L'opera di Samuel George Frederick Brandon ricostruisce lo svolgimento del processo a Gesù e gli accadimenti che ha
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Italian Pages 320 [311] Year 1974
S. G. F. Brandon
Il processo a Gesù Qual è il valore storico delle narrazioni evangeliche che concernono il processo a Gesù? Fino a che punto può spingersi chi intenda ricostruire nelle sue grandi linee un simile avvenimento, lavorando d'interpretazione su testi che presuppongono, essi stessi, un'interpretazione? Il cammino percorso in questa direzione da S. G. F. Bran don - un pastore anglicano profondamente specializzato nello studio delle origini cristiane - è stato molto lungo. Dopo aver analizzato con scrupolo critico in altre pubbli cazioni i rapporti tra Gesù e il movimento zelota e le cir costanze della caduta di Gerusalemme nel 70 d.C., !"Autore affronta in questo libro il problema del processo a Gesu. utilizzando tutte le conoscenze storiche disponibili, com prese quelle che si possono desumere dai rotoli del Mar Morto ritrovati nel dopoguerra. l risultati di quest'impresa. condotta con grande impegno e rigore scientifico, aprono ai lettori italiani orizzonti pressoché sconosciuti, permet tendo di vedere in una luce storicamente attendibile tutta la vicenda di Gesù e le origini stesse del cristianesimo. Nell'analisi dei racconti evangelici, il libro melle in luce la complessa sovrapposizione degli strati narrativi chia rendo molti dei loro significati, anche politici. In particola re, la ricerca di Brandon rivela le numerose contraddizioni dei vangeli, in larga parte riconducibili al fatto che vi sono confluiti due diversi filoni: la visione che avevano di Gesu i suoi diretti seguaci legati alle vicende della Palestina ebraica, e !"altra visione, profondamente contrastante con la prima, elaborata in parallelo da Paolo di Tarso, tesa a organizzare il cristianesimo in un credo soprannazionale nell'ambito di un mondo ellenizzato, dominato dalla po tenza di Roma. In tal modo Brandon riesce a rendere largamente intelli gibile il racconto del processo a Gesù di Nazareth, libe randolo dalle 'incertezze e dalle ambiguità entro le quali i testi evangelici ce lo hanno tramandato.
S. G. F. Brandon, morto nel 1971 all'età di sessantaquattro anni, studiò al College of the Resurrection di Mirlield e all'Università di Leeds. Nel 1939 entrò nel Royal Army Cha plains Dept. e partecipò alle campagne di Dunkerque. Nordafrica e Italia. Nel 1951 rinunciò all'incarico per diven tare professore di religione comparata aii"Università di Manchester, dove è stato preside della facoltà di teologia. Ha pubblicato: � The Fall of Jerusalem and the Christian Church » (1957); � Man and His Destiny in the Great Religions" (1962); "Creation Legends of the Ancient Near East" (1963); "History, Time and Deity" (1965); "Jesus and the Zealots » (1967); � The Judgement ol the Dead .. (1967); e ha curato il � Dictionary of Comparative Religion .. (1970) e « Milestones of History ... vol. 1: "Anr.iP.nt FmnirP.s .. (1971).
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S. G. F. Brandon
Il processo
a
Gesù
Edizioni di Comunità
Titolo originale dell'opera The Trial of Jesus of Nazareth (B .T. Batsford Ltd, Londra, © S.G.F. Brandon, 1 968) Traduzione di Matilde Segre
© Edizioni di Comunità - Milano 1974 CL 25-0119-8
Indice
Introduzione di Bruno Segre
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Prefazione
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l. Storia o teologia?
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2. Il contesto storico e i suoi enigmi : la Giudea dal 4 a.C. al 70 d.C.
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3. I cristiani di estrazione gentile e la caduta di Gerusalemme nel 70 d.C.
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4 . Lo scandalo della croce romana: la strada scelta da Marco
1 47
5. Altre versioni del processo a Gesù : i vangeli di Matteo, Luca e Giovanni
1 93
6 . La realtà storica: che cosa accadde?
247
7. Il processo a Gesù nella tradizione e nell'arte cristiana antica
265
Le più antiche testimonianze sul processo a Gesù
283
Bibliografia
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Indice dei nomi
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Introduzione
l. Alle narrazioni evangeliche, che presentano in forma artico lata una paradigmatica situazione « originaria », tutti i cristiani si sono potuti di continuo ricondurre, in modo tale che non solo la specifica esistenza e i comportamenti dei singoli, ma anche gli usi, i costumi, le norme e i vincoli sociali e di potere delle diverse chiese hanno sempre attinto di n - grazie appunto all'ininterrotta pos sibilità di ricollegarsi direttamente con l'« origine » - la più pre ziosa delle legittimazioni, equivalente a un contrassegno di assoluta autenticità spirituale. In termini obiettivi, lungo l'arco della storia del cristianesimo i vangeli hanno soprattutto funzionato quali depositi inesauribil mente efficaci di rappresentazioni mitiche. Con il loro narrare - sia pure in chiave realistica - una serie di vicende qualitativamente eccezionali, che, culminando nella morte e nella resurrezione del Cristo, venivano a collocarsi in una dimensione temporale privi legiata, in una sorta di tempo senza tempo, in un passato per così dire assoluto - di fronte al quale non aveva senso domandarsi alcun perché, dato che proprio quel passato si poneva come il perché dell'intiera storia umana ( anzi, cosmica) -, i vangeli hanno garantito a tutte le denominazioni della cristianità occasioni ripe tute e in parte cangianti di identificazione, fornendo loro, insieme con la certezza di un ordine universale, le radici della fede nello speciale carattere sacro delle loro istituzioni, e la giustificazione soprannaturale e metatemporale della loro missione nel mondo, cioè del loro realizzarsi entro ed oltre i confini della natura e del tempo. Sotto questo profilo, i testi evangelici hanno dunque storica mente adempiuto una funzione del tutto analoga a quella che, presso tradizioni religiose diverse, hanno svolto le rispettive fonti mitiche consentendo a popoli e a comunità religiose di conferire 7
una dimensione d'eccellenza alla propria vicenda empmca (cioè socio-culturale e politica), mediante il regresso ideale a un momento privilegiato del passato, a una genesi mitica, appunto : basti pensare alla Torah e al suo ruolo nella tradizione ebraica, oppure all'Avesta nel quadro dello sviluppo dell'antica civiltà iranica. Sin dai tempi più remoti, però, si trovano all'interno della tradi zione cristiana tracce rilevanti di un movimento dialettico (palese del resto, sia pure in modi diversi e fra loro inconfondibili, in tutte le grandi correnti della vita religiosa ) tendente ad emancipare l'idealità cristiana da una passiva aderenza ai contenuti immagi nativi o storici della rivelazione, onde permettere alla fede concre tamente vissuta di disporsi - al di là d'ogni vincolo al rigido ed esteriore dato delle Scritture - nella dimensione di un rapporto essenziale, puramente spirituale, fra l'uomo e la divinità. Non v'è religione, si badi, per la quale l'abbandono della base mitica ori ginaria (o di alcuni suoi elementi: specialmente di quelli che espri mono, glorificandole, situazioni di potenza e di dominio, oppure legittimano un ordinamento gerarchico ed esaltano l'obbedienza a tale ordinamento, proponendo all'uomo la salvezza nei termini di un destino di sottomissione, di pazienza) non rappresenti, più che una svolta, un'autentica crisi. L'esempio classico del grande cambiamento di direzione e della critica di posizioni prima soste nute è costituito senza dubbio da quella forma di coscienza reli giosa che si afferma nei libri profetici dell'Antico Testamento, dove, accanto a una lotta senza quartiere condotta in termini inequivo cabili, e spesso sconvolgenti, contro il culto ingenuo e pagano delle immagini, viene proposto anche un sostanziale abbandono della leggenda dei patriarchi quale centro dell'interesse religioso e poli tico del popolo ebraico. Ma concederebbe troppo agli schemi di certo positivismo chi ritenesse che tali movimenti dialettici, riproponendosi di continuo all'interno delle principali tradizioni religiose, potessero davvero tradursi in un superamento irreversibile delle illusioni, dei fan tasmi e delle rappresentazioni che riempiono le fasi primitive della coscienza religiosa: come se una successione di stadi dello sviluppo culturale finisse per innalzare necessariamente gli uomini, grado 8
dopo grado, alle trasparenze di una concezione scientifica della realtà. In effetti, anche là dove il pensiero religioso va oltre i propri cominciamenti mitici, non accade mai che esso abbandoni del tutto l'originario terreno del mondo immaginativo nel quale affondano e trovano alimento le sue radici. E ciò appare tanto più evidente per il cristianesimo che, proprio nella costante aderenza a determi nati moduli e ai materiali stessi della sua base mitica, ha sempre trovato racchiusa una grande parte della sua forza storica : tant'è che, sin dal suo primo impegnarsi nella lotta per il proselitismo e la supremazia fra le principali religioni orientali - che caratte rizzò la fine del mondo antico -, ben difficilmente il cristianesimo sarebbe riuscito ad affermarsi e ad avere il sopravvento se non avesse avuto una solida base mitica e non vi si fosse poi sempre sostanzialmente attenuto, al di là di tutti i successivi conati di trasformazione. È vero infatti che, soprattutto ad opera dei mistici, non ci si è stancati nei secoli di proporre - quasi con i caratteri di un Leitmotiv - il rifiuto in blocco non solo degli elementi mitici, ma anche degli elementi che formano il contenuto storico della fede (cosicché ad esempio Meister Eckhart - per il quale il farsi uomo di Dio non doveva più essere inteso come un fatto, fosse esso mitico o storico, bensì come un processo che si rinnova con tinuamente nella coscienza umana - poteva scrivere : « Il Padre genera il Figlio suo continuamente, e dico di più : Egli non generò soltanto me, Suo figlio, ma genera me generando Sé e genera Sé generando me » ) Ma di contro a simili reiterate proposte di radi cale rifiuto della pretesa oggettività dell'elemento mitico, nella storia delle chiese cristiane hanno largamente predominato - di certo perché più consoni alle esigenze istituzionali e di potere delle gerarchie - sviluppi dogmatici che, nelle grandi linee, erano soprattutto intesi ad esprimere in termini di puro pensiero le intui zioni mitiche racchiuse nella tradizione scritturale, coordinando in un compiuto sistema teologico-metafisica i diversi piani del l'Essere e della verità e ponendo gli uomini al riparo dai rischi del dubbio, dello scetticismo e della miscredenza. E in tal modo si è storicamente verificato che le varie denominazioni cristiane .
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hanno lasciato esposte le loro dottrine fondamentali a una pene trazione tanto estesa ed essenziale di determinati nuclei di rap presentazioni mitiche che qualsiasi tentativo di rimuoverli si è sempre presentato come un pericolo mortale per la stessa impal catura dogmatica del cristianesimo. 2. Tuttavia, a partire dalla seconda metà del secolo XIX, una svolta critica di tipo nuovo investe in modo vigoroso il tradizio nale approccio dogmatico alle Scritture cristiane. Tale approccio si trova messo a dura prova, e viene progressivamente problema tizzato, a misura che si sviluppano i lavori di scavo operati con gli strumenti della moderna ricerca filologica e storiografica dalla critica biblica e, in particolare, neotestamentaria. Se l'esigenza, remota e sempre risorgente, delle correnti mistiche era quella di sottrarre il rapporto uomo-Dio alla mediazione di un mondo di immagini e di simboli che - nella determinatezza e nella stessa forza suggestiva delle loro rappresentazioni - pretendevano pro fanamente di porsi come oggettivi, la critica neotestamentaria si dimostra ben presto capace di procedere molto lontano su una strada distinta - anche se qua e là parallela a quella dei mistici -, grazie agli sviluppi inediti di un discorso fortemente nutrito di interessi storiografici e di supporti metodologici originali. Mentre sul versante della mistica il problema di fondo era quello di con quistare al sentimento religioso le condizioni perché esso dispiegasse in piena libertà e genuinità la sua intrinseca dinamica, sul versante della critica scritturale va subito emergendo l'istanza - per certi versi affine - di lasciare che l'analisi dei testi si muova in uno spazio culturale vieppiù affrancato da remote di natura dogma tico-dottrinale e d'origine chiesastica: in uno spazio, cioè, ave le sia permesso di sottoporre le Scritture al vaglio di una considera zione meramente storiografica, cogliendo in esse la cifra del loro esprimere, in termini già mediati, la concreta religiosità peculiare della più antica comunità cristiana di Palestina. Sarebbe impensabile tentare, nei limiti di queste note, un'elen cazione anche soltanto sommaria delle pregiudiziali di natura dog matica con le quali gli studi della moderna critica delle Scritture si lO
sono dovuti storicamente confrontare. Se è vero che nell'ambito delle tradizioni chiesastiche i libri canonici del Nuovo Testamento sogliono essere considerati (e in un certo senso non v'è dubbio che siano) un insieme solidale di testi, caratterizzati da un orientamento dottrinale omogeneo, bisognava innanzitutto disporsi ad ammettere che, in un'ottica diversa, tali libri costituiscono già, piuttosto, una pluralità eterogenea di punti d'arrivo; e, muovendo da questa prima constatazione, si trattava poi di accettarne con chiarezza tutte le implicazioni. Composti in effetti fuori della Palestina alcuni decenni dopo la morte di Gesù, i libri che formano il canone del Nuovo Testamento sono già in varia misura il risultato di com plesse stratificazioni redazionali, che riflettono le esperienze comu nitarie e gli indirizzi politico-religiosi di gruppi cristiani agenti entro contesti ben lontani, e talvolta profondamente diversi, dal particolare ambiente in cui Gesù aveva condotto la sua esistenza e la sua predicazione. In particolare le quattro narrazioni evange liche - che nella forma espressiva di racconti realistici, familiare al loro ambiente e alla loro epoca, rispecchiano prevalenti finalità catechistiche e di edificazione - si presentano, all'analisi critica, come testi nei quali le speculazioni cristologiche della primitiva chiesa giudaico-cristiana di Gerusalemme, nonché quelle, spesso contrastanti, di Paolo di Tarso e altre ancora, posteriori, si me diano con le istanze teologico-politiche di alcune comunità del cristianesimo extrapalestinese fiorenti nell'ultimo quarto del I se colo. Si tratta pertanto di narrazioni che nascono già da un primo ma decisivo lavoro di reinterpretazione del messaggio di Gesù, onde adattare il messaggio stesso alle esigenze poste dagli sviluppi di un'organizzazione religiosa che andava ormai articolandosi al di fuori del suo contesto originario. Ricche di richiami a remoti ma teriali mitici, irte di elementi simbolici, il cui significato va spesso individuato entro un complicato universo di inespresse elaborazioni dottrinali (religiose ed etico-politiche), queste storie evangeliche propongono indubbiamente alla critica problemi ermeneutici di soluzione ardua e spesso incerta. E come tutte le « storie » com poste per soddisfare non tanto interessi storici, nel senso tecnico del termine, quanto esigenze apologetiche, di proselitismo e di glorifi11
cazione, esse richiedono nell'interprete soprattutto la disposizione a eludere gli schemi obbligati e le pastoie dogmatiche delle esegesi ufficiali: di quelle esegesi, cioè, che le gerarchie delle diverse deno minazioni religiose sogliano destinare all'edificazione dei credenti. 3. Sotto il profilo anzidetto, del resto, il caso dei vangeli pre senta singolari analogie con quello di vari libri « storici » dell'An tico Testamento. E non è certamente occasionale il fatto che la critica storica delle Scritture - la quale, come s'è visto, si sviluppa con particolare rigoglio dopo la metà del secolo XIX - rintracci il suo archetipo metodologico proprio in quella rivendicazione incon dizionata della libertas philosophandi che per primo espresse Ba ruch Spinoza ( 1632-77 ) nel suo Trattato teologico-politico: un libro che le cattedre confessionali più autorevoli del suo tempo ( sia dunque i rabbini delle sinagoghe sefardite dei Paesi Bassi, sia i notabili delle varie chiese, al di qua e al di là della cortina che divideva allora l'Europa della Riforma da quella della Con troriforma) non tardarono a bollare come « nefasto e sacrilego ». È vero che un paio di generazioni innanzi, nel clima intellettuale dell'Olanda degli inizi del Seicento - esemplarmente vivace e, sotto molti aspetti, tollerante a fronte delle propensioni per il più crudo e persecutorio fanatismo diffuse un po' dovunque nel cupo quadro dell'Europa della guerra dei trent'anni -, l'esegesi biblica aveva già compiuto sensibili progressi grazie agli stimoli dell'am pio dibattito teologico e politico avviato tra arminiani e gomaristi sui temi della predestinazione e dei rapporti fra chiesa e stato. Sotto la spinta di questa disputa Ugo Grazio ( 1 583-1645), che ne era stato un importante anche se sfortunato protagonista, aveva significativamente spezzato una lancia (nelle sue Annotationes al l' Antico e al Nuovo Testamento) a favore dell'uso, in sede di ese gesi delle Scritture, di un metodo storico teso a circoscrivere al massimo il concetto della « divina rivelazione », in modo da ren derlo accettabile a tutte le confessioni religiose della cristianità. E con ciò stesso Grazio, che sviluppava qui alcune premesse del l'umanesimo cristiano di Erasmo, trasferiva sul terreno dell'esegesi biblica un discorso, da lui già elaborato nel De imperio summarum 12
potestatum circa sacra, volto a prospettare - sulla base di un compromesso ideologico abbastanza comune, e non soltanto ai suoi tempi - una giustificazione giuridica della prassi del libero esame nell'Olanda riformata del secolo XVII. La costruzione teo rica che Grazio andava componendo era in chiara sintonia con le esigenze di quelle forze politico-sociali ( la ricca e illuminata bor ghesia commerciale delle città) che detenevano allora il potere nelle province olandesi, e che avevano tutto l'interesse a conservare nel paese la pace religiosa, come garanzia di una certa stabilità politica. E appunto a tale scopo egli aveva formulato, parallelamente a una semplificazione dogmatica del cristianesimo ( la cosiddetta modica theologia), l'intuizione di un diritto naturale che, immune da pre supposti teologici ingombranti, sarebbe stato il fondamento giuri dico dell'azione moderatrice che lo stato sovrano era chiamato ad esercitare sugli interessi contrastanti non soltanto delle minori ag gregazioni sociali, bensì anche delle varie confessioni religiose. Depurata via via da ogni riferimento alla contingenza politica, e proiettata al livello della massima generalizzazione e universalità, la natura di questo diritto veniva anzi definita da Grazio in ter mini tali che esso avrebbe dovuto garantire, ben al di là dell'ordine pubblico interno, anche quello internazionale, conciliando tra loro gli interessi particolaristici degli stati nazionali e delle diverse chiese organizzate. Delineata in tali termini, la prospettiva di pace religiosa doveva tuttavia rivelarsi aleatoria allo stesso Grazio. Fondata infatti sul terreno franoso del libero esame, essa risultava in concreto esposta - come ebbe anche a dimostrare la momentanea sconfitta in Olanda ( 1 6 1 8 ) della politica di tolleranza religiosa e di potenzia mento dell'autorità civile, propugnata da Grazio - ai rischi di continue tensioni, scismi e guerre, per l'estrema difficoltà di rico noscere, nell'ambito delle diverse confessioni cristiane, persino un minimo essenziale di rivelazione accettabile in comune. In sostanza, nella misura in cui Grazio si diede a costruire sulla base del libero esame un discorso orientato alla ricerca operante della pace reli giosa, il discorso stesso dovette apparirgli condannato a involversi e rapidamente consumarsi entro un groviglio inestricabile di con-
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traddizioni : per sottrarsi alle quali Grozio medesimo finì, con una tardiva ma sintomatica involuzione, per riaccostarsi al cattolicesimo romano giacché lì - cioè nell'« infallibile » magistero del papato e, soprattutto, nella sua organizzazione rigidamente unitaria del dogma e del culto - egli dovette da ultimo illudersi di trovare, se non la soluzione del suo personale problema confessionale, le uniche condizioni efficaci e storicamente collaudate per il mante nimento della « concordia » religiosa. In ogni caso, si badi, la prospettiva di Grozio nel De imperio, nelle Annotationes ad Testamenta e anche nel De veritate religionis christianae era sostanzialmente quella del libero esame, cioè della libertà riconosciuta a tutti i cristiani di teologizzare; non ancora, dunque, quella del libero pensiero. Alla proclamazione del quale si sarebbe potuti giungere soltanto abbandonando il terreno prote stantico del libero esame ( che ancorava pur sempre l'interpretazione della Bibbia al principio della divina ispirazione, pretendendo di riscontrare rigidamente in ogni parola, anzi in ogni lettera del testo la stessa certezza rivelata, l'uguale valore e l'uguale santità del tutto), e sottraendo con decisione al monopolio tradizionale dei teologi la gestione del significato della rivelazione. Bisognava cioè affrontare l'intera problematica in chiave squisitamente filosofica, e muovere da una teoria della conoscenza che impostasse con chia rezza la questione del rapporto uomo-Dio, ragione-rivelazione. Per spingersi tuttavia tanto in là, era indispensabile seguire una linea il più possibile discosta - non soltanto sul piano teoretico ma anche su quello pratico - dai « pregiudizi dei teologi » e dalla « eccessiva autorità e petulanza dei predicatori », e disporsi a en trare senza riserve in opposizione con le religioni positive e con l'ordine costituito, di cui esse opportunisticamente assicuravano, ora insieme ora contro il potere civile, la tutela. E nessuno aveva più titoli per fare ciò di Spinoza: nella cui opera « empia » e « scandalosa » che solo dopo oltre un secolo di generale ostra cismo doveva essere riconosciuta quale uno dei frutti più maturi del moderno razionalismo europeo - venivano raccolti e mediati in termini supremamente problematici e originali alcuni degli orien tamenti religiosi ed etico-politici latenti nell'intelligencija degli -
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ebrei d'origine iberica cui era accaduto (dopo le forzate conver sioni in massa, subite in alternativa alla grande diaspora del 1492-97) di passare, spesso con amara lucidità, attraverso l 'espe rienza paradossale del marranismo, definita da un'ambigua pro fessione esteriore del cattolicesimo e dal contemporaneo manteni mento, lungo l'arco di varie generazioni e a dispetto delle perse cuzioni inquisitoriali, di una segreta adesione ai principi e a una parte del cerimoniale e delle pratiche rituali del giudaismo. Attraverso i documenti di cui disponiamo, la cultura di queste masse di marrani o conversos con la quale Spinoza ebbe una sicura familiarità ci appare dominata da una singolare varietà di spunti esistenziali e di temi caratteristici, spesso contrastanti, tra i quali fanno spicco il disagio e il senso di colpa per una condizione di ambigua sottomissione spirituale e di radicale perdita dell'identità socio-culturale; il bisogno vitale di sopravvivere al l'interno del mondo ispanico ( cui i marrani, cosl come i loro an tenati ebrei, si consideravano indissolubilmente legati), mimetiz zandosi e facendosi dimenticare al riparo da ogni pericolo di tradi mento, di delazione e di calunnioso smascheramento; la profonda esigenza di recuperare la dignità individuale e di gruppo e la pace interiore; il problematicismo dettato dalla coscienza dell'impossi bilità di trovare sbocchi accettabili a una condizione socio-culturale colma di contraddizioni e di calamità; l'insofferente ironia verso ogni forma di precettistica religiosa e di sistemazione dottrinale imponibile con la costrizione da parte di un'arbitraria autorità; la tendenza a sviluppare argomentazioni in chiave scettica, o in quella di un deismo filosofico vagamente averroistico, a carico degli apparati dogmatici delle varie religioni positive e, in particolare, di quella cattolica; tutta una gamma, infine, di reazioni dettate ora dal furore, ora dal terrore, ora da impulsi al compromesso e al cedimento di fronte allo spettro dell'autodafé. Nel corso del secolo XVI, com'è noto, la maggior parte dei conversos iberici erano andati via via integrandosi nella società cristiana peninsulare, all'interno della quale avevano peraltro con tinuato a costituire una massa culturalmente inquieta, molto per meabile alle novità religiose dell'epoca ( quali l'erasmismo e certe -
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forme di misticismo ). Numerosi, tuttavia, erano stati i nuclei di marrani ispano-portoghesi che dopo il 1579 - quando il patto di Utrecht, che segnava la fine della rivolta dell'Olanda prote stante contro la corona spagnola, proclamò la libert_à di culto in tutti i Paesi Bassi - avevano risposto a questa dichiarazione di tolleranza immigrando a ranghi compatti in Olanda. E qui, al riparo dalle Inquisizioni spagnola e portoghese, erano ritornati a professare apertamente il giudaismo nelle sinagoghe, costituendo comunità ebraiche (prima fra tutte quella di Amsterdam, la « Ge rusalemme olandese » ) numericamente consistenti e capaci di no tevoli espressioni di vitalità economica e intellettuale - pure se ancorate, queste ultime, a un accentuato tradizionalismo religioso. Figlio egli stesso di uno di tali marrani d'origine portoghese (il mercante Michael Espinosa), e allevato nel Talmud Torah, la grande istituzione educativa ebraica di Amsterdam, a cura della confraternita Ets-Hayyim costituita per favorire gli studi dei fan ciulli poveri o meritevoli della comunità, Baruch Spinoza non tardò a palesare un atteggiamento dubbioso circa i fondamenti della tradizione religiosa ancestrale, suscitando cosl l'intransigenza delle autorità rabbiniche le quali, dopo reiterati ma vani tentativi di ac comodamento, gli mossero contro la duplice accusa di non credere alla rivelazione biblica e di trascurare le pratiche religiose. Con dannato a essere « rescisso, per il suo tormento, dal ceppo d'Israele, con tutte le maledizioni del cielo che stanno scritte nei libri della legge », cioè scomunicato e bandito dalla sua stessa comunità d'origine e allontanato persino dalla cerchia familiare all'età di ventitré anni (1656 ), Spinoza si votò con serenità a un apparente destino di estraneazione e di isolamento : fu in realtà, come è stato giustamente notato, il primo e più illustre ebreo che, nel separarsi dalla sua religione e dal suo popolo, rifiutasse qualsiasi prospettiva di adesione a un credo religioso diverso, riservando così per sé e per la sua personalità bisognosa di raccoglimento la massima autonomia nell'azione e nel pensiero, onde potere at tendere con efficacia e disponibilità all'edificazione di un ambiente di assoluta libertà spirituale, di una vera comunità di uomini mossi da una stessa fondamentale aspirazione ad abbracciare con la 16
ragione la divina totalità del reale, e a stabilire così la libertà nel mondo. Di tale ambizioso impegno, il manifesto fu appunto il Trattato teologico-politico: che nell'ambito dell'opera spinoziana {un auten tico monumento di potenza logica e di compiutezza sistematica) è lo scritto che concerne più da vicino l'assunto di queste pagine. 4. Allenato dalla scuola talmudica alle sottili dispute filologiche e all'interpretazione razionale dei libri sacri ( spregiudicatamente dialettica anche se proposta, com'era ovvio lì, nella cornice di un'accettazione fideistica dell'assoluto valore divino della tradi zione scritturale) ; nutrito e maturato infine nell'aperto tonificante contatto con un ventaglio amplissimo di correnti di idee - scien tifiche, filosofiche, religiose -, Spinoza concepì il suo libro dap prima come un trattato sull'interpretazione della Scrittura; ma nel corso della laboriosa stesura fu poi indotto, come si desume dal suo epistolario, a rifondere il discorso sull'ermeneutica biblica entro il quadro unitario di un disegno più ampio comprendente, oltre allo schema primitivo, anche una trattazione sulle libertà di pensiero, di parola e di professione religiosa, nonché una defi nizione dei fondamenti dello stato al quale, secondo Spinoza, do veva istituzionalmente spettare il compito di garantire appunto tali libertà {purché esse trovassero radice ed espressione nella ragione e non già nelle unilateralità, nelle inadeguatezze, nei dogmatismi delle passioni). In prospettiva, il risultato più sconvolgente e, insieme, più du raturo del nucleo originario del Trattato è rappresentato da quella che la moderna critica biblica suole senz'altro riconoscere come la prima compiuta giustificazione filosofica della propria metodologia esegetica, e cioè dall'instaurazione dell'ermeneutica scritturale su basi scientifiche mediante l'introduzione in essa dell'historia come criterio essenziale dell'interpretazione dei testi. Che cosa si deve precisamente intendere per verbo di Dio rive lato e, quindi, per Dio stesso, quale si pretende che nel verbo si sia rivelato? Ecco il problema che Spinoza affronta con fredda oggettività, facendo penetrare la sua analisi storicistica fino nel 17
Sancta Sanctorum delle teologie tradizionali, e stroncando senza esitazione alla radice il principio della divina ispirazione. Secondo Spinoza la Bibbia, lungi dall'essere il veicolo di una verità eterna, comunicata prodigiosamente agli uomini da un crea tore-legislatore trascendente, va conosciuta e trattata quale un insieme di testi prodotti dalla saggezza, dall'erudizione e dal co stume dell'epoca in cui furono composti : il che equivale a consi derarli, nell'ottica della filosofia spinozi,ana della religione, come una somma di antropomorfismi. I vari profeti - è questa la tesi esposta nei capitoli introduttivi del Trattato -, mentre affermano di parlare di Dio, parlano in realtà soltanto di se stessi, impri mendo ciascuno al discorso profetico la peculiare curvatura det tata dalla propria indole e dal temperamento personale, e formu lando predizioni condizionate dalle opinioni di cui è permeato il proprio particolare ambiente. Dato inoltre che ogni verità è impre scindibilmente legata alla condizione della libertà interiore e della comprensione razionale, quando si consideri la violenza con cui le Scritture prendono e sottomettono l'uomo credente, nonché il modo in cui lo fanno diventare uno strumento inconsapevole e senza volontà nelle mani di una potenza diversa e apparentemente superiore, è giocoforza concludere che le Scritture stesse non con tengono né verità oggettive né l 'annuncio di comandamenti impe· gnativi e di valore universale. Spinoza nega del pari che siano possibili i miracoli, in quanto Dio opera con leggi immutabili, e un eventuale miracolo, inteso come eccezione all'ordine naturale e come infrazione delle sue leggi universali, sarebbe semplicemente antidivino. E pertanto tutti i prodigi raccontati dalla Bibbia non sono veri. Se è vano dunque ricercare nei sacri libri l'intuizione metafisica della realtà naturale vista nella sua totalità, cioè la verità asso luta, il solo modo corretto per interpretare tali testi, cogliendovi le verità relative e storicamente condizionate che contengono, non può consistere se non nel trattarli e interrogarli con gli strumenti dell'indagine empirica. E qui va detto che, sebbene le singole esegesi offerte dallo stesso Spinoza si rivelino qua e là contraddit torie e lacunose ( specialmente se considerate alla luce dei risultati
