Il potere delle donne nella Chiesa. Giuditta, Chiara e le altre 8858126173, 9788858126172

Con la proposta di papa Francesco di istituire una commissione di studio sul diaconato femminile, servizio antico ma des

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Il potere delle donne nella Chiesa. Giuditta, Chiara e le altre
 8858126173, 9788858126172

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Storia e Società

Adriana Valerio

Il potere delle donne nella Chiesa Giuditta, Chiara e le altre

Editori Laterza

© 2016, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione novembre 2016

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Edizione 5 6

Anno 2016 2017 2018 2019 2020 2021

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2617-2

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a mia sorella Marichita, alla sua autorevole fermezza

PREMESSA Il recente intervento di papa Francesco, volto a istituire una commissione di studio sul diaconato femminile, e la sottolineatura della necessità di coinvolgere le donne nei processi decisionali, hanno reso quanto mai attuale la problematica della presenza delle donne nel governo della Chiesa1. Hanno riaperto questioni antiche, suscitando speranze e opposizioni che, ancora una volta, indicano come la posta in gioco sia il potere nella Chiesa. Se, infatti, il ministero fosse realmente inteso e vissuto come servizio non ci sarebbe alcun ostacolo per consentirlo anche alle donne. Ma evidentemente non è così. Le donne rimangono «a servizio», ma non hanno alcun ruolo decisionale. Se, inoltre, il potere clericale fosse giudicato come cosa negativa lo sarebbe anche per gli uomini; se, al contrario, è inteso come «responsabilità di servizio ordinato alla comunità dei fedeli» non si comprende perché le donne debbano esserne escluse2. 1  Il recentissimo Adriana Valerio, Donne e Chiesa. Una storia di genere, Carocci, Roma 2016, ripercorre gli episodi del passato facendo emergere tanto gli aspetti politici e sociali legati all’esercizio di governo nella Chiesa, quanto la presenza viva e combattiva delle donne, sottolineando come la loro esclusione dai ministeri e la loro invisibilità istituzionale fosse una questione puramente di potere. 2  Nell’incontro con l’Unione internazionale delle Superiore generali, avvenuto a Roma il 12 maggio 2016, è stato chiesto a papa Francesco: «Nella Chiesa c’è l’ufficio del diaconato permanente, ma è aperto solo agli uomini, sposati e non. Cosa impedisce alla Chiesa di includere le donne tra i diaconi permanenti, proprio come è successo nella Chiesa primitiva? Perché non costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione?». A questa domanda il papa ha risposto positivamente circa l’utilità di costituire una tale commissione.

­viii Premessa

Del potere mi sono interessata in diverse circostanze e in altri lavori cercando di cogliere, attraverso specifici casi storici, le dinamiche sottese alle relazioni tra i due generi nella Chiesa; tali rapporti, sebbene non sempre segnati da logiche di sopraffazione da parte degli uomini, hanno subìto l’influenza di un orizzonte culturale, religioso e simbolico che ha demonizzato – allora come oggi – la funzione autorevole delle donne e, quindi, i loro ruoli di guida in campo sacramentale, pastorale e teologico-magisteriale. In questi ultimi anni anche il pensiero laico ha avviato una riflessione profonda e articolata – di cui tener conto – sul potere e sul ruolo che la donna vi gioca3; qui, tuttavia, affrontiamo una questione specifica che tocca la vita della Chiesa. Partiremo dalla Bibbia, la cui interpretazione ha codificato ruoli, ambiti e separazioni tra i generi, ponendoci in termini filologicamente critici nei suoi confronti, sottoponendola al vaglio della storia e dei generi letterari, da una parte, per rileggerla attraverso alcune immagini emblematiche di rappresentazione del protagonismo femminile e, dall’altra, per valutare le indicazioni contestative presenti al suo interno. Infatti, se la religione ebraico-cristiana nasce e si sviluppa in contesti culturali nei quali i rapporti gerarchici erano scontati, è anche vero che il testo sacro, per la presenza di messaggi profetici liberanti, contiene principi che rifiutano l’uso dispotico del potere e apre ampi orizzonti su possibili soluzioni alternative alle dinamiche di dominio. È in questo campo di ambiguità – tra legittimazione e contestazione del potere – che collochiamo la nostra riflessione. Analizzeremo così le aporie del cristianesimo, che ha messo in discussione nel suo sorgere i rapporti di potere tra le   Si vedano, ad esempio, tra i tanti: Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli 1995; AA.VV., Il femminile tra potenza e potere, Arlem, Roma 1995. Cfr. inoltre i più recenti volumi: Annarosa Buttarelli, Sovrane. L’autorità femminile al governo, Il Saggiatore, Milano 2013; Potere negato. Approcci di genere al tema delle diseguaglianze, a cura di Luisella Battaglia, Aracne, Ariccia 2014. 3

