Il problema dell'esposizione speculativa nel pensiero di Hegel 9788855290876, 9788855293020

Le relazioni tra pensiero e linguaggio, eternità e tempo, rappresentazione e concetto sono le questioni teoretiche di fo

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 9788855290876, 9788855293020

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Gaetano Rametta Filosofia come «sistema della scienza» Introduzione alla lettura della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello

Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 16 - Classici

Gaetano Rametta

Filosofia come «sistema della scienza» Introduzione alla lettura della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel In appendice, la Prefazione alla Fenomenologia dello spirito nella traduzione di Enrico De Negri

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

Prima edizione: Guido Tamoni Editore, Schio 1992. Seconda edizione © 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma, con, in appendice, la Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, per gentile concessione delle Edizioni di Storia e Letteratura. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 16 - novembre 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-087-6 ISBN – Ebook: 978-88-5529-302-0 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Hegel Denkmal an der Berliner Humboldt Universität © holger.l.berlin – stock.adobe.com

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Premessa alla seconda edizione

Il volume che viene qui presentato costituisce la seconda edizione, immutata rispetto alla precedente, di un libro scritto molti anni fa e ormai da tempo introvabile. A differenza di quanto accaduto con Il problema dell’esposizione speculativa nel pensiero di Hegel, al testo non è stata apportata alcuna modifica sostanziale; ma la presente edizione presenta una novità significativa, che può rendere il testo più fruibile al lettore e più facilmente utilizzabile in chiave didattica. In appendice, infatti, viene presentata la traduzione della Vorrede a opera di E. De Negri, che all’epoca della stesura era l’unica presente in lingua italiana. Diventa così possibile confrontare, in un unico volume, il commento al testo con la versione italiana del testo stesso. Ricordiamo che già da diversi anni è comparsa l’ottima traduzione della Fenomenologia dello spirito a opera di G. Garelli (Einaudi, Torino 2008), alla cui integrazione nel nostro testo abbiamo purtroppo dovuto, per diversi motivi, rinunciare. Colgo ancora una volta l’occasione per ingraziare la casa editrice Inschibboleth, e l’amico dott. Giuseppe Pintus, per aver reso nuovamente possibile la circolazione di questo libro. Gaetano Rametta

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Introduzione e abbreviazioni

Un libro come questo sembra sollevato dall’onere di farsi precedere da una premessa, poiché il suo scopo è quello di commentare la prefazione scritta per un altro libro. La stesura di una premessa apparirà impresa ancor più problematica, una volta scoperto che la prefazione da interpretare è costituita dalla Vorrede alla Fenomenologia dello spirito di Hegel. È probabile che questa impressione non dipenda solo dalla ricezione dei posteri, che di quest’opera hanno fatto un cardine della filosofia moderna, ma sia da porre in relazione con la logica stessa del pensiero hegeliano. I rapporti che esso ha instaurato con prefazioni e premesse sono sempre stati, in effetti, piuttosto controversi. Meglio allora essere prudenti, e limitare la nostra premessa ad alcune modeste avvertenze. La prima riguarda il rapporto con la traduzione italiana della Fenomenologia, i cui meriti e pregi, anche sotto il profilo strettamente letterario, sono universalmente riconosciuti, e che non è certo nostra intenzione voler sminuire. Nonostante ciò, la traduzione qui presentata quasi mai corrisponde esattamente a quella di De Negri, che pure ho ampiamente utilizzato e di cui ho conservato, nelle citazioni tratte dalla Vorrede, la numerazione per capoversi. Nella più parte dei casi, infatti, ho preferito man-

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tenere un rapporto di più stretta adesione all’originale tedesco, magari a scapito della brillantezza lessicale e stilistica. D’altra parte, questo non significa che a ogni modificazione debba corrispondere sempre una diversa interpretazione dei contenuti concettuali e semantici. Leggere modifiche sono toccate talvolta anche alle altre traduzioni, qui sotto elencate. Per gli adeguamenti ortografici dei termini hegeliani riportati dal tedesco, mi sono conformato all’edizione Hoffmeister, Hamburg 19526. Una seconda osservazione riguarda l’organizzazione del lavoro, che procede per approssimazioni successive, e da prospettive diversificate, al coglimento di quelli che sono sembrati i nodi filosoficamente più densi (e intricati) della Vorrede. In questo senso, ho cercato di convogliare nell’analisi alcuni aspetti del dibattito filosofico e culturale dell’epoca, che più da vicino intervengono nella costruzione del testo, nell’elaborazione delle sue strategie argomentative, o nella maniera della loro ricezione. Qui si colloca l’esame del confronto instaurato da Hegel (quasi mai esplicitamente) con le sue posizioni precedenti e con i suoi grandi contemporanei (Kant, Fichte, Schelling); ma anche quello di talune significative divergenze sulla natura del negativo e della dialettica (come nel caso di Goethe e, molto più limitatamente, di Hölderlin). Infine alcuni paragrafi, soprattutto negli ultimi capitoli, tracciano le linee per un approfondimento dei problemi sotto il profilo teoretico, che spera di essere riuscito ad aggirare gli sterili gorghi del tecnicismo, senza per questo infrangersi sullo scoglio egualmente insidioso della superficialità. Il volume riprende, a questo riguardo, il filo di un discorso che per certi versi è stato più ampiamente argomentato nel mio precedente studio hegeliano1; mentre per altri comincia qui a trovare ulteriori sviluppi.

1.  Cfr. ora la nuova edizione: Il problema dell’esposizione speculativa nel pensiero di Hegel, Inschibboleth, Roma 2020.

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*** Forniamo qui l’elenco delle opere citate nel testo, con le relative abbreviazioni.

1. Opere di Hegel Hegel 1796/97 = Das “älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus”, in Mythologie der Vernunft, a cura di Ch. Jamme e H. Schneider, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1984, pp. 7-17; tr. it. di A. Massolo, Il cosiddetto “Erstes Systemprogramm” (Frühsommer 1976): un testo fondamentale per l’idealismo tedesco, in A. Massolo, La storia della filosofia come problema, Vallecchi, Firenze 1967, pp. 247-254. Hegel 1801

= Differenz des Fichteschen und Schellingschen Systems der Philosophie, in Jenaer Kritische Schriften, a cura di H. Buchner e O. Pöggeler, Gesammelte Werke (= GW), vol. 4, Meiner, Hamburg 1968, pp. 5-92; tr. it., Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1971, pp. 3-120 (= SC).

Hegel 1802

= Glauben und Wissen, in Jenaer Kritische Schriften, a cura di H. Buchner e O. Pöggeler, GW 4, Meiner, Hamburg 1968, pp. 315-414; tr. it. in SC, pp. 121-261.

Hegel 1803/04 = Jenaer Systementwürfe I, a cura di K. Düsing e H. Kimmerle, GW 6, Meiner, Hamburg 1975; tr. it. (parziale) in Filosofia dello

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spirito jenese, a cura di G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 1-65 (= FSJ). Hegel 1804/05 = Jenaer Systementwürfe II, a cura di R.-P. Horstmann und J.H. Trede, GW 7, Meiner, Hamburg 1971; tr. it. (parziale), Logica e metafisica di Jena (1804-05), a cura di F. Chiereghin, Verifiche, Trento 1982 (= LM). Hegel 1805/06 = Jenaer Systementwürfe III, a cura di R.-P. Horstmann, con la collaborazione di J.H. Trede, GW 8, Meiner, Hamburg 1976; tr. it. (parziale) in FSJ, pp. 67-175. PH

= Phänomenologie des Geistes, a cura di W. Bonsiepen e R. Heede, GW 9, Meiner, Hamburg 1980 (con A si indica l’appendice con le note degli editori, pp. 484 ss.); tr. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1976 (= F e F II).

Hegel 1832

= Wissenschaft der Logik, vol. I, Die objektive Logik, t. I, Die Lehre vom Sein (1832), a cura di F. Hogemann e W. Jaeschke, GW 21, Meiner, Hamburg 1985; tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Scienza della logica, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 19814, vol. I (= SdL).

2. Opere di Kant, Fichte, Schelling Kant 1783

= Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, in Kant’s gesammelte Schriften, a cura della Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften, vol. IV, Reimer, Berlin 1903/1911, pp. 253-384; tr. it., Prole-

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gomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, a cura di R. Assunto, Laterza, Roma-Bari 1979 (= P). Kant 1798

= Anthropologie in pragmalischer Hinsicht, in Kant’s gesammelte Schriften, a cura della Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften, vol. VII, Reimer, Berlin 1917, pp. 117-333; tr. it. di G. Vidari, Antropologia pragmatica, rev. e avvertenza di A. Guerra, Laterza, Bari 19692.

Fichte 1794

= Ueber den Begriff der Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften (= GA), vol. I/2, a cura di R. Lauth e H. Jacob, Frommann, Stuttgart-Bad Cannstatt 1965, pp. 107-172; tr. it. di A. Tilgher, Sul concetto della dottrina della scienza, in Dottrina della scienza, a cura di F. Costa, Laterza, Roma-Bari 19873, pp. 3-65 (= CDS).

Fichte 1794/95 = Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre, GA I/2, pp. 249-451; tr. it. di A. Tilgher, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, in Dottrina della scienza, a cura di F. Costa, Laterza, Roma-Bari 19873, pp. 67-271 (= FDS). Fichte 1801

= Sonnenklarer Bericht an das grössere Publikum über das eigentliche Wesen der neuesten Philosophie, GA I/7, a cura di R. Lauth e H. Gliwitzky, Frommann, Stuttgart-Bad Cannstatt 1988, pp. 165-268.

Schelling 1800 = System des transzendentalen Idealismus, in Sämtliche Werke (= SW), a cura di K.F.A.

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Schelling, Cotta, Stuttgart-Augsburg 18561861, vol. III, pp. 327-634; tr. it. di M. Cosacco, rev. di G. Semerari, Sistema dell’idea­ lismo trascendentale, Laterza, Roma-Bari 19904 (= SIT). Schelling 1801 = Darstellung meines Systems der Philosophie, in SW IV, pp. 105-212; tr. it. di E. De Ferri, Esposizione del mio sistema filosofico, rev. e intr. di G. Semerari, Laterza, Bari 19692 (= E).

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Capitolo I

L’inizio della Prefazione

1. La Prefazione è una prefazione? L’inizio della Prefazione alla Fenomenologia ha come suo tratto determinante quello di caratterizzare il concetto stesso di «prefazione» in senso aporetico. Ovvero, Hegel nega la possibilità che all’interno di una prefazione possa trovare forma adeguata l’esposizione della verità, sia pure nei termini di un’anticipazione sintetica di quest’ultima; ma proprio negando tale possibilità, affermando cioè che la prefazione di uno scritto filosofico non soltanto è «superflua», bensì addirittura «contraria» alla «natura della cosa» (cpv. 1; PH 9, F 1), egli inizia la prefazione rimasta forse più celebre nella storia della filosofia moderna. Si tratta ora di comprendere come, dichiarando la contraddittorietà di una prefazione, sia possibile produrre una prefazione; anzi, addirittura far leva su quella contraddizione per dare inizio alla Prefazione. Si potrebbe infatti imputare a Hegel stesso di non prendere troppo sul serio le obiezioni che egli presenta nei confronti dell’idea di scrivere una prefazione, visto che proprio lui si sta accingendo a produrne una. Tale obiezione, che verrebbe a colpire la coerenza logica della Vorrede quasi ancora prima che essa cominci, potrebbe farsi

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valere con tanta più forza, in quanto Hegel stesso si preclude la facile scappatoia, che consisterebbe nel sostenere l’opportunità empirica, la consuetudine ormai radicata di far precedere i propri scritti da una «prefazione», col compito di introdurre i lettori all’universo, per essi ancora sconosciuto, della nuova opera. Infatti, proprio nel piegarsi a queste necessità contingenti, l’idea della «prefazione» tornerebbe ad affermarsi anche per Hegel, nonostante e contro le asserzioni che dovrebbero condurre quest’ultimo a rifiutarla. Evidentemente, l’unica via d’uscita per salvaguardare la coerenza della Vorrede sta nell’approfondire il senso della nostra domanda, e cioè: cosa significa, all’interno di una prefazione, negare la conformità allo scopo del concetto stesso di prefazione? Oppure ancora: cosa significa cominciare una Vorrede, sostenendo che una Vorrede in rapporto al vero è impossibile? Abbiamo visto che il rischio è di non poter nemmeno iniziare ciò che ci si stava accingendo a compiere, poiché appunto l’impresa inizia negando se stessa e la propria fattibilità. D’altra parte, se Hegel scrivesse una prefazione solo per venire a patti con quelle che oggi chiameremmo esigenze «editoriali», allora sarebbe incoerente rispetto a quel vero, per difendere il quale aveva contraddetto l’idea di prefazione. Per salvare la consistenza logica della posizione hegeliana, si tratta allora di prendere in considerazione un’altra ipotesi (che dovremo appunto verificare): se cioè qui non sia in gioco una trasformazione nel concetto stesso di «prefazione». Ciò avrebbe per conseguenza che la Vorrede in questione non sarebbe, non è e non vuol essere una «prefazione» (nel senso in cui tale termine sarebbe stato inteso prima della Vorrede stessa). Tale carattere pur così straordinario e apparentemente paradossale della Vorrede potrebbe proprio essere quello che ne salvaguarda la coerenza logica, indicandone al tempo stesso il significato e la portata profondi.

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L’esito della verifica non è né facile né scontato; non è detto nemmeno che debba necessariamente trattarsi di un esito univoco, solo «favorevole» o solo «sfavorevole» al testo hegeliano. L’unica certezza è che esso non potrà aver luogo se non al termine della nostra lettura. Appare dunque opportuno cominciarla proprio esaminando più da vicino in che cosa Hegel colga l’inadeguatezza della forma-Vorrede in relazione a un’opera filosofica – un’opera, in cui il vero stesso dovrebbe pervenire a esporsi.

2. Che cos’è una prefazione? Hegel ritiene che una prefazione, nel senso ordinario del termine («secondo la consuetudine»; ibidem), sia deputata a fornire una «spiegazione» o un chiarimento 1) «sullo scopo che l’autore si propone» nel suo scritto, «così come» 2) sul «rapporto in cui egli crede che esso si trovi in relazione ad altre trattazioni, precedenti o contemporanee, del medesimo oggetto»; infine, in essa solitamente viene considerato «opportuno» presentare 3) «una sequenza [Verbindung] di affermazioni e rassicurazioni circa il vero». Per evidenziare il carattere di enumerazione, priva di autentica connessione dimostrativa, proprio di tali «affermazioni», Hegel impiega una locuzione tedesca difficilmente traducibile in italiano (hin und her sprechenden), ma che si potrebbe intendere nel senso di: raccolte qui e là, rapsodicamente, così come capita. Tali punti vengono quindi affrontati, rispettivamente, nei cpv. 1 e 3; 2 e 3; 4. Dopo aver così argomentato contro ciò che «secondo la consuetudine» s’intende per Vorrede, Hegel procede a determinare positivamente la sua posizione rispetto al concetto della filosofia, e con ciò stesso (implicitamente) a chiarire al lettore perché la sua «prefazione» sia e non sia, in pari tempo, una semplice «prefazione» (cpv. 5; cfr. PH 11 s., F 4 s.).

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La critica hegeliana alla pretesa che il significato di uno scritto filosofico equivalga all’enunciazione di ciò che esso si proporrebbe come suo «scopo», è volta a colpire la concezione secondo la quale la verità sarebbe contenuta nel semplice risultato cui perviene l’opera. Ciò verrebbe a significare che il processo della dimostrazione filosofica sarebbe in fondo inessenziale rispetto al contenuto della verità stessa. Quest’ultima, infatti, si troverebbe già adeguatamente espressa nel risultato, nell’esito ultimo dell’esposizione. Il processo, concettuale e linguistico, attraverso cui essa giunge a farsi luce, sarebbe così nient’altro che un semplice accessorio, uno spiacevole inconveniente, di cui sarebbe possibile sbarazzarsi una volta finalmente giunti alle conclusioni. Ma allora, la concezione della prefazione «secondo la consuetudine» non è così innocua come potrebbe sembrare a prima vista. Essa infatti da un lato presuppone, e dall’altro veicola, un’intera concezione della verità, ovvero contiene in sé, in forma implicita e non detta (magari nemmeno coscientemente saputa), l’idea secondo la quale il vero è mero risultato. Solo in base a questa convinzione presupposta, solo assumendo tacitamente la validità di questa teoria su ciò che «verità» significa, è possibile pretendere di esporre, in una prefazione, i risultati della propria ricerca, astrarre ciò che solo attraverso quest’ultima è stato conseguito dal concreto processo concettuale che ha consentito di raggiungerlo. Per rendere efficace la sua argomentazione, Hegel si serve di un paragone destinato a pesare sull’economia complessiva del nostro testo. Poiché la filosofia «è essenzialmente nell’elemento dell’universalità», si ritiene che in essa, ancor più che nelle altre scienze, il contenuto e il senso della ricerca si prestino a essere enunciati nella forma dei «risultati ultimi» cui perverrebbe l’indagine.

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Prendiamo l’esempio della stessa Fenomenologia. Se la verità fosse contenuta nel semplice risultato, noi lettori dell’opera ci sobbarcheremmo una fatica tanto più inutile, quanto più improba. Infatti, in luogo di seguirne passo passo le articolazioni e i passaggi, l’avvicendarsi delle figure della coscienza e lo snodarsi della «storia del mondo», sarebbe sufficiente aprire il libro all’ultimo capitolo, e in esso leggere ciò cui la ricerca ha condotto come suo esito terminale. Ma anche questa operazione non sarebbe in fondo, da parte nostra, superflua? In effetti, se davvero la verità fosse semplicemente ciò che scaturisce per ultimo, Hegel stesso avrebbe dovuto fornirci, anzi probabilmente ci avrebbe effettivamente fornito, la chiave della sua opera in una semplice e comodamente leggibile «prefazione», al termine della quale noi potremmo comprendere il risultato dello scritto, senza aver avuto minimamente bisogno di leggere e meditare quest’ultimo (propriamente, senza nemmeno aver avuto bisogno di cominciarlo). Sarebbe precipitoso, da parte nostra, pretendere di capire già subito che cosa intenda Hegel dicendo che la «filosofia è essenzialmente nell’elemento dell’universalità». In effetti, abbiamo qui un esempio di quanto poco l’enunciazione di un risultato porti a comprendere il senso di quest’ultimo, se esso viene separato dal processo che ha condotto al suo conseguimento. Che nella filosofia l’elemento dell’universalità si realizzi nella sua massima concretezza, che essa istituisca l’orizzonte più comprensivo all’interno del quale la verità e il senso stesso dell’essere si manifestano, è infatti il risultato ultimo cui approda la Fenomenologia; ma senza aver da parte nostra percorso la ricerca nel suo concreto svolgimento, tale risultato costituisce per noi solo una parola priva di senso, o perlomeno dal senso quanto mai oscuro e ambiguo. Qui, sembra che lo stesso Hegel debba scontare l’inconveniente di accingersi a scrivere una «prefazione», la quale, benché

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rivesta uno statuto particolare rispetto a quanto abitualmente inteso, viene a scontrarsi con l’impossibilità di svincolarsi del tutto dal suo essere pur sempre mera «prefazione». Ma osservando più attentamente, non potrebbe questo essere un modo per invitare il lettore a immergersi nella lettura dell’opera? Non è tale Vorrede rigorosamente coerente, quando evidenzia che, per poter davvero comprendere ciò che in essa si enuncia, è necessario aver seguito da parte nostra il concreto andamento della ricerca? Ecco un altro aspetto del carattere straordinario e paradossale di questa Vorrede hegeliana: in luogo di sollevarci dalla lettura del testo, di cui figura come prefazione, essa ci costringe a compiere tale lettura, per poter appieno comprendere ciò che essa dice. Così, addirittura, potremmo intendere la Fenomenologia come una prefazione alla sua «prefazione»…

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Capitolo II

Sapere e non-sapere

1. Il sapere e il particolare A ogni modo, poiché la filosofia è generalmente intesa come è stato detto, essa si presta più delle singole scienze particolari al fraintendimento che si tratta di combattere. Prendiamo l’esempio dell’anatomia (cpv. 1; PH 9, F 1 s.). A quest’ultima è riconosciuto un determinato ambito d’indagine (il corpo umano nelle sue diverse parti e funzioni) e modalità di ricerca ad essa specifiche. Ciò costituisce il suo statuto «disciplinare», o in altri termini: fa di essa una branca specializzata all’interno della medicina, e più in generale del sapere scientifico. Ora, chi di noi riterrebbe di essere un esperto di anatomia, di conoscere cioè tale ramo del sapere nella sua specificità disciplinare, solo perché ne conosce la definizione generale? Al contrario, in quest’ultima «si è convinti di non possedere ancora la cosa stessa, il contenuto di questa scienza, ma di doversi occupare inoltre del particolare» (ibidem). Solo approfondendo l’oggetto specifico di una disciplina, solo impadronendoci del suo strumentario concettuale e delle sue concrete procedure d’indagine, noi riteniamo di conoscere davvero quella di-

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sciplina. Ciò è quanto appunto, entro la nostra organizzazione sociale, dà luogo alla divisione del lavoro nel campo del sapere, con la creazione di figure come quella dell’esperto, dello specialista, del professore, dello scienziato. Ora, forse proprio perché tali scienze rivestono immediatamente una valenza limitata, ovvero circoscrivono accuratamente ambito d’indagine e procedure di ricerca riconosciute in esse come valide (un processo di specializzazione progressiva, che proprio nella Germania del periodo di Hegel andava sistematicamente affermandosi), non si ritiene di conoscerle, di sapere veramente che cosa siano, nemmeno quando se ne possieda un’«idea generale», se ne abbia cioè una rappresentazione degli scopi e dei risultati ultimi, cui esse danno luogo. Nel caso della filosofia, invece, proprio perché di essa si ritiene che si attui nell’elemento dell’«universale», si pensa anche che basti averne una definizione «universale» perché sia consentito dirsi filosofi. Certo, Hegel aveva presente in questa polemica degli obiettivi specifici, legati al dibattito e alle controversie suscitati dagli sviluppi che la filosofia aveva intrapreso in Germania successivamente a Kant. Ma la posizione che egli sostiene riveste una portata generale. Infatti, se assumiamo che delle scienze particolari si dia conoscenza in senso proprio solo padroneggiandole nella loro specificità, appunto perché esse sono particolari, sembra ovvio soltanto in apparenza che invece la filosofia, in quanto si svolge «nell’elemento dell’universalità», sarebbe già essenzialmente posseduta dal momento in cui se ne possieda la «rappresentazione generale» dello scopo e dei risultati. Anche se non sappiamo ancora esattamente che cosa Hegel intenda con universalità, egli ci dice che quest’ultima «racchiude in sé il particolare» (ibidem). Ma abbiamo appena visto come il «particolare» sia oggetto d’indagine da parte di quelle discipline che, come l’anatomia, vengono dette «particolari» proprio

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per la delimitazione del loro ambito e delle loro modalità di ricerca. Ammesso che la filosofia si attui nell’elemento dell’universale, e che quest’ultimo contenga in sé il particolare, la filosofia dovrà necessariamente contenere in sé la riflessione anche su quelle scienze, che ci forniscono la conoscenza del particolare in quanto è particolare. Infatti, quest’ultimo non si presenta come tale se non poiché viene istituito a oggetto di studio da una specifica disciplina, da uno specifico sapere. La nozione stessa del particolare contiene in sé una scomposizione e una differenziazione di ciò che a un’intuizione puramente immediata (se essa fosse davvero possibile) apparirebbe come un tutt’uno indifferenziato, o perlomeno in indivisa unità con sé. Di conseguenza, per contenere in sé il particolare, l’universale deve contenere in sé la riflessione sulle scienze, che dividono, separano, organizzano il reale secondo le articolazioni e le ripartizioni interne al campo del sapere. Ma è sufficiente questo, per affermare che l’universalità della filosofia contiene al suo interno il particolare?

2. Il sapere conduce al non-sapere? Abbiamo visto che il particolare non è che il risultato di una scomposizione operata sul reale dal sapere. Non esiste particolare se non in quanto oggetto, contenuto e «scopo» di un’intenzione conoscitiva; non esisterebbero distinzioni nell’esperienza, se queste ultime non fossero prodotte in essa dal sapere. Nella Vorrede, Hegel esaminerà questa attività produttrice di separazioni differenzianti quando verrà a trattare dell’intelletto (Verstand). Ma non siamo ancora giunti abbastanza avanti per poter affrontare questo punto. Cerchiamo intanto

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di capire meglio come l’universale, in quanto «elemento» di attuazione della filosofia, possa contenere in sé il particolare. Se quest’ultimo è il prodotto di una divisione e riorganizzazione del reale sulla base del sapere, sembra che la filosofia debba necessariamente contenere in sé questo sapere; d’altro canto, poiché si tratta di un sapere, sembra che la filosofia non possa contenere in sé tale sapere, se non sapendolo a sua volta. È possibile, infatti, che un sapere sia racchiuso entro un originario non-sapere? Hegel pensa di no. Anzi, alcune tra le critiche più violente che egli sviluppa già prima di scrivere questa Vorrede (in particolare nella Differenzschrift del 1801, e in Glauben und Wissen dell’anno seguente) sono dirette proprio contro i tentativi volti a limitare il sapere a orizzonti particolari, e a negare la possibilità per esso di potersi mai elevare a conoscenza dell’universale, ovvero di ciò che, riconducendolo a unità, potrebbe dare a quel sapere un senso complessivo e sistematico. Quest’ultima, invece, è la posizione che Hegel intende affermare con forza. Egli deve dunque mostrare che non è possibile racchiudere un particolare, che per la sua costituzione in quanto particolare implica necessariamente un sapere, all’interno di un non-sapere. In effetti, anche questo non-sapere dovrebbe comunque essere saputo, e saputo come ciò che viene distinto dal sapere. Ma chi compie tale distinzione dovrebbe essere a sua volta oltre i distinti, ovvero sapere sia ciò che è sapere, sia ciò che sarebbe non-sapere. Quest’ultimo verrebbe così ricompreso nel sapere. Sulla base di tale argomentazione, Hegel ritiene di poter confutare quelle filosofie che ritenevano il sapere (inteso come sapere particolare) contenuto non entro un più comprensivo sapere (che allora potrebbe dirsi universale o assoluto, non perché dovrebbe ripresentare tutte le conoscenze empiriche

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e particolari di quel primo sapere; ma perché elevandone i risultati a totalità sistematiche, potrebbe presentare il sorgere di queste ultime dall’assoluto, in unità col loro ritornare in esso), bensì all’interno di un originario non-sapere («originario» perché sarebbe ciò da cui il sapere sorge, cercando di trarsene fuori, e di ricondurlo a sé in quanto sapere; ma «originario» anche perché il sapere in esso nuovamente sfocerebbe al termine dei suoi sforzi, rendendosi conto della fondamentale inconoscibilità dell’essere e del vero). Ma se dal circolo del sapere non è comunque concesso di uscire, come bisogna intenderlo? E innanzitutto: come e da chi quel circolo era già stato scoperto e interpretato?

3. Fichte e il circolo del sapere È Fichte che per primo aveva rigorosamente teorizzato la circolarità del sapere (cfr. Fichte 1794, p. 130 s.; CDS, p. 34 s.). Egli aveva dimostrato che il sapere, per dirsi propriamente tale, dev’essere dotato del carattere di scientificità; e aveva sostenuto che un’esposizione filosofica può soddisfare ai criteri di quest’ultima solo se in essa si realizza la riconduzione circolare del risultato al principio primo e assolutamente incondizionato, da cui esso scaturisce. Sapere, scientificità e struttura circolare dell’esposizione venivano così ad articolarsi nel concetto chiave di sistema, mentre la filosofia diventava sapere del sapere, che l’io innesca nello stesso atto in cui si pone come tale, cioè come autocoscienza. La filosofia consiste nel condurre a esposizione scientifica («dottrina») quel sapere che l’io ha di sé nell’atto del suo porsi in quanto io. L’autoposizione dell’io è infatti l’autoposizione originaria del sapere, è il sapere finalmente scoperto nell’incondizionato atto

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della sua creazione. In tal senso, filosofare diventa in Fichte equivalente all’auto-riflessione che il sapere compie su di sé in quanto sapere, all’esplorazione delle condizioni di possibilità e delle strutture trascendentali che istituiscono la coscienza come sapere di sé. Ma se filosofia significa dottrina del sapere, poiché riconduce quest’ultimo all’atto in cui si pone per la prima volta (ovvero nell’io e come io), essa è in pari tempo anche dottrina del sapere in quanto origine di quelle sue empiriche realizzazioni che sono le scienze particolari. Queste ultime possiedono carattere di scientificità in quanto in esse si realizza quel concetto originario del sapere che l’io pone nel momento in cui pone se stesso; ed è in tal senso che filosofia come dottrina del sapere diventa anche dottrina della scientificità delle scienze, di ciò che rende le scienze propriamente tali, ovvero forme di attuazione della conoscenza. La filosofia si svela propriamente, allora, come «dottrina della scienza», ovverosia come dottrina di ciò che rende possibile la scientificità delle scienze. In tal senso va inteso appunto il genitivo singolare «dottrina della scienza», e non: dottrina delle scienze, ciò che ridurrebbe la filosofia a mera epistemologia o metodologia della scienza. A partire da Fichte, la filosofia dell’idealismo tedesco si snoderà come sequenza di tentativi sempre rinnovati per realizzare il sistema della filosofia o, che è lo stesso, per la realizzazione di quest’ultima nella forma del sistema. Tuttavia, Fichte aveva vincolato la realizzazione del sistema al mantenimento del punto di vista della coscienza finita. Egli aveva dunque cercato di coniugare la costruzione di una filosofia propriamente scientifica con l’intrascendibilità dello iato tra io e assoluto.

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Abbiamo visto infatti che il sapere altro non era che il momento in cui l’autocoscienza si costituiva come tale, ponendosi autonomamente da sé in quanto coscienza che sa di sé come coscienza libera. In tal senso, il sapere che la coscienza ha di sé nell’atto in cui si pone in quanto tale (ovvero in quanto auto­coscienza) è detto da Fichte assoluto, cioè incondizionato, non dipendente, proveniente, fondato su altro che non sia l’originaria attività di autoposizione, in cui l’io sa di sé nell’atto in cui si pone. È proprio perché esso si sa e si pone simultaneamente, che nel momento in cui si sa non può non sapersi come libero; poiché se non fosse libero, non avrebbe potuto porsi, e dunque neppure sapersi. Ma qual è il risultato che Fichte consegue da questa sua premessa? Ritorna esso propriamente, come Fichte si era riproposto, nel principio da cui scaturisce? Dai due saggi sopra menzionati, sappiamo già come Hegel risponda a tali domande: il sistema fichtiano parte dal principio supremo dell’unità e dell’identità con sé dell’autocoscienza (Io = Io); ma in luogo di ripristinare l’unità del principio, al termine del suo svolgimento esso sfocia nell’inconciliabilità dell’opposizione di io e non-io. L’identità con sé dell’inizio si troverebbe dunque contraddetta dall’attuazione concreta del sistema, che sbocca in una oppositiva non-identità. In altri termini: il sistema fichtiano appare inconseguente rispetto al suo principio, e ai criteri fissati dallo stesso Fichte per realizzare un’esposizione propriamente scientifica della filosofia. Invece di attuare il circolo dell’identità tra inizio (Io = Io) e risultato dell’esposizione, esso sfocia nella loro contraddittoria non-identità (opposizione, all’interno dell’Io assoluto, di io divisibile e non-io divisibile). Ma allora: poiché la dottrina della scienza è attraversata da tale irrisolta contraddizione tra il principio dell’esposizione,

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e l’effettiva realizzazione di quest’ultima, il suo circolo è un circolo che non si chiude, che non ritorna al punto di partenza, e dunque non è un circolo. Ma se non è un circolo, non è propriamente neppure un sistema, e se non è un sistema, ad essa viene a mancare proprio la forma della scientificità, alla quale Fichte voleva condurre il filosofare. La conclusione della critica hegeliana suona dunque, nella sua drasticità, come diagnosi del fallimento cui il progetto fichtiano di dottrina della scienza è andato incontro.

4. Il sapere e l’infinito Torniamo al punto da cui eravamo partiti, il problema di come l’universale, in quanto elemento della filosofia, possa contenere in sé il particolare. Abbiamo detto che Hegel ritiene possibile condurre a soluzione tale problema solo se il particolare viene a essere compreso da un sapere più elevato rispetto a quelli che al particolare si arrestano. Ma abbiamo appena visto che proprio questa era l’impostazione che Fichte aveva dato al problema del sapere. E tuttavia, proprio Fichte secondo Hegel fallisce nel suo progetto. Ciò conduce Hegel a rilevare un’altra contraddizione nella posizione di Fichte. Fichte sostiene di voler comprendere il sapere nel suo principio originario, e identifica quest’ultimo nell’io. Ma l’io dell’inizio (Io assoluto o Io = Io) non si mantiene nell’io della fine, non vi si realizza (permanenza nell’Io dell’opposizione io/nonio). Ciò comporta che l’Io assoluto del primo principio decada, da principio reale, a principio ideale; da principio dell’essere, a principio regolativo dell’essere, ovvero a dover-essere (Sollen). Ma allora: l’assolutezza che il sapere doveva raggiungere nel­ l’attività di autoposizione dell’io è sapere di un ideale, non di un reale; quel sapere medesimo si trasforma, da sapere di sé

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dell’io come io assoluto, in sapere di sé dell’io come doveressere assoluto; ovvero esso non è altro che il sapere che la coscienza finita (necessariamente opposta al non-io) ha di sé nella sua differenza dall’ideale di sé, rappresentato appunto dall’Io = Io del primo principio. La coscienza finita si trova in tal modo fissata non soltanto in opposizione al non-io, bensì anche in opposizione a se stessa come coscienza assoluta o infinita. Ma questo significa che ciò che solamente esiste è l’io finito, non quello infinito. L’io finito viene assolutizzato nella sua separatezza dall’io infinito, poiché quest’ultimo costituisce semplicemente l’ideale del primo. E propriamente, un ideale che deve di necessità restare tale, ovvero la cui effettiva realizzazione deve di necessità restare impossibile. Altrimenti, l’io finito verrebbe finalmente a cogliersi in identità con l’io infinito, quest’ultimo si trasformerebbe da ideale di un dover-essere in principio realizzato, e dunque costitutivo dell’essere. Ma per pensare tale possibilità bisognerebbe abbandonare, sulla base stessa della problematica fichtiana del sapere, l’impostazione che a quest’ultima fornisce la dottrina della scienza: e ciò appare contraddittorio esigerlo da Fichte. Questi deve dunque lasciare aperta, nel suo sistema, la via per l’irruzione del non-sapere nel sapere: avendo mostrato che l’uni­co possibile principio del sapere è quello che la coscienza finita ha di sé, egli ha infatti reso finito il sapere nel suo stesso principio. Ma se il sapere è necessariamente sapere del finito, e quest’ultimo si riconosce in irriducibile separatezza rispetto all’infinito, tale infinito non potrà più propriamente essere oggetto del sapere, bensì di un non-sapere. A tale non-sapere, Hegel fa riferimento nel titolo del saggio jenese col termine «fede». Non possiamo adesso ulteriormente approfondire questo punto. Ci basti osservare che, per Hegel, la dottrina della scienza costituisce la posizione filosofica

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più rigorosa e conseguente, in base alla quale si sia tentato di dimostrare la necessità, per il sapere, di oltrepassarsi in non-­ sapere; o in altri termini, l’impossibilità per il sapere di elevarsi, dalla conoscenza del finito, a quella dell’infinito (che diventerebbe così sperimentabile per il soggetto non attraverso e in virtù del sapere, bensì soltanto attraverso una fede intesa come negazione del sapere, non-sapere). Ora, poiché la dottrina della scienza si è dimostrata contraddittoria; poiché dunque lo stesso tentativo di limitare il sapere al particolare e al finito, e di oltrepassarlo in direzione di un infinito colto non più dal sapere, bensì da un non-sapere, si è rivelato impossibile, resta aperta a Hegel solo una via, quella di comprendere il particolare e il sapere ad esso relativo non all’interno di un originario non-sapere, bensì di un più ampio ed elevato sapere; ovvero di estendere il sapere dal finito all’infinito, rendendo contenuto del sapere anche quest’ultimo. Ciò contraddistingue il progetto hegeliano di realizzare la forma scientifica della filosofia rispetto a quello che Fichte aveva tentato di compiere, senza riuscirvi, con la sua dottrina della scienza. Alla luce di questa posizione vanno intese le affermazioni presenti nel cpv. 5 della Vorrede, quando Hegel scrive: «la vera figura, in cui la verità esiste, può essere soltanto il sistema scientifico di essa» (PH 11, F 4): ovvero quel sistema che Fichte per primo aveva dichiarato di voler costruire per portare la filosofia trascendentale a compimento (compimento che il criticismo kantiano non avrebbe saputo darle); ma che in Fichte stesso non perveniva, per i motivi esposti, ad attuarsi. Di qui, ancora, la prosecuzione hegeliana: «Collaborare a che la filosofia si avvicini alla forma della scienza, – alla meta, di poter deporre il suo nome di amore del sapere, e di essere effettivo sapere, – è ciò che mi sono proposto» (ibidem): parole che non risultano comprensibili in tutta la loro portata, se non

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sullo sfondo della svolta impressa da Fichte agli sviluppi del pensiero post-kantiano, e della critica con cui Hegel riteneva di averne definitivamente dimostrato la contraddittorietà. Poiché quest’ultima era dovuta alla pretesa di voler elevare la filosofia a sistema e a scienza, mantenendo finito e infinito in opposizione reciproca – escludendo il sapere dall’infinito per limitarlo al finito –, dichiarare, dopo il fallimento del progetto fichtiano, di voler avvicinare la filosofia alla forma di «sistema scientifico» significava necessariamente dichiarare il proposito di estendere il sapere dal finito all’infinito, e cioè a dire che non può darsi «sistema scientifico» senza sapere dell’infinito. Assunta tale prospettiva, è evidente che il problema del rapporto tra finito e infinito dev’essere radicalmente ripensato, nel senso di una ridefinizione del concetto stesso di infinito. Quest’ultimo, infatti, nelle filosofie che asserivano l’intrascendibilità, per il sapere, del punto di vista del finito, e in particolare nella dottrina della scienza, finiva con l’essere fissato in opposizione al finito. Ma un infinito che risulti concepito per opposizione al finito, è un infinito necessariamente limitato dal finito, e dunque finito esso stesso. Le filosofie che sostenevano l’intrascendibilità, per la coscienza, dell’orizzonte limitato della finitezza, volevano preservare l’infinito nella sua radicale alterità rispetto ad essa; ma proprio così facendo, pervengono a un risultato opposto rispetto a quello che si proponevano, ovvero rendono il finito infinito, e l’infinito finito. In luogo di preservare l’«assoluto» nella sua purezza, esse lo distruggono, poiché rendendo intrascendibile il finito, lo rendono in pari tempo assoluto, e assolutizzando il relativo, relativizzano ovvero distruggono l’assoluto. Togliersi dalla «pania» di queste contraddizioni, rese insuperabili dall’«ostinazione» con cui il finito rifiuta di abbandonare la contrapposizione all’infinito, diventa dunque per Hegel questione della massima urgenza.

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Capitolo III

Universale e particolare

1. Il problema dell’universale nella logica formale Torniamo così all’inizio, quando si trattava di comprendere che senso potesse rivestire la formulazione secondo cui l’«universalità» è l’elemento in cui la filosofia «essenzialmente» si muove. Ricordiamo come, di tale Allgemeinheit, Hegel dicesse che essa «racchiude in sé il particolare». Che cosa significa, allora, «universalità»? Che cosa significa che essa «racchiude in sé il particolare»? Forse, ora abbiamo qualche «elemento» in più per capire queste parole. La questione del rapporto tra particolare e universale esprime infatti, col linguaggio della logica, il medesimo problema che abbiamo or ora visto esprimersi come problema del rapporto tra finito e infinito. Vediamo perché. Innanzitutto, dobbiamo interrogare il senso e il modo di quel racchiudere: com’è che l’universale «racchiude in sé» il particolare? Solo il chiarimento di tale domanda consente di determinare il senso dell’universale qui in questione, e d’intendere dunque le altre due formulate in precedenza. Al riguardo, sappiamo già se non altro come la risposta non andrà formulata; e cioè, che nel caso dei rapporti tra universale

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e particolare non si potrà trattare semplicemente di una loro contrapposizione. Il testo hegeliano ci dice infatti che il secondo è racchiuso nel primo, che dunque l’universale in questione non esclude il particolare da sé, bensì lo contiene in sé. Poniamo allora che l’«universale» di cui parla Hegel «racchiuda in sé» il particolare secondo il rapporto di «genere» a «specie» così come inteso nella logica formale. L’universale (ad es., «animale») si troverebbe definito in un certo modo (ad es., come «ente naturale dotato di movimento locale»), separatamente e indipendentemente dalle specie particolari «racchiuse in esso» (ad es., «uomo» come «animale dotato di linguaggio, ragione, discorso»). L’universale entrerebbe nella definizione del particolare, ma la sua definizione sarebbe indipendente rispetto a quella di quest’ultimo; ovvero il particolare non arricchirebbe in nulla la definizione dell’universale, e l’universale comparirebbe come ogni volta identico e uguale a sé in ciascuna definizione di specie particolare (ad es., «uomo» come «animale razionale» verrebbe a dire «uomo» come «ente naturale dotato di automovimento razionale», e tale significato la parola «animale» manterrebbe anche se si trattasse di definire «pappagallo» o «pesce spada»). Con le parole di Hegel: «nella divisione stessa l’universalità si mantiene solo in quanto cade al di fuori del molto; rapportata ai membri della definizione essa è la stessa in A, B, C […]» (Hegel 1804/05, p. 111; LM, p. 108). In una logica di questo tipo, dire che l’universale contiene in sé il particolare significa dunque dire che l’universale, indipendente nella sua definizione dal particolare, è sempre implicato in ciascuna definizione del particolare («uomo», «pappagallo», «pesce spada»), ma non viceversa (esso non presuppone, nella sua definizione, la definizione delle sue specie particolari). In tal senso, l’universale è dotato di superiore estensione rispetto al particolare (è predicabile di oggetti o classi di oggetti in numero maggiore rispetto al particolare); ma a tale

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superiore generalità corrisponde una perdita di determinazione rispetto al particolare (dire di un ente naturale che è un «animale» ci fornisce un’informazione meno determinata, più generica, più imprecisa rispetto alla sua specificazione come «uomo», «pappagallo» o «pesce spada»). L’universale sconterebbe dunque la sua maggiore estensione con una diminuzione di contenuto intensionale, ovvero di note concettuali incluse nella propria definizione. In una relazione di questo tipo il particolare, più che racchiuso «nell’universale», dovrebbe trovarsi compreso sotto di esso: poiché i particolari includono nella loro definizione il genere come l’universale cui essi appartengono, e senza il quale non potrebbero essere ciò che sono; mentre non altrettanto avviene in direzione opposta. Ora, poiché l’universale così inteso può subordinare a sé il particolare soltanto astraendo, ovvero prescindendo dalle determinazioni specifiche che istituiscono il particolare nella sua differenza (e cioè: nella concretezza della sua identità di particolare, in quanto distinto sia dall’universale, sia dagli altri particolari), il rapporto di subordinazione del particolare nei confronti dell’universale equivale a un rapporto di subordinazione del concreto nei confronti dell’astratto (o generale). Tuttavia, è proprio su questo punto che la teoria in questione conduce a conseguenze paradossali, che non è più in grado di padroneggiare. Infatti, per affermarsi come universale generico rispetto al particolare, l’universale non soltanto deve contenere il particolare sotto di sé, bensì deve in pari tempo escluderlo da sé. «Uomo», «pappagallo» e «pesce spada» sono animali, ma «animale» (inteso come genere) non è né uomo, né pappagallo, né pesce spada. Però, escludendo da sé il particolare, non soltanto l’universale cessa di esser tale, poiché non «racchiude» più nulla sotto di sé. Esso riproduce anche l’autonomia del particolare, nel

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senso che quest’ultimo si afferma come indifferente di contro all’universale, da un lato, e agli altri particolari, dall’altro: «A, B, C sono indifferenti l’uno verso l’altro» (ibidem). Così, l’universale che doveva contenere il particolare sotto di sé, mostra a sua volta di dipendere dal particolare, e di non potersi affermare come universale. Ciò viene espresso da Hegel, quando dell’universale generico dice che esso «non è per se stesso» (ibidem). Viceversa, poiché ad affermarsi non è l’universale in quanto tale, bensì le specie particolari, Hegel può dire che sono «per sé» queste ultime, invece del genere che le dovrebbe condurre a unità. Ma svincolandosi dal rapporto col genere, esse si sciolgono da ciò che ne dovrebbe realizzare l’unità, e che potrebbe porle in rapporto reciproco. Così, esse finiscono con lo svincolarsi anche dalla relazione e dal legame di ciascuna con le altre. Il rapporto tra il genere e le sue specie, ovvero la forma più alta con cui si sia tentato di concepire la relazione tra l’universale e il particolare all’interno della logica formale, corre perciò sempre il rischio di ricadere in un rapporto di mera sussunzione del particolare nell’universale, e viceversa. Il termine «sussunzione» Hegel lo riprende da Kant, e lo impiega a designare la relazione di subordinazione che tra universale e particolare si attua a livello di giudizio, ovvero di connessione tra un soggetto e un predicato posti in relazione attraverso lo «è» della copula (cfr. ivi, p. 81; p. 80). Tale dominanza può avvenire in ambedue le direzioni, esercitarsi da parte del predicato (lato dell’universale astratto) sul soggetto (lato del particolare e, per opposizione, del concreto), o viceversa. A ciascuna è comunque «connessa l’opposta» (ivi, p. 80; p. 79), e ciascuna si esprime nell’unilateralità della determinazione che s’instaura tra i poli della relazione. Ciascu-

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no dei due cerca di mantenere e di affermare se stesso «mediante sottomissione [Bezwingung] a sé dell’altro» (ivi, p. 82; p. 80). Il predicato esige di sussumere sotto di sé il soggetto, il soggetto di sussumere sotto di sé il predicato.

2. Oltre la sussunzione È possibile superare l’indifferenza reciproca del particolare e dell’universale? È possibile togliere la sussunzione? O in altri termini ancora: come sarebbe pensabile un’universalità che fosse «per sé»? Essa dovrebbe, innanzitutto, non escludere da sé le differenze dei particolari, ma contenere le differenze specifiche proprie a ciascuno di essi nella sua stessa definizione. D’altro lato, poiché l’universale non sarebbe più esterno e separato nei confronti del particolare, quest’ultimo uscirebbe dall’indifferenza sia nei confronti dell’universale, sia nei confronti degli altri particolari. L’universale sarebbe posto «come positivo in sé molteplice, che si divide in parti e allo stesso modo di nuovo toglie questo dividersi» (ivi, p. 111; p. 108); le specie, da parte loro, verrebbero poste «in rapporto reciproco, semplicemente solo come momenti dell’unico intero del genere» (ibidem). In tal modo, l’universale cesserebbe di essere astratto, il particolare indifferente: ambedue cesserebbero di comportarsi come lati ostili l’uno nei confronti dell’altro, si toglierebbe il rapporto di violenza e subordinazione, con cui ciascuno dei due nel giudizio pretende di sottomettere e di sussumere l’altro sotto di sé. Ma allora, la stessa forma del giudizio, anche nella sua figura di giudizio definitorio, si troverebbe in questo modo superata. L’asserzione della Vorrede, secondo la quale l’«universalità» della filosofia «racchiude in sé il particolare», presuppone dun-

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que la confutazione dialettica dell’intera logica delle classi, e costringe, se intesa in senso rigoroso, alla ricostruzione complessiva della «scienza della logica». Ma non era forse proprio questo il suo intendimento originario? Non voleva essa dichiarare il «proposito» hegeliano di costruire la filosofia come «sistema della scienza»? La stessa Fenomenologia doveva figurare solo come la prima parte di tale sistema, che avrebbe dovuto articolarsi in una seconda parte costituita appunto dall’esposizione di una rinnovata scienza della logica. Quest’ultima opera vedrà la luce, in tre tappe successive, solo alcuni anni dopo, quando l’articolazione del sistema nelle sue diverse componenti avverrà secondo una forma modificata rispetto a quella pensata nel 1807. Per quanto rilevanti, si tratterà però di modificazioni tali da investire solo figura e partizioni interne del sistema, non più ormai la concezione filosofica di fondo, che proprio la Vorrede esprime. Così, non deve sorprendere che sin dall’inizio quest’ultima implichi un radicale ripensamento dei rapporti tra universale e particolare. Tale ripensamento avviene in indissolubile unità con la riformulazione del problema dei rapporti tra finito e infinito, con la trasformazione in senso dialettico di questi due concetti e la risoluzione speculativa della contraddizione che tra essi restava, in Kant e in Fichte, inconciliata.

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Capitolo IV

Anatomia e conversazione

1. L’anatomia è una scienza? Certo, ancora non sappiamo che cosa ciò esattamente significhi, come tale proposito verrà a ricevere attuazione concreta. Ma almeno sappiamo in che direzione Hegel si sta muovendo. Possiamo, soprattutto, riprendere il discorso sull’anatomia. Hegel mostra di non amare troppo questa scienza. Anzi, da come ne parla emerge senza dubbio che per lui l’anatomia non è una scienza: In un tale aggregato di conoscenze, che non a buon diritto porta il nome di scienza, una conversazione sullo scopo e generalità simili non è di solito diversa dalla maniera storica e senza concetto, in cui si parla anche del contenuto stesso, di questi nervi, muscoli ecc. (cpv. 1; PH 9, F 2)

Da un lato, si tratta del fatto che l’anatomia non coglie il vivente in quanto vivente, poiché lo smembra in parti che considera separatamente l’una dall’altra, astraendole dalla connessione reciproca entro cui si trovano nell’organismo. Essa perciò deve attendere che questo sia morto, deve essa stessa ucciderlo in via di principio (quando ciò non avvenga anche di fatto, per consentire degli «esperimenti»): la soppressione del corpo

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animato è ciò che soltanto consente di smembrarlo e analizzarlo, distinguendo e isolando le sue singole «parti» («nervi, muscoli ecc.»). Ciò è quanto Hegel medesimo esplicita nella sua definizione dell’anatomia: «la conoscenza delle parti del corpo secondo il loro essere non vivente» (ibidem, F 1); e consente di spiegare perché egli impieghi il termine di parti, e non invece quello di membra organiche. Queste ultime, infatti, sarebbero le parti, ma non più intese come tali, ovvero separate e isolate dalla determinazione scambievole con le altre; sarebbero piuttosto parti viventi, cioè comprese nella loro funzione particolare entro la totalità organica, nella loro reciproca relazione e connessione dinamica. È tutta una metaforica dell’organico e della vita che si trova messa in gioco in questa critica hegeliana dell’anatomia, e che nella Vorrede vedremo ripetutamente entrare in campo quando si tratterà di criticare un modello conoscitivo che non perviene a organizzazione in un sistema, in cui le conoscenze vengono dunque accidentalmente accumulate l’una sull’altra e accanto all’altra. Tali discipline saranno allora morte, nel duplice senso per cui mancano di connessione organica al loro interno, e smembrano la totalità dell’oggetto cui si rivolgono. Ma qui siamo già arrivati all’altro lato delle nostre considerazioni, e cioè alla rilevanza concettuale di tale metaforica. Non si tratta semplicemente di constatare il fatto che tale metaforica è essa stessa concettualmente condizionata, è essa stessa veicolo di una prospettiva teorica. È senz’altro vero che in essa è contenuta tutta una concezione della vita e dell’organismo, che in quegli anni si era andata affermando sulla scorta delle discussioni provocate dalla kantiana Critica del giudizio, e che era stata alla base dei tentativi di costruire una «filosofia della natura» ad essa conforme. Controversa è a tutt’oggi la questione di quanto le nozioni di «vita» e di «organismo»

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abbiano condizionato la formazione del concetto hegeliano di «sistema», se cioè ad esse spetti una funzione determinante in rapporto a quest’ultimo, o se non sia piuttosto la nozione di «sistema», che Hegel andò formulando sulla scorta delle riflessioni teologiche e storico-politiche giovanili, a esser poi stata estesa e proiettata sulla concezione della natura e del vivente. A ogni modo, il testo della Vorrede ci presenta l’ormai avvenuta compenetrazione dei due aspetti; perciò, per noi si tratta innanzitutto di esaminare quale funzione essa eserciti nell’eco­nomia dell’argomentazione hegeliana. Abbiamo appena visto come l’anatomia sia scienza morta, nel senso duplice e inseparabile che essa manca di organizzazione interna ed è in pari tempo scienza del morto. Ma Hegel sostiene anche che, nonostante l’anatomia porti il nome di scienza, non lo porta però «a buon diritto». Egli nega dunque che l’anatomia sia una scienza: infatti, si può dire che essa usurpi quel nome solo nel caso in cui s’intenda dire che essa pretende a uno statuto che in realtà non le spetta, ovvero sostenere che in realtà non è una scienza. Tali due aspetti dell’anatomia (disciplina morta/del morto; che pretende di essere scienza, ma non lo è), Hegel li esprime col termine di «aggregato» (Aggregat). Dire che l’anatomia è un aggregato implica dunque 1) asserire che essa è morta/del morto, e in pari tempo 2) negare ad essa la qualifica di scienza. I passaggi contenuti nel testo sarebbero allora: l’anatomia è scienza morta/del morto, poiché è aggregato; ma poiché è aggregato, in realtà non è scienza. Ancor più evidente, il significato dell’argomentazione appare forse invertendo la sequenza: non è scienza, dunque è aggregato, dunque è morta/del morto. Il risultato, comunque, è che una scienza del morto è impossibile; che del morto non si dà, propriamente, alcun sapere. Sulla base delle implicazioni così stabilite (ovvero: sapere > scienza, scienza > vivente), Hegel potrà concludere che,

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poiché gli aggregati uccidono il vivente, e viceversa solo del vivente è possibile «vero» sapere, quest’ultimo dovrà dimettere la condizione di aggregato, per finalmente assumere organizzazione e forma: a queste egli dà il nome di sistema. Così, una volta inteso in senso rigoroso, «sistema della scienza» diventa un pleonasmo: infatti, se il sistema è realizzato in senso proprio, esso non può non essere scientifico; se la scienza è attuata in senso proprio, non può non rivestire forma sistematica. E come quest’ultima conosce il vivente, altrettanto essa è in se stessa vivente, ovvero è vita che sa se stessa come sapere vivente. Ma poiché la vitalità del sapere fa tutt’uno con il suo essere sistematico, «sistema» viene a indicare, sotto il profilo del sapere, quel medesimo che organismo indicava in riferimento al corpo animato. In tal modo, Hegel può designare il «sistema della scienza» come l’unica possibile attuazione del sapere in forma organica, la compiuta precipitazione della filosofia in organismo (o in organizzazione, termine che egli non impiega per indicare una forma artificiale di ordinamento, ovvero una costruzione che il sapere imporrebbe su di un contenuto indifferente ad essa; bensì all’opposto per esprimere la forma in cui il contenuto stesso dinamicamente si dispiega). L’opposizione sistema/aggregato emerge come quella una volta raggiunta la quale l’andamento del testo svela il proprio telos, ovvero l’esclusione degli aggregati dall’universo della scienza, e l’instaurazione in circolare sequenza delle equazioni: sapere = scienza; scienza = sistema; sistema = verità; verità = vita; vita = sapere: tutte comprese nell’unico termine di: filosofia.

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2. Filosofia e conversazione L’anatomia può così condurre, se assunta a tema di riflessione, abbastanza lontano da se stessa. Ma solo in apparenza. Tanto più che Hegel ci dice, sul suo conto, ancora qualcosa, e cioè che una discussione sul suo scopo «ed altre generalità simili» non sarebbe poi molto diversa dalla maniera in cui essa procede nello studio del suo oggetto. In verità, egli non impiega la parola «discussione», ma un termine che ricompare poco dopo in un contesto simile, e che letteralmente corrisponde al nostro «conversazione [Konversation]» (cpv. 1 e 4; risp. PH 9 e 11, F 2 e 4). Poiché in entrambi i casi si tratta di contesti polemici, potrebbe sembrare che Hegel non amasse troppo conversare. Ma sappiamo, dalla sua biografia, che non era così. Forse, non amava conversare di filosofia. Ma leggendo attentamente tali capoversi, ci accorgiamo che egli non intende dire neppur questo; anzi, afferma che l’esposizione dei propri personali punti di vista sulla filosofia «mantiene nella conversazione il suo posto adeguato» (cpv. 4; PH 11, F 4). Allora, può darsi semplicemente che egli non amasse vedere la filosofia ridotta ad argomento di conversazione, a quello che noi oggi intenderemmo come un mezzo d’intrattenimento. E in effetti, in poche righe compare due volte il termine «serietà», riferito alla filosofia e contrapposto alla conversazione. Eppure, sappiamo che non tutti i filosofi hanno creduto che filosofare comportasse necessariamente «serietà». Già Aristotele, accanto alla famosa definizione dell’uomo prima richiamata, ne formulò un’altra, che avrebbe potuto condurre a conseguenze forse diverse rispetto a quelle che invece provocò la prima. Egli disse infatti che l’uomo è «il solo animale che ride» (Part. an., 673a 8); e se l’uomo raggiunge la sua destinazione

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più degna filosofando, dovrebbe risultare che «filosofo» è l’uomo che non soltanto è più sapiente, ma che esprime questa sua sapienza nel saper ridere meglio degli altri. In epoche più recenti, poi, sappiamo il significato che Nietzsche dava al saper-ridere. Certo, in quest’ultimo caso la prospettiva da cui si guardava al riso era talmente cambiata, rispetto a quella aristotelica, che sembra quasi impossibile istituire un rapporto tra le due. Eppure, resta il fatto che il riso compare in una posizione tutt’altro che insignificante, sia nel primo, all’epoca in cui la filosofia raggiunse per così dire la sua prima maturità; sia nel secondo, quando si riteneva che la filosofia avesse raggiunto la sua maturità ultima, quella della morte. Veramente, in quest’ultimo caso la forma dubitativa sarebbe d’obbligo, perché non sappiamo ancora se si tratti dell’epo­ ca che noi stessi oggi stiamo vivendo, se il momento del totale compimento del filosofare sia davvero giunto, se noi perciò non siamo, almeno in prospettiva filosofica, dei semplici sopravvissuti. Invece, possiamo dire che Hegel, il quale peraltro non disprezzava il riso, non attribuiva a quest’ultimo particolari virtù filosofiche, e separava la serietà dal riso stesso. Certo, come ogni cosa nella dialettica, una serietà che non avesse saputo ridere, che in qualche modo non avesse compreso in sé il suo opposto, non sarebbe stata accettabile per Hegel. Anzi, egli l’avrebbe piuttosto assimilata alla serietà spettrale della morte. Tuttavia, è altrettanto certo che nel suo sistema il filosofare non perviene mai a rider di se stesso. Sembra dunque che di alcuni argomenti e in alcune occasioni si possa ridere, di altri e in altre occasioni invece no; come se alla dialettica, per potersi istituire in «sistema della scienza», fosse indispensabile contenere una sorta di disciplina del riso. In ciò, del resto, Hegel sarebbe coerente una volta di più

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con la propria epoca, contrassegnata dall’affermarsi della forma borghese di organizzazione sociale non soltanto nell’ambito della produzione materiale, ma anche, più globalmente, nella normazione dei rapporti sociali di comunicazione e di comportamento. Forse è per lo stesso motivo che dalle parole della Vorrede traspare un mutamento storico-concettuale, che investe il termine Konversation in correlazione alle trasformazioni in atto nella «storia del mondo». La parola «conversazione» viene a indicare, verso la fine del Settecento, un contesto di comunicazione e di rapporti reciproci tra uomini, rispetto al quale il movente dell’interesse egoistico, che domina nell’universo delle relazioni mercantili, non basta più a compiutamente esprimere finalità e significato dei comportamenti e delle azioni. Sottratta al dominio della produzione e dello scambio, la conversazione consuma in pari tempo la sua separazione dalla dimensione pubblica dello stato, ed è perciò costretta a ripiegare entro lo spazio spoliticizzato del salotto privato-borghese. Proprio in conseguenza di questa duplice dislocazione, tuttavia, essa finisce col designare il luogo privilegiato per esprimere ed esercitare quella disposizione a entrare in relazione con i propri simili, che la lingua tedesca esprime nella parola Geselligkeit («socievolezza»). Attraverso la pratica della conversazione non soltanto diventa possibile coltivare la propria personalità con l’affinarne il gusto e le maniere. Piuttosto, promuovendo lo sviluppo delle qualità spirituali all’interno di un codice di comportamento che implica partecipazione a un discorso comune e disciplinamento degli istinti, la conversazione promuove il progresso della cultura in pari tempo rispetto al singolo e all’intero genere. L’ambito d’interazione con i propri simili che in essa è custodito contribuisce così ad allargare la sfera che nell’agire degli individui (e dell’umanità nel suo complesso) viene a occupare l’obbedienza alla legge morale, ovvero la conformi-

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tà della condotta e dei comportamenti allo statuto dell’essere umano come soggetto libero e razionale. Lungi dal venir concepita solo come uno spazio d’intrattenimento, finalizzato alla ristorazione del corpo e dello spirito nel tempo rimasto libero dall’attività del lavoro (funzione che pure le viene attribuita), la conversazione appare dunque ancora essenziale per mantenere in moto il processo della civilizzazione. Non priva di significato la conversazione appare, ai nostri occhi, anche se considerata sotto il profilo estetico, cioè in rapporto alla salvaguardia delle «facoltà» degli individui dalla loro riduzione a singole e unilaterali abilità, rischio che (come emblematicamente dimostrano le Lettere sull’educazione estetica dell’uomo di Schiller) veniva sentito come incombente per l’estensione e l’intensità che andava assumendo la divisione sociale delle attività e dei lavori. Ma proprio quando tali processi pervengono al punto della loro condensazione critica; quando, con le parole della Vorrede, «lo spirito ha rotto col mondo, durato fino a oggi, del suo essere e rappresentarsi, ed è in procinto di precipitarli nel passato» (cpv. 11; PH 14, F 8), allora anche il linguaggio si modifica, e le parole che prima avevano un significato ora vengono a perderlo o a cambiarlo. Una simile trasformazione di contenuto semantico e concettuale subisce, tra le altre, la parola Konversation. E per comprendere la direzione del cambiamento che la investe a cavallo tra Sette e Ottocento, uno snodo decisivo è rappresentato ancora una volta dal pensiero di Kant. Nella sua Antropologia pragmatica (1798) troviamo infatti, accanto all’impiego del termine nel senso sopra esposto, la contemporanea riduzione della sua portata concettuale e semantica. La conversazione viene presentata secondo le determinazioni ricordate (cfr. in part. il § 14, Dell’apparenza morale permessa, e il § 88, Del sommo bene fisico-morale, dell’op. cit.: Kant 1798, risp.

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pp. 151-153 e 277-282; AP, risp. pp. 35-37 e 168-173). Tuttavia, poiché la sua trattazione in senso pragmatico vuole esaminare il significato che essa riveste per l’uomo inteso come essere libero (ovvero come soggetto capace di azione morale), essa appare necessariamente subordinata all’istanza trascendentale, che sola consente di dimostrare la libertà come condizione della legge morale. L’indagine e il significato della conversazione sotto il profilo «pragmatico» vengono dunque a dipendere dall’autoconsapevolezza che la ragion pratica consegue nella riflessione critico-trascendentale. Ora, se in Kant si esprime, da questo lato, una fase di transizione nel processo della trasformazione storico-concettuale di Konversation, possiamo viceversa constatare come in Hegel, più o meno dieci anni dopo, tale trasformazione appaia perlomeno implicitamente come compiuta. Infatti, «conversazione» appare nella Vorrede contrapposta non soltanto alla «serietà [Ernst] del concetto», bensì anche alla «profondità» cui questa potrebbe attingere (cpv. 4, loc. cit.). Per negazione, sembra dunque che alla conversazione Hegel attribuisca i caratteri della non-serietà e della non-profondità, contrapponendola così a quanto egli chiama «concetto». Tenuto conto che in riferimento a quest’ultimo Hegel precisa che la sua profondità non è qualcosa che si possa raggiungere senza «fatica [Anstrengung]» (cpv. 58; PH 41, F 48) e senza «lavoro [Arbeit]» (cpv. 70; PH 48, F 59), dobbiamo constatare che siamo giunti al periodo in cui «fatica» e «lavoro» determinano la ripartizione fondamentale delle attività sociali in serie e non-serie, profonde e non-profonde, necessarie e superflue. Il tempo riservato alle prime, quello che marxianamente si definiva come tempo di lavoro socialmente necessario, appare come il tempo che non viene perso, ma produttivamente investito e finalizzato. Ad esso, si contrappone il tempo libero dal lavoro, subordinato alla riproduzione della forza e delle energie da reinvestire in esso. Lavoro e tempo di lavoro governa-

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no perciò l’opposizione tra sé e i loro opposti, subordinando il tempo libero al consumo dei beni prodotti e alla riproduzione delle condizioni, entro cui lavorare e produrre possano svolgersi ed estendersi su scala sempre più allargata. La «conversazione» entra a far parte di questo tempo libero e non immediatamente strumentale come mezzo di svago e d’intrattenimento, come attività non-necessaria, ma dunque anche non-profonda e non-seria. Essa diventa un modo come un altro per «passare il tempo» sottratto alla fatica del lavoro, agli obblighi della professione. In essa, profondità e serietà sono fuori luogo, proprio perché qui il soggetto non deve sforzarsi, faticare, produrre. Al contrario, in essa è lecito e auspicabile, rispettando le forme, ridere e far ridere, piacevolmente e spiritosamente intrattenersi assieme ad altri. Anche lavoro e riso, infatti, vanno male d’accordo fra di loro. L’attività del «concetto» si allinea senz’altro, in Hegel, alle attività che richiedono fatica, sforzo, lavoro. Perciò non può non richiedere serietà, perciò non può non escludere il riso, perciò la conversazione non può non costituire un ambito inadeguato per l’esposizione e l’approfondimento di argomenti filosofici. Proprio per questo, in essa «mantiene il suo posto adeguato» la discussione, più o meno contingente e arbitraria, di ciò che uno crede che la filosofia sia, di ciò che uno ritiene essa dovrebbe diventare. Ma tale «conversazione» su «scopo» della filosofia e altre «generalità simili» non significa affatto filosofare, non è ancora filosofia. Essa rappresenta piuttosto soltanto «l’inizio della cultura», poiché in essa il sapere non è ancora giunto alla forma della scienza, ovvero non si è ancora elevato «alla serietà della vita piena» (cpv. 4, loc. cit.). Ciò significa che il sapere, qui, non è ancora affatto sapere. E tuttavia, resta da chiedersi perché Hegel abbia introdotto il tema della conversazione in una sequenza di argomenti volti a mostrare la connessione tra sapere e scienza, a dichiarare al

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lettore che scopo del libro che si accinge a leggere è quello di far dimettere alla filosofia il suo statuto di amore per il sapere, e di realizzarla come attuato sapere (cfr. cpv. 5, loc. cit.). Ora, abbiamo visto che Hegel non critica la conversazione in quanto tale, ma in quanto si pretenda d’intravedere in essa una modalità di esposizione adeguata per la filosofia. Essa non lo è e non può esserlo, proprio perché, dal punto di vista della forma, non è sistematica ovvero scientifica, non dimostra ciò che essa dice, ma si limita a dichiarare opinioni e punti di vista che presuppone come adeguati all’oggetto. D’altro canto, proprio perché la forma è costituita da affermazioni hin und her sprechenden, anche il contenuto viene affrontato in maniera esterna e superficiale: ci si limita a esprimere punti di vista e opinioni su scopi e significati che avrebbe il filosofare; ma non si penetra in ciò che la filosofia è concretamente divenuta, non ci si immerge nella «pienezza» delle sue determinazioni concettuali. All’inadeguatezza della forma corrisponde dunque la vuotezza del contenuto, e viceversa. Hegel chiama questa modalità di affrontare un argomento Räsonnieren, Räsonnement. Non è un caso che questo termine rappresenti la forma germanizzata di una parola francese, e che la Francia sia il paese dove la «conversazione» è nata e si è sviluppata. Comunque, ora dovrebbe esser chiaro perché Hegel impieghi Konversation in due contesti polemici. Egli vuole criticare le modalità epistemologiche attraverso cui la conversazione si svolge, cioè vuole respingere l’estensione del modello conversazionale alla trattazione della filosofia, che può avvenire soltanto in forma scientifica. La «conversazione raziocinante [räsonnierende Konversation]» (cpv. 49; PH 36, F 39) appare a Hegel radicalmente inadeguata proprio rispetto a questa «meta».