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della critica biblica più recente), tali debolezze tuttavia non com promettono per nulla la validità generale del principio metodico che l'autore formula raccomandando che la Bibbia sia spiegata « per mezzo dei lumi naturali », ossia con la Bibbia stessa: un principio secondo il quale, pertanto, tutte le difficoltà dell'esegesi scritturale possono essere superate a patto che ogni testo sia collocato al suo giusto posto, che sia interpretato attraverso la particolarità della sua origine e l'individualità del suo autore e, soprattutto, che non venga erroneamente assunto come verità valevole al di sopra del tempo. Non bisogna - chiarisce Spinoza nel cap. VII - « ammet tere nell'interpretazione della Scrittura e nell'esposizione del suo contenuto altri principi e altri dati che non siano quelli che si possono desumere dalla Scrittura stessa e dalla sua storia cri tica » . Ora, sebbene Spinoza dedichi molti capitoli della sua esposizione a mostrare come la Bibbia si debba considerare quale documento storico e umano, elaborato da autori che spesso non sono quelli cui i vari libri vengono attribuiti, l'autentico nucleo problematico del Trattato è di natura squisitamente politica, e corrisponde alla preoccupazione di Spinoza di rivendicare - senza riserve e senza cedimenti verso il potere dei tradizionali direttori di coscienze, soliti a farsi spalleggiare dal braccio secolare - la libertà di pen siero. Religione e ragione, afferma Spinoza, non vanno affatto con fuse; né la ragione deve sottomettere la religione, né la religione la ragione; « ciascuna ha il suo proprio regno, la ragione il regno della verità e della sapienza, la teologia il regno della pietà e del l'obbedienza » ( cap. XV). Ora, se la religione non ha nulla a che fare con il puro sapere, e serve unicamente per coloro che non sono in grado di seguire gli argomenti della ragione e possono perciò essere istruiti soltanto per mezzo di simboli, una completa libertà va lasciata a coloro che coltivano la scienza e non hanno bisogno di fare ricorso alla religione. La vita religiosa comprende comunemente anche il culto; ma l'esercizio del culto, precisa Spi noza, deve essere regolato esclusivamente dallo stato, che si oc cupa appunto della disciplina delle azioni esterne dei cittadini. Così resterà sottratta alle gerarchie religiose un'arma pericolosa, 19
cioè il controllo e l'esercizio per fini propri dei poteri dello stato, giacché solo l'indipendenza dello stato da tutte le chiese può ga rantire agli individui la libertà di coscienza nei confronti dei poteri confessionali. Da quanto precede balza fuori in modo netto la lucidità con cui Spinoza, per primo, sa cogliere e denunziare la straordinaria fun zione strumentale alla quale le supreme cattedre delle varie con fessioni religiose hanno storicamente piegato le Scritture. Gli spe cifici approcci delle diverse c�iese alla tradizione scritturale pos sono anche presentare - anzi, di fatto presentano - difformità d'indirizzo persino sostanziali, così come differenti sono i modi in cui ciascuna chiesa dà sviluppo, sul terreno della rielaborazione teologica, al deposito di testi rivelati cui afferma di richiamarsi. Ma vi è un punto sul quale i notabili di tutte le confessioni sem brano concordare, ed è la determinazione con cui utilizzano le Scritture come instrumentum regni, eminentemente per produrre nei credenti l'obbedienza alle norme di comportamento che i tempi e le circostanze fanno di volta in volta ritenere valide. Per questa ragione le insidie più gravi al concreto godimento della libertà di coscienza derivano, secondo Spinoza, proprio dall'attribuzione di una pretesa autorità divina alla Bibbia, e dal tradizionale imperio che, per tale mezzo, le comunità ecclesiastiche riescono ad eserci tare sugli individui. E, sempre per la stessa ragione, fra gli scopi del Trattato spinoziano non figurano né il tentativo di liquidare i conflitti di religione mediante la massima riduzione possibile di ogni oggetto di disputa ( secondo la formula di Grazio dianzi ri cordata della modica theologia, la quale, essendo pur sempre teo logia, implica ancora un'attestazione di credito al Dio provviden ziale delle religioni positive), né la meta fondazione del rapporto tra stato e chiesa sulla base del monopolio statuale del diritto. Scopo del Trattato è, semmai, il superamento del contrasto che può sorgere fra il citato monopolio statuale e la libertà insopprimibile della persona umana: superamento che, nell'intenzione di Spinoza, non può riposare su un compromesso bensì soltanto sull'accetta zione senza riserve, da parte della cosa pubblica, della libertas phi losophandi. 20
La parziale affinità che sembra intercorrere fra la pos1z10ne di Spinoza e quella di Thomas Hobbes (1588-1679) (per citare, fra i pensatori contemporanei di Spinoza, colui che più d'ogni altro gode fama d'avere teorizzato l'assolutezza del potere statuale e l'insin dacabile superiorità di tale potere sulla chiesa, anzi, su tutte le chiese) è soltanto apparente. Infatti Hobbes continua a proporre una dogmatica accettazione dell'autenticità delle Scritture in quanto complesso di verità rivelate; e non a caso dedica ampie parti del Leviathan e del De Cive alla citazione di passi dall'Antico e dal Nuovo Testamento confermanti, a suo parere, le sue stesse teorie politiche. Ma proprio per questa via l'opera di Hobbes, lungi dal rompere i ponti con la tradizionale piattaforma giudaico-cristiana su cui poggia l'intiero sviluppo del pensiero politico europeo, me dievale e moderno, si limita a mettere capo al superamento di ogni conflitto e contraddizione fra leggi civili e leggi divine incorpo rando queste ultime nel sistema giuridico positivo e ponendo sal damente sotto l'egida di un'unica, indivisibile potestà - quella dello stato - tanto l'elaborazione della legislazione positiva quanto l'interpretazione della parola di Dio. Talché anche Hobbes ripro pone, in ultima istanza, un'ennesima, sostanziale identificazione fra chiesa cristiana e stato cristiano. Spinoza, per contro, dà corso a un indirizzo storico-critico radi calmente innovatore proprio nella misura in cui coglie l'implicito carattere di irrazionalità che contrassegna ogni forma di trasmis sione della tradizione scritturale operata in chiave di divina auto rità. Evidentemente questa autorità suole essere invocata in quanto rappresenta una forma di protezione per la fede; ed è anche chiaro che un certo autoritarismo trova la sua sfera normale di svolgi mento - e, in un certo senso, persino la sua legittimazione - negli stadi iniziali di vita di una corrente religiosa, quando questa è es senzialmente imitazione sociale, adesione passiva a una tradizione alimentata da affiati sentimentali (passionali) radicati nella coscienza collettiva. Allora la fede religiosa si perpetua come manifestazione d'unità sociale, e si estrinseca nella solidarietà con una comunità, con un popolo, con una chiesa. Ma ben presto alla pura trasmissione delle Scritture si uniscono, 21
in misura sempre crescente, un'interpretazione e uno svolgimento delle dottrine in esse contenute : è fenomeno proprio di tutte le grandi religioni storiche il formarsi, accanto alla rivelazione, di una tradizione sacra, inglobante anche i criteri per la determinazione dell'autenticità e dell'interpretazione legittima delle stesse Scrit ture. Cosl, per una sorta di circolo vizioso, la tradizione viene a fondare quelle medesime Scritture, nelle quali pure essa afferma di trovare il suo punto di partenza e la sua legittimazione. Il circolo vizioso è però solo apparente : in realtà, quello che si è spostato è il centro di gravità della fede, giacché ciò che viene immediata mente recepito come soprannaturale non è più il testo delle Scrit ture, nella sua sacralità, ma la tradizione autoritaria di una corpo razione sacerdotale. E quando la sottomissione dei credenti alla divina autorità della rivelazione si sia compiutamente trasferita anche a un istituto religioso, investito fideisticamente di una consi mile divina autorità, allora il compito di determinare nei suoi particolari l'interpretazione legittima delle Scritture viene devo luto a un corpo di dottori : e prop!,"io di qui, cioè dal potere concesso a questi dottori, germina il soffocamento sistematico d'ogni libera espressione del pensiero. In una celebre risposta ad Albert Burgh ( un ex allievo di Spi noza che, convertitosi nel corso di un viaggio in Italia al fascino della chiesa di Roma, gli scrive nel 1675 da Firenze per confutare con verbosa insolenza il Trattato teologico-politico e per tentare a sua volta d'infondere nell'antico maestro i suoi entusiasmi di neo fita), dopo avere dimostrato che nessuna chiesa positiva può at tribuire alla propria particolarità i caratteri della vera religione, che è eterna e universale, Spinoza rammenta con pacata ironia : « Ciò che tu aggiungi sul consenso unanime di miriadi di uomini e sull'ininterrotta perpetuità della Chiesa, è il medesimo ritornello dei Farisei. Con una fiducia che non la cede in nulla a quella dei partigiani di Roma, anch'essi invocano miriadi di testimoni i quali, non meno ostinatamente di quelli di Roma, riferiscono come fatti d 'esperienza ciò che essi hanno soltanto sentito dire. Anch'essi fanno risalire l'origine loro sino ad Adamo, ed esaltano con la stessa arroganza la loro Chiesa che s'è conservata fino ad oggi, 22
immutabile nella sua solidità, ad onta delle persecuzioni dei gentili dei cristiani. Ma il punto che dà vigore al loro discorso è soprat1 utto l'antichità di questa Chiesa. Essi pretendono all'unisono di possedere tradizioni ricevute da Dio stesso, e di essere i depositari della parola di Dio parlata e non scritta . . . Riconosco tutti i van taggi politici dell'ordinamento disciplinare, da te tanto celebrato, che la Chiesa romana ha istituito, e anche il profitto materiale che molti ne ricavano. Nessun [ ordinamento ] mi sembrerebbe meglio costruito per ingannare il volgo ignorante ed esercitare un domi nio sulle anime, se non esistesse la disciplina della Chiesa musul mana che, sotto questo profilo, è di gran lunga superiore : da quan do esiste, in effetti, questa superstizione non ha conosciuto scismi. A ben vedere, soltanto nel terzo dei tuoi argomenti in favore dei cristiani trovo una certa forza : uomini ignoranti e di condizioni miserabili hanno saputo convertire quasi l'intiero mondo alla fede del Cristo. Tuttavia questo argomento milita a favore non della [ sola ] Chiesa romana, ma di tutti quelli che confessano il nome del Cristo ». In un passo successivo, Spinoza soggiunge : « M'ac cuserai forse d'arroganza e d'orgoglio perché faedo uso della ra gione e mi baso su quell'autentico Verbo di Dio che si trova nel l' anima e non può mai subire alterazione né corruzione ? »; e infine, nella conclusione, Spinoza raccomanda significativamente al suo antico pupillo di esaminare « la storia della Chiesa (di cui sem bri essere molto ignorante), in modo che tu veda quante falsità sono contenute nei libri pontificali, e attraverso quale destino, quali artifìzi, il pontefice romano, seicento anni dopo la nascita del Cristo, ha conquistato il governo della Chiesa » . In sostanza, al di là d'ogni ammissione circa la funzione conser vatrice e, entro certi limiti, persino educatrice, che le varie tradi zioni confessionali possano avere svolto nel corso della loro storia, l'intiera analisi sviluppata nel Trattato spinoziano appare tesa a rilevare che l'intolleranza che abitualmente accompagna la vita delle grandi religioni dogmatiche non è la semplice e primaria reazione di società religiose disorganizzate, bensì un'articolata ma nifestazione di egemonia da parte di solide corporazioni politiche, che sogliano celare l'esercizio, spesso brutale, del loro potere die
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sdplinare dietro il paravento della divina autorità della rivelazione. Vale la pena di sottolineare, a questo punto, l'estrema pertinenza con cui teologia e politica vengono a implicarsi nel Trattato spi noziano. Giacché proprio là dove l'argomentazione è volta a con testare l'assoluto valore di verità della rivelazione biblica e a pe netrare con audacia nella sua storia - misurandosi così con la struttura portante dell'intiero edificio dogmatico della tradizione teologica giudaico-cristiana -, il discorso non può fare a meno di passare, se non vuole vanificarsi, dal terreno teologico a quello politico . Storicamente, è degno di nota come ogni elaborazione concettuale mirante a progettare l'ordinamento della polis, e a definire il posto e il ruolo dell'uomo nella polis, rinvii a una ricerca del significato dell'avventura umana nel quadro di una visione globale della realtà e dei suoi fondamenti : in una parola, il discorso politico finisce sempre per coinvolgere il discorso teo logico. Ma, reciprocamente, nessun discorso teologico riesce a estrinsecarsi senza implicare una considerazione circa la struttura di fondo del potere e dell'autorità, cioè senza riflettersi con pun tualità sullo stesso terreno della progettazione politica. Ora, se è vero che questa reciproca implicanza appare generalmente riscon trabile in tutte le più notevoli costruzioni intellettuali che accom pagnano, nella loro plurisecolare vicenda, le grandi tradizioni reli giose sviluppatesi tanto in Occidente quanto in Oriente, è merito indiscutibile di Spinoza l'avere individuato con precisione il prin cipale elemento che ha storicamente funzionato da cerniera fra teologia e politica, nel quadro specifico della tradizione giudaico cristiana. Nell'ambito di tale tradizione - ci rammenta Spinoza questa cerniera, attorno alla quale i due universi di discorso conti nuano da secoli a incontrarsi e a scontrarsi dialetticamente, è co stituita essenzialmente dalla presenza delle Scritture nonché dal dibattito, antichissimo e sempre rinnovato, circa l'autorità, l'auten ticità e le modalità di trasmissione e d'interpretazione delle stesse Scritture. Né questo fatto può meravigliare, sol che si pensi che la tradizione giudaico-cristiana, considerata nel suo complesso, ama caratterizzarsi in funzione di un rapporto elettivo istituito da Dio con il suo popolo : cioè in funzione di un'alleanza (testamentum;
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in ebraico berith ), che la tradizione stessa vuole sia suggellata, appunto, dal salvifico dono divino della rivelazione. 5 . Ci sembra che le cose dette sin qui attorno al Trattato teo logico-politico di Spinoza ci aiutino senz'altro a intendere con una certa correttezza - specialmente quando le si consideri sullo sfondo del lungo ostracismo riservato dall'intelligencija europea all'intiera opera del pensatore di Amsterdam - il vero significato del faticoso procedere e delle obiettive difficoltà che la moderna ermeneutica scritturale è andata di continuo incontrando a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Si tratta di difficoltà che presentano in larga misura, anche se lato sensu, un carattere poli tico, giacché - ora lo sappiamo - sul terreno dell'esegesi non si dà alcun risultato realmente incisivo che non sia collegato, in termini diretti o mediati, con la revisione critica di determinati rapporti di potere e d'autorità: revisione che appare inevitabile ogni qual volta uno studioso si proponga di perseguire con onestà intellettuale, e sino alle estreme conseguenze, un proprio filone di ricerca, anche a costo di infrangere tradizioni esegetiche dogmati camente cristallizzate, cioè fissate in termini di sacralità. Un esempio particolarmente chiaro di ermeneutica « incisiva » (nel senso dianzi specificato ) ci sembra sia offerto dal lavoro di scavo, paziente e intransigente, che Samuel G. F. Brandon ha compiuto sui resoconti evangelici del processo a Gesù : resoconti che lo studioso britannico, scomparso da poco ( 1 971) all'età di sessantaquattro anni, ha inteso rivisitare con metodo rigoroso e, soprattutto, con gli occhi dello storico, non appannati da pregiudizi d'ordine teologico. Gli sviluppi e i risultati di tale inda gine sono raccolti nel libro - pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 1 968 1 che viene qui presentato nella ver sione italiana e che fa parte, insieme con The Fall of ]erusalem and the Christian Church ( 1 95 1 ) 2 e ]esus and the Zealots ( 1 967 ), di una vasta trilogia dedicata dall'autore alla storia delle origini -
1 Il volume è stato successivamente diffuso anche in un'edizione paperback (Londra 1971 ). 2 2• ed. ampliata, 1957; rist. 1969.
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cnsttane: che è il campo di ricerca al quale è prevalentemente legata la sua notorietà 3• Per consentire al lettore italiano di situare il presente Processo a Gesù nel pelago sconfinato degli studi neotestamentari, è neces sario chiarire innanzitutto che l'opera di Brandon si muove in una dimensione del tutto diversa da quella che caratterizza la lettera tura biografica su Gesù ispirata alle posizioni dogmatiche della ortodossia cattolica, con la quale il pubblico del nostro paese ha maggiore familiarità. Si trovano in quest'ultimo filone, com'è noto, biografi ( quali Mauriac, Papini, Ricciotti, Daniel-Rops, Guitton, per citarne solo alcuni) che, scarsamente interessati ad approfon dire l'analisi delle fonti attraverso un approccio storico-critico, tendono piuttosto a prendere l'avvio dai racconti evangelici - e in preferenza da Giovanni, che fra gli evangelisti è sì il più ricco di motivi misteriosofici ma è certamente il meno attendibile dal punto di vista storico - per sviluppare considerazioni prevalen temente apologetiche e moraleggianti. Brandon - un pastore anglicano - mostra invece di tenere in grande conto i risultati della Formgeschichte: scuola esegetica storico-morfologica sviluppatasi dopo la prima guerra mondiale in Germania, e di lì negli altri paesi protestanti del continente, in Inghilterra e negli Stati Uniti, la quale sottolineava con M. Di belius, R. Bultmann e, in un primo tempo, anche con O. Cull mann, l'importanza dello studio delle forme letterarie del Nuovo Testamento come metodo di lavoro per la sua interpretazione e per la ricostruzione della storia delle origini del cristianesimo. In questo quadro Brandon porta avanti, con specifico riferimento alle narrazioni canoniche del processo a Gesù, il tentativo di indivi duare i propositi o le circostanze storico-politiche che possono avere determinato la formazione dei diversi resoconti evangelici attraverso la sovrapposizione, la cristallizzazione o le distinte am' Altre pubblicazioni dello stesso Brandon (come Time and Mankind, 1951 ; Man and his Destiny in the Great Religions, 1962; Creation Legends of the An cient Near East, 1963; History, Time and Deity, 1965; The ]udgment of the Dead, 1967; nonché la direzione di A Dictionary of Comparative Religion, 1971) si riferiscono più da vicino al suo ventennale insegnamento di religioni comparate presso l'Università di Manchester.
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plificazioni e rielaborazioni di particolari materiali tradizionali. Partendo, in sostanza, dalla ricostruzione storica del Sitz im Leben ( = posto nella vita) di ciascuno dei resoconti tramandati - rico struzione che l'autore conduce attraverso un'analisi approfondita delle condizioni di vita e delle esigenze comunitarie delle diverse chiese primitive per le quali i quattro vangeli furono composti -, e condividendo le conclusioni di quegli esegeti tedeschi secondo i quali il vangelo di Marco fu il modello letterario degli altri tre, Brandon spinge l'esegesi dei testi fino a scoprire, disseminate nello stesso resoconto di Marco, le tracce di un « vangelo » dell'origina ria chiesa ebraico-cristiana di Gerusalemme : un vangelo che sareb be andato perduto con la scomparsa della chiesa-madre nel 70 d.C. Queste tracce attestano, secondo Brandon, il chiaro orienta mento politico-rivoluzionario ( avverso sia alla dominazione roma na sia all'aristocrazia sacerdotale ebraica ) del movimento capeg giato da Gesù, e autorizzano ad assimilare, se non proprio a identi ficare, il movimento stesso a quello degli zeloti. Quanto al fatto che tali tracce siano presenti all'interno di fonti letterarie che, nel complesso, presentano Gesù come il « Cristo pacifico », Bran don lo spiega adducendo - in termini senz'altro plausibili - un ampio ventaglio di motivi che avrebbero spinto dapprima Marco, e poi ciascuno degli altri evangelisti , a spoliticizzare il vangelo di Gerusalemme, e a trasformare Gesù da popolare leader di un movimento rivoluzionario, vicino o alleato degli zeloti, in un paci fista filoromano. Notevolissimo appare l'impegno con cui Brandon cerca di co gliere la genuina immagine del « Figlio dell'uomo » della primi tiva comunità palestinese, leggendo per cosl dire fra le righe testi che preannunziano già quell'immagine cultuale del Kyrios Christos che verrà poi glorificata dalla letteratura del cristianesimo elleni stico più tardo : anche se Brandon (che è uomo di chiesa, oltre che cultore di storia) è personalmente convinto che entrambi i discorsi - quello sul Cristo della fede e quello sul Gesti della storia - abbiano una loro intrinseca, autonoma dignità, e che lo sviluppo di uno dei due discorsi non debba necessariamente tra dnrsi nell'avvilimento dell'altro. 27
In ogni caso, va pure detto che le tesi storiografiche di Brandon non sono del tutto nuove nel loro contenuto, giacché furono almeno in parte sostenute, già nella seconda metà del Settecento, da H.S. Reimarus e, in epoca più vicina a noi, da K. Kautsky, da R. Eisler, nonché da storici radicali come C. Guignebert, P. Martinetti e P. Orano. Senz'altro nuovi appaiono, invece, il rigore scientifico con cui l'argomentazione viene condotta, e gli apporti metodologici che l'autore riesce a mobilitare a continuo sostegno della propria ricerca. A questo proposito, cioè in tema di metodologia, in più d'una occasione sono stati mossi all'opera di Brandon addebiti, persino pesanti, fra i quali fanno spicco quello d'avere abusato nella costru zione di edifìci ipotetici, e quello d'essersi valso troppo sovente di dimostrazioni fondate sull'argumentum ex silentio. Per quanto con cerne la prima di tali critiche, basti qui dire che l'intiera opera di Brandon, oltre a dimostrare largamente che la vocazione primaria dell'autore è quella di appagare con probità una genuina, ine sausta curiosità storica, attesta anche che, per soddisfare tale cu riosità, egli non si è davvero dilettato a elaborare ipotesi scriteriate né, tanto meno, a costruirne in una misura eccentrica o, comunque, più larga di quella che siamo soliti riscontrare presso tutti i cultori più scrupolosi delle discipline storiche e, in particolare, della storia delle origini cristiane. Quanto al secondo addebito, è d'uopo rammentare brevemente che, certo, in sede storiografìca l'uso del l'argumentum ex silentio s'impone come una necessità soltanto quando il problema storico considerato debba essere risolto me diante una ricostruzione di eventi o di circostanze operabile esclu sivamente in base a testimonianze tra loro divergenti. Allora, appunto, il silenzio dei testimoni più autorevoli suole essere assunto come un argomento sufficiente per negare credito agli altri, meno apprezzati, e per dichiararli falsi o in errore. Si tratta, senza alcun dubbio, di un argomento che esige d'essere usato con molta prudenza. Ma non ci pare che a questo criterio prudenziale Brandon venga mai meno : tant'è che, ogniqualvolta è costretto ad argo mentare in tale modo (come quando, ad esempio, deduce dalla virtuale assenza di notizie dopo il 70 d.C. il fatto che il primitivo 28
nucleo giudaico-cristiano prese parte con gli altri ebrei alla sfor tunata difesa di Gerusalemme e del Tempio contro l'assedio romano), egli sottopone ciascun « silenzio >> a una discussione cri tica molto attenta e accurata, esamina quel particolare silenzio a fronte di altri casi di silenzio analoghi e, infine, lo confronta scrupolosamente con la totalità (di solito assai scarsa) di testimo nianze, che i vangeli e le altre fonti storiche e letterarie del I se colo d.C. gli vanno di volta in volta offrendo. Quando si prescinda dall'interesse molto limitato e superficiale, o sbrigativamente tendenzioso, suscitato sin qui in Italia dall'opera di Brandon 4, vale la pena di ricordare che le tesi storiografiche dell'autore hanno sollevato reazioni improntate a una particolare vivacità, anche se di segno opposto, specialmente nel mondo prote stante ( nei paesi anglosassoni, in quelli scandinavi e in Germania), nonché fra i cultori ebraici di storia giudaico-palestinese del perio do tardoellenistico. V'è chi ha voluto vedere in Brandon addirittura uno Schweitzer redivivo, e chi, per contro, gli ha mosso ogni sorta di critiche, dall'accusa d'avere denigrato il Cristo facendolo scadere al rango d'un semplice leader della resistenza ebraica contro i romani, su su fino al rilievo un po' triviale secondo cui il « Gesù rivoluzionario » di Brandon non sarebbe se non il frutto di una facile concessione dell'autore alle vedute sensazionali della « teologia della rivoluzione » o, peggio, alle folkloristiche attese di certe frange cristiane della contestazione giovanile, specialmente negli Stati Uniti. Su un terreno più serio O. Cullmann, nel suo recente Jésus et les révolutionnaires de son temps 5, accusa Brandon di unilateralità e, soprattutto, di semplicismo, in quanto attribui rebbe autenticità storica solo a quella categoria di brani narrativi evangelici che avvicinano la figura di Gesù allo zelotismo, mentre farebbe arbitrariamente scadere i racconti che affermano il con' Si veda lo studio, per altri versi molto rigoroso e documentato, di F. Parente,
Escatologia e politica nel tardo giudaismo e nel cristianesimo primitivo, in « Ri
vista storica italiana », LXXX ( 1968), fase. II, pp. 234-96 (in particolare alle pp. 261-63, 267-70, 295); e ancora : Gruppo dei ricercatori di Storia delle origini cristiane, Gesù e la rivoluzione, in « Vita e pensiero », LIV ( 1972), n. 6, pp. 5-18; E. Samek-Lodovici, Dieci anni di studi sul processo di Gesù e su Gesù e gli zeloti, ivi, pp. 108-36. ' Neuchatel 1970; trad. it., Brescia 1971.
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trario a mere creazioni (consapevoli o no ) delle comunità di fedeli cui i quattro evangelisti si rivolsero. Nel complesso, peraltro, la critica di Cullmann non sembra particolarmente convincente; e si direbbe, anzi, che proprio il teologo alsaziano cada nella pania di una forma cristallizzata di apriorismo là dove - movendo dal ra dicalismo escatologico e non politico che la tradizione evangelica ( e in particolare Giovanni) attribuisce a Gesù - conclude che la :figura e l'opera dello stesso Gesù si debbano senz'altro porre su un piano che sta al di là e al di sopra della vicenda politica palesti nese del primo secolo. La valutazione di Cullmann non è condivisa, ad ogni modo, da J. Daniélou : il quale - pur ritenendo che la mera identificazione di Gesù con il Messia, atteso dagli ebrei per restaurare il regno di Dio sulla Palestina occupata dagli idolatri, abbia il difetto di dare « del Cristo e del cristianesimo originario un'immagine monca » (nel cui ambito la dignità divina della perso na di Gesù viene ovviamente a restare oscurata) - non esita d'al tronde a dichiararsi d'accordo con Brandon proprio a proposito della collocazione storica delle origini cristiane nel contesto della lotta degli zeloti contro l'occupazione romana in Giudea 6• Per parte sua Brandon non mostra, è vero, alcuna remora a trattare Gesù di Nazareth come un ebreo, e ad inquadrarlo senza residui nel suo ambiente giudaico : un aspetto, questo, di per sé già rimarchevole dell'opera dello studioso britannico. Ma si deve subito precisare che, lungi dall'offrire concessioni di qualsiasi na tura a !abili mode culturali, l'interpretazione in chiave di storia politica che Brandon dà del processo a Gesù, e la correlativa de nunzia della spoliticizzazione di quel processo operata dai do cumenti canonici che vi si riferiscono, rappresentano il frutto di 6 Vedi la recensione del card. Daniélou a fesus and the Zealots, in (Atti I : 6), non era stata concepita per attrarre i gentili. Cfr. Man and his Destiny, p. 212 ss. 2 4 Cfr. H. Lietzmann, An die Korinther, I-II, pp. 124-25; Nock, St Paul, p. 243; J. Klausner, From ]esus to Paul, pp. 3 1 3-15; A. Loisy, Les mystères paiens et le mystère chrétien, pp . 242-43 ; Goguel, La naissance du Christianisme, pp. 254, 270-72; A. Schweitzer Paul and his Interpreters, pp. 245-46; Schoeps, Theologie u. Geschichte des ]udenchristentums, pp. 425-26. ,
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anche morti e divenissero, o potessero divenire, umt1 m Cristo; e che tale unione facesse di loro « una nuova creazione » 25• Questa misteriosa operazione, quantunque fosse visibilmente legata alla morte storica di Gesù per crocifissione, è considerata da Paolo così essenzialmente mistica che egli rifiuta la sua connessione con l'ef fettivo evento storico : « e se anche abbiamo conosciuto ( oidamen ) Cristo secondo la carne, ora non Io conosciamo (ginoskomen ) più » . L'espressione « Cristo secondo l a carne » nell'originale testo greco (kata sarka Christon) designa sicuramente Cristo come una persona in carne ed ossa, oppure, nella nostra terminologia moderna, il 2 « Gesù storico » che visse nella Palestina del primo secolo 6 • Questo rifiuto di conoscere il Gesù storico e la conseguente as serzione che « le cose vecchie sono passate, ecco che sono sorte cose nuove », sono molto significativi quando teniamo presenti le relazioni di Paolo con i cristiani di Gerusalemme. Paolo era arri vato tardi alla fede, non essendo stato uno dei discepoli di Gesù. Egli sosteneva di non avere appreso il suo cristianesimo da « co loro che erano apostoli prima di me », ma per mezzo di una rive lazione speciale che Dio gli aveva fatto. È quindi comprensibile che, nel difendere la sua autorità di apostolo contro l'autorità dei capi di Gerusalemme, che erano stati i discepoli originari di Gesl! e « testimoni oculari » della sua vita, Paolo svalutasse la cono scenza del Gesù storico in favore della comunione mistica con il Cristo Risorto 27 • Questo atteggiamento trovava espressione dottrinale, come aS biamo già visto, nella valutazione da parte di Paolo della croci fissione come evento mistico, completamente svincolato dal con testo storico : un evento che Dio aveva architettato in modo tale che i demonici archontes inconsapevolmente l'avevano compiuto a 25 Cfr. Goguel, pp. 252-59; Bultmann, Das Urchristentum im Rahmen der anti t�en Religionen, pp. 219-22, in N.T.S., I ( 1955), pp. 13, 16; A. Schweitzer, The Mysticism of Pau!, pp. 109-30. 26 « Christus nach seiner nati.irlichen Sei te », W. Bauer, Griechisch-Deutsches Worterbuch z. d. Schriften d. N.T.2, 1 194; H. Windisch, Der zweite Korinther brie/, pp. 186-88; Bultmann, Theology of the New Test., I, pp. 236-38; Manson, Studies, p. 224; W. Schmithals, in Z.N.T.W., 53 ( 1962), pp. 156-58. 27 Cfr. Brandon, History, Time and Deity, p. 159 ss.