Premessa

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persone, ma, nel tempo, li ha riproposti. Capiremo i presunti fondamenti teologici dell’emarginazione delle donne, controbilanciandoli con la reale autorità esercitata da alcune di loro, per approdare, infine, a proposte alternative e utopiche che ridisegnano un modo diverso di essere Chiesa, di vivere le relazioni tra i generi, e di rappresentare lo stesso Dio. Per questi motivi, pur tenendo presente il quadro storico delle questioni legate al potere nella Chiesa, credo sia opportuno fare oggi un ulteriore passo nella direzione di una riflessione, sia teorica sia di vita pratica, su chi debba gestire nella comunità ecclesiale i ruoli decisionali e su come le donne possano prendervi parte. Questione aperta, se pensiamo che già nel cristianesimo delle origini si posero problemi cruciali circa l’uso del potere sia all’interno del gruppo gesuano, sia all’esterno nei rapporti delle prime comunità con le autorità politiche. Il servizio fraterno indicato da Gesù di Nazareth, infatti, era alieno da qualunque forma di predominio sugli altri («I capi delle nazioni dominano su di esse e i grandi spadroneggiano su di esse [...] voi però non agite così»: Mt 20,25-27 = Mc 10,42-44 = Lc 22,24 = Gv 13,1ss.). La comunità, a imitazione del Maestro, non avrebbe dovuto riproporre la struttura gerarchica così come era configurata nella società discriminatoria dell’epoca, ma creare una convivialità fondata sul servizio reciproco (diaconía). In aggiunta, tale identità connotativa del discepolo, chiamato a costruire un sodalizio fraterno, non faceva distinzioni di sesso. Gesù, infatti, rispose negativamente anche alla madre dei figli di Zebedeo che aspirava a vedere i figli, Giacomo e Giovanni, in posizione privilegiata alla destra di un Messia vittorioso (Mt 20,21 e par.). Come si deve configurare allora l’esercizio dell’autorità nella Chiesa? Le donne devono aspirare ad esso così come si è configurato, oppure anche gli uomini devono ripensarlo e ridimensionarlo? Come rompere gli schemi simbolici, trasformare il linguaggio e le logiche del potere arrogante, introdurre nuove

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forme di gestione e di responsabilità, esprimere una «leaderanza» liberatoria di donne e uomini messi in relazione tra loro? Sono queste le domande che attraverseranno la nostra riflessione, la quale si soffermerà sulla possibilità di approdare a percorsi nuovi, alieni da logiche oppressive e manipolatorie.

