g a n a 1986 sulla scorta delle precedenti analisi di A l t i e r i B i a g i 1976). Un altro brano, questa volta da Spallanzani, da una relazione su «un’agonia per decerebrazione» praticata su salamandre, permette di confermare le osservazioni precedenti, e di apprez­ zare il periodare spezzato, coupé, come dicono i francesi, con­ nesso con il procedere ellittico, determinato daH’eliminazione 6 sagrino·, pelle di pesce, sec. XV III (DEI).

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dei legami sintattici espliciti, sostituiti dalla frequente interpun­ zione, e che si differenzia dal periodare ‘architettonico’ degli scritti di genere trattatistico: M a le salamandre senza cervello dopo mezzo quarto d ’ora cangiata avevano scena. Aprivano pigram ente gli occhi, e toccandoli li chiudeva­ no, aprivano la bocca, si muovevano o piuttosto si trascinavano da luogo a luogo, anzi essendo sotto ad un vaso di vetro tentavano di uscire per un’apertura tra il labbro del vaso, e la tavola; né non potendolo, si sforzavano di rizzarsi su per le pareti del vaso. Quetavano a volta a volta, indi tornavano a dar nuovi segni di volersene andare. Il giorno appresso erano molto più istupidite, e nel terzo le trovai morte (cit. da A ltieri B iagi 1976: 4 3 0 ).

Infine un esempio da un ambito diverso, un resoconto di idraulica del Frisi, dove si nota il prevalere della paratassi e della segmentazione, aiutata dall’interpunzione: A queste naturali osservazioni aggiugnerò alcune sperienze fisiche. H o fatto lungamente arrotare diversi sassi fluviatili. Ne ho fatto scuotere ancora una gran quantità in alcune casse di legno gagliardamente per m olte ore. T utto ciò che co ll’azione delle ruote si staccava d a’ sassi nel prim o caso, e che nell’altro trovavasi tra gli angoli delle casse era un polviglio sottilissimo, di colore biancastro, che si spargeva con un soffio dell’aria (Morgana 1987: 2 5 9 ).

2. La lingua dell’economia Un’epoca di trasformazioni economiche segnate dall’inci­ piente rivoluzione industriale comporta il totale rinnovamento della terminologia relativa in parte per altro ancora in formazio­ ne. Il dibattito dottrinario europeo, imperniato intorno alle nuove dottrine dei Fisiocratici, in cui i nostri economisti svolgono un ruolo di primo piano, e la nuova mentalità riformatrice che dovunque, da Napoli alla Toscana alla Lombardia, impegna i philosophes nell’amministrazione dello Stato, fanno ά ύ Υ econo­ mia politica quella «nobilissima e quasi nuova scienza del gover­ no economico degli Stati», di cui parla il Galiani nel trattato D ella moneta. A conferma dell’ascesa della disciplina basti il seguente fatto: nel 1754 la prima cattedra, ricoperta a Napoli dal Genovesi, si chiama «di meccanica e di commercio», nel 1769 a Milano la cattedra, ricoperta dal Beccaria, passa dalla denomi­

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nazione di Scienze cam erali a quella di Econom ia pubblica. A Napoli il Genovesi reclama l’uso dell’italiano nella nuova scien­ za e detta le proprie lezioni in italiano per il primo insegnamen­ to di Economia in Europa (1754). L ’«economia politica deve passare dal silenzio de’ gabinetti de’ filosofi alle mani de’ popo­ li», dichiara anche il Beccaria, reclamando l’uso della lingua italiana «per renderne così i lumi più comuni e più famigliari ad ogni classe di persone, per addestrare per tempo i giovani a parlare la lingua degli affari, ed attesa la sterilità della lingua latina in questa materia» ( B e c c a r l a 1958: I , 342). Attraverso l’impegno dei nostri economisti, dal Galiani al G e­ novesi, dal Verri al Beccaria, vengono fissandosi nuovi termini e significati, con la sostituzione o rideterminazione del vecchio voca­ bolario mercantile, in un ricambio rapido e in linea con quello europeo. Anche in questo settore si rifugge dal crudo tecnicismo, dall’«oscuro m etafisico gergo» (Galiani). Il nuovo vocabolario è costituito in massima parte da mutamenti semantici di termini correnti che prendono specificazioni tecniche, calcate general­ mente sul francese o sull’inglese. Per esempio, industria dal significato più generico e tradizionale di “ogni sorta di attività mercantile” passa a quello moderno di “produzione di beni di commercio”. In questo senso lo si trova usato nelle M editazioni sull’econom ia politica di Pietro Verri (1771). Si affermano nella seconda metà del Settecento com m ercio, industria, produzione, distribuzione, statistica, masse (in senso economico e politico) ( F o l e n a 1983: 39-40). Un nutrito campionario di terminologia legata al libero scam­ bio e al mercato finanziario è ben documentato nelle sue oscil­ lazioni da tutta la stampa milanese, come illustra M o r g a n a 1982: denaro di banca / denari in carte / biglietti di banco-, lettere di cam bio per “cambiali”; concorrenza / libera concorrenza-, mas­ sa circolante-, m oneta circolante, ecc. Si diffondono velocemente i neologismi: per esempio econom ista (1770: P. Verri) compare quasi contemporaneamente al francese économ iste (1767) (in origine nel significato di “aderente alle teorie dei Fisiocratici”, ma già il D ’Alberti nel registrarlo come «voce nuova», lo defini­ sce “colui che parla di economia”), seguito dall’aggettivo di relazione per i diversi sintagmi tecnici {politica econom ica, legi­ slazione economica). Tutti settecenteschi i derivati commerciale, com m erciabile, com m erciante sost. (G D L I1961-1992). Esportare nel significato specifico, che D ’Alberti puntualmente registra

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come «neologismo del commercio e dell’uso», è affiancato da esportazione, e gradualmente sostituiscono i tradizionali estrar­ re, estrazione. Intorno a cam bio e cam biare si formano cam biale (da aggettivo di relazione a sostantivo: GD LI porta come prima attestazione Alfieri, ma è già in Galiani), cam biatore, e cam biava­ lute (attestato come ottocentesco da GDLI, ma già presente nel secondo Settecento). A zione, in senso finanziario, e azionario·, i due francesismi hanno la prima attestazione in Galiani, D ella moneta. In francese action è attestato dal 1669, e actionnaire “chi possiede azioni” dal 1675, mentre actionniste compare nel 1730, ma per poco tempo. D ’ a l b e r t i 1797-1805 registra il primo come «Francesismo mercantile» e, sotto la voce azionista, osser­ va: «Termine mercantile poco usato. Più comunemente si dice Azionario, Associato». In italiano azionario è sostituito nell’O t­ tocento da azionista ( F o l e n a 1983: 65 n. 8 8 ) . Quanto alle tendenze neologiche, l’economia pare preferire i nominali in -mento, una delle classi più produttive della lingua del Settecento, ma meno tecnica della classe in -ione, e che pare contraddistinguere una precisa categoria morfolessicale: accre­ scimento e alzam ento e avvilim ento d el prezzo, vacillam ento di prezzi, alzam enti e abbassam enti della moneta, accumulamento, allungamento e accorciam ento, incarimento della derrata, stabili­ m ento di m ercati e sviluppamento ( F o l e n a 1983: 51) (che trova­ no riscontro nel francese établissem ent e developpem ent), e rim borsamento, ma anche rimborso, rindennizzamento ( M o r g a n a 1982: 432), consumamento (Genovesi, L i b r a n d i 1992a: 659).

3. La lingua deM’amministrazione Se dal piano delle idee generali, dove il processo di fissazio­ ne terminologica appare più omogeneamente unitario, influen­ zato dai grandi centri di irradiazione europea, si scende a quello delle applicazioni pratiche la situazione è molto più variegata e diversa da regione a regione, la lingua si trova a fare i conti con le strutture economiche esistenti e oggetti reali e locali, con nomi di istituzioni storiche, di consuetudini, di unità di misura, di merci ecc. Il Galiani in Della m oneta (1751), facendo riferi­ mento alla realtà storica napoletana, richiama spesso il linguag­ gio mercantile corrente di tradizione locale, mediante quei pro­ cedimenti di riformulazione che abbiamo riscontrato anche ne­

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gli altri linguaggi tecnici. Eccone un piccolo campionario (da G a l i a n i 1975): «prezzo fisso, che con voce normanna è detto assisa» (144), «la mutazione delle monete d’un metallo con quelle d’un altro si fa tra noi da persone occupate a sì fatto impiego e dette bancherotti o cagnacavalli»·, «il somministrare questa moneta dà da vivere a una professione d’uomini che chiamasi cagnacavalli» (113); «un fondo di danaro diviso in moltissime azioni o, come noi diciamo, carate»·, «gli azionari, detti fra noi consignatari» (241), «compagnie, monopoli, ius prohibendi, ordini e statuti (che altrove si dicono police, e noi chiameremmo aggravi)»·, «i Napoletani, quasi in tutto ne’ costu­ mi agli antichi Spagnuoli rassomiglianti, trovano grandissimo piacere a conservar ripieni di monete i loro forzieri, che scrittorii e scarabattoli essi chiamano»; «tutte le rendite, che noi chiamia­ mo arrendam ene, fiscali, istrumentarv, in Roma diconsi luoghi di m onte e vacabili·, in Francia rentes sur l ’H ótel de ville o effets royaux»; «Infine s’ha riguardo alla maggior comodità che danno i metalli ricchi per lo trasporto, che non dà il rame: donde viene quello che tra noi si dice alagio, corrottamente da “agio”, che è un prezzo d’affezione dato alle preziose monete»7. Analogo fenomeno ci è offerto da Domenico Grimaldi ope­ rante in Calabria e autore del Saggio di econom ia campestre per la Calabria Ultra (1770), studiato da L i b r a n d i 1992: 777-779. Scarsi appaiono qui i tecnicismi di radicamento locale, mentre nelle contemporanee scritture pratiche e private ricorrono adat­ tamenti di forme dialettali. Quelli che il Grimaldi denomina prati secchi e prati umidi, corrispondono nelle scritture pratiche a seccagno e abeveratizzo (in calabrese siccagnu, abbiviratizzu), e casi simili. Una ricchissima e più diretta testimonianza della lingua economico-amministrativa nel suo versante pratico in uso in terri­ torio lombardo è conservata nelle Consulte amministrative di Cesare Beccaria. Si tratta di scritture (comprese in un arco di tempo che va dal 1771 al 1794, anno della morte del Beccaria), volte alla pratica quotidiana di governo dell’amministrazione e del mercato milanese, ricche di quelle forme dialettali-locali, consolidatesi in un livello intermedio tra il dialetto e la lingua 1 Alagio, spiega Folena, è preziosa testimonianza della forma primitiva di derivazione greco-bizantina, nota in altri luoghi nella forme laggio, lazo «(forse per aplologia da l’alaggio) lazo, e poi per scorporazione aggio, e azo, e già passata in francese nella forma agio (1679)» (F olena 1983: 46).

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toscana, che rappresentano l’altra faccia dell’italiano settecente­ sco, e su cui si è soffermato F olena 1983·: 70-86.

Prendendo l’esempio del commercio del grano, a fronte di fornai, contrabbandi, grano turco, tariffa, calmiere, usati negli scritti teorici o di circolazione più ampia, qui compaiono i corrispettivi locali prestinari, sfrosi, m elgone, meta e calmerò. Il termine dialettale entra nei processi derivativi che toccano l’ita­ liano, per esempio da sfrosà (< * e x -fraudare “frodare [la doga­ na]”) si origina il deverbale sfros, gli italianizzati sfroso, sfrosare e il relativo nomen agentis sfrosatore, analogamente ad ammasso, ammassare, am m assatore, nel significato tecnico di “incetta, incettatore”, caratteristico degli economisti lombardi del Sette­ cento. Per m elgone (mil. melgon), termine del mercato milanese, va rilevato che esso è costantemente preferito nelle Consulte al sinonimo, pure settentrionale ma di più larga diffusione, form entone, nell’intento di aderire all’uso più locale (F olena 1983: 73. Su m eta e calm iere v. Testo 11). E ancora, riguardo all’industria della seta, negli scritti desti­ nati a circolazione più ampia Beccaria usa bacchi da seta non bigatti, e gelsi-, evita il settentrionale moraro, ma in una scrittura più corsiva compare un m orroni (moron “gelso”), termine loca­ le, presente nella lingua cancelleresca milanese fin dal X V seco­ lo (M asini 1983: 393). Nelle Consulte si trova: «lavori analoghi fatti colle nostre tele e coi nostrifiloselli» (mil. filo sei “filaticcio”); filan da, termine che non aveva ancora varcato i confini regionali per affermarsi anche in Toscana, alterna con filatoio, letterario ma non estraneo all’uso colto milanese. Particolarmente ricco di denominazioni caratteristiche del mercato milanese è il settore dell’alimentazione. Dal R egola­ m ento per dare la m eta a i Salsamentari (1793): busecche (mil. busécca) “budella”, cervellate “salsiccia con carne, cervello e aromi”, costajole (mil. costajoeura) “costolette di maiale”, gradisella “rete del maiale”, luganica e luganeghini “salsiccia, salsicciotti”, petazzo “pancetta”. Nell’ambito della panificazione: prestinaro (mil. prestinée), solaro (mil. solée “soffitta, granaio”),farinaro (mì\. farin ée), postavo (mil. postée “rivenditore”), campare (mil. campée), dove l’evolu­ zione verso l’italiano sarà completa quando al suffisso setten­ trionale -aro si sostituirà quello toscano -aio. E tale processo è in atto, come dimostrano le oscillazioni tra telaro e telaio, operavo e operaio. Interessante la conservazione del morfema dialettale

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in questi altri termini specializzati: lavorerio (mil. lavoreri), spe­ cifico della lavorazione delle lane: «insegnare ai fanciulli e fan­ ciulle della valle la filatura ed il lavorerio delle lane»; e sem inerio “seminagione”: «in tempi di semineri e raccolti», «per il seminerio di quelle risare», dove è da sottolineare anche risarà, forma usuale pure nel Verri (F olena 1983: 75-79). Un’utile testimo­ nianza di questo tipo di regionalismi di area lombarda e setten­ trionale in genere si trova nel Vocabolario dom estico annesso a F acciolati 1747.

4. La lingua legale L ’italiano avanza anche in un settore particolarmente conservativo, il giuridico, dove si estende a tutte le occasioni e a tutti i livelli. La via era già stata aperta nel Seicento dal D ottor volgare di Giovan Battista De Luca (1673), prima trattazione in italiano «di tutta la legge civile, canonica, feudale, e municipale, nelle cose più ricevute in pratica». Da allora l’italiano diventa potenzialmente utilizzabile in tutti gli usi giuridici. Soprattutto negli ultimi decenni l’affermazione dell’italiano si fa più veloce, favorita dal clima delle riforme, e dai dibattiti che, in Italia e all’estero, si svolgono quasi sempre in lingua moderna. Anche qui in prima linea sono gli scrittori del «Caffè», dalle cui pagine Alessandro Verri chiede: «Fate adunque leggi chiare, ed ordina­ te e nella lingua volgare per essere intese da tutti». Cesare Beccaria si batte contro l’«oscurità delle leggi», che scritte in «una lingua straniera al popolo» lo pongono «nella dipendenza di alcuni pochi», impedendogli di «giudicar da se stesso qual sarebbe l’esito della sua libertà» (B eccaria 1984; v. Testo 4.1). Il latino continua a permanere nei domini tradizionali: l’insegnamen­ to universitario, i trattati e le monografie, le sentenze dei tribunali supremi8, e a determinare il lessico dell’italiano giuridico. Sul piano generale, per esempio nelle Istituzioni giustinianee di cui si moltiplicano le traduzioni, e su quello dottrinale ci si 8 Alcuni dati percentuali aiutano a cogliere la misura dell’avanzamento: delle opere di diritto stampate in Italia nell’arco dell’intero secolo il 19% sono in italiano, di cui il 22% in Toscana e il 18% nel resto d’Italia. L ’incre­ mento della produzione in italiano si ha nella seconda metà del secolo, 31% rispetto al 7 % della prima metà e riguarda soprattutto la pubblicazione di leggi e statuti (F iorelli 1984: 129 n. 9).

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sforza di «fare onore alla lingua, di mostrarne le ricchezze e le attitudini» trasferendo abbondantemente nell’italiano il lessico giuridico latino. Notiamo nell’articolo D ella lo c a z io n e , e conduzione, i tecnicismi dotti come locatore per “chi affitta”, attestato per la prima volta nel De Luca citato (Z olli 1974: 82), le voci e le perifrasi specifiche del lessico burocratico, s’intende, com pete, atteso che·.

piemontesi (1760) e riguardante l’arte degli orefici, rileviamo il termine locale pregone9, e diverse parole, caratteristiche del di­ ritto isolano, come maggiorale “dirigente” e gremio “corporazione 10 :

La locazione, e conduzione si è una cosa poco diversa dalla com pra, e vendita, e vien com presa dalle stesse regole della legge. Atteso che se la com pra e la vendita si ferm a qualor resta accordato il prezzo, così la locazione, e conduzione s’intende conchiusa, se si ferma la m ercede, e subito com pete al locatore l’azione di locato, e al conduttore quella di condutto.

Per Napoli l’estratto da una circolare di re Ferdinando IV agli amministratori delle «università», cioè delle comunità, di Terra di Lavoro (1768):

Sul piano applicativo spicciolo, statuti e testi ‘regolativi’ si mantengono piuttosto lontani da una relativa unità, dominati dall’ibridismo delle antiche abitudini cancelleresche, dove regionalismi convivono con latinismi e pseudolatinismi curiali ( F i o r e l l i 1984: 130-131 e S e r i a n n i 1989b: 198-199). Alcuni brevi documenti, citati da F i o r e l l i 1984, possono esemplificare il fenomeno, riguardante soprattutto il piano grafico e fonomorfologico. Da un biglietto di giustizia palermitano risalente al 1715, rileviamo l’uso burocratico nelle abbreviazioni nei nomi delle autorità «R.G.C.» e «S.M » per “Regia Gran Corte” e “Sua Maestà”, e nelle espressioni ossequiose e ridondanti «che Dio guardi» e «miserando»: Si hà servito Sua Eccellenza à relazione del Tribunale della R .G .C . condannare à m orte à Cosimo M ongavaro della T erra d ’Asaro famoso bandito, discorsore di cam pagna, prosecuto de furto in campis cum vi, et violentia com m esso doppo l ’indulto generale di S.M. (che Dio guardi) e di molti altri furti della stessa qualità commessi prim a del riferito indul­ to, e per la m orte, e nece del quondam m iserando Giovanni Gensabella (ivi: 140).

Notiamo una intera formula latina de fu rto in campis cum vi, et violentia, il latinismo nece, che ripete senza ragione morte, un falso latinismo privo di storia è discorsore, che «contraffà discorritore accozzando insieme elementi dall’apparenza più la­ tina» (ivi: 139), tratti regionali nell’uso dell’ausiliare («Si hà servito») e nella costruzione di condannare («condannare... à Cosimo Mongavaro»), Da un bando sardo emanato dai viceré

*

»

Affinché i com pratori sappiano la qualità dell’oro, di cui sarà form a­ to il lavoro, sarà tenuto, ed obbligato l’artefice, prima della rimessione di esso, presentarlo, e manifestarlo al maggiorale di detto gremio (ivi: 139).

Il presente con le debbite relate da farsi da ciascuno Cancelliere e M astrodatti di C orte de’ sottoscritti Luoghi ritorni da noi per questo istesso C orriere, a chi li Magnifici Governanti paghino il suo giusto pedatico di accesso e ricesso da un Luogo a un altro, a tenore de gli ultimi regali ordini (ivi: 140),

dove vanno notati, oltre al raddoppiamento in debbite e a chi per “a cui”, i termini locali relata “rapporto” (lat. r e l a t u s “riferi­ to ”), pedatico “onorario”, “indennità di trasferta”, e mastrodatti o mastro d ’atti, vocabolo napoletano per “attuario”, “cancellie­ re di tribunale”, documentato fin dal secolo XV. La varietà riguarda particolarmente le denominazioni uffi­ ciali di istituzioni pubbliche. Nel territorio dei Ducati d i Parma e Piacenza l’esattore di dazi si chiama comarco, nome documen­ tato a Parma dal secolo X V {DEL. v. dotta, lat. c o m a r c h u s ) e comarchìa il suo ufficio11. Ai confini occidentali l’italiano delle istituzioni è aperto all’influsso del francese, così come, per ra­ gioni diverse, a quelli orientali al tedesco. In un passo delle costituzioni sabaude del 1723 si incontrano due francesismi, controlore e il suo derivato controlorare («Dovrà il Controlore registrar’, e controlorare tutte le Provvisioni, che si fanno dal Magistrato continenti Declaratorie, e fissazioni di Grazie», F i o r e l l i 1984: 139)12. Da una sentenza di condanna emessa dal 9 Dal latino praeco “banditore” attraverso lo spagnolo pregón. 10 Collegate in catalano a majoral e gremì, in castigliano a mayoral e gremio·. cfr. lat. major e gremium (F iorelli 1984: 139 e Loi Corvetto 1992: 902). 11 D E I 1950-1957: lat. medioev. comarcha, il territorio del vescovato di Parma e paese confinante. Di origine germanica. 12 La forma controllare è foggiata «direttamente sul fr. contròler coll’in­

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tribunale di Trieste, territorio sottoposto al governo austriaco, troviamo un termine come Ur/eda (ted. U r/ehde)lì e alcuni latinismi giuridici come crime e detento: Si è legalmente rillevato che lui inquisito Fran cesco Archangeli per crime di furto dom estico in Vienna fosse stato nell’anno 1764 condanna­ to a lavori pubblici e detento in carcere di grazia per quattro anni in ferri et al bando perpetuo di tutti li Stati austriaci ed ereditari, prestatone per l’osservanza d ’esso il giuram ento Urpheda (ivi: 142).

Un caso particolare rispetto alla involontaria diversificazione regionale dell’italiano amministrativo e legale, è quello di Vene­ zia, dove l’uso dell’idioma locale in situazioni ufficiali era giusti­ ficato dalla storia stessa di Venezia. Qui sopravvive fino al 1797 «una delimitazione di confini nell’uso legale tra due diversi volgari nazionali: al toscano universalmente accolto Venezia sostituisce per determinati usi il suo veneziano». I nomi dei magistrati si conservano nella forma dialettale: P etizion , Esam inador, Forestier, M obile, Procurator, Proprio, Piovego, Milizia da mar. Le formule legislative ripetono un frasario tutto caratteristico come Sia preso “sia deliberato”, L ’anderà parte “sarà preso il partito” («Sia preso che raccolti i Statuti, Libri, et altro come sopra dal Magistrato de Conservatori delle Leggi restino quelli ben custoditi», in un decreto del 1703; « L ’anderà parte, che sia rissolutamente prohibito a tutti li Nodari...», in una proposta del 1728). È nota la consuetudine di usare l’idio­ ma veneziano nella pratica del foro, sia a Venezia sia nell’ambito giurisdizionale di terraferma. Si tratta di un veneziano ‘illustre’, di cui Goldoni, che aveva esercitato l’avvocatura, ci ha lasciato una testimonianza nella commedia L ’avvocato veneziano (v. T e­ sto 9), e dotato di una propria terminologia specifica, per esem­ pio: trattar “disputare una causa”, taggiar “revocare”, laudar trusione della doppia -/- né più né meno che controllore sul fr. contróleur. Questo sostantivo non è in italiano un deverbale: e così si spiega il suffisso -ore invece di -atore» (ivi: 139). 13 Così lo definisce la Constitutio criminalis Therestana del 1768, nella sua traduzione ufficiale italiana del 1772: «l’orfeda è una fidagione, ò sia promessa giudiziale, mercé cui quel tale, che doppo la terminazione del processo criminale fù assolto, ò pur condannato...», si obbliga di non «ven­ dicarsi contro niuno», oppure «di non ritornare nel territorio, da cui è bandito, ò di non sortire fuori del luogo, in cui è confinato» (F iorelli 1984: 142).

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“conferm are”, p o n to de rason “articolo legale”, p iezaria “mallevadoria”, vesta “toga”, fattura “sommario degli atti lega­ li” (V lA N E L L O 1960). Al finire del secolo il ritiro del latino da leggi, dottrina giuridica e prassi lascerà spazio al francese, il quale dopo il 1796 sarà imposto dalle armate della Francia repubblicana e poi dal dominio napoleonico, e la cui influenza sul diritto e sull’amministrazione pubblica contribuirà ad unificare una terminologia spiccatamente regionale, esponendola in maniera più rilevante di altri linguaggi al francesismo e al neologismo.

Capitolo quinto Verso un italiano ‘medio’

1. La predicazione Una occasione per la maggioranza della popolazione di veni­ re in contatto con l’italiano è tuttora rappresentata dal rapporto con il clero e più precisamente dalla predicazione. Fin dal Medio­ evo la predicazione era stata uno dei principali canali di trasmis­ sione del volgare. E adesso, dopo la pratica eminentemente oratoria della predica barocca, tesa alla maestosità dell’eloquio e agli effetti spettacolari, prende forme più sobrie, rispondenti alle nuove esigenze di un discorso didascalico e istruttivo, capa­ ce di comunicare più direttamente e di penetrare in tutti gli strati sociali. Un letterato di accentuate tendenze classicistiche e filotoscane, il veronese Giulio Cesare Becelli, nel suo Esam e della Retorica antica ed uso della m oderna (1735-1739) poneva l’oratoria religiosa tra i generi d’uso comunicativo, e consigliava di evitare «una lingua ricercata soverchiamente e Toscana», di tralasciare i «periodi molto lunghi e rotondi», che antepongono e pospongono «le parole come vuol l’eleganza, non come richie­ de l’ordine del parlar ordinario» (citato da V i t a l e 1986: 420). Nei salotti la predicazione si adegua al gusto nuovo, alle forme didascaliche dell’epoca, la novella e il dialogo, e abbandona i toni alti per uno stile medio e conversevole ( B o l z o n i 1984: 1069-1071). Ancora più accessibile e piano il discorso per la predica rivolta agli strati più popolari della città e della campagna. Scriveva s. Alfonso de Liguori nella Istruzione a i predicatori o sia vero m odo di predicare con semplicità evangelica (1771) che non c’era da ricavare profitto da un discorso pieno «di fiori, di arguzie, di pensieri ingegnosi e di curiose descrizioni, di parole sonanti, e tutte lontane dalla comune intelligenza, e di periodi contornati e così lunghi, che per capirne la conclusione anche il dotto bisogna che vi applichi tutta la sua mente»: un tipo di

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discorso tale da scoraggiare i «poveri villani», ai quali il predica­ tore poteva sembrare parlar «latino». E il Muratori testimonia nei Pregi d e ll’eloquenza (1750): «Ho veduto contadini e povera gente ascoltare a bocca aperta panegeristi, che sembravano par­ lar con gli Angeli, senza che ne capissero un menomo senso», denunciando la pratica di una predicazione in cui «molte erano le parole, poche le cose». La Congregazione delle Apostoliche Missioni di Napoli nel­ le R egole del 1768 consiglia l’uso di una lingua meno letteraria, evitando «certe voci e certe maniere che son troppo toscane, e nulla intese dalla moltitudine». L ’invito a un linguaggio più popolare non significa però adozione del dialetto. C ’è l’eccezio­ ne della Sicilia, dove sono le stesse autorità ecclesiastiche a raccomandare l’uso del dialetto nella predicazione e nell’inse­ gnamento catechistico, con la produzione di una serie di catechismi in siciliano ( L i b r a n d i 1988: 225). Alfonso de Liguori, fondatore dell’ordine dei Redentoristi, impegnato nella catechizzazione delle campagne meridionali, promuove per l’oratoria sacra «un italiano sostanzialmente fedele alle regole della lingua naziona­ le, ma più moderno e lineare nelle costruzioni sintattiche, con qualche rara apertura ai regionalismi, per salvaguardare anche la comprensione dei dialettofoni» ( L i b r a n d i 1992a: 653). La sensibilità al problema linguistico lo induce ad approntare per i suoi discepoli una sommaria grammatica, contenente alcune regole grafiche, fonetiche e morfologiche conformi alla tradizio­ ne letteraria1. Nella Istruzione a i Predicatori raccomanda di usa­ re parole «popolari ed usuali», «periodi corti e sciolti», di pre­ dicare insomma «alla semplice e popolare», poiché «non si parla solo a’ dotti, ma anche a’ rozzi». «Che serve a dire magione per casa, compiuto per com pito, dovizia per ricchezze, trarre per tira­ re, dorso per le spalle, veruno per niuno, condonare per perdona­ re, pudore per vergogna, impudenza per audacia, aggradevole e m alagevole per gradito e difficile, consorte per m arito e simili?»12 1 Si tratta di Alcuni brevi avvertimenti per la lingua toscana ricavati dal Salviati, dal Buommattei, dal Facciolati..., contenente poche e schematiche regole grafiche, fonetiche e morfologiche, con lunghe liste del tipo «si dice abbandonare non abandonare» (L ibrandi 1984). 2 La preferenza data a niuno per nessuno si spiega col fatto che fino a quasi tutto il Settecento nessuno è giudicato dalle grammatiche, sulla scorta dell’effettivo uso letterario, come proprio dell’uso poetico, e niuno della prosa. Anche negli Avvertimenti del Facciolati, utilizzati dal Liguori per la sua grammatichetta, si trova alla voce nissuno (veneta): «voce poco buona. In

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( L i b r a n d i 1988: 230-231), domanda il de Liguori a un suo cor­ rispondente, portando un campione di forme alternative e rive­ lando una chiara coscienza sincronica dell’uso che rifugge da aulicismi e arcaismi. È il modello di lingua offerto nei Serm oni com pendiati, dove sono presenti esempi di prediche per pubbli­ ci e contesti differenziati, richiedenti stili diversi, ma che pure non comportano evidenti differenze di registro: una lingua omo­ genea e coesa, aperta però al parlato, nella forma di regionalismi meridionali del tipo comune, di quelli cioè «che anche nel­ l’odierno italiano regionale possono più facilmente sfuggire all’autocontrollo del parlante: è il caso di tenere usato nel signi­ ficato di “avere”, stare al posto di essere, cercare per chiedere» ( L i b r a n d i 1988: 248). Un’attenzione specifica merita la sintassi: lineare, quasi totalmente aliena dalla costruzione inversa e dal periodare complesso e subordinativo, oltre che dagli artifici retorici cari all’oratoria precedente. L ’interrogazione, tipico ar­ tificio del genere, che ricorre in «strutture iterative, finalizzate a intensificare la comunicazione e il coinvolgimento dell’udito­ rio» (ivi: 236), consente di misurare la distanza del nuovo mo­ dello di sermone, dove l’interrogativa si presenta nel tipo senza soggetto pronominale, dalla prosa alta contemporanea. Qui è prevalente per le frasi interrogative con soggetto pronominale espresso il modulo con pronome posposto al verbo (per esem­ pio «non dic’egli?», o con pronome neutro «E egli vero ch e... ?»), cioè il tipo letterario che ha origine nella lingua trecentesca e in particolare nella prosa del Boccaccio, e che, accolto nelle Prose della volgar lingua del Bembo, si impone agli scrittori successivi. La sequenza verbo-pronome mostra massima espansione tra Sette e Ottocento nella trattatistica scientifica, economica, filo­ sofica, nella prosa letteraria; mentre il modulo interrogativo senza pronome è più frequente nella lingua di registro medio degli epistolari e della commedia ( P a t o t a 1990: 207-208). Si tratta di un fenomeno minimo ma rivelatore della dicotomia che si instaura fra diversi livelli di scrittura a partire dal Cinquecen­ to, e che col Settecento segna in maniera eloquente la frattura fra un italiano scritto dell’uso elevato e un «italiano scritto

suo luogo dicesi niuno, o nessuno; ma niuno è della prosa, nessuno piuttosto del verso». È solo alla fine del Settecento che niuno e nessuno invertiranno le parti e il primo passerà a variante aulica o arcaica e il secondo entrerà nell’uso corrente (Serianni 1982 e L ibrandi 1988: 232).

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dell’uso medio», che tenta di avvicinarsi alle cadenze del parlato (ivi: 401). Insomma anche a s. Alfonso e al suo esempio di lingua legata alla tradizione letteraria, ma semplificata e resa accessibi­ le al pubblico non colto, quel pubblico che difficilmente poteva avere altri contatti con l’italiano, spetta una parte nella storia della nostra lingua, per aver contribuito a mettere «in moto, con molti altri, una delle ondate che hanno successivamente diffuso la lingua nel nostro paese» (Bruni, Editoriale in L i b r a n d i 1984: 10).

2. Il teatro comico In un secolo di grande fervore teatrale e di allargamento del pubblico una considerazione particolare va riservata al teatro come canale di diffusione dell’italiano oltre che documento di un italiano medio in via di formazione. Il Maggi sullo scorcio del Seicento ritrae la folla che si accalca nei teatri ad ascoltare melodrammi e commedie e legge avidamente il librett, il libretto d’opera ( B o n g r a n i in M o r g a n a 1992: 112). Pier Jacopo Martel­ lo all’inizio del secolo teorizza che le tragedie debbano rappre­ sentarsi «a’ dotti, a’ gentiluomini, a dame, ad artigiani, a’ vecchi, a’ giovani, e sino a’ fanciulli, e questo mescolamento insieme d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni nascita e professione sarà il vero popolo» ( A l t i e r i B i a g i 1980: 64). Il teatro musicale e dramma­ tico acquista insomma una centralità sociale, mondana e cultu­ rale. E sede di discussioni teoriche, di sperimentazioni e di scambi internazionali: un insieme di fattori attraverso i quali si fa strada nella pratica teatrale un italiano di registro intermedio tra il codice alto e quello basso, finora prerogativa dei dialetti e campo del linguaggio delle maschere. Lo spirito di riforma dell’Arcadia porta ordine nella mesco­ lanza di generi e neH’ibridismo di linguaggi che caratterizzava il teatro barocco, indirizzando verso un teatro del «vero» fondato sulla «naturalezza del dire». Nell’opera in musica Metastasio ne fissa le regole del genere alto (v. cap. V III.2). Il teatro comico, su cui agisce l’influsso dei modelli francesi, e precisamente di Molière, si avvia verso forme ancorate a un testo scritto, a cui Goldoni conferirà piena dignità letteraria. Il genere comico è più direttamente condizionato dal pub­ blico, il quale si è ampliato socialmente e culturalmente: un pubblico a pagamento di spettatori delle diverse classi sociali,

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artigiani, commercianti, operai, dei cui gusti e della cui compe­ tenza linguistica gli autori di commedie sono obbligati a tenere conto3, soprattutto adesso che i testi si affidano non più ai meccanismi dell’intreccio ma al «carattere» dei personaggi e alla verità delle situazioni. Quindi testi interamente scritti che non lasciano «a’ comici la libertà di parlare a talento loro», spiega il Goldoni nella Donna di garbo. Si abbandona il teatro di maschere e la pratica della recita­ zione «all’improvviso», fondata su tipi linguisticamente caratte­ rizzati, come il mercante veneziano, il pedante bolognese, il nobile napoletano, il servo bergamasco, l’italiano convenzionale e melodrammatico dell’amoroso4. La realtà quotidiana entra in scena e impone un linguaggio nuovo. Anche quando si finge l’«improvvisato», si cerca il verosimile, come spiega il Goldoni, che nel Teatro com ico, manifesto del suo programma di riforma, fa dire al personaggio suo portavoce: «Noi facciamo per lo più commedie di carattere premeditate; ma quando ci accada di parlare aH’improvviso, ci serviamo dello stile familiare, naturale e facile, per non distaccarsi dal verisimile». «Stile familiare», ma comprensibile a un pubblico che sem­ pre più spesso esorbita da quello cittadino e regionale, a spetta­ tori parlanti lingue diverse, il veneziano, il romano, il milanese, il napoletano e così via. «Quanto alla lingua - scrive ancora il Goldoni in occasione della prima raccolta delle sue commedie ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi e voci 3 Importante in uno studio sulla lingua della commedia il fattore legato alfampliamento sociale degli spettatori, e anzi preliminare, osserva A ltieri B iagi 1980: 60, «nei limiti in cui serva a determinare il tipo di pubblico che 10 scrittore ha avuto presente come destinatario del suo lavoro». 4 Un primo episodio di rinnovamento della ‘commedia dell’arte’ era stato 11 teatro del milanese Carlo Maria Maggi sullo scorcio del Seicento. Dalla prassi artificiosa del plurilinguismo delle sue prime commedie il Maggi passa a un uso realistico del dialetto, a una caratterizzazione sociologica del lin­ guaggio, «onde si procede dal milanese genuino, latore di valori positivi, all’equivoco dialetto italianizzato degli arricchiti, all’italiano letterario e melodrammatico, falso quanto sono falsi i personaggi che lo utilizzano» (Stussi 1972: 708; ma sull’argomento v. soprattutto D. Isella, Il teatro mila­ nese del Maggi o la verità del dialetto, in Isella 1984). Si parla di realismo borghese per questo atteggiamento che connota una tradizione specificamente lombarda nella considerazione del rapporto lingua-dialetto «dove, se era riconosciuta alla prima una importanza come strumento di cultura e comunicazione interregionale, al secondo si attribuisce una carica di sponta­ neità, verità e naturalezza oltre che una dignità letteraria» (Stussi).

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Lombarde, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre, principalmente nelle Lombarde città, dovevano rappresentarsi le mie Commedie». L ’esigenza dell’italiano, insita nella natura stessa della «ri­ forma», attraversa tutte le forme del teatro comico, anche quello in musica. Emblematico l’esperimento della Serva padrona, l’in­ termezzo di Giovan Battista Pergolesi su libretto del napoletano Gennaro Antonio Federico, rappresentato a Napoli nel 1733. Sui caratteri linguistico-stilistici del libretto è importante il sag­ gio di F o l e n a 1983: 282-306. L ’operina è scritta interamente in italiano, senza le consuete parti in dialetto, e alla funzionalità scenica e musicale concorre anche il libretto per il tipo di italia­ no «spesso approssimativo e trasandato ma vivacemente colloquia­ le», e del tutto nuovo per la scena: «Il Federico aveva assimilato a modo suo la lezione del Metastasio e dell’Arcadia. In lingua tentò di fare quello che sarà uno degli obiettivi più problematici di Goldoni, di inventare un italiano colloquiale, un registro parlato, e ci riuscì alla brava servendosi di un italo-napoletano regionale, con frequenti dialettalismi sintattici». Tra i quali: «E tu altro, che fai?»5, «Io non sto comoda...», «E m’have ad uscir l’anima aspettando?...», «Voi mi state sui scherzi...», «Per me un marito io m’ho trovato...», «Io me l’ho allevata...», «Statti a vedere che...», «ben ti sta». Non si esita a ricorrere anche a sgrammaticature, come quella dell’aria iniziale: Aspettare e non venire, / Stare a letto e non dormire, / Ben servire e non gradire, / Son tre cose da morire, in cui i due infiniti coordinati hanno soggetti impliciti diversi: (io) aspettare e (lei) non venire ( F o l e n a 1983: 288 e 291). Battute intessute di parole comuni, per esem­ pio nel duetto finale del primo atto: Ma perché? non son grazio­ sa? / Non son bella e spiritosa? / Su m irate leggiadria! / v e’ che brio, che m aestà! Una medietà di registro funzionale a personag­ gi la cui psicologia e il cui tipo di linguaggio Folena definisce borghesi, avvertendo in «questa meravigliosa operina» la inci­ piente «voce del “terzo stato”» ( F o l e n a 1983: 301). Nella librettistica del genere comico e giocoso, in cui è maestro il Goldoni, le esigenze di un dialogo più spigliato e naturale e la misura metrica più ristretta fanno dunque accoglie­ 5 Tu altro·, uso pronominale allocutivo napoletano, e anche calabrese (tuatru), alla seconda persona singolare analogo al noialtri, voialtri toscano e anche settentrionale (F olena 1983: 304 n. 21 e Rohlfs 1966-1969: 435 e 438).

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re quelle strutture sintattiche frante e disarticolate, costituite di segmenti giustapposti e di segmentazioni, che sono tratti speci­ fici della grammatica del ‘parlato’. Per esempio, nelle seguenti battute della Villanella rapita, un libretto di Giuseppe Bertati, va notata la dislocazione a sinistra di un costituente della frase («denaro» e «come il giorno finir dee») e la ripresa pronominale «lo»: «Mandina amabile, / questo denaro, / prendilo, tientelo, / tutto per te!», «Vado e torno, e come il giorno / finir dee, sol io lo so» (citato da G o l d i n 1985: 86-87). La necessità di uno «stil naturale» che si contrapponga a quello aulico-eroico dell’opera seria comporta la scelta di un lessico più comune secondo una differenziazione dei linguaggi che riflette una differenziazione e diversa specializzazione teatrale delle classi sociali, come mostra di sapere un personaggio de\YArcadia in Brenta, melodramma giocoso del Goldoni, nella seguente aria: Il padron con la padrona fa l’amor con nobiltà: noi andiamo più alla bona senza tanta civiltà. Dicon quelli: «Idolo mio! peno, m oro, smanio, oh D io !» Noi diciam senz’altre pene: «M i vuoi ben? Ti voglio bene»; e facciam o presto presto tutto quel che s’ha da far6.

Quanto alla commedia, Migliorini la liquida in poche righe attribuendone lo «scarso vigore» per l’appunto alla «mancanza di una lingua della conversazione valida per tutta Italia». Alle commedie del fiorentino Fagiuoli e dei senesi Gigli e Nelli riconosce «il solo pregio della toscanità», mentre nelle comme­ die in lingua del Goldoni sente mancare quella «spontaneità» che è prerogativa del suo teatro in veneziano ( M i g l i o r i n i 1978: 508). Un giudizio forse troppo sommario, al quale sfuggono certi fenomeni innovativi nella riproduzione del parlato. La commedia toscana del primo Settecento risolve il proble­ ma della realizzazione di una lingua dotata della vivacità del parlato volgendosi alla propria tradizione, al filone burlesco e rusticale, cadendo o ricadendo nel gioco linguistico e nella pa­ rodia del linguaggio popolare. Sfrutta quindi il dialetto sovrac6 L’esempio è portato da F olena 1983: 314, dal quale si cita il passo.

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caricando la parlata dei personaggi bassi di tratti caratterizzanti, volti più alla caricatura che alla verosimiglianza (per esempio ailtro , v o d te , eghi “egli”, pighiare “pigliare”, p oera , obbrigo ) e di modi di dire e frasi proverbiali attinti direttamente dalla tradizione letteraria (cfr. Altieri B iagi 1980). L ’atteggiamento è in linea con quello del Vocabolario della Crusca che nella impressione sette­ centesca (1729-38), per le voci basse e p leb e e , proverbi e locu­ zioni proverbiali, non si limita alla anonima certificazione attinta da fonti orali, come era accaduto per la prima Crusca, ma si preoc­ cupa di attestarne l’uso degli scrittori, gli stessi ai quali fanno riferimeto gli autori di commedie. Un linguaggio fittizio, lonta­ no da una lingua di conversazione (v. Testo 7.1), da quella «naturalezza del dire» cui mira invece un Goldoni, che nella prefa­ zione a una stampa delle sue opere afferma di non voler scrivere quel toscano che usavasi a ’ tempi di B occaccio, del Berni e d ’altri simili di quella classe, ma com e scrivono i toscani d e’ nostri giorni, quali si vergognerebbero di usare que’ riboboli che sono rancidi e della plebe, e abbisognano di com m ento e di spiegazione per gli stranieri non solo, ma anche per la maggior parte degli italiani (G oldoni 1935: I).Il

Il Nelli rinuncia infatti all’uso del dialetto fiorentino nelle commedie destinate al pubblico romano. Elimina proverbi e riboboli, attenua i tratti fonomorfologici più tipicamente fioren­ tini nelle commedie originariamente composte in dialetto, cer­ cando all’interno della lingua la differenziazione dei registri. Opposta ma uguale alla lingua dei personaggi bassi quanto ad artificiosità e stilizzazione è quella aulica dei personaggi elevati, gli aristocratici e gli innamorati, che esibiscono il più convenzionale armamentario letterario e melodrammatico: usa­ no brama o desìo per desiderio, preci per preghiere, duolo per dolore, e così nulla ti cale , fia t e , guardo , periglio , ecc. (A ltieri B iagi 1980).

Ma non mancano però esempi di commedie in cui la ripro­ duzione del parlato nei suoi diversi registri fa emergere un livello intermedio, che sfugge ai compiacimenti edonistici e al filtro letterario, come ha messo in evidenza uno studio recente sulle commedie del Gigli e del Nelli (Strambi in stampa). Si tratta del parlato di personaggi che si connotano come medi e dove si palesano quei tratti dell’italiano non letterario, che in seguito si stabilizzeranno come normali nella norma moderna. Per esempio la prima persona in -o dell’imperfetto, contrappo-

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sta alla forma della norma grammaticale in -a del registro più aulico; una maggior frequenza delle forme lui , lei come pronomi personali soggetto (v. Testo 7.1); il modulo di interrogativa con verbo senza pronome, che si contrappone al modulo verbo-prono­ me propio del registro alto e anche del registro basso, più dialettale, dove si continua il tipo antico toscano (Patota 1990: 211-213).

3. Goldoni: da Venezia all’Europa passando per Firenze Per quanto riguarda il Goldoni, il suo italiano «apre, pur con tutti i suoi impacci e le sue difficoltà, una nuova tradizione di lingua media e colloquiale» (Folena), grazie a una capacità di mettersi in sintonia con il pubblico che gli consente di trasfondere il ‘parlato’ nel linguaggio letterario. Al raggiungimento di que­ sto risultato è importante il passaggio dal copione al libro: «Goldoni infatti assegnava sempre alla riscrittura dei componi­ menti per la stampa un valore peculiare in vista dell’affermazio­ ne della sua riforma [ ...] e era solito rimaneggiarli profonda­ mente e mirava a conferir loro, nella forma stabile del libro, una fisionomia culta, affrancandoli il più possibile dalle contingenze e dai condizionamenti materiali dello spettacolo» (P ieri 1991: X L V III). Dalla prima raccolta veneziana (Bettinelli 1750-52), alla successiva stampa fiorentina (Paperini 1753-55), fino alla stampa definitiva (Pasquali, Venezia, 1761-68), viene attuandosi nel sistema dram maturgico goldoniano una progressiva decantazione degli elementi scenici più spuri e contingenti in vista di una destinazione a un pubblico il più possibile italiano ed europeo7. Guida dunque la storia editoriale dei testi una precisa volon­ tà correttoria in direzione ‘alta’, le cui tappe sono costantemente accompagnate da una riflessione sulle scelte drammaturgiche e linguistiche, contenuta nelle prefazioni dei volumi o negli avvisi «a chi legge» delle singole commedie. Già la stampa in occasio7 Per esempio, il Padre di famiglia, rappresentato a Venezia nel 1750, aveva le quattro maschere, Pantalone, il Dottore, Brighella e Arlecchino, che parlavano in dialetto e a soggetto; nella stampa immediatamente successiva il dialetto bolognese è toscanizzato e le parti dei servi interamente scritte in veneziano-bergamasco. Nella edizione seguente si eliminano Pantalone, il Dottore e Brighella, mentre Arlecchino scomparirà solo nella edizione P a ­ squali (1764) (Pieri 1991: X X I n. 29).

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ne della prima raccolta vede una revisione dei testi in cui fa u to re ’ «si sforza di approfondire in tutti i modi il registro del “serio” e del “naturale” e di dare loro una veste che sia comprensibile ad un pubblico idealmente più ampio di quello veneziano, per esempio eliminando le maschere o toscanizzando alcune parti dialettali» (ivi: X X -X X I). E così ulteriormente nelle edizioni successive ci sarà una depurazione in vista di una teatralità il più possibile universale, e che tocca anche la lingua, passata al filtro di una letterarietà rispondente a canoni che non vogliono essere ‘poetici’, ma teatrali. Anche nelle commedie in veneziano il filtro della stampa comporta una italianizzazione della veste grafica8, e postille lin­ guistiche che sopperiscono a un vocabolario italiano-veneziano, a cui l’autore lavora per anni senza venirne a compimento. Il senso del ‘parlato’ gli permette di mettere in scena il veneziano nelle sue diverse tonalità dall’uso più colto ai modi più ‘bassi’, a seconda che riecheggi i discorsi dei salotti o il gergo dei barca­ ioli. Dialetto come lingua viva e non più solo convenzione gioco­ sa. Qui il Goldoni, osserva Folena, «chiude una pagina, e ne apre una nuova, nella storia delle letterature dialettali e della concezione del dialetto come strumento espressivo: in lui il dialetto acquista per la prima volta piena autonomia di lingua parlata, fuori di caricatura e di polemica» ( F o l e n a 1983: 92). Nelle grandi commedie di ambiente borghese, là dove il dialetto ha una patina più colta che sconfina con la lingua, possiamo cogliere i segni di una diffusione della lingua comune a livello parlato: italianismi in dialoghi che oscillano tra dialetto e lingua «rilevé se el gh’avesse qualche difficoltà», «co no se intacca l’onor della casa», «vechio sordido», «chi voi viver in casa soa, con riguardo, con serietà, con reputazion», «savemo che sé una signora de spirito» (dal Sior Todaro e dai Rusteghi). A volte questo connubio tra dialetto e lingua può servire a caratte­ rizzare un personaggio che si sforza di parlare «scelto», «pulito» (per es. nel Sior Todaro le espressioni auliche, tra il melodram­ matico e il cerimonioso di Menegheto: «finalmente, siora Zanetta, spero che il cielo seconderà le m ie bram e e me concederà l’onore de conseguirla per mia consorte», «perméttela che abbia 1 onore 8 C o m p a io n o p e r e s e m p io le g e m in a te , in e s iste n ti n ella p ro n u n c ia d ia le tta le , le s ib ila n ti s o n o re s e c o n g ra f ia c e g p a la ta li, e a l tr o (F olena 1 9 8 3 : 9 7 e 1 23 n. 3 3 ) .

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de umiliarghe la mia servitù?»; e nei Rusteghi il civilissimo dia­ letto di siora Felice: «la xe una pura e mera conversazion», «pentìe contrite e le ve domanda perdon»). Nelle commedie in lingua attraverso le diverse stampe si attua una limatura formale e toscaneggiante che non perde di vista la funzione ‘parlata’. Il risultato è una lingua teatrale che si alimenta all’uso scritto non letterario, la lingua delle persone colte soprattutto dell’Italia settentrionale, e accoglie anche regionalismi veneti, lombardi, francesismi, accanto a forme sti­ lizzate auliche di lingua del genere melodrammatico e a modi colloquiali toscani, presi dal toscano vivo piuttosto che da quel­ lo dei cruscanti (v. cap. VII.5). Una sorta di koin è fondata su un presupposto di intelligibilità comune e di comunicazione con il pubblico. A chi lo critica per una scarsa elaborazione gramma­ ticale Goldoni, nel presentare la edizione fiorentina delle sue opere, oppone: Poteva certamente correggerle un poco più, specialmente in ordine alla lingua, sopra di che alcuni assai delicati hanno trovato che dire [ ...] , ma io per decoro de’ nostri buoni scrittori e della gentilissima lingua toscana, fo sapere [ ...] che i miei libri non sono testi di lingua, ma una Raccolta di mie Commedie; che io non sono accademico della Crusca, un poeta comico che ha scritto per essere inteso in Toscana, in Lom bar­ dia, in Venezia principalmente, e che tutto il mondo può capire quell’ita­ ma

liano stile di cui mi ho servito [...] e che essendo la Commedia una imitazione delle persone che parlano, più di quelle che scrivono, mi sono servito del linguaggio più com une, rispetto all’universale italiano.

Spiegando le ragioni che l’hanno indotto a conservare nella pubblicazione della Rutta onorata il dialetto veneziano, pur col pericolo di non essere compreso dai lettori delle altre regioni, osserva quanto sia diverso in ogni Città il ragionare degli uomini qualificati da quello delle genti d’altra condizione [ ...] oltre alla differenza di molti vocaboli e della pronuncia ancora, hanno altresì certe forme particolari o di sentenze, o di proverbi, o di diciture in gergo, che piacevolissime sono a chi le intende, ma riescono a chi non è più che pratico oscurissi­ me. Fra tutti quelli che hanno grandissima copia di sì fatte forme di favellare, sono i Gondolieri di Venezia, i quali furono da me nella pre­ sente Commedia imitati con tanta attenzione che più volte mi posi ad ascoltarli, quando quistionavano, sollazzavansi o altre funzioni faceva­ no, per poterli ricopiare nella mia commedia naturalmente.

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Per il «ragionare degli uomini qualificati» si ricorre a idioti­ smi calcati sul dialetto, per esempio bracciero < brazziér cavalie­ re che dà il braccio, brugior < brusor dolore, gruppetti < gropi i nodi del merletto, filata < filad a lavata di capo (dalla P dan n a, dramma giocoso), butirro burro, gridare < criar litigare {Innam o­ rati), coccolo voce veneziana del linguaggio infantile, da cocco prediletto, borino < borin vento leggero, scavezzate spezzate, tirar innanzi, correr dietro corteggiare, compagno nel significato di “simile” («non ho veduto il compagno», «No gh’è el compagno sotto la capa del cielo»), doppio com e cipolle “falso, ipocrita” {Innamorati). Infine forme ellittiche come: «È tanto stravagante, che non gli parlo niente volentieri», «E una salsa squisita, non ho sentito la m eglio». Utili a misurare il sottofondo dialettale dell’italiano sono le autotraduzioni, le traduzioni delle proprie commedie veneziane in italiano, studiate da Spezzani 1978, per esempio: m e l ’ho sbignada > m e l’ho battuta, m ’ho fatto accompa­ gnar > m i ho fatto accompagnare-, «toca a vu a remediarghe» > «tocca a voi a ritrovare il rimedio»; «Sé vegnù rosso» > «Siete venuto rosso». Interessante un caso come «La fa da gomitar co ste so affettazion» > «Fa da vom itare con queste sue affettazio­ ni». Le autotraduzioni sono anzi un terreno proficuo per coglie­ re i due registri stilistici ed espressivi diversissimi che contrasse­ gnano dialetto e lingua. Il primo, come esemplifica il campione minimo ripreso da Spezzani 1978: 302, connotato dal valore proverbiale e allusivo, idiomatico della lingua materna, il secon­ do dalla convenzionalità istituzionale della «lingua come ‘codi­ ce’ e come ‘norma’ di comportamento sociale»: P utta cara, son cortesan, vu m e dè el m andolato, ma no lo magno. Se vu avé studia i libri de filosofia, mi ho studia quelli del baronezzo, e ghe ne so tanto che basta per menarve a scuola vu, e diese della vostra sorte (I due Pantaloni) Signorina garbata, voi mi adulate, ma io non ci sto. Se voi avete studiato i libri di filosofia, io ho studiato quelli del m ondo, e ne so tanto che basta per condurvi alla scuola voi e dieci della vostra sorta (I M ercatanti) .