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proprio danno. La loro vittima era un essere divino, designato « il Signore della gloria » : nessun riferimento è fatto a lui come a persona storica, giacché tale aspetto del suo essere era contingente e irrilevante a paragone con la sua natura eterna. Una dottrina esoterica del genere non solo non era ebraica, ma contraddiceva i principi fondamentali del giudaismo. Essa consi derava che l'umanità intera, ebrei e gentili, fosse in uno stato di perdizione spirituale, assoggettata ai demonici prìncipi dell'uni verso. La liberazione da questa condizione era stata predisposta da Dio attraverso la morte vicaria di un altro essere divino, il « Si gnore della gloria », e questa liberazione era alla portata di tutti gli uomini, senza distinzione di razza. In questo modo la dottrina violava le due credenze più care agli ebrei. Infatti, considerando tutta l'umanità bisognosa di salvezza da una condanna comune, si ignorava la distinzione fondamentale tracciata dagli ebrei tra se stessi, come il Popolo eletto di Dio, e i gentili, negando cosl la premessa fondamentale del giudaismo 28• Poi, l'idea stess·a dell'esi stenza di un altro essere divino, chiamato il « Signore della gloria » , violava il principio del monoteismo, che era altrettanto fondamen tale per la religione ebraica 29• Ugualmente estranea ed offensiva era l'identificazione di una persona umana, Gesù, con questo « se condo Dio », il Signore della gloria 30 • È pertanto comprensibile che i cristiani di Gerusalemme fossero colpiti quando arrivarono a comprendere tutto ciò che il « van gelo » di Paolo implicava, e che lo ripudiassero e cercassero di sopprimerlo fra i gentili convertiti respingendo la pretesa di Paolo di essere un apostolo e forse insinuando che era pazzo. I loro attacchi minavano seriamente la posizione di Paolo, poiché i capi di Gerusalemme erano avvantaggiati nei suoi confronti dal fatto 28 Vedi Rm. I I I : 9, 23-5. Cfr. W. Sanday - A.C. Headlam, The Epistle to the Romans, pp. 76, 84-86; H.H. Rowley, The Biblica! Doctrine of Election, pp. 144-46; H. Wildberger, ]ahwes Eigentumsvolk, p. 74 ss. " Cfr. Klausner, From ]csus to Pau!, pp. 444, 467-70. 3° Cfr. E.R.E., VII, pp. 199b-200a. È significativo che nel Dialogo di Giustino
martire con l'ebreo Trifone (del secondo secolo) quest'ultimo ponga obiezioni alla « vostra fede in un semplice uomo crocifisso » (op. cit., 10), e aggiunga: « vi impegnate a provare una cosa incredibile e pressoché impossibile, cioè che Dio abbia condisceso a nascere e a farsi uomo » ( ibidem, 68).
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che egli non poteva sfidare la loro autorità in quanto apostoli originari di Gesù, mentre essi potevano cacciarlo come l'ultimo arrivato a una fede che un tempo aveva perseguitato 31 • Nella misura in cui la storia del conflitto può essere ricostruita attraverso i documenti esistenti, Paolo alla fine tentò di raggiun gere un modus vivendi con i cristiani di Gerusalemme recandosi personalmente nella città. Il risultato fu disastroso. Giacomo, il fratello di Gesù, allora capo della chiesa di Gerusalemme, costrinse Paolo a provare la sua ortodossia ebraica compiendo certi riti nel Tempio. lvi, riconosciuto e attaccato dagli altri ebrei, che lo consi deravano un rinnegato, fu salvato da morte grazie all'intervento della guarnigione romana della vicina fortezza Antonia 32• Per sot trarsi al processo in Giudea, Paolo chiese, come cittadino romano, che il suo caso fosse giudicato dall'imperatore; il risultato del pro cesso romano non è noto e Paolo scompare dalla storia 33• Sarebbe senza dubbio scomparso anche il ricordo del suo insegnamento, e il « vangelo » di Gerusalemme sarebbe sicuramente prevalso se non fosse avvenuta la rivolta ebraica contro Roma nel 66 d.C. 34• Dopo quattro anni di guerra disastrosa, la nazione ebraica fu disfatta e la sua città santa distrutta: in questa catastrofe, come abbiamo già osservato, perl anche la chiesa-madre di Gerusalemme . Le conseguenze del disastro ebraico del 70 d.C. per il cristia nesimo furono immense, e dovremo occuparcene più avanti per valutarie in rapporto al nostro argomento ; ma ora dobbiamo ritor nare al nostro compito immediato di cercare di scoprire quale fosse l'insegnamento della chiesa gerosolimitana, dal quale l'insegna mento di Paolo differiva così profondamente. Come notavamo in precedenza, questa ricerca può essere condotta soltanto prendendo le mosse dagli scritti di Paolo e dagli Atti degli Apostoli, e da altre fonti minori; giacché gli archivi della chiesa di Gerusalemme pe rirono con essa nell'olocausto del 70 d.C. Tuttavia, alcune dedu31
32 33
Cfr. Jesus and the Zealots, Atti XXI : 27 ss.
p.
182 ss.
Cfr. H.]. Cadbury, in B.C. , V,
p.
338, e anche B.C., IV,
Acts of the Apostles, pp. 480-81 , in B_J.R.L., 46 ( 1964), Studies, pp. 6-7; Brandon, ]esus and the Zealots, p. 186 ss. Jot Fall of Jerusalem, pp. 152 ss., 213 ss.
pp. 349-50; Bruce, pp. 342-45; Manson,
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zioni di grande importanza per i nostri fini possono farsi con si curezza . La prima e più cruciale è che i discepoli ebrei originari, che avevano formato la chiesa di Gerusalemme, non consideravano che la loro fedeltà a Gesù implicasse l'abbandono della loro fede ancestrale. Infatti tutte le testimoniapze indicano il loro straordi nario zelo nella pratica del giudaismo : frequentavano regolar mente il tempio di Gerusalemme, prendendo parte ai sacrifici ri tuali, osservavano le festività e la Legge ebraiche anche in materia di peculiari usanze rituali quale il voto dei nazirei 35• Molti sacer doti e farisei si unirono alla loro comunità 36 e il loro capo Gia como, il « fratello del Signore », era tenuto in grande considera zione per la sua pietà fra i suoi concittadini 37• Il punto principale in cui differivano dagli altri ebrei era il loro riconoscimento di Gesù come il Messia di Israele. Durante quel periodo vi furono molti che si autoproclamarono Messia 38, ed è importante ricordare che, secondo la credenza ebraica del tempo, il Messia non era concepito come un essere divino : il monoteismo fondamentale del giudaismo rendeva impossibile si mile concezione 39• L'interpretazione che gli ebrei cristiani diedero della funzione messianica di Gesù non comportava, peraltro, la sua deificazione; essa si distingueva per un altro verso. Secondo le aspettative messianiche correnti, il Messia sarebbe stato un uomo scelto da Dio per cacciare i romani e restaurare il potere sovrano di Israele 40• La sconfitta e la morte negavano automaticamente la pretesa di qualsiasi persona di essere il Messia 4 1 • Gli ebrei cristiani " Atti I : 46; III: l ; V: 12, 42; VII: 26, 42; X: 14; XI: 2, 3 ; XV: l ; XXI : 21-4: Ga. I I : 11 ss. '6 Atti VI: 7; XV: 5. Cfr. Simon, Les premiers Chrétiens, pp. 39-4 1 ; Brandon, Jesus and the Zealots, p. 1 18 ss. " Hegesippus apud Eusebius, Ecclesiastica[ History, II, 1: 2-5, XXIII. Cfr. Epiphanius, Haer., XXIX, LXXV III: 6-7; Fall of Jerusalem, pp. 52-53 ; ]esus and the Zealots, p. 122 ss. " Un riferimento a questi si trova in Mc. XIII: 21-22; vedi cap. 5. " Cfr. Schiirer, G.].V., II, pp. 526-30; S. Mowinckel, He That Cometh, pp. 4 ss., 280 ss. 40 Cfr. Schi.irer, G.].V., II, pp. 533-44; Mowinckel, pp. 284 ss., 340 ss.; Klausner, From ]esus to Paul, pp. 526-33; M. Black, The Scrolls and Christian Origins, pp. 145-63. " Come Paolo dimostra in modo eloquente in I Cor. 1: 22-3, l'idea di un « Messia crocifisso » era uno scandalo per gli ebrei. Cfr. Klausner, ]esus of Naza-
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avevano superato il colpo che l'esecuzione di Gesù da parte dei romani aveva inferto alla loro fede in lui come Messia, attraverso la loro convinzione che Dio lo avesse sottratto alla morte. Essi interpretarono la sua resurrezione come una conferma divina del suo ruolo di Messia 42, e credettero che egli sarebbe presto tornato con poteri soprannaturali a completare il suo ruolo messianico e a « ristabilire il regno d'Israele », come si descrive significativamente negli Atti degli Apostoli (l : 6 ) 43• Gli ebrei cristiani furono innanzitutto preoccupati di persuadere i loro compatrioti ad accettare Gesù come il Messia 44• A questo scopo era necessario che essi presentassero circostanze tali da di mostrare il suo carattere messianico in accordo con le aspettative del tempo. Questo significava il racconto di azioni, particolarmente di natura miracolosa, che dimostrassero che Gesù era dotato del potere soprannaturale atteso dal Messia 45• Lo storico ebreo Giu seppe, incidentalmente, riferisce come venissero attribuiti mira coli agli altri pretendenti alla qualifìca di Messia 46• Un'ulteriore necessità che gli ebrei cristiani dovevano soddisfare è di partico lare importanza per il nostro assunto. L'esecuzione di Gesù da parte dei romani, nella quale i capi della nazione ebraica erano stati coinvolti, richiedeva ovviamente una spiegazione, che consentisse agli ebrei cristiani di persuadere i loro compatrioti che l'esecuzione aveva confermato e non contraddetto il carattere messianico di lui. Incontriamo qui un punto che richiederà alcune anticipazioni rispetto all'analisi, che condurremo successivamente, delle narra zioni del processo a Gesù tramandate dai vangeli. I vangeli dedicano uno spazio considerevole alla descrizione del reth, pp. 301-2, From ]esus to Paul, p. 437; Schiirer, G.].V., II, PP- 553-56; Mo winckel, p. 327. 42 Atti I I : 22-36; V: 30-1. I cristiani di origine ebraica trovarono una giustifi cazione profetica alla concezione di un Messia sofferente in particolare nella figura del servo sofferente di Yahweh; per es. Atti VII I : 26-38; cfr_ Atti III: 18; Le. XXIV: 17-27. Cfr. Fall in Jerusalem, p. 76 ss. 43 Cfr. ]esus and the Zealots, pp. 180-8 1 . 44 Per es_ Atti I I : 22-36_ 45 Mt. XI: 2-6; Le. VII : 18-23 ; Gv. XI: 47. Cfr. Bultmann, Gesch. d. syn. Trad., pp. 22, 54; E. Klostermann, Matthausevangelium, p. 94; V. Taylor, St Mark, p. 362. 46 Cfr_ ]esus and the Zealots, pp. 108-1 1 .
processo e dell'esecuzione di Gesù 47• Naturalmente questi eventi hanno un interesse intrinseco che spiega l'attenzione loro dedicata. Tuttavia, alla luce del fatto che gli evangelisti considerano la morte di Gesù come il sacrificio vicario del Figlio di Dio per la salvezza dell'umanità, è difficile vedere come le loro descrizioni delle circo stanze storiche dell'evento servano il loro scopo teologico. Di fatto, al contrario, l'attenzione del lettore viene richiamata a tal punto sul dramma umano che il suo significato soprannaturale tende ad essere dimenticato. Predominano le azioni e i moventi dei capi ebraici, di Giuda lscariota, di Ponzio Pilato, e le sofferenze di Gesù: solo l'elaborata esegesi di teologi e predicatori successivi si è sforzata di spiegare come questa tragedia essenzialmente umana, descritta con particolari tanto realistici, avesse una rilevanza so prannaturale 48 • Queste considerazioni, insieme con l'ovvia necessità dei cristiani d'origine ebraica di spiegare come l'esecuzione di Gesù avesse con fermato, non contraddetto, il suo ruolo messianico, suggeriscono perciò che le narrazioni evangeliche dell'avvenimento derivino dagli archivi della chiesa di Gerusalemme. Sarà in seguito nostro compito valutare in quale misura questa tradizione originaria sia stata conservata nei vangeli, o le ragioni della sua alterazione. Per il nostro scopo immediato vi è, peraltro, un aspetto del rac conto del processo nel vangelo di Marco che richiama ora la nostra attenzione, poiché concerne la valutazione del « vangelo » della chiesa di Gerusalemme. 47 Cfr. Goguel, The Life of ]esus, p. 463; V. Taylor, The Formation of the Gospel Tradition, p. 44 ss. ; Manson, Studies, pp. 20-2.
48 La preoccupazione principale dell'esegesi ebraico . La distinzione non è puramente accademica, giacché Gv. I I : 18-19 e Atti VI: 14 testimoniano dell'esistenza nei circoli cristiani di una tradizione, secondo la quale Gesù avrebbe voluto distruggere il Tempio. Cfr. Klostermann, Markusevangelium, p. 155; Bultmann, Gesch. d. syn. Trad., pp. 126-27, Ergiinzungsheft, pp. 17-18; M. Simon, Recherches d'histoire so
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Perciò, poiché è improbabile che Marco abbia inventato di sana pianta una circostanza a discarico dell'accusa che Gesù avesse parlato contro il Tempio, quando egli stesso prima lo descrive come profeta della sua distruzione, il racconto del processo deve certamente risalire ai cristiani di Gerusalemme. Il fatto che le cose stiano in questi termini è anche coerente con ciò che sappiamo per altra via della venerazione dei cristiani di Gerusalemme per il Tempio 53• Giacché è comprensibile che essi si preoccupassero di confutare l'accusa che il loro Maestro, che essi proclamavano essere il Messia di Israele, avesse minacciato l'eletto santuario del Dio di Israele. Ci è dato pertanto di scorgere una traccia di una originaria apologia degli ebrei cristiani concernente il processo e la croci fissione di Gesù. Vi sono indicazioni che i primi discepoli formu lassero un resoconto del processo al Sinedrio, volto a respingere ciò che essi consideravano la più grave accusa portata in quella sede contro l'identità messianica di Gesù, cioè che egli avesse parlato contro il Tempio. Questa apologia registrava anche la con danna di Gesù per avere riconosciuto se stesso come il Messia. Il fatto che egli fosse condannato per questa sua ammissione, da parte del gran sacerdote, il quale, come vedremo, collaborava con il governo romano del suo paese, doveva pure avere la sua im portanza. Inoltre è per lo meno degno di nota, anche a considerarlo un argumentum a silentio, che Marco e gli altri evangelisti non trovassero evidentemente, in questa originaria apologia degli ebrei cristiani, alcuna analoga confutazione dell'accusa di sedizione ri volta a Gesù durante il processo celebrato dai romani. In altri ter mini, tutto concorre a far ritenere che la versione originaria del processo a Gesù, elaborata dagli ebrei cristiani, mentre era volta judéo-chrétienne, pp. 1 1-12; Brandon, in N.T S., VII ( 1961 ) , pp. 134-36, ]esus and the Zealots, p. 234 ss. 53 Per i cristiani di origine ebraica il Tempio era la « casa di Dio »; cfr. Mc. X I : 1 7 ; Mt. XXIII: 21. Taylor (St Mark, p. 566) ravvisa in questo punto la dif ficoltà: EOY, p. 205; S. Angus in E.R.E., XII, p. 851a, n. 7 ; K. Stendahl, in Peake's Commentary', p. 684e; H. Windisch, Der messianische Krieg und das Urchristen tum, p. 35; Th. Wb., IV, 888; T.W. Manson, « John the Baptist », B.].R.L., 36 ( 1954), p. 406, n. 2.
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pos1z10ne sul piano emotivo e politico nei confronti del conflitto di base tra l'immagine ideale di Israele come teocrazia e il fatto che Israele era un possedimento dell'imperatore di Roma. Nel corso degli avvenimenti succedutisi nella Giudea del primo secolo, come vengono narrati da Giuseppe, il processo e l'esecu zione di Gesù non lasciarono traccia percettibile. Subito dopo la morte di Tiberio e la scomparsa di Pilato dalla scena di Giudea, vi fu secondo lo storico ebraico una minaccia alla santità della religione ebraica, la cui registrazione doveva, nei calcoli dello scrit tore, suscitare la simpatia dei lettori gentili verso i suoi sfortunati compatrioti. Nell'anno 37 a Tiberio era succeduto Gaio, o Cali gola, come veniva comunemente chiamato. Per i romani Caligola si dimostrò uno dei peggiori imperatori, e il fatto che anche gli ebrei soffrissero per la sua insana megalomania serviva bene al tema apo logetico di Giuseppe. La minaccia temuta era niente meno che la profanazione del Tempio con l'installazione in esso di una colossale immagine dorata di Caligola nelle vesti di Zeus 74• Il concetto della divinità dell'imperatore romano, che era stato sostenuto dall'astuto Augusto per ragioni politiche, fu invece preso molto seriamente da Caligola 75• Sembra che gli abitanti gentili di Jamnia, una città della Giudea, abbiano sfruttato questa ossessione per indirizzare la collera imperiale sui loro vicini ebrei. Dopo aver tramato per indurre gli ebrei a distruggere un altare che essi avevano eretto per il culto dell'imperatore, riuscirono a far sl che l'imperatore fosse informato dell'impresa ebraica 76• L'informazione ebbe l'ef fetto sperato. Per rivendicare la propria divinità e punire l'inso lenza degli ebrei, Caligola ordinò a Petronio, legato di Siria, di far preparare l'immagine e collocarla nel Tempio di Gerusalemme 77 • 74 Filone, Leg. ad Gaium, 203; cfr. Gius., A.E. XVII I : 261, G.E. I l : 184-5; Tacito, Hist., V: 9. 75 Cfr. A.D. Nock, C.A.H., X, pp. 496-97; ]. P. V. D. Balsdon, The Emperor Gaius, pp. 160-72. 76 Filone, Leg. ad Gaium, 200-1. Giuseppe ( A.E. XVIII: 257-61 ) fa risalire l'incidente all'antisemitismo alessandrino. Cfr. Schiirer, G.].V., I, pp. 495-503. 77 Smallwood (op. cit., p. 256, n. alla p. 188) pensa che la statua dovesse rap presentare Io stesso Caligola nelle vesti di Zeus.
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Gli ebrei si trovarono così di fronte alla più grave minaccia alla loro religione, da quando il re seleucide Antioco Epifane aveva profanato il Tempio nel 167 a.C. collocandovi un altare a Zeus ( la nota Abominazione della Desolazione, predetta dal profeta Daniele) 78• Sia Filone sia Giuseppe descrivono questa crisi 79• Le loro narrazioni sono colme di reciproche contraddizioni e di affer mazioni poco probabili; ma concordano nell'attestare l'orrore e lo sgomento degli ebrei, e la loro risoluzione di opporsi all'ordine imperiale. Petronio, che ebbe il compito non invidiabile di eseguire l'ordine, entrò in Palestina nell'inverno del 39-40 d.C. con una forza poderosa, che comprendeva due legioni e un cospicuo corpo di truppe ausiliarie. Ovviamente egli prevedeva una fanatica resi stenza da parte degli ebrei e giocò sul tempo, mentre anche il principe ebraico Agrippa tentava di far recedere Caligola dal suo folle progetto 80• Furente per gli indugi di Petronio, Caligola decise infine di installare egli stesso la statua; ma il suo assassinio nel 40 d.C. salvò entrambi, ebrei e romani, da uno scontro fatale 8 1 • Nonostante tenti di descrivere gli ebrei come decisi solo alla resistenza passiva, Giuseppe si lascerà sfuggire un accenno al fatto che Petronio si aspettava la guerra (A. E. XVII I : 302 ), come con ferma anche lo storico romano Tacito (Hist. V : 9 ). La natura della minaccia e la sua repentina rimozione, grazie all'uccisione del potente pagano che aveva in quel modo attentato alla maestà di Yahweh, dovettero produrre una profonda impressione sugli ebrei. Il progetto di Caligola aveva trasformato in tragica realtà ciò che po teva comportare il loro asservimento a Roma, come aveva ammo nito Giuda di Galilea. Un altro imperatore avrebbe potuto tentare in futuro di mettere in atto ciò che Caligola non era riuscito a fare. Ma insieme con questa presa di coscienza di ciò che la signoria romana poteva significare, ci fu l'esaltazione per la liberazione ot tenuta attraverso la morte del tiranno straniero. La liberazione 78 II Mac. VI: 2; Gius., A.E. XII: 253; Dn. IX: 27; XII : 1 1 . Cfr. M. Noth, History of Israel2, pp. 366-67; Farmer, Maccabees, Zealots and ]osephus, pp. 93-7. 79 Filone, Leg. ad Gaium, 197 ss.; Gius., A.E. XVIII : 257 ss.; G.E. I I :
184 ss. 8° Cfr. Brandon, Jesus and the Zealots, pp. 84-7. " Gius., A.E. XVII I : 302-9; G.E. I I : 203.
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venne naturalmente attribuita a Yahweh e servì a convalidare la promessa di Giuda di Galilea che una fede coraggiosa sarebbe stata premiata con l'assistenza divina ( Gius., A.E. XVIII : 5). Nel nostro intento di valutare la testimonianza degli scritti cri stiani relativi alla Giudea di quel tempo, questo portentoso epi sodio ci pone di fronte a un problema che ha un significato imba razzante. Gli Atti degli Apostoli sono dichiaratamente un racconto delle sorti della nascente chiesa cristiana in Giudea nel periodo in cui il tentativo di Caligola di collocare la sua immagine nel Tempio sconvolse la vita del popolo ebraico. Nella versione degli Atti i cri stiani di Gerusalemme sono descritti come assidui ai culti del Tempio, che essi riverivano come la casa di Dio; si dice anche che contavano nella loro comunità molti sacerdoti che affidavano nel Tempio, nonché numerosi farisei che si supponeva fossero leal mente devoti alle pratiche del culto (VI : 7 ; XV: 5). Ma non si trova il benché minimo cenno al grave pericolo corso dalla santità del Tempio per la megalomania di Caligola. Inoltre la circostanza che negli Atti ci siano riferimenti ad altri avvenimenti politici del tempo, nessuno dei quali ebbe l'importanza di questa minaccia al Tempio 82, rende di conseguenza sospetto il silenzio del testo circa il tentativo di Caligola e le sue conseguenze sui cristiani che vive vano a Gerusalemme e frequentavano il Tempio. È impossibile credere che i cristiani di Gerusalemme potessero continuare a vivere nella città santa, e partecipare al culto nel suo Tempio, totalmente ignari dell'empio atto che minacciava sia il Tempio sia i fedeli. Tale indifferenza è veramente incredibile e si può solo dedurne come, anche in questo caso, operasse l'intento apologetico che percorre gli Atti dal principio alla fìne; cioè quello di mostrare che l'opposizione al cristianesimo proveniva dagli ebrei e non dai notabili romani 83• Nell'ottica dell'autore degli Atti non sarebbe servi to al l a causa del cristianesimo narrare che gli originari cristiani di stirpe ebraica avevano reagito con forza alla minaccia romana di violare il Tempio ; inoltre, quando egli scriveva, quel '2 Per es. Atti V: 34-7; X I : 28; XII : 20-3; XVIII: 2, 12; XXI : 38; XXIV: 24; XXV: 1 3 . " Cfr. B.C. , I l , pp. 177-86; Brace, Acts of the Apostles, pp. 29-34.
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Tempio era già stato distrutto dai romani e l'autore stesso, in uno scritto precedente, ne aveva interpretato la distruzione come la punizione divina sulla nazione che aveva respinto Cristo 84• Ma non esiste in nessun documento cristiano qualche indizio che riveli una reazione dei cristiani di Gerusalemme di fronte all'in combere della minaccia romana sul Tempio? La necessità stessa di porre questa domanda è significativa. Poiché rivela un altro aspetto di quel problema che la nostra ricerca va affrontando, e cioè che quegli scritti cristiani che intendono descrivere gli inizi del cristia nesimo mostrano uno strano disinteresse o eludono certi rapporti chiaramente inevitabili degli ebrei cristiani con gli affari ebraici del tempo. Di questo problema acquisteremo sempre maggiore con sapevolezza, via via che ci appresteremo a utilizzare questi docu menti come testimonianze del processo e dell'esecuzione di Gesù. Tuttavia è possibile ritrovare qualche riflesso dell'atteggiamento tenuto dai cristiani di Gerusalemme verso il tentativo di Caligola in un contesto diverso, nel vangelo di Marco. Il tredicesimo capitolo del vangelo di Marco contiene un lungo discorso di Gesù ai suoi discepoli, quando stavano sul Monte degli Ulivi di fronte al Tempio. L'autore del vangelo ha localizzato abil mente la scena descrivendo come uno dei discepoli, uscendo dal Tempio con Gesù, ne avesse attirato l'attenzione sulla magnifi cenza di quell'imponente edificio . Gesù, nella risposta, vaticinava la sua distruzione : « Vedi queste grandi costruzioni? Non resterà pietra su pietra che non sia distrutta » (XII I : 2 ) . Un momento dopo, seduti in quel meraviglioso punto dal quale si domina la valle di Kedron, con tutta Gerusalemme e il Tempio distesi di fronte nel loro splendore voluto da Erode, i discepoli avevano chiesto a Gesù : « Dicci, quando accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando tutte queste cose cominceranno a compiersi? » (XII I : 3-4 ). Gesù allora continua a predire, con ricchezza di immagini apoca littiche, sia la profanazione del Tempio da parte della misteriosa « Abominazione della Desolazione », sia la fine del mondo (XII I : 5 ss. ). 84
Le. XIX: 41-4. Gli Atti costituiscono una continuazione del vangelo di Luca l ss.).
(cfr. Atti I :
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Abbiamo già accennato al problema sollevato da questa attribu zione a Gesù di una profezia della distruzione del Tempio, in con siderazione dell'affermazione, fatta nel racconto di Marco del pro cesso al Sinedrio, che Gesù era stato falsamente accusato di aver minacciato il Tempio in termini di quel genere. Notavamo che il rigetto di tale accusa come « falsa testimonianza » derivava senza dubbio dalla narrazione originaria del processo, elaborata dagli ebrei cristiani, alla quale Marco attinse il suo testo. La spiegazione delle versioni contraddittorie che Marco offre di questo avveni mento va ricercata nella situazione che lo portò a scrivere il suo vangelo. Individuare questa situazione è un problema fondamen tale per la comprensione del racconto di Marco del processo a Gesù, e ne discuteremo a lungo più avanti. Tuttavia possiamo ragionevolmente anticipare una conclusione che emergerà da quella discussione, e cioè che, nell'apocalittico discorso del capitolo tre dicesimo, Marco si preoccupava dell'esaltazione escatologica pro dotta tra i suoi compagni cristiani dagli avvenimenti del 70 d.C. Come vedremo, egli identificava certi atti di culto compiuti dalle truppe romane nel Tempio, dopo la sua conquista, con la miste riosa Abominazione della Desolazione; e passava poi a trattare l'assillante questione di quando Cristo sarebbe tornato per con durre il mondo alla sua fine catastrofica. Ora, nel comporre questo discorso apocalittico, che egli attribuisce a Gesù quando stava sul Monte degli Ulivi, Marco attinse evidentemente a un certo mate riale apocalittico tradizionale. Molti studiosi hanno individuato un tratto distintivo di tale materiale nel seguente brano : Quando poi vedrete l'abominazione della desolazione posta là dove non deve stare, il lettore intenda, allora quelli che sono nella Giudea fuggano verso i monti, chi è sul terrazzo non scenda e non entri per prendere alcunché dalla sua casa e chi è nel campo non torni indietro per prendere il suo mantello. Ma guai alle incinte e a quelle che allat tano in quei giorni. Pregate dunque che non accada d'inverno, poiché quei giorni saranno di tale tribolazione quale non ve ne fu mai dal principio della creazione fatta da Dio fino ad ora, né più ci sarà. E se il Signore non avesse abbreviato quei giorni, nessuna carne sarebbe salvata, ma in grazia degli eletti che egli ha scelto, ha abbreviato quei giorni. [Mc. XIII : 1 4-20 ]
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Dietro le strane espressioni apocalittiche di questo passo è chia ramente espressa una specifica situazione di grave crisi, terminata improvvisamente con un intervento divino. Il luogo è la Giudea e là è adombrata la minaccia di un gesto sacrilego paragonabile alla nota profanazione del Tempio con l'altare a Zeus, che Antioco Epifane vi eresse nel 1 67 a.C. Appena la nuova Abominazione della Desolazione è penetrata nel Tempio ( « dove non deve stare » ), si �mmoniscono coloro ai quali è indirizzato l'avvertimento di scap pare subito sulle montagne : senza dubbio le desolate alture deser tiche della Giudea. È preannunciato un periodo di grande tribola zione, che potrebbe venire nell'inverno. Tuttavia, in qualche mi steriosa maniera, Dio aveva improvvisamente posto fine alla crisi, e lo aveva fatto « in grazia degli eletti », la cui identità doveva essere evidente a coloro che erano interessati. Ora, solo due volte, dopo il primo gesto dissacratorio di Antioco, il Tempio era stato minacciato da una Abominazione della Deso lazione: nel 3 9-40 e nel 70 d.C. 85 La prima occasione fu quando Caligola decise di erigervi la sua immagine; ma questa minaccia fallì, come abbiamo visto, per l'assassinio di Caligola, che gli ebrei consi derarono un atto di giustizia divina nei confronti dell'empio ti ranno. Nel 70 d.C. non ci fu nessun intervento divino : l'« abomi nazione della desolazione » stette « dove non deve stare », come vedremo nel prossimo capitolo. Il passo, nella sua forma originaria, deve quindi riferirsi alla crisi provocata da Caligola nel 39-40 d.C. : questa identificazione è ulteriormente suffragata dal riferimento al l'inverno, dato che Giuseppe narra che Petronio, il comandante romano, concentrò le sue forze a Tolemaide nell'inverno del 39 (A.E. XVII I : 262 ). Sarà nostra cura considerare più avanti come Marco adattò questo passaggio apocalittico, mediante alcune significative varianti, alla profanazione romana del Tempio del 7 0 . Il fatto che Marco procedesse in tal modo significa senza dubbio che egli trovò tra le fonti alle quali attingeva gli elementi adatti per compilare il suo vangelo. Tale conclusione è naturalmente del massimo interesse per " Vedi pp. 130-32.
