Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive 8815137521, 9788815137524

Nella storia dell'evoluzione della specie umana l'avvento del linguaggio ha innescato nell'Homo sapiens u

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Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive
 8815137521, 9788815137524

Table of contents :
COPERTINA FRONTE
INDICE
PRESENTAZIONE. Proprio tu, linguaggio, ci tradirai?
IL PREZZO DEL LINGUAGGIO
Introduzione
Parte I - C'è posto per il linguaggio nelle scienze congnitive?
I. Evoluzionismo e scienze cognitive
1. Il paradigma disincarnato
2. Dalla svolta linguistica alla svolta cognitiva
3. Dalle neuroscienze alla biologia della mente
4. Per una storia naturale della mente
II. Lo strano caso del negazionismo linguistico
1. Che cos'è e come funziona il negazionismo?
2. Il negazionismo linguistico delle scienze cognitive
3. Le cause del negazionismo linguistico
4. Sintesi e conclusioni: mente linguistica = mente naturale
III. Fondamenti biologici e strutture evolutive del linguaggio
1. Evoluzione degli organi o evoluzione degli organismi?
2. Le vie periferiche
3. Le vie centrali
4. I network del linguaggio
5. Le ragioni evolutive della multifunzionalità dell'area di Broca
6. Sintesi e conclusioni: la coazione funzionale del linguaggio
Parte II - Il prezzo del linguaggio
IV. Gli otto peccati capitali della civiltà più uno
1. C'è progresso nell'evoluzione?
2. Dall'etologia cognitiva ai "qualia etologici"
3. Il metro ecologico della cognizione
4. L'estinzione consapevole
5. Sono proprio sterminate le "sterminate antichità"?
V. Una lente zoologica sul genere Homo
1. L'uomo tra i primati
2. La "timeline" degli ominidi
3. Dalla parte della morte: il rovescio della medaglia
VI. L'evoluzione culturale dell'evoluzione naturale
1. Cervello, società e cultura nell'evoluzione dei primati
VII. L'anomalia ecologica del linguaggio umano
1. Il calvario delle dicotomie
2. La specie-specificità della cognizione linguistica
3. L'ontologia biologica del linguaggio
Conclusioni. Entropie dell'ascesa
BIBLIOGRAFIA
INDICE DEI NOMI
COPERTINA RETRO

Citation preview

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Antonino Pennisi Alessandra Falzone

Il prezzo del linguaggio Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive

Saggi

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BIBLIOTECA UNIVERSITARIA

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ANTONINO PENNISI

ALESSANDRA FALZONE

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IL PREZZO DEL LINGUAGGIO Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive

Presentazione di Telmo Pievani

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

IL MULINO

INDICE

Presentazione. Proprio tu, linguaggio, ci tradirai?, di Telmo Pievani Introduzione

p.

9

19

PARTE PRIM A: C'È UN POSTO PER IL LINGUAGGlO NELLE SCIENZE COGNITIVE?

I.

Evoluzionismo e scienze cognitive

29

1. 2. 3. 4.

31 34 36

Il paradigma disincarnato Dalla svolta linguistica alla svolta cognitiva Dalle neuroscienze alla biologia della mente Per una storia naturale della mente

II. Lo strano caso del negazionismo linguistico

ISBN

978-88-15-13752-4

Copyright © 2010 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti s_ono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata , riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsias_i forma _o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termm1 previsti dalla legge che tutela il Diritto d 'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

1. Che cos'è e come funziona il negazionismo 2. Il negazionismo linguistico delle scienze cognitive 2.1. Principi generali 2.2 . La coscienza afasica 2.3. Primitivismi antilinguistici 2.4. Credenze asimmetriche 3. Le cause del negazionismo linguistico 3.1. La mente linguistica contro la mente animale 3 .2. La mente linguistica è una mente culturale 3 .3. La mente linguistica è una mente infalsificabile 4. Sintesi e conclusioni: mente linguistica = mente naturale

III. Fondamenti biologici e strutture evolutive del linguaggio 1. Evoluzione degli organi o evoluzione degli organismi? 2. Le vie periferiche

42 51 53

55 56 59 63

67 71 72

78 84 88

93 96 99

5

3. Le vie centrali 3 .1. Critiche al modello classico 3.2. Il modularismo debole 4. I network del linguaggio 4.1. L'area di Broca e i processi di unificazione cognitiva 4.2. Network diffusi e funzione linguistica estesa 5. Le ragioni evolutive della multifunzionalità dell'area di Broca 6. Sintesi e conclusioni: la coazione funzionale del linguaggio

p.

106 109 115 121 127 130

142

IV. Gli otto peccati capitali della civiltà più uno

147

C'è progresso nell'evoluzione? Dall'etologia cognitiva ai «qualia etologici» Il metro ecologico della cognizione L'estinzione consapevole Sono proprio sterminate le «sterminate antichità»? 5 .1. Che cosa significa «essere una specie»? 5.2. Speciazione, specializzazione, complessità 5 .3 . La prevedibilità delle estinzioni 5 .4. Sintesi

152 158 167 171 179 180 184 190 204

V.

Una lente zoologica sul genere Homo

207

1. L'uomo tra i primati 2. La timeline degli ominidi 3. Dalla parte della morte: il rovescio della medaglia

210 215 225

VI. L'evoluzione culturale dell'evoluzione naturale

233

1. Cervello, società e cultura nell'evoluzione dei primati 1.1. I neuroni-specchio 1.2. Imitazione, socialità, aggressività 1.3. Comunicazione e trasmissione di informazioni

238 239 243 248

VII. L'anomalia ecologica del linguaggio umano 1. Il calvario delle dicotomie 2. La specie-specificità della cognizione linguistica

6

p.

282 287 296 304

Conclusioni. Entropie dell'ascesa

315

Riferimenti bibliografici

323

Indice dei nomi

361

135

PARTE SECONDA: IL PREZZO DEL LINGUAGGIO

1. 2. 3. 4. 5.

3. L'ontologia biologica del linguaggio 3 .1. Il dente d'arresto delle tecnologie 3.2. Il generatore di credenze 3.3. L'organo naturale della pseudospeciazione cuiturale

261 270 274

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PRESENTAZIONE

PROPRIO TU, LINGUAGGIO, CI TRADIRAI?

Mai fidarsi delle domande apparentemente banali degli scienziati in pausa pranzo. Le tesi contenute in questo libro fanno tornare alla mente il celebre «paradosso di Fermi». Se il Sole e la Terra non godono di uno statuto speciale nell'universo, se il cosmo pullula di pianeti extrasolari simili al nostro, se il loro numero è così alto da sfidare ogni improbabilità di formazione di strutture viventi, se dunque la vita può esistere in molti altrove, se una parte di questa, statisticamente, sarà più intelligente di noi, e quindi con capacità di movimento e di comunicazioni persino inimmaginabili, se tutte queste stime confermano che là fuori devono essere proprio in tanti, e infine se nulla esclude che abbiano un'irrefrenabile tendenza all'espansione proprio come noi, perché non vengono a trovarci? L'ironia del grande fisico italiano in visita a Los Alamos era legata all'ennesima notizia di un avvistamento di oggetti volanti non identificati sui cieli di Manhattan o del New Mexico nel secondo dopoguerra: se il cosmo brulica di alieni incuriositi, dove sono tutti quanti? Oggi sappiamo che la risposta più plausibile risiede nelle enormi distanze di anni luce, nei vincoli fisici inaggirabili e nelle contingenze evolutive che ci accomunano a ogni presunta specie extraterrestre intelligente e che rendono l'eventuale contatto estremamente difficile. Non sono mancate, tuttavia, soluzioni più inquietanti al paradosso. Forse non vengono a trovarci perché non esistono. O forse, ancor peggio, dopo aver captato i segnali dei programmi televisivi terrestri degli ultimi decenni non trovano alcun interesse a comunicare con un mammifero tanto frivolo. Una delle risposte più pessimiste ipotizza invece che tali civiltà esistano o siano esistite davvero, e che tuttavia non siano mai in grado di raggiungerci perché ciò implicherebbe uno sviluppo enorme delle loro capacità intellettive e tecnologiche, ma nella realtà - questo 9

è il punto - nessuna di esse riuscirebbe ad accedere a questo stadio elevato di progresso perché ogni volta si autoestingue prima. In altri termini, a un certo punto la loro evoluzione culturale inciampa e diventa insostenibile. Viene interrotta da una catastrofe oppure implode su se stessa e ciò impedisce di raggiungere il livello di avanzamento necessario per intraprendere voli o comunicazioni interstellari. Le civiltà intelligenti, insomma, avrebbero una durata limitata: come ogni specie, nascono, si trasformano e prima o poi scompaiono. Un alieno così evoluto da venirci a trovare è un alieno estinto (e ciò significa, peraltro, che il giorno del Giudizio verrà anche per noi). Il catalogo delle circostanze apocalittiche a causa delle quali ogni civiltà intelligente dell'universo dovrebbe essere condannata prima o poi al suicidio è ampio e variegato. L'universo è un posto piuttosto pericoloso e le cause potrebbero essere esterne: impatti di comete e asteroidi, esplosioni di stelle, collisioni di galassie spazzano via, proprio sul più bello, gli esperimenti di vita. Più spesso, però, coltiviamo la nemesi nel nostro seno: le macchine cominciano a evolvere indipendentemente, diventano ostili e prendono il sopravvento (è il timore che aveva già Samuel Butler riflettendo sulla teoria darwiniana) ; oppure soccombiamo sotto i colpi di guerre e di olocausti nucleari; della sovrappopolazione fuori controllo; dei disastri ambientali prodotti dall'inquinamento; di sconvolgimenti climatici; di pandemie; e non manca chi recentemente ha temuto persino di essere risucchiato dentro un buco nero prodotto da un acceleratore di particelle. L'annientamento di sé prima o poi arriva, si tratta di trovare i mezzi necessari. Un momento o l'altro viene il punto in cui tutte le specie che nell'universo si autodefiniscono sapiens capiscono di non esserlo stato abbastanza, o di esserlo stato troppo. Del resto, come hanno notato spesso gli evoluzionisti, il «progresso» di una specie si misura sempre a posteriori: nel senso che di solito lo misura qualcun altro, dopo che la specie si è estinta.

In questo libro innovativo e avvincente Alessandra Falzone e Antonino Pennisi individuano un colpevole assai insidioso, perché di gran lunga il più insospettato: il linguaggio articolato. Nostra condanna e malattia terminale, lo definiscono: vicolo cieco evolutivo, inguaribile morbo consegnatoci perfidamente 10

dalla selezione naturale, congegno letale proprio perché trionfante, ineludibile e pervasivo. Non possiamo più sottrarci al nostro pensare per parole, all'incessante discorso interiore dentro il quale fluisce l'attività mentale, ma è proprio nelle potenzialità espressive, inferenziali e manipolative di questa «scoperta» evoluzionistica umana che si annida, come in una prigione invisibile, anche il limite fondamentale delle nostre ambizioni di sopravvivenza. Possiamo lasciarci persuade~e o meno da questa ipotesi, ma non certo negarne l'originalità. E pur sempre una conseguenza coerente di quella rivoluzione darwiniana che ancora si fatica ad ammettere nei campi di studio della mente: il linguaggio non è un «già da sempre». Un tempo non c'era, da alcune decine di migliaia di anni sì. Con un certo, significativo, ritardo rispetto alle strutture anatomiche che lo rendono possibile, è comparso in natura nella specie Homo sapiens, ristrutturandone e permeandone il modo di pensare e di agire. Così oggi portiamo incarnate le conseguenze della sua specie-specificità. Accolto finalmente come un evento evolutivo, per quanto ancora ampiamente da decifrare, il linguaggio articolato umano irrompe nella schiera delle «infinite forme bellissime» della natura senza perdere alcunché della sua ricchezza e della sua unicità. Il libro di Falzone e Pennisi ci somministra così a dosi sostanziose - e non senza ironia e provocazione - un potente antidoto alla mitizzazione ritualizzata, talvolta persino idolatrica, dell'innaturalità del linguaggio umano e della sua eccezionalità incommensurabile, un antidoto, o forse un sedativo, all 'escatologia laica salvifica del glottocentrismo. E tuttavia esso è al contempo, meno prevedibilmente, un antidoto anche alle tesi opposte di chi nega centralità al linguaggio stesso come vessillo della diversità cognitiva umana, di chi vorrebbe marginalizzarlo per il solo fatto di averne individuato i precursori naturali, sminuendone l'importanza e ignorando quanto esso abbia irreversibilmente plasmato la nostra vita biocognitiva. Il linguaggio - qui inteso dunque non tanto come mero strumento di comunicazione, quanto come funzione cognitiva profonda è il filo di ragnatela con il quale abbiamo intessuto attorno a noi una nicchia ecologica simbolica alla quale ora dobbiamo adattarci, il bozzolo oltre il quale non si intravede alcuna farfalla. Più ci divincoliamo e più ci imbriglia. Cosicché inevitabilmen11

te, come per una «sindrome di Stoccolma» evoluzionistica, ci siamo innamorati del nostro carceriere. Il colpo di scena, infatti, è che proprio questa centralità innegabile del dispositivo linguistico sarà fatale a noi animali aristotelici. Non c'è via di fuga , perché ciò che maggiormente ci ha reso umani è anche ciò che beffardamente ci avvicina alla fine, il messaggero della nostra imminente estinzione. Il modo in cui l'architettura argomentativa è costruita dagli autori e si innalza con mano sicura di capitolo in capitolo è coinvolgente, innanzitutto perché qui davvero si prende sul serio la necessità di un connubio stretto e coerente fra studi evoluzionistici e scienze cognitive, senza timidezze filosofiche, senza timori reverenziali inconfessabili, nella cornice di un naturalismo compiuto che dà la caccia, implacabile, a ogni residuo dualista. Ma ciò che ancor più colpisce è che questa naturalizzazione evoluzionistica della diversità umana e della sua «anomalia ecologica» viene condotta adottando la versione più aggiornata sul piano sperimentale, e più avanzata sul piano teorico, del programma di ricerca neodarwiniano rivisto, esteso e aggiornato lungo le linee di ricerca più promettenti degli ultimi anni, a cominciare dalla biologia evoluzionistica dello sviluppo. Basti pensare all'uso esteso che qui si fa della nozione di exaptation, o cooptazione funzionale, quel bricolage evolutivo di strutture preesistenti - e dunque portatrici di vincoli con i quali la selezione naturale deve scendere a compromessi - che ha permesso importanti innovazioni naturali e che attraverso il ricablaggio ripetuto e cumulativo dell'ingegneria composita e imperfetta del nostro cervello ha sprigionato le possibilità inedite dell'universo cognitivo umano intrinsecamente linguistico, permettendo a un mammifero africano bipede di grossa taglia di leggere, scrivere e guidare un 'astronave. Non è per nulla scontato trovare questa sensibilità verso l'aggiornamento interdisciplinare reciproco - fra evoluzione e cognizione - in un territorio in cui la psicologia evoluzionistica ancora fatica a emanciparsi dal suo atomismo adattazionista prima maniera. E ciò va a grande merito di questo lavoro filosofico . Certo, l'ipotesi «imprevista, impopolare e drammatica» della seconda parte del libro si regge su presupposti impegnativi che avranno bisogno di approfondimenti. In primo 12

luogo, deve ancora ricevere adeguate conferme sperimentali la fiducia riposta nelle tendenze macroevolutive «prevedibili» che metterebbero in relazione alcune caratteristiche delle specie con la loro longevità e con la prossimità o probabilità di estinzione. Tali correlazioni riguardano solitamente l'eccesso di specializzazione etologica ed ecologica, il tasso di speciazione nelle famiglie e nei generi, il grado di «complessità» (ammesso che se ne indichi una formulazione misurabile e comparabile), la taglia e il ritmo di sviluppo. Si tratta, tuttavia, di modelli semplificati che, oltre ad avere spesso un carattere speculativo (e un soverchiante numero di eccezioni), sembrano talvolta in contraddizione con il carattere ampiamente contingente, non progressivo e altresì irregolarmente ramificato delle filogenesi più avanzate che oggi si possono ricostruire, e che gli autori pure accolgono. Se gli eventi evolutivi non hanno una direzione, anche tempi e modi dell 'estinzione - certa ma indeterminata appartengono al dominio della contingenza storica. In secondo luogo, bisogna capire se e in che modo questi pattern non universali di «propensione» all'estinzione siano realmente applicabili alla giovane specie umana, nonostante essa sia stata capace finora di stabilire un'anomalia ecologica senza precedenti e un assetto comportamentale inedito, cambiando persino le regole del gioco evolutivo proprio in virtù dell' exaptation del linguaggio. In terzo luogo, per reggersi, l'ipotesi è costretta a sottovalutare le stesse potenzialità «exattative» delle nostre facoltà cognitive specie-specifiche, verso le quali pure è ampiamente debitrice l'evoluzione della natura umana. Si presuppone infatti che tali potenzialità di cooptazione e di ricablaggio non saranno in grado da sole di rimediare alla minaccia incombente di un'implosione della convivenza umana dovuta al fatto che la nostra specie - imprigionata dall'esterno nel suo pianeta e dall'interno nella sua camicia di forza linguistico-tecnologica - non può più occupare nuovi spazi ecologici, né dare origine a specie discendenti;ritualizza di meno l'aggressività intraspecifica, mentre in compenso si frammenta in una moltitudine incattivita di «pseudospeciazioni» culturali e linguistiche esacerbate dalla crescita della popolazione e dai conflitti per le risorse. Rimane però il fatto che noi siamo consapevoli di essere ubiquitari e cosmopoliti invasivi, tanto che, appunto, lo verbalizziamo in un libro. 13

Occorre insomma indagare ulteriormente sulle ragioni per cui l'evoluzione avrebbe finora «tollerato» un tratto così altamente controadattativo come il linguaggio, giacché in natura le presunte «patologie evolutive» non hanno vita lunga. Se poi l'evoluzione non è depositaria di valori né di progressi, in che senso diciamo che un tratto è fisiologico o al contrario «patologico»? Fagiani e pavoni, con i loro ornamenti e le loro code abnormi, grazie alla selezione sessuale non se la cavano così male. L'allungamento neotenico del periodo di crescita e di apprendistato è stato molto rischioso per la nostra specie, esposta a lunghi anni di fragilità e di dipendenza dei cuccioli. Eppure questo apparente «disadattamento» deve aver messo sulla bilancia della selezione naturale ben più ponderosi vantaggi, in termini di apprendimento sociale e di trasmissione culturale. Nell'equilibrio instabile di costi e benefici, l'evoluzione trova di volta in volta compromessi onorevoli con il materiale a disposizione e con la storia pregressa. Certo, fino a prova contraria, cioè fino all'esito prima o poi inevitabile dell'estinzione. Tuttavia, scommettere che un intero network di caratteri e di comportamenti, con il suo epicentro multifunzionale nell'area di Broca opportunamente «exattata», sia ora divenuto intrinsecamente e unidirezionalmente controadattativo - e che non sarà mai in grado di produrre i vaccini contro la sua stessa eccedenza di potere «tecnomorfo» - farebbe correre un brivido lungo la schiena anche al più incallito broker. Fermo restando che il campione statistico in nostro possesso è uguale a uno e non abbiamo la controprova di altri «esperimenti» evolutivi falliti per colpa degli effetti traditori del linguaggio. Si tratta però di un'estrapolazione predittiva da considerare attentamente, per il modo in cui qui è vigorosamente difesa. E per il fatto che dal suo pessimismo discendono alcuni insegnamenti valoriali - perché no, etici - davvero preziosi e più che mai controcorrente nell'humus culturale in cui siamo immersi. Certe volte le prognosi contenute nel libro sono così risolutamente infauste che verrebbe quasi da porsi la domanda inversa: che cosa ci facciamo ancora qui? Ma non è questo il punto. Smontando uno per uno gli argomenti di «eccezionalità» umana con i quali amiamo consolarci - nonostante le evidenze contrarie che attestano al contempo la fragilità e la diversità 14

della nostra condizione - questo libro ci restituisce una brillante lezione di umiltà evoluzionistica: guardare all'umano dal reale punto di vista della storia naturale, decentrandone la prospettiva fatalmente antropocentrica, in opposizione all'intera pletora di ideologie antinaturalistiche presenti sul mercato. Raccontandoci poi quanto non siamo indispensabili per la storia naturale che ci ha condotti fin qui, e quanto tornerà a essere fiorente e lussureggiante la natura dopo la nostra vociante dipartita, gli autori ci fanno ripercorrere, con scrittura forte e coinvolgente, un autentico esercizio di «pensiero del finito». La storia naturale non doveva necessariamente portare alla nostra presenza, la quale si rivela per di più transitoria: un fugace intervallo di consapevolezza, linguisticamente mediata, tra un prima e un poi, sterminatamente lunghi, trascorsi senza parole. Nel «prezzo del linguaggio» è inclusa anche questa amarissima scoperta, che può tramutarsi però in un riscatto di emancipazione, se non altro per averlo inteso e per averlo detto, prima che le radici delle foreste tornino lentamente ad avvolgere le fondamenta delle civiltà. In prossimità della probabile estinzione, appesi a una labile speranza di sopravvivenza (in fondo fa parte della nostra specificità biocognitiva anche puntare sulla vertigine dell'impossibile), l'invito è a prendere sul serio l'irrimediabile finitudine della specie parlante, condannata alla semantica e alla sintassi - e dunque anche alla manipolazione strumentale tanto di oggetti quanto di credenze - per guardare in faccia senza compromessi il sempre più congestionato «posto dell'uomo nella natura». Un posto tutto sommato marginale, il cui orizzonte secondo gli autori si starebbe per chiudere già, dopo meno di cinquantamila anni di galoppante evoluzione naturale e culturale, linguistica e tecnologica. Un posto ritagliato da un giunco al vento autoproclamatosi sapiens, un ominide arrampicatosi fortunosamente sulla cima solitaria e zigzagante di un cespuglio, dalla cui sommità ha saputo per breve tempo contemplare e dire a parole la magnificenza di una storia che non lo aveva previsto.

TELMO PIEVANI

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ANTONINO P ENNISI

ALESSANDRA

FALZONE

IL PREZZO DEL LINGUAGGIO

INTRODUZIONE

Questo libro non si occupa dei disastri ambientali o delle catastrofi ecologiche causate dall'uomo, dei crimini che ha commesso nei confronti del paesaggio naturale o delle migliaia di specie animali e vegetali che ha contribuito a cancellare dalla faccia della Terra. E non parla neppure della «sesta estinzione» [Eldredge 1998]: dell'inquinamento delle coste, dei buchi nell'ozono o dei cambiamenti climatici di cui gli ecologisti di tutto il mondo incolpano i governi e le multinazionali che reggono le sorti del pianeta. Non parliamo di questi misfatti (anche se a volte li ricorderemo) non perché siano infondati o poco importanti, ma perché costituiscono solo le avvisaglie di un pericolo ben più grave: quell'antropocentrico autismo biologico da cui non potremo mai difenderci senza tradire cognitivamente la nostra natura umana. Fu proprio un pioniere della psichiatria moderna, Harold F. Searles, ad accorgersene negli ormai lontani anni Sessanta. Mentre, infatti, la storia biologica delle forme viventi è sempre stata determinata dalle interazioni ecologiche con l'ambiente, la specie-specificità della schizofrenia umana - secondo la sua ipotesi - sarebbe stata causata dal nostro abbandono dell' ambiente non umano: un principio dis-adattativo assoluto, foriero della più radicale de-naturalizzazione cognitiva dell'orizzonte antropico. Un principio unitario a cui ricondurre ogni disagio psichico, ma anche una argomentazione critica nei confronti dei modelli psichiatrici e psicoanalitici fondati sull'attribuzione esclusiva di cause inter o intrapersonali dei conflitti, e che, invece, ignorerebbe proprio l'ambiente non umano, ossia la totalità dell'ambiente dell'uomo, a eccezione degli altri esseri umani che vi vivono [ ... ], come se la vita umana si svolgesse in un vuoto, come se la specie umana fosse la sola

19

nell'universo, perseguendo destini individuali e collettivi in un'omogenea cornice di non essere, su uno sfondo privo di forma, di colore e di sostanza [Searles 1960, 5].

Da quella felice intuizione ebbe inizio un periodo di travagliata riflessione sul rapporto fra uomo e natura che nel giro di dieci anni sfociò in un libretto destinato a segnare un'epoca: Gli otto peccati capitali della nostra civiltà di Konrad Lorenz [1973a]. A parte l'ampiezza del dibattito su quei temi che coinvolse, tra i tanti, personalità scientifiche come Irenaus Eibl-Eibesfeldt, Erich Fromm, Claude Lévi-Strauss, André Leroi-Gourhan, Theodor W. Adorno, Walter Benjamin, Jiirgen Habermas, vorremmo qui insistere su un punto di quella discussione tornato oggi di grande attualità grazie alla straripante potenza dell'attuale paradigma cognitivista che lo ha doviziosamente rivisitato e rilanciato, e cioè la «specialità» della mente umana, troppo spesso associata all'ideologia antinaturalistica di molte antropologie e filosofie moderne e contemporanee: l'uomo ha creato i suoi universi simbolici e culturali di significato e di valore e se ne è avvalso come di un diaframma tra sé e la natura, o li ha imposti a sé e alla natura come un modello, talché egli vede ogni cosa, pensa ogni cosa, agisce verso ogni cosa e ogni persona, incluso se medesimo, essenzialmente nel quadro di significati e di fini che egli stesso ha creato e si è imposto [Frank 1951, 456].

Co~temporaneamente, dalla grande lezione darwiniana degli ultimi due secoli abbiamo tuttavia appreso che da un punto di vista naturalistico la mente umana non è affatto cognitivamente «speciale» ma, forse, solo «diversa» da quella degli altri animali: di sicuro, invece, è ecologicamente anomala rispetto a quella di tutte le altre specie. Di fatto le due tradizioni - evoluzionismo e cognitivismo si intrecciano in questo libro la cui principale tesi è che l'anomalia ecologica e la diversità mentale umane siano due facce di una stessa medaglia. Pensiamo, per la precisione, che la specie umana sia diventata ecologicamente anomala proprio perché la sua mente sociale è diventata cognitivamente diversa da ogni altra. E la sua mente sociale è diventata cognitivamente diversa da tutte le altre perché si è casualmente imbattuta nell'ingua-

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ribile morbo del linguaggio: un prezzo troppo alto pagato alla selezione naturale. Anche prima di questo strano incontro, per la verità, gli ominidi apparivano primati piuttosto singolari. Per esempio le femmine ovulavano di nascosto. Quando diavolo dovevano accoppiarsi per potersi riprodurre? Diversamente dagli altri primati maschi che accorrevano a frotte scontrandosi per copulare con le femmine splendidamente rosse e profumate nelle loro evidentissime posteriorità, il «terzo scimpanzé» [Diamond 1992] affinava, invece, pazienti comportamenti sessuali esplorativi. Iniziava così a sviluppare corteggiamenti globali protesi a favorire rapporti costanti e «privati» per meglio intercettare il momento riproduttivo delle femmine: nascevano nuove strutture aggregative composte da nuclei familiari atomici collegati in reti sempre più ampie e territorialmente espansive. L'affermarsi del bipedismo stabile e della stazione eretta in questi gruppi via via sempre più numerosi permetteva, nel frattempo, un ampliamento del ventaglio corticale, un aumento del volume e del peso del cervello, una sincronizzazione sinergica dell'uso dei sensori percettivi audio-visuali al servizio di uno sviluppo intellettivo sempre più raffinato. Gli ominidi, come intuì genialmente Leroi-Gourhan [1964], dovevano vedere e sentire il mondo da una prospettiva topologico-cognitiva ormai diversa da quella di tutti gli altri vertebrati. Inoltre la loro manualità «guadagnata» si rendeva costantemente disponibile per gli usi sociali e privati: si sviluppavano lentamente le prime procedure umane nel tool use e nel tool making. Questi singolari primati, tuttavia, erano destinati a trasformazioni ben più grandi. Con l'avvento del linguaggio verbalmente articolato le loro strutture cerebrali progressivamente sviluppate ricablavano interamente i circuiti neurali dando vita a una nuova macchina cognitiva condannata alla semantica e alla sintassi. Un congegno infernale che obbligava alla rappresentazione categoriale e astratta, costringeva alla tecnologia e, attraverso il potere simbolico delle rappresentazioni, generava valori, opinioni, credenze, religioni. Come se non bastasse, per la sua intrinseca natura articolatoria e composizionale, la parola parlata ben si prestava alla trasmissione delle informazioni extragenetiche e alla loro conservazione nel tempo: nasceva la cumulatività della cultura e il suo strapotere adattativo. Dall'oralità alla scrittura 21

il passo è breve e nel volgere di qualche millennio - il tempo di uno sbadiglio nelle sterminate cronologie evolutive - stiamo qui tutti permanentemente attaccati alla rete telematica del villaggio globale. Proporzionalmente al crescere dell'esuberanza tecnologica e dell'insaziabile libido semantico-rappresentazionale, il linguaggio portava, tuttavia, al sapiens l'allontanamento dall'ambiente non umano. L'uomo sfugge continuamente alle sue radici: diventa il più grande migratore di tutto il regno animale. Espande la sua presenza su ogni angolo della Terra, senza farsi fermare dai confini delle acque, dei deserti, dei ghiacciai. Avendo occupato ogni luogo del pianeta, la specie umana si è di fatto defisicizzata, delocalizzata, è divenuta una presenza ecologicamente ubiquitaria. Questa folle corsa, che ha portato i primi diecimila sapiens a diventare quasi sette miliardi nel giro di poche migliaia di anni, da un lato ha azzerato la capacità biologica di speciarsi e dall'altro ha favorito quella di moltiplicare la frammentazione culturale. Ciò che gli etologi hanno chiamato «pseudospeciazione culturale» è, di fatto, l'avverarsi del sogno antropologico di LéviStrauss [1983, trad. it. 23] , la scoperta della complementarità tra natura e società: l'evoluzione culturale determina l'evoluzione biologica non meno di quanto quella biologica determini quella culturale. Forse non del tutto casualmente, l'anno in cui viene alla luce questa orgogliosa rivendicazione della cultura sulla natura è lo stesso in cui Lorenz traccia un bilancio degli Otto peccati capitali della nostra civiltà confermando la prognosi infausta nella sua nuova creazione: Il declino dell'uomo. In dieci anni il cerchio si è ormai chiuso, le speranze cessate. È ormai chiaro che proprio la culturalizzazione dell'evoluzione naturale è la chiave della condanna umana a una estinzione ormai sempre più probabile: lo spirito umano, creato dal pensiero concettuale, dal linguaggio sintattico e dalla trasmissione ereditaria delle conoscenze tradizionali che il pensiero e il linguaggio hanno reso possibili, evolve con una velocità molte volte maggiore di quella con cui evolve l'anima umana . È per questo che l'uomo spesso trasforma l'ambiente in cui vive a proprio danno, e in danno dell'ambiente stesso. In questo momento l'uomo sta per annientare la comunità di vita del nostro pianeta, la comunità nella quale e della quale l'uomo vive: egli sta, insomma, per suicidarsi [Lorenz 1983, trad. it. 92].

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L'aspetto paradossale di tutta questa faccenda è che per quasi due millenni il pensiero filosofico che ha sempre riflettuto sul linguaggio non si è mai accorto di quanto fosse pericoloso questo diabolico congegno. Da Aristotele a Chomsky la speciespecificità cognitiva umana è stata attribuita univocamente alle capacità non solo di comunicare attraverso il linguaggio ma di creare tanti e diversi mondi linguistici in cui individui e comunità possono identificarsi rispecchiandovisi. Per Heidegger il linguaggio è la «dimora dell'essere». Per Wittgenstein è una «forma di vita». Per la svolta linguistica è l'unica ontologia e l'unica gnoseologia possibile. Il Novecento, che è stato il secolo dell 'egemonia della linguistica su tutte le altre scienze, è rimasto cognitivamente cieco dinnanzi al fallimento ecologico della sua splendida creatura. Poi d'improvviso, con l'ingresso nel terzo millennio, le scienze cognitive che avrebbero dovuto esaltare l'intrinseca linguisticità della mente umana, iniziano in maniera tanto sistematica quanto imprevista a ridurre gli spazi del linguaggio. Agli inizi è il pensiero formale che comincia a rosicchiare il terreno alle parole. Poi dal paradigma neuroscientifico viene pian piano alla luce che il linguaggio è solo uno dei tanti componenti modulari del nostro cervello. Infine nell'ultima fase, quella attuale, in cui le scienze cognitive cominciano a misurarsi con la biologia evoluzionistica, inizia a diventare chiaro che il linguaggio affonda le sue radici nella cognizione animale e, quindi, che l'uomo non può più essere considerato intellettualmente «unico». È da questo strisciante negazionismo linguistico che è cominciata la riflessione critica che vede la luce in queste pagine. Il libro che qui presentiamo, infatti, vorrebbe tentare di individuare quanto di realmente profetico c'è nella scoperta della letalità ecologica del linguaggio e quanto di pregiudiziale e falso è contenuto in molte argomentazioni delle scienze cognitive e dell'evoluzionismo attorno al tema della sua presunta parabola discendente. Per perseguire questo scopo abbiamo tentato di battere la scomoda strada di un naturalismo radicale: quindi del boicottaggio delle contrapposizioni ideologiche fra natura e cultura, struttura e funzione, cervello e cognizione. Un boicottaggio bipartisan: rivolto tanto al naturalismo debole della cultura umanistica, quanto ai modelli biologisti inconsapevolmente intimiditi dall'incontro con le prospettive filosofiche più 23

astratte e blasonate. Appoggiandoci sull'umiltà dei saperi empirici - quindi su una grande quantità di dati prodotti dalle neuroscienze, dalla nuova sintesi darwinista, dall'etologia classica e sulla mai tramontata filosofia linguistica di antica tradizione aristotelica, cerchiamo di esporre qui, non senza timori, una difficile conciliazione tra la centralità cognitiva del linguaggio e la sua micidiale valenza controadattativa. Anche noi pensiamo, con Lorenz, che l'uomo sia a un passo dalla sua estinzione. Ma riteniamo che neanche questo possa essere un buon motivo per negare la sua incancellabile natura di animale linguistico. Nel licenziare il libro ci piace ricordare qualche debito scientifico e umano che abbiamo contratto negli anni in cui lo abbiamo pensato e realizzato. Vorremmo quindi ringraziare Pietro Perconti, Dino Palumbo, Alessio Plebe, Francesco Ferretti, Mario De Caro, Rosalia Cavalieri, Valentina Cardella, Elvira Assenza, Francesco Parisi, Andrea Velardi, Nino Bucca, Anna Assenza e i tanti giovani ricercatori della Scuola di Dottorato e del Dipartimento di Scienze cognitive dell'Università di Messina - in cui sono maturate le ricerche qui esposte - che hanno contribuito con il loro entusiasmo e la loro passione scientifica a discutere e contestare le tesi qui esposte. A Franco Lo Piparo - cui siamo legati da antichi e nuovi legami affettivi - dobbiamo interamente la resistente fede aristotelica nella specificità animale della conoscenza umana. Agli amici più vicini alle nostre esagerazioni naturalistiche - Edoardo Boncinelli, Telmo Pievani, Alessandro Minelli - rivolgiamo un ringraziamento autentico temperato da una richiesta di clemenza per la nostra superficialità da filosofi. Un ringraziamento va anche agli altri amici e colleghi con cui abbiamo in questi anni condiviso l'esperienza organizzativa e scientifica del CoDiSco (Coordinamento dei Dottorati italiani in Scienze cognitive) all'interno del quale sono state elaborate molte delle idee qui espresse: Sandro Nannini, Giovanna Marotta, Giorgio Vallortigara, Francesco Casetti, e tanti altri che qui è impossibile citare singolarmente. Biagio Forino ha creduto fortemente in questo lavoro ed è usare un eufemismo dire che ci ha costantemente spronati affinché vedesse la luce. Mario Gattuso - preside della Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell'Università di Messina - ci ha sempre sopportati e aiutati nei momenti di maggior stanchezza per la complessa situazione universitaria di questi difficili anni: un'amicizia vera di cui gli siamo grati. Grazie, infine, a Dario Tomasello con cui abbiamo iniziato un percorso comune per accostare le nostre riflessioni a quelle sulle arti performative di cui è impareggiabile conoscitore: una proficua strada per il futuro.

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Dedichiamo questo libro a Francesco, Paola, Giovanni e Antonino, sperando che nelle loro giovani vite non siano sfiorati nemmeno per un momento dall'impressione che quello che scriviamo in questo libro possa davvero avverarsi.

Sebbene il libro sia il risultato di una comune elaborazione, la prima parte è da attribuire ad Alessandra Falzone e la seconda parte ad Antonino Pennisi.

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PARTE PRIMA

C'È UN POSTO PER IL LINGUAGGIO NELLE SCIENZE COGNITIVE?

CAPITOLO PRIMO

EVOLUZIONISMO E SCIENZE COGNITIVE

[. ..] quella miscela di psicologia, informatica, linguistica e filosofia che va sotto il nome di scienze cognitive è cresciuta in modo enorme. Come sempre avviene quando l'impegno è vigoroso - che sia ben fondato o no - sono emersi molti punti di grande interesse per tutti [ ... ]. Allo stesso tempo, tuttavia, si è sviluppata una concezione straordinariamente erronea della natura del pensiero, del ragionamento, del significato e del rapporto di questi con la percezione; ed essa minaccia di mandare in pezzi l'intera impresa. G.M. Edelman, La materia della mente, 1993

Le scienze cognitive hanno come oggetto di studio la natura e il funzionamento della mente in un qualunque sistema pensante, naturale o artificiale. Si tratta di un progetto tra i più ambiziosi che siano mai stati avanzati nella storia della cultura occidentale. Un programma di ricerca che mira a spiegare i processi mentali in maniera talmente trasparente che anche una macchina possa poi riprodurli, simulando le procedure delle nostre attività: inferire, dedurre, argomentare, ma· anche essere consapevoli, credere, immaginare, desiderare. Diverse scienze si sono già occupate di questioni simili: certamente la filosofia, la psicologia, la neurologia, la linguistica, l'informatica, che, non a caso, costituiscono gli architravi del cognitivismo, sin dai suoi esordi. La natura delle scienze cognitive, tuttavia, non si identifica con quella di nessuna di queste discipline considerate nella loro separatezza. Più che in un programma generale di declaratorie e scopi, le scienze cognitive si riconoscono, infatti, in un metodo interdisciplinare adottato in tutto il mondo da un numero sempre maggiore di ricercatori di aree diverse. Si tratta di una vera e propria etica cooperativa della ricerca scientifica. Essa ha avuto soprattutto il merito di risolvere problemi che erano divenuti misteri nel chiuso delle singole discipline. Da non molto tempo le scienze cognitive hanno anche una rispettabile storia di oltre mezzo secolo. La riflessione sulla natura della cognizione, nata in ambito cibernetico, si è ormai estesa a macchia d'olio su tutte le scienze umane e naturali. Da Turing, Simon, Newell, siamo giunti oggi a Chomsky, Fodor, Dennett, Pinker, Gazzaniga, Kandel, Damasio, ma anche a Dan Sperber, Ned Block, Daniel Kahneman e Vernon Smith, per non parlare del contributo decisivo che sta dando tutta intera la biologia evoluzionistica.

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Si è trattato di un arricchimento e di una trasformazione, ma non di un processo indolore. L'idea che le abilità cognitive possano essere interamente simulate da procedure algoritmiche appartiene, infatti, alla preistoria delle scienze cognitive. Esistono, tuttavia, molte buone ragioni per credere che quest'idea sopravviva sotto altre forme sia nelle neuroscienze che nella neuropsicologia e nella stessa filosofia della mente. La crisi del computazionalismo classico non ha del tutto cancellato la concezione secondo la quale esisterebbero pensieri trascendenti, percezioni indipendenti, operazioni e procedure universali, stati mentali di natura psicologica. Analogamente l'ideale modulare che sta alla base dell'ingegneria del software non ha smesso di esercitare il suo fascino nei teorici della cognizione. Il computazionalismo ha trasmesso alle neuroscienze l'idea di un cervello-monade che si articola in aree-monadi producendo funzioni-monadi e alla filosofia della mente l'idea che l'insieme di tutte le monadi di cui è composto il nostro sistema cognitivo sia a sua volta una meta-monade inconsapevole. Con questi residui artificialisti e antropocentrici si sta misurando negli ultimi vent'anni la biologia evoluzionistica che ha cercato di spostare ancora l'obiettivo finale collocando il cervello - la metafora ascendente delle attuali scienze cognitive dentro l'organismo vivente. La lezione più grande dell'evoluzionismo contemporaneo è infatti proprio questa: sono gli organismi che si adattano, gli individui, non le loro strutture prese isolatamente, quasi fossero autosufficienti. Studiare il cervello di una specie significa studiarne anche i rapporti con i piedi e le mani, con l'apparato muscolo-scheletrico, con la struttura dell'impianto circolatorio, respiratorio, digerente, nervoso: insomma con tutto l'insieme delle strutture che hanno fissato nel corso della storia evolutiva la tipologia fisiologica della specie. Lo stesso vale sul piano delle funzioni. Un animale capace di linguaggio non solo si esprime in modo diverso, ma percepisce in modo diverso, ragiona in modo diverso, ricorda in modo diverso, desidera in modo diverso, si emoziona e agisce in modo diverso, si rapporta con i suoi conspecifici in modo diverso: ed è pervenuto a tutto ciò grazie all'inesorabile interazione tra il caso e la selezione naturale operanti nel corso di quelle che Giambattista Vico chiamava nel Seicento le «sterminate antichità». 30

Della storia interna di un passaggio tanto travagliato, dalla mente-computer alla mente-organismo attraverso la mentecervello, si parla in questo primo capitolo che ha lo scopo di chiarire come si è giunti all'idea che la mente umana non è altro che l'esito sinora più complesso di una storia evolutiva lunghissima delle strutture e delle funzioni cerebrali.

