Il seme dell’intolleranza. Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492 9788897544012

L'anno 1492 segna tradizionalmente una cesura epocale importante: con la scoperta dell'America e l'avvio

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Il seme dell’intolleranza. Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492
 9788897544012

Table of contents :
Indice......Page 129
Copertina......Page 2
Frontespizio......Page 4
Dedica......Page 6
Introduzione......Page 7
IL SEME DELL’INTOLLERANZA. Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492......Page 10
Parte prima Alle origini dell’antisemitismo......Page 11
1. 1492, inizio della storia moderna......Page 12
2. Granada 1492. Un nodo della storia del mondo......Page 24
3. Prima di granada: alle origini dell’intolleranza......Page 28
Parte seconda La persuasione, il controllo, il sospetto......Page 45
4. La conversione. veri e falsi cristiani......Page 46
5. La nuova inquisizione e l’osservanza della fede......Page 57
6. L’espulsione degli ebrei......Page 66
Parte terza Il potere della fede, la fede del potere......Page 72
7. La Responsabilità delle scelte......Page 73
8. Gli esiti: purezza di sangue e differenze di razza......Page 81
9. Eredità lunghe......Page 92
Per concludere: un protagonista......Page 98
I. Disposizioni per il vescovo di Gerona dell’Inquisitore generale Torquemada (20 marzo 1492)......Page 101
II. Editto di espulsione......Page 104
III. [Per il regno dell’Aragona]......Page 109
Note......Page 114

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I LIBRI DEL FESTIVAL DELLA MENTE serie diretta da Giulia Cogoli

Adriano Prosperi

IL SEME DELL’INTOLLERANZA Ebrei, Eretici, Selvaggi: Granada 1492

© 2011, Fondazione Eventi Fondazione Carispe Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria Prima edizione 2011 ISBN 978-88-97544-01-2

alla memoria di Armando Saitta, «Rio Darro»

Introduzione

La recente scoperta che nella mappa del genoma umano non esiste il gene della razza ha destato scarsa meraviglia: da tempo sappiamo che le differenze fisiche su cui si reggono i discorsi di tipo razzistico non hanno fondamento. Non esiste il «sangue blu» della nobiltà. Non esiste la puzza dell’ebreo. È esistita una classe di persone che si faceva vanto di non dover esercitare nessuna attività manuale per vivere: e l’assenza di lavoro manuale si rivelava in una epidermide delicata che lasciava trasparire una rete venosa azzurrina, invisibile sotto la pelle callosa di contadini, marinai, commercianti. Ed è esistita la costrizione del ghetto che, chiudendo in spazi ristretti e senza acqua corrente la popolazione ebraica, giustificava après coup gli odori acri di corpi e di ambienti attribuendoli alla «natura» degli ebrei. È esistita la pratica di battere con nerbate gli schiavi africani: dal che, rovesciando la cultura in natura, si ricavò la tesi che la pelle dei neri fosse diversa da quella dei bianchi, destinata a ricevere bastonate perché diversamente spessa e robusta rispetto a quella dei bianchi. Era la natura dei corpi dei neri africani a denotare la destinazione razziale al lavoro schiavile e non viceversa. Non molto diversa è oggi la condizione delle minoranze di immigrati o di marginali nei paesi ricchi, che vengono sottoposte allo stesso meccanismo di disumanizzazione attraverso il mezzo semplicissimo della limitazione dei diritti. «Come la parità nei diritti – ha scritto Luigi Ferrajoli – genera il senso dell’uguaglianza basata sul rispetto dell’altro come uguale, così la diseguaglianza nei diritti genera l’immagine dell’altro come diseguale, ossia inferiore antropologicamente proprio perché inferiore giuridicamente»1. In tutti questi casi siamo sempre davanti a quella forma di esclusione sociale dettata dal potere che consiste nell’invenzione di una barriera della diversità: da una parte il vero essere umano, dall’altra il non-uomo. Come ha osservato George Mosse, al posto della persona in carne ed ossa il punto di vista razzista mette uno stereotipo umano. Il che consente il sistematico rovesciamento ideologico dei dati reali e la costruzione di piramidi di sopraffazioni su finte basi naturali.

Dunque, ogni volta dietro la supposta differenza di natura è emersa una differenza di potere. Ma, se queste antiche legittimazioni della violenza e dello sfruttamento sono diventate nel nostro presente del tutto prive di credibilità, non per questo è venuta meno la produzione di «diversi», di frazioni di umanità a regime speciale, prive di diritti, offerte al disprezzo e all’odio delle maggioranze di «normali». L’esperienza del passato si rispecchia in quella del presente. Se sul piano teorico le pretese di verità delle teorie razzistiche sono state smascherate senza possibilità di difesa, sul piano dei rapporti sociali si riaffacciano di nuovo ogni qualvolta i rapporti di potere riaprono una fessura in questa direzione. Abbiamo ricordato sopra che il gene della razza non esiste, ma siamo sempre davanti a quella forma di esclusione sociale consistente nell’invenzione di una barriera naturale della diversità: da una parte il vero essere umano, dall’altra il non-uomo. Sullo sfondo si avverte la ripresa dell’antisemitismo, o almeno il suo instancabile riaffacciarsi nel discorso pubblico uscendo dal silenzio e dalla vergogna in cui la Shoah l’aveva costretto. Verrebbe da pensare che la storia si ripete. È una considerazione sconfortata che ha sempre goduto di larga diffusione, come se dovessimo arrenderci davanti alle ripetute cadute dell’intelligenza dell’homo sapiens nella barbarie. La guerra contro l’altro è eterna, si legge nel titolo di una fortunata e vivacissima rassegna delle forme di discriminazione, da quelle delle grandi tragedie del passato alle «piccole storie ignobili» dei nostri giorni (piccole per chi non ne è la vittima, naturalmente)2. Dobbiamo dunque rassegnarci a riconoscere che qualcosa di naturale esiste nei dati morali dell’umanità, che il costume dell’avversione verso l’«altro» è iscritto – esso sì – nei nostri geni e che la pianta umana è un albero storto, come ammetteva anche Kant, che mal si piega alla regola dei diritti? Prima di chiudere con questa sconsolata ammissione, è forse il caso di rovesciare i termini della questione e di concentrare l’attenzione non su ipotetici fattori naturali della differenza e dell’ostilità fra esseri umani, ma sui dati storici e sui meccanismi sociali che hanno dato vita alle forme dell’esclusione. Non senza aver ricavato un’ultima osservazione dai risultati della mappatura del genoma umano: a quanto si è scoperto, solo un numero assai ridotto di geni identifica la specie umana, differenziandola da altre specie animali che consideriamo inferiori. Nel corso dell’evoluzione delle specie, quegli altri animali sono stati battuti e assoggettati dagli uomini. Allo

storico viene in mente l’immagine della ghianda e della quercia usata da Marc Bloch per riassumere il senso del mutamento storico: lo sviluppo nel tempo delle civiltà è come quello che dalla ghianda porta alla quercia, dipende dal terreno. La risposta agli stimoli e alle occasioni offerte dall’ambiente è la causa dello sviluppo. E Bloch aggiungeva: gli uomini sono figli dei loro tempi più che dei loro padri. Riconoscerlo è accettare una grande lezione, simile a quella che venne data secoli fa dalla scoperta di Niccolò Copernico. Non siamo il centro dell’universo; non siamo stati dotati – dalla natura, da Dio – di qualità speciali. La specie umana si è evoluta: siamo arrivati a mandare astronavi fuori dell’atmosfera e a contare i geni del Dna. Ma ogni nuova scoperta scaturita dai viaggi negli spazi esterni e in quelli a noi interni ci rimanda a delle verità amare: soli e sperduti in un angolo dell’universo, dividiamo il nostro ambiente naturale con altre specie che abbiamo imparato a dominare e a sfruttare, ma senza che questo discenda da un decreto originario e immutabile e senza che si possano dire risolti i problemi di sopravvivenza della nostra specie. Da ciò, il bisogno di ripercorrere la strada fatta con gli strumenti della conoscenza storica per riconoscere gli errori di percorso, per tenerne conto nel correggere – se possibile – la rotta.

IL SEME DELL’INTOLLERANZA Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492

Parte prima ALLE ORIGINI DELL’ANTISEMITISMO

1. 1492, INIZIO DELLA STORIA MODERNA

Un momento si fissò con grande efficacia nella memoria dei contemporanei, un momento preciso della storia europea, quello che legò le origini del maggior impero mondiale creato da una potenza europea con tre figure sociali di «diversi»: ebrei, eretici, selvaggi. Ecco come un cronista italiano ne prese nota indicando sotto la stessa data due eventi distanti fra di loro nel tempo ma legati da uno stesso filo: A dì 2 zenaro 1492 fu presa Granata per il Re di Spagna de mane de Mori: et per quello furno cazati li marani1.

Come mostra quest’annotazione, il giorno della conquista del regno moro di Granada da parte dell’esercito cristiano si iscrisse molto presto tra le date memorabili ben al di là dei confini iberici. E la sconfitta dei mori si saldò con l’altro evento spagnolo, la cacciata dei «marrani». Ma fu in Spagna che la caduta del regno moro di Granada si fissò immediatamente al vertice delle memorie gloriose di una religione guerriera. Cambiò allora il calendario festivo della Spagna cristiana e il giorno memorabile della conquista fu festeggiato con una solennità speciale come el día de la Toma: festa civile e religiosa insieme, subito assoggettata alla norma cattolica della santificazione obbligatoria delle feste2. Ma a Granada, dopo la sconfitta del regno moro, avvennero altre due cose importanti. Furono prese due decisioni dai sovrani Isabella e Ferdinando, che avevano unito con il loro matrimonio i regni di Castiglia e León e di Aragona. Una è specialmente celebre e ha da sempre un posto obbligato nel racconto della storia dell’Europa e del mondo: quella che siglò l’incontro – mediato dal confessore della regina – di Cristoforo Colombo con Isabella e il successivo accordo per la spedizione delle caravelle, fissato nelle capitolaciones del 17 aprile 1492. Qui la regina Isabella, come erede dei

regni di Castiglia e di León, decide di finanziare il progetto di Cristoforo Colombo; a lui sarà consentito di armare tre caravelle e andare in cerca di una via delle Indie diversa e concorrenziale rispetto a quella aperta e controllata dal regno del Portogallo. E così «por Castilla y por León / Nuevo mundo alló Colón»3. Ma ce n’era stata un’altra di decisioni importanti che allora apparve ben più significativa: il 31 marzo, sempre a Granada, era stato firmato l’editto reale di espulsione degli ebrei. Colombo partì con un ricordo molto preciso di ciò che era avvenuto «prima» e lo annotò nel suo diario di bordo: Dopo aver cacciato tutti gli ebrei fuori da tutti i vostri regni e possedimenti [...] le Vostre Altezze mi comandarono che con flotta adeguata mi recassi nelle suddette regioni dell’India4.

Possiamo facilmente immaginare il navigatore genovese mentre arma le sue navi e i marinai che affardellano il loro sacco nel porto di Palos. In mezzo alle folle festanti e ai riti religiosi di celebrazione delle conquiste militari cristiane, quei marinai dovevano distinguersi per una loro speciale ragione di entusiasmo: si preparavano a partire sotto il comando di un navigatore esperto, che recava dalla sua esperienza in Portogallo la notizia delle clamorose imprese navali sulla via delle Indie, e dunque avevano ragione di nutrire sogni di ricchezze e di gloria. Altri abitanti della Spagna si affollavano in quei giorni nei porti e sulle strade che conducevano al mare o lungo il percorso verso il regno confinante del Portogallo. Erano degli esuli, viaggiavano con donne, vecchi e bambini e con carri di masserizie: li si poteva riconoscere non solo per la tristezza e l’ansia dell’ignoto di chi lascia le cose dilette e le persone più care, ma anche perché recavano sull’abito il segno speciale che le leggi imponevano agli ebrei. Con loro, non solo spariva dalla geografia del paese una massa di persone, ma si modificava l’assetto degli spazi abitati e veniva meno una intera rete istituzionale: quella che aveva fino ad allora retto una microsocietà autonoma e contrassegnato il pluralismo culturale e religioso del paese. Scomparivano luoghi di culto, scuole, cimiteri, si cancellavano le istituzioni associative e le funzioni giuridiche e fiscali di un corpo sociale separato. Era l’espulsione di una religione organizzata e riconosciuta come società a parte. Il cambiamento era sostanziale e profondo sia per chi partiva sia per chi restava. Perché molti ebrei restarono: ma come cristiani. Era una modificazione sostanziale del carattere antico del «paese delle tre culture»5: quello che restava delle tradizioni ebraiche e di quelle musulmane lo faceva preparandosi a una lunga, sorda guerra di posizione. L’editto di espulsione riguardava gli ebrei come seguaci di una religione: non parlava di quelli che

si battezzavano. Bisogna dunque correggere subito quella forma tradizionale di narrazione di questi fatti che parla di una imposizione d’autorità della scelta tra conversione ed esilio. L’editto reale, a rigor di termini, non impose a nessuno il battesimo: furono gli ebrei che dovettero decidere se diventare cristiani per poter restare, oppure pagare con l’esilio il prezzo della fedeltà alla loro religione. Non era la prima volta che il battesimo cristiano si offriva come l’unica porta rimasta socchiusa per chi voleva essere accettato nel luogo dove aveva vissuto fino ad allora: e non fu l’ultima. Per meditare su quella scelta gli ebrei spagnoli ebbero poco tempo. L’editto del 31 marzo, rimasto per diversi giorni sul tavolo dei sovrani, fu pubblicato solo alla fine di aprile dopo un tira e molla di trattative, con disperati tentativi delle vittime di evitare l’espulsione, interventi presso il papa e offerte di danaro. Nel frattempo anche le capitolazioni sottoscritte da Colombo si traducevano in realtà: la partenza delle navi da Palos si ebbe solo il 3 agosto, proprio mentre scadevano le ultime ridottissime proroghe del termine fissato per l’espulsione degli ebrei. Dunque è facile immaginare che quelli furono mesi di un affaccendarsi frenetico per le molte migliaia di esuli. E intanto alla loro tristezza faceva da contrappunto una feroce allegria popolare incoraggiata da predicatori fanatici. A Burgos si canta una strofa che recita: «Orsù ebrei, fate i bagagli, i sovrani ordinano che ve ne andiate per mare»6. Possiamo pertanto dire che nel 1492 ebrei, eretici e selvaggi si incontrarono in un luogo: la città di Granada, conquistata da Ferdinando re d’Aragona e da Isabella di Castiglia. A loro, già autori dell’istituzione dell’Inquisizione, in occasione della vittoria finale nella guerra di crociata contro i musulmani di Spagna si dovettero dunque due decisioni di grande importanza storica, grazie alle quali l’età che si apriva e il mondo per la prima volta globalizzato furono dominati da quei tre tipi di umanità che abbiamo indicato: tre costruzioni culturali, che dietro l’essere umano nella sua concretezza proiettarono il profilo dell’«altro», del diverso. Figure diverse e diversamente costruite, con ingredienti tratti di volta in volta dal sapere ufficiale, dalla fantasia e dall’esperienza. Il personaggio dell’eretico, così com’era stato costruito dalla tradizione ecclesiastica, era connotato dal massimo grado di negatività: era quello di chi, entrato nella Chiesa col battesimo, se ne separava volontariamente e sceglieva per seduzione diabolica di seguire l’errore e di perseverarvi. Lo

definiva tale l’autorità ecclesiastica, misurando le opinioni e i comportamenti dell’individuo col metro precostituito della dottrina ortodossa. Quanto alla figura del selvaggio, si trattava di un essere dall’incerta umanità, un misto di esperienza reale e di rappresentazioni mentali: confinava con quella dell’uomo selvatico, l’abitante favoloso delle selve dal corpo coperto di peli, e con quelle dei mostri di cui si fantasticava nelle narrazioni dei viaggiatori e dei navigatori. Ma era soprattutto nel mondo ignoto delle isole oceaniche, oltre le rive dell’Atlantico, che si muovevano esseri sconosciuti, fantasticati e raccontati elaborando tradizioni antiche e frammenti di conoscenze riportate dai viaggiatori di professione – i marinai, i frati, i nomadi di ogni genere. Nel bagaglio mentale di un esperto navigatore come Cristoforo Colombo, le narrazioni di Marco Polo e i favolosi raccontari circolanti sotto il nome di Giovanni da Mandavilla si erano amalgamati con le immagini di esseri mostruosi che dovettero essere presenti nell’ambiente dei porti e che lo accompagnarono come un’attesa fin dal suo primo sbarco all’Hispaniola. La cultura dei navigatori aveva da tempo trasmesso immagini delle popolazioni delle Canarie che si erano combinate con un’intera letteratura pronta a impadronirsi delle informazioni portate dai viaggiatori per calarle in un disegno che da tempo veniva elaborato7. Ma il tipo umano nel quale esperienza reale e stereotipi mentali erano costretti a intrecciarsi nella vita di ogni giorno era quello dell’ebreo: il diverso per definizione e nello stesso tempo la presenza più familiare della cultura e della vita quotidiana, colui di cui si ascoltava la storia nella liturgia e si vedevano immagini nelle chiese – quelle dei profeti e dei patriarchi, ma anche e più spesso quelle dei carnefici del Messia – e che aveva volti e presenze ordinarie nella società dei viventi. Nell’ebreo il misto di realtà e di immaginazione raggiungeva il massimo della fusione in quella società spagnola dove l’ossessione dell’ortodossia e la volontà di espansione e di conquista stavano rompendo i confini chiusi del mondo medievale. Per una volta, dunque, tre fili diversi si intrecciarono nello stesso luogo, nello stesso anno e nelle stesse mani: il nodo che ne risultò doveva segnare l’intera storia del mondo. Coincidenza singolare: casuale o storicamente necessitata? La storia è piena di coincidenze e al gioco del caso non sfuggono né le vite degli individui né le sorti delle società umane. Ma quella che si verificò allora nella penisola iberica fu eccezionale nei tempi e nei modi: si incontrarono insieme le sorti di tre tipi umani sui quali doveva scatenarsi la violenza di una sopraffazione legittimata da poteri politici e religiosi. Tre

grandi processi storici – colonialismo, intolleranza religiosa tra cristiani, antiebraismo/antisemitismo – stavano prendendo avvio e si preparavano a dominare la storia dell’Europa e del mondo da essa unificato. La domanda è se quella data e quell’incontro furono realmente importanti nell’avvio di quei processi o se quello che ce li rende significativi è solo il bisogno di semplificazione che domina la memoria del passato. Perché un fatto è certo: quella data ha da secoli un posto centrale nella storia come narrazione. Ancor prima che si passasse dalle categorie tradizionali dell’articolazione epocale della storia (le cinque monarchie del Libro di Daniele, le tre età di Gioacchino da Fiore e così via) alle tre ère cronologiche – antica, medievale, moderna –, l’anno 1492 apparve molto presto come il punto d’avvio di una grande svolta storica. Ma quella svolta si è colorata di volta in volta in modi diversi. Per molto tempo la vicenda della presa di Granada e della successiva cacciata degli ebrei passò in secondo piano rispetto a quello che apparve il vero fatto storico. Che fu, in primo luogo, la scoperta dell’America – quella che all’inizio fu creduta una delle isole delle Indie Orientali e solo dopo si scoprì essere un intero continente, anzi un «Nuovo Mondo». Secondo Gian Battista Ramusio, segretario del Consiglio dei Dieci di Venezia e appassionato raccoglitore di narrazioni e documenti delle scoperte geografiche, ciò che accadde allora permise al suo tempo di superare finalmente il grande modello degli antichi e inaugurò un’epoca nuova. Fra tutti gli aspetti della discontinuità, all’inizio emerse dunque la scoperta dell’America. La diffusa coscienza dell’importanza della navigazione di Cristoforo Colombo conferì alla visione della storia europea quel carattere che nel Settecento fu riassunto nel concetto di progresso. «La scoperta dell’America e del passaggio verso le Indie Orientali attraverso il Capo di Buona Speranza, costituiscono i due maggiori e più importanti avvenimenti registrati nella storia dell’umanità»: così scrisse nel 1776 Adam Smith nell’opera La ricchezza delle nazioni. Era una lettura del 1492 ottimistica e tonificante per la cultura dell’Europa occidentale. Ne è durato a lungo il fascino, tanto che se ne trovano ancora echi nei bilanci storici e nelle narrazioni correnti dell’età moderna8. Di fatto, il confronto tra le realizzazioni degli antichi e quelle dei moderni, quella che fu la lunga querelle des anciens et des modernes, fu risolto dalla coscienza diffusa che la scoperta dell’America aveva segnato la fine dell’epoca dominata da uno sguardo volto al passato e dall’idea della superiorità degli antichi.

Ma agli occhi di molti testimoni fu ben presto evidente che al progresso economico europeo e all’acquisizione di nuovi credenti alla Chiesa cristiana faceva ombra la crudeltà di quella espansione: l’atto d’accusa di Bartolomé de las Casas risvegliò una lunga eco. Ne troviamo traccia nel modo in cui Adam Smith temperò il giudizio positivo che abbiamo citato, lamentando «la brutale ingiustizia degli europei» che aveva «trasformato un evento, potenzialmente benefico per tutti, in una rovinosa sventura per molti di quei paesi». In seguito, con la crisi del dominio europeo sul mondo, la nozione di «età moderna» si è colorata di tinte meno rosee. La dominazione europea apparve allo sguardo della cultura liberale francese del primo Ottocento come l’espressione di una deprecabile volontà di dominio: Benjamin Constant mise sotto accusa lo «spirito di conquista e di usurpazione» della civiltà europea. Ombre cupe si addensarono sull’Europa cattolica con l’accusa dei paesi protestanti di persecuzione dell’evangelo rinato con Lutero; e ad esse rispose con altrettanta durezza il giudizio speculare di «rivoluzione» e di «deformazione» vibrato dai cattolici contro la Riforma. Con la Rivoluzione francese l’emancipazione degli ebrei dai vincoli e dalle interdizioni secolari che li avevano colpiti non cancellò la divisione antica ma le dette caratteri nuovi. Nel secolo scorso, due guerre mondiali e lo sterminio sistematico di interi gruppi umani hanno conferito un carattere sempre più negativo ai giudizi e alle considerazioni sui secoli dell’età moderna. Il razzismo, l’intolleranza religiosa, l’oppressione coloniale dei popoli non europei, l’antisemitismo hanno preso via via un posto eminente nelle domande che si rivolgono alla ricerca storica. Ma, mentre accadeva tutto questo, è venuta sbiadendo la scansione epocale della narrazione storica, e quello che è emerso in primo piano è stato un interesse più concentrato sui secoli brevi della storia contemporanea. La decolonizzazione, la separazione tra Chiesa e Stato, la fondazione razionalista e scientista delle teorie razzistiche hanno fatto apparire remota l’epoca dei processi dell’Inquisizione, dei ghetti e delle esplorazioni oceaniche. Un caso speciale è quello dell’antisemitismo. La parola stessa è un problema: le sue origini recenti e la matrice culturale scientista delle teorie razzistiche di età contemporanea impedirebbero di utilizzarla per la storia precedente, secondo coloro che preferiscono parlare di «antigiudaismo» o «antiebraismo» per indicare l’ostilità verso gli ebrei del mondo antico, greco e romano, e di quello di matrice cristiana. Come per altri fenomeni storici, si confrontano nominalisti e realisti e ci si chiede se è necessario che esista la parola perché si possa

riconoscere l’esistenza dell’oggetto. Una cosa tuttavia è evidente: chi insiste sulla differenza tra le parole per inserire una divaricazione netta tra i fenomeni di età contemporanea e quelli precedenti, lo fa rimarcando come questi ultimi si fondassero su presupposti generali non di carattere scientifico. Si vuole dunque distinguere tra l’atteggiamento di ostilità contro gli ebrei di matrice religiosa e quello della cultura laicizzata e secolare post-illuministica. Chi al di là delle parole cerca le analogie tra le cose, constata un fatto singolare: se l’ostacolo religioso che suscitava l’ostilità dei cristiani era il fatto che gli ebrei rifiutavano di credere a Gesù come Messia e non volevano accettare il battesimo, come si spiegano le manifestazioni di odio antiebraico rivolte contro chi aveva lasciato l’ebraismo e si era fatto battezzare? Perché, come vedremo, questo è proprio il caso che la storia su cui ci soffermeremo propone con tutta evidenza. E c’è poi il problema di come valutare gli effetti sul divampare del moderno antisemitismo della lunga tradizione di ostilità nei confronti degli ebrei veicolata dalle autorità delle Chiese europee: la predicazione ufficiale delle Chiese cristiane e talune costanti negli atteggiamenti del clero e negli orientamenti del papato in materia di governo della minoranza ebraica hanno offerto materia di riflessione e di polemica a questo riguardo9. Questo non significa che si possano cancellare le differenze e porre sotto lo stesso segno i lunghi secoli premoderni della tradizione antigiudaica e la vicenda del razzismo antisemita contemporaneo. Ma la sorda resistenza di quei motivi tradizionali ne denunzia la radice profonda. In apertura del Concilio Vaticano II i vescovi si trovarono sul tavolo un volume che denunziava un «complotto contro la Chiesa», riprendendo l’idea del complotto ebraico di matrice antisemita e sostenendo che «durante diciannove secoli la Santa Chiesa [aveva] lottato accanitamente contro i Giudei»10. Non erano convinzioni nuove o senza seguito. La tesi della verità del complotto ebraico a prescindere dalla veridicità del libello antisemita dei Protocolli dei savi anziani di Sion aveva pur trovato credito nell’autorevole rivista dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica», che dopo aver condotto una campagna durissima contro gli ebrei alla fine dell’Ottocento colse nel 1921 l’occasione per scagliarsi contro «il vecchio giudaismo» come motore nascosto del bolscevismo e della plutocrazia, forza occulta sempre intenta a «dominare e sfruttare i popoli cristiani»11. Fu su queste basi che la stessa rivista, nel 1938, cioè nel pieno delle persecuzioni naziste e mentre si varavano le leggi razziali del fascismo italiano, accusò gli ebrei di essere un potere pericoloso e appoggiò senza incertezze la versione fascista

dell’antisemitismo. E rivoli di questo che è diventato dopo Auschwitz una specie di fiume carsico continuano a uscire allo scoperto ogni tanto. Perciò senza fare l’errore di cancellare le differenze, che sono la carne e il sangue della storia, bisognerà evitare di separare in camere stagne processi e percorsi ricchi di analogie e non privi di parentele. E si possono sempre confrontare dei modelli e verificarne i caratteri comuni, come ha proposto in un saggio fondamentale Yosef Hayim Yerushalmi12, il grande storico che ha dedicato la sua opera alle vicende dell’ebraismo iberico. Nell’inventario dell’eredità della nostra storia occidentale l’impresa di allargare e approfondire l’indagine oltre le colonne d’Ercole del razzismo contemporaneo è da tempo in corso e ha permesso scoperte impreviste e sorprese non da poco: lo si è visto quando qualcuno ha scovato e messo in evidenza testi fortemente antiebraici di autori come Erasmo o Voltaire, pilastri dell’idea di tolleranza e di libertà13. C’è una zona d’ombra che la Shoah ha creato dietro di sé: come una luce abbacinante che impedisce di vedere ciò che le sta alle spalle. In questo tranello gli storici dell’età contemporanea hanno spesso finito col cadere. Naturalmente l’inaudita novità di ciò che il Terzo Reich ha fatto è fuori discussione e nessuna ricerca dei precedenti potrà mai stemperare le cose avvenute nei lager in una specie di scala genealogica precedente. Ma il problema del rapporto tra passato e presente continua a essere aperto e irrisolto. La reazione degli storici alle tradizioni inventate, che tanta parte hanno avuto nella legittimazione dei totalitarismi novecenteschi, ha messo in crisi le costruzioni della propaganda di regime che proponevano filiazioni dirette tra il fascismo e l’impero romano e tra il nazismo e la storia e la cultura della Germania. Solo ragioni propagandistiche prima – e di difesa in giudizio al tribunale di Norimberga poi – spinsero gli ideologi del nazismo a presentarlo come l’erede di una lunga storia tutta tedesca, che aveva i suoi pilastri in Meister Eckart e Lutero, in Federico il Grande e Bismarck, in Wagner e Nietzsche. Questa strategia della propaganda ebbe tale successo da essere fatta propria dallo storico di Harvard Peter Viereck, antinazista per scelta e per vocazione – e anche per opposizione al padre che fu un apologeta della Germania di Hitler14. Ma il rapporto tra il passato e il futuro assomiglia ai processi dell’eredità biologica: il nuovo è il risultato di un bricolage di elementi già noti che producono un risultato imprevedibile. E solo l’analisi attenta può fare emergere gli ingredienti entrati nella nuova realtà e il modo e il tempo in

cui si sono incontrati e mescolati. Perciò, se è stato salutare il rifiuto della propaganda di regime che presentava lo Stato totalitario nazista come il frutto maturo dell’intera storia tedesca e ne esaltava le scelte come la realizzazione di una compatta tradizione nazionale di pensiero e di cultura, resta la necessità di decifrare quegli ingredienti come si fa con i virus di una infezione. Non perché si voglia «comprendere» la Shoah: davanti ai tentativi di renderla comprensibile che si vengono proponendo per via di storia e più ancora di romanzo, resta valido l’invito di Jean Améry a non voler comprendere, a evitare quel tout comprendre che rischia di tradursi nel tout pardonner. Ma conoscere si può e si deve. Del resto, è stato proprio nell’ambito delle riflessioni e delle ricerche intorno alla Shoah che si è fatto strada un processo a carico di quella entità indistinta che il gusto filosofico e sociologico per le astrazioni ha definito la «modernità». Da anni il sociologo Zygmunt Bauman sostiene che è stata la «modernità» la premessa necessaria della Shoah15. Ma il suo è un atto d’accusa che manca di una prova certa: astratta la nozione di «modernità», generiche le indicazioni sulla mentalità moderna e sull’ingegneria sociale come caratteristiche del mondo europeo degli ultimi secoli. È appena un piccolo passo avanti rispetto a quelle interpretazioni dell’antisemitismo e del razzismo che rinviano a cause genericamente e geneticamente insite nella natura umana: seppur fosse vero che i moti di rifiuto del diverso sono incancellabili dalla natura umana e che la diffusione dell’«eterofobia», il sentimento di ostilità verso «l’altro», è senza tempo, sarebbe pur sempre obbligatorio cogliere le differenze tra le manifestazioni dell’avversione che si sono storicamente determinate. I tentativi di distinguere livelli crescenti di aggressività del pregiudizio razziale, come quello compiuto da Pierre-André Taguieff16, restano esercitazioni sociologiche prive di utilità per lo storico, che è in cerca di attori e forze determinate. Ma anche nella proposta di individuare nella «modernità» europea la radice del problema resta oscuro il nome del colpevole. Colpevoli tutti e nessuno se è vero che la colpa d’origine risiederebbe in una caratteristica della cultura moderna: quella di un bisogno di distinguere e ordinare la società dividendo l’umanità per categorie. Bauman ha offerto un’indicazione più utile quando ha parlato di «social engineering», ingegneria sociale europea come funzione innescata da uno specifico rapporto tra società e Stato: e questa suggestione è certamente interessante per lo storico perché propone di guardare agli usi del potere in

un’epoca che ha visto l’origine dello Stato moderno. Su questo punto cercheranno di concentrarsi le nostre osservazioni. Anche per evitare i rischi di una oscillazione della ricerca divisa tra la tentazione del risalire alle origini e la frammentazione dello scavo in direzione di molteplici cause e differenti contesti. Il rischio del ricorso alle origini è quello di smarrirsi nell’indistinto della perenne natura umana e della tendenza a proiettare nell’altro da sé ciò che non si comprende, che si teme e si odia. Più consueto è stato il tentativo fatto dagli storici di indagare episodi concreti e di analizzare le cause politiche e sociali dell’intolleranza religiosa, della violenza sui popoli coloniali, dell’antisemitismo: e le cause sono state di volta in volta rintracciate in direzioni e contesti diversi. Per gli eretici, la lotta per il potere e la formazione degli Stati nella ripresa europea medievale, l’ascesa del papato romano nella Chiesa d’Occidente, i conflitti religiosi dell’età della Riforma; per la discriminazione razziale e la violenza nell’asservimento di popoli extraeuropei, il processo di formazione degli imperi coloniali e la nascita di un’economia a scala mondiale. Particolarmente viva è stata e continua a essere la discussione sulle radici storiche della Shoah e sull’esistenza o meno di un nesso tra l’antigiudaismo cristiano a fondamento religioso e l’antisemitismo delle ideologie razzistiche ottocentesche. Al processo di Norimberga la linea di difesa adottata da Julius Streicher, l’editore di «Der Stürmer», consistette nell’affermare che al suo posto avrebbe dovuto trovarsi il dottor Martin Lutero. E già negli anni del potere di Hitler i discorsi celebrativi del «giorno della Riforma» (il 31 ottobre) recarono elogi e citazioni di Lutero e di Hitler, come accadde nel 1935 a Dortmund per bocca del professor Hermann Werdermann17. Ma se queste sono deformazioni interessate e propagandistiche, la questione della presenza di un filone specificamente cristiano nella genealogia dell’antisemitismo razziale è un problema reale, che investe tanto la variante cattolica quanto quella protestante del cristianesimo europeo di età moderna. Il tentativo della propaganda nazista prima e dell’apologetica cattolica poi di mettere tutto sul conto della tradizione luterana e tedesca non è una risposta adeguata. Come osservò già nel 1945 Delio Cantimori, segnalando un’opera di propaganda nazista di monsignor Alois Hudal: «non c’è niente di intrinsecamente opposto al cristianesimo, né di tipo protestante, né di tipo greco-ortodosso, né di tipo cattolico, nello Stato ‘totalitario’ preso di per sé, considerato in astratto, in teoria»18. E la ricerca storica ha fatto emergere sempre più una componente cattolica nella elaborazione dell’antisemitismo

che sfociò nella Shoah19. Resta da capire come e perché la componente religiosa dell’ostilità verso gli ebrei non sia scomparsa con la crisi dell’antico regime, ma abbia trovato nuovo alimento nel contesto del passaggio alla società nata dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese. Le ricerche che su questi temi procedono da tempo non si limitano più agli anni e alle vicende della Shoah, ma scavano anche nella storia e nella cultura dell’Europa cristiana medievale come pure in quella dell’età dell’Illuminismo e della Rivoluzione. Le vie che si dipartono da Auschwitz sono molte. E gli storici somigliano a quegli operai che scavano una galleria e che perforano strati di roccia avvicinandosi dai due lati della montagna al punto d’incontro: che è, in questo caso, il punto in cui confluirà tutta la storia europea per rendere finalmente conto del percorso che ha condotto all’esito della Shoah. Ci si avvicina per via di analisi di carattere culturale, per permanenze di moduli concettuali, di ideologie, di formule della propaganda: ma anche per via di comparazione di modelli. Yerushalmi fu colpito dal ritorno di tendenze antisemite negli anni intorno al quinto centenario della scoperta dell’America e propose di confrontare il modello iberico di assimilazione degli ebrei e il modello tedesco di eliminazione. La concezione iberica della purezza di sangue dei cristiani di lunga data e della macchia ereditaria che si immaginava rendesse impuro il sangue dei discendenti da ebrei, anche se battezzati, gli apparve come l’espressione di un razzismo di fondo latente nella società tradizionale iberica20. Questo naturalmente non significava per lui che l’analogia tra la concezione dell’ebreo nella società iberica del Cinquecento e quella della Germania del Novecento potesse essere tradotta in identità. Che in Spagna non si fosse arrivati all’eliminazione fisica degli ebrei convertiti era un dato sufficiente a segnalare le differenze sostanziali tra le due realtà storiche. Ma il problema andava posto. Per altra via le ricerche e le discussioni sulla nozione di razza hanno permesso di sottolineare l’apporto della radice scientista della cultura moderna alla violenza della discriminazione. Con l’affermazione dell’esistenza in natura delle differenze di gradi di umanità, l’antica maledizione religiosa veniva ratificata dal tribunale della ragione scientifica e poteva prepararsi al passaggio successivo del decreto di eliminazione delle razze inferiori come misura di igiene sociale nei confronti della contaminazione da esse minacciata. Ma come non c’è niente di inevitabile prima che accada e non c’è nessuna spiegazione storica che possa rendere

conto della Shoah, così è pur vero che la cesura tra l’età dell’intolleranza religiosa e quella del razzismo scientistico non è così netta come potrebbe sembrare. Che cosa può dirci su problemi di tale vastità quella scena delle decisioni di un potere monarchico nella Granada del 1492? Di primo acchito, tutto sembra nascere da lì: quel potere decretò la cancellazione della presenza religiosa ebraica nel momento stesso in cui avviava l’esplorazione atlantica e rafforzava ed estendeva il tribunale dell’Inquisizione come potere politicoreligioso contro gli eretici. Ma solo un’immagine ingenuamente favolistica del potere del re può risolvere un problema di conoscenza storica nel rinvio al documento sottoscritto da un sovrano. L’ipotesi da verificare riguarda lo spazio della storia politica nel flusso della storia sociale: la domanda che ci si pone è quella elementare del rapporto tra un progetto di potere e l’origine dell’intolleranza. Ci si chiede insomma se quello che accadde allora in Spagna fu solo la ratifica di processi in corso nella società e l’esecuzione di condanne già vive nelle menti, o se fu l’atto imprevedibile, arbitrario e decisivo del potere ad aprire la via a una nuova storia. E una domanda ulteriore riguarda l’eredità storica di quello che accadde allora, o almeno quello che l’accadimento può insegnare a chi lo prende in esame dal punto di vista del nostro tempo. Si tratta di capire quanto possa fare il potere politico per dare forma agli ingredienti diffusi in una cultura e per cogliere le occasioni offerte dalla storia. E il caso spagnolo si presenta come specialmente significativo.