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3. Conversazione e anatomia Ma qui, il discorso porta un’altra volta sull’anatomia. Di essa, Hegel dice che sarebbe in realtà ben più adatta della filosofia a diventare tema di conversazione. Sembra indubbiamente un’affermazione paradossale: intanto, perché va contro le rappresentazioni correnti secondo cui proprio la filosofia sarebbe più adatta a essere argomento di conversazione sui suoi fini generali, poiché essa stessa si attua nell’elemento dell’universale. Poi, perché molto difficilmente ci sarà capitato di conversare di anatomia piuttosto che di filosofia (anche se forse non ci capita spesso di discutere nemmeno di quest’ultima). Probabilmente, dovendo scegliere, conversare di filosofia sarebbe ritenuto più interessante che non partecipare a una conversazione su «nervi, muscoli ecc.». A ogni modo, abbiamo appurato che ciò che Hegel ha in mente non è tanto la critica della Konversation come tale, ma del modello di sapere in essa contenuto quando lo si voglia presentare come adeguato alla conoscenza della «cosa stessa», senza che lo sia. Si tratta forse di un altro esempio di usurpazione? No, è sempre lo stesso, riguarda sempre l’anatomia… In effetti, l’esposizione del proprio punto di vista, l’escogitazione di motivi per sostenerlo, la contrapposizione ad esso di altri punti di vista sostenuti da altri motivi, questo movimento senza tregua del ragionare e dell’opinare, non procede per accumulazione a-sistematica di temi e di problemi? Non assomiglia dunque a un aggregato? E che cos’altro era «anatomia»? Essa, che si pretende scienza del corpo, è costretta a uccidere quel corpo che dichiara di voler conoscere; e proprio per questo non lo conosce. Finché il sapere distrugge ciò di cui vuole sapere, esso distrugge se stesso come sapere. Ma questo è inevitabile se, come in

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anatomia, esso permane estraneo, nemico, violento nei confronti di ciò che dovrebbe costituire il suo contenuto. La distruzione del vivente procede dunque di pari passo con l’estraneità del conoscere al conosciuto, con l’esternità del sapere a ciò che in esso dovrebbe esser saputo. Nella conversazione, almeno, tale procedimento si attua in forma innocua, poiché essa, dislocata sul versante dell’intrattenimento e dello svago, non pretende il nome di scienza, e dunque non uccide. Ma quando il Räsonnieren pretende di travalicare la Konversation, d’invadere il tempo della serietà e del lavoro, ovvero di usurpare il nome del sapere, il risultato è l’anatomia con le sue conseguenze. Sapevamo che la chiusura in circolo del sapere poneva alcune condizioni, alle quali non poteva avvenire. Anzitutto, essa non poteva attuarsi se non trasformando radicalmente l’impostazione kantiano-fichtiana del rapporto finito-­ infinito. Inoltre, non poteva attuarsi neppure assumendo l’impostazione del rapporto universale-particolare nel senso della logica formale (dove il primo è l’astratto, il secondo il concreto; dove il primo sussume, il secondo è sussunto). Adesso, conosciamo un’altra condizione, posta la quale l’attuazione del sapere in scienza non potrà realizzarsi: l’esteriorità del sapere in rapporto al saputo, della forma in rapporto al contenuto, del soggetto nei confronti dell’oggetto.

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Capitolo V

Il vero e il falso

1. L’opinione Goethe, che amava le piante, non era convinto del modo con cui la dialettica riteneva di custodire, al suo interno, la vita. Hegel pensava che gli animali costituissero una forma di vita più elevata rispetto alle piante. Ma è alla vita delle piante che fa riferimento la Vorrede, quando vuole esemplificare il rapporto tra diversità dei sistemi filosofici e concetto della verità. Ricordiamo che uno degli scopi di una «prefazione» doveva consistere nel presentare la relazione tra la posizione dell’autore e le posizioni sostenute in «precedenti o contemporanee trattazioni dello stesso oggetto» (cpv. 1, loc. cit.). Ma come ci si immagina di consueto il significato di questa «diversità»? «Tanto l’opposizione del vero e del falso è rigida per l’opinione, altrettanto essa è solita attendersi, nei confronti di un sistema filosofico presente, o accordo o contraddizione» (cpv. 2; PH 10, F 2). E immediatamente dopo, Hegel aggiunge: «Essa intende la diversità dei sistemi filosofici non tanto come il progressivo svolgimento della verità, quanto» invece «nella diversità scorge soltanto la contraddizione» (ibidem).

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Il modo di pensare che Hegel chiama «opinione», per distinguerlo dal pensare concettuale e propriamente scientifico, appare vincolato al principio del terzo escluso. Esso ritiene che un’asserzione sia o vera o falsa nel senso di un’opposizione esclusiva, all’interno della quale non possa prodursi alcuna mediazione. Per l’opinione, il vero è vero, il falso è falso: tertium non datur. E l’esclusione del terzo avviene proprio sulla base delle due eguaglianze che enunciano il vero come identico a sé, così come identico a sé sarebbe il falso.

2. Si può asserire il falso? Certo, quest’ultima eguaglianza, anche se per l’opinione è ovvia, appare piuttosto problematica. Infatti: cos’è il falso? Se intendiamo la domanda come probabilmente la intenderebbe un greco, «falso» sarebbe qualcosa che appare come non è; ma per apparire come non è, dovrebbe comunque apparire, e apparire così come è. Perciò il falso, propriamente, è ciò che in generale non è. Il suo luogo sembra doversi così trasferire nell’asserzione, ovvero in quella proposizione che pretende di dire l’essere così come è. Poiché il falso, in senso stretto, non è, esso cambia dimora, e passa, dall’essere, nel linguaggio che dice l’essere. Falsa diventa dunque quell’asserzione che, pretendendo di dire l’essere così come è, lo enuncia invece così come non è. Ma enunciare l’essere così come non è vuol dire enunciare il non essere: e com’è possibile enunciare, se ciò che si enuncia non è? Si può asserire il non essere? E poiché a tale non essere è stato dato il nome di falso: è possibile in generale asserire, e in pari tempo asserire il falso?

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Tuttavia, se asserire il falso non è possibile, ciò significa che diventa impossibile anche asserire il vero. Infatti, poniamo che sia impossibile asserire il falso: allora tutto ciò che viene asserito sarà vero, ogni e qualunque asserzione avrà, in termini non greci, valore di verità positivo. Ma in tal caso, sarebbe ancora possibile, in generale, asserire? Appare infatti indubbio che dicendo io: «piove», non sto simultaneamente dicendo: «non piove». Anzi, appare indubbio che tali asserzioni siano reciprocamente contraddittorie, poiché ciò che viene affermato nell’una («piove») è identico a ciò che viene negato nell’altra («non piove»). Ora, però, se fosse impossibile asserire il falso, ambedue le asserzioni dovrebbero essere vere; non vera la prima oggi, la seconda domani; bensì vere simultaneamente. Ma allora, posto che asserire significhi voler dire l’essere così come è, proprio asserire appare in generale impossibile: perché se due asserzioni contraddittorie sono entrambe vere nello stesso tempo e per lo stesso aspetto, allora dicendo «piove» io verrei a dire «non piove», dicendo «non piove» che «piove», cioè ancora: potrei dire l’essere così come è solo in pari tempo enunciandolo come non è, e viceversa. Tale equivalenza delle asserzioni contraddittorie rispetto al­ l’essere e al vero porterebbe evidentemente all’assurdo ogni nostra pretesa di dire qualcosa, poiché dicendo qualcosa noi verremmo in pari tempo a negarlo, e potremmo dirlo solo in pari tempo negandolo. Anzi, ciò in fondo sarebbe indifferente: se tutte le asserzioni sono vere, io potrei dire qualunque cosa a proposito di qualunque cosa, e gli altri fare altrettanto: non per cinismo o immoralismo, ma perché così funzionerebbe il nostro linguaggio. Ma sarebbe ancora, il nostro, un linguaggio? Probabilmente no. Anzi, secondo Platone, proprio il linguaggio verrebbe in tal modo reso impossibile.

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Di conseguenza, egli tenta di ricostituire le basi per la possibilità di un linguaggio sensato, o meglio: per una comprensione sensata del linguaggio. Non è quest’ultimo infatti che rende impossibile dire l’essere così come è, ma è il modo in cui alcuni filosofi, anzi addirittura colui che Platone considera loro padre, hanno pensato l’essere che si trattava di dire. Quando il padre, infatti, sostiene che solo l’essere è, e dunque che solo l’essere può pervenire a dirsi nell’asserzione, egli rende impossibile dire il non essere; ma proprio in tal modo rende impossibile dire l’essere, proprio in tal modo rende impossibile in generale dire. Così, il padre stesso fornisce il pretesto ad alcuni, che non sono suoi veri figli, di reclamare questo titolo per sé, per potersi in tal modo assicurare il lascito del padre. Per costoro, asserire una cosa sarebbe equivalente ad asserire la sua opposta, perché proprio questo fanno dire al padre: ovvero che, potendo enunciare la lingua solamente l’essere, tutto ciò che enuncia la lingua è indifferentemente enunciazione dell’essere, e dunque indifferentemente vero. Però, se tutto è indifferentemente vero, allora appunto è vero che anche l’asserzione: «niente è vero» è vera. Ma se uguale è dire che tutto e niente è vero, e se vero continua a designare un’asserzione che dice l’essere così come è, allora l’essere detto dall’asserzione non può venir distinto dall’asserzione che lo dice, ovvero esso è a seconda delle asserzioni che lo dicono. Poiché le asserzioni lo dicono ora in un modo, ora in un altro, ma sono sempre e in ogni caso vere (enunciano infatti l’essere così come è), l’essere risulta in tanti modi, quante sono le asserzioni che lo enunciano. L’essere non rimane più uno, come sosteneva il padre, ma diventa molti, ovvero le molteplici, diverse, contraddittorie asserzioni che lo dicono. L’opinione si afferma così come verità dell’essere. Ora, ciò non significa soltanto contraddire il padre, ma rendere impossibile il discorso, posto che quest’ultimo trovi il suo fon-

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damento nell’asserzione, posto che esso intenda innanzitutto dire l’essere, e dirlo propriamente così come è. Per salvaguardare il lascito del padre, bisogna dunque uccidere il padre. Solo uccidendo il padre, si possono smascherare i suoi falsi figli, coloro cioè che, intendendo l’essere alla stregua del padre, finiscono col ricondurre l’essere all’opinione. Il padre in questione, Parmenide, nel suo amore per l’essere, aveva identificato due significati distinti dello stesso essere. Egli non aveva visto che essere può voler dire, da un lato, esistere; che dunque nella proposizione «l’essere è», questo è intende affermare che soltanto l’essere esiste. Ma che, d’altro lato, già nella proposizione «l’essere è uno», lo è ha la funzione di collegare con essere uno dei predicati dell’essere: non asserisce che l’essere è, bensì lo determina così come è. (Svolge cioè la funzione di porre in rapporto dei predicati, determinazioni, attributi con l’essere, rendendo possibile l’asserzione che intende enunciare non che esso è, bensì intende dirlo così come è). Sostenendo la necessità di tale distinzione, noi uccidiamo il padre, perché introduciamo la possibilità di dire ciò che non è. Essa si attua quando ad es. diciamo: «l’essere è l’opinione», poiché determiniamo l’essere in maniera incompatibile con l’essere, perché in altri termini predichiamo dell’essere un attributo che non è dell’essere. Qui, noi diciamo il falso, poiché enunciamo ciò che non è: ma non nel senso che asseriamo dell’essere che esso non è, bensì nel senso che lo asseriamo, ma non così come è, bensì all’opposto così come non è. Il falso e la possibilità di dire il falso si attuano dunque nel rapporto di predicazione, ovverosia quando il soggetto è asserito in rapporto con un predicato, col quale invece non è in rapporto. La negazione diventa allora possibile, poiché possibile diventa asserire il non-essere: ma non nel senso che vi sia altro dall’essere, bensì nel senso che dell’essere si può dire in maniera sbagliata, cioè dell’essere si può dire così come non è.

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In tal modo, noi certo abbiamo ucciso il padre. Però, uccidendo il padre, ne abbiamo anche salvaguardato il lascito, poiché introducendo la possibilità di dire il «non» dell’essere, siamo riusciti a custodire sia l’essere, sia la possibilità di asserirlo, che sarebbe invece andata distrutta se solamente l’essere fosse stato possibile dire; se dunque tutto ciò che a noi veniva in mente di dire fosse stato vero per il semplice fatto che in esso sarebbe stato detto l’essere.

3. Hegel, Platone e l’opinione Tanto costa a Platone riuscire a distinguere il vero dal falso. Eppure, tale fatica sembra essergli stata ben ripagata, se addirittura Hegel chiama «opinione» ciò che in Platone doveva ancora lottare per differenziarsi da ciò che egli stesso intendeva, a sua volta, come opinione. Quest’ultima infatti avrebbe assunto come sua propria la distinzione platonica del vero e del falso, e avrebbe viceversa rigettato quello che essa sosteneva prima, ovvero che tutto ciò che è detto è vero in quanto è detto, e che dunque impossibile sarebbe distinguere il vero dal falso. Tuttavia, dalle parole di Hegel emerge che la vittoria di Platone è stata ammessa dall’opinione con convinzione tale, da risultare controproducente per la verità della teoria dello stesso Platone. Qui non si tratta di stabilire se ciò che Hegel riporta all’«opinione» risponda autenticamente a quanto intendeva dire Platone, o se nell’«opinione», appunto in quanto tale, non si sia prodotta una semplificazione della teoria, che non era presente in Platone, e che la caratterizza invece nell’«opinione». Sta di fatto che per quest’ultima l’opposizione del vero e del falso si è «irrigidita», è decaduta cioè, da problema che metteva in moto la ricerca del pensare, a non più discusso presupposto

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dell’essere e del dire. Ora, contro l’irrigidimento dell’opposizione tra il vero e il falso si scaglia Hegel. Significa questo che egli, contro l’immobilizzarsi in opposizione della distinzione platonica, vuol tornare a distruggere quella distinzione? In tal caso, Hegel stesso dovrebbe tornare a sostenere la tesi che già l’«opinione» aveva, ai tempi di Platone, sostenuto, ovvero che poiché tutto ciò che è detto è vero in quanto è detto, la verità non è altro dall’opinione medesima. Ma Hegel, contestando l’opinione, non può più ricadere a sua volta nell’opinione, nemmeno se quest’ultima dovesse sostenere un punto di vista diverso rispetto alla prima. Infatti, dal momento in cui egli dichiarasse la sua un’opinione, dovrebbe in pari tempo accettare come vera l’opinione opposta alla sua; ovvero criticando l’opposizione del vero e del falso, dovrebbe in pari tempo ammetterla come vera, contraddicendo la sua stessa critica. E in effetti, Hegel non vuole sostituire un’opinione a un’altra opinione. Piuttosto, egli intende porre una fine al movimento stesso dell’opinare in filosofia. Si tratta dunque, per lui, di rifiutare l’opposizione del vero e del falso, senza perdere la loro distinzione; di accogliere così ciò che la teoria di Platone aveva conseguito, ma senza assumerne il risultato nella forma di statica opposizione, che esso riceve nell’opinione. Tuttavia, come per Platone il lascito di Parmenide poteva esser custodito solo uccidendo colui che ne era stato il padre, così per Hegel il risultato della teoria di Platone può esser conservato soltanto in quanto venga superato entro una dottrina più ampia. Qui vediamo dunque per la prima volta entrare in gioco la nozione hegeliana dell’Aufhebung. Vedendola subito all’opera in riferimento a concetti chiave, come appunto sono quelli del vero e del falso, potremo poi forse più facilmente enucleare le determinazioni, che ad essa assegna Hegel.

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4. Dialettica dell’opposizione Ma in effetti: perché rifiutare l’opposizione del vero e del falso? Come pretendere di salvaguardare il pensiero dall’opinione, senza accettare quell’opposizione? Come mantenere una distinzione tra concetti, dei quali l’uno è la negazione dell’altro, pretendendo in pari tempo di sfuggire al loro Gegensatz? Hegel affronta il problema nel cpv. 39 della Vorrede (PH 3031, F 30-32). Nel cpv. 2, si trattava di distinguere la diversità dei sistemi filosofici dalla loro semplice contraddizione, che derivava dalla concezione, propria all’opinione, sul carattere oppositivo delle nozioni di vero e di falso, e sulla fissità, ovvero insuperabilità, di tale opposizione. Il cpv. 39 ci dice quali conseguenze questa concezione dei rapporti tra vero e falso riflette sulla determinazione di ciascuno dei due concetti. La loro contrapposizione, abbiamo detto, è fissata come insuperabile. Ma ciò comporta che anche tali concetti debbano essere fissati l’uno separatamente dall’altro, debbano cioè venir presupposti come esistenti l’uno senza l’altro e indipendentemente dall’altro. Questo implicherebbe che il vero esiste a prescindere dai suoi rapporti col falso, come il falso esiste a prescindere dai suoi rapporti col vero. Un termine adeguato a esprimere la situazione, in questo contesto, è quello dell’astratto, nel senso di separato-da, isolato e fissato nell’opposizione ad altro (ovvero al suo opposto). Quando due concetti si trovano fissati in reciproca opposizione, allora già per questo vengono intesi come astratti; ma dire che vengono intesi come astratti significa dire che vengono presupposti, poiché se il loro contenuto si determinasse attraverso la relazione con l’altro, l’opposizione non potrebbe più essere fissata, o meglio: quest’ultimo carattere dell’opposizione sarebbe compreso all’interno di un movimento più ampio, in cui l’opposizione verrebbe processualmente a prodursi.

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Tuttavia, venendosi a produrre l’opposizione, ciò implica che si verrebbero a produrre anche i termini opposti. La fissazione di questi ultimi in opposti sarebbe essa stessa nient’altro che il risultato di un processo di posizione e determinazione degli opposti stessi. Questi ultimi, in luogo di presupporsi, verrebbero a porsi: il loro contenuto non sarebbe assunto aproblematicamente come già dato nell’ovvietà di un’opinione, ma filosoficamente dimostrato tramite il processo del loro concreto divenire. Ma nell’esser dimostrati e intesi come divenuti, ovverosia nel­ l’esser-posti e non semplicemente presupposti, è contenuta in sé la necessità del toglimento sia dell’opposizione, sia degli stessi opposti. Questi ultimi, se bloccati all’interno di un’opposizione, tornano infatti a perdere il carattere dell’esser-divenuti, poiché, fissandosi in opposti, tendono a esistere indipendentemente, separatamente, prescindendo dall’opposto e dall’opposizione stessa. Ma proprio così vengono a contraddire ciò che essi sono, ovvero appunto dei processualmente divenuti tramite il divenire dell’opposizione e dunque inseparabilmente dall’opposto. L’esser-divenuta dell’opposizione implica allora, per essa, di essere sempre ancora in via di divenire; ovvero che dal momento in cui essa è posta, e a loro volta posti si trovano i momenti in essa opposti, essa è appunto posta come o in quanto posta, cioè come impossibilitata ad autonomizzarsi in astrazione e indipendenza dal movimento del suo risultare. Si tratta perciò di considerare i due aspetti nella loro reciproca unità. Da un lato, l’opposizione non può non porsi, poiché altrimenti non sarebbe opposizione, e quindi non sarebbe divenuta: ma se nel movimento divenisse niente, il divenire non sarebbe, e il movimento dovrebbe ancora iniziare. D’altro lato, proprio in quanto è posta, l’opposizione non può non esser posta come risolventesi, ovvero come superantesi nella totalità del movimento concettuale, di cui essa in tal

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modo emerge come un momento; così come momenti erano i concetti, che in lei venivano a opporsi. Ma allora, se tale è la natura dell’opposizione, la verità si può affermare soltanto come la totalità di questo movimento, e ciò significa che essa è simultaneamente processo di posizione e di toglimento, divenire in cui le singole determinazioni si producono e si annullano. Perciò Hegel può scrivere, con una metafora destinata a rimanere celebre, che «il vero è il trionfo bacchico, dove non c’è membro che non sia ebbro» (cpv. 47; PH 35, F 38), ovvero: che non risulti dinamicamente posto e perciò stesso tolto nella totalità del movimento. Quest’ultimo ne fluidifica l’identità con sé, la toglie dalla fissità e dall’irrigidimento che altrimenti, separandolo dagli altri «membri», gli impedirebbe di confluire nel processo, di partecipare al «trionfo» dell’intero. Ma ciò significa che nel vero non si dà solo movimento, che anche l’opposizione del movimento e della quiete viene per così dire sciolta, e superata: «poiché ogni membro, nel mentre si isola, altrettanto immediatamente si risolve, – il trionfo è altrettanto la quiete trasparente e semplice» (ibidem), e cioè ancora: è la chiusura del processo entro la forma circolare dell’intero. Ecco dunque in cosa consiste quell’«elemento» della filosofia, che sin dall’inizio della Vorrede si proclamava come universale. Esso si scopre ora non come concetto astratto, universale generico e formale, da cui i contenuti determinati si troverebbero esclusi o meramente sussunti; né potrà essere concepito come sostanza inerte, della quale verrebbero predicate determinazioni specifiche dal soggetto della conoscenza ad essa esterno, e nei confronti del cui divenire essa starebbe imperturbabilmente immota e indifferente. L’universale di cui si tratta nella filosofia coincide con il vero: cioè consiste nel «processo, che si genera e percorre i suoi momenti, e questo

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intero movimento costituisce il positivo e la sua verità» (ibidem; PH 34, F 37). Viceversa, nell’opinione, «il vero e il falso appartengono a quei pensieri determinati, che senza movimento valgono per essenze autonome, delle quali l’una sopra, l’altra sotto starebbero isolate e fisse senza comunanza con l’altra» (cpv. 39; PH 30, F 30). Ma se davvero l’opposizione di vero e falso fosse così come l’intende l’opinione, la verità non potrebbe rappresentarsi nell’intero movimento che produce e ricomprende in sé le sue determinazioni. Infatti, solo una di queste dovrebbe essere vera, a esclusione dell’opposta in quanto falsa. Ora, non si potrebbe immaginare ostacolo più grande a penetrare riflessivamente nella verità della dialettica. E il cpv. 38 lo aveva puntualmente anticipato: «Le rappresentazioni in proposito costituiscono l’impedimento principale per accedere alla verità» (ibidem). Così, assieme alle opposizioni di finito e infinito, universale e particolare, soggetto e oggetto, contenuto e forma, Hegel intende dinamizzare, sciogliere, fluidificare anche l’opposizione del vero e del falso. Però adesso non ci arrestiamo più semplicemente a constatare una condizione negativa, posta la quale non sarebbe possibile realizzare ciò che Hegel si propone. Qui, noi vediamo finalmente prospettarsi la soluzione medesima nella sua positività. Ma appunto, non nel senso per cui sarebbe ormai ancora lecito contrapporre il positivo in quanto vero al negativo in quanto falso. Per la verità che in Hegel giunge a pensarsi, nessuna opposizione tra coppie concettuali antitetiche potrà più pretendere carattere di assolutezza, né tantomeno tale carattere potrà spettare a un opposto di contro al suo altro. Hegel, che non riteneva adatte a esprimere la verità proposizioni singole, pure esprime la sua concezione in una di que-

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ste: «il vero è l’intero [das Wahre ist das Ganze]» (cpv. 20; PH 19, F 15). In essa, forse, possiamo davvero trovare la chiave per l’accesso nel «sistema della scienza» e nella sua Vorrede. Perché qui, non soltanto tutte le opposizioni si danno come in pari tempo poste e tolte; ma soprattutto, si esprime che quel simultaneo porre e togliere, quella produzione e distruzione di ciò che vien prodotto, non dà luogo a un risultato a somma zero; bensì piuttosto che in questo movimento scaturisce e si realizza l’unico risultato che possa propriamente dirsi positivo, proprio perché consiste nella totalità del processo. Ciò che dal processo risulta, in altri termini, non è qualcosa di ipostatizzato e separato oltre il processo; poiché, se così fosse, saremmo ancora prigionieri di un’opposizione, quel risultato verrebbe contrapposto al movimento da cui procede, e pretenderebbe di fissarsi, come momento isolato, nella sua verità di contro al falso. Ritorneremmo insomma al punto di partenza, ovvero all’opinione.

5. Finito e infinito Esaminiamo allora il senso in cui talune opposizioni determinate sono poste, partendo dalla coppia finito/infinito. Quest’ultima dovrà scriversi, se ci poniamo all’altezza della dialettica, non più come opposizione tra finito e infinito, bensì come opposizione tra due finiti. Conseguenza della fichtiana dottrina della scienza, così come di quelle filosofie che pretendevano di superare il sapere in direzione del non-sapere, era infatti la relativizzazione dell’assoluto e l’assolutizzazione del relativo, ovvero l’infinitizzazione del finito e la finitizzazione dell’infinito. Questi ultimi, in quanto fissati come opposti,

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limitano se stessi l’uno rispetto all’altro. Ma ciò significa che nell’opposizione l’uno è determinato solo in quanto si afferma di contro all’altro: se non vi fosse nulla cui contrapporsi, non vi sarebbero né opposizione né opposti. Ma ciò a sua volta comporta che l’uno è determinato attraverso, in virtù e a partire dall’altro, e viceversa: il finito in quanto opposto all’infinito, l’infinito in quanto opposto al finito. Poiché però in realtà, in quanto opposti, sono entrambi finiti, ciò che si afferma come infinità non è se non la permanenza del finito di contro e nonostante l’infinito. Il primo lato, che avrebbe dovuto costituire il finito, si dimostra dunque come il vero e proprio infinito; il secondo lato, che avrebbe dovuto esprimere l’infinito, si mostra invece come propriamente finito. Enunciando in proposizioni il risultato che si è conseguito semplicemente ponendo riflessivamente, o per sé, le determinazioni contenute implicitamente (ovvero in sé) da parte degli opposti, abbiamo che il finito è infinito, e l’infinito è finito. Le due determinazioni si sono infatti non soltanto dimostrate ciascuna opposta all’altra; bensì ciascuna si è dimostrata opposta in se stessa. L’una si è manifestata non essere se stessa, bensì l’altra a lei opposta; e viceversa. Ciascuna ha così dimostrato di essere in se stessa contraddittoria, e di togliersi nella sua opposta. Ciò che risulta dalla posizione dell’opposizione è dunque il toglimento dell’opposizione, poiché ciascuno dei membri di essa, mentre avrebbe dovuto affermarsi tramite l’esclusione, ovvero la non-identità con l’opposto, si mostra identico con questo, e differente o non-identico nei confronti di se stesso. Ciascuno implica la posizione dell’altro, ciascuno implica dunque la sua propria negazione. E poiché non si dà opposizione senza opposti, la stessa opposizione viene meno o, come dirà Hegel nella Logica, «va a fondo» (zu Grunde geht). Tuttavia, poiché il finito si nega in quanto finito, esso in pari tempo nuovamente pone l’infinito; e viceversa, poiché l’infi-

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nito si nega in quanto infinito, esso torna a sua volta a porre il finito. La negazione dell’opposizione rimette dunque in gioco i termini che in lei erano opposti; però non più in quanto opposti. Ciascuno dei due si è infatti dimostrato in se stesso contraddittorio, ciascuno dei due si è dimostrato identico con l’opposto. O meglio, ha dimostrato di poter essere identico con sé e differente dall’opposto soltanto in quanto non-identico con sé e identico all’opposto. Ciò che dall’opposizione finito-infinito propriamente emerge è dunque l’unificazione di entrambi, ma non più nella determinazione che ad essi spettava in quanto opposti. Come opposti, infatti, essi si sono tolti. Ma senza scomparire in niente, senza dar luogo allo zero che ci troveremmo di fronte se si fosse trattato di una semplice, reciproca elisione. Piuttosto, proprio in quel toglimento essi si sono reciprocamente posti, e dunque conservati. Ma appunto: non più come opposti, bensì in quanto elevati a unità più alta nella totalità che li comprende a suoi momenti. Con quest’ultimo termine, Hegel intende designare determinazioni particolari – ad es., qui, finito e infinito – quando esse vengono tolte dalla loro separatezza reciproca, e ricomprese entro un concetto più ampio. Di quest’ultimo, esse costitui­ scono allora aspetti parziali, però non più isolati e reciprocamente contrapposti, bensì esposti e colti in articolazione dinamica. Nel caso della relazione finito-infinito, tale fluidificazione degli opposti, il cui esito precipita nell’unità che li comprende al suo interno, ma non più in quanto opposti, è espressa da Hegel come concetto del vero infinito. Quest’ultimo è tale proprio perché mostra l’autotoglimento cui va soggetto il finito, sia in quanto si enunci come finito, sia in quanto si contrapponga un infinito che pure, finché gli resta contrapposto, è propriamente anch’esso finito. Il vero infinito presenta la contraddizione

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interna ai contrapposti, il loro risolversi l’uno nell’altro, e pone dunque l’unificazione a verità di entrambi.

6. Concreto e astratto Che il movimento di risoluzione del finito nell’infinito, e di quest’ultimo nel primo, benché presenti l’auto-negazione degli opposti non produca a suo esito il niente, bensì dia luogo a un concetto più articolato rispetto a quegli opposti stessi, Hegel lo esprime nella nozione del concreto. Quest’ultimo termine assume in lui il significato letterale del­ l’esser con-cresciuto, dell’esser-divenuto ciò che è in indissolubile unità con il suo altro. Il vero infinito è appunto tale proprio perché presenta nell’unità della loro reciproca implicazione, ovvero nella dinamica connessione che scaturisce dall’autotoglimento dell’uno nell’altro, quei due pensieri del finito e dell’infinito che pretendevano fissarsi l’uno indipendentemente dall’altro, l’uno di contro all’altro. L’irrigidimento nell’identità con sé, che ciascuno dei due pretende di affermare per sé, si scopre possibile soltanto a prezzo del toglimento di quell’identità, ovvero nella posizione dell’opposto e dell’identità con l’opposto: il finito è infinito, e l’infinito è finito. Quell’irrigidimento è dunque possibile soltanto negandosi, ovvero è impossibile, nel senso che le condizioni che lo rendono pensabile sono quelle stesse che ne esplicitano l’immanente contraddittorietà, e che dunque lo pongono, a rigore, come un già da sempre tolto. Viceversa, gli opposti che pretendono assolutizzarsi in quanto opposti sono da Hegel detti astratti. Tale termine non ha più a che fare soltanto con la generalità della vecchia logica, ma torna a esprimere in primo luogo il significato etimologico dell’esser-separato-da, dell’esser-tratto-fuori del determinato

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dalla connessione in cui si trova con l’opposto, e più in generale dalla relazione con altro. L’astrazione che qui si compie, è bene subito sottolinearlo, costituisce un momento interno ed essenziale alla stessa dialettica (e in seguito vedremo meglio perché). Tuttavia, essa rappresenta un momento, un aspetto indispensabile, sì, però parziale nello svolgimento dell’intero. Arrestarsi ad esso significherebbe assolutizzare il particolare, entrare dunque in contraddizione con la definizione stessa di quest’ultimo. Ogni particolare si può istituire in quanto tale solo negando ciò che esso non è, espellendo da sé l’altro e il diverso. Ma proprio perciò, lungi dall’esprimere autenticamente un positivo, esso è piuttosto carico di negazione, o come dice Hegel, un negativo. La proposizione di Spinoza: omnis determinatio est negatio viene perciò assunta e condotta alle sue estreme conseguenze dalla dialettica. Il particolare deve escludere da sé tutto ciò che esso non è. Ma in tal modo mostra di presupporre quell’escluso, rispetto e contro il quale esso si pone. Ponendo se stesso ed escludendo l’altro, esso pone l’altro ed esclude se stesso da sé. Ancora una volta, come già per l’opposizione finito/infinito, l’assolutizzazione di un particolare conduce alla contraddizione del particolare con se stesso, alla negazione di sé e alla posizione dell’altro. Voler preservare il particolare dalla negazione significa perciò contraddire il particolare, poiché quest’ultimo può porsi solo come negativo. Ma porsi come negativo implica la contraddizione del negativo con se stesso: ponendosi, il negativo vorrebbe affermarsi come positivo, come essente. Tuttavia, essendo negativo, esso si toglie nel momento stesso in cui si pone. Pensare il particolare in modo conseguente, ovvero senza contraddire il suo concetto, significa dunque proprio questo: pensarlo nella sua contraddizione con se stesso; mentre viceversa, separare il particolare dal processo che, ponendolo, lo toglie,

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isolarlo dalla relazione ad altro, vuol dire propriamente non pensarlo, ovvero presupporlo come positivo, senza riflettere alle implicazioni o alle condizioni che tale positività consentono di porre, e che la svelerebbero piuttosto come negativa. Certo, l’impiego hegeliano dei termini concreto e astratto non contraddice soltanto l’uso che di essi aveva codificato la logica tradizionale, bensì anche il significato ad essi ordinariamente attribuito. Concreto è infatti, per l’opinione, il singolo oggetto particolare, la cosa ricca di determinazioni e qualità che si manifestano alla percezione. Viceversa, alla multiforme pienezza di ciò che proprio per questo sarebbe concreto, l’opinione contrappone la deludente vuotezza dell’universale, sia esso di genere o di specie. Chi può, ad es., dicendo di qualcuno che egli è un uomo, pretendere di aver restituito ai nostri occhi, in questa determinazione, la molteplicità di azioni, pensieri, passioni, il cui legame vivente costituiva l’individuo nella sua irripetibile unicità? In fondo, perfino il: «Questo era un uomo» che chiude il Giulio Cesare di Shakespeare nulla ci dice dell’uomo qui in questione, se separiamo quella frase dallo sviluppo del dramma, che solo consente di coglierla nella sua inimitabile risonanza. «Uomo» è semplicemente un termine universale, valido per tutti gli esseri animati capaci di discorso e di riso, per Cicerone come per Plauto, per Bruto come per Antonio. Dalla dialettica dovremmo invece imparare a invertire l’uso dei termini, e a comprendere tale inversione non come un semplice rovesciamento, bensì piuttosto come un inveramento; e dunque anche come una trasformazione che non lascia sussistere i concetti nell’accezione che spettava loro in precedenza, poiché li svela nella loro verità. Astratto è perciò in Hegel qualunque particolare, sia esso determinazione concettuale, figura della coscienza, elemento della società civile e dello Stato, che pretenda di autonomizzarsi, separarsi, assolutizzarsi nell’indipendenza e nell’identità con sé: 1) traendosi-fuori dal processo

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di articolazione dell’intero; 2) svincolandosi dal rapporto col diverso e altro; e infine 3) fissandosi nell’eguaglianza con se stesso e nella differenza oppositiva a tutto ciò che esso non è. Ma come abbiamo visto: proprio questo «non» è indispensabile al particolare, proprio questo «non» costituisce ciò che lo determina. Il particolare è determinato; ma in quanto determinato è negativo, e in quanto negativo, è un tolto. Affermare il particolare significa esprimerlo nella determinazione ad esso propria, che lo dovrebbe appunto porre e conservare in quanto tale. «In quanto tale», ovvero: come distinto, perciò come un delimitato, perciò ancora come un finito e tolto. La dialettica cui va soggetto il particolare confluisce nella dialettica che abbiamo visto attuarsi nel finito, e viceversa. Ogni particolare è, in quanto determinato, ideale: così come il finito è, in quanto particolare determinato, un astratto e tolto.

7. L’universale come concreto Ma qui, i rovesciamenti della dialettica non sembrano poter avere fine. Perché se astratto è il particolare, dovrebbe risultare che concreto diventa l’universale. E questo appare senz’altro inaudito. Eppure, nell’asserzione che enuncia il vero come intero, non si tratta di dire poi molto di diverso; anzi, si afferma che proprio e solo l’universale può autenticamente pretendere alla concretezza, poiché soltanto esso si dimostra e si attua come totalità. L’universale è concreto, il particolare è astratto; allo stesso modo che il finito è ideale, e l’infinito reale. Tuttavia, come nel caso del finito e dell’infinito l’inveramento dei concetti ne implicava la trasformazione, rispetto al contenuto in essi antecedentemente veicolato, così lo stesso avviene per la relazione del particolare e dell’universale.

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Abbiamo visto come nel giudizio della logica formale il primo venisse sussunto dal secondo, e come tale sussunzione equivalesse a una dominanza dell’astratto (in quanto universale) sul concreto (in quanto particolare). D’altra parte, l’universale per contenere il particolare sotto di sé era costretto in pari tempo a escluderlo da sé, a non implicarlo cioè nella sua propria definizione; e ciò significava la ripristinazione del particolare come indifferente nei confronti dell’universale, e instaurava la dipendenza di quest’ultimo dal primo. Nel giudizio, ciò appariva come rapporto di sussunzione del particolare nei confronti dell’universale. Ora, proprio quell’esclusione del particolare dalla definizione che l’universale fornisce di se stesso comporta l’astrattezza dell’universale rispetto al primo, e anzi istituisce quell’universale in quanto tale. Se esso si facesse carico di proprietà ulteriori ed essenziali, perderebbe la generalità che gli consente di comparire in ciascuna definizione dei particolari compresi sotto di esso, senza viceversa dover contenere le differenze specifiche di questi ultimi nella propria. Perdendo la generalità, perderebbe l’universalità; procedendo dall’astrazione verso il concreto, si appiattirebbe progressivamente sulle determinazioni di quest’ultimo, precludendosi ogni possibilità di sussunzione. Ma osserviamo meglio: un universale che per affermarsi come universale deve escludere da sé il particolare non si afferma in fondo come particolare di fronte e contro a quei particolari che, per contenere sotto di sé, deve in pari tempo espellere da sé? In che modo il rapporto dell’universale col particolare può salvarsi, se impostato nel modo qui in questione, dal ricadere o in un rapporto di mera giustapposizione dell’universale e del particolare (ciò che allora non sarebbe neppure, propriamente, un rapporto, quanto una relazione di pura indifferenza, cui potrebbe porre rimedio solo l’arbitrio della soggettività conoscente), oppure in un rapporto di dominio e

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di violenza dell’uni­versale sul particolare, rapporto che anche in questo caso si confuterebbe in quanto tale, venendo a significare nient’altro che la forzosa subordinazione del secondo al primo? Così, l’universale della logica formale si mostra astratto non soltanto nel senso della generalità, bensì soprattutto in quello che il termine «astratto» assume nella dialettica. Per affermare la sua generalità, quell’universale deve; 1) escludere dalla sua definizione le differenze dei particolari; proprio perciò, 2) nella definizione del particolare, quelle differenze si trovano all’universale meramente giustapposte, ovvero poste-accanto ad esso, senza che ciò modifichi, trasformi o arricchisca né le prime, né il secondo; la relazione tra universale («animale») e proprietà specifica («razionale») è dunque solamente esterna o esteriore: sia l’«animalità», sia la «razionalità» entrano nella definizione dell’umano come nozioni già costituite, ovvero presupposte l’una indipendentemente e separatamente dall’altra; proprio perciò 3) quell’universale, benché generale, compare tuttavia nella veste di un particolare di contro a un altro particolare: «il concetto dell’universale […] è esso stesso la determinatezza dell’universale di contro alla particolarità […] in quanto opposto alla particolarità, è esso stesso un particolare» (Hegel 1804/05, p. 110; LM, p. 107). Ciascuno dei due si trova infatti fissato a prescindere dal rapporto con l’altro: nessuno dei due diviene ciò che è nell’unità con l’altro, bensì ciascuno dei due rimane ciò che era prima e indipendentemente dall’entrata in relazione. Ancora, una volta, ambedue non recedono dallo statuto di presupposti l’uno per l’altro; nessuno dei due si lascia in pari tempo porre a risultato del rapporto con l’altro. Ma allora: 4) il rapporto tra i due non è in realtà un rapporto, non risulta cioè dal dinamico confluire l’uno nell’altro. La congiunzione tra i due può aver luogo solo attraverso un ter-

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zo, il soggetto della conoscenza, che subordina ai suoi scopi il particolare all’universale, sussumendolo sotto di esso. Tale comprensione dell’uno nell’altro e sotto l’altro non perde perciò mai, se assunta in questi termini, le tracce di una violenza e di un’imposizione esercitate dal sapere su ciò che ricondotto nell’universale vien saputo, il segno del dominio astratto con cui lo spirito riconduce sotto di sé la natura, con cui il soggetto incessantemente aspira a soggiogare interamente a sé l’oggetto. Ma allora: 5) questo rapporto, poiché non è un rapporto, in luogo di condurre a unità, mantiene nella differenza, e anzi: poiché i differenti vengono costretti a entrare in una relazione che non è tale, essi si riproducono nell’estraneità e indifferenza reciproca, che li caratterizzava già da prima. La sussunzione dell’uno (particolare) sotto l’altro (universale), lungi dal togliere l’estraneità, non fa che accrescerla sino all’opposizione, al conflitto e all’inimicizia reciproca: un estraneo domina un estraneo; e ciò che dovrebbe apparire come legame vivente si esprime come aggregato di determinazioni morte, cui solo l’arbitrio del sapere fornisce la parvenza di una reciproca connessione. L’universale astratto si confuta in quanto universale, poiché si trova, in veste di particolare, posto di contro a un altro particolare. Quest’ultimo, viceversa, sembra affermarsi come il vero e proprio universale: ma così contraddice se stesso in quanto particolare, e confluisce in quell’opposto da cui appariva meramente sussunto, così come il primo era costretto a contraddirsi come universale, e a ricevere la determinazione del secondo. L’uno trapassa nell’altro, l’uno si pone e si toglie attraverso e in base all’altro: e ciò avviene da ambedue i lati. L’universale è il particolare, il particolare è l’universale: medesimo scambio, auto-negazione e posizione dell’altro che si enunciava in rapporto a finito e infinito. L’universale si toglie

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in quanto astratto, diventa esso stesso le determinazioni specifiche che prima escludeva da sé, per ritrovarsi ad esse meramente giustapposto nella definizione dei particolari. Ovvero ancora: l’universale si svolge nelle determinazioni particolari, è universale che processualmente pone i momenti che esso stesso di volta in volta diviene. Viceversa, il particolare si toglie in quanto particolare, però non più a opera di un universale ad esso estraneo e sovrapposto: la risoluzione del particolare si è infatti mostrata immanente allo stesso particolare. E tuttavia, quest’ultimo non si dissolve in niente, né scompare per lasciar di nuovo campo libero al dominio dell’universale astratto. Ciò in cui esso confluisce è in pari tempo ciò in virtù di cui si pone assieme e in unità con l’altro. Proviamo dunque a tirare le fila di questo movimento dei concetti. Dal lato dell’universale, emerge che quest’ultimo consiste in senso proprio nel processo, che pone e simultaneamente toglie dall’isolamento i suoi momenti; dal lato del particolare, che esso non sussiste se non in quanto compreso, esposto, coinvolto nel processo che lo toglie in quanto astratto, per propriamente porlo nella sua verità in quanto membro fluido dell’intero. Ora, con tale reciprocità del passaggio dell’universale nel particolare, e viceversa, non facciamo altro se non enunciare la teoria dialettica del concetto, ovvero la concezione hegeliana secondo la quale quest’ultimo è Universale concreto: universale, in quanto movimento complessivo di determinazione, nel duplice senso per cui esso si svolge ponendo le differenze, e dallo svolgimento si ripristina in identità con sé, poiché quelle differenze comprende come momenti particolari di un unico intero; concreto, poiché non si arresta alla generalità dell’astratto, non si contrappone al particolare, bensì quest’ultimo pone a determinazione sua propria, ovvero: attraverso lo svi-

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luppo immanente al particolare, perviene allo sviluppo e alla dinamica attuazione di se stesso. Così, come in esso è risolta la contraddizione tra universale/ astratto e particolare/concreto, altrettanto superata è quella di finito e infinito, e in generale conciliate appaiono tutte le opposizioni che vengono a prodursi, quando gli opposti pretendono di fissarsi in quanto opposti. L’Universale concreto realizza così la nozione hegeliana del vero infinito, poiché, dissolvendo le finitezze nel momento stesso in cui le pone, attua se stesso come movimento diveniente di specificazione progressiva: ovvero come processo che produce e che riprende in sé le determinazioni in cui si articola, esponendosi nella pienezza dei suoi contenuti, e organizzandosi in tal modo a intero. L’Universale concreto è il vero infinito, e il vero infinito è l’Universale concreto: ambedue queste proposizioni dovremo dunque imparare a udire, quando alla nostra lettura vedremo apparire, in figura trionfante e risolutiva, il termine hegeliano del Begriff.

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Capitolo VI

Metafore di Aufhebung: Goethe, Hegel e le piante

1. Senso della metafora Goethe, dicevamo, amava le piante. Sembrerebbe di poter dire lo stesso anche di Hegel, visto che proprio allo sviluppo della pianta egli impronta la metafora, che dovrebbe esemplificare all’opinione ciò di cui si tratta nell’Aufhebung: La gemma scompare quando sboccia il fiore, e si potrebbe dire che quella viene confutata da questo; altrettanto il fiore vien dichiarato dal frutto un’esistenza falsa della pianta, ed esso subentra al posto di quello come verità di quest’ultima. (cpv. 2; PH 10, F 2)

In che cosa lo sviluppo della pianta appare istruttivo rispetto all’opinione? Hegel ce lo spiega immediatamente: Queste forme non solo si distinguono, bensì anche si scacciano come incompatibili l’una con l’altra. Ma la loro fluida natura ne fa in pari tempo momenti dell’unità organica, in cui esse non soltanto non si combattono, bensì l’una è altrettanto necessaria dell’altra; e soltanto questa eguale necessità costituisce la vita dell’intero. (ibidem)

Il termine Aufhebung non compare nel testo. Ma ciò rende questo brano tanto più adatto a illustrarne il contenuto concet-

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tuale, in quanto in esso appaiono tutti gli elementi che hanno accompagnato le nostre delucidazioni sino a ora. Innanzitutto, ricordiamo il contesto della metafora. Si tratta di rettificare ciò che l’opinione intende per «diversità» riguardo a differenti sistemi filosofici. Poiché si fonda sulla contrapposizione del vero e del falso, essa in quella diversità non sa intravedere se non un rapporto di contraddizione, cioè di reciproca confutazione: se l’uno è vero, l’altro non può non esser falso; e viceversa. Così l’opinione ragiona perché, come abbiamo visto, per lei tertium non datur. Ora, poiché l’opinione considera concreto ciò che ad essa si manifesta nella percezione, Hegel fa leva su di un fenomeno che alla percezione dovrebbe perlomeno essere noto, per mostrare quanto sia astratta la concezione che l’opinione ha sui rapporti del vero e del falso, e a fortiori sulle relazioni intercorrenti tra sistemi filosofici. E tuttavia, è evidente che la posta in gioco, nella metafora che impiega Hegel, è ben più alta. Poiché la pianta è assunta a simbolo stesso della vita nel suo sviluppo organico, mostrare, in riferimento a tale processo, l’inadeguatezza dei presupposti dell’opinione sul vero e sul falso significa mostrare che quegli stessi presupposti rendono impossibile cogliere la vita, e dunque tanto meno sono atti a comprendere una verità, che della vita stessa voglia rappresentare la manifestazione più alta. Viceversa, esemplificare con una metafora tratta dal regno dell’organico che quest’ultimo si sviluppa e diviene proprio secondo quelle modalità, che abbiamo visto proprie del Concetto, significa introdurre nell’opinione medesima il germe della concezione dialettica, promuovere dunque l’innalzamento della coscienza, di noi lettori, dall’opinione verso il sapere. Tanto più che noi, lettori della Vorrede, per comprendere appieno la portata della metafora, abbiamo dovuto anticipare

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il decorso della Vorrede stessa, ovvero essere già in possesso del sapere, che solo in seguito quest’ultima presenterà come Concetto e determinazioni del Concetto. In un certo senso, abbiamo dovuto leggere Hegel facendo finta di essere Hegel: ovvero sapendo già ora quello che Hegel sapeva già quando scriveva questa metafora; quando assegnava a quest’ultima la funzione di anticipare, per l’immaginazione, ciò che la Vorrede, ma più propriamente il «sistema della scienza» nella sua interezza, avrebbero poi scientificamente dimostrato a una coscienza che adesso, alle prime battute di una «prefazione», si tratta ancora di coltivare e di preparare a quel baccanale che è la dialettica. Il corteo dionisiaco dei concetti difficilmente potrebbe non suscitare, altrimenti, resistenze e timori da parte di quella, che Hegel forse riteneva troppo abituata a esser sobria – da troppo tempo a proprio agio nelle distinzioni, così chiare e salde, che si portavano nell’opinione a evidenza. Tuttavia, per mostrare a quest’ultima che la contraddizione, così com’essa la intende, vien confutata già solo osservando il ciclo vegetale della pianta, egli è costretto a intendere l’organico alla stregua del suo concetto dialettico, a proiettare su di esso la confutazione come modalità immanente di sviluppo della pianta stessa. Egli viene così a presupporre a sua volta il suo concetto del Concetto; e chi non fosse già preliminarmente convinto della verità di questo, difficilmente forse si lascerebbe persuadere dall’andamento della metafora che lo illustra. «Si potrebbe dire», avverte Hegel. Che cosa? Che il fiore sia la confutazione del boccio. Ma proprio in tale avvertenza distanziante, che invita a non prendere troppo alla lettera i termini impiegati, egli svela l’astuzia (cfr. cpv. 54; PH 40, F 45) con cui cerca di veicolare nella coscienza il punto di vista della dialettica: quasi che quest’ultima, in fondo, non prendesse del tutto sul serio ciò che dice, e la coscienza potesse dunque convincer-

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si della sua verità senza eccessivi turbamenti. Tranquillizzato da quel: «si potrebbe dire», il lettore dovrebbe dunque restare persuaso che, poiché il concetto speculativo non intende davvero sostenere quanto enuncia, egli potrebbe consegnarsi alla metafora in quanto semplice metafora, distinguendo le scansioni di essa dalla pretesa d’identificarsi con la realtà, che quel concetto dichiarerebbe appunto meramente metaforica. Ma proprio allora la coscienza si troverebbe espugnata. La dialettica, una volta che vi si sarà introdotta sotto le sembianze della metafora, mostrerà infatti sin troppo presto di prendere sul serio sé e quest’ultima, e d’intendere proprio ciò che dice. Nella coscienza, essa sarà ormai penetrata come l’infezione di cui Hegel scrive quando tratta della diffusione del rischiaramento illuminista. Il Concetto, che con l’astuzia s’impadronisce del lettore e della sua opinione, non avrà poi più bisogno di mascherarsi con un «si potrebbe dire»; e al travestimento dell’immagine sostituirà direttamente, polemizzando con chi sostiene che «l’assoluto non dovrebbe essere concepito, bensì sentito e intuito» (cpv. 6; PH 12, F 5), la «necessità, che freddamente progredisce, della cosa [die kalt fortschreitende Notwendigkeit der Sache]» (cpv. 7; PH 13, F 6; per gli obiettivi concreti della polemica, cfr. A 484).

2. Mostruosità della metafora Eppure, non tutti i lettori vennero presi alla sprovvista sull’effettiva portata di questa metafora. Uno fra questi, Goethe, protestò con particolare veemenza contro il procedere hegeliano, e non è poco istruttivo, per noi, leggere nuovamente le sue parole: È impossibile dire qualcosa di più mostruoso [etwas Monströseres]. Voler distruggere l’eterna realtà della natura mediante

83 uno scherzo sofistico di cattivo genere mi sembra assolutamente indegno di un uomo ragionevole […]. Quando […] un eminente pensatore – il quale penetra un’idea e ben sa che cosa valga in sé e per sé e qual maggior valore essa acquisti allorché esprime un prodigioso [ungeheures] processo naturale – è proprio colui che si trastulla a travisarla in maniera sofistica, a negarla e a distruggerla mediante parole e frasi che artificiosamente si negano a vicenda, non si sa che cosa dire.1

L’identificazione del concetto speculativo col divenire organico della natura, che Hegel voleva impiegare a dimostrazione della vitalità del primo, viene al contrario intesa da Goethe come distruzione, da parte della dialettica, della natura e della sua «eterna realtà». Il giudizio appare tanto più aspro, in quanto Goethe riconosce a Hegel lo statuto del pensatore «eminente», ovvero del filosofo «che penetra un’idea e ben sa che cosa valga in sé e per sé». Quindi, benché non sia questo il luogo per approfondire la nozione goethiana dell’idea nella sua differenza da quella speculativa di Hegel, possiamo osservare che, nella metafora della Vorrede, Goethe sembra rilevare l’idea della natura come sviluppo organico e tutto vivente. E in effetti, Hegel stesso parla della pianta come di una «unità organica», nel ciclo del cui divenire si attuerebbe «la vita dell’intero». Tuttavia, il riconoscimento della profondità di questo pensiero sembra pronunciato apposta per meglio farne risaltare la distanza da colui che nella Vorrede lo enuncia. Infatti, benché Hegel colga l’idea e «il prodigioso processo naturale» che essa esprime (evidente riferimento alla nozione di metamorfosi, che Goethe formulò e pose alla base delle sue ricerche

1.  J.W. Goethe, lettera a Seebeck del 28-09-1812, cit. in K. Löwith, Von Hegel zu Nietzsche. Der revolutionäre Bruch im Denken des neunzehnten Jahrhunderts, Kohlhammer, Stuttgart 1988, p. 26; tr. it. di G. Colli, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Einaudi, Torino 1977, p. 36.

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naturalistiche), egli non riesce tuttavia a conservarla intatta, e anzi, con procedimento «indegno di un uomo ragionevole», si trastullerebbe «a negarla e a distruggerla». Goethe in proposito termina confidando di non sapere «che cosa dire»: perché un conto sarebbe non vedere l’idea da parte di uno scienziato troppo immerso in indagini empiriche; ma inspiegabile appare il comportamento di un uomo che tale idea ha colto e inteso nel suo valore, e che ciononostante la nega, assieme a lei distruggendo «l’eterna realtà della natura», che dell’idea è concreta apparizione, e dalla quale quindi è inseparabile. Eppure, in questo finale ammutolimento, la lettera perviene forse alla sua eloquenza più limpida, poiché, nel silenzio che le avvolge, con tanta maggior nitidezza possono risonare le parole con le quali Goethe enuncia e sa dire «che cosa» uccide l’idea: «parole e frasi che artificiosamente si negano a vicenda», e dalle quali l’idea viene abbassata, da espressione di un «prodigioso processo naturale», a pretesto per un indegno «scherzo sofistico». Scherzo sofistico: questo e null’altro sarebbe la dialettica hegeliana. E non va trascurato nemmeno il giudizio estetico che Goethe pronuncia nei suoi riguardi, quando a tale scherzo egli nega persino la qualità del buon gusto, che dovrebbe contraddistinguere il motto di spirito ben riuscito. Il cattivo gusto dello scherzo hegeliano consiste nel fatto che esso non soltanto non si presenta come uno scherzo, bensì si esercita proprio su quell’«eterna natura», nella quale per Goethe trovano comune radice la verità e la bellezza, la conoscenza e la poesia. Proviamo dunque a esaminarla più da vicino, la mostruosità di questo umorismo filosofico. Hegel intende la vita dell’organismo vegetale come un processo di reciproca confutazione,

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in cui un elemento dichiarerebbe all’altro d’esser falso, per far emergere come verità di tutti l’eguale necessità, che da un lato spinge ciascuno a negarsi e a togliersi in quanto momento isolato e astratto (primo significato dell’Aufhebung); mentre dall’altro produce e pone, proprio in virtù della contraddizione cui quello soggiace, il momento ulteriore che lo supera, ovvero anche: in cui quel primo si supera (secondo significato dell’Aufhebung). Ma osservando meglio, non soltanto il secondo momento soggiace a sua volta a un analogo processo di confutazione, in cui esso si toglie e vien superato da un terzo (oppure, se preferiamo assumere il punto di vista di quest’ultimo: in cui questo terzo lo toglie e lo supera); bensì anche, e soprattutto, in questo terzo i primi due sono condotti al loro compimento, ovverosia elevati a una forma di esistenza più alta che li conserva, trasformati, al suo interno (terzo significato dell’Aufhebung). Il terzo sarebbe dunque la verità del secondo, così come que­ st’ultimo lo era stato rispetto al primo. Esso infatti risulta da un processo di confutazione, che avendo dimostrato falsi i primi due, soltanto in questo terzo lascia emergere la loro verità. Eppure, nemmeno il terzo sarebbe senza quei due falsi. Dire che esso è risultato significa dire che esso sorge in virtù di un processo che non potrebbe compiersi affatto senza di loro. È giusto dunque intendere quel terzo come la verità del primo e del secondo; giusto perciò pure interpretarlo come attuazione della meta cui quel movimento di sviluppo finalmente perviene. Ma proprio in quanto è risultato e meta, esso non può prescindere dal processo che lo produce, la sua esistenza è quella vera soltanto in quanto frutto di un movimento che lo pone a esito finale, e dunque in esso si raccoglie in unità con sé. Perciò, da un lato, il terzo si afferma come la verità del processo, poiché in lui quest’ultimo perviene a realizzarsi come

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nel suo risultato; e in tal senso, Hegel può dire che il vero è «essenzialmente risultato» (cpv. 20; PH 19, F 15). Dall’altro, tuttavia, in questo essenzialmente dobbiamo intendere che al vero, in quel terzo, manca ancora qualcosa per esser non soltanto «essenzialmente» vero, bensì per esserlo realmente ed effettualmente. Ma ciò che manca è proprio il processo da cui quel terzo scaturisce, e privato del quale il risultato non assume aspetto diverso da quello del cadavere, cui viene equiparato nel capoverso successivo. Per vero, allora, la filosofia non potrà intendere né il risultato senza processo, né il processo senza risultato. Nessuno dei due rappresenta infatti, da solo, il diveniente movimento della vita, ovvero il processo, orientato all’attuazione di uno scopo, che consente a quella di organizzarsi in un intero, così come all’organismo permette di dinamicamente riprodursi: la cosa non è esaurita nel suo scopo, bensì nella sua attuazione, né il risultato è l’Intero effettuale, bensì quel risultato assieme al suo divenire; lo scopo per sé è l’universale non vivente, come la tendenza è il mero slancio, che manca ancora della sua realtà; e il nudo risultato è il cadavere, che ha abbandonato la tendenza dietro di sé. (cpv. 3; PH 11, F 3)

In relazione al vero e al falso, ciò comporta che quanto di essi pensa l’opinione contraddice il fenomeno del vivente, è inadeguato a coglierlo sia come organizzazione, sia come organizzazione diveniente. Allora, se la rigida opposizione del vero e del falso altrettanto rigidamente si oppone alla comprensione dell’organico, si tratta di sciogliere quei due pensieri fissi e irrigiditi, di togliere anch’essi dall’astrazione della loro nonverità. E così come la gemma e il fiore si sono dimostrati falsi, ma non sono stati semplicemente annullati, bensì, benché certo non più nella forma di gemma e di fiore, si trovano nel frutto conservati ed elevati a esistenza più compiuta; altrettanto «il falso, non più come falso, è un momento della verità» (cpv. 39; PH 31, F 32).

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In una lettera scritta una ventina d’anni più tardi, poco dopo la morte di Hegel, pur esprimendo rincrescimento per la scomparsa di colui che chiama guida e amico, Goethe, in tono di calma allusività, rispettosa di ciò che ormai si è compiuto per sempre, non rinunzia a nominare la distanza che separava la sua visione da quella del primo: «Il fondamento della sua dottrina rimase fuori del mio orizzonte»2. Tuttavia, difficilmente Goethe avrà dimenticato che proprio quel «fondamento», mascherato da fenomeno vegetale, aveva attraversato il suo orizzonte, e che proprio quel «fondamento» egli aveva giudicato mostruoso. In quella tarda formulazione, sembra appena risonare una flebile eco del giudizio che egli portò una volta sulla Vorrede. Eppure, a ben vedere, quella prima valutazione risulta confermata quasi alla lettera, come se si fosse trattato di rispondere a una domanda, privata dalla morte di parola, su che cosa potesse rimanere di quelle «parole e frasi che artificiosamente si negano a vicenda»… Soltanto ancora una lontana risonanza nel ricordo, come una disputa sofistica i cui argomenti, lungi dal conservarsi in forma superata, non le sarebbero sopravvissuti, poiché già allora, al tempo della loro prima apparizione, avevano soltanto potuto negarsi a vicenda. Il cielo che se ne trovò attraversato una volta, oscurato dalla nube passeggera dell’indignazione per l’enormità della distruzione che ivi si andava compiendo, torna sovranamente a rischiararsi; ma non perché esso debba esercitare, nei confronti di quel susseguirsi di confutazioni, un’ulteriore confutazione, che lo coinvolgerebbe nel processo senza fine di quelle. Tali confutazioni si confutano da sé. Perché dileguino all’orizzonte, è sufficiente che si svelino per ciò che sono all’occhio che le coglie, nella mancata originarietà 2.  Cit. in K. Löwith, Von Hegel zu Nietzsche, cit., p. 14; tr. it. cit., p. 23.

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della loro astrattezza, con la medesima sicurezza con la quale intuisce, nella concretezza irriducibile del fenomeno, la manifestazione originaria dell’idea. Questo occhio, sollevato dalla fatica di ricondurre l’idea all’«artificiosa» lingua del Concetto, può ben sottrarsi all’esercizio che richiedono, per non precipitare, le acrobazie speculative dell’Aufhebung. Tuttavia, è sintomatico che per imputare d’indegnità la dialettica, Goethe misuri quest’ultima in relazione a quanto invece sarebbe «degno» di un uomo ragionevole. Anche qui, naturalmente, si tratterebbe di precisare meglio il senso di questo vocabolo nell’universo goethiano. Ma per i nostri scopi, è sufficiente osservare come, nel testo della prima lettera, la ragionevolezza dell’umano sia chiamata in causa, da un lato, in rapporto alla concezione goethiana dell’idea; dall’altro, contrapposta alla sequenza di affermazioni contraddittorie che non solo si negano a vicenda, ma che in quanto vengono proiettate sulla natura medesima, distruggono anche quest’ultima e la sua «eterna realtà». Hegel sofista: questo il verdetto goethiano, ridotto allo scheletro di una nominazione filosofica. E alle sofisticherie della dialettica, con le sue affermazioni che ora si pongono, ora si tolgono, si tratta di contrapporre la ragionevolezza di colui che, una volta colta l’idea, non torna poi a negarla e a contraddirla. Come si vede, in questa goethiana ragionevolezza non è in gioco semplicemente l’appello al «buon senso comune», bensì il riconoscimento dell’idea e della sua inseparabilità dal «prodigioso processo naturale» che essa «esprime». E notiamo che in Goethe, benché sia lecito dire, come noi abbiamo fatto sopra, che nella concretezza del fenomeno si manifesta l’idea, tuttavia qui egli rovescia la formulazione, e indica nell’idea l’espressione di un «prodigioso processo naturale», non, viceversa, in quest’ultimo l’espressione di quella. Anzi, il fatto che l’idea sia espressione della natura e della sua «eterna realtà»

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fa acquistare all’idea tanto «maggior valore»; non è dunque la natura che lo acquisterebbe, solo perché l’idea perviene, in essa, all’apparire. Qui possiamo misurare la distanza che separa il recupero goe­ thiano dell’idea da ciò che, perlomeno a partire da Nietzsche, s’intende di consueto per «platonismo», ovvero la separazione dell’universo dell’essere in due «mondi»: l’uno dei quali, quello del sensibile (o materiale), sarebbe luogo del disvalore, del falso e del caduco; mentre l’altro ad esso opposto, quello del sovrasensibile (o intelligibile), sarebbe sede del valore, del vero e dell’eterno. La ragionevolezza cui Goethe sembra ingenuamente appellarsi mostra così di essere tutt’altro che ingenua. Al contrario, è la verità della visione sua propria che egli, nell’intuitiva evidenza di quel termine, vorrebbe porre in luce, contrastandone magari l’essenziale semplicità con le complicazioni, artificiose e negative, della sofistica hegeliana. La concezione goethiana non andrà dunque commisurata semplicemente all’appello che egli pronuncia quando si tratta di prevenire, se non di radicalmente respingere e scongiurare, i guasti distruttivi della dialettica. Tuttavia, resta per noi altamente significativo che persino Goethe, quando l’umorismo senza buon gusto del Concetto ne attraversò l’orizzonte, da un lato ritenne di non poter sostenere la sua concezione, contro di esso, senza citare quella ragionevolezza in suo favore; dall’altro si trovò a far leva su un argomento, che già la Vorrede aveva definito «una parola d’ordine del senso comune contro la ragione coltivata»: quello che l’accusa di produrre solo «sofisticherie [Sophistereien]» (cpv. 69; PH 47; F 58).

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3. Monstrum e negativo Il nocciolo negativo della dialettica non rimase dunque sconosciuto a Goethe. Ma nonostante la penetrazione del suo sguardo, e l’assertoria perentorietà del suo giudizio, egli non scoprì un elemento rimasto celato alla consapevolezza di sé, che la dialettica raggiunse in Hegel. Non sappiamo se egli, nel definire «mostruosa» quest’ultima, impiegasse il termine monströs per contrapporre l’elemento dello stravolgimento deformante a quello del prodigio, che suscita ammirata meraviglia, e che riserva al divenire naturale chiamandolo ungeheures. Certo è che la matrice latina che in quel mostruoso si esprime lascia trasparire un’articolazione più complessa, addirittura forse una contaminazione tra i due opposti significati che Goethe, a dispetto della dialettica, intende accuratamente separare quando li ripartisce in termini distinti. Monstrum appare infatti parola capace di veicolare sensi diversi, eppure tutti radicati in quello, fondamentale, di ciò che appare prodigioso poiché si manifesta in modi e forme che cadono al di fuori di una regolarità e di un ordine che non sono sanciti per mera convenzione, bensì piuttosto si trovano inscritti nella natura e nella sua «eterna realtà». Tuttavia, per significare l’evento portentoso, che si realizza in maniera straordinaria, esso deve in pari tempo designare ciò che rompe la misura, che infrange il limite stabilito. L’aspetto che nel monstrum vincola la natura al divino è perciò inscindibile da quello che la fa sconfinare in direzione opposta, nel campo a varianza indefinita del mostruoso e delle sue illimitate aberrazioni. Definendo prodigiosa la regolarità della metamorfosi, Goethe cerca di coniugare normatività della natura e straordinarietà del monstrum. Tuttavia, poiché quest’ultimo accompagna, all’ungeheuer del prodigio, il monströs del suo gemello deformato, quella normatività si trova sempre esposta al pericolo di

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subire l’assalto, per essa devastante, del mostruoso, nel quale il monstrum come portento si contrappone a se stesso nella figura dell’irregolarità selvaggia, che potrebbe allora indifferentemente presentarsi come anomalia scaduta al di sotto, o pretenziosamente protesa al superamento eccedente, della norma che fissa la debita proporzione, all’interno della quale soltanto dovrebbe essere possibile e lecito, per qualsivoglia ente, stabilirsi, esistere, divenire in maniera conforme alla natura e all’idea che la esprime. Che tali infrazioni avvengano verso l’alto o verso il basso, volontariamente o meno, la rottura della regolarità e del suo ordine porta con sé, in pari tempo, l’oltraggio deformante di ciò che viene percepito come bello. Anzi, forse è proprio la bellezza che si trova, nel monströs, soggetta a più crudele distruzione. Di qui, lo statuto incerto della meraviglia che suscita il monstrum. Essa oscilla infatti dalla semplice attrazione esercitata su chi fa parte di un ordine da tutto quello che, trovandosene fuori, appare inconsueto e strano, al rafforzamento dei meccanismi di esclusione dall’ordine medesimo di ciò che comunque, con la sua esistenza di altro, ne può rappresentare ora una minaccia, ora forse ancor più terribilmente lo specchio abbruttito, in cui quello non vuol vedersi riflesso per timore di riconoscervi la propria verità. In ogni caso, a partire dal significato di portento e prodigio, il latino monstrum sembra condurre in tedesco alla scissione dei suoi opposti significati in due termini distinti, che sono quelli impiegati da Goethe. In questo senso, esso costituirebbe un’irregolarità e un’eccezione anche rispetto alla teoria hegeliana del linguaggio, che riservava al tedesco la prerogativa dell’uni­ficazione in uno stesso termine di significati contraddittori, e riteneva il latino più adatto a enunciare le distinzioni della riflessione.