1. Il paradigma disincarnato Nel 1936 Alan Mathison Turing - nel celebre articolo On Computable Numbers, with an Application to the Entscheidungsproblem - propone al mondo scientifico una macchina formale le cui regole di funzionamento appaiono molto semplici ma che sarebbe in grado di simulare qualsiasi funzione calcolabile. La sua affidabilità è altissima perché opera attraverso procedure totalmente deterministiche. I suoi principi di funzionamento sono la ricorsività (cioè la possibilità di applicare regole che richiamino se stesse per un numero indeterminato di volte) e la finitezza del numero degli stati logici in cui può trovarsi e del nastro su cui scrive e legge i risultati delle elaborazioni. Per funzionare, tuttavia, è essenziale che i problemi a essa sottoposti siano risolubili: ovvero che i calcoli necessari per trovare le soluzioni siano composti da un numero, magari altissimo, ma comunque finito di passi. Il problema dell'arresto (l' halting problem) di una macchina di Turing è, tuttavia, Turing-indecidibile: ovvero non è prevedibile a priori. L'indecidibilità dell' halting problem di una macchina di Turing può essere considerata l'equivalente dei teoremi limitativi dei sistemi formali di Kurt Godel. Entrambi ci raccontano una storia alla fine molto semplice: non tutta la conoscenza umana può essere sottoposta a processi di formalizzazione. Ma di quella parte che possiamo formalizzare dobbiamo fidarci. Qualche anno dopo Turing ci riprova: questa volta - siamo nel 1950 - proietta il suo progetto scientifico di meccanizzazione del possibile sul pensiero stesso. In Computing Machin ery and Intelligence, pubblicato su «Mind», sfida il mondo a dimostrare la capacità di distinguere dalle sole manifestazioni esterne (le risposte date a certe domande) se un ragionamento proviene da una macchina o da un umano. Il test di Turing diventa così 31

il simbolo della prima fase delle scienze cognitive: quella in cui trionfa l'idea secondo cui tutto ciò che possiamo predicare dell'intelligenza umana possiamo anche simularlo attraverso i computer. Nasce l'Intelligenza Artificiale (IA) moderna. Sarebbe un grave errore pensare che Turing escludesse dall'IA, per principio, gli elementi impredicabili della cognitività umana. Al contrario, dell'importanza che può avere per l'essere umano porsi tutti quei problemi che oltrepassano la soglia della conoscenza scientifica egli è così cosciente che decide di renderli espliciti bersagli falsificabili per la sua teoria. È il caso dell' «argomento della autocoscienza», preso molto sul serio. Secondo Turing il paradosso di questa argomentazione è la sua natura ontologica: il solo modo per assicurarsi che una macchina pensa è quello di identificarsi con essa e cercare di descrivere introspettivamente le sensazioni che si provano. Metodo, tuttavia, antiscientifico, seguendo il quale «nessuno sarebbe giustificato nel darvi ascolto» [Turing 1950, trad. it. 179]. Certo l'autocoscienza resta una questione importante e per certi aspetti misteriosa: «c'è per esempio qualcosa di paradossale in ogni tentativo di localizzarla» [ibidem, trad. it. 180]. Si tratta tuttavia di una questione posta troppo precocemente. Accanto alla consapevolezza che problemi - tuttora dibattutissimi - come l'autocoscienza, ma anche la trascendenza (!'«obiezione teologica»), il senso comune, la psicologia ingenua, la vaghezza e indeterminatezza concettuali, persino la percezione extrasensoriale [ibidem, trad. it. 176-187], giocano nella formazione del pensiero umano senza poter essere affrontati nel contesto di un'esplicita teoria monistica della mente, Turing ha ben chiara anche la problematicità della dimensione biologica della cognitività umana. La neurologia, la fisiologia e la morfogenesi furono alcuni dei suoi maggiori interessi a partire dalla fine degli anni Quaranta. Nel 1952 pubblica The Chemical Basis o/Morphogenesis nel quale tenta di applicare i suoi modelli formali allo sviluppo degli embrioni. Si tratta di problemi di «formidabile complessità matematica» [Turing 1952] nei quali si rafforza l'idea direttiva del ruolo della semplificazione, della idealizzazione e, quindi, della potenziale falsificazione riduzionista della realtà biologica. Lo sviluppo degli embrioni, così come l'evoluzione degli individui, sembra a Turing un evento simulabile da macchine che apprendono: 32

C'è una connessione evidente tra questo processo [sviluppo e apprendimento nei bambini] e l'evoluzione. Struttura della macchinabambino ➔ Materiale ereditario. Cambiamenti della macchina-bambino ➔ Mutazioni. Giudizio dello sperimentatore ➔ Selezione naturale [Turing 1950, trad. it. 189] . Il limite di questa assimilazione tra la macchina-bambino e il bambino biologico diventa, tuttavia, il limite invalicabile, nella prima fase delle scienze cognitive, della specificità dell' embodiment cognitivo. Come Lorenz [19736 , trad. it. 306 ss.], Turing utilizza addirittura il caso di Helen Keller per sostenere la tesi della sostanziale indifferenza del problema della corporificazione delle funzioni cerebrali. La piccola cieco-sorda dimostrerebbe la possibilità di apprendimento anche a dispetto dell'assenza delle funzioni percettive elementari come l'udire i suoni o il vedere gli oggetti [Turing 1950, trad. it. 190]. Nell'opera di Turing, quindi, sembra specchiarsi, anticipata, l'intera parabola contemporanea delle scienze cognitive dagli esordi computazionali all'evoluzionismo. Ben presto, tuttavia, la volgarizzazione delle sue idee sfocerà nel progetto dell'IA forte che contraddistingue la prima sterzata epistemologica delle scienze cognitive fondata interamente sulla tesi della riducibilità della cognizione umana alla manipolazione di simboli arbitrari: per capire il modello di Turing del cervello, era cruciale rendersi conto [. .. ] che qualsiasi cosa che un cervello facesse, lo faceva in virtù della sua struttura in quanto sistema logico e non perché fosse nella testa di una persona, o fosse un tessuto spugnoso costituito da un tipo particolare di formazione biologica cellulare [Hodges 1983, trad. it. 16]. La metafora della macchina pensante diventa rapidamente un reale progetto di ricerca organizzato attorno ai centri più importanti della Computer Science: «poiché i calcolatori - scrive Haugeland- possono manipolare "elementi" arbitrari comunque definibili, dobbiamo solo far sì che questi elementi siano simboli e che le manipolazioni da noi definite siano razionali per ottenere una macchina che pensa» [1985, trad. it. 10]. Secondo questa teoria l'intelligenza è solo una funzione dell'organizzazione di un sistema e dei suoi processi operatori sui simboli. Di cosa siano fatti i simboli e le strutture che li manipolano non è pertinente a questa accezione dell'intelligenza. Non abbiamo bisogno di distinguere tra un organismo 33

fisiologico o elettronico per giudicare delle istruzioni attraverso le quali il suo operato si rende manifesto. Gli sforzi teorici delle neonate scienze cognitive sono così orientati tutti a esplicitare sistemi, relazioni e processi operatori della mente, relegando in secondo piano le loro implementazioni in un qualunque genere di hardware, artificiale o biologico che sia. 2. Dalla svolta linguistica alla svolta cognitiva Ci sono interpretazioni contraddittorie sull'avvicendarsi dei principali paradigmi scientifici che hanno attraversato il Novecento. Per certi aspetti, per esempio, non si può parlare di una frattura ma di un pacifico avvicendamento tra l'affermazione del paradigma linguistico e l'affermazione di quello cognitivo. Per altri aspetti, al contrario, le scienze cognitive odierne - come vedremo nel cap. II - sembrano muoversi attorno all'ipotesi di una minimizzazione dell'impatto del linguaggio sulle strutture della cognizione. Infine gli sviluppi più recenti della biologia e della genetica evoluzionista appaiono elementi di ristrutturazione profonda di entrambi i paradigmi, ricostruendo una nuova idea di mente e di linguaggio. Per gli scopi che ci proponiamo in questo libro la questione non è secondaria. L'espressione svolta linguistica è del filosofo americano Richard Rorty che negli anni Sessanta avanza esplicitamente l'idea secondo la quale l'analisi del linguaggio costituisce il metodo per la risoluzione di tutti i problemi filosofici. Si tratta, naturalmente, della formalizzazione dell'idea centrale della semantica di Wittgenstein secondo cui l'unica realtà cui i filosofi possono accedere è la grammatica di una lingua - dove per grammatica si intende l'insieme delle regole che reggono e spiegano gli usi della lingua. La tradizione analitica non è, tuttavia, l'unica depositaria delle ragioni dell'egemonia della linguistica nel Novecento. Essa, infatti, si trova a condividere con lo strutturalismo saussuriano e postsaussuriano, la centralità delle lingue come strumenti della conoscenza. Laddove la filosofia analitica si polarizza sul valore universale di verità insito nell'analisi logica del linguaggio, nella tradizione strutturalista è amplificata la natura sociale e, 34

in un certo senso, l'autonomia della langue dai singoli concreti parlanti. Infine, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, è andata via via affermandosi una terza accezione (estesa), non certo meno influente, della svolta linguistica: quella della grammatica generativa di Noam Chomsky che per la prima volta pone al centro dell'universo linguistico il mentalismo, l'innatismo, la ricorsività delle sue procedure sintattiche e la specie-specificità della sua forma di intelligenza e conoscenza del mondo. Un elemento accomuna certamente le tre versioni della svolta linguistica o, meglio, dell'egemonia epistemologica delle scienze del linguaggio nel Novecento: l'assenza di qualsiasi interesse per la corporeità dei processi linguistici. È questo il motivo per cui, rispetto alle origini computazionali delle scienze cognitive, l'impatto non sembra affatto risultare così forte. La tesi dell'intelligenza come manipolazione arbitraria di simboli non è affatto incompatibile con l'anima semiologica dello strutturalismo, né con l'atomismo del calcolo proposizionale che sta alla base delle logiche analitiche e neppure con il modello di conversione tra strutture superficiali e strutture profonde del generativismo. In realtà sia lo schema jakobsoniano della comunicazione, sia quello della teoria dell'informazione di Shannon e Weaver, sia la black box delle prime grammatiche formali di Chomsky sono immagini del tutto defisicizzate dei processi di codificazione, elaborazione, produzione e comprensione del linguaggio. È vero che con Chomsky - non a caso uno dei pionieri «culturali» delle scienze cognitive - si affermano interessi direttamente connessi con le strutture biologiche degli organismi, primi fra tutti l'innatismo genetico del linguaggio e la nozione di specie-specificità della cognizione linguistica. Ma è altrettanto vero che Chomsky si è tenuto tanto distante da un approfondimento del ruolo dei correlati morfologici periferici e centrali del linguaggio da essere addirittura, oggi, un fiero avversario della biologia evoluzionistica (cfr. cap. III, § 3 .1). Come vedremo in seguito, la pur imprescindibile centralità scientifica di Chomsky è stata comunque sempre declinata sul versante delle procedure formali della sintassi che, anche costituendo indubbiamente l'aspetto più rilevante delle procedure linguistiche, non esaurisce affatto il tema della loro natura

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biologica. Per iniziare a capire dove tali procedure fisicamente si svolgano, quali organi coinvolgano, in che modo interagiscano tra loro, come si interfaccino con la realtà esterna ecc., occorrerà tuttavia aspettare l'ascesa delle neuroscienze.

3. Dalle neuroscienze alla biologia della mente L'incompatibilità tra il predominio delle scienze cognitive e quello delle scienze del linguaggio, o meglio l'inadeguatezza di queste ultime a dar ragione delle funzioni cognitive, si manifesta in modo sempre più marcato con la progressiva biologizzazione della Teoria della mente. Il primo stadio di questo processo si è chiaramente delineato con l'indiscussa egemonia scientifica raggiunta dalle neuroscienze nel corso degli ultimi vent'anni. Si tratta, tuttavia, di un processo tuttora in corso e di cui non si riescono ancora a scorgere con precisione i confini. Per certi aspetti, come vedremo, la strada della biologizzazione delle scienze cognitive può essere lastricata di clamorose sorprese e prospettive impreviste che potrebbero divaricare in maniera decisiva la ricerca interna a un paradigma rimasto sinora unitario. L'idea di fondo che ha accompagnato la conversione delle origini computazionali delle scienze cognitive verso i lidi neuroscientifici è, infatti, quella della naturalizzazione della mente. La mente computazionale è una mente artificiale: nasce all'interno stesso della prospettiva simulazionista. In un certo senso nessuno studioso, anche tra i sostenitori più estremisti dell'IA forte, ha mai davvero creduto che la metafora del computer potesse esser altro che un metodo, una filosofia. Al contrario, nel paradigma neuroscientifico, in linea di puro principio, mente e cervello coincidono davvero. Il cervello non è più una metafora della mente. In un certo senso «è» la mente stessa. Sebbene densa di problemi di natura filosofica e tecnica, l'ipotesi neuroscientifica, così come è stata finora proposta, è radicalmente monistica. Si tratta, ormai, «semplicemente», di associare sedi neuronali a comportamenti, completare la matrice causalistica delle funzioni con le strutture, ricostruire la mappatura completa del rapporto tra fatti mentali e fatti cerebrali. Su questa ipotesi si radica la tendenza a naturalizzare tutti i saperi connessi alle scienze cognitive.

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Il programma di naturalizzazione delle conoscenze è tuttavia appena ai suoi inizi e sembra inoltre un metodo niente affatto privo di problemi e interpretazioni contraddittorie. Le diverse componenti interne alle scienze cognitive, infatti, sembrano intendere con questo termine approcci molto diversi tra loro. L'assunto che sembra comunemente condiviso si riduce spesso alla (buona) intenzione di trattare i fenomeni mentali come fenomeni naturali. Per chi si occupa esclusivamente di fenomeni naturali questa asserzione è abbastanza ovvia: un neuroscienziato studia il cervello attraverso l'analisi istologica, neurobiologica, biochimica, neurofisiologica e strumentale (brain imaging). Il suo metodo è legato a un'attività sperimentale minuziosa e proceduralmente assai ngorosa. In modi molto diversi, anche per lo psicologo la «naturalizzazione» del campo non è altro che un sinonimo del metodo sperimentale applicato a un preciso tentativo di individuare il rapporto tra i comportamenti e le ipotesi neuropsicologiche. Questa specificità della psicologia già complica non poco la trasparenza delle operazioni di analisi cognitiva: che cos'è, infatti, un comportamento se non la formalizzazione di osservazioni su ciò che i soggetti analizzati compiono in termini di funzioni più o meno complesse che necessitano, innanzitutto, di essere pre-definite perché possano essere considerate costrutti falsificabili? Anche i linguisti, infine, operano senza sostanziali dubbi in un ambito in cui non è eccessivamente problematico sposare un programma di naturalizzazione delle conoscenze. Seppure a proporzioni invertite rispetto a psicologi e neuropsicologi, i linguisti, infatti, sono chiamati a monitorare il rapporto tra fenomeni materiali (misurabili) e immateriali (dedotti): il rapporto, cioè, tra i comportamenti linguistici esplicitamente osservabili e le ipotesi di funzionamento di entità non più materiali come la competenza grammaticale, sintattica e semantica. Queste ultime, tuttavia, sono a loro volta ipoteticamente ma certamente connesse alle attività cerebrali: quindi sono, almeno in teoria, anche sperimentalmente dimostrabili. L'integrazione fra neuroscienze, neuropsicologia e neurolinguistica è oggi, di fatto, del tutto soddisfacente nella prassi di ricerca delle scienze cognitive. Essa opera attraverso una 37

vera sinergia metodologica: la circoscrizione delle aree sub e neocorticali nella topografia neuroscientifica sarebbe impossibile senza il riscontro dei comportamenti effettivi, linguistici (e non), e della loro interpretazione «immateriale» - cioè puramente deduttiva - in termini di una teoria esplicativa del funzionamento interconnesso dei sistemi di competenze (inferenze, lettura della mente, percezione, sintassi, semantica ecc.). Come vedremo per esempio nel cap. III, una delle più avanzate ipotesi neurolinguistiche - l'interpretazione di Grodzinsky della questione dell'afasia - non sarebbe neppure materialmente «osservabile» senza un'ipotesi altamente astratta e deduttiva come quella della teoria della traccia di Noam Chomsky. Tale ipotesi è tuttavia epistemologicamente falsificabile perché formula predizioni che i metodi neuroscientifici potrebbero con certezza smentire. Della massima importanza è, infine, che questo genere di integrazione disciplinare produce risultati applicativi di cui è facile misurare l'efficacia: tutto il settore delle terapie riabilitative cognitive e linguistiche ne è un chiaro esempio. Una regola abbastanza sicura è che man mano che ci si allontana da un mestiere originariamente centrato sulla natura materiale del proprio oggetto di studio e più vocazionalmente incline a maneggiare interpretazioni e ipotesi, l'applicazione del termine naturalismo appare sempre più problematica. L' assunto precedente può quindi essere ora riformulato in termini di una nuova domanda: per un filosofo, il quale esercita una professione che ha a che fare direttamente non con i sostrati materiali delle idee e dei concetti, ma con le idee e i concetti, che cosa vuol dire considerare i comportamenti mentali comportamenti naturali? Per Quine [1969], Goldman [1967] e Dretske [1969] - a cui dobbiamo la prima formulazione compiuta del naturalismo filosofico - significava praticare l'eutanasia filosofica: la filosofia non deve far altro che dissolversi nella conoscenza scientifica adottando i metodi delle stesse scienze naturali, in particolare della fisica. Una formulazione più moderata è quella che sostiene una divaricazione tra i problemi filosofici che possono essere trattati attraverso i metodi delle scienze naturali e quelli che non appaiono riducibili a essi. I sostenitori di questo «naturalismo liberale» - tra cui McDowell, Millikan e Sellars - tendono a 38

collocarsi al centro ideale della disputa, ma rischiano di usare una coperta che lascia scoperti sia i piedi che la testa del dibattito. Aprire a una dimensione del pensiero inaccessibile ai metodi naturalistici può voler dire, infatti, ammettere che per questo genere di problemi potrebbero essere immaginate soluzioni di tipo dualistico. Un'ipotesi del genere non può coesistere con il programma delle scienze cognitive, almeno dalla sua seconda fase in poi. Chi la volesse seguire dovrebbe praticare una cesura schizofrenica: entrare nel portone del palazzo cognitivista quando tratta problemi filosofici naturalizzabili (per esempio il linguaggio, la visione, la percezione, l'ontologia ecc.). Uscire dallo stesso palazzo e tornare a fare il cartesiano part-time quando parla di anima, soggettività, coscienza, religione e così via. Due sono le scappatoie possibili che la filosofia della mente potrebbe imboccare per evitare o mascherare i dualismi impliciti nei problemi non trattabili. La prima consisterebbe nella (ragionevole) riduzione dei problemi non trattabili ai problemi trattabili: per esempio, considerare il problema dell'anima, della soggettività, della coscienza ecc. come problemi di natura linguistico-concettuale. La seconda nel sostituire versioni molto più semplificate di tali problemi ai problemi stessi: per esempio, sostituire lo studio degli automatismi neurofisiologici con quello del problema della coscienza estesa, quello degli stati di alterazione epilettiforme nelle crisi mistiche con quello del problema del senso religioso e così via [cfr. Newberg e D'Aquili 2001; sed contra Nucera 2009]. Per gli scopi che qui ci proponiamo è sufficiente dire che solo pochi studiosi hanno imboccato la prima strada, mentre la maggior parte di loro si è riversata sulla seconda. Si è così verificato che - probabilmente per motivi di natura storica, per una sorta cioè di filosofico senso di colpa per l'incondizionato affermarsi della svolta linguistica nella prima metà del Novecento - quella che doveva essere un'autostrada è diventata un viottolo solitario percorso con molto timore; e, viceversa, quella che doveva essere una nascosta stradina di campagna senza pretese è diventata una battutissima superstrada. Certamente la svolta linguistica, almeno sotto le ingannevoli spoglie della vulgata wittgensteiniana, non è esente da

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responsabilità filosofiche gravi per questo pessimo risultato. Soprattutto di due di queste si sta pagando lo scotto in questa fase del dibattito. La prima è che non tutti i problemi filosofici sono problemi linguistici, né il sapere linguistico è l'unica forma di certezza, seppur relaÙva, su cui possiamo contare. Il grande merito delle scienze cognitive è stato proprio quello di dimostrare come alla formazione delle cognizioni concorrono una serie di abilità parziali dotate di una loro - altrettanto parziale - autonomia: è la cosiddetta «architettura modulare della mente». Nell'insieme continuo di queste abilità, e delle entità conoscitive che da esse derivano, c'è un punto, tuttavia, in cui il contatto diretto tra l'abilità (la capacità, la funzione ecc.) e il suo prodotto viene interrotto. Diventa impossibile raccordarli senza la mediazione di una funzione rappresentazionale che, nella specie umana, si identifica con il linguaggio (cap. III). Non può esistere alcuna soluzione o anche trattazione di problema - non spiegabile in termini neuroelettro-fisiologici - che non cominci con la fatidica frase: «io per x intendo a, b, e, n ... ». Quando non è così è solo perché si dà per implicita. Non può esistere un qualunque costrutto cognitivo complesso, cioè, che non parta, consapevolmente o meno, dalla circoscrizione linguistica dei termini che si usano per costruire le predizioni, scientifiche e non , sul mondo. Vedremo nella seconda parte del libro che questa mediazione rappresentazionale può essere interamente ricondotta alla configurazione etologica e bio-culturale umana, determinando non solo le sue potenzialità ma, probabilmente, anche la sua condanna sul piano ecologico-evolutivo. L'altra responsabilità imperdonabile della svolta linguistica, quella che condivide, tuttavia, con la fase computazionale delle scienze cognitive, è il suo sostrato platonista, la mistica della circolarità immateriale del segno linguistico, il cancro idealistico dell' autoreferenzialità. Il corpo del soggetto parlante, come il corpo stesso della referenza , è stato - soprattutto nella filosofia analitica e nello strutturalismo, ma anche, in buona parte, persino nella filosofia linguistica chomskiana - il grande assente. L'aristotelica bio-cognitività espressa dall'animale umano nell'atto stesso di costruirsi il mondo attraverso parole e discorsi [Lo Piparo 2003] è stata totalmente misconosciuta in quello che pure è stato considerato il secolo del linguaggio. 40

Tenuto conto di tutti i peccati commessi dall'ideologia totalizzante della svolta linguistica, nulla può tuttavia giustificare l'attuale tendenza delle scienze cognitive, e in particolare della filosofia della mente, a banalizzare il ricorso alla naturalizzazione della conoscenza interpretandola come una sua riduzione alle funzioni prelinguistiche dei sistemi cognitivi. Non è affatto infondata l'ipotesi che la core knowledge - ovvero l'insieme dei moduli fondamentali di qualsiasi forma mentale animale, come il riconoscimento dei volti o l'orientamento spaziale - possa preesistere rispetto alle capacità linguistiche umane. Ma l'insieme di queste capacità, proprio perché si sono evolute a partire da forme strutturali precedenti, ha subìto certamente, all'interno dell'organismo adattato, una trasformazione. Il modulo prototipico della categorizzazione degli artefatti, per esempio, in una mente che si è evoluta a partire da un organismo che utilizza il linguaggio come specifico formato rappresentazionale - e che, quindi, ha un altro corpo, un altro cervello, un'altra organizzazione cognitiva - diventa un'altra abilità, ben più raffinata e complessa. Lo stesso vale per qualsiasi altra funzione cognitiva non linguistica come la lettura della mente, la percezione delle immagini mentali, le stesse categorizzazioni percettive olfattive, tattili, cinestetiche. Ciascuna di queste funzioni può certamente essere riscontrata in altre specie animali o nei bambini prelinguistici. Quando tuttavia viene a maturazione cognitiva integrale il dispositivo bio-linguistico nell'uomo (non prima dei quattro anni) la lettura della mente diventa un sofisticato sistema di previsione di eventi astratti, la categorizzazione sensoriale si decontestualizza dalla presenza degli stimoli divenendo lessico, il potenziale inferenziale si moltiplica in progressione geometrica articolandosi entro lunghe catene di calcoli. L'evoluzione non riguarda le singole strutture o i singoli moduli ma gli interi organismi viventi e, selettivamente, le singole specie, ognuna delle quali ha debiti con il passato ma anche crediti per il futuro: un nuovo posto, del tutto inconfondibile, nella biodiversità. Quanto questo posto sia precario sul frigido e neutrale piano dell'adattamento selettivo, ovvero se possa collocarsi nei pressi del paradiso oppure a un passo dall'inferno, è tutt'altra questione, che affronteremo nella seconda parte del libro. In un certo senso, quindi, l'obiettivo naturalistico è esattamente l'opposto di quello perseguito dall'attuale filosofia 41

della mente. Non si tratta di capire in che modo certe funzioni cognitive prelinguistiche mediano l'esercizio della funzione linguistica, ma in che modo la specie-specificità della funzione linguistica riconverte in un nuovo organismo mentale l'insieme delle funzioni cognitive che non hanno una natura prevalentemente linguistica (cap. III, § 4 ). Tutto ciò non ha più nulla a che fare con il panglottismo idealistico della svolta linguistica, né con il paradigma computazionale. La funzione linguistica naturalizzata è il focus della variabilità evolutiva introdotta non in moduli astratti ma in complessi organismi biologici. È il programma di Gerald Edelman per la terza fase del nuovo paradigma: bisogna riuscire a includere la biologia nelle teorie della conoscenza e del linguaggio [ ... ] sviluppare un'epistemologia dai fondamenti biologici, una descrizione che spieghi alla luce dei fatti dell'evoluzione e della biologia dello sviluppo come conosciamo e come abbiamo consapevolezza [1992, trad. it. 390].

4. Per una storia naturale della mente

Non è un caso che proprio Edelman sia stato uno dei primi a intravedere la grave crisi del nuovo paradigma nel momento stesso in cui sembrava esser giunto al suo punto di maggiore affermazione attribuendole a «una concezione straordinariamente erronea della natura del pensiero, del ragionamento, del significato e del rapporto di questi con la percezione che minaccia di mandare in pezzi l'intera impresa» [ibidem, trad. it. 353]. Ciò che Edelman rimprovera alle attuali scienze cognitive non è soltanto l'adozione da parte degli psicologi, dei linguisti e degli informatici di una prospettiva mentalista iperformalizzata, ma anche il cedimento persino dei neuroscienziati a quella «frode intellettuale» che ci fa «attribuire le caratteristiche delle costruzioni mentali umane (come la logica e la matematica) al ragionamento umano e al mondo macroscopico in cui viviamo» [ibidem, trad. it. 354]. In realtà i sistemi cognitivi naturali non sono della stessa natura della loro piccola sottoparte «calcolistica». La percezione non funziona con le regole della categorizzazione, delle logiche booleane o dell'IA. Il pensiero, la memoria e il linguaggio scaturiscono dal corpo e dal cervello e non operano tramite significati 42

trascendentali ma attraverso contrattazioni semantiche prodotte dall'interazione con i conspecifici e con i processi di incorporamento delle conoscenze. Ma se il quadro critico risulta chiaro, le prospettive costruttive restano ancora in alto mare. All'abbandono dell'Intelligenza Artificiale sembra non aver fatto riscontro un'adeguata revisione dei fondamenti biologici delle neuroscienze. Queste ultime, in realtà, sembrano mostrare un effetto-memoria rispetto ai metodi artificialisti: troppo spesso il cervello assomiglia a un computer più di quanto l'innocua metafora possa far pensare. Per certi versi sembra inarrestabile la tendenza della ricerca «normale» a risolvere i problemi della cognitività umana nella pura rappresentazione neurotopografica o negli schemini iperesemplificativi della psicologia cognitiva. L'appagamento per le mappe cerebrali e per i loro procedimenti di accensione e spegnimento sembra, al momento, aver anestetizzato i dolori della critica edelmaniana. Eppure sappiamo da sempre che tutte le tecnologie di neuroimmagine - dalla Pet alla risonanza magnetica funzionale - ci indicano solo la localizzazione dell 'eccitazione di determinati gruppi di cellule nervose nel momento in cui si svolge una certa attività mentale. Come ci ricorda Libet [2004, trad. it. 26], non sappiamo invece né quali generi di attività stiano svolgendo le cellule nervose, né i tempi di sincronizzazione tra eventi cellulari, eventi mentali e comportamenti visibili. Questo genere di carenze mal si sposa con le certezze esibite dalle attuali neuroscienze. Gli studi di elettrofisiologia che si occupano proprio della tempistica dei fenomeni mentali ci dicono, per esempio, che la traccia neuroelettrica che attesta l'avvenuta percezione di un dato evento (visione di un oggetto, ascolto di un suono ecc.) comporta sempre il trascorrere di un lasso notevole di tempo: praticamente - se si esclude la percezione tattile - esiste sempre un ritardo di almeno 0,5 secondi tra qualsiasi stimolo e la sua percezione consapevole. Questo ritardo sistematico - a parte le conseguenze interpretative di natura neuropsicologica e filosofica che ha generato nell'ambito degli studi sulla coscienza e sull'intenzionalità - ha intanto un valore generale. Significa, infatti, che nel momento in cui guardiamo le mappe delle attività neurocerebrali stiamo osservando solo le conseguenze innescate da meccanismi e luoghi 43

generativi probabilmente diversi da quelli che si «accendono» dinnanzi ai nostri occhi. È persino possibile, scrive Libet, «che le aree che mostrano un aumento dell'attività non siano siti di importanza primaria per l'inizio o l'organizzazione delle funzioni che si stanno controllando. I siti primari potrebbero essere più piccoli e mostrare cambiamenti molto più deboli nelle immagini di misurazione» [ibidem]. Scambiare la localizzazione con la ricostruzione funzionale degli eventi cognitivi non è l'unico prezzo che le neuroscienze pagano ai residui del modularismo computazionale. La concezione atomistica delle strutture neuronali, il disinteresse per i meccanismi di apprendimento sociale tra conspecifici e per la natura dei processi di selezione evolutiva delle funzioni specie-specifiche, sono tutti elementi che rientrano di diritto in quella «concezione straordinariamente erronea della natura del pensiero» a cui bisogna porre riparo in questa terza fase delle scienze cognitive. La concezione atomistica delle strutture neuronali e della loro configurabilità in reti ripropone, per esempio, gli stessi problemi epistemologici del connessionismo classico. L'idea di fondo è che tutti i neuroni siano entità semplici poste su un eguale piano gerarchico e che le prestazioni cui danno luogo dipendano dalla quantità delle entità impiegate e dalla tipologia delle reti che disegnano. Un problema ben noto anche nell'ambito della filosofia analitica, dei linguaggi formali, della logica proposizionale, e di tanti altri costrutti riduzionistici fondati sul primato della «calcolabilità». La qualità sarebbe, in tutti questi casi, una funzione della quantità organizzata. L'alternativa biologica a quest'idea di complessità esclusivamente composizionale è oggi tracciata dalle nuove frontiere della genetica molecolare. Si tratta di un programma di ricerca fondato sull'idea che le differenze di prestazione nei processi cognitivi siano già inscritte al livello involontario e innato delle cellule e dei complessi macrocellulari. Non si tratterebbe più, quindi, di studiare solo i diversi modi in cui si combinano le configurazioni di «paria» cellulari, ma di riflettere attorno ai modi in cui gerarchie diverse di molecole specializzate «si cercano» per aggregarsi in domini altrettanto specifici di funzioni cognitive [Edelman 1988; Arshavsky 2006]. Per motivi specularmente opposti, altrettanto importante quanto la riscrittura delle gerarchie genetiche dei complessi neu-

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rali è la considerazione che dovrebbe assumere la modalità con cui avviene l'apprendimento interattivo con i conspecifici. Secondo Edelman [1992], infatti, dobbiamo al modello della «autoelevazione semantica» la categorizzazione concettuale specifica umana. Essa funzionerebbe da modalità di ricompensa e apprendimento, sotto condizioni di categorizzazione, degli sforzi per riconoscere sotto una comune forma fonologica l'oggetto comunemente percepito sia dal bambino che dalla madre. Nei modelli più sofisticati prima di Bruner [1983] e poi, soprattutto, di Tomasello [1999, trad. it. 122], l'«attenzione condivisa» sarebbe un processo di focalizzazione del senso che coinvolge, in uno specifico e contestualizzato atto di cooperazione comunicativa, due o più conspecifici appartenenti a una medesima «forma di vita» (su questo punto torneremo nel cap. VII, § 3.2). Affinare i metodi di localizzazione e visualizzazione cerebrale con il timing neurofisiologico degli eventi funzionali; topografare la specializzazione genetica macromolecolare delle funzioni; ricostruire i processi di apprendimento etologicamente specie-specifici: sono tutti esempi di un possibile programma di biologizzazione delle neuroscienze. Ma, evidentemente, non basta. Per definire una «teoria biologica generale della funzione cerebrale» [Edelman 1992, trad. it. 388] occorre entrare nel cuore della prospettiva evoluzionistica attuale. La teoria dell'evoluzione nasce ufficialmente nel 1859 con L'origine delle specie per selezione naturale, di Charles Darwin, che si contrapponeva, su alcuni principi centrali, alla Philosophie zoologique di Jean-Baptiste Lamarck [1809]. Quest'ultimo sosteneva che gli organismi, così come si presentano, sono il risultato di un processo graduale di modificazione che avviene sotto la pressione delle condizioni ambientali. Lamarck è il primo proponente riconosciuto della teoria dell'adattamento tramite l'uso. Celebre è il suo esempio dell'evoluzione del collo della giraffa che si sarebbe esteso in lunghezza grazie allo sforzo che l'animale avrebbe esercitato per raggiungere le foglie più alte degli alberi, sottraendosi quindi alla competizione per il cibo . con gli altri animali della savana. Oggi sappiamo che la selezione naturale opera sulla base della maggiore adattività all'ambiente che la struttura genetica delle diverse specie determina. La giraffa sarebbe sopravvissuta perché dotata di suo (cioè geneticamente

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( Fono;:~;~·;··················································1

1···························································

Oggetto 1 (gatto) Oggetto 2 (ripetizione)

l (Semantica)

Oggetto M

{circostanze diverse, frasi diverse

t ···························► ( Sintassi ) ◄

······················--'

Cervello del bambino

Controllare l'attenzione (9-12 mesi)

Seguire l'attenzione (11-14 mesi)

Dirigere l'attenzione (13-15 mesi)

Impegno congiunto

Seguire la direzione dello sguardo o la direzione indicata

Indicare con funzione imperativa

Ostacolo sociale

Apprendimento imitativo

Indicare con funzione dichiarativa

Mostrare un oggetto

(Riferimento sociale)

(Linguaggio referenziale)

F1G. 1.1. Modelli di apprendimento interattivo con i conspecifici: in alto Edelman (1 992,

trad. it. 201]; in basso Tomasello (1 999, trad. it. 86].

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attrezzata) di un collo lungo che, effettivamente, le permetteva di sottrarsi alla competizione per la sopravvivenza. Lamarck sosteneva anche la tesi della trasmissione dei caratteri acquisiti. Secondo questa tesi anche tutto ciò che durante la vita di un individuo si modifica viene lasciato in eredità ai propri discendenti. Anche questa si è rivelata una ipotesi senza alcun riscontro nella genetica moderna. Il merito principale della teoria darwiniana è quello di aver capito che la nascita di nuove specie, la differenziazione e tutti gli altri meccanismi che determinano la biodiversità dipendono dalla selezione naturale di variazioni casuali congenite, e che l'uomo discende in continuità dagli altri primati. Il neodarwinismo (o sintesi moderna) - che tiene in pari conto sia l'approccio empirico naturalistico sia le conoscenze genetiche attuali - è giunto, nel corso di un lungo dibattito ancor oggi assai acceso, a precisare tutte le limitazioni intrinseche alla teoria della selezione naturale, cercando di sfrondarla dalle possibili derive teleologiche. È sostanzialmente accettato oggi che la selezione naturale opera nel quadro delle restrizioni imposte dalla fisica e dalla chimica, concordemente con le leggi dello sviluppo della forma (evo-devo, cfr. cap. IV, § 1), con il determinismo eco-etologico e, per quanto riguarda l' evoluzione delle fun zioni, con i fenomeni di exaptation e con quelli dell'evoluzione culturale. Costitutiva di questo contesto evolutivo moderno entro cui le scienze cognitive potrebbero rientrare, nell'ipotetica «terza fase» che stiamo qui delineando, è l'asimmetria del rapporto tra l'evoluzione delle strutture e quella delle funzioni. L'assemblaggio fisiologico delle strutture anatomiche negli organismi viventi è governato, infatti, dal più assoluto continuismo: «natura non facit saltum» è il principio più antico delle scienze naturali. A partire dalla Philosophia botanica di Linneo [1751] sino a Darwin prima e alla nuova sintesi oggi, nessuno può mettere in discussione che una qualunque mutazione casuale può innestarsi attraverso la selezione naturale solo su uno stadio fisiologico precedente. Ciò, invece, non vale sempre per le funzioni . Solo il primo passo di una trasformazione funzionale è contenuto nella storia della struttura anatomica che la esercita: ovvero (quando riesce) è un adattamento vero e proprio. Ma il secondo, il terzo, l'enne-esimo passo funzionale possono seguire strade

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imprevedibili e lontane dalle funzioni originarie per cui una data struttura si è evoluta: in questo caso non si potrà p arlare di adattamento ma di exaptation [Gould e Vrba 1982] , ovvero di una nuova funzione che si innesta in una componente dell'organismo per la quale non era stata precedentemente selezionata. Naturalmente anche i cambiamenti esattativi sono poi soggetti alla selezione naturale (cap . IV, §§ 1 ss.) . Come vedremo in dettaglio nel cap. III, §§ 1 ss., proprio le scienze cognitive non possono fare a meno di strumenti esplicativi che tengano conto della dialettica tra continuità strutturali e realizzazioni funzionali, come la coppia adattamento/exaptation. Non è un caso che per certi aspetti paradossali la biologia evoluzionista e le scienze cognitive potrebbero addirittura entrare in rotta di collisione epistemologica. La ricostruzione evolutiva, infatti, è per sua natura intrinsecamente diacronica, laddove le operazioni mentali che devono essere spiegate dalle scienze cognitive sono, per definizione, processi paralleli e squisitamente sincronici. In altri termini, per chi descrive le regole di funzionamento di un evento mentale potrebbe essere del tutto superfluo conoscere la storia delle strutture di cui sono materiati i corpi che le applicano. Ma se la storia delle funzioni non può essere sempre ricondotta agli adattamenti evolutivi graduali estendendosi in tempi e spazi logici diversi e imprevedibili, allora il lavoro del biologo evoluzionista diventa uno straordinario strumento di sintesi «sincronica». Quello che in molte altre discipline naturalistiche è spesso volutamente lasciato nell'ombra, nelle scienze cognitive deve essere reso, per forza di cose, un presupposto esplicito: per descrivere gli apparati e le procedure cognitive è essenziale che li si possa paragonare per evidenziare quanto siano simili e quanto siano diversi tra loro. Primati non umani e umani, per esempio, fra i tanti tratti analoghi, hanno in comune il 98% delle caratteristiche genomatiche, le strutture sociali fondate sul social Learning e sulle cure parentali, le forme di comunicazione e trasmissione delle conoscenze che generano innovatività e variazione culturale, e anche uguali tendenze a forme di aggressività intraspecifica. In quel 2 % di distanza genetica, tuttavia, si nascondono evidenti differenze funzionali: gli umani mostrano organizzazioni sociali fondate sull'agricoltura e sull'allevamento, sulla urbanizzazione, sulla divisione del lavoro e sulla specializzazione funzionale, sulle

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gerarchie culturali ed economiche, sull'articolazione capillare dei saperi tecnologici; capacità imitative, creative e di trasmissione fondate sull'irreversibilità, sull'accumulazione delle conoscenze e sull'enorme variabilità dei costumi culturali; un linguaggio che è strumento non solo di comunicazione ma di produzione di idee e concetti, di categorizzazioni astratte e indipendenti dal contesto; purtroppo anche di uno sviluppo dell'aggressività che ha prodotto un ininterrotto stillicidio di conflitti e di guerre, di pseudospeciazioni culturali, sfociate in nazionalismi, odi etnici e razziali, apartheid e olocausti. Che scienza cognitiva sarebbe quella che descrivesse il funzionamento delle menti senza precisarne le caratteristiche strutturali e funzionali che la storia evolutiva ha reso speciespecifiche? Che scienza cognitiva sarebbe quella che azzerasse le diversità e la complessità delle procedure mentali che ciascuna specie mette in atto per risolvere problemi uguali p er tutti sin dagli albori della vita sulla Terra: come riprodursi, come procacciare il cibo, come difendersi dai n emici, come educare i figli, come organizzare al meglio il funzionamento delle società, come comunicare con i conspecifici? Solo all'interno di questo quadro generale delle similarità e delle differenze, dei percorsi graduali e delle rotture improvvise che la storia evolutiva orientata dal caso (mutazioni genetiche, exaptation ecc.) e dalla necessità (replicazione genetica, selezione naturale ecc.) ha generato senza alcuna possibilità di prevederne gli sviluppi futuri , è possibile avviare la terza fase delle scienze cognitive. Si tratta di un quadro generale che è appunto quello della biologia evoluzionistica, scienza ormai totalmente maturata, depurata da qualsiasi sostrato ideologico e da ogni residuo di teleologismo. Una scienza che, proprio per tali motivi, deve essere in grado di parlare appropriatamente della specificità della mente umana ma fuori da ogni prospettiva antropocentrica. Il fatto che la mente umana sia fortemente specie-specifica, infatti, non significa affatto che essa viva al di fuori delle leggi naturali che regolano l'ecologia dei sistemi viventi . Anzi, una prospettiva radicalmente naturalistica non può esimersi dal collegare le proprietà intrinseche dei sistemi cognitivi (le sue capacità o potenzialità specifiche) con i profili adattativi che ne hanno determinato le capacità espansive o il confinamento in nicchie ecologiche dedicate (cap. IV, § 2). 49

Similarità e specificità strutturali, similarità e specificità funzionali, similarità e specificità ecologiche tutte filtrate da un rigoroso metodo sperimentale: ecco delinearsi il paradigma biologico della scienza cognitiva del nuovo secolo. Il conflitto tra questo nuovo metodo e i problemi che scaturiscono dall'analisi della specificità funzionale dei diversi organismi, individui e sistemi cognitivi resta, tuttavia, un grande problema del paradigma attuale delle scienze cognitive. La specificità umana, per esempio, è caratterizzata da comportamenti che, almeno a prima vista, sembrano difficilmente conciliabili con un rigoroso metodo sperimentale. Il comportamento cosciente, creativo, artistico, religioso, etico, estetico degli umani coinvolge, infatti, la dimensione soggettiva della cognizione. È possibile naturalizzare l'analisi della soggettività attraverso il paradigma biologico sin qui tratteggiato? È nostra opinione che per rispondere a queste domande occorra rassegnarsi a un lungo periodo di paziente analisi dei dati: si tratta di problemi che non possono tutti trovare un'immediata risposta e sui quali la comunità cognitivista sta comunque lungamente dibattendo [cfr. Falzone 2008]. Di certo non affronteremo in questa sede tali problemi. Qui basterà accennare alla tesi di fondo di questo libro: che esiste, cioè, solo una dimensione della ricerca che permette di tenere tutto assieme, senza riduzioni semplificatrici degli oggetti di studio e senza allentamento dei vincoli scientifico-argomentativi, e questa dimensione di ricerca è la dimensione linguistica.