2. GRANADA 1492. UN NODO DELLA STORIA DEL MONDO

Un fatto è certo: il 1492 fu l’annus mirabilis della storia della Spagna. Ma nel definirlo tale oggi si insiste più sulle fratture che allora si aprirono che sulle realizzazioni e sulle conquiste che allora vennero celebrate1. Cerchiamo di riportarci al panorama che era sotto agli occhi dei contemporanei. Qui, ai margini dell’Europa, in un paese diviso per lingue, culture e religioni, i due sovrani dei maggiori Stati della regione hanno raggiunto un obiettivo importante. Hanno portato a termine il processo secolare della reconquista, la crociata interna alla penisola iberica: togliere agli eredi dei conquistatori arabi fedeli all’Islam i regni da loro edificati. Ferdinando il Cattolico è il re dell’Aragona. Con lui, unita in matrimonio, opera la regina Isabella di Castiglia, che ne condivide l’esaltata esibizione di fervore religioso e guerriero. La caduta del regno moro di Granada segna il trionfo di un cristianesimo bellicoso diventato ideologia ufficiale della casata regnante. Ai confini estremi della penisola è cresciuta intanto una realtà nuova: il regno del Portogallo, il quale non solo ha portato l’attacco al mondo musulmano al di là dello Stretto di Gibilterra, ma sta costruendo un impero marittimo sulle coste dell’Africa e ha mandato le sue navi fin nell’Oceano Indiano. Se nel 1492 a Granada la scoperta dell’America era ancora nascosta nelle nebbie del futuro, l’orizzonte dei sovrani spagnoli era però occupato dalle vicende del confinante e concorrente regno di Portogallo, nel quale la spinta verso le Indie durava da decenni e stava proprio allora per portare all’obiettivo straordinario dell’approdo di Vasco da Gama alle coste dell’India. Il referente delle due case regnanti è lo stesso: il papato. Era stata una

concessione di Niccolò V che aveva legittimato la conquista di popoli non cristiani e la loro eventuale riduzione in schiavitù in nome dell’espansione della fede tra i «barbari». Se ne ricorderà la coppia reale spagnola quando, al ritorno di Colombo con le notizie delle isole sconosciute scoperte nel «mar Oceano», si farà riconoscere dal papa spagnolo Alessandro VI Borgia il possesso di quella parte del mondo con l’argomento della sua devota intenzione di espandere i confini della fede2. Quanto alla lotta contro l’eresia, si tratta di un volto del cristianesimo medievale che aveva trovato da tempo espressione nella nascita dell’Inquisizione contro l’eretica pravità. E l’odio nutrito nei confronti degli ebrei come popolo dei deicidi apparteneva a una tendenza radicata tra i cristiani della penisola iberica come in genere nella cristianità europea. La sfida che oppone le due realtà statali, quella del piccolissimo Portogallo e quella del grande regno di Spagna in via di formazione, ha per campo uno scenario mondiale, nel quale ambedue avanzano facendosi scudo di un privilegio speciale: quello ottenuto grazie alle concessioni di un papato che si sta risollevando da una gravissima crisi e che grazie a loro può rispolverare la teoria medievale del suo supremo potere sul mondo intero3. Nella penisola iberica conosce una rinnovata attualità la parola d’ordine della crociata. È una parola ormai priva di presa nel resto di un’Europa cristiana che ha assistito senza reagire alla caduta di Costantinopoli in mani turche. Il tentativo di Pio II di metterne in moto una per soccorrere i cristiani d’Oriente era finito con il papa lasciato solo ad attendere all’appuntamento di Mantova i sovrani convocati che non si fecero vedere. Ma la forza dell’idea universalistica dell’impero cristiano come strumento di salvezza per i popoli da esso governati si rese operante nella penisola iberica. Era un’idea antica, ereditata dalla concezione provvidenziale della missione dell’impero romano per la diffusione del cristianesimo: quella stessa concezione che doveva rivelarsi centrale nell’origine dei moderni imperi coloniali4. Tale fu il caso dell’impero che esisteva in modo embrionale nella Spagna della fine del Quattrocento. O meglio – visto che non esisteva ancora un regno di Spagna – nella penisola iberica. Ma se il regno di Spagna doveva nascere formalmente solo qualche anno dopo, era già in pieno svolgimento il processo che doveva condurre alla nascita della Spagna come potenza statale e impero mondiale. Qui la volontà di conquista e di inclusione di genti e territori nuovi si manifestò intanto nella forma di una recisa volontà di esclusione per chi non si lasciava amalgamare. Nel momento stesso in cui si

compiva trionfalmente il disegno dell’unificazione di tutto il territorio sotto il potere di sovrani cristiani, venne decisa l’espulsione di tutti coloro che non accettavano il battesimo. Quello che riscontriamo nel caso della penisola iberica, e della componente spagnola in particolare, è dunque un aspetto fondamentale di un potere imperiale in formazione. Le premesse erano state poste nel corso di una lotta secolare contro i regni mori. Qui la cruzada era qualcosa di più della tassa intorno alla cui riscossione si discuteva tra sovrani e pontefici. L’idea della reconquista e la lunga durata del conflitto tra regni cristiani e regni mori aveva segnato profondamente la storia dell’intera penisola. Tra i regni cristiani era stato il Portogallo che aveva riportato per primo il successo e si era proiettato verso l’Africa: la vittoria sui mori non aveva arrestato la spinta conquistatrice. Le navi cristiane si erano affacciate sulle coste dell’Africa, avevano aggirato dall’Atlantico gli Stati musulmani mediterranei e messo a punto le capacità tecniche e i mezzi per completare proprio in quel 1492 il percorso oceanico verso le coste dell’India. Rispetto al Portogallo i regni cristiani di Spagna erano dunque in ritardo; ma quell’anno il ritardo fu cancellato. La gloria della conquista di Granada fu tutta di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia, che la storia successiva ricorderà come i «Re Cattolici», secondo il titolo onorifico concesso loro da Alessandro VI nel 1496. Una consacrazione religiosa guadagnata con le armi: da qui data l’affacciarsi del volto guerriero del cattolicesimo nell’assetto politico e nella cultura dell’Europa. Se ne vedranno a lungo le manifestazioni: lo spagnolo Iñigo di Loyola, fattosi religioso col nome di Ignazio, suscitò straordinarie energie con la creazione di una «Compagnia di Gesù» modellata secondo la struttura del corpo militare obbediente e concentrata nella visione del mondo come il campo di battaglia globale dei due eserciti schierati sotto le opposte bandiere di Dio e del diavolo. E a lungo durò nella cultura iberica l’idea di una necessaria omogeneità e alleanza tra la religione e le armi, come mostra il persistente interesse del pensiero politico spagnolo per gli scritti di Niccolò Machiavelli sul tema. Con quegli ingredienti venne a compimento nel XV secolo un progetto di unificazione statale della penisola iberica lungamente perseguito. Una complessa operazione politica sorvegliata e protetta da un papa spagnolo portò all’unione matrimoniale delle due dinastie regnanti nella Castiglia contadina e nell’Aragona ricca di traffici e padrona delle grandi isole della

Sardegna e della Sicilia. Dai sovrani spagnoli Cristoforo Colombo vide accettato il suo piano, che i portoghesi avevano rifiutato: una decisione che cambierà la storia del mondo, ma che intanto denotava la volontà di rivaleggiare col regno confinante del Portogallo e di sfruttare fino in fondo la congiuntura del favore papale. Non ci fu allora mossa politica in area iberica che non avesse una radice romana. Prima ancora di scoprire l’America o la via delle Indie i sovrani iberici avevano imparato a battere la strada di Roma: e a lungo la scoperta di Roma doveva apparire ai loro occhi più importante di quella delle terre sconosciute d’oltreoceano5. Torniamo ora a quella scena iniziale delle decisioni prese nella Granada del 1492. La conquista della città è del gennaio. L’editto reale di espulsione degli ebrei non convertiti firmato da Ferdinando e Isabella fu redatto a Granada il 31 marzo. A Granada, infine, avvenne l’incontro di Cristoforo Colombo con Isabella e fu raggiunto l’accordo per la spedizione delle caravelle fissato nelle capitolaciones del 17 aprile di quello stesso anno.

3. PRIMA DI GRANADA: ALLE ORIGINI DELL’INTOLLERANZA

Nel 1492 ebrei, eretici e selvaggi si incontrarono dunque a Granada, uniti nelle scelte di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia. Nessuna di quelle tre figure, lo abbiamo detto, si poteva definire nuova. Antica e tradizionale la presenza dell’ebreo: portatore della religione del Libro, era il testimone delle profezie bibliche che attestavano la promessa divina di inviare il Messia. Perciò, secondo l’argomento di sant’Agostino di Ippona, la sua permanenza tra i cristiani doveva essere mantenuta perché offriva una testimonianza della verità della fede cristiana. Per questo lo si accettava pur con tutte le restrizioni e i limiti di una società dove l’unico sigillo della appartenenza sociale era il battesimo. Ma la sua condizione giuridica e sociale era quella di un oggetto del potere, un servo. In una società che ignorava ancora il principio rivoluzionario e giusnaturalista secondo cui tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali, l’unica vera libertà e uguaglianza era quella dei figli di Dio redenti dalla servitù del peccato originale grazie al battesimo. Gli ebrei erano i soli esseri umani all’interno della società cristiana privi di quella libertà: la definizione giuridica della loro condizione era quella di servi Camerae, soggetti al potere, quello del sovrano o del papa come eredi dell’imperatore romano. L’eretico come nemico pubblico, minaccia della società cristiana, aveva preso corpo con l’elaborazione di istituzioni e tecniche di ricerca e di eliminazione nell’età di Innocenzo III e Federico II; e da allora esisteva un sistema di giustizia speciale creata ad hoc che doveva caratterizzare profondamente gli sviluppi successivi del sistema delle pene e dei delitti in Europa.

E anche il selvaggio non era una figura nuova, anche se le popolazioni americane dovevano essere rivelate di lì a poco all’Europa da Cristoforo Colombo nella relazione presentata al termine dell’impresa affidatagli nel 1492. Le immagini che gli stampatori posero in apertura della relazione di Colombo a Luís de Santángel mostrarono le caravelle mandate dal sovrano che approdavano su isole popolate di uomini e donne nudi. Fu la prima apparizione dei selvaggi. E le fantasie dei lettori di tutta Europa ne furono profondamente colpite. E tuttavia nel dare forma visiva ai tratti del selvaggio si fece uso di ingredienti che erano già disponibili, secondo quel lavoro di bricolage che è tipico delle culture: nella ricca popolazione di razze mostruose immaginate dalla cultura medievale, l’homo sylvaticus o homo agrestis offrì i suoi caratteri alla raffigurazione del selvaggio d’America1. Fin dalla metà del Trecento infatti le notizie sugli abitanti nudi e innocenti delle Canarie e delle immaginarie «isole felici» avevano cominciato a circolare risvegliando la curiosità di Petrarca e di Boccaccio2. Quanto alle rappresentazioni e alle descrizioni di carattere letterario, le retoriche celebrative della cultura umanistica non ebbero scelta: col selvaggio nudo e vivente allo stato di natura (in puris naturalibus) si potevano confrontare solo le popolazioni della mitica Età dell’oro. Ma il dispositivo giuridico che permetteva di farne oggetto di conquista e di spoliazione fino alla schiavitù era stato messo a punto qualche decennio prima, quando il pontefice Niccolò V aveva concesso al re Alfonso V di Portogallo piena libertà di catturare e soggiogare «saraceni e pagani» (bolla Dum diversas del 16 giugno 1452). Da allora un fiume di schiavi dall’Africa subsahariana aveva cominciato a entrare nell’orizzonte economico e sociale europeo. La categoria dei «pagani» aveva alterato il modello chiuso del rapporto conflittuale fra le tre religioni monoteistiche mediterranee. Ed era pronta a ospitare tutte le diversità culturali e religiose del mondo che non aveva mai conosciuto la predicazione del Vangelo cristiano. Presenti dunque da tempo nel mondo europeo erano non solo i tre tipi umani ma anche e soprattutto i sentimenti di rifiuto che li definivano come figure dell’alterità negativa. Una parola doveva accompagnare le sorti loro ed esprimere il modo in cui si concepì allora il sentimento della differenza: «razza». Una parola che doveva indicare per secoli una forma speciale di esclusione sociale, anche se la sua forza negativa è stata spesso coperta e resa inavvertita da un uso genericamente neutrale del termine in funzione ordinatrice e descrittiva delle differenze naturali tra specie animali (uomini

inclusi). Il che ha permesso di censire nel lemmario storico nomi come quello di Immanuel Kant che ne fece uso nella sua grande opera geografica. Talché a un grande studioso come Leo Spitzer parve di doverne individuare l’origine nella parola «ratio»3. Singolare proposta da parte di uno studioso di appartenenza ebraica che accostava la ragione al concetto più violentemente irrazionale e più lontano dal dominio della mente come dotazione universale degli esseri umani. Finché fu Gianfranco Contini a scoprirne una radice storica in un verso di un poema medievale dove si diceva di un cavallo che era di «grande razzo», un francesismo da haras, allevamento. Dunque non ratio, ma generatio, non la ragione come possesso universale della specie, ma la differenza di seme nella riproduzione come discrimine invalicabile tra i diversi tipi di umanità. Commentava giustamente Contini: «Per l’appoggio terminologico di tanta abiezione, ferocia e soprattutto stupidità, quanto è più ricreativo [invece dei riferimenti al platonismo e alla Scolastica] avergli scovata una nascita zoologica, veterinaria, equina!»4. Ora, proprio alla data del 1492 erano avvenute cose che avevano dato impulso alla nozione di differenze incancellabili tra esseri umani a seconda della nascita e dell’appartenenza a un gruppo o a un altro. La marcia del razzismo era cominciata e le cose che accaddero in quell’anno dettero un potente impulso al suo cammino. Nessuna delle tre figure che abbiamo individuato, lo si è visto, appariva all’orizzonte per la prima volta. L’esplorazione coloniale portoghese delle coste dell’Africa aveva introdotto l’immagine dei popoli subsahariani e la presenza fisica degli schiavi dalla pelle nera nella vita dell’Europa cristiana. Come raccontava il veneziano Alvise da Mosto, erano moltissimi gli schiavi che i portoghesi portavano «a vender a Portogallo» rivaleggiando con le scorrerie dei mercanti arabi5. Per quanto riguarda gli ebrei e i musulmani, i cristiani avevano con loro un rapporto di ostilità di diversa natura e durata, ma che aveva segnato profondamente i caratteri e gli sviluppi della società europea. Antico e in qualche modo connaturato al cristianesimo era il legame col popolo della Bibbia, disperso nella diaspora dopo la conquista di Gerusalemme del 70 d.C. La loro religione era stata conservata nel mondo cristiano che nella Bibbia ebraica trovava l’annuncio profetico del Messia. Ma la resistenza degli ebrei alla conversione li aveva fatti segno di aggressioni non solo dottrinali. La presenza degli ebrei nella penisola iberica datava da tempi antichissimi; la prima traccia documentaria è il nome scolpito su di una pietra

tombale del III secolo: Anna «Judaea»6. All’arrivo dei visigoti dovettero fare i conti con le conseguenze della conversione di quel popolo al cristianesimo e con quelle della concezione privatistica del regno che imponeva ai sudditi la religione del sovrano. Così nel 613, per ordine di re Sisebuto, tutti gli ebrei erano stati obbligati a battezzarsi sotto pena di essere venduti come schiavi se scoperti colpevoli di «giudaizzare». Ma con la conquista musulmana che a partire dal 711 investì gran parte della penisola fu di nuovo possibile professare apertamente l’ebraismo e si aprirono le porte all’immigrazione di nuove ondate di ebrei dall’Oriente e dall’Africa, che fecero della Spagna il centro più vivo della cultura talmudica. In seguito, cedendo la primitiva tolleranza a ondate di rigorismo musulmano e di persecuzioni, gli ebrei fuggirono verso i regni cristiani: fu l’inizio di un viaggio dall’estremo Occidente europeo verso l’Oriente – un viaggio che non doveva conoscere soste. La condizione di questa minoranza fu a lungo quella di una incerta sopravvivenza nella terra di nessuno tra la guerra santa musulmana e la crociata cristiana. Le relazioni fra i tre popoli del Libro lasciarono alla minoranza ebraica una posizione più defilata, anche perché la qualità intellettuale e le capacità operative e professionali di buona parte dei suoi membri le garantivano funzioni importanti nell’amministrazione fiscale e nel commercio. Invece nel rapporto dei cristiani coi musulmani, al conflitto religioso per il dominio esclusivo dell’interpretazione della Bibbia si era aggiunto lo scontro armato. Rispetto al contesto europeo si può dire che in Spagna si viveva nel clima di una crociata permanente. Qui il movimento delle crociate, scatenato dalla caduta di Gerusalemme in mano musulmana, veniva alimentato da campagne di predicazione che scatenavano forme di intolleranza violenta. Anche altrove la partenza dei crociati ebbe come rituale d’avvio periodiche esplosioni di violenza contro le comunità ebraiche rimaste nei territori dell’antico impero romano: i «pogrom». Le ondate ricorrenti di aggressioni avevano esaltato la coscienza ebraica del martirio per la fede e lasciato nelle piccole comunità della diaspora la memoria benedetta di chi aveva onorato il nome di Dio: questa memoria doveva costituire il legame identitario tra i dispersi membri dell’antico popolo eletto almeno fino a quando nacque e si sviluppò una storiografia moderna all’interno della cultura ebraica7. La violenza aveva un riferimento obbligato: il battesimo. Il segno cristiano della cancellazione delle colpe umane e dell’universale elezione a figli di Dio era diventato la barriera del conflitto e dell’insanabile

opposizione col popolo eletto della Bibbia e col segno dell’elezione ebraica: la circoncisione. Per questo, immemori del carattere fondamentale della loro fede, quello che la intendeva come una scelta personale e volontaria, gli aggressori cristiani ne imponevano l’accettazione con la violenza. Il battesimo era allora vissuto da ambo i lati come un rito che trasformava la persona che lo riceveva a prescindere dalla volontà del ricevente. Era un problema nuovo, rispetto a quello che si era affacciato al tempo della persecuzione dei cristiani nell’impero romano, quando l’apostasia di chi era tornato a sacrificare agli dèi era stata vissuta come una colpa e una frattura all’interno della comunità ecclesiale. C’era voluta la situazione di potere creata dalla svolta costantiniana perché quella colpa diventasse nella codificazione teodosiana un delitto punibile dai tribunali dei vescovi. Nella realtà del cristianesimo medievale il delitto di apostasia prese una forma nuova: quella di chi, battezzato a forza, rinnegava il sacramento e tornava alla religione della sua gente. E lo strumento della pena erogata dai tribunali ecclesiastici assunse forza ed efficacia con la nascita dell’Inquisizione come tribunale per i delitti contro la fede. Il battesimo, da lavacro salvifico e segno esteriore della fede nutrita nel cuore, si trasformò dunque ben presto in un passaggio rituale dagli effetti magici: e il suo valore di barriera materiale si accentuò nel conflitto con le altre religioni monoteiste mediterranee. È un passaggio che ha lasciato una traccia nelle varianti di un verso della Divina Commedia (quello di Inferno IV, 36) dove si registrano le oscillazioni della concezione del battesimo tra «parte» della fede e «porta» d’ingresso tra i salvati8. Una porta a senso unico: la materializzazione del sacramento in un’operazione di trasformazione incancellabile della persona doveva suggerire a chi lo amministrava e a chi lo riceveva la convinzione di avere a che fare con qualcosa di definitivo. Chi lo imponeva costringeva alla salvezza i non volenti; e chi se lo vedeva imporre a forza ricorreva a ogni forma di difesa per evitarlo e inventava rituali complicati di cancellazione fisica per liberarsene. In una cronaca ebraica, quella di Rabbi Salomon, troviamo il racconto di quel che accadde nelle comunità ebraiche della Renania tedesca nel 1096; davanti ai crociati che tentavano di battezzare a forza i loro figli ci furono dei genitori che ricorsero all’estrema tragica difesa dal pericolo dell’idolatria: li uccisero9. Ma intanto nelle vicende successive del rapporto ebrei-cristiani si fece strada una possibilità nuova tra i due estremi del martirio e della conversione: quella di chi, battezzato a forza, non abbandonava l’antica

religione e, potendo, ritornava a professarla. Così fu per gli ebrei renani, che poterono tornare alla propria religione col consenso dell’imperatore Enrico IV. E la vicenda si ripeté da allora in poi più volte. Su questa categoria creata dalla violenza si doveva sviluppare un lungo e drammatico processo storico. Ogni ondata di aggressioni produceva convertiti: e anche se non mancarono dubbi sulla validità del sacramento amministrato a forza, questo non impediva che si riproducessero tentativi di cancellare la differenza religiosa ebraica. Spingeva in quella direzione la forza delle attese apocalittiche del compimento della storia che attendeva il sigillo finale dalla conversione del popolo ebraico, l’ultimo a convertirsi secondo l’interpretazione cristiana delle profezie bibliche. Le cose si aggravarono per effetto dell’azione degli ordini mendicanti che svilupparono una virulenta predicazione antiebraica. Li muoveva una duplice urgenza: quella di una religione della povertà e della sofferenza che si rispecchiava nella figura del Cristo della Passione e quella di una volontà di accelerare l’avvento del Giudice divino dell’Apocalisse realizzandone l’ultimo antefatto: la conversione degli ebrei, appunto, la fine della loro ostinata cecità davanti alla verità della venuta del Messia. In Spagna l’opera dei predicatori e l’efficacia dell’idea di crociata conobbero una forza altrove ignota grazie alla continua attualità del conflitto con la presenza musulmana e del confronto con la minoranza ebraica. Fu nel contesto speciale creato da questa realtà di fatto che si sviluppò una virulenta predicazione contro gli «infedeli» e contro gli ebrei. Per questa via gli ingredienti dell’antiebraismo vennero messi insieme e diffusi in modo capillare. Si accentuarono così nella realtà iberica caratteri diffusi nel resto dell’Europa cristiana: tale fu ad esempio la tendenza dei poteri laici ed ecclesiastici a creare per gli ebrei forme rituali di esecrazione e di umiliazione nei palii cittadini e a imporre loro barriere di allontanamento e di interdizione dai rapporti con la restante società cristiana. In regime di cristianità, religione e norme di vita civile coincidevano. Si poteva anche consentire la presenza nella società di persone di altra religione, come accadeva nella penisola iberica medievale dove musulmani ed ebrei erano diffusamente presenti: ma nelle Siete partidas di Alfonso «el Sabio» – un codice di lunga durata nella tradizione spagnola – si disponeva che al passaggio del sacerdote con l’Eucarestia anche ebrei e musulmani si inginocchiassero con gli stessi segni di reverenza dei cristiani. E questo semplicemente perché l’Eucarestia era la verità che passava. Chi negava

ostinatamente quella verità e lo faceva all’interno della società cristiana senza per questo essere punito dalle norme canoniche appariva come un essere umano difettivo. Si era formato così uno stereotipo dell’ebreo come membro di una specie particolare. È indicativa della volontà di attribuire loro un vero e proprio difetto di umanità quella norma penale che colpiva ebrei e animali con l’impiccagione a testa in giù10. Ma rispetto ad altri contesti cristiani europei c’è un tratto speciale che caratterizza l’antigiudaismo spagnolo. Nella penisola iberica la presenza tradizionale di una minoranza ebraica incomparabilmente più numerosa e più fortemente radicata di quelle presenti in altri paesi europei fu la premessa che rese l’antigiudaismo un ingrediente essenziale nel legame che si sviluppò tra gli ordini religiosi e il potere politico. Le ambizioni politiche delle dinastie regnanti furono stimolate da una campagna violentemente aggressiva dei predicatori francescani e domenicani, che trovarono qui le condizioni per una duratura alleanza col potere. Gli argomenti dell’intolleranza religiosa e dell’ostilità verso il «popolo deicida», consueti nella predicazione e nella elaborazione teologica e morale degli ordini minori, si poterono sostanziare di un rapporto speciale con poteri monarchici in crescita e con una ideologia missionaria sviluppata nel conflitto con le presenze musulmana ed ebraica. A partire dalla metà del Duecento, francescani e domenicani fecero il loro ingresso nella società spagnola dedicando una speciale attenzione alla presenza degli ebrei. Le figure più autorevoli dei due ordini gareggiarono nel dar vita a una virulenta campagna di predicazione, pervasa da visioni apocalittiche e annunci profetici e destinata a offrire ai sovrani dell’Aragona e della Castiglia un’alleanza politico-religiosa. Il contesto della loro azione fu segnato dalla diffusione di quella che è stata definita una «blood piety»11, un misticismo del sangue di Cristo e della partecipazione del cristiano al sacrificio del Salvatore attraverso quel sangue: la definizione del dogma della transustanziazione al Concilio Lateranense IV nel 1215 fu una tappa capitale in questo senso. Si avviò allora una tradizione che, pur radicata nelle culture religiose e teologiche francescana e domenicana, doveva conoscere nella penisola iberica uno speciale successo e assumere caratteri peculiari. Chi confronta la predicazione di un san Bernardino da Siena con quella del suo confratello catalano Francesc Eiximenis può vedere come l’antigiudaismo cristiano comune ai due si differenzi nei suoi esiti e assuma toni più o meno radicali in ragione della diversità dei destinatari. Se san Bernardino si rivolgeva a una città di mercanti a reggimento comunale, il francescano

catalano poté contare sul rapporto con una monarchia pronta a cogliere l’impulso a fare della religione uno strumento di potere. Negli scritti e nelle prediche del domenicano san Vicente Ferrer e del francescano Francesc Eiximenis, la proposta avanzata ai detentori del potere fu quella di investire ogni energia nel compito della conversione religiosa del popolo soggetto al governo del principe cristiano. La conversione dei non battezzati, come mezzo essenziale per costruire un regime giusto e benedetto da Dio, fu l’obiettivo a cui si indirizzò il loro impegno. Nacque allora l’ideologia della missione come alternativa alla crociata e furono poste le premesse dell’espansione missionaria extraeuropea, che doveva caratterizzare l’età delle scoperte geografiche e delle navigazioni atlantiche. Chi ha cercato le possibili fonti delle convinzioni profetiche apocalittiche di Cristoforo Colombo si è imbattuto nel filone di commenti all’Apocalisse di ambito castigliano, un genere che aveva alle spalle la tradizione nata nel Trecento12. L’impegno missionario per la conversione dei non cristiani che rese famoso san Vicente Ferrer e il profetismo apocalittico che condivise con Francesc Eiximenis appartenevano alla tradizione dei loro ordini religiosi: ma quella tradizione attecchì in Spagna con caratteri speciali, sia per la presenza di una forte minoranza ebraica e musulmana, sia per il vincolo che vi si creò tra il potere politico e il mondo degli ordini religiosi. Nell’infiammata predicazione e nella imponente opera letteraria dei due autori, il ricorso al profetismo visionario e le interpretazioni del libro dell’Apocalisse furono il veicolo di disegni e progetti di grande impatto culturale e dall’immediato valore politico. Ne erano autori personaggi che per il loro prestigio pubblico di religiosi e di dotti, ma ancor più per l’opera che svolgevano come predicatori di gran seguito, erano in grado di mettere in collegamento diversi ambiti della società e di offrire alle ambizioni di un potere monarchico in crescita una forte motivazione e una potente cassa di risonanza. Nella Spagna della reconquista le casate regnanti non potevano ignorare la forza suggestiva dei miti dell’onore e della missione del potere cristiano. Ne è documento fra gli altri il Libro del cristiano scritto da Francesc Eiximenis tra il 1379 e il 1384: un trattato che affidava al sovrano dell’Aragona il disegno di un assetto del corpo politico cristiano sotto il segno della nobiltà, della lealtà e della purezza di religione. Anche della purezza di sangue. Ed è qui che fa capolino la figura del giudeo. L’orrido giudeo, il porco, è l’antimodello per eccellenza: non solo l’ebreo noto come tale ma anche chi ne discendeva per legami di sangue. La maledizione del pio

francescano cala implacabile sull’arrivista che si è infiltrato a corte: e dietro l’indegno cavaliere, l’«orrido porco» che dovrà essere espulso dalla corte, è svelata l’identità nascosta del «figlio segreto di qualche orrido giudeo»13. Quanto a san Vicente Ferrer, le sue intense campagne di proselitismo non risparmiarono gli ebrei. Pochi mesi prima del grande pogrom del 1391 era attivo in Castiglia; e se è vero che gli scritti del predicatore sono celebri proprio per l’insistenza sulla missione come alternativa pacifica alla crociata, non è detto che le sue immagini fiammeggianti venissero intese nel senso giusto dagli ascoltatori quando parlava di «matar los juheos» con le parole e non col coltello; di fatto la pressione da lui esercitata sugli ebrei perché si battezzassero fu particolarmente forte negli anni più drammatici per le comunità ebraiche spagnole14. E comunque le folle cristiane assorbivano un messaggio di violenza e di vendetta dalla voce dei predicatori, che nella Settimana Santa li muovevano a piangere per le sofferenze del Cristo piagato e sofferente della Passione, dipinto nei grandi retabli delle chiese. Nasceva allora l’impulso vendicativo contro i responsabili di quel martirio: gli ebrei eredi del popolo di Gerusalemme che aveva voluto la crocefissione del Figlio di Dio. Inutilmente gli ebrei spagnoli cercarono di distinguersi dal «popolo deicida», inventandosi attestati apocrifi di una loro presenza in Spagna già all’epoca del processo a Gesù; non diversamente da quegli eredi dei musulmani di Spagna che alla fine del Cinquecento, avvicinandosi anche per loro la tempesta dell’espulsione definitiva, cercarono di parare il colpo coi reperti di una antichissima tradizione arabo-cristiana spagnola inventata per l’occasione15. Di fatto fu con l’ingresso sulla scena della predicazione dei frati e del loro tribunale dell’Inquisizione che la condizione degli ebrei spagnoli cominciò a cambiare. Nei confronti degli ebrei non ci fu più solo un generico clima di ostilità, legato alla condizione sociale di questa minoranza e alla funzione di agenzia finanziaria e fiscale svolta dai suoi esponenti più in vista. La fanatica volontà di snidare l’eretico e di conquistare le folle fece leva sull’immagine del Cristo della Passione come veicolo di un patetismo religioso che assimilava il peccatore e il miscredente agli ebrei deicidi. Sull’ebreo calava lo stereotipo diabolico della negazione della fede e della sacrilega ostinazione nell’offesa a Cristo. Tra gli ingredienti più efficaci ci fu quello della cosiddetta accusa del sangue, una leggenda dalle origini oscure diventata progressivamente una minaccia incombente sulle comunità ebraiche interne al mondo cristiano. Se nella realtà storica la Pasqua cristiana era nata dalle

radici della Pasqua ebraica, nei rapporti di forza tra la nuova religione universale e l’antica fede ebraica quella filiazione si rovesciò in esecrazione. Nei riti ebraici della Pasqua si credette di vedere una contraffazione dei propri. Quella dei cristiani era una celebrazione della vita, un sacrificio senza sangue, che attualizzava l’unico sacrificio di Gesù come vittima immolata per la salvezza dei credenti. Il che non aveva impedito che nel mondo pagano delle origini se ne parlasse come di riti in cui si sacrificava e si mangiava un bambino. La stessa accusa venne lanciata ora contro gli ebrei, sospettati di immolare per la loro Pasqua un bambino cristiano e di impastare col suo sangue il pane del rito pasquale. Una sommaria cronologia degli episodi – a partire dal primo caso, quello del dodicenne William di Norwich del 1144, raccontato dal monaco Thomas di Monmouth, fino alla vicenda del processo di Kiev nel 1913 e oltre – mostra chiaramente che la catena di orrori prodotti da questa truce leggenda ha toccato ogni paese europeo: con esiti diversi, tuttavia, perché se l’imperatore Federico II di Svevia bloccò sul nascere uno di questi episodi, altri poteri politici e religiosi ne alimentarono e sfruttarono le emergenze. Tale fu il caso spagnolo. A Saragozza nel 1250 la tradizione ha fissato il caso di un Dominguito del Val (al tempo del caso di Kiev ci fu chi attribuì al segretario di Stato di papa Leone XIII, il cardinale Merry del Val, il santo spagnolo come antenato). L’accusa del delitto rituale si saldò a quella del complotto, un’altra costante che lega l’antigiudaismo cristiano all’antisemitismo razziale. L’ebreo non fu visto solo come colui che uccideva i bambini cristiani, in un contesto religioso malvagio e ostile, ma come colui che complottava per lo sterminio di tutti i cristiani. E l’accusa del complotto fu lanciata con la costruzione di un complotto vero e proprio. Nell’estate del 1321 fu elaborata e diffusa ad arte l’accusa agli ebrei di tramare contro i cristiani, in accordo segreto coi lebbrosi e con l’alleanza di sovrani musulmani: il nemico interno doveva avvelenare i pozzi aprendo così la strada all’aggressione vittoriosa del nemico esterno16. Accusa facile a essere creduta: non era forse l’ebreo «l’altro in mezzo a noi», colui che vivendo tra i cristiani rideva di loro, come scriveva in quegli anni Dante Alighieri («sì che l’ebreo di voi tra voi non rida»)? Da questi inizi prese corpo il nucleo originario della figura del nemico interno e il processo di espulsione degli ebrei dai regni cristiani di Francia e d’Inghilterra. La crisi della «peste nera» del 1348 sconvolse la società europea. La paura del nemico invisibile e il superstizioso timore di una punizione divina per la presenza di nemici di Dio