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il nostro scopo, poiché indica che una tradizione apocalittica rife rita al tentativo dissacrante di Caligola correva nei circoli cristiani di Giudea : ed essa può fornire la prova, non reperibile altrove, della reazione dei cristiani di Gerusalemme alla crisi del 3940 d.C. 86• Se questa deduzione ha un solido fondamento, essa getta una luce preziosa sull'atteggiamento della comunità cristiana originaria di Gerusalemme; inoltre concorda con quanto sappiamo per altre vie sull'attaccamento dei primi cristiani al Tempio. Significa che, di fronte alla terribile minaccia della profanazione del Tempio d'Israele da parte dell'immagine dell'imperatore romano, essi erano pronti a fuggire sulle alture. E a quale scopo? Ovviamente per allontanarsi dall'orrore che i romani rappresentavano : anche se la installazione dell'Abominazione non implicava necessariamente un pericolo per gli abitanti di Gerusalemme nel caso in cui avessero quietamente accettato la situazione. L'area verso la quale i cristiani di Gerusalemme erano esortati a fuggire è del resto particolar mente significativa; infatti era proprio nelle colline desertiche di Giudea che gli zeloti mantenevano la loro resistenza, e i settari di Qumran preparavano la futura guerra escatologica dei Figli della 7 Luce contro i Figli delle Tenebre 8 • Il brano offre anche un altro importante indizio circa la parti colare ottica dei cristiani di Gerusalemme, se tale nostra attribu zione è corretta. Infatti la dichiarazione conclusiva, secondo la quale Dio era intervenuto « in grazia degli eletti », rivela che la comunità cristiana di Gerusalemme si considerava un gruppo di stinto cui Dio era così favorevole da salvargli il Tempio dalla pro fanazione romana, presumibilmente per amore di loro 88• Non v'è dubbio che questa interpretazione si fonda su un ragio namento assai complicato. Ma è così di tutte le interpretazioni dei 86
Cfr. Brandon, ]csus ami tbc Zcalots, pp. 87-9 1 . Cfr. ibidem, pp. 58-9. Cfr. Yadin, 'l'be Scroll o/ the War, p. 246; Dupont Sommer, Les écrits esséniens, p. 179 ss. " Giuseppe attribuì la morte di Caligola alla collera divina (A.E. XVIII : 306). Cfr. J.S. Kennarcl, Politique et rcligion chez !es ]uifs au temps de Jésus et dans l'Église primitive, p. 12. Su > . Ma egli taceva e non Winter, On the Trial o/ Jesus, p. 23 ss., Z.N.T.W., 5 3 ( 1962), pp. 260-3, f.T.S., XIV ( 1 963 ) , pp. 94-102. 25 « Qu es to passo è probabilmente tutto ciò che resta della versione originale dell'azione dci sacerdoti nel cui contesto Marco inserì XIV: 55-65 >> ( Taylor, p. 578, cfr. p. 646 ) . Cfr. Beare , Earliest Records of Jesus, pp. 232-3 ; A. Jaubert, R.H.R. , 166 ( 1 964 ) , pp. 146-8 ( « Une phrase boiteuse peut etre précisérncnt le signe d'une sou rcc qui a cmharrassé le rédacteur . . . C'est une raison dc peme:r que cette délibération matinale s'est imposée au rédacteur » ) .
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rispose nulla. Di nuovo il capo dei sacerdoti lo interrogava e gli dice : « Tu sei il Cristo, il Figlio del Benedetto? ». Gesù rispose: « lo lo sono, e vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo ». Allora il capo dei sacerdoti, strappandosi le vesti dice : « Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete sentito la bestemmia? Che vi pare? ». Tutti allora sentenziarono che era reo di morte. E alcuni cominciarono a sputargli addosso, gli coprivano il volto e lo schiaffeggiavano dicendogli: « Indovina ». E i servi gli davano degli schiaffi ... E subito, la mattina, i capi dei sacerdoti e tutto il sine drio, con gli anziani e gli scribi, dopo aver tenuto consiglio, legato Gesù, lo condussero e lo consegnarono a Pilato. Allora Pilato lo in terrogò : « Tu sei il re dei Giudei? ». Ed egli, rispondendo, gli dice: « Tu lo dici ». I capi dei sacerdoti intanto lo accusavano di molte cose. E Pilato lo interrogava di nuovo dicendo: « Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano » . Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase meravigliato. [ Mc. XIV: 53, 55-65 ; XV: 1-5 ]
È difficile dire in quale misura Marco abbia rielaborato questo racconto . Il principale punto dubbio concerne l'attribuzione al sommo sacerdote delle parole che gli fanno identificare il Messia ( Cristo), come il Figlio di Dio: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Benedetto ? » (XIV: 6 1 ). Questo punto, peraltro, sarà trattato meglio in seguito. Per ora dobbiamo considerare due difficoltà con cernenti la narrazione, che sono state sollevate da alcuni studiosi. È stato fatto notare, mettendo così in dubbio l'esattezza del racconto, che sarebbe stato inverosimile per il Sinedrio - la corte suprema ebraica che trattava le questioni relative alla Legge riunirsi nella casa del sommo sacerdote, visto che il consesso aveva un suo apposito luogo di riunione 26 • In seconda istanza, che una seduta notturna del Sinedrio sarebbe stata sicuramente irregolare n . 26 La localizzazione dei procedimenti del Sinedrio nella casa del sommo pon tefice viene dedotta dai versetti XIV: 54, 66, i quali appartengono alla storia del diniego di Pietro, che è un'interpolazione. Secondo Giuseppe (C.E. V : 142-147; VI : 354 ), la sala del consiglio (bouleuterion) era nella zona meridionale dell'area del Tempio o contigua ad essa: cfr. Loeb ed. di ]osephus, III, p. 242, n. e. Cfr. Klausner, ]esus of Nazareth, p. 339; J. Blinzler, The Trial of ]esus, pp. 1 12-14; Winter, On the Trial of ]esus, pp. 20-2. 27 Secondo il trattato Sanhedrin, 4: l (in H. Danby, The Mishnah, p. 387), i processi per accuse che prevedevano la pena capitale si svolgevano di giorno, e anche il verdetto doveva essere emesso durante il giorno. È difficile stabilire quanto questo trattato riproduca accuratamente la procedura del Sinedrio nel
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Queste obiezioni sarebbero valide se la narrazione fosse da consi derare come un resoconto effettivo di ciò che si suppone fosse un processo di fronte al Sinedrio. Ma giudicare il racconto in tale maniera significa non intenderne la vera natura. Come abbiamo già visto, nella sua forma originaria esso faceva parte di una apologia ebraico-cristiana, intesa a mostrare che l'esecuzione di Gesù non era in contrasto con la sua pretesa di essere il Messia. Una delle prin cipali obiezioni contro quella pretesa era evidentemente costituita dal fatto che Gesù fosse stato accusato davanti al Sinedrio di mi nacce contro il Tempio. Gli ebrei cristiani erano impegnati a respin gere questa accusa: il loro resoconto dei procedimenti al Sinedrio · fa appunto questo, mostrando che l'imputazione era una « falsa testimonianza », e che Gesù fu condannato dal Sinedrio non per questa calunnia, ma per aver affermato di essere il Messia (Mc. XIV: 55-64 ) 28• Ora però dobbiamo porci la seguente questione, implicita nelle stesse obiezioni che abbiamo appena menzionato : il dibattito nella casa del sommo sacerdote, quella notte, fu un vero e proprio pro cesso a Gesù da parte del Sinedrio? Marco lascia chiaramente intendere che si trattò di un processo; e in tal modo trasmette ai suoi lettori l 'impressione che Gesù fosse realmente giustiziato in seguito a una sentenza del Sinedrio per bestemmia, accusa che non comportava nessuna delle pericolose implicazioni politiche che ave va invece una sentenza romana per sedizione 29• Ma una scrupolosa analisi di quello che era, verosimilmente, il racconto originario dei cristiani di Gerusalemme mette in luce una situazione alquanto diversa. primo secolo d.C., o non rappresenti piuttosto un'ideale sistematica rabbinica più tarda. Cfr. Klausner, op. cit., p. 340; Guignebert, ]ésus, p. 566; Blinzler, pp. 135, 145-57; Winter, pp. 20-30 ; Taylor, pp. 644-6; Jaubert, R.H.R., 166 ( 1964), pp. 151153 ; A.N. Sherwin-White, Roman Society and Roman Law in the New Testa ment, pp. 44-6. 28 « Le passage de Mare cherche à justifier Jésus par rapport à des juifs qu i pouvaient se scandaliser de cette parole » (Jaubert, R.H.R., 166, p. 160). 29 Per i lettori di Marco la risposta affermativa di Gesì1 nlla domandn dci sommo sacerdote (come viene data da Marco) doveva suonare.: come un 'affe rma zione veracc, mentre il fatto che il Sinedrio la interpretasse come bestemmia doveva costituire una ulteriore prova dell'ostinazione ebraica di fronte alla rive lazione divina.
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Bisogna tenere presente che i capi · ebraici costituivano una aristocrazia sacerdotale, alla quale i romani affidavano la gestione degli affari interni ebraici. Per giustificare la loro posizione essi dovevano mantenere la pace e l'ordine tra la loro gente e coope rare efficacemente al sostegno del potere romano 30• Gesù, una figura messianica, sostenuta da una considerevole popolarità, aveva gravemente minacciato il controllo dei sacerdoti sul Tempio, la vera fonte della loro ricchezza e del loro predominio sulla nazione. Qualunque fosse la sua effettiva finalità, Gesù in quel suo primo attacco non era riuscito a conseguirla; ma continuò a godere di un largo appoggio popolare e poté essere arrestato solo in virtù di una operazione surrettizia. Una volta che i capi ebraici lo ebbero in loro potere, quale fu la politica che più probabilmente seguirono? Nei termini in cui ci è noto, il dibattito processuale avvenuto nella casa del gran sacerdote quella notte offre alcuni indizi significa tivi. Prima di tutto, il luogo e l'ora insoliti del processo rivelano chiaramente che il tribunale aveva fretta: probabilmente i capi ebraici non potevano prevedere con certezza quale sarebbe stata la reazione della gente, composta in larga misura di pellegrini venuti a Gerusalemme per la Pasqua, quando si fosse sparsa la notizia dell'arresto di Gesù; l'azione dei capi avrebbe avuto successo sol tanto se avessero messo il popolo di fronte al fatto compiuto . L'autore del vangelo di Giovanni rappresenta il gran sacerdote Caifa nell'atto di esprimere la sua preoccupazione anche per la possibile reazione romana nel caso in cui a Gesù fosse stato per messo di continuare liberamente le sue attività (Gv. XI : 47-8 ). In altre parole, Gesù non solo aveva sfidato la posizione del sommo sacerdote e del suo partito, ma costituiva anche una minaccia al l'ordine pubblico, di cui Pilato avrebbe attributo la responsabilità all'aristocrazia sacerdotale. Vedremo fra poco, in modo documen tato, come l'attività di Gesù a Gerusalemme coincise con una in surrezione nella quale i romani furono direttamente coinvolti. Era perciò un chiaro compito dei capi ebraici scoprire la precisa natura delle intenzioni di Gesù, che si configuravano come sov"' Vedi Gius., A.E. XX: 251 ; cfr. Jeremias, ]erusalem, Il, pp. 17, 59.
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versive per l'ordine costituito; e, con questa prova in mano, con segnarlo a Pilato per il giudizio e la sentenza. È pertanto significativo il fatto che l'apologia dei cristiani di Gerusalemme individui il principale punto dibattuto dinanzi al Sinedrio nella questione dell'atteggiamento di Gesù nei confronti del Tempio. Il racconto lascia intendere che i capi ebraici avevano corrotto i testimoni affinché dessero « falsa testimonianza » contro Gesù, per disporre di elementi tali da poterlo condannare a morte 31• Se le cose andarono veramente in questo modo, allora quei capi furono stranamente puntigliosi nell'osservare le procedure di pro va; giacché con ogni evidenza essi non accettarono testimonianZe allorché alcuni testimoni vennero a trovarsi in contraddizione con altri (Mc. XIV: 59) 32• Di certo, ci si può domandare, i capi ebraici non avrebbero condotto le cose con maggiore abilità se si fossero soltanto limitati a cercare un pretesto legale per eliminare Gesù? E qui c'è un altro punto da considerare. Il vaticinare la distruzione del Tempio non era ritenuto un reato da punire con la morte. Tant'è che Giuseppe narra le attività di un contadino, di nome Gesù, figlio di Anania, che quattro anni prima della guerra co minciò a profetizzare nel Tempio, durante la festa dei Tabernacoli: « Una voce dall'oriente, una voce dall'occidente, una voce dai quattro venti; una voce contro Gerusalemme e contro il Tempio, una voce contro lo sposo e contro la sposa, una voce contro tutto 31 Cfr. Mc. XIV: 55 ss., 60, 63. Il fatto che i sommi sacerdoti procurarono >. Vedi p. 219 ss. Cfr. Sherwin-White, pp. 27-8. Albino aveva fatto una cosa simile con Gesù figlio di Anania. 70 Il fatto che la durata dell'incarico conferito a Pilato ( 26-36 d.C.) sia una delle più lunghe dei governatori romani di Giudea, prima della fine dello stato ebraico, prova che, a giudizio di Tibcrio, Pilato aveva svolto un buon lavoro. 69
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la sua esecuzione. E il fatto che egli fece davvero mettere a morte Gesù come ribelle conferma ovviamente questa conclusione. Solo il modo in cui Marco inserisce l'episodio di Barabba, nella forma strana in cui viene presentato, contraddice questa conclusione le gittima e naturale. L'episodio di Barabba non solo interrompe la logica successione degli avvenimenti dall'interrogatorio di Gesù da patte di Pilato fino al suo ordine di esecuzione, ma presenta pure una situazione incredibile. Infatti, anche a prescindere dalla questione della stori cità dell'asserita usanza, l'episodio descrive una discussione dav vero straordinaria per la sua illogicità. Ci si domanda di credere che un rigoroso governatore romano trattasse con la plebaglia ebraica la liberazione di un prigioniero, affidato alla sua custodia, che egli sapeva essere innocente 71 • Questo governatore, per giunta, disponeva di una grossa forza militare, in grado di sostenerlo nella decisione sia di rilasciare il prigioniero, qualora avesse deciso di farlo, sia di trasferire il processo a Cesarea. Ma non basta: ci si dice, senza spiegazione, dell'abilità dei sommi sacerdoti nel convin cere una folla - il cui sostegno per Gesù alcuni giorni prima essi avevano così fortemente temuto - a chiedere la sua crocifis sione (Mr. XI : 1 8 ; XII : 1 2 ) . Dobbiamo osservare ora u n altro aspetto del racconto di Marco. Sebbene non lo dica in modo esplicito, l'evangelista evidente mente sottintende che Pilato, per salvare Gesù, chiese alla folla di scegliere tra Barabba e Gesù stesso 72• Matteo, proseguendo e ampliando la narrazione di Marco, chiarisce i termini di questa scelta: « Pilato dunque, essendo essi radunati, disse loro : " Chi volete che vi liberi, Barabba o Gesù detto il Cristo? " . Egli infatti sapeva che glielo avevano consegnato per invidia » (Mt. XXVII : 1 7-1 8 ) . Ora, se teniamo presente che, secondo Marco, Gesù era filoromano nel suo atteggiamento a proposito della questione del tributo, il fatto che Pilato abbia cercato di salvare Gesù, costrin71 La debole e vile figura presentata da Marco non può essere identificata con il Pilato descritto da Filone e da Giuseppe: cfr. ]esus and the Zealots, pp. 68-80, e nel presente volume pp. 71-82. 72 Ciò è evidente nell'anticipata menzione di Barabba fatta da Marco (vedi sopra) e nella domanda posta da Pilato in XV : 12.
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gendo la folla a scegliere tra lui e Barabba, lo qualifica come un incredibile idiota. Nell'ottica del testo di Marco, Pilato offriva alla folla ebraica di liberare in un caso un patriota, che si era battuto contro gli odiati oppressori romani, e nell'altro un uomo che aveva dichiarato essere un dovere per gli ebrei pagare il tributo a Roma pagana. Se Pilato avesse davvero voluto distruggere Gesù invece di salvarlo, non avrebbe potuto trovare una strada più facile, giacché inevitabilmente la folla avrebbe chiesto il rilascio del pa triota Barabba. Ma Marco, nel suo tentativo di rappresentare Pilato come con vinto dell'innocenza di Gesù, si spinge ancora più in là. Come abbiamo appena visto, al fine di ottenere questo risultato, Marco fa passare il governatore romano per un idiota senza paragone, che offre alla folla ebraica quella scelta. Però, anche se Pilato avesse agito in modo così insensato, la scelta del popolo lo avrebbe privato soltanto della possibilità di usare l'amnistia per rilasciare Gesù . Egli teneva ancora Gesù nelle proprie mani. Nondimeno, secondo Marco, dopo avere ricevuto la risposta della folla su Barabba, egli continua a interpellarla sul destino di Gesù: « Che farò dunque di colui che chiamate il re dei Giudei? ». Il fatto implicito nella domanda è che Pilato non solo fosse costretto ad aderire alla ri chiesta della folla di liberare Barabba, ma fosse anche obbligato a consultarla su ciò che dovesse fare di Gesù. L'idea stessa di una situazione simile è estremamente ridicola. Persino nell'ottica del testo di Marco, i capi ebraici avevano consegnato Gesù a Pilato affinché lo giudicasse, dato che il governatore era la principale autorità giudiziaria dello stato. Ora, nell'episodio di Barabba, Pi lato non solo resta frustrato nel suo progetto di amnistiare Gesù, ma fa la figura di chi è costretto ad accettare la volontà della folla persino a proposito del destino di Gesù. Ci viene così presentato l'assurdo spettacolo di un governatore romano che consulta una turba di ebrei a proposito di un prigioniero di cui egli conosce l'innocenza, e che risponde in modo fiacco alla richiesta della plebaglia di crocifiggerlo : « Che ha fatto dunque di male? » 73• 73
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Taylor (pp. 582-3 ), tentando di difendere l'autenticità della narrazione di
Tale assurda presentazione può essere spiegata adeguatamente in un solo modo : essa era il frutto della preoccupazione di Marco di evitare lo scandalo della crocifissione di Gesù da parte dei ro mani. Gli scopi perseguiti dall'evangelista, dal principio alla fine dell'episodio di Barabba, sono chiaramente i seguenti: mostrare in primo luogo che Pilato riconobbe l'innocenza di Gesù; e in se condo luogo sgravare Pilato della responsabilità della crocifissione di Gesù, facendolo apparire come costretto dai capi e dal popolo ebraico a ordinare l'esecuzione. Marco sembra valersi dell'episodio come di una sorta di disperato espediente per spiegare in altro modo la spinosa circostanza della croce romana, dopo avere fatto tutto quanto poteva per sottolineare le intenzioni malvage dei capi ebraici. Il fatto che la sua spiegazione descrivesse una situa zione impossibile, che qualunque lettore acuto e ben informato avrebbe immediatamente scoperto, non dovette preoccupare af fatto Marco. I suoi lettori cristiani di Roma non erano di certo più critici o meglio informati di quelli dell'apologista Tertulliano, il quale, nel secondo secolo, ebbe la temerarietà di asserire che negli archivi pubblici di Roma - in un rapporto, presumibilmente di Ponzio Pilato - esisteva la prova che l'imperatore Tiberio fosse convinto della divinità di Cristo 74 • Marco circa l'episodio di Barabba, riconosce che « la domanda di Pilato è molto fiacca », ma ne difende la genuinità argomentando che « non sembrerebbero esistere ragioni valide perché egli non avesse detto sarcasticamente: "Che cosa debbo fare, allora, del re dei Giudei?" ». Taylor trascura di osservare che Pilato, secondo Marco, obbedl alla folla quando questa gli chiese, in risposta al suo sarcasmo, di croci figgere Gesù. È interessante vedere come uno studioso competente, quando si tratta di difendere un testo sacro, riesca a non scorgere l'intrinseca assurdità di una situazione che tale testo descrive. 74 Tertulliano, Apologia, V.3 : « Tiberius ergo, cuius tempore nomen Christia num in saeculum introivit, adnuntiata sibi ex Syria Palaestina, quae illic veritatem ipsius divinitatis revelaverant, detulit ad senatum cum praerogativa suffragii sui ». Tertulliano dava vigore alla sua asserzione ammonendo persino : « Consultate i vostri archivi » (Consulite commentarios vestros) un esempio insuperabile di millanteria, quando si pensi che la sua Apologia era indirizzata ai magistrati del l'impero romano; ma si trattava di una millanteria poco rischiosa giacché era improbabile che l'Apologia venisse letta dai magistrati, mentre in realtà era desti nata al consumo dci cristiani. Altrettanto significativa a questo proposito è l'as serzione di Giustino Martire ( 100- 1 65 c.), in un'apologia indirizzata all'imperatore Antonino Pio, secondo cui egli avrebbe potuto trovare la registrazione della nascita di Gesù Cristo negli elenchi delle tasse di Quirinio, che egli erroneamente rite neva essere stato il primo governatore della Giudea (Apol. I .34). Vedi cap. 7. -
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Diventa cosi comprensibile come il proposito apologetico di Marco lo conducesse a interrompere il suo racconto del processo romano di Gesù con l'episodio di Barabba, che egli usò per spie gare come Pilato, da un lato, testimoniasse l'innocenza di Gesù, e dall'altro fosse costretto a crocifiggerlo. Ma ora dobbiamo stabi lire se l'episodio fu inventato di sana pianta da Marco. Per cominciare, notiamo che la pretesa usanza di liberare un prigioniero per Pasqua - sia che si trattasse di un privilegio con cesso solo da Pilato sia che fosse un costume osservato anche da altri procuratori - non trova conferma in nessun'altra testimo nianza. Sono state fatte ricerche per reperire altri esempi di usanze simili; ma gli esempi sono assai scarsi e non offrono termini di confronto persuasivi 75• Inoltre, la circostanza che Giuseppe non faccia menzione di tale costume è particolarmente importante; giacché, sebbene possa essere interpretata come un argumentum a silentio, tale circostanza costituisce qui una prova particolar mente convincente. Infatti questo storico ebreo era mosso dalla preoccupazione di mostrare ai suoi lettori gentili gli svariati privi legi concessi dai romani agli ebrei, in pegno del loro reciproco accordo 76: sarebbe veramente strano, perciò, che avesse trascurato di menzionare un'usanza cosi straordinaria come quella descritta da Marco e dagli altri evangelisti. Va poi considerata l'intrinseca improbabilità di un'usanza di questo genere. Poiché non esistono prove che un simile costume fosse una pratica tradizionale ebraica al tempo dell'annessione della Giudea all'impero romano, se tale usanza mai vi fu, dovette essere introdotta dai romani; ma da quale autorità? Dall'imperatore o dal procuratore? Marco la de scrive come un'abitudine propria di Pilato, il che sembrerebbe impossibile senza l'avallo imperiale. Se l'uso fosse stato autorizzato dall'imperatore, dovremmo domandarci perché Tiberio avesse ac75 Cfr. A. Deissmann, Licht vom Osten, pp. 229-31 ; Taylor, pp. 580- 1 ; Goguel, Li/e of ]esus, p. 519; Guignebert, ]ésus, pp. 573-4; Blinzler, pp. 205-8, 218-21 ; Winter, pp. 92-4; E . Staulfcr, ]esus and His Story, p . 107 ; Bultmann, Gesch. d. syn. Trad., p. 293, n. 3 . 76 Cfr. Gius., A.E . , Xli : 1224. È opportuno rammentare che nella vicenda
degli stendardi romani Giuseppe teneva a sottolineare il privilegio concesso dai governatori precedenti, che Pilato aveva violato: vedi cap. 2.
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cordato un simile straordinario privilegio solo agli ebrei. Del resto, troviamo obiezioni ancora più serie sul piano dell'amministrazione e della sicurezza. La Giudea era in agitazione a causa del naturale risentimento ebraico contro il giogo romano e delle attività degli zeloti. Per il governatore romano, l'essere costretto da una consue tudine stabilita autonomamente dagli indigeni a liberare ogni Pasqua un prigioniero, scelto dalla folla ebraica, doveva costituire un grave pregiudizio al mantenimento della pace e dell'ordine. A volere dar credito alla testimonianza di Marco, per questa parti colare Pasqua Pilato fu costretto a rilasciare niente meno che un insidioso ribelle, senza dubbio un capo zelota, che era stato recen temente responsabile di una pericolosa insurrezione 77• Quando si considerino tutte queste gravi obiezioni all'asserzione di Marco circa l'esistenza di una simile usanza, appare inevitabile concludere che egli abbia riportato in modo erroneo qualche inci dente avvenuto al tempo del processo di Gesù a Gerusalemme. Sembra, questa, una conclusione più assennata che non quella di considerare l'episodio di Barabba senz'altro come una pura inven zione di Marco. Infatti certe osservazioni casuali presenti nel suo racconto rivelano la loro derivazione da una tradizione della quale l'evangelista era ben informato, ma che esitava a rivelare compiu tamente ai suoi lettori. Cosl, il riferimento a « l'insurrezione » rivela che Marco era a conoscenza di un ben noto avvenimento del tempo 78• Inoltre, la prematura citazione di Barabba - che ab biamo notato - indica l'inquietudine di Marco per un capo ribelle il cui destino, come egli sapeva, era stato collegato a quello di Gesù in questa fatale occasione. È anche significativo che Pilato, quando parla di Gesù nel corso di questo episodio di Barabba, usi la pe sante espressione « il re dei Giudei » (Mc. XV : 9, 1 2 ) . Infìne, 71 Sulla possibilità che Barabba fosse uno zelota cfr. Hengel, Die Zeloten, pp. 30, 347-8; Cullmann, The State in the New Testament, pp. 47-8; Stendahl in P.C.2, p. 649k; Klausner, Jesus of Nazareth, p. 347; Driver, Judaean Scrolls, p. 246. Meyer (Ursprung, I, p. 195) descriveva Barabba come « der politische Agitator und Freiheitsheld » . 78 XV: 7 (en te stasei). Cfr. Taylor, p. 581 ; Eisler, I I, pp. 462-3. La frase di Marco lascia naturalmente intendere che la rivolta era stata molto recente: cfr. Meyer, l, p. 195.
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il testo di Marco fa apparire i sommi sacerdoti come coloro che istigarono la folla a chiedere la liberazione di Barabba; sul quale, con tutta evidenza, non cadde la scelta spontanea del popolo (XV: 1 1 ) 79 • La testimonianza di questi diversi punti indica che a quel tempo avvenne a Gerusalemme qualche incidente, in seguito al quale Pilato ordinò di mandare a morte Gesù al posto di un noto ribelle chiamato Barabba 80• Poiché la descrizione della vicenda fornita da Marco non può essere accettata come autentica, dobbiamo assu mere il fatto puro e semplice che tra Gesù e Barabba intercorse qualche decisivo rapporto, e cercare di comprenderlo sulla scorta di tutte le altre testimonianze di cui disponiamo. La prima, e certamente più significativa, circostanza di cui l'epi sodio & Barabba ci informa, è che poco tempo innanzi aveva avuto luogo un'insurrezione. Quanto tempo innanzi, e dove fosse avve nuta, non è chiarito da Marco. Luca tuttavia situa la sollevazione a Gerusalemme (XXIII : 1 9 ), e tutto lascia pensare che fosse avve nuta da pochissimo tempo, dato che la Pasqua, durante la quale Gerusalemme si gremiva di pellegrini, era l'occasione più opportuna 79 Al versetto 8 il popolo non specifica alcun prigioniero, quando chiede a Pilato di rispettare l'usanza. 80 La frase usata da Marco (XV: 7) nel presentare Barabba è strana: « uno, chiamato (ho legomenos) Barabba >>. L'espressione ho legomenos è generalmente preceduta da un nome di persona e indica che la persona che porta tale nome era conosciuta con un epiteto descrittivo. Perciò, dato che Barabba (Bar Abba) si gnifica « Figlio del Padre », si direbbe che il nome personale sia stato omesso. In Mt. XXVII : 16, 17 taluni manoscritti danno la versione « Gesù Barabba », creando cosl una contrapposizione tra « Gesù chiamato Barabba » e « Gesù chia mato Cristo » (cfr. Novum Testamentum Graece, ed. E. Nestle", p. 78). Tenuto conto del fatto che l'idea di un « !adrone » chiamato anche « Gesù » sarebbe stata sgradita ai cristiani, molti studiosi ritengono che la versione « Gesù Ba rabba » non possa essere una invenzione più tarda e conservi perciò in sé una tradizione originale. Cfr. Taylor, p. 581 ; Goguel, Life of Jesus, pp. 516-17; Blinzler, pp. 209-10. Eisler utilizza questa somiglianza dei nomi per spiegare l'episodio di Barabba nei termini di una (momentanea) confusione di identità tra un innocente sostenitore della gerarchia ebraica e il re ribelle, Gesù di Nazareth ( IH:EOY:E BA:EIAEY:E, II, pp. 463-9; Messiah Jesus, pp. 473-6). L'ipotesi che un venerabile rabbino venisse arrestato casualmente dai romani in un rastrellamento di ribelli non è convincente. Anche Winter (On the Trial of Jesus, p. 99) ricorre a una ipotesi di confusione di identità per spiegare l'episodio di Barabba : Pilato rilasciò Gesù bar (R) Abba(n) quando si rese conto che non era Gesù, « il re dei Giudei ».
