Il romanzo inglese 8858127498, 9788858127490

Il romanzo inglese, con la sua varietà di forme, linguaggi, generi e sottogeneri, costituisce una delle principali ricch

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Il romanzo inglese
 8858127498, 9788858127490

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Universale Laterza 954

Paolo Bertinetti

Il romanzo inglese

Editori Laterza

© 2017, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione marzo 2017

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Anno 2017 2018 2019 2020 2021

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2749-0 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a Elisabetta, Letizia e Riccardo

Premessa

Il romanzo inglese, con la sua varietà di forme e di lin­ guaggi, di generi e di sottogeneri, costituisce una del­ le principali ricchezze – e forse la più variegata – del patrimonio letterario europeo. In questo «oceano di racconti», per dirla con Somadeva, proprio per la sua vastità può essere difficile orientarsi e navigare con si­ curezza. Questo libro vuole essere una guida e un invito alla lettura di quelli che sono gli autori maggiori e le opere più interessanti di tale amplissima produzione, dai suoi «fondatori» del Settecento fino agli autori con­ temporanei. Si è preferito non fornire un’informazione di tipo enciclopedico; e neppure simile a quella delle storie della letteratura, in cui compaiono anche autori mino­ ri e opere minori degli autori maggiori. Si è fatta una scelta che, almeno per quanto riguarda il Settecento, l’Ottocento e il primo Novecento, ha il conforto della prova del tempo; per quanto riguarda la seconda metà del Novecento e il presente, la scelta è invece tutto som­ mato soggettiva. In questo rapido profilo del romanzo inglese le esclusioni e le inclusioni sono inevitabilmente discuti­ ­vii

bili. E discutibile può essere anche l’importanza data ai singoli autori, che emerge dallo spazio ad essi dedicato. Si è cercato infatti di mantenere una proporzione tra qualità e quantità (di righe); ma tale proporzione un po’ viene meno quando si arriva agli autori degli ultimi decenni, che talvolta hanno uno spazio maggiore, a pa­ rità di importanza, di quelli del primo Novecento e dei secoli precedenti. Qui le esclusioni e le inclusioni saran­ no ancora più discutibili. Soprattutto per l’inclusione di autori che anche soltanto tra vent’anni risulteranno forse sopravvalutati. E tuttavia c’è la speranza che questa possa essere una guida affidabile per navigare nell’oceano di una così va­ sta produzione romanzesca e, al tempo stesso, sappia essere un invito alla lettura delle sue gemme più belle.

Il romanzo inglese

I

Gli inizi

Nella sua Prefazione a Incognita (1682) William Con­ greve scriveva che i romances – cioè i poemi cavalle­ reschi e la narrativa in prosa che ne condivideva le caratteristiche – «sono costituiti in genere dagli amo­ ri costanti e dal coraggio invincibile di eroi, eroine, re, regine, persone d’alto rango e così via; e in essi il linguaggio elevato, gli eventi miracolosi e le imprese impossibili sorprendono il lettore e lo sollevano a ver­ tiginose altezze di delizia». Tuttavia, chiuso il libro, lo fanno precipitare al suolo; ragion per cui il lettore «è costretto a convincersi» di essersi divertito o di essersi addolorato al racconto di vicende che altro non sono che menzogne. Invece i novels, cioè i romanzi – prose­ guiva Congreve –, «sono di natura più familiare, stanno vicino a noi e ci mostrano vicende concrete, ci dilettano con casi e avvenimenti singolari ma non del tutto inso­ liti o senza precedenti [...] e non essendo molto lontani da quanto crediamo sia vero, rendono il piacere della lettura più vicino a noi». Questo nuovo genere letterario, il romanzo, intrat­ teneva dunque i lettori con il racconto di vicende che, per quanto straordinarie, appartenevano al mondo rea­ ­3

le, quello in cui vivevano, e che riguardavano perso­ naggi grosso modo come loro, comuni mortali, magari eccezionali per certi loro aspetti, ma non lontani dalle persone che si potevano incontrare nel mondo reale. È curioso che a definire la natura del romanzo e a scriver­ ne uno (così nel frontespizio lo definisce il sottotitolo di Incognita, che tuttavia proprio romanzo non è, ma che è piuttosto una novella «esotica», ambientata a Firen­ ze), sia stato William Congreve (1670-1729), e cioè un drammaturgo. Più curioso ancora è il fatto che il primo romanzo di lingua inglese, Oroonoko, sia stato scritto da un’autrice teatrale, Aphra Behn (1640-1689). Suo padre era stato nominato governatore del Suriname, all’epoca possedi­ mento inglese nel Sudamerica tropicale, terra di pian­ tagioni di canna da zucchero e inferno in terra per gli schiavi che in esse lavoravano; ed Effray Johnson – que­ sto il nome originario di Aphra – là lo aveva seguito. Ma alla morte del padre tornò in Inghilterra, sposò il signor Behn, restò vedova, fece la spia di Sua Maestà con il nome di Astrea e si mise a scrivere testi teatrali. Di buon successo: fu la prima donna, ricordava Virginia Woolf, che riuscì a mantenersi con la sua attività di scrittrice. E scrisse – come si è detto – anche un romanzo, Oroonoko, pubblicato nel 1688, in cui fece confluire i suoi ricordi del Suriname, dei maltrattamenti feroci subiti dagli schiavi e dell’ipocrisia dei loro cristianissimi pa­ droni. Il romanzo si presenta come la «vera storia» di Oroonoko, principe africano catturato e deportato in America, dove già era stata deportata la sua innamorata (che sposerà). A raccontare le sue vicende, di per sé così affascinanti che per divertire il lettore non c’era nessun bisogno di «aggiungere alcunché di inventato», è un’a­ nonima giovane donna inglese che lo aveva conosciuto ­4

e ne aveva apprezzato la nobiltà (un’anticipazione del Buon Selvaggio) e che ne illustra le imprese coraggiose e la rivolta degli schiavi da lui promossa. Con l’inganno, Oroonoko verrà catturato, e poi giustiziato ferocemen­ te e sadicamente per il diletto della folla. Se Incognita più che un romanzo è una lunga novella, Oroonoko è già un romanzo (breve), nonostante le caratteristiche della sua forma narrativa, che spesso sa di «memoriale», di diligente rapporto su fatti accaduti. Che in realtà non sono accaduti, ma che, come è proprio del romanzo, sono presentati come se lo fossero. Quei fatti sono racchiusi in un racconto di avveni­ menti che – per quanto straordinari per ambientazione, protagonista e vicende stesse – appartengono al mondo reale. Ancora esotico, come sarà trent’anni dopo per il primo grande romanzo inglese, Robinson Crusoe, ma entrambi legati alla nuova realtà della potenza britanni­ ca, alle sue colonie, ai suoi commerci sugli oceani, alle sue nuove ricchezze e alle sue nuove imprese econo­ miche. Imprese di cui era protagonista la borghesia, la classe sociale che nel corso del Seicento, e poi in modo istituzionale con la Gloriosa Rivoluzione del 1688, ave­ va assunto un ruolo centrale nella società inglese. In Inghilterra la nascita del romanzo e l’ascesa della borghesia sono due fenomeni fortemente legati tra loro. Si può essere più o meno d’accordo con la definizione di Hegel del romanzo come «moderna epopea borghe­ se», si può avere più di una riserva sulla tendenza a far nascere il romanzo con il romanzo inglese (cosa che se­ condo me non è). Si può sottolineare il fatto che forme di narrazione i cui protagonisti non avevano le carat­ teristiche di quelli del romanzo, ma che tuttavia rac­ contavano una dimensione vicina a quella della realtà quotidiana, già esistevano da tempo, addirittura dall’età ­5

classica. Ma non può esserci dubbio sul fatto che i va­ lori espressi dai romanzieri inglesi del Settecento erano i valori propri della classe borghese e che il realismo dei loro romanzi ben si accordava con le aspettative di un pubblico di lettori che volentieri accettava di essere intrattenuto con storie che fossero radicate nella real­ tà del proprio mondo, che avessero come protagonisti personaggi vicini alla loro esperienza, che raccontassero vicende la cui «morale» corrispondesse ai propri prin­ cipi morali. Anche nella letteratura inglese dei secoli precedenti c’erano state forme di narrazione che facevano capo alla quotidianità, come ad esempio i rogue pamphlets (sto­ rie di malavita) pubblicati sul finire del Cinquecento e nel primo Seicento, dei veri e propri best seller con cui autori di romances e testi teatrali, come il raffinato Ro­ bert Green o il prolifico drammaturgo Thomas Dekker, riuscivano a fare cassa. Ma è difficile considerarli dei veri precedenti. Così come è difficile immaginare che le teorie francesi sulla «verosimiglianza» a cui Congreve era debitore, o la formidabile incursione nei linguaggi popolareschi del Gargantua e Pantagruel di Rabelais, o la riflessione psicologica offerta dalla Principessa di Clèves, costituissero un punto di riferimento per i romanzieri inglesi. Lo era invece, e lo dichiaravano esplicitamente, il Don Chisciotte di Cervantes. Vuoi perché costituiva un modello formidabile del modo in cui una storia poteva essere raccontata (per il taglio generale, ma anche per come inseriva altre storie nella storia principale), vuoi perché dimostrava che il mondo del romance – e cioè le illusioni e gli autoinganni cavallereschi di don Chisciotte – era in pieno contrasto con il mondo reale. Il romanzo inglese, dunque, non parlerà di re e regi­ ne, ma della vita di tutti i giorni; non userà un linguaggio ­6

raffinato, ma sfrutterà la ricchezza del linguaggio quoti­ diano; non narrerà storie stupefacenti collocate nei cieli della fantasia cavalleresca ma racconterà, come spesso si legge nel sottotitolo dei primi romanzi, delle «storie vere»: spesso straordinarie, capaci di suscitare interesse e fascino, ma storie «davvero accadute». Il romanziere catturerà l’attenzione del lettore parlandogli del mon­ do di cui fa parte e che ben conosce, proponendogli vicende ed esperienze che non gli appartengono ma che potrebbero essere state vissute da uomini e donne del suo tempo e della società a lui contemporanea. Come sostiene Bachtin, il romanzo è il genere lette­ rario contemporaneo per sua natura, che costantemente muta e si rinnova con il mutare del tempo storico. È un genere letterario in divenire e ancora incompiuto: non ha un «canone» come gli altri generi letterari, perché di volta in volta si reinventa, si dà nuove caratteristiche e nuove soluzioni e sempre si àncora alla realtà contem­ poranea per darsi nuove forme che ad essa corrispon­ dano e che sappiano ritrarla.

II

Il romanzo del primo Settecento: Defoe, Richardson e Fielding (per non parlare di Swift)

I primi romanzieri inglesi narrano dunque «la vita e le avventure» di un personaggio del mondo reale e del mondo contemporaneo e raccontano una storia «ve­ ra». Per sottolineare ed esaltare questo senso di verità, il narratore di Defoe dice «io»: io Robinson, io Moll Flanders, io Capitano Singleton, io Colonnello Jack. Mentre Richardson, l’autore di Pamela, si presenta co­ me il «curatore» delle lettere e di pagine del diario scrit­ te dalla cameriera Pamela e poi delle lettere scritte dai protagonisti della vicenda raccontata in Clarissa, il ca­ polavoro del romanzo epistolare inglese. Il tutto, come si diceva, presentato come vero, realmente accaduto nel mondo reale. Romanzo e realismo, romanzo e scrittura realistica, si presentano come termini inscindibili. Ma è davvero così? Sin dalla metà del Settecento, giù giù fino a Woolf e Joyce (per non parlare dei postmoderni), la forma ro­ manzesca si è fatta sempre più ricca e articolata. Ma anche la realtà si è fatta sempre meno unitaria e più complessa, e i mezzi per rappresentarla sono diventati via via più problematici. E questo – come vedremo – ha spinto molti scrittori, dal primo Novecento in poi, a ­8

percorrere nuove strade romanzesche. Già prima, però, non sempre romanzo e realismo erano termini coinci­ denti. Tutti i primi romanzi si presentavano come histories – di fatti veri – e non stories – di fatti inventati. E tuttavia il problema della loro veridicità suscitava qual­ che imbarazzo già allo stesso Richardson. Se racconto una storia vera, allora faccio del giornalismo; se invece suggerisco al lettore che ho scritto un’opera di fantasia, allora vacilla l’idea stessa di romanzo come racconto di fatti realmente accaduti. Per noi, tre secoli dopo, il problema non si pone più. Il romanzo è fiction, parola inglese che in letteratura ha perso il significato originario di finzione/falsità per as­ sumere quello di creazione letteraria (l’ambiguità, a ben vedere, sta già nel termine stesso): ebbene, attraverso l’invenzione romanzesca, a cui il lettore crede anche se non vi crede, l’autore gli racconta che così è la vita, che così gioiamo e soffriamo, che così ci affanniamo inu­ tilmente o lottiamo con successo. Non è vero che così è accaduto. Ma ciò non rileva, perché è vero che così potrebbe accadere; e a partire dalle vicende narrate e dalle esperienze di vita che il romanzo propone, il let­ tore, se vorrà, potrà riflettere sulla propria vita. Oppure limitarsi a fantasticare. Ma torniamo agli inizi, al primo Settecento, per pro­ vare a rispondere alla domanda: «Chi erano i lettori?». È difficile stabilire quale fosse il livello di alfabetismo nell’Inghilterra del Settecento, ma il prezzo decisamente elevato dei libri fa capire che solo una parte ristretta del­ la popolazione alfabetizzata poteva comprarli. In quanto ai romanzi, ad acquistarli e a leggerli erano soprattutto le donne dell’upper middle-class, la dama e la sua cameriera personale, mentre il marito, in genere, era impegnato a leggere i libri contabili, a bere o ad andare a caccia con ­9

gli amici; o comunque a intrattenersi fuori casa piuttosto che nel suo studio davanti a un buon romanzo. Il quale romanzo presentava, non solo per la came­ riera ma anche per la dama, un altro motivo di interesse per il fatto di parlare del presente: proprio in quanto ambientato nel mondo reale per vicenda e personaggi, non richiedeva – per essere apprezzato – quella cono­ scenza della cultura classica (negata alle donne) che in­ vece la lettura dei romances presupponeva. Il primo novel, il primo romanzo inglese che si impo­ se come alfiere del nuovo genere letterario, fu Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1660-1731). Defoe, oltre che scrittore e romanziere, fu un personaggio straordinario, l’incarnazione, per molti versi, dello spirito borghese nella sua originaria versione rivoluzionaria. Era a favore dell’idea di sovranità popolare (nel senso ad essa dato da Locke nel suo Due trattati sul governo). Diceva che uomini e donne sono uguali e che le differenze tra loro sono soltanto la conseguenza di imposizioni di natura culturale, senza alcun fondamento oggettivo o «natura­ le». Sosteneva che le proteste contro gli immigrati erano miopi e meschine, perché gli immigrati costituivano sia la forza lavoro, sia il patrimonio di conoscenze tecniche e pratiche di cui l’Inghilterra aveva bisogno. Spiegava che i poveri delinquono non perché «malvagi», ma per­ ché vi sono indotti dal bisogno: l’uomo non è ricco per­ ché è onesto, diceva, ma è onesto perché è ricco. Diceva anche che l’istruzione ha un’importanza fondamentale, a differenza di quanti lo negavano per giustificare la di­ sparità sociale in base alla «naturale» inferiorità di chi, a causa del censo, l’istruzione non aveva potuto riceverla. Era inoltre un dissenter (nome dato a chi dissentiva in materia teologica e liturgica dalla Chiesa anglicana) e ­10

quindi, come tale, gli erano negati buona parte dei diritti civili. Essendo dotato di grande ironia, aveva scritto un opuscolo, The Shortest Way with Dissenters, in cui pro­ poneva la soppressione di dissenso e dissenzienti, ragion per cui (troppa ironia, persino per il metro inglese) fu messo letteralmente alla gogna, accusato dai dissenters, che non avevano capito l’ironico paradosso, e dalle au­ torità anglicane, che l’avevano capito benissimo. Defoe era un uomo dalle mille risorse. Londinese, figlio di un macellaio, per un certo tempo aveva fatto il commerciante, aveva viaggiato molto in Europa (proba­ bilmente anche in Italia) e tra il 1703 e il 1714 aveva viag­ giato molto in Gran Bretagna allo scopo di raccogliere informazioni politiche per conto del potente statista e di fatto primo ministro Robert Harley (che lo utilizzò anche come vero e proprio agente segreto). E mentre faceva tutto ciò trovò il tempo di scrivere migliaia di pagine su­ gli argomenti più diversi, saggi politici e ideologici sia in prosa che in versi, trattati di argomento storico, opuscoli di tipo giornalistico e, soprattutto, una miriade di articoli pubblicati sui periodici a cui collaborava (e che spesso erano dovuti quasi esclusivamente alla sua penna). Il filo rosso che percorre la sua immensa produzione è quello della promozione dei valori borghesi: Defoe, anche se i suoi contemporanei non lo capirono, era l’a­ postolo dell’ethos capitalista e del suo necessario co­ rollario, cioè quello di abbattere il privilegio di classe e di premiare il merito per creare così un nuovo ordine sociale alla cui base stavano i principi morali e la figu­ ra del merchant (che un po’ impropriamente possiamo tradurre con «borghese»). Questo suo convincimento si ritrova non solo nei suoi scritti politici, ma anche nei suoi romanzi, a parti­ re dal primo, Robinson Crusoe (1719). Robinson, unico ­11

sopravvissuto al naufragio della sua nave, trascinato dal­ le onde sulle rive di un’isola deserta, è la quintessenza dell’homo oeconomicus, che è definito, in sostanza, dalle sue proprietà, da ciò che possiede. Prima che la nave, arenatasi presso la riva, affondi del tutto, Robinson porta via tutto ciò che gli è possibile, comprese le 36 sterline che trova nella cassaforte del capitano: sa bene che sull’isola deserta non potrebbero servirgli, ma lo fa egualmente (per farci sapere che la cosa più importante al mondo è il denaro). Fa un elenco dettagliato di tutti gli oggetti che ha recuperato, così come in seguito farà un inventario pignolo di tutti i suoi beni, delle sue «ric­ chezze»: lo fa perché lui è ciò che possiede. Il romanzo racconta le «strane e sorprendenti avven­ ture» di Robinson, quelle che nella versione di «libro per ragazzi» hanno affascinato generazioni di giova­ ni lettori: rischia di annegare, è catturato dai pirati, è tenuto in schiavitù per due anni, sopravvive tra mille avversità su un’isola deserta, combatte vittoriosamente contro i cannibali e contro i marinai ammutinati della nave inglese approdata sull’isola e sulla quale tornerà in Inghilterra, per diventare infine un ricco proprietario di piantagioni (e di schiavi) nel Nuovo Mondo. Naturalmente le sorprendenti avventure sono scritte da Robinson di suo pugno. Sin dall’inizio Defoe vuole che il lettore sappia che tutto ciò che viene raccontato è assolutamente vero, che è una «storia di fatti reali» (history, scrive, non story). Ed è un fatto che qualcosa di simile era davvero accaduto qualche anno prima a un tal Alexander Selkirk, le cui avventure erano sta­ te raccontate in diversi libri. Ma quello fu soltanto il punto di partenza. Il resto è tutto frutto dell’invenzione di Defoe, che nel creare la supposta autobiografia di Robinson aveva inoltre ben presente la vasta letteratura ­12

protestante, che attraverso il racconto biografico mira­ va ad offrire al lettore avvertimenti e insegnamenti. Una delle principali ragioni del successo di Robinson Crusoe e degli altri romanzi di Defoe sta nella novità del linguaggio. Era il linguaggio dei predicatori, dei gior­ nalisti, di chi si rivolgeva a un pubblico di artigiani e commercianti. Nel linguaggio di Defoe possiamo intui­ re quello popolaresco (intuire, perché gli fa ovviamente soltanto da sfondo: non lo usa ma vi allude) e possiamo cogliere la vivacità dell’inglese parlato, la concretezza di una narrazione affidata a parole che il comune lettore poteva subito riconoscere e capire. Il fascino del racconto sta nel fatto che Robinson per dodici anni è solo sull’isola deserta e che sopravvive creando delle condizioni di vita che il lettore riconosce come civiltà (e, per il lettore del tempo, di quella civiltà probabilmente faceva parte anche il fatto che l’indigeno di un’isola vicina, che Robinson salva dai cannibali, di­ ventasse, più che un suo servitore, il suo schiavo: senza schiavi l’impero non poteva prosperare). La solitudine di Robinson è alleviata dai forti convin­ cimenti religiosi che matura dopo essere sopravvissuto a una grave malattia. Nella morale del romanzo Defoe offre una versione benevola del rigore quasi calvinista dei dissenters: Robinson si è ribellato all’autorità pater­ na, sancita dalla legge divina, e quindi merita di essere punito. Ma la Divina Provvidenza, proprio attraverso la punizione, gli offre la possibilità di salvarsi: Robinson affronta con coraggio, disciplina, determinazione e, so­ prattutto, fede nella misericordia divina, le prove a cui è sottoposto. Non solo sopravvivrà, ma diventerà un uomo ricco e rispettato da tutti. Robinson dimostra che cosa può fare di buono e di giusto un bravo borghese naufragato su un’isola deser­ ­13

ta. Ma che cosa può fare una povera fanciulla in una metropoli come Londra, nel nuovo mondo borghese in cui la povertà è vista come un peccato e in cui il denaro, come dice la protagonista di Moll Flanders (1722), è ciò da cui dipende la salvezza o la dannazione di un uomo? La madre di Moll era stata condannata a morte per il furto di tre pezze di stoffa. Poiché era incinta, la pena era stata sospesa; in seguito la donna era stata deporta­ ta in America, a lavorare nelle piantagioni, e costretta perciò a lasciare a Londra la sua bimba di appena sei mesi. Dopo varie vicissitudini, Moll viene affidata a una «brava donna» che educa le ragazze a diventare brave domestiche. Ma lei non vuole diventare una cameriera. «Cosa vorresti diventare, una gentildonna?», le chiede ironicamente la sua «educatrice». «Sì!», è la risposta di Moll. Vent’anni dopo Richardson avrebbe pubblicato Pamela, la storia di una cameriera che sposa un genti­ luomo e diventa una gentildonna. A quel punto, almeno nella finzione romanzesca, era possibile immaginare un simile estremo esempio di mobilità sociale. Defoe non arriva a immaginare tanto. Era troppo presto? O comunque, memore del successo dei racconti di malavita, preferì raccontare la storia di una donna che, costretta dalla necessità («la genitrice del crimine»), di­ venta una ladra e una prostituta e ha cinque mariti, uno dei quali è suo fratello? Moll affascina il lettore come affascina gli uomini che circuisce: probabilmente l’inge­ nuità con cui narra le sue «fortune e sfortune» gioca a suo favore, così come, almeno per il lettore dell’epoca, il suo pentimento. Resta il fatto che una vita di crimine e di peccato si conclude con il premio della libertà e del benessere. La stessa Moll si chiede come mai la Provvi­ denza sia stata così generosa; ma non sapendo darsi una risposta, invita il lettore a trovarne una. ­14

Anche Robinson si era posto la stessa domanda e aveva concluso che le vie della Provvidenza sono im­ perscrutabili. Dietro questo interrogativo non è difficile scorgere la teoria della predestinazione e della grazia che in parte i dissenters ereditavano da Calvino. Ma nel caso di Moll agli occhi di Defoe c’è forse una ragione in più. Moll usa tutto ciò che ha, la sua bellezza e il suo corpo, per poter sopravvivere. Usa il suo corpo come un operaio usa le proprie braccia e, soprattutto, lo usa per non diventare proprietà di un uomo. Questo vale anche per la protagonista di Roxana, the Fortunate Mistress («Lady Roxana», 1724), che tuttavia non parte dalle miserabili condizioni di Moll. Roxana sposa un uomo ricco, che però sperpera la sua fortu­ na e l’abbandona. Spinta dalla necessità, diventa una prostituta. Ma, raggiunta la sicurezza economica, non rinuncia alle sue «arti». Il fatto è che ha imparato a non fidarsi della correttezza e della generosità degli uomini e ha concluso che deve essere lei a provvedere genero­ samente a se stessa. Tant’è vero che rifiuta di sposare un ricco aristocratico per non perdere la propria indipen­ denza economica: anche Roxana non vuole diventare proprietà di un uomo. Alla fine, ci assicura Defoe, la donna si pentirà dei suoi peccati. La morale è salva. Degli altri romanzi di Defoe meritano una citazione almeno Colonel Jack (1722) e Captain Singleton (1720), la cui morale potrebbe essere addirittura «il delitto pa­ ga». E soprattutto The Journal of the Plague Year («Dia­ rio dell’anno della peste», 1722), il «vero» resoconto di un londinese sulla spaventosa epidemia di peste di sessant’anni prima, un mirabile esempio di come Defoe sapesse cancellare i confini tra ciò che era vero e ciò che era finzione. Un’abilità che gli valse l’accusa di giornalista da par­ ­15

te di molti studiosi. Defoe, indubbiamente grande gior­ nalista, in campo letterario fu un pioniere. E in quanto tale si devono riconoscere i suoi meriti di «artefice» del nuovo genere letterario; fermo restando che i suoi ro­ manzi non possono ancora avere in sé, né prefigurano, le future conquiste del genere romanzesco. Dato che i suoi personaggi raccontano storie di avventure desti­ nate ad affascinare il lettore, la sua preoccupazione è quella di riempirle di avvenimenti, incontri, incidenti, disavventure e sorprese che tengano vivo l’interesse del lettore per il destino dei suoi protagonisti. I quali spesso (questo è il limite di Defoe) piangono e si disperano sen­ za tuttavia che il lettore possa vedere quali siano i senti­ menti profondi che davvero albergano nel loro animo. La psicologia del personaggio, in Defoe, non c’è ancora. Ma ciò non toglie che i suoi Robinson, Moll e Roxana siano tra i personaggi più vivi, più veri, più radicati nel nostro immaginario, di tutti quelli usciti dalle pagine del romanzo inglese. Defoe fa sì che per scelta, o per costrizione, i suoi protagonisti varchino i mari e gli oceani nella finzione romanzesca. I viaggi che avvenivano nella realtà spesso diventavano anch’essi oggetto di affascinanti resoconti: affascinanti per la loro avventurosità, o per la descrizio­ ne di uomini, luoghi e animali del tutto insoliti, esotici e sorprendenti. Qualche volta il racconto della realtà era molto più ‘inventato’ di quello della finzione, e purtut­ tavia creduto vero. E non sorprende quindi che, almeno entro certi limiti, anche i viaggi di Gulliver narrati da Jonathan Swift (1667-1745) potessero essere letti come qualcosa di vero; o almeno di vero in forma romanzesca. Per la verità Gulliver’s Travels («I viaggi di Gulliver», 1726) non è un romanzo vero e proprio; è piuttosto ­16

la rivisitazione, alla luce di Robinson e dei resoconti di viaggio (dei quali può anche essere letto come una parodia), della Storia vera di Luciano di Samosata, lo scrittore greco del II secolo che (dichiarando però di mentire) in quel suo libro raccontava viaggi mirabolanti in luoghi ancora più mirabolanti. Gulliver’s Travels deve la sua fama al fatto di esse­ re stato abbreviato, censurato e ridotto alle prime due delle sue quattro parti per offrire un istruttivo libro di avventure ai giovani lettori; ma se lo leggiamo nella sua interezza non possiamo non accorgerci della sua natura di satira feroce, amara e violenta della società britannica contemporanea – e dell’umanità stessa. Il protagonista, Gulliver, chirurgo di bordo, è un uomo onesto, sincero e non particolarmente perspica­ ce (il verbo to gull significa ingannare, fare fesso qual­ cuno). Nella prima parte egli naufraga a Lilliput, dove è un gigante in mezzo a uomini alti una quindicina di centimetri (un dodicesimo della sua statura), ma che si vedono grandi per importanza – la satira è diretta alla corte e ai cortigiani di re Giorgio I. Nella seconda parte finisce a Brobdingnag, i cui abitanti sono alti do­ dici volte più di lui: sono all’antica, tradizionalisti, per nulla moderni – e quindi non dispiacciono a Swift, che odiava il progresso. Come emerge molto chiaramente nella terza parte, quando, dopo essere stato gettato in mare dai pirati, Gulliver si ritrova sull’isola volante di Laputa, dove gli uomini si dedicano alla speculazione scientifica, astratta, fine a se stessa e inutile. Donde una critica più che legittima; ma il fatto è che Swift non ap­ provava la scienza in generale, perché la riteneva poco necessaria e, soprattutto, contraria alla religione. Nella terza parte incontra anche gli Struldbrugs, che sono immortali ma umani, e quindi invecchiano diven­ ­17

tando sempre più decrepiti, costretti a patire non solo nel corpo ma anche nello spirito, perché non possono morire e por fine alle loro sofferenze. Nella quarta parte Gulli­ ver raggiunge la terra degli Houyhnhnm (che nella pro­ nuncia corrisponde al suono di un nitrito), che sono dei cavalli, saggi, razionali, e governano su una popolazione umana poco più che scimmiesca, sporca e puzzolente, gli Yahoo. Non hanno né istituzioni, né letteratura, né tecnologia e sono dei conservatori, come piaceva a Swift. Quando torna a casa, Gulliver si rifugia il più possibile nella stalla, con i suoi cavalli, perché l’odore di sua moglie e dei suoi figli, simile a quello degli Yahoo, gli fa venire in mente quanto sia disgustosa la natura umana. Nell’ultimo capitolo, dopo aver dichiarato che tutto quanto ha scritto corrisponde alla pura verità, Swift si lancia in un durissimo atto d’accusa contro l’impresa coloniale, mostruosa causa di ingiustizie e di massacri. Questo riguarda gli altri paesi, non l’Inghilterra, dichia­ ra poi. Ma la frase è del tutto ironica: Swift era irlande­ se. Era vissuto per diversi anni in Inghilterra al servizio di un importante aristocratico, sperando di ottenere un incarico governativo di qualche rilevanza. Speranza va­ na. Ciò che gli fu dato, dopo aver ottenuto un dottorato in Teologia ed essere diventato un sacerdote della Chie­ sa irlandese protestante (il reverendo dottor Swift), fu l’incarico di decano della cattedrale di San Patrizio di Dublino. Nella capitale irlandese, dove si sentiva come «un topo in un buco», ebbe modo di rendersi perfet­ tamente conto di come l’Inghilterra gestiva il potere su quella che a tutti gli effetti fu la sua prima colonia (e come gestiva il potere in genere lo aveva già capito nel corso dei suoi infruttuosi contatti con la corte inglese). Conservatore in politica, Swift lo era anche in campo religioso. Da queste sue posizioni, tuttavia, come pure ­18

nella denuncia dell’imperialismo, traeva una ferocia ancor maggiore per scatenare la sua satira contro la società inglese, contro la politica del primo ministro Walpole, contro le diatribe tra cattolici e protestanti, contro la grottesca amministrazione della giustizia, contro la compiaciuta indifferenza nei confronti del­ la povertà e della miseria più nera della popolazione irlandese cattolica (scrisse infatti una «Modesta pro­ posta» in cui suggeriva ai cattolici irlandesi di dar da mangiare i loro bambini ai ricchi: così guadagnavano qualche soldo e avevano meno bocche da sfamare). Era però soprattutto un critico feroce della presunzione, dell’arroganza, della meschinità che affligge l’umanità, il tipo di verme più nocivo, diceva il re di Brobdingnag, «che striscia sulla faccia della terra». Era un misantro­ po? Forse. Ma sicuramente era un filosofo morale che odiava i falsi ideali, la menzogna e l’ipocrisia. Se gli esordi del romanzo inglese furono affidati alla penna di un’avventurosa commediografa (nonché agente segreto), se il suo consolidamento fu affidato a quella di un altrettanto avventuroso giornalista e com­ merciante (pure lui agente segreto), la sua affermazione internazionale fu invece dovuta a quella di un modesto tipografo per nulla avventuroso, l’accorto e riservato Samuel Richardson (1689-1761). Le sue opere, presto tradotte in francese e in tedesco, incontrarono all’estero un successo non inferiore a quello, enorme, ottenuto in Inghilterra. Un successo di pubblico ma anche di criti­ ca, come testimonia l’appassionato Elogio di Richardson dovuto a Denis Diderot: «Richardson è un autore che vi riconduce continuamente alle cose importanti della vita. Più lo si legge, più ci si compiace di leggerlo. [...] Pittori, poeti, persone di gusto e di sentimento, leggete ­19

Richardson, leggetelo senza sosta». Per la bellezza delle sue pagine, proclamava Diderot, e perché «Richardson spande nel cuore dell’uomo dei semi di virtù». Virtù è la parola chiave, che campeggia nel titolo del suo primo romanzo, Pamela, or Virtue Rewarded («Pamela, o la Virtù premiata», 1740). Richardson, scrittore dal piglio didattico e moralista, fu un efficace propagandista dei valori della borghesia, della quale contribuì a forgiare con grande maestria l’i­ dentità culturale. Il suo primo libro, scritto nel 1733, fu, significativamente, un manuale di buona condotta destinato agli apprendisti affinché si accostassero al lo­ ro lavoro guidati da serie regole di comportamento e provvisti di sani principi morali (prima ancora, da ra­ gazzo, aveva fatto pratica scrivendo lettere per giovani innamorate). Più tardi, con l’accortezza professionale del tipografo/editore, passò alla scrittura creativa. Pamela è un romanzo epistolare, fatto di lettere e di pagine di diario per la maggior parte scritte da Pa­ mela (i corrispondenti sono sei in tutto), una giovane cameriera in teoria facile preda del suo «padroncino», Mr B. Invece la ragazza resiste ai suoi pesanti tentativi di seduzione, anche quando viene da lui reclusa in una sua remota dimora; e rifiuta la sua «generosa» offerta di diventare la sua amante. Alla fine Mr B. la sposa e le pagine conclusive del romanzo ci mostrano Pamela diventata un esemplare modello di virtù, stimata e am­ mirata da tutti, persino dall’altezzosa sorella di Mr B. Per i toni marcatamente moralistici, la parte fina­ le è la più debole del libro, come riconoscono anche molti dei più convinti ammiratori di Richardson (ma non Diderot). Per la verità in tutto il corso del romanzo Richardson fa il moralista: è un convinto protestante, che vuole raccontare una storia che abbia un serio va­ ­20

lore didattico e che metta in luce i principi morali della classe sociale a cui appartiene; tra tutti, in particolare, quelli del lavoro e dell’amore coniugale contrapposti all’oziosità e alla dissolutezza dell’aristocrazia. Richardson, tuttavia, non interviene soltanto sul piano morale, proponendo una vicenda sorretta da una visione ideologica in piena armonia con i principi di quella middle class, formatasi sulla lettura della Bibbia, che per la prima volta si accostava in massa alla lettura di testi non religiosi. Al tempo stesso fa qualcosa di molto più importante – e di straordinario. Interviene sul piano sociale, facendosi apo­ stolo di un principio fondante della rivoluzionaria classe borghese, cioè quello della mobilità sociale. Racconta la vicenda di una persona che appartiene al mondo che po­ tremmo definire piccolo-borghese e che sale nientemeno che al livello della gentry. Sebbene soltanto nella finzione romanzesca, trova la sua realizzazione la rivoluzionaria pretesa della borghesia di decretare la fine della dottri­ na medievale secondo la quale ognuno doveva restare per tutta la vita all’interno della classe sociale in cui era nato (nel posto, cioè, che Dio gli aveva assegnato). E la borghesia felicemente si riconobbe nei principi morali e sociali promossi da Richardson, accettando quindi con entusiasmo come vera la «vera storia» di Pamela. Que­ sto atteggiamento fu particolarmente diffuso tra le don­ ne, che, come si diceva, costituivano la parte largamente maggioritaria del pubblico dei lettori. A questo proposito è interessante notare come nel Settecento inglese si affer­ mò un nuovo genere letterario (novel!) spesso diretto a un pubblico femminile, che aveva come personaggi principa­ li delle donne e che presto ebbe delle donne come autrici. Nell’Ottocento quest’ultimo aspetto divenne ancora più evidente, e nel Novecento fu decisivo per l’affermazione del punto di vista femminista. ­21