nella società portarono a scaricare su frange di emarginati e di diversi la violenza accesa dal terrore della morte. Meccanismi dello stesso genere dovevano riprodursi ancora nei secoli successivi. Mentre su questo sfondo si producevano aggressioni e stragi di ebrei, in Spagna l’ondata di violenze andò crescendo fino a sfociare nel 1391 in un massacro di grandi proporzioni, con migliaia di morti e decine di migliaia di battesimi forzati in tutto il paese e nelle isole Baleari. Scoppiato a Siviglia e diffusosi in tutta la Castiglia, in conseguenza della propaganda antigiudaica diffusa in funzione di un conflitto dinastico, il moto antiebraico portò a eccidi di massa e alla conversione di un gran numero di ebrei per sfuggire alla morte17. Si verificò allora l’ingresso nella società di molti nuovi cristiani, anzi – come dovevano essere definiti – di «cristianos nuevos», visti come contrapposti ai «cristianos viejos». Fu questa l’origine del fenomeno dei «conversi» o «marrani», termine di origine incerta attestato già intorno al 1380 e poi usato come insulto contro gli ebrei battezzati18. La coscienza della sopraffazione lasciò lo strascico di un odio speciale nei confronti delle vittime. La figura del «converso» fu circondata dall’alone del dubbio: era vera la sua conversione, oppure rimaneva nel segreto del suo cuore l’antica ostilità contro i cristiani? Nel rapporto tra vecchi e nuovi cristiani nasceva così il sospetto del nemico interno, del falso cristiano, tanto più infido e pericoloso quanto più indistinguibile dai veri membri della Chiesa. Ben si sapeva che in buona misura quelle conversioni erano frutto di violenza. Alla base dell’odio contro i conversos c’era dunque la natura di quella conversione: ritenuta vera per gli effetti oggettivi determinati dal sacramento del battesimo, e perciò radicale e irreversibile, ma anche sospetta di essere finta per quanto riguardava la fede reale del nuovo cristiano. La permanenza degli ebrei battezzati nello stesso contesto, con gli stessi legami sociali, con la tendenza a conservare pratiche e forme rituali antiche, li esponeva all’accusa di ricadere nell’antica religione – di «giudaizzare». E questo faceva avanzare sulla loro testa la minaccia di essere sottoposti al tribunale dell’Inquisizione come apostati dal cristianesimo. La norma fu varata con la decretale Turbato corde di papa Clemente IV e confermata nel 1274 da papa Gregorio X: riguardava i cristiani convertiti all’ebraismo ma anche gli ebrei che li avevano indotti a tale passo. Sulla validità formale del battesimo amministrato a forza, o comunque in condizioni di violenza minacciata o temuta, c’era stato un pronunciamento di Bonifacio VIII che sostanzialmente aveva confermato la validità del

sacramento. Quanto all’Inquisizione, la parola rischia di evocare l’alone cupo dell’immagine violenta e arbitraria di quel tribunale elaborata nei secoli moderni. In realtà, il tentativo di creare un tribunale attento alle regole e impegnato nella ricerca (inquisitio) della verità poteva significare perfino un progresso rispetto alla situazione precedente. Tra le regole, una in particolare limitava il ricorso alla tortura, ammessa per i casi di eresia da papa Innocenzo IV con la bolla Ad extirpanda (1252) ma solo in presenza di indizi importanti e a patto di limitarne la durata e di escluderne vecchi, malati, donne incinte e bambini. Ma la pratica della giustizia inquisitoriale doveva via via assumere caratteri diversi a seconda delle autorità a cui fu affidata: e il passaggio dal tribunale vescovile a quello dell’Inquisizione papale delegata ai frati fu un momento decisivo di questa storia, prima che l’intera macchina del tribunale venisse messa al servizio del potere politico. L’estensione agli ebrei della giurisdizione inquisitoriale era materia discussa: in teoria era esclusa proprio dalla non appartenenza al popolo dei battezzati, anche se il papato si lasciò aperta la possibilità di intervento contro le dottrine e le pratiche ebraiche ritenute difformi da una ipotetica ortodossia ebraica e gli inquisitori affermarono, con Nicolau Eymerich, il diritto di processare l’ebreo che negava la Trinità. Ma nei casi degli ebrei convertiti o dei loro figli bastava il sospetto di un ritorno alla pratica dell’ebraismo per spalancare la porta alle procedure del tribunale della fede. Registriamo questo passaggio come un momento decisivo del nuovo orizzonte che si apriva. Nel raggio d’azione di un tribunale al servizio dell’autorità suprema del mondo cristiano entrava la condizione dell’ebreo convertito – il «converso». Dovremo dunque rivolgere l’attenzione a questo aspetto della storia: non siamo più davanti alle pulsioni incontrollabili delle folle come espressione della forza «naturale» del pregiudizio. È entrata in scena un’istituzione dotata di grande potere, posta nelle mani di un’organizzazione dedita all’educazione e al governo delle coscienze e dotata di immenso prestigio. Tuttavia, prima di approfondire la realtà spagnola a questo proposito, bisogna fare una piccola premessa, onde evitare che l’opera dei frati e quella del tribunale ecclesiastico dell’Inquisizione vengano classificate immediatamente sotto il segno dell’arbitrio e della violenza. Il versante dell’ostilità verso gli ebrei fu solo una componente interna della proposta di francescani e domenicani, che funzionò come un risveglio religioso del cristianesimo occidentale (Machiavelli parlò di un rinnovamento di una religione invecchiata che altrimenti sarebbe morta). Ma il risveglio stimolò anche un rinnovato bisogno

di purezza e di interiorizzazione, unito a un senso di pericolo per l’inquinamento minacciato dall’ebraismo come religione rituale. Il che aiuta a comprendere perché l’ostilità verso gli ebrei doveva aumentare nell’età della Riforma e caratterizzare uomini diversissimi come Erasmo da Rotterdam e Martin Lutero. In Spagna la quantità di convertiti – sia pure a forza – aveva creato una situazione speciale: cresceva un gruppo umano che non era più definibile come composto da ebrei, ma della cui ortodossia cristiana si avevano forti ragioni per dubitare. Non solo: liberi dalle interdizioni che colpivano gli ebrei, i «conversi» si vedevano aprire nuove possibilità di ascesa sociale e di potere, mentre uscivano anche fisicamente dagli spazi fisici e amministrativi della alijama e delle juderías. E intanto, mentre si chiudeva progressivamente l’orizzonte occidentale europeo, una nuova realtà prendeva corpo a Oriente con l’avanzata degli ottomani e la conquista turca di Costantinopoli nel 1453. Da qui nacque un nuovo elemento di tensione: fu in questa direzione che si aprì la via di fuga per gli ebrei da un mondo cristiano europeo fattosi sempre più ostile e in particolare dalla penisola iberica. Qui la popolazione di religione ebraica che vi era affluita conosceva situazioni di continuo pericolo e si vedeva aperta solo la frontiera verso il Portogallo – una possibilità che doveva chiudersi presto anch’essa, come vedremo. Ma per comprendere appieno quanto fosse singolare la situazione creata dalle campagne per la conversione degli ebrei, bisogna aver presente che i battesimi forzati avevano determinato una situazione nuova non solo sul piano giuridico (il nuovo cristiano entrava, come abbiamo visto, nella sfera giurisdizionale dell’Inquisizione, alla quale spettò giudicare le accuse di apostasia, cioè di ritorno alla pratica dell’ebraismo). Il conflitto era tra verità oggettiva del sacramento e falsità soggettiva della fede del neofita. Alla base di tutto c’era, come si è detto, la convinzione che quella conversione fosse da un lato vera per gli effetti oggettivi determinati dal sacramento del battesimo, dall’altro finta per quanto riguardava la fede reale del nuovo cristiano. E il problema si è riproposto in sede storica: si tratta di capire se effettivamente i «nuovi cristiani» erano degli ebrei mascherati o se invece avevano abbracciato realmente la nuova fede. Vedremo come questo problema abbia dominato le valutazioni storiografiche dell’operato delle Inquisizioni iberiche. Ma intanto si deve rendere conto del modo in cui allora fu sostenuta la tesi della segreta apostasia diffusa tra i cristianos nuevos. E qui emerge un fatto significativo: la tesi fu avanzata non sulla base della realtàdi cui si

poteva fare esperienza, ma con l’argomento di una differenza fisico-morale incancellabile tra ebrei e cristiani. Fu questo il convincimento che ispirò al capitolo canonicale di Toledo nel 1449 la promulgazione della SentenciaEstatuto dove si imponeva uno sbarramento all’ingresso nel capitolo per chi non possedeva il sangue puro (sangre limpio) del vero cristiano e aveva invece ereditato quello impuro dell’ebreo battezzato19. Inutilmente il giurista Montalvo oppose a questa decisione la tesi dell’efficacia universale del battesimo. La presa dell’argomento del sangue traeva la sua efficacia da un altro sacramento, l’Eucarestia, che univa i fedeli nel corpo mistico di una Chiesa concepita come comunità di sangue: un’idea teologica capace di alimentare un nazionalismo di tipo razzista. Più attenta alla natura razziale della discriminazione fu la scrittura polemica di un «converso» di Toledo, Fernán Díaz, che dimostrò come, nel corso dei settecento e passa anni trascorsi dai primi battesimi di ebrei spagnoli, il loro sangue si fosse trasmesso per molte vie, tanto che nessuno poteva essere sicuro di non averne nelle vene20. L’argomento fu riproposto nel secolo successivo dal teologo domenicano Tommaso de Vio da Gaeta, detto «il Caietano», che, per dimostrare quanto fosse irragionevole l’argomento del sangue, ricordò che dal lignaggio ebraico erano pur nati Cristo e gli apostoli. Ma intanto in Spagna si venne diffondendo l’idea di una differenza naturale, di sangue, tra cristiani ed ebrei. La tesi trovò una convinta difesa e divulgazione nell’opera del francescano Alonso de Espina, un predicatore che conobbe una popolarità straordinaria grazie alla campagna oratoria dai violentissimi toni antigiudaici condotta in Castiglia a partire dal 1454. La predicazione di Espina raccoglieva e rilanciava tutti i temi elaborati dalla tradizione francescana nella sua accentuazione del tema del Cristo sofferente della Passione e nella connessa esecrazione del popolo deicida. Vi aggiungeva di suo una proposta radicale: bisognava escludere i convertiti da tutti i corpi istituzionali di maggior potere e prestigio della società spagnola, come gli ordini cavallereschi e i capitoli delle cattedrali. La differenza sociale, che altrove si stava fissando sull’idea di nobiltà come eredità trasmessa col sangue, nel contesto spagnolo assumeva l’aspetto di una divaricazione incomponibile tra due diverse identità religiose: l’una autentica, originaria e antica, l’altra recente, inaffidabile e da tenere sotto controllo. Espina raccolse tutte le leggende relative al delitto del sangue e contribuì personalmente a creare un caso nuovo: nel 1454 una sua denunzia contro gli ebrei di Valladolid per il sospetto di un delitto rituale contro un bambino

cristiano fece arrestare e torturare gli accusati, che si sottrassero alla morte solo grazie a un ordine del re. La sua campagna antigiudaica culminò nell’opera Fortalitium fidei contra Judaeos, Sarracenos, aliosque fidei inimicos, risalente al 145921. Qui Espina riprese e argomentò la tesi della naturale «perfidia» ebraica, che ritrovava nei conversos contro i quali era diretta la sua polemica. La parola «perfidia» ritorna con ossessiva continuità nei documenti. Era da tempo il sigillo, il segno di riconoscimento dell’ebreo, persona per definizione malvagia e incline al tradimento. Era entrata in uso fin dal VII secolo d.C. in una preghiera «pro perfidis Judaeis»: questa preghiera si era fissata nella forma di una richiesta a Dio perché togliesse dagli occhi degli ebrei il velo di tenebra che impediva loro di riconoscere Gesù come il Cristo; nella liturgia della Messa cattolica doveva restare per molti secoli e venne cancellata solo nel 1959. Fino ad allora c’era stato solo un isolato tentativo di togliere quella espressione da parte di un vescovo toscano durante l’età napoleonica, che però non aveva avuto successo22. «Perfidia giudaica» era dunque un’espressione abituale inculcata al popolo dalla fonte sacrale della liturgia della Messa e riverberata in mille forme dalla voce dei predicatori. L’uso si era intensificato ed era diventato specialmente aggressivo nel tardo Medioevo. Colpendo tutto un popolo finiva coll’apparire come un carattere naturale di chi apparteneva ad esso, non una qualità legata alla religione ebraica, destinata a venire cancellata dal battesimo. Se da un lato la diaspora di un popolo senza territorio non impediva che il vincolo della religione continuasse a mantenerlo unito, dall’altro la martellante efficacia della voce della Chiesa tendeva a trasferire quell’attributo – la «perfidia» – dalla religione, come dato culturale, alla natura, facendone un carattere radicato nel sangue, ereditario e incancellabile. Inutilmente gli ebrei realmente convertiti al cristianesimo cercavano di sostenere che la conversione creava una differenza radicale tra gli ebrei che restavano fedeli all’antica legge e quelli che sceglievano il cristianesimo per convinzione: fu questa la tesi sostenuta da un contemporaneo di Espina, l’ebreo convertito che aveva preso col battesimo il nome di Pablo de Santa Maria. La durezza dei suoi attacchi agli antichi correligionari fu quella tipica dei convertiti, spesso fra i più violenti ed esperti accusatori dell’ebraismo. Ma la sua tesi, che la conversione fosse una trasformazione profonda dell’individuo, era respinta da chi, come Espina, negava che gli ebrei potessero cambiare davvero e toglieva ogni valore al passaggio sacramentale

del battesimo: il «converso» era per lui solo un cattivo cristiano, un ebreo nascosto e per questo ancora più pericoloso. Nel contesto creato dalle conversioni forzate di massa, il passaggio della concezione della differenza dalla cultura alla natura avvenne senza scosse: per Espina l’ebreo battezzato era l’erede di una macchia originaria trasmessa di padre in figlio. Era da lì che gli derivava una tendenza naturale a odiare i cristiani e a tradirli. Contro la minaccia dei «giudeoconversi» Espina propose di ricorrere come rimedio a quello che doveva rivelarsi lo strumento storico della persecuzione contro i convertiti: l’Inquisizione. E delineò una macchina inquisitoriale molto vicina a quella che si impiantò di lì a non molto in Castiglia: la nuova Inquisizione doveva essere basata su di un sistema diffuso di delazioni segrete e funzionare con regole durissime, come la confisca dei beni e l’ereditarietà dell’esclusione sociale per i discendenti dell’eretico. Il contributo della predicazione fratesca doveva essere determinante non solo nel diffondere questa immagine del «converso» o «marrano», ma anche nel fissare i caratteri che doveva assumere in Spagna il tribunale dell’Inquisizione, cioè l’istituzione a cui affidare la difesa della fede e la ricerca degli eretici. Parliamo di predicazione fratesca per indicare complessivamente la multiforme attività degli ordini religiosi impegnati nell’esercizio della predicazione e dell’amministrazione dei sacramenti. Non furono solo i francescani a dimostrare tanta determinazione e così sinistra efficacia nell’accendere i sentimenti delle folle: la figura del predicatore che teneva cicli di infiammate concioni nei periodi canonici dell’anno liturgico (l’Avvento e la Quaresima) e che dalle chiese dei conventi usciva sulle piazze per esercitare compiti di ammaestramento delle folle ebbe un ruolo decisivo nell’indirizzare le tensioni sociali contro gli ebrei come capro espiatorio. Le cronache del tardo Quattrocento registrano una impressionante intensificazione di questi episodi. Fu nel contesto della campagna scatenata dalla predicazione antiebraica che la leggenda del delitto rituale del sangue fu trasformata in un potente fattore di odio, in una leva per scatenare le folle contro l’ebreo infanticida, accusato di rovesciare il rito cristiano della Messa e il sacramento dell’Eucarestia in un rito sanguinario al servizio di un culto diabolico. L’accusa lanciata dalla predicazione fratesca trovò allora materia per trasformarsi in convinzione diffusa e propagarsi come opinione popolare, con effetti devastanti sulla convivenza di ebrei e cristiani. Lo strumento impiegato fu quello del ricorso illimitato e incontrollato alla tortura. Lo vediamo in uso

in due episodi esemplari: quello del processo celebrato a Trento, per volontà del principe vescovo Johannes Hinderbach nel 1484, e quello dei processi inquisitoriali spagnoli celebrati ad Avila nel 1490-1491. In ambedue i casi l’accusa fu la stessa: l’uccisione di un bambino cristiano per usarne il sangue in riti di esecrazione del cristianesimo. A Trento il ritrovamento del corpo di un bambino, Simone, fu all’origine della mostruosa macchina giudiziaria messa in piedi dal vescovo, che con la tortura fece confessare agli ebrei di essere i responsabili del delitto. Su questa base si giunse all’esecuzione capitale dei presunti rei confessi e all’espulsione di tutta la comunità ebraica cittadina. L’intera vicenda apparve, all’inviato papale Battista de’ Giudici, viziata dall’uso illegittimo della tortura: nel processo inquisitorio la tortura era consentita solo in presenza di elementi di prova che in quel caso non c’erano. Le confessioni ottenute in tal modo erano dunque da considerarsi non valide. Gli atti del processo documentano la violenza estrema delle torture ripetutamente inflitte a uomini e donne della piccola comunità ebraica23. Ma la volontà del vescovo di avere un suo piccolo martire cristiano per costruirvi intorno un culto cittadino ebbe la meglio sulle riserve legali dell’ispettore inviato da Roma, che rischiò personalmente la vita e dovette fuggire da Trento. Fu così che si impiantò a Trento una devozione al santo martire cristiano, mentre gli ebrei costretti ad andarsene lanciavano sulla città la loro scomunica. Solo mezzo millennio dopo la Chiesa del Concilio Vaticano II doveva riconoscere l’infondatezza di quella devozione. L’altro episodio, come si è detto, avvenne in Spagna: l’oggetto del preteso delitto rituale e della successiva venerazione fu chiamato «Il Bambino de La Guardia» («El Niño de La Guardia»). Si trattò di una replica dello stesso canovaccio anche se con qualche significativa differenza, come vedremo. Ma, poiché all’epoca era già in funzione la macchina dell’Inquisizione di Spagna, è a questa che ora dobbiamo dedicare la nostra attenzione.

Parte seconda LA PERSUASIONE, IL CONTROLLO, IL SOSPETTO

4. LA CONVERSIONE. VERI E FALSI CRISTIANI

Al centro di questa storia c’è la figura del convertito: anzi, del «converso». Si tratta di una figura chiave e di una definizione che ci porta al centro della questione aperta nella Spagna del tardo Quattrocento. L’invito alla «conversione» accompagna la storia della religione cristiana fin dalle origini. Religione universale, che si rivolgeva a tutti con l’offerta di una verità esclusiva dalla cui accettazione faceva dipendere la salvezza delle anime nella vita eterna del Regno di Dio, essa instaurò un rapporto di alleanza con la struttura del potere imperiale a partire dall’età di Costantino il Grande. La conversione al cristianesimo dell’impero romano, che Edward Gibbon ritenne causa del declino e della caduta della potenza imperiale e che la storiografia ecclesiastica ha considerato un evento provvidenziale, era stata seguita dalla conversione dei sovrani dei popoli barbari dilagati in Occidente. Con episodi come la conversione di re Edwin a York e il battesimo di Clodoveo ebbe inizio la storia dell’Europa cristiana: episodi emblematici della saldatura tra potere ecclesiastico e sovranità politica1. Gli altri due monoteismi del mondo mediterraneo, quello ebraico e quello islamico, declinarono in maniera diversa la loro pretesa di verità esclusiva. Da queste origini discende un carattere permanente dell’invito cristiano alla conversione: la tendenza a contrarre alleanze occasionali con il potere politico e a svolgere una funzione specifica nella costruzione di realtà statali. Ora, nel quadro dell’Europa del secolo XV, l’originalità del mondo iberico spicca rispetto a un sistema politico europeo nel quale religione e Stato avevano trovato da tempo un assetto di alleanza stabile. Sia le monarchie nazionali, sia quel che restava della costruzione dell’impero romano cristiano

avevano risolto da tempo il problema di saldare le gerarchie sociali e politiche con il cemento della religione e con l’alleanza con la Chiesa. Di conseguenza l’invito cristiano alla conversione vi assumeva un carattere strettamente individuale. Invece nella penisola iberica la presenza della minoranza ebraica e l’avanzata islamica nel Mediterraneo garantivano la permanenza di una pulsione universalistica insoddisfatta e di una tensione aggressiva verso il raggiungimento di una totale unità religiosa che le crisi sociali e politiche scaricavano contro i diversi: i dissidenti («eretici»), i seguaci del diavolo (streghe e stregoni) e, naturalmente, gli ebrei. La predicazione francescana, termometro fedele e moltiplicatore sociale dell’intolleranza e della volontà di conversione, portò anche sulle piazze italiane il vento dell’antigiudaismo: ma qui le autorità laiche seppero intervenire. Il celebre predicatore Bernardino da Siena si scagliò più contro la divisione delle «parti» – guelfi e ghibellini – che contro gli ebrei: e dalle sue prediche risulta che l’obbligo del segno distintivo imposto dal Concilio Lateranense IV per individuare gli ebrei e separarli dal resto della popolazione non era molto seguito nell’Italia del tempo2. Dunque nell’Italia delle città le tensioni registrate dai predicatori erano d’altro tipo. Erano quelle di un mondo diviso da lotte di parte e conflitti sociali e di potere di gran lunga più forti e preoccupanti delle divisioni religiose tra cristiani ed ebrei. Diversa la realtà iberica. In Spagna il processo di unificazione sotto un solo potere monarchico fu portato al successo grazie alla spinta di una guerra di conquista motivata dall’eliminazione delle differenze di religione. La nuova realtà che nacque dalla fusione di regni e comunità politiche, sociali e linguistiche diverse e divise fu unita dalla religione. La Spagna dovette essere prima di tutto cristiana per poter essere unita. E questo significò che ogni spagnolo doveva essere cristiano, dunque battezzato, dunque non ebreo né musulmano. Perciò in questo paese, dove l’unità religiosa cristiana fu a lungo un processo in divenire, il problema della conversione ebbe un posto importante, anzi decisivo, nel processo della formazione dell’unità statale. In Spagna l’unità di religione fu il carattere originale di una realtà politica espressa e rappresentata da un potere sovrano centrale ben prima che si formasse una unità culturale, linguistica, istituzionale. Ma a lungo rimase su quell’unità religiosa conquistata con le armi l’ombra di una minoranza inassimilabile: quella degli ebrei. Nella forma latina o in quella derivata spagnola (conversos), si fece avanti nei secoli del tardo Medioevo, nelle

preoccupazioni delle principali autorità religiose e politiche dell’Europa cristiana, il problema di chi fossero e di come andassero trattati quegli ebrei che per lo più non per libera scelta ma sotto violente pressioni avevano accettato di ricevere il battesimo. Gli ebrei, sempre loro. Non perché mancassero altre forme di diversità religiosa; per non parlare delle differenze di tradizioni e di culture tra i cristiani battezzati, c’erano nella penisola iberica anche i musulmani rimasti in terra riconquistata dai cristiani e per questo chiamati mudéjares e poi – a reconquista completa – più generalmente moriscos. Erano una presenza antica, che aveva dato alla società della penisola iberica caratteri speciali. La capitolazione di Granada avvenne in forme tali da garantire ai mudéjares una relativa libertà; e quando nel febbraio 1502 Isabella impose l’alternativa tra battesimo ed espulsione anche alla popolazione musulmana questo riguardò per il momento solo la Castiglia3. Per varie ragioni dunque fu l’immagine dell’ebreo il problema fondamentale di un cristianesimo dominato da un’ansia apocalittica di espansione conquistatrice – apocalittica perché dal compimento dell’unità del mondo nel segno del Vangelo dipendeva la fine della storia, la consummatio del mondo col ritorno di Cristo e il giudizio finale. Gli ebrei che resistevano alla conversione impedivano o almeno ritardavano il raggiungimento dell’obiettivo. Se per secoli gli ebrei erano stati accettati nel mondo cristiano, era stato in nome della loro funzione di testimoni. L’aveva detto sant’Agostino: per lui, la diaspora era stato l’evento voluto da un disegno divino, affinché la testimonianza delle profezie dell’Antico Testamento si diffondesse nel mondo4. Ma l’antica ostilità non era scomparsa e diventava feroce sentimento popolare attraverso il canale della predicazione fratesca. E fu così che il movimento delle crociate per il recupero della Terrasanta trovò un suo primo sfogo nei saccheggi ai banchi ebraici e nei battesimi violenti di ebrei che dovevano ripetersi lungo tutta l’avanzata della reconquista. Le violenze erano legittimate dall’imperiosa necessità di salvare le anime, anche se – almeno in via teorica – l’uso della forza per salvare le anime non era consentito ai cristiani: la voce del Vangelo doveva essere un annuncio lieto nel contenuto e mite nella forma. Chi voleva poteva accoglierlo: ma doveva volerlo. Nessuno viene alla fede senza volerlo, aveva detto sant’Agostino5. Questo principio fu ripetuto da diverse autorità della Chiesa con specifico riferimento al problema del battesimo degli ebrei. Che non dovesse essere forzato lo aveva ribadito il IV Concilio di Toledo del 633. Ma il canone conciliare non si era fermato

qui: bisognava prendere atto della realtà e spiegare che cosa si doveva fare se e quando la conversione era avvenuta con la forza e i sacramenti cristiani erano stati amministrati all’ebreo. La realtà della violenza si scavò la via nelle formulazioni canoniche col metodo della scelta del male minore. Bisognava impedire che da questa radice nascesse il male assoluto, quello dell’apostasia, e che invece di godere della rinascita cristiana il nuovo battezzato sperimentasse la morte eterna: perché quello era il metro con cui giudicare ogni cosa. E perciò il Concilio di Toledo segnò la via da percorrere: bisognava sottrarre i bambini ebrei battezzati alle loro famiglie e affidarli ai monaci o a famiglie cristiane perché venissero istruiti nelle cose della fede6. Le autorità ecclesiastiche, pur deprecando a parole il ricorso alla violenza nei secoli delle crociate, invitarono sempre a tener conto del fatto che i sacramenti operavano efficacemente in coloro che in un modo o nell’altro li accettavano. Lo scrisse con la massima chiarezza Innocenzo III, il papa che dette alla difesa della purezza della fede il primo posto nei suoi programmi e sistematizzò il ricorso al processo inquisitoriale contro l’eresia. Si partiva dal presupposto del potere irresistibile e automaticamente operante del sacramento: chi lo riceveva, sia pure per evitare sofferenze e torture, ne recava un’impronta indelebile e subiva una trasformazione sostanziale. Da lì si doveva procedere innestando su quella radice la pianta del nuovo uomo. Non si potevano seguire due vie né indossare un vestito fatto di due fibre diverse, affermò nel 1215 il canone 70 del Concilio Lateranense IV, in un testo che fissò il modello negativo dell’ebreo come essere cieco, malvagio e agente del demonio: bisognava che si costringessero con ogni mezzo («omnimodo») i «conversi» a distaccarsi dalle pratiche dell’antica fede, perché fare dietro-front sulla via del Signore una volta che la si era imboccata era assai peggio che non riconoscerla del tutto. Da orientamenti di questo tipo nacquero le decisioni del Concilio di Valladolid del 1322 che stabilì di ospitare i «conversi» in ospedali e luoghi di beneficenza per insegnare loro professioni capaci di inserirli nella società cristiana. Ma fu nel 1391 che si verificò l’ingresso forzato nella società di un gran numero di cristianos nuevos, mentre si introduceva l’obbligo per chi non si era convertito di ascoltare prediche e si alzavano barriere legali sempre più alte tra le due fedi7. Si profila così una realtà sociale che può essere definita schizofrenica: da un lato, si intensificavano le proposte e gli interventi per la conversione di ebrei e infedeli, dall’altro, crescevano le accuse e i sospetti contro i convertiti. Il Concilio di Basilea dedicò la sua diciannovesima

sessione (7 settembre 1434) al tema «Ebrei e neofiti» e approvò un decreto col quale imponeva l’istituzione di cicli di prediche ad hoc in tutti i luoghi dove si trovavano ebrei e altri «infedeli». Le dovevano tenere uomini esperti nelle lingue ebraica, araba, greca e caldea. Ma al metodo della persuasione si affiancava quello della forza e della minaccia: bisognava tenere separati ebrei e cristiani e rendere visibile l’identità degli ebrei con appositi segni. Ancor più dettagliato fu il decreto per la parte relativa ai convertiti: bisognava allontanarli dalla loro gente, spingerli a unirsi in matrimonio con i cristiani, sorvegliare la loro partecipazione ai riti cristiani, punire i contravventori con l’intervento del braccio secolare. E se si sospettava che i «conversi» fossero tornati alla loro religione precedente (come il cane che torna a inghiottire il suo vomito) allora bisognava procedere contro di loro a norma di legge e trattarli «tanquam perfidos haereticos»8: l’Inquisizione, insomma. Dunque se l’invito a entrare doveva essere fatto col metodo della persuasione, i nuovi entrati si dovevano preparare a un futuro di controllo assiduo e al sospetto permanente di una loro tendenza al tradimento segreto. Il linguaggio di Alonso de Espina era solo più esplicito e più radicale. Era sempre giustificato quel sospetto? E c’era solo diffidenza e pregiudizio ostile da parte cristiana e all’interno della Chiesa spagnola? In ambedue i casi la risposta è no. Come scrisse Joshua Halorki, rabbino di Alcañiz in Aragona, rivolgendosi al suo maestro Shlomo Halevi che si era convertito al cristianesimo prendendo il nome di Pablo de Santa Maria, non mancavano certamente i motivi che potevano portare un ebreo a scegliere di farsi cristiano. Secondo Halorki se ne potevano indicare almeno quattro, dei quali tre deteriori ma uno almeno di innegabile buona qualità: l’ambizione di acquistare posizioni d’onore in società e aumentare le proprie ricchezze; la disperazione per le condizioni di vita dell’ebraismo in esilio; l’effetto di una eccessiva speculazione filosofica; la convinzione di aver scoperto nel cristianesimo l’inveramento delle profezie bibliche9. All’antico maestro ora diventato un cristiano fervente Joshua Halorki riconosceva i caratteri della conversione sincera. E lo Scrutinium Scripturarum (1434), l’opera lungamente meditata con cui il «nuovo cristiano» Pablo de Santa Maria si rivolse agli ebrei per convincerli della verità del cristianesimo, ne offre una prova indiscutibile. Inoltre le testimonianze della religiosità dei «conversi», che incontriamo tra le figure più eminenti della Chiesa e della cultura religiosa spagnola dei secoli XV e XVI, non lasciano dubbi al riguardo. L’elenco dei nomi sarebbe lungo. Il loro contributo all’elaborazione di una

religiosità dai caratteri speciali nella tradizione del cristianesimo iberico è emerso dal restauro attento del mondo degli alumbrados, dei mistici e degli eretici10. Ma non si può dimenticare che c’erano tuttavia anche gli altri motivi elencati da Halorki: le tribolazioni degli ebrei sotto i cristiani, unite alla speranza di conquistare col battesimo una condizione di vita migliore e più libera, potevano spingere a quel passo. Per arginare il sentimento di disperazione che tornava a serpeggiare di nuovo in un popolo che conservava memoria delle violenze dei visigoti e dell’intolleranza islamica e che aveva conosciuto le stragi del 1391, Joshua Halorki tentava di consolare i suoi correligionari evocando il mito di un grande regno ebraico erede delle dieci tribù scomparse e collocato in Oriente, al di là del mondo islamico. Quel mito consolatorio doveva riaffacciarsi spesso. E doveva essere ben presente nelle menti se proprio in direzione del mondo mediterraneo orientale dovevano dirigersi di lì a non molto parecchi esuli dalla Spagna. Sta di fatto che, al di là dell’astratta discussione se la conversione fosse vera o falsa, ben più ricco di scoperte si è rivelato il campo dell’indagine sugli aspetti concreti dell’innesto della nuova fede su quella antica. Già si è detto della speciale religiosità «conversa» come contributo della cultura ebraica d’origine a quella cristiana spagnola. L’originalità degli effetti dell’innesto è stata confermata dallo studio di ciò che accadde nel campo delle immagini devote: i nuovi cristiani provenienti da una religione che, come l’Islam, vietava l’uso di rappresentazioni figurative si cimentarono non solo con la produzione delle immagini ma dettero espressione a una nuova e diversa sensibilità su come ci si dovesse comportare davanti ad esse. Ne dà prova l’animata discussione che nacque per loro contributo intorno al problema se quelle immagini dovessero essere adorate e considerate veicoli di miracoli o semplicemente venerate. Non fu un caso se lo stesso confessore della regina Isabella, fra Hernando de Talavera, di origini ebraiche, si soffermò in modo speciale su questo campo dell’esperienza religiosa11. Quanto alla questione del controllo, va detto che la voce di chi chiedeva l’Inquisizione non fu l’unica a levarsi nella Spagna del Quattrocento e del Cinquecento. La proposta di un metodo fondato sul dialogo, sulla disponibilità all’ascolto, sul ricorso alla «correctio fraterna» e non alla violenza («correptio»), si fece strada in diversi importanti ambienti della Chiesa spagnola e alimentò una lunga resistenza all’avanzata dell’Inquisizione12. E perfino la Sentencia-Estatuto del 1449, che escludeva i discendenti da ebrei dalle cariche municipali, suscitò reazioni tali che finì col

rimanere inapplicata13. Da tutto questo si ricava una sola conclusione: non ci fu un’ondata collettiva di odio per gli ebrei a reclamare l’introduzione dell’Inquisizione. Senza la volontà politica dei Re Cattolici e senza l’assidua trattativa da loro condotta con Roma quell’esito non ci sarebbe stato. Per quanto riguarda l’Inquisizione medievale, delegata dal papa ai domenicani e ai francescani, gli ebrei in quanto tali non erano soggetti alla sua giurisdizione. Eppure nel corso del tempo, attraverso passaggi successivi, furono proprio gli ebrei a costituire il problema più assillante dei custodi della ortodossia. Vale la pena di ricordare che la custodia del bonum fidei era compito dei vescovi. Ma la vigorosa ripresa del papato e la sua affermazione come autorità centrale della Chiesa d’Occidente si tradussero nella elaborazione di norme per individuare e colpire le eresie e nella ricognizione di nuovi e più efficaci strumenti di intervento. Quegli strumenti si offrirono al papato grazie alla nascita dei nuovi ordini minori. Fu alla fervente iniziativa dei seguaci di san Francesco e di san Domenico che vennero affidati la sorveglianza e l’intervento antiereticale. E quella sorveglianza tendeva a estendersi a tutti i pericoli che minacciavano l’ortodossia: nonostante la norma ufficiale secondo cui era della fede dei battezzati che il nuovo tribunale doveva occuparsi, non di quella di ebrei e infedeli. Se la nascita e la diffusione di movimenti religiosi come i catari e i valdesi avevano offerto la materia per avviare il lavoro dell’Inquisizione fratesca, ben presto altre realtà le si offrirono. Come abbiamo visto, la penisola iberica, dove i regni musulmani avevano creato condizioni specialmente adatte al pluralismo religioso e culturale, fu il campo di battaglia della reconquista guerresca da parte dei regni cristiani, ma fu anche il luogo dove la nuova Inquisizione costruì rapporti di collaborazione coi poteri politici. Inoltre, nel corso della progressiva avanzata cristiana, la carica intollerante della fede guerriera dei crociati si tradusse in ripetute esplosioni di violenza contro gli ebrei. Basta ripercorrere rapidamente la storia medievale dei tribunali inquisitoriali spagnoli per avere un’idea del conseguente cambiamento di orizzonte dell’istituzione. In alcune parti della penisola iberica, l’Inquisizione in quanto ufficio delegato dal papa ai frati minori fu introdotta molto presto. In Catalogna e nell’Aragona l’avvio dell’azione di un tribunale affidato ai domenicani si ebbe nel corso del secolo XIII: fu la risposta al problema della presenza di valdesi nelle terre dei Pirenei, e soprattutto di catari emigrati dalla vicina Francia e in particolare dalla contea di Tolosa per la persecuzione in atto.

