Il risentimento
 9788832962802

Table of contents :
Indice......Page 70
Frontespizio......Page 5
L’autore......Page 2
Avvertenza......Page 7
Max Scheler e la riabilitazione della vita emotiva......Page 8
Il risentimento e la crisi contemporanea......Page 10
Il risentimento e la vita morale......Page 13
Bibliografia......Page 19
IL RISENTIMENTO......Page 20
I. Per una fenomenologia e sociologia del risentimento......Page 21
II. Risentimento e giudizio morale......Page 35
III. La morale cristiana e il risentimento......Page 38

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L’autore

Max Scheler nacque a Monaco nel 1874, da padre protestante e da madre ebrea. Aderì a un cattolicesimo di ispirazione liberale. A Gottinga divenne un esponente di rilievo del movimento fenomenologico. Tra il 1913 e il 1917 pubblicò l’opera che lo rese famoso, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Nello stesso arco di tempo scrisse alcuni saggi sul risentimento, il pudore, il pentimento. In Essenza e forme della simpatia (1923) affrontò la tematica dell’intersoggettività proponendo la tesi della percezione diretta dell’altro. Nel 1919 divenne professore di filosofia all’Università di Colonia. Il suo La posizione dell’uomo nel cosmo (1927) è considerato il testo fondatore dell’antropologia filosofica. Gli ultimi anni della vita di Scheler sono caratterizzati da un importante dialogo con Essere e tempo (1927) di Heidegger, che gli dedicò un commosso ricordo in occasione della sua prematura scomparsa nel 1928.

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Il risentimento

Max Scheler 1874-1928

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© Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: corso Sempione, 2 - Milano ISBN 978-88-3296-280-2 Traduzione di Angelo Pupi rivista da Laura Boella Dopo aver fatto le ricerche necessarie, l’editore si dichiara a disposizione degli aventi diritto per la traduzione. Progetto grafico copertina: mas213 Prima edizione digitale: ottobre 2019 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Avvertenza

Il saggio di Max Scheler sul risentimento fu pubblicato nel 1912 con il titolo Über Ressentiment und moralisches Werturteil. Ein Beitrag zur Pathologie der Kultur sulla «Zeitschrift für pathologische Psychologie», I, 2-3, Verlag Engelmann, Leipzig 1912. Una seconda versione ampliata uscì con il titolo Das Ressentiment im Aufbau der Moralen in M. Scheler, Abhandlungen und Aufsätze, 1, Verlag der Weissen Bücher, Leipzig 1915, pp. 39-274, e successivamente in Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsätze, 1, Der Neue Geist Verlag, Leipzig 1919, pp. 43-237. La prima edizione italiana del saggio (Bompiani, Milano 1936), tradotto da Felix Sternheim, fu introdotta da Antonio Banfi. Una seconda edizione (Vita e pensiero, Milano 1975), a cura di Angelo Pupi, è basata sul testo pubblicato in Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsätze, Gesammelte Werke, 3, a cura di M. Scheler, Franke Verlag, Bern-München 1955, pp. 32-147, e segnala le aggiunte e le note introdotte da Scheler nella seconda e terza versione. Per la presente edizione, finalizzata a offrire al lettore italiano le linee essenziali della riflessione scheleriana sul risentimento, si è scelto di proporre solo le sezioni I-II-III del saggio, eliminando alcune parti aggiunte successivamente e le note di esclusivo carattere bibliografico. La traduzione di Angelo Pupi è stata controllata sul testo tedesco delle Gesammelte Werke e modificata per quanto riguarda la terminologia fenomenologica e la chiarezza espositiva. Si è mantenuta l’indicazione [1915] e [1919] nelle note risalenti alla seconda e terza versione del saggio.

Perché oggi di Laura Boella

Max Scheler e la riabilitazione della vita emotiva Max Scheler nacque a Monaco nel 1874, da padre protestante e da madre ebrea. Ebbe un rapporto contrastato con il cattolicesimo: si convertì e se ne distaccò, per poi impegnarsi intorno al 1919 in favore di un cattolicesimo di ispirazione liberale aperto al confronto ecumenico e critico nei riguardi del nazionalismo. Nel 1911 fu a Gottinga, dove insegnava Husserl, diventando un esponente di grande rilievo del movimento fenomenologico. Sull’organo ufficiale della scuola husserliana, lo Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, uscì tra il 1913 e il 1917 l’opera che lo rese famoso, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Nello stesso arco di tempo scrisse alcuni saggi sul risentimento, il pudore, il pentimento. In Essenza e forme della simpatia (1923) affrontò la tematica dell’intersoggettività discutendo la concezione dell’empatia di Edith Stein e proponendo la tesi della percezione diretta dell’altro. Dopo varie disavventure accademiche, al termine della guerra, nel 1919, divenne professore di filosofia all’Università di Colonia. La posizione dell’uomo nel cosmo (1927) è considerato il testo fondatore dell’antropologia filosofica. Gli ultimi anni della vita di Scheler sono caratterizzati da un importante dialogo con Essere e tempo (1927) di Heidegger, che gli dedicò un commosso ricordo in occasione della sua prematura scomparsa nel 1928. Riprendendo l’idea pascaliana di una «logica del cuore», Max

Scheler ha riabilitato le emozioni rispetto alla ragione e ha rivendicato l’autonomia del sentire come modo originario di accesso al mondo. Intellettuale di vasti interessi scientifici, antropologici, sociologici, spirituali e religiosi, Scheler incarnò molte delle aspettative suscitate dalla fenomenologia nella sua fase inaugurale. Il motto «andare alle cose», lanciato da Husserl nel saggio La filosofia come scienza rigorosa (1911), assunse il significato di un rinnovamento della filosofia che dischiudeva la possibilità di un’indagine rigorosa delle attività della coscienza nel suo rapporto con il mondo, dai valori che orientano la condotta morale alle creazioni artistiche e culturali, dalle forme di vita storiche e sociali alla fede religiosa. In Scheler il metodo fenomenologico s’incontra con la forte critica nei confronti della cultura moderna, del formalismo e dell’astrazione propri dello spirito borghese e della sua volontà di controllo e di dominio. Egli riteneva che ogni filosofo avesse una sorta di apriori emozionale: per esempio, quello di Kant era la paura del caos e del disordine, quello di Cartesio la fiera sovranità della canna pensante. La fenomenologia invitava invece a un contatto diretto con le cose, con lo strato qualitativo, unico e irripetibile di ciò che è, e alla conseguente liberazione coraggiosa dall’angoscia e dalla fuga dalla realtà. Il gesto della mano aperta e della mano che mostra ne era l’emblema. In questa luce, i più diversi vissuti spirituali, morali, psicologici e metafisici acquistarono per Scheler un valore essenziale di conoscenza per esperienza della realtà. A questo atteggiamento filosofico si unì la sua straordinaria sensibilità per l’impoverimento dell’esperienza tipico dell’età moderna borghese in cui l’individuo è schiavo di apparenze, maschere e idoli che lo pietrificano e lo rendono appesantito e angosciato da condizionamenti ambientali, fisiologici, storici e sociali. Ciò significò prendere sul serio anche le forme di relazione con il mondo di tipo negativo, fatte di illusioni, di falsi valori e stili di vita, di uso inappropriato dei dati di realtà. Nella Psicopatologia generale (1913) Karl Jaspers aveva proposto di considerare le patologie psichiche come vie di conoscenza della mente umana, della società e della cultura. Interessato agli scambi tra psichiatria e filosofia, Scheler dedicò una parte rilevante del suo lavoro sulle emozioni ai sentimenti morali e sociali in cui intervengono processi sensoriali-vitali e psichici, l’interazione con altri soggetti e con le strutture sociali e politiche della

convivenza, la cultura, la tradizione e la religione. Il risentimento, come si vedrà, è una malattia dell’anima e insieme una patologia della cultura moderna. Allo stesso modo la compassione, la misericordia, il pentimento, il pudore, il rimorso, l’umiltà, la vergogna, la simpatia, oggetto dei saggi attraverso i quali si delinea tra gli anni Dieci e i primi anni Venti l’impegno scheleriano per un nuovo pensiero, svolgono una funzione essenziale per comprendere in che modo i vissuti psichici passano in forme di vita e di relazione fino a diventare visioni del mondo complessive di tipo etico e spirituale. Nella vita soggettiva, in altri termini, si gioca costantemente la relazione tra interno ed esterno, tra l’originaria coappartenenza all’evoluzione della specie e i legami con il mondo storico, culturale, sociale, tra l’inconscio, la sofferenza psichica e la tensione verso l’assoluto del soggetto morale e spirituale.

Il risentimento e la crisi contemporanea Il saggio sul risentimento fu scritto in anni profondamente segnati dalla Prima guerra mondiale e in esso risuona l’eco della frammentazione e della crisi della civiltà moderna, della disgregazione dei valori e del disordine del cuore, dell’insicurezza, del relativismo e dello scetticismo morale. Nonostante le analogie con la situazione contemporanea, esso può apparire profondamente inattuale, a cominciare dal fatto che Nietzsche, il primo a legare risentimento e morale in Genealogia della morale (1887), vi occupa un posto centrale e al tempo stesso viene vigorosamente contraddetto. Scheler rovescia lo schema nietzschiano del risentimento come «morale degli schiavi» e della morale cristiana come «il più raffinato fiore del risentimento». Il saggio sposta di conseguenza il nodo della questione. Il risentimento viene inteso come ethos della borghesia, caduta nell’estraniazione e diventata preda di un devastante senso di colpa collettivo in seguito al fallimento del compromesso tra istanze terrene e salvezza dell’anima insito nell’«ascesi intramondana» propria dell’etica calvinista in cui Max Weber aveva individuato nel 1905 lo «spirito del capitalismo». L’amore cristiano viene quindi in primo piano nel suo valore rivolto al «nocciolo spirituale dell’uomo, alla sua personalità individuale»,

irriducibile a elementi biologici, politici e sociali. Persino la pacem in terris di Gesù è una «beata quiete finale» priva di qualsiasi aspetto consolatorio e edificante. Scheler non crede che la bontà cristiana possa comportare la cessazione delle guerre e degli impulsi che portano a esse: «Al contrario, la predicazione dell’amore per il nemico poggia sul presupposto che l’inimicizia esiste e nella natura umana sono insite forze non modificabili storicamente che in certe circostanze la producono in modo necessario». Che cosa può dire questo scritto a chi vive nell’«età della rabbia» e avverte i numerosi campanelli d’allarme sull’odio e il risentimento che dominano un mondo lacerato da conflitti? Come viene avvicinato oggi il fenomeno del risentimento? Sotto gli occhi di tutti è il fatto che la condizione umana contemporanea viene descritta prevalentemente nei termini di una netta contrapposizione tra emozioni positive (simpatia, empatia, compassione) dotate di valenza prosociale ed emozioni negative (odio, rabbia, risentimento) a cui si imputano la lacerazione dei legami sociali, la violenza e la chiusura nello stretto orizzonte degli interessi del proprio gruppo. La recente fioritura di studi scientifici e filosofici sull’empatia si può leggere come lo sforzo di trovare nella natura umana un antidoto all’impotenza e all’assenza di controllo che stanno deteriorando le forme di vita private e pubbliche. Il libro di Pankaj Mishra, L’età della rabbia (2017), ha messo a tema tempestivamente, in simultanea con il passaggio dall’era di Obama all’era di Trump e dei sovranismi populisti, il diffondersi della rabbia, dell’umiliazione e del risentimento nel mondo globalizzato. Mettendo in campo una polemica radicale contro il razionalismo illuministico moderno e contemporaneo, contrapponendo Voltaire a Rousseau, ed evocando l’uomo del sottosuolo dostoevskijano, il perdente che sogna la rivincita contro i vincenti e il ressentiment nietzschiano, Mishra ha composto un quadro dell’individuo contemporaneo in preda alla paura di perdere status e dignità, schiacciato dai mutamenti vorticosi a cui reagisce con la sindrome dell’essere lasciato indietro e il sottile piacere del vittimismo. La «storia del presente» raccontata da Mishra è imperniata sulla tesi che lo sviluppo economico e sociale dell’Occidente, fondato sull’esaltazione del potere assoluto dell’individuo liberato dai vincoli di Chiesa,

famiglia, tradizione, gruppi intermedi, ed esportato in Russia, Cina, India, Africa e Asia, non ha mantenuto le sue promesse di emancipazione e di felicità. Ieri e oggi ha creato un’élite dalle grandi ambizioni e dalle grandi invidie. L’incontro traumatico tra cultura occidentale e orientale viene visto in maniera antitetica alle spiegazioni correnti della crisi globale: arretratezza contro sviluppo, razionalismo contro irrazionalità degli integralisti islamici. Esso sarebbe avvenuto all’insegna del risentimento di coloro che vivono una pulsione mimetica (Girard) nei confronti di altri che sentono tuttavia come superiori. Il mito del progresso e dello sviluppo industriale accelerato, penetrato con il favore dell’Occidente anche in mondi culturali con tradizioni non razionalistiche e preindustriali, ha lasciato sul terreno molti «idioti del villaggio», vittime e colpevoli al tempo stesso. Il problema del risentimento, della frustrazione e della ribellione a esso collegate, starebbe nel fatto che l’estensione alle grandi masse del pianeta del benessere e della liberazione da vincoli del modello occidentale si è rivelata un raggiro e insieme un precipizio. Basta guardare al crollo della fiducia nell’inesauribilità delle risorse e al riscaldamento globale. Per Mishra il mondo contemporaneo è pieno di «uomini superflui» e di «blandi fanatici» manipolati dal neoliberismo nelle loro fantasie di emancipazione e schiacciati dalla loro irrealizzazione. Il risentimento proprio di vittime che odiano sé stesse e sono piene di furia vendicativa spiegherebbe il «fascino incendiario del vittimismo nelle società fondate sulla ricchezza e sul potere». Il libro di Mishra documenta il diffondersi di uno sguardo sul mondo attuale in cui il risentimento permette di descrivere il gioco complesso di emozioni come la rabbia, la paura, lo spirito di vendetta, il rancore e la vergogna, derivanti da identità discriminate (donne, gay, neri) e da insostenibili diseguaglianze, e dalla più generale condizione di vulnerabilità prodotta dalle devastanti contraddizioni della globalizzazione, dall’esposizione alla violenza e all’abbandono al rischio climatico. In particolare, nel tono e nella ricostruzione storica, emerge in primo piano l’attualità di Nietzsche e della sua analisi del risentimento nei discorsi sulla crisi contemporanea. La questione del risentimento non si può tuttavia fermare alla tesi socioantropologica dell’essere umano vittima di impulsi contrapposti che lo rendono sulla scena globale un attore smanioso di potere o uno

spettatore mobile e disperso, condannato a essere, a seconda dei casi, carnefice o vittima. In questa prospettiva, acquista risalto lo spostamento effettuato da Scheler rispetto a Nietzsche. Scheler cambia infatti radicalmente di paradigma nel momento in cui si propone, come aveva fatto l’autore di Genealogia della morale, di parlare al suo tempo e di denunciarne i mali radicali. Nelle odierne riprese del tema del risentimento manca appunto questo passaggio.

Il risentimento e la vita morale Il saggio sul risentimento, che arriva a noi da un cantiere aperto, ricco di progetti ambiziosi, deve essere letto oggi a partire dalla visione fenomenologica della vita emotiva, l’unica in grado di fare i conti con il lato tortuoso, ossessivo, inaridito e autoreferenziale delle nostre emozioni, fortemente sollecitato da una realtà che sembra fatta apposta per farci sentire impotenti e frustrati. Per Scheler la vita emotiva ha una dinamica e una complessità nel rapporto con il corpo, i desideri e i condizionamenti del mondo esterno che permette di differenziare la varietà delle sue manifestazioni e ciò che in esse dipende dalle ambiguità del soggetto, dalla povertà delle sue reazioni e dei suoi scambi con il mondo e con gli altri, da ciò che invece si apre e si arricchisce, acquistando la dimensione dell’accoglienza della realtà e della vita. Gli stati d’animo, gli umori, i sentimenti, la varietà delle risposte psicofisiche alle infinite sollecitazioni dell’ambiente fanno parte di un movimento tra la periferia e il centro della persona che spiega le manifestazioni contrastanti della vita emotiva e la possibilità di trasformazioni anche radicali. In particolare, l’idea che in ogni esperienza si vivano unitariamente i diversi piani degli sbalzi di tono e di umore, delle repentine accensioni e dei raffreddamenti, della maggiore o minore risonanza interiore di quello che si sta vivendo, tiene aperta la possibilità di un lavoro alle emozioni senza cadere nell’antitesi di emozioni «buone» e «cattive». Scheler usa, analogamente a Nietzsche, il termine francese ressentiment, che non ha un equivalente in tedesco, ma gli permette di descrivere (non di definire) il tipo di vissuto che corrisponde al risentimento. Esso consiste in un ri-vivere e ri-sentire un’emozione

finché questa s’intensifica e penetra nella profondità della persona allontanandosi dalla sua sfera di espressione e di azione. Non si tratta semplicemente del ricordo di un’emozione vissuta, bensì, come dice bene la parola rancore, del tenere in serbo, alimentare e rinnovare la fonte di moti dell’animo e affetti negativi, indipendentemente dal loro sfogo in nuove esperienze. Il risentimento è un’intossicazione dell’anima. Ed ecco il primo spostamento effettuato da Scheler rispetto alle immagini correnti. Emozioni negative come la vendetta, l’odio, la cattiveria, la malignità, l’invidia e la perfidia sono legate al risentimento, ma non si identificano con esso in quanto possono avere esiti ben diversi. Perché il risentimento insorga, decisiva è la rimozione, il mancato sfogo di quelle emozioni negative. Spirito di vendetta, odio, perfidia appartengono alla natura umana, e come tali danno luogo ad atti concreti di aggressione e a espressioni manifeste: alzare il pugno, insultare o altro. La genesi del risentimento è complessa e consiste nella repressione dell’odio, dell’ostilità e dell’aggressività, nel frenare, differire o impedire il loro sfogo e soprattutto nel rovesciare il loro valore: da negative quelle emozioni diventano positive. Il risentimento corrisponde dunque a esperienze d’impotenza, di mancanza di motivazioni precise, di denigrazione del valore di cose e persone, di compiacimento per il male altrui (la Schadenfreude anch’essa tornata alla ribalta di recenti studi). È chiaro che per Scheler ben più importante della distinzione di emozioni negative e positive è la domanda radicale: quanta realtà e che tipo di realtà fanno passare le emozioni? Il risentimento «mangia l’anima» (per citare un non dimenticato film di Fassbinder del 1973, La paura mangia l’anima) non perché renda cattivi, maldicenti, invidiosi, vendicativi, ma perché la logica retributiva del «gliela faccio pagare», «lei non sa chi sono io», si sostituisce a quella della cosa stessa. Anche qui si fa chiarezza su un punto centrale. Le fantasie (che spesso diventano rivendicazioni e indignazioni) di risarcimento e di rivalsa hanno ben poco a che vedere con il ripristino della giustizia nel caso di un’offesa, con l’entrare in possesso del bene agognato nel caso dell’invidia o con la soddisfazione della vendetta compiuta. Nel risentimento è insito il «pensiero magico della restituzione» (Nussbaum), del rispondere al male con il male, all’umiliazione subita con l’umiliazione inflitta al colpevole come se questo meccanismo