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CAPITOLO SECONDO

LO STRANO CASO DEL NEGAZIONISMO LINGUISTICO

In base a quanto detto sinora, ci aspetteremmo che la scienza che ha lo scopo specifico di illustrare com'è fatta e come funziona la mente umana debba forzatamente porre al proprio centro ciò che più distingue l'essere umano dalle altre specie animali: il linguaggio. Certamente con un occhio rivolto al passato, al suo sviluppo evolutivo e, quindi, alla ricostruzione dei suoi eventuali antecedenti nelle specie da cui l'uomo deriva. Certamente con l'intento di indagare sincronicamente sulle continuità funzionali che eventualmente l'analisi etologica comparata evidenziasse in relazione a quelle di altre specie attuali. Certamente nel quadro di una precisa ricognizione di tutte le altre funzioni primarie senza le quali non potrebbe nemmeno realizzarsi (impulsi, riflessi, sensazioni, percezioni, coordinamento motorio, istinti sociali ecc.). Certamente, infine, in relazione a tutte le altre funzioni secondarie superiori (logiche, matematiche, inferenziali, relazionali, psicologiche ecc.) correlate o comunque cooperanti con esso. Ma, tutto ciò considerato, una scienza cognitiva che non si fondi sulla centralità del linguaggio per descrivere il funzionamento specie-specifico del sistema cognitivo umano sembrerebbe all'apparenza del tutto insostenibile, oltreché assolutamente inutile. Almeno così pensavamo. Uno dei motivi che ci ha spinti a scrivere il libro è che questa lapalissiana verità, che credevamo scontata e persino superflua, è, al contrario, sorprendentemente ignorata o artatamente elusa non da tutti ma dalla maggior parte degli psicologi e dei neu ropsicologi, dei neuroscienziati e, fatto per noi particolarmente sorprendente, dei filosofi e persino da qualche evoluzionista convinto. Nessuno di questi, ovviamente, ignora che «lo strumento» linguaggio abbia potenziato e potenzi l'intelligenza umana ren-

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dendola particolarmente efficiente. Ciò che non viene riconosciuto al linguaggio è il suo statuto cognitivo fondazionale della conoscenza e della stessa natura umana: «se il secolo scorso è stato caratterizzato dalla cosiddetta "svolta linguistica", allora in un certo senso le scienze cognitive del linguaggio sono una disciplina "antilinguistica"» [Perconti 2006, 16]. In questa direzione va interpretata la sostituzione del primato del pensiero a quello del linguaggio, dei contenuti proposizionali (credenze, desideri, emozioni, passioni ecc.) ai significati, della filosofia della mente alla filosofia del linguaggio. L'argomentazione principale - quando è esplicitata - è che il linguaggio serve a trasmettere pensieri, sentimenti, stati mentali, insomma contenuti, che già gli uomini provano indipendentemente dalla sua esistenza. Non si tratta solo di un ribaltamento della priority thesis della filosofia analitica [Dummett 1991 ; 1988] ma di una concezione grossolanamente presaussuriana o addirittura prelockiana, se non prearistotelica. Le parole sarebbero solo una nomenclatura, un insieme di etichette che appiccichiamo ai concetti che preesistono a esse. Non sarebbe neanche il caso di rispondere a osservazioni del genere che mettono in discussione persino la cumulatività delle conoscenze. Qualcuno tra i fisici contemporanei prenderebbe in seria considerazione chi volesse discutere della forza di gravità prescindendo da Newton, o di tempo e spazio ignorando Einstein? Eppure questo genere di argomentazioni imperversa in molti settori delle scienze cognitive. In accordo con una vecchia questione presente sin dalle origini della storia delle idee linguistiche - quella dell'imperfezione delle lingue e dell'abuso delle parole [Formigari 1970; Ricken 1978; Pennisi 1984, 1987; Raggiunti 2001] - illustri neurofisiologi e filosofi della mente sostengono, come vedremo in questo capitolo, che non può stare a fondamento del sistema cognitivo umano una funzione-specchio che mal riflette il vero significato delle cose, le «stravaganze della traduzione verbale» [Damasio 1999, trad . it. 227] che falsificherebbero l'originaria autenticità dei pensieri più genuini. Mentre vengono amplificati gli scopi comunicativi del linguaggio, non viene poi tollerato da molti cognitivisti attuali l'idea che attraverso l'interazione linguistica sociale la mente «crei» proprie versioni, soggettive e collettive, della realtà:

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come se davvero ne potessero esistere altre di ordine superiore e trascendente. Si arriva così, per questo strano percorso, a conclusioni sconcertanti. Questioni cruciali nella vita umana, indubbiamente costruite su sofferti percorsi argomentativo-semantici, come decidere se vivere o morire, se uccidere o salvare, se amare o odiare una persona, se credere o no in un dio, in una fede, in un ideale politico, vengono privati della loro ragione linguistica, sino a sostenere che altro non sono che residui evolutivi di bisogni di fasi precedenti. Confondendo metodi e domini applicativi incomparabili tra loro, qualche filosofo della mente finisce con il ritenere che la coscienza, il libero arbitrio, le credenze etiche ed estetiche o non esistono o sono i prodotti dei riflessi neurofisiologici a cui, a volte, ma non sempre, si aggiunge, a guisa di orpello, la considerazione linguistica. Insomma, si corre il rischio che il paradigma delle scienze cognitive diventi un vero e proprio paradigma negazionista del linguaggio. Poiché proprio di questo si tratta, non sarà inutile cercare di capire, intanto, come funzionano in generale gli schemi argomentativi di qualunque negazionismo. 1. Che cos'è e come funziona il negazionismo

Sorto negli anni Cinquanta come un movimento ideologico teso a minimizzare le responsabilità morali della Germania nazista, il negazionismo riflette oggi un insieme di posizioni che esprimono dubbi circa la storia dell'Olocausto. Secondo queste ipotesi la portata del genocidio nazista degli ebrei sarebbe stata molto inferiore rispetto a quanto la storiografia «ufficiale» voglia farci credere: alcuni si spingono a sostenere che la Shoah non sarebbe mai avvenuta. Chi sostiene queste posizioni esige un maggior numero di «prove», ritenendo le evidenze trovate nei campi di sterminio insufficienti e, probabilmente, false o costruite ad hoc. Molti, per rafforzare le loro tesi, si addentrano in questioni «tecniche»: in realtà ragionamenti capziosi e calcoli strampalati. Per esempio, la difficoltà di stimare l'esatto numero di ebrei morti: non sei milioni ma «solo» cinquecentomila; la

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presunta impossibilità di bruciare un certo numero di cadaveri in un determinato lasso di tempo; l'inconsistenza delle perizie chimiche sulla presenza di Zyklon B negli impianti di gassificazione dei campi di sterminio ecc. Ci si chiede - scrive per esempio Robert Faurisson [1978, 33], uno dei principali sostenitori del negazionismo - come ad AuschwitzBirkenau, per esempio, si potessero tenere 2.000 uomini in un locale di 210 metri quadrati, quindi gettare su di loro dei granuli del fortissimo insetticida Zyklon B; infine, immediatamente dopo la morte delle vittime, mandare, senza maschere antigas, in quel locale saturo di acido cianidrico, un gruppo di persone per estrarne i cadaveri impregnati di veleno. Due documenti degli archivi industriali tedeschi repertoriati dagli americani a Norimberga ci dicono d'altra parte che lo Zyklon B aderiva alle superfici, non poteva essere sottoposto a ventilazione forzata ed esigeva un'aerazione di circa ventiquattr'ore.

La tendenza a ricorrere alle più arzigogolate ed eterogenee argomentazioni e l'adozione di uno stile argomentativo fondato su cumuli di osservazioni pseudotecniche per negare anche le evidenze più macroscopiche, hanno trovato nell'ultimo decennio sempre più spazio nell'alimentare le passioni ideologiche della più svariata natura e dalla più o meno marcata pericolosità. È di qualche anno fa l'estensione delle ipotesi negazioniste alla strage terroristica dell' 11 settembre. Anche in questo caso le principali tesi sono sostenute con argomentazioni pseudotecniche: è del tutto inverosimile che piloti dilettanti possano guidare aerei sofisticati come quelli che si sono schiantati sulle Torri gemelle; è inammissibile che i piloti professionisti della potentissima aviazione americana non siano riusciti ad abbattere tre aerei di linea; è impossibile che l'impatto di un aereo abbia fatto crollare un edificio di centodieci piani come la Torre Nord del World Trade Center. E ancora: il grado di temperatura a cui brucia il carburante degli aerei (1.100-1.200 °C) non è compatibile con quello richiesto all'acciaio (delle Torri) per fondersi (1.500 °C); i sismografi avrebbero registrato 1'11 settembre un'attività sismica più compatibile con l'esplosione di bombe che con l'impatto tra aerei e grattacieli; non è possibile con le tecnologie del 2001 telefonare con i cellulari da un aereo di linea. Si potrebbe continuare a lungo in questo improbabile elenco di sedicenti tecnicismi.

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Nell'argomentare negazionista, infatti, si ritiene che l'accumularsi di una quantità di dettagli più o meno minuti, l'affastellamento di possibili tasselli tecnici, possa aumentare di per sé la credibilità della negazione e, per converso, l'avvaloramento di tesi concorrenti: dall'azione concertata di sette sataniche o ufologiche al complotto ebraico-sionistico, all'innesco di bombe per far crollare le Torri gemelle teso a favorire una stretta autoritarista nell'amministrazione degli Stati Uniti e all'instaurarsi di un nuovo ordine mondiale. Frutto, forse, del passaggio al terzo millennio - certamente gravido di incognite quanto ogni altra transizione millenaria questo clima di rimozione delle certezze ha coinvolto, come abbiamo accennato prima, anche il dibattito accademico-scientifico persino su questioni fondative. Così come si dubita del fatto che l'uomo abbia mai messo realmente piede sulla Luna, che i nazisti abbiano mai gassificato gli ebrei, che i terroristi abbiano fatto schiantare due Boeing di linea sulle Torri gemelle, allo stesso modo, nei ben più tranquilli territori della filosofia della mente comincia a farsi strada l'idea che il linguaggio non costituisca affatto il baricentro storico-naturale della cognitività e dell'evoluzione umane e che facoltà antropocentricamente essenziali come la soggettività, la creatività, le credenze, il libero arbitrio, la coscienza e l'autocoscienza possano tranquillamente farne a meno anche nella loro più piena realizzazione. 2. Il negazionismo linguistico delle scienze cognitive Ci sia consentito un ultimo ricorso alla sgradevole questione del negazionismo, prima di abbandonarla definitivamente, come merita. Si tratta, se non altro, del piacere di schiacciare l'amorale pedantismo ragionieristico del negazionismo con il respiro di una cultura storica indiscutibilmente superiore condensata nella risposta che Léon Poliakov, Pierre Vidal-Naquet, Fernand Braudel e Jacques Le Goff diedero al già immeritatamente citato Robert Faurisson ridicolizzando il preteso tecnicismo insito nella sua negazione dell'Olocausto: «non bisogna chiedersi come tecnicamente un tale assassinio di massa sia stato possibile; esso è stato tecnicamente possibile poiché ha avuto luogo» («Le Monde», 23 febbraio 1979) .

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Le ragioni per cui dall'evoluzione dei primati - come punta cronologicamente estrema di una lunghissima e gradualissima storia delle strutture biologiche - si è speciato l'Homo sapiens è che in una data configurazione crono-eto-zoologica - a tutt'oggi impossibile da circoscrivere con precisione - «ha avuto luogo», una volta per tutte, l'instanziazione del linguaggio. Esso è il risultato di una potenzialità filogenetica fondata su una mutazione casuale di correlati morfologici periferici e centrali specifici [Lieberman 2002; 2006; 2007]; si è affermato secondo le leggi della genetica delle popolazioni e, quindi, della selezione naturale, producendo vantaggi selettivi dapprima funzionaliz zati a fattori immediatamente riproduttivi [Fitch 2000; 2005] e poi, in tempi evolutivi molto rapidi, rifunzionalizzati (cioè «esatta ti») a un insieme di processi naturali e culturali sempre più complessi e adattativi. Naturalmente non è affatto detto che, dati tutti i presupposti enunciati, quella che chiamiamo «facoltà di linguaggio» si sarebbe dovuta obbligatoriamente costituire. Ma quella possibilità si è realizzata, e da quel momento è inutile chiederci che tipo di animali saremmo se non fosse mai esistita. Questo dato originario è, per l'appunto, la pietra dello scandalo del negazionismo linguistico della filosofia della mente, o almeno di una certa e illustre parte di essa. Per negare questo evento originario e non collidere con presupposti ideologici di volta in volta differenti, alcuni tra i più dotati cognitivisti contemporanei sono ricorsi a nozioni tecniche di natura neuroscientifica, neurofisiologica, neuropsicologica troppo spesso sganciate dal contesto complessivo della prospettiva biologico-evolutiva entro cui otterrebbero un reale valore, oppure assumendone una versione speculativa caricaturale priva di ogni attendibilità.

2 .1. Principi generali

Le argomentazioni più diffuse di quello che abbiamo qui chiamato «negazionismo linguistico» possono essere articolate in almeno tre grandi gruppi tematici: argomenti filosofici, argomenti naturalistici e argomenti antropologico-evolutivi. Tra i primi spiccano i grandi dibattiti classici della tradizione occidentale: il rapporto fra pensiero e linguaggio, tra linguaggio

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e realtà, tra mondo percettivo e mondo linguistico. All'interno di questo tipo di argomentazione l'idea prevalente della filosofia della mente è che il linguaggio sia una struttura derivata e secondaria rispetto a percezioni, pensieri e concetti. Tra i secondi emergono soprattutto le osservazioni di tipo neurofisiologico e neuroscientifico. L'opzione filosofica mentalista tende a dimostrare in questo genere di argomentazione che in tutti i fenomeni funzionali di ordine superiore il linguaggio arriva sempre alla fine di procedure neurobiologiche più o meno primarie, sostanzialmente «aggiungendosi» a esse, ma mai determinandole o causandole. Tra gli argomenti di natura antropologico-evolutiva, poi, risultano particolarmente importanti il rapporto fra comportamenti umani e comportamenti animali e la distinzione tra «natura» e «cultura». Anche in questo caso le prospettive neonaturalistiche stigmatizzerebbero la tendenza a ignorare i percorsi e le continuità evolutive che porterebbe alla cattiva idea di una «specialità» del linguaggio umano. Per di più tale specialità sarebbe attribuibile all'origine culturale del linguaggio che di fatto si contrapporrebbe e non sarebbe affatto riducibile a una primalità naturale. Da un punto di vista epistemologico e metodologico generale, infine, l'ipotesi del negazionismo filosofico del linguaggio è fondata sull'assunto che le spiegazioni linguistiche dei fenomeni cognitivi sarebbero in ultima analisi infalsificabili poiché non soggette a protocolli sperimentali precisamente individuabili e ripetibili. In altre parole, l'euristica linguistica non sarebbe altro che una prospettiva ermeneutica applicata ai fenomeni cerebrali. Per questa somma di considerazioni la ricostruzione della mente linguistica viene considerata «tecnicamente impossibile» e, quindi, inadatta a fungere da reale modello per le scienze cognitive. A questo rigetto delle spiegazioni linguistico-semantiche, con tutto il carico di relativismo culturale, teorico ed etico che si trascinano appresso, viene contrapposto un resuscitato sostanzialismo concettuale, se non addirittura percettivo, che sembra diventato l'obiettivo principale del programma neonaturalistico della filosofia della mente. L'istanza naturalistica verrebbe a concretizzarsi nell'idea di sostituire le forme rappresentazionali con i contenuti degli stati mentali, indipendentemente dalla loro esistenza semantica, ovvero dal loro significato.

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La componente filosofica delle scienze cognitive appare così schiacciata sul versante conoscitivo prelinguistico. È come se fossimo costretti ad ammettere che deve per forza esistere qualcosa prima del linguaggio affinché il linguaggio possa poi «nominarlo». Gli stati percettivi [Evans 1982], le immagini mentali [Kosslyn 1980, 1994; Shepard e Cooper 1982; Ferretti 1998; Denis, Mellet e Kosslyn 2004] , le componenti innate della core knowledge [Spelke 2003; Spelke e Hespos 2004; Spelke e Hauser 2004; Spelke e Kinzler 2007a e 20076; Spelke e Condry 2008] , il mentalese fodoriano [Fodor 1975; 1987], le intenzioni psicologiche (Grice e poi i molti teorici della Teoria della mente), i processi cognitivi implicati nei contesti pragmatici [Lakoff 1987; Langacker 1999, 2008; Croft e Cruse 2004; Fauconnier e Turner 2002] , addirittura i contenuti «inconsci» Uackendoff 1993; Solms e Turnbull 2002] sono stati i candidati primi per questo ruolo. Il capostipite moderno di tutte queste posizioni è J ean Piaget, uno dei pionieri del primo cognitivismo. Com'è noto, egli ha sostenuto la tesi secondo cui le abilità linguistiche non avrebbero alcuna specificità cognitiva, alcuna struttura morfologica innata, alcun meccanismo funzionale dominio-specifico. Sintassi e semantica sarebbero solo un risultato dell'organizzazione globale dell'intelligenza sensomotoria. Posizioni più recenti hanno articolato dettagliatamente il ridimensionamento cognitivo del linguggio. Per Evans [1982] gli stati percettivi non hanno una natura linguistica e neppure concettuale: dobbiamo far ricorso all'azione per raffigurarceli. Per esempio i deittici (io, qui, questo, quello) sarebbero nomi vuoti senza un'azione ostensiva che indichi percettivamente a cosa si riferiscono. Inoltre la stessa pensabilità di un a parola sarebbe impossibile senza presumere l'esistenza reale dell'oggetto a cui si riferisce. Ray Jackendoff [1993] argomenta a favore di una sostanziale dicotomia tra pensiero e linguaggio sostenendo il principio della traducibilità delle lingue: quindi l'implicita esistenza di un nucleo «non-linguistico» nelle nostre asserzioni. Il linguaggio, poi, potrebbe formulare concetti impossibili come «il mio spazzolino da denti è gravido» [ibidem, trad. it. 252] e questo può avvenire «solo se linguaggio e pensiero sono separati» [ibidem ]. Per Jackendoff, inoltre, l'argomentazione decisiva 58

sarebbe la dimensione inconscia del pensiero, rispetto a quella conscia del linguaggio: «il linguaggio che "sentiamo" nelle nostre teste quando pensiamo è una manifestazione conscia del pensiero - e non il pensiero stesso, che non è presente alla coscienza» [ibidem, trad. it. 253]. La non-contraddittorietà dei concetti rispetto alla contradditorietà delle asserzioni è spesso chiamata in causa per dimostrare la differente natura di entità di pensiero rispetto a entità linguistiche [Crane 1988]. Allo stesso modo il mondo percettivo si rivelerebbe più ampio, ricco e dettagliato di un suo sottoinsieme, quello della rappresentazione che, per definizione, ne registra solo una selezione [Crane 2001]. Tra le posizioni più recenti si distinguono poi quelle di Steven Pinker [1994; 2007], che valorizza al massimo la dimensione comunicativo-strumentale del linguaggio limitando invece la sua funzione creativa e costruttiva e utilizzando una tesi pseudoevoluzionista secondo cui, se la mente linguistica fosse fondativa della cognitività, allora i bambini prelinguistici, i soggetti sordi, gli afasici e gli scimpanzé sarebbero privi di intelligenza. Che il linguaggio non sia il baricentro della mente intelligente lo dimostrerebbe, poi, l'esistenza di un pensiero di tipo spaziale-visivo che ha caratterizzato veri e propri geni quali Einstein e Watson e Crick che concettualizzavano per immagini (per esempio, l'elica del Dna è nata da un'intuizione visiva). Si potrebbe continuare a lungo in questa elencazione dei principi generali su cui è basato questo bizzarro e, per certi aspetti, buffo fenomeno culturale che abbiamo chiamato «negazionismo linguistico». Cercheremo nelle pagine che seguono di precisare alcune delle posizioni più estreme e le loro cause immediate e remote, di natura teorica e storica.

2.2. La coscienza afasica Un caso eclatante è quello di Antonio Damasio che in Emozione e coscienza [1999] sostiene la tesi secondo cui né la coscienza nucleare (di natura sostanzialmente neurofisiologica) né quella estesa (da cui dipendono le deliberazioni etiche, estetiche, religiose ecc.) dipenderebbero dal linguaggio . Secondo 59

Damasio l'oggetto di una teoria della coscienza dovrebbe essere ~on. «il modo in cu_i la me1;1oria, la ragione e il linguaggio co~tnbm~cono a costruire, dall alto verso il basso, un'interpretazione d1 quanto accade nel cervello e nella mente» [ibidem , trad. it. 32], ma il modo in cui fenomeni di livello molto più basso «precedano le inferenze e le interpretazioni» collocandosi «prima» della rappresentazione semantica. Poiché la coscienza estesa dipende dalla memoria convenzionale e dalla memoria operativa, anche il funzionamento della memoria è nell'uomo separabile dal linguaggio. E, comunque, solo quando la coscienza estesa «tocca il suo massimo livello, negli esseri umani è anche arricchita dal linguaggio» [ibidem , tra d . it. 31]. ' . C:ome abbiamo prima accennato, la negazione del linguagg10 s1 sposa con una concezione obsoleta della semantica del tutto inadeguata al dibattito plurisecolare della discipli~a e comunque lontanissima dalle concezioni contemporanee della linguistica e della filosofia del linguaggio: le parole e le frasi traducono concetti, e i concetti consistono nell'idea non linguistica di che cosa sono cose, azioni, eventi e relazioni. Necessariamente i concetti precedono le parole e le frasi sia nell'evoluzione della sp~cie si_a nell'~sperie?za 9uotidiana di ognuno di noi. Le parole e le frasi degli essen umam sam di corpo e di mente non nascono dal nulla, non possono essere la traduzione de novo di qualcosa che non le precede [ibidem, trad. it. 225].

Domina nella neurofisiologia di Damasio - cognitivamente cie~? alla funzione rappresentativa, creativa e autopoietica u? ~dea strumentale e nomenclatoria del linguaggio impropombtle dopo Saussure e Wittgenstein. Per Saussure, com'è arcinoto, dal punto di vista «psicolo~ico»_ n_on c'è nulla di distinto nel pensiero prima del segno hr.igm~tlco [CLG, trad. it. cap. IV, § 1]. Il pensiero non linguisttco e una massa amorfa e nebulosa. Lo specifico ruolo del linguaggio è di interfacciare pensieri e suoni: il ruolo caratteristico della lingua di fronte al pensiero non è creare un mezzo fisico materiale per l'espressione delle idee, ma servire da intermediario tra pensiero e suono, in condizioni tali che la loro unione sboc_chi necessariamente in delimitazioni reciproche di unità . Il pensiero, caotico per sua natura, è forzato a precisarsi decomponendosi. Non vi è dunque né materializzazione dei pensieri, né spiritualizzazione dei

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suoni, ma si tratta del fatto, in qualche misura misterioso, per cui il «pensiero suono» implica divisioni e per cui la lingua elabora le sue unità, costituendosi tra due masse amorfe [ibidem, trad. it. 137].

Anche per Wittgenstein non esistono pensieri, idee, concetti a prescindere dal loro atto di costituzione nella dialogicità reciproca del loro uso. Tale uso non trova fondamento nell'isomorfismo logico tra nome e oggetto, tra proposizione e fatto: «la definizione di una parola non è l'analisi di ciò che accade nella mia mente (o che dovrebbe accadere) quando io la proferisco» [LPP, trad. it. I, 333, 59] Non possiamo ricorrere a regole esterne dall'impiego delle parole nell'atto di manifestarsi di una forma di vita per definire stati mentali o sensazioni. Le due accezioni, sebbene formulate in contesti culturali e filosofici molto distanti tra loro, hanno in comune il rigetto di quello che Popper chiamava già negli anni Trenta il «dogma positivistico del significato» [ 1934, tra d. it. 13] consistente nell'identificare il criterio di demarcazione tra scienza empirica e metafisica in «una differenza che esiste, per così dire, nella natura delle cose» [ibidem, trad. it. 15]. Tale dogma comporta l'adozione di un metodo in cui i fatti non solo servono a controllare la predittività delle teorie (insiemi globali di proposizioni collegate da ipotesi di regole), ma assumono lo statuto di asserzioni singolari, note per esperienza, operando sulle quali con il principio dell'inferenza induttiva si giunge poi ad asserzioni universali. Questo metodo porta a quel fenomeno universalmente noto come «regresso infinito delle metateorie» poiché ogni principio di inferenza induttiva «deve essere a sua volta un'asserzione universale» [ibidem, trad. it. 7]. Sulla base di questo fenomeno la cultura filosofica novecentesca ha rigettato definitivamente qualsiasi presupposto sostanzialistico. I grandi risultati della logica tarskiana o dei teoremi limitativi dei sistemi formali di Godel, che hanno tracciato un confine invalicabile per la speculazione filosofica, possono essere considerati le espressioni più estreme e coerenti del rigetto del dogma positivistico del significato. Allo stesso modo la nascita e l'affermazione di una semantica svincolata dal referenzialismo ingenuo e dal concettualismo idealistico credevamo fossero considerate un vero e proprio «dente di arresto» [Tomasello 1999, trad. it. 24] per la cultura moderna, scientifica e non.

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Per Damasio evidentemente non è così: l'idea che il sé e la coscienza emergano dopo il linguaggio e siano una costruzione diretta del linguaggio non ha molte probabilità di essere corretta. Il linguaggio non scaturisce dal nulla. Il linguaggio ci dà il nome delle cose. Se il sé e la coscienza nascessero de novo dal linguaggio, sarebbero le uniche parole a non avere un soggetto soggiacente [Damasio 1999, trad. it. 136].

È proprio dal cuore delle scienze del linguaggio che giunge una risposta adeguata che smentisce l'osservazione di Damasio. Il linguista sa bene, infatti, che il cosiddetto «io autobiografico» nasce nel linguaggio come coppia antinomica del «tu», cioè non è un costrutto solipsistico ma sorge dall' oggettivizzazione dell'alterità: la coscienza di sé è possibile solo per contrasto. Io non uso io se non rivolgendomi a qualcuno, che nella mia allocuzione sarà un tu . È questa condizione di dialogo che è costitutiva della persona, poiché implica reciprocamente che io divenga tu nell'allocuzione di chi a sua volta si designa con io. [ ... ] Io pone un'altra persona, quella che, sebbene completamente esterna a «me», diventa la mia eco alla quale io dico tu e che mi dice tu [Benveniste 1966, trad. it. I, 312] .

Questo dato originario è nettamente confermato dai processi ontogenetici di apprendimento del linguaggio dove la parola io, la presenza del «sé», nei bambini compare non prima dei tre-quattro anni e sostituisce il proprio nome, sino a quel momento considerato estraneo al dato coscienziale, quindi inconsapevole, cieco al soggetto stesso. In linea con il decalogo del perfetto negazionista, anche in questo caso, oltre a essere etichette culturali di entità «naturali» che le precedono, le parole hanno anche il torto di «tradire» la purezza adamitica delle immagini preverbali. Per esempio, «spesso le traduzioni verbali, anche se non si possono reprimere, vengono disattese, ovvero effettuate con abbondanza di licenza poetica [ ... ]. La mente creativa che si esprime nel linguaggio facilmente indulge all'invenzione» [Damasio 1999, trad. it. 226]. La coscienza, anche quella estesa, è insomma non solo indipendente dal linguaggio ma è da esso disattesa: ritengo improbabile che la coscienza dipenda dalle stravaganze della traduzione verbale e dall'imprevedibile livello di attenzione concentrata

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che vi si presta. Se l'esistenza della coscienza dipendesse dalle traduzioni verbali, si dovrebbero avere vari tipi di coscienza alcuni veritieri ed altri no , molteplici livelli e intensità di coscienza, alcuni efficaci e altri no, e poi, quel che è peggio, si dovrebbero avere anche vuoti di coscienza [ibidem, trad. it. 227].

La coscienza, insomma, non sbaglia, il linguaggio sì. La coscienza non può mentire, il linguaggio sì. La coscienza opera direttamente sui dati preverbali della rappresentazione, verba sequentur. Ma di che cosa è fatto esattamente il dato prelinguistico? Quali sarebbero queste facoltà cognitive indipendenti dal formato proposizionale con cui crediamo di assistere agli spettacoli della coscienza? Perché ricorriamo a esse per sentirci continuamente vivi? 2.3. Primitivismi antilinguistici

Secondo una buona parte dei neuropsicologi cognitivisti, la struttura immediata della coscienza consisterebbe in una successione continua di fotogrammi visivi, cioè in una specie di pellicola di immagini mentali che scorre in permanenza nella nostra mente. Già Cartesio era fortemente attratto dall'idea che la realtà esterna a noi girasse vorticosamente attorno a un perno fisso: l'io che la osserva. Dimodoché è sempre possibile distinguere un «abitante interno», un homunculus, un «me», e .una realtà esterna che allestisce i suoi spettacoli per la nostra coscienza che guarda. Questa metafora è molto comune anche tra i filosofi che studiano la coscienza in contrapposizione al linguaggio. William James [1890] parlava di «flusso della coscienza». Dennett [1991], riferendosi a Cartesio, usa l'espressione teatro della mente. Lo stesso Damasio sembra ossessionato dall'aver sempre «un film nel cervello» [1999, trad. it. 22]. Naturalmente non tutti sono d'accordo con l'idea di una «rappresentazione della coscienza». Per consentire a questa idea, infatti, occorre superare una serie di osservazioni teoriche ed empiriche. La più importante di tutte è che i processi neurocerebrali che permetterebbero al nostro io di sedersi a guardare il film dei sensi non convergono da nessuna parte. 63

Secondo Dennett [1991] l'attività cerebrale è un sistema di processi paralleli privi di quartier generale. I sensi sono dotati di vie specifiche di elaborazione e gli stimoli neurocerebrali entrano nell'intricato circuito delle reti neurali senza una direzione unitaria: nel cervello umano niente è centralizzato. Aree differenti dialogano con la vista, l'udito, la parola, l'immagine corporea, il controllo motorio, la pianificazione e innumerevoli altri compiti: questi sistemi sono collegati tra loro non da un elaboratore centrale, ma dall'intreccio di milioni di connessioni diffuse in ogni sua parte [Blackmore 2005, trad. it. 20].

È innegabile, tuttavia, che non solo il nostro universo percettivo ma anche il nostro flusso concettuale, auto e metariflessivo, ti appare come un continuum, un film, uno spettacolo seriale, consequenziale, dotato di senso. Naturalmente questa evidenza è quella che ci suggerisce l'esistenza di un io, di un soggetto. O sopprimiamo quindi l'evidenza e continuiamo ad adottare un punto di vista empirico-scientifico che si regga sulla sua assenza, oppure cerchiamo di ipotizzare come possa essere riformulata una teoria scientifica che incorpori la sua presenza. Se adottassimo la prima ipotesi, i processi autocoscienziali sarebbero interamente spiegati da una teoria certamente materialistico-monistica che ne negherebbe, tuttavia, un' esistenza autonoma: essa coinciderebbe infatti con l'identificarsi non meglio specificato in una metarete diffusa, parallela e non centralizzata composta da tutte le reti neurali. Se, al contrario, volessimo cercare una risposta nella seconda ipotesi, volendo evitare ogni opzione dualistica, dovremmo essere capaci di spiegare le vie cognitive della convergenza. Può darsi, infatti, che i contenuti neurocerebrali elaborati nella rete delle reti diventino contenuti coscienziali grazie a quello che Gazzaniga [1998] chiama «interprete»: ovvero un sistema di codifiche dei filmati neurocerebrali in specifici formati cognitivi, un dispositivo che operi selezioni, generi gerarchie, esalti o inibisca prospettive, conf_erisca sensi, argomentazioni e discorsi. E a que~to punto che ritorna, puntuale, il negazionismo linguistico. E sin troppo facile, infatti, individuare nel linguaggio la struttura specie-specifica che nell'uomo può risolvere, senza eccessivi neuro-tecnicismi, il problema di come unificare la molteplicità dei parallelismi neurosensoriali in unità logico-

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concettuali sussunte in un formato, come quello proposizionale, che ben si presta all'organizzazione sincronica delle scene «teatrali». Ovvero, fuor di metafora, a un dispositivo cognitivo specie-specifico che permetta di generare e montare i «concetti» come espliciti «contenuti della coscienza». Qual è l'ostacolo a questa soluzione epistemologicamente semplice, elegante e fortemente esplicativa? È molto difficile dare una spiegazione ragionevole poiché il negazionismo linguistico è un mistero tra i più complessi dell'attuale filosofia della mente. Cercheremo di farlo nel cap. II, § 3. Per il momento è sufficiente anticipare che l'equivoco di fondo è determinato da quella specie di horror vacui che sfiora i filosofi della mente quando ritengono che adottare soluzioni linguistiche per spiegare problemi cognitivi significhi avallare elementi antinaturalistici perché di tipo culturale. Il che - come cercheremo di mostrare nella seconda parte del libro - costituisce un doppio errore epistemologico: 1) considerare il linguaggio un fatto principalmente culturale; 2) considerare la cultura un fatto sostanzialmente non-naturale, in-naturale o contro-naturale. Per qualche inspiegabile motivo, invece, la visualità, il pensare «per immagini», contrariamente al pensiero verbale, è percepito come genuinamente «naturale», come in questo celebre passo di Damasio - nel capitolo La naturalezza della narrazione senza parole in Emozione e coscienza - che suonerebbe alle orecchie di ogni vero naturalista come un'irresistibile pièce comica: la narrazione senza parole è naturale. La rappresentazione immaginale di sequenze di eventi cerebrali, quale si realizza in cervelli più semplici del nostro, è la materia di cui sono fatte le storie che vengono narrate. Il naturale accadere preverbale della narrazione di storie potrebbe ben essere il motivo per cui abbiamo finito per creare opere teatrali e libri e per cui oggi buona parte dell'umanità è schiava del cinema e della televisione [1999 , trad. it. 228]. Il secondo atto di questa pièce comica è la proiezione evolutivo-paleontologica del primato umano del teatro visuale, del cinema e della televisione: la meraviglia è pensare che i primissimi cervelli che costruirono la storia della coscienza risposero a domande che nessun essere vivente 65

aveva ancora posto. Chi sta creando le immagini che si sono appena realizzate? Chi è il proprietario di queste immagini? [ibidem].

Certo immaginarsi un sapiens delle origini, se non addirittura un Neanderthal o un erectus, che si domanda, senza linguaggio, chi è il proprietario di ciò che sta vedendo, costituisce uno dei punti più alti del negazionismo filosofico del linguaggio! Eppure questo ricorso al primitivismo, alle origini prelinguistiche dell'animale-uomo, riappare ogni tanto con regolarità nella storia del pensiero negazionista. Come nel Menocchio di Il formaggio e i vermi [Ginzburg 197 6] si affastellavano brandelli di alta cultura elitaria e di credenze diffuse negli strati popolari più bassi descrivendo grottesche cosmogonie eretiche, così nel negazionismo linguistico si combinano singolarmente le punte più sofisticate della ricerca neuroscientifica e lo sgangherato decostruzionismo degli anarchici black blocks. Nel leader riconosciuto di questo singolare movimento, il primitivistaJohn Zerzan, echeggiano gli stessi temi e le medesime argomentazioni del negazionismo linguistico cognitivista: come è possibile che il mondo e la coscienza siano giunti ad essere considerati principalmente come composti e delimitati dal linguaggio? È il tempo una struttura del linguaggio o il linguaggio una struttura del tempo ? Tante domande si affollano, compresa quella chiave: come si può trascendere, evitare, sbarazzarsi del simbolico? [2005].

Così come nella ricostruzione di Damasio, il linguaggio si sovrappone al pensiero e alle percezioni, restituendoci una falsa realtà: «l'essenza del linguaggio è il simbolo che è sempre una sostituzione, una pallida ri-presentazione di ciò che è a portata di mano, di ciò che si presenta direttamente a noi» [ibidem]. L'uso delle lingue ci distanzia dal rapporto diretto con le immagini della realtà: «infinite realtà diverse sono catturate da un'unica lingua finita. Essa subordina l'intera natura al suo sistema formale [ .. .]. Ogni lingua è un complotto contro l'esperienza» [ibidem]. Riemerge, così, anche nella versione primitivista del negazionismo, la nostalgia per un remoto passato cognitivo in cui non eravamo ancora animali linguistici e, quindi, rispecchiavamo un'autentica coscienza presimbolica.