L’impegno dei domenicani nell’organizzazione del tribunale e nella definizione delle sue procedure lasciò una traccia profonda nella storia dell’azione inquisitoriale grazie al trattato di Nicolau Eymerich, il Directorium Inquisitorum (1376), riproposto con aggiornamenti nel secolo XVI da Francisco Peña. L’opera di Eymerich venne composta mentre alle primitive materie della sorveglianza inquisitoriale si andavano sostituendo nuove piste in direzione degli ebrei: la violenza degli eccidi contro di loro (nel 1356 e nel 1391) stava facendo aumentare il numero dei convertiti. E con i convertiti più o meno a forza nasceva il sospetto sull’autenticità della conversione stessa. Da lì derivarono le nuove regole elaborate per gli inquisitori: tutti gli aspetti della vita sociale e dei comportamenti dei conversos dovevano essere attentamente osservati. E nasceva una nuova categoria inquisitoriale, quella dei «giudaizzanti». La questione della vera o finta conversione doveva crescere fino a determinare il ricorso al tribunale della fede. Prima di affrontare la storia della fondazione del nuovo tribunale dell’Inquisizione in Spagna, bisognerà dunque cercare di rispondere alla domanda se gli ebrei convertiti fossero diventati realmente cristiani oppure celassero nel segreto la fedeltà all’antica religione. Come abbiamo accennato, questa domanda, dopo avere occupato la mente degli inquisitori, si è trasferita agli scritti degli storici: due tipi umani che hanno qualcosa in comune nella ricerca della verità e che nel caso della Spagna hanno conosciuto una sovrapposizione nell’iniziatore della moderna ricerca su documenti d’archivio, Juan Antonio Llorente. Nella sua Histoire critique de l’Inquisition d’Espagne (1811), questo antico impiegato del tribunale fuggito in Francia si presentò come l’unico autore capace di penetrare nel cuore più segreto del funzionamento del tribunale grazie all’esperienza di letture di bolle papali e incartamenti processuali accumulata negli anni. La sua verità era quella che si poteva ricavare dai processi: in quelle carte egli vedeva ripetersi continuamente la tragedia di una violenza del potere sulle coscienze di persone colpevoli solo di mantenere viva nel cuore la fede che erano stati costretti ad abiurare. Veniva così alla luce l’esistenza di un movimento sotterraneo di sopravvivenza segreta dell’ebraismo che univa i conversos agli ebrei non battezzati. Le indagini condotte in seguito sulla questione della condizione degli ebrei nella Spagna cristiana hanno portato alla luce una gran quantità di documenti nuovi e hanno potuto risalire dai riassunti schematici dei processi visti da Llorente (le relacciones de causas spedite alla «Suprema» di Madrid) ai fascicoli

processuali originali. Ma con il secolo XX nuove domande si sono proposte. Se si tiene presente il fatto che una delle opere più importanti sulla questione fu pubblicata da un ebreo tedesco, Ytzhak Baer, tra il 1929 e il 193614, si capirà perché sulla vicenda finisse col calare l’ombra dell’antisemitismo contemporaneo e si rafforzasse la tesi secondo la quale conversos ed ebrei facevano parte di uno stesso popolo ed erano uniti dalla stessa fede. Baer riconosceva che l’Inquisizione all’inizio si era mossa seguendo correttamente le regole procedurali: ma alla fine la vittoria dell’intolleranza e dei pregiudizi di «antisemiti medievali» aveva travolto l’impianto dei processi e aperto la strada all’arbitrio15. Non tutti furono d’accordo su questo. Un altro ebreo tedesco, Fritz Heymann, costretto a lasciare la Germania e a trovare un precario rifugio in Olanda prima di essere deportato nei campi di sterminio, si dedicò a una ricerca sui conversos o «marrani» che rimase purtroppo non pubblicata: nelle conferenze che tenne sull’argomento, l’autore sostenne la tesi che in genere gli ebrei battezzati fossero effettivamente convertiti o avessero comunque accettato sinceramente la nuova religione e che furono l’odio e i pregiudizi della popolazione e il sospetto dell’Inquisizione a farli ritenere degli apostati16. È su questa strada che in tempi recenti si è mosso Benzion Netanyahu, autore di un’opera con la quale si è proposto come fondatore di una «nuova scuola»17: la sua tesi è che l’attacco contro i conversos sarebbe stato determinato dalla volontà del sovrano di impadronirsi dei loro beni, con il meccanismo della confisca inquisitoriale che colpiva l’eretico. Da ciò sarebbe derivata la falsificazione sistematica della vera posizione religiosa dei conversos, ricacciati a furia di processi e di esecuzioni verso l’appartenenza a una religione che avevano sinceramente abbandonato. La fondazione religiosa dell’attuale Stato ebraico si affaccia sullo sfondo di questa tesi come l’esito necessario di un processo storico segnato dal rifiuto dei poteri cristiani, unici responsabili della permanenza inalterata di un popolo unito dal meccanismo di esclusione che lo ha colpito. Ben più di queste generalizzazioni fondate su presupposti ideologici, sono le ricerche sulle fonti storiche lasciate dall’Inquisizione che hanno arricchito il quadro delle conoscenze sulle scelte religiose effettive degli ebrei di origine iberica. Il quadro che emerge ad esempio dalla vicenda della comunità ebraica di Maiorca, nascosta a lungo da simulazione e dissimulazione e distrutta nei roghi del Sant’Uffizio del 1691, è quello di lunghe fedeltà alla propria religione trasmesse nel segreto di mondi chiusi18. Non diversa in questo dalla vicenda degli ebrei emigrati nell’America spagnola, minacciati dalla

vigilanza inquisitoriale ed esposti al rischio del disvelamento delle loro convinzioni: il che poteva accadere anche per le diverse scelte di fedeltà religiosa che si potevano dare all’interno della stessa famiglia, come accadde in Cile nel 1639 al baccelliere Francisco Maldonado da Silva, mandato al patibolo perché denunziato per ebreo dalla propria sorella19. Ma anche una rapida considerazione della quantità di studi e di discussioni generatasi intorno alla vicenda dell’ebraismo iberico e della sua cancellazione può dare un’idea di quanto sia progressivamente cresciuta, nella coscienza storiografica del mondo contemporaneo nato dalla Rivoluzione francese, l’importanza di quanto accadde in Spagna alla fine del Quattrocento. Vi riconosciamo un caso della natura prospettica della conoscenza storica. La costruzione di una prospettiva che conduca al tempo nostro e ce ne sveli le premesse e la lunga maturazione ha fatto emergere all’orizzonte del passato un momento originario del disegno che conduce fino a noi: quello della cancellazione radicale della presenza ebraica nella penisola iberica, cioè nel luogo dove quella minoranza aveva costruito una secolare eredità di presenza. Il punto di vista dei contemporanei agli avvenimenti fu assai diverso. La vicenda dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna lasciò poche tracce nelle opinioni e nelle valutazioni del tempo: l’Europa cristiana era abituata alle misure di esclusione degli ebrei e alle espulsioni che ne cancellavano la presenza via via da grandi porzioni del continente. Nei confronti della religione ebraica era solidamente radicato un pregiudizio negativo e ostile che affiora continuamente nelle testimonianze, come lo zampillo occasionale di un largo fiume sotterraneo. I riformatori e i leader religiosi cristiani dell’epoca, quando non sfogavano pulsioni intolleranti contro i veri ebrei, se la prendevano con quanto c’era ai loro occhi di ebraismo nel cristianesimo: il ritualismo, l’osservanza superstiziosa di determinate pratiche alimentari o la recitazione di preghiere incomprensibili erano ai loro occhi la prova che dentro il corpo della religione cristiana era sopravvissuta un’anima ebraica. Riformarla significava prima di tutto espellere i resti di quella eredità. Su questo doveva battere con insistenza un uomo di lettere, generalmente alieno da pulsioni aggressive e intolleranti, come Erasmo da Rotterdam. E tuttavia su almeno un punto anche quest’uomo condivise qualcosa dell’esperienza di ebrei e marrani: si trovò esposto all’attacco della stessa istituzione che conduceva la guerra contro di essi, l’Inquisizione spagnola. Come abbiamo visto, al centro della discussione tra gli storici c’è proprio

la funzione svolta dai tribunali dell’Inquisizione nel rapporto con l’antisemitismo popolare da un lato e con le ambizioni del potere politico dall’altro. Dobbiamo dunque soffermarci sulle trasformazioni del meccanismo inquisitoriale avvenute nella Spagna della fine del Quattrocento.

5. LA NUOVA INQUISIZIONE E L’OSSERVANZA DELLA FEDE

Il primo e fondamentale teatro del mutamento fu la Castiglia. Qui non esisteva il tribunale dell’Inquisizione fratesca. E questo fu l’argomento usato per chiedere che si provvedesse a introdurlo. L’esigenza di istituire anche in Castiglia quello strumento ormai consueto di controllo dell’ortodossia nacque come conseguenza inevitabile dell’accusa agli ebrei battezzati di essere rimasti segretamente fedeli alla loro religione: questa fu la molla che fece avviare tutta l’operazione e motivò la supplica al papa di istituire una Inquisizione contro l’eretica pravità anche nel regno di Castiglia. La preoccupazione di tutelare l’integrità e l’osservanza della fede cristiana fu condivisa da molti personaggi del mondo ecclesiastico e politico spagnolo e si diffuse facilmente nel contesto della reconquista e nel clima di una crociata vissuta come dovere sacro militare e religioso. Ma le ipotesi che presero forma furono diverse. Secondo alcuni, potevano essere i vescovi a svolgere il compito di controllo e di educazione religiosa del loro popolo. Il conflitto tra una Chiesa dei vescovi e una Chiesa dei frati era scritto nella realtà del corpo ecclesiastico da tempo. Ma in Spagna l’episcopato aveva conservato robuste fondamenta e resisteva all’invadenza degli ordini mendicanti. Fu decisiva in questo contesto la pressione di una precisa volontà del potere reale, determinato a perseguire l’ipotesi dell’istituzione del tribunale fratesco con inquisitori forniti di poteri delegati dal papa. Ma non erano più i tempi della crociata contro gli albigesi quando i frati operavano con il consenso e l’aiuto di poteri feudali di limitate dimensioni. Questa volta si dovevano fare i conti con l’abilità e l’ambizione di un personaggio speciale: Ferdinando d’Aragona. Il favore di cui costui poté godere presso il papa francescano

Sisto IV gli consentì di ottenere la bolla del 1° novembre 1478, Exigit sincerae devotionis affectus. Il testo papale assumeva per buona la denunzia fatta dalla coppia dei sovrani spagnoli: l’esistenza in molti luoghi e città dei loro regni di persone che, «rigenerate da Cristo col Santo Battesimo senza essere state obbligate a riceverlo», si erano rese colpevoli di ritorno ai riti e ai costumi degli ebrei mantenendo sotto l’apparenza di cristiani la «perfida superstizione ebraica», non solo, ma osando perfino infettare col loro veleno i figli e i conviventi, colpa della tolleranza (il termine ha un significato negativo) dei prelati1; e tutto questo senza temere le pene promulgate da Bonifacio VIII. Era da questa offesa fatta a Dio che derivava la triste condizione di guerre e di altre calamità dell’intero paese. Pertanto il papa, tributando ampi riconoscimenti al fervore religioso del sovrano per il suo zelo di fede per la salvezza delle anime, e attendendo il successo di Granada e la conversione degli infedeli che vi abitavano, sottolineava la gravità del pericolo segnalatogli dal re nella sua petizione e accoglieva la sua richiesta di aiuto. Sisto IV concedeva al re di eleggere e nominare (ed eventualmente rimuovere e sostituire) tre vescovi, o arcivescovi o altre persone di almeno quarant’anni, scelte tra il clero secolare o quello regolare, esperte di teologia e di diritto canonico, alle quali conferire su quel tipo di reati la stessa giurisdizione che avevano vescovi e inquisitori: con in più il diritto di accrescere il numero di queste persone a seconda del bisogno, affinché ne derivassero frutti di esaltazione della fede e salvezza delle anime. Gli eletti del re dovevano essere inviati nelle città e nelle diocesi con i poteri di giurisdizione appartenenti agli inquisitori dell’eretica pravità. E questo con gli auguri che giungesse allo sperato successo la conquista del regno di Granada e di tutti i luoghi popolati da infedeli da convertire. Ma il compito fondamentale era intanto quello di espellere dai regni cattolici la «perfidia»: questo il termine chiave, che evocava immediatamente la figura cattolica dell’ebreo2. Dunque nella trattativa con Roma il sovrano spagnolo riuscì a far passare una novità sostanziale, quella che gli lasciava mano libera nella nomina degli inquisitori. La messa in opera del potere delegato avvenne immediatamente: con provvedimento datato Medina del Campo 27 settembre 1480, i sovrani conferivano in nome del papa e in nome proprio l’ufficio di inquisitori a due eletti. Il 2 gennaio 1481 un decreto reale firmato a Siviglia informava i duchi, i marchesi, i conti e tutte le autorità religiose e laiche della Castiglia che il re

intendeva esercitare l’ufficio dell’Inquisizione concessogli dal papa e avvertiva tutti di non prestare aiuto ai cattivi cristiani, eretici e infedeli, che al suo arrivo erano fuggiti da Siviglia e cercavano protezione. Ai disobbedienti il re minacciava la scomunica maggiore e le altre pene di cui disponeva per l’autorità apostolica e per quella reale congiunte nella sua persona3. Le divisioni politiche e religiose dei territori sui quali dominavano i Re Cattolici trovarono la prima forma di unione nella figura del domenicano Tomás de Torquemada, che nel compilare le istruzioni per il suo santo ufficio si presentò come il «primo Inquisitore generale dei regni e signorie di Spagna»4. Torquemada aveva ricevuto dal sovrano la nomina e aveva cumulato così nella sua persona e nell’autorità dei suoi ministri e commissari i poteri di delegato della Sede Apostolica e quelli affidatigli dal sovrano. I documenti attuativi con cui si fece seguito in Spagna alla concessione papale sottolinearono l’assoluta discrezionalità del potere sovrano e l’illimitata facoltà di agire concessa agli inquisitori da esso scelti. Sembrava chiudersi così una questione di cui si discuteva da tempo, quella di come affrontare l’accusa di «giudaizzare» rivolta agli ebrei convertiti. Si erano avviate iniziative diverse, come quella di una Inquisizione episcopale sulla questione. E ci fu una inchiesta affidata al generale dei geronimiani Alonso de Oropesa. Proprio da ambienti legati alla regina Isabella, dove i conversos potevano contare sul confessore della regina Hernando de Talavera, «converso» lui stesso, si fece avvertire la resistenza alla nuova Inquisizione che si tradusse nell’invio di Talavera a Siviglia, incaricato dall’arcivescovo Pedro González de Mendoza di una missione in mezzo agli ebrei battezzati di quella grande città. A questo punto, dopo ben due anni dalla data della bolla istitutiva (segno della resistenza sorda opposta dai partigiani di una scelta diversa), arrivarono a Siviglia i primi due inquisitori nominati dal re. Intanto il disegno del nuovo assetto inquisitoriale si completava al prezzo di una durissima lotta su due fronti: su quello interno, con i poteri laici ed ecclesiastici schierati in difesa dei diritti e dei privilegi tradizionali (fueros); all’esterno, col papato che tentò di correggere il tiro rispetto a quella prima bolla. Sisto IV si dovette rendere conto della gravità della concessione dalle reazioni che gli giunsero dalla Spagna, ma Ferdinando fu abilissimo nel mandare avanti l’impresa su due binari distinti: da un lato, una trattativa col papa solo formalmente remissiva e dall’altro la deliberata violenza con cui scatenò l’azione inquisitoriale sotto la duplice insegna del potere sacro del papa e del potere temporale del re. Le proteste suscitate dalla crudeltà delle persecuzioni di cui

si era reso responsabile il nuovo tribunale, con procedure affrettate e irregolari, sentenze ingiuste, torture feroci («diris tormentis»), carcerazioni ed esecuzioni capitali seguite da sequestri dei beni, trovarono un’eco nella nuova bolla di Sisto IV del 29 gennaio 1482 che rigettò la domanda dei re spagnoli di estendere la nuova Inquisizione al territorio della corona di Aragona. Il percorso delle trattative con Roma fu lungo e tormentato. Le lettere di Ferdinando ribatterono con durezza le accuse e sottolinearono la gravità del pericolo rappresentato dal «contagio» di coloro che non volevano obbedire non solo alla legge dei cristiani, ma neppure ad alcun tipo di legge: era dunque necessario, secondo lui, che gli inquisitori dell’eresia venissero istituiti sulla base esclusiva dell’obbedienza al sovrano («secundum beneplacitum et voluntatem meam»)5. Di fatto, ebbe partita vinta su ambedue i fronti, quello romano e quello interno. A Roma il suo punto di vista fu accolto dal papato. Ne rimase lunga memoria nella tradizione ufficiale. A secoli di distanza lo storico gesuita che ha pubblicato i documenti della vicenda lo ha fatto proprio, affermando che i «conversos del judaismo» erano «un verdadero peligro para la nación»6. Sul fronte interno l’élite sociale di origine ebraica, già in gran parte battezzata, subì un attacco violentissimo con l’accusa di cripto-giudaismo. I roghi e i sequestri dei beni ne spezzarono la resistenza. E all’opera di costruzione degli strumenti giuridici di affermazione del potere reale si aggiunse una mobilitazione senza precedenti della propaganda, cioè degli strumenti per la creazione di una identità collettiva. Nacque allora, per opera di legioni di frati predicatori e di ordini religiosi militari, il mito della hispanidad come appartenenza a un corpo unito da una religione militare, conquistatrice, saldata dalla missione ricevuta da Dio di combattere infedeli ed ebrei. In un vasto territorio abitato da popolazioni di lingua, cultura e assetto sociale diversissimi la nazione spagnola si compattò e prese consistenza grazie alla identificazione di un nemico comune. Niente rappresenta tutto questo meglio dell’episodio raccontato al suo biografo da Ignazio di Loyola: la discussione del giovane cavaliere Iñigo de Loyola con un moro intorno alla questione della verginità della Madonna e la convinzione del cavaliere che fosse suo dovere uccidere quel moro per difendere l’onore della Madonna. Quel cavaliere solitario non era molto diverso dalle folle che un secolo dopo, al canto di inni esaltanti l’immacolato concepimento della Madonna, costrinsero il re di Spagna a spingersi fino a minacciare di rompere col papato, restio a cedere alle richieste di un regno fanaticamente convinto della sua missione storica e religiosa7.

Fu grazie alla creazione di quella identità collettiva che nel tardo secolo XV un antigiudaismo popolare, sobillato dai frati, scatenò la violenza delle folle. Come vedremo più avanti, l’accusa di delitto rituale del sangue col celebre caso del «Niño de La Guardia» dette l’impulso decisivo per l’avvio della fase finale di impianto del tribunale. Una fase relativamente lunga: a Toledo, sede del cardinale primate Pedro González de Mendoza, il nuovo tribunale poté entrare solo nel 1485 dopo aver funzionato provvisoriamente per qualche tempo nella vicina Ciudad Real. Di fatto nel corso di un decennio la rete dei tribunali fu estesa in maniera capillare coprendo ben ventitré sedi in Castiglia. La loro azione si sviluppò con grande rapidità e durezza. Dietro il funzionamento della nuova macchina si staglia la presenza dell’uomo al quale Ferdinando il Cattolico si affidò per questa impresa: il domenicano Tomás de Torquemada, nipote di Juan de Torquemada (un illustre «converso» diventato cardinale e autore di una importante Summa de Ecclesia). Fu Torquemada a scegliere le persone da nominare nelle varie sedi; e si dovette a lui la stesura delle istruzioni per il funzionamento del nuovo tribunale. Quest’uomo doveva lasciare sulla storia dell’Inquisizione di Spagna il marchio del suo nome. Della sua realtà umana e delle sue idee sappiamo abbastanza poco, come se l’impresa a cui si dedicò lo avesse assorbito completamente. E, pur avendo anch’egli in famiglia ascendenze di ebrei convertiti, non esitò a chiedere al papa Alessandro VI nel 1496 uno statuto di esclusione dei «conversi» dal convento domenicano di San Tommaso d’Aquino da lui fondato ad Avila8. La sua dura convinzione della necessità di un rigoroso sistema di sorveglianza antiereticale trovò espressione nelle norme elaborate per il funzionamento della macchina inquisitoriale: norme dettagliate, messe a punto in una serie di riunioni e diventate il codice dell’intera Inquisizione spagnola. Ne fu fatta una raccolta pubblicata a stampa a Granada nel 1537: ma la loro efficacia fu immediata. Si possono considerare a titolo d’esempio le norme approvate nella sessione convocata a Siviglia il 29 novembre 14849. Fu una riunione significativa anche nella forma: si aprì nel nome di Dio e in quello del re e fu presieduta da Torquemada come priore del monastero di Santa Cruz di Segovia, confessore del re e suo inquisitore. Qui si decisero le forme procedurali e le regole che dovevano essere applicate uniformemente e alla lettera da tutto il corpo degli inquisitori. Si partiva dal rituale dell’ingresso nei luoghi di loro pertinenza: che doveva avvenire in un giorno di festa, convocando il popolo e le autorità in cattedrale ad ascoltare la predica

solenne di presentazione e a giurare alla fine, con la mano alzata sui Vangeli e sulla croce, di favorirne l’opera. Il rituale prevedeva che a questo punto si desse pubblica lettura del testo dell’editto: con questo atto si doveva notificare l’apertura del periodo di grazia (trenta giorni) entro il quale i colpevoli di eresia, di apostasia, di riti e cerimonie di ebrei (reati sovrapponibili, che coincidevano nella stessa figura sociale, quella del «converso») si dovevano presentare per confessare e per chiedere di essere riconciliati. Se lo facevano, li si sarebbe accolti nel seno della Chiesa senza le pene di carcere perpetuo o di morte e senza confisca dei beni, ma al solo prezzo di una abiura pubblica, della perdita di ogni ufficio pubblico e dell’obbligo di recare da allora in poi segni evidenti della loro condizione di penitenti (nelle vesti, nel divieto di andare a cavallo e così via). Nel caso invece dell’eretico o dell’apostata catturati e incarcerati, il loro pentimento non avrebbe impedito la perdita totale di tutti i beni posseduti nel momento in cui erano caduti in eresia. Quei beni dovevano essere confiscati a beneficio del fisco reale se i colpevoli erano secolari. Si entrava poi nel territorio delle regole: come ricorrere alla tortura, garantire il segreto ai denunzianti, svolgere gli interrogatori, processare i morti anche da trenta o quaranta anni, svolgere ricerche e processi anche nei domini dei Grandi di Spagna, e così via. Regole molto precise furono elaborate da Torquemada per la conservazione degli atti, che dovevano essere a disposizione per il lavoro del tribunale, ma sottratti a occhi profani da un segreto rigorosissimo. La disciplina monastica e la fanatica determinazione del priore di Santa Cruz nel dedicarsi a un’impresa di quel genere emergono anche nelle istruzioni di tipo morale e disciplinare elaborate per regolare vita e costumi degli inquisitori e indurli a sentirsi membra di un corpo saldo e compatto. La personalità di Torquemada e la potenza dell’ordine domenicano stimolarono la formazione di uno spirito di corpo e di una coscienza del proprio potere tali da imporsi allo stesso sovrano, anche al di là delle sue convinzioni. Il che rende secondario il problema della religiosità di Ferdinando. Il legame che si instaurò tra lui e le sue milizie fratesche passò attraverso la personalità dell’uomo prescelto per guidarle: un uomo che si preoccupava di fissare nei minimi dettagli il funzionamento dell’insieme e che richiedeva dedizione completa ai fini superiori della difesa della fede, ma che si preoccupava anche di eliminare ogni arbitrio e non nutriva nessuna ambizione che andasse al di là del dovere di adempiere a un compito inderogabile e supremo. Più che un individuo speciale, un tipo umano senza tempo. Non per niente il nome di

Torquemada doveva entrare in uso nel linguaggio quotidiano per indicare l’uomo che, in nome di un’ideologia superiore, applica norme di una burocratica crudeltà senza coinvolgimento personale, con una impassibilità che non esclude nemmeno lampi di apparente benignità. Le preoccupazioni del priore di Santa Cruz per certi aspetti dell’esistenza dei rei – per esempio come provvedere a nutrire coloro che venivano obbligati al carcere perpetuo in casa propria – potrebbero sembrare l’espressione di un sentimento di pietà umana: e invece erano dettate dalla volontà di non lasciarsi sfuggire nessun dettaglio nella sistemazione burocratica preventiva dei casi della vita. La struttura del tribunale da lui organizzato è quella di una burocrazia celeste al servizio del potere politico. Un’aggiunta alle ordinanze, datata Siviglia 9 gennaio 1495, si chiude con l’ultimo avvertimento di colui che si firma come il semplice «frater Thomas» priore di Santa Cruz e inquisitore generale: un invito agli inquisitori a risolvere i casi da lui non previsti ricorrendo a Dio, al diritto e alle loro buone coscienze, senza disturbare le loro Altezze reali. Per i casi gravi, pertinenti al servizio di Dio e alla gloria della Santa Fede cattolica, dovevano invece scrivere subito ai sovrani. Il potere del re come suprema autorità in materia religiosa prende dunque il posto di quello papale, di cui non si fa cenno. La nuova Inquisizione nasceva sotto il segno di una dedizione assoluta alla monarchia, vista come detentrice del compito di tutelare la religione spagnola. La saldatura tra religione e potere avviatasi nel tempo delle lotte della reconquista diventava così un carattere preminente della nuova realtà della Spagna. E qui si aprirebbe la considerazione degli interessi concreti della monarchia nel dare avvio alla macchina fratesca. La creazione di un tribunale sacro per la religione, ma soggetto integralmente al re, garantiva vantaggi politici e finanziari enormi. La sua forza era l’unica capace di spezzare le resistenze della grande nobiltà e delle città e di far affluire nelle casse del re gli ingenti frutti delle confische. Ma accanto all’aspetto materiale e pratico dei vantaggi politici ed economici che il sovrano poteva attendersi dalla sua creatura c’era la svolta della storia del paese in una precisa direzione: l’intolleranza religiosa diventava la ragione stessa della nuova realtà politica unitaria che si era venuta affermando. E questa svolta fu determinata dalla volontà del potere monarchico. Di tale volontà Torquemada fu il lucido e inesorabile esecutore: le sue norme fecero dell’Inquisizione spagnola una struttura efficiente, centralizzata e capace di pervadere tutto il corpo della

società, garantendo al re uno strumento di inarrivabile potenza, proprio perché fondato su una delega totale da parte del supremo potere spirituale e nello stesso tempo assistito dalle armi del potere temporale. Davanti agli uomini dell’Inquisizione cedettero le pretese delle autonomie e dei privilegi tradizionalmente riconosciuti alle diverse componenti del complicato insieme di domìni riuniti nel nome del sovrano. Specialmente significativo in questo senso fu il caso del regno aragonese. A Saragozza, capitale dell’Aragona, il primo avvio del nuovo tribunale avvenne nel 1482. Nel 1481 Ferdinando d’Aragona aveva chiesto a Sisto IV la facoltà di introdurre anche nei suoi regni di Aragona e di Valencia e nel principato di Catalogna quello stesso modello di tribunale che era stato concesso per la Castiglia con la bolla del 1478. E qui si ebbe una prova della determinazione del sovrano nel giocare di astuzia e di sorpresa: poiché il papa resisteva, il re fece ricorso al generale dei domenicani chiedendogli di nominare nuovi inquisitori, ai quali subito dopo si provvide a conferire i poteri reali indicati nella bolla del 1478. In questa occasione Ferdinando dovette far fronte al tentativo di Sisto IV di rimangiarsi la concessione più importante, quella che metteva la nomina degli inquisitori nelle mani del potere laico. Il papa infatti negò il suo consenso all’operazione richiamandosi al fatto che l’Aragona disponeva già di una sua Inquisizione e impose che fossero revocati i poteri delegati concessi ai nuovi eletti. Sisto IV era in quegli anni destinatario di proteste e di pressioni che nascevano dagli ambienti colpiti dalla durissima azione sviluppata dagli uomini del nuovo tribunale spagnolo. Per questo cercò di rimangiarsi le concessioni già fatte e intervenne sui processi che si stavano celebrando, tentando di correggerne la conduzione e imponendo di consentire agli imputati di ricorrere in appello a Roma. La serrata trattativa che ne nacque si concluse con un accordo che era solo apparentemente un compromesso. La corrispondenza di Ferdinando il Cattolico con il pontefice e con i suoi incaricati mostra la tenacia e la destrezza con cui il sovrano riuscì a tener fermo il punto centrale della concessione al prezzo di finzioni e di astuzie: fu così che Sisto IV si convinse a nominare personalmente un nuovo inquisitore generale preposto ai domìni di Aragona, Valencia e Catalogna. L’uomo prescelto fu il candidato proposto dal re: fra Tomás de Torquemada, ancora una volta. A lui furono riconosciute dalla bolla di nomina le stesse facoltà di cui già disponeva come inquisitore generale di Castiglia. Delega papale e potere regio di proposta coincidevano nella scelta dell’uomo che accentrava così su di sé un immenso potere. Alla

data di questa bolla, 17 ottobre 1483, si può dire nata l’Inquisizione di Spagna come potere di governo religioso e politico accentrato nelle mani del sovrano e di una burocrazia celeste, che in nome della fede agiva senza limiti di alcun genere che non fossero le sue stesse regole – quelle regole che Torquemada aveva creato. Il vastissimo territorio su cui si svolgeva la sua azione conosceva così una prima forma di unificazione, ben prima che nel 1516 il titolo di re di Spagna calasse sulla testa di un giovanissimo Carlo di Asburgo.