fosse in grado di proteggere dalla realtà dell’offesa, dell’ingiustizia, della sofferenza. Quando un’emozione non si apre verso la realtà e perde il riferimento al fatto che l’ha provocata e all’eventuale comportamento di risposta, avviene uno «scarico di esperienze» che può essere soddisfatto nei modi più vari. Il corpo è il primo a parlare e a manifestare il disagio del risentito. Da lettore di Freud, Scheler richiama l’attenzione sulle posture corporee, sui gesti incontrollati, su «un certo modo di sorridere» o di guardare da un’altra parte, sull’improvviso e immotivato esplodere del malumore in un discorso «pieno di simpatia», sul fondo di servilismo insito nel «far buon viso a cattivo gioco». Il «morso avvelenato» del risentimento è dunque frutto dello scontro violento tra sentimenti di odio e di vendetta e debolezza e timore, scontro a cui consegue la rimozione. I suoi effetti sono sconvolgenti perché il progressivo distacco dalla realtà mostra una straordinaria capacità di creare una realtà alternativa (una «falsificazione dell’immagine effettiva del mondo») basata su procedure di anestetizzazione, di simulata indifferenza nei confronti di ciò che è fuori controllo. La paura per sé, l’ubbidienza a denti stretti, l’emulazione sognata mentre si guardano i ricchi e i belli dal buco della serratura, oggi dello schermo, diventano risposte emotive e strategie di sopravvivenza contro il coraggio, la gioia, lo slancio vitale che può anche portare al sacrificio della vita stessa. È evidente il distacco delle osservazioni di Scheler da quelle nietzschiane. Il risentimento in altri termini permette di capire come esperienze quotidiane di debolezza, di frustrazione, per esempio la tensione tra le proprie aspirazioni e l’incapacità di realizzarle, possano portare all’abbandono del valore a cui si tende. Nietzsche leggeva la pietas, il porgere l’altra guancia e la propensione di Gesù per i peccatori, i pubblicani, le prostitute (dimenticando il loro contraltare: l’ostilità contro la correttezza formale dei farisei e la loro idolatria della legge) come il contrario dell’eroico amor fati di un individuo che mira a realizzare sé stesso liberandosi da ogni senso di colpa e di inferiorità. Scheler non nega affatto la protesta contro l’ingiustizia e la volontà di rivalsa insiti nel conflitto dei forti e dei deboli, dei servi e dei padroni, ma lo spinge più a fondo. Il risentimento mette di fronte alla possibilità che l’insoddisfazione e l’inquietudine proprie della condizione umana vengano alleviate facendo ricorso a quella che

Vladimir Jankélévitch chiamava la «facilità», il lasciar correre e seguire la corrente, il «vivi e lascia vivere» con la conseguente omologazione di ogni differenza di valore. Per Scheler questa è la logica piccoloborghese della parsimonia, dell’accontentarsi, della «semplicità», del fare «di necessità virtù», in una parola, dell’abbassare il prezzo (letteralmente) che porta alla denigrazione, al biasimo, al rimpicciolimento di ciò che attrae ma non può essere raggiunto, come nel caso della volpe e dell’uva acerba. Il tema nietzschiano del risentimento come «inversione» dei valori e «fondamento» della morale cristiana e moderna subisce pertanto un netto spostamento di paradigma. Il risentimento non fonda una nuova etica, ma ne rappresenta la negazione, la negazione dell’ordine del cuore che è il riferimento oggettivo (ideale-spirituale) dell’esperienza morale. Le pagine sull’amore cristiano richiamano l’esigente prospettiva spirituale e filosofica che attraversa l’intero pensiero scheleriano. Che cosa ci dicono sulla possibilità di uno sviluppo e superamento del risentimento? L’amore cristiano rompe con lo schema greco antico della gara tra perfetto e imperfetto in cui si confrontano forze che portano in alto e altre che trascinano in basso, e suggerisce un movimento opposto. Esso mette in atto un «moto di ritorno», un chinarsi e discendere del sano verso il malato, del bello verso il brutto senza l’angoscia dello svilimento, bensì con la convinzione del valore del «piegarsi», del «lasciarsi andare», del «perdersi». L’amore non è tanto un valore, per Scheler, quanto una forza creatrice di valore in grado di sintonizzarsi sulle potenzialità di sviluppo (per esempio, su ciò che è ancora sano in una vita travagliata) della persona che si ama, a prescindere dalle sue qualità. Secondo Nietzsche l’amore cristiano richiede uno spirito ascetico, la sublimazione delle passioni. Scheler parla di un’«indifferenza lieta», audace e «quasi scherzosa» nei confronti delle circostanze della vita da cui traspare un atteggiamento individuale e sociale che non lega l’atto del dare via, del «chinarsi», all’atteggiamento compassionevole oggi tanto di moda e ancor meno alla rinuncia alla felicità. L’amore è libertà spirituale che invita a non perdersi nelle faccende altrui, a non ridurre l’agire a pura reazione nei confronti della situazione dell’altro, ma a farlo nascere dalla ricchezza spirituale della persona, dalle sue idee e ideali relativi a un mondo che

non sia soltanto una valle di lacrime. Niente di più lontano dalla retorica che pubblicizza l’empatia e la compassione come virtù di chi è buono e altruista facendosi carico del dolore e delle sventure altrui. L’amore per Scheler rifiuta di immergersi nelle manifestazioni della miseria umana, di amare la sofferenza e di usarla come mezzo di perfezionamento morale. Non si può voler essere buoni da soli o in compagnia di altri buoni, ma amare implica nutrire un profondo senso di solidarietà con l’intera umanità, non solo con chi soffre. Certo, questo tipo di amore in atto, indipendente dagli effetti prodotti, pura eccedenza che mette in gioco la possibilità di anticipare idealmente e scoprire valori e significati nuovi in una persona, immerge la vita umana in tensioni drammatiche con gli impulsi individuali, con l’adesione alle idee della propria cerchia sociale, con il potere, con il sapere scientifico, con la tecnica. Il Cristianesimo è stato la prima vittima di queste tensioni e Scheler cita alcuni esempi del risentimento che si è impadronito dell’evangelico «ama i tuoi nemici». Ricordiamo che il risentimento non è presentato come un’emozione negativa, ma come una pervasiva patologia dell’esperienza individuale, sociale e culturale. Esso coinvolge infatti l’intera vita emotiva, la impoverisce e inaridisce chiudendola nella sfera dell’io, privandola del suo essenziale riferimento agli altri, alla società, alla giustizia. Il risentimento mette di fronte all’inquietudine, al senso di inadeguatezza e di insufficienza, al non poter stare dove si è, che l’epoca moderna ha trasformato in lotta per il riconoscimento tra servo e padrone e nella successiva tentazione dei movimenti socialisti di sostituire il primo al padrone di turno. Come uscire da una risposta che allevia la tensione, scarica dalla responsabilità e dal rischio di agire accontentandosi di surrogati? La domanda apre molte vie, quella del perdono, della generosità, di un’empatia che venga rilanciata non come ultima spiaggia dell’umanità in crisi, ma come sguardo sull’altro, sulla sua differenza e sulla condizione sociale e umana che rende tanto difficile e rischioso aprirsi a lui e che, proprio per questo, potrebbe e dovrebbe essere cambiata. Non si devono tuttavia dimenticare le sofferte rielaborazioni del tema del risentimento da parte di Vladimir Jankélévitch e di Jean Améry, che hanno fatto dell’esperienza dolorosa e distruttiva del

continuare a rivivere in prima persona il male di Auschwitz, che non può essere perdonato, un elemento essenziale della memoria che rivive e ripensa sempre di nuovo l’accaduto. Particolarmente significativo è il ripensamento di Vladimir Jankélévitch, lettore di Scheler, espresso in una serie di interventi che muovono dalla premessa del rifiuto del perdono per i crimini nazisti. Alla fine degli anni Sessanta si discuteva sulla loro eventuale prescrizione e il filosofo francese, autore di un libro dedicato al perdono (1967), definito «folle atto d’amore», entrando violentemente in contraddizione con sé stesso, perorò la causa dell’imprescrittibilità e dell’imperdonabilità dello sterminio degli ebrei. Jankélévitch non teme di esprimersi nei termini tipici del risentimento. Sopravvissuto che rinunciò a tornare in Germania e persino a suonare al pianoforte le composizioni di autori tedeschi, egli sa che i suoi sono gesti impotenti, «simbolici e anche irragionevoli», le sue invettive «litanie dell’amarezza», che le sue insonnie e i suoi incubi hanno al fondo un oscuro senso di colpa. Eppure «dove non si può “far nulla”, si può almeno risentire, inesauribilmente». Ciò che sembra rancore, incapacità di liquidare il passato, è «orrore: orrore insormontabile di ciò che è accaduto, orrore dei fanatici che hanno perpetrato questa cosa, degli amorfi che l’hanno accettata, e degli indifferenti che l’hanno già dimenticata». Che cosa resta a chi prova questo tipo di sofferenza, di indignazione senza sbocco? Resta il raccoglimento sul pensiero dell’accaduto, l’esperienza viva della memoria. Il risentimento può dunque «essere anche il sentimento rinnovato e intensamente vissuto della cosa inespiabile; […] custodisce la fiamma sacra dell’inquietudine e della fedeltà alle cose invisibili», ed è l’unica risorsa contro l’oblio, la banalizzazione del male e l’indifferenza. Mai come oggi il risentimento s’incarna in una moltitudine di figure: il servo frustrato di Nietzsche, lo sconfitto in amore, nelle ambizioni professionali e sociali, la vittima di ingiustizie e discriminazioni. Jankélévitch, in profonda sintonia con Scheler, ci dice che il risentimento non è condannato a essere la perniciosa volontà di potenza dei deboli impigliati nell’ansia di risarcimento e di restituzione. Risentito può (dovrebbe) essere l’individuo contemporaneo che rifiuta gli anestetici mediatici che rendono assuefatti al male nel mondo. Il peso doloroso della propria impotenza

cambia così di segno e diventa raccoglimento su di sé e sul valore dell’umano, in una parola, diventa responsabilità. BIBLIOGRAFIA

J. Améry, Intellettuale a Auschwitz (1966), tr. it. di E. Ganni, Bollati Boringhieri, Torino 2011. L. Boella, Empatie. L’esperienza empatica nella società del conflitto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa (1911), tr. it. di C. Sinigaglia, Laterza, Roma-Bari 2018. V. Jankélévitch, Il perdono, tr. it. di L. Aurigemma, IPL, Milano 1969. V. Jankélévitch, Perdonare?, tr. it. di D. Vogelmann, La Giuntina, Firenze 1987, pp. 46-50. K. Jaspers, Psicopatologia generale (1913), tr. it. di R. Priori, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2009. P. Mishra, L’età della rabbia. Una storia del presente, tr. it. di L. Fusari, S. Prencipe, Mondadori, Milano 2018, p. 31, p. 107. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico (1887), tr. it di F. Masini, Adelphi, Milano 2017. M. Nussbaum, Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, tr. it. di R. Falcioni, Il Mulino, Bologna 2017, p. 192, p. 205. M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori (1913-1916), tr. it. di R. Guccinelli, Bompiani, Milano 2013. T.W. Smith, Schadenfreude. La gioia per le disgrazie altrui, tr. it. di C. Durastanti, Utet, Torino 2019. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905), tr. it. di A.M. Marietti, Rizzoli, Milano 1991.

IL RISENTIMENTO

I Per una fenomenologia e sociologia del risentimento

Poniamo al posto di una definizione nominale una breve caratterizzazione o descrizione del fatto. Il risentimento è un autoavvelenamento dell’anima con cause e conseguenze ben determinate, un atteggiamento psichico permanente, che nasce da un’inibizione sistematica dello sfogo di certi moti dell’animo e affetti in sé stessi normali e inerenti alla struttura di fondo della natura umana. Ne conseguono permanenti disposizioni a determinate specie di illusori scambi di valori e ai giudizi relativi. I moti e gli affetti che in primo luogo si offrono all’osservazione sono: il sentimento e l’impulso di vendetta, l’odio, la cattiveria, l’invidia, la malignità, la perfidia. L’esito principale del configurarsi del risentimento è l’impulso di vendetta. Già il termine ressentiment indica che si tratta, tra i moti dell’animo citati, di quelli che si fondano su precedenti stati d’animo di origine esterna, ossia su reazioni di risposta. Un impulso reattivo di questo tipo è tuttavia anche l’impulso di vendetta, a differenza degli impulsi attivi e aggressivi, siano essi orientati in senso amichevole o ostile. Ogni impulso di vendetta è necessariamente preceduto da un attacco o da un’offesa. Qui importa soltanto il fatto che l’impulso di vendetta non coincide affatto con l’impulso al contrattacco o alla difesa, anche se la reazione è accompagnata da ira, rabbia o collera. Ad esempio, il fatto che un animale aggredito morda il suo aggressore non può dirsi vendetta. Né la reazione violenta immediata a uno schiaffo è vendetta. Alla fattispecie della vendetta sono piuttosto essenziali due note ben determinate: il frenare o trattenere momentaneamente o per un tempo determinato l’impulso contrastante (nonché gli impulsi d’ira

e di collera connessi) insieme al differimento della ritorsione ad altro tempo e a una situazione più adatta («aspetta! la prossima volta…»): tale contenimento d’altra parte è causato dall’anticipazione riflessa del fatto che in una reazione immediata si avrebbe la peggio e dal sentimento concomitante ben determinato di «non potere», di impotenza. La vendetta in sé stessa è dunque un’esperienza vissuta, che poggia su un senso di impotenza, propria di esseri in qualche modo «deboli». Parimenti la vendetta implica essenzialmente la coscienza di restituire «questo per quello» e non è mai soltanto una reazione accompagnata da affetti.1 In forza di queste due caratteristiche l’impulso di vendetta è l’esito più proprio del processo di risentimento. La lingua tedesca distingue in maniera precisa. Dal sentimento di vendetta alla perfidia attraverso il rancore, l’invidia e la malignità si snoda, per così dire, un progresso del sentimento e dell’impulso fino a giungere nelle vicinanze del risentimento vero e proprio. Nella vendetta e nell’invidia sono presenti ancora generalmente oggetti determinati di questi modi di negazione ostile. Per manifestarsi essi abbisognano di occasioni specifiche e nel loro orientamento sono legati a oggetti particolari, tanto che scompaiono con l’abolizione di queste occasioni. La realizzazione toglie il sentimento di vendetta, analogamente alla punizione di colui al quale è indirizzato l’impulso di vendetta – ivi compresa la stessa autopunizione –; altrettanto fa il perdono autentico; anche l’invidia viene meno, allorché il bene oggetto di invidia diventa mio. La malignità è invece un atteggiamento che non è vincolato allo stesso modo a oggetti determinati, non nasce da motivi determinati né viene meno con i medesimi. Al contrario, cerca oggetti e motivi su cui sfogarsi in uomini e cose. Il suo abbassare e buttar giù dal piedistallo, l’incremento di attenzione che gli aspetti negativi di cose e uomini ottengono proprio per il fatto di presentarsi in unione a solidi motivi positivi in un’unica medesima cosa, il suo soffermarsi su questi aspetti negativi, accompagnato da un acuto senso di soddisfazione per il fatto che ci sono, si tramutano in una stabile forma di scarico di esperienze in cui possono trovare posto le materie più diverse. L’unica esperienza vitale concreta dell’individuo maligno assume quindi tale struttura che viene

scelta per attuarla nell’ambito dell’esperienza vitale possibile. L’instaurarsi dell’atteggiamento di malevolenza non è una semplice conseguenza di una siffatta esperienza, che si costituisce prescindendo totalmente dalla questione se il suo oggetto abbia una relazione diretta o indiretta con il danno anche solo possibile o con il vantaggio, l’utilità o l’impaccio dell’individuo in questione. Nella perfidia l’impulso detrattivo è diventato ancora più profondo e interno ed è nello stesso tempo sempre pronto a scattare e a tradirsi in un gesto incontrollato, in un certo modo di sorridere ecc. Un cammino analogo conduce dal semplice «compiacimento per il danno altrui» (Schadenfreude) alla «cattiveria», che è sempre alla ricerca di nuove occasioni atte a produrre il suddetto sentimento e si mostra più distaccata da oggetti determinati rispetto al piacere del danno. Tutto ciò non è tuttavia ancora risentimento: si tratta soltanto di tappe che portano alla sua nascita. Sentimento di vendetta, invidia, malignità, perfidia, gusto di nuocere e cattiveria entrano nella formazione del risentimento soltanto quando non siano seguiti né da un superamento morale (ad esempio, da un autentico perdono nel caso della vendetta), né da un’azione, ossia da un’adeguata espressione dell’emozione in manifestazioni esterne, ad esempio, ingiuriare, mostrare il pugno, in particolare quando l’azione o espressione venga frenata da una ancora più esplicita consapevolezza della propria impotenza. Colui che, gonfio di vendetta, viene trasportato dal sentimento all’azione e si vendica, oppure, pieno d’odio, procura danno all’avversario o gli dice «quello che gli spetta» o si sfoga in ingiurie al suo indirizzo al cospetto di altri, l’invidioso, che cerca di conseguire il bene desiderato con il lavoro, lo scambio, il crimine e la violenza, non cadono nel risentimento. Una condizione per l’insorgere del risentimento sussiste soltanto laddove una particolare violenza di queste passioni vada di pari passo con il sentimento dell’incapacità di tradurle in atto, da cui deriva il «morso avvelenato» dovuto vuoi a una debolezza di natura corporea e spirituale vuoi ad angoscia e timore nei confronti di coloro ai quali tali affetti si rivolgono. L’ambito del risentimento è quindi limitato innanzitutto a coloro che sono perennemente servi e dominati e invano lusingano alla rivolta contro il pungolo di un’autorità. Se il risentimento si manifesta in altri soggetti, ciò è dovuto a un trasferimento per via di contagio psichico

