Il Santuario della Dea Mefitis a Rossano di Vaglio. Una rilettura degli aspetti archeologici e culturali 9788896171905, 9788886820646

Uno dei siti archeologici più importanti della Basilicata è raccontato attraverso il lavoro degli esperti che negli anni

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Il Santuario della Dea Mefitis a Rossano di Vaglio. Una rilettura degli aspetti archeologici e culturali
 9788896171905, 9788886820646

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ANTONELLA ANDRISANI

Santuario Dea Mefitis Rossano Vaglio

una rilettura degli aspetti archeologici e cultuali

i saggisti

ANTONELLA ANDRISANI

Santuario Dea Mefitis Rossano Vaglio

una rilettura degli aspetti archeologici e cultuali

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ISBN: 9788896171905 Altrimedia Edizioni è un marchio di Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

INTRODUZIONE Il lavoro di ricerca presentato in queste pagine nasce come tesi di laurea dell’A.A. 2004/2005, nell’ambito del Corso di Laurea di I° livello in Operatore dei Beni Culturali, istituito presso l’Università degli Studi della Basilicata. La scelta, certo impegnativa, di confrontarsi con uno tra i maggiori e più straordinari monumenti della lucania antica, non fu casuale. La vicenda archeologica del santuario della dea Mefitis a Rossano di Vaglio inizia intorno alla metà degli anni ‘60. Scoperto da Dinu Adamesteanu, il sito, noto nella letteratura archeologica fin dall’Ottocento per le rilevanti scoperte effettuate è fatto oggetto di numerose campagne di scavo, condotte a più riprese nel secolo scorso, e protrattesi poi fino a pochi anni fa. Oggi, dopo anni di intense indagini e una quantità straordinaria di scoperte, frutto dell’enorme lavoro di ‘dissodamento’ (in senso metaforico e non) svolto dalla ricerca archeologica a quasi quarant’anni di distanza dalla sua prima scoperta, Rossano di Vaglio non ha cessato di suscitare interrogativi. L’eccezionale mole di dati restituita dallo scavo del grande santuario lucano1 potrebbe costituire una valida base e un interessante punto di partenza per uno studio più approfondito del culto e per una puntuale analisi delle sue dinamiche.2 Tuttavia, su Rossano di Vaglio non è fino a ora esistita una pubblicazione complessiva e generale. Il sito è stato indagato in modo solo parziale. Non è stato ancora avviato lo studio dei materiali, e in particolare del materiale rinvenuto nel corso delle più recenti indagini nel santuario - non ancora analizzato, esso attende “accuratamente pulito, restaurato e sistemato per classi [...] uno studio cronologico e tipologico più approfondito”.3 A ciò si aggiunga il fatto che lo scavo è stato condotto, almeno in un momento iniziale della ricerca, senza utilizzare metodologie stratigrafiche. Sono apparsi alcuni contributi, spesso sintetici, importanti per l’aggiorna4

mento delle conoscenze, ma per loro stessa natura limitati. Vi è quindi stata una perdita informazioni che non ha sempre permesso un approfondimento critico dei problemi emersi nel corso dello scavo e che non ha consentito una puntuale analisi delle dinamiche cultuali legate a Mefitis. In tempi recenti si sono certo verificati molti nuovi fatti di rilievo: successo di grandi mostre e dei relativi cataloghi, convegni e congressi di studi, visitatori sempre più numerosi di musei e aree archeologiche. Segnali importanti, indizio della sempre maggiore attenzione e del crescente interesse che enti e istituzioni stanno dedicando alle culture dei popoli italici e all’affascinante passato della regione lucana, alla conoscenza del mondo indigeno e, in particolare, dei fenomeni religiosi e culturali a esso legati. “[...] L’archivio della terra conserva ancora i suoi documenti: la loro lettura è appena cominciata, e il programma è ancora tutto da sviluppare”. 4 Proprio dalla riflessione, attualissima, di Dinu Adamesteanu, vuol prendere quindi ‘simbolicamente’ le mosse questo lavoro. A lui, Adamesteanu, “patriarca”5 dell’archeologia lucana e primo scopritore del santuario di Rossano di Vaglio, va il grande e indiscutibile merito di aver reso finalmente possibile una più attenta ed efficace azione non solo di ricerca, ma anche di salvaguardia e di valorizzazione dell’immenso patrimonio archeologico lucano.6 Questa attività, intensissima, di indagine e studio condotta negli anni Settanta-Ottanta in Basilicata è stata il grande motore di tutta la ricerca storica e archeologica successiva nella nostra regione. Fino ad oggi l’impegno delle istituzioni è riuscito, negli ultimi anni, a concretizzarsi finalmente in una più efficace opera di promozione e di coordinamento, con l’intenzione di favorire opportune aggregazioni attorno alle tematiche di maggiore importanza, e al tempo stesso di coprire, il più ampiamente possibile, i diversi settori della ricerca, “che sta restituendo in maniera sempre più evidente una serie di complessi di grande significato”7. Così la ricerca sul territorio cresce nel territorio creando occasioni di cultura e soprattutto suscitando consapevolezza. È possibile oggi tentare una rilettura degli aspetti archeologici e cultuali del santuario lucano di Macchia di Rossano di Vaglio. Questo, in sintesi, il filo rosso che percorre le pagine di questo volume. Di proposito, si è cercato di fornire essenzialmente dati e accen5

nare a problemi connessi con questi dati, non trascurando le questioni incerte: in questi casi, a una soluzione di comodo - forse più brillante - si è preferito riportare l’opinione corrente o lasciare il dubbio, con il chiaro intento di coinvolgere direttamente il lettore, il quale, dati alla mano, può anche elaborare nuove ipotesi di lavoro. Gli studi di Adamesteanu e i più vicini contributi sulle recenti campagne di scavo condotte nel santuario hanno costituito il fondamentale punto di riferimento di questa analisi. Partendo da essi, e dal materiale bibliografico reperito, si è proceduto innanzitutto a una ‘ri-organizzazione’ e ‘sistematizzazione’ dei dati, attraverso la raccolta e sintesi dei lavori pubblicati relativi all’argomento specifico, con l’obiettivo di definire preliminarmente un quadro aggiornato e completo, e offrirne una panoramica degli studi condotti. Nella seconda parte del lavoro si è inteso, invece, attraverso una ricognizione dei dati archeologici disponibili e il loro confronto con le fonti letterarie e l’epigrafia del santuario lucano, approfondire gli aspetti del culto di Mefitis, tentando di chiarire caratteristiche, funzioni e identità della dea. Sono stati, inoltre, contestualmente analizzati i materiali provenienti dallo scavo del grande santuario lucano quelli pubblicati, naturalmente - allo scopo di evidenziare contenuti e valenze simboliche che possano fornire ulteriori dati per la comprensione del culto. Nella sezione conclusiva si sono invece ridiscussi e analizzati i dati presentati nei capitoli precedenti. Questa volta con l’intento di sollevare quesiti e fornire - se possibile - nuovi spunti di riflessione. Si è cercato, in particolare, di riflettere sull’uso dello spazio sacro e sul rapporto tra spazio architettonico e rito, considerando lo stesso spazio - come efficacemente suggerito da M. L. Nava e M. Osanna8 “sistema interrelato di funzioni e significati”, nel tentativo di “definire lo sfondo rituale e cultuale che rende significativi oggetti e strutture”. Sono stati in particolare analizzati i complessi apprestamenti idraulici del santuario, i sistemi di vasche e canalette, e la loro connessione con gli ambienti del santuario stesso, allo scopo di gettar luce sul funzionamento dell’area sacra e sulla natura delle pratiche cultuali che in essa dovevano svolgersi. Si è tentato, infine, di affrontare la complessa questione della cronologia e delle differenti fasi di vita del santua6

rio, ancora per molti aspetti oscure, riflettendo inoltre sul problema della particolarissima natura “politica” del santuario di Rossano di Vaglio, sulla sua presunta funzione di santuario “federale” dell’ethnos lucano, e dunque sulla questione della “romanizzazione” del santuario e delle trasformazioni non solo politiche, ma anche architettoniche e cultuali indotte nello spazio sacro. Il lavoro, di taglio evidentemente accademico, ha dovuto confrontarsi con le esigenze più propriamente “editoriali” di un testo che voglia rivolgersi a un pubblico eterogeneo di lettori. In questo caso, di lettori-non-archeologi. Con un’informazione il più possibile attenta e precisa, e soprattutto chiara, così come richiedono le regole della buona comunicazione. Il processo complessivo della scienza archeologica mette in relazione una fitta rete di interventi, che parte dallo scavo e dalla ricerca sul campo per giungere infine alla pubblicazione scientifica, o all’esposizione nelle vetrine di un museo dei materiali rinvenuti. Questo percorso rischia tuttavia di restare un circolo chiuso in se stesso se è carente la volontà di mediare la conoscenza di quegli oggetti, non sempre così facili da capire, da parte di coloro che accolgono nei propri musei i “beni” che la terra e il territorio hanno conservato e, più in generale, da parte degli addetti ai lavori. Ogni archeologo dovrebbe cercare di essere anche un buon comunicatore. E comunicare correttamente equivale sostanzialmente a divulgare. In proposito mi piace qui riportare uno stralcio del provocatorio articolo pubblicato nel gennaio 2006 sulla rivista “Archeo” da Umberto Broccoli.9 Prendendo spunto dalle didascalie dei musei (ma il discorso potrebbe essere esteso ai testi in genere) Broccoli divaga con leggerezza sul linguaggio utilizzato dagli esperti di archeologia e fa un elenco, al limite del risibile, di utilizzi di termini specialistici, chiari forse solo ad altri archeologi ma oscuri ai più, rendendo la fruizione dei musei o delle pubblicazioni solo parzialmente comprensibile e, quindi, noiosa, e insistendo dunque sulla imprescindibile necessità per un archeologo di saper comunicare: “Ci si annoia perché non si gioca, volendo dare al gioco il valore di primo gradino del sapere. Il bambino gioca per scoprire il mondo, e chi visita un museo non ha le conoscenze degli esperti, degli specialisti: chi visita un museo è, quindi, come un bambino. Dovrebbe poter toccare gli oggetti, 7

sentirne gli odori, vederli collocati in ricostruzioni di ambienti. Dovrebbe poter riprovare, almeno in parte, le sensazioni vissute dai nostri antenati, ai quali sono serviti quegli oggetti, oggi imbalsamati nelle vetrine. E, invece, sotto quegli oggetti, trionfano le didascalie. Le didascalie: armi improprie degli archeologi (come di tutti gli altri specialisti) in grado di far passare ogni voglia al visitatore. Le didascalie: termini derivati dal greco, dal latino e, probabilmente, mai usati come tali da chi adoperava quegli oggetti nel mondo antico. Ma messe là, come mine antiuomo, non so con quale funzione se non quella di far sfoggio di cultura specialistica, senza raggiungere minimamente l’obiettivo di ogni museo: introdurre il bambino/visitatore e il visitatore/bambino alla conoscenza materiale del mondo antico. E il bambino/visitatore (cosi come il visitatore/bambino), se non si indispettisce, si sente come in un reliquiario: parla a bassa voce, si stupisce, ammira, fa fìnta di godere della vista di quegli oggetti. Tutte reazioni eccessive, ben lontane dalla curiosità di chi vorrebbe immaginare la vita quotidiana di uomini come noi vissuti millenni or sono. Il visitatore/bambino ha la sensazione di trovarsi di fronte a un mondo popolato di scultori, pittori, artigiani con il pensiero rivolto costantemente al cielo. Perché quegli uomini antichi, se non scolpivano e dipingevano, pregavano gli dèi alzando le loro braccia al cielo, con gesti enfatici ed enfatizzati dalle loro tuniche. Gli archeologi sanno bene che la vita quotidiana dell’uomo di ieri non era così”. Se, con Barker, intendiamo l’archeologia non semplicemente come studio del monumento o dell’oggetto “archeologico”, ma come studio “del rapporto tra le persone e l’ambiente nell’antichità, e dei rapporti tra la gente nel contesto dell’ambiente in cui abitava”, allora la comunicazione mirerà a instaurare un terzo rapporto, d’altronde implicito: quello tra abitanti di un territorio e storia della genesi del paesaggio. L’augurio che faccio - da autrice e da archeologa - a questo libro è proprio quello di riuscire a incuriosire il lettore, appassionarlo, coinvolgerlo. Instillargli più che semplice senso di meraviglia o di stupore di fronte a un frammento di ceramica a vernice nera o alla bellezza delle statuette femminili in terracotta restituite così generosamente dalla terra del santuario. Un ringraziamento va a tutti coloro che hanno reso possibile questa pubblicazione. Essa deve gratitudine, in modo molto diverso, a 8

diverse persone, ed è in qualche modo la significazione dell’amore che provo per un luogo che ha rappresentato il punto di inizio dei miei studi e al quale mi sento inevitabilmente legata. Agli amici dell’ Ass. Culturale “Bali” di Vaglio di Basilicata, per l’affetto e la partecipazione con cui hanno seguito il mio lavoro in questi mesi. A Gabriella, per il continuo incoraggiamento. Alla mia famiglia e a Domenico. I miei insostituibili compagni di viaggio.

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STORIA DEGLI STUDI Gli scavi I primi ritrovamenti La presenza di un complesso monumentale nella contrada Madonna di Rossano, a Macchia di Rossano (o semplicemente Rossano), nel territorio di Vaglio di Basilicata, è nota fin dall’Ottocento. Nella letteratura archeologica la località è conosciuta per il recupero di materiali già dal 1790, quando compare in relazione al ritrovamento di un candelabro in bronzo, in seguito acquisito dal Reale Museo Borbonico di Napoli. Le prime notizie certe su Rossano di Vaglio si devono però ad Andrea Lombardi, storico locale, che in un suo studio del 1832 descrive la presenza, in località denominata “Pantano”, di strutture, “acquedotti” e resti di muri e menziona inoltre il rinvenimento di oggetti in bronzo. Nel 1882, altre preziose informazioni sono fornite dal Fiorelli il quale, senza aver visitato direttamente la zona, riporta una notizia avuta da Michele Lacava circa il ritrovamento, nell’area della Masseria Milano, di “avanzi di un pubblico edificio, forse un tempio […] tra i ruderi delle fabbriche” e “pezzi di antefisse che potrebbero aver appartenuto al tempio”. Dice inoltre che “nella medesima Masseria Milano si conservano alcune iscrizioni”.10 Nel 1891, lo stesso Michele Lacava in un suo lavoro su Metaponto, cita due iscrizioni11 e altri documenti epigrafici inseriti nei muri di alcune strutture moderne. Costruito su un falsopiano del versante orientale del monte Macchia di Rossano, al centro di un bosco di querce, il santuario sorge nel cuore del grande complesso montagnoso comprendente una serie di alture rocciose intorno ai 950-1000 metri s.l.m. che abbraccia tutta la zona a nord e a est di Vaglio di Basilicata.12 Un tempo, e fino al secolo scorso, tutta l’area era ricchissima di boschi, ora quasi del tutto scomparsi (fatta eccezione per alcune piccole aree), lasciando il posto a una 10

vegetazione sparsa a macchia mediterranea, formata da erbe e bassi arbusti, da cui, appunto, il nome di “Macchia” di Rossano. Le aree coltivate sono piccole e scarse, a causa della elevata pietrosità del terreno, caratterizzato in alcuni punti dall’affiorare di rocce calcaree molto dure. La principale caratteristica dell’area è data però dalla presenza di sorgenti. Il nome stesso della località, “Pantano”, che si ritrova nella letteratura ottocentesca, rimanda alla presenza di fonti o pozze d’acqua. La più grande e importante delle sorgenti è detta “Acqua della Madonna”, pochi chilometri a monte dell’area di Pantano. Un’altra grossa sorgente si trova accanto a una delle vecchie fattorie Danzi. Ma altre ancora sono sparse in tutta la zona, nell’area delle Masserie Milano, che delimitano l’estremità meridionale del complesso. Ovunque si possono osservare resti di fontane, canalizzazioni e vecchi abbeveratoi abbandonati. La vicenda archeologica di Rossano di Vaglio ha inizio alla fine degli anni ‘50. Già da alcuni anni Francesco Ranaldi, allora direttore del Museo Provinciale di Potenza, aveva avviato una serie di scavi in località Serra, nell’agro di Vaglio, in seguito all’individuazione di blocchi di una imponente fortificazione che racchiudeva resti edifici antichi. Grande impulso alla ricerca e allo studio fu dato, dopo l’istituzione della Soprintendenza alle Antichità della Basilicata, nel 1964, da Dinu Adamesteanu il quale, intuendo le enormi potenzialità del sito, concentrò risorse e mezzi dando inizio a una serie di campagne sistematiche protrattesi, in modo sia pure discontinuo, fino a pochi anni fa. Lo stesso Dinu Adamesteanu aveva iniziato, dal 1962, a studiare il problema della viabilità intorno a Serra di Vaglio, attirato in particolare dalla presenza, a nord est dell’abitato, di un grande incrocio viario. Un contributo essenziale in tal senso fu dato dalla fotografia aerea, disciplina nuova comparsa negli anni immediatamente precedenti alla seconda guerra mondiale. Alla fine degli anni ’50, proprio Adamesteanu era stato il fondatore e direttore dell’Aerofototeca Nazionale con l’obiettivo di applicare all’archeologia le tecniche aero-fotografiche, realizzando riprese aeree allo scopo di creare una nuova cartografia archeologica. Proprio dallo studio delle fotografie aeree del Volo Base del 1954, riguardanti l’area compresa tra Serra di Vaglio, Carpine di Cancellara, Oppido Lucano, Tolve e Civita di Tricarico, emergeva chiaramente come intorno a Rossano di Vaglio si radunassero o si dipartis11

sero tutte le antiche vie, mulattiere, tratturi colleganti dall’interno i centri indigeni menzionati. Un punto, quindi, particolarmente significativo a livello topografico, in corrispondenza della viabilità principale del territorio e al centro di una fitta rete di percorsi antichi convergenti da diversi centri lucani.13 Nel frattempo Rossano era stata completamente dimenticata. “Pantone di Milano”, “Macchia di Rossano”, “Madonna di Rossano”, “casa del cantore Danzi”, “Fattoria Milano” erano ormai nomi quasi del tutto sconosciuti. Pochi ricordavano ancora queste denominazioni. Nel 1964, ecco che però il nome di Rossano di Vaglio ritorna, con una succinta notizia, in un lavoro collettivo sulla Basilicata pubblicato dal Ranaldi.14 In circostanze non del tutto chiare compaiono anche due iscrizioni: la prima, con dedica a [μ]εfιτηι καποροιννα[ι] (RV-06) scoperta dallo stesso Ranaldi nel 1962. Un’altra iscrizione (RV-05) con dedica a Fενζηι . μεf […] era stata rinvenuta già nel 1925 e poi dimenticata. Nel 1967 Michel Lejeune, che aveva già raccolto bibliografia su Rossano e avviato uno studio riprendendo l’intero gruppo di epigrafi provenienti dalla zona di Vaglio e dalla vicina Potentia, riaccende l’interesse intorno a Rossano di Vaglio intervenendo sulla questione. Compare infatti uno studio dello stesso Lejeune in cui l’iscrizione RV-06, con dedica a Mefiti Caporoinnai è considerata proveniente da Rossano.15 Stessa provenienza è supposta dal Lejeune anche per l’iscrizione RV-05, con dedica a Venus-Mefitis, la cui datazione è fissata al II sec. a.C. Dopo una discussione piuttosto vivace tra M. Lejeune, D. Adamesteanu e M. Napoli, allora Sovrintendente alle Antichità di Basilicata, durante il VII Convegno di Studi sulla Magna Grecia a Taranto, nell’inverno 1968-69 una ricognizione effettuata a Rossano consente il recupero, nella proprietà degli eredi Milano, in località “Pantano”, proprio di un frammento della stessa iscrizione RV-05 che aveva originato il dibattito. Campagna di scavi 1969-1986 (1992) Nel 1969 la Sovrintendenza alle Antichità di Basilicata decide l’avvio di una prima campagna di scavi a Macchia di Rossano. I lavori si protraggono, con numerose interruzioni e in modo discontinuo, a cau12

sa della scarsità dei fondi a disposizione, in gran parte utilizzati per il restauro delle strutture messe in luce,16 fino al 1986, sotto la direzione di Dinu Adamesteanu ed Helmtraut Dilthey, e sono conclusi, infine, nel 1992 con la pubblicazione di un Rapporto Preliminare curato dagli stessi Adamesteanu e Dilthey.17 Compaiono contemporaneamente gli studi di M. Lejeune sull’epigrafia di Rossano di Vaglio.18 Se le ricognizioni dell’inverno 1968-69 avevano interessato tutta la zona di Macchia di Rossano, le indagini si concentrano ora nell’area di proprietà della famiglia Milano.19 Lo scavo poneva subito una serie di problemi, da un lato derivanti dal prolungato stato di abbandono del sito, lasciato all’incuria ed esposto a distruzioni e saccheggi, dall’altro connessi con le particolari condizioni geologiche e ambientali dello stesso, caratterizzato dalla presenza di argille, tendenzialmente instabili a contatto con l’acqua. Fenomeni franosi e di dissesto, dovuti all’incremento (data l’abbondante presenza di acque e sorgenti nella zona) di apporto idrico localizzato nell’area di culto hanno interessato a più riprese il santuario, in epoca antica e anche più recente,20 con conseguenze più che evidenti: muri sconvolti, spostati o abbattuti, piani di calpestio anch’essi sconvolti. All’inizio dei lavori l’intera area si presentava coperta da un enorme cumulo di pietre e di macerie e in stato di avanzata distruzione: oltre a essere stata tormentata per lunghi periodi da lavori agricoli la stessa era stata utilizzata per almeno sessant’anni come cava di pietra, per la ricerca di blocchi per la costruzione di recinti e nuove case coloniche sorte accanto alle vecchie case Milano. Blocchi lavorati e ben squadrati, provenienti certamente da edifici antichi, erano sparsi qua e là. Frammenti di vasi, di statuette, pezzi di antefisse fittili, embrici, frammenti di grandi tegole di copertura, capitelli e frammenti di colonne, addirittura qualche moneta affioravano, disseminati sul terreno, attirando gli occhi degli scavatori di frodo.21 Gli scavi consentono di portare in luce e di conoscere la planimetria generale di quello che si considerava essere il vero nucleo del santuario originario.22 Il complesso occupa un’area di dimensioni circa m 200x200 e si struttura intorno a un grande “piazzale” di forma rettangolare (m 37 13

x 21) accessibile sul lato NO attraverso un largo ingresso (largo m 6), leggermente decentrato rispetto al piazzale e più spostato verso O. I muri perimetrali dell’entrata presentano fondazioni in pietrame grosso, con alzato costruito con blocchi evidentemente riadoperati. Molti mostrano tracce di perni laterali per l’infissione di oggetti votivi. Lo stesso lato NO del piazzale è delimitato verso il sagrato da un muro, che assume l’aspetto di un vero e proprio temenos, costruito con due tipi diversi di pietra: mentre la parte orientale risulta costruita esclusivamente con blocchetti di pietra arenaria (anche se l’alzato si presentava, al momento del rinvenimento, parzialmente distrutto per la caduta di tre filari di blocchi), quasi tutti riadoperati, in quella occidentale gli ultimi due filari in pietra arenaria poggiano su un primo filare di blocchi squadrati in pietra calcarea, accuratamente lavorati. Sono inseriti nel muro, come elementi di costruzione, anche alcuni frammenti di iscrizioni, databili entro la fine del II sec. a.C. È da notare ancora che i blocchetti di arenaria del temenos mostrano segni di cava, non presenti invece sui blocchi in pietra calcarea. Gli stessi segni di cava, recanti talvolta lettere dell’alfabeto greco, sono stati rintracciati anche sui blocchi di fondazione, sempre in pietra arenaria, del grande monumento, interpretato da Adamesteanu come altare, di forma rettangolare (m 27,5 x 4,50) che occupa in lunghezza quasi tutto il lato SE del piazzale. Due le ipotesi possibili: l’intero muro di temenos é stato costruito o ricostruito con materiale riadoperato, ed é quindi databile a una fase posteriore della vita del santuario, oppure ha subito parziali rifacimenti o una risistemazione, almeno nel suo tratto occidentale, da ricollegarsi, secondo Adamesteanu, ai vari rifacimenti del sagrato e alla ristrutturazione dell’amb. IV nella sua fase più recente, fissata dallo stesso Adamesteanu al I sec. d.C. Il grande altare risulta diviso in due parti di diversa lunghezza: quella orientale di dimensioni m 16,73 4,50, quella occidentale m 10,52 con larghezza costante di m 4,50. Sotto un blocco del muro divisorio tra le due parti dell’altare era depositata, una spada in ferro lunga c.a. cm 40. Dell’alzato dell’altare poco o nulla si è conservato. I blocchi di arenaria che ne definiscono il perimetro sono peraltro stati riposizionati nel corso dei lavori di restauro eseguiti nel santuario negli anni ’80. Intorno all’altare si estende il sagrato, caratterizzato da una pavi14

mentazione in grandi lastroni irregolari in pietra calcarea durissima, di colore biancastro. Le testate delle lastre di pavimentazione del sagrato appaiono nettamente interrotte alla linea alla base del monumento, e si allineano perfettamente ai blocchi di fondazione dell’altare. Se ne deduce la preesistenza dell’altare rispetto al sagrato, mentre le due parti dell’altare sarebbero invece, secondo Adamesteanu, contemporanee. Esso risultava dunque diviso già in antico.23 La parte orientale dell’altare risulta costruita su terreno vergine, come anche la parte di sagrato tra l’altare stesso e il muro dell’amb. II. La parte occidentale, invece (che si presentava, al momento del rinvenimento, come la più distrutta e quasi priva di blocchi sui lati, sebbene la forma risultasse visibile grazie all’allineamento delle lastre calcaree della pavimentazione del sagrato), è costruita su terreno di riporto o appartenente - secondo Adamesteanu - a qualche fase anteriore, di cui però non abbiamo tracce. Da questa zona proviene l’iscrizione RV-28, menzionante la dedica di “statue bronzee dei re”, databile alla fine del II sec. a.C. Sotto la pavimentazione in calcare furono rinvenuti resti di un precedente pavimento in arenaria. È possibile che il primo tipo di pietra utilizzato nel complesso sia stato proprio l’arenaria tenera. L’altare apparterrebbe secondo Adamesteanu proprio a questa fase più antica del complesso. Anche le più antiche iscrizioni rinvenute, databili tra la fine del IV e l’inizio del III sec. a C. risultano realizzate in arenaria, pietra che si trova frequentemente utilizzata anche negli abitati indigeni della zona (Serra di Vaglio, Torretta di Pietragalla ecc.).24 Ai due lati dell’entrata, sono intagliati nei lastroni calcarei della pavimentazione due semicerchi collegati tra loro da una canaletta, anche questa intagliata nel calcare, che prosegue in direzione NE attraversando diagonalmente il sagrato. L’acqua vi doveva arrivare attraverso canali e grondaie leonine25 (di cui sono stati recuperati diversi frammenti) da una sorgente situata a poca distanza o forse da una vasca di raccolta, a sua volta però collegata, mediante una serie di piccole canalette e tubi fittili, ad una sorgente. Resti di questi tubi fittili (aventi diametro 6-8 cm) sono stati rintracciati in vari punti nell’area a N e NO del complesso. L’inclinazione attuale che il monumento presenta va da SE a NO, e risulta esattamente opposta a quella indicata dai canali di scolo e dalle cloache (da SO a NE) che riversavano l’acqua sul pendio. La nuova situazione è stata evidentemente determinata 15

da frane che hanno, come si è detto, interessato, a più riprese e anche in tempi più recenti, il santuario. Risulta ben evidente come il monumento abbia subito una serie di spinte che hanno completamente falsato i livelli originali del terreno su cui esso era impostato.26 Il sagrato mostra una forte distorsione del piano di calpestio che annulla completamente la funzione delle canalette che lo attraversano. Anche i due ambienti situati sul lato E del santuario sono stati visibilmente danneggiati dalla frana, soprattutto sul lato N, dove i muri appaiono distorti e in parte abbattuti. Durante gli scavi si dovette effettuare una bonifica della parte N del complesso, ove ristagnava abbondante acqua, forse, per la presenza di una sorgente sul lato NO del santuario. È stata questa sorgente, forse, la causa dell’ultima grande frana che ha investito il santuario. È possibile però, come si è accennato, che questa “sorgente” sia in realtà una semplice raccolta di acqua proveniente, attraverso un sistema di canali, dalla grande e vera sorgente situata vicino alla chiesetta della Madonna di Rossano, a circa 1 Km dal santuario: un canale sotterraneo, costituito da tubi fittili collegati maschio-femmina del diametro di cm 9 circa, collegante il santuario con la chiesetta della Madonna di Rossano posta più a monte fu individuato nel corso degli scavi nell’area a NO del complesso. In prossimità dell’angolo N dell’altare la canaletta piega leggermente verso est a gomito per aggirare l’ingombro dell’altare stesso e termina nell’angolo del sagrato immettendosi in una cloaca. Proprio il gomito della canaletta in prossimità dell’altare, e il fatto che la stessa sia intagliata nella pavimentazione calcarea del sagrato indicherebbe ancora, secondo Adamesteanu, la priorità dell’altare rispetto al sagrato e una preesistenza dello stesso al momento della realizzazione della nuova pavimentazione in pietra calcarea, la quale risulta quindi essere un rifacimento successivo.27 Questi due differenti momenti di costruzione sembrerebbero confermati anche dalla presenza di due cloache parzialmente sovrapposte. Quella inferiore, larga m 0.35, presenta fondo coperto di tegole, fianchi costruiti in pietrame irregolare legato con malta terrosa e copertura in lastre di pietra, probabilmente corrispondente alla fase più antica del monumento. Quella superiore, più larga (m 0.55) costruita a volta con fondo in pietra. Come si vede, la cloaca oblitera parzialmente il muro est dell’ambiente III e “risulterebbe costruita al momento in cui si è realizzato il sagrato con la pietra du16

rissima dell’ultima fase”.28 Un altro canale segue il perimetro del sagrato sul lato opposto, fiancheggiando l’amb. IV, poi piegando a 90° e seguendo il muro che separa l’amb. II dal piazzale, per poi immettersi anch’esso nella cloaca, nell’angolo E dello stesso. È probabile che questo canale fosse utilizzato per la raccolta e lo scolo delle acque piovane.29 Anch’esso è costruito con fondo in pietra durissima tagliata in lastre rettangolari. Nell’angolo O del sagrato, si nota una base in pietra calcarea, piuttosto grande (m 2,50 x 1). A essa dovevano essere pertinenti le due iscrizioni RV-17/42 ed RV-18 trovate nelle vicinanze e incise nella stessa pietra calcarea. Si tratta di due iscrizioni in lingua osca e caratteri greci, databili all’inizio del II sec. a.C. Davanti all’ambiente IV furono rinvenuti resti di quattro capitelli in pietra durissima, frammenti di architrave dello stesso amb. IV, uno dei quali recante l’iscrizione RV-22 menzionante Acerronius e Mefitis, frammenti di una colonna votiva, un elemento architettonico in pietra arenaria. Proprio in quest’area lo scavo consentì di individuare e mettere in luce resti dei due sagrati parzialmente sovrapposti. Nel sagrato inferiore era infatti inserita una base a forma di capitello in pietra tufacea, probabilmente il supporto di un donario. Poco oltre, inglobati nella gradinata che precede l’amb. IV verso il piazzale, due tronchi di colonne, anch’essi in pietra tufacea. Uno dei due era affiancato dall’iscrizione RV-33 con dedica a Mamertius e Mefitis. La colonna, appartenente ad una fase più antica, era stata - secondo quanto ipotizzato da Adamesteanu - “rispettata” nei rifacimenti successivi, come si nota dai blocchi della gradinata che la affiancano, seguendo la sua forma rotonda. L’altro tronco di colonna appariva invece poggiato su una base, la cui faccia superiore reca incisa l’iscrizione RV-52, una delle più importanti, nella quale è detto che “le terre e le acque sono della Mefitis”. Entrambe le iscrizioni appartengono al gruppo più antico, databili, con le colonne, alla seconda metà del IV sec. a.C. Quattro ambienti si dispongono intorno al grande piazzale pavimentato. Il lato S del complesso è chiuso da due ambienti, denominati I e II, giunti a noi in uno stato di avanzata distruzione, soprattutto a causa di una grande frana che ha sconvolto il santuario, oltre che per i numerosi scavi di frodo subiti. I muri sono costruiti tutti con la stessa tecnica: pietre spezzate irregolarmente e blocchetti di diverse dimensioni. Si trovano anche frammenti di tegole ed embrici. Sono utilizza17

te malte diverse, indice dei numerosi rifacimenti subiti. Di forma rettangolare, i due ambienti presentano approssimativamente le stesse dimensioni (m 6x46). I muri dei lati lunghi appaiono deformati e risultavano al momento del rinvenimento parzialmente distrutti a causa delle spinte della frana, soprattutto nella parte E. Qui solo le fondazioni hanno resistito perché poggiavano su un terreno solido, argilloso, di colore rossiccio. Nella parte O, invece, come si è detto, i muri stanno su terreno di riporto. L’ambiente II fiancheggia il piazzale e si presenta come un unico grande vano. Sono visibili solo poveri resti di divisioni interne e un muro, spostato e spezzato, nella sua parte NE. Il muro che lo separa dal piazzale doveva presentare - secondo Adamesteanu - un particolare rivestimento con lastre in pietra dura, poco spesse, alcune con forma a spiovente. Non è chiaro se queste lastre dalla forma particolare siano state create appositamente oppure se si tratti di elementi riutilizzati, forse coperture di muri più bassi o di canali. Nella fondazione del muro, nella parte sud, furono rinvenuti resti di antefisse gorgoniche di tipo benigno, ed un blocco squadrato, simile a quello dell’iscrizione RV-28, proveniente proprio da questa zona e datata alla fine del II sec. a.C., probabilmente attribuibili ad un monumento precedente. Anche nel muro divisorio tra gli ambienti I e II è riadoperata l’iscrizione RV-51, anch’essa databile al II a.C. Si tratterebbe, come nel caso del muro del temenos, di rifacimenti e modifiche attribuibili all’ultima ricostruzione del santuario, da collocarsi, secondo Adamesteanu, nella prima metà del I sec. d.C. Il muro SO dell’amb. II è particolare invece per la tecnica costruttiva: nella parte inferiore risulta costruito con blocchi di forma irregolare, mentre nella parte superiore si presenta simile a tutti gli altri muri. Lo scavo dell’amb. II poté restituire abbondante materiale fittile (frammenti di grandi statue in terracotta, frammenti di statue di animali) ed elementi architettonici. In particolare, nei livelli superiori del riempimento furono rinvenuti numerosi frammenti di blocchi squadrati in pietra calcarea, sostituiti nei livelli più profondi da elementi in pietra arenaria. Dall’amb. II proviene anche un capitello in pietra arenaria, purtroppo molto danneggiato, alcuni frammenti di panneggio di bronzo e un torso in marmo, oltre ad alcuni esemplari di punte di 18

lancia in ferro e monete. Sempre dall’amb. II, infine, provengono (oltre alla già menzionata RV-51) alcuni frammenti di iscrizioni, tra cui in particolare RV-35 con dedica a Nymelios, Mamartius e Mefitis, databile alla seconda metà del IV sec. a.C. Anche qui sono presenti forti tracce di bruciato. Appoggiata al muro SO dell’amb. II fu inoltre rinvenuta, rovesciata su un basamento in pietra formato da blocchi irregolari, una delle rare iscrizioni latine del santuario, RV-38, purtroppo molto danneggiata, databile alla fine dell’età repubblicana. L’amb. I si presenta invece diviso in sette vani di differenti dimensioni.30 Il muro esterno appare rinforzato, verso il pendio, da una serie di speroni di lunghezza diversa e diversamente distanziati. L’intervallo è minore quando si tratta, evidentemente, di pareggiare dislivelli maggiori del terreno. È probabile che anche alcuni dei muri interni avessero funzione di sostegno. Sul pendio, verso S, un breve tratto di muro, parallelo al muro S dell’amb. I, scende verso il burrone dove furono individuati i resti di una scalinata.31 Sul terreno, al momento del rinvenimento, erano ancora visibili numerosi frammenti di tegole. Nelle vicinanze dello stesso muro, fu trovata una piccola area con forte bruciato con ossa di volatili e vasi miniaturistici. Non fu possibile individuare accessi ai diversi ambienti o livelli pavimentali. Solo l’ultimo ambiente, verso S, sembrerebbe dare un’idea di possibile piano di calpestio con i resti di una canaletta coperta da lastre che lo taglia trasversalmente. Il materiale rinvenuto nei diversi vani risultava costituito da numerosi frammenti di statuette femminili, con rari esemplari integri, frammenti di antefisse, di vasi acromi, poca vernice nera, thymiateria, vari oggetti in bronzo e ferro tra cui fibule, cinturoni, elmi ed una cospicua quantità di monete di diversissima provenienza. Numerosi anche chiodi e uncini di ferro, appartenenti, secondo Adamesteanu, alle strutture lignee degli alzati: in tutti i vani è possibile riscontrare la presenza di un forte bruciato, che indicherebbe come il legno, oltre alla pietra, fosse largamente utilizzato per l’alzato dei muri. Sia nell’amb. I che nell’amb. II furono rinvenuti abbondanti resti di tegole ed embrici, segno che i vani erano coperti, forse con un unico tetto. Entrambi conservavano inoltre tracce di incendio.

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Secondo l’ipotesi di H. Dilthey, i piccoli vani dell’amb. I, forse costruito in un secondo momento, potevano essere utilizzati come negozi per la vendita di oggetti ai fedeli. L’amb. II, invece, privo di suddivisioni interne, doveva avere funzione di deposito votivo.32 Sul lato NE il piazzale è chiuso da un altro ambiente (amb. III), di forma rettangolare, avente dimensioni m 22 x 6,50. L’accesso avveniva tramite uno stretto ingresso (m 0.90) situato sul lato O dell’ambiente verso il piazzale, molto spostato verso N. Allo stipite N della porta è addossata una semicolonna in mattoni. Nel corso dello scavo, sia all’esterno che all’interno del muro che separa l’amb. III dal sagrato furono rinvenuti i resti di sei capitelli in pietra calcarea dura e vari frammenti di elementi architettonici con forma a spioventi (simili a quelli che dovevano costituire il rivestimento esterno del muro dell’amb. II verso il piazzale), sempre in calcare. I capitelli trovati all’esterno risultavano molto danneggiati. All’interno, adiacenti allo stesso muro, sono sei basamenti quadrati aventi lato di circa m 0.60, non allineati con la semicolonna della porta. Data la presenza, all’interno dell’ambiente, dei capitelli e di numerosi frammenti di laterizi e tegole, è ipotizzabile che su queste basi si innalzassero colonne in mattoni, sormontate da capitelli. Queste dovevano raggiungere secondo Adamesteanu un’altezza di m 3-3.50. I pochi blocchetti e la scarsa quantità di malta ritrovati invece sia all’interno dell’ambiente che all’esterno, nello spazio tra muro ed altare, fanno supporre che il muro divisorio dovesse raggiungere un’altezza massima di circa m 1-1.50, sistemazione, questa, frequente per i peristili pompeiani. L’ambiente, dunque, chiuso verso l’esterno a N ed O, doveva invece “affacciarsi” verso il piazzale, lasciando libera la vista alle azioni rituali che si svolgevano intorno allo stesso.33 Secondo l’iniziale ipotesi di Adamesteanu è possibile che questa nuova sistemazione dell’amb. III vada riferita a una trasformazione dello stesso verificatasi in età Repubblicana, forse alla fine della Repubblica, trasformazione che ha rialzato anche il piano del pavimento di circa 20 cm.34 Sul fondo dell’amb. III furono rinvenuti i resti di un basamento, presumibilmente a forma di “T” 35 quasi completamente distrutto, in linea con il grande altare del sagrato. Il basamento è realizzato in 8 blocchi squadrati e lavorati in calcare, simili a quelli in cui sono intagliati i capitelli e i blocchi del muro O del temenos, uniti con robuste 20

grappe in ferro. Se i blocchi sono stati lavorati dalla stessa equipe basamento, muro di temenos e capitelli potrebbero appartenere alla stessa epoca. Il monumento sarebbe databile alla seconda fase dell’amb. III, dato che la sua fondazione poggia sul pavimento Repubblicano. Un interessante frammento architettonico a zampa leonina con artigli, trovato all’esterno dell’ambiente, verso E, sarebbe da mettere in rapporto con lo stesso basamento. Sempre dall’esterno dell’amb. III proviene la parte inferiore di una testa femminile in bronzo. Intorno al basamento furono invece rinvenuti, come negli ambienti II e IV, numerosi oggetti in bronzo, frammenti di panneggio femminile ed un ramo di lauro, sempre in bronzo, forse pertinenti a una statua di culto della divinità (Mefitis?) sistemata, secondo l’ipotesi di Adamesteanu, nello stesso amb. III.36 Va sottolineato, tuttavia, come la scarsa quantità di materiale ed il ristretto numero di ex-voto rinvenuti nell’ambiente37 possa suggerire per lo stesso una diversa funzione, forse - secondo l’ipotesi di H. Dilthey - come sala di raduno per i fedeli.38 Il fatto che, a differenza di quanto verificato per altre aree del santuario, non siano state qui rinvenute antefisse, fa supporre che l’ambiente fosse privo di copertura. Interessanti sono inoltre due iscrizioni in lingua osca e caratteri greci, entrambe dediche private, provenienti dall’ingresso dell’ambiente, RV-11 databile all’inizio del III a.C. ed RV-12, ritrovata appoggiata al muro N dell’ambiente, risalente a fine IV sec. a.C.39 L’amb. III è il meglio conservato dell’intero complesso. I muri sono ben allineati e non hanno risentito, come invece negli amb. I e II del movimento franoso. La tecnica costruttiva è la stessa utilizzata per gli altri edifici del complesso: pietre spezzate irregolari legate con malta terrosa di colore giallastro, ma con minore impiego di tegole ed embrici. Le fondazioni scendono, dal battuto, fino a m 1.70 di profondità, indicando una certa cura nella costruzione. Un canale fiancheggia i lati NO e NE dell’ambiente, seguendone il perimetro per versare le sue acque nella cloaca superiore. L’ultima fase di vita del santuario sarebbe infine riconoscibile, secondo Adamesteanu, nell’ambiente IV che chiude il lato occidentale del sagrato. Di qui provengono numerosi frammenti di iscrizioni in caratteri latini, tra cui in particolare RV-22 che attesta lavori di restauro o costruzione nel santuario e menzionante un personaggio di nome Acerronius, oltre che frammenti di tegole (RV-14, RV-15, RV21

16) in lingua osca e caratteri latini. Proprio la presenza dell’iscrizione, rinvenuta sul piazzale accanto all’amb. IV, consentirebbe secondo la Dilthey di ipotizzare la funzione dello stesso come stoà monumentale verso il sacello della divinità.40 Anche questo ambiente presenta forma rettangolare con dimensioni simili a quelle dell’amb. III. Esternamente, il piazzale è separato dall’ambiente IV da una gradinata. Questa appariva, al momento del rinvenimento, parzialmente distrutta sul lato E, il più colpito dal movimento di frana. Ancora intatta, invece, la parte sprofondata verso NO, perché coperta dalla terra della frana. La gradinata doveva essere preceduta da sei colonne laterizie, di cui sono stati rinvenuti i resti, erette direttamente sui blocchi come su un basamento unitario. Davanti a ogni colonna, era una base sagomata, costituita da un blocco unico, che doveva servire a sorreggere statue o qualcos’altro. Una semicolonna, come nell’amb. III è inserita nel muro NO dell’edificio. Ad E due tronchi di colonne tufacee sono inseriti nella gradinata. Su questo lato del sagrato è possibile osservare un cambiamento nella struttura della pavimentazione: i blocchi sono sistemati con maggiore regolarità a creare una linea più regolare. All’inizio dello scavo l’interno dell’ambiente si presentava coperto da un enorme mucchio di pietre, tegole, blocchi ammassati. L’impressione era - secondo quanto riportato da Adamesteanu - che lo stesso fosse stato usato come scarico di ogni sorta di materiale rinvenuto nei dintorni. In questo cumulo di pietrame sono stati rinvenuti numerosi frammenti di statuette fittili, soprattutto femminili, busti e “maschere” (IV-III a.C.), frammenti di lastre marmoree con resti di iscrizioni latine, basi sagomate, intere o frammentarie, accuratamente lavorate, pietre irregolari provenienti dal crollo dei muri, intonaco, tegole, nonché l torso di un telamone (altri frammenti a esso pertinenti sono stati rinvenuti nel corso dello scavo dell’amb. IV), frammenti di tre statue in marmo del II a.C., frammenti di ceramica e thymiateria (bruciaprofumi), frammenti in bronzo, monete. La struttura è simile a quella degli amb. I, II e III del complesso. I muri sono costruiti con grande accuratezza. La tecnica è la stessa utilizzata per gli altri ambienti del complesso, anche se qui i muri si presentano più spessi e robusti. L’accesso all’ambiente doveva avvenire tramite una monumentale porta larga m 2.50 che si apre verso l’esterno, sul lato SO dell’ambiente. La soglia è ben lavorata. La fon22

dazione del muro, fino all’altezza della risega, è in spezzoni irregolari legati da malta farinosa di colore giallastro. Dalla porta, verso O, il muro poggia su roccia naturale. Verso E, invece, su terreno di riporto. L’alzato è in pietre tagliate a forma di dente con testa quadrangolare. Gli stipiti sono realizzati invece con una tecnica particolare, con blocchetti e grosse tegole. Nell’area tra la gradinata e la porta, nella parte O dell’ambiente, pure interessata da un forte sprofondamento di m 0.90 verso O a causa della frana, è ancora in parte conservato un pavimento in opus signinum. Sul muro NO dell’ambiente un grande basamento quadrato addossato alla parete è inserito in questo tipo di pavimento. Al di sotto fu possibile però individuare un altro livello pavimentale, precedente, in tegole disposte a “coltello” (opus spicatum). Nella parte est dell’amb. IV il pavimento in opus signinum non è conservato se non in modo frammentario. È ipotizzabile che la grande quantità di blocchi rinvenuti in questo punto sia servita per una probabile ultima pavimentazione oggi totalmente distrutta. Infine, sotto il livello delle fondazioni della gradinata fu rinvenuto un filare di blocchi di arenaria, ancora oggi visibili, coperti da un forte strato di bruciato. Poiché la sistemazione risulta simile a quella dell’altare, potrebbe trattarsi per Adamesteanu di resti di un precedente monumento distrutto da un incendio, relativo alle fasi di vita più antiche del santuario. Estremamente complicato lo scavo della parte E dell’ambiente IV, a causa dei forti dislivelli dello strato archeologico, che scendeva fino a circa 2 m di profondità. Un’immensa “cavità”, dunque, riempita completamente di macerie. Il dislivello continua anche all’esterno dell’ambiente, verso S, riempito però maggiormente con terra mista a malta friabile e poco materiale votivo.41 Si tratta forse dello scolo naturale di una sorgente o di una fontana, ricoperta in un secondo momento con questo enorme riempimento.42 Dalla “cavità” è emersa un’enorme mole di materiale: oltre ad alcuni esemplari di statue femminili (acefale) in marmo e il torso di un Erote (che costituiscono il più grande gruppo di statue in marmo scoperto in Basilicata), una ruota di carro in ferro, piedi di tripodi in ferro e bronzo, armi, elmi, schinieri, frammenti di una testa femminile in bronzo, fibule, monete, un orecchino e uno statere di Alessandro Magno, entrambi in oro. Lungo la fondazione del muro O 43 in uno spazio di circa m 0.50-0.70 sono state rinvenute alcune lucerne molto frammentate, databili alla 23

prima età imperiale. Dato che la sistemazione sembra intenzionale, si potrebbe trattare di una forma di thysia da riferirsi, secondo Adamesteanu, all’ultima grande ricostruzione del santuario e risistemazione dell’amb. IV nella prima metà del I sec. d.C. Quattro ulteriori piccoli ambienti (amb. V, VI, VII ed VIII) furono inoltre messi in luce nel corso dello scavo sul lato meridionale del complesso, come “agganciati” alle strutture analizzate,44 ma solo parzialmente esplorati. Degli amb. VI, VII ed VIII conosciamo solo l’estensione. Visibile, però, all’interno dell’amb. VIII, un tronco di muro che taglia diagonalmente l’ambiente, e che pare non essere in alcun rapporto con le strutture circostanti, forse residuo di qualche edificio pertinente a una fase precedente del santuario e dunque “conferma di quanto profondamente Acerronius o chi per lui abbia cancellato i monumenti precedenti”.45 L’ambiente V, invece, si presenta particolarmente interessante per il rinvenimento di resti di una pavimentazione particolarmente elegante formata da rombi in pietra calcarea durissima divisi da sottili lastrine in pietra di colore blu. Nella parte NE dell’ambiente il muro presenta una sistemazione particolare: in questo punto, il muro dell’amb, IV, fiancheggiante la “cavità” di cui si è parlato, poggia, come si è detto, sulla roccia a una profondità di 2 m. Il muro dell’amb. V, riguardante lo stesso lato, a esso parallelo, sta invece su terreno di riporto meno profondo. In questo muro fu possibile osservare una sistemazione simile a una nicchia o un basamento, forse destinato a ospitare una statua di dimensioni inferiori al naturale.46 Non convince Adamesteanu la prima ipotesi della Dilthey che proprio l’amb. V debba essere identificato con il sacello della divinità ospitante la statua di culto della dea Mefitis.47 La stessa Dilthey segnala il rinvenimento, all’interno dell’amb. V, di un frammento di colonna scanalata con una lettera Θ sotto la quale è leggibile un I 48, simili ad RV-33.49 Il testo potrebbe forse essere ricostruito come “μεfιτ-....??” e segnalare, quindi, nel luogo, la “presenza” della dea o di una divinità comunque ad essa legata, probabilmente Mamerte. Per Adamesteanu si tratterebbe invece di “ambienti minori”, le cui funzioni e caratteristiche sarebbero tuttavia “ancora da chiarire con lo scavo”,50 relativi all’“ultima fase di vita del santuario”, come confermato dalla presenza di frammenti di stucchi decorati ed il massiccio riu24

so di elementi architettonici in arenaria. In particolare, all’esterno dell’ambiente IV, verso S, un canale recinge l’edificio, fiancheggiando anche il lato NO degli amb. V e VI e proseguendo infine in direzione SE. Il canale sembrerebbe interamente realizzato con blocchi riadoperati (arenaria, blocchi lavorati, frammenti architettonici). Uno di questi reca un’iscrizione (RV-56). Pare anche che il canale fosse ricoperto per tutta la sua lunghezza da lastre rettangolari. Sul lato SO e fino alla porta di accesso dell’amb. IV, la canaletta è inoltre affiancata esternamente da un muro (che gira anche sul lato NO dell’edificio) sistemato poi a livello della canaletta stessa. Proprio dall’angolo NO dell’edificio provengono due grondaie fittili, una con testa leonina e l’altra a tubo. Altro reperto interessante, proveniente dall’angolo E dell’edificio (nel punto in cui la canaletta piega a 90° fiancheggiando gli amb. V e VI): si tratta di una lastra di buona lavorazione, sistemata a terra, dotata di tre fessure di drenaggio. In corrispondenza del gomito si notano due sistemazioni diverse della canaletta: quella fiancheggiante l’amb IV, costruita con blocchi riadoperati e quella che segue l’esterno del muro degli amb. V e VI, assai diversa, realizzata con pietre spezzate e malta e coperta da grossi blocchi di arenaria. Dallo scavo nell’area all’esterno dell’amb. IV, oltre il canale, sul lato SO, proviene una cospicua quantità di oggetti, soprattutto metallici (armi, morsi di cavallo in ferro), numerosi frammenti di intonaco e stucchi (alcuni con tracce di colore), antefisse. Sulla presenza di “altri monumenti minori sorti intorno al santuario”, citati da Adamesteanu e da H. Dilthey nelle varie pubblicazioni inerenti lo scavo del santuario di Rossano, non possiamo conoscere molto. Non solo risulta impossibile, infatti, rilevare l’esatta ubicazione delle strutture menzionate, non essendo infatti le stesse indicate nelle piante di scavo pubblicate.51 Le notizie si trovano disperse su testi differenti, le descrizioni e le notazioni spaziali risultano assai vaghe e confuse, al punto che è apparso difficile, talvolta, confrontando testi differenti, riuscire a capire se si stesse parlando delle medesime strutture o invece di monumenti differenti. Ci limiteremo, pertanto, prudentemente, a una semplice “elencazione”: - “grande vasca”, situata “nella zona ad O del complesso messo in luce”;52 25