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per una rivolta. Ora, la coincidenza - o qualcosa di molto simile a una coincidenza - dell'attacco di Gesù al Tempio con una insurrezione, pure in corso nella città, che le forze romane avevano soffocato subendo alcune perdite, deve certamente considerarsi un fatto significativo. Gerusalemme era una piccola città, ed è difficile credere che i due tumulti non fossero in qualche modo collegati, per lo meno nella mente delle autorità. È assai probabile che Ba rabba fosse uno zelota, e a questo punto abbiamo nozioni precise sulla ispirazione religiosa dell'opposizione zelota cont.ro Roma. Possiamo, quindi, legittimamente arguire che questa insurrezione fosse d'ispirazione religiosa, non diversamente dall'azione condotta da Gesù nel Tempio. Era possibile che i due tumulti, avvenuti circa nello stesso tempo, fossero dunque legati anche sul piano dei principi ispiratori e degli scopi? Non ci viene detto in quale parte di Gerusalemme si fosse svolta l'azione antiromana nella quale fu coinvolto Barabba. Qualora fosse stata diretta contro uno o en trambi i principali centri romani della città, i due luoghi più na turali sarebbero stati la fortezza Antonia nella parte nordocciden tale del Tempio e il palazzo di Erode nella città alta 81• Un attacco contro i romani nella fortezza Antonia, in coincidenza con l'attacco di Gesù al Tempio, avrebbe costituito un chiaro disegno di azione insurrezionale, inteso a impegnare contemporaneamente sia le forze del procuratore sia quelle del sommo sacerdote 82• Il fatto che entrambe le operazioni fallirono, pur impegnando seriamente tutte e due le autorità, è significativo, e rende ancora più verosimile che si trattasse di azioni concertate. L'ipotesi che abbiamo sondato è ragionevole, e consente di spie" Cfr. Schiirer, G.].V., I, pp. 458, 464.
" È significativo che, letteralmente, Marco (XV:
7) faccia riferimento a « i sediziosi » (ton stasiasti5n), che erano implicati « nella rivolta » (en te stasei). Sem brerebbe che la fonte di cui si servl contenesse un vivo riflesso di una notevole insurrezione avvenuta a Gerusalemme a quel tempo. Nel caso in cui fosse stato portato un duplice attacco al Tempio e alla fortezza Antonia, ciò spiegherebbe anche perché la guarnigione romana di Antonia non intervenne in occasione della « purificazione del Tempio », come fece nella circostanza del trambusto provocato nello stesso luogo dall'arresto di Paolo (Atti XXI : 30 ss. ) : la guarnigione sarebbe cioè stata tutta impegnata a fare fronte all'attacco sferrato dagli zeloti sotto la guida di Barabba.
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gare in termini comprensibili le esigue ma suggestive testimonianze esistenti sugli importanti avvenimenti che ebbero luogo a Geru salemme durante quella festività pasquale. L'ipotesi è destinata, chiaramente, a rimanere tale, dato che le fonti di cui disponiamo, con le loro narrazioni tendenziose, ci lasciano profondamente perplessi. Tuttavia, le circostanze incontrovertibili che il destino di Gesù fu legato con quello di Barabba, e che Pilato ordinò l'ese cuzione di Gesù per sedizione al posto di Barabba, sono tali da richiedere qualche spiegazione più persuasiva di quella di Marco. Ora, come abbiamo notato, l'azione di Gesù nel Tempio dovette senza dubbio associarsi, nella mente delle autorità, con quella in cui fu coinvolto Barabba, anche nel caso in cui le due iniziative fossero state di fatto indipendenti. Perciò, sia le autorità romane sia quelle ebraiche dovettero essere persuase che Gesù e Barabba fossero associati nella cospirazione. Il fatto che Marco faccia appa rire che furono i sommi sacerdoti gli istigatori della folla nel richie dere la liberazione di Barabba può senz'altro essere un riflesso della particolare prospettiva adottata dall'evangelista nel presentare i fatti realmente accaduti; ma può anche indicare qualcosa di un po' diverso. È verosimile che i capi ebraici, nel trasmettere i loro elementi di giudizio a carico di Gesù, lo descrivessero come il vero leader dell'insurrezione, al posto di Barabba. Il fatto che Marco attribuisca a Pilato l'uso del titolo « re dei Giudei » per Gesù avallerebbe ulteriormente questa interpretazione 83• Gesù, accla mato Messia e fregiato del titolo regale, sarebbe ovviamente parso il più pericoloso dei due. Perciò Pilato decise di farne l'esempio della sorte che sarebbe spettata a chiunque aspirasse al potere reale a scapito di Cesare. Per giunta, il fatto che Marco racconti come Pilato ordinò che due lestai fossero crocifissi ai due lati di 83 Secondo Le. XXII T: 2, i capi ebraici avevano accusato Gesù perché « sovverte la nostra gente e proibisce di pagare i tributi a Cesare, dicendo di essere il re messia ». Creed (St Luke, p. 281 ) commen ta : « Una interpretazione politica è sovrapposta alla pretesa che CcsÌJ stesso aveva proclamato ». Qualsiasi fosse il significato che gli si intendeva attribuire, il fatto stesso che l'appellativo « re dei Giudei » o « re d'Israele >> venisse usato per indicare Gesù, da parte dei suoi seguaci, dovette avere importanza decisiva per Pilato, giacché l'attribuzione di tale titolo indicava con chi�1 rczza col u i che aveva guidato la recente insurrezione. Cfr. H.P. Kingdom in Studia Evangelica, III ( 1964), p. 77 ss.
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Gesù conferma significativamente questa interpretazione ( XV : 27). Infatti, come abbiamo visto, lestai ( « briganti » ) era il termine peggiorativo usato abitualmente per indicare gli zeloti : nell'inten zione di Pilato era giusto che il « re dei Giudei » pagasse il prezzo della ribellione tra due dei suoi complici, catturati durante la recente insurrezione che si riteneva egli avesse guidato 84• Il motteggio di Gesù da parte dei soldati romani, dopo che era stata emessa la sentenza e dopo la sua flagellazione, offre una prova crudele ma significativa di come anche questi uomini interpretas sero le ambizioni di Gesù 85• La vivace narrazione di Marco deriva sicuramente dall'originario ritratto ebraico-cristiano di Gesù come il Messia-re, martirizzato per Israele dai suoi oppressori pagani : I soldati quindi lo condussero dentro l'atrio, cioè il pretorio, e vi convocarono tutta la coorte. Lo vestono di porpora e, intrecciata una corona di spine, gli cingono la testa. E cominciarono a salutarlo: « Salute o re dei Giudei » . E lo percuotevano alla testa con una canna, gli sputavano addosso e, piegando i ginocchi, gli si prostravano dinanzi. E dopo che l'ebbero schernito, lo spogliarono della porpora e lo rivesti rono delle sue vesti. Poi lo portarono fuori per crocifiggerlo. [ Mc. XV: 16-20 ] 86 84 Secondo Le. XXIII : 40, il « ladro pentito », rimproverando il suo compagno che insultava Gesù, gli disse: « Neanche tu temi Dio, essendo nel medesimo sup plizio? ». Il significato di questa frase, per lungo tempo reso oscuro dall'interpre tazione del termine testes in Mc. XV: 27 come « ladro » o « brigante », diventa chiaro se si intende che léstes fosse un termine spregiativo per « zelota ». Si deve anche notare che Luca ha interpretato lestes di Marco come kakourgos ( « mal fattore »). Cfr. Hengel, Die Zeloten, pp. 30, 347-8; Brandon, ]esus and the Zealots, pp. 339, n . l, 351, 358. 85 Cfr. Lietzmann, Kleine Schriften, II, p. 261. 86 L'azione di Pilato che precede, come è descritta da Mc. XV: 15, richiama per prima attenzione: « consegnò Gesù, dopo averlo fatto flagellare, perché fosse crocifisso ». La flagellazione sembra che fosse un preliminare alla crocifissione dei ribelli da parte dei romani in Giudea: cfr. Gius., C.E. I I : 306; V: 449. Cfr. Sherwin-White, pp. 26-8 ; Blinzler, pp. 233-4. La frase un poco strana > . •• La preoccupazione di Pilato per un tumulto suona alquanto strana alla luce de!la narrazione di Giuseppe sul suo modo di procedere nei confronti degli ebrei in tJ!i occasioni: vedi pp. 72-82. 31
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Perciò il governatore compie il gesto simbolico di lavarsi le mani. Questa abluzione rituale era un'usanza ebraica, non romana, e il suo significato doveva essere chiaro ai lettori di Matteo, che erano cristiani di origine ebraica (XXVII : 24) 35• La contemporanea dichiarazione di Pilato va evidentemente intesa come un rifiuto for male e definitivo della sua responsabilità per la morte di Gesù : « Io sono innocente del sangue di questo giusto. Ve la vedrete voi » 36• Il fatto che Matteo potesse pretendere che una simile pantomima costituisse un valido rifiuto di responsabilità, senza alcun com mento sulla sua natura speciosa, rivela quanto fosse potente il motivo che spinse l'evangelista a fare ciò. In questo modo egli doveva scagionare totalmente i romani, al fine di rimuovere una facile obiezione alla sua stessa interpretazione della morte di Gesù. Matteo era infatti ovviamente consapevole della circostanza che Gesù, dopo tutto, era stato messo a morte dai romani per sedi zione, e che da tale fatto si sarebbe potuto arguire che gli ebrei non potevano essere considerati come i principali responsabili. Perciò egli anticipa tale obiezione recando un duplice ordine di prove. In primo luogo, rappresenta Pilato mentre si dissocia pubblica mente dalla responsabilità per la sua decisione; in secondo luogo descrive la spontanea accettazione di questa responsabilità da parte degli ebrei: « E tutto il popolo rispose : " Il sangue suo ricada su noi e sui nostri figli " » (XXVI I : 2 5 ) 37 • Non si poteva inventare un'accettazione di colpa per la morte di Gesù più inequivocabile di quella che Matteo, egli stesso ebreo, attribuisce qui ai suoi compatrioti. Egli scriveva, peraltro, come un ebreo cristiano a beneficio di correligionari della sua stessa stirpe, per interpretare la morte di Gesù alla luce della catastrofe che aveva colpito il suo popolo nel 70 d.C. Egli vedeva quel terribile disastro come il castigo autoinvocato che Israele si era tirato ad35 Sui precedenti ebraici di tale abluzione rituale cfr. Deut. XXI : 6 ss. ; Salmi XXVI: 6; S.-B. Kommentar, I, pp. 1032-3. " La frase « innocente (athoos) del sangue di questo giusto » è di derivazione ebraica. Cfr. Dahl in N.T.S., II, p. 26. 37 Cfr. Klostermann, p . 221 ; Lohmeyer-Schmauch, pp. 385-6.
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dosso con l'avere rifiutato e ucciso il suo Messia 38• Scagionando completamente i romani che avevano materialmente messo a morte Gesù come ribelle contro il loro governo in Giudea, Matteo scelse così di rendere unici colpevoli del terribile misfatto quelli tra i suoi connazionali che avevano respinto Gesù. Ma l'evangelista non poteva sapere - allorché li presentava nell'atto di urlare focosa mente: « Il sangue suo ricada su noi e sui nostri figli » - quale terribile eredità egli stava imponendo alle successive generazioni del popolo ebraico. Infatti quelle selvagge parole entrarono a far parte delle sacre scritture della chiesa cristiana, dove furono considerate una autoconfessione degli ebrei per l'assassinio di Cristo. Nei secoli successivi, fino ai nostri giorni, quelle parole hanno ispirato odio per gli ebrei e giustificato le loro più crudeli persecuzioni 39• È davvero una delle strane ironie della storia che proprio nel più ebraico dei quattro vangeli gli ebrei vengano ritratti così dramma ticamente come gli assassini di Cristo 40 • Avendo cosi aggiunto questo episodio fatale al racconto di Marco del processo e della condanna di Gesù, Matteo continua a seguire la versione di Marco del dileggio di Gesù, della crocifissione e della morte, con solamente poche varianti di trascurabile importanza ( XXVII : 27 ss. ) 4 1 • In effetti, considerato nel suo complesso, il resoconto di Matteo del processo e dell'esecuzione di Gesù è essenzialmente una riproduzione di quello di Marco, con l'aggiunta degli episodi della moglie di Pilato e del pubblico rifiuto della responsabilità per la morte di Gesù, compiuto da Pilato. Il risul tato di queste aggiunte è quello di scagionare i romani e di incri minare gli ebrei in modo anche più integrale di quanto avesse fatto Marco. Tuttavia l'intento di Matteo era diverso da quello di Marco . Infatti, mentre Marco era impegnato a mostrare ai cristiani della gentilità romana che Gesù fu leale verso Roma e che Pilato venne 38 Questo castigo è adombrato in Mt. XXIV: 29-38. 39 Cfr. Lohmeyer-Schmauch, pp. 385-6; M. Simon, Verus Israel, pp. 245-63 ; Winter, op. cit., pp. 57-8. « Peu de paroles évangéliques ont fait plus de mal que celle-là; et elle n'est qu'une invention du rédacteur! » (Guignebert, ]ésus, p. 575).
Cfr. G. Lindeskog, Abraham Unser Vater, pp. 328-30. 40 Cfr. ]esus and the Zealots, pp. 303-4. 41 Cfr. Huck, Synopse, p. 208 ss.
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costretto dai capi ebraici a metterlo a morte, Matteo si sforzò di interpretare la catastrofe ebraica del 70 d.C. per lettori cristiani di origine ebraica, nei termini di una punizione divina per la morte di Gesù. Il fatto che Matteo superi Marco nel suo sforzo di discol pare Pilato non risponde in primo luogo al suo desiderio di spiegare diversamente lo scandalo della croce romana, bensì è motivato dal suo bisogno di mostrare che gli ebrei accettarono liberamente la colpa dell'uccisione di Gesù, per la quale essi avevano pagato un conto tanto terribile nel 70 d.C. 42• Il vangelo di Luca, nella sua versione del processo a Gesù, ci pone di fronte a un problema diverso da quello di cui ci siamo occupati confrontando la narrazione di Matteo con quella di Marco. Matteo segue fedelmente lo schema degli eventi presentato da Marco, a parte l'aggiunta dei due episodi discussi, che peraltro non spezzano quello schema. Luca, però, pur tenendo chiaramente conto della versione di Marco del processo, opera certe omissioni e un'aggiunta di rilievo allo schema. Tali varianti lasciano inten dere che Luca possa avere avuto informazioni supplementari, seb bene le differenze nel suo racconto siano soltanto marginali e non alterino seriamente la presentazione di Marco. Per esaminare il significato di queste differenze rispetto alla versione di Marco del processo, è necessario tenere presenti certi caratteri generali del vangelo di Luca. Sfortunatamente non esiste alcuna indicazione chiara sul luogo d'origine del vangelo. Pare probabile che sia stato scritto a notevole distanza da Alessandria, dove il vangelo di Matteo sembra avere avuto origine, e che fosse diretto a una chiesa gentile di lingua greca 43• Inoltre, sebbene segua in generale l'impostazione narrativa di Marco e attinga alla 42 Cfr. Dahl in N.T.S., I I , p. 27: « Innerhalb der Passionsgeschichte cles Mat thaus kommt mehrmals ein atiologisches Interesse zum Vorschein . . . clic Juden seiner Gegenwart stehen fiir Matthaus unter der Blutschuld, die sie sich zugezogen haben " Le differenze tra le narrazioni di Matteo e di Luca sull'infanzia e sulla risurrezione denotano una grande distanza geografica tra i luoghi in cui si sv i lu p parono le due tradizion i . Cfr. Jesus and the Zealots, pp. 285-6. Luca inoltre mostra antipatia nei confronti del cristianesimo alessandrino: cfr. op. cit., pp. 192-5. >>.
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Q, il vangelo di Luca sfruttò vario altro materiale di secondaria importanza. Il fine perseguito dal suo autore, come risulta dalla prefazione dell'opera, era di « scrivere con ordine », in chiaro contrasto con le narrazioni della vita di Gesù che già esistevano (Le. I : 3 ) 44• Come vedremo, il suo resoconto del processo sembra essere una versione « razionalizzata » della presentazione di Marco, il che può ben spiegare alcune omissioni rispetto al testo di Marco stesso. Dovremmo anche notare ciò che sicuramente è un'indica zione del giudizio di Luca sugli avvenimenti che portarono alla condanna e alla morte di Gesù. Si trova in una osservazione che egli mette in bocca a Gesù, rivolta a coloro che lo arrestano, e che non è riportata né da Marco né da Matteo : « Ma questa è la vostra ora e il potere delle tenebre » (XXI I : 5 3 ) 45 • Il significato di queste parole è cospicuo. Esse rivelano che, mentre gli altri due evangelisti intesero fare i conti con problemi contingenti sol levati dal processo e dall'esecuzione di Gesù, Luca vide questi avvenimenti da un punto di vista più distaccato e teologico 46 • Altre prove danno credito a questa impressione, che Luca cioè vedesse il processo a Gesù senza sentirsi personalmente coinvolto nelle conseguenze della catastrofe ebraica del 70 d.C., come era invece avvenuto a Marco e Matteo, tanto da lasciare profonde tracce nei loro testi. Il vangelo di Luca è il primo tomo di uno studio in due volumi sulle origini del cristianesimo, di cui il se condo volume è costituito dagli Atti degli Apostoli 47• Questo fatto ci consente di avere una visione più ampia dell'orientamento e dei metodi dell'autore del vangelo, che possiamo convenire di chiamare Luca 48• Il suo modo di trattare le origini del cristianesimo negli Atti degli Apostoli è assai tendenzioso, come abbiamo già avuto occasione di osservare. L'autore si proponeva di raccontare la " Cfr. J.M. Creed, Gospel of Luke, pp. LVI-LXX, 2-5. 45 Klostermann, Das Lukasevangelium, p. 218. " Questo distacco, come abbiamo visto nel cap. 3, traspare per un altro verso là dove Luca ammette che uno dei discepoli di Gesù fu uno zelota e riferisce che Gesù ordinò ai discepoli di armarsi prima di andare al Getsemani. 47 Vedi Atti l: 1-2. Cfr. Creed, pp. XI-XIII; H.J. Cadbury in B.C., II, p. 491 ss. 48 Autore del vangelo viene tradizionalmente considerato Luca « il caro me dico » (Lettera ai Colossesi IV: 14) compagno di Paolo. Cfr. Creed, pp. xn-xxr.
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storia della propagazione del cristianesimo da Gerusalemme a Roma, in un contesto narrativo nel quale Paolo figura come il principale protagonista e gli ebrei come i malevoli nemici della nuova fede. Scrivendo questa storia, Luca era evidentemente in possesso di informazioni sulla chiesa cristiana originaria. Non è noto in qual modo poté acquisire queste informazioni, scrivendo, come fece, circa due decenni dopo la scomparsa della chiesa di Gerusalemme. Non è da escludere che potesse averle avute dalla comunità cri stiana di Cesarea, con la quale sembra avere avuto qualche rap porto 49 • Questa comunità era probabilmente composta soprattutto di gentili; infatti Cesarea era il quartier generale del governo ro mano di Giudea, e prevalentemente una città ellenistica 50• Tuttavia, pure ammettendo che avesse accesso ad alcune tradizioni concer nenti la chiesa originaria di Gerusalemme, Luca le selezionò e modellò per adattarle alla sua particolare interpretazione delle ori gini cristiane. Cosl non fece menzione, per esempio, di un evento tanto importante quale il tentativo dell'imperatore Caligola di pro fanare il Tempio ; e proprio a Luca si deve quella descrizione strana mente evasiva di Giacomo, il fratello di Gesù, che già notammo. Il significato di tale documento è chiaro. Luca, nonostante dispo nesse di qualche tradizione più antica, non si propose di scrivere un resoconto accurato di ciò che realmente accadde in quegli anni decisivi a Gerusalemme. Il suo intento fu di presentare una descri zione idealizzata, in accordo con il suo interesse teologico ed eccle siastico 51 • Queste deduzioni sull'orientamento e sui metodi di Luca, deri vate dagli Atti degli Apostoli, rendono notevolmente più agevole il nostro giudizio sul racconto del processo a Gesù contenuto nel suo vangelo. I due punti principali che qui ci interessano sono l'uso " Cfr. Streeter, Four Gospels, p. 219; Creed, p. LXX. '" Cesarea fu fondata da Erode il Grande come città ellenistica. Cfr. Schiirer, G.f.V., II, pp. 104·8; Brandon, Fall o/ Jerusalem, pp. 178-9; T.W. Manson, Stu dies in the Gospels and Epistles, pp. 56, 122. 51 Un esempio interessante di ciò è l'interpretazione di Luca del fenomeno della glossolalia ( « il parlare [patologicamcnte] con la lingua ») come di un esprimersi in lingue straniere, cosicché gli stranieri a Gerusalemme per la Pentecoste escla mano: « Ii udiamo parlare delle grandezze di Dio nelle nostre lingue » (Atti I I : 1-13). Cfr. K . Lake i n B.C., V , pp. 1 1 1-12 1 .
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che egli fa della versione di Marco e il fatto che introduca un reso conto del processo a Gesù di fronte ad Erode che non compare negli altri vangeli. Nel suo racconto del procedimento al Sinedrio, Luca si allon tana dalla versione di Marco per due singolari aspetti. Egli con corda con Marco nel narrare che Gesù fu portato, dopo il suo ar resto al Getsemani, alla casa del sommo sacerdote, e segue ancora Marco nel localizzare là la storia del diniego di Pietro (Le. XXI I : 54-62 ). M a invece d i intrecciare questa storia con una registrazione dell'interrogatorio di Gesù da parte del Sinedrio, Luca omette completamente l'interrogatorio e dà l'impressione che l'unico av venimento importante nella casa del sommo sacerdote fosse il di niego di Pietro. Questa omissione significa che Luca non fa cenno dell'accusa rivolta a Gesù di minaccia al Tempio, che invece, come abbiamo visto, era l'imputazione principale da cui intendeva sca gionarlo l'originaria apologia gerosolimitana concernente il « pro cesso » dinanzi al Sinedrio. Tuttavia, Luca rivela di avere sempre presente la successione degli avvenimenti del vangelo di Marco, tant'è che riporta, alla fine della storia del diniego di Pietro, il maltrattamento di Gesù da parte dei servi del sommo sacerdote (XXI I : 63-5) . Il passo si colloca male nel contesto, e contiene come soggetto un pronome senza riferimento ( XXII : 6 3 ) 52; si ha l'im pressione che il passo sia inserito quasi come un riecheggiamento della narrazione di Marco, entro la quale l'episodio del maltratta mento si colloca più logicamente (Mc. XXVI : 67-9 ) 53• Avendo isolato in questo modo la storia del diniego di Pietro ed omesso ogni accenno alla sessione notturna del Sinedrio, Luca presenta poi il Sinedrio riunito, per la prima volta, al mattino: « Quando si fece giorno, si radunò il consiglio degli anziani del popolo, capi dei sacerdoti e scribi e lo fecero condurre davanti al loro sinedrio, dicendo : " Se tu sei il Cristo, diccelo " » (Le. XXI I : 66-7 ) 54• Luca quindi sopprime la narrazione di Marco, riportata anche da Matteo, " auton, riferito a Gesù, citato l'ultima volta al versetto 54. Cfr. Klostermann, Lukasevangelium, p. 220. 53 Cfr. Huck, Synopse, pp. 201, 202. 54 Cfr. Creed, pp. 276, 278; Klostermann, Lukasevangelium, p. 220.
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di un interrogatorio di Gesù durante la notte, nel quale l'imputa zione principale era la minaccia al Tempio. Inoltre dilata la sessione mattutina del Sinedrio, che Marco menziona solo brevemente, facendone un episodio più consistente durante il quale a Gesù viene posta una domanda simile a quella rivoltagli nella seduta notturna, secondo Marco, dal sommo sacerdote 55• Il resoconto di Luca del dibattito svoltosi nel corso di questa sessione mattutina è stranamente vago. Dopo avere registrato la domanda rivolta a Gesù sulle sue pretese messianiche, l'evangelista fa seguire la risposta di Gesù, che è singolarmente contorta : Ma egli disse loro : « Se ve lo dico non mi crederete, se vi interro gherò non · mi risponderete. D'ora innanzi il Figlio dell'uomo sederà alla destra della potenza di Dio » . Allora tutti dissero: « Dunque tu sei il Figlio di Dio? ». Egli rispose loro : « Sl, lo sono ». Allora essi dissero : « Abbiamo ancora bisogno di testimonianze? Noi stessi l'ab biamo udito dalla sua bocca ». [ Le. XXII : 67-7 1 ]
M a questo è tutto ciò che avviene. Luca non dice se i membri del Sinedrio emisero un verdetto nei confronti di Gesù, né indica che cosa davvero essi avevano udito « dalla sua bocca » . La dedu zione naturale che si può trarre dalla domanda del Sinedrio : « Dun que tu sei il Figlio di Dio? », e dalla risposta di Gesù, è che a parere del Sinedrio egli avesse bestemmiato . Ma questa circo stanza non viene chiarita, né Gesù viene condannato per bestem mia, come nella versione di Marco (Mc. XIV: 63-4 ) 56• La sola conclusione ragionevole che sembrerebbe possibile ricava re da ciò che Luca narra dei procedimenti del Sinedrio è che l'evan gelista decise di abbreviare drasticamente il racconto di Marco. Perciò, dopo avere riferito che Gesù fu portato, prigioniero, alla casa del sommo sacerdote, egli dice solo del diniego di Pietro e 55 Cfr. Winter, pp. 20-3; M. 131ack in Ncw Testament Studies (ed. A.].B. Hig gins), pp. 22-3; ]. Blinzler, Tbc Trial of ]esus, pp. 1 15-17 : « Dato che Le. XXI I : 66, considerato criticamente come documento, rappresenta una evidente combinazione di .Mc. XIV: 53h con XV : la, la precisione nella sequenza cronologica diventa di secondaria importanza a fronte dell'esigenza di fornire una combinazione storica di avvenimenti ». 56 Cfr. Klostermann, Lukasevangelium, pp. 220- 1 ; Blinzler, pp. 1 1 6-17.
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dei maltrattamenti di Gesù in quel luogo ; poi termina l'episodio in modo alquanto impreciso, con l'inconcludente sommario dell'in terrogatorio al Sinedrio avvenuto nella mattina. Attraverso questa rielaborazione della narrazione di Marco, Luca dà l'impressione di ritenere che l'unico evento degno di. essere presentato ai suoi lettori fosse la storia del diniego di Pietro. Perciò egli narra questa storia in modo particolareggiato, e riduce il dibattito al Sinedrio a una sorta di esile cornice narrativa, che egli probabilmente considerava priva di importanza e di nessun particolare interesse per i suoi lettori gentili. Questa impressione è confermata dal suo modo di trattare il processo a Gesù di fronte a Pilato. In luogo dello scarno ed evasivo racconto del processo romano fornito da Marco, quello di Luca è relativamente ricco ed esauriente. Senza dubbio egli considerava questo processo come il dibattito realmente decisivo, se confron tato con il procedimento al Sinedrio, e sapeva che era anche il solo che interessasse i suoi lettori. Per continuare la nostra discus sione, sarà utile avere sott'occhio il testo di Luca; esso si colloca immediatamente dopo il racconto della sessione del Sinedrio : Allora, tutta l'assemblea si alzò, lo condussero da Pilato e comin ciarono ad accusarlo dicendo : « Abbiamo trovato costui che sovverte la nostra gente e proibisce di pagare i tributi a Cesare, dicendo di essere il re messia ». Pilato lo interrogò dicendo: « Sei tu il re dei Giudei? ». Egli rispondendo gli disse : « Tu lo dici ». Pilato allora disse ai capi dei sacerdoti e alle folle : « Non trovo alcuna colpa in quest'uomo » . Ma essi insistevano dicendo: « Solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, a cominciare dalla Galilea fin qui » . [ Le. XXIII : 1-5 ] 56
In netto contrasto con la reticenza di Marco, l'esplicita esposi zione delle accuse che i capi ebraici rivolsero a Gesù di fronte al tribunale di Pilato è, nel testo di Luca, comprensibile e significa tiva. Le tre accuse attengono tutte alla sovversione politica : cor ruzione del popolo; divieto di pagare il tributo a Roma; pretesa di regalità in quanto Messia. Viene anche definita l'area dell'atti57
Cfr. Creed, pp. 279-80; Klostermann, p. 222.