6. L’ESPULSIONE DEGLI EBREI

La prospettiva imposta agli ebrei nel 1492 fu semplice nella forma, durissima nella sostanza: entro un termine brevissimo – il 31 luglio dello stesso anno, con al massimo qualche giorno di tolleranza – dovevano andarsene dalla Spagna. C’era un’alternativa tacita, presente alle menti anche se l’editto non ne parlava: quella del battesimo. Da un certo punto di vista questo documento appare come la tappa finale di una marcia progressiva, l’ultimo anello di una catena di violenze scatenate dalla predicazione dei frati e compiute da folle fanatizzate, quale si era vista anche in altre parti d’Europa. La soluzione finale scelta da Ferdinando d’Aragona differiva però su almeno due punti da altri casi apparentemente analoghi che si erano avuti in Inghilterra e in Francia: là l’espulsione degli ebrei era stata decretata senza costringerli al battesimo. In Spagna invece si scelse la via di esercitare la massima pressione possibile per conservare all’interno del paese la presenza di una minoranza ebraica, preziosa perché contribuiva attivamente ai commerci e alle necessità finanziarie della società e si prestava, specialmente per cultura e capacità, alle esigenze amministrative dell’apparato statale. Si cancellava la diversità di religione e si conservavano come cristiani quelli che erano stati ebrei fino a prima del battesimo. L’assimilazione religiosa avveniva per un atto del potere statale e non più per via di violenza di folle fanatizzate. Se lo consideriamo da questo punto di vista, il caso spagnolo appare come il primo tentativo di soluzione radicale della questione ebraica nell’Europa cristiana: gli altri due saranno l’emancipazione come frutto dei princìpi illuministici della Rivoluzione francese e il genocidio nazista. L’altro punto caratterizzante della politica di Ferdinando d’Aragona era consistito nella previa creazione e messa in opera dell’Inquisizione, con la

quale, come abbiamo visto, aveva dato forma nuova a un’istituzione preesistente, rendendola un efficace strumento nelle mani del potere politico. Per tutti gli osservatori contemporanei dei fatti spagnoli quella che avvenne allora fu la «cacciata delli ebrei dalla Spagna», come scrisse il 21 maggio 1492 l’ambasciatore ferrarese Giacomo Trotti a Ercole I d’Este1. Una cacciata dolorosa, intollerabile per chi viveva da sempre in quel paese e poteva vantare per la propria gente una presenza ben più antica di quella degli invasori germanici o musulmani. Da questo momento le cronache del tempo registrarono le vicende degli ebrei profughi dalla Spagna, per via di terra verso il vicino Portogallo o per via di mare verso l’Italia. Chi scelse di restare fedele alla propria religione dovette liquidare tutto e prepararsi a partire. Partire per tornare, in molti casi: ci fu chi si arrese e tornò sui suoi passi chiedendo il battesimo. Quanti partirono, quanti restarono? Le valutazioni oscillano tra i 40.000 e i 350.000. Un curato spagnolo che fu testimone oculare dell’esodo, Andrés Bernaldez, parla di 170.000 persone2. Ma è difficile proporre un calcolo numerico attendibile. La cosa è resa complicata da molte ragioni: in primo luogo dalla mancanza di dati demografici per una minoranza che veniva censita sommariamente in funzione delle imposizioni fiscali e non aveva registri di atti di nascita individuali. Ma la pressione crescente nei confronti di questa minoranza, dai tempi delle crociate in avanti, si è tradotta in numerose registrazioni di tracce della sua presenza, specialmente in corrispondenza con i momenti più critici del rapporto con il resto della popolazione e con i poteri religiosi e politici. Di fatto si può dire che le comunità ebraiche erano presenti in tutti i centri urbani e quasi del tutto assenti nei minori nuclei rurali. Più numerose in Castiglia, erano diffuse anche in Aragona. Nel regno di Valencia si parla di circa un quinto della popolazione3. Nella corona di Aragona si parla di circa 6000 famiglie, per un totale approssimativo di 50.000 persone. Nelle città maggiori raggiungevano percentuali significative; e qui esistevano le loro istituzioni che si autoamministravano (aljamas). Ma c’erano anche nuclei di popolazione ebraica distribuiti nei piccoli centri, per esempio lungo il cammino di Santiago. Nel loro insieme costituivano una piccola minoranza (intorno al 3%) della popolazione spagnola ma esercitavano funzioni importanti di carattere finanziario (prestatori, appaltatori di gabelle), o esercitavano professioni socialmente importanti (medici, chirurghi) e attività artigianali e commerciali. Il che rendeva particolarmente visibile la loro presenza e contribuiva ad alimentare una diffusa ostilità da parte della popolazione

minuta della penisola. Calcoli prudenti parlano di circa 70.000 esiliati, di cui 50.000 per la sola Castiglia4. Il linguaggio impersonale e burocratico delle registrazioni delle tasse pagate (per esempio, per attraversare il regno di Valencia il prezzo era di otto soldi e quattro denari a testa) e del costo per i contratti di imbarco sulle navi è la testimonianza che ci resta della storia dell’esilio di chi scelse di andarsene. La tragedia collettiva dell’abbandono frettoloso della propria casa si svolse nella più cupa incertezza del futuro. Ci fu chi scelse di rifugiarsi nel luogo più vicino e più familiare: il Portogallo. Chi preferì l’esodo per mare andò incontro al futuro più tenebroso. L’Italia fu «el primero y más importante»5 degli obiettivi, data la vicinanza con le coste spagnole e lo stretto rapporto con l’Aragona e la Catalogna, oltre alla presenza del papato, alla cui protezione gli ebrei si affidarono. Sulle coste italiane giunsero almeno dai 10 ai 15.000 profughi che si distribuirono poi in diverse città o ripartirono verso i porti dell’Africa mediterranea. Quelli della penisola italiana erano i più vicini, ma non furono i più accoglienti, almeno all’inizio: le navi cariche di ebrei spagnoli rimasero confinate in una zona a parte del porto di Genova. La città osservava rigorosamente la politica di non ammettere ebrei e per questo non permise loro di entrare, se non accettavano di battezzarsi. Ci si limitò a concedere pochi giorni di tempo per riparare le navi e ripartire. Il cronista Bartolomeo Senarega annotò con viva partecipazione umana l’aspetto spettrale per magrezza e sofferenza di quei profughi, che gli apparvero come dei viventi cadaveri6. Si scatenava in quegli anni l’epidemia della sifilide, un male che apparve allora incurabile, e a quell’umanità desolata fu attribuita anche la responsabilità della nuova peste. Tuttavia nel caleidoscopio italiano ci fu posto anche per reazioni più accoglienti: Ercole I d’Este intuì l’utilità della presenza ebraica per stimolare la vita economica del suo piccolo Stato, e il 20 novembre fece giungere agli ebrei rifugiati nel porto di Genova, una lettera d’invito che diceva: «Noi siamo multo ben contenti che vengano ad habitare qua, cum le loro famiglie»7. Da questi echi casuali e frammentari della tragedia degli ebrei spagnoli si intravede la cupezza dell’orizzonte che si aprì allora per chi aveva messo in gioco la vita sua e l’avvenire della sua famiglia pur di restare fedele alla propria religione. Per loro il futuro doveva restare gravato dalla minaccia di quel continuo invito alla conversione che li accompagnò sulle strade dell’esilio mentre lasciavano la Spagna. Il curato Andrés Bernaldez ha lasciato una descrizione vivissima e partecipe di quello che accadde allora,

sia pure dal punto di vista di un sacerdote cristiano che desiderava la scomparsa dell’ebraismo come religione. La sua testimonianza parla di uno sciame umano che si mise in movimento sulle strade con tutti i mezzi possibili, a piedi, a cavallo di asini, muli e cavalli, su carri, dopo avere liquidato in fretta e furia tutti i propri beni. Quella vendita era stata oggetto di transazioni assai convenienti per gli acquirenti cristiani, visto che gli ebrei non potevano portare via nulla: non beni immobili, né oro né monete, solo lettere di cambio su cui i banchieri fecero gravare interessi usurari. La sorte dei beni comuni delle aljamas fu particolarmente complicata. In molti casi il ricavato fu investito per pagare le spese di viaggio ai più poveri. Ma che fare dei cimiteri? Emblematico il caso del cimitero ebraico di Vitoria, venduto al consiglio cittadino a patto che lo si utilizzasse esclusivamente per il pascolo8. Strategie speciali erano state decise per consolidare legami che l’esodo minacciava di sciogliere: per esempio, prima di mettersi in viaggio sembra che i genitori avessero combinato tutti i matrimoni possibili per i figli minori. Poi c’erano le vicende inevitabili in ogni esodo: vecchi e malati che morivano, bambini che nascevano. E tutt’intorno una pressione continua per piegare la resistenza alla conversione. Come abbiamo visto, l’editto reale non faceva parola del battesimo cristiano come alternativa all’espulsione, ma in compenso l’offerta fu ripetuta in ogni momento e in ogni luogo durante i mesi precedenti all’espulsione. La cronaca di Bernaldez mette in evidenza la pressione esercitata dalle autorità religiose per produrre quella conversione che l’editto reale tacitamente suggeriva come via di salvezza. Prima di partire e lungo il percorso sulle strade dell’esodo, gli ebrei dovettero subire le assillanti prediche del clero cristiano per la conversione: nelle sinagoghe, nelle chiese, per le strade, i predicatori ripetevano l’invito a convertirsi, a lasciare la falsa religione per quella vera. E il risultato non mancò: le conversioni maturarono anche durante il viaggio degli esuli, quando ci fu chi decise di tornare indietro nei luoghi abbandonati. Molti si decisero a quel passo nell’ambascia degli ultimi giorni, quando ci fu chi si recò di notte a ricevere il battesimo. E ci furono i casi dei ritorni dall’esilio di coloro che si ripresentarono a distanza di tempo alle frontiere del paese con attestati di battesimo, come passaporto per poter rivedere le antiche case. La decisione di Ferdinando d’Aragona, una volta presa, si è iscritta in un percorso che è apparso già tracciato. Anche se, osservata con gli occhi dei contemporanei, poté apparire un evento imprevisto caduto come un macigno

su di una minoranza ebraica che non se l’attendeva e che era ancora impegnata nelle feste per la conquista di Granada9. Al sovrano si guardava come al protettore di una minoranza che subiva «persecuzioni e sofferenze», come scrivevano gli ebrei di Castiglia nel 148710. E per questo si interpretò in un primo momento quell’editto come una manovra per estorcere danaro. Isaac ben Yehudà Abravanel, membro eminente della comunità castigliana (è stato definito il «ministro delle finanze» di Isabella di Castiglia) tentò di cancellare la minaccia offrendo un grosso compenso. L’episodio rientra in una tradizione antica di estorsioni: una tradizione che doveva mantenersi ancora a lungo fuori della Spagna nei rapporti tra comunità ebraiche e poteri politici. In questo caso la storia ebbe un diverso svolgimento. Il perché rimane problematico. Una spiegazione possiamo chiederla al testo stesso dell’ordine sovrano. Qui la causa della decisione è indicata nell’influenza corruttrice che gli ebrei esercitavano sui battezzati cercando di attirarli alla loro fede, insegnando riti e cerimonie della legge mosaica, distribuendo libri di preghiere, praticando circoncisioni e così via. Ciò che avrebbe reso inevitabile arrivare fino all’espulsione sarebbe stato il fallimento delle misure prese fino ad allora per alcune parti del regno. Di fatto un provvedimento di espulsione era stato già emesso in Andalusia il 1° gennaio 1483: e misure altrettanto radicali erano state prese nel maggio 1486 contro gli ebrei di Saragozza. Nel testo dell’editto generale del 1492 quei precedenti furono richiamati come prove che i sovrani avevano tentato di correggere i comportamenti degli ebrei con misure severe in ambiti locali prima di passare a una misura di portata generale11. Ma il documento propone una realtà molto semplificata quando fa apparire il comportamento dei sovrani come dettato da una progressiva perdita di pazienza nei confronti di una minoranza intrattabile. La politica di Ferdinando d’Aragona nei confronti degli ebrei era stata fino ad allora condotta secondo linee tradizionali, con accordi che lasciavano intravedere una continuità senza scosse dei rapporti con le comunità ebraiche e con singoli loro membri. Nel corso degli anni precedenti alla scelta del 1492, la politica reale appare ispirata dalla volontà di sedare i conflitti e di garantire la protezione a coloro che erano giuridicamente definiti servi Camerae, o, come più semplicemente affermavano i documenti ufficiali dei sovrani, «miei», e dunque «sotto la mia protezione»12. Socialmente isolati e in possesso di notevoli ricchezze, gli ebrei erano davvero una risorsa preziosa per il re. E nei loro confronti non si trovano indicazioni di misure destinate a

penalizzarli. Gli atti della monarchia nei confronti delle comunità mostrano che fino alla fine del 1491 si prevedeva la permanenza degli ebrei in Spagna per diversi anni a venire; e i permessi e le restrizioni relativi ai mudéjares o mori erano ispirati agli stessi criteri che ritroviamo nelle misure relative agli ebrei. Del resto furono gli ebrei stessi a considerare in un primo momento quell’editto come una delle solite minacce architettate per estorcere danaro dalle loro tasche. Nel mese di aprile 1492, trascorso senza che l’editto già pronto e firmato venisse pubblicato, dovettero essere molti i tentativi di esorcizzare lo spettro dell’espulsione offrendo danaro in cambio. Fu allora che avvenne l’episodio ricordato dell’offerta di danaro fatta al re da Isaac ben Yehudà Abravanel. Ma la leggenda narra che contro di lui apparve Tomás de Torquemada, che col crocifisso in mano accusò il re di vendere Cristo non per 30 danari come Giuda ma per 30.000 monete d’argento13.

Parte terza IL POTERE DELLA FEDE, LA FEDE DEL POTERE

7. LA RESPONSABILITÀ DELLE SCELTE

Che cosa spinse dunque i Re Cattolici a prendere quella decisione che appare per diversi aspetti in contraddizione con la loro politica precedente? La domanda si presentò alle menti dei contemporanei. Se ne diffusero subito narrazioni e interpretazioni di ogni genere. Una tradizione documentata tra gli ebrei espulsi mise in relazione stretta i due avvenimenti della conquista di Granada e dell’espulsione. La storia raccontata nel poema di Salomone Ben Samuel Hasefardi, un membro della generazione dell’esilio, ha l’andamento di una favola: sarebbe stata la regina Isabella ad approfittare dello stato d’animo del marito, gonfio di orgoglio per la grande impresa vinta. Il re dice alla regina: chiedimi quello che vuoi. E la regina: voglio la cacciata degli ebrei dalla Spagna1. Dunque il motore primo della decisione sarebbe qui la fede religiosa di una donna che risponde allo stereotipo di moglie cattolica prima ancora che alla sua alta funzione di regina. E c’è un altro racconto, altrettanto colorito e fantasioso, ma di una fantasia cupa, imbevuta del mito del complotto ebraico contro i cristiani. Lo si legge nel Libro verde, un testo redatto all’inizio del Cinquecento nell’Aragona: ne torneremo a parlare più avanti per il ruolo nefasto che svolse nella storia della società spagnola. Anche qui la storia ha i colori di una fiaba. Il protagonista è un bambino di nome Juan, Giovanni, il figlio di re Ferdinando d’Aragona: il piccolo don Giovanni si era invaghito di un gioiello curioso, un globo d’oro che il medico del re – un ebreo – teneva al collo. Un giorno riuscì a impadronirsene e subito lo aprì: e a questo punto la fiaba svela le ossessioni cupe della paura, un sentimento che nei protagonisti delle fiabe infantili ha depositato gli spettri storicamente incombenti sulle società. All’interno del globo d’oro il bambino trovò una pergamena dipinta con l’immagine di un Cristo crocifisso che

baciava il culo di un cane. E fu il terrore infantile del figlio a far scoprire a Ferdinando d’Aragona quanto vicino al trono fosse giunta la minaccia diabolica. Da cui la decisione di un re padre: tutti gli ebrei dovevano andarsene dal regno. Ma la storia non finisce qui. Ecco due lettere: nella prima gli ebrei di Spagna minacciati di espulsione scrivono a quelli di Costantinopoli per chiedere aiuto e consiglio sul da farsi. Nella risposta di quelli di Costantinopoli si legge un consiglio diabolico: quello di fingersi convertiti e di operare segretamente per la rovina di quella religione che abbracciavano solo in apparenza. Conveniva accettare il battesimo, dal momento che vi erano costretti: ma dovevano allevare i figli nell’odio dei cristiani. I cristiani lasciano ai discendenti degli ebrei l’esercizio della mercatura? I figli degli ebrei devono mandare in rovina i mercanti cristiani. I cristiani distruggono le sinagoghe? I figli degli ebrei battezzati devono diventare chierici e distruggere le chiese. I cristiani vi lasciano vivere? Fate diventare medici i vostri figli perché facciano morire i cristiani. E così via2. L’invenzione del complotto giudaico non era nuova. L’apocrifa corrispondenza tra i nemici interni e quelli esterni e l’idea di un piano terribile di rovina e di morte contro i cristiani avevano avuto un precedente in un altro momento in cui si era fatto ricorso alla costruzione del falso complotto ebraico come proiezione e legittimazione del complotto di poteri cristiani contro gli ebrei. Quella che tornava in questa corrispondenza apocrifa era la tesi del complotto tra ebrei spagnoli e l’Oriente mediterraneo, diffusa nel già ricordato episodio dell’estate del 1321. E si legava questa volta all’accusa del complotto dei convertiti contro i cristiani e all’ossessione della presenza di esseri dal sangue maledetto nascosti tra i cristiani. Accanto a queste tradizioni favolose e agli apocrifi ci fu però anche un racconto storico, sia pure composto a distanza di un secolo dagli avvenimenti del 1492. Quello che si legge nella storia delle origini e dello sviluppo del Sant’Uffizio dell’Inquisizione, scritta e pubblicata da Luís de Páramo, inquisitore della Sicilia, nel 1599, attribuisce il merito della decisione di rifiutare l’argento degli ebrei castigliani a una drammatica e violenta perorazione di Tomás de Torquemada comparso davanti al re impugnando minacciosamente un crocifisso3. Dunque secondo questa tesi la motivazione religiosa sarebbe stata la causa fondamentale di quello che accadde. La decisione del sovrano di ricorrere all’espulsione generale come unica alternativa alla conversione sarebbe nata dalla sua coscienza di cristiano scosso dalla reprimenda del suo confessore. Torquemada si verrebbe a

configurare come il vero motore di tutto. A questa interpretazione ha dato un forte sapore di verità la scoperta di un documento del 20 marzo 1492, dunque di poco precedente all’editto reale di espulsione, redatto proprio da Torquemada e inviato al viceré della Catalogna, don Enrique de Aragón y Pimentel, e al vescovo di Gerona: qui il Grande Inquisitore affrontava il problema dei giudaizzanti e sottolineava con toni di estremo allarme l’impudente esibizione della loro apostasia e la gravità del pericolo che rappresentavano per gli altri cristiani4. Brani di questo testo sono puntualmente ripresi nel decreto di espulsione di undici giorni dopo. Letti in successione, i documenti mostrano una stretta parentela: il testo della «carta» di frate Tomás de Torquemada fu usato come primo abbozzo nella redazione dell’editto. E per di più un riconoscimento ufficiale del contributo del frate lo si legge nel testo dell’editto inviato, sempre il 31 marzo, da Ferdinando alle autorità del regno dell’Aragona. Qui il sovrano raccontò che era stato proprio il «venerabile padre priore di Santa Croce» a intervenire con tutto il peso del suo ufficio di inquisitore e di confessore reale, cioè di colui che aveva in custodia la coscienza del re. Sarebbe stato dunque merito o colpa di Torquemada l’aver convinto Ferdinando d’Aragona che bisognava espellere per sempre gli ebrei come portatori di una lebbra contagiosa. Era veramente così che erano andate le cose? Il racconto di Luís de Páramo e l’editto aragonese concordano nel confermare il contributo dato alla decisione dell’espulsione da Torquemada e dalla sua Inquisizione, la creatura alla quale Ferdinando e Isabella avevano dato vita. E c’è un punto sul quale la tradizione raccolta da Luís de Páramo, e da lui usata per celebrare l’importanza e l’efficacia positiva dell’Inquisizione, ha ancora qualcosa di importante da segnalare. Poco prima del decreto di Granada c’era stato in Spagna un caso di presunto delitto rituale ebraico che aveva suscitato grande emozione: quello del «Santo Bambino» de La Guardia. Il 1° giugno 1490 nei pressi di Toledo, nel villaggio di La Guardia, era stata scoperta un’ostia consacrata nel bagaglio di un ebreo battezzato di nome Benito García. Era la materializzazione di un incubo lungamente elaborato: il complotto ebraico, l’idea degli ebrei come assassini che si nutrivano del sangue dei bambini cristiani e preparavano veleni di magica efficacia contro la società che li ospitava. Lo aveva alimentato la propaganda devota, voluta dalle autorità ecclesiastiche, che aveva reso popolare la fede nel dogma della presenza reale di Cristo in carne e sangue nell’Eucarestia. Dal miracolo che si narrava fosse avvenuto a Parigi nel 1290, quando

un’ostia trafugata e offesa da un ebreo aveva preso a sanguinare, era nata una tradizione parallela a quella della leggenda dell’infanticidio rituale ebraico. Parallela e convergente: visioni dell’ostia consacrata come abitata da un bambino avevano avuto una funzione importante nel diffondere la fede nella presenza reale di Cristo sull’altare. Nel caso del «converso» di La Guardia, subito sospettato e accusato di apostasia e di pratiche magiche, le due tradizioni si congiunsero: l’accusa di delitto rituale si sommò a quella di complotto giudaico contro il mondo cristiano. Fu questo il carattere che differenziò la vicenda spagnola dagli altri casi di presunti delitti rituali ebraici che si verificarono in quegli anni. Arrestato e torturato dall’Inquisizione, Benito García confessò cose inaudite. Disse di aver crocifisso un bambino cristiano insieme ad alcuni ebrei battezzati e ad altri non battezzati: con il sangue e il cuore strappato al bambino e le specie eucaristiche avevano messo in atto una cerimonia diabolica per farne un potente veleno destinato a causare la morte dei cristiani e il trionfo del giudaismo. Poi ritrattò, accusò del delitto un altro «converso», Alonso Franco: anche Alonso Franco confessò e fece altri nomi. Nel dicembre 1490 si aprì il processo formale. Il presunto bambino ucciso non fu mai trovato. Il che non impedì che lo si proclamasse santo martire della fede. Un auto da fé ad Avila vide la morte sul rogo di due ebrei e tre «conversi» il 16 novembre 14915. La sentenza fu stampata e diffusa. L’episodio circolò rapidamente nel contesto di altri casi di processi per delitti rituali imputati a ebrei. Ma fu proprio l’emozione creata dal clamore della vicenda che, secondo Páramo, spinse alla decisione di espellere tutti gli ebrei dalla Spagna: un atto che apparve come un potente contributo al trionfo della religione cristiana. Fu per aver seguito l’interesse esclusivo della fede che il papa Alessandro VI Borgia concesse nel 1496 ai sovrani spagnoli quel titolo di «Re Cattolici» di cui dovevano fregiarsi da allora in poi e che è rimasto come il loro titolo più noto in sede storica. Riassumendo. Siamo partiti da una coppia reale che al culmine di un trionfale successo militare e politico prende due decisioni di grande peso destinate a segnare la storia futura della Spagna e del mondo europeo: dal paese che hanno unificato con la loro alleanza matrimoniale e con la forza delle armi cacciano una minoranza di diversa religione e fanno partire una spedizione navale verso le Indie. In questa luce il decreto del 31 marzo appare come l’atto di una volontà sovrana, libera creatrice di storia. Ma una rapida considerazione dei precedenti storici dell’espulsione degli ebrei ha fatto emergere una tradizione di ostilità e di rifiuto da parte della popolazione

cristiana, che potrebbe ridurre di molto la misura della libertà del potere nel prendere quella decisione, fino a farlo apparire come la ratifica di qualcosa che era già stato deciso dal consenso della popolazione. Dunque, il potere politico centrale risulterebbe essere solo un luogo di ratifica di processi e orientamenti diffusi. Infine, è emersa tra il trono e la folla una terza realtà: quella dell’azione decisiva svolta da un’agenzia di potere religioso capace di influire fortemente sul corso degli eventi, sia esercitando pressioni direttamente sul sovrano, sia alimentando le tensioni sociali e orientando le pulsioni di intolleranza con la fabbricazione di uno stereotipo pauroso, quello dell’ebreo nascosto sotto l’apparenza di cristiano e pronto a operare magie terrificanti con il potere del sacramento cristiano e con il sangue raccolto con l’infanticidio rituale. Resta aperta una domanda elementare: perché dunque Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia decisero l’espulsione degli ebrei che non si battezzavano? Dopo aver tentato di seguire la successione dei fatti, si deve ora cercare di rispondere alla domanda centrale, quella delle cause di una decisione che fu importante e di grande rilievo, non solo per le vittime che ne subirono le conseguenze, ma per l’intera società spagnola. È vero quello che molti hanno fatto presente: non era la prima espulsione da uno Stato europeo. Ma è anche vero che in nessuna realtà europea la presenza ebraica era così antica, diffusa e numerosa, radicata nel costume e nella vita del paese come in Spagna. Dunque, non è possibile ridurre la vicenda alla replica spagnola di una pratica consueta nella storia medievale del cristianesimo europeo. Che ci fosse bisogno di fornire una spiegazione della decisione reale fu un’esigenza avvertita in primo luogo da chi quella decisione l’aveva presa. Torniamo a considerare, allora, in qual modo Ferdinando e Isabella presentarono le ragioni che a loro dire li avevano spinti a quel passo. Il documento dell’editto di espulsione del 1492 propone una spiegazione che mostra come quella misura fosse stata concepita per tutelare i cristiani «nuovi», i «conversi». Vi si ricorda che si era tentato con una decisione presa nelle Cortes di Toledo del 1480 di separare rigidamente ebrei e «conversi» in modo da evitare la contaminazione di questi ultimi. Ma la misura si era rivelata inadeguata per la tendenza degli ebrei a mantenere contatti con quelli di loro che si erano convertiti e a riportarli a pratiche rituali e abitudini di vita tipiche della loro fede. Perciò si era pensato di colpire con l’espulsione la sola Andalusia dove la presenza ebraica era particolarmente nutrita. Alla fine, dopo avere ascoltato il parere dei Grandi di Spagna, del Consiglio reale, di prelati e cavalieri, ci si

era convinti che l’unica misura fosse quella di confinarli per sempre fuori del regno con il divieto di mai più ritornarvi. Il documento presentava la decisione presa come una misura concepita senza una speciale volontà persecutoria: a chi sceglieva di andarsene veniva consentito il tempo di disporre delle proprie sostanze garantendo libertà di movimenti e di operazioni fino al termine fissato al mese di luglio. Il documento reale propone dunque una giustificazione del provvedimento come l’esito di un percorso senza scosse e senza contraddizioni. L’espulsione degli ebrei sarebbe stata l’esito di un progetto elaborato da tempo e arrivato finalmente a una conclusione in qualche modo obbligata dal comportamento degli ebrei. La scelta non sarebbe nata da una speciale volontà di perseguitare gli ebrei, ma piuttosto dal desiderio di tutelare la condizione di quelli di loro che si erano convertiti. Saremmo dunque davanti a una giustificazione religiosa dell’atto: la tutela della salvezza delle anime dei battezzati da parte di sovrani profondamente convinti delle loro responsabilità cristiane. Da qui la legittimità dell’elogio che papa Alessandro VI rivolse ai sovrani conferendo loro il titolo di «Re Cattolici». L’editto nella versione che Ferdinando destinò ai suoi regni ereditari rafforza questa interpretazione rinviando all’opinione del suo confessore: quel Torquemada priore di Santa Croce che era anche il supremo inquisitore di Spagna. Come abbiamo già visto, la scoperta recente della «carta» indirizzata da Torquemada al vescovo di Gerona il 20 marzo 1492, cioè pochissimi giorni prima della firma dell’editto reale di espulsione (31 marzo), ha fornito un argomento molto solido a chi vuole vedere nella decisione dei sovrani solo l’esito della pressione del fanatico domenicano. Nel documento dell’inquisitore si leggono intere frasi che ritroviamo nell’editto reale per l’Aragona. È evidente, dunque, che chi ha redatto il documento reale aveva sott’occhio il testo di Torquemada e lo ha seguito alla lettera su punti fondamentali. E su questa base si riaffaccia con vigore la tesi che già all’epoca attribuì all’influsso dell’Inquisizione e del suo supremo potere la decisione di cancellare la presenza ebraica in Spagna. L’impegno della struttura inquisitoriale e di tanti predicatori nell’alimentare l’odio della popolazione cristiana consente del resto di considerare Torquemada come l’interprete spagnolo più potente e autorevole di quell’antigiudaismo che i frati di san Francesco e di san Domenico si erano da tempo impegnati a diffondere in mezzo al popolo in tutta la Chiesa occidentale. Potremmo così

considerare l’editto di espulsione come un documento frutto della subordinazione del potere politico dei sovrani a quello religioso dell’Inquisizione. Ma proprio per la posizione speciale che la struttura fratesca dell’Inquisizione aveva nel rapporto tra popolazione e potere politico, bisogna tener conto dell’opera effettivamente messa in atto da quel tribunale prima e dopo l’editto del 1492: si trattò di una campagna che mirava alla eliminazione della presenza ebraica, sia di quella che restava fedele alla religione avita, sia di quella che aveva attraversato il confine del battesimo e conservava una posizione eminente nella società spagnola. Siamo qui davanti a quello che è stato definito un «nuovo antisemitismo»6, diverso dall’antigiudaismo cristiano tradizionale, proprio perché considerava pericolosa la figura del «converso» e moltiplicava i tentativi di svelare la nascosta perfidia di cristiani «nuovi» dalle inquietanti caratteristiche religiose. In teoria l’espulsione degli ebrei doveva cancellare le divisioni di fede nella penisola spagnola. Se le cose andarono diversamente fu perché lo strumento per garantire l’unità e la purezza della fede, quella Inquisizione creata in accordo con fra Tomás de Torquemada, alimentò per sua stessa natura e grazie alle sue procedure il sospetto sull’autenticità delle conversioni, stimolò la conflittualità sociale nei confronti dell’élite della minoranza «conversa» e dette la stura alla volontà di accaparramento dei beni dei sospettati e dei processati. La conversione aveva cancellato d’un colpo le antiche barriere protettive che impedivano ai tribunali della fede di occuparsi degli ebrei. E l’esercizio del sospetto preventivo e della violenza persecutoria incanalata nelle procedure burocratiche del tribunale ecclesiastico trovò proprio nell’incerto e problematico terreno della cultura e della condizione sociale dei cristiani «nuovi» la materia per scatenare tutte le sue potenzialità aggressive. Resta un’ultima possibilità, quella che la decisione sia stata presa da un potere monarchico determinato a cogliere l’occasione delle tensioni suscitate dai processi inquisitoriali e dal sentimento antigiudaico diffuso in larga parte della popolazione, e specialmente tra le classi popolari, per fare un passo decisivo sulla via della creazione di un’unità del paese fondata su di una religione guerriera e intollerante. Di fatto, come sappiamo, quella compattezza religiosa fu limitata dal trattamento speciale riservato ai moriscos, che restarono presenti nella società spagnola per più di un secolo prima che anche per loro scattasse il provvedimento di espulsione. Ma anche

la loro fu considerata una «razza» diversa per sangue oltre che per religione: e non c’è dubbio che l’autorappresentazione dell’identità spagnola nel corso di tutta questa epoca trovò nella religione un valore fondamentale come patrimonio da conservare senza macchia e da affermare con la forza delle armi contro eretici e infedeli. Non fu certo per caso se i primi a reagire contro la tesi di Machiavelli dell’effetto negativo della religione cristiana sul valore militare e sul vincolo del credente con lo Stato furono proprio dei lettori spagnoli. La considerazione del processo storico che iniziò con l’espulsione degli ebrei e si concluse con quella dei moriscos ha fatto parlare di un complessivo processo di ridefinizione dell’identità spagnola, che ne cancellò un peculiare tratto originario: quello della convivenza di culture diverse7. Ma se non vogliamo attribuire a re Ferdinando e alla regina Isabella una piena consapevolezza di un disegno così vasto, dobbiamo almeno riconoscere che alcuni dati storici indiscutibili dimostrano il carattere strumentale e strategico del rapporto della monarchia con la Chiesa e specialmente con l’Inquisizione. Fu Ferdinando d’Aragona a volere a ogni costo l’impianto di un tribunale ecclesiastico dotato di tutti i poteri che il papato poteva concedere, ma da lui governato sia nella scelta degli inquisitori sia nello sfruttamento dei vantaggi economici e politici offerti da quell’eccezionale strumento. E al di là dell’Inquisizione, fu decisiva per lui l’alleanza con Roma: e per la monarchia spagnola la scoperta di Roma tra Quattrocento e Cinquecento fu un evento politico fondamentale. Come per la via delle Indie, anche la via di Roma era una scoperta che altri avevano già fatto: come abbiamo detto, fin dal 1452 la monarchia portoghese aveva ottenuto dal pontefice romano Niccolò V di poter legittimare le conquiste coloniali e la riduzione in schiavitù dei popoli scoperti con l’argomento della salvezza delle anime. Il papato era da decenni al centro di una gara tra i sovrani del Portogallo e quelli della Castiglia nel contesto della contesa per il controllo dei traffici di merci e di schiavi lungo le coste africane8. Il legame che anche il sovrano della nuova realtà iberica volle costruire con Roma negli anni di Alessandro VI, approfittando della presenza sul trono papale di uno spagnolo, aveva alle spalle una lunga vicenda e costituiva per lui un obiettivo politico fondamentale.

8. GLI ESITI: PUREZZA DI SANGUE E DIFFERENZE DI RAZZA

1. In Spagna L’efficacia dell’opera svolta dall’Inquisizione fu grandissima. La si potrebbe riassumere con le parole di Francesco Guicciardini, che fu ambasciatore in Spagna nel 1512: Nelle cose della fede providono, ordinando con autorità apostolica inquisitori per tutto el regno, che hanno, confiscando e’ beni di chi si trovava culpato, ed ardendo le persone qualche volta, sbigottito ognuno; e fu talvolta che a Corduba arsono in una mattina cento e dugento persone, in modo che infiniti se ne partirono, che erano infetti; quegli che sono rimasti la vanno simulando, ma è opinione che se la paura cessassi, ancora assai ne tornerebbono al vomito [...]. Giustamente fu dato loro [ai sovrani] dal papa il nome di Catolici re. In modo che oggi in tutta Spagna non abita se non cristiani, eccetto che ne’ regni di Aragona dove abitano moltissimi Mori, usando loro moschee e cerimonie; e ve li hanno soportati lunghissimo tempo quegli re, perché pagano dazi assai1.

Come ben vide Guicciardini, la macchina messa in opera era dunque tale da sbigottire. Il segreto della sua potenza era molto semplice. L’inquisitore operava sulla base della delega papale: era dunque titolare dell’autorità apostolica e come tale superiore a qualsiasi altro tribunale. Chi gli resisteva incorreva nell’accusa di eresia e veniva punito con la confisca dei beni e con l’arresto. A quella papale si sommava l’autorità del sovrano che garantiva ai frati l’appoggio di una protezione armata. L’istituzione funzionò sulla base di una rigida gerarchia che sottoponeva i commissari locali alle direttive di un Consiglio centrale della «Suprema e universale Inquisizione» informata sui processi attraverso le «relazioni di cause». Bastava il nome della «Suprema» per terrorizzare. Davanti a lei non si poteva opporre alcun privilegio: nemmeno quello dei Grandi di Spagna, l’élite di potere di cui i sovrani dovevano tenere conto in ogni momento per la loro politica, soprattutto per quanto riguardava i legami di fedeltà alla corona e la necessità di aiuto

militare2. E non è certo trascurabile l’impor-tanza finanziaria della regola che imponeva il sequestro dei beni dei «rei» al primo avvio del procedimento inquisitoriale: il sovrano si impadroniva per questa via di risorse finanziarie che lo rendevano indipendente dai contributi fiscali di una società dove l’esenzione fiscale copriva nobiltà e clero. Una imponente attività processuale si sviluppò con l’arresto, la tortura, il sequestro dei beni e il rogo di un gran numero di persone. Ma l’efficacia dell’opera del tribunale non si misura solo con i dati dell’attività giudiziaria pura e semplice. La sua presenza bastò a creare una nuvola di terrore all’orizzonte delle comunità ebraiche. L’accusa di «giudaizzare» si prestò a usi ricattatori nelle controversie private, nei conflitti di potere o nei tentativi di impadronirsi dei beni di qualcuno. Fu per questa via che nelle comunità cittadine e nei corpi più potenti e influenti dell’ordinamento spagnolo si giunse all’esclusione di tutti i conversos. Non seguiremo gli sviluppi dell’azione dell’Inquisizione: basterà dire che intorno alla sua struttura e al suo operato si sviluppò una lotta sorda da parte di chi tentava di limitare lo strapotere del nuovo organismo e di criticarne le procedure. La garanzia del segreto sui nomi degli accusatori apriva la via a delazioni e calunnie di ogni genere. E l’uso della tortura fu caratterizzato da forme di arbitrio incontrollato. Non mancarono resistenze e reazioni. La destituzione dell’inquisitore generale Diego de Deza nel 1508, sostituito col cardinale Francisco Jiménez de Cisneros, fu l’esito di uno dei momenti di tale conflitto. L’oggetto primario dell’opera del nuovo tribunale fu a lungo connotato esclusivamente dai conversos. Solo col secondo decennio del Cinquecento si affacciarono nuove figure di eretici, gli alumbrados. Nel 1525 fu convocata una giunta per discutere la questione dei moriscos, mentre nel 1527 una giunta fu convocata a Valladolid per discutere il caso della diffusione di scritti e di idee di Erasmo da Rotterdam. Ma intanto si faceva strada la tesi della differenza di natura tra gli ebrei e i cristiani: e si spostava qui il conflitto con la minoranza di origine ebraica che era rimasta dopo il 1492 accettando il battesimo. La scelta politica del sovrano era stata quella di cancellare la differenza religiosa che gli impediva di mettere d’accordo l’imperiosa esigenza di compattezza religiosa del suo Stato col bisogno di sfruttare le speciali capacità culturali e commerciali della minoranza ebraica. La reazione che prese corpo non si limitò a sospettare di insincerità la conversione al cristianesimo, ma si richiamò alla tesi di una differenza incancellabile depositata nel sangue degli ebrei e trasmessa ereditariamente: una differenza

che rendeva tutti i discendenti di ebrei inaffidabili, infidi, pronti al tradimento. E per questo – se ne deduceva – dovevano essere esclusi da ogni possibilità di essere ammessi all’interno degli organismi più importanti e più delicati della società spagnola, quelli dove gli ordini privilegiati del regno collocavano i loro membri. Come abbiamo visto, la prima introduzione della clausola della limpieza de sangre come sbarramento contro i «conversi» si ebbe a Toledo nel 1449, con l’approvazione di uno statuto che vietava loro l’accesso al capitolo della cattedrale. Da lì il meccanismo dell’esclusione doveva dilatarsi ed estendersi a interi ordini religiosi e a ogni corporazione, tagliando fuori chi era di discendenza ebraica dai corpi più importanti e influenti della società. Lo stesso dicasi a maggior ragione per l’Inquisizione, perché non si poteva consentire che la milizia creata per proteggere la purezza della fede fosse inquinata dalla presenza di sangue ebraico. Dai vertici della società si venne scendendo fino alle confraternite religiose e ai collegi universitari. Il più sollecito a introdurre norme precise a questo riguardo fu l’organismo più antico e più significativo, l’ordine di Santiago Matamoros, l’antico ordine monasticomilitare. Nelle prove per l’ammissione all’ordine si impose di verificare se il candidato era discendente di cristiani «viejos, limpios», o se invece derivava da «raza de judío, moro, o converso»3. Ma fu con l’avvio dell’opera dell’Inquisizione costruita da Torquemada che il ricorso sistematico al sospetto nei confronti dei «conversi» si rivelò in tutta la sua devastante violenza. Ne fu vittima un intero ordine religioso, quello dei geronimiani tra il 1486 e il 1487. E da allora in poi gli statuti di esclusione dei «cristiani nuovi» si diffusero a valanga. Il laborioso sistema del processo di accertamento inquisitoriale a carico dei sospettati o accusati di falsa conversione o di ritorno all’ebraismo fece crescere un clima di inquietudine e di incertezza nella società che non risparmiò nessuna istituzione. L’ossessione della purezza del sangue si diffuse fino a permeare profondamente il funzionamento delle istituzioni e le vite dei singoli. Per i «conversi» divenne un’abitudine quella di vivere simulando e dissimulando, come scrisse nei suoi versi il medico e poeta Francisco López de Villalobos: «Y vivo disimulando / mil angustias lastimeras, / que me hieren lastimando / y, con risa simulada, / disimulo el llanto cierto»4. La svolta del 1492, cancellando la presenza degli ebrei dalla Spagna, ben lungi dal mettere fine all’odio religioso nei loro confronti, accelerò la sua trasformazione in odio razziale. Da allora in avanti, la caccia al sangue