- “basolato, identico al sagrato [...] a N del monumento”, al momento “non toccabile per ragioni geomorfologiche”;53 - “breve tratto di muro”, allineato con il muro S dell’amb. I, rintracciato “sul pendio verso il burrone”, in direzione SE. Nelle vicinanze sono visibili i resti di una scalinata, forse facente parte del complesso antico.54 La presenza nell’area di frammenti di tegole farebbe supporre la presenza di altri edifici e strutture pertinenti al santuario. Nelle sue vicinanze, un piccolo “mucchietto di bruciato, mescolato con resti di ossicini di volatili e qualche vaso miniaturistico”;55 - “nell’angolo NO del muro di recinzione del santuario”, area avente diametro m 1.50, caratterizzata dalla presenza di terra bruciata. Rinvenuto “un grande numero di oggetti in argento dorato” (cinture dorate, foglie, fili, oggetti di ornamento, peraltro di alto valore artistico) e frammenti in bronzo (panneggi, dita di statue), pertinenti al culto della dea Mefitis, forse oggetti di preda o acquisti fatti sul mercato delle colonie greche della costa per essere donati alla divinità di Rossano;56 - nell’angolo SO, all’esterno dell’amb. IV, strato denso di cenere, mescolato con pochi frammenti in bronzo, ossa di volatili, e frammenti di c.c. combusti. Forse “resti di un altare con cenere, una volta situato a monte”;57 - “più a monte, verso NE [...] a circa 100 m ad oriente del santuario”, edificio costruito in blocchi di arenaria, con tre condotte d’acqua in tubi fittili, non sembra avere un collegamento diretto con il santuario vero e proprio. Forse luogo d’incontro per festeggiamenti o edificio di abitazione per gruppi di fedeli, pur mancando muri divisori. Data la presenza di tubi che giungono fino al monumento esso potrebbe più plausibilmente essere interpretato come una fontana o una cisterna;58 - non localizzabile con esattezza, sempre “fuori dall’area principale, verso N-NO” un altro monumento, forse un recinto,59 costruito con grossi blocchi di pietra e pavimento sempre in pietra, di dimensioni m 2,50x12. La copertura doveva essere in tegole. Almeno 3 diversi tubi fittili portavano da N acqua al monumento. Più a monte dell’edificio poteva trovarsi una fontana, o una vasca coperta, come suggerito dal rinvenimento di alcuni resti di tegole e antefisse di tipo gorgonico benigno, in numero troppo esiguo per poter essere riferiti a un edificio. L’ambiente presenta tracce di incendio ed è riempito di frammenti di c.c. (brocche, scodelloni, grandi piatti). Manca quasi del tutto la cera26

mica verniciata, statuette e thymiateria, assai numerosi nel complesso centrale. Grandi quantità di ossa (quadrupedi, più o meno grandi) sono state rinvenute nell’ambiente. Interessante la presenza di una certa quantità di frutti di mare e tra questi la purpurea, usata per la tintura rossa della lana.60 Campagna di scavi 1998-1999 Dopo anni di interruzione, una nuova campagna di scavo nel santuario di Macchia di Rossano è stata condotta dalla Sovrintendenza Archeologica della Basilicata a partire dal settembre 1998, sotto la direzione di Elvira Pica e la collaborazione delle Dott.sse Anna Sartoris (scavo 1998) e Angela De Paola (scavo 1999). Parte dei risultati dell’indagine sono stati resi noti negli Atti del XXXVIII e XXXIX Convegno di Studi sulla Magna Grecia,61 e completati, nel 2001, dalla pubblicazione di un nuovo Rapporto preliminare62 a cura delle stesse Sartoris e De Paola. Indagini sono state effettuate in diversi settori del complesso allo scopo di definirne e precisarne ulteriormente planimetrie e fasi cronologiche. 1998 Un primo sondaggio è stato effettuato all’esterno dell’amb. I, lungo il muro perimetrale E, fino a livello delle fondazioni, con lo scopo di delineare possibili accessi.63 Lo scavo nell’area ha restituito abbondante materiale ceramico e coroplastica, manufatti in ferro e bronzo, monete, fibule ad arco, che hanno potuto confermare la frequentazione del santuario in età ellenistico romana tra IV e III secolo a.C. “Negli angoli esterni dei muri di delimitazione degli ambienti”64 visibili i crolli di strutture murarie probabilmente appartenenti a una fase cronologica precedente a quella, visibile, datata al I d.C.65 Dal crollo all’esterno di 1b provengono numerose testine di Demetra databili tra IV e III a.C. Numerose statuette femminili sono state ritrovate anche all’esterno di Ie. Qui, in particolare, interessante il rinvenimento di una testa marmorea femminile di età ellenistica in marmo greco bianco, h 13-15 cm con patina giallastra, pertinente a una statua la cui altezza complessiva doveva raggiungere gli 80 cm. Le caratteristiche del volto e dell’acconciatura (tipo Venere Capitoli27

na) consentono di identificarla come Afrodite. Evidenti i rimandi alla tradizione prassitelica66 ripresa nel clima classicistico di II a.C.: la solida costruzione del volto, la plasticità delle forme, la sensibilità nella resa delle superfici, ricche di modulazioni “pittoriche” ne fanno uno degli esemplari di fattura più elevata rinvenuti nel santuario. L’Afrodite deve essere stata prodotta da botteghe rodio-micrasiatiche di II a.C., forse le stesse che realizzarono per le élites di Rossano il Torso di Ermafrodito e le statuette di Artemide. Dall’ambiente 1g provengono invece una grondaia fittile leonina e un’antefissa a palmette. Due piccoli saggi sono stati effettuati anche all’interno degli ambienti Ic e Id allo scopo di definire più precisamente planimetria e funzioni. Sono emerse tracce di battuti in cocciopesto, forse resti di una pavimentazione. L’ipotesi è che possa trattarsi di botteghe o ambienti di servizio annessi al santuario o piccoli thésauroi di vari gruppi etnici che lo frequentavano.67 Anche dall’esterno di Ig proviene abbondante materiale ellenistico: monete bronzee, fibule in bronzo e ferro, antefisse con figure femminili, vasetti votivi, frammenti di ambra. All’interno dello stesso ambiente, strato con alcune monete bronzee Repubblicane (II a.C.) con il simbolo della nave sul diritto e Giano bifronte sul rovescio. Gli scavi hanno interessato anche la parte nord dell’amb. II. Qui, in linea con il lato breve N dell’altare, sono emersi resti di una struttura muraria di notevoli dimensioni (5,50 x 1m) con pietre a secco che taglia longitudinalmente l’ambiente, databile alla fase più antica (IV sec.),68 andamento NO-SE, in blocchi di arenaria parzialmente lavorati e pietre scheggiate. Interessanti i materiali venuti in luce nel corso dello scavo: 2 testine fittili e statuette, alcune pertinenti al culto di Demetra, con alto polos (copricapo di forma cilindrica), sono state rinvenute nei livelli più alti, documentando la presenza di una stipe a ridosso del muro del sagrato; esemplari di frutti votivi (mandorle e melograni); un’antefissa gorgonica e a testa femminile; un thymiateron fittile con base decorata da punzonature; una figurina di pantera in terracotta; varie monete romane e magnogreche; punta di lancia in ferro; maschere di sileno, placchette fittili di eroi alati.69 Poteva forse trattarsi di uno spazio usato dai fedeli come passaggio o come deposito votivo.70 28

Nell’amb. III lo scavo ha consentito di delineare più chiaramente la pianta del basamento, costruito in blocchi in pietra calcarea, squadrati e lavorati, e uniti da grappe in ferro. Sullo stesso dovevano essere collocati almeno altri due filari di blocchi, “digradanti verso l’alto”.71 Emerso un grande crollo di pietre e tegole, forse residuo di una copertura del monumento. Doveva probabilmente trattarsi di un podio con edicola, all’interno del quale era collocata la statua di culto72, forse pertinente alla fase originaria del santuario e in seguito riutilizzato nella monumentalizzazione del santuario in età augustea.73 1999 Nel corso dei lavori di restauro del basamento dell’amb. III, eseguiti dal Dott. N. Berterame, è stato rinvenuto un piede femminile in bronzo con calzare e orlo di peplo, con perno per fissaggio a una base, pertinente a una statua di dimensioni poco inferiori al vero. La scoperta sembrerebbe avvalorare e confermare l’ipotesi, già formulata da Adamesteanu, che l’ambiente ospitasse la statua di culto in un podio a edicola. Esplorata anche l’area (c.a. 100 mq di estensione) a SE74 del sagrato, alle spalle del portico dell’amb. IV, non esplorata in precedenza. I livelli superficiali hanno restituito reperti ellenistici (ceramica, coroplastica, strumenti ed elementi dell’armamento in bronzo e ferro, punte di lancia, un morso equino, un punteruolo, ornamenti ed appliques in bronzo, alcune fibule) tra cui una laminetta bronzea decorata a bassorilievo con una figura femminile recante una phiale e cavalcante un delfino, identificata con Anfitrite, appartenente ad un oggetto in legno, forse una cista75 (sono infatti presenti i fori per l’inserimento di chiodini). La datazione proposta è alla seconda metà del III a.C. Nel settore contiguo, nella metà N dello scavo è emerso un crollo in laterizi e pietre misti a cenere e argilla e resti lignei combusti, forse relativo alla fase di abbandono dell’area, causato da un incendio.76 Nel crollo sono stati rinvenuti numerosi blocchi in calcare e arenaria lavorati, alcuni dei quali riconoscibili come basamenti.77 Si trattava, forse, di un’area coperta destinata ad accogliere doni votivi.78 Il più interessante dei basamenti è un blocco in arenaria, alto c.a. 80 cm e modanato, che presenta una robusta grappa in ferro sulla faccia superiore. Su una delle quattro facce laterali, precisamente la faccia E, esso reca una iscrizione su 5 righe in alfabeto greco e lingua osca. Si tratterebbe, secondo l’ipo29

tesi di Poccetti, di una dedica votiva che fa riferimento a una offerta ad Ercole, “|–EPEKΛωI”, “BRATHIC ΔATAIC”, “per grazia ricevuta” da parte di VIBIUS VILLENIUS, il cui patronimico LUCIUS “Λω[KTIHIC” = gen. “figlio di Lucio” richiama il nome LOVK, LOVKIS di altre epigrafi di Rossano. L’iscrizione si data sulla base di criteri paleografici tra II e I a.C. e attesta un culto fino ad ora non documentato nel santuario. L’epigrafe non poggia direttamente sul terreno ma su una lastra in arenaria.79 Interessante notare la presenza, “tra il piedistallo e la lastra”80 di una sorta di “zeppa” in laterizi, forse indizio che l’area aveva subito un cedimento.81 Frammenti di statue votive sono stati recuperati nell’area circostante. A O del basamento è emersa un’area di bruciato con uno spesso strato di argilla cotta, forse una fornace,82 come confermato dalla presenza di resti di fornelletti. La fornace doveva essere in uso nell’ultima fase di vita del santuario e doveva essere utilizzata per la fusione di statue in bronzo, di cui sono stati rinvenuti numerosi frammenti. Numerose monete sono state recuperate nel corso dello scavo, 17 in bronzo, 2 in argento, sia nello strato superficiale che nel crollo. Resti di una strada lastricata, interpretabile forse come una via processionale, data la presenza di statue e basi iscritte collocate lungo la stessa,83 proveniente da SO, collegava “il lato sud del santuario con il sagrato”, raggiungendo la soglia d’ingresso del portico-amb. IV. Un altro saggio è stato effettuato nell’area centrale del sagrato, tra i muri degli ambienti II e IV. Trovati frammenti di coroplastica votiva (dischi, statuette, testine, frutti, animali), ceramica miniaturistica, thymiateria, una scure miniaturistica in ferro, una fibula argentea, un gancio di cinturone, varie fibule bronzee, filamenti di oro, riferiti alla fase di frequentazione di età ellenistica.84 Campagna di scavi 2000-2001 L’ultima campagna di scavi nel sito di Rossano di Vaglio prende avvio nell’ottobre 2000 e si conclude nel settembre 2001, sotto la direzione di Elvira Pica e la collaborazione di Vincenzo Cracolici, Rocco Pontolillo e Nicola Berterame. Gli scavi hanno interessato una zona per certi versi “nuova” e non ancora esplorata del santuario, a O delle strutture messe in luce da Dinu Adamesteanu,85 allo scopo di descrivere stratigraficamente ed indagare la dinamica dei dissesti naturali86 che hanno coinvolto ripe30

tutamente il santuario, per poter programmare interventi di conservazione efficaci del monumento e del suo contesto ambientale,87 ma anche precisare l’estensione reale dell’area occupata dal santuario: già nel corso della prima campagna di scavi (1969-1986) condotta da Dinu Adamesteanu numerose strutture e resti di edifici erano emersi nelle vicinanze del sito indagato e in connessione diretta con l’area santuariale. Appariva evidente come la zona indagata costituisse solo la parte centrale di un più ampio complesso di cui non erano però chiari i limiti territoriali. Gli scavi hanno consentito di chiarire e precisare ulteriormente la reale estensione dell’area occupata dal santuario, accertando la presenza di altre strutture monumentali pertinenti al santuario stesso. Tali emergenze segnalano e fanno senza dubbio rilevare un tessuto architettonico complesso e articolato: il santuario poteva forse strutturarsi su più livelli, con una serie di terrazze, collegate tra loro mediante scalinate, di grande effetto monumentale e scenografico. I recenti interventi di scavo, inseriti nell’ambito del programma di ricerche recentemente avviato dalla Soprintendenza Archeologica della Basilicata, hanno permesso di confermare le linee generali di lettura planimetrica del grande complesso santuariale, individuando tuttavia più nel dettaglio i particolari delle diverse fasi di ricostruzione e restauro dello stesso. L’area situata a monte del cosiddetto “sagrato” si presenta attualmente come una terrazza in leggero pendio,88 con un aumento dell’inclinazione verso O, delimitata sul lato occidentale da un gruppo di grossi massi recanti segni di cava antichi, attualmente occupata da abitazioni ed edifici moderni. Le recenti campagne di scavo hanno comportato l’apertura di tre trincee, denominate A/00, B/00 e C/01 con una disposizione ad “U” rispetto al sagrato. A/00, avente dimensioni m 20x2, con orientamento grossomodo E-O, è disposta in corrispondenza dell’asse mediano dell’ingresso del piazzale. Si è potuta verificare in questa zona la presenza di tre setti murari, con andamento N-S, leggermente diverso da quello del sagrato, impostati ad una quota assai vicina a quella dell’attuale piano di campagna con un interro minimo, spesso di soli 5 cm. L’apertura di un saggio più esteso (D/02), posto ad angolo tra le trincee A/00 e C/01, ha consentito di mettere in luce la presenza di una struttura (US 4), nella cui fondazione è stato rinvenuto un denario d’argento di Quinto Antonio Balbo, emesso nell’83-82 a.C. La struttura taglia strati con ceramiche di IV e III seco31

lo a.C., indicando dunque che l’area era occupata fin dalle prime fasi di vita del santuario. Le fondazioni in piccole pietre fanno supporre che i muri non fossero molto più alti di quanto non si conservi (circa 20 cm). L’apertura di un secondo saggio denominato D/01,89 al piede della frana, ha mostrato la presenza di resti di una pavimentazione in basole litiche, assai simile a quella del sagrato, in stato di forte corrugamento. Se non è certo il collegamento con la struttura US 4, è tuttavia possibile ritenere che i due interventi siamo contemporanei, e che la struttura, sulla quale doveva poggiare la pavimentazione, sia stata realizzata per regolarizzare il pendio, in seguito forse a un primo movimento franoso verso valle. Originariamente l’intero pianoro, almeno fino alla zona occupata dai grandi massi, doveva presentarsi, dal punto di vista altimetrico, in piano rispetto al sagrato. La frana che ha portato all’inclinazione del sagrato ha cioè in seguito prodotto un dislivello che non doveva esistere al momento della costruzione del muro di temenos.90 Il saggio C/02, aperto “più ad O”,91 ha restituito i resti di un’altra grande struttura, forse un terrazzamento, che la frana ha fatto crollare verso monte. Inglobati nel terreno scivolato a valle nel movimento franoso, pietre di piccole e medie dimensioni sulle quali erano posti blocchi parzialmente lavorati. Rinvenuti anche elementi triangolari in laterizio, simili a quelli utilizzati per le colonnine degli amb. III e IV del santuario. Sarebbe ipotizzabile la presenza nell’area di un portico che doveva forse bordare e chiudere in questa zona il lato O della terrazza. Interessante la situazione riscontrata nel saggio B/00, situato circa 20 m più a S di A/00. Le dimensioni della trincea, m 42 x 2, hanno consentito di documentare facilmente i numerosi strati colluvionali che hanno riempito la spaccatura creatasi in seguito alla grande frana che ha interessato il santuario e che ne ha probabilmente determinato l’abbandono. A una profondità di circa 2 m, uno strato formato da materiale fangoso, contenente numerosi resti di conchiglie, doveva probabilmente costituire il fondo di una zona di ristagno dell’acqua. Nella parte della trincea più a O sono stati rinvenuti numerosi strati colluviali recenti, contenenti materiali evidentemente portati via dalla terrazza superiore, che coprono strati colluviali più antichi. Nella parte centrale della trincea, le indagini geoelettriche hanno individuato resti di strutture fino ad una profondità di 6 m. È in questo punto che deve 32

probabilmente situarsi la linea di scorrimento della frana. A ridosso del temenos lo scavo ha restituito materiali pertinenti al temenos stesso e al muro O dell’ambiente IV. Tra questi, un’antefissa raffigurante Artemide Bendis, forse da mettere in relazione con la presenza di “culti prestati alla dea della caccia”,92 chiodi in ferro e bronzo e una paragnatide in bronzo pertinente ad un elmo romano tipo “hagenau” databile al I a.C. La posizione dell’elmo e la presenza di chiodi farebbero supporre che lo stesso fosse collocato all’interno dell’amb. IV, probabilmente sospeso al muro. La presenza, inoltre, di numerose tegole e pietre nella massa di crollo farebbero supporre la presenza in questa zona di un ambiente coperto connesso al temenos ed adiacente all’amb. IV. Di notevole importanza anche il rinvenimento, nel muro di temenos di un nuovo frammento di iscrizione, in lingua osca e caratteri greci, databile probabilmente al III a.C., recante il seguente testo: TIANAI ПIEC T MEPTOI Si tratta, evidentemente di una dedica a Utiana e Mamerte, divinità la cui presenza nel santuario di Rossano è ben nota da altre iscrizioni. Il blocco nel quale è realizzata l’iscrizione, di notevoli dimensioni, prima di essere inglobato nel muro di temenos aveva già in precedenza subito un reimpiego come base per statua, come mostra chiaramente la rilavorazione con modanature di due delle sue facce. I dati cronologici raccolti nel corso dello scavo hanno consentito di ridefinire parte della cronologia del santuario, collocando una grande fase di ristrutturazione dello stesso nel corso del I secolo a.C. L’area non sembrerebbe invece essere stata interessata, come in precedenza supposto invece da Adamesteanu,93 da occupazioni o rifacimenti in età augustea e imperiale. Le tracce riscontrate all’interno e nei dintorni dell’amb. IV andrebbero pertanto riferite piuttosto “alle fasi finali del culto, più che a veri e propri interventi edilizi”.94

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Le iscrizioni “Il problema di fondo per l’Italia antica e per una sua storia delle religioni è la composizione del quadro, che ci si presenta variegato per aree, culture, cronologie, e diversamente rappresentato sotto l’aspetto documentale [...] in assenza di storiografia italica diretta in rapporto a quella indiretta [...] fonti esterne sono i documenti che in assenza di ‘storia’ vicariano le fonti storiche. Queste fonti sono essenzialmente fornite dall’archeologia e dall’epigrafia [...] L’epigrafia offre la lingua e, tramite la linguistica della lingua specifica e della lingua in generale, si evincono contenuti, sia quali contenuti di un qualsiasi testo (preghiera, invocazione, dedica, descrizione di un rito, ecc.) sia quali contenuti più interni della stessa organizzazione linguistica come riflesso di una ideologia (semantica istituzionale, tassonomie civicoreligiose, senso e posizione dei nomi divini, ecc.)”.95 Scrittura, quindi, come mezzo di scambio e comunicazione ma anche - e soprattutto - espressione di cultura e identità. L’epigrafia si propone come disciplina multi-purpose, che consente di toccare vari segmenti di ricerca con il suo spaziare da aspetti puramente archeologici, legati alla materialità del supporto, fino ad arrivare ad aspetti legati a un testo scritto che si autodefinisce come il mezzo principe per la comunicazione di concetti più o meno elaborati. L’iscrizione comunica non solo attraverso i suoi contenuti specifici, il “senso” del testo, ma va letta in rapporto all’oggetto sul quale è stata apposta o al monumento sul quale è stata tracciate. Essa è prima di tutto espressione dell’esigenza che l’ha generata, che spazia dalla necessità di lasciare imperitura memoria fino alla necessità di comunicazione immediata di un concetto, di un momento da cogliere nella vita della comunità. Lo studio dell’epigrafia di un santuario, in particolare, offre la possibilità di vedere il rapporto con il sacro nel tempo, di scoprire la frontiera non sempre stabile tra il lecito e il proibito nell’usare dei beni sacrali. Detto questo, appare chiaro come l’importanza del corpus epi34

grafico di Rossano di Vaglio non sia soltanto, o semplicemente, filologica.96 Da un punto di vista più strettamente cultuale e appunto della storia delle religioni italiche, e nella mancanza quasi totale di testimonianze scritte sulla fenomenologia religiosa del mondo osco e osco-lucano, la documentazione epigrafica di Rossano di Vaglio costituisce un esempio quasi unico in tutto il dominio italico, consentendo di accumulare in uno stesso luogo di culto circa sessanta iscrizioni, sia in caratteri greci e lingua osca, che in alfabeto e lingua latini, con dediche di carattere pubblico e privato, disposte lungo un arco cronologico amplissimo che va dalla seconda metà del IV a.C. al I a.C.97 Méfitis d’après les dedicaces lucaniennes de Rossano di Vaglio,98 Mefitis attraverso le dediche e le iscrizioni di Rossano: un corpus epigrafico veramente imponente, quello del santuario di Macchia, che rappresenta la principale fonte di informazioni su questa divinità. L’analisi delle testimonianze epigrafiche relative al culto della dea, il loro confronto con la documentazione materiale, e - come si vedrà oltre - con la tradizione letteraria e gli autori latini risulta di grande interesse nel nostro tentativo di ricostruire il “percorso” del culto della dea dal mondo osco a Roma e all’Italia romanizzata costituendo un utile punto di partenza per la nostra ricerca. Sono - come si è visto - numerosissimi i luoghi “mefitici” conosciuti in Italia, a partire dal santuario della dea di Valle d’Ansanto-Rocca S. Felice. Ma lo stesso santuario di Rocca S. Felice, uno dei più importanti santuari della dea Mefitis nell’antichità, ha restituito solo una dedica alla dea e, d’altra parte, anche i confronti con altri santuari dedicati alla stessa Mefitis non confortano nè da un punto di vista quantitativo, nè per quel che riguarda la tipologia delle iscrizioni:99 un’iscrizione osca con dedica “Sevia Magia a Mefite”, databile al II a.C. attesta la presenza del culto della dea a Mirabella Eclano; un’altra iscrizione, latina, proviene da Equum Tuticum-Ariano irpino; ancora un frammento di iscrizione documenta il culto di Mefitis con l’attributo di “fisica” a Grumentum; da Potentia provengo 4 iscrizioni latine di età imperiale menzionanti la dea; a Pompei un’iscrizione proveniente dall’area della Casa della Fontana Grande, in lingua osca, ricorda le feste celebrate per la dea dalla famiglia dei Mamii, di probabile origine peligna; il culto di Mefitis è ancora attestato a Capua-Mons Tifata, dal rinvenimento di due tegole ed un frammento di vaso con iscrizioni in una delle quali, se è corretta l’integrazione della lacuna, è leggibile, riferito 35

a Mefitis, l’appellativo UTIANA; tre blocchi con un’iscrizione sinistrorsa, in cui compare il termine “Mifineis” provengono da Roccamonfina; una colonnina votiva in calcare con dedica a Mefitis documenta un culto della dea a Madonna di Canneto-Settefrati; da Atina proveniva una iscrizione, ora dispersa, e di controversa interpretazione, attestante, se è corretta la lettura del Mommsen, un culto di Mefitis nell’area; un’iscrizione menzionante la divinità, infine, proviene anche da Laus Pompeia (Lodi). Basti qui rilevare un semplice dato numerico: nel santuario di Macchia di Rossano, circa 60 iscrizioni provengono dall’area sacra. Di queste ben 14 si riferiscono direttamente alla divinità. Il teonimo Mefitis vi compare sia da solo, privo cioè di attributi, sia accompagnato da aggettivi. Questi ultimi possono essere epiteti di tipo funzionale o, più spesso, epiteti che, come vedremo, precisano il nome divino derivati da un altro nome divino. Le iscrizioni (da RV-01 ad RV-57) del santuario di Mefitis a Macchia di Rossano sono tutte state trovate a Rossano. Solo alcune possono essere considerate apporti provenienti dall’esterno: si tratta i particolare delle tegole di copertura degli edifici e dei monumenti del santuario, prodotte da ateliers di cui ignoriamo la localizzazione (RV-09; RV-23/24; RV-41; RV-14, -15, -16, -48).100 I documenti da RV-01 a RV04, come si è già detto, sono risultato di ritrovamenti di superficie della fine del XIX secolo: nel 1925, la scoperta di RV-05; nel 1962, infine, RV-06. Le iscrizioni da RV-07 a RV-57 provengono invece dagli scavi del santuario, con numerazione nell’ordine delle scoperte dal 1969 al 1986. La maggior parte delle iscrizioni è in lingua osca e scritta in alfabeto adattato dal greco. Le iscrizioni si suddividono in due categorie o gruppi. Il primo, comprendente i tre quarti circa dei documenti,101 utilizza la lingua osca meridionale e una scrittura adattata dal greco. Questi testi osco-greci si datano approssimativamente tra la fine del IV e la fine del II a.C. Il secondo, comprendente invece il restante quarto dei documenti, quasi tutti purtroppo mutili, usa lingua e scrittura latina. La datazione è tra gli anni della Guerra Sociale (90-88 a.C.) e il principato di Augusto (31 a.C., battaglia di Azio- 14 d.C. morte di Augusto). Può essere, secondo Lejeune, rilevata anche una fase “transitoria”, in lingua osca e alfabeto latino, in particolare nei graffiti su tegola RV-14, -15, -16, -48. Caso 36

a parte l’iscrizione RV-36 (III a.C.) in lingua e scrittura greca: vi si legge un nome d’uomo (LEUKIOS) e alcune cifre, forse l’ammontare della donazione102. La definizione precisa della cronologia delle iscrizioni è, chiaramente, difficile da fissare. Si può ricorrere al contesto archeologico laddove è possibile, oppure a criteri paleografici (ortografici, grafici, fonetici). In realtà nel corso delle vicissitudini che il santuario ha conosciuto, molte delle iscrizioni si sono trovate “fuori posto”, perché spesso in giacitura secondaria, o sono state reimpiegate più o meno lontano dal loro sito originale. Il luogo del ritrovamento perciò raramente è importante, ed è dunque evidente la difficoltà di assegnare un’iscrizione ad un monumento dato. Una delle cause di tale difficoltà è che generalmente l’iscrizione non menziona il monumento. Né più spesso ritroviamo sulle iscrizioni il nome del santuario o nomi di elementi che lo costituiscono, tranne rare eccezioni (RV-04/07, -28, -27, -34,103 sulle quali torneremo in seguito). Da segnalare, infine la menzione allusiva di un elemento del santuario che noi chiameremo, con Lejeune, “son seuil rituel”, in RV-52, iscrizione di carattere “informativo” e implicitamente prescrittivo: senza che ci sia bisogno di notificare le osservanze che ne derivano, essa segnala che a partire da un punto preciso (segnato dalla posizione dell’iscrizione stessa) il pellegrino penetra in un perimetro sacro, dominio e proprietà della terra e dell’acqua di Mefitis. Questo documento purtroppo è mutilo e ha trovato un reimpiego. La sua collocazione originale doveva forse essere all’ingresso del santuario primitivo. L’esame complessivo delle epigrafi rinvenute nel corso degli scavi nel santuario di Rossano di Vaglio consente di individuare essenzialmente tre differenti tipologie di iscrizioni: a) un documento rituale, RV-52; b) consacrazioni ufficiali di elementi del santuario, e/o atti amministrativi; c) dediche propriamente dette. Queste ultime sono tutti enunciati senza verbo, comprendenti nominativo del dedicante, dativo teonimico e indicazioni circostanziali della dedica, che possono specificare la natura dell’atto votivo o la motivazione dell’atto votivo, quando questo si presenta come manifestazione di riconoscenza. 37

Mefitis è certo la divinità principale venerata nel santuario di Macchia di Rossano, ma non, come si è detto, la sola divinità presente. Nel corso di circa tre secoli e mezzo di vita, il santuario ha conosciuto numerose distruzioni, rimaneggiamenti, ingrandimenti, reimpieghi di materiali antichi nelle nuove costruzioni. Il sito è stato infine abbandonato, servendo occasionalmente da cava di pietra agli abitanti dei villaggi vicini. Non è stata certamente trovata che una piccolissima parte delle iscrizioni, e molte di quelle che conosciamo sono mutile. Il santuario si presenta come spazio sacro in cui vengono a trovarsi, intorno a un culto principale (quello di Mefitis, appunto) altri culti le cui relazioni con quello di Mefitis possono presentare gradi di affinità assai differenti. Interessanti in proposito le osservazioni di O. De Cazanove, il quale in un recente studio104 ha messo bene in evidenza l’aspetto della particolare complessità dei culti di area italica: pure all’interno di uno sfondo comune, caratterizzato dall’ampia diffusione delle stesse divinità in tutto l’ambito italico (Giove, Marte, Ercole, Cerere) ogni sistema di culti costituisce un insieme peculiare, determinato dai rapporti, dalle relazioni, dalle associazioni e funzioni che le singole divinità assumono all’interno di un determinato contesto. Ne sono prova le tavole di Gubbio, la tavola opistografa di Agnone. E proprio le 57 dediche di Rossano di Vaglio, testimonianze di eccezionale importanza archeologica e documentaria, in cui le attestazioni epigrafiche dei vari teonimi rispecchiano le peculiari caratteristiche del mondo religioso di Rossano, le sue trasformazioni interne, la sua evoluzione, gli influssi derivati dal mondo esterno. Ogni singola comunità costituisce un sistema a sé stante. Ognuna possiede un proprio pantheon gerarchizzato e specializzato, particolari strutture religiose, un complesso coerente di riti e funzioni. Si configura insomma come autosufficiente in materia religiosa. Si tratta a questo punto di porsi due fondamentali domande: chi è Mefitis? In quale sistema di rappresentazione del mondo divino si integra? MEFITIS UTIANA Nella documentazione epigrafica di Rossano di Vaglio Mefitis è qualificata per quattro volte (RV-11, RV-22, RV-32, RV-45) come Utiana (dat. da fine III al I a.C.). Mefitis Utiana, d’altra parte, torna su tre de38

diche provenienti da Potenza. L’ipotesi di Lejeune,105 accolta da Adamesteanu,106 è di riconoscere negli Utiani un ramo dei Lucani che occupavano il territorio di Rossano e di cui proprio Rossano di Vaglio sarebbe stato il santuario federale: “Santuario di sorgente, lontano da un centro abitato ma al centro di una costellazione di agglomerati indigeni distanti alcune ore di marcia, amministrato fin dai suoi inizi (fine IV a.C.) fino alla Guerra Sociale da una di queste comunità lucane, la TOUTO UTIANOM che però non è stata ancora localizzata, testimone della nascita della città romana di POTENTIA a fine II a.C., ripreso in mano dopo la Guerra Sociale dai Potentini che sostituivano la tutela romana a quella degli UTIANI e perseguivano ingrandimenti e abbellimenti del santuario, bruscamente abbandonato (dopo un disastro naturale?) alla fine della Repubblica (senza che il culto scompaia, però. Il culto di Mefitis è trasferito a Potenza): questa è l’immagine che ci si forma oggi di questo luogo di culto che si è rivelato ricchissimo di monumenti ed offerte”.107 Le iscrizioni menzionate coprono un arco di tempo che va dalla seconda metà del IV a.C., fino al III e a tutto il II a.C. Durante tutto questo tempo il santuario è stato, secondo l’ipotesi del Lejeune, sotto la tutela lucana e la sua frequentazione, da ciò che si può vedere è essenzialmente indigena. Di questa supposta TOUTO UTIANOM, che eserciterebbe la sua tutela sul santuario di Rossano, di cui tuttavia non esiste alcuna attestazione certa e diretta, conosceremmo, attraverso le iscrizioni, alcune istituzioni: un senato (RV-02, -17, -18, -28) e dei magistrati: la questura è menzionata in -01, -02, -17 e -18, la censura in RV-28. Tranne -01 (in cui è semplicemente menzionato il titolo KFAISTOR) si vede che è per decisione del senato (SENATEIS TANGINOD: -17, -18, -28) che il magistrato incaricato, nel caso specifico, del potere esecutivo ha dato l’ordine (AFAAMATED) e, realizzata l’opera, l’ha dichiarata conforme (EISDOM PROFATED). L’organizzazione delle procedure politiche, qui attestate da documenti di III e II a.C. è assai simile, secondo Lejeune, a quella che conosciamo dal resto del mondo osco nella stessa fase. A partire dalla Guerra Sociale, sarebbero invece i Potentini, per tre quarti di secolo, ad amministrare il santuario. Le iscrizioni sono in39

fatti ormai in latino. Sfortunatamente ci sono pervenute in stato di grave mutilazione. A nome del MUNICIPIUM POTENTINORUM (RV46), agiscono, al posto dei questori lucani, i QUATTUORUIRI IURE DICUNDO (RV-31, -32, -45) o QUNQUENNALES. In realtà le fonti letterarie non menzionano mai per i Lucani divisioni tribali, invece attestate, per esempio, per i Sanniti, e dunque la TOUTO UTIANORUM resta solo a livello di ipotesi. È stata proposta anche la derivazione dell’aggettivo da un teonimo, Utio (per analogia con Mefitis-Mefitanus, Mamerte-Mamertinus in altre due epigrafi di Rossano), ipotesi ritenuta tuttavia poco convincente. Utiana potrebbe essere accostato all’umbro utur (gr. udor), “acqua”. È possibile infine che Utianus sia un toponimo, derivante da una località, Utia, forse nome osco per l’abitato di Serra di Vaglio, oppure un antroponimo gentilizio derivante da Utius.108 Per quanto concerne la prima ipotesi, non sono state trovate, fino a questo momento, attestazioni deltoponimo Utia. L’ipotesi appare tuttavia verisimile né è impossibile pensare di riconoscere in Utiana un aggettivo tratto da un toponimo: in queste aree si assiste infatti dalla metà del IV a.C. a un processo di urbanizzazione precoce e intenso109, nello stesso momento in cui inizia la vita del santuario di Rossano. La denominazione si sarebbe conservata anche dopo la fine dell’abitato di Serra di Vaglio. Per la derivazione di Utiana dal gentilizio Utius, scartata a suo tempo dal Lejeune, va invece sottolineato come effettivamente l’antroponimo sia attestato a Aesernia nel Sannio, a Iuvanum, nel territorio dei Frentani, e a Misenum, in Campania, nella forma Uttius. Lo stesso gentilizio è documentato da un’epigrafe proveniente da Muro Lucano.110 Un interessante monumento sepolcrale rinvenuto a Polla, infine, è databile all’età augustea ed è dedicato a un C. Utianus Rufus Latinianus. Partendo da queste considerazioni, Marina R. Torelli ha proposto un accostamento con il celebre passo di Strabone (VI, 254) in cui si parla dell’organizzazione politica e delle istituzioni dei Lucani: “per tutto il tempo vivono in democrazia; tuttavia in occasione di guerre veniva prescelto un re per iniziativa di coloro i quali detenevano le magistrature”. 40

È assai controversa l’interpretazione della celebre epigrafe RV-28 (dat. seconda metà II a.C.) menzionante la dedica di σεγνω. αιζνιω . ρεγο, “statue bronzee dei re”, da parte di magistrati locali: Lejeune vede i reges come una coppia regale formata da una Domina Iovia (la cui presenza è attestata dalle epigrafi RV-17/42 e 18) e uno Iuppiter Rex.111 Prosdocimi ipotizza una identificazione con i Dioscuri. M. R. Torelli ha proposto invece un collegamento, assai interessante, tra i reges dell’iscrizione e i basileis del testo di Strabone (l’ipotesi trova concordi, tra gli altri, anche P.G. Guzzo e G. Pugliese Carratelli112), “re” eletti dai Lucani in caso di guerra, nell’ambito di un santuario visto come centro sacrale dell’ethnos lucano. In questo senso anche l’appellativo Utiana, attribuito a Mefitis, diventa plausibile: esso conserverebbe il ricordo di un antico culto gentilizio, che trarrebbe origine da un antichissimo genos basilikon. Per la Torelli,113 la dedica delle statue dei re a Rossano troverebbe spiegazione nel bisogno, da parte delle élites lucane ormai romanizzate, e nel momento stesso in cui si compie il processo di romanizzazione, con assunzione del sistema politico, economico e giuridico romano, di ricollegarsi orgogliosamente al passato, attraverso la creazione di genealogie e una valorizzazione antiquaria delle antiche tradizioni, come mezzo per riappropriarsi della propria identità. Si tratterebbe, dunque, di un fenomeno di “controacculturazione”, messo in atto dalle aristocrazie locali che, sottoposte alla pressione del dominio economico di Roma da un lato, dall’altro esposte alla penetrazione di culti salvifici di matrice ellenistico orientale, oppongono una forte resistenza culturale, che si “centra” sulla religione tradizionale.114 Essa costituisce un prezioso strumento ideologico per riconfermare la centralità culturale e politica della vecchia classe aristocratica, nello stesso momento in cui questa perde la propria egemonia. Si tratta di un fenomeno “panitalico” (basti pensare all’esplosione dell’attività edilizia che coinvolge i santuari più importanti, Palestrina, Terracina, Pietrabbondante) e che si manifesta anche in Lucania con un ridestarsi di interesse delle classi dominanti locali per i santuari, i culti indigeni, le tradizioni religiose “nazionali”. Le stesse ricche offerte del santuario, la dedica di importanti statue ed ex voto, in particolare la statuaria in marmo di Rossano, sono tutti fenomeni di altissima qualità artistica, espressione estrema della volontà di potenza di queste aristocrazie in disarmo, disperata ricerca di conservazione dell’identità di fronte alla forte spinta alla omogeneizzazione.115 41