La storia di Pamela è per Richardson un chiaro esem­ pio di virtù premiata. Secondo Fielding, come vedremo, è un chiaro esempio di ipocrisia. Pamela, tuttavia, non è un’ipocrita. Non c’è dubbio che il modo in cui difende la sua verginità dimostra chiaramente che è consapevole del valore che essa ha; ma se fosse stata un campione di ingenuità e candore avrebbe inevitabilmente ceduto a Mr B. Di più: è consapevole di respingere, lei che è una semplice cameriera, le avances di un padrone per cui prova attrazione e tenerezza. Le respinge perché indecenti o perché spera, inconsapevolmente, di poter diventare qualcosa di più della sua amante? Le respinge perché è «moderna»: la sua resistenza, la sua «sfaccia­ taggine», è la risposta moderna a quelle arroganti prete­ se che l’aristocrazia e le classi elevate per secoli avevano considerato come loro prerogativa. Il linguaggio usato da Pamela per esprimere la sua «sfacciataggine» e i suoi problemi è il linguaggio della gente comune. Per la verità, non pochi sono i casi in cui le frasi che usa, e talvolta intere lettere, non potreb­ bero mai essere state scritte da una cameriera. Ma la giustificazione sta nel fatto che Richardson, che ne è il «curatore», ha avvertito il lettore di essere intervenuto per correggere gli errori e le imprecisioni grammaticali e sintattiche del linguaggio di tutti i giorni (introdu­ cendo al loro posto espressioni appartenenti ad un lin­ guaggio formale, come quello che verosimilmente aveva usato nella sua attività giovanile di scrittore di lettere d’amore). Con Richardson, comunque, dopo il lavoro pionieristico di Defoe, il linguaggio quotidiano entra definitivamente nel mondo della letteratura. Il linguaggio del capolavoro di Richardson, Clarissa (un romanzo epistolare pubblicato in otto volumi tra il 1747 e il 1749), è invece, dato il livello sociale dei ­22

personaggi, più «verosimilmente» colto, meno rivolu­ zionario. Rivoluzionario, ancora una volta, è invece il senso della storia narrata, che rappresenta un duro atto di accusa contro l’aristocrazia. Un terzo del romanzo è costituito dalle lettere tra la giovane gentildonna Cla­ rissa e il suo corteggiatore/persecutore Lovelace; gli altri due terzi sono occupati da quelle di una ventina di corrispondenti. L’aristocratico Lovelace, dopo avere a più riprese cercato di sedurre Clarissa (non una servetta, dunque, ma una dama), la sequestra, la droga e la violenta. Cla­ rissa impazzisce, ma riacquista poi la ragione. Non però la volontà di vivere: la giovane donna, peraltro lasciata sola dalla sua famiglia, si avvia lentamente (per quasi un terzo del libro: questo ne costituisce il punto debole) verso la morte. La sua è una morte «necessaria», perché solo così può imporsi la denuncia della società patriar­ cale e maschilista a cui Clarissa appartiene, ma contro la quale, pur rispettandola, si è ribellata. Lovelace, che poi, finalmente, si era pentito, dopo la morte di Claris­ sa viene ucciso da un cugino di lei. La sua uccisione è una sentenza di morte nei confronti di un intero sistema sociale, contro il «vecchio ordine» contro il quale aveva combattuto – e continuava a combattere – la middle class. Il legame tra Lovelace e Clarissa è un legame profon­ do; e decisamente moderno nel ritratto che Richardson ne offre. La giovane donna subisce il fascino del suo corteggiatore, ma sa di non potersi fidare di lui e quindi gli resiste, non piegandosi alle sue lusinghe. Lovelace è consapevole di questi sentimenti contrastanti, che di fatto accrescono il suo desiderio; e quando il rifiuto da parte di Clarissa diventa totale, assoluto, la sua osses­ sione si traduce in una feroce violenza. Il rapporto tra ­23

i due, con il contrasto tra ammirazione e necessità di rifiuto da parte di lei, con quello tra ammirazione e pro­ tervia da parte di lui, con le sfumature masochistiche da parte di Clarissa e il rimorso di Lovelace per la violenza a lei inflitta, è delineato con una modernità sorpren­ dente. Anche per questo aspetto, come per il modo in cui affronta gli aspetti legati alla questione dei rapporti sociali, Richardson precorre i tempi. Il romanzo epistolare è una forma di supposta au­ tobiografia, in cui le lettere, come si diceva, sono la «testimonianza» della verità della storia raccontata. In Clarissa Richardson accentua tale aspetto facendo sì che i suoi personaggi mettano per iscritto ciò che accade (e ciò che provano) nel «momento stesso» in cui avviene. Non hanno nemmeno il tempo di rifletterci: registrano subito, a caldo, le loro sensazioni, i loro sentimenti, di modo che le parole scritte corrispondano esattamente alla verità profonda del loro sentire. Non c’è un’elabo­ razione dell’accaduto; e neppure una morale da trarre. Questo spetterà al lettore farlo. Defoe convinceva il lettore della verità dei fatti di­ cendo «Io»: non finzione ma autobiografia. Richardson lo convinceva dicendo «sono il curatore di ciò che vera­ mente hanno scritto queste persone»: non finzione ma documentazione. Fielding non si poneva il problema, anzi, si rivolgeva al lettore come un gentleman, ironico, colto, esperto delle cose del mondo, che gli racconta­ va una bella storia, dichiarando l’artificio retorico della fiction. Figlio di un militare morto in prigione per debiti, orfano di madre, Henry Fielding (1707-1754) fu alleva­ to dalla nonna e a dodici anni fu mandato nell’esclusiva public school di Eton, dove rimase per cinque anni. Più ­24

tardi, dopo un’avventurosa parentesi londinese durante la quale cercò anche di rapire una sua ricca cugina, si iscrisse all’Università di Leida, dove si immerse (ma so­ lo per un anno e mezzo) negli studi classici. Questa sua formazione fu decisiva rispetto alle caratteristiche della sua attività di scrittore. Che tuttavia, in una prima fase, fu dedicata al teatro: si affermò come autore di testi satirici, dettati da un esuberante gusto parodico, che avevano però il difetto di attaccare la corte e il primo ministro Walpole. Nel 1737 il Licensing Act, la legge voluta da Walpole che istituiva la censura, mise fine al­ la sua carriera in teatro – e alla sua fonte di reddito. Già male in salute (per via della gotta) studiò legge al Middle Temple e nel 1740 divenne avvocato. In quello stesso anno fu pubblicato Pamela e Fiel­ ding trovò subito nell’intento morale del romanzo un nuovo motivo per esercitare la sua vena parodica: nel 1741 uscì un suo beffardo libretto, Shamela, che oltre ad essere una satira diretta contro quella che lui riteneva fosse l’ipocrisia di Richardson e della sua eroina, è an­ che una satira contro la tecnica del «momento stesso». L’intento parodico e la sua aristocratica avversione nei confronti di Richardson (e di ciò che propugnava) gli dettarono poi la stesura di un vero e proprio romanzo, Joseph Andrews (1742). L’inizio del libro è dettato dall’intento parodico. Joseph Andrews, fratello di Pamela, è un servitore di Lady Booby, la zia di Mr B (che qui è chiamato Squire Booby). Nella sua casa londinese Lady Booby fa delle esplicite avances a Joseph, che, essendo casto e amando Fanny, la sua «fidanzatina», le respinge. Ragion per cui viene licenziato e cacciato via: il lettore comunque non si indigna, perché, a torto o a ragione, è difficile non considerare la difesa della castità da parte di un giova­ ­25

notto come qualcosa di comico. Joseph decide così di tornare a piedi nel suo paese: torna a casa, come Ulisse dopo la fine della guerra di Troia. E come nel caso di Ulisse il ritorno si rivela assai più lungo e pieno di peri­ coli di quanto si potesse immaginare. Dopo le prime di­ savventure, Joseph si imbatte nel parroco del suo paese, Adams, e insieme i due si avviano verso casa. Da quel momento il romanzo spicca il volo, dimen­ tica la parodia e si trasforma in una gustosa versione in­ glese delle avventure di don Chisciotte e Sancho Panza. A un certo punto Adams salva una fanciulla in pericolo: è niente meno che Fanny. E i tre, insieme, tra ulteriori incidenti e incontri, proseguono il viaggio (cruciale è l’incontro con un certo Mr Wilson, che racconta loro del rapimento del suo bambino da parte degli zinga­ ri). Finalmente i tre giungono al paese, dove trovano Pamela, diventata la moglie di Booby. E, se Dio vuole, superata l’ostilità di Lady Booby, Fanny e Joseph (che si scopre essere il figlio di Mr Wilson) possono sposarsi. Se Dio vuole: perché in fondo, come in Defoe, anche in Fielding c’è una Divina Provvidenza che premia le nostre eroine e i nostri eroi (ma non in Clarissa, perché in quel caso la morte dell’eroina, come si diceva, è indi­ spensabile per la morale del libro, cioè per la condanna del vecchio ordine aristocratico). Joseph Andrews è un romanzo letterariamente raffi­ nato e divertente, pieno di episodi comici e sostenuto dalla costante vena ironica con cui sono definiti perso­ naggi e vicende, scritto in terza persona. Fielding di­ chiara la sua presenza di narratore, cioè di creatore di un’opera di finzione, fin dall’inizio; e per tutta la nar­ razione ricorda al lettore/lettrice che sta leggendo un romanzo (a partire dagli ammiccanti e ironici titoli dei vari capitoli). I fatti e i personaggi sono «veri» nel senso ­26

che sono basati su quelli che incontriamo nella vita rea­ le, ma al tempo stesso appartengono chiaramente alla provincia dell’invenzione romanzesca. Nella Prefazione Fielding, che voleva sottolineare il valore letterario della sua opera, colloca il suo romanzo («un genere mai prima sperimentato») a fianco dei ge­ neri canonici della letteratura classica, definendolo un «poema eroicomico in prosa». Un genere diverso dal romance, spiega, in quanto «leggero»; e, soprattutto, un genere in cui i personaggi sono «di rango inferiore». È per legittimarne la presenza in un’opera letteraria che Fielding aggancia il romanzo ai generi classici, legitti­ mando così al tempo stesso il genere romanzesco. I suoi personaggi, è vero, sono simili a quelli che si incontrano nella vita di tutti i giorni; ma lui li osserva con occhio acutissimo (e aristocratico) cogliendone gli aspetti ridicoli, per cui ne emerge un ritratto realistico e divertente al tempo stesso. Il lieto fine, come Fielding ben sapeva, cosa realistica non è; ma la fiction, con l’aiu­ to della Provvidenza, lo reclama. Ciò non autorizza, tut­ tavia, a credere che la virtù porti alla felicità. Questa, di­ ceva Fielding, è una teoria nobile e consolante alla quale si può muovere una sola obiezione: «che non è vera». Questa perla di saggezza la troviamo in Tom Jones (1749), il suo capolavoro, la storia di un trovatello che, verso la fine del romanzo, scopre di essere il nipote del ricco e generoso Squire Allworthy, che l’aveva adottato quando era in fasce. Grazie a ciò Tom potrà sposare So­ phia, la donna che ama, perché, almeno in parte, è pure lui di buona famiglia. Fielding è del tutto estraneo all’i­ dea di mobilità sociale che consentiva a Richardson di immaginare il matrimonio di una cameriera con un gen­ tiluomo: per lui è infatti necessaria un’origine almeno in parte altolocata. (Quando Goldoni adattò Pamela per il ­27

palcoscenico inventò una simile soluzione. Ma nel suo caso la variante era obbligatoria: si rivolgeva al pubblico di un paese dove la borghesia non esisteva ancora.) Le avventure e le disgrazie di Tom e di Sophia si susseguono per decine e decine di pagine senza segni di stanchezza da parte del narratore, che trova sempre il modo di avvincere il lettore con l’ingegnosità degli inci­ denti e delle sorprese e di intrattenerlo con la sua ironia mentre con il distacco di un vero gentiluomo dialoga con lui. Tant’è vero che Fielding, nel Libro Secondo di Tom Jones, si descrive come il fondatore di una nuova regione della letteratura, una regione di cui è lui stesso a stabilire le leggi che la regolano. E invita il lettore ad aggirarvisi liberamente, trovando nel suo cammino non esattamente una storia «vera», ma la versione di una storia che potrebbe essere vera. In quanto a Tom, c’è da sottolineare che il prota­ gonista del romanzo è un giovane molto esuberante, sempre vitalissimo e a volte sfacciato. Anche più che sfacciato: è, diciamo così, un furfantello, un simpatico mascalzone, un rogue, come si dice in inglese (e lo stesso Fielding, a un certo punto, così definisce il suo eroe). È interessante notare come molti dei protagonisti dei pri­ mi romanzi inglesi siano dei simpatici rogues, a partire da Moll e Roxana. Il rogue non solo è simpatico, ma alla fine la spunta e trionfa con l’approvazione del lettore. D’altronde il buono, il virtuoso, non soltanto meno si presta ad essere personaggio trascinante (la bontà non suscita entusiasmo), ma molto spesso è destinato alla sconfitta. I romanzieri inglesi, che non dimenticavano di essere in debito con Cervantes (si pensi che il sot­ totitolo di Joseph Andrews recita: «scritto alla maniera di Cervantes») probabilmente ben ricordavano quella frase del Don Chisciotte in cui si dice che quando la ­28

virtù si manifesta nella sua massima grandezza «merita­ tamente» viene perseguitata e schiacciata. Tom, esemplare furfantello, che virtuoso non è, vie­ ne dunque premiato. E tuttavia è pur vero che è buono, che, come volevano la sensibility e certa filosofia sette­ centesca, è un giovane caratterizzato da quel dono di natura che consente di simpatizzare con i dolori degli altri e di gioire della loro felicità. Dono posseduto da pochi, precisava Fielding; ma tra quei pochi c’è il nostro eroe. Di Tom si potrebbe anche dire che è una specie di picaro, il protagonista del genere narrativo che apparve in Spagna nel XVI secolo (il romanzo picaresco) e che raccontava avventure e sventure di un giovane di bas­ sa condizione sociale che dopo mille peripezie, poiché intrinsecamente buono, veniva premiato dal successo (preferibilmente anche perché si scopriva che non era affatto di umili natali). Nel Settecento l’esempio più bello, e di grandissima risonanza, di questo genere di romanzo fu offerto da Alain-René Lesage con il suo Gil Blas de Santillana, che fu tradotto dal francese in in­ glese nel 1749 da Tobias Smollett (1721-1771). Mentre procedeva con la traduzione, sull’esempio di Lesage, Smollett scrisse un suo romanzo picaresco, Roderick Random (1748), un racconto in prima persona in cui si mescolavano tipiche vicende del genere picaresco con il ricordo delle sue avventure (Smollett era chirurgo su una nave da guerra) durante il fallito attacco della ma­ rina inglese alla città colombiana di Cartagena. Poco dopo Smollett diede alle stampe un secondo romanzo picaresco, Peregrine Pickle (1751), scritto in terza persona da un narratore onnisciente. Dopo una lunga pausa si cimentò poi nel genere epistolare con Humphrey Clinker (1771), che è il suo capolavoro. Le ­29

lettere sono scritte da cinque corrispondenti, in viaggio attraverso l’Inghilterra, il Galles e la Scozia; ciascuno di loro offre un diverso punto di vista su ogni singolo aspetto del viaggio, ma Smollett organizza brillantemen­ te le diversità di vedute, che finiscono per annullarsi producendo un effetto di sottile comicità. Sono cinque diversi «viaggi sentimentali» (il basilare omonimo libro di Sterne era stato pubblicato tre anni prima) attraverso però la Gran Bretagna, non l’Europa del Grand Tour oggetto di satira in Peregrine Pickle; e che si svolgono nelle campagne, in un mondo rurale visto come la sana contrapposizione a quello frenetico di Londra. La sa­ tira lascia il posto allo humour, ma l’anticonformismo resta anche qui il segno della scrittura di Smollett (come d’altronde lo fu per molti aspetti della sua vita). Si sarà sicuramente notato come i suoi tre lavori siano redatti nelle tre diverse forme romanzesche in precedenza usa­ te da Defoe, Fielding e Richardson. Ma nel frattempo già era apparso un romanzo che le scavalcava tutte e tre: era il Tristram Shandy di Sterne, di cui si parlerà nel prossimo capitolo.

III

Nuove strade romanzesche: Sterne, il «gotico», il romanzo storico

Il reverendo Laurence Sterne (1713-1768), nato in Ir­ landa da madre irlandese e padre inglese, e vissuto a Tipperary fino all’età di dieci anni, fu poi mandato in collegio in Inghilterra e in Inghilterra visse per il resto della sua vita. E tuttavia molta irlandesità, uno humour in cui la comicità si accompagna alla malinconia, un for­ te gusto per i giochi verbali, un’esuberanza affabulato­ ria straripante, una minore attenzione al realismo in no­ me del fantastico, è sotterraneamente presente nel suo capolavoro, The Life and Opinions of Tristram Shandy («La vita e le opinioni di Tristram Shandy», 1760-67). Sin dal titolo Sterne stabilisce una rottura con la convenzione romanzesca appena consolidata: non le avventure, ma le opinioni del protagonista narratore. L’autore si rivolge costantemente al lettore con un tono simile a quello di Fielding, da conversatore spiritoso, affabile, cortese, mai predicatorio, in modo da farne un confidente a cui chiedere consenso e complicità. Ma pur sempre dall’alto del fatto di essere lui l’autore (cioè l’autorità rispetto alla materia narrata): e, in fondo, in parte lo mena per il naso, trascinandolo nella miriade ­31

di dettagli, digressioni, aneddoti «gratuiti» e andirivie­ ni temporali che si susseguono per i dodici volumi del romanzo. Tristram, l’eroe/narratore, si propone di raccontare la storia della sua vita, decidendo ovviamente di inizia­ re, con ordine, dalla nascita. Ma presto si rende conto che per spiegare ciò che è diventato occorre tornare indietro, a prima del suo battesimo (con quel nome sfortunato che gli fu dato per errore), a prima della sua nascita, addirittura al momento del suo concepimento: concepimento che è occasione di una delle pagine più divertenti del romanzo, con quel padre maniacale e de­ terminista che pensa di poter stabilire a priori come sarà suo figlio – naturalmente sbagliando tutto. Tristram scrive, ma mentre scrive segue il filo dei suoi pensieri e interrompe di continuo l’ordine cro­ nologico della narrazione con le continue digressioni e con il racconto della vita delle persone a lui vicine, dai suoi genitori al simpatico parroco Yorick, dallo zio Toby, fissato con la ricostruzione dell’assedio di Namur in cui combatté e fu ferito, al suo servitore, il caporale Trim (altra versione inglese della coppia don Chisciotte e Sancho). Per non parlare della vedova Wadman, con le sue trame per farsi sposare dallo zio Toby, e di una vera e propria galleria di deliziosi personaggi minori. Ma mentre scrive il tempo passa; e Tristram si trova sempre più lontano dal momento in cui la narrazione potrà «raggiungere» il presente. È una «missione im­ possibile» come dice lui stesso quando, finalmente, nel terzo volume, giunge a parlare del giorno della sua nascita: dato che ci ha messo un anno per arrivare fin lì, adesso avrà 364 giorni in più da raccontare. Il suo problema è quello di trovare un equilibrio tra il tempo della scrittura, il tempo degli avvenimenti narrati e, non ­32

ultimo, come lui stesso fa notare, il tempo della lettu­ ra. Quest’ultima difficoltà rimanda però alla soluzione: nel senso che soluzione non c’è, ma che il racconto procederà comunque, intrattenendo il lettore con una «conversazione» che giocherà sull’impossibilità stessa e che lo divertirà con nuove sorprese, nuove digressioni, nuove storie nella storia. L’impresa letteraria compiuta da Sterne è davvero rivoluzionaria, sia per ciò che riguarda la forma, sia per ciò che riguarda il linguaggio. Ogni tipo di figura reto­ rica, ogni specie di artificio grammaticale o sintattico, ogni categoria di linguaggio e gergo professionale, ogni modo in cui avviene la comunicazione scritta, viene rivisitato e smontato, alla ricerca e alla sottolineatura dei limiti della parola nella sua capacità di comunicare i significati che vuole trasmettere. È anche per questa ragione che Sterne utilizza una serie di espedienti non verbali – asterischi, spazi bianchi, ghirigori, pagine marmorizzate – che con la loro «oggettività» pongono rimedio all’ambiguità della parola. Ragion per cui, ad esempio, una pagina nera sarà la forma di comunicazio­ ne più corretta quando Yorick chiuderà gli occhi «per non aprirli mai più». Le trovate grafiche sono poi un modo ulteriore at­ traverso il quale Sterne pone il lettore di fronte al fatto di avere davanti agli occhi un’opera di finzione: non l’autobiografia di Tristram Shandy, ma il prodotto della fantasia di un romanziere. D’altronde, a dispetto del titolo, Tristram Shandy non è neppure una biografia: della vita di Tristram sappiamo ben poco, delle sue opi­ nioni poco di più. Semmai ne sappiamo di più delle opinioni di suo padre e della vita dello zio Toby. Nel procedere della narrazione l’autobiografia si perde: nel suo voler essere preciso, nel suo voler raccontare tutto ­33

nei minimi particolari, Tristram accumula migliaia di informazioni; e annega la sua personale esperienza in un mare di parole che appena ce la lasciano scorgere. Questo modo di procedere da un lato sembra di­ chiarare l’impossibilità della forma romanzesca, in par­ ticolare di quella che si presenta come (auto)biografica, perché essa presuppone un percorso cronologico linea­ re, mentre la realtà non lo è. Ma dall’altro lato dimostra la vitalità del nuovo genere e la sua straordinaria dut­ tilità, che, a differenza dei generi classici, gli consente di trovare nuove strade e nuove forme a cui affidare l’invenzione letteraria. A questo merito bisogna poi aggiungerne uno ulteriore: Tristram Shandy inventa un nuovo tipo di humour, meno feroce di quello di Swift (che per Sterne era un punto di riferimento decisivo) e meno aristocratico di quello di Fielding, sebbene non meno sottile nella sua divertita bonomia – il cosiddetto Shandean humour. Sterne pensava che il buonumore fosse una virtù e che, di fronte alle miserie della realtà, fosse la dote che meglio permetteva di superarle; senza farsi illusioni sul­ la possibilità di un qualche disegno provvidenziale, ma contando su ciò che di positivo può albergare nell’animo umano. Nel 1768, poco dopo la sua morte, fu pubbli­ cato il suo romanzo di viaggio intitolato A Sentimental Journey through France and Italy (il «Viaggio sentimen­ tale» tradotto da Ugo Foscolo). Sterne lo presentava come un libro il cui scopo era quello di insegnarci ad amare il mondo e il nostro prossimo, grazie al fatto che il narratore, il parroco Yorick, in nome della sensibility, indugiava su piccoli episodi, sui dettagli, sui particolari, per proporne una lettura «sentimentale». Sensibility è il termine chiave per capire la cultura della seconda metà del Settecento inglese. Il filosofo ­34

David Hume, nel suo fondamentale Trattato sulla natura umana, spiegava che l’uomo ha una naturale inclina­ zione a cercare anche la felicità e il benessere dei propri simili. Da questa idea di una naturale «simpatia socia­ le», su cui Hume fondava tutta la vita morale, discende che la benevolenza è una virtù di cruciale importanza, quella che consente di provare sintonia e vicinanza con gli altri, di «provare sentimento». La sensibility consiste in questa capacità di «sentire»; e chi la possiede è un esemplare man of feeling, un uomo in cui risplende la virtù del sentimento. Nel Sentimental Journey sentimento e sensibility sono al centro della narrazione; e questo spiega il suo enorme successo nel Settecento e nel primo Ottocento. Tuttavia non possiamo escludere il sospetto che i let­ tori settecenteschi (e in seguito i romantici) siano stati ingannati da Sterne, che in realtà si sarebbe divertito a prendere in giro gli aspetti di estrema sensibilità mani­ festati dal parroco Yorick. Per cui, accanto alla paro­ dia della popolarissima letteratura di viaggio, il libro nasconderebbe un atteggiamento di satira parodica nei confronti dell’altrettanto popolare filosofia dell’epoca. Se però così non è, allora dobbiamo pensare che in que­ sto libro, scritto poco prima di morire e con la consape­ volezza dell’imminenza della morte, si siano fusi, come sosteneva De Quincey, humour e pathos. La sua tesi non è affatto peregrina: in fondo sono proprio queste due componenti che caratterizzano, contraddittoriamente, buona parte della cultura inglese del Settecento. Appena il romanzo aveva visto delinearsi il suo ca­ none, Sterne lo aveva infranto. Appena si era finito di dichiarare che novel vuol dire storia vera, realismo, mondo inglese contemporaneo, si affermò un genere, ­35

il romanzo gotico, che si muoveva in una dimensione magica, sovrannaturale, fantastica. Horace Walpole (1717-1797), figlio del dittatoria­ le primo ministro Sir Robert, deputato al Parlamento, fondatore di una casa editrice che pubblicò le odi pre­ romantiche di Thomas Gray, era un appassionato cul­ tore di antiquariato. E trasferì il gusto per la ricerca di oggetti (e documenti) antichi e misteriosi nel romanzo che diede alle stampe nel 1764, The Castle of Otranto («Il castello di Otranto»), che presentò come la tradu­ zione di un antico testo italiano. Con questo romanzo Walpole diede vita al nuovo genere del gothic novel, che coniugava il gusto per il pittoresco e il Sublime (catego­ ria chiave della sensibilità preromantica) con una forte predilezione per il mistero e l’irrazionalità. Protagonista dei gothic novels è in genere una giova­ ne donna che rischia di cadere nelle grinfie di uomini ferocemente malvagi e che nella sua fuga deve affronta­ re ogni sorta di minacce e di pericoli, veri o immaginari – fantasmi e apparizioni sovrannaturali le si presentano con costante sistematicità. Poi, nel finale, che è quasi sempre un lieto fine, spesso si scoprirà che i fenomeni sovrannaturali tali non erano, ma che c’era una spiega­ zione «naturale» per il loro manifestarsi. Il lettore è così soddisfatto su due fronti. Su quello fantastico, perché l’eroina si salva dopo essere stata in pericolo di vita per tutto il corso della vicenda e annientata dall’emozione «sublime» per eccellenza, il terrore. Su quello realistico perché tutto sommato il romanzo gli propone circo­ stanze e fatti irreali che trovano una loro spiegazione nella realtà (così come si addice al romanzo). E tuttavia, in sintonia con quel tipo di sensibilità preromantica che trovava la sua voce nella grave poetry, la poesia cimite­ riale, con la sua riflessione sulla morte, il romanzo goti­ ­36

co spesso propone un aspetto che scavalca la realtà nel suo suggerire una dimensione in cui il confine tra vita e morte risulta tutt’altro che definito, in cui la morte è una presenza nella vita stessa. Nel romanzo di Walpole la vicenda si svolge in un’I­ talia «esotica», dagli edifici antichi e misteriosi, a partire dal castello del titolo, dotati di opportuni sotterranei e anfratti nascosti in cui appaiono fantasmi e fenomeni inspiegabili e paurosi, in cui la fuga e gli inseguimenti si caricano di terrore; anche se poi improbabili coinci­ denze e altrettanto improbabili rivelazioni garantiscono quel lieto fine che, come si diceva, conforta il lettore. Per Walpole gotico voleva dire medievale; ma non sem­ pre questo era il periodo storico preferito dagli autori di gothic novels. I due casi più lontani sono offerti da due piccoli ca­ polavori ora, ingiustamente, poco frequentati. Il primo è Vathek, di William Beckford (1759-1844), scritto in francese nel 1782 e tradotto in inglese qualche anno dopo, che propone un viaggio nel proibito e che costi­ tuisce una sfida radicale ai diritti della ragione, con una vicenda ambientata in una dimensione mentale visiona­ ria e allucinata. Il secondo è The Monk («Il monaco», 1796), di M.G. Lewis (1775-1818), un romanzo am­ bientato nella Spagna della Santa Inquisizione, vicino al Romanticismo tedesco nella sua versione più macabra: una storia in cui assassinio, stupro e incesto sono affi­ dati a un taglio apertamente sadico. È possibile tuttavia, forse al di là delle intenzioni di Lewis, interpretare i suoi toni trasgressivi come il frutto di un violento disprezzo nei confronti dell’ipocrisia che spesso domina nei rap­ porti sociali delle classi elevate: e così infatti venne letto oltre un secolo dopo dai surrealisti francesi, che molto lo apprezzarono. ­37

La ‘star’ del romanzo gotico fu Ann Radcliffe (17641823), una donna di salute cagionevole, schiva, riservata, che scrisse i racconti del terrore più fantasiosi, e più am­ mirati e imitati, della sua epoca. Molti dei suoi romanzi, come quello del suo precursore Walpole, sono ambientati in Italia. Un’Italia piena di luoghi pittoreschi (in sintonia con l’idea dominante del Sublime), di sinistri e misteriosi conventi, o di castelli dalle altrettanto misteriose segrete, in cui si sviluppano drammatiche vicende che offrono le più diverse variazioni sul tema del terrore. La vittima è in genere una fanciulla emblema di innocenza e di purezza, mentre il suo persecutore è un uomo malvagio, spietato e lussurioso. Come tipico del genere, si pensi al suo roman­ zo più noto, The Italian («Il confessionale dei penitenti neri», 1797): nel finale il terrore cederà il passo al lieto fine matrimoniale – e alla spiegazione in termini razionali degli avvenimenti che erano apparsi come sovrannaturali. Il romanzo gotico, per certi versi, rappresenta la fac­ cia nascosta della razionalità illuministica, capace di mo­ strare la faccia altrettanto accuratamente nascosta di una società piena (è il caso di dire) di scheletri nell’armadio. Per questa ragione, al di là del fascino che ha esercitato e che esercita sugli amanti del genere, possiamo consi­ derare il gothic novel come una componente importante della narrativa settecentesca, capace di fornire una testi­ monianza indiretta degli aspetti inconfessabili della so­ cietà britannica. Senza contare la sua importanza come fornitore di spunti decisivi per il romanzo ottocentesco (si pensi ai lavori delle sorelle Brontë o di Stevenson); o addirittura come modello (si pensi al Dracula di Bram Stoker o al Dorian Gray di Oscar Wilde). Walter Scott (1771-1832), nel romanzo che gli diede la fama, Waverley (1814), lascia cadere alcune osserva­ ­38

zioni critiche nei confronti del gothic novel, o almeno di alcuni dei suoi aspetti più strambi. Però anche Scott era in qualche modo debitore di quel gusto antiquario che aveva avuto un ruolo importante per Walpole. Nel caso di Scott, che era nato a Edimburgo, contavano soprat­ tutto i racconti popolari e le leggende dell’antica Scozia su cui la poesia romantica non poco aveva ricamato. La vicenda di Waverley non era però collocata in un tempo così remoto, bensì nella Scozia di settant’anni prima, durante l’insurrezione giacobita del 1745, quando il principe Carlo Edoardo, detto Bonnie Prince Charlie, nel suo tentativo di reinsediare sul trono la sua casa­ ta degli Stuart, riuscì a mobilitare diversi capi dei clan delle Highlands scozzesi. Con cinquemila uomini mar­ ciò da Edimburgo fino a Derby; ma non proseguì verso l’ormai vicina Londra e tornò indietro. L’anno succes­ sivo, nella battaglia di Culloden, il suo piccolo esercito subì una disastrosa sconfitta, che segnò la fine del sogno della restaurazione stuartiana; e che segnò anche la fi­ ne della relativa indipendenza dei clan e l’affermazione del controllo della corona su tutta la Scozia, Highlands comprese. Questi brevi cenni storici sono indispensabili per cogliere il senso dell’operazione di Scott. I suoi roman­ zi «scozzesi» spesso ci presentano dei prodi guerrieri delle Highlands, sostenitori della casata degli Stuart, che combattono valorosamente contro le truppe di re Giorgio: uomini pieni di coraggio e di nobiltà d’animo che lottano per una causa destinata alla sconfitta – come ben sapevano i lettori di Scott. Per questa ragione essi potevano pertanto apprezzare le virtù di questi uomini generosi senza che ciò entrasse in contraddizione con la loro posizione di fedeli sudditi di una nazione che, dopo la sconfitta di Bonnie Prince Charlie, aveva potu­ ­39

to consolidare la sua unità e che aveva appena sconfitto la Francia napoleonica, affermando definitivamente il suo ruolo di grande potenza. Gli avvenimenti narrati nei romanzi di Scott appartenevano a un passato eroico scomparso per sempre; e quindi era possibile non solo ammirarne i protagonisti, ma addirittura, ora che non costituivano più un pericolo, apprezzare le differenze, soprattutto culturali, di cui essi erano portatori. Bisogna inoltre tenere conto del fatto che nel pe­ riodo romantico, in generale, erano molto apprezzati l’omaggio a un nobile passato, la scoperta e la valoriz­ zazione delle sue radici, il rispetto con cui l’attenzione veniva rivolta a uomini umili e semplici ma portatori di un’identità nobile e «naturale»: e tutto questo, condi­ to da continui riferimenti a ballate, canti gaelici (come quello che la sorella di Mac-Ivor traduce «imperfetta­ mente» a Waverley), proverbi, forme dialettali, elemen­ ti folklorici, il lettore lo ritrovava nei romanzi di Scott. Romanzi «realistici», in quanto la loro fonte era la storia. Scott partiva dal dato storico, inconfutabile, «vero», per poi lanciarsi in un’invenzione narrativa che mescolava realismo e topoi romantici: nobili gesta, dolci fanciulle, coraggiosi ribelli che combattevano per una grande causa. I suoi eroi, tuttavia, come faceva nota­ re Lukács nel suo Romanzo storico, non sono figure di eccezionale statura, ma corrispondono invece al tipo medio di gentleman inglese: un «eroe» che è un uomo di indubbia fermezza e dignità morale, ma non roman­ ticamente eroico. Mentre sono i personaggi con cui loro entrano in contatto ad apparire più veri e convincenti. Il fatto è che i personaggi dei romanzi storici di Scott trag­ gono la loro vitalità e verità dall’essere membri di un gruppo sociale che esercita un ruolo importante (non importa se vittorioso oppure no) nella società del pro­ ­40

prio tempo, di far parte di una categoria che costituisce una delle forze determinanti del corso della storia. Per questo motivo, diceva Lukács, sono «tipici»; e per que­ sta ragione il lettore ottocentesco poteva riconoscerli come figure reali e realistiche, perché appartenendo alla storia appartenevano alla realtà. È invece difficile per il lettore di oggi avere questa stessa sensazione; anzi, l’impressione può essere quella di trovarsi di fronte personaggi da romance, perché la distanza temporale ha trasformato quei momenti storici nel vago periodo di un indeterminato passato. Un pas­ sato così sfumato da non presentare neppure un qual­ che legame con il presente. Per di più i lunghi romanzi di Scott sono stati ampiamente tagliati e trasformati in agili volumetti di letture per ragazzi, rafforzando l’idea che parlino di mitici eroi e di leggendarie avventure. E tuttavia il lettore adulto disposto ad immergersi nella lettura dei romanzi scozzesi e cioè, dopo Waverley, Guy Mannering (1815), Rob Roy (1817), Heart of Midlothian (1818), potrà non solo godere del piacere di una lettura coinvolgente, ma anche della possibilità di agganciare le storie narrate ai mutamenti e alle trasformazioni di cui è fatta la storia. Ancora un romanzo di Walter Scott, uno dei più popolari e più travisati dall’editoria per ragazzi e dal cinema, non uno dei romanzi scozzesi, ma uno di quelli ambientati nel Medio Evo, merita di essere citato. È Ivanhoe (1819), la cui vicenda ripropone, nella contrap­ posizione tra Sassoni e Normanni, il tema affrontato in Waverley; e cioè quello del superamento del contrasto tra due etnie diverse, di lingue diverse, di culture diver­ se, per dare vita a un’unica nazione – che in questo caso è la nazione inglese. La vicenda è collocata verso la fine del XII secolo, al tempo di Riccardo I, il re normanno ­41

che Ivanhoe, di etnia sassone, aveva seguito nella sua Terza Crociata disobbedendo al padre, che sognava una riscossa contro gli «invasori» normanni. Il romanzo è del tutto inattendibile dal punto di vista dell’accura­ tezza storica, ma è affascinante per la sua capacità di creare un’immagine fantastica del mondo medievale; ed è responsabile della mitizzazione di Riccardo I, un re d’Inghilterra fondamentalmente francese, che entrò nella leggenda come l’inglesissimo Riccardo Cuor di Leone campione della cristianità. I romanzi di Scott, con la loro capacità di fondere rovine che parlavano di un glorioso passato, lande sel­ vagge che ponevano l’uomo di fronte allo spettacolo «sublime» della natura, personaggi ed eventi collocati nei momenti di svolta della storia, ottennero un succes­ so straordinario, e non solo di pubblico. La sua opera, infatti, fonda il romanzo come genere letterario nazio­ nale, ed ebbe una decisiva importanza per Alessandro Manzoni e per tutto il Romanticismo europeo.

IV

Una stanza tutta per lei

Per lungo tempo Jane Austen fu considerata una buona scrittrice, ma niente di più. C’era stata una prima forte presa di posizione di Virginia Woolf, consapevole del fatto che una donna, una scrittrice, dovesse avere una stanza tutta per sé e che Jane Austen era una grande scrittrice che quella stanza, a suo maggior merito, aveva potuto averla solo in parte. Comunque tutto cambiò a partire dall’autorevolissimo saggio sulla «grande tradi­ zione del romanzo inglese» di F.R. Leavis, che nell’im­ mediato secondo dopoguerra fu la voce più ascoltata e rispettata degli studi letterari inglesi. In pratica Leavis faceva partire la «grande tradizione» proprio da Jane Austen, collocando le sue opere al vertice del romanzo inglese. Un’ulteriore spinta alla sua canonizzazione venne dalla critica femminista, anche se Jane Austen, nella sua visione della condizione della donna, era lontanis­ sima dalle posizioni da essa espresse. «Chi sposerà la nostra eroina?» Questa è la domanda che sta alla base dei suoi romanzi. (Jane Austen non si sposò mai: rifiutò una proposta di matrimonio quando aveva ventisette anni – ma non si sa perché – e morì zitella, la condizio­ ­43

ne che nella sua opera narrativa è indicata come quella assolutamente da evitare.) Le sue eroine sono giovani donne intelligenti, graziose, modestamente eleganti, ri­ spettosissime dello statu quo in ogni ambito, sociale e privato. E quando Emma, la protagonista del romanzo eponimo, che è decisamente ricca, sposa Mr Knightley, tutto il suo denaro diventa proprietà del marito: perché è così che prevedono le leggi e il costume. E quindi è così che è giusto che sia. Spesso si fa notare come «piccole» siano le vicende narrate nei romanzi di Jane Austen. Piccole, ma rac­ contate con l’eleganza linguistica, la padronanza com­ positiva, la capacità di creare personaggi di affascinante verità che sono proprie del grande romanziere. La sua vita e la limitatezza delle sue esperienze non ci dicono molto sulle ragioni della sua grandezza, ma può comun­ que essere utile accennarne brevemente. Jane Austen (1775-1817) era la figlia di un reverendo anglicano, che fu anche il suo «precettore». L’ambiente famigliare in cui crebbe era sereno, gradevole, favorevole alla lettura e agli svaghi «innocenti». La giovanissima Jane, che ave­ va un rapporto molto affettuoso con fratelli e sorelle, si dedicava con entusiasmo alla scrittura; ma nascondeva il manoscritto a cui stava lavorando affinché nessuno lo vedesse fino a quando, una volta completato il raccon­ to, veniva poi letto ai famigliari. Quando la famiglia si spostò a Bath, luogo termale di consolidata mondani­ tà, Austen non si trovò particolarmente a proprio agio; come ancor meno si sarebbe trovata a proprio agio a Londra, dove si recò fuggevolmente in poche occa­ sioni. L’ambiente che le si confaceva era quello della campagna inglese, dello Hampshire soprattutto, dove i rapporti sociali, le occasioni di incontro, gli inviti e i balli, il ritmo della vita quotidiana, erano quelli dettati ­44

dalle convenzioni e dai valori del settore sociale in essa dominante, quello della gentry, la classe dei grandi pro­ prietari terrieri. Nel Settecento il ruolo politico e sociale di questa classe era stato di grandissimo rilievo. Tuttavia verso la fine del secolo, quando Austen incominciò a scrivere i suoi romanzi, la rivoluzione industriale, con la creazio­ ne di nuove grandi ricchezze collocate nelle città e non nelle campagne, aveva indebolito il peso specifico della gentry grazie all’emergere di un settore sociale legato all’industria e ai commerci altrettanto ricco e altrettan­ to influente. In molti casi la gentry si accinse perciò ad accogliere codici di comportamento e valori propri del ricco ceto urbano nel momento stesso in cui ne acco­ glieva le ricchezze tramite il matrimonio. Austen coglie con prontezza questa trasformazione e si fa promotrice dei valori «rurali» di una classe socia­ le il cui modo di vivere era considerato l’incarnazione dell’essenza stessa della società inglese. E invita la gentry a continuare ad essere «ciò che era sempre stata» e di attenersi saldamente ai propri principi e alle proprie convenzioni sociali. Tanto più che quelle convenzioni, quell’insieme di norme non scritte che ne regolavano i «costumi», erano uno strumento di grande importanza per assicurare alla gentry il rispetto e il consenso di tutta la società inglese, in particolare di quei settori sociali che le erano inferiori. I suoi romanzi parlano di corteg­ giamenti e di matrimoni; ma questo è il tema che sta alla base di tutto. Jane Austen era guidata da un profondo senso mo­ rale e da un senso del dovere (da etica protestante) che, in certi casi, voleva dire confrontarsi con la propria co­ scienza senza alcuna indulgenza verso di sé. Le sue con­ vinzioni etiche non sono affidate alla voce del narratore, ­45

ma al comportamento e alle riflessioni dei personaggi, al modo in cui affrontano le difficoltà che si trovano di fronte e al modo in cui lasciano cadere i loro commenti sui piccoli contrattempi, sulle grane di poco conto, sulla vita quotidiana dei loro parenti e conoscenti. Al centro dei romanzi di Jane Austen c’è il matrimo­ nio. L’eroina, in genere, ha un corteggiatore «giusto» e un corteggiatore «sbagliato», uno cioè che decisamente non fa per lei. La Elizabeth Bennett di Pride and Prejudice deve decidere se accettare la proposta dell’insignifi­ cante Collins (sistemando se stessa e l’intero patrimonio famigliare), o dimenticare le prime impressioni negative e accettare la corte dell’affascinante Darcy. Emma deve scegliere tra il brillante Frank Churchill e il non più gio­ vanissimo (e un po’ opaco) Mr Knightley. La Marianne di Sense and Sensibility deve decidere se lasciarsi in­ cantare dal travolgente Willoughby o se invece abban­ donarsi alla sicurezza che le offre il posato Colonnello Brandon (anche lui privo del fascino della gioventù). L’amore, che pure è condizione necessaria e indi­ spensabile, deve fare i conti con la realtà. Il romantico trasporto amoroso non può essere il fattore decisivo, perché il futuro sposo deve meritare la stima della fan­ ciulla e deve essere in grado di garantirle la sicurezza economica. Due cuori e una capanna è un modo di dire che Jane Austen avrebbe ritenuto infondato e perico­ losamente ingannevole. Le era chiarissimo quale fosse la condizione della donna nella società dell’epoca, e in particolare nell’ambiente sociale in cui sono ambientati i suoi romanzi. Per esperienza personale sapeva bene che una buona dote era indispensabile per contrarre un buon matrimonio; e che al di fuori del matrimonio una donna aveva pochissime possibilità di realizzarsi. An­ che la possibilità di diventare una scrittrice, ad esempio ­46

nel suo caso, era comunque stata resa percorribile solo grazie ai solidi rapporti famigliari, in particolare con il fratello, che le avevano offerto le condizioni materiali per potersi dedicare alla scrittura. I due romanzi in cui Jane Austen espone in modo più evidente la sua ricetta su come giungere a un feli­ ce matrimonio (perché, sia chiaro, è solo il suono delle campane nuziali che può sancire lo happy ending della storia narrata) sono Sense and Sensibility («Ragione e sentimento», 1812) e Pride and Prejudice («Orgoglio e pregiudizio»), scritto in una prima versione nel 1796 e pubblicato nel 1813. Il primo contiene la dimostrazione di come non ci si debba abbandonare al romanticismo dei sentimenti e si debba invece esaminarli alla luce della ragione. Pride and Prejudice (il cui titolo nella prima versione era First Impressions) spiega come non si debba giudicare in base alle apparenze e non si debbano far prevalere emozioni e sentimenti come il pregiudizio e l’orgoglio (di cui sono in effetti colpevoli entrambi i protagonisti, sia Elizabeth, sia Darcy), se si vuole evitare di commettere clamorosi errori di valutazione. La cosa è ancora più grave quando, come nel caso in questione, sensazioni e sentimenti di quel genere vanno a intralciare, se non a soffocare, il più prezioso dei sentimenti, è cioè l’amore. Felicemente, alla fine l’amore trionferà e i due giovani si uniranno in un matrimonio basato non solo sull’amore, ma sul rispetto reciproco che si è andato affermando man mano che le circostanze – e la ragione – eliminavano il paraocchi del pregiudizio che impediva loro di vedersi per ciò che essi erano e non per ciò che erano apparsi l’uno all’altra in base alle loro «prime impressioni». Darcy è molto ricco, come Elizabeth ben sa e come l’autrice, dati alla mano, sottolinea: ma senza alcuna ­47

ironia, perché la sicurezza economica è di fondamenta­ le importanza per il matrimonio. E tuttavia, proprio a questo proposito, c’è uno splendido esempio di ironia nella prima frase del romanzo: «È una verità univer­ salmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba essere in cerca di moglie». L’ironia non è diretta all’affermazione in sé, ma al modo in cui la madre di Elizabeth, che ha ben cinque figlie con una dote modesta da sistemare, trasforma le sue attese e le sue speranze in un dato di fatto di indiscuti­ bile verità. L’ironia di Jane Austen, che è una delle doti maggiori della sua prosa (e che spesso sparisce negli adattamenti cinematografici e nelle versioni abbreviate dei libri per ragazze), corrisponde al tipo di ironia che verosimilmente veniva coltivato dai membri più bril­ lanti della gentry, quelli che le facevano da punto di riferimento. È l’ironia di chi critica gli eccessi, la man­ canza di misura, l’approssimazione, la superficialità di persone che comunque condividono gli stessi valori e principi. L’ironia di Jane Austen, a differenza di quella di un Fielding, è non solo più sommessa, ma, per co­ sì dire, più nascosta nella narrazione che non esibita in primo piano. Soprattutto è accuratamente mostrata come il frutto di un atteggiamento critico che riguarda i singoli personaggi, ma assolutamente non l’ambiente sociale a cui essi appartengono. Almeno altri due suoi romanzi meritano di essere ricordati. Il primo è Mansfield Park (1814), che ci rivela come le ricchezze della gentry non solo discendessero dal reddito fornito dalle terre ereditate dai lontani an­ tenati, ma, talvolta, anche dalle piantagioni caraibiche coltivate dagli schiavi (nessun commento da parte di Jane Austen: la schiavitù non era ancora stata aboli­ ta). E che costituisce inoltre una sorta di «manifesto» ­48

dell’autrice: l’eroina, Fanny Price, è convinta, e vuo­ le convincere gli altri, della necessità di tenere fermi i comportamenti (e cioè i valori da cui discendono) che caratterizzano la classe sociale a cui appartiene – sebbene in posizione periferica, data la sua condizione di parente povera. Molto ricca, oltre ad essere bella e intelligente, è invece l’eponima eroina di Emma, un personaggio complesso, ricco di sfaccettature, ritratto da Austen quasi con una sorta di partecipazione affet­ tuosa. Nel ritrarla, Austen ottiene il risultato più ma­ turo sia per quanto riguarda la sottigliezza con cui le contraddizioni del personaggio giungono a soluzione, sia per come la tecnica del libero discorso indiretto a cui esse sono affidate si coniuga perfettamente con il ruolo registico del narratore onnisciente. Le eroine di Jane Austen, attraverso le «piccole» vicende che le coinvolgono, seguono un evidente per­ corso di crescita e di sviluppo della loro personalità (fermo restando che deve sempre essere così per il pro­ tagonista del romanzo moderno: al contrario di quanto accade nel cosiddetto romanzo di prova ellenistico, o in quello «rosa», o in quello western, o in quello fan­ tasy, in cui l’eroe è uguale a se stesso dall’inizio alla fine delle sue avventure, non modificato da esse perché è dato sin da subito e una volta per sempre – e infatti questi non sono romanzi). È uno sviluppo che scatu­ risce dall’analisi, spesso difficile, a volte dolorosa, dei loro sentimenti, del modo in cui essi stanno in rapporto con i loro desideri, le loro aspirazioni, le loro speranze e le loro delusioni. I sentimenti, in genere, hanno a che fare con l’amore; le aspirazioni con il matrimonio. Il tutto in un ambiente ristretto e molto lontano da noi, in un periodo storico cruciale per la storia dell’Inghilterra, alle prese con la ­49