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Dell’accezione che del monstrum latino finisce nel tedesco monströs, tuttavia, lo stesso ungeheuer sembra recar traccia nel significato, che pure gli è proprio, dell’enorme e dell’enormità. Anche quest’ultima, infatti, può istituirsi solo a partire dalla rottura di una proporzione che si sia affermata come normale. A sua volta, l’enorme qui in questione si troverebbe anch’esso collocato all’incrocio tra senso proprio e improprio, laddove in tal caso, se dislocato cioè sul versante intellettuale e morale, verrebbe a connotare negativamente sia l’azione che infrange la norma consacrata, sia il discorso che va contro la ragionevolezza (ora del senso comune, ora di una specifica teoria). In questo caso, l’«enormità» in questione non sarebbe allora più tanto distante dalla «mostruosità», che Goethe scorge nel trattamento hegeliano dell’idea. Non sappiamo se Goethe abbia mai terminato di leggere la Vorrede, se sia mai riuscito a superare il disgusto e il rigetto che gli erano stati suscitati dalle sofisticherie della dialettica, quando quest’ultima aveva osato impiegare a suo sostegno la vita delle piante. Non sappiamo dunque nemmeno se quel monströs, con cui egli, inorridito, la respinse, non volesse contrastivamente richiamare un’altra forma di ungeheuer, stavolta presente nel testo hegeliano. Perché è vero, la dialettica non restò cieca nei confronti della distruzione insita in essa, che con quel mostruoso gli veniva rinfacciata. Solo che Hegel scelse a designarla proprio la parola che Goethe aveva riservato alla natura e negato alla dialettica. Nella Vorrede, avviene così uno scambio che in prospettiva goe­thiana non potrà non apparire anch’esso «mostruoso». Ungeheuer qui designa infatti proprio ciò che nella lettera di Goethe comparirà nelle vesti del monströs, ovvero il «cuore di tenebra» pulsante come motore dell’Aufhebung, e che Hegel scoprì nella «prodigiosa ed enorme potenza del negativo [die ungeheure Macht des Negativen]» (cpv. 32; PH 27, F 26).

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Quando si tratterà di vedere quest’ultima all’opera, l’occhio del poeta ci avrà resi comunque avvertiti del monströs attivo in essa, aiutandoci a evidenziare un aspetto che, già ampiamente effettuale nel testo hegeliano, quest’ultimo non aveva osato, a sua volta, chiamare col suo vero nome.

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Capitolo VII

Forma proposizionale e contenuto filosofico

1. Modi dello stile Ma arrestiamoci un attimo. Poiché non siamo ancora in grado di comprendere in tutta la sua portata la potenza del negativo, e un certo tratto di strada ci separa dal poter adeguatamente chiarire la funzione, ad esso collegata, dell’intelletto (Verstand), torniamo al punto di partenza. Come si ricorderà, in fondo si doveva trattare, per Hegel, di criticare la concezione abituale che si aveva sulla «prefazione» di uno scritto filosofico. Noi stessi eravamo diligentemente partiti scandendo la divisione per temi e capoversi, mostrando l’intenzione di fornire una «introduzione» la più lineare e diritta possibile. Ma Hegel, come sappiamo, non prediligeva la linea retta. In accordo con molti filosofi prima di lui, egli privilegiò il circolo, in cui tutti i punti della circonferenza sono equidistanti dal centro e dove, da ogni punto si parta, ad esso pure si ritorna. Il centro ne governa la disposizione, trattenendo a sé la circonferenza con gli invisibili legami d’infinite ed egualmente lunghe linee rette. Tuttavia, andando distrutta la circonferenza, neppure quel centro potrebbe più affermarsi come tale.

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Tornerebbe a essere un altro degli infiniti e indifferenti punti che costellano lo spazio. Allo stesso modo accade, in Hegel, per lo stile, e in particolare proprio in questa prefazione. In essa, egli si accinge a presentare un unico proposito e un’unica meta: quelli di trasformare in maniera compiuta la filosofia in «sistema della scienza». Tuttavia, infinite sono le linee che da questo centro si dipartono e in esso egualmente ritornano, cosicché il lettore si trova a dover fare i conti col vero e col falso, con l’universale e il particolare, col concreto e l’astratto. Quando crede di potersi finalmente ristorare con una metafora, è costretto a interrogarsi sulle capriole dell’Aufhebung; e quando, ancora prima, legge che l’ana­tomia, rispetto alla filosofia, si adatterebbe meglio a essere argomento di conversazione, si accorge che la posta in gioco è quella della concezione del sistema, della vita e dell’organico. Il concetto dialettico e speculativo della verità entra in campo da subito, prima ancora che la coscienza sappia propriamente di che cosa si tratta. Ma procedendo nella lettura, essa comprende che proprio questo è l’andamento più conforme alla «natura della cosa», poiché quest’ultima è già sempre tutta nel momento, così come questo, viceversa, non può essere inteso nella sua verità senza tener conto dell’intero che lo comprende. Così, nella struttura di questa Vorrede hegeliana, lo Hen kai Pan che realizza il tutto nell’uno, e l’uno nel tutto, si trova espresso in forma di scrittura. L’articolazione discorsiva, le scansioni tematiche e argomentative rimandano a tutto quanto è stato detto prima e sarà detto dopo. Con ciò, esse presentano il tutto, poiché l’intero è tutto nel momento, e non anela a liberarsi dalla distinzione. Esso ricadrebbe altrimenti nell’inar­ticolato e prelinguistico, con le conseguenze che andremo a approfondire quando riprenderemo la critica hegeliana al non-sapere, all’intuizione, al sentimento come «organi» adeguati per il coglimento dell’assoluto.

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La scommessa di Hegel consiste nel sostenere ed effettualmente enunciare la presenzialità del tutto attraverso l’articolazione in distinzioni. Ogni determinazione contiene in sé il Concetto ed è tutto il Concetto; ma l’esser posta in quanto determinazione contraddice il tutto, che in essa pure si esprime. Di qui il movimento «sempre crescente» dello svolgimento in distinzioni, col superamento di ciascuna di queste nell’intero, che attraverso quelle e in quelle si realizza e si espone.

2. Quante volte bisogna leggere la Vorrede? Come abbiamo detto, nella Vorrede tutto ciò assume l’aspetto di argomenti che s’inseguono da un capoverso all’altro, ora esprimendosi in forma brachilogica, cioè nella misura in cui lo renda necessario presentare, in quel frangente, tutto il movimento del Concetto; ora in maniera più distesa e ampia, poiché l’intero è giunto finalmente a «indugiare» in essi. Probabilmente, Hegel aveva già in mente quali critiche gli sarebbero state rivolte come scrittore, se non altro perché ne era già stato fatto bersaglio in rapporto ai saggi jenesi. Ciò emerge con chiarezza nel cpv. 63, laddove egli menziona il «rimprovero, così spesso rivolto agli scritti filosofici, che occorre leggerne più volte molte parti, prima che queste possano venir capite» (PH 44, F 53). Quanto egli fosse egualmente lontano sia dal considerare il sapere privilegio di pochi, sia dal considerarlo perciò alla portata immediata di chiunque provi per esso curiosità o interesse, lo mostra il seguito, quando ironicamente precisa che quel rimprovero «dovrebbe contenere qualcosa di sconveniente e di definitivo, in modo tale che, se fosse motivato, non consentirebbe più alcun discorso contrario» (ibidem).

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Qui, Hegel non intende soltanto difendere lo stile di una scrittura in quanto sarebbe a lui peculiare. Non è in gioco la dignità di un autore, ma lo statuto che il linguaggio assume nei confronti del Concetto, in altri termini: la maniera con la quale il contenuto filosofico perviene a rappresentazione nel linguaggio. Questo è il problema dello stile o del carattere della scrittura filosofica, questo è il punto all’altezza del quale l’opi­ nione lamenta la «difficoltà» che si proverebbe nel capire un libro di filosofia. La filosofia, in quanto si espone linguisticamente, non può non esprimere il suo contenuto entro la forma proposizionale. Ma proprio tale forma appare inadeguata alla presentazione del contenuto speculativo. Nello scontro tra il contenuto e la forma della proposizione che legge, l’opinione resta confusa, e per comprendere adeguatamente ciò che nella proposizione si era inteso, è costretta a rileggerla e a ri-meditarla sulla base di quanto nel frattempo è stato esposto: La proposizione filosofica, poiché è proposizione, risveglia l’opi­nione del rapporto abituale del soggetto e predicato, e del comportamento consueto del sapere. Il contenuto filosofico della proposizione distrugge questo comportamento e la sua opinione; l’opinione esperisce che s’intendeva altrimenti da come essa intendeva; e questa correzione della sua opinione costringe il sapere a ritornare sulla proposizione e a comprenderla, ora, diversamente. (ibidem)

Quale sarebbe il «rapporto abituale» tra soggetto e predicato a cui si riferisce Hegel? Che cosa dobbiamo intendere per «comportamento consueto del sapere»? Proviamo a pensare come avviene la formazione di una proposizione, in cui a un soggetto si attribuiscono dei predicati. Generalmente, si presuppone di possedere un’idea, per quanto vaga e generale, del soggetto in questione. Visto che si tratta di filosofia, poniamo che questo soggetto esprima l’assoluto.

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Noi possediamo questo assoluto come ciò verso cui deve dirigersi il nostro sforzo conoscitivo. Ora, in quella parola: «assoluto», non si è detto ancora niente di ciò che in effetti tale assoluto sia, ovvero di che cosa noi dobbiamo intendere quando troviamo scritta o pronunciata quella parola. La determinazione di ciò che l’assoluto propriamente sia, dovrebbe esserci fornita dal predicato che viene con esso collegato. Ponendo, ad es., che l’assoluto sia essere, noi troviamo enunciato soltanto in quell’«essere», ovvero nel predicato, ciò che pertiene a quel soggetto. Anzi, quest’ultimo non suscitava altro se non vaghe aspettative o associazioni, prima che il predicato lo determinasse nel suo modo d’essere (cfr. cpv. 23; PH 20 s., F 17 s.). Tuttavia, come avviene la selezione dei predicati da attribuire al soggetto? Essa accade, se non vuole apparire come casuale o arbitraria, attraverso la ricerca di motivi, con i quali si argomenta l’attribuzione o l’esclusione di un determinato predicato nei confronti del soggetto presupposto. Una volta letto il predicato, l’opinione ritiene di aver chiuso definitivamente i conti col soggetto proposizionale, e di poter tornare in sé, ovvero di svincolarsi dal soggetto, la cui conoscenza gli è stata fornita nel predicato, per valutare autonomamente l’adeguatezza o meno di tale attribuzione, esaminare i motivi che ad essa hanno condotto, esprimere accordo o disaccordo. In altri termini, l’opinione ritiene, una volta pervenuta alla conoscenza del predicato, di poter tornare a esercitare liberamente il proprio ragionamento, e di sbarazzarsi così del contenuto di cui nella proposizione si trattava. Esso diventa infatti soltanto il sostrato inerte, su cui l’opinione fa scorrere i predicati escogitati nel suo Räsonnieren. Ora, è proprio tale libertà nei confronti del contenuto che l’opinione trova impedita nella lettura di un testo filosofico. In quest’ultimo, infatti, il soggetto non compare alla stregua

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di supporto immobile rispetto a predicati, che apparirebbero nei suoi confronti indipendenti, e che all’opinione spetterebbe attribuirgli o meno sulla base di motivi. Al contrario, poiché soggetto della filosofia è il Concetto in veste di Universale concreto, esso non si lascia separare dai suoi predicati, ovvero dalle determinazioni in cui si svolge. In quel predicato, l’opinione non può dunque semplicemente tornare in sé, per abbandonarsi all’andirivieni del suo Räsonnieren; essa si trova impedita e ostacolata, ovvero subisce, con espressione di Hegel, un contraccolpo: proprio nel predicato, quando credeva di aver chiuso i conti col soggetto, essa si trova ancora alle prese con quest’ultimo, e invece di tornare in sé, si vede costretta a indugiare in quello, ovvero a immergersi nel contenuto medesimo (cfr. cpv. 60; PH 42 s., F 49-51). La proposizione filosofica distrugge così la forma della proposizione attraverso il suo contenuto, poiché mostra nella loro identità quei due termini che la proposizione lascerebbe intendere come semplicemente differenti. D’altra parte, quella distruzione non comporta il puro e semplice annullamento della forma, pena il venir meno dell’opposizione e degli opposti in un’identità indifferenziata e priva di autosvolgimento (cfr. cpv. 61; PH 43 s.; F 51 s.). Piuttosto, la proposizione viene a subire quel medesimo ripiegamento su di sé, che abbiamo visto caratterizzare il circolo come figura prediletta del sapere. Nemmeno la proposizione può essere più intesa in maniera puramente lineare, come passaggio unidirezionale da un soggetto a un predicato: in quest’ultimo, infatti, il primo si ritrova nell’identità con sé. Anzi, se prima, ovvero in veste di soggetto, possedeva tale identità solo alla stregua di vuoto presupposto, adesso, nella determinazione che compare a predicato, in quell’identità con sé si è per la prima volta posto: in quella determinazione, si è finalmente dato un contenuto.

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La Vorrede testimonia di questa irriducibilità dell’argomentare filosofico a processo dimostrativo lineare, mostrando nella tessitura più ampia di un intero testo quello stesso movimento che coinvolge la proposizione filosofica, costringendo il lettore a ritornare su ciò che di volta in volta è stato scritto. Così come ciascun capoverso, proposizione o periodo si schiudono, nella pienezza del loro significato, solo alla luce dell’intero che si va svolgendo, allo stesso modo quest’ultimo si riflette in ognuno di quelli. Hen kai Pan che non sprofonda nella notte dell’indistinzione, e che nell’articolazione delle differenze si mantiene.

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Capitolo VIII

Posizione del problema

1. Come va inteso l’assoluto? «L’opinione comprende la diversità dei sistemi filosofici non tanto come il progressivo svolgimento della verità [die fortschreitende Entwicklung der Wahrheit], quanto nella diversità vede soltanto la contraddizione» (cpv. 2, loc. cit.). Da cosa l’incapacità dell’opinione si trovi a dipendere, dovremmo ormai saperlo. Ancora non sappiamo, invece, che senso attribuire a quel «progressivo svolgimento della verità». Da un lato, sembra trattarsi di un senso distinto rispetto a quello dell’Universale concreto e del processo attraverso il quale quest’ultimo svolge le sue determinazioni in ambito strettamente concettuale, ovvero in quello che questa Vorrede chiama «logica o filosofia speculativa» (cpv. 37; PH 30, F 30). Dall’altro, è evidente che l’Universale concreto non potrebbe articolarsi in diversi sistemi filosofici, disposti tra l’altro in maniera tale da arricchirne progressivamente il contenuto, se già in se stesso non procedesse per sviluppo e incorporazione di momenti sempre più complessi e articolati (ovvero sempre più concreti).

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Il nodo cui siamo qui posti di fronte è quello del rapporto tra sistema e storia, tra elevazione della filosofia a «sistema della scienza» e «sapere assoluto», da una parte, e carattere temporalmente diveniente della verità e dell’assoluto stesso, dall’altra. Il primo elemento che dobbiamo porre a tema, in questo senso, è la struttura teleologica propria, secondo Hegel, della ragione (Vernunft). Sentiamo come egli stesso si esprime, in proposito, nel cpv. 22: «la ragione è l’operare conforme a un fine. […] Ma come anche Aristotele determina la natura come l’operare conforme a un fine, il fine è l’immediato, quieto, l’immobile, che è esso stesso motore; così è soggetto» (PH 20, F 16 s.). Anche qui, ci troviamo alle prese con un brano altamente stratificato, che presenta diversi livelli di approfondimento e di lettura possibili. Vediamo intanto di riprodurne, schematicamente, i passaggi. Innanzitutto, esso comincia con l’affermazione secondo cui la ragione è operare conforme a un fine, quindi segue il riferimento ad Aristotele e alla sua concezione della natura e del motore immobile; infine, Hegel interpreta quest’ultimo come soggettività. La conclusione appare dunque che per pensare il concetto del fine è necessario ricondurlo alla nozione di soggetto. Ma che cosa significa, in questo contesto, la parola soggetto? Evidentemente, non il soggetto empirico e finito, bensì quello che ormai conosciamo come Universale concreto, ovvero come Concetto, ovvero ancora come verità, assoluto, vero infinito. Il movimento dell’Aufhebung, che abbiamo visto esemplificato nella metafora della pianta, indica infatti che la verità è processualità, movimento, divenire; a tale movimento Hegel adesso fa riferimento, quando impiega il termine soggetto. Potremmo scriverlo, per non scambiarlo con l’io finito, con la «s» maiuscola: se il vero è l’intero, ciò è appunto perché il vero è

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Aufhebung, ma poiché il vero è Aufhebung, il vero è Soggetto: «Secondo la mia visione, che si deve giustificare soltanto con l’esposizione del sistema stesso, dipende tutto dall’intendere e dall’esprimere il vero non come sostanza, bensì altrettanto come Soggetto» (cpv. 17; PH 18, F 13). Nella proposizione del cpv. 20: «Il vero è l’intero», noi non abbiamo trovato se non la formulazione, dal punto di vista della sua realizzazione effettuale e concreta, di ciò che il cpv. 17 afferma in termini di concezione generale della verità. Ma notiamo l’oscillazione che su questo punto contraddistingue il periodare hegeliano. Dapprima, la negazione del vero «come sostanza» appare espressa con decisione, e senza attenuazioni. Hegel cioè non dice: si tratta di pensare il vero non soltanto come sostanza, ma altrettanto come soggetto; bensì afferma, con una negazione assoluta, che il vero semplicemente non va pensato come sostanza. Poi, però, quando si tratta di affermare la propria visione, egli introduce un’attenuazione, che non era stata preparata in precedenza. Hegel afferma infatti che il vero va pensato altrettanto come soggetto, ovvero: non soltanto come soggetto. Nell’esser pensato come soggetto, il vero nega la determinazione di sé che lo riduceva a semplice sostanza: e abbiamo la prima semplice negazione. Tuttavia, l’aspetto della sostanzialità non può essere semplicemente tolto in quel vero, che ora si vuole intendere e affermare come Soggetto. Se così fosse, si tratterebbe di contrapporre una visione a un’altra, un’opinione a un’altra. Inoltre, quel vero non sarebbe neppure più tale, poiché si affermerebbe astrattamente di contro al polo sostanziale, che secondo la logica dell’opposizione verrebbe posto nello stesso momento in cui fosse solo unilateralmente negato. Perciò, l’aspetto sostanziale dev’esser sì negato, ma non semplicemente, bensì nel senso stesso dell’Aufhebung che costituisce

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il vero. La sostanza è tolta, ma appunto in quanto dialetticamente superata, e dunque anche conservata entro quel vero che si va affermando come soggettività. A quest’altezza si colloca l’altrettanto che dal punto di vista dello stile interviene a rettificare, integrandola, l’astrattezza di quella prima negazione. Inoltre, poiché in quest’ultima quell’altrettanto non era stato preparato da un precedente: non soltanto, il lettore è costretto a ritornare sull’intero periodo, in quanto si accorge che «s’intendeva altrimenti da come (egli) intendesse»; è per così dire condotto, dall’asimmetria di questo periodare, a interrogarsi sul rapporto della sostanza e del Soggetto in chiave di Aufhebung. Di questo «altrettanto» lasciato per così dire allo scoperto, senza precedente preparazione, si potrebbe tuttavia tentare una lettura anche diversa e meno conciliante. Perché indubbiamente, l’asimmetria che contraddistingue questo passaggio dal punto di vista della sua disposizione discorsiva, potrebbe segnalare all’interno della scrittura che la negazione non si lascia, neppure con un processo tanto complesso e articolato com’è quello dell’Aufhebung, ricondurre senza resto alla disposizione dell’intero; che il negativo da cui essa procede non necessariamente appare conciliato e coordinato all’ordine del tutto, che pure lo contempla a suo momento. Di questo problema, la mancata corrispondenza della negazione e dell’affermazione che abbiamo intravisto proprio nel luogo, assolutamente decisivo per tutto l’assetto del sistema hegeliano, in cui la sostanza viene inglobata (aufgehoben) nel e dal Soggetto, potrebbe essere sintomo rivelatore; e tale comunque, per la sua significanza, dal costringerci forse a ritornare, per la terza volta, su quell’apertura del diciassettesimo capoverso. Perché a ben guardare: non soltanto noi avremmo potuto intendere ciò che in quel periodo si comunicava in maniera diversa da quanto esso effettivamente non intendesse; ma quel periodo potrebbe comunicare qualcosa di ancora di-

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verso rispetto a ciò che esso stesso, a sua volta, non intendesse effettivamente. A ogni modo, assumendo che il vero da un lato non è (solamente) sostanza, poiché dev’essere inteso ed espresso altrettanto come Soggetto; e intendendo tale rapporto nel senso di un superamento che toglie conservando, o di un innalzamento che conserva superando, risulta che la sostanza viene ricondotta all’orizzonte della soggettività. Abbiamo visto quale sia il senso che quest’ultimo termine assume nel contesto di cui stiamo trattando: esso è il medesimo di Concetto, o Universale concreto. Invece, non sappiamo ancora che cosa significhi precisamente il termine «sostanza» (Substanz). Hegel ce lo dice nel periodo piuttosto complesso che segue: «la sostanzialità racchiude in sé tanto l’universale o l’immediatezza del sapere stesso, come anche quella che è essere o immediatezza per il sapere» (ibidem). Tale definizione della nozione di sostanza presuppone come avvenuta la rivoluzione trascendentale kantiana nella radicalizzazione che ad essa era stata impressa da Fichte. Abbiamo visto come in quest’ultimo il sapere fosse stato posto a principio supremo della dottrina della scienza nella forma dell’auto­ coscienza assoluta, ovvero dell’Io che pone incondizionatamente se stesso (cioè il suo proprio essere), e pone tale suo essere per l’Io, ovvero è cosciente di sé nell’atto in cui si pone. In tale eguaglianza dell’io con sé, Fichte tenta di pensare l’uni­ tà originaria che deve necessariamente stare a fondamento di tutte le ulteriori distinzioni, affinché queste siano possibili. Tale principio non rappresenta perciò solamente l’unità con se stesso dell’io che pone se stesso; bensì in pari tempo, e proprio per questo, esso «è necessariamente identità del soggetto e dell’oggetto; ed è tale assolutamente senza ulteriore mediazione» (Fichte 1794/95, p. 261; FDS, p. 81, nota aggiunta alla seconda edizione della Grundlage del 1801).

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Solo a partire da questa posizione, Hegel può articolare la breve storia del concetto di sostanza che, da Spinoza, giunge sino a lui. A proposito di Spinoza, egli accenna senza nominarlo al fatto che la sua definizione di Dio come unica sostanza «indignò l’epoca in cui tale determinazione fu enunciata», poiché con il suo «istinto» essa percepiva che in quella sostanza «l’autocoscienza è soltanto andata a fondo, non conservata» (cpv. 17; PH 18, F 13 s.); ovverosia sentiva oscuramente (e Hegel può esprimersi in questi termini solo sulla base della formulazione che di questo problema avevano consentito la svolta trascendentale e le critiche allo spinozismo da parte di Fichte) che in quella sostanza Spinoza pretendeva di pensare un assoluto essere, senza riflettere a sua volta se stesso, che quell’essere aveva posto e pensato; o ancora senza riflettere il sapere, dal quale e per il quale quell’essere era stato posto. Immediatamente dopo, Hegel precisa che, allo stesso modo in cui non è sostenibile voler separare l’essere dal sapere, altrettanto unilaterale e astratto appare il tentativo opposto, cioè quello di separare il sapere dall’essere, ovvero di assolutizzare, di contro alla sostanza, il movimento puro del pensare. Tale posizione, meramente contraria (das Gegenteil) rispetto a quella di Spinoza, «fissa il pensare in quanto pensare» (ibidem, F 14), scindendo dunque il sapere dall’essere. La Differenzschrift del 1801 attacca in Reinhold il sostenitore di questa dottrina, che aveva trovato la sua prima formulazione nel Compendio di logica di Bardili, uscito l’anno precedente. In quel saggio, Hegel critica tale concezione in questi termini: «Il pensare è qui [ovvero in Reinhold] non l’identità del soggetto e dell’oggetto […], bensì l’oggetto è una materia postulata per il pensare ed il pensare pertanto non è altro che un soggettivo» (Hegel 1801, p. 88; SC, p. 108). Il pensare non è altro che un soggettivo, ovvero un contrapposto, un finito, un astratto, qualora esso venga separato dall’es-

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sere, qualora dunque il soggetto che pensa venga concepito come separato dall’oggetto del suo pensare. Facciamo dunque bene attenzione a non identificare questa posizione con quella di Fichte. Anzi, contrapponendo l’assolutizzazione del sapere a quella dell’essere, sembra quasi che Hegel si voglia riallacciare, su questo punto, alle argomentazioni da lui sostenute nella Differenzschrift, dove la concezione fichtiana veniva rigorosamente distinta da quella qui in questione, per poter essere più efficacemente colpita in quello che questo saggio presenta come il nucleo profondo della dottrina della scienza: cioè di non aver voluto pensare né il sapere senza l’essere, né l’essere senza il sapere, bensì l’originaria e assoluta unità di entrambi; ma di non essere riuscita nell’impresa per aver nuovamente inteso quell’unità come soggetto-oggetto soggettivo, per aver dunque ristretto quell’unità all’ambito del solo io. Nel cpv. 17 della Vorrede, la critica della posizione «che fissa il pensare in quanto pensare» viene tuttavia condotta seguendo un diverso obiettivo. Per cercare d’intendere il quale, può essere utile, da parte nostra, approfondire il nostro passo indietro.

2. Intuizione trascendentale e riflessione nella Differenzschrift Ricordiamo come la Differenzschrift rappresentasse, già nel suo titolo, l’enunciazione di una prospettiva filosofica per certi versi inedita, e forse non del tutto consapevole allo stesso Schelling. Quest’ultimo aveva infatti sino ad allora interpretato l’evoluzione del suo pensiero nel senso di un’estensione dei principi idealistici della ragione e della libertà dall’io alla

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natura, tale da configurare una posizione autonoma, ma non incompatibile rispetto alla fichtiana dottrina della scienza. Viceversa, obiettivo di Hegel diventa dimostrare che i lavori filosofici dell’amico non rappresentano un semplice completamento e ampliamento del sistema fichtiano, né tantomeno il mero «perfezionamento» al quale Schelling, secondo l’ottica parziale dello stesso Fichte, si sarebbe limitato a voler contribuire in relazione alla dottrina della scienza; bensì che i risultati in essi conseguiti conducono in realtà fuori e oltre l’orizzonte determinato da quest’ultima. Il Sistema dell’idealismo trascendentale, che Schelling pubblica nel 1800, e la Darstellung meines Systems der Philosophie, dell’anno seguente, costituiscono per Hegel le prime esposizioni sistematiche di una filosofia che non si arresta alle opposizioni fichtiane di finito-infinito, soggetto-oggetto, spirito-­ natura, bensì le coglie nel loro scaturire da una originaria e assoluta identità, che Schelling dichiarava conoscibile non più per via concettuale e discorsiva, bensì mediante l’atto dell’intuizione intellettuale. Alla filosofia veniva così finalmente mostrata la direzione per uscire dalla limitazione cui l’avevano confinata da un lato Kant, quando aveva negato valore conoscitivo alle idee della ragione, e aveva ristretto la conoscenza umana all’ambito meramente empirico e fenomenico; e dall’altro lo stesso Fichte, quando non era stato capace di unificare finito e infinito. Nell’esporre il sistema fichtiano, e nel confrontare a quest’ultimo quello schellinghiano, Hegel prende dunque apertamente le parti di Schelling. In pari tempo, evidenziando come non si possa ormai più parlare di semplici «completamenti» o «perfezionamenti», egli intende affermare l’autonomia cui la nuova filosofia è pervenuta, e l’insanabile frattura che così si è prodotta rispetto alla prospettiva critico-trascendentale di Kant e di Fichte.

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L’obiettivo del saggio hegeliano appare quindi evidente: distinguendo in via di principio tra sistema di Fichte e sistema di Schelling, assumendo la posizione dell’uno di contro a quella dell’altro, non è in gioco semplicemente un problema di correttezza interpretativa, bensì, ben più radicalmente, la dimostrazione che la filosofia si è finalmente lasciata alle spalle le opposizioni irrisolte che l’avevano vincolata alla conoscenza del finito, ed è adesso in grado, senza ricadere al livello del dogmatismo che precedeva la «rivoluzione» kantiana, di riappropriarsi della conoscenza dell’assoluto e infinito. Si può ben comprendere dunque che Hegel, pur dichiarando di limitarsi a esposizioni e confronti tra sistemi altrui, proprio attraverso questa sistematica interpretazione esprima il suo personale punto di vista, anche in confronto al sistema di Schelling. In altri termini, il fatto che Hegel presenti come conflitto insanabile la Differenz tra i due sistemi, e che in pari tempo intenda tale conflitto risolto a favore di quello «schellinghiano», non significa che di quest’ultimo egli, pur condividendone ispirazione e obiettivi di fondo, accolga in pari tempo tutte le soluzioni. Al contrario, proprio attraverso il «confronto» e l’espo­sizione del pensiero di Schelling, Hegel introduce formulazioni e imposta la soluzione dei problemi speculativi secondo linee che, benché in questo testo non si trovino sviluppate nelle loro conseguenze, producono comunque uno scarto rispetto al sistema in nome del quale si presentano. Qui, possiamo segnalare soltanto quella forse più rilevante in rapporto al testo della Vorrede, ovvero la determinazione che Hegel fornisce del concetto di assoluta identità e di quello, ad esso collegato, di intuizione intellettuale. Nel Sistema del 1800 la nozione dell’«assolutamente identico» viene da Schelling intesa come «il principio assoluto» dell’«intera filosofia». In quanto tale, esso è appunto anche «un

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assolutamente semplice», perciò sottratto alla possibilità di essere tanto «compreso quanto esposto per concetti». Ciò significa che l’assolutamente identico può essere soltanto intuito, e tale intuizione «può essere soltanto» un’intuizione «non sensibile, bensì intellettuale», in quanto essa non «ha ad oggetto né l’obiettivo né il soggettivo, bensì l’assolutamente identico, in sé né soggettivo né obiettivo». Tale intuizione rappresenta per Schelling «l’organo di tutta la filosofia». Tuttavia, poiché essa è un’intuizione «meramente interna, che per se stessa non può diventare di nuovo obiettiva», non potrebbe sottrarsi al dubbio di «riposare su di un’illusione meramente soggettiva», se non vi fosse una «seconda intuizione», che ne costituisca la forma obiettivata e perciò stesso «universalmente riconosciuta». Tale «seconda» intuizione si rappresenta, per Schelling, nell’arte. Così, egli può definire l’«intuizione estetica» come «quella intellettuale divenuta obiettiva» (cfr. Schelling 1800, p. 624 s. e nota m.; SIT, p. 298 s.). Ci siamo dilungati su questo brano, poiché esso ben evidenzia non soltanto la formazione del concetto dell’assoluto come «assolutamente identico», che già per il pensiero schellinghiano del periodo immediatamente successivo verrà a costituire, sotto il nome di assoluta identità, il punto di volta della concezione filosofica e dell’esposizione sistematica; bensì esplicita con chiarezza il legame che vincola la nozione dell’identità «originaria» con quella d’intuizione intellettuale e d’intuizione estetica, in quanto forma obiettivata della prima. Nella Darstellung dell’anno seguente, Schelling procede alla costruzione del suo sistema a partire direttamente dall’identità assoluta, che sin dalle prime battute dell’opera egli determina alla luce dell’idea di ragione come «totale indifferenza del soggettivo e dell’oggettivo» (§ 1). Poiché la ragione, in quanto assoluta, è infatti a sua volta «tutt’uno con l’identità assoluta» (§ 9), ciò viene a dire che solo la categoria di indifferenza

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consente di pensare l’assoluto nella sua propria originarietà, ovvero nella sua eccedenza rispetto all’opposizione di soggetto e oggetto (cfr. Schelling 1801, risp. pp. 114 e 118; E, pp. 31 e 35). Ora, come si esprime Hegel nella Differenzschrift su questo snodo decisivo, che riguarda direttamente la determinazione del concetto di assoluto, così come il modo del sapere che lo concerne? Proviamo a rileggere, con la stringatezza che necessità impone, le pagine che aprono il capitolo Confronto fra il principio della filosofia schellinghiano e fichtiano (Hegel 1801, pp. 62 ss.; SC, pp. 77 ss.). Hegel, con una dichiarazione che intende affermare da subito, innanzi al lettore, che siamo pervenuti a un altro ambito di pensiero, apre dicendo che, a differenza di quanto avveniva in Fichte, «il principio dell’identità è il principio assoluto dell’intero sistema schellinghiano; filosofia e sistema coincidono» (ivi, p. 63; p. 77). Egli prosegue mostrando come, «per togliere la scissione», ambedue gli opposti (ovvero soggetto e oggetto) debbano essere a loro volta tolti, e come a ciò sia deputata in Schelling la nozione dell’identità assoluta: «essi vengono tolti come soggetto e oggetto, in quanto sono posti come identici. Nell’assoluta identità, soggetto e oggetto sono riferiti l’uno all’altro e con ciò annientati» (ibidem; SC, p. 78). Tuttavia, Hegel procede sottolineando la parzialità di questa distruzione del soggetto e dell’oggetto nell’identità assoluta, poiché «fino a questo punto giunge il filosofare in generale che non riesce a pervenire a sistema», il quale «si contenta del lato negativo, che sprofonda ogni finito nell’infinito» (ibidem). In altri termini: pervenire al toglimento dell’opposizione tramite la soppressione degli opposti, e il loro annullamento nell’originaria identità di entrambi, è un momento senz’altro necessario per la filosofia, poiché costituisce il superamento della «scis-

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sione» in opposti, e dunque l’oltrepassamento del punto di vista del finito, cui invece Fichte restava ostinatamente legato. E tuttavia, tale distruzione del finito costituisce appunto solo un momento, ovvero ad essa la filosofia non può arrestarsi. Fermarsi qui significherebbe infatti distruggere in pari tempo la possibilità del sapere, e dunque tanto più la possibilità di ricondurre quest’ultimo a sistema. Hegel perciò definisce questo aspetto del filosofare puramente negativo, in quanto appunto annulla e distrugge le finitezze, ma non consente, se assolutizzato, di riattivare propriamente un sapere: «se questo aspetto negativo è esso stesso principio, allora esso non può metter capo al sapere, poiché ogni sapere, da un lato, entra in pari tempo nella sfera della finitezza» (ibidem). In altri termini: come non è possibile sistema del sapere senza sapere, così non è possibile sapere senza determinazioni, ovvero senza che da un lato esso non entri «nella sfera della finitezza», di ciò che appunto in quanto determinato è limitato, e in quanto limitato è finito. Necessario è dunque, per condurre il filosofare a sistema, distruggere l’opposizione e i finiti in essa opposti; ma altrettanto necessario è non arrestarsi a tale aspetto meramente negativo. Ciò è quanto invece fa quella che Hegel, con termine che pure si ritrova al cpv. 71 della Vorrede, chiama Schwärmerei: «La fantasia esaltata si attiene a questa intuizione della luce incolore» (ibidem). Ora, Schwärmer è propriamente l’entusiasta che, proteso al coglimento immediato dell’assoluto, brucia in questa tensione esperienziale tutto ciò che esiste come determinato e finito, tutto ciò che lo ostacola nel suo desiderio d’immergersi e annullarsi nell’unità del tutto. Vogliamo riportare un unico esempio d’impiego non hegeliano di questo termine, perché non soltanto in sé significativo,

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ma perché anche attiene direttamente all’ordine delle questioni qui trattate. Ricordiamo che il nostro periplo attorno alla Differenzschrift è cominciato dal problema della trasformazione della sostanza in Soggetto, che ci veniva posto nel cpv. 17 della Vorrede, e che a tale luogo esso dovrà ricondurci. La nozione della sostanza chiamava in gioco, a sua volta, il nome di Spinoza. Ora, la filosofia di quest’ultimo era stata al centro, in Germania, di furibonde polemiche che, aperte da Jacobi sulla scorta di quanto egli avrebbe appreso, nel corso di un colloquio avuto con Lessing poco prima della morte di quest’ultimo, sullo spinozismo che Lessing medesimo gli avrebbe manifestamente dichiarato di professare, finirono ben presto col coinvolgere questioni più generali, riguardanti non solo la natura della filosofia di Spinoza in rapporto a teismo e ateismo, libertà e fatalismo, e così via; bensì convogliarono, attraverso la discussione del pensiero del grande olandese, una serie di problemi e di prospettive attinenti Dio e mondo, filosofia e religione, sapere e fede, coinvolgendo personalità quali Goethe e Herder, oltre allo stesso Jacobi, e costituendo così una sorgente tutt’altro che secondaria tra quelle che alimentarono la nascita dell’idealismo. Fu Herder che, per difendere Spinoza dall’accusa di aver formulato un sistema che doveva condurre, se assunto sino alle sue estreme conseguenze, all’ateismo ovvero alla negazione di Dio e della religione, da un lato, e al fatalismo, ovvero alla negazione della libertà e dell’agire morale, dall’altro, definì Spinoza un «metaphysisch-moralischer Schwärmer»1. Egli intendeva così evidenziare come l’ispirazione fondamentale del suo sistema fosse contraddistinta proprio da quegli aspetti che 1.  Cit. in V. Verra, F.H. Jacobi. Dall’illuminismo all’idealismo, Edizioni di Filosofia, Torino 1963, p. 123.

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i critici dello spinozismo, primo fra tutti Jacobi, volevano dimostrare incompatibili col suo pensiero. Tuttavia, in quella definizione herderiana, che viene formulata nell’opera Gott. Ein Gespräch (prima ed. 1787, seconda ed. 1800), si coglie forse l’eco di un rischio che lo stesso Herder aveva in precedenza riconosciuto interno al pensiero di Spinoza. Nella sua tensione «metafisico-morale» alla conoscenza di Dio e all’unificazione con esso, non correva infatti Spinoza il pericolo di far sprofondare l’intero cosmo con le sue creature nell’unità e identità assoluta del Dio unica sostanza? Leggiamo quanto lo stesso Herder scriveva a proposito di Spinoza in un’opera di due anni precedente la prima edizione del Gott: «Tutti gli individui svanirono davanti al Dio che pensa e che muove. […] Egli era salito ad altezze così vertiginose nell’empireo dell’infinito che le cose singole rimaste in basso impallidirono al suo sguardo […]»2. E tale dubbio a proposito dello spinozismo doveva essere ben radicato in Herder, se in uno scritto del 1769, precedente il Gott di quasi vent’anni, troviamo scritto: «Spinoza credeva che tutto esistesse in Dio. Egli negava così tutti i raggi, tutti i pianeti; accettava soltanto un centro che chiamava Dio e mondo»3. Nel Gott, come si tratta di difendere Spinoza dall’accusa di ateismo, così si tratta anche di mostrare che il suo pensiero non comporta a suo risultato neppure l’annullamento puro e semplice, nella sostanza unica e divina, del mondo e dei finiti contenuti in esso. Spinoza dunque non si arresterebbe a quell’aspetto negativo di cui Hegel nel 1801 imputerà la Schwärmerei, e che si limita a distruggere il finito nell’assoluto per raggiungere l’unificazione immediata con esso. La Schwärmerei di cui sarebbe portatore Spinoza è di altro gene2.  Ivi, p. 116. 3.  Ivi, p. 115.

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re, poiché il divino cui essa è rivolta non soltanto non annulla in sé la molteplicità del mondo, ma per la prima volta consente di cogliere Dio in ogni singola creatura, in ogni singola esistenza della natura. Quest’ultima verrebbe dunque pensata da Spinoza come universo irriducibilmente multiforme, proprio perché un’unica vita divina scorre in ogni singola parte di essa, e non è dunque possibile distruggerne una senza in pari tempo distruggere il tutto che vi abita. Nella Vorrede, al contrario, Hegel non sembra voler criticare l’«istinto» dell’epoca che «s’indignò», poiché nell’unica sostanza di Spinoza vide «andare a fondo l’autocoscienza». Anzi, sempre al cpv. 17, egli collega con «sostanza» termini quali essere, immediatezza, universale, e ancor più significativamente parla dell’«indivisa, immota sostanzialità» come ciò a cui si lascia ricondurre la posizione che assolutizza «il pensare come pensare», proprio perché in quest’ultimo si esprime quella «medesima semplicità» propria della sostanza stessa. Ora, non ci sarà certo sfuggito che «assolutamente semplice» era anche l’«identità originaria», che nel Sistema dell’idealismo trascendentale Schelling stabilisce a «principio assoluto» della filosofia, e che nell’Esposizione dell’anno seguente tale identità originaria si svolgeva nella nozione dell’originaria indifferenza, quest’ultima intesa come il concetto autentico dell’assoluto. Ma non affrettiamo il ritorno alla Vorrede. Veniamo invece alla Schwärmerei che funge da bersaglio della critica hegeliana nella Differenzschrift. Abbiamo detto che tale «esaltata fantasia», protesa all’unificazione immediata con l’assoluto, non consente di giungere all’edificazione di un sapere, né tantomeno alla costruzione di un sistema. Con una precisazione molto importante, Hegel perciò può aggiungere che la Schwärmerei «si attiene a questa intuizione della luce incolore; una molteplicità è in essa solo per ciò che essa combatte il molteplice» (Hegel 1801, p. 63; SC, p. 78).

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Nella prospettiva dell’unificazione immediata con l’assoluto, ogni molteplicità non può non rappresentare, in effetti, che un impedimento e un ostacolo, poiché dire molteplice significa dire: limitazione; e dire limitazione significa dire: relazione con altro, dipendenza da altro, relatività e finitezza, di contro all’unità e all’assolutezza che per quella «esaltata fantasia» si tratta di cogliere immediatamente tramite annullamento del determinato e finito. Ora, per indicare il risultato conoscitivo che quell’«esaltata fantasia» raggiunge in effetti, ovvero contro ciò che essa meramente opina di possedere e di sapere, Hegel impiega dei termini di cui l’importanza non può venire sottolineata abbastanza. Egli parla cioè di una «intuizione della luce incolore»; e davvero, in questa espressione, ogni parola andrebbe attentamente meditata. Nella Differenzschrift, Hegel non presenta una critica esplicita dell’intuizione intellettuale di Schelling, né tantomeno identifica questa intuizione della «esaltata fantasia» con ciò che per Schelling costituiva l’«organo» stesso del filosofare. Tuttavia, limitandoci a una osservazione di carattere terminologico, le cui implicazioni concettuali ben meriterebbero di venire altrimenti sviluppate, notiamo come Hegel impieghi, e proprio nei contesti più concettualmente decisivi, il termine di transzendentale Anschauung, ovvero d’«intuizione trascendentale», invece di quello, più aderente al testo schellinghiano, di intuizione intellettuale. Citiamo ad es. l’ultimo capoverso del capitolo che stiamo esaminando. Si tratta di un brano particolarmente indicativo, poiché Hegel si accinge a presentare, in forma di ricapitolazione conclusiva, il risultato del discorso svolto sino a ora. Tale brano si apre con l’affermazione seguente: «Il principio assoluto, l’unico fondamento reale, il permanente punto di vista della filosofia è, sia nella filosofia di Fichte che in quella di

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Schelling, l’intuizione intellettuale» (ivi, p. 76 s.; p. 94; corsivo mio). Ora, alla luce della funzione che questo principio comune ai due sistemi ricopre in ciascuno di essi, si tratta di ribadire un’ultima volta la differenza che tra loro intercorre. Ci si attenderebbe dunque di ritrovare il termine in questione fedelmente riprodotto in ciò che segue. Invece, quando passa a determinare più da vicino il significato del concetto, Hegel introduce il mutamento terminologico che abbiamo sopra segnalato, e parla ripetutamente (se non andiamo errati, quattro volte) d’intuizione trascendentale. Così, egli scrive ad es.: «Questa intuizione diviene nella scienza oggetto [Gegenstand] della riflessione, e perciò la riflessione filosofica stessa è intuizione trascendentale» (ivi, p. 77; p. 94; corsivo mio). Ma allora, poiché la riflessione filosofica è essa stessa intuizione trascendentale, dire che essa tematizza quest’ultima (questo è il senso del divenire oggetto di riflessione nel contesto citato) significa dire che essa tematizza se stessa, e in questo senso si rende obiettiva di fronte a se stessa. Con le parole di Hegel: la riflessione filosofica «si fa oggetto [Objekt] a se stessa ed è una con esso: per questo è speculazione» (ibidem; corsivo mio). Ora, ricordiamo certamente che Schelling, quando parlava dell’intuizione intellettuale, insisteva precisamente nel ribadire che «questa intuizione […] è essa stessa soltanto un’intuizione interna, che per se stessa non può diventare nuovamente obiettiva [objektiv]» (Schelling 1800, loc. cit.; corsivo mio). Viceversa, qui Hegel parla esplicitamente dell’obiettivazione che l’intuizione trascendentale produce in rapporto a se stessa quando si presenta nella forma della riflessione filosofica. Il fatto che l’intuizione trascendentale pervenga a obiettivarsi tramite riflessione implica perciò anche un’accentuazione più marcata della funzione che la riflessione viene a eserci-

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tare in rapporto alla conoscenza dell’assoluto. Schelling, nel passo citato sopra, aveva dichiarato «non necessitare neppure di dimostrazione» l’impossibilità tanto di «cogliere, quanto di esporre» l’assolutamente identico «tramite concetti». Ora, a questo coglimento «tramite concetti» corrisponde nella Differenzschrift hegeliana il termine riflessione, la cui esercitazione metodica, conseguente e sistematica, condotta a partire dalla transzendentale Anschauung, la eleva a riflessione propriamente filosofica. L’intuizione trascendentale non soltanto dunque si obiettiva, bensì si obiettiva presentandosi in forma di riflessione. In tal modo, Hegel pone le basi per un intendimento filosoficamente determinato dell’intuizione intellettuale, poiché il fatto che la sua obiettivazione avvenga nella filosofia, comporta che essa è tolta dall’ambito della muta e a-concettuale interiorità, entro il quale restava collocata in Schelling. Poiché nella stessa filosofia l’intuizione intellettuale perviene a quella «obiettività universalmente riconosciuta», che Schelling riteneva di poterle attribuire solo in virtù dell’arte, l’intuizione intellettuale diventa concettualmente determinabile in rapporto alla sua esposizione sistematica. Essa non resta più qualcosa d’«interno» e perciò stesso ineffabile, soggetta al dubbio dell’«illusione» e dell’inganno. Il suo banco di prova è la forma del sistema che la riflessione è andata organizzando; così come, viceversa, l’essere una filosofia basata o meno sul principio dell’identità assoluta degli opposti, decide del suo essere o meno «genuino prodotto della speculazione» (Hegel 1801, p. 77; SC, p. 94). Perciò, Hegel può riconoscere che «la filosofia di Fichte» possiede un carattere autenticamente speculativo, poiché è impostata sulla base della «intellektuelle Anschauung» (ivi, p. 76 s.; p. 94), e negare invece tale carattere al sistema in cui essa si realizza e si obiettiva in forma di esposizione (Darstellung).

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Certo, il discorso di Hegel procede mostrando che la filosofia, intesa come obiettivazione di fronte a se stessa dell’intuizione trascendentale, è tuttavia ancora «condizionata», poiché è comunque il prodotto di un’attività compiuta dal soggetto riflettente. Si tratta quindi ancora di una obiettivazione soggettiva, alla quale non ci si può arrestare, se si vuole oltrepassare l’orizzonte del soggetto-oggetto puramente soggettivo del sistema fichtiano. Perciò la riflessione, per cogliere l’intuizione trascendentale nella sua purezza, «deve ancora astrarre da questo soggettivo, affinché essa [l’intuizione trascendentale] non sia per sé né soggettiva né oggettiva, né autocoscienza opposta alla materia, né materia opposta all’autocoscienza, bensì identità assoluta […]» (ivi, p. 77; p. 95; corsivo mio). Ma appunto, anche questo coglimento dell’identità assoluta in quanto principio originario non può andare disgiunto dalla posizione e dall’organizzazione in totalità sistematiche dei differenti, ovvero delle finitezze in quanto lati del non-identico e relativo. Solo l’accoglimento della riflessione a momento integrante dell’intuizione, che in Hegel si chiama trascendentale, consente infatti di produrre un sapere dell’assoluto, che non confonda quest’ultimo con la «luce incolore» cui lo riduce la Schwärmerei, né scambi l’intuizione che di quella luce si accontenta col «principio assoluto» dell’autentica «speculazione». Perciò Hegel, contro la Schwärmerei, può affermare: «Nell’assoluta identità è tolto il soggetto e l’oggetto, ma poiché essi sono nell’identità assoluta, nello stesso tempo sussistono e questo loro sussistere è ciò che rende possibile un sapere, poiché nel sapere è parzialmente posta la loro separazione» (ivi, p. 63; p. 78; corsivo mio). E ancora: Così come viene fatta valere l’identità, altrettanto deve essere fatta valere la separazione. […] La filosofia deve concedere al separare il diritto di separare soggetto e oggetto, ma in quanto lo pone assolutamente insieme all’identità opposta

122 alla separazione, essa lo pone soltanto come condizionato, così come una tale identità – che è condizionata dall’annullare degli opposti – è anch’essa soltanto relativa. Ma l’assoluto stesso è con ciò l’identità dell’identità e della non-identità, opporre ed esser-uno sono contemporaneamente in esso. (Ivi, p. 64; p. 78 s.; corsivo mio)

Quando Hegel scrive «transzendentale Anschauung», non si tratta allora di un mutamento terminologico che lascia intatti i termini concettuali del problema. In questa determinazione, la Differenzschrift ha mostrato piuttosto di voler indicare l’assunzione della riflessione a imprescindibile momento del coglimento stesso dell’assoluto, così come quest’ultimo si trova determinato non semplicemente come «totale indifferenza», ma come simultaneamente identico e non-identico, uno e opposto, indifferente e differente. Benché dunque il sapere dell’assoluto non sia riducibile a semplice riflessione, tuttavia in esso dalla riflessione non è possibile prescindere. Anzi, proprio la riflessione che riflette su di sé, riconoscendosi nella sua parzialità di riflessione, si eleva all’altezza di speculazione; ovvero si dimostra riflessione che ha incorporato al suo interno l’intuizione trascendentale, ed è perciò, come splendidamente esprime Hegel in un ossimoro, che difficilmente potremo ritrovare nei testi più tardi, «riflessione speculativa [spekulative Reflexion]» (ivi, p. 77; p. 95). La riflessione è speculativa, poiché nell’atto stesso con cui pone gli opposti, in pari tempo anche li distrugge, ovvero li riconduce alla comune, originaria identità, dalla quale essi scaturiscono. Ma il processo è, contemporaneamente, quello del portarsi a manifestazione e apparizione, in e attraverso quegli opposti, dell’assoluto medesimo. Privato della possibilità di apparire, l’assoluto perderebbe ogni concretezza, ogni ricchezza e multiformità di contenuto: sarebbe davvero la luce «monocromatica», cui lo riduce l’intuizione della Schwärmerei.

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Si tratta quindi di pensare la simultaneità dei due processi: o piuttosto, di pensarli come un unico e medesimo processo, come un unico e medesimo movimento, che procede secondo direzioni opposte, e che ambedue racchiude in pari tempo in sé: da un lato posizione degli opposti (riflessione come produzione di differenze, dominio della non-identità), dall’altro loro distruzione (intuizione della loro identità nell’assoluto); da un lato apparizione e manifestazione dell’assoluto in e attraverso quegli opposti, dall’altro loro toglimento in quanto opposti, e loro ripristinazione nell’identità assoluta. Certo, all’interprete che la volesse meditare sino in fondo, la Differenzschrift porrebbe, a quest’altezza, ulteriori domande. Ma noi fingeremo di non udirle – o perlomeno, di non udirle adesso. Tiriamo le fila del nostro attraversamento. A partire dalla nozione di ragione come operare conforme a uno scopo (cpv. 22 della Vorrede), se non addirittura da più indietro, siamo incappati nel problema della sostanza e del Soggetto. Per orientarci in quest’ultimo, abbiamo interrogato alcuni brani del saggio del 1801, e ci siamo trovati di fronte a un tipo di entusiasmo poco gradito a Hegel. A tale entusiasmo veniva imputato di combattere la molteplicità, di escluderla dall’assoluto per poter cogliere quest’ultimo immediatamente, ovvero nella sua purezza non macchiata dalla posizione, in esso, di un determinato, di un opposto, di un finito. Ma tale assoluto, che l’entusiasmo voleva possedere nell’immediatezza della luce pura, si rivelava altrettanto povero e vuoto quanto quest’ultima, una volta privata della molteplicità dei suoi colori. All’intuizione della Schwärmerei, l’assoluto si mostrava perciò nella monotona uniformità di questa luce incolore: e un assoluto che sia così ridotto è ancora, propriamente, un assoluto?

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Riformuliamo questa domanda in altri termini: che ne è, nella Vorrede, della Schwärmerei? Che ne è, in essa, della luce e del colore? Com’è noto, la Vorrede è testo i cui protagonisti sono sì il Soggetto e la sostanza, il Concetto e il suo sistema. Tuttavia, nel leggerla, capita a volte d’imbattersi in mandrie di animali, di udire all’improvviso il suono di uno sparo. Perciò, per prepararci a questi incontri dobbiamo, ancora un poco, pazientare (ricordiamo che al cpv. 19 la pazienza viene elencata, assieme al lavoro, alla serietà e al dolore del negativo, tra i requisiti indispensabili al coglimento della verità. Cfr. PH 18, F 14). Le metafore, in Hegel, hanno una storia lunga, e talvolta richiedono un giro altrettanto lungo e difficile per aprirsi, almeno un poco, alla nostra comprensione.

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Capitolo IX

L’intelletto e il negativo

1. Che cosa significa analizzare una rappresentazione? Nel cpv. 14 della Vorrede, Hegel parla di due «partiti», che si contrappongono l’uno all’altro nella concezione del sapere, in un contrasto che egli definisce come «il nodo assolutamente principale [hauptsächlichste]» attorno a cui ruotavano i conflitti della «cultura scientifica» del suo tempo. «Un partito insiste sulla ricchezza del materiale e sulla comprensibilità, l’altro a dir poco disprezza quest’ultima, e insiste sull’immediata razionalità e divinità» (PH 16, F11). Il primo si condanna a non poter oltrepassare l’orizzonte del finito. Del secondo, Hegel tratta nei capoversi immediatamente seguenti (15-16). Gli appartenenti a questo «partito» appaiono rivolti al coglimento immediato dell’assoluto e divino, e «disprezzano», come abbiamo sentito, l’elemento della comprensibilità. Per quest’ultimo termine, il testo hegeliano presenta il tedesco Verständlichkeit, la cui radice fondamentale è costituita dalla parola Verstand, ovvero intelletto. Ma che cosa significa «intelletto»? L’intelletto ha a che fare, in Hegel, con la morte. Perciò, potremmo pensare che con esso la dialettica non voglia entrare in relazione, visto che in essa dovrebbe realizzarsi il coglimen-

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to della vita e del vivente. Più che legato alla dialettica, l’intelletto dovrebbe piuttosto apparire complice, nell’uccisione del vivente, dell’anatomia. Ricordiamo che quest’ultima consisteva nella «conoscenza delle parti del corpo considerate secondo la loro esistenza non vivente», ovvero in quanto morte. La medesima operazione che l’anatomia compie sul vivente, quando lo considera secondo le sue parti morte, compie l’intelletto quando analizza una rappresentazione (cfr. cpv. 32; PH 27 s., F 25 s.). Il termine Vorstellung va qui inteso nel senso che al rappresentare dà la stessa Fenomenologia, quando lo definisce «il collegamento sintetico dell’immediatezza sensibile e della sua universalità, ovvero del pensare» (PH 408, F II 265), e perciò comprende al suo interno immaginazione, fantasia, memoria, e linguaggio. Viceversa, l’intelletto appare come quella capacità di scomposizione, di cui lo spirito è dotato in relazione agli oggetti dei quali si è impadronito quando li ha trasformati, da enti sussistenti esteriormente nello spazio e nel tempo, in rappresentazioni, ovvero in contenuti interni e perciò propri dell’io. Eppure, Hegel sembra dire che lo spirito, nella semplice Vorstellung, quei contenuti non li possiede ancora veramente come suoi. Io, proprio io che scrivo, che scrivo questa «introduzione alla lettura», introducendomi a tale lettura io stesso per primo – mi alzo in questo istante dalla sedia (ma senza troppa fretta, non sono ancora così stanco). Vado alla finestra, mi accendo un toscano (mezzo toscano), guardo distrattamente la pianta che mi sta di fronte. Poi mi ricordo che di una pianta ho scritto qualche tempo fa, di una pianta di cui non soltanto aveva scritto Hegel, ma di cui ancora altri tornarono a scrivere per prenderne le difese. Ho davanti a me una bella pianta, ma nella mia immaginazione non esiste la pianta che vedo, bensì la pianta di cui ho letto, su cui ho scritto.

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Preferisco la pianta che sto, mentre fumo in silenzio, intuendo; oppure preferisco quella a cui sto pensando, e che ben poco ha a che vedere con quella prima? Mi sembra di preferire la bella pianta a cui sto di fronte, e che tra il fumo del sigaro ormai soltanto intravedo. Mi sembra di preferirla in una molteplicità di sensi, benché non sia di grande interesse che io li precisi. Mi asterrò dunque dal farlo. Il problema, infatti, non sta nella bella pianta della mia intuizione, ma in quella, smembrata nella sequenza gemma-fiore-frutto, della mia immaginazione. Sono tornato qui, alla tastiera da cui, naturalmente, non mi sono mai mosso. Come avrei potuto, se no, scrivere di tutto ciò che non stavo facendo, se lo avessi fatto davvero? Ma consideriamo la meta della ragione secondo Hegel, ovvero assumiamo che tale meta sia quella di pervenire al sapere di sé; e assumiamola come la meta vera in sé e per sé (ovvero, sia per quanto riguarda il suo contenuto obiettivo, sia per quanto riguarda la consapevolezza che noi ne abbiamo assumendola). Rispetto a questa meta, è una realizzazione del mio essere spirituale ben più alta quella dell’essermi rappresentato (vorgestellt) tutto ciò che ho scritto di aver fatto, piuttosto che se lo avessi fatto veramente, muovendomi nello spazio e nel tempo obiettivi, e limitandomi a intuire la bella pianta di fronte a me. È molto più conforme a verità che io mi sia rappresentato tutto questo e che, senza distinguere ciò che si presentava alla mia mente da ciò che in pari tempo andavo scrivendo, io l’abbia raccontato e scritto. Perché anche questo piccolo racconto, per Hegel, avrebbe lo statuto della rappresentazione. La Vorstellung appare perciò ben più articolata e più ricca, rispetto a quello che potrebbe sembrare inizialmente. Essa non si esaurisce nell’ambito della pura interiorità, ma perviene, attraverso il linguaggio, a obiettivarsi nuovamente.

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Solo che appunto, nel linguaggio, l’obiettività che si produce è un’obiettività spirituale, creata dall’io e a partire dall’io sulla base di una precedente interiorizzazione degli oggetti. Certo, mi sarei anche potuto arrestare dall’immaginazione di ciò che ho raccontato. Tuttavia, ciò che in tal modo mi sarei limitato a immaginare sarebbe rimasto astratto, senza realtà, privo di una «obiettività universalmente riconosciuta». Tale obiettività, tale ritorno all’essere dall’interiorità dell’immagine e della fantasia, la mia rappresentazione li consegue solo nel linguaggio, in quanto diviene rappresentazione linguistica (per il momento è indifferente che si tratti di linguaggio orale o invece, com’è il nostro caso, di scrittura). Ma al linguaggio dobbiamo anche fare attenzione. Perché in questo caso, che cosa significa precedente? Che cosa significa ritorno? Noi potremmo immaginare che si tratti di rapporti di precedenza nel senso di una successione cronologica, per cui prima accadrebbe qualcosa (ad es., la rappresentazione del racconto nella fantasia), e poi, sulla base di questo, qualcosa d’altro (ad es., la formulazione linguistica del racconto). Ma l’immaginazione ci farebbe prendere, in tal caso, un grosso abbaglio. Non di questo infatti si tratta in Hegel, bensì dell’organizzazione, in un sistema teleologicamente orientato alla meta del sapere di sé da parte della ragione, delle diverse attività, produzioni, forme di espressione dello spirito. In sede di organizzazione sistematica, parlare di «prima» e di «poi» non ha dunque, stricto sensu, alcun significato. Può servire solo a indicare, via metafora, le relazioni intercorrenti tra momenti che rispetto all’organizzazione complessiva del sistema, e al raggiungimento della meta in esso conseguita, stanno reciprocamente nel rapporto di Aufhebung che toglie/conserva/eleva, o in una parola: supera l’astratto nel concreto; a condizione dunque di togliere al «prima» e al «poi» ogni e qualunque connotazione di tipo cronologico-temporale.

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In questo senso, ovvero dal punto di vista del conseguimento della meta della ragione, del raggiungimento del compiuto sapere di sé da parte dello spirito, come l’intuizione è superata nella rappresentazione, così la rappresentazione intesa come immagine interiore è superata nel linguaggio, ovvero condotta in esso a esistenza più elevata, più vera, più concreta. Lo stesso vale per la pianta. In quanto ne ho l’immagine, essa viene tolta dal luogo in cui obiettivamente si trovava, in cui obiettivamente la potrei intuire. Diventa un elemento della mia interiorità; la rappresentazione che di essa custodisco nella mia mente l’ha interiorizzata e trasformata in contenuto interno, spirituale, in proprietà dell’io. Perciò, in rapporto alla meta della ragione, l’immagine di quell’albero ne costituisce una realizzazione più compiuta di quanto non avvenga nella semplice intuizione. Tuttavia, come per la nostra Vorstellung di prima, anche l’immagine dell’albero è soltanto immagine, ovvero puramente interna, soggettiva, priva di obiettività e di essere. Essa è dunque astratta, irreale e ineffettuale, proprio perché priva di quella «universalità obiettivamente riconosciuta», che alla nostra fantasia precedente aveva conferito il linguaggio. La parola e il nome rivestono il grande significato, nella vita dello spirito, di ripristinare quest’ultimo come obiettivamente essente, di toglierlo dall’ineffettualità della sua vita soltanto interiore. Ma l’obiettività che in essi torna a farsi valere, non è più quella che si manifestava all’intuizione, bensì appunto un’obiettività spirituale, un essere che in pari tempo è soggettività, che reca impresso in sé il dominio dello spirito, poiché dallo spirito è stato creato, e per lo spirito esiste. Ascoltiamo in proposito cosa scriveva Hegel, un anno prima della Vorrede. Mediante il nome, […] l’oggetto nasce venendo fuori dall’io come essente. Questa è la prima forza creativa che lo spirito

130 esercita; Adamo diede un nome a tutte le cose, questo è il diritto di sovranità sull’intera natura, la prima appropriazione di essa, ovvero la sua creazione da parte dello spirito. (Hegel 1805/06, p. 189 s.; FSJ, p. 74)

Questo ci pareva necessario dire, sul rapporto tra rappresentazione e linguaggio, perché altrimenti potrebbe sembrare che nel cpv. 32 della Vorrede, quando Hegel parla dell’analisi di una Vorstellung, si tratti di un procedimento di scomposizione in pari tempo interiore e a-linguistico; che quindi noi a nostra volta dobbiamo, per capire veramente il senso di ciò che vien detto, chiudere gli occhi e sforzarci d’immaginare un oggetto, prima intero (albero) e poi fatto a brandelli (boccio-fiore-­ frutto), come se il significato di ciò che andiamo leggendo dipendesse dalla effettiva riproduzione nella nostra mente del procedimento corrispondente. Ma come per il nome «albero» non ho bisogno dell’immagine dell’albero, per capire che cosa significhi e per impiegarlo; così altrettanto per capire e per compiere l’analisi di una Vorstellung, non ho bisogno di avere presente in immagine il corrispettivo mentale dei termini con cui la svolgo effettualmente nel linguaggio. E questo, non sulla base di una «attualizzazione» del pensiero hegeliano operata in vista di una più «moderna» filosofia della psicologia e del linguaggio, ma della comprensione che lo stesso Hegel mostra di possedere, all’epoca della Vorrede, dei rapporti tra rappresentazione, linguaggio e obiettività. Tuttavia, il nostro testo aggiunge qualcosa in più, nel senso che esso considera «immediata proprietà del Sé», ovvero dell’io in quanto soggettività spirituale, non tanto la rappresentazione in quanto tale, bensì gli «elementi» nei quali essa viene scomposta o analizzata dall’io. Tali «momenti» sono immediatamente prodotti dell’io, nel senso che essi, nella realtà dell’intuizione, e nella stessa immagine

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con cui mi rappresento quest’ultima, non esistono nella separatezza con cui io li fisso e li isolo gli uni dagli altri. Io immagino l’albero del mio giardino, e contemporaneamente la sequenza boccio-fiore-frutto. Ora mi concentro su ciascuno di questi momenti, e considero soltanto il boccio, o soltanto il fiore, o soltanto il frutto. Ho isolato ciascuno di questi dalla dinamica connessione con gli altri, ho separato ciascuno di essi dalla bella totalità della pianta che immaginavo, e li ho fissati ciascuno per proprio conto. Avrei potuto fare lo stesso con ciascuna delle altre parti della pianta, anche se l’impiego del termine parti mi fa intendere che parlo della pianta sulla base di una scomposizione già avvenuta, che quella pianta io e la mia lingua l’abbiamo scomposta innumerevoli volte, e la continuiamo a scomporre ogni volta che ne parliamo. Strappo nella mia immaginazione un ramo dalla pianta, strappo da questo ramo le sue foglie, strappo da una di queste il bel tessuto verde. Ora di essa mi resta, nell’immaginazione, soltanto qualche brandello di nervatura, un po’ come all’anatomia dell’organismo vivente restava soltanto un mucchio di «nervi, muscoli, ecc.». Dall’esercizio immaginario di questa vegetale anatomia, torno all’intuizione della bella pianta nel giardino, oppure torno a rappresentarla così come la immaginavo prima, nell’interezza con cui cercavo di custodire quell’intuizione dentro di me. Questa «intuizione interiorizzata» dell’intera pianta, come direbbe lo Hegel dell’Enciclopedia, è ciò che qui egli chiama «vorgefundene Vorstellung», letteralmente: «rappresentazione trovata-prima», quella che già si trovava in me prima che l’analizzassi, da buon anatomista, nelle sue parti (cfr. cpv. 32; PH 27, F 25). Ma anche in questo caso, ci si potrebbe chiedere: perché la rappresentazione dell’intera pianta dovrebbe esistere in me

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prima della rappresentazione delle sue parti? Intende Hegel pronunciare asserzioni di psicologia della percezione, o formulare una legge sulla cosiddetta «associazione delle idee», secondo la quale prima la nostra mente si rappresenta un oggetto intero, e dopo, eventualmente, ciascuna sua singola parte? Naturalmente no. Il problema non è di ciò che accade prima o dopo, non riguarda la precedenza psicologica di una rappresentazione (quella dell’intero: albero) nei confronti di un’altra rappresentazione (quella della parte: gemma, fiore, frutto; oppure ramo, foglia, nervatura), bensì il livello di interiorizzazione che nell’immaginare un oggetto dato all’intuizione (l’albero del giardino) spetta alla sua rappresentazione come intero, rispetto all’individuazione dei momenti in cui la rappresentazione dell’intero viene analizzata (gemma-fiore-frutto; ramo-foglia-nervatura). E anche qui, è bene chiarire che interiorizzazione non vuole indicare un movimento quasi spaziale d’introversione, per cui lo spirito passerebbe a successivi livelli di profondità esistenti al suo interno. Non è che una rappresentazione sia, in questo senso, più profonda di un’altra, oppure più interiore nel senso di: più interna, collocata più profondamente, più in fondo nei diversi strati di cui, se si trattasse di questo, dovremmo immaginare dotato il nostro «spirito». Non è di questo che si tratta. «Interiorizzazione» indica certo, da un lato, l’idealizzazione dei contenuti oggetto d’intuizione, il loro esser divenuti rappresentazioni; ma in rapporto a queste ultime, intende segnalare che esse si allontanano progressivamente, man mano che procede il movimento scompositivo dell’intelletto, dall’intuizione dell’oggetto che noi possedevamo nella sua totalità. In tal senso, l’appropriazione della realtà spazio-temporale si estende o approfondisce sempre più, via via che ciò che si manifestava all’intuizione, e che era stato idealizzato in rappresentazione

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nella sua interezza, adesso (cioè sulla base del suo esser stato trasformato, in Vorstellung) venga ulteriormente analizzato. Ove ciò avvenga, quest’ultima si trova separata in quelli che Hegel chiama i suoi momenti. In questo senso, la rappresentazione dell’intero è rappresentazione trovata-prima: trovata, poiché l’idealizzazione dell’oggetto in essa compiuta mira a riprodurre e a ricreare l’oggetto, ma sempre come intero, ovvero in rapporto al modo in cui esso si manifestava all’intuizione. Viceversa, il mio potere di disposizione, il mio diritto di sovranità sulla natura, sui contenuti della mia intuizione si estende e approfondisce tanto più, quanto più mi dimostro in grado di elaborare, scomporre, analizzare la rappresentazione, smembrandola in momenti che la trasformano in qualcosa che non sussiste più come intero, che non ho mai intuito in quella forma, e che proviene esclusivamente dalla «forza creatrice» del mio spirito. Perciò, Hegel sostiene che solo smembrata nei suoi «elementi» la rappresentazione diventa immediata proprietà dell’io. Questa immediatezza, come vediamo, non è tale in quanto sia semplicemente data. Può sembrarci così, poiché siamo talmente esercitati a compiere e a muoverci, per così dire, tra astrazioni, che non rendiamo più tematicamente oggetto di attenzione l’astrazione come tale, o addirittura non cogliamo nemmeno più come astrazioni i momenti in cui scomponiamo, in cui la lingua e la civilizzazione hanno già scomposto per noi, l’intuizione dell’intero. Ma dal punto di vista della meta della ragione, dal punto di vista dello svolgimento attraverso il quale lo spirito giunge al sapere di sé, ovvero del sistema che organizza questo svolgimento e che quella meta pone a risultato, quei momenti, quelle astrazioni sono esse stesse risultato, sono esse stesse uno dei traguardi attraverso i quali la marcia dello spirito procede, insieme al sistema che lo comprende, verso il conseguimento di quel fine.