MEFITIS ARAVINA Il nome di Mefitis compare con l’epiteto di Aravina in due epigrafi, RV-26 e 21, databili rispettivamente al III e al II a.C. Lo stesso epiteto è attestato anche in valle d’Ansanto, in un graffito osco su un frammento di ceramica ora perduto,116 anch’esso databile al II a.C. Secondo una prima interpretazione aravina deriverebbe dal nome di una radice “aravo”, ricollegabile con il latino arvom e l’umbro arva, con il significato di “signora degli arva” ossia “dei campi” o della “terra lavorata”. Mefitis si qualificherebbe dunque come divinità legata ai cicli agricoli e dunque al tempo e all’alternarsi delle stagioni. D’altra parte, il legame con l’agricoltura rinvia anche all’idea della fertilità, e dunque alla sfera riproduttiva più in generale, della fecondità, non solo naturale, ma anche umana. È stata proposta dal Prosdocimi117 una diversa interpretazione dell’epiteto aravina attribuito a Mefitis come “signora degli arvIa” (e non arva), nome umbro per gli exta, “il fegato e le viscere”, oppure con significato di “interna”, a rimarcare un aspetto ctonio della divinità e un suo collegamento con le pratiche divinatorie dell’aruspicina.118 MEFITIS CAPOROINNA L’epiteto è attribuito a Mefitis nella già citata epigrafe RV-06 e sembrerebbe adombrare interferenze con il mondo latino. Caporoinna o Caporotinna (secondo la prima lettura del Lejeune) rinvia infatti subito alla figura di Iuno Caprotina e alla celebre festa, celebrata ogni anno il 7 luglio, delle Nonae Caprotine o feriae ancillarum: la festa, aperta alle donne di qualsiasi condizione, ma soprattutto a quelle di origine servile si svolgeva fuori dal pomerio. Sotto un caprifico le donne, brandendo appunto rami di caprifico, facevano un sacrificio. Ora, il caprifico è un albero che sappiamo essere per molti versi connesso con figure servili, mentre sembra che nel rituale avesse un ruolo essenziale la linfa dell’albero stesso, simbolo di fecondità. Plutarco (Cam., 23 e Rom., 29) e Macrobio (Saturn., 1, 11, 35-40) riportano un interessante racconto eziologico in cui centrale è appunto il ruolo delle schiave: queste, riccamente abbigliate e ornate di splendidi gioielli d’oro, “travestite” quindi da donne libere, venivano consegnate dai Romani ai nemici, fingendo di assecondare la loro richiesta di donne per il matrimonio. Introdottesi così nel campo latino, esse seducono i nemici facendoli ubriacare e danno poi il segnale stabilito ai Romani (un segnale di fuo42

co, dall’alto di un caprifico) per attaccare il campo nemico. Secondo le fonti la festa fu introdotta a Roma nella prima metà del IV a.C. dopo il terribile evento del sacco gallico del 390 a.C., in una fase quindi caratterizzata da uno stato di tensione nei rapporti di Roma con le popolazioni finitime, Latini, Equi, Volsci. Il Gagé ha proposto una interessante interpretazione delle feste caprotine come una sorta di “Saturnalia delle donne schiave”: il momento della simulazione e della trasgressione riceve un riconoscimento formale (alle schiave è concesso di indossare ricche vesti ed ornamenti) e nel matrimonio sostitutivo delle ancelle si attua una specie di “ratto delle Sabine alla rovescia”. Come evidenziato dalle fonti, il racconto ben si adatta ad una struttura sociale caratterizzata da forte opposizione tra servi e padroni, quale era appunto quella Lucana (opposizione che sfocerà, alla fine, nella scissione dei Brettioi, “pastori ribelli”, “schiavi fuggiaschi”, del 356 a.C.). La presenza di un culto di Mefite Caporoinna a Rossano appare in tal senso interessante, evidenziando un momento in cui, come nel racconto del mito delle feste caprotine, si tenta di operare una ricomposizione dei conflitti sociali.119 È evidente, infine, anche per semplice assonanza, il collegamento tra l’epiteto Caporoinna e la capra, animale sacro a Giunone ma anche ad Afrodite-Venus (dunque sempre legato alla fecondità. Torneremo tra poco sul legame tra Mefitis e Venus), che tuttavia non è spiegato dalle fonti. Fa infatti confusione Plutarco, confondendo le Nonae con la festa dei Poplifugia del 5 luglio e mettendo quindi erroneamente in rapporto le Nonae Caprotine con la scomparsa di Romolo, avvenuta mentre celebrava un sacrificio in una palude detta appositamente “della capra”. Una dedica a Giove, datata al II a.C. e di controversa interpretazione, ZωFηι Пιζηι, potrebbe essere secondo la Torelli ricondotta proprio a Mefite/Iuno Caprotina, ricollegando pizei a pistios, e di qui a fidius, fides, con riferimento, attraverso la fides, al rapporto schiavi/padroni.120 Secondo un’altra ipotesi pizei sarebbe invece da ricollegare al greco pidax, fonti, riconducendoci dunque al mondo delle acque e delle sorgenti, caratteristica peculiare, come vedremo del culto di Mefitis a Rossano. MEFITIS E GIOVE È una bipartizione cielo-dei uranii/terra (e acqua)-dei ctonii che per Lejeune deve essere invocata per comprendere il posto che Giove ha 43

nel santuario, e la relazione che intrattiene con Mefitis. Non sono state rinvenute nel santuario di Rossano dediche al solo Giove. Abbiamo invece due dediche, una privata, RV-19: ζωFηι . πιζηι L’altra, dedica ufficiale. RV-17/42 ed RV-18: λοFκις . νανονις . σπελληις κFαιστορ . σενατηις τανγινοδ . αfααματεδ διωηις λοFκις . νανονις . σπελλ[ηις κFαιστορ . σενατηις τανγινοδ . αfααμα[τεδ] διωηις . διoμανα[ς] in cui il nome di Giove compare affiancato a quello di un’altra entità o divinità, mentre Mefitis non è menzionata. RV-19 è una doppia dedica, a Giove e a un’altra divinità, il cui nome deriva forse dal greco pidas, “fonti“. Per cui avremmo: “A Giove. Alle fonti”, oppure “A Giovefonte”. Per Lejeune, tuttavia, in un santuario di sorgente di una divinità, Mefitis, sempre associata, come vedremo, alle acque sorgive, è verosimile supporre che le fonti stesse possano identificarsi con Mefitis. D’altra parte, anche in RV-52 Mefitis è chiamata “divinità della fonte” ma, per metonimia “Fonte” tout court: PIZEI dativo di PIDIES. In RV-17/42 ed RV-18 abbiamo invece la designazione di un questore con formula onomastica tripla: gentilizio in -is, NANONIS (attestato ad Atina un P. NANONIUS); nome LUVKIS è attestato a Capua e Cuma. Il nome paterno è invece ricostruibile in SPENDIS (le forme latinizzate SPENDIUS e SPEDIUS sono attestate). La formula dedicatoria ricalca un formulario tipico dell’epigrafia osca e non lascia dubbi sull’ufficialità del contesto: SENATEIS TANGINOD sta per “conformemente al parere del senato”. AFAAMATED (conosciute anche le forme FAAMAT, FAAMANT a Pompei) può essere tradotta come “ordinò che fosse fatto” (ci sono confronti anche con Mirabella Eclano).121 Va riconosciuto a questo verbo il senso di “dare un ordine” (nelle iscri44

zioni osche di Pompei infatti esso è menzionato in relazione a un luogo di riunione militare). La descrizione della procedura amministrativa è precisa: voto del senato e poi ordine di esecuzione dei lavori dato dal questore. Per quel che riguarda i teonimi, invece, Giove è invocato con una dea Gioviana come sua paredra, o “signora giovia”, che Lejeune propone di identificare con Mefitis stessa. Le iscrizioni dovevano essere collocate sul grande altare del sagrato, sulla stessa faccia, con RV-17 a sinistra di RV-18; da cui l’ordine di lettura RV-17 con genitivo di appartenenza DIOFEIS poi RV-18 con genitivo di appartenenza DIOFIIAS DIOMANAS, che vuol dire “sovrana” e corrisponde al latino DOMINA. Anche la dedica RV-56: διοFηι[... τιτιδιες[... potrebbe secondo Lejeune indirizzarsi ugualmente a Giove e Mefitis. Sarebbero quindi perduti dopo DIOFEI il nome di Mefitis o qualche epiclesi della dea, poi il nome del dedicante. Dopo TITIDIES è forse perduta l’abbreviazione del nome paterno e qualche elemento del formulario votivo. Per Lejeune, l’identificazione della “signora giovia” con Mefitis risponde ad una verosimiglianza politica: “tuteurs du sanctuaire et agissant officiellement en tant que tels, quelle divinité les Utiani auraient-ils pu, chez Méfitis, honorer comme Souveraine, sinon Méfitis elle-meme?”.122 Se è corretta l’interpretazione che ne dà il Lejeune, nelle iscrizioni associanti Juppiter e Mefitis, Juppiter non è definito in rapporto a Mefitis (non è, cioè MEFITANO o MEFITICO) ed è il primo nominato. E’ il solo dio a godere di tali privilegi. Dietro queste manifestazioni formulari Lejeune vede una rappresentazione binaria dell’universo divino, fondato su una opposizione e, al tempo stesso, una complementarietà tra il mondo dell’”Alto” e quello del “Basso”, e dunque tra il sovrano dei superi, Giove, e la sovrana degli inferi, nella fattispecie Mefitis. Questa, sovrana a titolo personale del santuario, ma formante coppia antitetica con Giove è dunque definita GIOVIANA (senza che Giove divenga per questo MEFITANO) in virtù della supremazia dell’Alto sul Basso. Non è d’accordo il Prosdocimi, secondo il quale “ammesso pure l’epiteto REX per Giove e quello di REGINA per la divinità femminile, non ne risulta la coppia unita, al vertice del panteon”.123 Per Lejeune, invece c’è la coppia non “al vertice” ma una coppia congiungente i due mondi per simbolizzare l’universo nella sua totalità. L’iscrizione RV-52 marca per il pellegrino il punto a partire dal quale si penetra in un dominio consacrato alla terra di Mefitis 45

e all’acqua di Mefitis. In questo documento rituale, che comporta interdetti e obblighi impliciti, conviene secondo Lejeune dare ai termini hoμοι e υδοι “leur véritable résonance cosmogonique”.124 Si tratta ben più del solo santuario con il suo ruscelletto che l’attraversa (interpretazione topografico materialista). Si tratta di qualcosa di diverso dalla terra da coltivare e delle acque che fertilizzano. Si tratta di due elementi dell’universo che appartengono agli dei del Basso. Mefitis simbolizza, secondo Lejeune, il versante ctonio dell’universo divino che contrasta con il versante uranio. Questi due aspetti, non separabili, sono simbolizzati dall’acqua, elemento essenziale e caratterizzante, come vedremo, dei santuari della divinità. L’acqua che unisce sottosuolo e superficie, terra e cielo. Ma al tempo stesso Mefitis si presenta come divinità della terza funzione dumeziliana: come il Quirino nella Roma delle origini, Vofion eugubina, Ceres ad Agnone, la Mefitis di Rossano è invocata “de par le bouc et le soc, protectrice de la saillie et du sillon, garante de la fécondité dei troupeaux et de la fertilité des champs”.125 VENUS-MEFITIS Il legame tra Venus e Mefitis è attestato in particolare dalle iscrizioni RV-04bis: .?..] uen . uian [.?. ed RV-05: Fενζυ. μεFιτ. ]. Per RV-05, iscrizione piuttosto tarda, la difficoltà principale si situa a livello della seconda parola, purtroppo mutila, forse ricostruibile come “utiana”, attributo, come si è visto, anche di Mefitis. L’iscrizione RV-04bis attesta invece un teonimo Fενζυ (o Fενζι, dativo, riportato in altre trascrizioni) riconducibile sicuramente alla latina Venere, associata a Mefitis. Il nome di Mefitis è purtroppo lacunoso a causa della rottura della pietra. Non sappiamo dunque se la trascrizione corretta della parola fosse μεFιτ- ι, come proposto dal Vetter, forma tuttavia inconsueta per un dativo (al posto di Mefitei, con desinenza –ei finale), oppure, in forma di aggettivo, Mefit-ana. Nel primo caso si tratterebbe di una sorta di inconsueto “asindeto” tra le due divinità, altrimenti non attestato a Rossano di Vaglio (prevale invece la relazione funzionale tramite aggettivo). Quale che sia la lettura corretta del testo, esso conferma comunque la presenza di un culto di Venere nel santuario già nel II sec. a.C. associato in qualche modo a quello della Mefitis. Se riflettiamo sulle caratteristiche del più antico culto di Venus a Roma, nel momento in cui esso viene introdotto nell’Urbe all’epo46

ca delle guerre sannitiche (inizio III a.C.), numerosi punti di contatto emergono con la figura di Mefitis. Sarebbe stato Fabius Gurges nel 295 a.C. a dedicare per primo un tempio a Venus Obsequens nel Circo massimo. Il legame del culto di Venus con la famiglia dei Fabii è attestato da Livio e da Servio, offrendo conferma ulteriore per l’origine sannitica del culto, adombrato forse nel nome della colonia latina di Venusia. Proprio i Fabii, dotati di vaste clientele in area daunia e campana si occuparono della deduzione della colonia. E non è forse un caso che nello stesso momento sia importato a Roma anche il culto di Mefitis. Introdotta a Roma, Venere va subito ad assorbire una serie di divinità minori, le cui caratteristiche sono assai interessanti: Murcia, Cloacina, Libitina hanno molti tratti comuni con Mefitis. Innanzitutto è da sottolineare un legame con le acque, testimoniato dalla lavatio cui erano sottoposte le fanciulle per l’iniziazione al culto di Venus e, come ben sappiamo, centrale anche nel culto della Mefitis; per quanto riguarda il rapporto Venere/Cloacina, sappiamo poco di questa divinità, legata alla pace tra Sabini e Latini. Il suo luogo di culto si trovava però nei pressi della Cloaca Massima. L’assonanza sembrerebbe suggerire un collegamento di Cloacina con gli effluvi della cloaca, e quindi con Venus, il cui etimo sarebbe riconducibile al latino aestus “esalazione”, spesso maleodorante, che sappiamo essere anche caratteristica del culto “romanizzato” di Mefite. Libitina è invece una divinità funeraria, caratteristica, questa, in perfetta consonanza con l’antico carattere funerario del culto di Venus e con l’aspetto ctonio di Mefitis di cui si è a lungo parlato. Infine Murcia, divinità con connotazioni matronali e matrimoniali, anche queste ben presenti nei culti di Venere e di Mefitis. Schilling ha proposto un collegamento tra il tema neutro uen- di venus con i termini latini venia, “grazia”, “benevolenza”, “favore divino” o “permesso”, “licenza”, che ci riconducono all’ambito della “mediazione” e dunque a Mefitis; venerari, con uguale significato “pregare”, “implorare”; ma anche venenum, “incantesimo”, “sortilegio”, “filtro amoroso”, con riferimento al concetto di attrazione, del fascino126. Del resto lo stesso termine latino aestus che abbiamo tradotto con “effluvio”, ha anche significato di “ardore”, “passione”, con possibile assimilazione dell’effluvio al desiderio erotico. Venus, dunque, divinità connessa con il mondo femminile, con la sfera riproduttiva e della fecondità, propiziatrice delle unioni, tutti tratti che abbiamo visto essere ben presente anche in Mefitis. 47

Sicuramente è il carattere composito della Venus romana a favorire l’assimilazione con Mefitis e, dall’altra parte, la complessità del culto di Mefitis ad avvicinarla a Venus. MEFITIS E LE ALTRE DIVINITÀ Nelle dediche di Rossano di Vaglio il nome di Mefitis compare spesso anche collegato con quello di altre figure divine, diverse da Giove, tramite una forma aggettivale terminante con suffisso di pertinenza. Se estremamente diffuso nel mondo greco è l’uso di precisare con epiteti funzionali il nome della divinità, e queste categorie di epiclesi si trovano frequentemente anche nel mondo italico, la particolarità sta qui nel fatto che l’epiteto che precisa il nome divino deriva a sua volta dal nome divino127. Che tipo di rapporto sottintendono queste formulazioni? In generale, la relazione specifica che queste divinità intrattengono con Mefitis non è necessariamente specificata nelle dediche. Non si tratta di legami di parentela, visto che gli stessi dei sono riferiti ora a tale divinità, ora a talaltra.128 Potrebbe trattarsi invece di un rapporto gerarchico e di subordinazione tra un nume minore ed una divinità importante del santuario. O ancora, epiteti in qualche modo “locali” e riferiti al santuario. Si tratta evidentemente di un sistema di denominazioni estremamente complesso e indizio di strutture notevolmente articolate, di pantheon e santuari altamente gerarchizzati in cui singoli dei si definiscono gli uni rispetto agli altri.129 MAMERTE E NUMULO Le divinità collegate a Mefitis sono Marte e Numulo, un dio marziale minore, accompagnato dalla paredra Oina. Nelle più antiche epigrafi databili alla seconda metà del IV a.C. compaiono dediche a Mamertei Mefitano (RV-33) e Numulo Mefitano Numulo Mamertio Oinai N[umuliai] (RV-35). Marte e Numulo sono, quindi, ciascuno, MEFITANO. Ma di Numulo ci è detto che fa parte del seguito di Marte (ed è dunque MAMERTIO) e di Oina è detto che è NUMULIA. Questi testi permettono, secondo Lejeune, di definire il valore localizzante del suffisso –ano, e quello gerarchizzante di –io. “Marte (che si trova nel santuario) di Mefitis”: un dio è definito MEFITANO- se è “simplement hebergè dans le sanctuarire”, che costituisce, secondo Lejeune una “structure d’accueil ouverte”. È un fatto, d’altra parte, che in osco storico noi troviamo 48

ano - solidamente impiantato nella formazione di etnici: Abell-ano, Capu-ano, Paist-ano, Pompei-ano, Noul-ano, Uti-ano. È naturale dunque, per Lejeune, che nel IV secolo a.C. si ricorra ad -ano- per derivare dal nome di Mefitis un epiteto localizzante. Il suffisso -io, indica invece la sua appartenenza al ciclo (sia cererio che infernale) della dea e gli è così subordinato. Per dirla con Lejeune, “hôtesse des MEFITANO-, Mefitis est patronne des MEFITIO-”.130 Alla interpretazione “localizzante” di -ano- proposta dal Lejeune si oppone quella del Prosdocimi: -ano- avrebbe semplicemente valore di “relazione con”, mentre è solo dall’unione con un toponimo che scaturisce il senso etnico e di localizzazione. In ogni caso questa distinzione sottile, nella formazione dei derivati, tra due tipi di relazione da divinità a divinità (-io/-ano) sarebbe una “particolarità” di Rossano, dato che non troviamo nulla di simile ad Agnone. È probabile che nel santuario di Rossano vi fosse anche un’area cultuale dedicata a Marte (che compare in questa epigrafe in posizione autonoma) collegata con quella della Mefitis, e dunque che il santuario possedesse in qualche modo una doppia specificità, con la coesistenza delle due divinità (stante sempre la preminenza di Mefitis) in aree funzionali distinte.131 Può forse essere individuata una logica, sottesa al luogo di rinvenimento delle diverse tipologie di materiali nel santuario? Il Marte presente nel santuario di Rossano è però un Marte tipicamente “italico”, Mamertius, che ha valenza guerriera ma anche agraria ed è spesso connesso con l’origine di popoli e città, tra cui la stessa Roma. All’insegna di Marte è il ver sacrum. Ver è qui inteso in senso più generale, come “tempo fecondo dell’anno”, per cui il “ver sacrum” non è “primavera sacra” ma “anno sacro”, un dono alla divinità su vasta scala, in cui una comunità si impegnava a rinunziare all’intero prodotto di un anno, sottraendolo all’uso comune e profano e dedicandolo alla divinità, facendolo così entrare nella sfera del “sacro”. Il dono avveniva attraverso il sacrificio, ma l’uso antico di sacrifici umani venne in seguito sostituito da una consacrazione al dio dei nuovi nati che, una volta divenuti maturi e giunti all’età adulta (i cosiddetti “sacrani”), intraprendevano una migrazione e abbandonavano la comunità. Questa migrazione è guidata da un animale, considerato manifestazione 49

del dio: il lupo, il picchio, il toro (tutti animali associati a Marte) che, finita la sua missione, è sacrificato. Dall’animale o da Marte stesso i migranti prendono il loro nuovo nome: Hirpini, Picentes, Mamertini, Marsi. Va rilevato, infine, con Lejeune, come Marte sia presente accanto a Giove e Mefitis in modo che si trovano riuniti i capi delle Tre Funzioni dumeziliane, sebbene non sia completamente rispettata la gerarchia trifunzionale, perché Marte dimora in posizione di invitato (MEFITANO) rispetto ai soli sovrani che sono Giove e Mefitis. L’altra divinità che compare nell’epigrafie RV-35 è Numulo, teonimo nuovo ma riconducibile ad altri due nomi di divinità, Numisio e Numiterno, noti da alcune iscrizioni: una proveniente dall’alveo del Tevere, l’altra da una tomba in agro capenate. In una terza iscrizione, Marti sive Numiternus,132 la divinità è associata, in modo forse non casuale, a Marte. Sarebbe invece del tutto casuale l’assonanza con il Nummelos menzionato nella già citata epigrafe proveniente dalla fortificazione di Serra di Vaglio. Se dalla prima iscrizione sembrerebbe emergere una subordinazione di Mamerte a Mefite, questo rapporto gerarchico tra le due divinità non sembrerebbe sussistere nella seconda. Nulla si può dire, infine, sulla Oinai Nu[ menzionata nell’iscrizione. Il suo nome è infatti frutto in gran parte di integrazione. Dato particolarmente interessante che emerge dall’esame delle testimonianze epigrafiche di Rossano di Vaglio, è la presenza, nel santuario della Mefitis, di numerose iscrizioni con dediche che possiamo definire “pubbliche”: si tratta, in particolare, di un gruppo di iscrizioni, la maggior parte delle quali rinvenute in stato frammentario, latine o osco-latine, riguardanti opere edilizie eseguite nel santuario per la costruzione o il restauro di edifici, o l’erezione di monumenti. Presenza di elementi tipici del formulario tradizionale osco di dedica “ufficiale”, menzione accurata di nomi di magistrati e indicazione precisa della loro “qualifica” sono tutti caratteri che lasciano intravedere, dietro il rigido schematismo rituale cristallizzato nella stessa formula, una realtà istituzionale complessa e stratificata: compaiono nelle iscrizioni questori, censori, quattuorviri, frequente è la menzione del senato, “su parere” del quale sono realizzate le opere in oggetto alla dedica (senateis tanginod), le locuzioni opsannom deded eisdem profat50

td, afaamated eisdom profatrd, “ordinò la costruzione di...”, “commissionò ed egli stesso approvò…” non lasciano dubbi sull’ufficialità del contesto. Perché solo a Rossano di Vaglio il culto è documentato da una messe epigrafica così imponente? Che significato deve essere attribuito alla presenza queste dediche “pubbliche” nel santuario? Il centro d’attenzione si sposta a questo punto sul problema della romanizzazione della Lucania e dei rapporti tra Romani e indigeni, istituzioni romane e organizzazione locale. Nelle epigrafi di Rossano troviamo menzione di magistrature (questura, censorato), ma non quella del MEDDIX osco, presente invece, per esempio, nelle epigrafi di Pietrabbondante.133 Questa assenza del MEDDIX deve essere interpretata come indizio del fatto che la produzione epigrafica ufficiale di Rossano è connessa in qualche modo alla romanizzazione? Oppure indica una diversità di organizzazione e struttura rispetto ad altri santuari? Il meddix è in realtà, in Lucania, una figura piuttosto indefinita ed il termine stesso sembra avere un significato generico di “magistrato”. Due documenti osco-lucani conservano, oltre alla già citata Tabula Bantina, il nome del meddix: un’iscrizione riportata su un elmo conclusa dalla formula sub medikiai + gen. e un blocco della cinta di fortificazione di Muro Lucano134 con la scritta Mais Arries sou Fen meddiken, molto simile per tipologia alla celebre iscrizione έπί τής Nυμμέλου αρχης, in cui il nome del magistrato Nummelos è anellenico: omogeneità di contesto (appartenenza delle due iscrizioni ad una cinta muraria), omogeneità di cronologia (seconda metà del IV sec.), omogeneità testuale (l’indicazione cronologica è fornita in entrambi i casi da una “formula di datazione”). Le due iscrizioni potrebbero riferirsi alla medesima magistratura indigena (la meddikia, tradotta con αρχης nell’iscrizione di Serra?). Ora, si nota che l’elmo iscritto e il blocco della cinta di Muro Lucano appartengono ad uno stesso “ambito”, che è quello militare. Alla luce di ciò Poccetti si chiede se non sia casuale che la menzione della meddikia non compaia nelle iscrizioni di Rossano, che non sono in alcun modo collegate all’ambito militare. Se la meddikia in Lucania è connessa con contesti “militari” è a questo punto da domandarsi se non si possa riferire ad essa il celebre e già menzionato passo di Strabone VI, 1, 3, C254: il basiléus eletto dai lucani in 51

caso di guerra potrebbe essere proprio il meddix, la cui presenza è attestata in Lucania proprio da documenti di tipo militare. D’altra parte non è detto che il termine basileus debba essere necessariamente tradotto con rex “re”. Potrebbe infatti semplicemente indicare una magistratura straordinaria e dotata di poteri “eccezionali” al di fuori della prassi politica “normale” democratica (in effetti, nel testo di strabone basileus si contrappone a edemokratounto). Poccetti non ritiene che sia possibile, come proposto invece da Marina R. Torelli, identificare i σεγονω. αιζνιω. ρεγο menzionati dall’iscrizione RV-28, le “statue bronzee dei re” erette da magistrati, con i basileis di Strabone e, in generale, con pubbliche magistrature. Sarebbe strano, infatti, che l’iscrizione menzioni il dedicante ma non riporti i nomi dei personaggi oggetto della dedica specificando invece solo la loro carica. Poccetti ritiene che i “reges” possano essere invece senza difficoltà, i Dioscuri o la coppia regale Giove-Mefitis. Dato che l’attestarsi di uno specifico formulario ufficiale nelle epigrafi di Rossano non si colloca prima della fine del III a.C. è credibile, tuttavia, che proprio questo aspetto sia difficilmente separabile dall’impronta romana. Anche a Pietrabbondante, del resto, anch’esso santuario rappresentativo di un koinon, quello sannitico, l’apparire della documentazione di carattere pubblico-politico secondo precisi schemi formulari si pone tra II e I a.C., legandosi a quella fase di sviluppo edilizio e architettonico del santuario, presente in tutto il mondo romano-italico. In particolare risulta interessante soffermarsi, partendo proprio dalle epigrafi di Rossano, il problema della interpretazione dello stesso santuario della Mefitis come santuario “federale” dei Lucani. La natura eminentemente “politica” del santuario di Rossano emergerebbe chiaramente tanto dalla organizzazione planimetrica degli spazi, non incentrati su un edificio coperto sede della divinità ma disposti in significativa articolazione con uno spazio-spiazzo centrale lastricato contornante un grande altare, chiuso su tre lati da strutture coperte, destinate in parte a contenere ex voto. Inoltre, la presenza di donari di notevole qualità ed impegno formale, oltre che la presenza di epigrafi è segno diretto dell’altrettanto diretto coinvolgimento del potere politico, e dello stretto intreccio esistente tra questo e la sfera religiosa.135 Prosdocimi ipotizza una trasformazione del culto da “locale”, extraurbano, di tradizione italica e lucano-sannita, in un culto “di stato” o “federale” di una touta o più toutas nel momento in cui emer52

ge il “politico”.136 Di qui Mefitis si trasforma in divinità parapoliade (Utiana) e regale (Domina Giovia) venerata in coppia con Giove nelle due epigrafi gemelle RV-17 e 18, di cui si esalta anche nelle dediche la “pubblicità” (a differenza di dediche più antiche ad es. RV-33 o 35). L’epiteto UTIANA attribuito a Mefitis sarebbe da porsi in connessione proprio con questa trasformazione da lucano a federale del santuario. L’etnico corrisponde al nome della touta di Rossano, appunto gli Utiani. Mefite Utiana è la Mefite degli Utiani, e si trasforma da divinità ctonia e catactonia a divinità della comunità, in parallelo con l’ufficialità di alcune dediche di personaggi pubblici. Anche Domina Iovia può essere identificata con Mefite stessa. Si tratta forse di un effetto secondario derivante dalla progressiva espansione e pubblicizzazione del culto, in connessione con l’inserimento di Giove.137

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IL CULTO DI MEFITIS I materiali e le questioni cultuali Nello studio di un’area sacra, soprattutto in assenza di fonti scritte e, spesso, di documentazione epigrafica, sono in particolare i materiali, i reperti a carattere votivo e rituale, a fornire importanti indizi per la lettura e interpretazione del contesto indagato. L’analisi delle iconografie più significative, la presenza di associazioni particolari di simboli e oggetti votivi, la differenziazione nella distribuzione dei manufatti o, per contro, il recupero di situazioni analoghe o comunque confrontabili all’interno di uno stesso contesto - vere e proprie costanti della stratigrafia, che rimandano ad analoghi riti ripetuti in punti diversi -138 possono non essere casuali e fornire indizi importanti per la decodificazione e la comprensione del rito e delle sue “dinamiche”, per la definizione della particolare fisionomia della divinità e del tipo di culto a essa prestato. La messe di materiali restituita dallo scavo del complesso sacro di Macchia di Rossano è enorme: migliaia di ex voto in bronzo e terracotta, resti di almeno tre statue in bronzo, tre statue femminili in marmo, un torso di Ermafrodito ed una testa femminile sempre in marmo, vari oggetti in metallo, ricchi ornamenti femminili, thymiateria, antefisse ed appliques fittili, una discreta quantità di ceramica. La varietà e la complessità di aspetti del culto di Mefitis, già emersa dall’esame delle testimonianze epigrafiche del santuario, potrebbe trovare, nel confronto con la documentazione materiale, un ulteriore e utile riscontro. Preme qui sottolineare, tuttavia, come, a fronte di una mole davvero eccezionale di dati, che potrebbero costituire una valida base e un interessante punto di partenza per una indagine più approfondita e puntuale sul culto, non sia stato ancora completato lo studio del materiale rinvenuto. Non esiste, anzi - se escludiamo la sintesi di Adamestea54

nu nel Rapporto Preliminare del 1992 e lo studio di M. Denti sulla statuaria in marmo di Rossano di Vaglio,139 relativi alla prima campagna di scavi condotta nel santuario lucano - ancora oggi una pubblicazione complessiva dei materiali del santuario: i dati appaiono ancora dispersi, sparsi qua e là senza che si sia tentato di raccogliere e raccordare tra loro i risultati dei diversi scavi. D’altra parte, il materiale rinvenuto nel corso delle più recenti indagini nel santuario non è stato ancora analizzato ma attende ancora “accuratamente pulito, restaurato e sistemato per classi [...] uno studio cronologico e tipologico più approfondito”.140 È chiaro che si potrà in questa sede fornire solo una breve sintesi, tesa soprattutto a mettere in luce alcune caratteristiche della personalità della dea Mefitis, non immediatamente evidenziate dalla documentazione epigrafica. Il materiale coroplastico del santuario di Rossano di Vaglio è innanzitutto costituito da un cospicuo numero di piccole terrecotte figurate, assai varie per tipologia ed iconografia.141 Esse comprendono figure femminili sia assise che stanti, poche figure maschili, protomi, numerosi busti, rilievi figurati, figure di animali, frutti fittili. Tra gli ex voto scoperti nel santuario di Mefitis le statuette rappresentano senza dubbio il gruppo più numeroso. Si contano circa mille esemplari, di cui purtroppo pochissimi in buono stato di conservazione, tutti databili all’età ellenistica, in genere di buon livello artistico e qualitativo.142 Le argille utilizzate si presentano per composizione molto varie mentre i tipi sono quelli comunemente riscontrabili nello stesso periodo in altri santuari Lucani. L’ex voto in terracotta, infatti, “è simbolo del rapporto che il fedele intendeva istituire con il divino, il segno tangibile di una avvenuta azione rituale, in occasione di feste o particolari ricorrenze da celebrare”.143 Sia che raffiguri l’offerente, sia che personifichi la divinità stessa, esso si contraddistingue spesso per l’associazione con determinati attributi, peculiari della divinità rappresentata. Non è tuttavia infrequente il caso di ex voto caratterizzati invece da iconografie generiche, e dunque non specificamente legati ad alcuna divinità e rimandanti a culti diversi.144 Generalmente vale, nel campo della coroplastica, la seguente regola: “non è il tipo di terracotta più frequentemente attestato a fornire la chiave interpretativa di un contesto cultuale”.145 Sono invece le iconogra55

fie meno frequenti, proprio in ragione delle loro caratteristiche specifiche, a fornire elementi utili all’identificazione della divinità ipostatizzata nel fittile votivo. È chiaro che singoli soggetti o iconografie non possono fornire da soli l’interpretazione di un contesto cultuale. Occorre considerare invece il contesto nella sua totalità, verificare il quadro complessivo dei tipi attestati, rilevare la presenza di particolari associazioni di tipi per non incorrere in fin troppo facili errori di interpretazione146 che potrebbero pregiudicare la corretta comprensione del fenomeno cultuale. Il rischio è quello di prestare eccessiva attenzione all’analisi delle singole iconografie, attribuendo loro significati completamente avulsi da quello che è il contesto generale in cui esse sono inserite. Le più numerose sono statuette femminili, sedute o stanti, spesso recanti un attributo o un oggetto.147 Il tipo del personaggio femminile seduto in trono, con varie acconciature o copricapo a polos e diversi attributi, è diffuso e presente in tutti i contesti sacri dell’area lucana. Lo schema iconografico della “dea in trono”, tipo di probabile origine ionica148 ma diffuso almeno dalla metà del VI sec. a.C. in Sicilia e Magna Grecia, giunge, all’inizio del V sec. a.C., a Poseidonia da dove si diffonde in tutto il versante tirrenico dell’Italia meridionale, producendo una serie di varianti e rielaborazioni del tipo iniziale, fino a giungere alla schematizzazione, che conosciamo ben attestata per tutto il IV secolo: la dea si presenta assisa in trono in atteggiamento ieratico; nella mano destra essa regge solitamente una phiale; nella sinistra reca una melagrana o un oggetto; sul capo è il polos.149 Si tratta di un’immagine assolutamente neutra e generica,150 dunque suscettibile di essere “adattata” a sfere cultuali diverse. Pare certo, innanzitutto, che questa immagine sia una rappresentazione della divinità e non dell’offerente. La presenza del trono, infatti, è indicativa del carattere “divino” della figura, sebbene non in grado di fornirci indicazioni precise sull’identità del personaggio rappresentato151. Lo stesso copricapo a polos è generalmente indicativo della condizione appunto “divina” della figura rappresentata. Sia trono che polos non sono tuttavia appannaggio di una sola, singola divinità ma si ritrovano associati a divinità diverse, sebbene spesso si tratti di divinità ctonie (Demetra in particolare).152 Generici sono anche gli attributi che la fi56

gura reca in mano: innanzitutto la phiale, che si trova frequentemente associata a divinità diverse, interpretata come riferimento al sacrificio e alla benevolenza della divinità che lo riceve. Presente spesso la melagrana, che tuttavia non ricorre come attributo esclusivo di una singola divinità. Associata ad Afrodite, la melagrana è allusiva della sfera del matrimonio e della fecondità femminile. Ma un legame con la melagrana è attestato anche per Hera: numerosissime le statuette di dea in trono con melagrana provenienti dal santuario della dea alle foci del Sele, ma anche da numerosi altri santuari di area pestana. È anzi verosimile supporre che, proprio in area posidoniate, il tipo sia nato in diretta connessione con il culto di Hera, grazie alla polifunzionalità della dea, che rende lo schema facilmente utilizzabile anche per divinità diverse, ma che presiedono funzioni analoghe.153 Nel gruppo di donne sedute del santuario di Rossano di Vaglio, frequenti quelle, forse raffiguranti la stessa Mefitis, con in mano una patera (tipo attestato in tutti i santuari lucani) o un tympanon, o entrambi gli attributi, oppure una patera ed un volatile, una papera o un’oca, in grembo. L’iconografia è certo riconducibile alla sfera afrodisiaca e matrimoniale-matronale: animali notoriamente sacri ad Afrodite, la colomba, l’oca, la papera o il cigno sono infatti simboli di uno status, quello appunto del matrimonio, della vita femminile e domestica nel suo aspetto riproduttivo.154 Altrettanto diffusa la figura di donna seduta recante una melagrana,155 con il braccio destro alzato e portato sul seno. Alcune presentano copricapo a polos, e indossano spesso eleganti collane e orecchini. Altre hanno il capo scoperto o un copricapo a punta e reggono uno specchio, fiori, una patera o altri oggetti. Anche il gruppo di donne stanti è piuttosto numeroso e abbraccia un arco cronologico piuttosto ampio, dalla seconda metà del IV a.C. fino a fine II secolo a.C.156 Tra gli attributi più frequenti, l’oca o la colomba, lo specchio, la patera, l’oinochoe, la phiale. Frequente l’immagine della donna che allatta un bambino (kourotrophos) o la donna incinta, la donna avvolta nel velo spiegato al vento, spesso recante una cornucopia. È interessante notare come le statuette raffigurino la donna in tutti gli stadi di età e come, attraverso di esse, sia possibile seguire il “percorso” e le differenti fasi della sua posizione all’interno della comunità: dall’infanzia, alla pubertà e alla giovinezza (giovani donne con uno 57

specchio, figure danzanti), al momento del matrimonio (figure di giovani donne recanti corone nuziali), della gravidanza e della maternità (figure di donne incinta, o che allattano un bambino), fino alle raffigurazioni di donne mature, sedute, recanti in mano doni votivi. Alle immagini della dea si affianca inoltre una ricca serie di ex voto raffiguranti offerenti: si tratta spesso di fanciulle, riccamente vestite ed acconciate, che adorne talvolta di orecchini, collane o corone, raffigurate nell’atto di offrire alla dea fiori o animali, o recanti un’oinochoe, una patera o un animale.157 Presente anche, nel gruppo di figure stanti, la raffigurazione dell’ephedrismòs, con esemplari databili al IV-III secolo a.C. Accanto a queste iconografie più generiche, che non consentono di definire con precisione la personalità e le caratteristiche della dea, ne compaiono tuttavia altre che in maniera più diretta riconducono invece alla sfera e al mondo di Afrodite. È il caso, ad esempio, del tipo della figura femminile, seminuda, appoggiato a un pilastrino o una colonnina, chiaramente derivanti dal bel noto tipo statuario della dea.158 Significativo, all’interno del quadro cultuale che stiamo tentando qui di delineare, il rinvenimento di qualche esemplare di figurina di flautista.159 È interessante rilevare come una statuetta fittile di flautista sia stata rinvenuta anche nel santuario di Torre di Satriano, anch’esso probabilmente dedicato alla dea Mefitis.160 Come nel caso di Torre di Satriano, la presenza del tipo potrebbe essere interpretata come offerta occasionale di un fedele. Tuttavia non può essere tralasciato il legame del soggetto (la suonatrice di flauto) con Afrodite, legame che sembra emergere in modo esplicito dalle evidenze attestate, accordandosi perfettamente con lo scenario del culto che andiamo ricostruendo. Aulo Gellio, nelle sue Notti Attiche161 racconta come “i Cretesi per solito iniziassero la pugna dopo che il suono della lira ne avesse regolato il passo; inoltre Erodoto nelle sue ‘Storie’ racconta che Aliatte, re della Lidia, uomo di costumi barbarici e lussuriosi, mentre guerreggiava con i Milesi, aveva nel suo esercito, pronto a dar battaglia, dei suonatori di flauto e di lire e anche delle suonatrici di flauto, di quelle che fan la danza nei banchetti più lascivi”. 58

La flautista è dunque un’etera, una cortigiana, simbolo di quell’amore illecito cui è connessa anche Afrodite.162 A. La Regina ha tentato, in un recente e interessante articolo,163 di dimostrare come proprio nel santuario di Rossano di Vaglio fosse invalsa la pratica della prostituzione sacra. L’autore analizza infatti l’iscrizione che testimonia la pratica della prostituzione sacra nel santuario di Giove a Tarincra (Rapino) sottolineando come l’epiteto iovia con cui sono designate le asignas (ancillae) e la stessa sacerdotessa del santuario di Rapino, compaia anche nelle epigrafi RV-17 ed RV-18 di Rossano di Vaglio: “(presi gli auspici) gli dei (sono) favorevoli; legge per il popolo marrucino: le (ancelle) giovie di Giove padre dell’arce Tarincra assegnate in servitù, dopo che il popolo marrucino avrà preso gli auspici su di esse, siano poste in vendita; le ponga in vendita al giusto prezzo la sacerdotessa giovia per accrescere il tesoro di Cerere; (presi gli auspici gli dei) sono favorevoli; (i marrucini) hanno stabilito che nessuno tocchi il denaro ricavato dalla vendita se non quando ne abbia il diritto”.164 La Regina sottolinea come la legge non riguardi una semplice vendita di schiave, ma l’istituzione della pratica della prostituzione sacra nel santuario, allo scopo di incrementarne le finanze: le iouias asignas, “ancillae ioviae”, attribuite al servizio del santuario di Giove dovranno essere poste in vendita da una sacerdotessa, anch’essa “iovia”, che amministra un tesoro particolare, quello “di Cerere”. La presenza di un “tesoro di Cerere” a Rapino richiama, per La Regina, l’istituto del culto di Cerere e Venere, assai diffuso presso Peligni e Marrucini: a Teate è documentata nel III secolo a.C. l’istituzione di un sacerdozio di Venere, mentre a Corfinum, una sacerdotessa di Cerere e Venere era detta pristafalacirix, “prostibulatrix”, cioè incaricata delle prostitute. Non è forse casuale che nello stesso contesto sia presente anche Venus/Herentas. Un’iscrizione si conclude con le parole “dida uus deti hanustu Herentas”, “Venere vi conceda una prosperosa vecchiaia”.165 La connessione con Venere, per La Regina, è indicata non solo dalla menzione di Cerere, ma anche dallo stesso epiteto “iovia”: Venere è infatti “iovia” per ascendenza166 e l’attributo è epigraficamente ben attestato. A 59

Rossano le due iscrizioni RV-17 e 18 furono rinvenute nell’angolo SO del sagrato presso un monumento interpretato come un doppio altare o più probabilmente, secondo La Regina, come due basi di statue. L’iscrizione è una dedica, posta per decisione del senato, a Giove e a una strana διωFιιας . διομανα[ς], “Signora Giovia”. Per La Regina non solo la posizione dei piedistalli non è adatta a collocarvi altari, ma la “Signora Giovia” che l’iscrizione menziona non sarebbe neppure una divinità ma un personaggio mitico: Diomeneia, figlia di Arcade e nipote di Zeus, una cui statua bronzea era collocata secondo Pausania167 nell’agorà di Mantinea. Il legame con ambienti peloponnesiaci, qui evidente, sembrerebbe confermato, nell’iscrizione RV-35, rinvenuta nell’amb. II, dalla menzione della ninfa Oina: l’iscrizione ci è purtroppo pervenuta mutila, ma οιναι . νυ, della parte terminale dell’iscrizione, è interpretato da La Regina come “Oenae ny[mphae]”, e non “oinai nu[muliai]”, ipotizzato invece dal Lejeune.168 Il nome della ninfa, Oina o Oena, è innanzitutto connesso con il vino e dunque con Venere.169 La stessa Oina compare come ninfa in almeno tre contesti mitologici differenti: su uno specchio di produzione magnogreca (III a.C.) essa è raffigurata con due menadi in una scena dionisiaca; su due vasi apuli a figure rosse (340-330 a.C.) Oino è una delle ninfe cui Dioniso ha attribuito il compito di riprodurre i doni della natura; su un altare del tempio di Atena Alea a Tegea (IV a.C.) Oinoe è raffigurata con Zeus bambino come sua nutrice.170 Ancora a rapporti con ambienti peloponnesiaci, in particolare della Laconia, si riferirebbe per La Regina dall’iscrizione RV-52, interpretabile come dedica a Numisio Mefitano da parte dei Thalamatai: la parola, putroppo mutila, con cui inizia la dedica, [...] αματομ potrebbe infatti essere ricostruita come genitivo plurale di “Tahalamatai”, appunto “Thalamat-um”, “dei Thalamati”.171 Thalamai, illustre città della Laconia, era nota e ben conosciuta per i suoi culti, in particolare quello dei Dioscuri, e di Pasiphae e Ino. La Regina fa notare come proprio Ino fosse l’altro nome di Leukothea, assimilata dalla tradizione italica ad Albunea, la cui relazione con Mefitis è confermata da un passo di Servio. Nel santuario di Rossano di Vaglio sarebbe dunque presentata “una tradizione relativa a origini arcadico-pelasgiche dei Lucani, così come i sanniti potevano vantare origini spartane. Tramite Diomeneia i Lucani avevano istituito, senza rinnegare le evidenti origini comuni con i Sanniti, una loro ascendenza divina ed una provenienza dall’Arcadia. Diomeneia doveva dunque costituire, tramite la sua discen60

denza, l’elemento di connessione con la tradizione italica, testimoniato nel santuario di Mefite dalla presenza di altre divinità, come Numisius Mamertius e Venere Mefite o Mefitana”.172 I νυμυλοι . μεfιτανοι e νυμυλοι . μαμερτιοι dell’iscrizione RV-35 non sarebbero per La Regina “la stessa figura”. Saremmo piuttosto in presenza di una sorta di “genealogia del fondatore del popolo lucano” che da Diomeneia giunge a Mefitis.173 La presenza di Mamers nel santuario di Rossano di Vaglio, associato da Dionigi di Alicarnasso174 alla pratica della “hieroduleia” in ambiente sabino, e la connessione di Venere con Mefitis sembrerebbero suggerire che anche nel santuario lucano fosse praticata la prostituzione sacra. La presenza di “una certa quantità di frutti di mare”, sorprendente, per certi versi “se si pensa che il mare è lontano c.a. 100 Km”, ed in particolare di “purpurea, base per la tinta rossa per la lana” è segnalata da H. Dilthey nell’articolo, più volte qui richiamato, “Sorgenti, acque e luoghi sacri in Basilicata”.175 Purtroppo non è chiara, nel testo, l’esatta ubicazione “fuori dall’area principale, verso N/NO”- dell’ambiente in cui doveva essere avvenuto il ritrovamento, peraltro descritto in modo quantomeno ambiguo.176 Le indicazioni fornite risultano generiche e, d’altra parte, dell’ambiente e dei ritrovamenti effettuati al suo interno, pur giudicati “sorprendenti” dalla stessa Dilthey,177 non c’è più alcuna menzione nelle successive pubblicazioni sul santuario. Forse non del tutto casuale è la menzione in RV-51 di un gentilizio, Slabies, piuttosto raro, e attestato a Ercolano nel nome di un magistrato, L. Slabiis L., in una dedica a Venus Erycina. Sappiamo del resto da un passo di Giustino178 che la prostituzione sacra era sicuramente praticata a Locri Epizephyrii nel IV secolo a.C. nel suburbano santuario di Afrodite, in località Centocamere: la parte più monumentale era costituita da un portico ad “U”, disposto su tre lati, con il quarto aperto invece verso il mare. L’edificio doveva comprendere una serie di stanzette di uguali dimensioni, di cui si conservano oggi solo le fondazioni in pietra, mentre l’alzato doveva essere in mattoni crudi e legno. All’interno della corte sono stati rinvenuti ben 371 pozzi sacrificali che attestano la frequentazione dell’area sacra dal VII fino al IV sec. a.C.. Il santuario era dedicato ad Afrodite, come si apprende da alcuni frammenti di vasi, recuperati nei pozzi sacrificali, recanti iscrizioni dipinte con dediche alla dea, e da una iscrizione in pietra, sempre con dedica ad Afrodite, recentemente rinvenuta. La singolare struttura del 61

monumento e la sua particolare ubicazione, fuori dalle mura cittadine e nelle vicinanze del porto, hanno fatto ipotizzare che proprio il santuario di Afrodite fosse il luogo in cui era praticata a Locri la prostituzione sacra, importata dal mondo orientale.179 L’ipotesi di La Regina è che la pratica, caduta in disuso nel corso del III secolo a.C. venisse ripresa dopo la seconda guerra punica nei santuari dell’Italia centro-meridionale, destinandovi prigioniere ridotte in schiavitù, incrementare le finanze dei santuari, devastati durante la guerra annibalica, e ripristinarne la floridezza. Numerosissime le testine femminili,180 con copricapo, spesso a polos (semplice o decorato, alto o basso), o senza copricapo, o caratterizzate da complicate acconciature (ad onde, a melone ecc.). Talvolta le figure indossano anche coroncine o orecchini, spesso molto vistosi. Presenti anche testine maschili, poche, tra cui almeno due testine della divinità orientale Attis, riconoscibile per il copricapo di tipo frigio. Vari busti femminili provengono dalle stipi votive del santuario, in varie pose e atteggiamenti. Come per le testine, troviamo busti femminili con copricapo, altri senza, con capelli spesso ad onde, divisi sulla fronte e tenuti da una coroncina, spesso recanti frutti. Si segnalano in particolare 4 busti sorgenti da un fiore. La presenza di un foro nella parte inferiore potrebbe indicare il loro utilizzo come appliques per la decorazione di oggetti più grandi, forse thymiateria. La presenza di protomi e busti, rinvenuti numerosi in contesti funerari e in santuari dedicati a Demetra e Kore, soprattutto in Sicilia (Agrigento, Gela, Selinunte) e in contesti magno-greci, ha indotto ad associare questo tipo di rappresentazioni a culti ctoni, e in particolare demetriaci, autorizzandone l’interpretazione come raffigurazioni dell’atto dell’anodos. Il tipo ha grande fortuna in tutta l’area lucana tra IV e III secolo a.C. e si ritrova, oltre che a Rossano, a Satriano, Grumento, Armento-Serra Lustrante. In realtà è stato ampiamente dimostrato non solo come protomi e busti raffigurino spesso divinità diverse da Kore/Persefone, ma anche come lo stesso concetto di anodos non sia ad essa esclusivamente riferibile. “Divinità dell’anodos”, secondo la definizione di Bérard,181 è anche Afrodite per il suo legame con l’idea di fertilità della terra e fecondità femminile. Non è forse casuale che, nel repertorio di raffigurazioni della pittura vascolare, la nascita della dea 62

sia rappresentata come una sorta di “risalita” - anodos, appunto - dalla terra o dal mare. Va inoltre sottolineata l’assenza, nel repertorio coroplastico del santuario di Rossano di Vaglio, di iconografie tipiche del culto Demetriaco: mancano del tutto, infatti, figurine di offerenti con porcellino, animale sacro a Demetra, o recanti una fiaccola, altro elemento ricorrente del culto della dea, sebbene testine e figure di suini compaiano tra gli ex-voto raffiguranti animali. Non mancano a Rossano ex voto di figure maschili.182 Tra i più interessanti, due frammenti raffiguranti un torso e la parte inferiore del corpo, una testina virile ed una figura recante una cista nella mano sinistra e un vaso nella mano destra. La struttura corporea è simile a quella degli Eroti raffigurati sui dischi. La base della statuetta, di forma conica, indicherebbe che essa era inserita o fissata a un oggetto più grande. Queste statuette potrebbero rappresentare Mamerte, divinità che affianca Mefitis nel pantheon rossanese, oppure immagini di guerrieri. Non mancano infatti nel santuario ex voto della vita militare: punte di lancia in bronzo o ferro, schinieri, cinturoni, elmi, parti di armi. Frequenti anche figurine di cavalli, morsi equini in ferro o bronzo, una di un carro da guerra. La presenza di questi oggetti ed ex voto testimonia la partecipazione al culto anche da parte di armati, forse in connessione con particolari riti di passaggio che sanciscono l’acquisizione dello status di guerriero. Significativa, in particolare, ancora tra gli ex voto, la presenza di uova in terracotta, simbolo di rinascita nei riti di passaggio. Le fonti sui Sanniti indicano Artemide, in particolare, come la dea che sovrintende all’educazione militare dei giovani. Artemide è una divinità estremamente complessa, da una parte signora degli animali e dei “margini”, dall’altro protettrice dei passaggi di status femminili e maschili. Nella tradizione greca essa appare spesso in connessione con sorgenti e più in generale con acque caratterizzate da proprietà “terapeutiche” e curative. Una dedica ad Artemide Soteira proveniente dal santuario di Demetra a Policoro, attesta e conferma la sua funzione di protettrice delle future spose, in quel fondamentale momento di “passaggio” che è il matrimonio, e del parto.183 L’Artemis Bendis, invece, nel mondo greco, è anche una divinità guerriera, frequentemente raffigurata con due lance, spesso associata a Demetra e Orfeo. Non è un caso che proprio Artemide sia anche la di63

vinità che salva gli schiavi e li rende liberi.184 Significativo in tal senso il recentissimo rinvenimento di un’antefissa raffigurante proprio l’Artemis Bendis, da mettere in relazione, secondo l’ipotesi di M. L. Nava, con la presenza di culti prestati alla dea. Interessante in tal senso l’ipotesi di H. Dilthey185 che tutta la zona S del complesso sacro fosse dedicata a Mamerte, almeno in una fase iniziale di vita del santuario. L’ultima grande ristrutturazione del santuario, avvenuta per la Dilthey nella prima metà del I secolo a.C.186 avrebbe infatti “spianato e rinchiuso sotto di sé il materiale votivo e gran parte anche delle strutture anteriori della parte S/E. Questa osservazione è importante per l’interpretazione dell’unico posto finora rispettato dalla nuova costruzione”: due tronchi di colonna in pietra tufacea sono inglobati nella scalinata dell’amb. IV, impostati su blocchi di pietra morta “che stanno nello strato sotto le fondazioni della stoà”. Potrebbe trattarsi di colonne votive o di un naiskos. Uno dei blocchi reca un’iscrizione su tre righe con dedica a Mefitis. È ipotizzabile che l’iscrizione RV-33, una delle più antiche del santuario, con dedica a MAMERTEI MEFITANOI, trovata vicinissima ad uno dei tronchi di colonna “nello stesso strato” debba essere riferita proprio alla colonna, per questo “rispettata nel nuovo impianto”. A conferma ulteriore dell’ipotesi che l’area in questione fosse riferita proprio a Mamertius, l’iscrizione RV-35, della stessa datazione di RV-33, con dedica a NYMYLOS MEFITANOI NYMYLOS MAMERTIOI, trovata poco distante “sotto l’ambiente II”, e la stessa iscrizione - già citata - RV-28 in cui i “reges” in questione potrebbero, secondo la Dilthey essere identificati proprio con Mamertius e Mefitis. Anche i materiali sembrano mostrare nella zona un aumento di strumenti e armi in ferro e bronzo, ex voto della vita militare, appunto legati ad un ambito “marziale”, dimostrando “un aspetto piuttosto maschile per il rito eseguito”. Frequenti anche rappresentazioni di personaggi mitologici connessi ancora alla sfera afrodisiaca (Eroti, Ermafrodito), e divinità orientali (Iside).187 Assai interessante, infine, dal punto di vista cultuale, il rinvenimento di statuette, testine e maschere raffiguranti satiri o personaggi della commedia.188 Secondo l’ipotesi di Adamesteanu, un teatro, localizzabile forse a SO delle strutture poste in luce,189 doveva essere associato al santuario. In realtà, quella teatro-santuario è un’associazione 64