Rivoluzione francese prima e le guerre napoleoniche poi – di cui nulla traspare nei romanzi. I lettori (in par­ ticolare le lettrici) di oggi continuano però a trovare nelle riflessioni delle eroine di Jane Austen, e nelle loro considerazioni sull’amore per l’uomo che sposeranno e sugli errori commessi nel valutare i suoi sentimenti, qualcosa che tuttora parla alla loro esperienza. In quanto all’assenza della storia, possiamo dire che in effetti alle donne che appartenevano al mondo dei suoi romanzi quei grandiosi eventi storici poco o nulla erano presenti e non toccavano quindi la loro esperien­ za e quel loro esame di sé che «parla» al lettore di oggi. Riguardo alla limitatezza dell’ambiente, c’è da dire che Jane Austen, radicando le sue storie nella realtà che co­ nosceva così bene, compie con maestria l’operazione che solo i grandi scrittori sanno realizzare: l’ambienta­ zione nella sua epoca scavalca il passare del tempo e ciò che è locale assume un valore universale. «Con maestria». Ma in che cosa consiste la maestria di Jane Austen? Innanzitutto, vale la pena ripeterlo, nel­ la sua sottile e delicata ironia e nella limpidezza delle sue convinzioni morali, che le consentono, attraverso le riflessioni delle sue eroine, di suggerire come la vita do­ vrebbe essere vissuta. E poi nella purezza e nella preci­ sione della sua prosa: nell’accuratezza, ad esempio, con cui la scelta di un vocabolo meno ovvio di quello che ci si poteva aspettare non corrisponde a una raffinatezza lin­ guistica, ma contiene un’indicazione di giudizio. E, in­ fine, la sua maestria sta nella fenomenale sicurezza della sua tecnica narrativa, nella capacità di tessere il racconto delle vicende dei suoi personaggi in una tela di mirabile equilibrio, con i colori più accesi e quelli più tenui, con gli arabeschi più ampi e quelli più minuti, tutti insieme coordinati a offrire un’immagine di solare armonia. ­50

L’eroina di Northanger Abbey, il romanzo di Jane Austen scritto nel 1803 ma pubblicato postumo nel 1818, è una giovinetta che vive (e fantastica) sotto la pericolosa influenza delle letture di romanzi gotici, un genere che Austen riteneva letterariamente scadente. E tuttavia fu una donna (di nuovo una donna scrit­ trice, come spesso accadrà nell’Ottocento inglese, co­ sa tanto notevole quanto poco comune altrove), Ma­ ry Shelley (1797-1851), a pubblicare in quello stesso 1818 il romanzo gotico che possiamo considerare il capolavoro del genere, Frankenstein, or the Modern Prometheus. La storia raccontata nel libro di Mary Shelley è stata a più riprese rivisitata dal cinema e dalla letteratura ed è diventata, a suo modo, uno dei punti fermi dell’eredità culturale dell’Occidente. Franken­ stein, contrariamente a quanto pensano molti che non hanno letto il libro ma ne conoscono l’argomento, non è il mostro, bensì lo scienziato che, sfidando le leggi della natura e di Dio (per questa ragione moderno Prometeo), dà vita a una grottesca creatura, dotata di una forza sovrumana. La svolta decisiva ha luogo quando Frankenstein ac­ cetta, seppure a malincuore, di fornire una compagna al mostro, il quale vorrebbe poter amare ed essere amato. Ma subito si pente e la elimina, suscitando così l’odio della «creatura», che poi ucciderà la sposa di Franken­ stein la notte stessa delle nozze. Il creatore, sconvolto dal dolore fino alla pazzia, decide di uccidere la sua pericolosissima creatura. La caccia al mostro si conclu­ de nelle regioni artiche, dove Frankenstein troverà la morte, mentre la creatura sparirà tra i ghiacci. Quando scrisse questa storia «sovrannaturale» (ma se vogliamo anche fantascientifica) Mary Shelley aveva diciotto anni: si trovava in una bella villa sul lago di ­51

Ginevra, insieme al poeta Percy Bysshe Shelley – che aveva abbandonato la moglie incinta per fuggire con lei – e a Lord Byron. Fu quest’ultimo, visto che il tem­ po piovosissimo li costringeva a stare chiusi in casa, a proporre una gara tra loro e il loro amico John Polidori: per passare il tempo avrebbero dovuto cimentarsi nel­ la scrittura di un racconto gotico. Polidori scrisse una prima versione della storia di Dracula. La diciottenne Mary (in una stanza per l’occasione tutta per sé) scrisse il suo capolavoro, che probabilmente deve all’atmosfera romantica in cui viveva la sua caratteristica di sfida alle leggi divine. Ma l’invenzione è tutta sua: un lampo di genialità letteraria che tuttora continua a risplendere di fulgida luce.

V

Il romanzo vittoriano, parte prima: Dickens, Thackeray e le sorelle Brontë

«Vittoriano» è una parola chiave negli studi inglesi. Vit­ toriano, innanzitutto, è il periodo legato al regno della regina Vittoria, che salì al trono nel 1837 e vi restò fino al 1901, anno della sua morte. Vittoriano, inoltre, è il periodo della fase di massima espansione coloniale britannica e di grandioso sviluppo dell’industria pesante. Carbone, ferro e acciaio a fare più ricca l’Inghilterra. E più tumultuosa l’urbanizzazio­ ne, più selvaggia la devastazione del territorio nelle zo­ ne minerarie, più disumane le condizioni di lavoro delle masse operaie, che soltanto a partire dal 1871 trovarono nelle Trade Unions, i sindacati di categoria uniti in un unico organismo, finalmente riconosciuto sul piano le­ gale, lo strumento capace di fare introdurre una serie di leggi riformatrici che eliminassero almeno gli aspetti più feroci dei rapporti di lavoro. Vittoriano è poi il periodo coincidente con il trion­ fo della borghesia, che però vide anche la concessione dell’allargamento del diritto di voto, una prima volta nel 1867, una seconda nel 1884. Alle donne tuttavia il diritto di voto era negato: una donna poteva regna­ re, ma votare no. A nulla valsero le lotte, i sacrifici, le ­53

umiliazioni subite da parte delle donne organizzate nel movimento delle Suffragette: il voto fu loro concesso soltanto dopo la fine della prima guerra mondiale. La donna, decretava la società borghese vittoriana, doveva essere «l’angelo del focolare», in sintonia con un’idea di correttezza morale e comportamentale che escludeva ogni riferimento alla sessualità. D’altronde, se si dice ironicamente che i tavoli dovevano essere coperti da grandi tovaglie che scendevano fino al pavimento affin­ ché non se ne vedessero le gambe, si capisce che il rife­ rimento, l’immagine, l’allusione al sesso, agli occhi della classe dominante doveva essere rigorosamente bandito. Vittoriano, infine, è il romanzo prodotto nel lungo periodo coincidente con il regno della regina Vittoria. Il romanzo vittoriano può essere definito come la voce critica della società britannica dell’Ottocento. I roman­ zieri di maggior rilievo e valore non sono dei fedeli can­ tori dell’esistente e del potere, ma danno voce alle forze del cambiamento. L’autore, in dialogo diretto con il let­ tore – e in dialogo indiretto con le istituzioni – assume il ruolo sociale che corrisponde alla funzione morale che il romanzo si propone di avere. La logica conseguenza sul piano narrativo è che quindi ci si trova di fronte a un narratore onnisciente, che fa agire e guida nella vicenda i suoi personaggi come se fosse Dio (in effetti è lui che li ha creati), li giudica, li premia, li punisce, en­ tra nella loro mente e nel loro cuore. E poi si rivolge al lettore interrompendo la narrazione per presentargli le sue osservazioni e le sue riflessioni, talvolta complesse, talvolta sofisticate, talvolta di semplice buon senso. I romanzieri si rivolgevano a un pubblico che man mano divenne sempre più vasto, in parte perché le inno­ vazioni tecniche riguardanti la produzione della carta e le macchine tipografiche abbassarono il costo dei libri; ­54

in parte perché si sviluppò il sistema delle circulating libraries. Queste erano delle biblioteche private che ga­ rantivano all’editore l’acquisto di un certo numero di copie, che venivano poi date in prestito ai lettori dietro pagamento di una modesta somma. Il costo da pagare era quello della censura implicita: le biblioteche chiede­ vano agli editori di pubblicare libri che la sera il capo­ famiglia potesse leggere ad alta voce in salotto alle figlie senza incappare in frasi che potessero turbarle. Una novità altrettanto importante fu quella della pubblicazione a puntate sui periodici, in genere con cadenza mensile e in venti puntate. Il romanziere aveva così il vantaggio di poter modificare in parte la storia, o almeno certi suoi aspetti, in base alle eventuali reazioni negative o comunque incerte dei lettori; e anche quello di organizzare la vicenda in modo da concludere ogni puntata con una situazione di relativa suspense, solleci­ tando la curiosità del lettore su quanto sarebbe accadu­ to dopo, nella successiva puntata. Se, come dice anche un raffinato teorico come Bachtin, sta nella natura stes­ sa del romanzo che il lettore venga mosso dal desiderio di sapere «come andrà a finire», nel nostro caso questo desiderio veniva creato e soddisfatto venti volte. Questo meccanismo poteva determinare una certa ar­ tificiosità nella costruzione della vicenda romanzesca. Ma i grandi romanzieri, come Dickens (che spesso pubblicò i suoi romanzi con cadenza settimanale), sapevano invece come sfruttare lo schema adattandolo allo sviluppo della storia che avevano immaginato. I romanzi pubblicati a puntate potevano poi essere riproposti in volume; spesso nei tre volumi canonici che costituivano il formato più frequente, in un’epoca in cui, senza radio, senza cinema, senza televisione, senza l’immersione nella realtà virtuale dei cellulari, il tempo da dedicare alla lettura era enor­ ­55

memente maggiore di quello attuale. E molto maggiore, soprattutto, era la forza della parola scritta, che non do­ veva competere con la forza dell’immagine. Charles Dickens (1812-1870), il romanziere inglese in cui la forza della parola seppe dispiegarsi con maggio­ re potenza, scrisse i suoi romanzi nella convinzione che le storie che raccontava potessero illuminare il lettore e fargli capire quali erano i mali presenti nella società a cui apparteneva; e che potessero contenere la richiesta del cambiamento e giungere all’attenzione dei gover­ nanti affinché intervenissero a sanare le situazioni più inaccettabili (e spesso ci riuscì). La città di Londra fa da sfondo – e a un certo punto diventa quasi coprotagonista – di quasi tutti i suoi romanzi. In quegli anni la capitale inglese continuò a crescere smisuratamente, affollando­ si di decine di migliaia di disperati costretti a vivere in condizioni disumane: come bestie, per l’appunto, che percorrevano le strade della capitale ridotte, al di fuori dei quartieri eleganti, a fogne a cielo aperto. I bambini morivano non solo per denutrizione, ma per la diffusio­ ne micidiale delle malattie favorita dall’assenza assoluta di igiene – e di fogne. Non è azzardato pensare che la co­ struzione del sistema fognario di Londra, che ebbe ini­ zio nel 1858, sia stato in qualche misura promosso dalle parole con cui Dickens nei suoi romanzi denunciava la gravità e le conseguenze, in particolare per i bambini, della situazione esistente, con la quantità di immondizie, sterco e feci umane che ricoprivano le strade. Molte furono le battaglie di cui Charles Dickens si fece promotore, basandosi sulla sua esperienza diretta e sulla sua capacità di «vedere» la realtà del suo tempo. Figlio di un impiegato finito in prigione per debiti, a undici anni andò a lavorare in una fabbrica infestata dai ­56

topi dove incollava etichette su vasetti di lucido, per una paga di sei scellini la settimana. Non poté andare rego­ larmente a scuola; e in ogni caso smise del tutto di an­ darvi a quindici anni. Alla vergogna per la condanna del padre (una ferita mai del tutto rimarginata), si aggiun­ geva la vergogna per l’assenza di una buona formazione scolastica. Cosa, quest’ultima, che gli fu spesso rimpro­ verata. Dickens, prodigiosamente, si istruì da sé. Trovò lavoro in un ufficio di avvocati, imparò perfettamente a stenografare e divenne corrispondente parlamentare del Morning Chronicle. A quel punto, ancora giovanis­ simo, incominciò a scrivere brevi raccontini per diversi giornali, che furono poi raccolti in volume, con il titolo Sketches by Boz, nel 1836. In quello stesso anno Dickens sposò Catherine Hogarth, la primogenita del suo edi­ tore, e incominciò a scrivere i primi episodi di quello che diventò The Pickwick Papers («Il Circolo Pickwick», marzo 1836-ottobre 1837), pubblicato a puntate con le illustrazioni (questa era la cosa più importante per l’e­ ditore) del disegnatore Robert Seymour. La svolta ebbe luogo con la comparsa nel capitolo X, verso la fine della quarta puntata, del personaggio di Sam Weller, il servi­ tore di Pickwick, efficiente, astuto e spiritoso, che incon­ trò uno strepitoso favore di pubblico con le sue battute brillanti e la sua parlata cockney. Da quel momento le avventure di Pickwick e dei tre soci del suo Circolo si muovono nella direzione della forma romanzesca. E dal momento in cui la padrona di casa di Pickwick lo denun­ cia per non aver mantenuto la sua formale promessa di matrimonio (cosa del tutto inventata dalla donna) The Pickwick Papers assume infine il carattere di romanzo. La vicenda si svolge in un recente passato, in un’In­ ghilterra che però è ancora quella delle diligenze e delle locande, di una campagna non ancora colpita dalle radi­ ­57

cali trasformazioni della seconda rivoluzione industria­ le, con le «strade ferrate» e i treni che ne mutarono il volto (come Dickens mostrerà poi in un successivo ro­ manzo, Dombey and Son, pubblicato nel 1848). Londra, invece, è già la metropoli feroce che Dickens ritrarrà nei successivi romanzi, con il contrasto tra i viali e i palazzi dei quartieri borghesi e le stradine degli slums dove i poveri vivevano in condizioni miserande. Per il momen­ to c’è soltanto un’anticipazione (e tuttavia significativa) del ritratto indignato che Dickens offrirà in seguito. Il tono dei Pickwick Papers è dato dallo humour spensie­ rato e dall’atteggiamento ironico con cui Dickens ritrae i suoi personaggi, dallo sguardo divertito con cui ven­ gono osservate le debolezze delle figure positive e dal taglio satirico riservato a quelle negative. Uno dei motivi fondamentali del successo di Dickens stava nel fatto che «faceva ridere». E tuttavia, grazie alla genialità della sua invenzione narrativa, subito dopo, in­ vece di proseguire su quella strada, si lanciò nella crea­ zione di una storia che «faceva piangere». Oliver Twist, pubblicato a puntate dal febbraio 1837 all’aprile 1839, fece registrare un successo altrettanto grande. La storia di Oliver, il giovane eroe del romanzo, che nel Novecen­ to il cinema, la televisione, il musical hanno reso ancora più popolare di quanto già non fosse nell’Ottocento, è caratterizzata da una serie di clamorose coincidenze e colpi di scena che costituiranno la formula narrati­ va usata da Dickens in tutte le opere successive. Oliver Twist è anche il romanzo in cui più forte e radicale è la critica alla società inglese e alle sue istituzioni. Le avven­ ture e sventure di Oliver, soprattutto da quando viene reclutato a forza nella banda di giovanissimi ladruncoli istruita e controllata dal cinico e spregevole vecchio Fa­ gin, da un lato commuovevano i lettori fino alle lacrime; ­58

dall’altro consentivano a Dickens di sferrare un durissi­ mo attacco alla legge (la Poor Law del 1834) con cui si era «provveduto» ad affrontare le condizioni di povertà (le sventure di Oliver hanno inizio e proseguono per un bel tratto a causa dei soprusi dei responsabili dell’ospi­ zio in cui era stato sistemato). Graham Greene definì Oliver Twist un romanzo manicheo: in cui però, come leggiamo nella Prefazione, è la bontà che sopravvive ad ogni circostanza avversa e che alla fine trionfa. Nei romanzi successivi la formula rimase quella, ma la sua geniale capacità di invenzione narrativa gli sugge­ rì un nuovo cambiamento di forma romanzesca. David Copperfield (1849-50) e Great Expectations («Grandi speranze», 1860-61) sono due esempi di Bildungsroman in cui Dickens rinuncia al narratore onnisciente per passare al racconto in prima persona: sono due «ro­ manzi autobiografici» in cui il protagonista molto deve all’esperienza di vita dell’autore – e grazie ai quali il let­ tore può conoscerlo davvero, meglio di quanto possano consentirgli le tante biografie a lui dedicate. La formula, si diceva, resta la stessa, ma Dickens lega più saldamente i singoli episodi e le digressioni stesse al nucleo centrale della storia, affidandone il «messaggio» al succedersi degli avvenimenti e alle riflessioni dell’io narrante. Sarà poi il lettore, se vorrà, a trarre le sue con­ clusioni in base alle vicissitudini di David Copperfield o del Pip di Great Expectations. Per molti aspetti Cop­ perfield è davvero Dickens: per l’infanzia difficile, per le caratteristiche della sua educazione sentimentale, per la sua scelta di diventare uno scrittore. Ma il fascino del romanzo sta soprattutto nel rapporto tra David e i riuscitissimi e melodrammatici personaggi del roman­ zo, su tutti quello dell’irresistibile Wilkins Micawber, in parte modellato sulla figura del padre di Dickens, la cui ­59

esuberanza verbale ne fa una figura da solare commedia pur all’interno di un contesto in fondo drammatico. Il Pip di Great Expectations è un anomalo «nostro eroe», il cui destino è forgiato da circostanze melodram­ matiche e da casualità del tutto impreviste, a volte non lontane da quelle tipiche del romanzo gotico. D’altron­ de il realista Dickens sapeva muoversi con formidabile maestria anche nell’ambito del mistero e del sovranna­ turale – come dimostra The Signalman («Il segnalatore», 1866), uno dei racconti più belli di tutta la letteratura inglese. L’aspetto comico, cosa che in parte gli veniva rimproverata dai suoi lettori, desiderosi di immergersi in altre pagine alla Pickwick Papers, in questi romanzi è meno presente. Non è un caso che in un primo tempo Dickens pensasse a non concludere Great Expectations con il tradizionale happy ending. Poi, ascoltando il pare­ re del romanziere Bulwer-Lytton, che gli consigliava di non deludere i suoi lettori, ripiegò sul lieto fine. Forse non li avrebbe delusi comunque, tanto erano affascinati dalla sua «macchina narrativa». La cosa straordinaria è che Dickens si rivolgeva a un pubblico di bravi borghe­ si, preoccupati dai continui cambiamenti che potevano minacciare la loro posizione sociale ed economica, sicu­ ramente sospettosi, se non contrari, rispetto alle richie­ ste di riforma che discendevano dalle vicende narrate. Eppure il ritmo travolgente con cui venivano raccontate le vicissitudini dei personaggi e l’esuberanza narrativa di Dickens trascinavano con sé il lettore, al punto da indurlo a seguirlo nelle sue implicite rivendicazioni. L’elemento autobiografico è presente anche in Little Dorrit («La piccola Dorrit», 1855-57), dove a fare da coprotagonista è il carcere londinese di Marshalsea de­ stinato ai debitori in cui era stato imprigionato il padre di Dickens. Questo è uno dei romanzi in cui il mec­ ­60

canismo della pubblicazione a puntate è sfruttato con maggiore efficacia per tenere sulla corda il lettore. Ma è anche uno di quelli più determinati nel denunciare la crudeltà dei rapporti economici che schiacciavano gli abitanti meno fortunati della capitale. Così come duro ed esplicito nella denuncia del sistema legale britannico era stato il precedente Bleak House («Casa desolata», 1852-53), il romanzo che – altra geniale invenzione nar­ rativa di Dickens, come fa notare John Sutherland – ospita inoltre il primo detective della letteratura inglese. In questi romanzi le miserabili condizioni di vita degli abitanti degli slums londinesi hanno un rilievo decisivo. Forse ancora di più in Our Mutual Friend («Il nostro co­ mune amico», 1864-65), dove Londra è davvero la città in cui «Dio è assente». O meglio, dove Dio è il denaro, l’unico valore riconosciuto in una società permeata dai principi di un materialismo totalizzante. Londra diventa un luogo di ombre, di inganni, di tenebra. Il linguaggio stesso con cui Dickens la descrive, al di là della precisio­ ne dei dettagli topografici, presenta un tono di mistero e di irrealtà. Per ritrarre nella sua essenza la vita reale, il linguaggio del realismo non gli appare più sufficiente. Nei suoi ultimi romanzi Dickens si affida sempre più alla forza dei simboli: in Our Mutual Friend il Tamigi, ad esempio, è il simbolo dominante, con quelle sue acque che durante la bassa marea trascinano via le sporcizie e i rifiuti della città (i suoi misfatti) e che consentono una «nuova nascita» al protagonista del romanzo. L’attenzione ai mali della società e l’amarezza della visione non impedirono tuttavia a Dickens di esercitare il suo talento comico, tant’è vero che in Little Dorrit troviamo alcune delle sue invenzioni umoristiche più brillanti. La coesistenza dei due registri è decisiva nel romanzo da cui mosse la rivalutazione critica di Di­ ­61

ckens nel secondo Novecento, Hard Times («Tempi difficili», 1854), un industrial novel che denuncia la fe­ roce organizzazione del lavoro e l’avidità dei capitalisti, trovando invece parole di simpatia e di compassione per i lavoratori (ma non per i sindacati). Il «cattivo» del romanzo è l’industriale Bounderby, che tratta i suoi operai in modo disumano e che si è costruito una falsa identità di self-made man per meglio esercitare la sua autorità. Il commerciante Gradgrind, che ha educato i suoi figli senza dare il minimo spazio alla fantasia («fatti, fatti, fatti» è il suo motto), in pra­ tica costringe la figlia Louisa a sposare l’arido e odioso Bounderby. Naturalmente ne deriva un matrimonio in­ felice, che consente a Dickens di collegare il tema so­ ciale a quello ideologico. I «fatti» esaltati da Gradgrind erano per lui il sinonimo di quella sterile visione della vita che associava sul piano filosofico all’Utilitarismo e sul piano sociale all’aridità spietata dei rapporti umani. Non c’è spazio per la fantasia e per l’immaginazione nel mondo della fabbrica e dello sfruttamento. E così Dickens trova loro uno spazio nel mondo del circo e dei suoi abitanti, tra cui spicca la piccola Cissy Jupe che Gradgrind aveva adottato. Sarà poi Cissy a «salvare» i due figli di Gradgrind, sia Louisa, sia Tom, con un finale consolatorio non lon­ tano da quello delle fiabe, ma a cui Dickens «doveva» tuttavia ricorrere a sostegno della sua tesi. Il lieto fine, però, giungeva dopo l’accusa, durissima e comica al tempo stesso, sia contro i metodi di insegnamento, che non davano spazio alla fantasia, sia contro la spietatez­ za dei rapporti sociali e lavorativi, che dei diritti della fantasia erano la negazione: denuncia e comicità per meglio parlare a tutti, come Chaplin in Tempi moderni. Quello di Dickens era un messaggio di speranza, anche ­62

perché era convinto della bontà, in fondo in fondo, de­ gli esseri umani. È per questa ragione che in Christmas Carol («Canto di Natale», 1843), l’avarissimo Scrooge, vecchio senza cuore, alla fine si trasforma e diventa un uomo buono e generoso. Nel suo caso perché siamo a Natale; ma una simile «illuminazione» la troviamo spes­ so nell’opera di Dickens, quando costruisce la storia in modo che una qualche circostanza tocchi il cuore del suo personaggio. Così come si proponeva di toccare il cuore dei lettori – e magari anche delle istituzioni. Moltissimi sono gli scrittori che hanno riconosciuto il loro debito nei confronti di Dickens, in particolare per la sua capacità di creare un grandioso affresco della società del suo tempo, pieno di personaggi e di figu­ re di affascinante vitalità. Non si tratta soltanto di una questione di tecnica narrativa. Quando leggiamo i suoi romanzi ci troviamo di fronte alle mille sfaccettature della vita, alle sue (poche) gioie e alle sue sofferenze. Ci troviamo di fronte alla complessità dell’esistenza, con i suoi aspetti nascosti, i suoi desideri inespressi, le sue rinunce segrete; e con l’eterno problema di riconciliare ciò che siamo con ciò che desidereremmo essere. A un certo punto sembrò che un altro romanziere, William Makepeace Thackeray (1811-1863), potesse superare Dickens per vendite e popolarità. Un roman­ ziere dal taglio molto diverso, che definiva i suoi testi come una conversazione confidenziale tra scrittore e lettore, alla maniera di autori come Fielding e Ster­ ne. E in effetti il suo romanzo storico The History of Henry Esmond (1852) sembra scritto da un autore del Settecento che parla del recente passato; così come è «settecentesco» il romanzo picaresco The Luck of Barry Lindon («Le memorie di Barry Lindon», 1844). Il suo ­63

tratto distintivo era uno humour sferzante e beffardo, come evidenziano i suoi «pezzi» pubblicati sulla rivista Punch nel 1846 e 1847 e poi raccolti nel delizioso Book of Snobs, che dispiegano una satira pungente del classi­ smo dominante nella società inglese. Questa caratteristica sta alla base del suo capolavoro, Vanity Fair («La fiera delle vanità», 1847-48). Al centro del romanzo stanno i destini incrociati di due donne, la dolce e mite Amelia e la sua amica Becky Sharp, orfana, povera, spregiudicata e socialmente ambiziosa. Becky, accolta in casa da Amelia, cerca di farsi sposare da Jos, il fratello di lei. Non ci riesce; ma poi, diventata una governante nella casa dei ricchi Crawley, seduce prima il capofamiglia, Sir Pitt, e dopo suo figlio Rawdon, che la sposa. Tuttavia la di lui zia, sua fonte di reddito, per l’indignazione gli taglia i viveri. Nel frattempo Amelia si è sposata con il vanesio ed egoista ufficiale George Osborne. Siamo nell’ultima fase delle guerre napoleo­ niche: l’azione si sposta a Bruxelles, dove George cor­ teggia un’assai disponibile Becky. Alla fine del capitolo XXIII leggiamo che Amelia prega per lui, non sapendo che il marito è morto sul campo di battaglia di Waterloo, non prima di aver proposto a Becky di fuggire con lui. Dopo molte difficoltà, psicologiche ed economiche, Amelia, che ovviamente nulla sa della tresca, riesce a risollevarsi grazie all’aiuto di William Dobbin, che è in­ namorato di lei. Intanto Becky passa da un’avventura sessual-finanziaria all’altra con alterni successi, ma alla fine, per sfuggire ai creditori, deve lasciare l’Inghilter­ ra. Ad aiutarla sarà Amelia e Becky, per ricompensarla, le svela la verità, liberandola dal ricordo idealizzato di George e consentendole così di sposare Dobbin. Becky, infine, dopo la morte del marito, riceve dal loro figlio (a condizione che non si faccia mai più vedere da lui) ­64

una sorta di pensione che le consentirà di vivere agia­ tamente. È questo stesso riassunto a chiarire perché l’eroina del romanzo è lei, versione femminile del picaro del romanzo settecentesco, e non la buona e dolce Amelia. (Sul fatto che l’eroina fosse lei non avevano il minimo dubbio gli spettatori del più famoso dei diversi adattamenti cinema­ tografici del romanzo, il primo film in Technicolor, girato nel 1935, che infatti era intitolato Becky Sharp – assai più «coraggioso» di quello girato da Mira Nair nel 2004.) Lo splendido affresco della società inglese offerto da Thackeray è caratterizzato dall’ironia e dallo scoramen­ to per lo stato di cose presente, accompagnati però dalla constatazione che il cinismo di quel mondo si traduce in un’indiscutibile vitalità, in un grandioso seppur prepo­ tente progresso. L’ironia è lo strumento fondamentale di Thackeray, ed è con essa che vengono delineati i limi­ ti e le debolezze di Amelia e Becky. Il lettore di oggi può vedere le due donne come le due facce complementari dell’immaginario maschile vittoriano, moglie e madre la prima, femmina dalla sessualità prorompente e do­ minante la seconda. Nei loro confronti Thackeray non prende posizione, come invece fa nei confronti dei per­ sonaggi dell’alta società, con i loro riti e i loro ridicoli valori dettati dalla vanità. Il narratore onnisciente, in particolare, non esprime un giudizio a proposito di Becky. Ma, senza che lui se ne renda conto, è la storia stessa che prende posizione al suo posto, in quanto la «premia», poiché Becky godrà i frutti della sua vita sessualmente spregiudicata. I fatti narrati, che centomila lettori seguivano avidamente di puntata in puntata, premiano il demone della sessualità: il capolavoro di Thackeray, che esplicitamente critica i materialistici valori della società vittoriana, implicita­ ­65

mente approva la negazione di uno dei valori su cui era basata la sua ipocrita «moralità». A Thackeray Charlotte Brontë (1816-1855) dedicò il suo capolavoro, Jane Eyre, un romanzo che nelle inten­ zioni dell’autrice forse prendeva esempio dal modo ma­ gistrale con cui «l’architetto» Thackeray aveva costruito l’edificio della vicenda di Vanity Fair; ma che sicuramen­ te non poco doveva alla tradizione del romanzo gotico. Charlotte era una delle tre sorelle Brontë, che nel giro di pochi anni regalarono alla letteratura inglese alcuni dei suoi romanzi più belli. Tutte le tre sorelle, figlie di un pastore anglicano di non molti mezzi ma di molti libri, diventarono governanti, uno dei pochi lavori dignitosi per una donna: è vero che la governante faceva parte della servitù, ma per via della sua istruzione poteva es­ sere trattata con un minimo di rispetto dai suoi padroni. Non sempre, tuttavia; mentre invece erano comunque frequenti le umiliazioni che una governante poteva tro­ varsi a subire. Sulla propria esperienza di lavoro Anne Brontë (1820-1849) basò il suo primo romanzo, Agnes Grey (1847), la cui protagonista è una governante che dal suo punto di osservazione guarda con occhio dura­ mente critico le convenzioni della borghesia vittoriana, presentata in tutto il suo egoismo, la sua ipocrisia e la sua meschina superficialità. È una governante pure l’eroina di Jane Eyre (roman­ zo pubblicato anch’esso nel 1847), che trova lavoro nella sinistra magione di Thornfield Hall. Si deve occupare della piccola Adèle Varens, che è la figlia illegittima di Edward Rochester, il padrone del maniero, una figura per certi versi altrettanto sinistra, che ha rinchiuso la mo­ glie completamente pazza nell’ultimo piano dell’edificio (non in una soffitta, come a volte capita di leggere). Jane ­66

non è bella, ma ha un suo fascino, e ad esso Rochester non è insensibile. Ma è lei, contro ogni convenzione, a dichiarargli il suo amore. Alla vigilia delle nozze, quando viene a sapere che Rochester ha tuttora una moglie, Jane rifiuta di sposarlo, lascia precipitosamente Thornfield Hall e quasi muore nella fuga. Viene soccorsa dal reve­ rendo St John Rivers, che l’accoglie in casa (dove abita con le sorelle) e che dopo qualche tempo le propone di sposarlo. Jane, dopo i molti dinieghi e le molte insistenze di lui, alla fine quasi sta per acconsentire; ma in quel frangente è come attraversata da una scarica elettrica e sente la voce di Rochester che la invoca. Diversi sono i momenti in cui in Jane Eyre sono re­ cepiti i topoi del romanzo gotico. In questo caso, però, il sovrannaturale non genera terrore, ma porta alla ri­ conciliazione. Jane, che nel frattempo ha ereditato dallo zio ed è economicamente indipendente, decide infatti di recarsi a Thornfield Hall ascoltando l’invocazione di Rochester. E lì scopre che nel tentativo di spegne­ re l’incendio appiccato dalla moglie (che si è suicidata) Rochester, gravemente ustionato, ha perso la vista e una mano. A quel punto Jane dichiara il suo amore per Ro­ chester e lo sposa («Lettore, lo sposai»). Il finale della storia è coerente con la figura di Jane, donna indipendente, padrona dei propri sentimenti e decisa nel rivelarli. Si potrebbe obiettare che sposa un uomo in quelle condizioni perché sa che non correrà alcun rischio di perderlo e che non potrà mai essere soggetta alla sua volontà, perché è lui che dipende da lei. L’obiezione, dato che siamo a metà Ottocento, lascia il tempo che trova. A Jane non sarebbe mai stato possi­ bile, se quelle non fossero state le circostanze, mantene­ re la propria piena indipendenza una volta che si fosse sposata, tanto più a un uomo come Rochester. ­67