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Per indicare che quei momenti sono «immediata proprietà del Sé», Hegel li designa come pensieri. Questa indicazione determina un passaggio, la transizione a un momento più elevato nella vita dello spirito. Finora, noi ci siamo mossi nella sfera della rappresentazione, abbiamo scomposto la rappresentazione dell’intero presente all’intuizione nella rappresentazione dei momenti di quell’intero, ovvero abbiamo analizzato quella «vorgefundene Vorstellung». Adesso, Hegel ci dice che i momenti risultanti dall’analisi dell’intelletto non sono più semplicemente rappresentazioni, ma «pensieri» (Gedanken); inoltre, scrive questo termine in corsivo, per richiamare su di esso l’attenzione. Anzi, se osserviamo bene, possiamo notare come nelle frasi seguenti i primi termini che troviamo scritti in corsivo sono le parole separato e intelletto. Hegel intende evidentemente sottolineare la relazione che sussiste tra la formazione di pensieri, da un lato, e l’attività di divisione operata dall’intelletto sul contenuto della Vorstellung, dall’altro. Che cosa significa tutto questo? Probabilmente, che stiamo approssimando un livello di generalità superiore rispetto a quello della Vorstellung. Noi abbiamo visto come quest’ultima non si esaurisse nell’interiorità dell’immaginazione, come in essa si ripristinasse, tramite il linguaggio, un’obiettività non più semplicemente materiale, ma spirituale. Più precisamente, l’obiettività del linguaggio è un’obiettività spirituale, poiché in essa lo spirito trasmette dei significati. L’obiettività del linguaggio è così anche immediatamente tolta nell’idealità del significato, che lo spirito intende comunicare attraverso di essa, per mezzo di essa. È proprio perché lo spirito si serve in questo modo di un materiale esterno che nascono i segni; anzi, nel linguaggio persino

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il materiale attraverso il quale comunico i significati scaturisce dall’interiorità del soggetto in forma di voce. L’analisi dei suoni emessi dalla voce produce a sua volta le lettere, e con esse la scrittura alfabetica, con la quale noi non ci riferiamo più, come nella scrittura geroglifica, all’immaginazione o alla fantasia, bensì semplicemente al suono della voce. Ora, attraverso la creazione di un linguaggio e di una scrittura come quella alfabetica, lo spirito si scioglie dal legame che, nella Vorstellung, lo vincolava ai contenuti dell’immaginazione, e perciò stesso, benché in misura sempre più indiretta, all’intuizione. Come abbiamo visto, l’analisi della Vorstellung non richiede la riproduzione, nella mia immaginazione, di una gemma, di un fiore, o di un frutto. Noi seguiamo la metafora hegeliana senza dover ripercorrere nell’immagine ciò che andiamo leggendo, poiché la sequenza in questione esprime il suo significato indipendentemente dalle rappresentazioni, a cui può essere o meno associata. In altri termini, il significato diventa indifferente nei confronti dell’immagine, e perciò stesso si generalizza. Esso è il medesimo per coloro che leggono il brano in questione, indipendentemente da ciò che ciascuno di noi può immaginare quando lo legge. Questo vuol dire, in Hegel, che noi pensiamo; e «pensare» sarebbe, in questo senso, la riflessione condotta, attraverso il significato dei termini, su questo stesso significato. È per questo che pensare implica già sempre l’elemento del­ l’universale. Anzi, soltanto nel pensare lo spirito perviene propriamente alla coscienza dell’universale, ovvero di ciò che in quanto è significato possiede validità generale, indipendentemente dalla qualità della mia voce, dal carattere della mia scrittura, dal fatto che io usi una vecchia «lettera 32», oppure un computer; e tanto più, allora, da ciò che mentre scrivo o mentre leggo immagino.

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In effetti, poiché ho appreso almeno una lingua, io mi muovo già sempre nell’elemento dell’universale, ma ciò non significa che io già pensi. Io comincio a pensare, in senso proprio, soltanto quando interrogo l’universale nel suo senso, quando lo prendo a tema della mia riflessione. E ciò non accade molto frequentemente, forse perché, in quell’universale, mi ci trovo situato perlomeno da quando ho imparato a parlare. Ma dal momento in cui pensa, lo spirito procede alla creazione di universali dotati di generalità ancora superiore. Una volta che l’intelletto sia intervenuto sulla rappresentazione, analizzandola in quelli che Hegel chiama i suoi momenti, il processo della generalizzazione si può infatti esercitare su questi ultimi. Il verde della pianta che si trova nel mio giardino è senz’altro indipendente dall’albero al quale io lo riferisco in questo momento: tanto indipendente, che quell’albero (al quale pure sono così affezionato) non ho nemmeno più bisogno di rappresentarmelo, per capire che cosa significhi verde. Da questo punto di vista, possiamo dire che verde è un universale, poiché verdi chiamo la chioma dell’albero, il nome «Hegel» che compare sulla copertina dell’edizione italiana della Fenomenologia dello spirito, le righe verticali della mia camicia nuova, e innumerevoli altre cose. Per la stessa ragione, inoltre, possiamo definire verde come un pensiero, e pensiero significherà, in questa accezione, un universale che si è reso autonomo dal particolare, consista poi quest’ultimo di oggetti, oppure di immagini. Tuttavia, tale pensiero, che il mio intelletto ha tratto per analisi dalla Vorstellung dell’intero albero, è generalizzabile a sua volta. Anche in questo caso, potremmo dire che esso è già sempre, a sua volta, generalizzato: perlomeno da quando so (e lo «so», appunto, poiché ho imparato l’italiano) che verde è un colore (assieme a rosso, blu, e a molti altri colori ancora).

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Nella filosofia dello spirito di Jena degli anni 1803/04, Hegel impiega proprio l’esempio del colore per evidenziare il passaggio dal livello del linguaggio e della memoria a quello del pensiero e dell’intelletto (cfr. Hegel 1803/04, p. 293; FSJ, p. 29 s.). Nella filosofia dello spirito jenese del 1805/06, tuttavia, la posizione hegeliana matura ulteriormente, e l’intelletto viene collocato all’altezza della produzione dell’universale tout court, ovvero del concetto stesso di universale. Hegel conduce così alle sue estreme conseguenze la sua posizione precedente, nel senso che all’intelletto non è più riservata la produzione di questo o quell’universale, ovvero di universali comunque determinati, risultanti dall’attività con la quale esso fissa, isola, separa gli uni dagli altri i significati delle parole; bensì ora il Verstand astrae ulteriormente, sulla base di questi, l’universale in quanto tale (cfr. Hegel 1805/06, p. 196 ss.; FSJ, p. 81 ss.), ovvero coglie il pensare nell’elemento che gli è proprio, qualora esso venga considerato nella sua purezza in quanto pensare. Arrivato a questa altezza, tuttavia, l’intelletto non può procedere oltre. Esso raggiunge l’elemento dell’universale in quanto tale, ciò che non è ulteriormente generalizzabile; ma come abbiamo visto al cpv. 17 della Vorrede, esso perviene a questo risultato soltanto a prezzo di astrarre, ovvero separare e scindere, il pensare dall’essere. Esso riduce il pensare all’applicazione della propria universalità senza contenuto, ovvero puramente formale, a una materia che considera, rispetto a quel pensiero, estranea. Procedendo nella lettura del cpv. 32, potremo evidenziare le implicazioni derivanti dal fatto che l’intelletto possieda soltanto l’universalità formale.

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2. Il morto e il negativo Dopo aver precisato che «questa analisi», ovvero quella operata dall’intelletto sulla Vorstellung, «perviene certo soltanto a pensieri», Hegel continua scrivendo che tali pensieri sono essi stessi determinazioni note, ferme e quiete. Ma questo separato ineffettuale è esso stesso un momento essenziale; poiché solo per il fatto che si separa e si rende ineffettuale, il concreto è ciò che muove sé. L’attività del separare è la forza e il lavoro dell’intelletto, della potenza più mirabile [verwundersamsten] e più grande, o piuttosto assoluta. (cpv. 32; PH 27, F 25)

I pensieri risultanti dall’attività dell’intelletto vengono all’inizio preceduti da un «soltanto»: essi sarebbero cioè solo pensieri, non sarebbero nulla di reale, nulla di effettivo o di esistente. Di essi, si potrebbe dire che sono morti proprio perché da loro è dileguata la realtà, perché sono scomparsi nel senso letterale che sono stati tolti alla totalità di cui costituivano parte integrante nella Vorstellung e ancora prima nell’intuizione. La loro ineffettualità costituisce dunque il primo senso in cui possiamo, di quei pensieri, predicare la morte. Torniamo alla nostra pianta, e alla sua rappresentazione. Assumiamo quest’ultima nel senso che abbiamo determinato sopra, oppure, per non andare a cercare tanto lontano nella Fenomenologia, in quello che ci viene fornito al cpv. 30 della Vorrede, là dove essa viene indicata come il toglimento ancora soltanto immediato dell’esistenza esterna dell’oggetto, del suo Dasein nello spazio e nel tempo dell’intuizione (cfr. PH 26, F 24). La Vorstellung in questione è quella che nel cpv. 32 abbiamo visto chiamata «vor-gefunden», pre-data, data per prima. Non dovremmo avere difficoltà a comprendere perché in essa l’oggetto è idealizzato, ricondotto al Sé come sua proprietà, però ancora soltanto immediatamente. Abbiamo visto come ciò dipenda dal legame di dipendenza che essa ancora intrattiene

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con l’intuizione, cioè con l’oggetto nel suo Dasein. L’intelletto analizza tale Vorstellung e la traduce in pensieri senza realtà, cioè morti. Hegel chiama tali pensieri «determinazioni note» (cpv. 32; PH 27, F 25), non soltanto nel senso in cui mi è noto che la chioma dell’albero che vedo nel giardino è verde, ma nel senso che «so» che cosa significa dire, di un oggetto, che esso è verde. Ma poi aggiunge due altri predicati, che non sembrano conseguire immediatamente dal primo. Quelle determinazioni, infatti, non soltanto sarebbero note, bensì anche «ferme e quiete» (ibidem). Esiste una connessione tra questi termini? E se esiste, qual è? La connessione esiste, e riguarda l’altro senso (strettamente intrecciato al precedente) in cui possiamo dire che quei pensieri sono morti. In effetti, essi sono senza realtà poiché vengono separati da ciò che ordinariamente s’intende per concreto, ovvero dall’oggetto per come si presenta nel suo Dasein, e per come la «vorgefundene Vorstellung» intende rappresentarlo conformemente a tale Dasein. La rappresentazione si arresterebbe qui, se non fosse per l’intelletto che interviene ad anatomizzare quel concreto e reale, sia pur solamente rappresentato, e a considerarlo secondo quegli astratti e ineffettuali momenti. Per ciò fare, l’intelletto divide, scinde, separa. Come un anatomista, esso lacera il corpo (rappresentato) dell’oggetto, strappa le parti dalla connessione organica in cui esse, prima di essere identificate come parti, esistevano come «momenti fluidi» dell’intero (la pianta del mio giardino, oppure quella della metafora hegeliana), e le considera isolatamente, ovvero ciascuna per sé. Quindi, allo stesso modo in cui l’anatomia conosceva il vivente solo smembrato nelle sue parti morte, perciò non più come vivente, così altrettanto l’intelletto. Per dividere la rap-

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presentazione nei suoi momenti, esso sacrifica l’intero sull’altare dell’astrazione; ma poiché l’intero è stato ucciso, quegli stessi momenti vengono privati della vita, dell’effettualità che possedevano quando ancora non erano meri pensieri, ma costituivano le articolazioni dinamiche di una totalità, ovvero di un’organizzazione vivente. Ma sarebbe una divisione effettiva, quella dell’intelletto, se poi immediatamente la «vorgefundene Vorstellung» si ricomponesse nella concretezza che la contraddistingueva prima del suo intervento? Evidentemente no. Per separare effettualmente, l’intelletto deve fissare, immobilizzare, stabilizzare il separato; così come, viceversa, il fisso, lo stabile, l’immoto può costituire l’orizzonte di quei pensieri, proprio perché essi risultano da una separazione che si è stabilita e realizzata effettualmente, che si è realmente compiuta. Ora, è proprio a questa altezza che possiamo misurare in tutta la sua portata la straordinaria potenza dell’intelletto. Esso infatti dona un suo proprio Dasein a ciò che è privo di Dasein, trasforma in esistenza indipendente ciò che nell’intuizione e nell’immagine non possiede alcuna esistenza, dota di essere ciò che è privo di essere. In altri termini, consolida e tien fermo ciò che è morto, ciò da cui la vita è dileguata, senza inorridire davanti a questo, senza spaventarsi della devastazione, che esso stesso ha provocato. Perciò l’intelletto è forza e potenza; perciò, esso non è una potenza qualunque, più o meno grande rispetto ad altre, ma eccede la stessa possibilità della misura e del confronto. In quanto la morte e l’annullamento di ogni e qualsiasi positività, di ogni e qualsiasi vitalità, essa stessa appare come ciò di fronte a cui non è possibile misura alcuna, come ciò che eccede ogni rimedio, per la quale non esiste pharmakon adeguato. La morte medesima, potremmo dire, è signora assoluta di tutto ciò che esiste, di tutto ciò che vive.

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Altrettanto assoluta dev’essere dunque la potenza di colui che di fronte alla morte non fugge sconvolto dalla paura, bensì dinnanzi ad essa addirittura si arresta, di colui che è in grado di fissare la morte, in pari tempo sostandole davanti. E proprio ciò sa fare l’intelletto. Anzi, addirittura di più. Poiché l’intelletto non si pone dinnanzi alla morte come qualcosa che gli venga assegnato dall’esterno, come qualcosa di proveniente da altro. Non si tratta neppure del fatto che, attraverso il rapporto privilegiato che l’intelletto intrattiene con la morte, l’io possa finalmente considerare quest’ultima come il suo più proprio destino, come ciò rispetto a cui scegliere la propria esistenza liberamente progettandola. La mostruosità dell’intelletto è che quest’ultimo non si limita a fissare la morte, bensì la produce esso stesso. Il Verstand ferma la morte, non soltanto nel senso che la guarda, per così dire, negli occhi; bensì nel senso che consolida, nella morte, qualcosa che ha lui stesso creato. E badiamo bene: si tratta di creare, di dotare di Dasein, qualcosa cui non spetta alcun Dasein, qualcosa che non esiste. L’intelletto produce la morte, e fissa questo suo prodotto nel pensiero. Il giovane Hegel esprimeva questa posizione quando scriveva che il concetto, ogni concetto uccide. Egli identificava allora con «concetto» i morti pensieri, che ora attribuisce all’intelletto. Anzi, come vedremo tra poco, la Vorrede si attende proprio dal Concetto la ripristinazione della vita, di una vita tanto più elevata e più potente, in quanto ha attraversato la morte, e dalla morte si è ripristinata. Ma nella Vorrede, il concetto non è più l’universale vuoto e formale dell’intelletto, bensì è l’universale concreto, ricco esso stesso di determinazioni e contenuto, o in altri termini, che si particolarizza esso stesso. Così, anche il «giovane» Hegel dovrebbe trovarsi aufgehoben in quest’altro Hegel, che, avendo scoperto un nuovo concetto del Con-

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cetto, potrebbe attendersi legittimamente da quest’ultimo la restaurazione della vita, di quella vita che non più il pensare in quanto tale, bensì piuttosto l’intelletto avrebbe ucciso. Ma è davvero possibile resuscitare dalla morte, sia pure quella rappresentata, o al massimo appunto solo pensata, che l’intelletto produce e intenderebbe fissare come definitiva? Il problema è quello del negativo e del suo superamento – un superamento che già le asimmetrie della scrittura hegeliana ci avevano invitato a non considerare né facile, né scontato.

3. «Venerdì Santo speculativo» Prima di arrivare sulle pagine della Vorrede, la questione del­ l’Aufhebung del negativo aveva occupato da tempo la riflessione di Hegel. Abbiamo menzionato la relazione tra concetto e morte, su cui egli si era soffermato prima di giungere a Jena, agli inizi del 1801. Qui, nei saggi che precedono la Fenomenologia, il problema del negativo e della morte trova forse la sua più compiuta formulazione nel brano che chiude Fede e sapere (cfr. Hegel 1802, p. 413 s.; SC, p. 252 s.), dove la morte appare come la forma estrema, ovvero assoluta della negatività. La morte (Tod), in quanto annulla, distrugge, devasta ciò che esiste e vive, costituisce la manifestazione effettuale del negativo, la potenza della negatività, nella misura in cui con questi termini s’intenda esprimere un momento strutturale dell’assoluto e del processo stesso del suo divenire. In questo senso, il negativo e la negatività costituiscono il fondamento assoluto, o se vogliamo la radice originaria, da cui proviene la negazione in quanto forma del linguaggio e della logica. È perché il negativo è un momento necessario dell’assoluto e del suo apparire, perché la negatività è il movimento di produzione o di posizione con cui l’assoluto si pone nel finito, e in esso si

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nega sino alla morte, che nel linguaggio il negativo si esprime nei termini di una proposizione negativa, così come esiste la possibilità di negare logicamente attraverso la forma del non. Nella morte, il negativo si manifesta invece, in quanto momento della vita medesima dell’assoluto, in tutta la sua effettuale potenza. Non dunque semplicemente come non, non semplicemente nel suo senso logico formale, ovvero come forma proposizionale negativa, cui si contrapporrebbe un’altra forma proposizionale, quella affermativa. Qui, lo ripetiamo, si tratta di momenti radicati nella struttura stessa dell’assoluto, costitutivi dunque dell’infinito medesimo, qualora si voglia concepire quest’ultimo nella sua verità. Di questa potenza del negativo, che solo la filosofia comprende adeguatamente, poiché ne presenta la giustificazione nel sapere, esiste tuttavia una forma di rappresentazione religiosa. Tale forma raggiunge nel cristianesimo la sua espressione più compiuta, in particolare se consideriamo quest’ultimo nella sua versione riformata. Infatti, è vero che nel cristianesimo il potere della morte viene condotto al suo apice, poiché viene esteso sino a coinvolgere non soltanto la totalità dell’essere, l’universo di tutto ciò che esiste; bensì ad esso soggiace lo stesso Dio, che dell’essere costituisce l’infinito creatore, l’assoluto fondamento. Tuttavia, è solo nel protestantesimo che la sofferenza per questa morte, il sentimento che Dio stesso è morto vengono condotti alla loro massima intensità, all’esperienza più profonda e più interiore. Il soggetto che prova quel sentimento della morte di Dio, e che lo approfondisce meditandolo sino alle estreme conseguenze nella sua coscienza, sperimenta in se stesso quello che Hegel chiama «il dolore infinito» (ivi, p. 413; p. 252). Poiché se Dio è morto, che cosa può arrestare la fine dell’essere nella sua totalità? Che cosa può fermare la morte di tutto ciò che esiste e della nostra stessa fede, se lo stesso creatore,

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lo stesso Padre dell’essere è stato crocifisso nel suo Figlio? Una volta crollato il fondamento, nulla sembra più poter restare stabile, poiché ciò in cui tale stabilità poteva trovare la sua base salda e immutabile, è andato perduto. Il dolore del soggetto diventa infinito, poiché l’infinito stesso è morto. Nulla, letteralmente nulla potrà ormai venire a mitigarlo, sanarlo, limitarlo. Non più Dio, bensì il nulla appare allora l’unico infinito veramente effettuale, poiché il nulla ha assorbito Dio stesso, e nel nulla è destinato a precipitare tutto ciò che esiste. Perciò, al soggetto che soffre il dolore infinito, sembra restare aperta soltanto la prospettiva del più disperato nichilismo: di fronte a lui, si spalanca l’«abisso del nulla, in cui ogni essere sprofonda» (ibidem). Ora, alla filosofia spetta di assumere questa idea e di presentarla nei termini suoi propri, cioè di esporre (darstellen) in forma di sapere concettualmente riflesso quello che per la coscienza religiosa costituisce un evento storicamente accaduto. Ciò è quanto Fede e sapere esprime, quando a questo proposito afferma che al sentimento che Dio stesso è morto, all’infinitezza di quel dolore, «il concetto puro deve dare un’esistenza filosofica, deve dare dunque alla filosofia […] la Passione assoluta o il Venerdì Santo speculativo, che fu già storico, e deve ristabilire quest’ultimo in tutta la verità e la durezza della sua assenza di Dio» (ivi, p. 414; p. 253). Tuttavia, la morte stessa, per negare l’essere, deve pur essere: l’essere che la morte distrugge, è l’essere che la stessa morte presuppone, per poterlo distruggere. Essa potrebbe dunque soggiacere alla contraddizione, che essa stessa è; la morte potrebbe a sua volta morire, se l’essere potesse, attraverso la morte, ripristinarsi dall’«abisso del nulla» in cui è precipitato. Così, la filosofia che assume il dolore di quella morte, che nella speculazione soffre per quel medesimo Venerdì Santo, che aveva lacerato la coscienza religiosa, dimostra in pari tempo

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che dell’assoluto quella sofferenza è sì un momento, «ma anche niente più che momento» (ibidem). La filosofia presenta la formazione e l’autointuizione cui l’assoluto perviene manifestandosi nel finito, comprende nella sua necessità il sacrificio cui l’assoluto si sottopone esponendosi all’annullamento e alla distruzione. Ma in pari tempo, essa comprende che se l’assoluto soggiace in tal modo alla potenza del negativo e della morte, quest’ultima lo colpisce nella sua figura finita, in quanto si è reso esso stesso finito. Perciò, dall’enormità di questa distruzione l’assoluto anche si risolleva. Anzi, è solo in questo movimento del diventare finito, che l’assoluto può annullare il nulla che lo assale, che può perciò effettualmente affermarsi come infinito – tanto assolutamente infinito, da sopportare e superare entro di sé la propria stessa fine. Così possiamo intendere, almeno in parte, le conclusive parole di Hegel: «È solo da questa durezza […] che la suprema totalità in tutta la sua serietà e dal suo più riposto fondamento, abbracciando tutto contemporaneamente, e nella più serena libertà della sua figura, può e deve risuscitare» (ibidem; corsivi miei). D’altro lato, l’essere che qui è in questione potrà ancora intendersi alla stregua di essere immediato, del Dasein che si manifesta all’intuizione come esistenza empirica e finita? La stessa analisi della Vorrede sembra mostrare che questa, sì, dalla morte di Dio è stata intaccata una volta per tutte. L’essere che nuovamente sorge dalla morte, dovrà perciò ben più che essere semplicemente. Nella Fenomenologia, Hegel tornerà ad affrontare il problema della morte di Dio, e della religione che l’ha espressa. Ma questa volta, egli approfondirà il significato della forma che, nel cristianesimo, Dio assume dopo aver sconfitto la morte. Nella morte del Figlio, Dio stesso è morto; ma in virtù del sacrificio cui abbandona la figura empirica e finita, esso può risuscita-

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re nella forma trasfigurata dello spirito; e di uno spirito che soltanto allora si afferma come propriamente infinito, poiché ha compreso la morte entro di sé, poiché persino la morte ha soggiogato, persino la morte ha trasformato in semplice momento dileguante, funzionale e subordinato all’assoluta affermazione di sé come verità e vita.

4. Magia dell’intelletto L’intelletto e la croce, da un lato; il Concetto e il Cristo, dall’altro. L’intelletto figurerebbe qui come la croce del Concetto; ma così come Cristo ha vinto la morte, e ne è risorto nella forma trasfigurata dello spirito, altrettanto il Concetto mostra che benché l’intelletto sia «potenza assoluta», esso non ottiene, per questo, l’ultima parola. È vero: se «la morte è ciò che è più terribile», «tener fermo ciò che è morto [das Tote]», produrlo e fissarlo di fronte a sé, «è ciò per cui si richiede la massima forza» (cpv. 32; PH 27, F 26). Ma osserviamo meglio: perché l’intelletto possiede questa forza? Perché esso incorpora ed esercita l’enorme, immane, mostruosa potenza del negativo? La risposta di Hegel non lascia adito a dubbi: l’intelletto non designa una facoltà dell’anima, non va inteso nei termini di un sostrato al quale spetterebbe, come predicato ad esso inerente, l’attività del separare. L’intelletto è piuttosto questa stessa attività. Perciò Hegel può dire che «esso è l’energia del pensare, del puro io» (ibidem). Esso è energia, nel senso che esprime la forza di separare e uccidere, da un lato; di tener fermo e stabile questo separato di fronte a sé, dall’altro. Perciò, ancora, Hegel può definire il «soffermarsi» dell’intelletto di fronte al morto «la magica forza [Zauberkraft], che volge il negativo nell’essere» (ibidem).

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È stato detto che in questa magia dell’intelletto l’idealismo hegeliano manifesterebbe la sua profonda irrazionalità1. Esso addirittura svelerebbe, più in generale, l’assurdità di ogni tentativo volto ad assolutizzare la ragione, in qualunque accezione quest’ultima venga intesa. Poiché la realtà non si piega docilmente alle esigenze del Concetto, anzi le dimostra come impossibili e insensate, Hegel sarebbe costretto a ricorrere a un atto di magia, ovvero a ingannare e a illudere innanzitutto se stesso, e quindi i suoi lettori, sul fatto che la realtà sia effettivamente, nella sua essenza, concettualità. Solo così, grazie a un’abilità, per così dire, da prestigiatore, Hegel riuscirebbe a costruire una fenomenologia dello spirito intesa come la ricostruzione sistematica delle tappe che lo spirito avrebbe attraversato nella storia universale, prima di pervenire al coglimento di sé nel sapere assoluto. Se teniamo conto che solo in base al risultato della Fenomenologia Hegel perviene poi a costruire la sua «logica speculativa», ecco che tutto il sistema hegeliano sarebbe nient’altro che una mostruosa mistificazione, mediante cui la realtà viene distrutta in ciò che essa effettivamente è e mostra di essere all’esperienza, per venire trasformata nel processo di autorealizzazione dello spirito, culminante nel sapere di sé che quest’ultimo verrebbe finalmente a conseguire nel sistema di Hegel. L’obiettivo di questa critica è quello di colpire in Hegel colui che avrebbe chiuso ogni ulteriore spazio all’esperienza della trascendenza, privando così l’uomo e la coscienza di quell’apertura al divino (inteso quest’ultimo come ciò che, nello spazio dell’umano, all’umano comunque non si lascia ridurre senza stravolgimento della struttura stessa della realtà), che sola dovrebbe consentire costituzione di storicità e differenziazione

1.  Cfr. E. Voegelin, On Hegel – A Study in Sorcery, in «Studium Generale», XXIV, 1971, pp. 335-368.

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nello sviluppo delle civiltà. A partire dal doppio presupposto della fondatività, per la vita della coscienza, di quell’esperienza di apertura; e dell’azzeramento che quest’ultima verrebbe a subire nel pensiero di Hegel – quest’ultimo si trova criticato per avere stravolto la realtà e la coscienza, e per essere ricorso a un atto di magia pura e semplice, allo scopo di convincere se stesso e i suoi lettori che quelle che lui andava costruendo erano davvero la realtà e la coscienza. Solo in virtù di questo escamotage la storia ha potuto essere intesa come storia dello spirito, orientata al raggiungimento della compiuta trasparenza di sé a se stesso da parte di quest’ultimo. Una volta conseguito il «sapere assoluto» e realizzata, nell’immanenza, la fine della storia, lo spirito perviene alla completa autosufficienza che, nell’attuarlo come assoluto, perciò stesso azzera la possibilità di ogni differenziazione ulteriore. Ora, ammesso (e ne dubitiamo fortemente) che in tutto ciò si tratti ancora di Hegel, proviamo a interrogare la consistenza di questa ricostruzione secondo la sua logica interna. In genere, i prestigiatori non ci mostrano i loro trucchi, né i maghi, se si tratta di stregoni e d’imbroglioni, ci dicono che ci stanno imbrogliando, e ci spiegano anche perché tutto quello che stanno facendo non è altro che frutto d’illusione e d’inganno. Invece, Hegel non soltanto sarebbe un filosofo mago, e quindi un filosofo falso, ovvero ancora: un impostore; bensì, esso sarebbe falso anche come mago, falso anche come impostore. Egli infatti c’imbroglia; ma poi, aspirando a spacciare per razionali tutte le sue invenzioni, questa aspirazione alla razionalità verrebbe a scontrarsi con la coscienza, che non può non essere cattiva, delle sue imposture e dei suoi giochi di prestigio, per cui egli stesso verrebbe a confessarci, in forma di metafora, di essere un mago. O forse, si tratta del lapsus involontario che rivela l’impostore proprio nell’atto in cui quest’ultimo sta riuscendo a ingannarci, e svela il mago contro

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e a discapito del mago stesso, che non riuscirebbe a occultare il suo esser-mago neppure quando ostenta, e vuol farci credere, d’essere filosofo, e di filosofare. In ogni caso, si tratterebbe di un mago che non è neppure all’altezza del suo esser-mago. È lecito, ci sembra, nutrire forti dubbi sulla tenuta interna di questa ricostruzione, anche considerata a prescindere dalla sua plausibilità d’interpretazione. Fissiamo allora due punti: intanto, che la Zauberkraft di cui si tratta al cpv. 32 pertiene all’intelletto come capacità di pensare in generale, non alla ragione, né tantomeno al Concetto speculativo; e quindi, che la stessa fragilità della ricostruzione esaminata conduce a intendere l’intelletto altrimenti che come attività di prestidigitazione.

5. Odio della bellezza e «morte della morte» Cerchiamo dunque d’interpretare in altro modo il testo della Vorrede. E, innanzitutto, la determinazione dell’intelletto come energia. Abbiamo visto in che senso esso possa venire così designato. Tuttavia, il termine di energia non esprime solo una metafora, bensì (come in generale per le metafore che impiega Hegel) determina nella sua specificità la posizione teoretica di cui si tratta. La metafora dell’energia si colloca infatti sullo sfondo dell’interpretazione hegeliana, riguardante il carattere incondizionato dell’attività dell’io. Fichte aveva indicato tale incondizionatezza nell’atto con cui l’Io si pone, cogliendosi allo stesso tempo come Io. Questa è la struttura della originaria Tathandlung, su cui ci siamo soffermati in precedenza, che mostra come l’io, in quanto fatto (Tat), sia già sempre atto o azione (Handlung), e viceversa, non

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può attivamente porsi, se non in quanto si è già in pari tempo colto in quanto posto. L’io appare in tal modo incondizionato, nel senso che nulla può porlo che non sia l’io stesso: esso non può perciò provenire da condizioni esterne a sé, e in quanto assolutamente incondizionato è posto da Fichte a principio primo della dottrina della scienza. Ma come abbiamo anche già visto, l’incondizionatezza dell’io non viene confermata, secondo Hegel, dal sistema di Fichte. Quest’ultimo non ritorna al suo principio, in quanto l’io decade da incondizionato a condizionato, ovvero inviluppato nell’opposizione col non-io, che gli impedisce di pervenire effettualmente all’incondizionata identità con sé, da cui pure lo stesso Fichte era partito. Ora, Hegel accoglie la concezione fichtiana dell’incondizionatezza dell’io, ma quest’ultima non resta in lui principio privo di effettualità, bensì diventa struttura reale dell’io stesso. Perciò, non si tratta di dimostrare a partire da essa la struttura della coscienza; piuttosto l’io la esperisce in se stesso, e concretamente la realizza proprio in quanto produce e stabilizza il morto. In questo senso, nel pensare dell’io si manifesta e si esercita una forza, e tale forza esige correlativamente un’energia, che la sostenga. Ma questa forza, questa energia non scadono in tal modo a semplici paragoni, non vengono private del loro statuto di letteralità, bensì in esse si esprime anche il fatto che, letteralmente, l’io è forza, l’io è energia, e dimostra effettualmente tali forza ed energia nel tener fermo il morto. Perciò l’io è, in quanto concepito esclusivamente sulla base di questa forza, puro io, ovvero io concepito nell’attività che lo contraddistingue essenzialmente come io: ovvero nell’attività del pensare, e cioè ancora: nell’attività del separare ciò che

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all’intuizione e nell’immagine si mostra interconnesso, nell’astrarre le parti dell’intero; nel produrre quindi morti pensieri, che attraverso la mediazione della parola e del linguaggio incorporano l’«esserci» nell’interiorità dello spirito, sollevandolo a esistenza universale. Di qui, l’affermazione hegeliana sulla «ungeheure potenza del negativo» (cpv. 32, loc. cit.). Tale potenza è immane, e nella sua enormità mostruosa. Ma se nel mostruoso è innanzitutto la bellezza a essere oltraggiata e offesa, necessariamente: «La bellezza senza forza [Die kraftlose Schönheit] odia l’intelletto» (ibidem; PH 27, F 26); poiché nell’intelletto è proprio il monstrum che si afferma come effettuale, in tutta la complessa plurivocità dei suoi significati: come prodigio e come mostro, tale da suscitare la più grande ammirazione e il più grande orrore. «Ma non la vita che inorridisce davanti alla morte», non la vita che si arresta al culto della bellezza, «è la vita dello spirito» (ibidem). Se l’intelletto incorpora la massima forza, ad esso si contrappone la bellezza che è senza forza; e se l’intelletto esercita tale forza nello stravolgimento delle connessioni che formano un intero, o in altri termini: nello stravolgimento delle forme, ecco che la bellezza non può non odiare il monstrum, che così si produce. Essa non può farvi fronte, poiché quello la distrugge. Nell’odio della bellezza si riflette così la sua impotenza, di contro all’assoluta potenza del Verstand. Forse, non sarà mai possibile stabilire con certezza l’autore del cosiddetto Ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus (cfr. Hegel 1796/97). Sin dal tempo del suo ritrovamento da parte di F. Rosenzweig, però, nessun dubbio vi è stato nel riconoscere i caratteri della sua scrittura come di mano hegeliana. Ebbene, qui, in un testo che non risale a dopo i primi mesi del 1797, traspare come Hegel potesse ancora guardare alla bellezza come all’idea più alta, quella che unifica tutte le

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opposizioni e le riconduce a suprema armonia. Qui, la bellezza appare come ciò che non inorridisce di fronte alla scissione, che non volge il suo sguardo da ciò che la Vorrede chiamerà «il negativo», bensì ne sopporta il peso a tal punto, da affermarsi dentro il contrasto come la sua unificazione, come il momento del suo massimo equilibrio. Certo, quest’ultimo potrebbe apparire come già sempre sul punto di riprecipitare nel disordine e d’infrangersi. Ma proprio in questa fragilità consiste la forza della bellezza: nel fatto che essa si afferma mantenendo la tensione tra gli opposti, che essa rappresenta nell’attimo del suo precipitare in forma. Per la presenza di questa visione della bellezza, la maggior parte degli studiosi ravvisa in Hölderlin, se non l’autore, almeno l’ispiratore originario di questa parte del frammento. Ma dal pensiero di Hölderlin, lo Hegel che scrive la Vorrede si era ormai da tempo allontanato, distanziandosi in pari tempo da ciò che pure egli stesso aveva creduto di poter scorgere, con l’amico, proprio nell’idea della bellezza. Il Venerdì Santo speculativo, invocato in Fede e sapere sulla scorta della Passione e morte di Dio, vuole procedere oltre la bellezza, alla luce della quale, invece, in quegli stessi anni, Hölderlin cerca d’illuminare la figura di Cristo: Quanto Hegel, con questi pensieri, si sia allontanato dal suo amico Hölderlin, si mostra se si confrontano i testi di Hegel con l’inno Patmo, che sorse più o meno contemporaneamente […]: se Hegel vede la permanente origine della ricostruzione cristiana della religione nell’umiliazione della croce, che è senza bellezza, invece Hölderlin indica Cristo come la figura, in cui «am meisten / die Schönheit hing»2, che nonostante lo

2.  Cfr. F. Hölderlin, Le liriche, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1977, vol. II, p. 269, vv. 156-157: «colui cui era fusa grande parte / della Bellezza».

153 «Zürnen der Welt»3 si accomiata dai giovani, vittorioso e gioio­ so – per così dire senza croce e infamia […].4

Hölderlin stesso, nella sua vita, soggiacque a quel «furore del mondo», cui la bellezza avrebbe dovuto tener testa. Forse anche questo rafforzò la convinzione hegeliana che quella non possedesse forza abbastanza. Alla produzione del monstrum, alla creazione di ciò che per natura non sarebbe, né potrebbe esistere, si riferisce nella Vorrede l’appellativo che determina la forza dell’intelletto come magica. Essa non è magica nel senso che in essa si esprima un atto di prestidigitazione, di radicale irrazionalità. Al contrario, se intesa in questa luce essa è addirittura ciò che rende impossibile il magico, in quanto in essa si esprime l’atto del pensare in quanto tale, ovvero ancora l’attività dell’io che si afferma incondizionatamente, rispetto all’obiettività dell’intuizione, come ciò che la padroneggia e la trasforma in un universale. «Magica», allora, l’attività dell’intelletto lo è in rapporto a ciò che nell’immediatezza dell’intuizione o della rappresentazione si presenta. Rispetto alla prospettiva che dovesse assumere la datità di ciò che appare come l’unica e autentica effettualità, l’attività dell’intelletto non può non apparire se non magica, poiché in tale prospettiva, che Fichte non avrebbe esitato a definire dogmatica, vengono persi di vista esattamente l’io e l’atto ad esso pertinente del pensare. Perciò, anche nei confronti della «bellezza senza forza», l’intelletto appare come stregone o mago malefico, autore di negativi, luciferini sortilegi. Viceversa, tale magia è tutt’altro che tale, ovvero irrazionale e da prestigiatore, se la inquadriamo in rapporto all’attività che 3.  Cfr. ivi, p. 265, v. 95: «furore del mondo». 4.  O. Pöggeler, Hölderlin, Hegel und das älteste Systemprogramm, in R. Bubner (a cura di), Das älteste Systemprogramm. Studien zur Frühgeschichte des deutschen Idealismus, Bouvier, Bonn 1973, pp. 210-259: pp. 257-258.

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il soggetto esercita nei confronti di ciò che si presenta come immediato e immediatamente essente. Qui, il magico che pertiene all’intelletto sottolinea anzi lo straniamento necessario, cui quell’immediato esserci va incontro quando è inglobato nell’orizzonte dello spirito. Del resto, se uno dei significati del monstrum è quello di suscitare meraviglia, non può stupire che Hegel neghi questo carattere all’immediato (che egli definisce nicht verwundersames Verhältnis, «relazione che non suscita meraviglia»; cpv. 32; PH 27, F 25 s.), subito dopo averlo assegnato, in forma di superlativo, alla potenza dell’intelletto (quest’ultima è dunque non soltanto «assoluta», ma in quanto tale anche «quella che suscita la più grande meraviglia», die verwundersamste; cfr. ibidem, F 25); e subito prima di qualificare l’intelletto, sempre in relazione alla sua potenza, come ungeheuer. Si potrà dunque biasimare l’intelletto; però bisogna allora ricordare che senza questa devastazione, senza questa morte, non vi sarebbero né soggettività né io, né perciò stesso vi sarebbe un mondo. E non sarebbe questa una morte peggiore, di quella che all’immediatezza infligge l’intelletto? Non sarebbe la morte, davvero irrimediabile, di un silenzio che nessuno potrebbe nemmeno più intendere come tale, la morte del silenzio stesso? La nuda obiettività, il puro vuoto. Questa sarebbe l’immediatezza, che non potesse più subire straniamento da parte dello spirito. È vero: l’immediatezza, l’assenza stessa del silenzio, potrebbe infine prendersi la rivincita sugli stravolgimenti ad essa inferti dall’intelletto; e forse proprio in ciò, nella catastrofe irrimediabile in cui persino l’assolutezza dello spirito hegeliano sprofonderebbe, la potenza dell’intelletto potrebbe affermarsi come davvero dotata della massima forza – di una forza talmente grande, che finirebbe con lo spazzare via senza troppe difficoltà perfino se stessa. Il negativo si rivelereb-

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be, allora sì, realizzato nella compiutezza della sua mostruosa perfezione. Che compimento paradossale, per la dialettica! Il negativo si estenderebbe in modo tale, da sopprimersi come negativo: ma non più verso il Concetto, che in sé per così dire lo addomestica e lo ricomprende; bensì verso il nulla dell’immediatezza assoluta, verso il nudo essere, contro il quale la sua attività si dirigeva. Della potenza del negativo, e del genitivo che la esprime, così verrebbe in luce solo il versante soggettivo. In quel caso, si tratterebbe della potenza esercitata dal negativo su tutto ciò che esiste; e in fin dei conti, questo è l’unico senso di cui abbiamo parlato finora. Ma in Hegel, la stessa morte muore; e la morte della morte non dà luogo all’assenza in cui non esisterebbero più né vita né morte, bensì ripristina una forma della vita; anzi, la forma della vita che è più alta, proprio perché non ha voluto «conservarsi pura dalla devastazione», bensì ha saputo, in questa, «mantenersi» (ibidem, F 26). Tanto più che la morte di cui si tratta è la morte pensata dall’intelletto, trattenuta e stabilizzata mediante la forza del puro io, ciò che sembrerebbe renderne abbastanza facile l’Aufhebung. Abbiamo visto che i pensieri dell’intelletto erano morti in quanto da un lato erano separati, dall’altro saldi e quieti, ovvero fissi e immoti. Reintrodurre in essi la vita significa dunque toglierli dalla separatezza reciproca in cui li mantiene l’intelletto; ma per ciò fare, è necessario in pari tempo toglierli dall’irrigidita fissità, in cui sempre l’intelletto li trattiene. Tali operazioni appaiono perciò come i due momenti di un’unica e medesima operazione: senza movimento, non è possibile superare il loro reciproco isolamento; e viceversa, senza superare il loro isolamento, non è possibile ripristinare in essi il movimento.

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Tuttavia, tale ripristinazione della fluidità nelle determinazioni dell’intelletto, che potrebbe sembrare agevole per il fatto che si tratta di determinazioni meramente pensate, è proprio per questo «molto più difficile, che non condurre a fluidità l’esistenza sensibile» (cpv. 33; PH 28, F 27). Quest’ultima, infatti, non soltanto non era stata in grado di resistere alla rappresentazione, con la quale l’io l’aveva incorporata in se stesso; ma inoltre, attraverso la parola e il linguaggio, esso era riuscito addirittura a ricrearla; infine, grazie all’attività dell’intelletto, aveva saputo scomporla e ridurla così completamente a sua proprietà. Per questo, in Hegel ciò che esiste empiricamente, il Dasein colto sensibilmente nell’intuizione, non merita l’appellativo di effettuale (wirklich). Non che esso non sia reale, ma lo è nella forma meno autentica ed efficace, proprio perché più immediata. Hegel è ben lungi dal negare la realtà del mondo esterno, dal concepire gli oggetti come nient’altro che fasci delle nostre percezioni. Solo che alla realtà degli oggetti sensibilmente intuiti, egli nega qualunque effettualità; ad essi non spetta, cioè, la dignità e la potenza di ciò ha vigore ed efficacia, ed è perciò soltanto propriamente wirklich. Viceversa, poiché l’io si è mostrato dotato della forza e dell’efficacia qui in questione, poiché esso si è fatto valere nei confronti dell’oggetto immediatamente esistente, e non viceversa, ecco che dell’io, e soltanto dell’io, Hegel ritiene di poter predicare l’effettualità, e di poterla predicare nella sua assolutezza, come «effettualità pura [reine Wirklichkeit]» (ibidem). Questo non significa che ciò che non è io non sia; al contrario, la sua mancanza di effettualità deriva proprio dal fatto che esso è, e basta. Invece, proprio perché l’io non si riduce a questo essere, perché non è vincolato a un’esistenza solo immediata, esso ha efficacia e si afferma come potenza della realtà. E l’io manifesta questa effettualità nella sua purezza, ovvero nella sua incondizionata assolutezza, poiché ha trasformato in sua

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proprietà ciò che nell’intuizione si presentava ancora in forma indipendente, poiché non si è arrestato neppure alla sua traduzione nell’immagine, bensì con l’intelletto ha ulteriormente scomposto e analizzato anche questa. I pensieri che l’io ha prodotto e stabilizzato in sé sono ora l’essere che egli ha di fronte. A tale essere come pensiero l’intelletto ha ricondotto il Dasein immediato. Ma allora, se ad affermarsi come effettuale, nel senso sopra determinato, non è l’oggetto sensibilmente intuito, non è ciò che esiste in modo immediato, bensì è l’io, togliere dalla fissità quei pensieri, restituire dinamismo e fluidità a quelle determinazioni, è impresa ben più ardua che se non fosse esercitata sul Dasein sensibile. Quei «fermi pensieri determinati» hanno infatti proprio «l’io […] a sostanza ed elemento della loro esistenza» (ibidem), sono sostenuti da ciò che è sovrano sulla realtà, ovvero da ciò che solo è in senso proprio effettuale, dotato di efficacia ed effettività. Inoltre, l’io li fissa proprio in quanto si manifesta nella sua incondizionatezza, in quanto grazie all’intelletto si attua in tutta l’energia del suo pensare. Perciò, Hegel può affermare che, posti in tale elemento, anch’«essi partecipano di quella incondizionatezza [Unbedingtheit] dell’io» (ibidem). Eppure proprio qui, dove la difficoltà si mostra più difficile e più ardua, dove il suo superamento sfiora la soglia dell’impossibilità – la difficoltà si risolve, il superamento si attua. Togliere quei pensieri sembra richiedere il toglimento dell’io, ovvero di ciò che dona l’effettualità, di ciò che anzi è questa stessa effettualità, in quanto si manifesta nella sua assoluta incondizionatezza. Togliere effettualmente o effettivamente ciò che rende effettuale ed effettivo, ciò in cui consiste tale realtà ed effettività, appare evidentemente assurdo e contraddittorio. Ma non è questo che esige Hegel, non è questa la via per restituire la fluidità della vita a quelle determinazioni morte.

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Se nell’intelletto è «l’energia del pensare, del puro io» che si realizza come potenza assoluta, soltanto quest’ultima potrà essere in grado di reintrodurre la motilità in quelle determinazioni, che essa stessa ha prodotto e stabilizzato. Ciò intende Hegel, quando afferma che non il pensare dev’essere, in quanto tale, abbandonato; bensì che esso stesso, ovvero l’io nella sua pura effettualità in quanto pensare, «abbandona il fisso del suo porre-se-stesso» (ibidem). Hegel impiega, a soggetto di questa affermazione, la «pura certezza di se stesso», che l’io realizza in quanto pensa. Ancora una volta, la nostra attenzione si trova attratta dal termine «pura» (reine), nel senso d’incondizionata, e incondizionatamente effettuale. Tale parola compare, nella seconda metà del cpv. 33, ben sei volte, a designare e quasi a ribadire l’assolutezza che spetta all’autocoscienza nei confronti del reale empirico. Non è perciò senza significato che questo medesimo capoverso, sin dalla prima riga, si apra nel segno di un’«auto­coscienza» che, naturalmente, è «pura» (reines Selbstbewußtsein). Quest’ultima annuncia così che adesso è giunto il momento di celebrare il processo della sua auto-affermazione, che dall’«immane potenza del negativo», al cpv. 32, ancora stava sprigionando. Non meno indicativa risulta la certezza di se stesso, a cui quella purezza è attribuita, e che l’io consegue in quanto pensa. Con tale locuzione, Hegel non utilizza semplicemente un topos, che per la filosofia della coscienza sarebbe assodato perlomeno a partire da Cartesio; ma più specificamente designa, nel contesto della Vorrede, una determinazione che per primo Fichte aveva teorizzato in rapporto all’attività di autoposizione, con la quale l’io pone incondizionatamente se stesso. Fichte presentava quella determinazione nella proposizione secondo cui l’io, nell’atto con cui pone se stesso, si pone necessariamente per se stesso. Adesso, è questo per che Hegel sembra esplicitare nel significato di: certo di sé.

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Ancor più sintomatico del confronto che in queste pagine ha luogo, tacitamente ma non per questo meno effettivamente, con la concezione fichtiana dell’io, appare del resto l’impiego del sostantivo Sichselbstsetzen (porre-se-stesso); poiché evidentemente qui Hegel designa, trasformandola in nome, l’attività dell’io che il primo principio della Grundlage enunciava ancora in forma di proposizione: «L’Io pone se stesso [Das Ich sezt sich selbst]» (Fichte 1794/95, p. 259; FDS, p. 79). È probabile che ciò accada perché Hegel (a differenza di Fichte) considera «il dogmatismo del modo di pensare, nel sapere e nello studio della filosofia», equivalente all’«opinione secondo la quale il vero consiste in una proposizione, che sarebbe un risultato fisso, oppure anche che sarebbe immediatamente saputa» (cpv. 40; PH 31, F 32; ultimo corsivo mio). Indubbiamente, da questa affermazione viene colpita anche la costruzione fichtiana della Grundlage, che appunto inizia da principi primi enunciati nella forma di singole proposizioni (ricordiamo che in tedesco «principio» si dice Grundsatz, e che quest’ultimo termine significa, letteralmente, «proposizione fondamentale»). Soprattutto, dalla definizione hegeliana di dogmatismo viene colpita la proposizione in cui Fichte presenta il primo principio, che in quanto assolutamente incondizionata dovrebbe essere anche «immediatamente saputa». Ora, nonostante e attraverso il mutamento in sostantivo di quella fichtiana «proposizione fondamentale», non si può negare che quest’ultima continui a farsi valere, sia pure in altra forma, nel pensiero di Hegel. D’altro canto, si tratta di determinare più da vicino in che cosa consista, effettivamente, la diversità di questa forma. La maniera con cui viene utilizzato quello che in Fichte risaltava nella preminenza del principio primo, sembra infatti indicare che la posizione che in Fichte giungeva faticosamente ad affermar-

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si per la prima volta è divenuta ormai elemento metabolizzato, assunto in veste di materiale concettuale preformato, attraverso il quale e sopra il quale far valere una filosofia, che l’orizzonte fichtiano vuole lasciarsi una volta per tutte alle spalle. Certo, non nel senso astratto di un’unilaterale negazione, né tantomeno in quello, incompatibile con la dialettica, di una forzata rimozione; quanto piuttosto nella direzione, che si sarà già indovinata, dell’Aufhebung, del superamento che oltrepassa, sì, ma conservando e trasformando in forma «più elevata» concetti ed espressioni nei quali lo spirito trova raggiunto, lungo il processo che lo conduce all’assoluto sapere di sé, un encomiabile traguardo, ma appunto anche soltanto questo. Tale è il destino cui va incontro l’io che pone se stesso nella Vorrede. Esso viene aufgehoben non soltanto nella nozione, che dell’io si vuole ben più comprensiva, dello spirito hegeliano; ma anche in quanto la proposizione, che in veste di primo principio espone linguisticamente l’atto di quell’autoposizione, risulta in pari tempo assunta e trasformata, da proposizione, in nome. Come il vero non si lascia presentare da principi che hanno forma proposizionale; così il porre-se-stesso dell’io, tolto a quella forma che elevandolo a principio, pure lo abbassava a semplice proposizione, si predispone a abbandonare il fisso di quell’autoporsi, proprio nell’attimo che lo contrae in un nome. Scioltosi dallo statuto del Grund-satz, il porre-se-stesso dell’io può nuovamente riattivarsi in un pensare, che non resti più bloccato alla rigidità di singoli pensieri, ma si sperimenti dinamicamente come flusso, si svolga come attività concretamente diveniente. Il ghiaccio si scioglie, la fine finisce. I «pensieri determinati» dell’intelletto liberano l’energia che in essi si era coagulata, e il fisso torna all’elemento fluido della vita.

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Non occorre ripetere come la vita, che si è in tal modo ripristinata, rappresenti una forma più alta rispetto a quella che nell’organismo si realizza al livello immediato della natura. Come nell’intelletto abbiamo scoperto l’origine dell’anatomia, ciò che rende possibile ogni attività di scomposizione e di analisi condotta sul vivente, e in generale su ciò che esiste in modo immediato; altrettanto la vita che ha superato la morte provocata dall’intelletto, di quest’ultima ha superato la realizzazione più terribile e ardua, quella che lo spirito infligge a se stesso. Perciò, il soffio della vita che torna ad animare i singoli pensieri costituisce una realizzazione della vita in senso superiore. L’essere animato soggiace alla morte. Lo spirito invece risorge dalla morte più dura, e perciò attua la vita nella sua massima purezza, nella sua assoluta effettualità. Se esaminiamo meglio che cosa implichi l’abbandono del proprio porre-se-stesso, notiamo che Hegel lo intende in un duplice senso, che come spesso accade costituisce un senso che è unico, esposto per così dire nel dritto e rovescio dei suoi momenti. Da un lato, si tratta di abbandonare «il fisso del puro concreto, che è l’io stesso nell’opposizione contro un contenuto differente» (cpv. 33; PH 28, F 27). Nell’atto del porre-se-stesso, l’io può astrarre non soltanto da tutto ciò che immediatamente esiste, bensì anche da tutto ciò che egli stesso determinatamente pensa o immagina. A questa assolutezza Fichte aveva ricondotto il primo principio della sua dottrina della scienza. A questa assolutezza fa riferimento Hegel, quando già nella prima filosofia dello spirito di Jena scrive: il singolo può trasformarsi in questo punto, egli può astrarre assolutamente da tutto, ritrarsi da tutto, rinunciare a tutto; egli non può essere reso dipendente, non può essere trattenuto in niente, ogni determinatezza cui dovrebbe essere fissato, egli la può separare da sé. (Hegel 1803/04, p. 296; FSJ, p. 33)

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L’io si può manifestare così nell’incondizionatezza della sua libertà. Ma separandosi da tutto ciò che esiste in forma determinata, egli non fa che assolutizzare a sua volta la totalità delle determinatezze alle quali si contrappone (cfr. ibidem). L’io che Fichte in tal modo aveva voluto pensare come assoluto mostra in realtà di essere soltanto un opposto, e di scadere quindi da assoluto a relativo, da incondizionato a condizionato. Non è dunque questa la via con cui può affermarsi nell’effettualità come incondizionato. Perciò esso dovrebbe abbandonare, benché nulla e nessuno lo possa costringere a ciò fare, quello che la Vorrede chiama «il fisso del puro concreto» (cpv. 33, loc. cit.) che egli stesso è. Che l’io sia il concreto, e che tale concreto venga designato come puro, non dovrebbe stupirci. L’io è ciò che solamente è effettuale, e in questo senso è ciò che unicamente merita l’appellativo di concreto; l’io è l’assolutamente effettuale, e in tal senso la concretezza del reale perviene in esso all’attuazione pura. Poiché il «contenuto differente» di cui nel contesto si tratta sono i «pensieri determinati» dell’intelletto, la proposizione hegeliana viene a dire che soltanto rinunciando a manifestare la sua libertà incondizionata in ostinata opposizione a quei pensieri, l’io può da un lato togliersi dalla vuotezza dell’astrazione, cui una libertà così concepita e affermata lo condannerebbe; dall’altro, e in pari tempo, può togliere «il fisso dei differenti» (ibidem). Ma qui, siamo appunto al secondo momento del movimento con cui l’io rinuncia a porsi come fisso. Egli infatti non realizza la sua propria affermazione solo separandosi dalle determinazioni dell’intelletto, bensì al contrario in queste coglie i pensieri suoi propri, la sua proprietà più intima proprio perché per sé ineffettuale. Abbiamo visto come in tal modo quei pensieri partecipassero dell’incondizionatezza dell’io.

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In proposito, è forse opportuno menzionare anche un altro aspetto, che contribuisce a spiegare la rigidità con cui le determinazioni s’installano nell’io. Infatti, ciò che dall’intelletto è reso fermo e stabile, essendo per l’io assicurato come sua acquisita proprietà, rientra per lui nel cosiddetto noto. Il problema della distinzione tra ciò che è noto e ciò che invece è effettivamente conosciuto viene affrontato da Hegel in passi a cui è capitato di entrare a far parte, a loro volta, di quel noto a cui egli voleva negare lo statuto del sapere. Noi non vogliamo presumere che proprio perché noti, essi non siano anche in pari tempo conosciuti. Ci limitiamo perciò soltanto a segnalare come, nel noto, la rappresentazione prenda la sua rivincita nei confronti dell’intelletto, che ne aveva devastato il patrimonio immaginativo. Anche ciò che l’intelletto separa e conduce a pensiero può infatti cader preda della rappresentazione. Quest’ultima non costituisce soltanto una funzione dello spirito, ma designa anche una determinata modalità del conoscere. Che cosa accade, quando la Vorstellung s’impossessa di ciò che essa trova di fronte a sé, già consolidato e isolato dall’intelletto? Essa vi collega determinate immagini, lo riconnette a determinate opinioni, in altri termini: lo rende noto a se stessa, e all’io cui quel pensiero è solamente noto, fa credere che esso («Il soggetto e l’oggetto ecc., Dio, la natura, l’intelletto, la sensibilità ecc.», cpv. 51; PH 27, F 25) sia in pari tempo, già per questo suo esser-noto, conosciuto. Ora, Hegel afferma che l’attività e l’interesse del pensare sono rivolti proprio «contro questo esser-noto» (ibidem). Che cosa significa? Perlomeno, che la fatica del filosofare viene aggravata ulteriormente. Essa non deve lottare soltanto contro la rigidità che alle determinazioni particolari imprime l’intelletto per procedere, attraverso la fissazione del separato, oltre di esso, ovvero per introdurre il soffio rivitalizzante del Concet-

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to in quei pensieri astratti e morti. Essa deve scrollarsi anche dall’inerzia della rappresentazione, dirigersi contro la propensione, che quest’ultima induce nello spirito, ad adagiarsi in ciò che viene presupposto come vero e giusto, solo perché così è generalmente ritenuto – solo perché è noto. Ma poniamo che l’io faccia valere l’interesse del pensare contro il noto a cui si arresta la rappresentazione, che egli decida di mobilizzare le determinazioni che l’intelletto gli aveva presentato come punti fermi, e perciò stabilizzato in separatezza reciproca. Che cosa ne è, allora, di quei pensieri? Che cosa ne è dello stesso io?

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Capitolo X

Sostanza come soggetto

1. Concetto La scansione che abbiamo di fronte è certamente decisiva. Hegel si accinge infatti a determinare il concetto stesso di Concetto, a esplicitare la nozione della scientificità in filosofia, a spiegare insomma che cosa è il sapere nella sua verità. Innanzitutto, la determinazione del concetto di Concetto: «Me­ diante questo movimento, i puri pensieri diventano concetti, e soltanto adesso sono ciò che essi sono in verità, automovimenti, circoli, ciò che la loro sostanza è, essenzialità spirituali» (cpv. 33; PH 28, F 27). L’io abbandona la fissità che lo imprigiona nelle determinazioni dell’intelletto, ovvero esercita l’energia del suo pensare in esse e attraverso di esse. Queste ultime non vengono più considerate immote e intangibili, bensì poste in relazione l’una con l’altra, scoperte come al loro interno lacerate dalla contraddizione di porsi da un lato come assolute, indipendenti, separate; dall’altro di porsi come assolutezze determinate, limitate da altro, perciò in pari tempo presupponenti l’altro ad esse opposte, da cui pure vorrebbero svincolarsi. Non abbiamo bisogno di approfondire ulteriormente questo movimento, che già in

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precedenza abbiamo esaminato. Il punto che qui va posto in evidenza è che i pensieri determinati richiedono, per divenire propriamente concetti, che l’io concretamente eserciti il suo pensare. Senza l’attività della meditazione e del pensare, senza canalizzazione della libertà dell’io attraverso la determinatezza dei pensieri dell’intelletto, non si dà concettualità. In tal senso i pensieri diventano soltanto adesso, in quanto concetti, ciò che essi in verità già sono. Essi erano, nella loro separatezza, ineffettuali. Il loro essere veniva ad essi donato dall’io, dall’energia col quale questo li pensava. Perciò, come concetti quei pensieri non fanno se non scoprirsi nella loro verità, ovvero come flussi di energia, nodi di stabilizzazione di un’attività che in essi si realizza, ma che in essi non può restar contenuta e procede, attraverso essi, alla loro Aufhebung. La loro sostanza, ciò che li tratteneva e li sosteneva nell’essere, era il puro io. In essi però quest’ultimo manifestava la sua effettualità in maniera ancora ineffettuale, poiché ineffettuali erano i pensieri ai quali l’io si arrestava. Una volta ricondotti questi ultimi al diveniente scaturire del pensare in atto, essi pure si attivano come effettuali: vengono tolti alla loro ineffettualità di separati, e ripristinati nella vitalità ed effettualità propria dell’io. In tal senso, ancora, i concetti sono automovimenti. È questa una determinazione tanto più fondamentale, in quanto ripetutamente ad essa Hegel riconduce la sua concezione della scientificità: «Questo movimento delle pure essenzialità costituisce la natura della scientificità in generale» (cpv. 34; PH 28, F 28); «Alla scienza è consentito organizzarsi solo attraverso la vita propria del Concetto» (cpv. 53; PH 38, F 43); «[…] io pongo ciò, mediante cui la scienza esiste, nell’automovimento del concetto» (cpv. 71; PH 48, F 59). Dire che i concetti sono automovimenti significa affermare che in essi la vita dello spirito si realizza esercitandosi come

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pensiero diveniente; significa ripristinare, all’altezza dell’elemento spirituale, quell’organicità che al livello della natura, e persino dell’immaginazione, aveva dovuto subire la devastazione dell’intelletto. Così Hegel, nel già menzionato cpv. 37, può definire la logica speculativa come «il loro movimento […] che si organizza in un intero» (PH 30, F 30). Adesso, possiamo finalmente cominciare a intendere in che senso la ragione, al cpv. 22, veniva definita come «operare conforme a un fine». Là, Hegel aveva ricondotto la determinazione aristotelica del fine all’orizzonte del Soggetto e della soggettività. Ora, ciò si chiarisce alla luce della determinazione dei concetti come circoli. Ciascun concetto è un circolo, poiché ciascun concetto è in pari tempo inizio e risultato di un movimento, che da esso parte e ad esso ritorna, o meglio ad esso è già da sempre ritornato. Non si tratta infatti di un divenire spazio-temporale, ma di un divenire interno al movimento del pensare, del divenire delle determinazioni logiche nel movimento intemporale della loro posizione, e della loro contemporanea risoluzione. Concepire la duplicità di questo movimento come simultaneità è ciò che distrugge la linearità del tempo cronologico all’interno del sapere, all’interno della filosofia come scienza. Ciò comporta che i concetti, ogni concetto siano circoli. Ciascun concetto, tuttavia, può essere tale appunto perché in esso s’incorpora e realizza la natura del pensare in generale, poiché in essi lo spirito coglie un momento della sua propria affermazione e autocomprensione. Per designare tale forma dell’Universale, che si attua nella concretezza delle sue determinazioni non più irrigidite in fissi pensieri, ma dinamicamente realizzate in forma di automovimenti circolari, Hegel impiega il nome di «concetto» al singolare, ciò che per non confonderlo coi concetti determinati noi abbiamo scritto con l’iniziale maiuscola, come Concetto.