“tipica” che ritroviamo in numerose realtà monumentali coeve, nel Lazio (si pensi, per intenderci, all’esempio più noti di Gabii), ma anche in area sannitica (Pietrabbondante). Il modello è certo quello monumentale “ellenistico”, riconducibile alle grandi manifestazioni dell’architettura microasiatica e insulare (Cos, Lindos, Delos), caratterizzato da soluzioni spaziali ricche di effetti scenografici. Non parrebbe, in questa prospettiva, del tutto improbabile l’idea, già suggerita dallo stesso Adamesteanu e confermata nelle più recenti pubblicazioni sul santuario190, che - come ad Armento-Serra Lustrante e Chiaromonte - anche a Rossano di Vaglio il complesso sacro fosse caratterizzato “nel suo assetto definitivo, da un’articolazione dello spazio sacro su più livelli, realizzati mediante terrazze collegate da scalinate che si affacciano sulla vallata sottostante percorsa dal fiume Basento [...] Sarebbe interessante possedere dati sull’edificio di culto del santuario di Rossano, che purtroppo gli scavi non hanno ancora riportato in luce; è molto forte la suggestione che esso potesse trovarsi sulla terrazza superiore del santuario, in asse con il doppio altare collocato nella terrazza sottostante”.191 E tuttavia, la presenza delle maschere nel santuario potrebbe avere una diversa spiegazione: Satiro, Pan, i sileni rinviano infatti all’idea della fecondità maschile, e risultano d’altra parte connessi con Fauno ed Ercole, quest’ultimo, menzionato in un’iscrizione con dedica recentemente rinvenuta nel santuario. Conosciamo il repertorio di scene e personaggi delle cosiddette “commedie filiaciche” attraverso la produzione vascolare: vasi apuli a figure rosse, appunto detti, per la particolarità dei soggetti trattati, “filiacici”, conoscono un’enorme diffusione in tutta l’Italia meridionale, prima a Taranto, poi a Paestum, infine in Campania e Sicilia accompagnando lo sviluppo della produzione apula a figure rosse per tutto il IV sec. a.C. Il nome deriva da Phylax, che indicava, appunto, sia un genere teatrale, sia i suoi attori e identificava anche, non a caso, una figura popolare, sorta di demone della vegetazione del corteo dionisiaco. La rappresentazione di commedie filiaciche risulta facilmente riconoscibile per il particolare tipo di costume indossato dagli attori, caratterizzato da una aderentissima calzamaglia, che simulava la nudità, dotata di apposite imbottiture all’altezza del ventre e del sedere e provvista di un enorme fallo, sulla quale era solitamente indossata una corta tunica o un grembiule. Protagonisti delle commedie sono non solo uomini comuni, colti in situazioni di vita quotidiana, ma anche personaggi del mito o delle grandi tragedie e gli stessi 65

dei, colti nei loro difetti ed umane debolezze. Bersaglio della comicità filiacica sono soprattutto Zeus, Apollo, Ermes, ma sopratutto il popolarissimo Eracle.192 Ercole è l’eroe civilizzatore per eccellenza, l’emblema dell’uomo divinizzato, colui che pone fine alla sopraffazione e alla ferinità pre-urbana imponendo il rispetto delle regole del vivere civile. Ma esso ha anche una connotazione agreste e pastorale, ed è legato in particolare alla transumanza.193 Fauno è invece connesso a una società essenzialmente pre-argicola, legata alla pastorizia e all’allevamento, ed essenzialmente pre-urbana. Ma anch’egli è, come Ercole, eroe civilizzatore, in quanto fondatore delle tecniche e di tutte le istituzioni religiose, sociali. È Fauno a stabilire per la prima volta luoghi di culto e spazi per l’agricoltura, ponendo fine al disordine e iniziando il vivere civile. Dall’altra parte sia Ercole che Fauno hanno natura fallica, ctonia e oracolare.194 La “sovrapposizione” tra Ercole e Fauno appare inoltre confermata dal racconto delle fonti latine: Ercole violenta la casta moglie di Fauno (o la figlia), generando re Latino.195Alcune versioni riportano anche l’episodio dell’uccisione di Fauno da parte di Ercole, il quale si sostituisce allo stesso Fauno nel mito delle origini di Roma.196 Il motivo della violenza e dell’aggressione sessuale di Ercole è assai frequente nella mitologia latina e greca. In particolare, in Sat. I, 10, 13 Macrobio racconta della ierogamia di Ercole e Acca Larentia, nobilissimum scortum, una meretrice, che si accoppia con Ercole nel santuario del dio all’ara maxima. Gli studi di F. Coarelli hanno evidenziato come Acca Larentia fosse anche un’antichissima divinità venerata a Roma nella palude del Velabro. È ipotizzabile che proprio Fauno fosse in origine il titolare del culto, poi sostituito da Ercole, e che lo stesso fosse collegato più in generale al sistema di culti del Velabro, in quanto palude infera, luogo liminare e “critico”, accesso dell’Aldilà. L’associazione di Ercole/Fauno, dio fallico e mascolino e la prostituta Acca Larentia si presenta dunque come rito propiziatorio della fertilità per il nuovo anno. D’altra parte lo stesso Fauno incarna gli istinti più selvatici e animaleschi dell’eros maschile, e compare spesso, in compagnia di satiri, come violentatore di fanciulle nel sonno. La sua funzione è quella di colui che innesca e inizia la fertilità femminile, mediatore - in altre parole - del passaggio della donna da una condizione di vergine-fanciulla a una di piena maturità sessuale, che ben si accorderebbe con il contesto generale, “afrodisio”, del culto appena descritto. 66

Dall’altra parte non è affatto trascurabile il legame di Ercole con la transumanza: malgrado l’origine greca, quello di Eracle è da considerarsi culto pienamente italico. Nel racconto mitico, il passaggio di Eracle in Italia si inscrive nel contesto della sua decima fatica, la cattura dei buoi del tricorpore Gerione.197 Questo custodiva le sue mandrie nell’isola di Eritia, al di là dell’oceano occidentale. Una volta fatta la razzia Eracle torna in patria passando per la Spagna, la Francia, valicando le Alpi per giungere infine in Italia. Numerose le tracce che si credevano lasciate dall’eroe e dai buoi nella loro discesa verso meridione, tramandate nelle leggende locali o erudite, raccolte dagli autori antichi o di cui ancora si riconoscono echi nella toponomastica: oggetti, monumenti, mirabilia (le zanne del cinghiale Erimante a Cuma, le “orme” di Ercole e dei buoi a Policoro e ad Agira in Sicilia).198 Di qui il legame essenziale dell’Ercole italico con il bestiame e la transumanza. È interessante sottolineare come (salvo che per la Sicilia) l’itinerario di Ercole in Italia non si discosti mai dal litorale, ligure ed etrusco prima, poi laziale e campano fino allo stretto di Messina. La geografia del mito non conosce l’entroterra. Ma se dal livello leggendario passiamo al dato archeologico scopriamo una topografia completamente diversa: tutti i santuari di Eracle si localizzano lungo la dorsale appenninica. Il culto è diffusissimo nell’hinterland umbro e sabellico, nei territori di Marsi, Peligni, Equi, e nel Lazio: a Palestrina, Tivoli, ma anche a Roma, cui Ercole è legato da riti e culti antichissimi (saga di Caco, Evandro, Ara Massima ecc.). Numerosissimi i santuari di Ercole nel territorio di Pentri e Ferentani, in Lucania, nel Bruzio. Frequentemente è stato ipotizzato che questi santuari fossero ubicati lungo le vie della transumanza, presso i mercati del bestiame. In realtà tra la geografia leggendaria della Geroniade e gli itinerari dei santuari dell’Italia interna c’è un nesso assai stretto: a Roma, ad esempio l’ara Massima di Ercole si erge a poca distanza dal Foro Boario, mercato dei buoi, proprio nel punto in cui le mandrie di Gerione avrebbero attraversato il Tevere, provenienti dalle saline alla foce del Tevere. Ai margini stessi del foro boario erano altre aree di stoccaggio del sale, indispensabile per la conservazione della carne. Per questo motivo Ercole riceve l’epiteto di Salarius “del sale” ad Alba Fucens. Anche in area vesuviana ritroviamo la stessa situazione: una “Porta del Sale” 67

a Pompei, veru sarinu in lingua osca, oggi Porta di Ercolano. Di là si andava verso le “saline erculee” nell’area di Torre Annunziata. Gli itinerari di Ercole risultano perciò più complessi di quanto possa sembrare: dalla costa, essi si ramificano verso l’interno, dal mare risalgono alla montagna.199 Proprio il rapporto dell’Ercole italico con le mandrie ed il sale mostra come la fondamentale funzione civilizzatrice sposi in qualche modo gli interessi (economici) delle genti italiche che lo stesso Ercole hanno “adottato”.200 Il legame tra Eracle e Mefitis si mostra dunque in modo abbastanza chiaro: Mefitis, in quanto divinità “che sta nel mezzo”, è essa stessa legata alla sfera economica, al commercio e all’agricoltura, ma soprattutto alla pastorizia e all’allevamento come suggerito dalla presenza nel santuario di numerosi ex voto raffiguranti bovini e caprini. Del resto, un rapporto di Mefitis con la transumanza troverebbe riscontro sia nel fondamento della divinità atta a presiedere un “rito di transizione” quale il passaggio delle mandrie e delle greggi ai nuovi pascoli stagionali, estivi in altura e invernali di pianura, sia dal fatto che alcune delle aree sacre della dea sono ubicate a ridosso dei percorsi tratturali. Figure di animali sono presenti - come si è detto - numerose nel santuario della Mefitis.201 Si tratta prevalentemente di animali domestici, ma non manca la presenza di creature fantastiche o di animali “esotici”: una sfinge (busto con sembianze femminili con lunghi capelli e largo sorriso?), un cammello o montone, un serpente (figure riconducibili a influenze orientali). E ancora cavalli, bovini, suini, numerose pecore e capre. Tra i volatili, colombe, papere, oche, cigni (legati, come si è detto alla sfera di Afrodite). Altri volatili fanno parte della fauna dei campi. Assai interessanti, sempre tra gli ex voto, anche i modellini di frutta: numerose melagrane, fichi, uva, pere, mele. La presenza di frutti fittili è, in generale, spiegabile in riferimento alla pratica, frequentissima nella ritualità antica, dell’offerta di primizie alla divinità come segno di rigenerazione e rinascita, allusivo della fecondità femmnile. La melagrana, tuttavia, in particolare, è un frutto legato, da un lato, al culto di Kore, ma associato spesso anche al sangue e dunque messo in relazione con i momenti di passaggio cruciali del mundus muliebris legati alla 68

maturazione sessuale: i numerosi semi che il frutto racchiude, la polpa rossa e succosa, ne fanno l’immagine della fertilità e dell’abbondanza, simbolo di immortalità e di rinascita della vita. Interessante anche in rinvenimento di una mandorla e di un modello di uovo. Tra gli ex voto anatomici, numerosi quelli i legati alla sfera riproduttiva e sessuale (uteri e mammelle): la loro presenza sembrerebbe poter suggerire che nel santuario di Mefitis avessero luogo pratiche particolari pratiche di guarigione di uomini e armenti. Il gruppo dei thymiateria occupa un posto importante tra i materiali del santuario. Le tipologie sono differenti, con varietà di forme e di esecuzione, spesso decorati con appliques raffiguranti volatili, una pantera (animale legato a Dioniso e simbolo erotico), Eroti, figure di danzanti, fanciulle, figure di donne recanti oggetti e offerte, o motivi vegetali come rosette e corone o simboli lunari. La presenza di thymiateria, utilizzati per bruciare incensi durante le pratiche rituali o per particolari riti di purificazione che prevedevano l’uso dell’acqua, tutt’altro che infrequente in siti a connotazione cultuale, risulta dunque particolarmente interessante per la definizione e comprensione delle espressioni del culto. Da segnalare anche la presenza di protomi e dischi. Frequenti rilievi - dischi o palcchette votive - con immagini di figure danzanti, colombe in volo, rosette, corone, volti femminili o busti, spesso nascenti da un fiore, Eroti. Questi ultimi vi sono raffigurati alati, con piume rese da leggeri solchi obliqui. La presenza di fori nella parte superiore suggerisce che i dischi fossero sospesi alle pareti di qualche ambiente. Su alcuni esemplari, assai interessanti, si conservano tracce residue di colore (bianco, celeste, rosa). Le antefisse, abbastanza numerose, presentano diverse tipologie di decorazione, con palmette o teste femminili (distinguibili a seconda dell’acconciatura). Da segnalare, inoltre, la presenza di almeno due grondaie fittili leonine, una rinvenuta sul pendio nell’area a N del sagrato,202 l’altra, invece, recentemente scoperta all’esterno dell’amb. If. Dall’area provengono anche alcune antefisse con decorazione a palmette, monete e fibule. 69

La ceramica sembra presente a Rossano di Vaglio in quantità piuttosto esigua o comunque poco documentata.203 Poco rappresentata la vernice nera: si ritrovano soprattutto esemplari di coppe, coppette, ciotole databili fino a tutto il III a.C. Presente qualche frammento di lekythos, e numerosi piatti, solitamente però di qualità piuttosto scadente. Pochi anche i frammenti di phialai e gli unguentari. Più abbondante, la ceramica acroma, da mensa e da cucina: piatti, scodelle, brocche e brocchette, lavorati al tornio. La ceramica più recente è quella di prima età imperiale, coppe e lucerne. Tra gli oggetti metallici rinvenuti i più numerosi sono i chiodi, probabilmente utilizzati per sostenere le strutture lignee degli alzati dei diversi ambienti del santuario. Numerosi anche gli oggetti di ornamento: fibule, cinture, lamine e laminette in oro ed argento, vere e proprie parures della decorazione femminile, anelli, orecchini di varie forme e decorazioni, spesso con uso anche di pietre preziose.204 L’amb. III conserva i più numerosi frammenti di figure umane ed elementi floreali in bronzo. Lo scavo ha restituito grandi frammenti di panneggio femminile e resti di capigliature in bronzo, accuratamente lavorati, un ramo di lauro e un fiore in boccio, sempre in bronzo. Un frammento di testina muliebre, rinvenuto fuori dall’amb. III, a ridosso del suo muro est, pertinente ad una statua di dimensioni all’incirca un terzo del vero e databile tra fine IV e inizio III secolo a.C., doveva appartenere allo stesso gruppo. Se è possibile per la stessa ipotizzare una destinazione votiva, per quanto nei santuari prevalesse l’uso di dedicare alla divinità piccoli oggetti, busti, statuette o oggetti preziosi piuttosto che opere di grandi dimensioni (e quindi assai costose), è verosimile supporre invece che esso sia appartenuto ad una statua di culto della dea Mefitis, collocata nell’amb. III. Le minute proporzioni, i tratti delicati e sobri del volto, il naso dritto, la piccola bocca con le labbra leggermente dischiuse, il mento allungato, le superfici accuratamente levigate, suggeriscono una matrice post-prassitelica e lissippea. La lavorazione è estremamente accurata, e rivela una “volontà ornamentale”205 di tono celebrativo, chiaramente connessa alla rappresentazione della divinità che, attraverso la preziosa offerta, si voleva onorare. Il pezzo si presenta certo come un’opera di elevata fattura e notevole qualità, eseguito da maestranze esper70

te, “quasi certamente magno-greche”.206 Si potrebbe dunque pensare a un eventuale “asporto intenzionale di questo bronzo, frutto di una rapina eseguita dai Lucani in uno dei sacelli o dei santuari delle vicine colonie greche della costa ionica”,207 forse Metaponto, o Taranto. La dedica del simulacro, quasi “a titolo di trofeo”, in uno dei santuari indigeni più importanti del mondo Lucano sarebbe in tal caso giustificata proprio dalla preziosità del materiale, e leggibile dunque come testimonianza di “raggiunta acculturazione” da parte delle élites locali, nella “vetrina” del grande santuario. Risulta in tal senso assai interessante l’ipotesi208 che ricollega proprio alla (presunta) statua di culto della Mefitis, verosimilmente collocata - come si è detto - nell’amb. III, la ben nota (e discussa) epigrafe RV-28, menzionante la dedica di “segono aiznio rego” da parte di un senato lucano di II secolo a.C.. Se dunque i signa regum dell’iscrizione raffiguravano non tanto i basileis locali, ma piuttosto una coppia regale formata da Iuppiter e Domina Iovia,209 tenendo conto del fatto che πσανω . ειν . σταβαλανo, al rigo 5 dell’iscrizione, tradotto normalmente con “facienda et erigenda” non sembrerebbe prestarsi a interpretazioni del tipo “rifare” o “restaurare”,210 sarebbe possibile supporre che il frammento in questione appartenesse proprio a un simulacro originario della dea Mefitis, raffigurante la dea con un possibile partner,211 a formare la “coppia regale” menzionata nell’iscrizione. La dedica del pezzo bronzeo a Rossano si inserirebbe dunque “in quel graduale processo di adesione a modelli politici e culturali diversi da quelli originali osco-sanniti, processo che, forse già avviato dalle aristocrazie locali, dovette essere di fatto, anzichè imposto, piuttosto favorito e incoraggiato dai Romani stessi”.212 Tanto più significativo in quanto esso coinvolge il più importante santuario lucano e il suo simulacro di culto, anch’esso conformatosi a un prototipo iconografico, ideologico e religioso certo assai diverso e ormai lontano da quello della Mefitis “indigena”. Non sembrerebbero invece compatibili con quelle della figura femminile dell’amb. III le dimensioni di una mano, sempre in bronzo, proveniente dall’ambiente II. Sia la testa che la mano rivelano comunque grande finezza nella lavorazione. Una foglia di vite in bronzo, proviene invece dall’amb. I.213 Dall’amb. III provengono anche frammenti di statue in terracotta, a grandezza naturale, fose collocate sui basamenti antistanti le colon71

nine e frammenti di statuette fittili tra cui alcune testine databili a fine IV-inizio III secolo a.C.. Nell’amb. II, recuperata invece una mano sinistra fittile di una statua a grandezza naturale.214 Un telamone in pietra calcarea locale molto dura proviene dal grande “scarico” votivo dell’amb IV. Un secondo frammento di piede di telamone-trapeza, terminante a forma di artiglio con quattro dita, identico al telamone dell’amb. IV e lavorato sempre nella stessa pietra calcarea locale, fu rinvenuto invece, sul lato opposto dell’intero complesso, nell’amb. III.215 La datazione è fissata a fine IV-inizio III secolo a.C. A parte vanno considerate, meritando una trattazione più approfondita, le testimonianze scultoree in marmo del santuario, studiate da M. Denti.216 Si tratta di 6 statuette tardo ellenistiche di piccole dimensioni, tutte scoperte tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 in luoghi diversi del santuario. Tra queste, un torso di Ermafrodito, proveniente dall’ambiente II, sembra avere la datazione più alta,217 forse ancora tra la fine del III e la prima metà del II sec. a.C. Segue un gruppo collocabile a partire dalla seconda metà del II sec. a.C. costituito da una statuetta di Artemide in chitone, una statuetta di Artemide con peplo, una testina pertinente a un’immagine di Afrodite e un piccolo Erote, provenienti tutti dall’ambiente IV. Infine, tra fine II ed inizio I a.C. sembra collocarsi una piccola statuetta femminile, riconducibile ad un ambito isiaco.218 Ad esse si aggiunge una testa femminile marmorea di età ellenistica emersa, nel corso dei recenti scavi, all’esterno dell’amb. Ie. Le sculture sono tutte in marmo greco, raffigurano sempre immagini di divinità, hanno tutte dimensioni inferiori al naturale. Le caratteristiche stilistiche (solida concezione plastica dell’insieme, capacità di modulazione cromatica delle superfici, resa attenta dei dettagli), l’iconografia (riproposizione, in scala ridotta, di celebri tipologie statuarie raffiguranti divinità, di tradizione essenzialmente tardo-classica e prassitelica), la tecnica di lavorazione, il materiale utilizzato e le stesse proporzioni ridotte dei pezzi indirizzerebbero verso la produzione di ateliers microasiatici e insulari, rodii in particolare, attivi nella tarda età ellenistica. La maggior parte delle statue, come si è detto, provengono dall’amb. IV del complesso. Furono rinvenute confusamente ammassate insieme a pietre, frammenti architettonici, materiale fittile, nella grande “cavità” ad est dell’amb. IV, ma non conosciamo la loro colloca72

zione originaria. Un gruppo di lucerne di prima età imperiale datano con certezza tutto il riempimento della fossa, dovuto, come si è detto, probabilmente, alla fase di abbandono del santuario o, secondo l’ipotesi di Adamesteanu219, alla risistemazione dell’amb. IV nel I sec. d.C. Le ridotte dimensioni dei pezzi e la loro qualificazione iconografica (riproduzioni di celebri tipologie statuarie raffiguranti divinità) consentono tuttavia di ipotizzare per gli stessi una destinazione votiva. Il torso di Ermafrodito proviene invece dall’amb. II, insieme - come si è visto - a frammenti di grandi statue in terracotta, frammenti di panneggio in bronzo, una mano sinistra sempre in bronzo, frammenti di statuette raffiguranti animali, punte di lancia in ferro e bronzo. Sulla base di quanto esaminato e, tuttavia, in via solamente provvisoria in attesa che sia completato lo studio dei materiali del santuario, si possono qui tuttavia proporre alcune considerazioni: il sistema di immagini del santuario di Rossano ci presenta, coerentemente con le testimonianze epigrafiche, precedentemente analizzate, una dea dalle chiare connotazioni afrodisie, la grande πóτνια, “signora” e divinità femminile, che sovrintende allo svolgimento di pratiche rituali connesse al mundus muliebris e ai momenti cruciali, di “passaggio”, della vita della donna (riti di fecondità o passaggi di status che definiscono nuovi ruoli della donna all’interno del gruppo sociale). Un rapporto tra Afrodite e Mefitis è documentato non solo dalle iconografie presenti nel santuario di Rossano ma anche, epigraficamente, da iscrizioni attestanti una relazione intercorrente tra la stessa Mefitis e la dea Venus. Centrale importanza nel culto doveva avere la presenza di acqua sorgiva, captata e convogliata nel santuario attraverso un complesso sistema di canalizzazione da una vicina fonte. Mefitis è la dea che “sta nel mezzo”, tra sottosuolo e superficie, dea dall’aspetto poliedrico, dalle valenze ctonie e celesti, patrona dei mercati e degli scambi, propiziatrice della fertilità femminile e naturale, legata a tutte le fasi più importanti della vita dei membri della comunità e dei momenti cruciali e di “passaggio” che scandiscono e definiscono il nuovo ruolo dell’individuo nella comunità.

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La dea Mefitis in Italia peninsulare I luoghi di culto dell’Italia antica in cui è stata riscontrata la presenza di un culto di Mefitis sono numerosissimi. Oltre al santuario di Macchia di Rossano, in Irpinia: Valle d’Ansanto-Rocca S. Felice, Aeclanum,220 Aequum Tuticum,221 Casalbore;222 in Campania: Pompei, Paestum, Capua-Mons Tifata; in Lucania: Grumentum, Potentia. Il culto è inoltre documentato ad Atina,223 Settefrati,224 a Cremona, a Lodi.225 A Roma, invece, esso è noto solo dalle fonti letterarie (Festo e Varrone) e localizzato sull’Esquilino. Per alcuni siti è possibile invece al momento attuale solo ipotizzare la presenza del culto di Mefitis, partendo dall’analisi di alcuni caratteri, riscontrati in santuari sicuramente dedicati alla divinità, che possiamo quindi considerare ricorrenti: Roccamonfina,226 Lavello, Pila S. Chirico e Torre di Satriano in area lucana;227 Roccagloriosa e Buccino,228 Aquinum,229 Casalvieri230 e Settefrati.231 Il campo di indagini, dunque, è vastissimo e tutt’altro che esaurito. Ma i vari siti individuati sono stati purtroppo quasi sempre scavati poco e male, o indagati in modo parziale; lo scavo è stato in alcuni casi condotto con metodologie non stratigrafiche. Risultato: perdita di informazioni e gravi carenze della documentazione. È mancato, soprattutto, uno studio complessivo e comparato delle strutture e dei materiali provenienti dalle stipi votive. In conclusione, l’assenza di una indagine più sistematica non ha consentito fin’ora uno studio del tipo di culto rivolto a Mefitis a partire da elementi sicuri e oggettivi né è stato possibile ricostruire un quadro coerente dei modi e dei tempi di diffusione del culto della dea, raccordando e confrontando tra loro i risultati degli scavi, soprattutto i moderni, che risultano ancora dispersi in più pubblicazioni. Alle difficoltà di uno studio “archeologico” del culto della dea Mefitis (ma, più in generale, nello studio della storia delle religioni del mondo italico) si aggiunge il problema delle fonti (scrit74

te) e del loro status: in assenza di una storiografia italica diretta in rapporto a quella indiretta - romana, essenzialmente - il solo dato diretto in nostro possesso è quello epigrafico.232 Unica in tal senso, come vedremo meglio in seguito, nel quadro che tenteremo qui brevemente di delineare, la testimonianza del santuario lucano di Macchia di Rossano di Vaglio. Se dall’epigrafia passiamo alla letteratura, e dunque al confronto con gli autori latini, anche in questo caso la difficoltà è la medesima. Dobbiamo scontrarci con il problema e il limite rappresentato dalla povertà delle fonti, sia dal punto di vista quantitativo, che sotto il profilo dell’antichità dei testimoni e del valore documentario delle notizie.233 Le considerazioni qui esposte dovranno dunque essere necessariamente provvisorie e parziali, in rapporto sia all’amplissima diffusione del culto e alla sua stratificazione nel tempo, sia - come vedremo - alla complessità di funzioni della stessa figura di Mefitis. Attraverso una ricognizione dei dati relativi al culto della divinità, si vuole qui provare una rilettura della figura della dea Mefitis, con il semplice obiettivo di suscitare problemi, far sorgere domande, fornire - se possibile - nuovi spunti di riflessione su un “problema Mefitis” che attende di essere riaperto e riconsiderato. Sarà possibile in questa sede solo fornire un quadro generale e sintetico (e perciò stesso limitato) delle testimonianze su Mefitis e delle caratteristiche dei singoli luoghi “mefitici” in Italia e dei relativi culti prestati alla dea, ove ciò sia possibile attraverso l’epigrafia e lo studio del materiale votivo.234 La comparazione rimane in ogni caso uno strumento essenziale e occorrerà comparare la Mefitis di Rossano a tutte le altre Mefitis, e confrontare la stessa Mefitis con una serie di divinità, romane o italiche anch’esse, alle quali è associata o con le quali essa sembra avere numerosi punti di contatto, proprio per vedere se e in quali aspetti invece se ne differenzia e poter, quindi, comprendere meglio le specificità di questa differenziazione. I santuari e i luoghi di culto della dea Mefitis in Italia. Alcune osservazioni Le immagini a pag. 174 mostrano la collocazione geografica e la dislocazione dei principali luoghi “mefitici” d’Italia, precedentemente elencati. Lo sguardo deve essere necessariamente “allargato” a un qua75

dro più ampio per individuare linee interpretative che possano essere riferite anche al contesto da noi esaminato. Il semplice dato geografico-spaziale fa subito rilevare una più marcata presenza del culto della dea in area appenninica, irpina, con una disposizione quasi “a ventaglio” intorno alle sorgenti del fiume Calore: il grande santuario di Mefitis in Valle d’Ansanto-Rocca S.Felice; Aeclanum, Aequum Tuticum (Ariano Irpino), Casalbore. Le prime testimonianze del culto: il santuario di Mefitis in Valle d’Ansanto La nascita della divinità Mefitis è estremamente remota. Le più antiche evidenze archeologiche del culto, databili tra fine VIII e inizio VII sec. a.C., provengono dal santuario della dea di valle d’Ansanto-Rocca S. Felice, nel cuore dell’Irpinia. Situato a poca distanza dalle sorgenti dei fiumi Ofanto e Calore, nei pressi del valico di Sella di Conza, in un’area boscosa caratterizzata dalla presenza di fenomeni franosi, presso un laghetto ribollente di origine vulcanica (ancora oggi detto “mefite” o “moféta”) circondato da “soffioni” solforosi, il santuario venne frequentato almeno a partire dalla fine del VI sec. a.C. Si trattava certamente del più importante santuario della dea, tanto che il toponimo Ampsanctus è passato poi ad indicare per antonomasia tutti i luoghi di culto della dea Mefite, creando, come vedremo, non poca confusione nelle fonti. Il sito era già noto agli antiquari del XVII e XVIII secolo, attraverso le fonti letterarie e per il rinvenimento di abbondante materiale architettonico e votivo ma non si conosceva nulla sull’esatta ubicazione dell’aedes della dea. Solo una grotta, scoperta sulla riva destra del torrente, affluente del Fredane, detto Vado Mortale, che delimita l’area, e precisamente situata tra il torrente e il laghetto, era ritenuta sede di un oracolo. Alla fine degli anni ’50 Onorato inizia una prima indagine del sito. I lavori procedono lentamente e con difficoltà: i continui smottamenti del terreno, e le esalazioni di acido solfidrico non rendono possibile procedere a una vera e propria campagna di scavo. A conclusione dei lavori, Onorato non poté documentare alcuni resti di strutture viste sulla riva destra del torrente, e le poche portate in luce risultavano sconvolte e distrutte. 76

La lacunosità della documentazione di scavo non consente né di ricostruire stratigrafie e planimetrie del sito, né di ipotizzare, per le strutture emerse, alcuna funzione. Un quadro, comunque parziale e approssimativo, è ricostruibile attraverso l’epistolario di Onorato con il parroco di Rocca S. Felice, Don Nicola Gambino, autore egli stesso di alcune pubblicazioni sul santuario di Mefite in Valle d’Ansanto. Negli anni 1971-72 una nuova indagine nel santuario di Mefitis è condotta da I. Rainini, A. Bottini e S. Isnenghi Collazzo. Lo scavo consente di chiarire la planimetria generale del santuario: alcune strutture sono localizzate a circa 100 m a sud del lago, sul pendio NO della collina: un altare rettangolare, in uso fino al III a.C.; un portico su tre lati e aperto verso sud; due muri di terrazzamento databili tra l’età tardo-repubblicana e la prima età imperiale; una torre addossata al muro di terrazzamento interno, ascrivibile ad un intervento più tardo, nel IV sec. d.C. Si tratta evidentemente di edifici “periferici” rispetto al santuario vero e proprio, che doveva invece trovarsi, secondo l’ipotesi del Rainini, più a est e più in alto, in un’area riparata dalle esalazioni gassose del laghetto e dominante tutto il versante della collina. Le datazioni di queste strutture risultano molto posteriori rispetto a quelle offerte dalla ricchissima stipe votiva rinvenuta, che abbraccia un arco cronologico piuttosto ampio, dall’inizio del VII sec. a.C. al II sec. a.C., fino alla prima età augustea.235 I materiali sono costituiti principalmente da statuette fittili, alcune di tipo italico-sannitico per tecnica e stile, altre di influsso magnogreco (dal IV a.C.). L’inizio della frequentazione dell’area si riporta alla fine dell’VIII sec. a.C., mentre la fase di massimo splendore del santuario abbraccia i secoli IV-III a.C. Tra fine III e II sec. a.C., forse in connessione con la conquista romana, il santuario appare meno intensamente frequentato. Le monete rinvenute hanno consentito di ricostruire l’ipotetico “bacino d’utenza” del santuario, frequentato da popolazioni campane, ma anche provenienti da Lucania, Apulia e da Roma stessa. È possibile ipotizzare che, se dalla Valle d’Ansanto provengono le più antiche tracce del culto della dea Mefitis, proprio il ruolo dell’Irpinia, come “cerniera” tra le coste del Tirreno e l’Adriatico abbia giocato una parte importante nel processo di diffusione ed irradiazione del culto che stiamo tentando di ricostruire. L’unica iscrizione rinvenuta, peraltro attualmente dispersa e di cui ci resta solo documentazione fotografica, databile al II a.C., 77

è un frammento di embrice contenente una dedica a Mefite qualificata con l’epiteto “Aravina”: divinità agreste, del bestiame, dei campi e della fecondità, tutelare di una popolazione rurale e pastorale, diversa, come vedremo, dalla Mefitis che emerge invece dal racconto delle fonti letterarie. Dal IV sec. d.C. sulla collina sovrastante il sito si è impiantato il culto cristiano di S.Felicita, protettrice delle partorienti e delle gravidanze, invocata per ottenere una prole numerosa. AECLANUM (MIRABELLA ECLANO) Loc. Cavuoto S. Antonio (AV) Negli anni Trenta del XX secolo, nei pressi dell’antica città di Aeclanum, uno dei principali centri della tribù sannita degli Irpini, posta tra le valli dei fiumi Calore ed Ufita, l’archeologo Italo Sgobbo rinvenne quattro monumenti epigrafici oschi: uno riportava il nome Mamers (nome osco del dio Marte), un altro rappresentava un’ara di tufo dedicata alla dea Mefite (oggi al Museo Nazionale di Napoli) un terzo indicava una non meglio identificata costruzione ordinata da Magio Falcio ed un quarto pertinente al culto del dio Fauno. L’iscrizione con dedica alla dea Mefitis fu rinvenuta sul lato nord dell’attuale Strada Nazionale delle Puglie, nel tratto Aeclanum-Aquilonia (coincidente quasi perfettamente con il tracciato della via Appia), fuori dalle mura di Aeclanum. L’iscrizione, in lingua osca, disposta su tre righe: “Sevia Magia a Mefite” (i primi due nomi sono prenome e gentilizio della dedicante), e databile al II sec. a.C., era scolpita su uno dei blocchi di un basamento con cornici, in forma di ara (?), di dimensioni 1.08x1.13x0.84 m, sul quale era forse collocata una statua (nella parte superiore del basamento vi è un incavo rettangolare per l’incasso di un plinto, che si presenta rilevato al centro e scanalato tutt’intorno, forse per l’aggancio di una statua internamente cava, in bronzo o terracotta). Nelle vicinanze dello stesso furono rinvenuti alcuni frammenti di sculture in marmo, tra cui un volto femminile, un frammento di gamba ed uno di panneggio (Hera?). Ben visibili intorno resti di muri di edifici antichi, quasi completamente distrutti, blocchi squadrati recanti segni di grappe, rocchi di colonne lisce o scanalate in travertino o laterizio. Nonostante l’avanzato stadio di distruzione e di abbandono è stato possibile ricostruire approssimativamente in pianta l’aspetto di quel78

lo che doveva essere probabilmente un recinto sacro della dea: un’area quadrangolare, chiusa da muri su tre lati e una serie di ambienti sul lato est. Sul lato nord del complesso un basamento era forse destinato ad ospitare la statua di culto. Si tratterebbe di un santuario extraurbano databile almeno dalla fine del II sec. a.C., poi monumentalizzato in età romana236 quando un culto di Hera si sarebbe sostituito all’antico culto osco. Quest’ultimo potrebbe essere identificato con quello della dea Mefitis, che Servio assimila a Giunone: “Alii Mefitin deum volunt Leucothee conexum sicut est Veneris, Adonis, Dianae, Virbius. Alii Mefitin Iunonem volunt quam aerem esse constat [...]” (Serv. Ad. Aen, VII, 84). La presenza nell’area di numerose sorgenti e l’ubicazione stessa del santuario, su un pianoro attraversato dalla Via Appia non fanno che confermare l’ipotesi. Una chiesa dedicata alla Madonna di Pompei sorge attualmente a poca distanza dal sito. AEQUUM TUTICUM-ARIANO IRPINO Loc. S. Eleuterio (AV) Valle del Cervero, area caratterizzata da fenomeni vulcanici e dalla presenza di mofete. Rinvenuta iscrizione latina con dedica alla dea Mefitis. CASALBORE Loc. Macchia Porcara (AV) Alta Irpinia, frequentazioni attestate nell’area fin dal VII-VI sec. a.C., a ridosso del tratturo Pescasseroli-Candela, importantissima “arteria” armentizia della zona, economia fondata essenzialmente sulla pastorizia e sull’allevamento transumante oltre che sulla lavorazione della lana. Il santuario sorge in posizione dominante su un terrazzo artificiale sostenuto da muri, nelle vicinanze di una sorgente. È ipotizzabile la presenza di un culto precedente, forse già dal Neolitico.237 Le tracce più antiche di un culto si fanno risalire al VI sec. a.C.: si tratta di alcuni frammenti di antefisse a palmetta ed alcune terrecotte architettoniche. I materiali provenienti dai due scarichi votivi del santuario si datano dal V sec. a.C.: balsamari, v.n., terrecotte votive, nu79

merose statuette femminili, statuette di Eros alato, di colombe, modellini fittili di uova o frutti (melograno, mela), alcune maschere femminili in terracotta, ex voto anatomici a forma di utero o di mammella, mescolati ad ossa di animali ed inclusi carboniosi. Il culto era sicuramente rivolto ad una divinità femmnile di carattere ctonio e catactonio, e connesso evidentemente con la fertilità. I primi ritrovamenti, casuali, nel corso di lavori edilizi, risalgono al 1976. Gli scavi iniziano negli anni ’80 e portano alla luce un tempio, orientato in senso sud-nord, prostilo esastilo, con un secondo allineamento di due colonne in asse con le antae della cella. Quest’ultima, a pianta quadrata era simmetricamente affiancata da due alae aperte sul davanti. L’interno era pavimentato in cocciopesto e decorato con stucchi. L’edificio si ergeva su un podio ed era preceduto da una scalinata con due gradini nella cui base erano incorportate due fontane con ampie vasche rettangolari, alimentate da una sorgente alla quale erano collegate mediante tubature in piombo. Nello spazio antistante sorgeva l’altare. Una grande piazza precedeva il tempio, delimitata da portici con colonne laterizie e ambienti di servizio. Il tempio ha evidentemente subito una monumentalizzazione nel corso del III sec. a.C. e la sua architettura appare chiaramente influenzata dal modello ellenistico. Esso ebbe però vita breve perché i lavori furono interrotti con lo scoppio della seconda guerra punica. Nel 215 a.C. i Romani incendiarono e distrussero il tempio per punire gli Irpini, passati dalla parte di Annibale. L’edificio non fu più ricostruito. Interessante è la notizia, riportata per la prima volta nella vecchia platea della chiesa di S. Sofia di Benevento che possedeva beni a Casalbore, nel 452 d.C., che il nome del centro che in età medievale continua la vita dell’antico villaggio sannita fosse Casalis Albulo. Si legge infatti nel documento: Ecclesiae sanctae Mariae in Casalis Albulo. Il nome “albulo” potrebbe essere spiegato in riferimento alla particolare qualità delle acque della sorgente, acque sulfuree che assumono, appunto, una colorazione biancastra. Acque sulfuree che abbiamo visto già essere in qualche modo collegate strettamente alla dea Mefitis. Da notare, inoltre, tenendo presente la particolare localizzazione del santuario lungo una delle più importanti “vie della transumanza” che proprio le acque sulfuree erano utilizzate per la lavatura stagionale delle pecore.238 80