Per il lettore dell’epoca l’aspetto più straordina­ rio – e controcorrente – del romanzo consisteva sen­ za dubbio nella coraggiosa affermazione di identità e di indipendenza femminile, quasi al limite della sfida, incarnata nel personaggio di Jane. Ma anche il lettore di oggi, se non si fa accecare dalla tendenza a leggere vicende e personaggi di secoli fa come se appartenesse­ ro al presente, può facilmente cogliere la modernità di Jane nella sua rivendicazione di dignità professionale e di autonomia personale. Nel suo terzo e ultimo romanzo, Villette (1853), am­ bientato a Bruxelles, Charlotte Brontë ci presenta una figura di donna in cui tali caratteristiche sono ancora più evidenti: la distanza dall’immagine dell’angelo del foco­ lare non potrebbe essere più grande. Anche in questo caso è d’importanza decisiva l’elemento autobiografico. Charlotte ed Emily, nel 1842, erano andate a Bruxelles a lavorare in un esclusivo collegio femminile per imparare il francese, cosa che, speravano, avrebbe facilitato il loro progetto di organizzare poi una loro scuola, in cui le tre sorelle sarebbero state le insegnanti. Una scuola moder­ na, agli antipodi di quella specie di carcere dove per un certo periodo avevano studiato (e dove erano morte le loro due sorelle maggiori), che divenne poi nella finzione la sadica scuola dove viene educata Jane Eyre. Presto, tuttavia, Emily tornò a casa. Charlotte restò a Bruxelles ancora un anno e si innamorò perdutamente del diretto­ re della scuola. Fu un amore infelice, che divenne poi il materiale narrativo di Villette, un romanzo di indiscuti­ bile valore letterario, per costruzione e per complessità di ritratto psicologico, che è colpevolmente sottovalutato. A proposito della condizione femminile Charlotte Brontë va decisamente controcorrente. Ma anche per quanto riguarda le condizioni del lavoro le sue posizio­ ­68

ni sono, seppur moderatamente, avanzate. Potremmo definirle riformatrici, come emerge dal suo secondo romanzo, Shirley (1848), ambientato nel periodo delle rivolte luddiste all’inizio dell’Ottocento. D’altronde le sorelle Brontë, che vivevano nel villaggio di Haworth, sui primi rilievi del territorio «selvaggio» dei Moors, la brughiera del North Yorkshire, sapevano bene che nelle vallate sottostanti c’erano le fabbriche i cui operai erano stati tra i più accesi sostenitori del radicale movi­ mento cartista. Lo sapevano grazie ai discorsi del padre, che (anche lui campione di anticonformismo) parlava alle figlie di problemi politici e sociali. Le tre giovani donne, i cui tre capolavori, Agnes Grey, Jane Eyre, Wuthering Heights, furono tutti pubblicati nel 1847 con lo pseudonimo maschile rispettivamente di Acton, Currer e Ellis Bell, sapevano benissimo che per una donna era difficile farsi accettare come scritto­ re (e furono comunque truffate da un delinquente di editore); ma con un nome maschile, grazie al loro co­ raggioso anticonformismo, nei loro romanzi offrirono ai lettori figure di donne che sbugiardavano il pregiudi­ zio e promuovevano una moderna idea di indipenden­ za femminile. In modo diretto, con le loro governanti, Anne e Charlotte. In modo indiretto, ma forse ancora più moderno per come rappresenta il rapporto tra uo­ mo e donna, la Emily Brontë (1818-1848) di Wuthering Heights («Cime tempestose»). Il romanzo, seppur fitto di echi romantici e di spunti legati alla tradizione gotica, è poi altrettanto moderno per tecnica narrativa. I romanzi di Anne e Charlotte utilizzavano l’io narrante. Wuthering Heights presenta invece una costruzione a più voci della vicenda, con diversi flashback e frequenti cambiamenti temporali. I narratori principali sono Mr Lockwood, un gentiluomo ­69

da poco trasferitosi nel North Yorkshire, non lontano dalla casa chiamata Wuthering Heights, un tempo pro­ prietà degli Earnshaw, e Mrs Dean, che degli Earnshaw era stata una domestica. Quando Lockwood, dopo ave­ re visto il fantasma di Cathy Earnshaw, si propone di ricostruirne la vicenda, sarà la donna a raccontargli i fatti di cui era stata testimone. Mr Earnshaw aveva adottato un orfanello di sei an­ ni, Heathcliff, che aveva trovato nelle strade di Liver­ pool. È più probabile che fosse un suo figlio illegittimo; oppure, data la pelle scura, il figlio di una zingara che l’aveva abbandonato. Su questo, nel romanzo niente ci viene detto. Molto ci viene raccontato, invece, del forte legame che si stabilisce nel corso degli anni tra Cathy Earnshaw e quel ragazzo irrequieto, vitalissimo, «sel­ vaggio» come la natura dei Moors. Giunta però all’età del matrimonio, Cathy gli aveva preferito il ricco e ras­ sicurante Mr Linton, proprietario di una bella casa nella vallata sottostante, dove la natura era dolce e benigna – e addomesticata dall’uomo, contrariamente a quella selvaggia di Wuthering Heights. Heathcliff, una sorta di eroe byroniano, furibondo per la scelta di Cathy, era scomparso; ma era tornato tre anni dopo, ricco e trasformato in un gentleman. Dove era stato, cosa aveva fatto, cosa lo aveva trasformato, non ci viene detto. Forse perché il silenzio, grazie al mistero, accresceva il fascino del personaggio; ma an­ che (soprattutto?) perché Emily Brontë, come suggeri­ sce Terry Eagleton, non aveva nessuna idea del mondo in cui Heathcliff avrebbe dovuto muoversi per tornare a Wuthering Heights così profondamente cambiato. Emily conosceva bene soltanto la realtà dei Moors e nella narrazione non si avventurava al di fuori di essa. Il proposito totalizzante di Heathcliff è quello di di­ ­70

struggere i Linton e gli Earnshaw, e la sua vendetta è diretta soprattutto contro Cathy, da lui accusata di tra­ dimento e costretta a passare i suoi giorni nell’angoscia per la sua scelta. Per la verità Linton si era rivelato un buon marito, mentre Heathcliff probabilmente sarebbe stato un marito autoritario. Questa considerazione na­ sce però dal ritratto che ne fa Mrs Dean, animata da un odio profondo nei confronti del «selvaggio» trovatello e incapace di capire l’intensità del legame che univa lui e Cathy. La passione di Heathcliff trova distorta espressione nella durezza con cui persegue la vendetta, sebbene il suo amore per Cathy rimanga fortissimo, anche dopo la morte di lei (a tal punto che Buñuel nella sua versio­ ne cinematografica del romanzo gli attribuisce caratte­ ri esplicitamente necrofili). Di fatto l’unico desiderio di Heathcliff è di unirsi a Cathy almeno nella morte; e non deve quindi sorprendere che alla fine del libro si legga che un ragazzo aveva visto insieme i fantasmi di Heathcliff e di una donna (che non poteva essere che Cathy) non lontano da Wuthering Heights. Se è vero che lui è l’incarnazione delle forze degli istinti «selvaggi» che albergano dentro di noi, è anche vero che la stessa Cathy in qualche misura ha condiviso la parte «selvaggia» di lui, al punto da esclamare, poco prima di morire, «Io sono Heathcliff». Il senso di libertà da convenzioni e obblighi e la forza della passione da lui incarnati erano stati condivisi da lei; e la loro soppres­ sione con il matrimonio era poi stata sentita da lei stessa, di fronte alle sue accuse feroci, come un tradimento. Di lui e di sé. In quella figura di donna Emily Brontë, in questo suo unico romanzo che è tra i maggiori di tutta la letteratura inglese, ha saputo concepire ciò che nel mondo vittoriano era inconcepibile. ­71

VI

Il romanzo vittoriano, parte seconda: Eliot, Trollope, Stevenson e Hardy

Le sorelle Brontë fecero ricorso a uno pseudonimo ma­ schile. Elizabeth Gaskell (1810-1865), amica di Char­ lotte Brontë, moglie di un sacerdote unitariano impe­ gnato socialmente, in un primo tempo pubblicò i suoi libri in modo anonimo. Prudenza quasi dovuta, dato che la denuncia delle condizioni di lavoro degli operai e delle condizioni di vita negli slums sorti intorno alle fabbriche era l’argomento di Mary Barton (1848) e di North and South (1854-55), i romanzi a cui è legata la sua fama di autrice di industrial novels. Tra l’uno e l’al­ tro, tuttavia, Gaskell aveva pubblicato sul periodico di Dickens «Household Words» le otto puntate del quasi idilliaco Cranford («Il paese delle nobili signore», 185153). Molti dei racconti e delle novelle che ne seguirono, con i loro personaggi di donne alle prese con le con­ venzioni e i pregiudizi dell’età vittoriana, la resero così protagonista di un’altra battaglia altrettanto meritevole di essere combattuta. Dopo Jane Austen, dunque, Elizabeth Gaskell e le sorelle Brontë: il romanzo inglese parlava al femminile. E continuò a farlo anche in seguito, soprattutto grazie ­72

a Mary Ann Evans (1819-1880), che alla pubblicazione del suo primo romanzo, Adam Bede (1859), adottò lo pseudonimo di George Eliot. Anch’essa in larga misura autodidatta, in precedenza aveva imparato il tedesco, era diventata traduttrice di testi filosofici (tra cui L’essenza del cristianesimo di Feuerbach), aveva collaborato alla radicale «Westminster Review» e, cosa per l’epoca davvero scandalosa, nel 1853 era andata a vivere con un uomo sposato, il critico George Henry Lewes. Su Dickens esprimeva un giudizio negativo, eppu­ re come lui affollava i propri romanzi di una grande varietà di tipi, di figure, di episodi, di avvenimenti: la differenza stava nell’attenzione dedicata alla psicologia dei personaggi e alla loro interiorità. Il maggior pre­ gio, la maggiore conquista narrativa della sua opera, sta nella capacità di indagare le spinte emotive, i pensieri nascosti, le ansie segrete e le motivazioni inespresse dei personaggi, presentandoli ai lettori in tutta la loro verità psicologica. Il romanzo di George Eliot che più ha appassio­ nato i lettori è The Mill on the Floss («Il mulino sulla Floss», 1860). Ne è protagonista Maggie Tulliver, la cui vivacità, intelligenza, spirito di indipendenza vengono sentiti, nel piccolo mondo provinciale in cui vive, co­ me colpe gravissime. Maggie è uno spirito ribelle e la condanna sociale nei suoi confronti diventa durissima e senza attenuanti quando accetta le proposte amorose del fidanzato della cugina e fugge con lui. La loro fuga è «innocente», ma la sua reputazione è compromessa senza rimedio, al punto che la giovane viene ripudiata dal suo amato fratello Tom. Nel corso di una devastan­ te inondazione Maggie corre al mulino per salvarlo. Il tentativo fallisce e i due vengono trascinati via insieme dalla corrente; ma prima di essere travolti dalle acque ­73

riescono almeno a ritrovare il senso di rispetto recipro­ co e il sentimento d’amore che un tempo li aveva pro­ fondamente legati. The Mill on the Floss, come quasi tutti i suoi roman­ zi, è ambientato nella provincia, in quella campagna inglese che George Eliot ritrae magistralmente esaltan­ done la bellezza del paesaggio; e con altrettanta par­ tecipazione vengono descritti i paesi e i piccoli centri rurali ancora legati a un’economia fondamentalmente agricola, sebbene già minati dagli effetti della rivolu­ zione industriale. Degli uomini e delle donne di quel piccolo mondo antico Eliot si fa rispettosa interprete, senza cadere mai in una loro idealizzazione e senza mai lasciarsi andare, come invece capitava a diversi scrittori vittoriani, ad atteggiamenti paternalistici. Nella provincia è ambientato anche il romanzo che è considerato il suo capolavoro, Middlemarch (1871-72), la cui vicenda si svolge negli anni della riforma elettora­ le del 1832. È importante tenere presente che il roman­ zo fu scritto subito dopo la successiva riforma elettorale del 1867: i personaggi e le caratteristiche dei loro rap­ porti sociali appartengono al passato, al mondo della generazione precedente. Certi aspetti di quel mondo non sono però cambiati ed Eliot può quindi stabilire un rapporto di continuità tra il passato e il presente, lasciando però capire che nel frattempo molte cose si sono evolute in senso democratico, come la riforma del 1867 aveva sancito sul piano istituzionale. La sua posizione era quella di un prudente liberali­ smo, che le faceva valutare positivamente i cambiamenti avvenuti (pur guardando con ironia agli entusiasmi ri­ formatori). George Eliot pensava che, sebbene si fosse­ ro dovuti pagare dei costi non piccoli, c’erano stati dei promettenti miglioramenti nella vita della popolazione ­74

inglese. Amelioration è una sua parola chiave; e poiché c’era speranza di un futuro migliore, i suoi romanzi, per quanto negativa fosse la situazione di partenza, per quanto tormentati potessero essere gli sviluppi della vi­ cenda, si chiudevano con un lieto fine (paradossalmente, in fondo, lo è anche quello di The Mill on the Floss). Middlemarch segue le vicende di diverse coppie, lun­ go quattro percorsi narrativi diversi, ricondotti a unità dalla figura della protagonista, Dorothea, donna intel­ ligente, ricca e di forti principi puritani, che sposa il re­ verendo Causobon. Solo dopo il matrimonio, ma ormai è troppo tardi, si rende conto dell’aridità spirituale e della meschinità del marito, da cui solo la morte la potrà separare. L’altro personaggio centrale è l’idealista dot­ tor Lydgate, apostolo del progresso scientifico e marito della sciocca e ambiziosa Rosamund. A partire dal ritratto di questi due matrimoni infeli­ ci, Eliot sottolinea l’importanza del dialogo tra coniugi e della necessità di capire le aspirazioni e i bisogni l’uno dell’altra; ma soprattutto, per quanto riguarda la don­ na, la necessità di evitare di essere relegata nel ruolo di angelo del focolare. Cosa peraltro molto difficile, non soltanto per via delle convenzioni sociali, ma a causa delle leggi stesse. Dopo la morte del marito Dorothea si innamora di un suo cugino, ma per poterlo sposare deve rinunciare ad ogni diritto sulle proprietà del de­ funto marito. Soltanto grazie al sacrificio – in questo caso economico, ma nel caso di Maggie quello della vita stessa – una donna poteva averla vinta sulle consuetu­ dini, sui pregiudizi e sulle leggi che la relegavano in un ruolo subalterno. George Eliot, pervasa dalla stessa ferrea forza mo­ rale che attribuiva ai suoi narratori onniscienti, non si faceva promotrice di soluzioni radicali, ma contava sul ­75

fatto che la rappresentazione dell’esistente da lei offerta indicasse di per sé la necessità del cambiamento. Nei suoi romanzi la vita sociale ed economica dell’Inghil­ terra vittoriana è vista con sguardo severo, fortemente critico, e lo sfondo idilliaco della campagna inglese del­ la sua infanzia si contrappone alla mediocrità della vita provinciale, sia quella del passato più o meno lontano, sia quella del presente. Eliot non solo è stata una gran­ de scrittrice; è stata anche una solidissima intellettuale, animata al tempo stesso dalla consapevolezza dei difetti e delle colpe della società a cui apparteneva e dalla con­ vinzione che il progresso, sociale e civile, sarebbe stato in grado di porvi rimedio. Il romanziere che più di ogni altro ci appare legato al mondo vittoriano è Anthony Trollope (1815-1882). Scrittore di grandissimo successo, Trollope aveva un’i­ dea tutto sommato positiva della società del suo tempo: ne criticava le colpe e i difetti, ma riteneva che fosse pos­ sibile porre loro rimedio (e infatti si presentò candidato alle elezioni del 1869 tra le fila dei Liberali). Alla vita politica dedicò una serie di romanzi, i cosiddetti Palliser Novels, pubblicati tra il 1864 e il 1880, in cui l’ironia ammorbidisce la critica e la denuncia si accompagna a un sorta di assoluzione finale. Alla vita nelle comunità di provincia dedicò un’altra serie di romanzi, in genere indicati come Chronicles of Barsetshire, in cui ironizzava sulla mediocrità del mondo provinciale apprezzandone però la serena tranquillità. Il successo di Trollope era in gran parte dovuto all’immagine che offriva di quel pla­ cido mondo in cui i piccoli drammi non si tramutavano in tragedie, in cui i personaggi negativi non erano mai dei veri «cattivi», in cui la English way of life sembrava possedere una solidità che nulla poteva minacciare, in ­76

cui uomini senza qualità avevano però la qualità della moderazione. Il primo romanzo di questa serie è The Warden («L’amministratore», 1855), che presenta in modo esemplare tali caratteristiche attraverso le vicende del protagonista, il reverendo Harding, che rinuncia ai suoi privilegi economici (di cui non aveva piena consapevo­ lezza) in nome del suo senso di correttezza e giustizia morale. Questa scelta spiana ovviamente la strada allo sposalizio tra il suo accusatore e l’amata figliola Eleo­ nor, che era il finale tanto scontato quanto atteso. Un buon matrimonio con implicita promessa di futura fe­ licità non poteva che piacere moltissimo ai suoi lettori, come ben sapeva Trollope, il quale, interrogato su quali fossero i meriti dei suoi romanzi, rispose che servivano ad insegnare alle fanciulle come ricevere le proposte di matrimonio da parte degli uomini che le amavano. Tuttavia anche il prudente e moderato Trollope al­ meno in un caso si lanciò nella denuncia contro quello che indicò come uno dei mali peggiori della società del suo tempo. L’eccezione è il romanzo The Way We Live Now («La vita oggi», 1874-75), il male contro cui si scaglia è la corruzione e la disonestà che regnavano nel mondo della finanza e dintorni. Quando il protagoni­ sta, il finanziere Melmotte, si suicida, il lettore non è affatto invitato a provare una seppur minima pena per lui. Questo è il romanzo di Trollope che di recente ha ricevuto i maggiori consensi. Probabilmente perché lo scoppio della «bolla» americana di qualche anno fa, con le conseguenze nefaste che ha avuto in Europa, rende quella denuncia e quel ritratto del mondo finan­ ziario decisamente attuali; ma anche perché in questo romanzo il talento narrativo di Trollope, la sua capa­ cità di confezionare la vicenda ricollegandone sapien­ ­77

temente i molti fili, offrono una prova di affascinante maestria. Se però si dovesse indicare il romanzo vittoriano che più di ogni altro incarna lo spirito del tempo, la scelta cadrebbe senza esitazioni su Three Man in a Boat («Tre uomini in barca», 1889) di Jerome K. Jerome (18591927), uno dei libri più letti e più famosi di tutta la letteratura inglese. Il libro racconta le avventure di tre giovanotti (per non parlare del cane) durante il loro viaggio in barca lungo il Tamigi. Le avventure sono comiche disavventure precedute o seguite (questa è la chiave narrativa) da digressioni su episodi consimili o legati all’argomento in questione accaduti in passato. La risalita del fiume da fuori Londra verso Oxford si svolge in una specie di Arcadia moderna, che fa da sfondo alla celebrazione delle cosiddette virtù inglesi. Di queste una almeno, come già si è detto, è una vera virtù, sicuramente la più preziosa, e cioè lo humour – di cui Jerome ha saputo dare uno degli esempi più trascinanti. Il taglio del romanzo è spensieratamente umoristico (e doverosamente maschilista), anche se, come alcuni hanno osservato, quello humour è la ri­ sposta della piccola borghesia emergente al disagio derivante dalla propria collocazione nel contesto for­ temente classista del mondo britannico. È vero che a volte l’opera letteraria, al di là delle intenzioni dell’au­ tore, anche quando offre un ritratto pienamente posi­ tivo della realtà ne lascia trasparire aspetti negativi e sa comunicare, almeno al lettore non contemporaneo, molte scomode verità. Tuttavia è difficile pensare che, perfino tra i lettori di oggi, siano molti quelli che leg­ gendo Three Men in a Boat non si limitino ad apprez­ zarne l’irresistibile humour. ­78

E veniamo ad Alice in Wonderland («Alice nel paese delle meraviglie», 1865), il libro del matematico dell’U­ niversità di Oxford Lewis Carroll (1832-1898). La sto­ ria, scritta per divertire le figlie di un collega, racconta le avventure di una bambina che, inseguendo un coniglio, finisce in un buco sottoterra ed entra in un mondo fan­ tastico, in cui incontra altrettanto fantastici personaggi con i quali intavola bizzarri dialoghi fitti di giochi di parole e ragionamenti di assoluta illogicità (molti dei quali erano a beneficio dei suoi colleghi di università: c’è persino una parodica presa in giro di Robert Sou­ they, poeta laureato fino a vent’anni prima). Il libro è lontanissimo da quelli destinati ai bambini in età vittoriana, didattici e moraleggianti, e promuove invece il libero gioco della fantasia e il piacere di fanta­ sticare. Il mondo fantastico in cui entra Alice è tuttavia al tempo stesso molto vicino al mondo reale dell’epoca. La piccola eroina si comporta infatti sistematicamente in base alle regole dell’etichetta che una famiglia bor­ ghese come la sua l’aveva costretta ad assorbire. Tali regole (e le istituzioni, le convenzioni sociali e i principi pedagogici da cui esse derivavano) erano però sotto­ poste a una divertita ironia, lasciando intravedere una critica sotterranea – è il caso di dirlo – alla società vit­ toriana. Alice è una splendida favola, in parte snaturata dal film di Disney che ha incantato (e in qualche caso spaventato) milioni di bambini, senza saper cogliere l’i­ ronia dell’originale. E senza lasciar capire che il libro è una fiaba sulle prove e le difficoltà che i bambini affron­ tano per «diventare grandi». Anche Treasure Island («L’isola del tesoro», 1883) di Robert Stevenson (1850-1894) nacque come un libro per ragazzi, pensato dall’autore come una lettura per il ­79

figliastro Lloyd, con tutte le caratteristiche del genere avventuroso ma con in più un’invenzione decisiva: la storia è raccontata da un ragazzo, Jim, figlio della pro­ prietaria di una locanda vicino al mare. Nelle sue parole c’è il fascino per il pericoloso mondo degli adulti, incar­ nato dal vecchio pirata Billy Bones e dai suoi compari che l’hanno fregato. C’è il brivido del mistero, l’oscuro passato dei pirati, il contenuto segreto del loro baule, la mappa dell’isola del tesoro. E ci sono gli incidenti, le sorprese, gli indizi sparsi nel racconto con cui Steven­ son mantiene sempre alto il livello di suspense, prima sul suolo inglese, poi sull’isola del tesoro raggiunta da Jim a bordo dell’Hispaniola. Il viaggio è un’esperienza davvero formativa: a bor­ do ci sono i pirati, capeggiati dal cuoco della nave, Long John Silver, e il legame che si sviluppa tra l’innocente Jim e il maligno e feroce Silver riveste un ruolo decisivo nella crescita del ragazzo. Il cuoco è una figura carisma­ tica, a volte prepotente, a volte conciliante, sempre però padrona della situazione. Il rapporto tra lui e Jim fa sì che Treasure Island sia non soltanto un libro per ragaz­ zi, ma un romanzo che, come suggerisce Leslie Fiedler, illustra quel rapporto tra la giovinezza e il male che è una componente fondamentale della formazione dell’a­ dulto. Soprattutto, è un romanzo che contiene tutti i valori archetipici dell’infanzia: l’entusiasmo, il deside­ rio di avventura, l’amore inconscio per il pericolo e il bisogno di sfidare le norme e le regole del mondo degli adulti, magari per capire poi, come succede a Jim, quale ne è il valore. La fama di Stevenson ebbe una sanzione definitiva, subito in Inghilterra e negli Stati Uniti, e poi in tutto il mondo, con The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde («Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde», ­80

1886), un romanzo che quasi tutti conoscono, anche coloro che non l’hanno mai letto. Come il dottor Fran­ kenstein, il dottor Jekyll supera i confini di ciò che è permesso, di ciò che la natura stessa non consente. Nel suo laboratorio ha creato una sostanza che concentra le sue componenti negative e il suo «abbietto desiderio» e che una volta assunta lo trasforma nel malvagio Mr Hyde. In una prima fase riesce senza difficoltà a tornare ad essere il dottor Jekyll. Ma con il passare del tempo la cosa diventa sempre meno facile e quando ha esaurito il «farmaco» che gli consente tale trasformazione, non riuscendo più a prepararlo di nuovo, il dottor Jekyll si uccide, uccidendo così anche Mr Hyde. La vicenda, una variante del motivo del Doppelgänger, ovvero del doppio, può essere letta in chiave psicoa­ nalitica, in quanto Jekyll incarnerebbe i due volti dell’Io nell’individuo alienato sul piano sociale e represso su quello personale. Ma è anche un’allegoria dei due volti della borghesia vittoriana, in pubblico ipocritamente attentissima alle forme, in privato tutt’altro che rigo­ rosa (a Londra il numero dei bordelli e delle prostitute aumentò fortemente nell’ultimo scorcio di secolo). Nel romanzo nulla si dice a proposito dei comportamenti «abbietti» di Mr Hyde e Stevenson smentì che fossero di natura sessuale. È però difficile immaginare di quale diversa natura potessero essere: non certo efferati delitti alla Jack lo Squartatore, visto che non vengono qualifi­ cati come colpe particolarmente gravi. È comunque in­ discutibile il fatto che il romanzo ci presenta una clamo­ rosa dicotomia tra apparenza e realtà, tra la maschera di rispettabilità e il volto depravato che essa nasconde. Molti ritengono che il capolavoro di Stevenson sia The Master of Ballantrae («Il signore di Ballantrae», 1889), un romanzo che attraverso più voci – in partico­ ­81

lare quella di un narratore poco attendibile – racconta la storia della rivalità tra due fratelli, Henry e il crudele, astuto e perfido James (il signore del titolo), prima in Scozia e poi in America, dove entrambi moriranno, per essere poi sepolti nella stessa tomba. Il romanzo, che nella parte finale fa ricorso a quella dimensione del so­ vrannaturale in cui Stevenson era maestro, è stato par­ ticolarmente lodato per la complessità e la sottigliezza con cui affronta diversi temi di grande rilievo psicolo­ gico attraverso il contrasto tra il mite Henry e il feroce James. Tuttavia è bene sottolineare come i due roman­ zi che non nutrivano alcuna ambizione del genere, Dr Jekyll and Mr Hyde e Treasure Island, offrano al lettore più attento un’occasione affascinante di riflessione ri­ spettivamente su aspetti cruciali della società vittoriana e sul processo di maturazione dall’infanzia all’età adul­ ta. Due romanzi di squisita fattura letteraria, che hanno inoltre offerto a milioni di lettori il piacere di farsi tra­ sportare in un mondo fantastico che tuttavia al tempo stesso parla di loro e del loro mondo. Anche se qui si parla di romanzo, è comunque bene ricordare che Stevenson è stato un maestro della short story. I suoi ultimi racconti sono ambientati nelle isole del Pacifico, dove si era trasferito alla ricerca di un clima amico. Lo sguardo incantato che il narratore rivolge a quelle terre e a quei mari lontani non deve però trarre in inganno sul suo atteggiamento nei confronti di quei luo­ ghi di conquista: Stevenson, così come in Dr Jekyll aveva svelato la falsità della facciata vittoriana, in questi raccon­ ti lasciava trasparire la falsità della retorica (la «missione civilizzatrice») che mascherava l’impresa coloniale. La dicotomia tra apparenza e realtà è al centro anche del capolavoro di Oscar Wilde (1854-1900), The Picture ­82

of Dorian Gray («Il ritratto di Dorian Gray», 1890). Non possiamo qui soffermarci sulla scintillante produzione teatrale di Wilde; e neppure sui suoi racconti e sui suoi testi poetici, coronati dalla splendida Ballad of Reading Gaol. Dobbiamo però sottolineare che la brillantezza degli aforismi presenti nei suoi lavori, con cui deliziava i lettori e gli spettatori (e di persona i frequentatori dei salotti londinesi), spesso costituiva una sfida alla «cor­ rettezza» della società vittoriana, che, implicitamente, criticava senza riserve – come avviene in Dorian Gray. Il romanzo narra la vicenda faustiana del protagonista, che vende l’anima per ottenere in cambio il permanere della sua gioventù e della sua bellezza. Mentre Dorian continua ad essere giovane e bello, il suo ritratto muta magicamente, registrando non soltanto il passare del tempo, ma anche i segni della sua malvagità e della sua depravazione. Dorian Gray è stato considerato il ritratto del decadentismo, il mezzo con cui Wilde illustra la sua idea del rapporto tra vita e arte e la separazione tra mo­ rale e letteratura, così come viene enunciata nella prefa­ zione al romanzo: «Un libro non è né morale né immo­ rale. Ci sono dei libri scritti bene e dei libri scritti male. Questo è tutto». Come si accennava prima, Dorian Gray è però soprattutto un romanzo inquietante, che rive­ la, come Dr Jekyll, il volto nascosto della rispettabilità vittoriana e l’abisso che separava gli atteggiamenti e le parole che tenevano in piedi la facciata del perbenismo da una realtà del tutto diversa: cinica, crudele e, quando necessario, criminale. L’ultimo grande romanziere dell’età vittoriana e di quel mondo diviso tra apparenza e realtà è stato Tho­ mas Hardy (1840-1928), l’ultimo campione di un’idea di romanzo capace di rappresentare la società contem­ ­83

poranea nella sua complessità con l’idea che il roman­ ziere potesse capirla pienamente e giudicarla in base a solide certezze morali da tutti condivise. Verso la fi­ ne della sua carriera di romanziere (e dell’Ottocento) il tacito patto tra autore e lettore che sta alla base del romanzo vittoriano gli apparve come qualcosa che non era più in grado di gestire. Dopo la pubblicazione di Jude the Obscure, nel 1895, decise di non scrivere più romanzi e di dedicarsi esclusivamente alla poesia. Negli anni dell’infanzia di Hardy l’atteggiamento dominante era quello d’illimitata fiducia nel progresso e nel miglioramento generale delle condizioni di vita. Tuttavia il progresso, la modernità, come ad esempio la liberalizzazione del commercio dei cereali nel 1846, poteva avere effetti micidiali. Il suo Dorset natio e le regioni sud-occidentali che erano state il granaio della Gran Bretagna, non potendo competere con i prezzi consentiti dal libero mercato, entrarono in una crisi drammatica: una depressione economica di cui Hardy fu testimone diretto e che gli suggerì il pessimismo che caratterizza le sue pagine. Nella finzione romanzesca il Dorset fu ribattezza­ to Wessex, il nome del regno di Alfredo il Grande, il re vissuto nel IX secolo, e presentato come una terra sospesa tra mito e folklore che la modernità andava uc­ cidendo. Nel primo dei grandi romanzi, Far from the Madding Crowd («Via dalla pazza folla», 1874), la citta­ dina di Weatherbury, con il suo enorme edificio simile a una chiesa dove ha luogo la tosatura delle pecore, è un luogo di armonia tra uomo e natura, all’opposto della città industriale, i cui ritmi sono dettati dalla fabbrica. Il romanzo racconta la storia di Bathsheba, una giova­ ne donna dallo spirito troppo indipendente per quei tempi, che è amata da tre uomini molto diversi tra loro, ­84

il pastore Gabriel Oak, il ricco agricoltore Boldwood e il sergente Troy. Le svolte decisive della vicenda sono di sapore decisamente melodrammatico, ma, come poi sarà sempre nei romanzi di Hardy, la forzatura insita nell’episodio melodrammatico è riscattata dalla visione tragica che sottende il modo in cui i fatti vengono rac­ contati. Il romanzo si chiude con un lieto fine. Bathshe­ ba sposerà Gabriel, l’uomo che incarna il legame con la natura. Leslie Stephen, redattore di «The Cornhill», la rivi­ sta su cui il romanzo fu pubblicato a puntate, aveva sug­ gerito a Hardy di escogitare un finale più «lieto» (che fu per l’appunto il matrimonio con Gabriel) di quello a cui lui aveva in un primo tempo pensato. E anche The Return of the Native («La brughiera»), pubblicato sulla rivista «Belgravia» nel 1878, un romanzo la cui protagonista è una donna molto passionale e per nulla vittoriana, fu in parte riscritto in seguito alle forti pres­ sioni del direttore della rivista. Ci furono sicuramente meno pressioni, invece, per quanto riguarda The Mayor of Casterbridge («Il sindaco di Casterbridge», 1886). Il protagonista del romanzo, il cui destino è segnato dal gesto sciagurato compiuto in gioventù, quando, ubria­ co fradicio, in una fiera aveva venduto la moglie e la bambina a un marinaio, dopo una vita di non pochi successi va incontro a una morte miseranda e amarissi­ ma. Tuttavia la sua carriera sociale dimostra la sua su­ periorità rispetto all’ambiente ipocrita che lo circonda: il sindaco, come dice il sottotitolo, è «un uomo di carat­ tere» in un mondo in cui la norma è rappresentata da uomini senza carattere che navigano nel compromesso e nell’inganno. La tragica visione dell’umana esistenza che anima Thomas Hardy si rivela appieno in Tess of the d’Urber­85

villes («Tess dei d’Urbervilles», 1891). Tess, che pos­ siamo vedere come la simbolica rappresentazione della gente della profonda campagna inglese, è sedotta da Alec, figlio di un parvenu che ha adottato il nome di quelli che un tempo erano i signori del luogo. La gio­ vane rimane incinta e il suo bimbo muore poco dopo la nascita. Il matrimonio con Angel, un uomo buono e generoso, potrebbe segnare l’inizio di una vita serena, ma il giorno delle nozze Tess confessa la sua «colpa» al marito, che l’abbandona. Quando più tardi Alec si rifà vivo, la giovane donna, in cambio dell’aiuto che lui darà alla sua famiglia, accetta di diventarne l’amante. Angel tuttavia, pentitosi del suo rifiuto, decide di tornare con lei e Tess, non vedendo come poter altrimenti uscire dalla situazione, uccide Alec per fuggire con il marito. Dopo pochi giorni di relativa serenità, trascorsi in un casolare disabitato, i due vengono scoperti e nella loro fuga giungono a Stonehenge. Tess si addormenta sopra una pietra di altare e lì viene catturata dai poliziotti: incarcerata e processata, viene condannata a morte. In Tess, ancor più che in altri romanzi, la descrizione del paesaggio, dei luoghi, degli ambienti naturali, rimanda a un significato simbolico che trasporta i fatti narrati, anche quelli di minore rilievo, in una dimensione me­ tafisica e tragica. La dimensione tragica trova il suo vertice nell’ultimo romanzo di Hardy, Jude the Obscure («Jude l’oscuro», 1895). Jude è un giovane di umilissime condizioni socia­ li, con grande interesse per la cultura classica e grandi doti per lo studio, che sfida per amore le leggi e i valori tradizionali dell’epoca. Jude sposa Arabella, ma quan­ do la moglie lo lascia va a vivere con sua cugina Sue, che a sua volta aveva lasciato il marito. Dopo qualche tempo (intanto lui ha dovuto rinunciare al suo sogno ­86

di andare all’università e lavora come muratore) Jude e Sue hanno due figli e prendono con sé anche il fi­ glio di Jude e Arabella, soprannominato Little Father Time. Le loro condizioni di vita, osteggiati come sono per la loro «immoralità» (Jude viene licenziato), sono difficilissime e alla povertà, con il passare del tempo, si aggiunge l’infelicità. Il romanzo affronta una serie di problemi di cruciale importanza: l’istruzione delle classi lavoratrici, il divorzio, il controllo delle nascite, il ruolo della religione. Jude the Obscure non offre delle soluzioni (è un ro­ manzo), ma pone i problemi in modo esplicito e inequi­ voco. Quando Sue dice a Father Time di essere incinta, il ragazzo uccide i due bambini e si uccide: «L’ho fatto perché siamo troppi», lascia scritto come agghiacciante spiegazione del suo gesto. Hardy aveva posto i proble­ mi nel modo giusto. Tuttavia le reazioni suscitate dal romanzo (la critica lo considerò osceno, un vescovo lo diede pubblicamente alle fiamme) lo convinsero che non soltanto la soluzione dei problemi, ma la possibili­ tà stessa di porli nei loro termini più veri e drammatici, non era concessa al romanziere. E decise di non scrivere più romanzi.