Da notare come la perdita idiomatica sia compensata sul piano morfosintattico con quel cisto, dove l’uso di ci attualizzante è un tratto dell’italiano ‘parlato’, di cui non mancano altri esem­ pi in Goldoni, per esempio in «A maritarmi non ci penso nem­

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meno» del monologo di Mirandolina riportato appresso (su questo fenomeno v. D ’A chille 1990: 16 e 261-275).

A illuminare la fisionomia impacciata dell’italiano goldoniano e insieme dell’italiano settecentesco sono preziose le chiose ap­ poste dall’autore alle sue commedie in dialetto. Si tratta spesso di un italiano improbabile e artificiale, per esempio dai Rusteghi: ste spuzzette «begli umoretti», un fiaetin «un pocolino», e l xè un tangaro «un satiro», Coss’è sti sesti? «che malegrazie son que­ ste?», La varda co spessego «come io mi sollecito», so marìo x é de la taggia del m io «suo marito è sul far del mio»; qu el scem pio de so marìo «stolido», un puto de sesto «un giovine di garbo», frascone «giovani scostumate» (ma nelle commedie in italiano si accoglie frasca)9. Goldoni sembra anticipare nella sua ricerca di lingua «né più né meno quello che toccò poi di sperimentare al Manzoni (ma con maggiore impegno) nel suo tirocinio linguisti­ co milanese». E, come poi al Manzoni, gli capita «anche di rilevare quasi con un movimento di stupore e di ammirazione che certi vocaboli e modi di dire ritenuti dialettali erano anche toscani» (F olena 1983: 203). Ma è nella sintassi che l’italiano di Goldoni può attingere la vivezza del parlato, creando una sintassi di tipo ‘dialogico’ sotto cui agisce l’influsso concomitante del veneziano, povero di nessi subordinativi, franto e disarticolato, e del francese, lineare ma ricco di segmentazioni. Prendiamo per esempio il fenomeno della dislocazione, dove uno dei costituenti della unità sintattica è collocato a sinistra o a destra e ripreso o anticipato da prono­ me clitico: il tipo «La ricchezza la stimo e non la stimo», nel monologo di Mirandolina. Allo stesso genere appartiene il tipo «Corallina mia, a m e m i volete bene?» {La Castalda 1,7). Si tratta di una modalità fondamentale nei meccanismi della comunica­ zione orale per le possibilità di evidenziazione di una parte della frase. Un fenomeno attestato in tutte le epoche della nostra lingua, ma tenuto ai margini della norma codificata. L ’indagine sistematica sulla storia di tale fenomeno, svolta da D ’A chille 1990 su un corpus di testi dalle origini alla fine del Settecento, mostra che l’autore in cui esso si presenta con più alta frequenza è proprio il Goldoni. Il fenomeno ricorre, con frequenza infe­ riore, anche nelle commedie toscane e nelle scritture più vicine 9 Gli esempi sono tratti dall’edizione mondadoriana dove le chiose goldoniane compaiono a piè pagina.

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al parlato, mentre è raro nei testi di registro più elevato ( D ’A c h i l l e 1990: 180-203). Utile sapere che il Manzoni nel correggere i Promessi Sposi dall’edizione del 1827 a quella del ’40 incremen­ terà questo tipo di struttura nell’intento di arricchire il registro colloquiale del suo romanzo e realizzare quella lingua «media» che era nei suoi auspici (si veda questo esempio in un discorso di Renzo: «e un dottore al quale io dissi» > «e un dottore al quale io gli dissi»). Questa modalità sarà stata favorita nel Goldoni anche dal­ l’influsso del dialetto. Il fenomeno non è tra i più presenti nel dibattito svoltosi nel corso dei secoli sulla norma grammaticale, e forse il fatto di essere sfuggito a una esplicita censura può anche spiegare l’alta frequenza che esso ha in Goldoni, il quale, pur non preoccupato di accontentare la Crusca, ha presente le prescrizioni dei grammatici. I condizionamenti dei grammatici si fanno infatti sentire nell’uso dei pronomi soggetto di terza persona: qui la norma grammaticale a partire dal Fortunio e dal Bembo era esplicita nell’imporre le forme egli, ella, essi, esse e vietare le forme oblique lui, lei, loro10. E il Goldoni fa rarissimo uso delle forme oblique soggetto. Ma la regola può essere sfruttata per una battuta comica, per esempio nel Ritorno dalla villeggiatura·. « — E perché sospirava la signora Giacinta? —Domandatelo a lei. E chi è che tiene a bada due fanciulle? - Domandatelo a lui. - E chi è questo lu iì - Il signor lui in caso obliquo è il signor egli in caso retto. Nominativo hic, egli, genitivo huius, di lui» (l’esem­ pio è citato anche da D ’A c h i l l e 1990). Quanto alla modalità della frase interrogativa il tipo più conservativo, cioè la sequenza verbo-pronome, imposta dalla tradizione più da una prassi che da prescrizioni esplicite, è meno frequente nei personaggi che parlano in lingua, mentre prevale nei personaggi che parlano in veneziano, di cui costituisce un tratto peculiare (v. Testo 9). Il rapporto tra i due usi è analogo a quello che si riscontra nelle commedie toscane. Nella comme­ dia in italiano predomina quindi il tipo di interrogazione a soggetto zero, che riflette l’uso della comune conversazione dove l’interrogazione è affidata all’intonazione ( P a t o t a 1990: 210). In conclusione il Goldoni là dove mancanQ esplicite indi­ cazioni delle grammatiche si conforma a un uso scritto non 10 Sul fenomeno v. Serianni 1981 e D’Achille 1990,

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letterario e assume quei tratti di italiano destinati ad affermarsi nella norma moderna con l’estendersi dell’italiano nel parlato. Si tratta di fenomeni presenti da sempre nel sistema dell’italia­ no, magari ai livelli più ‘bassi’, perché negati o ignorati dalla norma bembesca, e che cominciano ad essere promossi a livelli superiori, in generi più legati alle modalità della comunicazione orale come la predicazione e la commedia. Col Manzoni avran­ no piena legittimazione nel romanzo, con il quale si aprirà una nuova tradizione di lingua media e colloquiale11.

11 Sui tratti del ‘parlato’ nella lingua italiana dei secoli passati cfr. D’Achille 1990. Sulla loro promozione nell’italiano dell’«uso medio» attuale cfr. Sabatini 1985.

Capitolo sesto La lingua parlata

È con il Settecento che nella trattazione per secoli della classica Storia della lingua italiana di Bruno Migliorini compare, come notato da Ghino Ghinassi, un paragrafo nuovo, quello dedicato alla «lingua parlata»: segnale discreto che da questa epoca «cominciano a farsi consistenti le testimonianze di una diffusione della lingua comune a livello parlato» (G hinassi 1988: X X II-X III). Che la lingua comune stia penetrando e diffondendosi nel­ l’uso parlato soprattutto nei grandi centri è fenomeno ormai avvertito dai contemporanei. Baretti nota come in ciascuna re­ gione d’Italia, dal Nord al Sud, accanto al «dialetto particolare» usato da chiunque, nobile o plebeo, colto o incolto, «nel suo quotidiano conversare sì nella propria famiglia che fuori», si usi anche un modo più affettato di parlare, «da parte di chi voglia pure appartarsi dagli altri favellando», cioè distinguersi, toscaneggiando «quel suo dialetto alla grossa» (M igliorini 1978: 501). Anche il Parini distingue nel parlato tre precise varietà: tre diversi linguaggi: l’uno è il dialetto particolare del paese, l’altro la lingua dominante, e il terzo quell’altra specie di lingua introdotta dall’af­ fettazione, parlata dalla gente più colta e civile, e form ata dagli altri due (cfr. C ortelazzo 1980: 98):

testimonianza di una italianizzazione dei dialetti destinata ad accelerarsi sempre più e la cui realizzazione più avanzata è il «parlar finito» del Manzoni, accennato sopra (v. cap. 1.2). Escludendo dal discorso la Toscana per evidenti motivi, fa in parte eccezione a questa situazione Roma. Essa aveva cono­ sciuto fin dal Cinquecento una toscanizzazione avanzata1; una I m p o r ta n t i e s p e rie n z e d i t o s c a n iz z a z io n e e r a n o s t a te a v v ia te fin d al

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La lingua nell’età delle riforme

ulteriore spinta a conquistare usi linguistici più elevati si verifica tra Sei e Settecento, favorita non solo dalla scuola, ma anche dal contatto delle grandi masse con un settore relativamente acculturato: il clero ( S e r i a n n i 1989a: 276-277). Nel 1696 un’or­ dinanza sancisce che per poter «aprire schuola in Roma e suo distretto» occorre essere dello Stato Pontificio e avere «pronuntia romana e toschana». «La congiunzione tra la “pronuntia roma­ na” (non romanesca) e quella “toschana” ai vertici dell’italofonia diviene un fatto largamente riconosciuto anche fuori dei confini dello Stato Pontificio» ( T r i f o n e 1992: 52). Così appare al pie­ montese Carlo Denina la situazione (1776): Né vi è chi dubiti che dove tra più persone di diverse provincie d’Italia si avrà a parlar familiarmente, un Fiorentino, un Senese, un Romano non sieno per parlar con più franchezza e grazia in lingua italiana che un letterato Veneziano, un Marchigiano, un Lombardo (ibidem ).

Una italianizzazione dunque più estesa che in altri centri della penisola e che costituisce un fattore indiretto di diffusione dell’italiano nella penisola, dato il ruolo che continua ad avere la città «di punto focale della circolazione delle notizie in Italia» ( T r i f o n e 1992: 53). Anche a Napoli il processo di italianizzazione della parlata locale sembra piuttosto avanzato per le ragioni accennate nel cap. V II.4. Il fenomeno è avvertito già nei primi decenni del secolo, come testimonia Nicolò Amenta, il quale, generalizzan­ do le osservazioni sulla realtà linguistica napoletana, parla di due linguaggi in uso nelle province italiane: uno «s’usa in par­ lando comunalmente, e senza studio alcuno, che noi chiamiamo imperfetto, il qual ordinariamente si parla dal vulgo; l’altro che si cerca parlare, se pur non si parla, da gente civile, e noi chia­ miamo perfetto, simile a quello, col qual si scrive». E significa­ tivo, osserva L i b r a n d i 1992a: 656-657 da cui traggo la citazione, Q u a t t r o c e n t o d a lle cla s s i m e d i o - a l te , e si e r a n o v ia v ia f o r ti f ic a t e n e llo s c r i t ­ t o , n el p a r la to u f f ic ia le , n e lla c o n v e r s a z i o n e c o n f io r e n tin i a u to r e v o li. P a r t i ­ c o la r i e v e n ti s t o r i c i, c o m e il s a c c o d i R o m a d e l 1 5 2 7 , a v e v a n o c r e a t o o c c a s i o ­ n i d i p iù in te n s i s c a m b i lin g u is tic i c o n i m o lti ro m a n i n o n d i R o m a . « E s s e n d o q u e s ti u ltim i in g ra n d is s im a m a g g io r a n z a c e n t r o s e t te n t r i o n a l i, e in m is u ra assa i rile v a n te t o s c a n i , il p iù n a tu r a l e t e r r e n o d ’i n c o n tr o v ie n e i d e n tif ic a to a p p u n to n e lla v a r i e t à t o s c a n i z z a t a o c o m u n q u e s m e r id io n a liz z a ta » (T rifone 1992: 5 6 3 ).

La lingua parlata

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il fatto che l’Amenta «sottolinei lo sforzo (“si cerca parlare, se pur non si parla”) delle persone colte di servirsi anche per la comunicazione orale di una lingua comune più elevata, non identica, ma soltanto “simile” a quella con cui si scrive», sugge­ rendo una varietà tendente ad approssimarsi alla lingua lettera­ ria e adoperata dal ceto medio nella comunicazione quotidiana. È quel fenomeno che si attua per gradi - e a Napoli in anticipo sulle altre zone non toscane, come rilevato per primo da Tullio De Mauro ( D e M a u r o 1970: 317) - e che sfocerà in quelle che si chiamano varietà regionali d’italiano: «un punto di passaggio quasi obbligato per giungere all’uso parlato e colloquiale del­ l’italiano» ( C h i n a s s i 1988: X X III). Ma a proposito di oratoria forense, praticata in quell’epoca soprattutto a Napoli e a Venezia2, nel primo caso in un italiano intinto di dialettalismi e con pretese di imitazione toscana, come si è detto, il Galiani, critico sulla moda eccessivamente arcaizzante e toscaneggiante, si augura che il dialetto napoletano possa un giorno «inalzarsi alla più inaspettata fortuna»: difendersi in esso le cause, pronunciarvisi i decreti, promulgarvisi le leggi, scriversi gli annali e farsi infine tutto quello che al patriotico zelo de’ veneziani sul loro niente più armonioso dialetto è riuscito di fare (G aliani 1970: 9).

Nel panorama italiano il Veneto costituisce un caso a parte. A Venezia l’italiano si affianca al dialetto in un rapporto non di superstrato a sostrato ma di lingua a lingua, che trova la sua espressione migliore nella prassi del discorso pubblico in sedi istituzionali quali i Tribunali e il Senato. Così suona una ammo2 In a ltr i c e n tr i e r a n o in u s o le a lle g a z io n i s c r it t e . Il g o ld o n ia n o A vvocato v en ezian o, s p e c c h io f e d e le d e g li u si fo r e n s i d e ll’e p o c a ( G o ld o n i a v e v a p r o ­ f e s s a to a n c h e l ’a v v o c a tu r a ) , d is p u t a n e l tr ib u n a le di R o v ig o in f o r m a d ir e tta m e n te o r a l e c o n il dottor Balanzoni, a v v o c a to b o lo g n e s e , c h e in v e c e p r e s e n ta u n a a lle g a z io n e s c r it t a . A L e lio c h e o s s e r v a « N o n so c o m e il d o t t o r B a la n z o n i, v o s tr o a v v e r s a r io , i n te n d e r à q u e s ta m a te r ia d i d is p u ta r e . E g li è B o lo g n e s e , e v o i v e n e z ia n o ; a B o lo g n a si s c r iv e , e n o n si p a r la [ . . . ] » , l 'avvocato ris p o n d e : « B e n i s s im o , lu el s c r iv e r à , e m i p a r l e r ò [ . . . ] C h ’el v e g n a c o lla s o s c r it t u r a d ’ a lle g a z io n , s tu d ia d a , re v is ta e c o r r e t t a [ . . . ] m i g h e r e s p o n d e r ò a l l ’i m p r o v ­ v is o » (A vvocato veneziano, I , 1 ). C o m in c ia a d e s s o la p r a t i c a di p u b b lic h e a r r in g h e a t tr a v e r s o la q u a le v ie n e a ff in a n d o s i la lin g u a « b a r b a r a » d e i t r i b u ­ n a li. S ta n d o al B a r e tt i in P ie m o n t e gli a v v o c a ti u s a v a n o « u n g e r g o b a r b a r o [ . . . ] n o n c a p it o d a a lc u n o , c o n e s p re s s io n i s f o r z a t e e o r r ib ili c o s t r u z io n i»

(V ianello 1 9 6 0 : 9 1 4 ) .

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La lingua parlata

La lingua nell'età delle riforme

nizione dei Magistrati competenti, pronunciata dai Savi all’Ere­ sia, nei confronti dell’inquisitore di Venezia, accusato di aver eluso le disposizioni concordate tra Venezia e il papa in fatto di censura di libri: E1 Senato, che neU’autorizzarla graziosamente all’esercizio del cari­ co d ’inquisitor di Venezia, l ’ha credesto che ella fosse per riconoscer i doveri della sua sudditanza, che la se ricordasse d ’esser prim a nato suddito e de aver vestio dopo l’abito religioso, l’ha rilevà e l’ha visto con gravissimo senso e con giusta pubblica indegnazion, che ella accede malamente i cancelli dentro i quali el gà circoscritta l’autorità, e che nel rilassar ai sudditi della Repubblica le licenze de lezer libri proibiti la adotta i formulari de una estranea podestà e non i convenudi tra i sovrani del con cord ato del 1596. Senso e indegnazion ghe fa inoltre la data de ’ste licenze la se fazza con una novità reprensibile dalla privata cella de un om o che in un altro logo no gà a figurar che dove raccolto xè el Santo O fficio con le due egualmente rispettabili podestà. Passi così irregolari chiamarave a de più: ma giacché la fortuna l’ha fatta nascer coll’onor d ’esser suddito, discende grazioso per ’sta volta il Senato a farla sola­ m ente amm onir con la voce di chi qua sedenti lo rappresenta e a precettarghe de non includer nelle licenze de lezer libri proibiti se non libri che xè com presi nell’Indice convenudo l’anno 1596 [ . . . ] L a m etti a profitto la pubblica clem enza, né le se attira sora alla sua persona, con novi intollerabili arbitri, per l’aw egn ir i effetti de quella indegnazione che la s’ha m erità. Starem o vigili sora ogni suo passa e la vada3.

Italiano e veneziano inframmezzati con la naturalezza deri­ vante da una lunga tradizione, costituiscono il livello alto del dialetto, il veneziano illustre, lingua ufficiale dello Stato. «Un nobile veneziano in qualunque dei suoi luoghi pubblici gl’accada di ragionare, farebbe perdere al suo ragionamento, non pure il merito, e la forza, ma la massima serietà, se volesse affettare peregrinità di voci, o di stile, o mostrasse di vergognarsi del dialetto del suo paese», spiega con una sorta di orgoglio nazio­ nale un contemporaneo del Goldoni (citazione da V i a n e l l o 1960: 918). Un esempio di «veneto stil», cioè di «buon venezia­ no», come discorso orale fondato su una improvvisazione in cui si riflettono eleganza, naturalezza e disinvoltura proprie di un gentiluomo, ce lo fornisce il Goldoni n ù ì’Avvocato veneziano (v. Testo 9). La naturalezza era considerata «una delle più 3 II testo, conservato nell’Archivio di Stato di Venezia nella sezione Sena­ to, Roma expulsis, f. 89, 30 aprile 1766, è riportato in Infelise 1989: 115.

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pregiabili doti degli Veneziani Oratori» (Vianello), ammirata del resto fin dai tempi antichi. Penso alla testimonianza di fine Quattrocento del ferrarese Pellegrino Prisciani, ambasciatore del duca estense a Venezia, che manifesta in una lettera dalla laguna tutta la sua ammirazione per la «eloquentia vulgare» professata da «zentilhomini venetiani»4. Il diffondersi dell’italiano nell’uso parlato genera pronunce incongruenti e difformi dal toscano, suscitando una nuova at­ tenzione alla corretta pronuncia da parte di compilatori di di­ zionari regionali e di manuali per l’insegnamento elementare dell’italiano (v. cap. 1.2). Il Galiani ci testimonia un errore di pronuncia nei napoletani parlanti italiano, fornendoci una chia­ ra spiegazione di un tipico fenomeno di ipercorrezione: Il p , quando sussiegono due vocali, si muta d a’ Napoletani in eh, com e chiù per “più” , chiove per “piove”, chiano per piano , chiagnere per “piangere”, ecc. Ciò è tan to comune e caratteristico del nostro dialetto, che spesso avviene che taluno de’ nostri, ignorando il toscano e volendo farsi pregio di parlarlo (ché molti hanno questa smania, quasicché in Toscana non ci fosse volgo), incappano per eleganza a dire la piave, il piodo, la piavica, parendo loro che a proferir chiave, chiodo, chiavica, avriano commesso un nefando napoletanismo (G aliani 1970: 23).

Le abitudini della pronuncia dialettale traspaiono maggior­ mente nei testi di semicolti (v. il caso dell’«Elia»), nelle scritture pratiche, dove sopravvivono abitudini scrittorie risalenti a koin è regionali, dai caratteri grafico-fonetici e morfologici spesso con­ vergenti nel differenziarsi dal toscano letterario.

4 Cfr. Matarrese 1990: 547.

Capitolo settimo La lingua e gli scrittori

1. L’identità dell’italiano Insofferenza nei confronti dell’arte e della letteratura baroc­ ca e orgoglio della propria tradizione, il cui primato è messo in discussione dalla civiltà e dalla letteratura francese, sono alla base del rinnovamento e del recupero della tradizione classica, di cui si fa promotrice l’Arcadia agli inizi del secolo. Stimolati dalle nuove correnti di pensiero provenienti d’ol­ tralpe e dalle critiche di offesa al buon gusto mosse alla poesia italiana, i letterati si accingono a ripensare tutta la letteratura nazionale e a disciplinarne le diverse forme. La bonifica riguar­ da tutti i generi e coinvolge direttamente la lingua, spronata a riallacciarsi alla lezione dei classici, a ritrovare quella eleganza e misura formale che avevano conferito alla letteratura italiana la dignità di letteratura classica. Semplicità, convenienza, aderenza alle cose prescrive la nuova mentalità razionalistica, inducendo un mutamento nelle tecni­ che retoriche che ha importanti riflessi anche sul piano dei modelli linguistici, fornendo nuova esca alla questione della lingua. La tematica si sposta in rapporto a due nuove coordina­ te: la relazione Italia-Europa, e le scelte fra antichi e moderni, tradizione e uso, attraverso le quali viene crescendo una co­ scienza sempre più chiara del nesso fra lingua e cultura, lingua e società ( F o l e n a 1983: 29). L ’occasione a manifestarsi per i nuovi orientamenti letterari era venuta dalle critiche mosse dal francese Domenico Bouhours alla letteratura italiana, che innescano la polemica letteraria nota sotto l’etichetta Orsi-Bouhours per il nome del letterato bolognese che risponde per primo alle critiche francesi. Il Bouhours negli Entretiens d ’Ariste et d ’Eugène (1671) e nella M anière de bien penser dans les ouvrages d ’esprit (1687), critica-

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La lingua nell’età delle riforme

va nella letteratura italiana «cet arrangement bizarre, ou plutòt [... ] ce desordre et cette transposition étrange des mots», cioè la artificiosità delle immagini e la innaturalezza di una sintassi propensa all’ordine inverso, rispetto a cui esaltava la «langue fra^ oise qui suive la nature pas à pas... et elle n’a que la suivre fidellement, pour trouver le nombre et rharmonie, que les autres langues ne rencontrent que dans le renversement de l’ordre naturel»1. Riprendendo una caratterizzazione che si rifaceva a formule di antica tradizione, così il Bouhours caratterizzava le principali lingue europee: «les Allemande ràlent; les Espagnols déclament; les Italiens soupirent; les Anglais sifflent. Il n’y a proprement que les Frangais qui parlent» (citato da G e n s i n i 1987: 7 -8 ), cioè «i tedeschi ragliano, gli spagnoli declamano, gli italiani sospirano, gli inglesi fischiano: solo i francesi parlano». Al francese era dunque assegnato il ruolo di lingua della comu­ nicazione intellettuale, e all’italiano quello di lingua del canto e del melodramma, conforme a una immagine dell’italiano, «sospiroso e rugiadoso, tenero e musicale», derivata dal melo­ dramma, e anche «dall’idea che spesso oltralpe ci si faceva del Petrarca»: un mito che «sarebbe stato duro a morire e si sarebbe mantenuto in Europa, a Parigi come a Vienna e a Berlino» (F

o len a

1983: 21-22).

La retorica razionalista mette quindi in discussione la co­ struzione inversa della frase, con verbo in posizione finale, pro­ pria dello stile classicheggiante della tradizione letteraria italia­ na, promuovendo l’ordine Soggetto-Verbo-Oggetto, cioè la co­ struzione diretta, presunta come razionale e pertanto più natu­ rale. «Se il discorso razionale della prosa segue Vordo naturalis di uno stile attico, la scrittura commossa si dispone secondo Vordo artificialis» ( B a t t i s t i n i - R a i m o n d i 1984: 136-137). Le lin­ gue vengono pertanto distinte in due categorie: lingue propense alla costruzione inversa, più portate all’espressione della imma­ ginazione, e quelle propense alla costruzione diretta, portate all’espressione dell’analisi, propria delle lingue più moderne, ed era il caso del francese ( S i m o n e 1990: 370)12. 1 «La lingua francese che segue la natura passo passo... e non ha che da seguirla fedelmente, per trovare il numero e l’armonia, che le altre lingue non raggiungono che mediante l’inversione dell’ordine naturale». 2 II filosofo sensista Condillac ne forniva la giustificazione teorica nel suo Essai sur l’origine des connoissances humaines (1746). Sulla base di una concezione evoluzionistica delle facoltà conoscitive egli assegna alla prima

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L ’ordine delle parole, un tema la cui discussione si protrae lungo il secolo, diventa il metro di misura del grado di modernità di una lingua, cioè della sua maggiore o minore propensione alla prosa. Le tesi del Bouhours suscitano le reazioni dei maggiori letterati italiani, da Giuseppe Orsi, il primo a replicare da Bolo­ gna (Considerazioni sopra un fam oso Libro Franzese, 1703), al Muratori, al Salvini, al Fontanini, al Martello, al Vico3, mossi tutti dall’intento, superati gli eccessi del gusto barocco, a cui si riferivano le critiche del Bouhours, di rivalutare gli istituti lette­ rari italiani, valorizzando quella specificità della nostra tradizio­ ne che la avvicinava alle lingue classiche. Metafore e costruzione inversa, cioè gli aspetti «figurati» del discorso, sono ribaditi come peculiarità del linguaggio della poesia. Di fronte'al france­ se, lingua della «ragione» e della «prosa», l’italiano avanza la sua qualifica di lingua della «poesia», convertendo in pregi quelli che nella visione razionalista erano limiti. Se la linearità antiretorica del francese, il suo stile diretto e avverso a metafore e inversioni, lo rendevano adatto al genere didascalico e al­ l’espressione analitica, la capacità metaforica e di costruzione «figurata» rendevano l’italiano appropriato allo stile oratorio ( G e n s i n i 1987: 22-23). A rivendicare gli aspetti figurati del linguaggio, cioè il ruolo della retorica, è Giambattista Vico. Nella sua teoria del linguag­ gio la metafora, e i procedimenti figurati, non sono un «artifi­ cio» o un «ingegnoso ritrovato degli scrittori», ma costituiscono le prime forme espressive dell’umanità nella sua fase di cono­ scenza fantastica e mitica della realtà. La retorica in Vico non è una decorazione esteriore che operi su un linguaggio già orga­ nizzato, ma nasce nello stesso momento del linguaggio. «Essa risponde alle necessità cognitive dell’uomo primevo, che opera in una situazione di penuria di mezzi semiotici» ( S i m o n e 1990: 360-361). L ’uso metaforico o «poetico» del linguaggio precede quello «letterale», che si instaura nell’età della ragione «per voci convenute da’ popoli». Di qui la visione della retorica come risorsa propria di quelle lingue che hanno conservato un contat­ to con l’antico, come appunto la lingua italiana. «La retorica del fase evolutiva, corrispondente alla percezione fantastica del reale, il procedi­ mento sintattico inverso in quanto più naturale cioè primigenio, e alla fase moderna il procedimento diretto, più analitico e razionale. 3 Per i particolari e la relativa bibliografia cfr. Vitale 1978: 236-241 e G ensini 1987: 3-35.

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cuore e del sublime, invocata nel Settecento da tutti quelli che non vogliono arrendersi al freddo razionalismo, significa per il Vico un’eloquenza che faccia appello a tutte le facoltà umane, massimamente adatta al ‘genio’ della lingua italiana» ( B a t t i s t i n i R a i m o n d i 1984: 139). L ’esaltazione della funzione retorica nell’esperienza umana porta il Vico a prescindere dalle necessità di ammodernamento della lingua e a coltivare proprio nella prosa uno stile di scrittu­ ra volto al passato e del tutto controcorrente (v. più avanti), ma che anticipa una sensibilità che si paleserà pienamente alla fine del secolo in clima preromantico. Interessante è la teorizzazione di Cesarotti secondo il quale l’ordine inverso è espressione spon­ tanea della natura, e l’ordine diretto frutto della meditazione e dell’arte: una distinzione che rappresenta un dato permanente del linguaggio, non limitato allo stadio iniziale e che dà luogo a quella feconda nozione di genio retorico, cui pertiene l’elemento libero e mutabile della lingua, «risultato del modo generale di concepire, di giudicar, di sentire che domina presso i vari popo­ li», e che vive accanto al genio grammaticale, l’elemento logico­ grammaticale, la struttura stabile della lingua. Questa valorizza­ zione del momento espressivo e retorico della lingua si conclu­ derà con Leopardi, per il quale l’‘antico’ della lingua avrà il significato di ultimo baluardo della fantasia e della individualità di fronte al progrediente livellamento della civiltà moderna.

2. La prosa in Arcadia È attraverso la riflessione innescata dalla querelle italo-francese sul ‘genio’ delle due lingue che matura una coscienza della diversità di statuto tra lingua della poesia e lingua della prosa, determinante per la modernizzazione di quest’ultima. Spiega uno dei partecipanti al dibattito, il bolognese Eustachio Manfredi, poeta e scienziato: gl’italiani, che grandissima differenza pongono tra lo stile poetico, e quello degli sciolti parlari; non solo ricercano ne i versi loro il suono, e l’arm onia; ma fanno professione di parlar in questi un distinto, e speciale linguaggio, per cui impiegano e pensieri, e figure, ed artifizio di co n d o t­ ta, e forme di dire, e talvolta eziandio parole diverse da quelle che nella prosa sogliono adoperare (lettera all’Orsi del 1706, cit. da Vitale 1978: 237).

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La rivalutazione dei caratteri peculiari della poesia, con le sue specifiche regole di organizzazione del discorso e la sua autonomia di lessico e di sintassi, fa avvertire il linguaggio della prosa come più libero dagli artifici retorici, più semplice e meno soggetto ai moduli retorici aulici e tradizionali. La lingua della prosa «resta fuori dai territori pertinenti agli artifici costruttivi e stilistici della poesia», e le è pertanto consentita quella sempli­ ce e più diretta espressione, cui mirava la riforma arcadica ( V i ­ t a l e 1978: 239). Nella prosa si attua quindi l’ammodernamento della lingua, condizionata comunque dal mito della classicità, dall’esigenza di conservare i tratti ereditati dal latino, essendo la nostra lingua «inferiore alla madre e all’ava, cioè alla latina e alla greca», ma «di gran lunga superiore all’altre, nate dalla corruttela della latina», come rivendica Gian Vincenzo Gravina. Per questo «i poemi e le istorie e le tragedie e le commedie migliori italiane e più antiche, alle greche e alle latine nella sentenza e nello stile affatto somigliano, quando le opere in volgar lingua delle altre nazioni, tuttoché ingegnose, di gran lunga però dalla sembianza delle greche e delle latine si discostano». Di qui l’austero classi­ cismo della sua prosa: sintassi di struttura tradizionale nella ricchezza e complessità della subordinazione, nella pratica delle inversioni e del verbo in fondo, come può esemplificare il se­ guente campione minimo, una pagina dal Regolam ento degli studi d i nobildonna in cui si parla delle D oti artificiose della lingua italiana e da cui provengono i passi sopra citati ( Q u o n d a m 1973: 180): A queste doti naturali della nostra lingua, progenita della dom inan­ te, qual fu la latina, si aggiungono le doti artificiose prodotte dall’inge­ gno ed industria d e’ suoi primi e celebri scrittori, cioè Dante, P etrarca, B o ccaccio , Ariosto, Bembo, C asa, Sannazaro ed altri, lungo tem po nella greca e latina lingua esercitati, i quali, togliendo a scrìvere nella volgare favella, hanno in casa trasportati i più bei fiori che nel m aterno seno della greca e della latina raccolsero; sorte che all’altre volgari lingue non fu conceduta, poiché gli uomini più eruditi dell’altre nazioni nel solo latino scrivere si sono contenuti, e la volgare non hanno abbracciato se non coloro che o idioti affatto furono, o di legiadra erudizione e facondia cortigiana si adornarono.

Ma c’è chi cerca di contemperare classicità e modernità, retorica e «naturalezza». Il bolognese Pier Jacopo Martello nel dialogo II vero Parigino italiano (1718) mette al bando i modelli

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intricati della prosa tradizionale: «Via dunque dalle nostre lette­ re questa vana pompa oratoria, e cara sieci la semplicità di uno stile grazioso, agile e naturale, tanto nemico delle trasposizioni, quanto amico della brevità nei periodi» (Martello 1963: 366). I generi epistolari e comunicativi hanno ormai abbandonato il «labirinteo fraseggiare» e i «periodi girevoli» per strutture più vicine alla «costruzion naturale», cioè alla costruzione sintattica «diretta», più appropriata alla speditezza di una prosa di «paro­ le atte alle cose». Ma nei generi elevati non si rinuncia «a nessu­ na delle possibilità che il latino aveva aperto e che l’italiano, come patrimonio ereditario, aveva raccolto» (P artengo 1970: 12). La costruzione «inversa» è qui difesa come fonte di «armo­ nia» e di «sonorità», di suggestioni musicali, contro la «secchezza», la «nudità», la povertà retorica e musicale della prosa francese: «nei Franzesi manca quel giro musico di periodo e quel color d’eloquenza che negli scrittori greci, latini e italiani lusinga, per via degli orecchi, lo spirito» (Martello 1963 : 352). Le strutture delle lingue sono relative, sostiene il Martello, e «quella trasposizione che ad una lingua conviene, all’altra non è famigliare», per cui Francesi, Italiani e Tedeschi «dipingono il lor concetto in quella stessa positura in cui lo sentono entro se medesimi» (M artello 1963: 375-376). E nella prosa il Martello fa uso delle diverse forme di trasposizione in «un gioco attento di iperbati lievi, appartenenti da lungo tempo alla vita istituzio­ nale dell’italiano, dislocati tuttavia nella frase con orecchio fine e con sapienza retorica assai scaltra» (P artengo 1970: 16; v. il Testo 5.1). Anche in Francesco Algarotti la difesa delle «trasposizioni»4 come espressione del particolare ‘genio’ della lingua italiana si fonda sulla più moderna visione della pluralità delle lingue e delle culture, sulla coscienza del legame che unisce lingua e società: lingue apparentate dal comune terreno di origine, si differenziano per influsso del «clima, della qualità degli studi, della religione, del governo, della estensione dei traffici, della grandezza dell’imperio, di ciò che costituisce il genio e l’indole di una nazione». Di qui una ‘diversità’ di «pensamenti», di 4 L ’argomento delle «trasposizioni» è trattato nel Saggio sopra la lingua francese (1750) (in Algarotti 1963: 245-261), in cui è tracciato un moderno confronto fra l’italiano e il francese attraverso le rispettive diverse storie (v. I I I . l ) .

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«concetti», di «fantasie», di «modi di apprendere le cose, di ordinarle, di esprimerle», che segna «il genio, o vogliam dire la forma di ciascun linguaggio» e rende conveniente, anzi necessa­ rio per ognuno lo «scrivere nella propria lingua», come è spiega­ to nel Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua (A lgarotti 1963: 231). L ’uso della propria lingua è poi necessa­ rio «là dove specialmente gioca la fantasia», poiché solo nel «materno suo linguaggio» allo scrittore «è conceduto di eserci­ tare tutte le sue forze, di spiegarle con franchezza e disinvoltu­ ra» (ivi: 239). Attento ai problemi della propagazione del sapere scientifico, l’Algarotti si dichiara contro i «lunghi periodi col verbo in fine» e i «rancidumi», ma non rinuncia a quelle «figu­ re» che consentono di alleggerire il discorso scientifico, coniu­ gando l’utile della scienza al «diletto di adeguate forme lettera­ rie come il dialogo». E per i D ialoghi sopra l ’ottica neutoniana fa riferimento ai dialoghi platonici e galileiani, ai civili conversari del Cortegiano e per Mandamento del famigliare discorso» ai «nostri migliori comici», cioè ai modelli della letteratura bernesca (v. Testo 3.1). È «la retorica della modernità» che «si contenta di forme piane e disinvolte, festive e riposanti, non solo perché meglio confacenti alla referenzialità della scienza, ma anche perché più gradevoli e meglio accettabili» (B attistini-R aimondi 1984: 147).

3. La prosa e l'impegno erudito Un ulteriore passo verso la netta distinzione tra gli istituti della poesia e della prosa e a favore dello sviluppo della prosa nella sua funzione comunicativa, è compiuto dal Muratori. Nel trattato Della perfetta poesia (1706), stabilito il principio che le lingue sono «Ministre affatto indifferenti dell’uomo», sono cioè strumenti di comunicazione, Muratori chiarisce che «l’uso delle iperboli nulla ha a che fare colle lingue; ma bensì coll’elocuzione poetica», è un fatto di stile, e pertanto l’«artifizioso trasporre», che aveva reso armoniche le lingue classiche e la lingua di Petrarca riguarda la poesia più che la prosa. Ed è nell’attività della prosa quale «veicolo di erudizione storica, di ricerca scientifica e di impegno religioso, morale e civile in attrito con l’oratoria umanistica», che persegue la sua riforma il Muratori (B attistini-Raimondi 1984: 128). Se l’uso

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del latino quale lingua più degna e conveniente alla comunica­ zione scientifica per la sua universalità è difeso da classicisti tradizionalisti come il fiorentino Anton Maria Salvini, preoccu­ pato di preservare la lingua da quei neologismi che avrebbero sfalsato la sua identità di lingua ‘antica’, o come Gian Vincenzo Gravina, convinto dell’assoluta superiorità delle lingue classi­ che, il Muratori batte sulla necessità di estendere il volgare alla comunicazione scientifica, additando l’esempio dei francesi e degli inglesi che «a tutto lor potere, e con somma concordia si studiano di propagar la reputazione del proprio lor linguaggio, scrivendo in esso quasi tutte l’opere loro. E perché non vorran fare lo stesso gl’italiani?». Come ha scritto Fiorenzo Forti, il Muratori doveva ormai avvertire «l’impaccio che nella definizione del pensiero nuovo veniva da quel faticoso travestimento all’antica: non per nulla il suo epistolario vede sempre più rarefarsi le lettere latine fino a scomparire del tutto, quando è possibile, anche nella corrispondenza con i dotti stranieri» ( F o r t i 1953: 30-31). Ai «fiori» e alle «frasche» della lussureggiante prosa barocca oppone «pulitezza e chiarezza di stile». Per «dimesticare le materie ruvide e selvagge», «spianare le più ardue» e «delucidare le più oscure» (R iflessioni sopra il buon gusto, 1708) serve una lingua denotativa e referenziale, che si modelli sull’evidenza cartesiana e sulla precisione galileiana dei “termini puri e propri della sola naturale eloquenza” ( B a t t i s t i n i - R a i m o n d i 1984: 134). La novità della prosa muratoriana consiste in un generale abbassamento di eloquenza, in uno smorzamento di «ogni ac­ cenno di enfasi», tanto da sembrare ad alcuni «lenta e scialba», osserva F o l e n a 1983: 15, anzi «pedestre», ma che si può defini­ re con Fubini «mediocre» «nel senso di una consapevole misura per cui allo scrittore non spiace di accogliere nel suo discorso modi di un linguaggio colloquiale» ( F u b i n i 1975: 430-437), sia nel lessico sia nella sintassi (v. Testo 1). A riprova il Fubini porta l’esempio di una pagina delle R i­ flession i sopra il buon gusto (1708), dove, nel toccare la questio­ ne degli antichi e dei moderni, si «tenta di spiegare le ragioni per cui tanti si sentono inclinati a riconoscere la superiorità degli antichi»: Noi siamo soliti a mirare o sulle tele, o ne’ vecchi marmi e camm ei, le immagini o vere, o finte de gli antichi filosofi: non sappiamo giammai figurarceli, se non come tanti semidei, con una barba venerabile, con un capo maestoso e di grande circonferenza, con guardo acuto, con fronte

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spaziosa e piena di rughe e in atto sempre di lam biccare col pensiero i più astrusi segreti della natura, della matem atica e della morale. A ll’in­ contro gl’ingegni e scrittori viventi (e massimamente se conversiam o con esso loro, e gli abbiam spesso davanti a gli occhi) ci com pariscono affatto come gli altri uomini; e se l’anima loro è poi anche male alloggiata e se non portano gran vivacità e prontezza i ragionamenti loro: altro ci vuole che eloquenza mediocre a farci concepire qualche cosa di straordinario in essi (M uratori 1964: 2 5 3 ).

Da notare lo stile diretto e progressivo della sintassi, con frasi brevi, assenza di trasposizioni a parte il soggetto «i ragiona­ menti loro» in fondo alla frase. Il passo, come ha rilevato Fiorenzo Forti, è una ripresa o citazione dal Malebranche della Recherche de la vérité. Interessante il confronto con la fonte, che permette di cogliere «l’accento caratteristico del Muratori», indicato da Fubini nelle «linee più insistite e caricate» rispetto al «discorso classicamente composto del Malebranche». Nonostante i pro­ positi antiretorici del Muratori, il tono resta un tantino più elevato rispetto a quello del filosofo francese, a riprova della diversità dei rispettivi ‘geni’ linguistici: il giro della frase più ampio, dato dalle strutture ternarie («o sulle tele, o ne’ vecchi marmi e cammei», «della natura, della matematica e della morale»), e alcune parole più auliche rispetto all’uniforme livello medio del testo francese. Questo il passo del Malebranche (citato da F ubini 1975: 431): Les peintres et les sculpteurs ne répresentent jamais les philosophes de l’antiquité comm e d ’autres hommes; ils leur font la tète grosse, le front large et élevé, et la barbe ampie et magnifique. C ’est une bonne preuve que le comm un des hommes s’en forme naturellem ent une semblable idée; car les peintres peignent les choses com m e on se les figure, ils suivent les mouvements naturels de l’imagination. Ainsi l’on re g a rd e p resq u e to u jo u rs les an cien s com m e des h om m es to u t extraordinaires. Mais l’imagination représente au contraire les hommes de notre siècle comm e semblables à ceux que nous voyons tous les jours et, ne produisant point de mouvement extraordinaire dans les esprits, elle n ’excite dans l’àme que du mépris et de l’indifférence pour eu x5. 3 Tradotto letteralmente: «I pittori e gli scultori non rappresentano mai i filosofi dell’antichità come degli altri uomini; gli fanno la testa grossa, la fronte larga ed elevata, e la barba ampia e magnifica. È una buona prova che il comune degli uomini se ne forma naturalmente una idea simile; perché i pittori dipingono le cose come ce se le figura, seguono i movimenti naturali deU’immaginazione. Così si vedono quasi sempre gli antichi come uomini straordinari. Ma l’immaginazione al contrario rappresenta gli uomini del nostro secolo come simili a quelli che vediamo tutti i giorni e, non provocan-

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«Innovatore assai grande» è secondo l’Ascoli il «robusto modenese» anche per la «schiettezza del dire», che ne fa un precursore del Manzoni nel «dare addosso all’artefatto, al ma­ nierato, all’affettato, al falso» ( A s c o l i 1968: 52). Come sarà poi per il Manzoni, la nuova medietà stilistica nasceva dall’esigenza di un linguaggio meno lontano da quello del pubblico nel pro­ posito di farlo partecipe delle nuove idee.

4. Il classicismo volgare. L’‘antico’ della lingua La generale rivalutazione del gusto classico porta con sé il riproporsi di una disposizione classicistica nei riguardi del vol­ gare, fondata sul principio della superiorità della tradizione linguistica più antica, quale realtà perfetta «ancora non corrotta dalle vicende della cultura e della storia» e del primato della lingua tosco-fiorentina per la «sua piena congruenza con la lingua degli autori amati e ammirati» (V itale 1986: 67 e 7 2 ). Di qui l’assunzione su un piano retorico-grammaticale, cioè di imi­ tazione, dei modelli antichi e la conseguente pratica di un tradi­ zionalismo volgare dalle diverse espressioni, caratterizzate da un atteggiamento di salvaguardia della tradizione tosco-fiorentina. L ’esponente esemplare di questa tendenza, determinata in origine anche da fattori di reazione al modernismo secentesco e di polemica con il francese, è il fiorentino Anton Maria Salvini: «Migliori... sono quei gloriosi del 13 0 0 , che sono gli esemplari della lingua», «Non serve parlar corretto... bisogna parlar puro... empiersi di forme di dire leggiadre, e nobili e spieganti. Di queste abbondevolmente ne fornisce quel benedetto secolo», sostiene nelle Annotazioni alla Perfetta Poesia del Muratori (1724) (citato da V i t a l e 197 8 : 2 4 3 -2 4 4 ). Superiorità dunque della lin­ gua del Trecento per «quell’aurea schiettezza e quel gusto di favella non di fuori portato, ma nato in casa, di quel beato e ricco secolo», secondo una concezione di pienezza e perfezione espressiva delle origini, che diventerà topica nella letteratura puristica successiva. Fuori Toscana il recupero del volgare assume invece un carattere più anticheggiante e prende i toni di una vera passione do nessun movimento straordinario negli spiriti, essa non eccita nell’animo che disprezzo e indifferenza verso di loro».

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per il Trecento. La mancanza di una coscienza sincronica della lingua comune fa interpretare in modi più rigidamente arcaizzanti e conservativi la tradizione letteraria. Interessante quanto acca­ de a Napoli: le forze più innovative e proiettate a «uscire dai limiti di una civiltà appartata e in parte regionale e arretrata», e da un linguaggio letterario costituito di una mistura di artificiosità barocca, dialettismi, spagnolismi e anche incipienti francesismi, si riconoscono nella nobile e pura tradizione antica, «la cui vitalità non mai interrotta, perveniva, nella opposizione ai secentismi barocchi e nella espressione di nuovi orientamenti scientifici, a condivisi approdi nazionali insieme e m oderni» ( V i t a l e 1986: 174 e 226). Determinante nel mutamento degli ideali letterari e lingui­ stici dell’ambiente napoletano era stato il medico e filosofo Leonardo Di Capua, figura di primo piano del rinnovamento filosofico e scientifico napoletano del secondo Seicento, attra­ verso opere scritte in una prosa pedissequamente calcata sul modello toscano arcaico. Un breve campione di una sua pagina, che citiamo da L i b r a n d i 1992a: 654, può esemplificarne lo stile: Ed acciocch é ogni diliberazione, o partito, ch ’intorno a ciò sia da prendere, a vano, ed inutil fine affatto non riesca, tutte le forze del mio debolissim o in ten d im en to em p iegh erovvi; divisando in p rim a la malagevolezza, in cui di leggieri s’avvengono, non che Principi, o Maestrati, ma M edici ancora, com eché saggi, e intendentissimi, in dare stabili, e certe leggi alla M edicina; essendo somm amente una tal’arte di sua natura incerta, e dubbiosa, ed incostante.

Sintassi ricca di «inversioni» e verbi in clausola, costituita da un unico periodo con la reggente preceduta da una finale e da una relativa, e seguita da due lunghe gerundiali, sulla prima delle quali si incastra una relativa. Una prosa dai caratteri spic­ catamente conservativi, a cui si aggiunge il permanere di alcuni aspetti dell’oratoria secentesca, come i superlativi in -issimo, le terne aggettivali (incerta, e dubbiosa, ed incostante). Maurizio Vitale nel saggio Leonardo di Capua e il capuismo napoletano ( V i t a l e 1986: 176-272) sottolinea la carica innovativa che dovette avere in un primo tempo nell’ambiente napoletano l’assunzione della più antica tradizione linguistica toscana prati­ cata dal Di Capua, in quanto «riconosciuta implicitamente come una realtà, in certo modo, nazionale e localmente rivoluziona­ ria», adatta quindi a simboleggiare, pur nella sua apparenza

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conservatrice «l’auspicato rivolgimento e progresso intellettua­ le» (ivi: 233). La schiera degli imitatori diede vita a una vera e propria maniera improntata al toscano letterario di stampo boccacciano, tale da suscitare le insofferenze e le ironie dei contemporanei, come testimonia il giudizio del Galiani nello scritto D el dialetto napoletano (1779): Tutte le voci rancide, disusate e m orte di Dante, del Passavanti, d e’ due Guidi e di frate Cavalca ritornarono in vita e vennero com e om bre di vampiri a spaventarci. Miste e confuse insieme colle grazie del Burchiello e de’ canti di C ecco da V arlungo, aggiuntovi il latinizzante e disusato giro di periodo b occaccesco , form arono un accozzam ento più strano e m ostruoso assai di qualunque nostra antica goffaggine (citato da V itale 1986: 183-184).

Il Galiani scriveva da una prospettiva ormai mutata, ma dalla quale poteva ancora cogliere gli effetti di quella moda nell’uso linguistico di Napoli. Rilevava infatti come di quella antica «macchia», di cui erano stati affetti «tutti gli uomini di lettere nostri del principio del corrente secolo», ne fossero re­ state e ne restassero «ancora, sporcate le allegazioni forensi». Questa propensione verso il toscano, «inizialmente solo polemi­ ca e dottrinaria» e limitata a una ristretta cerchia di scrittori, contribuì, «proprio per la violenza della sua prima sollecitazio­ ne anticheggiante», a una diffusione dell’italiano nell’uso parla­ to delle persone colte, anche attraverso la pratica forense, po­ tente veicolo, data l’importanza del foro nella vita civile napole­ tana, di estensione della lingua letteraria dall’ambito scritto a quello parlato ( V i t a l e 1986: 233). L ’adesione al capuismo viene via via temperando nei primi decenni del Settecento le punte più esasperate e il culto arcaizzante prende la via di un più equilibrato e attuale toscanismo classicistico, che trova in Nicolò Amenta le forme di una ade­ guata riflessione linguistica e di una conseguente normativa grammaticale ( L i b r a n d i 1992a: 656). Commediografo oltre che grammatico, l’Amenta neH’aderire ai modi letterari tradizionali si rifa al filone popolare toscano di tipo bernesco nel genere ‘comico’, non escludendo elementi anche del dialetto napoleta­ no, e al filone illustre petrarchesco nel genere lirico. Attento a differenziare le scelte linguistiche a seconda dei registri e dei generi letterari, stigmatizza per esempio coloro che

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scrivendo di Scienze, di Storie, in Ragion civile [ ...] cercano studiosissi­ mamente imitare il parlar del B occaccio nella novella della Belcolore, dove il B o ccaccio a mio giudizio, più che in ogni altra novella, imitò il parlar che facevasi, e fassi oggi giorno in M ercato Vecchio a Firenze (citato da V itale 1986: 267).

Nelle Osservazioni a II torto e 7 diritto d el Non si può del Bartoli e nel Della lingua n obile d ’Italia, propone una norma letteraria toscana, aggiornata e sensibile ai diversi registri e ambiti d’uso della lingua, mostrandosi anzi particolarmente innovativo nelle indicazioni grammaticali (v. cap. IX.4). All’altezza degli anni Trenta l’ambiente linguistico napoleta­ no di tendenze classicistiche esprime ormai posizioni in linea per tanti aspetti con quelle muratoriane nella definizione di un italiano letterario e nazionale, e con «quelle toscaniste di fine Seicento, che avevano ispirato il cauto evolversi e rinnovarsi dei criteri cruscanti» ( V i t a l e 1986: 271). Una esperienza del tutto originale nell’ambito delle tenden­ ze anticheggianti della cultura napoletana è quella di Giambattista Vico. L ’alta eloquenza a cui mira nella Scienza nuova si ricono­ sce in una lingua che sia il più lontana possibile dai modi comuni e correnti, una lingua «veneranda» come quella idealizzata dal capuismo. In verità la Scienza nuova prima (1725), come il suo autore chiamerà in seguito la prima edizione del capolavoro, si discosta dai modi eccessivamente arcaizzanti del Di Capua, nel­ l’intento di uno stile espressivo «ma anche altamente comunica­ tivo». Il giudizio è di Giovanni Nencioni, che, muovendo dagli «stupendi saggi» di Mario Fubini raccolti in Stile e umanità di Giambattista Vico ( F u b i n i 1946), ne conferma e precisa i risulta­ ti ( N e n c i o n i 1988: 283-314). Nell’elaborazione successiva fino alla definitiva Scienza nuova (1744) l’opera passa da una stesura «compatta, razionale e veloce ad una stesura in cui i contrastati ritmi e colori, l’accumulazione immaginosa, gli accenti commos­ si e profetici drammatizzano l’esposizione e ne esaltano l’elo­ quenza e la poeticità». Si persegue una maggiore espressività attraverso arcaismi e fiorentinismi, attinti agli scrittori del Due e Trecento o dalla Crusca (come ristucco “infastidito”, ragunanza, ruba “rapina, furto”, assem prare). Le forme trecentesche sono «di quelle che il gusto classicamente educato del rinascimento aveva fatto cadere in desuetudine (cosXproprio passa a propio, anatom ia a notom ia, trascurare a traccurare) e con significativi ipertoscanismi come

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scuopnre e ntruovare, col dittongo uo in sede atona» ( S e r i a n n i in stampa). Si accolgono suggestioni della lingua natia conver­ genti con il modello fiorentino libresco, è il caso di «conceputo, insieme cruschevole e napoletano, preferito al precendete conce­ pito» (ivi). Lo stesso vale per Itone, criare, mentre pretto napoletanismo ègrascio “grasso di animale”. Del tutto originale è anche la sintassi, ricca di calchi dal latino, come messo in luce da F u b i n i 1946: 113-115, ma che si differenzia dallo stile periodico tradizionale della linea boccacciano-bembiana e semmai risente suggestioni più antiche e «primitive». E quanto rileva Serianni, aprendo una nuova prospettiva di studio sulla sintassi vichiana. Serianni por­ ta il caso della ripresa del soggetto dopo un inciso interposto tra soggetto e predicato, per esempio «G iove, di tutti gli altri fi­ gliuoli del cielo, egli fu fantasticato padre e re di tutti gli dei», dove si avverte «un magari inconsapevole riecheggiamento di certa prosa dei primi secoli in cui la limitata o inefficiente progettazione sintattica induceva lo scrivente a richiamare più volte il soggetto-tema delPenunciato» ( S e r i a n n i 1993: 336-337). «Intralciatissimo» e «ravviluppato» avrebbe giudicato il Manzoni lo stile del Vico, mettendolo a confronto con lo «stile chiaro» e l’«ordine apparente così lucido e concatenato» di un Montesquieu, e sottolineando quella estraneità dell’esperienza vichiana alle esigenze di comunicatività della prosa moderna, che l’avrebbe condannata a restare isolata, «abbandonata, intiera colle sue grandi verità, e coi suoi errori»6. Una versione estremistica del classicismo volgare è quella del letterato veronese Giulio Cesare Becelli. Nei dialoghi sul tema Se oggidì scrivendo si debba usare la lingua Italiana d el buon secolo (1737) teorizza una assoluta separatezza della lingua let­ teraria, poetica e prosastica, sostenendo la sua appartenenza a una sfera di elaborazione espressiva del tutto «artifiziosa», la sfera dello «scrivere alto e sublime». I suoi modelli sono fissati per sempre nella lingua del buon secolo, degli scrittori antichi e più grandi, Dante, Petrarca e Boccaccio, cioè il volgare o toscano o italiano - termini sinonimi per il Becelli - da preservare nelle forme antiche alla stregua di una lingua morta, come il latino, perfetta e pertanto immutabile7. Per le necessità pratiche il Becelli 6 II giudizio del Manzoni è contenuto in un frammento scartato della Morale cattolica. 7 Così si esprime il Becelli: « L ’Italiana lingua, in cui si scrive, si può dir

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pragmaticamente proponeva il ricorso al «natio linguaggio», cioè ai dialetti, debitamente depurati da una diversa retorica e pienamente assunti nelle funzioni di lingua, quali strumenti della comunicazione civile: due sfere dunque totalmente separa­ te, da una parte la letteraria, dall’altra la comunicativa, che rispecchiano la effettiva situazione dell’italiano settecentesco e che il Becelli tende a fissare, accogliendo le esigenze dei nuovi settori della comunicazione e preservando al contempo le prero­ gative classiche dell’italiano. Incline al tradizionalismo linguistico, anche se non mancano correnti più aperte al neologismo (v. il caso del Bergantini, cap. IX . 1), il Veneto si distingue per la vitalità delle discussioni linguistiche, ulteriore prova della vivacità della sua vita intellet­ tuale, nella quale Venezia emerge come uno dei centri culturali più attivi della penisola, nell’editoria, nel giornalismo, nel tea­ tro. A difendere la «purità della lingua» e il classicismo volgare nel periodo delle riforme letterarie illuministiche sarà a Venezia l’Accademia dei Granelleschi (fondata nel 1747), nelle due figu­ re di Carlo e Gaspare Gozzi, paladini di una lingua italiana da conservare conforme al suo antico modello e da preservare dalla gallomania, alla quale Venezia appare particolarmente esposta ( C o r t e l a z z o 1992, V i t a l e 1978: 277-279 e L e s o 1984).