(cosa particolarmente facile data la sua velenosità psichica straordinariamente contagiosa) oppure si tratta di un impulso presente nell’individuo stesso in maniera violentemente repressa, da cui prende avvio il processo di formazione del risentimento per il momento in forma di «rammarico» e di «avvelenamento» della persona. Se un servo maltrattato può sfogarsi in ingiurie in anticamera non soggiace alla «velenosità» interiore propria del risentimento; vi soggiace invece se ancora una volta è costretto a «far buon viso a cattivo gioco» (come plasticamente dice il parlare corrente) e seppellisce in sé stesso i sentimenti di ripulsa e di ostilità. […] Ciò che porta gli affetti al punto critico in cui assumono la forma del risentimento è – scrivevo [nel 1912] – una tensione particolarmente violenta tra lo sviluppo dell’impulso di vendetta, dell’odio, dell’invidia, da una parte, e l’impotenza, dall’altra. Tuttavia le cose cambiano quando tali affetti trovino uno sfogo: ad esempio, le istituzioni parlamentari, anche laddove siano indiscutibilmente funeste alla legislazione e al governo di uno Stato, hanno la massima importanza come mezzo di scarico di queste passioni della massa e dei gruppi;2 analogamente, purificano dalla vendetta la giustizia penale, il duello ed entro certi limiti anche la stampa (non quando diffonde il risentimento e ne aumenta la quantità, bensì quando lo diminuisce grazie alla pubblica espressione delle passioni). In queste forme si scaricano gli affetti, che senza tale sfogo giungerebbero alla dinamica psichica che si chiama risentimento. Se invece lo scarico è impedito si attua negli affetti il processo che Nietzsche non ha descritto in maniera precisa, ma di cui ha fatto cenno e che viene ottimamente definito con il nome di rimozione. Le forze di rimozione sono in questo caso il senso di impotenza, un’esplicita consapevolezza di «non-potere», connessa con un forte senso di sgradevole depressione e con sentimenti come paura, ansia, timidezza di dire e di fare nella direzione degli affetti. Tali forze psichiche diventano particolarmente efficaci come forze di rimozione laddove, a opera di una protratta e continua pressione autoritaria, diventano nello stesso tempo senza oggetto e la persona in questione non è in grado di dire «di che cosa» abbia paura e per che cosa provi angoscia, «in relazione a che cosa» sia impotente. Non si tratta dunque tanto di paura, che ha sempre oggetti determinati, quanto piuttosto del profondo raffrenamento del senso

vitale, che chiamiamo «ansia» o meglio – giacché non si tratta qui di stati ansiosi legati a sensazioni organiche definite, come ad esempio nella difficoltà respiratoria ecc. – «apprensione», «intimidimento».3 Queste forze operano primariamente sugli affetti inibendone l’espressione e l’azione; secondariamente però li rimuovono dalla sfera della percezione interna, tanto che l’individuo o il gruppo non si rende più neppure chiaramente conto di provarli. L’inibizione si estende infine fino al punto che, nel momento in cui l’impulso nascente di odio, di invidia o di vendetta sta per oltrepassare la soglia della percezione interna, viene rimosso.4 Nello stesso tempo i contenuti affettivi già anteriormente presenti allo stato di rimozione esercitano una specie di attrazione sull’affetto che sta insorgendo e lo aggregano alla loro massa: così ogni rimozione precedente rende più facile la seguente e accelera l’ulteriore processo di rimozione. Nella «rimozione» occorre distinguere diverse componenti. In primo luogo, la rimozione della rappresentazione dell’oggetto a cui era rivolto l’affetto indipendentemente da essa. Io odio oppure ho un impulso di vendetta contro una determinata persona e sono ben consapevole del motivo, ad esempio dell’azione con cui mi ha recato danno, della qualità morale o fisica che me lo rende penoso. Nella misura però in cui questi impulsi vengono «rimossi» – ed è un fatto diverso dall’essere questi superati dalla forza dell’azione morale, in quanto in tale caso l’impulso, insieme alla sua direzione, è ben presente alla coscienza e soltanto l’azione viene trattenuta in base a un chiaro giudizio di valore – essi si liberano dal loro «motivo» e finiscono per distaccarsi sempre più da una determinata persona. L’impulso si riferisce dapprima a tutte le sue possibili qualità, azioni, manifestazioni vitali, quindi a tutto ciò che le si connette: uomini, relazioni, fatti, situazioni, «irradiandosi» in tutte le direzioni possibili. In certe condizioni però esso si distacca anche dalla persona determinata che mi ha danneggiato o oppresso e diventa un atteggiamento negativo nei confronti di talune manifestazioni di valore, non importa chi ne sia il detentore, dove e quando si presentino, se il loro portatore di fatto si comporti bene o male verso di me. Si forma, ad esempio, così il fenomeno per noi tanto attuale dell’odio di classe, in cui ogni manifestazione, gesto, abito, modo di parlare, di muoversi, di comportarsi che sia sintomo di appartenenza a

una «classe» è sufficiente per mettere in moto l’impulso di vendetta e di odio oppure in altri casi per suscitare timore, ansia, rispetto.5 A una rimozione completa si accompagna addirittura la nascita di un totale negativismo dei valori, una ripugnanza che appare del tutto immotivata e prorompente in guisa a prima vista caotica, piena di un odio repentino anche nei confronti di oggetti, situazioni, fatti naturali, nei quali solo una difficile analisi può scoprire l’occasionale connessione con l’oggetto originario di odio. Tuttavia casi del genere sono confinati nell’ambito specificamente patologico. Una persona, ad esempio, che per odio non può più leggere nessun libro è un caso riferitomi da un amico medico. Nello stadio descritto l’affetto rimosso erompe d’un tratto oltre la soglia della percezione interna simultaneamente in tutti i punti indifesi della coscienza, ovunque le forze di inibizione casualmente abbiano sospeso o ridotto la loro azione. Spesso esso esplode, nel caso migliore nel bel mezzo di un’apparente quiete dell’anima, di una conversazione, nel corso di un lavoro, in parossismi improvvisi di insulti e di ingiurie che non hanno alcun oggetto definito. Quante volte colui che è posseduto interiormente dal risentimento si tradisce con un sorrisetto, con un gesto apparentemente insignificante, con una fuggevole inflessione nell’espressione delle intenzioni più amichevoli durante un discorso pieno di simpatia! Soprattutto quando in un rapporto amichevole, anzi affettuoso, che può durare mesi s’insinua improvvisamente un atto o un discorso malevolo apparentemente del tutto immotivato, si sente con precisione che uno strato vitale più profondo si apre la via attraverso la superficie dell’amicizia. Quando Paolo raccomanda l’umiltà insegnata da Gesù, che porge dopo la percossa l’altra guancia, citando d’un tratto l’immagine – in sé splendida – dei Proverbi di Salomone per cui «in tal modo raccogli sul capo del nemico carboni ardenti», sorprendentemente vediamo l’umiltà e l’amore per il nemico, intesi da Gesù in ben altro senso, posti al servizio di un odio cui la vendetta non basta e che trova la sua soddisfazione soltanto nel profondo svergognamento del nemico e nei segni esterni di esso, nel suo arrossire fino alla radice dei capelli, in un male di ben più profonda natura del dolore dello schiaffo restituito. Tuttavia negli stadi della rimozione non solo viene estesa, mutata, trasformata la diffusione primaria dell’oggetto, ma l’affetto stesso

esercita, dal momento che gli viene inibito uno sfogo esterno, un’azione verso l’interno. Gli affetti, distaccati dai loro oggetti originari, si sviluppano insieme quasi in una massa velenosa e costituiscono un focolaio che a ogni momentaneo allentamento della coscienza superiore comincia automaticamente a secernere veleno. Le sensazioni viscerali interne immesse dall’inibizione in ogni affetto, in seguito alla mancata espressione periferica, ottengono il sopravvento sulla sensazione dei moti espressivi esterni e, essendo sgradevoli o addirittura dolorose, l’intero «sentimento corporeo» ne risulta esplicitamente determinato in senso negativo. L’uomo non vive più «volentieri» nell’«involucro» del suo corpo e assume nei suoi confronti l’atteggiamento infastidito, distanziante e oggettivante, che ha dato tante volte l’avvio alle metafisiche dualistiche (neoplatonismo, Descartes ecc.). Gli affetti non «constano» – come sostiene una nota teoria6 – di tali sensazioni viscerali, che tuttavia sono una componente essenziale nel caso dell’odio, dell’ira, dell’invidia, della vendetta e via dicendo. La qualità e l’indirizzo peculiari dell’intenzione che s’intesse nell’affetto, nonché il suo elemento impulsivo, sono indipendenti dal fattore viscerale: solo lo stato affettivo, la cui entità quantitativa varia a seconda degli affetti (ad esempio, è molto maggiore nell’ira che nell’odio e nell’invidia, che sono assai più «spirituali»), trova lì un fondamento. Molto spesso però le sensazioni viscerali intensificate di tonalità negativa e il loro influsso sul comune sentimento vitale determinano un mutamento d’indirizzo degli impulsi affettivi che a questo punto si volgono contro il portatore dell’affetto medesimo e fanno subentrare lo stato dell’«odio di sé» e dell’«autolesionismo», della «vendetta contro di sé». Nietzsche volle spiegare lo stato della «cattiva coscienza» in generale come un attacco dell’«uomo bellicoso» contro sé medesimo, qualora venga inibito nell’esercizio dei suoi impulsi: nel caso, ad esempio, in cui un piccolo popolo bellicoso venga inserito d’un tratto in una grande civiltà pacifica. Certo ebbe torto. Solo una forma patologica di malinteso rimorso, ossia la falsa interpretazione come «rimorso» dell’impulso di vendetta contro di sé, può spiegarsi in questo modo: l’autentica «cattiva coscienza» presuppone il «rimorso». Su questo terreno è sicuramente cresciuto il motto di Blaise Pascal, uomo colmo di risentimento come pochi che, grazie al suo spirito e a una ancora più rara arte, seppe nascondere tale

fatto e offrirne un’interpretazione nel senso di un valore cristiano: «le moi est haïssable». Analogamente possiamo spiegarci il caso narrato da J.M. Guyau7 di un selvaggio che, essendogli stata vietata la vendetta cruenta, si «rode» fino al punto di diventare sempre più debole e di morire. Basti questo per il risentimento come tale! Consideriamo piuttosto a questo punto quanto esso valga per la comprensione di certi giudizi etici di valore individuali e storici e dei relativi sistemi. Va da sé che possono fondarsi sul risentimento non già i veri autentici giudizi etici di valore, bensì solo i falsi giudizi basati su travisamenti del valore e gli orientamenti di vita e di condotta corrispondenti. La moralità autentica non si fonda affatto – come opina Nietzsche – sul risentimento. Essa poggia su una gerarchia dei valori eterna e sulle leggi evidenti di preferenza corrispondenti a tale gerarchia che sono oggettive e rigorosamente intelligibili quanto le verità della matematica. Si dà un ordre du cœur e una logique du cœur – come dice Pascal – che il genio etico va scoprendo rapsodicamente nella storia e che non sono in sé stessi storici: «storica» ne è solo la comprensione e la conquista. Il risentimento è al contrario una delle cause del rovesciamento di quell’ordine eterno nell’ambito della coscienza umana: è una fonte di travisamento per la comprensione di quell’ordine e il suo inserimento formativo nella vita. Solo in questo senso s’intenda quanto segue. Nietzsche arriva in fondo a dire la stessa cosa quando parla di una «falsificazione delle tavole del valore» a opera del risentimento. D’altra parte egli è tuttavia indiscutibilmente un relativista e scettico per quanto riguarda l’etica. In ogni caso, tavole di valore «falsificate» presuppongono tavole «vere», altrimenti si tratterebbe semplicemente di «lotta di sistemi di valore», dei quali nessuno è «vero» o «falso». Il risentimento è in grado di renderci comprensibili i grandi processi globali nella storia delle intuizioni etiche, quasi fossero accadimenti che ci troviamo di fronte nella piccola vita di ogni giorno. Dobbiamo però ricorrere all’aiuto di un’altra legge psichica. In occasione di una qualsiasi violenta aspirazione alla realizzazione di un valore accompagnata da un simultaneo sentimento di impotenza ad attuarla volontariamente, ad esempio, acquisendo un bene, s’instaura una tendenza della coscienza a superare l’insoddisfacente stato di

tensione tra aspirazione e impotenza mediante l’abbassamento e la negazione del valore positivo del bene in questione, anzi in certe condizioni addirittura prospettando come positivamente valido qualcosa che comunque sia in contrasto con quel bene. È la storia della volpe e dell’uva acerba. Se invano ci sforziamo di ottenere l’amore e l’attenzione di una persona, ci è facile scoprire in lei sempre nuove qualità negative oppure «ci diamo pace» e «ci consoliamo» con il pensare che l’oggetto delle nostre aspirazioni «in sé non è poi gran che», che non ha il valore che credevamo, o per lo meno non lo ha nella misura che avevamo pensato. Si tratta in sostanza semplicemente di dichiarare a parole che una cosa, un certo bene d’uso, una persona o una situazione, insomma il concreto oggetto dell’aspirazione, non possiede affatto il valore positivo da cui il nostro desiderio era parso essere mosso tanto fortemente: che ad esempio la persona, per la cui amicizia ci eravamo dati da fare, non è poi tanto «perfetta» o «intrepida» o «saggia», che l’uva non è poi così gustosa, anzi è forse addirittura «acerba». Il motivo di questa diminuzione nella dichiarazione espressa a parole di ciò che ci è inaccessibile non può essere che una simulazione per gli «spettatori», dai quali non vorremmo avere anche le beffe in aggiunta al nostro danno… – la simulazione è comunque diretta a loro – sì che il contenuto della dichiarazione modifica il nostro proprio giudizio soltanto in via secondaria. Già nei casi più semplici però si cela un motivo più profondo. In questa tendenza alla diminuzione del dato di fatto si scarica la tensione tra la forza del desiderio e la sperimentata impotenza e la ripugnanza connessa scende di grado. Il nostro desiderio o la sua forza ci risultano ormai addirittura senza motivo, dato che la cosa «non era poi così importante»; il desiderio diventa così più debole e si indebolisce di conseguenza anche la quantità di tensione relativa al non potere; risale di conseguenza di qualche grado il nostro sentimento vitale e il nostro senso di potenza, anche se su una base fittizia. Da tale «esperienza» non deriva quindi soltanto la tendenza a una affermazione alterata (per gli altri), ma anche un’alterazione del giudizio. Chi non ha sentito manifestarsi tale tendenza, ad esempio, dietro la lode dell’«accontentarsi», della «semplicità», della «parsimonia» nell’ambito del costume piccoloborghese o in dichiarazioni come «questo anello a buon

prezzo» – oppure – questo piatto «conveniente» è assai «migliore di quello caro»? Dello stesso genere è tutto ciò che sta sulla linea di «giovani le sgualdrine, vecchie le consorti», nonché le differenti valutazioni dei debiti da parte del commerciante o della «nobiltà», compreso il «fare di necessità virtù». La legge dello scarico della tensione tra desiderio e impotenza in seguito alla valorizzazione illusoria di una cosa, acquista però un significato del tutto nuovo e gravido di infinite conseguenze per una condotta psichica determinata dal risentimento. Invidia, malignità, cattiveria segreta, sete di vendetta riempiono l’anima dell’uomo del risentimento in profondità, sciolte da oggetti determinati, divenute atteggiamenti stabili che convogliano ormai la stessa attenzione impulsiva – indipendente dalla sfera della volontà – sui fenomeni del mondo circostante capaci di dare materia alle forme tipiche del decorso di questi affetti. Il configurarsi stesso delle percezioni, delle attese e dei ricordi è determinato in parte da questi atteggiamenti che ritagliano automaticamente dai fenomeni che loro si offrono parti e aspetti capaci di giustificare il decorso effettivo di quei sentimenti, sopprimendo il resto. Perciò l’uomo del risentimento è quasi magicamente attratto da fenomeni come gioia di vivere, splendore, potenza, fortuna, ricchezza, forza; non può ignorarli, deve considerarli («volente» o «nolente»): nello stesso tempo però lo tormenta il desiderio, che segretamente sa «vano», di possederli e ciò determina un deliberato distogliere lo sguardo da essi, un timido guardar via, una deviazione dell’attenzione, comprensibile sulla base della teleologia della coscienza, da ciò che produce pena. Il progredire di questo moto interiore porta in primo luogo a una caratteristica falsificazione dell’immagine effettiva del mondo. L’universo dell’uomo del risentimento si configura in maniera determinata in base alla rilevanza dei valori della vivacità, quali che siano i suoi oggetti particolari. Quanto più questa deviazione ha la meglio sull’attrazione operata dai valori positivi, tanto più il soggetto, prescindendo dai valori mediani e di passaggio, s’immerge nei mali loro opposti che vanno assumendo spazio sempre maggiore nella sua sfera di valutazione e di rispetto. C’è in lui qualcosa che lo spinge al biasimo, alla detrazione, al rimpicciolimento e ciò afferra nello stesso tempo ogni fenomeno di cui possa occuparsi. Così senza volerlo egli «calunnia» esistenza e mondo

per giustificare la sua interna concezione dell’esperienza del valore. Tuttavia il rimedio, adottato involontariamente dalla coscienza per potenziare il senso vitale umiliato e gli impulsi vitali inibiti (la falsificazione dell’immagine del mondo) ha un’efficacia limitata poiché senza posa all’uomo del risentimento si ripresentano le immagini di una vita positiva: fortuna, potenza, bellezza, spirito, bontà ecc. Per quanto egli non cessi nel segreto di agitare il pugno contro di esse e di desiderare di «eliminarle dal mondo» per sottrarsi al dolore del conflitto tra desiderio e impotenza, esse sono sempre là e lo assediano. Il deliberato volgere via lo sguardo non è sempre possibile e inoltre risulta alla lunga inefficace. Quando una manifestazione di questa specie s’impone irresistibilmente, basta uno sguardo per scatenare un impulso di odio contro il suo portatore X, senza che questi gli abbia in alcun modo recato ingiuria o danno. Ad esempio, i nani e gli storpi, che si sentono umiliati già dall’apparenza esterna degli altri uomini, palesano facilmente questo odio caratteristico, la selvatichezza di una iena pronta ad aggredire. Odio e ostilità di questa specie, proprio per la loro originaria mancanza di motivo nell’agire e nel comportarsi dell’«avversario», sono i più profondi e implacabili. Essi si rivolgono infatti contro l’essere e l’essenza dell’altro in quanto tale e non contro sue qualità e azioni transeunti. Goethe ha di mira questa specie di «nemici» quando dice: Perché dolersi dei nemici? Dovrebbero forse diventare amici di gente come te a cui il loro stesso essere è nel segreto un rimprovero perenne? Il divano occidentale-orientale