Il secondo “raggruppamento” di santuari e luoghi di culto dedicati alla dea Mefitis è localizzabile in area lucana, area che possiamo definire “potentina”, delimitata a nord dal corso dell’Ofanto, a S dal fiume Basento e dall’alto corso dell’Agri, a N dal fiume Bradano che l’avvolge, separandola dal Melfese: Lavello, Pila S. Chirico, Rossano di Vaglio-Potentia, Grumentum, Buccino, Torre di Satriano. A prima vista, la più chiusa a contatti con l’esterno, impressione accentuata dalla morfologia del territorio, prevalentemente montagnoso, è invece una delle aree più accessibili grazie alle valli dei fiumi e alle valli naturali che fungono da veri canali di congiunzione con altre aree. Il Vallo di Diano, in particolare, che la chiude ad O, nonostante la sua posizione “interna” e lo scarso collegamento con le regioni circostanti, presenta due accessi alle estremità N (presso Polla-Pertosa) e S (Buonabitacolo) ed è inoltre accessibile attraverso due importanti vie “trasversali”: la prima risale dalla piana di Paestum e si immette nel vallo da O, dopo aver valicato i monti Alburni. La seconda, invece, dal Tirreno, attraverso il fiume Mingardo giunge all’estremità meridionale del Vallo. LAVELLO (PZ) Sulla collina di Gravetta, nell’area a N di Potenza, pochi Km a S dell’Ofanto, affacciato sulla valle fluviale sottostante e nei pressi di una sorgente, individuate alcune strutture pertinenti a un santuario: un recinto quadrangolare in blocchi di tufo, probabilmente con copertura lignea, con colonne doriche e pavimento a mosaico. All’interno altare, basamento per statua e due cisterne. Vicino al recinto altro piccolo ambiente pavimentato sempre a mosaico, dotato di un pozzo, ed altri ambienti forse con funzioni di servizio. Il materiale è costituito esclusivamente da statuette fittili che attestano una frequentazione dell’area fin dall’VIII sec. a.C. Il santuario inizia però la sua vita probabilmente nel IV sec. a.C. La presenza di un culto di Mefitis è solo ipotizzabile. PILA S.CHIRICO NUOVO (PZ) L’area sacra è stata individuata nei pressi di una sorgente, in prossimità del punto di confluenza di più tratturi. Leggibili due fasi costruttive: databile alla prima metà IV sec. a.C., e dunque alla fase di vita iniziale del santuario, un sacello quadrangolare (m 4 x 4,5), elemento centrale dei luoghi di culto lucani, forse destinato a ospitare la statua 81

di culto della divinità. Abbondante quantità di statuette e ceramiche miniaturistiche è stata rinvenuta sia nel sacello che negli spazi circostanti. Sempre nel corso della prima petà del IV secolo a.C. si registra una prima sostanziale modifica dell’assetto e della organizzazione spaziale dell’area, che viene ad assumere un aspetto più monumentale. Un secondo sacello viene infatti realizzato più a monte (m 6 x 6 c.a.), circondato da un recinto, con orientamento E-O; un ambiente rettangolare porticato (m 12 x 4), orientato in senso N-S, probabilmente realizzato nella seconda metà del IV sec. a.C., collega il sacello con la sorgente situata più in basso, creando così un breve percorso sacro che, partendo dal ‘basso’, dalla sorgente, attraverso il portico giunge al recinto e al sacello. Interessanti i materiali provenienti dall’area sacra: statuette di offerenti, colombe, thymiateria, vasetti miniaturistici. Il culto è certo quello di una divinità femminile legata alla fertilità: Artemis Bendis o Mefitis? GRUMENTUM (PZ) Un frammento di iscrizione documenta il culto di Mefitis con l’attributo di “fisica”, che si ritrova solo riferito a Venere in due località: Pompei ed Erice. POTENTIA La città viene fondata nel II a.C. nella piana vicina al fiume Basento. Di qui provengono quattro iscrizioni latine di età imperiale menzionanti Mefitis. Il culto viene probabilmente importato a Potentia dal vicino santuario di Macchia di Rossano e poi definitivamente qui trasferito dopo la fine del santuario (da collocarsi secondo Adamesteanu nella prima metà del I sec. d.C.). Tra le epigrafi ben tre citano Mefitis con l’epiclesi di Utiana. Una di queste menziona anche un C. Mamius Sex. f[ilius] Bassu[s]. Potrebbe aver qualche collegamento con i Mamii di Pompei? Il culto della Mefitis a Potenza continua fino almeno al IIIII sec. d.C. BUCCINO Loc. S. Stefano Recentissimi scavi239 hanno consentito di mettere in luce nell’area, posta immediatamente a nord del centro di Buccino, la presenza di un grande complesso sacro, caratterizzato da una struttura a terrazze con 82

andamento S/N. Nella terrazza inferiore, delimitata da un muro di temenos, un’ampia rampa conduce a un terrazzamento; due muri, costruiti in grossi blocchi irregolari di pietra locale, delimitanti un recinto lastricato in pietra,240 costituiscono la fase più antica del complesso. A nord del recinto, è interessante il rinvenimento di alcune fosse, di forma troncoconica, rivestite in piccoli ciottoli, identificabili come bothroi241. L’area subisce una serie di trasformazioni tra IV e III sec. a.C., testimoniate in particolare dal rifacimento del muro S del recinto in blocchi in pietra locale più regolari e dalla presenza di una tomba a camera con sepoltura femminile, databile a fine IV sec. a.C., a poca distanza dal recinto. Proprio tra fine IV e inizio III sec. a.C. una grande frana colpisce l’intera area distruggendo completamente la tomba ed il recinto. Segue una vasta attività di riassetto dell’area che comporta la ricostruzione del recinto, con muri in opera poligonale ed un’ampia piazza lastricata con grossi basoli irregolari. Il cortile appare caratterizzato da un complesso sistema captazione e canalizzazione delle acque da una sorgente poco distante, con canalette, vasche e pozzi. Tale sistemazione trova chiari confronti proprio con le strutture rinvenute nel santuario di Rossano di Vaglio (cortile lastricato, canalizzazioni ed ambienti di servizio). La terrazza centrale si presenta attualmente come uno spazio stretto e allungato caratterizzato da una sistemazione in scaglie di pietra, laterizi e frammenti ceramici.242 Un percorso non rettilineo risale verso la terrazza superiore, delimitata da un’imponente struttura di terrazzamento in blocchi irregolari. In corrispondenza della parte terminale del percorso di accesso alla terrazza, si allineano una serie di recinti. Tra questi, quello posto all’ingresso della terrazza si caratterizza per una particolare sistemazione: delimitato su tre lati da strutture murarie, sul quarto è percorso da una canaletta. Al suo interno, in posizione decentrata, una struttura sotterranea rettangolare con copertura a doppio spiovente in tegole proteggeva i resti di un sacrificio. Si tratta, forse, di un apprestamento funzionale ad un culto catactonio.243 Anche nella terrazza superiore, ben individuabili varie fasi edilizie distribuibili lungo un arco cronologico che va dall’età arcaica all’età repubblicana. Nella sua prima fase il complesso si caratterizza per la presenza di una corte lastricata con due ali sui lati S ed O a cerniera delle quali è posta una sala da banchetto con pavimento a mosaico. Una 83

banchina rilevata in cocciopesto doveva servire per la disposizione dei letti triclinari. Ipotizzabile la presenza di un’ala speculare sul lato E ed un ingresso monumentale della terrazza a N.244 Nella prima metà del III sec. a.C. il complesso subisce una notevole trasformazione con la trasformazione dell’ala O in una piazza, la cui pavimentazione è solo parzialmente conservata, caratterizzata dalla presenza di una canaletta che attraversa trasversalmente l’area. La sala da banchetto mantiene intatta la sua struttura, mentre l’ala S del complesso subisce evidenti trasformazioni planimetriche: un vano quadrangolare, inserito in un grande spazio coperto doveva forse avere funzione di ambiente di servizio.245 L’ubicazione dell’area sacra in zona ricca di boschi, fonti e sorgenti di acque solforose, e la presenza dell’acqua come elemento fortemente caraterizzante l’area lastricata, fanno ipotizzare che proprio la dea Mefitis fosse la divinità titolare del culto. TORRE DI SATRIANO Il complesso sacro è ubicato sulle pendici di un’altura, nei pressi di una sorgente e poco distante da un tratturo, in un’area già destinata a sepolture e forse abitazioni in età arcaica. La cronologia di impianto del santuario non è precisabile con sicurezza: nella necropoli sono state individuate sepolture databili tra VIII e VI sec. a.C. e alcuni materiali sporadici provenienti dall’area sembrerebbero indicare una prima fase di frequentazione sacra della stessa già da fine VI-inizio V sec. a.C. Tuttavia solo dal IV sec. a.C. possediamo sicure tracce che il plateau meridionale di Torre di Satriano abbia ospitato pratiche cultuali. Lo spazio sacro era organizzato su diverse terrazze: sulla terrazza superiore, un edificio di forma rettangolare e allungata, interpretabile come sala da banchetto con attigua cucina, delimitato da uno stretto portico; più in basso un edificio quadrato, identificato con il sacello di culto della divinità. Recenti interventi di scavo hanno infine consentito di acquisire nuove interessanti informazioni sull’organizzazione dell’area sacra, precisandone ulteriormente la planimetria, e suggerendo una diversa lettura degli spazi, in relazione al carattere e alle funzioni degli apprestamenti in uso: in particolare, due fosse per lo scorrimento delle acque sono state individuate nell’area ad E delle strutture, mentre, a S dell’edificio quadrato, una terza terrazza doveva ospitare almeno un 84

altro ambiente.246 La cronologia dell’area sacra può essere fissata tra IV e II sec. a.C. Al IV-III sec. a.C. risalgono gli edifici, con muri in pietrame sbozzato e sgrossato. Tutti gli ambienti sembrano aprirsi verso l’area ad E, libera da edifici e percorsa dalle due fosse menzionate in senso N/ S: si tratta di un piccolo corso d’acqua naturale, alimentato dalla vicina sorgente e di un canale artificiale. Successivi interventi costruttivi – o ricostruttivi - modificano radicalmente la fisionomia dell’area sacra: alcune costruzioni precedenti sono conservate, mentre alcuni settori del complesso sono distrutti per far posto a nuove sistemazioni. In particolare, abbandonati gli edifici della terrazza inferiore, mentre, continuano ad essere utilizzati gli ambienti delle due terrazze soprastanti. Alla riorganizzazione degli spazi del complesso fa riscontro anche l’obliterazione delle due fosse dell’area E, interrate e non più utilizzate. Entrambe hanno restituito abbondantissimo materiale fittile votivo: suppellettili di tipo rituale (skyphoi, brocche, olle, Kylikes, lekythoi, bacini, patere ecc.), ex voto (una punta di lancia, pesi da telaio, statuette femminili ecc.). Interessanti anche le numerose tracce di bruciato ritrovate un po’ ovunque nelle fosse, nonché resti carboniosi, spesso associati alla presenza di thymiateria e resti ossei animali. Se è sempre l’edificio quadrato a costituire il fulcro intorno al quale ruota l’organizzazione degli spazi, muta tuttavia l’”orientamento” generale del complesso: nell’edificio della prima fase la fronte principale era rivolta ad est, chiaramente in connessione con le due fosse. Ora, invece, pur conservando l’apertura ad est, la costruzione subisce una modifica dell’orientamento, con i tre ambienti A, B e B’ 247 disposti a “U”, verso S. Spostandoci più verso la costa campana, da sud a nord: Roccagloriosa*, in prossimità della foce del Mingardo, Paestum, Pompei, Capua, Roccamonfina, sul monte, a ridosso della valle del Garigliano, nell’area delle sorgenti del Volturno. In area frusinate, infine, a nord: Casalvieri, Atina, Settefrati (Madonna di Canneto e Capodacqua), Aquino* in zona sorgenti affluenti del Liri. Roma, infine, e Cremona-Laus Pompeia in posizione eccentrica. ROCCAGLORIOSA (SA) Un piccolo oikos votivo, costruito in blocchi di calcare e con copertura di tegole a doppio spiovente, posto su un’altura tra i fiumi Min85

gardo e Buxento, è stato individuato nel sito lucano di Roccagloriosa. Dall’area provengono numerose statuette femminili, lucerne, modellini miniaturistici di specchi, vasetti per bere e versare (solo un vaso ha dimensioni naturali), ossa di ovini e caprini (sacrifici?). È stato ipotizzato un culto di Mefitis Caprotina. PAESTUM L’edificio è situato sul lato SE del foro, in parte sotto la SS 18 per Salerno. Si tratta probabilmente di un santuario legato al culto delle acque ed alla probabile presenza nella zona di una sorgente non più attiva (nella stessa area sorgeva, nella Poseidonia della fase greca, un complesso orologio ad acqua). L’edificio si caratterizza per la presenza di un cortile porticato al quale si accede dal lato E, con una serie di ambienti disposti sui lati N e S, circondato da portici e fontane. Da O si accedeva attraverso una porticina ad una “pedana” lastricata, forse coperta da un porticato ligneo Al centro del podio un basamento di statua collegato ad una fontana. Intorno alla pedana stessa, canalette rivestite in cocciopesto. Altre canalette, per il deflusso delle acque piovane corrono lungo il perimetro del vano. Greco che ha scavato l’edificio negli anni ’80 ne data l’impianto al IV sec. a.C. La presenza di Mefitis è solo ipotizzata. POMPEI Un’iscrizione proveniente dall’area della Casa della Fontana Grande, in lingua osca, ricorda le feste celebrate per la dea dalla famiglia dei Mamii. Quello di Mefitis era forse un culto gentilizio e dunque privato della gens Mamia, legata anche a Venere nella Pompei dell’età di Silla e a Sulmona. I resti di un tempio sannita, forse dedicato alla dea Mefitis, databile al III sec. a.C sono venuti in luce nel corso di scavi recentemente effettuati nell’area del Tempio di Venere. CAPUA Mons Tifata Rinvenute due tegole e un frammento di vaso con iscrizioni che citano Mefitis, in una delle quali, se è corretta l’integrazione della lacuna, è leggibile l’appellativo UTIANA. Il mons Tifata era sacro a Diana, divinità che pare avere numerosi punti di contatto con Mefitis. 86

ROCCAMONFINA (CE) Massiccio montuoso compreso tra le valli del Garigliano e del Volturno, con due vette, il monte Lattani e il monte Santa Croce, che costituiscono il cono di un vulcano spento. Sul monte Santa Croce è stato individuato un circuito murario antico e sulla sua sommità sorge una chiesa, parzialmente distrutta. Monte Fino o Monte della Fina era però l’antico nome del monte Santa Croce. Esso compare per la prima volta nel ‘700, ricollegato ad una leggenda popolare, ambientata proprio sulla cima del monte, che cerca di spiegare l’etimologia del nome Roccamonfina: Fina, nipote dell’imperatore Filippo l’Arabo sarebbe fuggita alla morte dello zio con il padre Teles rifugiandosi prioprio sul monte. Qui sarebbe stata ritrovata dall’amante, l’imperatore Decio che in suo onore avrebbe voluto edificare qui una rocca, chiamandola con il nome di lei. Tuttavia, in un documento del 1229 la stessa località compare con il toponimo “Mefino”. Non è fuori luogo supporre a questo punto una derivazione del “Monfino” della leggenda dal medievale “Mefino”. Ma come arriviamo da “Mefino” a Mefitis? Nel 1995 nel corso di alcuni lavori per il rifacimento dell’acquedotto, in località Sorgente (e forse non è un caso) furono trovati tre blocchi con un’iscrizione sinistrorsa, in cui compare il termine “Mifineis”. L’assonanza con il teonimo risulta abbastanza evidente. La sua presenza in un’area in cui il culto di Mefitis è molto diffuso, in una zona, peraltro ricca di sorgenti e con caratteristiche “vulcaniche” (il nome stesso della localtà dela ritrovamento è in tal senso indicativo) fanno supporre un qualche rapporto con la divinità. ROMA (Esquilino) Un culto di Mefitis, come si è visto, è attestato a Roma solo da fonti letterarie, Festo e Varrone, e localizzato sull’Esquilino. CASALVIERI Loc. Pescarola (FR) Centro della Val di Comino, importante asse viario nelle comunicazioni tra Abruzzo, Molise e Campania, e luogo di sosta di pastori e mercanti, nell’area delle fonti del fiume Pescarola. Tutta la zona è ricca di sorgenti di acque minerali. Un grande deposito di materiale votivo, statuette fittili, monete (dat. dal IV sec. a.C.), ceramica miniaturistica, v.n., laterizi, ornamenti femminili (III-II sec. a.C.), cinturoni ed 87

armi (VII-V sec. a.C.), è stato rinvenuto concentrato tutto in un’unica area, probabilmente occupata anticamente da uno specchio d’acqua (anche a CANNETO), poi sostituito da un impianto termale in una seconda fase, romanizzata. Resti di strutture e materiale architettonico sono stati invece rintracciati in varie zone dell’area, sul colle Collicillo e presso la sorgente, poco distante. L’area appare stabilmente frequentata dal IV al I sec. a.C. Ipotizzabile la presenza, in rapporto con il deposito votivo, di un tempio dedicato forse a Mefitis, data sia la centralità del sito rispetto ai percorsi viari antichi, sia la connessione con acque e sorgenti, sia gli stretti rapporti di somiglianza dei materiali rinvenuti con quelli di Canneto e Rocca S. Felice. Un corso d’acqua chiamato Riofete (in dialetto locale Refete) attraversa l’area. Che il nome del torrente Refete-Riofete possa avere connessioni con il nome della dea, da Rivus Mefitis? SETTEFRATI Loc. Canneto e Capodacqua (FR) LATINA Loc. Casalattico (FR) Nell’area di Atina-Settefrati il culto di Mefitis sembra giungere intorno all’VIII sec. Il fulcro della venerazione va ubicato alle sorgenti del Melfa, il cui corso caratterizza gran parte del territorio circostante. La valle di Canneto si trova sul fianco O del monte LaMeta, il più alto della catena delle Mainarde, a oltre 1000m di quota. Si tratta di un’area strategica, ai margini del territorio del Sannio settentrionale, quasi ai confini con Volsci e Peligni. Questa collocazione “di confine”, in un punto “nodale” per i passaggi e le comunicazioni potrebbe adattarsi bene alle caratteristiche di Mefitis. Abbondante materiale votivo, databile tra IV-II sec. a.C. è stato rinvenuto disperso a 14 m di profondità su un’area di 40 mq in località Capodacqua, presso le sorgenti del Melfa e in un’area occupata anticamente da un lago. Tra i reperti, la presenza di elementi architettonici di copertura fa ipotizzare la presenza di un edificio o un tempio nell’area databile al IV sec. a.C. Le caratteristiche dell’area, pianeggiante e situata tra i bacini del Melfa e del Sangro, in un punto quindi strategico dal punto di vista della viabilità, come via passaggio e di comunicazione tra le diverse popolazioni delle aree interne, si adattano bene alla presenza di un tempio. Una conferma sembrerebbe pro88

venire dal fatto che poco distante, in Loc. Canneto era stata rinvenuta già nel XVI secolo, nei pressi della Chiesa della Madonna di Canneto, una colonnina votiva in calcare con dedica a Mefitis da parte di due liberti i cui nomi lasciano supporre una origine sabellica, N[umerius] Satrius l[ibertus] Stabilio e P[ublius] Pomponius P[ubli] l[ibertus] Salvius, “Mefiti d[onum] d[ederunt]”. Il “dono” era offerto alla dea, forse per la grazia ricevuta di essere stati affrancati dalla schiavitù? Non è forse un caso che la Madonna di Canneto, il cui santuario fu fondato nel VII d.C., sia invocata come protettrice dei giuramenti, dei matrimoni, oltre che della maternità, dei campi e dei raccolti. Da Atina proviene una iscrizione, ora dispersa, e di controversa interpretazione. Se è corretta la lettura del Mommsen essa attesterebbe il culto di Mefitis nell’area. AQUINUM Loc. Méfete, Castrocielo (FR) Il nome “Aquinum” si fa derivare dalla presenza nell’area di numerosi laghi e sorgenti. In località Méfete, sono venute in luce alcune interessanti strutture sotterranee definibili come favisse a forma di conoidi, scavate nel tufo e nel travertino e intonacate in argilla. Le fosse raggiungono una profondità di 4 m, diametro di base 3.50 m e imboccatura diametro 0.80 m. Gravemente danneggiate dai lavori agricoli di aratura, alcune furono addirittura svuotate ed utilizzate come rifugio nel corso della seconda guerra mondiale. Abbondante materiale ceramico e monete era facilmente visibile anche sparso sul terreno, evidentemente portato in superficie proprio dai lavori di aratura. Tutti i materiali si inquadrano in un arco cronologico tra VI e II sec. a.C., con una maggiore concentrazione tra fine IV e III sec. a.C. Rinvenuti anche frammenti acroteriali e di antefisse, coppi e tegoloni che fanno ipotizzare la presenza di un tempio. Il toponimo, Mèfete, e la presenza di acqua nella zona (a poca distanza, alle sorgenti del Melfa c’è il santuario di Mefitis a Canneto) lasciano supporre la presenza di un culto prestato alla dea. Dalla zona proviene anche l’iscrizione osca [Iuno]ni Pupuna[e] su un frammento di lebete in marmo. Iuno e Mefite, quindi, si trovano qui associate come a Roma (Iuno Lucina e Mefitis) e forse ad Aeclanum. A conferma ulteriore, il passo di Servio che identifica Giunone con Mefitis. 89

LAUS POMPEIA Lodi (MI) Un’iscrizione attesta un culto di Mefitis: Mefiti/ L(ucius) Caesius/ Asiaticus/ (sex)vir flavialis/ aram et mensas IIII/ dedit l(oco) d(ato) d(ecreto) d(ecurionum)_ [CIL, V, 6353]. L’accenno alla carica di “flavialis” ricoperta dal nostro dedicante, Lucio Cesio Asiatico, permette almeno di datarla approssimativamente al I sec. d.C. La posizione “eccentrica” rispetto all’area di maggiore diffusione del culto fanno pensare che lo stesso sia stato importato in quella zona da coloni di origine osca decisi a conservare i propri culti e tradizioni. CREMONA Si ipotizza qui la presenza di un tempio extraurbano della Mefitis sulla base del racconto di Tacito. A partire dai quattro raggruppamenti individuati, e dal confronto del dato geografico e spaziale con il dato cronologico è possibile formulare qualche ipotesi sul percorso di diffusione del culto di Mefitis. Un articolo di M. Lejeune, comparso nel 1986 su CRAI (Comptes Rendus de l’Académie des Inscriptions et belles lettres), era significativamente intitolato “Méfiti, déesse osque”.248 Mefitis, dunque, “divinità osca” per eccellenza. “Que Méfitis soit une vieille divinité sabellique résulte et de son nom et de la distribution géographique de ses lieux de culte [... ] Récentes sont les fondations de Crémone (-218) et Laus (-89), récente donc l’implantation en Cisalpine d’une Méfitis, sans doute apportée avec eux par des colons romains d’origine sabellique. Toutes les autres localisations (Rome exceptée) relèvent du domaine des parlers sabelliques [...] Déesse sabellique, donc; parfois, on l’a vu, à l’hasard de l’histoire, portée hors de son domaine originel. Mais à l’interieur meme de ce domaine, il y a eu des propagations que nous apercevons : ainsi la Méfitis de Rossano, l’Utiana, a rayonnée vers Potentia [...] mais aussi bien jusqu’à Capoue».249  Mefitis è quindi divinità osca “generica”, diffusa in tutta l’area oscosannita? Il culto della dea è localizzato inizialmente in Irpinia, e sembrerebbe possibile indicare come nucleo originale il santuario della Valle d’Ansanto, da dove provengono le più antiche attestazioni del 90

culto, databili, sulla base dei materiali, a fine VIII- inizio VII sec. a.C.; di qui esso si “allarga”, tuttavia, nel corso del VI secolo, a coinvolgere una prima area (Aequum Tuticum, Casalbore). Poi, quasi improvvisamente, nel IV sec. a.C., il culto si trova anche in Lucania (Rossano, Pila S.Chirico, Lavello) e nell’area frusinate, a nord (Casalvieri, Settefrati, Atina, Aquino). Sembrerebbe possibile, dunque, individuare un nucleo originario del culto da dove esso si è successivamente irradiato attraverso migrazioni, “infiltrazioni” di elementi sannitici verso sud. Proprio l’elemento “sacro” potrebbe essere stato utilizzato come mezzo di propagazione politica di un gruppo e legato dunque alla volontà politica dello stesso. Dal punto di vista delle strutture architettoniche, emerge dal confronto come i luoghi di culto di Mefitis presentino spesso tipologia a naiskos, con spazi aperti recintati, semplici, non coperti, circondati da altri vani, portici ed ambienti con funzioni di servizio. Si tratta in genere piccole costruzioni quadrangolari che rappresentano il fulcro attorno a cui ruota tutta l’organizzazione dello spazio sacro, sia in piccoli santuari, come quelli di Lavello e S. Chirico, sia in complessi più articolati, come Armento e Rossano. Più in generale è osservabile come nell’intero ambito lucano250 le caratteristiche delle architetture sacre rimandino ad un “principio uniformante che tende a restituire un quadro sostanzialmente omogeneo costruito intorno a delle invarianti”:251 presenza di acqua, proveniente da sorgente o artificialmente trasportata, disposizione a terrazze, “centralità rituale”252 attribuita a un percorso cerimoniale, presenza di spazi e ambienti destinati a celebrazioni di carattere collettivo. Va tuttavia precisato come, se l’insieme di questi elementi “può essere considerato canonico sul piano compositivo”, esso non forma né restituisce “una regola compositiva omogenea per tutti i casi evidenziati”. Tali elementi infatti, “seppure concorrono alla formazione planimetrica e architettonica dell’impianto sacro, non rimandano allo stesso tipo nè tanto meno ad un modello di riferimento; a tal proposito non va confusa la ‘semplicità’ dell’apparato architettonico e costruttivo con una presunta omogeneità tipologica”.253 Se è stata spesso proposta, per le realizzazioni a terrazze dei santuari lucani, una derivazione dal modello scenografico dell’architettura ellenistica mediato attraverso le esperienze delle poleis magnogre91

che della costa, non sempre l’interpretazione risulta convincente. Ci troviamo invece spesso davanti a realizzazioni che “prendendo a prestito solo linguisticamente254” il modello romano-italico, ne citano e utilizzano liberamente forme ed elementi, pur permanendo ancora forti “volontà” del sacro chiaramente non-romane. Del problema discuteremo in seguito. Tornando ai santuari della dea Mefitis, altra “chiave”, è certo costituita, come si è visto, dai materiali provenienti dalle stipi votive, caratterizzati da una evidente omogeneità dal punto di vista tipologico. Infine, va rilevata la particolare “ambientazione” dei santuari: viabilità molto sviluppata, con presenza strade o spesso di tratturi, utilizzati negli spostamenti stagionali delle mandrie; localizzazione in aree boscose, in prossimità di sorgenti o fonti, scoli, corsi d’acqua, laghetti. Spesso le acque del santuario sono acque particolari: acque di sorgenti solforose o acque dotate di particolari caratteristiche chimiche, legate a fenomeni vulcanici. Potrebbe essere significativa, in alcuni dei casi citati, la presenza, nelle vicinanze del santuario, di paludi o zone acquitrinose. Non sappiamo in che modo l’acqua entrasse nel rito, ma la presenza di strutture e apprestamenti tecnici per il suo uso, conservazione e canalizzazione (fontane, cisterne, pozzi, vasche, collettori, tubature, grondaie ecc.) fanno pensare a un suo ruolo comunque certamente fondamentale.

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Le fonti e la questione etimologica Le testimonianze letterarie La maggior parte delle testimonianze letterarie, relative al culto della dea Mefitis, o che a esso indirettamente si riferiscono, riguardano il santuario della dea in Valle d’Ansanto. Virgilio ci ha lasciato del luogo una vivida descrizione: “Nel cuore dell’Italia, d’alti monti ovunque intorno cinto, è un luogo orrendo a tutti noto: la valléa d’Ampsanto. Di dense fronde un bosco la circonda e fragoroso in mezzo rumoreggia fra scogli acuti e vortici un torrente. S’apron quindi le spelonche orrende del fiero Dite, ove le nere fauci pestifera voragine spalanca al prorompente fiotto d’Acheronte. Qui si calò l’Erinni allora in volo e liberò di sé la terra e il cielo” (Virgilio, Aen., VII, 811-820). Un luogo, dunque, dalla natura pestilenziale, accesso all’aldilà, la “Porta dell’Ade”. Ma prima ancora di Virgilio, Cicerone, in un passo del De Divinazione, aveva brevemente accennato alla Valle d’Ansanto, considerando le sue acque “dispensatrici di morte” (Cic. De Div. I, 79): « Nam terrae vis Pythiam Delphis incitabat, naturae Sibyllam. Quid enim? Non videmus quam sint varia terrarum genera? Ex quibus et mortifera quaedam pars est, ut et Ampsancti in Hirpinis et in Asia Plutonia... ». (Cic. de divinatione, I, 79) Traduzione: “[...] E non vediamo dunque quanto vari siano i tipi di terra? Ve ne sono di mortiferi, come Ampsanto in Irpinia [...]”. Servio, grammatico vissuto a Roma tra la fine del IV e l’inizio del V d.C. e celebre commentatore dell’Eneide, aggiunge nelle sue note al te94

sto virgiliano (Serv. Ad Aen. VII, 563 e segg.) alcune informazioni interessanti: “Perciò si dice che qui c’è uno degli ingressi agli Inferi, perché un terribile odore uccide tutti quelli che si avvicinano, le vittime condotte in questo luogo non vengono sacrificate ma, esposte all’azione delle acque, muoiono a causa dell’odore, e questo era il tipo dei sacrifici”. Nel santuario della valle d’Ansanto, dunque, il sacrificio offerto alla dea doveva prevedere, secondo quanto riporta Servio, un rituale particolare per cui le vittime (animali) non erano immolate ma soffocate dai vapori sulfurei. Anche Tiberio Claudio Donato, contemporaneo di Servio, e autore di un commento retorico e stilistico all’Eneide, le Interpretationes Vergilianae considera il luogo anticamera dell’oltretomba, “per quem ire potuit ad inferos” (Don., Ad Aen, VII, 565). Plino il Vecchio, infine, accenna al santuario della Mefitis in un passo della Naturalis Historia: “ [...] spiritus letales aliubi aut scrobibus emissi aut ipso loci situ mortiferi, aliubi volucribus tantum, ut Soracte vicino urbe tractu, aliubi praeter hominem ceteris animantibus, nonnumquam et homini, ut in Sinuessano agro et Puteolano! spiracula vocant, alii Chaeronea, scrobes mortiferum spiritum exhalantes, item in Hirpinis Ampsancti ad Mephitis aedem locum, quem qui intravere moriuntur; simili modo Hierapoli in Asia, Matris tantum Magnae sacerdoti innoxium. Aliubi fatidici specus, quorum exhalatione temulenti futura praecinant, ut Delphis nobilissimo oraculo. Quibus in rebus quid possit aliud causae adferre mortalium quispiam quam diffusae per omne naturae subinde aliter atque aliter numen erumpens?”. (C. Plinii Naturalis Historiae, Liber secundus, 207-208) Traduzione: “[...] Lo stesso ricorre tra gli Irpini ad Apmsanto, località presso il tempio di Mefitis, dove chi entra muore [...]”. Riferimenti alla Valle d’Ansanto compaiono anche in autori tardi. In particolare, Sidonio Apollinare:255

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“[...] taceo, quod alarum specubus hircosis atque acescentibus latera captiva vallatus nares circumsedentum ventilata duplicis Ampsancti peste funestat” (Sidon. Ep., XIII, 8). e Claudiano:256 “Tunc et pestiferi pacatum flumen Averni innocuae transistis aves flatumque repressit Amsanctus; fixo tacuit torrente vorago » (Claud. De Raptu Proserpinae, II, 348-350). Il teonimo Mefitis, presente e attestato nell’epigrafia, sia latina che osca, relativa al culto della divinità, è raramente utilizzato nelle fonti letterarie latine, mentre si ritrova più frequentemente come appellativo generico avente significato di “esalazione”. Oltre che in Plinio il Vecchio, il teonimo è ricordato da Festo: “..eam partem Esquiliarum, quae iacet ad vicum Patricium versus, in qua regione est aedis Mefitis...” (Fest. 476 L.). ma è citato anche da Varrone, in un passo del De lingua latina: “4. Secundae regionis Esquiliae. Alii has scripserunt ab excubiis regis dictas, alii ab eo quod aesculis excultae a rege Tullio essent. Huic origini magis concinunt loca vicina, quod ibi lucus dicitur Facutalis et Larum Querquetulanum sacellum et lucus Mefitis et Iunonis Lucinae, quorum angusti fines. Non mirum: iam diu enim late avaritia una domina est. 5. Esquiliae duo montes habiti, quod pars Oppius pars Cespius mons suo antiquo nomine etiam nunc in sacris appellatur. In Sacris Argeorum scriptum sic est: Oppius Mons: princeps Esquiliis uls lucum Facutalem; sinistra via secundum moerum est. Oppius Mons: terticeps cis lucum Esquilinum; dexteriore via in tabernola est. Oppius Mons: quarticeps cis lucum Esquilinum; via dexteriore in figlinis est. Cespius Mons: quinticeps cis lucum Poetelium; Esquiliis est. Cespius Mons: sexticeps apud aedem Iunonis Lucinae, ubi aeditumus habere solet” (Varrone, De lingua latina, l. l. 5, 49). Traduzione: “4. L’Esquilino. Alcuni hanno scritto che esso prende il nome dalle guardie (“excubiae”) del re, altri dal fatto che era una zona in cui erano stati piantati lecci (“aesculi”) da Servio Tullio. Si ac96

cordano maggiormente a quest’ultima spiegazione i luoghi vicini, poiché si dice che là sorgesse il bosco sacro del Fagutal (N.B. c’è un riferimento ai faggi, “fagi”), e il sacello dei Lari Querquetulani (N.B.:da querquetum=querceto), ed il bosco sacro di Mefite e di Giunone Lucina, che hanno dimensioni ristrette. Non c’è da meravigliarsene: già da molto tempo, infatti, l’avidità è di gran lunga l’unica padrona [...]”. Infine il teonimo Mefitis si ritrova in un passo di Tacito: “[...] per quadriduum Cremona suffecit. cum omnia sacra profanaque in igne considerent, solum Mefitis templum stetit ante moenia, loco seu numine defensum” (Tacito, Hist. III, 33). Traduzione: “Per quattro giorni Cremona bastò a questi orrori. E mentre il fuoco inghiottiva ogni cosa, sacra e non sacra, rimase in piedi il solo tempio della dea Mefite, che sorgeva davanti alle mura: lo difesero il luogo e la divinità”. Come appellativo, mefitis compare invece in Virgilio: “allora il re, spinto da quei prodigi, del fatidico padre [Fauno] al sacro bosco a consultar l’oracolo si volse sotto l’eccelsa Albunea [la cascata di Albunea sotto Tivoli, presso l’Aniene, dove si trovano ancora oggi sorgenti di acqua solforosa di colore biancastro “aquae albulae” con esalazioni di zolfo] che, massima di tutte le foreste, a un sacro fonte rumoreggia perenne e tra le fronde mefitici vapori opaca esala [esalazioni di zolfo: SACRO FONTE SONAT SAEVAQUE EXHALAT OPACA MEPHITIM]” (Virgilio, Aen. VII, 111) e in Persio: “turgidus hic epulis atque albo uentre lauatur, gutture sulpureas lente exhalante mefites” (Persio, Sat. III, 98-99). Il resto della documentazione è costituita da glosse e scoli, attribuibili a grammatici e commentatori di tarda età imperiale, fino al V sec. d.C., che ci forniscono talvolta alcune notizie, comunque sempre confuse e frammentarie, di carattere linguistico e antiquario. Da notare, 97

tuttavia, come l’appellativo mefitis sia ricorrente soprattutto in queste testimonianze più tarde e sia invece al di fuori di esse piuttosto raro e documentato praticamente solo in poesia. Lo ritroviamo in Pomponio Porfirione (III secolo d.C.), autore di un commento scolastico su Orazio in cui mefitis è usato in riferimento all’oracolo di Fauno ad Albunea per segnalare la presenza di una pestiferi odoris paludis.257 Ancora in Sidonio Apollinare: “[...] praetendit os etiam labris plumbeum rictu ferinum, gingivis purulentum dentibus buxeum, quod spurcat frequenter exhalatus e concavo molarium computrescentum mephiticus odor, quem supercumulat esculenta ructatio de dapibus hesternis et redundantum sentina cenarum” (Sidon. Ep., XIII 6). Per altre attestazioni dell’appellativo mefitis dobbiamo discendere fino agli autori più tardi: in Ennodio (Carm. 3, 18) esso compare con lo stesso significato presente in Persio di “alito cattivo”, mentre Egesippo (1, 35, 3) riprende l’espressione virgiliana di Aen. VII, 111 riferendosi a esalazioni sulfuree. Quello della presenza di Mefitis nelle fonti letterarie è un problema spinoso e assai dibattuto. E se la questione sembra essere oggi definitivamente risolta, ritardi ed errori nella ricerca, dovuti al tardo “riconoscimento” della divinità, non sono stati ancora colmati del tutto. Nei testi latini è attestata una errata etimologia di Mefitis come “dea delle esalazioni pestilenziali”,258 e lo stesso errore ha contribuito a sviare buona parte degli studi otto-novecenteschi, impedendo una corretta comprensione della personalità e dell’identità della dea e del sistema di rappresentazione divino in cui essa era inserita. Si è tentato, nei capitoli precedenti, di seguire e “tracciare” il percorso di diffusione ed evoluzione del culto della dea Mefitis - attraverso l’analisi delle testimonianze archeologiche (epigrafiche e materiali) dello stesso - “dalle sue origini in terra osca”259 fino al suo incontro con il mondo romano. Il breve excursus sulle fonti e sulle testimonianze degli autori latini, condotto in queste pagine, consentirà ora, attraverso una “rilettura” delle stesse, di completare tale percorso. Si cercherà qui di chiarire come e in che modo il culto di Mefitis sia stato recepito accolto a Roma e nel mondo romano, e soprattutto, livelli, tempi e modalità di tale assimilazione. Come si sia giunti, cioè, dall’immagine di Mefitis divinità benevola, connessa con il mondo femminile, con la sfera del98

la fecondità, propiziatrice delle unioni e tutrice dei momenti di “passaggio” della vita femminile nel suo aspetto domestico e riproduttivo, emergente dalle testimonianze epigrafiche e materiali dei santuari della divinità, a quella di “dea delle esalazioni fetide, sprigionate da luoghi vulcanici” e, per estensione, “dea del mondo infero connesso profondamente a quel tipo di paesaggio”260. Il passo virgiliano in cui sembrerebbe possibile leggere un riferimento, comunque indiretto, a Mefitis, è quello, già citato, in cui Virgilio descrive la Valle d’Ansanto, porta dell’Ade attraverso cui la furia Alletto, dopo aver compiuto la sua nefasta opera, ritorna tra le tenebre infernali. Lo scenario lugubre, desolato, del luogo, le acque fetide esalanti fumi nocivi, causa certa di morte per chiunque vi si avvicinasse, dovettero certo impressionare i visitatori antichi del santuario, al punto da far nascere la leggenda che lì si trovasse la porta dell’Ade, lo “spiraculum Ditis”. Mefitis, tuttavia, non è qui direttamente nominata. Non si parla di un tempio o un santuario della dea, né sembra possibile rilevare connessione che sia diretta ed esplicita tra la dea e il mondo infero. Di un Mefitis aedes in Valle d’Ansanto parla invece direttamente Plinio, in un passo della sua Naturalis Historia. Le ripetute allusioni alla natura “mortifera” del luogo, l’esistenza del tabù rituale richiamato da Plinio per cui “muore chi entra nel santuario della dea”, hanno fatto sì che si instaurasse una diretta relazione tra il luogo261 - porta di accesso agli inferi, luogo di confine tra i vivi e i morti - e la dea: per proprietà transitiva le caratteristiche del luogo si applicano alla divinità, e Mefitis diventa divinità negativa e nefasta, tutelare di tutti quei luoghi che presentino caratteristiche appunto “mefitiche” nel senso comune del termine: luoghi malsani e maleodoranti, caratterizzati da insopportabili miasmi e pestilenziali vapori che rendono l’aria irrespirabile. Si è supposto, inoltre, in modo tuttavia non del tutto convincente, che proprio il testo pliniano, nella menzione dell’oracolo di Delfi, possa adombrare un riferimento a presunte capacità profetiche della Mefitis. Occorre tuttavia tener presente in quale contesto Plinio parli di Mefitis. Il rischio è quello di commettere errori o fare vistose forzature: innanzitutto, infatti, quella di Plinio è pur sempre un’opera di storia naturale; in secondo luogo l’autore sta parlando semplicemente di luoghi caratterizzati da esalazioni sulfuree. 99

Il termine mephitis, usato invece con funzione di appellativo generico, compare ancora, sempre in Virgilio, nel passo del libro VII dedicato alla descrizione dell’oracolo di Fauno ad Albunea: “SACRO FONTE SONAT SAEVAQUE EXHALAT OPACA MEPHITIM”. Servio spiega il mephitim virgiliano come terrae putor qui de aquis nascitur sulphuratis, e lo stesso fa Donato, traducendo il termine con odorem gravissimum, “fetore insopportabile”, tipico delle acque sulfuree.262 L’appellativo mephitis/mephitim è qui dunque presente con significato ancora piuttosto “neutro” di “esalazione di origine sulfurea”, confermato dai commentatori antichi di Virgilio. L’accenno virgiliano alle maleodoranti esalazioni e alla natura sulfurea delle acque di Albunea ben si accorda alle caratteristiche del luogo citato: lo stesso toponimo, Albunea, rinvia alla particolare qualità delle acque e alla presenza di esalazioni di zolfo, e d’altra parte aquae albule, da albus, “bianco”, erano dette appunto le acque sulfuree per il loro caratteristico colore biancastro “opaco”, non limpido, non trasparente. L’aggettivo saeva usato da Virgilio non implica affatto, automaticamente, che queste acque fossero pericolose, “letali”, o addirittura mortali. Saevus ha qui piuttosto significato di “impetuoso”, “potente”. Lo stesso Virgilio precisa infatti ai vv. 118-129: “Tutte d’Enotria qui l’itale genti chiedon responsi a’ dubbi; e quando i doni qui depose di rito, e sopra i velli de’immolate vittime adagiatosi nella silente notte il sogno accolse, molti vede fantasmi nell’aria vagare il sacerdote, e in strani modi ode parole e voci, e vede e parla con l’ombre dell’Averno e con gli Dei. Ed egli stesso allora, il re Latino, chiese i responsi e, ligio ai sacri riti, cento sacrificò lanose pecore”. Il santuario era dunque frequentato intensamente dalle Itale gentes ed era un santuario incubatorio, in cui, cioè, il responso, si produceva per incubationem, con il sonno profetico del sacerdote. Nulla, dunque, fin qui, di negativo o nefasto. Aspetto assai interessante, sul quale pare opportuno soffermarsi, è proprio quello riguardante presunte capacità profetiche o oracolari di Mefitis, in connessione con le acque sulfuree. Il legame tra esalazioni vulcaniche e delirio profetico è attestata nelle fonti antiche. Da Aristotele a Teopompo, ma anche in Plinio, Ovidio, Vibio Sequestre263 si trovano numerosi riferimenti agli effetti inebrianti delle acque con effetti di “stordimento” simili a quelli prodotti dal vino. Plinio, in particolare, 100

nel passo già sopra citato, ricorda che le acque di Cales, in agro campano, avevano le stesse proprietà di quelle di Lyncestis, in Macedonia, ricordate da Teopompo, caratterizzate da forti esalazioni “inebrianti”, la cui azione era evidentemente assai simile a quella delle bevande alcoliche. Anche Cicerone, nel De Divinatione (I, 79 e II,115) parla di una vis terrae e di anhelitus terrarum quibus inflatae mentes oracula funderent. Lo stesso effetto inebriante ha fatto pensare a particolari capacità profetiche o oracolari da attribuire a Mefitis, o addirittura a capacità di guarigione, tuttavia, non provabili. Una grotta sede di un oracolo era ricordata in Valle d’Ansanto, in connessione ancora con la presenza di esalazioni solforose, e sede di un altro oracolo, quello di Fauno, appunto era proprio la grotta di Albunea presso Tibur. Ora, in realtà non è provato che all’origine il culto di Mefitis fosse sempre collegato a fenomeni di vulcanesimo, e ci si potrebbe anzi a ragione domandare se il collegamento tra il culto della dea Mefitis e le acque vulcaniche solforose non sia invece posteriore alla romanizzazione della penisola italiana.264 Se Mefitis, cioè, dovesse originariamente possedere la valenza più “neutra” di divinità delle acque e delle sorgenti venerata dalle popolazioni osco-lucane e che in seguito alla conquista dell’Italia da parte di Roma, sia stata invece trasformata, da Virgilio in poi,265 in dea delle esalazioni solforose a causa dei fenomeni caratterizzanti il suo maggior santuario, quello della valle d’Ansanto e associata dunque direttamente all’odore (cattivo) che emana dalle mofete (termine, come si è detto, direttamente connesso al nome della dea e sinonimo di “male odore”) e dalle acque solforose o stagnanti. Una rapidissima “ricognizione” effettuata sui santuari e luoghi di culto della dea Mefitis in Italia ci consente, come si è visto, di rilevare agevolmente la distribuzione del culto in relazione alla presenza di mofete o sorgenti termo-minerali. In Irpinia, dove, come si è visto, può essere localizzato il primo e più antico, forse, nucleo del culto di Mefitis, fenomeni geofisici di questo tipo sono assai frequenti e diffusi ancora oggi: oltre al santuario di Valle d’Ansanto-Rocca S.Felice, la presenza di sorgenti sulfuree è accertabile a Casalbore e Aequum Tuticum-Ariano Irpino. Ma manifestazioni di natura pseudo-vulcanica sono geologicamente rilevabili anche in altre località in cui è ipotizzata la presenza di un culto di Mefitis, in particolare Buc101

cino e Pescarola-Casalvieri (IV a.C.). Se dunque nelle fonti latine Mefitis/mefitis è terrae putor qui de aquis nascitur sulphuratis, e la presenza di acque solforose o con caratteristiche termo-minerali è accertata in numerosi luoghi di culto della Mefitis, allora potrebbe forse esistere una relazione originaria tra il culto di Mefitis e la presenza di queste sorgenti, spesso caratterizzate da esalazioni fetide e nauseabonde? Un passo dello Pseudo-Placido sembrerebbe riferirsi proprio al santuario della dea a Rossano di Vaglio: “et in Lucanis quoque huius deae fons est, ex quo gravissimus odor redditur sulphureus”.266 Poccetti fa giustamente rilevare come, data l’importanza del santuario di Macchia di Rossano rispetto al territorio circostante e le dimensioni del culto ivi praticato, la notizia dello pseudo-Placido di un fons della dea in Lucanis potesse riferirsi proprio al santuario di Vaglio. Un riferimento alla Valle d’Ansanto, che molti autori collocano erroneamente in Lucania (Servio, Vibio Sequestre), non invalida per Poccetti l’ipotesi, dato che lo scambio tra le due località poteva essere facilitato dalla pertinenza di entrambi a una sorgente sulfurea. Il fatto che oggi le acque della sorgente non presentino più queste caratteristiche non creerebbe, secondo Poccetti, alcuna difficoltà ove si consideri come questi fenomeni vulcanici o pseudo-vulcanici siano soggetti a variabilità su lunghi periodi. Resta comunque il fatto che questa particolare “ambientazione” naturalistica non rappresenta una costante dei santuari della Mefitis. Per dirla con Lejeune “Toute eau méphitique n’était pas méfitienne. Inversement, d’ailleurs, toute eau méfitienne n’était pas méphitique”.267 Mefitis non era venerata solo “aux émissions brûlantes et puantes des lieux volcaniques [...] comme le renom d’Ansanto l’a fait croire [...] À Rossano, c’est un courant d’eau fraîche et limpide qui traversait, à ciel ouvert, son sanctuaire. Rien de sulfureux sur l’Esquilin, ou sur tels autres sites où la déesse a été implantée. Il lui suffisait de l’eau, quelle qu’elle fût, sortît de terre à ses pieds”.268 Ad Ansanto la dea era venerata presso uno stagno fangoso ribollente e regnava “environnée d’ une horreur sulfureuse” e ciò è bastato perché Ansanto diventasse “lieu méfitien par excellence”. Lejeune ritiene tuttavia che il rapporto di Mefitis con le acque sia totale e completo, e riguardi l’acqua come elemento-in-sè, e dunque tutti i tipi e le qualità di acqua, “qualsiasi sia la sua natura: vulcanica o sorgiva, ribollente o potabile, li102

bera di fluire o canalizzata dall’opera dell’uomo”.269 E fino a prova contraria, se Mefitis è la dea delle acque, delle sorgenti ed anche delle acque sulfuree, non c’è contraddizione se la stessa è venerata anche in valle d’Ansanto. L’uso dei termini saeva... opaca mephitim in Virgilio risponde perfettamente alla caratterizzazione del luogo come sede dell’oracolo di Fauno.270 È interessante riportare qui il passo in cui Porfirione commenta il testo virgiliano:271 “Faunum [...] inferum ac pestilentem deum secundum quae [...] Vergilius in septimo significat, cum apud Mephitim pestiferi odoris paludem lucum eum habere ostendit”. Una volta passati dal “lago mefitico” di Virgilio a “lago Mefitis” in Porfirione, facilmente si giunge a “lago di Mefitis”. È possibile dunque ipotizzare una presenza di una Mefitis con capacità profetiche o oracolari a Tibur? Per Lejeune, se fonti solforose (Albunea, oggi Acque Albulae ed altre) esistono a Tibur, un luogo di culto della dea presso queste fonti (fuori, tra l’altro dal domaine sabellico) “n’a jamais existé que par la grâce d’un contre-sens”.272 Se ogni sorgente aveva la sua divinità tutelare, Mefitis non è che una delle tante “divinités-sources”, accanto all’Albunea latina: le due dee sembrano personificare lo stesso fenomeno naturale, cioè quello delle esalazioni solforose. Di opposto parere Isnenghi Collazzo,273 per il quale il Fauno di Tibur non sarebbe altro che un travestimento di Mefitis (“sotto sembianze maschili la divinità era venerata a Tivoli”).274 L’affinità tra le due divinità scaturirebbe innanzitutto da una simile “ambientazione”:275 sia Fauno che Mefitis si collocano in un paesaggio particolare, che è quello del bosco. Un paesaggio “critico”, liminare, contraddistinto dalla marca del selvaggio:276 Fauno domina sulla foresta, è il dio-lupo delle selve e del Lupercal277, essere primordiale dotato di una capacità oracolare immediata che si esprime attraverso i suoni della natura;278 ma la stessa Mefitis è inserita in un bosco, lucus o nemus. Essa esprimerebbe dunque, come Fauno “una naturalità irriducibile ed entra in contatto dell’uomo in un paesaggio limite, al di fuori della mediazione regolata del rituale”.279 103