5. Toscanità ‘libresca’ e toscanità ‘viva’ Anche il tradizionalismo si rinnova nel corso del secolo: le esigenze di una prosa più ‘naturale’ e vicina alla colloquialità della lingua viva fanno ricorrere al filone popolareggiante della tradizione toscana rappresentato dal genere comico bernesco, al quale attingere vocaboli e locuzioni che fingano la schiettezza e disinvoltura del parlato, restando nel solco della tradizione let­ teraria. È la via percorsa da tradizionalisti come Carlo e Gasparo Gozzi. Ma esperienza esemplare in questa direzione è quella del piemontese Giuseppe Baretti, il quale polemizza con il Vocabo­ lario della Crusca per aver accolto vocaboli «o troppo antichi, o troppo bassi, o troppo sconci, o troppo fiorentini», rimprovelingua morta», «Convien scrivere secondo le osservazioni grammaticali e della Crusca. Gli scrittori sopra i quali esse osservazioni furono fatte son morti. Dunque la lingua in cui si scrive è morta» (citato da L eso 1984: 199; cfr. anche V itale 1986: 437-438).

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rando insomma ai cruscanti un eccesso di arcaismo e municipa­ lismo e dichiarandosi per una prosa più moderna e nazionale (cfr. V i t a l e 1978: 265-269 e B e c c a r i a 1989: 121), ma poi come scrittore in proprio indulge in idiotismi toscani. Assume riboboli dal Berni e dai berneschi, dal Pulci e dai novellieri comici fio­ rentini, nell’intento di una prosa più corrente e naturale, ma che risulta artificiosamente disinvolta. Una Scelta per le lettere fa m i­ liari (Londra 1779), destinata al pubblico inglese, esibisce toscanismi di stampo antico e popolare insieme, per esempio accascano “accadono” (D E I 1950-1957), «faccianla finita e non perdianci in parole», dove toscana popolare è la desinenza con n della prima persona plurale, gnene “gliele” (per entrambe le forme cfr. R o h l f s 1966-1969: 467 e 530), avveddi “avvidi”, accanto ad arcaismi (per esempio Vinegia per Venezia, o dittongamenti del tipo ritruovano, niego) e a moduli sintattici tipici della prosa elevata, per esempio l’interrogativa con prono­ me posposto («vi sovvien egli?»)8, fornendo così «campioni di bello scrivere» più che esempi da utilizzare in una conversazio­ ne orale ( S e r i a n n i 1993: 540). In questo compiacimento per i toscanismi si rivela «l’ansia caratteristica di un piemontese, bramoso di impossessarsi di un linguaggio da lui sentito in tanta parte estraneo, e che si rinnoverà nell’altro e più grande pie­ montese del secolo, l’Alfieri» ( F u b i n i 1975: 289). A questa stessa disposizione si deve il gusto per gli alterati e i derivati (villanelle tarchiatotte, attem patotto, bugiacela, gagliojaccio, gabellacela, d en tu ti, u n ghiati, codilu nguti, ca lesseresco , b attag liero so, glutinoso), per le coniazioni personali come i verbi parasintetici sbarbificati, sgiuseppim i e sbarettim i), per le amplificazioni sinonimiche e le variazioni suffissali («pantanosa buca o fogna o caverna o abisso», «Il conte è altrettanto nimico d’ogni toscanismo, d’ogni toscaneria, d’ogni toscaneggiatura e d’ogni toscaneggiamento»), dove troviamo esaltata una caratteristica della neologia settecentesca (v. cap. IV. 1). Ma il «merito della lingua» comincia a interessare direttamente anche il parlato di Toscana non più solo lo scritto ( P o g g i S a l a n i 1992: 431). L ’esigenza di una lingua comune parlata e di un modello più «naturale» e colloquiale indirizzano verso il toscano «vivo» e «parlato». Il padre Onofrio Branda, milanese, fa una apologia del fioren tin o vivo, difeso nella sua qualità di 8 P e r g li e s e m p i v .

B aretti 1 9 1 2 : 2 3 - 2 5 e 2 6 5 - 2 7 1 .

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lingua e non di dialetto, congruente con la lingua letteraria: ne apprezza la «specchiata, e leggiadra naturalezza schiva d’ogni affettazione» rispetto al toscano raccolto dai libri, affettato e arcaizzante (D ella lingua Toscana, 1759, citazione da V i t a l e 1978: 281), e lo oppone alle altre parlate negativamente conside­ rate come dialetti. La sua esaltazione del toscano vivo suscita reazioni di difesa del dialetto milanese e della poesia in dialetto da parte del Parini e di poeti dialettali milanesi come il Tanzi e il Balestrieri (ivi: 280). Nella lessicografia si ricorre per l’ambito domestico e fami­ liare al toscano contemporaneo. Il Patriarchi, padovano di ori­ gine fiorentina, per la compilazione del suo Vocabolario del dialetto veneziano e padovano, c o ’ term ini e m odi corrispondenti toscani (Padova, 1775), si rifà alla tradizione letteraria, ma ricor­ re anche a informatori toscani viventi ( L e s o 1984: 205-206). Anche all’orecchio teatrale del Goldoni la «purgatissima lingua» che si parla a Firenze rappresenta un ideale di lingua viva rispondente alle esigenze di naturalezza e spontaneità: «sceltissime sono le parole, graziosi gli adagi e spiritosi i concet­ ti; ed utilissimo studio credo io per un uomo di lettere, tratte­ nersi per qualche tempo in Firenze ad imparar dalle balie e dalle fantesche ciò che altrove si mendica dal Bembo, dal Boccaccio o dalla Crusca medesima» (così nella Dedica delle fe m m in e puntigliose). Esemplare la vicenda di Vittorio Alfieri: la sua «conquista» dell’italiano implica un’opera di «spiemontizzazione» e di «sfrancesizzazione» che lo porta a guardare al toscano non solo letterario, ma anche vivo e naturale. Stabilisce la sua dimora a Firenze, impegnandosi a impossessarsi della «lingua parlabile», cercando di «pensare quasi esclusivamente in quella doviziosis­ sima ed elegante lingua; prima indispensabile base per bene scriverla». A questo scopo bada a curare la pronuncia, si applica ad apprendere il lessico quotidiano e familiare, precorrendo quella esperienza del «risciacquo» in Arno che renderà proverbiale l’operazione compiuta da Manzoni sui Promessi sposi (v. in questo stesso capitolo il paragrafo 10).

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6. Storia e filologia L ’esigenza di una più precisa definizione della propria iden­ tità nazionale promuove la ricerca sulle origini della civiltà lette­ raria italiana e di conseguenza della sua lingua, che attinge ai più avanzati studi eruditi d’oltralpe (Marazzini 1988: 9-27 e I d . 1989a: 71-94). La circolazione del più antico testo romanzo, il Giuramento di Strasburgo dell’842, aveva acceso negli studiosi italiani un interesse ‘scientifico’ intorno alle lingue romanze, sollecitando indagini sui più antichi documenti. Maffei e Mura­ tori, la cui apertura verso l’Europa si alimentava di un forte senso dei valori nazionali, appuntano l’attenzione sulle tradizio­ ni costituitesi dopo la dissoluzione dell’unità romana, racco­ gliendo nei loro monumentali lavori (da ricordare i Rerum Italicarum Scriptores e le Antiquitates italicae M edii A evi del Muratori e la Verona illustrata del Maffei) documenti e prime testimonianze italiane, in una prospettiva storiografica in cui i fatti linguistici dovevano servire alla ricostruzione dei fatti sto­ rici. Il Muratori tra l’altro riportava quella che era ritenuta la più antica, l’iscrizione ferrarese, datata 1135 (un ‘falso’, opera di un erudito ferrarese, solo da pochi decenni riconosciuto come tale). Si discute sulla genesi della lingua italiana e in particolare sul ruolo avuto dai popoli invasori nel passaggio dal latino volgare al volgare italiano. Maffei, in linea con il suo atteggiamento prevalentemente umanistico, riteneva trascurabile l’elemento barbarico nella formazione dell’italiano, tendendo a valorizzare la continuità tra mondo antico e medioevo, cioè tra latino e italiano. Muratori invece considerava determinante nella forma­ zione del volgare italiano l’influsso delle lingue degli invasori: un orientamento tendente a sottolineare la frattura tra mondo antico e civiltà romanza e a valorizzare il contatto dell’Italia con l’Europa9. Le idee del Muratori sono contenute nelle Antiquitates, tradotte successivamente in italiano, nella dissertazione X X X II D ell’origine della lingua italiana, che rappresenta il primo tenta­ tivo di ricostruire in maniera sistematica la storia della nostra lingua dalle sue origini. Col dare importanza all’elemento germanico, accanto a quello greco e latino, il Muratori richiama­ va l’attenzione sull’aspetto del mutamento derivante dal ‘con­ 9 Su q u e s ti a s p e tti o ltr e a 2 3 9 -2 4 1 .

M arazzini c i ta t o , è d a v e d e r e T impanaro 1 9 6 9 :

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tatto’ tra lingue diverse, trattato nella dissertazione X X X III, D ell’origine e d ell’etim ologia delle parole italiane. Il problema era attualissimo in quanto riguardava il contatto tra lingue e culture, toccando quindi la «questione della lingua»10, e il Mu­ ratori ne tratta nel capitolo V ili Della lingua italiana della Per­ fetta Poesia Italiana (1706), «rivelando orientamenti e atteggia­ menti vivacemente moderni» (V itale 1978: 229). Il riconosci­ mento che «la principal massa delle voci italiane viene dalla lingua latina» e che «gli uomini o per loro arbitrio, o per neces­ sità di spiegar dei sottili pensieri, o per pompa di eloquenza, hanno fabbricato e fabbricano nuove parole e frasi, o le traggo­ no dalla stessa lingua latina o dalle confinanti», legittimava nell’attualità il ricorso a «vocaboli nuovi e locuzioni di nuovo fabbricate», «purché si cavino con grazia dalla lingua latina, madre e nutrice dell’italiana, o dall’altre lingue sorelle di questa». Le condizioni linguistiche a lui contemporanee estremamen­ te diversificate gli facevano ritenere che fosse proprio d ’ogni lingua vivente l’essere divisa in più dialetti; né v ’ha regno, anzi né pure provincia, in cui ancorché ognuno intenda la lingua comune, pure tutti i popoli la parlino nella stessa maniera ed uniformità. Evidentem en­ te apparisce ora, quanto vada discorde il parlar dei Calabresi e N apole­ tani da quello de’ Fiorentini, Genovesi, Milanesi, Torinesi, Bolognesi e Veneziani. Che lo stesso si osservi nella Francia, G erm ania, Spagna, G ran Bretagna ed altri paesi, è cosa fuor di dubbio (M uratori 1988: 69).

E contemporaneamente le condizioni linguistiche della latinità in cui il latino uniforme, ‘grammaticale’, degli scrittori si distan­ ziava dai latini ‘volgari’ delle diverse province, lo confermavano nell’idea che la «lingua comune d’Italia» era la lingua di tutti gli «illustri scrittori, che in varie provincie d’Italia han composto o versi, o prose; laonde ragionevolmente può appellarsi parlare italiano», cioè sovramunicipale, al di sopra delle parlate locali, tra le quali è compreso anche il fiorentino o toscano. Per il Gravina invece la lingua italiana continuava la lingua volgare com une già esistente in epoca latina e divenuta, col tramonto del latino, lingua della comunicazione generale; di 10 II te m a d e lla fo r m a z io n e d e l l ’ita lia n o t r o v a e c o , n e lla s e c o n d a m e tà d el s e c o l o , n e l R isorgim ento d ’Italia dopo il M ille d i S a v e r io B e ttin e lli ( 1 7 7 5 ) : u n e s e m p io d i s t o r i a c u ltu r a le e c iv ile in c u i e n tr a n o a n c h e c o n s id e r a z io n i di s t o r i a lin g u is tic a

(M arazzini 1 9 8 9 : 8 7 - 9 4 ) .

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essa i dialetti sarebbero alterazioni successive, dipendenti, se­ condo le teorie razionaliste, dalle diverse condizioni ambientali e sociali, e il toscano e il romano gli eredi più prossimi. Il carattere com une del toscano e le sue proprietà di lingua illustre erano da attribuire non tanto aU’«origin sua», quanto ai caratte­ ri della storia civile fiorentina, a una «repubblica popolare» in cui «la corte abitava per tutto il popolo ed in mezzo la plebe medesima si annidava» e lo sviluppo di «ogni pubblico affare» costringeva i cittadini sia «gl’ingegni più sottili» sia i «grossola­ ni» «a dar opera al culto e polito parlare» (Della ragion poetica, 1708 in Q u o n d a m 1973: 290).

7. La lingua ‘comune’ italiana La coscienza della dilatazione nazionale della cultura e l’ampliamento delle funzioni della lingua portano in primo pia­ no la questione dell’unità della lingua. Si postula una «lingua comune italiana» che richiama le posizioni cinquecentesche cor­ tigiane e trissiniane e risale fino al «volgare illustre» dantesco: lingua non fissata al passato e neppure a una regione, sostiene il Muratori: un solo dunque è il vero ed eccellente linguaggio d ’Italia, che proprio è ancora di tutti gl’italiani, e si è usato (siccom e afferma il medesimo D ante) da tutti grillustri scrittori, che in varie provincie d ’Italia han com posto o versi, o prose; laonde ragionevolmente può appellarsi parla­ re italiano, siccome ancor toscano suole appellarsi per altre giuste cagioni.

Neppure la favella dei toscani può aspirare a lingua comune, «avendo anch’essa bisogno, benché men dell’altre, d’esser pur­ gata», in quanto il comun parlare italiano è un solo per tutta l ’Italia, perché in tanti diversi luoghi d ’Italia è sempre una sola e costante conform ità di parlare e scrivere, per cagione della gram m atica. Q uesto dunque si ha necessariam ente a studiar da tutti, com e comune a tutti gl’italiani [ ...] e com e quello che da ciascuno si adopera nelle scritture, nelle prediche, n e’ pubblici ragionamenti, e che in ogni provincia, città e luogo d ’Italia è inteso ancor dalle genti più idiote (Perfetta Poesia, cap. V ili.3).

Uscita dal ruolo platonizzante di modello degno di imitazio­ ne, la lingua «comune» messa a confronto con gli usi e la vita

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civile, può accogliere per Muratori neologismi e dialettismi, purché già adattabili al patrimonio linguistico comune. Gravina in ossequio al suo ideale nutrito di ‘antico’ esalta invece la base toscana, non quella popolare, antica e moderna, ma quella dei grandi scrittori, Dante in particolare ( Q u o n d a m 1973: 180). Preservati i caratteri dell’italiano più congruenti con le lingue classiche e più conformi ad esse nella struttura retorica, Gravina ammette l’afflusso dei forestierismi, per la capacità di una lingua a convertire le forme straniere al proprio carattere, assimilandole ai propri connotati strutturali: siccome per confusione di poco di materia straniera non si cangia una massa, ma più tosto la lieve materia straniera trapassa nella natura e qualità del corpo universale, così da que’ vocaboli che o da necessità o dall’autorità di chi scrive si vanno di tempo in tempo nella lingua insinuan­ do, non è alterata o cangiata la lingua, ma più tosto essi vocaboli, per legge tanto di natura quanto di ragion civile, nella qualità o sostanza di essa lingua si convertono (Della ragion poetica, in Q uondam 1973: 280).

L ’argomentazione, vicina, ha notato Folena, alle proposizio­ ni antipuristiche di Machiavelli, consente a Gravina di rispon­ dere alle inderogabili richieste di allargamento lessicale della lingua, salvaguardandone il carattere di lingua classica. Al fiorentino Anton Maria Salvini, voce del tradizionalismo cruscante, preme invece salvare il principio della fiorentinità o toscanità ad integrazione della italianità propugnata dal Muratori: Il linguaggio com une d ’Italia, cioè quello del quale com unem ente si sono serviti finora e si servono gli Italiani; è il toscano linguaggio, unico regolato, e che solo ha avuti scrittori riputati [ ...] E questo medesimo si può ragionevolmente addimandare anche italiano-, p erciocché gl’italiani questo com unem ente usano, e in questo scrivono (corsivo mio; citazione da V itale 1978: 2 4 3 ).

Il Salvini non rifiuta l’innovazione lessicale purché rispetto­ sa dell’uso degli antichi scrittori fiorentini, più sensibili alle lingue classiche. E propone di ricorrere alle lingue classiche come al serbatoio inesauribile di arricchimento della lingua ita­ liana «sia per quanto riguarda la educazione raffinata del gusto nell’esercizio letterario sia per quanto riguarda la necessaria rinnovazione lessicale (anche di tipo scientifico)» ( V i t a l e 1978: 242). È questa una nozione dinamica della toscanità, modello vivente fondato sull’uso di una società di parlanti, che si rinnova

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abbandonando le voci arcaiche e assorbendo le forme attuali. Toscanismo «illuminato» definisce Vitale l’idea di unità lingui­ stica del Salvini, basata sul patrimonio dei puri scrittori antichi, ma rivitalizzata dalla lingua toscana viva. Sono questi i presup­ posti che sovrintendono alla revisione del Vocabolario della Cru­ sca alla sua quarta impressione, del cui allestimento Salvini è uno dei collaboratori. Con questa nuova edizione del Vocabolario (cfr. cap. IX . 1) l’Accademia della Crusca si propone come interprete e depositaria ormai a livello nazionale di «una cultura preoccupata soprattut­ to dei valori formali e degli aspetti filologico-grammaticali della lingua» ( V i t a l e 1984: 20). Punto di riferimento obbligato per chi si poneva à scrivere in italiano, ma «più adoperato e seguito in pratica che non sia stato espressamente riconosciuto», come osserverà il Manzoni nel Sentir messa, il Vocabolario della Crusca diventa il polo delle discussioni, il capro espiatorio delle insoddisfazioni e delle incertezze grammaticali e lessicali emer­ genti in tutti i settori della cultura letteraria e non letteraria.

8. La lingua ‘illuminista’ La Crusca, quale simbolo di un modello che appariva del tutto insufficiente per «dialogare con l’Europa dei lumi» ( M o r g a n a 1992: 115), è infatti il bersaglio più appariscente dell’attacco alla tradizione, condotto da Pietro e Alessandro Verri e da Cesare Beccaria dalle pagine del «Caffè»11. In Lom­ bardia la mobilitazione per le riforme calata nella pratica con­ creta rende più avvertita l’esigenza di una letteratura utile, sostanziata di contenuti didattici e direttamente coinvolta nei problemi reali dell’evoluzione della società. 11 U n a t t a c c o la c u i v ir u le n z a si s p ie g a c o n s id e r a n d o le t e n d e n z e d e ll’a m ­ b ie n te d a c u i e s c o n o i n o s tr i g io v a n i r i f o r m a t o r i . « N e i p rim i d e c e n n i d e lla d o m in a z io n e a u s tr ia c a la L o m b a r d i a è a re a a n c o r a u n p o ’ p e r i f e r ic a ris p e tto ai p iù v iv i c e n tr i d i c u lt u r a , a n c h e se la p r e s e n z a d e l M u r a t o r i a M ila n o av ev a s e g n a to u n a c r e s c i t a d i p r e s tig io in a m b ito n a z io n a le » (M organa 1 9 9 2 : 1 1 4 ) . L ’a m b ie n te l e tt e r a r io è a t t a r d a t o n e i m o d e lli c la s s ic is tic i, c io è d e lla t r a d iz i o ­ n e c i n q u e c e n t e s c a d e l « b u o n g u s to » a r c a d i c o , e n e l to s c a n e s i m o d e l g e n e r e p o p o la r e e b u r le s c o d e l c a n o n e c r u s c a n t e . I n s o m m a u n « a m b i e n t e n o n c e r to d ’a v a n g u a r d ia » : in c u i l ’a u to r i t à d e lla t r a d iz i o n e c r u s c a n t e si è o r m a i l o g o r a ­ ta e alla « in f la z io n a ta p o e s ia d ’o c c a s i o n e » d e lla p r a t ic a a r c a d i c a si è v e n u ta c o n tr a p p o n e n d o u n a v ig o r o s a p o e s ia in d ia l e tt o (iv i: 1 1 4 ) .

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L ’impegno a «rendere comuni, familiari, chiare, precise le cognizioni tendenti a migliorare i comodi della vita privata e quelli del pubblico», a «distruggere i pregiudizi e le opinioni anticipate», secondo il programma enunciato nel periodico ( M o r g a n a 1982: 417), imponeva una radicale innovazione di modelli retorici. « L ’essenza di un discorso consiste nelle cose che si dicono, e le parole altro non sono che i mezzi col quale vien significato il discorso», sostiene Pietro Verri sulla base del principio razionalistico della lingua come puro e meccanico strumento del pensiero. E «il merito della lingua è un puro merito secondario [...] un puro abbellimento del discorso». E per Alessandro Verri il «vero ordine» «debbe consistere nelle cose non nelle parole»12. Quindi bando agli «ornamenti» stilistici, cioè alla elocutio, e rivalutazione dei contenuti e della loro disposizione, in una riunificazione di res e verba. Le idee non vanno stemperate «con qualche centinaio di parole», ma si devono mostrare con una «catena ben tessuta di ragionamenti utili». Questo implica una sostituzione radicale di modelli per la prosa. Si guarda a Galileo come esempio di chiarezza e ai pensatori inglesi e francesi: «Un Addison, un Hume, un Swift, un Montesquieu non possono paragonarsi sen­ za un gran spirito di partito ai Boccacci, ai Fiorenzuola, ai Casa, ai Bembi», e altri «sì fatti oscurissimi scrittori, de’ quali l ’Euro­ pa colta non legge neppur un solo», scriveva Alessandro Verri (citato da M o r g a n a 1982:419). Si rifiuta lo stile «manifatturato» della prosa tradizionale italiana, con i suoi «rotondi periodi», in cui non «abbiamo il coraggio di andare a capo, ma pretendiamo che tutto sia liscio, e legato, e fluido, quantunque a spese del vero ordine, che debbe consistere nelle cose, non nelle parole». All’architettonico periodare tradizionale si contrappone lo stile spezzato, con frasi brevi e autonome, «sconnesso in apparenza, liberissimo, con sovente arbitrarie divisioni di capi, in massa però le idee tutte si aggirano, e cospirano in vari centri e punti di vista, che formano un sistema» {«Caffè» 1960: 378, citato da M o r g a n a 1982: 427). 12 Si t r a t ta d e g l’in te r v e n ti c o m p a r s i su l « C a f f è » , p r e c is a m e n te Pensieri sullo spirito della letteratura italiana e Su i parolai d i P i e t r o V e r r i e Det difetti della letteratura, e di alcune loro cagioni d i A le s s a n d r o V e r r i («Caffè» 1 9 6 0 : 152 e 3 6 2 ).

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La vivace contestazione della tradizione letteraria italiana sfocia nel goliardico manifesto di Alessandro Verri, Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca, in cui si mette alla berlina l’eccessiva preoccupazione della forma stigmatizzandola di pedantism o, un neologismo coniato per l ’occasione (F ogarasi 1976 e M organa 19 8 2 : 4 2 1), e se ne enfatizzano parodisticamente i tratti tipici: Cum sit, che gli A utori del «C affè» siano estremamente portati a preferire le idee alle parole, ed essendo inimicissimi d ’ogni laccio ingiu­ sto che im porre si voglia all’onesta libertà de’ loro pensieri, e della ragion loro, perciò sono venuti in parere di fare nelle form e solenne rinunzia alla pretesa purezza della Toscana favella, e ciò per le seguenti ragioni [ ...] sino a che non sarà dim ostrato, che una lingua sia giunta all’ultima sua perfezione, ella è un’ingiusta schiavitù il pretendere che non s’osi arricchirla, e migliorarla [ ...] nessuna legge ci obbliga a vene­ rare gli oracoli della C rusca [ . . . ] Porterem o questa nostra indipendente volontà sulle squallide pianure del dispotico regno O rtografico, e con­ form erem o le sue leggi alla ragione dove ci parrà che sia inutile il repli­ care le consonanti o l’accen tar le vocali, e tutte quelle regole che il capriccioso Pedantism o ha introdotte e consagrate, noi non le rispettere­ mo [ ...] abbiamo consagrato il prezioso tem po all’acquisto delle idee, ponendo nel num ero delle secondarie cognizioni la pura favella («C affè»

1960: 39 ss.)13.

Si proclama di voler usare «di quella lingua che s’intende dagli uomini colti da Reggio Calabria sino alle Alpi [ ...] con ampia facoltà di volar talora al di là dal mare e dai monti a prendere il buono in ogni dove». E anche Pietro Verri insiste sulla non municipalità della lingua, rifiuta i vocaboli che sono «municipali d’una parte d’Italia», dove «municipale» sta evi­ dentemente per toscano e cruscante. Ma lingua «comune» non sta più a significare lingua della tradizione comune, come per il Muratori, ma lingua «universalmente intesa»: comune ha valore non solo geografico ma anche socio-culturale, di lingua lettera­ ria media destinata a un pubblico eterogeneo (cfr. su questo C artago 1990).

C ’è in questa concezione di uniformità l’esigenza di una lingua antispecialistica che consenta a tutti la possibilità di acce­ dere alle conoscenze scientifiche14. Come sostiene Pietro Verri, 13 II testo si trova pubblicato anche in Vitale 1978: 686-688. 14 Su questa esigenza fondamentale della nuova pedagogia civile cui aspi­ rano i riformatori lombardi cfr. F ormigari 1984: 71.

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la lingua non si potrà mai chiamare stabilita sodamente insino a tanto che vari e vari valentuomini non l’abbiano piegata alle diverse loro idee, e resa versatile e maneggevole a ben dipingere e rappresentare tutti i diversi oggetti («C affè» 1960: 158).

Nell’opera dei «valentuomini» possiamo riconoscere un preannuncio di quell’operosa attività degli scienziati, cioè della diffusione della cultura, che avrebbe invocato, di lì a un secolo, in condizioni storiche totalmente mutate, Graziadio Isaia Ascoli per la soluzione della questione della lingua, anche lui in oppo­ sizione al culto della forma, all’«antichissimo cancro della reto­ rica»15. Bisogna ricordare però, osserva giustamente M o r g a n a 1982: 4 1 9 , che per un illuminista della Lombardia austriaca non si pone ancora il «problema di una lingua che debba coincidere con lo strumento vivo di una comunità di parlanti che ne pos­ siedono appieno la competenza - è il problema che si farà strada solo in età romantica e sarà affrontato con risolutezza dal Manzoni». Ma il principio della lingua universalmente intesa appare «una aspirazione più che una realtà» per la difficoltà ad uscire dalle strettoie della letterarietà classicistica, per il peso rilevante che ha ancora l’elemento culto e anche arcaizzante nella prosa dei riformatori del «Caffè». Come spiega M o r g a n a 1992: 116119, l’insicuro possesso dell’italiano nell’uso quotidiano, in cui per la comunicazione familiare era normale il dialetto mentre per la buona conversazione in società, e per gli usi scritti privati, lettere, diari, era forte la concorrenza del francese16, costringeva gli scriventi lombardi a tenersi «abbarbicati» alla grammatica, a quella pratica «libresca» dell’italiano da cui ha difficoltà a libe­ rarsi la loro prosa. Accanto alle novità che si palesano soprattut­ to nell’abbandono del periodare complesso e carico di subordi-

15 Graziadio Isaia Ascoli nel Proemio all’Archivio glottologico italiano (1873) avrebbe imputato la mancanza di una lingua «ferma e sicura» alla «scarsità del moto complessivo delle menti, che è a un tempo effetto e causa del sapere concentrato nei pochi, e nelle esigenze schifiltose del delicato e instabile e irrequieto sentimento della forma». Anche l’Ascoli si opponeva al pericolo del municipalismo di tipo fiorentino che temeva potesse risorgere attraverso la proposta manzoniana (su questo cfr. Bruni 1983). 16 Istruttivo il caso di Pietro Verri citato da Morgana 1992: 116, il quale si propone di addestrare lui stesso la propria figliolina Teresa nel francese attraverso la conversazione quotidiana, e si rallegra di sentirla parlare con disinvoltura «tedesco, francese, milanese come se ciascuna fosse la sua lingua naturale», non nominando mai l’italiano.

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nate, nell’ordine delle parole prevalentemente progressivo, per­ mangono inevitabilmente aspetti tradizionali; e anche nel lessi­ co l’apertura ai neologismi e ai forestierismi è quella che si riscontra nella generalità delle prose illuministiche senza «parti­ colari e notabili punte esotiche e neologistiche» (V itale 1978: 315 n. e M organa 1982; v. Testi 4.1 e 4.2). Se all’inizio del secolo Pier Jacopo Martello aveva reclamato contro la Crusca «parole atte alle cose», adesso la «rinunzia» al Vocabolario dà la preferenza alle idee e alle cose rispetto alle parole. Il riformismo linguistico arriva a toccare anche l’Accade­ mia della Crusca, che nel 1783 viene soppressa per decreto del granduca Pietro Leopoldo di Toscana, e incorporata nell’Acca­ demia fiorentina. L ’organismo riuniva lettere e scienze ed era delegato a preparare un vocabolario su nuove basi e con i neces­ sari incrementi scientifici e tecnici17. Nella dichiarazione inau­ gurale, il vicesegretario della nuova Accademia palesava le sue tendenze antitradizionaliste e anticruschevoli, manifestando la sua ammirazione per gli scrittori permeati del nuovo spirito filosofico «pieni mirabilmente di cose, e poco curanti delle pa­ role». Insomma, usando la felice immagine di Folena, «la ban­ diera radicale veniva issata addirittura sui crollati spalti della Crusca» (F olena 1986: 208; sulla nuova Accademia cfr. V itale 1978: 292).

9. Melchiorre Cesarotti: la ‘filosofia’ applicata alla lingua italiana L ’eredità più viva dell’illuminismo e del cosmopolitismo linguistico è raccolta dal Saggio sopra la lingua italiana (1788), successivamente Saggio sulla filoso fia delle lingue applicato alla lingua italiana (1800), del padovano Melchiorre Cesarotti (17301808). Viene qui smantellato il principio della purità e della perfezione linguistica, fondamento delle teorie tradizionaliste e arcaizzanti: Niuna lingua originariamente non è né elegante né b arbara, niuna non è pienamente e assolutamente superiore ad un’altra [ . . . ] Niuna lingua è pura. Non solo non n ’esiste attualm ente alcuna di tale, ma non 17 L ’A c c a d e m i a d e lla C r u s c a s a r à r i c o s t i t u i t a , p e r a t t o d e l g o v e r n o n a p o l e o n i c o , n e l 1 8 1 1 , in c lim a d e l t u t t o c a m b i a to a n c h e lin g u is tic a m e n te .

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ne fu mai, anzi non può esserlo [ ...] Niuna lingua fu mai formata per privata o pubblica autorità, ma per libero e non espresso consenso del maggior num ero [ ...] Niuna lingua è perfetta: com e non lo è verun’altra delle istituzioni u m an e... Se però niuna lingua è perfetta, ognuna non per tanto può migliorarsi [ ...] Niuna lingua è ricca abbastanza [ ...] Niuna lingua è inalterabile. Le cause dell’alterazione sono inevitabili e necessarie (P uppo 1969: 2 0 -2 7 ).

Da questi principi generali discende che regole diverse sovrintendono alla lingua a seconda che sia parlata o scritta, a seconda cioè delle diverse situazioni d’uso. La lingua parlata, «più libera e feconda», varia necessariamente da città a città, e anzi nella stessa città, per cui «niuna lingua è parlata uniformemente dalla nazione». Inoltre la lingua varia al proprio interno a seconda dei registri e degli strati e gruppi sociali: «le diverse classi degli artefici si formano il loro gergo: i colti, i nobili hanno anche senza volerlo un dialetto diverso da quello del volgo» (ivi). Quanto alla lingua scritta, essa «dee considerarsi come il compimento e la perfezione della parlata, dovendo essa aggiun­ gere alla regolarità ed alla scelta, che le sono proprie, la fran­ chezza e la fecondità che caratterizzano l’altra» (ivi: 25). La lingua scritta poi supera le differenziazioni regionali, non essen­ do «ristretta a veruna città, ma diffusa per ogni parte d’Italia». E supera anche le barriere nazionali, da quando «il commercio e la comunicazione universale da un popolo all’altro, la propagazione dei lumi per mezzo della stampa, le conoscenze enciclopediche diffuse nella massa delle nazioni» hanno abbat­ tuto le barriere tra le nazioni e confuso «in ciascheduna le tracce del loro carattere originario», facendo dell’Europa «nella sua parte intellettuale» «una gran famiglia». Apertura, quindi, ai neologismi, ai dialettalismi, e soprattutto ai francesismi, purché filtrati attraverso l’uso dei dotti e degli scrittori18 (ivi: 93-94). Quanto poi ai forestierismi, cioè i latinismi e i grecismi di media­ zione francese, se ne sostiene l’indispensabile funzione comuni­ cativa intereuropea. A spiegare l’inevitabilità del mutamento linguistico il Cesarotti ricorre alla opposizione tra «genio grammaticale» e «genio reto18 L a n e c e s s ità di r e g o la r iz z a r e l ’u so s e c o n d o « r a g i o n e » fa c o n c e p i r e il p r o g e t t o d i u n « C o n s ig l io n a z io n a le » c o n s e d e a F ir e n z e e c o m p o s t o d el « f i o r e d e i l e tt e r a t i d ’I t a l ia » , c o n il c o m p i to d i s o v r in te n d e r e ai p r o b le m i lin g u is tic i n a z io n a li e di c o m p i la r e v o c a b o l a r i d ia le tta li e u n g r a n d e v o c a b o ­ la r io c h e rin n o v a s s e r a d ic a lm e n te la Crusca (V itale 1 9 7 8 : 2 7 7 ) .

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rico», cioè tra struttura morfosintattica, più stabile, e struttura stilistica, mutevole in quanto collegata immediatamente con il «modo generale di concepire, di giudicar, di sentire che domina presso i vari popoli». La concordanza, le desinenze, il reggimento pertengono alla parte grammaticale e fissa della lingua, la costru­ zione pertiene alla parte retorica, la sua scelta «non ha un sem­ plice merito grammaticale, ma insiene è anche suscettibile di una bellezza retorica», disponibile quindi alle esigenze di varia­ zione dell’espressione letteraria. Viene così salvato il principio della costruzione inversa ( P u p p o 1969: 55-61). Nella opposizione tra «genio grammaticale» e «genio retori­ co» trovano spazio la funzione comunicativa della lingua e quel­ la espressiva, in una prospettiva del problema linguistico che media le istanze illuministiche di carattere cosmopolitico e quel­ le ormai prerisorgimentali, sensibili alla tradizione e allo spirito nazionale.

10. Il nuovo classicismo Il saggio di Cesarotti è la risposta più matura a quei «veloci cambiamenti» legati alla «rivoluzione nelle idee della nazione», per dirla con Cesare Beccaria, che stavano mutando la fisiono­ mia dell’italiano, ma anche a quelle esigenze letterarie che si riaffacciano prepotentemente affermando il diritto di una lin­ gua letteraria che sia «non solo di fatto, ma di pienissimo e consapevole diritto, la lingua delle belle lettere, ben separate da scienza, tecnica, politica e così via». L ’enunciazione è di L e s o 1984: 219, riferita al roveretano dem entino Vannetti, una voce del classicismo puristico della fine del secolo dai connotati or­ mai diversi da quello di primo e medio Settecento, spaziando dai trecentisti ai cinquecentisti fino ai moderni Metastasio e Frugoni. La diffusione dei nuovi generi modellati sugli esempi stra­ nieri, la pratica delle traduzioni che induce l’instaurarsi di abi­ tudini che contrastano con i caratteri tradizionali, danno nuovo fiato alle reazioni conservatrici e puristiche sotto le quali si nasconde spesso un atteggiamento ideologicamente antilluministico: neologismi e sintassi gallicizzante sono accomunati sotto l’etichetta di stile «filosofico». Carlo Gozzi ribadisce, contro il liberismo cesarottiano e la gallomania, la difesa degli «antichi

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maestri», sostenendo lo studio del «nostro litterale linguaggio» come lingua morta. Saverio Bettinelli, che pure si dichiara con­ trario alla «verbosità boccaccevole», imputa alle idee francesi del «secolo filosofico» la responsabilità di «averci condotti a scrivere in gergo francese-italiano» (V itale 1978: 2 3 -2 4 ). Il giovane Ippolito Pindemonte in un discorso Sul gusto presente delle belle lettere in Italia (1783) denuncia la «trascuranza della propria lingua», derivata dal tener sempre «tra mano gli autori forestieri, francesi massimamente» e da «un certo lin­ guaggio, tolto in prestito dalle scienze, e che forma la delizia de’ famigliari ragionamenti», «un nuovo dialetto» che intacca non solo «i discorsi» ma anche «le scritture», imputabile a «un falso spirito filosofico», che egli chiama, con inconsapevole neologismo, filosofism o ( F o l e n a 1986: 206). Matteo Borsa, nel trattare B e l gusto presente in letteratura italiana (1784), si scaglia contro il francesismo, «anche lui in uno stile fortemente gallicizzante», e prende di mira il N eologism o straniero e il Filosofism o enciclope­ dico generatore di una «confusione dei generi» che gli fa invoca­ re una guida letteraria, una figura forte (ivi: 207). Nel ripensamento sulle recenti esperienze si fanno strada istanze di carattere politico-ideologico in cui la rivendicazione della tradizione italiana prende accenti fortemente nazionali, si carica cioè di quei valori etici e politici che fanno sempre più riferimento al concetto di patria. Di qui un rinnovato classici­ smo, definibile ormai francamente italiano per distinguerlo da quello volgare dei primi decenni del secolo, e che trova giustifi­ cazione e alimento anche nel nuovo clima letterario europeo, nelle tendenze neoclassicistiche e «preromantiche» che esaltano l’individualità e soggettività creativa favorendo la pratica della «bella letteratura». Istruttivo è il caso di Alessandro Verri, che già tre anni dopo la spregiudicata esperienza del «Caffè» si mostra pentito degli articoli anticruscanti ( V i t a l e 1986: 315). E si trasforma anzi, come osserva Serianni, in «compassato scrittore classicheggiante negli anni maturi; attento - proprio lui che aveva bandito il motto “cose e non parole” - al nitore formale, al ripudio di francesismi e neologismi». Appunti autografi apposti ai mano­ scritti delle prime due parti delle N otti romane, stese tra il 1782 e il 1790, mostrano con evidenza la nuova preoccupazione della forma, la ricerca di forme più adatte a uno stile sostenuto e in una direzione antirealista: «il giardino contiguo al claustro sa­

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cerdotale - Vorrei dire in modo conveniente “il giardino del monastero”, “a sé trassero quella declinata e sospesa via - Insomma era una scala, ma vorrei fuggir tal voce triviale”. “Vorrei dir ‘pane’ in modo più nobile ma non lo trovo”» (Serianni 1989a: 12-13). La prima opera dove trovano applicazione i nuovi orienta­ menti è il romanzo L e Avventure d iS a ffo del 1782 (v. il campio­ ne analizzato in 3.3). Interessante è la reazione di Pietro Verri: all’uscita del romanzo scrive al fratello per informarlo del suc­ cesso riscosso a Milano dall’opera, e si complimenta come di «un’opera che fa epoca per lo stile» e che «si gusta» per «la felicissima scelta degli epiteti», un giudizio illuminante sui nuo­ vi gusti letterari. Ancora più interessante la risposta di Alessan­ dro, in cui confessa la sua vera inclinazione di lunga data verso i buoni esemplari dello stile classicheggiante. Il documento merita di essere letto per esteso in quanto costituisce una precisa e anticipatrice testimonianza di un orientamento a favore di quel­ la italianità della lingua e di quel «gusto» letterario in cui si riconoscerà l’ideale nazionale dei giacobini nel periodo repub­ blicano e rivoluzionario: era certo che lo stile fosse di buona scuola, e fondato su quegli esemplari i quali ora non si considerano molto a motivo del trasporto universale per i libri m oderni, e principalm ente francesi, che hanno introdotta una terza lingua bastarda, ma pure era persuasissimo che appunto questa novità di stile casto, e semplice senza affettazione di fiorentinismi, senza idiotismi grammaticali, e senza degenerare in fredda purità, potesse di­ stinguersi come risorgimento di antichità dissotterrata. H o creduto aver suppelletile bastante a scrivere con tal stile, perché da tanti anni apro spesso quei classici sui quali hanno formata i nostri cinquecentisti, e migliori fondatori di lingua, la loro generale e sostenuta riputazione. Finora tanto da quello che mi dici accadere costì, com e da quanto sento, e vedo, e ascolto qui pure a Roma, ho tutto il m otivo di persuadermi che ho provveduto bene, e l’evento corrisponde alle opinioni mie. E ra gran tempo che desideravo sfogarmi in quello stile, credendolo della vera scuola, ma temevo la gran lettura de’ francesi, che ha assuefatti i lettori a tu tt’altro stile: speravo sempre però che ancor la maggior parte fossero rimasti veri italiani (lettera del 16-1 -1 7 8 2 , citata da C erruti 1969: 7 2 -7 3 ).

C olore p atriottico ormai risorgim entale ha la difesa dell’italianità della lingua nel piemontese Galeani Napione, alla fine di un secolo che ha visto in Piemonte un progressivo cresce­ re della coscienza linguistica italiana per merito anche di una

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decisa politica statale. E Napione nell’opera D ell’uso e dei pregi della lingua italiana (1791-1792), nel tracciare una breve storia dell’italiano in Piemonte, sottolinea la funzione avuta dal potere statale nella diffusione dell’italiano, a partire dalla introduzione dell’italiano nei tribunali a metà Cinquecento per decisione di Emanuele Filiberto, un atto che segna l’inizio, secondo Napione, di un disegno politico inteso a costruire «uno stato di qua delle Alpi, in contrapposizione agli eterni avversari del Piemonte, gli invasori francesi» (M arazzini 1992: 27). Di qui il carattere par­ ticolare del purismo di Galeani Napione: rigorosamente ostile ai francesismi, ma non per questo arcaizzante e cruscante o fiorentinista; un purismo di marca illuminista, un modello di lingua «comune» aperta a un più largo uso comunicativo e ancorato alla teoria «cortigiana». La situazione ‘periferica’, divisa tra dialetto e francese, che conferisce spiccato significato nazionale all’appropriazione di una lingua italiana nella sua tradizione ‘illustre’ e mette gli scrittori piemontesi nella condizione di dover «conquistare» la lingua «prima di presentarsi alla ribalta della repubblica delle lettere» (M arazzini 1992: 4), è esemplificata al meglio da Vitto­ rio Alfieri: la sua ricerca è mossa dalla volontà di parlare a una nazione in una lingua unitaria ma sublime, il cui alto quoziente di letterarietà segna la massima divaricazione tra lingua della poesia e lingua comune. Per farsi «autore» classico e appropriarsi pienamente della tradizione letteraria, l’Alfieri si trasferisce, come si è detto, in Toscana a ritrovare «il vero tesoro della lingua» e abituarsi «a parlare, udire, pensare, e sognare in toscano», così si esprime nella Vita. Si sottopone a una dura disciplina, un «giogo gram­ maticale» durante il quale legge e postilla «tutti i nostri Poeti primari», e anche i più ingrati «Testi di lingua». A questo fine si costruisce un vocabolarietto per uso perso­ nale dove raccoglie vocaboli e modi francesi, e in seguito anche piemontesi, accompagnati dall’equivalente italiano-toscano. Si tratta di «Appunti di lingua», il cui esemplare autografo è ora pubblicato da Gian Luigi Beccaria in A lfieri 1 9 8 3 19. L ’ambito

19 S u lla s to r ia d e l t e s to e su lle p r e c e d e n t i e d iz io n i d e g li « A p p u n t i » , c h e s u s c i ta r o n o n e l c o r s o d e ll’O t t o c e n t o c u r i o s it à e c o n s id e r a z io n e s o p r a t tu tt o in a m b ie n te p ie m o n te s e p e r l ’a s p e tt o d ella c o n v e r s io n e al t o s c a n o v . i riliev i di B e c c a r i a in

Alfieri

1 9 8 3 : 1 9 -2 1 .

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di riferimento è quello pratico e domestico, dai termini della casa, della cucina, del vestiario, a quelli dell’ambito contadino, arnesi e lavori agricoli, nomi d’alberi, di frutti, di animali; e anche modi di dire e frasi di conversazione ordinaria. Ricca di terminologia pratico-familiare è la sezione piemontese-italiana, «non perché Alfieri mostri qui un interesse particolare per il dialetto: quello era, semplicemente, linguaggio usato anche nel­ la conversazione abituale (col servo Elia per esempio, o con amici piemontesi), e nel quale la competenza nell’ambito del lessico umile e pratico era maggiore», spiega il Beccaria in A l ­ fieri 1983: 13-16. Alfieri trae le parole italiane dal Vocabolario della Crusca o direttamente dalla lingua viva mirando a registra­ re il lessico quotidiano e tecnico mancante all’italiano letterario, senza però i compiacimenti che abbiamo visto nel Baretti20. Una tale «conversione» al toscano anticipa una esperienza forse più celebre, quella del Manzoni. Ma, come precisa il Beccaria, il toscano per Alfieri, «non è la nuova lingua democra­ tica e popolare dei romantici, ma la lingua delle lettere». E l’approdo a Firenze alla ricerca del «vivo tesoro della lingua» significa non tanto l’«incontro con la parlata, quanto con la lingua delle lettere nell’Atene delle lettere», il simbolo della «classicità risorta, la capitale ideale di una entità letteraria, non geografica» (Beccaria in A lfieri 1983: 12). Si dedica dunque a imparare la lingua della conversazione familiare soprattutto per «una volontà letteraria di appropriazione ideologica della classicità, della sublimità del dire» (ivi). Attinge pertanto alla tradizione aurea della lingua, alla Firenze «celeste», per usare una immagine di Giovanni Nencioni, immergendosi anche nella Firenze «terrena», allo scopo di liberarsi totalmente dal sostrato dialettale e dall’inquinamento della lingua e della cultura fran­ cese. Fe tappe di questo percorso sono rievocate nella Vita, che rappresenta non una autobiografia ma un vero e proprio «ro­ manzo di formazione» letteraria, in cui si costruisce la storia di un se stesso che si fa «autore». Alle prime composizioni, tenta­

20 P e r q u a n to r ig u a r d a il f r a n c e s e , o s s e r v a il B e c c a r i a , e sso in m o lti c a si s e r v e a s p ie g a r e s in g o li v o c a b o l i t o s c a n i , p e r e s e m p io Spericolato è a c c o m p a ­ g n a to d a « Q u e l q u ’u n qui n e c r a in t p o in t les p e r i ls » , G iovereccio « H o m m e , o u c h o s e d o n t o n p e u t t i r e r p a r t i » , fu n g e in s o m m a d a m e ta lin g u a g g io in c u i f o r m u la r e le p r o p r ie d e fin iz io n i (B eccaria 1 9 8 3 : 1 6 - 1 7 ) .

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tivi di tragedie in francese «per la quasi totale dimenticanza dell’Italiano mal saputo da prima», seguono «versi italiani di pensieri francesi», infine l ’«interissimo bando ad ogni qualun­ que lettura francese» nella determinazione a perdere quella «maledettissima lingua francese» che gli viene sempre «fra i piedi». Nel rammarico di non possedere profondamente alcuna lingua, fa il «solenne giuramento» di non risparmiare «né fatica né noia nessuna per metter.»' in grado di sapere la sua lingua quant’uomo d’Italia» e impossessarsi infine della lingua della Poesia. Di qui l’assoggettarsi a una disciplina costituita da un conti­ nuo «esercizio» a contatto con gli «autori» della tradizione nel­ l’idea che la lingua letteraria è un dato permanente, «modello intangibile del passato» (B eccaria 1976: 118), e anche serbatoio dal quale attingere forme ed espressioni. E un piccolo reperto­ rio di Frasi, o m odi di dire poetici, o giri di lingua tratti da Ariosto, Tasso, Cesarotti, Chiabrera, Dante e Petrarca, è conser­ vato nello stesso manoscritto degli appunti linguistici di cui s’è detto: Ber Paure prime, e i primi rai di vita - dorm e ragion, quasi un ozio dell’alma - vasto cam po alla gloria, com e infinito m ar, che di spalmata nave all’ardito veleggiar si m ostra - i lumi del pensar giusto, e dell’oprar diritto - il tem po segnare i dì veggio con l’opre tue - rom per le dure leggi di m orte - il condottier del lume m uterà l’eterno corso - virtù c o ’ suoi nettarei detti presta conforto - trà l’ardue ripe corre un fiume fremente, e con ritorto corso fà cerchio a tuoi campi [ ...] (A lfieri 1983: 29).

F ’Alfieri mirava a rinnovare il linguaggio teatrale italiano, a discostarlo il più possibile dalla medietà letteraria e dai logorati modelli arcadici (v. più avanti). F ’estrema selettività del codice a disposizione concedeva ampio spazio alla variazione, donde l’ossessivo esercizio di elaborazione strutturale, di cui una parte essenziale riguarda l’ordine delle parole, la ricerca di quelle trasposizioni che procurano il massimo scarto dal discorso co­ mune. Così annota a un suo sonetto: «Esempio di ciò che possa­ no nel verso le trasposizioni: Io m i sentiva nato ad alte cose: fiacchissimo verso; A d alte cose io nato m i sentiva·, verso subli­ me» (B eccaria 1976: 121). E qui il discorso ci riporta al punto da cui eravamo partiti, cioè alla separatezza della lingua poetica da quella della prosa, di cui l’Alfieri rappresenta un bell’esempio. Infatti il suo capo­

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La lingua nell’età delle riformi

lavoro in prosa, la Vita scritta da esso, si mostra molto innovativo nel lessico, ama i procedimenti neologistici e fa grande impiego di derivati, come il suo connazionale Baretti. Si notino nel se­ guente campione minimo gli alterati selvone, lagoni, il participio denominale crostati, il parasintetico dim oiare, che rivelano un gusto espressionistico tendente a dare del personaggio «un ri­ tratto tipicamente contrassegnato dalla dismisura» ( S e r i a n n i 1993); e si noti anche la sintassi, modernamente progressiva nell’ordine delle parole, priva di subordinate e ricca di elementi nominali: Continuai il divertimento della slitta con furore, p er quelle cupe selvone, e su quei lagoni crostati, fino oltre ai 2 0 di Aprile; ed allora in soli quattro giorni con una rapidità incredibile seguiva il dimoiare d ’ogni qualunque gelo, attesa la lunga permanenza del sole su l ’orizzonte, e l’efficacia dei venti marittimi; e allo sparir delle nevi accatastate forse in dieci strati l’una su l’altra, com pariva la fresca verdura: spettacolo vera­ m ente bizzarro, e che mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo far versi (A lfieri 1951, voi. I: 101).

Siffatto risultato si apprezza in pieno se si confronta il bra­ no, appartenente alla stesura definitiva dell’opera (pubblicata postuma nel 1806), con la stesLira precedente, nella quale man­ cano gli elementi espressionistici e la sintassi risulta più legata per opera delle gerundiali: Continuai il divertimento della slitta, per quelle selve e per quei laghi, fin oltre al 20 d ’Aprile; ed allora in 4 giorni di tem po, con una rapidità incredibile, la durata del Sole su l’orizzonte supplendo alla forza di lui, e soffiando altri venti, sparirono le nevi, ed il gelo interam ente, e apparve il verde: spettacolo veram ente bizzarro, e poetico; se avessi saputo far versi (A lfieri 1951, voi. II: 8 6).

Capitolo ottavo La lingua poetica

1. La poesia dall’Arcadia all'illuminismo Se nella prosa la lingua si apre alla modernità cercando di farsi strumento di comunicazione adeguata alle richieste dei tempi, nella poesia si rivendica con nuovo vigore la tradizione. Il patrimonio di «parole diverse» e «forme di dire», quel «distinto, e speciale linguaggio», per usare l’espressione del Manfredi più sopra menzionato (v, VII.2), che faceva dell’italiano la lingua per eccellenza più adatta alla poesia e più in sintonia con le lingue classiche, è ora rinverdito dal recupero della classicità e istituzionalizzato dalla pratica di un esercizio di imitazione, che continua i modi del linguaggio petrarchesco ma in forme più semplici, piane e cantabili. Nei primissimi del secolo il Manfredi fornisce un esempio personale di imitazione petrarchesca. Nel sonetto seguente, scritto «per monaca», l’occasione della monacazione è espressa in modi direttamente ripresi dal Petrarca e anche dal Dante stilnovista e con echi tasseschi: non solo consonanza di situazioni, riprese specifiche di sintagmi1, ma anche l’ampio e complesso giro del periodo richiama i modelli antichi: Vergini, che pensose a lenti passi da grande ufficio e pio tornar m ostrate, dipinta avendo in volto la pietate 1 Per il Petrarca cfr. soprattutto l’avvio del seguente sonetto: «Liete e pensose, accompagnate e sole, / donne che ragionando ite per via, / ove è la vita, ove la morte mia? perché non è con voi, com’ella sòie?» (Canzoniere, C C X X II), e per Dante soprattutto il seguente sonetto: «Voi che portate la sembianza umile / con li occhi bassi, mostrando dolore, / onde venite che ’l vostro colore / par divenuto de pietà simile? / / Vedeste voi nostra donna gentile / bagnar nel viso suo di pianto Amore?...» {Vita nuova, XXII). Quanto a Tasso cfr. «grande ufficio e pio» del v. 2 con Gerusalemme liberata X II, 67, 4.