Già l’esistenza di questo «essere», la purezza del suo manifestarsi, diventa un «rimprovero» tacito e non ammesso. Le altre inimicizie possono essere accantonate, questa mai! Goethe doveva saperlo perché la sua esistenza grande e ricca fu idonea quant’altra mai a suscitare il risentimento, a far zampillare veleno col suo solo manifestarsi.8 Neppure questo odio apparentemente ingiustificato è però la prestazione più propria del risentimento. La sua azione resta qui ancora limitata a determinati uomini o, nel caso dell’odio di classe, a determinati gruppi. La sua efficacia è ben più profonda quando non conduce a una falsificazione dell’immagine del mondo e all’odio per

persone e cose determinate bensì a un travisamento del sentimento del valore e infine a ciò che Nietzsche chiama «falsificazione delle tavole di valore». In questa nuova fase si rinuncia al deviare lo sguardo e alla tendenza all’annullamento di persone e cose portatrici dei valori positivi, mentre in compenso i valori che risultano positivi e preminenti per un sentimento del valore e un desiderio normale si convertono in valori negativi per il nuovo sentimento del valore. Non essendo in grado di giustificare, di fondare, di comprendere la sua stessa esistenza e il suo senso della vita in base alle valutazioni positive vigenti in generale relative, ad esempio, alla potenza, alla salute, alla bellezza, a un’esistenza e a una vita libera e fondata su sé medesima, non essendo capace per debolezza, paura, angoscia, servilismo ormai connaturato di impadronirsi di qualità e cose che comportino questi valori, l’uomo risentito converte il suo sentimento del valore nella direzione secondo cui «tutto ciò non conta proprio nulla» mentre nei fenomeni opposti risiedono valori positivi e preminenti in grado di salvarlo (povertà, dolore, male, morte). In questa «sublime vendetta» (come dice Nietzsche) il risentimento si dimostra di fatto creativo per la storia dei valori e dei sistemi di valori umani. Tale vendetta è «sublime» perché scompaiono del tutto gli impulsi di odio e di vendetta nei confronti di coloro che sono forti, sani, ricchi, belli ecc. e l’uomo attraverso il risentimento trova la liberazione dal tormento interiore di tali affetti. Dopo la conversione del sentimento del valore e la diffusione del giudizio corrispettivo nel gruppo, quegli uomini non sono più per nulla invidiabili né degni di odio o di vendetta, al contrario sono da compiangere, sono degni di compassione, proprio perché partecipano di «mali» di tal genere. Da questo punto di vista i sentimenti di mitezza, di compassione, di cordoglio diventano la conseguenza del manifestarsi di quei mali. Via via che si fa fondamento della «morale vigente» e acquista la forza di ethos dominante, il ribaltamento si trasferisce (per tradizione, suggestione, educazione) anche ai portatori e detentori di quei valori positivi sentiti a rovescio e apparentemente svuotati, posseduti ormai solo in «cattiva coscienza» e con una segreta condanna di sé medesimi. Come dice Nietzsche, gli «schiavi» infettano i «padroni». Al contrario il portatore del risentimento si fa innanzi nella coscienza in

primo piano come «buono», «puro», «umano», liberato dal tormento di essere costretto a odiare e a vendicarsi senza averne la forza, anche se nel profondo può serbare il suo senso avvelenato della vita e i valori autentici che traspaiono ancora attraverso i suoi valori mistificati quasi fossero un velo sottile. Qui non vengono «denigrati» dunque i singoli portatori dei valori positivi, come avviene nel caso della semplice calunnia e della diminuzione abituale non basata sul risentimento: a essere «denigrati» sono invece i valori in sé stessi, travisati nel sentimento e svisati di conseguenza anche nel giudizio; in modo ben più profondo e sistematico viene la teleologia della coscienza ottiene così ciò che la semplice denigrazione delle persone non poté mai conseguire, la falsificazione dell’immagine del mondo in generale. Non bisogna intendere la «falsificazione delle tavole di valore», lo «stravolgimento di significato e di valore» come un mentire consapevole o come un fatto limitato alla semplice sfera del giudizio. Non è che il valore positivo sia riconosciuto nel sentimento e quindi il giudizio di «cattivo» venga sostituito a quello di «buono». A fianco del mentire e falsificare consapevole c’è ancora ciò che si deve chiamare bugiarderia organica. La falsificazione non ha luogo nella coscienza, come per la bugia abituale, bensì lungo il cammino dell’esperienza verso la coscienza, nel modo cioè in cui si vanno configurando le rappresentazioni e il sentimento del valore. Perché ci sia «bugiarderia organica» basta che a una persona si manifesti una cosa che si conformi al suo «interesse» o impegni una presa di posizione dell’attenzione impulsiva e che questa venga alterata nel suo contenuto già durante il processo della riproduzione e del ricordo. Chi è «mendace» non ha più bisogno di mentire! Ciò che la falsificazione cosciente produce in un essere costituzionalmente sincero viene compiuto nella persona mendace dall’automatismo tendenzioso involontario in virtù del quale si configurano il ricordo, la rappresentazione e il sentimento. Alla periferia della coscienza può vigere l’intenzione più onesta e sincera: il processo in cui sono colti i valori, e che successivamente giunge alla completa inversione della valutazione, avviene nell’ambito di questa direzione tendenziosa. Il giudizio di valore si appoggia poi a sua volta sull’elemento «falsificato» e risulta per parte sua assolutamente «vero», «verace», «sincero» in

quanto si commisura correttamente al valore che di fatto è sentito in maniera ormai già travisata.

II Risentimento e giudizio morale

Uno dei principali risultati dell’etica moderna è che nel mondo si è riscontrata non una sola «morale» bensì diverse «morali». Comunemente si pensa che sia questione vecchia quanto la scoperta della cosiddetta «relatività storica» dell’etica. Falso! Al contrario, gli indirizzi filosofici del cosiddetto relativismo etico, ad esempio, le intuizioni dei positivisti moderni Comte, Mill, Spencer ecc., hanno prevalentemente misconosciuto il fatto dell’esistenza di diverse morali. I relativisti mostrano soltanto che, a seconda del livello dell’intelligenza umana, della realtà vitale della civiltà e della cultura, si sono fatte valere maniere diverse di agire riconosciute via via come utili al «benessere umano», alla «massimizzazione della vita» o a ciò che insomma il filosofo relativista considera «buono»; ad esempio, nell’ambito di una società prevalentemente bellicosa, in cui la guerra è fonte di conquista, l’audacia, il coraggio ecc. sono un comportamento più utile «al benessere generale» del senso del lavoro, della diligenza e dell’onestà apprezzate in una società industriale; oppure in quella società la rapina è considerata un crimine minore del furto (come presso gli antichi Germani), in questa vale l’opposto. Ciò non toglie che il valore di fondo sia rimasto il medesimo e i relativisti si limitano a dislocare i valori delle diverse condizioni di vita, alle quali esso viene applicato (ad esempio il benessere). La teoria secondo cui ci sarebbero state morali del tutto differenti implica la tesi che, prescindendo dalla relatività delle situazioni storiche, le regole di preferenza tra i valori (indipendentemente dal variare dei loro portatori reali oggettivi) sarebbero state diverse. Una «morale» è un sistema di regole di

preferenza tra i valori, un sistema che si deve scoprire oltre le valutazioni concrete di un’epoca e di un popolo quale sua «costituzione etica» che a sua volta può subire un’evoluzione che nulla ha a che fare con il crescente adattamento del giudicare e dell’agire sotto il dominio di una data morale alla mutevole realtà del vivere! Modi di agire, intenzioni, tipi di uomini ecc. sono stati sempre giudicati ora in una maniera ora in un’altra secondo la medesima morale (ad esempio secondo un indirizzo costante della valutazione rivolto al benessere generale). Ma non basta! Le morali sono mutate indipendentemente da ciò e primariamente rispetto a ogni puro adattamento. I cosiddetti «relativisti» etici sono di fatto pur sempre stati soltanto gli assolutisti del loro tempo. Essi riducono le variazioni etiche a semplici gradi dello «sviluppo» verso la morale del presente e considerano poi falsamente quest’ultima meta e misura del passato. A loro sfuggono di conseguenza le variazioni primarie, le variazioni delle maniere di valutare, delle regole di preferenza tra i valori. Tale pervasiva relatività dei giudizi morali ha portato di fatto a riconoscere proprio l’assolutismo etico, ossia la dottrina secondo cui ci sono leggi eterne ed evidenti di preferenza e un corrispondente eterno ordine gerarchico tra i valori. Le morali stanno a una siffatta etica di valore eterno più o meno come i sistemi cosmologici – ad esempio il tolemaico e il copernicano – al sistema ideale a cui aspira l’astronomia. Nelle morali quel sistema in sé stesso valido si presenta come più o meno adeguato. Le forme di vita che si vanno generando di fatto sono d’altra parte a loro volta già codeterminate già dalle morali vigenti. La loro formazione sottostà all’influsso di un valutare e volere primario, la cui modificazione non deve essere più intesa in funzione dell’adeguatezza a questa situazione effettiva del vivere. La storia della moralità deve diventare sempre più consapevole di ciò che la storia dell’arte ha incominciato a capire solo in epoca recente, cioè che il mutamento degli ideali della rappresentazione estetica, come pure delle forme stilistiche, non è soltanto determinato – come opinava ad esempio Semper – dal mutamento di tecnica e di materiale e dalle relative variazioni del «saper fare», bensì è mutata la «volontà artistica» stessa.1 Ad esempio, i Greci non ebbero una civiltà tecnica non perché non ne siano stati o non ne fossero «ancora» capaci, ma perché non la vollero, perché una civiltà siffatta non era

nello spirito delle regole di preferenza che costituivano la loro «morale». Per «morale» intendiamo le regole di preferenza vigenti in epoche e popoli prese in sé stesse, non già la loro «presentazione» filosofica e scientifica, la loro «sistematizzazione» ecc., di cui una «morale» è soltanto l’oggetto. Il risentimento realizza la sua massima prestazione quando diventa determinante per una «morale» nel suo complesso al punto che le sue regole di preferenza per così dire si pervertono alla loro volta e ciò che prima era un «male» appare «buono». Se gettiamo uno sguardo sulla storia d’Europa vediamo il risentimento impegnato a edificare morali con sorprendente efficacia. Ci si deve chiedere in che misura esso abbia partecipato a suo tempo all’edificazione della morale cristiana e della moderna morale borghese. A questo proposito il nostro giudizio si allontana assai dal giudizio di Nietzsche. Siamo convinti che i valori cristiani si espongano con straordinaria facilità a degenerare in risentimento e che molto spesso siano stati intesi in questo senso. Riteniamo però che il nocciolo dell’etica cristiana non sia cresciuto sul terreno del risentimento, bensì che qui si radichi il nocciolo della morale borghese, che dal XIII secolo ha cominciato a sostituire sempre di più la morale cristiana fino a trovare il suo compimento nella rivoluzione francese. Il risentimento è divenuto di conseguenza una componente importante nel movimento sociale moderno, sfigurando sempre la morale vigente. Consideriamo ora il problema: se la morale cristiana sia stata alimentata e mantenuta dal risentimento.

III La morale cristiana e il risentimento

Friedrich Nietzsche definisce l’idea cristiana dell’amore il fiore più raffinato del risentimento. In essa trova la sua giustificazione davanti alla coscienza il risentimento accumulatosi in un popolo oppresso e al tempo stesso vendicativo (il cui Dio, finché esso fu socialmente e politicamente autonomo, fu il «Dio della vendetta»).1 Questa tesi paradossale – solo che si consideri adeguatamente l’enorme rivolgimento che conduce dall’idea antica dell’amore a quella cristiana, cosa che Nietzsche ha fatto invece in maniera insufficiente e inesatta – lo è molto meno di quanto possa apparire a prima vista. Anzi la spiegazione che Nietzsche ne dà è più profonda e degna di seria considerazione di qualsiasi altra mai formulata in questa direzione. Lo sottolineo tanto più perché la considero in ultima analisi completamente falsa. I pensatori e i poeti greci e romani ci hanno detto in maniera particolarmente chiara che cosa significasse l’amore per la morale antica e quale fosse il suo valore. Basti qui dirlo in breve senza nominare singolarmente le fonti. Innanzitutto hanno la priorità sull’amore la forma logica, la legge e la giustizia, insomma l’elemento «razionale» nell’ambito della moralità, basato su proporzione ed equità nella ripartizione dei beni e dei mali. Per quanto grandi siano le distinzioni di valore che Platone stabilisce, ad esempio, nel Simposio tra le specie d’amore, per i Greci l’«amore» rimane pur sempre un fatto della sfera sensibile, una forma di «desiderio» e di «bisogno» ecc., che non compete all’essere

perfettissimo. Lo esige senz’altro la divisione antica – assai discutibile – della natura umana in «ragione» e «sensibilità», ciò che forma e ciò che viene formato! Nella sfera morale cristiana l’amore viene invece nell’ordine del valore esplicitamente prima della sfera razionale: esso «più che ogni ragione dona la beatitudine» (Agostino), come mostra in maniera abbastanza chiara la storia del figliol prodigo.2 Agape e caritas sono separate nettamente e dualisticamente da eros e amor, laddove il Greco e il Romano si raffiguravano piuttosto una continuità tra queste specie dell’amore pur riconoscendo una differenza di rango specifica. L’amore cristiano al contrario è un’intentio spirituale soprannaturale che spezza e dissolve ogni norma della vita naturale spontanea, ad esempio, l’odio per i nemici, la vendetta e la ritorsione, e deve situare l’uomo a un livello di vita del tutto nuovo. Neppure questo è ancora però l’elemento essenziale, che consiste piuttosto nella direzione di movimento dell’amore secondo la morale e la concezione del mondo antiche. Tutti i pensatori, i poeti e i moralisti antichi sono unanimi su questo punto: l’amore è aspirazione, tendenza dell’«inferiore» al «superiore», del «meno perfetto» al «più perfetto», dell’«informe» al «formato», del «non essere» all’«essere», dell’«apparenza» all’«essenza», del «non sapere» al «sapere»: «un medium tra avere e non avere», come dice Platone nel Simposio. Così ogni relazione amorosa umana – matrimonio, amicizia ecc. – si fraziona in un «amante» e un «amato» e l’amato è sempre l’elemento più nobile, la parte più perfetta: il modello per l’essere, il volere, l’agire dell’amante.3 Questa concezione, maturata sulla base delle antiche forme di vita e da esse ricavata per astrazione, raggiunge la sua più chiara caratterizzazione nelle varie forme della metafisica greca. Già Platone dice: «Se fossimo dèi non ameremmo»: infatti nell’essere perfettissimo non può più esserci «aspirazione» né «bisogno». L’amore è qui soltanto una «via», un «metodo». Secondo Aristotele, in ogni cosa si radica un ὀρέγεσυαι e ἐφίγεσυαι verso la Divinità, verso il Noῡς, il Pensatore in sé beato che «muove» il mondo (in qualità di «primo motore»), non come un essere la cui volontà e azione sono volte verso l’esterno, bensì «come l’amato muove l’amante» (Aristotele), cioè l’attrae, lo alletta e invita a venire a sé. In quest’idea, con singolare elevatezza, bellezza e classica freddezza,

l’essenza dell’idea antica dell’amore viene innalzata a sublimità assoluta e infinita. L’universo è una grande catena di unità dinamicamente spirituali, che vanno dall’essere della «materia prima» fino all’uomo, una catena in cui l’elemento più basso tende verso il più alto e viene attratto da quest’ultimo che non si volge indietro, ma è a sua volta rivolto verso il suo proprio grado più alto: su fino alla Divinità, che come tale non ama più, bensì rappresenta unicamente la meta, che dà l’unità ed è eternamente quieta, di tutta la multiforme tensione dell’amore. Si è badato troppo poco alla singolare connessione che questa idea dell’amore intrattiene con il principio dell’agone, dell’ambiziosa gara, che dalla palestra e i giochi fino alla dialettica e alla politica delle poleis greche tanto potentemente dominò il vivere greco. Anche le cose «fanno a gara». L’una contro l’altra in questa contesa per il primato, nell’agone cosmico verso la Divinità: solo che il premio che corona qui il vincitore è sovrabbondante: la partecipazione all’«Essere», al sapere e avere dell’«Essere». L’amore non è che un principio dinamico immanente all’Universo, che muove il grande «agone» delle cose per la conquista della divinità. Se si confronta ora tale concezione con quella cristiana, risulta qualcosa che si potrebbe chiamare il moto di ritorno dell’amore. Qui si dà uno schiaffo in faccia disinvoltamente all’assioma greco secondo cui l’amore sarebbe un tendere dell’inferiore al superiore. Al contrario, l’amore si dimostra con il fatto che il nobile si china e discende verso il non nobile, il sano verso il malato, il ricco verso il povero, il bello verso il brutto, il buono e il santo verso il cattivo e il volgare, il Messia verso i pubblicani e i peccatori; e ciò senza l’angoscia antica di perdersi e di svilirsi, bensì nella convinzione autenticamente religiosa di ottenere nel compimento attuale di questo «piegarsi», nel «lasciarsi andare», «nel perdersi», il massimo: la somiglianza con Dio.4 La trasformazione dell’idea di Dio e del suo rapporto fondamentale con il mondo e con l’uomo non è il motivo, bensì l’effetto dell’inversione di movimento dell’amore. Ora Dio non è più la meta eterna e quieta dell’amore della creatura, simile a una stella che muove addirittura l’universo al modo in cui «l’amato muove l’amante», ma l’essenza stessa di Dio diventa amare e servire, e da ciò soltanto procede il Suo creare, volere, causare. Il «Creatore», che ha creato il mondo «per amore», subentra al posto dell’eterno «primo motore».5