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2 .4. Credenze asimmetriche

Un ultimo esempio di negazionismo linguistico può essere considerata la declinazione evoluzionista e cognitivista dell'idea di credenza. Credere nell'anima, in Dio, nella passione etica o politica, in valori ideologici o filosofici ecc., secondo alcune recenti interpretazioni evoluzioniste [Wolpert 2006] non sarebbe dovuto all'elaborazione logica e argomentativa di stati mentali epistemici, non scaturirebbe da elaborazioni astratte su conoscenze empiriche o esperienziali. Le credenze, soprattutto quelle religiose, deriverebbero da bisogni conoscitivi selezionati positivamente per accrescere la nostra «autovalorizzazione metafisica» [Humphrey 2006]. Con questa impostazione adattativa applicata all'indagine sui fenomeni psicologico-mentali, verrebbe a cadere la tipica modalità di spiegazione dualistica adottata nell'ambito delle credenze, che non trovava credito presso lo statuto cognitivista: anche le propensioni psicologiche - di qualsiasi natura esse siano, anche quelle false, che non trovano cioè riscontro nei dati empirici - rientrano così in una sorta di protezione evolutiva del sé, garante della naturalità monista della cognizione umana. Che la capacità di produrre credenze abbia un fondamento nella necessità biologica che caratterizza la cognitività di ogni specie animale sembra un 'assunzione condivisibile che allarga il parametro dell'attribuzione di tale capacità anche ad altri animali non umani sulla base della loro modalità specifica di rappresentazione del mondo (cap. IV, § 2). L'interpretazione evoluzionista di tale competenza, dunque, permetterebbe in linea teorica di valutare la modulazione delle credenze nelle varie specie animali secondo sistemi cognitivi differenti. Anche gli animali non umani produrrebbero credenze sui propri stati mentali, prova ne è la presenza di psicopatologie animali che coinvolgono alterazioni delle credenze ambientali, comportamenti «strambi» a volte autolesionistici non ascrivibili a situazioni di impossibilità di mettere in atto comportamenti stenotopici, programmati geneticamente e coattamente vincolati nell'esecuzione. Si tratterebbe di attività comportamentali che sembrano determinarsi al di fuori dell'adeguatezza contestuale e che si

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configurano in stati abulici (depression-like state) conosciuti come learned helplessness [Peterson, Maier e Seligman 1995]. Senza addentrarsi nella comparabilità di tali stati psicopatologici con quelli presentati dagli esseri umani, è indiscutibile l'allargamento epistemologico prodotto dall'interpretazione evolutiva delle credenze. Si potrebbe dunque ottenere un approccio metodologico raffinato se questa posizione non scadesse in generalizzazioni eccessive dei principi adattazionistici. Qualcuno ha pensato, per esempio, di estendere questo criterio non solo all'idea generale della formazione delle credenze, ma anche a quella delle singole, specifiche credenze. Per esempio, la credenza evoluzionista e quella creazionista sarebbero connesse con un maggiore o minore sviluppo del grado di lateralizzazione cerebrale. I più lateralizzati sarebbero, quindi, «naturalmente» propensi al creazionismo; i più prossimi al «punto zero» sarebbero invece propensi all'evoluzionismo [Niebauer e Garvey 2004] ! Questo tentativo di adottare spiegazioni selettive di aspetti anatomici per legittimare la presenza di tendenze psicologiche sembra ricalcare la metodologia di indagine di una certa psicologia evoluzionistica che assume di poter spiegare adattativamente tutte le realizzazioni psicologiche della cognizione umana simulando contesti ecologici e processi cognitivi di ominidi su sapiens moderni che possiedono, però, come è evidente, una configurazione anatomica oltre che funzionale differente. La lateralizzazione assurgerebbe a causa evolutiva della credenza creazionista o evoluzionista, selezionata positivamente perché, anche se sbagliata (nel caso del creazionismo), è utile per la sopravvivenza producendo rappresentazioni parziali ma autoconvincenti del mondo. In questo caso è possibile rintracciare una commistione di livelli di spiegazione in cui aspetti anatomici vengono impiegati per dare spiegazioni adattative a principi psicologici. La lateralizzazione è una modalità di organizzazione anatomo-funzionale del cervello: comporta microdifferenze individuali che rientrano nella variazione standard della popolazione e hanno effetto principalmente su compiti di manualità fine o coordinazione visuo-manuale. Gli studi che hanno cercato di individuare una correlazione tra tipologia di lateralizzazione e variazioni nelle abilità accademiche [Crow et al. 1998; Annette Alexander 1996]

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hanno messo in evidenza una velata influenza della lateralizzazione sui processi di lettura e di cognizione matematica, ma nulla che abbia direttamente a che vedere con alterazioni delle abilità cognitive in generale [Pennisi, Plebe e Falzone 2004]. La lateralizzazione ha suscitato interesse nell'indagine sui correlati neurofisiologici delle attività cognitive perché fa riferimento a una organizzazione funzionale direttamente correlabile con un aspetto «visibile»: la dominanza manuale. Eppure i parametri della lateralizzazione non si sono rivelati predittivi di predisposizioni o tendenze psicologiche, sia nella normalità che nella patologia. I soggetti «emisfericamente indecisi», gli ambidestri, non mostrano particolari abilità tecniche né presentano deficit nelle normali attività cognitive. La lateralizzazione non sarebbe, dunque, indice di «professionalizzazione» che si realizza nella pienezza cognitiva: sembra che, più che predisporre i soggetti a favorire certi atteggiamenti psicologici, la lateralizzazione obbedisca a principi organizzativi molto antichi (presumibilmente derivanti dalla risposta adattativa del cervello alle leggi fisiche della gravità e del movimento, cfr. Coppens [1989]) e probabilmente si è mantenuta perché funzionale dal punto di vista della coordinazione delle forze cognitive [Annett 1999]. Inoltre, una posizione che connette asimmetria funzionale e preferenze psicologiche deve rendere conto della possibilità che al variare della prima (per esempio per sviluppo ontogenetico, per condizioni ambientali forzate derivanti da eventi traumatici ecc.) debbano necessariamente modificarsi anche le seconde. Per risolvere la questione della variazione della lateralizzazione, allora, si potrebbe ricorrere a un modello flessibile della asimmetria emisferica in cui le concezioni creazioniste, tipicamente associate con un controllo emisferico sinistro, siano la condizione di partenza e in cui le informazioni, acquisite nell'arco della vita, che destabilizzano tali credenze vengano elaborate dall 'emisfero destro, per modificare lo stato di quello sinistro (dr. Ramachandran [2008]; Gazzaniga [1992]; ma anche Goldberg [2002] sul ruolo dell'emisfero destro nella gestione di nuove informazioni). Ciò che sorprende maggiormente in questo tipo di impostazione è il mancato ricorso a quella che appare come la più semplice e sensata delle soluzioni: la natura culturale delle

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credenze, almeno negli esseri umani in cui vengono valutate. Se l'intenzione di coloro che sostengono la necessità di attribuire un carattere evolutivo alle credenze fosse quella di individuare un sostrato di capacità che rintraccia continuità funzionali in specie filogeneticamente vicine, sarebbe comprensibile l'esclusione della componente linguistica nella determinazione delle credenze. Ma la tipologia di indagine adottata da questa posizione non accenna nemmeno lontanamente agli studi comparativi, anche questi, in effetti, di difficile gestione epistemologica e metodologica. Il problema sta nell'aver adottato un meccanismo di spiegazione onnicomprensivo capace di contestualizzare ogni fenomeno, argomentazione, riflessione, discorso, convinzione. Questo non solo è palesemente infalsificabile (quindi non conforme a un paradigma scientifico-naturalistico) ma è anche euristicamente inutile. Se pure fosse vero che le credenze hanno una natura evolutiva, tutti i discorsi fatti per convincere gli altri a cambiarle, ad abbracciarne di nuove, a rifiutarle in blocco, tutte le logiche della persuasione, della retorica, dell'argomentazione, della metaforizzazione ecc. sembrerebbero disadattative o comunque destabilizzanti rispetto alle predisposizioni determinate dall'asimmetria emisferica. L'ossessione di ricondurre aspetti cognitivi a cause ipernaturalistiche e iperadattative spesso fa perdere di vista le spiegazioni magari più «tradizionaliste», ma che, chiamando in causa elementi caratterizzanti della cognizione umana come il linguaggio, cercano di aprire una via di mediazione tra i caratteri acquisiti biologicamente e le manifestazioni psicologiche associate. La naturalizzazione dei meccanismi psicologici non può procedere contestando ruoli attivi a funzioni mentali che ne fanno parte sulla sola base ideologica del negazionismo linguistico: la filosofia cerca di esplorare la struttura del pensiero umano, e lo fa chiarificando i nostri modi di concepire la realtà. Coloro che hanno una mentalità scientistica disdegnano le riflessioni filosofiche [ ... ]. Alle spiegazioni filosofiche vengono sostituite le loro versioni «naturalizzate». Queste teorie «naturalizzate» spiegano, poniamo, nozioni che hanno a che vedere col significato in termini che prescindono completamente dall'impiego del linguaggio nella comunicazione da parte degli esseri umani e negano quindi che la teoria del significato debba fornire un'analisi della comprensione che i parlanti hanno degli enunciati prodotti nello scambio linguistico. Il nostro possesso di certi concetti

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vien~ t~lvolt~ spiegato sulla ~ase di jpotetici vantaggi evolutivi. Questa non e filosofia, e n_eppure scienza. E il risultato dell'abbaglio preso da coloro che hanno intrapreso una certa indagine intellettuale sulla scia dei successi conseguiti in un altro settore [Dummett 2001, 38-39].

La difficoltà a naturalizzare i processi cognitivi come le credenze dipende non solo da questioni epistemiche come quelle descritte da Dummett, ma anche dal fatto che tali abilità non costituiscono delle funzioni immediate svolte da precise strutt~re anatomiche: si tratta di capacità mentali che vengono costrmte su altre funzioni cognitive fondamentali. In particolare, le credenze avrebbero una forte connotazione linguistica, abolendo la quale si perde ogni caratterizzazione specifica del processo di produzione delle proprie conoscenze, convinzioni e opinioni sul mondo.

3. Le cause del negazionismo linguistico Il timore che il linguaggio verbale non possa accompagnarsi a una spiegazione naturalistica della cognizione umana crediamo sia oggi del tutto infondato, ma non per questo storicamente mal motivato. Al contrario: una lunghissima tradizione di pensiero occid_entale, fondata sull' essenzialismo filosofico, sull' antropocentnsmo delle scienze sociali e su uno scientismo ancorato prevalentemente a paradigmi formalistici (in prevalenza logicomatematici) ha contribuito a scavare un profondo fossato tra i termini natura e cultura, animalità e umanità, comunicazione e linguaggio. Di fatto, a partire dalla contaminazione della metafisica aristotelica con la tradizione cristiana e, soprattutto, durante l' affondamento della impronta umanistica nella cultura europea, la divaricazione tra l'universo spirituale e oltramondano dell'uomo e la ferinità istintuale del mondo animale è andata sempre più allargandosi, facendo di conseguenza crescere l'immagine del differenziale «dualistico» del linguaggio umano rispetto a tutti gli altri modi di rappresentarsi le conoscenze sul mondo. Abbiamo già visto nel § 2.1 i principi generali e le argomentazioni di fondo prodotte da questa «svolta antilinguistica». Cercheremo ora di analizzare in breve le fondate motivazioni 71

che, sulla base di questa controversa storia culturale, rendono oggi perlomeno spiegabile l'atteggiamento negazionista di molte componenti dell'eterogeneo puzzle delle scienze cognitive. 3.1. La mente linguistica contro la mente animale Nella sua formulazione iniziale, l'etologia si occupava di studiare comparativamente il comportamento delle specie animali. In questa definizione è chiaro l'obiettivo epistemologico: analizzare le manifestazioni comportamentali delle varie specie adottando una lente di valutazione non antropocentrica, ma fondata sulle caratteristiche funzionali e adattative di ogni singolo gruppo animale. Si volevano raccogliere informazioni sui comportamenti animali non per ottenere un confronto con quelli umani, ma per descrivere e catalogare in etogrammi le tipologie comportamentali tipiche di ogni specie. Il metodo di indagine impiegato, dunque, consisteva «nell'applicare ai comportamenti degli animali e delle persone quei metodi divenuti d'uso corrente e naturale in tutti gli altri campi della biologia dopo Charles Darwin e nel formulare gli interrogativi seguendo lo stesso criterio» [Lorenz 1978, trad. it. 1). La definizione fornita da Lorenz nel testo fondativo della disciplina etologica (J;etologia) cercava di difendere uno spazio metodologico che sembrava non poter esser concesso allo studio del comportamento. Considerare i comportamenti, sia innati che appresi, come elementi selezionati da pressioni evolutive positive al pari delle strutture anatomiche minava le posizioni comportamentiste - che all'epoca godevano di grande successo - sulla natura esclusivamente appresa delle manifestazioni umane. Una quantità crescente di ricerche che adottavano il paradigma della deprivazione ambientale [Falzone 2004; 2006] condotte su varie specie animali andava via via corroborando l'ipotesi che i comportamenti, anche quelli umani, presentavano una base biologicamente determinata su cui veniva modulata (in maniera variabile a seconda della specie presa in considerazione) la componente appresa. E soprattutto diveniva sempre più evidente la confrontabilità dei comportamenti umani e animali anche per quei processi che i cognitivisti avevano definito come «processi mentali»: neppure 72

gli aspetti culturali del comportamento umano possono essere esclusi dall'indagine biologica in quanto sono il risultato del mescolamento di predisposizioni genetiche e apprendimenti esperienziali. Il comportamento umano, dunque, non è illimitatamente modificabile, ma presenta dei vincoli funzionali stabiliti da condizioni biologiche. La lezione di Lorenz, scandalosa agli esordi per gli psicologi comparati, è divenuta ben presto il cuore dell'argomentazione cognitivista, sebbene questa abbia travisato gli intenti comparativi proposti dall'etologo. La versione cognitiva dell'etologia classica, infatti, si propone di rintracciare nelle manifestazioni comportamentali degli animali non umani una serie di caratteristiche cognitive che rendano conto sia della continuità tra capacità mentali umane e animali, sia della non specialità delle abilità del sapiens. Questa presa di posizione da parte degli etologi cognitivi - a prima vista del tutto immotivata rispetto agli scopi descrittivi dell'etologia classica - deriva sia dalla tendenza tipica delle prime scienze cognitive a non considerare come pertinenti spiegazioni che chiamano in causa processi mentali complessi, sia dalla reazione a una certa propensione da parte di linguisti e antropologi a «salvare» dal confinamento etologico alcune componenti della cognitività umana come il linguaggio e la cultura. È in questo atteggiamento che trova in parte giustificazione storica la negazione dell'influenza del linguaggio nella cognitività umana. Da un lato, la propensione delle scienze cognitive - più volte descritta nei paragrafi precedenti (cap. I, §§ 1-4) - a segmentare i processi mentali in unità elementari e indipendenti ha prodotto un quadro modularizzato della cognitività umana e ha spinto gli etologi a concentrare i loro studi sulle microunità in cui erano suddivise le abilità umane. Dall'altro lato, alcune teorie di linguisti - di cui Chomsky viene generalmente considerato il capostipite - e di antropologi culturali (cap. Il, § 3 .2), proprio in reazione a questa volontà parcellizzante applicata alle capacità del sapiens, hanno posto l'accento su quei processi intellettivi che rendono la nostra specie unica all'interno del regno animale, indicando - com'è semplice ipotizzare - il linguaggio come emblema della specialità umana. Il linguaggio, infatti, non solo presenta caratteristiche come l'organizzazione sintattica e il riferimento semantico praticamen-

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te irrintracciate negli altri animali non umani, ma è anche garante della realizzazione e della diversificazione delle manifestazioni culturali. Gli etologi cognitivi hanno stigmatizzato questo atteggiamento antropocentrico e hanno cercato di rintracciare gli elementi di continuità non solo strutturale ma soprattutto psic?logica tra gli esseri umani e i primati non umani. E evidente, a questo punto, che la negazione del ruolo del linguaggio all'interno della cognitività umana presenta delle cause epistemologiche precise, sebbene non sempre condivisibili. Cause che condizionano ancora oggi gli scopi dell'indagine etologica cognitiva. Si consideri per esempio il numero di articoli di etologia che, per spiegare comportamenti ormai unanimemente considerati condivisi da tutti i primati, come le competenze tipiche della core knowledge (cap. I, § 3, cap. II, § 3.3 e cap. IV,§§ 2 ss.), presentano una premessa giustificatoria in cui si sostiene che, nonostante le diversità morfologiche, i primati non umani presentano abilità cognitive comparabili con quelle umane almeno nelle loro manifestazioni di base. Una excusatio non petita che viene avanzata quasi a discolpa del tentativo di associare abilità umane e animali. Atteggiamenti analoghi si riscontrano in spiegazioni psicologiche di varie competenze animali. Il dibattito continuo sulla possibilità di rintracciare comportamenti omologhi negli animali umani e non che provino una continuità evolutivo-funzionale ha dato vita a due atteggiamenti nell'etologia cognitiva: o si cerca di attribuire capacità cognitive isomorfe a tutte le specie animali, oppure si tenta di eliminare dall'argomentazione gli elementi di discontinuità, cioè le funzioni che effettivamente sono riscontrabili solo nell'essere umano, primo fra tutti il linguaggio verbale. La prima soluzione - adottata per esempio da Donald Griffin - prevede di portare dati a favore di un'attribuzione quasi indistinta delle abilità cognitive ritenute unicamente umane a quasi tutte le specie. Nella sua rassegna Menti animali [1992] cerca, per esempio, di dimostrare la presenza di pensiero cosciente in tutti gli animali non umani impiegando una serie di esempi di comportamenti che indicherebbero la presenza di versatilità in ogni mente animale, qualsiasi essa sia. Un atteggiamento da pasdaran: la riluttanza a prendere comunque in considerazione la coscienza animale secondo Griffin condurrebbe infatti a una

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sorta di automutilazione (una «paralisi auto-inflitta») dell'indagine scientifica. In questo modo egli realizza una sorta di proiezione di tutte le abilità considerate dall'analisi filosofica classica come tipicamente umane sugli animali non umani. Il linguaggio viene escluso da questa proiezione, ma ne vengono chiamati in causa gli aspetti comunicativi inglobati nelle capacità simboliche e di manipolazione (per esempio l'inganno tattico). Ovviamente, per seguire questa scelta estrema Griffin perde di vista uno dei capisaldi dell'etologia classica - la distinzione tra comportamenti stenotopici, gestiti geneticamente, ed euritopici, appresi ambientalmente - determinante proprio per comprendere la componente intensionale [Gazzaniga 2008] del comportamento. Un esempio eclatante può essere considerato quello che Griffin descrive come inganno consapevole del piviere. Si tratta del comportamento messo in atto da uccelli che nidificano sul terreno (tipicamente pivieri, come i corrieri nordamericano e melodioso, e il piviere di Wilson, cfr. Gochfeld [1984]) e che sarebbero in grado di realizzare quella che Griffin chiama una «comunicazione ingannevole»: essi fingerebbero di avere un'ala spezzata, trascinandola vistosamente sul terreno, nel caso in cui un predatore si avvicini alla loro covata, risultando più attraenti per il predatore e distraendolo così dalle uova. L'interpretazione ingannevole di questo comportamento in realtà è del tutto fuorviante, in quanto, a un'analisi più attenta, la finzione dell'ala spezzata sembra essere controllata geneticamente, configurandosi come uno di quei /ixed action patterns descritti da Eibl-Eibesfeldt [1967] che si considerano del tutto innati. Se variano le condizioni ambientali (se per esempio il predatore non «casca nella trappola» e si nutre delle uova), infatti, il piviere continua nella sua esecuzione stereotipata, mostrando come quel comportamento sia scatenato da cues ambientali ma non permetta flessibilità di svolgimento e dunque non possa essere considerato un inganno consapevole, cosciente. La stragrande maggioranza degli studi etologici, però, adotta la strategia opposta a quella impiegata da Griffin: cerca di ricondurre la cognitività umana al livello di comparazione con quella animale, in special modo con quella dei primati. In questa operazione di livellamento i processi cognitivi vengono epurati da quei comportamenti difficilmente gestibili nel confronto

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etologico, sia per aspetti qualitativo-funzionali sia per aspetti quai:titativo-morfologici, primo tra tutti il linguaggio. E un'operazione di repulisti funzionale, per esempio, quella attuata da diversi etologi [Spelke 2003; Spelke e Hespos 2004; Spelke e Kinzler 2007 a, 20076; Spelke e Condry 2008; Tomasello 1999], ma anche da teorizzatori dell'evoluzione del linguaggio abbarbicati a ipotesi adattazioniste [Dunbar 2004] che tentano di cancellare ogni traccia di linguaggio da competenze evidentemente linguisticizzate - come la capacità di prevedere le intenzioni, gli stati d 'animo e gli esiti comportamentali altrui o, addirittura, la possibilità di produrre sistematicamente accumulazione culturale duratura. In questa operazione, una capacità ritenuta unicamente umana (la Teoria della mente, o Tom, cfr. Premack e Woodruff [1978]) viene scomposta in componenti elementari che dovrebbero venir rintracciati almeno nei primati non umani in cui è stata comunque accertata la presenza - a livello strutturale - di un mirror-neuron-system (cap. VI, § 1.1). Ebbene, nonostante arzigogolate scomposizioni in modelli sempre più parcellizzati, non c'è accordo sulla presenza della Teoria della mente negli scimpanzé, nemmeno nella sua versione di base in cui vengono escluse competenze di livello superiore che chiamerebbero in causa il linguaggio [cfr. Heyes 1998; Povinelli e Bering 2002; Tomasello, Call e Hare 2003]. A quanto pare gli scimpanzé sarebbero in grado di comprendere le espressioni facciali e i movimenti, alcuni procedimenti psicologici (come la visione), alcuni rapporti sociali e relazioni di dominanza nel gruppo e comportarsi di conseguenza. Per esempio, uno scimpanzé gregario può non guardare nella direzione del cibo che può vedere solo lui, impedendo così al maschio alfa di dirigersi verso la fonte di nutrizione [Hare et al. 2000]. Si tratterebbe comunque di capacità che potrebbero essere definite lontani precursori della Teoria della mente umana, tanto da spingere Povinelli, uno degli esponenti principali del dibattito, a sostenere che se gli scimpanzé hanno una teoria della mente, questa è sicuramente molto diversa dalla nostra [Povinelli 2004]. La spinta alla semplificazione dei processi cognitivi complessi, in questo caso, non ha condotto alla dimostrazione della continuità dai primati all'uomo di alcuni aspetti della Teoria della mente, né ha consentito di ottenere una spiegazione più accurata dei meccanismi di base di tale capacità. Ovviamente il 76

dibattito è ancora in corso e non si può escludere che si arriverà a definire quali aspetti cognitivi i primati non umani condividono con i sapiens. Quello che però risulta chiaro è che la tendenza alla semplificazione e alla cancellazione del linguaggio dalla scena evolutiva in favore di modelli di spiegazione a-linguistici comporta una descrizione non solo parziale della cognitività umana, ma anche inappropriata della cognitività animale. Questa impasse sarebbe risolvibile tornando alla modalità di spiegazione delineata già dall'etologia classica, che non nega la derivazione filogenetica delle capacità cognitive umane da quelle dei primati non umani (omologie), ma individua per ogni capacità comune un certo numero di strutture psicologiche e morfologiche che vengono a loro volta potenziate sulla base dei sistemi cognitivi che sono unici di ciascuna specie. Il caso della cultura è ancora più eclatante. Nelle definizioni di cultura fornite dagli antropologi, infatti, il linguaggio gioca un ruolo centrale: non solo è il garante della trasmissione culturale, ma è la condizione necessaria per la produzione stessa della cultura. In questo modo, sia gli animali non umani sia gli infanti non dotati di linguaggio resterebbero fuori da ogni possibilità di possedere una cultura [Dunbar 2004]. Escludiamo il caso degli infanti, che comunque costituiscono una «forma intermedia» in quanto si troverebbero nella condizione di «attesa» di venire immersi nel sistema culturale della popolazione cui appartengono. Ovviamente è l'esclusione di tutti gli animali non umani da qualsiasi tipologia di cultura a destare clamore all'interno degli studi etologici. Molte argomentazioni addotte per dimostrare la presenza della cultura negli animali non umani però, anziché puntare sulla definizione di cultura su base eco-etologica, cercano di comprendere in quale misura il linguaggio sia determinante per la produzione di cultura, arrivando alla conclusione assolutamente insostenibile secondo cui il linguaggio serve per trasmettere cultura, non per produrla! Il linguaggio è semplicemente il mezzo con cui trasmettiamo i comportamenti e le regole culturali. Esso non è la cultura e non determina la cultura in quanto tale. [ ... ] Può apparire ingiusto dire che gli animali sono privi di cultura per il solo fatto che a loro sia negato il linguaggio, come se l'incapacità di scrivere comportasse anche quella di saper inventare delle storie da narrare. Il passo decisivo alla cultura

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si compie nel salto dell'immaginazione che concepisce l'evento immaginario e poi gli dà forma, non nell'operazione della sua trascrizione su carta. [. ..] Abbiamo pertanto bisogno di qualcosa di più concreto e facilmente osservabile, che possa applicarsi anche alle specie che non possiedono linguaggio. Una soluzione è stata quella di prendere in considerazione le attività rituali della vita. [. ..] Qui ci troviamo forse su un terreno più solido, perché rituali e comportamenti sono cose che possiamo vedere [ibidem, trad. it. 164-165].

In queste poche righe non solo si arriva alla conclusione paradossale secondo cui l'uomo impiegherebbe il linguaggio per trasmettere cultura, prodotta in realtà tramite «l'immaginazione», ma si arriva a sostenere che il livello che dobbiamo adottare per comprendere la cultura animale è quello della «concretezza» e si chiamano in causa, però, i rituali, che nella letteratura antropologica non sono affatto considerati elementi «facilmente osservabili». Ancora una volta la scappatoia dell'eliminazione del linguaggio finisce con lo strozzare la possibilità stessa di definire cosa si intende per cultura animale. Sembra, allora, che la tendenza a escludere il linguaggio dalle capacità cognitive, sebbene storicamente fondata, non produca vantaggi epistemologici né all'interno delle scienze della mente umana, né all'interno degli studi etologici sulla cognizione animale. La preoccupazione degli etologi di fornire una definizione di cultura plausibilie anche per le manifestazioni comportamentali animali è stata quasi del tutto esclusa da una certa antropologia culturale del primo Novecento anche se, come vedremo nel prossimo paragrafo, il dibattito oggi è aperto alle innovazioni introdotte dalle scienze cognitive e dalla biologia evoluzionistica in generale. 3.2. La mente linguistica è una mente culturale Se le osservazioni critiche della prospettiva etologica ed evoluzionista alle proposte di «fuga» cognitiva che il linguaggio reclamerebbe per gli esseri umani appaiono giustificate dagli scopi effettivamente naturalistici che la nuova sintesi darwiniana si propone, quelle delle scienze sociali sono, invece, del tutto riconducibili ai percorsi sinora intenzionalmente intrapresi da queste stesse scienze.

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La disciplina che doveva portare maggior chiarezza su questo punto, l'antropologia culturale, nasce e, tuttora, per la maggior parte si sviluppa proprio attorno a un'accezione praticamente univoca della nozione di cultura: un fatto esclusivo degli umani, dando ragione alle preoccupazioni evoluzionistiche. Se si esclude infatti la voce del tutto minoritaria dell'antropologia di fine Ottocento di Henry L. Morgan, l'antropologia culturale del secolo appena trascorso è sinonimo di essenzialismo antropocentrico, che in questa versione si sposa con il più determinato antinaturalismo e con una metafisica dell'unicità del linguaggio e dei sistemi simbolici che non ha eguale in tutta la storia del pensiero occidentale. Per Franz Boas [1911] la specie e la cultura umane sono uniche e irriducibili poiché acquisite mediante una tradizione, laddove le altre specie esibiscono al massimo «abiti» e comportamenti ripetitivi ma volatili perché determinati dalla contestualità della trasmissione. Alfred Krober ipostatizzava esplicitamente l' essenzialismo linguistico: «l'uomo è un animale essenzialmente unico in quanto possiede la facoltà del linguaggio, e la facoltà di creare simboli, astrazioni o generalizzazioni» [1923, 7]. Affermazioni analoghe si trovano in George P. Murdock o in Leslie A. White, che si spinge a estremizzare la centralità del potere simbolico sino ad affermare che «i sordomuti che crescono senza l'uso dei simboli non sono esseri umani» [1949, 22]. Da un punto di vista epistemologico più generale, che è quello che in questo caso ci interessa, ciò che più ha favorito l'attuale reazione apparentemente «ipercorrettiva» delle scienze cognitive di fronte a posizioni come queste è la demonizzazione della dimensione naturalistica dell'indagine. Quella che è stata chiamata «la linea interpretativa maggioritaria dell'antropologia culturale dei nostri giorni» [Tonutti 2007, 43] può sintetizzarsi nella concezione umana beyond biology. L'irrilevanza, quindi, del sostrato biologico, per definire non solo le pratiche culturali ma qualsiasi forma procedurale cognitiva. La radice ideologica malgré sai è qui costituita dalla sostituzione del dogma del determinismo biologico con quello del pluralismo culturale, quasi sempre tradotto nell'apologia del principio identitaria per cui il ruolo della speciazione biologica viene affidato alla «speciazione dell'uomo come essere culturale [ ... ] non più sottomesso ai condizionamenti istintuali» [Battistrada 1999, 11].

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Se così fosse, l'antropologia culturale si configurerebbe come la «scienza del giorno dopo», quella cioè che scopre sempre in ritardo quanto si produce nelle altre provincie della ricerca. È noto infatti almeno dagli anni Settanta, esattamente dagli Otto peccati capitali della nostra civiltà di Konrad Lorenz [1973a], che un approccio naturalistico, biologistico e universalistico non solo è del tutto compatibile con l'egualitarismo culturale ma ne costituisce l'unica possibile garanzia. Sappiamo da Lorenz prima e soprattutto da Eibl-Eibesfeldt poi, che mentre dal cosiddetto «determinismo biologico» - cioè dalle scienze della genetica e della genetica delle popolazioni - approdiamo all'Homo sapiens come specie unica dell'intero orbe terracqueo, e quindi alla totale inammissibilità di qualunque accezione del concetto di «razza», viceversa dalla speciazione antropologicoculturale, quella battezzata da Erik H. Erikson nel 1966 (Ontogeny o/ Ritualization in Man) come «pseudospeciazione culturale», scaturiscono i peggiori prodotti del culturalismo umanistico (cioè della separazione del concetto di cultura da quello di natura). Come vedremo in dettaglio nella seconda parte del libro (cap. VI,§ 1.2, e cap. VII, § 3.3), l'uomo è infatti l'unico animale che non ritualizza i comportamenti aggressivi e giunge all'omicidio dei conspecifici, oltrepassando la simbologia della fuga, tipica della ritualizzazione animale dell'aggressività: da un lato l'uomo è affine a diverse specie animali poiché combatte i, pr?pri simili. Ma dall' altr? egli, fra le migliaia di specie in lotta , è l umco che combatta per distruggere [ ... ]. La specie umana è l'unica che pratica l'omicidio di massa [Tinbergen 1968, 1413].

Per arrivare alla rottura del comportamento simbolico la speciazione culturale deve ispirarsi a profonde differenziazioni intraspecifiche: le lingue storico-naturali, soprattutto, con i loro costrutti simbolico-semantici che vanno dal semplice al complesso, i caratteri etnici, i modi di vestire, abitare, mangiare, vivere, i riti, le norme di comportamento sociale, le strutture di parentela, le religioni, i sistemi legislativi, l'istruzione e la trasmissione delle pratiche culturali, le tecnologie, i sistemi politici. La differenziazione intraspecifica comporta sempre una reciproca esclusione tra i gruppi: ogni gruppo culturale suffi-

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cientemente circoscritto tende a considerarsi una specie a sé e a non ritenere veri e propri uomini gli altri conspecifici. Si può staccare la funzione parentale dall'apprendimento specifico: l'addestramento avviene mediante la tradizione che può essere resa indipendente da soggetti e oggetti. Attraverso lo sviluppo delle tradizioni linguistiche si articolano le specificità formali, scientifiche, tecnologiche, espressive, letterarie, estetiche, filosofiche e religiose in complessi culturali irreversibili e cumulativi al loro interno, anche se permeabili. Con l'evoluzione culturale, si amplificano in maniera esponenziale le potenzialità selettive delle pseudospecie: queste, in concorrenza tra loro, occupano tutte le nicchie ecologiche disponibili, rafforzano, con le tecnologie, gli strumenti di coercizione e affermazione dell'espansività territoriale, ambientale ed ecologica. La rapidità con la quale si propagano le pseudospeciazioni permette una continua osmosi tra i fattori imitativi e quelli creativi dei processi culturali: conservazione e innovazione costituiscono le linee di confine che tracciano le distanze selettive fra le diverse tradizioni pseudospecifiche. Il timing evolutivo delle pseudospeciazioni è incomparabilmente più breve di quello della speciazione biologica. La rapidità e la continuità delle pseudospeciazioni culturali spiegano la dimensione unitaria della storia bellica dell'umanità: la cosiddetta «etologia della guerra» [Eibl-Eibesfeldt 1975]. Il risultato finale è che «al filtro delle norme biologiche, che inibisce le aggressioni distruttive anche nell'uomo, viene sovrapposto un filtro di norme culturali che impone di uccidere [ ... ]. Ciò che è importante chiarire è che la guerra distruttiva è un risultato dell'evoluzione culturale» [ibidem , trad. it. 54]. Naturalmente il fatto che i presupposti ideologici di una disciplina siano inadeguati non significa affatto che la teoria di cui è portatrice sia di per sé sbagliata. Nella fattispecie ciò che rende anacronistico il punto di vista antropologicoculturale non è tanto il capovolgimento dei suoi desiderata politico-ideologici, quanto l'estremizzazione di contrapposizioni malfondate: natura vs. cultura, innato vs. appreso, animalità vs. umanità, universalità vs. specificità, determinanti genetici vs. processi storici ecc. Allo stesso modo l'errata interpretazione ideologica e teoretica di queste antinomie di base non comporta una condanna 81

a catena di tutte le argomentazioni utilizzate. È il caso della centralità del linguaggio nel costituirsi dei processi cognitivi dell'evoluzione dei primati umani. Metterla in discussione significherebbe travisare il senso delle stesse dottrine naturalistiche che si vogliono difendere. Questo accade soprattutto perché, venendo meno il diaframma natura-cultura, grazie alle scoperte della biologia evoluzionistica, dell'etologia comparata e cognitiva e persino della rinata antropologia fisico-cognitiva e della zooantropologia, possiamo spingerci ad affermare che non c'è niente di più «naturalistico» del concetto di cultura (cfr. cap. IV). La capacità imitativa, la possibilità di trasmettere le conoscenze, il socia! learning, i processi di divisione del lavoro, l'organizzazione e le cure parentali, e tanti altri fenomeni della dialettica tra lo studio dei comportamenti euritopici e stenotopici sono diventati il contesto della teoria standard non solo etologica, ma anche zoologica e biologica tout court. Naturalmente nel corso degli ultimi trent'anni le ricerche in questi campi hanno prodotto riflessioni critiche e smagliature significative anche nel campo dell 'antropologia culturale. Una traccia di questo dibattito che ha iniziato a riaccostare biologia e cultura [cfr. Ingold 1986; Ingold e Gibson 1993] si può trovare nell'attuale dibattito antropologico sull'evoluzionismo [Nettle 2009a, 2009b; Runciman 2009; Dunbar 2009; Layton 2009], nell'aurorale riflessione sui rapporti tra antropologia ed etologia, tra culture umane e culture animali [Remotti 2009] e infine nell'utilizzazione di modelli cognitivisti e pragmatici nell'antropologia culturale di Dan Sperber [1996]. La strada tuttavia più originale e produttiva in direzione del riaccostamento tra le scienze socio-culturali e quelle biologiche ci sembra essere quella - davvero illustre - di Claude Lévi-Strauss che già dagli anni Ottanta del Novecento ha lanciato una sfida alle componenti più conservatrici della sua disciplina, anche a costo di attirarsi aspre critiche per non essersi fermato neppure davanti al tabù delle «razze» umane. Così in Razza e cultura, che apre il suo Lo sguardo da lontano, riflette acutamente sul fatto che proprio dalle diverse strutture di parentela (che erano state uno dei suoi principali interessi) dipendono gli intrecci genetici che rideterminano i caratteri culturali delle comunità [Lévi-Strauss 1983, trad. it. 15 ss.]. Si comincia così a delineare quel nesso tra l'analisi demografica e la genetica delle popolazioni che è 82

diventato un caposaldo della biologia evoluzionistica più recente. Per questa via Lévi-Strauss finisce con l'ammettere che si può fare un passo di più e formulare l'ipotesi che tra evoluzione organica ed evoluzione culturale i rapporti non siano solo di analogia ma anche di complementarità. [ ... ] Le culture non esigono da tutti i loro membri esattamente le stesse attitudini, e se alcune tra queste, com'è probabile, hanno una base genetica, gli individui che le possiedono al grado più alto si troveranno ad essere più favoriti. Se, come consèguenza, il loro numero aumenterà non mancheranno di esercitare sulla cultura stessa un'azione che la indirizzerà ancora più nettamente nello stesso senso, o in sensi nuovi, ma indirettamente legati a quello. Alle origini dell'umanità l'evoluzione biologica ha forse selezionato tratti peculiari quali la stazione eretta, l'abilità manuale, la tendenza alla vita associata, il pensiero simbolico l'attitudine a vocalizzare e a comunicare. Inversamente, da quando esis~e, è la cultura che consolida questi tratti e li propaga; quando le culture si specializzano, consolidano e favoriscono altri tratti, come la resistenza al freddo o al calore nel caso di società che per scelta o per costrizione hanno dovuto adattarsi a climi estremi; o come le tendenze aggressive o contemplative, l'ingegno tecnico ecc. Nessuno di questi tratti quali noi li osserviamo a livello culturale, può essere nettamente ricondotto ad una base genetica, ma non si può escludere che lo siano in misura parziale e per l'effetto lontano di legami intermedi. Se così è, sarebbe giusto affermare che ogni cultura seleziona attitudini genetiche che, per retroazione, influiscono sulla cultura che aveva inizialmente collaborato al loro rafforzamento [ibidem, trad . it. 24].

Qui Lévi-Strauss, pur senza addentrarsi in questioni tecniche, sembra anticipare alcune delle scoperte della genetica trasformazionale [Lewontin 1998; 2000] che ha riaccostato i rapporti di causa ed effetto tra geni, organismi e ambiente. È per questa via che si è giunti a comprendere come l'interazione ecologica tra le specie e l'ambiente sia biunivoca. Non è solo l'ambiente a condizionare la specie ma anche la specie a condizionare l'ambiente, perché: 1) sono gli organismi a selezionare ciò che fa parte del loro ambiente, a decidere, cioè, quali aspetti dell'ambiente sono rilevanti per loro; 2) sono gli organismi che spesso fabbricano letteralmente l'ambiente che li circonda, costruendo nidi, tane, rifugi ecc.; 3) sono i!}fine gli organismi che alterano di continuo il loro ambiente. E chiaro che maggiore è la componente euritopica delle specie animali (minore dipendenza comportamentale dalla struttura genetica) tanto più varranno queste tre regole generali. Esse, come 83

vedremo nel corso della seconda parte del libro, assumono una specifica valenza proprio nel caso dell'anomalia ecologica umana basata sulla specie-specificità linguistica (cap. VII) . In questo reciproco gioco di rimandi assume comunque un ruolo importante anche la selezione intraspecie che Lévi-Strauss ha individuato e che, su dimensione popolazionale, ha permesso di ricostruire di sana pianta proprio il nesso tra geni, popoli e lingue [Cavalli-Sforza 1996]. Anche l'antropologia culturale, che è stata una delle maggiori responsabili nell'innescare la reazione negazionista del linguaggio, riaccostandosi alla componente naturalistica della ricerca etologica può, quindi, contribuire a chiarire il nesso tra storicità e naturalità delle lingue che sta alla base della peculiare speciazione umana. 3 .3. La mente linguistica è una mente infalsificabile

La terza tipologia di questioni che rimane da analizzare riguarda la posizione espressa in ambiti diversi (dalla filosofia della mente alle neuroscienze) secondo cui la spiegazione linguistica della mente sarebbe una spiegazione infalsificabile. Ovviamente l'obiezione non è intesa a stabilire in assoluto quale relazione di dipendenza intercorra tra il pensiero e il linguaggio oppure tra le rappresentazioni percettive e quelle linguistiche (cfr. cap. Il, § 2.1): si tratterebbe, infatti, di macroquestioni alle quali le scienze della mente tendono a non rispondere o che tendono a riformulare in termini di componenti più elementari. Il problema risulta spostato su due piani di spiegazione che forniscono , anche in questo caso, come per i dati etologici e antropologici, una motivazione alla tendenza eliminativista operata sul linguaggio nell'analisi delle capacità cognitive. Questa volta, però, non vengono chiamati in causa dati comparativi né definizioni complesse: il dibattito è tutto interno all'analisi filosofica e alla concezione di linguaggio che viene offerta da alcuni settori dell'indagine filosofica della mente. I piani a cui si fa riferimento sono quello degli elementi prelinguistici che potrebbero condizionare o addirittura determinare le abilità linguistiche, e quello della priorità elaborativa dei dati percettivi su quelli linguistici.