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La lingua poetica

La lingua nell·età delle riforme e più ne gli occhi lagrimosi e bassi, dov’è colei, che fra tu tt’altre stassi quasi sol di bellezza e d ’onestate, al cui chiaro splendor l’alme ben nate tutte scopron le vie d ’onde al ciel vassi? Rispondon quelle: «Ah non sperar più mai fra noi vederla! Oggi il bel lume è spento al m ondo, che per lei fu lieto assai. Su la soglia d ’un chiostro ogni ornam ento sparso, e gli ostri e le gemme al suol vedrai; e il bel crin d ’oro se ne porta il vento»

(M aier 1959: 85).

Ma il petrarchismo del Manfredi è una eccezione nel pano­ rama settecentesco, dove la tradizione petrarchesca è una risor­ sa di forme e parole per una poesia limpida e chiara, razionalistica e insieme musicale, moderna e anche antica. Il nuovo gusto è segnato dal Metastasio e dal Rolli, che nella loro propensione melica continuano la poesia del Seicento, rimodellandola secon­ do la nuova mentalità razionalistica-classicistica. Strutture sem­ plificate e lineari, di immediata comprensibilità, «tale da fissarsi per sempre nell’orecchio e neH’animo» di chi legge o ascolta (Fubini in M a i e r 1959: X X IX ). Questo gusto trova la sua espres­ sione più tipica nella canzonetta, ripresa e rielaborazione della forma datagli nel secolo precedente dal Chiabrera (1 5 5 2 -1 6 3 8 ): strofe in genere di due quartine di settenari prosodicamente variate e con l’ultimo verso tronco. Spesso utilizzata per cantare le stagioni dell’anno, vediamone un esempio del Metastasio, le prime quartine da La prim avera: Già riede primavera col suo fiorito aspetto; già il grato zeffiretto scherza fra l’erbe e i fior. Tornan le frondi agli alberi, l’erbette al prato tornano; sol non ritorna a me la p ace del mio cor. F eb o col puro raggio sui m onti il gel discioglie, e quei le verdi spoglie veggonsi rivestir. E il fiumicel, che placido

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fra le sue sponde m orm ora, fa col disciolto umor il margine fiorir. (M

e t a s t a s io

1968: 529).

La vaghezza di significati e le semplici dittologie {l’erbe e i fio r ), i sinonimi culti {crine), i diminutivi {zeffiretto, erbette, fiu m icel e più avanti fioretti, rondinella, pastorella), che sono un elemento della produttività suffissale della lingua settecentesca in tutti i settori, come si è visto, le forme arcaiche {riede per “ritorna”, veggonsi), tutto concorre alla leggerezza del discorso, scandito in brevi frasette, coincidenti con le misure dei versi, e disposte in limpide e musicali simmetrie (si veda la collocazione del verbo «tornano» a cornice del distico 5-6). Le strofe sono di due quartine di settenari, dove il ritmo uguale del settenario è variato negli accenti: piani i primi tre, di cui sono in rima il secondo e il terzo (Primavera / aspetto / zeffiretto, raggio / discioglie / spoglie), tronchi il quarto e l’ottavo in rima e il settimo (Fior / me / cor, rivestir / umor / fiorir), sdruccioli e senza rima il quinto e sesto (àlberi / tornano, plàcido / mormora). Si dà fondo alla ricchezza di varianti e doppioni presenti nel patrimonio nazionale: i monottonghi {core, novo, move, rote, ecc.), gli allotropi ritondo, rim oto, ricolti, gittare, ire {gire), i troncamenti {sol, cor, gel, rivestir, umor, fiorir, nel sonetto sopra riportato del Manfredi), le preposizioni articolate scisse (tipo de lo, a i), le forme piene in -ate {pietate, eternitate, sempre nel sonetto nel Manfredi). Nella morfologia: il condizionale in -ia, -iano, le forme puote per può, ponno per possono, poteo per il perfetto, «ferono, fero , fen n o in vece di fecero», aggio, aggiate per ho, abbiate, secondo quella differenziazione di registri che è istitu­ zionalizzata nelle grammatiche contemporanee (v. IX .4). Sul piano sintattico la costante posizione enclitica del pronome {stassi, vassi nel sonetto del Manfredi citato). La ricchezza di varianti lessicali auliche e di allotropi arcaici {alma, augello, aura o aere, speme, frale, prence, guardo, rai, polve, suora “sorella”, ecc.) consentiva quella differenziazione dall’espressione comune richiesta dalle speciali regole della po­ esia, che escludeva le parole normali, o le ammetteva solo in generi bassi. Il Maffei, come riporta F u b i n i 1975: 128, biasimava Carlo Maria Maggi per aver adoperato nei versi parole come appetito, confutare, congratularsi, dimenticarsi e così via. E il Metastasio notava che l’Algarotti aveva fatto uso nei suoi versi

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La lingua poetica

La lingua nell’età delle riforme

di parole «Come imbriacare, rinculare, banderuola, m olla o altre simili... parole ottime e sonore: ma non impiegate finora affatto, o pochissimo ne’ lavori poetici, fanno una tal quale dissonanza dal tenore di tutto il rimanente, e presentano i pensieri non rivestiti di tutta quella decenza che (come appunto dalle vesti) dipende in gran parte dal costume» (lettera citata da M i g l i o r i n i 1978:561). Tutto è rivestito di panni antichi: c ’è il repertorio di nomi propri della tradizione bucolica: Dori, Dafne, Fillide, Nice, Tirsi, e via dicendo; di toponimi classici: Acheronte, Stige, Ida, Parnaso; le denominazioni dotte: Ausonia, Felsina, Partenope; di figure mitologiche: «Venere con il corteggio delle Grazie, Cupido con quello degli Amorini, Bacco con i Fauni e i Satiri. La rappresen­ tazione rituale di Amore in veste di arciere, munito di arco, frecce e faretra, gli occhi ora coperti ora liberi dalla benda, comporta l’uso di varianti sinonimiche come dardo, strale, quadrella, e di immagini complementari come ferita, face, fiac­ cola; così l’arrivo del Sole nelle vesti di Febo non può andare disgiunto da termini come cocchio, biga, carro, auriga» ( G r o n ­ d a 1978: X V II). L ’intenzione di evitare il vocabolo proprio, soprattutto se realistico o tecnico, favorisce l’uso di perifrasi ed epiteti prezio­ si. Per esempio uno che serve la «cioccolata in tazza» è per il Frugoni l’«abil coppier che lieto / d’indiche droghe, e d’odorata spuma / largo conforto mi recava in nappo / di cinese lavoro». La ricerca di eleganti circonlocuzioni promuove l’elemento cul­ to della lingua, le forme e le parole di sapore classico (m on ile, «prische carte», «indica veste», «drappo serico» ecc.). La varietà di accenti richiesta dalle necessità metriche fa attingere sempre più spesso al serbatoio di vocaboli sdruccioli fornito dal patri­ monio latino (per esempio: lepido, fu m ido, turgido ecc.). Si fa largo uso di aggettivi composti di tipo classico come dolcevezzosi nei versi sotto riportati, o anguicrinite, om brifere (Parini, Il G iorno), secondo il modulo che abbiamo visto assai produttivo nei linguaggi scientifici. La poesia si arricchisce di «traslati ardi­ ti», di «artifiziose inversioni» e di «tutti que’ modi ora d’accre­ scere o diminuire un vocabolo, ora di abbreviare od allungare le sillabe, ora di sottintendere ciò che non piace d’esprimere», che facevano sì che non ci fosse genere in cui non si potesse scrivere «nobilmente», in una «lingua, per dir così, tutta pittura e tutta armonia», come scriveva verso la fine del secolo Francesco Cassoli nel Ragionam ento sulle traduzioni poetiche (C assoli 1991: 5 3 ).

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Insomma si istituzionalizza un repertorio di forme atte a conferire il conveniente «decoro» a qualunque soggetto, confe­ rendo alla poesia dell’Arcadia un carattere di koinè, un carattere comune, di «elaborazione culturale di gruppo», di poesia applicabile a tutte le occasioni: una poesia perfettamente inte­ grata nella società contemporanea, che nei versi dei suoi poeti «contempla se stessa, i propri riti, piaceri, costumi» ( G r o n d a 1978: V III-X I; e v. 6.1). Sentiamo come Paolo Rolli canta le bellezze del soggiorno londinese in terzine di endecasillabi strutturati in modo da suggeri­ re il metro falecio catulliano, accostando quinario sdrucciolo e quinario piano o viceversa (tipo: «Or che qui splèndono / di lungo giorno» ai versi primo e terzo in rima, mentre al secondo verso «gli estivi raggi, / ma non sì tòrridi»), un modulo che può acco­ gliere anche vocaboli stranieri come «Kensington», favorito dal­ l’accento sdrucciolo:

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O r che qui splèndono di lungo giorno gli estivi raggi, ma non sì torridi, che l’erbe uccidano in bel soggiorno, quanto è piacevole gire a diporto entro il regale giardin di Kensington quando già il termine del giorno è corto! Su folte e m orbide minute erbette di giovinezza il fior passèggiavi al soffio placido di fresche aurette: frammisti i giovani, franchi, amorosi van fra le ninfe che or liete or serie saluti rendono dolcevezzosi. (M

a ie r

1959: 132).

L ’estensione alle diverse occasioni della vita mondana apre moderatamente la poesia al lessico comune e quotidiano. Tra i passatempi d ell’Inverno del Casti c’è «talor cena impensata» «tanto più sana e grata», «ma la bottiglia in ozio / qui mai restar non dee», e quindi «spesso udirai far brindisi /ciascuno alla sua diva», e compare pure «la chioccia, che i polli suoi difende», e persino la «spazzola». Anche le scienze vi figurano non solo grazie alle trasposizioni classiche del tipo «limpido cristal con­ vesso» per la lente del microscopio, ma anche direttamente con precisi termini tecnici: corpi elettrici, attrazion, oscillar d e ’ pen ­ doli, discender d e ’ gravi, quadrati circoli (Casti, A D ori studiosa di filosofia). E non manca l’attualità politica. Ancora il Casti ci

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procura una divertita trasposizione delle battaglie politiche alle battaglie amorose, mettendo sulle labbra della solita Filli i neologismi politici correnti nelle conversazioni: torbidi, atto, proclam a, decreto, veto assoluto o sospensivo, classi, suffragi, p o ­ ter esecutivo, poter legislativo, ecc. All’usura di una poesia consumata in una funzione decorativa ed edonistica, si reagisce a metà del secolo ricercando un versificare che si liberi dalla musica e dalla geometrica semplici­ tà di un esercizio di mera evasione. Si tende a modi più severi e pregnanti, a un linguaggio più alto e robusto, adatto ad affron­ tare i temi nuovi dell’impegno nella società. Anche la poesia si misura col proprio tempo accogliendo gli argomenti più legati alla contemporaneità, le novità delle scienze, le battaglie civili, e promuovendo un supplemento di aulicità e di connotazione cult a. Qualche esempio dall’ode di Parini la Salubrità d ell’aria (1759), dove la parola culta e la perifrasi sono in funzione non ‘evasiva’, ma realistica: etere al v. 9 variante più dotta del con­ venzionale aere, «nuvol di morbi infetto» 22 le esalazioni malariche, e nei versi sotto riportati fetid o lim o 27 il fango puzzolente delle marcite, «l’orribil bitum e» 33, e fim o 92 il letame (lat. f i m u s ) , le «vaganti latrine / con spalancate gole» 110-111 i carri che trasportano lo sterco. Non mancano le imprecazioni di stile classico: «Pera colui...» 25. Il periodo si snoda ampio lungo la sestina e le inversioni fanno da correttivo al ritmo facile e piano, di sapore ancora arcadico, dei settenari: 25

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P era colui che primo a le triste oziose acque e al fetido limo la mia cittade espose; e per lucro ebbe a vile la salute civile. C erto colui del fiume di Stige ora s’impaccia tra l’orribil bitume, onde alzando la faccia bestem m ia il fango e Tacque, che radunar gli piacque. Mira dipinti in viso di m ortali pallori entro al mal nato riso i languenti cultori; e trem a o cittadino,

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che a te il soffri vicino. Io d e’ miei colli ameni nel bel clima innocente passerò i dì sereni tra la beata gente, che di fatiche onusta è vegeta e robusta. (Isella

1975: 18-19).

Sale lo scarto anche a livello fonetico e morfologico. Ancora il Parini nel rielaborare il suo capolavoro, Il G iorno, corregge ferire in fied ere, potria, potrien in poria, porien, abbian in aggian, ridicolo in ridevol, «Avanti a lui lo specchio» in «E lo speglio patente a lui dinanzi». Le perifrasi si fanno più complesse. Il caffè è definito nel Mattino «il grano a te d’Aleppo / giunto e da Moca che di mille navi / popolata mai sempre insuperbisce» (vv. 108-110) e la «pasta di mandorle» «il macinato di quell’arbor frutto / che a Ròdope fu già vaga donzella, / e piagne in van sotto mutate spoglie / Demofoonte ancor Demofoonte» (vv. 242-247). Dalle frasette semplici e scorrevoli della poesia arcadica, si passa a periodi ampi e complessi, carichi di inversioni e che tra­ valicano abbondantemente i versi. La poesia si slirica e acquista l’andamento di una prosa di tipo classicheggiante, la metrica si libera dalla rima, preferendo l’endecasillabo sciolto che permet­ te di sperimentare soluzioni ritmico-sintattiche ‘difficili’, agli antipodi della cantabilità della metrica arcadica (v. Testo 6.4). Nasce il genere del poemetto didascalico, dove si celebrano e divulgano in un linguaggio arduo le novità delle scienze. Per esempio Lorenzo Mascheroni nell 'Invito a Lesbia Cidonia (1793) descrive i fenomeni della chimica e della fisica. Nelle due se­ guenti strofe, vv. 297-336, si immagina che Lesbia assista alle belle prove di un esperimento di chimica, la scienza che fa grandi progressi all’epoca (v. cap. IV. 1): le trasformazioni di diverso tipo dei corpi richiamano l’elegante similitudine con l’azzurro del cielo quando soffia Coro, cioè il vento di nord-ovest, a conclusione della prima strofa, e l’allusione al mito di Prometeo, che sottrasse il fuoco agli dei per regalarlo agli uomini, e in cui il poeta si compiace di indicare il primo fenomeno di natura elettrica. Perifrasi come ardor di fiam m a 302 per calore, lucido cristallo 301 per lenti e specchi, liquida vena 311 per liquidi; il parafulmine designato come «il fulmin... in ferrei ceppi» 325; epiteti attinti all’ambito classico come epidauri regni 331 per i

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regni della medicina (da Epidauro dove si venerava Esculapio dio della medicina), o il sogno ascreo 336 per indicare la favola poetica (da Ascra, in Beozia, presso il monte Elicona sacro alle Muse2) e una sintassi dalla struttura ampia e complessa, ricca di ardite trasposizioni (tipo quella dei w . 38: «e tutta scote /a un lieve del pensier cenno le vene»), di costrutti alla latina (come «scorre... le membra» con uso transitivo del verbo), sono tutti fenomeni che connotano il nuovo gusto neoclassico:

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La lingua poetica

La lingua nell’età delle riforme

Benché, qualor ti piaccia in novi aspetti veder per arte trasformarsi i corpi, o sia che in essi, ripercosso e spinto per calli angusti, o dall’accesa chioma tratto del sol per lucido cristallo gli elementi distempri ardor di fiamma; o sia ch ’umide vie tenti, e m ordendo con salino licor3 masse petrose squagli, e divelte le nascoste terre d ’avidi um ori vicendevol preda4 le doni, e quanto in sen la terra chiude a suo piacer rigeneri e distrugga chimica forza: a le tue dotte brame affrettan già più man le belle prove. Tu verserai liquida vena in pura liquida vena, e del confuso umore ti resterà tra man massa concreta, qual zolla donde il sol il vapor bebbe5. T u mescerai purissim’onda a chiara purissim’onda, e di color cilestro l’um or com m isto appariratti, quale appare il ciel dopo il soffiar di C oro. Tingerai, Lesbia, in acqua il bruno acciaro6, e aU’uscir splenderà candido argento. Soffri per p o co , se dal torno desta con innocente strepito su gli occhi la simulata folgore7 ti guizza.

2 La spiegazione è di Serianni a proposito dello stesso epiteto in poeti classicisti del primo Ottocento (Serianni 1989b: 111). 3 licor: liquido secondo il significato antico. 4 d ’av id i um ori vicen devol preda: per via umida con vari sali e commistioni di acidi (G ronda 1978: 307). 5 b eb b e: bevve, con mantenimento della consonante etimologica. 6 bruno acciaro: il ferro che messo in soluzione acida muta colore. 7 sim ulata fo lg o re: la scintilla elettrica generata dal disco girevole (torno 321) della macchina elettrica.

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Quindi osò l’uom condurre il fulmin vero in ferrei ceppi, e disarmò le nubi. V e’8 che ogni corp o liquido, ogni duro nasconde il pascol del balen9: lo tragge da le cieche làtèbre accorta mano, e l’addensa prem endo e lo tragitta, l’arcana fiamma a suo voler trattan d o10. E se per entro a gli epidaurii regni fama già fu che di Prom eteo il foco, che scorre a l’uom le mem bra e tu tte scote a un lieve del pensier cenno le vene, sia dal ciel tratta elettrica scintilla, non tu per sogno ascreo l’abbi sì to sto 11.

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La poesia nel volgersi a funzioni didascaliche e educative secondo lo spirito riformatore dei tempi, e di cui il Parini rap­ presenta l’esempio più alto (v. il campione dato in 6.3), assume quei modi di alta eloquenza che la distanziano ulteriormente dalla lingua comune e a cui guarderanno i poeti del primo Ottocento (v. Serianni 1989b: 105 ss.). Ma proprio il Manzoni, la cui prima poesia è impregnata di modi neoclassici, nel denun­ ciare la ‘impopolarità’ della letteratura italiana porterà il caso del Parini i cui «bei versi del Giorno non hanno corretto nel­ l’universale i nostri torti costumi più di quello che i bei versi della Georgica migliorino la nostra agricoltura», a causa di un linguaggio ‘illustre’ che faceva sì che «fra quei pochi che lo leggono e l’intendono... non v’è alcuno di quelli ch’egli s’era proposto di correggere»12.

2. il melodramma È soprattutto nel melodramma che trova la sua compiuta espressione la sensibilità poetica settecentesca in quella unione di musica, canto e discorso poetico che decreta il successo delv e ’: vedi. p a sco l d el balen : altra perifrasi ‘poetica’ per elettricità. 10 Si allude alle operazioni del condensatore elettrico di Volta. 11 G. Parini, P oesie e prose. Con appendice d i p o eti satirici e didascalici d el settecen to, a cura di L. Caretti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951. 12 In una lettera del 9 febbraio 1806 all’amico Claude Fauriel in A. Manzoni, L ettere, a cura di C. Arieti, Milano, Mondadori, 1970, I, 19. 8 9

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La lingua poetica

La lingua nell’età delle riforme

l’italiano fuori d’Italia. La chiarezza e la semplicità sintattica rispondono alle esigenze del dialogo melodrammatico, alla concisione delle battute, alla trasparente strutturazione del di­ scorso nel genere codificato dal Metastasio, ai suoi modelli di «composto e umano eroismo». Lo stesso Metastasio dà una esemplificazione dei generi teatrali più in voga nel Settecento nelle Cinesi, un’azione teatrale in cui è messa in scena una divertita parodia dei diversi linguaggi. C ’è il genere «eroico» del dramma tragico che tratta «eventi illustri e grandi». Ecco come si esprime nel seguente recitativo Andromaca di fronte a Pirro che l’ha presa in schiavitù e la vuole far sua in cambio della salvezza del figlio Astianatte: Ferm a crudele; ferma: verrò. Q uell’innocente sangue non si versi per me. Ceneri amate dell’illustre mio sposo, e sarà vero ch ’io vi manchi di fé? C h’io strin ga... O h Dio, P irro, pietà! Che gran trionfo è mai al vincitor di Troia d ’un fanciullo la m orte? E quale amore può destarti nell’alma una infelice, giuoco della fortuna, odio d e’ numi? Lascia, lasciaci in pace. Io te ne priego per l’om bra generosa del tuo genitor; per quella m ano, che fa l’Asia trem ar; per questi rivi d ’amaro p ian to ... Ah! le querele altrui l ’empio non ode. N o, d ’ottenerm i mai, barb aro, non sperar. M ora Astianatte: A ndrom aca perisca; ma P irro in van, fra gli empi suoi desiri, e di rabbia e d ’am or frema e deliri. (M

e t a s t a s io

1968: 441).

I soliti arcaismi, latinismi e stereotipi del registro poetico (priego, desiri, alm a, numi, em pio, barbaro, innocente sangue, amaro pian to), le inversioni minime («empi suoi desiri», «di rabbia e d’amor frema»), ma che acquistano una letterarietà più spinta nel tessuto franto dagli imperativi, dalle invettive e dalle esclamazioni, col risultato di un monologo concitato e incalzan­ te, stilizzato in senso antinaturalistico. Uno stilema tipico è

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l’imperativo di sapore classico come «Mora Astianatte: / Andro­ maca perisca» in geometrico chiasmo; e l’altro, diffuso dal Metastasio, nuovo rispetto alla lingua antica ed estraneo alla lingua parlata, cioè l’imperativo affermativo con pronome atono anteposto (t ’arresta “arrestati”): «un tratto che quando appare in inizio di frase13 sembra diventare un distintivo proprio dello stile tragico» ( C o l e t t i 1993: 197) e troverà vasta applicazione nella poesia successiva e nella librettistica ottocentesca ( P a t o t a 1984: 225-234). Al recitativo segue l’aria la cui destinazione musicale ne determina la forma regolare del metro e del ritmo: Son lungi, e non mi brami: son teco, e non sospiri: ti sento dir che m ’ami, né trovo am ore in te. N o, se de’ miei martìri pietà non ha nel core, non sa che cosa è amore, o non lo sa p er me (M

e t a s t a s io

1968: 444).

Nell’aria si concentrava l’invenzione melodica dell’opera e in essa era maestro il Metastasio, che ne compose più di 1200. La sua struttura consta in genere di due strofe la cui elementare linearità era funzionale a una esecuzione musicale che prevede­ va la ripresa di singole parti. Se ne veda un esempio dalla Didone abbandonata, due brevi strofette di senari, in cui la semplice struttura si presta al facile gioco delle antitesi del «restare» e del «partire», riflesso nelle simmetrie e nei parallelismi delle frasette: Se resto sul lido, se sciolgo le vele, infido, crudele mi sento chiamar. E intanto, confuso nel dubbio funesto, non parto, non resto, ma provo il m artire 13 L ’imperativo affermativo con pronome atono anteposto era consueto nella lingua antica ma non in posizione iniziale, per via della regola ToblerMussafia, che ad inizio di frase imponeva l’enclisi del pronome atono.

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La lingua nell’età delle riforme c h e a v re i n el p a rtire , c h e av rei n el re s ta r .

C ’è poi il linguaggio del genere buffo dove la letterarietà accoglie modi più comuni e ‘medi’ cui abbiamo già accennato (v. cap. V.2). Si può concludere, usando una immagine abusata, che sulle ali del canto l’italiano letterario esce «dal consumo elitario dei dotti e dei letterati per diventare, a teatro, lingua a suo modo popolare, riconosciuta, cantata, col consenso di tutti specializzata nell’effusione lirica dei sentimenti» (C oletti 1993: 199). Agli antipodi del linguaggio armonioso ma ormai consunto dell’opera metastasiana si pone quello delle tragedie dell’Alfieri, tendente a un discorso essenziale e solenne, basato sulla ecce­ zionalità dell’espressione. Il lessico acquista una ulteriore patina arcaica e aulica, l ’aggetivazione è ridotta, densa e concisa, lonta­ na dagli stereotipi melodrammatici. Per esempio nella rielabora­ zione della Virginia cadono espressioni come doloroso fo ro , vestigia m este, gelido terror, nell’intento di eliminare «ogni ecce­ denza patetica, ogni passività dell’aggettivo» ( B e c c a r i a 1976: 120). La ricerca di distanziazione dall’uso contemporaneo si attua soprattutto a livello prosodico, liberando il verso dall’au­ tomatismo della pratica melodrammatica e adottando il tipo sciolto, «un verso cioè che oltre al non avere la rima, ha elimina­ to il ritorno ritmico di endecasillabi di monotona accentazione, ed ha allargato il verso (e rotto la cadenza ad un tempo) con enjam bem ents che fanno entrare il più possibile un verso nell’al­ tro» e lo spezzano all’interno, eliminandone qualunque accenno di cantabilità ( B e c c a r i a 1976: 119; v. il Testo 6.4).

Capitolo nono Lessicografia e grammatiche

1. Dizionari generali Sviluppo tecnico-scientifico e rapida circolazione delle co­ noscenze richiedono sempre più adeguati strumenti lessicografici, dizionari sia generali di stampo enciclopedico, comprensivi cioè del lessico di scienze e arti, sia settoriali, mirati a un ambito specialistico. Tale esigenza, cui la grande impresa di Diderot e D ’Alembert, ΓEncyclopédie ou Dictionnaire raisonné des Sciences, des arts et des m étiers (Paris 1751-1777) dava la massima rispo­ sta, trovava particolarmente impreparata l’Italia, dove il proble­ ma si inseriva in una situazione carente anche sul piano della lingua comune, e doveva fare i conti con una tradizione lessicografica conservativa1. Accanto al dizionario generale, rap­ presentato principalmente dalla Crusca, vengono via via sorgen­ do da una parte i dizionari specializzati e dall’altra quelli dialettali. Tra il 1729 e il 1738 si stampa la quarta impressione del Vocabolario della Crusca. Espressione dell’attività di una Acca­ demia il cui classicismo arcaizzante si pone al centro dell’atten­ zione di «quanti - intellettuali, poeti, educatori - ebbero ad affrontare, anche marginalmente, questioni di lingua e di lette­ ratura» ( S e r i a n n i 1984: 111), il Vocabolario con questa nuova edizione perfeziona la sua impostazione letteraria arrogandosi un preciso ruolo di guida e di organo normativo ormai naziona­ le. L ’impianto, stabilito dalla Crusca del 1612, è caratterizzato da definizioni del tipo pre-scientifico che vigerà nella lessicografia fino all’Ottocento, per cui nomi di piante e animali molto comu­ ni vengono definite «col semplice riferimento alle conoscenze 1 O c c o r r e t e n e r e p r e s e n te a n c h e il p r o b l e m a d e l m e t o d o le s s i c o lo g ic o , c h e si d ib a tte t r a il m o d e llo d iz io n a r is tic o e q u e llo e n c ic l o p e d i c o u n iv e rs a le e t o c c a a s p e tti r ig u a r d a n ti la t e c n i c a d e f in ito r ia ( c f r . Sessa 1984).

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La lingua n e ll età delle riforme

presupposte nel lettore» (porro “agrume noto”, prezzem olo “erba nota”, viola “fior noto di varie sorte e colori”, cane “animai noto e domestico dell’uomo”, e così via). Oppure «si riproducono definizioni arcaiche, perché dotate del crisma d’uno scrittore autorevole (così per coccodrillo, spiegato con un passo del Teso­ ro di Brunetto Latini)» ( S e r i a n n i 1984: 112-113 e 1989b: 64). I principi che presiedono alla nuova compilazione rispecchia­ no le posizioni di classicismo illuminato di Anton Maria Salvini (v. VII.4): riconoscimento della latitudine comune della lingua, cioè nazionale e adeguata all’uso colto contemporaneo, secondo una tendenza già emersa nell’edizione del 1691, ma anche decisa affermazione della natura toscana della lingua e ampliamento del canone tosco-fiorentino, esteso dai «purissimi scrittori» del· Trecento fino ai tempi più recenti. Rispetto alla precedente compilazione il Vocabolario si arricchiva quindi di voci tratte dai migliorati spogli di testi dell’età più antica e quattro-cinquecen­ tesca e di vocaboli e significati testimoniati in autori più recenti, contemporanei e addirittura viventi e di «voci, cosiddette “cor­ renti nell’uso”, senza autenticazione d’autore approvato» ( V i t a ­ l e 1986: 365): quindi apertura all’uso colto nazionale, ma più rigido criterio letterario nell’accogliere il lessico tecnico e scien­ tifico, a cui la precedente edizione (1691) aveva incominciato a dare accesso. Del resto la limitazione verso i vocaboli settoriali riflette l’esigenza di una distinzione tra lessico comune e termini tecnici, che viene ponendosi ora e che si riscontra anche nel Dictionnaire de VA cadém ie frangoise·. uscito per la prima volta nel 1694, esso riservava a sé il lessico comune e generale, desti­ nando i vocaboli settoriali a un’opera apposita, il Dictionnaire des arts et des Sciences, pubblicato nello stesso anno ( G i o v a n a r d i 1987: 296). Una maggiore attenzione alle necessità dell’uso portava a evidenziare le diverse stratificazioni della lingua e i livelli stilistici (poetico, prosastico, aulico, comico, plebeo ecc.), e in particola­ re a distinguere «tra voci antiquate, sempre disponibili per la lingua poetica, e voci arcaiche, irrimediabilmente fuor d’uso» ( S e r i a n n i 1984: 112). A queste ultime il Vocabolario nella nuova edizione dava più ampie? spazio che non nelle precedenti, spinto da finalità non prescrittive, ma documentarie, proponendosi quindi non solo come strumento di norma lessicale ma anche come thesaurus della lingua letteraria, nella piena consapevolez­ za della vitalità della propria tradizione linguistica e di rivendi­

Lessicografia e grammatiche

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cazione del suo primato ( V i t a l e 1984:363). La nuova sensibilità per l’aspetto sincronico faceva confinare molti vocaboli prece­ dentemente considerati come d’uso corrente tra le voci dichia­ rate disusate (accordanza, affrettanza, allegranza, buiore, enfiore, risplendore, abitaggio, ereditaggio, angoscevole, aiutevole, ecc.); e incrementare sensibilmente il settore delle voci affettive, con la registrazione di nuovi alterati, non necessariamente con attestazione d’autore, e rispondenti a una tendenza di gusto toscanista (bacchettino, bagattelluccia / -uzza, bestioluccia /- uzza, bicchieretto, brillantuzzo, ecc.), e quello del registro «medio», «basso» e «plebeo», con l’immissione di vocaboli, proverbi, locuzioni proverbiali, tratti da testi del genere giocoso e rusticale (dal Boccaccio al Firenzuola, al Berni, Cecchi, Buonarroti il giovane, ecc.). Rispetto alla prima Crusca (1612), le cui fonti per il settore dei proverbi erano in gran parte «di carattere orale e quindi di più immediata e larga rispondenza con l’uso popolaresco sincronico tosco-fiorentino» ( V i t a l e 1986: 370), l’edizione set­ tecentesca si preoccupa di ancorare il registro popolare ad attestazioni di scrittori, recuperandolo alla sua più decisa impostazione retorica della lingua. L ’attenzione verso le neces­ sità dell’uso portava all’immissione di parole del lessico genera­ le, e, pur nei limiti detti, di voci tecnico-scientifiche, della fisica, dell’astronomia, della medicina, della geometria, con accoglimento di vocaboli dotti d’origine greca e latina (per es. acrostico, anagrammatico, apogeo, barom etro, trigonometria, ecc., e tratti dal Galilei, Torricelli, Redi, Salvini), di forme neologiche come sostantivi deverbali in -mento, -zione, -ezza, e nom ina agentis in -tore e -trice. Lo spazio concesso al neologismo soprattutto nelle sue forme culte, benché limitato se lo si commisura con la forte innovatività lessicale settecentesca, alla quale si mostrano pur aperti scrittori anche fiorentini e toscani contemporanei, e sen­ sibili altre opere lessicografiche coeve2, è comunque indicativo di una convergenza dell’autorevole organo con il movimento erudito nazionale ed europeo. Infine apertura verso le parole di provenienza straniera, se già saldamente inserite nell’italiano e autorizzate dagli scrittori: quindi più spazio agli ispanismi, ac-

2 A c o l m a r e m o l t e l a c u n e in q u e s ti s e tto r i p r o v v e d e v a la ris ta m p a n a p o ­ le ta n a d e l V ocabolario ( 1 7 4 6 - ’4 8 ) c h e n e lle g iu n te a lla e d iz io n e fio r e n tin a a c c o g lie v a m o l t e v o c i d o t t e m o d e r n e , s fu g g ite o v o lo n ta r ia m e n t e o m e s s e d a g li A c c a d e m i c i (V itale 1 9 8 6 : 3 7 6 - 3 7 7 ) .

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La lingua nell’età delle riforme

climatati da una penetrazione di più lunga data, risalente al Cinque e Seicento (qualche esempio: camerata “compagno”, caracollo e caracollare, chicchera, guardinfante), che non ai francesismi, la cui pressione era molto attuale e dava luogo a prestiti effimeri, legati al costume e alla moda (calesse, nella forma calesse, equipaggio, lingeria, parrucchino). Si moltiplicano nel frattempo le iniziative lessicografiche legate alla tradizione, ma rispondenti a precise esigenze prati­ che. Per esempio XOrtografia m oderna che accompagna gli Av­ vertim enti gramm aticali del F acciolati (v. cap. 1.3): un reperto­ rio per una consultazione rapida e maneggevole di tutte le voci del Vocabolario della Crusca (3a ed.), e con l’aggiunta di nuove, sfrondate della definizione e delle citazioni d’autore, e correda­ te solo della traduzione latina. In appendice un Vocabolario dom estico, di destinazione scolastica, presenta una lista di voci relative alla vita quotidiana e alle arti e mestieri, ordinate per nozioni3, appartenenti all’italiano letterario o cruscante, ma an­ che al toscano vivo e corrente, poco rappresentato dalla tradi­ zione illustre. Interessante che a illustrazione del lemma, ai fini di una «più facile intelligenza de’ significati», cioè delle voci italiane ritenute «oscure» (F acciolati 1747: IV-V), compaiano varianti del registro usuale, definite «volgari», o regionali set­ tentrionali, lombarde e venete in particolare, cioè dell’area in cui si muoveva l’autore. Qualche esempio: «Beccaccino. Lomb. sgneppa, Ven. Beccanotto»; «Pisello. Lomb. erbione, Ven. bisi»; «Ciambella. Ven. buzzolai. Cibo di farina, e uova fatto in forma d’annello»; «Gonnella. Lomb. socca, Ven. cottola»; «Gremiale, grembiale. Lomb. scossale. Ven. traversa»; «Crestaja. Lomb. scuffierà»; «Arrotino. Lomb. moietta» (M asini 1980 e 1983). L ’intento è documentario e non prescrittivo, e il termine tosca­ no può a volte figurare sullo stesso piano degli altri regionalismi,

3 Cioè per categorie nozionali secondo un ordinamento sistematico, di cui l’esempio maggiore è offerto da G.A. Martignoni, N uovo m etod o p er la lingua italiana la più scelta, estensivo a tutte le lingue. C o l quale si posson o agevolm ente ricercare e rinvenire ordinatam ente i v ocaboli espressivi d i pressoché tutte le cose fisich e, spiritu ali scien tifiche con iati d a l v ocabolario d e ’ signori A ccadem ici d ella Crusca, Milano, 1743-1750, che rappresenta l’unico prece­ dente di rilievo dei vocabolari metodici dell’Ottocento, compilati cioè «in modo da far trovare la parola, a chi non la conosca o non la ricordi, per mezzo delle parole dello stesso àmbito concettuale, e da servire all’apprendi­ mento metodico della lingua» (Migliorini 1961: 114, e Serianni 1984: 116).

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comparire cioè tra i sinonimi, come nel caso di: «Cerino, così detto da’ Lomb. ciò che in Toscana si dice mòccolo, e altrove candelino, da’ Ven. majolo, e significa presso loro quella lunga, e sottil candeletta...» (M asini 1983:401). Si tratta di termini per nominare parti della casa, utensili domestici, cibi, vesti, mestie­ ri, ecc., legati quindi a concrete realtà locali, ma di diffusione sovramunicipale e già adattate alla forma italiana. Le voci sono presentate spesso in coppie o terne per dare la possibilità di identificare gli oggetti e non cadere in errori come quello de­ nunciato dal Baretti, che «nel recensire L ‘Agricoltura di C. Trin­ ci pistoiese, s’accorge che l’editore ha aggiunto all’opera un trattato che parla di morari, ma senza avvedersi che esso ripete­ va quanto era stato già presentato dal Trinci nel trattato dei gelsi, e inoltre che ha aggiunto una memoria di Z. Betti intorno la ruca d e ’ meli. Che cos’è questa rucaì non è altro che la voce veronese per bruco» (si cita da M igliorini 1978: 565). Conclude il Baretti: «chi non vuole scrivendo servirsi della lingua toscana in certi casi, dovrebbe almeno dirci come si chiami in Toscana quella tal cosa di cui vuole scrivere, acciocché ricorrendo al vocabolario, possiamo capire quale è la materia in cui scrive. Come, senza essere veronese, si può egli sapere che chi scrive delle ruche scrive de’ bruchi?» (ivi). E per l’appunto anche a inconvenienti del genere intendeva ovviare un vocabolario come quello citato. Sorgono un po’ dappertutto dizionari dialettali che elencano le forme vernacolari, puristicamente giudicate «storpiature» da estirpare e sostituire con le forme corrette della tradizione cruscante. Il loro intento è didattico e prescrittivo: «agevolare a tutta questa Provincia per dolce e facil modo l’apprendimento della Toscana Favella», come si propone il Vocabolario brescia­ no e toscano (1759) (C ortelazzo 1980: 106). Un’ampia Raccolta di voci romane e marchiane è pubblicata a Osimo nel 1768: un elenco di voci di area mediana, comprendente tre delle quattro principali varietà parlate nello Stato della Chiesa, marchigiano, umbro e romanesco, seguite dalla definizione e dal riscontro con la voce della Crusca. L ’intento è di fornire ai dialettofoni le corrette voci letterarie che serviranno «loro per ben parlare e pulitamente scrivere», con attenzione quindi al parlato, merite­ vole anch’esso di essere insegnato e corretto4. 4 Ha di mira le «storpiature» dialettali («Briccocola, bericocola, v. albi-

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La lingua nell’età delle riforme

Una considerazione a parte merita la produzione lessicografica della Sicilia. Un repertorio di «maniere a ben toscaneggiare il parlar di Sicilia» dal titolo II dialetto di Sicilia passato a l vaglio della Crusca (Palermo 1721) era costruito sulla falsariga del Vocabolario della Crusca, nel senso che prelevava da qui molti lemmi traducendoli in siciliano. Ne risultava una sorta di «Cru­ sca» siciliana in cui il siciliano si arricchiva di vocaboli nuovi prelevati appunto dal modello prestigioso e veicolati anche dalle definizioni che accompagnano il lemma (A lfieri 1992: 830). Eccone un esempio: «Abbrusciatu. Sostantivo. Cioè il campo donde le secche erbe si son bruciate, l’inarsicciato. M ettiri focu supra Γabbrusciatu, proverbio che significa giugner danno a danno, imbottare sopra la feccia» (ivi: 832). A questa «sicilianizzazione forzata» si deve forse la ricchezza lessicale che traspare da un’opera come M. Pasqualino, Vocabolario siciliano etim ologico italiano e latino (1785-1795), che spicca per ampiezza di lemmario, includente anche cultismi e lessico astratto, a legittimare un’im­ magine del siciliano quale lingua a pieno titolo, all’altezza del­ l’uso scritto, letterario e scientifico (Serianni 1984: 118). Ci sono poi repertori, pure tributari del Vocabolario della Crusca, che intendono colmarne le lacune sul piano dei reali contesti d’uso delle singole voci (S erianni 1984: 115-116). Per esempio Rabbi, Sinonimi ed aggiunti italiani, un dizionario usci­ to nel 1733 a Venezia e che conosce numerose ristampe, arric­ chisce la limitata fraseologia della Crusca, fondata prevalente­ mente su attestazioni d’autore, registrando, oltre ai sinonimi veri e propri, i vari determinanti, cioè gli elementi aggiuntivi che più spesso possono ricorrere nell’uso. Si vedano gli esempi ri­ portati da Serianni: alla voce mostro·, «raro, strano, non mai più veduto, terribile, orrendo, portentoso, spaventoso, ammirabile, contraffatto, deforme, di due teste, ecc., di molte forme, stravagantissimo, il più strano che mai si vedesse»; e ancora alla voce: Rompere·, «in un tratto, di leggieri, dopo molti sforzi, in minuti pezzi, violentemente, con forza, a viva forza». Un altro vocabolario, Pauli S., M odi di dire toscani ricercati nella loro origine (Venezia 1740), «attinge largamente alla letteratura ribobolaia, secondo i gusti del toscanismo dominante (Buonarroti cocca») e le varianti lessicali («Buganze, gelone, v. p ed ig n on e»), e neologismi e francesismi («Azzardarsi, franz. s ’hasarder, v. arrischiarsi») (B reschi 1992: 493-495).

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il Giovane, Lippi ecc.), ma talvolta anche all’uso vivo toscano» (S erianni 1984: 115).

Nascono imprese lessicografiche più vaste, che si aprono a fonti non solo toscane e accolgono voci moderne, escluse dal canone classicistico-tradizionalistico della Crusca. Uno dei cen­ tri editoriali più fervidi anche in questo campo è Venezia, dove intorno alla metà del secolo si traducono grandi opere straniere5 e si progettano dizionari universali e enciclopedie6. Già all’usci­ ta della Crusca, nel 1737, veniva annunciata la pubblicazione di un Dizionario universale italiano di cui non è rimasta traccia, contenente, oltre alle voci della Crusca, «tutti quei termini di Scienze, ed Arti che il nostro volgare idioma è capace di riceve­ re» (M organa 1985: 164). In questo contesto si colloca l’opera di Giovampietro Bergantini, che, come dichiara il titolo per esteso, Voci italiane d’autori approvati dalla Crusca, nel Vocabo­ lario d ’essa non registrate, con altre m olte appartenenti per lo più ad arti e scienze che ci sono somm inistrate sim ilm ente da buoni autori (Venezia 1745), intendeva integrare il Vocabolario del­ l’autorevole Accademia soprattutto per le «Arti e Scienze», se­ guendone gli stessi principi. Il Bergantini completava le voci già presenti con l’aggiunta indiscriminata di derivati e corradicali, omessi o sfuggiti agli Accademici per mero difetto di documen­ tazione (acquirente, acquisitivo, acquisito, acquistabile·, archibugiare, archibugiata, archibugiere, archibugeria, archibugietto, archibugio), di allotropi morfologici (A bbindolam ento, “ingannamento, inganno”. Abbindolatura, “abbindolamento, abbindolazione”. A bbindolazione, “abbindolamento, abbindolatura”). Aggiungeva nuovi grecismi e composti, dotti e popolari, derivati per suffissazione e i prefissati, introducendo anche neologismi (pedagogia, pedagogico, pedagogism o, pedagogizzare, deism o, deista), francesismi e qualche dialettalismo. La scelta si fondava sul criterio della attestazione letteraria, uno scrupolo che con­ sentì alle Voci italiane di essere accolte nelle Giunte della citata edizione napoletana del Vocabolario della Crusca (B erti 1973). Una maggiore libertà lessicografica con allargamento del canone a scrittori non toscani e inclusione di voci di arti e di 3 Per esempio l’inglese E. Chambers, D izionario universale d elle arti e d elle scienze (1748-1749). 6 E di questo periodo la prima enciclopedia italiana ordinata alfabetica­ mente: G. Pivati, Nuovo D izionario scientifico e curioso, Venezia 1748-1765.

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scienze traspare invece dalle opere inedite del Bergantini, due grandi vocabolari composti di un D izionario della Volgare Elocuzione, pubblicato solo per il I tomo (1740) e un Dizionario universale italiano, di cui esce la sola Prefazione (1758). Que­ st’ultimo in particolare rappresenta un esempio di dizionario nuovo, che intendeva distaccarsi sia dalla tradizione lessicografica cruscante, per l’ambizione di fare un vocabolario generale aper­ to ai termini tecnici, sia dal modello enciclopedico con sviluppo quasi monografico delle voci lemmatizzate, di cui esempio auto­ revole era il Dictionnaire unw ersel del Furetière (1690), vanto della lessicografia francese. Il Bergantini, pur mirando a un Dizionario «universale», adottava un taglio più nomenclatorio e spedito anche per le voci specialistiche, ritenendo che le spiega­ zioni erudite ed analitiche dovessero essere riservate ai dizionari specifici ( M o r g a n a 1985: 157). Sensibile alle esigenze di «una società vivace e colta, curiosa di novità, che vuol soprattutto capire ciò che legge dai giornali e dai nuovi libri italiani e stranieri che escono ogni giorno, e sfoggiare nelle conversazioni mondane ciò che ha letto» (ivi, 164), il Bergantini, di patria veneziana, con soggiorni in diverse città italiane, si proponeva di registrare i «termini che occorro­ no nella comune favella» e più rispondenti ai caratteri moderni e nazionali dell’italiano, nell’intento di mostrare «che non è punto vero essere la lingua italiana povera, e scarsa di voci per bene esprimere i concetti della mente» (ivi, 155), in uno spirito di competizione con il francese, che riecheggia i principi del classicismo arcadico. Orientato per un verso a costituire un corpus lessicale che abbracciasse la totalità degli usi linguistici, ma condizionato per l’altro da una tradizione fondata principalmente sull’uso scritto, il suo spoglio si rivolge a fonti nuove e moderne: giornali lette­ rari delle diverse città italiane, lettere, cronache di viaggiatori, recentissime traduzioni di opere francesi, dizionari scientifici, geografici, ecc. Interessato all’uso letterario ma anche alle paro­ le nuove, ai termini delle arti e delle scienze, il Dizionario univer­ sale del Bergantini documenta con larghezza il rinnovamento lessicale settecentesco, nei suoi caratteri dotti ed europeizzanti, latinismi e grecismi scientifici e d’uso generale, neoformazioni derivative (particolarmente ricco il settore dei suffissati in -ismo e -ista: deism o, deista, bigottism o, fanatism o, fatalism o ecc. ecc.), forestierismi, dai francesismi dei settori della moda, del costume

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e della politica, agli anglismi. Si possono trovare registrati anche forme non ancora acclimatate, e «addirittura grossolani adatta­ menti, non altrimenti attestati come pantalera (“Dal francese Pence en l ’air, vale quel telone che sostenuto a’ lati da due aste si cala in pendìo dalle finestre per parare il sol battente”) e uanetvù (“voce del tutto Francese, e vale specie di cuffia la quale tanto copre la faccia della donna che appena si vegga, e deriva dall’Oc en est vous, cioè dove siete voi?”)» ( M o r g a n a 1985: 169).

2. Dizionari settoriali Il rinnovamento di metodo e di terminologie connesso allo sviluppo delle scienze sollecita la produzione di dizionari spe­ cializzati, che favoriscano la divulgazione delle conoscenze in ambiti diversi. «Il problema della terminologia tecnica si impo­ ne ora con maggior gravità che nel passato»: occorrono più idonei strumenti linguistici per tradurre la cultura europea e imprese all’altezza delYEncyclopédie ( S e s s a 1984: 211). Si guar­ da dunque alla Francia, dove anche YEncyclopédie invita alla specializzazione delle terminologie, a istituire nomenclature pre­ cise per le singole discipline e a liberarle dalle denominazioni generiche e dall’abbondanza di sinonimi ( G i o v a n a r d i 1987: 916). In un primo tempo si traduce ampiamente dal francese soprattutto, si tratta in genere di traduzioni allestite in fretta per far fronte alla forte richiesta7: lavori poco accurati, esenti da scrupoli puristici, che non badano ad assumere direttamente parole straniere; ed è questa una delle vie attraverso cui penetra­ no forestierismi nell’italiano. Il Dizionario d el cittadino, un di­ zionario commerciale uscito in Francia nel 1761 (Dictionnaire du citoyen) e subito tradotto dal D ’Alberti nel 1763, pur procla­ mando la sua fedeltà al patrimonio linguistico tradizionale assu­ me un certo numero di lemmi nella veste francese originaria (agiotage, beliveau, cretonne ecc.) e adatta altri «secondo proce­ dimenti che avrebbero suscitato l’ostilità dei puristi per tutto 7 U n o d e i c e n tr i p iù v iv a c i d e ll’a ttiv ità e d it o r i a le è , c o m e si è d e tt o , V e n e z ia . S u lle tr a d u z io n i ita lia n e d e i v o c a b o l a r i p r o d o t t i a ll’e s t e r o e a n c h e su lla l e s s ic o g r a f ia s p e c ia lis tic a ita lia n a o r ig in a le : c f r . B attisti 1955: 11-31 e

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l’Ottocento ed oltre (apprentissaggio, lingeria, reesportazione)» S e r i a n n i 1984: 119). Non mancano anche opere originali, ma che tendono a muo­ versi «entro l’alveo delle scelte cruscanti: più che ricostruire un ambito terminologico particolare, si limitano a censire, nel teso­ ro lessicale raccolto dal Vocabolario della Crusca, ciò che pertiene a quel determinato settore» (ivi). Di questo genere è il reperto­ rio di voci mediche di Andrea Pasta (1769), un dizionario indi­ rizzato ai medici per provvederli «di una ricca suppellettile di vocaboli, di frasi e di ragionamenti» da usare con i pazienti o durante i consulti con i colleghi. Già il titolo, Voci, m aniere di dire e osservazioni di toscani scrittori e per la maggior parte del Redi, con la citazione di un’autorità letteraria e scientifica insie­ me quale è il Redi, dà indicazioni sulla prassi lessicografica del Pasta: preferenza per i termini di uso comune e avversione per i termini troppo specialistici, e in particolare per i grecismi e i latinismi, in nome di una battaglia contro il «parlare oscuro e recondito» dei medici, che nasconde anche un atteggiamento da linguaiolo «che si preoccupa di schivare i neologismi —tanto più se tecnici, tanto più se di conio greco-latino - e tra i primi consigli dati ai giovani medici raccomanda “di non commettere errori grammaticali né scorrezioni... per non iscadere di stima appresso di alcuni letterati”» (ivi: 119-120). L ’adesione al mo­ dello letterario tradizionale gli fa registrare varianti arcaiche e fuori d’uso accolte nella Crusca, come notom ia / anotom ia ac­ canto a anatom ia, e cerusico insieme a chirurgo-, e dare largo spazio alle voci affettive (accidentuccio, acquerugiola, cenino “cena piccola fra pochi amici”, dottoruccio, indisposizioncella ecc.), assecondando l’accentuato gusto toscanista che caratterizza la Crusca settecentesca (ivi: 120-121). Un esempio nuovo di vocabolario specialistico italiano è il repertorio dello scienziato padovano Antonio Vallisnieri, Saggio alfabetico d ’istoria medica e naturale ( 1733 )s, dall’impianto oscil­ lante tra il nomenclatorio e l’enciclopedico. L ’opera nasceva dall’esigenza di affermare la piena legittimità del volgare nei confronti del latino, che dominava la comunicazione scientifica, dotandolo di una terminologia adeguata, in linea con quella delle altre lingue europee e distinta da quella letteraria. Di qui8 8

L ’o p e r a è p u b b lic a ta in

Morgana 1 9 8 3 , a c u i si rin v ia p e r l ’a p p r o f o n d i ­

m e n t o d e i f e n o m e n i q u i s o lo a c c e n n a ti.

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un forte atteggiamento polemico nei confronti del Vocabolario della Crusca e dei suoi criteri puristico-letterari. Quasi la metà dei lemmi registrati è costituita da voci nuove rispetto alla Cru­ sca del 1691. In molti casi si correggono definizioni di parole «mal intese, e peggio intese» dal Vocabolario (per esempio: A borto «I Maestri di lingua lo chiamano abortivo, sconciatura, confondendo l’attivo col sostantivo»; A ddom ine «Crusca. Uno d e ’ m em bri d ell’Anim ale. Non è propriamente m em bro, ma egli è Pintegumento della cavità, in cui sono rinchiuse le viscere...»). Si trattava di costituire una terminologia selezionando tra le molteplici varianti grafiche e fonomorfologiche della lessicografia cruscante e, per usare le parole dello scienziato, di «accomodare i nomi ora Greci, ora Latini, ora barbari, ora plebei alla volgare italiana favella» ( M o r g a n a 1989: 9). Era impossibile raggiunge­ re una terminologia unificata e nel repertorio del Vallisnieri rimangono numerose varianti, spesso sinonimi regionali da at­ tribuire non solo alla «naturale curiosità dello scienziato per il vario atteggiarsi della lingua viva e per le denominazioni dialettali, spesso bizzarre e colorite, d’animali e piante», ma anche all’esi­ genza obiettiva di essere inteso da un pubblico di differenti regioni, data la fortissima frammentazione della terminologia botanica e zoologica ( S e r i a n n i 1984: 121): Astice «detto A stese da’ Veneti Pescatori»; Pellicello «detto da’ Lombardi Piosello»; Bacello «che i Lombardi chiamano Tega». L ’esigenza di un les­ sico specifico allineato con quello delle altre lingue colte fa accogliere nel repertorio del Vallisnieri numerosi grecismi e latinismi, e anche numerosi termini naturalistici esotici, in par­ ticolare americanismi, alcuni penetrati da tempo nella lingua, altri di incipiente introduzione nel linguaggio scientifico (acajou, registrato nella forma non adattata venuta dal francese, amaca, cobra, vantila / vainiglia)·. «ciò che ne riafferma l’indipendenza dalla tradizione lessicografica precedente e insieme dà la misura della sua sensibilità per la formazione d’un lessico scientifico italiano» ( S e r i a n n i 1984: 122).