IL POTERE DELLE DONNE NELLA CHIESA Giuditta, Chiara e le altre

I ESTER, GIUDITTA E LE ALTRE: LA METAFORA DEL POTERE Nell’antica e permanente collusione tra religione e politica, reciprocamente sostenutesi nel legittimare società patriarcali e gerarchiche, i testi sacri, scritti e interpretati da uomini, rimandano a contesti culturali nei quali la donna trova difficoltà a collocarsi come soggetto autorevole. La sua sottomissione al padre o al marito, a garanzia di un ordine sociale che si riteneva naturale e voluto da Dio, era funzionale nell’orizzonte biblico a un modello di famiglia che in alcune fasi storiche ammetteva poligamia e ripudio (Dt 24,1-4 = Sir 25,26), e garantiva all’uomo, comunque, interessi economici (gestione del patrimonio, ereditarietà di primogenitura maschile), potere giuridico (come capotribù o come capofamiglia che chiede obbedienza e rispetto) e dominio sessuale (la donna deve sottostare alle sue richieste sessuali e garantirgli una discendenza). Questa attendibile rappresentazione, in sintonia con le culture androcentriche del passato nelle quali erano ovvi i rapporti di forza, non corrisponde invece alla condizione rea­ le della donna dell’Oriente antico. Le ricerche dell’archeo­ loga Carol Meyers, ad esempio, sottolineano come fossero complessi e articolati i rapporti tra donna e uomo in base ai diversi contesti storici. Lo status sociale femminile del periodo premonarchico nell’antico Israele, ad esempio, era relativamente elevato grazie all’importanza del lavoro che le

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donne svolgevano per il benessere economico della famiglia e del villaggio. In quell’economia familiare il loro ruolo era fondamentale e includeva le responsabilità nella ricerca dei mezzi di sussistenza, le attività connesse alla preparazione e distribuzione dei cibi e il ruolo nell’educazione dei figli attraverso l’insegnamento o, almeno, l’alfabetizzazione di base. Dunque la donna non aveva certamente un ruolo sottomesso, anche quando Israele è passato da un’alleanza tribale a una monarchia con un governo centralizzato e incentrato sull’insediamento urbano di Gerusalemme1. Gli studi di Irmtraud Fischer sulle figure della profetessa Miriam, della condottiera Debora e delle donne sagge, consigliere ed educatrici d’Israele, aprono nuovi orizzonti sulla presenza autorevole delle donne: leader riconosciute in contrasto con il perdurare del mito del dominio maschile e della sottomissione delle donne ebree. Il loro protagonismo all’interno dell’Alleanza e l’intitolazione di alcuni libri della Bibbia (Rut, Ester, Giuditta) rimandano a realtà molto più dinamiche e mostrano ancor di più come fossero vive in Israele considerazioni positive della femminilità che mal si sposano con lo stereotipo della donna sottomessa e succube. 1. Il potere come saggezza: Ester Il libro di Ester, attraverso i personaggi che ne animano il racconto, mette in campo eloquenti e significative dinamiche di potere rappresentate in maniera tanto drammatica quanto farsesca. I protagonisti di questa storia fiabesca dal sapore sapienziale sono: il re Assuero, che esprime con i suoi atteggiamenti

1  Carol Meyers, Discovering Eve: Ancient Israelite Women in Context, Oxford University Press, New York 1991, p. 181. Cfr. Ead., Archeologia. Una finestra sulle vite delle donne israelite, in La Torah, a cura di Irmtraud Fischer e Mercedes Navarro Puerto, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2009, pp. 65-110.