giudaico, come macchia incancellabile e segreta che poteva essere nascosta nella storia genealogica di qualsiasi persona, mise in moto interminabili inchieste, che il segreto rendeva ancor più inquietanti e temute e che si concludevano spesso con misure durissime per i beni e per la vita di chi ne era la vittima. Le carte processuali del tribunale della fede venivano consultate alla ricerca di eventuali antenati della persona sospettata: e così la condanna del passato ne produceva a cascata altre nel presente. Gli archivi dell’Inquisizione spagnola portano testimonianze dell’accanito impegno che quel tribunale investì nella direzione della ricerca di tracce del sangue impuro. L’Andalusia, terra di presenze inquietanti di altre culture e religioni, ne fece le spese in modo particolare5. Al versante propriamente inquisitoriale di questa storia si accompagnò, come abbiamo visto, quello delle norme di esclusione approvate via via da ogni genere di corporazione, laica o religiosa: già nel primo Cinquecento l’obbligo di accertare la genealogia dei propri membri si era estesa fino alle minori corporazioni di mestiere e alle confraternite cittadine. Nella confraternita di Santa Maria a Saragozza la questione della verifica della limpieza de sangre comparve negli statuti fin dal 1528. E scattarono i processi: bastava il sospetto che uno dei membri avesse un nome di origine ebraica per avviare ricerche, individuare e ascoltare testimoni, ricostruire genealogie risalendo lontano nel tempo. Fu una vera ossessione che portò a una infinita ricerca di informazioni sulla genealogia di chi si candidava per entrare a far parte di una corporazione, una confraternita, un capitolo canonicale. E questo riguardò perfino chi si candidava per i Colegios mayores di Salamanca e di Bologna, le istituzioni universitarie dove si formavano i letrados, cioè il personale burocratico di cui il grande impero spagnolo aveva necessità. Era un percorso battuto dai giovani che cercavano di sfuggire a un destino di povertà attraverso gli studi, residua porta di accesso alle rendite e agli onori dell’ufficio. L’ammissione al collegio o colegiatura era il primo varco che attraverso l’ufficio e la connessa prebenda apriva le porte per l’ingresso nella nobiltà. Era il mondo del privilegio che schiudeva le sue porte: questo spiega perché la battaglia sulle genealogie dei candidati, che era dovunque accanita e senza esclusione di colpi, qui mettesse in gioco gente del popolo, legata da vincoli di vicinato quotidiano con le famiglie dei giovani concorrenti. La genealogia del giovane che bussava alla porta del collegio veniva vagliata attraverso indagini di informatori che raccoglievano testimonianze giurate sulla sua famiglia di origine. Bisognava

escludere che nella linea degli ascendenti del candidato ci fossero state persone della «razza», ebrei o mori. La lettura della documentazione raccolta negli archivi dei collegi fa emergere tutta l’incertezza dell’operazione e tutti i complicati legami di amicizia o di ostilità che entravano in gioco. Basti dire che la norma del segreto, ufficialmente richiesto a tutti per tutelare la regolarità delle inchieste, veniva aggirata tranquillamente. Inoltre i testimoni potevano essere comprati o intimiditi. Ed erano in genere restii a fare dichiarazioni che potevano creare loro inimicizie e fastidi. Per farli parlare si ricorreva alle minacce e all’esibizione di titoli di autorità di pura invenzione. E non era infrequente il caso di testimoni che, stretti fra diverse forze in gioco, correggevano e smentivano le prime dichiarazioni. La memoria lunga del villaggio e la trasmissione orale dei nomi e dei ricordi genealogici era quella tipica delle società preindustriali6. Ma nel caso spagnolo quella memoria era attivata in una direzione del tutto diversa da quello che accadeva all’epoca nel resto d’Europa: lo sforzo di ricordare si concentrava intorno alla questione della razza e all’individuazione della «macchia» del «converso». Questo è lo scenario svelato dalle testimonianze orali registrate con giuramento dagli inviati dei collegi. Qui emerge la prova che si ricorreva ormai abitualmente al termine di «razza» per indicare i «conversi» di origine ebraica o musulmana. I testimoni giuravano che la persona di cui si trattava non aveva «ninguna macula ni raça». L’espressione indicava la macchia che distingueva tutti i confesos, cioè chi aveva abiurato un’eresia o un’altra religione: «raça de confeso», si diceva a Cordova nel 1532; o anche «raça de moros, judíos, herexes ni luteranos», diceva un teste a Paredes de Nava nel 15627. Alla base di simili immagini c’era la convinzione della trasmissione ereditaria attraverso il sangue di un carattere morale: una convinzione ratificata dalle norme dell’Inquisizione, che trasferivano sui figli gli effetti della condanna dei padri. La Chiesa alimentò in tal modo un’idea razzista di comunità che faceva delle classi popolari la vera nobiltà unita in un sol corpo dal sangue di Cristo. L’ultimo «campesino» poteva rivendicare con orgoglio questo suo titolo di merito e guardare con sospetto le classi dominanti colpevoli di aver mescolato il loro sangue con quello non «limpio» degli ebrei attraverso i matrimoni di interesse coi più ricchi tra i «conversi». Il documento fondamentale di questa ricerca genealogica della purezza di sangue è costituito da un intero genere letterario, quello dei Luceros y Tizones, elenchi di nomi ebraici elaborati per individuare chi era nato da ebrei battezzati8. Alle origini del genere incontriamo il Libro verde de Aragón, un

testo singolare di cui abbiamo già ricordato la narrazione delle circostanze in cui sarebbe maturata la decisione di Ferdinando d’Aragona di cacciare gli ebrei dalla Spagna9. Come spesso accade in questa storia, non si tratta solo di un documento di quel che accadde, ma di un testo che agì piegando gli eventi in una precisa direzione. Il Libro verde fu per più di un secolo uno strumento attivo della caccia al sangue ebraico e della persecuzione dei «nuovi cristiani». E anche qui incontriamo l’opera dell’istituzione forgiata per eliminare la presenza ebraica. Il suo primo autore fu infatti un assessore dell’Inquisizione di Saragozza, Juan de Anchías, un uomo che aveva trattato moltissimi processi fin dal primo avvio del nuovo tribunale, costruendosi così una conoscenza di nomi e di persone che mise a frutto per snidare dai loro nuovi assetti nella società dei battezzati tutti i nati da ebrei, anche se avevano avuto un solo lontano progenitore ap-partenente al popolo giudeo. Juan de Anchías narra nel prologo dell’opera di aver lasciato la città nel 1507 per sfuggire a un’epidemia di pestilenza e di essersi rifugiato per diversi mesi a Belchite, un piccolo centro dell’Aragona, oggi monumento della memoria della guerra civile spagnola. La peste era considerata allora il segno dell’ira divina per le offese e le colpe degli uomini. E tollerare la presenza di ebrei per ragioni di convenienza economica o politica era ritenuta un’offesa fatta a Dio. La minaccia della peste portava di solito all’imposizione di restrizioni o all’espulsione degli ebrei. Nel secolo XVI se ne ebbe una verifica nella Repubblica di Venezia, lo Stato italiano più aperto alla libertà dei traffici e dei commerci. Qui pure era diffusa anche tra gli uomini della classe di governo la convinzione che cacciare gli ebrei fosse un modo per garantirsi la protezione divina; e fu per questo che nel 1555 un’epidemia di peste portò all’espulsione degli ebrei da Udine10. Dunque non fu per puro caso che Juan de Anchías decise di dedicare i mesi di lontananza dall’ufficio a mettere per iscritto le genealogie delle famiglie ebraiche aragonesi. Lo fece per offrire lo strumento necessario a individuare le ascendenze degli ebrei rimasti in Spagna dopo il 1492: bisognava aiutare chi voleva evitare di «mezclar su limpieza con ellos». Le genealogie raccolte nel libro dall’esperienza dei processi e dalle narrazioni fatte all’autore da vecchi ebrei avevano come punto di partenza un blocco di 173 nomi dei convertiti al tempo di san Vicente Ferrer e continuavano poi con elenchi di persone che erano state bruciate o penitenziate. L’opera non fu stampata, ma circolò ampiamente e venne ulteriormente elaborata da altre

mani, ma soprattutto venne utilizzata per la caccia al «sangue giudeo», con esiti devastanti: bastava una denunzia o un sospetto per macchiare l’onore della persona incriminata, escluderla dall’accesso a corporazioni, ordini e uffici di carattere religioso e civile, e imporre procedure complicate e costose di accertamento della limpieza, che si svolgevano coinvolgendo personale dell’Inquisizione per lo più pronto a farsi corrompere. Così grazie alla memoria scritta del battesimo i discendenti dei primi «conversi» venivano inchiodati all’invalicabile dato dell’appartenenza di sangue. Non importava che la persona in questione fosse vivente: si facevano ricerche anche per i morti. E le inchieste riempivano fascicoli ponderosi di processi che duravano a lungo, anche per decenni11. Nelle probanzas per l’accesso ai collegi universitari, come quello di San Clemente di Bologna, la ricerca era complicata dal fatto che non si voleva metterne il controllo in mano all’Inquisizione, con il rischio di lasciare nelle mani di quel tribunale la concessione delle prebende dei collegiali: ma le vie d’uscita escogitate per risolvere il problema esposero al rischio di giuramenti falsi e suscitarono grandi tensioni attestate fin dalla metà del Cinquecento12. Per quanto riguarda l’Inquisizione, la regola del controllo della limpieza de sangre per tutti i candidati a entrare nella struttura del tribunale fu imposta alla metà del Cinquecento da Diego de Espinosa. La stessa Compagnia di Gesù doveva essere investita da critiche per avere avuto un generale come Diego Laínez, di origine «conversa». Vale la pena di osservare che l’introduzione e l’impiego dello sbarramento della prova del sangue limpio furono favoriti tradizionalmente dai sovrani di Spagna, che con Carlo V e Filippo II gratificarono l’Inquisizione di grande attenzione e impulso13. E in prosieguo di tempo la norma del sangue limpio conquistò un posto centrale in quella Spagna dove, com’è stato osservato, «la presenza di ebrei era solo un ricordo, e il numero di spagnoli giudaizzanti era insignificante»14. Lo stesso avvenne in Por-togallo: qui la regola del «sangue puro» fu fissata nelle Ordinazioni del re Emanuele fin dall’edizione del 1514 e rimase in vigore fino a un decreto del 1773, estendendosi via via a una serie di categorie: non solo discendenti di ebrei ma anche di musulmani e poi neri, mulatti, gitani, abitanti delle colonie. La cosa assunse «le proporzioni di un’ossessione collettiva, che investiva l’intera società, dai semplici artigiani alla più alta nobiltà di corte»15. Si può dire che nella penisola iberica il sospetto dell’impurità bastava a infamare e a escludere le persone, nonostante le laboriose e lunghissime procedure di «abilitazione» affrontate da chi ne era

vittima. Naturalmente questa macchina sociale dell’infamia ebbe il suo centro fondamentale nel tribunale dell’Inquisizione che, dopo aver creato le condizioni e fornito gli strumenti della caccia all’impurità, sviluppò al massimo grado le dinamiche processuali di accertamento. Una disposizione («pragmatica») di re Filippo IV nel 1623 ordinò di bruciare tutte le raccolte di dati genealogici in possesso di privati (usati per ricatti e vendette) e limitò a tre le inchieste inquisitoriali a cui poteva essere assoggettata una stessa persona. Ma questa misura non impedì che si affermasse una definizione di tipo naturalistico e razziale della trasmissione di padre in figlio dei caratteri negativi dell’ebreo. Un trattato di Juan Escobar del Corro, dedicato alla definizione della purezza e della nobiltà16, sostenne che era la trasmissione del sangue dei «gentili» convertiti a denotare la purezza dei cristiani viejos, mentre chi era di ascendenza ebraica o moresca o eretica ne portava nel sangue la macchia incancellabile. Era la tesi della differenza di razza: e nei documenti dell’epoca si parla normalmente di «raza de Moros y Judíos»17. L’attenzione della cultura del tempo per le nuove conoscenze scientifiche sul corpo umano e sulla dinamica della riproduzione assunse così nella cultura spagnola, dominata da un’esaltata devozione alla Madonna concepita senza macchia originale, l’aspetto di una ribadita affermazione della differenza razziale nella trasmissione delle male inclinazioni attraverso il seme virile. 2. Il Portogallo L’alternativa imposta con tempi drammaticamente stret-ti agli ebrei di Spagna nel 1492 era stata se accettare il battesimo o andarsene. Con questo si sarebbe dovuto risolvere il problema: la purezza della «vera» religione doveva regnare incontrastata nel paese riscattato dalla crociata della reconquista. Come abbiamo visto, non fu così: restava in Spagna la minoranza dei «conversi». Nei loro confronti si aprì una guerra diversa, basata non più sulla differenza di religione ma su quella di sangue. L’intolleranza religiosa di cui i Re Cattolici avevano cavalcato le pulsioni diventava ora discriminazione raz-ziale. L’unità statale della Spagna fondata sulla religione produceva all’interno e all’esterno frutti dello stesso genere: la conquista delle nuove terre scoperte veniva legittimata dalla missione religiosa della evangelizzazione. E ben presto, con l’allargarsi della protesta religiosa della Riforma di Lutero, l’impero di Carlo V doveva affrontare un pesante programma di guerre di religione. Ma intanto la scelta del 1492 produceva i suoi primi frutti con l’apertura di una crisi carica di conseguenze

nei rapporti col paese confinante e rivale: il Portogallo. Vediamone i dati essenziali. La questione degli ebrei e dei «conversi» o «mar-rani» come ormai venivano definiti occupò un posto importante nella storia dei rapporti di potere tra i due regni che si dividevano la penisola iberica, la Spagna e il Portogallo. La persecuzione antiebraica in corso in Spagna provocò un esodo dei perseguitati verso il Portogallo. Davanti ai problemi di convivenza creati dall’immigrazione di una popolazione sospetta di apostasia, che godeva però di una certa protezione da parte della monarchia, si moltiplicarono episodi di intolleranza violenta da parte della popolazione. Intanto le ragioni della politica dinastica accentuavano la pressione della Spagna sul piccolo regno del Portogallo. Nel 1495 re Manuel chiese la mano di Isabelita, la figlia dei Re Cattolici. La promessa sposa dichiarò che non intendeva entrare in Portogallo prima che gli «eretici» fossero stati allontanati18, facendo valere la concezione che vedeva nella presenza di ebrei un fattore di impurità e una minaccia di punizioni divine – un’idea che aveva forte presa su tutta la popolazione cristiana. I desideri della futura sposa furono realizzati quando il 4 dicembre 1496 il re Manuel I emanò un bando generale nel quale intimava l’espulsione di tutti gli ebrei e musulmani non battezzati entro l’ottobre 149719. L’editto fu seguito da norme contraddittorie che rivelavano esitazioni e preoccupazioni davanti alla minaccia di un ab-bandono del paese da parte di una minoranza ebraica essenziale per l’apparato amministrativo e commerciale del paese (per i musulmani, la pronta reazione degli Stati islamici mediterranei che minacciarono ritorsioni fece passare in secondo piano la loro situazione). Di fatto la partenza degli ebrei fu ostacolata e praticamente impedita mentre le violenze della conversione forzata creavano una popolazione di «battezzati in piedi»20. La soluzione scelta fu quella di obbligare gli ebrei al battesimo impedendone l’emigrazione e garantendo però ai battezzati a forza un lungo periodo di sospensione da ogni processo per apostasia: un editto del maggio 1497 fissò un periodo di venti anni durante il quale non ci sarebbero state misure di accertamento sulla religione dei neoconvertiti. A loro però fu impedito di vendere i propri beni e di lasciare il paese con la propria famiglia. Questa scelta, dovuta alla volontà di garantirsi la permanenza di una minoranza importante nell’economia e nelle strutture amministrative del regno, creò una situazione esplosiva: furono poste le premesse di un conflitto durissimo tra i «marrani» e la popolazione cristiana. Da allora in poi il minimo motivo poté scatenare violenze collettive,

veri e propri pogrom. Il più grave fu quello che ebbe luogo a Lisbona nella Pasqua del 1506. In una città terrorizzata da un’epidemia di peste bastò l’incidente di un «nuovo cristiano» che aveva criticato un falso miracolo organizzato dai domenicani per scatenare il linciaggio; e la predicazione infiammata di due domenicani messisi a capo della folla dette il via a un massacro senza fine. Il re don Manuel dovette allontanarsi da una città incontrollabile e vi poté tornare solo a distanza di diversi giorni. Le misure punitive da lui prese furono enfatizzate nelle testimonianze ebraiche, sempre portate a ritenere favorevole il potere reale e a temere l’ostilità popolare, laddove era stato il meccanismo stesso della conversione obbligata senza libertà di andarsene dal paese a creare le condizioni del sospetto e dell’odio dei cristiani «vecchi»21. Da queste premesse doveva nascere la lunga vicenda dei «marrani» portoghesi, pronti a tornare alla professione dell’ebraismo laddove se ne dava loro la possibilità – e dunque nelle città e nei porti del grande commercio internazionale come Anversa, Venezia, e negli altri luoghi che si aprirono alla loro emigrazione, dalla Ferrara estense all’impero ottomano. Ma la diffidenza e la persecuzione dei convertiti dovevano segnare per secoli la società portoghese. Mentre gli esuli si disperdevano per l’Europa, affollavano le capitali del commer- cio e della finanza e completavano il loro percorso rifugiandosi nel Mediterraneo orientale sotto la protezione dell’impero ottomano, la figura dell’ebreo portoghese battezzato, indicato con l’epiteto insultante di «marra no», diventava il simbolo della scissione fra apparen za e realtà, dell’incertezza religiosa e della finzione. In Portogallo la caccia al finto convertito fu l’esercizio assiduo della macchina inquisitoriale assistita dalla mi croconflittualità sociale dei piccoli centri. Per secoli la scoperta di comunità locali di conversos, sospettabili di ritorni segreti all’antica religione, accese roghi e popolò le chiese di abitelli di «penitenziati», mantenendo viva la memoria dell’infamia, quella sociale dell’apostata e quella storica dell’intolleranza. E anche in Portogallo si ripeté la vicenda dell’alleanza tra la monarchia ereditaria e l’Inquisizione, con la prevalenza sempre più netta della macchina inquisitoriale nella pratica e nelle leggi dell mtolleranza. Re Manuel aveva dichiarato con apposite leggi del 1502 e del 1507 che non ci sarebbe stata nessuna discriminazione tra vecchi e nuovi cristiani nell’accesso agli uffici e agli onori. Ma alla metà del Cinquecento una supplica rivolta al re rivelò che la porta delle istituzioni confraternali, dette le Misericordias, era sbarrata per i discendenti da ebrei convertiti; e la

Compagnia di Gesù fece sua la norma dell’esclusione per i candidati di origine ebraica22. L’alleanza tra la casa regnante e l’Inquisizione trovò condizioni peculiari nel Portogallo del Cinquecento: basti pensare che qui l’inquisitore generale fu per molti anni il cardinal Henrique, fratello del re Giovanni III.

9. EREDITÀ LUNGHE

L’esperimento iberico spicca per la sua originalità nel contesto del disegno generale dei rapporti tra cristiani ed ebrei nell’Europa di antico regime. L’accendersi di un an tigiudaismo violento caratterizzò la società cristiana nei secoli del tardo Medioevo e del Cinquecento. Sul fronte del rifiuto troviamo personaggi diversi, accomunati dalla loro volontà di riformare la Chiesa e di rinnovare la vita religiosa dei cristiani. Vincenzo Querini e Tommaso Giustiniani, i due patrizi veneziani fattisi monaci, affrontarono la questione di come trattare gli ebrei in un capitolo del loro Libellus presentato a papa Leone X nel 1513 in vista della ripresa del Concilio Lateranense V. Era un piano di «bona et santa refformatione»1: qui la questione degli ebrei fu trattata insieme a quella dei popoli scoperti al di là dell’Oceano, di cui Vincenzo Querini aveva avuto notizia durante la sua permanenza come ambasciatore alla corte imperiale. Si trattava di affrontare in ambedue i casi il compito di un’opera di conversione dalle dimensioni imponenti, vista la «innumerabilis populorum multitudo» di quelle isole o forse di quel continente dove gli abitanti erano del tutto ignari della predicazione del Vangelo: ma c’era anche una «infinita» gente ebraica dentro e fuori dei confini cristiani che resisteva a causa della sua perfidia e durezza di cuore («cervicosa perfidia», «obdurata [...] cordis perfidia») e minacciava di allearsi alle forze degli «infedeli» – e qui affiorava l’antica tradizione del complotto ebraicomusulmano. Nei loro confronti bisognava ricorrere a rimedi drastici secondo i due camaldolesi, che proposero al papa di generalizzare per tutta la cristianità il modello spagnolo: battezzarli se accettavano o disperderli fuori del mondo cristiano, fissando un preciso termine di tempo entro il quale dovevano essere obbligati a scegliere. Se poi i non convertiti si fossero

perduti disperdendosi fuori del mondo cristiano, poco male. Anche perché ai confini del mondo cristiano c’erano altri popoli che aspettavano di essere evangeliz-zati: quelli scoperti oltre Oceano2. La loro proposta non ebbe seguito, almeno per il momento, ma è indicativa del nesso tra fervore religioso cristiano e intolleranza antiebraica spinta fino all’estremo. L’ansia della conversione si diffuse allora per impulso dei movimenti di riforma della Chiesa, concordi nell’obiettivo di cancellare l’ebraismo quanto discordi e ferocemente divisi nella lotta fraterna tra sette e Chiese. Simboli tradizionali della differenza religiosa e linguaggi dell’avversione subirono un violento avvitamento, che si rese evidente al di qua e al di là delle nuove frontiere religiose create dalla frattura dell’unità della Chiesa occidentale. La figura dell’ebreo dal naso adunco, avido e traditore, campeggiò nella pittura a soggetto sacro dei grandi maestri cristiani, da Albrecht Dürer in avanti. Un censimento delle definizioni usate per gli ebrei nella cultura cristiana dal tardo Medioevo in poi mostrerebbe lo spostamento tendenziale dell’immagine di quel popolo oltre i confini dell’umanità, verso il mondo delle bestie: volpi, serpi, soprattutto e sempre «porci». Una scrofa che allatta maiali ed ebrei insieme era scolpita nella chiesa di Wittenberg: Lutero la vide e se ne ricordò mentre scriveva il violento pamphlet antigiudaico con cui reagì alla delusione delle prime speranze di convertire al suo cristianesimo il popolo della Bibbia; un libello diventato celebre nel secolo XX solo perché la propaganda nazista ne fece uso e gli imputati nazisti si appellarono a quel documento per giustificarsi. Ma nel secolo XVI quel documento apparve del tutto condivisibile al cardinal Giovanni Morone, rappresentante della linea moderata e riformatrice della Chiesa cattolica. Morone era un importante uomo di Chiesa, dominato da un’ansia di riforma religiosa che gli attirò i sospetti dell’Inquisizione e gli valse un lungo processo, ma fece in tempo a gover-nare l’ultima fase del Concilio di Trento e a metterne in atto le decisioni nella sua opera episcopale. Tuttavia si trovò d’accordo con gli insulti e le aggressioni di Lutero contro gli ebrei, tanto che progettò di tradurre e diffondere sotto falso nome il violento pamphlet antigiudaico del riformatore tedesco. Si tratta di episodi che attestano l’incupirsi dell’orizzonte per la minoranza ebraica in terra cristiana nel Cinquecento. A questa data era stata già elaborata tutta la panoplia dei simboli dell’esclusione. Era nato il ghetto ed erano stati inventati i segni di identificazione pubblica: per i paesi dove gli ebrei come tali erano tollerati, e dunque per alcuni Stati italiani, c’era la lingua di panno giallo cucita sulla manica o sul cappello; per i paesi

iberici dove gli ebrei erano stati costretti al battesimo, chi veniva scoperto ancora fedele all’antica religione andava incontro alla morte nel teatro urbano dell’esecuzione capitale o subiva la vergogna degli abitelli infamanti da indossare a vita. Alcuni di questi abitelli – tuniche con disegni di diavoli e di fiamme infernali – si conservarono nei secoli successivi appesi alle pareti delle chiese spagnole. Come abbiamo detto, il caso spagnolo è particolar-mente significativo perché mostra la tendenza a trasformare la differenza ebraica da religiosa in naturale appena l’ebreo si battezzava e diventava cristiano. All’editto reale spagnolo del 1492 si dovette il tentativo più radicale di risolvere il problema: con l’imposizione del battesimo la barriera della differenza religiosa veniva cancellata, l’ebreo diventava cristiano. Ebbene, come abbiamo visto, da quel tentativo di dare una soluzione definitiva al problema doveva risultare un esito del tutto imprevisto: la barriera rimase ma subì una metamorfosi, diventando collettiva ed ereditaria da religiosa e individuale e passando dalla cultura alla natura. E da lì doveva nascere un incrudimento della persecuzione. Gli stessi ingredienti dell’antisemitismo iberico dovevano ripresentarsi in Europa a partire dalla fine del Settecento: l’idea del complotto ebraico come congiura di un nemico interno attecchì in una società nella quale era stata chiusa l’epoca dei ghetti e gli ebrei erano stati liberati – «emancipati» – da tutte le limitazioni dei diritti individuali fino ad allora imposti. Se in Spagna si era cancellata la differenza ebraica imponendo il battesimo, nell’Europa della Rivoluzione francese si apriva la porta alla cancellazione di ogni differenza tra gli uomini con l’affermazione del principio di uguaglianza, fondato sulla comune appartenenza alla stessa specie umana. Ma proprio da lì doveva partire un’evoluzione dell’antisemitismo che si basò su ingredienti molto simili a quelli antichi: l’idea del complotto contro la società e l’affermazione della incancellabile differenza di sangue della razza ebraica. Come ha scritto Yerushalmi, «l’elemento critico è, ovviamente, l’apparizione in entrambi i casi del concetto razziale degli ebrei»3. E il problema è stato da lui correttamente formulato quando ha osservato che, anche se dopotutto l’Inquisizione non era la Gestapo, «l’esperienza iberica non deve essere considerata meramente come un precedente esotico degli eventi successivi». In questo caso la comparazione storica fa emergere non solo analogie di modelli e di percorsi, ma anche la presenza di un fattore di continuità di lunga durata: e questo è costituito dall’eredità culturale e

religiosa di un discorso cristiano contro gli ebrei mai completamente sconfessato dalle autorità supreme delle Chiese e pervenuto nella Spagna del Quattrocento a esiti radicali. Esiti che rimasero isolati, tuttavia: la società cristiana di antico regime era capace di moderare l’ostilità antiebraica. Quando il cardinal De Luca si vide posto il problema se gli ebrei convertiti dovessero farsi assolvere da una speciale irregolarità nella promozione a benefìci ecclesiastici, rispose che solo in Portogallo si dava una situazione del genere a causa dell’impurità di sangue loro attribu-ita («impuritas sanguinis ratione originis»). Dunque là i discendenti da ebrei dovevano ottenere una dispensa speciale. Ma se si trattava di ebrei residenti in una città italiana il difetto non sussisteva più. De Luca ricordava anche che la religione cristiana era nata dalla predicazione di apostoli ebrei e che la condizione di «servi» nel loro caso era da interpretare come una servitù interiore, restando per il resto liberi. E concludeva che la Chiesa cattolica tollerava costumanze e opinioni prevalenti in determinati paesi ma non ne generalizzava il valore4. Ma nell’epoca che si avanzava la crisi degli antichi parametri culturali religiosi poté liberare dagli ultimi freni una tendenza della società europea di antico regime a conferire connotati razziali alle differenze sociali e a fondare sul sangue la giustificazione delle sopraffazioni. I pregiudizi di razza, nella Francia dove gli ebrei erano assenti, trovarono posto nella legittimazione corrente dei privilegi nobiliari e Gesù fu accolto in società in quanto discendente dalla stirpe regale di David5. Una «cupa religione dell’onore e del sangue», come l’ha definita Carlo Dionisotti, era allora all’ordine del gior-no, pronta a sostituire quella della comune fratellanza cristiana. Accanto al tema della differenza naturale, di sangue, l’antisemitismo dell’età contemporanea ereditò dal passato preindustriale il mito del complotto giudaico: restava sordamente presente nel passaggio tra le due epoche la non cancellata accusa cristiana, consolidata nella liturgia cattolica della Messa, della «perfidia» ebraica, e la riaffiorante permanenza dell’accusa del «delitto rituale». Il presente ha dato la mano al passato grazie alla pervasività e alla lunga permanenza di temi e idee in una cultura che ha lungamente riciclato moduli elaborati dall’ostilità cristiana. Qui si intravede un raccolto abbondante per chi setaccia i prodotti e i percorsi della cultura del Novecento europeo: mentre Martin Heidegger leggeva gli scritti del fanatico predicatore Abraham a Sancta Clara, lo scrittore Emilio Cecchi nel ventennio fascista diffondeva col suo bello stile gli argomenti di monsignor Umberto Benigni6. E nel contesto italiano delle leggi razziali del 1938, per l’autorevole

editorialista de «La Civiltà Cattolica» il problema ebraico era quello di «premunire gli altri dalla loro strapotenza» e di accusare gli ebrei per le passate persecuzioni, da essi scatenate o promosse contro la Chiesa, in accordo sia con la massoneria, troppo da essi sostenuta, sia con altri partiti sovversivi ed anticristiani, dalla ‘grande’ rivoluzione francese specialmente, fino ai nostri giorni7.

Ogni volta che le crisi della società europea hanno fatto emergere poteri fondati sulla paura, la regressione dei valori illuministici e rivoluzionari dei diritti individuali ha spinto ad attingere all’antico deposito: o, se vogliamo prendere in prestito l’insulto antico contro gli ebrei battezzati e gli eretici recidivi, «ha fatto tornare i cani al vomito». L’indicazione che emerge dalla considerazione di ciò che accadde nella penisola iberica negli anni iniziali di quella che è stata definita l’età moderna non va intesa tuttavia nel senso di una continuità sotterranea di tendenze e di pregiudizi perenni, sempre uguali e sempre pronti a riaffacciarsi. E nemmeno si può par-lare di una trasmissione diretta di strumenti, concetti e istituzioni dai ghetti cristiani ai lager nazisti. La vicenda spagnola appare piuttosto come un modello da tenere presente per confrontarlo con l’altro modello, quello dell’antisemitismo diffuso in Europa a partire dal Set-tecento. Nell’un caso e nell’altro ad essere cancellata fu la barriera dell’appartenenza religiosa e delle connesse interdizioni, che isolavano e individuavano l’ebreo come figura a parte nella società cristiana. Nella Spagna di Ferdinando d’Aragona l’imposizione del battesimo portò all’immissione nella società di «conversi» dotati degli stessi diritti di tutti i battezzati. La reazione sociale nei confronti di una minoranza, finalmente libera di sviluppare le sue capacità e i suoi notevoli mezzi culturali e finanziari, consistette, come abbiamo visto, nello spostare dalla differenza religiosa alla differenza di razza e di sangue la barriera protettiva che era venuta meno. Qualcosa di analogo accadde quando tra Settecento e Ottocento una nuova legislazione figlia dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese portò all’emancipazione degli ebrei. L’ebreo emancipato, invece di scomparire nel corpo di una società che si era messa alle spalle le antiche barriere divisorie tra battezzati e circoncisi, si configurò con i tratti di una differenza nuova e diver-samente minacciosa. Tutto questo permette di individuare alcune cause specifiche di una forma concreta di razzismo e ci riporta sul terreno familiare allo storico, che è appunto quello della ricerca delle cause e non quello dell’astratta indagine sulle origini8. Le delusioni della libertà si tradussero nella rinascita dell’antisemitismo come forma storica di una radicata attitudine antiebraica

della cultura cristiana9. C’è dunque un singolare parallelismo tra la vicenda dell’antisemitismo religioso di marca iberica del 1492 e anni seguenti e quella dell’antisemitismo secolarizzato dell’età contemporanea: se nel primo caso la cancellazione della differenza di religione per mezzo del battesimo accese un sospetto e un odio inestinguibile contro il «converso», nel secondo caso la rivoluzione dei diritti dell’uomo e dell’individualismo economico offrì al tradizionale antigiudaismo cristiano l’occasione per confluire nella corrente del nuovo antisemitismo. Contro l’ebreo emancipato, diventato simbolo del potere del danaro, si allearono i bisogni di sicurezza e le paure regressive davanti alla nuova realtà. E non mancarono di rivelarsi di nuovo utilizzabili molti reperti accantonati dagli avi cristiani nella soffitta della polemica religiosa. Fu così che rinacque a nuova vita il mito del complotto ebraico.

PER CONCLUDERE: UN PROTAGONISTA

Ogni storia che si rispetti ha bisogno di un protagonista. E quella che abbiamo raccontato ha un alone così vasto di tempi e di spazi che si rischia di perderne di vista i contorni concreti. Sembra giusto perciò ricordare in conclu-sione che al centro della vicenda che abbiamo cercato di ricostruire spicca la figura di un protagonista: Ferdinando V d’Aragona, il «Re Cattolico». È nelle sue mani che abbiamo visto concentrarsi gli strumenti fondamentali ed è da lui che furono fatte le scelte decisive. Su di lui è stato scritto moltissimo. L’analisi dei meccanismi e dei passaggi attraverso i quali quest’uomo pose le basi di un potere che lo portò rapidamente al vertice delle potenze statali europee ha impegnato grandi storici. Ma il più grande fra tutti resta un suo contemporaneo. Le pagine che Niccolò Machiavelli gli dedicò in alcuni capitoli centrali del Principe furono scritte mentre Ferdinando d’Aragona era ancora in vita e rivelano una straordinaria capacità di distacco intellettuale. A Machiavelli egli apparve come il modello di un «quasi principe nuovo, perché d’uno re debole è diventato per fama e per gloria el primo re de’ cristiani»: e questo grazie a imprese «tut-te grandissime e qualcuna estraordinaria». Quali fossero queste imprese Machiavelli lo raccontò nella pagina di apertura del capitolo XXI. Era stata l’impresa di Granada a porre «il fondamento dello stato suo»: con il lento avvio della campagna militare Ferdinando aveva potuto tenere impegnata a lungo la grande nobiltà castigliana, impedendole di accorgersi del modificarsi dei rapporti di forza che intanto andava portando a effetto; determinante fra questi era stata la costruzione di un potente esercito. Ferdinando l’aveva messo insieme «con danari della Chiesa e de’ populi». Il fine apparentemente religioso della guerra contro gli «infedeli» aveva giustificato la messa a disposizione del sovrano della decima della crociata e l’imposizione di gravami fiscali appositi. Grazie a quello strumento militare la potenza di Ferdinando era poi cresciuta in Europa e fuori d’Europa rendendolo appunto «il primo re» fra tutti i sovrani cristiani. Tutto questo processo storico che Niccolò Machiavelli osservava

all’inizio del secondo decennio del Cinquecento aveva avuto origine da una eccezionale capacità di simulare e dissimulare. Grazie all’affettazione di motivi e ideali religiosi, Ferdinando aveva costruito una immagine pubblica di sé dominata dalla fede e dalla pietà cristiana. L’uso di argomenti religiosi da parte di questo sovrano rappresentò per Machiavelli il modello più nitido di come, nella «realtà effettuale» a lui contemporanea, lo Stato che noi chiamiamo «moderno» potesse essere costruito «servendosi sempre della religione». Dal personaggio di Ferdinando d’Aragona Machiavelli ricavò il profilo di come un principe doveva presentare se stesso ai popoli: non importava che avesse le qualità morali e le convinzioni di fede richieste dalla tradizione degli «specula principum» medievali. Bastava l’apparenza: «li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani». Era quello che faceva quel «principe de’ presenti tempi» che Machiavelli preferiva non nominare ma che era proprio Ferdinando; un sovrano abilissimo nel presentarsi con i tratti di una religiosità di facciata non corrispondente ai sentimenti nascosti dell’uomo: non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto e la riputazione e lo Stato1.