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Analizziamo il primo piano: che le capacità linguistiche possano essere fondate su elementi prelinguistici sembra una pietra angolare delle attuali scienze della mente. In linea di principio, questa asserzione troverebbe infatti conforto nell'impostazione evoluzionista ormai assunta da molti settori di ricerca che indagano la cognizione umana e animale. Sostenere che il linguaggio si basi su capacità non direttamente derivabili da esso significa ipotizzare che tali capacità possano costituire dei precedenti evolutivi, eventualmente rintracciabili in specie animali precedenti. Significherebbe, dunque, avanzare dati a favore di una tesi continuista sul linguaggio, una tesi che esclude salti qualitativi e totalizzanti. Diverse ricerche stanno cercando di individuare quali siano queste competenze prelinguistiche su cui l'impianto della funzione linguistica si instanzierebbe: un tentativo abbastanza accettato all'interno della cerchia dei filosofi della mente è quello della core knowledge, cui più volte abbiamo fatto riferimento. I moduli elementari che costituiscono questa competenza nucleare in sostanza sarebbero rintracciabili di sicuro nei primati non umani e costituirebbero la condizione di base per lo sviluppo di diverse capacità cognitive tra cui la famosa Teoria della mente che abbiamo precedentemente descritto. In ambito linguistico, inoltre, diverse ricerche sullo sviluppo ontogenetico del linguaggio hanno dimostrato come la competenza linguistica sia condizionata nella realizzazione pratica da alcuni precursori cognitivi, come il riconoscimento delle madri o il rispetto dei ruoli interazionali [Tomasello 1999]. Sembra chiaro, infatti, che queste competenze si sviluppano prima e indipendentemente dall'acquisizione del linguaggio. Anche in questo caso, l'analisi dei dati è controversa: alcuni autori sostengono per esempio che stabilire se i cosiddetti «precursori del linguaggio» siano veramente indipendenti da esso è cosa complicata, proprio a causa della modalità di apprendimento del linguaggio umano, che fino alla maturità linguistica è caratterizzato da uno sviluppo maggiore delle capacità ricettive rispetto a quelle produttive. Questa posizione - fino a un certo punto conciliabile con una visione biologista della funzione linguistica - viene estremizzata fino a ritenere i precursori del linguaggio come strettamente non-linguistici, vincolanti per la sua realizzazione e indipendenti comunque, anche dopo la

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manifestazione del linguaggio. Ma l'aspetto interessante che consente di comprendere il motivo di tale estremizzazione fa riferimento a una posizione, sempre interna alla filosofia della mente, che ha cercato di eliminare dal linguaggio ogni sorta di possibile influenza extralinguistica. Secondo questa posizione, la mente umana è una mente completamente linguistica: ogni contenuto concettuale è esprimibile in forma linguistica e tutta l'attività cognitiva, anche quella percettiva o astratta, ha una base eminentemente linguistica. Chi sostiene questa tendenza panlinguistica - definita in maniera originale «serpentismo» da Perconti [2003] per evidenziarne metaforicamente l'intrinseca circolarità da «serpente che si morde la coda» - posto di fronte alle evidenze sperimentali che dimostrano una base almeno percettiva non linguistica (quella che viene spesso definita in letteratura neuroscientifica come attività cognitiva di basso livello) è disposto ad ammetterne l'esistenza. A una condizione, tuttavia: che, una volta innescato ontogeneticamente il linguaggio nella mente dell'individuo, si realizza un cambiamento qualitativo che condiziona tutti gli elementi cognitivi già presenti. E per dimostrare che questa posizione non è sostenibile, il serpentista esige che si portino prove dell'esistenza di capacità cognitive standard in seguito a deprivazione linguistica. E proprio questa visione totalizzante e qualitativamente differente (in senso non evoluzionistico) del linguaggio che rende la mente linguistica una mente infalsificabile: qualsiasi sia la precondizione non linguistica chiamata in causa una volta innescata la scintilla del linguaggio, questo infiamma tutto e condiziona la cognitività [ibidem]. Ovviamente una posizione infalsificabile comporta adesioni ideologiche non verificabili sperimentalmente. E questo è uno dei motivi per cui la componente linguistica è stata esclusa anche dall'analisi filosofica della mente, in cui, fino a qualche anno fa , rivestiva un ruolo centrale. La soluzione a questa querelle trova, ancora una volta, spazio all'interno della spiegazione evoluzionista. La presenza di elementi della nostra cognizione che condividiamo con i primati non umani, e non solo, potrebbe in realtà trovare legittimazione in molti processi evoluzionistici, e dunque risulterebbe più plausibile, se questa non venisse considerata una posizione di principio: i caratteri omologici, infatti, soprattutto a livello cerebrale e cognitivo assu-

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mono significati non sempre direttamente derivabili dalle forme precedenti (cfr. cap. III,§ 5, cap. IV, § 2 e cap . VI,§ 1). Il secondo piano cui fanno riferimento la spiegazione filosofica della mente e diverse indagini neuroscientifiche e neurofisiologiche è connesso con quello appena descritto e si basa sull'argomentazione secondo cui i fenomeni cognitivi di alto livello prevedono l'intervento del linguaggio solo alla fine di tutti i processamenti neurobiologici. Il linguaggio arriverebbe sempre in un secondo momento, quasi come un elemento accessorio, a «complicare le cose», cioè a rendere i fenomeni, già elaborati negli stadi precedenti, disponibili a livello coscienziale. Il dibattito è molto complesso in quanto riguarda non solo il ruolo funzionale del linguaggio nei confronti delle altre capacità cognitive, ma la possibile caratterizzazione specie-specifica della cognizione umana. Capire quando si verifica l'integrazione dei dati percettivi con quelli linguistici, infatti, non è utile solo per stabilire una gerarchia tutto sommato banale delle priorità funzionali, ma per comprendere attraverso quale modalità si realizza la conoscenza del mondo di un essere umano. La questione è presto risolta per i filosofi della mente: il linguaggio interviene in un secondo momento. L'individuo, quindi, produce conoscenze sul mondo prima percettivamente e, in seguito, «nominandole» attraverso il linguaggio (cap. II, § 2.2). In questa semplicistica operazione di etichettatura il linguaggio viene escluso dalla caratterizzazione della modalità conoscitiva umana: il sapiens conosce il mondo tramite il proprio sistema percettivo e poi lo linguisticizza solo quando le informazioni percettive arrivano a livello cosciente. In realtà questa assunzione non è per nulla scontata proprio per ragioni strettamente neuroscientifiche. Diversi studi hanno dimostrato, infatti, l'intervento di competenze linguistiche non solo funzionali (per esempio le ricerche sull'influenza del compito linguistico sulla percezione visiva, Papafragou, Hulbert e Trueswell [2008]) ma anche neuroanatomiche (si pensi ai tanti lavori sperimentali che hanno attestato l'attivazione dell'area di Broca durante compiti non linguistici, cui è dedicato il cap. III, §§ 4 ss.). È evidente che questo secondo piano riveste un ruolo epistemologico di importanza strategica: escludere il linguaggio anche da questo compito significherebbe considerare la cognitività umana del tutto a-specifica, senza

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una caratterizzazione precisa nelle modalità di processamento dell'informazione. L'ipotesi che sosterremo in questo libro (cap. III), invece, cerca di dimostrare come la cognitività umana sia fortemente condizionata dalla modalità linguistica di processamento dei dati percettivi: il binding (integrazione) delle informazioni linguistiche sui contenuti percettivi, in questo modello, si verificherebbe precocemente, influenzando non solo il processo in sé ma anche la selezione degli eventi percettivi rilevanti per la costruzione delle proprie conoscenze sul mondo [Metzinger 1995, 2000 e 2009; Hagoort et al. 2004].

4. Sintesi e conclusioni: mente linguistica

= mente naturale

Il ruolo del linguaggio all 'interno delle scienze cognitive è tutt'altro che banale: nelle diverse fasi che si sono avvicendate nella breve, seppur rispettabile, storia delle scienze cognitive il linguaggio ha assunto di volta in volta la funzione di baluardo della computazionalità pura, di attività cooccorrente rispetto agli altri processi cognitivi, di «pietra dello scandalo» della specialità umana e di «marchio» della specie-specificità del sapiens. Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, l'idea che il linguaggio possa costituire l'elemento di differenziazione cognitiva tra i primati umani e non umani ha dato il via a una serie di operazioni epistemologiche che hanno cercato di sminuire il suo valore etologico, puntando alla valorizzazione di quegli aspetti dei meccanismi mentali umani che risultano essere di base nel processamento delle informazioni ambientali. È quello che in questo capitolo abbiamo chiamato «negazionismo linguistico», una strana forma di avversione epistemologica contro la forza conoscitiva che il linguaggio esercita dall'interno sulla cognizione umana. Proprio come nel caso del negazionismo dell'Olocausto, anche in questo caso si cerca di svuotare totalmente di senso l'oggetto che reca imbarazzo: respingere, insomma, ogni possibilità teorica che il linguaggio possa svolgere qualsiasi funzione condizionante sulle abilità cognitive umane, dalla rappresentazione percettiva all'elaborazione di credenze e giudizi sul mondo esterno e su se stessi. 88

La memoria, la coscienza, la categorizzazione vengono considerate processi che funzionano tramite l'immagazzinamento e il recupero di sequenze filmiche delle immagini relative alle singole esperienze su cui solo in un secondo momento, e solo se strettamente necessario, interviene il linguaggio a tradurre in espressioni sintatticamente e semanticamente adeguate ciò che le immagini filmiche presenti nella nostra mente hanno reso disponibile. Una visione, questa, che servirebbe a evitare spiegazioni complicate sull'intervento del linguaggio nei processi cognitivi sia di basso che di alto livello e soprattutto a sfuggire il rischio dell'individuazione di una differenza qualitativa nella tipologia di cognizione umana rispetto a quella animale. Sebbene non sia possibile legittimare una posizione di questo tipo, è doveroso ammettere che essa si basa su cause che storicamente si sono presentate all'interno del paradigma delle scienze cognitive. Per esempio, in campo etologico si è spesso ricorsi a spiegazioni sulle capacità mentali umane che cercassero di individuare elementi di continuità, più che di discontinuità tra animali umani e non umani, con l'esito di ipersemplificare la scena evolutiva e descrivere parzialmente la cognitività umana, e inappropriatamente quella animale (si pensi al caso della parcellizzazione della Teoria della mente per individuarne gli aspetti comuni almeno a tutti i primati). Anche la definizione delle componenti sociale e culturale, fortemente influenzate dall'intervento del linguaggio, ha presentato posizioni altalenanti tra i sostenitori della specialità e unicità della funzione linguistica in relazione alle manifestazioni culturali (si pensi alle posizioni espresse dalla maggioranza degli antropologi culturali) e i sostenitori delle culture animali che hanno tentato di rispondere in maniera estrema alle provocazioni iperlinguistiche degli antropologi, proponendo tuttavia versioni «tecnicamente» lambiccate e paradossali di eliminazione del linguaggio dall'attività di produzione culturale. Il linguaggio, in sostanza, interverrebbe solo nella diffusione, nella socializzazione appunto, degli artefatti culturali, che invece verrebbero costruiti tramite capacità immaginative, non linguistiche e dunque possibilmente presenti anche in altri animali non umani. Posizione, quest'ultima, inaccettabile quanto la precedente. Infine l'ultimo tentativo di esclusione del linguaggio dalle scienze cognitive deriva proprio da uno dei settori che l'aveva 89

difeso in maniera strenua, la filosofia della mente, oggi impegnata in una battaglia politicamente corretta contro la funzione linguistica, considerata morfologicamente e funzionalmente troppo invasiva e distante dalle abilità e dalle strutture presenti negli altri animali non umani. La sua invasività si realizza anche nella forte influenza che esercita sulle altre funzioni cognitive: la mente linguistica è considerata una mente infalsificabile, perché se il linguaggio «incendiasse» tutta la cognitività umana sarebbe impossibile dimostrare che esistono parti del nostro modo di percepire la realtà che non sono linguisticamente fondate. In parte questa versione del negazionismo linguistico potrebbe presentare risvolti interessanti da un punto di vista etologico-evolutivo: è ipotizzabile, infatti, che l'uomo presenti pezzi della propria cognizione non direttamente gestiti dalla funzione linguistica in virtù della sua storia evolutiva e delle eredità filogenetiche di cui è portatore. Ma estremizzare la necessità che si tratti di elementi non solo non linguistici (e anche su questo il dibattito è ancora aperto) ma anche non influenzabili dal linguaggio in nessun momento del processamento cognitivo è un passo che connota ideologicamente tale posizione. La questione del ruolo del linguaggio rispetto alle altre componenti cognitive assume aspetti epistemologicamente rilevanti in quanto definisce la tipologia di rappresentazione tipica della specie sapiens. Stabilire quando il linguaggio interviene nei processi di elaborazione della realtà esterna, dunque, non significa solo corroborare tesi negazioniste o meno, significa attribuire o meno al linguaggio il compito di rendere specie-specifica la modalità di processamento dell'informazione. La mente linguistica è una mente naturale, una mente che è biologicamente ed evolutivamente configurata per rappresentarsi linguisticamente la realtà. Questa enunciazione, che verrà chiarita a fondo nei dettagli empirici nel prossimo capitolo, si basa sull'osservazione della predisposizione genetica, morfologica, cerebrale e funzionale del sapiens alla funzione linguistica. Non si vuole, in questo modo, riportare su svolte linguistiche solo teoricamente formulate l'ago della bilancia della cognitività umana: non si sta escludendo aprioristicamente che la mente umana sia l'esito di processi adattativi che hanno selezionato positivamente il mantenimento di funzioni precedenti. Anzi, proprio la valutazione biologica, naturale della funzione linguistica 90

attribuisce un valore fondativo alle componenti di continuità evolutiva, ma senza per questo cadere nell' adattazionismo forte o nell'omologia forzata: ogni processo speciativo comporta il mantenimento di tratti e il riuso di elementi per funzioni prima non presenti, così come la formazione di nuove strutture (cap. VII). La storia delle variazioni anatomiche e delle installazioni funzionali non solo non è prevedibile, né ripercorribile, ma è assolutamente complessa, rigidamente vincolata nella forma e nelle possibilità [Minelli 2007 , 2009; Hauser 2009] pur continuando a restare adattativamente flessibile. In questa prospettiva, allora, il linguaggio non può più venire considerato come una modalità di comunicazione, ma deve essere considerato come una forma psicobiologica ontologicamente cognitiva: la modalità specie-specifica attraverso cui il sapiens conosce e rappresenta il mondo. E questo solo grazie alla selezione delle strutture specializzate di cui tratteremo nel capitolo che segue.

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CAPITOLO TERZO

FONDAMENTI BIOLOGICI E STRUTTURE EVOLUTIVE DEL LINGUAGGIO

Le basi biologiche del linguaggio hanno costituito un oggetto di interesse specifico delle scienze cognitive. Per diversi anni, lo studio dei correlati morfologici centrali (aree cerebrali del linguaggio) e periferici (tratto vocale sopralaringeo) è stato considerato non solo un contributo alla conoscenza della fisiologia linguistica ma addirittura un apporto decisivo alla definizione della stessa natura della cognizione umana. È indubbio, infatti, che la funzione del linguaggio, sia nell'accezione ampia di sistema di comunicazione sia in quella più ristretta di sistema di rappresentazione, viene garantita da alcune strutture anatomiche senza le quali non sarebbe nemmeno ipotizzabile la pratica linguistica del sapiens. Proprio sulla base di questo postulato, fino a qualche anno fa si sosteneva la tesi secondo la quale la presenza di strutture fisiologiche specifiche per il linguaggio costituisce il contrassegno naturale della specialità umana. La connessione tra gli elementi morfologici e le funzioni instanziate non è stata mai considerata, tuttavia, diretta: i dati derivanti sia dagli studi sugli en/ants sauvages [cfr. Pennisi 2006] sia sui ritrovamenti paleoantropologici delle prime forme simboliche avevano già messo in dubbio, infatti, la completa automaticità di quella relazione. Era chiaro, in sostanza, che, sebbene i correlati morfologici costituissero la condizione necessaria per la presenza del linguaggio, essi non erano tuttavia sufficienti a garantirne l'esercizio. Il dibattito innato/ acquisito, infervoratosi proprio nel periodo in cui le scienze cognitive stavano precisando il loro statuto epistemologico, aveva raggiunto un punto di equilibrio proprio con il reciproco riconoscimento, da parte dei sostenitori delle due opposte tesi, della plausibilità delle opinioni antagoniste. Così il linguaggio, che presenta caratteristiche evidentemente innate 93

come le strutture anatomiche e la predisposizione spontanea all'apprendimento, necessita comunque di un innesco sociale per potersi realmente palesare. Ciò che tuttavia continuava, e per buona parte continua ancor oggi, a essere ignorato è il rapporto tra le strutture e le funzioni del linguaggio e la storia evolutiva che ha potuto portare al suo attecchimento come forma cognitiva specie-specifica della socialità umana. Un esempio eclatante degli errori di valutazione degli aspetti evolutivi può essere considerato il caso dell'osso ioide. Si tratta, com'è noto, di una struttura ossea sesamoide (cioè non articolata con altre ossa, la sua posizione stabile viene garantita dalla presenza di diverse formazioni muscolari) cui si agganciano i muscoli laringali e quelli mandibolari. Il movimento dell'osso ioide, tramite il legamento tiro-ioideo e i muscoli genio-ioidei che lo legano alla mandibola, permette la variazione della geometria del tratto vocale, fondamentale per la generazione di frequenze formantiche tipiche della produzione del sapiens [Lenneberg 1967; Lieberman e Crelin 1971; Lieberman 1975; Lieberman e McCarthy 1999; Deacon 1997]. Inoltre, fornendo un aggancio ad altri muscoli orientati in direzioni molteplici (sono presenti connessioni anche con l'osso temporale, lo sterno, la clavicola e la scapola) determinerebbe la tipica posizione bassa della laringe (sebbene su tale affermazione non ci sia pieno accordo, cfr. Lieberman, Ross e Ravosa [2000] , Laitman e Heimbuch [1982], ma anche Leroi-Gourhan [1964] e Johansson [2005]) . Oltre a svolgere un ruolo determinante nella fonazione, 1'osso ioide, dunque, è stato considerato un elemento di riferimento decisivo per individuare la capacità fonatoria in specie di ominidi vicine al sapiens ma ormai estinte. La formazione ioidea, in quanto ossea, è l'unica parte del tratto vocale a fossilizzare e dunque la sua forma, così come la sua posizione, era considerata risolutiva per riconoscere le possibilità articolatorie negli ominidi. Gli studi paleoantropologici di Philip Lieberman [1991] avevano condotto all'ipotesi secondo la quale in Homo sapiens l'osso ioide si troverebbe in una posizione più alta rispetto a quella degli altri ominidi e avrebbe una forma differente che consente un migliore aggancio dei tendini funzionali al suo movimento. La comparsa dell'osso ioide con le caratteristiche specifiche dell'uomo anatomicamente moderno sarebbe fissata, 94

in base alla datazione liebermaniana dei primi fossili di sapiens, proprio intorno ai 100.000 anni fa , periodo in cui, secondo i paleoantropologi, si sarebbe distaccata la linea evolutiva del sapiens. Sembrava, dunque, identificata una caratteristica strutturale ossea che permetteva di distinguere l'uomo anatomicamente moderno dai suoi precursori: l'osso ioide era il baluardo paleoantropologico della specialità anatomico-funzionale del sapiens. L'individuazione dei tratti anatomici per la fonazione specifici della specie umana garantiva, così, l'unicità della funzione linguistica e la separazione dalle altre specie animali. In realtà studi ulteriori hanno dimostrato imprecisioni sulla datazione della comparsa dell 'osso ioide: Arensburg et al. [1989], per esempio, hanno individuato in un fossile di Neanderthal ritrovato a Kebara un osso ioide quasi identico a quello delle forme moderne, e tale ritrovamento - seguito da altre conferme su neanderthaliani [Duchin 1990; Houghton 1993; Heim, Boe e Abry 2002] - ha permesso di avanzare l'ipotesi che alcuni ominidi avessero almeno la possibilità tecnica di parlare. Di fatto, la critica principale rivolta alla ricostruzione dei correlati morfologici del linguaggio approntata da Lieberman non riguardava tanto l'importanza attribuita dallo studioso ad alcuni tratti anatomici periferici, come appunto le strutture della fonazione tra cui l'osso ioide, ma il ruolo evolutivo che esse hanno svolto anche in specie che è molto probabile non possedessero abilità articolatorie. In sostanza, alcuni studiosi (per esempio Bradshaw [1997]) hanno evidenziato come fosse improbabile che una struttura fondamentale per la definizione dell'uomo anatomicamente moderno come il tratto vocale sopralaringeo potesse essere comparsa all'improvvisvo nel sapiens. Inoltre diversi studi etologici [Fitch 2000, 2005 ; Fitch e Reby 2001] hanno gettato luce sulla possibilità che la struttura del tratto vocale sopralaringeo fosse ottenibile tramite sforzi muscolari anche da altre specie animali (sicuramente da tutto 1'ordine dei mammiferi, ma a quanto pare anche dai coccodrilli e da alcuni pinnipedi) spostando la differenza funzionale dalla struttura in sé all'uso che un organismo ne fa (l'uomo sarebbe in grado di articolare grazie al controllo volontario di strutture presenti anche in altre specie animali ma con un funzionamento automatico). La teoria di Lieberman, quindi, non teneva conto di alcuni elementi evolutivi fondamentali.

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1. Evoluzione degli organi o evoluzione degli organismi? Non si pensi, tuttavia, che l'introduzione del paradigma evoluzionistico nelle scienze cognitive costituisca un'operazione epistemologica del tutto indolore [Ferretti 2007]. Il compito delle scienze cognitive, infatti, è quello di individuare il funzionamento delle attività mentali principalmente sull'asse sincronico-funzionale, laddove come abbiamo già visto nel cap. I, § 4, la spiegazione e i metodi evoluzionisti si muovono, al contrario, sull'asse diacronico-ricostruttivo, quindi principalmente storico [Pennisi 2008]. La materia sulla quale operano sia l'asse sincronico del cognitivismo sia quello diacronico dell'evoluzionismo è, tuttavia, la medesima: la base organica e funzionale dei processi attraverso cui si realizzano la vita e la conoscenza degli organismi. Ottima ragione, quindi, per esplorare tutte le sinergie possibili. Il caso appena illustrato dell'osso ioide e del suo presunto ruolo di demarcatore funzionale, oltre che evolutivo, mostra, in concreto, che attraverso questa sinergia può emergere una spiegazione che non solo permette di rivalutare con maggiore oggettività l'attuale continuità fra le strutture e le funzioni del sapiens e quelle presenti in altre specie animali, ma consente anche di considerare le peculiarità di ogni singola specie senza cadere nelle strettoie dell'antropocentrismo. Il contributo più importante fornito dalla teoria evoluzionista in ambito cognitivo, infatti, riguarda la valutazione complessiva dell' adattività di un essere vivente. Molto spesso le indagini scientifiche delle componenti anatomiche tendono a sezionare l'organismo in singole unità di cui vengono descritti la funzionalità e il ruolo che rivestono. Questa modalità di indagine, estremamente utile per comprendere analiticamente il funzionamento di strutture complesse, si può però tradurre in analisi sterili che mettono in evidenza solo i compiti limitati di un certo organo, senza considerarne le connessioni e le dipendenze funzionali con cui si correla con altri organi. È proprio questa tendenza «isolazionista» e riduttiva della ricostruzione delle parti degli organismi (praticata soprattutto da alcuni paleontologi) che l'evoluzionismo ha cercato di mettere in discussione, sia in ambito prettamente biologico sia in quello cognitivo. 96

Misurare l' adattività dei polmoni per la respirazione aerea di un mammifero, per esempio, è un compito ozioso che fa perdere di vista il processo evolutivo complessivo che ha condotto alla selezione di un dato individuo, e soprattutto spinge a fornire spiegazioni ad hoc di determinati tratti anatomici: se i mammiferi hanno delle strutture adatte per la respirazione aerea vuol dire che queste sono utili per la loro sopravvivenza sulla Terra e per questo sono state selezionate positivamente. Cercare di attribuire adattività a ogni singolo costituente strutturale, inoltre, espone la spiegazione evolutiva a critiche relative ai cosiddetti «stadi incipienti»: se l'evoluzione è un processo continuo e il cambiamento viene garantito dalle pressioni selettive, come si può spiegare l' adattività di un organo incompleto? (cfr. cap. IV, § 1) Già Darwin aveva paventato una possibile degenerazione della sua teoria in questa direzione, e aveva formulato al riguardo un'ipotesi che potesse fornire una soluzione possibile al cosiddetto problema della «complessità irriducibile»: è possibile che la selezione naturale agisca positivamente su un organo per più di una funzione iniziale, oppure che una funzione venga assolta da più organi. Tale ridondanza è alla base della possibile cooptazione della struttura per un'altra funzione anche completamente diversa rispetto a quella di partenza. L'ipotesi darwiniana della cooptazione funzionale, dunque, riduce la lente d'ingrandimento dell'indagine strutturale e la posiziona sull'organismo considerato nella sua interezza: solo con questo criterio metodologico è possibile ottenere una visione non miope e riduttiva delle ragioni evolutive, del perché certi esseri viventi mostrano organi e funzioni specifici. Anche in ambito cognitivo si è verificato un processo simile: gli organi garanti dell'esclusività umana sono stati spesso considerati svincolati dal resto dell'organismo e valutati nella loro singola adattività: questa, per esempio, è una delle cause che ha spinto diversi studiosi a considerare il tratto vocale come adattamento esclusivo per il linguaggio. Ma soprattutto il cervello, quello umano in particolare, ha goduto di uno statuto di «organo speciale» e, come se fosse un organo completamente avulso dal resto del corpo, a esso sono state attribuite caratteristiche di unicità anatomo-funzionale che gli studi etologici, ma anche neurobiologici, hanno dimostrato del tutto infondate (si 97

pensi ali' evoluzione degli studi sulla lateralizzazione cerebrale, cfr. Pennisi [2006]). Porre le strutture anatomiche all'interno degli organismi viventi significa comprendere che i principi di composizione genetica, funzionamento anatomico e manifestazione adattativa presenti nell'essere umano sono validi per qualsiasi altra specie vivente, ovviamente nei limiti determinati dalle rispettive specificità etologiche. Non basta sapere che una certa struttura svolge una data funzione in un individuo per comprenderne il funzionamento e le ragioni evolutive: è necessario capire la storia dei cambiamenti continui che hanno prodotto continue ricalibrazioni strutturali e funzionali. Ogni specie è il frutto di una storia di cambiamenti continui, più o meno rapidi, che l'ambiente in cui essa vive e le co~seguenti relazioni ecologiche necessarie vagliano positivamente. E in virtù di questa dialettica tra possibilità genetiche e manifestazioni casuali adattative che viene costruita la Umwelt specie-specifica di ogni specie animale. Il confronto etologico interspecifico ha senso solo se si tiene conto che la paragonabilità dei tratti anatomici e comportamentali supera il limite delle competenze adattative e cognitive della specie. Rintracciare la presenza di una struttura morfologica o di un aspetto comportamentale in specie diverse risulta determinante per stabilire legami filogenetici o funzionali , ma non implica necessariamente l'appiattimento delle differenze su un unico piano adattativo: come abbiamo visto con il caso dell'osso ioide, la sua presenza in ominidi precedenti al sapiens non implica l'impiego per la produzione articolata nelle forme neanderthaliane. Come sottolineato già nell'ipotesi darwiniana, poi ripresa sia dai teorici dell'evoluzione [Gould e Vrba 1982] sia dagli etologi [Lorenz 1973 a; 1983], la storia delle funzioni segue un percorso non sempre strettamente vincolato all' adattività immediata delle strutture. La selezione, come un bricoleur, rimaneggia gli elementi strutturali ridondanti e li rende disponibili per altre funzioni che vengono manifestate casualmente e variano in base all'uso ambientale che se ne fa. La ri/unzionalizzazione comporta una riorganizzazione complessiva dell'individuo portatore e viene mostrata solo se le condizioni e le necessità ambientali lo richiedono e lo permettono (si veda il caso delle prestazioni degli scimpanzé in laboratorio, cap. VI,§§ 1.1-3). 98

Nelle pagine che seguono cercheremo di esaminare quanto le prospettive cognitiva ed evolutiva abbiano modificato alcune delle convinzioni più radicate sull'esclusività morfologica dell' essere umano. È bene, però, chiarire fin da ora che non verrà prodotta una serie di dati a sostegno di un'idea riduzionista delle capacità cognitive dell'uomo, né si cercherà di rintracciare ciecamente precedenti evolutivi di strutture anatomiche che oggi sostanziano funzioni cognitive complesse. La prospettiva biologica inaugurata di recente nell'analisi delle capacità cognitive umane, contrariamente ai timori sollevati da alcuni ambiti filosofico-umanistici, non ha prodotto una banalizzazione delle questioni relative alla natura e alla modalità di realizzazione della cognizione umana. Anzi, proprio la collocazione delle strutture e delle funzioni umane all'interno del funzionamento dell'intero organismo soggetto a leggi indifferenziate della selezione naturale e dell'adattamento ha reso più complesso il quadro della differenziazione della cognizione umana e del suo funzionamento fisiologico. Tutto ciò, inoltre, non ha portato all'appiattimento delle differenze interspecifiche, come sopra descritto, ma al contrario a una valutazione più ricca e meno riduttiva delle capacità umane: una valutazione, infine, generalizzabile a ogni tipologia di cognizione, anche a quella animale. Un chiaro esempio del positivo travaglio epistemologico introdotto dalla prospettiva evoluzionista è rappresentato proprio dagli studi sulle strutture centrali e periferiche del linguaggio che fanno emergere chiaramente la relazione mediata tra componenti anatomiche e capacità cognitive in relazione ai processi di exaptation che hanno fatto completamente ripensare le ipotesi sull'unicità e sulla specialità del linguaggio nel suo complesso.

2. Le vie perz/eriche Il linguaggio articolato è frutto del funzionamento coordinato di diverse strutture anatomiche periferiche, ognuna delle quali concorre alla produzione dei suoni propri di una lingua. Nei membri adulti della specie umana, in particolare, è presente una configurazione tipica del canale faringeo con la laringe in 99

posizione permanentemente bassa. L'abbassamento della laringe è fondamentale per la produzione vocale in quanto consente di ampliare la lunghezza della cavità orale. Questo elemento anatomico permette di ottenere una cassa di risonanza in più in cui modulare maggiormente il tono puro emesso dalla glottide prima che questo esca dalla bocca. I suoni del linguaggio umano, infatti, vengono prodotti tramite la vibrazione dell'aria che, emessa dai polmoni, attraversa il tratto vocale incontrando alcuni ostacoli anatomici di cui il soggetto parlante dispone. L'abbassamento della laringe permette al suono di venire filtrato da più strutture anatomiche fornendo una maggiore variazione della qualità vocalica, cioè della configurazione che assume il tratto vocale. In sostanza, sarebbe grazie a tale abbassamento che il sapiens è in grado di produrre le cosiddette «frequenze formantiche»: la posizione bassa della laringe e la sua inclinazione di circa 90° rispetto a quella dei primati determina un cambiamento nella geometria del tratto oro-vocale e produce un rapporto particolarmente vantaggioso di circa 1:1 [cfr. Lieberman e McCarthy 1999] tra la lunghezza della canna orizzontale (che va dalle labbra alla parete posteriore della faringe) e quella della canna verticale (che va dalle fessure vocali sino al palato molle). La conseguenza immediata è l'aumento delle dimensioni della cavità faringale e una sua maggiore mobilità che determinano la formazione di una sorta di filtro dinamico atto a rendere possibile la produzione di vocali dotate di frequenze formantiche acusticamente distinte [Nearey 1978; Lieberman, 1984, 1991]. La forma della laringe, unita alla capacità di controllo dei muscoli limitrofi che ne consentono una maggiore modificabilità, incrementa lo spettro delle possibilità articolatorie umane [Lieberman e McCarthy 1999]. A un'analisi superficiale sembrerebbe, dunque, che la struttura di ciò che oggi viene chiamato «tratto vocale sopralaringeo» sia presente nel sapiens in quanto evidentemente selezionata per scopi linguistici. E proprio in virtù di tale fun zione sarebbe esclusiva anatomica degli esseri umani. Sulla base di studi condotti sia su reperti di ominidi pre-sapiens sia su primati non umani, Lieberman [1991; Lieberman e Crelin 1971] sostiene per esempio che l'uomo sia l'unico essere vivente ad avere una laringe permanentemente bassa. Il linguista americano arriva a questa conclusione appoggiandosi sulla valutazione del rischio 100

per la sopravvivenza che comporta l'abbassamento della laringe. Tale caratteristica anatomica, infatti, determina la condivisione di un tratto del canale di passaggio del cibo e dell'aria (faringe). Durante la deglutizione il canale della respirazione viene chiuso tramite l'epiglottide per impedire che residui liquidi e/o solidi della masticazione, dopo aver attraversato la faringe, possano finire nella trachea ostruendola e impedendo la respirazione. Se questa operazione non viene eseguita correttamente si corre il rischio di soffocare, un rischio che connoterebbe come svantaggioso, e dunque selezionabile negativamente, il tratto vocale umano se non fosse stato associato a un vantaggio talmente forte da superare qualsiasi effetto negativo. Secondo Lieberman il vantaggio consisterebbe nella possibilità di comunicare verbalmente: in altri termini, l'abbassamento della laringe sarebbe un adattamento per il linguaggio. Molte ipotesi selezioniste sull'origine della funzione linguistica [cfr. Dunbar 1997; Bickerton 1990, 2003; Deacon 1997] attribuiscono un valore selettivo al linguaggio e considerano le strutture su cui è instanziato un adattamento per la funzione. Ma è proprio l'idea di «adattamento per la funzione» che è stata messa in discussione in questi ultimi anni. Tale idea, infatti, parte da un presupposto non sempre verificato da un punto di vista evolutivo. Darwin sosteneva che le strutture anatomiche vengono selezionate positivamente nel corso dell'evoluzione di una specie sulla base della loro adattività, cioè dei vantaggi e dell'incremento della fitn ess che riescono a fornire ai membri di un dato gruppo di conspecifici. Questa assunzione, però, utilizzata in maniera onnipervasiva rischia di diventare una spiegazione tautologica: «una definizione circolare reciproca dell'adattamento e della selezione naturale: dicesi adattamento tutto ciò che viene prodotto dalla selezione naturale; dicesi selezione naturale il meccanismo che genera adattamenti» [Pievani 2005, 142]. Se poi l'adattività viene applicata alle funzioni , soprattutto a quelle cognitivamente complesse, il quadro si complica ulteriormente e si rischia di cadere in certe spiegazioni finalistiche che cercano di ricondurre a adattamenti specifici tutti i comportamenti e le capacità cognitive dell'uomo pretendendo di simulare contesti ambientali e predisposizioni funzionali di ominidi estinti, come spesso accade nelle formulazioni della psicologia evoluzionistica [Adenzato e Meini 2006] . 101

È innegabile il ruolo svolto dalla pressione selettiva sulle strutture anatomiche e su alcuni aspetti funzionali, ma costringere a spiegazioni adattative tutte le strutture prese singolarmente e le funzioni che su di esse sono instanziate, come detto in precedenza, comporta anche la banalizzazione di una teoria scientificamente fondata come quella darwiniana, che mai ha mostrato tali picchi di fondamentalismo epistemico. Darwin stesso considerava determinanti per la comprensione dei processi evolutivi, più che gli adattamenti perfetti, le imperfezioni, i «retaggi evolutivi» presenti in diverse specie animali: proprio nella presenza di compromessi adattativi, infatti, sarebbe evidente il processo di graduale cambiamento che è alla base della diversità delle forme viventi. La conservazione di alcuni tratti evidentemente non adattativi (o neutri) all'interno di una specie, infatti, è un segno dell'eredità filogenetica delle forme precedenti e, contemporaneamente, è «la premessa di nuovi riutilizzi possibili» [Pievani 2005, 143]. È proprio da questa posizione che si sviluppa l'ipotesi formulata da Tecumseh Fitch, biologo evoluzionista che si è occupato di indagare la presenza del tratto vocale sopralaringeo anche in altre specie animali. Fitch [2002] sostiene che proprio il tratto vocale sopralaringeo - una delle fortezze della specificità e dell'unicità del linguaggio e della capacità articolatoria dell'uomo - sia riscontrabile anche in altre specie animali lontane filogeneticamente dal sapiens, evolutivamente precedenti. In base alla sua ipotesi il tratto vocale sopralaringeo è una manifestazione di analogia [cfr. Lorenz 1978] in quanto svolge una funzione adattativa in più specie. L'ipotesi di Fitch è abbastanza nota e si basa sull' osservazione del fatto che diverse specie animali - tra cui il cervo nobile (Cervus elaphus), i cani (Canis /amiliaris), le capre (Capra hircus), i maiali (Sus scrofa) e i tamarini (Sanguinus oedipus), i daini, gli alligatori - hanno la possibilità di ottenere, tramite variazioni fisiche, una struttura anatomica del tratto vocale sopralaringeo molto simile a quella umana. La teoria di Fitch fornirebbe una spiegazione migliore dell'attecchimento del tratto vocale sopralaringeo rispetto a quella avanzata dalle teorie linguistico-evolutive che vedono nel linguaggio il vantaggio immediato della presenza di alcune strutture anatomiche fra cui il tratto vocale. Secondo Fitch, infatti, il

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tratto vocale sopralaringeo avrebbe avuto una prima funzione immediata nell'uomo: economizzare gli sforzi per ingrandire la percezione della propria stazza, sforzo che le altre specie compiono proprio abbassando la laringe fino ai limiti fisiologici durante la produzione di suoni e in particolare durante il periodo dell'accoppiamento. L'abbassamento della laringe aumenta il volume della cavità faringea (la cui dimensione è di norma correlata positivamente con le dimensioni corporee di ogni singolo individuo) e, fornendo una cassa di risonanza maggiore, permette all'aria di vibrare maggiormente e dunque di amplificare il suono, garantendo la produzione di frequenze formantiche. Fitch osserva come la produzione delle formanti non sia funzionale al richiamo emesso ma alla percezione che ne hanno i conspecifici. In sostanza, poiché esiste una correlazione positiva tra le dimensioni corporee e la capacità di emettere suoni gravi e definiti, l'abbassamento della laringe con la conseguente produzione di formanti viene impiegato per «fingere» (ovviamente non in maniera intenzionale) l'aumento delle proprie dimensioni corporee. E questo varrebbe anche per l'essere umano, almeno per le prime forme presenti sulla Terra. Il valore adattativo connesso alla produzione di frequenze formantiche, dunque, non sarebbe rintracciabile nella produzione articolata del linguaggio ma nella possibilità di risultare maggiormente attraenti per le femmine del gruppo fingendo di ingrandire la propria stazza (size-exaggeration theory). La stabilizzazione di una struttura che consente una produzione vocale «virtuosa» come quella umana potrebbe essere stata selezionata positivamente nel corso dell'evoluzione con gli stessi meccanismi e per le stesse ragioni funzionali delle strutture fonatorie degli animali non umani, ma l'uso che oggi ne fa l'Homo sapiens esula dai fini originari. È improbabile che la discesa della laringe nell'uomo sia vantaggiosa per il solo motivo di ingrandire, a scopi sessuali e di difesa, la propria stazza corporea. I meccanismi di rifunzionalizzazione (exaptation) hanno prodotto un riadattamento di tale struttura che, una volta selezionata positivamente grazie a un certo vantaggio evolutivo - che potrebbe essere l'esagerazione della propria taglia o qualsiasi altro vantaggio immediato che abbia permesso l'incremento della_fi'tness stabilizzando il tratto anatomico all'interno della specie - ha comunque consentito l'articolazione e la 103

modulazione fine di suoni in sequenze più o meno complesse con frequenze formantiche tipiche. La funzione secondaria, quella che si è instanziata successivamente e non necessariamente per fornire vantaggi adattativi immediati, sarebbe, dunque, quella fonatoria. Si tratterebbe di una «analogia esattata», un caso di coevoluzione di strutture anatomiche vantaggiose e di possibilità emergenti che, una volta stabilizzata la funzione immediata, hanno potuto manifestarsi grazie alla liberazione dai vincoli evolutivo-strutturali precedenti. L'ipotesi di Fitch ha aperto la strada a una prospettiva evolutiva più plausibile rispetto a quella individuata dalle teorie linguistico-evolutive che non riuscivano a spiegare il gap temporale tra la comparsa della laringe in posizione bassa come struttura anatomica già nei primi sapiens (200.000-120.000 anni fa) e il suo impiego per fini linguistici (70.000 anni fa). Il principio in base al quale una funzione immediata abbia agito da catalizzatore selettivo del tratto vocale per scopi non linguistici, dunque, appare scientificamente convincente. Ciò che invece sembra discutibile è proprio la confronta~ilità anatomico-funzionale dei tratti vocali di specie diverse. E evidente, infatti, che sebbene altre specie animali siano in grado di ottenere una configurazione simile a quella umana producendo frequenze formantiche, tale produzione è vincolata alle capacità di resistenza del singolo individuo nel mantenere in tensione i muscoli e proprio ciò sarebbe di impedimento per l'incremento della capacità articolatoria. Fitch, per rispondere a questa critica, ha illustrato alcuni casi di mammiferi che possiedono un tratto vocale con la laringe permanentemente bassa (le foche, i koala) impiegata - a quanto pare - sempre per scopi riproduttivi e ciò consentirebbe un confronto fra il tratto vocale umano e quello non umano. Ciò non toglie, tuttavia, che i koala, pur possedendo un tratto vocale simile a quello umano, non riescono a produrre voce articolata. Secondo Fitch, per rintracciare le caratteristiche specie-specifiche di ogni specie e comprenderne le differenze nelle capacità produttive è interessante non tanto valutare la corrispondenza delle strutture anatomiche, quanto l'uso che una data specie ne fa. L'indagine, quindi, dovrebbe spostarsi dagli aspetti morfologici alle componenti del sistema nervoso che permettono di controllare in maniera flessibile una determinata struttura. 104