Di qui, anche, il legame di Mefitis con Artemis/Diana, provato dal passo di Servio: “Alii Mefitin deum volunt Leucothee connexum sicut est Veneris, Adonis, Dianae, Virbius. Alii Mefitin Iunonem volunt quam aerem esse constat” (Serv. Ad. Aen, VII, 84) e confermato ancora dall’epiclesi di Tifatina attribuita a Mefitis in un’epigrafe proveniente dal santuario di Diana a Capua,280 epiclesi che la dea condivide con la stessa Diana, e la cui equivalenza all’attributo Nemorensis (proprio sempre di Diana) è stato sottolineata da J. Herugon.281 Una dedica di età imperiale a Diana Tifatina Trivia282 proverebbe infine, proprio attraverso la stessa epiclesi di Tifatina, un diretto collegamento tra Mefitis ed Ekate. È improbabile che al tempo di Augusto (e Virgilio) si fosse già completamente persa la nozione del teonimo, data la persistenza del culto ancora nell’età di Tacito e Plinio. Certamente Virgilio conosceva la divinità italica, e d’altra parte anche i grammatici più tardi, ricordano, nel citare il verso virgiliano dell’Eneide, la duplice valenza di teonimo e di appellativo di mefitis. Prisciano in particolare, come vedremo, spiega l’uscita in -im dell’accusativo mephitim in quanto “nome proprio”. Al tempo di Virgilio però il culto della dea era forse, almeno a Roma, già decaduto o iniziava a esserlo. Della presenza di un culto della Mefitis a Roma, sull’Esquilino, già nel I secolo a.C., ci informa, come si è detto, Varrone. Il luogo di culto della dea doveva essere localizzato sul colle Esquilino: un aedes Mefitis secondo Festo, o sacellum per Varrone, con annesso un lucus, un bosco sacro alla dea, che dovevano probabilmente trovarsi sulla cima del Cispio, nella parte NO del colle sovrastante il “Vicus patricius” e nelle vicinanze del tempio di Giunone Lucina, fatto edificare nel 375-73 a.C. Poiché Livio non ci parla di alcun luogo di culto di Mefitis a Roma, è possibile ipotizzare che la divinità sia giunta a Roma in una data posteriore al 292 a.C., data da cui parte la seconda deca di Livio, a noi non pervenuta. Mefitis non è menzionata in nessun calendario romano, probabilmente perché il culto della dea aveva a Roma carattere priva104

to e gentilizio. La sua evocatio nell’Urbe deve collocarsi nel periodo delle guerre sannitiche. La data convenzionale proposta è quella del 272 e l’autore del tempio L. Papirius Cursor, trionfatore de Sannitibus, Tarentinis et Lucanis, che proprio nelle vicinanze del tempietto di Mefitis aveva la sua domus, sul lato del Cispio accanto all’attuale via Cavour (allora via Graziosa). Nella zona in cui si ipotizza la presenza del tempio furono scoperte alcune iscrizioni bilingui greche e latine con dedica ad Ercole e Silvanus da parte dei Papirii. E’ vero tuttavia che, se Festo e Varrone ci parlano della presenza di un tempio di Mefitis sull’Esquilino, lo stesso Varrone dice anche che il lucus ha “dimensioni ristrette” aggiungendo: “Non c’è da meravigliarsene: già da molto tempo, infatti, l’avidità è di gran lunga l’unica padrona”. Sembrerebbe di capire che il lucus fosse, al tempo di Varrone, già sconsacrato, o che fosse forse comunque in atto sull’Esquilino un fenomeno di “disboscamento” ai danni dei luci di Mefitis e Iuno, la cui sacralità non era evidentemente più rispettata, forse per far posto alla costruzione di nuove ville e ricche case. Alla fine della Repubblica l’Esquilino fu una delle aree preferite dai ricchi romani per la costruzione di lussuose abitazioni. Perciò, se si potevano costruire ville sull’Esquilino destinando all’edificazione aree prima occupate dal lucus della dea, allora il culto stava cadendo in disuso o comunque esso non aveva ancora assunto una caratterizzazione “negativa” (Mefitis dea delle esalazioni pestilenziali): un patrizio romano sarebbe stato felice di costruire la sua casa accanto al tempio della dea odoris gravissimi? L’Esquilino fu abitato fin da epoca molto antica. Una necropoli dell’età del ferro, scoperta alla fine del XIX sec. nella parte orientale del colle appare in uso dai primi decenni dell’VIII sec. Secondo la tradizione il colle sarebbe stato incluso nella città da Servio Tullio, il quale vi avrebbe preso egli stesso dimora, fortificandone anche il lato orientale con un agger. Il colle andò così a costituire una delle quattro tribù territoriali che formavano la città (insieme alla Palatina, la Collina e la Suburana). Il nome stesso “exquiliae” potrebbe avere avuto significato di “zona abitata fuori dalla città”. Varrone ricollega invece il nome “Esquilino alla presenza di un bosco di lecci piantati sul colle proprio da Servio Tullio, sottolineando come questa spiegazione si accordi me105

glio “con la natura dei luoghi vicini” e cioè i luci sacri di Iuno Lucina e Mefitis. Lo stesso Lejeune ritiene che sia molto antica la presenza di Mefitis sull’Esquilino: “Pour Rome on sera donc amené à attribuer à la Méfitis de l’Esquilin une origine sabine, et à la ranger parmi les . Remontant alors au temps des rois, ce serait là le plus anciennement attesté de tous les cultes de Méfitis que nous trouvons connaître”.283 L’Esquilino fu un quartiere grande e molto popoloso. Non vi erano edifici pubblici, ma sorsero, soprattutto nella parte occidentale del colle, numerosi templi e santuari, generalmente legati a culti popolari. La parte orientale, rimasta invece fuori dalle mura repubblicane, era già in età arcaica occupata in gran parte da una necropoli attraversata da acquedotti e da due grandi strade che uscivano da Roma.284 La necropoli venne tuttavia pian piano abbandonata dalle famiglie più agiate: l’aristocrazia iniziò a “snobbare” quest’area già intorno agli inizi del III sec. a.C., quando prese a diffondersi l’uso di costruire sepolcri agiati lungo le vie consolari (l’Appia prima di tutto: venne realizzata nel 312). Da una Roma più “ristretta” si passava ad una Roma con spazi più ampi, e i sepolcri sull’Appia (per es. quello dei Metelli, degli Scipioni ecc.) divennero presto quelli più prestigiosi e “politicamente” rilevanti. Fu così che la necropoli dell’Esquilino divenne progressivamente a necropoli più povera, fino a ridursi, dal II sec. a.C., a un insieme di tombe e fosse comuni, che accentuarono l’aspetto squallido e decadente del luogo. Proprio nell’area della necropoli, subito fuori da Porta Esquilina era localizzato il culto di Venere Libitina, divinità tutelare delle funzioni legate alla morte. Nel santuario della divinità si conservavano tutti i materiali utilizzati nei funerali e qui avevano luogo le esecuzioni capitali. Pare inoltre che proprio nella grande necropoli “popolare” dell’Esquilino fossero anche sepolti schiavi e criminali. È solo con l’età augustea che viene finalmente avviato il grande “risanamento” dell’area: nell’ambito del grande programma augusteo di risistemazione urbanistica e riqualificazione degli spazi di Roma, Mecenate fu incaricato di promuovere una grossa operazione edilizia per bonificare e urbanizzare il colle, trasformandolo in vera e propria zona residenziale di lusso. Egli stesso vi fece edificare la sua villa e fece 106

pubblicità martellante, degna della più agguerrita agenzia immobiliare, per convincere i romani ad andare a vivere sull’Esquilino. Lo affiancava un ‘copywriter’ di lusso, il poeta Orazio che coniò lo slogan: “Nunc licet Esquilis habitare salubribus”, conviene vivere sulle salubri Esquilie. La zona godeva infatti di clima ventilato e temperato, specie in estate, grazie alla posizione e alla quota. Proprio Orazio285 parla a lungo dell’Esquilino e della sua “cattiva fama” prima del grande intervento augusteo: un luogo insalubre, dunque, e dalle pessime condizioni igieniche, a causa anche della presenza, dall’età Repubblicana, di una discarica pubblica. Orazio racconta anche come l’Esquilino fosse addirittura frequentato assiduamente da parte di maghi, negromanti; e di come streghe e fattucchiere vi si recassero per raccogliere erbe o celebrare i loro riti. Con il risanamento augusteo, invece, andò a poco a poco, formandosi nell’area una “corona” di ville e parchi che si spingeva fino a includere la parte orientale del Quirinale e l’intero Pincio, il Collis Hortulorum.286 Poccetti ritiene corretta l’ipotesi già formulata dal Marbach di collegare la notizia di un culto di Mefitis sull’Esquilino287 alla Satira 1, 8 di Orazio in cui si allude alla presenza di aria malsana e fetida sul colle, ricordando inoltre come sempre sull’Esquilino fossero localizzati i culti di altre entità/divinità negative, come la stessa Febris o Mala Fortuna. Per Poccetti, infatti, “a Roma Mefitis assume caratteristiche demonologiche che certamente non ha il culto italico, e il suo posto nella religione ufficiale, perciò, non può che essere che tra divinità che, come dice Valerio Massimo (II, 5, 6) ad minus nocendum templis colebant. I paralleli più idonei per questa tipologia di divinità sono rappresentati dal culto di Robigo, la Ruggine, cioè la malattia che distrugge i raccolti, e Febris (anche con le sue specificazioni Tertiana, Quartana), ipostasi dell’alterazione della salute corporea”.288 In realtà, si è visto come esista una differenza netta tra la parte E e la parte O del colle. E quando Orazio parla dell’aria malsana dell’Esquilino certo non si riferisce alla parte occidentale del colle che, come si è detto, ospitava fin dall’età Repubblicana, numerose ricche case patrizie ma, evidentemente alla parte E, dove c’era la necropoli. Alla presenza, sull’Esquilino, dei templi di Mala Fortuna e Febris, Coarelli non fa cenno, ma un tempio di Febris pare sorgesse invece sul vicus longus 107

(che segue la valle tra Viminale e Quirinale, dal Foro di Augusto alle terme di Diocleziano, in linea con l’attuale Via Nazionale). Pare dunque di capire che il tempio di Mefitis non fosse poi così “vicino” a quelli di Febris e di altre divinità negative. E - d’altra parte - sarebbe stato contraddittorio da parte di Orazio associare l’aria malsana dell’Esquilino a Mefitis e poi invitare i cittadini di Roma ad andare a vivere su un colle dove c’era il tempio di una dea della esalazioni fetide, peraltro considerata divinità “negativa”. La chiave e il punto di arrivo della trasformazione che Mefitis subisce nel “passaggio” dal mondo osco alla religione romana pare possa essere rintracciata in Servio. Si è visto come, nel suo commento all’Eneide virgiliana, Servio ricordi e citi il teonimo Mefitis, aggiungendo, come si è visto, alcune indicazioni sul culto della dea: “Novimus autem putorem non nisi ex corruptione aeris nasci, sicut etiam bonum odorem de aere incorrupto, ut sit Mefitis dea odoris gravissimi, id est grave olentis » (Serv. Ad. Aen, VII, 84). Il ragionamento è chiaro. Servio tenta una definizione della divinità e del fenomeno cui è strettamente legata: Mefitis è associata al puzzo che emana dalle acque che emergono dal sottosuolo, ossia le acque sulfuree. Ma il fetore deriva dalla corruzione dell’aria così come il buon odore si ha laddove l’aria mantiene intatte le sue proprietà. Poiché dunque ogni modificazione negativa dell’aria è fetore, Mefitis diventa la “divinità del cattivo odore” in generale, l’ipostasi dell’aria malsana e puzzolente e causa del fenomeno stesso della “corruzione” dell’aria, per cui essa diviene irrespirabile. Servio parte non dal teonimo per giungere all’appellativo, ma segue il percorso inverso. Il “fetore di origine sulfurea” è mefitis e Mefitis è la divinità che tale fenomeno produce e personifica. Mefitis non personifica più le esalazioni solforiche ma l’aria fetida conseguenza delle prime e di qui l’aria fetida in generale. In conclusione, quindi, è chiaro come nella religione romana, Mefitis perda in parte la preminenza con cui si manifesta nel mondo italico “per scendere al rango del tutto marginale e secondario di dea del cattivo odore”.289 Questa trasformazione inizia, a quanto è possibile docu108

mentare, con Servio, mentre l’uso del termine “mefitis” conserva ancora in Virgilio un significato piuttosto “neutro” o comunque non del tutto o solo parzialmente negativo. Appare chiaro che il mutamento di caratteristiche e di funzioni della divinità rispetto all’ambito culturale di provenienza “non possa altrimenti spiegarsi che attraverso una interpretatio romana del culto italico. Secondo ogni verosimiglianza l’assunzione di Mefitis nella religione di Roma è avvenuta secondo un meccanismo che ha privilegiato una peculiarità estrinseca del culto in area italica, cioè, come vedremo, la distribuzione in luoghi caratterizzati dalla presenza di acque sulfuree e termo-minerali”.290 Una interpretatio romana del culto, dunque, c’è stata, e a Roma Mefitis ha assunto su di sé nuove funzioni, le originarie valenze dissolvendosi o modificandosi a favore di altre “competenze” della dea. Non riteniamo, tuttavia, si possa addirittura parlare di Mefitis come di una entità demonologica. Se mai le caratteristiche di Mefitis hanno assunto a Roma un valore “peggiorativo”, e sia pure negativo, ma non comunque totalmente nefasto o addirittura infernale. L’immagine di una Mefitis infera, entità demonologica e negativa nasce invece da un evidente fraintendimento della personalità della stessa, derivato da una lettura non corretta e “forzata”, eccessivamente “costruita”, delle fonti latine. Nella storia delle religioni è certo tutt’altro che infrequente che nel passaggio da un pantheon all’altro un teonimo riceva attribuzioni negative e malefiche. Quello di Mefitis, tuttavia, sembrerebbe essere un caso differente. Per Poccetti Mefitis diventa l’ipostasi dell’aria puzzolente e malsana, personificazione del fenomeno della corruzione dell’aria, e in quanto tale, proprio perchè rende irrespirabile o talvolta letale l’elemento che è indispensabile alla vita, “non una divinità benevola della terza funzione duméziliana, legata ad un culto ctonio, ma piuttosto uno spirito malefico, da esorcizzare o da propiziarsi, in quanto appesta il principio stesso della vita”.291 Si è quindi trattato, verosimilmente, di una “sovranterpretazione” moderna, costruita a sua volta sulla interpretatio romana del culto. L’etimologia L’etimologia del teonimo è incerta, e al centro di un acceso dibattito. Tra le fonti antiche, l’unica notizia su una etimologia di Mefitis ci è fornita dal grammatico Prisciano (Inst. III, 328, 5 H) il quale considera il sostantivo mefitis traslitterazione del greco μεσίτις, “mediatrice”: 109

“Mephitis quoque, quod proprium est et a Graeco μεσίτις, ut quibusdam videtur, mutatione s in f translatum, rationabiliter in ‘im’ fecit accusativum. Virgilius in VII: saevamque exhalat opaca Mephitim”. Prisciano trova l’occasione per questa breve nota su Mefitis nel capitolo delle Institutiones che tratta della terminazione all’accusativo singolare dei sostantivi della terza declinazione: “sunt autem haec plerumque graeca vel propria, quae accusativi graeci n in m convertentia faciunt accusativum latinum”. Si sta parlando, in particolare, di quei sostantivi greci che, aventi nominativo singolare in -is, hanno l’accusativo singolare in -im. Il riferimento a Mefitis è motivato dal fatto che si tratta di un nome proprio e di presunta origine greca, come confermato dalla notizia sull’etimologia antica. Alla base della etimologia proposta da Prisciano sta sicuramente la teoria linguistica di Varrone, secondo la quale il latino deriva dal greco, attraverso la mediazione del sabino (ossia l’osco-umbro). Grazie alla corrispondenza (la cosiddetta commutatio litterarum) tra il greco -σ- e la -f- italica, si passa dal greco μεσίτις, al sabino (osco) mefitis poi recepito dal latino mefitis. È chiaro che il riconoscimento della mutatio di s in f, nel passaggio da μεσίτις a Mefitis, presuppone anche, implicitamente, che Prisciano riconosca una rispondenza di significato tra i due termini, e un nesso concettuale, dunque, tra la dea Mefitis e l’ambito della “mediazione”. I termni, greco, sabino e latino rientravano tutti, evidentemente, nel concetto generale del μεσoς (gr.), méfiu-méfiai (o.), medius (lat.). Il grammatico non avrebbe altrimenti mai considerato corretto un collegamento tra termini di lingue diverse se non fosse effettivamente esistito tra gli stessi un legame logico. Il concetto di una divinità mediatrice/intermediaria è in realtà estremamente frequente nella storia delle religioni, dal Mitraismo, al cristianesimo e dunque anche nelle religioni dell’Italia antica. Basti citare, a riprova, il teonimo ANTERSTATAI della tavola di Agnone, l’INTERSTITIA latina.292 È probabile che la paternità di questa etimologia di Mefitis debba essere attribuita allo stesso Varrone: innanzitutto, infatti, non è infre110

quente trovare nelle opere di Varrone curiosità e notizie di tipo eziologico-antiquario, o spesso, appunto, anche etimologie di teonimi.293 Sappiamo anche da una notizia di Servio che proprio Varrone aveva redatto un catalogo dei luoghi d’Italia caratterizzati dalla presenza di esalazioni vulcaniche e solforose, alle quali, come vedremo, la dea Mefitis era associata. In particolare, tra questi, ben nota e conosciuta era la valle d’Ansanto,294 ove era anche il più importante santuario della dea nell’antichità. Isidoro riferisce infine che proprio a Varrone andrebbe ascritta l’introduzione del termine spiraculum con significato di omnia loca pestiferi spiritus. Un riferimento di Varrone a Mefitis, sulla base di queste considerazioni, sembrerebbe possibile. D’altra parte l’inciso ut quibusdam videtur in Prisciano lascia pensare che il grammatico abbia attinto la notizia da fonti diverse. Certamente Varrone ma, tenendo conto del prestigio dello stesso Varrone nella latinità e della larghissima diffusione delle sue etimologie, saremmo portati a pensare che proprio l’etimologia varroniana di Mefitis abbia avuto una certa fortuna e sia rimasta vitale e persistente nella tradizione grammaticale e antiquaria successiva.295 Mefitis ha in realtà rappresentato un “problema” anche per la linguistica e l’etimologia moderna. E’ chiaro che un’etimologia ha senso solo se si inserisce in un preciso contesto di riferimenti culturali e cultuali con i quali sia confrontabile. Tutte le spiegazioni moderne del teonimo Mefitis hanno invece in qualche modo seguito un percorso inverso. Ha influito, certamente, in ciò l’interpretazione di Mefitis “creata” dalle fonti latine, o meglio, forse, l’interpretazione di Mefitis che i moderni si sono creati attraverso la lettura delle fonti latine. Ma non si è partiti dal teonimo per arrivare all’etimologia: il teonimo stesso è stato invece subordinato al riconoscimento di un ambito di pertinenza e di funzioni che sono state attribuite alla divinità,296 in modo, come si è visto, quantomeno arbitrario. L’etimologia è stata insomma ricostruita a posteriori proprio in funzione dell’interpretazione: Mefitis-dea-delle-esalazioni-pestilenziali. La presunta derivazione dal greco di Mefitis che abbiamo trovato in Prisciano (forse, come si è detto, riconducibile a Varrone) ha a lungo condizionato l’ortografia e la declinazione del termine (Mephitis anzichè Mefitis, e accusativo singolare Mephitim, presente anche in 111

Virgilio, Plinio e Servio) nella tradizione ottocentesca degli studi, fino alla improbabile ricostruzione del Thesaurus del Saalfeld, il quale postula un inesistente μεφιτις. Verso la fine del XIX secolo lo Jordan è il primo a postulare per il teonimo un’origine italica, sebbene restasse del tutto oscura e inspiegata l’etimologia. Va precisato come, all’epoca, non si conoscessero attestazioni di Mefitis nell’epigrafia italica, tranne un breve testo, peraltro di controversa interpretazione, proveniente da Pompei. Solo nel 1923 compare lo studio di Lavagnini, che afferma un’origine italica per il teonimo, sulla base di considerazioni di carattere linguistico ed epigrafico. Dalla metà del Novecento, con lo scavo dei grandi santuari della divinità a Rossano e Rocca S.Felice, le conoscenze su Mefitis iniziano a farsi più precise. I moderni studi linguistici hanno innanzitutto consentito di accertare l’origine indeuropea del termine. La -f- italica deriva infatti dai fonemi indeuropei -bh- e -dh-, per cui è possibile postulare due “basi” (indeuropee) per il nostro termine: mebh- e medh-. Non essendo attestata la prima, la seconda è invece presente in diverse lingue, dove si trova con aggiunta di suffissi e vocali tematiche. Due etimologie, tra le tante proposte, possono essere ritenute accettabili e corrette dal punto di vista linguistico: la prima, sostenuta in particolare dal Lavagnini, dall’indeuropeo medhu- e dal verbo medhu-io, corrispondente al greco methuo, risale a una ipotetica forma latina mefio, “inebriare”, da cui mefitis nel senso di “vapore inebriante” o “inebriamento”. La stessa base medh- è presente secondo Lavagnini nella parola che designa in indeuropeo l’idromele, bevanda appunto “inebriante” preparata con miele fermentato, che si ritrova anche nel celtico, nel germanico, nell’indiano sempre con significato di “stordire”, “inebriare” e che trova confronto anche con il greco μάδεω, “essere ebbro” e con il latino madeo “essere imbevuto a sazietà”. Interessante anche il raffronto con il termine umbro mefa delle Tavole Iguvine che indica la focaccia sacra, impastata di miele. Mefitis, dunque, colei che “stordisce”, in riferimento al fenomeno delle esalazioni solforose, presente, come si è visto, nel santuario della dea in Valle d’Ansanto, e considerato dunque caratteristica primaria dei luoghi di culto della divinità, riconosciuta dagli stessi autori antichi. Poccetti sottolinea in tal senso come sia tutt’altro che infrequente nel patrimonio religioso indeuropeo, celtico, germanico, indiano, la 112

presenza figure divine o mitologiche o eccezionalmente dotate, la cui denominazione sia riconducibile alla nozione dell’ebbrezza o dell’inebriamento. Le ricerche del Dumézil, cui Poccetti fa riferimento, hanno ben evidenziato come la personificazione dell’ebbrezza compaia sempre nel momento della lotta e della riconciliazione tra le prime due componenti dell’ideologia tripartita (funzione sovrana e sacerdotale, funzione guerriera) e la terza funzione (funzione produttiva e sociale, connessa alle risorse naturali e al loro sfruttamento). L’apparire di questa forza inebriante consente, per Dumézil, “il costituirsi della società divina e di quella umana, identificato nella coesistenza pacifica delle tre componenti”:297 “L’ivresse interesse à des titres divers les trois fonctions: elle est d’une part, l’un des ressorts fondamentaux de la vie du prêtre-sorcier et du guerrier-fauve de cette civilization et, d’autre part, elle est procurée par des plantes qu’il fallait cultiver et cuisiner”.298  L’ebbrezza, inoltre, è connessa secondo Dumézil, in molte di queste figure divine, con la regalità e la sovranità da una parte, dall’altra con l’idea della fecondità e della generazione. A Rossano di Vaglio entrambi i cicli cultuali in cui il Lejeune ha bipartito il sistema della religione italica, quello uranio (giovio) e quello terrestre (cererio) sono presenti e il nome di Mefitis appare nelle iscrizioni dedicatorie associato all’idea delle risorse produttive della terra (come in RV-21 ed RV-26 in cui il nome della dea compare, affiancato dall’epiteto ARAVINA, signora degli “arva”, cioè dei campi arati e coltivati) ma anche a Giove e dunque con la regalità.299 Va sottolineata in tal senso anche l’importanza dell’iscrizione RV52, “hομοι [ενε]μ υδοι μεfι[τιαις]”. Essa riconosce secondo Poccetti uno specifico legame tra la dea e i due elementi (acqua e terra) che costituiscono “la base dell’economia rurale e delle risorse alimentari”.300 Infine, è da discutere l’ipotesi che la nozione di “inebriamento”, presente nel nome di Mefitis, non possa essere ricondotta a presunte capacità oracolari o addirittura guaritrici o magico-terapeutiche della divinità, connesse appunto con lo stato di “inebriamento” o “stordimento” tipico del mantis.

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Sempre legata all’idea di una Mefitis connessa con fenomeni vulcanici ed esalazioni solforose è l’interpretazione proposta dal Ribezzo, il quale vede una derivazione dal composto medhio-dhuitis, da cui si giungerebbe ad un ipotetico latino mefifitis con significato “colei che fuma o pute nel mezzo”. Una variante, suggerita dal Pisani, conserva il secondo termine della proposizione del Ribezzo e ammette come primo elemento del composto met, gr. μετά, proponendo una derivazione da met-dhutis, “in riferimento alla ‘centralità delle fumarole’ o al fumare insieme”.301 Lo stesso Pisani, tuttavia, ritiene ugualmente plausibile la ricostruzione del Lavagnini da un originario medhu-i-ti. Se le proposte del Lavagnini e del Ribezzo possono essere, in linea di principio, ritenute corrette entrambe e plausibili da un punto di vista fonetico, tuttavia, come si è già accennato, esse commettono l’errore di presupporre a priori un legame tra Mefitis e le esalazioni solforose che, per quanto presente nel culto di Mefitis, non è forse originario, o meglio, esse privilegiano una peculiarità estrinseca del culto di Mefitis (presenza dei luoghi di culto della dea in aree caratterizzate dalla presenza di sorgenti sulfuree o termo-minerali) per derivarne il teonimo. L’ipotesi oggi più largamente accettata e condivisa, che riprende quella di Prisciano, già analizzata, è quella che fa risalire il teonimo alla radice indeuropea medhyo, da cui mefiù, μεσoς, medius, con il significato di “mediatrice”, “colei che intercede”. Mefitis dunque “sta nel mezzo”, tra cielo e terra, sottosuolo e superficie, è la divinità che guida e protegge i passaggi tra mondo uranio e ctonio. In tal senso anche la connessione di Mefitis con l’acqua acquista particolare interesse. Si è già detto della particolare localizzazione dei santuari della Mefitis in prossimità di sorgenti, scoli, corsi d’acqua, laghetti. Ora, è opportuno soffermarsi brevemente su questo punto per evitare di commettere generalizzazioni: l’acqua è l’elemento naturale per eccellenza dotato di valore “sacrale”, quasi divino, soprannaturale.302 La pioggia è mandata “da Zeus”, i mari sono “di Poseidone”, i fiumi sono divinizzati o personificati; le fonti sono protette dalle Ninfe. L’acqua che sgorga dal sottosuolo ha spesso proprietà curative oppure dona particolari capacità oracolari. Le proprietà vivificatrici, purificatrici, terapeutiche delle acque sono esaltate fin dall’antichità più remota e proprio per queste qualità le acque svolgevano un ruolo essenziale nelle pratiche religiose. 114

Omnis fons sacer , secondo Servio (Ad En. VII 83): ogni fonte o sorgente aveva la propria divinità tutelare, divinità maschile o femminile e quasi sempre nell’antichità i santuari sorgevano in luoghi ricchi di acque, per usi pratici o destinati al culto. È chiaro quindi come, di volta in volta, sia necessario capire innanzitutto quale sia la componente cultuale principale e quali le sue funzioni e caratteristiche in relazione al contesto. Non sappiamo, nel caso specifico della dea Mefitis e dei suoi luoghi di culto in che modo l’acqua entrasse nel rito e come essa fosse utilizzata nella pratica cultuale, ma la presenza di strutture e apprestamenti tecnici per il suo uso, conservazione e canalizzazione (fontane, cisterne, pozzi, vasche, collettori, tubature, grondaie ecc.) fanno pensare a un suo ruolo comunque fondamentale. Le testimonianze, materiali ed epigrafiche, dei luoghi di culto di Mefitis fanno emergere e portano in rilievo soprattutto la complessità del culto di questa divinità, e la presenza di funzioni diverse e non facilmente riducibili a sistema, e che non rimandano subito ad un’unica matrice cultuale.303 La specifica peculiarità del culto parrebbe essere non nella protezione di un singolo ambito, o una particolare tipologia di fedeli, ma in una fondamentale funzione di controllo e di tutela “complessiva” di tutti i momenti di passaggio, nella vita sociale come nel mondo naturale. Il significato stesso del nome della dea, “mediatrice”, “colei che sta nel mezzo”, e appunto il suo legame con l’acqua, elemento fluido e in perenne trasformazione, immagine stessa del tempo e del divenire, elemento di raccordo tra sottosuolo e superficie e tra terra e cielo, suggeriscono la funzione di protezione del cambiamento, dell’incontro/scontro, dell’unione, del movimento, del passaggio al nuovo e dunque da un “prima” a un “dopo”, svolta dalla dea: Mefitis personifica e presenzia ai dualismi, la vita e la morte, il giorno e la notte, il caldo e il freddo, il regno dei vivi e l’oltretomba. In quanto “mediatrice” essa è anche immagine del mercato, dello scambio, immagine che a sua volta riflette il ruolo dei santuari come punti di incontro, poli di aggregazione non solo religiosa, ma anche politica, sociale, economica. È interessante soffermarci su questo punto: il santuario in sé, come e in quanto “luogo di vita”, favorisce i contatti, le transazioni, la vita economica in tutti i suoi aspetti. La divinità diventa garante dei beni, dei contratti, delle franchigie. L’associazione santuario/mercato/fiera è un aspetto tipico del quadro religioso 115

dell’Italia antica. Il santuario, situato fuori dalla città, ubicato spesso lungo un importante asse di comunicazione, o in zone spesso di frontiera o all’intersezione di uno o più gruppi o Stati limitrofi che decidono di gestirlo congiuntamente, rappresenta uno spazio di libera circolazione di uomini e beni, uno spazio “neutro”, atto allo scambio delle merci, eventualmente anche ai cambiamenti di status giuridico (ad esempio le manumissioni), e per le stesse ragioni, anche luogo politico, luogo di riunione o sede di assemblee:304 i santuari cosiddetti “federali” raggruppano diverse città o comunità appartenenti allo stesso ethnos o nomen. Il santuario è comune in quanto centrale, ed è “al centro” non solo geograficamente, in senso topografico, ma anche politicamente, poiché il potere “sta in mezzo” a tutti i membri dell’alleanza, e giuridicamente, in quanto spazio “neutro” dotato perciò stesso di un ruolo arbitrale.

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PER UNA RICONSIDERAZIONE DEL SANTUARIO DI ROSSANO DI VAGLIO. GLI SPAZI E IL CULTO Alla luce delle considerazioni esposte, e a conclusione del percorso fin qui delineato attraverso la storia e il culto del santuario di Rossano di Vaglio, sembra a questo punto possibile tornare all’oggetto di questo volume, proponendo e formulando alcuni spunti di riflessione. Non tesi o interpretazioni strictu sensu, dunque, ma ipotesi di lavoro, osservazioni, valutazioni. Come è ovvio e necessario per una ricerca essenzialmente “bibliografica” - non condotta, cioè, direttamente “sul campo”, ma costruita attraverso la raccolta, il riordino, la comparazione e l’analisi approfondita del materiale edito - le considerazioni presentate nelle pagine precedenti, sono qui ridiscusse ed offerte ad una ri-lettura delle fasi di vita del santuario - e, più in generale, del suo “funzionamento”- che non cerca di dimostrare quanto piuttosto di interrogare il dato archeologico. L’attenzione si è appuntata sui problemi riguardanti la cronologia del santuario, e dunque la progressiva strutturazione di uno spazio sacro complesso, nel quale significati strettamente religiosi e cultuali si intrecciano con esigenze politiche e sociali di rappresentanza. Ampio spazio nella discussione è stato riservato alla questione del presunto statuto “federale” del santuario, considerato il principale e più importante luogo di culto dell’ethnos lucano. La riflessione ha anche riguardato i temi inerenti l’organizzazione e gestione dello spazio sacro, l’uso dello stesso in funzione delle esigenze del culto e del rito ed il “sistema” dei materiali del santuario a essi collegato; il legame, infine, del culto di Mefitis con le acque e il suo significato simbolico e cultuale. Il lavoro di ri-organizzazione e sistematizzazione dei dati si è talvolta rivelato difficoltoso, a causa della frammentarietà del materiale bibliografico reperito, spesso parziale e non completo nel contenuto, a 118

volte contraddittorio o non sufficientemente chiaro, e la mancanza di una documentazione grafica e fotografica esaustiva. La cronologia La cronologia “tradizionale” del santuario di Rossano di Vaglio è fissata tra la seconda metà del IV sec. a.C. e la prima metà del I sec. d.C.305 Essa si basa, principalmente, sull’esame della ricchissima documentazione epigrafica e numismatica del santuario, nonché dei materiali rinvenuti. La lettura delle differenti fasi di vita del complesso risulta, tuttavia, confusa e di difficile interpretazione, a causa del continuo reimpiego di materiale avvenuto già in antico e proseguito in tempi più recenti. Diverse fasi di ristrutturazione sono state ipotizzate: al momento più antico della vita del santuario sarebbero da attribuire il grande altare e, forse, le fondazioni del muro di temenos sul lato N, tra il recinto e l’amb. III. Resti di edifici precedenti sono stati individuati nell’area SO del complesso: tracce di un precedente sagrato in pietra arenaria; alcuni blocchi rinvenuti sotto il livello delle fondazioni della gradinata306 dell’ambiente IV e i due tronchi di colonna, sempre in pietra arenaria, inglobati nella scalinata del portico dello stesso amb. IV. Blocchi lavorati e squadrati in arenaria, provenienti da monumenti relativi alle fasi più antiche del santuario, in seguito distrutti e sostituiti dalle nuove costruzioni, sono visibili riutilizzati un po’ ovunque. Tali elementi non sono tuttavia sufficienti né consentono di immaginare l’aspetto del santuario in questa prima fase. Il periodo a cavallo tra fine IV e inizio III secolo a.C. corrisponde al floruit della potenza lucana.307 Già verso la fine del III a.C., secondo Adamesteanu, una prima ricostruzione coinvolge il santuario in seguito probabilmente a una frana: pare infatti dimostrato che proprio alla fine del III a.C. l’ambiente agricolo e forestale nei dintorni del santuario subì una prima trasformazione che indusse, sul lato occidentale del sagrato, una modificazione strutturale dell’edificio, coinvolto in un lieve movimento in massa del pendio, causato forse da un terremoto. Non è però da escludere che il santuario sia stato toccato anche dalle distruzioni della seconda guerra punica (218-201 a.C.): dalle fonti sappiamo che proprio nei pressi di Rossano passarono le truppe cartaginesi di Annibale in ritirata verso Venosa, altis itineribus:308 la cenere rintracciata un po’ ovunque nel santuario potrebbe essere considerata legata a questi avvenimenti. Le trasformazioni avrebbero 119

interessato soprattutto il lato occidentale del complesso. Le iscrizioni dedicatorie RV-17 ed RV-18, datate al II a.C., relative al basamento rinvenuto nell’angolo NO del piazzale, al di sopra della pavimentazione in pietra calcarea, e le due basi di colonne poste sotto la stessa pavimentazione del piazzale, nonché la presenza di iscrizioni datate alla fine del IV a.C, ci consentono di circoscrivere cronologicamente questo intervento. Il III-II sec. a.C. è certo un momento di grandi trasformazioni, e il santuario ha una vita abbastanza vivace. È forse in questa fase, come recentemente ipotizzato,309 che esso inizia probabilmente ad assumere un aspetto monumentale. Non mancherebbero, del resto, confronti: proprio nel corso del III sec. a.C. numerosi altri santuari lucani (tra tutti, ricordiamo quello di Armento-Serra Lustrante) conoscono una fase di monumentalizzazione, caratterizzata da un aumento della complessità planimetrica (con l’adozione di soluzioni scenografiche e realizzazione di aree terrazzate, sostenute da muri di contenimento e collegate da scalinate, che sfruttano i dislivelli presenti nella topografia dei luoghi) e sottolineata dalla presenza di iscrizioni, donari, statue in bronzo o marmo, ex voto in metalli preziosi. Ci troveremmo quindi - secondo Adamesteanu - nell’ambito del medesimo clima culturale che investe le aree cultuali del meridione della penisola (pensiamo ai grandi santuari del Lazio, da Tivoli a Preneste) determinando un linguaggio uniforme, una sorta di koiné, che si nutre dei modelli dell’architettura scenografica ellenistica. I secoli II e I a.C. sono quelli a cui si riferisce la fase più intensa della vita del santuario, attestata e confermata dalla gran quantità di monete e iscrizioni trovate. Verso la fine della Repubblica il complesso subisce - secondo Adamesteanu - “un grande urto, provocato da una frana o da un terremoto ma assai probabilmente da tutti e due insieme. La situazione deve essere stata tale da obbligare un personaggio della famiglia Acerronius, nella prima metà del I sec. d.C., lui stesso di origine lucana, a pensare al restauro di quasi tutto ciò che era rimasto intatto”.310 Le operazioni riguardano, secondo quanto ipotizzato da Adamesteanu, il restauro di alcuni ambienti, con reimpiego di materiali architettonici ed epigrafici preesistenti e reperibili in loco, la monumentalizzazione dei portici dei lati brevi (amb. III e IV), la creazione di nuovi ambienti nell’area SO del complesso (amb. V-VI-VII-VIII), intorno ai quali viene costrui120

to il canale che raccoglie e devia le acque verso il pendio S, rifacimenti del muro di temenos e della pavimentazione del sagrato, la realizzazione della nuova cloaca nell’angolo SE. Verosimilmente, all’epoca di quest’ultimo rifacimento “le canalette che partono dai lati dell’entrata conducevano ancora con un piano inclinato da N a S, le acque da N verso la cloaca posta a SE”.311 Con l’età Tiberiana, o subito dopo,312 tuttavia, il santuario cessa di esistere “assai probabilmente, sempre per cause naturali e non per cause politiche o belliche [...] quando una nuova frana comincia a trasformare l’intera zona in un pantano”.313 Il sito viene abbandonato e il culto di Mefitis trasferito definitivamente nella vicina Potentia, fondata nel II a.C. È interessante rilevare come lo stesso Adamesteanu avesse precedentemente314 proposto una diversa lettura e ricostruzione delle fasi di vita del santuario. Leggiamo infatti a proposito dell’amb. III: “Tra tutti gli ambienti individuati finora, il III è l’unico messo in luce completamente e saggiato in tutte le sue fasi strutturali. Da questi saggi è apparsa nettamente chiara una trasformazione verificatasi alla fine della Repubblica, con colonnine in frammenti di tegole impostate su un basamento in pietrame costruito a secco, trasformazione che ha rialzato anche il piano del pavimento di circa m 0.20. Le iscrizioni RV-11 e RV-12 sono state trovate sotto il pavimento in battuto di età repubblicana. Al centro dell’amb. III, in linea con il lungo altare, un ammasso di blocchi ben squadrati indica la traccia di un basamento la cui forma doveva essere una T. Anche questo monumento appare costruito nella seconda fase, dato che la sua fondazione poggia sul pavimento repubblicano”.315 Non è chiaro, quindi, a quando debba essere riportata la trasformazione dell’amb. III del complesso: come si è detto, nel Rapporto Preliminare del 1992 Adamesteanu attribuisce allo stesso Acerronius (e alla fase finale di ricostruzione del santuario nel I d.C.) “i porticati degli ambienti III e IV” - la tecnica utilizzata per le colonne del portico in laterizio, infatti, rinvierebbe secondo Adamesteanu all’età imperialementre scompare qualsiasi riferimento al rifacimento repubblicano dell’amb. III. Lascia perplessi il cambiamento di forma del basamento a “T”, divenuta in realtà una “L” dopo il recente restauro.316 Curioso 121

anche lo spostamento dell’iscrizione RV-12,317 che compare ora invece “appoggiata al muro N”. Scrive inoltre Adamesteanu, a proposito del muro di temenos: “la parte orientale era costruita esclusivamente in blocchi di pietra arenaria mentre in quella occidentale gli ultimi due filari in blocchi di arenaria poggiavano su un primo filare di blocchi squadrati in pietra calcarea. Oltre ai già menzionati segni di cava, v’erano diverse altre iscrizioni riutilizzate come elementi di costruzione, specialmente nella parte verso l’amb. IV, databili, al più tardi, alla fine del II a.C. Queste considerazioni inducono a pensare ad una risistemazione di questo tratto collegato a diversi rifacimenti del sagrato e alla ristrutturazione dell’ambiente IV nella sua fase più recente”. 318 Poco oltre, nella descrizione dell’ambiente III si legge: “I blocchi del grande basamento sconvolto319 sono intagliati nella stessa specie di pietra in cui è lavorata una parte320 dei capitelli, nonché come è stato già detto, anche il primo filare del muro occidentale dell’entrata. Appare quindi molto evidente che anche questi blocchi sono stati lavorati dalla stessa équipe che aveva lavorato i capitelli.321 La stessa pietra, le stesse maestranze e quindi si potrebbe concludere che si tratta della stessa epoca”.322 Parrebbe di capire che muro O di temenos, basamento a “T” dell’amb. III e capitelli del portico dello stesso ambiente vadano riferiti all’ultima fase di ristrutturazione del complesso sacro nel I d.C. patrocinata dall’Acerronius dell’iscrizione. Non sarebbe strano, in questo caso - se il portico con colonnine dell’ambiente III viene realizzato da Acerronius insieme con quello dell’amb. IV, situato sul lato opposto del sagrato - che la nuova cloaca, realizzata secondo Adamesteanu nello stesso momento,323 tagli il muro E dell’amb. III appena “monumentalizzato” con l’aggiunta del portico? Una versione ancora differente troviamo in “Da Leukania a Lucania. La Lucania centro orientale fra Pirro e i Giulio-Claudii”:324 qui i capitelli dell’amb. III sono in calcare duro, mentre la sostruzione del muro di temenos è in calcare “più morbido”.325 Questo tipo di calcare “molto più 122

debole e di facile lavorazione” sembrerebbe entrare in uso in epoca tardo repubblicana.326 La datazione delle iscrizioni provenienti dall’amb. III (RV-11 e 12) scende a fine III - inizio II sec. a.C. Dopo la prima trasformazione del santuario alla fine del III secolo a.C. (che avrebbe comportato almeno il rifacimento del piazzale), si ipotizza una nuova ricostruzione “tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio dell’impero”.327 In “Rituali per una dea lucana. Il santuario di Torre di Satriano”,328 ancora un’ipotesi differente: “L’area sacra, indagata a più riprese dalla Sovrintendenza Archeologica della Basilicata e tutt’ora in corso di scavo, nasce nella seconda metà del IV secolo a.C. e viene frequentata senza soluzione di continuità almeno fino alla prima metà del I secolo d.C.; nel corso di questo lasso di tempo, il santuario subisce almeno tre fasi di ristrutturazione, la prima verso la fine del III sec. a.C.,329 la seconda molto più impegnativa, nel corso della seconda metà del I sec. a.C. ed un ultima durante la prima metà del I secolo d.C.,330 poco prima dell’abbandono”.331 L’idea di una grande ristrutturazione del santuario nel corso del I secolo a.C. può apparire convincente. D’altra parte, è interessante segnalare come già H. Dilthey, nel più volte citato articolo “Sorgenti, acque e luoghi sacri in Basilicata”, comparso nel 1980,332 avesse ipotizzato una “ristrutturazione del santuario, l’ultima avvenuta nella prima metà del I sec. a.C.”.333 I recenti scavi, come già accennato, sembrerebbero confermare l’ipotesi, consentendo di collocare “una grande fase di ristrutturazione dell’area nel corso del I sec. a.C.”, mentre risulterebbero assenti “tracce di occupazione di età imperiale la cui presenza, riscontrata nei dintorni e all’interno dell’ambiente IV, potrebbe riferirsi alle fasi finali del culto più che a veri e propri interventi edilizi”.334 Ciò consentirebbe “pur con le dovute cautele [...] di rialzare la datazione della nota iscrizione di Acerronius nell’ambito del I sec. a.C., più precisamente, ad un momento successivo al primo ventennio del secolo”.335 La datazione della celebre iscrizione latina RV-22 “…]acerro[nius …m]efitis u[tianae..”, importantissima testimonianza di evergetismo monumentale nel santuario lucano, menzionante un membro della fa123

miglia degli Acerronii, famiglia di origine lucana, come probabile dedicante del portico S del santuario, è sempre risultata controversa. Dal I secolo d.C. al I secolo a.C., addirittura al II secolo a.C. nella recentissima sistemazione del Museo Archeologico Nazionale della Basilicata. È - come si è detto - sulla base di questa iscrizione RV-22, datata dal Lejeune alla prima metà del I d.C., che Adamesteanu colloca l’ultima grande fase ricostruttiva del santuario all’età tiberiana. Acerronius, personaggio menzionato nell’iscrizione, andrebbe identificato, secondo l’ipotesi di Adamesteanu, con Cn. Acerronius Proculus, console del 37 d.C. insieme con C. Petronius Pontius. In realtà numerosi indizi farebbero ritenere che la grande fase ricostruttiva del santuario debba essere riferita non al I sec. d.C. ma all’età tardo Repubblicana, e debba dunque collocarsi a cavallo della metà o alla fine del I a.C.:336 innanzitutto ragioni di ordine paleografico, indicanti per l’iscrizione una datazione entro il I sec. a.C.337 In secondo luogo, la tecnica costruttiva utilizzata per le colonnine in laterizio del portico, probabilmente molto più antiche di quanto affermi Adamesteanu.338 Secondo l’ipotesi di A. Pontrandolfo Greco, la datazione andrebbe rialzata addirittura alla prima metà del I a.C., sia per confronto della tecnica costruttiva delle colonne in laterizio del portico con analoga tecnica utilizzata, ad esempio, a Pompei nell’edificio della basilica,339 sia per il rapporto con la corrente stilistica rodio-microasiatica delle statue che in questo ambiente erano collocate, con la quale si accorderebbe perfettamente l’architettura del portico stesso nella ricerca di monumentalità e di effetti scenografici.340 Le testimonianze scultoree del santuario di Rossano di Vaglio apparirebbero, in tal senso, perfettamente inserite in quel grande movimento di ricezione di artisti, modelli e prodotti figurativi greci e greco-orientali che coinvolge le élites italiche in età tardo-repubblicana,341 contribuendo a chiarirne movimenti e “percorsi” di diffusione, grado di “ricettività”, livello e modalità di assimilazione presso le stesse élites italiche, all’indomani o nel corso della romanizzazione.342 La particolare qualificazione stilistico-iconografica di questi prodotti, di scuola rodio-insulare, e la loro datazione, entro la seconda metà del II sec. a.C., troverebbero un preciso riscontro nelle condizioni storiche e nelle “coordinate” architettoniche del santuario di Rossano, fornendo - secondo Denti - un “aggancio” per determinare la cronologia di tale grande intervento edilizio. 124