In tutto questo l’espulsione dei «marrani» ebbe, secondo Machiavelli, un ruolo fondamentale: Oltre a questo, per potere intraprendere maggiore imprese, servendosi sempre della religione, si volse a una pietosa crudeltà cacciando, e spogliando, del suo regno e’ marrani: né può essere questo esemplo più miserabile né più raro2.

Machiavelli non poté conoscere la quasi totalità delle fonti storiche relative alla politica del sovrano aragonese di cui oggi disponiamo: ma questo non gli impedì la nettezza e la lucidità del giudizio. Fu mettendo insieme molti pezzi distinti – l’abile politica matrimoniale, il successo della reconquista di Granada, l’antigiudaismo fratesco, la fanatica dedizione di Torquemada alla lotta contro i conversos, il favore papale – che Ferdinando d’Aragona dette avvio alla creazione di una potente monarchia nazionale e le fornì una missione religiosa capace di saldare la presa del potere sulle profonde dif-ferenze del paese. Ma fra tutte fu fondamentale l’attenzione alla costruzione di una propria immagine pubblica dominata dalla fama di religiosità. Una immagine sedu-cente. Come scrisse Machiavelli: «el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel mondo non è se non vulgo». Di quel «vulgo» non faceva parte un altro personaggio che aveva pensato sempre e solo «ad ingannare uomini»: papa Alessandro VI. Ma papa Borgia aveva mostrato di apprezzare l’esibizione di pietà del sovrano

aragonese. Il nome di Alessandro VI non poteva mancare nei capitoli di questa sezione del Principe tutta dedicata alle arti della seduzione e dell’uso strumentale della religione. Ebbene, come si è detto, fu proprio questo il personaggio che concesse a Ferdinando e a Isabella il titolo di «Re Cattolici» in premio dell’espulsione degli ebrei. Da quella pietosa crudeltà, o cru-dele religione di facciata di un uomo che predicò pace e fede e che, secondo Machiavelli, fu nemico di ambedue, nacque il primo seme di un frutto avvelenato: quello che sui fondamenti dell’antigiudaismo tradizionale vide la costruzione della prima forma moderna dell’antisemitismo. Ne fu veicolo l’istituzione creata da Ferdinando d’Aragona, l’Inquisizione di Spagna. Ma la realizzazione fondamentale del Re Cattolico fu il modello di potere politico da lui creato. Il secolo della Riforma e della Controriforma non perdonò a Machiavelli l’avere guardato così lucidamente alla realtà effettuale e lo accusò di avere inventato lui l’arte di sfruttare la religione come strumento di potere. Non l’esempio dato da Ferdinando d’Aragona fu considerato «miserabile», ma l’analisi di Machiavelli. Tuttavia non bastò proibire la lettura dei suoi scritti; bisognò affaticarsi a confutarne il contenuto. Ma le negazioni affermano, le confutazioni spesso confermano. Alla fine del Cinquecento, il gesuita Ribadeneyra, nel confutare le dottrine attribuite all’odiato Machiavelli, riconosceva nell’espulsione degli ebrei del 1492 l’atto di nascita della potenza spagnola che allora dominava il mondo. Secondo lui, con quella decisione i Re Cattolici avevano dimostrato di preferire la purezza della fede ai benefìci finanziari che la presenza degli ebrei avrebbe potuto portare alle casse dello Stato. E Dio aveva ricompensato la Spagna purificando questi regni da ogni perfidia e sporcizia di sette false, conservandoli fino ad ora nella integrità e purezza della fede cattolica e in giustizia e pace, e dando alla Spagna altri regni, e scoprendo per opera sua un nuovo mondo, con tanti e così grandi tesori e ricchezze, il che è uno dei più grandi miracoli che ci siano stati3.

La sporcizia era ancora quella: ebrei, eretici e selvaggi.

APPENDICE Avvertenza Ringrazio il professor Michele Olivari per la lettua di questa traduzione e i suggerimenti.

I DISPOSIZIONI PER IL VESCOVO DI GERONA DELL’INQUISITORE GENERALE TORQUEMA DA (20 MARZO 1492)

Illustrissimo signor don Enrique, infante di Aragona e viceré del principato di Aragona per il re nostro signore. Io fra Tomás de Torquemada dell’ordine dei predicatori, priore del monastero di Santa Cruz di Segovia, confessore del re e della regina nostri signori e membro del Consiglio reale, inquisitore generale dell’eretica pravità in tutti i loro regni e signorie dato e deputato dalla Santa Sede Apostolica, notifico e faccio sapere a vostra illustre Signoria e al molto reverendo vescovo di Gerona e ai suoi vicari generali e ufficiali e agli altri giudici ecclesiastici e al facente funzione di governatore generale del suddetto principato e al bayle1, al veguer2, a consiglieri, giurati, paeres3, giudici4 e a tutti e ciascun altro ufficiale e ai loro luogotenenti e a tutti gli scudieri e «buoni uomini» della detta città e vescovato di Gerona e degli altri borghi e

luoghi della diocesi, e a tutte e a ciascuna delle persone particolari, sia ecclesiastiche sia secolari, di qualunque stato e condizione siano, e a chiunque di coloro ai quali questa mia carta sarà mostrata o ne sapranno, che dalle inquisizioni fatte e che si fanno in questi regni e in questo episcopato è risultato e consta da processi e atti d’inquisizione il gran danno causato ai cristiani dalla partecipazione, conversazione e comunicazione mantenuta coi giudei. [...] È provato che [i giudei] hanno procurato per diverse vie e in diverse forme e maniere di [...] e sottrarre alla nostra santa fede cattolica e separarli da essa e attrarli e pervertirli alla loro maledetta credenza e opinione, istruendoli nelle cerimonie e osservanze della loro legge, facendo incontri nei quali leggevano e insegnavano quello che dovevano credere e osservare della detta legge, procurando di circoncidere loro e i loro figli, dando loro libri dai quali imparare le orazioni che dovevano fare ogni anno e trovandosi insieme a loro nei periodi dei loro digiuni per leggere e insegnare loro le storie della loro legge, informandoli per tempo della data delle pasque, delle feste e dei digiuni, avvisandoli di quello che dovevano osservare e fare, dandogli e portandogli con le proprie mani pane azzimo e carne macellata ritualmente per celebrare le dette feste e pasque, istruendoli sulle cose che si devono nascondere sia nel mangiare sia nelle altre cose, persuadendoli per quanto potevano affinché osservassero e adempissero la loro legge, facendogli credere che la legge dei cristiani è finta [«burla»] e che i cristiani sono idolatri, secondo quanto appare e risulta da gran numero di testi e di confessioni sia degli stessi giudei sia di coloro che furono pervertiti e ingannati da loro, il che ha apportato gran danno e detrimento e obbrobrio alla nostra santa fede cattolica, come appare manifestamente a tutti i membri di questi regni e di questo episcopato. E poiché conviene trovare rimedio perché cessi così grande obbrobrio e offesa della religione cristiana e non ci sia occasione di offenderla ancora di più, sia in coloro che finora Dio ha voluto salvare sia in quelli che caddero e si emendarono e si sono convertiti alla nostra Santa Madre Chiesa, e riconoscendo e confessando i loro errori hanno fatto penitenza che non abbiano a cadere di nuovo in essi, il che facilmente potrebbe accadere data la debolezza della nostra umanità e la scienza e suggestione diabolica che ci fa guerra, se non venisse eliminata la causa principale [...] la partecipazione e comunicazione che i giudei hanno finora mantenuto e [...] investito e insegnato a tale scopo: perciò ho deciso di notificarlo e farlo sapere al re e alla regina nostri signori.

E dal momento che le loro altezze, come sovrani cattolici, concessero di provvedere in materia, accettarono volentieri che io provvedessi per mio ufficio nella seguente forma, per-tanto, col volere e il consenso delle loro altezze, ho deciso di redigere questa mia carta, per il tenore della quale ordino a tutti e a ciascun giudeo e giudea, di qualsiasi età, della detta città ed episcopato di Gerona e di tutti i suoi borghi e località e a ognuno di essi che entro la fine del mese di luglio dell’anno in corso partano e se ne vadano e fuoriescano dalla detta città e dall’episcopato e dai borghi e località di esso con tutti i loro figli e figlie, famigliari e dipendenti, e che non ritornino più in perpetuo né nell’episcopato né in parte alcuna di esso, preavvertendoli che, se non faranno così e saranno trovati nella detta città ed episcopato o entro i loro confini, procederò e ordinerò di procedere contro di loro a termini di legge. E affinché questo possa essere meglio realizzato e messo in esecuzione, esorto e supplico la Vostra illustrissima Signoria e il molto reverendo vescovo e i suoi vicari generali e funzionari e gli altri giudici ecclesiastici e comando in virtù dell’obbedienza e sotto pena di scomunica ai suddetti giudici e funzionari secolari e ai loro luogotenenti e a ciascuno scudiero e «uomo buono» della detta città di Gerona e degli altri borghi e località del detto suo episcopato e a tutti e a ciascuna persona singola così ecclesiastica come secolare, di qualunque stato e condizione [...], e a ciascun [...] che facciate osservare e mettere in pratica tutto ciò che è indicato in questa mia carta, sia in generale sia nei singoli dettagli. E se i suddetti giudei e qualcuno di loro non faranno e non metteranno in pratica quello che viene comandato da parte mia a loro entro il termine suddetto e saranno ribelli e disob-bedienti ai miei ordini entro i primi nove giorni successivi alla scadenza assegnata – giorni che fisso con le tre intimazioni canoniche e termine perentorio, dandogli tre giorni per ogni scadenza e dilazione – non dovete partecipare né comunicare pubblicamente o privatamente con i detti giudei e giudee né con nessuno di loro né li dovete accogliere nei vostri luoghi o nelle vostre case né favorirli né dargli o fargli dare sussistenza o alimenti per il loro mantenimento, né trattare con loro per comprare, vendere o scambiare o fare altre cose quali che siano. Dovete escluderli da ogni partecipazione o contatto con voi in tutte le cose, e né ora né mai né in alcun modo dovete consentire, permettere o dar modo a che qualcuno dei detti giudei e giudee, di quelli abitanti della detta città di Gerona e del suo episcopato e di tutti gli altri borghi e località come pure di quelli di qualunque altra parte, sostino o vengano o stiano in detta città e nel suo

episcopato. E facendo e comportandovi così farete ciò che è vostro dovere al servizio di Nostro Signore e a esaltazione della nostra santa fede cattolica. Ma comportandovi diversamente e facendo il contrario, una volta passato il termine di tempo, ripetute le dette ammonizioni canoniche, dichiariamo e promulghiamo ora per allora, con questa scrittura e per mezzo di essa, sentenza di scomunica maggiore contro di voi e contro ciascuno che tra voi facesse il contrario: mi riservo l’assoluzione da tale scomunica e sotto la detta pena e sentenza di scomunica ordino ai suddetti giudici e funzionari secolari della detta città ed episcopato che facciano pubblicare e bandire questa mia carta nei luoghi pubblici della suddetta città e dei borghi e località del suddetto episcopato, ogni volta che [a] questo saranno invitati e ordiniamo agli scrivani che saranno di ciò richiesti di [fornire in] forma autentica l’attestazione della [avvenuta] suddetta lettura e pubblicazione. E allo stesso modo, in virtù dell’obbedienza, comando a tutto il clero titolare di benefìci con cura d’anime di tutte le chiese della detta città ed episcopato che nei giorni di domenica e di festa, quando faranno le preghiere [«plegarías»], annuncino pubblicamente ai loro parrocchiani che i sopradetti giudei debbono andare via entro il tempo indicato e che da allora in poi non possano avere rapporti con loro sotto pena di scomunica. A testimonianza della qual cosa ordiniamo che questa carta sia data e la diamo firmata dal nostro nome e sigillata col nostro sigillo, avvalorata col nostro segreto, data nel borgo di Santa Fe, il 20 marzo, anno mille e quattrocento novantadue dalla nascita del nostro salvatore Gesù Cristo. Per mandato di sua reverenda paternità: Johannes de Revenga.

II EDITTO DI ESPULSIONE

Don Ferdinando e donna Isabella, per grazia di Dio re e regina di Castiglia, León, Aragona, Sicilia, Granada, Toledo, Valencia, Galizia, Maiorca, Siviglia, Sardegna, Cordova, Corsica, Murcia, Jaen, Algarve di Algesiras, Gibilterra, isole di Canaria, conti di Barcellona e signori di Biscaglia e di Molina, duchi di Atene e di Neopatria, conti del Rossiglione e di Sar-degna, marchesi di Oristano e di Goceano. Al principe don Giovanni, nostro carissimo e amatissimo figlio, e agli infanti, prelati, duchi, marchesi, conti, maestri degli ordini, priori, ricchi, commendatori, alcaldi dei castelli e delle fortificazioni dei nostri regni e signorie, e ai consigli, corregidori, sindaci, autorità di giustizia5, cavalieri, scudieri ufficiali, e «uomini dabbene»6 della nobilissima e realissima città di Toledo e di tutte le città e borghi e luoghi del suo arcivescovato e di tutte le altre città e borghi e luoghi dei suddetti nostri regni e signorie, e a tutti gli ebrei e a ciascuno di loro così maschi come femmine di qualunque età e a tutte le altre persone di qualsiasi legge, stato, dignità, preminenza e condizione, che possono in qualunque maniera essere interessati al contenuto di questo nostro documento: salute e grazia. Sapete bene o dovreste sapere che, essendo noi stati informati che in questi nostri regni c’erano alcuni mali cristiani che giudaizzavano e apostatavano dalla nostra santa fede cattolica e che di questo era in gran parte causa la comunicazione degli ebrei coi cristiani, nelle Cortes che facemmo nella città di Toledo nel passato anno 1480 ordinammo che i suddetti ebrei dovessero ritirarsi in posizione appartata nelle «giuderie» e nei quartieri separati in tutte le città e borghi e località dei nostri regni e signorie e qui vivessero e abitassero, contando che con questa loro separazione si ottenesse il rimedio. Inoltre abbiamo provveduto e ordinato che si facesse inquisizione nei suddetti nostri regni, la quale come sapete si è fatta e si fa da più di dodici anni, e grazie all’inquisizione si sono trovati molti colpevoli, com’è noto; e a quanto siamo stati informati dagli inquisitori e da molte altre persone, religiosi, ecclesiastici e secolari, si hanno prove evidenti del grande danno che i cristiani hanno sofferto e continuano a soffrire a causa dei rapporti di consuetudine, conversazione e comunicazione che hanno avuto e continuano ad avere con gli ebrei. E si prova che gli ebrei procurano sempre per ogni via possibile di pervertire e allontanare dalla nostra santa fede cattolica i fedeli cristiani e dividerli da lei e attirarli e pervertirli alla loro maledetta credenza e opinione, istruendoli nelle cerimonie e osservanze della loro legge, facendo incontri nei quali leggono per loro e gli insegnano quello che debbono

credere e osservare secondo la loro legge, procu-rando di circoncidere loro e i loro figli, dando loro libri dai quali imparare le loro orazioni da recitare e spiegando loro i digiuni che debbono fare e facendo incontri con loro per leggere e insegnare loro le storie della loro legge, informandoli per tempo della celebrazione della pasqua e di quello che si deve osservare e fare in tale occasione, dandogli e portandogli dalle proprie case il pane azzimo e la carne macellata ritualmente, istruendoli sulle cose che si devono nascondere per osservare la loro legge sia nel mangiare sia in altre cose e persuadendoli per quanto possono affinché osservino e adempiano la legge di Mosè, facendogli presente che non c’è altra legge né altra verità fuorché quella. E tutto questo risulta da molte dichiarazioni e confessioni sia degli stessi giudei sia di coloro che furono pervertiti e ingannati da loro, il che ha apportato gran danno e detrimento e obbrobrio alla nostra santa fede cattolica. E benché fossimo informati di questo da molte parti prima d’ora e comprendessimo che il vero rimedio a tutti questi danni e inconvenienti consisteva nell’impedire del tutto la comunicazione dei detti giudei coi cristiani e cacciarli da tutti i nostri regni, ci volemmo contentare di ordinar loro di andarsene da tutte le città e borghi e luoghi dell’Andalusia, dove sembra che avessero fatto maggior danno, credendo che questo sarebbe bastato perché quelli che abitavano le altre città e borghi e luoghi dei nostri regni e signorie cessassero di commettere le cose che abbiamo detto. E poiché siamo stati informati che né quell’ordine né le esecuzioni di giustizia, che sono state effettuate contro qualcuno dei detti giudei che erano stati scoperti molto colpevoli dei suddetti crimini e delitti contro la nostra santa fede cattolica, sono bastati come rimedio efficace per far sì che cessasse un così grande obbrobrio e offesa della fede e religione cristiana, e poiché ogni giorno si scopre e si constata che si commettono quelle colpe e sembra che i detti giudei vadano sempre più perseverando nel loro cattivo e dannato proposito nei luoghi dove vivono e hanno relazioni sociali, e affinché non vi sia modo di offendere ancor più la nostra santa fede cattolica sia in quelli che finora Dio ha voluto preservare sia in coloro che caddero e si emendarono e ritornarono alla Santa Madre Chiesa, il che potrebbe accadere per la debolezza della nostra umanità e per la suggestione del diavolo che ci fa continuamente guerra, se non si toglie la causa principale di questo col cacciare i detti giudei dai nostri regni – e questo perché quando un crimine grave e detestabile è commesso da membri di un corpo collegiale o corporazione, ciò è giusto motivo perché tale collegio o corporazione venga

sciolto e annullato e gli uni siano puniti a causa degli altri e chi è da meno a causa dei maggiorenti, e perché quelli che col loro contagio mandano in perdizione l’onesto e buon vivere delle città e dei borghi e che possono provocare la dannazione degli altri siano fatti espellere fuori delle popolazioni: e se questo è vero per ragioni meno importanti di danno allo Stato, tanto più lo è per il crimine più grande e più pericoloso e contagioso qual è questo. Pertanto noi, col consiglio e il parere di alcuni prelati e grandi e cavalieri dei nostri regni e di altre persone di scienza e coscienza del nostro Consiglio, avendo dedicato al problema una lunga deliberazione, decidiamo e ordiniamo di far partire tutti i suddetti giudei e giudee dai nostri regni e che mai più debbano tornare nei suddetti regni né in alcuno di essi. E a tale riguardo ordiniamo di promulgare questo nostro documento, col quale ordiniamo a tutti i giudei e a tutte le giudee di qualunque età siano, che vivono e abitano e stanno nei suddetti nostri regni e signorie, tanto chi ne sia nativo quanto chi non lo sia, che siano venuti e abitino in essi in qualunque maniera e per qualunque ragione, che entro la fine del mese di luglio dell’anno in corso partano da tutti i nostri regni e signorie coi loro figli e figlie e i loro dipendenti e famigliari giudei grandi e piccoli di qualunque età siano. E che non osino tornare in quei luoghi né abitarvi né viverci da nessuna parte né di passaggio né in altra maniera, sotto pena che, se non faranno così e saranno trovati nei nostri regni e signorie e ci verranno in una qualunque maniera, incorreranno nella pena di morte e confisca di tutti i loro beni a beneficio della nostra camera e fisco. E che in tale pena incorrano per il fatto stesso, senza altro processo, sentenza o dichiarazione. E ordiniamo e proibiamo che nessuna persona dei suddetti nostri regni, di qualunque stato, importanza e condizione, osi ricevere, accogliere o proteggere pubblicamente o segretamente nelle sue terre o case o in parte alcuna dei suddet-ti nostri regni e signorie uomo o donna di giudei una volta trascorso il detto ultimo dì di luglio, sotto pena di perdita di tutti i suoi beni, vassalli e fortezze e altri possedimenti, come pure di perdita di qualunque compenso ricevuto da noi per la nostra camera e fisco. E affinché i suddetti giudei e giudee possano entro la fine del detto mese di luglio disporre di sé e dei loro beni e attività, con la presente dichiarazione li prendiamo e riceviamo sotto la nostra protezione e rifugio e difesa reale e garantiamo la sicurezza loro e quella dei loro beni in modo che durante il detto tempo fino alla fine di luglio possano circolare e stare sicuri, e possano

vendere, barattare e alienare tutti i loro beni mobili e immobili e disporne liberamente e a loro piacere, e che durante il detto tempo non gli sia fatto alcun male o danno o offesa alcuna alle loro persone o ai loro beni contro giustizia, pena le sanzioni in cui incappano coloro che infrangono il nostro salvacondotto reale. E così pure diamo licenza e facoltà ai detti giudei e giudee di poter trasferire fuori dei nostri regni e signorie i loro beni e le loro attività per mare e per terra, col limite che non esportino né oro né argento né moneta corrente, né le altre cose vietate dalle leggi dei nostri regni, fatta esclusione delle mercanzie che non siano di merci vietate e delle lettere di cambio. E inoltre ordiniamo a tutti i consigli, magistrati di giustizia, corregidori, cavalieri, scudieri, funzionari e «buoni uomini» della detta città di Toledo e delle altre città e borghi e luoghi dei nostri regni e signorie e a tutti i nostri vassalli, sud-diti e nativi che osservino e facciano osservare e mandare a effetto questa nostra lettera e tutto quello che vi si contiene, e offrano e facciano dare ogni favore e aiuto che sarà necessario per questo, sotto pena di perdere il nostro favore e della confisca di tutti i loro possedimenti e uffici per conto della nostra camera e del fisco. E affinché questo giunga a conoscenza di tutti e che nessuno possa allegare ignoranza, ordiniamo che questa nostra missiva sia bandita sulle piazze e sui mercati e nei luoghi consueti della detta città e delle principali città, borghi e luoghi della sua archidiocesi da parte di un banditore e davanti a un pubblico scrivano. Gli uni e gli altri non fate né facciano niente oltre a questo in alcun modo, sotto pena di perdere il nostro favore e della privazione degli uffici e confisca dei beni a favore della nostra camera e fisco, per ciascuno di quelli che faranno il contrario di ciò che è ordinato. E di più ordiniamo a colui che vi mostrerà questa nostra missiva che vi citi a comparire davanti a noi nella nostra corte, ovunque essa si troverà, entro i quindici giorni immediatamente successivi a quello della citazione, sotto la detta pena, sotto la quale ordiniamo a ogni scrivano pubblico, che a tale scopo fosse convocato, che rilasci seduta stante a colui che vi mostri la lettera una attestazione contrassegnata con la sua sigla, affinché noi sappiamo come si esegue il nostro ordine. Data nella molto nobile città di Granada il dì 31 del mese di marzo, anno dalla nascita di nostro signor Gesù Cristo mille e quattrocentonovanta due. Io il re. Io la regina. Io Johan de Coloma segretario del re e della regina nostri signori la feci scrivere per loro ordine.

Registrata: Bernal Diaz Almaçan, cancelliere.

III [PER IL REGNO DELL’ARAGONA]

Noi, don Ferdinando, ecc, all’illustrissimo principe don Giovanni nostro carissimo e amatissimo primogenito e uni versale erede dei nostri regni e terre, salute e una paterna benedizione; e ai luogotenenti generali nostri, arcivescovi, vescovi, e altri prelati, e ai duchi, marchesi, conti, visconti, nobili, baroni e a chiunque sia signore di vassalli, e ai gover-natori, autorità di giustizia, bayles, merinos7 e a qualunque altro funzionario nostro e dei nostri regni e signorie, e delle città e borghi e luoghi e a ciascuno di loro, maggiori e minori, e alle dette città e borghi e luoghi e ai loro consigli e a tutti i sudditi e a ciascuno di loro, di qualunque condizione, stato e sesso e dignità e condizione che siano: salute e affettuosa considerazione. E alle comunità [«aljamas»] di ebrei e a ciascuna di esse e a ciascun ebreo, uomini e donne di ogni età, dei nostri regni e signorie, abitanti di qua come di là dal mare, rendiamo noto e vi facciamo sapere che siamo stati informati dai padri inquisitori dell’eresia e apostasia, che hanno sede nelle diocesi dei nostri regni e signorie, che ci sono stati molti e diversi cristiani che sono tornati o passati ai riti giudaici e a stare e vivere nella legge e superstizione giudaica, facendo le loro cerimonie e osservando quella legge fino a tornare alle abominevoli circoncisioni, bestemmiando il santo nome di Gesù Cristo nostro signore e redentore, separandosi dalla dottrina evangelica e dalla sua santissima legge e dal vero culto di essa, e che della detta eresia e apostasia sono stati causa i giudei e le giudee che nei detti nostri regni e signorie dimorano e abitano, a causa della conversazione che avevano e hanno coi detti cristiani, i quali, trascurando il timore del re, con grande studio, cura e sollecitudine li inducevano e attraevano alla detta legge

mosaica, dogmatizzando e insegnando i precetti e le cerimonie di tale legge, e inducendoli a osservare il sabato e le pasque e le feste giudaiche, ragione per cui i detti padri inquisitori di alcune città e terre nostre, col nostro consenso e la nostra volontà, cacciarono i giudei che vi stavano, giudicando che per separare i cristiani ed educarli e abituarli nella santa fede cattolica, non ci potesse essere altro rimedio, facendoci presente, a discarico del suo ufficio e della nostra coscienza, il venerabile priore di Santa Cruz, inquisitore generale dell’eretica pravità nei nostri regni e signorie, che, per estirpare del tutto la detta eresia e apostasia da tutti i suddetti nostri regni e signorie, dovremmo cacciare da lì del tutto perpetuamente e per sempre i detti giudei e giudee, affermando che una tale lebbra e tanto contagiosa non poteva essere curata se non con la detta espulsione, e che a lui per la sua carica correva l’obbligo di prendere tale provvedimento, supplicandoci af-finché gli concedessimo il nostro consenso e favore col dare ordine in tal senso. E noi, che desideriamo in modo speciale che nel tempo nostro la santa fede cattolica sia esaltata e fatta prosperare e che l’eretica pravità sia del tutto estirpata dai nostri regni e signorie, con matura e provvida deliberazione del nostro sacro Consiglio reale, ricevuta maggior informazione sulla detta suggestione perfida e diabolica dei detti giudei, di cui la nostra coscienza di re è informata e accertata con verità, constatiamo che la natura e la condizione dei giudei è, per la loro finta cecità e grande ostinazione, desiderosa e sollecita e perfino baldanzosa nel rovinare i cristiani e astuta e molto insinuante nell’attirarli alla loro giudaica perfidia, specialmente coloro che ritengono di poter sedurre più facilmente perché sono provenienti da loro. E dal momento che gli ebrei per la loro colpa sono sottomessi a servitù perpetua e sono servi e schiavi nostri e se vengono sopportati e tollerati è per nostra pietà e grazia, e, se non sono riconoscenti ma ingrati col non vivere tranquilli e comportandosi come si è detto, è cosa giustissima che perdano la nostra grazia e che, privati di essa, siano trattati da noi come eretici e fautori della detta eresia e apostasia; e che tale crimine commesso da singoli membri di un corpo collettivo è cagione che l’intera corporazione sia sciolta e cancellata e che siano puniti i meno per i più e gli uni per colpa degli altri. E oltre a ciò, in aggiunta al loro modo perverso e pervertito di vivere, constatiamo che i detti giudei divorano e fagocitano con grandissime e insopportabili usure le proprietà e le sostanze dei cristiani esercitando in modo iniquo e senza pietà la pravità usuraria pubblicamente e allo scoperto contro i detti cristiani trattandoli come nemici e ritenendoli idolatri, del che

sono giunte alle nostre orecchie gravi lamentele dei sudditi e nativi nostri, e poiché abbiamo prestato con somma diligenza attenzione alla cosa ci siamo resi conto che non si poteva porre rimedio al problema finché i detti giudei abitano in mezzo a loro. E anche se per noi sarebbe lecito e consentito punirli con pene maggiori e di più grande portata, adeguate ai detti loro comportamenti tanto malvagi e detestabili, per i quali non c’è speranza di correggerli dato il loro ostinato rifiuto della fede, tuttavia ab-biamo deciso di infliggere loro questa pena, che, per quanto sia minore di quella che meritano, riteniamo tuttavia che sia adatta perché provvede alla salvezza delle anime dei cristiani sudditi e connaturali nostri e alla loro conservazione, e per-ché la loro salvezza consiste nel separarli dalla frequentazione e comunicazione con giudei e giudee, poca o molta che sia, da cui in tutto il corso del passato è stata causata la detta eresia e apostasia e depauperamento delle proprietà dei cristiani. Se si tiene conto del fatto che i cristiani venuti ad abitare in qualche luogo debbono essere espulsi da città e borghi se sono usurai manifesti e sovvertitori del casto e onesto vivere, e che altrettanto si deve fare con coloro che possono minacciare gli altri di contagio e in altri casi di più lieve entità pertinenti alla pubblica utilità e al buon ordine civile, a maggior ragione devono essere espulsi e trasferiti in altro luogo gli infedeli usurai che seducono apertamente i cattolici e sono fautori di eretici in mezzo ai cristiani cattolici, al fine di preservare e conservare le anime dei cristiani e la religione cristiana: e questo perché togliendo l’occasione dell’errore si toglie l’er-rore. Perciò – essendo consapevoli del fatto che i corpi di tutti i giudei che dimorano nei nostri regni e signorie sono nostri e che ne possiamo disporre e decidere a nostro piacimento per il nostro potere reale e suprema potestà, facendo uso di tale potere e di tale potestà in questa materia così urgente e necessaria, conformandoci col detto padre priore inquisitore generale, favorendo il Santo Ufficio della detta Inquisizione, per l’autorità della quale il detto padre, provvedendo cat-tolicamente col nostro consenso e per nostra volontà, nelle sue lettere consiglia la detta espulsione in nome della fede e per il maggior bene delle anime, dei corpi e delle proprietà dei cristiani nostri sudditi – con questo nostro editto reale, valido in perpetuo e per sempre, ordiniamo di cacciare e cacciamo da tutti i nostri regni e signorie occidentali e orientali tutti i suddetti giudei e giudee, grandi e piccoli, che stanno e si trovano nei detti regni e signorie nostre, tanto nelle terre sottoposte al re quanto in quelle della Chiesa e nelle altre di pertinenza di qualsivoglia suddito e conterraneo nostro e in qualunque altra che si trovi nei detti regni e

signorie nostre, i quali giudei e giudee debbano e siano tenuti ad andarsene e se ne vadano da tutti i nostri regni e signorie a partire da ora fino a tutto il mese di luglio prossimo futuro, in modo che, superato il detto termine, nessun giudeo o giudea grande o piccolo, di qualunque età, non possa stare né stia in luogo alcuno dei detti regni nostri e signorie, né possano tornare in essi per starvi o passare da lì quale che sia il percorso, sotto pena di morte e di perdita dei beni a favore della nostra camera e del fisco, la quale pena sia tale da incorrervi ipso facto senza processo o dichiarazione di alcun genere. Nella stessa e identica pena incorrerà qualunque persona di qualsivoglia importanza o dignità e di qualunque stato e condizione, la quale dopo la scadenza suddetta accoglierà, terrà o offrirà ricetto nei nostri regni e signorie o in qualunque parte di essi a giudeo o giudea di qualunque età, poiché chi farà tal cosa commetterà delitto di ricettatore e fautore di eretici. Ma fino al termine di quaranta giorni a partire da quando i detti giudei e giudee saranno andati via, noi prendiamo sotto la nostra protezione e difesa gli uni e le altre e i loro beni sotto la nostra sicurtà e salvaguardia reale, in modo che nessuno osi fare loro del male o danneggiarli nelle per-sone e nei beni: chi lo farà incorrerà nel reato di violazione della nostra mallevadoria. Pertanto rendiamo noto il nostro intento a voi illustrissimo principe e figlio nostro, e diciamo, esortiamo e diamo incarico a voi, prelati ed ecclesiastici, e comandiamo a voi duchi, marchesi, conti, visconti, nobili, baroni, magistrati, sudditi e nativi nostri, affinché osserviate e facciate osservare realmente ed efficacemente il presente editto nostro in tutto quello che può concernere ciascuno di voi, guardandovi dal fare il contrario o consentire direttamente o indirettamente a che si faccia se gli ecclesiastici desiderano ottenere la nostra grazia e gli altri desiderano evitare le dette pene, ira e indignazione nostra, senza che ostino a ciò leggi, privilegi, costituzioni, usi e costumi di qualunque tipo dei nostri regni e signorie e di ciascuno di essi, che non possono riguardare ciò che è contenuto in questo nostro editto né possono ordinare o disporre cose in contrario dal momento che il citato editto è stato fatto e predisposto in favore della fede, con l’assenso e per iniziativa del Santo Ufficio dell’Inquisizione, per autorità del quale si provvede alla detta espulsione. E tenendo conto del fatto che le dette comunità [«aljamas»] di giudei e i singoli membri di esse e tutti gli altri giudei collettivamente e individualmente sono dipendenti dai cristiani, disponiamo e ordiniamo che dei loro beni mobili e immobili, diritti, titoli ed effetti si faccia ciò che è previsto in un altro nostro prov-vedimento che sarà

pubblicato in questa stessa data: cioè che vengano loro lasciati e restituiti e che se li possano portare via secondo la forma indicata nel suddetto provvedimento nostro. E affinché non si possa allegare ignoranza di ciò che si è detto sopra, ordiniamo che il contenuto dell’editto sia proclamato a voce di pubblica grida nei luoghi consueti a ciò deputati nelle città dei suddetti nostri regni e signorie. E a testimonianza della nostra volontà ordiniamo che il presente documento sia sigillato sul dorso col nostro sigillo segreto. Dato nella nostra città di Granada il 31 del mese di mar-zo l’anno dalla nascita di Nostro Signore mille quattrocento novantadue. Io il Re.