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la vacuità del dominio maschile; la regina Vasti, che si oppone frontalmente all’autorità del marito pagandone le conseguenze; il gran visir Aman, che manifesta l’arroganza di chi vuole la soggezione dei sudditi; il giudeo Mardocheo, che vive di nascosto la propria identità ebraica per non subire sopraffazioni in terra straniera; Ester, la giovane ebrea adottata da Mardocheo, che usa le giuste strategie di mediazione per piegare il potere maschile a vantaggio del proprio popolo; gli eunuchi dell’harem, sullo sfondo, uomini castrati a servizio dell’altrui potenza virile. Ognuno, a suo modo, esprime un aspetto del potere, esercitato o subìto, ma sempre, comunque, funzionale alla società patriarcale nella quale questo racconto si inserisce. Rileggiamo in chiave ironico-drammatica la narrazione biblica2. Al tempo di Ester, il re di Persia è il divino Assuero (Serse I) il cui regno viene descritto come una sequela di banchetti, di esibizioni di lusso, vanità e vizi senza controllo. Il potere, nella sua essenza, può essere apparente e fatuo. Alla fine di una di queste sontuose feste organizzate nella città di Susa, il re fa chiamare la moglie Vasti, affinché si mostri con la corona regale davanti al popolo e ai principi (Est 1,11), ma la regina rifiuta: non vuole essere un oggetto da esporre. Vasti, con un atto di dignità femminile, osa opporsi a un preciso ordine del marito, ma il suo orgoglio e la sua disobbedienza non sono qualcosa che il re possa facilmente tollerare. Vi è il concreto pericolo che le mogli di tutti i 2  Questo racconto, seppure ambientato nel contesto storico della corte persiana del V secolo a.C., è stato scritto presumibilmente nella prima metà del II secolo a.C. quando il potere straniero, che appariva prossimo a minacciare la Giudea, era rappresentato dai Macedoni di Alessandro Magno e quando l’impero persiano era stato ormai già sconfitto da centocinquant’anni. Il libro di Ester è stato tramandato in due forme diverse: una più breve, presente nel testo ebraico, l’altra più lunga nella versione greca dei Settanta. Entrambe le versioni sono accettate dalla Chiesa cattolica e sono oggi presenti nelle loro diversità nella Bibbia di Gerusalemme. Per le citazioni, seguo il testo ebraico. Cfr. Adriana Valerio, Le ribelli di Dio. Donne e Bibbia tra mito e storia, Feltrinelli, Milano 2012.

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sudditi possano seguire l’esempio della regina contestando in maniera clamorosa gli ordini dei propri mariti. La questione non è familiare, è politica: gli uomini sono minacciati nella loro autorità. Basta il semplice rifiuto di una donna perché il trono di Assuero vacilli e con esso il potere finora indiscusso dei maschi sulle proprie donne. Non solo. Il re dei re, colui che domina il vastissimo impero di Persia e che ha nelle proprie mani la vita del popolo, non è in grado di decidere in che modo rispondere all’affronto della moglie e perciò sente il bisogno di convocare i sapienti del regno per chiedere consiglio su come gestire la faccenda. Presa la parola, il principe Memucán suggerisce: Se così sembra bene al re, venga da lui emanato un editto reale [...] per il quale Vasti non potrà più comparire alla presenza del re Assuero e il re conferisca la dignità di regina a un’altra migliore di lei. Quando l’editto [...] sarà conosciuto [...] tutte le donne renderanno onore ai loro mariti, dal più grande al più piccolo (1,19-20).

Assuero, di conseguenza, manda «lettere a tutte le province del regno [...] perché ogni marito fosse padrone in casa sua» (1,22); si adopera per trovare una nuova moglie e fa convocare nell’harem della reggia tutte le belle fanciulle della città. La scelta del re è una procedura che richiede tempo: le ragazze selezionate vengono preparate sotto l’attenta guardia degli eunuchi. Tra di esse vi è Ester, «di bella presenza e di aspetto avvenente» (2,7), un’ebrea che abita a Susa insieme al suo tutore Mardocheo, il quale le suggerisce di non rivelare per il momento la propria identità religiosa ed etnica3. Ester,

  Il libro di Ester si rivolge ai giudei assimilati che si trovavano a vivere sotto il dominio straniero e dovevano imparare a sopravvivere in una società in cui costituivano una minoranza: l’oppressione era sempre in agguato. Il testo li esorta ad avere fiducia e speranza nelle situazioni difficili e a rimanere fedeli in qualsiasi diaspora, persino nei momenti di persecuzione. Proprio quando la morte appare l’unico destino possibile interviene un elemento di salvezza, così 3