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vità rivoluzionaria di Gesù: dalla Galilea a Gerusalemme. A pre scindere dal problema di stabilire se fossero giustificate, bisogna riconoscere che queste accuse illustrano un chiaro modello di at tività rivoluzionaria nella Giudea del tempo. Ad eccezione della pretesa di regalità, le imputazioni si sarebbero adattate assai bene all'attività di Giuda di Galilea, il fondatore del movimento zelota 58• È assai significativo che Luca formuli con tanta chiarezza queste accuse, in netto contrasto con l'evasiva reticenza di Marco. I termini espliciti del discorso di Luca confermano inoltre la nostra conclusione, formulata già in precedenza, che su questo evange lista non ebbe gran peso l'imbarazzo politico prodotto dall'esecu zione di Gesù da parte dei romani. Benché Luca non fosse meno sollecito di Marco nel sostenere l'innocenza di Gesù, nel momento in cui scrisse il suo vangelo era possibile guardare con maggiore distacco alle reali imputazioni che furono rivolte contro Gesù, e in base alle quali egli fu di fatto condannato a morte. Il problema che ora ci si pone, nel considerare la franchezza con la quale Luca espose queste accuse, è quello delle fonti cui attinse le sue informazioni. Come notammo, la reticenza di Marco circa queste accuse non fu certamente dovuta a ignoranza ma a discre zione. Abbiamo anche visto come fosse probabile che l'apologia dei cristiani di Gerusalemme, sulla quale Marco fondò il suo racconto, registrasse chiaramente che Gesù era stato condannato dai romani per sedizione. Infatti il martirio ad opera degli oppressori pagani d'Israele doveva giovare alla reputazione dello stesso Gesù; inoltre contribuiva a presentarlo agli ebrei come il Messia-martire, che sarebbe presto tornato a portare a termine il suo compito messia nico. Alla luce di queste considerazioni, sembrerebbe perciò pos sibile che Luca, il quale attinse a tradizioni della chiesa di Geru salemme negli Atti degli Apostoli, si valesse anche a proposito del processo a Gesù di informazioni tratte da quella fonte : in realtà, forse la stessa apologia cui aveva attinto con tanta discrezione Marco 59• Questa conclusione spiegherebbe a sua volta il fatto " Cfr. ]esus and the Zealots, pp. 32-3, 52-4. " Se cosl fosse, sarebbe significativo il suo silenzio sull'imputazione di minaccia
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- altrimenti curioso - che Luca, mentre da una parte si mostra tanto esauriente ed esplicito a proposito delle accuse contro Gesù, dall'altro sia tanto evasivo sul rigetto di queste accuse da parte di Pilato. Infatti egli si limita ad affermare che Pilato, ascoltata l'enigmatica risposta di Gesù alla sua domanda se egli fosse il re dei Giudei, disse agli ebrei: « Non trovo alcuna colpa in que st'uomo » (Le. XXII I : 4 ) . Nel caso in cui Luca avesse realmente utilizzato l'apologia di Gerusalemme sul processo, non vi avrebbe trovato alcuna confutazione dell'accusa che Gesù si fosse opposto al dominio romano sulla Terra Santa. Avrebbe invece trovato una completa descrizione delle imputazioni che testimoniavano il pa triottismo di Gesù. Perciò avrebbe dovuto cercare con la propria fantasia il modo di dimostrare l'innocenza di Gesù nei confronti di tali accuse. Questo è esattamente il genere di cose, che troviamo riflesse nel resoconto di Luca del processo romano : descritte in modo convincente le incriminazioni, non gli resta che affermare, in termini assai poco convincenti, che Pilato riconobbe l'innocenza di Gesù. Luca inserisce subito dopo l'episodio che non compare nelle altre tre versioni evangeliche. Per preparare il terreno, l'autore annota abilmente che gli ebrei avevano citato la Galilea tra i luoghi nei quali Gesù si era reso colpevole di sedizione (XXIII : 5 ) : Udito ciò, Pilato chiese se quell'uomo fosse galileo e , saputo che era della giurisdizione di Erode, lo mandò ad Erode il quale, in quei giorni, si trovava a Gerusalemme. Erode, visto Gesù, si rallegrò molto : era infatti molto tempo che desiderava vederlo per tutto quello che aveva udito dire di lui e sperava che l'avrebbe visto compiere un miracolo. Gli rivolse dunque molte domande, ma egli non gli rispose nulla I capi dei sacerdoti e gli scribi che stavano n, l'accusavano con violenza. Ed Erode, dopo averlo disprezzato insieme ai suoi soldati e averlo vestito con una veste bianca, lo rimandò a Pilato. Erode e Pilato quel giorno divennero amici, essi che prima erano nemici l'un l'altro. [ XXIII : 6-12 J .
L'episodio è assai strano, e non dà nessun contributo importante al Tempio. Questa omissione è comprensibile quando si tenga conto del fatto che egli attribuisce tale minaccia a Gesù in Atti VI : 14.
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allo sviluppo degli eventi che Luca si propone esplicitamente di descrivere, culminanti nella crocifissione di Gesù. Considerato nel suo complesso, questo interludio non presenta aspetti che siano chiaramente inverosimili, anche se non vi mancano gravi difficoltà di cui ci occuperemo. È senz'altro concepibile che Pilato potesse essersi consultato con Erode ( Antipa), tetrarca di Galilea, a pro posito di un galileo accusato di sedizione, se avesse avuto bisogno di maggiori informazioni su di lui 60 • Tuttavia, secondo Luca, questo non fu ciò che Pilato fece; l'evangelista lascia intendere, al con trario, che Pilato trasferl il caso a Erode, cosa che sembra assai improbabile tenuto conto del fatto che Gesù era accusato di azioni sediziose compiute anche all'interno dell'area giurisdizionale di Pilato ( XXIII : 5 ) 61 • Inoltre, dopo avere interrogato senza successo Gesù, Erode non prese - secondo il racconto di Luca - alcuna decisione, né sembra che rispedisse alcun rapporto a Pilato all'atto della restituzione del prigioniero (XXII I : 1 1 ) 62• I capi ebraici sono citati come presenti a questo « processo », e in veste di accusatori, ma non sembra che venisse loro richiesta alcuna infor mazione ( XXIII : 1 0 ) 63• Infine, il testo non spiega minimamente il motivo per cui Erode avrebbe rinviato Gesù, paludato « con una veste bianca » . Il passo adombra senza dubbio qualche atto di scherno, ma in forma ben poco esplicita 64 • La notizia della succes siva riconciliazione tra Pilato ed Erode è interessante, suggerisce una conoscenza della situazione politica del tempo, ma potrebbe anche essere un commento personale di Luca per adornare la storia 60 Su Erode Antipa cfr. Schiirer, G.].V., I, pp. 431-49; A.H.M. Jones , The Herods of Judaea, pp. 176-83, 195-6. Erode Antipa fu nominato tetrarca di Galilea
dopo la morte del padre, Erode il Grande. Luca informa i suoi lettori della potestà di Erode sulla Galilea in III: l. 61 Sulla possibilità che Pilato avesse agito cosi cfr. A.N. Sherwin-White, Roman Society and Roman Law in tbe New Testament, pp. 28-3 1 ; F.F. Bruce in A.L.U.O.S., v ( 1966), pp. 15-17. 62 Allorché Erode gli restitul Gesti, Pilato intese implicitamente il fatto come se il tetrarca non avesse trovato alcuna colpa in lui : XXIII : 15. 63 Cfr. Klostermann, p. 223. 64 Si potrebbe fare riferimento a Atti XII : 21, dove in B.].R.L., 49 ( 1967), pp. 363-5, 370-1. 73 Cfr. G . Ogg in P.C.2, 636b; H.D.B.2, pp. 154-5. 74 Cfr. W. Bauer, Das Johannesevangelium, pp. 47-9; C.K. Barrett in P.C.', 739d, St John, p. 163. Sull'importanza del contesto teologico in Giovanni cfr. Dodd, pp. 300-3; D.A. Schlatter, Der Evangelist Johannes, pp. 74-83. 75 Cfr. Dodd, Interpretation of Fourth Gospel, pp. 444-53 ; Historical Tradi tion in the Fourth Gospel, pp. 24, 97-8, 120; Barrett, St fohn, pp. 17-18, 1 17-18.
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Giovanni sembra rendersi conto che l'aspetto regale dell'identità messianica di Gesù era stato un fattore decisivo, forse il più deci sivo nel condurre alla sua finale esecuzione da parte dei romani. Per esempio Giovanni dice che, dopo la miracolosa distribuzione di cibo alla folla dei cinquemila radunata nel deserto di Galilea, le moltitudini rimasero talmente impressionate dal potere di Gesù che « stavano per venire a rapirlo per farlo re » (Gv. VI : 1 5 ) 76• Giovanni naturalmente rappresenta Gesù che si ritrae per evitare di essere messo in una posizione così compromettente 77• Tuttavia, in modo abbastanza illogico, egli descrive Gesù il giorno succes sivo nell'atto di insegnare ancora alla folla, senza alcun riferimento all'importante avvenimento del giorno precedente. Però, nel lungo discorso che segue, concernente il mistico « pane della vita », il miracolo di Gesù della distribuzione del pane nel deserto viene significativamente paragonato all'approvvigionamento di manna, avvenuto allorché gli antenati d'Israele vagavano nel deserto dopo l'esodo (VI : 22-5 1 ) 78• Sebbene questo discorso sia largamente im prontato alla mistica fantasia che tanto caratterizza il vangelo di Giovanni, il parallelo è interessante, particolarmente per la sua stretta connessione con il tentativo della folla di fare re Gesù. Il discorso rievoca i « segni di salvezza », che Giuseppe attribuisce a molti pretendenti Messia ( goetes ), durante i tormentati anni che precedettero in Giudea la rivolta del 66. Tali « segni di salvezza » , che conquistavano a questi Messia i l sostegno popolare, venivano spesso a configurarsi secondo il modello degli eventi miracolosi che avevano accompagnato la liberazione d'Israele dall'Egitto e il sog giorno nel deserto, che costituiva la profetica « età d'oro » del passato 79 • 76 Cfr. Winter, On the Trial of fesus, p. 139; Goguel, fesus, p. 369 ss. H.W. Montefiore (N.T.S., VIII ( 1961-2), p. 135 ss.) ha colto nella narrazione della moltiplicazione dei pani un indizio di una « rivolta nel deserto ». Vedi cap. 6. n J Blinzler (N.T., II, pp. 44-9) ipotizza che, dopo la rinuncia di Gesù, la folla dei galilei proseguisse i festeggiamenti pasquali a Gerusalemme, e che Pilato, preoccupato per il suo fervore messianico, la attaccasse. Blinzler ritiene altresl che Le. XII I : l faccia riferimento all'evento e alla reazione di Gesù nell'apprendere la notizia. Cfr. Barrett, St fohn, pp. 231-2. " Cfr. Barrett, St fohn, pp. 239-240. " Cfr. fesus and the Zealots, pp. 100, 108-9, 1 10-1 1 .
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Il successivo riferimento al tema della regalità si trova, signifi cativamente, nel passo in cui Giovanni descrive l'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme. Il risvolto regale dell'episodio è presen tato dal quarto evangelista in termini più vivaci che dagli autori dei sinottici : L'indomani, la gran folla venuta alla festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palma e usci incontro a lui gridando : « Osanna! Benedetto quegli che viene in nome del Signore e il re d'Israele! » . E Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come è scritto : « Non temere, figlia di Sion: Ecco il tuo re viene, sedendo sopra un puledro d'asina » . [ Gv. XII : 1 2-15 ] 80
Giovanni osserva che i discepoli di Gesù non capirono l'im portanza di questo fatto fino a dopo che « Gesù fu glorificato » (XII : 1 6 ) 81• Tuttavia, più realisticamente, egli scrive che i farisei certamente intesero il significato dell'avvenimento, e rimpiansero la loro incapacità di contrastare Gesù. Secondo Giovanni essi si dissero l'un l'altro : « Vedete che non guadagnate nulla! Ecco, tutto il mondo gli è andato dietro » (XI I : 1 9 ) 82• La preoccupazione che i farisei espressero in quella circostanza, l'avevano già provata dopo un altro miracolo di Gesù. Cosl Gio vanni descrive quanto i farisei fossero rimasti turbati quando Gesù risuscitò Lazzaro dalla morte, e in quali termini avessero riferito il fatto a Gerusalemme 83: «
I pontefici e i farisei radunarono dunque il sinedrio e dicevano : Che facciamo, ché quest'uomo fa molti prodigi? Se noi lo lasciamo
" Soltanto Giovanni riporta l'acclamazione significativa « re d'Israele >> ; Luca (XIX: 38) gli si avvicina moltissimo con la frase « il re che viene in nome del Signore ». La menzione dei rami di palma è anche importante, come segno emble matico del re o eroe vittorioso. Cfr. Bauer, pp. 160-1; Dodd, Interpretation, p. 370. 81 Cfr. Barrett, St fohn, pp. 346-7, 349. " Cfr. Dodd, Interpretation, p. 371. " Cfr. Dodd, Historical Tradition, pp. 24, 95, 97-8; Barrett, St fohn, pp. 337-8.
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cosl, tutti crederanno in lui, verranno nostro posto e la gente » [ Xl : 47-49]
romani e distruggeranno il
.
Il significato di questo passo è assai importante, anche se la fraseologia è un po' singolare 84 • Esso indica che Giovanni si rendeva conto del fatto che l 'attività di Gesù era considerata dai capi ebraici in primo luogo come un pericolo politico : tant'è che l'autore non accenna qui minimamente all'aspetto religioso dell'insegnamento e dell'azione di Gesù. Notevole è anche la dimensione attribuita a tale pericolo. I capi ebraici temono che l'attività di Gesù finisca col provocare l 'intervento dei romani in una misura tale che « di struggeranno il nostro posto e la gente » . In altri termini, era paventata una rivolta nazionale, la cui repressione da parte di Roma - si pensava - avrebbe coinvolto nella generale distruzione sia il Tempio sia l'intera nazione 85• È sorprendente l'idea che Gesù potesse rendersi responsabile di una rivolta di tali proporzioni, foriera di simili conseguenze . Sorge naturale il pensiero che l'auto re del vangelo di Giovanni, essendo a conoscenza della devasta zione prodotta dalla rivolta ebraica del 66-70, consentisse alla propria immaginazione di attribuire il timore di una catastrofe altrettanto rovinosa anche ai capi ebraici che erano stati alle prese con l'attività di Gesù circa quarant'anni prima. Comunque stiano le cose, ciò che è importante per il nostro assunto è che Giovanni fu davvero convinto che l'azione dei capi ebraici fosse motivata innanzitutto dal gravissimo pericolo politico costituito da Gesù . Non meno significativo è ciò che Giovanni scrive immediata mente dopo il passo citato. Proseguendo nel suo racconto di quella stessa riunione del Sinedrio, l'evangelista annota: Uno di essi però, Caifa, essendo pontefice di quell'anno, disse loro : « Voi non sapete nulla, né considerate come conviene che un uomo solo muoia per il popolo e non tutta la gente perisca » . Questo non lo .., Winter ( On the Trial o/ ]esus, p. 40) interpreta a ragione il passo come: I romani ci priveranno sia del nostro ufficio sacerdotale sia del nostro status di nazione ». 8 5 Cfr. Schlatter, p. 257; Bauer, p. 156; Barrett in St fohn, p. 338; ma vedi anche n. 84. «
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disse da se stesso ma, essendo pontefice di quell'anno, profetò che Gesù stava per morire per la gente e non solo per la gente, ma per congregare in una sola cosa i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo. [ Gv. XI : 49-53 ]
Questo passo di Giovanni, che pure concede largo spazio alla speculazione teologica, chiarisce tuttavia in modo notevole le cir costanze che portarono alla morte di Gesù. Secondo l 'evangelista, il Sinedrio aveva finito con l'allarmarsi profondamente per la gravità della minaccia politica rappresentata da Gesù. Il pontefice Caifa pose termine alla perplessità dei sommi sacerdoti, consigliando loro di prendere provvedimenti per eliminare Gesù. Egli soste neva la necessità di un intervento drastico per salvare la nazione dai disastri che Gesù le avrebbe inevitabilmente arrecato, se gli si fosse consentito di continuare la sua attività sovversiva. In questa spietata tesi di Caifa dell'opportunità che « un uomo solo muoia per il popolo », Giovanni vide, nel modo che gli era peculiare, una profezia divina circa l'efficacia universale della morte di Gesù (XI : 52 ) 86• Ma le conseguenze pratiche derivanti da tale tesi, se sto ricamente fondata, sono enormi. Nell'ottica di Caifa, il precario equilibrio nelle relazioni fra il popolo ebraico e il potere dei do minatori romani era messo a repentaglio da Gesù. Perciò, sebbene questi fosse un connazionale, si imponeva la sua soppressione al :6ne di salvaguardare quell'equilibrio 87• In seguito alla decisione del Sinedrio di eliminare Gesù, e in preparazione della parte che Giuda doveva interpretare, Giovanni descrive i capi ebraici nell'atto di ordinare che « se qualcuno sa pesse dove era [ Gesù ] , lo manifestasse, per catturarlo » (XI : 5 7 ) . I l passo indica chiaramente che i capi ebraici tentavano di sco prire qualche luogo segreto di convegno frequentato da Gesì1 ; infatti, come mostra il seguito della vicenda, Gesù entrò in Ge86 Cfr. Schlatter, p. 260; Barrett, St fohn, p. 339. Secondo Winter, op. cit., p. 38 « Il contrasto tra il crudo realismo presente nelle parole del sommo sacer dote e l'interpretazione data di esse induce a concludere che in Gv. II : 47a.48 si conservino taluni elementi di una tradizione (o "fonte") che esisteva già prima che l'autore del quarto vangelo intraprendesse il suo lavoro >>. 87 Cfr. Goguel, pp. 477-80; Lindeskog, Abraham Unser Vater, p. 333. ,
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rusalemme pubblicamente e non venne arrestato. E fu proprio la dimostrazione di sostegno popolare tributata a Gesù in quel fran gente che indusse i farisei - come abbiamo visto poc'anzi - a lagnarsi della propria impotenza, dato che « tutto il mondo gli è andato dietro » (XII : 1 9 ) . I l racconto di Giovanni dell'arresto di Gesù e del suo successivo interrogatorio prima di essere condotto di fronte a Pilato contiene alcune strane divergenze dalle narrazioni dei sinottici. In primo luogo, sebbene ometta di parlare dell'accordo fra Giuda e i capi ebraici per tradire Gesù, Giovanni descrive Giuda come colui che prende l'iniziativa dell'arresto : « Giuda dunque, presa la coorte e la schiera dei servi dai pontefici e dai farisei, arriva là [ al Getse mani ] con lanterne, torce e armi » (XVIII : 2-3 ) 88 • Nella resi stenza opposta a tale arresto, Pietro - si narra - mutilò il servo del sommo sacerdote, che aveva nome Maleo (XVIII : 1 0 ) 89• Un altro punto in cui il testo di Giovanni desta perplessità è là dove afferma che Gesù, dopo l'arresto, fu condotto dapprima da « Anna, che era suocero di Caifa, il quale era pontefice di quell'anno. Caifa era colui che aveva consigliato i Giudei : " Conviene che un uomo solo muoia per il popolo " » (XVIII : 1 3-14 ) . Il fatto, non spie gato, che Gesù fosse stato condotto da Anna è sorprendente, e il riferimento alla precedente menzione di Caifa sembra in qualche misura un intralcio (cfr. XI : 49). Queste difficoltà crescono nel seguito . Infatti Giovanni prosegue parlando del diniego di Pietro, che avviene « nel cortile del pontefice » ( XVIII : 1 5 ss. ) . Il nome del pontefice non è citato; ma non trattandosi certamente di Caifa, come vedremo, possiamo solo concludere che il pontefice non citato fosse Anna, il quale era stato sommo sacerdote 90• Se così stanno 1'8
Cfr. Bauer, p. 209. Cfr. Schlatter, pp. 328-9. 90 Anna va identificato con il sommo sacerdote Anania, la cui nomina al sommo sacerdozio nel 6 d.C. da parte di Quirino, legato di Siria, è registrata da Giu seppe, A.E. XVTI I : 26. Anania (Anna) ricoprl la carica dal 6 al 15 d.C., quando venne deposto dal procuratore Valeria Grato. La durata del suo sommo sacer dozio fu una delle più lunghe sotto i romani, e ciò gli conferl senza dubbio molto prestigio anche dopo la sua deposizione. Cfr. E.M. Smallwood, ].T.S., XIII n.s. ( 1 962), pp. 15, 16; L.B. r:eldmann, in ]osephus, ed. Loeb, IX, p. 22, n.e. L'argomentazione presentata da Winter (op. cit., p. 33) per dimostrare che il 89
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le cose, allora il sommo sacerdote che interroga Gesù non è Caifa, il pontefice in carica, ma Anna. Dopo l'interrogatorio - continua il testo - Anna manda Gesù, legato, a Caifa ( XVIII : 24). Nulla si dice di ciò che avviene allorché Gesù è da Caifa, e il successivo spostamento di cui è fatta menzione si ha quando Gesù viene con dotto dalla casa di Caifa al pretorio (XVII I : 2 8 ) 91 • Questo strano, contemporaneo, legame di due sommi sacerdoti con il destino di Gesù ha provocato naturalmente molte discussioni tra gli studiosi. Alcuni l'hanno interpretato come la prova che l'autore del vangelo di Giovanni fosse in possesso di informazioni degne di fede su ciò che era realmente accaduto 92• Lungo questa linea si può argomentare che la chiara obiezione al fatto che nella vicenda compaiano due sommi sacerdoti esclude di per sé che l'evangelista abbia lavorato di fantasia, tanto più che le versioni dei sinottici, che Giovanni evidentemente conosceva, fanno rife rimento a un solo sommo sacerdote 93• Si può inoltre sostenere che Anna, come ex pontefice di rango e parente stretto di Caifa, potesse avere assunto l'iniziativa e preso in mano lo spiacevole compito di trattare con Gesù. Ma una simile interpretazione fa sì che resti vanificata la partecipazione di Caifa al fatale dibattito. E non spiegherebbe neanche perché stia scritto che Gesù fu inviato alla casa di Caifa, mentre nulla sembra esservi accaduto 94 • Queste stesse difficoltà, d'altra parte, hanno indotto altri studiosi a dubi tare che il nome del sommo sacerdote che trattò con Gesù si fosse conservato nella tradizione originale del processo. I nomi di Caifa sommo sacerdote Anna qui menzionato da Giovanni non potrebbe essere Anania non è molto forte. Secondo Winter, « il periodo dell'incarico [ di Anna] era finito alcuni anni prima che gli succedesse Caifa, e molti anni prima che Gesù iniziasse la sua attività pubblica ». II lasso di tempo che intercorre tra i vari avve nimenti è di soli quindici anni. Cfr. Blinzler, Trial of ]esus, pp. 81-4, 86-9. " Un MS (Syr. S) cambia l'ordine dei versetti XVIII: 12-27 inserendo il versetto 24 tra il 13 e i versetti 14, 15; mentre il brano 16-18 segue il 19-23. Questo diverso ordine fa sì che sia Caifa il sommo sacerdote che interroga Gesù: cfr. Novum Test. Graece, ed. Nestle, p. 286. Cfr. Streeter, Four Gospels, pp. 381-2. " Cfr. Bauer, pp. 213-14; M. Black in New Testament Essays (ed. A.J.B. Higgins), pp. 26-7. 93 Cfr. Goguel, p. 507, n. l ; Barrett, St fohn, pp. 437-8 . ., Vedi n. 9 1 . II cambiamento nell'ordine del testo in MS Syr. S era motivato probabilmente dal desiderio di eliminare questa anomalia.
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e di Anna vengono considerati come successive interpolazioni, tratte da scritti ebraici, per dare ai testi evangelici l'aspetto di narrazioni storiche 95• Una soluzione di questo tipo implica necessariamente l'estrapolaZione di certi brani, come non autentici, dai testi sicuri, laddove non vi è una documentazione manoscritta che autorizzi un simile modo di procedere 96• Manca, in sostanza, una soluzione chiara di questi problemi. Per parte nostra abbiamo il dovere di registrare la loro esistenza, come ulteriore prova della natura vaga e tenue della tradizione cristiana sugli ultimi giorni di Gesù. Il fatto che questi problemi esistano indica, inoltre, che persino alla fine del primo secolo nessuna versione definitiva del processo a Gesù era emersa e veniva accettata come tale. Ma le divergenze del vangelo di Giovanni dai sinottici non concernono soltanto la questione dell'identità del sommo sacerdote che trattò con Gesù. Infatti il quarto vangelo presenta l'interrogatorio ebraico in una forma assai diversa da quella che troviamo nei resoconti di Marco e di Matteo, e diversa anche dalla versione, con varianti, presente nel testo di Luca. L'azione giudiziaria non ha l'aspetto di un vero e proprio processo da parte del Sinedrio: non si menziona l'accusa di avere minacciato il Tempio, non si narra che il sommo sacerdote abbia chiesto a Gesù se fosse il Messia, e nulla è detto della bestemmia. In realtà, dall'arresto in poi, tutta l'azione giudiziaria ebraica - ad eccezione dell'inserimento nel tessuto narrativo della storia del diniego di Pietro ( Gv. XVIII : 1 5- 1 8 , 25-2 7 ) assume nel vangelo di Giovanni un carattere completamente diverso da quello che appare nelle versioni sinottiche. Degno di rilievo è il fatto che la terminologia attribuita da Giovanni ai soldati che arrestano Gesù lascia intendere che si trattasse di romani97• Sarebbe davvero -
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Cfr. Winter, pp. 3 1-43; Guignebert, p. 566. 96 Per quella che sembra essere la sola documentazione a livello di manoscritto
di un distacco dal testo tradizionale, e per il motivo che ispirò tale emendamento, vedi nn. 9 1 e 94. "' I vocaboli speira e chiliarchos (XVIII: 3, 12) significano rispettivamente « coorte » e « tribuno », e appartengono entrambi al linguaggio militare latino. L'argomento è stato trattato a fondo da Winter (pp. 44-49), il quale conclude che sia i soldati romani sia la polizia del Tempio presero parte all'arresto di Gesù.
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sorprendente se fossero stati romani; poiché l'operazione è presen tata chiaramente da Marco e da Matteo come organizzata dalle autorità ebraiche, che disponevano di una forza di polizia suffi ciente per un'impresa del tipo di quella descritta dagli autori dei sinottici (Mc. XIV: 43; Mt. XXVI : 47 ) 98• Tuttavia le implica zioni del suggerimento di Giovanni meritano un'attenta conside razione. Infatti, se le truppe erano realmente romane, l'arresto di Gesù dovette essere un'operazione concordata, che Pilato aveva pianificato congiuntamente con i capi ebraici, i cui uomini vi pre sero parte (Gv. XVIII: 3 , 10, 1 2 ) . Il significato di una simile conclusione sarebbe notevole: implicherebbe che Gesù godeva di un appoggio tanto vigoroso che i capi ebraici non si sentirono in grado di procedere al suo arresto, sia pure con l'inganno, mediante le loro sole forze. Ne seguirebbe anche che Pilato era al corrente del pericolo rappresentato da Gesù, e che aveva acconsentito a fornire truppe romane per assicurare il successo dell'operazione. In altre parole, se l'indicazione di Giovanni che l'arresto di Gesù venne effettuato dai romani fosse da accettarsi come autentica, allora il carattere politico di Gesù e del suo movimento assume rebbe proporzioni ancora più rilevanti di quelle implicite nei vangeli sinottici 99• Infatti il suo arresto, invece di essere un'ope razione di polizia intrapresa dalle autorità ebraiche dopo l'azione di Gesù nel Tempio, andrebbe visto come un provvedimento mi litare romano contro un personaggio considerato un pericoloso capo ribelle. Il racconto di Giovanni dell'inchiesta del sommo sacerdote concorda notevolmente con questa interpretazione della versione dell'arresto. Come notavamo prima, il dibattito descritto da Gio vanni non è in nessun modo un processo del Sinedrio per bestem mia, nei termini in cui viene invece descritto nei vangeli sinottici. È essenzialmente un'indagine volta ad accertare i fatti. Il racconto Cfr. Bauer, p. 209; Blinzler, Trial of ]esus, pp. 63-9; Barrett, St fohn, pp. 433, 437. '" Sulla possibilità che Marco abbia soppresso la parte avuta dai romani nell'ar resto cfr. Goguel, pp. 468-9; Guignebert, pp. 563-4. 99 Cfr. Winter, pp. 137-8.
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di Giovanni ha tutta l 'aria di essere un rapporto obiettivo : Il pontefice dunque interrogò Gesù intorno ai suoi discepoli e al suo insegnamento. Gesù gli rispose: « Io ho parlato apertamente al mondo, ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio dove tutti i Giudei si radunano e nulla ho detto di nascosto. Perché interroghi me? Inter roga quelli che hanno udito che cosa ho detto loro, ecco, essi sanno che cosa ho detto ». [ XVIII : 1 9-2 1 ]
Da questo passo e dal racconto dell'arresto è possibile ricostruire un quadro attendibile di ciò che era accaduto sino a questo punto. Se l'arresto di Gesù fosse stato un'operazione combinata tra Pilato e i capi ebraici, sarebbe verosimile che Gesù venisse dapprima portato a un capo ebraico di prestigio e di provata esperienza, quale era Anna, per essere interrogato da un esperto di affari ebrai ci. Questo potrebbe essere stato giudicato un piano più opportuno che non quello di coinvolgere, in tale fase, Caifa, il pontefice in carica. Anche lo scopo dell'interrogatorio di Gesù da parte di Anna è chiaro : era necessario avere conoscenze più precise sul movi mento di Gesù, in particolare sui suoi fini e sull'identità dei suoi principali seguaci. La risposta attribuita a Gesù dal racconto, oltre a contrastare in modo stridente con il suo silenzio e con le risposte assai laconiche delle versioni sinottiche, non contiene nulla di chiaramente non autentico. Essa costituisce anzi la reazione del tutto verosimile di un prigioniero in simili circostanze : Gesù, piuttosto che incriminare se stesso, invita l'inquirente a raccogliersi per proprio conto le informazioni richieste uJO . Una simile inchiesta sarebbe stata certamente necessaria qualora si dovesse preparare un rapporto per Pilato. Se si pensava che Gesù pretendesse di essere il Messia-re, Pilato avrebbe probabil mente deciso che il ricevere informazioni sulle idee e le inten zioni del prigioniero da un esperto ebraico gli sarebbe stato utile per esprimere un giudizio attorno alla questione. Viene pertanto a delinearsi una chiara successione di avvenimenti. Gesù è interro100 Le percosse date a Gesù dopo la sua risposta al sommo sacerdote (XVI I I : 22-3) vengono interpretate d a Winter ( p . 106) come u n interrogatorio « di terzo grado ».