NOTE

Introduzione 1L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Roma Bari 2002, p. 26. 2G.A. Stella, Negri froci giudei & Co, Milano 2009. 1. 1492, inizio della storia moderna 1 Cronica Estense di fra’ Paolo da Lignago, ms. in Archivio di Sta to di Modena, riportato da A. di Leone Leoni, La Nazione ebraica spagnola e portoghese di Ferrara (1492-1559), t. II, Firenze 2010, p. 572. 2Cfr. A.K. Harris, From Muslim to Christian Granada. Inventing a City’s Past in Early Modern Spain, Baltimore (MD) 2007, pp. 92-106. Sulla lunga storia che così si concludeva cfr. A. Saitta, Dalla Granada mora alla Granada cattolica. Incroci e scontri di civiltà, Roma 2006 (prima ed. Roma 1968). 3Il motto è riportato come epigrafe nel volume di J.H. Elliott, The Old World and the New, 1492-1650, Cambridge 1970. 4Il giornale di bordo: libro della prima navigazione e scoperta delle Indie, Nuova Raccolta Colombiana, a cura di P.E. Taviani e C. Varela, vol. I, t. I, Roma 1988, pp. 9-11. 5Sui limiti della validità di questa definizione, cfr. A. Vanoli, La Spagna delle tre culture: ebrei, cristiani e musulmani tra storia e mito, Roma 2006. 6«Ea Iudíos, a enfardelar / que mandan los Reyes / que passeys la mar» (F. García Casar, Las comunidades judías en la corona de Castilla al tiempo de la expulsión: densidad geografica, población, in Judíos, sefarditas, conversos. La expulsión de 1492 y sus consecuencias, atti del congresso internazionale tenutosi a New York nel 1992, a cura di A. Alcalá, Valladolid 1995, pp. 21-31, in part. vedi p. 21). 7Cfr. J. Gil, Miti e utopie della scoperta, Cristoforo Colombo e il suo tempo, trad. it., Milano 1991, pp. 40-53; e per la storia dei contatti con le Canarie e le Azzorre a partire dalla metà del Trecento, cfr. D. Abulafia, La

scoperta dell’umanità. Incontri atlantici nell’età di Colom bo, trad. it., Bologna 2010, capp. 1 e 2. 8Si veda l’ampio e suggestivo quadro disegnato da Serge Gru- zinski, Les quatre parties du monde. Histoire d’une mondialisation, Paris 2004. 9Cfr. G. Miccoli, L’atteggiamento delle Chiese durante la Shoah, in Storia della Shoah, a cura di M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam ed E. Traverso, Torino 2005, vol. II, pp. 745-793; D. Kertzer, I papi contro gli ebrei. Il ruolo del Vaticano nell’ascesa dell’antisemitismo moderno, trad. it., Milano 2001 (ed. or. 2001). 10 M. Pinay, Complotto contro la Chiesa, Roma 1962, p. 4 (l’opera è consultabile presso la Biblioteca della Fondazione per le Scienze religiose di Bologna). 11 Cfr. R. Taradel, B. Raggi, La segregazione amichevole. «La Ci viltà Cattolica» e la questione ebraica 1850-1945, Roma 2000, p. 49. 12 Y.H. Yerushalmi, Assimilazione e antisemitismo razziale: i mo delli iberico e tedesco (ed. or. 1982), introduzione di D. Bidussa, trad. it., Firenze 2010. Sulla discussione che ne è seguita cfr. in ultimo i sag gi di D. Nirenberg (Was there Race before Modernity? The Example of «Jewish» Blood in Late Medieval Spain) e di R. Pochia Hsia (Religion {yz and Race: Protestant and Catholic Discourses on Jewish Conversions in the Sixteenth and Seventeenth Centuries), raccolti rispettivamente alle pp. 232-264 e 265275 di The Origins of Racism in the West, a cura di M. Eliav-Feldon, B. Isaac e J. Ziegler, Cambridge 2009. 13 Cfr. ad esempio H.A. Oberman, Würzeln des Antisemitismus. Christenangst und Judenplage im Zeitalter von Humanismus und Re formation, Berlin 1983 (seconda ed.). 14 P. Viereck, Dai Romantici a Hitler, trad. it., Torino 1948 (ed. or. 1941). Fondamentale su questo libro l’ampia discussione di D. Cantimori, La «Metapolitica», in Id., Studi di storia, Torino 1962, pp. 727-744. Su Peter Viereck e suo padre, George Sylvester, un ammira tore della Germania e di Hitler, sono utili le pagine dell’autobiografia di A.M. Schlesinger Jr., Il mio secolo americano. Ricordi di una vita. 1917-1950, trad. it., Milano 2001, pp. 291-293. 15 Cfr. Z. Bauman, Modernità e olocausto, trad. it., Bologna 1987; Id., Modernity, Racism, Extermination, in Theories of Race and Rac ism, a cura di L. Back e J. Solomos, LondonNew York 2009, pp. 277-293.

16

P.-A. Taguieff, La force du préjugé: essai sur le racisme et ses doubles, Paris 1988. 17 Si veda dello scrivente il saggio Lutero e gli ebrei, ora raccolto in Eresie e devozioni, Roma 2010, vol. III, pp. 209-254. 18 Cantimori, La «Metapolitica», cit., p. 743. 19 Cfr. M. Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Torino 2010, che ha ripreso e tradotto in ricerca storica la tesi dell’antisemitismo come tradizione fondamentale dell’Europa cristiana e postcristiana avanzata da Stefa no Levi Della Torre, Mosaico, Torino 1994, p. 92. 20 Yerushalmi, Assimilazione e antisemitismo razziale: i modelli iberico e tedesco, cit. 2. Granada 1492. Un nodo della storia del mondo 1 «Los acontecimientos de 1492, ‘annus mirabilis’ de la compleja historia de España, abrieron en el proceso de su configuración como nación y estado modernos una brecha que no se ha cerrado todavía» (Alcalà, Presentación, in Judíos, sefarditas, conversos, cit., p. 7). 2 La bolla Inter cetera di papa Borgia datata 3 maggio 1493 e le due successive bolle del 3 e 4 maggio coi privilegi e con le più preci se demarcazioni dei confini della divisione del mondo tra Spagna e Portogallo sono pubblicate in America Pontificia primi saeculi evan gelizationis, a cura di J. Metzler, Città del Vaticano 1991, vol. I, pp. 71-83. Ivi, p. 74, il rinvio alla bolla Romanus Pontifex del 18 gennaio 1455 concessa al re del Portogallo. 3 Cfr. P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 2006, cap. 1. 4 Di questa tradizione Anthony Pagden ha sottolineato il versante della tendenza inclusiva in Signori del mondo. Ideologie dell’impero in Spagna, Gran Bretagna e Francia, 1500-1800, trad. it., Bologna 2005 (ed. or. 1995). 5 Losservazione è di T Dandelet, Spanish Rome, 1500-1700, New Haven 2001. 3. Prima di Granada: alle origini dell’intolleranza 1 F. Pereda (in The Shelter of the Savage. From Valladolid to the New World, in «Medieval Encounters», 16, 2010, pp. 268-359) ha analizzato in questa chiave la popolazione di figure scolpita sulla facciata del collegio di San Gregorio, costruita tra il 1486 e il 1499, ponendola in rapporto con le

xilografie della lettera di Colombo. E vedi C. Ginzburg, Hybrids: Learning from a Gilded Beaker (Antwerp, c 1530), in Renaissance GoBetweens. Cultural Exchange in Early Modern Europe, a cura di A. Höfele e W. von Koppenfels, BerlinNew York 2005, pp. 121-138. 2 Cfr. Abulafia, La scoperta dell’umanità, cit., pp. 62-65. 3 L. Spitzer, Ratio > Race, in «The American Journal of Philo logy», 62, 2, 1941, pp. 129-143. 4 G. Contini, I più antichi esempi di «razza», in «Studi di filologia italiana», XVII, 1959, pp. 325-330. Ora raccolto in Id., Frammenti di filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica, 1932-1989, a cura di G. Breschi, Firenze 2007, vol. II, pp. 1319-1326, vedi in part. p. 1326. E vedi la voce «Razza» in Dizionario etimologico della lingua italiana, a cura di M. Cortelazzo e P. Zolli, Bologna 1985, vol. 4, pp. 1037-1038. La casistica degli usi di «razza» si è col tempo arricchita di esempi, che hanno confermato la scoperta di Contini: cfr. C. de Miramon, Noble Dogs, Noble Blood: the Invention of the Concept of Race in the Late Middle Ages, in The Origins of Racism in the West, cit., pp. 200-216. 5 Le navigazioni atlantiche del veneziano Alvise da Mosto, a cura di T. Gasparrini Leporace, Roma 1966, pp. 25-27. 6 Y.H. Yerushalmi, Le judaisme séfarade entre la croix et le croissant, in Sefardica. Essais sur l’histoire des Juifs, des marranes et des nouveauxchrétiens d’origine hispanoportugaise, Paris 1998, pp. 13-36, vedi in part. p. 13. Dal saggio di Yerushalmi riprendo anche le altre indicazioni sulla lunga storia medievale degli ebrei nella penisola iberica. 7 Il passaggio dalla memoria alla storia è al centro del saggio di Y.H. Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, trad. it., Firenze 2011 (ed. or. 1982). 8 «Non ebber battesmo / ch’è porta della fede che tu credi». Ringrazio Chiara Franceschini per aver attirato la mia attenzione su que sto passo. Da notare l’analogia tra battesimo e circoncisione come due porte, l’una della «legge vecchia» degli ebrei l’altro della «nuova» nel passo di una predica di fra’ Giordano da Pisa segnalato da Michele Barbi, «Bullettino della Società dantesca italiana», XII, 256. 9 Cfr. N. Falbel, Kidush Hashem: Crónicas hebraicas sobre las Cruzadas, São Paulo 2001, pp. 73 sgg. Si veda il volume collettivo Salvezza delle anime disciplina dei corpi. Un seminario sulla storia del battesimo, Pisa 2006.

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Così negli statuti borgognoni del 1384 ripresi in quelli cittadini del Canavese (cfr. A. Bertolotti, Passeggiate nel Canavese, vol. III, Ivrea 1873, pp. 161 e 167 sgg.). 11 C.W. Bynum, The Blood of Christ in the Later Middle Ages, in «Church History», 71, 2002, pp. 685-714. L’enfatizzazione dell’appartenenza al sangue purificante di Cristo contro i gruppi sociali dal sangue non limpio è stata interpretata come una rivoluzione del popolo cristiano spagnolo non solo contro ebrei e musulmani ma anche contro la nobiltà (G Anidjar, Lines of Blood: «Limpieza de sangre» as Political Theology, in Blood in History and Blood Histories, a cura di M. Gadebusch Bondio, Firenze 2005, pp. 119-136). 12 Cfr. A. Milhou, Colón y su mentalidad mesiánica en el ambiente franciscanista español, Valladolid 1983. 13 L ’exemplum del portatore occulto di sangue giudeo si legge nei Dotze llibre del Crestiá, II/2, Girona 1986, pp. 259-260, ed è stato segnalato da P. Evangelisti, Il bene della «res publica», la legittimità del mercato e l’«infidelitas» giudaica. Testi e discorsi francescani nel Medi terraneo bassomedievale, in Le radici storiche dell’antigiudaismo, nuove fonti e ricerche, a cura di M. Caffiero, Roma 2009, pp. 19-39, vedi in part. pp. 2223. Nella fitta bibliografia spagnola esistente in materia manca uno studio adeguato sulla circolazione dei temi antigiudiaci nei testi dei due celebri santi predicatori del Trecento spagnolo. 14 J. Pérez, Los judíos en España, Madrid 2005, pp. 130-138 (che rinvia a M.A. Sánchez Sánchez, Predicación y antisemitismo: el caso de san Vicente Ferrer, in Proyección histórica de España en sus tres culturas, a cura di L. Sanz, t. III, Salamanca 1993, che non mi è stato possibile consultare). 15 Cfr. Los Plomos del Sacromonte. Invención y tesoro, a cura di M. Barrios Aguilera e M. García Arenal, Valencia 2006. 16 Cfr. C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del Sabba, Torino 1989, pp. 5-35. Su Federico II vedi H. Houben, Federico II e gli ebrei, in «Nuova rivista storica», 85, 2001, pp. 325-346. 17 I calcoli più attenti parlano di circa 100.000 battezzati: cfr. Y. Yovel, The Other Within: The Marranos: Split Identity and Emerging Modernity, Princeton 2010 (sulle cui tesi generali però cfr. le riserve di J.H. Elliott, Modernizing the Marranos, in «The New York Review of Books», vol. 57, 11 marzo 2010).

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Il termine è di incerto e discusso significato originario: forse un insulto («porco»), forse deformazione di una voce araba (mahran, «proibito»). Cfr. la voce «Marranesimo» di C.B. Stuczynski, in Dizio nario storico dell’Inquisizione, diretto dallo scrivente con la collabo razione di V. Lavenia e J. Tedeschi, Pisa 2010, vol. II, pp. 989-997. 19 Cfr. A.A. Sicroff, Les controverses des statuts des «pureté de sang» en Espagne du XV au XVIIe siècles, Paris 1979 (cito dalla edi zione spagnola: Los statutos de limpieza de sangre. Controversias entre los siglos XV y XVII, Madrid 1985, pp. 52-56). 20 Ivi, pp. 59-60. Sull’origine teologica di un’idea razzista di co munità vedi Anidjar, Lines of Blood: «Limpieza de sangre» as Political Theology, cit. 21 Cfr. S. Pastore, voce «Espina», in Dizionario storico dell’Inqui sizione, cit., vol. II, pp. 550-552. 22 Cfr. GM. Croce, Pio VII, il cardinal Consalvi e gli ebrei (1800- 1823), in Pio VII papa benedettino nel bicentenario della sua elezione, atti del congresso storico internazionale, CesenaVenezia, 15-19 set- tembre 2000, Cesena 2002, pp. 54-58. 23 Cfr. A. Esposito, D. Quaglioni, Processi contro gli ebrei di Tren to, voll. 2, Padova 2008. 4. La conversione. Veri e falsi cristiani 1 Su questo carattere della storia delle conversioni come storia del potere ha richiamato l’attenzione Bruno Dumézil, Les racines chrétiennes de l’Europe. Conversion et liberté dans les royaumes bar-bares VeVIIIe siècle, Paris 2005. 2 San Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena 1427, a cura di C. Delcorno, Milano 1989, vol. I, p. 657. 3 Cfr. A. Saitta, Dalla Granada mora alla Granada cattolica, cit.; vedi anche H. Kamen, Spain’s Road to Empire. The Making of a World Empire 1492-1763, London 2002, pp. 18-22. Un’ampia rassegna di studi è offerta da M. GarcíaArenal, Religious Dissent and Minorities: The Morisco Age, in «The Journal of Modern Studies», a. 81, 2009, pp. 888-920. 4 Sant’Agostino, De civitate Dei, XVIII, 46. 5 «Nemo potest credere nisi velit, nemo velle nisi vocetur» (De diversis quaestionibus ad Simplicianum, PL 40). 6 J. Vives, Concilios visigóticos e hispanoromanos, Barcelona Madrid

1963, p. 257. Cfr. C. Del Valle Rodríguez, En los orígenes del problema conversos, in Tratado contra los madianitas e ismaelitas, de Juan de Torquemada, Madrid 2002, pp. 35-36. 7 Cfr. I. Iannuzzi, El poder de la palabra en el siglo XV: Fray Hernando de Talavera, Salamanca 2009, pp. 305-314. 8 Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura dell’Istituto per le ^g) Scienze religiose, Bologna 1973, pp. 483-485. 9 Cfr. M. Glatzer, Crisi de fe judía en España a fines del siglo XIV y principios del XV, in Judíos, sefarditas, conversos, cit., pp. 55-68, vedi in part. pp. 55-56. 10 Cfr. Stefania Pastore, Un’eresia spagnola: spiritualità mistica, alumbradismo e inquisizione (1449-1559), Firenze 2004. E vedi il bi lancio critico di L.A. Homza, The Merits of Distruption and Tumult: New Scholarship on Religion and Spirituality in Spain during the Six teenth Century, in «Archiv für Reformationsgeschichte», 100, 2009, pp. 212-228. 11 Cfr. F. Pereda, Las imágenes de la discordia: Política y poética de la imagen sagrada en la España del Cuatrocientos, Madrid 2007. 12 È merito di Stefania Pastore avere riscoperto questo lato della vicenda (cfr. Il vangelo e la spada. L’Inquisizione di Castiglia e i suoi critici. 14601598, Roma 2003). 13 Lo aveva sottolineato A. Sicroff, come ricordò Yerushalmi in Assimilazione e antisemitismo razziale, cit., p. 39. 14 Y. Baer, Die Juden im christlichen Spain, Berlin 1936, trad. in ebraico nel 1959, in inglese tra il 1961 e il 1966; citiamo dalla ristampa inglese, A History of the Jews in Christian Spain, Philadelphia1992. 15 «The inquisitors had usually taken pains, according to their rights to proceed in accordance with the rules of law and justice, demonstrating facts which were unquestionably correct [...]. Now, however, they began conducting a trial [...] on the basis of vilest slanders which emanated solely from the imaginations of medieval antisemites» (ivi, vol. II, p. 398). 16 F. Heymann, Morte o battesimo. Una storia dei marrani, Firenze 2007. 17 B. Netanyahu, Toward the Inquisition. Essays on Jewish and Conversos History in Late Medieval Spain, New York 1997. La de finizione di «New School», proposta da Netanyahu, distingue oggi i seguaci di questa tesi, mentre la storiografia precedente va sotto il nome di «Old School». 18 Cfr. A. Selke, Los Chuetas y la Inquisición. Vida y muerte en el ghetto

de Mallorca, Madrid 1971. 19 Cfr. L. García de Proodian, Los judíos en América. Sus activi dades en los virreinatos de Nueva Castilla y Nueva Granada, s. XVII, Madrid 1966, pp. 340-357. Sulle condizioni in cui si mantenne la religione segreta degli ebrei cfr. D.M. Gitlitz, Secrecy and Deceit. The Religion of the CriptoJews, Albuquerque 2002. Una esplorazione suggestiva di casi è l’oggetto del volume di N. Wachtel, La fede del ricordo, trad. it., Torino 2003 (ed. or. 2001). 5. La nuova Inquisizione e l’osservanza della fede 1 «Pro christianis aparentia se gerentes, ad ritus et mores iudeo rum transire vel redire et iudaice superstitionis ac perfidie dogmata et precepta servare», Bulario pontificio de la Inquisición española en su periodo constitucional (1478-1525) según los fondos del Archivo Hi stórico Nacional de Madrid. Edición crítica por el P. Bernardino Llorca S.J., Roma 1949, pp. 48-54, vedi in part. p. 51. 2 Il documento nella versione spagnola è riportato nella silloge cu- rata da M. Jiménez Monteserín, Introducción a la Inquisición española. Documentos básicos para el estudio del Santo Oficio, Madrid 1980, pp. 50-56. 3 Ivi, pp. 50-62. 4 Ivi, p. 82 (è la prima delle Ordenanzas antiguas de la Inquisición pubblicate a Granada nel 1537 e più volte ristampate). 5 Lettera del 13 maggio 1482 (Bulario pontificio de la Inquisición española, cit., p. 74). 6 B. Llorca, Prólogo a Bulario pontificio de la Inquisiciòn española, cit., p. 23. 7 Cfr. dello scrivente L’Immacolata a Siviglia e la fondazione sacra della monarchia spagnola, in «Studi storici», 47, 2, aprilegiugno 2006, pp. 481510. 8 Sicroff, Los statutos de limpieza de sangre, cit., p. 119. 9 Cfr. Monteserín, Introducción a la Inquisición española, cit., pp. 86105. 6. L’espulsione degli ebrei 1 A. Balletti, Gli Ebrei e gli Estensi, Reggio Emilia 1930, p. 76. 2 Le pagine delle sue Memorias del reinado de los Reyes Católicos sono riprese e citate da Pérez, Los judíos en España, cit., pp. 191-212 e passim. 3 Cfr. M.A. Motis Dolader, Las comunidades judías en la Corona de

Aragón en el siglo XV: demografía, in Judíos, sefarditas, conversos, cit., pp. 32-54, vedi in part. p. 33. 4 Cfr. García Casar, Las comunidades judías en la corona de Castilla al tiempo de la expulsión, cit., p. 28. 5 R. Bonfil, Italia: un triste epilogo de la expulsión de los judíos de España, in Judíos, sefarditas, conversos, cit., pp. 246-268, vedi in part. p. 247. Nella valutazione del numero dei profughi seguiamo qui l’analisi di Bonfil. 6 Bartholomei Senaregae, De rebus Genuensibus commentaria ab anno 1488 usque ad annum 1514, a cura di E. Pandiani (L.A. Mura tori, Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento,24/8), Bologna 1932, pp. 24-25. 7 Lettera al protonotario Corrado Stanga, Ferrara 20 novembre 1492 (edita da Aron di Leone Leoni, La nazione ebraica spagnola e portoghese di Ferrara (1492-1559), cit., t. II, pp. 572-573). 8 Fu ricomprato nel 1952 dalla comunità ebraica di Bayona, che espresse così la sua gratitudine alla città per l’accoglienza offerta ai profughi ebrei della persecuzione nazista discendenti dagli espulsi del 1492 (cfr. Pérez, Los judìos en España, cit., p. 192n). 9 Così risulta dalle testimonianze dei contemporanei. Cfr. M. Krie gel, La prise d’une décision: l’expulsion des juifs d’Espagne en 1492, in «Revue historique», t. 260, 1978, pp. 49-90. 10 Ivi, p. 49; cfr. l’originale in Baer, A History of the Jews in Chris tian Spain, cit., vol. II, p. 385. 11 Cfr. il testo dell’editto in Appendice. L’argomento dei prece denti tentativi fu usato da Ferdinando d’Aragona anche in altri docu- menti coevi, per esempio in uno scritto del 31 marzo 1492 indirizzato al conte di Ribadeo (Kriegel, La prise d’une décision, cit., p. 50n). E vedi Baer, A History of the Jews in Christian Spain, cit., vol. II, n. 378, p. 405. 12 Così Isabella di Castiglia in un atto del luglio 1477 (Kriegel, La prise d’une décision, cit., p. 52). 13 Cfr. Pérez, Historia de una tragedia. La expulsión de los judíos de España, Barcelona 1993, p. 110. Il racconto dell’intervento drammatico di Torquemada si legge in Luís de Páramo, De origine et progressu Officii Sanctae Inquisitionis, Madrid 1598. Cfr. la voce «Páramo» di M. Rivero Rodríguez in Dizionario storico dell’Inquisizione, cit., vol. III, pp. 1170-

1171. 7. La responsabilità delle scelte 1 Kriegel, La prise d’une décision, cit., p. 87. 2 Cfr. A. Gallego Barnes, El libro verde de Aragón. La peur de la tache, in L’individu face à la société: quelques aspects des peurs sociales dans l’Espagne du Siècle d’Or, Toulouse 1994, pp. 27-37 (ed. spagnola: «El libro verde de Aragón» o el miedo a la Mancha, in Aragón Sefarad, a cura di A. Romero Santamaría, Zaragoza 2005, vol. 1). 3 de Páramo, De origine et progressu Officii Sanctae Inquisitionis, cit., pp. 143-144. 4 Cfr. Kriegel, La prise d’une décision, cit., p. 79. Il documento è conservato nell’Archivo della Corona de Aragón ed è stato pubbli cato da R. Conde y Delgado de Molina, La expulsión de los judíos de la Corona de Aragón. Documentos para su estudio, Zaragoza 1991, pp. 197-199. Lo si riporta in Appendice in versione italiana. Il testo spagnolo è stampato in appendice al libro di Pérez, Historia de una tragedia, cit., pp. 143-146. 5 L’episodio è celebre e si trova in tutte le storie dell’Inquisizione di Spagna. Cfr. H.C. Lea, A History of the Inquistion of Spain, New York 19061908, t. I, p. 460. Maurice Kriegel (El edicto de expulsión: motivos, fines, contexto, in Judíos, sefarditas, conversos, cit., pp. 134-149, vedi in part. p. 137) ha osservato che, a differenza del caso di Trento di poco precedente (1484), in quello di La Guardia il tema centrale è quello del complotto ebraico. David Gitlitz (Las presuntas profanaciones judías del ritual cristiano en el decreto de expulsión, in Judíos, sefarditas, conversos, cit., pp. 150-169), osserva che il processo «es un caso paradigmatico de juicio político» (ivi, p. 153). 6 Così propone di definirlo Kriegel, El edicto de expulsión, cit., p. 137. 7 Ivi, p. 144. 8 Una messa a punto di questa vicenda nel volume di G Marcocci, L’invenzione di un impero. Politica e religione nel mondo portoghese (14501600), Roma 2011. 8. Gli esiti: purezza di sangue e differenze di razza 1 F. Guicciardini, Relazione di Spagna, in Id., Opere, a cura di V. De Caprariis, MilanoNapoli 1961, p. 35. 2 Cfr. il censimento della nobiltà castigliana nell’opera a cura di M.C. Quintanilla Raso, Títulos, grandes del Reino y grandeza en la sociedad

política. Fundamentos en la Castilla medieval, Madrid 2006. 3 Cfr. Pruebas para ingreso de religiosos en la Orden de Santiago. Catálogo de los expedientes y relaciones de religiosos existentes en el Archivo Histórico Nacional, a cura di A.L. Javierre Mur e M.A. Pérez Castañeda, Madrid 1976, pp. 11-12. Sull’argomento è ancora fonda mentale lo studio di Sicroff, Los statutos de limpieza de sangre, cit. Un caso speciale fu quello di Maiorca, su cui vedi E. Porqueres, Gli statuti di purezza del sangue: il caso di Maiorca, in «Quaderni storici», 85, La prova, a cura di C. Ampolo, 1994, p. 153. 4 Umanista, medico e poeta, Villalobos (1473-1549) sembra aver dovuto alla sua condizione di «converso» la perdita del posto di me dico di corte (cfr. J.I. Gutiérrez Nieto, La limpieza de sangre, in Insti tuciones de la España moderna, 2: Dogmatismo e intolerancia, a cura di E. Martínez Ruiz e M. de Pazzis Pi Corrales, Madrid 1997, pp. 33-47, vedi in part. p. 41). 5 Documenti di processi e controversie degli anni 1544-1545 sono citati da C. Civale, «Con secreto y disimulación». Inquisizione ed eresia nella Siviglia del secolo XVI, Napoli 2007, p. 97. 6 Cfr. F. Zonabend, La mémoire longue. Temps et histoire au vil lage, Paris 1980. 7 B. Cuart Moner, La ciudad escucha, la ciudad decide. Informacio nes de linajes en los colegios mayores durante el s. XVI, in J.I. Fortea Pérez, Imagenes de la diversidad. El mundo urbano en la Corona de Castilla (ss. XViXVII), Santander 1997, pp. 391-419, vedi in part. p. 410. Cfr. anche de Miramon, Noble Dogs, Noble Blood, cit. 8 Cfr. V. Infantes, Luceros y tizones: biografía nobiliaria y venganza política en el Siglo de Oro, in «Crotalón. Anuario de Filologìa españo la», 1, 1984, pp. 115-127. 9 La prima edizione a stampa venne pubblicata nel 1929 (El libro verde de Aragón. Documentos aragoneses publicados por Isidro de las Cajigas, Madrid s.a.). Sui manoscritti rimasti e sulla vicenda del testo cfr. Gallego Barnes, El libro verde de Aragón, cit. 10 Cfr. dello scrivente L’Inquisizione romana e gli ebrei, in L’Inquisizione e gli ebrei in Italia, a cura di M. Luzzati, RomaBari 1994, p. 82. 11 Fino a «veintiseis años de investigaciones», secondo Encarna Maria Jarque Martinez (Los procesos de limpieza de sangre en la Zaragoza de la edad moderna, Zaragoza 1983, p. 9) che intitola il primo ca pitolo del suo

censimento dei processi ancora conservati La obsessión de la pureza de sangre. Cfr. R. López Vela, Limpieza de sangre. Spagna, in Dizionario storico dell’Inquisizione, cit., vol. II, pp. 913-916. 12 Sulla laboriosità delle probanzas, cfr. lo studio di B. Cuart Moner, Papeles de colegiales. Los expedientes «de vita et moribus» de los colegiales mayores salmantinos del siglo XVI, in Universidades hispánicas: Colegios y conventos universitarios en la edad moderna, a cura di L.E. Rodríguez San Pedro Bezares e J.L. Polo Rodríguez, in «Miscelánea Alfonso IX», 2008, pp. 15-73. E per quanto riguarda il collegio spagnolo di Bologna cfr. Id., Colegiales mayores y limpieza de sangre durante la Edad Moderna. El estatuto de S. Clemente de Bolonia (ss. XV-XIX), Salamanca 1991. 13 Così osserva R. López Vela nella voce «Inquisizione spagnola», in Dizionario storico dell’Inquisizione, cit., vol. II, pp. 827-845. 14 Sicroff, Los statutos de limpieza de sangre, cit., p. 259. 15 Cfr. J. de FigueroaRego, Limpieza de sangre. Portogallo, in Di zionario storico dell’Inquisizione, cit., vol. II, pp. 910-913. 16 Tractatus bipartitus de puritate et nobilitate probanda, pubblica to a Lione nel 1633. Cfr. su di lui Sicroff, Los statutos de limpieza de sangre, cit., pp. 262 sgg. 17 Così in un trattato di fra’ Gerónimo de la Cruz, stampato a Saragozza nel 1637 (cfr. ivi, pp. 276-277). 18 Cfr. A. de la Torre, L. Suárez Fernández, Documentos referentes a las relaciones con Portugal, Valladolid 1958-1963, vol. 7, 8, 11, t. III, pp. 1-7, doc. 467, e pp. 12-15, doc. 470. Idd., La expulsión de los judíos de España, Madrid 1991. 19 Cfr. J. Amador de los Rios, Historia social política y religiosa de los judíos de España y Portugal, Madrid 1960, e F. Soyer, The Persecu tion of the Jews and Muslims of Portugal. King Manuel and the End of Religious Tolerance (1496-7), LeidenBoston 2007. 20 Cfr. G. Marcocci, «Per capillos adductos ad pillam». Il dibattito cinquecentesco sulla validità del battesimo forzato degli ebrei in Portogallo (1496-1497), in Salvezza delle anime disciplina dei corpi. Un seminario sulla storia del battesimo, Pisa 2006, pp. 339-423. 21 Yerushalmi parla di stereotipi caratteristici della mentalità dei cristiani «nuovi» (Le massacre de Lisbonne, in Id., Sefardica, cit., p. 115). 22 Cfr. A.J. Saraiva, The Marrano Factory. The Portuguese Inquisi tion

and Its New Christians 1536-1765, LeidenBostonKöln 2001, pp. 116-122. 9. Eredità lunghe 1 Così nel frammento di progetto del 1513 (edito da H. Jedin, Vincenzo Quirini und Pietro Bembo, in Id., Kirche des Glaubens Kir- che der Geschichte, Freiburg 1966, vol. I, pp. 153-166, vedi in part. p. 166). 2 Libellus ad Leonem X, in GB. Mittarelli, A. Costadoni, Annales Camaldulenses, Venetiis 1773, coll. 621-625. Cfr. dello scrivente La Chiesa e gli ebrei nell’Italia del ’500, in Ebraismo e antiebraismo: immagine e pregiudizio, Firenze 1989, pp. 171-183. 3 Yerushalmi, Assimilazione e antisemitismo razziale, cit., pp. 46-47. Alla discussione che ne è seguita è dedicato un saggio analitico molto ricco di D. Nirenberg (Was there Race before Modernity?, in The Origins of Racism in the West, cit., p. 261) che si conclude con l’invito a scavare ancora intorno a questo problema: «more works need to be done». 4 G.B. De Luca, Theatrum veritatis et iustitiae, lib. XIV, Venezia apud Paulum Balleonum 1706, disc. XXXXIV. 5 Cfr. A. Devyver, Le sang épuré. Les préjugés de race chez les gen tilshommes français de l’Ancien Régime (1560-1720), Bruxelles 1973, p. 104. 6 Cfr. G. Rigano, Note sull’antisemitismo in Italia prima del 1938, in «Storiografia», 12, 2008, pp. 215-267. L’interesse giovanile di M. Heidegger per P. Abraham a Sancta Clara è stato sottolineato da Vic tor Farias, Heidegger e il nazismo, Torino 1988. Sul caso italiano cfr. I. Pavan, L’impossibile rigenerazione. Ostilità antiebraiche nell’Italia liberale (18731913), in «Storia e problemi contemporanei», 50, gen naio 2009, pp. 35-63. 7 P.E. Rosa S.I., La questione giudaica e «La Civiltà Cattolica», in «La Civiltà Cattolica», 89, 1938, IV, pp. 3-16, vedi in part. p. 4. 8 Che è l’appunto da muovere al pur ricco dossier raccolto nel volume The Origins of Racism in the West, cit. 9 Cfr. M. Battini, Il socialismo degli imbecilli, Torino 2010. Per concludere: un protagonista 1 Niccolò Machiavelli, Il principe, cap. XVIII (cfr. Niccolò Ma chiavelli, Opere, a cura di C. Vivanti, vol. I, Torino 1997, p. 167). Qui il nome è taciuto prudentemente, ma il profilo è stato generalmente riconosciuto come quello del personaggio di Ferdinando d’Aragona. 2 Machiavelli, Il principe, cap. XXI (ivi, pp. 179-180). 3 «El mismo Dios aventajadamente se le pagó, limpiando estos reinos de

toda fealtad e inmundicia de falsas sectas, y conservándolos hasta ahora en la entereza y puridad de la fe católica, y en justicia y en paz, y dándoles otros reinos, y descubriendo por su mano un nuevo mundo, con tantos y tan grandes tesoros y riquezas, que es uno de los mayores milagros que le ha habido en él» (P. de Ribadeneyra, La religión y virtudes que debe tener el príncipe cristiano para gobernar y conservar sus estados, contra lo que Nicolás Maquiavelo y los políticos deste tiempo enseñan, in Id., Obras escogidas, a cura di D. Vicente de la Fuente, vol. 60, Madrid 1919, p. 481a). Appendice 1 Bayle è un sindaco o giudice locale, come l’alcalde in Castiglia. 2 Figura di sovrintendente con poteri giudiziari. 3 I paeres sono autorità amministrative minori. 4 L ’alguazil ha poteri giudiziari e di polizia. 5 Il testo indica accanto agli alguaziles anche i merinos, altra figura con poteri giudiziari: sono coloro che hanno la titolarità di una giuri sdizione regia superiore, di carattere territoriale. 6 Categoria di cittadini dotati di status particolare e privilegiato. 7 Per il bayle vedi sopra, nota 1; per i merinos vedi sopra, nota 5.

I libri del Festival della Mente Guido Barbujani, Pietro Cheli Sono razzista, ma sto cercando di smettere Edoardo Boncinelli Come nascono le idee Gustavo Pietropolli Charmet Fragile e spavaldo. Ritratto dell'adolescente di oggi Toni Servillo, Gianfranco Capitta Interpretazione e creatività Alessandro Barbero Benedette guerre. Crociate e jihad Stefano Bartezzaghi L'elmo di don Chisciotte. Contro la mitologia della creatività Franck Maubert Conversazione con Francis Bacon Eva Cantarella “Sopporta, cuore...” La scelta di Ulisse Salvatore Natoli L'edificazione di sé. Istruzioni sulla vita interiore Pietro Zoja Centauri. Mito e violenza maschile Ludovica Lumer, Semir Zeki La bella e la bestia: arte e neuroscienze

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Copertina Frontespizio Dedica Introduzione IL SEME DELL’INTOLLERANZA. Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492 Parte prima Alle origini dell’antisemitismo 1. 1492, inizio della storia moderna 2. Granada 1492. Un nodo della storia del mondo 3. Prima di granada: alle origini dell’intolleranza Parte seconda La persuasione, il controllo, il sospetto 4. La conversione. veri e falsi cristiani 5. La nuova inquisizione e l’osservanza della fede 6. L’espulsione degli ebrei Parte terza Il potere della fede, la fede del potere 7. La Responsabilità delle scelte 8. Gli esiti: purezza di sangue e differenze di razza 9. Eredità lunghe Per concludere: un protagonista Appendice I. Disposizioni per il vescovo di Gerona dell’Inquisitore generale Torquemada (20 marzo 1492) II. Editto di espulsione III. [Per il regno dell’Aragona] Note

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