Una stessa cultura insomma “produce” le testimonianze scultoree del santuario e le sue caratteristiche architettoniche. Si tratterebbe di un intervento da parte della ricca committenza locale da collocarsi nel quadro del grande processo di monumentalizzazione in senso “ellenistico” che caratterizza le aree santuariali italiche in età repubblicana, in una fase ormai avanzata di romanizzazione, il cui grado sarebbe “misurabile” proprio nell’assunzione di forme e modelli figurativi greco-orientali.343 In mancanza di testimonianze epigrafiche direttamente associabili a tali interventi, sarebbe possibile ipotizzare per gli stessi un tipo di committenza qualificabile, sotto il profilo intellettuale, come fortemente imbevuta di cultura greca e greco-orientale. Secondo l’ipotesi sostenuta ancora da M. Denti, “è probabile che questa comune e coerente opzione per un determinato tipo di imagerie trovi una puntuale spiegazione in relazione alle coordinate culturali che hanno caratterizzato lo sviluppo economico dei ceti dirigenti delle aree che, nel quadro del processo di romanizzazione della Lucania, ne costituiscono i più influenti poli di riferimento: il golfo di Napoli, con il porto di Pozzuoli, l’area daunia e i suoi traffici marittimi con Rodi, e la stessa Taranto, nodali veicoli di trasmissione dei modelli culturali provenienti dai centri della Grecia orientale, dove è nel contempo ampiamente attestata - come noto - l’attività di negotiatores legati alle élites italiche”.344 L’Acerronius dell’iscrizione, così, evergeta del santuario di Rossano, andrebbe identificato, forse in modo più convincente, non con lo Cn. Acerronius Proculus console di età tiberiana, ma con un suo avo o parente di età repubblicana. Di particolare interesse, in tal senso, una testimonianza di Cicerone il quale, in una sua orazione, la Pro Tullio del 71 a.C., menziona uno Cn. Acerronius possessor di terre nell’ager Thurinus, definendolo tra l’altro con l’appellativo di “vir optimus”. Consideriamo il fatto che, in generale, in età giulio-claudia non abbiamo homines novi e che il cursus honorum era regolato da leggi abbastanza ferree. Inoltre, nel momento in cui una gens è in fase di ascesa, anche il legame con la sua terra di origine è più forte, mentre diviene progressivamente meno incisivo una volta che il membro della gens, raggiunti gli onori consolari, si inserisce ormai a pieno titolo inserito nella vita dell’Urbe.345 Alla luce di queste considerazioni, l’Acerronius della nostra iscrizione potrebbe essere forse il figlio dell’Acerronius citato da Cicero125

ne, membro del ceto equestre e appartenente, dunque, a una gens in rapida e precoce ascesa nella seconda metà del I sec. che poteva avere interesse a sostenere grandi operazioni edilizie nello spazio pubblico“vetrina” del santuario, molto più di un Acerronius console di età tiberiana. Interessante rilevare, infine, come esista un’altra importante testimonianza degli sforzi evergetici delle aristocrazie locali in età repubblicana nel santuario di Rossano: una base iscritta, databile al II a.C. menzionante il restauro delle “statue bronzee dei re” aenea signa regum, ad opera di tale Heiren(n)ius Pomponius. Rossano di Vaglio: un santuario “federale”? Il santuario di Macchia di Rossano è generalmente considerato santuario “federale” del mondo lucano: “[...] distinti dai centri abitati, questi luoghi di culto svolgevano sicuramente una importante funzione di raccordo sul piano sociale, economico e politico, tra le varie borgate e le singole fattorie sparse per tutto il territorio circostante [...] Si viene così a creare [...] una gerarchia di luoghi di culto, da quelli domestici e di pertinenza vicano-paganica a quelli relativi a più comunità fino al santuario dell’intero nomen”346. Tali strutture, regolarmente o episodicamente attivate, dovevano funzionare al tempo stesso come luoghi di culto e luoghi di riunione, raggruppando diverse comunità intorno ad uno spazio comune che è al tempo stesso “centro” politico, geografico e giuridico.347 Il santuario di Mefitis a Rossano di Vaglio appare in tal senso perfettamente inquadrabile in questo modello: il significativa corrispondenza con l’accezione di Mefitis “dea che sta nel mezzo”,348 sorge al centro di una fitta rete di percorsi stradali, vie e tratturi che lo collegano ai diversi centri indigeni vicini. Che il santuario potesse avere un legame diretto con uno dei centri urbani circonvicini è incerto. La critica, d’altra parte, ha espresso a riguardo posizioni differenti: per Adamesteanu “il santuario, per quel che si conosce non appare legato ad alcuno degli insediamenti indigeni della zona, bensì [...] sembra essere un santuario [...] che rappresentava i centri vicini, come quello di Serra di Vaglio, di Civita di Tricarico, di Torretta di Pietragalla, di Carpine di Cancellara”,349 ipotesi confermata dal Bottini il quale rileva una “assenza di città”350 e spiega il fenomeno “quale conseguenza di una comune organizzazione territoriale, radicata nella [...] natura montuosa di tutti questi territori, priva di centri di aggregazione di tipo 126

urbano”.351 Marina R. Torelli identifica invece in Serra di Vaglio il centro di riferimento del santuario,352 sostituito poi, a partire dal II a.C. dalla romana Potentia.353 Quando avrebbe senso parlare di Rossano di Vaglio come di santuario “federale” dei Lucani? È soprattutto a partire dalla metà del IV sec. a.C., in concomitanza con l’ormai completato consolidamento delle genti lucane354 che si assiste in generale in tutta l’area lucana al sorgere di un imprecisato numero di santuari e aree a connotazione cultuale: è il grande “risveglio religioso” dei Lucani, che si manifesta nella creazione di grandi santuari, alcuni di carattere etnico-cantonali, “momento di aggregazione” e di forza delle genti lucane, che si esprime appunto nella tendenza “a coprire tutta l’area con spazi dedicati al sacro”.355 A Rossano di Vaglio, la natura eminentemente “politica” - nel senso più ampio del termine - del santuario e della sua funzione emergerebbe “tanto dalla sua stessa organizzazione che dai materiali rinvenuti al suo interno”.356 In particolare, la presenza nel santuario “di donari di notevole impegno formale in bronzo”, oltre che di epigrafi”, nonché l’uso, di “spiccato interesse storico e ideologico [...] di sospendere alle pareti degli edifici di culto armi - bottino di guerra o frutto di diretta consacrazione- attestato in maniera imponente nel grande santuario sannita di Pietrabbondante [...], è il segno più evidente del diretto intervento del potere politico e dello stretto intreccio esistente tra quest’ultimo e la sfera religiosa”.357 In realtà, come si è detto, poco o nulla resta dell’impianto originale del santuario: il grande altare, resti di un precedente sagrato in arenaria parzialmente conservato al di sotto della pavimentazione in pietra calcarea durissima, alcuni blocchi sempre in arenaria rinvenuti sotto il livello delle fondazioni della gradinata dell’ambiente IV e i due tronchi di colonna, sempre in pietra arenaria, inglobati nella scalinata del portico dello stesso amb. IV. Strati con frammenti di ceramica databili al IV-III sec. a.C. sono stati rinvenuti nel corso dei recenti scavi anche nell’area a O del sagrato “indicando in modo concreto come anche quest’area fosse occupata sin dalle prime fasi di vita del santuario”.358 Certo è possibile, sulla base di quanto emerso, ritenere che il santuario possedesse già, forse fin dal III secolo, un’articolazione monumentale complessa. D’altra parte, è proprio in questa fase, tra metà IV e soprattutto nel pieno III secolo a.C. che la maggior parte dei luoghi di culto dell’area lucana conoscono una fase di monumentalizzazione (si pensi al caso di Armento-Serra Lustrante). Probabilmente già nel II 127

secolo il santuario ha raggiunto il suo assetto definitivo. Tale ipotesi sembrerebbe condivisa anche dal Bottini: “[...] l’impianto incentrato anche nella sua redazione più recente (di età repubblicana) non su un edificio coperto sede della divinità. secondo il modello ellenistico del tempio, ma su di uno spiazzo lastricato contornante un grande altare, chiuso su tre lati da strutture coperte destinate, in parte, a contenere ex voto[...]”.359 In ogni caso, sicuramente non possediamo ancora, per il IV e III secolo a.C. elementi tali da far ritenere che il santuario di Rossano di Vaglio potesse configurarsi come luogo di culto di rilevanza etnica. Gli scarsi resti conservati non ci consentono, come si è detto, di ricostruire l’aspetto originale del santuario né di ritenere dunque che esso dovesse o potesse essere un santuario appunto “federale”. Se l’idea di un santuario “federale” sembra sostanziata dalla quantità e qualità del materiale rinvenuto (statue in bronzo e marmo, ricchi ex voto in materiali preziosi, presenza di numerose offerte legate alla vita militare) va precisato che della “touta utianom”, nome del ramo dei Lucani che dovevano occupare il territorio di Rossano, ipotizzata da Adamesteanu, non abbiamo attestazioni epigrafiche o notizie nelle fonti letterarie. Lo stesso dicasi del toponimo Utia, presunto nome antico dell’abitato di Serra di Vaglio. D’altra parte occorre tener conto del fatto che tutte le iscrizioni “politiche” del santuario sono riferibili a una fase già “romanizzata” del culto. L’attestarsi di uno specifico formulario “ufficiale” nelle epigrafi di Rossano non si colloca infatti prima della fine del III a.C. risultando, dunque, difficilmente separabile dall’impronta romana. E’ chiaro che, allo stato attuale delle conoscenze, l’idea di Rossano di Vaglio-santuario “federale” del mondo lucano non può essere a priori esclusa o confermata. Appare credibile, tuttavia, che, se il santuario ha avuto un ruolo “politico” nella sua fase “lucana”, esso ha continuato a detenerlo anche in seguito in diretta connessione, però, con la presenza di Roma: Roma ha interesse a crearsi una “base” di appoggio e consenso. La sua politica si muove secondo le linee tradizionali che avevano già guidato le prime fasi della conquista della penisola: politica di appoggio alle aristocrazie locali, instaurazione di legami di tipo clientelare. Dopo i duri scontri e le drastiche operazioni di confisca seguite alla guerra annibalica360 i rapporti tra Lucani e Romani dovvettero andare 128

lentamente normalizzandosi e, fatta eccezione per i territori confiscati e per quelli utilizzati per l’impianto di colonie, i centri lucani più importanti furono reintegrati nel sistema di alleanze di Roma con “foedera” più o meno favorevoli, a seconda della condotta tenuta durante la guerra. Stesso atteggiamento i Romani tennero con le città greche della costa (Eraclea, che si vide ripristinare il suo foedus con Roma, Metaponto, Velia). È ipotizzabile, dunque, che anche i centri lucani delle aree interne che non si erano compromessi in modo grave durante la guerra divenissero anch’essi foederati di Roma, sebbene non esistano testimonianze certe a riguardo. Possiamo forse pensare a quei centri che dopo la guerra sociale diventeranno municipia, talvolta mantenendo nella loro costituzione municipale un ordinamento duovirale e non quattuorvirale, in continuità con la fase “libera” precedente e dunque conservano in qualche modo le forme istituzionali preesistenti. Documento di eccezionale rilevanza, da questo punto di vista, è costituito dalla Tabula Bantina: si tratta di una epigrafe databile tra il 100 e il 90 a.C. (anteriore quindi allo scoppio della guerra sociale) recante lo statuto municipale di Bantia. L’iscrizione descrive l’ordinamento costituzionale della città, elencando i magistrati preposti allo svolgimento delle relative funzioni politico amministrative: censores, aediles, quaestores, praefecti, tribuni plebis, tutti nomi di magistrature romane, mai menzionate in costituzioni municipali, ma piuttosto in quelle di colonie latine, esemplate, evidentemente, su quelle della vicina Venusia, appunto colonia latina, nel II sec. a.C. strettamente legata a Bantia. Va inoltre segnalata la presenza, sempre a Bantia di un templum augurale, imitante i modelli romani. Si tratta di fenomeni che abbiamo definito di “acculturazione” delle forme preesistenti da parte dei modelli romani in un’ottica che non si schiaccia totalmente sul modello esterno, ma cerca di combinarlo con la specifica realtà indigena. Proprio la presenza, ai margini del territorio lucano, di due grandi colonie latine, appunto Venosa e Poseidonia-Paestum, fondate rispettivamente nel 291 a.C. e nel 273 a.C., dovette costituire un importante fattore di accelerazione nel processo di romanizzazione della Lucania, agendo come nuovo modello di organizzazione politico-sociale ed economico. Né è trascurabile l’influenza esercitata dai grandi centri urbani sulle strutture socio-economiche delle campagne, anch’esse sottoposte a forte pressione: nel corso del II a.C. l’influenza del modello urbano ed 129

il drenaggio di prodotti e risorse materiali ed umane dalla campagna alla città e al foro, ove si concentrano le attività economiche mercantili ed artigianali, non può non avere effetto sul popolamento delle campagne, generando profonde trasformazioni e producendo esodi in direzione delle grandi città e verso le aree privilegiate dal punto di vista produttivo. È in questo contesto caratterizzato da una vivace mobilità che si collocano le nuove grandi ondate colonizzatorie volute dagli Scipioni prima, poi dai Gracchi (133-123 a.C.). È in questo momento che viene fondata Potentia, a poca distanza dal grande santuario di Rossano. A partire dalla guerra sociale fu proprio la Potentia romana a dominare il santuario, sostituendosi all’amministrazione lucana. Il culto della dea è presente a Potenzia già prima che decada Rossano Solo quando il santuario, nel I sec. d.C., cessa di esistere, il culto è definitivamente trasferito ma, per circa due secoli, coesiste nelle due sedi. È interessante riflettere sull’affermazione del Bottini circa l’assenza di un vero e proprio tempio nel santuario di Rossano di Vaglio: “[...] sotto il profilo strettamente archeologico, l’aspetto più interessante di questi santuari, è costituito, al di là dell’ampiezza del loro campo d’azione, dalle soluzioni architettoniche e distributive adottate, la cui varietà conferma peraltro l’assenza di un modello comune di riferimento [...] Sebbene non si debba trascurare il fatto che il complesso ci appare ora nel suo rifacimento di età repubblicana, è certo che al suo interno non è mai stato eretto un vero e proprio sacello”.361 Centro funzionale dell’impianto risulta così essere il grande altare, collocato imponentemente al centro del sagrato.362 Occorre certamente tener conto del fatto che Bottini scrive - nel 1989 - quando da poco è stata ultimata la prima grande campagna di scavi nel santuario di Macchia di Rossano. La ripresa delle indagini nel santuario lucano, con una seconda campagna 1998-99, fino alla recentissima del 2001-2002, ha consentito di evidenziare come il santuario occupasse in realtà un’area molto più vasta, soprattutto, con una planimetria complessa ed altri edifici e strutture funzionali al culto localizzati intorno e nelle vicinanze del grande sagrato. L’ipotesi, recentemente formulata è, come si è già più volte accennato, che in un momento non precisato della tarda repubblica, il santuario abbia subito 130

un radicale riassetto monumentale di tutta l’area, riorganizzata attraverso un impianto spettacolare, articolato su più livelli, con una struttura “a terrazze” accessibili e collegate tra loro mediante scalinate363, con un’ampia vista sulle colline e paesi circostanti e, più oltre, la vallata percorsa dal fiume Basento. Il quadro che ne risulta è altamente scenografico: il grande spiazzo contenente l’altare viene chiuso lateralmente da un doppio portico colonnato monumentale (amb. III e IV). La terrazza occupata dalle strutture descritte viene collegata a una terrazza superiore, occupata da un tempio situato in posizione dominante, tramite una scalinata, affiancata da due fontane addossate al muro di contenimento.364 Una terza terrazza doveva situarsi invece a valle. L’accesso all’area del sagrato doveva avvenire attraverso una via processionale pavimentata proveniente da SO, riportata in luce da scavi recenti, lungo la quale erano collocate statue ed iscrizioni.365 L’immagine è certo assai suggestiva. Ma - e si pensi qui, ad esempio, al caso, più volte citato, del santuario di Torre di Satriano- dobbiamo necessariamente aspettarci a Rossano la presenza di un tempio? In realtà stiamo forse guardando a un santuario italico da una prospettiva eccessivamente condizionata dal modello greco e romano; quello, in particolare, del santuario definito “ellenistico”: le recenti campagne di scavo, che hanno - come si è visto - interessato tutta l’area ad O del grande sagrato, hanno evidenziato la presenza di resti di strutture. L’ipotesi è che si trattasse di edifici pertinenti, forse, ad una terrazza superiore del santuario, chiusa da un porticato.366 Le strategie di scavo dipendono sempre direttamente dalle domande che al terreno si pongono. Nell’ovvio limite di chi non ha preso parte alla ricerca sul campo, scopo del presente lavoro è - come si è già più volte precisato - semplicemente quello di proporre spunti di riflessione367 raccogliere e confrontare i dati emersi. Evidenziare elementi che possano essere utili a chiarire, a capire: “tre setti murari orientati nordsud, ma con andamento leggermente diverso rispetto a quello riscontrato nella parte occupata dal sagrato”, localizzati nel saggio A/00; resti di una “struttura messa in luce in modo più esteso nel saggio D/02”; presenza di “lastre relative ad una pavimentazione [...] a basole litiche [...] simile (se non identica) a quella del sagrato”; ancora “resti di una grande struttura, forse un grande terrazzamento, che il contromovimento basculante del131

la frana ha fatto crollare ‘verso monte’ [...] indagati superficialmente”; un “vespaio di pietre di piccole e medie dimensioni, scivolato leggermente verso ‘valle’, su cui erano posti blocchi parzialmente lavorati” miste a “elementi triangolari in laterizio, del tipo usato per la costruzione delle colonne del santuario”, non sono forse prove sufficienti per supporre la presenza di una terrazza bordata da portico colonnato, soprattutto se le strutture descritte risultano poi a mala pena visibili sulle planimetrie pubblicate:368 non è indicata in pianta la posizione dei saggi369 effettuati; le didascalie risultano illeggibili perché troppo piccole; non è chiaro a quali “strutture” si riferiscano alcune delle fotografie riportate sul testo;370 le indicazioni spaziali fornite risultano sempre alquanto vaghe; infine, soprattutto: la planimetria generale del santuario pubblicata sul testo non risulta ancora aggiornata, ma è ferma agli interventi del 1969-86, a ben tredici anni dalla pubblicazione del Rapporto Preliminare di D. Adamesteanu ed H. Dilthey conclusivo della prima campagna di scavi nel santuario lucano. Incuriosisce certo la presenza, nell’area a O del sagrato e a poca distanza da questo, di un gruppo di grandi massi disposti ai due lati di quella che sembra essere un “accesso” che conduce al sagrato. Tenendo conto della “originaria omogeneità dell’intero pianoro, almeno fino alla zona occupata dai grandi massi erratici”,371 è verosimile supporre che l’area, con la terrazza superiore del santuario, fosse in realtà occupata da strutture - un sacello o vasche - funzionali al culto, legate, forse, alla monumentalizzazione di una fonte o una sorgente vicina, più che da un vero e proprio tempio, collocato sulla terrazza in posizione dominante.372 D’altra parte lascerebbe forse perplessi l’idea che l’altare il grande altare collocato al centro del sagrato. Le dimensioni sono assolutamente indicative: di forma rettangolare, esso occupa con i suoi 27,5m in lunghezza373 quasi tutto il lato SE del piazzale - si trovasse così distante dall’edificio templare, situato sulla terrazza superiore. I resti delle strutture appena descritte sono databili, sulla base di una moneta rinvenuta nelle fondazioni “della struttura US4”,374 al I secolo a.C. È in questa fase che deve probabilmente essere collocata l’ultima grande ristrutturazione del santuario. Si è detto che verosimilmente nel II a.C. esso ha già raggiunto un assetto “definitivo”, con il grande 132

altare situato al centro del sagrato, chiuso sui tre lati da portici. Utile indicazione può essere forse fornita dalla base in pietra calcarea, collocata nell’angolo O del sagrato, davanti all’amb. IV alla quale dovevano essere pertinenti le due iscrizioni RV-17 ed RV-18 trovate nelle vicinanze e incise nella stessa pietra calcarea. Si tratta di due iscrizioni in lingua osca e caratteri greci, databili all’inizio-metà del II a.C. La presenza della base e delle iscrizioni di II a.C. sopra la pavimentazione in pietra calcarea durissima del sagrato, può forse fornirci il terminus ante quem per circoscrivere cronologicamente l’intervento. Siamo d’accordo con Bottini nel ritenere che il santuario potesse già possedere, prima del rifacimento visibile, un aspetto monumentale con grande altare centrale, sagrato e portici su tre lati. I tre elementi “funzionano” ed hanno senso insieme e sembrano costituire un complesso coerente. Se può essere riportato alla prima metà del I a.C. l’intervento di monumentalizzazione dei portici degli amb. III e IV con colonnine,375 è certo però che la costruzione della cloaca superiore, coperta a volta, che taglia e oblitera il muro dello stesso amb. III debba essere invece collocata in un momento ed in una fase di intervento successiva. Non sembra invece che il santuario abbia subito rifacimenti o sia stato interessato da occupazione in età imperiale. La cronologia dei materiali sembra fermarsi al I a.C., fatta eccezione per le lucerne rinvenute lungo il muro SO dell’amb. IV, depositate in forma di thysia, da riferirsi verosimilmente alle fasi finali del culto e all’abbandono del santuario con il seppellimento “rituale” dei resti nella grande fossa dell’amb. IV. Il ruolo dell’acqua nel santuario di Rossano di Vaglio La presenza dell’acqua come segno di riconoscimento ed elemento atto e “di per sé sufficiente a qualificare come sacro un determinato luogo”376 è un dato ormai acquisito e ampiamente sviluppato nella letteratura archeologica. E l’acqua doveva certo avere, come si è più volte sottolineato un ruolo centrale nel rito e nel culto della dea Mefitis: per le sue molteplici valenze, da quella semplicemente purificatoria a quella più complessa di “elemento fondamentale che adombra processi di rinascita a una nuova vita”377 l’acqua è elemento particolarmente adatto ad essere impiegato in riti legati a “passaggi di status, in specie per ciò che concerne il mondo muliebre”.378 133

Proprio l’analisi del sistema di apprestamenti interni del santuario risulta dunque estremamente utile al fine di gettare luce sul funzionamento del santuario stesso e sulla natura delle pratiche sacre che in esso dovevano svolgersi. In un contesto sacro l’acqua deve certo possedere, oltre a una valenza essenzialmente rituale, un uso di tipo pratico e funzionale, disciplinati e stabiliti dalle autorità che gestivano il santuario e si occupavano dunque anche dei problemi connessi con lo sfruttamento delle risorse idriche all’interno dell’area sacra.379 A Rossano di Vaglio, come si è visto, la già citata l’iscrizione RV-52, documento rituale, di carattere informativo e implicitamente prescrittivo, marca per il pellegrino il punto preciso (segnato dalla posizione dell’iscrizione stessa) a partire dal quale si penetra in uno spazio consacrato alla terra di Mefitis e all’acqua di Mefitis. Questo documento purtroppo è mutilo e ha trovato un reimpiego. L’iscrizione appartiene alla prima fase del santuario e la sua collocazione originale doveva certo essere all’ingresso del santuario primitivo. La presenza di acqua nello spazio sacro, e la vicinanza dello stesso ad una fonte o una sorgente, non solo attribuisce sacralità al luogo, ma ne determina i “confini”, definisce e specifica la sua articolazione interna. La stretta associazione sorgente/luogo di culto comporta e determina un percorso sacro, più o meno esteso, che porta alla sorgente, al quale dovevano essere associate forme rituali legate all’uso dell’acqua.380 La captazione e il deflusso delle acque dalla sorgente all’area sacra avveniva attraverso un complesso sistema di impianti idraulici (vasche, canalette, ma soprattutto tubi fittili alloggiati sul terreno o condotte sotterranee) funzionali a far confluire l’acqua all’interno del temenos. Nel caso di Rossano di Vaglio, come si è visto, canali con tubi fittili sono stati rinvenuti in vari punti sul pendio che dalla sorgente, verosimilmente ubicata nei pressi dell’attuale chiesetta della Madonna di Rossano, a circa 1 Km di distanza dall’area sacra, conducevano al santuario. Una serie di canalette attraversa il piano pavimentato del sagrato, dipartendosi dalle due “fontane” che affiancano la scalinata d’ingresso del sagrato, sul lato O: ai due lati dell’entrata, intagliati nei lastroni calcarei della pavimentazione, due semicerchi sono collegati tra loro da una canaletta, anche questa intagliata nel calcare, che prosegue in direzione NE attraversando diagonalmente il sagrato e piegando curiosamente poi verso NE in corrispondenza dell’angolo N del134

l’altare. Un altro canale segue il perimetro del sagrato sul lato opposto, per poi immettersi anch’esso nella cloaca, nell’angolo E dello stesso, fiancheggiando l’amb. II, poi piegando a 90° e seguendo il muro che separa l’amb. IV dal piazzale. La canaletta “gira” poi stranamente lungo il muro O dell’amb. IV e prosegue, all’esterno dell’amb. IV, verso S, recingendo l’edificio, fiancheggiando anche il lato NO degli amb. V e VI e dirigendosi infine in direzione SE. Sui lati NO e SO e fino alla porta di accesso dell’amb. IV, la canaletta è affiancata esternamente da un muro sistemato poi a livello della canaletta stessa. Una simile sistemazione è presente anche nell’amb. III sul lato NO del muro perimetrale dell’ambiente “esiste un passaggio tra questo e il sagrato”.381 Saggi in profondità hanno consentito di accertare che le fondazioni dei muri scendono, in questo punto, fino a 1,70 m, indicando “maggior cura nella costruzione anche in rapporto ad una spinta della terra su tutto il lato NO”.382 Proprio “a causa di questa spinta e, certamente, per evitare l’infiltrazione di acqua da questo lato”,383 il muro esposto in questa direzione è “rinforzato” da un secondo muro-intercapedine, mentre un canale di scolo corre lungo il perimetro esterno dell’edificio confluendo nella cloaca a NE. Interessante, è la presenza nel santuario di acque sia meteoriche che sorgive: nella tavola di Agnone384 è operata, attraverso la sequenza teonimica e la polarità Diumpaìs/Anafrìs, “fonti” e “piogge”, una netta distinzione tra i due tipi di acque, le prime ‘vive’ e ‘perenni’, le seconde temporanee, incostanti e ‘morte’.385 Le acque sorgive, in particolare, acque ‘vive’, acque che scorrono e ‘delimitano’ allo stesso tempo, assumono nell’immaginario antico una propria, intrinseca sacralità. La loro qualità peculiare di elemento-vita, il continuo fluire, diventano sinonimo del perpetuarsi della vita e del rinnovarsi dell’esistenza attraverso i suoi naturali cicli biologici.386 Il canale che, sul lato SE del piazzale, percorre il perimetro degli amb. IV e II per poi immettersi nella cloaca nell’angolo NE, doveva, secondo Adamesteanu, essere utilizzato per la raccolta e lo scolo delle acque piovane. Potrebbe, d’altra parte, non essere del tutto casuale, ma legata anch’essa a motivi “rituali” e cultuali, e dunque ad una valorizzazione del percorso delle acque nello spazio sacro, la presenza nel santuario di Macchia di Rossano di canalette coperte e condotte a cielo aperto. 135

Curioso, infine, il percorso della canaletta che, partendo dalle “fontane” semicircolari all’ingresso del sagrato, taglia obliquamente il piazzale attraversandolo in direzione NE e “aggirando” l’altare. Lo strano percorso potrebbe essere legato, forse, all’esigenza di regolarizzare certe pendenze del piano, già “falsate” da deformazioni del sagrato, dovute a frane e movimenti di massa del pendio. Del resto, si è visto come anche i canali esterni agli amb IV e III fossero stati creati per risolvere un problema strutturale e di stabilità dell’edificio, legato alla necessità di controbilanciare la spinta del terreno, tendenzialmente franoso, sul lato O dell’edificio e limitare infiltrazioni di acqua dal pendio. D’altra parte lo stesso potrebbe invece essere legato, in modo assai suggestivo, alla funzione dell’acqua “sacra”, acqua che divide e delimita, definisce spazi e percorsi. È interessante inoltre osservare come il tratto della canaletta che dalle fontane ai lati dell’ingresso si dirige verso l’altare, risulti parallelo alla cloaca più antica, che dall’angolo NE del sagrato, all’esterno dei muri E e N degli amb. III e II, prosegue riversando le acque sul pendio. Dietro l’altare, tra questo e il muro dell’amb. II è possibile individuare in pianta due “fasce” oblique e un quadrato, corrispondenti a zone in cui risulta mancante la pavimentazione calcarea del sagrato. Le due “fasce” potrebbero essere forse interpretate come due canalette,387 colleganti la base dell’altare al muro dell’amb. II. Quest’ultimo risulta infatti, come si vede sempre in pianta, tagliato dalle due ipotetiche “canalette”,388 che risultano inoltre parallele al tratto della canaletta che attraversa il sagrato, tra l’angolo N dell’altare e la cloaca, piegando in direzione NE. Oggetti votivi e pratiche rituali nell’organizzazione dello spazio sacro Indizio importante sull’uso dello spazio sacro ci viene dai materiali e dalla loro distribuzione. È possibile rintracciare una logica sottesa al luogo di rinvenimento dei pezzi all’interno del santuario? In realtà, come si è detto, nulla conosciamo circa la funzione e l’utilizzo dei diversi ambienti. D’altra parte, come si è più volte ricordato non è stato completato, e anzi appare ancora in fase del tutto preliminare, lo studio dei materiali del santuario, soprattutto di quelli relativi ai più recenti scavi effettuati nell’area sacra. Non disponiamo dunque di dati quantitativi. Per buona parte del materiale rinvenuto non possiamo peraltro conoscere precisamente il contesto di provenienza, essendo 136

gli scavi stati condotti - almeno nella parte iniziale del lavoro, immediatamente successiva alla prima “scoperta” del santuario - senza l’utilizzo di metodologie stratigrafiche. Il santuario doveva certo strutturarsi intorno a un determinato percorso cerimoniale, che prevedeva lo svolgimento di certi riti in spazi e momenti precisi, scanditi proprio dal movimento del fedele all’interno dello spazio sacro e, verosimilmente, deposizioni di oggetti e offerte votive che dovevano interessare in primo luogo gli ambienti e i portici disposti intorno al grande “sagrato”. La maggior parte del materiale fittile del santuario sembra essere concentrata negli ambienti I e II: statuette femminili (soprattutto nell’amb. I), testine, elementi di grandi statue in terracotta. Provengono inoltre dall’amb. II frammenti di statue in bronzo, punte di lancia, monete, frammenti in oro, un torso in marmo e vari altri frammenti marmorei. Dall’amb. I vasetti acromi, thymiateria, fibule, frammenti di elmi e cinturoni, chiodi e uncini in ferro e bronzo, forse utilizzati per la sospensione di ex voto, o ex voto essi stessi, o elementi di una possibile copertura lignea del monumento. Anche nell’amb. IV si concentrano numerosi fittili, thymiateria, frammenti in ferro e bronzo. Dall’enorme “cavità” (verosimilmente una stipe) nella parte S dell’amb. IV, provengono inoltre resti di una trapeza (tavolo) in pietra e di statue femminili in marmo, un erote in marmo, una ruota di carro in ferro e un modellino di carro da guerra, piedi di tripodi in ferro, frammenti di statue in bronzo, un orecchino in oro, due lance miniaturistiche. Va i ogni caso tenuto presente come la concentrazione di statue in marmo nell’ambiente IV non sia ugualmente in grado di dirci nulla sulla loro provenienza e collocazione originale,389 sebbene sia forte la tentazione di vedere proprio l’amb. IV 390 come grande ambiente “di rappresentanza”, destinato a ospitare ricche dediche e preziose offerte. Nell’amb. III, infine, la presenza di un grande basamento e il rinvenimento di numerosi frammenti di statue in bronzo391 e terracotta lasciano supporre che all’interno dello stesso fossero collocate statue. Forse, la stessa statua di culto della dea. Assai interessante, in tal senso, la concentrazione e distribuzione delle dediche nel santuario, a carattere privato nella zona in prossimità dell’ingresso dell’amb. III, “pubbliche” presso l’amb. IV. Un dato, interessante, sul quale occorre riflettere, è la presenza di terrecotte votive nel santuario. In particolare, circa mille statuet137

te femminili, di cui, tuttavia, pochissime in buono stato di conservazione392, rinvenute stranamente sparse, forse in modo non casuale, in tutta l’area sacra, all’interno degli ambienti del triportico del sagrato, ma anche all’esterno degli stessi ambienti. Si tratta di deposizioni relative alla frequentazione del santuario oppure di atti di apertura o chiusura dell’area stessa? Non è purtroppo possibile, come si è visto, datare i monumenti con la certezza e la precisione che sarebbero necessarie. Il santuario ha subito numerose ricostruzioni e rifacimenti, parziali o totali, restauri, rimaneggiamenti. Indizio importante può forse essere il fatto che numerose statuette siano state rinvenute in quantità cospicua lungo i muri esterni degli ambienti 1b, 1g ed 1e. Va segnalata anche la presenza di monete e oggetti in bronzo e ferro, nonché vasetti votivi, frammenti di ambra ed una testa femminile in bronzo databile tra IV e III a.C. Da notare inoltre come la cronologia degli ex voto in terracotta non scenda oltre il II secolo a.C.: la maggior parte dei fittili votivi rinvenuti risulta infatti databile al IV-III secolo a.C., e dunque va riferita alla prima e più antica fase di vita del santuario. Il momento successivo è quello di romanizzazione del culto e con la ricostruzione del santuario, verosimilmente ultimata già entro il II secolo a.C. nelle forme monumentali oggi visibili del grande sagrato con portici. Si tratta senza dubbio di una grande operazione edilizia, che comporta una trasformazione evidente dello spazio sacro: cambia l’architettura, cambia lo spazio del rito. Quanto tutto ciò risulta significante da un punto di vista cultuale? In che modo è gestito il cambiamento del sacro? Come si modifica il rapporto con la divinità? L’ex voto in terracotta è, come si è detto, “simbolo del rapporto che il fedele intendeva istituire con il divino, il segno tangibile di una avvenuta azione rituale, in occasione di feste o particolari ricorrenze da celebrare”,393 atto dell’individuo e operazione rituale. Nel momento in cui esso scompare, anche l’atto individuale viene a mancare all’interno di uno spazio e di una “teologia” strutturata in modo diverso. Nel corso del III-II secolo a.C., in coincidenza con l’ingresso di Roma nelle aree meridionali della penisola, cambia la percezione e la visione - nel senso più concreto del termine - del sacro. Il confronto tra modelli romani ed organizzazione locale si presenta estremamente interessante: esso mostra, da un lato, la flessibilità del modello stesso rispetto alle situazioni locali nelle quali esso viene a estendersi, e dunque il modo di reagire dello stesso nell’ambiente indigeno, dall’altro la “capacità di reazione”, misurata 138

sul sostrato indigeno, verso le istituzioni esterne. Siamo certo in presenza di una classe dirigente lucana, che riceve cospicui vantaggi - politici, economici - dalla conquista di Roma ma che, pur assimilando in parte modelli “romani”,394 utilizza formule che sente “proprie”. Se insomma il cambiamento architettonico è dovuto al romano, certo permangono ancora forti, “volontà” del sacro che romane non sono. Quei fenomeni, ancora, di “resistenza culturale”, “controacculturazione” di cui parla Torelli.395 Come doveva o poteva svolgersi il percorso sacro all’interno dello spazio del santuario? Due, innanzitutto i possibili accessi all’area sacra: una scalinata monumentale, affiancata da due fontane semicircolari con canalette, consentiva l’accesso al sagrato sul lato O; una strada lastricata, invece, interpretabile forse come una via processionale, data la presenza di statue e basi iscritte collocate lungo la stessa, proveniente da SO, collegava “il lato sud del santuario con il sagrato”,396 raggiungendo la soglia d’ingresso dell’amb. IV. L’accesso avveniva tramite una grande porta larga m 2,50. Adamesteanu ritiene che l’ingresso originario del santuario dovesse “essere disposto diversamente rispetto a quello oggi visibile”. Uno “spostamento dell’entrata”, attualmente posta sul lato occidentale del complesso, si sarebbe infatti reso necessario “a causa delle continue frane che ancora oggi flagellano il terreno in direzione SO”.397 Se l’ingresso al santuario si trova sul lato O, dobbiamo allora ipotizzare un percorso dall’alto verso il basso, che dalla sorgente, situata verosimilmente nei pressi della chiesetta della Madonna di Rossano, scende fino al grande sagrato con altare. In realtà, la presenza di una via processionale, e il rinvenimento nella stessa area di iscrizioni databili al IV secolo a. c. e resti di edifici riferibili alla fase originaria del santuario,398 farebbero piuttosto supporre la presenza dell’ingresso al santuario sul lato S del complesso. L’ipotetico visitatore del santuario doveva compiere il suo percorso nell’area sacra procedendo nel verso opposto: ovvero, dal basso verso l’alto, salendo fino alla sorgente. L’idea di un percorso “ascensionale”, d’altra parte, meglio si accorderebbe con la supposta presenza di una “terrazza superiore” del santuario, ove poteva essere ubicato un sacello della divinità o altre strutture ed edifici funzionali al culto. Interessante la descrizione che Adamesteanu fa della stipe votiva, la grande “cavità” dell’amb. IV: “L’aspetto del fondo dell’amb. IV si pre139

sentava come la traccia di un fiume asciutto [...]”,399 riempita completamente di macerie. Il dislivello continua anche all’esterno dell’ambiente, verso S, riempito però maggiormente con terra mista a malta friabile e poco materiale votivo.400 Potrebbe forse trattarsi, secondo l’ipotesi dello stesso Adamensteanu, dello scolo naturale di una sorgente o di una fontana, ricoperta in un secondo momento con questo enorme riempimento.401 È possibile che, nella fase originaria del santuario, proprio in questo settore fossero ubicate strutture monumentali, legate alla presenza di una piccola sorgente poi esaurita? Che la stessa area sia stata scelta, al momento dell’abbandono del santuario, come deposito votivo, potrebbe non essere forse del tutto casuale.

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NOTE CONCLUSIVE: IL SIGNIFICATO DI UNA RICERCA A conclusione del lavoro, sembra opportuno ribadire ancora una volta come l’obiettivo della nostra ricerca sia - o sia stato - semplicemente quello di sollevare e proporre spunti di riflessione. Gli interrogativi che il santuario di Rossano di Vaglio pone sono certo ancora numerosi. Appare oggi necessario e urgente colmare le gravi carenze della documentazione, attraverso nuovi e mirati interventi di scavo nell’area, affiancati e supportati da un adeguato studio dei materiali del santuario (ancora, come si è visto, parziale e incompleto) allo scopo di risolvere o tentare di risolvere le questioni legate alla cronologia del santuario, alle fasi della sua monumentalizzazione e trasformazione architettonica, alle caratteristiche e alla “fisionomia” del culto e del rito. Queste note conclusive vogliono dunque soprattutto essere una riflessione (positiva e propositiva) su come e quanto sia oggi urgente e non differibile la necessità di trovare tempo e risorse per azioni “educative” sul patrimonio. Intendo questo termine nel suo significato originale ed etimologico, quello dell’e-ducere che significa letteralmente condurre fuori, quindi liberare, far venire alla luce qualcosa che è nascosto. Educare, cioè introdurre alla realtà e al suo significato, mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla nostra tradizione culturale. E’ possibile e necessario, ed è una responsabilità di tutti. Occorrono maestri, e ce ne sono, che consegnino questa tradizione alla libertà dei giovani che li accompagnino in una verifica piena di ragioni, che insegnino loro a stimare e amare se stessi e le cose. Non era infrequente, solo pochi anni fa, rintracciare in rete o su giornali, quotidiani e riviste locali, notizie,402 riferimenti, commenti sullo stato di incuria in cui versavano le aree archeologiche di Rossano e Serra di Vaglio: mancanza di un’adeguata segnaletica stradale; scarsa sorveglianza; strade sconnesse e disagevoli, difficilmente praticabili; apertura per eventuali visite 142

affidata alla (gratuita) buona volontà dei pochi residenti e dei volontari, non sempre nella condizione di assicurare una adeguata presenza. Il santuario versava purtroppo in un ingrato e triste stato di quasi abbandono. Oggi, a più di due anni di distanza dalla mia prima visita al santuario della dea Mefitis, Rossano e Serra di Vaglio sono un bell’esempio - in un panorama ancora povero o più spesso impoverito - di come e quanto una risorsa importante sfruttata fino a pochi anni fa in modo decisamente parziale possa, invece, con un approccio corretto e là dove la si sappia utilizzare con giudizio e a buon fine, produrre valore, efficienza, anche in tempi rapidi. Sono più condizioni che si intrecciano e si alimentano a determinare le potenzialità di crescita e le opportunità di sviluppo. Occorre entrare nella cultura non solo del fare di più e molto, ma in quella della qualità. Ottenibile attraverso lo sforzo e l’impegno tenace, costante delle istituzioni, in stretta sinergia con le realtà associative locali e con la diretta partecipazione degli stessi cittadini, che spesso - in questi mesi - ho visto affacciarsi incuriositi al cancello verde che recinge l’area del santuario, chiedendo di poter “visitare gli scavi”.403 “Una delle principali attività della Soprintendenza Archeologica per la Basilicata riguarda la valorizzazione del patrimonio archeologico della regione. In relazione a recenti scoperte di straordinaria importanza scientifica e culturale, la Basilicata si conferma come uno dei territori più significativi dal punto di vista archeologico della Magna Grecia [...] Solo attraverso una conoscenza diffusa, sarà possibile raggiungere una collaborazione sempre più ampia da parte delle comunità locali nell’attività di tutela dello straordinario patrimonio archeologico della regione: obiettivo prioritario dell’attività della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Basilicata”.404 Riprendo, pertanto, per concludere, il pensiero di Andreina Ricci, docente di Metodologia della Ricerca Archeologica e Archeologia Classica all’Università di Roma Tor Vergata, in un recente volume dal titolo “Attorno alla nuda pietra; archeologia e città tra identità e progetto”.405 La Ricci auspica che si crei un rapporto, ormai reciso da troppo tempo, tra archeologia e società, cioè tra archeologi e studiosi da un lato e cittadini dall’altro. Un rapporto che sappia rispondere all’esigenza dei cittadini di appropriarsi delle informazioni e di avere strumenti per la comprensione. Sebbene la Ricci basi le sue riflessioni su Roma, 143

il suo discorso si applica senz’altro a tutto il territorio italiano, disseminato di siti archeologici spesso poco o male valorizzati, se non ignoti a chi vi abita vicino, e il più delle volte inaccessibili. I beni archeologici dovrebbero farsi racconto, un racconto che parli del singolo resto, ma che lo colleghi anche e soprattutto al territorio nel quale sorge, perché sia restituito al contesto d’origine. In questo modo la popolazione si riappropria di un bene, il bene culturale, che le appartiene, in quanto è anch’essa parte del territorio in cui il bene è sorto, e convive con esso. Così l’interpretazione dei resti in vista dell’attribuzione a essi del loro giusto valore storico diventa il momento più alto del lavoro dell’archeologo. La comunicazione archeologica non è un accessorio o un’inutile appendice della ricerca. Essa dovrebbe invece esserne il punto d’arrivo, e anzi il fine ultimo. Dovrebbe, ancora, essere progettata con serietà, in quanto momento e luogo in cui gli oggetti del passato palesano il loro significato e la loro storia a chi li vede, acquistando un senso; altrimenti essi sono e rimarranno sempre semplicemente “nude pietre”. Non dev’essere fatta confusione: portare gente in una piazza non vuol dire aver fatto cultura. Non è detto che il patrimonio diventi produttivo solo se contribuisce a far crescere le presenze, a “portare il turista”: la “produttività” del patrimonio culturale sta piuttosto nella crescita sociale del cittadino attraverso la consapevolezza del proprio patrimonio. Un arricchimento non quantificabile in termini monetari, ma che dovrebbe essere quantificato in termini assoluti nell’economia complessiva. Per espressa fiducia in queste potenzialità, migliaia di studenti, consapevoli di formarsi in attesa di un quadro d’occupazione e legislazione in grado di riconoscere le loro formazioni professionali, hanno scelto un corso di laurea in Operatore dei Beni Culturali. Per diventare, un giorno, archeologi, storici dell’arte. Ci auguriamo - e l’auspicio, forte e convinto, viene da chi scrive, da chi, ancora all’inizio di un lungo e certo impegnativo percorso di studi, si sta “affacciando”, con entusiasmo e passione, al mondo dell’archeologia - che questo possa essere più di un nobile intento e diventare sempre di più realtà effettiva e presente.

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TAVOLE

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L’area del santuario, veduta aerea. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 13

Abitati antichi intorno a Rossano. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 17 149

Planimetria generale Rossano di Vaglio. Foglio n. 9, scala 1:2000. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 1

L’area di scavo prima dell’inizio dei lavori di restauro. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 101

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L’ingresso del sagrato, lato O.

Il muro di temenos, lato O.

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Canaletta, particolare, e Sagrato, sezione trasversale. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 46

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Angolo NE: cloache, particolare.

Angolo N, amb. III: particolare della canaletta.

Amb. IV: canaletta all’esterno dell’amb. IV, particolari.

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Canalizzazioni del santuario, lato S. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 44.

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Iscrizioni RV-17/42 ed RV-18. Da LEJEUNE 1990.

Angolo SO del sagrato: basamento in pietra calcarea.

Base su cui poggiavano le iscrizioni RV-17/42 ed RV-18. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 26. 155

Gradinata amb. IV: colonna tufacea e sotto colonna con iscrizione RV-52. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 27.

156

Angolo NE: veduta dell’amb. II.

Elementi di copertura a spioventi dell’amb. II. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 22. 157

Lato E: esterno dell’amb. I, muro con “speroni”.

Amb. III: ingresso fiancheggiato da semicolonna in mattoni; basamento per statua.

Frammento di testina muliebre dall’amb. III. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 32.

158

Planimetria del santuario. Ubicazione scavi 1998-1999. Da DE PAOLA-SARTORIS 2001.

Testa marmorea femminile dall’amb. I. Da DE PAOLA-SARTORIS 2001. 159

Particolare dell’area di scavo 1999. Da DE PAOLA-SARTORIS 2001.

Area SE: basamento in arenaria recante iscrizione con dedica ad Eracle e lamina con Anfitrite su delfino. Da DE PAOLA-SARTORIS 2001.

160

Le iscrizioni di Rossano di Vaglio. Da LEJEUNE 1990. 161

162

Mappa schematica degli interventi di scavo 2000-2001. Da NAVA-CRACOLICI 2005, pag. 108.

Planimetria generale interventi di scavo 2000-2001. Da NAVA-CRACOLICI 2005, pag. 109.

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Statuette fittili di donne sedute con polos. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 106.

Statuette fittili di donne con melagrana. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 107. 164

Statuette fittili stanti. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 110.

Statuette fittili stanti; figura femminile appoggiata ad una colonnina. Da Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992.

165

Statuette fittili: ephedrismòs. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 114.

Testine fittili con polos. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 116.

166

Testine fittili con varie acconciature. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 121.

Figure maschili. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992 pp. 55-56.

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Figure della commedia. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992. 168

Ex voto della vita militare: modellino di carro da guerra, punte di lancia; laminetta raffigurante un cavallo. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992.

Testine di animali. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pp. 129-131. 169

Frammenti di dischi con diverse raffigurazioni di Eroti. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 142.

Tipi di thymiateria. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 135. 170

Cintura in argento dorato. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 159.

Tipi di antefisse. Da ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pp. 65-66.

Testina di Afrodite. Da DENTI 1992, pag. 44. 171

Statuetta di Artemide. Da DENTI 1992, pp. 48-50.

Statuetta di Artemide. Da DENTI 1992, pp. 56-58.

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Luoghi di culto della dea Mefitis in Italia. Da LEJEUNE 1990, pag. 46.

Localizzazione e distribuzione dei luoghi di culto della dea Mefitis in Italia. 173

Il santuario della dea Mefitis in Valle d’Ansanto. Pianta catastale con indicazione dei saggi di scavo; localizzazione della chiesa di S. Felicita. Da FALASCA 2002, pag. 21. 174

Roma. Ipotesi di localizzazione del lucus Mefitis. Da FALASCA 2002, pag. 36.

La valle del Melfa. Da FALASCA 2002, pag. 38. 175

Il foro di Paestum. Da FALASCA 2002, pag. 41.

L’oikos votivo di Roccagloriosa. Da FALASCA 2002, pag. 45. 176

Casalbore. Pianta del santuario. Da FALASCA 2002, pag. 48.

Piante del santuario di Pila S.Chirico Nuovo. Da TAGLIENTE 2005, pp. 117-118.

Torre di Satriano. Pianta generale del santuario. Da OSANNA-SICA 2005, pp.129-130. 177

Pianta generale dell’area sacra di Buccino-S. Stefano. Da DE CARO-DE GENNARO 2005, pag. 158.