La precisazione approntata da Fitch mette in risalto l'incompletezza della sua argomentazione: se le strutture anatomiche da sole non ci informano sulle funzioni che potrebbero svolgere, anche le modalità attraverso cui si realizza il controllo di tali strutture non vincolano necessariamente la presenza delle capacità associate. Offrono, tuttalpiù, una possibilità, una disponibilità. L'evoluzione delle funzioni, come detto in precedenza, non segue gli stessi tempi adattativi dell'evoluzione delle strutture: l' exaptation rimaneggia le ragioni evolutive primarie delle strutture determinando un rimodellamento complessivo. Lo svincolamento delle strutture dalle funzioni primarie (ovviamente autorizzato dalle variazioni genetiche) fornisce nuove possibilità di rifunzionalizzazione che, sebbene siano condizionate in basso dalla flessibilità genetica delle competenze strutturali, risultano casuali e non prevedibili. Ciò non autorizza comunque a immaginare l' exaptation come un epifenomeno, una specie di riassestamento «magico» del tutto astratto: l' exaptation si realizza tramite una serie di ricablaggi neurali che servono a gestire la nuova funzione impiegando altre strutture collaterali a quella esattata. È un vero e proprio cambiamento adattativo e in quanto tale richiede rivoluzioni della funzionalità dell'intero organismo. Una specie può mostrare strutture virtualmente adatte a una funzione (come la laringe permanentemente bassa) ma se non si verifica un esattamento tale funzione non potrà manifestarsi. In questa prospettiva le strutture anatomiche in sé non sarebbero garanti della presenza di una funzione complessa, come il linguaggio: ogni funzione può essere l'esito di un ricablaggio di sistemi anatomici già esistenti che risultano casualmente adatti per l'instanziazione di una nuova funzione. È come se le strutture anatomiche, inizialmente selezionate per scopi adattativi immediati, venissero «vampirizzate» da nuovi obiettivi emergenti da riorganizzazioni anatomiche e funzionali. A livello periferico l'articolazione verbale, per esempio, oltre a «sfruttare» il tratto vocale nei modi che abbiamo prima descritto, implica la rifunzionalizzazione di una serie di strutture che svolgono funzioni primarie vitali per la sopravvivenza dell'organismo: il linguaggio approfitta dei meccanismi della respirazione (durante la fonazione i normali ritmi di inspirazione ed espirazione vengono alterati rallentando notevolmente l'espulsione dei ma105

teriali aerei di risulta del metabolismo cellulare per consentire al flusso d'aria di defluire quanto più lentamente possibile, cfr. Lenneberg [1967]) e di diverse formazioni muscolari tra cui quelle facciali, faringali e ioidee, di norma impiegate per la nutrizione. Oggi il dibattito sulle modalità di realizzazione dei processi esattativi e soprattutto sulle pressioni selettive che ne facilitano l'attecchimento a livello di popolazione è molto acceso. I dati relativi agli studi in laboratorio di primati non umani che, in condizioni sperimentali, mostrano capacità cognitive simili a quelle umane (abilità numeriche, di riconoscimento di conspecifici e di relazione spaziale, cfr. cap. VI, § 1) mai manifestate nell'habitat naturale, sembrano suggerire che nella spinta alla ricablatura giocano un ruolo fondamentale le condizioni ambientali. Se nonostante la presenza di strutture anatomiche simili a quelle del sapiens diverse specie animali non mostrano le stesse capacità cognitive umane è probabile, allora, che la storia evolutiva delle strutture abbia condizionato anche la direzione delle possibilità esattative, e che la pressione selettiva non abbia agito positivamente sulle eventuali rifunzionalizzazioni in altre specie animali in quanto non utili nell'ambiente in cui esse vivono. I principi del riassestamento funzionale costituiscono, quindi, un nodo centrale per la valutazione delle capacità che definiamo unicamente umane, in quanto consentono di ottenere un quadro complessivo delle connessioni tra strutture e funzioni e del ruolo adattativo che queste svolgono per l'intero organismo. In questo quadro teorico vanno inseriti a pieno diritto anche gli studi che indagano sulle componenti morfologiche centrali del linguaggio. 3. Le vie centrali Le capacità cognitive tipicamente umane, fin dalle prime indagini filosofico-scientifiche [cfr. Lo Piparo 2003], sono state identificate con 1~ abilità verbali e linguistiche in generale [Whitaker 1998]. E semplice dare una spiegazione di tale associazione: il linguaggio era uno dei segni più evidenti di differenziazione dell'uomo rispetto alle altre specie animali, e spesso da esso venivano derivate altre specialità mentali, 106

come pensiero, memoria, percezione, emozioni e così via. La discussione sulle abilità linguistiche ha avuto un'esplosione nel XIX secolo soprattutto in seguito al dibattito circa la possibilità di individuare porzioni specifiche del cervello in relazione ad abilità specifiche. Nella seconda metà dell'Ottocento, infatti, era in atto un confronto molto acceso sulle modalità attraverso cui il cervello, ormai riconosciuto come organo di gestione delle vie nervose e di conseguenza dei comportamenti umani [Piccolino 2008], permette le attività intellettive umane. Gli studi sull'encefalo condotti fino a quel momento fornivano informazioni relative alla struttura cellulare e alla modalità di conduzione nervosa, ma non era ancora chiaro come si verificasse il controllo da parte del cervello sulle attività mentali. La querelle si articolava su due posizioni contrapposte: i fautori del localizzazionismo sostenevano la possibilità di rintracciare una corrispondenza diretta tra aree cerebrali e funzioni associate [Gall 1798], i fautori dell'olismo, invece, ipotizzavano che la vita mentale fosse l'esito non di una singola area con competenze specifiche ma dell'attività complessiva del nostro cervello [Flourens 1825]. Entrambe le posizioni venivano supportate da studi sperimentali condotti sia su esseri umani post mortem sia su cavie (si pensi agli studi di Flourens sugli uccelli ai quali provocava lesioni in diverse parti del cervello ottenendo come esito il recupero delle capacità perdute in tutte le prove sperimentali). Un punto di svolta nel dibattito, però, è stato segnato dalle indagini condotte da Pierre-Paul Braca che per la prima volta ha individuato una corrispondenza tra un'area cerebrale, che in seguito ha preso il suo nome, e una componente della funzione linguistica: la capacità produttiva. In seguito, gli sviluppi delle teorie sul controllo da parte del cervello di attività cognitive, in particolare linguistiche, sono cresciuti in modo esponenziale: Wernicke ha completato il quadro della localizzazione cerebrale della funzione linguistica rintracciando le aree deputate alla comprensione del linguaggio e studi successivi [cfr. Lichtheim 1885] hanno convalidato e perfezionato quello che oggi viene chiamato il «modello classico». Questo modello, nella sua versione più recente elaborata quasi cento anni dopo da Geschwind [1974], si basa sull'assunto secondo il quale ogni componente del linguaggio è elaborata da differenti aree cerebrali: l'area di Braca si occuperebbe 107

della produzione e quella di Wernicke della comprensione. Le due aree sarebbero connesse da un fascio di neuroni (fascicolo arcuato) che sarebbe responsabile della conduzione all'area di Broca delle informazioni decodificate nell'area di Wernicke. Sulla base di questo modello è stato formulato un quadro nosografico delle varie tipologie di afasia (la patologia derivante dall'alterazione di una delle aree del linguaggio), ognuna caratterizzata dalla prevalenza di un determinato deficit della funzione linguistica [Denes e Pizzamiglio 2000]. La schematizzazione fornita dal modello classico, dunque, prevedeva che la decodifica del linguaggio, così come la sua produzione, fosse gestita da strutture corticali interconnesse e specializzate. In particolare Geschwind, sempre sulla base di studi lesionali con soggetti afasici, descrive un modello di funzionamento che dà risalto soprattutto agli aspetti comunicativi del linguaggio, escludendone a priori altre funzioni. Il linguaggio sarebbe prodotto da un insieme di attivazioni cerebrali specifiche ognuna delle quali contribuirebbe alla produzione di un atto comunicativo, inteso come trasmissione e ricezione di informazioni. In tale prospettiva, l'elaborazione degli input comunicativi awerrebbe secondo una sequenza di attivazioni precise. Per esempio, la decodifica di stimoli uditivi si verifica grazie alla loro elaborazione da parte della corteccia uditiva primaria nelle aree 41/42 di Brodmann (BA 41/42), che identifica la tipologia linguistica dello stimolo e lo trasmette alla corteccia uditiva associativa (BA 22). Da qui l'elaborazione viene trasferita all'area di Wernicke, in cui viene identificata la rappresentazione acustica della parola udita che attiva i concetti a essa collegati e permette la comprensione della parola. A questo punto, tramite il fascicolo arcuato, l'impulso viene inviato nell'area della produzione. L'attivazione dell'area di Broca, per consentire la ripetizione della parola, determina la composizione delle informazioni che riguardano la modalità di pronuncia dei suoni articolati. Queste informazioni vengono poi inviate ad alcune componenti della corteccia motoria (BA 4) che si occupano di gestire i movimenti articolatori. Un processamento simile ricevono anche gli input linguistici visivi: dopo aver subìto un'elaborazione nella corteccia visiva primaria (BA 17) e associativa (BA 18/19), l'informazione viene inviata al lobo parietale inferiore del giro angolare (BA 39) in cui viene sottoposta a una conversione dalla modalità visiva 108

a quella acustica e, in seguito a questa conversione, può venire processata dall'area di Wernicke. Nell'ipotesi elaborata da Geschwind, dunque, è possibile rintracciare una corrispondenza biunivoca tra le aree cerebrali e le competenze specifiche della capacità comunicativa umana: la comprensione del linguaggio verrebbe identificata con la capacità di decodifica del messaggio udito e la produzione con la capacità di programmazione dell'articolazione verbale. Le informazioni linguistiche provenienti da vie visive verrebbero comunque decodificate da questo circuito tramite una conversione modale (da visiva a uditiva).

3 .1. Critiche al modello classico Il modello Wernicke-Geschwind è stato ritenuto valido e mantenuto per tutto il secolo scorso: forniva una base non solo per la classificazione nosografica delle sindromi neuropsicologiche che colpiscono il linguaggio, ma anche per la comprensione del meccanismo di funzionamento fisiologico del linguaggio come capacità comunicativa. In realtà, nonostante alcune intuizioni fondate, sono state rivolte numerose critiche a questo modello sia per l'attenzione rivolta alla componente comunicativa del linguaggio sia per la validità delle generalizzazioni dei dati neuropsicologici a condizioni di funzionamento fisiologico. Owiamente le due tipologie di osservazioni sono interconnesse tra loro e derivano sostanzialmente dall'avanzamento tecnologico awenuto in ambito neuroscientifico e dalla revisione critica della prima versione delle scienze cognitive, con particolare riferimento alla naturalizzazione di processi cognitivi complessi, come il linguaggio. Le critiche più forti al modello classico derivano dalle valutazioni empiriche dei casi neuropsicologici, proprio quei dati che avevano consentito l'elaborazione stessa del modello neurolinguistica. Le alterazioni della funzionalità cerebrale indagate in ambito neuropsicològico, infatti, hanno costituito lo zoccolo duro delle ipotesi sul funzionamento fisiologico delle strutture neurali. L'indagine sui soggetti con lesioni - nonostante le ineliminabili variazioni individuali della patologia prodotta da ictus o traumi esterni, vascolari o tumorali - è stata impiegata come una sorta 109

di cartina di tornasole per verificare le tesi della corrispondenza tra aree cerebrali e funzioni: se il danno al cervello impedisce una data attività, allora è probabile che la regione lesa sia indispensabile per la sua manifestazione. L'idea alla base della tecnica delle correlazioni clinico-patologiche impiegata sin dai primi studi di neurologia è la possibile rintracciabilità di una connessione tra manifestazioni comportamentali deficitarie in vita e lesjoni cerebrali individuabili post mortem [Pennisi 1994]. E evidente, però, il limite insito in tale tecnica: il danno cerebrale negli esseri umani raramente ha una natura monofattoriale, di norma è l'esito dell'interazione di più concause difficilmente controllabili dallo sperimentatore, come per esempio l'origine vascolare della lesione, la singola arteria coinvolta nel trauma e l'eventuale presenza di altri vasi in grado di vicariare ]'afflusso sanguigno nelle aree colpite. Più che i limiti neuroanatomici o funzionali, lesioni di questo tipo seguono limiti condizionati dalle vie di afflusso del sangue al cervello [Purves et al. 2008, tra d. it. 53]. Il principio cardine della sperimentazione - la generalizzabilità dei risultati- viene in parte compromesso proprio dalle proprietà idiosincratiche dei dati lesionali: analizzare due casi con lesioni prodotte identiche è praticamente impossibile. Nonostante ciò, gli studi di casi singoli hanno costituito la fonte principale di indagine nell'ambito neuroscientifico in cui la variabilità dei risultati viene gestita incrociando diversi dati derivanti dall'analisi di più soggetti con lesioni cerebrali e alterazioni funzionali assimilabili e sovrapponendo le regioni interessate: da tale combinazione sarebbe possibile rintracciare la parte del cervello rilevante per la funzione [ibidem]. La consapevolezza di questa variabilità individuale negli studi lesionali ha guidato i singoli ricercatori, specialmente nella fase iniziale di definizione delle corrispondenze tra aree compromesse e funzioni coinvolte: sia Broca che Wernicke (cfr. cap. III, § 4) erano consci delle difficoltà e della temerarietà delle loro generalizzazioni, e l'ipotesi che sottostava alle loro argomentazioni era contraddistinta da continue cautele metodologiche. Gli studi lesionali che hanno condotto alla formulazione del modello Wernicke-Geschwind, infatti, illustravano casi caratterizzati dalla predominanza di un aspetto deficitario del linguaggio su altri cooccorrenti. In anni di accumulo di dati sulle afasie 110

non è stata mai identificata una forma pura, in cui risultasse chiara la specificità sintomatologica e dunque il coinvolgimento cerebrale univoco [Benson 1985]: è molto raro rintracciare un soggetto con una lesione esclusiva di una singola area linguistica e dunque è altrettanto complicato riuscire a stabilire in maniera certa la corrispondenza tra alterazioni funzionali e aree lese. E ciò proprio a causa della struttura e della vascolarizzazione del cervello di cui abbiamo appena discusso. I dati neuropsicologici, dunque, sono per loro natura complicati da gestire sperimentalmente: vedremo come di recente l'interpretazione dei deficit tipici dell'afasia di Broca sia completamente mutata rispetto alla generica definizione di afasia di produzione e sia stata diretta verso l'attribuzione di funzioni cognitive superiori alle aree del linguaggio [Grodzinsky 2006a]. Inoltre, i dati derivanti da studi su soggetti con rimozione chirurgica del tessuto corticale corrispondente alle aree del linguaggio non hanno confermato l'ipotesi della localizzazione funzionale proposta da Geschwind: interventi chirurgici in cui viene rimossa, per ragioni cliniche, tutta l'area di Broca non producono effetti negativi duraturi sulla capacità produttiva [Penfield e Roberts 1959; Rasmussen e Milner 1975]. Dopo interventi di questo tipo, spesso i soggetti presentano difficoltà nell'eloquio che vengono, però, presto recuperate: il decorso temporale suggerisce, infatti, che tali deficit siano probabilmente prodotti più dall'edema che si forma in corrispondenza della regione asportata che dall'asportazione dell'area di Broca in sé. Casi analoghi di recupero funzionale sono stati analizzati anche per l'asportazione del fascicolo arcuato [Rasmussen e Milner 1975] e dell'area di Wernicke [Ojemann 1979]. Il recupero delle capacità linguistiche quando a essere danneggiata è solo la componente corticale delle regioni linguistiche risulta più semplice [Lieberman 2003]. Paradossalmente il danno corticale, quello alle aree deputate al lingu_aggio, produce deficit meno severi rispetto a uno subcorticale. E evidente, allora, che il funzionamento complessivo della capacità linguistica dipende non solo dall'integrità delle cosiddette «aree del linguaggio», ma dalla corretta connessione tra regioni corticali e subcorticali, queste ultime responsabili sia della selezione e del pre-processamento degli stimoli linguistici in entrata, sia della effettiva realizzazione dei movimenti orofacciali che producono l'atto articolatorio (si 111

vedano, a riguardo, i lavori illustrativi sul caso della KE family, in cui una mutazione genetica rarissima ha prodotto un 'alterazione nella funzionalità dei gangli basali, strutture subcorticali ancestrali, con conseguente disprassia orofacciale fine [Lai et al. 2001; cfr. Pennisi 2006; Falzone 2004, 2006]). Nelle neuroscienze contemporanee si è verificato, dunque, uno spostamento nell'interpretazione del binomio localizzazionista struttura-funzione. Tale binomio, che trovava pieno accordo con il paradigma iniziale delle scienze cognitive e con la visione modularista della mente, si è rivelato empiricamente inadeguato. Nel cervello non esistono componenti indipendenti da cui promanano funzioni specifiche: le funzioni cognitive complesse, come il linguaggio, vengono gestite da network diffusi, da reti di connessione di epicentri cerebrali la cui attivazione concorre alla realizzazione complessiva del compito cognitivo. Così la ricerca sulla distribuzione cerebrale della funzione linguistica non si fonda più - per la stragrande maggioranza delle ricerche - su una logica dell'individuazione univoca delle regioni specializzate per il linguaggio, ma su un'ipotesi di funzionamento in cui strutture corticali (evolutivamente recenti) e subcorticali (ereditate filogeneticamente nel percorso evolutivo che ha condotto all'attuale configurazione encefalica) non solo risultano connesse per ragioni di fisiologico contatto anatomico, ma rappresentano epicentri morfologici su cui la funzione risulta distribuita. Per ragioni che ricalcano spiegazioni evolutive simili a quelle impiegate per i correlati morfologici periferici (cfr. cap. III, § 2), il cervello umano e le connessioni neuronali risultano ridondanti e una sola funzione può venire gestita da più strutture, sia corticali che subcorticali. Negli ultimi anni, proprio sulla scorta delle lezioni darwiniane, è stata formulata un'ipotesi sulla struttura cerebrale in cui la tipologia di interconnessione fra strutture corticali e subcorticali varia proporzionalmente ali' aumento delle dimensioni dell'encefalo [Deacon 2000; Edelman 1988] : i cambiamenti quantitativi - in larga misura controllati geneticamente grazie all'espressione di geni omeotici - indirizzerebbero la modalità attraverso cui si realizza la costruzione delle informazioni utili per la sopravvivenza in un dato ambiente. In questo modo le funzioni specie-specifiche vengono coerentemente ricostruite in ogni specie che presenta variazioni nella struttura cerebrale 112

[Deacon 2000]. È il principio della cablatura neurale, in base al quale strutture cerebrali di specie anche filogeneticamente vicine possono presentare funzioni e distribuzioni regionali differenti, sebbene derivanti da conformazioni cerebrali presenti in un antenato comune. Gli studi sull' encefalizzazione stanno producendo al riguardo una serie di dati significativi che collegano predisposizioni morfologiche geneticamente determinate all'aumento della plasticità cerebrale, e alle variazioni delle dimensioni cerebrali e delle connessioni neurali per la realizz~zione di funzioni specie-specifiche [Fox 1999; King 2002]. E indubbio che la materia stessa del cervello e delle strutture nervose periferiche ha inciso in maniera decisiva sulla realizzazione delle funzioni tipiche di ogni specie: gli studi sull'encefalizzazione dimostrano infatti che l'aumento quantitativo della massa cerebrale e la variazione della tipologia e delle dimensioni delle cellule guidano il processo di realizzazione della cablatura - cioè delle connessioni funzionali - tipica di ogni specie. Per esempio, i mutamenti complessivi che hanno prodotto l'attuale configurazione anatomo-funzionale del sapiens hanno consentito sia l'instaurarsi di interconnessioni tra il talamo e la corteccia che sono assenti nei primati non umani - pur possedendo questi ultimi (come vedremo nel cap. VI,§ 1) strutture cortico-corticali simili a quelle umane [Helmuth 2001] -, sia la diminuzione di un enzima che agisce a livello cerebrale (l'acido CMP-sialico idrossilasi) la cui presenza in altre specie animali indicherebbe l'impedimento «chimico» alla manifestazione di alcune funzioni cerebrali [Alper 2001]: impedimento centrale, dunque, per la realizzazione di processi di rifunzionalizzazione. L'aumento delle dimensioni encefaliche nel corso dell'evoluzione che ha condotto al sapiens anatomicamente moderno è stato garantito sia da un incremento vero e proprio del materiale cerebrale già esistente, sia dalla formazione di nuovi elementi morfologici (prodotti da «liberazioni genetiche»): il cervello si è sviluppato attorno a un nucleo ancestrale (la cosiddetta «componente rettiliana» del modello anatomo-funzionale proprosto da Lieberman [2001]) che accomuna diverse specie animali a partire dall'ordine dei rettili, su cui si è sviluppato un ulteriore strato caratterizzato da una conformazione cellulare differente. Tale strato - evolutosi nei mammiferi e negli uccelli in manie113

ra indipendente [Dominguez Alonso et al. 2004] - avrebbe consentito un aumento delle capacità di processamento. Lo strato più recente dei mammiferi è costituito dalla cosiddetta «neocorteccia» che si sarebbe formata durante la separazione dall'ordine dei rettili 200 milioni di anni fa in concomitanza con cambiamenti nelle strutture uditive [Rowe 1996; Aboitiz, Morales e Montiel 2003]. La nuova conformazione cerebrale tipica dei mammiferi, però, non si è realizzata attraverso una mera giustapposizione di materiale neurale: si è verificata una riorganizzazione funzionale che ha consentito sia la connessione tra vecchie e nuove strutture, sia la realizzazione di moderni circuiti funzionali sulla base di nuovi principi organizzativi [Nishikawa 1997; Karten 1997], incrementando così la capacità di processamento delle informazioni e consentendo l'instanziazione di nuove funzioni cognitive. I dati di ricostruzione evolutiva sui processi di encefalizzazione, dunque, stanno ampliando il quadro delle necessità morfologiche relative alla funzione linguistica: è difficile sostenere la possibilità che aree corticali del cervello funzionino indipendentemente da quelle sottocorticali, ma soprattutto diventa empiricamente insostenibile la modularizzazione in sottounità definite e indipendenti - da un punto di vita sia anatomico che funzionale - dell'intera funzione linguistica. Non solo i casi neuropsicologici ma anche la logica evolutiva che sottostà alla realizzazione morfologica del cervello pongono dei dubbi sulla plausibilità del modello neuroanatomico classico del linguaggio che prevedeva una corrispondenza precisa tra componenti del linguaggio e relative aree cerebrali. Vedremo come il principio della modularizzazione, valido proprio a livello biologico [cfr. Pennisi 2006] nella formazione di nuove strutture, possa essere applicato, almeno nella sua formulazione più radicale, solo a capacità cognitive o processamenti di basso livello: tipico esempio, la presenza di aree della corteccia dedicate al processamento uditivo linguistico [Johansson 2005]. A rimanere assai controversa è la possibilità di applicare tale principio alle funzioni di alto livello, come il linguaggio, che sembrano sfuggire alla logica localizzazionista pura. La questione, come appare evidente, riguarda proprio la difficoltà di rintracciare una corrispondenza tra sottosistemi funzionali p'resenti nel cervello (le cosiddette «sub-unità di basso 114

livello», come le cortecce sensorie dedicate) e le componenti logiche identificate nelle varie teorie linguistiche cui di volta in volta i vari studi sperimentali fanno riferimento (cfr. per una critica metodologica Poeppel e Hickok [2004]). Il linguaggio, infatti, può venire inteso sia come mezzo per la realizzazione di una capacità comunicativa tipica del sapiens (come viene interpretato nei principali modelli linguistico-evolutivi, quali Bickerton [2000; 2003] e Dunbar [ 1997]) sia come un processo cognitivo vero e proprio, cioè un processo attraverso il quale ogni singolo individuo struttura le proprie conoscenze sul mondo [Hagoort et al. 2004] .

3 .2. Il modularismo debole Negli ultimi decenni anche in ambito neuro e psicolinguistico, così come in quello evolutivo e comparativo, si è affermata sempre più la tesi secondo la quale il linguaggio non può essere considerato semplicemente un'abilità comunicativa, come nel modello formulato da Geschwind: si tratterebbe di una funzione più ampia che coinvolge e codetermina la capacità di ogni essere umano di produrre esperienza. Sulle ipotesi circa il ruolo che la funzione linguistica svolge all 'interno dell'intero sistema cognitivo umano torneremo nei paragrafi seguenti. L'argomento che pare opportuno sottilineare a questo punto è che sia i dati neuropsicologici sia quelli evolutivi concorrono a sostenere un'organizzazione cerebrale del linguaggio non più basata sugli schemi semplicistici e riduttivi del localizzazionismo, ma fondata su una rete di connessioni cortico-subcorticali [Dronkers 2000] che probabilmente coinvolge aree non deputate esclusivamente alla funzione linguistica. Il linguaggio, come abbiamo visto sinora, è una funzione che si è instanziata su strutture anatomiche che hanno un'origine evolutiva antica: ìa corteccia è integrata con il resto dell'encefalo che ne condiziona la funzionalità. Un esempio di tale connessione è ricavabile dalle indagini elettrofisiologiche che impiegano i potenziali evento-correlati per valutare il cambiamento dell'attività elettrica del cervello durante l'elaborazione delle informazioni linguistiche. I potenziali evento-correlati, come noto, sono una tecnica di misurazione dell'attivazione cerebrale che impiega il 115

principio della modificazione del potenziale elettrico di varie aree del cervello in risposta alla presentazione di uno stimolo. Senza prendere in considerazione per il momento le variazioni elettrofisiologiche che avvengono a livello corticale - quindi lo stadio di elaborazione endogena, cognitiva e stimolo-indipendente - è evidente che, per la morfologia dei sistemi di afferenza nervosa sia uditiva che visiva, l'input linguistico debba subire un primo processo di elaborazione e identificazione già a livello subcorticale. Gli input uditivi, per esempio, vengono processati da una componente precisa del talamo (nuclei genicolati mediali) che è in grado di identificarli come stimoli linguistici inviandoli, così, alla corteccia sensoriale di competenza [Pinel 2006]. La tendenza attuale delle neuroscienze cognitive è di intendere il linguaggio come una funzione instanziata su un network specializzato, che coinvolge reti neurali distribuite principalmente nell'emisfero sinistro - ma con un'attivazione di quello destro per competenze specifiche, come la prosodia e la fonologia [Simos, Molfese e Brenden 1997] o durante alcuni stadi dell'apprendimento linguistico [Sabbagh 1999; Stowe e Haverkort 2003] - e in alcune strutture subcorticali (i gangli della base, cfr. Lieberman [2006]). Questo nuovo modo di intendere la distribuzione cerebrale della funzione linguistica non deve far pensare che si è vanificato tutto il lavoro precedentemente svolto in ambito neuropsicologico. I dati lesionali vengono a tutt'oggi impiegati, ma filtrati attraverso uno spostamento interpretativo: all'idea di «area dedicata» è stata sostituita quella di «epicentro transmodale» [Mesulam 1998], cioè di un nodo della rete specializzata che svolge un ruolo decisivo nella realizzazione della funzione. Nelle funzioni complesse, infatti, vengono chiamate in causa più competenze che interagiscono affinché il soggetto possa eseguire un determinato comportamento. Ciò richiede, spesso, l'elaborazione di diverse tipologie di dati che vengono associati proprio in questi nodi del network: si tratterebbe, in sostanza, di aree associative che elaborano complessivamente informazioni linguistiche di varia natura tipologica e sensoriale. In questo network, le regioni prima descritte come «aree del linguaggio» risultano come nodi centrali che svolgono attività associativa. Il modello del network del linguaggio non prevede tuttavia una deprivazione delle competenze linguistiche delle aree di Bro116

ca e di Wernicke, bensì un'attribuzione di competenze funzionalmente meno «scomponibili» (sintassi, semantica, articolazione ecc.) e più generali, astratte e cognitivamente elevate. In ambito psicolinguistico si sono sviluppati due approcci che cercano di spiegare come si realizza l'instanziazione del linguaggio nel circuito neurale: quello neomodularista, che si fonda sull'idea del processamento seriale delle varie componenti linguistiche (dagli aspetti fonologici a quelli semantici), e quello interattivo, che prevede la possibilità che i costituenti del processamento linguistico vengano elaborati in maniera concomitante, e che comunque sarebbero difficilmente separabili in maniera netta. Queste due posizioni, in realtà, rispecchiano due tendenze generali dell'interpretazione epistemologica dei dati all'interno delle scienze cognitive: i sostenitori del modularismo (nelle varie trasformazioni recenti) tendono a formulare ipotesi di funzionamento di tipo seriale, i sostenitori dell'interazionismo, invece, considerano i processi cognitivi come processi olistici. I primi cercano di rintracciare nei principi dell'autonomia funzionale, della specificità di compito e contenuto e dell'incapsulamento informazionale le modalità attraverso cui le componenti dei processi cognitivi lavorano. Ma già all'interno di questo paradigma, proprio in virtù degli esiti sperimentali sul processamento linguistico, l'ipotesi modularista non risulta più sostenibile per spiegare la mente, almeno non nella sua versione più rigida [Fodor 1983]: non si tratterebbe di un rifiuto in toto della tesi modularista, ma di una sorta di revisione in chiave neurofisiologica, fondata su evidenze di funzionamento neurale effettivo, non su speculazioni teoriche. Gli studi più recenti, in sostanza, mirano a moderare il concetto di modulo forte che prevedeva una modalità di elaborazione delle informazioni indipendente e automatica: ci si è accorti infatti che tale formulazione si basava su ipotesi puramente teoriche che non hanno trovato conferma nella ricerca empirica degli ultimi vent'anni. L'indagine neuroscientifica, che inizialmente si è ispirata al paradigma modularista forte, con il tempo ha prodotto una mole elevata di dati da cui emerge, invece, che nemmeno per i sistemi percettivi (considerati come attività cognitiva di base e storicamente trattati come moduli veri e propri, sia anatomicamente che funzionalmente) è possibile osservare 117

un autentico incapsulamento informazionale, una separazione netta dagli altri componenti del processo cognitivo, un trattamento, quindi, esclusivo dell'informazione [Stowe, Haverkort e Zwarts 2005]. I presunti moduli percettivi (con esclusione, pare, delle sole cortecce primarie) comunicherebbero infatti con altri moduli affini durante l'elaborazione dei dati sensoriali. Queste osservazioni hanno condotto i sostenitori del modularismo a mitigare la concezione di modulo: Tsimpli e Smith [1999] , per esempio, hanno proposto i «quasi-moduli» a sostituzione dell'idea classica. Si va delineando, insomma, una nozione più ampia di struttura funzionale che si presenta per predisposizioni innate e lavora in continua interazione con altre strutture e con l'ambiente di apprendimento [cfr. Karmiloff-Smith 1992]. A questo punto verrebbe spontaneo chiedersi la validità epistemologica di un concetto come quello di modulo debole che è il risultato di un accomodamento dell'ipotesi modularista ai risultati neuroscientifici. È ciò che assumono i sostenitori dell'interazionismo, secondo cui i processi cognitivi si realizzano grazie alla presenza di flussi di funzionamento neurale, i cosiddetti stream (presenti, per esempio, già a livello percettivo-visivo, cfr. Plebe [2008]) diffusi in regioni corticali la cui attivazione complessiva permette l'esecuzione del compito cognitivo. È l'intero circuito a garantire la funzione, non la singola area, e questo permetterebbe anche una proprietà tipica dei processi cognitivi umani, la flessibilità, che si realizzerebbe nella capacità dei circuiti corticali di inibire o elaborare i segnali provenienti dalle strutture subcorticali garantendo una gerarchia nei processi cognitivi decisiva per la realizzazione di una cognitività piena e creativa [Fuster 2003]. Entrambe le posizioni presentano punti di interesse per spiegare come si realizza la funzione linguistica nel nostro cervello. Come accennato sopra, gli studi psicolinguistici che impiegano la tecnica dei potenziali evocati hanno riscosso particolare interesse in quanto la registrazione di tali potenziali linguistici ha messo in evidenza alcune costanti tipiche nell'elaborazione funzionale del linguaggio: il processamento delle frasi in fase di comprensione avviene, nei soggetti normodotati, seguendo un percorso temporale tipico, a meno di alterazioni di tipo fonetico, morfologico, sintattico e semantico. Per entrambe le 118

posizioni, tale processamento segue un flusso di funzionamento che presenta un andamento subcorticale-corticale-subcorticale: è ormai ampiamente accertato, infatti, il coinvolgimento delle strutture subcorticali in fase sia di decodifica che di codifica linguistica. Ciò su cui i due modelli discordano è il modo in cui si verifica tale processo. In particolare i fautori del modularismo sostengono una successione funzionale stabilita in cui le varie componenti del linguaggio vengono elaborate da strutture anatomiche individuate [F riederici e Kotz 2003], ognuna delle quali si attiva in tempi diversi. La comprensione di una frase, per esempio, è suddivisibile in fasi che vanno dall'identificazione fonologica, al processamento sintattico e poi semantico, fino all'integrazione dei significati elaborati: ogni fase viene realizzata in sequenza, e dunque ciascuno degli stadi di processamento deve essere completato prima di poter accedere al successivo. Alla base di questa ipotesi è presente l'idea secondo cui il linguaggio umano è costituito da tratti autonomi, segmenti operazionali separati e processati da regioni che si attivano in sequenza: le quattro fasi identificate da Friederici costituirebbero due circuiti (quello sintatticosemantico e quello di integrazione) che anatomicamente si realizzano tramite l'attivazione di network subcorticali e corticali, con un ruolo decisivo, in fase sia di smistamento degli stimoli sia di integrazione dei significati elaborati, assegnato proprio a una struttura subcorticale: i gangli della base. L'ipotesi formulata da Friederici rappresenta un tentativo di integrare le conoscenze neuroscienfiche attuali con la tesi modularista, sebbene alcuni principi classici vengano confutati dai dati elettrofisiologici: un esempio per tutti è il fatto che venga supposta una fase di integrazione dei dati alla fine del processo di comprensione di una frase (la famosa attività della P600). Ciò implicherebbe la necessità, dettata da evidenze empiriche, di prevedere un momento di elaborazione complessiva dell'input linguistico. I fautori dell'interazionismo sostengono che i dati neurofisiologici sarebbero a favore di un modello olistico per la comprensione degli enunciati: la scomposizione in fasi proposta da Friederici costituirebbe soltanto una griglia esplicativa imposta a un unico processo in cui la fase di elaborazione sintattica e semantica, così come l'elaborazione delle informazioni pragmatiche ed enciclopediche, inizia e vie-

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ne eseguita in maniera concomitante [Hagoort e van Berkum 2007]. Ulteriori indagini [Vigneau et al. 2006] corroborerebbero l'ipotesi di un'architettura della funzione linguistica diffusa su vaste reti presenti nell'emisfero sinistro e non riducibili alle sole aree canoniche dedicate. È evidente, dunque, che i modelli proposti concordano sulla revisione del modello classico Wernicke-Geschwind introducendo il convolgimento di strutture subcorticali, come i gangli della base. In questo network subcorticale-corticale-subcorticale si compirebbe la decodifica dell'informazione linguistica tramite un'interazione delle componenti sintattiche e semantiche. I due modelli, però, non si trovano in accordo sul momento in cui avverrebbe tale interazione: mentre i modularisti ritengono che si verifichi prima un processamento sintattico, poi quello semantico e solo a quel punto l'integrazione, gli interazionisti sostengono che l'interazione è presente fin dall'inizio dell'elaborazione, e che comunque il riconoscimento semantico (N400), in un certo senso, ingloberebbe parti di quello sintattico (come se il lessico possedesse in sé la codifica di caratteristiche sintattiche). Il dibattito è attualmente ancora aperto in quanto diversi studi corroborano entrambe le posizioni, a seconda della metodologia impiegata. Sebbene non ci sia accordo sull'interpretazione della modalità attraverso cui viene prodotta l'elaborazione linguistica, sembra chiaro che l'analisi della correlazione fra struttura cerebrale e funzione linguistica abbia subìto uno spostamento epistemologico dal livello prettamente neurofisiologico, quello a cui si è lavorato all'inizio degli studi sull'identificazione delle aree deputate al linguaggio, a un livello neurofunzionale, in cui le spiegazioni biologiche ed evolutive sulla natura strutturale e sul funzionamento del cervello rivestono un ruolo cruciale. Stabilire se la comprensione del significato linguistico sia una competenza modularizzata o distribuita, infatti, significherebbe comprendere se e in quale misura tale competenza possa essere considerata una derivazione filogenetica ricablata nella nostra specie e soprattutto spiegare l' adattività della relazione che intrattiene con le altre funzioni cognitive.

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4. I network del linguaggio

L'idea della distribuzione cortico-subcorticale del linguaggio negli ultimi dieci anni è diventata un caposaldo delle teorie neuroscientifiche del linguaggio che hanno rifiutato il modello classico della localizzazione esclusivamente corticale. In generale la seconda generazione delle scienze cognitive ha manifestato in più campi la tendenza ad abbandonare modelli fortemente semplificati e basati sostanzialmente su ipotesi speculative, o con poche evidenze sperimentali. L'ipotesi del network del linguaggio, in sostanza, mostrerebbe una maggiore aderenza alla natura e alla modalità attraverso cui si verificano neurofisiologicamente i processi in gioco. D'altro canto, come più volte accennato, i primi studi di neuroscienze hanno accettato la versione schematizzata del funzionamento del linguaggio offerta dal modello WernickeGeschwind proprio per ragioni epistemologiche e metodologiche. Le ricerche sulle componenti anatomiche che sostanziano i processi mentali, infatti, hanno esordito con una serie di sperimentazioni relative a capacità cognitive che oggi vengono definite gerarchicamente di basso livello (si pensi, per esempio, agli studi sui sistemi di percezione). Si è trattato di una scelta epistemologica, in quanto nella prima stagione delle scienze cognitive si presupponeva la possibilità di segmentare le attività del pensiero in unità elementari e, in ultima istanza, di implementarne il funzionamento su strutture non necessariamente biologiche (cfr. cap. I, § 1). Quando si è passati all'analisi di funzioni cognitive complesse, come il linguaggio, si è ritenuto ovvio applicare lo stesso paradigma esplicativo: il modularismo è un esempio di applicazione teorica semplificata a funzionamenti neurofisiologici, in cui non viene operata nessuna distinzione tipologica tra processi cognitivi. Il modello classico di Wernicke e Geschwind, con le sue corrispondenze definite tra aree cerebrali e abilità produttive o ricettive del linguaggio, forniva una base ideale per l'applicazione dell'ipotesi modularista alle funzioni cognitive superiori. Era d'altro canto implicita nella modalità di costruzione di una nuova disciplina, come erano le neuroscienze degli esordi, la tendenza a ridurre i fenomeni complessi a costituenti atomici. 121

Un atteggiamento metodologico che Ernst Mayr [2004] considerava una «presunzione della superiorità epistemologica delle scienze fisiche» rispetto a quelle biologiche. I fatti che hanno a che fare con la vita, secondo i primi approcci biologici allo studio degli elementi naturali, per essere veramente compresi dovevano essere scomposti in unità più semplici e analizzati con i parametri delle scienze di base (chimica e fisica). Si potevano formulare leggi universali sui fenomeni biologici solo grazie alla potenza esplicativa delle scienze fisiche (potenza che deriva proprio dalla riduzione di fenomeni complessi a entità elementari) . Ovviamente la riflessione epistemologica in campo biologico ha condotto alla separazione metodologica dalle spiegazioni fisiche nell'indagine dei fatti connessi alla vita, con la consapevolezza che il mondo della vita deriva da quello fisico e chimico ma è regolato da principi differenti e possiede caratteristiche differenti (è il cosiddetto «principio delle proprietà emergenti», cfr. Mayr [ibidem], Boncinelli [2002] e Pennisi [2005]) . Così, anche nelle prime formulazioni neuroscientifiche, si presupponeva la possibilità di scomporre funzioni cognitive complesse in unità semplici con la convinzione di ottenere una spiegazione contemporaneamente elegante e potente. In realtà, anche in questo caso, le evidenze sperimentali hanno condotto a una revisione dell'ipotesi localizzazionista, soprattutto in seguito agli studi lesionali e neurofisiologici che hanno messo in luce l'interconnesione continua, anatomica e funzionale, di regioni del nostro cervello coinvolte nella realizzazione di un'attività cognitiva. Questa consapevolezza della corrispondenza riduzionista tra un modello semplificato del funzionamento linguistico e la reale complessità neurofisiologica, in realtà, era già presente in chi tale corrispondenza aveva rintracciato per primo. Le descrizioni fornite del modello neuroanatomico del linguaggio proposto da Broca attribuiscono spesso una caratterizzazione quasi frenologica agli intenti classificatori del neurologo (per una discussione cfr. De Bleser, Cubelli e Luzzatti [1993]). In particolare Broca viene indicato come il proponente dell'area della produzione linguistica, con una sfumatura accentuata di interesse verso la componente motoria: quasi come se a essere individuata fosse l'area dell 'articolazione del linguaggio. Questa 122

versione - probabilmente utile per la classificazione nosografica, ma fuorviante da un punto di vista epistemologico - indicherebbe, dunque, l'afasia di Broca come un deficit motorio. Si tratta di un travisamento o meglio di una estremizzazione semplificata dell'ipotesi del neurologo francese che mai ha sostenuto una riduzione della funzione produttiva del linguaggio alla sola capacità articolatoria. Già nell'osservazione del suo primo caso (Leborgne, il famoso paziente Tan), infatti; Broca sottolineò come le manifestazioni deficitarie non coinvolgessero alterazioni di tipo articolatorio (Tan era in grado di muovere la lingua su indicazione e i muscoli della laringe erano intatti, così come normali erano il timbro della voce e la capacità di produrre alcuni monosillabi) né alterazioni di tipo intellettivo: ciò che stupiva, invece, era la sua capacità di farsi comprendere a gesti, capacità che faceva dedurre l'integrità delle sue abilità comunicative, in particolare della comprensione [cfr. Broca 1861]. Alla morte del paziente, dall'esame autoptico, Broca aveva individuato un'ampia lesione nella parte anteriore dell 'emisfero sinistro, con un punto focale rintracciabile nella porzione posteriore del giro frontale medio da cui la neuropatologia si sarebbe estesa nel corso degli anni. L'autopsia aveva inoltre consentito di ipotizzare due fasi dell'avanzamento della patologia di Leborgne che corrispondevano a due condizioni sintomatologiche differenti: la prima in cui la lesione avrebbe riguardato solo la terza cinconvoluzione frontale e poche zone limitrofe e che era caratterizzata da alterazioni nella facoltà linguistica; la seconda in cui la lesione si sarebbe propagata anche alle altre circonvoluzioni, al lobo dell'insula e al ventricolo del corpo striato e che era caratterizzata dalla progressiva paralisi della parte destra del corpo. Dall'esame autoptico, dunque, Broca potè dedurre che la patologia di Tan coinvolgeva non solo regioni ampie della corteccia, ma anche strutture subcorticali: una considerazione, questa, che nel modello classico viene del tutto ignorata. Inoltre, l'analisi delle capacità residuali rispetto alla lesione spinse Broca a sostenere che la regione che oggi porta il suo nome controllasse complessivamente l'abilità di produzione linguistica, cioè la funzione espressiva (motoria, ma anche ideativa) del linguaggio. E d'altro canto, che la storia delle indagini neuropsicologiche fosse una storia di forme impure, in cui è difficile effettuare 123

una separazione netta tra un deficit di produzione e uno di comprensione, era già stato chiaramente espresso da Broca nei suoi resoconti scientifici non solo come evidenza sperimentale dell'idiosincrasia delle lesioni cerebrali, ma anche come cautela metodologica per comprendere la complessità della funzione linguistica e la necessità di uno studio più accurato dell'attività cerebrale e delle corrispondenti funzioni attivate. Gli studi neuroscientifici hanno a lungo omesso tale cautela e hanno sfruttato la semplificazione operata dal modello classico per cercare di ottenere risultati empiricamente controllabili anche nel caso di funzioni cognitivamente complesse come il linguaggio. Alla conclusione formulata da Broca, gli studi neurofisiologici sul linguaggio, per le ragioni sopra discusse, sono arrivati da pochi anni: il linguaggio sarebbe un processo cognitivo che attiva strutture subcorticali, e a cui è difficile applicare una segmentazione in componenti elementari (almeno senza forzature) in quanto le attivazioni cerebrali sono sempre multiple e coinvolgono aree non dedicate esclusivamente al linguaggio. Sulla base del modello classico applicato alle neuroscienze, infatti, l'area di Broca è stata a lungo reputata l'unica responsabile della generica produzione del linguaggio, e in quanto tale addetta alla regolazione dei meccanismi sintattici che entrano in gioco nella costruzione e nella comprensione delle frasi. L'alterazione prodotta dal suo danneggiamento, infatti, è stata considerata come un deficit puramente sintattico, caratterizzato da agrammatismo, cioè dall'incapacità di impiegare le regole della sintassi della lingua di appartenenza. In realtà questa definizione, da un punto di vista sia anatomico che funzionale, si è rivelata inadeguata: non solo le funzioni alterate nei soggetti con deficit afasico di produzione non manifestano forme pure di agrammatismo (non si manifesta la totale perdita né della sintassi né delle categorie flessionali o funzionali) , ma sono presenti anche alterazioni della capacità di comprensione delle strutture sintattiche. Sulla base delle osservazioni neuropsicologiche, diverse ricerche hanno assegnato all'area di Broca un ruolo particolare all'interno del dominio linguistico, non riducibile né all'articolazione né alla semplice produzione di tutti i meccanismi sintattici: si tratterebbe di un ruolo funzionale complesso nella gestione delle informazioni linguistiche (per una ricostruzione cfr. Pennisi [2006] e Scianna [2010]). 124