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gato dapprima da Anna, il quale, avendo tratto le proprie conclu sioni e avendole concretate in accuse specifiche, lo manda a Caifa cui spetta, come capo ufficiale dello stato ebraico, di trattare col governatore romano su tali materie (XVII I : 1 3 , 1 9-24 ). Questa interpretazione dà un senso al racconto di Giovanni, che altrimenti suonerebbe strano; tuttavia, essa non trova conforto in quel che viene dopo nel testo evangelico, così come ci è pervenuto. Per valutare i problemi che pone il seguito del racconto, sarà bene tenere sott'occhio il primo episodio : Intanto conducono Gesù da Caifa, nel pretorio. Ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la pasqua. Pilato usd dunque fuori da loro e disse: « Quale accusa portate voi contro quest'uomo? ». Gli risposero e gli dissero: « Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo consegnato ». Pilato allora disse loro : « Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge ». Gli dissero i Giudei: « A noi non è lecito uccidere alcuno ». Affinché fosse adem piuta la parola che Gesù aveva proferito alludendo alla sorta di morte di cui doveva morire. [XVIII: 28-32 ]
A prima vista, taluni aspetti del brano inducono a pensare che esso si basi su una tradizione autentica. Così il rifiuto degli ebrei di entrare nel praetorium sembra essere un dato di fatto - non riportato nei vangeli sinottici - tratto da un ricordo dell'evento reale (XVII I : 2 8 ) . È vero che la ragione fornita per spiegare questo rifiuto, cioè l'imminenza della pasqua, solleva un problema. Essa contraddice la cronologia delle versioni sinottiche, la quale colloca la pasqua alla sera precedente; ma non mancano argomenti che di mostrano come Giovanni, su questo punto, sia il meglio infor mato 101• Tuttavia, quando si prescinda da questi particolari , vi 101 Il riferimento fatto qui alla pasqua significa che Gesù venne crocifisso nel giorno della preparazione alla pasqua (cfr. XIX: 14), cioè nel quattordicesimo giorno del mese di Nisan, e non il 15 di Nisan, come sostengono i vangeli sinottici, i quali mostrano l'ultima cena come banchetto pasquale {per es. Mc. XIV: 12-25). Il punto è stato discusso a lungo dagli studiosi. Da quando a Qumran sono state trovate prove dell'uso di un calendario proprio della setta, che differisce un poco da quello farisaico generalmente accettato, alcuni studiosi hanno preso lo spunto di Il per suggerire spiegazioni circa la differenza esistente tra il vangelo di Giovanni e i sinottici. Cfr. G. Dalman, ]esus-]eshua, p. 86 ss.; Bauer, pp. 214-15; Black in New Testament Essays (ed. A.J.B. Higgins), pp. 26-32; The Scrolls and Christian
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sono seri motivi per dubitare che il brano sia il riflesso di una tra dizione autentica. Prima di tutto, dobbiamo rilevare l'incongruenza tra la presentazione della situazione in esame e gli sviluppi narrativi precedenti. Il brano presenta Pilato come se questi non avesse mai conosciuto prima Gesù ( XVIII : 29 ss. ). Ora se, come abbiamo buoni motivi per credere, Giovanni dà implicitamente per scontato che Gesù era stato arrestato dalle truppe romane, Pilato doveva avere deciso tale provvedimento d'accordo con i capi ebraici. Perciò, in questo punto del testo di Giovanni vi sono afferma zioni contrastanti; infatti, se è esatta l'attribuzione dell'arresto ai romani, allora Pilato non poteva ignorare tutto di Gesù nel mo mento in cui le autorità ebraiche glielo consegnarono al praeto rium. Per contro, se il caso di Gesù fosse stato veramente scono sciuto a Pilato, allora Giovanni non avrebbe detto il vero a pro posito dell'arresto da parte dei romani. La successiva difficoltà sta nella presunta risposta degli ebrei alla domanda di Pilato sulla natura dell'accusa presentata contro Gesù. Se Pilato non avesse davvero saputo nulla di Gesù, la sua domanda sarebbe stata ovvia e necessaria. Ma la risposta degli ebrei, cosl come viene riferita da Giovanni, non è solo irriguar dosa ma anche assurda: « Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo consegnato » (XVIII : 3 0 ) 102 • Questa risposta rende senza senso la stessa situazione che si suppone essa stia descri vendo. I capi ebraici avevano consegnato Gesù a Pilato come un delinquente; ma come poteva agire Pilato se, contro di lui, non veniva specificata alcuna accusa? L'impressione che viene data, in questo punto, dalla mancanza di logica di Giovanni è che egli fosse Origins, Appendice D, dove si ipotizza che proprio dall'ultima cena Giuda po trebbe avere attinto la prova (Gv. XII I : 26-30) della celebrazione illegale della pasqua da parte di Gesù e averla poi riferita ai sommi sacerdoti (op. cit., 201); K.G. Kuhn in The Scrolls and The New Testament (ed. K. Stendahl), pp. 89-93. Cfr. A. Jaubert in N.T.S., VII ( 1960-1 ), pp. 22-30, in R.H.R., 166 ( 1964), p. 149 ss., 167 ( 1965), p. 33, in N.T.S., XIV ( 1968), pp. 145-64. Per quanto attiene ai riflessi
di questo contrasto di datazione sul nostro argomento, tale contrasto va considerato come una ulteriore prova della generale incertezza che investe le narrazioni evan geliche degli ultimi giorni di Gesù. 102 Cfr. Bauer, p. 215. « L'insolenza mostrata al versetto 30 è difficilmente cre dibile e getta un dubbio sull'utilizzazione da parte di Giovanni del materiale pro veniente da Marco » (Barrett, P.C.', 775h).
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più preoccupato di preparare il terreno a uno squarcio di esegesi mistica, che non di seguire lo sviluppo dei fatti. Ciò diventa anche più chiaro nell'affermazione attribuita a Pilato in replica alla scor tese risposta dei capi ebraici: « Prendetelo voi e giudicatelo se condo la vostra legge » (XVIII : 3 1 ). Secondo Giovanni, fu dav vero questa la disposizione che un magistrato romano diede ai rap presentanti di un popolo soggetto, che gli avevano consegnato un prigioniero accusato di un oltraggio che essi rifiutavano di specifi care 103• Tuttavia, l'assurdità dell'affermazione era senza dubbio inevitabile alla luce dello scopo che Giovanni si prefiggeva, che era quello di portare il dialogo tra Pilato e i capi ebraici al punto in cui gli fosse possibile spiegare come mai Gesù fosse morto della pena romana della crocifissione. Come abbiamo già visto, la suc cessiva dichiarazione degli ebrei, secondo cui la legge non avrebbe loro consentito di infliggere la pena capitale, richiede una valuta zione molto cauta prima di poterla accettare come un'afferma zione storicamente fondata. Ma la vera preoccupazione di Giovanni nel riportare questa dichiarazione era di spiegare che, in questo modo, si adempiva « la parola che Gesù aveva proferito alludendo alla sorta di morte di cui doveva morire » . In questa maniera con torta, l'evangelista rievoca qui una strana affermazione, attribuita in precedenza a Gesù quale profetico annuncio della sua croci fissione (XII : 32-3) 104 • Ci rendiamo conto che gli sviluppi analitici e critici di questo discorso sono stati tediosi, ma non era possibile evitarli. Il discorso, se non altro, dovrebbe servirei a mostrare quanto sia difficile esprimere un giudizio sul racconto di Giovanni del processo a Gesù. Fin qui abbiamo visto abbastanza per renderei conto di quanto sia 103 Blinzler (p. 188) tenta di superare la difficoltà sostenendo: « Il procuratore sta pensando, o almeno finge di pensare a un reato al quale non si applica la pena di morte, e perciò invita gli ebrei a giudicare l'accusato secondo la loro legge; naturalmente, infatti, essi sono in grado di giudicare per loro conto solo i casi per i quali non è prevista la pena di morte ». Tale ipotesi, avanzata per difendere !'.autenticità della narrazione di Giovanni, rivela quanto debole sia l'argomenta ziOne. 104 « Das ist stilisierte Darstellung aber nicht irgendwie wiigbare historische Relation » (H. Lietzmann, Kleine Schriften, II, p. 274).
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complesso il tessuto del suo testo, nel quale si intrecciano fatti evidenti, interpretazioni teologiche e fantasie mistiche . In un punto Giovanni sembrava promettere - rispetto ai sinottici - una presentazione più autentica del processo; ma poi, nel prosieguo, il testo ha mostrato di contenere affermazioni incredibili, oppure altre che portano per forza a constatare che il tema di Giovanni è la teologia e non la storia. Questa impressione continua a essere fornita anche nel resto del racconto del processo. Come dramma è superbo; l'enfasi sul motivo del ruolo regale di Gesù merita la massima considerazione; il racconto contiene tuttavia altrettanti problemi quanti ne abbiamo riscontrati nel passo precedente. Te nuto conto della complessa natura del testo, dobbiamo esaminare successivamente i vari episodi nei quali la narrazione si articola. Il brano che ora citiamo viene immediatamente dopo quello che abbiamo appena esaminato: Pilato entrò dunque ancora nel pretorio, chiamò Gesù e gli disse: « Tu sei il re dei Giudei? ». Rispose Gesù: « Dici questo da te stesso o altri te lo dissero di me? ». Rispose Pilato: « Sono io forse giudeo? La tua gente e i pontefici ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto? ». Rispose Gesù: « Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo i miei ministri avrebbero combattuto perché io non fossi consegnato ai Giudei. Ma il mio regno non è di qui ». Gli disse allora Pilato : « Dunque, sei tu re? ». Rispose Gesù: « Tu dici bene che sono re. Io per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce ». Gli dice Pilato: « Che cosa è la verità? ». [:XVIII : 33-38 ]
Ancora una volta ci troviamo di fronte a u n racconto che suscita per un verso un'impressione di verosimiglianza, mentre per altri versi è chiaramente incoerente o elusivo. Se lo esaminiamo punto per punto, notiamo innanzitutto che la prima domanda posta da Pilato a Gesù è strettamente conforme alla versione di M2rco : c'è in questo punto la stessa mancanza di informazione circa l'ac cusa che i capi ebraici rivolsero contro Gesù, nonché la principale domanda di Pilato, la quale presuppone che Gesù fosse stato ac cusato di pretendere di essere il re degli ebrei. Nel racconto di
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Giovanni, tuttavia, si trova a questo punto una incoerenza che manca in quello di Marco. Infatti, mentre Marco dice che i capi ebraici mossero un certo numero di accuse imprecisate contro Gesù, Giovanni li mostra in precedenza nell'atto di rifiutare deliberata mente qualsiasi precisazione circa la natura della loro accusa (Mc. XV: 3; Gv. XVIII: 3 0 ) . Comunque stiano le cose, il dialogo che segue è estremamente interessante in quanto imperniato sul ruolo regale di Gesù. La risposta di Gesù alla domanda principale di Pilato presenta importanti implicazioni, oltre ad avere un'aria di verosimiglianza. Rispondere con la formulazione di un'altra do manda poteva essere una mossa da abile dialettico : « Dici questo • da te stesso o altri te lo dissero di me? » (Gv. XVIII : 3 4 ) 105 Se questa domanda fosse autentica, potrebbe significare che Gesù cercava di apprendere da Pilato quanto egli sapesse di lui e in che misura il procuratore si fosse reso conto delle sue ambizioni. Tuttavia, possiamo comprendere a dovere la domanda soltanto nel contesto complessivo della versione di Giovanni del processo. Entro questo quadro, essa parrebbe indicare che Giovanni sapesse, a dispetto delle sue affermazioni contrarie, che i capi ebraici ave vano specificamente accusato Gesù di proclamarsi re, e che avevano probabilmente spiegato la connotazione messianica di tale ambi zione 106• La risposta di Pilato : « Sono io forse giudeo ? » sembra con fermare che Giovanni, nel comporre questo dialogo, era a cono scenza del fatto che un romano doveva essere insofferente delle sfumature di significato, tipicamente ebraiche, concernenti la rega lità messianica (XVIII: 35a) 107• Il res-to della risposta di Pilato è rivelatore: « La tua gente e i pontefici ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto ? » (XVIII : 35b). Ciò indica che Giovanni, associando senz'altro la nazione ebraica con i sommi sacerdoti, tentò di compromettere l'intero popolo ebraico nell'azione che "' Cfr. Schlatter, pp. 339-40. "' Una conferma di questa deduzione si trova al versetto XIX: 12. « Einen Anspruch Jesu an Pilatus gibt es nicht. Das ist durch die vollige Trcnnung ganzlich ausgeschlossen, die den Juden von allen anderen Volkern trennt » (Schlatter, p. 40). "'
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aveva portato alla morte di Gesù. Questa intenzione, come vedremo subito, è divenuta una delle tesi fondamentali di Giovanni. Gesù viene rappresentato mentre spiega accuratamente a Pilato che il suo ruolo regale, al di là di ciò che Pilato potesse naturalmente inten dere, non era « di questo mondo » . Vale la pena di notare, inci dentalmente, che questa dichiarazione di Gesù è un'ammissione del fatto significativo che egli proclamò davvero la sua regalità (XVIII : 36a). Dopo avere illustrato la natura trascendentale del suo ruolo regale, Gesù viene poi descritto mentre aggiunge, a mo' di ulteriore spiegazione : « Se il mio regno fosse di questo mondo i miei ministri avrebbero combattuto perché io non fossi consegnato ai Giudei. Ma il mio regno non è di qui » (XVIII : 36b ) 108 • L'importanza di questa affermazione per la nostra analisi della presentazione di Giovanni del processo a Gesù è enorme . Nell'attribuire tali parole a Gesù, Giovanni sembra dimenticarsi che, secondo la sua stessa narrazione, Gesù era stato consegnato a Pilato, perché lo giudicasse, dai capi e dal popolo ebraici (XVI I I : 28-9 ). Ora, invece, l'evangelista delinea una situazione del tutto diversa, nella quale Gesù corre il rischio di essere consegnato (paradoutho) agli ebrei da qualche potere non precisato. Questa straordinaria interpretazione della situazione di Gesù durante il suo processo è chiarita da una successiva affermazione che conclude il resoconto del processo romano. Giovanni annota a quel punto : « Allora [ Pilato ] lo [ Gesù ] consegnò loro [ agli ebrei] , affinché fosse crocifisso » (XIX: 1 6 ). Giovanni, cioè, rappresenta di fatto la crocifissione di Gesù come determinata e compiuta dagli ebrei. Vedremo tra poco le incongruenze che questa prospettiva proietta sul racconto della crocifissione. Per il momento, ci limitiamo a considerarne il significato in rapporto alla nostra valutazione della versione di Giovanni del processo. L'idea che il processo romano si concluda con J a consegna di Gesù agli ebrei, i quali lo crocifig108 « Das apologetischc Motiv ist deutlich (Justin Ap. I . l l ) und war schon 6 . 1 1 i n gleicher Richtung hcrvorgetreten » (Bauer, p. 2 1 6 ) . È significativo che Giovanni lasci intendere che Gesù aveva forze sufficienti per resistere all'arresto da parte degli ebrei, se avesse voluto. Il termine hyperetai, usato per indicare servi o ministri al versetto 36, viene usato per indicare guardie armate in XVII I : 3, 12,. 22. Cfr. Brandon, ]esus and the Zealots, pp. 3 1 8-20.
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gono, non è un concetto isolato. Il processo e la crocifissione rap presentano in effetti l'atto culminante del dramma dualistico che costituisce il tema più importante del vangelo di Giovanni. La vita di Gesù, inteso come « la Parola » ( Logos) incarnata di Dio, è vista come una lotta tra Gesù e il Demonio, che è il « principe di questo mondo » (Gv. XII : 3 1 ; XVI : 1 1 ). In questa immane lotta, gli ebrei svolgono il ruolo dei nemici di Gesù e fìg!i del Demonio (VIII : 44) 109• Tale spietato dualismo, che ricorda quello tra i « fìgli della luce » e i « fìgli delle tenebre » nei rotoli del Mar Morto 1 10, si pone come il tema di fondo del vangelo di Giovanni, e ispira chiaramente la sua interpretazione del processo a Gesù. Perciò, nonostante gli occasionali brani che sembrano at tingere a una tradizione storica credibile, il testo di Giovanni è volto essenzialmente a presentare questo tema dualistico. Proseguendo nel nostro esame del passo, dobbiamo poi notare che, alla domanda posta da Pilato a mo' di verifìca: « Dunque, sei tu re? », Gesù risponde affermando che questo era il suo destino dalla nascita, e anche lo scopo della sua incarnazione (XVIII : 3 7 ) . I riferimenti di Gesù alla « verità » costringono Pilato (il quale avrebbe sicuramente avuto ragione di restare sbalordito, se avesse davvero udito un'affermazione tanto esoterica) a porre la sua fa mosa domanda: « Che cosa è la verità? » (XVIII : 38a) 111 • Secondo Giovanni, Pilato non attese che a tale domanda ven isse data una risposta : E detto questo, uscì di nuovo dai Giudei e dice loro: « Io non trovo in lui alcuna colpa. Ora, è consuetudine che io vi liberi uno nella pasqua. Volete dunque che vi liberi il re dei Giudei? ». Allora gridarono di nuovo dicendo : « Non costui, ma Barabba ». E Barabba era un ladro (lestés ) . [ XVII I : 38-40 J
109 Cfr. Bauer, pp. 127-130; Schlatter, pp. 215-17; Dodd, Interpretation, pp. 159, 201 ss.; Winter, On the Trial of ]esus, pp. 1 14-15. 11° Cfr. H.W. Huppenbauer, Der Mensch zwischen zwei Welten, passim (vedi in particolare p. 53); Black, The Scrolls and Christian Origins, pp. 134, 171. 11 1 « Die Frage cles Pilatus 38 ist nicht von Wissensdurst diktiert, sondern Aus druck skeptischer Stimmung » (Bauer, p. 217). « In questo punto Pilato rappresenta il mondo dei miscredenti >} (Dodd, Interpretation, p. 436). 239
Questo passo ha tutta l'aria di essere una sorta di riassunto della versione di Marco dell'episodio di Barabba. L'affermazione che gli ebrei « gridarono di nuovo (palin) » è derivata chiara mente da Mc. XV: 1 3 ; infatti Giovanni non aveva fatto cenno ad alcuna precedente offerta di Pilato - in relazione con la consue tudine - di rilasciare Gesù 112• Dopo questo breve inserimento dell'episodio di Barabba nel resoconto, Giovanni riprende - nel suo modo personalissimo la narrazione della vicenda nella quale Gesù e Pilato vennero a trovarsi tanto fatalmente coinvolti. Ciò che l'evangelista riferisce subito dopo appare come una sintesi drammatica tra la storia nar rata da Marco del dileggio di Gesù e un dialogo alternato tra Pilato e gli ebrei e Pilato e Gesù, volto a mostrare la crescente presa di coscienza da parte del governatore romano della natura divina di Gesù, e il suo vano tentativo di salvarlo dagli ebrei. Non è neces sario riportare la descrizione della flagellazione e dello scherno di Gesù; infatti essa differisce dallo scritto di Marco solo per l'omis sione dei colpi con la canna ( XIX: 1-3 ). Ciò che segue è presen tato vivacemente, ed ha ispirato molti artisti cristiani a ritrarre il drammatico momento, conosciuto come l'Ecce homo! 113• Pilato intanto uscì ancora fuori e dice loro: « Ecco, ve lo conduco fuori affinché sappiate che non trovo in lui alcuna colpa » . Gesù uscì dunque fuori, portando la corona di spine e il pallio di porpora. E dice loro: « Ecco l'uomo! ». Quando dunque lo videro i pontefici e i ministri gridarono dicendo: « Crocifiggilo, crocifiggilo ». Dice loro Pi lato : « Prendetelo voi e crocifiggetelo, ché io non trovo in lui alcuna colpa » . Gli risposero i Giudei : « Noi abbiamo una legge e secondo la legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio ». Quando dunque Pilato udi questo discorso si impauri di più, entrò ancora nel pretorio e dice a Gesù : « Tu, di dove sei? ». Gesù però non gli diede risposta. Gli dice dunque Pilato : « Non mi parli? Non sai che ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti? ». Rispose Gesù : « Non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo ha una colpa più grande chi mi ha consegnato a te ». Da allora Pilato cercava di liberarlo. I Giudei invece gridavano dicendo : « Se liberi "' Cfr. Bauer, p. 217 ( 40). m Per es. vedi J. Combe, Jerome Bosch, Parigi 1946, tav. 43.
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costui non sei amico di Cesare. Chiunque si fa re va contro Cesare » . Uditi dunque questi discorsi, Pilato condusse fuori Gesù e si assise in tribunale nel luogo detto Litostroto, in ebraico Gabbata. Era la vigilia della pasqua, era quasi l'ora sesta. Ed egli dice ai Giudei: « Ecco il vostro re ! ». Quelli allora gridarono: « Via, via, crocifiggilo ». Dice loro Pilato : « Devo crocifiggere il vostro re? ». Risposero i pontefici: « Non abbiamo altro re che Cesare » . Allora lo consegnò loro affinché fosse crocifisso. Presero quindi Gesù, il quale, portando la croce da se stesso arrivò al luogo del Cranio, detto in ebraico Golgota, ove lo crocifissero insieme ad altri due, uno di qua, uno di là e in mezzo Gesù. Pilato scrisse anche un cartello e lo pose sulla croce. E vi era scritto: « Gesù Nazareno, re dei Giudei ». Questo cartello lo lessero molti dei Giudei, perché il luogo dove fu crocifisso Gesù era vicino alla città e lo scritto era in ebraico, latino e greco. Dicevano dunque a Pilato i pontefici dei Giudei: « Non scrivere: Re dei Giudei, ma che egli ha detto : Sono re dei Giudei ». Pilato rispose: « Quel che ho scritto ho scritto » . [ XIX: 4-22 ]
Impegnati come siamo a ricercare le prime testimonianze esi stenti del processo a Gesù, che uso possiamo fare di questa rap presentazione drammatica, composta da Giovanni una settantina d'anni dopo l'avvenimento ? Sotto il profilo drammatico, il mon taggio è superbo, e ha commosso profondamente la posterità cri stiana. Ma qual è il suo valore come documento storico ? Possiamo credere davvero che un duro ed esperto governatore romano, con una forza militare a sua disposizione, potesse fare la spola tra un prigioniero e i suoi accusatori, interrogando il primo e contrat tando con i secondi per il suo rilascio ? Giovanni stesso, involon tariamente, dimostra la falsità della propria versione facendo ram mentare da Pilato a Gesù : « Non sai che ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti? » (XIX: l O) 114 • Infatti, avendo rico nosciuto in tal modo che Pilato disponeva dei pieni poteri, Gio vanni sembra stranamente trascurare la logica dei fatti. Egli pro cede senza coerenza, come gli altri evangelisti, nell'attribuire a Pilato il vano tentativo di liberare Gesù, la cui innocenza Pilato stesso aveva pubblicamente riconosciuto. Ma non basta. Secondo '" « Pilatus beruft sich auf die ihm zustehende Amtsbefugnis. Vgl. Digesten 50, 17, 37 : Nemo, qui condemnare potest, absolvere non potest, ahnlich 42, l, 3 » (Bauer, p. 219).
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Giovanni, il governatore si mise addirittura a contrattare con il popolo e con i capi ebraici, come se il potere di rilasciare un pri gioniero stesse nelle loro mani e non nelle sue. La sola spiegazione che Giovanni sembra proporre per questo paradosso è che gli ebrei contrastassero le intenzioni di Pilato con la minaccia: « Se liberi costui non sei amico di Cesare. Chiunque si fa re va contro Cesare » (XIX: 1 2 ) 115• Qualora questa affermazione intenda valere come spiegazione, il suo sottinteso è che gli ebrei avrebbero informato l'imperatore della questione, e che tale fatto avrebbe prodotto gravi conseguenze per Pilato. Se questo è veramente l'argomento di Giovanni, è quanto mai ingenuo : sia perché non tiene conto delle difficoltà pratiche che una popolazione subalterna avrebbe incon trato nel promuovere un'azione di questo tipo nei confronti del suo governatore riconosciuto, sia perché suppone che l'imperatore avrebbe accettato il rapporto degli ebrei piuttosto che quello inviatogli da un funzionario romano, la cui decennale permanenza in carica sta a dimostrare di quale credito godesse 116• L'evange lista trascura inoltre il fatto che Pilato si sarebbe venuto a trovare in una situazione di gran lunga più pericolosa qualora l'imperatore avesse appreso che egli aveva liberato Barabba, un capo ribelle coinvolto recentemente in una minacciosa insurrezione - nel caso, ben inteso, che un avvenimento del genere fosse realmente accaduto 117• V'è poi un altro aspetto che merita d'essere com mentato. Come gli autori dei vangeli sinottici, anche Giovanni descrive la situazione lasciando intendere che Pilato fosse costretto 115 Sulla qualifica di « amico di Cesare » cfr. Bauer, p. 219 ( 12). Cfr. Blinzler, pp. 236-7; Goguel, p. 525. E. Bammel (Th.L.Z., 77, 209) osserva a proposito del versetto 12 in modo pertinente: « Der Nachsatz bringt die Priimisse, die den Vordersatz begri.indet >> . 116 Vedi p. 178, n. 70. La presunta inimicizia tra Pilato e i capi ebraici non trova conferma nella lunga permanenza in carica di Caifa durante il periodo in cui Pilato fu governatore. Come Smallwood giustamente osserva : « Presumibilmente Caifa fu un sommo sacerdote congeniale a Pilato, che lo trovò già in carica al suo arrivo nel 26 e, lungi dall'esercitare il suo diritto di nomina, lo mantenne al suo posto per tutti i dieci anni del suo incarico di procuratore » (J.T.S., XIII ( 1962), p. 22). In realtà la documentata lunga cooperazione tra Pilato e Caifa rende più probabile che l'azione intrapresa per eliminare Gesù fosse condotta congiunta mente. 117 Vedi la reinterpretazione dell'episodio di Barabba nei capp. 4 e 6.
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a prendere una decisione immediata. Ma, come abbiamo già notato, a Pilato non sarebbe mancata la possibilità di scegliere altre solu zioni, qualora si fosse reso conto che il caso era troppo esposto alla temperie passionale del momento : avrebbe potuto, per esempio, posporre ogni decisione e trasferire la causa a Cesarea per ulteriori indagini. Ma, quali che siano i particolari della vicenda, quando si prenda il racconto di Giovanni nel suo insieme, appare chiaro che non lo si può considerare un vero e proprio resoconto processuale; infatti esso è essenzialmente la presentazione di una disputa tra Pilato e gli ebrei sul destino di Gesù. Così, senza che si spieghi come il governatore abbia raggiunto una simile conclusione, a Pilato viene attribuita la convinzione dell'innocenza di Gesù (XVIII : 3 8 ; XIX : 4 , 6 ). I capi ebraici sono improvvisamente trasformati da presen tatori formali di un'accusa di sedizione contro Gesù in nemici che richiedono con veemenza a Pilato di crocifiggerlo (XIX: 6 ) 118• Tutta l'apparenza di procedimento giudiziario svanisce, e al suo posto viene messa in scena una drammatica lotta. Protagonista è il rappresentante di Roma, che testimonia l'innocenza di Gesù e cerca di salvarlo. Gli antagonisti sono i capi e il popolo ebraici, i quali incarnano il Demonio, e cercano di distruggere il Figlio di Dio, che è anche il Messia-re di Israele. Nello sviluppo di questo dramma dualistico viene dimenticata la realtà storica della situa zione, e cioè che Pilato è il governatore romano, dotato della suprema autorità e della forza per sostenerla, mentre il sommo sacerdote ebraico è nominato da lui ed è chiamato a rispondere dinanzi a lui degli affari interni della popolazione indigena. La ragione che ispira questa presentazione è ovvia: la crocifissione di Gesù deve essere vista quale un atto compiuto dagli ebrei e non dai romani, come di fatto fu. Questa finzione è mantenuta sino alla fine : tant'è che nel testo Pilato figura non esprimere alcun 118 In questo episodio non è assolutamente chiaro chi sia l'interlocutore Pilato, con il quale egli tratta. La discussione ha inizio con i capi ebraici XVIII: 28; si sposta agli ebrei in XVIII : 38; ritorna ai capi ebraici in XIX: si sposta ancora agli ebrei in XIX: 7 ; continua con gli ebrei in XIX: 12; riprende con i sommi sacerdoti in XIX: 15.
di in 6; e
243
verdetto, bensì consegnare Gesù agli ebrei, che procedono a croci figgerlo ( XIX : 1 6 ) 119• Sebbene questa presentazione, così com'è, non possa considerarsi storicamente fondata, alcuni suoi aspetti sembrano tuttavia riflet tere una situazione reale. Abbiamo già osservato che Giovanni pare rendersi conto che fu il rilievo politico delle attività di Gesù l'elemento che preoccupò i capi ebraici. È interessante perciò che l'identità regale di Gesù sia descritta come il solo tema dibattuto al suo « processo ». Gesù - secondo Giovanni - spiega accurata mente a Pilato che « il suo regno non è di questo mondo »; egli, significativamente, non respinge l'attribuzione della regalità, né come una equivoca interpretazione del popolo, né come una ca lunnia dei suoi nemici. Quale importanza avesse mai per Pilato un regno « non di questo mondo » può essere, tutt'al pitl, l'oggetto di curiose congetture. In ogni caso, è significativo che Giovanni attri buisca agli ebrei l'argomentazione secondo cui « chiunque si fa re va contro Cesare » . La logica di questo ragionamento era davvero scontata. Infatti qualsiasi ambizione di regalità, anche se « non di questo mondo }> , correva il rischio di essere fraintesa come un gesto sedizioso contro la sovranità romana. L'insistenza di Giovanni su questo tema della regalità lascia supporre in effetti che egli si rendesse conto, sia pure con fastidio, che proprio questo era stato il punto decisivo in questione nel processo romano contro Gesù. Tale impressione è rafforzata dall'asserzione che l'evangelista attri buisce ai sommi sacerdoti degli ebrei: « Non abbiamo altro re che Cesare » ( XIX: 1 5 ) 120• L'attribuzione di una tale affermazione ai rappresentanti ufficiali del popolo ebraico, da parte di chiunque fosse a conoscenza dei rapporti romano-ebraici di quel periodo, non poteva essere fatta senza una buona dose di ironia. Infatti la negazione della regalità di Cesare era il principio fondamentale dello zelotismo, e Giuseppe narra in quale modo i romani tortu rassero i sicari per far loro riconoscere « Cesare come signore » . Gesù, i n quanto Messia-re, respingeva i n effetti l a regalità d i Cesare 119
12°
244
Cfr. Barrett, St fohn, Cfr. Schlatter, p. 347.
pp.