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Ogni concetto è determinazione singola, parziale, astratta del Concetto; perciò ciascuno di essi è un circolo, perciò la scienza è in generale circolo di circoli, o come leggiamo nella Vorrede: «il risultato è il medesimo di ciò che è l’inizio, poiché l’ini­zio è scopo» (cpv. 22; PH 20, F 17); o ancora, la scienza che espone il concetto nella totalità delle sue determinazioni è «il circolo che presuppone come suo scopo e ha all’inizio la sua propria fine, e solo mediante l’attuazione e la sua fine è effettuale» (cpv. 18; PH 18, F 14). Ora, se v’è uno scopo, significa che esso già all’inizio è presupposto, poiché altrimenti non sarebbe, ovvero il movimento si svolgerebbe senza meta all’infinito. D’altra parte, proprio perciò all’inizio lo scopo non è ancora posto, realizzato in quanto tale. Non ha ancora dimostrato di valere effettualmente come scopo. Solo se scaturisce al termine del processo che lo presuppone al suo inizio, esso si attua effettualmente come scopo, dimostra cioè di essersi propriamente prodotto e affermato in quanto tale. In tal senso, Hegel afferma che l’assoluto «è essenzialmente risultato» (cpv. 20, loc. cit.): ma appunto, soltanto essenzialmente, non perciò ancora effettualmente. In tal senso, anche, inizio e fine coincidono: ma l’inizio che scaturisce a risultato del processo di sviluppo dell’intero, che emerge a compimento del concreto svolgimento del Concetto, non è più il vuoto e non ancora effettuale presupposto dell’inizio. Esso si è dimostrato come risultato, si è concretamente ed effettivamente presentato come la meta conclusivamente raggiunta. Così, tra inizio e fine si attua una coincidenza che viene in pari tempo sempre a riprodurli nella loro differenza. Da questa «identità di identità e di non-identità» tra inizio e fine, il movimento della dialettica trae nuova linfa, e si reinnesca. E se la ragione non fosse «operare conforme a uno scopo»? Se non vi fosse alcuno scopo? Allora non vi sarebbe conclusio-

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ne possibile; ma se non vi fosse conclusione, non vi potrebbe essere attuazione della scienza; e se non si desse attuazione della scienza, allora il vero, in quanto non-saputo, resterebbe ineffettuale. Senza meta, nessuna coincidenza tra inizio e fine; senza questa, nessuna chiusura ed effettivo compimento del sapere. La filosofia tornerebbe allo statuto di mero amore per il sapere, senza poter effettualmente realizzare quest’ultimo in se stessa. Ciò comporta che, se scienza deve essere, allora essa non potrà non essere circolare; e in quanto circolare, non potrà che essere un intero, o meglio quell’intero che, in quanto intero del sapere, conduce ad attuazione il vero: «il vero è l’intero» (cpv. 20, loc. cit.).

2. Sistema A questo intero circolarmente diveniente, che conduce il sapere a totalità, Hegel dà il nome di sistema. L’intero è totalità, perché ad esso nulla viene a mancare rispetto allo scopo presupposto all’inizio: altrimenti non sarebbe intero, ovvero ancora non sarebbe concreto, ovvero ancora: non sarebbe vero. La totalità dell’intero è organica, poiché possiede a suoi momenti dei concetti, ovvero come abbiamo visto circoli reciprocamente comunicanti, dinamicamente fluidi. Poiché il sistema è organizzazione non in senso puramente funzionale, ma in senso organico e sostanziale, ciò significa che in esso non è il soggetto a imporre dall’esterno la forma (un’organizzazione in senso per così dire economico e strumentale) a un contenuto estraneo; bensì che il contenuto si auto-­organizza

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in forma. Il sistema è la forma in cui il contenuto da se stesso si dispone. E il contenuto può ciò fare, in quanto esso è Concetto, e il Concetto non è mosso da altro, ma si muove da sé: «Tale movimento, considerato come connessione del suo contenuto, è la necessità e il dispiegamento di quest’ultimo ad intero organico» (cpv. 34; PH 28, F 28). Nel Concetto, all’immanenza della forma nel contenuto corrisponde l’immanenza del soggetto pensante nel pensiero pensato (che perciò soltanto impropriamente potrebbe ancora dirsi: «oggetto»). È proprio in quanto è questa differenza nell’identità, che la sostanza si realizza in Hegel come spirito, Concetto, soggettività. Non si dà sistema, in quanto intero organico, senza autonomo movimento del contenuto in esso esposto: Ma perché ciò sia, nella sostanza va introdotta l’attività del pensare: solo così essa è resa propriamente Soggetto, ovvero movimento autonomo di posizione delle determinazioni a propri positivi contenuti.

3. Intuizione intellettuale Ecco perché né «la concezione di Dio come sostanza unica», né la correlativa e altrettanto astratta assolutizzazione del «pensare come pensare» (cpv. 17, loc. cit.) possono soddisfare il concetto hegeliano di verità. La sostanza infinita e divina, che come abbiamo visto costituiva il perno della filosofia di Spinoza, annulla tutto ciò che è particolare, e dunque ogni contenuto determinato, nella sua assoluta «semplicità», che perciò resta «indifferenziata» e «immota» (ibidem). La grandezza di questo pensiero sta nel fatto di aver dimostrato la non-verità del finito. Esso va dunque affermato di contro

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alle filosofie che pretendono di assolutizzare la finitezza, che non vogliono rinunciare al particolare e alla sua unilaterale posizione. Tuttavia, in quella sostanza il finito viene sì distrutto e tolto, però non viene in pari tempo positivamente posto, non viene sviluppato a determinazione fluida dell’intero. Come sostanza, l’assoluto è perciò pensato ancora in forma solo negativa, in modo ancora non effettuale. Viceversa, al «pensare come pensare» viene a mancare il momento, altrettanto essenziale, della realtà e dell’essere. Si tratta perciò di unificare questi due lati, che in quanto separati e astratti vengono ormai scoperti nell’inadeguatezza della loro non-verità. La filosofia si eleva in tal modo alla concezione dell’effettuale come di ciò che unifica quei due, ovvero li comprende in sé a momenti della sua propria auto-affermazione. Ma anche qui, tutto dipende dalle modalità con cui quell’unificazione avviene. Si dà infatti un’unificazione di pensiero ed «essere della sostanza», una presentazione dell’effettuale, che si realizza ancora in forma non effettuale. Ciò accade quando l’unificazione è intesa come puramente immediata. Qui la Vorrede scopre l’errore fondamentale di Schelling. Leggiamo la conclusione del cpv. 17: se […] il pensare unifica con sé l’essere della sostanza, e comprende l’immediatezza o l’intuire come pensare, allora resta ancora da vedere se questo intuire intellettuale non ricada nell’inerte semplicità, e non presenti l’effettualità stessa in una maniera ineffettuale. (corsivo mio)

Nell’intuizione intellettuale, il pensare del soggetto vuole ripristinarsi nell’identità con l’essere infinito. Da un lato, esso intende riacquistare il contenuto di cui era stato privato quando l’intelletto lo aveva ridotto a universalità formale e astratta. Dall’altro, esso non intende più tale contenuto come una

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materia estranea, da acquisire empiricamente e sulla quale poi estrinsecamente applicarsi. Viceversa, in quel contenuto si tratta di conseguire un essere al pensare originariamente vincolato, ad esso intrinseco e costitutivamente legato. Perciò, non sono oggetti dell’intuizione empirica che possono venire qui in questione. L’ambito del finito, di ciò che si presenta dall’esterno come determinato in un modo o nell’altro, è oltrepassato in direzione dell’essere della sostanza, ovvero dell’assoluto infinito e divino. Se perciò l’intuizione è ciò che immediatamente ci unifica con l’essere; se d’altro canto non è in questione un essere determinato così o così, ovvero un Dasein, bensì l’essere infinito e assoluto della sostanza, ovvero l’essere nell’universalità e incondizionatezza della sua verità: allora quell’intuire deve in pari tempo essere un pensare; allora, in quanto tale pensare ci riconduce immediatamente all’unità con l’essere infinito, tale pensare deve in pari tempo realizzarsi in forma d’intuizione. Così, nell’interpretazione che la Vorrede presenta del pensiero di Schelling, «l’immediatezza o l’intuire» possono venire intesi «come pensare»; così, Schelling può indicare in un’intuizione che si proclama intellettuale, poiché non è né particolare né empirica, l’organo mediante cui unificare il sapere del soggetto con l’assoluto, cioè con l’essere che unicamente è effettuale.

4. Effettualità A questa altezza si formula il dubbio hegeliano: nell’intuizione intellettuale, l’assoluto è davvero realizzato come effettuale? È davvero sottratto all’«indifferenziata, immota sostanzialità», da cui già Spinoza non aveva saputo trarlo fuori?

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Che cosa significa concepire la sostanza come Soggetto? Che cosa significa «effettuale» ed «effettualità»? Ambedue designano un unico e medesimo: la sostanza è effettuale soltanto in quanto essa è pensata e filosoficamente presentata come Soggetto; viceversa: la sostanza è affermata come Soggetto solo nella misura in cui venga concepita ed espressa come effettuale. Ciò che unicamente è effettuale è il Soggetto, e il Soggetto è tale soltanto in quanto realizzato in modo effettuale. In pari tempo, la sostanza viene in tal modo riscattata dalla morte della vuotezza e dell’astrazione, e ripristinata come processualità vivente. «Inoltre, la sostanza vivente [lebendige] è l’essere che in verità è Soggetto, oppure, ciò che significa la stessa cosa, che in verità è effettuale [wirklich]» (cpv. 18; PH 18, F14). Ma allora, di nuovo: che cosa significa «effettuale»? Che cosa comporta concretamente sapere, ovvero linguisticamente presentare la sostanza come Soggetto? Per Hegel, ciò è possibile «soltanto in quanto» la sostanza «è il movimento del porre-sestessa, o la mediazione del divenir-altro-da-sé con se stessa» (ibidem). Qui, il porre-se-stessa della sostanza si scopre a fondamento del porre-se-stesso che abbiamo visto proprio dell’io; qui, il porre-se-stesso dell’io si manifesta come non più esso stesso equivalente all’autoporsi della sostanza, bensì è la sostanza, finalmente attuata come vivente, che in quanto è Soggetto e porre-se-stessa, si pone in pari tempo nell’io come soggetto, il quale dunque è a sua volta incondizionato porre-se-stesso. L’assolutezza dell’autoporsi dell’io è momento dell’autoporsi dell’assoluto come Soggetto, ovvero Concetto. Non viene relativizzata o negata l’assolutezza del porre-se-stesso dell’io; tuttavia quest’ultimo, benché assoluto e incondizionato, non è né l’assoluto, né l’incondizionato. Piuttosto, esso è porre-sestesso poiché in esso la sostanza pone-se-stessa come Soggetto. L’incondizionatezza del porre-se-stesso dell’io è momento

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dell’incondizionato porre-se-stesso del Soggetto assoluto. Così Fichte viene dialetticamente aufgehoben. E assieme a Fichte, viene altrettanto superata la concezione che riconduce l’incondizionatezza del sapere all’incondizionatezza del suo principio, allo stesso modo che l’assoluto e il vero vengono strappati a un inizio che pretenda di esporli in qualità di statici e immoti fondamenti: «il fondamento o il principio [Prinzip] del sistema è di fatto soltanto il suo inizio» (cpv. 24; PH 22, F 19). Ricordiamo che la proposizione che dice il principio in quanto fondamento, è designata in tedesco dalla parola Grundsatz, che scomposta nei suoi elementi significa appunto «proposizione fondamentale», proposizione che esprime il fondamento (Grund). In quanto essa espone il fondamento, è anch’essa detta principio. Tuttavia, essa è principio nel senso di «principio esposto», fondamento espresso in forma di proposizione. La soggettività del vero implica adesso l’impossibilità d’intendere quest’ultimo come principio (Prinzip): il movimento di sviluppo resterebbe infatti eternamente altro dal principio, non proverrebbe dal principio e quest’ultimo non si realizzerebbe svolgendosi in quello. In altri termini: non sarebbe effettuale, e perciò neppure Soggetto. Poiché il vero non è principio, tantomeno esso potrà scientificamente esporsi in una proposizione che lo asserisca in veste di principio, ovvero come fondamento, e che perciò pretenda lo statuto di «proposizione fondamentale» (Grundsatz), da cui derivare e su cui far poggiare le dimostrazioni del sistema. In questo caso, ciò che è effettuale verrebbe altrettanto esposto in modo non effettuale, e quindi propriamente non verrebbe esposto. Alla filosofia che voglia istituirsi effettivamente in sistema scientifico, Hegel pone quindi il compito di presentarsi anche in ma-

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niera effettivamente scientifica; ovvero di attuare una forma di esposizione (Darstellung) che, presentando il vero come effettuale, esprima linguisticamente la «sostanza come Soggetto», e perciò si realizzi a sua volta come Darstellung effettuale della verità. Questo problema viene trattato nei capoversi della Vorrede in cui Hegel espone la sua dottrina della proposizione filosofica o «speculativa», alla quale abbiamo già in precedenza fatto riferimento. Ma riprendiamo l’esame di che cosa significhi concepire la sostanza come Soggetto, quale sia il senso dell’implicazione di Soggetto ed effettualità. Abbiamo visto che la sostanza è Soggetto, ovvero effettuale, «soltanto in quanto è il movimento del porre-se-stessa, o la mediazione del divenir-altro-da-sé con se stessa» (cpv. 18, loc. cit.). La sostanza è Soggetto soltanto in quanto «movimento del porre-se-stessa», ovvero in quanto processualità che positivamente pone, cioè produce da se stessa, i contenuti determinati e particolari, nei quali essa stessa si svolge. Soltanto così essa è effettuale, poiché soltanto così essa è concreta. Ricordiamo come Hegel sostenga che «solo in quanto il concreto si divide […] esso è ciò che muove sé» (cpv. 32, loc. cit.). Soltanto in quanto la sostanza si toglie dall’«indifferenziata» e «inerte semplicità», cui la riducono Spinoza e Schelling, essa acquisisce un contenuto. Ma appunto, per conseguire un contenuto, essa deve diventare determinata; e perché possa diventare determinata, è necessario che in essa abbia luogo una differenza. Aver luogo di differenza significa già perciò stesso dividere e scindere ciò che è indifferenziato, indiviso, e perciò semplice. Così, la sostanza diventa «altro-da-sé», ovvero: il semplice si divide, perché soltanto a questa condizione si può articolare in determinazioni e differenze.

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D’altro lato, la sostanza non potrebbe riconoscere come sue tali determinazioni e differenze, o invertendo i termini: tali determinazioni non sarebbero determinazioni proprie della sostanza, se in esse quest’ultima si limitasse a diventare altra da se stessa, ovvero se in esse si esprimesse solo il momento della differenza della sostanza da se stessa. In tal caso, si riprodurrebbe una estraneità tra i contenuti determinatamente posti, e la sostanza intesa come pura semplicità. Quest’ultima si perderebbe in quelli, che smarrirebbero a loro volta ciò che ne fa momenti di un intero. Per questo, perché il movimento con cui la sostanza pone le differenze sia il movimento del porre-se-stessa da parte della sostanza, e non semplicemente produzione di un estraneo e altro (a ben vedere, in tal caso non vi sarebbe neppure un movimento di posizione, ma ancora una volta i contenuti particolari dovrebbero sopraggiungere alla sostanza dall’esterno, le determinazioni scadere a predicati apposti dal soggetto conoscente), è necessario che il «divenir-altro-da-sé» sia nuovamente ricongiunto, venga per così dire ripreso nell’identità della sostanza con sé. Soltanto la contemporaneità dei due momenti, quello del porre-se-stessa (ovvero dello scindersi e del separarsi da se stessa), da un lato, e quello della ripristinazione dell’identità ed eguaglianza con sé, dall’altro, costituiscono la soggettività della sostanza. Nelle parole di Hegel: «soltanto questa ripristinantesi eguaglianza, o la riflessione nell’esser-altro in se stessa – non un’unità originaria in quanto tale, o immediata in quanto tale – è il vero» (cpv. 18; PH 18, F 14). Si noti che l’eguaglianza è espressa nel movimento della sua ripristinazione, ovvero quest’ultima non è intesa come uno stato, bensì come un divenire in atto. Così anche si possono intendere le parole seguenti: «riflessione nell’esser-altro in se stessa». L’apparente staticità di questa espressione, infatti,

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va intesa alla luce di quella precedente attività di ripristinazione, che non a caso Hegel sottolinea. È nell’atto stesso del suo porre, che la sostanza si riflette in sé; è nel movimento stesso della sua espansione, che la sostanza è in pari tempo riaffermata nell’identità con sé. Perciò essa è da un lato porre, dall’altro è un porre di se stessa, che nel contenuto posto afferma un altro, ovvero un differente e diverso da sé come pura semplicità; ma in questo altro scorge se stessa, ovvero la sua propria determinazione, il contenuto in cui essa stessa si sviluppa e si svolge. Perciò, l’eguaglianza in cui la sostanza si afferma come Soggetto non è l’eguaglianza a se stesso del punto, non è neppure quella di una semplicità ripristinata nella sua indifferenza: perché allora davvero tutto il movimento non sarebbe mai accaduto, sarebbe stato solo una parvenza per non abbandonare mai l’«inerte semplicità» dell’inizio. Al contrario, l’identità con sé della sostanza divenuta Soggetto è quella dell’intero: è nell’esser-altro che la sostanza è riflessa in sé. Non dunque oltre il movimento, non dunque al di là delle differenze, bensì in queste e attraverso queste la sostanza si riflette in sé. Perciò il movimento dell’assoluto si svolge in circolo; perciò l’assoluto può pervenire al sapere di sé soltanto nella forma del sistema; per questo il sistema, in cui l’assoluto perviene al sapere di sé, riconosce alla fine ciò in cui l’inizio si è attuato in forma effettuale. Perciò, infine, all’inizio del brano che introduce il concetto dello spirito, Hegel può formulare come equivalenti le proposizioni: «Che il vero sia effettuale solo come sistema, o che la sostanza sia essenzialmente Soggetto […]» (cpv. 25; PH 22, F 19).

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5. Mediazione Tale movimento si può dire, e Hegel lo enuncia effettivamente, con una sola parola: quella della mediazione (Vermittlung). Abbiamo visto comparire questo termine al cpv. 18, quando si trattava di mostrare che la sostanza è Soggetto, ovvero effettuale, solo in virtù della «mediazione del divenir-altro-dasé con se stessa». Ecco perché dire Soggetto implica già sempre dire, in Hegel: mediazione; e se il Soggetto è ciò che solamente è effettuale, l’effettualità medesima non potrà attuarsi come tale se non nella forma della mediazione. «Mediazione» indica perciò il movimento attraverso cui la sostanza si afferma come Soggetto, attraverso cui dunque quest’ultimo si manifesta come ciò che unicamente è effettuale. Possiamo ricavare altre indicazioni sulla natura di tale movimento? Al cpv. 20, Hegel impiega il termine mediazione a designare un «divenir-altro che deve essere ripreso» (PH 19, F 15 s.), e al successivo cpv. 21, ribadendo che senza mediazione non si dà «conoscenza assoluta», egli precisa: «la mediazione è nient’altro che l’automoventesi eguaglianza-con-se-stesso, ovvero essa è la riflessione in se stesso» (PH 19, F 16). Come si vede, si tratta di formule che direttamente richiamano quelle impiegate, al cpv. 18, per indicare la sostanza divenuta Soggetto. La prima («automoventesi eguaglianza con se stesso») richiama quella del Soggetto come «eguaglianza ripristinantesi»; la seconda (mediazione come «riflessione in se stesso») quella del Soggetto come «riflessione nell’esseraltro in se stesso». Notiamo come quest’ultima espressione risulti più completa rispetto a quella del cpv. 21, poiché essa esplicita che la «riflessione in sé» avviene all’interno di un «esser-altro»; che in altri termini al Soggetto non è possibile

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affermarsi e sapersi come identico con sé, senza scissione e separazione da sé.

6. Riflessione A designare il ritrovarsi come identico con sé nell’esser-altro, Hegel impiega il termine di riflessione (Reflexion). La riflessione in sé nell’esser-altro costituisce la struttura della mediazione. Senza riflessione, nessuna mediazione; senza mediazione, nessuna soggettività, nessuna attuazione della sostanza come Soggetto. Ma perché si dia riflessione, è necessaria la scissione di ciò che è semplice, la differenziazione di ciò che si presuppone come immediato e perciò ancora senza alcuna distinzione. Altrimenti, non vi sarebbe nulla in cui riflettersi, non vi sarebbe nulla presso il quale affermarsi nell’identità con sé. La riflessione in sé implica infatti la posizione di un differente, rispetto al quale sia possibile il movimento del tornare in sé. Viceversa, se questo altro non fosse in pari tempo posto dal Soggetto, in esso neppure si attuerebbe alcuna riflessione: esso sarebbe meramente altro, e non si potrebbe nemmeno parlare di un movimento di autoposizione. La sostanza allora non sarebbe Soggetto, e in luogo del processo di auto-determinazione, in cui dovrebbe consistere il «vero», quest’ultimo si troverebbe ricacciato nella notte dell’indistinzione, ovvero ancora: nella vuotezza e ineffettualità dell’astrazione. Perciò, se la sostanza dev’essere intesa ed «espressa» come Soggetto, se la struttura della soggettività è quella della mediazione, se infine la mediazione si attua nella forma della riflessione, tale riflessione deve designare questo movimento dell’auto-distinguersi e auto-differenziarsi della sostanza, il

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suo svilupparsi da immediatezza semplice a effettualità e Soggetto. Viceversa, in quella riflessione si attua in pari tempo il riconoscimento del differente come identico con sé, o in altri termini la «mediazione del divenir-altro con se stesso». «Riflessione» è dunque nient’altro che il «porre-se-stesso» proprio del Soggetto assoluto, il movimento di auto-determinazione che costituisce la sostanza in Soggetto, ciò che nel porre del determinato, attua in pari tempo il porre-se-stesso del Soggetto in quel determinato. Ecco perciò, al cpv. 21, la rivendicazione della riflessione a momento costitutivo dell’assoluto, e conseguentemente strutturale per la ragione, che quell’assoluto intende conoscere: «È […] un disconoscere la ragione [Vernunft], quando la riflessione viene esclusa dal vero e non tiene compresa come positivo momento dell’assoluto» (PH 19 s., F 16; corsivo mio).

7. Hegel supera Hegel Siamo evidentemente di fronte a un passo cruciale, dove si misura non soltanto la distanza tra la posizione di Hegel e quella di Schelling, ma dove viene chiamato in gioco anche il rapporto di Hegel nei confronti di se stesso, e delle posizioni che gli abbiamo visto sostenere nei primi scritti jenesi. In particolare, abbiamo osservato come già nella Differenzschrift Hegel, sostenendo la posizione di Schelling rispetto a quella (che pur veniva riconosciuta come «autenticamente speculativa») di Fichte, pervenisse in realtà a differenziare la sua propria posizione rispetto a quella dell’amico e «alleato», e come tale differenziazione si producesse proprio in rapporto allo statuto della riflessione. Poiché Hegel riconosce che senza riflessione non è possibile alcun sapere, egli tenta di incorpo-

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rare la riflessione nell’atto dell’intuizione intellettuale, che in Schelling escludeva radicalmente da sé ogni riflessione. Hegel impiegava perciò il termine di intuizione trascendentale, a indicare che il coglimento dell’assoluto come assoluta identità non poteva andare scisso dalla riflessione, attraverso la quale esso si trovava già necessariamente differenziato e tolto a quell’assoluta identità, in cui pure doveva consistere. L’identità assoluta poteva dunque essere saputa soltanto in quanto concettualmente e discorsivamente esposta in un sapere, ovvero soltanto in quanto differenziata dai concetti della riflessione, entro i quali peraltro quell’assoluto veniva scientificamente conosciuto. Anche la definizione dell’assoluto come «identità di identità e di non identità» esprimeva quell’assoluta identità con gli strumenti della riflessione. Quest’ultima esponeva perciò in forma scientifica ciò che al­ l’intuizione dell’assoluto come assoluta identità avrebbe dovuto essere immediatamente presente senza differenze e distinzioni; e poiché il sapere si poteva attuare soltanto tramite la riflessione, ecco che l’intuizione medesima richiedeva, per esser propriamente tale, ovvero conoscenza dell’assoluto, d’incorporare la riflessione a suo momento: e allo stesso modo che l’intuizione diventava perciò «trascendentale», altrettanto la riflessione, che conteneva in sé ed era sostenuta da quel coglimento dell’assoluto come assoluta identità, poteva diventare «riflessione speculativa», ovvero discorsivamente presentare il prodursi delle differenze dall’assoluto, e in pari tempo il loro riprecipitare in quello come nella loro fonte originaria. Hegel cercava così, da un lato, di pensare l’assoluta identità non più semplicemente, secondo la posizione di Schelling, come assoluta «indifferenza», bensì d’introdurre nell’assoluta identità il movimento produttivo della differenza, di pensare quindi l’assoluto come «identità di identità e di non identità». Dall’altro, correlativamente a tale articolazione della nozione

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dell’assoluto, egli veniva a sostenere la necessità della riflessione per il sapere, e dunque veniva a determinare per la riflessione una funzione costitutiva rispetto al sapere dell’assoluto. Tuttavia, secondo lo Hegel della Differenzschrift, benché l’assoluto sia, nella riflessione speculativa, effettivamente conosciuto, e quest’ultima sia, perciò, autentica obiettivazione dell’intuizione trascendentale, essa è però obiettivazione ancora soggettiva, ovvero ancora unilaterale e relativa dell’assoluto. Nel sapere, quest’ultimo si espone ancora in forma soggettiva, non dunque come assoluto e identità assoluta: «La speculazione ed il suo sapere sono pertanto nel punto di indifferenza, ma non in sé e per sé nel vero punto di indifferenza; il fatto che la speculazione vi si trovi dipende dal riconoscersi come una parte sola di tale punto» (Hegel 1801, p. 76; SC, p. 93), ovvero come quella in cui prevale, con l’elemento della riflessione, l’aspetto soggettivo e cosciente rispetto a quello obiettivo e incosciente: «Nella speculazione quell’intuizione [dell’assoluto] si manifesta di più come coscienza e diffusione nella coscienza, come un fare della ragione soggettiva che toglie [aufhebt] l’oggettività e il non-cosciente» (ivi, p. 75; p. 93). Perciò, per cogliere puramente l’intuizione trascendentale, essa [la riflessione filosofica] deve ancora astrarre da questo soggettivo, affinché quella [l’intuizione trascendentale] le sia, come base della filosofia, né soggettiva né oggettiva, […] bensì identità assoluta, né soggettiva né oggettiva, pura intuizione trascendentale. (Ivi, p. 77; p. 95)

Lo statuto della riflessione emerge dunque come oscillante ambiguamente tra due poli: da un lato, essa è indispensabile al sapere, ed essa stessa, in veste di speculazione, è autenticamente sapere dell’assoluto e intuizione trascendentale. Ciò appare profondamente conforme alla concezione dell’assoluto come identità di identità e di non-identità, all’introduzione nell’assoluto della diseguaglianza e della differenza.

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Dall’altro, nella riflessione l’intuizione trascendentale non appare in forma pura, ovvero come identità assoluta «né soggettiva né oggettiva». Diventa perciò necessario astrarre dalla stessa riflessione; ovvero, come si dice in altro luogo, la speculazione «ha un limite immanente; essa si innalza alla scienza dell’assoluto e al punto assoluto di indifferenza unicamente per ciò che conosce i suoi limiti e sa togliere questi e se stessa, e invero scientificamente» (ivi, p. 76; p. 94; corsivo mio). Hegel può così tornare a sostenere la posizione schellinghiana dell’assoluto come assoluto punto d’indifferenza, scomposto dalla riflessione in un soggettivo (l’io) e in un obiettivo (la natura), che si tratta «scientificamente» (ovvero riflessivamente) di porre (momento del sapere e della speculazione), e in pari tempo «scientificamente» (ovvero ancora: riflessivamente) di togliere. La riflessione deve dunque in pari tempo oltrepassarsi, scientificamente condurre all’oltrepassamento di se stessa e dei suoi «limiti», ovvero riprecipitare il lato soggettivo del sapere nell’assoluto punto d’indifferenza dell’originaria identità. La riflessione toglie riflessivamente se stessa, e nel toglimento di se stessa consiste il compimento della scienza, ovvero il suo ricollocarsi al centro dell’indifferenza. Tuttavia, tale concezione non poteva non urtare con l’altra, secondo cui l’assoluto non doveva semplicemente concepirsi come Indifferenzpunkt, bensì come in pari tempo «opporre ed esser-uno». Hegel cercava così di mediare tra la concezione schellinghiana dell’assoluto come assoluta indifferenza, e dell’intuizione intellettuale come organo radicalmente inobiettivabile per la conoscenza di esso, e la posizione che andava emergendo come sua propria, dell’assoluto come identità di identità e di non identità, con la conseguente incorporazione della riflessione in quella che allora diventava intuizione trascendentale.

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La liquidazione della filosofia schellinghiana dell’identità assoluta porta Hegel a concepire la riflessione come autosvolgimento che coinvolge l’assoluto nella sua interezza. E come nella Differenzschrift la ragione era ciò che nel divenire dell’assoluto intuiva se stessa (cfr. ivi, p. 77; SC, p. 95), così allo stesso modo nella Vorrede, una volta che la riflessione venga accolta a momento positivo dell’assoluto, sono le esigenze della ragione a venire misconosciute, quando invece dall’assoluto quella riflessione si voglia escluderla. Escludere la riflessione dall’assoluto significa rendere impossibile la trasformazione della sostanza in Soggetto effettuale, e viceversa: la trasformazione della sostanza in Soggetto ed effettualità comporta l’incorporazione della riflessione nell’assoluto stesso. Badiamo bene: non si tratta d’intendere la riflessione come momento meramente soggettivo dell’assoluto, come un momento che perciò dovrebbe togliersi e oltrepassarsi, qualora l’assoluto debba essere colto in quanto tale. Hegel invita decisamente a istituire la riflessione in momento positivo dell’assoluto, ovvero a intendere nella riflessione il movimento di auto-determinazione, attraverso il quale l’assoluto afferma se stesso, e positivamente si realizza.

8. Identità Così, alla luce di questa trasformazione degli assetti concettuali, Hegel vede nell’assoluto concepito come assoluta indifferenza una delle concezioni contro le quali volgersi più aspramente. Non è detto che tutti gli attacchi che la Vorrede presenta rispetto a questo principio siano da intendere come direttamente rivolti a Schelling, e non invece ai seguaci e volgarizzatori della filosofia schellinghiana, ai quali Hegel ver-

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rebbe così a imputare di aver trasformato quella filosofia in esercitazione sterilmente scolastica (cfr., oltre a quelli che andiamo commentando, i cpv. 49 ss.). Tuttavia, la posta in gioco non cambia: nel confronto con Schelling, ciò che ormai è in questione riguarda la concezione stessa dell’assoluto, ed è su questo decisivo punto che la Vorrede si esprime con la massima durezza: ridurre l’assoluto a identità significa provocare «il dissolvimento del differenziato e distinto» (cpv. 16; PH 17, F 12): Considerare un qualunque ente determinato [Dasein] per come esso è nell’assoluto, consiste qui in nient’altro se non che di esso viene detto, che ora se ne è certamente parlato come di un qualcosa; tuttavia nell’assoluto, nello A = A, non esiste niente di simile, bensì nell’assoluto tutto è uno. (Ibidem; F 12 s.)

E immediatamente di seguito, ecco comparire la notte del nostro primo incontro, per così dire, extra-filosofico: Opporre questo unico sapere, che nell’assoluto tutto è uguale, alla conoscenza differenziante e piena, o che ricerca tale pienezza, – oppure spacciare il suo assoluto per la notte in cui, come si dice, tutte le vacche sono nere, è l’ingenuità della vuotezza nella conoscenza. (Ibidem; F 13)

Così, come alla Schwärmerei della Differenzschrift veniva imputato di pervenire soltanto all’«intuizione della luce incolore», allo stesso modo il buio della notte, in cui l’identità sprofonda l’assoluto, non fa se non condurre a metaforico compimento quel «formalismo monocromatico» (cpv. 15; PH 17, F 12), che si limita ad applicare lo schema inerte dell’identità a un materiale raccolto dall’esterno. Poiché nell’assoluto tutto è identico, in esso non si dà possibilità per alcun contenuto determinato; ma poiché senza contenuto determinato non è possibile sapere, ecco che quel sapere dell’assoluto come assoluta identità deve procacciarsi

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questo contenuto dall’esterno, ovvero empiricamente raccoglierlo dalle altre scienze, e limitarsi ad applicare ad esso la formula dell’assoluto come A = A. Perciò tale assoluto è vuoto, perciò tale identità è formale, perciò tale formalismo è monocromatico: in esso, l’unico colore cui si perviene è infatti il nero, che tutto avvolge in monotona e sempre eguale oscurità. Perciò quando Hegel, alla fine del cpv. 17, formula il dubbio se l’«intuire intellettuale» non presenti l’assoluto, ovvero ciò che in quanto Soggetto è effettuale, in forma ineffettuale (cfr. PH 18, F 14), tale dubbio si trova in realtà già deciso. L’intui­ zione intellettuale viene evocata per cogliere l’assoluto nella sua originaria indifferenza e assenza di distinzioni; ma se proprio in tale concezione l’assoluto non perviene a effettualità, tantomeno esso può pervenire al sapere di sé in quello che Schelling riteneva l’unico organo adeguato al suo coglimento. Di qui, l’altra metafora hegeliana che, insieme alla notte del­ l’indistinzione in cui la sostanza non si realizza come Soggetto, poiché non perviene a porre (e perciò stesso a determinare) se stessa, vincola in indissolubile condanna l’immediatezza con cui quell’intellettuale intuire pretenderebbe di cogliere l’assoluto. Se l’assoluto è Soggetto, esso è necessariamente mediazione e auto-riflessione, ovvero distinzione di sé in se stesso, diveniraltro da sé e recupero di tale alterità a se stesso. Se l’assoluto è indifferenza, esso deve necessariamente escludere da sé il movimento della mediazione, e perciò la conoscenza di esso deve appellarsi a un atto aconcettuale d’intuizione, ovvero a una modalità conoscitiva altrettanto immediata di quanto dovrebbe essere quell’assoluto concepito come indifferenza. Ciò comporta che l’assoluto in quanto tale non possiede né può possedere sviluppo; che dunque il sapere con cui esso nella filosofia perviene al sapere di sé deve prodursi immediatamente, o

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in altri termini: se l’assoluto non diviene, neppure può divenire e svilupparsi il sapere dell’assoluto. Introdurre il divenire nel sapere implicherebbe infatti l’introduzione nel sapere della differenza, e dunque la necessità della mediazione: ma conoscere mediatamente ciò che dovrebbe istituirsi in assoluta immediatezza comporta in pari tempo distinguere e differenziare l’indifferenza nella sua assoluta identità, ovvero negarla come tale. Di qui l’impossibilità, secondo la prospettiva di Hegel, d’introdurre la storicità nella concezione schellinghiana dell’indifferenza; di qui dunque la sua condanna dell’«entusiasmo [Begeisterung] che, come un colpo di pistola, inizia immediatamente dall’assoluto» (cpv. 27; PH 24, F 22; corsivo mio). Di qui la tonalità anti-schellinghiana (così come, da un altro lato, anti-fichtiana) della proposizione che enuncia l’assoluto come «essenzialmente risultato» (cpv. 20, loc. cit.). Era divenuto Schelling parte di quella schiera di entusiasti, che già erano stati piuttosto rudemente trattati nella Differenzschrift? Non è possibile dirlo con certezza, poiché Hegel non nomina, nella Vorrede, gli avversari che intende come bersaglio delle sue critiche. Tale riserbo, del resto, non è casuale, né semplicemente questione di tatto. Ciò che è in discussione, infatti, non è di contrapporre la propria posizione personale ad altre «diverse». Se fosse così, si ricadrebbe nella concezione cara all’opinione, che nella «diversità dei sistemi filosofici […] scorge soltanto la contraddizione» (cpv. 2, loc. cit.). Inoltre, alla Begeisterung qui presa di mira sono forse ancora più vicine, rispetto a quelle di Schelling, le posizioni di Schleiermacher e di altri rappresentanti del movimento romantico; e senz’altro anch’esse Hegel intende colpire. Fatto sta che, come nella Differenzschrift la Schwärmerei pretendeva la conoscenza immediata dell’assoluto, così ciò appare

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adesso, nella metafora del «colpo di pistola», conforme alla posizione di Schelling; come la Schwärmerei si affidava, per tale immediato coglimento, all’intuizione, così altrettanto Schelling; e come all’intuizione della Schwärmerei quell’assoluto si riduceva a «luce incolore», così qui dall’«intuire intellettuale» esso è ridotto a «notte in cui tutte le vacche sono nere», col «formalismo monocromatico» che ne consegue rispetto alla conoscenza del determinato.

9. Attuazione C’è forse, nella Vorrede, un periodo che meglio di ogni altro esplicita la posizione hegeliana rispetto a quella di Fichte da un lato, e di Schelling dall’altro. Esso si trova al cpv. 19, e suona così: […] è un fraintendimento ritenere […] che il principio assoluto [der absolute Grundsatz] o l’intuizione assoluta [die absolute Anschauung] rendano superflui l’attuazione [Ausführung] del primo o lo svolgimento [Entwicklung] della seconda. (PH 19, F 15; cfr. A 487)

Il «principio assoluto» indica la proposizione fondamentale, «assoluta» in quanto radicalmente incondizionata, alla quale Fichte riteneva di dover risalire per poter costruire, su di essa, l’incrollabile edificio della dottrina della scienza. L’«intuizione assoluta» designa l’organo al quale Schelling credeva di dover fare appello perché dell’assoluto come indifferenza si potesse dare immediato coglimento. Sia il primo, sia la seconda vengono qualificati da Hegel alla stregua di «fraintendimenti». Il termine tedesco è Mißverstand, letteralmente: un impiego del proprio intelletto, ovvero della propria capacità di pensare e di capire in generale, che, mentre crede di colpire nel segno, mostra di essere andato a vuoto. Perciò si può dire, delle

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filosofie di Fichte e di Schelling, che si è trattato di un equivoco, o com’è scritto nella traduzione italiana: di un malinteso. Di contro alla «proposizione fondamentale assoluta» di Fichte, è giunta l’ora di far valere l’«attuazione»; di contro all’«in­ tuizione assoluta» di Schelling, lo «svolgimento». Ma in questi due termini, non si esprimono in fondo se non i tratti fondamentali dell’effettualità: ovverosia del porre-se-stessa che solo trasforma l’«indifferenziata, immota sostanzialità» in Soggetto; o ancora meglio, secondo quanto afferma il cpv. 25: in spirito (Geist).

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Capitolo XI

La verità come spirito

1. Filosofia e cristianesimo Hegel enuncia il concetto dello spirito come «il più elevato», e ne attribuisce il merito della scoperta «all’età moderna ed alla sua religione» (cpv. 25, loc. cit.). Nell’accostare esplicitamente determinazione epocale e sua manifestazione religiosa, oltre che nell’impiego del termine Vorstellung (il quale, nella Fenomenologia e nell’Enciclopedia, designa la specifica modalità con cui la religione esprime l’assoluto), Hegel sembra avere in mente, ancor più che la rivoluzione filosofica aperta da Descartes, con la quale il cogito veniva posto a principio dell’essere, la Riforma protestante e l’approfondimento in senso soggettivo da essa impresso, come sappiamo dalle pagine di Fede e sapere, al sentimento del divino. Abbiamo visto come in questo saggio Hegel ponesse a tema il problema della Passione e morte di Gesù, e come il significato di questo sacrificio venisse da lui inteso in tutta la «durezza» del suo significato, che nella coscienza del soggetto veniva colto e sperimentato nel «dolore infinito» espresso dalle parole: «Dio è morto». Egli poneva a compito imprescindibile della filosofia quello di accogliere e sviluppare al suo interno

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il senso di questa morte di Dio, di trasformare quello che per il credente era stato un evento storico in un «Venerdì Santo speculativo», dal quale soltanto l’«idea» avrebbe potuto «risuscitare» in tutta la sua profondità e «serietà». La Fenomenologia sviluppa questo compito non soltanto nella sua Vorrede, quando tratta del problema del negativo in rapporto alla morte e all’intelletto; bensì più specificamente in relazione al cristianesimo, e al significato che la Passione e morte di Gesù, in cui non un uomo qualunque muore, e neppure semplicemente la figura umana di Dio, bensì Dio stesso è morto, riveste da un lato in prospettiva storico-universale, dall’altro in senso filosofico e speculativo. Tuttavia, la Fenomenologia conduce questa problematica oltre la soglia sulla quale Fede e sapere si arrestava, ovvero all’approfondimento del significato di ciò che nella Vorstellung religiosa si esprime come resurrezione di Cristo dalla morte, e come sua presenza in forma di spirito entro la comunità dei credenti. Con la rappresentazione dello spirito, la coscienza religiosa intende esprimere il fatto che Dio è divenuto presenza interiore, custodita nell’intimità dell’io. Ciò consente al soggetto di acquisire, assieme agli altri credenti, la certezza dell’unità che nella sua coscienza lo vincola al divino, così come dell’inviolabilità spettante a ciascun singolo io, dal momento che proprio la sua interiorità Dio ha prescelto a sua dimora. Ma ciò comporta un ulteriore movimento, inseparabile dal primo e altrettanto significativo. Ciascun credente, infatti, è salvato per sé, in quanto singolo, solo nella misura in cui riconosca negli altri altrettanti membri di una medesima comunità, che tutti li unifica nella stessa fede in Cristo come mediatore e figlio di Dio. Proprio a fortificare la fede della comunità, la benedizione del risorto è scesa nella forma dello spirito. Così, sulla base di quanto viene espresso dalla stessa coscienza religiosa, la Fenomenologia ritiene di poter finalmente svelare

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il significato speculativo di ciò che nella rappresentazione dei fedeli si presenta come sequenza storica di eventi e mistero del Venerdì Santo: nella morte e resurrezione di Cristo, Dio non risorge in quanto singolo questo, come individuo limitato nello spazio e nel tempo, bensì in forma trasfigurata, a cui la stessa comunità dei credenti dona il nome di spirito. Ma allora, è proprio in questa certezza da parte del singolo che per la prima volta si percepisce e sa di sé come unificato con Dio nell’interiorità della coscienza; è proprio nella formazione della comunità, resa possibile dalla testimonianza della fede in Cristo, che il filosofo può scorgere il momento in cui il divino cessa di essere sostanza universale, totalità della natura o rappresentazione potenziata della propria umanità, bensì diventa propriamente soggettività spirituale. D’altro lato, Dio non muore soltanto come essenza astratta o sostanzialità ineffettuale, ma nel suo Figlio muore una seconda volta, in quanto si spoglia della sua figura empirica e accidentale. Ecco allora svelato il mistero dell’incarnazione di Dio, della Passione, morte e resurrezione di Cristo; ecco avvenuto il passaggio del Venerdì Santo da evento storico a Concetto speculativo: proprio perché muore come essenza astratta, privandosi allo stesso tempo della sua figura sensibile ed esteriore, Dio può rivelarsi in veste trasformata, ovvero spirituale, come ciò che viene saputo in quanto verità nell’interiorità della coscienza, e come ciò che viene riconosciuto nella comunità dei fedeli, che reciprocamente si riconoscono come singoli e come credenti. In questo senso, il cpv. 25 della Vorrede può sostenere che l’avvento del cristianesimo e il suo approfondimento nella Riforma protestante hanno attuato storicamente quella trasformazione dell’assoluto da inerte sostanza nella soggettività dello spirito, dalla quale Hegel aveva asserito «tutto dipendere» (cpv. 17, loc. cit.). Lo spirito emerge come «il concetto più

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elevato», poiché il Soggetto, che in termini logici e speculativi viene saputo e teoreticamente sviluppato in forma di Concetto e di Universale concreto, trova nella nozione del Geist la sua realizzazione storico-effettuale.

2. Concetto dello spirito Il Geist è soggettività che si attua storicamente, sostanza che storicamente è divenuta Soggetto, e che, a partire dall’evento cristiano e dalla sua radicalizzazione in senso soggettivo-­ spirituale nella Riforma protestante, procede verso l’attuazione della meta, consistente nel pervenire a compiutamente sapere di sé in quanto Soggetto e spirito. Il Concetto stesso si scopre così come nient’altro che la modalità filosofica e speculativa nella quale il Geist, ovvero l’assoluto nella sua figura storico-concreta, raggiunge ed esprime il suo sapere di sé. Nessun Concetto, senza lo spirito. Ma viceversa, sarebbe propriamente spirito un assoluto, che non pervenisse a sapersi in quanto spirito? Potrebbe darsi soggettività dell’assoluto, senza sapere di sé come soggettività? Potrebbero darsi Soggetto e spirito senza Concetto? La risposta, per Hegel, non è dubbia. Come l’io fichtiano era io, solo in quanto non soltanto si pone, bensì in quanto nel porsi si pone per sé, ovvero non può porsi se non in pari tempo sapendo di sé come di ciò che si pone; altrettanto il Soggetto assoluto non potrebbe realizzare il suo porre-se-stesso se non sapendosi come se stesso in ciò che esso pone, o ancora: in ciò, come il quale esso si pone. Abbiamo visto che in questo movimento consisteva la determinazione hegeliana dell’assoluto come soggettività: riflessione nell’esser-altro in se stesso.

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Tale formula, che compariva nella determinazione della sostanza come Soggetto, viene svolta adesso, al cpv. 25, nella definizione di ciò che è spirito e spirituale. Innanzitutto, Hegel determina «lo spirituale [das Geistige]» come ciò che «solamente è l’effettuale [das Wirkliche]» (PH 22, F 19). Tale determinazione non può stupirci: Hegel ha già mostrato, infatti, che la sostanza è effettuale solo come Soggetto, che Soggetto ed effettualità significano un’unica e medesima cosa. Poiché lo spirito è il Soggetto come concettualità concreta, diveniente nello spazio e nel tempo della storia, ecco che l’equazione di soggettività ed effettualità sfocia di necessità in quella di effettualità e spiritualità. Anche qui, dobbiamo però distinguere tra realtà nel senso di esistenza empirica immediata (Dasein) e realtà nel senso di effettualità (Wirklichkeit). Hegel non vuol dire che lo spirito sia ciò che unicamente è reale nel senso che tutto quanto esiste alla stregua di esistenza sensibile, intuita nello spazio e nel tempo, o non sia, oppure sia una mera scorza materiale che celerebbe un nocciolo spirituale. Egli vuol dire che semmai il limite del Dasein è soltanto quello di essere, e di essere nella maniera più semplice e immediata, come qualcosa che meramente esiste qui o là (da). Abbiamo visto come tale Dasein non possa opporre alcuna resistenza all’appropriazione che di esso viene compiuta dallo spirito; come dunque soltanto ciò che pertiene allo spirito possieda effettualità in senso proprio, ovvero: possieda vigore ed efficacia, si faccia valere come potenza della realtà, e in pari tempo elevi quest’ultima a esistenza più alta, all’esistenza del pensiero e del Concetto. Quest’ultimo, in quanto designa la modalità del sapere di sé da parte dello spirito, costituisce l’ambito conoscitivo in cui tutto l’essere, tutto il reale perviene al sapere di sé nella sua verità come Soggetto e come spirito. Perciò l’effettuale è lo spirituale; perciò la realtà è, nella sua verità, spirito; perciò infine lo

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spirito raggiunge la sua massima verità ed effettualità quando perviene al sapere di sé come spirito, ovvero di sé come della verità di tutto ciò che è ed è reale. Dopo aver posto l’equazione di spiritualità ed effettualità, Hegel procede a sviluppare in rapporto al Geist la concezione della soggettività come riflessione nell’esser-altro in se stesso. Lo spirito, egli afferma, è innanzitutto «l’essenza o ciò che è in sé» (ibidem), ovvero il momento che abbiamo riconosciuto proprio della sostanza come semplicità «indifferenziata». Lo spirito non si arresta all’inerzia e ineffettualità di questo inizio, appunto perché esso è effettuale. Esso è perciò necessariamente porre-se-stesso, ovvero divenir-altro da sé, e riflessione in questo esser-altro «in se stesso». Ciò è quanto Hegel esprime nelle formulazioni che seguono: la prima afferma che lo spirito «è il rapportantesi e determinato, l’esser-altro ed essere-per-sé» (ibidem). Come si vede, in questo movimento di articolazione del semplice, o di auto-differenziazione della sostanza, Hegel comprende due momenti opposti tra di loro, eppure inscindibilmente connessi. A evidenziare questa complementarietà, egli impiega un solo articolo, determinativo singolare, per racchiudere nell’indissolubile unità che li vincola le due fasi costitutive dell’unico movimento di auto-differenziazione dell’in-sé. Se teniamo presente che si tratta del processo con cui lo spirito come «essenza» si scinde, si divide, oppone sé a se stesso, non potremo negare profonda necessità al fatto che il movimento della distinzione del semplice, ciò che Hegel chiama il suo «raddoppiamento opponente» (cpv. 18; PH 18, F 14), appaia anch’esso scisso e sdoppiato, al suo interno, in due momenti opposti. Hegel li chiama con due coppie di termini ciascuno. Abbiamo visto come il porre-se-stesso del Soggetto implicasse il suo

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porre altro da sé, comportasse da parte sua di porre se stesso come altro da se stesso. Hegel esprime questo movimento sostantivando ancora una volta il verbo che lo designa, e lo chiama esser-altro (Anderssein). In effetti, egli esprime con questo termine più il risultato del movimento del divenir-altro da sé, che non il movimento stesso (al cpv. 19, come si ricorderà, quest’ultimo veniva espresso col verbo sostantivato Sichanderswerden, divenir-altro-da-sé). Hegel tenta continuamente di aggirare le inevitabili unilateralità e semplificazioni che l’espressione nel linguaggio fa subire all’articolazione del pensiero, mettendo in rilievo ora un lato, ora l’altro del concetto che si tratta di esporre. Per convincersi di questo, non occorre del resto far riferimento al cpv. 19. L’Anderssein del cpv. 25 era stato infatti preceduto dal suo corrispettivo diveniente, quando Hegel aveva fatto impiego del participio presente «rapportantesi» (das sich Verhaltende), a indicare il movimento del farsi-altro-da-sé. Quest’ultimo produce a suo esito l’essersi posto come altro da parte dello spirito, il quale viene così a trovarsi in quello stato di alterità di sé a sé che si esprime nel termine esser-altro. Ma perché Hegel esprime il movimento del divenir-altro-da-sé col nome di un rapporto? Ciò costituisce un’ulteriore concretizzazione delle determinazioni espresse al cpv. 18. Il diveniraltro-da-sé è necessariamente un mettere in rapporto sé con sé. Se non ci fosse messa in rapporto, non ci sarebbe posizione; se tale messa in rapporto non fosse di sé con sé, neppure allora vi sarebbe posizione, nel senso dell’auto-determinazione propria del Soggetto hegeliano. Nel primo caso, verrebbe meno il legame tra determinazione posta e Soggetto che la pone: quella non sarebbe più posta, bensì trovata o presupposta; questo non sarebbe Soggetto, bensì ricadrebbe (o meglio, non se ne sarebbe mai tratto fuori) nell’«inerte semplicità» della sostanza.

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Nel secondo, egualmente sarebbe resa impossibile l’attività del porre-se-stesso, che sola trasforma la sostanza in Soggetto. Infatti, l’alterità verrebbe anche in tal caso tolta dal rapporto col soggetto, che la pone come altra, e rispetto al quale soltanto essa è altra. Essa sarebbe nient’altro che «indifferente diversità» (cpv. 18, loc. cit.), anch’essa soltanto trovata o presupposta. Non soltanto il Soggetto non si sarebbe effettualmente dimostrato tale, ma poiché non avrebbe esso stesso posto quell’alterità, o meglio non si sarebbe posto esso stesso in quella, non potrebbe più ripristinarsi nell’eguaglianza con sé. Neppure in tal caso, quindi, potrebbe propriamente essere «concepito ed espresso» come Soggetto. Nel brano in questione, Hegel congiunge il movimento del rapportarsi al porsi da parte dello spirito come «determinato [bestimmt]», così come collega all’esser-altro la determinazione dell’«essere-per-sé [Für-sichsein]» (cpv. 25, loc. cit.). Cerchiamo innanzitutto d’intendere la complementarietà dei concetti di determinato ed essere-per-sé. Quest’ultimo indica l’autonomizzarsi della determinazione posta in esistenza autonoma e indipendente. Poiché lo spirito, ponendosi, si pone in determinazioni, o in altri termini: poiché il movimento del porre-se-stesso da parte dello spirito è equivalente al movimento della propria auto-determinazione, in ciascuna delle determinazioni in cui si pone, lo spirito esiste come determinato. Ma qui, Hegel designa l’esistere da parte dello spirito come determinato, o meglio (l’attributo compare infatti come un sostantivo) nella figura di un determinato, col concetto di essereper-sé. Il momento del per-sé qualifica l’esistere del determinato come determinato, ovvero come separato e autonomamente posto. Se il determinato non si separasse da ciò che rispetto ad esso è altro, non potrebbe esistere e affermarsi come un determinato. Esso sarebbe ancora confuso con ciò che esso non è, dal quale perciò deve scindersi, a cui deve addirittura con-

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trapporsi, per affermarsi nella sua separatezza di determinato. In tal senso, Hegel designa il determinato come essere-per-sé. Nel porsi come determinato, lo spirito scinde sé da sé, oppone a sé un altro da sé. In quanto questo altro è un opposto, esso è già un determinato. Infatti, questo altro non potrebbe affermarsi nella sua alterità rispetto a ciò dal quale è posto, se non lo negasse e, attraverso questa negazione, non si determinasse di contro al primo, per istituirsi come separato e autonomo da esso. Perciò, l’atto del porre-se-stesso del Soggetto è movimento del divenir-altro-da-sé, e in pari tempo movimento dell’auto-determinazione di sé attraverso e in virtù di questo divenir-altro. Ora, dovremmo essere in grado di comprendere perché Hegel ponga assieme, in rapporto al movimento di auto-differenziazione dello spirito, attività del rapportarsi e posizione del determinato, esser-altro ed essere-per-sé. Il rapportarsi dello spirito avviene al modo della posizione di sé come determinato, ovverosia è un auto-rapportarsi che si afferma in quanto movimento di auto-determinazione. Allo stesso modo, non si dà esistenza determinata da parte dello spirito senza posizione in separatezza di tale esistenza determinata, di sé come determinato. In quanto tale determinato si afferma per negazione di ciò che gli è altro, e si pone così come determinato, esso è un essere-per-sé. Poiché esso è per-sé soltanto in quanto separato da ciò che lo pone, o che in esso si pone, l’essere-per-sé da parte dello spirito è anche il momento, o meglio: è contemporaneamente e d’un sol colpo il momento dell’esser-altro da sé, della propria alienazione da sé. Ma proprio tale movimento Hegel pone alla base della sua nozione dello spirito: «La forza dello spirito è grande solo quanto la sua estrinsecazione, la sua profondità è profonda solo nella misura in cui esso, nella sua esplicazione, osi espanderei e perdersi» (cpv. 10; PH 14, F 8).

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Tuttavia, lo spirito non sarebbe Soggetto, e dunque non sarebbe propriamente spirito, se nell’esser-altro non fosse in pari tempo riflesso «in se stesso». Ciò dipende, come sappiamo, dalla nozione stessa del Soggetto, e perciò Hegel può affermare dello spirito che esso «è ciò che in questa determinatezza o nel suo essere-fuori-di-sé permane in se stesso; ovvero esso è in e per sé» (cpv. 25, loc. cit.). La determinazione dell’in sé e per sé è quella che consente di chiudere in circolo il movimento dello spirito, di riaffermare quest’ultimo nella sua eguaglianza con sé, e più precisamente come eguaglianza ripristinata, non immediatamente presupposta, bensì conseguita come risultato, e perciò dunque effettualmente sviluppata, mediatamente posta. Senza quest’ultimo ripiegamento nell’identità con sé, nessuna soggettività, nessuna effettualità sarebbero possibili. Solo alla luce di questo ripiegamento nell’identità, il movimento del divenir-altro e del porsi-fuori-di-sé può essere affermato come movimento di auto-affermazione da parte di un Soggetto, che in tale movimento svolge, sviluppa e afferma se stesso. Senza tale ripristinazione dell’identità e dell’eguaglianza, le fasi del movimento del porre-se-stesso non potrebbero essere «concepite ed espresse» come momenti di attuazione di un movimento unico e medesimo. Non vi sarebbe possibilità di collegare inizio e fine, il porre dell’alterità non si troverebbe recuperato e funzionalizzato all’affermazione dell’identità (mediata) del Soggetto con sé. In altri termini, la trasformazione della sostanza in Soggetto vacillerebbe, e con ciò la nozione stessa dell’assoluto hegeliano. Non si può dunque sottolineare abbastanza la crucialità della concezione che si esprime in questi termini, così apparentemente scarni e sobri, secondo i quali lo spirito è ciò che solamente è in sé e per sé.

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La scansione del cpv. 25 sembra riservarci, adesso, una sorpresa. Abbiamo appena cercato di capire, non senza «fatica», il senso preciso della determinazione dello spirito come in e per sé, che già Hegel ricomincia un nuovo movimento. Credevamo di aver finalmente esaurito l’esame del concetto di spirito, e adesso scopriamo di essere ancora soltanto all’inizio. Proseguendo nella lettura, troviamo infatti che «questo essere-in-e-per-sé è ancora soltanto per noi o in sé, è la sostanza spirituale» (ibidem). Hegel introduce questo nuovo periodo con una proposizione avversativa. Egli sembra quasi voler togliere al lettore l’illusione di essere pervenuto al termine dei suoi sforzi, di volerlo scuotere dall’involontario senso di appagamento che egli prova, quando dall’in sé, attraverso l’esser-altro e il per-sé, si trova finalmente giunto all’in sé e per sé. Tutto questo è importante, anzi è decisivo e fondamentale. Però è solo l’inizio. Esso costituisce il concetto dello spirito, ma dello spirito com’è ancora soltanto in sé. Dobbiamo dunque riprendere, subito, il «lavoro». E innanzitutto, fissare bene in mente che, se lo spirito è in-e-per-sé, tuttavia esso è tale ancora solamente in sé. Il movimento che abbiamo seguito costituisce la nozione dello spirito in sé, ovvero: lo spirito è in sé in-e-per-sé. Ma con ciò, dicevamo, siamo ancora soltanto all’inizio. Finché tale nozione dello spirito non viene saputa come tale dallo spirito stesso, ovvero finché lo spirito non è consapevole, non sa di sé come in-e-per-sé, esso non è ancora effettualmente sviluppato o realizzato come spirito. Esso dunque deve condurre quell’in-e-per-sé, dal livello immediato dell’in sé (che perciò Hegel chiama spirito non ancora esistente come spirito, ma come non sviluppata sostanza spirituale) a quello, in cui lo spirito si pone pienamente come spirito, del per sé. In altri termi-

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ni: lo spirito è realizzato effettualmente soltanto in quanto sa di sé come spirito, ovvero in quanto è in sé e per sé in-e-per-sé. Altrimenti, esso sarebbe ancora avvolto nella non sviluppata semplicità della sostanza. Certo, quest’ultima, in quanto sostanza spirituale, presenta al suo interno un dinamismo e uno sviluppo che alla sostanza di Spinoza restavano sconosciuti. Tuttavia, tale movimento resta inviluppato al livello dell’in sé, ovvero allo stadio di ciò che solamente è effettuale, ma non ha posto ancora per sé tale effettualità, e dunque non è ancora giunto al pieno sviluppo di sé come Soggetto e spirito. Ciò è del resto pienamente conforme alla nozione del Soggetto come riflessione nell’esser-altro in se stesso. Lo spirito, per porre-se-stesso e affermarsi propriamente come Soggetto ed effettualità, deve divenir-altro-a-se-stesso, deve porre se stesso come esser-altro da sé. Ciò Hegel esprime, quando osserva che lo spirito «deve essere a sé come oggetto, ma altrettanto immediatamente come oggetto tolto, riflesso in se stesso» (ibidem). Nessun porre-sestesso da parte dello spirito, senza divenir-altro-a-se-stesso. Nei termini dell’attuale formulazione: senza divenire oggetto (Gegenstand) a se stesso da parte dello spirito. In precedenza, abbiamo visto impiegare, per la parola «oggetto», il tedesco Objekt. Qui, invece, Hegel impiega il termine Gegenstand, letteralmente: ciò che sta fermo di contro e di fronte. Nell’oggetto come Gegenstand, lo spirito pone se stesso come altro e opposto rispetto e di contro a se stesso. Tuttavia, tale alterità è posta dallo spirito, in essa è lo spirito che si pone come altro da sé. Perciò, in tale alterità, lo spirito è «altrettanto immediatamente» riflesso in sé. Tale oggetto toglie perciò se stesso in quanto opposto allo spirito, quest’ultimo recupera l’alterità all’identità (mediata) con se stesso. L’oggetto viene dallo spirito saputo come contenuto posto dallo spiri-

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to, quest’ultimo sa di sé come di ciò che in quell’esser-altro ha posto se stesso. Con questo movimento, lo spirito si rende in-e-per-sé in sé e per sé, è propriamente divenuto ciò che è, ha posto se stesso e si è affermato come riflessione nell’esseraltro in se stesso.

3. Fenomenologia dello spirito Qui si colloca, in Hegel, la necessità sistematica della costruzione di una fenomenologia dello spirito. Lo spirito deve porsi fuori di sé, ovvero fuori rispetto al suo semplice essere-in-sé, deve divenir-altro rispetto al suo concetto. Lo spirito si pone così nell’esteriorità dello spazio e del tempo, poiché solo nel tempo e nello spazio esso può concretamente divenire ciò che è, ovvero porsi e realizzarsi propriamente come Soggetto che sa di sé come tale, o ancora: come spirito che sa di sé come spirito, in-e-per-sé che non resta più in sé, ma è sviluppato, posto e saputo per sé. Di qui, la storicità che permea la vita dello spirito. Senza storia, lo spirito non potrebbe porre se stesso per sé, ovvero non potrebbe realizzarsi come soggetto effettuale. Perciò, dal punto di vista di questa filosofia dello spirito, il tempo è irriducibilmente privilegiato rispetto allo spazio. Nel divenire dello spirito in forma di storia, lo spazio è aufgehoben nel tempo, quest’ultimo lo comprende al suo interno e ne rappresenta la verità. Dire che lo spirito è effettuale significa dire che lo spirito è storia, e poiché solo lo spirito è propriamente effettuale, soltanto lo spirito «ha» storia, come viceversa la storia può essere soltanto storia dello spirito. Ora, secondo quanto enunciato nella conclusione dell’opera, la Fenomenologia non è né narrazione storica pura e semplice, né

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costituisce in senso stretto una filosofia della storia. Quest’ultima, infatti, dovrebbe collegare la trattazione di epoche ed eventi nel senso della storiografia con la loro «organizzazione concettuale» (PH 434, F II 305). Soltanto a partire dall’unificazione di questi due momenti si può produrre una comprensione concettuale della storia, ovvero costruire una filosofia della storia come conoscenza e sapere di quello che la storia è in verità (cfr. ibidem). La Fenomenologia costituisce soltanto il lato dell’«organizza­ zione concettuale» dei contenuti storici, poiché in essa vengono esposte solo le tappe più significative e rilevanti dal punto di vista della meta che lo spirito deve conseguire nel corso del suo divenire; o meglio, dal punto di vista della meta che esso  ha  raggiunto nell’esser già pervenuto al sapere di sé, cioè all’attuazione di se stesso nella forma del «sistema della scienza». La fenomenologia dello spirito espone dunque il cammino che lo spirito ha compiuto per raggiungere il sapere di sé come di ciò che unicamente è effettuale, ovvero per cogliere il concetto di se stesso. Solo in questo sapere esso è realizzato effettualmente come spirito: «Lo spirito, che si sa così sviluppato come spirito, è la scienza. Essa è la sua effettualità e il regno, che esso si costruisce nel suo proprio elemento» (cpv. 25; PH 22, F 19 s.; ultimo corsivo mio), ovvero nel Concetto. Alla luce del suo esser già storicamente divenuto, il sapere di sé che lo spirito consegue nell’hegeliano «sistema della scienza» viene presupposto come presente nella coscienza del filosofo, e quindi istituito da quest’ultimo in risultato posto dal divenire della coscienza protagonista della Fenomenologia, il cui movimento è ad esso orientato come alla sua meta (cfr. cpv. 29; PH 25, F 23). Se lo spirito non fosse già pervenuto al sapere di sé, se non avesse già conseguito effettualità «nel suo proprio elemento», esso non avrebbe potuto istituire quella meta

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in scopo del processo di sviluppo fenomenologico. È a partire dal «sistema della scienza» finalmente raggiunto che lo spirito può riconoscere sé come verità del reale e dell’essere, può perciò ricostruire, a partire dalla meta in cui si è effettualmente realizzato, lo sviluppo che ad essa ha condotto.

4. Coscienza Che ne è, in questo processo, dell’io? L’io non designa più, per Hegel, l’assoluto; l’assoluto non si esaurisce nell’egoità dell’autocoscienza. Tuttavia, l’io diventa proprio in tal modo momento costitutivo dell’attuazione dell’assoluto, parte integrante del movimento attraverso cui lo spirito, realizzando se stesso nella realtà, contemporaneamente perviene a sapere se stesso come ciò che, nel reale, è propriamente effettuale. Così, l’assoluto non è l’io, ma non sarebbe senza io; l’assoluto non equivale alla struttura della coscienza, tuttavia non sarebbe né si saprebbe senza la pluralità delle coscienze che lo sanno, e cioè: nelle quali esso stesso si sa, così come quelle in esso si sanno. Se dunque è vero che nell’io si attua un Soggetto che, in quanto Concetto e spirito, è più che io e più che singole coscienze; viceversa, in quanto quel Soggetto non è Universale astratto, ma concreto, esso si conosce e si può conoscere solo nell’io e attraverso l’io. Benché l’assoluto non si esaurisca nella struttura della coscienza, la coscienza è momento indispensabile, imprescindibile del sapere che l’assoluto possiede di sé. E se l’assoluto nel sapere di sé giunge ad affermarsi nella verità di questa sua assolutezza (ovvero in quanto spirito e Soggetto), ecco che la coscienza,

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necessariamente implicata nel sapere che il Soggetto assoluto ha di sé, è altrettanto costitutivamente posta, dal «sistema della scienza», a essenziale presupposto per l’attuazione della verità nella realtà e nel sapere. Esaminiamo più attentamente in che senso Hegel intenda la coscienza come «L’immediato essere-determinato [Das unmittelbare Dasein] dello spirito» (cpv. 36; PH 29, F 28), ed esponga dunque schematicamente le scansioni metodiche che fanno della Fenomenologia «il divenire della scienza in generale o del sapere» (cpv. 27; PH 24, F 21). Poiché al cpv. 35 egli aveva individuato proprio nell’«elemento dell’immediato essere-determinato […] la determinatezza, attraverso la quale questa parte della scienza si distingue dalle altre» (PH 29, F 28), possiamo dire che il tratto caratteristico della Fenomenologia è innanzitutto quello di essere scienza della coscienza. Non nel senso che essa è la scienza che la coscienza possiede ed esercita su di sé, bensì in quello del genitivo oggettivo, per cui la coscienza è fatta oggetto di scienza da parte della Fenomenologia. Quest’ultima, in quanto parte della scienza, è dunque anch’essa scienza e sapere a tutti gli effetti. Ciò che la distingue dal resto della scienza non è lo statuto più o meno rigoroso della sua scientificità, ma l’elemento entro il quale tale scientificità si presenta, ovvero appunto quello della coscienza. In tal senso, la Fenomenologia è la prima parte della scienza. Essa espone lo spirito nella sua forma di esistenza immediata, ovvero nel suo «inizio» (cpv. 35, loc. cit), ed è perciò «prima» delle altre. Essa espone il movimento attraverso cui l’inizio si sviluppa traendosi fuori dalla sua immediatezza, e ciò significa: attraverso cui la coscienza si sviluppa, dall’essere coscienza-­dioggetto come altro da sé, nel sapere di sé da parte dello spirito come verità dell’oggettività e dell’essere.