VII

Fine secolo e bella (?) «époque»

La fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento videro l’affermazione di due generi che per lungo tempo non hanno trovato spazio nelle storie della letteratura, la detective story e l’espionage novel. In effetti, il romanzo di spionaggio (il tema era in genere la minaccia di in­ vasione che il Nemico, prima la Francia, poi la Germa­ nia, stava organizzando ai danni della Gran Bretagna) nella sua prima fase non offrì testi di valore letterario. Fa eccezione soltanto – escludendo L’agente segreto di Conrad e Kim di Kipling, che tuttavia sono due casi a parte – The Riddle of the Sands («L’enigma delle du­ ne», 1903) di Erskine Childers, che ebbe tra l’altro il merito di capire in anticipo che il Nemico non era la Francia, ma la Germania del Kaiser imparentato con Sua Maestà. Il giallo – dopo la prima comparsa letteraria di un in­ vestigatore, l’ispettore Bucket di Bleak House, e quella del sergente Cuff nella prima detective story, The Moonstone («La pietra di Luna», 1868), eccellente romanzo di Wilkie Collins (1824-1889), grande amico di Dickens – si era andato affermando come genere a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento. Il primo giallo è proba­ ­88

bilmente The Notting Hill Mistery di Charles Adams, pubblicato in otto puntate tra il 1862 e il 1863. E quasi subito era comparso un detective donna: The Female Detective, di Andrew Forrester, è del 1864. La svolta decisiva, però, si deve alla fantasia di Arthur Conan Doyle (1859-1930), il «padre» di Sherlock Hol­ mes. Conan Doyle si era laureato in medicina all’univer­ sità di Edimburgo (la città in cui era nato): un uomo di scienza, quindi, non un letterato. La figura di Holmes non può prescindere dalla fiducia nella scienza e nella mentalità positivista caratteristiche dell’Inghilterra di fine Ottocento: Holmes indaga e risolve i suoi casi uti­ lizzando gli strumenti offerti dalle più recenti scoperte scientifiche ed è scientifico (più che psicologico) anche il suo metodo deduttivo. Gli elementi di volta in volta forniti dal racconto, con un alternarsi di dati utili alla soluzione e di altri fuorvianti, costituiscono il materiale con cui viene creata la suspense che si scioglierà nella rivelazione finale. Ma il modo in cui Holmes riflette su tali elementi costituisce altresì una sfida rivolta al lettore (oltre ad essere un mezzo ulteriore per rafforzarne l’at­ tenzione) affinché sia altrettanto scientifico nel cercare di trovare lui stesso la soluzione del caso. È questo il meccanismo che sta alla base della detective story inglese e che, con un maggior rilievo dell’aspet­ to psicologico, registrerà un nuovo trionfo con i gialli di Agatha Christie (1890-1976) e i suoi investigatori Poirot e Miss Marple. È importante notare come in tempi più recenti il genere abbia continuato ad avere come punta di diamante scrittrici donne, P.D. James (1920-2014) e Ruth Rendell (1930-2015): la più apprezzata, quest’ulti­ ma, per felicità di scrittura e per sottigliezza psicologica. Molti gialli sono libri avvincenti per gli appassionati, ma privi di valore letterario, come d’altronde una parte ­89

non piccola dei libri che vengono spacciati per romanzi. Altri, a partire da Moonstone e The Sign of Four (1890) di Conan Doyle, stanno benissimo a fianco dei romanzi canonici. La scienza con le sue scoperte, e il pensiero scien­ tifico con il suo peso culturale, favorirono lo sviluppo di un altro genere letterario di grande interesse, quello votato ad immaginare le nuove prospettive (in campo tecnologico e in campo sociale) che l’umanità si sarebbe trovata di fronte nel futuro. Il primo grande scrittore di tale genere, che nel Novecento venne chiamato fanta­ scienza, fu H.G. Wells (1866-1946). Figlio di una do­ mestica, Wells trascorse l’infanzia nella magione in cui la madre era a servizio, imparando assai bene quanto fe­ roce e sprezzante per gli uni (i ricchi) e quanto umiliante per gli altri (i disagiati) fosse il classismo della società bri­ tannica. Grazie a una borsa di studio poté studiare alla School of Science di Londra (l’attuale Imperial College) e familiarizzarsi con le più recenti (e al tempo stupefa­ centi) scoperte scientifiche. Dopo varie collaborazioni giornalistiche, Wells si impose come scrittore grazie a The Time Machine («La macchina del tempo», 1895), un romanzo in cui lo scienziato viaggiatore nel tempo scopre che il futuro vedrà il fallimento delle speranze di progresso. Ancora più fosco è il ritratto proposto nel romanzo successivo, The Island of Dr Moreau («L’isola del dottor Moreau», 1896), che segna la tendenza, come poi accadrà in Huxley, Orwell e Ballard, a voltare l’uto­ pia in negativo – cioè in una distopia –, non tanto per profetizzare sviluppi catastrofici in un futuro più o meno lontano, quanto per mettere in guardia su quegli aspetti negativi del presente che potrebbero esserne il germe. A questi due testi si affianca The War of the Worlds («La guerra dei mondi», 1898), l’archetipica narrazio­ ­90

ne di un’invasione della Terra da parte degli alieni, che Wells utilizza per muovere la sua critica agli aspetti più deleteri della società inglese. Questo, infatti, è il com­ pito che Wells si assegna, sia quando immagina inva­ sioni marziane, o stupefacenti (e minacciosi) sviluppi tecnologici e guerre tra i mondi, sia quando ambienta i suoi romanzi nel presente – come gli autobiografici Mr Lewisham, Kipps, Ann Veronica (tutti pubblicati all’ini­ zio del Novecento) e Tono-Bungay (1909), in cui offre il ritratto più fortemente critico del mondo britannico, lanciando i suoi strali in particolare contro la categoria dei «nuovi ricchi», a cui attribuisce caratteri distintivi quali la disonestà e il cinismo. Ma soprattutto è da ri­ cordare The History of Mr Polly (1910), un romanzo dal taglio comico, praticamente sconosciuto in Italia, in cui la critica sociale è relegata in alcuni brevi passaggi, ma non per questo è meno puntuale. Wells, socialista e libero pensatore, aveva una visio­ ne totalmente negativa dei destini dell’umanità, che gli appariva incapace di capire quali sono gli errori mador­ nali e i catastrofici pericoli da evitare. «Ve l’avevo detto, maledetti imbecilli!», è l’epitaffio che avrebbe potuto essere inciso sulla sua tomba. Questi ultimi romanzi di Wells, almeno in parte, si possono collocare nella corrente letteraria debitri­ ce del Naturalismo francese, che ebbe il suo maggior esponente in Arnold Bennett (1867-1931). Bennett fu vittima di uno sprezzante giudizio da parte di Virginia Woolf, ma è invece giusto riconoscere che almeno in un paio di casi seppe essere scrittore di vaglia. Della sua amplissima produzione bisogna infatti salvare Anna of the Five Towns («Anna delle cinque città», 1902), che per la storia si rifà alla lezione di Balzac e per il taglio stilistico a quella di Turgenev, che Bennett considerava ­91

il maggior romanziere moderno; e The Old Wives Tale («La vita è fatta così», 1909), un romanzo che attraverso il racconto dei diversi destini di due sorelle comunica magistralmente il senso del passare del tempo. Per la verità già prima, con Liza of Lambeth («Liza di Lambeth», 1897), il romanzo inglese aveva potuto annoverare una prima piccola perla naturalistica. Ne era autore W. Somerset Maugham, che per nascita e prima formazione era più francese che inglese, e che nella storia di Liza seppe presentare un quadro quasi alla Zola delle condizioni di vita e dell’esistenza precaria delle classi lavoratrici londinesi. Ma di Maugham, che era anche drammaturgo di successo, si dirà più avanti. Romanziere e drammaturgo era anche John Gals­ worthy (1867-1933), che deve la sua fama ai romanzi che, a partire da The Man of Property («Il possiden­ te», 1906), raccontano la saga della famiglia Forsyte. Il primo romanzo della serie segue le vicende di Soames Forsyte e di altri membri della sua famiglia, visti come i rappresentanti di una borghesia votata a trasformare ogni cosa in merce, in oggetto di proprietà e di possesso. L’idea alla base del romanzo è quella di usare le circo­ stanze e gli avvenimenti riguardanti una singola famiglia per rappresentare la crisi di un’intera classe sociale e dei suoi valori, come Thomas Mann aveva fatto pochi anni prima in quel capolavoro assoluto che è I Buddenbrook. Il successo di The Man of Property suggerì a Gals­ worthy di dare un seguito alle vicende dei Forsyte in due successivi romanzi, usciti nel 1920 e 1921 (e altri tre seguirono negli anni successivi, a ingigantire la saga). A quel punto, però, la critica sociale si era abbondan­ temente annacquata e non è difficile scorgere in questi romanzi una sommessa ammirazione per i «possidenti». Forse anche per questa ragione, le ultime puntate della ­92

saga, uscite in tempi drammatici (lo sciopero generale del 1926, il crollo di Wall Street e la crisi economica), ebbero un grande successo: meglio fantasticare che guardare in faccia la realtà. Chissà se è anche per que­ sto che nel 1932 a Galsworthy fu conferito il Nobel per la letteratura. A questo punto è necessario fare un piccolo passo indietro per illustrare la produzione di uno scrittore, Rudyard Kipling (1865-1936), che per caratteristiche ideologiche e per comodità (la sua produzione di mag­ gior interesse si colloca negli ultimi anni del regno della regina Vittoria) possiamo definire vittoriano. Kipling nacque a Bombay, dove trascorse l’infanzia; poi fre­ quentò le scuole in Inghilterra, dal 1871 al 1882, quindi tornò in India, per andare a lavorare come giornalista a Lahore. Nel giro di pochi anni pubblicò un’ampia serie di liriche e racconti, accolti con grande favore dalla co­ munità inglese in India, che in essi trovava la rappresen­ tazione degli aspetti più interessanti del «suo» mondo indiano; e tale favore lo accompagnò al suo ritorno in Inghilterra. L’India era l’argomento principale dei suoi testi, di cui erano protagonisti gli inglesi che là vivevano. L’In­ dia, la punta di diamante della corona imperiale, dove battaglioni di impiegati e funzionari svolgevano i com­ piti loro assegnati con serietà e severità, orgogliosamen­ te pronti, se necessario, a sacrificare anche la vita «per il re e per la patria». Molti dei racconti di Kipling sono dei gioielli narrativi percorsi da un solido realismo che consente all’autore di tracciare un preciso disegno delle contraddizioni insite nell’esperienza coloniale: da un la­ to, il timore degli inglesi di lasciarsi sedurre dal mondo indiano dimenticando la loro patria, accompagnato dal ­93

disagio suscitato dagli aspetti surreali e magici dei riti e dei costumi locali che li affascinavano e li spaventavano al tempo stesso; dall’altro, il cameratismo, la disciplina, il senso di essere i fedeli servitori di una giusta causa. E tuttavia per il lettore di oggi è facile notare come Kipling descriva una realtà in cui è il mondo indiano a emergere con forza: un mondo che l’uomo bianco non riesce mai a conoscere davvero, che domina con la forza ma che non capisce, che vorrebbe ingabbiare nei suoi schemi culturali ma che invece costantemente riafferma la propria differenza e alterità. Forse anche questo aspetto faceva parte di quel «fardello dell’uomo bianco» di cui una volta aveva detto Kipling e che, al di là delle sue intenzioni, divenne una sorta di manifesto dell’imperialismo. Da qui a considerarlo un bieco impe­ rialista – questa è l’accusa che a partire dagli anni Trenta spesso gli fu mossa – molto ce ne passa. Di sicuro era un acceso patriota, come dimostrano i suoi furibondi attacchi contro la Germania allo scoppio della prima guerra mondiale. Fu lui a insistere perché il figlio di­ ciassettenne si arruolasse. Il ragazzo morì quasi subito in una delle battaglie più sanguinose (e insensate) del conflitto. «Se i caduti», scrisse poi in una commossa lirica, «chiederanno perché sono morti, rispondete loro che è perché i loro padri hanno mentito». Buona parte della fama postuma di Kipling è paradossalmente dovuta a Walt Disney, il quale portò sullo schermo i due «libri della giungla», pubblicati nel 1894 e 1895, che sfruttano il tema romantico del bambino che, solo e abbandonato, cresce nei boschi e lontano dalla civiltà. In questo caso il fanciullo, Mowgli, non cresce nel bosco, ma nella giungla. L’aspetto più interessante della storia è che l’espressione «legge della giungla», che in genere sta ad indicare l’opposto della ­94

convivenza civile, qui invece è presentata come più no­ bile e moralmente più alta delle leggi degli uomini (o, almeno, della loro applicazione). Il capolavoro di Kipling è Kim (1901), affascinan­ te ritratto del mondo indiano visto con gli occhi di un ragazzo. Kim è un viaggio nel ricordo dell’adolescenza indiana del suo autore, ma anche un viaggio nell’India «gemma dell’impero». Le sue strade polverose, i suoi fiumi, le sue sconfinate pianure e i suoi monti grandiosi, la sua natura prorompente e sovrana, ancora incontami­ nata, sono lo sfondo realistico e fiabesco delle avventure di Kim, figlio di un sergente irlandese e di una inglese, rimasto orfano nella prima infanzia e cresciuto come un indiano, buono e scaltro, vitalissimo e riflessivo, «amico di tutti» e «amico delle stelle». La svolta della sua vita è determinata dall’incontro con un prete buddista, giunto dalle montagne himalayane alla ricerca del fiume sacro in cui purificarsi. Kim ne diventa la guida, lo segue nella sua ricerca, ne ascolta gli insegnamenti e ne apprezza la visione religiosa; e infine lo riaccompagna nella sua ter­ ra, sui monti dove, pensa Kim, «di certo vivono gli dèi». È un viaggio nella spiritualità e nella materialità del mondo indiano, con un protagonista che si trova sem­ pre in una posizione anomala, un inglese tra gli indiani, un ragazzo tra gli adulti, un cristiano che si accompagna a un monaco buddista. Ma è anche un viaggio nell’av­ ventura, nel Grande Gioco dello spionaggio (la defi­ nizione usata da Kipling non è una sua invenzione, si diceva proprio così): al punto che si può affermare che in questo anomalo Bildungsroman una parte importan­ te della formazione del protagonista discende proprio dalla sua attività di agente segreto. Per lungo tempo il libro fu considerato promotore dell’immagine che l’im­ perialismo voleva dare di sé. Adesso, dopo che da un ­95

bel pezzo l’impero è stato liquidato, Kim può essere considerato, piuttosto, un omaggio al fascino e alla ric­ chezza culturale del mondo indiano: un mondo, come ha dichiarato Salman Rushdie, che nessun europeo ha saputo descrivere così bene. Un’ultima considerazione. Come si poneva Kipling nei confronti della scuola naturalista? Non si poneva: andava per la sua strada, quella del naturalismo magico. Il gigante del romanzo inglese di fine Ottocento e primo Novecento è Joseph Conrad (1857-1924), che era nato nell’attuale Ucraina da genitori polacchi e che a di­ ciassette anni se n’era andato a Marsiglia, dove era stato assunto nella Marina mercantile francese. Nel 1878 en­ trò a far parte di quella inglese, senza però abbandonare l’ambizione giovanile di fare lo scrittore. I suoi punti di riferimento erano Maupassant e Flaubert; e poi Henry James. La scuola naturalista gli era nota, ma altri erano i suoi maestri. Senza dimenticare che il suo maestro più grande fu il mare, grazie alle sue lunghe esperienze nelle acque più lontane e ricche di mistero. Esso da un lato gli fornì il materiale avventuroso da rielaborare nella sua nar­ rativa; dall’altro gli offrì una visione del mondo, della vita concepita come confronto con le avversità e della forza del senso di comunità che univa i marinai nell’affrontare tali avversità. Ognuno aveva però una sua responsabilità individuale, ma graduata rispetto ai compiti gerarchica­ mente assegnati (la responsabilità maggiore, ovviamente, era quella del capitano). Quello della nave era un esem­ plare microcosmo: ciò che valeva per l’equipaggio, nella visione di Conrad, valeva per la società nel suo insieme. Dopo la pubblicazione del suo primo romanzo, Almayer’s Folly («La follia di Almayer», 1895), ambienta­ to tra Borneo e mari del Sud, Conrad lasciò la marina ­96

e, diventato cittadino britannico, si stabilì in Inghilter­ ra, dedicandosi a tempo pieno alla scrittura. Molti dei suoi romanzi sono ambientati nelle colonie e nei mari che le collegano; ma il suo atteggiamento nei confronti dell’impresa coloniale, con buona pace dei suoi detrat­ tori (che negli ultimi decenni si sono mossi sull’onda dell’accusa rivoltagli dallo scrittore nigeriano Chinua Achebe), non è affatto apologetico. Ne è prova evidente proprio quello splendido ro­ manzo breve che Achebe attaccò, Heart of Darkness («Cuore di tenebra», 1899). La vicenda si svolge quasi interamente nel Congo e ha al suo centro l’ambigua fi­ gura di Kurtz, un uomo il cui albero genealogico ne fa un simbolo dell’intera Europa. Kurtz è stato mandato in Africa come abile manager e «portatore di civiltà». Fallirà su entrambi i fronti. Il cuore di tenebra è quello dell’uomo europeo, del campione di civiltà che, rimasto solo in quel mondo primitivo e primordiale, si abban­ dona alla parte più remotamente ancestrale di sé, istinti­ va e selvaggia. La sua sorte ci induce a considerare come tenebra l’impresa coloniale stessa (di cui è l’incarnazio­ ne); o più semplicemente ci dice che Kurtz «si perde» perché non dovrebbe essere là, in quel luogo altro dove non ha alcun diritto di trovarsi. Una volta rimasto solo, lontano dagli altri europei e dall’Europa, non ha la forza di resistere e di evitare di essere trascinato nell’abisso. Pochi anni dopo Conrad scrisse il romanzo breve Typhoon («Tifone», 1902), la storia di una tremenda tempesta sul mare che il modesto e quasi insignificante capitano MacWhirr riesce ad affrontare con esempla­ re perizia, salvando la sua nave e i suoi uomini. Non riceve nessun premio, nessun riconoscimento, perché, seppure in circostanze particolarmente drammatiche, semplicemente ha fatto ciò che doveva essere fatto. ­97

Questo è un tema ricorrente nei romanzi di Conrad, che colloca i suoi protagonisti in una situazione estre­ ma, ponendoli di fronte a una scelta radicale, una «pro­ va» senza appello. Se non la si supera, la conseguenza è la morte. Il capitano di Typhoon, come quello dell’au­ tobiografico The Shadow Line («La linea d’ombra», 1917), supera la prova, si salva ed è salvato. Non così, invece, il protagonista di Lord Jim (1900), un uomo giu­ sto che in circostanze traumatiche, dopo che il capitano e i macchinisti hanno abbandonato la nave che sembra condannata a naufragare, li segue anche lui, quasi in trance, lasciando i passeggeri in balia del mare. Dopo es­ sere stato condannato, vaga per anni da un luogo all’al­ tro del lontano Oriente alla ricerca di una «prova» che possa redimerlo. Alla fine il riscatto, forse, lo troverà: ma attraverso la morte. Il cattolico Conrad era guidato da un rigore morale e da un senso religioso che potremmo definire calvi­ nisti. Nei confronti dei suoi personaggi è come il Dio della Bibbia che condanna e punisce. Conrad, che ne è il «creatore», non ha pietà per le loro debolezze: se sba­ gliano, devono pagare. Alla base dei suoi romanzi c’è una certezza morale totalizzante, che investe i protago­ nisti e le loro vicende e che ne soppesa i destini. Anche Nostromo (1904) e The End of the Tether («Al limite estremo», 1902) mettono il protagonista di fronte a una scelta che può voler dire la sua dannazione. Il capitano di quest’ultimo breve romanzo, seppure spinto dalla più pietosa delle intenzioni, si colloca in una posizione indifendibile e non gli resta che pagare con la vita la propria scelta. Il protagonista di Nostromo cederà alla tentazione e verrà (casualmente) ucciso, avendo tradito se stesso, la sua comprovata onestà. Ma l’intero roman­ zo, ambientato in un immaginario Stato dell’America ­98

Latina, propone una serie di tradimenti di sé, di cedi­ menti di fronte alla potenza del denaro e dell’argento, il vero centro ideologico del libro, che di alcuni scatena la rapacità e di altri sbriciola la dignità. Con The Secret Agent («L’agente segreto», 1907) e Under Western Eyes («Con gli occhi dell’Occidente», 1911) Conrad sposta la sua attenzione sull’Europa, rac­ contandoci due storie di spie e di anarchici impegnati a destabilizzare la placida tranquillità e la compiaciuta sicurezza proprie del periodo che va sotto il nome di «belle époque» (e di età edoardiana in Inghilterra: alla morte di Vittoria nel 1901 era diventato re suo figlio Edoardo VII). All’inizio di The Secret Agent Verloc, il protagonista, viene sollecitato dal primo segretario dell’ambasciata del paese che lo foraggia a mettere in atto un attenta­ to dinamitardo all’Osservatorio di Greenwich. Conrad non fa scattare la suspense sui preparativi dell’attentato, ma dopo il suo fallimento, quando l’attentatore viene fatto a pezzi dalla bomba. C’è l’indagine poliziesca, e la scoperta che quei miseri resti dilaniati dalla dinamite appartengono a Stevie, il cognato di Verloc; c’è la ri­ velazione che l’ispettore capo indirettamente fornisce a Winnie, la moglie di Verloc, sull’identità dell’atten­ tatore; c’è la decisione di Verloc, una volta scoperto, di vendicarsi informando «tutto il mondo» dell’operato dell’ambasciata. Non avrà modo e tempo di farlo: Win­ nie lo ucciderà. Verloc non è malvagio. È indifferente, tradisce gli uni e inganna gli altri; e si preoccupa del suo placido ménage, della moglie che lo ha sposato perché facesse da padre al fratello minorato, delle angosce di quest’ultimo (nel cui ritratto, forse, c’è un’eco dell’idiota dostoev­ skjano). Insieme a lui, protagonista del romanzo è la ­99

città di Londra. Una città «mostruosa», la cui facciata di civile convivenza maschera l’esistenza di una realtà del tutto diversa: è la sua stessa vastità, con la miriade di individui che la percorrono, ciascuno isolato nella propria indifferenza per gli altri e nell’indifferenza degli altri, che favorisce e nutre la segretezza e la cospirazio­ ne. In questa Londra si muove un mondo sinistro, che Conrad osserva e ritrae con inquietudine e al tempo stesso con sprezzante distacco. Un mondo sinistro che non ha certo i caratteri di una «belle époque». I rivoluzionari di Under Western Eyes, esuli dalla Russia zarista, come gli anarchici di The Secret Agent vanno incontro a un inevitabile fallimento. Il romanzo, che presenta un acuto quadro psicologico dei personag­ gi dei rivoluzionari, propone un’interessante contrap­ posizione tra l’anima impetuosa e «barbara» dell’Euro­ pa orientale e quella composta e inerte dell’Occidente: ma, attraverso i suoi occhi, è dal punto di vista della civiltà occidentale che la vicenda viene raccontata. Con i suoi romanzi Conrad esplorò al tempo stesso la natura della condizione umana e la realtà storica di un’epoca contrassegnata dall’illusione di onnipotenza e di «eternità». Lo fece da un punto di vista solido e fer­ mo e con un tipo di invenzione romanzesca non lontana da quella degli autori vittoriani. Spesso, tuttavia – e que­ sto è un aspetto lontanissimo dalla posizione dei roman­ zieri dell’Ottocento –, lo fece affidando il racconto a un «secondo narratore», o a un personaggio/narratore non in grado di afferrare appieno il senso della vicenda nar­ rata, oppure, come accade in Chance («Destino», 1913), ai differenti punti di vista di diversi narratori. In questo modo, seppure indirettamente, Conrad giunse vicino alla conclusione che poco dopo i modernisti avrebbero proclamato apertamente, e cioè che la tradizionale for­ ­100

ma romanzesca non era più in grado di rappresentare la complessità (e l’assenza di centro) della realtà moderna. Un ritratto decisamente diverso del mondo edoar­ diano è offerto dall’opera romanzesca di Edward Mor­ gan Forster (1879-1970), quasi tutta racchiusa nel pri­ mo decennio del Novecento. «Only connect», leggiamo nell’epigrafe di Howards End («Casa Howard», 1910): nel corso del romanzo Margaret, che ne è il personag­ gio chiave, esprime spesso la speranza che un giorno sia possibile riconciliare i due mondi che campeggiano nella vicenda, il mondo borghese degli affari e del po­ tere, conformista e materialista, e il mondo borghese della cultura liberal, illuminato, tollerante, aperto agli «altri» e alle «ragioni del cuore». In Where Angels Fear to Tread («Monteriano», 1905) e nella prima parte di A Room with a View («Camera con vista», 1908), i suoi primi due romanzi, il contrasto è tra la rigidità vitto­ riana, la freddezza, l’autorepressione da un lato, e la vitalità mediterranea, generosa e passionale dall’altro. In Howards End il contrasto è tra due aspetti diversi del mondo borghese, quello dell’industria e dei commerci, aggressivo e prepotente, e quello della cultura, umani­ stico e «democratico». Howards End può essere considerato un romanzo sullo «stato della nazione». Le vicende famigliari in esso narrate consentono a Forster di indagare con grande sottigliezza sulle caratteristiche degli uomini (prepoten­ ti e ottusi) e delle donne (sensibili e intelligenti) della borghesia inglese. Ma ancora più originale e persuasivo è il ritratto della piccola borghesia che emerge attraver­ so il personaggio del patetico impiegatuccio Leonard Bast (il quale mette incinta Helen, la sorella di Marga­ ret), che Forster cesella con straordinario acume psico­ ­101

logico e sociologico, facendone uno dei personaggi più «veri» di tutto il romanzo inglese del Novecento. Il tito­ lo del romanzo fa riferimento alla bella casa di famiglia nella campagna inglese, solida testimonianza dell’antica Inghilterra, ma che ormai rischia di essere fagocitata dalla nuova Inghilterra industriale. Forse sarà il figlio di Helen ad ereditarla, dopo un finale contrassegnato da clamorose coincidenze che portano all’uccisione del povero Leonard. A proposito di finali. L’idea di Forster era che il ro­ manzo (quel genere che, diceva con efficace semplicità, «tells a story» e deve quindi procedere verso una con­ clusione che la coroni) non dovesse terminare con una chiusura, bensì con un’apertura ai possibili sviluppi che le circostanze del finale autorizzavano. Dopo non poche esitazioni si era rassegnato a concludere A Room with a View in modo tradizionale. Relativamente più aperto è invece il finale di Howards End. E ancor di più quello di A Passage to India, il cui titolo italiano dovrebbe essere «Viaggio in India»: l’anziana signora e Adela, la giovane donna che si reca in India dove è di stanza l’ufficiale britannico che deve sposare, hanno infatti preso un tran­ satlantico per compiere il viaggio (passage) dall’Inghil­ terra al subcontinente indiano. È un breve viaggio di Adela alle grotte di Marabar a segnare la svolta della storia. L’accompagna un giovane medico locale, Aziz, il quale, dopo che Adela è uscita dalla grotta frastornata e sconvolta, è accusato di averla toccata. Dopo una quasi sommossa, il processo e l’assoluzione di Aziz, il viaggio in India della giovane si conclude in un vero disastro; e il matrimonio con l’ufficiale, ovviamente, non si farà più. Forster aveva incominciato a scrivere il romanzo nel 1914; poi lo aveva accantonato, soprattutto perché il finale gli si presentava come un problema di difficile ­102

soluzione. Aziz stabilisce un forte rapporto di amicizia con l’inglese Fielding, che, «colpevole» di averlo difeso, viene messo al bando dalla comunità britannica locale. Dopo quanto è accaduto, tuttavia, non è più possibile ritrovare l’intensa amicizia che prima li aveva legati (di recente alcuni critici hanno letto in chiave omosessuale il rapporto tra i due personaggi: interpretazione sen­ za fondamento testuale e forse suggerita dal fatto che Forster era omosessuale – ma restò vergine fino a qua­ rant’anni, per legarsi poi negli ultimi decenni della sua vita a un poliziotto, sposato e tutore di quella legge che, tra l’altro, considerava l’omosessualità un crimine). Nel finale del romanzo, che fu pubblicato nel 1924, Forster immagina i due personaggi che, anni dopo, cavalcano nella piana indiana intrisa dalla pioggia: gli edifici, gli uccelli, le rocce, con le loro cento voci, sembrano dire ai due uomini che non possono ancora essere amici. Non ancora: potranno esserlo quando i colonialisti inglesi se ne saranno andati per sempre. I primi volumi della Recherche di Proust erano sta­ ti pubblicati prima che Forster riprendesse in mano il romanzo e ne trovasse la conclusione. Di Proust lo ave­ va affascinato il modo in cui sottolineava l’importanza del subconscio («the modern subconscious way»), e il taglio con cui viene presentato l’episodio della grotta dimostra come Forster avesse fatto tesoro della lezione proustiana. Tuttavia il modo moderno con cui parlare del mondo moderno, le teorie e le pratiche dei moder­ nisti, di cui riconosceva l’importanza e la validità, non erano in sintonia con la sua sensibilità di scrittore. Dopo A Passage to India Forster non scrisse più romanzi. Prima di occuparci dei modernisti dobbiamo par­ lare di un romanziere, Ford Madox Ford (1873-1939), ­103

che modernista non è, ma che promosse nelle riviste che creò e diresse molti scrittori appartenenti a tale movi­ mento. Negli anni «edoardiani» pubblicò una trilogia di romanzi storici ormai confinati negli scaffali delle biblioteche universitarie; poco più tardi, nel secondo anno di guerra, nel 1915, uscì il suo capolavoro, The Good Soldier («Il buon soldato»), che racconta gli in­ trighi di due coppie alto-borghesi tra il 1904 e il 1913, affidandoli alla ricostruzione del marito tradito, l’ame­ ricano John Dowell. Tecnicamente The Good Soldier è un romanzo pre­ modernista: la narrazione di Dowell, spesso incapace di comprendere i fatti al limite della stupidità, e anche per questo «inattendibile», procede non secondo una linea cronologica, bensì come sull’onda dei ricordi, confida­ ti oralmente a un «ascoltatore silenzioso»; ma l’ascol­ tatore è un lettore, che cerca di orientarsi – con non poca fatica – tra episodi riferiti da un loro testimone che scrive. E che scrive riportando le impressioni che aveva sul momento, procedendo avanti e indietro negli anni, come guidato dalla memoria. Questa è la scelta di poetica di Madox Ford, che nel racconto procede per associazioni e per molteplicità di sensazioni, applicando alla narrazione il contributo degli studi psicologici del rivoluzionario primo Novecento. Tematicamente The Good Soldier è un romanzo sulla società borghese della «belle époque», con i suoi riti mondani, i suoi lussi sfrenati, la sua rete di ipocrite convenzioni e di ferrei divieti e la sua preoccupazio­ ne di rispettabilità in campo sessuale, tra repressione e pratiche nascoste. A proposito di quest’ultimo aspetto, molto è affidato alla figura del capitano Ashburnham, il buon soldato del titolo, che un buon soldato non è stato mai. È stato un impenitente dongiovanni, sedut­ ­104

tore delle mogli dei suoi colleghi ufficiali quando era di stanza in India; è stato un «pollo» che per comprare i favori di un’affascinante cortigiana ha dilapidato una fortuna; è stato il violentatore di una giovane cameriera nello scompartimento di un treno; e per nove anni è stato amante di Florence, la moglie del suo amico John Dowell (che non si è accorto mai di nulla). Quando le sue attenzioni si rivolgono verso Nancy, pupilla della moglie, Florence si uccide. La convivenza sotto lo stesso tetto di Ashburnham, di Nancy e di sua moglie Leonora (che sa) offre il contesto e l’occasione alla realizzazione della grottesca tortura psicologica nei confronti del buon soldato (ma in parte anche di Nancy) che Leonora conduce con grande sottigliezza ed effica­ cia. Nancy parte per l’India e Ashburnham si uccide, tagliandosi la gola con un coltellino. La trama, ridotta al suo sviluppo lineare, non brillerebbe più di tanto per originalità. Ma è il modo sapiente con cui Ford Madox Ford frantuma la linearità del racconto in nome della ricostruzione «a memoria» di Dowell, è la sottigliezza con cui esplora la psicologia di Leonora e di Nancy, è l’acutezza con cui entra nell’animo di Ashburnham che fanno di The Good Soldier un’opera di valore letterario assoluto e di assoluta modernità. E, come scrisse Gra­ ham Greene, che ne fanno il primo romanzo «adulto» della letteratura inglese in materia di matrimonio. Relativamente più tradizionali sono i quattro roman­ zi di Parade’s End, pubblicati tra il 1924 e il 1928, che costituiscono una sorta di saga costruita intorno alla figura di Christopher Tietjens, alto funzionario statale esperto di statistica, ricco gentiluomo che incarna le vir­ tù tipiche della vecchia Inghilterra (e i suoi pregiudizi classisti e razzisti) e marito infelice di una moglie che lo tradisce apertamente, ma che, per comodità, lo tiene ­105

accanto a sé. Questo lo scopriamo nel primo romanzo della tetralogia: nella prima parte siamo nel 1912, nella seconda nel 1917, nella fase più difficile della guerra. Nello stesso periodo si svolge anche il secondo roman­ zo, con Tietjens, che è «soltanto» un capitano, alle prese con la protervia e l’imbecillità degli alti ufficiali e gli in­ trighi della moglie. Al fronte Tietjens assiste con orrore ai massacri che falcidiano i soldati a decine di migliaia alla volta e nel suo comportamento tra le trincee sembra quasi cercare la morte; ma sopravvivrà. E alla fine della guerra (lo leggiamo nel quarto romanzo, il più debole e il più modernista) si dedicherà all’antiquariato e andrà a vivere con Valentine, la giovane donna conosciuta an­ ni prima, una suffragetta (lontanissima quindi dalle sue idee) con cui, dopo molti incontri platonici, aveva fatto l’amore prima di tornare al fronte. In Parade’s End Ford Madox Ford si fece «storico del proprio tempo», ricostruendo con grande efficacia il processo di epocale cambiamento nei valori, nei com­ portamenti personali e sessuali, nei rapporti sociali e di classe che travolsero la società inglese. E seppe offri­ re alla letteratura inglese una delle testimonianze più drammatiche e alcune delle pagine più nobili e potenti sui disastri della cosiddetta Grande Guerra.

VIII

Il Modernismo

In quel primo Novecento, edoardiano per l’Inghilter­ ra, «belle époque» per la Francia, l’opulenta borghesia europea poteva pensarsi come eterna, classe dominante di un mondo che una volta per sempre aveva trovato i suoi perfetti equilibri. Un’illusione che la prima guerra mondiale distrusse per sempre. Le ragioni e le cause di quel crollo erano già tutte presenti all’inizio del secolo. Ma, anche ignorandole, agli intellettuali e agli artisti più acuti era comunque chiaro che il vecchio mondo ottocentesco, con i suoi soffocanti e discutibili valori, doveva lasciare il posto al nuovo, alla modernità. E Modernismo fu il nome del vivacissimo movimento culturale che già negli anni precedenti allo scoppio della guerra «distrusse» ciò che impediva la creazione del nuovo – la creazione, cioè, di quanto venne poi realizzato nel dopoguerra. Dopo la fine del conflitto, come scrisse in un lontano ma fondamentale saggio Erich Auerbach, alcuni scrit­ tori (inglesi, francesi, tedeschi) si resero conto che gli epocali cambiamenti avvenuti dalla fine dell’Ottocento in poi, e culminati con gli orrori della guerra, avevano fatto crollare quella «comunanza di pensiero e di senti­ ­107

mento» che prima consentiva allo scrittore di ritrarre la realtà «avendo in mano dei criteri sicuri per ordinarla». Ciò da un lato implicava la rinuncia a voler rappresenta­ re la vita nella sua completezza, con la scelta di limitare il tempo della narrazione a poche ore o giorni, nella convinzione che meglio era indagare il singolo fatto; e nella persuasione che esso, attraverso il collegamento con altre vicende nel passato appena intuite potesse fare scorgere il senso di una vita. Dall’altro lato ciò comportava la scelta di «dissolvere la realtà, che passando per il prisma della coscienza», veniva così frantumata in aspetti e significati molteplici. Nella narrativa questo, tecnicamente, comportava il ri­ corso al rivoluzionario stream of consciousness di Joyce, al flusso di coscienza, al trasferimento sulla pagina del processo inconsapevole di pensieri, associazioni e sen­ sazioni che attraversano la mente. Oppure, esemplar­ mente in Virginia Woolf, alla rinuncia del punto di vista del narratore per l’adozione di una molteplicità di punti di vista. L’intento, diceva ancora Auerbach, era quello di «avvicinarsi a una vera realtà obiettiva con l’aiuto di molte impressioni soggettive avute da molte persone (e in momenti diversi)». È significativo che, già prima, sia Conrad, sia Ford Madox Ford, pur senza adottare tali tecniche, avessero elaborato scelte narrative (il secondo narratore, il narra­ tore inattendibile) che registravano la difficoltà di rac­ contare nella maniera tradizionale. Furono poi i moder­ nisti, i testimoni della «perdita del centro», a denunciare l’impossibilità di raccontare una storia con la linearità che veniva da un’ordinata visione del mondo ora che il mondo non era più conoscibile nella sua totalità. La mancanza di punti di riferimento sicuri, l’incer­ tezza e la confusione determinate dal venir meno di un ­108

«centro», ma al tempo stesso la convinzione della pos­ sibilità di rappresentare dimensioni inesplorate e nuove dimensioni della realtà, si tradusse nella straordinaria fioritura letteraria degli anni Venti. È importante ricor­ dare che a prepararne il terreno non poco contribui­ rono le posizioni espresse dal cosiddetto Bloomsbury Group, formato dal saggista e biografo Lytton Stra­ chey, dal critico d’arte Roger Fry, dall’economista John Maynard Keynes e infine da Leonard Woolf e dallo sto­ rico dell’arte Clive Bell, che sposarono rispettivamente Virginia e Vanessa, le figlie dell’influente critico lette­ rario, storico e filosofo Leslie Stephen. A partire dai primi anni del Novecento, soprattutto nelle abitazioni di Vanessa e Virginia, a Gordon Square e dintorni (la zona di Bloomsbury), avvenivano gli incontri del grup­ po, a cui si unirono poi Forster, Eliot e Bertrand Russell. Le posizioni del Group erano coraggiosamente li­ berali e in campo sessuale addirittura rivoluzionarie rispetto alle ipocrite convenzioni vittoriane. E (quasi) rivoluzionaria era la rivendicazione della piena digni­ tà e assoluta autonomia della scrittura femminile. Fu proprio tale posizione e la determinazione con cui fu promossa che consentirono la valorizzazione e, ancor prima, la paritaria possibilità di espressione delle scrit­ trici del primo Novecento. James Joyce (1882-1941), dublinese e cattolico – stu­ diò infatti allo University College, l’università cattolica di Dublino –, dopo essersi laureato lasciò l’Irlanda, pri­ ma per Parigi e poi per Trieste, dove visse dal 1904 al 1915, anno in cui, a causa della guerra, si trasferì a Zu­ rigo; e infine, nel 1920, si stabilì a Parigi, dove terminò e pubblicò il romanzo più citato e discusso di tutto il Novecento, Ulysses («Ulisse», 1922). ­109

Il testo che rivelò il talento di Joyce è Dubliners («Gente di Dublino», 1914), una raccolta di racconti disposti in modo da presentare la vita di Dublino nei quattro aspetti dell’infanzia, dell’adolescenza, della ma­ turità e della vita pubblica. Il taglio della narrazione si presenta come del tutto naturalistico, ma in realtà è l’epifania, «l’improvvisa rivelazione dell’essenza di una cosa», che detta il senso del racconto: il singolo momen­ to rivela (questo è il verbo imprescindibile) il significato generale di un ambiente, di una vita, di un intero mon­ do. Quest’idea dell’epifania, che è centrale nell’opera di Joyce, costituirà un punto di riferimento cruciale per tutta la cultura modernista. La decisione di lasciare l’Irlanda (con il suo squal­ lido provincialismo, con quella Dublino che era «il centro della paralisi» della realtà irlandese), e la scelta dell’esilio furono per Joyce una scelta di libertà. Per la verità nel suo primo romanzo, Portrait of the Artist as a Young Man («Ritratto dell’artista da giovane», 1916), l’esilio è quasi sinonimo della condizione di artista. Gli aspetti autobiografici sono indubbiamente decisivi, ma il romanzo deve essere visto come l’illustrazione, de­ scritta con toni che si presentano come ispirati all’og­ gettività e all’impersonalità, di un percorso generale di maturazione del «giovane artista». Il giovane artista Stephen Dedalus, non più così gio­ vane, è la figura centrale della prima parte di Ulysses, la «Telemachiade». Rispetto al poema omerico, Stephen è il figlio Telemaco, mentre il padre Ulisse compare più tardi sotto le spoglie di Leopold Bloom, piccolo «ebreo errante» (a dire il vero ebreo solo a metà), che lavora come procacciatore di pubblicità per un giorna­ le cattolico; al posto della fedelissima Penelope c’è la consorte di Bloom, Molly, cantante lirica e moglie infe­ ­110

dele. Bloom, che non ha figli, assume il ruolo di figura paterna di Stephen nel corso delle vicende raccontate nel romanzo, che occupano un solo giorno, quello del 16 giugno 1904, a differenza degli anni trascorsi da Ulisse per mari e terre lontane. Da un lato c’è quindi il taglio parodico ed eroicomico, che contrappone alla grandezza del mondo antico la piccolezza e la meschi­ nità del presente; ma dall’altro c’è anche l’idea che il modesto materiale offerto dal presente possa essere elaborato in una dimensione epica. T.S. Eliot recensì con ammirazione il romanzo, esal­ tandone il «metodo mitico», per cui, nel procedere del racconto, alla scrittura realistica si sovrappongono i pa­ ralleli con l’Odissea. Joyce, che definì il romanzo come «un’Odissea moderna», scrisse che Ulysses era «l’epo­ pea di due razze (Israele-Irlanda)». Aggiunse che era anche una specie di epica del corpo umano: e fu a causa dell’esplicita presentazione delle funzioni «vergognose» del corpo, la defecazione, la minzione, le mestruazioni (oltre a quelle sessuali, compreso un anilingus immagi­ nato da Molly), che il libro venne bloccato dalla censu­ ra, in Usa fino al 1933 e in Gran Bretagna fino al 1937 (in Irlanda, ça va sans dire, addirittura fino al 1966). Da un lato Ulysses è un romanzo dagli accenti tipi­ camente realistici, che, ad esempio, descrive con accu­ rata precisione le strade e le case di Dublino (al punto, disse Joyce, che se la città fosse stata distrutta, sarebbe stato possibile, in base al libro, ricostruirla esattamente com’era nel 1904). Dall’altro è un romanzo che aspira ad essere una summa di tutto l’universo attraverso un fitto intreccio di temi sussidiari, di riferimenti letterari, di contenuti simbolici che avvolgono il tema centrale del libro: la ricerca del figlio da parte di Bloom (il cui unico figlio era morto quando era bambino) congiunta ­111

a quella del padre da parte di Stephen (che aveva rifiu­ tato il suo). Soprattutto, quasi a oscurare la scrittura realistica, in Ulysses trionfa l’invenzione linguistica più dirompente: i giochi di parole, le acrobazie verbali, gli echi letterari, i prestiti da altre lingue, gli accostamenti più impreve­ dibili percorrono come fuochi d’artificio le pagine del romanzo. Il vertice dell’invenzione linguistica, al tempo stesso innovazione tecnica e soluzione narrativa rivolu­ zionaria, è dato dal ricorso allo stream of consciousness, che, in particolare, occupa l’ultimo capitolo del libro, fatto di otto lunghissime frasi senza punteggiatura per un totale di circa quaranta grandi pagine (nell’accurata edizione Bodley Head). Il mescolarsi dei pensieri, dei ricordi, dei desideri, delle immagini che affollano la mente di Molly danno vita a quel flusso di coscienza (che a un certo punto scivola nell’inconscio) che co­ stituisce uno dei più rivoluzionari segni distintivi della scrittura modernista. L’invenzione linguistica appare come la quasi esclu­ siva ragion d’essere di Finnegans Wake («La veglia di Finnegan», 1939), a cui Joyce lavorò per quasi vent’an­ ni, dal 1923 al 1938. Il romanzo non «racconta una sto­ ria». Quindi, se accettiamo il motto di Forster, romanzo non è. Il tutto si svolge come all’interno del sogno e dei pensieri del gestore di un pub fuori Dublino, e del suo rapporto con la moglie e i figli, ma le loro piccole vi­ cende vengono dilatate a raffigurare l’intera avventura umana. La combinazione delle parole inglesi con quelle di altre lingue, le allusioni tratte dalle fonti più diverse, la deformazione dei vocaboli, le bizzarrie verbali, han­ no una loro giustificazione nella dimensione onirica e nella volontà che la singola esperienza descritta assuma valore di universalità. L’influenza di Freud è verosimil­ ­112

mente cruciale; ma altrettanto importanti sono i riferi­ menti filosofici a Vico e a Giordano Bruno, in un testo di immensa dottrina e originalità. Critici e scrittori si sono espressi in modo diversis­ simo su quest’opera, da alcuni considerata come uno dei maggiori capolavori del Novecento, da altri (D.H. Lawrence, ad esempio) come un fallimento totale. È tuttavia evidente che nel suo portare agli estremi la spe­ rimentazione linguistica, la narrazione stessa finisce con l’essere oscurata. Finnegans Wake è la testimonianza let­ teraria più audace, pur nella sua oscurità, dell’autore più geniale e del narratore più stupefacente del Nove­ cento modernista. Virginia Woolf (1882-1941), attivissima componente del Bloomsbury Group e brillante protagonista del di­ battito culturale nell’Inghilterra di inizio Novecento, fu, con Joyce, la punta di diamante del romanzo modernista. Dopo i due romanzi d’esordio, caratterizzati da un taglio non molto lontano dalla scrittura tradizionale, con Mrs Dalloway (1925) Woolf riuscì a scoprire la forma narra­ tiva che poteva corrispondere a ciò che Lytton Strachey definiva il punto di vista moderno e a superare positi­ vamente le forme del realismo dei vari Bennet, Wells e Galsworthy (che Virginia Woolf aveva condannato senza appello). Il mondo interiore di Clarissa Dalloway è tra­ sferito nel romanzo attraverso il discorso indiretto libero, che, oltre a proporre i pensieri e le riflessioni della pro­ tagonista, moltiplica il numero dei punti di vista attra­ verso i quali procede la storia. Mrs Dalloway e il marito Richard, deputato Tory, appartengono alla upper class e sono decisamente conservatori, al contrario dei coniugi Woolf, progressisti e vicini al movimento fabiano. Ma tra Mrs Dalloway e Virginia Woolf c’è una vicinanza emo­ ­113

tiva: il personaggio e l’autrice nel momento della stesu­ ra del romanzo sono reduci da una seria malattia e con qualche fatica cercano di ritrovare la normalità. Per Mrs Dalloway un buon modo per riuscirci è organizzare un party nella sua elegante casa londinese. Mrs Dalloway, come Ulysses, rispetta l’unità di tem­ po e di luogo, svolgendosi in un solo giorno e in una sola città, questa volta Londra, con una puntuale descrizio­ ne delle strade, delle piazze, delle case e dei parchi della capitale inglese (anche se i tempi della lunga camminata di Peter Walsh dalla casa di Clarissa a Regent’s Park so­ no sbagliati). Nel corso della giornata gli spostamenti, i momenti di riflessione, la conversazione nel finale, sfio­ rano e si alternano con la vicenda di Septimus, un gio­ vane che è stato mentalmente distrutto dall’esperienza della guerra, in preda a incubi e allucinazioni, che verso la fine del libro si ucciderà. La cosa che colpisce è che Mrs Dalloway, alla notizia della morte di Septimus, che non aveva mai conosciuto (a riferire la notizia è il me­ dico, ospite del suo party, che lo aveva visitato), si sente molto più vicina a lui che non al marito, o a Peter Walsh, il suo antico innamorato, o alla sua vecchia amica di gioventù, Sally Seton (il cui bacio era stato la cosa più deliziosa della sua vita). Il ritratto psicologico che Woolf ci offre dei suoi personaggi è guidato da una delicata sensibilità che le consente di consegnare ai lettori il senso profondo del loro sentire. Non solo di Mrs Dalloway, non solo di Septimus e della sua mente sconvolta, ma anche di Peter Walsh, con i suoi slanci sentimentali e i suoi con­ traddittori entusiasmi patriottici misti al disincanto per l’impresa coloniale; e anche di Richard Dalloway, che a un certo punto si scopre determinato a dire alla moglie «in chiare parole» che l’ama. Non glielo dirà. ­114