In Galilea sarebbe dunque accaduta un’enormità per l’uomo antico, un esplicito paradosso per i suoi assiomi: Dio spontaneamente discese fino all’uomo, divenne servo e morì sulla croce la morte del servo malvagio! Diventa a questo punto priva di senso la regola secondo cui si devono amare i buoni e odiare i cattivi, amare l’amico e odiare il nemico. Non c’è più l’idea di un «sommo bene», il cui contenuto è separato e indipendente dall’atto dell’amore in sé stesso e dal suo movimento! Di tutte le cose buone la migliore è l’amore in sé stesso! Il «sommo bene» non sta nel contenuto bensì nell’atto, è il valore dell’amore in sé stesso, indipendentemente da ciò che esso produce e opera, in quanto tutti i suoi effetti non sono che simboli e segni di riconoscimento del suo essere nella persona. Così Dio diventa la «persona» che non ha sopra di sé alcuna «idea del bene», alcun «ordine dotato di forma», alcun λόγος, che stanno ormai sotto di lui quale effetto della sua azione d’amore. Egli diventa il «Dio che ama» ciò che per l’uomo antico era un oggetto inerte, una «perfezione imperfetta»! La critica neoplatonica ha messo in rilievo con grande nettezza che l’amore come «bisogno» e «aspirazione» è segno di «imperfezione», e attribuirlo a Dio è falsità, temerarietà, peccato! Ed ecco un’altra novità: secondo la concezione cristiana l’amore è un atto non sensibile dello spirito (non un mero stato di sentimento, come per i moderni), non è aspirazione né desiderio; né tanto meno bisogno!6 La legge di questi atti è il consumarsi nell’attuazione del loro intento: l’amore invece non fa così. Nell’attuarsi esso cresce! Non ci sono più principi razionali, né legge, né «giustizia» che abbiano il diritto, indipendentemente dall’amore, anteriormente a esso e al di là di esso, di guidarne l’azione e la ripartizione nei confronti dei vari enti, magari in proporzione al valore di questi ultimi! Tutti sono degni dell’amore: amici e nemici, buoni e cattivi, nobili e gente da poco!7 In ogni caso di malvagità altrui devo sentirmi corresponsabile, perché sono costretto a dire a me stesso sempre: «Sarebbe stato malvagio questo malvagio se tu lo avessi abbastanza amato?». Poiché la partecipazione affettiva sensibile, unitamente al suo radicarsi nel più potente impulso del nostro sesso, non è secondo la concezione cristiana la fonte dell’amore bensì un parziale ostacolo a esso,8 non amare – prima ancora dell’arrecare positivamente un torto – è già «colpa», è anzi la colpa che rende tale ogni colpa.

Il quadro è straordinariamente mutato! Non c’è più una schiera di cose e di uomini che fanno a gara sorpassandosi l’un l’altro alla conquista della Divinità; ora ogni membro della schiera si volge indietro a chi è più distante da Dio e lo aiuta e lo serve e proprio così facendo diventa simile alla Divinità, la cui essenza è appunto questo: un grande amare e servire e abbassarsi. Non seguo qui i rimaneggiamenti architettonici del rovesciamento di un moto dell’animo nel dogma, nella teologia, nel culto, per quanto ciò sia attraente specialmente in Paolo e in Agostino. Mi attengo all’essenziale e chiedo: da dove viene questo mutamento di direzione? Ne è davvero il risentimento la forza motrice? Quanto più a lungo e a fondo ho riflettuto su questa domanda, tanto più chiaro mi è sembrato che la radice dell’amore cristiano è del tutto indenne da risentimento, ma che d’altra parte nessuna idea può essere manipolata più agevolmente di questa da un risentimento già presente a proprio vantaggio per fare fraudolentemente figurare un’emozione al suo posto: e ciò spesso fino al punto che nemmeno l’occhio più esercitato riesce a decidere se si trova di fronte un amore autentico o se è solo il risentimento che si è scelto l’espressione dell’amore.9 Ci sono due maniere radicalmente diverse di comportarsi del forte nei confronti del debole, del ricco nei confronti del povero, della vita più perfetta in generale nei confronti della «più imperfetta», chinandosi a soccorrerlo. La prima ha come punto di partenza interiore e forza motivante un vigoroso senso di essere al sicuro, di poggiare su un terreno saldo, di essere stato nell’intimo salvato e dell’invincibile ricchezza della propria esistenza e vita e, su questa base, la chiara consapevolezza di poter cedere il proprio essere e avere. Qui l’amore, l’offerta, l’aiuto, la donazione di sé al più piccolo e al più debole sono un traboccare spontaneo di forza accompagnato da gioia e intima pace. Di contro a questa disponibilità d’amore e d’offerta le varie specie di «egoismo», il badare solo a sé, l’interesse, nonché il genuino impulso della «sopravvivenza», sono già segni di una vita repressa e indebolita. La vita è essenzialmente dispiegamento, sviluppo, crescita in pienezza e non, come sostiene una falsa dottrina, «sopravvivenza», quasi che tutti i fenomeni di evoluzione, sviluppo e crescita fossero soltanto epifenomeni da ricondursi alle forze della

conservazione e del mantenimento del «più adatto». A nostro avviso esiste anche un sacrificio della vita stessa in vista di valori più alti di quelli che la vita racchiude in sé stessa. Non per questo tuttavia ogni sacrificio è un agire contro la vita e le sue esigenze.10 Al contrario, esiste un sacrificio che è un libero cedere la propria ricchezza vitale, un traboccare bello e naturale delle forze. Tale «impulso» al sacrificio a favore di esseri nei confronti dei quali, a differenza di tutti i «morti», ci sentiamo uniti e solidali in grazia del dono proprio di ogni vivente di partecipare simpateticamente alla vita di un altro essere vivente (secondo una gradualità relativa alla vicinanza e somiglianza specifica intercorrente tra un vivente e l’altro) non è certo un mero frutto della vita deducibile da tendenze originariamente egoistiche. Esso appartiene alla vita originariamente e anteriormente a tutti i «fini» e gli «scopi» particolari considerati primari nella logica del calcolo, dell’intelletto e della riflessione. L’impulso a sacrificarsi esiste prima ancora che sappiamo perché, a qual fine, per chi! Lo si vede ancora abbastanza chiaramente nell’immagine che Gesù ebbe della Natura e della Vita, che traluce qua e là frammentariamente e per cenni dai suoi discorsi e dalle sue parabole. Egli dice «non preoccupatevi di che cosa mangerete e berrete» non perché gli fosse indifferente la vita e quanto comporta il suo mantenimento, bensì perché in ogni «preoccuparsi» del domani per quanto riguarda il proprio benessere corporeo vede anche una debolezza vitale. I passeri senza dispensa né granaio, i gigli che non filano né tessono e che Dio veste più gloriosamente di Salomone ecc. (Luca 12,27) sono immagini dell’idea globale che egli aveva della vita, del fatto che ogni attenzione voluta al proprio bene sensibile, il preoccuparsi e angosciarsi ostacolano e non favoriscono la forza creativa che guida ogni vita in maniera spontanea e benefica. «Chi di voi con tutte le sue ansie sarebbe in grado di prolungare anche solo di un breve tratto la propria vita?» (Luca 12,25). Questa specie di indifferenza nei confronti dei mezzi esteriori di vita (cibo, abbigliamento ecc.) in lui non è segno di indifferenza nei confronti della vita e del suo valore, bensì di una fiducia profonda e segreta nella forza stessa della vita in quanto tale e di una interiore sicurezza nei confronti delle contingenze meccaniche in cui essa si trova immersa. Un’indifferenza lieta, distaccata, audace, cavalleresca nei confronti

delle circostanze della vita, tratta dalla profondità della vita stessa, è la fonte donde fluiscono quelle parole! L’egoismo, la paura della morte (tanto diffusa nell’antichità che certe scuole filosofiche, come ad esempio gli Epicurei, ponevano addirittura come scopo della filosofia «la liberazione dalla paura della morte») sono segni di una vita spezzata, malata, ormai al tramonto. In tempi di maggiore vitalità si era indifferenti nei riguardi della vita e della sua fine. Questa indifferenza è già in sé stessa uno stato d’animo vitalmente valido. L’amore e lo spirito di sacrificio di questo tipo verso il più debole, il malato, il piccolo ecc. discendono da un’interiore sicurezza e da una genuina ricchezza vitale. Al di là della sicurezza vitale, quanto più centrale e profonda è l’altra sicurezza e gioia, quella di sapersi al sicuro nella rocca dell’essere ultimo stesso (che Gesù chiama «regno di Dio»), tanto più l’uomo ha il potere e il diritto di un’«indifferenza» quasi scherzosa nei confronti del suo «destino» nelle zone periferiche della sua esistenza in vista di quanto ancora c’è di «felicità» e di «patimento», di «gradevole» e di «sgradevole», di «piacere» e di «dolore».11 Se poi a questa specie di spontaneo amore e impulso al sacrificio la vista del piccolo, del povero, dell’oppresso offre un’occasione per agire, uno scopo preciso, ad esempio, di soccorso, l’oggetto occasionale non è per la persona in questione un’opportunità percepita con soddisfazione per immergersi nelle manifestazioni della miseria, della malattia e della bruttezza, bensì essa si sacrifica e aiuta quella vita travagliata non per, ma nonostante quei motivi negativi, per portare a compimento ciò che ancora c’è di sano, ciò che ancora è rimasto dei valori positivi. L’amore e la volontà di sacrificio non si rivolgono a ciò che è malato, povero, piccolo, brutto perché è tale, quasi con l’intento d’indugiare su questi fenomeni passivamente; al contrario, proprio perché i valori positivi della vita in sé stessi (nonché ovviamente i valori spirituali-personali di una individualità) non dipendono affatto da tali qualità e si trovano a ben altra profondità, la ricchezza vitale della persona può (e pertanto «deve») superare la reazione di angoscia e di fuga alla presenza di tali fenomeni e l’amore deve tradurre in un’azione di soccorso l’elemento positivo sussistente ancora nel povero, nel malato ecc. In questi non si ama l’essere malato e l’essere

povero, bensì ciò che c’è al di là, e si presta loro «aiuto» solo su tale base. Se Francesco d’Assisi bacia piaghe purulente e non uccide le cimici che lo tormentano, ma offre loro il suo corpo come una casa ospitale, queste azioni (almeno viste dall’esterno) potrebbero essere conseguenze di una perversione del senso del valore e dell’istinto. Di fatto però non lo sono. Non si tratta di mancanza di senso di nausea o di compiacimento per la purulenza, bensì del superamento della nausea in virtù di un senso più profondo della vita e della forza! Questo è un atteggiamento interiore del tutto diverso, ad esempio, dall’atteggiamento dell’ormai superato realismo moderno in arte e in poesia, della scoperta della miseria sociale, della raffigurazione della gentuccia, dell’immergersi nel morboso: fenomeni, questi, nati senz’altro dal risentimento. Costoro videro in ogni vivente un pidocchioso laddove Francesco riuscì a scorgere perfino nella cimice la «vita» e la salute.12 Alla base dell’atteggiamento e dell’idea antichi dell’amore stava invece un elemento di angoscia di fronte alla vita. Il più nobile si angosciava di accostarsi al meno nobile, perché avrebbe potuto alla lunga risultarne una compartecipazione da cui temeva di essere abbassato. Manca al «saggio» antico la saldezza della certezza di sé e del proprio valore posseduta dal genio e dall’eroe dell’amore cristiano. Un altro elemento caratteristico! L’amore nel senso di Gesù aiuta e lo fa con forza, ma non consiste nel voler aiutare o anche soltanto nel «voler bene»: esso rimane immerso nel valore positivo e il voler bene e l’aiutare ne sono solo le conseguenze. L’amore apparente dell’uomo del risentimento non aiuta, proprio perché il sentimento pervertito del valore ha falsamente trasformato i mali (malattia, povertà ecc.) in beni e – a sentir lui – «Dio guarda con particolare compiacimento ai piccoli», sì che rendere grandi i piccoli, sani i malati ecc. significherebbe nientemeno che allontanarli dalla loro salvezza.13 L’amore nel genuino senso cristiano non trae il suo valore dalla promozione e dall’utilità prodotte dall’azione soccorrevole che ne deriva. L’utilità può essere grande pur con poco amore o senza amore affatto e può essere piccola con un amore grande. I soldini della vedova valgono più al cospetto di Dio dei doni dei ricchi, non perché siano soltanto «soldini» o perché la donatrice è una «povera vedova» ma perché nel suo agire essa mostra più amore. L’incremento del

valore sta quindi originariamente sempre dalla parte dell’amante e non da quella di chi viene aiutato. L’amore non è qui una pia «istituzione di beneficenza» e non c’è alcuna opposizione tra l’amore e la propria felicità. Dall’atto del perdere sé stessa della persona deriva il suo eterno guadagnare sé stessa. Nell’amare e nel dare l’uomo è beato, poiché «dare è maggiore beatitudine che prendere». L’amore non è «soltanto una» delle innumerevoli forze che promuovono il benessere umano o sociale e non per questo è un valore né per questo si segnalano i suoi portatori. L’amore in sé è invece un valore, il fatto che la persona ne sia ricolma, quel superiore, più saldo, più ricco essere e vivere il cui prezioso contrassegno è l’essere appunto un moto d’amore. Ciò che conta non è la quantità di benessere ma il fatto che ci sia tra gli uomini un maximum d’amore. L’aiuto è un’espressione più immediata e adeguata dell’amore, ma non ne è lo «scopo» né il senso. Il significato risiede esclusivamente nell’amore in sé, nel suo splendere nell’anima e nella nobiltà dell’anima che ama nell’atto del suo amore. Nulla è pertanto più lontano dal genuino concetto dell’amore cristiano di ogni specie di «socialismo», di «atteggiamento sociale», di «altruismo» e di analoghe faccende moderne di carattere subalterno. Quando al giovane ricco viene comandato di fare a meno delle sue ricchezze e di donarle ai poveri ciò non avviene perché i «poveri» acquistino qualcosa o si pensi di mirare così a una migliore distribuzione della proprietà in vista del benessere generale, tanto meno poi perché la povertà sia in sé migliore della ricchezza, bensì perché l’atto del dare via, la libertà spirituale e la ricchezza d’amore che si manifestano in esso nobilita il giovane ricco e lo rende ancora «più ricco» di quanto sia. Questo aspetto si ritrova anche nelle concezioni metafisico-religiose del rapporto dell’uomo con Dio. Al posto del vecchio rapporto contrattuale tra Dio e l’uomo, radice di ogni «legalità», subentra il rapporto amoroso nell’immagine dell’infanzia di Dio. Anche l’amore «a Dio» non deve fondarsi soltanto sulle sue opere, quasi una riconoscenza per tutto ciò che Egli dona a ogni istante, per il fatto che ci conserva e ci assiste. Tutte le esperienze del Suo agire e delle Sue opere devono invece concentrarsi unicamente sul volgere in alto lo sguardo verso l’«Amore eterno» e l’infinita pienezza di valore che le opere si limitano a manifestare. Queste ultime infatti

generano ammirazione e amore, ma solo perché sono opere di Colui che ama! Per i migliori cristiani del Medioevo vigeva ancora la rappresentazione precisa che Ugo di San Vittore nel suo scritto Il riscatto dell’anima (De arrha animae) chiama «amore di meretrice», l’amore che si fonda soltanto sulle opere e i benefici di Dio! Già nel detto di Salomone «Pur di avere Te, non mi importa nulla né del cielo né della terra», è offerta l’antitesi rigorosa dell’idea del contratto che continua a germinare nell’amore per riconoscenza della media degli uomini di Chiesa. Non si deve amare Dio per via del cielo e della terra che sono opera sua, bensì cielo e terra si devono amare perché sono di Dio! Perché attraverso di essi quale espressione sensibile traluce l’Amore eterno, non già perché essi siano un punto d’arrivo dell’amore.14 Lo stesso vale per l’idea di Dio. L’Antichità si rappresentava una forza d’amore limitata nell’Universo ed esigeva di conseguenza che se ne disponesse con parsimonia e che l’amore potesse essere legittimamente rivolto a ciascuno soltanto in funzione dei valori a lui immanenti. Dal momento però in cui fu concepita l’idea che l’amore ha origine in Dio, nell’Essere infinito, che Egli stesso è amore e misericordia senza fine, insorse spontanea l’esigenza di amare buoni e cattivi, giusti e peccatori, amici e nemici, e che proprio nell’amore per gli ultimi si palesa l’amore più vero, l’amore soprannaturale. Cade così sotto il titolo negativo di «fariseismo» l’esigenza antica di amare i buoni e i giusti e di odiare i cattivi e gli iniqui. Anzi, negli ulteriori passaggi metafisici Dio non solo risulta il «Creatore» (in luogo di un mero ideale, di una perfezione dell’essere verso cui gravita l’Universo), ma il «Creatore per amore», la cui opera, il mondo, a sua volta non è che la fissazione momentanea di un gesto d’amore che va scaturendo all’infinito. Nel momento in cui al posto del «pensatore e contemplatore di sé stesso» (νόησις νοήσεως) che non si cura del corso delle vicende mondane e non è neppure veramente responsabile dell’Universo, di quell’egoista logico, in cui per la metafisica greca si è assolutizzato l’ideale di vita del «saggio», subentra il Dio personale che ha creato il «mondo» per amore e per sovrabbondanza infinita d’amore, non per soccorrere ciò che già c’era, giacché nulla c’era prima di Lui, bensì unicamente come espressione del suo traboccare d’amore, questa svolta della vita spirituale trova anche un’espressione teologico-concettuale.