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Ma procediamo con ordine. Innanzitutto, noi vediamo che benché la coscienza sia Dasein immediato dello spirito, essa non possiede una struttura semplice e indifferenziata, ma che Hegel la determina, esattamente all’opposto, come solcata da un dualismo e da un’opposizione: «la coscienza ha i due momenti del sapere e dell’oggettività [Gegenständlichkeit] negativa al sapere […]; la sostanza viene osservata per come essa e il suo movimento sono oggetto [Gegenstand] della coscienza» (cpv. 36; PH 29, F 28 s.). Ricordiamo come, al cpv. 25, Hegel avesse determinato l’esseraltro dello spirito come il momento in cui quest’ultimo diventava oggetto a se stesso. Ora, poiché ciò che diventa oggetto è lo spirito, noi possiamo comprendere di che natura sia la sostanza «oggetto della coscienza». In essa, cioè, possiamo riconoscere il concetto dello spirito presente in sé, ma non ancora divenuto per sé. Il cpv. 25 definiva questo concetto, ovvero l’essere-in-e-per-sé dello spirito non ancora saputo in quanto tale, come essere-in-e-per-sé fermo al livello dell’in sé. La sostanza in questione al cpv. 36 è perciò la medesima di quella determinata in precedenza al cpv. 25, ovvero come possiamo leggere poche righe sotto nello stesso cpv. 36, è la «sostanza spirituale» (corsivo mio). La coscienza costituisce il Dasein immediato dello spirito, in quanto in essa lo spirito realizza il movimento del divenir-altro-­ a-se-stesso in forma di oggetto. Ma in quanto lo spirito è in pari tempo riflessione nell’esser-altro in se stesso, possiamo già scorgere quale sarà il telos dell’intero cammino della coscienza e della scienza che la studia: il toglimento dell’alterità oggettiva da parte della coscienza, equivalente all’autorealizzazione della sostanza spirituale come Soggetto posto e affermato in quanto spirito, costituirà la meta di tutto il movimento. Una volta raggiunta questa meta, la coscienza si troverà introdotta nella scienza che conosce ed è il «vero» non più nella forma

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del suo Dasein immediato, bensì «nella forma del vero»: ciò che qui Hegel chiama «logica o filosofia speculativa» (cpv. 37; PH 30, F 30); viceversa, lo spirito potrà intraprendere l’esposizione del suo sapere di sé non più nell’elemento del suo «esserci immediato», ma in quello del Concetto compiutamente rischiarato a se stesso poiché «assolutamente mediato» (ibidem; PH 30, F 29). Nel momento in cui lo spirito si rende oggetto, esso si rende oggetto a se stesso. Questo «se stesso» dello spirito (che Hegel esprime anche nella forma sostantivata del pronome riflessivo «sé», cioè Selbst), di fronte al quale esso è l’oggetto, costituisce la coscienza. Quest’ultima rappresenta dunque il lato del sapere che lo spirito possiede di se stesso, in quanto appare a se stesso (ovvero alla coscienza) come oggetto. Hegel può così determinare la prima parte della scienza in due modi distinti, ma strettamente intrecciati e complementari. Da un lato, la Fenomenologia è «scienza dell’esperienza che la coscienza fa», cioè presenta le differenti «figure» (cpv. 36; PH 29, F 28 s.) in cui l’opposizione tra coscienza e oggetto si svolge e si risolve come il risultato di un movimento, che vede la coscienza a suo soggetto attivo, orientato a togliere alla realtà il volto dell’oggettivamente estraneo, e ad affermare il Sé come la verità dell’essere e del reale (riflessione in se stesso tramite Aufhebung dell’esser-altro). D’altro lato, poiché l’oggetto (non dimentichiamolo) non è un Dasein qualunque, bensì è la sostanza spirituale, ovvero lo spirito per come appare a sé in veste oggettiva, e dunque a sé in quanto coscienza, il movimento dell’Aufhebung dell’esseraltro non è soltanto il movimento innescato dalla coscienza sopra e di contro la sostanza, che verrebbe allora concepita come passiva e inerte (ovvero, come non spirituale). Al contrario, esso è in pari tempo il movimento attraverso cui la sostanza stessa diventa Soggetto, o in altri termini: in cui lo spirito si

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toglie dall’esser-altro in cui esso stesso si era presupposto, supera la forma in cui esso è in-e-per-sé soltanto in sé, cioè solo come sostanza spirituale o non saputo concetto di se stesso, e perviene a porre quel concetto come verità, ovvero ancora a sapere di sé come di ciò che unicamente è effettuale. Con le parole di Hegel: «Ciò che sembra prodursi fuori di essa [la sostanza] ed essere un’attività contro di essa, è il suo proprio operare, ed essa mostra di essere essenzialmente Soggetto» (cpv. 37; PH 29, F29).

5. Sapere A questo punto, Hegel determina come conseguito il fine che si trattava di raggiungere. L’oggetto si è svelato nella sua verità come spirito; viceversa, la coscienza si è ritrovata nell’identità con ciò che a sé considerava contrapposto come Gegen-stand. Anch’essa dunque si è tolta dall’opposizione, si è tolta come coscienza e si è realizzata come spirito. Hegel ritiene così finalmente raggiunto l’elemento del sapere. Lo spirito, che si è posto e saputo come verità dell’oggettività, ha ora se stesso, ovvero il suo sapere di sé, a contenuto di se stesso. Esso si può adesso espandere nell’elemento del sapere in quanto sapere, ovvero, nelle parole di Hegel: «lo spirito è a sé oggetto, come esso è» (ibidem), cioè come in e per sé in-sé-e-per-sé. L’oggetto medesimo viene in tal modo posto come spirito. Lo spirito sa sé, e sa sé come spirito. L’oggetto non è più soltanto sostanza spirituale, bensì è esso stesso in e per sé, e sa sé come tale. L’oggetto presenta così al suo interno la riflessione nell’esser-altro in se stesso, che lo rea­lizza come mediazione ed effettualità spirituale.

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Questo oggetto che sa sé come spirito non è dunque più differente dallo spirito che in esso sa sé come spirito. Esso perciò non è più oggetto, ma Concetto, «vero» che esiste «nella forma del vero» (cpv. 37, loc. cit.), spirito che esiste come spirito, cioè ancora: sapendo di sé nella forma del Concetto. Hegel esprime questo risultato con una proposizione lapidaria e pregnante, di quelle che pochi altri hanno saputo formulare con la sua maestria e padronanza della lingua: «L’essere è assolutamente mediato» (ibidem; corsivo mio). La coscienza era spirito esistente nel suo Dasein, nella forma della sua immediatezza. Alla coscienza si contrapponeva lo spirito come sostanza, ovvero anch’esso nella forma iniziale e immediata, come spirito in sé. Quest’ultimo, apparendo di fronte e di contro alla coscienza, assumeva la forma di un oggetto. L’oggetto era spirito nella forma dell’esser-altro, o ancora: spirito oggettivato a se stesso in figura di coscienza. In quanto coscienza, quest’ultima trovava l’oggetto di fronte a sé. L’oggetto era perciò a sua volta essere immediato di fronte alla coscienza, così come la coscienza era immediato Dasein dello spirito. In quanto coscienza, lo spirito era anche immediatamente esser-altro, ovvero oggetto. Poiché al termine del percorso il Sé ripristina l’oggetto nell’identità con sé, l’oggetto si attua come Soggetto, ovvero come compiuta riflessione nell’esser-altro in se stesso. L’essere è perciò tolto alla sua immediatezza, in quanto appariva di contro alla coscienza come oggetto. Viceversa, la coscienza è essa stessa tolta in quanto esserci immediato dello spirito, poiché ha ricongiunto il suo Sé con l’oggettività, o meglio ha scoperto il Sé come verità dell’oggetto, che perciò ora risulta esso stesso Sé e soggetto. L’essere è spirito, così come lo spirito è essere. Ovvero ancora: lo spirito si è attuato nell’essere come riflessione in sé nel suo altro da sé, ha mediato con sé questo altro e si è esso stesso mediato in e

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attraverso questo altro. Il reciproco toglimento dei due lati immediatamente contrapposti l’uno all’altro costituisce l’«essere assolutamente mediato» di cui parla Hegel. Più semplicemente: poiché la mediazione è la struttura della soggettività come riflessione nell’esser-altro in se stesso, dire che l’essere è un «assolutamente mediato» significa già enunciare che esso è stato «assolutamente» spiritualizzato, che esso stesso si è reso «assolutamente» Soggetto. L’unificazione di coscienza ed essere (o oggetto) realizza l’uni­ ficazione dello spirito con sé, che si attua nel sapere di sé come spirito. Solo nel sapere l’essere può prodursi come assolutamente mediato, come esso stesso spirituale. E tale essere assolutamente mediato è nient’altro che Concetto: «contenuto sostanziale, che è altrettanto immediatamente proprietà dell’io, un sé [selbstisch], ovvero il Concetto» (ibidem; PH 30, F 29 s.). Qui, Hegel riprende formulazioni già impiegate nella filosofia dello spirito jenese del 1805/06, dove l’identità che l’io realizza con sé nel Concetto viene espressa forse con forza ancora maggiore: «Nella filosofia è l’io in quanto tale che è sapere dello spirito assoluto, nel concetto in se stesso, come questo, è l’universale» (Hegel 1805/06, p. 286; FSJ, p. 174). Nel «sapere assoluto» in cui culmina la Fenomenologia, l’io non dilegua, non viene soppresso, bensì nell’io e attraverso il sapere dell’io la sostanza pone-se-stessa come Soggetto. L’io non è l’assoluto, ma l’assoluto non è altro dall’io, bensì perviene al sapere di sé come spirito e Soggetto solo nell’io e nel suo sapere. Il sapere del filosofo è così sapere che lo spirito ha di sé come Soggetto assoluto, e viceversa: l’io perviene al sapere di sé soltanto in quanto è sapere dell’assoluto porre-se-stesso dello spirito come effettuale Soggetto.

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6. Aufhebung del negativo? Hegel esprime il risultato così conseguito riprendendo il problema del negativo. Egli ha affrontato la questione del negativo nei capoversi concernenti l’intelletto e il suo superamento nel Concetto. Ora torna sul problema, riformulandolo in rapporto alla struttura della Fenomenologia. Quest’ultima riceve la sua «determinatezza» per il fatto di svolgersi nell’elemento della coscienza. In quanto esiste come coscienza, lo spirito si trova scisso tra sé come coscienza, e sé come oggetto che appare alla coscienza. L’oggetto appare alla coscienza come negativo, ovvero opposto e altro, rispetto al sapere che essa ha di sé. Hegel esprime la scissione che attraversa la coscienza come «ineguaglianza che ha luogo nella coscienza tra l’io e la sostanza, che è il suo oggetto», e tale ineguaglianza determina la «loro differenza» (cpv. 37; PH 29, F 29). In rapporto alla Fenomenologia, tale differenza tra la coscienza e il suo oggetto costituisce «il negativo in generale» (ibidem). Il negativo è differenza, la differenza è il negativo. La meta della Fenomenologia si può esprimere allora come quella del­ l’Aufhebung della diseguaglianza nell’eguaglianza, della differenza nell’identità, del negativo nel positivo. Ma evidentemente, tutto sta nel determinare il senso dell’Auf­ hebung qui in questione. Quale aspetto prevale nell’Aufhebung del negativo? Che tipo di «superamento» si compie al termine della Fenomenologia? Si tratta di un togliere, nel senso di un sopprimere ed eliminare? O si tratta di un superare, nel senso per cui ciò che viene superato è in pari tempo conservato e innalzato alla sua propria «verità»? E se si trattasse di questa seconda possibilità, come andrebbe determinata, in rapporto al negativo, un Aufhebung questo tipo?

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Sempre al cpv. 37, Hegel parla del fatto che al termine del divenire fenomenologico «la separazione del sapere e della verità è oltrepassata» (PH 30, F 29). Egli non impiega qui il participio «aufgehoben», bensì überwunden. La separazione o la scissione tra coscienza e oggetto, tra sapere che lo spirito ha di sé nella coscienza e ciò che esso è in sé nel suo concetto, è stata oltrepassata nel senso di lasciata alle spalle come qualcosa che è stato dominato e vinto, superata non nel senso dell’«aufgehoben», ma nel senso di ciò che vittoriosamente è stato sopravanzato. Poco prima, tuttavia, al cpv. 36, il termine «aufheben» compare puntualmente a designare il movimento di cui si tratta. Hegel riprende in rapporto allo spirito e alla sua fenomenologia la nozione di Soggetto come mediazione, ovvero riflessione nell’esser-altro in se stesso, e scrive: «Ma lo spirito diventa oggetto poiché è questo movimento, diventare a sé un altro, cioè oggetto del suo Sé, e superare [aufheben] questo esseraltro» (PH 29, F 29). La traduzione italiana esprime «aufheben» con «togliere». Ma evidentemente, in questo caso, si tratta già di un’interpretazione. È vero che Hegel, nella Scienza della logica, per spiegare il senso in cui egli impiega questo termine, richiama l’uso del latino tollere; ma egli stesso precisa che la «determinazione affermativa» non perviene, in quest’ultimo, al significato del conservare, ma «soltanto fino al portare in alto» (cfr. Hegel 1832, p. 94 s.; SdL, p. 101). L’italiano «togliere» ha ormai perduto anche questa. Se perciò si traduce l’«aufheben» del testo con «togliere», è difficile intendere in modo diverso da «sopprimere», «distruggere», «annientare». Ma se fosse così, altrettanto difficile sarebbe non imputare alla dialettica l’esercizio di una violenza sul negativo, almeno pari a quella che quest’ultimo esercita sull’essere dell’immediato.

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La parola «überwunden», che viene impiegata al cpv. 37, contribuisce peraltro a rafforzare questa impressione. Poiché in essa il «superare» è inseparabilmente connesso col «dominare» e col «vincere», sembra che l’eguaglianza possa trionfare sull’ine­ guaglianza, e la finale identità sulla differenza, non perché in queste le prime si realizzino nella loro verità, ma perché esse impongono se stesse come verità sopra e di contro al negativo. Tuttavia, la situazione non è affatto così semplice né, soprattutto, così univoca. Se andiamo al cpv. 39, Hegel non soltanto colloca il negativo, ovvero l’ineguaglianza, tra la coscienza (il Sé del sapere) e l’oggetto (ciò che per la coscienza appare come verità ed essere), all’interno stesso della sostanza (come già era accaduto al cpv. 37; cfr. PH 29, F 29); ma giunge addirittura ad asserire che «la sostanza è essa stessa essenzialmente il negativo» (cpv. 39; PH 30, F 31; corsivo mio). Ciò potrebbe risultare conforme al fatto che il negativo appare come «motore [das Bewegende]» (cpv. 37; PH 29, F 29) rispetto alla coscienza e alla sostanza, fin tanto che lo spirito percorre il suo cammino fenomenologico; ma che una volta giunti al suo termine, ovvero all’«essere assolutamente mediato» del Concetto, quell’ineguaglianza è stata definitivamente oltrepassata, e dunque non soltanto il negativo non potrebbe più fungere da «motore», ma neppure più esistere tout court. Tuttavia, poco più avanti nel testo, Hegel chiarisce che la verità cui si perviene alla fine dell’itinerario fenomenologico non equivale all’esclusione del negativo e dell’ineguaglianza. Anzi, egli riconduce la permanenza del negativo all’interno del «vero» al fatto che in quest’ultimo permane attivo il Sé del soggetto pensante, dell’io: «l’ineguaglianza è essa stessa ancora immediatamente presente nel vero in quanto tale come il negativo, come il Sé» (cpv. 39; PH 31, F 31; corsivo mio). Se nel Concetto venisse meno l’ineguaglianza dello spirito a se stesso, non si comprende come il Concetto potrebbe a sua volta

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articolarsi nell’intero della logica speculativa, ovvero svolgere se stesso nei concetti determinati come nei suoi singoli momenti. Certo, cambia la forma dell’ineguaglianza: essa non è più diseguaglianza tra soggetto e oggetto, tra sapere che lo spirito ha di sé come coscienza, e sostanza spirituale apparente di fronte a quella come verità differente dal sapere. La diseguaglianza diventa interna o immanente al sapere stesso: «i momenti dello spirito si espandono nella forma della semplicità» (cpv. 37; PH 30, F 30). Essi non sono più attraversati dalla scissione di coscienza e oggetto, poiché lo spirito sa ormai quest’ultimo come se stesso (cfr. ibidem). Ovvero: lo spirito che si realizza come Concetto e sapere di sé è compiutamente riflesso nel suo esser-altro in se stesso, ed è dunque in e per sé in-per-sé. La differenza diventa «soltanto diversità del contenuto» (ibidem), di concretizzazione relativa ai singoli momenti, che tuttavia restano compresi nella medesimezza del sapere e del Concetto. Che il negativo permanga nel sapere, che senza negativo non vi sia né possa esservi automovimento del Concetto, è quanto emerge anche dal cpv. 53, nel quale, dopo aver posto «la vita propria del Concetto» a fondamento della scientificità in filosofia (loc. cit.), Hegel determina la funzione del negativo in rapporto al movimento che lo riguarda, e che assume il nome di negatività. Leggiamo il testo: Il movimento dell’essente [des Seienden] è, da un lato, di diventare a sé un altro e così di trasformarsi nel suo immanente contenuto; dall’altro, l’essente riprende in sé questo dispiegamento o questo suo essere-determinato, cioè rende se stesso un momento e si semplifica sino alla determinatezza. (PH 38, F 43).

Il movimento di ciò che è consiste, da un lato, nel divenir-altro-a-se-stesso, e con ciò nel determinare se stesso; dall’altro,

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nel riflettersi in questo esser-altro in se stesso. Il movimento di ciò che è, conosciuto nella sua verità, coincide dunque con il movimento dello spirito, poiché soltanto lo spirito, la sostanza che si è resa Soggetto, è questo movimento della mediazione di sé con sé tramite divenir-altro da sé. Poiché nell’esser-altro lo spirito è riflesso in se stesso, e questo esser-altro coincide con la determinazione che lo spirito ha dato a se stesso, lo spirito si trova nella determinazione, nella sua forma di esistenza determinata, ripristinato nell’identità e nell’eguaglianza con sé. In quanto lo spirito è, nel suo essere-determinato, identico con sé, quest’ultimo diventa momento proprio dello spirito, ritorna cioè alla forma della semplicità che lo spirito possedeva all’inizio, prima del divenir-altro-a-se-stesso che introduce la scissione e la differenza; ma tale semplicità, in quanto si produce nella determinazione, è semplicità determinata o, come dice Hegel, «determinatezza». Il fatto che qui Hegel parli non dello spirito, ma dell’essente in generale, non dev’essere inteso come se egli tornasse, in questo modo, a pronunciare asserzioni di tipo metafisico in senso pre-kantiano e pre-trascendentale. La stessa esistenza di un’opera come la Fenomenologia dovrebbe distogliere dal formulare ipotesi del genere, e dallo scambiare l’espressione in forma brachilogica della concezione hegeliana (scotto da pagare necessariamente, se si vuole scrivere una «prefazione»…) da un lato con la sua dimostrazione, dall’altro come se qui si trattasse dell’identificazione immediata tra ciò che empiricamente è dato all’intuizione, e ciò che propriamente è effettuale e perciò vero. L’essente di cui si tratta nel brano citato è l’essere saputo nella sua verità come spirito, è spirito che sa sé come verità del reale e dell’essente, o ancora in altri termini: come ciò che, al

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termine della sua fenomenologia, è pervenuto al sapere di sé come di ciò che unicamente è effettuale. Se così è, l’essente qui in questione è l’essere compreso non soltanto dal sapere, cui nell’io del filosofo lo spirito perviene; ma più radicalmente ancora, è l’essere in quanto è compreso nel sapere, ovvero «concepito ed espresso» nell’esposizione del «sistema della scienza» e di questa sua prima parte. Di tutt’altro che di un’identificazione immediata tra datità e concetto, dunque, si tratta, nell’essente che attua il movimento della mediazione, bensì dell’«essere assolutamente mediato», in cui non soltanto l’io del filosofo perviene al sapere dell’effettualità come spirito, ma presenta all’interno del suo sapere, la riflessione nell’esser-altro in se stesso che lo spirito, in forma di Concetto, attua in ciascuna delle sue determinazioni. Non abbiamo dimenticato che il problema che ci riguardava più da vicino era costituito dalla negatività. Proseguiamo allora nella lettura: «In quel movimento, la negatività è il differenziare e il porre dell’essere-determinato: in questo ritornare in sé, è il divenire della semplicità determinata» (ibidem). L’essente era, da un lato, divenir-altro, e perciò porre-se-­stesso come determinato. In questo porre di sé come determinato l’essente si distingue, si scinde, si differenzia da sé. Questa differenziazione di sé da sé, in cui coincidono divenir-altro e porre del determinato, costituisce il primo movimento della negatività. Ma il movimento dell’essente non si esaurisce in questo divenir-­ altro. Nell’esser divenuto altro, l’essente è infatti riflesso in se stesso; solo per questo esso è, nella sua verità, spirito e Concetto. Al movimento del divenir-altro-a-se-stesso corrisponde perciò il movimento del riflettersi nell’esser-altro in se stesso. E anche questo secondo movimento Hegel designa come negatività.

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Tuttavia, poiché tali movimenti vanno concepiti come simultanei, essi non soltanto non sono due, ma non sono neppure movimenti, se per movimento s’intende uno spostamento o uno svolgimento che accadono successivamente in uno spazio, che si attuano secondo la linearità e irreversibilità del tempo come ordinamento cronologico. Il movimento dei concetti come «circoli» distrugge il tempo inteso come successione d’istanti, toglie la cronologia. La negatività comprende dunque al suo interno una duplicità di movimento: da un lato, essa procede in direzione del porrese-stesso, dell’espansione e dello svolgimento; dall’altro, essa ritorce l’espansione nel Concetto, curva il percorso nuovamente in sé: trasforma l’espansione in contrazione, e riproduce la contrazione in forma di rinnovata espansione. Ma poiché la negatività è nello stesso tempo la duplicità di questi movimenti opposti, essa li toglie in quanto tali: il movimento è conservato soltanto nella forma del processo intemporale con cui il Concetto pone se stesso a verità dell’essente, e in questo porre-se-stesso si riflette nello stesso tempo in sé. Che ne è dunque del negativo e della negatività al termine della Fenomenologia? Nella forma dell’ineguaglianza tra la coscienza e l’oggetto, che contraddistingue il negativo finché lo spirito resta in cammino verso il sapere di sé, il negativo appare tolto nel senso dell’überwunden che compare al cpv. 37. D’altra parte, esso resta conservato nel sapere come negatività immanente del sapere stesso: e ciò viene affermato da Hegel nel cpv. 39 e, benché in forma meno evidente, nel cpv. 53. In questo secondo senso, il negativo viene aufgehoben: e ciò concorda con quanto abbiamo letto al cpv. 36. Nel sapere, il negativo è superato in quanto appare conservato, sì, ma nella forma trasformata della differenza interna ai

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contenuti del sapere stesso. Lo spirito si è tolto dal suo esseraltro, ma dell’esser-altro ha conservato il momento dell’ineguaglianza con sé. Solo che quest’ultima non si produce più tra sapere e verità, coscienza e oggetto, bensì è immanente al sapere stesso come differenza di sé da sé, immanente alla verità come ineguaglianza di questa con sé. È ancora propriamente negativo il negativo nel sapere? In che senso il movimento che non scopre l’essente come spirito e Concetto, ma che si attua all’interno del Concetto stesso, può a buon diritto essere designato come negatività? Hegel sostiene non soltanto che il negativo è, nel sapere, presente come negativo, ma che nel sapere esso è ancora immediatamente presente nella forma del Sé (cfr. cpv. 39, loc. cit.). Eppure, al cpv. 37, Hegel aveva scritto che nel Concetto «l’essere è assolutamente mediato» (loc. cit.; corsivo mio). Come interpretare, come conciliare l’essere come assoluta mediazione, proprio del Concetto, e l’immediatezza in esso risorgente nella forma del Sé? Se l’essere è ormai già stato assolutamente mediato (si tratta infatti della fine, della meta, del risultato conseguiti al termine della Fenomenologia), che cos’altro potrà mediare l’assoluta mediazione del Concetto con l’immediatezza del Sé, in esso ancora presente? Qui, la negatività si scopre forse come l’origine non ulteriormente mediabile della dialettica. Nel sapere, l’ineguaglianza è presente come differenza tra immediatezza del Sé e assoluta mediazione realizzata nel Concetto. Una differenza di tal genere, che scaturisce a questa altezza, dove è raggiunta l’assoluta mediazione dell’essere, non può più essere mediata, poiché tutto è già stato, a questo punto, mediato. Tutto, tranne l’immediatezza del Sé che, nel sapere, riproduce la differenza tra la sua propria immediatezza e l’assoluta mediazione del Concetto.

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Allora, certo, Hegel potrebbe parlare a buon diritto di negativo e negatività. Infatti, l’ineguaglianza e la differenza qui racchiuse si mostrerebbero ulteriori rispetto al movimento stesso del risultare, immediate non prima e all’inizio del movimento, bensì dopo il suo risultato, alla fine della fine: perciò nulla potrebbe riprenderle nuovamente in sé. Una differenza immediata e non più riconducibile a mediazione, proprio là dove l’essere viene enunciato come assolutamente mediato: è questa una differenza compatibile col movimento dello spirito come riflessione in sé nell’esser-altro? Non è quest’ultima la formula in cui si esprime il movimento stesso della mediazione? Non perviene dunque la mediazione, proprio là dove si presenta nella sua figura massimamente compiuta, a riprodurre all’interno di sé un’immediatezza che, nel dar luogo a quella riflessione in sé nell’esser-altro, non comparirebbe né potrebbe comparire a suo «momento», pena il venir meno della mediazione, cioè di quella stessa riflessione? La differenza, l’ineguaglianza, il negativo e la sua negatività sarebbero allora interni al sapere che lo spirito possiede di sé, solo in quanto quest’ultimo si troverebbe incessantemente a riprodurli come esterni a sé, non-mediati e non-mediabili con sé.

7. Differenza Ma non inoltriamoci troppo avanti su questa strada. Essa indica un cammino che, spingendo oltre Hegel, ha ricondotto per larghi tratti sempre più dentro il suo pensiero. Qual è, infatti, lo statuto delle interrogazioni precedenti? Sono formulabili come obiezioni a Hegel? Sono piuttosto, esse stesse, l’Aufhebung in cui il pensiero di Hegel, togliendosi, verrebbe in pari tempo a conservarsi?

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Certo è che in Hegel la permanenza del negativo assume una forma che la Vorrede determina con parole al tempo stesso criptiche e abbaglianti, e che sembrano sorgere da domande non troppo diverse da quelle che molti, dopo di lui, hanno rivolto al suo pensiero. Se l’ineguaglianza è immediatamente presente nel sapere come il negativo che lo muove, se tale ineguaglianza propriamente non risulta, poiché per così dire essendo il bordo stesso della mediazione non può più esser ripiegata nel suo circolo, allora la differenza del vero da se stesso, immediatamente presente nel sapere, riproduce lo spirito nella forma del divenir-altro-da-sé; di un divenir-altro-da-sé che, però, avendo esaurito le risorse della mediazione, non potrebbe più riflettersi nell’esser-altro in se stesso. L’alterità non sarebbe più alterità da sé, ma alterità tout court, differenza dispiegata in un molteplice irriducibile a unità e a «eguaglianza ripristinata». Ma sarebbe ancora possibile, allora, parlare di «spirito» e «Soggetto»? Evidentemente no, poiché il Soggetto è solo in quanto è effettuale, ed è effettuale soltanto in quanto movimento della mediazione come riflessione nell’esser-altro in se stesso. Hegel tenta allora di far risultare l’immediatezza, di porre al termine dello sviluppo la necessità di restaurare lo spirito nella forma dell’esser-altro, cioè della contrapposizione tra coscienza e oggetto. In quanto lo spirito, nel «sapere assoluto», si ricongiunge nell’identità con sé, esso ripristina l’eguaglianza di sé con sé, ovvero torna immediatamente unito ed eguagliato a sé. In questa immediatezza posta come risultato della mediazione, lo spirito può procedere in direzione della logica speculativa, ovvero assumere l’immediatezza come immediatezza posta nel sapere, perciò come concetto dell’immediatezza: esso diventa allora essere come saputa immediatezza e inizio della logica.

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Ma in pari tempo, poiché nel sapere l’ineguaglianza è presente ancora in forma immediata, lo spirito non può limitarsi ad assumerla come puro e semplice concetto. L’immediatezza di cui si tratta sarebbe infatti immediatezza nella forma della mediazione, dell’«essere assolutamente mediato» del Concetto. Lo spirito deve porre l’immediatezza nella forma dell’immediatezza, deve con ciò nuovamente porre-se-stesso nel divenir-­ altro-da-sé. Altrimenti, esso non porrebbe la differenza di sé con sé, non si porrebbe effettivamente come esser-altro, ma resterebbe imprigionato nel sapere: si limiterebbe a porre il concetto dell’ineguaglianza di sé con sé, ovvero a porre solo il concetto dell’immediatezza in cui si trova, nel sapere, differente da sé. Lo spirito deve perciò riprecipitare nello spazio e nel tempo delle sue storiche apparizioni, deve scindere, separare, effettualmente dividere sé da sé: in altri termini, esistere nell’immediatezza del suo «Dasein», ovvero rendersi oggetto a se stesso nella forma della coscienza e della sua opposizione con l’essere. Da un lato, questa resta un’operazione interna al sapere, una struttura epistemica dell’hegeliano «sistema della scienza». L’io che già è pervenuto al sapere dello spirito come di ciò che solamente è effettuale, che in altri termini possiede già il concetto dello spirito, ricostruisce a partire dal sapere il cammino che lo spirito medesimo ha percorso prima di pervenire a questo stesso sapere. Perciò l’oggetto della coscienza è sostanza spirituale; perciò l’oggetto è spirito e concetto dello spirito, che alla luce della meta già raggiunta in sé, cioè storicamente divenuta e realizzata nell’io del filosofo, non si sa ancora per sé e si fraintende quindi come oggetto estraneo a sé; perciò Hegel al cpv. 25 può impiegare come equivalenti le determinazioni dell’in sé e del per noi. Lo spirito è in-e-per-sé: ma non ancora per sé, bensì soltanto per l’io del filosofo che lo sa, per noi che leggendo la Fenomenologia non c’identifichiamo con

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la coscienza che ancora sta compiendo il suo cammino fenomenologico, bensì con quella del filosofo che a tale cammino guarda dalla meta per lui già raggiunta, e alla quale ora, retrospettivamente, si tratta di far pervenire la coscienza. Il riferimento alla memoria che compare al cpv. 29 non è dunque da mettere in rapporto a un presunto platonismo di Hegel, bensì alla struttura epistemica del suo pensiero, all’articolazione interna del «sistema della scienza». D’altra parte, è evidente che anche in questo caso l’immediatezza rimarrebbe immediatezza posta nel sapere. Certo, non si tratterebbe del sapere nella forma del Concetto, ma del sapere che si volge al Dasein immediato dello spirito, che studia lo spirito nel suo divenire come coscienza. Tuttavia, l’esser-altro così posto resterebbe esser-altro meramente saputo, esser-­ altro posto nel sapere che sa di questo esser-altro dello spirito, e lo presenta scientificamente nella prima parte del sistema sotto il titolo di Fenomenologia dello spirito. Per realizzarsi propriamente in forma effettuale, lo spirito deve perciò porre se stesso in un esser-altro che possieda la forma dell’esser-altro, che cioè non sia in sé un già saputo, ovvero mediato, bensì esista immediatamente e sia come immediato. Solo in quanto l’esser-altro è un effettivo esser-altro, lo spirito può effettualmente attuarsi come mediazione, riflessione nell’esser-altro in se stesso. Lo spirito deve così divenire-­ a-sé-un-altro nella realtà, ovvero porre lo spazio e il tempo come le forme in cui esso si pone nella differenza di sé con sé. Anche questo movimento di posizione dello spazio e del tempo, tuttavia, va inteso nella duplicità dei suoi momenti. Da un lato, è funzione anch’esso del sapere, modalità concreta di realizzazione dello spirito come «sistema della scienza» ed episteme; dall’altro, invece, designa lo spirito che diviene a sé altro nella realtà, intesa quest’ultima come oggettività negativa e opposta al sapere.

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Nell’ultimo capitolo della Fenomenologia, Hegel esprime l’inseparabilità di ambedue questi aspetti con le parole seguenti: Il sapere non conosce soltanto sé, bensì anche il negativo di se stesso, o il suo limite. Sapere il suo limite significa sapersi sacrificare. Questo sacrificio è l’alienazione [Entäusserung] in cui lo spirito presenta il suo divenire-spirito nella forma del libero accidentale accadere, intuendo il suo puro Sé come il tempo fuori di lui, e altrettanto il suo essere come spazio. (PH 433, F II 304).

Per un verso, siamo di fronte a una struttura interna all’episteme, poiché è sulla base del «sapere assoluto» e a partire da esso che lo spazio e il tempo appaiono come posti dallo spirito. Dire che essi sono posti dallo spirito significa affermare che lo spirito si pone in essi, ovvero in essi rende se stesso esteriore a se stesso. Ma tale movimento è istituito dal sapere, esiste nel sapere e per il sapere. Lo spazio e il tempo vengono posti dal sapere assoluto, poiché quest’ultimo li interpreta alla luce di se stesso come meta e risultato, e perciò li comprende nella prospettiva dello spirito che si rende in essi effettuale, che si ripristina attraverso essi nell’identità con sé del suo sapere. Non si tratta dunque di una produzione ontologica che trasferisce in termini concettuali ciò che la coscienza religiosa rappresenta, nel cristianesimo, come creazione del mondo «ex nihilo»; bensì di una struttura epistemica, di un’articolazione interna del «sistema della scienza». Quest’ultimo non intende ripercorrere o narrare il processo della generazione metafisica del reale da parte dello spirito che sa di sé nel sapere, bensì presentare in un nesso sistematico ciò che a partire da quel sapere appare come verità dell’essere e del reale, o in altri termini: esporre l’essente nel movimento concettuale che lo istituisce nella sua verità, poiché lo riconduce a spirito e sapere. Ma come appare dal brano citato, il movimento del diveniraltro-­a-se-stesso da parte dello spirito non è soltanto esposto

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dal sistema, non è semplicemente colto nel sapere. In indissolubile unità con questa sua funzione strutturale relativa all’episteme, esso è in pari tempo il movimento in cui lo spirito diviene effettualmente altro-da-sé, nel quale lo stesso sapere di sé perviene alla negazione e al sacrificio effettuali di sé. Ciò significa che lo spirito, nel momento in cui raggiunge il coglimento di sé nel suo sapere, perviene in pari tempo a farsi altro da sé. La riflessione nell’esser-altro in se stesso, una volta portata a compimento nel sapere, riattiva l’esser-altro dello spirito nella sua immediatezza, e cioè da un lato nella forma dello spazio e del tempo, dall’altro nella forma della scissione tra coscienza e oggetto. Quest’ultima riproduce la differenza dello spirito da sé svincolandosi dalla mediazione cui veniva ricondotta nella «scienza», ovvero in quanto diseguaglianza immediatamente presente «fuori» del sapere, nello spazio e nel tempo. Ciò comporta che lo spirito torna a esistere come coscienza al di fuori della scienza che, in quanto prima parte del sistema, prendeva a suo oggetto di studio quest’ultima, ovvero al di fuori della Fenomenologia. La differenza immediata che si presentava nel sapere, torna ora a cadere fuori del sapere, come immediata diseguaglianza, come immediata esser-altro dello spirito da sé. Poiché lo spirito nella forma dell’esser-altro è spirito che si rende oggetto a se stesso; poiché il «se stesso» di fronte a cui l’oggetto esiste è la coscienza; poiché l’ineguaglianza e la differenza che vengono così a riprodursi si attivano nella loro immediatezza, ovvero fuori dal sapere, quell’ineguaglianza e quella differenza tornano a collocarsi nello spazio e nel tempo: il negativo e il movimento della negatività si ripristinano non più come motori immanenti della Fenomenologia, ma «secondo il lato del loro libero esserci apparente [erscheinenden Daseins] nella forma dell’accidentalità» (PH 434, F II 305), cioè del loro accadere contingente nello spazio-tempo della storia (cfr. ibidem).

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8. Erscheinung Risponde a una profonda necessità del pensiero hegeliano, dunque, il fatto che il cpv. 47 della Vorrede esprima questa concezione proprio in relazione all’apparire della verità. Anche qui, il testo presenta il termine Erscheinung. Tuttavia, questa parola riceve un senso ben diverso da quello kantiano di «fenomeno», poiché in Hegel non c’è una «cosa in sé» a cui si contrapponga l’apparire, bensì l’apparire stesso è proclamato come in sé. «L’apparenza è il sorgere e passare, il quale esso stesso non sorge né passa, bensì è in sé e costituisce l’effettualità e movimento della vita della verità» (PH 35, F 37 s.). Poiché l’apparenza stessa è in sé, in essa la verità manifesta se stessa. Non si tratta dunque, nell’apparenza hegeliana, d’illusione e parvenza, ma di manifestazione effettuale della verità. Di più, Hegel dichiara che la manifestazione della verità è nel suo «sorgere e passare» interminabile; che l’eterno non sta né dietro né dopo ciò che appare, bensì è il processo e il movimento sempre risorgente attraverso cui la verità si manifesta. Ecco perché l’opinione sbaglia, quando intende la diversità dei sistemi filosofici solo nei termini della loro reciproca contraddizione. Ecco perché, nell’interpretare come Aufhebung la sequenza gemma-fiore-frutto, Hegel non riteneva di fare un torto alla vita delle piante. In questa, egli cercava di illustrare ciò che per lui esisteva di più alto: «lo svolgimento progressivo della verità» (cpv. 2, loc. cit.). Anche la verità, in quanto è di natura spirituale, è caratterizzata dal movimento della mediazione come riflessione nell’esser-altro in se stessa. La verità si attua nel tempo, si svolge nell’esteriorità a se stessa che contraddistingue il suo accadere obiettivo. Essa è così un divenir-altra-a-se-stessa, in cui la differenza, l’ineguaglianza, la diversità di sé da sé non sono

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ancora riprese e recuperate all’eguaglianza e all’identità con sé. Col ritorno o riflessione in sé dall’esser-altro del suo divenire spazio-temporale, tuttavia, la storia non è azzerata o cancellata, bensì compresa nel sapere, e attraverso il sapere rimessa in moto. Il sapere assoluto distrugge, cancella, elimina il tempo (cfr. PH 429, F II 298). Ma nello stesso momento in cui lo annulla, esso lo riproduce; nello stesso momento in cui lo spirito è riflesso in sé nel suo sapere, esso mantiene e riproduce l’esser-altro, nel quale e attraverso il quale solamente quella riflessione può avvenire. Se l’esser-altro fosse azzerato una volta per tutte, se allo spirito fosse negato il movimento del divenir-altro-a-se-stesso, non vi sarebbe più mediazione: assieme al negativo e alla negatività, scomparirebbero sia l’attività del porre-se-stesso, sia la riflessione nell’esser-altro in se stesso. In altri termini: lo stesso spirito si auto-distruggerebbe nel sapere che lo realizza come spirito. E questo appare, francamente, un paradosso troppo assurdo, per poterlo addossare a Hegel. Non resta perciò che sperimentare l’altra ipotesi, ovvero quella per cui nel sapere e in virtù del sapere lo spirito si realizza come spirito non soltanto in quanto toglie l’esser-altro, ma perché in questo toglimento esso lo riproduce e lo mantiene nella sua differenza come esser-altro, ripristinando così il movimento del porre-se-stesso come mediazione di sé con sé tramite divenir-altro da sé. Ora, se è solo nella prospettiva di un «sapere assoluto» così concepito che lo spirito si sa in sé e per sé come in-e-per-sé, allo stesso modo è soltanto a partire da quel sapere, dal risultato della Fenomenologia che Hegel può interpretare la «diversità» dei sistemi filosofici come momenti di un unico «svolgimento progressivo», entro i quali lo spirito si riflette, dall’esser-altro del suo divenire nell’esteriorità dello spazio e

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del tempo, in se stesso, ovvero raggiunge la consapevolezza di sé nel sapere di sé. Certo, soltanto all’epoca moderna è stato possibile concepire un sistema che comprendesse lo spirito come verità dell’essere, e lo elevasse al sapere di sé come di ciò che, nel reale, è unicamente effettuale. Tuttavia, in ogni epoca e in ogni tempo la verità è riflessa in sé nella filosofia che la comprende, in ogni epoca si attua il movimento della mediazione di sé con sé tramite divenir-altro da sé, che caratterizza la vita dello spirito. Perciò, già nella Differenzschrift Hegel rifiutava d’intendere le filosofie del passato come dei meri «esercizi preparatori» per la filosofia del presente, bensì invitava a scorgere in esse le figure in cui la ragione, con i «materiali da costruzione di una determinata epoca», si organizzava una figura dal significato universale, ma dai contorni unici e irripetibili (cfr. Hegel 1801, p. 12; SC, p. 12 s.). Che questa fosse una posizione tutt’altro che ovvia e consueta basterebbero a dimostrarlo, oltre alla posizione di Reinhold contro cui Hegel qui espressamente si volge, le parole con le quali Fichte determinava la propria concezione dei rapporti della filosofia con la sua storia: «non c’è che una sola filosofia […], e quando si sia trovata e riconosciuta quest’unica filosofia possibile, non ne può più nascere una nuova, ma anzi tutte le cosiddette filosofie precedenti non hanno altro valore che d’essere tentativi e preliminari» (Fichte 1801, p. 185; corsivo mio). Nella Vorrede, Hegel presenta una concezione in cui l’esigenza di quel primo saggio è mantenuta, e tuttavia incorporata in una dimensione di processualità teleologica, di cui i singoli sistemi rappresentano le tappe in cui, di volta in volta, la verità ritorna in sé dall’esser-altro del suo libero accadere contingente; in cui dunque la verità si organizza, nel tempo, secondo forme sempre più ricche e articolate, in quanto includono

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al loro interno il patrimonio concettuale e conoscitivo delle filosofie del passato. Hegel non si dilunga oltre, in verità, su questo punto. Il termine che egli impiega, quello di «svolgimento progressivo», potrebbe perciò suscitare qualche perplessità proprio in rapporto alla concezione della Differenzschrift: poiché sembra che la verità, sviluppandosi secondo modalità progressive, faccia decadere le filosofie del passato al livello di «esercizi preparatori», alla stregua dei quali quel saggio negava recisamente che potessero venire considerate. Ma anche qui, si tratta di intendere la posizione hegeliana alla luce della costruzione del «sistema della scienza». È dal punto di vista di quest’ultimo, dall’orizzonte del «sapere assoluto» in cui lo spirito è storicamente pervenuto alla consapevolezza di sé come verità dell’essere, che quest’ultima è teleologicamente orientata alla produzione di quel risultato. È soltanto a partire dalla filosofia dell’epoca presente che la storia del pensiero può venire interpretata come «svolgimento progressivo». Ma sarebbe consistente una prospettiva del genere, se comportasse la riduzione dei pensieri del passato a meri tentativi e approssimazioni? Potrebbe parlare la Vorrede di svolgimento, e determinare quest’ultimo nel senso della progressività? Ciò appare molto improbabile, poiché la verità, se fosse vera quella ipotesi, non si sarebbe mai effettivamente riflessa in sé nelle filosofie del passato, e la loro «diversità» non potrebbe allora neppure essere compresa come il suo sviluppo progrediente. In ultima analisi, ci troveremmo costretti a dar ragione all’opinione, che in questa molteplicità scorgeva solo la contraddizione. Al contrario, solo se in esse la ragione si è riflessa in sé, solo se in esse la filosofia che ha realizzato il «sistema della scienza», riconosce configurazioni di pensiero irripetibili e individuali (in quanto storicamente determinate), ma dal significato universale – soltanto a queste condizioni essa le può intendere

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alla luce del concetto di svolgimento, e può determinare questo svolgimento come progressivo. Non dobbiamo dunque immaginare che nelle parole di Hegel si esprima una visione ingenuamente provvidenzialistica. Nella verità come «svolgimento progressivo», egli ritiene piuttosto di esprimere la modalità, adeguata all’epoca moderna, in virtù di cui la filosofia può produttivamente ripensare il passato, e ciò che nei differenti «sistemi» di pensiero ha trovato espressione. Il modello di sviluppo teleologico costituisce perciò una prestazione epistemica specifica della filosofia del presente, funzionale all’organizzazione del patrimonio concettuale incorporato nelle filosofie delle epoche trascorse alla luce del proprio tempo storico e del «sapere assoluto» in esso conseguito. Si tratta di un dispositivo realizzato all’altezza dell’«epi­ steme», non di una semplice ontologia della provvidenza, né della secolarizzazione in chiave concettuale di rappresentazioni originariamente religiose. Certo, quella che si esprime nella filosofia dell’età moderna non è soltanto un’interpretazione tra le altre. Al contrario, in essa e solo in essa l’essente viene compreso nella sua effettuale verità. È per questo che la filosofia può finalmente presentarsi nella forma del «sistema della scienza». Da ciò dipende il fatto che la filosofia hegeliana non sia e non voglia essere intesa come semplicemente un’«interpretazione» tra le altre, nel senso che a questa parola ci ha abituati ad attribuire l’ermeneutica contemporanea. D’altra parte, ciò non impedisce affatto di considerare la forma del sistema e della scientificità realizzata in esso una «figura» anch’essa storicamente condizionata, legata all’epoca del suo sorgere e del suo maturare. Al contrario, in Hegel molto parla proprio a favore di questa ipotesi. Perlomeno, alla luce di questa concezione di fondo si lasciano illuminare brani come quello che chiude il cpv. 5 («Mostrare che è tempo di elevare

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la filosofia alla scienza […] costituirebbe l’unica vera giustificazione dei tentativi che hanno questo scopo, poiché essa ne proverebbe la necessità, anzi nello stesso tempo lo realizzerebbe»; PH 11 s., F 5); e l’altro, di contenuto affine, presente al cpv. 71 («Dobbiamo essere convinti che il vero ha la natura di affermarsi quando è venuto il suo tempo, e che esso appare [erscheint] soltanto quando è venuto il suo tempo»; PH 49, F 60).

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Capitolo XII

Il problema dell’esposizione filosofica*

Se il cpv. 5 si apriva enunciando il «proposito» di «collaborare» all’innalzamento della filosofia a scienza, dopo aver letto la sua conclusione, scopriamo che l’ambizione di Hegel è ben più alta: egli non esprime più un semplice proponimento, ma rivendica il merito dell’effettiva attuazione; non della «collaborazione» a che lo scopo si realizzi ormai si tratta, bensì del suo conseguimento da parte di un pensatore e del suo sistema. Ora, secondo Hegel, la filosofia si realizza come sistema scientifico solo in quanto perviene a esposizione scientifica. Il termine tedesco per «esposizione» è Darstellung. Al problema della Darstellung nel linguaggio della verità speculativa è dedicata l’ultima parte della Vorrede.1 Hegel fa i conti, da un lato, con il sapere matematico e il suo metodo di esposizione, che nella tradizione del razionalismo (basti pensare a Spinoza) era assurto a modello di rigore e scientificità, e che ancora Fichte aveva impiegato come supporto per le dimostrazioni della dottrina della scienza (cpv. 42-46). Dall’al-

*  A questo argomento è dedicato il volume, precedentemente citato, Il problema dell’esposizione speculativa nel pensiero di Hegel.

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tro, egli riprende la critica del «formalismo monocromatico» in rapporto al metodo della costruzione impiegato nella filosofia della natura da parte di Schelling e dei suoi seguaci (cpv. 50-52). Dopo aver mostrato l’inadeguatezza di questi modelli di esposizione, egli presenta la sua concezione della Darstellung in filosofia, formulando la teoria della «proposizione speculativa» (cpv. 60-67).

1. Il modello matematico Del sapere matematico, Hegel critica innanzitutto l’esternità del conoscere all’oggetto conosciuto, l’estraneità del soggetto rispetto ai contenuti della sua attività. Egli impiega l’esempio di un teorema geometrico per illustrare che «il movimento della dimostrazione matematica non appartiene all’oggetto, ma è un operare esteriore alla cosa. […] l’intero produrre del risultato è un cammino e mezzo della conoscenza» (cpv. 42; PH 32, F 33). Il contenuto della geometria non è dotato di automovimento, non è esso stesso divenir-altro-a-se-stesso. L’articolazione del sapere che ha luogo nella dimostrazione non proviene dall’oggetto, bensì è imposta a quest’ultimo dal soggetto della conoscenza. Ciò comporta un ulteriore inconveniente. Mentre nel sapere filosofico il vero è concepito come unità di processo e risultato, nel sapere matematico la dimostrazione «non ha ancora il significato e la natura di essere momento del risultato stesso, bensì piuttosto in questo essa è passata e dileguata» (ibidem). Il processo assume un carattere soltanto strumentale, non è essenziale al risultato che si tratta di dimostrare. Il risultato è esterno al processo da cui risulta, è concepibile e determinabile anche in assenza del movimento che lo dimostra. Viceversa, quest’ultimo non produce il risultato come suo esito imma-

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nente, ma come un fine ad esso assegnato soltanto dal soggetto del sapere. Alla reciproca estraneità di soggetto e oggetto, conoscente e conosciuto, si accompagna quella tra processo e risultato, movimento e fine. Ecco perché, al cpv. 45, Hegel può impiegare contro il sapere matematico un aspetto che aveva già rivendicato come proprio del sapere filosofico. Ricordiamo come al cpv. 32 egli avesse affermato che «il concreto è ciò che muove sé soltanto in quanto si divide e si rende ineffettuale» (loc. cit.). Ora, Hegel rinfaccia alla matematica di produrre sull’oggetto della conoscenza quello smembramento che circa dieci capoversi prima aveva riconosciuto come necessario all’automovimento del concreto, ed era valso all’intelletto il plauso del filosofo. Tuttavia, a un esame più attento, la posizione espressa nella Vorrede appare fortemente coerente. Infatti, lo smembramento che nel corso della dimostrazione riduce «in pezzi» il triangolo dell’esempio hegeliano non ha a suo luogo l’io come «energia del pensare» ed elemento di dinamica effettualità, ma si svolge sul terreno dello spazio e della sua immobilità. Perciò, l’intero che viene «smembrato» non attua un movimento di autoposizione tramite divenir-altro e riflessione di se stesso in questo altro, bensì è ridotto in «pezzi» dall’attività che il soggetto, mentre costruisce la dimostrazione, esercita su di esso come oggetto inerte. Hegel può perciò imputare al dimostrare matematico di «alterare» la cosa, e di restituirla come intera «soltanto alla fine» (cpv. 43; PH 32, F 34). Se i cpv. 42 e 43 criticano le modalità con cui il sapere matematico si attua, il cpv. 44 comincia menzionando, accanto ai limiti del conoscere, quelli procedenti dalla materia che funge qui da suo contenuto. Al sapere matematico, Hegel ha sinora imputato l’estremità del suo operare rispetto all’oggetto (cpv. 42) e l’alterazione strumentalmente prodotta su quest’ultimo nel movimento del-

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la dimostrazione (cpv. 43). Ma poiché ambedue questi difetti della matematica sono in relazione all’essere il suo contenuto privo di automovimento, Hegel deve necessariamente passare alla critica di quest’ultimo. Tuttavia, il cpv. 44 si limita a riesporre in termini più ampi le critiche che alle modalità del conoscere matematico erano già state rivolte al cpv. 42. Hegel infatti ribadisce l’esternità del rapporto tra dimostrazione e risultato, precisando che da essa dipende se nel corso di quest’ultima vige una relazione di «cieca obbedienza» (cfr. PH 33, F 34) tra il soggetto che dimostra e i passaggi che egli deve seguire per conseguire il risultato prefissato. Il rapporto tra movimento del conoscere e fine cui esso tende si mostra soltanto a cose avvenute, la sua conformità allo «scopo» non si attua progressivamente e in modo consaputo in ciascuno dei singoli passaggi. Perciò essa è soltanto «esteriore», così come «esteriore» è «lo scopo» a cui quel dimostrare è orientato. L’estraneità tra processo e risultato, evidenziata al cpv. 42, viene così ulteriormente sviluppata alla luce delle categorie di finalità e di necessità. Poiché non risultano dall’automovimento della «cosa», esse restano strumentali ed esteriori, invece di presentarsi come prodotti di uno sviluppo immanente. Per la critica hegeliana della materia di questa conoscenza, bisogna dunque attendere il cpv. 45. Ma anche qui, l’andamento del testo non consente di separare nettamente l’esame della conoscenza da quello del suo materiale. Prova ne sia che il capoverso in questione si apre sotto il segno della critica al concetto di evidenza, a tal punto caposaldo e «orgoglio» delle discipline ma tematiche, che esse se ne sarebbero servite anche per andare «contro la filosofia» (PH 33, F 35). Hegel intende mostrare che l’evidenza di cui la matematica si ritiene dotata, e che ha affascinato anche i filosofi, dipende in realtà dalla «povertà» e dalla «manchevolezza» del suo materiale e del suo scopo, «ed è perciò di un genere tale, che la filosofia deve disprezzare» (ibidem).

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Ora, mentre materia della matematica sono lo spazio e l’uno, suo principio o fine è la grandezza, che Hegel designa come «rapporto inessenziale, aconcettuale» (ibidem), e ancora come «differenza inessenziale» (ibidem, F 36). L’approfondimento di questa concezione della grandezza esigerebbe l’analisi delle sezioni relative alla quantità presenti nella Logica di Jena, ciò che qui non è possibile fare. Tuttavia, il testo della Vorrede spiega con chiarezza che cosa intenda dire Hegel: nella grandezza, il movimento che coinvolge l’uno e concerne lo spazio non è automovimento, non scaturisce dalla natura propria del contenuto, bensì è imposto a quest’ultimo dall’esterno, dal soggetto della conoscenza che su di esso agisce e su di esso compie le sue operazioni. Quindi, affermare che la grandezza è relazione inessenziale significa dire che in essa «non si perviene a differenze dell’essenza, non all’opposizione o ineguaglianza essenziali»; e Hegel spiega: «perciò non al passaggio dell’opposto nell’opposto, non al movimento qualitativo, immanente, non all’automovimento» (ibidem; corsivo mio). Se questa è la critica che coinvolge la grandezza in quanto principio della matematica, altrettanto decisiva è la critica che ne colpisce la materia, ovvero lo spazio e l’uno. Nella Vorrede, questo accostamento dello spazio e dell’uno sembra soltanto assolvere la funzione di ripartire, quasi in veste di indice, la trattazione della geometria (spazio) e dell’aritmetica (uno) rispettivamente nei cpv. 45 e 46. Tuttavia, per intendere la natura dell’uno qui in questione, e la logica che governa l’argomentazione hegeliana, è opportuno approfondire il discorso in proposito. Infatti, nel manoscritto jenese di filosofia della natura del 1805/06, l’uno, inteso non come numero determinato, ma come principio dell’unità negativa, svolge una funzione ben specifica non soltanto (come nella Vorrede) in rapporto alla costruzione dei numeri sui quali opera l’aritmetica, bensì alla costruzione dello spazio geometrico e delle sue dimensioni.

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Perciò, benché la Vorrede appaia al riguardo piuttosto criptica, conviene distinguere il significato che l’uno riveste da un lato rispetto alla geometria, dall’altro rispetto all’aritmetica. Nel cpv. 46, a proposito del tempo Hegel dichiara che esso, come «correlativo opposto dello spazio», dovrebbe «costituire la materia dell’altra parte della matematica pura» (ibidem), ovvero dell’aritmetica. Quando in questo contesto riappare l’uno, sappiamo dunque che si tratta dell’uno relativo all’aritmetica, o meglio: nella specificazione funzionale in rapporto alla quale esso diventa materia di quest’ultima. Ma perché l’uno è menzionato, nella Vorrede, solo in rapporto al tempo e all’aritmetica? Come veniva a determinarsi rispetto allo spazio? Che ne è dell’uno nello spazio? Nel manoscritto sopra citato, Hegel chiariva che l’uno di cui si tratta, in relazione allo spazio, altro non è che il punto. Egli infatti designa ripetutamente quest’ultimo come «il semplice uno del punto […] l’uno del punto» (Hegel 1805/06, p. 9); più avanti, si riferisce ad esso come a «l’uno dello spazio» (ivi, p. 11). E tuttavia, può lo spazio contenere al suo interno l’uno in quanto uno? La determinazione del punto come «uno dello spazio» ne comporta, in realtà, uno statuto ambiguo e oscillante nei confronti dello spazio stesso. In quanto il punto rappresenta la contrazione dello spazio, esso ne costituisce la negazione. Ma proprio perciò del punto si può dire che «esso, nello spazio, altrettanto è quanto non è» (ivi, p. 7). In quanto negazione dello spazio, esso appartiene allo spazio e costituisce l’elemento da cui scaturisce la dialettica delle sue dimensioni; dall’altro, in quanto è negazione dello spazio, «il punto per lo spazio è solo il suo al di là» (ivi, p. 11). Per definire l’ulteriorità del punto nei confronti dello spazio, Hegel fa leva sulla sua determinazione di essere «l’uno dello spazio», e sull’impossibilità che nello spazio l’uno possa esistere come tale. Poiché l’uno è inteso da Hegel come «rapportarsi a

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se stesso, essere-uguale a se stesso che è assolutamente escludente» (ibidem), ovvero che implica al suo interno un movimento di attiva esclusione, repulsione, negazione di ciò che gli è altro; poiché lo spazio non è in grado, nella sua immota ed esteriore staticità, di incorporare in se stesso il movimento della negatività immanente all’uno; ecco che quest’ultimo è per lo spazio «solo il suo aldilà». Esso non riesce a contenerlo al suo interno, non riesce a presentarlo come movimento del negare e del respingere da sé. D’altra parte, poiché l’uno è «in se stesso negare», non consiste in altro se non del movimento del respingere e dell’escludere, esso diventa «questo altro, che da lui viene negato» (ibidem). Ciò significa: esso diventa ora temporale, puntuale presente che, nell’escludere altro da sé, immediatamente diviene quell’altro, che esso aveva escluso. Solo il tempo presenta dunque il movimento di esclusione dell’altro, e simultaneo toglimento di se stesso, che nello spazio risultava paralizzato. Perciò, Hegel può dire che l’uno, che per lo spazio costituiva un «aldilà», è invece «immanente al tempo» (ibidem). È anche in questo senso più profondo, allora, che quando il cpv. 45 definisce la materia della matematica come «lo spazio e l’uno», esso indica la necessità del passaggio dalla geometria all’aritmetica, dalla matematica pura dello spazio alla matematica pura del tempo, ovvero ancora: dal cpv. 45 al cpv. 46 della Vorrede. Procedendo all’esame dello spazio, Hegel lo definisce così: «Lo spazio è l’essere-immediato [Dasein] in cui il concetto inscrive le sue differenze come in un elemento vuoto, morto, in cui esse sono altrettanto immote e senza vita» (cpv. 45; PH 33, F 35). La prima parte di questo periodo non dovrebbe suscitare perplessità, dopo che abbiamo visto come il «sapere assoluto» ripristini lo spirito nell’immediatezza della sua identità con sé,

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e come questa immediatezza dia nuovamente luogo alla posizione dello spazio e del tempo da parte del Concetto, che lo spirito aveva raggiunto nel «sapere assoluto». Che la posizione del Concetto sia in pari tempo un porre-sestesso e un divenir-altro-a-se-stesso è ciò che qui si esprime quando Hegel parla delle differenze inscritte nello spazio dal Concetto stesso. Esse sono le differenze del Concetto; ma in quanto esse assumono come materia o ambito della loro manifestazione lo spazio, ecco che esse non si realizzano più nella loro effettualità, ovvero come concetti e automovimenti, ma vengono paralizzate, immobilizzate, uccise. Di qui, l’affermazione di Hegel, secondo la quale «ciò che è effettuale non è qualcosa di spaziale» (ibidem), nel senso che esso non può essere ridotto a semplice spazialità, né dunque alla conoscenza che di quest’ultima fornisce la matematica. E se l’effettuale, la sostanza che si è resa Soggetto, lo spirito eccedono la spazializzazione, nel senso che producono costantemente la sua Aufhebung, se è soltanto attraverso il superamento dello spazio che lo spirito si manifesta in forma effettuale; se insomma lo spirito, in quanto effettualità, è la realizzazione sempre diveniente dell’Aufhebung dello spazio, quest’ultimo non potrà non ricevere, per opposizione, la determinazione dell’ineffettualità. Conseguentemente, come ineffettuale è lo spazio, altrettanto ineffettuale, ovvero incapace di cogliere e di sapere il reale nella sua verità come spirito, deve risultare la conoscenza che lo spazio assume a mezzo ed elemento per la sua espressione. Dopo il materiale del sapere matematico, il cpv. 45 torna dunque a considerare e criticare le modalità con cui tale conoscenza si svolge. E se nei capoversi precedenti si trattava di criticare il procedimento della dimostrazione geometrica, ora si tratta, più precisamente, di criticare le modalità di esposizione con cui quella dimostrazione si presenta.

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Hegel impiega in proposito un ossimoro altamente efficace, quando parla delle verità geometriche come di un «vero ineffettuale» (ibidem). Ma qui, egli non intende solo ribadire che la geometria concerne un elemento ineffettuale come lo spazio; bensì vuole colpire più direttamente la maniera con cui la geometria, in conseguenza del fatto che si esercita come sapere dello spazio, presenta le sue verità. L’ineffettualità del metodo geometrico di esposizione consiste nel presentare il proprio sapere mediante «proposizioni fissate, morte; la seguente comincia da capo per sé, senza che la prima si sia mossa verso l’altra e senza che sia sorta in questo modo una connessione necessaria attraverso la natura della cosa stessa» (ibidem). Si tratta di enunciazioni di fondamentale importanza, poiché con esse Hegel afferma l’inadeguatezza del metodo dell’esposizione geometrica a fungere da modello per l’esposizione dei contenuti filosofici. Ancora una volta, in gioco è la staticità del sapere geometrico, e delle singole proposizioni attraverso le quali esso si esprime. Queste ultime, in particolare, appaiono a Hegel fissate e morte poiché si presentano in reciproco isolamento, rigidamente separate ciascuna per sé. Esse non contengono al loro interno lo sviluppo che conduce alla proposizione successiva, né tantomeno viene linguisticamente presentato il movimento della transizione da una proposizione all’altra. Così, non è soltanto la materia della geometria a essere ineffettuale e morta: altrettanto morte e ineffettuali sono le proposizioni che ne espongono il sapere, e la conoscenza che in esse si esprime. Il cpv. 45 si chiude con un riferimento al fatto che, poiché le determinazioni dello spazio sono comunque in esso «inscritte» dal Concetto, lo spazio sarebbe suscettibile di trattazione speculativa (e questa era già stata fornita da Hegel nella filosofia della natura jenese degli anni 1804/05 e 1805/06); tuttavia, la matematica è incapace di fare questo. Ciò dipende

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da ambedue gli aspetti considerati sinora, ovvero dalla materia (lo spazio e l’uno), e dal fine o principio (la grandezza) della conoscenza matematica. Lo spazio, l’uno e la grandezza comportano per il sapere la necessità di procedere «sulla linea dell’eguaglianza» (ibidem), e a quest’ultima Hegel fa risalire «l’aspetto formalistico [das Formelle] dell’evidenza matematica» (ibidem). L’eguaglianza è l’unica maniera di porre in relazione «ciò che è morto» (ibidem), e perciò stesso privo di automovimento e negatività immanente. L’attività che lo muove, essendo frutto di un’operazione ad esso esterna, non può condurre ad altro che a una messa in relazione che resta all’esterno dell’oggetto su cui agisce, poiché tratta quest’ultimo non alla stregua di una determinazione concettuale, ma di un materiale inerte e senza interna processualità. Ciò costringe la matematica a non considerare gli oggetti nella loro specificità qualitativa, ma solamente secondo quello che, indifferente nei confronti delle loro rispettive differenze, consente tuttavia di compararli gli uni agli altri. Principio di questa estrinseca comparazione è la grandezza: essa consente infatti di porre in rapporto e di condurre operazioni sull’«essente», a prescindere da ciò che lo costituisce nella sua irriducibilità qualitativa, così come a prescindere da ciò che esso è in verità, ovvero svolgimento spirituale. Ogni e qualunque differenza di grandezza è perciò differenza che avviene all’interno di un orizzonte di preistituita indifferenza, di precostituita eguaglianza. Certo, poiché alla base dello spazio si trova pur sempre il movimento del Concetto, anche la geometria, quando approfondisce le relazioni interne delle sue figure e tenta di determinarle restando all’interno della grandezza, di ricondurle cioè a espressione puramente quantitativa e numerica, s’imbatte in rapporti che scavalcano l’ordine della grandezza. L’esem-

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pio della Vorrede è quello dell’incommensurabilità tra il diametro e la periferia di un cerchio, in cui la geometria «si scontra» quando si accinge alla loro comparazione. Essa si trova di fronte a un’aporia che con i suoi mezzi, ovvero quelli della determinazione meramente quantitativa, non è in grado di dominare. In quell’incommensurabilità, infatti, si esprime «un rapporto del concetto, un infinito, che sfugge alla sua [della matematica] determinazione» (PH 34, F 36). Nell’impossibilità di determinare in termini puramente numerici la relazione qui in questione, Hegel scorge l’irruzione all’interno della stessa matematica di rapporti concettuali, l’emergenza dell’infinito nella sua dimensione speculativa, a cui la matematica stessa ha tentato di far fronte con lo sviluppo dell’analisi infinitesimale, ma che può trovare la sua comprensione soltanto nel sapere filosofico. Hegel aveva già trattato questo problema nel saggio Fede e sapere del 1802, dove menziona la concezione spinoziana dell’in­ finito in atto, e discute l’esempio geometrico che Spinoza stesso impiega per illustrare questo concetto, ovvero «uno spazio racchiuso fra due circonferenze che non hanno un centro comune» (Hegel 1802, p. 357; SC, p. 179; cfr. anche Hegel 1832, pp. 247-249; SdL, pp. 274-277). Anche in questo caso, si tratta di un rapporto assolutamente determinato per l’intuizione, ma che pure sfugge alla determinazione quantitativa e numerica. Proprio perciò, esso rappresenta agli occhi di Hegel «la trasformazione della geometria in analisi» (Hegel 1802, p. 358; SC, p. 179), ovvero il passaggio da una considerazione dei rapporti in termini soltanto quantitativi, che cioè tende a esprimerli «in numeri» (e «allora l’infinitezza empirica si genera nelle serie infinite dei matematici», ivi, p. 357 s.; p. 179), a un procedimento che tende a porre «gli incommensurabili non come queste astrazioni che sono per sé (nei numeri), né come parti che sussistono senza il tutto,

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bensì come essi sono in sé, cioè soltanto nel tutto» (ivi, p. 358; p. 180; corsivo mio). Ciò che sul piano della determinazione numerica dà luogo a un processo interminabile di approssimazione al risultato, in chiave di analisi produce la considerazione degli incommensurabili come essi sono «in sé», cioè nella loro verità di articolazioni interconnesse di un intero. Gli incommensurabili non esistono più, allora, nella loro «astrazione» di separati determinati numericamente ciascuno per sé, ma come poli di una relazione, nella quale essi scompaiono come separati, ed esistono solo come momenti del tutto. Questo è anche il significato dell’incommensurabilità tra diametro e circonferenza, che Hegel nella Vorrede sceglie ad esempio dell’irruzione, nell’orizzonte stesso della matematica, dell’infinito «vero» o propriamente concettuale, che sul piano della grandezza e della sua determinazione in cifre numeriche appare soltanto come processo indefinito di approssimazione o di «cattiva» infinità. Al cpv. 46, Hegel considera l’aritmetica come l’«altra parte della matematica pura», quella che dovrebbe avere a suo proprio oggetto il tempo, come pendant dello spazio studiato dalla geo­metria (PH 34, F 36). Abbiamo visto infatti come l’uno non potesse propriamente pervenire a esistenza nello spazio. In rapporto all’aritmetica, tuttavia, si pone il problema seguente: può essere il tempo considerato nella forma matematica dell’uno? La risposta hegeliana suona decisamente negativa: «Il principio della grandezza […] e il principio dell’eguaglianza […] non sono in grado di occuparsi di quella pura inquietudine della vita e differenziazione assoluta», che è il tempo (PH 34, F 37). La ripartizione della matematica pura in aritmetica e geometria, la prima basata sull’intuizione pura del tempo, la seconda sull’intuizione pura dello spazio, era una concezione origina-

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riamente kantiana. Nel § 10 dei Prolegomeni ad ogni futura metafisica, Kant scrive: spazio e tempo sono quelle intuizioni che la matematica pura pone a fondamento di tutte le sue conoscenze e giudizi che si presentano nello stesso tempo come apodittici e necessari […]. La geometria pone a fondamento la intuizione pura dello spazio. L’aritmetica anche riesce a costruire i suoi concetti di numero mediante una successiva aggiunta delle unità nel tempo. (Kant 1783, p. 283; P, p. 37)

Hegel riprende questa divisione kantiana e sembra assumerne perfino la terminologia. Ma già nell’apertura del cpv. 46, quando menziona la «matematica immanente, cosiddetta pura» (PH 34, F 36; corsivo mio), egli attua una strategia di distanziamento rispetto al referente kantiano. Il lettore dovrebbe così risultare avvertito del fatto che Hegel, incorporando quella ripartizione nella sua propria concezione del sapere matematico, intende modificarne profondamente scopo e significato. Non si tratta più di spiegare la possibilità della cosiddetta matematica pura, ma di investirne criticamente le modalità di conoscenza. In rapporto all’aritmetica, poi, Hegel pare distanziarsi ulteriormente dalla posizione kantiana, che assumeva l’intuizione del tempo come fondamento non contraddittorio e anzi pienamente funzionale per la costruzione dei concetti numerici. Al contrario, Hegel intende mostrare che l’uno su cui fa leva l’aritmetica non può basarsi sul tempo, non è omogeneo e compatibile col tempo, ma viceversa spazializza, toglie, immobilizza e quindi «uccide» il tempo. Il tempo dell’aritmetica e delle sue unità è tempo morto, ricondotto a spazio. Soltanto in quanto l’uno viene così paralizzato, ovvero estraniato al contenuto temporale che istituisce ed effettualmente realizza la negatività in esso immanente, esso può essere assunto a materiale per le operazioni dell’aritmetica. Soltanto a questo prezzo esso è ricondotto nell’orizzonte della grandezza e della sua eguaglianza (benché il testo della Vorrede, a diffe-

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renza del precedente, consideri l’uno come già in tutto e per tutto omogeneo alla determinazione che di esso fornisce la matematica): Questa negatività [quella del tempo come «inquietudine della vita e differenziazione assoluta»], perciò, soltanto in quanto paralizzata [paralysiert], cioè come l’uno diventa il secondo materiale di questo conoscere il quale, da operare esteriore, abbassa a materiale ciò-che-muove-sé [das Sichselbstbewegende], per avere adesso in quello un contenuto indifferente, esteriore, non vitale. (ibidem)

Ci sia consentita, su questo capoverso, un’ultima notazione in rapporto al sopracitato paragrafo dei Prolegomeni kantiani. Kant proseguiva il discorso su tempo e aritmetica in riferimento alla «meccanica pura», la quale anch’essa (anzi, come scrive Kant, «specialmente» essa) «può formare i suoi concetti di movimento solo per mezzo della rappresentazione di tempo» (Kant 1783, p. 283; P, p. 37). Ora, al cpv. 46 Hegel parla della scienza fisica sotto la dizione di matematica applicata (corrente al tempo di Hegel, cfr. A 489), la quale pure dovrebbe occuparsi del tempo «così come del movimento e di altre cose reali». Anche qui, appare in forma non esplicitata, ma non meno netta, una presa di distanza dalla posizione kantiana, che dalla modifica della terminologia si trasmette a una critica (per la verità non dimostrativamente sviluppata) del presunto carattere apriorico dei principi sintetici della meccanica, che perciò appunto Kant chiamava pura. Hegel rimprovera a quest’ultima di accogliere il contenuto dei suoi principi sintetici dall’esperienza, e di limitarsi ad «applicare le sue formule su questi presupposti» (ibidem). In altri termini: non soltanto sembra che non esista una meccanica pura; ma questa scienza non possiede neppure un autentico valore dimostrativo, poiché le sue dimostrazioni si riducono al procedimento tautologico di derivare come risultato ciò che

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già era contenuto, in veste di presupposto ricavato dall’esperienza, nelle premesse del ragionamento.