Mrs Dalloway dichiara l’impossibilità del romanzo realistico, perché la realtà non è oggettiva, ma è quella che soggettivamente viene percepita dai personaggi: il romanziere, mettendosi da parte, coglie i momenti di rivelazione che la illuminano, i meccanismi associativi della mente che vagano nello spazio e nel tempo e che accompagnano il procedere del racconto. Tale scelta nar­ rativa non è solo di natura tecnica, ma risponde all’inten­ to di valorizzare l’esperienza interiore, come, in misura ancora più marcata, avviene in To the Lighthouse («Gita al faro», 1927). L’esperienza narrata nella prima parte del romanzo è quella di Mrs Ramsay (intrecciata a quella dei suoi famigliari, in un’atmosfera ancora vittoriana); nella seconda parte è quella della pittrice Lilly Briscoe (e del suo travaglio creativo, che trova finalmente una sua felice conclusione). Tra le due parti, che coprono ciascuna lo spazio di poche ore, è collocato un breve in­ termezzo, che copre invece i dieci anni che le separano. I grandi avvenimenti (quei dieci anni comprendo­ no la prima guerra mondiale, la morte di Mrs Ramsay e quella al fronte del figlio maggiore) non hanno un ruolo decisivo. Contano di più le improvvise illumina­ zioni e i momenti di visione che Woolf spesso affida al monologo interiore, in uno scorrere di sensazioni e di associazioni mentali proposte attraverso una narrazione che, rispetto alla radicalità dello stream of consciousness di Joyce, mantiene un accurato ordine di esposizione e che spesso si caratterizza per un suo soffuso lirismo. Più vicino allo stream joyciano sarà il successivo The Waves («Le onde», 1931), in cui, più che raccontare una storia, il narratore si preoccupa di trasferire sulla pagina il fluire delle voci, delle sensazioni, dei pensieri dei per­ sonaggi: di evocare le «isole di luce» che spiccano nella corrente della vita. ­115

Oltre a Orlando (1928), una biografia fantastica dell’amica Victoria Sackville-West raccontata attraver­ so un personaggio uomo e donna la cui vita si sviluppa lungo quattro secoli di storia, di Virginia Woolf biso­ gna ancora ricordare Between the Acts («Tra un atto e l’altro», 1941), pubblicato poco dopo la morte della scrittrice. Di nuovo, il tutto si svolge in un solo giorno, nella casa di campagna degli Oliver. Ma è l’estate del 1939, poco prima dello scoppio della guerra, e le allu­ sioni sparse nel romanzo registrano il fatidico intervallo tra guerra e pace. La zitella Miss La Trobe (in cui Woolf ironicamente ritrae se stessa) ha scritto il testo di un tradizionale spettacolo in costume che in tre atti illustra, ma anche qui ironicamente, tre momenti della storia d’Inghilterra. Tra un atto e l’altro emergono i piccoli problemi e le tensioni dei componenti della famiglia, in particolare di Ida, la moglie insoddisfatta e «poetica» dell’inquieto e noioso Giles Oliver. Una sorta di Mada­ me Bovary. Ma alla fine della giornata, essendo inglese, Ida andrà a letto con il marito. Colpisce il taglio ironico del romanzo, alla luce di quanto sarebbe successo alla fine della sua stesura. Virginia Woolf, cedendo alla depressione che l’aveva tormentata per tutta la vita, si suicidò annegandosi: una morte meno «scientifica» di quella con la dose di cianuro che il marito (Leonard Woolf era ebreo) aveva predisposto in caso di invasione dell’Inghilterra da par­ te della Germania nazista. L’opera di Virginia Woolf si colloca ai vertici della narrativa modernista; ma il posto di primo piano che occupa nel canone della letteratura inglese del Nove­ cento è soprattutto dovuto alla sua fondante riflessione sull’universo femminile e sulla scrittura al femminile. ­116

Negli anni in cui Joyce, a Parigi, lavorava alla stesura di Finnegans Wake, tra i suoi ammiratori si distingueva un giovane irlandese, come lui di Dublino, ma prote­ stante, e come lui in volontario esilio per sfuggire al soffocante provincialismo della loro (rinnegata) madre patria. Si chiamava Samuel Beckett (1906-1989), si era laureato al Trinity College, dove aveva studiato francese e italiano, e si era stabilito a Parigi dopo avere rinun­ ciato alla carriera universitaria al Trinity: vuoi perché agli studenti (come scrisse più tardi in una lettera) «non poteva fregargliene di meno» della letteratura, vuoi per­ ché gli studi accademici gli sembravano vacui (al Trinity aveva tenuto una dotta conferenza su un poeta e un movimento letterario del tutto inesistenti), vuoi, soprat­ tutto, perché aveva deciso di fare lo scrittore. La sua ammirazione per Joyce era sconfinata; così come grandissima era l’influenza che Joyce esercitava sulla sua scrittura. Dopo una raccolta di racconti in­ titolata More Pricks than Kicks («Più pene che pane», 1934), che può essere considerata come una sotterranea e rispettosa parodia di Dubliners, Beckett, con qualche difficoltà, riuscì a fare pubblicare Murphy (1938), un romanzo di deliziosa intelligenza che prende a prestito le tecniche e le forme della scrittura realistica per farne una beffarda parodia. L’idea era quella di rivelarne in questo modo l’improponibilità; ma un aspetto di non minore interesse del romanzo – cha narra la storia di un giovane il cui scopo nella vita è riuscire «a non fare as­ solutamente niente», ma che per amore della prostituta con cui è andato a convivere accetta di lavorare e va a fare l’infermiere in un manicomio – è l’atteggiamento di Beckett nei confronti della malattia mentale, con un’an­ ticipazione di ciò che trent’anni dopo avrebbe dichiara­ to l’antipsichiatria. ­117

Dopo la guerra Beckett, che aveva collaborato con la Resistenza sfuggendo per poco all’arresto da parte della Gestapo, decise di adottare come lingua letteraria il francese, sottraendosi così al virtuosismo linguistico (e all’influenza joyciana) che aveva caratterizzato i suoi lavori. A partire dal francese Beckett elaborò uno stile nitido, astratto, estraneo a ogni tentazione retorica. E nella lingua adottata, tra il 1947 e il 1950, scrisse la trilo­ gia romanzesca che costituisce uno dei momenti più alti della ricerca letteraria del Novecento. Dei tre romanzi, quello centrale, Malone meurt, è uno dei capolavori as­ soluti del secolo scorso. Beckett lo tradusse lui stesso in inglese, con il titolo di Malone Dies, così come tradusse gli altri due romanzi e i racconti scritti in francese. E tuttavia sempre di traduzione si tratta, per cui sarebbe una forzatura considerare questa sua opera romanzesca come appartenente al corpus del romanzo inglese. Anche se la ricerca letteraria di Beckett si muove in un ambito del tutto autonomo, non è invece una forza­ tura considerarla come il frutto di un’adesione (trami­ te Joyce) non tanto alla teoria quanto alla pratica della scrittura modernista. In un certo senso la trilogia ne è il frutto tardivo, ma non per questo meno prezioso. La stessa considerazione vale per Under the Volcano («Sotto il vulcano», 1947) di Malcom Lowry (19091957), che buttò alle ortiche la sua appartenenza al­ la buona borghesia britannica per condurre una vita avventurosa e vagabonda, per lunga parte trascorsa in Canada, dove scrisse (e faticosamente riscrisse) il suo capolavoro. Under the Volcano racconta la storia di Geoffrey Firmin, alcolizzato, console britannico nella città messicana di Cuernavaca, che viene ucciso da un gruppo di poliziotti razzisti («ebreo di merda» è l’in­ ­118

sulto ricorrente) e fascisti. Tutto il racconto, a parte il primo dei dodici capitoli, che ha luogo il giorno dei morti del 1939, si svolge esattamente un anno prima, il 2 novembre 1938: una vita e un mondo in un solo giorno, come in Ulysses. E quasi nello stesso numero di ore: dalle sette del mattino alle sette di sera. Tre grandi icone sottendono il romanzo: la danna­ zione faustiana, la Commedia di Dante (il cui attacco compare nel capitolo VIII) e la cacciata dal Paradiso terrestre, come dichiarò l’autore stesso. La scrittura di Lowry riprende molti aspetti propri del Modernismo, la molteplicità dei punti di vista, il monologo interiore, il flusso di coscienza. Ma, come osservò Stephen Spender, con una differenza basilare. Mentre Eliot e Joyce mira­ vano a un’espressione letteraria «oggettiva», Lowry uti­ lizza stilemi e pilastri simbolici e mitici secondo la loro lezione per giungere invece a una scrittura soggettiva, personale, autobiografica (senza contare che altri punti di riferimento sono Conrad, per quanto riguarda certe modalità di narrazione, e Melville, per quanto riguarda il tono di grandiosità che al romanzo Lowry vuole at­ tribuire). L’ultimo giorno della vita del console si svolge po­ co dopo l’occupazione dell’Austria da parte di Hitler e mentre le truppe di Franco si apprestano a conquistare la Catalogna (il fratellastro del console sta per imbar­ carsi su una nave che deve portare armi e munizioni alle forze repubblicane): la fine del protagonista è una possente allegoria storica del suo tempo, di quegli anni Trenta in cui maturarono le premesse dei disastri della seconda guerra mondiale. Under the Volcano non è un romanzo «politico»; semmai è un romanzo modernista, fitto di rimandi eru­ diti, di riferimenti alla tradizione e al mito e, soprattutto, ­119

di soluzioni narrative che seguono la lezione di autori come Joyce e Woolf. È un romanzo che si risolve nel suo protagonista, nella sua solitudine, nella sua autodistru­ zione alcolica, nella sua incapacità di amare. Eppure, al tempo stesso, è una delle raffigurazioni più suggestive e puntuali di quel periodo fatidico del Novecento, con i suoi entusiasmi, la sua sottovalutazione della minaccia nazista, la sua ebbra incoscienza («se il mondo restasse sobrio per due giorni di fila», dice il console, «il terzo giorno morirebbe di rimorso»), la sua corsa cieca verso l’abisso.

IX

Al di fuori del Modernismo

David Herbert Lawrence (1885-1930) era il figlio di una (quasi) maestra e di un minatore; e fu anche la sua estra­ zione sociale, oltre all’originalità dei suoi primi scritti, a indurre Ford Madox Ford a fargli pubblicare il suo pri­ mo romanzo, The White Peacock («Il pavone bianco», 1911). L’aspetto sociale, tuttavia, assunse rilievo solo a partire da Sons and Lovers («Figli e amanti», 1913), dove la vita del proletariato, con le sue miserie e le sue soffe­ renze, balza in primo piano. Il romanzo non è però sol­ tanto un’opera di solido realismo, ma è anche un lavoro modernissimo nell’indagine del rapporto tra coniugi e tra genitori e figli. In particolare di quello edipico tra madre e figlio: tutti i figli maschi amano la madre e odia­ no il padre, scrisse Lawrence, elevando a caratteristica generale il suo caso specifico. Il romanzo è chiaramen­ te autobiografico, con il protagonista Paul Morel che cerca di liberarsi dal soffocante legame con la madre attraverso il rapporto con la riservata e timida Miriam e con la molto più disinvolta e carnale Clara. Alla fine del romanzo, alla morte della madre, Paul è un uomo distrutto (come lo fu Lawrence alla morte di sua madre, che descrisse come la più grande tragedia della sua vita). ­121

Tuttavia le ultime righe del libro registrano un’improv­ visa impennata della volontà, la determinazione a non arrendersi e a vivere la propria vita – come d’altronde, seppur non così improvvisamente, accadde a Lawrence. In Sons and Lovers sono già presenti i temi cruciali dell’opera di Lawrence: le tensioni nei rapporti socia­ li e nei rapporti sessuali, il conflitto tra convenzioni e passione, il contrasto tra natura e civiltà industriale. Quest’ultimo aspetto è fondamentale in The Rainbow («L’arcobaleno», 1915), il romanzo letterariamente più raffinato di Lawrence, che, raccontando la saga di tre generazioni della famiglia Brangwen, da metà Ottocen­ to ai primi anni del Novecento, denuncia la distruzione della civiltà contadina «naturale» operata dall’avanzare della civiltà industriale. (Le tracce lasciate sul territorio dagli insediamenti industriali erano ai suoi occhi le ci­ catrici che avevano deturpato il volto dell’Inghilterra.) In Lawrence c’è un’idealizzazione della vita vera ormai scomparsa dal suolo inglese, di uomini «veri» in una natura «vera»; ma ad essa si accompagna un ritratto di grande interesse sociologico delle trasformazioni sociali dell’Inghilterra del secondo Ottocento, disegnato con avvincente forza e grazia narrativa. Subito dopo la sua pubblicazione, The Rainbow subì un processo per osce­ nità e nei successivi undici anni ne fu vietata la vendita. Il romanzo fa tutt’uno con il successivo Women in Love («Donne innamorate», 1921), in cui viene ribadita e rafforzata l’idea che il recupero dell’integrità vitale perduta possa passare attraverso l’eros, attraverso un’e­ sperienza sessuale che Lawrence (nonostante le accuse di oscenità che anche a questo romanzo furono rivolte) vede come qualcosa di sacrale, di strettamente legato a un rispetto quasi religioso del corpo e della sua forza vitale. ­122

Women in Love per architettura e stile narrativo si stacca fortemente dalla produzione precedente. Il lin­ guaggio accentua quella sotterranea sensualità che già appariva sin dai primi lavori e le valenze simboliche vengono a occupare un ruolo centrale rispetto alle espe­ rienze narrate; soprattutto, non sono tanto le vicende dei personaggi a dettare lo sviluppo della narrazione, quanto i singoli episodi, i singoli momenti di scoperta di una verità profonda attraverso il trasporto dell’istinto e dell’emozione. È anche vero, tuttavia, che in certe pa­ gine la speculazione, la riflessione «filosofica» dei per­ sonaggi, un po’ appesantisce lo scorrere del racconto. Nel romanzo è facile scorgere un duro attacco all’in­ tellettualità inglese (Bloomsbury Group incluso), che agli occhi di Lawrence appariva malata di estetismo e incapace di affrontare la tragicità del presente: il dopo­ guerra, dopo i disastri e lo sconvolgimento causati dalla guerra, è un tempo apocalittico, che testimonia la de­ cadenza dell’anima inglese e, più in generale, il declino dell’Occidente. Il romanzo a cui Lawrence affida la sua ultima sfida alla sterilità del mondo borghese è Lady Chatterley’s Lover («L’amante di Lady Chatterley»), pubblicato in Italia nel 1928 e bloccato dalla censura inglese e americana per oltre trent’anni. Il marito di Lady Chatterley, relegato su una sedia a rotelle a causa delle ferite riportate in guer­ ra, è paralizzato e impotente (anche Lawrence in quegli ultimi anni era diventato impotente). L’amante è Mel­ lors, il guardiacaccia, figlio di un minatore, «naturale» per estrazione sociale e per mestiere, non contaminato dalla civiltà industriale. Il suo intervento è fisico, vitale, dettato dall’eros. Alla sessualità è affidata la possibilità del riscatto, della realizzazione di sé, e alle parole dirette (esplicite e popolaresche) con cui essa si esprime è affida­ ­123

ta la tenerezza della fisicità dell’amore. Il finale è aperto, tra realistico pessimismo e speranza. La speranza sembra però riguardare soltanto quei pochi capaci di liberarsi dai vincoli soffocanti di una classe dominante non solo re­ pressiva e prevaricatrice, ma anche incapace di affrontare e superare il cataclisma prodotto dalla guerra. Come si diceva più sopra, alcune delle caratteri­ stiche della scrittura di Lawrence rappresentano una rottura indubbia rispetto ai modi tradizionali della nar­ razione; mentre fortemente innovativa è la profondità dell’analisi psicologica che arricchisce i suoi personaggi (già prima di conoscere l’opera di Freud, Lawrence in­ dagò la dimensione dell’inconscio, a cui dedicò due sag­ gi all’inizio degli anni Venti). È quindi certamente vero che Lawrence fu uno scrittore modernissimo; ma è assai meno vero che possa essere annoverato tra gli scrittori modernisti – che infatti, a parte i buoni rapporti degli inizi, egli non amò. E da cui non fu amato. Se non c’è dubbio, infatti, che il Modernismo fu il fenomeno letterario che qualificò il primo Novecento, è anche vero che nell’ambito della narrativa molti furono gli scrittori di indiscutibile valore che si mossero in una direzione ad esso del tutto estranea. Il primo, in ordine di tempo, è William Somerset Maugham (1874-1965), l’au­ tore del naturalistico Liza of Lambeth – di cui già si è det­ to – e di Of Human Bondage («Schiavo d’amore», 1915), un Bildungsroman alla David Copperfield, romanzo che Maugham apprezzava moltissimo. Ma, a differenza di David, il suo protagonista non trova una realizzazione artistica (farà il medico) e la sua esperienza formativa (e distruttiva) passa non attraverso l’amore bensì attraverso il sesso: il suo «riscatto» giungerà soltanto quando riusci­ rà a liberarsi della donna frivola e volgare che per anni ­124

lo ha sfruttato, disprezzato, umiliato e tradito. Maugham fu soprattutto autore di splendidi racconti, che quindi non possono qui avere spazio, ma di cui è doveroso dire che ancor più dei romanzi rivelano le virtù di Maugham come limpidissimo prosatore e come acuto ritrattista del mondo inglese, in particolare di quella sua parte impe­ gnata nell’impresa coloniale. La sua scrittura, splendida per correttezza linguistica e purezza stilistica, si accom­ pagnava a un’attenta, penetrante, a volte cinica osser­ vazione della realtà: sapeva, o comunque era convinto di sapere, come sono fatti gli uomini, cosa desiderano e cosa temono, cosa guida le loro scelte e quali sono le circostanze sociali che ne governano i rapporti reciproci. Questo atteggiamento di scrittore «realista», che sta alla base di tutta la sua opera narrativa, si ritrova anche nel suo delizioso libro di spionaggio Ashenden. Or the British Agent (1928), tradotto in italiano con il titolo Ashenden. L’agente inglese, e che potremmo definire un romanzo «a episodi», legati tra loro dalla figura del protagonista. Maugham agente dei servizi segreti lo era stato davvero, essendo stato reclutato durante la prima guerra mondiale e avendo operato come agente segreto – piuttosto sui generis – prima in Svizzera e poi in Russia nei mesi precedenti la Rivoluzione d’ottobre. A differenza dei primi scrittori di romanzi di spio­ naggio, quindi, Maugham conosceva bene gli argomen­ ti di cui parlava. Anche nel racconto delle missioni asse­ gnate ad Ashenden ci sono segreti, telegrammi in codice e morti ammazzati, ma Ashenden non ha nulla di eroico o di misterioso. Né sono particolarmente misteriose le sue imprese. Soprattutto, non è dotata di particolare fascino la macchina spionistica di cui è entrato a fare parte. Leggendo il libro, qualche dubbio sull’intelligen­ za dei responsabili dei servizi segreti è impossibile non ­125

averlo; e ancor più su certi loro collaboratori. In quanto agli agenti segreti (al di là del fatto che rischi ne corrono davvero), nessuna aura li circonda: fanno il loro lavo­ ro, più o meno sporco, più o meno delittuoso, a volte inutile, mai riconosciuto. Ashenden è il primo agente segreto che possiamo definire un antieroe; e Maugham è il primo scrittore a ritrarre il mondo dello spionaggio in modo realistico. È senza dubbio questo il libro da cui nasce il moderno romanzo di spionaggio, antiretorico, scettico, consapevole del cinismo del potere. Evelyn Waugh è stato uno dei più eleganti scrittori inglesi del Novecento, dotato di un’accuratezza e di una fluidità di scrittura quasi senza pari. Ne era consape­ vole, e riteneva che al suo livello ci fosse quasi soltanto Graham Greene, a cui lo legava il fatto di essere come lui un convertito al cattolicesimo. D’altronde, cambiare ciò che con la nascita aveva avuto fu un aspetto non secondario della sua personalità. Cambiò religione e cambiò nome. Era stato battezzato Arthur St John, ma decise di farsi chiamare Evelyn, un nome di donna (che tuttavia in qualche caso è usato anche per i maschi). Waugh aveva un atteggiamento di totalizzante no­ stalgia per la «vecchia Inghilterra» e di disprezzo per l’Inghilterra contemporanea, colpevole di dimenticare il rispetto dovuto ai superiori, di porre il denaro al di sopra di ogni altro valore, di tollerare distrattamente le licenziosità più manifeste. La sua rabbia nei confronti della banalità del presente e del trionfo del denaro gli dettò le pagine di A Handful of Dust («Una manciata di polvere», 1934), un delizioso romanzo che ripercorre le vicende di Tony Last, un gentleman perduto nelle sue fantasticherie di un mondo scomparso (e forse mai esistito), incapace di muoversi nella realtà moderna: il ­126

taglio è ironico e grottesco – e feroci sono i toni usati per il personaggio della moglie del protagonista. Waugh si era sposato nel 1928 con l’aristocratica Evelyn Gardner, ma dopo un paio d’anni, e i nume­ rosi tradimenti di lei, i due avevano divorziato. Il fal­ limentare matrimonio spiega quel forte atteggiamento misogino che spesso compare nei suoi romanzi e che a più riprese emerge in The Loved One («Il caro estinto», 1948), romanzo che costituisce un atto di accusa al ve­ triolo contro il consumismo della società americana. Un romanzo dai toni grotteschi, sprezzante nei confronti degli yankees, ma con la capacità di partire da un settore ristretto e non rappresentativo del mondo americano (una ditta di pompe funebri) per indicare le debolezze di un intero sistema di vita. Nel 1939, alla notizia del patto Hitler-Stalin, Waugh si era prontamente arruolato: era chiarissimo, scrisse, quan­ to mostruoso fosse il nemico, adesso che i due anticristo si erano alleati. La sua vita di ufficiale (a causa del suo ec­ cessivo rigore) fu fatta di continui cambiamenti: di com­ pagnie, di compiti e di luoghi. Nel 1943 era a Creta, dove assistette alla ritirata «ingloriosa» dell’esercito britanni­ co. Tornato in Inghilterra, si mise a scrivere il romanzo in cui aveva deciso di ripercorrere le trasformazioni so­ ciali dell’Inghilterra tra le due guerre, Brideshead Revisited («Ritorno a Brideshead», 1945). Il libro racconta la storia sentimentale di un giovane medio-borghese (che, socialmente, è Waugh) nei suoi rapporti con i membri di un’antica e aristocratica famiglia cattolica, proprietaria della sontuosa magione di Brideshead. Tutto viene tra­ volto, dal tempo e dalla guerra: ma l’immagine finale, quella di una fiammella che continua ad ardere «tra le antiche pietre» della cappella, sta ad indicare che sol­ tanto negli antichi valori risiede la possibilità di salvezza. ­127

Tali valori, pensava Waugh, sono quelli di cui l’establishment si riempie la bocca guardandosi bene dal praticarli: ciò che rimane è solo spocchia, presunzione e imbecille senso di superiorità. Per averne conferma basta leggere la trilogia Sword of Honour («Spada e onore», 1952-61), che con molti tocchi autobiografici ripercorre gli anni della guerra e che rivela una straor­ dinaria capacità di cogliere aspetti di comicità persino all’interno della tragedia. È una satira sferzante, di go­ dibilissima lettura, dell’alta borghesia inglese vista con occhi ultra-conservatori. Ma forse è proprio per questo che la satira di Waugh riesce così bene nel suo intento. Sul versante ideologico opposto a quello di Waugh si colloca la figura di Christopher Isherwood (1904-1986). Marcatamente autobiografica è la sua produzione ro­ manzesca, sia nei romanzi ambientati nella Germania dei primi anni Trenta, sia in quelli scritti nel dopoguerra in America, dove si era esiliato nel 1939. L’esperienza giovanile, negli anni vissuti a Berlino dal 1929 al 1933, coincise con il periodo dell’affermazione del partito nazista e della salita al potere di Hitler. La Berlino do­ ve l’omosessuale Isherwood era andato a vivere era un luogo di tolleranza rispetto all’Inghilterra omofoba, ma era tuttavia lo stesso luogo dove di lì a poco l’intolle­ ranza più feroce avrebbe visto il suo trionfo. Dal suo osservatorio privato Isherwood registrava il procedere verso la catastrofe: l’esperienza autobiografica che con­ fluisce nei cosiddetti romanzi berlinesi fa tutt’uno con la Storia. È questa combinazione che sta alla base della forza e del fascino narrativo di Mr Norris Changes Train («Mr Norris se ne va», 1935) e dei sei pezzi di roman­ zo raccolti in volume con il titolo di Goodbye to Berlin («Addio a Berlino», 1939). ­128

«Sono una macchina fotografica», dice il narratore delle storie berlinesi, «del tutto passiva, che registra, e che non pensa». La scrittura di Isherwood ha il di­ stacco, l’oggettività, il nitore dell’immagine fotografica. E da grande fotografo, della tragedia che si avvicina Isherwood sceglie di comunicarci i particolari illumi­ nanti: i personaggi, le situazioni quotidiane, le vicende che stanno ai margini della Storia, ma che concorrono a costruire il quadro di una società lanciata verso il to­ talitarismo. Il narratore è un altrettanto attento registratore di parole. Il racconto, appena possibile, è lasciato alla voce dei personaggi, al loro vivace scambio di battute, alle loro disinibite confidenze, alla loro ricostruzione degli eventi. Isherwood mette da parte il narratore per da­ re loro la parola; e quindi anche la responsabilità della «morale» della storia raccontata, come faceva Conrad con il suo «personaggio narratore». Dei romanzi del dopoguerra i più belli sono Prater Violet («La violetta del Prater»), pubblicato nel 1945 ma anch’esso ambientato nel fatidico 1933 (a Londra però, dove un regista ebreo viennese deve dirigere una sorta di operetta cinematografica e profetizza i disa­ stri del nazismo), e A Single Man («Un uomo solo»), pubblicato nel 1964 e ambientato nel 1962. In questo romanzo non c’è uno sfondo tragico dietro i personag­ gi che Isherwood «fotografa» con il distacco praticato nelle storie berlinesi. E tuttavia, per rapidi cenni, per osservazioni casuali, c’è il ritratto del mondo che verrà (Kennedy sarà ucciso da lì a poco e sta per scatenarsi la guerra in Vietnam). Anche in questo romanzo, dietro le nitide immagini che fissano sulla pagina gli smarrimenti e la intermittente assertività di un uomo solo, appare epifanicamente sullo sfondo il profilo di un’epoca. ­129

In quei cruciali anni Trenta George Orwell (19031950) non solo si schierò, come molti intellettuali ingle­ si, a favore delle forze repubblicane spagnole, ma andò in Spagna a combattere. Da quell’esperienza, interrotta dalla fucilata alla gola di un cecchino, nacque Homage to Catalonia («Omaggio alla Catalogna», 1938), il più bel libro sulla guerra civile spagnola pubblicato in In­ ghilterra. Nel corso di quel decennio diede anche alle stampe due penetranti romanzi, Keep the Aspidistra Flying («Fiorirà l’aspidistra», 1936) e Coming Up For Air («Una boccata d’aria», 1939), che registravano la condizione di impotenza della piccola e anche media borghesia inglese di fronte allo strapotere del denaro; e Burmese Days («Giorni in Birmania», 1934), un roman­ zo suggerito dai cinque anni trascorsi in Birmania come ufficiale della polizia imperiale britannica a difesa de­ gli interessi dell’impero (che non gli sembravano mol­ to difendibili). Questi suoi libri, che sono ormai quasi dimenticati, offrono invece un’occasione di lettura per molti versi illuminante. Come anche The Road to Wigan Pier («La strada di Wigan Pier», 1937), il libro inchiesta sui minatori dell’Inghilterra del Nord che costituisce uno degli esempi più alti di reportage giornalistico, un testo che trova posto di diritto nella grande letteratura. La fama e la reputazione di Orwell sono soprattutto legate alla favola distopica Animal Farm («La fattoria degli animali»), scritta dopo il 1943, rifiutata da molti editori perché l’Urss era ancora un alleato prezioso e pubblicata nell’agosto del 1945, a guerra finita e poco prima dell’inizio della guerra fredda (un’espressione co­ niata proprio da Orwell). Aldous Huxley aveva definito una «favola» il suo Brave New World («Il mondo nuo­ vo», 1932), uno dei romanzi più intriganti del genere anti-utopistico. In realtà quello di Huxley è un testo so­ ­130

fisticato, che non ha l’immediatezza di lettura della nar­ razione favolistica, mentre Animal Farm è davvero una fiaba, con il taglio del racconto per bambini. La vicenda è una satira dello stalinismo ineccepibile nella sostanza e magistralmente ironica nella forma (il riferimento di Orwell era Swift, di cui, almeno in parte, condivideva i furori nei confronti delle imbecillità e delle «porcate» di cui è capace il genere umano). Come tutti sanno, nel­ la fattoria gli animali si ribellano, cacciano il padrone e stabiliscono uno Stato (dal «socialismo in un paese solo» al socialismo in una sola fattoria) in cui tutti sono uguali. Poi però ne prendono il controllo i maiali, bravissimi sul piano organizzativo, fino a portare, essendo dei porci, alla dittatura e al dominio assoluto del loro capo. Con la caduta dei regimi dell’Europa orientale Animal Farm ha perduto parte del suo impatto ideologico, ma è rimasta intatta la forza della sua frase simbolo: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». Non è invece diminuito, ma di recente è addirittura aumentato, almeno a giudicare dalla vendite, l’impatto dell’altra distopia di Orwell, 1984, pubblicata nel 1950, scritta febbrilmente prima della sua morte (un quasi suicidio, causato dal suo accanimento di fumatore e dal rifiuto di sottoporsi alle cure per la tubercolosi). Per alcuni versi il romanzo, come Brave New World, risponde al timore di un progresso tecnologico nemico anziché amico dell’uomo; ma in 1984 è centrale la visio­ ne politica di un Occidente dominato dal totalitarismo. Quando Orwell, durante la guerra, aveva incominciato a pensare al romanzo, forti erano i timori di una vittoria del nazismo; quando lo scrisse, nell’Europa orientale e in Urss dominava lo stalinismo. La sua «profezia» non si è avverata. Ma molti timori, in particolare quelli riguar­ danti la capacità di manipolazione dei media, sono sini­ ­131

stramente attuali; come pure la preoccupata attenzione alle caratteristiche del linguaggio politico, concepito «per fare apparire menzogna la verità». E, soprattutto, il libro resta come monito di un uomo libero a difesa di una libertà costantemente minacciata dalle astuzie e dalle prepotenze dei detentori del potere. Quei fatidici anni Trenta furono anche il periodo in cui si sviluppò enormemente la produzione (e il succes­ so) della detective story, la cui regina fu Agatha Christie (1890-1976), autrice di decine di gialli di cui almeno uno, Murder on the Orient Express («Assassinio sull’O­ rient Express», 1934), è un gioiellino anche da un pun­ to di vista narrativo; senza dimenticare il giallo teatrale The Mousetrap («Trappola per topi»), che a Londra va in scena ininterrottamente dal 1952, avendo già supe­ rato le 26.000 repliche. Il meccanismo del giallo entrò indirettamente nelle opere degli autori più diversi, da Priestley a T.S. Eliot; e direttamente nelle case di milioni di lettori, invitati a fantasticare su delitti e misteri che oltre tutto aiutavano, forse, a dimenticare le preoccupa­ zioni del presente. Una simile funzione anestetizzante, ma non attraverso il mistero, bensì attraverso la maggiore virtù inglese, lo humour, fu svolta dai romanzi di P.G. Wodehouse (18811975), che trasformò il mondo del cinico esercizio del potere e dello sfruttamento delle colonie da parte della Gran Bretagna in un mondo idilliaco, popolato da per­ sonaggi che corrispondevano all’immagine che gli inglesi volevano dare di sé al mondo – e prima ancora a se stessi. Quello descritto da Wodehouse era un mondo governato da una classe dominante di comica inefficienza (meno male che c’è il maggiordomo Jeeves a provvedere), che veniva descritto con un linguaggio il cui fascino ipnotico ­132

discendeva da un umorismo lieve, quasi infantile, e la cui britannicità era portata al quadrato dall’elevazione dei modi di dire più scontati a improbabili perle di saggezza. La realtà del mondo inglese non era mai stata così clamo­ rosamente trasformata e travisata dai tempi della leggen­ da di Robin Hood: il maggiordomo Jeeves sta a Robin come la placida routine dei ricchi borghesi nullafacenti sta alla lotta per il trono – e per la sopravvivenza – di no­ bili e popolani dell’Inghilterra medievale. In entrambi i casi il divertimento del lettore era garantito; e per quanto riguarda Jeeves è garantito tuttora. All’opposto di questo mondo di fantasia c’era il mondo descritto nelle pagine di Eric Ambler (19091998), un autore che si muoveva in un ambito vicino a quello del giallo e che negli anni Trenta aveva ulte­ riormente accresciuto la sua popolarità: il romanzo di spionaggio. Una produzione vastissima, che però igno­ rava la lezione di Maugham e che (anche nel caso dei romanzi dell’autore più originale, John Buchan, il cui Thirty-nine Steps è comunque un piccolo capolavoro) continuava a proporre eroici cacciatori di spie prota­ gonisti di avventurose vicende avvolte da un alone «ro­ mantico». I protagonisti delle storie di Ambler sono uomini senza particolari virtù: a volte, se professionisti, quasi rassegnati a fare il loro «lavoro sporco» (cosa che non li esalta affatto e che spesso li segna amaramente), a volte animati da una «privata» volontà di sapere che tuttavia non implica mai una dimensione eroica. La conclusione della vicenda, per quanto positiva, non si risolveva in un qualche clamoroso successo, per il singolo e/o per la patria. Il protagonista, aiutato dal caso, oppure da un qualche imprevisto in genere riusciva a portare a termine il suo lavoro in modo, per così dire, ­133

anonimo; ed era già un successo che riuscisse a salvare la pelle. Nei romanzi di Ambler degli anni Trenta il tema ideale non è tanto quello del salvataggio della nazione dalla minaccia nemica, quanto quello della lotta contro gli agenti della reazione: mercanti di armi, emissari dell’I­ talia fascista, artefici di tentati (o riusciti) colpi di Stato. Su questo punto la vicenda del capolavoro di Am­ bler, The Mask of Dimitrios («La maschera di Dimi­ trios», 1939), non lascia alcun dubbio. Il protagonista è uno scrittore di thriller che si mette alla ricerca del mi­ sterioso criminale Dimitrios. Le sue delittuose imprese svelano una rete di complicità tra delinquenti, golpisti e banchieri che delinea il ritratto di un mondo: dell’Eu­ ropa malata in corsa verso la guerra. Lo spionaggio è al centro dell’azione narrativa, ma non è qualcosa di romantico. Come spiega al protagonista una superspia ritiratasi a lussuosa vita privata in Svizzera, lo spionag­ gio è una necessità per tutti gli Stati europei, è una cosa seria, un lavoro rischioso e per nulla fascinoso. Come tale, per Ambler, deve essere rappresentato: sta all’auto­ re renderlo sulla pagina con la dovuta suspense. Il pregio dei romanzi di Ambler, che anche nel dopoguerra continuò a raccontare affascinanti storie di spionaggio (per non parlare di Topkapi), sta nell’a­ ver saputo raccontare in uno stile sobrio ed elegante­ mente accurato storie di personaggi veri – veri anche psicologicamente – che si muovono nel mondo reale dovendo affrontare le trappole, gli inganni, i pericoli della vicenda che li coinvolge: una vicenda spionisti­ ca, naturalmente, ma collocata sul terreno di una ben poco pirotecnica quotidianità. Questo già aveva fatto e continuava a fare Graham Greene nei romanzi in cui è presente la dimensione spionistica. Ma dell’opera di Greene si parlerà più avanti. ­134