3. Francesco D’Alberti di Villanuova: «Dizionario universale» Un punto d’arrivo del travaglio lessicografico settecentesco e un grande collettore del lessico del secolo, ormai alle soglie dell’Ottocento, è il Dizionario universale critico enciclopedico

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della lingua italiana di Francesco D ’Alberti (1797-1805) (Serianni 1984: 115 elD. 1989b: 63-64). Sulla via innovativa intrapresa dal Bergantini di un Dizionario di tipo generale e aperto a più settori e livelli di lingua il D ’Alberti segna un vero stacco dalla tradizione cruscante. La struttura delle voci, articolate «secon­ do un ordine prestabilito e costante (si va dal significato più generale alle accezioni particolari ivi comprese quelle dei lin­ guaggi tecnici)», e «l’uso di una esemplificazione mista» sem­ brano fare dell’opera del D ’A lberti un dizionario «moderno, prossimo alla struttura degli odierni dizionari storici» (G iovanardi 1987: 367 n.). La qualità del lemmario si presta a fotografare la bifronte realtà linguistica e culturale italiana settecentesca: una faccia rivolta all’Italia e alla sua tradizione, l’altra alla Francia, cioè all’Europa. Il D ’Alberti è un perfetto bilingue, che si muo­ ve con disinvoltura fra i due ambienti culturali, e, attento stu­ dioso sia del metodo dizionaristico sia di quello enciclopedico9, è «profondo conoscitore dei modelli consacrati della lessicografia italiana e francese» e compila un vocabolario bilingue, il Nouveau dictionnaire frangois -italien , enncht de tous les termes propres des Sciences et des arts (1771-1772) e un vocabolario monolingue, il Dizionario universale critico enciclopedico della lingua italiana (1797-1805), mostrandosi sensibile alla terminologia dell’uso vivo, «ma anche rispettoso custode della lingua degli auctores e prudente sostenitore di una norma nella lingua parlata» (Sessa 1984: 206). Il Dizionario universale, caratterizzato da intenti più descrit­ tivi che normativi, dà largo spazio a voci tecnico-scientifiche, accompagnate dalle corrispondenti marche (Alchimisti, Anato­ mici, Dell’Architettura, Astronomici, Botanici, ecc.): voci di origine dotta, cioè latinismi e grecismi (indicativa la presenza dei termini della chimica moderna), forme neologiche derivative, suffissali, prefissali e compositive, alcune di conio recentissimo. Spesso è indicata la base di provenienza, nella piena consapevo­ lezza del vivace dinamismo derivativo e compositivo messosi in moto nella lingua contemporanea (A bboccare «dalla voce radi­ cale bocca»·, A bbrezzare «da brezza»·, A bbronzare «dalla voce bronzo» ecc.). Termini tecnici e delle arti e mestieri, accompa­

9 Sul carattere anche enciclopedico del Dizionario universale del D’Alberti cfr. Mura P orcu 1990: 80-83.

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gnati dalla marca corrispondente (Boscajuoli, Bottai, Gioiellie­ ri, Ottonai, Cesellatori, e così via), attinti anche alla lingua parlata, non solo toscana («alla viva voce delle persone che in Toscana e principalmente in Firenze o per nascita o per lunga dimora hanno acquistato l’uso della favella che a tali professioni è appropriata»: D ’A lberti 1797-1805: X I), ma anche di altre città e regioni: Camiciara «Nome che danno i Romani alle donne il cui mestiere è di fare le camicie»; Bozzolaraja «Colei che vende i Bozzolai. Voce venuta da Venezia»; B onello «T. idraulico lom­ bardo. In Toscana dicesi Isola» ecc. È questo delle «arti e me­ stieri», come quello della lingua quotidiana (qualche esempio: Drio «Voce veneziana... “dietro”»; M alaggio «Voce napoleta­ na... “colascione”»; Tosino «In dialetto milanese lo stesso che bambino»; Calcabotto «Nome che si dà nel Bolognese alla Nottola o Succhiacapre»), un settore particolarmente ricco di varietà regionali, in cui il toscano occupa un posto, si potrebbe dire, di primo inter pares. Si tratta di termini fondati sui diversi dialetti, ma già promossi a un registro civile e borghese: regionalismi registrati con atteggiamento obiettivo e tecnico, analogo a quello dei natura­ listi del Settecento che attingono spesso ai dialetti per fissare la terminologia scientifica volgare, o a quello di un Beccaria quan­ do ricorre alla terminologia locale (v. Testo 11). Non diverso l’atteggiamento con cui sono registrati i molti francesismi: Azionario, «Francesismo mercantile»; Barretta «Francesismo di alcuni artefici che si usa malamente invece di spranghetta, regoletto e simili voci toscane»; Im ballaggio «Francesismo del volgo, de mercadanti»; Foreto «Francesismo di molti artefici. Toscanamente si dice saetta, saettuzza»; Gigotto «Francesismo usitato specialmente da’ Cuochi invece di cosciotto di castrato che è il suo proprio nome toscano». Ospitalità è concessa anche a francesismi non assimilati, o parzialmente adattati, appartenenti in genere ai settori della moda e del costume: Monsù, «Voce storpiata dal francese Monsieur»; Rendevos e anche Rendevosse, oltre che Rendez-vous, «Francesismo molto acconcio a denotare un ap­ puntamento dato ad un assegnato luogo»10.

10 Per il francesismo come per gli altri aspetti del Dizionario del D’Alberti si rinvia all’ampia documentazione offerta da Mura P orcu 1990.

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4. Le grammatiche Con l ’opera grammaticale del napoletano Nicolò Amenta, autore di Osservazioni al secentesco II Torto e ’l Diritto d e l Non si può del Bartoli, e del Della lingua nobile d ’Italia (Napoli rispettivamente 1717 e 1723) si inaugura una concezione più ampia della norma grammaticale. L ’Amenta, anche per reazione alle tendenze dell’ambiente napoletano verso il toscanismo più antico propiziate, come s e visto, dal Di Capua, si applica a ricondurre le norme grammaticali ai modelli in un certo senso più nazionali del Bembo e dei successivi Salviati e Buommattei, sforzandosi di selezionare un modello più coerentemente mo­ derno e attento alle diversità di registri e di ambiti d’uso, come mostra V i t a l e 1986: 267-269, ai cui dati mi rifaccio. Per esem­ pio, al livello grafico-fonetico, consiglia per le formazioni dever­ bali l’uscita in -zione piuttosto che in -gione, per cui non accettagione, am m inistragione, am m onigione, condannagione ecc., ma accettazione ecc., preferendo al suono palatale g l’affricato z, «tuttoché col g sian più toscani». In qualche caso le sue scelte fonetiche sono condizionate dal sostrato napoletano, per esem­ pio quando preferisce forme come gastigare, gastigo, soffogare ecc. a castigare, castigo, soffocare «tra perché vengon le voci ad esser più toscane, che Latine; e per pronunziare la plebe col c, gli Scrittori col g»u. E cosi nel livello grammaticale, elimina le forme fiorentine e toscane più antiche e di registro basso, per esempio «Tua parole, sua piedi, per tue parole, suoi piedi-, gentile donne per gentili donne-, voi am avi in luogo di voi amavate-, voi mostrasti, diresti in vece di voi mostraste, direste...». E ancora: rifiuta sulla scorta del Bembo i condizionali in -ia nella prosa illustre: «avria, diria, fa ria ... son voci plebee; e direi, avrei, farei nella prima; direbbe, avrebbe, fareb b e, nella terza, son del popo­ lo civile, e degli scrittori». Ma si può anche dire che con l’Amenta si concluda un modo di far grammatica riservato ai soli letterati. L ’ampliamento del­ l’uso dell’italiano e il suo progressivo ingresso nella scuola pon­ gono le basi per un rinnovamento della trattazione grammatica-1

11 «In realtà per alcune di queste forme toscanismo e tradizione letteraria erano concordi per la sorda, che era pure napoletana; ciò spiega il gradimen­ to per la sonora delFAmenta» (V itale 1988: 267).

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le. Se le L ezioni di lingua toscana di Domenico Maria Manni (1737) propongono lo studio grammaticale «con eleganti espo­ sizioni, correggendo, vagliando», le R egole ed osservazioni della lingua toscana di Salvatore Corticelli si propongono di ridurre «a metodo» il sovrabbondante e spesso farraginoso materiale, ereditato dalle grammatiche precedenti, mentre la Grammatica ragionata della lingua italiana del Soave si richiama al metodo della linguistica enciclopedista (per questo aspetto cfr. 1.3.). Come si dichiara fin dal titolo, le due prime grammatiche sono all’insegna della tradizione toscana dall’antica fino all’epo­ ca moderna, ma esclusivamente scritta, e si richiamano al Boc­ caccio in particolare per la prosa; tutte comunque, anche quella del Soave, da fedeli guardiane della tradizione scritta, si riallacciano al modello normativo risalente al Bembo e concor­ demente ne ribadiscono le prescrizioni che erano state via via riecheggiate lungo i secoli successivi. Pur attenendosi a quella norma, vengono però inserendola in una prospettiva più ampia e articolata. Si introducono distinzioni tra i diversi registri scrit­ ti, che autorizzano ora questa ora quella forma; si segnalano le forme troppo arcaiche, così come si censurano quelle esclusivamente parlate. Vediamone qualche caso riguardante la grammatica in punti particolarmente discussi. A proposito delle forme oblique lui, lei, loro in funzione di soggetto, invece di egli, ella, essi, su cui fin dal Cinquecento le prescrizioni dei grammatici, perentorie nel proibire le forme oblique, non sempre sono rispettate nel­ l’effettivo uso anche letterario, i nostri grammatici sono concor­ di con la tradizione normativa con qualche cauta apertura. Il Facciolati, che si rifa agli A vvertim enti grammaticali dello Sforza Pallavicino (cfr. 1.3), aggiunge che «Lui obliquo di e g li... Non si , dee usar in nominativo... Ciò sia detto per regola stretta di lingua; per altro in certi scrittori meno attenti si trova lui in nominativo singolare, e loro in nominativo plurale» ( F a c c i o l a t i 1747), e il Corticelli: «Il dire lui per egli, e loro per eglino nel nominativo, è errore di grammatica, benché si oda tutto dì ne’ discorsi famigliari», «Ella si dice nel nominativo, e non lei, com’è usanza del volgo» ( C o r t i c e l l i 1745:58 e 60). E anche per il Soave lui, lei, loro «non possono mai usarsi nel caso retto». Una tale divaricazione d’usi è ben esemplificata dal Gigli: le sue Regole per la toscana favella (1721) sono in linea con queste posizioni, ma le commedie si trovano a usare lui soggetto invece

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di egli. Il Gigli spiega la deviazione dalla «buona grammatica italiana» come «idiotismo plebèo di Toscana», necessario alla funzionalità espressiva del personaggio (cfr. 7.1). Un’eco scher­ zosa della rigida norma rinvia Goldoni, come già notato (v. V.3). Ancora nel settore dei pronomi soggetto di terza persona, ac­ canto a egli sono ammessi ei, e ’, «ugualmente ben usate da’ prosatori, e da’ poeti, benché meno di frequente» (Facciolati). Sempre vive per i nostri grammatici sono le forme desso, dessa, quali «pronomi asseverativi, che dimostrano con maggior effica­ cia» (Corticelli) e, per il plurale, eglino, elleno. Per la prima persona singolare dell’imperfetto, il tipo in -o continua ad essere sconsigliato dai grammatici a favore del tipo in -a della tradizione letteraria. Anche questo punto di attrito fra prescrizione dei grammatici e lingua d’uso è oggetto di scherzo in una commedia del Gigli (Sorella di Don filo n e , II, 9: « - E de’ dieci scudi, io dicevo... - Che dicevo? Va detto diceva, ignoran­ te... Io diceva, io leggeva, io amava, io beveva»), E lo stesso Gigli nelle sue Regole, citate, appoggia la forma in -o, come la più usata «per tutti; né mancano Scrittori insigni, che l’abbiano praticata», pur consigliando l’altra ad «ogni delicato della lin­ gua» (P atota 1987: 102). Gli altri grammatici considerano più corretta la forma in -a, pur ammettendo anche l’altra (solo il Manni la ignora nei paradigmi verbali): il Facciolati rispetto alla sua fonte secentesca ammette che «Si potrà dire anche amavo, e leggevo, parlando o scrivendo familiarmente, di che si trova esempio appresso otti­ mi scrittori»; il Corticelli ne spiega l’utilità funzionale: «Volgar­ mente si dice io ero, e quest’uso tornerebbe forse bene per distinguer la prima dalla terza persona, e si ammette nel parlar famigliare, ma non già nello scrivere, e nel parlar in pubblico, perché di troppo peso è l’autorità in contrario» (C orticelli 1745: 98), addotta pure dal Soave («Ero, e avevo nella prima persona dell’imperfetto sebbene più regolari, perciocché distinguo­ no la prima persona dalla terza, pure dai Migliori non si usano»). In alcuni casi non ci si irrigidisce e si accetta pacificamente l’alternanza vigente nella lingua, come quella di -ea , -eva per l’uscita dell’imperfetto: la forma con dileguo della labiodentale, era più familiare al linguaggio della poesia che a quello della prosa, ma molto comune in alcuni verbi di largo uso (avea, parea, dicea, d ov ea...); e per i nostri grammatici è «buona in generale sia per la poesia sia per la prosa» (P atota 1987: 112-

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113). In altri si bada a distinguere: Facciolati avverte che feron o, fero , fen n o, in luogo di fecero, «vanno a poco a poco in disuso, e solo da’ poeti qualche volta usar si sogliono», che «puote per può solamente nelle poesie suol usarsi, benché se ne trovi qual­ che esempio anche nell’antiche prose», che «faccio in luogo di fo , è voce poetica», che tra deve, debbe, d e’, «la prima corre assai nelle prose famigliari, ed anche nelle più gravi». Corticelli di­ stingue «I poeti dicono ave per ha, aggio per ho, aggiate per abbiate», ma accoglie senza alcuna distinzione «andare, ire, o gire» e le relative forme. Vediamo anche il caso di niuno / nessu­ no, le cui «vicende nella lingua letteraria» sono studiate da Serianni 1982. I grammatici avevano continuato a ripetere la prescrizione sancita dal Bembo che, sull’esempio delle tre coro­ ne, assegnava alla prosa niuno e alla poesia nessuno «sì come voce più piena». Ma nel corso dei secoli l’uso effettivo viene mutando e «tra Sette e Ottocento niuno esce a poco a poco dalla lingua d’uso e tende a specializzarsi in ambito poetico». Gli Avvertim enti del Facciolati ci documentano la fase di transizio­ ne: s. v. Nissuno si legge che «è voce poco buona. In suo luogo dicesi niuno, o nessuno», intendendo intervenire su una variante fonetica dialettale. Ma è interessante che a partire, se non mi sbaglio, solo dall’edizione 1751 (Padova, stamperia del Semina­ rio) rispunti l’antica prescrizione «ma niuno è della prosa, nes­ suno piuttosto del verso», ultimo tentativo di contrastare la tendenza ormai chiara di nessuno a occupare «l’antica roccafor­ te di niuno», una tendenza a cui si adeguano in genere anche i grammatici del periodo: per esempio il Corticelli mette sullo stesso piano le due voci (cfr. Serianni 1982: 34-36eq u i V .l eT esto2.1). Ma sicura è la presenza di niuno nella prosa elevata come dimo­ stra l’uso di Cesarotti nelle pagine riportate più sopra (v. V II.9). La distinzione dei vari registri scritti che autorizzano di volta in volta questa o quella forma apre una prospettiva pro­ gressivamente più ampia e articolata, ma sancisce anche una molteplicità di forme, funzionale a quella divaricazione che è peculiare della lingua italiana settecentesca. Sono escluse le for­ me del parlato: per esempio l’uso di gli dativo per loro-, di la come pronome soggetto («la mi dom andò, l ’andò, la stette»), un’abitudine non ammessa dalla tradizione normativa. «Assente dal sistema pronominale codificato dal Bembo, la in funzione di soggetto è giudicato scorretto dai grammatici almeno quanto il tipo lei», è da tutti condannato con la motivazione che la prono-

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me soggetto è forma fiorentina colloquiale ( P a t o t a 1987: 73). Il Corticelli avverte che «siano coll’accento sulla seconda, per sia­ m o, è in Toscana voce del popolo, come lo è altresì siate per siete». Anche il Facciolati la cui Ortografia era indirizzata a un pubblico settentrionale, raccomanda per la fonetica: «Giungere, e giugnere si dice assai meglio che giongere, la qual voce è tuttavia de’ Sanesi, e fu usata da S. Caterina»; «lungo dicesi, e non longo». Nella morfologia: «am erem m o non am eressim o» e «amammo non amassim o» (riecheggiando però raccomandazio­ ni già della sua fonte, cioè lo Sforza Pallavicino). Inaspettatamente più moderni e sensibili al richiamo della frase «chiara e distinta» si rivelano i nostri grammatici nella trattazione della sintassi, forse perché mancava una tradizione degna del nome, questo settore essendo il meno coltivato della descrizione grammaticale. E il Corticelli nella introduzione del­ le sue R egole lamenta che i grammatici precedenti non abbiano trattato «della costruzione toscana», attribuendo anche a ciò la «difficultà, che proviamo talvolta nello scrivere pulitamente in toscano, quale non sogliamo incontrare nello scrivere in latino con proprietà» ( C o r t i c e l l i 1745: 4). Le grammatiche italiane dopo l’eccezione del Giambullari, Della lingua che si parla e scrive m Firenze (1551), che aveva dedicato ampio spazio alla «costruzione» della frase, trattando la teoria dei casi, dei verbi e la concordanza, sul modello delle grammatiche latine, si erano ristrette alla fonetica e alla morfologia (cfr. N e n c i o n i 1974: X V II-X IX ). Il primo dunque a riaffrontare decisamente il problema è il Corticelli, che dedica il secondo libro alla trattazione della sin­ tassi, incentrandola sul verbo, classificato secondo moderne ca­ tegorie semantico-sintattiche. Quello che a noi interessa è che si distingue tra costruzione «semplice, o sia regolare... che siegue l’ordine naturale, e le regole della Gramatica», e costruzione «figurata», che «si allontana dall’ordine naturale, e dalle comuni regole della Gramatica», e che perciò «chiamasi anche irregola­ re»: una distinzione insomma tra ordine neutro e ordine marca­ to della frase. Anche per il Manni l’ordine del periodo deve essere «naturale», ma tale naturalezza è fondata su basi retori­ che, come la sonorità, la misura delle sillabe, la scansione degli accenti. Per il Corticelli invece « l’ordine naturale», cioè regola­ re, della «collocazione delle parti dell’orazione» è quello di SVO: cioè al primo posto il soggetto, e le sue eventuali espansio­

Lessicografia e grammatiche

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ni, seguito dal verbo, e «dopo il verbo, e il suo corredo, si pongono i suoi casi». L ’attenzione all’ordine naturale, corrispondente alla costru­ zione diretta della frase, autorizza ad allontanarsi dai moduli della più antica tradizione letteraria, dai suoi canoni di prosa d’arte, fondati sulla costruzione figurata o inversa della frase. Anche il Manni raccomanda di evitare «lunghezza eccedente, trasposizioni non naturali e sforzate, e il verbo al fin del periodo strascinato» ( V i t a l e 1978: 306). Più esplicitamente il Facciolati, introducendo un articolo nuovo rispetto al Pallavicino, avverte che le trasposizioni «sono generalmente aborrite dalla nostra lingua» e che «non è lodevole il costume di coloro, che si credo­ no d’aver ottimamente parlato, e scritto; allorché anno (sic) cacciato il verbo in fine, e qualche altra voce fuor di luogo, come usarono gli antichi Padri della Lingua volgare per la vicinanza ai secoli latini» ( F a c c i o l a t i 1745). Il Soave infine a scopo didattico porta un esempio presen­ tando un brano del Della Casa, tradotto dapprima in «costru­ zione semplice», e con l’avvertimento «però che il dispor sem­ pre le parole secondo questa Costruzione rigorosa [...] rende­ rebbe il discorso troppo noioso», che riecheggia la vecchia di­ scussione sulla «costruzione inversa». Questo il raffronto tra i due tipi di costruzione proposto dal Soave: L ’adulazione, spargendo le sue menzogne di veleno dolcissimo sotto specie di vera lode, diletta gli orecchi degli sciocchi con lingua vana e bugiarda L ’adulazione, sotto specie di vera lode le sue menzogne di dolcissi­ mo veleno spargendo, con vana lingua e bugiarda diletta gli orecchi degli sciocchi.

Parte seconda Antologia di testi

Antologia di testi

1. Autoritratto muratoriano La lettera Intorno a l m etodo seguito n e’ suoi studi, da cui è tratta la pagina in esame, fu scritta da Ludovico Antonio Mura­ tori nel 1721, ma non data alle stampe. Essa era destinata a un progetto, lanciato dal conte di Porcìa, che raccogliesse «le vite d’alcuni letterati viventi d’Italia scritte da loro stessi» in cui «stendessero la storia de’ loro ingegni, cioè da chi abbiano apparato il metodo de’ loro studi». Si tratta di un testo autobio­ grafico da iscrivere «nel novero di quelle storie ideali del pro­ prio spirito che hanno il primo modello europeo nel Discours de la m éthode di Cartesio, e che presso di noi culminano in quel commosso “mito di se stesso” che è l’autobiografia del V ico»1. Della propria operosità scientifica, particolarmente fertile e nuova nello studio delle antichità medievali italiane, cui si riferisce il brano, al Muratori preme fornire una immagine di impegno riformistico teso all’«istruire ed erudire» 6. Questa tensione per un fattivo impegno intellettuale si co­ glie nelle immagini pratiche e concrete applicate alla cultura, come la metafora economica («un paese da trafficarvi con isperanza di maggior guadagno» 7, «accrescere il pubblico teso­ ro del sapere» 10), e quella luminosa con la contrapposizione, che diventerà poi corrente, tra la «luce del vero» e il «buio de’ secoli dell’ignoranza» 14. La scrittura tende a farsi più comuni­ cativa nella organizzazione della sintassi. Non compaiono i pe­ riodi lunghi e complessi, completati dal verbo in posizione fina­ le, secondo il modello classico di tradizione boccacciana. Le frasi brevi, in costruzione diretta e progressiva, si sostengono 1 Come si spiega nell’introduzione a cura di Giorgio Falco e Fiorenzo Forti, in Muratori 1964: 5.

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Antologia di testi

più sul nome che sul verbo, dando luogo a serie enumerative secondo il tipico stile nominale (v. cap. III.3): «delle fabbriche, statue, iscrizioni, monete», «la loro storia, i loro scrittori, riti, costumi e imbrogli». Tra le locuzioni nominali si noti la frequen­ za del tipo di aggettivo sostantivato: «Quel grandioso d’allora..., quel pulito ed ingegnoso degli autori...» 3, e «quell’orri­ do», «il suo bello e il suo dilettevole», «un gran bello», «il bello di molte... imprese» 6, che ha le sue origini nella prosa secentesca. Da notare un altro procedimento di spezzatura del periodo: «Dico di più: essere lo studio... Im perocché...» 7-8, dove la punteggiatura provvede a interrompere la fluidità del periodo, isolando anche la subordinata, introdotta dal nesso antico imperocché, e rendendola indipendente. E un modulo che ha esempi anche nella lingua antica, ma che sembra piuttosto fre­ quente nella prosa settecentesca, come segnala M o r g a n a 1982: 423 a proposito della prosa del «Caffè». La sintassi è inoltre alleggerita da avvìi rapidi come il «Dico di più» del passo citato, e «Voglio dirlo» 16 e in altri luoghi della lettera «Fin qui {sic) i miei studi...», «C ’è di più». Da notare poi in «fra gli altri m iei abbagli non vo’ dissimularne uno» 2, la dislocazione a sinistra di una parte della frase e la ripresa con pronome clitico: si tratta di un normale fenomeno di focalizzazione del discorso, che è ca­ ratteristico della grammatica del parlato, ma è diffuso anche nello scritto, e qui è appropriato al tono colloquiale del testo. Elemento non tradizionale è l’uso di che in luogo di se non per frase restrittiva: «altro io non aveva in testa ch e...» 2: un feno­ meno che è incentivato dall’influsso del francese (cfr. III.3). Per quanto riguarda la topologia dell’aggettivo vige ancora il tradizionale modulo di aggettivo di relazione anteposto al so­ stantivo («pubblico tesoro» 10). Tra i microfenomeni vanno notati la grafia conservativa in esem pli, le forme del registro poetico guardo, vo’ “voglio”, e la letteraria ma scontata desinenza in -a per la prima persona singolare dell’imperfetto.

Autoritratto muratoriano

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Quel grandioso d’allora, quelle magnifiche imprese con tanti esempli d’insigni virtù e sopra ogni altra cosa quel pulito ed ingegnoso degli autori, delle fabbriche, statue, iscrizioni, mone­ te e tant’altre belle cose mi rapivano tutto. (4) Per lo contrario2 mi facevano male agli occhi le fatture3 de’ secoli susseguenti, la loro storia, i loro scrittori, riti, costumi e imbrogli, trovando io dapertutto del meschino, del barbaro (e infatti non ne manca), e parendo a me di camminare solamente per orride montagne, per miserabili tuguri e in mezzo a un popolo di fiere; laonde se mi capitava alle mani qualche storia o operetta di que’ rozzi secoli io né pur la degnava d’un guardo. (5) Mi rido ora di me stesso. (6) Anche quel barbaro, anche quell’orrido (me ne avvidi più tardi) ha il suo bello e il suo dilettevole, siccome l’ha nelle tragedie e nelle pitture, perché infine quel brutto può solo istruire ed erudire e non può più nuocere, oltre di che la verità per se stessa è sempre un gran bello e in que’ tempi stessi non manca il bello di molte virtù, e di luminosissime imprese. (7) Dico di più: essere lo studio di que’ secoli bassi per gli eruditi un paese da trafficarvi con isperanza4 di maggior guadagno che in quello della più canuta antichità. (8) Imperocché questa è ormai paese esausto ed occupato da altri, laddove l’erudizione de’ secoli di mezzo ha delle parti tuttavia o intatte o tenebrose; e fatican­ dovi intorno può un letterato procacciarsi gran credito nella repubblica sua. (9) Il solo ridire il detto non farà mai grande onore a un letterato. (10) Bisogna ingegnarsi di accrescere il pubblico tesoro del sapere in qualunque arte o scienza che si coltivi. (11) Adunque con gusto presi io a cercare fin dove potei la serenissima famiglia estense, famiglia illustre e grande non meno negli antichi che ne’ susseguenti secoli, e divisa, tanti secoli sono, da quella linea che oggidì regna sul trono d’Inghil­ terra, in Brunsvic ed altri paesi. (12) Una volta fra i romanzi e le genealogie non passava un gran divario, pochi essendo coloro che si facessero scrupolo di aggiungere di suo capo ciò che mancava al pieno ornamento della tela che avevano per le mani,

Fonte: M uratori 1964: 2 6 -2 8 . Rinvìi interni: cap. V II.3.

( 1) Mi accinsi di poi a trattare delle Antichità estensi, ossia dell’origine della nobilissima casa d’Este. (2) E qui fra gli altri miei abbagli non vo’ dissimularne uno: cioè in mia gioventù altro io non aveva in testa che antichità greche e romane. (3)

2 per lo contrario·, è ancora conservata la regola dell’italiano antico che impone gli articoli lo, li dopo per, rimasta nell’italiano moderno nei relitti per lo più, per lo meno. 5 fatture·, condizioni. 4 con isperanza·. normale la prostesi di i per parole inizianti con s impura e precedute da consonante.

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e di quei Mississipì, oh come si compiaceva allora la buona gente e molto più chi vi aveva maggior interesse! (13) Non mi sentiva già io di servir così male alla vera nobiltà del pio principe e né pure alla riputazion mia. (14) Pertanto non perdonai a fatica, né lasciai alcun mezzo, che potesse condurmi alla luce del vero fra il fiero buio de’ secoli dell’ignoranza. (15) A questo fine per ordine del serenissimo signor duca mio padrone, e insieme del potentissimo re della Gran Bretagna Giorgio I, visitai quanti archivi potei in varie parti d’Italia ed ebbi sotto gli occhi innu­ merevoli vecchie pergamene. (16) Voglio dirlo: si faceva i segni di croce chi non pratico di tali studi mi mirava intendere e copiare speditamente gli scomunicati caratteri degli antichi documenti.

2. Giornali 2.1. “Introduzione” del «Giornale de’ Letterati d’Italia» (Venezia 1710) Non c ’è miglior via, sostiene Folena, «per penetrare nel vivo dei tessuti linguistici del Settecento che utilizzare come base di partenza e fonte primaria di innovazioni i giornali». Prendiamo le mosse dal «Giornale de’ Letterati d’Italia», che rappresenta bene le esigenze e le condizioni della cultura italiana all’inizio del secolo. Fondato da Scipione Maffei, Antonio Vallisnieri e Apostolo Zeno, si distingue per il suo intento sovraregionale e specificamente ‘italiano’ rispetto all’internazionalismo dei gior­ nali letterari che lo precedono. «Promuovere i buoni studi» era il proposito del giornale, secondo il programma lanciato dal Muratori nei Primi disegni della Repubblica letteraria d ’Italia (1703) di costituire in Italia giornali simili a quelli che nei paesi d’oltralpe informavano sulle «imprese e le novità della Repub­ blica letteraria d’Europa». E l'Introduzione di Scipione Maffei è un esempio suggestivo della nuova mentalità e anche della nuo­ va temperie linguistica, da cogliere non tanto nei francesismi, non vistosi (come rim arcabili1 12, o in altro luogo dello stesso1

1 rimarcabile è calco dei più usuali (ir. remarcable “degno di nota”), eppure Algarotti, che lo usa nel giovanile Newtonianismo, lo eviterà sempre in seguito, così il Muratori nelle opere destinate alla pubblicazione (D ardi 1992: 380 n.).

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testo belle lettere2), quanto in parole come inform azione, opinio­ ne, pubblico favore, denotanti il nuovo senso sociale della cultu­ ra. Rientrano nella fenomenologia della frase nominale forme del tipo universalità di cognizione (corrispondente al sintagma «cognizione universale»), rarità delle corrispondenze, lunghezza del com m en to 1, 3. Di impronta francese sono le locuzioni nominali fa r registro, fa r relazione 8, 9; e il tipo aver fe d e in «non si abbia certa fede di soddisfar» (cfr. III.3). Permangono inver­ sioni come quella del complemento in «di varie notizie e di molti manoscritti ha bisogno» 2. Ma l’organizzazione del periodo presenta elementi di novità nel collegamento «affidato alla strut­ tura logica del discorso, non a nessi esteriori (le subordinate, rare, di tipo relativo, non precedono quasi mai la principale: mancano quasi del tutto le participiali e gerundiali)». Pure di impronta francese è il tipo di frase scissa «Non è già per questo, che non si abbia per noi certa fed e...» 4 ( F o l e n a 1983: 24-25). Esempio dunque di «lingua comune italiana», fondata sulla tradizione letteraria e aperta alle innovazioni, secondo il model­ lo postulato da Muratori (cfr. VII.7). Permane l’uso di egli pronome neutro in frasi impersonali («egli è pur certo», «ed egli è certissimo che...» 1), fenomeno residuo dell’italiano antico, che prevedeva un uso pronominale più fitto dell’italiano moderno. Pure nella norma letteraria con­ temporanea l’enclisi pronominale in «andranno^/», «dorassi», fatto ormai automatico, stilisticamente neutro3. Di analogo si­ gnificato l’uso di per complemento d’agente («per noi» 4). No­ tare l’aggettivo di relazione anteposto al sostantivo («pubblico desiderio»). A proposito di niuna 3, si tratta di forma del tutto normale, essendo ancora pienamente in vigore, come è detto, l’uso che attribuisce nessuno alla poesia e niuno alla prosa (v. IX .4).

2 belle lettere: espressione gemella di belle arti, entrambe attestate a partire dalla fine del sec. X V I e di cui si avverte l’estraneità (D ardi 1992: 257-258). 3 Cfr. P atota 1987: 78: «venute meno da tempo le condizioni della legge Tobler-Mussafia, l’enclisi è ancora familiare agli scrittori, pur non essendo la sua presenza legata a particolari obblighi sintattici. Naturalmente la proclisi è molto più frequente, ma gli esempi di posposizione dei clitici sono nume­ rosi, e non costituivano un vezzo classicheggiante» nella prosa settecentesca.

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Fonte: «G iornale d e’ Letterati d ’Italia», Venezia, Gabriello Ertz, 1710, t. I, 5 5 -6 0 . Rinvìi interni: cap. I I .l.

(1) Egli è pur certo, che nulla meglio d’un buon giornale può formar nella mente quella universalità di cognizione, che in un uomo di lettere si richiede per non comparire in qualsivoglia materia rozzo affatto ed ignaro; ed egli è certissimo che saranno un giorno l’opere di tal natura il miglior tesoro non solo dell’istoria letteraria, ma delle scienze ancora e dell’erudizione. (2) Né sprezzabile è già il vantaggio di render pubblico il suo disegno, allorché ella intraprende qualche fatica, che di varie notizie e di molti manoscritti ha bisogno, potendo con questo mezzo ricer­ care ad un tratto in ogni parte questi e simili aiuti. (3) Bisogna aggiungere, che in niuna parte più che in Italia sia necessario coiai lavoro, e per la lunghezza del commerzio4 e per la rarità delle corrispondenze d’una parte d’essa con l’altra [...]. (4) Non è già per questo, che non si abbia per noi certa fede di soddisfar chi che sia pienamente, con que’ libri che nella presente opera andrannosi riferendo, della quale si darà stabil­ mente ogni tre mesi un tometto della grandezza di questo. (5) Non darassi per ora con più frequenza per le occupazioni di chi l’imprende, e per le difficoltà che seco porta ogni cosa ne’ suoi principi. (6) Ma non è delle novità letterarie, come di quelle che si spargono da’ foglietti5, le quali invecchiano in otto giorni. (7) Un libro è ben’ancor nuovo dopo tre mesi che uscì del torchio. (8) In ogni caso, procedendo il tempo, quando il pubblico desi­ derio così richiedesse, potrebbe ancora ad ogni mese ridursi. (9) Non si farà qui registro di tutte le cose che in Italia si danno in luce, seguendo l’esempio dei giornalisti più accreditati. (10) Il far relazione di libri sciocchi (quando privilegio di materia, o ragione particolare non l’esigesse) non solo è inutile, ma danno­ so, poiché fa gettar il tempo, e vanamente ingombrar l’intelletto [...]. (11) G li autori e gli stampatori d’ogni parte, sono pregati di trasmettere con prontezza le notizie di nuovi libri; in che 4 commerzio·. forma antica, la cui permanenza riflette l’oscillazione tra e -zi-, cioè tra affricata palatale e affricata dentale, comune a molte altre parole nel Settecento (per esempio beneficio/benefizio, rinuncia/rinunzia ecc.; cfr. P atota 1987: 63-64). 5 foglietti·, gazzette, che all’inizio erano semplici «foglietti» di avvisi e notizie.

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hanno più d’ogni altro interesse, poiché nulla più maggiormente può contribuire a promuoverne ed accelerarne lo spaccio. (12) Necessario più che altrove è in Italia cotale6 aiuto, mentre non si riducono in essa ad una o poche città le impressioni considerabili, ma da per tutto si stampa. (13) Non si lascerà per altro di stare in attenzione delle novità rimarcabili d’ogni famosa accademia, e d’ogni insigne università [...].

2.2. L’‘estratto’ erudito: dalle «Lettere famigliari sopra le Novel­ le letterarie oltramontane» (Venezia 1749) L ’asciutto annuncio ο Vestratto, sommario resoconto, fedele e obiettivo delle novità «letterarie», cioè di quanto si pubblica nelle diverse attività di interesse erudito o scientifico, è la for­ mula adottata all’inizio dal «giornale letterario». Spesso frutto della collaborazione di corrispondenti da diversi centri di pro­ duzione libraria, Vestratto poteva comparire anche in forma di lettera: soluzione funzionale a una esposizione più discorsiva. Testo di tipo informativo-esplicativo, il brano qui esemplificato riferisce sui contenuti di un trattato di elettricità e ne assume lo stile tendenzialmente esatto e vincolato nella definizione dei fenomeni. Notiamo i tecnicismi specifici come catene 5, corpi flu id i 6, l’alterato diminutivo lam inetta 8; la tipica incertezza terminolgica («canale o sia tubo» 7), i frequenti formati in -zione: accelerazione, pulsazione, traspirazione, propagazione, connotati di un grado maggiore di tecnicismo; la serie elettricità, elettrica, elettrizzare, da qualche decennio ambientata nella lingua. Inol­ tre, la generale predilezione per i sintagmi nominali come «uti­ lità dell’elettrizzare» 2, «propagazione della virtù elettrica» 5, richiesta dalle necessità di condensazione del discorso scientifi­ co. La sintassi, tendenzialmente allineativa e paratattica, conser­ va elementi tradizionali come le subordinate gerundiali (volendo 4, essendo 6), il nesso imperciocché, Γ anteposizione dell’aggetti­ vo («l’insensibile traspirazione») e l’inversione verbo-soggetto: «Lu di fresco stampato... il Trattato», dove si rileva anche la tmesi dell’avverbio tra ausiliare e participio passato, e «Tratta egli».

6 cotale: forma rafforzata di tale (eccu(m)- tale(m)).

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Fonte: L ettere fam igliari sopra le Novelle letterarie oltramontane, Venezia, R ecurti, 1749, 1. Rinvìi interni: capp. I I .l e IV. 1.

(1) Fu di fresco stampato per la seconda volta, il Trattato sopra l’Elettricità, del R. P. Gordon, Scozese1, Benedettino, Dottore di Filosofia e Professor Publico nell’Università di Erffurt in Turingia. (2) Tratta egli, nella Prefazione, dell’utilità dell’elettrizzare, rispetto al Corpo umano, e dice: che l’accelerazion della Pulsazione ne possa essere una prova. (3) Imperciocché trovò infatti, per via delle sue Osservazioni, che questa ascende a dieci in sedici pulsazioni in più, per ciascun minuto di tempo, e ne tira le conseguenze, che l’Elettrizzare debba giovar, per promovere l ’insensibile Traspirazione [...]. (4) Oltre a ciò dice, che l’Elettricità si può comunicare con facilità, quasi a tutti i Corpi, e tra questi anche al ghiaccio: però ne eccettua il fuoco, volendo che una candela possa esser elettrizzata, ma non così la fiamma di essa. (5) Per la propagazion della virtù elettrica, stima più atte le catene, che non sono le corde; ed è di parere, che ancora questa possa venir propagata per via della fiamma. (6) I Corpi fluidi leggieri o nuotanti, essendo elettrizzati, vengono attratti da que’ Corpi i quali non sono elettrizzati. (7) Tra questi, l’acqua si piega verso un Canale o sia Tubo, che sia elettrizzato, ed il suo corpo, di diritto che era, diviene torto. (8) L ’Ago calamitato siegue il dito, quando è posto sopra una laminetta elettrizzata, e si guasta in pochissino tempo [...] (14-15).

2.3. Una pagina di cronaca locale: dalla «Gazzetta veneta» (1760) Dall’esigenza di seguire e illustrare la vita cittadina, nelle sue novità culturali come nei suoi avvenimenti quotidiani, nasce un nuovo genere di stampa periodica, la «gazzetta», che prosegue la tradizione degli «avvisi» nell’offrire notizie di interesse prati­ co, arricchendola con la cronaca degli eventi cittadini. La «Gaz­ zetta veneta» rappresenta il primo esempio del genere, embrionale modello del successivo quotidiano d’informazione locale. Il gior­ nale, che aveva periodicità bisettimanale, era redatto quasi per 1 scozese: difficile dire se la scempia sia riflesso di pronuncia settentriona­ le o di incertezze grafiche, residuo di abitudini rinascimentali (sulla grafia della affricata alveolare in epoca rinascimentale cfr. Migliorini 1957: 214).

Giornali

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intero da Gasparo Gozzi, la cui penna dava una impronta del tutto personale alle notizie di vario genere e interesse che vi comparivano: da informazioni economiche a cronaca di costu­ me e di vita quotidiana, i cui protagonisti sono «soprattutto i ceti inferiori, il mondo degli artigiani, dei bottegai, dei servi» ( R i c u p e r a t i 1986: 195-196). Come dichiarato nel sottotitolo, il giornale conteneva «quello che è da vendere, da comperare, da darsi a fitto, le cose ricercate, le perdute, le trovate in Venezia e fuori di Venezia, il prezzo delle merci, il valore dei cambi, ed altre notizie parte utili e parte dilettevoli al pubblico». Partico­ larmente interessante dal punto di vista storico-documentario, come ha messo in evidenza S p e z z a n i 1980, il settore degli an­ nunci economici come testimonianza del lessico tecnico attinen­ te arti, mestieri, merci, ricco di termini dialettali «inglobati con estrema naturalezza e spesso senza segnalazioni particolari nel dettato italiano» ( C o r t e l a z z o 1992: 258), indizio di quel rap­ porto del tutto particolare, di «lingua a lingua», che il veneziano intrattiene con l’italiano. Per esempio nell’avviso sotto riporta­ to, citato da Spezzani, i dialettalismi soleri “solai”, pergolo “poggiolo”, m ezzadi “mezzanini”, caneva “cantina”: Casa grande con due soleri, con terrazza e pozzo, con portici grandi e pergolo e mezzadi e caneva, posta in cam po S. Bartolom io, paga all’anno Due. 100.

Ma qui interessano soprattutto i riflessi che il ‘genere’ crona­ ca ha nella strutturazione del testo: come spiega lo stesso Gozzi, non «ragionamenti lunghi, né soverchiamente studiati, e la fret­ ta appena concede una breve mediazione» ( R i c u p e r a t i 1986: 199), promuovendo uno stile più sciolto dal modello letterario. Un esempio limite può essere la cronaca di un incidente avvenu­ to il giovedì grasso del 1760, che il Gozzi si compiace di riporta­ re così come gli è arrivata: «La semplicità di questa notizia non dee essere alterata con altro stile; quale mi pervenne tale io la pongo». Vanno notati certi tratti da linguaggio burocratico come si portò in luogo del comune «andò», e la frequente forma anaforica «il detto» 1. Più che il sottofondo dialettale, che filtra nella incertezza dei raddoppiamenti (fornitto), nella cadute delle fina­ li, e nella terminologia (pistor “fornaio”, biscottelli “castagne s e c c h e ”, fru ttariol 1, barcarole, impàio “gioco di destrezza” 2), interessa il carattere italiano popolare del testo: elementare or­

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ganizzazione testuale, scarsa competenza sintattica (la ripetizio­ ne «dove... dove»), le incongruenze nell’uso dei tempi: Fonte: G . Gozzi, Gazzetta veneta, Firenze, Sansoni, 1957, 15-16. Rinvìi interni: cap. I I .l.

( 1) L ’infelice Zuanne Bailo d’anni 31 e un mese la Domenica grassa dopo pranzo si portò a S. Fantin a Cà Molin, dove vi è la scuola delli Sforzanti, dove si faceva la prova del Baccanal del Giovedì grasso, ed il detto infelice fermatosi a vedere, dopo fornitto1, il detto prese del pan da un Pistor, e biscottelli da un Fruttariol, e se n ’è andato ad una bettola a bever. (2) Dopo si portò in Campaniel di San Marco, e gli è venuto il capriccio di voler far a puro, e mero suo capriccio due impàli sull’ala del Leon, come anche fece; dopo ha voluto far il terzo impàio sul Diadema del detto Leon, e nel voltarsi, il vino, che aveva bevuto non gli ha permesso di poter star in equilibrio, e traboccò a basso alle colonnette, dove vi era della gente; e un barcarolo accidentalmente trasse fuori un braccio, e lo fermò per una gamba; ma nel venir giù dal detto Diadema aveva dato della tempia sul detto Leon, e il detto Barcarolo non ha potuto dar altro ajuto, che quello di fermarlo, e nell’atto istesso diede le coste sulle colonnette del detto Campaniel, e finì di vivere alle ore 23 in circa. (3) Fu seppellito in campo Santo a S. Pietro di Castello.

2.4. L’articolo di economia: dal «Caffè» (Milano 1764) Il brano seguente è tratto da un articolo sulla Coltivazione d el tabacco, firmato Pietro Secchi, preceduto e seguito dal com­ mento di Pietro Verri. Testo di tipo informativo, dove figurano i termini del settore economico: industria, commercio, econom ia politica nei loro nuovi significati specifici; massa circolante 7, generi di prim a necessità 6, am m ontare 10, manufatturare 111. Da 1 formo.

fornitto·. finito, in cui coincidono l’antico italiano fornito e il dialettale

1 II termine, come manifatturiere, è di diffusione francese, entrato alla fine del Seicento e ormai usuale negli economisti del secondo Settecento. Si tratta di derivato da manifattura “stabilimento manifatturiero”, calco semantico dal francese (la serie francese è manufacture, manufacturer e manifacturer, manufacturier) (cfr. D ardi 1992: 336-337 e 445 e G D L I1961-1992). Interes-

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notare il recente provista 8 “rifornimento abituale di derrate”2, prodotto nel senso di “cosa prodotta” calco del francese produit (cfr. DEI 1950-1957). Antico è invece il termine di ambito buro­ cratico regalia 10 “monopolio o privilegio statale di vendita”, che ha già un concorrente più moderno in privativa (cfr. Testo 11). Infine attrezzi 11, francesismo ormai ben naturalizzato nel­ l’italiano, dove è entrato alla fine del Seicento3. Interessante, in particolare nel testo del Verri, è il ricorrere di espressioni come pubblico bene e pubblica utilità, significati diffusissimi nel Settecento dei lumi. E ancora: cittadino, nel senso di individuo appartenente a una società civile, prossimo alla valenza politica che prenderà durante il periodo rivoluzio­ nario. Analogamente nazione·, il valore moderno di «comunità umana che, sul fondamento dei vecchi valori etnico-geografici e storico-culturali, già a questa altezza fusi, si dà una struttura politica di tipo statale», è ormai vicino a quello di patria, svilup­ pato in epoca rivoluzionaria4. Sul piano sintattico: andamento lineare e progressivo nel­ l’ordine delle parole, a parte l’aggettivo di relazione anteposto al nome, normale all’epoca (nel testo del Secchi: «annua provvi­ sta», «pubblico vantaggio», «naturai spurgazione»). La tenden­ za alla concisione sintattica favorisce in modo evidente i proce­ dimenti di condensazione sintagmatica nominale con formazio­ ni sostantivali astratte («impunità di pochi», «miseria di molti», «fermento delle diverse opinioni», ecc.). Anzi l’accumulo di sintagmi nominali produce poca chiarezza nel discorso (v. «Qual­ che calcolatore del gusto dell’oppositore»). Il testo del Verri, dal periodare analitico, costituito di frasi brevi, accostate paratatticamente, mostra lo sforzo di raggiungere una prosa di cose e non parole a cui esplicitamente aspira un redattore del «Caffè», nel proposito di essere universalmente inteso. Inoltre la scarsa preoccupazione per la «grammatica», di cui portano vanto i redattori del periodico, è rilevabile nella presen­ za involontaria di componenti dell’uso più locale: per esempio il tipo congiuntivo ottenghino 2, scrivino 3; il suono a per e nel sante che manifatturiere sia rifiutato dai puristi dell’Ottocento (cfr. Serianni 1981: 1184). 2 La prima attestazione del significato risale al Beccaria (GDLI 19611992). 5 Adattamento dal plurale atrès (sing. atrait) (Dardi 1992: 44 e 114-116). 4 Su cittadino e nazione cfr. L eso 1991: 219 e 272-275, Dardi 1992: 347.

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condizionale della prima coniugazione in minacciarebbe 10; l’oscil­ lazione nell’uso delle scempie e geminate (dirigge, obbiezioni, provista, parasiti). Per l’aferesi in spedienti e sperienza 13 e 14 sarà da considerare che il fenomeno, di ascendenza toscanista, ha riscontro anche nei dialetti ( V i t a l e 1986: 448). Anche in istesso 9 con prostesi dopo vocale, c’è coincidenza con il milane­ se istess, instess (la consuetudine toscana richiede la prostesi di i dopo consonante). Fonte: «C affè» 1960: 4 5 -4 6 . Rinvìi interni: capp. I I .l e IV .2

(1) M ’è stato dato un progetto sulla coltivazione del tabacco, ch’io volentieri ripongo nel foglio. (2) Ogni cittadino risente gli effetti del pubblico bene, ogni cittadino deve desiderarlo, e meritano la riconoscenza del pubblico quei che vi meditano e somministrano i loro lumi, sebbene la maggior parte delle volte non l’ottenghino da’ loro contemporanei. (3) Credo che sia un bene che molti scrivino e pensino su gl’interessi veri d’una nazione, sulle finanze, sul commercio, e sull’agricoltura; la neb­ bia ed il mistero servono alla impunità di pochi, e alla miseria di molti. (4) I fatti dell’economia politica, è bene che si sappiano, poiché è un bene che vi si pensi da molti, e dal fermento delle diverse opinioni sempre più si separa e rende semplice la verità. (5) Chiunque ci somministrerà scritti ragionevoli in queste ma­ terie avrà sempre un luogo onorato in questi fogli. Il progetto dunque così dice. La coltivazione d el tabacco (6) La prima e principal massima di chi dirigge il commercio d’una nazione quella dev’essere di renderla il più che sia possi­ bile indipendente dalle altre, sì quanto all’industria, che quanto ai generi di prime necessità, nell’abbondanza de’ quali consiste realmente la vera ricchezza d’uno Stato. (7) Egli è vero, che sarebbe una chimera il voler pretendere di conseguire una totale indipendenza: non omnis fer t omnia tellus^\ ma come perdonarla a chi potendo con facilità trapiantare qualche prodotto entro i 5 Letteralmente “non tutti i terreni producono tutto” (citazione libera da Virgilio, Georgiche).

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propri confini volesse ciò non ostante, con grave discapito della massa circolante, andare a procacciarlo altrove? (8) Cinquanta mila filippi costa l’annua provista delle foglie per i tabacchi che si consumano in questo Stato; il nostro clima (a dispetto di chi non lo vuole), i nostri terreni, la nostr’aria sono ottimi per la coltura di questa pianta. (9) L ’esperienza cotidiana lo mostra ad evidenza, eppure si prosegue a comperarli fuor di paese, né mai il progetto di farne qui le piantagioni fu fin ora, ch’io sappia, o proposto o tentato, quantunque unito al pubbli­ co vantaggio trovar vi potesse il particolar guadagno anche chi ha il diritto di venderli, colla diminuzione dell’intrinseco valore del tabacco istesso. (10) Qualche calcolatore del gusto dell’oppositore al bellis­ simo progetto della naturai spurgazione del canale detto N avi­ glio della nostra città, troverebbe forse questa mia proposizione erronea, ed iperbolica, e mi proverebbe in via di moltiplico con un bel conto dimostrativo, che il valore de’ fondi che s’impie­ gassero a questo fine, e soprattutto le sole giornate necessarie alla di lui coltura56 basterebbero per far ammontare al doppio il prezzo del tabacco che si raccogliesse, a fronte del forestiero, e con ciò ne minacciarebbe un gravissimo pregiudizio alla regalia. (11) Aggiungerebbe in seguito le dispendiose disposizioni di attrezzi e di fabbriche; la difficoltà di trovar gente per coltivarlo, e manufattorarlo nelle debite forme; quindi, lega facendo con alcuni nasi rispettabili, più squisiti e dilicati7 degli altri, conclu­ derebbe con una declamazione, sul gusto delle Verrine8, contro l’enorme spesa, l’insuperabile difficoltà, la pessima qualità del tabacco, e la chimerica idea del progetto [...]. (12) Altro non resta adunque che il timore della cattiva qualità. (13) A ciò rispondo, che quando la foglia del tabacco nostrano si raccolga ben matura, e si lasci sopratutto riposare da un anno all’altro, riesce per le fatte sperienze molto buona; ottima poi per formarne dei tabacchi fermentati ed artificiali d’ogni qualità [...]. 6 alla di lui coltura·, l’inversione del pronome con preposizione, di proba­ bile ascendenza burocratica, è usuale nel Settecento nella prosa corrente (Vitale 1986: 484 e Serianni 1989a: 17). Da notare semmai l’uso del prono­ me lui riferito a cosa. 7 dilicati·. forma comunemente alternante con delicato nel Settecento (P atota 1987: 33-35). 8 verrine·, allusione alle orazioni di Cicerone.

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(14) Così termina il breve progetto, il quale a nostro giudizio potrebbe aver luogo a beneficio d’ogni paese, che voglia non trascurare i propri vantaggi anche a costo di pensare a’ spedienti, che non sieno venuti in capo ai nostri avi. (15) Ma per fare un bene qualunque un po’ grande a una nazione vi vogliono di quegli uomini, che il volgo chiama imprudenti, e che la posterità chiama uomini grandi. (16) Se essi nascono in una felice combi­ nazione di cose, ripuliscono una nazione selvaggia, e si chiama­ no Pietro il Grande; se nascono in una privata condizione, scrivono tutto al più qualche libro, e ottengono per sommo elogio quello che ebbe l ’Abate di San Pietro, cioè d’autore di sogni, d’un buon cittadino.