In tutto questo non troviamo traccia di risentimento: soltanto un amoroso abbassarsi e una capacità di abbassamento che procede da una sovrabbondanza di forza e di elevatezza! C’è nondimeno una maniera del tutto diversa di chinarsi sul piccolo, sull’umile, sul cattivo, per quanto essa possa apparire esteriormente simile a quella appena descritta. Qui l’amore non procede dalla sovrabbondanza della propria forza vitale, dalla propria sicurezza e saldezza, ma è solo un eufemismo per la fuga da sé, per un eterno ripudio di sé, che produce solo secondariamente il volgersi a un «altro» in conseguenza dell’incapacità di «starsene a casa propria» (chez soi). C’è una differenza radicale tra il volgersi via dal proprio io, implicito in ogni amore per un altro, motivato dal volgersi a un valore positivo, e un’intenzione che sia già in origine un fuggir via da sé che va cercando all’esterno la possibilità di odiare sé stesso dietro l’apparenza dell’amore per gli altri. Un siffatto «amore» si fonda nell’odio: nell’odio contro di sé, contro la propria miseria e debolezza. In questo caso l’anima è sempre sul piede di partenza, sul punto di prendere il largo e fuggire lontano. Un’angoscia nei confronti del guardare sé stessa e la propria inferiorità la spinge a darsi all’altro già solo perché «altro», un «non-io». Il gergo filosofico moderno ha chiamato assai significativamente questo fenomeno «altruismo», uno dei surrogati moderni dell’amore. L’elemento primario su cui si struttura il moto d’amore non è qui la mira a un valore positivo, né il balenare del valore positivo nell’amore stesso, bensì un mero distogliersi da sé, un perdersi nelle faccende altrui. Chi non ha incontrato il tipo che troviamo tanto di frequente tra i socialisti, tra gli assertori dei diritti della donna e in generale tra quegli uomini che hanno sempre pronto il cosiddetto «senso sociale» e dietro il cui impegno sociale è chiaramente percepibile l’incapacità di concentrare l’attenzione su di sé, sui propri problemi, sui propri doveri?15 Il distrarsi da sé viene considerato qui amore! È evidente al contrario che l’«altruismo» in quanto mero indirizzarsi interiormente agli «altri» e alla loro vita, nulla ha a che fare con l’amore. Anche il malvagio, l’invidioso dimentica ad esempio i suoi interessi, perfino l’«autoconservazione» per occuparsi della vita dell’altro, del danno che può procurargli, del disagio che quello può soffrirne. Viceversa c’è un «amore di sé» che nulla ha a che fare con l’«egoismo»,16 che si fonda essenzialmente non

sull’affermazione del valore dell’io isolato in tutta la sua pienezza, bensì si limita a guardare all’altro soltanto quale membro della società, che cerca di avere e di guadagnare di più. Il riferimento a «me» e all’«altro» è del tutto inessenziale per l’elemento specifico dell’amore e dell’odio. Questi atti sono in sé distinti e affatto indipendenti dall’essere rivolti a me e all’altro. Allo stesso modo dunque che questa spinta «altruistica» non è che una forma di odio – dell’odio contro di sé – che si spaccia come l’opposto, come amore, solo in forza di un gioco illusionistico della coscienza, anche nella condotta morale, radicata nel risentimento, l’amore per i «piccoli», i deboli e gli «oppressi» non è che odio camuffato, invidia repressa, inimicizia nei confronti dei fenomeni contrari: «ricchezza», «forza», «vigore vitale», «vita ricca e felice». Ogni forma di odio che non osa esternarsi può facilmente esprimersi nella forma apparente di un amore, un amore per «qualcosa» che ha i caratteri opposti a quelli dell’oggetto odiato, fino al punto che l’oggetto celato dell’odio non viene neppure nominato. Ogni volta che sentiamo la canzone, dall’apparenza pia e dal tono ciarlatanesco (proprio di una certa particolare categoria di preti «sociali»), secondo la quale il primo dovere è l’amore per i «piccoli», per i «poveri di spirito» – perché a essi Dio guarda con benevolenza particolare – spesso si tratta soltanto di odio che bugiardamente assume l’aspetto dell’amore cristiano. Sentiamo chiaramente che lo sguardo indugia compiaciuto su questi fenomeni e che l’interesse non è rivolto – come nel caso dell’intenzione amorosa autentica – ai valori positivi superiori che dovrebbero esserci dietro, ma i fenomeni stessi diventano l’oggetto d’amore; l’interesse naturalmente non è volto neppure all’azione di aiuto – che dovrebbe necessariamente rendere quei «piccoli» «meno graditi a Dio» e quindi finirebbe secondo quel criterio per diventare un’esperienza di «odio» – bensì mira esclusivamente a «indugiare» su quei fenomeni. E quando, procedendo sullo stesso tono, si rimanda alla ricompensa che costoro troveranno in «cielo» per le loro tribolazioni, e il «cielo» appare il semplice rovesciamento dell’ordine terreno («i primi saranno gli ultimi»), si sente chiaramente che l’uomo risentito non fa che incaricare Dio della vendetta, che egli non è in grado di esercitare sui potenti, per poter soddisfare almeno con la fantasia, grazie al meccanismo di premi e castighi nell’al di là, la sete di vendetta che è

impotente a soddisfare qui. Nel nocciolo di questa idea di Dio c’è sempre il vendicativo Jehova, solo che adesso egli maschera la sua vendetta con l’apparenza dell’amore per i «piccoli». Viene così meno l’organica connessione vissuta del «regno di Dio» con il regno visibile, in virtù della quale le leggi del valore e della ricompensa che in questo già vigono e si manifestano ottengono in quello solo un carattere più puro e compiuto. L’«al di là» meccanicamente si affianca all’«al di qua» (una contrapposizione sconosciuta alle età cristiane più vive) e si limita a offrire una superficie ontologica su cui le ombre di uomini e di avvenimenti vissuti danzano la loro danza guidata dal risentimento in semplice antitesi alle regole del ritmo terreno. Il fatto che Gesù si preoccupi prevalentemente dei poveri, dei malati, degli affaticati e oppressi e dei pubblicani, la stessa misteriosa ed enigmatica propensione per i peccatori (l’«adultera», «il balsamo della meretrice», la «parabola del figliol prodigo»), la leggera ironia che non manca mai quando parla dei «buoni» e dei «giusti», e che non bastano a spiegare frasi come «non sono venuto per i giusti ma per chiamare i peccatori a penitenza», «non i sani abbisognano del medico ma i malati», qualora si consideri che rifiuta anche per sé il nome di «buono» («Perché mi chiami buono? Nessuno è buono tranne il vostro Padre che è nei cieli» Luca 18,19): tutto ciò non mi autorizza a decidere di credere che si tratti di risentimento. Il vero significato di queste espressioni – per quanto a me sembra – non è la dichiarazione di una positiva dipendenza del bene da queste qualità negative – come sarebbe secondo la linea del risentimento – bensì la formulazione paradossale della tesi relativa all’indipendenza dei valori supremi e ultimi della persona rispetto alle contrapposizioni del tipo ricco-povero, sano-malato ecc. Nei confronti di un mondo in cui era diventata centrale la tendenza a considerare l’uomo, valutato in base al ceto, ricchezza, forza e vigore vitali, immagine anche dei valori ultimi morali e personali, non si poteva argomentare la scoperta di una sfera del tutto nuova e superiore dell’essere e della vita, la scoperta cioè del «regno di Dio», il cui ordine è affatto indipendente dall’ordine terreno e vitale del mondo, altrimenti che accentuando in modo particolare la nullità di quei valori rispetto a quelli di un ordine superiore. Passi del genere di quelli che si trovano prevalentemente in Luca, nei quali il regno di Dio pare essere

rappresentato addirittura come il rovescio dell’ordine terreno, vanno però probabilmente al di là di questo significato. Così le beatitudini in Luca 6,20-22;24-26: «Beati voi poveri, perché a voi appartiene il regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che piangete, perché riderete. Beati voi, se gli uomini vi odiano, se vi emarginano e vi ingiuriano, se pronunciano i vostri nomi con disprezzo a cagione del Figlio dell’uomo…» e: «Guai a voi, ricchi, avete la vostra consolazione già qui. Guai a voi che siete già sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché dovrete attristarvi e piangere. Guai, se tutti gli uomini vi parlano con amicizia, perché così hanno già fatto i loro padri con i falsi profeti». C’è poi la dura affermazione (Luca 18,24) che «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel cielo» (però notevolmente ammorbidita dalla precedente: «Come è difficile per i ricchi l’accesso al regno di Dio» e dalla seguente per cui è altrettanto facile per Dio far entrare il ricco nel suo regno). Mi pare che qui in effetti non si possa assolvere la forma espositiva dell’autore dall’accusa di risentimento: la faccenda mi sembra tuttavia limitata a Luca e solo in quanto coloritura personale nell’esposizione di idee che non hanno affatto la loro radice nel risentimento. Tantomeno gli inviti: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi offendono»; «A chi ti percuote la guancia destra offri anche l’altra e a chi ti porta via il mantello offri anche la tunica» (Luca 6,27-29) favoriscono una passività che non farebbe (secondo l’opinione errata di Nietzsche) che «giustificare» il senso di impotenza, né cercano di svergognare l’avversario con un’occulta sete di vendetta, né sono espressione di un segreto autotormento che si placa in atteggiamenti paradossali. Essi comandano soltanto la massima attività nei confronti della vita impulsiva naturale che conduce ad azioni opposte, e ciò in base all’intimo spirito individualistico del Vangelo che rifiuta di far dipendere comunque la propria maniera di agire e di comportarsi dalla condotta dell’«altro», rifiuta l’abbassarsi di chi agisce al livello inferiore della condotta altrui, accettando che la direzione del suo agire si riduca a mera reazione all’agire altrui. L’azione deve crescere organicamente dalla persona «come il frutto dalla pianta». «L’uomo buono estrae il bene dal deposito buono del suo cuore e quello cattivo

estrae il male dal suo deposito maligno», «giacché trapassa nella bocca ciò di cui è colmo il cuore» (Matteo 12,34 e 35). In questo modo non viene sollecitata una perversione della reazione naturale nel senso di: «poiché ti ha percosso, porgigli l’altra guancia», ma viene in generale rifiutato un agire meramente reattivo e ogni concessione al criterio e al modo di agire comune medio. Ho parlato di una «misteriosa» propensione di Gesù per i peccatori, intimamente legata alla sua sempre pronta ostilità contro i farisei e i dottori della legge, contro ogni specie di correttezza borghese. Ci troviamo di fronte a un aspetto del risentimento? Si cela qui sicuramente una specie di consapevolezza che il grande radicale mutamento di vita e di sensibilità che Egli chiede agli uomini – e che nel linguaggio cristiano si chiama rinascita – è più facile per il peccatore che per il «giusto», che ogni giorno cerca gradualmente di avvicinarsi all’ideale della legge. Nel «peccatore» c’è il grande possente moto attivo della vita e insieme una grande potenzialità! Si aggiunga il fatto che Gesù nutre un profondo scetticismo nei confronti di tutti coloro che, sull’unica base di una mancanza di impulsi violenti, di una povertà vitale simulano l’habitus che è nobile possesso di chi è veramente buono. Tutto ciò non basta però ancora per spiegare quella misteriosa propensione. Vi è qualcosa di indicibile, che si può soltanto sentire. Spesso proprio le nature più elevate nella società dei «buoni» (e occorre che siano buoni autentici, non farisei) sono travolte da un bisogno violento, da un impulso possente del cuore di andare tra i peccatori, di patire e lottare con loro, di condurre la vita greve e oscura che essi vivono. Non è davvero la seduzione esercitata dalle piacevolezze connesse con il peccato, né l’amore demoniaco per la sua «dolcezza», né lo stimolo del proibito o la lusinga della novità dell’esperienza, bensì un amore violento, una misericordia che prorompe in noi verso il compimento di quella solidale unità umana, che è come un uomo solo, anzi verso il compimento dell’unità dell’universo; si tratta di un amore che ci fa sentire insopportabile il fatto che solo una parte debba essere «buona» mentre l’altra è «cattiva» e spregiata. Amore e profondo senso di solidarietà con l’intera umanità ci fanno d’un tratto apparire orribile e spaventoso il dovere di essere «buoni» in tanta solitudine unicamente in compagnia di coloro che sono come noi e ciò produce una specie di nausea nei confronti di quei buoni che riescono

a essere tali da soli e un interiore comando: via da costoro! Detto in termini più sobri, ciò non è che la conseguenza della nuova idea cristiana che l’atto d’amore in quanto tale, in qualità di «amore sorgivo» (Lutero), è già di per sé, indipendentemente dal suo oggetto e dal valore di questo, il summum bonum. Secondo la valutazione antica l’amore per ciò che è cattivo è a sua volta cattivo: ora invece il valore d’atto dell’amore risulta tanto più netto e chiaro quando ha per oggetto il peccatore. C’è dell’altro: il «peccatore» notorio è sempre anche persona che riconosce il male nella sua anima. Non alludo qui unicamente alla confessione fatta a parole innanzi a un tribunale, ma alla confessione davanti a sé medesimo e alla confessione mediante l’azione in cui la volontà di peccare finisce. Per quanto sia peccato e male ciò che egli confessa, il fatto che egli riconosca di peccare pur avendo ancora un cuore peccaminoso, non solo non è male ma è bene! In questo modo il peccatore purifica il suo cuore e frena il diffondersi dell’avvelenamento che, in chi reprime in sé i cattivi impulsi, prende strati sempre più profondi della persona e nel contempo si fa sempre più oscuro e insensibile alla coscienza e al senso morale al punto che non si sente più «la trave nel proprio occhio» mentre si scorge con sempre maggiore nettezza la «pagliuzza nell’occhio del fratello». L’azione peccaminosa e il pentimento che l’accompagna (che non comincia forse con il valore del riconoscimento insito nell’azione?) per Gesù sono quindi meglio della repressione dell’impulso peccaminoso e del conseguente avvelenamento dell’intima sostanza dell’uomo, che può essere addirittura connesso con la mera coscienza di essere buono e giusto al cospetto della legge. Perciò «c’è tanta più gioia in cielo per un peccatore convertito che non per mille giusti», ed è stato detto che «chi non ha molto da farsi perdonare non ha molto amato» (Luca 7,47). Chi – come Gesù nel Sermone della montagna – vede l’adulterio già «nel guardare con avida brama la moglie del fratello ecc.» deve conseguentemente giudicare così. Anche lo scandaloso peccare fortiter di Lutero è la tempestosa esplosione di un cuore scavato da una lunga angoscia della legge, dalle tormentose e umilianti esperienze della «ricaduta» e del sempre rinnovato sforzo di adempiere la legge fino alla disperazione di trovare mai «giustificazione» per quella via.17 I

criminali hanno spesso raccontato della pacificazione profonda, della calma, della liberazione provate subito dopo l’azione che per mesi si erano rigirata in petto sempre soffocando di volta in volta gli impulsi, che così erano andati facendosi interiormente sempre più velenosi, implacabili e «cattivi». Anche in questo tratto la morale evangelica serba il carattere rigorosamente individualistico che pone al centro la salvezza e l’essere dell’anima. Chi parte da una valutazione sociale, ossia misura tutto in base all’utile e al danno per la comunità, è costretto naturalmente a giudicare e sentire in tutt’altro modo. Anche se si manifesta sempre nella parte interna del comportamento dell’anima, magari nella parte sottratta all’autocoscienza chiara, la questione di fondo è che l’impulso peccaminoso non porta all’azione comunitaria; ed è tale solo nei confronti di tale «disposizione». Gesù giudica alla rovescia: il peccatore che pecca è migliore del peccatore che non pecca e respinge verso l’interno l’impulso peccaminoso avvelenando il proprio essere, anche se la comunità patisce un danno, che nel secondo caso le è risparmiato. Ha qui origine la sfiducia in linea di principio, basata sulla più profonda esperienza di sé, per cui anche colui che, in seguito a un «coscienzioso autoesame» – e questo non è il caso del Fariseo che bada soltanto al proprio aspetto sociale moralmente ben pettinato, alla sua «figura in società», o dello Stoico che bada all’appagamento del proprio privato giudizio consistente nel «poter avere rispetto di sé stessi», senza curarsi nel giudizio su di sé del suo essere, ma solo della sua immagine – si ritrova «buono» e «giusto», porta comunque nascosti in sé i germi del «peccato» e si distingue dal peccatore che si sa tale spesso solo in forza dell’ulteriore peccato di un adeguato esame dei suoi moventi di fondo. In questo senso Paolo pronuncia la sentenza (1 Cor. 4,3 e 4) che condanna nettamente non solo ogni falsa «eteronomia», ma anche ogni «autonomia» stoica e kantiana, ogni «farsi giudice di sé stessi»: «Mi è indifferente l’essere giudicato da Voi o da altri giudici terreni: io non oso neppure giudicare me stesso. […] Non mi rendo conto di me, non per questo però sono giustificato. Mio giudice è il Signore». Anche in questa propensione per i «peccatori» non riusciamo a scorgere risentimento.18 Ai due modi di chinarsi verso il più debole corrispondono (tra le altre) due forme originarie di operare ascetico e di relativa