X

Il romanzo del secondo Novecento

Alla fine della guerra i laburisti vinsero le elezioni e attuarono una rivoluzionaria politica di riforme, in materia di sanità pubblica, di istruzione superiore, di assistenza sociale. Uno degli effetti più eclatanti fu che una generazione di giovani che mai avrebbero potuto accedere agli studi universitari ne ebbe invece la pos­ sibilità: vuoi nelle antiche e gloriose università, vuoi, soprattutto, in quelle nuove. Questa nuova realtà, con le sue contraddizioni, e lo spostamento dell’attenzione sulle province, lontano dalla centralità politica, letteraria e mondana della ca­ pitale, fa da sfondo agli autori che si affermarono negli anni Cinquanta; e che scelsero come ambiente della lo­ ro narrativa quello proletario e piccolo-borghese della provincia, quello dei giovani dei ceti più modesti, incer­ ti tra insoddisfazione e desiderio di ascesa, cogliendo in essi e nei loro atteggiamenti la vera realtà del dopo­ guerra. Non ne uscì nessun capolavoro assoluto, ma ne emerse una produzione che nel suo insieme, con l’aiuto dei grandi registi del Free Cinema inglese che spesso ad essi attinsero, portò una ventata di aria nuova nella cultura britannica. ­135

Quei romanzi, con i loro giovani protagonisti ribelli, ma alla fine domati, presentano ormai un interesse più sociologico che letterario. Uno di essi, tuttavia, continua ad essere letto con interesse. È Saturday Night and Sunday Morning («Sabato sera, domenica mattina», 1958) di Alan Sillitoe (1928-2010), di cui anche si continua a leggere il bellissimo racconto lungo The Loneliness of the Long Distance Runner («La solitudine del marato­ neta», 1959). Il protagonista del romanzo è un giovane operaio che lavora sodo e che vuole godersi la vita (che per lui vuol dire birra e donne). Il lungo monologo in­ teriore in cui consiste il romanzo traccia la sua parabola, da grande amatore e da ribelle anarchicamente ostile al potere in ogni sua forma, a marito ravveduto e cittadino rassegnato. L’antieroe per eccellenza del romanzo inglese del dopoguerra è però Jim Dixon, il Lucky Jim (1954) di Kingsley Amis (1922-1998), uno scrittore dotato di in­ discutibile talento letterario e capace di un’ampia varietà di registri (a lui fu commissionato il primo James Bond «postumo» in seguito alla morte di Ian Fleming), che pe­ rò è ricordato fondamentalmente per questo suo diver­ tente e tuttora godibilissimo gioiello narrativo. Jim è un giovane ricercatore di un’università di provincia (un ex manicomio trasformato in campus), antropologicamen­ te incompatibile con i valori delle classi alte e della cul­ tura alta (tant’è che Mozart gli fa schifo e non legge mai un libro se non per lavoro). È invece portatore dei valori delle classi meno abbienti del mondo provinciale, cosa che lo porta a svelare con comica immediatezza la vanità e la falsità di molti «gloriosi» principi delle upper classes. Beve smodatamente (la descrizione del suo risveglio dopo una sbronza è un piccolo capolavoro) e, proprio a causa del troppo alcol ingurgitato, in un’occasione ac­ ­136

cademica spiega ai cattedratici cosa pensa di loro. È la fine della sua carriera universitaria ed è l’inizio della sua fortuna («lucky Jim»!). L’artefice della sua sbronza gli offre un posto importante nella City: fine della ribellione contro l’establishment. Adesso ne fa parte. Lo spirito satirico del romanzo investe non solo la pomposità del mondo accademico, ma un intero mo­ do di essere della società inglese. Alla luce dei principi, dei desideri e degli atteggiamenti dei ceti popolari Jim passa al vaglio i «nobili» valori a cui gli si chiede di in­ chinarsi. L’effetto è di una deliziosa comicità, realizzata da un lato grazie al modo in cui Jim rivela che «il re è nudo», dall’altro grazie a una vena irridente che, si parva licet, ricorda l’ironia beffarda di un Fielding. Una scelta opposta a quella di Amis & Co fu quel­ la di Graham Greene (1904-1990). Nei romanzi degli anni Trenta Greene aveva offerto la «cronaca» di una Gran Bretagna ancora grande potenza, con lo sfondo di un contesto economico durissimo (la Depressione) e di un contesto politico che con l’avvento dei fascismi e del nazismo preparava la catastrofe. Senza contare che a collaborare a tale percorso di distruzione operavano grandi interessi, tra cui l’industria degli armamenti, co­ me raccontò in A Gun for Sale («Una pistola in vendi­ ta», 1936). Nel dopoguerra Greene si fece «cronista» del mon­ do, di un mondo caratterizzato dalla contrapposizione tra le due superpotenze, Usa e Urss, che dettava il con­ testo delle vicende dei suoi romanzi: da quello dell’In­ docina francese (il futuro Vietnam), a quello delle dit­ tature del Sudamerica, o a quello del Sudafrica che con l’apartheid elevava il razzismo a principio costituziona­ le con la tacita connivenza dell’Occidente. ­137

Greene da giovane aveva lavorato come giornalista; nel dopoguerra lavorò come inviato speciale. Sapeva dove andare per scoprire gli avvenimenti che cambiava­ no il mondo; e sapeva usare le sue scoperte di reporter come materia prima per l’invenzione romanzesca. Non deve quindi sorprendere che la sua tecnica narrativa utilizzi uno sguardo giornalistico nella descrizione dei fatti. Così come attinge ai meccanismi del thriller per costruire formidabili trame percorse da una forte suspense; così come attinge al linguaggio cinematografico per trasferire sulla pagina la tecnica del primo piano e della carrellata per descrivere la scena come se il narra­ tore fosse dietro alla macchina da presa. Vi è in Greene la consapevolezza, che spesso lo ha fatto paragonare a Bernanos, dell’ineluttabilità della presenza di Dio nell’uomo. Sia che questi lo accolga o lo ripudi. Basilare è per lui la convinzione dell’infi­ nità della misericordia divina, che nessuno, neppure la Chiesa, può conoscere. Essa – dice padre Rank alla fine di The Heart of the Matter – conosce tutte le regole, ma non ciò che avviene nel cuore dell’uomo. Solo Dio può leggervi, e perdonare: ed è questo il mistero che per Greene può salvarci dalla disperazione. Perché l’uomo è peccatore: i suoi romanzi ci pre­ sentano dei personaggi capaci soprattutto di peccare, che spesso vivono nella lacerante consapevolezza della colpa, ma che non possono fare a meno di errare, per­ ché fragile e fallibile è la natura umana. Essi rivelano una straordinaria efficacia proprio nella loro debolezza, nel loro essere incerti, a volte ambigui, animati da senti­ menti e passioni contrastanti. Sono spesso degli uomini comuni, dimessi, incapaci di grandi slanci. Ma questi uomini, così simili a noi nella loro ordinarietà, vengono a trovarsi di fronte a scelte decisive, che non consentono ­138

scappatoie: anche se ambigui, anche se deboli e incerti, essi finiscono con l’agire secondo quello che riconosco­ no come un principio irrinunciabile, di cui forse non hanno neppure coscienza; e in ultimo sanno pagare con il proprio sacrificio il rispetto di quello che ai loro occhi rappresenta ciò che resta della loro dignità umana. I suoi antieroi vanno a formare una galleria di per­ sonaggi tra i più convincenti del romanzo inglese del Novecento: dal whisky priest di The Power and the Glory («Il potere e la gloria», 1940) al poliziotto di The Heart of the Matter («Il nocciolo della questione», 1948), dal giornalista inglese a Saigon di The Quiet American («L’americano tranquillo», 1955) all’alber­ gatore nell’Haiti del dittatore Duvalier di The Comedians («I commedianti», 1966), dalla comica spia di Our Man in Havana («Il nostro agente all’Avana», 1958) alla figura drammatica dell’agente segreto di The Human Factor («Il fattore umano», 1978), dallo smemorato di The Ministry of Fear («Quinta colonna», 1943) al medico di The Honorary Consul («Il console onorario», 1973). Non a caso essi sono i protagonisti dei romanzi maggiori di Greene – a cui bisogna ag­ giungere l’ironico e autoironico Travels with My Aunt («In viaggio con la zia», 1969). Contrariamente a quanto si legge nelle pagine pre­ cedenti, qui c’è un elenco relativamente lungo di ro­ manzi (i più belli) e non un commento su di essi. Un breve cenno lo si dedicherà soltanto a uno di questi, The Human Factor, non perché sia superiore agli altri, ma perché è un romanzo di spionaggio ed è grande lettera­ tura. Greene, che era stato un agente dei servizi segreti durante la guerra (e probabilmente un loro informatore almeno fino al 1965) ha scritto diversi romanzi in cui la dimensione dello spionaggio ha un ruolo centrale e ­139

in cui l’avventura spionistica è improntata a un solido realismo, nel solco dell’Ashenden di Maugham. In un primo tempo Greene aveva collocato questi romanzi nella categoria dei suoi entertainments, contrapposta a quella dei suoi novels. Poi, giustamente, lasciò cadere la distinzione. Il protagonista di The Human Factor è un agente segreto inglese che diventa un double agent al servizio dei russi. Non lo fa per ideologia, né per de­ naro, ma perché i servizi segreti sovietici avevano fatto in modo che la donna che amava, sudafricana di colore, potesse fuggire in Inghilterra. Erano stati loro ad agire in aiuto di una vittima della più grottesca forma di po­ tere liberticida dell’Occidente. Greene diceva che sin da giovanissimo sapeva di essere «dalla parte delle vittime». Per tutta la vita fu animato da un’appassionata tensione morale, dalla par­ te degli oppressi e contro gli oppressori, con i deboli e contro i potenti, con i popoli e, se del caso, contro i loro governanti. Per molti lettori il suo tratto distintivo sta nella qualità della prosa, capace di creare quel territo­ rio (Greeneland, è stato definito) e quel clima letterario che costituiscono per lui – e per molta parte della cri­ tica – un affascinante punto di riferimento. Ma ciò che qualifica il romanzo di Greene non è l’atmosfera, bensì il fatto di usare le forme popolari tipiche della moder­ nità (il cinema e il thriller) e con esse affrontare i temi cruciali dell’età moderna. Il romanzo inglese si è spesso concentrato sull’analisi delle forme dei rapporti sociali, cosa comprensibile in un paese in cui le distinzioni di classe hanno avuto (e hanno) una decisiva importanza – ma a rischio, negli autori minori, di una certa provin­ ciale insularità. Greene, invece, ha scelto di affrontare le grandi questioni del suo tempo: prima quelle che attana­ gliavano l’Inghilterra e la vecchia Europa, quando essa ­140

poteva ancora ritenersi il centro del mondo; poi quelle che segnarono il dopoguerra, con la liquidazione dell’e­ redità coloniale e le tensioni della guerra fredda. È stato il nostro agente nel mondo che cambiava intorno a noi. A Greene il Nobel non lo vollero mai dare, soprattut­ to, forse, per la sua denuncia dell’imperialismo america­ no. Lo diedero invece a William Golding (1911-1993), uno degli scrittori inglesi del dopoguerra nella cui opera è centrale la dimensione etica, la riflessione morale sui dilemmi dell’età contemporanea. Il suo romanzo mo­ ralmente più potente e letterariamente più avvincente è Lord of the Flies («Il signore delle mosche», 1954), che è uno dei nomi del diavolo. Il libro è la versione post seconda guerra mondiale degli ottocenteschi libri per ragazzi di avventure sui mari. In questo romanzo alcuni giovanissimi naufraghi si trasformano in una selvaggia tribù primitiva: Simon, il ragazzo che si rifiuta di ado­ rare la testa di porco, come fanno gli altri, viene ucci­ so. Anche Ralph farebbe la stessa fine, se non venisse salvato dall’arrivo dei marinai della nave che riporterà i naufraghi nel mondo civile. Il bagno nell’animalità e nel Male, che per Golding è inseparabile dalla natu­ ra umana, è stato però esemplarmente compiuto, per consegnarci la più efficace favola morale del secondo Novecento. Il sacrificio di Simon, l’Innocente, può essere visto come un’allusione al massacro degli ebrei nei campi di concentramento; così come la degenerazione dei gio­ vani naufraghi può alludere a quella della civilissima Germania che si abbandonò alla brutalità feroce del na­ zismo. È più che probabile – la guerra era finita da po­ chi anni – che Golding pensasse agli orrori della storia recente; ma l’idea portante del romanzo va al di là della ­141

storia nel suo ritrarre il trionfo del Male, visto come una componente imprescindibile dell’animo umano. In un romanzo successivo, Darkness Visible («L’o­ scuro visibile», 1979), Golding esplorò invece la pre­ senza del male, in un contesto storico definito e deter­ minato, la Londra del dopoguerra, utilizzando un tipo di scrittura piuttosto lontano da quello tradizionale in cui prima si era esercitato. Una scrittura dai tratti a volte visionaria e di grande pregio stilistico; e di quasi intimi­ dente nobiltà. Quattro anni dopo l’uscita del romanzo gli fu conferito il Nobel per la letteratura. Molto ampia e di grande rilievo è la presenza delle scrittrici nella narrativa inglese del secondo Novecento. La maggiore di esse è Doris Lessing (1919-2013) a cui il Nobel fu conferito nel 2007. Nata in Persia, vissuta in Africa fino a trent’anni, e giunta a Londra nel 1949 ani­ mata da forti convinzioni politiche di sinistra, nei primi lavori si mosse nell’ambito della tradizione realistica, con risultati di grande fascino narrativo – soprattutto, forse, per la felicità evocativa con cui trasferiva sulla pagina il paesaggio e il mondo africano. Lessing raggiunse il suo risultato più alto in un ro­ manzo che però si muove in un ambito del tutto diverso, The Golden Notebook («Il taccuino d’oro», 1962), uno dei testi fondamentali della letteratura inglese moderna. È un’opera di grande complessità, che ripensa e mette in discussione la forma romanzesca e le sue possibilità espressive e scava nella profonda crisi psicologica della sua protagonista: una crisi personale, che corrisponde a quella delle donne del suo tempo (ma Lessing rifiutò categoricamente di essere accostata al movimento fem­ minista). La protagonista è una scrittrice che lavora a un romanzo che s’incrocia con le osservazioni – su di ­142

sé, sulla sua vita in Africa, sulle sue idee politiche, sul suo ruolo di scrittrice e sul suo crollo mentale – che nel frattempo annota su diversi taccuini. Abbandonato il realismo, il metaromanzo in cui The Golden Notebook consiste cerca di scoprire quali sono le possibili forme che la narrativa può darsi per rende­ re conto della realtà confusa, contraddittoria e lacerata (come la mente della protagonista) che caratterizza il mondo moderno. La risposta sta nel romanzo stesso, che è lì a dimostrare la capacità (e la volontà) dello scrit­ tore contemporaneo di parlare dell’oggi con le forme che meglio gli consentono di farlo. The Golden Notebook fu scritto dopo i primi tre ro­ manzi, vagamente autobiografici, che formano il ciclo intitolato The Children of Violence (1952-69). Il quar­ to romanzo, scritto dopo il Notebook, è ambientato in Africa come i precedenti (è l’Africa che dà i primi segni della fine ineluttabile del colonialismo) e non riprende le soluzioni appena prima sperimentate. Ma nel quinto, quello che conclude il ciclo, la scrittura di Doris Lessing si sposta su un terreno tra il fantastico e il fantascientifi­ co: è un romanzo distopico, come di nuovo lo sarà Memoirs of a Survivor («Memorie di una sopravvissuta», 1974); e per qualche anno la sua produzione si orienterà verso una narrativa di fantascienza ibridata dagli inse­ gnamenti del sufismo. Lessing tornerà alla scrittura realistica con The Diaries of Jane Somers («Il diario di Jane Somers», 1985). Qui, e spesso anche in seguito, il suo sguardo si posa prevalentemente sulle figure femminili, donne di mez­ za età o anziane, sulla solidarietà che si stabilisce tra loro, sull’impegno che la solidarietà comunque richiede (Lessing non scivola mai nella retorica). Questa sua at­ tenzione non tanto alla «condizione» femminile, quan­ ­143

to alla realtà femminile, rimane una costante dei suoi lavori più tardi. E anche in The Fifth Child («Il quinto figlio», 1988), almeno per quanto riguarda la figura di Harriet, la protagonista. In questo caso il tema centrale è però un altro. Siamo negli anni Sessanta. Harriet e David si innamorano e si sposano, con l’idea di avere tanti figli. In poco tempo ne nascono quattro. La quinta gravidanza è «orripilante». Finalmente il quinto figlio viene alla luce: è brutto, massiccio, forte e violento – ancora piccolissimo strozza il cane di casa. Viene messo in un ospizio specializzato, dove, scopre poi Harriet, i soggetti «difficili» vengono di fatto eliminati sommini­ strando loro dei farmaci. La madre si riporta a casa il figlio, che però mantiene le sue caratteristiche presso­ ché mostruose, quasi incarnando la parte animalesca e selvaggia della natura umana. Alla fine il ragazzo se ne andrà di casa, dopo avere distrutto emotivamente la sua famiglia. In The Fifth Child, un romanzo che naviga tra realismo e allegoria, Lessing ha voluto confrontarsi con la fallacia del sogno ottimistico di famiglia felice incar­ nato da Harriet e David. Il libro, che è ormai considera­ to un piccolo classico, offre una convincente conferma dell’originalità di prospettiva e del coraggio intellettua­ le di una dei maggiori romanzieri del Novecento. Delle molte altre interessanti scrittici nate nel perio­ do tra le due guerre almeno due, Muriel Spark e Beryl Bainbridge, meritano si essere ricordate per il romanzo in cui meglio si è espresso il loro talento. Muriel Spark (1919-2008), nata a Edimburgo, dopo le nozze si trasfe­ rì con il marito in Rhodesia, l’attuale Zimbabwe. Fu un matrimonio disastroso. Nel 1944 tornò in Gran Breta­ gna (e lavorò per i servizi segreti), trovando poi una sua strada nell’attività letteraria. In un primo tempo scrisse ­144

poesie e articoli di critica; poi, dopo essersi convertita al cattolicesimo (nel 1954), «scoprì» di poter scrivere romanzi. Il suo capolavoro è The Prime of Miss Brodie («Gli anni fulgenti della signorina Brodie», 1961). Miss Brodie, insegnante di una scuola per ragazze di Edim­ burgo, si distingue per i suoi metodi didattici, per nulla ortodossi ma affascinanti. Con le scolare che individua come la crème de la crème stabilisce un intenso rapporto formativo, ricco di sorprendenti proposte culturali e di spiazzanti insegnamenti di vita. Siamo a metà degli anni Trenta: Miss Brodie, una «guida» assertiva e prepoten­ temente affascinante (il Duce è un suo modello), è vista con sospetto dalla direttrice, che vorrebbe sbarazzarse­ ne. L’occasione potrebbe essere data dalla sua relazione con il maestro di musica; ma le ragazze, che sanno, non la tradiscono. Il tradimento avverrà più tardi, da parte di Sandy, una delle sei ragazzine del gruppo, che anni dopo si farà suora. La narrazione non solo procede per salti avanti e indietro nel tempo, ma nel corso dello stes­ so paragrafo sovrappone passato e presente, di modo che il lettore viene così a sapere nel presente ciò che accadrà in futuro alle ragazze. Le prime scoperte del sesso hanno uno spazio non piccolo nella loro auto-formazione. E anche a questo proposito l’educazione di Miss Brodie lascia il segno, in particolare per quanto riguarda Sandy, che più tardi diventerà l’amante dell’insegnante di disegno, l’amore impossibile di Miss Brodie. Come si è detto, sarà pro­ prio lei a tradirla, svelando che aveva convinto un’allie­ va a unirsi alle truppe franchiste (la ragazza era morta quando il treno su cui viaggiava per raggiungerle era stato attaccato). Con il ritratto dell’insegnante, del suo fascino di educatrice, della sua vita sentimentale e ses­ suale indipendente, realizzato non tanto attraverso la ­145

voce del narratore quanto attraverso la stessa voce di Miss Brodie, Spark ci ha offerto una delle figure fem­ minili più affascinanti della narrativa inglese novecente­ sca. Ma lo è altrettanto quello delle sei ragazzine, quasi fanciulle in fiore in versione scozzese, colte nei riti di passaggio della pubertà. Beryl Bainbridge (1932-2010) fu per cinque volte fi­ nalista del prestigioso Booker Prize. Non lo vinse mai, forse perché troppo poco glamour, con le sue storie di donne e di uomini della piccolissima borghesia e della classe operaia inglese. The Dressmaker (1973) fu il suo primo romanzo finalista a non vincere il Booker. «Black humour» è l’etichetta più spesso usata a proposito dei romanzi di Bainbridge. L’etichetta è giusta; ma bisogna aggiungere che l’ironia è nera perché è l’unica adatta a commentare la drammaticità e le fatiche dell’esistenza delle sue donne, senza la minima concessione al senti­ mentalismo e con una robusta consapevolezza popo­ laresca di come va il mondo. Le donne che occupano una modesta casa di Liverpool nell’anno di guerra 1944 sono tre: Nellie, la sarta, severa e tradizionalista, che lavora in casa dopo che la fabbrica è stata bombardata; Margo, sua sorella, vedova, che è sulla cinquantina e lavora in una fabbrica di munizioni; Rita, una timida ragazza di diciassette anni, che è la figlia di una sorella defunta e di Jack, un macellaio. La prima parola del libro è «dopo». Rita si innamora di un soldato ame­ ricano, ma respinge le sue avances. Per cui lo yankee rivolge le sue attenzioni alla più che disponibile Margo. Un giorno, quando non c’è nessuno in casa, i due si appartano al piano di sopra. Arriva Nellie, dai rumori crede che ci sia un topo, sale armata di coltello, li sco­ pre e, furibonda per il fatto che il soldato ha graffiato ­146

«il preziosissimo tavolino della mamma», gli taglia la gola. Viene chiamato Jack per provvedere a sistemare il cadavere. Ne farà salsicce? In ogni caso, «dopo», le tre donne vanno a dormire. La magia del racconto e del ritratto di queste tre fi­ gure di donne (tre diversissime versioni della realtà fem­ minile) sta nel tono: diretto, fattuale, distaccato, quasi chirurgico, e accompagnato da un dialogo superbo. È questa la caratteristica di molti dei romanzi di Bainbrid­ ge, ma è qui, in The Dressmaker, che l’esercizio dell’u­ mor nero raggiunge il suo risultato più travolgente. Angela Carter (1940-1992) è invece autrice dalla scrittura fantasiosa ed esuberante. La sua fonte di ispi­ razione (e di confronto) furono le fiabe, Kafka e Poe, la narrativa popolare. Le fiabe le riscrisse, individuando il non detto che nascondono (compresa, lei femmini­ sta, l’accettazione complice da parte delle donne delle prepotenze dei maschi) o esasperandone i tratti inquie­ tanti; mescolò la cultura alta con la cosiddetta cultu­ ra bassa (ma in Inghilterra la distinzione è comunque enormemente meno netta che da noi), e la realtà con la fantasia – donde la tendenza dei critici a collocarla nella regione del realismo magico, cosa indubbiamente legittima nel caso del distopico The Passion of New Eve («La passione della nuova Eva», 1977). Per molti il suo romanzo più bello è Nights at the Circus («Notti al circo», 1984), la cui protagonista è Fevvers, una donna con le ali, che esegue il triplo salto mortale senza rete, una popolana londinese il cui nome è la pronuncia cockney di «feathers». C’è una tournée del circo in Russia con tentato omicidio dell’eroina, un viaggio in Transiberiana, un rapimento da parte dei banditi, e un gran finale in cui Fevvers e il giornalista ­147

che l’ha accompagnata nelle sue peripezie capiscono di amarsi e si accingono a fare all’amore, con lei sopra di lui, per via delle ali. Siamo nel 1899. Fevvers è il simbolo della «Donna Nuova», come si diceva a fine Ottocento, non più succube dell’uomo – tant’è vero che sta sopra di lui. Angela Carter spiegò che il romanzo è una sorta di pronunciamento sulla natura della fiction, a partire dalla natura stessa della narrazione di Fevvers: lei stessa, le cose che racconta, sono fatti o finzione? Nights at the Circus è certamente un romanzo affa­ scinante; ma Wise Children («Figlie sagge», 1991) gli è ancora superiore. Il romanzo incomincia in un giorno di aprile, lo stesso in cui è nato Shakespeare – che è anche il giorno del compleanno delle due gemelle Dora e No­ ra, un tempo ballerine di music hall (il glorioso teatro di varietà inglese). Sono le figlie illegittime di un famoso attore shakespeariano, che non le ha mai riconosciute e che con le figlie legittime ha condotto, a parte, la sua vita di grande istrione. Le due figlie abbandonate (e allevate dalla padrona di casa della madre defunta) si sono comunque assicurate una brillante carriera nell’al­ tro teatro, quello popolare, che adesso ricordano con trasporto: «Che gioia ballare e cantare!». Wise Children è il romanzo della vita delle due gemel­ le raccontata dalla voce di Dora. Una voce irriverente, spregiudicata, brillante, che mescola il linguaggio colto e i riferimenti alla cultura alta con quello popolaresco, e che ci diverte con le sue aforistiche perle di saggezza («la commedia è la tragedia che capita agli altri»). Ed è, tra l’altro, il romanzo del teatro inglese del Novecento, della sua vitalità travolgente e della sua inesauribile vi­ vacità: non a caso il libro è diviso in cinque capitoli, al­ ludendo ai cinque atti di un testo teatrale classico. È un libro che con incantevole ironia chiama in causa i gran­ ­148

di della letteratura inglese, a partire da Shake­speare, per farsene gioco, ma dichiarandone al tempo stesso la grandezza. È anche un libro dallo spirito fiabesco, pie­ no di quasi miracolose sorprese, costruito per garantire un lieto fine che faccia dimenticare le difficoltà (in un certo momento la disperazione) che le due eroine han­ no dovuto superare. Wise Children fu scritto nell’ultimo anno di vita di Angela Carter, malata terminale di cancro. È sorpren­ dente come questa straordinaria scrittrice abbia saputo avvicinarsi alla fine con un romanzo così pieno di vita e di divertito distacco dagli affanni dell’esistenza. Della generazione successiva, la scrittrice che al suo esordio colse, giustamente, i maggiori consensi è Jeanet­ te Winterson (1959-), al centro della cui narrativa sta il tema della sessualità e dell’omosessualità femminile. La sua opera più bella resta il suo primo romanzo, in larga parte autobiografico, Oranges Are Not the Only Fruits («Non ci sono solo le arance», 1984), in cui la scoperta dell’identità lesbica di una ragazzina è raccontata con un taglio ironico di squisita intelligenza che si svilup­ pa in una realtà molto tradizionale e bigotta. Di gran­ de intelligenza narrativa è anche Written on the Body («Scritto sul corpo», 1992), che colpisce soprattutto per il virtuosismo linguistico con cui la storia d’amore viene raccontata in prima persona da un narratore che riesce a non svelare mai la sua identità sessuale. Tra i romanzi successivi ha ricevuto convinti plausi critici The Stone Gods («Gli dei di pietra», 2007), una distopia postmodernista. Ma il suo lavoro recente più interessante è il romanzo breve (o meglio, il racconto lungo) intitolato The Daylight Gate (2012), che rico­ struisce uno dei più infami processi alle streghe della ­149

storia d’Inghilterra, quello di Pendle, nel 1612. Il tono è secco, freddo, fatto di brevi frasi di forte efficacia. An­ che se si sa come finì la storia, la suspense, nella succes­ sione di uccisioni, torture, stupri, violenze, non viene comunque mai meno. The Daylight Gate è un racconto gotico che è anche documento storico. O viceversa. È una magistrale prova d’autrice che, pur restando fedele al suo tema centrale, ha saputo trovare altre strade per illustrarlo. Sarah Waters (1966-) scrisse la sua tesi di dottora­ to sulla narrativa vittoriana. Non stupisce quindi che i suoi primi lavori siano stati una sorta di «reinvenzione» del romanzo vittoriano, fenomeno comunque già por­ tato al successo da Possession («Possessione», 1990) di A.S. Byatt, un romanzo in cui la conoscenza profonda della letteratura dell’Ottocento si combina con un’in­ venzione romanzesca e una felicità narrativa che fanno del libro una delizia per il lettore – anche per chi dei vittoriani, da Browning a Charlotte Brontë e a Gabriele Rossetti, sa poco o nulla. Il primo «romanzo neovittoriano» di Sarah Waters è stato Tipping the Velvet («Carezze di velluto», 1998). Centrale è il tema della passione tra donne, cosa che nel romanzo vittoriano sarebbe stata poco probabile; ma qui siamo in una logica di rivisitazione, per cui cer­ te cose restano e altre si inventano. Lo stesso discorso vale per Fingersmith («Ladra», 2002). Waters reinventa tenendo conto dei diversi stili narrativi che si affermaro­ no nei vari periodi dell’Ottocento. In questo caso, dato che la vicenda si svolge negli anni Sessanta del secolo lungo, il riferimento è al sensationalism, carattere tipico del romanzo a forti tinte che in quel decennio andava per la maggiore. Alla base della storia, con una giovane ­150

protagonista che è cresciuta insieme a un gruppo di la­ druncoli, come i borseggiatori di Oliver Twist, c’è The Woman in White di Wilkie Collins. Waters ne riprende i personaggi, giocando sul «come sarebbe andata, invece, se...». In Fingersmith le cose succedono infatti altrimen­ ti (compresa una relazione lesbica che per la verità il testo di Collins, seppur vaghissimamente, non esclude); e succedono con una serie di sorprese che rendono il li­ bro di Waters sensational nel senso buono della parola. Dopo la fase neovittoriana, con The Night Watch («Turno di notte», 2006) Waters, con la stessa cura per la ricostruzione di ambiente, si è aggirata negli anni del­ la seconda guerra mondiale. Poi, in The Paying Guests («Ospiti paganti», 2014), si è spostata nella Londra de­ gli anni Venti del Novecento, quando la crisi economica aveva indotto alcune famiglie della buona borghesia a dare in affitto parte della casa in cui abitavano (ipo­ critamente, gli affittuari erano chiamati ospiti paganti). The Paying Guests è tre libri in uno. È il ritratto dello sconvolgimento del vecchio mondo dopo la fine della guerra; è la storia d’amore e di passione tra due donne vista con gli occhi e le parole di oggi; ed è infine la rivi­ sitazione del romanzo «criminale» vittoriano, con tanto di delitto, indagini e processo. C’è qualche concessione all’effetto e all’uso di qualche trovata retorica di ma­ niera. Ma il romanzo procede con grande fluidità verso una fine che, come Waters «ideologicamente» vuole, certifica che a vincere è l’amore tra le donne. Diversi autori che nel secondo Novecento godettero di grandissimi consensi, ma che attualmente sembra­ no poco considerati e che forse tra una ventina d’an­ ni saranno quasi del tutto dimenticati (o riscoperti), si mossero non sul terreno del realismo, ma su quello ­151

dell’innovazione formale e linguistica. Il primo in or­ dine di tempo è Lawrence Durrell (1912-1990), che decisamente innovativo già lo era stato con lo «scan­ daloso» Black Book del 1938, un’opera che più che ai modernisti guardava a Tropic of Cancer di Henry Miller; e che negli anni Sessanta conquistò enorme notorietà letteraria con i quattro romanzi che formano il cosid­ detto Alexandria Quartet. Dagli anni trascorsi in Egitto durante la guerra (come funzionario dell’ufficio stampa dell’esercito) scaturì il materiale che venne elaborato prima in Justine (1957), poi in Balthazar e Mountolive (1958) e infine in Clea (1960). Quattro narratori diversi, ma con una stessa scrittura di grandissimo fascino (che ricorda Huysmans e Louÿs), raccontano un’unica storia che vuole essere una riflessione sulla figura dell’artista e sulla sessualità. Durrell, nato in India, vissuto qua­ si sempre lontano dall’Inghilterra (oggetto della sua sprezzante ironia), quasi per nulla inglese dal punto di vista delle coordinate letterarie, fu salutato dalla critica come un gigante della letteratura contemporanea; poi l’entusiasmo si affievolì. Forse sono però da rivalutare i libri che scrisse su Rodi, Cipro e Corfù, seducente mi­ tizzazione, questa sì molto inglese, di un ormai perduto incanto mediterraneo. Anthony Burgess (1917-1993) aveva esordito come scrittore realista con i tre romanzi che compongono la sua «Trilogia malese», un’ironica e acuta testimonianza sulla fine dell’età coloniale (da lui osservata negli anni che trascorse come insegnante in Malesia). Poi, coeren­ temente con la sua ammirazione per Joyce, si spostò sul terreno della sperimentazione strutturale e lingui­ stica, a partire dal romanzo che gli diede la fama, A Clockwork Orange («Arancia meccanica», 1962). La ­152

vicenda è ambientata in un prossimo futuro, in cui lo stato esercita sui cittadini un potere liberticida. Chi ne è vittima, tuttavia, è un teppista, Alex, che raccon­ ta la propria storia in un linguaggio di sua invenzione, il Nadsat (che è naturalmente il frutto dell’esuberanza joyciana della scrittura di Burgess). All’inizio c’è l’e­ sercizio dell’«ultraviolenza» da parte di Alex e la sua banda, che culmina con la tortura di un mite letterato e lo stupro della moglie; e prosegue poi con la sua in­ carcerazione in una prigione in cui viene sottoposto a una «rieducazione» realizzata con una sorta di tortura psicologica. L’episodio della violenza e dello stupro è basato su un’esperienza drammatica vissuta da Burgess durante la guerra, quando, a Londra, lui e la moglie furono assaliti da un gruppo di soldati americani (forse disertori): la moglie, incinta, fu violentata, abortì e non poté più avere figli. La visione (negativa) del mondo di Burgess e la vi­ sione religiosa, oscillante tra tolleranza e durezza poco cattolica (d’altronde, anche Conrad era cattolico ma quasi spietato), trova la sua espressione più compiu­ ta in Earthly Powers («Gli strumenti delle tenebre», 1980). Il romanzo offre un panorama letterario e socia­ le dell’intero Novecento visto attraverso gli occhi di un vecchio omosessuale (per la cui figura Burgess si ispirò a Maugham): il suo messaggio è che se dalla vita si toglie la religione non resta molto che la renda significativa. Negli ultimi anni Burgess si cimentò in una narrati­ va di tipo sempre più sperimentale, dai risultati incerti. Ma si congedò con un romanzo che invece riprende alcuni dei filoni di scrittura da lui utilizzati nel corso del tempo per confezionare A Dead Man in Deptford («Un cadavere a Deptford», 1993), il brillante pastiche dedi­ cato alla vita di Christopher Marlowe – drammaturgo, ­153

omosessuale e agente segreto (questi i tre punti chiave della «biografia»). Burgess è stato un intellettuale tan­ to scomodo quanto originale; e soprattutto un audace esploratore della forma romanzesca. Ma è probabile che il suo posto nel romanzo inglese resti affidato a un solo romanzo, a quel Clockwork Orange che nel libro, a differenza del film, non aveva affatto un finale con­ solatorio. John Fowles (1926-2005) si era laureato a Oxford in francese, aveva fatto l’insegnante, prima in Grecia e poi in patria, aveva riempito centinaia di pagine di diari, ma, pur sentendosi «scrittore», non aveva pubbli­ cato nulla fino al 1963, quando uscì The Collector («Il collezionista»), che è un esercizio da giocoliere sull’uso della narrazione in prima persona. Il romanzo contiene anche le pagine del diario di Miranda, una ragazza che è stata sequestrata dal protagonista, lo psicopatico Frede­ rick Clegg, collezionista di farfalle e voyeur. L’atteggia­ mento che ha Clegg nei confronti della sua prigioniera è identico a quello che ha nei confronti delle farfalle, che cattura e uccide, infilzandole con cura, per collocarle nelle sue bacheche. A differenza del film tratto del ro­ manzo, nel libro il lieto fine non c’è affatto. Circa tre anni dopo uscì la prima versione di un ro­ manzo a cui Fowles aveva lavorato per quindici anni, The Magus («Il mago»), in cui egli rielabora la sua espe­ rienza di insegnante nell’isola greca di Spetses; ma la rielaborazione non lo convinceva, per cui ne fece una seconda versione, pubblicata nel 1977. Per i fan di Fo­ wels si tratta di un’opera di grande valore letterario e finezza linguistica. Nel frattempo, grazie ai guadagni procuratigli dall’adattamento cinematografico del primo romanzo, ­154

Fowles si era comprato una casa a Lyme Regis, vicino al mare. Quella zona è lo sfondo del suo libro più noto, The French Lieutenant’s Woman («La donna del tenen­ te francese», 1969), un romanzo «vittoriano» di am­ bientazione, che qualcosa deve a The Return of the Native di Hardy per quanto riguarda la figura ribelle della protagonista. Fowles realizza una pirotecnica opera di decostruzione del romanzo ottocentesco e propone tre possibili finali alternativi. La vicenda è condotta a con­ clusione a metà libro (con tradizionale finale «vittoria­ no»); ma a quel punto il narratore entra nella finzione, la svela esplicitando il suo ruolo di autore e prosegue nella ricerca del destino dei personaggi da lui creati, offrendo ai lettori altri due finali che consentono lo­ ro di liberarsi dell’onnisciente narratore vittoriano e di scegliere il proprio finale. Il romanzo ebbe un successo internazionale enorme, aiutato dalla versione cinemato­ grafica, con Pinter come sceneggiatore e Meryl Streep come protagonista. Il fatto che sulla copertina del libro campeggi l’immagine della star ha aiutato non poco a mantenere alte per oltre quarant’anni le vendite di un romanzo che, in effetti, è di indubbia originalità. Ma The Collector gli è superiore. Altrettanto sperimentale fu J.G. Ballard (19302009), che dalla fantascienza americana e dalle arti figurative, soprattutto dalla mostra This Is Tomorrow, atto di nascita della pop art in Inghilterra, ricavò la con­ vinzione che la fantascienza fosse la forma più adatta per parlare del presente, che fosse più vicina alla realtà del romanzo realista. Ma non la vecchia fantascienza, che immaginava un futuro con le navicelle spaziali (che già c’erano), bensì una nuova fantascienza, che doveva tendere verso lo spazio psicologico, verso uno «spazio ­155

interno» simile a quello che si ritrova nei racconti di Kafka e nei migliori film noir. I primi romanzi erano caratterizzati da una visione di segno apocalittico, in qualche modo legata alla mi­ naccia di catastrofe nucleare autorizzata dal clima della guerra fredda. Poi Ballard individuò la (quasi) apocalis­ se nei possibili sviluppi demenziali della realtà quotidia­ na. In Crash (1973) costruì un’inquietante e allucinata allegoria della «società dell’automobile», in cui l’auto è oggetto di amore e di morte e in cui le superstrade sono un campo di battaglia di auto lanciate a folle velocità. In seguito il suo sguardo si posò su un’altra icona del­ la modernità, i grattacieli destinati a civile abitazione. Tutto tranne che civile. In High Rise («Il condomino», 1975), assistiamo a come in un complesso di un miglia­ io di alloggi la convivenza in quelle circostanze porti a un ritorno alla stato selvaggio, a comportamenti spesso violenti che trasformano la casa ideale pensata dagli ar­ chitetti in un deposito di immondizie – e di cadaveri. Ballard ritornò sull’argomento in Super-Cannes (2000), in cui il racconto ruota intorno all’uccisione di sette persone all’interno del parco di Eden-Olympia, un enorme complesso abitativo basato sulla realissima Sophia-Antipolis che si trova vicino a Nizza. Siamo alla vigilia del 2000 e la violenza gratuita potrebbe essere la vera espressione poetica del nuovo millennio, dice uno degli abitanti di questo Eden per nulla olimpico. Potrebbe davvero essere così, lascia intendere Kingdom Come («Regno a venire», 2006), esemplare distopia am­ bientata nel presente, in cui il protagonista del romanzo è il gigantesco centro commerciale di una cittadina vici­ no all’aeroporto di Londra. Questo tempio del consu­ mo, in cui si professa la religione dell’acquisto coatto, diventa una specie di piccolo regno autonomo, quasi ­156

uno Stato nello Stato, che solo un banale imprevisto riesce a distruggere. Anche se Kingdom Come è un atto di accusa lucido e violento contro la miseria dei valori dominanti, Ballard non avanza proposte, né accenna a possibili vie d’uscita. In fondo è un autore che affida alla negatività (come sarebbe piaciuto ad Adorno) il so­ gno di un mondo in cui le cose stiano altrimenti. Ma in Ballard c’è poi una diffidenza prudente nei confronti del genere umano, che nella seconda guerra mondia­ le, come nelle più recenti guerre balcaniche, africane e medio-orientali, si è esibito in massacri di massa di inaudita ferocia e che anche nella quotidianità privata è stata ed è capace dei misfatti più orrendi. Forse però, paradossalmente, il romanzo più bello di Ballard è Empire of the Sun («L’impero del sole», 1984), scritto, a parte la visione dell’atomica su Nagasaki, con taglio pienamente realistico e che ricostruisce l’espe­ rienza della sua infanzia in un campo di concentramento nella Shangai occupata dalle truppe giapponesi durante la guerra. In quella specie di prigione, ricorda Ballard, «trovai la libertà». Molta di più di quanto non ce ne sia nei grappoli di condomini a 30 piani e nei giganteschi shopping centres.