2.5. L’informazione politica: dal «Giornale enciclopedico di Let­ teratura Italiana ed Oltremontana» (Firenze 1784) Oltre alle scienze e all’applicazione tecnica i giornali, con la seconda metà del secolo, si avviano ad assolvere anche il compi­ to di informare il lettore sulle nuove realtà politiche. Nell’artico­ lo esemplificato (Costituzioni d ei tredici Stati uniti dell’Am erica pubblicate per ordine d el Congresso. Filadelfia), che presenta commentandola la Costituzione americana, c’è però qualcosa di più della mera informazione, l’enfasi del discorso rivela la spinta di nuove istanze ideologiche. Ci si imbatte nel nuovo significato delle parole indipendenza, indipendente, affermatosi dopo la Declaration o f Independence del 4 luglio 1776 dei tredici stati confederati d’America1, e che congiunto con nazione e popolo, ricevevano «in quello scorcio di tempo nuove e decisive connotazioni semantiche»12. Il concetto di nazione connesso con

1 Indipendente, indipendenza «sono all’origine termini teologici: solo Dio ha per attributo Pindipendenza. Ma ecco che si comincia a usarlo (all’inizio, pare, in Inghilterra) a proposito delle controversie ecclesiastiche, mentre la guerra d’indipendenza americana gli dà il carattere politico, oggi predomi­ nante» (Migliorini 1971: 81). F olena 1986: 200 fa notare che ancora il Dizionario universale del D’Alberti della fine del secolo (per il quale v. IX .3) e il Tramater, Vocabolario universale italiano del 1829-1840, registrano indi­ pendente e indipendenza solo in senso teologico. 2 Come osserva F olena 1986, registrando l’affermazione di tali novità nel veneziano «Nuovo giornale enciclopedico» dei Caminer, periodico che ebbe un’influenza decisiva nella diffusione delle idee illuministiche e dell’enciclo-

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quello di popolo, nel valore di «comunità umana che si dà una struttura politica di tipo statale», rilevato nel testo precedente, è qui chiaro: si parla di «costituzione, in cui il p otere legislativo, ed il p otere esecutivo emanato dal p o p o lo ... ritornino annual­ mente nelle mani di questo stesso popolo» 10. Tutti termini i cui nuovi significati si fissano con la Rivoluzione americana e fran­ cese e che nel denotare novità istituzionali richiedono specifica­ zioni. Infatti a legislatura si spiega a pie’ di pagina: «quel corpo in cui risiede l’autorità legislatrice, e la legislazione è l’azione di tale autorità». Il termine ha assunto il nuovo significato di “in­ sieme dei legislatori” che si affianca al vecchio senso di “potere di far leggi” ( L eso 1991: 288 e 293). E ancora vi si parla dei diritti e dei doveri dei Cittadini, delle loro libertà e delle relative garanzie, parole antiche ma al cui rinnovamento semantico l’esperienza americana fornisce un pri­ mo decisivo impulso, in una direzione che troverà tra poco soluzioni rivoluzionarie, ma le cui premesse si pongono nell’età dei lumi. Come conclude lo stesso articolista, «In un secolo illuminato l’America non sarà, come la più parte dell’Europa, governata da leggi formate nella ruggine dei tempi tenebrosi, e barbari». L ’enfasi oratoria trova la via di una più moderna strutturazione del discorso. Domina la costruzione progressiva in cui la messa in rilievo è affidata alla segmentazione. Si noti nel primo perio­ do l’ardita ‘dislocazione’ a sinistra di un suo membro con rela­ tiva ripresa pronominale («Quella libertà... l’America la vede...»). Le subordinate sono di tipo relativo, assenti strutture gerundiali e participiali. La trasparenza dell’organizzazione dei periodi è data dalla disposizione simmetrica e parallelistica dei membri («L’Olanda non ottiene se non che... e l’America», «L ’Olanda non ebbe se non che... L ’Am erica...»), dove va rilevata nella ridondanza del legamento restrittivo se non che, la compresenza del tipo tradizionale se non e di quello tendenzialmente moder­ no che (v. III.3). La forza oratoria poggia su strutture ternarie e anaforiche {«senza truppe, senz’armi, senza denaro», «li iacea tremare, piangere, e sottomettersi»). Da notare anche il cataforico questo stesso a dar enfasi al discorso. pedismo nel Veneto. Sulla evoluzione del concetto di nazione·. F olena 1983: 19 e 21-23, e Renzi 1981: 113-126, oltre a F. Chabod, Storia dell’idea di nazione, Bari, Laterza, 1961.

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Fonte: «G iornale enciclopedico di Letteratura Italiana ed Oltrem ontana», Firenze, 1784, η. 1, 14-16.

(1) Quella libertà per cui l’Olanda combattè pertinacemente durante un corso di 60 anni; l’America la vede stabilita nel suo continente dopo soli otto anni di guerra. (2) L ’Olanda dopo aver sparso tanto sangue a torrenti, non ottiene se non che una tregua dai suoi nemici; e l’America vien riconosciuta per Stato libero, e indipendente con un solenne Trattato definitivo tra lei, e la madrepatria. (3) L ’Olanda non ebbe se non che pochi alleati nel principio delle dissensioni, e di questi, l’uno non le presta soccorso se non che per invaderla, e l’altro rifiuta l’autorità suprema, che ella stessa gli offriva sulla confederazione. (4) L ’America al contrario ha trovato dei veri amici nei suoi alleati, i quali han sagrificato il suo sangue, e i lor danari per difenderla contro i suoi oppositori, e per fino avanti alla fine della guerra varie Potenze Europee formarono dei trattati di commercio colla medesima. (5) E quali erano i suoi nemici? (6) Una Nazio­ ne, che pretendeva dar leggi all’antico, ed al nuovo mondo [...]. (7) Questo fenomeno politico nella Storia sarà sicuramente un oggetto di sorpresa, e di ammirazione per gli amministratori delli Imperi, e per la posterità. (8) T primi vedranno in un angolo quasi deserto del globo un piccol numero di uomini senza trup­ pe, senz’armi, senza danaro vincere una Nazione formidabile, e scuotere il giogo, e viceversa nel centro dei grandi Stati una potenza la quale 60 anni sono li iacea3 tremare, piangere, e sottomettersi a dei confinanti i quali in tal epoca formavano appena un popolo. (9) Qual mai lezione per l’arte di governare ravvisasi4 in questo sol parallelo! (10) Lasciamolo meditare da quei che son chiamati al timone dei pubblici affari; desideriamo che ne profittino, e torniamo alle Colonie Americane, occupate a darsi una tal costituzione, in cui il potere legislativo, ed il potere esecutivo emanato dal popolo, e diviso in varj corpi, ritornino annualmente nelle mani di questo stesso popolo per distribuirli di nuovo. (11) Osserviamo primieramente, che nella pluralità delle Colonie il potere legislativo è confidato a una generale Adunanza di Rappresentanti delle Contee, e Distretti, 3 fa c ea : molto comune il tipo con dileguo di -v- in particolare nei casi avea, dicea, potea ecc. (cfr. P atota 1987: 112). 4 ravvisasi·, per l’enclisi pronominale v. 2.1.

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la quale sola ha diritto di far leggi, che abbiano rapporto alle tasse, retribuzioni ec. e ad un Senato nominato altresì dal popo­ lo, all’esame del quale vengono rimesse queste, e tutte le altre leggi, le quali non possono ricever vigore senza il di lui con­ senso5 [...].

3. Prosa scientifica e di divulgazione 3.1. La scienza in salotto: Francesco Algarotti, «Dialoghi sopra l’ottica neutoniana» (1752) Il grande prestigio conquistato dalle scienze nel Settecento promuove opere di divulgazione accessibili a un pubblico più vasto. Scipione Maffei scrivendo a un suo corrispondente mate­ matico si chiede perché mai i «signori matematici» scrivano sempre in latino, lodando contemporaneamente i francesi «per­ ché scrivono in volgare»: «Trionfano i Francesi perché scrivono a tutti; non sdegnano anche i grandi uomini di esporre i princìpi primi, talché anche le donne di spirito possono impararne qual­ che cosa. Questo è quello ch’io vorrei s’introducesse in Italia» (cit. da A l g a r o t t i 1969: IX ). La lettera è del 1737, P anno in cui esce 11 newtonianismo per le dame ovvero dialoghi sopra la luce e i colori. L ’opera si ispirava agli Entretiens sur la pluralità des m ondes di Fontenelle (1686), conversazioni di tono leggero e sofisticato sul sistema copernicano, di cui Algarotti adotta la soluzione formale, il ‘dialogo’: un genere per altro «ombelicamente legato al ‘genio’ della lingua e a una tradizione linguistica e stilistica nazionale» ( A l t i e r i B i a g i - B a s i l e 1983: X X X V ), già servito a Galileo come strumento della discussione e della pole­ mica. Il «dialogo» trova dunque adesso un nuovo ruolo nella letteratura divulgativa, per influsso di Fontenelle e per sugge­ stione anche del teatro. F lo stesso Algarotti a spiegare che occorre «donner à un traité de physique l’agrément, pour ainsi dire, d’une pièce de théatre», la gradevolezza di una opera teatrale ( A l g a r o t t i 1969: 4). Il matematico Ruggero Boscovich espone le sue ricerche per il pubblico di un’accademia in dialoghetti ‘arcadici’, dove due pastori spiegano i principi dell’ottica e dell’astronomia newtoniana 5 il di lui consenso·, sul tipo di sequenza v. il paragrafo precedente n. 6.

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nel linguaggio letteratissimo dell’egloga pastorale1. E l’elettrologo Eusebio Sguario, convinto dell’importanza della divulgazione scientifica («è delitto gravissimo per uno scrittore il trattar ma­ terie che annoino e, stancando, facciano sbadigliare»), sostiene la liceità che «certe scienze di loro natura rigide e austere» non siano trattate «sempre con uno stesso metodo scientifico e dottrinale; non v’è che la forma del dialogo o del romanzo che le sappia trar fuori dall’oscuro nembo che le rende schiffose alla gente del mondo, e solo per questo mezzo sperar possono di passare dai deserti e dalle cupe caverne nelle mani e nelle amene conversazioni del secolo». Egli stesso introduce al suo Dell·elettrici­ smo con una Novella galante e filosofiaz123. L ’Algarotti dichiara di avere seguito nella sua opera lo stile conveniente al «dialogo, netto, chiaro, preciso, interrotto, e sparso d’immagini e di sali», schivando «quegl’intralciati e lun­ ghi periodi col verbo in fine... lasciati a coloro, che anno abban­ donato il Saggiatore per la Fiammetta, insieme colle parole an­ tiche e rancide» ( A l g a r o t t i 1737: V ili), di aver lasciato lo stile tradizionale e artificioso alla Boccaccio per seguire quello più naturale di Galileo. La definizione, calzante con quella dello style coupé, lo stile spezzato di stampo francese di cui si è parlato, sa di omaggio alla moda, solo in parte corrispondente a una prassi effettiva ( S e r i a n n i 1993). Successivamente anzi l’au­ tore, nel rimaneggiare l’opera che prenderà il titolo Dialoghi sopra l ’ottica neutoniana, eliminerà alcuni francesismi (come fiscia, treno di vita, partaggio), e l’anglicismo tantaleggiare calca­ to su to tantalize («questo continuo tantaleggiar de’ Filosofi intorno al vero»), ne sostituirà altri (per esempio rango con grado, toletta con m ondo fem m in ile, m ondo “società mondana” con persone). Conserverà invece o incrementerà quelle forme francesi che trovavano riscontro nell’uso italiano antico, come tuttogiorno “sempre” (frane, toujours), amar m eglio “preferire”, il tipo in + gerundio {in passando)0. Una cornice salottiera fa dunque da sfondo ai dialoghi che in tono galante e mondano trattano con rigore ed esattezza temi 1 II testo è in A ltieri B iagi-Basile 1983: 695-754, v. anche le osservazioni di Altieri Biagi, ivi: X X X III . 2 Altieri B iagi 1984: 935 e Altieri Biagi-Basile 1983: 839-845. 3 Che queste forme siano espressamente cercate, lo conferma un appunto privato dello scrittore contenente una breve lista di «Maniere eleganti del Boccaccio», affiancate dalle corrispettive francesi (Arato 1990: 537).

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scientifici come l’ottica, fanno la storia della scienza prima di Newton, espongono il sistema cartesiano e discutono di attra­ zione universale. Lo scrittore si propone di conciliare vivacità ed eleganza di stile, tono conversevole e proprietà terminologica, come spiega nella lettera dedicatoria in francese dell’edizione del 1752 che qui si prende in esame. E risolve le difficoltà della lingua italiana a rendere «les figures de géometrie, et les termes d’art» ricorrendo al lessico comune e a descrizioni prese dal­ l’esperienza comune («par des équivalents pris dans les objets les plus connus, et les autres par les descriptions»): una soluzio­ ne che si riallaccia alla tradizione di scuola galileiana. Nel brano riportato tra i termini di ambito tecnico registriamo vortice, una parola di origine dotta ma presente da secoli e comunque riformulata in un sintagma di connotazione scientifica. Anche qui suffissati in -ione e -mento {pressione, ammassamento della materia) per nomina actionis·. da notare che il secondo, dotato di connotazione meno scientifica dell’altro, è più frequente nella lingua di Algarotti (cfr. G i o v a n a r d i 1987: 103 e 211-215). No­ tare massa globulosa 30, in cui l’aggettivo di relazione formato con il suffisso -oso è impiegato in un sintagma di ambito tecnico. E i frequenti alterati diminutivi come particelle (e altrove in sintagma specialistico particelle della luce), dadicciuoli, glohetti, pallottoline, spazietto, e gli elativi in -issima. Per spiegare i feno­ meni fisici si ricorre a paragoni con l’esperienza comune: «come si vede far l’acqua ne’ gorghi di un fium e...» 4, «e così, non altrimenti che veggiamo accadere delle pietre che un torrente rotola» 16, «e ciò vedesi manifestamente nel sasso girato dalla frombola» 22, «Il sole non è altra cosa che un immenso pallone di materia sottile» 29, secondo uno stile di riformulazione di tradizione galileiana, ma che nell’opera di Algarotti risponde alla precisa strategia retorica di destare l’ingenua ammirazione delPinterlocutrice nei confronti dei complicati argomenti, «per poi demolirla via via con esempi tratti dalla vita quotidiana» ( A r a t o 1990: 518). Quanto alla sintassi, per raggiungere «le naturel», «l’air et le tour de la conversation familière», l’autore si sforza di smorzare i caratteri più artificiosi della nostra tradizione letteraria. Nota­ re il costrutto proprio della grammatica del ‘parlato’, cioè la dislocazione a sinistra dell’oggetto e la sua ripresa pronominale («Tale immensa materia... figuratevela» 2). La sintassi mostra in questa pagina un andamento spedito, lontano dalla complessità

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di periodi della prosa di tono più elevato (che pure si ripropone in altre pagine dei D ialoghi), ma non dimentico del «genio» della lingua italiana. Frasi brevi e costruite secondo l’ordine progressivo, senza le ardite inversioni e le tmesi tipiche della prosa letteraria più ricercata (per esempio quella materia inim i­ ca d el voto 24 e non * quella inimica d el voto materia, una costru­ zione possibile in italiano e cara allo stile classicheggiante). Pochi i casi di costruzione inversa («pieno di vortici ogni cosa», «tra l’un globetto e l’altro sarebbon rimasi» 19), la collocazione dell’aggettivo ha la biposizionalità dell’uso moderno: anteposto quando ha valore descrittivo o esornativo («semplici e pochi ordigni», «politissime pallottoline», «minutissima polvere», «gagliardissima pressione») e posposto quando ha valore distin­ tivo o oggettivo («massa uniforme», «materia sottile», «massa globulosa»). Si possono notare alcune caratteristiche strutture anaforiche binarie e giustappositive: «si venne a formare una nuova materia finissim a, agitatissima» 17, «quale altra cosa fac­ cia quella rastiatura, quella minutissima polvere» 27, in un anda­ mento spezzato di stampo francese. Da notare il costrutto «si venne a formare» 17 con valore aspettuale progressivo di venire a + infinito, e la posizione del clitico, cioè la sua «risalita» con passaggio da enclitico del verbo semanticamente più importante ma dipendente (*ferm arsi) a proclitico del verbo reggente {si venne)·, un tipo vitalissimo nell’italiano odierno4. Rispetto alla edizione giovanile compare qualche tratto più arcaico, per esempio «in guisa di ruota» 3 al posto di «com e una ruota»; o si sostituisce qualche costruzione che arieggia il fran­ cese, per esempio il che restrittivo (v. III.3) nel passo «un palaz­ zo incantato, dove voi non avrete che a domandare» ( A l g a r o t t i 1737: 27-28) corretto in «un palazzo magico, dove uno ha sola­ mente la briga di chiedere» 9. Ma questo che è invece introdotto in «Il sole non è altra cosa che un immenso pallone» 29, frase strutturata diversamente nella prima edizione.

4 II si passivante si trova nell’italiano odierno in genere in posizione anti­ cipata quando sfuma nell’impersonale come nel nostro caso, e con verbi modali dovere, potere, volere, con verbi aspettuali stare + gerundio, stare per ecc., e con i verbi andare e venire «quando il loro specifico significato è fortemente attenuato, sicché essi formano un complesso unico col verbo che accompagnano» (Sabatini 1985: 163-164), che è appunto il nostro caso.

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Fonte: A lgarotti 1969, che riproduce il testo delle Opere, Livorno, Coltellini, 1764-1765, confrontato con quello dell’edizione Venezia, Palese, 1 7 9 1 -1 7 9 4 , la più completa delle opere algarottiane (26-28). Rinvìi interni: capp. IV. 1, V II.2.

(1) Ora figuratevi tutta quanta la materia, di che fatto è il mondo, non altro essere stata da principio che una massa unifor­ me, e la medesima in tutto e per tutto. (2) Tale immensa materia, quanta ella è, figuratevela divisa in particelle della figura di un dado, picciolissime5, ed eguali tra loro. (3) Di queste particelle figuratevi che una grandissima moltitudine qua giri intorno ad un punto, là un’altra moltitudine intorno ad un altro, e nel tempo stesso girino tutte in se medesime; e ciò in guisa di ruota, che nel correre ch’ella fa vassi6 tuttavia volgendo sopra di sé. (4) In tal modo, Madama, immaginerete pieno di vortici ogni cosa: che vortice si chiama uno ammassamento di materia, qual ch’el­ la sia, che vada intorno a un punto, o centro comune; come si vede far l’acqua ne’7 gorghi di un fiume, o la polvere raggirata dal vento. (5) E tutto questo, Madama, è ben facile ad esser compreso. (6) - Facilissimo - ella rispose. (7) - Or bene, - io soggiunsi - e voi vedrete per via di così semplici e pochi ordigni formarsi il sole, le stelle, la luce, i colori. (8) E che cosa non vedrete mai? (9) Il sistema de’ vortici è quasi un palazzo magico, dove uno ha solamente la briga di chiedere ciò ch’e’8 vuole, che sei9 vede comparire innanzi di presente10. (10) - Si avrà dunque da credere - ripigliò la Marchesa - che da sì picciola cosa conceduta al Cartesio abbiano da seguitare tante maraviglie? (11) - Madama, - io risposi - voi non sapete, che ogni tantino che si conceda a’ filosofi, e’ procedono a modo degli amanti; e

5 picciolissime·. variante con palatale antica e letteraria. 6 vassi·. l’enclisi pronominale, non più legata a particolari condizioni

sintattiche come nella lingua antica (v. 2.1), è molto frequente nella lingua scritta generalmente con voci verbali di terza pers. sing. (v. più avanti vedesi). 1 ne’·, normale apocope postvocalica nelle preposizioni articolate (come

de’). 8 e : forma ridotta di et, caratteristica della prosa letteraria e toscaneggiante, svernante con egli anche nel nostro brano, e più avanti usata anche per

“essi” (v. le indicazioni delle grammatiche IX.4, e sull’uso settecentesco dei pronomi di 3a persona P atota 1987: 68-76). 9 sei·, se lo; gruppo pronominale apocopato normale nella lingua letteraria. 10 di presente: subito.

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passo passo là recano le persone, dove elle non avrebbon11 pensato giammai? (12) - Io m’intendo, - rispose la Marchesa così poco d’amore come di filosofia. (13) Ma non saprei vedere a che cosa possa riuscire il lavoro, o il giuoco di que’ dadicciuoli1112. (14) - Ora lo vedrete - io risposi. (15) - Adunque que’ dadicciuoli della materia del Cartesio, ch’erano contigui tra loro, e come stivati insieme, non potean13 fare che, nel girare intorno a se stessi, non urtassero continuamente gli uni contro degli altri. (16) Così ciascuno venne a smussare i propri angoli, o sia punte, onde s’impedivano tra loro il poter girare liberamente; e così, non altrimenti che veggiamo14 accadere delle pietre che un tor­ rente rotola in basso, si ridussero in altrettante politissime pallottoline, o vogliam dire globetti. (17) Delle rastiature15 poi, levate via di ciascun dado, si venne a formare una nuova materia finissima, agitatissima; la qual materia vale tant’oro al Cartesio. (18) Egli vuole, contro alla opinione di altri filosofi, che nel­ l’universo sia tutto pieno, senza che vi resti il più minimo16 spazietto voto17 di corpi. (19) Ed ecco, per primo, che questa tale materia finissima gli viene a riempiere tutti que’ piccioli vani18, che 11 avrebbon·. forma apocopata. La desinenza -ebbono per -ebbero che ritorna anche in sarebbon 19 riflette una oscillazione tra le due forme propria della lingua antica e che rimane a lungo nella lingua scritta (per la storia del fenomeno cfr. Nencioni, Un caso di polimorfia della lingua letteraria dal sec. XIII al X VI, in N encioni 1989: 11-188). 12 Normale nella tradizione letteraria fino a Manzoni il dittongo uo in luogo di o dopo palatale (v. più avanti giuoco). 13 potean·. apocope postconsonantica usuale in poesia; il dileguo del -v-, comunemente presente oltre che in poesia anche nella prosa del 7 0 0 , può assumere, come in questo caso, una connotazione letteraria più marcata (v.

P atota 1987: 112). 14 veggiamo·. normale nel 7 0 0 l’alternanza di vedo con le forme antiche veggo, veggio (quest’ultima derivata da palatalizzazione di -dj- di video > vidjo). Analoga l’alternanza tra devo!debbo/deggio (cfr. Rohlfs 1966-1969: 534, P atota 1987: 121-122). 15 rastiature: raschiature; fenomeno fonetico del toscano dove SKJ passa facilmente a sti. 16 il più minimo: il superlativo rafforzato è presente nell’italiano antico. 17 voto; forma non dittongata (< lat. volgare vocitus) comune nella lingua poetica. 18 vani: vuoti. Usato in questo significato specifico ancora dall’Ascoli nel Proemio: «fra due scienziati è modo più naturale, anche nel discorso casalin­ go: “vi si determina un piccolo vano” , che non: “ci si viene a formare un bucolino”», come «modo più eletto» e comune rispetto a quello «più pede­ stre» e anche più municipale (Ascoli 1968: 22).

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altrimenti tra l’un globetto e l’altro sarebbon rimasi. (20) Che ben vedete, Madama, come quei globetti, ancorché si toccasser tutti, già non poteano per la propria loro rotondità combagiarsi19 insieme. (21) Ma un vano vie maggiore20 sarebbe senz’essa rimaso nel bel centro di ciascun vortice. (22) Tutti i corpi che muovono in giro21, fanno ogni sforzo di allontanarsi dal centro intorno a cui girano; e ciò vedesi manifestamente nel sasso girato nella frombola, che è presto22 a scappar via per linea diritta, tosto che23 si rilasci dalla mano l’un capo della funicella che il24 ritie­ ne. (23) I globetti adunque, che muovono in giro e formano il vortice, rimpiccioliti e logori dal continuo stropicciare tra loro, pigliavano il largo, discostandosi dal centro. (24) E già sarebbe rimaso25 un gran vano nel mezzo del vortice medesimo, quando vi accorse opportunamente a riempierlo quella materia inimica del voto. (25) Ed ivi tenendo il centro, quasi nocciolo, e girando anch’essa, non si può dire, qual vigore e qual vita venga a comunicare al restante del vortice. (26) - Cotesta materia, non v’ha dubbio, - ripigliò la Marchesa - adempie bene alle parti sue; e quasi pare che non abbia fatto nulla, se alcuna cosa riman da fare. (27) - Ma sapete voi, Madama, - io risposi - quale altra cosa faccia quella rastiatura, quella minutissima polvere, ch’è detta la materia del primo elemento, o sottile? (28) Ella fa la sostanza, la persona medesima delle stelle e del sole. (29) Il sole non è altra cosa che un immenso pallone di materia sottile, che, girando rapidamente intorno di sé, fa suo sforzo di espandersi per tutti i lati, e così viene a premere per ogni intorno. (30) E questa gagliardissima pressione della materia sottile, comunica­ ta alla massa globulosa, o materia del secondo elemento, che è tutto intorno al sole, è dessa26 la luce. 19 combagiarsi: combaciarsi, analogamente brugiare pure in Algarotti (M igliorini 1978: 533), una delle tante forme consonantiche oscillanti e regolarmente registrate nelle due possibilità in Crusca I (sullo sviluppo della fricativa palatale sonora cfr. Rohlfs 1966-1969: 286). 20 un vano vie maggiore: un vuoto ben più grande. 21 muovono in giro: girano intorno. Con valore intransitivo e senza prono­ me riflessivo forse anche per influsso della forma francese bouger “muoversi”. 22 presto: pronto. 23 tosto che: non appena che; forma letteraria normale nella lingua sette­

centesca. 24 il: pronome atono normalmente variante con lo. 25 rimaso: rimasto; forma dell’italiano antico. 26 dessa: essa; forma intensiva (< id ipsum) della lingua antica usata come predicato nominale dipendente dal verbo «essere».

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3.2. Lazzaro Spallanzani, «Saggio di osservazioni microscopiche» (1765) In un periodo in cui il problema della lingua è avvertito come problema di cultura nazionale, scrivere di scienza significa anche ricerca di decoro letterario e di adesione al nostro speci­ fico ‘genio’ nazionale. Occorre poi tenere conto del carattere in genere più conservativo della scrittura scientifica, la quale non guarda a soluzioni sperimentalistiche, ma ha bisogno di una lingua «già solidamente istituzionalizzata: tale da garantire, con la sua stabilità e con il suo prestigio, le esigenze di referenzialità e di dignità implicite in ogni comunicazione scientifica» (A l t ie r i B ia g i 1976: 422). Di qui un certo carattere più conservatore della lingua scientifica rispetto alla letteraria contemporanea. Al tono alto contribuisce anche il sottostante influsso del latino, che, per quanto scartato, agisce come modello di dignità e com­ postezza stilistica, interferendo nel lessico e nella sintassi. Altieri Biagi considera anche la diversa provenienza geografica della maggior parte degli scienziati settecenteschi. L ’asse culturale, che nel Seicento correva longitudinalmente alla penisola con fulcro in Toscana, si è spostato assestandosi nell’Italia setten­ trionale, comportando alcune conseguenze linguistiche: rispet­ to agli scienziati del secolo precedente, in prevalenza toscani, dotati di una competenza naturale dello strumento linguistico, gli scienziati del Settecento,, in maggioranza settentrionali Spallanzani è emiliano - si esprimono in una lingua appresa dai libri, hanno come punto di riferimento imprescindibile il Voca­ bolario della Crusca, fonte sicura per le loro necessità lessicali e semantiche (A l t ie r i B ia g i 1985) e il modello classicheggiante cinquecentesco. La «scrittura nobilmente atteggiata, elegante, infarcita di latinismi e, pertanto, un po’ severa» a cui è improntata la prosa delle Dissertazioni di Spallanzani, si distacca dalle «trascuratez­ ze e dai velleitarismi sperimentali della coeva letteratura» (A lt ie r i B ia g i 1981: 581). Ma lo stile eccessivamente frondoso e sintatticamente complesso gli merita la critica di un suo corri­ spondente estero, con l’esortazione a una maggiore concisione nelle descrizioni, a non usare più parole del necessario, a evitare inutili pleonasmi e sinonimi, ad acquisire insomma i tratti più vincolanti propri del discorso scientifico. E Spallanzani modifi­ cherà in seguito il proprio stile, soprattutto nelle opere che

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esulano dal genere propriamente trattatistico, e per suggestione anche del francese, in cui prevede di farle tradurre. Come scrive al traduttore: «Per ciò che risguarda il modo da me tenuto nello scrivere questi miei viaggi ho cercato di servire, quanto più ho saputo, alla chiarezza e alla precisione, senza trascurare quella eleganza nella lingua italiana che può combinarsi con lo stile didascalico. Ho anche cercato che i periodi bene spesso sieno corti, per maggiore facilità d’essere da voi tradotto» (A l t ie r i B ia g i 1981: 581). Il Saggio di osservazioni microscopiche (1765) è un’opera di riflessione teorica sui materiali forniti dalle esperienze, essa ri­ chiede un’attitudine più ragionativa e «filosofica», per la cui organizzazione testuale lo stesso Spallanzani usa l’immagine dell’«alzar fabbrica». Di qui una sintassi «architettonica», cioè ipotattica, con costruzione in genere non progressiva del perio­ do e della frase (cioè, subordinate che precedono la proposizio­ ne principale e verbo in posizione finale), e preferenza per quei nessi subordinativi come im perocché 4, conciossiacché 7, che sono ormai ai margini dell’uso letterario - satireggiati dagli scrittori contemporanei più innovatori (v. V II.8). Rientrano in questo stile classicheggiante il participio presente con valore verbale, «un po’ preziosistico, e già dai grammatici mal tollerato negli usi letterari correnti» (V it a l e 1986: 490-91): «seminato di natanti corpicciuoli», «varie fibre form anti come ingraticolamenti di fila» 7; i pronomi possessivi in posizione preziosa («la rara lor tessitura» 8, «esterna loro figura» 9); la collocazione anteposta dell’aggettivo denotante proprietà fisiche e di quello di relazio­ ne («opachi corpicciuoli d’irregolare figura» 7, «adunco beccuccio» 9, «le interne viscere» 10, «un elittico vóto» 11, «una sottile diafanissima pellicina» 12); le inversioni e le tmesi («a storicamente divisare» 3, «nell’avidamente lanciarsi» 6, «tin­ to solamente appariva di...» 7 ). Coerentemente con queste scel­ te, a livello m orfosintattico sono preferite le varianti più conservative: costantemente l’enclisi del pronome atono, sia ad inizio di periodo, secondo le antiche regole, sia libera da condi­ zioni sintattiche (m ettonsi, manifestaronsi, scagliavansi, ecc.); i pronomi eglino 6, elleno 111; cui in funzione di oggetto, un uso

1 eglino, elleno, forme antiche costruite per analogia con le forme verbali, sono ancora comprese nella norma grammaticale letteraria (v. IX .4).

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in regresso nella prosa corrente moderna, ma ancora vivo nella poesia, e ammesso dai grammatici («appendicetta, cui sempre mandavano avanti nel camminare» 9); l’uso della preposizione a con abbattersi («gli animaletti s’abbattevano ad essi» 8), uso che è sempre più spesso sostituito da in nel Settecento. Sul piano lessicale la lingua non si discosta dal modello letterario (si noti­ no per esempio voci più proprie del registro poetico come vaghi “desiderosi” 2, fa c e “luce” 3, presto “veloce” 8). Quanto al lessico tecnico, termine di origine dotta e ormai diffuso è microscopio-, tra i sostantivi astratti frequenti i deverbali col suffisso in -mento (ingraticolam enti, aggregamento, sbatti­ mento, ecc.), e in -ezza {fattezze, chiarezza, lucidezza). Vanno notati gli aggettivi di relazione in -ale e -are per sintagmi tecnico­ scientifici {sem inali m aterie, orbicolare figura) (sui diversi tipi di suffisso v. IV. 1); la sostantivazione di aggettivi e participi nel caso di vegetabile, osservato 2, flu id o 7, ovale 9 (per quest’ultima parola G D L I1961-1992 porta come primo esempio Spallanzani); i frequenti alterati, tra i quali proliferano i diminutivi, ricchissi­ mi di varianti suffissali {anim aletti, animaluzzi, bestioluzze, pellicina), che possono dar luogo a formazioni parasintetiche {am m onticellate 11). Le frequenti occorrenze sinonimiche oltre a denotare la vivacità neologica settecentesca rivelano anche l ’incertezza della term inologia del settore {«beccu ccio, o appendicetta», «bollicine, o ritonde vescicolette», e nelle pagine seguenti: «gallozzolette o bollicelle», «tuboletto, o sia candido cannellino», «globetti o lucenti gallozzoline»). La ricchezza di diminutivi è fenomeno normale, come s’è visto, nelle diverse lingue scientifiche settecentesche, ma connota particolarmente quella dei «filosofi naturali», la cui tradizione sei-settecentesca di matrice toscana si fonda su una «caratterizzazione domestico­ affettiva di una scienza che non ricorre ai paroioni, ma descrive ciò che vede con una quotidianità di scelte che non esclude la precisione e la dignità» ( A l t i e r i B i a g i 1976: 432). Fonte: L. Spallanzani, Saggio di osservazioni microscopiche concer­ nenti il sistema della generazione d e ’ Signori di N eedham e Buffon, Cap. II. Descrizione delle fattezze, d ell’indole e d e’ costumi d e’ corpicciuoli guizzanti nelle infusioni; dal che si deduce trovarsi in loro un vero princi­ pio di animalità, in A ltieri B iagi-B asile 1983: 185-186. Rinvìi interni: cap. IV. 1.1

(1) Che nelle acque, entro cui mettonsi a infondere o semi od

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erbe o diverse altre specie di vegetabili2, annidino varie guise di minutissimi animaletti, fu cosa già da gran tempo notissima; ma quali poi fossero e il curioso lor genio3 e i costumi e i caratteri specifici ed individui, sembrami un fenomeno non ancor de­ scrittoci dalla repubblica dei filosofi4. (4) Imperocché5 quelli che, esercitatissimi in tale studio e di fede incorrotta, potevano descrivendoli darcene una notizia sincera e compiuta, quasi facendone un mistero gli hanno semplicemente accennati: gli altri poi, più vaghi di ampliare ed abbellir l’osservato che di esporlo con ischiettezza, lasciate ne hanno descrizioni quanto disguisate6 e corrotte, altrettanto da riprendersi e condannarsi dalla castissima e severa filosofia. (3) Il perché7 essendomi io proposto di ragionare alquanto alla stesa8 di questa razza di bestioluzze, stimo pregio dell’opera il fermare alcun poco la penna a storicamente divisar le fattezze, l’indole e i vari costumi di tai9 viventi, non già col tessere la descrizione di tutte le specie da me osservate nel corso di tre e più anni, che ciò sarebbe fare un volume, ma di quelle poche che paionmi le più acconcie ad accendere una face non torbida a maggiore chiarezza delle ma­ terie che seguiranno in appresso. (4) A tale uopo10 io trascelgo alcune infusioni di vegetabili, entro cui apparvero gli animaletti, e queste sono l’infusione di semi di zucca, di camamilla11 mino­ re, di lapazio, di gran turco, farro e frumento. (5) E, per comin­ ciar dalla prima, l’indole e l’ingegno degli animaluzzi che manifestaronsi in essa era il seguente. (6) Scagliavansi eglino in tutti i sensi, ora solcando Tonde a diritta, ora in obliqua linea, ora piegando circolarmente e facendo come varie giravolte e volute, tutti però conservando un simil genio nell’avidamente 2 vegetabile·, vegetale, la forma con suffisso -bile, come aggettivo e sostan­ tivo, è normale nel Settecento, ma Crusca IV la registra solo come aggettivo (v. anche G iovanardi 1987: 111). 3 genio·, sinonimo di indole e ingegno che compaiono più avanti, termine di pertinenza settecentesca. 4 repubblica dei filosofi·, espressione frequentissima nel Settecento. 5 imperocché·, v. Testo 1. 6 disguisate: “contraffatte”, vocabolo «antico» anche per Crusca IV (ma v. anche il frane, déguisé). I il perché: forma più antiquata di “per il ché”. 8 alla stesa: in modo disteso, ampio. 9 tai: variante antica di tali. 10 uòpo: forma letteraria corrente (lat. opus). II camamilla: variante antica di camomilla, l’unica registrata da Crusca IV.

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lanciarsi ai pezzetti di materia che incontravan per via. (7) Conciossiaché, quantunque nel principio dell’infusione l’acqua non contenesse, osservandola col microscopio12, che pochissime estranie materie, pure coll’andar del tempo ne venne piena, e ciò per le particelle dei semi i quali, altamente inzuppati, si andava­ no di mano in mano staccando e via via ne intorbidavano il fluido, che all’occhio nudo tinto solamente appariva di color cenerognolo, ma col microscopio osservato vedevasi qua e là seminato di natanti opachi corpicciuoli d’irregolare figura, il più tessuti a varie fibre formanti come ingraticolamenti di fila. (8) Qualora pertanto gli animaletti s’abbattevano ad essi, con un presto andare li raggiugnevano13, soffermandovisi spesso attor­ no, e penetrandone, dove era aperto l’ingresso, la rara lor tessi­ tura, talché in una gocciola di fluido (che per que’ minuti viventi era come un gran mare) dove risaltavano quelle, dirò così, di­ sperse isolette, là pure vi soggiornavano in maggior copia. (9) Erano tutti, a giudizio almeno dell’occhio, privi di gambe, e l’esterna loro figura si accostava piuttosto all’ovale, fuorsolamente un’estrem ità che term inava in un adunco b eccu ccio , o appendicetta, cui sempre mandavano avanti nel camminare. (10) Un’insigne trasparenza scoprivasi ne’ loro corpi, la quale mi diede agio di mettermici dentro con l’occhio per ispiarne, quan­ to mi si poteva concedere, le interne viscere. (11) Sono elleno un aggregamento di bollicine, o ritonde vescicolette, esse pur tra­ sparenti, le quali in tutti non sono alla stessa maniera disposte; rappresentando in alcuni come una corona, che attornia gli estremi dintorni del corpo e che lascia nel mezzo un elittico vóto, in altri apparendo confusamente distribuite, ma in un suolo o strato solo divise, e in altri finalmente insieme ammonticcellate. (12) Erano elleno involte in una sottile diafanissima pellicina, che serviva come di buccia a ciascuno degli animali, e che, a quelle congiunta, l’intero corpo di essi formava. (13) Questo è di forma moltissimo schiacciata, riuscito essendomi, dal barcollar che facevano, di vederli più volte per l ’acuto lor taglio. 12 microscopio·, composto dotto con elementi grechi (mikro e skopeo), presente fin dal Seicento (v. GD LI 1961-1992) e ormai ambientato al punto da dar origine all’aggettivo di relazione microscopico (un esempio è nelle pagine successive: «microscopici animaletti»). 13 raggiugnevano·. la forma con -gn- del fiorentino antico è ancora in uso ma minoritaria rispetto a quella con -ng- (cfr. Rohlfs 1966-1969: 256 e P atota 1987: 60-63).

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3.3. Una lingua per l’economia: Antonio Genovesi, «Delle lezio­ ni di commercio o sia d’economia civile» Nel 1754 viene istituita a Napoli la prima cattedra di econo­ mia in Europa, affidata ad Antonio Genovesi, che tiene lezione in lingua italiana. La diffusione dell’italiano tra i ceti medio-alti della capitale meridionale ha reso ormai maturo l’uso dell’italia­ no nell’ambiente accademico, tradizionalmente dominato dal latino. Anche il modello toscanista arcaizzante degli inizi del secolo è ormai superato. L ’italiano del Genovesi si sforza di essere uno strumento moderno e accessibile di conoscenza e di divulgazione scientifica. Periodi più brevi e semplificati, ade­ renti a un discorso attento alla chiarezza terminologica, nella convinzione ‘illuministica’ che «ogni idea che non ha termini precisi, è forza che sia oscura». Di qui la preoccupazione di definire con esattezza i fenomeni evitando però tecnicismi spe­ cialistici. Il suo italiano non è alieno, come nel Vico, da napoletanismi, per esempio il verbo faticare 1 che sta propria­ mente per “lavorare”. Nella pagina presa in esame il Genovesi tratta del concetto di «lusso», tema centrale del dibattito sette­ centesco, ne allarga il significato, intendendo in sostanza per «lusso» «la molla che spinge una categoria di persone a miglio­ rare il proprio stato», come spiega L ibr a n d i 1992a: 660, che sottolinea anche la relazione del nuovo significato con un con­ cetto che si sta formando adesso, quello di «classe sociale». D ell’opera, composta nel 1757-58 e pubblicata a Napoli, in prima edizione 1765-67 e in seconda edizione, curata dall’auto­ re, nel 1768-1770, si riproducono due paragrafi del cap. X parte I. Fon te: Illum inisti italiani 1962, che riproduce il testo della seconda edizione (1 8 2 -1 8 4 ). Rinvìi interni: cap. V .2.

(1) Alcuni han detto che il lusso sia spendere soverchiam ente, cioè più di quel che basta. (2) E questo pare che nella sua proprietà significhi la parola lusso tanto in latino, quanto in italiano. (3) Ma questi primieramente confondono la prodigalità, l’intemperanza e la stoltezza con il lusso. (4) Poi non definisco­ no, né assegnano termine nessuno, né so se potessero assegnar­ lo, per cui si possa intendere ch’è quel che basta, e dove comin­ cia il soverchio: e ogni idea che non ha termini precisi, è forza

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che sia oscura. (5) In vero se la regola dello spendere è quella di cacciar da noi il dolore e la molestia, chi spende per sì fatto motivo ci dirà sempre che non è soverchio. (6) Altri dicono che lusso sia spendere più di quel che basta e ciò pel solo piacere di vivere. (7) Ma oltreché questa definizione è così difettosa, e per le medesime ragioni, come la prima, cioè perché non si può fissare il limite di quel che basta; pure e’ non pare che si possa dir soverchio quel che si spende per vivere con onesto piacere; perché appunto per questo si affaticano quaggiù l’arti; e voler privare gli uomini del godere delle loro fatiche, è lor dire non faticate. (8) Altri sostengono che il lusso sia uno studio di vivere con soverchia morbidezza e delicatezza, o raffinamento di pia­ ceri, tanto di corpo quanto di animo. (9) Ma si può definire ciò che sia questa soverchia finezza e delicatezza? imperciocché questi termini son sempre relativi. (10) A cagion di esempio, quel ch’è finezza di gusto fra i Groelandi, è durezza fra gli Svezzesi: e quel ch’è delicatezza per questi, è durezza per gli Francesi e Italiani: e quella ch’è delicatezza per gl’italiani e Francesi, sembra ruvidezza a’ Persiani e Indiani. (11) Quel ch’era lusso ne’ tempi semibarbari di Europa, sarebbe oggi stimato salvatichezza. (12) Altri finalmente stimano che il lusso sia raffi­ nare le mode di vivere al di sopra di quel che richiede il grado di ciascuno, e questo per distinguerci da’ nostri eguali, o per agguagliarci a coloro a’ quali per altro riguardo siamo inferiori. (13) E questo è quel che ne penso anch’io, e credo che se ne debba pensare da ognuno che vuol pensar diritto.

4. Prosa illuminista 4.1. Cesare Beccaria, «Dei delitti e delle pene» (1766) L ’opera, intesa a difendere le garanzie giuridiche del cittadi­ no e del «reo», fu composta tra il 1764 e il ’66, nel momento di maggior fiducia nella politica delle riforme, nella possibilità cioè di una fertile collaborazione tra la philosophie e «i grandi mo­ narchi», i prìncipi riformatori, tanto da potersi dichiarare nel­ l’esordio: «quest’opera è un effetto del dolce e illuminato gover­ no sotto cui vive l’autore». Scritta nel pieno delle battaglie condotte dal «Caffè» anche contro i condizionamenti della tradizione classicistica, l’opera

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sembra una applicazione dei precetti di liberismo linguistico teorizzati sulle pagine del periodico. Priorità delle «altre cure creative», cioè dei contenuti, su quelle «grammaticali» sostene­ va con determinazione Pietro Verri sul «Caffè». Di rincalzo Alessandro Verri: «l’autore al primo muoversi de’ suoi pensieri, quando prende la penna in mano, egli sia tutto nella sua testa, ove non veda altro che le proprie idee, e le getti sulla carta, com’esse sono. Lingua, ortografia, ordine, periodi, finezze, minutezze all’indomani» {«Caffè» 1960: 381-82). E il Beccaria, conscio del proprio insicuro possesso della lingua, fa rivedere il lavoro all’amico Pietro Verri, che ne sfronda la sintassi, cerca di normalizzare alcuni tratti fonomorfologici e attenua le punte lessicali troppo auliche1. Il risultato, pur con le inevitabili oscillazioni imputabili alla mancanza di una norma fissa, tende verso uno statuto più moderno, privilegiando nella fonetica e nella morfologia le varianti destinate in seguito ad affermarsi. Dal minuzioso spoglio di tutta l’opera fatto da C a r t a g o 1990 prendiamo alcuni fenomeni indicativi: per esempio è co­ stante il dittongamento di È ed Ò tonici in sillaba libera, e pure il monottongo dopo il nesso occlusiva più vibrante (tipo trovo)·, sono preferiti gli avverbi contro e anche, che nella prosa contem­ poranea oscillano liberamente con le varianti centra e anco, destinate ad essere successivamente abbandonate dal sistema linguistico. Nella morfologia: sempre egli, ella, mentre al plurale essi, esse predominano benché di poco su eglino, elleno. Nella frase interrogativa prevale invece il modulo con pronome espresso posposto al verbo, frequente nella prosa alta e usato anche per richiamare un soggetto precedente («La morte è ella una pena veramente utile...? La tortura e i tormenti sono eglino giusti, e ottengono eglino il fine che si propongono le leggi?»), alla cui massiccia presenza in Beccaria avrà forse concorso l’influsso del francese. Il Beccaria mostra di scrivere «come doveva riuscire sponta­ neo a un intellettuale non particolarmente attento a problemi di lingua; vale a dire tessendo periodi faticosamente ipotattici,

1 L ’elaborazione del testo, dalla originale redazione del Beccaria alla revisione del Verri, che ricopia la prima stesura dell’opera, alle successive correzioni sulle prime stampe, è documentata dalla edizione critica a cura di Gianni Francioni (B eccaria 1984). Sulle varianti e le correzioni di stampa v. III.3 .

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accogliendo all’occorrenza forme auliche o libresche e ricorren­ do a latinismi crudi tolti di peso all’ancor vigorosa trattatistica in latino» ( S e r i a n n i 1993: 529). Bisogna inoltre considerare anche le suggestioni delle fonti contemporanee, da Montesquieu a Helvetius a Rousseau, che gli forniscono oltre a idee anche immagini, come quella del legislatore paragonato all’«abile ar­ chitetto» 9, e il lessico ideologico, per esempio «contratto sociale», «patto sociale», «spirito della legge», «fanatismo», «dispotico», «spirito»2. «Scrittore ricettivo e impressionabile alle mode» lo definisce Folena, come mostra il frequente ricorso alle immagini luminose incentrate sull’opposizione luce-ombra tipiche della retorica illuministica. Dal brano in esame emerge il gusto per espressioni prese alle scienze, alla matematica e alla fisica quasi a conferire allo svolgi­ mento delle argomentazioni il rigore di un teorema, in conso­ nanza con una organizzazione generale del discorso che sembra tendere allo statuto più vincolante del testo scientifico: imposta­ to per capitoli brevi e con sottodivisioni dei temi gerarchica­ mente ordinati ed esposti con riferimento a precisi principi, attraverso definizioni esatte e un lessico tecnico-giuridico. Il Beccaria però evita voci eccessivamente specialistiche in osse­ quio all’ideale di lingua antispecialistica teorizzata dai nostri riformatori. Preferisce parole d’uso generale da tempo specifi­ catesi in senso giuridico e legale («cadere in contraddizione», «esattore», «fallacia di una prova», «indizio», «pena pecunia­ ria», ecc.); oppure voci e locuzioni di più recente attestazione («corpo del delitto», «delatore», «esame dei testimoni», «infra­ zione della legge», «infrattore delle leggi», «petizione di princi­ pio», ecc.)3. La sintassi nel brano qui esaminato ha un andamento mo­ derno con le sue frasi brevi tendenti ad assecondare la determinatezza degli enunciati, spesso bipartiti in coordinazio­ 2 C artago 1990: 139 cita il calco «spirito di famiglia», avvertito come troppo spinto da un recensore contemporaneo, per la «troppo brutale sovrapposizione alla parola italiana “spirito” della carica semantica di “esprit” quale era stata messa in circolo dopo Montesquieu». Non mancano i francesismi generici tra i quali gabinetto, dettaglio, colpo d ’occhio, regrettare, pubblicista, soffrire per “sopportare”, vista per “disegno”, opinione, la locuzione a misura

che. 3 Alcune voci, e precisamente «reo», «reità», «contenzioso», hanno la loro prima attestazione nel Beccaria (Cartago 1990: 154-155).

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ne giustappositiva. Le subordinate sono rare e di grado minimo, la costruzione prevalente è quella diretta e progressiva, e pure rari sono gli ornamenti del periodo di tipo classicheggiante. Interessante il fatto che nel passaggio dalla prima all’ultima redazione vengano eliminati casi di aggettivo di relazione anteposto. Per esempio pubblico b en e, umane azioni sostituiti dal tipo moderno 2, 9, 11. Ma altri luoghi dell’opera mostrano che non sono scomparsi del tutto gli aspetti più tradizionali, le inversioni nell’ordine delle parole, i periodi complessi, «retaggio della retorica tradizionale», presente in tutta la prosa del 7 0 0 che, «nel suo insieme, stenta assai a rinunciare a simili abitudini classiciste» ( C a r t a g o 1990: 140-141). Fon te: B eccaria 1984, edizione critica che riproduce l’edizione del 1766, l’ultima che registri una partecipazione dell’autore all’assetto del testo, accom pagnata dalla redazione originaria autografa e dalla redazio­ ne rivista dal Verri (40-42). Rinvìi interni: capp. IV .4 e V II.8.

(1) Non solamente è interesse comune che non si commetta­ no delitti, ma che siano più rari a proporzione del male che arrecano alla società. (2) Dunque più forti debbono essere gli ostacoli che risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura delle spinte che gli portano ai delitti. (3) Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene. (4) È impossibile di prevenire tutti i disordini nelhuniversal combattimento delle passioni umane. (5) Essi crescono in ragio­ ne composta della popolazione e deh’incrocicchiamento de­ gl’interessi particolari che non è possibile dirigere geometrica­ mente alla pubblica utilità. (6) All’esattezza matematica bisogna sostituire nell’aritmetica politica il calcolo delle probabilità. (7) Si getti uno sguardo sulle storie e si vedranno crescere i disordi­ ni coi confini degl’imperi, e, scemando nell’istessa proporzione il sentimento nazionale, la spinta verso i delitti cresce in ragione dell’interesse che ciascuno prende ai disordini medesimi: perciò la necessità di aggravare le pene si va per questo motivo sempre più aumentando. (8) Quella forza simile alla gravità, che ci spinge al nostro ben essere, non si trattiene che a misura degli ostacoli che gli sono opposti. (9) G li effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni umane: se queste si urtano scambievolmente e si

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offendono, le pene, che io chiamerei ostacoli politici, ne impedi­ scono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che è la sensibilità medesima inseparabile dall’uomo, e il legisla­ tore fa come l’abile architetto4 di cui l ’officio è di opporsi alle direzioni rovinose della gravità e di far conspirare quelle che contribuiscono alla forza dell’edificio. (10) Data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti, che necessariamente risultano dalla opposizione medesi­ ma degl’interessi privati, trovasi una scala di disordini, dei quali il primo grado consiste in quelli che distruggono immediata­ mente la società, e l’ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati membri di essa. (11) Tra questi estremi sono comprese tutte le azioni opposte al ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi insensibili, decrescendo dal più sublime al più infimo. (12) Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che discendesse dalla più forte alla più debole: ma basterà al saggio legislatore di segnarne i punti principali, senza turbar l’ordine, non decretan­ do ai delitti del primo grado le pene dell’ultimo. (13) Se vi fosse una scala esatta ed universale delle pene e dei delitti, avremmo una probabile e comune misura dei gradi di tirannia e di libertà, del fondo di umanità o di malizia delle diverse nazioni.

4.2. Pietro Verri, «Osservazioni sulla tortura» (1770-1777) Nello stesso clima di rinnovamento della prassi giudiziaria in cui nasce l’opera del Beccaria, è concepito il saggio del Verri Osservazioni sulla tortura, inteso a denunciare i metodi usati nel

4 Reminiscenza di un passo di Rousseau, Centraci social, II, 8: «Comme avant d ’élever un grand édifice l’architecte observe et sonde le sol, pour voir s’il en peut soutenir le poids, le sage instituteur ne commence pas par rédiger de bonnes loix en elles-mèmes, mais il examine auparavant si le peuple auquel il les destine est propre à les supporter» (“Come prima di innalzare un grande edificio l’architetto osserva e sonda il suolo, per vedere se ne può sostenere il peso, il saggio legislatore non comincia col redigere buone leggi per se stesse, ma esamina prima se il popolo al quale esse sono destinate è adatto a sopportarle”) (l’indicazione è ricavata dalle note al testo nell’edizio­ ne qui utilizzata, alle quali si rinvia per la citazione dei precisi passi delle fonti contemporanee).

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processo contro gli untori durante la peste milanese del 1 6 3 0 . Due opere, quelle del Beccaria e del Verri, che si ponevano all’avanguardia del dibattito a favore di riforme legislative ispi­ rate a ideali più umanitari: 1 Ί 1 settembre 1 7 8 4 Giuseppe II avrebbe emanato il decreto che estendeva l’abolizione della tortura nei procedimenti giudiziari. Sul tema della tortura sa­ rebbe tornato Alessandro Manzoni nella Storia della Colonna infam e, a partire dall’esame dello stesso processo agli untori, ponendo in modo diverso il problema delle storture della giusti­ zia, ma non potendo non ammirare la passione del Verri, la sua capacità di unire «la commozione e il raziocinio» nel trattare l’argomento (v. Barbarisi in V erri 1 9 8 5 : X V I I I ) . Scritto in due tempi tra il 1 7 7 0 e il 1 7 7 7 , fu pubblicato postumo nel 1 8 0 4 , ma con arbitri ed errori di trascrizione. L ’edizione odierna, curata dal Barbarisi, riproduce il manoscrit­ to originale, cioè la stesura definitiva dell’opera, predisposta dal Verri per la stampa con lo scrupolo che gli era abituale. Nel rispettare fedelmente grafia e punteggiatura dell’originale, l’edi­ zione costituisce una validissima testimonianza degli usi grafici e fonomorfologici del Verri, non passati cioè al filtro di quegli interventi tipografici, in direzione magari toscaneggiante, cui erano in genere soggetti i testi settecenteschi (v. II.3). La scarsa preoccupazione per gli aspetti formali rispetto alla urgenza delle idee è denunciata dalla noncuranza per la punteg­ giatura, spesso totalmente assente, quasi elemento superfluo in un discorso tutto affidato alla evidenza dell’argomentazione di tipo sillogistico per cui «posto x ne consegue y». Il discorso si dispiega per antitesi e parallelismi: quindi periodi bipartiti e legamenti logici, di tipo coordinativo disgiuntivo: o, ovvero, bensì («o il delitto è certo ovvero è solamente probabile» 4 ) ; e subordinativi di tipo dimostrativo «se è certo il delitto i tormen­ ti sono inutili», «Se il delitto poi... è evidente ch e...» 5-7, «Se è cosa ingiusta che un fratello... a più forte ragione sarà cosa ingiusta...» 14. La concatenazione del discorso poggia sui lega­ menti di significato per contiguità (certo, probabile, possibile), per opposizione (ingiusta, giusta). I periodi si sviluppano per proposizioni brevi e concise, accostate paratatticamente e se­ condo l’ordine progressivo. Le inversioni sono funzionali alla focalizzazione dei temi, come la dislocazione dell’oggetto ad inizio di frase e la relativa ripresa pronominale in «La forza di questo antichissimo ragionamento hanno cercato... di eluderla»

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8. Il che non esclude che in altri luoghi non si cada in un periodare più tradizionale. Sono assenti i legamenti tipici del «bel periodone di mole gigantesca», messo in ridicolo sul «Caf­ fè», in cui «tutto sia liscio, e legato, e fluido, quantunque a spese del vero ordine, che debbe consistere nelle cose non nelle paro­ le» (così Alessandro Verri in De' difetti della letteratura). In un discorso fondato sulla esplicitazione dei contenuti non compa­ iono le tradizionali subordinate implicite come le gerundiali. E insomma il dispiegarsi consequenziale del ragionamento a dar forma alla sintassi. L ’esposizione è segnata dalla forte presenza dell’autore che guida il lettore nello svolgimento delle argomentazioni («Mi rimane finalmente...», «Comincerò col dire...», «Mi sia ora lecito il chiedere...», «Ciò posto chiederemo noi...», «Breve­ mente accennerò...»), e ne orienta la valutazione dei fatti attra­ verso una aggettivazione che utilizza i procedimenti della antica retorica. Si noti la frequenza dei superlativi in -issitno. Sul piano morfosintattico permane il sistema pronominale tradizionale: uso del pronome in frasi impersonali {«egli è evi­ dente» 7 «egli è o un eroismo» 15), o per richiamare un soggetto precedente («quand’anche fosse egli un mezzo» 9), la forma elleno per il plurale. Non rilevante, come s’è già avuto occasione di osservare, è invece l’enclisi pronominale (debbesi, siasi). Più nuovo è l’uso di lo riferito al precedente aggettivo: «di quello che lo è col padre» 13, «di quello che lo è il cliente» 18 (v. III.3); e pure di questo con funzione di neutro « Questo solo basta...» 20. Di influsso francese il partitivo in «spargere delle tene­ bre» 1. Fonte: V erri 1985: 66-68. Rinvìi interni: cap. V II. 8

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dimostrarlo. (3) Comincerò col dire che le parole di sospetti, indizj, sem iprove, sem ipiene, quasiprove ec. e simili barbare di­ stinzioni e sottigliezze non possono giammai mutare la natura delle cose. (4) Possono elleno bensì spargere delle tenebre ed offuscare le menti incaute; ma debbesi2 sempre ridurre la que­ stione a questo punto o il delitto è certo ovvero è solamente probabile. (5) Se è certo il delitto i tormenti sono inutili, e la tortura è superfluamente data quand’anche fosse un mezzo per rintracciare la verità giacché presso di noi un reo convinto si condanna benché negativo. (6) La tortura dunque in questo caso sarebbe ingiusta perché non è giusta cosa il fare un male e un male gravissimo ad un uomo superfluamente. (7) Se il delitto poi è solamente probabile qualunque sia il vocabolo col quale i dottori distinguano il grado di probabilità difficile assai a misu­ rarsi egli è evidente che sarà possibile che il probabilmente reo in fatti sia innocente; allora è somma ingiustizia l’esporre a un sicuro scempio e ad un crudelissimo tormento un uomo che forse è innocente, e il porre un uomo innocente fra que’ strazi3 e miserie tanto è più ingiusto quanto che fassi colla forza pubbli­ ca istessa4 confidata ai giudici per difendere l’innocente dagli oltraggi. (8) La forza di quest’antichissimo ragionamento hanno cercato i partigiani della tortura di eluderla con varie cavillose distinzioni le quali tutte si riducono a un sofisma poiché fra l’essere e il non essere non v’è punto di mezzo e laddove il delitto cessa di essere certo ivi precisamente comincia la possi­ bilità della innocenza. (9) Adunque l’uso della tortura è intrin­ secamente ingiusto e non potrebbe adoperarsi quand’anche fos­ se egli un mezzo per rinvenire la verità. (10) Che si è detto mai delle leggi della Inquisizione le quali permettevano che il padre potesse servire di accusatore contro il figlio, il marito contro della moglie5! (11) L ’umanità fremeva a

Se la tortura sia un mezzo lecito per iscoprire la verità (1) Mi rimane finalmente da provare che quand’anche la tortura fosse un mezzo per iscoprire1 la verità dei delitti sarebbe un mezzo intrinsecamente ingiusto. (2) Credo assai facile il

1 per iscoprire·. normale la prostesi di i davanti a s implicata e dopo parola uscente per consonante (v. Testo 1).