2. Costruzione e analogia Se la matematica non rappresenta un modello di sapere che la filosofia debba invidiare, tuttavia quest’ultima non può trovare una forma adeguata all’esposizione dei suoi contenuti nemmeno nel metodo introdotto nella filosofia della natura da Schelling e dai suoi allievi, centrato sulla costruzione e sull’analogia. Hegel sviluppa la critica di questo metodo nei cpv. 49-51 (PH 36-38, F 39-43), riallacciandosi alla trattazione già compiuta del formalismo cui la filosofia si condannava nel concepire l’assoluto come assoluta identità. Ora, sulla base di questa concezione, costruire un fenomeno significa semplicemente applicare ad esso delle determinazioni opposte, tratte dalle discipline e dagli ambiti più diversi della natura, e sprofondare poi nella «vuotezza dell’assoluto» concepito come «assoluta identità» (cpv. 51; PH 38, F 42 s.) le determinazioni in questione, assieme al fenomeno che tramite quelle sarebbe stato costruito. Se la concezione dell’assoluto come «pura identità» (ibidem, F 42) è il principio o fondamento su cui si basa questo costrui­ re, tuttavia tale metodo era stato ulteriormente formalizzato dai seguaci di Schelling, e impiegato per la costruzione di una filosofia della natura che, in base all’applicazione per analogia di determinazioni contrapposte, intendeva spiegare «filosoficamente» i fenomeni naturali nella loro concretezza. È da notare che lo stesso Schelling aveva messo in guardia dall’applicazione meccanica e formalistica di questo procedimento nella spiegazione dei fenomeni (A 486), e che anche

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Hegel aveva distinto tra i meriti filosofici che indiscutibilmente spettavano a Schelling, e gli esiti formalistici cui essi avevano dato luogo nei suoi allievi (A 491). Il fatto che Hegel non si preoccupi di distinguere di volta in volta tra l’uno e gli altri sta comunque a indicare che egli intende colpire una concezione globale della filosofia e del suo metodo di esposizione, mettendo in rilievo la connessione strutturale sussistente tra concetto dell’assoluto, formalismo nella conoscenza del determinato e metodo di esposizione basato sulla costruzione analogica del fenomeno particolare. Non potrà stupire la ripresa hegeliana dell’opposizione tra «vivente essenza della cosa» e metodo di conoscenza, che la riduce a «scheletro da cui si son levati carne e sangue» (cpv. 51; PH 38, F 42), compiendo su di essa operazione analoga a quella che già l’anatomia svolgeva sul vivente; o della metafora coloristica, sviluppata ora in senso pittorico per indicare ancora una volta nel «bianco senza forma» (ibidem) l’esito conclusivo di questo procedere. Si tratta infatti di contrapporre, al sapere immanente dell’oggetto come Concetto e automovimento, una conoscenza che si riduce all’applicazione di uno schema inerte e sempre uguale a contenuti ad esso estranei e indifferenti, e che viene da Hegel assimilata ai procedimenti propri della prestidigitazione (ibidem; PH 37, F 42 – egli aveva dunque già rivolto contro i filosofi della natura a lui contemporanei l’accusa che più tardi, come abbiamo visto, sarebbe stata impiegata nei suoi stessi confronti). Perciò, Hegel può concludere la sua argomentazione togliendo ogni valenza speculativa all’identità dell’assoluto schellinghiano, e riconducendo a operazioni del «morto intelletto» sia la produzione dello schema, sia il riassorbimento di quest’ultimo nello A = A puramente formale dell’identità che si vorrebbe assoluta (cfr. ibidem; PH 38, F 43).

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3. Esposizione speculativa Né il sapere matematico, né il metodo della costruzione proprio della filosofia della natura forniscono dunque dei modelli adatti all’esposizione del contenuto filosofico. Per Hegel, si tratta allora di assumere la linguisticità del pensare a momento strutturale e costitutivo della verità, e di centrare su tale linguisticità la forma scientifica di esposizione. Naturalmente, l’intrinsecità della parola al pensiero impedisce la costruzione di un linguaggio formale e artificiale. Quest’ultimo si troverebbe infatti a ricalcare le modalità di conoscenza e di espressione già criticate a proposito del sapere matematico. D’altra parte, nella lingua in cui si articola il pensiero è già vigente una forma logica e grammaticale, a cui la filosofia ha sin dalle sue origini riconosciuto il privilegio di poter dire l’essere e asserire il vero. Si tratta della forma proposizionale o del giudizio, in cui a un soggetto viene attribuito un predicato attraverso la copula, lo «è» della Logica di Jena. Già qui, Hegel aveva criticato nel giudizio il carattere di mera sussunzione che in esso vigeva tra soggetto e predicato, universale e particolare. Nel giudizio, l’estraneità del soggetto e del predicato non soltanto non è superata, ma è accentuata sino al dominio con cui ciascuno dei posti in relazione cerca di «sottomettere a sé» l’altro in quanto opposto. La Vorrede ribadisce l’inadeguatezza della forma del giudizio per l’espressione della verità filosofica, l’impossibilità di racchiudere in una proposizione l’enunciazione della verità. Egli colpisce in questo modo la filosofia di Fichte e il metodo che deriva da un principio primo assolutamente incondizionato le scansioni ulteriori dell’esposizione. Tuttavia, se non è possibile enunciare la verità in un giudizio, sia pure inteso come Grundsatz, resta che l’enunciazione del vero nel linguaggio implica di necessità l’assunzione, al proprio interno, della forma gram-

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maticale della proposizione, della connessione di soggetto e predicato centrata sulla copula «è». La teoria della «proposizione speculativa» è volta a mostrare come il contenuto filosofico o speculativo entri in conflitto e «distrugga» quella forma, distruggendo in pari tempo il comportamento che il sapere assume nel Räsonnement. Hegel, come abbiamo visto, si premura, al cpv. 61, di non identificare la distruzione della forma con il suo totale annullamento (cfr. PH 44, F 52). Il rischio è chiaro: con l’annullamento della forma, si annullerebbe la differenza dei momenti posti in relazione. Ma con l’annullamento della differenza l’identità dei due termini (cioè della sostanza come Soggetto col suo predicato o determinazione) ricadrebbe, da identità propriamente speculativa (cioè da identità mediata nel processo del divenir-altro e della riflessione nell’esser-altro in se stesso), nell’identità come mera eguaglianza e indifferenza propria della concezione di Schelling, ovvero scadrebbe nuovamente a identità formale (priva di svolgimento e di contenuto). Ma allora: se il movimento del sapere è effettuale solo nell’esposizione del sapere, non soltanto andrà esposto il movimento di posizione; bensì andrà esposto anche il movimento di auto-riflessione attraverso il quale quel soggetto si riprende, o meglio riconosce e sa sé nella determinazione posta. Solo così quel primo movimento viene saputo non come posizione estrinseca di predicati da parte del soggetto conoscente, ma come processo di auto-determinazione che il Soggetto attua nei suoi propri predicati. Ora, la proposizione non è in grado di esprimere né il primo, né il secondo di questi movimenti. Essa, infatti, come giudizio, esprime la differenza tra soggetto e predicato, e la esprime come relazione estrinseca e accidentale dell’uno nei confronti dell’altro. Perciò la proposizione speculativa distrugge la sua propria forma proposizionale; ma in questa distruzione, che ri-

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pristina l’identità tra i due momenti, la loro differenza, se non deve venire semplicemente annullata, dev’essere a sua volta esposta come conservata. L’«armonia», di cui parla Hegel al cpv. 61, non può dunque restare armonia puramente intesa o pensata, ma deve in pari tempo esporsi nel linguaggio, così come dev’essere esposto nel linguaggio il «freno» che nel contraccolpo speculativo tratteneva nel predicato il soggetto della conoscenza, proprio quando quest’ultimo riteneva di poter nuovamente tornare in sé. Proprio perché speculativa, la proposizione toglie se stessa, e attiva il movimento dell’esposizione come esposizione sistematica dell’intero: «Questo movimento, che costituisce ciò che altrove dovrebbe fornire la dimostrazione, è il movimento dialettico della proposizione stessa. Esso soltanto è lo speculativo effettuale, e soltanto l’enunciare di esso è esposizione speculativa» (cpv. 65; PH 45, F 54). Hegel presenta, al successivo cpv. 66, un’obiezione riguardante il fatto che «il movimento dialettico ha egualmente proposizioni a sue parti o elementi», ciò che sembrerebbe rimandare all’infinito l’attuazione effettuale della filosofia come speculazione e «sistema della scienza» (cfr. PH 45, F 54). Egli risponde tuttavia con un’indicazione, che conferma come la forma del giudizio assertorio venga a perdere quel privilegio che la tradizione le aveva accordato sotto il profilo logico e ontologico (ciò che rappresenta uno dei tratti non meno significativi del «superamento» qui compiuto nei confronti della precedente tradizione del pensiero «metafisico»). Infatti, poiché «soggetto» della filosofia non è un ente a piacere, bensì è lo spirito in forma di Concetto, la filosofia non conosce il soggetto nella forma abituale del giudizio; bensì in essa il contenuto «è in se stesso in tutto e per tutto Soggetto» (ibidem, F 55). Ciò comporta che nella filosofia le funzioni di soggetto e predicato sono intercambiabili, ovvero che alla forma grammaticale del giudizio non corrisponde più la forma

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propriamente logica, cioè speculativa del pensiero. Il Concetto svuota di senso la struttura proposizionale, o come ancora dice Hegel: «la proposizione è immediatamente una forma soltanto vuota» (ibidem). In questo modo, l’obiezione viene confutata nel suo stesso presupposto, che considera conservata anche nella Darstellung filosofica l’equivalenza di forma logica e forma grammaticale, e ritiene dunque che la proposizione filosofica vada intesa alla stregua di quella ordinaria. Nell’esposizione speculativa, la filosofia può così finalmente realizzarsi come «sistema della scienza».

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Conclusione

Dopo aver criticato l’importanza assunta da una presunta «genialità» in filosofia (cpv. 68), e aver definito i rapporti tra filosofia e senso comune (cpv. 69), Hegel torna a insistere sulla scientificità e la concettualità indispensabili alla conoscenza della verità (cpv. 70 s.). Con la definizione della propria posizione di autore rispetto all’opera e al suo pubblico, e senza risparmiare alcune frecciate che sembrano includere Schelling a loro bersaglio («spesso bisogna distinguere il più lento effetto che corregge l’attenzione catturata da dichiarazioni clamorose, così come il biasimo sprezzante; e che ad alcuni dona dei contemporanei solo dopo un certo tempo, mentre un altro dopo il proprio tempo non avrà più alcuna posterità», cpv. 71; PH 49, F 60), la Vorrede si chiude. Con la Vorrede, e con la sua critica alla forma-prefazione, non si è chiusa però la stagione delle prefazioni in filosofia. Significa che la critica hegeliana alla pratica dello scrivere prefazioni è rimasta senza efficacia? Noi preferiamo un’altra ipotesi, che ci pare più adeguata e calzante, cioè quella di leggere, in questa Prefazione, il compimento dell’ennesima Aufhebung attuata da Hegel in rapporto alle forme e ai concetti tramandati. La Vorrede è una

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prefazione, nella quale la forma della prefazione si conserva e si toglie al tempo stesso, trasformandosi in un testo che apre la filosofia alla costruzione di una nuova forma di scrittura e di esposizione: quella del saggio. Può sembrare paradossale attribuire allo Hegel sostenitore della filosofia come «sistema della scienza» l’apertura di quella forma, che si è andata affermando nel pensiero a lui successivo dirigendosi in larga misura proprio contro il suo «sistema», per rivendicare l’irriducibilità all’«intero» ora dell’immediato e differente, ora del singolare e naturale – per rivendicare insomma al particolare come frammento quella verità, che lui gli aveva negato quando lo aveva definito «astratto». Tuttavia, alla luce di questa prospettiva si può ben comprendere lo statuto ambivalente del testo in questione. In esso, Hegel procede di frequente per asseverazioni (soprattutto nell’apertura dei singoli capoversi) e brachilogie, fa il punto sul rapporto tra la sua posizione di pensiero e le altre presenti nella sua epoca. Ambedue questi aspetti sono propri della formaprefazione intesa «secondo la consuetudine», e distinguono la Prefazione dall’esposizione in senso stretto del «sistema della scienza». D’altro lato, proprio in questa Vorrede il «sistema della scienza» arriva a riflettere su di sé, a definire il senso complessivo di se stesso e dei suoi termini chiave. Perciò, nella Vorrede abbiamo in pari tempo l’esposizione dei concetti nodali della filosofia hegeliana presentati nella loro struttura fondamentale, con un andamento che corrisponde in pieno a quello che in Hegel determina l’esposizione scientifica, irriducibile da un lato al dimostrare matematico, dall’altro al Räsonnement del libero conversare. In questo senso, la Vorrede si dimostra come il risultato, per così dire, la diagonale dell’applicazione sul piano della scrittura filosofica, delle due forze della tradizione (con l’assunzione dei

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moduli stilistici e delle scansioni abituali di una prefazione), e dell’innovazione (con l’irruzione nella vecchia forma delle istanze del pensiero dialettico, centrato sull’immanenza del conoscere all’oggetto, sulla sostanza come Soggetto, sul Concetto come automovimento, ecc.). Il risultato è un testo che si colloca alla soglia del sistema, ma in pari tempo ne definisce il limite e il bordo estremi. In tal senso, esso è e non è una prefazione, è e non è interno al «sistema della scienza». Esso sembra racchiudere, nei confronti di quest’ultimo, la stessa funzione che già veniva esercitata dal negativo e dalla negatività: funzionale all’attuazione dell’episteme, e ripristinato al termine di quest’ultima come esterno e non più contenibile in essa. Così, la Prefazione sta da un lato prima dell’inizio, dall’altro dopo e oltre la fine: in questo suo paradossale aver luogo senza che per essa vi sia, nel sistema, luogo adeguato, essa forse non apre soltanto la Fenomenologia dello spirito, ma anche lo spazio per interrogare sempre di nuovo l’opera di Hegel.

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Nota bibliografica

La presente nota intende delineare uno tra i possibili percorsi di lettura e di approfondimento rispetto ai temi trattati nel testo. Essa perciò non accenna nemmeno alla pretesa di conseguire una qualche forma di esaustività, da tempo ormai comunque problematica in rapporto a Hegel. Per l’indicazione dei repertori bibliografici e di ulteriore letteratura critica sulla Fenomenologia dello spirito e l’opera di Hegel nel suo complesso, oltre che per una storia sinottica della loro ricezione, cfr. le sezioni relative di V. Verra, Introduzione a Hegel, Laterza, Roma-Bari 19902; un ampio panorama sulla ricezione e le principali interpretazioni della filosofia hegeliana nel nostro secolo fornisce il volume di A. Negri, Hegel nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1987. In anni più recenti, sono apparsi: L. Illetterati - P. Giuspoli G. Mendola, Hegel, Carocci, Roma 2010; L. Illetterati - P. Giuspoli (a cura di), Filosofia classica tedesca: le parole chiave, Carocci, Roma 2016; G. Garelli - M. Pagano (a cura di), Sostanza e soggetto. Studi sulla «Prefazione» alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, Pendragon, Bologna 2016.

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Appendice

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Nota editoriale

È riprodotta, qui di seguito, la traduzione di Enrico De Negri della Vorrede alla Phänomenologie des Geistes, pubblicata da La Nuova Italia, Firenze 1963 (ristampa corretta della II ed. interamente rifatta; I ed. 1933); poi, anastaticamente, da Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008. Si riportano: – sul margine esterno del testo, tra parentesi quadre, i numeri dei capoversi; – all’interno del testo, tra due barre verticali, i numeri delle pagine dell’ed. it.

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Prefazione alla Fenomenologia dello spirito

[I.] – In una prefazione si offre di solito un chiarimento preliminare intorno al fine che l’autore si prefigge nel suo libro, ai motivi da cui egli fu sollecitato, e al rapporto ch’egli crede di scorgere tra il proprio lavoro e le trattazioni, precedenti o contemporanee, del medesimo soggetto; ma un chiarimento di tal sorta, oltre che superfluo, sembra a dirittura sconveniente a uno scritto di carattere filosofico e contrario al suo scopo. Infatti, ciò che sarebbe da dirsi della filosofia in una prefazione, e come potrebbe esser detto, – per es., un profilo storico della tendenza e della posizione, del contenuto generale e dei resultati, oppure un inquadramento di asserzioni e rassicurazioni prese e date circa il vero, – non rappresenta il modo adatto ad esporre la verità filosofica. Siccome, per tacer d’altro, la filosofia è essenzialmente nell’elemento dell’universalità la quale chiude in sé il particolare, può sembrare in essa, più che in altre scienze, che nel fine e nei resultati ultimi si trovi espressa la cosa stessa proprio nella sua perfetta essenza. Rispetto a questa essenza lo sviluppo dell’indagine dovrebbe propriamente costituire l’inessenziale. Al contrario, nella comune idea per es. dell’anatomia, considerata a

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un dipresso come una nozione delle parti del corpo fuori della loro esistenza vitale, ognuno è persuaso di non possedere ancora la cosa stessa, il contenuto di quella scienza, e di dovere inoltre prendere in considerazione | 2 | il particolare. – Per di più, in un tale aggregato di nozioni che non a buon diritto porta il nome di scienza, una conversazione intorno al fine e a simili generalità suole non esser differente da quel modo d’indagine meramente storico e non ancora concettuale, nel quale si parla anche del contenuto stesso, dei nervi, dei muscoli ecc. Nella filosofia invece sorgerebbe questo squilibrio: che farebbe uso di un tal modo di indagine, mentre essa stessa lo dichiarerebbe incapace a cogliere la verità. [2]

Similmente, proprio il modo di determinare il rapporto che un’opera filosofica crede di avere con altri tentativi riguardanti il medesimo soggetto, introduce un interesse estraneo e offusca ciò da cui dipende la conoscenza della verità. Quanto più rigidamente l’opinione concepisce il vero e il falso come entità contrapposte, tanto più poi, in rapporto a un diverso sistema filosofico, si aspetta unicamente o approvazione o riprovazione, e soltanto o l’una o l’altra sa vedere in una presa di posizione rispetto a quel diverso sistema stesso. Non tanto l’opinione riesce a farsi un concetto della diversità dei sistemi filosofici, quanto piuttosto nella diversità scorge più la contraddizione che non il progressivo sviluppo della verità. Il boccio dispare nella fioritura, e si potrebbe dire che quello vien confutato da questa, similmente, all’apparire del frutto, il fiore vien dichiarato una falsa esistenza della pianta, e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. Tali forme non solo si distinguono; ma ciascuna di esse dilegua anche sotto la spinta dell’altra, perché esse sono reciprocamente incompatibili. Ma in pari tempo la loro fluida natura ne fa momenti dell’unità organica, nella quale esse non solo

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non si respingono, ma sono anzi necessarie l’una non meno dell’altra; e questa eguale necessità costituisce ora la vita dell’intiero. | 3 | Ma come, da una parte, la contraddizione verso un sistema filosofico non suole concepire se stessa in tal modo, così, d’altra parte, la coscienza che accoglie in sé questa contraddizione non la sa liberare o mantener libera dalla sua unilateralità, né in ciò che appare sotto forma di lotta contro se stesso, sa riconoscere momenti reciprocamente necessari. La pretesa di chiarimenti di tal fatta, nonché il modo di soddisfarla, conducono con molta facilità a discacciare l’essenziale. Dove meglio potrebbe trovarsi espresso l’intimo significato di un’opera filosofica, che nei fini e nei resultati di essa? E come questi fini e questi resultati potrebbero venire più determinatamente conosciuti, che mediante la differenza loro da ciò che la cultura di un’età produce nello stesso campo? Tuttavia, non che un tale procedere debba valere oltre il combaciamento del conoscere; non ch’esso debba valere per il conoscere effettuale, lo si deve nel fatto annoverare tra quei ritrovati che servono soltanto a girar attorno alla cosa stessa, e a travisare l’effettiva mancanza di disciplina con l’apparenza del lavoro serio. – Infatti, la cosa stessa non è esaurita nel suo fine bensì nella sua attuazione; né il resultato è l’Intiero effettuale; anzi questo è il resultato con il suo divenire; per sé il fine è l’uni­ versale non vitale così come la tendenza è il mero slancio ancor privo della sua effettualità; e il nudo resultato è la morta spoglia che ha lasciato dietro di sé la tendenza. – Similmente, la diversità è piuttosto il limite della cosa; essa è là dove la cosa cessa, o è ciò che questa non è. Un tale lavorio intorno al fine o ai resultati, e intorno alle diversità di questo e di quello e ai giudizi che se ne fanno, è una fatica più lieve di quanto forse non sembri. Infatti, invece di concentrarsi nella cosa, un tale procedere non

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fa altro che scavalcarla; invece di indugiare in essa e di | 4 | obliarsi in essa, un tale sapere si attacca sempre a qualcosa di diverso, e resta presso di sé, anziché essere presso di essa e abbandonarsi ad essa. – Su ciò che ha compattezza e intrinseco contenuto, è ben facile dar dei giudizi; più difficile è comprenderlo: estremamente difficile è produrre la sua rappresentazione oggettiva, che unifica l’uno e l’altro elemento. [4]

L’inizio della cultura e della liberazione dall’immediatezza della vita sostanziale dovrà sempre consistere nell’acquistare cognizioni di principi e punti di vista generali; nel sollevarsi, così, fino al pensiero della cosa nella sua generalità, sostenendola o confutandola tuttavia fondatamente; nell’accoglierne secondo determinati modi la concreta e ricca pienezza, e nel saperne impartire un’onesta informazione e un giudizio non avventato. Ma questo inizio della cultura, prima di tutto, farà posto al rigore della vita piena, che introduce all’esperienza della cosa stessa; e quando, poi, il rigore del concetto sarà disceso nel profondo della cosa, allora quella cognizione e apprezzamento sapranno restare al posto che loro si conviene nella conversazione.

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La vera figura nella quale la verità esiste, può essere soltanto il sistema scientifico di essa. Collaborare a che la filosofia si avvicini alla forma della scienza, – alla meta raggiunta la quale sia in grado di deporre il nome di amore del sapere per essere vero sapere, – ecco ciò ch’io mi son proposto. L’interiore necessità che il sapere sia scienza, sta nella sua natura; e, rispetto a questo punto, il chiarimento che più soddisfa è unicamente la presentazione della filosofia stessa. Ma la necessità esteriore in quanto essa, a parte l’accidentalità della persona e della particolare occasione che la ha sollecitata, venga concepita in modo universale, non è niente di diverso dalla necessità interiore, e

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| 5 | consiste nella forma nella quale un’età rappresenta l’esserci dei suoi momenti. Se si potesse mostrare che la nostra età è propizia all’innalzamento della filosofia a scienza, ciò costituirebbe l’unica vera giustificazione dei tentativi che hanno tale scopo, giacché di esso si metterebbe in rilievo la necessità o lo si realizzerebbe addirittura. La vera forma della verità viene dunque posta in questa scientificità; ciò che equivale ad affermare che solo nel concetto la verità trova l’elemento della sua esistenza; eppure io so bene che questo sembra contraddire a una certa rappresentazione, – e alle conseguenze che ne derivano, – la quale, non meno presuntuosa che desiderosa di notorietà, trova il suo appagamento nella convinzione dell’età nostra. Perciò un chiarimento intorno a questa contraddizione non mi pare superfluo, quand’anche esso qui non possa in altro consistere che in una asserzione, proprio come un’asserzione è, a sua volta, ciò contro cui esso si volge. Vale a dire, se il vero esiste solo in ciò o, piuttosto, solo come ciò che vien chiamato ora Intuizione, ora immediato Sapere dell’Assoluto, Religione, Essere, – non l’essere nel centro di questo amore divino, ma l’essere stesso di questo centro, – allora, prendendo di qui le mosse, per la rappresentazione della filosofia si richiede proprio il contrario della forma del concetto. L’Assoluto deve venir non già concepito, ma sentito e intuito; non il suo concetto, ma il suo sentimento e la sua intuizione debbono aver voce preminente e venire espressi.

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Ma quando l’apparizione di una tale esigenza venga accolta secondo la sua più generale connessione e venga vista in quel grado su cui presentemente posa lo spirito auto­ cosciente, ecco che questo spirito è oltre la vita sostanziale, da lui altrimenti vissuta nell’elemento del | 6 | pensiero, – è oltre questa immediatezza della sua fede, oltre quell’ap-

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pagamento e quella sicura certezza che era consapevole della conciliazione dello spirito con l’essenza e della presenza universale, sia interiore che esteriore, di questa essenza medesima. Attraverso tutto ciò lo spirito non solo è passato nell’altro estremo della riflessione, – priva di sostanza, – di sé in se stesso; ma ha sorpassato anche questa. Non soltanto la sua vita essenziale è per esso perduta; esso è anche consapevole di una tale perdita e della finitezza che ora costituisce il suo contenuto. Respingendo il cibo dei porci, confessando la sua abiezione, imprecando contro di essa, lo spirito pretende ora dalla filosofia non tanto di sapere che cosa esso è, quanto di riuscire, mediante lei, alla ricostituzione della perduta sostanzialità e della compattezza dell’essere. Per venire incontro a questo bisogno, la filosofia dovrebbe non tanto risolvere la compattezza della sostanza e inalzare la sostanza stessa ad autocoscienza, – non tanto ricondurre la coscienza caotica all’ordine pensato e alla semplicità del concetto; quanto piuttosto rimescolare le distinzioni del pensiero, opprimere il concetto differenziante e restituire il sentimento dell’essenza: garantire non tanto discernimento, quanto edificazione. Il Bello, il Sacro, l’Eterno, la Religione, l’Amore sono l’esca ritenuta adatta a stuzzicar la voglia di abboccare; non il concetto, ma l’estasi; non la fredda e progressiva necessità della cosa, ma il turgido entusiasmo devon costituire la forza che sostiene e trasmette la ricchezza della sostanza. [8]

A questa esigenza corrisponde un certo affannoso e molto zelante lavorio per sollevare il genere umano dall’abbrutimento nel sensibile, nel volgare e nel singolo, e per indirizzarne lo sguardo alle stelle; quasi che gli uomini, del tutto obliosi del divino, siano sul punto di appagarsi, come i vermi, di polvere e d’acqua. | 7 | Un tempo essi avevano un cielo fatto di vasti tesori di pensieri e di immagini. Il significato di tutto ciò che è, stava nel filo di luce che tutto

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al cielo teneva attaccato; una volta rifugiatosi in cielo lo sguardo, anziché soffermarsi sulla presenzialità di questo mondo, vi scivolava su verso l’essenza divina, verso, se così si possa dire, una presenza fuori del mondo. L’occhio dello spirito dovette a forza venir rivolto al terreno, e qui venir trattenuto; e c’è voluto tempo assai prima di introdurre, nell’ottusità e nello smarrimento in cui si trovava il senso dell’al di qua, quella chiarezza che solo il sovraterreno possedeva, prima di riconsacrare all’interessamento umano quell’attenzione a ciò che è presente, la quale vien detta esperienza. – Ora sembra che ci sia bisogno del contrario; sembra che il senso sia talmente abbarbicato ai valori terreni, da rendersi necessaria altrettanta violenza a sollevarnelo. Lo spirito si mostra così povero, che sembra impetrare, per un po’ di ristoro, il magro sentimento del divino, simile al viandante che nel deserto brama una sola goccia d’acqua. Dalla facilità con cui lo spirito si contenta, si può misurare la grandezza di ciò che ha perduto. Tuttavia quella discrezione nel ricevere o quella parsimonia nel dare, non giovano alla scienza. Chi cerca soltanto edificazione, chi pretende di avvolgere nella nebbia la terrena varietà della sua determinata esistenza e del pensiero; chi invoca l’indeterminato piacere di quella indeterminata divinità, veda pure dove possa trovare tutto ciò; egli troverà facilmente il mezzo di vagheggiare qualche fantasma e di farsene bello. Ma la filosofia deve ben guardarsi dal voler produrre edificazione.

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Tanto meno quella discrezione che rinuncia alla scienza può pretendere che tale eccitazione e tale perturbamento siano qualche cosa di più elevato della scienza | 8 | stessa. Questo parlare da profeti crede di restarsene nel centro e nel profondo della cosa; getta uno sguardo sprezzante sulla determinatezza (il h o r o s) e, a bella posta, si tiene a distanza dal concetto e dalla necessità come da quella rifles-

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sione che sta di casa soltanto nella finitezza. Ma come c’è una vuota estensione, così c’è una vuota profondità; come c’è un’estensione della sostanza che si riversa in un’infinita varietà, senza aver forza di tenerla a freno, così c’è un’intensità priva di contenuto, la quale, comportandosi come la forza senza espansione, coincide con la superficialità. La forza dello spirito è grande quanto la sua estrinsecazione; la sua profondità è profonda soltanto in quella misura secondo la quale esso ardisca di espandersi e di perdersi mentre dispiega se stesso. Parimente, quando quell’aconcettuale sapere sostanziale vuol dare ad intendere di avere affondata nell’essenza la peculiarità del Sé e di filosofare veracemente e santamente, nasconde allora a se medesimo che invece di esser devoto al suo Dio, con il dispregio della misura e della determinazione, ora lascia in se stesso il campo libero all’accidentalità del contenuto, ora in esso al proprio capriccio. – Mentre si abbandonano all’incomposto fermentare della sostanza, costoro, imbavagliando la coscienza e rinunciando all’intelletto, si ritengono i Suoi ai quali Iddio, durante il sonno, infonde la saggezza; ma ciò che durante il sonno essi effettivamente concepiscono e partoriscono altro non è che sogno. [11]

Del resto non è difficile a vedersi come la nostra età sia un’età di gestazione e di trapasso a una nuova èra; lo spirito ha rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino ad oggi; esso sta per calare tutto ciò nel passato e versa in un travagliato periodo di trasformazione. Invero lo spirito non si trova mai in condizione di quiete, preso com’è | 9 | in un movimento sempre progressivo. Ma a quel modo che nella creatura, dopo lungo placido nutrimento, il primo respiro, – in un salto qualitativo, – interrompe quel lento processo di solo accrescimento quantitativo, e il bambino è nato; così lo spirito che si forma matura lento e placido verso la sua nuova figura e dissolve brano a

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brano l’edificio del suo m o n d o precedente; lo sgretolamento che sta cominciando è avvertibile solo per sintomi sporadici: la fatuità e la noia che invadono ciò che ancor sussiste, fin determinato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è in marcia. Questo lento sbocconcellarsi che non alterava il profilo dell’intiero, viene interrotto dall’apparizione che, come un lampo, d’un colpo, mette innanzi la piena struttura del nuovo mondo. Solo, un cotal «nuovo» ha tanto poco una piena effettualità, quanto il neonato; ed è essenziale non lasciar fuori di considerazione questo punto. Il primo sorgere è inizialmente una immediatezza, è, in altri termini, il concetto di quel nuovo mondo. Quanto poco un edificio è compiuto quando le sue fondamenta sono gettate, tanto poco il concetto dell’intiero, che è stato raggiunto, è l’intiero stesso. Quando noi desideriamo vedere una quercia nella robustezza del suo tronco, nell’intreccio dei suoi rami e nel rigoglio delle sue fronde, non siamo soddisfatti se al suo posto ci venga mostrata una ghianda; similmente la scienza, corona del mondo dello spirito, non è compiuta al suo inizio. L’ini­zio del novello spirito è il prodotto di un vasto sovvertimento di molteplici forme di civiltà, è il premio di una via molto intricata e di una non meno grave fatica. Tale cominciamento è l’intiero che dalla successione nonché dalla sua estensione è tornato in se stesso; è il concetto semplice di quell’intiero, ma divenuto. Peraltro l’effettualità di questo intiero semplice consiste nel | 10 | processo per cui quelle precedenti figurazioni ora fattesi momenti, si risviluppano e si danno una nuova figurazione, e ciò nel nuovo elemento, nel senso che si è venuto sviluppando.

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Mentre da una parte il primo apparire del nuovo mondo è solo l’intiero nell’involucro della sua semplicità, o è il generale fondamento dell’intiero medesimo, d’altra parte,

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per la coscienza, la ricchezza della precedente esistenza è presente ancora nel ricordo. Nella figura che novellamente appare, la coscienza non trova espansione né specificazione di contenuto; ancor più, le manca quel raffinamento formale, in virtù del quale le differenze vengono con sicurezza determinate e ordinate nelle loro salde relazioni. Senza tale raffinamento la scienza non può avere il carattere della universale intelligibilità, e assume la parvenza di un esoterico possesso di alcuni individui; – un esoterico possesso: infatti in questo caso essa è data soltanto nel suo concetto, o è dato soltanto il suo interno; – di alcuni individui singoli: infatti la sua apparenza senza espansione singolarizza la sua esistenza. Soltanto ciò che è perfettamente determinato è anche essoterico, da tutti concepibile e suscettibile di venir da tutti imparato e di essere proprietà di tutti. La via della scienza è la sua forma intelligibile, via aperta a tutti e per tutti eguale; arrivare mediante l’intelletto al sapere razionale, questa è la giusta esigenza della coscienza che si accinge alla scienza; giacché l’intelletto è il pensare, il puro Io in generale; e l’intelligibile è ciò che è già conosciuto, ossia è l’elemento comune della scienza e della coscienza prescientifica, che può così aprirsi immediatamente un varco entro la scienza. [14]

La scienza che, essendo agli inizi, non è ancor giunta né alla compiutezza del dettaglio né alla perfezione della forma, potrà sentirsi rimproverare una simile | 11 | deficienza. Ma se il biasimo dovesse toccare l’essenza stessa della scienza, esso sarebbe allora tanto ingiusto, quanto è sconveniente non voler riconoscere l’esigenza di quel perfezionamento. In questo contrasto si può ravvisare il nodo più intricato intorno al quale la cultura scientifica oggi si tormenta, senza aver trovato ancora un’intesa. Un partito insiste sulla ricchezza del materiale e sulla intelligibilità; l’altro disprezza, a dir poco, quest’ultima e insiste sull’immediato elemento

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razionale e divino. Quand’anche il primo partito, ridotto al silenzio o dalla sola forza della verità o anche dall’irruenza dell’altro, si senta sopraffatto per quanto riguarda il fondamento della cosa, non si sente per questo appagato in ciò che riguarda quelle esigenze; esse sono bensì giuste, ma restano vuote. Il suo silenzio dipende solo per metà dalla vittoria dell’avversario; per l’altra metà deriva invece dal tedio e dall’indifferenza, conseguenze di una attesa ognora impaziente, cui non segue l’adempimento delle promesse. Per quel che riguarda il contenuto, gli altri ricorrono talvolta a un metodo molto sbrigativo per disporre di una grande estensione. Essi traggono sul loro terreno una gran quantità di materiale, vale a dire tutto ciò che è già noto e già ordinato; e mentre si adoperano più che altro intorno a stranezze e a curiosità, hanno l’aria di possedere tutto il rimanente, – riguardo a cui il sapere, a suo modo, aveva già esaurito il suo compito, – e di dominare ciò che non è ancora ordinato, assoggettando così ogni cosa all’assoluta idea, la quale, per tal via, sembra venire perfettamente conosciuta ed esser prosperata a dispiegata scienza. Ma considerando più da vicino questo dispiegamento, esso mostra di essersi prodotto non già perché un unum atque idem si sia riplasmato in figure diverse; tale dispiegamento è invece la ripetizione dell’identico priva di ogni | 12 | figura; l’unum atque idem vien poi soltanto estrinsecamente applicato al diverso materiale, e riceve così una tediosa parvenza di diversità. Se lo sviluppo non consiste in altro che in tale ripetizione della medesima formula, l’idea, per sé indubbiamente vera, nel fatto non va più in là del proprio cominciamento. Quando il soggetto, esplicando il suo sapere, non faccia altro che adattare questa unica immota forma alla superficie dei dati disponibili; quando il materiale venga tuffato dal di fuori in questo statico elemento; tutto ciò, non diversamente da arbitrarie fantasie sul contenuto, è

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ben diverso dal compimento di quel che si richiede; è ben diverso, cioè, da quella ricchezza che scaturisce da se stessa e dalla auto-determinantesi differenza delle forme. Quel procedere è piuttosto un formalismo monocromatico che giunge alla differenza del contenuto soltanto perché questa è di già preparata e di già nota. [16]

Ancora: tale formalismo vuol gabellare questa monotonia e l’universalità astratta per l’Assoluto; il formalismo protesta che sentirsi inappagati nell’universalità da lui proposta è incapacità a impadronirsi di una posizione assoluta e a mantenervisi. Se un tempo la vuota possibilità di rappresentarsi in modo diverso qualche cosa bastava a confutare una rappresentazione; e se la mera possibilità, ossia il pensiero generico, aveva tutto il positivo valore del conoscere effettuale; similmente noi vediamo ora attribuirsi ogni valore all’universale Idea in questa forma della irrealtà, ed assistiamo al dissolvimento di tutto ciò che è differenziato e determinato; o assistiamo piuttosto al precipitare di questi valori nell’abisso della vacuità, senza che questo atto sia conseguenza di uno sviluppo né si giustifichi in se stesso; il che dovrebbe tenere il posto della considerazione speculativa. La considerazione della determinatezza di qualsivoglia esserci come si dà | 13 | nell’Assoluto, si riduce al dichiarare che se ne è bensì parlato come di un alcunché; ma che peraltro nell’Assoluto, nello A = A, non ci sono certe possibilità, perché lì tutto è uno. Contrapporre alla conoscenza distinta e compiuta, o alla conoscenza che sta cercando ed esigendo il proprio compimento, questa razza di sapere, che cioè nell’Assoluto tutto è eguale, – oppure gabellare un suo Assoluto per la notte nella quale, come si suol dire, tutte le vacche sono nere, tutto ciò è l’ingenuità di una conoscenza fatua. – Finché la conoscenza dell’effettualità assoluta non sia venuta completamente in chiaro circa la propria natura, dalla scienza non disparirà quel formalismo

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che, accusato e spregiato dalla filosofia dei tempi nuovi, si è riprodotto proprio in essa; né disparirà, quand’anche ne sia nota e sentita l’insufficienza. – Considerando che una rappresentazione generale fatta precedere al tentativo di una sua dettagliata realizzazione può esser d’aiuto a comprendere la realizzazione stessa, sarà utile accennare qui preliminarmente a qualcuno dei suoi aspetti, nell’intento anche di rimuovere alcune forme, l’uso delle quali costituisce un ostacolo al conoscere filosofico. [II.] – Secondo il mio modo di vedere che dovrà giustificarsi soltanto mercé l’esposizione del sistema stesso, tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come soggetto. Qui è da notare che la sostanzialità racchiude in sé non solo l’universale o l’immediatezza del sapere stesso, ma anche quell’immediatezza che per il sapere è essere o immediatezza. – Se da una parte la concezione di Dio come unica sostanza indignò quell’età in cui tale determinazione venne espressa, la ragione di ciò stava nell’istinto il quale avverte come in tale | 14 | concezione l’autocoscienza, invece di essersi mantenuta, è andata a fondo; ma d’altra parte anche il contrario che tien fermo il pensiero come pensiero, cioè l’universalità come tale, è la medesima semplicità o l’indistinta, immota sostanzialità; e se, in terzo luogo, il pensiero unifica con sé l’essere della sostanza e concepisce l’immediatezza o intuizione come pensare, tutto sta ancora nel vedere se questo intuire intellettuale non ricada nella inerte semplicità e non presenti la stessa effettualità in guisa non effettuale.

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La sostanza viva è bensì l’essere il quale è in verità Soggetto, o, ciò che è poi lo stesso, è l’essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la sostanza è il movimento

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del porre se stesso, o in quanto essa è la mediazione del divenir-altro-da-sé con se stesso. Come soggetto essa è la pura negatività semplice, ed è, proprio per ciò, la scissione del semplice in due parti, o la duplicazione opponente; questa, a sua volta, è la negazione di questa diversità indifferente e della sua opposizione; soltanto questa ricostituentesi eguaglianza o la riflessione entro l’esser-altro in se stesso, – non un’unità originaria come tale, né un’unità immediata come tale, – è il vero. Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine, e che solo mediante l’attuazione e la propria fine è effettuale. [19]

La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’amore con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e a dirittura all’insipidezza quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo. In sé [an sich] quella vita è l’intatta eguaglianza e unità con sé, che non è mai seriamente impegnata nell’essere-­altro e nell’estraneazione, e neppure nel superamento di questa estraneazione. Ma siffatto in-sé è l’universalità astratta, nella | 15 | quale, cioè, si prescinde dalla natura di esso di essere per sé, e quindi, in generale, dall’automovimento della forma. Qualora la forma venga espressa come eguale all’essenza, si incorre poi in un malinteso se si pensa che il conoscere stia pago allo in-sé o all’essenza, e possa invece fare a meno della forma; – se si pensa che l’assoluto principio fondamentale o l’intuizione assoluta rendano superflua l’attuazione progressiva della prima o lo sviluppo della seconda. Appunto perché la forma è essenziale all’essenza, quanto questa lo è a se stessa, quest’ultima non è concepibile né esprimibile meramente come essenza, ossia come sostanza immediata o come pura autointuizione del divino; anzi, proprio altrettanto come

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forma, e in tutta la ricchezza della forma sviluppata; solo così è concepita ed espressa come Effettuale. Il vero è l’intiero. Ma l’intiero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente Resultato, che solo alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità, soggetto o divenir-se-stesso. Per quanto possa sembrare contraddittorio che l’Assoluto sia da concepire essenzialmente come resultato, basta tuttavia riflettere alquanto per rendersi capaci di questa parvenza di contraddizione. Il cominciamento, il principio o l’Assoluto, come da prima e immediatamente viene enunciato, è solo l’Universale. Se io dico: «tutti gli animali», queste parole non potranno mai valere come una zoologia; con altrettanta evidenza balza a gli occhi che le parole: «divino», «assoluto», «eterno», ecc. non esprimono ciò che quivi è contenuto; e tali parole in effetto non esprimono che l’intuizione, intesa come l’immediato. Ciò che è più di tali parole, e sia pure il passaggio a una sola proposizione, contiene un divenir-altro che | 16 | deve venire ripreso, ossia una mediazione. Della mediazione peraltro si ha un sacro orrore, come se, quando non ci si limiti ad affermare che essa non è niente di assoluto e non si trova nell’assoluto, si debba rinunziare alla conoscenza assoluta.

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Ma, in effetto, quel sacro orrore deriva dall’ignoranza della natura della mediazione e della stessa conoscenza assoluta. Infatti la mediazione non è altro che la moventesi eguaglianza con sé o la riflessione in se stesso, il momento dell’Io che è per sé, la negatività pura o abbassata alla sua pura astrazione, il Divenire semplice. L’Io o il divenire in generale, questo atto del mediare, in virtù della sua semplicità è appunto l’immediatezza che è in via di divenire, nonché l’immediato stesso. – Si disconosce quindi la ragione,

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quando la riflessione, esclusa dal vero, non viene accolta come momento positivo dell’Assoluto. È la riflessione che eleva a resultato il vero, ma che anche toglie questa opposizione verso il suo divenire; giacché il divenire è altrettanto semplice e quindi non diverso da quella forma del vero, la quale fa sì che esso, nel suo resultato, si mostri semplice; esso è, per meglio dire, l’esser ritornato nella semplicità. – Se, indubbiamente, l’embrione è in sé uomo, non lo è tuttavia per sé; per sé lo è soltanto come ragione spiegata, fattasi ciò che essa è in sé; soltanto questa è la sua effettuale realtà. Ma tale resultato è esso stesso immediatezza semplice; esso è infatti la libertà autocosciente, che riposa in se stessa, senza aver messo da parte, per poi lasciarvela abbandonata, l’opposizione; che è, anzi, conciliata con l’opposizione. [22]

Il già detto può venir anche riespresso così: la ragione è l’operare conforme a un fine. L’innalzamento della presunta natura sopra il pensiero misconosciuto e, anzitutto, il bando dato alla finalità esteriore han | 17 | gettato il discredito sulla forma del fine. Ma a quel modo che anche A r i s t o t e l e determina la natura come l’operare conforme a un fine, essendo questo l’immediato, il quieto, l’immoto che è esso stesso motore; così tale immoto è Soggetto; la sua forza a muovere, presa in astratto, è l’esser-per-sé o la pura negatività. E il resultato è ciò stesso che è il cominciamento soltanto perché il cominciamento è fine; – oppure l’effettuale è ciò che è il suo concetto, soltanto perché l’immediato come fine ha dentro di lui il Sé o la pura effettualità. Il fine attuato o l’effettuale esistente è movimento, è divenire giunto al suo dispiegamento; ma proprio questa inquietudine è il Sé; ed esso è eguale a quella immediatezza e a quella semplicità del cominciamento perché è il resultato, perché è ciò che è tornato in se stesso; – ma ciò che

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è tornato in se stesso è appunto il Sé; e il Sé è l’eguaglianza e la semplicità che si rapportano a sé. Il bisogno di rappresentarsi l’Assoluto come soggetto si è servito delle espressioni: Dio è l’eterno o l’ordine morale del mondo o l’amore ecc. In espressioni simili il vero è bensì posto all’incirca come Soggetto, ma non è ancora rappresentato come il movimento del riflettersi in se stesso. In una tale espressione si comincia con la parola: Dio; ma questo è per sé un suono privo di senso, un mero nome: soltanto il predicato dice ciò che Dio è, e ne è il riempimento e il significato; il vuoto cominciamento diviene un effettuale sapere solo in una tal fine. A questo punto non può non venir messa in rilievo la ragione per cui non si discorre dell’eterno, dell’ordine morale del mondo ecc., o, a mo’ degli antichi, di concetti puri, dell’essere, dell’uno ecc., di ciò che è il significato, senza aggiungervi quel tal suono privo di senso. Ma con quella parola s’indica appunto che non vien posto un essere o un’essenza, un | 18 | universale in genere; anzi un riflesso in sé, un soggetto. Ma, ancora, tutto ciò non è che un’anticipazione. Il soggetto vien preso come punto fermo al quale, come a loro sostegno, i predicati aderiscono mediante un movimento che appartiene a chi sa di esso; ma che non devesi riguardare come appartenente al punto stesso; eppure solo mediante quel movimento il contenuto sarebbe rappresentato come soggetto. Dato il modo come quel movimento è costituito, esso non può appartenere al soggetto; d’altronde, presupposto quel punto, il movimento non può essere costituito diversamente: può essere soltanto esteriore. Quell’anticipazione, che l’Assoluto è Soggetto, non solo non è quindi l’effettuale realtà di questo concetto, ma la rende addirittura impossibile; ché l’anticipazione lo pone come punto fermo, e l’effettualità è invece l’automovimento.

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Tra le varie conseguenze che discendono da quello che si è detto, può venir messa in rilievo la seguente: soltanto come scienza o come sistema il sapere è effettuale, e può venire presentato soltanto come scienza o come sistema; inoltre, un così detto principio fondamentale della filosofia, se pur è vero, è poi già falso in quanto esso è soltanto principio. – È perciò facile confutarlo. La confutazione consiste nell’indicarne la deficienza; ma deficiente esso è perché è solo l’universale, o perché è soltanto principio, soltanto cominciamento. Se la confutazione è esauriente, essa lo è proprio perché tratta e sviluppata da quel principio stesso, non già perché dal di fuori messa in opera mediante opposte gratuite asserzioni. Così la confutazione sarebbe propriamente lo sviluppo del principio e quindi il complemento di ciò che gli manca, se essa non si misconoscesse badando soltanto al proprio operare negativo, senza divenir consapevole del proprio processo e del proprio resultato, anche secondo il loro lato | 19 | positivo. – È nel vero senso della parola positiva quella realizzazione del cominciamento la quale viceversa costituisca nello stesso tempo verso di esso un comportamento altrettanto negativo; e, più precisamente, un comportamento negativo verso quella sua forma unilaterale per cui esso è soltanto immediatamente o è il fine. La realizzazione può quindi venire anche presa come confutazione di ciò che costituisce il fondamento del sistema; meglio però essa è da riguardarsi come un indice che il fondamento o il principio del sistema sono, nel fatto, soltanto il suo cominciamento.

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Che il vero sia effettuale solo come sistema, o che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’Assoluto come Spirito, – elevatissimo concetto appartenente alla età moderna e alla sua religione. Soltanto lo spirituale è l’effettuale; esso è: – l’essenza o ciò che è in sé [an sich]; ciò che ha riferimento e

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determinatezza, l’esser-altro e l’esser-per-sé; – e ciò che in quella determinatezza o nel suo esser fuori di sé resta entro se stesso; ossia esso è in e per sé. – Ma questo essere in sé e per sé lo è da prima per noi o in sé: è la sostanza spirituale. Esso deve essere ciò anche per se stesso, deve essere il sapere dello spirituale e il saper di sé come spirito, ossia deve essere a sé come oggetto e, nel medesimo tempo, deve essere immediatamente anche come oggetto tolto, riflesso in se stesso. Questo oggetto è per sé soltanto per noi, in quanto mediante lui stesso vien generato il suo spiritale contenuto; ma in quanto l’oggetto medesimo è per sé anche per se stesso, ecco che questa autogenerazione, il puro concetto, è a lui parimente l’elemento oggettivo, dove esso ha il suo essere determinato; per tal modo nel suo essere determinato esso è per se stesso oggetto in sé riflesso. – Lo spirito che si sa così sviluppato come spirito, è la | 20 | scienza. Questa ne è la realtà effettuale, ed è quel regno che esso si costruisce nel suo proprio elemento. Il puro autoriconoscersi entro l’assoluto esser-altro, questo etere come tale, è il fondamento, il terreno della scienza, o il sapere nella sua universalità generale. Il cominciamento della filosofia presuppone o esige che la coscienza si trovi in questo elemento. Ma questo elemento riceve anch’esso la sua perfezione e la sua trasparenza soltanto mediante il movimento del suo divenire. Esso è la spiritualità pura, come l’Universale che ha il modo della semplice immediatezza; – tale semplicità, quando ha esistenza come tale, è il terreno, il pensiero che è soltanto nello spirito. Poiché questo elemento, questa immediatezza dello spirito è la sostanza in generale dello spirito, essa immediatezza è anche l’essenza trasfigurata, la riflessione che, a sua volta, è semplice; è l’immediatezza come tale per sé, è l’essere che è riflessione in se stesso. Da parte sua la scienza chiede che l’autocoscienza si sia elevata a tale etere, perché

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questa possa vivere in lei e con lei, e per vivere. Viceversa l’individuo ha il diritto di pretendere che la scienza gli fornisca almeno la scala che conduce a quella superiore posizione, indicandogliela in lui stesso. Il suo diritto si fonda su quella sua assoluta sufficienza a se stesso ch’egli sa di possedere in ogni figura del suo sapere; ché in ogni figura, dalla scienza riconosciuta o meno, qualunque sia il contenuto, l’individuo è la forma assoluta, vale a dire è la certezza immediata di se stesso ed è quindi, se si preferisce questa espressione, incondizionato essere. Se per la scienza la posizione della coscienza (sapere, cioè, di cose oggettive in contrapposizione a se stessa, e di se stessa in contrapposizione a quelle) vale come l’Altro, – come ciò in cui la coscienza si sa presso se stessa, o a dirittura come la perdita dello spirito, – per la | 21 | coscienza, all’incontro, l’elemento della scienza è un lontano al di là, dove essa coscienza più non si possiede. Ciascuna di queste due parti sembra costituire per l’altra l’inverso della verità. Può accadere che la coscienza naturale, senza neppur sapere che cosa la spinga a ciò, voglia affidarsi immediatamente alla scienza; ma questa pretesa non è che un nuovo tentativo di camminare con le gambe per aria. Quando la coscienza naturale venga obbligata a mettersi e a muoversi in questa insolita posizione, le si impone un’inutile violenza alla quale essa non è preparata. – In lei stessa la scienza potrà essere quel che si voglia; ma in relazione all’autocoscienza immediata si presenta come l’inverso di questa; o, dato che questa ha nella certezza di sé il principio della propria effettualità, la scienza, dacché questo principio è fuori di lei, porta la forma della non-­effettualità. Perciò la scienza ha da unificare un tale elemento con sé, o da mostrare piuttosto come esso appartenga a lei stessa, e il modo secondo cui le appartiene. Mancando di tale effettualità, essa è soltanto il contenuto come lo in-sé, è il fine che è ancora

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soltanto un interno, non è come spirito, ma soltanto come sostanza spirituale. Questo in-sé ha da estrinsecarsi e da divenire per se stesso; e ciò significa che lo in-sé ha da porre l’autocoscienza come una sola cosa con sé. Un tal divenire della scienza in generale o del sapere, è appunto ciò che questa fenomenologia dello spirito presenta. Il sapere, come esso è da prima, o lo spirito immediato, è ciò ch’è privo di spirito, la coscienza sensibile. Per giungere al sapere propriamente detto, o per produrre quell’elemento della scienza che per la scienza medesima è anche il suo puro concetto, il sapere deve affaticarsi in un lungo itinerario. – Tale divenire, come esso si porrà nel suo contenuto e nelle | 22 | forme che in lui sorgono, non sarà ciò che a tutta prima si immagina sotto il titolo di avviamento della coscienza prescientifica alla scienza; e sarà anche altro da una fondazione della scienza; – e ben altro ancora da quell’entusiasmo che, come un colpo di pistola, comincia immediatamente dal sapere assoluto, e che si è tratto d’impiccio dinanzi a posizioni differenti, dichiarando di non volerne sapere.

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Il compito di accompagnare l’individuo dalla sua posizione incolta fino al sapere, era da intendersi nel suo senso generale, e consisteva nel considerare l’individuo universale, lo spirito autocosciente nel suo processo di formazione. – Per ciò che concerne la relazione dell’individuo e del sapere, nell’individuo universale ogni momento si mostra nell’atto in cui guadagna la forma concreta e la sua propria configurazione. L’individuo particolare è lo spirito non compiuto: una figura concreta, in tutto il cui essere determinato domina u n a s o l a determinatezza, e nella quale le altre sono presenti soltanto con tratti sfumati. Nello spirito che sta più su di un altro, la concreta esistenza inferiore è decaduta a momento impalpabile; ciò che prima era la cosa stessa,

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non è che una traccia; la sua figura è velata e divenuta una semplice ombreggiatura. L’individuo percorre questo suo passato, la cui sostanza è quello spirito che sta più su, proprio come colui che è sul punto di avventurarsi in una scienza superiore percorre le cognizioni preparatorie, già in lui da lungo tempo implicite, per rendersi presente il loro contenuto; e le rievoca senza che quivi indugi il suo interesse. Il singolo deve ripercorrere i gradi di formazione dello spirito universale, anche secondo il contenuto, ma come figure dallo spirito già deposte, come gradi di una via già tracciata e spianata. Similmente noi, osservando come nel campo conoscitivo ciò che in precedenti età | 23 | teneva all’erta lo spirito degli adulti è ora abbassato a cognizioni, esercitazioni e fin giochi da ragazzi, riconosceremo nel progresso pedagogico, quasi in proiezione, la storia della civiltà. Tale esistenza passata è proprietà acquisita allo spirito universale; spirito che costituisce la sostanza dell’individuo e, apparendogli esteriormente, costituisce così la sua natura inorganica. – Mettendoci per questo riguardo dall’angolo visuale dell’individuo, la cultura consiste nella conquista di ciò ch’egli trova davanti a sé, consiste nel consumare la sua natura inorganica e nell’appropriarsela. Ma ciò può venire considerato anche dalla parte dello spirito universale, in quanto esso è sostanza; in tal caso questa si dà la propria autocoscienza e produce in se stessa il proprio divenire e la propria riflessione. [29]

La scienza, come presenta questo movimento formativo nel dettaglio del suo processo e nella sua necessità, così presenta nella figurazione a lui propria ciò che è già disceso a momento e proprietà dello spirito. Meta è la chiara penetrazione dello spirito in ciò che è il sapere. L’insofferenza pretende l’impossibile, vale a dire il raggiungimento della meta senza i mezzi. Da un lato bisogna sopportare la lunghezza di quest’itinerario, ché ciascun momento è

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necessario; – dall’altro lato occorre soffermarsi presso ciascun momento, giacché ciascuno di per sé è un’intera figura individuale; così ciascun momento vien considerato assoluto, proprio perché la sua determinatezza vien riguardata come un intiero o come un concreto, o come l’intiero nella peculiarità di questa determinazione. – Poiché non solo la sostanza dell’individuo, ma addirittura lo Spirito del mondo ha avuta la pazienza di percorrere queste forme in tutta l’estensione del tempo, e di prender su di sé l’immane fatica della storia universale per riplasmare quindi in ciascuna forma, per quanto | 24 | questa lo comportasse, il totale contenuto di se stesso; e poiché lo Spirito del mondo non avrebbe potuto attingere la coscienza di sé con minore fatica, è evidente che, secondo la cosa stessa, l’individuo non potrà arrivare a comprendere la sua sostanza attraverso un cammino più breve; tuttavia ha dinanzi a sé una fatica più lieve, perché tutto ciò in sé già consummatum est: il contenuto è già l’effettualità affievolita nella possibilità, l’immediatezza già forzata, è la figurazione già ridotta alla sua abbreviazione, alla semplice determinazione di pensiero. Essendo il contenuto di già un pensato, esso è proprietà della sostanza; non più l’esserci deve venir vòlto nella forma dell’esser-in-sé [an sich]; anzi è ciò ch’è in sé che deve venir vòlto nella forma dell’esser-per-sé; – ciò ch’è in sé, non più meramente originario né calato nell’esserci, ma piuttosto ridotto già a memoria. Il modo di questo procedere devesi considerare meglio. Nella posizione in cui noi qui cogliamo quel movimento, rispetto all’intiero si risparmia il togliere dell’esserci; ma quello che pur tuttavia rimane e che richiede più alta trasformazione è la rappresentazione e la nozione delle forme. L’esserci, ripreso indietro nella sostanza, con questa prima negazione soltanto immediatamente è trasferito nell’elemento del Sé; questa proprietà a lui acquisita ha,

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dunque, ancora carattere d’immediatezza priva di concetto, d’immota indifferenza, non altrimenti che l’esserci, il quale è per tal modo passato soltanto nella rappresentazione. – Con ciò l’esserci è in pari tempo un alcunché di noto, qualcosa con cui lo spirito esistente ha chiuso la partita, e in cui quindi non ha più né attività né interesse. Se l’attività che sta chiudendo la partita con l’esserci è essa stessa solo il movimento dello spirito particolare che non arriva a concepirsi, viceversa il sapere è rivolto | 25 | contro la rappresentazione così costituitasi e contro siffatto essernoto; il sapere è l’operare del Sé universale ed è l’interesse del pensare. [31]

Il noto in genere, appunto perché noto, non è conosciuto. Quando nel conoscere si presuppone alcunché come noto e lo si tollera come tale, si finisce con l’illudere volgarmente sé e gli altri; allora il sapere, senza nemmeno avvertire come ciò avvenga, non fa un passo avanti nonostante il grande e incomposto discorrere ch’esso fa. Senza ponderazione, il soggetto e l’oggetto ecc., Dio, la natura, l’intelletto, la sensibilità ecc., vengon posti a fondamento come noti e come qualcosa che ha valore sicuro, e costituiscono dei punti fissi per l’andata e il ritorno; il movimento corre su e giù tra questi punti che restano immoti e ne sfiora soltanto la superficie. Così l’apprendere e l’esaminare consiste soltanto nel vedere se ognuno trovi anche nella sua rappresentazione quello che costoro hanno detto: se proprio gli sembri così, e se così gli sia noto o meno.

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L’analisi di una rappresentazione come di solito era condotta, non consisteva in altro che nel togliere la forma nel suo esser-nota. Scomporre una rappresentazione nei suoi elementi originari è un ritornare ai suoi momenti, i quali per lo meno non hanno la forma della rappresentazione trovata, ma costituiscono l’immediata proprietà del Sé.

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Una tale analisi giunge bensì solo a pensieri che, anch’essi, sono determinazioni note, salde e ferme. Ma questo separato, questo stesso ineffettuale, è un momento essenziale; infatti, sol perché il concreto si separa e si fa ineffettuale, esso è ciò che muove sé. L’attività del separare è la forza e il lavoro dell’intelletto, della potenza più mirabile e più grande, o meglio della potenza assoluta. Il circolo che riposa in sé chiuso e che tiene, come sostanza, i suoi momenti, è la relazione immediata, che non | 26 | suscita, quindi, meraviglia alcuna. Ma che l’accidentale ut sic, separato dal proprio àmbito, che ciò ch’è legato nonché reale solo nella sua connessione con altro, guadagni una propria esistenza determinata e una sua distinta libertà, tutto ciò è l’immane potenza del negativo; esso è l’energia del pensare, del puro Io. La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la più terribile cosa; e tener fermo il mortuum, questo è ciò a cui si richiede la massima forza. La bellezza senza forza odia l’intelletto, perché questo le attribuisce dei compiti ch’essa non è in grado d’assolvere. Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo: come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualche cos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere. – Essa è quel medesimo che sopra fu detto il Soggetto, il quale, mentre nel proprio elemento dà esistenza alla determinatezza, supera l’immediatezza astratta, e cioè, in genere, solo essente, ed è quindi la verace sostanza, l’essere o

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l’immediatezza che non ha la mediazione fuori di lei, ma è questa stessa. [33]

Ciò che è come rappresentazione diviene dunque proprietà della pura autocoscienza; peraltro tale innalzamento all’universalità in generale non è ancora il completo processo di formazione, ma ne costituisce soltanto un lato. – Il genere di studio proprio dell’antichità si differenzia da quello dei tempi moderni, perché era propriamente il processo di formazione della coscienza | 27 | naturale. Allora, l’individuo, esercitandosi dettagliatamente in ciascuna parte della sua esistenza e filosofando su ogni accadimento, si educò a una universalità intimamente concretata. Nei tempi moderni egli trova invece bella e preparata la forma astratta; lo sforzo per giungere ad afferrarla e a farla sua è oggi più un’esteriorizzazione dell’interno, improvvisa e priva di mediazione, è più una monca produzione dell’universale, che non un procedere di questo dalla concreta e molteplice varietà dell’essere determinato. Ora, quindi, il compito non consiste tanto nel purificare l’individuo dal modo dell’immediata sensibilità per renderlo una sostanza pensata e pensante, quanto piuttosto nell’opposto: nell’attuare, cioè, l’universale e nell’infondergli spirito, togliendo i pensieri determinati e solidificati. È peraltro assai più difficile rendere fluidi i pensieri solidificati, che render fluida l’esistenza sensibile. La ragione sta in ciò che si è detto precedentemente; a sostanza ed elemento della loro esistenza quelle determinazioni hanno l’Io, la potenza del negativo o l’effettualità pura; mentre le determinazioni sensibili hanno a loro contenuto solo l’immediatezza impotente e astratta, o l’essere ut sic. I pensieri divengon fluidi quando il puro pensare, questa immediatezza interiore, si riconosca come momento, o la pura certezza di sé astragga da sé; – non che debba lasciar via sé e mettersi da parte; anzi deve abbandonare il fisso del suo autoporsi: sia il fisso del puro concreto

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che è lo stesso Io in opposizione di contro al contenuto distinto, sia il fisso dei differenti i quali, posti nell’elemento del puro pensare, partecipano di quella incondizionatezza dell’Io. Mediante siffatto movimento i puri pensieri divengon concetti e soltanto allora sono ciò che essi veramente sono: automovimenti, circoli; sono ciò che la loro sostanza è, essenze spirituali. | 28 | Questo movimento delle essenze pure costituisce in generale la natura della scientificità. Tale movimento, considerato come il nesso del contenuto che gli è proprio, è la necessità e il dispiegamento del contenuto stesso a totalità organica. Il cammino pel quale vien raggiunto il concetto del sapere diviene anch’esso, per via di quel movimento, un divenire necessario e perfetto; cosicché quella preparazione cessa di essere un filosofare accidentale che si appoggia a questi o a quegli oggetti, a queste o a quelle relazioni, a questi o a quei pensieri della coscienza imperfetta, come l’accidentalità lo consente, o che cerca di fondare il vero con ragionamenti che sbandano di qua e di là, con conclusioni e deduzioni da pensieri determinati; anzi questo cammino mediante quel movimento del concetto abbraccerà, nella sua necessità, l’intero mondo della coscienza.