XI

I romanzieri di oggi

Quando ci si avvicina al presente, all’opera degli scrit­ tori tuttora in piena attività, la possibilità di sopravvalu­ tazione del loro valore è tutt’altro che improbabile. Per cui, con beneficio d’inventario, si darà qui conto di quei romanzieri, in particolare di quei romanzi, che più pro­ babilmente riusciranno a superare la prova del tempo. Partiamo dal più anziano, John le Carré (1931-), che è uno dei maggiori romanzieri inglesi della secon­ da metà del Novecento e di questo inizio di millennio. Affermazione difficile da accettare, soprattutto in Italia, dove ancora assai forte è la messa al bando dei «generi». Per la verità le Carré aveva come punti di riferimento non gli autori del genere spionistico, ma i due grandi narratori che incorporarono nella letteratura gli schemi e le forme di tale genere: Maugham e Greene. Da Maugham apprese la necessità di imporre un fermo ordine al racconto e l’idea di presentare i fatti dal punto di vista di un protagonista che ha e offre una visione parziale, al di là di quanto richiede la natura del genere spionistico, degli aspetti «tecnici» della sua indagine – ma anche, ben più di Ashenden, della natura delle persone e delle cose. ­158

L’altro suo fondamentale punto di riferimento fu Greene. Come nei romanzi di Greene, i suoi protago­ nisti sono uomini ordinari, antieroi. E come in Greene hanno un ruolo decisivo i sentimenti che guidano le scelte: in particolare l’amore, che è la causa del loro di­ sastro, come nel caso di Leamas, il protagonista di The Spy Who Came in from the Cold («La spia che venne dal freddo», 1963). In questo romanzo, attraverso i modi del thriller emerge il ritratto della Gran Bretagna, della dimidia­ ta potenza britannica nel mondo spaccato in due della guerra fredda. Già qui, come nei romanzi successivi, il mondo contemporaneo è ritratto da un punto di vista improntato a un pessimismo profondo, che si accompa­ gna all’idea di un patetico declino del mondo britannico in corrispondenza alla perdita del suo ruolo di grande potenza. Gli agenti segreti ricevono gli ordini dai capi di un apparato che si comporta come se ancora ci fosse un impero britannico, mentre l’impero, semmai, è quello sovietico, a cui l’Occidente, sotto la guida degli Usa, in nome della democrazia deve opporsi. Il libro ebbe un enorme successo. Non poteva essere «vero», spiegò le Carré, altrimenti non sarebbe stato possibile pubblicar­ lo. Ma era credibile: non solo come vicenda, ma anche come presentazione di un dilemma che toccava e tocca l’essenza della nostra civiltà occidentale, con i suoi prin­ cipi di democrazia e di libertà. Nel 1986 uscì il romanzo A Perfect Spy («La spia perfetta»), che riproponeva quel tema cruciale all’in­ terno di una vicenda, in parte autobiografica, che co­ stituisce al tempo stesso la radiografia dello «stato della nazione britannica». La spia perfetta è Magnus Pym, un agente dei servizi segreti alla fine della carriera. A un certo punto scompare e si nasconde in una pensioncina ­159

a scrivere le sue memorie, la sua storia di agente e di traditore: Pym era stato per anni un double agent, una spia per conto dei servizi segreti cecoslovacchi. Magnus Pym scrive la storia della sua vita; ma il nar­ ratore di A Perfect Spy scrive la storia di Pym che scrive la sua storia, gli affianca la sua narrazione, ne «correg­ ge» le informazioni imprecise, ne interpreta i parziali silenzi, la integra attraverso le pagine in cui il racconto è affidato al punto di vista della moglie Mary. Di fatto le Carré scrive una sorta di metaromanzo, in cui la sto­ ria procede andando avanti e indietro nel tempo, dal presente al passato recente e al passato lontano, sovrap­ ponendo un racconto all’altro, intrecciando le ricostru­ zioni (non sempre affidabili) dei momenti cruciali della carriera di Pym. A Perfect Spy è una bella storia sullo spionaggio; e sul rapporto tra padri e figli. Ma è anche una storia straordi­ naria sulla società inglese a partire dagli anni Trenta fino alla fine degli anni Settanta del Novecento, un acutissi­ mo ritratto dei valori, dei pregiudizi, della supponenza con cui la classe dominante britannica, pur attraverso i cambiamenti epocali di quel mezzo secolo, ha continuato a porsi con imperturbabile sicurezza nei confronti dei propri membri e di quelli delle classi ad essa inferiori. Il ritratto è particolarmente efficace perché nasce soprat­ tutto dalle sfumature del linguaggio, dai sottintesi, dai riferimenti allusivi, dai gesti e dagli sguardi con cui viene stabilito un sistema di riconoscimento tra i privilegiati dell’alta borghesia e di esclusione nei confronti degli al­ tri. Che Magnus Pym, con quel suo retroterra ambiguo, sapesse appropriarsene per diventare una spia perfetta (e in fondo vendicarsene) non sembra poi una grave colpa. Dopo la caduta del muro e la fine dell’Urss molti pensarono che le Carré non avrebbe più saputo che co­ ­160

sa e di che cosa scrivere, perché la guerra fredda era stata la fonte e la materia prima dei suoi romanzi. Non è stato così. La sua attenzione si è concentrata sull’Occi­ dente e sulle sue malefatte: quelle dei colossi farmaceu­ tici, delle banche truffaldine, delle multinazionali (che magari coltivano segreti legami con la mafia russa). In realtà anche nei romanzi scritti prima del 1989 le Carré si preoccupava dei valori (del non rispetto dei valori) dell’Occidente. Ma una volta scomparsa la necessità di osservarli alla luce della contrapposizione tra i due blocchi e attraverso le imprese dei rispettivi agenti se­ greti, come liberato dal dovere di stare «dalla nostra parte», le Carré ha mantenuto schemi e forma del ge­ nere spionistico per applicarli a quel tipo di invenzione narrativa che è propria del grande romanzo. Ha messo la suspense al servizio della rappresentazione del mon­ do di fine Novecento e di inizio del terzo millennio, cogliendone trasformazioni e infamie. Il romanziere più famoso tra quelli della generazione degli anni Quaranta è lo scozzese Ian McEwan (1948-), che esordì con due raccolte di racconti che si impose­ ro all’attenzione critica non solo per la scrittura fredda, algida, che dilatava il contrasto tra la materia macabra del racconto e il distacco con cui veniva illustrata, ma anche per la natura di quella materia: stupro, incesto, pe­ dofilia, violenza gratuita. Ad opera di ragazzini. Anche il suo primo romanzo, The Cement Garden («Il giardino di cemento», 1978), mantiene alcune di queste caratteristi­ che: la critica lo ha spesso collegato a Lord of the Flies di Golding, con la differenza che i ragazzi, quattro fratelli, rimasti orfani prima del padre e poi della madre, per non finire in orfanotrofio ne nascondono la morte e la seppel­ liscono in cantina coprendola di cemento. A quel punto ­161

realizzano un’anomala «comune» hippy e si costruiscono una vita segreta, in cui trionfa la morbosità dei rapporti. Una prima svolta si ebbe con The Child in Time («Bambini nel tempo», 1987), che da un lato sposta l’at­ tenzione dai figli ai padri, dall’altro mette in discussio­ ne la nostra visione del tempo come lineare a favore di una visione che forse deriva da Ouspensky (il prima e il dopo, in un’altra dimensione, sono contemporanei). Il romanzo contiene anche un atto di denuncia contro l’In­ ghilterra di Mrs Thatcher: l’aspetto politico diventerà infatti preminente nei romanzi degli anni Novanta, The Innocent («Lettera a Berlino», 1990) e Black Dogs («Ca­ ni neri», 1992), che affrontano i grandi nodi dell’Europa moderna, l’Olocausto, la guerra fredda, la caduta dei re­ gimi dell’Europa orientale. Anche a proposito di questi lavori vale la definizione per cui i romanzi di McEwan sono avventure nei territori dell’inquietudine: quella è la sua cifra e con essa conduce il lettore tanto nei meandri della mente quanto nei meandri della storia. I romanzi di McEwan offrono spesso degli «attac­ chi» formidabili. Insuperabile è l’inizio di Enduring Love («L’amore fatale», 1997), con un gruppo di uomi­ ni che si sono aggrappati alle funi di una mongolfiera con un bambino a bordo per impedirle di volare via e schiantarsi. Il romanzo è l’analisi del rapporto che si stabilisce tra Joe e Jed, due degli uomini del grup­ po, e di come Jed venga travolto da un sentimento di ossessione amorosa nei confronti di Joe, conducendo quest’ultimo quasi alla follia e, sentendosi giustamente minacciato, a idee omicide. Alla fine del libro c’è un dotto saggio scientifico sulla «ossessione omo-erotica», con tanto di bibliografia, a firma di due psichiatri. La cosa interessante è che si tratta di un falso, farina del sacco di McEwan. ­162

Nei romanzi successivi spesso troviamo un aspetto «scientifico» che si intreccia con le vicende narrate. Così avviene in Solar (2010) un libro che affronta il te­ ma del riscaldamento globale. Così avviene in Saturday («Sabato», 2005), che parla della guerra in Irak ma che, avendo un protagonista neurochirurgo, contiene tan­ to di osservazioni tecniche sulla chirurgia del cervello. Ciò avviene anche in The Children Act («La ballata di Adam Henry», 2014) per ciò che riguarda le procedure processuali e il linguaggio giuridico in un romanzo il cui tema è quello del rifiuto delle cure per ragioni religiose. Il suo romanzo più riuscito è Atonement («Espia­ zione», 2001), un’affascinante riflessione sulla natura della fiction e sulle responsabilità dello scrittore, ma so­ prattutto un’esemplare considerazione sul pregiudizio di classe e, nelle pagine della ritirata delle truppe inglesi verso Dunkerque, sulla banalità dell’orrore della guer­ ra. Atonement è il frutto più affascinante del talento di McEwan, che finora ha continuato a catturare il lettore incrociando linguaggi specialistici, grandi temi e bril­ lante invenzione narrativa. Quasi coetaneo di McEwan è Graham Swift (1949), uno scrittore che spesso si è confrontato con il senso del passato (nei rapporti famigliari e sociali) e con il biso­ gno di recuperarlo. È quanto fa il protagonista del suo capolavoro, Waterland («Il paese dell’acqua», 1983), l’insegnante di storia Tom Crick, che per uscire dalla crisi che lo assilla risale al suo passato: quello suo perso­ nale (di ragazzo nella zona paludosa dei Fens) e quello storico, della regione in cui è nato. Lo «storico» Tom dà comunque uguale rilievo tanto ai fatti documentati quanto ai miti e alle storie di fantasia: finzione e storia possono tranquillamente coesistere. Di Swift, i cui lavo­ ­163

ri più recenti sono stati accolti dalla critica con qualche perplessità, in particolare il «modernista» Tomorrow (2007), si deve anche ricordare Last Orders («Ultimo giro», 1995), vincitore del Booker Prize nel 1996. Il ro­ manzo, ispirato a As I Lay Dying («Mentre morivo», 1930) di Faulkner per la forma narrativa adottata, offre una ricostruzione affascinante della vita popolare in un comune della cintura londinese, affidandola alla viva­ cità della lingua parlata dei protagonisti, che Swift ha saputo ricreare con brillante maestria. Molto apprezzato dalla critica è Martin Amis, anche lui nato nel 1949, figlio di Kingsley Amis, e conside­ rato il maggior esponente della narrativa postmoderna inglese. Dei suoi romanzi quello che all’uscita fece più scalpore è Time’s Arrow («La freccia del tempo», 1991), la storia di un medico tedesco complice dell’Olocausto, che viene narrata andando a ritroso, con il protagonista che è sempre più giovane con il procedere della vicenda, e con un racconto affidato a una sorta di coscienza pa­ rallela del protagonista. Il libro che gli diede il successo è Money. A Suicide Note («Money», 1984), un romanzo senza trama – come egli stesso lo definì – che registra la voce del protagonista John Self, un pubblicitario che crede di essere padrone del proprio destino, brillante, vitale, spregiudicato. E che poi si trova sull’orlo del ba­ ratro (il suicidio di cui leggiamo nel titolo). A questo punto l’autore stesso entra nel racconto, con tanto di nome e cognome, Martin Amis, per salvarlo. Un roman­ zo postmoderno, quindi. Ma anche un libro che giusta­ mente è stato definito come l’epitaffio del decennio del cieco rampantismo promosso da Mrs Thatcher. Il lavo­ ro più convincente di Amis è London Fields («Territori londinesi», 1989), in cui presenta con indubbio talento ­164

una realtà disastrata e sgradevole, osservata con un di­ stacco sprezzante che non esclude l’attrazione. Questi toni così aspri sono stati in seguito proposti in modo sistematico, ma dettati più dall’intenzione di scioccare che non dalla «necessità» del racconto. Amis ha spesso voluto affrontare i grandi temi – la guerra nucleare, la rivoluzione femminista, l’Olocausto (di nuovo, di recente, in The Zone of Interest), lo sta­ linismo e l’11 settembre – e i suoi lavori stanno tra il saggio e la fiction. Rispetto a molti scrittori impegnati a indagare piccole vicende private, ben venga l’ambizio­ ne di affidare alla letteratura la riflessione sulle grandi questioni che riguardano l’intera umanità. Il problema è non farsi prendere la mano dal proprio ruolo di nar­ ratore, proponendosi come inventore di storie che alla Storia ambiguamente si richiamano. Julian Barnes (1946-) è il romanziere inglese più vicino alla cultura francese e uno dei più critici verso l’insularità della Gran Bretagna. Barnes aveva studiato francese a Oxford. Come il protagonista del suo primo romanzo, Metroland (1980), si era trovato a Parigi nel 1968 e come lui era poi tornato in Inghilterra, rinun­ ciando a sogni di vita non insulare. E per molti anni non aveva «osato» tentare la strada della scrittura creativa. Poi, quasi in contemporanea con Metroland (ma con lo pseudonimo di Dan Kavenagh), aveva pubblicato un giallo, Duffy (e altri tre ne diede alle stampe negli anni se­ guenti). Barnes, data la sua familiarità con la cultura fran­ cese, forse era stato spinto a scrivere un giallo dal fatto che in Francia negli anni Settanta c’era stato un fiorire di gialli anomali, di noir che discendevano, per così dire, dal Maggio francese: era il genere battezzato néo-polar, duro, spesso violento, ambientato preferibilmente nei quartieri ­165

periferici della città. Un genere a suo modo di denuncia sociale, una specie di «noir anticapitalista». Barnes scelse come luogo Soho (santuario di gangster, locali porno e traffici di droga) e come detective un ex poliziotto bises­ suale: non esattamente un giallo inglese tradizionale. La critica si accorse del suo talento all’uscita di Flaubert’s Parrot («Il pappagallo di Flaubert», 1984), un ro­ manzo in cui, incrociando fiction, saggistica e curiosità letterarie, Barnes realizza un godibilissimo omaggio a Flaubert che è al tempo stesso una dichiarazione sulla passione per la letteratura e sull’inaffidabilità della cri­ tica. Il narratore, un medico di una certa età, vedovo, in «missione» letteraria in Normandia, procede nel rac­ conto inanellando una serie di osservazioni (quasi sem­ pre critiche) apparentemente slegate, ma che in realtà Barnes confeziona sul modello dei saggi di Montaigne. Indagando, tra l’altro, sui libri che Flaubert finì con il non scrivere, il narratore ne scrive uno che Flaubert avrebbe sicuramente apprezzato per il modo in cui le banalità del senso comune e la loro pretesa di saggezza risaltano nella loro inconsistenza (comprese quelle dei professori universitari). Un altro punto di riferimento letterario di Barnes, seppure non così rilevante, era il Koestler di Darkness at Noon, come è evidente da The Porcupine («Il porco­ spino», 1992), un romanzo che racconta il processo a un immaginario ex leader di un paese dell’Est europeo che in realtà è, grosso modo, Todor Živkov, capo del Par­ tito comunista bulgaro. Il libro è caratterizzato da un atteggiamento critico volutamente oggettivo ed evita di lanciarsi in una scontata intemerata contro i regimi dit­ tatoriali dell’Est europeo: c’è invece un’attenzione, per la verità poco comune, di capire le ragioni di chi ragione non ha. Barnes, a questo riguardo, è voltairiano. Lo sarà ­166

di nuovo in un romanzo uscito di recente, The Noise of Time («Il rumore del tempo», 2016), che ha come sog­ getto il compositore russo Šostakovič, prima celebrato, poi censurato, poi nuovamente accettato dal regime so­ vietico. Il narratore si pone quasi sempre dal punto di vista di Šostakovič. E gli attribuisce un tipo di ironia, di confortante «black humour», con cui sopportare sven­ ture, minacce e umiliazioni. Il rapporto tra arte e potere è uno dei temi del romanzo, insieme a quello della quasi impossibilità, in un regime dittatoriale e sanguinario, di dire la verità senza perdere la propria libertà, se non ad­ dirittura la vita. Nel suo linguaggio misurato ed elegan­ te Barnes ha scritto un romanzo sulla coscienza lacerata di un artista travolto dal totalitarismo, senza andare alla ricerca di assoluzioni o condanne. Anche Barnes, al terzo tentativo, vinse il Booker Prize. Gli fu assegnato per The Sense of an Ending («Il senso di una fine», 2011). Il romanzo è diviso in due parti, con un narratore, Tony, che nella prima parte ricorda gli anni della sua gioventù, l’amicizia con un gruppo di compagni di scuola, gli studi all’università, lui a Bristol e Adrian, il più brillante del gruppo, a Cam­ bridge. L’incrocio tra loro due è segnato dal fatto che Veronica, la ragazza di Tony, dopo la loro separazione diventa la ragazza di Adrian: è quest’ultimo a informar­ lo per lettera della cosa. Qualche tempo dopo Adrian si suicida, lasciando uno scritto in cui spiega che ciascuno, avendo valutato il senso e il significato della propria vita, ha diritto di privarsene. La seconda parte del libro costituisce il ripensamento di ciò che è accaduto alla lu­ ce dei documenti e di una piccola somma che la madre di Veronica le ha lasciato come eredità. The Sense of an Ending è una riflessione di sommessa intensità sull’invecchiare e sulla dimensione del rimpianto ­167

e del ricordo. Il titolo del romanzo è lo stesso del saggio di Frank Kermode sulla teleologia nella letteratura, in cui il grande anglista diceva che compito degli scrittori non è quello di dare un senso alla nostra vita, ma quello di dare un senso ai modi in cui noi stessi cerchiamo di dare un senso alla nostra vita. Barnes ha fatto esattamente questo. Resta ancora da dire brevemente di Jonathan Coe (1961-), che spesso combina la sua abilità di costruzione del romanzo alla maniera dei grandi vittoriani con le so­ luzioni metaromanzesche del postmoderno. Con modi narrativi di volta in volta diversi, ma sempre sorretto da una pirotecnica vena satirica, Coe ha raccontato la realtà scandalosa dell’Inghilterra di Mrs Thatcher in modo irresistibile con What a Carve Up! («La famiglia Winshaw», 1994) e quella incerta del nuovo millennio con Number 11 («Numero 11», 2015). In questo che per ora è il suo ultimo romanzo, e ricollegandosi a What a Carve Up!, Coe traccia il quadro contraddittorio della realtà culturale e delle trasformazioni antropologiche del Regno Unito alla vigilia di Brexit, sempre combi­ nando brillantemente comicità e critica sociale. L’abilità di Coe nel muoversi in una varietà di forme narrative ha prodotto un brillante romanzo di spionag­ gio in versione comica, Expo 58 (2013), con un protago­ nista, il tradizionale impacciato Englishman abroad, che si ritrova in mezzo ad agenti segreti inglesi, spie russe e belle ragazze durante lo svolgimento dell’Esposizione Universale a Bruxelles con sullo sfondo la guerra fred­ da. Anche qui, comunque, il pregio del romanzo deriva dal ritratto sociale, quello della piccola borghesia ingle­ se (ma in fondo dell’Inghilterra tutta) nei suoi patetici anni Cinquanta di incerte speranze dopo la fine delle illusioni imperiali. ­168

XII

I romanzieri diversamente inglesi

Un discorso a parte meriterebbero gli scrittori «regio­ nali», scozzesi e irlandesi (sempre che questi ultimi non li si voglia includere tra gli autori cosiddetti postcolo­ niali). Di almeno uno per «area» sia concesso di dire qui brevemente, «sacrificando» lo scozzese Alasdair Gray e l’irlandese Roddy Doyle. Il primo è James Kelman (1946-), che non manca mai di sottolineare il fatto di non essere inglese e che spes­ so scrive in una lingua che include parole, espressioni, modi di dire che appartengono alla parlata scozzese. Uno dei suoi romanzi, in effetti il più bello, How Late It Was, How Late («Troppo tardi, Sammy», 1994), vinse il Booker Prize. Un membro della giuria, Julia Neuberger, rabbina di una sinagoga di Londra ed esponente del Partito liberale, dichiarò che il libro era una schifezza. Parte della critica disse più o meno la stessa cosa. Si riferivano alle molte espressioni oscene presenti nel li­ bro? O li indignava il flusso di parole nel caratteristico «inglese» di Glasgow che confusamente racconta ciò che è accaduto a Sammy, il protagonista brutto, sporco ma non cattivo del romanzo? Dopo due giorni di sbronza Sammy si risveglia in ­169

un vicolo e litiga con dei poliziotti in borghese che lo picchiano selvaggiamente, al punto da fargli perdere la vista. Persino ottenere un certificato di disabilità risul­ ta problematico; e intanto viene nuovamente arrestato e sbattuto in cella. La polizia, e il medico chiamato a visitarlo, rifiutano di considerarlo cieco. A Sammy non resterà, forse, che andarsene via. Nella sua apparente casualità (una voce da ubriaco­ ne che racconta a pezzi le sventure di un ubriacone) il romanzo è costruito con sicura padronanza della nar­ razione e ci restituisce una galleria di personaggi (per non parlare del protagonista) di inquietante verità. E mette fortemente in crisi l’idea che abbiamo della Gran Bretagna come di un paese ben più democratico e civile del nostro. John Banville (1945-), irlandese, è autore di una ven­ tina di romanzi (tra cui uno di spionaggio con un double agent al servizio dell’Urss e una trilogia su Keplero, Copernico e Newton), che, a suo titolo di merito, sono molto diversi tra loro. In comune hanno però la raffi­ natezza della sua scrittura, di una ricchezza linguistica che rimanda a Joyce ma tenuta insieme da un rigore e da un’economicità beckettiani. Questa caratteristica raggiunge il suo risultato più alto in The Sea («Il mare», 2005), anch’esso vincitore del Booker Prize. Max, un uomo anziano rimasto vedovo da poco, va a trascorre­ re alcuni giorni in una località balneare dove era stato da ragazzo e dove aveva conosciuto i membri di una ricca famiglia inglese, i Grace, rimanendo affascinato soprattutto da madre e figlia. Max, che spiava i Grace con ammirazione, in un’occasione cruciale aveva inter­ pretato erroneamente ciò che era successo. Quello che aveva creduto di vedere, sbagliando, avrebbe condizio­ nato la sua vita. Proprio alla fine del romanzo, come in ­170

un giallo, giunge la rivelazione, a lui e al lettore, di ciò che era davvero accaduto. Spesso in Banville c’è l’idea che bisogna guardare indietro, scavare in profondità nel passato (e dentro di sé) per capire il senso della propria esistenza: in The Sea questa idea è «dimostrata» dal ritorno di Max ai luoghi dell’adolescenza. Ciò che rende facile e affascinante se­ guirlo in questo suo viaggio nel passato è la qualità della sua prosa. La sua fluidità, il suo nitore, la sua delicata essenzialità, qui in modo particolare, ma in tutta la sua produzione romanzesca, sono la delizia del lettore e il segno della sua eccellenza di scrittore. Per la verità nelle lettere inglesi ci sono dei roman­ zieri ancora meno inglesi di Kelman e Banville. Sono gli autori nati in Inghilterra (o giuntivi da piccoli) che, come dice il protagonista del romanzo d’esordio di Ha­ nif Kureishi (1954), sono quindi «inglesi dalla testa ai piedi. Quasi». Così leggiamo nella prima frase di The Buddha of Suburbia («Il budda delle periferie», 1990). Kureishi, nato in Inghilterra da padre pakistano, sia in questo suo felicissimo romanzo d’esordio, sia nelle sceneggiature e nei successivi primi lavori, ha proposto personaggi e situazioni che nascono dall’incontro e dal­ lo scontro tra i modi di vita, i valori, i pregiudizi della quotidianità londinese e le tradizioni e la mentalità de­ gli immigrati del subcontinente indiano e dei loro figli nati in Inghilterra. Nel post 11 settembre lo scontro ha finito spesso con il prevalere sull’incontro. Il lumicino di speranza sta nel fatto che il sindaco di Londra sia un pakistano (quasi) inglese. Diverso il caso di Kazuo Ishiguro (1954-), cresciuto in Inghilterra ma nato in Giappone. I suoi due primi romanzi sono legati alla condizione del Giappone, re­ ­171

duce dalla sua guerra imperialista e dalla tragedia della bomba atomica, in cui rimaneva tuttavia invariata la limpidezza feroce del suo sistema di valori, accettato dal singolo come fosse un’indiscutibile legge di natu­ ra. Forse è anche per questo che in The Remains of the Day («Quel che resta del giorno», 1989) Ishigu­ ro ha saputo cogliere con stupefacente accuratezza e profondità la presenza nel mondo inglese di un simile atteggiamento, estremizzato nella figura del protagoni­ sta, il maggiordomo Stevens, che sia nei rapporti con la servitù, sia in quello con il suo padrone (sostenitore del nazismo), eleva le regole che sovrintendono il suo lavoro quasi a tavole della legge. E al tempo stesso rive­ la come, in generale, in larga parte della società inglese la manifestazione dei propri sentimenti sia ingabbiata, se non repressa, dalla necessità di rispettare quelle che vengono considerate le irrinunciabili regole della civile convivenza: senza accorgersi che così facendo non si convive, ma si vive soli. La scena letteraria inglese registra un numero cre­ scente di interpreti «etnici», di scrittori di genitori non inglesi nati in Inghilterra e portatori di esperienze e punti di vista di indiscutibile originalità e diversità. È troppo presto per tracciarne un sia pur rapido profilo, anche se nulla vieta di indicare in Andrea Levy (1956-), Helen Adu (1959-), Monica Ali (1967-) e Zadie Smith (1975-) le maggiori esponenti di quella che viene defi­ nita la letteraria Black Britain. Per tutt’altre ragioni non può trovare posto qui il romanzo degli scrittori delle letterature in inglese (o postcoloniali che dir si voglia). È una produzione di grandissimo interesse e valore che merita un libro a parte, accreditata com’è dal fatto che ben sette sono gli scrittori postcoloniali ad essere stati ­172

insigniti del Premio Nobel; e che molti altri sono al cen­ tro della scena letteraria internazionale. Di almeno uno di questi, il maggiore tra loro, Salman Rushdie, è tuttavia doveroso rendere conto. A Rushdie, nato nel 1947 a Bombay da famiglia musulmana, giunto in Inghilterra all’età di quattordici anni ed educato nelle migliori scuole private e università inglesi, il retroterra indiano ha fornito non soltanto il materiale per la sua invenzione romanzesca, ma anche una dimensione e una forma narrativa; che poi lui ha saputo fondere con alcuni dei risultati più alti raggiunti dalla forma romanzesca nel­ la letteratura occidentale. Il maggior pregio di Rushdie sta nella sua capacità di scardinare i criteri della verosi­ miglianza ponendo sullo stesso piano realtà e sogno, nar­ razione realistica e racconto favolistico: i dati oggettivi si mescolano alle irruzioni del fantastico, in un gioco che costringe il lettore ad accettare i diversi livelli di realtà presenti nel romanzo senza dover distinguere tra di essi. Questa è la cifra di Rushdie, riproposta con inven­ zione fantastica sempre nuova in tutti i suoi romanzi, sino al più recente Two Years Eight Months and TwentyEight Nights («Due anni, otto mesi e ventotto notti», 2015), una distopia che si conclude in utopia (con ri­ serva) attraverso una vicenda che mescola un lontano futuro con un presente quasi realistico a New York e un presente extraterreno popolato dai «geni» della tra­ dizione favolistica orientale – quei due anni, otto mesi e ventotto notti fanno mille e una notte. Rushdie è un funambolo della narrazione che sta­ bilisce con il lettore un contatto costante, strizzandogli l’occhio e rendendolo complice dell’invenzione narra­ tiva. È un maestro di suspense, che anticipa particolari di ciò che verrà raccontato in seguito e semina indizi dei futuri sviluppi della vicenda riuscendo a produrre, ­173

quando poi si verificano, un atteggiamento di «rico­ noscimento» da parte del lettore. Ed è un maestro di humour, dotato non soltanto di un gusto per il gioco di parole quasi joyciano, ma anche di un’ironia sferzante, capace di cogliere nel tragico l’aspetto comico-grotte­ sco che costituisce un motivo non secondario del «di­ vertimento» del lettore nel momento in cui è chiamato a testimoniare di una realtà miserabile e crudele. Un importante aspetto dell’opera di Rushdie è quello del rapporto con la storia. Midnight’s Children («I figli della mezzanotte», 1981), il più bel romanzo di lingua inglese degli ultimi quarant’anni, copre il periodo che va dal 1915 al 1977; le vicende del protagonista di Shame («La vergogna», 1983) sono fittamente intrecciate con la storia del Pakistan; The Moor’s Last Sigh («L’ultimo so­ spiro del Moro», 1995) spazia dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri; le travolgenti vicende narrate in Shalimar the Clown («Shalimar il clown», 2005) mescolano la se­ conda guerra mondiale e la Resistenza con la sanguinosa storia del Kashmir e il terrorismo islamista. Ma il rapporto tra la vita dei singoli e la storia avvie­ ne al di fuori delle categorie familiari al romanzo occi­ dentale. Saleem, il protagonista di Midnight’s Children, distorce i fatti storici perché scrivendo la propria vi­ ta vuole trovarne un significato adattando ad essa gli avvenimenti, in modo tale che il lettore sia costretto a riconoscergli un ruolo centrale rispetto a questi ultimi. Questo però, più che un processo cosciente, è il frutto della distorsione della memoria. E tuttavia, afferma Sa­ leem, è la memoria che ricostruisce la storia; e l’uomo, che non è in grado di scriverla oggettivamente, può co­ glierla soltanto attraverso la distorsione soggettiva del ricordo, che la mescola all’illusione, che la ingigantisce nel mito. ­174

Un simile discorso vale anche per Shame, dove di nuovo fatti storici e accadimenti surreali concorrono a scrivere la storia del Pakistan. E così per The Moor’s Last Sigh, dove le vicende private dei personaggi vengo­ no fantasiosamente fatti coincidere con i grandi avveni­ menti della storia moderna. E nel romanzo successivo, The Ground Beneath Her Feet («La terra sotto i suoi piedi», 1999), il terremoto che devasta il Messico non avviene nel 1985, ma nel 1989, in modo da coincide­ re con la condanna a morte pronunciata da Khomeini, l’anno del terremoto nella vita di Rushdie. Nei suoi ro­ manzi la verità, compresa la verità storica, nasce dalla «trasfigurazione» di ciò che è accaduto. La stupefacente capacità di Rushdie di porre sullo stesso piano narrazione realistica e invenzione fanta­ stica sono alla base anche del romanzo che scatenò la fatwa di Khomeini, The Satanic Verses («I versi satani­ ci», 1988). Nel libro c’è materia per almeno tre romanzi, in un susseguirsi di storie mirabolanti che si intrecciano con quelle dei due protagonisti; ma c’è anche la rivisita­ zione romanzesca di alcuni nodi della cultura islamica che si possono ricondurre a un unico tema, quello del rapporto tra laicità e religiosità. E anche, meno diret­ tamente, su quel legame tra religione e potere le cui tragiche conseguenze, come si è visto poi, insanguinano da anni il mondo musulmano – e anche il nostro. Nei Satanic Verses c’è una sottolineatura sottile del valore della tolleranza, un tema che illumina molte delle pagine più belle di The Moor’s Last Sigh e di Shalimar the Clown; e che ritorna a fianco della contrapposizione teologica che troviamo in Two Years Eight Months and TwentyEight Nights. È una tragica ironia che un libro in cui si rivendicava tale valore abbia offerto l’occasione per una condanna che nell’intolleranza ha il suo fondamento. ­175

A Rushdie siamo tutti debitori non solo per la bellez­ za della sua invenzione romanzesca, ma anche perché, con i suoi libri e con la testimonianza della sua vita di uomo braccato dalla minaccia fanatista, ci fa ricorda­ re che quello della tolleranza è un valore basilare del­ la nostra civiltà. Un valore conquistato relativamente di recente e minacciato dai populismi, ma a cui non possiamo e non dobbiamo rinunciare, perché fa ormai tutt’uno con la nostra idea di umanità.

Per saperne di più

Per orientarsi nei territori del romanzo, due agili volumetti possono servire da guida: il «classico» saggio di E.M. For­ ster, Aspects of the Novel, pubblicato nel 1927 e scaricabile gratuitamente da www.exordio.qfb.umich.mx, e il manuale di John Sutherland intitolato How to Read a Novel, Profile Books, London 2006. Per chi deve scrivere una tesi magistrale saranno invece ricchi di suggerimenti i cinque volumi a cura di Franco Moretti, Il romanzo, Einaudi, Torino 2001-2003. Per saperne di più sul romanzo inglese si indicano qui (uno per ciascun periodo) gli studi e i manuali in inglese di maggiore interesse e utilità: J. Richetti (ed.), The Cambridge Companion to the Eighteenth-Century Novel, Cambridge University Press, Cambridge 1996. G. Kelly, English Fiction of the Romantic Period, 1789-1830, Long­ man, London 1989. J. Sutherland, The Longman Companion to Victorian Fiction, Pear­ son Educational Ltd, Harlow 2009. R. Williams, The English Novel from Dickens to Lawrence, Chatto & Windus, London 1970. P. Nicholls, Modernisms. A Literary Guide, Macmillan, London 1995. M. Bradbury, The Modern British Novel, Sacker & Warburg, Lon­ don 1993. E infine, di Terry Eagleton, The English Novel. An Introduction, Blackwell, Oxford 2005.

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Indice dei nomi

Ambler, E., 133-134. Amis, K., 136-137. Amis, M., 164-165. Auerbach, E., 107. Austen, J., 43-51. Bachtin, M., 7, 55. Bainbridge, B., 146-147. Ballard, J.G., 155-157. Banville, J., 170-171. Barnes, J., 165-168. Beckett, S., 117-118. Beckford, W., 37. Behn, A., 4. Bennett, A., 91-92. Brontë, A., 66. Brontë, C., 66-69. Brontë, E., 69-71. Buchan, J., 133. Burgess, A., 152-154. Carroll, L., 79. Carter, A., 147-149. Cervantes, M., 6, 28. Childers, E., 88. Christie, A., 89, 132. Coe, J., 168. Collins, W., 88.

Conan Doyle, A., 89, 90. Congreve, W., 3-4, 6. Conrad, J., 96-101, 108. Defoe, D., 8, 10-16. Dickens, C., 56-63. Diderot, D., 19. Durrell, L., 152. Eagleton, T., 70. Eliot, G., 73-76. Eliot, T.S., 111. Fielding, H., 24-29. Fleming, I., 136. Ford, F.M., 103-106, 108. Forster, E.M., 101-103. Fowles, J., 154-155. Galsworthy, J., 92-93. Gaskell, E., 72. Golding, W., 141-142. Greene, G., 59, 105, 134, 137141, 159. Hardy, T., 83-87. Isherwood, C., 128-129. Ishiguro, K., 171-172.

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Jerome, J.K., 78. Joyce, J., 109-113.

Richardson, S., 8-9, 19-24. Rushdie, S., 172-176.

Kelman, J., 169-170. Kipling, R., 93-96. Kureishi, H., 171.

Scott, W., 38-42. Shelley, M., 51-52. Sillitoe, A., 136. Smollett, T., 29-30. Spark, M., 144-146. Sterne, L., 31-35. Stevenson, R., 79-82. Sutherland, J., 61. Swift, G., 163-164. Swift, J., 16-19.

Lawrence, D.H., 113, 121-124. Leavis, F.R., 43. le Carré, J., 158-161. Lessing, D., 142-144. Lewis, M.G., 37. Lowry, M., 118-120. Lukács, G., 40-41. Maugham, W.S., 92, 124-126, 133, 158. McEwan, I., 161-163. Orwell, G., 130-132. Polidori, J., 52. Radcliff, A., 38. Rendell, R., 89.

Thackeray, W.M., 63-66. Trollope, A., 76-78. Walpole, H., 36-37. Waters, S., 150-151. Waugh, E., 126-128. Wells, H.G., 90-91. Wilde, O., 82-83. Winterson, J., 149-150. Wodehouse, P.G., 132-133. Woolf, V., 4, 43, 108, 113-116.

Indice del volume



Premessa

I.

Gli inizi

vii

3

II. Il romanzo del primo Settecento: Defoe, Richardson e Fielding (per non parlare di Swift)

8

III. Nuove strade romanzesche: Sterne, il «gotico», il romanzo storico

31

IV. Una stanza tutta per lei

43

V.

Il romanzo vittoriano, parte prima: Dickens, Thackeray e le sorelle Brontë

53

VI. Il romanzo vittoriano, parte seconda: Eliot, Trollope, Stevenson e Hardy

72

VII. Fine secolo e bella (?) «époque»

88

VIII. Il Modernismo

107 ­181

IX. Al di fuori del Modernismo

121

X.

135

Il romanzo del secondo Novecento

XI. I romanzieri di oggi

158

XII. I romanzieri diversamente inglesi

169



Per saperne di più

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Indice dei nomi

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