valutazione. In primo luogo, la strana presa di posizione contro il proprio corpo, che in certe circostanze arriva fino all’odio, può portare a un ideale di vita ascetico ed è spesso (come si è già osservato) legata a impulsi repressi di odio e di vendetta. Siffatto sentimento della vita può esprimersi anche in pensieri come «il corpo è il carcere dell’anima» e indurre a ogni specie di autotormento corporale. Qui non è l’amore per il proprio io spirituale il punto di partenza di una punizione della carne necessaria per il proprio perfezionamento e salvezza, bensì un odio primario per il corpo spesso solo in via secondaria cerca di rivestirsi dell’apparenza di una cura per la «salvezza dell’anima». Poggiano analogamente sul risentimento le forme dell’ideale ascetico e del suo esercizio, che offrono soltanto una giustificazione dell’impotenza di impadronirsi dei beni vitali in questione: quando, ad esempio, l’inettitudine a un lavoro redditizio porta all’imperativo della povertà, l’impotenza erotica e sessuale alla castità, l’incapacità di autogoverno all’obbedienza e via dicendo. In quest’ultimo senso Nietzsche si ritiene autorizzato a interpretare anche la sostanza dell’ascetica cristiana.19 L’ideale ascetico gli offre il riflesso del valore di una vita decadente e spossata, il riflesso di un valutare finalizzato a una vita che occultamente cerca la morte (per quanto nella coscienza possa sempre esserci una volontà opposta). In tal caso anche l’ascetica cristiana cadrebbe sotto regole e criteri che hanno la loro fonte nel risentimento a partire dal criterio valutativo che si chiama «sopportazione» del dolore e del male e, nella sfera della nostra presa di posizione verso gli altri, perdono e umiltà. L’ascesi può avere anche origini del tutto diverse e un senso affatto differente. In primo luogo, può significare una semplice educazione a certi saldi scopi nazionali, ad esempio, la guerra, la caccia ecc.: tale fu il senso dell’educazione fortemente «ascetica» spartana. Ma non è questo il caso in questione. Una seconda forma più nobile ed elevata è costituita da un’ascetica che sgorga da pienezza, vigore e unità di vita e trae il suo senso e valore da un’esaltazione e promozione della vita, e non da uno scopo esterno. Un’ascetica siffatta manca certamente di fondazione teorica a meno di presupporre che la vita sia in generale un agente autonomo da ricondursi a fenomeni originari non riducibili né a meccanismi corporei, né di coscienza (sentimenti, sensazioni ecc.), né al loro collegamento. Posta questa premessa, concepita come una

struttura articolata di funzioni e di forme che si offrono e si manifestano nella materia inorganica e nel suo meccanismo, la vita acquista a sua volta valori suoi propri non riducibili a valori di utilità, né a valori sensibili della scala piacere-disgusto, né a valori tecnici. Nell’ambito del presupposto di un’autonomia della vita, la vita più vigorosa non sarà quella che mira a un maximum di meccanismi finalisticamente adattati all’ambiente (meccanismi corporei o strumenti artificialmente prodotti) bensì quella che è in grado di mantenersi, anzi di crescere e progredire, con un minimo di meccanismi. La vita ascetica sarà così l’espressione di una vita vigorosa proprio in quanto le sue regole sono anche destinate a esercitare e forgiare le pure funzioni vitali in sé, il che ha come effetto il progressivo minimizzarsi dei meccanismi a ciò necessari.20 Nel caso tuttavia della profonda ipotesi di Nietzsche relativa all’origine della morale cristiana e in particolare dell’idea cristiana dell’amore, non basta la confutazione, qualora la si consideri falsa, bensì occorre mostrare come egli sia giunto a questo errore e come esso abbia potuto assumere per lui un tale grado di verisimiglianza. La ragione risiede innanzitutto nel misconoscimento della natura della morale cristiana e in particolare dell’idea cristiana dell’amore, unitamente al criterio di valore in sé falso a cui Nietzsche la commisura (e quest’ultimo non è un errore storico e religioso, bensì filosofico). La ragione risiede inoltre negli sfiguramenti effettivi subiti ben presto dalla morale cristiana in seguito all’interazione storica con valori di tutt’altra natura, rimasta in molti modi determinante per la sua storia ulteriore. È indubbio che l’ethos cristiano è inseparabile dalla concezione religiosa che il cristiano ha di Dio e del mondo. I tentativi, peraltro benintenzionati, di dare al suo insieme un senso mondano isolabile dall’intento religioso, di ritrovare in esso i principi di una morale universale «umana» o di una morale aliena da «presupposti» religiosi, sono radicalmente falliti, siano stati condotti da amici o da nemici della religione cristiana. Il punto minimo di collegamento della religione cristiana con la morale cristiana è l’ammissione di un regno spirituale i cui oggetti, contenuti e valori oltrepassano non soltanto ogni sfera sensibile ma l’intera sfera vitale, ciò che appunto Gesù chiama il «regno di Dio». Il comandamento dell’amore è riferito all’uomo in quanto membro del regno di Dio che è

in sé solidale; anche la coscienza dell’unità e della comunità implicita nel mondo cristiano deve essere intesa come unità e comunità nel regno di Dio o concepita come avente in esso il suo fondamento. Per quanto l’amore e la comunità in esso fondata operino abitualmente nelle forme di comunità terrene e si diano da fare per la promozione del bene sensibile, per la liberazione dal dolore e la produzione del benessere, ciò ha valore soltanto se le comunità e le forze d’amore che le tengono insieme hanno le loro radici vivificanti nel «regno di Dio» e a esso si rifanno. Ciò non implica ancora affermare che il «regno di Dio» è «trascendente», si colloca «al di là» o è «immanente» e vivente nel mondo, tantomeno fino a che punto esso sia inteso come una forma di esistenza che comincia dopo la morte o sia sempre «presente» e accessibile all’anima religiosa. In ogni caso, esso è inteso come un livello dell’essere indipendente dalle leggi e dai valori della vita in cui si radicano tutti gli altri livelli dell’esistenza e in cui soltanto l’uomo trova il senso ultimo e il valore del suo esserci. Qualora ciò venga riconosciuto, i valori cristiani (e quindi anche tutti gli imperativi su di essi fondati) verranno necessariamente riferiti a un’unità di misura che – ove sia quella giusta – non potrà che farli sembrare valori decadenti (nel senso biologico): al cospetto di una promozione vitale massimale. E questo è il criterio adottato da Nietzsche. Tuttavia la vita, anche nella sua forma più alta di vita umana, non è mai per il cristiano un «bene sommo», ma è un bene solo in quanto rappresenta (analogamente alla società e alla storia umana) una scena per il sorgere e il manifestarsi del «regno di Dio». Qualora il mantenimento e l’incremento della vita contrastino con la realizzazione dei valori vigenti e sussistenti nel regno di Dio, la vita non vale nulla ed è da gettare qualunque sia il valore della sua espressione in base al principio del massimo vitale. Perciò il corpo non viene inteso qui dualisticamente come «carcere dell’anima» (Platone), bensì come «tempio dello Spirito Santo», in ogni caso comunque solo come «tempio» e non come portatore ultimo del valore. Proprio per questo è detto: «Se il tuo occhio ti scandalizza, strappalo ecc.». L’amore non viene perciò considerato un’attività spirituale al servizio della vita, né la sua «concentrazione più profonda e forte» (Guyau), ma come ciò grazie al cui impulso e moto la vita ottiene il suo più alto senso e valore, tanto che può benissimo insorgere l’esigenza di

rinunciare alla vita, intesa nella sua essenza (non semplicemente alla vita individuale per la vita comune, alla propria vita per l’altrui, a una vita inferiore per una più elevata), se in questo modo si verifica una crescita di valore per il regno di Dio, il cui mistico vincolo, la cui energia spirituale è l’amore.21 Nietzsche, proprio perché concepisce il Cristianesimo a priori unicamente come una «morale» dotata di una «giustificazione» religiosa e non in primo luogo come una «religione», misura i valori cristiani con il metro della quantità massimale di vita da questi consapevolmente rifiutato, ed è quindi costretto a interpretare in generale come segno di una morale del declino l’ipotesi di un livello di essere e di valore che si proietta oltre la vita e non è più relativo a essa. Un simile procedimento è però affatto arbitrario, nonché fondamentalmente falso dal punto di vista filosofico e rigorosamente confutabile. L’idea del bene non può, analogamente all’idea di verità, essere ridotta a un valore biologico. Non possiamo per ora dimostrarlo, ma lo si dà per presupposto.22 Tuttavia, partendo dal medesimo principio, Nietzsche fu costretto ad approdare all’errore e al fraintendimento anche in tutt’altra direzione. Se i comandamenti e i consigli cristiani (specialmente quelli relativi all’amore) vengono separati dal loro riferimento al regno di Dio e alla sfera dell’essere personale spirituale (non soltanto all’«anima» in senso naturalistico) che giunge a manifestarsi nell’uomo, e grazie al quale egli partecipa di quel regno, la conseguenza in ogni caso è che essi finiscono per contraddire in maniera non solo transitoria ma costitutiva le leggi secondo le quali la vita si evolve, cresce e unicamente può svilupparsi. Affermo pertanto che l’amore fraterno cristiano non è inteso originariamente come un principio biologico, politico o sociale. Esso è rivolto – almeno primariamente – al nocciolo spirituale dell’uomo, alla sua personalità individuale, in cui soltanto avviene la partecipazione immediata al regno di Dio. Perciò è del tutto alieno dalle intenzioni di Gesù fondare sulla sua esigenza di amore un nuovo ordinamento statale o un nuovo assetto della distribuzione economica della proprietà. La differenza di ceto tra signore e schiavo, il dominio del potere imperiale, nonché tutti i fattori naturali spontanei che rendono gli uomini ostili gli uni agli altri nella vita pubblica e privata

vengono tranquillamente ammessi. Non si fa parola dell’idea di una «universale fratellanza degli uomini» o dell’istituzione di una «comunità di vita universale» che estingua le differenze tra le individualità nazionali, quale quella elevata dagli Stoici al rango di ideale con le loro idee di «stato mondiale» («cosmopolitico» è un concetto coniato dalla Stoa) e di un diritto naturale e razionale universale; ancor meno della tendenza alla costituzione di uno stato ebraico indipendente o dell’attuazione di una qualunque utopia sociopolitica. Il situarsi del regno di Dio nell’uomo non è connesso a una determinata configurazione degli istituti statali e della struttura sociale. È chiaro che Gesù presuppone quali cardini dell’esistenza le forze e le leggi in virtù delle quali la vita si dispiega, si formano e si sviluppano le comunità politiche e sociali, alle quali competono pertanto anche le guerre dei popoli, le lotte delle classi e tutti gli impulsi in esse operanti e ritiene che tali forze e leggi non possano essere surrogate da nient’altro che dall’amore. Pretese quali la pace universale o la cessazione delle lotte sociali di classe per la conquista del potere statale sono totalmente al di fuori della sua predicazione religiosa. La «pace in terra» da lui richiesta è una beata quiete finale che deve tralucere come dall’alto su tutte le lotte e le contese attraverso le cui forme storicamente mutevoli si va configurando ogni vita e umana società, di modo che gli scopi per i quali quelle lotte sono condotte non abbiano ad apparire ultimi e definitivi, ma ci sia sempre nelle profondità delle persone un luogo sacro in cui, pur nel mezzo di conflitti e scontri, regni pace, amore, perdono. Il che non significa però che abbiano a cessare le guerre e venire meno gli impulsi che portano a esse. In particolare, persino la paradossale richiesta dell’amore per il nemico è tutt’altra cosa rispetto al moderno «purché non ci sia inimicizia!» o all’apprezzamento delle nature incapaci di ostilità per via della peculiarità dei loro impulsi, come – secondo la definizione di Nietzsche – «il moderno animale gregario addomesticato!». Al contrario, la predicazione dell’amore per il nemico poggia sul presupposto che l’inimicizia esiste e nella natura umana sono insite forze non modificabili storicamente che in certe circostanze la producono in modo necessario. Si richiede soltanto che il nemico vero autentico, a me noto come tale, che anch’io combatto

correttamente con i mezzi a mia disposizione, mi sia «fratello nel regno di Dio», che nel combattimento non ci sia comunque odio, soprattutto non ci sia l’odio ultimo, che si rivolge contro la salvezza stessa dell’anima.23 Pertanto ciò che conta come valore non è il cessare o il ridursi degli impulsi di vendetta, potenza, violenza e sopraffazione, bensì il loro libero sacrificio a un impulso inerente, e riconosciuto come tale, a una forma di vita intrinsecamente valida, il libero sacrificio delle azioni e delle espressioni relative agli impulsi citati in favore dell’atto, colmo in sé di valore, del «perdono» e della «pazienza». Chi non sente la vendetta, non è neppure in condizione di «perdonare» e chi semplicemente non sente non può «patire».24 Non c’è errore più abissale del concepire il movimento cristiano in base a confuse analogie con alcune forme del movimento sociale e democratico moderno, vedendo in Gesù – come hanno fatto socialisti cristiani e non cristiani – una specie di «capopopolo», di «politico socialista», di «uomo che sa quanto siano calpestati i poveri e gli emarginati», di «avversario di Mammona» nel senso di nemico dell’economia monetaria come forma di esistenza sociale. Questa immagine di Gesù assai diffusa nella sua epoca influenzò fortemente anche l’immagine personale che Nietzsche ebbe del movimento cristiano al punto da ritenere che si debbano necessariamente rivolgere contro la morale cristiana e il genio della medesima gli stessi contrattacchi e argomenti rivolti contro il socialismo e il comunismo moderno. Diventa così del tutto indifferente lodare o condannare Gesù e la sostanza del Cristianesimo in base al fatto che in essi si sarebbero prefigurate «le tendenze e i giudizi di valore socialisti e democratici dell’età moderna», poiché tale supposizione, che Nietzsche ha in comune con quella specie di «socialisti», è assolutamente falsa e fuori strada. L’«uguaglianza delle anime innanzi a Dio», a cui Nietzsche sempre rimanda come alla radice della democrazia, non è mai stata affermata dal Cristianesimo, qualora venga intesa come qualcosa di diverso dall’eliminazione, precedente il giudizio di Dio sugli uomini, relative ai veri valori umani prodotte dalle situazioni, meschinità, cecità e interessi degli uomini. Che questi però «agli occhi di Dio» debbano risultare tutti di eguale valore e ogni diversità, ogni aristocrazia secondo valore dell’esistenza

umana poggi unicamente sul pregiudizio antropomorfico, sulla parzialità e sulla debolezza, è una tesi del tutto estranea al Cristianesimo e si riferisce piuttosto a Spinoza. Tale visione è radicalmente contraddetta dalle immagini di «Cielo», «Purgatorio», «Inferno», dalla struttura interiormente ed esteriormente aristocratica della società ecclesiale cristiana che si estende costantemente e culmina nell’invisibile regno di Dio. Si deve considerare invece autenticamente cristiana la concezione secondo la quale, dietro l’uniformità di valore tra uomini, razze, gruppi, individui percepita dai nostri occhi che si fermano alla superficie, Dio riconosce un’imprevedibile quantità di differenze di valore e di diversità, proprio come – secondo l’azzeccata espressione di Pascal – un uomo dà prova di «spirito» allorché è capace di cogliere al di là dell’apparenza uniforme la diversità interiore degli uomini. Anche le forme di vita delle comunità cristiane primitive non provano che ci sia alcuna connessione di significato tra la morale cristiana e il comunismo dei beni, inteso secondo gli ideali comunitaristici dedotti dall’eudemonismo democratico. Allora il comunismo dei beni non era che un’espressione esteriore dell’unità «del cuore e dell’anima» di cui parlano gli Atti degli Apostoli: ciascuno aveva la libertà di vendere case e terreni e porne il ricavato ai piedi degli Apostoli. Non si faceva parola di espropriazione artificiosa operata forzosamente dallo Stato con il consapevole intento di garantire il benessere generale, né tanto meno si pensava che la situazione morale degli uomini potesse essere in qualche modo mutata dall’istituzione di un nuovo ordine di proprietà. Anania viene rimproverato da Pietro (cfr. Atti 5,3 e 4) non già per non aver consegnato all’Apostolo l’intero ricavato dei beni venduti, ma espressamente per la sua «insincerità», avendo spacciato per l’intero ricavato della vendita la somma consegnata. Il suo diritto di proprietà è espressamente riconosciuto: «Non sarebbero rimasti forse tuoi (quei beni) anche se tu non li avessi venduti e non li avevi forse a disposizione anche dopo la vendita?». Quel comunismo si fondava su donazioni volontarie, il cui valore etico-religioso risiedeva nell’atto del sacrificare e del «dare» e unicamente l’occasionale libero accordo degli individui nell’interiore comune riconoscimento del valore di un siffatto agire contava per quelle piccole cerchie, circondate da ogni parte da

una mentalità nient’affatto comunistica, e che per di più non tentarono mai di diffondere a livello dello Stato intero la loro forma di vita o di sviluppare a tal fine un’agitazione, come tende spontaneamente a fare la forma comunistica di soddisfazione dei bisogni. A tale forma di vita non corrispondeva infatti, né avrebbe dovuto corrispondere mai, alcuna forma comunistica di produzione. Allo stesso modo, anche la curvatura dell’idea cristiana dell’amore in senso «sociale», detta più tardi caritas, presuppone comunque l’ordinamento individualistico della proprietà. Solo chi scambiasse la somiglianza del nome con la somiglianza del contenuto potrebbe misconoscere questo fatto. Il comunismo non fu mai sollecitato dai cristiani sulla base dello spirito morale del Vangelo né in nome della «giustizia» della distribuzione dei beni, né quale esito naturale necessario di uno sviluppo finalizzato all’incremento di interessi reciproci. Là dove si realizza il comunismo è il frutto semplicemente di atti liberi di amore e di sacrificio (ad esempio nelle forme di vita comunitaria dei conventi), il cui valore risiede esclusivamente negli atti stessi e nel loro valore di testimonianza della libertà ed elevatezza spirituale e religiosa degli offerenti in quanto persone. Soltanto là, dove la «giustizia» cessa di imporre i suoi comandamenti sulla base della legislazione positiva già in vigore, comincia l’azione cristiana di amore e di sacrificio. Una concezione, tipica di molti filosofi moderni, secondo cui l’amore diventerà sempre più superfluo con il subentrare, al posto dell’amore e del sacrificio, di un crescente riconoscimento di diritti da parte della legge, è in contrasto diretto con lo spirito della morale cristiana. Anche nel caso in cui divenga norma di legge l’assistenza affidata prima alla libera azione di carità – come ad esempio nel caso del passaggio dalle Chiese e dai privati allo Stato dell’assistenza e cura dei poveri o della legislazione sociale moderna – ciò non significa che per questo l’amore in sé stesso sia diventato «superfluo» e sia stato rimpiazzato dalla legge e dalla giustizia. Per chi sia mosso dalla morale cristiana ciò significa soltanto che l’amore deve a questo punto rivolgersi a mete ancora più lontane, più spirituali, più alte. Soltanto laddove il mero concatenamento degli interessi, che determina l’agire e il volere in modo tale che l’operazione utile ad A giovi anche a B e a C, cessa di funzionare per il bene della generalità,

comincia a diventare visibile nella sua purezza l’azione cristiana dell’amore. Essa è pertanto connessa all’idea di un «sacrificio» di portata definitiva, non transeunte, ossia tale che nel computo complessivo produca un aumento della somma dei vantaggi per la società. Anche se filosofi come Herbert Spencer pensano che l’«inclinazione altruistica» (che pongono al posto dell’amore) si dispieghi e «sviluppi» con il crescere del concatenarsi degli interessi e ammettono così alla fine una meta «ideale»25 del progresso in cui viene eliminata ogni specie di «sacrificio», l’impulso che procede da questo concatenamento non ha nulla a che fare con l’«amore» autentico.