Questa ipotesi sembra precisare un compito cogmttvo e specifico dell'uomo: la capacità di produrre e conservare informazioni sui ruoli sintattici assunti dalle parti frasali all'interno di un enunciato. Grodzinsky [2000], psicolinguista sostenitore di tale ipotesi, impiegando dati provenienti da studi lesionali, sostiene che i deficit dei pazienti afasici di Broca non presentano la totale perdita della competenza sintattica: riescono a conservare capacità di produzione di tutti gli enunciati che non presentano il cosiddetto «movimento sintattico» (cioè l'effetto delle trasformazioni delle strutture superficiali della lingua). Il deficit, dunque, sarebbe molto ristretto in relazione alle strutture grammaticali: riguarderebbe esclusivamente enunciati i cui costituenti hanno subìto uno spostamento trasformazionale. In sostanza, il movimento sintattico è un'operazione che muta l'ordine sequenziale degli elementi presenti in una frase. Ciò presuppone che i costituenti frasali abbiano una collocazione predefinita che rispecchia la composizione canonica della frase in cui l'agente della frase si trova prima (a sinistra) del verbo e il paziente della frase (colui che subisce l'azione) si trova dopo il verbo, alla sua destra. Nella produzione verbale, però, spesso questo ordine viene modificato, per esigenze legate sia al contesto situazionale (come nel caso dell'omissione di elementi frasali presenti cui ci si può riferire deitticamente), sia alle stesse regole grammaticali (si pensi alla trasformazione della frase dalla forma attiva a quella passiva), sia ancora per le caratteristiche stesse del verbo impiegato (verbi intransitivi o ergativi che spesso non necessitano del ruolo del paziente). In questi casi, secondo l'ipotesi di Grodzinsky [2006a] i soggetti senza lesioni all'area di Broca sarebbero in grado di ricostruire il significato in quanto capaci di produrre una traccia del ruolo tematico (e quindi semantico) dell'elemento omesso o mosso sintatticamente. Le tracce sono rappresentazioni dei ruoli sintattici che non contengono tratti fonetici (e dunque non vengono pronunciate) , e che permettono di risalire al ruolo semantico svolto da un dato elemento della frase, nonostante abbia subìto uno spostamento di posizione. Secondo Grodzinsky [20066], l'area di Broca sarebbe responsabile non della produzione del linguaggio in generale, ma della costruzione e della comprensione delle tracce. I soggetti afasici di Broca, infatti, sarebbero incapaci di risalire alla traccia prodotta dal 125

movimento trasformazionale. La strategia da loro adottata per assegnare un ruolo tematico ai costituenti della frase si basa sull'ordine lineare degli elementi della frase, attribuendo così sempre il ruolo di agente al sintagma nominale, cioè all' elemento che si trova prima del verbo, indipendentemente dalla tipologia di frase proposta. L'ipotesi di Grodzinsky presenta alcuni elementi convincenti da un punto di vista sia teorico sia clinico-pratico. Innanzitutto attribuisce un ruolo funzionale elevato all'area di Broca, che non coincide più con quello di generica area di produzione assegnatole dal modello classico: un ruolo cognitivo di gestione delle informazioni sintattico-semantiche all'interno dei processi di comprensione e di produzione linguistica. Questa nuova funzione escluderebbe la componente articolatoria pura, affidata in questo modello a strutture subcorticali (i gangli della base) , evolutivamente precedenti rispetto alla corteccia. Le manifestazioni anartriche tipiche del disturbo afasico, dunque, sarebbero dovute non al coinvolgimento dell'area di Broca in sé, ma al danneggiamento di strutture sottocorticali - responsabili in diverse specie animali della coordinazione motoria - che nell'uomo regolerebbero anche i movimenti orofacciali fini [Enard et al. 2002]. In questo modo l'ipotesi di Grodzinsky ha permesso di comprendere un aspetto interessante per la pratica clinico-riabilitativa [Grodzninsky 2000; 2006a] spostando l'attenzione dal recupero puro della motilità articolatoria alla riacquisizione di procedure di costruzione e decodifica sintattica. Nonostante ciò, questa ipotesi presenta alcuni aspetti problematici relativi proprio alla natura dei processi regolati dall'area di Braca. Diversi studiosi di psicolinguistica, infatti, hanno criticato non tanto l'attribuzione di una funzione cognitiva elevata all'area di Broca, quanto il ruolo di produttore delle tracce e dunque di gestore dei movimenti trasformazionali. In particolare, l'analisi si è soffermata sulla presunta determinazione, da parte delle componenti sintattiche, dei ruoli semantici: una quantità crescente di dati, infatti, dimostrerebbe che questa visione seriale dell 'elaborazione linguistica non presenta un riscontro sperimentale tanto nella comprensione quanto nella produzione di enunciati. La teoria della traccia - formulata in ambito linguistico da Chomsky per individuare 126

una priorità della competenza sintattica su quella semantica, ma in seguito abbandonata - presenta al suo interno una implicita confusione tra sintassi e semantica. L'entità concettuale, infatti, sostituirebbe una posizione sintattica ma contemporaneamente implicherebbe un ruolo semantico. Inoltre, paradossalmente, l'assegnazione della funzione di gestione delle tracce all'area di Broca spingerebbe il modello di Grodzinsky verso lo scivoloso terreno della corrispondenza 1: 1 tra aree corticali e funzioni cognitive [Willems e Hagoort 2008]. 4.1. L'area di Braca e i processi di unificazione cognitiva

La soluzione possibile all'impasse teorica della teoria di Grodzinsky è stata formulata all'interno delle soprammenzionate teorie interazioniste che prevedono un'interazione precoce dell'elaborazione semantica e sintattica. In particolare, la componente semantica della frase contribuisce alla comprensione globale dell'enunciato e viene processata in maniera concomitante a quella sintattica. Il processamento linguistico, dunque, non sarebbe caratterizzato da un'architettura tripartita (suono, sintassi, semantica) tenuta insieme da un processo di integrazione finale dei tre tipi di elaborazione seriale: l'integrazione si verificherebbe fin dai primi momenti dell'analisi sintattica [Hagoort 2003 J. Diversi studi sarebbero a favore della possibilità che elementi lessicali codeterminino aspetti sintattici, e che intervengano in maniera decisiva nel caso di frasi che presentano ambiguità sintattiche [Tanenhaus e Trueswell 1995; van Berkum, Hagoort e Brown 1999; Hagoort 2003]. In sostanza, l'elaborazione degli elementi semantici avverrebbe già nella seconda fase individuata da F riederici e Kotz [2003], e prevederebbe l'intervento degli aspetti lessicali e il recupero delle conoscenze enciclopediche, quelle che Hagoort [2005] definisce «conoscenze sul mondo». Le conoscenze sul mondo sarebbero l'insieme delle conoscenze che abbiamo acquisito tramite l'esperienza e che ci consentono di individuare la veridicità di un enunciato. Questa, infatti, richiede al soggetto, nella maggior parte delle situazioni, continui riferimenti contestuali non solo all'interno della frase e delle affermazioni precedenti ma anche all'interno delle pro127

prie conoscenze pregresse relative a situazioni o eventi simili.

In sostanza, quando utilizziamo il linguaggio non ci mettiamo semplicemente d'accordo sul significato delle espressioni linguistiche che utilizziamo ma scambiamo informazioni sul mondo [Hagoort et al. 2004]. Gli studi di psicolinguistica, infatti, fino a poco tempo fa si fondavano sull'analisi di enunciati in contesti laboratoriali: nell'uso quotidiano, però, difficilmente impieghiamo e decodifichiamo frasi sganciate dal contesto situazionale in cui veniamo a trovarci. Nella stragrande maggioranza delle situazioni, la nostra produzione linguistica viene costantemente influenzata da una serie di informazioni più generali rispetto al significato del singolo termine o a quello frasale, senza che ciò implichi uno sforzo particolare per il parlante [Chwilla e Kolk 2005]. Inoltre, la costruzione di un enunciato spesso viene modulata nella forma proprio dal contesto situazionale e dalle informazioni pregresse, dando per scontati i costituenti frasali. Durante la comprensione di una frase, per esempio, non sempre il significato può essere inteso senza riferimento esplicito a conoscenze pregresse comuni (è il caso degli indicali o delle frasi ellittiche o ancora dei riferimenti misti linguistico-gestuali). Il modello proposto da Hagoort mette in evidenza l'influsso che le cosiddette «conoscenze sul mondo» possono avere nella determinazione del significato, e dunque nella comprensione, di un enunciato. Può verificarsi, per esempio, il caso in cui l'espressione linguistica abbia un significato, cioè sia legittima da un punto di vista semantico, ma violi le nostre conoscenze sul mondo. Questo avviene in frasi del tipo «L'attuale papa è a favore delle unioni di fatto» , in cui non è presente alcuna violazione semantica, ma una porzione del suo significato non collima con le nostre conoscenze sulla posizione che il pontefice, in quanto rappresentante della Chiesa, ha dimostrato di possedere. Mentre la situazione sarebbe differente se leggessimo o ascoltassimo una frase del tipo «La papa-mobile è a favore delle unioni di fatto» in cui si rivela una incoerenza di tipo semantico in quanto le proprietà espresse (il fatto di essere favorevole alle unioni di fatto) non possono essere attribuite alla papa-mobile (oggetto inanimato) . In sostanza, gli aspetti descrittivi dell'oggetto non corrispondono alle rappresentazioni semantiche presenti nella nostra memoria. 128

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Già prima delle indagini psicolinguistiche, varie teorie sulla natura e sulla struttura del linguaggio avevano avanzato una distinzione tra il significato di un 'espressione e il suo collegamento con il mondo, quello che Frege [1892] chiamava «valore di verità». Tale valore veniva convalidato se le condizioni di verità erano rispettate, cioè se il significato della frase coincideva con la rappresentazione dello stato delle cose nel mondo. Tale distinzione teorica è alla base delle teorie pragmatiche che sostengono la necessità di considerare alcuni aspetti del significato esclusivamente linguistici, altri invece collegati alle esperienze contestuali: i primi rientrerebbero nel dominio della semantica, i secondi in quello della pragmatica [Chomsky 1975; Sperber e Wilson 1986]. Secondo questa distinzione tra semantica e pragmatica, l'interpretazione semantica di una frase sarebbe separata e precederebbe l'integrazione di informazioni sulle conoscenze pragmatiche o sul mondo. Varie indagini sulla comprensione dei discorsi e delle frasi [cfr. Cook e Myers 2004], però, concordano nel sostenere l'impossibilità di operare una separazione netta tra le conoscenze semantiche e quelle sul mondo: studi neuroelettrofisiologici [Hagoort 2005] hanno dimostrato come questa distinzione non sia accettabile. Basandosi sul principio secondo cui processi differenti si instanziano su circuiti neurali diversi, tali studi hanno dimostrato come l'elaborazione dei significati delle parole e l'elaborazione dei significati derivanti dalle conoscenze sul mondo non possano essere considerate come processi separati in quanto si sono rivelate concomitanti non solo da un punto di vista temporale (Erp), ma anche da un punto di vista anatomico. Secondo Hagoort, il ruolo di integratore delle varie componenti linguistiche ed extralinguistiche all'interno del network del linguaggio verrebbe svolto dall'area di Braca, che si occuperebbe di mantenere on line le informazioni man mano elaborate mentre verrebbe effettuata l'unificazione concomitante dei vari elementi linguistici. Si tratterebbe, in questo caso, di un compito non esclusivamente sintattico, ma di ordine elevato: l'integrazione di pezzi dell'informazione lessicale con informazioni derivate dal contesto frasale e dalle proprie conoscenze esperienziali pregresse [ibidem]. Il modello interazionista proposto da Hagoort, inoltre, spiegherebbe anche come sia possibile acquisire nuovi concetti semantici: il confronto con il contesto frasale e, soprattutto, con 129

le proprie conoscenze sul mondo garantirebbe infatti la possibilità di inserire nuovi significati all'interno dei propri usi linguistici [Hald, Steenbeek-Planting e Hagoort 2007]. Questo meccanismo di produzione semantico-enciclopedica, cioè il meccanismo attraverso cui cataloghiamo le nostre esperienze sul mondo, verrebbe acquisito durante l'infanzia e sarebbe il precursore «evolutivo» (nel senso ontogenetico) della struttura tassonomica tipica che assume la memoria semantica una volta raggiunta la maturità linguistica [Blewitt e Toppino 1991]. Il lessico mentale, allora, si strutturerebbe prima tramite rappresentazioni mentali di situazioni tipiche su base linguistica: si tratterebbe di copioni, di scene possibili costruite sulla base di aspettative a loro volta strutturate sulla base del significato linguistico-esperienziale attribuito a contesti relazionali [Rumelhart 1980]. L'area di Broca, quindi, costituirebbe il luogo di integrazione delle informazioni semantiche, sintattiche e delle conoscenze sul mondo. In questo modo, essa rappresenterebbe il centro di confluenza e di integrazione tra significati già acquisiti e immagazzinati nella propria memoria a lungo termine e quelli nuovi, derivanti dall'interazione continua del soggetto con il mondo. Hagoort sottolinea come l'area di Broca svolgerebbe questo ruolo all'interno di un network di funzionamento che coinvolge un numero maggiore di strutture rispetto a quelle previste dal modello classico: la BA 47 e la BA 6 (proposte come facenti parte integrante della regione di Broca), la corteccia temporale sinistra (responsabile del recupero delle informazioni lessicali) e la corteccia prefrontale dorsolaterale (che gestirebbe gli elementi di controllo attentivo). In questo circuito cerebrale si realizzerebbe una funzione cognitiva elevata e specie-specifica: la verifica costante delle nostre informazioni sul mondo e la produzione di significati nuovi da attribuire alle esperienze realizzate durante il corso della propria vita. L'area di Broca, allora, svolgerebbe una funzione di mediazione e organizzazione di tali rappresentazioni semantico-esperienziali.

4.2. Network diffusi e /unzione linguistica estesa Nella descrizione del ruolo funzionale attribuito all'area di Broca, Hagoort ha voluto sottolineare il suo coinvolgimento in 130

compiti non necessariamente linguistici: il fatto che svolga un ruolo importante nel processo di unificazione dei vari costituenti frasali, in sostanza, non ne limita l'attività al solo dominio linguistico. L'area di Braca si attiverebbe, per esempio, durante la ricerca di un oggetto nascosto [Fink et al. 2006] e durante il riconoscimento di un'azione [Hamzei et al. 2003]. I dati neurofisiologici delle attivazioni corticali raccolti tramite l'impiego di tecniche avanzate per la visualizzazione dell'attività cerebrale (fMRI, Pet, Meg) hanno segnalato un fatto interessante per comprendere sia l'implementazione neuroanatomica della funzione linguistica, sia in generale la distribuzione corticale e la selezione dei network che si occupano di competenze specifiche. Le funzioni cognitive complesse, in sostanza, verrebbero prodotte non dall'attivazione sequenziale di aree del cervello che hanno compiti dedicati e precisi (qualsiasi sia la funzione presa in considerazione), ma dalla elaborazione continua di elementi che provengono spesso da input sensoriali differenti e che richiedono l'intervento di più competenze. L'esecuzione di un comportamento, per esempio la produzione di una frase per chiedere un'informazione, dunque, attiverebbe in maniera concomitante network con competenze specifiche ma le cui elaborazioni debbono necessariamente venire integrate perché sia possibile manifestare quello specifico comportamento. È il cosiddetto binding problem [Hagoort 2005; Johansson 2005), cioè la questione dell'unificazione di ciò che viene elaborato da circuiti specializzati (su cui torneremo nella seconda parte del libro). Per spiegare come si realizza la cognizione umana (ma anche quella animale), dunque, non sarebbe sufficiente riuscire a trovare ipotesi che illustrino i meccanismi dei singoli processi mentali, ma è necessario individuare dei modelli che rendano conto dell'attività complessiva che la nostra mente esprime, dandoci l'impressione che si tratti di un processo unitario [Gazzaniga 2008]. Negli ultimi anni, una sempre crescente mole di dati ha mostrato come, diversamente da quanto ipotizzato nelle prime indagini neuroscientifiche, soprattutto a livello corticale si verifichi un'attivazione multifunzionale di diverse aree prima considerate dedicate per lo svolgimento di un'attività cognitiva precisa. E l'area di Broca, tra tutte le regioni coinvolte in funzioni cognitivamente elevate, è quella che viene annoverata nel maggior numero di studi a riguardo. 131

Dai dati che abbiamo sin qui analizzato, d'altro canto, risulta evidente che il ruolo dell'area di Broca non è necessariamente vincolato al dominio della produzione e della comprensione linguistica, ma è più astratto: riguarderebbe procedure generalizzatrici che permettono di costruire rappresentazioni astratte degli elementi elaborati. Assegnandole questo compito, dunque, il significato funzionale dell'area risulterebbe compatibile con numerose altre attività mentali, tipiche della cognitività umana. Si è a lungo dibattuto del coinvolgimento dell'area di Broca in altre attività cognitive (anche se si tratta principalmente di compiti linguistici e cognitivo-sensomotori) e del significato da attribuire a tali attivazioni. Alcuni studi, per esempio, sostengono che a livello corticale è difficile che si verifichi una specializzazione univoca delle regioni e che, dunque, il coinvolgimento dell'area di Broca in più compiti cognitivi è dovuto proprio alla sua funzione generale di area deputata a generare astrazioni. Altre ricerche, invece, sottolineano come l'attivazione dell'area di Broca dipenda dalla natura dei processi cognitivi elevati messi in atto, processi che richiederebbero l'azione procedurale e di rappresentazione svolta dalla funzione linguistica. Come si può evincere, le posizioni appena descritte partono dallo stesso set di dati per arrivare a conclusioni sostanzialmente opposte: la prima, infatti, prevede la generalità degli epicentri dei network cerebrali che possono servire per più funzioni cognitive, senza però sostenere una equipotenza indistinta di tutte le regioni cerebrali. Secondo questa ipotesi l'attivazione dell'area di Broca durante compiti non linguistici sarebbe da spiegare con il ruolo di super-area di generalizzazione che essa possederebbe: il suo compito in sostanza verrebbe definito di volta in volta in base al network in cui si attiva. La seconda posizione, invece, si appella al ruolo di produttore di rappresentazioni e di procedure tipicamente linguistiche svolto dall'area di Broca, ruolo che influenza e codetermina la realizzazione delle altre funzioni elevate (programmazione delle azioni, categorizzazione degli oggetti, memorizzazione delle esperienze di vita, e così via). Nelle due posizioni a variare è la nozione stessa di funzione linguistica: mentre nel primo caso si tratterebbe di una capacità funzionale alla comunicazione interpersonale e alla veicolazio132

ne di significati verbali, nel secondo caso è intesa come ·una vera e propria attività cognitiva, cioè un'attività che permette di conoscere il mondo circostante formando rappresentazioni specie-specifiche. Il linguaggio, insomma, non consentirebbe solo la comunicazione tra conspecifici (anzi questa sarebbe una caratteristica accidentale), ma costituirebbe la modalità propria del sapiens per conoscere, categorizzare, interpretare e agire sull'ambiente in cui è inserito. Ovviamente, mentre la prima ipotesi vede il linguaggio come un processo cooccorrente rispetto agli altri, la seconda ipotesi offre una visione forte del ruolo che la funzione linguistica svolgerebbe all'interno della cognizione umana. Negli ultimi anni, i modelli a network hanno portato una serie di dati a favore della seconda ipotesi. In particolare alcuni studi sulla allocazione dell 'attenzione durante la percezione di un evento hanno mostrato come questa può venire influenzata selettivamente dal linguaggio. Papafragou, Hulbert e Trueswell [2008] , per esempio, hanno condotto una sperimentazione su due gruppi di soggetti normodotati parlanti due lingue diverse (inglese e greco) ottenendo come risultato l'influenza diretta della modalità di descrizione verbale tipica della lingua di appartenenza nella distribuzione dell'attenzione durante la percezione di un evento. I due gruppi venivano sottoposti a due condizioni sperimentali: nella prima dovevano semplicemente osservare una scena, nella seconda veniva invece chiesto loro di osservare una scena assegnando pure un compito di descrizione verbale della scena stessa successivo alla visione. Le due situazioni sperimentali, quindi, prevedevano una condizione di pura elaborazione percettiva e una di elaborazione percettiva in funzione di una descrizione verbale. Per valutare l'eventuale variazione dei processi attentivi e percettivi (visivi) è stata impiegata la tecnica dell' eye-tracking, che misura gli spostamenti degli occhi su elementi rilevanti della scena osservata. Nella condizione percettiva pura il movimento oculare di entrambi i gruppi era concentrato su cues attentivi tipici (e universali), come la forma e le dimensioni degli elementi della scena. Nella condizione di osservazione finalizzata al resoconto linguistico, invece, i movimenti oculari osservati erano diretti verso cues attentivi che rispecchiavano particolari della scena utili per la 133

descrizione verbale, come per esempio aspetti di movimento dei soggetti presenti che collimavano con la tipologia verbale tipica delle due lingue prese in considerazione [cfr. anche Papafragou, Massey e Gleitman 2002; 2006]. I dati delle indagini sull'allocazione dell'attenzione condizionata dalla programmazione linguistica pongono in evidenza l'influenza che la funzione linguistica può esercitare in network percettivi non necessariamente linguistici: in sostanza, nel momento in cui il compito percettivo viene spinto oltre l'analisi puramente visiva della scena e viene richiesta una interpretazione degli elementi percepiti, la funzione linguistica interviene modificando gli elementi di rilevanza per la descrizione di una scena, influenzando così la descrizione stessa. Un modello che cerca di descrivere come possa avvenire l'integrazione nel network linguistico di più aree che svolgono funzioni non linguistiche è quello proposto da Poeppel e Hickok [2004] in cui l'area di Braca è inserita in due network diffusi (uno ventrale e uno dorsale) la cui attivazione presiederebbe rispettivamente la comprensione uditiva e l'interazione motorio-uditiva. I due circuiti sarebbero differenziati anatomicamente. La via ventrale coinvolge le aree corticali nelle vicinanze della giunzione temporale, parietale e occipitale e connette le rappresentazioni fonologic~e dei suoni percepiti con le rappresentazioni concettuali. E in questo network che vengono definiti i contenuti semantici dell'informazione sensoriale: in esso vengono attivate aree fondamentali per l'accesso al significato (basa! language areas) in quanto permettono l'integrazione semantica polimodale, cioè la congiunzione di elementi semantici provenienti da sistemi sensoriali differenti [Marini 2008]. La via dorsale includerebbe, invece, la corteccia parietale inferiore e le aree dorsali, responsabili dell'integrazione uditivo-motoria mediante la trasformazione dei segnali acustici in rappresentazioni articolatorie: si tratterebbe, dunque, di un'interfaccia tra i processi motori e quelli sensoriali. È interessante notare come in questo modello vengono incluse nel network linguistico anche le aree sensoriali che non svolgono sempre compiti linguistici: nel paragrafo seguente, infatti, vedremo come l'idea di un network di elaborazione multimodale che fa capo all'area di Braca risulti evolutivamente fondato. La specificità linguistica del circuito 134

diffuso sarebbe garantita dal ruolo che complessivamente viene svolto da aree coinvolte in compiti non linguistici, specializzate nel riconoscimento di suoni e segni linguistici che confluiscono in rappresentazioni multimodali, proprio nell'area di Braca.

5. Le ragioni evolutive della multifunzionalità dell'area di Braca Dall'analisi dei dati sul ruolo svolto dall'area di Braca emerge un quadro multifunzionale: tale regione sembra attivarsi durante una serie di compiti specifici dell'uomo gerarchicamente organizzati (per esempio sintassi e uso di strumenti, come vedremo). Il compito dell'area di Braca, allora, sembra essere quello di regolare strutture gerarchiche in domini differenti [Tettamanti e Weniger 2006]. Sono state fornite diverse interpretazioni della multifunzionalità di tale area. Studi neuroanatomici attribuiscono la flessibilità funzionale alla tipica struttura citoarchitettonica delle BA 44/45 che presenterebbero nel quarto strato corticale una struttura sia disgranulare (BA 44) che granulare (BA 45) [Nishitani et al. 2005]. In questa prospettiva neuroanatomica le differenze strutturali costituirebbero indici evidenti di differenze funzionali e viceversa differenze funzionali richiederebbero differenze nell'architettura neuroanatomica [Bartels e Zeki 2005]. Ma le possibilità di rintracciare all'interno delle caratteristiche neuroanatomiche i motivi funzionali per l'instanziazione di una data capacità cognitiva su una certa regione cerebrale sono praticamente nulle. Sembrano maggiormente convincenti alcune teorie computazionali che individuano le differenze funzionali di aree cerebrali in base non alle caratteristiche citoarchitettoniche, ma alla variabilità degli stimoli: non sarebbe l'eterogeneità dei tessuti cerebrali a determinare la specificità di dominio delle regioni corticali, ma il modo in cui le caratteristiche funzionali vengono modellate dagli input [Hagoort 2006]. Un esempio tipico offerto da tali teorie per spiegare in che senso la struttura citoarchitettonica non influenza la tipologia di funzione che si installa su una data regione riguarda proprio l'area di Braca. Nei macachi è presente un omologo di tale area (F5) che presiede, fra gli altri compiti motori, ai movimenti orofacciali. Nell'uomo tale area, pur presentando una configurazione citoarchitettonica simile, svolge 135

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sull'arresto definitivo del processo speciativo e sull'inizio di una presunta fase di stabilizzazione. Di certo c'è che tutte le specie giunte all' «ultimo anello» legano senza appello la sopravvivenza finale del genere che rappresentano alla propria sopravvivenza. Il caso umano è tuttavia più complicato. Secondo Gould «la situazione attuale del nostro clade con un'unica specie è l'eccezione, non la regola. Infatti la maggior parte della storia degli ominidi fu caratterizzata dalla molteplicità e non dall'unicità» [2002, trad. it. 1138]. In un certo senso questa affermazione è vera, ma la sua interpretazione è ambigua. Di fatto, come abbiamo visto (§ 1) le specie giunte all' «ultimo anello» potrebbero essere proprio a un passo dall'estinzione. Questa ipotesi è invece esclusa da Gould, anche in via puramente ipotetica. Abbiamo già considerato uno dei motivi di questa esclusione: contrariamente all'ipotesi classica dell'isolamento riproduttivo dovuto a barriere geo-ecologiche e quindi all'impossibilità di migrare, l'uomo ha fatto del mondo la sua gabbia in cui può comodamente riprodursi senza mai speciare:

logiche sono rimasti tanto a lungo isolati da generare cambiamenti genetici sostanziali nel loro Dna. Questa negazione di nuove esperienze genetiche perfeziona ma assottiglia gli spazi combinatori del nostro pool genico. L'esplosione della variabilità culturale nelle società umane è probabilmente da mettere in relazione «naturale» con questo progressivo affinamento del pool genico. Come vedremo nel prossimo capitolo, la specie umana è votata all'unicità genetica altrettanto che alla pluralità culturale, alla molteplicità della variazione linguistica, sociale, politica, religiosa, etica, comportamentale e pragmatica. E come potrebbe questa paradossale relazione tra i due estremi dell'evoluzione non produrre conseguenze sull'ecologia umana?

come può una specie ubiquitaria come Homo sapiens, dotata di una straordinaria mobilità e di un'apparente inarrestabile propensione a incrociarsi tra popolazioni ogni qualvolta i suoi membri si mettano in viaggio, aspettarsi nella sua situazione attuale di poter mai generare un sostanziale cambiamento biologico direzionale? [ibidem, trad. it. 1142].

Interrogativo impeccabile dalla risposta scontata: nessun isolamento riproduttivo, nessun processo speciativo. Se per stabilizzazione si intende il raggiungimento della menopausa di una specie, allora abbiamo risolto il mistero della fiducia di Gould nell'avvenire dell'Homo sapiens. Eppure proprio la certezza di questa risposta nasconde il pericolo più grande, sintetizzabile nella domanda che segue a ruota: come può sopravvivere una specie che non può più cambiare natura e generare altre specie? Anche qui la risposta appare scontata: può sopravvivere male, malissimo, sempre peggio. Il processo riproduttivo dell' «ultimo anello» ha qualcosa di perverso e oscuro. Tecnicamente l'impossibilità di speciare dipende dall'impossibilità di sperimentare incroci con individui che, per ragioni geo-eco230

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CAPITOLO SESTO

L'EVOLUZIONE CULTURALE DELL'EVOLUZIONE NATURALE

Il 28 settembre 2009 alle ore 7 .00 si contano al mondo 6.909 lingue viventi distribuite in 41.186 varianti (considerando, cioè, le ripartizioni dialettali interne alle denominazioni di base): le censisce quotidianamente www.ethnologue.com, il celebre sito collegato all 'altrettanto celebre omonima pubblicazione, Ethnologue. Languages o/ the World [Lewis 2009] giunta alla sua sedicesima edizione, le censisce quotidianamente. Questo immenso numero di lingue è usato da uno sterminato numero di parlanti - 6.489.500.000 - suddiviso in una settantina di famiglie: dalla lingua più diffusa nel mondo, che è il cinese, con 1.391.000 parlanti, al malgascio, parlato «solo» da 10 milioni di abitanti del Madagascar. L'inglese conta, in tutto il mondo, 341 milioni di parlanti, l'italiano 62 milioni. I grandi sforzi ricostruttivi della linguistica comparativa a partire dalla metà dell 'Ottocento - basati sulla ricognizione di somiglianze e tipologie idiomatiche - non sono mai riusciti a oltrepassare i primi livelli di apparentamento fra tutte queste lingue. A causa della rapidità dei cambiamenti linguistici, infatti, è quasi impossibile andare al di là delle pure ipotesi nel campo delle filiazioni glottocronologiche primitive. Se dovessimo limitarci ai soli reperti linguistici, sarebbe impossibile affermare con certezza persino la natura monogenetica o poligenetica delle lingue. Tuttavia, come nel caso dell'antropologia fisica la genetica molecolare ha cancellato ogni dubbio - instillato dalla paleontologia - sull'esistenza di una sola specie umana, così nel caso della ricostruzione comparativa delle lingue gli studi di genetica delle popolazioni del gruppo di Luigi Luca Cavalli-Sforza hanno contribuito in maniera decisiva a chiarire le linee parentali delle lingue e la sostanziale unità bio-linguistica del genere umano. Se, come sembra dai dati sinora raccolti , fosse vero il teorema di Cavalli-Sforza [1996] secondo cui geni 233

e lingue avrebbero una stessa storia, il diversificarsi dei tratti antropo-genetici e il parallelo ramificarsi dei tratti linguistici apparirebbero come elementi di variazione superficiale della forte identità allo stesso tempo biologica e culturale del sapiens. Precisando la definizione del capitolo precedente, potremmo concludere che l'ultimo anello zoologico del genere Homo è, quindi, un'unica specie ubiquitaria con una vocazione dedicata all'espansione migratoria e alla diversificazione linguisticoculturale. Prima di cercare di approfondirne le cause sarà il caso di soffermarsi sulle proprietà di questa sua singolare configurazione ero-ecologica. Abbiamo già detto, infatti, che l'anomalia zoologica dell'animale umano consiste nel fatto che espandendosi rapidamente dappertutto non ha mai più trovato un luogo isolato per potersi geneticamente diversificare. È forse superfluo aggiungere che non si tratta di un processo volontario. L'espansione demografica è frutto dell'adattabilità della specie. Tuttavia l'assoluta mancanza di controllo del fenomeno ha dei forti risvolti geneticamente deterministici. Più l'espansione demografica diventa incontrollabile, infatti, più la specie si stabilizza neutralizzando qualsiasi spinta derivante da mutazioni casuali che hanno scarsissime possibilità di replicarsi in una popolazione sempre più numerosa e in continuo contatto nello spazio e nel tempo. Se poi aggiungiamo la complessità del Dna umano il risultato finale sarà il blocco speciativo di cui ~bbiamo già parlato nel precedente capitolo. E importante considerare, tuttavia, che nel caso umano la complessità genetica non va considerata solo in relazione ai dati quantitativi assoluti (numero di nucleotidi o loro combinabilità) rispetto alle altre specie, ma anche in relazione al rapporto tra dati quantitativi e disponibilità di partner compatibili. La tipicità zoologica umana è infatti sin dalle sue origini dovuta alla stretta convergenza tra biologia della struttura e biologia della cultura. Biologia della struttura in quanto frutto di un'evoluzione convergente delle morfologie centrali (neurocerebrali) e periferiche (strutture ossee, muscolari, nervose). Biologia della cultura in quanto specie migratoria altamente espansiva e fortemente comunicativa. La condizione umana è quindi significativamente rappresentativa dell'unificazione fra natura e cultura: incarna l'inesistenza di qualsiasi separazione fra l'una e l'altra. 234

Da questo punto di vista l'analogia tra geni e lingua, e quindi tra l'unità genetica e l'unità linguistica del genere umano, può essere di grande aiuto anche per chiarire gli equivoci di fondo su cui, come abbiamo visto (cfr. cap. II), è stata sempre fondata l'artificiosa contrapposizione fra natura e cultura. Per esempio il fatto che l'evoluzione biologica sia più lenta di quella culturale è una pura illusione ottica, dovuta alla confusione che esiste tra i termini linguale e linguaggio, tra variazioni storiche e funzione generativa della/aculté de langage. Certo la facoltà di linguaggio ha una storia evolutiva lunghissima e graduale almeno quanto quella dei primati, come vedremo meglio nei prossimi paragrafi. Per ricostruirla dobbiamo inevitabilmente attraversare i passaggi critici del bipedismo, dell'accrescimento delle capacità craniche e delle trasformazioni cerebrali, della discesa della laringe e dell'assestamento del tratto vocale e, soprattutto, di tutti i processi esattativi (usi sociali, funzionalizzazioni specifiche ecc.) che sono scaturiti a tutti i livelli da queste variazioni strutturali e dalla loro lentissima metabolizzazione. Da questo punto di vista non importa stabilire esattamente quando sia cominciato questo processo e in che rapporti di continuità o discontinuità stia con tutti i precedenti processi confluenti nel calderone unico delle capacità cognitive. D'altro canto, sia nella sua fase di incubazione sia in quella di conclamazione questa facoltà ha generato prodotti: articolazioni vocali di varia complessità, dai primi grugniti ai quarantamila dialetti e lingue odierne. Se chiamassimo «lingue» tutte queste variazioni funzionali i tempi biologici e quelli culturali coinciderebbero. Non diverso sarebbe il problema anche se partissimo dagli effetti ecologici del rapporto strutture-funzioni prodotti da un 'unica evoluzione (quella biologica). In questo caso è certo che l'evoluzione culturale sembra «volare»: dal momento in cui la lenta evoluzione delle strutture si stabilizza in un meccanismo cognitivo adatto non solo alla trasmissione ma anche alla formalizzazione e alla conservazione delle conoscenze, i vantaggi adattativi che ne scaturiscono sembrano, infatti, moltiplicarsi a dismisura. Questa accelerazione è dovuta tuttavia al maturare di quelle condizioni strutturali (sinergie morfologiche) che, sebbene siano derivate da un lungo percorso evolutivo non certo finalizzato all'evoluzione culturale, di fatto imprimono a quest'ultima una svolta che può apparire come un salto 235

(cognitivo, tecnologico ecc). In qualsiasi caso non è possibile uscire dal circolo natura-cultura: si può dire che la cultura sia un meccanismo biologico, in quanto dipende da organi, come le mani per fare gli strumenti, la laringe per parlare, le orecchie per udire, il cervello per capire, ecc. che ci permettono di comunicare tra di noi, di inventare e di costruire nuove macchine capaci di esercitare funzioni utili e speciali, di fare tutto quel che è necessario, desiderato e possibile. Ma è un meccanismo dotato di grande flessibilità che ci permette di applicare qualunque idea utile ci venga in mente, e sviluppare soluzioni per i problemi che nascono di volta in volta [Cavalli-Sforza 2004, 78].

Le resistenze a questo principio ineludibile di qualsiasi prospettiva evolutiva sono, tuttavia, numerose, come abbiamo visto parlando dello strano caso del «negazionismo linguistico» (cap. II). Quella più frequente, legata soprattutto alle riserve della cultura umanistico-filosofica, è una resistenza fondata sulla tipologia della trasmissione delle informazioni: le informazioni «naturali» si trasmetterebbero per via genetica mentre quelle «culturali» si trasmetterebbero direttamente, con un rapporto peer-to-peer. Verità lapalissiana, che tuttavia restringe il termine natura all'ambito della genetica e il termine cultura a quello delle scienze sociali. Questa restrizione obbliga a postulare una doppia sostanza: una materiale («i geni») e una immateriale («le idee, la conoscenza, il capitale culturale» e così via). Ma potrebbero le idee (e quindi la conoscenza, le tradizioni ecc.) esistere senza i soggetti che le hanno per primi formulate? E questi soggetti avrebbero potuto formularle nella forma in cui lo hanno fatto se non avessero avuto un sistema organico (sensomotorio, cerebrale, cognitivo) fatto in uno specifico modo? Si tratta quindi di un vestito ideologico improbabile costruito a misura di tutte le ipotesi filosofiche dualistiche. Di fatto non c'è alcuna necessità di considerare «naturale» solo ciò che è trasmissibile geneticamente e «culturale» tutto il resto. Qualsiasi prassi che non si trasmette per via ereditaria è naturale quanto qualsiasi tratto passato dai nostri geni ai geni dei nostri figli. Non esistono, infatti, passaggi «immateriali». Sia i processi imitativi, spontanei o indotti, sia l'istruzione esplicitamente impartita dai genitori o dagli altri conspecifici seguono pro-

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prie e specifiche vie di conduzione e necessitano di apparati corporei in grado di produrre e ricevere le informazioni. Il rapporto percentuale tra le informazioni veicolate dalla struttura filogenetica e quelle ricapitolate a ogni ripartenza ontogenetica può variare in una certa misura da specie a specie, ma tutte le specie naturali - quindi tutte le specie animali - acquisiscono e trasmettono dati ai propri conspecifici utilizzando sempre allo scopo specifiche procedure: in biologia è cultura qualunque meccanismo che consenta acquisizione di informazione da membri della propria specie attraverso sistemi sociali in grado di dar luogo a comportamenti. Una balena che apprende un diverso «dialetto» sonoro da altri membri della sua specie si trova al centro di un meccanismo culturale di trasmissione di informazioni. Un macaco che impara da un altro a lavare le patate dolci in mare, liberandole dalla terra di cui sono ricoperte, sta ricevendo nuove informazioni tramite un processo culturale. Allo stesso modo un bambino che impara a scrivere grazie alle informazioni che riceve da un insegnante sta apprendendo un nuovo comportamento per via culturale [Bisconti 2008, 27].

Il fatto che le procedure messe in atto per trasmettere, direttamente o indirettamente, le informazioni ai propri conspecifici, possano variare per quantità, complessità, organizzazione, sistematicità, strutture sociali dei gruppi ecc., non intacca per nulla il principio della naturalità della cultura: anche le procedure più complesse restano interamente naturali. Sono risorse biologiche sia le istruzioni che usano gli scimpanzé per cacciare le termiti attraverso bastoncini appositamente preparati allo scopo, sia la navigazione su Internet per reperire gli articoli scientifici più recenti sulla diffusione dei tumori nelle aree industrializzate del pianeta. Naturalmente non tutti i sistemi naturali di trasmissione culturale raggiungono lo stesso grado di efficienza comunicativa: la loro capacità tecnica varia in relazione al volume di dati che riescono a elaborare, alla loro strutturazione gerarchica, alle possibilità di formalizzare e conservare inalterate le informazioni. Anche in questo caso, tuttavia, la complessità non coincide direttamente e immediatamente con I' adattività della specie che esibisce tali comportamenti culturali. Non è neppure escluso che questo rapporto tra complessità e adattività

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possa assumere una configurazione inversa: più è alto il livello di complessità culturale più è basso il tasso di adattività della specie. Si tratta di valutare caso per caso non perdendo mai di vista il fatto che il principio adattativo non può prescindere dalla sua estensione temporale. Il raggiungimento della fitness della specie può anche essere ottenuto in tempi record, ma è il suo mantenimento nel tempo che indica il successo evolutivo raggiunto. Su un punto non esiste, tuttavia, alcun dissenso: la cultura del sapiens è la più complessa ed efficiente tra tutte quelle appartenenti al regno animale.