2 debbesi: normale nel Settecento in prosa la forma debbe, mentre alla poesia è riservato il tipo con tema dev- o con dileguo {deve, d ee : cfr. Testo 3.1 n. 14). 5 que’ strazi·, que’, forma letteraria e toscana. 4 istessa·. incongruente in questo caso la prostesi di i, la forma risentirà del milanese istess (v. 2.4). 5 contro della moglie·, uso della preposizione per analogia con il tipo contro di me.

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tali oggetti, la natura riclamava6 i suoi sacri diritti, persone tanto vicine per i più augusti vincoli distruggersi vicendevolmente! (12) La legge civile aborrisce si fatti accusatori e gli7 esclude. (13) Mi sia ora lecito il chiedere se un uomo sia meno strettamente legato con se medesimo di quello che lo è col padre e colla moglie. (14) Se è cosa ingiusta che un fratello accusi criminalmente l’altro a più forte ragione sarà cosa ingiusta e contraria alla voce della natura che un uomo diventi accusatore di se stesso e le due persone dell’accusatore e dell’accusato si confondano. (15) La natura ha inserito nel cuore di ciascuno la legge primitiva della difesa di se medesimo e l’offendere se stesso criminalmente egli è o un eroismo se è fatto spontanea­ mente in alcune casi ovvero una tirannia ingiustissima se per forza di spasimi si voglia costringervi un uomo. (16) L ’evidenza di queste ragioni anche più si conoscerà riflettendo che iniquissima e obrobriosissima sarebbe la legge che ordinasse agli avvocati criminali di tradire i loro clienti. (17) Nessun Tiranno ch’io sappia ne pubblicò mai una simile, una tal legge romperebbe con vera infamia tutti’i più sacri vincoli di natura. (18) Ciò posto chiederemo noi se l’avvocato sia più intimamente unito al cliente di quello che lo è il cliente con se medesimo! (19) Ora la tortura tende co’ spasimi a ridurre l’uo­ mo a tradirsi, a rinunziare alla difesa propria, ad offendere a perdere se stesso. (20) Questo solo basta per far sentire senza altre riflessioni che la tortura è intrinsecamente un mezzo ingiu­ sto per cercare la verità e non sarebbe lecito usarne quand’anche per lui8 si trovasse la verità. (21) Ma come mai una pratica tanto atroce e crudele, tanto inutile, tanto ingiusta ha mai potuto prevalere anche fra popoli colti e mantenersi sino al giorno d’oggi? (22) Brevemente accen­ nerò quai9 sieno10 stati gli usi anticamente, come siasi introdotta, su quai principi fondata, da quai leggi diretta; poi qualche cosa dirò delle opinioni di varj autori e degli usi attuali di alcune nazioni d’Europa, col che crederò di aver posto fine a queste

6 riclamava·, forma che riflette la frequente oscillazione nella vocale palatale in posizione protonica re- / ri- come in recinto > ricinto, restrinse > ristrinse. 1 gli·, normale l’oscillazione li / gli per il pronome atono. 8 per lui·, incongruente uso di lui riferito a cosa. 9 quai·. forma antica più frequente nel registro poetico. 10 sieno: variante d’uso prevalente nel Settecento.

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osservazioni con un esame generale dei diversi punti di vista sotto i quali può ragionevolmente rimirarsi un così tristo e così interessante oggetto.

4.3, Lo ‘stile instruttivo’ di Paolo Frisi Un esempio di prosa media e didascalica secondo le aspira­ zioni del «Caffè», cioè comune e antispecialistica, è fornito da Paolo Frisi, matematico e fisico milanese. Sensibile al problema deH’ampliamento dei ‘lumi’ - «le nazioni sono state più felici in proporzione che sono state più istrutte e colte», scrive nell 'Elo­ gio di Maria Teresa - il Frisi va direttamente al cuore del proble­ ma dello stile affermando che la «naturale eleganza» «dipende dall’ordine, e dalla vivacità delle idee, più che dagli ornati e dalla pompa delle parole» ( M o r g a n a 1987: 257). Il Saggio su G alileo, pubblicato sul foglio milanese (1765), abbandona gli schemi più tradizionali, per esempio la parte ‘erudita’ tipica della trattatistica sei-settecentesca, entrando subito nell’argo­ mento, in «uno stile piano, semplice ma non trascurato», senza cioè gli squilibri e le vistose trascuratezze, che caratterizzano la scrittura dei Verri e del Beccaria, e inaugura, secondo Morgana, un genere di «rigorosa ricostruzione storiografica». Nel brano in esame possiamo notare come segno di modernità l’estrema semplicità della sintassi, costituita da asciutte frasi autonome, e dove i periodi complessi si compongono in genere di coordina­ te, e la subordinazione supera raramente il primo grado (per esempio: «Poi vide..., scoprì..., e osservò..., che poi furono...» 5). Si tende a evitare il costrutto aulico acc. + infinito (unico caso: «aggiunse... essere necessario»). L ’ordine delle parole è sempre diretto, a parte qualche caso di sequenza verbo-soggetto non rematico come in «si presentarono nuovi... fenomeni» 1; mentre nella frase «Le distese... il Renieri» 11) il verbo precede il soggetto in quanto rappresenta l’informazione ‘nota’, il «tema» della frase, secondo la regola sintattica dell’italiano moderno1.

1 Riguardo alla posizione del soggetto l’italiano moderno si comporta come segue: soggetto anteposto al predicato come costruzione non marcata, in cui la funzione «rematica», cioè l’informazione ‘nuova’ è data dal predica­ to, rispetto al soggetto che assolve la funzione «tematica», designa cioè il «tema», il ‘noto’ del discorso; soggetto posposto al predicato, quando la

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Antologia di testi

Siamo all’opposto dello stile classicheggiante e del si poneva a letto 10, annongait “denotava” > dava a divedere 4\j’y voyais “ci vedevo” > vi ravvisavo 6, m ’étonnait “mi stupiva” > recavami stupore 6, «comment te trouves-tu» “come ti trovi?” > «come ti piace starei» 15, un bon sens villageois “un buon senso contadino” tradotto con espressione forzata un buon senso da villa 8, dove villa per “contado” è della lingua antica. Si ricorre spesso al termine più elevato o letterario: come parvenu > incivilito, e inoltre, assez souvent > spessissime fia te 8, à la merci du bàie de l ’air “alla mercé della calura” > alla discre­ zione degli ardori d ell’aria 3. All’espressione media si sostituisce la formula amplificata da dittologie e da perifrasi esplicative: dans toutes les dissipations du grand monde > in tutte le morbidezze e piaceri, che soglion esser le delizie d e ’ ricchi 10. E pure l’espres­ sione iperbolica del linguaggio comune è tradotta con formula più amplificata: la m eilleure f o i du m onde > la miglior fed e, che dar si possa 12. Per la parola di registro più familiare gargon si ricorre al dialettaleputtino 14 (adattamento del veneziano putin). Significativo che a volte si eviti il prestito francese già in uso: per esempio toilette è reso con tavolino 10, scartando le nume­ rose varianti adattate, da toelette a toletta\ in cui ormai correva la forma francese, presente anche nel teatro goldoniano, e la­ sciando cadere quel valore evocativo, di simbolo della dama settecentesca, che possiede il prestito. Voiture è tradotto carretta 5 (che in Crusca IV compare anche col significato di “carrozza”), nonostante si stia affermando vettura nel significato influenzato dal francese di “veicolo per il trasporto di passeggeri”, che si affianca a quello più antico e astratto di “trasporto” ( D ardi 1980 ss.: X X I); bonne mine con buona presenza 4 e bella etera 16, evitando mina, prestito per “fisionomia” già in circolazione dal­ la fine del Seicento e che gode di una certa diffusione dalla metà del Settecento; mariage oscilla tra maritaggio 5, vocabolo della tradizione, ma vicino al francese, e la forma italiana accasamento 2. L e grand m onde è reso con la Corte 6 (il calco gran m ondo ha già fatto qualche sporadica comparsa); l’espressione iperbolica 3 Da notare che la forma toletta era diffusa nel Veneto, e in genere nell’Italia settentrionale: spiegabile attraverso un collegamento con il vene­ ziano toléta “tavoletta” diminutivo di tòla “tavola”, donde il calco tavoletta dovuto a falsa motivazione dato che toilette nasce come diminutivo di toile “tela”. Tavolino quindi si presenta come variante di tavoletta ma con suffisso tendente a differenziarsi dagli altri adattamenti.

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Antologia di testi

«je fus ravi» tradotto con «ero fu o ri di m e» 6, scansando anche in questo caso il calco rapito “attratto”, già comparso in italiano; per politesse invece della forma del tutto italiana politezza, pulitezza, diffusissimo nel Settecento per “cortesia” e “civiltà”, avvertibile forse come francesismo, si preferisce civiltà “genti­ lezza ”13, pure calco semantico, ma più sporadico, dal francese. Anche per traiti de vie, tradotto m odo d i vivere 12, è evitato il possibile adattamento treno di vita, usato, ma poi scartato, an­ che dall’Algarotti (v. 3.1). Non trovano invece resistenza calchi come libertinaggio 12 per libertinage e form alizzarsi («ne se form alisait de rien» > «non si form alizzava di cos’alcuna» 13), entrambi documentati da metà Seicento e ben mimetizzati nella lingua. Sul piano grammaticale è ricalco del francese il possessivo ridondante («con la mia carretta, ed i miei arnesi» 5). E invece lasciato cadere, nel tradurre «comme peut l’ètre...» con «come può essere...» 3, il lo riferito al precedente «bello» (v. cap. ì l i . 3). Va notata la desinenza dell’imperfetto {avevo, ero) in luogo della forma letteraria in -a, maggioritaria nella prosa con­ temporanea. Anche il Chiari, traduttore e romanziere in pro­ prio, coevo del nostro anonimo traduttore, usa il tipo in -o4. Per la sintassi del periodo, a parte qualche caso di introdu­ zione di strutture più tradizionali («son mariage le fixant à Paris» > «sendosi pel suo accasamento fermato ad abitare...», «qui faisait qu’on aimait» > «ond’era che provavano piacere»), si asseconda la linearità e la paratassi del francese, pur attenuan­ do in un caso la struttura scissa («c’était mon frère aìné qui...» > «mio fratello maggiore era quegli che...» 1).

Traduzioni e letteratura di consumo

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(1) Ho detto, che mio fratello maggiore era quegli5, che

conduceva da’ nostri Padroni il vino della Terra, di cui mio padre avea cura. (2) Ora, sendosi6 pel suo accasamento fermato ad abitare in Parigi, io gli successi nel suo impiego di condottiere di vino. (3) Avevo allora diciotto in diciannove anni; si diceva, ch’io ero un bel giovanotto, bello come può esser un contadino, il cui viso è alla discrezione degli ardori dell’aria, e della coltura de’ campi. (4) Ma fuor di questo, io ero in fatti d’una assai buona presenza; aggiugnetevi non so che di aperto nella mia fisonomia; l’occhio vivace, che dava a divedere un poco di spi­ rito, e che non mentiva affatto. (5) L ’anno dopo il maritaggio di mio fratello, arrivai dunque a Parigi, con la mia carretta, ed i miei arnesi contadineschi. (6) Ero fuori di me vedendomi in questa gran città; tuttociò ch’io vi ravvisavo, recavami men di stupore, che di piacere; ciò che si denomina la Corte, mi pareva di sommo gusto. (7) Io fui molto ben veduto nella casa del nostro Padrone. (8) I domestici mi presero affetto ad un tratto; 10 dicevo arditamente il mio sentimento sopra tuttociò, che si presentava a’ miei occhi; e questo sentimento aveva spessissime fiate un buon senso da villa, ond’era che provavano piacere in interrogarmi [...]. (9) La mia Padrona medesima volle vedermi, al racconto che gliene fecero le sue cammeriere7. (10) Era questa una dama, che spendeva la sua vita in tutte le morbidezze e piaceri, che sogliono esser le delizie de’ ricchi; andava a’ spettacoli, cenava in città, si poneva a letto alle quattro della mattina, si levava alle una dopo mezzodì: aveva degli amanti, 11 riceveva al suo tavolino, ove leggeva i teneri biglietti, che le mandavano, e poi lasciavali andar per tutta la stanza. (11) Leggevali chi voleva, ma nessuno n’era curioso; le sue cammeriere nulla trovavano di nuovo in tuttociò; nemmeno il marito se ne scandalizzava [...]. ( 12) Tale era la nostra Padrona, che conduceva questo modo di vivere con la stessa franchezza, come si mangia e si bee8; in una parola egli era9 un piccolo libertinaggio della miglior fede, che dar si possa [...].

4 Almeno nel romanzo La moglie senza marito (1771), spogliato da P atota 1987: 104. 5 quegli·, variante antica di quello come forma pronominale riferita a persona, ma presente nella lingua almeno fino al Manzoni, il quale ne decre­ terà l’esclusione nell’edizione definitiva dei Promessi Sposi, dove correggerà per esempio «quegli che stava a cavalcioni» in «quello ch e...». La forma comunque non è del tutto scomparsa dall’italiano (cfr. Serianni 1989: VII, 126).

6 sendosi: variante antica. 7 cammeriere·. è un caso di raddoppiamento consonantico frequente nel­ l’uso settentrionale. 8 bee\ dileguo di -v- analoga alla forma dee alternante con deve nella prosa settecentesca. 9 egli era: soggetto pronominale neutro anche forse per influsso del fran­ cese c’était.

Fon te: M arivaux, Il contadino incivilito, Venezia, appresso G. Tevernini, 1750, 8-11. Il testo francese è quello della «C oìlection des classiques» G arnier, Paris. Rinvìi interni: capp. II .2 e III.

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Antologia di testi

(13) Era buona, generosa, non si formalizzava di cos’alcuna, famigliare co’ suoi domestici, accorciante gli ossequi degli uni, le riverenze degli altri; la schiettezza con essolei10 serviva in luogo di civiltà [...]. (14) - Buon giorno, mio puttino, mi disse ella, allorché me le avvicinai. (15) Eh bene, come ti piace stare in Parigi? (16) Poscia voltandosi verso le sue cammeriere: a dir il vero, soggiunse ella, egli è un contadinotto di bella ciera [...]. J ’a i dii que c’était m om frère aìn é qui conduisait chez nos maìtres le vin de la terre dont moti pére avait soin. Or, son mariage le fixant à Paris, j e lui succédai dans son em ploi de conducteur de vin. J ’avais alors dix-huit à dix-neuf ans; on disait que j ’était beau gargon, beau com m e peut l’ètre un paysan dont le visage est à la m erci du b àie de l’air et du travati des champs. Mais à cela près j ’avais effectivem ent assez bonne m ine; ajoutez-y j e ne sais qu oi de fran e dans ma phisionom ie; l ’o e il v if qui annongait un peu d ’esprit, et qui ne m entait pas totalement. E ’année d ’après le mariage de mon frère, f 'arrivai donc à Paris avec ma volture et ma bonne fagon rustique. J e fus ravi de m e trouver dans cette grande ville; tout ce que j ’y voyais m ’étonnait moins q u ii ne m e divertissait; ce qu’on appelle le grand m onde m e paraissait plaisant. J e fu s fort bien venu dans la maison de notre seigneur. Les domestiques m ’affectionnèrent tout d ’un cou p ;je disait hardim ent mon sentim ent sur tout ce qui s’offrait à mes yeux; et ce sentim ent avait assez sovent un bon sens villageois qui faisait qu’on aim ait à m ’interroger... Ma m aitresse m èm e voulut m e voir, sur le recit que ses fem m es lu ifiren t d e moi. C’était une fem m e qu ipassait sa vie dans toutes les dissipations du grand monde, qui allait aux spectacles, soupait en ville, se couchait à quatre heures du matin, se levait à une heure après-midi; qu i avait des amants, qu i les recevait à sa toilette, q u iy lisait les billets doux qu ’on lui envoyait, et puis les laissait traìner partout; les lisait qui voulait, mais on n’en était point curieux; ses fem m es ne trouvaient rien d ’étrange à tout cela; le m ari ne s ’en scandalisait poin t... Pelle était notre maitresse, qui m enait ce train de vie tout aussi franchem ent qu ’on boit et qu’on mange; c’était en un m ot un petit libertinage de la m eilleure f o i du m on de... E lle était bonne, généreuse, ne se form alisait de rien, fam ilière avec ses domestiques, abrégeant les respeets des uns, les révérences des autres; la franchise avec elle 10 essolei: cfr. cap. 4.3 n. 2.

Traduzioni e letteratura di consumo

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tenait lieu de politesse... - Bonjour, mon gargon, me dit-elle quand j e l’abordai. Eh bien! com ment te trouves-tu à Paris? et puis se tournant du còté de ses fem m es: Vraiment, ajouta-t-elle, voilà un paysan de bonne mine.

8.2. «La donna galante ed erudita»: «Libretto di memorie d’una dama di uno spirito singolare» (1786) «Giornale dedicato al bel sesso», il quindicinale redatto da Gioseffa Cornoldi Caminer su imitazione delle riviste femminili francesi contemporanee, aggiorna sulla moda, sui costumi pro­ venienti d’oltralpe e ne imita i gusti letterari. Parodia di un genere letterario può essere considerato questo fittizio «diario», comparso nel n. V ili, che simula gli appunti di una «dama» e dei suoi frivoli riti mondani, probabile traduzione di qualche modello francese. Lo stile affettato ricorda «quella lingua spro­ positata, tutta intessuta di complimenti e cerimonie», caratteri­ stica delle grammatiche italiane per francesi (F olena 1 9 8 3 : 407 ). A parte il normale francesismo bonnetto 7 “cappello”, calchi di moduli francesi sembrano «si tiene sopra un cuscino» 12 per “si regge, sta”, o la formula iperbolica «ben terribile» 17. Qui interessa la sintassi che concentra anche se in una resa piuttosto meccanica ed esterna i tratti tipici del genere «diario»: il proce­ dere estremamente frammentario e paratattico, per frasi indipendenti, e spesso nominali, ricche di ellissi, sospensioni, escla­ mative, in cui trovano applicazione i procedimenti sintattici più nuovi. Fon te: C ornoldi C aminer 1983: 6 3 -6 6 (coliazionato su quello che è ritenuto l’unico esemplare dell’edizione originale: Venezia, Albrizzi, 17861788, conservato presso la Biblioteca M arciana di Venezia).

(1) Giovedì sera sono stata alla conversazione della contessa F ... (2) Tutti quelli che la componevano erano stravagantemente stupidi. (3) Il marchese G ... non vi era. (4) Sedici zecchini di perdita. (5) Ritornata a casa di molto cattivo umore, e assai indisposta. (6) Osservai che il cav. M. è innamorato della piccola S ... (7) Quanto è ridicola la sua figura; ciò non ostante il suo bonnetto le stava bene. (8) Il sig. marchese S... è pure amante di madamigella G ... Dio buono! (9) Non ha avuto peranche un numero bastante d’imbecilli per amanti? (10) Egli porta la testa

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Antologia di testi

alta, per averla per quanto si dice molto leggiera: di nulla è caricata che la possi1 rendere più solida. (11) Domenica alla chiesa, con molto male di testa. (12) La signora S... si tiene sopra un cuscino molto alto per sembrare più grande di quello ch’è realmente. (13) La contessa A ... è giunta tardi. (14) M em o­ randum: ottimo mezzo di fissare l’attenzione del pubblico: io non andrò Domenica che alla metà dell’ufficio. (15) La signora M ... è la persona più bella che vi fosse, ma i suoi manichetti non sono alti abbastanza. (16) Il nostro Predicatore è un uomo ben terribile. (17) Rimprovera ad ognuno i suoi falli, come se avesse il segreto di tutte le famiglie. (18) Memorandum: andare dal duca di M ... perché sia impiegato diversamente, onde non deb­ ba più predicare [...].

8.3. Un romanzo di consumo: Antonio Piazza, «Il teatro ovvero fatti di una veneziana che lo fanno conoscere» Spesso i traduttori sono anche romanzieri in proprio, e in questa attività tendono a trasferire i modelli dei fortunati romanzi stranieri. Esempio di un genere coltivato sulla scia della moda dei romanzi francesi e inglesi, il romanzo del veneziano Piazza, pubblicato nel 1777-1778, cerca di conciliare il gusto per le trame avventurose e improbabili tipico di un genere di cui campione era Pietro Chiari, con una storia dotata di una qualche verosimiglianza. La protagonista Rosina, di origine veneziana, narra le varie vicende di amori e delusioni capitatele dopo la fuga da casa per sottrarsi alle nozze imposte dal padre. La storia si svolge «tra locande e diligenze, in un perpetuo girovagare di regione in regione» secondo «la legge narrativa di tanti romanzi settecenteschi per cui la vita consiste e si riduce nel movimento, in una corsa affannosa da un luogo all’altro». I casi sono paragonabili a quelli di alcune eroine inglesi e francesi, del Defoe e del Marivaux, «anche se il comportamento ed i costumi di Rosina, per quanto insidiati e offesi, si manterranno sempre onesti, non avranno nulla da spartire con la corruzione sistematica che sorveglia i destini di una Lady Roxana o di Moli Flanders» ( T u r c h i 1984: 8-10). 1 possi: desinenza -i per attrazione delle forme della prima coniugazione, forma dell’italiano antico presente ancora nella prosa di Leopardi, e rimasta nell’italiano popolare contemporaneo (Rohlfs 1966-1969: 555 e Serianni 1989: X I).

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La lingua a contatto con i modelli d’oltralpe ha assunto tratti di una letterarietà più corrente. Linguaggio piano, che non guarda a modelli aulici. Lessico e sintassi più usuali: notare per esempio l’uso di faccia 1 in luogo di sostituti più elevati come viso, volto, l’espressione che sa di parlato dire di quelle cose 10, mentre è dialettale il si per ci in «si separammo» 27 (a meno che non si tratti di errore di stampa). Immancabili in un romanzo alcune macchie di linguaggio melodrammatico {«quetìY empio» 6, core 9), mentre i vari onde per “di cui”, a guisa di, anco, d ’uopo, meco, l’imperfetto in -a, l’enclisi pronominale, sono da considerare del tutto consuete anche in una scrittura di ordinaria letterarietà. L ’esercizio della traduzione, praticato anche dal Piazza, è servito a conquistare semplicità, anzi facilità anche sintattica nell’andamento progressivo che conserva comunque alcune in­ versioni di tipo classicistico («accorta io non siami» 1, «una pazza sembrava» 7, «ad inventar mai non giunge» 10, ecc.), studiate collocazioni del possessivo («infame suo capo» 7, «inenarrabile mia afflizione» 9 ) . La posizione dell’aggettivo se­ gue la regola dell’uso moderno: posposto al nome se con valore limitativo («idea vantaggiosa» 2, «furore sì disperato» 6, «cose insensate» 7), anteposto se apprezzativo («dirottissima piog­ gia», «copiosi torrenti di amarissimo pianto» 8). Un chiaro esem­ pio di stile spezzato ci mostra il periodo 10 costruito su una successione di sintagmi appositivi («Vedere una ragazza sul fiore della sua giovinezza, fornita d i..., colla bionda chioma..., colla veste lacerata..., col viso livido...»). Nuovo è infine l’uso libero dell’infinito come in «o m orire...o superarlo...» 17 e ancor più nella frase «Tornare a Venezia no certo, correr dietro a quell’empio, nemmeno» 18, un modulo qui all’interno di un discorso diretto, ma che nell’evoluzione successiva del linguag­ gio narrativo uscirà dai confini della citazione diretta, cioè del parlato del personaggio, e si espanderà nel narrato attraverso la forma del discorso indiretto libero ( S e r i a n n i 1 9 9 3 : 5 3 5 ) . Fonte: T urchi 1984, 4 4 -4 6 . L ’edizione curata da Roberta Turchi sotto il titolo L ’attrice, riproduce il testo della prima edizione di II teatro, ovvero fatti di una veneziana che lo fanno conoscere (Venezia, Costantini, 1 7 7 7 -7 8 ), di cui modernizza solo la punteggiatura ed alcuni aspetti di m era grafia, rispettando per il resto l’originale nei tratti fonetici e morfologici.

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L e sventure provano il coraggio e sono la scola1 dello spirito umano (1) Parrà impossibile che, con tutto il mio spirito, accorta io non siami, al primo incontrarsi che fecero, che Alberto e quella giovane erano marito e moglie. (2) Ma cesserà lo stupore, quan­ do si consideri l’età mia d’allora, la mia inesperienza del mondo, la confusione che m’imbrogliava e la idea vantaggiosa che aveva del carattere di chi mi tradì. (3) L ’oste ne12 lasciò sole. (4) Allora quella misera donna mi strinse al seno, mi baciò, bagnommi delle sue lagrime3, e chia­ mandomi sventurata «Siete tradita - mi disse - quello che crede­ te voi vostro marito, tale non è; io, per mia pena, sono sua moglie». (5) Sebbene apparecchiata all’avviso tremendo, pure non potei a meno di dare un urlo che la assordò. (6) Mi prese un furore sì disperato che, se avessi avuto quell’empio nelle mie mani, lo avrei sbranato, gli avrei succhiato il sangue senza pietà. (7) Scagliai sull’infame suo capo tutte le maledizioni ond’è capa­ ce una donna irritata, e me la presi follemente contro delle cose insensate che m’eran vicine, urtando, rovesciando, o rompendo quanto mi veniva alle mani; anzi incrudelita contro di me mede­ sima, mi stracciava la chioma, mi percuoteva la faccia ed una pazza sembrava nel calore della sua frenesia. (8) A guisa d’un turbine che, volando tra il fulgore de’ lampi e il rumoreggiare de’ tuoni, si sfoga poi e disciogliesi in una dirottissima pioggia, la mia disperazione, dopo tutti gli eccessi a cui poteva arrivare nel suo furore, s’esaurì in due copiosi torrenti di amarissimo pianto. (9) Non so se tra le più barbare selvagge nazioni abban­ donate dalla natura alla rozzezza de’ bruti, trovato si fosse un core indurito a tal segno da non commoversi all’atteggiamento dell’inenarrabile mia afflizione. (10) Vedere una ragazza sul fiore della sua4 giovinezza, fornita d’un’avvenenza che spirava l’amore, colla bionda chioma scomposta sulla fronte, colla veste lacerata, col viso livido dalle percosse, inondata del proprio pianto, mezz’affogata da’ singulti, abbandonata sulla sponda 1 scola·, ancora oscillante l’uso del dittongo in posizione tonica. 2 ne: forma letteraria, ancora presente nella prosa del secondo Settecento anche se minoritaria rispetto a ci (P atota 1987:77), e coincidente con forma dialettale veneta. 5 lagrime: variante con suono -gr- secondo l’uso normale del tempo. 4 sua: possessivo qui ridondante, calco di abitudini sintattiche francesi.

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d’un letto cogli occhi rivolti al cielo in atto di chiedere la sua giustizia, udirla dire, nella eloquenza del suo dolore, di quelle cose che lo studio d’una mente tranquilla ad inventar mai non giunge, era un quadro così afflittivo e compassionevole che bisognava essere senz’anima per esaminarlo con indifferenza. (11) Quanti segni di pietà non mi diede quella misera amica che tanta pure ne meritava da me! (12) Le narrai come conobbi suo marito e in qual modo fui da esso tradita. (13) Giunta con la narrazione al punto del disamore mostratomi, dopo la prima notte che passò meco, saper mi fece che anco5 verso di lei usato aveva così [ ...]. (14) Seppimo6 da lì a poco che era partito per Milano. (13) Feci aprire il forziere e non ho in esso trovato che degli abiti, della biancheria e alcune altre coserelle di picciol valore. (16) Senza denari e senza cambiali mi vedeva esposta a cattivo partito; ma all’aumento de’ mali miei opposi una forza d’animo, che a poco a poco acquistai, dopo aver saziato il mio dolore con ogni sforzo possibile. (17) «Se il mio male non ha rimedio - dissi tra me - o morire sotto la sua gravità, o superarlo con tutto lo spirito onde capace mi sento. (18) Tornare a Vene­ zia no certo, correr dietro a quell’empio, nemmeno. (19) Ho del talento, ho della inclinazione, non mi può mancar un teatro, cercarlo bisogna e vincere la vergogna e i riguardi». (20) Comu­ nicai la mia risoluzione all’amica, che mi disse quanto un rigoro­ so moralista può dire per farmi cangiar opinione, ma si sfiatò inutilmente. (21) Ella era risoluta di passar a Venezia. (22) Sperava d’esser bene ricevuta da suo suocero, perocché le infor­ mazioni che aveva avute di lui erano buonissime. (23) Alberto di lei sposo si fece mentre viaggiava per Francia7. (24) Avendo seco tutti i requisiti che per un matrimonio abbisognavano, ed essen­ do innamorato perdutamente, non esitò a darle la mano, e poi con un pretesto l’abbandonò nel giorno a’ suoi sponsali8 succes­ so. (25) Da Parigi ritornò in Italia per la parte di Genova. (26) 5 anco: forma minoritaria rispetto ad anche nella prosa del secondo Sette­ cento. Ma significativo l’uso in Alessandro Verri: nelle lettere solo il tipo anche, negli scritti più letterari predominanza di anco (P atota 1987: 99). 6 seppimo: forma di perfetto forte normale nell’italiano settentrionale fino a tutto l’Ottocento e oltre (M engaldo 1987: 73-74). 7 Tratto dello stile elevato l’omissione dell’articolo coi nomi femminili di regione e nazione (cfr. M engaldo 1987: 82). 8 sponsali: forma dotta (lat. sponsalis), notare anche la costruzione inver­ sa dell’intero sintagma.

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Traduzioni e letteratura di consumo

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Le aveva scritto alcune lettere ingannatrici, perch’ella non an­ dasse a trovarlo, ma stanca di tollerare le sue menzogne, aveva presa la risoluzione di pretendere il mantenimento dal di lui padre. (27) Nel seguente giorno si separammo. (28) La ho scon­ giurata di non parlare di me, come se non m’avesse mai cono­ sciuta, o di parlare soltanto quando fosse stato d’uopo di difen­ dere l’onor mio. (29) Scrissi a mia madre una lettera e la pregai consegnarla ad essa secretamente, dopo averle insegnato il mez­ zo di conoscerla e di averla a quattr’occhi. (30) Le augurai quella sorte di cui mi pareva degna e, prima di separarmi da lei, le diedi cento baci.

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zio», «la sua moglie»). Notare il dialettismo pagliazzo 10 (veneto pajasso “pagliericcio”). La sintassi è sciolta, con qualche struttu­ ra più informale come l’anticipo di un complemento e la relativa ripresa pronominale («la lingua francese ora la parlo bene» 16); il costrutto di stampo francese, ormai largamente affermato, della ripresa apposizionale cosa che di tipo «riepilogativo» («mi vedrei arrivare costà un tomo della mia storia: cosa che mi dispiacerebbe»). Fonte: il documento è tratto dal volumetto Lettere di donne a Casanova, Genova, Edizioni Culturali Internazionali, 1992 (29-31), riproposta di una precedente edizione che riproduceva con scrupolo le lettere originali.

Vienna, 25 marzo 1778

8.4. Tra autobiografia e romanzo: lettera a Giacomo Casanova L ’attrazione esercitata dai romanzi è tale da influenzare le altre forme, ad esempio la «lettera», dando impulso a un genere di grande diffusione come il romanzo epistolare. Intendo qui presentare un caso più modesto e genuino, ma tanto più rivela­ tore del fenomeno. Si tratta di una lettera reale, indirizzata a Giacomo Casanova da parte di una corrispondente con evidenti propensioni narrative, incline a raccontare le proprie sfortunate vicende secondo il cliché avventuroso della fanciulla indotta a procurarsi da vivere con le proprie risorse come le eroine di certi romanzi del Piazza, evocato del resto nella lettera che qui si presenta. L ’autrice è la veneziana Maria Rizzotti Kaiser, la cui madre era stata una ‘fiamma’ del Casanova. La vita di Maria dovette essere segnata da vicende sfortunate e infelici, racconta­ te nelle lettere con una minuzia e una cura che denotano una intenzione che va oltre quella di una normale comunicazione epistolare. La scrittura presenta le disomogeneità del testo pre­ cedente: scontati residui letterari come meco, secolui, qualche tratto di tipo burocratico (suddetta 8), oppure più scelto come la desinenza in -a dell’imperfetto alternante con il tipo -o. Qua e là macchie più elevate, come gentili per pagani, em endare il mio fa llo , dimorare, bramava, vocaboli poco consoni al registro più comune di una lettera. Per il resto si possono cogliere forme che risentono dell’uso settentrionale come il frequente partitivo («darmi degli schiaf­ fi», «riportai dei segni» 8), e il possessivo con i nomi di paren­ tela con aggiunta però di articolo che è uso toscano («il mio

Sig.r Giacomo mio p.ron stim.mo e car.mo Amico (1) Io ho un piacere grandissimo che non mi sia mai venuta la tentazione di scrivere a Piazza perché son certa che mi vedrei presto arrivare costà1 un tomo della mia storia; cosa che mi dispiacerebbe moltissimo perché le mie avventure sono tanto incredibili che se fossero stampate verebbero2 riputate sogni d’amalati, altro che giganti, pigmei, chimeri, idre e centauri. (2) 10 le farò vedere nella persona del mio zio un mostro più brutto di quanti mai si sono inventati gli antichi gentili e nel fatto che le narro qui appresso credo che ella potrà vedere perfettamente 11 suo ritratto. (3) Una sera dopo di essere stati ad una cena il mio zio e la sua moglie vennero a casa quasi ubbriachi; ella andò subito e lui3 restò qualche tempo a discorer meco e mi fece (cosa insolita) molte gentilezze. (4) Andò finalmente a letto e io pure feci il medesimo ed era per addormentarmi quando sento aprire dolcemente l’uscio della mia camera, apro gli occhi e vedo un fantasima4 tutto 1 costà·, forma toscana corrispondente al pronome codesto (derivate ri­ spettivamente da eccu-istac e eccu-tibi-istu), riferite al luogo in cui si trova l’ascoltatore e pertanto qui usata impropriamente, come di norma dai setten­ trionali. 2 verebbero·. forma con consonante scempia come i successivi amalati, discorer ecc., riflesso di pronuncia settentrionale; più sotto invece il raddop­ piamento in ubbriachi era anche toscano. 3 ella...lu i: incongruenza nell’uso del pronome soggetto: lui risulta appropriato data la posizione marcata di contrapposizione a lei che invece è espresso dal più letterario ella. 4 fantasim a : spettro, variante letteraria di genere femminile di fantasma

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Un esempio di 'veneto stil’

Antologia di testi

bianco sopra il limitare dell’uscio. (5) Io credetti che fosse l’ani­ ma della mia nonna che fosse venuta per rimproverarmi di aver mancato al suo deprofundis; mi feci prestamente la croce per emendare il mio fallo, ma questa figura si fece conoscere per il mio zio; io le dimandai5 cosa desiderava ma la sua disonesta maniera di operare mi fece conoscere con quale idea egli era venuto. (6) Io che già da lungo tempo nutriva la rabbia contro di lui, una maniera così indegna di operare l’aumentò maggior­ mente sicché gli dissi tutto quello che si meritava tanto che fu costretto di ritornare alla sua camera pieno di rabbia, confusio­ ne e vergogna. (7) Dopo questo accidente lui mi trattò peggio di prima e la sua moglie che già mi odiava fece a gara seco lui a chi sapeva meglio mortificarmi. (8) La suddetta una mattina pretesto una ragione e venne nella mia camera a darmi degli schiaffi, lui che intese il rimore6 venne, finse di difendermi, ma lo fece tanto male che riportai dei segni sul viso. (9) Io vedendomi così mal­ trattata dissi al mio zio che mi trovasse una camera perché non volevo più dimorare un momento in casa sua; lui mi rispose delle villanie ed io sortii7 subito di casa così furente senza sapere dove dovessi andare, ma risolta però di non ritornare mai più. (10) Girai lungo tempo irresoluta. (11) Finalmente incontrai un certo Banchieri, pittore e amico del mio zio, gli raccontai quanto mi era successo e lui pure mi consigliò di non ritornare più a casa; mi esibì, anzi mi pregò di andare a dimorare con lui [...] ma rimasi molto sorpresa quando mi vidi in una casa dove tutto faceva vedere una estrema miseria; un pagliazzo, due cattive sedie e un tavolino furono i soli mobili che vidi colà. (12) Venne l’ora del pranzo che fu veramente parco, ma pazienza se almeno ci fosse stato il bisognevole per coprire la tavola, ma altro non v’era che mezza salvietta sudicia, tre forchette e due cucchiai e

(con i epentetica che si sviluppa dal nesso sm), ma qui usata al maschile come fantasma. 5 dimandai·, normale la forma con vocale palatale nella prosa del secondo Settecento. L ’alternanza con la forma minoritaria domandare durerà per tutto il secolo successivo; presente nella prima edizione dei Promessi sposi, sarà risolta nell’edizione definitiva con la scelta per la vocale labializzata, cioè con domandare (Serianni 1989a: 179 e P atota 1987: 46). 6 rimore·, forma irregolare determinata da dissimilazione della forma remore e analoga a ritondo (Rohlfs 1966-1969: 131). 7 sortii·, sortire “uscire” forma che risente del francese sortir e diffusa anche nel toscano (cfr. Mengaldo 1987: 258).

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a tavola eravamo quattro persone. (13) Il suddetto Banchieri mi chiese scusa con le lagrime agli occhi di questo apparecchio così improprio e mi disse che bramava essere ricco solo per potermi trattare come desiderava. (14) Il giorno appresso venne il mio zio, mi domandò cosa volevo fare, io gli risposi che non volevo più ritornare a casa sua; si convenne dunque col Banchieri di pagare sei fiorini al mese per il mio mantenimento. (15) Mi mandò un letto ma mi disse di risolvere qualche cosa perché lui non voleva mantenermi per lungo tempo. (16) Ora io cerco una casa per andare per governante poiché la lingua francese ora la parlo bene abbastanza e mi so fare intendere in tedesco. (17) Questo mi pare il solo partito che mi resta da prendere poiché il ritornare a Venezia appresso mia madre mi pare un rimedio peggiore del male. La prego di consigliarmi cosa devo fare [...].

9. Un esempio di ‘veneto stil’: «L’avvocato veneziano» Delle diverse tonalità e registri che fanno del veneziano settecentesco una vera e propria lingua qui interessa il livello più alto, dove il veneziano viene a contatto con l’italiano su un piano di parità dando luogo a un tipo di discorso mistilingue. Ricorria­ mo ancora al Goldoni, e precisamente a una azione àt\YAvvoca­ to veneziano, quale testimonianza letteraria dell’uso pubblico, del veneziano praticato nel foro1, caratterizzato da una patina più colta. La commedia, messa in scena per la prima volta a Venezia nell’anno 1749-1750, è incentrata sulla figura dell’avvo­ cato veneziano Alberto Casaboni, che difende nel tribunale di Rovigo i diritti di un suo assistito in una contestazione di eredi­ tà. Dopo aver ascoltato la lettura dell’allegazione del dottor Balanzoni, avvocato bolognese della controparte, il Casaboni dà inizio alla disputa. Nel primo paragrafo prevale, dei due ingre­ dienti, l’italiano, come più appropriato alle considerazioni pre­ liminari del nostro avvocato, e la cui sintassi legata e complessa meglio si presta a rendere lo svolgimento delle argomentazioni: il suo ampio respiro consente quei procedimenti retorici come i parallelismi e le riprese anaforiche confacenti all’arte della per1

Una testimonianza diretta dello stile oratorio veneziano è rimasta in Tre

azioni criminali a difesa di Marco Barbaro, Venezia 1786 (M igliorini 1978: 503).

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suasione. Si noti per esempio l’inizio del discorso con la ripeti­ zione di sintagmi costruiti con «gran». Nell’italiano si insinuano con naturalezza tratti settentrionali: la e protonica {de, el, me, reverito), la sonorizzazione (segondo, inform adi), e espressioni totalmente italiane si alternano con le schiettamente dialettali come lezze (e leggi), meggio, anca nualtri, xe stadi om eni com e lu. Ma, addentrandosi il discorso nella trattazione dei fatti, il rap­ porto si inverte, e il veneziano predomina con la sua sintassi disarticolata e paratattica, dalle frasi brevi e giustapposte, con tratti più marcati come il condizionale in -ave (chiam arave, averave), i participi in -ae e in -sto 19, la forma tipica interroga­ tiva veneta eia, elo, xelo 11, 12, con pronome enclitico incorpo­ rato al verbo (corrispondente alla forma italiana letteraria «è egli?»). Compaiono espressioni più idiomatiche come no ghe n ’avéun f i l d e sutto 9 ,fia de anema 19, che Goldoni traduce a piè di pagina rispettivamente con «non avete un principio di ragio­ ne», «figlia per affetto, o sia adottiva», accanto al lessico giuridi­ co di tradizione veneziana, per esempio ponto de rason 12, pure tradotto a parte con «articolo legale». Un esempio di quella capacità di «trapassare senza soluzione di continuità dal dialetto “sporco” al dialetto “pulito” alla lingua», propria della viva realtà del veneziano parlato ( F o l e n a 1983 : 98). Fonte: G oldoni 1935 ss., II, 7 7 6 -7 7 8 . Rinvìi interni: capp. IV .3 e VI.

(1) Gran apparato de dottrine, gran eleganza de termini ha messo in campo el mio reverito avversario; ma, se me2 permetta de dir, gran disputa confusa, gran fiacchi argomenti, o per dir meggio, sofismi. (2) Responderò col mio veneto stil, segondo la pratica del nostro foro, che vai a dir col nostro nativo idioma, che equival nella forza dei termini e dell’espression ai più colti e ai più puliti del mondo. (3) Responderò colla lezze alla man, colla lezze del nostro Statuto, che equival a tutto el codice e a tutti i digesti de Giustinian, perché fondà sul jus de natura, dal 2 se me·, mi si, sequenza dei pronomi atoni secondo Bordine dell’italiano antico, vigente nell’italiano letterario fino a quest’epoca. Sintagma uguale, in cui si ripropone lo stesso tipo di sequenza pronominale, è in un passo delle Tre azioni criminali del Barbaro, citate nella nota precedente: «ste parole che ha formà el soggetto della disputa dell’Eccell. Sior Avogador le me permetta, che le analizzeremo, che cerchemo cossa le significa» (M igliorini 1978: 503 e 540).

Un esempio di ‘veneto stil’

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qual son derivade tutte le leggi del mondo. (4) No lasserò de responder alle dottrine dell’avversario, perché me sia ignoti quei testi o quei autori legali, dai quali dottamente el le ha prese, perché anca nualtri, e prima de conseguir la laurea dottorai, e dopo ancora, versemo sul jus comun, per esser anca de quello intieramente informadi, e per sentir le varie opinion dei dottori sulle massime della giurisprudenza. (5) Ma lasserò da parte quel che sia testo imperiai, perché avemo el nostro veneto testo3, abbondante, chiaro e istruttivo [...] (6) Perdoni el giudice se troppo lungamente ho desertà4 dalla causa, credendo necessario giustificarme a fronte d’un avversario seguace del jus comun, e giustissima cossa credendo dar qualche risalto al nostro Veneto Foro, el qual xe respettà da tutto el resto del mondo avendo avudo più volte la preferenza d’ogni altro foro d’Europa, per decider cause tra principi e tra sovrani [...] (7) Coss’è, compare? (8) Menè la testa? (9) M ’impegno che in sta causa no ghe n ’avè un fil de sutto. (10) A mi. (11) Coss’ela sta gran causa? (12) Qual elo sto gran ponto de rason? (13) Xelo un ponto novo? (14) Un ponto che no sia mai stà deciso? (15) El xe un ponto del qual a Venezia un prencipiante se vergogneria de parlarghene in Accademia. (16) La senta e la me giudica su sta verità, dipendente da un’unica carta che el mio reverito sior Balanzoni non ha avudo coraggio de lezer, e che mi a so tempo ghe lezerò. (17) El sior Anseimo Aretusi, padre del mio cliente, dies’anni l’è stà maridà senz’aver prole; el chiamava desgrazia quel che tanti e tanti chiamarave fortuna, e el desiderava dei fioli per aver dei travaggi5. (18) L ’ha trovà un amigo che gh’aveva una desgrazia più grande della soa, perché el gh’aveva tre fie, che ghe dava da sospirar. (19) El ghe n’ha domandà una per fia de anema, e lu ghe l’ha dada volentierissimo, e el ghe l’averave dae tutte tre, se l’avesse podesto. (20) Anseimo tol in casa sta piccola bambina, dell’età de tre anni, el s’innamora in quei vezzi innocenti che xe propri de quell’età, e do anni dopo el se deter­ mina a farghe una donazion generai de tutti i so beni. (21) Ma la senta con che prudenza, con che cautela e con che preambolo salutar Forno savio e prudente ha fatto sta donazion [...]. 3 veneto testo·, come più avanti Veneto Foro, con anteposizione dell’ag­ gettivo di relazione del tutto normale nell’italiano settecentesco. 4 desertà·. divagato. 5 travaggi·. forma veneta con passaggio di -Ij- > -j- > -gi- (cfr. Rohlfs 19661969: 280) e con raddoppiamento solo grafico.

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Un sermone di Alfonso de Liguori

Antologia di testi

10. Un sermone di Alfonso de Liguori Predicare «con istile semplice e facile» raccomanda Alfonso de Liguori ai parroci e ai predicatori, fornendo esempi di Serm o­ ni in cui applica le nuove tecniche di oratoria sacra. L i b r a n d i 1988 analizza le innovazioni ‘riformatrici’ della oratoria del Liguori, notando come modelli diversificati a seconda del pub­ blico e delle circostanze non presentino poi «differenze sostan­ ziali» di stile, segno di una raggiunta medietà di registro. Lessico della lingua comune letteraria, ma privo di arcaismi e aulicismi, con tratti di colloquialità di tipo meridionale, magari inconsape­ vole, come tenere per “avere” («tengono buona volontà» 1 , «ten­ gono più peccati» 7), l’uso affettivo-intensivo del pronome per­ sonale {«me lo confesso... te lo confessarai» 13-14). La frequen­ te deissi e l’assunzione di strutture morfosintattiche del parlato come l ’anticipazione con ripresa pronominale {«ad un altro. ..gli mandi la morte, e lo condanni» 3), rivelano le intenzioni speci­ ficamente comunicative. La sintassi privilegia la costruzione diretta della frase - le rare inversioni del tipo verbo-soggetto ricorrono nella narrazio­ ne degli exempla («scrive S. Gregorio»), «in contesti che anche oggi lo ammetterebbero» (ivi: 235) - e il periodo fa limitato uso di subordinate. Sulla scorta di Librandi osserviamo la diversità di impiego rispetto all’oratoria barocca delle procedure retori­ che e come gli artifici del genere oratorio siano piegati a fini didascalici e comunicativi. L ’organizzazione sintattica a misure brevi («se tu compri una casa, tu usi... Se prendi una medicina, cerchi d i...» 10-11), un procedimento che l’oratoria barocca utilizzava per risultati ritmici, qui invece risponde «al desiderio di puntualizzazioni di contenuto», esaltate dall’elementare strut­ tura simmetrica dei periodi. Esclamative e interrogative, proce­ dimenti normali in questo genere di prosa legato all’esecuzione orale, sono lontane dagli usi enfatici dell’oratoria barocca e servono a «intensificare la comunicazione». Così il modulo in­ terrogativo verbo-soggetto pronominale, tratto letterario, come si è detto, assente nella prosa del Liguori, ricorre invece nella seconda persona («Faresti tu»), del resto frequentemente espressa anche nella frase enunciativa («tu dici»), con mera funzione deittica.

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Fonte: L iguori 1780: 51-53 Rinvìi interni: cap. V .l.

Del Numero de’ peccati: (1) Iddio è pronto a sanare quei1 che tengono buona volontà di mutar vita, ma non può compatire gli ostinati. (2) Il Signore perdona i peccati, ma non può perdonare chi ha volontà di peccare. (3) Nè possiamo noi chieder ragione a Dio, perchè ad uno perdoni cento peccati, e ad un altro al terzo o quarto peccato gli mandi la morte, e lo condanni all’Inferno [...] (4) Quanti Iddio ha mandati all’Inferno al primo peccato! (5) Scri­ ve S. Gregorio, che un Fanciullo di cinque anni (che avea2 già l’uso di ragione) in dire una bestemmia fu preso da’ Demoni, e portato all’Inferno. (6) Rivelò la Divina Madre a quella Serva di Dio Benedetta di Firenze, che un Fanciullo di 12 anni al primo peccato fu condannato; un altro Figliuolo di otto anni al primo peccato morì, e si dannò. (7) Tu dici: Ma io son giovine3, vi sono tanti che tengono più peccati di me. (8) Ma che perciò? perciò Iddio, se pecchi, è obbligato ad aspettarti? [...] (9) Ma gran cosa! (10) Se tu compri una casa, tu usi già tutta la tua diligenza per assicurar la cautela, e non perdere il tuo danaro. (11) Se prendi una medicina, cerchi di assicurarti bene, che quella non ti possa far danno. (12) Se passi un fiume, cerchi di assicurarti di non cadervi dentro. (13) E poi per una breve soddisfazione, per uno sfogo di vendetta, per un piacere di bestia, che appena avuto finisce, vuoi arrischiar la tua salute eterna, dicendo, p o i m e lo con fesso! (14) E quando, io ti doman­ do, te lo confesserai? Domani. (15) E chi ti promette questo giorno di domani? (16) Chi t’assicura che avrai questo tempo, e Dio non ti faccia morire in atto del peccato, com’è succeduto a tanti? [...] (17) Iddio ha promesso il perdono a chi si pente, ma non ha promesso di aspettarlo fino a domani, a chi l’offende; forse il Signore ti darà tempo di penitenza, e forse no; ma se non te lo dà, che ne sarà dell’anima tua? (18) Frattanto per un misero gusto già tu perdi l’Anima, e ti metti a rischio di restar perduto in eterno. 1 quei·, variante arcaica ma ancora presente nel sistema linguistico. 2 avea·. il tipo con dileguo era comunissimo in forme come avea, parea, dicea, quindi stilisticamente neutro (P atota 1987: 112). 3 giovine·, forma alternante con giovane, ma minoritaria nella prosa sette­ centesca (ivi: 47).

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(19) Faresti tu per quella breve soddisfazione un vada tutto, danari, casa, poderi, libertà, e vita? (20) No? e poi come per quel misero gusto vuoi in un punto far già perdita di tutto, dell’Anima, del Paradiso, e di Dio? (21) Dimmi, credi tu, che sieno verità di Fede, il Paradiso, l’Inferno, l’Eternità? (22) Credi tu, che se ti coglie la morte in peccato, sei dannato per sempre? (23) E che temerità, che pazzia, condannarti da te stesso ad un’eternità di pane, con dire: spero appresso di rimediarvi? (24) Dice S. Agostino: Nem o sub spe salutis vult aegrotare-, non si trova un pazzo, che si prenda il veleno con dire, appresso piglie­ rò rimedi, e mi guarirò; e tu vuoi condannarti all’Inferno, con dire appresso me ne libererò [...]