Note al capitolo I. Per una fenomenologia e sociologia del risentimento 1 «Allorché nei suoi interessanti studi sulla genealogia del sentimento di vendetta Steinmetz ammette una “vendetta indeterminata” quale livello preparatorio di una “vendetta indirizzata” e cita a sostegno il fatto che negli stadi più primitivi di sviluppo etnico in conseguenza di un’offesa subita vengono annientati anche animali (ad esempio, il primo cavallo che capita) o alberi o oggetti inanimati, egli misconosce l’essenza dell’intenzione di vendetta, la quale, a differenza dai meri stati affettivi, quali collera, ira, rabbia ecc., ha sempre una destinazione. Anche a livello civilizzato si hanno esplosioni di rabbia: quando ad esempio qualcuno in preda alla collera mena colpi “a chi capita, capita”. Questi stati affettivi non hanno nulla a che fare con la vendetta. Se si tratta invece in quei casi di vendetta allora possono esserci ancora altre possibilità. L’oggetto distrutto può assumere nei confronti dell’oggetto a cui è indirizzata la vendetta il ruolo dell’“appartenenza” effettiva o presunta (in qualità, ad esempio, di proprietà o possesso), oppure può avere una funzione simbolica, che non è detto debba essere durevole, anzi, può essere solo momentanea (“in questo momento per me rappresenta lui!”). Non si tratta soltanto della distruzione di immagini, di fotografie trafitte, ma in certi casi anche del fare a pezzi un foglio di carta o un fazzoletto. Infine la vendetta può. arrivare a essere “senza oggetto” in quanto comprende non un oggetto delimitato, ma l’ambiente intero in cui ha avuto luogo l’offesa: un tratto di paese, una città ecc. o magari il mondo intero come “gli altri” in generale. Un fatto del genere si ebbe, ad esempio, di recente con la strage del maestro Wagner. Anche qui però la vendetta ha un destinatario. In tutti i casi di faida familiare o di stirpe (vendetta di sangue) non c’è alcun trasferimento secondario dell’oggetto della vendetta all’appartenente al ceppo dell’offensore (magari in vista del dolore dell’offensore per via della compassione che lo legherebbe al parente che funge da oggetto della vendetta) come si è macchinosamente teorizzato: semplicemente la famiglia o la stirpe è vista come l’autore stesso, a cui il membro si rapporta a guisa di organo (come quando taglio il piede a chi mi mozzò la mano). Del resto sembra che il nucleo ultimo del sentimento di vendetta non sia legato a un’offesa o a una diminuzione del senso di sé operata da un altro individuo, bensì possa essere evocato da una diminuzione del senso di sé (o della diminuzione del valore di un altro patita simpateticamente) operata da noi stessi: succede così quando si dice: “mi picchierei da solo, mi strapperei i capelli” ecc. Questi fenomeni non hanno ancora nulla a che fare con l’atto di pentimento o con il bisogno di espiazione e di punizione, che sono atti spirituali volti unicamente alla sfera dei valori etici e non impulsi vitali.» Cfr. S.R. Steinmetz, Ethnologische Studien zur ersten Entwicklung der Strafe, Leida 1894. [1915] 2 Non c’è letteratura più piena di risentimento della nuova letteratura russa. Tra gli eroi di Dostoevskij, Gogol’, Tolstoj brulicano gli eroi del risentimento. Il fatto è una conseguenza dell’annosa oppressione del popolo a opera dell’autocrazia e della irriducibilità delle passioni prodotte dall’autorità per la mancanza di parlamento e di libertà di stampa. 3 «Non consideriamo l’angoscia, che si presenta geneticamente come paura divenuta senza oggetto, e come ogni paura dapprima era paura di qualcosa di determinato, la cui rappresentazione ormai non è più presente però alla chiara coscienza. Neppure consideriamo quell’angoscia che è primariamente un modo del senso vitale stesso e che invece fa temere via via contenuti sempre diversi al di là del loro effettivo carattere di pericolosità. La prima angoscia si elimina facilmente: la seconda non si elimina quasi mai. La misura della pressione angosciosa generale, sotto cui vivono singoli e interi gruppi, è assai varia e di grande rilevanza per l’intera condotta dei soggetti in questione.» [1915] 4 Cfr. il saggio dell’Autore: Über Selbsttäuschungen, «Zeitschrift für Pathopsychologie», I. Band, p. 112. 5 Così bastò al capitano Köpenick, che a dire il vero non aveva molto l’aspetto dell’ufficiale

anche per chi lo avesse guardato distrattamente, una semplice vaga apparenza di «uniforme» (portata assai fuori ordinanza) per rendere il Sindaco e via dicendo pronti ai suoi ordini. 6 Cfr. i Principi di psicologia (1890) di W. James nella traduzione tedesca di M. Dürr (Lipsia 1909), pp. 373 ss. [1915] 7 J.M. Guyau, Esquisse d’une morale sans obligation ni sanction. [1915] 8 Il comportamento di Antonio nei confronti di Tasso, ampiamente soffuso di risentimento, è certamente un altro precipitato di queste esperienze vissute di Goethe. [1915]

Note al capitolo II. Risentimento e giudizio morale 1 Cfr. in proposito gli sviluppi che W. Worringer ha ricavato nel suo libro Abstraktion und Einfühlung dalle ricerche di Riegl. [1919]

Note al capitolo III. La morale cristiana e il risentimento 1 Cfr. Zur Genealogie der Moral, I, 8. 2 A ragione è stato detto che il comportamento

del padre nel confronto dei due figli è «uno

schiaffo in faccia» all’idea antica di giustizia. 3 Solo nella pederastia la terminologia muta: lì il φιλόμενος è l’uomo più giovane e imperfetto, l’ἐρασυής il più anziano e perfetto; rimane tuttavia anche in questo caso un rapporto di diseguaglianza tra i valori. 4 Questo pensiero è espresso con particolare precisione anche nei paragrafi della Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis relativi all’amore. 5 «La più tarda tesi teologica secondo cui Iddio avrebbe creato il mondo “a sua glorificazione” non corrisponde allo spirito del Vangelo e deve essere intesa come la reviviscenza di un motivo antico che si sovrappone alla teologia cristiana.» [1915] «Soltanto l’affermazione che Dio si glorifica nella sua creazione d’amore corrisponde allo spirito evangelico.» [1919] 6 La soddisfazione più profonda non è quindi relativa a ciò che l’amore consegue (inteso come atto di aspirazione) ma è unita all’amore in sé stesso. «È perciò più grande la gioia di Dio nel dispensare i Suoi doni, che la nostra nel riceverli.» Cfr. Theotimus di Francesco di Sales, libro I, cap. 11. L’errore capitale della concezione antica dell’amore fu effettivamente l’averlo sussunto sotto il concetto di «aspirazione» e di «bisogno». Per quanto l’aspirazione o il tendere desideroso verso l’oggetto amato possano condizionare l’amore, quest’ultimo rimane tuttavia un atto del tutto distinto da quel condizionamento, un atto cioè in cui troviamo pace e soddisfazione in un valore, poco importa se esso sia realizzato o si offra come da realizzarsi entro un’aspirazione. Cfr. in proposito il mio libro Zur Phänomenologie und Theorie der Sympathiegefühle. [1915] 7 Aristotele dimostra esattamente nell’Etica Nicomachea la quantità di amore che secondo giustizia si deve assegnare alle singole classi di persone prossime: genitori, amici, figli, estranei ecc. Secondo l’idea cristiana invece ciò avrebbe avuto senso soltanto per la benevolenza (e più precisamente per la beneficenza) che è soltanto una conseguenza dell’amore: per l’amore in sé stesso non ha alcun senso, giacché è soltanto la grandezza del valore dell’atto d’amore che di volta in volta decide del valore delle persone da amare. È un fatto che l’idea di giustizia, per quanto oltrepassi il fattore razionale del «tanto per tanto» e pensi in qualche modo di determinare ciò che a ciascuno compete in proprio, suppone già l’amore. Anche chi rendesse sempre tanto per tanto nel recare danno, nel reprimere, nell’uccidere, sarebbe, da quel punto di vista razionale, «giusto», senza potere per altro pretendere con ciò alla virtù etica designata con il nome di «giustizia». 8 Ovviamente il problema capitale riguardo all’atto d’amore è: se sia semplicemente un affinamento, una sublimazione, una trascolorazione di impulsi originariamente di inclinazione sensuale – ivi compreso l’impulso della partecipazione affettiva vitale e infine della più violenta espressione di questo nella spinta verso l’altro sesso – oppure se si tratti di un atto originariamente spirituale, strutturalmente indipendente dall’impianto corporeosensibile, che intrattiene con impulsi e sentimenti derivanti dall’impianto corporeo-sensibile soltanto certe relazioni per cui le tensioni legate agli impulsi divengono determinanti quanto alla scelta e alla vivacità secondo cui e con cui di volta in volta l’oggetto intenzionale dell’amore ci impegna fattualmente. La seconda tesi è la convinzione implicita in linea di principio anche nell’idea cristiana dell’amore. […] Basti qui dire questo: se la tesi è vera, la simpatia vitale e sensibile con la sua legittima gerarchia di gradi in funzione della somiglianza tra gli esseri ecc. non può essere considerata fonte dell’amore, bensì soltanto una forza che lo limita e lo distribuisce ponendolo al servizio degli scopi vitali, senza tuttavia perciò renderlo un risultato o un prodotto dello

sviluppo vitale. 9 Una personalità colma di risentimento è, ad esempio, il padre della Chiesa Tertulliano, di cui anche Nietzsche cita un passo in cui basa la beatitudine delle anime in Paradiso specialmente sul fatto di sbirciare i tormenti dei dannati. Ma anche il suo famoso «credo quia absurdum, credo quia ineptum», nonché l’intera sua esagerata presa di posizione nei confronti della cultura e della religione antiche, mostrano quanto spesso egli si limiti a usare i termini cristiani per sfogare la sua inimicizia contro i valori antichi. Una egregia descrizione del formarsi di un Cristianesimo del risentimento è fornita anche dalla novella di C.F. Meyer, Der Heilige. 10 Deliberatamente limitiamo gli excursus a questo aspetto vitale e prescindiamo dal fatto che i puri atti dello spirito con le loro leggi, i loro oggetti e le relazioni intercorrenti tra questi ultimi non si possono in alcun modo capire sulla base della «Vita» in nessuna delle sue versioni filosofiche. Prescindiamo dal fatto che ci sono intere serie di valori e di atti relativi che sono indipendenti dai valori e dagli atti vitali. La «sicurezza» e «intangibilità» del cristiano è in primo luogo sicurezza e intangibilità all’interno di un mondo essenzialmente al di là della vita e dei suoi destini possibili. Dal momento però che Nietzsche, che avanzò la tesi della discendenza dell’idea cristiana dell’amore dal risentimento, non riconosce questa affermazione e vuole sussumere addirittura l’idea di verità ai «valori vitali», non possiamo accettare questa tesi. Ci accontenteremo di mostrare che, anche sulla base della sua presupposizione che il valore sommo è il massimo vitale, le sue tesi sono errate. 11 «La “letizia” [Seligkeit] in senso cristiano è quindi caratterizzata dal fatto di permanere intatta nel centro dell’anima [Seele] nel mutare e variare degli stati d’animo citati portando con sé nella vita vissuta stessa la coscienza della propria indistruttibilità per opera di agenti esterni.» [1915] 12 I Fioretti raccontano al cap. X che Francesco, alla domanda perché proprio lui fosse stato eletto a ricondurre con la sua predicazione gli uomini alla vita vera, abbia risposto: «I suoi santi occhi non videro tra i peccatori nessuno più misero di me, e per adempiere l’opera mirabile che si era proposta non trovò sulla terra creatura più miserabile: ha scelto me per svergognare il mondo con la sua nobiltà, la sua superbia, la sua vigoria, la sua bellezza, la sua saggezza…». Si potrebbe essere tentati di vedere qui risentimento. Invece con le parole «nobiltà, superbia, vigoria, bellezza, saggezza del mondo» e «svergognamento» delle medesime si intende soltanto la loro relativa inferiorità rispetto ai valori del regno di Dio, che d’altra parte non trae il suo valore dall’opposizione al «mondo», bensì lo porta semplicemente in sé stesso indipendentemente dai «valori del mondo». 13 Un moto dell’animo nato dal risentimento è anche ciò che Schopenhauer chiama «compassione». Infatti secondo Schopenhauer il suo significato non risiede nella sua qualità di espressione d’amore – egli vuole piuttosto ricavare l’amore dalla compassione – né risiede in un fattore che porti al voler bene e a fare del bene, bensì soltanto in una presunta interiorizzazione dell’identità metafisica della volontà in sé stessa dolente in tutti gli individui. Ogni voler bene e fare del bene non potrebbe che recedere da questa conoscenza metafisica e impelagarsi di nuovo nel mondo dell’individuazione. Perciò ai lamenti dei suoi amici relativi all’infelicità e alla miseria Schopenhauer non sa rispondere altro che: «Vedete quanto è vera la mia filosofia!». 14 Cfr. la conclusione dei versi di santa Teresa: perché anche se non sperassi come spero, amerei nondimeno come amo. Cfr. anche Franz Brentano, Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis (Note), oppure il passo della preghiera in cui santa Gertrude esprime il desiderio che Gesù possa essere piccolo e povero come lei e lei possa avere ogni onnipotenza e onniscienza (come Dio), per rinunciare e

abbassarsi a Gesù (cfr. Preces Gertrudianae); oppure il desiderio di Meister Eckardt «di preferire di stare all’inferno con Gesù piuttosto che in cielo senza di lui». Passi siffatti – e se ne potrebbero raccogliere a volontà – mostrano come sia affatto infondata l’asserzione di Immanuel Kant e di molti altri che ogni riferimento a Dio nell’agire morale sia anche mettere in conto premio e castigo e sia quindi un elemento eudemonistico ed egoistico. «Nulla mi è dolce che non porti a Dio: possa il Signore togliermi ciò che mi vuole dare e darmi sé stesso» (Agostino, Enarr. 2). 15 «È evidente che con il termine “attenzione” non si intende qui un’autoanalisi, bensì il badare e occuparsi del proprio bene.» [1919] 16 Nessuno ha trattato questo tema con maggiore acume e chiarezza di Aristotele nell’Etica Nicomachea. Cfr. il capitolo del libro IX dedicato a «L’amore di sé»: l’amico che sacrifica all’amico possessi e vita compie l’atto supremo dell’«amore di sé». Cede infatti a favore dell’altro i beni inferiori, ma con quest’atto di dedizione riveste sé medesimo «della gloria dell’azione nobile ossia del bene più alto». 17 Non si intende con ciò giustificare ma solo rendere comprensibile quella espressione. 18 Malebranche riporta la frase di san Paolo a fondamento della sua teoria del senso interno rivolta contro il suo maestro Cartesio e la sua tesi del primato di evidenza della percezione di sé nei confronti della percezione esterna. Cfr. De la recherche de la vérité, I. 19 A questo proposito Nietzsche non considera che secondo la morale cristiana sono altamente valutati non già povertà, castità, obbedienza, bensì soltanto gli autonomi atti di libera rinuncia alla proprietà, al matrimonio, al proprio privato volere considerati valori effettivi o positivi. J.H. Newman chiama pertanto «autentica ascesi» il fatto «che ammiriamo l’elemento terreno nel momento in cui ce lo vietiamo». 20 Si prendano come esempio gli esercizi di respirazione ecc. dello yoga indiano. 21 Perciò Gesù stesso subisce la morte in croce (nel senso paolino) per amore e per un impulso di sacrificio del suo essere già in Dio a vantaggio dell’umanità. 22 Un’approfondita fondazione di questa tesi e una confutazione di ogni «etica biologica» che ponga tutti i valori in relazione funzionale alla vita viene rimandata qui dall’Autore alla sua Ethik. 23 Con finezza e colpendo nel segno dice Richard Rothe: «I cristiani combattono, come se non combattessero». 24 «Perdonare» è un atto positivo di libero sacrificio del valore della punizione: è un atto quindi che presuppone l’impulso di vendetta e non consiste certo nella mancanza pura e semplice di quest’ultima. Parimenti il «sopportare», ad esempio, un’offesa non è – come ritiene Nietzsche – un subire meramente passivo, un lasciar accadere, bensì una specifica condotta positiva della persona nei confronti dell’impulso a rifiutare l’offesa: un ripudio positivo di tale impulso. Perciò anche la morale cristiana rifiuta l’abolizione della sensibilità al dolore o il deliberato travisamento del suo significato per via di autosuggestione nel senso, ad esempio, della dottrina stoica, secondo cui «il dolore non sarebbe un male» e semplicemente offre una via nuova per patirlo «giustamente». 25 La situazione dell’«equilibrio sociale».

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Frontespizio L’autore Avvertenza Perché oggi - di Laura Boella Max Scheler e la riabilitazione della vita emotiva Il risentimento e la crisi contemporanea Il risentimento e la vita morale Bibliografia IL RISENTIMENTO I. Per una fenomenologia e sociologia del risentimento II. Risentimento e giudizio morale III. La morale cristiana e il risentimento

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