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NOTE Basti pensare al corpus di documentazione epigrafica e all’impressionante quantità di materiali, statue in bronzo e marmo, coroplastica, ceramica, monete e gioielli rinvenuti nell’area sacra. 2 NAVA-OSANNA 2005, pag. 3. 3 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 24. 4 http://www.basilicatanet.it/sito_deputazione/dinu.htm. 5 Secondo la bella definizione di R. Giura Longo. 6 È il 1964 quando Adamesteanu giunge in Basilicata, terra di ‘frontiera’, destinato a dirigere la Soprintendenza Regionale, allora appena istituita. Inizia così il lungo e proficuo suo rapporto con la nostra regione. In pochi anni, grazie alla sua passione per la ricerca ed alla sua azione costante e tenace, la ricostruzione storica dell’antica Lucania riceve un impulso straordinario. In una regione che, in questi settori, poteva essere considerata ancora una vera e propria “terra incognita”, in un’area pressochè priva di sedi espositive, con la sola eccezione del Museo Provinciale di Potenza (1901) e del Museo Ridola di Matera (1911), Adamesteanu per primo individua nuovi poli per la fruizione pubblica dei materiali. A partire dalla costa ionica, dove sorgono in breve l’antiquarium delle “Tavole Palatine” presso Metaponto e il primo nucleo del Museo Nazionale della Siritide, prende forma un programma estesissimo di realizzazioni nuove: nasce il museo di Grumentum; è istituito il parco archeologico di Venosa; si ampliano le stesse strutture museali di Potenza e Matera; si portano a compimento campagne di scavo in numerose località; si riferisce regolarmente sulle scoperte avvenute degli Atti dei Convegni di Studi sulla Magna Grecia. Ed è proprio grazie allo stesso Adamesteanu che i Convegni di Taranto acquistano una risonanza internazionale, con un concorso di studiosi in continuo aumento. L’interesse si appunta, in particolare, sul mondo indigeno, sul problema delle popolazioni italiche meridionali, i popoli, cosiddetti “anellenici”, compresi nella vasta zona della Magna Grecia al momento della colonizzazione greca, e sul loro sviluppo a contatto con la civiltà greca e, in un secondo tempo, con il mondo romanizzato. Seppure in una prospettiva ancora prevalentemente greco-centrica o romano-centrica, è proprio a partire dalla metà degli anni Settanta che tali temi si impongono all’attenzione 1

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del mondo scientifico e accademico dell’archeologia. Una vivacissima stagione di studi tocca il suo punto massimo negli anni ottanta, con una serie di interessanti contributi e ricerche, ed in significativa coincidenza con la lo scavo dei due grandi santuari di Rossano di Vaglio e Valle d’Ansanto-Rocca S.Felice, dedicati alla dea Mefitis. 7 NAVA-OSANNA 2005, pag. 3. 8 NAVA-OSANNA 2005, pag. 3. 9 Broccoli, U., “Esporre una fistula... per non capire un tubo! Ovvero: ma perché, spesso, anche gli oggetti più comuni vengono descritti con didascalie che, servendosi del linguaggio specialistico, confondono il visitatore?” in Archeo n. 251, gennaio 2006. 10 ADAMESTEANU 1971a, pp. 40-41. 11 Si tratta delle iscrizioni RV-01 ed RV-04 bis, quest’ultima riportata anche dal Mommsen in CIL. X², e andata poi perduta, contenente una dedica a VEN. V[T]IAN[AI]. 12 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag 15. 13 Molte di queste strade non sono più visibili nella nuova cartografia, cancellate dalle numerose divisioni di proprietà che hanno interessato tutta l’area tra Vaglio di Basilicata e Rossano, soprattutto dopo l’entrata in uso dei mezzi meccanici. Vd. ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 19. 14 ADAMESTEANU 1971a, pag. 39. 15 FALASCA 2002, pag 26. 16 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 11. 17 Sulle scoperte avvenute nel santuario si riferisce regolarmente anche negli Atti dei Convegni di Studi sulla Magna Grecia tenutisi tra il 1970 ed il 1986. Nel 1971 Adamesteanu pubblica un primo parziale resoconto in “Il santuario lucano di Macchia di Rossano di Vaglio”, con un’appendice curata da M. Lejeune, relativa all’epigrafia osca del santuario, contenente l’analisi delle iscrizioni rinvenute tra il 1969 ed il 1970 fino a RV-26 (MAL s. VIII, 16). Ancora nel 1971, la mostra dedicata ai Popoli anellenici in Basilicata, tema dell’XI Convegno di Studi sulla Magna Grecia, è seguita dalla pubblicazione di un Catalogo della Mostra, curato da D. Adamesteanu, con una presentazione di quanto venuto in luce nel santuario di Macchia di Rossano. Lo stesso tema è, ancora nel 1971, al centro del Convegno di Studi sulle genti della Lucania antica e le loro relazioni con i Greci d’Italia (ASCL, PotenzaMatera 1971). Più recentemente, DILTHAY, H., 1980, “Sorgenti e luoghi sacri in Basilicata”, in Scritti in onore di Dinu Adamesteanu, Attività archeologica in Basilicata 1964-77; TORELLI, M.R., “I culti di Rossano di Vaglio” e ADAMESTEANU, D., “Rossano di Vaglio” in Basilicata: l’espansionismo romano nel sud est dell’Italia. Il quadro archeologico, Atti del Convegno, Venosa, 23-25 aprile 1987. 181

LEJEUNE, M., 1967, “Seconde note sur le sanctuaire lucanien de Rossano di Vaglio”, REL, 202 (anche PP=La Parola del Passato. Rivista di Studi Antichi); 1969, Seconde note sur le sanctuaire lucanien de Rossano di Vaglio, G. Macchiaroli, Napoli; 1971, “Langue et civilization des Lucaniens”, in Atti del Convegno di Studi sulle genti della Lucania antica e le loro relazioni, PotenzaMatera 18-20 ottobre 1971; “Epigraphie d’un sanctuaire lucanien” in CRAI, pp. 52-69; “Inscriptions de Rossano 1971”, in Atti Taranto; “Inscriptions de Rossano di Vaglio 1971”, RendLinc, 26, pp. 663-684; “L’épigraphie osque de Rossano di Vaglio”, in MAL s. VIII, 16; 1972, “Inscriptions de Rossano di Vaglio 1972”, RendLinc, RAL, 27, pp. 399-414; 1973, “Observations sur les inscriptions de Rossano”, in Atti del Convegno di Studi sulla Magna Grecia, XII, Taranto, pp. 335-337; 1975, “Inscriptions de Rossano di Vaglio 1973-74”, RendLinc, RAL, 30, pp. 319-333; 198 , “Inscriptions de Rossano di Vaglio 197479”, RendLinc, 35, pp. 445-466; 1981, Inscriptions de Rossano di Vaglio 19741979 / nota di Michel Lejeune, Accademia nazionale dei Lincei, Roma; 1986, “Méfiti (déesse osque)“ in CRAI, pp. 202-213. Recentemente LEJEUNE, M., 1990, Méfitis d’après les dédicaces lucaniennes de Rossano di Vaglio, Bibliothéque des cahiers de l’Institut de Linguistique de Louvain (BCILL), Peeters, Louvain-la-Nouve. 19 Foglio I, particelle 205, 206, 222, 167, 38, 39, 223. Vd. ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, p. 17. 20 COPPOLA 1994, pag. 100. Disponibile su: http://www.consiglio.basilicata.it/basilicata_regione_notizie/ pdf%20n.%2094-2000/16%20Luigi%20Coppola.pdf. 21 L’area, non a caso detta “Scafarieddu” dalla gente del luogo, era stata oggetto di numerosi scavi clandestini e dappertutto erano evidenti zone sconvolte per la ricerca di oggetti antichi. Vd. ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 14. 22 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 11. 23 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pp. 20-21. 24 A Serra di Vaglio si sono rinvenuti i resti di una fortificazione che recingeva l’abitato antico sul lato N, databile alla seconda metà del IV a.C. La struttura è poderosa e massiccia, in blocchi di pietra arenaria con superficie non levigata e con largo impiego di terra e pietrame nell’emplecton, in perfetta tecnica greca. Caratteristica interessante, presente anche sui blocchi in arenaria di Rossano (muro di temenos, altare) è che alcuni di essi recano frequentemente incise lettere la dell’alfabeto greco (soprattutto A, H e Δ). Altra evidente caratteristica dei blocchi è presenza sui blocchi di evidenti segni di cava. Data la somiglianza della fortificazione di Serra con quelle di altri centri indigeni vicini, da Torre di Satriano a Torretta di Pietragalla, sia per struttura che per segni di cava, Adamesteanu ha ipotizzato non solo che queste forti18

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ficazioni siano state realizzate dalle stesse maestranze ma anche da un’unica committenza pubblica, ricollegando le stesse alla figura di un magistrato locale della seconda metà del IV a.C, Nymmelos o Nummelos, menzionato in una iscrizione in caratteri greci incisa su uno dei blocchi della fortificazione di Serra: “επί της Νυμμέλου αρχης”. La fortificazione di Serra deve essere stata costruita sotto la sua direzione o sotto la sua alta sorveglianza. Tuttavia, la somiglianza con i monumenti di Rossano (oltre alla concordanza di cronologia) e la vicinanza topografica è tale da far pensare che lo stesso Nymmelos abbia sistemato sia le fortificazioni di Serra di Vaglio e le altre menzionate, sia il santuario della Mefitis sorto a Macchia di Rossano. Il fatto che nelle vicinanze del santuario non ci fosse alcun centro abitato, inoltre, farebbe sospettare che esso dipendesse proprio da Serra di Vaglio, il maggior centro dell’area. Vd. ADAMESTEANU 1974a, pp. 9-21. 25 ADAMESTEANU 1971a, pag. 41 e ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 64. Due grondaie fittili leonine, una delle quali rinvenuta sul lato settentrionale del sagrato, dovevano affiancare l’ingresso del santuario, come “elementi terminali di quei tubi fittili, i quali, attraverso i campi, conducevano l’acqua dalle sorgenti della Madonna di Rossano fino all’area del santuario”. 26 COPPOLA 1994, pag. 100. 27 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pp. 21-22 . 28 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 23. 29 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 23. 30 La denominazione “ambiente I”, utilizzata da Adamesteanu, si ritrova anche nelle successive pubblicazioni relative alle campagne di scavi 199799, mentre i singoli “vani” dello stesso ambiente I sono indicati con lettere minuscole da “1a” ad “1g”. 31 “[...] ma di questa però non si sa ancora se sia moderna o facesse parte del complesso antico”. Vd. ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 50. 32 DILTHEY 1980, pag. 540. 33 DILTHEY 1980, pag. 540. 34 ADAMESTEANU 1971a, pag. 42. Ipotesi differente si trova invece in ADAMESTEANU-DILTHEY 1992. 35 vd. ADAMESTEANU 1971a, pag. 42; FALASCA 2002, pag. 27. 36 ADAMESTEANU 1993, pag. 64. 37 Anche in confronto ad altri ambienti la presenza di doni votivi risulta assai esigua. 38 DILTHEY 1980, pag. 540. 39 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 33. In ADAMESTEANU 1993, pag. 64: “[...] due iscrizioni (RV-11 ed RV-12), in lingua osco-lucana e caratteri greci, databili alla fine del III-inizio del II sec. a.C.”. Non è chiaro, inoltre, il luogo di ritrovamento delle due iscrizioni: in ADAMESTEANU 1971a, pag. 42: “[...] le 183

iscrizioni RV-11 e RV-12 sono state trovate infatti sotto il pavimento in battuto di età repubblicana”. 40 DILTHEY 1980, pag. 541. 41 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 39. 42 ADAMESTEANU 1993, pag. 65: “L’aspetto del fondo dell’amb. IV si presentava come la traccia di un fiume asciutto [...]”. 43 Cfr. “accanto alla fondazione del muro occidentale” in ADAMESTEANU 1993, pag. 65. 44 ADAMESTEANU 1993, pag. 65. 45 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 50. 46 ADAMESTEANU 1993, pag. 65. 47 DILTHEY 1980: “[...] Tra tutti gli ambienti fin’ora messi in luce nel santuario, questo si presenta nella forma più ricercata e riveste quindi un’importanza maggiore in confronto agli altri”, pag. 541. 48 DILTHEY 1980, pag. 541. 49 Con dedica a “μαμερτει . μεfιτανοι”, una delle più antiche rinvenute nel santuario. 50 ADAMESTEANU & DILTEHY 1992, pag. 50. 51 Anche le piante riportate nelle più recenti pubblicazioni risultano non complete e “aggiornate”. 52 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 50. 53 ADAMESTANU & DILTHEY 1992, pag. 50. 54 DILTHEY 1980, pag. 540; ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 50. 55 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 50. 56 ADAMESTEANU 1993, pag. 65. 57 DILTHEY 1980, pag. 542. 58 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 24; pag. 84 (nota 22). 59 DILTHEY 1980, pag. 543. 60 FALASCA 2002, pag. 28-29; DILTHEY 1980, pag. 543. 61 Attività archeologica in Basilicata, a cura di M.L. Nava. 62 In Bollettino Storico della Basilicata n. 17, a. XVII, p. 23-28. 63 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 24. L’unica soglia di sicura interpretazione era stata, come si è visto, individuata nel corso della prima campagna di scavo da Adamesteanu nell’amb. Ig. 64 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 24. L’indicazione fornita non è del tutto chiara. 65 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 24. 66 Il modello è evidentemente quello dell’Afrodite Cnidia. 67 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 24. Uno studio attento dei materiali rinvenuti potrebbe aiutare a definire con maggior chiarezza funzioni e tipo di utilizzo della struttura. Le tipologie di materiali rinvenute, nei due casi 184

(thésauros o semplice “ambiente di servizio”) dovrebbero essere abbastanza differenti. 68 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 25. 69 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 25. 70 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 25. 71 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 26. 72 Ipotesi, questa, già formulata da Adamesteanu. 73 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pp. 25-26. 74 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 26. Anche in questo caso l’indicazione non è del tutto chiara. 75 Atti Taranto 1999. 76 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 27. 77 Alcuni dei quali già rinvenuti da Adamesteanu cfr. ADAMESTEANU 1992, pp. 20-50. 78 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 27. 79 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 27. 80 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 27. 81 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 27. 82 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 27. 83 MASSERIA-D’ANISI 2001, pag. 129. 84 M. L. Nava in ATTI TARANTO 1999: “[...] Per controllare le subsidenze dell’area santuariale centrale è stato effettuato un saggio in profondità sul sagrato, a livello delle fondazioni tra i muri esterni degli amb. II e IV. Trovati qui frammenti di coroplastica votiva (statuette, testine, frutti, animali) ceramica miniaturistica e thymiateria, una fibula argentea, gancio di cinturone e fibule in bronzo precedenti alla sistemazione del sagrato di età augustea”. Ad una ricostruzione del santuario in età imperiale si accenna anche in DE PAOLA SARTORIS 2001: “[...] L’ultimo settore d’indagine, l’ambiente III, situato a N del sagrato, ha riservato novità circa una possibile ipotesi ricostruttiva del monumento situato all’interno, probabilmente pertinente alla fase originaria del santuario e riutilizzata nella monumentalizzazione di età augustea”. La stessa Nava, tuttavia, sempre in ATTI TARANTO 1999: “[...] abbandono dell’area che, al momento attuale delle ricerche, non sembra interessata da occupazione o rifacimenti di età augustea”. Le recenti campagne di scavo condotte nel santuario tra l’ottobre 2000 e il settembre 2001 hanno in ogni caso consentito di escludere una vera e propria fase di occupazione di età imperiale nel santuario. 85 Nel corso della prima campagna di scavi (1969-86) non era stato possibile intervenire nell’area a causa dell’instabilità geomorfologica della stessa. Vd. ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 50. 86 In particolare, il grande movimento franoso che ha investito il santuario producendo l’evidente distorsione del piano del sagrato (con una incli185

nazione di circa 2 m), e che ha probabilmente causato l’abbandono definitivo del sito. Sul problema, recentemente, SDAO ET AL. 2003. 87 NAVA-CRACOLICI 2005, pag. 103. 88 NAVA-CRACOLICI 2005, pag. 107. 89 La posizione esatta del saggio D/01 non è tuttavia riportata nella planimetria generale degli interventi di scavo, pubblicata in LO SPAZIO DEL RITO 2005, pag. 109, figg.10-11. 90 NAVA-CRACOLICI 2005, pag. 108. 91 L’indicazione risulta tuttavia assai vaga, nè anche in questo caso è indicata la posizione del saggio nelle piante pubblicate. Vd. LO SPAZIO DEL RITO 2005, pag. 109, figg.10-11. 92 http://www.archeobasi.it/News/. 93 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 78. 94 NAVA-CRACOLICI 2005, pag. 112. 95 PROSDOCIMI 1989, pag. 477. 96 Sull’argomento si veda BASILICATA 1990, p. 322 ss. 97 BASILICATA 1990, pag. 322. 98 Citazione dal titolo del volumetto di M. Lejeune, pubblicato nel 1990 nella collana BCILL (Bibliothéque des cahiers de l’Institut de Linguistique de Louvain). 99 BASILICATA 1990, pag. 323. 100 LEJEUNE 1990 pag. 15. 101 LEJEUNE 1990 pag. 25. 102 Il dedicante ha redatto il testo votivo in greco ed era egli stesso un greco o forse un lucano ellenizzato. Lejeune propende per la seconda ipotesi: il nome LEUKIOS è infatti aro in greco. Potrebbe trattarsi invece di una trasposizione dell’osco LUVKIS/LOFKIS (nome), LUVKIIS/LOFKIES (gentilizio). 103 LEJEUNE 1990, pag. 40. 104 DE CAZANOVE 1993, pp. 9-39. 105 LEJEUNE 1990, pp. 36-37. 106 ADAMESTEANU 1988, pag. 131 ; vd. anche TORELLI 1990a, pag. 84. 107 LEJEUNE 1990, pag. 36. 108 TORELLI 1990a, pp. 84-85; pag. 90. 109 TORELLI 1990a, pp. 84-85. 110 TORELLI 1990a, pp. 84-85. 111 Va tuttavia prescisato che, se è attestata una Iuno Regina, manca del tutto la documentazione di uno Iuppiter Rex. TORELLI 1990a, pag. 85. 112 DE CAZANOVE 1993, pp. 9-39. 113 TORELLI 1990a, pag. 85. 114 TORELLI 1993, pp. XIII-XXVII. 186

TORELLI 1990a, pag. 85. TORELLI 1990a, pag. 86. 117 PROSDOCIMI 1989, pp. 519-521. 118 DE CAZANOVE 1993, pp. 9-39. 119 TORELLI 1990a, pp. 87-89. 120 TORELLI 1990a, pp. 87-89. 121 Solitamente unita a PROFATED, tale forma verbale indica l’operazione con cui il magistrato garante (qui un questore) commissiona l’esecuzione di un’opera pubblica nel santaurio. L’endiadi afaamated isidium profated “commissionò e lui stesso approvò” fa intendere che la stessa persona garantisca con la sua autorità la legittimità di quanto fatto eseguire. Si tratta di formule certo di ascendenza romana che fanno intravedere l’esistenza di una realtà istituzionale complessa dietro la formula stessa. La dicitura implica che le due diverse competenze (afaamated e profated) possano anche essere svolte da due persone diverse. 122 LEJEUNE 1990, pag. 56. 123 LEJEUNE 1990, pag. 57. 124 LEJEUNE 1990, pag. 55. 125 LEJEUNE 1990, pag. 55. 126 TORELLI 1990a, pp. 86-87. 127 confronti interessanti sono possibli con Agnone e Gubbio. 128 DE CAZANOVE 1993, pp. 9-39. 129 DE CAZANOVE 1993, pp. 9-39. 130 Lo statuto MEFITIO- implicante, secondo Lejeune, integrazione nella “sfera di influenza” di Mefitis si ritrova per l’iscrizione RV-05. La relazione di Venus con Mefitis è espressa da una parola, tuttavia mutila MEFIT-....?, in cui Lejeune vede un MEFIT-IAI. Altri completamenti sono tuttavia possibili. Vd. LEJEUNE 1990, pag. 57. 131 PONTRANDOLFO 1982, pp. 152-165. 132 TORELLI 1990a, pag. 86. 133 BASILICATA 1990, pp. 322-324. 134 BASILICATA 1990, pp. 322-324. 135 BOTTINI 1987, pag. 280. 136 PROSDOCIMI 1989, pp. 519-521. 137 PROSDOCIMI 1989, pp. 519-521. 138 OSANNA 2005a, pag. 415. 139 Vd. ADAMESTEANU-DILTHEY 1992; DENTI 1992; ripresi nel breve “catalogo” del volume Da Leukania a Lucania. La Lucania centro orientale tra Pirro e i Giulio-Claudii, Venosa, Castello Pirro del Balzo, 8 novembre 1992- 31 marzo 1993 (LEUKANIA 1993). 140 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 24. 115 116

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ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 51. ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 51. 143 OSANNA 2005a, pag. 417. 144 BATTILORO 2005, pp. 418-419. 145 OSANNA 2005a, pag. 417. 146 OSANNA 2005a, pag. 417. 147 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 51. 148 Di cui si sottolineano le connessioni con la grande statuaria di Samo e Mileto di VI secolo a.C. 149 BATTILORO 2005, pp. 418-419. 150 BATTILORO 2005, pag. 418. 151 BATTILORO 2005, pag. 418. 152 BATTILORO 2005, pag. 419. 153 BATTILORO-DI LIETO 2005, pp. 142-150. 154 BATTILORO-DI LIETO 2005, pag. 150. 155 Numerossissimi esemplari di statuette femminili con melagrana provengono da Poseidonia-Paestum. 156 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 54. 157 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pp. 52-53. 158 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 51. 159 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 54. 160 BATTILORO 2005, pag. 422. 161 IV, 13. 162 BATTILORO 2005, pag. 422. 163 LA REGINA 1997. Disponibile su: http://xoomer.virgilio.it/davmonac/sanniti/rapino02.html. 164 LA REGINA 1997. 165 LA REGINA 1997. 166 LA REGINA 1997. 167 X, 9. 5-6. 168 LEJEUNE 1990, pag. 18. 169 Il collegamento con il ciclo del vino è primario nel culto di Venere a Roma, dove la dea sostituisce Giove nel legame originario con il vino (TORELLI 1990a pag. 87). Interessanti, a riguardo, le osservazioni di Poccetti (POCCETTI 1982, pp. 255-260) il quale ritiene che Rossano il ruolo “inebriante” del vino fosse svolto dalle acque sulfuree. 170 LA REGINA 1997. 171 Non è invece accettata da La Regina l’integrazione “dicatum”, con participio in posizione iniziale. 172 LA REGINA 1997. 173 LA REGINA 1997. 141 142

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II, 48, 1-4. DILTHEY 1980, pag. 543. 176 DILTHEY 1980, pag. 543: “[...] monumento in blocchi di pietra morta, in muri paralleli con solo una facciata, di largh. m. 2,50 e di lungh., scavata finora di segni di c.a. m 12. Anche la pavimentazione è in blocchi di pietra morta. I segni di cava corrispondono a quelli usati in tutta la zona. Anche questa costruzione mostra uno stretto legame con le acque: almeno tre diversi tubi fittili, appoggiati sul terreno vergine leggermente più a monte, portavano l’acqua al monumento, una volta coperto da un tetto di tegole e con una chiusura di una porta in legno. L’ambiente reca tracce di forte incendio ed è riempito di frammenti di grande e piccola ceramica di uso comune acroma ed è scarsa quella sovradipinta in arancione o bianco. La ceramica verniciata manca finora quasi completamente ed altrettanto le statuette ed i thymiateria, tutti così numerosi nel complesso centrale. Brocche e brocchette comuni dominano tra frammenti di grandi piatti e scodelloni. Gli animali, che furono vittime (di grandi pranzi rituali?) non sono questa volta volatili ma quadrupedi più o meno grandi [...] Trattavasi di un ambiente con una fonte o una vasca coperta [...]”. 177 E dunque, forse, meritevoli per questo di essere “approfonditi”? 178 XXI, 3, 2-7. 179 DE JULIIS 1996, pp. 168-170. 180 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 56. 181 Vd. BATTILORO 2005, pag. 421. 182 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 57. 183 TAGLIENTE 2005, pag. 123. 184 TAGLIENTE 2005, pag. 123. 185 Vd. DILTHEY 1980, pag. 542. 186 Cfr ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 78. 187 ADAMESTEANU-DILTEHY 1992, pp. 51-64. 188 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pp. 58-60. 189 “[...] assai probabilmente la presenza di un teatro può essere postulata in quella conca sita sul lato sud-occidentale delle strutture del monumento [...] È una nostra ipotesi basata, fin’ora soltanto sull’osservazione della conformazione del terreno e della documentazione aerofotografica”. Vd. ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 58. 190 MASSERIA-D’ANISI 2001, pp. 129-130; NAVA-CRACOLICI 2005 pp. 103-113. 191 MASSERIA-D’ANISI 2001, pp. 129-130. Torneremo in seguito sul problema della presenza del modello di “santuario ellenistico” a Rossano di Vaglio. 192 DE JULIIS 1996, pp. 272-273. 193 DE CAZANOVE 1993, pp. 9-39. 174 175

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Il carattere oracolare di Ercole ci è noto sempre da Tibur. Dion. Alicarn. I, 43. 196 Ps. Plut., Par. min. 38. 197 DE CAZANOVE 1993, pp. 9-39. 198 DE CAZANOVE 1993, pp. 9-39. 199 DE CAZANOVE 1993, pp. 9-39. 200 DE CAZANOVE 1993, pp. 9-39. 201 ADAMESTEANU-DILTEHY 1992, pag. 58. 202 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 64. 203 Non possediamo, infatti, dati quantitativi. Vd. ADAMESTEANUDILTHEY 1992, pp. 70-71. 204 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pp. 72-76. 205 LEUKANIA 1993, pag. 80. 206 LEUKANIA 1993, pag. 80. 207 LEUKANIA 1993, pag. 81. 208 Vd. TORELLI 1993, pp. 79-81. 209 Identificabile con Mefitis stessa in quanto divinità che “sta nel mezzo”, e dunque celeste e regale, ma anche cereria e tellurica. 210 GUZZO 1983, pag. 10. 211 Il leggero volgersi a tre quarti della testa, sul lato sinistro, giustificabile proprio nell’ipotesi che la statua fosse in realtà un gruppo formato da due figure in rapporto tra loro, sembrerebbe suggerito da una leggera asimmetria del volto. 212 TORELLI 1993, pag. 82. 213 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pp. 73-75. 214 ADAMESTEANU-DILTEHY 1992, pp. 73-75. 215 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 33. 216 Rif. DENTI 1992. 217 DENTI 1992, pp. 37-42. 218 DENTI 1992, pp. 17-18. 219 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 41. 220 Loc. Cavuoto S. Antonio, prov. Avellino. 221 Loc. S.Eleuterio, Ariano Irpino, prov. Avellino. 222 Prov. Avellino. 223 Loc. Casalattico, prov. Frosinone. 224 Loc. Madonna di Canneto, prov. Frosinone. 225 Laus Pompeia, in territorio gallico. 226 Prov. Caserta. 227 Prov. Potenza. 228 Prov. Salerno. 229 Loc. Mefete Castrocielo, prov. Frosinone. 194 195

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Loc. Pescarola, prov. Frosinone. Loc. Capodacqua, prov. Frosinone. 232 PROSDOCIMI 1989, pag. 477. 233 POCCETTI 1982, pag. 237. 234 Preme qui in particolare sottolineare come - limite evidente del presente lavoro - non sia stato possibile per ovvie ragioni di tempo e limiti di “spazio”, consultare direttamente le singole pubblicazioni relative agli interventi di scavo nelle località citate. Una buona sintesi è contenuta in FALASCA 2002, pp. 19-50; sui recenti interventi di scavo in Buccino- Loc. S. Stefano, Torre di Satriano, Pila S. Chirico si vedano inoltre SATRIANO 2005 e LO SPAZIO DEL RITO 2005. 235 Proprio i materiali della stipe votiva del santuario costituiscono, come si è detto, la più antica traccia archeologicamente nota del culto della dea. 236 FALASCA 2002, pp. 32-33. 237 FALASCA 2002, pag. 48. 238 FALASCA 2002, pag. 51. 239 DE CARO-DE GENNARO 2005, pp. 157-165. 240 Dotato forse di un piccolo portico di accesso con copertura lignea, come testimoniato dal rinvenimento di buche per l’infissione di pali. Vd. DE CARO-DE GENNARO 2005, pag. 159. 241 Le fosse contenevano frammenti ceramici frammisti ad argilla e residui carboniosi e ossa di animali. In alcuni casi, da segnalare il rinvenimento di oggetti quali un bracciale ed una pinzetta in bronzo Vd. DE CARO-DE GENNARO 2005, pag. 159. 242 DE CARO-DE GENNARO 2005, pag. 161. 243 DE CARO-DE GENNARO 2005, pag. 162. 244 DE CARO-DE GENNARO 2005, pag. 162. 245 Il rinvenimento di vasi di uso comune, vasi da cucina e da mensa attestano la destinazione dell’area al consumo di pasti rituali. Vd. DE CARO-DE GENNARO 2005, pag. 162. 246 DE CARO-DE GENNARO 2005, pag. 129. 247 DE CARO-DE GENNARO 2005, pag. 132. 248 LEJEUNE 1986. 249 LEJEUNE 1990, pp. 44-47. 250 I grandi complessi monumentali di Armento e Rossano di Vaglio possono essere solo parzialmente considerati «eccezioni». 251 OSANNA-SICA 2005, pag. 131. 252 OSANNA-SICA 2005, pag. 131. 253 OSANNA-SICA 2005, pp. 131-132. 254 OSANNA-SICA 2005, pag. 132. 255 Autore di V d.C., scrive un Epistolario. 230 231

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Vissuto tra fine IV-inizio V d.C, gli sono attribuiti alcuni poemetti epico-mitologici. 257 Commentum in Hor.Flaccum, carm. III, 18. 258 Ben diversa da quella, ritenuta oggi corretta di “dea della mediazione” o “dea che-sta-nel-mezzo”. 259 FALASCA 2002, p. 7. 260 FALASCA 2002, p. 9. 261 CERCHIAI 1999, pag. 235. 262 Il riferimento alla natura “sulfurea” delle esalazioni “mefitiche” sembrerebbe non essere presente già in Persio, che ha infatti bisogno di specificare “sulphureas lente exalante mephites”. Giustamente Poccetti fa rilevare che le esalazioni “mephites” fossero già state “sulfuree” non sarebbe occorso alcun aggettivo “sulphureas”. Va tenuto presente, tuttavia, che l’espressione ha comunque in Persio un significato metaforico: le “esalazioni” di cui l’autore parla sono quelle di alito cattivo di un ammalato e Persio potrebbe aver voluto dare maggiore enfasi e “colore” alla sua descrizione, aggiungendo “sulphureas” a “mephitis”... 263 POCCETTI 1982, pag. 239; pp. 258-259. 264 FALASCA 2002, pp. 9-10. 265 L’uso dell’appellativo mefitis connesso con il fenomeno delle esalazioni è documentato proprio a partire da Virgilio e dai suoi contemporanei. 266 POCCETTI 1982, pag. 257. 267 LEJEUNE 1990, pag. 49. 268 LEJEUNE 1990, pp. 49-50. 269 FALASCA 2002, pag. 10. 270 POCCETTI 1982, pp. 239-240. 271 ad Horat. od. III, 18. 272 LEJEUNE 1990, pag. 49. 273 Not. Sc. XXX, 1976, pag. 529. 274 vd. LEJEUNE 1990, pag. 49. 275 CERCHIAI 1999, pag. 235. 276 CERCHIAI 1999, pag. 235. 277 Il Lupercal era un rito purificatorio e propiziatorio della fertilità celebrato in febbraio a Roma. 278 Attraverso Fauno è possibile risalire a Ercole, e a un rapporto di Mefitis con il dio, il cui culto è attestato epigraficamente proprio nel santuario della dea Mefitis a Macchia di Rossano. 279 CERCHIAI 1999, pag. 236. 280 Uno dei più celebri del mondo romano, il santuario di Diana a Capua sorgeva, a poca distanza dall’abitato, alle pendici del Mons Tifata, allo sbocco della piana del Volturno, in un luogo ameno, ricco di boschi e sorgenti na256

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turali, paesaggio che Diana condivide con Mefitis. Elementi fondamentali del culto di Artemis/Diana sono il valore di asylum, di luogo “liberatorio” e inviolabile dei suoi spazi sacri, e la capacità profetica, non tuttavia ritualizzata, ma “furiosa”, innata e scomposta. Vd. CERCHIAI 1999, pag. 236. 281 vd. CERCHIAI 1999, pag. 235. 282 C.I.L. X, 3795. Vd. CERCHIAI 1999, p. 236. 283 LEJEUNE 1990, pag. 47. 284 COARELLI 2003, pp. 214-216. 285 Hor. Sat. I, 8, 14. 286 Tra gli edifici pubblici, piuttosto rari, fu inaugurato da Tiberio nel 7 d.C. il Macellum Liviae, grande mercato alimentare, probabilmente da identificarsi con il grande edificio in mattoni ed opera reticolata, scavato alla fine dell’’800 subito fuori da Porta Esquilina. Dall’età giulio-claudia questi parchi firono incamerati nel demanio imperiale. Vennero costruiti sull’Esquilino anche numerosi bagni, ninfei e grandi complessi termali, tra cui le terme di Tito e quelle di Traiano. 287 Varrone, De lingua latina, l. l. 5, 49 e Festo. 288 POCCETTI 1982, pag. 242. 289 POCCETTI 1982, pag. 242. 290 POCCETTI 1982, pag. 242. 291 POCCETTI 1982, pag. 242. 292 POCCETTI 1982, pag. 249. 293 Poccetti ritiene come sede più opportuna per l’etimologia di Mefitis le Antiquitates Rerum Divinarum. Il libro VII delle Antiquitates, purtroppo non pervenutoci, era dedicato in particolare ai locis religiosis. 294 “Sciendum sane Varronem enumerare, quot loca in Italia sint huius modi”: “Occorre certamente sapere che Varrone enumera quanti luoghi in Italia vi siano di tal genere”, Serv. Ad Aen., VII, 563. 295 POCCETTI 1982, pag. 249. 296 POCCETTI 1982, pp. 241-243. 297 POCCETTI 1982, pag. 254. 298 cfr. DUMEZIL, D., 1959, Les dieux des Germains, Paris, pag. 33 ss. 299 In particolare, è controversa l’interpretazione dell’iscrizione RV-28 menzionante la dedica di “aenea signa regum”, “statue bronzee dei re”. Parrebbe tuttavia possibile vedervi la designazione di una coppia divina formata da Giove e Mefitis. 300 POCCETTI 1982, pag. 256. 301 POCCETTI 1982, pag. 252. 302 Sull’argomento: RUSSO 1999, pp. 103-127; NAVA 1999, pp. 3-9; GIAMMATTEO 2005, pp. 443-447. 303 FALASCA 2002, pag. 18. 193

Tra le diverse forme di organizzazione federale o lega, una delle meglio conosciute è la Lega Latina, che aveva il suo centro “federale” nel santuario di Giove Iuppiter Latiaris sul Mons Albanus (monte Cavo). Ma, accanto alla Lega Latina, praticamente tutti i gruppi italici sembrano aver avuto le proprie strutture federali, con propri santuari funzionanti da luoghi di culto e di riunione. 305 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 78. 306 Si tratta di un filare di blocchi di areraria, coperti da un forte strato di bruciato. Poiché la sistemazione risulta simile a quella dell’altare, potrebbe trattarsi di resti di un precedente monumento distrutto da un incendio, relativo alle fasi di vita più antiche del santuario. 307 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 78. 308 Liv. XVII, 41-42. Vd. RUSSI 1993, pp. 487-523. 309 MASSERIA-D’ANISI 2001, pp.129-130; NAVA-CRACOLICI 2005, pp. 103-104. 310 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 78. 311 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 78. 312 79 d.C? Vd. ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 78. 313 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 78. 314 ADAMESTEANU 1971a. 315 ADAMESTEANU 1971a, pag. 43. 316 DE PAOLA-SARTORIS 2001, pag. 26; fig. 15. 317 Databile al IV a.C. Per l’iscrizione RV-11 è proposta una datazione all’inizio del III a.C. 318 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pp. 24-25. 319 Si tratta del basamento a “T”. 320 L’indicazione “una parte” non risulta del tutto chiara... 321 Quali capitelli? Il testo non è chiaro. Adamesteanu cita il rinvenimento di “un capitello spezzato in pietra calcarea durissima, simile agli altri capitelli messi in luce tanto nell’amb. III tanto nello spazio tra il muro divisorio e l’altare”, precisando che “in totale in quest’area sono stati trovati 6 capitelli”. Cosa vuol dire “simile”? “Simile” per lavorazione e decorazione o per il materiale utilizzato? 322 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 33. 323 “[...] con il rifacimento della pavimentazione del sagrato le maestranze di Acerronius hanno rialzato anche il livello della nuova cloaca, tantando di armonizzarla con gli altri canali e canalette. Appare inoltre logico che all’epoca di quest’ultimo rifacimento, le canalette che partono dai lati dell’entrata conducevano ancora, con un piano inclinato da N a S, le acque da N verso la cloaca posta a SE”. 324 Rif. TORELLI 1993. 325 ADAMESTEANU 1993, pag. 62. 304

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ADAMESTEANU 1993, pag. 62. ADAMESTEANU 1993, pag. 65. 328 Rif. RITUALI PER UNA DEA 2001. 329 Fase, questa, riscontrata anche da Adamesteanu. 330 Sul testo è riportata erroneamente l’indicazione “I sec. a.C.” al posto di “I sec. d.C.”, per cui esso risulta contraddittorio: “[...] tre fasi di ristrutturazione, la prima verso la fine del III sec. a.C., una seconda, molto più impegnativa, nel corso della seconda metà del I sec. a.C., ed un’ultima durante la prima metà del I sec. a.C., poco prima dell’abbandono”. 331 MASSERIA-D’ANISI 2001, pag. 129. 332 In: Scritti in onore di D. Adamesteanu, Attività archeologica in Basilicata 1964-77. 333 DILTHEY 1980, pag. 541. 334 NAVA-CRACOLICI 2005, pag. 112. L’ipotesi si era già affacciata, sebbene in modo non del tutto chiaro, nel corso delle campagne di scavo 19971999. 335 NAVA-CRACOLICI 2005, pag. 112. 336 L’ipotesi, già avanzata da A. Pontrandolfo Greco, è stata più recentemente sostenuta da M.R. Torelli e M.Denti. 337 Mentre nessuna delle 57 iscrizioni rinvenute nel santuario è databile all’età imperiale. Anche la cronologia dei materiali del santuario sembra fermarsi al I sec. a.C. 338 Che le data all’età imperiale. 339 Databile al 100 a.C. 340 DENTI 1992, pp.29-33. 341 Fenomeno, questo, preparato e determinato dalla conquista del bacino orientale del Mediterraneo da parte di Roma, con conseguente sfruttamento delle relative risorse economiche e soprattutto commerciali. 342 Il Denti fa giustamente rilevare come, mentre sono sufficientemente noti gli esiti “architettonici” o relativi alla grande statuaria di culto della diffusione della cultura “ellenistica” nei luoghi sacri della penisola, va rilevato come, per contro, sia invece estremamente ridotta, e per lo più relativa ad esemplari fittili e non in marmo, la documentazione relativa alla piccola plastica santuariale. Vd. DENTI 1992, pp. 27-33. 343 TORELLI 1993, pag. 71. 344 TORELLI 1993, pag. 71. 345 TORELLI 1990, pag. 85. 346 BOTTINI 1988, pp. 55-90. 347 DE CAZANOVE 1993, pp. 9-39. 348 DENTI 1992, pp. 27-33. 349 ADAMESTEANU 1987, pag. 131. 326 327

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“Va detto questo: Serra di Vaglio muore quando si sviluppa Rossano, muore un centro e nasce un grande santuario dopo il III secolo; Serra non c’è più. Rossano continua [...]”. Vd. BASILICATA 1990, pag. 335. 351 BOTTINI 1988, pag. 70. 352 L’epiteto UTIANA riferito alla dea Mefitis potrebbe essere ricondotto ad un ipotetico toponimo Utia, nome antico per l’abitato di Serra di Vaglio, tuttavia non documentato. 353 TORELLI 1990, pag. 84. A Civita di Tricarico come punto di riferimento per Rossano, ha pensato più recentemente Adeamesteanu: “Quando si parla di Senatus a quale centro ci si riferisce? Vaglio è finito, Carpine è finito; uno solo comincia a documentarsi ed è quello di Civita di Tricarico [...] che continua anche nel III e II secolo. Quello mi pare delve essere il punto di riferimento, non Potentia come pensava Lejeune. Potentia appare più tardi come entità, come punto di attrazioe, alla fine del I secolo a.C. inizio del I secolo d.C.”. Vd. BASILICATA 1990, pag. 337. 354 BARRA BAGNASCO-RUSSO TAGLIENTE, pag. 184. 355 BARRA BAGNASCO-RUSSO TAGLENTE, pag. 184. 356 BOTTINI 1987, pag. 279. 357 BOTTINI 1987, pag. 279. 358 NAVA-CRACOLICI 2005, pag. 108. 359 BOTTINI 1987, pag. 279. 360 Le condizioni imposte furono probabilmente assai dure e non risparmiarono neppure le aristocrazie locali, duramente “punite” con drastici porvvedimenti di confisca, nonostante la clementia annunciata dal console F. Flacco. Un accenno, sia pure vago, alle profonde trasformazioni portate dai Romani in Lucania, sebra potersi dedurre da un passo di Livio, relativo agli avvenimenti del 200 a.C. in cui si parla di grandi estensioni di ager publicus distribuite ai veterani di Scipione l’Africano. La Lega lucana fu sciolta e stessa sorte dovette toccare alla Confederazione brettia (non troviamo infatti alcuna traccia di tali realtà federative dopo il 209 a.C.) Vaste porzioni di territorio furono certamente esporopriate. Si trattò, anzi, della più estesa confisca nei riguardi degli alleati che avevano partecipato alla secessione durante la guerra annibalica. 361 BOTTINI 1988, pp. 73-74. 362 Assai interessanti, in tal senso, le osservazioni di M. Torelli, che parla di fenomeni di “resistenza culturale” o “controacculturazione”, opposti dalle élites lucane all’avanzata di Roma: nel momento stesso in cui si va realizzando l’egemonia di Roma ecco che le antiche tradizioni religiose, i culti e le tradizioni “nazionali” lucane tornano in auge e sono fatti oggetto di speciale pietas e devozione. “È evidente - spiega Torelli - che il retaggio religioso del passato costituisce uno strumento ideologico prezioso, del quale si avverte la capacità di re350

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cuperare antiche solidarietà distrutte e di riconfermare la centralità politica e culturale di una vecchia aristocrazia dominante nel momento in cui a questa stessa classe è manifesta la perdita della propria egemonia”. Esse trovano nella religione tradizionale un saldo ancoraggio. Anche i doni votivi del santuario riflettono bene l’ambivalenza del momento: emulazione politica e culturale di Roma e rivalorizzazione delle tradizioni nazionali, valorizzazione “antiquaria” di culti indigeni.. Accanto alle armi e ai gioielli, ex voto di tipo più “tradizionale”, da sempre nella sfera di devozione locale, si trovano anche raffinati prodotti di botteghe orientali appartenenti alla più schietta tradizione ellenistica. Il concetto è ben sintetizzato da Torelli: “L’unificazione della penisola entro il sistema politico e culturale elaborato da Roma è preannunciata proprio da questo ultimo sobbalzo di autonomia culturale e di affermazione della propria identità espresso dalle classi dirigenti italiche con gli accenti più diversi, ora congruenti con la propria tradizione nazionale, ora ispirati dalle formule e dal linguaggio della luxuria correnti in quegli stessi anni a Roma” . Vd. TORELLI 1993, p. XXIII-XXVII. 363 Ipotesi, questa che parrebbe confermata dai recenti scavi nell’area santuariale. 364 MASSERIA-D’ANISI 2001, pag. 129. 365 MASSERIA-D’ANISI 2001, pag. 129. 366 NAVA-CRACOLICI 2005, pag. 110. 367 Con una mentalità “stratigrafica”, che porta a “ragionare [...] porti domande, non contentarti dell’evidenza che ti sta dinnanzi, ma a interrogarla e connetterla ad altre situazioni ed altri saperi” da TRONCHETTI, C., 2004, Metodo e strategie dello scavo archeologico, Carocci, Roma, pag. 16. 368 D’altra parte, è forse discutibile la scelta di scavare per “trincee”...? 369 D/01 e C/02. 370 In particolare, la “vasca” di fig. 2 pag.105. Vd. TAV. 27. 371 NAVA-CRACOLICI 2005, p. 108. 372 Anche lo spazio, per la verità piuttosto ridotto, disponibile sembrerebbe escludere la presenza di un edificio templare, tenendo conto anche del fatto che l’intero pendio doveva essere occupato da un fitto bosco di querce. 373 4,50 m larghezza. 374 US4, tuttavia non individuabile con sicurezza in pianta... Si tratta, in particolare di un denario d’argento di Qunito Antonio Balbo, emesso nell’83-82 a.C. 375 La datazione resta tuttavia incerta. 376 BARRA BAGNASCO-RUSSO TAGLIENTE 1996, pag. 183. 377 BARRA BAGNASCO-RUSSO TAGLIENTE 1996, pag. 183. 378 BARRA BAGNASCO-RUSSO TAGLIENTE 1996, pag. 189. 379 GIAMMATTEO 2005, pp. 443-450. 197

BARRA BAGNASCO-RUSSO TAGLIENTE 1996, pag. 189; GIAMMATTEO 2005 pag. 446. 381 ADAMESTEANU 1971a, pag. 42. 382 ADAMESTEANU 1971a, pag. 42. 383 ADAMESTEANU 1971a, pag. 42. 384 PROSDOCIMI 1989, pp. 513-519. 385 “Le Diumpaìs sono verosimilmente [...] ‘lymphae’ [...] al pari di Anafrìss ‘imbribus’: si tratta verosimilmente di una polarizzazione, per cui le ‘lymphae’ sarebbero le acque sorgive [...] e gli ‘imbres’ le acque dal cielo; è però possibile – anche come non alternativa- una diversa polarizzazione: le ‘lymphae’ sarebbero le ‘acque positive’, mentre gli ‘imbres’ sarebbero le ‘acque negative’; l’’imber’, quale pioggia invernale, fredda, è nociva ai raccolti, e dunque temibile: l’ideologia apotropaica sottostante alla divinizzazione delle piogge negative è dello stesso tipo di quella che opera per la romana Robigo rispetto al grano”. PROSDOCIMI 1989, pag. 517. 386 GIAMMATTEO 2005, pp. 443-450. 387 Indicate in figura con le lettere C1 e C2. 388 Il muro appare infatti tratteggiato, in disegno, nel punto di intersezione con la canaletta. 389 Come si è visto, resti marmorei provengono anche dall’amb. I - il torso di Ermafrodito - e dall’esterno dello stesso ambiente - una testina femminile in marmo. 390 In coincidenza con una altrettanto particolare concentrazione di dediche pubbliche nello stesso ambiente. 391 Lembi di panneggio femminile, elementi di una capigliatura, un rametto di alloro, un piede femminile che calza un sandalo. Sempre dall’amb. III proviene inlotre la celebre testina femminile, detta “della Mefitis”. 392 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 51. 393 OSANNA 2005a, pag. 417. 394 In particolare, il modello architettonico scenografico dela santuario “ellenistico”. 395 TORELLI 1993, pp. XXI-XXVII. 396 MASSERIA-D’ANISI 2005, pag. 129. 397 ADAMESTEANU 1987, pag. 130. 398 In particolare, come si è visto, resti di un possibile pavimento in arenaria rinvenuti sotto le fondazioni dell’amb. IV e i tronchi di colonna, sempre in pietra arenaria, inglobati nella scalinata del portico. 399 ADAMESTEANU 1993, pag. 65. 400 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 39. 401 ADAMESTEANU-DILTHEY 1992, pag. 39. 402 A titolo di esempio, si veda: http://www.lucanianet.it/ modules/news/article.php?storyid=1444. 380

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Da poco si è infatti conclusa la nuova campagna di scavi condotta nel santuario di Rossano di Vaglio dalla Soprintendenza Archeologica di Basilicata con la Scuola di Specializzazione in Archeologia di Matera. 404 http://www.archeobasi.it/News/. 405 Donzelli, Roma 2006. 403

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204

INDICE Introduzione

3

STORIA DEGLI STUDI - Gli scavi - Le iscrizioni

9 33

IL CULTO DI MEFITIS - I materiali e le questioni cultuali - La dea Mefitis in Italia peninsulare - Le fonti e la questione etimologica PER UNA RICONSIDERAZIONE DEL SANTUARIO DI ROSSANO DI VAGLIO. GLI SPAZI E IL CULTO

53 73 93 117

- La cronologia - Rossano di Vaglio: un santuario “federale”? - Il ruolo dell’acqua nel santuario di Rossano di Vaglio - Oggetti votivi e pratiche rituali nell’organizzazione dello spazio sacro

118 125 132

NOTE CONCLUSIVE: IL SIGNIFICATO DI UNA RICERCA

141

TAVOLE

145

NOTE

179

BIBLIOGRAFIA

199

206

135

... E“Esistono, l’acqua doveva certo avere un ruolo centrale nel rito e nel culto della dea Mefitis: per le sue molteplici valenze, da quella semplicemente purificatoria a quella più complessa di ‘elemento fondamentale che adombra processi di rinascita a una nuova vita’ ...