11. Una ‘consulta’ di Cesare Beccaria, «Sul progetto del prestino Donadeo» (1789) Come testimonianza di scrittura burocratico-amministrativa sono preziose le Consulte di Cesare Beccaria, relazioni da lui stese come funzionario dell’amministrazione del governo au­ striaco in Lombardia. Il campione minimo qui portato è una lettera che accompagna la relazione su un «progetto di panizzazione». I termini riguardanti la regolamentazione d el com­ m ercio sono locali: prestinaro, che nelle pagine successive com­ pare anche in forma adattata al toscano prestinai, e prestino, “forno e bottega del pane”. Il termine non è ancora «converti­ to» al toscano, come sarà poi in Manzoni, il quale nel fe r m o e Cucia, l’abbozzo del suo romanzo (1821-1823), non disdegnerà di ricorrere per la terminologia artigiana e commerciale al dia­ letto milanese, ma traduce con «forno delle grucce», la denomi­ nazione originale E l prestin di scansc, essendo «nel suo originale milanese [...] espresso con parole di suono tanto eteroclito e bisbetico che l’alfabeto della lingua italiana non ha il segno per indicarlo» ( M a n z o n i 1954a: 436). Nella relazione che accompagna la lettera compaiono le di­ verse denominazioni relative alle varietà di pane: pane bianco, «pane di puro fio r e di farina», pane di roggiolo, cioè il milanese pan de rosgioeu, una denominazione antica dove il termine roggiolo, adattamento del mil. roggioeu (e rosgioeu)1, indica una 1 La forma « rosgioeu è esito milanese regolare da russeolus, dal colore rossiccio, oscuro di quel pane» (F olena 1983: 75).

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varietà intermedia di crusca, di più fine stacciatura. Altro termi­ ne tecnico di tradizione locale è meta 1 (mil. metta) “tariffa”, che ha testimonianze antiche anche in altre regioni. Come termi­ ne storico e documentario piuttosto che evocativo lo riprende il Manzoni nei Promessi Sposi del 1840: «Fissò la meta (così chia­ mano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane...». Sinonimo di meta è calm iere, pure del dialetto milane­ se (calm ée o calmer), usato dal Beccaria nella forma pienamente italianizzata (ma anche nella variante più dialettale calmerò). I due termini, riguardanti l’imposizione artificiale dei prezzi, sono entrambi di attinenza dialettale: calm iere, già di larga diffusione nell’italiano settentrionale, è sentito «come termine di significa­ to più largo oltre che di maggiore estensione geografica, mentre m eta, anche se vivo nel dialetto, pare troppo legato a un sistema passato» di imposizione tariffaria. Da notare che esso ricorre in locuzioni tecniche del tipo «pane e panizzazione a meta», «fab­ bricare e vendere pane a m eta», che si oppone alla «libera panizzazione», e ancora «fare il pane alla meta». Come s’è già avuto occasione di osservare, il termine meta non compare negli scritti teorici di economia, dove si incontrano i termini di più ampia circolazione tariffa e calmiere ( F o l e n a 1983:69-71). Un’al­ tra parola corrente nella lingua amministrativa milanese del Settecento, attestata nelle Consulte, e che «in italiano percorre una traiettoria non dissimile da quella di calm iere è fedina, che deve anch’essa la sua fortuna all’uso burocratico di un termine dialettale». Fedina in quanto “certificato penale”, è un diminutivo lessicalizzato, derivato dal milanese f e d “fede, certificato” (inte­ ressante che una volta ricorra anche il primitivo fed e), la cui natura sarà analoga a quei diminutivi frequenti nell’odierno linguaggio burocratico, «di sapore vagamente eufemistico, come letterina, domandina, fu m etta , ecc., con cui si designano parti­ colari adempimenti» ( B r u n i 1984: 129-130)2. Quanto alla terminologia burocratica va segnalata la parola privativa 1 nell’accezione di «monopolio e privilegio statale di 2 «Attestato qui per la prima volta, ma verosimilmente già radicato nel­ l’uso amministrativo lombardo (a giudicare dalla disinvoltura con cui se ne serve il B eccaria...), avrà una modesta fortuna in italiano, limitata all’uso per lo più non tecnico di fedina penale e all’uso figurato di fedine per “basette” (in quanto intese sotto l’Austria come certificato di lealismo) (F iorelli 1984: 141). Mentre fede nel senso di “certificato”, in uso dal secolo XV, ha oggi solo determinate specificazioni, quali fede di battesimo, di credito...

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vendita» in concorrenza con il termine più antico di regalie. Tra le diverse sue occorrenze compare nella dizione privative d i sali e tabacchi, dove va notata l’etichetta Sali e tabacchi. Fatti che possono illuminare su «quanto il linguaggio amministrativo e burocratico che si diffonde con l’unificazione debba all’eredità di questa amministrazione (oltre che di quella piemontese)» ( F o l e n a 1983: 80 n. 5). Sono da notare anche i tratti propri dello stile burocratico: le strutture anaforiche («la meta stessa», «della m edesim a Con­ gregazione»), la deissi («presso codesta Congr. Municipale»), le formule in vista di, a tenore di, «giusta il di lui progetto», i verbi più marcati in luogo di sinonimi più comuni (ed otto, si parteci­ pa), la sintassi ipotattica (da confrontare con l’andamento più spezzato e paratattico di Beccaria scrittore), ricca di relative implicite («un cartello indicante la meta stessa da chiedersi e riceversi»). Tra le quali è da sottolineare l’uso del participio presente con valore verbale, un tratto sintattico della prosa classicheggiante che permane nello stile burocratico, dove pro­ duce formazioni autonome come progettante e, nelle pagine successive, contraenti (si pensi a termini come dichiarante, ri­ chiedente ecc. del nostro linguaggio burocratico)3. Fonte: C . B eccaria, Consulte amministrative e giuridiche, in B eccaria 1958, voi. II, p. 609. Rinvìi interni: cap. IV .3.

(1) Il Cons. di Governo, in vista di un progetto di panizzazione a meta presentato dal prestinaro Ant.o Donadeo, di cui n’è4 edotto l’assessore delegato alle vettovaglie presso codesta Congr. Municipale conte Cavenago, ha dichiarato con speciale decreto 9 corrente, non essere impedito al progettante anche nell’attuale sistema di libera panizzazione, di fabbricare e di vendere pane a meta, giusta il di lui progetto, escluso però qualunque vincolo di privativa, come pure di esporre al pubblico un cartello indicante la meta stessa da chiedersi e riceversi dalla Congr. Munic.;

3 Sul largo uso del participio presente nello stile burocratico moderno v. Serianni 1986: 52. 4 di cui n ’è·. ridondanza del pronome riconducibile a fenomeni di dislocazione e ripresa pronominale caratteristica della grammatica del «par­ lato».

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ritenuta sempre l’ispezione della medesima Congregazione e dei suoi delegati sulla qualità delle farine a tenore dell’art. 1° dell’Editto di panizzazione 17 dicembre 1781. (2) Tanto si partecipa alla prefata Congregazione Municipa­ le per la conveniente di lei notizia ed affinché venendole richie­ sta la meta tanto dal Donadeo che da qualunque altro prestinaro, possa rilasciarla sì al primo che agli altri o colla regola del vecchio sistema o con quella del prestino di S. Orsola, giusta le rispettive domande ed a tenore degli ordini civici, rispetto alla qualità del pane. B eccaria Milano, 9 novembre 1789.

12. Scritture di semicolti Si intensificano le testimonianze della varietà più bassa della lingua, la varietà definita italiano ‘popolare’ - nozione emersa negli ultimi decenni e su cui è ancora assai vivo il dibattito1 - e tipica di persone incolte in cui la lingua è più esposta all’influsso del dialetto, e pertanto si presenta più marcata diatopicamente di altre varietà: ciò induce a parlare più propriamente di italiano regionale popolare. È evidente che in questa fase appare macroscopico lo scarto con un italiano il cui standard di riferi­ mento è esclusivamente aulico e che offre una molteplicità di forme e paradigmi. Sono quindi più marcati i fattori che agisco­ no nella varietà popolare, cioè l’interferenza del dialetto, i feno­ meni di ipercorrezione e di semplificazione.

12.1. Una lettera del servo Elia Una testimonianza per il Piemonte ci è fornita dalle lettere di Francesco Elia. Astigiano, al servizio di Vittorio Alfieri, l’Elia accompagna il giovane e irrequieto scrittore nei suoi viaggi per l’Europa e ne fa la cronaca nelle lettere che spedisce ai conti di Cumiana, cioè il cognato e la sorella dell’Alfieri. Resoconti viva­ ci, quasi un controcanto realistico della giovanile esperienza 1 Un’ampia e ragionata discussione sull’argomento è in B erruto 1987: 106-138.

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celebrata daU’Alfieri nell’autobiografia, cioè nella Vita. E ci consegnano anche «l’immagine d’un personaggio quanto mai interessante e complesso», che vigila sulle scapestraggini del padrone, gli presta le cure adeguate, lo segue con discrezione, mettendogli a disposizione «la sua abile intraprendenza, la sua presenza di spirito, la sua arte di saper vivere, la sua intelligente perspicacia e sottilissima avvedutezza» (C a r e t t i 1961: 41-43). Tutte doti che permettono all’Elia di esprimersi con disinvoltu­ ra nell’italiano approssimativo proprio di chi non possiede della lingua che quel tanto del modello scritto appreso più o meno bene alla scuola del parroco o di qualche maestro laico. L ’Elia ha viaggiato sin dalla giovinezza per Italia ed Europa e deve sapersela cavare con disinvoltura con le lingue, a cominciare dall’italiano, in quella forma di lingua mescolata a dialetto, e anche a francese, che sarà per l’appunto chiamata da Foscolo «mercantile» o «itinerante», e che rappresenta il terreno di formazione dei successivi italiani regionali. L ’immediatezza espressiva del suo stile privo di filtri retorici ci restituisce l’im­ magine di uno strumento funzionale e compatto pur nella diver­ sità e disomogeneità delle sue componenti, testimoniando per certi aspetti, non è azzardato affermare, la lingua usuale a livello di conversazione. Pur estraneo alla cultura scritta, l’Elia ha qualche dimestichezza con lo scrivere, come fanno presumere certi caratteri della grafia: per esempio divide le parole secondo le norme moderne2, usa la punteggiatura, anche se non in manie­ ra regolare, ciò che è del resto spiegabile con la situazione informale del testo. Alcune particolarità di interesse solo grafico, come -ij nei plurali bracij, passagli, ma anche ogij, oppure luj, -ci- per z in giacio “ghiaccio” 2 (piemontese gias) con grafia che ha illustri precedenti nell’antica scripta padana (ma potrebbe trattarsi di suono e grafia toscani), e l’incertezza tra g e gi (spasegiare e spase gatta “passeggiata”), sono relitti di una antica tradizione di scripta settentrionale (non manca qualche caso di grafia dotta: obbligationi). Segni della realtà dialettale sono i frequenti scempiamenti (abiam o, picolo, ecc.) e i relativi raddoppiamenti 2 A giudicare dal campione fotografico di uno degli autografi, presentato nell’edizione delle lettere cui ci si riferisce, è assente un carattere tipico delle attestazioni del cosiddetto italiano popolare, cioè la concrezione di articoli, preposizioni, congiunzioni e pronomi con nomi, verbi e avverbi, ad eccezio­ ne dei casi di elisione (per esempio: laverebe “l’averebbe”).

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incongrui soprattutto della t nelle forme del participio passato (partitti, statto, tornatti, ecc.), molto più frequenti rispetto ad analoghe scritture basse precedenti,3* tipico fenomeno ipercorrettivo di reazione al dialetto, e che denota lo sforzo di adegua­ mento all’italiano. Altra spia è il frequente dittongo uo, estraneo al dialetto (duopo, puoj 2,3, puotevaY. Ancora al dialetto si devono forme come gionto, spontare, spontonf-, meso, forsa, piasab·, lasiò, disendevano7: fenomeni consueti negli scritti di genere pratico e all’epoca dell’Elia in via di scomparsa in Pie­ monte nell’uso soprattutto delle persone colte toccate dalla ri­ forma scolastica (v. cap. I). Più marcatamente dialettali appaio­ no forme come indare con prefisso ricostituito, e spasegiare con prostesi di sibilante. Pure del sostrato dialettale sono le desinenze del passato remoto e del condizionale (vedessim o, tornasimo 4, averesim o, saresimo 2,3), non ancora scomparse dall’uso pratico e familiare. E inoltre da notare la presenza del passato remoto, alternato con il passato prossimo, che tra Sette e Ottocento lo sostituirà quasi totalmente nelle parlate settentrionali (Di P assio 1984: 180-181): siamo quindi in una fase di transizione, caratte­ rizzata dalla compresenza di tratti di dialetto più arcaico e di dialetto regionale, tipica di uno standard incompiutamente assi­ milato (v. B ru n i 1978: 231). A livello morfosintattico i tratti specifici ‘bassi’ corrispondono a quelli dell’italiano popolare odierno: ci per “gli” («a facevo delle minestre» 2), si per ci («si trovasimo» 2, 4), le ridondanze pronominali («m i fece montare io con lui» 3, «gli pagò ancora loro» 4), la riduzione della negazione («per aver riposatto che due notti» 5). L ’organizza­ zione sintattica e testuale presenta «tutte le caratteristiche e i vezzi della persona incolta» (Corti), che scrive come parla, e

3 Come per esempio il quaderno di memorie dell’alessandrino Giovan Francesco Fongi, steso nell’ultimo decennio del Seicento, studiato da Mortara G aravelli 1979-1980. 4 Anche di questo fenomeno sono pochi i casi presenti nel diario del Fongi citato (ivi: 155). Quanto alla caduta delle vocali finali, tipica dei dialetti piemontesi (ad eccezione della vocale a), il fenomeno non affiora mai (Corti Ì969: 214), ed è pressoché assente anche nel Fongi. 5 Non mancano casi anche nelle lettere dell’Alfieri, il fenomeno del resto è ancora ben radicato nell’uso pratico e familiare, come si è visto. 6 Dove agisce la tendenza dei dialetti settentrionali a eliminare la componen­ te occlusiva dell’affricata alveolare (v. p. 38 n. 19). 7 Con passaggio della sibilante da palatale ad alveolare.

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riversa nella scrittura la sua limitata competenza sintattica. Omissioni di elementi della frase, anacoluti, tra i quali tipico il caso di frase con dislocazione a sinistra priva di preposizione segnacaso: «Tutti gli altri pasagij non vi è arivatto niente» “in tutti gli altri passaggi non è accaduto niente” 5 ; e il periodare elementare, a volte paratattico e coordinativo, a volte «tortuo­ so» (Corti), proprio di un discorso non pianificato e a cui manca la base del latino. Immancabile la presenza del cosiddetto che ‘polivalente’, generico legame sintattico con diversi valori: per esempio, subordinativo consecutivo in «grandi pezi di giacio, che il vento del Norde à gettatto da quella parte, che non si vedeva che giacio» 2, o legame relativo in «pezi di giacio larghi come la piasa di San Carlo, che li barcaroli disendevano so­ p ra...» 4; e altri fenomeni segnalati via via nelle note al testo. Sul piano lessicale la presenza del dialetto non è così marcata come su quello fonetico e morfosintattico. Ci sono le tipiche forme più espressive e concrete del linguaggio popolare come classe drento “andasse contro” 4, «se ne saresimo tiratti» “ce la sarem­ mo cavata” 3. Specifici regionalismi sono: risigatto (piem. risighé) “rischiato” 2; molti di base francese: chittato 59 (piem. chité, frane, quité), fatigatti “stanchi” 5 (piem. fatighé, frane. fatigué)·, e in altre lettere: bogiare (piem. bogé, frane, bouger) “muovere”, tonbatta (piem. tom bé, frane, tom bée) “caduta”, conbatto (piem. conbat, frane, combat) “battaglia” (lettere V e VI in C aretti 1961 ) . Tutte forme interessanti per lo sforzo di adattamento all’italiano che esse testimoniano: gradino basso di quel parlar fin ito , descritto da Manzoni per la realtà lombarda di primo Ottocento (v. cap. 1.2). Non manca qualche parola di prove­ nienza diversa, come il toscano costì 9 , o letteraria o comunque del modello scritto, quale ancor io, cagionò. Fonte: Taccuino di vaggio d i Francesco Elia da V ienna a Londra (1 7 6 9 -1 7 7 1 ), in C aretti 1961: 3 2 -3 4 , edizione che riproduce fedelmente l’autografo dell’Elia, limitandosi a introdurre alcuni accenti e ‘a cap o ’, a sciogliere certe abbreviazioni, e a intervenire episodicamente nella pun­ teggiatura e nell’uso delle maiuscole seguendo i canoni dello stesso Elia.

Pietroburgo 31 maggio 1770 (1) Ill.mo Sig. Padron mio Coll.mo. (2) Siamo partitti agli8 8 agli·, la grafia gl per Ij (e più avanti gli “li” e Itagliani in altre lettere, C aretti 1966: 31) tende ad aumentare in questo periodo nella scripta setten-

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14 di questo mese di Stockolm, ed agli 28 si è gionti felicemente costì in Petersbourg, viagio di miglia 638 e molto penoso, che vi è sette braci) di mare da pasare ed il primo è di 38 miglia e gli altri chi 10 chi 18 e più; il primo, duopo aver fatto qualche miglia di mare, abiamo trovatto il pasagio serratto da grandi pezi di giacio, che il vento del Norde9 à gettatto da quella parte, che non si vedeva che giacio a vista d’ochio, e per fortuna che non faceva vento, che averesimo risigatto, e siamo tornati a dietro10 a l’osteria: casa sola buona situatta in un deserto che non si trovava da mangiare, ma non mancavo di provisione, e di più ci facevo delle minestre di ortiche che cominciavano a pena a spontare, dove11 le trovò così buone che tutto il viagio, dove si fermavano12, bisognava subitto corere cercarne. (3) Si è però sogornatto che un giorno e meso, e si è impiegatto il tempo a spasegiare13 sopra il mare e vedere isole deserte, che la prima spasegatta che fece l’à fatta solo sopra una picola barca, che traversò un golfo e quando fu di là lasiò indare la barca, e restò in un’isola deserta dove a forsa di cridare14 si fece sentire, e si acorse con altra barca a prenderlo, e duopo mi fece montare io con luj con il violino, e luj remava ed io sonavo; e puoj presi ancor io un remo, ed abiamo fatto più miglia per indare in una picola isola deserta, dove mi fece ancora suonare molto il violi­ no, e faceva belisimo tempo, che in diffetto di questo non so come se ne saresimo tiratti noj due soli a remare, che sul princi­ pio indava molto male; e siamo arivatti a casa che le ortiche sono state buonisime per il grande apetitto che aveva il mio padrone. (4) Infine il sogiorno non è statto cattivo, atteso ancora che15 la serva de l’osteria faceva bene il letto; e si credeva di sogiornare trionale per progressivo adeguamento al toscano, ma forse anche per influen­ za della pronuncia settentrionale (v. il caso di Itagliani)·, significativo che nel Fongi, citato sopra, in condizioni analoghe compaia sempre il gruppo li\ muralie, taliata,piliare (Mortara G aravelli 1979-1980: 154; v. le considera­ zioni sul fenomeno in una serie di testi lombardi in Di P assio 1984: 172). 9 Norde·. Nord con grafia italianizzata normale nel Settecento. 10 a dietro·, per influsso della forma dialettale adré. 11 dove in un senso estensivo privo di diretto valore locativo, secondo un meccanismo di morfosintassi popolare. 12 si fermavano·, ci fermavamo. 13 spasegiare: la forma è anche dialettale toscana. 14 cridare: forma fonetica di antica tradizione padana. 15 atteso che: dato che, visto che; calco dalla locuzione congiuntiva fran­ cese attenda que.

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qualche tempo, quando con molto contento vedesimo16venire la posta di Rusia, che gli barcaroli17 della medesima anno detto che facendo un picolo giro e con spontoni per il detto giacio, si puoteva pasare, tanto più che vi era puoco vento; ed il mio padrone gli pagò ancora loro per indare avanti per farne il pasagio, dove più volte trovavamo dej pezi di giacio larghi come la piasa di San Carlo, che li barcaroli disendevano sopra per posare la barca che non ci dase drento; e puoj si trovasimo che non si vedeva più terra, e vi era puoco giacio, ed arivando da l’altra parte ne tornasimo trovare molto, e ci cagionò di restarsi18 qualche volta, ma però fecimo il viagio felicemente e sempre mi faceva sonare il violino. (5) Tutti gli altri pasagij non vi è arivatto niente19, ma con molta pena sempre per l’inbarco20 della carosa principalmente per la lingua; e sempre tutto cattivo paese21, continuamente rochi e sabi(o)ni22, e non altro, che se le provisioni che avevo fatto non fosero statte abondanti, sarebe indato male, che non si trova altro che qualche cabana23 di legno, che ànno cattivo pane e qualche puoco di latte2425, e non altro; e siamo gionti costì molto fatigatti per aver riposatto che due notti, il resto del tempo sempre in marcia, sensa quasi acorgersi che fose di notte per non eserne più a questo tempo in questo paese, che a mesa notte si lege comodamente una lettera sensa candelle e sensa chiaro di luna. (6) Sino a questo giorno à sempre mangiatto da M.r Sabattie. Vederà da questa mia se avevo ragione di quanto ò detto de Plll.mo Sig. Comte di Govon. (7) Sapia che era alogiatto in questa capitale in una cattivisima osteria, non da luj23, e che 16 vedesimo·. vedemmo; desinenza -es(s)imo, più avanti anche il tipo con accento sul tema: fecim o (cfr. Rohlfs 1966-1969: 566). 17 barcaroli·. con normale desinenza settentrionale rispetto alla corrispettiva toscana barcaiuoli. 18 restarsi·, arrestarci, con aferesi della sillaba e il solito si riflessivo di I plurale. 19 non vi è arivatto niente·, non è accaduto niente. 20 inbarco·. imbarco; grafia tipica della scrittura degli illetterati. 21 tutto cattivo paese : forma con ellissi del verbo «essere», una modalità dell’italiano popolare. 22 rochi e sabioni: adattamenti del piemontese rock “sasso, masso” e sabion “terra sabbiosa”. 23 cabana : capanna, con sonorizzazione e scempiamento. 24 qualche puoco di latte·, con costrutto partitivo alla francese come sotto «puoco di bollito». 25 non da luj·. non adatta a lui.

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doveva partire per l’armata, alor quando ci è sortitto26 più male venereo che bisognò pasare il gran rimedio, e Monsieur Sabattie l’à fatto venire a casa sua, dove è 40 giorni che tiene il letto e ci ànno datti più tagli] alla parte, cioè l’anno aperto tutta la verga, e ci ànno fatto venti frisioni di mercurio, e à cominciatto qust’ogij a mangiare qualche puoco di bolito, e pare che si tirerà daffare bene, ed à grandi obbligationi a M.r Sabattie, che vi è giente che mi ànno asicuratto che sensa luj sarebe morto per esersi meso nelle mani a cattivi cerugichi27. (8) Mi fa piacere che il mio padrone ne prende molto esempio; e sapia che duopo quella di Viena ne prese ancora due cioè gonoree, e che queste due ultime glieli ò speditte presto28, una 16 e altra 22 giorni, ed in tutte tre ci avevo fatto spendere tre ducatti cioè zechini, voi dire una a Viena, altra Berlino, altra Copenhaghen, che è tardatto la partensa di un mese. (9) Fa ancora molto fredo costì29, ed à ancora fatto neve tutti gli giorni, principalmente quest’ogij non ha chittatto30, che viene fortemente con gran stupore delli tre astegiane in Rusia. (10) Tiene altro domestico il Sig. Comte di Govon ch’é un allemano31, che non si intendano32 a parlare, ed ancora luj pasa il grande rimedio, ed il detto Sig. Comte è servitto da un piemontese, servo di M.r Sabattie. (11) E sperando che ne farà33 il medesimo uso delle altre mie, cioè al fuoco, paso col più profondo ed umile rispetto a rasegnarmi34. Um.mo ed Ubb.mo Suo servittore Francesco Elia.

26 et è sortitto: gli è uscito; con adattamento del francese sorti. 27 cerugichi·. chirurghi; più vicino alle forme volgari cirugico, cerusico. 28 glieli ò speditte presto : gliele ho sbrigate, cioè guarite, presto (con calco dal frane, expédier). 29 costì·, avverbio usato impropriamente come qui, mentre va riferito a luogo distante da chi parla. 30 non ha chittatto·. non ha smesso (v. la nota introduttiva). 31 allem ano : tedesco. 32 intendano·, intendono, per analogia con la I coniugazione. 33 ne farà·, con omissione dell’elemento nominale, cioè il dato o tema della frase, ripreso dal clitico ne, la lettera che l’Elia chiede venga mandata «al fuoco», cioè bruciata. 34 rasegnarmi·. firmarmi, vocabolo dello stile cancelleresco epistolare.

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12.2. Una lettera dal carcere di Portolongone Molto più marcata e interferita dal dialetto è la lettera di Giuseppe Pronto, abruzzese di Introdacqua, che scrive al padre nel marzo 1791 dal carcere di Portolongone nell’isola d’Elba. Nella lettera il Pronto descrive le penose condizioni di vita del carcere e chiede al padre i mezzi per poter organizzare una fuga. La resa grafica è tipica della scrittura dell’illetterato, che non usa punteggiatura e segni diacritici (è sempre senza accento), applica arbitrariamente le maiuscole, non sa analizzare i gruppi sintagmatici, li divide erroneamente {la vete “l’avete”, vi disere “vedessero”), scrive articoli, pronom i e altre particelle conglutinate (adire “a dire”, a laria “all’aria”, lam m e “l ’anime”), o deglutinate {li in bosibile “l’impossibile”, in bostare “imposta­ re”). Il nostro scrivente «incolto» ha difficoltà a rendere i nessi consonantici, fa cadere per esempio n in Pazizia “pazienza”, pizate “pensate”, m in cobagni “compagni”, in tebbe “tempo”. Altre incertezze grafiche: ci per il suono velare oltre che per la palatale sonora {maciate “mancate”, e anche “mangiate”, occie “occhi”, cende “gente”). Scrive aciutare “aiutare”, cariciare “carreggiare, trasportare pesi” 1, ciorno “giorno” 2, in abruzzese rispettivamente ajutà, carjà,jorne, rendendo il suono j col segno ci per reazione forse a una tendenza dialettale ad articolare con affricata palatale sonora. Scambia infatti spesso sorda e sonora palatale, per esempiopecce “peggio” (diai.pegge), Cinare “Gennaro”, e nei nessi con n: restrinciere, M ichelancilo e M ichelangilo. Siamo nella zona dialettale dove le vocali finali si affievoli­ scono e il fenomeno ha diretto riflesso nella grafia in date “dato”, vate “vado”, spere “spero”, deve “devo”, subite, ecc. Pure rifles­ so del dialetto sono il dileguo di v in posizione intervocalica {riciute “ricevute”), la sorda in preco “prego”, quai “guai” 3, veco, vecone “veggo, veggono” 2, 3, castico 2, vate “vado” 1, e nei nessi con r in patro e matre. Di qui i numerosi scambi tra sorda e sonora per cui cran per gran, pivete per bevete. Della fonetica meridionale è la sonora dopo n {sendire, londana, ecc.), con forme di reazione come abbatonare “abbandonare”, e la affricata in luogo di sibilante dopo n e r {pizate “pensate”, pirzona “persona”). Dialettali le desinenze verbali fucine “fac­ ciano” 3 (cfr. R o h l f s 1966-1969: 559), e altri fenomeni che si segnaleranno in nota (e per i quali cfr. G i a m m a r c o 1968). E ancora il nostro scrivente ‘popolare’ semplifica i paradigmi

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riducendoli ad -a e ad -o, per esempio grazia “grazie”, matra “madre” e Patro “padre”; scambia le parole {sorta per “possibi­ lità”) (su questo tipo di fenomeni cfr. B r u n i 1978: 227-233); organizza il discorso per successione continua di coordinate e subordinate, con bruschi cambiamenti di progettazione. Si veda nel primo capoverso l’alternarsi di coordinate con e, subordina­ te con onde e con che ‘polivalente’. Fonte: la lettera1 è pubblicata da Vincenzo Balzano, Notizie storiche sulla famiglia d el capo massa Giuseppe Pronto d ’introdacqua, in «Albia», I, fase. V e V I, Roma, 1924, 2 9 5 -3 1 2 . L a riproduco per intero, dato l’interesse del docum ento, e nella trascrizione fornita dal Balzano, con la riserva di un controllo suH’originale che si conserva «nella biblioteca di Giuseppe Liberatore in Castel di Sangro» (295).

(1) Carissimo mio Patro da il Primo Ciorno che mi Porto in questo ripartimento di loncona vi o scrite due lettere e V. S. non mi avete date mai risposta onde io vate a credere che V. S. non la vete riciute onde la Preco che apena che ricivete questa mia letera non maciate di farne subite la risporta2 e datime notizia di Tutta la nostra Casa e ditime dove si ritrova michelancilo e Cinare che io li deve scrivere una cosa di Primura assai3 io grazia al signore sto bene e così spere che sia di V. S. e mia matre e Tutta la nostra Casa. (2) Caro Patro, si mi volete aciutare adesse e tebbe4 si non volete sendire qualche brutta notizia di fatte mie perché io mi veco troppe strapazzate da li Cran fatiche che mi fanne fare che dala matina a fine alla sera5 non si fa altre arte di cariciare pietre di peso un Candare6 e se non va leste7 corene8le bastonate a pese

1 Devo la conoscenza del docum ento alla amichevole e generosa segnalazione di Francesco Sabatini. 2 risporta·, forse solo trascuratezza grafica (v. sopra risposta). 5 assai : grande, di uso meridionale. 4 e tebbe : è tempo, con passaggio mp > mb e assimilazione della sonora nasalizzata espressa con bb, cfr. C ortelazzo 1972: 125. 5 a fin e alla sera : fino alla sera, sovrabbondanza di preposizioni caratte­ ristica dell’italiano ‘popolare’ 6 un Candare: misura di capacità. 7 si non va leste : se non ti sbrighi. 8 carene·, corrono, con desinenza dialettale come nei successivi devene “devono”, trovene “trovano”.

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di Carbone e si devene Portare un miglie londana e Tutta salita9 e il pecce che e10 non mi fanne meno fare una spazata11 di Pane onde scrivete a micchelangilo e a Cinaro che faccine Tutte li in busibile di restrinciere12 Trenda docati e mandarmele subite si Poi li fratelli mi vonne13 abbatonare V. S. avete da fare Tutt’e li in bosibile di ramidiare V. S. e che si no io Ci Proverò si Pure sapesse che fosse fatte appezza il Ciorne appresse14 ma vi dico che si non ci sone li dinare si sta arisica13 di essere scoperto ma si sono scoperte e sono ripreso in questo ripartimento ci sono brutte Castico16 che non vi sto adire il di più ma avenne il dinare e in bosibile a fa Castagna17 e poi questa e un isola e a Tom e a tom e18 e mare onde si non agge una barchetta e il marinare che m’invarica19 non si puole20fare nide21 e per queste ci vonne li dinare onde si michelancilo e Cinaro mi vonne livare da queste Pene e si trovene in qualche Palese22 drenda23 al state Papale da la stesse mi Ponne fare ricapitare questo dinaro ma V. S. mi dice

9 Tutta salita·, tutto in salita con omissione di preposizione. 10 il pecce che e·, il peggio è che. 11 spazata·, spanciata, scorpacciata, popolarismo espressivo costruito sul dial. panzata (con la solita difficoltà a rendere i nessi consonantici, come più sotto abbatonare, e ricomeravi). 12 restrinciere·. mettere insieme. 13 vonne·. vogliono, tipo conforme all’italiano antico vonno (così ponne più avanti) fatta su forme come vanno, danno (Rohlfs 1966-1969: 548). 14 fatte appezza il Ciorne appresse: fatto a pezzi il giorno dopo. 15 si sta arisica·, si è a rischio con preposizione agglutinata (dial. riseche). 16 brutte Castico·. brutti castighi, con la solita incertezza delle vocali finali. 17 avenne il dinare e in bosibile a fa Castagna·, avendo il denaro è impos­ sibile essere colto sul fatto; avenne con assimilazione nd > nn, fà castagna equivale a “fare un marrone” «ma in modo da essere colto in sul fatto» (cfr. R o c c o : 1 8 9 1 ).

18 a Tom e a tome: tutto intorno. 19 m’invarica: m’imbarca, formazione parasintetica sul sostantivo vareca “barca” dove la vocale e, inserita a sciogliere il nesso sintattico secondo un fenomeno fonetico di parte dei dialetti meridionali, ha suono fievole. 20 puole : può, forma anche dell’italiano antico costruita su vuole (Rohlfs

1966-1969: 547). 21 nide: niente, con passaggio nt > nd della forma dialettale niente e riduzione nella pronuncia di en alla vocale t in iato. 22 paiese: paese, forma meridionale in una fase precedente l’evoluzione a paese (dal latino tardo pagense dall’aggettivo pagensis da pagus). 23 drenda·: dentro, con spostamento di r alla sillaba precedente secondo il tipico fenomeno fonetico della metatesi.

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dove si trovene che Poi li scriverò io ma ancora V. S. scrivetici24 e ditie23 il Tutto. (3) Si Poi non mi vonne servire V.S. fate li in bosibile di ramidiare e si Poi non Potete Pazizia ma fatime subite la risposta si putete ramediare V. S. informative a Solmona di qualche mercante avesse qualche corisponezia26 in loncona fatie27scrive­ re che mi li consegna e V. S. li darete allui si Poi non ci fosse questa Corisponezia mi li potete rimete28 per la Posta, ma fatile in bostare per una terza pirzona e non li fate sapere non mene29 a laria onde vi dico che io sto nelli quai per debite onde si non potete V. S. dite a li fratelli che facine Tutte li in bosibile che si io stasse in liberta non solo queste miserie mi basterebe lanime di restrincere tante ore30 per quante pesine lore31 onde ditie che facine tutte li in bossibile ditie ancora che abadine affatte sue32 e che non si fidene de li nostre Paisane che oggie il mondo e pino33 di Tradimende e ditie ancora che non stanne dove bazicane cente34 di il nostro Paiese e drendre33 al state Papale, ditie che non ci stanne che si lore ricapine a quai36 non vecone37 più lume se per caso ritorne al nostro paiese queste state ditie che non se acostine al nostre paiese e quande vecone le mura, ditie che fucine38 come che vi disere il diavolo. (4) Poi V. S. videte si che mi anne fatte a me Povero disgraziate mi anne tirate a fareme39 24 scrivetici: con ci “a loro”, secondo una tendenza dell’italiano popolare presente anche nel testo precedente. 25 ditie: ditegli, con assorbimento del pronome atono palatalizzato (illi > ye), la forma si ripete più sotto. 26 corisponezia: corrispondenza.

27 fatie: fategli (cfr. n. 25). 28 rimete: rimettere. 29 non mene: nemmeno. 30 restrincere tante ore: mettere insieme tanto oro. 31 per quante pesine lore: per quanto pesano. 32 abadine affatte sue: badino ai fatti loro. 33 e pino: è pieno, con esito pi- da pl - (lat. plenum) che si ritrova nell’an­ tico umbro e nel laziale meridionale (cfr. Rohlfs 1966-1969: 186). 34 cente: gente. 35 drendre: dentro. 36 si lore ricapine a quai: se si trovano nei guai. 37 vecone: vedono. 38 fucine: fuggano. 39 farem e: farmi, con inserimento di vocale nel gruppo consonantico rm, analogo fenomeno più sotto in laspera “l’aspra” (sul fenomeno cfr. Rohlfs 1966-1969: 338).

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finire sopra a una forca onde di quande la sto Pricande non li fate asapere a nessune vi ricomande queste mie figlie e vi ricomande anche mia moglie di averli li occia sopra e ditie che io non so morto. (5) Ditime si li Cobagni di Cinare si che si ni so fatte40 o sone andate in Calerà o Pure stanne ancora nelle Carcire nove ditime si nocezio41 e Giacome Federico si42 sono state ancora Condannati in Calerà o Pure sono state cavate in libertà perchè questi Solmondine43, quande sepere laspera44 nostra Codanna cibere45 pieacere ma io ancora non so morte perche questi quande ti ci avene46 da vande menavene la Coda come Cani doppi che io andide47 in Calerà andava per la vicaria e diceva che noi same tre fratelli latri e Traditore e daveame mazate tutte li nostre Cobagni a via di Tradimende; ma questo non boria48 basta che nun si more che in quesse49 Parti spere di ricamenarci. Io non vi voglie più atidiare stiative alecramente50 e non pizate a quai e maciate e pivete51 e non patite che apresse Dio Provede e quande sapete che io so morte allora dite che non mi rivedete più ma io spero con laciute52 di Dio quande e questa state53 di rabraciarci e ricomerarvi54quante bene avete fatte a me e le mie filgie e si il Signore mi da la sorta a vinire in queste Parte

40 che si ni so fatte·, che cosa ne è stato, con cambio di progetto del discorso. 41 nocezio·. Innocenzo, con caduta della consonante iniziale e della n nel sesso nc. 42 Ripetizione della congiunzione si («ditime si... si») come nella frase precedente «Ditime si li Cobagni di Cinare s i...», un fenomeno di ridondanza caratteristico dell’uso ‘incolto’ della lingua. 43 Solmondine·. abitanti di Sulmona. 44 laspera: l’aspra. 45 cibere: ci ebbero. 46 avene: avevano, forma di imperfetto con caduta della v e fusione della e alla vocale tonica (cfr. Rohlfs 1966-1969: 553). 47 andide: andai. 48 non boria: non importa. 49 quesse: queste, quesso (< ECCU ipsu) è riferito a chi ascolta, equivalente a codesto. 30 stiative alecramente: statevi allegramente. 51 maciate e pivete: mangiate e bevete. 52 laciute: l’aiuto. 53 quande e questa state: quando è quest’estate. 34 ricomerarvi: ricompensarvi

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vi voglie fare videre belle Cose salutatime mia matra e a mia moglia55 e li Fratelli e Tutta la nostra Casa con le lacrime a li occie vi base li mane e vi chiede la S. binidizione Paterna e materna non maciate quande io la sto pricande56 subite scribete alli fratelli Micchelancilo e Cinaro e ditie che facine li in bosibile di ramidiare la somma di Trenda 30 docati e mi li facine ricapitare quande più Primo Ponne ma si mi fossere ricapitate alle mani per il mese di abrile per allora averebe un amico per li mane che Poi si Parto ma quande ci sone li dinare a chi ti ricomande tutte ti servene onde fate li in bosibile. Aff.mo suo figlio Giuseppe Pronto

33 salutatim e... a mia moglia: accusativo (animato) con preposizione, fe­ nomeno morfosintattico tipico dell’italiano meridionale. 36 pricande: pregando.

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Applicazioni ed esercizi

1. In Illum inisti italiani 1958 è pubblicata una scelta degli Elem enti di economia pubblica, le lezioni tenute da Cesare Beccaria negli anni 1769 e 1770. Suggerisco di procedere a uno spoglio dei tecnicismi, sulla scorta dei capp. IV.2 e 3 e dei Testi 3.3 e 11, e nella prospettiva di F o l e n a 1983: 39-51. Andranno presi in con­ siderazione i termini di ambito economico, le eventuali oscil­ lazioni, i sostantivi nominali, nomina actionis e agentis, consideran­ do il tipo suffissale, e i significati legati alla ideologia dell’autore. Degli E lem enti si riportano per un primo esercizio passi della Parte Prima, cap. I l i e della Parte Seconda capp. I e II: (1) Se dobbiam o sperare che il tem po possa produrre un freno alle malattie ed un limite alla m ortalità spopolatrice, lo dovressimo aspettare da un regolam ento che obbligasse i m edici tutti a tessere una storia delle m alattie che intraprendono a curare, senza però renderli risponsali del buono o cattivo esito de’ mali, fuori d e’ casi d ’un’evidente malizia o di un equivoco inescusabile, per non allontanare molti dallo studio d ’una scienza im portante e ristringerla in m ano di pochi, il che sarebbe fatale al progresso di questa com e di tutte le altre... (2) In questa maniera avressimo un deposito d ’esperienze, per cui i mali presenti servirebbero di norm a e d ’istruzione ai secoli avvenire (159-160). (3) Io non pretendo di approvare il chim erico p rogetto di render gli uomini com odi e agiati: questa idea distrugge se medesima. (4) La fatica di nessuno produrrebbe il disagio di tu tti... (5) L ’avvilimento del prezzo d e’ prodotti diminuisce il prodotto n etto nelle mani d e’ proprietari; questi, avidi delle ricchezze, ed accostum ati allo splendore ed alle p re­ tensioni del loro rango, strappano di mano al coltivatore il pane della necessità; rade volte i contadini sono in istato di procacciarsi un avanzo da un debole raccolto, per il quale avanzo non solamente potrebbero soddisfare al bisogno della vita, ma anche rifonderne sulla terra una porzione per ottenerne da quella in seguito una più abbondante ricom ­ pensa. (6) L e idee sono cangiate su questo punto ad un segno che è invalso ne’ politici il barbaro assioma che il contadino quanto più è

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miserabile ed oppresso, tanto più industriosam ente ed indefessamente lavora: tanto è vero che gli uomini confondono le idee più chiare e luminose, solo che l’interesse lo consigli (1 7 1 ). (7) Le arti, com e le cose tutte, non prosperano quasi mai nelle mani di un solo. (8) Tale è la legge eterna che contribuisce a legare gli uomini in società. (9) Ciò che ciascuno vi può aggiungere non è che un piccol grado; ed un’arte che sia nelle mani di un solo o di pochi non può che restar sempre languida ed im perfetta, arricchendo un particolare, non già la nazione, né potendo giammai sostenere la concorrenza con simili arti di altri paesi dove siavi libertà a ciascheduno di professarle; il che produce emulazione a perfezionarle e gara a scem arne il prezzo, onde le ricerche saranno sempre rivolte verso dove spira la libertà, non dove siede il severo m onopolio. (10) N on è nuovo ed è evidente questo ragio­ namento: o l’arte di cui si vuole accordare il privilegio esclusivo è già introdotta nel paese, o non lo è; se è già introdotta, non si può togliere senza ingiustizia il profitto di molti per accum ularlo nelle mani d ’un solo, profitto però che da se medesimo tenderebbe a diminuire, perché le ricerche e l’esito scem ano dove la concorrenza sia tolta; o l’arte non è introdotta, ed allora chi richiede il privilegio esclusivo fa ragionevol­ mente sospettare, anzi lascia con ogni sicurezza presumere che egli voglia o debba essere un cattivo manifattore. (11) Ogni arte nuova, che da qualcheduno venga introdotta, dà sempre per se stessa un vantaggio in favore dell’introduttore, a preferenza di quelli che vengono dopo di lui. (12) È sempre più grande presso gli uomini il credito degli introduttori che degli imitatori. (13) Chi introduce un’arte nuova, oltreché può chia­ marsi inventore relativamente alla nazione priva di quell’a r te ... (14) Chi dunque dimanda privative, dimanda di poter ingannar im punemente, e all’om bra delle leggi tiranneggiare il com pratore. (15) Chi domanda privative è un uomo non sicuro di se stesso, il quale cerca di coprire quel rischio che una mal intesa avidità gli fa azzardare, e, poco appoggiato alla probabilità di riuscire, cerca non nella propria attività e diligenza, ma nell’altrui dipendenza e servitù un reddito ed un profitto. ( 16) D ippiù... la concorrenza dei m anifattori abbassando il prezzo della m anifattura e perfezionandone l’opera, aumenta di più la ricerca e lo spaccio, di quello che non scemi alla lunga il profitto di ciascheduno in particolare, suppo­ sto che questi avesse il privilegio esclusivo, il quale se esclude gli altri dall’esercitare un’arte simile, esclude anche ed aliena una parte dei com pratori dal p rocacciarsi le produzioni di q uella...(1 7 8 -1 7 9 )

Andranno consultati G D LI 1961-1992, D E LI 1979-1988 e DEI 1950-1957, badando agli specifici significati delle parole. Per esempio: m anifattore 10 per “imprenditore” ha come prima attestazione P. Verri e «Avvilimento del prezzo» 5 nel senso di “diminuzione” è attestato a partire dal Beccaria (GDLI); risponsale 1, variante di responsale, nel preciso significato di “chi è chiama­

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to a rispondere del proprio operato” è pure di recente uso (GD LI ne dà una attestazione settecentesca). Il Beccaria aveva già a disposizione il corrispettivo moderno responsabile, parola, come si troverà in D a r d i 1992: 562, diffusa sì dal francese (responsable) (così B e r g a n t i n i 1745 e indicazioni moderne come M i g l i o r i n i 1978: 562 e D ELI), ma introdotta dall’inglese responsible. E forma di uso frequente nel Settecento, e biasimata come neologismo fino in pieno Ottocento ( Z o l l i 1974 e D a r d i 1992: 563 n.). Quanto a prodotto 5 nel senso di “cosa creata dalla terra o derivante da un’attività umana”, D ELI data la prima attestazione al 1771, cioè immediatamente dopo il nostro testo, rifacendosi a Z o l l i 1974: 97, che cita il Dizionario di agricoltura, n el quale si contiene la coltura e conservazione d e’ diversi prodotti riguardanti le terre seminative ecc., di Ignazio Ronconi fiorentino, Venezia 1771. Di privativa 14 si è trattato al Testo 11. Si noteranno il francesismo rango 5 e la forma setten­ trionale di condizionale in 1 e 2. Tenere conto anche della struttura sintattica, rilevandone complessità e linearità. 2. Analoga ricerca si può svolgere su un testo di genere vicino ma di area meridionale, il Viaggio per la Capitanata di Francesco Longano (1790), dove si dà un quadro delle condizio­ ni economiche della regione (pubblicato in Illum inisti italiani 1962). Se ne riportano i paragrafi 16, 17, 18 e parte del 21. (1) Si sa a pruova che una campagna coltivata con tutte le regole dell’arte ti dà il doppio e il triplo più di fruttato di quella coltivata alla peggio. (2) O ra l’arte non solo è figlia delle cognizioni teoretiche, mag­ giormente delle pratiche, ricavate dalle esperienze, ed osservazioni suc­ cessive. (3) N e siegue da ciò che dove tale pratica manchi, l’arte dee essere barbara e negletta. (4) Di qui la mancanza di quel massimo fruttato, che l ’avido colono sospira nel tem po stesso che trascura i mezzi. (5) Non ho mai capito com e ogni arte si appara in più o in meno tem po sotto dei periti e maestri della medesima, e poi l ’arte di tutte le arti non si appara punto fra noi. (6) Il sarto, il faligname, il torniero, lo scarparo, l’orologgiaio, il bardaro, il cirusico, il m edico si m ettono forse ad esercitare i loro mestieri senza scuole, senza studio e senza applicazione? (7) A quale de’ giovani si fa cognita la natura dei terreni in contrade diverse? (8) Chi mai gl’insegna a conoscere le qualità delle piante e de’ semi, e loro dà il m etodo di saperle proporzionare alle terre? (9) Quale sia il tem po di arare, quale quello della semina? [ ...] . (10) Si crede ch ’ogni terra colle semine successive resti defatigata ed isfruttata a segno che da tem po in tem po convenga farla riposare, e come

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rianimare. (11) Si hanno i concim i per disutili, per cui le immondezze perdonsi negli abitati, donde le infezioni autunnali. (12) Si hanno anche com e superflue le siepi intorno ai terreni. (13) Il cambiam ento del m eto­ do di arare o di zappare, o degli instrumenti stessi, si ha per un p eccato im perdonabile [ ...] (14) È vietato ai massari di cam po del Tavoliere l ’uso della p erticara, com e quella che m aggiorm ente sprofonda e muove il terreno, per cui si ritarderebbe il rinascimento dell’erbe, e si osservarebbero meno erbose le campagne. (15) Onde p orto sentim ento che questa alternativa ugual­ mente nuoce al pastore e al m assaro. (16) Toglie al primo parte del pascolo, e priva l’altro d ’un fruttato maggiore. [·■·] (17) Dalla brieve analisi degli ostacoli già riferiti, facilmente s’inten­ de lo stato attuale dell’agraria nella nostra provincia e particolarm ente del Tavoliere. (18) Essa veram ente è una delle più felici del regno, ed è così ampia che ai bestiami fa m ancare il pascolo, i boschi per l’ingrasso d e’ negri, e il legname per costrurre edifizi e per brusciare. (19) Ma quando poi pongasi mente alla vastità delle semine e alla pochezza delle b raccia ed infingardaggine dei coloni; quando alla mancanza dei ricoveri nelle campagne lontane dagli abitati, alla rozzezza degli istrumenti e alla mancanza di proprietà di terreno, non si può mai conchiudere che la fiorisce. (20) E via più uno conferm asi in tale sentim ento, allorché ripensa alla mancanza di assistenza ai massari nelle disdette successive, a quella di poter estrarre il superfluo nell’abbondanze, e alla ignoranza delle cognizioni agrarie. (21) E sempre più la ritrova tale, dove si m etta a valutare le pressioni d e’ pesi civili, la influenza malefica dei ministri baronali, degli incettatori e degli affitti annuali. (22) N é l’epoca della sua risorta è propinqua, perché la gente di campagna è pregiudicata, ed è priva al tutto di protezione efficace. (23) E finalmente, l’idea d ’ignomi­ nia scioccam ente attaccata a quest’arte disanima chi l’esercita, e n ’allon­ tana qualunque la vorrebbe abbracciare (3 9 2 -3 9 5 ).

Lo spoglio si interesserà di parole come fruttato 4, ingrasso (18), deverbale a suffisso zero di cui la prima attestazione data da GD LI è del 1813; massari 14, un termine che abbiamo già incontrato in documenti settentrionali (cap .I.l), ma col signifi­ cato di “responsabile amministrativo di una comunità” e quindi non corrispondente al valore qui usato del termine, per il quale cfr. DEL Di area meridionale è negri 18 per “maiali”. Per appara consultare GDLI. Si noteranno i suffissi non toscani nelle deno­ m inazioni dei m estieri (sca rp a ro , b a r d a r e ), nella parola immondezze, il suono -ar- nel condizionale della prima, la palatale in brusciare, per i quali fenomeni si consulti R o h l f s 1966-1969. Si noteranno le forme dittongate siegue, brieve, truova, non rare nel napoletano. Considerare anche la sintassi, notando il tipo di

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costruzione prevalente della frase, se diretto e progressivo; la strutturazione dei periodi, se ipotattica o paratattica, e i costrutti sostantivali astratti. 3. Una testimonianza più diretta della lingua dell’uso non letterario può essere fornita dalle lettere di tipo famigliare, ge­ nere di scrittura più aperta allo stile della conversazione e dove più liberamente filtra la lingua d’uso. Tra i carteggi settecente­ schi particolarmente prezioso è quello dei fratelli Verri, in par­ ticolare la parte contenuta nell’edizione curata da G a s p a r i 1980, per i criteri rigorosamente rispettosi dei testi originali. Si tratta di lettere scambiate tra Pietro ed Alessandro durante il viaggio compiuto da quest’ultimo a Parigi e a Londra negli anni 17661767. Riporto qui parte di una lettera di Alessandro da Londra, dalle pp. 205-206 dell’edizione citata. (1) Vi darò una idea del m odo in cui Londra è fabbricata, com e potrò col mezzo della sola scrittura. (2) L e strade sono vaste, e non fissano l’attenzione per essere fiancheggiate da grandi edifizi, ma perché le case sono fabbricate Luna dietro l’altra con molto am ore dell’ordine. (3) Vi sono de’ grandi tratti in linea dritta, tanto il m uro che l’altezza e le finestre. (4) A parte a parte non hanno gran m erito; ma quel tutto fa un mirabile effetto. (5) Q uesta regolarità rende Londra così eguale da per tutto che difficilmente s’impara a caminarla da sé solo. (6) Almeno io provo quest’effetto. (7) D all’una parte e dall’altra vi sono de’ larghi e bellissimi m arciapiedi, alti più della strada un palmo; la strada poi di mezzo è pessimamente pavimentata. (8) A questi orribili pavimenti io attribuisco la invenzione delle molle alle carrozze, le quali sono com u­ nissime. (9) Di queste molle ve ne sono di varie sorte e sovente la stessa carrozza ne ha di due o tre spezie, le quali Luna dopo l’altra elidono le scosse. (10) L ’una è per esempio a coda di gambaro, l’altra a guisa di spiraglio, ecc. (11) La forma delle carrozze è molto semplice, com e tutte le cose inglesi. (12) Sono, al vedersi, sottilissime, sicché sembra che debbano rom persi facendo un miglio. (13) Ma sono solidissime. (14) I Fiacber poi sono pessimi perché non hanno molle. (15) E lo stesso ch ’esser in borasca. Anche le portantine, che sono in grand’uso, non riescono meno incom ode. (16) Sia che i portantini vi trovino più il loro com odo, sia l’usanza, sia altra cagione ch ’io non so, essi fanno saltare in quella cassetta com e se si trottasse a cavallo. (17) E precisam ente la stessa cosa. (18) N on tutti p otrebbero accom odarsi a questo ballo. (19) Alcuni forastieri patiscono. (20) P er altro qui le più delicate Dame vanno generalmente in tal vettura. (21) Ma torniam o alla descrizione di L o n ­ dra. (22) I tetti non hanno quella che chiamiamo gronda. (23) Non porgono in fuori più di qualche dito. (24) L ’acqua è raccolta in tubi che

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Applicazioni ed esercizi

vengono lungo il m uro a portarla sul pavimento della strada. (25) N on vi sono porte di carrozze. (26) L ’accesso delle case è così. (27) V ’è una porta, 0 meglio un uscio, con una colonna per parte e sopra un architrave, tanto perché abbia un’aria di p orta; si m ontano due o tre gradini e si è già nell’anticamera de’ servitori, che suol essere immediatamente la prima cam e­ ra. (28) Le porte sono sempre chiuse, notte e giorno. (29) Si batte quando si vuol entrare. (30) I gran Signori, se vanno a far visita, battono forte e molti colpi, e di mano in mano che la persona visitante è di rango più basso diminuiscono i colpi. (31) Vi sono le sue regole. (32) Anche a Parigi succede così. (33) Andando a far visita, sarebbe impertinenza il b attere più di una volta. (34) Non è che il Padrone di casa che si batta più volte.

Per apprezzare debitamente i tratti propri di un discorso più informale, confrontare il testo con quello di genere letterario dello stesso Verri posto in antologia (Testo 5.3). Osservare la sintassi di tipo moderno, con frasi allineate paratatticamente secondo uno stile proprio della cronaca (v. cap. III.3), con strutture del parlato, per esempio «Di queste molle ve ne sono...» 9, per la quale v. cap. V. Si noteranno quindi nel lessico i francesismi (fiacher 14, vettura 20, rango 30, m arciapiede 7), che ci si può provare a classificare in base alle categorie indicate al cap. III.2 (per m arciapiedi cfr. M i g l i o r i n i 1978: 575, F o l e n a 1983: 33 e D EI 1955-1957). Infine nella fonetica i tratti di derivazione dialettale (gambaro \