1. Cervello, società e cultura nell'evoluzione dei primati Da che cosa dipendono queste eccezionali e indiscusse complessità ed efficienza della cultura umana? Tra le tante risposte che sono state date a questo interrogativo centrale per tutte le scienze cognitive contemporanee ne possiamo sintetizzare almeno tre: 1) dall'evoluzione delle strutture corporee e, in particolare, dalla dimensione e dall'architettura del sistema neuro-cerebrale dell'uomo; 2) dalla natura e dallo sviluppo della sua configurazione sociale; 3) dalle sue capacità comunicative e, quindi, dalla facoltà di linguaggio. In una prospettiva naturalistica come è quella che abbiamo cercato di delineare in questa sede, queste tre ragioni appaiono comprensibili solo all'interno di un'ottica unitaria. Si tratta, infatti, di elementi tutti interni alla configurazione etologica complessiva della specie biologica Homo sapiens. A prescindere da come si è pervenuti all'attuale strutturazione del cervello, della società e del linguaggio umani, lo stretto intreccio e la sinergia fra queste tre componenti tratteggiano certamente il profilo di una specie ecologicamente anomala, come vedremo nel cap. VII. Si tratta, tuttavia, di un'anomalia che appare connessa e del tutto integrata nella storia evolutiva dei primati. Un'anomalia che ha portato alle estreme conseguenze le tendenze strutturali e funzionali che, nel bene e nel male, hanno segnato i processi di sviluppo di questo importante ordine dei mammiferi. Le strutture anatomiche e cerebrali e i comportamenti cognitivi, sociali e culturali umani presentano, infatti, straordinarie somiglianze con i pregi e i difetti dei nostri cugini zoologici più prossimi. 238

1.1. I neuroni-specchio La somiglianza più impressionante - perché promana direttamente e senza mediazione dalle remote profondità del cervello - è la presenza di strutture neurali specifiche che stanno a fondamento dei comportamenti intersoggettivi e sociali: i celeberrimi «neuroni-specchio» [Rizzolatti et al. 1996; Rizzolatti e Arbib 1998; Rizzolatti e Craighero 2004; Rizzolatti 2005; Gallese et al. 1996; Gallese e Goldman 1998; Gallese et al. 2002; Gallese, Keysers e Rizzolatti 2004; Gallese 2006; Frith e Frith 2001, 2006; Blakemore, Winston e Frith 2004]. Si tratta, com'è noto, di popolazioni di neuroni premotori delle scimmie, collocate soprattutto nell'area F5, ma presenti anche nel lobo parietale posteriore (aree 7B o PF), che si attivano sia quando un soggetto esegue con la mano azioni dirette a uno scopo, sia quando osserva lo stesso tipo di azioni eseguite da altri individui (conspecifici o umani). Affinché si verifichi la scarica neuronale non basta l'esibizione di oggetti (per esempio mostrare frutta, bastoni, fogli di carta ecc.) ma è indispensabile realizzare o veder realizzare l'interazione tra mano e oggetto (afferrare un frutto, stringere un bastone, strappare la carta ecc.) . L'importanza cognitiva della coincidenza neurofisiologica fra il comportamento attivo (fare un 'azione) e quello passivo (veder fare un'azione) è dovuta al suo carattere simulativo. Simulazione incarnata [Gallese 2006] è l'espressione usata dagli studiosi per individuare quella tipologia di comportamenti cognitivi che rispecchiano i comportamenti cogpitivi degli altri. Questo rispecchiamento può riguardare una gamma diversificata di operazioni: dalla consonanza emotiva (provare allegria o disgusto se l'altro prova allegria o disgusto, sbadigliare se l'altro sbadiglia ecc.), sino ad arrivare, nella formulazione più estrema, alla consonanza logico-deduttiva (da cui è nata la cosiddetta «Teoria della mente») , per cui un soggetto sarebbe in grado di prevedere o «leggere» il ragionamento dell'individuo che gli sta davanti (perché sarebbe simile a quello che lui stesso farebbe). Non è certo questa la sede per discutere delle interpretazioni del reale ruolo dei neuroni-specchio, anche perché, come tutte le strutture fisiologiche, anche queste si funzionalizzano a scopi diversi in relazione alle configurazioni ero-ecologiche 239

complessive delle diverse specie animali (cfr. cap. III e cap. IV, §§ 2 ss.). Ciò che è importante rilevare in questa sede è che i neuroni-specchio sembrano - almeno sino a oggi- un'esclusiva dei primati. Più precisamente, gli unici animali per cui siano stati accertati comportamenti imitativi direttamente connessi ai neuroni-specchio sono, allo stato attuale, le scimmie (macachi e scimpanzé). Anche nell'uomo sembra accertata la presenza di un mirrorneuron-system analogo a quello delle scimmie [Kilner et al. 2_009]. Non si tratta, tuttavia, di un problema completamente nsolto (per una rassegna delle ricerche cfr. Turella et al. [2009]). Ciò accade per due motivi principali. Il primo è di natura metodologica e consiste nel fatto che nel cervello umano a differenza che in quello delle scimmie, non è consentito utiÌizzare tecniche invasive e osservare direttamente le singole popolazioni neuronali, per cui il funzionamento deve essere dedotto dalle variazioni indotte nel flusso sanguigno o dal ricorso ad altre strategie indirette. Il secondo è un motivo teorico: nell'uomo tutte le azioni motorie concrete e astratte coinvolgono quasi sempre l'area di Broca e sono quindi «contaminate» o «sporcate» dal linguaggio (cfr. cap. III, §§ 4 ss). In tal modo anche i rilievi della presenza dei neuroni-specchio sinora effettuati rischiano di non identificare un comportamento cognitivo perfettamente sovrapponibile a quello delle scimmie. A questo doppio ostacolo si è probabilmente aggiunto - come sempre accade nelle questioni che riguardano la natura della cognizione umana e i fondi di ricerca per indagarla - un eccessivo carico di tensione ideologica. Non è altrimenti spiegabile come un'ineccepibile contesa di pura ricerca sperimentale, che registra interventi a favore o contro la presenza dei neuroni-specchio nell'uomo, abbia potuto configurarsi come la diatriba tra chi accusa il pericolo di ridurre la cognizione alle rappresentazioni senso-motorie (Caramazza vs. Rizzolatti) e chi bolla d'infamia questa accusa definendola come l'idea di «una minoranza di neocreazionisti» (Rizzolatti vs. Caramazza) che preferisce credere che i neuroni-specchio esistano solo nella scimmia [vedi Lavazza 2009]. Deformazioni ideologiche a parte, non c'è dubbio che la scoperta dei neuroni-specchio - ancora filosoficamente tutta da metabolizzare - costituisca sul piano neurofisiologico il risultato 240

sinora ptu importante conseguito da quel nuovo paradigma biologistico che va prepotentemente emergendo nelle scienze cognitive contemporanee (cfr. cap. I). Forse non sarà l'omologo del Dna in genetica, come ha suggerito Ramachandran [2001, 22], ma allo stato attuale un così preciso marker cerebrale di specialità cognitiva dei primati come i neuroni-specchio non ha eguali nel panorama neuroscientifico. Tuttavia, da qui a identificare i mirror-neurons come il requisito fondamentale dell'intersoggettività, dei comportamenti sociali e culturali e, addirittura, dell'intelligenza e della comprensione dialogica, la strada è davvero tanto lunga da sembrare, a tutt'oggi, impercorribile per molti motivi. Innanzitutto perché, se fosse vera la relazione tra la presenza di neuroni-specchio e comportamenti diagnosticabili come biologicamente culturali, la cultura sarebbe una faccenda esclusiva dei primati. Al contrario, come hanno osservato molti etologi, i comportamenti culturali, fondati sull'imitazione, sul socia! learning e sulle cure parentali sono diffusi non solo nei mammiferi ma in tutte le specie animali, invertebrati compresi. I cefalopodi, per esempio, che non sono neanche animali «sociali», sono in grado di imitare i conspecifici e imparare da essi [Fiorito e Scotto 1992; Bisconti 2008] (cfr. per una discussione complessiva, Sindoni [2009]). Uccelli, rettili, anfibi, pesci e persino insetti [Franks e Richardson 2006] mostrano precise forme di «insegnamento» ai conspecifici. Secondo Tim Caro e Mare Hauser [1992] un comportamento di esplicita trasmissione culturale di informazioni può essere considerato tale solo se: è esibito davanti a individui che certamente non conoscono quel comportamento; è «disinteressato», cioè costituisce una fatica senza immediata ricompensa; rende davvero possibile un guadagno di conoscenze per il soggetto a cui l'insegnamento è rivolto. Se si applicano coerentemente queste regole alle etologie animali, quasi tutti i comportamenti genitoriali dovrebbero essere indubitabilmente considerati comportamenti culturali, indipendentemente dalla presenza di un mirror-neuron-system. Analoghe considerazioni valgono per tutti i livelli della scala cognitiva. È difficile mettere in dubbio l'intersoggettività dei comportamenti empatici nei mammiferi e negli uccelli: la sola letteratura sulla fenomenologia del gioco negli animali occu241

perebbe diverse pagine di citazioni. Le strutture emozionali e quindi la condivisione di sentimenti ancestrali come la paura, la rabbia, l'appagamento sono, come aveva già suggerito Darwin sin dall'inizio della teoria dell'evoluzione, il sostrato più antico della cognizione, non il risultato di strutture dedicate delle specie animali più recenti. E infine non c'è alcun motivo di credere che la conclamata esistenza di un network neurofisiologico specifico per i comportamenti imitativi debba comportare la contemporanea inesistenza dei network che regolano i processi di categorizzazione, simbolizzazione, rappresentazione, interpretazione, gerarchizzazione e organizzazione dei sistemi cognitivi superiori, e non solo nei primati e negli uomini. Non c'è dubbio che i mirror-neuronsystems aùtorizzino a supporre «l'esistenza di un livello di base [sic] delle nostre relazioni interpersonali che non prevede l'uso esplicito di atteggiamenti proposizionali» [Gallese 2003, 42]. Ma non crediamo possa essere messo ragionevolmente in discussione che questo livello basico della cognizione non può direttamente spiegare le concatenazioni proposizionali, sintattiche, semantiche di cui sono fatti i ragionamenti che portano certamente gli umani e, probabilmente, i primati, e, comunque, tutti gli altri animali culturali non totalmente stenotopici, a competere per la sopravvivenza. Un errore del genere sarebbe paragonabile a quello di chi crede che, premendo il pulsante che accende una lampadina, la luce compaia grazie alle proprietà del pulsante. Al contrario, la lampadina si accende per una enorme quantità di mediazioni tra azioni parziali e coordinate che collegano il pulsante alla linea elettrica, la linea elettrica alla centrale di accumulazione, la centrale di accumulazione a quella di produzione, quella di produzione alla fonte naturale dell'energia: quella meravigliosa cascata di acqua che i turisti ignari fotografano come una inimitabile fonte di piacere estetico. Tra i neuroni-specchio che sparano quando riconoscono nell'altro comportamenti conosciuti e il corpo di queste conoscenze, la loro disposizione nell'enciclopedia semantica, la loro trasformazione in proposizioni sul mondo e la loro disposizione ordinata in credenze, valori e opinioni che si rispecchiano nelle strutture culturali- tutto frutto di un'unica madre biologica - c'è lo stesso rapporto che unisce, in una corrispondenza biunivoca, la cascata alla lampadina e la lampadina alla cascata. 242

Fatte queste precisazioni, resta il fatto inoppugnabile che con i neuroni-specchio scimmie e animali umani condividono un «dente di arresto» dello sviluppo neurofisiologico di incalcolabile importanza per spiegare la complessità dei comportamenti cognitivi sociali evidenziati dalle loro manifestazioni culturali.

1.2. Imitazione, socialità, aggressività I processi di imitazione, l'intersoggettività, la consonanza empatica, l'organizzazione e la struttura dei gruppi di conspecifici, le cure parentali e l'istruzione diretta dei figli, insomma, le modalità del socia! learning, costituiscono il secondo elemento . di grande rassomiglianza tra umani e scimmie. La presenza di una comune struttura neurale come 11 mirror-neuron-system pone i primati superiori su un livello biologicamente più elevato della trasmissione culturale. Non solo, infatti, le piccole scimmie sono esposte all'osservazione del comportamento dei conspecifici adulti e, quindi, attratte dall'uso di artefatti o strumenti da questi utilizzati (tool use) anche senza inizialmente comprenderne lo scopo, ma in più possono riprodurre il comportamento degli adulti automaticamente guidati da una specializzazione adattativa filogeneticamente predisposta. Il nesso tra la predisposizione filogenetica di una struttura dedicata alla trasmissione culturale e la più generale complessità dell'architettura cerebrale dovuta all'evoluzione corporea complessiva (trasformazione degli apparati muscolo-scheletrici sino al bipedismo, ampliamento dei crani e del peso dei cervelli, uso delle mani, trasformazione dell'orizzonte visuale ecc.) spiega la grande variazione culturale che si osserva nei primati. Com'è noto da una ormai copiosa letteratura sviluppata sperimentalmente e sul campo da ricercatori quali Goodall, De Waal, Boesch, Withen, Biro, McGrew, Tomasello, Matsusawa, infatti, i comportamenti culturali dei primati variano molto territorialmente: per esempio, nella scelta dei cibi, nei segnali usati per comunicare, nel tipo di materiali impiegati per produrre attrezzi, nel modo di maneggiarli, negli scopi raggiunti e così via. Un analogo fenomeno si osserva anche tra gli uccelli che, 243

pur non disponendo (forse) di neuroni-specchio, condividono una comune struttura filogenetica dedicata alle vocalizzazioni con cui mettono in atto ciò che va sotto il nome di vocal learnin g. Celebri, al proposito, gli studi condotti sulla varietà dei dialetti canori dei fringuelli londinesi che distinguono i tappi delle bottiglie di latte sul portico delle case in maniera diversa da quartiere a quartiere [Fisher e Hinde 1949, 1951; Lefebvre 1995; Sherry e Galef 1984]. Di fatto - in un panorama generale di adattamenti culturali di natura territoriale che interessa quasi tutte le specie animali - tra i primati e gli uccelli si contano certamente le specie più variabili. Strutture cognitive dedicate all'intersoggettività (complessi neurocerebrali più sistemi innati di comunicazione) permettono o, comunque, generano un maggior sviluppo del frazionamento culturale. Contrariamente al senso comune (e ai luoghi comuni) l'universalità della struttura è la migliore garanzia della flessibilità della cultura. Come vedremo in seguito, non sempre questo nesso fra strutture dedicate e variabilità culturale dà tuttavia luogo a processi canonicamente adattativi: in casi particolari - nella fattispecie quelli dominati da una situazione di impossibilità speciativa come quello umano - può anzi produrre l'effetto opposto. Il caso delle lingue storico-naturali è l'esempio più lampante. Mentre, infatti, non è praticamente possibile nel nostro mondo immaginare un isolamento di popolazioni umane tanto duraturo da produrre incremento di variabilità nel pool genico, bastano invece poche centinaia di anni di separazione tra gruppi di conspecifici per produrre lingue diverse e ormai reciprocamente irriconoscibili. Da questo punto di vista le lingue ostacolano più che agevolare la trasmissione culturale: «la differenziazione linguistica tende a ridurre gli scambi culturali e ad aumentare le differenze tra i gruppi» [Cavalli-Sforza 2004, 79]. L'avvio di quel complesso processo che l'etologia ha chiamato «pseudospeciazione culturale» (su cui torneremo nel cap. VII) e che riguarda esclusivamente l'Homo sapiens affonda le radici proprio in questo intricato nesso tra naturalità biologica e naturalità culturale. Un altro «precedente» evolutivo che collega primati umani e non umani e che procede nella stessa direzione culturale che abbiamo sinora osservato a partire dalla comunanza delle strutture neurali dedicate ai comportamenti intersoggettivi è la 244

tendenza a violare una regola pressoché universale nelle altre specie animali: la ritualizzazione dei comportamenti aggressivi intraspecifici. Sappiamo infatti dalle fondamentali opere dell'etologia lorenziana [Lorenz 1963 ; 1973a] e, soprattutto, dalla formalizzazione teorica proposta da Eibl-Eibesfeldt [ 197 O; 1975; 1988] che l'aggressività intraspecifica (cioè all'interno di una medesima popolazione geneticamente ed ecologicamente definita) è un meccanismo di autoregolazione interno a qualsiasi comunità a riproduzione sessuata. Per dirla con Minelli [2007, 142]: per un individuo appartenente alla specie A, tutti gli individui appartenenti alle altre specie sono [ ...] indifferenti, dal punto di vista riproduttivo, mentre quelli che appartengono alla sua stessa specie sono una risorsa (quelli del sesso opposto) o dei competitori (quelli del suo stesso sesso) . Da questo punto di vista è possibile definire la specie come il più vasto insieme di individui in grado di competere tra di loro per l'accesso ad un medesimo insieme di risorse riproduttive.

L'inesorabilità della competizione sessuale, connessa alla madre di tutte le leggi adattative - la necessità di riprodursi-, comporta una rigorosa delimitazione dei principi di antagonismo, pena la disintegrazione dei gruppi medesimi e il loro indebolimento progressivo nello scenario della selezione naturale. Se, in parole povere, tutti i maschi che competono per il predominio sessuale di un gruppo di conspecifici fossero materialmente «fatti fuori» dall'unico vincitore, il gruppo intero risulterebbe strutturalmente fragile e potenzialmente soggetto a un rapido processo di estinzione. È questa la ragione «naturale» per cui quasi tutti i gruppi di animali sociali adottano quella che è stata chiamata una «ritualizzazione» dei comportamenti aggressivi neurofisiologicamente innescati, in tutte le specie, dal sistema endocrino e dal nucleo più primitivo dell'encefalo: il paleocervello rettiliano. La ritualizzazione comporta una forte stereotipizzazione delle azioni, con artificiosa enfasi dei movimenti e una loro sistematica ed esagerata amplificazione [Krebs e Davies 1981, trad. it. 407-409; Eibl-Eibesfeldt 1984 , trad. it. 293]. Si tratta, in sostanza, di azioni neuro-culturali di secondo livello che «mimano» istinti neurofisiologici di primo livello: nella lotta tra due lupi per il possesso delle femmine del branco il digrignare i denti, l'ululare più forte (simulando una 245

stazza più grande), l'apparire più violenti accennando ai primi azzannamenti del collo, l'assumere, insomma, una maschera aggressiva più truculenta di quella dell'avversario, agevolati dalla struttura e dalla dimensione maggiore del corpo, sostituiscono il combattimento concreto e, soprattutto, la reale uccisione dell'antagonista. Tutto si risolve nella pantomima ritualizzata del comportamento aggressivo a cui si uniformano, sottomettendosi e accettando la sottomissione e riconoscendole come autentiche norme simboliche, sia il vinto che il vincitore. Come vedremo in seguito (cap. VII,§ 3.3), l'animale umano è l'unico che viola tanto spesso questa regola da rischiare di trasformare la ritualizzazione dei comportamenti aggressivi nell'eccezione. Contraddicendo anche in questo caso il senso comune (e i pregiudizi), il comportamento umano, che ci attenderemmo più «culturalizzato», si rivela, al contrario, come quello più aderente al dettato del paleocervello rettiliano più arcaico. Per il momento ci interessa rilevare che anche questa peculiarità della natura culturale umana è un retaggio di quella dei primati. La tenera immagine dei cuccioli di scimpanzé stretti al corpo della madre, il mito della dolcezza e della bontà di quella specie dagli occhi liquidi che accompagna da sempre l'uomo, ha spesso condizionato il giudizio sulle forme dell'aggressività con cui si realizza l'istantanea etologica dei primati non umani. Come nel caso di altre forme di intelligenza comunicativa e sociale, anche nel caso dell'aggressività intere intraspecifica, se escludiamo i comportamenti più complessi, scimpanzé e umani rivelano inequivocabilmente una comune natura. Genocidi a parte, gli scimpanzé uccidono e torturano sia individui di altre specie sia membri della propria specie e persino della propria tribù, esattamente allo stesso modo che gli umani uccidono e torturano i propri conspecifici. La mole di dati osservativi che si è accumulata in questi ultimi vent'anni su questo fenomeno è impressionante e ha rivelato aspetti sconcertanti del mondo dei primati non umani. Al di sopra di ogni sospetto primeggiano le osservazioni dei massimi pionieri della primatologia sul campo: le testimonianze di Frans De Waal e Jane Goodall sugli scimpanzé del parco nazionale di Gombe in Tanzania. L'abitudine alla presenza umana ha qui determinato comportamenti peculiari come i 246

rapimenti di piccoli umani che gli scimpanzé organizzano per nutrirsene. Nel vicino Uganda il kidnapping degli scimpanzé avviene persino dentro le case degli umani ed è ormai divenuto un problema di criminalità sociale endemica. Nei confronti dei propri conspecifici gli scimpanzé sembrano mostrare atteggiamenti aggressivi talmente organizzati da spingere la Goodall a credere che le diverse tribù coordinino le loro azioni a livello intenzionale e premeditato. Gli assalitori effettuano veri e propri raid contro i conspecifici-vittime isolati: le modalità dell'agguato evidenziano un 'esibizione di crudeltà talmente efferata da rasentare la volontà di costituire un «avvertimento» per i «nemici», tanto è vero che a distanza di settimane gli aggressori ritornano sulla scena del delitto che li ha visti torturare le vittime per constatare l'efficacia del loro comportamento sul piano della deterrenza nei confronti di tutte le altre tribù concorrenti [De Waal 2005, trad. it. 175]. Dugatkin e Alfieri [2002], riassumendo una grande quantità di studi e di osservazioni sul campo di vari etologi, concludono che gli scimpanzé ingaggiano non vere e proprie guerre ma scontri violenti tra piccole tribù, molto somiglianti ai microconflitti etnici umani, in cui vengono sicuramente uccisi gruppi di maschi più o meno estesi e catturate tutte le femmine. De Waal ha osservato a questo proposito come anche in cattività gli scimpanzé siano «xenofobi esattamente quanto quelli che vivono nel loro habitat naturale» [2005, tra d. it. 179]. Risulta praticamente impossibile introdurre nuove femmine all'interno di un zoo già costituito e i nuovi maschi possono essere ammessi solo dopo aver spostato i vecchi. La sensibilità per l'identità etnica si è rivelata quasi casualmente, in tutta la sua portata, quando uno scimpanzé che, stranamente, venne accettato dalle due femmine più anziane del gruppo di uno zoo, garantendone la protezione, si rivelò in seguito appartenere alla stessa tribù da cui erano state prelevate le due vecchie femmine che lo riconobbero subito a distanza di quattordici anni [ibidem]. Molti altri studi hanno arricchito il quadro del comportamento aggressivo dei primati non umani rivelandoci ulteriori somiglianze con le modalità dell'aggressione intraspecifica umana. Violentare le femmine (/orced copulations), per esempio, è prassi frequente non solo tra gli scimpanzé, ma anche tra i gorilla e gli oranghi [Smuts e Smuts 1993a, 19936; Pitcairn 247

1974; Nadler 1988; Ellis 1998, 67). Con la stessa frequenza si manifesta l'omicidio intraspecifico per gelosia tra le amadriadi, i babbuini e i macachi [Ellis 1998, 71]. Una questione di particolare interesse è costituita dalla frequenza dell'infanticidio [Hrdy 1979; Reite e Caine 1983; Troisi e D'Amato 1994; Maestripieri e Carroll 2000]. Specialista nell'uccidere i piccoli dei propri conspecifici è il Gelada Baboon, un babbuino etiope dai grandi harem [Ellis 1998). Infanticidi sono stati riscontrati anche presso i macachi [Maestripieri e Carroll 1998; Maestripieri, Wallen e Carroll 1997a e 19976], lo Hanuman Langur [Fairbanks 1993] , le femmine di scimpanzé che uccidono piccoli di altre femmine di scimpanzé [Chapais e Berman 2004; Smith 2005, 367). In generale l'omicidio intenzionale dei piccoli della propria specie è stato documentato in cinque delle sei famiglie di primati, con la sola eccezione dei Tarsidi [Smith 2005, 72-74). Ciò che, in sintesi, sembra emergere da questo insieme di ricerche è il progressivo distacco dei primati dai tradizionali moduli etologici dell'aggressività: uccidere per le scimmie umane e non umane non è un fatto obbligatoriamente connesso agli istinti vitali della sopravvivenza [Rogers e Kaplan 2004, 210). Contrariamente a quanto si credeva negli anni Settanta [F romm 197 3], i primati aggrediscono non solo per difendersi, nutrirsi o accoppiarsi, ma anche per circoscrivere il territorio, stabilire domini di possesso su beni e risorse, mantenere stabili le strutture sociali e le gerarchie dei gruppi. Forse anche solo per il «naturale» piacere «culturale» di uccidere. 1.3 . Comunicazione e trasmissione di informazioni Fra le tante somiglianze tra uomini e scimmie una differenza spicca, indiscussa, su tutte le altre: le scimmie non parlano come fanno gli uomini. A scanso di equivoci intendiamo qui con il termine parlare l'emissione di suoni articolati modulati attraverso l'apparato fonatorio e regolati da precise regioni cerebrali. Come sappiamo dai tanti lavori di Philip Lieberman, infatti, la particolare struttura anatomica del congegno vocale umano (il tratto vocale ricurvo a due canne, con la laringe permanentemente in posizione abbassata) è, tra i mammiferi, l'unica capace di produrre una modulazione fine del suono. Sebbene infatti 248

- come abbiamo già visto nel cap. IV, § 3 - diverse altre specie di mammiferi riescano ad abbassare la laringe per produrre suoni con frequenze formantiche [Fitch e Reby 2001] , nessuna di queste specie può mantenere stabilmente quella posizione. A livello cerebrale, inoltre, l'estensione, la collocazione e le funzionalità dell'area di Braca e di quella di Wernicke - e, più in generale, la specifica architettura del «doppio network del linguaggio» [Pennisi 2006] corticale e subcorticale - non sembrano riscontrarsi nei primati non umani o in altri mammiferi (cfr. cap. I,§ 3). Dal punto di vista articolatorio le uniche specie che si avvicinano alle per/ormances umane sono quelle che appartengono agli uccelli, sia a livello dei correlati periferici del linguaggio, sia a livello della localizzazione cerebrale. Non si tratta, tuttavia, di una somiglianza dovuta a un rapporto di filiazione evolutiva, bensì di un più semplice fenomeno di evoluzione convergente: montaggi analoghi di kit di attrezzi diversi per scopi simili, diremmo con l'evo-devo. Tutto ciò non vuol certo significare che il sistema cognitivo degli uccelli, i loro comportamenti intellettivi, le loro abitudini sociali e culturali siano più simili a quelli umani di quanto risultino essere quelli dei primati non umani. In particolare, il linguaggio degli uccelli non ha alcun rapporto con quello degli uomini: le vocalizzazioni di fringuelli o passeracei non trasmettono referenze semantiche o unità discorsive precise ma servono ad avvertire i conspecifici che ci sono aggressori in vista, ad attrarre i partner sessuali, a conservare i ruoli sociali e mantenere stabili le strutture gerarchiche. Praticamente gli stessi scopi emotivi, affettivi e istintuali dei primati non umani che, tuttavia, si esprimono solo marginalmente con le vocalizzazioni e affidano i loro contenuti comunicativi a un complesso di gesti multimodali in cui giocano un ruolo fondamentale la vista, il tatto, l'odorato e, più in generale, la mimica corporea nelle sue multiformi variazioni. Anche nell'uomo esiste una forte componente multimodale - visiva, uditivo-prosodica, olfattiva, tattile, cinestetica attraverso cui, nel corso di tutta l'esistenza, si trasmettono ai conspecifici le informazioni di natura emotivo-affettiva o, comunque, i valori «aggiunti» ai nuclei semantici formalizzati. È probabile tuttavia che, già a partire dalla vita intrauterina, sino ad arrivare al superamento della fase prelinguistica (con249

clamata), la strumentazione multimodale della comunicazione affettivo-emotiva - specifica di tutti i primati - giochi un ruolo essenziale nella formazione dei sistemi cognitivi umani. In altre parole, sino ai due anni di vita i piccoli umani costruiscono i loro universi rappresentazionali in maniera analoga a quella delle scimmie adulte. Ci troviamo, quindi, ancora una volta, di fronte a un'importante somiglianza cognitiva tra gli uomini e gli altri primati. Non c'è probabilmente una tendenza scientificamente più sterile di quella che pretende di stabilire se l'origine del linguaggio sia dovuta a un processo graduale delle facoltà cognitive, culturali e comportamentali o a un improvviso «salto» dovuto a una mutazione strutturale. Nella fattispecie sarebbe davvero insensato negare sia l'eredità che la comunicazione multimodale affettivo-emozionale dei primati ha lasciato al sapiens, sia la novità rappresentata da un'evoluzione «tecnica» delle strutture della vocalizzazione e della funzionalità cerebrale del linguaggio resasi disponibile a un certo punto della storia degli ominidi. Nel primo caso avremmo un'impossibile filiazione senza genitori; nel secondo ci troveremmo di fronte a specie indistinte, se non a una stessa specie. Dal punto di vista che qui si persegue è altrettanto inutile stabilire esattamente quando al sostrato comunicativo prelinguistico si è venuta a sovrapporre una nuova possibilità espressiva dovuta alla maturazione dei correlati morfologici che accompagnano il linguaggio. I dati paleontologici, paleoneurologici e la ricostruzione dell'evoluzione culturale non consentono ancora la precisione richiesta. Attenendosi a quello che conosciamo sino a ora, il momento in cui i corpi dei nostri antenati potrebbero essere stati pronti-per-il-linguaggio oscillerebbe tra 600.000 e 100.000 anni fa: pure ipotesi che future ricerche potrebbero spostare indietro sino all' erectus (un milione e mezzo di anni fa) o in avanti sino al Neolitico più recente. Inoltre, è bene ribadirlo, si tratta di fissare non l'origine del linguaggio ma la comparsa delle possibilità esattative di una nuova funzione (cfr. cap. III). In altre parole, le trasformazioni strutturali che hanno consentito la possibilità «tecnica» di modulare finemente i suoni e di regolarli attraverso precisi meccanismi cerebrali fisserebbero non un salto ma un «dente di arresto» - per dirla con Michael Tomasello - della trasformazione morfologica umana che certa-

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mente non potrebbe temporalmente coincidere con gli usi che oggi facciamo del linguaggio. Se volessimo indicare, infatti, una cronologia certa per la pragmatica del parlato contemporaneo, non potremmo che indicare una fetta microscopica della nostra storia: 10-15 .000 anni fa circa, considerando che intorno ai 4.000 anni fa alcune popolazioni di sapiens sparpagliate per il mondo cominciarono a sentire tutte la necessità di formalizzare le lingue in codici numerici e alfabeti scritti (i sumeri 3 .500 anni fa; gli egiziani 3 .000; la scrittura della Valle del'Indo 3 .000; i cinesi 1.500; la scrittura lineare B minoica o micenea 1.200; e poi, dopo Cristo, i maya, gli aztechi, i romani ecc. [Ong 1982, trad. it. 127]). Non c'è dubbio che arrivati a quel punto tutti i giochi erano già fatti: non si trattava più di una predisposizione al linguaggio geneticamente «infiltrata» nella struttura anatomica di una popolazione di primati antropomorfi, ma di una speciazione ormai cognitivamente «altra» rispetto al ceppo di ominidi che sei milioni e mezzo di anni fa si separarono anche dalla linea degli scimpanzé. In un certo senso si potrebbe dire che la scrittura è già contenuta «naturalmente» nella parola: come vedremo in seguito (cap. VII, §§ 3 ss.), articolare foneticamente e alfabeticamente sono entrambe funzioni di una medesima struttura bio-cognitiva. Un altro fondato motivo che rende inutile cercare il momento del Big Bang del linguaggio, pur riconoscendo che non può non esserci stato, ce lo forniscono l'etologia e la psicologia animale comparata attuali. Che motivo c'è di frugare in un passato intricatissimo per capire le differenze tra le menti e i sistemi di comunicazione dei primati umani e non umani quando abbiamo di fronte, in carne e ossa, gli stessi scimpanzé di tre milioni di anni fa? Di fatto, gli studi compiuti dai primatologi contemporanei ci hanno fornito un quadro ormai abbastanza chiaro del funzionamento della comunicazione nei primati non umani e delle forti analogie di questo funzionamento con il sostrato prelinguistico della comunicazione umana. Di più: ci hanno anche permesso di intravedere il nesso semiotico e psicologico che connette strettamente lo strato prelinguistico con quello linguistico nell'uomo. Questo importante risultato si è reso oggi possibile grazie a due filoni di studi di natura completamente diversa, che restano tuttora separati ma che qui ci sforzeremo di considerare 251

in una prospettiva unitaria: le ricerche neuroscientifiche sul mirror-neuron-system - di cui abbiamo già parlato in § 1.1 - e quelle tratte dal lavoro sul campo e sulle sperimentazioni della seconda generazione di primatologi. Il primo filone di studi ha ampiamente dimostrato come i sistemi di comunicazione multimodale fondati sull'interazione empatica e, più generalmente, sull'intersoggettività, sia fisiologicamente cablato nelle strutture neurali dei primati, e, con tutta probabilità, solo dei primati. La seconda generazione di primatologi ha di fatto - consapevolmente o meno - ricostruito al di fuori dell'ambito strettamente sperimentale il funzionamento fattuale, cioè sociale, di tali strutture. È certamente improprio parlare qui di una «seconda generazione» di primatologi: si tratta, tuttavia, di un'affermazione che non vuol avere alcun valore filologico. Ci riferiamo solo a tutti quegli studi sulla comunicazione e sul social learning dei primati non umani che hanno definitivamente abbandonato (come abbiamo già visto nel cap. IV, § 3) l'insensata idea della seconda metà del Novecento secondo cui per dimostrare il rapporto di continuità cognitiva tra animali e uomini si dovrebbe insegnare alle scimmie a parlare. Al contrario, le attuali ricerche sul campo hanno studiato il complesso intrecciarsi delle risorse visuali, olfattive, tattili, uditive, cinestetiche, che gli scimpanzé, i bonobo e molte altre scimmie antropomorfe mettono in atto nell'atmosfera comunicativa complessiva entro la quale si esplica integralmente la vita sociale delle tribù dei primati non umani. Quella stessa atmosfera che determina anche i comportamenti aggressivi che abbiamo visto in § 1.2 e che, a sua volta, concorre a definire il quadro etologico di fondo in cui sono inseriti anche i primati umani, non a caso «formattati» neurologicamente dal mirror-neuron-system. Ma quali sono i meriti e le scoperte della primatologia sul campo? Innanzitutto l'individuazione di una precisa contestualizzazione sociale dei fatti comunicativi entro cui prendono significato tutti i segni multimodali utilizzati. Gesti teneri o aggressivi, comportamenti irati o tranquillizzanti, prepotenti o sottomessi, cambiano completamente di senso a seconda di chi partecipa alla scena: un cucciolo o un adolescente in presenza della madre, i «guerrieri» adulti in presenza del capo tribù, i 252

vecchi in presenza di femmine o di femmine e giovani maschi e così via. In secondo luogo la ricognizione dell'enorme gamma di variabilità che questi comportamenti possono assumere e, quindi, della complessità «tecnica» necessaria per studiarli. Ciò dipende dal fatto che la multimodalità somma i parametri visivi, quelli uditivi, vocali, tattili, cinestetici, olfattivi, in una serie di configurazioni altamente variabili senza la possibilità di essere formalmente codificati se non attraverso la contestualizzazione sociale. Da un lato questo fenomeno, come ha acutamente osservato Rita Levi Montalcini [1999] , va a scapito della chiarezza e della specificità del messaggio. Ma dall'altro garantisce un rigoroso controllo sociale delle norme comunicative. È questo controllo sociale, d'altronde, lo scopo etologico entro cui si inscrivono tutti gli atti comunicativi dei primati non umani: non si possono cercare nella comunicazione dei primati (e in generale di tutte le specie animali) caratteristiche o per/ormances diverse da quelle richieste da questa natura sociale degli atti. Questo principio etologico invalicabile spiega perché le pratiche imitative degli scimpanzé siano di tipo «emulativo» [Tomasello e Call 1997] e non propriamente «procedurale» come nei bambini umani: gli scimpanzé imitano attraverso una rappresentazione multimodale complessiva fondata sulle principali a//ordances della scena e poco attenta ai particolari e alla precisione di esecuzione, in quanto l'atto imitativo mira grossolanamente alla felice realizzazione della norma sociale. D'altro canto, il limite etologico non è, in assoluto, un limite cognitivo invalicabile. Tomasello e Call [ibidem] lo dimostrano attraverso una quantità schiacciante di dati sperimentali. Di fatto i primati non umani, sottratti ai contesti naturali e inseriti integralmente in altri contesti sociali, sono capaci di fornire prestazioni anche «umanamente» rilevanti. Così il celebre bonobo maschio alfa Kanzi - allievo prediletto di Sue Savage-Rumbaugh - è diventato capace di comprendere una certa quantità di comportamenti linguistici umani non per un'istruzione condizionata esplicita - che aveva ottenuto scarsi risultati con sua madre Matata - ma «spontaneamente» solo quando ha cominciato a inserirsi gradualmente in una comunità di umani, divenendone un elemento stabile. 253

Dobbiamo a un'osservazione di Stuart G. Shanker questa importante acquisizione. Egli ha notato che solo quando Kanzi e sua sorella Panbanisha si erano completamente integrati nel centro studi Great Apes Trust di Des Moines, nello Iowa, erano riusciti a raggiungere i risultati migliori: «la spiegazione del loro sviluppo risiedeva nell'ambiente ricco di linguaggio in cui furono allevati» [Greenspan e Shanker 2004, 149]. Un dato che certo non può sorprenderci considerato che anche animali filogeneticamente molto più lontani dall'uomo, come i cani, i merli o i pappagalli, per la continua comunanza con l'uomo e la frequenza della loro vita domestica, riescono spesso a comprendere il significato pragmatico di molte parole a cui sono esposti senza un'istruzione intenzionale. D'altro canto, le performances linguistiche zoosemiotiche più spettacolari - come quelle di Kanzi, di Alex il pappagallo parlante di Irene Peppenbergh, della foca Hoover ecc. - sono anche le meno rilevanti da un punto di vista cognitivo poiché, per l'appunto, non derivano in alcun modo dall'universo comunicativo sociale che è etologicamente proprio alle specie cui appartengono: nel migliore dei casi rivelano una flessibilità cognitivo-comportamentale notevole e «aggiunta» ma completamente estranea alle capacità rappresentative reali di quegli specifici individui animali. Il terzo e più importante merito degli studi primatologici sul campo è quello di aver rilevato la specie-specificità comunicativa dei primati non umani nel ruolo decisivo svolto dalle cure genitoriali (o di altri caregivers) per lo sviluppo funzionaleemozionale dei piccoli conspecifici. Le ricerche in questo ambito [Gibson 2001; Falk 2000] hanno infatti dimostrato che quanto più sono prolungati i periodi di interazione stabile coregolata tra genitori (o figure assimilate) e figli, tanto maggiori sono i risultati ottenuti nel funzionamento sociale dei gruppi e nello sviluppo funzionale-emotivo dei soggetti. Dean Falk [2009] ha addirittura formulato un nesso tra il motherese language - cioè l'alterazione del contorno prosodico che le madri umane adottano nell'interazione con i neonati per un lungo periodo di tempo [cfr. Pennisi 1994] - e l'origine del linguaggio. L'intersoggettività cablata sulle fibre del mirror-neuron-system si traduce, nell'ontogenesi dei primati, in una complessa attività comunicativa in cui la reciprocità degli sguardi, la variazione prosodica delle vocalizzazioni, le infinite sfumature del contatto 254

fisico tra i corpi, l'attività motoria, gestuale e, soprattutto, la mimica facciale, sollecitano sino alle sue massime potenzialità i motori empatici del rapporto sociale tra i conspecifici radicando potentemente i fondamenti di tutti i processi cognitivi superiori [Greenspan e Shanker 2004]. L'estensione cronologica delle cure parentali non basta da sola, tuttavia, a spiegare la specificità delle forme comunicative prelinguistiche dei primati e le loro conseguenze sullo sviluppo cognitivo e linguistico ulteriore. Se valutiamo infatti il periodo di dipendenza compreso tra la nascita e la maturità sessuale femminile (infanzia e adolescenza) dei mammiferi non in assoluto ma in relazione alla durata del periodo di gestazione, scopriremo che né i primati né gli umani mostrano alcunché di speciale collocandosi proprio al centro di questa graduatoria (fig. 6.1). Sia dal punto di vista prettamente biologico sia da quello psicosociale occorre, quindi, una lente analitica più fine per spiegare le ragioni delle peculiarità psicologiche dell'età evolutiva dei primati, all'interno di quelle già abbastanza complesse dell'intera classe dei mammiferi. Dal punto di vista neuroscientifico, come è stato decisivo per spiegare le afasie [Lieberman 2000; 2003], anche in questo caso ci è venuto in aiuto il ruolo dell'interazione tra la neocorteccia e gli strati subcorticali più antichi del cervello. D'altro canto, dal punto di vista delle architetture cerebrali il sostrato corticale del mirror-neuron-system deve forzatamente essere studiato in relazione a ciò che accade nel profondo del nostro cervello. È qui che di recente è stata scoperta un'altra forte analogia tra primati umani e non umani: quella relativa all'amigdala [Emery e Amaral 1999]. In particolare, più di recente Freese e Amaral [2009] hanno osservato analogie anatomiche del tutto evidenti tra i macachi e gli umani. L'organizzazione citoarchitettonica, infatti, presenta una pressoché completa omologia [Pitkanen e Kemppainen 2002; Sorvari et al. 1995; Sorvari, Soininen e Pitkanen 1996a, 1996b]. L'amigdala è costituita da un gruppo di strutture interconnesse, dalla caratteristica forma a mandorla, collocato sul tronco cerebrale, in prossimità del limite inferiore del sistema limbico che regola il funzionamento endocrino, vegetativo e psichico del cervello monitorando continuamente tutti gli sti255

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