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Una tale presentazione esaurisce quindi la prima parte della scienza, poiché l’essere determinato dello spirito come prima esistenza non è altro che l’immediato o il cominciamento, ma il cominciamento non è ancora il suo ritorno in sé. L’elemento dell’esistenza immediata è quindi la determinatezza, per la quale questa parte della scienza si distingue dalle altre. – L’accenno a questa differenza conduce a discutere alcuni pensieri irrigiditi che sogliono farsi avanti proprio a questo punto.

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[III.] – L’immediato essere determinato dello spirito, la coscienza, ha i due momenti del sapere e dell’oggettività negativa al sapere. Mentre in questo elemento si sviluppa lo spirito ed ostende i suoi momenti, ecco che a loro sopravviene quella opposizione, ed essi compaiono tutti quanti come figure della coscienza. La scienza di questo itinerario è scienza | 29 | dell’esperienza che la coscienza fa; la sostanza, insieme col suo movimento, vien considerata oggetto della coscienza. Essa non sa né comprende se non ciò che è nella sua esperienza; infatti ciò che è nell’esperienza è solo la sostanza spirituale, e invero come oggetto del suo Sé. Ma lo spirito diviene oggetto, poiché è questo movimento: divenire a sé un altro, ossia oggetto del suo Sé, e togliere questo esser-altro. Ed esperienza vien detto appunto quel movimento dove l’immediato, il non sperimentato, cioè l’astratto, appartenga all’essere sensibile o al semplice solo pensato, si viene alienando, e poi da questa alienazione torna a se stesso; così soltanto ora, dacché è anche proprietà della coscienza, l’immediato è presentato nella sua effettualità e verità.

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L’ineguaglianza che nella coscienza ha luogo tra l’Io e la sostanza che ne è l’oggetto, è la loro differenza, il negativo in generale. Il negativo può venir riguardato come la manchevolezza di entrambi; ma è la loro anima, o ciò che li muove entrambi; ragion per cui alcuni antichi ebbero a concepire il vuoto come motore, concependo sì il motore come il negativo, ma questo non ancora come il Sé. – Ora, se da prima questo negativo appare come ineguaglianza dell’Io verso l’oggetto, esso è pure l’ineguaglianza della sostanza verso se stessa. Ciò che sembra prodursi fuori di lei, ed essere un’attività contro di lei, è il suo proprio operare, ed essa mostra di essere essenzialmente Soggetto. Avendo la sostanza ciò mostrato compiutamente, lo spirito ha reso eguale alla propria essenza il proprio essere determi-

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nato; lo spirito è allora termine oggettivo di se stesso, proprio come esso è; e l’astratto elemento dell’immediatezza e della separazione del sapere e della verità è sorpassato. L’essere è assolutamente mediato, – è sostanziale contenuto che altrettanto immediatamente è proprietà dell’Io: è, a sua volta, un Sé, ovverosia è il | 30 | concetto. Con ciò si chiude la fenomenologia dello spirito. Ciò che lo spirito si viene in essa preparando, è l’elemento del sapere. In quest’elemento si espandono ora i momenti dello spirito nella forma della semplicità, forma che sa il proprio oggetto come se stessa. Essi non cadon più l’un fuori dell’altro nell’opposizione dell’essere e del sapere, anzi permangono nella semplicità del sapere, sono il vero nella forma del vero, e la loro diversità è solo diversità di contenuto. Il loro movimento che in tale elemento si organizza in un intiero, è la logica o filosofia speculativa. Poiché dunque quel sistema dell’esperienza dello spirito ne comprende soltanto l’apparire, il processo che conduce da esso alla scienza del vero che è nella forma del vero, sembra meramente negativo; e potrebbe darsi che si volesse evitare di avere a che fare con il negativo [inteso] come il falso, e si pretendesse di venir condotti senz’altro alla verità; a che impacciarsi del falso? – Sopra si è fatto cenno di quel modo che vorrebbe cominciare subito con la scienza; a ciò si conviene ora rispondere più particolarmente, mostrando quale sia la natura del negativo [inteso] come il falso. Le rappresentazioni che si hanno circa questo punto costituiscono il principale impedimento a penetrare nella verità. Ciò offrirà occasione di parlare della conoscenza matematica che il sapere afilosofico considera come l’idea­ le che la filosofia dovrebbe cercare di raggiungere, senza esservi per altro riuscita, nonostante ogni tentativo.

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Il vero e il falso appartengono a quei pensieri determinati che, privi di movimento, vorrebbero valere come partico-

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lari essenze delle quali l’una sta di qua, l’altra di là rigidamente isolate e senza reciproca comunanza. Contro una simile concezione si deve decisamente affermare che la verità non è moneta coniata, la quale, così | 31 | com’è, possa venir spesa e incassata. C’è un falso, quanto poco c’è un cattivo. Falso e cattivo non son mica perfidi come il diavolo, tant’è vero che, volendoli prendere per diavoli, di essi si verrebbe a fare dei soggetti particolari; mentre essi, in quanto falso e cattivo, sono soltanto degli universali pur avendo, l’uno rispetto all’altro, una propria natura. Il falso (ché solo di esso qui si vuol parlare) sarebbe l’altro, il negativo della sostanza, la quale, in quanto contenuto del sapere, è il vero. Ma la sostanza stessa è essenzialmente il negativo, vuoi come distinzione e determinazione del contenuto, vuoi come semplice distinguere, ossia come Sé e sapere in genere. Si può ben sapere falsamente. Alcunché vien saputo falsamente, significa: il sapere è in ineguaglianza con la sua sostanza. Ma proprio tale ineguaglianza è il distinguere in generale, che è momento essenziale. Da tale distinzione deriva l’eguaglianza della distinzione stessa, e tale eguaglianza, divenuta, è la verità. Ma questa è verità, non come se l’ineguaglianza fosse stata eliminata, a quel modo che dal metallo puro è espulsa la scoria; e neppure è essa verità, come dalla botte or ora costruita si è rimosso l’arnese; anzi l’ineguaglianza stessa è ancora immediatamente presente nel vero come tale, è presente come il negativo, come il Sé. Non si può allora dire che il falso costituisca un momento o perfino un elemento del vero. Nell’espressione: in ogni falso c’è qualcosa di vero, quei due termini vengon presi come l’olio e l’acqua che, senza mescolarsi, si trovano insieme solo esteriormente. Proprio per riguardo al significato, proprio per indicare il momento del completo esser-altro, le espressioni dell’ineguaglianza non devono venir più usate non appena il suo

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esser-altro sia tolto. Così le espressioni: unità di soggetto e di oggetto, di finito e di infinito, di essere e di pensare ecc., hanno l’inconveniente | 32 | che i termini soggetto, oggetto, ecc. significano ciò che essi sono al di fuori della loro unità; e nell’unità, quindi, non sono da intendersi così, come suona la loro espressione: altrettanto il falso, non più come falso, è un momento della verità. Il pensiero dogmatico nel campo del sapere e nello studio della filosofia non è altro che l’opinione, secondo la quale il vero consiste in una proposizione che è un resultato fisso, o in una proposizione che viene saputa immediatamente. A questioni come le seguenti: quando sia nato Cesare, quante tese facciano uno stadio, e quale stadio, ecc., si deve dare una risposta netta; proprio come è esattamente vero che nel triangolo rettangolo il quadrato dell’ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati dei cateti. Ma la natura di una tale così detta verità è diversa dalla natura di verità filosofiche.

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Per quel che concerne le verità storiche, per farne breve menzione solo in quanto si consideri in esse il puro lato storico, sarà facilmente concesso che esse riguardano il singolo essere determinato, un contenuto secondo il lato della sua accidentalità e del suo arbitrio, cioè determinazioni non necessarie di quel contenuto. – Ma anche tali nude verità, come quelle sopra citate ad esempio, non sono senza il movimento dell’autocoscienza. Per conoscerne soltanto una, molto deve venir comparato, molto consultato nei libri o, sia come si sia, ricercato. Anche quando si tratta di una intuizione immediata, soltanto la cognizione di essa con i suoi fondamenti vien considerata come qualcosa che ha valore vero, sebbene, a rigore, solo il nudo resultato debba essere ciò di cui ci si vuol preoccupare.

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Quanto alle verità matematiche, verrebbe ancor meno ritenuto geometra colui che sappia a memoria i teoremi di

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Euclide estrinseca-mente, senza sapere la loro dimostrazione, senza saperli, per esprimerci per contrasto, | 33 | intrinseca-mente. Nello stesso modo, potrebbe ritenersi come insoddisfacente la cognizione, acquistata misurando parecchi triangoli rettangoli, che i loro lati stanno nel noto reciproco rapporto. Tuttavia, anche nella conoscenza matematica, l’essenza della dimostrazione non ha ancora il significato e la natura di essere momento del resultato stesso; anzi nel resultato un tale momento è già passato e dileguato. In quanto resultato, il teorema si considera bensì come un teorema vero. Ma questa sopraggiunta circostanza non riguarda il suo contenuto, sì bene soltanto la sua relazione al soggetto: il movimento della dimostrazione matematica non appartiene all’oggetto, ma è un operare esteriore alla cosa. Ad esempio, la natura del triangolo rettangolo non si dispone essa stessa così, come si rappresenta nella costruzione necessaria a dimostrare quel teorema, esprimente il rapporto del triangolo medesimo: qui tutto il processo dal quale scaturisce il resultato non è che un mezzo della conoscenza. – Anche nel conoscere filosofico il divenire dell’esserci come esserci, è diverso dal divenire dell’essenza o della natura interna della cosa. Ma la conoscenza filosofica, in primo luogo, contiene entrambi i tipi del divenire, mentre la conoscenza matematica presenta nel conoscere come tale soltanto il divenire dell’esserci, ovverosia il divenire dell’essere della natura della cosa. In secondo luogo quella unifica anche entrambi questi movimenti particolari. La nascita interna o il divenire della sostanza è un passare, senza soluzione, nell’esteriorità o nell’esserci; è un essere per altro; e, viceversa, il divenire dell’esserci è il restituirsi all’essenza. Il movimento è così il duplice processo e divenire dell’intiero: vale a dire, ciascun momento pone l’altro momento e ciascuno ha poi in sé entrambi i momenti come due aspetti. Essi, presi insieme,

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| 34 | costituiscono l’intiero in quanto dissolvono se stessi e si fanno momenti suoi. Nel conoscere matematico la considerazione è un operare che, per la cosa, vien da fuori; ne segue quindi che la cosa vera viene alterata. Senza dubbio il mezzo, cioè la costruzione e la dimostrazione, contiene qualche proposizione vera; ma si deve anche affermare decisamente che il contenuto è falso. Nell’esempio su riferito, il triangolo viene smembrato; le sue parti sono volte in altre figure fattevi sorgere dalla costruzione. Soltanto alla fine il triangolo viene restituito. Dunque il triangolo, intorno al quale si deve operare, veniva perduto di vista durante il procedimento, ed era là soltanto in pezzi che appartenevano ad altri intieri. – Qui dunque noi vediamo entrare in gioco anche la negatività del contenuto, la quale dovrebbe chiamarsi una falsità di esso, a quello stesso modo che nel movimento del concetto dovrebbe chiamarsi una falsità il dileguare di pensieri ritenuti fissi dall’opinione.

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Ma la manchevolezza peculiare di tale conoscenza riguarda tanto la conoscenza medesima, quanto la sua materia in generale. – Per quel che riguarda la conoscenza, la necessità della costruzione, anzitutto, non viene intesa nei giusti termini. Essa necessità non scaturisce dal concetto del teorema, anzi viene imposta; e si deve ciecamente ubbidire alla prescrizione di tirare certe linee, mentre se ne potrebbero tirare infinite altre: tutto questo con una ignoranza pari soltanto alla fede che ciò andrà a buon fine per la condotta della dimostrazione. Susseguentemente anche tale conformità al fine si mostra bensì; ma essa è soltanto esteriore, perché nella dimostrazione si manifesta solo susseguentemente. – Così la dimostrazione percorre una via che si fa cominciare a un punto qualunque, senza sapere in che rapporto stia con il resultato che deve venir fuori.

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| 35 | Una tale dimostrazione assume nel suo corso certe determinazioni e certi rapporti e ne scarta altri, senza che si possa immediatamente render conto della necessità per cui ciò avviene; una finalità esteriore regge un tale movimento. [45]

L’evidenza di questo manchevole conoscere, della quale la matematica va superba facendosene un’arma anche contro la filosofia, si basa sulla povertà del fine e sulla deficienza del contenuto della matematica, ed è quindi così fatta, da suscitare disprezzo da parte della filosofia. – Fine o concetto della matematica è la grandezza. Ma questa è appunto la relazione inessenziale e aconcettuale. Perciò qui il movimento del sapere procede in superficie, non tocca la cosa stessa, l’essenza o il concetto, e non è quindi per nulla un atto concettivo. – La materia intorno alla quale la matematica garantisce il suo consolante tesoro di verità è lo spazio e l’Uno. Lo spazio è l’esserci nel quale il concetto iscrive le sue differenze come in un elemento morto e vuoto dove esse sono altrettanto immote e prive di vita. Ma l’effettuale non è un qualcosa di spaziale, come vien considerato dalla matematica; di una tale ineffettualità costituita come le cose della matematica non si impacciano né la concreta intuizione sensibile, né la filosofia. In un elemento così ineffettuale non può capire che un vero ineffettuale, fatto di proposizioni rigide e morte; dopo ognuna di queste proposizioni si può far punto; la seguente ricomincia per conto proprio, senza che la prima accenni a muoversi verso l’altra, e senza che a questo modo sorga una connessione necessaria attraverso la natura della cosa stessa. – Inoltre, in grazia di quel principio e di quell’elemento, – e qui sta tutto il formalismo dell’evidenza matematica, – il sapere procede sulla linea dell’eguaglianza. Infatti il mortuum, poiché esso non | 36 | muove se medesimo, non giunge alle differenze dell’essenza, non all’opposizione o ineguaglianza essenziale, e quindi neanche al passaggio

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dell’opposto nell’opposto, e tanto meno al movimento qualitativo e immanente, all’automovimento. Infatti ciò che la matematica considera è soltanto la grandezza, la differenza inessenziale, Quello che scinde lo spazio nelle sue dimensioni, e di queste e in queste determina poi i legami, è il concetto; ma la matematica astrae da tutto ciò; essa, per esempio, non considera la relazione della linea alla superficie e, se si mette a commisurare il diametro alla periferia, picchia nella loro incommensurabilità, ossia in una relazione concettuale, in un infinito che sfugge alla determinazione matematica. La matematica immanente, detta anche matematica pura, neppure contrappone allo spazio il tempo come tempo, cioè come secondo oggetto della propria considerazione. La matematica applicata tratta bensì anche del tempo, nonché del movimento e di altre cose effettuali; ma i principi sintetici, cioè quei principi delle sue relazioni che sono determinati mediante il loro concetto, essa li accoglie dall’esperienza, e soltanto su queste presupposizioni essa applica le proprie formule. Che per dimostrazioni vengan date e prese le così dette dimostrazioni di principi forniti copiosamente dalla matematica, come il principio dell’equilibrio della leva, del rapporto spazio-tempo nel moto della caduta ecc.; tutto ciò è solo una dimostrazione di quanto grande sia per il conoscere il bisogno di dimostrare; quando infatti la conoscenza si trova a corto di dimostrazioni, ne rispetta perfino la vuota parvenza traendone un qualche appagamento. Una critica di quelle dimostrazioni riuscirebbe non meno sorprendente che istruttiva; essa mirerebbe, in parte, a purificare la matematica da questo falso orpello, e in parte anche a | 37 | mostrare il limite della matematica stessa, per ricavarne la necessità di un sapere diverso. – Quanto al tempo, inteso come riscontro dello spazio, si dovrebbe ritenere che esso costituisca l’oggetto dell’altra parte della

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matematica pura; esso è, invece, piuttosto il concetto stesso nell’elemento dell’essere determinato. Il principio della grandezza, – differenza senza concetto, – e il principio dell’eguaglianza, – astratta unità non vitale, – non riescono ad occuparsi di quella pura inquietudine della vita e distinzione assoluta, che è il tempo. Quindi, soltanto come paralizzata, ossia come l’Uno, questa negatività diviene il secondo oggetto di un tale conoscere; esso, esteriore operare, abbassa a materia l’automovimento, nel quale riesce ora ad avere un indifferente contenuto esterno e non vitale. [47]

La filosofia, al contrario, non considera la determinazione inessenziale, ma la considera in quanto è essenziale. Elemento e contenuto della filosofia non è l’astratto o il non effettuale ma l’effettuale, l’autoponentesi, ciò che vive in sé, l’essere determinato che è nel proprio concetto. L’elemento della filosofia è il processo che si crea e percorre i suoi momenti; e questo intero movimento costituisce il positivo, e la verità del positivo medesimo. Così la verità racchiude in sé anche il negativo, ossia ciò che si chiamerebbe il falso, qualora potesse venir considerato come alcunché dal quale si debba fare astrazione. Ciò che sta dileguando deve anzi venir considerato esso stesso come essenziale; esso, cioè, non è da considerare nella determinazione di un alcunché rigido, che, tagliato via dal vero, debba venire abbandonato, dove che sia, al di fuori di questo; né d’altronde il vero è da considerare come un alcunché positivizzato e morto, giacente inerte dall’altra parte. L’apparenza è un sorgere e un passare che né sorge né passa, ma che è in sé e | 38 | costituisce l’effettualità e il movimento della vita della verità. Per tal modo, il vero è il trionfo bacchico dove non c’è membro che non sia ebbro; e poiché ogni membro nel mentre si isola altrettanto immediatamente si risolve, – il trionfo è altrettanto la quiete trasparente e semplice. Nel Tribunale di tal movimento non sussistono né le singole fi-

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gure dello spirito, né i pensieri determinati; ma essi, come sono momenti negativi e dileguanti, così anche sono positivi e necessari. – Nell’intiero del movimento, concependo l’intiero come quiete, ciò che nel movimento medesimo vien distinguendosi e assumendo una particolare esistenza determinata è conservato come qualcosa che ha reminiscenza di sé; come qualcosa il cui essere determinato è il sapere di se stesso, mentre tale sapere è altrettanto immediatamente un essere determinato. Potrebbe sembrar necessario di esporre in precedenza quanto è rilevante intorno al metodo di quel movimento o della scienza. Ma il suo concetto sta già in quel che si è discorso, e la sua più vera presentazione appartiene alla logica, o è piuttosto la logica stessa. Infatti il metodo non è altro che la struttura dell’intiero presentato nella sua più pura essenza. Ma, quanto alle idee che si sono avute fino a oggi intorno a questo punto, noi dobbiamo essere consapevoli che anche il sistema delle rappresentazioni riferentisi al metodo filosofico appartiene ormai ad una cultura sorpassata. – Ciò potrebbe suonare alquanto reclamistico o rivoluzionario, sebbene questo sia un tono dal quale io mi so ben lontano; si voglia pertanto ritenere che l’apparato scientifico offerto dalla matematica, – fatto di chiarimenti, di partizioni, di assiomi, di serie di teoremi e loro dimostrazioni, di principi e loro conseguenze e conclusioni, – è esso stesso, per l’opinione, a dir poco antiquato. Se anche la sua inutilità non è | 39 | chiaramente riconosciuta, non se ne fa tuttavia che poco o punto uso; e se esso, in sé, non viene disapprovato, non è tuttavia amato, mentre noi dobbiamo fermamente ritenere che ciò che ha un valore vero si attui nella pratica e si renda amato. Non è però difficile a riconoscere che la maniera di porre un principio, di sostenerlo nei suoi fondamenti, di confutarne con argomenti il principio opposto, non è la forma nella quale possa farsi avanti la

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verità. La verità è il movimento di lei in lei stessa, mentre quel metodo è un conoscere che rimane esteriore al contenuto. Perciò esso è peculiare della matematica, e deve esser lasciato ad essa che, come notammo, ha per proprio principio la relazione aconcettuale della grandezza, e per proprio contenuto il morto spazio e il morto Uno. Inoltre è bene che esso metodo in maniera più sciolta, cioè più misto di arbitrio e di accidentalità, permanga nell’àmbito della vita comune, della conversazione o della divulgazione storica, le quali soddisfano più la curiosità che non la conoscenza: ciò che all’incirca è anche una prefazione. Nella vita quotidiana la coscienza a suo contenuto ha cognizioni, esperienze, concrezioni sensibili, o anche pensieri e principi, – in breve, tutto ciò che le è dato e che vale come un saldo e quieto essere o come una salda e quieta essenza. La coscienza corre, in parte, su tali tracce; in parte interrompe la connessione esercitando su quel contenuto il suo arbitrio, e si comporta come chi lo determini e lo maneggi dall’esterno. Essa riconduce il contenuto a qualcosa che le sembri certo, sia pure la sensazione dell’istante; e la persuasione si sente appagata non appena riesca ad approdare a una zona di calma a lei già nota. [49]

Ma se la necessità del concetto esclude e la sciolta andatura della conversazione raziocinante, e il rigido incesso della scienza togata, non per questo l’ufficio del | 40 | concetto, come sopra si è visto, può venir sostituito dall’antimetodo del presentimento e dell’entusiasmo, o dall’arbitrio di quel parlare profetico che disprezza non solo quella scientificità, ma anche ogni scientificità in generale.

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Dopo che quella triplicità che nel Kant era ancor morta, fuori del concetto, e ritrovata solamente per istinto, venne elevata al suo assoluto significato, onde la schietta forma è parimente posta nel proprio schietto contenuto, e ne è scaturito il concetto della scienza; dopo tutto ciò non

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si può davvero attribuir valore scientifico a quell’uso di tale forma, attraverso il quale noi la vediamo ridotta a uno schema inerte, a una vera vergogna, come vediamo ridotta ad una tabella l’organizzazione scientifica. – Quel formalismo di cui già si disse sopra e il cui modo di procedere qui vogliamo segnalare più da vicino, ritiene di aver già concepite ed espresse la natura e la vita di una formazione, quando ne abbia affermata, come predicato, una determinazione dello schema, – sia la soggettività o l’oggettività, o anche il magnetismo, l’elettricità ecc., la contrazione o l’espansione, l’oriente o l’occidente e simili; il che può venire moltiplicato all’infinito, giacché in questo modo ogni determinazione o formazione può venire riadoperata in un’altra, come forma o momento dello schema; e ognuna, per gratitudine, può restituire all’altra il medesimo servizio: circolarità reciproca per la quale non si riesce a capire che sia la cosa stessa, né intesa per un verso, né intesa per l’altro. Si accettano allora dall’intuizione volgare delle determinazioni sensibili, le quali debbono indubbiamente significare altro da ciò che esse dicono; d’altronde anche quello che in sé è significante, come le pure determinazioni del pensiero (per es. soggetto, oggetto, sostanza, causa, universale ecc.), viene usato con la stessa sconsideratezza | 41 | acritica della vita volgare e a quello stesso modo con cui si discorre di forza e debolezza, e di espansione e contrazione. Di conseguenza quella metafisica è non meno antiscientifica di queste rappresentazioni sensibili. Invece della vita interiore e dell’automovimento del suo esserci, si esprime ora, secondo un’analogia superficiale, una tale semplice determinatezza dell’intuizione, vale a dire, qui, del sapere sensibile; e questa esteriore e vuota applicazione della formula vien chiamata costruzione. – Questo formalismo subisce la stessa sorte di ogni altro formalismo. Quanto deve essere dura quella testa nella quale in un quar-

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to d’ora non si possa inculcare la teoria che ci sono malattie asteniche, steniche e indirettamente asteniche e altrettanti metodi di cura; e quanto deve essere ottuso colui il quale, dato che fino a poco fa non si richiedeva un’istruzione maggiore, non possa in quel breve tempo venir trasformato da quel praticaccio che era, in un medico teoretico! Il formalismo della filosofia della natura può mettersi a insegnare che l’intelletto è l’elettricità, o che l’animale è l’azoto, o che esso è uguale al sud o al nord ecc., o che li rappresenta; lo può insegnare nudo e crudo come qui viene espresso o anche condito con più ricca terminologia; l’incompetenza potrà ben sentirsi stupita di fronte a una simile forza capace di congiungere e d’inquadrare ogni più remota parvenza; e potrà meravigliarsi di una violenza tale, che, subita in un inquadramento di quel genere dal quieto sensibile, gli conferisce la sembianza del concetto, senza esprimere tuttavia la cosa principale, cioè il concetto stesso o il significato della rappresentazione sensibile; – potrà inoltre l’incompetenza inchinarsi qui di fronte a sì profonda genialità; potrà anche prender diletto alla fatuità di tali determinazioni, giacché esse rendono più gradevole | 42 | il concetto astratto, sostituendogli qualcosa di visibile; potrà infine congratularsi con se stessa della presentita affinità con tale superbo procedere. Il trucco di una simile saggezza è così presto imparato quanto facilmente messo in opera. Ma non appena scoperto, la sua ripetizione diverrà tanto insopportabile, quanto la ripetizione dell’apprezzata arte d’un prestigiatore. Lo strumento di questo monotono formalismo si maneggia così facilmente come la tavolozza di quel pittore, sulla quale si trovassero soltanto due colori, poniamo il rosso e il verde, adoperando l’uno per le scene storiche, l’altro per i paesaggi, secondo la richiesta. – Sarebbe difficile decidere qual sia più grande: se la comodità con cui tutto ciò che è in cielo, sulla e sotto terra vien cosparso di quell’acquetta colorata,

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o l’orgoglio di aver trovato una chiave buona per tutti gli usci; l’una serve di appoggio all’altro. Il resultato di questo metodo consiste nel catalogare tutto, incollando a tutto ciò che v’è in cielo e in terra, a tutte le formazioni della natura e dello spirito quella coppia di determinazioni dello schema universale; e non è da meno di un rapporto solare sull’organismo dell’universo, ovverosia di una tabella somigliante allo scheletro coi cartellini incollati o alle file di barattoli nella drogheria, con le loro etichette. Una simile tabella trascura e occulta l’essenza viva della cosa, e non diviene quindi più perspicua dello scheletro da cui si son levati sangue e carne, o dei barattoli nei quali si è potuto rinchiudere qualcosa di non vitale. – Si è già sopra notato che questa maniera di conoscenza finisce in una pittura assolutamente monocromatica; essa maniera infatti, scandalizzata delle differenze dello schema, le affonda, – perché appartenenti alla riflessione, – nella vuotaggine dell’Assoluto, in modo che poi ne viene fuori la pura identità, il bianco senza forma. Quel | 43 | carattere monocromatico dello schema e delle sue determinazioni non vitali, e questa assoluta identità, e anche il passare dell’un a cosa nell’altra, tutto è egualmente morto intelletto, tutto è conoscenza esteriore. Ma ciò che eccelle non solo non può sfuggire al destino di venire a tal segno svuotato di vita e di spirito, di venir scuoiato e di vedersi portar via la pelle da un sapere pieno di vanità e privo di vita; anzi in questo destino stesso fa d’uopo riconoscere il potere che quanto eccelle esercita se non su gli spiriti, certo su gli animi; e bisogna anche riconoscere il perfezionamento verso quella universalità e determinatezza di forma, nel quale la sua eccellenza consiste e che solo rende possibile che di questa universalità si faccia un uso superficiale.

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Alla scienza è lecito organizzarsi soltanto mediante la vita propria del concetto. La determinatezza che, tratta dallo

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schema, vien esteriormente apposta allesserei, nella scienza è invece l’anima automoventesi del contenuto perfetto. Il movimento dell’essente è, da una parte, di divenire un altro a se stesso e di farsi, così, immanente contenuto di se stesso; d’altra parte l’essente riassume in sé questo dispiegamento o questo suo esserci; vale a dire di se stesso fa un momento, e si semplifica a determinatezza. In quel movimento la negatività è il distinguere e il porre l’esserci; in questo ritorno in se stesso la negatività è il divenire della semplicità determinata. Per tal modo il contenuto non mostra la sua determinatezza come ricevuta da un altro e su lui apposta; anzi esso la dà a se stesso e da se stesso si dispone a momento e a luogo dell’intiero. L’intelletto tabellesco trattiene per sé la necessità e il concetto del contenuto, ossia ciò che costituisce la concretezza, l’effettualità e il vivente movimento della cosa sulla quale esso manovra; o, piuttosto, lungi dal | 44 | tenere tutto ciò per sé, non lo conosce; se avesse, infatti, quella capacità di uscir di sé e di penetrare nella cosa, certamente la mostrerebbe, Ma di tutto ciò quell’intelletto non prova neanche il bisogno; altrimenti la smetterebbe col suo schematizzare o, per lo meno, non lo prenderebbe per una indicazione di contenuto; esso dà soltanto l’indicazione del contenuto, ma il contenuto stesso non lo fornisce. – Se la determinatezza, e sia pure, – ad esempio, – quella del magnetismo, è una determinazione in sé concreta o effettuale, essa è tuttavia ridotta a qualcosa di morto, perché soltanto predicata ma non riconosciuta come immanente vita di un altro essere determinato, né riconosciuta a quel modo ch’essa, in quello, intimamente e peculiarmente si autoproduce e si rappresenta. Questa aggiunta, che è poi la cosa principale, l’intelletto formalistico la lascia agli altri. – Invece di penetrare nell’immanente contenuto della cosa, l’intelletto trascura sempre l’intiero e si colloca al di sopra del singolo

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essere determinato di cui discorre: il che vuol dire che non lo vede. Per contro, il conoscere filosofico esige che ci si abbandoni alla vita dell’oggetto o, che è lo stesso, che se ne abbia presente e se ne esprima l’interiore necessità. Profondandosi così nel suo oggetto, esso oblia quella superficiale vista d’insieme che è solo la riflessione del sapere, lungi dal contenuto, in se stesso. Ma, calato nella materia e procedendo nel movimento che le è proprio, il conoscere filosofico ritorna in se stesso: non prima peraltro che il riempimento o contenuto, ripresosi in se stesso e semplificato a determinatezza, si sia abbassato esso stesso a un lato del suo essere determinato, e sia passato nella sua superiore verità. In questo giro il semplice intiero che stava smarrendo se stesso riemerge proprio da quella ricchezza nella quale sembrava perduta la sua riflessione. | 45 | Poiché la sostanza, come sopra si ebbe a dire, è in lei stessa Soggetto, proprio perciò ogni contenuto è anche la riflessione di sé in se stesso. La sussistenza o la sostanza di un essere determinato è l’eguaglianza con se stesso; giacché la sua ineguaglianza con sé sarebbe il suo dissolvimento. Ma l’eguaglianza con se stesso è la pura astrazione; e questa è il pensare. Quando io dico: qualità dico la determinatezza semplice. Per la qualità un essere determinato è distinto da un altro essere determinato o è, appunto, un essere determinato; esso è per se stesso o esiste mediante questa semplicità con sé. Ma con ciò esso è essenzialmente il pensiero. – Qui si comprende che l’essere è pensare; qui è a suo luogo quel modo di vedere che si studia di evitare il consueto discorrere aconcettuale circa l’identità del pensare e dell’essere. – Ora, poiché il sussistere dell’essere determinato è l’eguaglianza con sé o la pura astrazione, ecco che questo sussistere è l’astrazione di sé da se stesso, o è esso stesso la sua ineguaglianza con sé e la sua risoluzione; è la sua propria interiorità nonché il riprendersi in

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se medesimo: il suo divenire. – Mediante questa natura dell’essente, e in quanto l’essente ha per il sapere questa natura, il sapere non è l’attività che manipola il contenuto come un alcunché estraneo, non la riflessione in se stesso fuori dal contenuto; la scienza non è quell’idealismo che subentrò al dogmatismo dell’asserzione, assumendo la veste del dogmatismo della rassicurazione o del dogmatismo della certezza di se stesso; – anzi il sapere vede tornare il contenuto nella sua propria interiorità, e la sua attività è piuttosto immersa nel contenuto, – perché essa ne è l’immanente Sé, – e anche in pari tempo ritornata in sé, perché essa è la pura eguaglianza con sé nell’esser-altro; l’attività è così l’astuzia la quale, pur sembrando sottrarsi all’attività, si accorge che la | 46 | concreta vita della determinatezza, proprio mentre si illude di essere dedita alla conservazione di sé, al particolare interesse, è, invece, l’inverso: cioè un operare che si dissolve e si fa di sé un momento dell’intiero. [55]

Si segnalò di sopra il significato dell’intelletto dal lato del­ l’autocoscienza della sostanza; ora, da quel che qui si è discorso, deve esser chiaro il suo significato secondo la determinazione della sostanza stessa come sostanza nell’elemento dell’essere. L’essere determinato è qualità, determinatezza eguale a se stessa, o semplicità determinata, pensiero determinato; questo è l’intelletto dell’essere determinato. Con ciò esso è N u s, e come tale primamente A n a s s a g o r a riconobbe l’essenza. Quelli dopo di lui concepirono più determinatamente la natura dell’essere determinato come E i d o s o I d e a, cioè come universalità determinata, Specie. L’espressione specie sembra troppo ordinaria e troppo meschina per le idee, per il Bello, il Santo, l’Eterno che oggigiorno imperversano. Ma nel fatto Idea non esprime né più né meno di specie. Eppure noi oggi vediamo frequentemente spregiata questa espressione che pur significa determinatamente un concetto; un’al-

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tra viene invece preferita la quale, forse soltanto perché appartiene a una lingua straniera, annebbia il concetto e suona quindi più edificante. – Proprio perché l’essere determinato è caratterizzato come specie, esso è semplice pensiero; il N u s, la semplicità, è la sostanza. In virtù della sua semplicità o eguaglianza con se stessa, essa appare salda e stabile. Ma questa eguaglianza con sé è, altrettanto, negatività; e perciò quel saldo essere determinato passa nel proprio dissolvimento. Da prima la determinatezza sembra essere tale soltanto perché si riferisce ad altro, e il suo movimento sembra impostole da una violenza estranea; ma già in quella semplicità del pensiero è | 47 | implicito che la determinatezza ha in se stessa il suo esser-altro e che è automovimento; infatti la semplicità del pensiero è il pensiero automoventesi e autodifferenziantesi, ed è la propria interiorità, il concetto puro. Anche l’intelligibilità è, quindi, un divenire e, in quanto questo divenire, essa è razionalità. La natura di ciò che è, è di essere, nel proprio essere, il proprio concetto; e in ciò sta, in generale, la necessità logica; essa sola è il razionale, il ritmo della totalità organica; essa è sapere del contenuto, non meno di quello che il contenuto sia concetto ed essenza; – ovverosia, soltanto essa è l’elemento speculativo. – La concreta figura, movendo se stessa, fa di sé una determinatezza semplice; si eleva quindi a forma logica, ed è nella propria essenzialità; il suo concreto esistere non è che questo movimento, ed è immediatamente esistenza logica. È perciò inutile addossare dall’esterno il formalismo al contenuto concreto; questo è, in lui stesso, il passare nel formalismo, il quale però cessa di essere formalismo esteriore, giacché la forma è essa stessa il connaturato divenire del contenuto concreto.

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Tale natura del metodo scientifico, per cui esso da una parte non è separato dal contenuto, dall’altra determina da se stesso il proprio ritmo, ha, come si è già ricordato,

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la sua peculiare rappresentazione nella filosofia speculativa. – Quello che qui si dice, esprime invero il concetto, ma non ha maggior valore di una anticipata asseverazione. La verità di essa non sarebbe al suo posto in questa esposizione che, almeno in parte, ha carattere narrativo. Né alcuno potrebbe più efficacemente confutarla controasserendo che la cosa non sta così, ma in questo e in quell’altro modo; riesumando e ricantando viete rappresentazioni, presentate come verità inconcusse e notorie; o imbandendo e asserendo qualche novità, tratta fuori dal reliquiario | 48 | dell’intuizione divina. – Un atteggiamento di tal fatta suole essere la prima reazione del sapere al quale qualcosa era ignoto; e ciò allo scopo di salvare la propria libertà e il proprio modo di vedere, la propria autorità contro l’autorità estranea (ché sotto questo aspetto appare ciò che per la prima volta si è appena appreso); e anche per schivare quella parvenza e specie di vergogna che dovrebbe annidarsi nel fatto di avere imparato qualche cosa; d’altra parte, nel caso contrario di un’accoglienza favorevole di ciò che non si conosceva, la reazione corrispondente a quella prima consiste in ciò che, in un campo diverso, sono state la retorica e l’azione ultrarivoluzionarie. [58]

[IV.] – Nello studio della scienza tutto sta quindi nel prendere su di sé la fatica del concetto. La scienza richiede attenzione intorno al concetto come tale, e intorno alle determinazioni semplici, come quelle, per es., dell’esserin-sé, dell’esser-per-sé, dell’eguaglianza con se stesso ecc.; esse sono infatti puri automovimenti che si potrebbero chiamare anime, se il loro concetto non designasse qualcosa di più elevato che non quelle. L’abitudine di dirigersi secondo rappresentazioni si adatta così male a sopportare l’interruzione introdotta in queste dal concetto, come mal

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vi si adatta il pensiero formale che, raziocinando, farfalleggia intorno a pensamenti irreali. Quell’abitudine è da dirsi un pensare materiale, una coscienza accidentale, cui rimane ostico, immersa com’essa è nel contenuto, risollevare dalla materia il proprio Sé ed essere presso di sé. A sua volta il raziocinare è la libertà staccata dal contenuto, è un fatuo aggirarsi al di sopra di esso; a questa fatuità si addossa il compito di abbandonare cotale libertà; il compito non già di essere un arbitrario principio motore del contenuto, anzi di calare in esso quella libertà, di farlo | 49 | muovere mediante la sua propria natura, – ossia mediante il Sé in quanto gli appartiene, – e di contemplare questo movimento. Rinunciare alle personali scorribande nel ritmo immanente dei concetti, non intervenirvi con arbitrio o con una sapienza acquistata purchessia: ecco la discrezione che costituisce essa stessa un momento essenziale dell’attenzione rivolta al concetto. Nell’atteggiamento raziocinante occorre far meglio risaltare i due lati, secondo i quali ad esso è opposto il pensare concettivo. Da una parte quell’atteggiamento si comporta negativamente verso il contenuto da esso appreso: lo sa confutare e annientare. L’intendere che il contenuto non sia così o così, è il meramente negativo; è il punto supremo che non va oltre sé verso un nuovo contenuto; anzi, per avere ancora un contenuto, si deve raccattare qualche cos’a l t r o, donde che sia. È la riflessione nell’Io vuoto, la fatuità del suo sapere. Ma tale fatuità non dice soltanto che è futile quel contenuto, ma che lo è anche un tal modo d’intendere: esso è infatti il negativo che non scorge in sé il positivo. Poiché questa riflessione non consegue la sua stessa negatività a mo’ di contenuto, essa non è affatto nella cosa, ma sempre oltre; con l’affermazione del vuoto essa s’immagina quindi di esser sempre più in là che non una riflessione ricca di contenuto. Invece, come si è mo-

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strato sopra, nel sapere concettivo il negativo appartiene al contenuto stesso e, sia come suo immanente movimento e determinazione, sia come loro intiero, è esso stesso il positivo. Preso come resultato, ciò che da questo movimento sorge, è il negativo determinato e quindi, altrettanto, un contenuto positivo. [60]

Ma se si considera che un tale pensare ha un contenuto, sia esso contenuto di rappresentazioni o di pensieri, o della loro mescolanza, si vedrà come esso abbia anche un altro lato che gli rende difficile l’atto | 50 | concettivo. La natura caratteristica di questo lato è in stretta interdipendenza con la sopra rilevata essenza dell’idea, o, meglio, esprime l’idea stessa, in quanto essa appaia come movimento, che è atto dell’apprendere per pensieri. – Come dunque nel suo comportamento negativo, di cui si è testé discorso, il pensiero raziocinante è esso medesimo il Sé nel quale il contenuto ritorna; così, per contro, nel suo conoscere positivo, il Sé è un soggetto rappresentato, al quale il contenuto si riferisce come accidente e predicato. Questo soggetto costituisce la base alla quale il contenuto viene legato e sulla quale il movimento corre su e giù. Diversamente nel pensiero concettivo: poiché il concetto è il Sé che, proprio dell’oggetto, si presenta come il divenire di quest’ultimo, il Sé non è un quieto soggetto che, immoto, sostenga gli accidenti; è anzi l’automoventesi concetto che riprende in sé le sue determinazioni. In tale movimento vien travolto anche quel quiescente soggetto; questo penetra nelle differenze e nel contenuto e, invece di starsene immoto di fronte alla determinatezza, la costituisce piuttosto; costituisce, cioè, il contenuto differenziato e il suo movimento. Il saldo terreno che il raziocinare ha nel soggetto quiescente, vacilla dunque; e soltanto questo movimento diviene l’oggetto. Il soggetto che riempie il proprio contenuto cessa di scavalcarlo, né può avere altri predicati e accidenti. Vice-

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versa il contenuto disperso è tenuto assieme sotto il Sé; il contenuto non è l’universale che, libero dal soggetto, converrebbe a parecchi. In effetto quindi il contenuto non è più predicato del soggetto, ma è la sostanza, l’essenza e il concetto di ciò intorno a cui verte il discorso. Il pensare per rappresentazioni si dirige, per sua natura, secondo accidenti o predicati e a ragione va oltre di quelli, perché non sono che predicati e accidenti; ma esso viene ora frenato nel suo corso; | 51 | giacché ciò che nella proposizione ha la forma di predicato, è la sostanza stessa. Subisce esso, per raffigurarcelo così, un contraccolpo: comincia dal soggetto, come se questo stesse a fondamento; ma poi, dato che predicato è anzitutto la sostanza, trova che il soggetto è passato a predicato e che, con ciò, è tolto; e dacché ciò che sembra sia il predicato è divenuto una massa totale e indipendente, il pensiero non può più errare liberamente qua e là; anzi è trattenuto da una tal pesantezza. – Altrimenti il soggetto è da prima posto a fondamento come il Sé oggettivo e fisso; di qui il movimento necessario procede verso la molteplice varietà delle determinazioni o dei predicati; qui al posto di quel soggetto subentra lo stesso Io che sa, ed è il vincolo dei predicati non che il soggetto che li sostiene. Ma mentre quel primo soggetto entra nelle determinazioni stesse e ne è l’anima, il secondo Soggetto, quello che sa, trova tuttora nel predicato quel primo soggetto col quale vuol già aver chiusa la partita e oltre il quale vuole esser tornato in se stesso; e invece di poter essere l’elemento operante nel muovere il predicato (elemento operante in quanto raziocinante intorno all’attribuzione di questo o di quel predicato al primo soggetto) ha piuttosto ancora a che fare con il Sé del contenuto, né deve esser per sé, ma insieme con il contenuto medesimo. Quanto sopra si è detto può venire formalmente riespresso dicendo che la natura del giudizio o proposizione in ge-

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nerale (natura che implica in sé la differenza di soggetto e predicato) viene distrutta dalla proposizione speculativa; così la proposizione identica in cui trapassa la prima contiene il contraccolpo a quel comportamento. Un tale conflitto della forma di una proposizione in genere e dell’unità del concetto che distrugge quella forma, è simile a ciò che nel ritmo | 52 | ha luogo tra il metro e l’accento; il ritmo risulta dalla librantesi medietà e unificazione del metro e dell’accento. Similmente anche nella proposizione filosofica l’identità di soggetto e predicato non deve annientare la loro differenza espressa nella forma della proposizione; anzi la loro unità deve resultare come armonia. La forma della proposizione è il riapparire del senso determinato, cioè l’accento che ne distingue il contenuto; che pertanto il predicato esprima la sostanza, e che il soggetto s’immerga pur esso nell’universale, ecco l’unità in cui quell’accento si smorza. [62]

Cerchiamo di render chiaro il già detto mediante qualche esempio. Nella proposizione: Dio è l’essere, predicato è l’essere, ed ha un significato sostanziale, nel quale il soggetto si scioglie. Qui «essere» non dev’essere il predicato, ma l’essenza; con ciò Dio sembra cessar di essere ciò che egli è mediante la posizione della proposizione, ossia il soggetto fissato. – Il pensare, anziché progredire nel passaggio dal soggetto al predicato, dato che il soggetto va perduto, si sente piuttosto frenato e risospinto al pensamento del soggetto, sentendone mancanza; o, dacché il predicato fu espresso esso stesso come un soggetto, come l’essere, come l’essenza che esaurisce la natura del soggetto, il pensare trova il soggetto immediatamente anche nel predicato; e ora, invece di aver raggiunta la libera posizione del raziocinare, andando, nel predicato, in se stesso, il pensare è ancora immerso nel contenuto o, per lo meno, è presente l’esigenza di essere immerso in esso. – Egualmente se si dice: l’effettuale è l’Universale, anche qui l’effettuale,

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in quanto soggetto, sfuma nel suo predicato. L’Universale non deve avere soltanto la significazione del predicato, quasi che la proposizione venga a dire che l’effettuale è universale; anzi l’Universale deve esprimere l’essenza dell’effettuale. – Il pensare | 53 | quindi, allorché, trovandosi nel predicato, vien rinviato al soggetto, perde la sua solidificata base oggettiva che nel soggetto aveva, e nel predicato non torna indietro in se stesso, bensì nel soggetto del contenuto. Da tale insolito freno dipendono in gran parte le lamentele circa l’incomprensibilità di scritti filosofici, quando, s’intende, concorrano nell’individuo le condizioni culturali sufficienti a comprenderli. In ciò noi scorgiamo la ragione del preciso rimprovero così spesso rivolto alle opere filosofiche, vale a dire che occorre leggerne più volte molte parti per poterle capire; – rimprovero che dovrebbe contenere qualche cosa di inoppugnabile e di definitivo, e che, se avesse fondamento, non lascerebbe adito a nessuna controargomentazione. – Ma da quel che sopra si è detto, resulta chiaro come stiano le cose. La proposizione filosofica, appunto perché proposizione, risveglia l’opinione della comune relazione tra soggetto e predicato, e del comune comportamento del sapere. Tale comportamento e l’opinione connessavi vengono distrutti dal contenuto filosofico della proposizione; l’opinione si accorge che altro intendevasi da quello ch’essa medesima intendesse; e, con questa correzione della propria opinione, il sapere è costretto a ritornare sulla proposizione e ad intenderla, ora, diversamente.

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Il mescolarsi della guisa speculativa e di quella raziocinante, costituisce una difficoltà, che si dovrebbe evitare, derivante dal fatto che quanto si dice del soggetto, ha, una volta, il significato del suo concetto, mentre un’altra volta ha di nuovo soltanto il significato del suo predicato o ac-

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cidente. – L’una guisa disturba l’altra; e soltanto quell’esposizione filosofica potrebbe riuscir plastica, la quale escludesse rigorosamente la specie della comune relazione fra le parti di una proposizione. [65]

| 54 | In effetto anche il pensare non speculativo ha il suo diritto che è bensì valido, ma non può venir preso in considerazione in sede di proposizione speculativa. Il superamento della forma della proposizione non può avvenire in guisa immediata, né in forza del suo mero contenuto. Deve, anzi, esprimersi il movimento opposto: esso non ha da essere solamente quell’interiore freno: devesi invece presentare quel ritornare in sé del concetto. Questo movimento, costituente altrimenti il compito della dimostrazione, è il movimento dialettico della proposizione stessa. Solo esso è l’elemento effettualmente speculativo; e solo l’enunciazione del movimento medesimo è rappresentazione speculativa. Come proposizione lo speculativo è solamente il freno interiore; è il ritorno dell’essenza in se stessa, privo di esistenza determinata. Spesso perciò noi ci vediamo rinviati dalle esposizioni filosofiche a questa interiore intuizione, venendoci così rifiutata l’esposizione, da noi richiesta, del movimento dialettico della proposizione. – La proposizione deve esprimere ciò che il vero è; ma esso è essenzialmente Soggetto, è solo il movimento dialettico, ritmo autoproducentesi che si spinge oltre e ritorna in se stesso. – In ogni conoscere la dimostrazione costituisce questo lato di manifesta interiorità; ma, dacché la dialettica fu separata dalla dimostrazione, in effetto andò perduto il concetto del dimostrare filosofico.

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A questo proposito, si può rammentare come anche esso il movimento dialettico abbia a sue parti o elementi delle proposizioni; sembra quindi che la segnalata difficoltà non faccia che ritornare, e sia una difficoltà della cosa stes-

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sa. – Ciò somiglia a quel che succede nella dimostrazione usuale, quando i fondamenti dei quali essa si vale abbisognano ancora di una fondazione, e così all’infinito. Peraltro una tal forma della ricerca del fondamento e della condizione appartiene | 55 | a quel dimostrare da cui differisce il movimento dialettico; appartiene quindi alla conoscenza esteriore. Quanto a quel movimento, il suo elemento è il concetto puro; così esso ha un contenuto che, in lui stesso, è già in tutto e per tutto soggetto. Non si dà quindi contenuto alcuno comportantesi come quel soggetto che starebbe a fondamento e al quale converrebbe il suo significato come un predicato; presa nella sua immediatezza, la proposizione è una forma soltanto vuota. – Oltre al Sé sensibilmente intuito o rappresentato, quello che indica il puro soggetto, il vuoto uno aconcettuale, è prevalentemente il nome come nome. Onde può tornare utile evitare, per esempio, il nome Dio, perché questa parola non è immediatamente e in pari tempo concetto, ma è il nome propriamente detto, è la rigida quiete di quel soggetto che sta a fondamento; mentre, diversamente, l’Essere, ad esempio, o l’Uno, la Singolarità, il Soggetto ecc., costituiscono essi stessi un diretto accenno a dei concetti. – Quand’anche di quel soggetto vengano predicate delle verità speculative, il loro contenuto è pur sempre privo di concetto immanente, perché è dato soltanto come soggetto statico, ed esse, per questa circostanza, ricevono con facilità la forma della mera edificazione. – Per questo lato, dunque, anche la difficoltà consistente nell’abitudine di non intendere, secondo la forma della proposizione, il predicato speculativo come concetto e come essenza, potrà venire accresciuta o diminuita per colpa della trattazione filosofica. La presentazione, fedelmente discernendo la natura dell’elemento speculativo, manterrà la forma dialettica, e non farà posto a nulla che non venga concepito e non sia il concetto.

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Non meno del comportamento raziocinante, allo studio della filosofia è d’impaccio la non raziocinante presunzione di verità fatte. Chi le possiede pensa che | 56 | non sia più necessario ritornare su di esse; anzi, postele a fondamento, stima non solo di poterle esprimere, ma anche di poter con esse sentenziare e condannare. Per questo verso, urge che con la filosofia si ricominci a fare sul serio. Per tutte le scienze, le arti, le abilità, i mestieri si è convinti che, per possederle, sia necessario impararle faticosamente ed esercitarle. Così, mentre ciascuno, pur possedendo occhi e dita, se gli si mettano a disposizione cuoio e arnesi è poi incapace di fare delle scarpe, – pare invece che, quanto alla filosofia, domini ora il pregiudizio che ciascuno sappia immediatamente filosofare e giudicar di filosofia, possedendo egli nella sua ragione naturale la misura a ciò adatta: – come se ciascuno non possedesse, similmente, nel suo piede la misura di una scarpa. – Sembra proprio che si faccia consistere il possesso della filosofia nella mancanza di cognizioni e di studio, e che quella finisca dove questi incominciano. La filosofia viene spesso ritenuta come un sapere formale e vuoto di contenuto; e si è ben lontani dall’intendere che il nome di verità è meritato soltanto da ciò che la filosofia produce, anche se questo prodotto, secondo il contenuto, sia già presente in qualche nozione o in qualche scienza; e che le altre scienze, – tentino pure col raziocinio, senza la filosofia, quanto esse vogliono, – non sono in grado, senza di essa, di avere in loro né vita, né spirito, né verità.

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Quanto alla filosofia genuina, noi vediamo come l’immediata rivelazione del divino e il buon senso, che non si è mai curato di coltivarsi né con la filosofia né con altra forma del sapere, si considerino senz’altro quale perfetto equivalente e ottimo surrogato della lunga via della cultura, di quel ricco e profondo movimento per cui lo spirito giunge al sapere, quasi come si decanta la cicoria quale surrogato

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del caffè. È penoso | 57 | notare come l’insipienza e il pacchianismo senza gusto né linea, incapace di fermare il pensiero su proposizioni astratte singolarmente prese, e ancor meno sul loro nesso, si atteggino ora a libertà e tolleranza del pensiero, ora a genialità. Quest’ultima, come oggi nella filosofia, imperversava un tempo in egual misura, – com’è ben noto, – nella poesia. Ma quando il produrre di questa genialità aveva un senso, esso, in luogo di poesia, partoriva della prosa triviale; se poi usciva dalla prosa, finiva in discorsi strampalati. Così oggi un natural filosofare che disdegna il concetto, stimandosi, proprio in grazia dell’assenza di esso, un pensare intuitivo e poetico, getta sul mercato una serie di arbitrarie combinazioni nate da una fantasia per la quale il pensiero è solo un elemento di disorganizzazione: – immagini che non sono né carne né pesce, né poesia né filosofia. Viceversa, scorrendo tra i facili argini del buon senso, il natural filosofare riesce tutt’al più a fornire una retorica di verità banali: se gli si mostra che queste non dicon nulla, esso assicura per contro di averne in cuore il senso e il contenuto, e che altrettanto deve avvenire negli altri, mentre presume di esser giunto, mercé l’innocenza del cuore e la purezza della coscienza e simili, a dire l’ultima parola, su cui non si possa sollevare eccezione, e oltre la quale non possa esigersi progresso alcuno. Si trattava peraltro di far sì che ogni miglior valore non rimanesse nei precordi, anzi, da questo pozzo, venisse tratto alla luce del giorno. Ci si sarebbe potuto da un pezzo risparmiar la fatica di mettere in mostra delle verità di questo genere: esse, infatti, si trovano da secoli nel catechismo, nei proverbi popolari ecc. – Di tali verità è facile cogliere l’indeterminatezza e la stortura; come è facile mostrare alla loro e nella loro coscienza una verità opposta. | 58 | Mentre una coscienza così ridotta tenta di sottrarsi alla confusione, ricadrà in una nuova

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e protesterà che le cose stanno indiscutibilmente così e così, e che il resto sono sofisticherie: espressione corrente del senso comune contro la ragione coltivata; allo stesso modo che l’insipienza filosofica pretende di definire una volta per sempre con la parola fantasticherie la filosofia. – Poiché il senso comune fa appello all’oracolo interiore del sentimento, rompe ogni contatto con chi non è del suo parere; esso è costretto a dichiarare di non aver altro da dire a colui che non trovi e non senta in se stesso la medesima verità; – in altri termini, esso calpesta la radice dell’umanità. Questa infatti, per natura, tende ad accordarsi con gli altri; e la sua esistenza sta soltanto nell’istituita comunanza delle coscienze. Il non umano, l’animalesco, consiste nel fermarsi nel sentimento, e nel dar contezza di sé solo per mezzo di questo. [70]

Se si chiedesse di una via regia verso la scienza, nessuna se ne potrebbe indicare più comoda di quella che consiste nell’affidarsi al buon senso e nel leggere, per andar di pari passo con la propria età e con la filosofia, recensioni di scritti filosofici o, – perché no? –, le loro introduzioni e i primi paragrafi; questi forniscono infatti i principi generali dai quali tutto dipende, e le recensioni, oltre la notizia storica, danno anche un giudizio che, appunto perché tale, è già al di là della materia giudicata. Questa via ordinaria si fa in maniche di camicia; il sentimento eccelso dell’Eterno, del Sacro, dell’Infinito, percorre invece in paramenti sacerdotali un cammino che è piuttosto esso stesso l’immediato essere nel centro, la genialità d’idee profonde e originali e di sublimi lampi del pensiero. Come tuttavia una tale genialità non rivela ancora la scaturigine dell’essenza, similmente questi razzi non sono ancora | 59 | l’empireo. Pensieri veri e penetrazione scientifica si possono guadagnare solo nel lavoro del concetto. Soltanto esso può produrre l’universalità del sapere, la quale è non già la solita

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indeterminatezza e meschinità del senso comune, ma conoscenza coltivata e compiuta; non già la peregrina generalità delle doti della ragione, corrompentisi con la pigrizia e con la boria del genio, ma la verità prosperata a sua intima forma: verità suscettibile di essere posseduta da ogni ragione autocosciente. Io pongo dunque nell’automovimento del concetto ciò mediante cui la scienza esiste: al qual proposito si potrà osservare che i già toccati ed anche altri aspetti esteriori si discostano dal modo col quale il nostro tempo si rappresenta la natura e il carattere della verità, e che, anzi, gli sono decisamente opposti; questa osservazione sembra non promettere favorevole accoglimento al tentativo di rappresentare il sistema della scienza in quella determinazione. – Intanto io penso che se, per esempio, il miglior succo della filosofia di P l a t o n e si fece consistere talora in quei suoi miti che scientificamente sono privi di valore, vi sono poi stati anche dei tempi, detti perfino tempi della fantasticheria, nei quali la filosofia a r i s t o t e l i c a fu altamente apprezzata in virtù della sua profondità speculativa, e il Parmenide di Platone, senza dubbio la più grande opera d’arte della dialettica antica, fu tenuto per una vera rivelazione e per la positiva espressione della vita divina; tempi nei quali, non ostante la torbida oscurità di tutto ciò che l’estasi produceva, quella pretesa estasi non doveva essere, in effetto, altro che il concetto puro. – Penso inoltre che quanto nella filosofia del nostro tempo v’ha di buono, pone il proprio valore nella scientificità; e se anche non tutti ne convengono, solo mercé la scientificità il buono si | 60 | mette, di fatto, in valore. Io posso quindi sperare che questo tentativo di rivendicare la scienza al concetto e di rappresentarla in questo suo peculiare elemento si farà strada per l’intima verità della cosa. Dobbiamo persuaderci che la natura del vero è quella di farsi largo

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quando è arrivato il suo tempo, e che solo allora appare, quando il tempo è venuto; e che quindi non appare mai troppo presto, né trova un pubblico non maturo; dobbiamo anche persuaderci che l’individuo ha bisogno di questo evento per confermarsi in quella che è ancora la sua convinzione solitaria, e per esperire come un qualcosa di universale quella convinzione che dapprima appartiene soltanto al singolo. Ma qui bisogna spesso distinguere tra il pubblico e coloro che si atteggiano a suoi rappresentanti e interpreti. Quello si comporta in più di un rispetto diversamente da questi, e anzi in modo opposto. Se quello preferisce bonariamente far colpa a se stesso che un’opera filosofica non gli si addica, questi altri invece, certi della loro competenza, riversano la colpa sull’autore. Nel pubblico l’effetto è più discreto che non l’agitarsi di quei morti quando seppelliscono i loro morti. Se ora il generale discernimento è in media più elevato, la sua curiosità è più sollecita e il suo giudizio più rapidamente si determina, così che già davanti all’uscio sono i piedi di coloro che ti porteranno al camposanto, bisogna tuttavia saper distinguere quel più lento effetto che, un po’ alla volta, rettifica l’attenzione cattivata da asserzioni roboanti, e modera il biasimo della stroncatura. Cosicché questo lento effetto prepara a gli uni, solo dopo qualche tempo, un mondo che è il loro, mentre gli altri, dopo il plauso dell’attimo fuggente, non avranno posterità alcuna. [72]

Del resto in un’età, nella quale l’universalità dello spirito è fortemente consolidata, e la singolarità, come | 61 | si conviene, è divenuta di tanto più insignificante; in un’età in cui l’universalità fa gran conto di tutta la sua comprensione e dell’adunata ricchezza e la si esige; soltanto minima può essere la partecipazione all’intera opera dello spirito assegnata all’individuo; così questo deve a maggior ragione obliare se stesso, – il che, del resto, è già una conseguenza

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della natura della scienza, – e divenire e fare quel che gli sarà possibile; ma da lui si deve pretendere tanto meno, quanto meno egli può aspettare da sé e può per sé esigere.

Indice

Premessa alla seconda edizione

p. 9

Introduzione e abbreviazioni

p. 11

Capitolo I L’inizio della Prefazione 1.  La Prefazione è una prefazione? 2.  Che cos’è una prefazione?

p. 17 p. 17 p. 19

Capitolo II L’esposizione speculativa come eternità realizzata 1.  Il sapere e il particolare 2.  Il sapere conduce al non-sapere? 3.  Fichte e il circolo del sapere 4.  Il sapere e l’infinito

p. 23 p. 23 p. 25 p. 27 p. 30

Capitolo III Universale e particolare 1.  Il problema dell’universale nella logica formale 2.  Oltre la sussunzione

p. 35 p. 35 p. 39

Capitolo IV Anatomia e conversazione 1.  L’anatomia è una scienza? 2.  Filosofia e conversazione 3.  Conversazione e anatomia

p. 41 p. 41 p. 45 p. 52

Capitolo V Il vero e il falso 1. L’opinione 2.  Si può asserire il falso? 3.  Hegel, Platone e l’opinione 4.  Dialettica dell’opposizione 5.  Finito e infinito 6.  Concreto e astratto 7.  L’universale come concreto

p. 55 p. 55 p. 56 p. 60 p. 62 p. 66 p. 69 p. 72

Capitolo VI Metafore di Aufhebung: Goethe, Hegel e le piante 1.  Senso della metafora 2.  Mostruosità della metafora 3. Monstrum e negativo

p. 79 p. 79 p. 82 p. 90

Capitolo VII Forma proposizionale e contenuto filosofico 1.  Modi dello stile 2.  Quante volte bisogna leggere la Vorrede?

p. 95 p. 95 p. 97

Capitolo VIII Posizione del problema 1.  Come va inteso l’assoluto? 2.  Intuizione trascendentale e riflessione nella Differenzschrift

p. 103 p. 103 p. 109

Capitolo IX L’intelletto e il negativo 1.  Che cosa significa analizzare una rappresentazione? 2.  Il morto e il negativo 3.  «Venerdì Santo speculativo» 4.  Magia dell’intelletto 5.  Odio della bellezza e «morte della morte»

p. 125 p. 125 p. 138 p. 142 p. 146 p. 149

Capitolo X Sostanza come soggetto 1. Concetto 2.  Sistema 3.  Intuizione intellettuale 4. Effettualità 5. Mediazione 6.  Riflessione 7.  Hegel supera Hegel 8.  Identità 9.  Attuazione

p. 165 p. 165 p. 169 p. 170 p. 172 p. 178 p. 179 p. 180 p. 184 p. 188

Capitolo XI La verità come spirito 1.  Filosofia e cristianesimo 2.  Concetto dello spirito 3.  Fenomenologia dello spirito 4. Coscienza 5. Sapere 6. Aufhebung del negativo? 7.  Differenza 8.  Erscheinung

p. 191 p. 191 p. 194 p. 203 p. 205 p. 209 p. 212 p. 220 p. 226

Capitolo XII Il problema dell’esposizione filosofica 1.  Il modello matematico 2.  Costruzione e analogia 3.  Esposizione speculativa

p. 233 p. 234 p. 247 p. 249

Conclusione

p. 253

Nota bibliografica

p. 257

Appendice Nota editoriale Prefazione alla Fenomenologia dello spirito

p. 263 p. 265

Zeugma

Lineamenti di Filosofia italiana | Classici Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ

1. Pasquale Galluppi, Memoria sul sistema di Fichte. 2. Carlo Invernizzi, Lucentizie. L’enigma del tempo. 3. Massimo Adinolfi - Massimo Donà (a cura di), Trovarsi accanto. Per gli ottant’anni di Vincenzo Vitiello. 4. Luca Basile (a cura di), Croce e la revisione del marxismo. Antologia di testi critici. 5. Nicola Magliulo, Segni del presente. Prospettive di filosofia italiana contemporanea. 6. Vincenzo Vitiello, Hegel in Italia. Itinerari. I - Dalla storia alla logica. II - Tra Logica e Fenomenologia. 7. Massimo Donà, Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni Gentile. 8. Mario Capanna - Massimo Donà - Luigi Vero Tarca (a cura di), Cháris. Omaggio degli allievi a Emanuele Severino. 9. Vincenzo Vitiello, L’Ora e l’attimo. Confronti vichiani. 10. Antonio Rosmini, Dell’amicizia. Alcuni inediti giovanili.

11. Massimo Donà, Apologia dell’immediato. Percorsi evoliani. 12. Gaetano Rametta, Il problema dell’esposizione speculativa nel pensiero di Hegel. 13. Leonardo Messinese, Nel castello di Emanuele Severino. 14. Vincenzo Vitiello, Immanuel Kant. L’Architetto della Neuzeit. Dall’abisso della ragione il fondamento della morale e della religione. 15. Augusto Vera, La Fenomenologia dello Spirito di Hegel. 16. Gaetano Rametta, Filosofia come «sistema della scienza». Introduzione alla lettura della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel.

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 16 - Classici

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà

La Prefazione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel è un testo che si pone alla soglia del sistema, ma in pari tempo ne definisce il limite e il bordo estremi. Essa infatti da un lato si colloca prima dell’inizio, dall’altro dopo e oltre la fine. Essa dunque è e non è una prefazione, è e non è interna al «sistema della scienza». Così, essa si carica di quella medesima ambiguità che, nel pensiero di Hegel, caratterizza il concetto di negativo: da una parte, funzionale all’attuazione dell’episteme; dall’altra, ripristinato al suo termine come esterno e non più contenibile in essa. In questo paradossale aver luogo senza che per essa, nel sistema, ci sia un luogo, la Vorrede non apre soltanto la Fenomenologia dello spirito, ma anche lo spazio da cui l’opera di Hegel è stata sempre di nuovo interrogata.

Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN ebook 9788855293020

Il volume presenta, in appendice, la Prefazione alla Fenomenologia dello spirito nella traduzione di Enrico De Negri.

Gaetano Rametta insegna Storia della filosofia al Dipartimento FISPPA dell’Università di Padova. È autore di un’ampia bibliografia su Fichte, Hegel, Bradley e la ricezione dell’Idealismo Tedesco nel pensiero contemporaneo. Di recente ha pubblicato la monografia Deleuze interprete di Hume (Milano 2020) e le voci “Giurisprudenza”, “Rappresentazione”, “Trascendentale” nel volume collettaneo Nova Theoretica (Roma 2021).

€ 12,00