442-54.
in termini altrettanto perentori quanto quelli usati dagli zeloti. Nel presentare la crocifissione di Gesù come compiuta dagli ebrei, Giovanni incorse necessariamente in contraddizioni. Dal suo racconto esce inoltre sottolineato il fatto che la preoccupazione primaria dell'evangelista fu di ordine teologico e non storiografico. Così, pur presentando gli ebrei come i reali esecutori della croci fissione di Gesù, Giovanni narra che Pilato aveva collocato un titulus sulla croce di Gesù, ad indicare il crimine che si intendeva punire (XIX: 19-20) 121• La stessa apposizione del titulus era di fatto una proclamazione della sentenza romana di morte. E la suc cessiva descrizione degli avvenimenti che accompagnano la croci fissione rivela la responsabilità di soldati che figurano essere ro mani, anche se non si fa menzione del centurione e della sua testi monianza della divinità di Gesù, registrata da Marco e da Matteo ( XIX: 2 3 , 32 ss . ) . Che Pilato, e non gli ebrei, fosse il responsabile della crocifissione è implicitamente indicato anche dal fatto che il governatore viene descritto mentre consegna il corpo di Gesù a Giuseppe di Arimatea per la sepoltura (XIX : 3 8 ). La responsabilità di Pilato trova un'ulteriore conferma nella richiesta che - secondo Giovanni - gli ebrei gli rivolgono affinché le gambe dei tre croci fissi vengano spezzate, per affrettarne la morte ( XIX: 3 1 ). Senza dubbio, secondo Giovanni, il significato della sua attribuzione della crocifissione di Gesù agli ebrei doveva essere quello di una denuncia della responsabilità ebraica di fondo per quella uccisione. Ma, comunque stiano le cose, raccontando in termini intenzional mente elusivi la crocifissione, Giovanni riesce a evitare che i soldati romani vi appaiano nella veste degli esecutori materiali. E in tal modo - anche se fu proprio Pilato a ordinare l'esecuzione e furono i suoi soldati a eseguirla - Giovanni offre al lettore l'im pressione che Pilato si limitasse a consegnare Gesù agli ebrei ancora in stato di arresto. E la crocifissione vera e propria, secondo 121 Cfr. Bauer, 222; Schlatter, pp. 348-9. Winter, p. 106, osserva corretta mente che, nel racconto di Giovanni, le parole del titulus « invece di essere una indicazione della causa che aveva condotto alla sentenza capitale, vengono intese come portatrici di un significato profetico » .
245
l'evangelista, fu opera degli ebrei, che compirono la volontà del loro padre, il Demonio 122 • Concludiamo così la nostra rassegna dei resoconti del processo a Gesù, quali si trovano nei vangeli di Matteo, Luca e Giovanni. Nessuno di essi si discosta sostanzialmente dal fì.lo conduttore della versione di Marco. Infatti, come questo vangelo, così gli altri tre cercano di mostrare che gli ebrei furono responsabili della croci fissione di Gesù, mentre Pilato fu testimone della sua innocenza. Ad eccezione di Luca, i testi palesano una comune riluttanza a rivelare la natura delle accuse che gli ebrei rivolsero contro Gesù, e per le quali Pilato lo condannò. Come resoconti di un atto giu diziario, le tre narrazioni non appaiono più accurate della storia di Marco, anche perché ne seguono le tracce nel descrivere quella che è in realtà una diatriba tra Pilato e gli ebrei attorno al destino di Gesù. Analogamente tutte le contraddizioni, le assurdità, le reticenze e le evasività palesi in questi resoconti nascono dall'im paccio costituito dall'esecuzione romana di Gesù per sedizione. Sebbene i loro testi perseguissero, per qualche verso, intenti dif ferenti da quello che aveva dato alimento alla versione apologetica di Marco del processo, Matteo, Luca e Giovanni condivisero la sua preoccupazione di spiegare in modo diverso lo scandalo della croce romana. Di qui lo sforzo comune di fare di Pilato un testi mone dell'innocenza di Gesù, e degli ebrei gli unici responsabili della sua morte. "' « Gli ebrei del quarto vangelo sono congenitamente i nemici del salvatore del mondo, decisi a distruggerlo ... Sotto questo profilo solamente il quarto vangelo dilata in modo bizzarro un concetto che è già presente in forma abbozzata in Marco: gli ebrei sono ab initio i nemici di Gesù » (Winter, pp. 1 14-15).
6 . La realtà storica: che cosa accadde?
La nostra indagine sui resoconti evangelici del processo a Gesù ci ha condotto a una conclusione sicura. Bisogna ammetterlo, è una conclusione piuttosto negativa, ma ricca di suggerimenti utili a cogliere la situazione reale. Questa conclusione è che tutti e quattro gli evangelisti avvertirono con profondo imbarazzo lo scan dalo della croce romana. Che Gesù fosse stato giustiziato per sedi zione su ordine di Ponzio Pilato era un fatto che i quattro autori conoscevano troppo bene per poterlo negare; potevano soltanto tentare di spiegarlo in modo diverso. Ma l'imbarazzo per la croce romana, si badi, fu percepito sol tanto dai cristiani d'estrazione gentile, e non turbò minimamente gli originari seguaci ebrei di Gesù, i quali, in realtà, avevano enfa tizzato la croce romana quale elemento destinato a conferire pre stigio a Gesù come al Messia-martire d'Israele 1• Essi erano vissuti nell'attesa di un sollecito ritorno di Gesù, dotato di poteri sopran naturali, per « restaurare il regno d'Israele » : un evento che avreb be comportato il rovesciamento del dominio romano nella terra santa di Yahweh. La preoccupazione principale di questi disce poli originari, residenti a Gerusalemme, fu quella di respingere l'accusa che Gesù avesse minacciato di distruggere il Tempio. Quindi la narrazione da loro composta circa gli ultimi fatali giorni della vicenda di Gesù fu condizionata da questo impegno. Il rac conto respingeva l'accusa di minaccia al Tempio - rivolta a Gesù durante l'inchiesta del Sinedrio - come « falsa testimonianza » , e descriveva i n che modo gli impopolari capi ebraici avessero col1 Luca presenta il Cristo risorto mentre istruisce i suoi discepoli: « "Forse che non doveva soffrire queste cose il Cristo [Messiah] ed entrare nella sua gloria?". E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegava loro in tutte le Scritture quanto lo riguardava » (XXIV: 26-7). Questo passo rivela in modo significativo il ragionamento attraverso il quale i primitivi cristiani d'estrazione ebraica spiega vano la crocifissione come testimonianza della missione messianica di Gesù.
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laborato con Pilato nel crocifiggere Gesù come ribelle contro il governo romano della Giudea. Fu Marco - il quale scriveva per i cristiani di Roma in preda a imbarazzo e ad insicurezza in seguito al trionfo flaviano del 7 1 d.C., dopo la vittoria sulla Giudea ribelle - a dare l'avvio a una versione diversa del processo a Gesù. Presentato Gesù come un sostenitore dell'obbligo ebraico di pagare il tributo a Roma, Marco mostrava poi che i capi ebraici condannarono Gesù per bestemmia e costrin sero Pilato a crocifiggerlo. L'evangelista predispose così il modello, elaborato nei vangeli più tardi, di una presentazione del processo romano nei termini di una disputa fra Pilato - che riconosceva l'innocenza di Gesù e cercava di salvarlo - e gli ebrei, intenzionati a eliminarlo. In tal modo la versione di Marco del processo a Gesti si configurava essenzialmente come un discorso apologetico, non storico. Tuttavia ebbe successo; infatti, malgrado le sue incon gruenze, tanto evidenti per gli storici moderni, diede ai cristiani di quel periodo ciò che essi volevano. Lo scandalo della croce ro mana era rimosso . La criminale responsabilità d'avere inflitto la pena a Gesù veniva addossata agli ebrei - quegli ebrei che il mondo romano odiava per il loro fanatismo e per la loro ribellione, e sui quali era caduta nel 70 d.C. la meritata punizione. Una volta formulato, questo schema antiebraico, con la sua concomitante attestazione dell'innocenza di Gesù da parte di Pilato, ispirò gli scrittori degli altri vangeli a sviluppare il tema del Cristo pacifico. Tale concetto aveva il duplice pregio di essere compatibile con la divinizzazione di Gesù e di rassicurare il governo romano che il cristianesimo non era politicamente sovversivo . Sebbene teologicamente necessarie e politicamente convenienti, queste versioni del processo a Gesù furono essenzialmente delle deformazioni di ciò che era realmente accaduto . Esse hanno avuto perciò l'effetto di oscurare o trasformare la figura dell'autentico Gesù storico e le ragioni reali della sua tragica morte. Sia nella loro natura sia nelle loro conseguenze, i racconti evangelici con cernenti Gesù sono composizioni ibride. Da una parte, infatti, sostengono la sua divinità e l'effetto salvifìco della sua morte; ma dall'altra, a differenza di Paolo, non riescono a liberarsi dal con248
testo della crocifissione storica e da presentarla senz'altro come un evento trascendentale, compiuto dai poteri demonici che governano l'universo inferiore. È certamente una fortuna che le narrazioni evangeliche, incapaci di seguire Paolo fino in fondo, abbiano man tenuto un legame con la sitiiazione storica. Infatti, sebbene de formino tale situazione, i testi evangelici hanno conservato, nelle loro versioni del processo a Gesù, la sola documentazione parti colareggiata di cui oggi disponiamo. In tal modo, essi costitui scono per lo storico moderno un'occasione e una sfida. Un'occa sione, in quanto gli forniscono le più remote tradizioni pervenute sin qui sul processo a Gesù; una sfida, poiché lo spingono a cercare di capire, partendo da elementi tanto tendenziosi, che cosa real mente avvenne. Per parte nostra accetteremo ora quella sfida, e tenteremo di cogliere - dietro i testi evangelici - quella che fu verosimilmente la realtà storica. Ma una impresa di questo genere non può fare altro, per elaborare una interpretazione, se non ricavarla dal mate riale fornito dai vangeli. La nostra ricostruzione sarà perciò una interpretazione fondata su altre interpretazioni, poiché tali sono essenzialmente i racconti evangelici. Ma, per lo meno, ci è lecito dichiarare che lo scopo di tale ricostruzione è quello di conse guire qualcosa che si qualifichi come verosimiglianza storica e non come apologetica teologica. E, forse, ci è dato di sperare che dal tentativo emerga un ritratto più credibile di Gesù di Nazareth, nei termini della situazione propria della Giudea nel primo secolo. Il nostro tentativo di ricostruzione inizierà più correttamente se prenderemo le mosse da un fatto del quale possiamo essere certi, cioè dalla esecuzione di Gesù da parte dei romani per sedizione. La deduzione che viene spontaneo trarre da questo fatto è che Ponzio Pilato, nella veste di governatore romano della Giudea, essendo persuaso della sua colpevolezza per sedizione, ordinò che Gesù fosse crocifisso alla stessa stregua di altri ribelli. Il problema che dobbiamo studiare è quello di stabilire per quali vie Pilato acquisì la convinzione della natura sediziosa dell'attività di Gesù . Gli scrittori evangelici negano che Gesù si fosse macchiato di questa colpa; ma avendo trovato i loro racconti così poco convin249
centi su questo punto, noi siamo costretti ad argomentare che Pilato credette veramente nella colpevolezza di Gesù, e il fatto stesso della croce romana porta inevitabilmente a questa conclu sione. Tale conclusione non implica di necessità che Gesù fosse colpevole, giacché è concepibile, anche se improbabile, che Pilato potesse essere stato indotto in errore o fuorviato in sede di testi monianza, o persino spinto a giustiziare un uomo innocente 2• La deduzione che a prima vista si deve trarre dal fatto che Pilato ordinò la crocifissione di Gesù è che egli fosse convinto della sua colpevolezza. Il nostro compito sarà ora di vedere se questa dedu zione, tratta a prima vista, sia confortata o meno dalle prove che si possono raccogliere qua e là nei resoconti evangelici dell'attività di Gesù. I vangeli registrano la vicenda pubblica di Gesù a partire dal suo battesimo ad opera di Giovanni Battista, col quale sembra avesse per un certo tempo una qualche forma di sodalizio (Mc. I : 9 ss. ; Mt. XIV : 1 2 ; Gv. III : 2 2 ss. ) . Una spessa coltre di oscurità ricopre la personalità e l'attività di Giovanni, nonché i suoi rapporti con Gesù. Appare certo che il Battista fosse nella linea della tradizione profetica e apocalittica ebraica 3 • Secondo gli scrittori dei vangeli, il proposito di Giovanni era quello di preparare una comunità di eletti - attraverso il pentimento dei peccati e il battesimo - in vista dell'avvento del regno messianico (Mt. III : l ss . ; Le. III: 2 ss. ) 4• Egli incorse nella collera di Erode Antipa e di Erodiade denunciando il loro matrimonio illegale, e Marco descrive in modo assai vivace le circostanze della sua esecuzione (Mc. VI : 1 4 - 1 9 ) 5• Giuseppe, tuttavia, attribuisce l'esecuzione al timore del tetrarca che la predicazione di Giovanni provocasse una ribellione (A.E. XVI I I : 1 1 6-1 9 ) 6 • Il fatto è significativo, e non 2 Questo è, come abbiamo visto, ciò che secondo gli scrittori evangelici Pilato fece realmente, nonostante la loro in tenzione di farne un testimone dell'innocenza di Gesti. ' Cfr. J Klansncr, Jcsus of Na:::arcth, p. 243 ss. ' Cfr. H.D.B. , p . 509. 5 Cfr. V. Taylor, St Mark, pp. 3 1 0-17. 6 Vedi le note di L.H. Feldman nell'cd. Loeb di Josephm, vol. IX, pp. 82-4. Cfr. C. Daniel in Numen, XIII ( 1 966), pp. 93-5.
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contraddice necessariamente la motivazione della morte di Gio vanni addotta da Marco 7 • In altre parole Gesù, all'inizio della sua vicenda, ebbe rapporti con un movimento apocalittico che il go vernatore giudaico della Galilea considerava politicamente peri coloso. A questo proposito va anche notato che, secondo Luca, Erode Antipa cercò di sopprimere Gesù, nel quale ravvisava il successore di Giovanni (Le. XII I : 3 1 ss.; Mc. VI : 1 4-1 6 ) 8• Il fatto che Gesù continuò in realtà a sviluppare il tema del messaggio apocalittico di Giovanni è attestato da Marco, che an nota : « Ma dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù venne nella Galilea a predicare il vangelo del regno di Dio e a dire : " Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino. Fate penitenza e credete al vangelo " » (Mc. l : 1 4 - 1 5 ) 9 • Che cosa si intendesse con l'espressione « il regno di Dio » non è precisato ; ma non può esservi il minimo dubbio che, nei termini dell'apocalittica del tempo, indicasse l'avvento della sovranità di Yahweh, e, per con tro, il rovesciamento dell'ordine sociale e politico esistente 10• Che Gesù dovesse essere il protagonista di questa rivoluzione apoca littica è confermato dal fatto che era considerato come il « più forte >�, il cui avvento era stato predetto da Giovanni (Mt. III : 1 1 - 1 7 ; Le. III : 1 5- 1 7 ; Gv. 1 : 1 9 ss . ) . Un simile ruolo era in realtà quello del Messia, e tutte le testimonianze stanno a indicare non soltanto che Gesù dichiarò di essere il Messia, ma anche che le moltitudini lo accettarono come tale (v. per es. Mc. VIII : 27-3 0 ; XIV: 61-2 ) . Ma in quali modi Gesù pensò di adempiere la sua funzione mes7 È possibile che la denuncia di Giovanni del matrimonio illegale costituisse la causa immediata dell'arresto e dell'esecuzione. La fantastica narrazione di Marco della vicenda riflette l'ostilità che egli mostra nei confronti della dinastia erodiana: cfr. Brandon, ]esus and the Zealots, p. 268, n. 6. 8 Sull'argomento in generale vedi M. Goguel, Life o/ ]esus, pp. 264-78, 346-58; Meyer, Ursprunf!. u. Anfiinge des Christentums, l, pp. 82-94; T.W. Manson, in B.].R.L. , 36 ( 1954), p. 398 ss.; Klausner, op. cit., p. 239 ss.; F.F. Bruce, A.L.U.O.S., V ( 1 966), pp. 10-15; W.H. Brownlee, in The Scrolls and the New Testament (ed. K. Stendahl), pp. 33-53; A.J.B. Higgins in B.].R.L., 49 ( 1 967), pp. 381-5. 9 Cfr. Ch. Guignebert, ]ésus, pp. 394-5; Goguel, ]esus, pp. 3 1 1-12; Taylor, St Mark, pp. 165-7. 1° Cfr. Schiirer, G.].V. , II, pp. 533-44; S. Mowinckel, He That Cometh, pp. 169-81, 403-10.
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sianica e di stabilire il regno di Dio ? Nella misura in cui è possibile ricavare una risposta dalle disparate testimonianze dei vangeli, sembrerebbe che in un primo momento Gesù pensasse di svilup pare il programma di Giovanni. Questo consisteva nella prepara zione di un popolo santo, qualificato ad ereditare il regno divino. L'idea fondamentale era che Israele sarebbe stato liberato dalla sua schiavitù, per intervento divino, non appena i suoi membri si fossero pentiti e attenuti alla sacra Legge 1 1 • Di qui l'aspetto etico dell'insegnamento di Gesù, che è una nota caratteristica della tradizione evangelica 12• Tuttavia, nella Palestina di quel periodo - come in verità in altre situazioni umane - un insegnamento etico da solo, anche se predicato con eloquenza, non era sufficiente a produrre una rivoluzione. Erano necessari obiettivi più imme diati e dinamici, e ad alimentare questi vi erano l'attesa messianica del tempo e la promessa in virtù della quale gli ebrei, come popolo eletto di Yahweh, si trovavano stanziati nella loro Terra Santa. Gli ebrei cercavano un salvatore che li liberasse dall'oppressione dei romani e dalla tirannia di Erode 13 • Gesù divulgò dapprima il suo messaggio in Galilea, la patria di Giuda, il fondatore dello zelotismo, dove esisteva una forte tradi zione di patriottismo religioso 14 • Coloro che ascoltarono e rispo sero a quel messaggio non erano tranquilli provinciali, amanti del quieto vivere, paghi di attendere pazientemente da Dio tempi mi gliori, praticando con semplice devozione un codice di condotta di buon vicinato 15 • Si trattava invece di gente allevata nella tradi zione dei Maccabei, cioè in un clima di preparazione alla guerra santa contro gli oppressori d'Israele; lo zelotismo, con i suoi prin11 Cfr. S.-B. Kommentar, l, pp. 162-5. Il conflitto, registrato nei vangeli, con i farisei e gli scribi sull'osservanza minuziosa della legge rituale significa senza dubbio che Gesù, .seguendo la tradizione profetica, dava enfasi ai principi spiri tuali di fondo della Torah. 12 Cfr. Goguel, pp. 579-8.5; Guigncbcrt, Jésus, pp. 449-74 ; T.W. Manson, The Teachin?. of Jesus, p. 285 ss. 1 3 Sulla derisione della sacra legge ebraica da parte di Erode Antipa cfr. Gius., A.E. XVIII : 38, 1 19, Vita, 65 ; Mc. VI : 18. 14 Sulla Galilea a questo proposito cfr. Klausner, op. cit., pp. 143, 1 53, 156, 173. 1; Cfr. Klausner, p . 173. Ved i anche R.II. Lightfoot, Locality and Doctrine in the Gospels, pp. 1 14-25.
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cìpi di resistenza violenta e di preparazione al martirio, costituiva la loro naturale risposta 16 • Gesù scelse i suoi apostoli tra uomini di questa estrazione. Uno di essi, Simone, era dichiaratamente uno zelota; Pietro, un perso naggio impetuoso, era conosciuto con il soprannome sospetto di B arjona ( « Terrorista » ) (Mt. XVI : 1 7 ) 17, mentre Giacomo e Gio vanni erano chiamati B oanerges, che Marco interpreta eufemisti camente come « figli del tuono » (Mc. III : 1 7 ; cfr. Le. IX: 54) 13• Il fatto che uno degli apostoli di Gesù fosse noto specificamente come « lo zelota » presenta un significato ambivalente. Da una parte implica che gli altri apostoli non erano dichiaratamente zeloti, poiché l 'epiteto « lo zelota » era certamente inteso a distinguere Simone dal resto del gruppo. Dall'altra parte, il fatto che Gesù scegliesse uno zelota per apostolo significa che egli non vedeva incompatibilità tra la professione dello zelotismo e il proprio mo vimento 19• Alla luce di ciò che noi sappiamo dei principi di entrambi i movimenti, questo fatto non è sorprendente. Giuda di Galilea difendeva l'assoluta sovranità di Dio ed esortava i suoi seguaci a non chiamare alcun uomo « signore » . Gesù di Nazareth, anch'egli un galileo, sosteneva analogamente l'assoluta sovranità di Dio e proibiva di dare cose di Dio a Cesare, proprio come aveva fatto Giuda. Come gli zeloti, i discepoli di Gesù andavano in giro armati 20, e Gesù accettava l'eventualità che facessero uso delle armi 21 • È comprensibile quindi che, proclamando l'imminenza del regno di Dio ed essendo considerato il Messia, Gesù · incoraggiasse un 16 È significativo che i galilei sostenessero con forza Antigono, l'ultimo re di pura stirpe maccabea, contro Erode (il Grande) : cfr. Gius., A.E. XIV: 413-30. Cfr. R. Eisler, IH!:OTI B.A!:IAETI, II, pp. 67-8; O. Cullmann, Petrus' pp. 23-4, The State in the New Testament, pp. 16-17; M. Hengel, Die Zeloten, p. 55. " Cfr. Taylor, St Mark, pp. 231-2; Klausner, p. 260; G. Dalman, ]esus-]eshua, p. 12; Brandon, ]esus and the Zealots, pp. 203-5. 19 È significativo il fatto che, mentre si dice che Zaccheo, un esattore delle tasse, riconoscesse l'incompatibilità della sua professione con la sua conversione (Le. XIX: 1-10), nessun cenno viene fatto all'incompatibilità dello zelotismo di Simone con la sua qualità di discepolo di Gesù. " È significativo che in Le. XXII: 35-8 i discepoli siano già armati. 21 Vedi la discussione di questo punto in ]esus and the Zealots, pp. 340- 1 . 17
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mov1mento che poteva essere politicamente pericoloso. Inoltre, come i goetes descritti da Giuseppe, Gesù mostrava « segni di salvezza », provando in questo modo la sua identità messianica ( Mt. XI : 2-6; Le. VII : 1 8-23; Gv. XI : 47 ) 22 • Uno dei suoi miracoli più notevoli sembra conducesse sull'orlo della ribellione. La « moltiplicazione dei pani » per i cinquemila, riuniti in modo simbolico nel deserto, diede luogo a un tentativo di eleggerlo re (Gv. VI : 1 5 ) . La vera natura dell'evento è stata dissimulata con discrezione nei testi evangelici; ma quanto vi si rivela è sufficiente a rendere intelligibile il titulus della condanna di Gesù, posto sulla croce alla quale egli fu affisso, « Il re dei Giudei » 23• Dato che diede inizio al suo movimento in Galilea, Gesù non entrò immediatamente in contatto con la realtà del dominio romano. Come abbiamo già osservato, è significativo che Erode Antipa, il tetrarca di Galilea nominato dai romani, tentasse di eliminarlo. Tuttavia i suoi principali oppositori furono i capi religiosi ebraici. Essi respinsero le sue pretese di autorità spirituale, arrivando al punto di attribuire i suoi poteri miracolosi al possesso del demonio (Mc. III : 22 ). Così, ai suoi occhi, quei capi divennero i peggiori nemici dato che, forti della loro posizione privilegiata e influente, impedivano la conversione d'Israele a quello stato di preparazione spirituale che era richiesto per l'avvento del regno di Dio. Finché il loro potere non fosse stato distrutto, Israele non avrebbe mai raggiunto lo stato di grazia che gli avrebbe meritato la salvezza. Perciò essi dovevano essere colpiti nella stessa cittadella del loro potere, cioè il Tempio. Non è noto quale fosse l'atteggiamento di Gesù verso il potere romano durante il periodo della sua attività in Galilea. Anche se in Galilea non si davano chiare dimostrazioni di quel potere, Gesù doveva averne conosciuto la brutale realtà in occasione delle sue visite a Gerusalemme per le festività. Come abbiamo visto, gli 22
Cfr. ]esus and the Zealots, p. 313, n. 2 . Cfr. H.W. Montefiore i n N.T.S., VIII ( 1961-2), p p . 135-4 1 . Mc. XV : 2 6 ; cfr. Eisler, op. cit., II, pp. 530-2 ; Klostermann, Markusevangelium, pp. 1 64-5; P. Win ter in Das Altertum, 9 ( 1963), p. 162; W.C. Van Unnik, in N.T.S., VIII ( 1961-2), p. 1 1 1 . n
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era molto familiare l'atteggiamento degli zeloti verso la causa della libertà d'Israele, atteggiamento con il quale certamente sim patizzò, pur non identificandovisi. Egli dovette avere notizia della vicenda degli stendardi e degli stemmi, descritta rispettivamente da Giuseppe e da Filone; ma nulla sappiamo della sua reazione. Deci dendo di attaccare l'aristocrazia sacerdotale nel Tempio, Gesù si rese senza dubbio conto che in realtà sfidava il governo romano, il quale nominava il sommo sacerdote e dal cui potere dipendeva la posizione dell'aristocrazia sacerdotale. Ma un sommo sacerdote nominato dai romani era certamente altrettanto odioso a lui quanto agli zeloti. Se Israele doveva essere rigenerato spiritualmente, era necessario che la gerarchia venisse epurata da tali opportunistici collaboratori del governo pagano che opprimeva Israele. Cosl Gesù si trovò di fronte al medesimo problema che gli zeloti cercarono di risolvere nell'anno 66, quando deposero colui che era stato nomi nato dai romani e lo sostituirono con un sommo sacerdote scelto dalla sorte, secondo il dettato della sacra Legge. Non è indicato con chiarezza nei vangeli a che punto della sua vicenda Gesù si pronunciò per la prima volta sullo scottante problema del tributo romano. Il famoso episodio della moneta del tributo è collocato a Gerusalemme durante l'ultima fatale visita di Gesù (Mc. XII : 1 3 - 1 7 ) ; ma dalla registrazione di Luca dell'ac cusa dei capi ebraici si arguisce che la denuncia del tributo da parte di Gesù doveva costituire una caratteristica generale del suo insegnamento ( Le. XXIII : 2, 5). La collocazione dell'episodio della moneta del tributo a Gerusalemme, alla fine della vicenda di Gesù, è spiegabile con il fatto che il tributo romano non doveva essere in Galilea una questione impellente. D'altra parte, un pro blema d'importanza tanto fondamentale non poteva non essere stato affrontato da Gesù anche mentre era in Galilea. Infatti è poco probabile che egli facesse, a questo proposito, una scrupolosa distinzione fra l'area giurisdizionale di Erode e quella controllata dai romani : per lui, come per tutti gli ebrei, la Giudea e la Galilea erano parti indivisibili della Terra Santa di Yahweh, e il tributo esatto in Giudea turbava ogni patriota ebreo. Sull'atteggiamento di Gesù nei confronti di questo tributo romano non possono sus255
sistere dubbi, come abbiamo già rilevato nel nostro diffuso esame del problema. La sua sentenza: « Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio » fu una decisa condanna del dare risorse della Terra Santa in tributo all'imperatore pagano di Roma. Secondo la testimonianza concorde dei sinottici, Gesù decise da ultimo di andare a Gerusalemme per qualche scopo indefinito, ma che risultò fatale. Matteo e Luca seguono pari pari Marco nell'anti cipare l'esito di questa visita, descrivendo Gesù che profetizza: Ecco, saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi, i quali lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai Gentili, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, ma dopo tre giorni risusciterà ». [Mc. X: 33-4; cfr. Mt. XX: i7-19; Le. XVIII: 3 1-4 ]
Questa profezia, accuratamente espressa, che predice con esat tezza lo schema degli avvenimenti che sarebbero stati descritti nel prosieguo del racconto, è chiaramente una composizione lette raria 24• Tuttavia può riflettere in modo efficace il senso di smarri mento provato da Gesù e dai suoi discepoli quando egli decise di recarsi a Gerusalemme per la Pasqua, forse nell'anno 30 25• Questa visita, !ungi dall'essere un normale pellegrinaggio, doveva costi tuire l'occasione per qualche azione decisiva. Quale fosse il piano possiamo solo indovinarlo da ciò che accadde in seguito . Doveva essere un colpo di stato messianico, diretto in primo luogo contro l'aristocrazia sacerdotale, la cui politica ed opposizione erano con siderate ostacoli alla conversione di Israele e all'avvento del regno di Dio 26• Gesù dovette tuttavia prevedere che, con ogni probabilità, un simile attacco lo avrebbe compromesso di fronte ai romani, e possiamo ben domandarci se fu in questa occasione che egli proferì " >, in ].T.S., vol. III ( 1952)
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