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dunque, vive una doppia condizione di fragilità, come donna e come straniera, avendo sperimentato le amarezze del vivere lontano dalla propria terra, dopo la dolorosa esperienza della deportazione. Entrata nelle grazie di Egai, «guardiano delle donne», che le mette a disposizione cosmetici e ancelle, fornendole anche indicazioni utili per farsi ulteriormente apprezzare dal re al momento della presentazione, Ester conquista Assuero che, completamente affascinato dalla sua bellezza, senza alcun indugio le pone in capo la corona e la nomina regina. Ester non è scelta altro che per la sua bellezza. Il potere maschile si esercita anche attraverso l’uso spregiudicato del corpo femminile: da ammirare, possedere, usare, esibire. Pure Mardocheo, il tutore, se ne serve consegnando la ragazza ai persiani, ai pagani. E gli eunuchi non vivevano forse in funzione di corpi femminili da curare, accudire e custodire per la soddisfazione sessuale di uomini potenti? La bellezza: un valore effimero, illusorio, fragile, ma che, se usato nel giusto modo, può rivelarsi un efficace strumento di potere. Ed ecco che entra in scena un altro personaggio: il consigliere Aman, innalzato all’altissimo rango di gran visir. Il suo status sociale elevatissimo fa sì che, per ordine del sovrano, «tutti i ministri del re addetti alla porta del re si inginocchiavano e si prostravano davanti ad Aman» (3,2). Il suo potere è caratterizzato da vanità, si nutre dell’umiliazione dell’altro. Per questo, non riesce a contenere il suo odio quando vede che l’ebreo Mardocheo – appena scoperto essere tale – non si prostra al suo passaggio rifiutando di sottomettersi alla sua persona. E, pieno d’ira, «si propose di distruggere tutti i Giudei che si trovavano nel regno di Assuero» (3,6).

come era accaduto durante la schiavitù in Egitto e durante la persecuzione di Antioco IV Epifane, epoca durante la quale forse il testo è stato composto. Cfr. Donatella Scaiola, Rut Giuditta Ester, Messaggero, Padova 2006.

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Il popolo ebraico finisce così per ritrovarsi nel più grave dei pericoli: lo sterminio. Aman si presenta al re e gli chiede il consenso per pianificare una strage degli ebrei, adducendo come pretesto il fatto che rappresentano un pericolo per la sicurezza dello Stato: infatti, sono un popolo autonomo «le cui leggi sono diverse da quelle di ogni altro popolo e non osserva le leggi del re» (3,8)4. La motivazione centrale per il massacro è dunque la diversità: l’essere altro. Il potere ha bisogno di affermare la propria forza descrivendo l’altro come diverso, eliminando ogni elemento di disturbo che possa mettere in discussione la propria identità e sicurezza. Assuero appare, nelle malvagie mani di Aman, niente più che un fantoccio e firma un editto che nemmeno comprende. La struttura patriarcale, della quale il sovrano è il rappresentante per eccellenza, appare ridicola e pericolosa. Il grande re governa un impero sterminato, eppure è costantemente manipolato e alla mercé di altri: della moglie Vasti che non obbedisce ai suoi capricci; dei consiglieri che lo convincono a ripudiarla; di Aman che gli fa firmare un decreto del quale non intuisce minimamente la portata. Il potere è esercitato da una persona debole. La storia, intrisa di intrighi, di violenza e di morte, è governata da un potere maschile arrogante e vacuo. Viene il momento di stabilire il giorno della strage. Si decide di fissarlo gettando il pur5, tirando cioè a sorte: «La sorte cadde sul tredici del dodicesimo mese, chiamato Adar» (3,7)6. La legge è promulgata e, «mentre il re e Aman stavano a gozzovigliare, la città di Susa era nella costernazione» (3,15).   Nella versione greca viene tramandato il decreto di sterminio nel quale si evidenziano le motivazioni antisemite: Est 3,13a-14. 5  Pur è una parola collegata alla lingua accadica che può derivare tanto da puru («gettare a sorte») quanto da pururu («distruggere»). 6  Il mese di Adar corrisponde al nostro periodo di febbraio-marzo. Secondo il testo greco la sorte cadde sul quattordicesimo giorno del mese di Adar. 4

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Mardocheo, messo a conoscenza di quanto è stato deciso da Aman e angosciato per la sorte degli ebrei, fa sapere ad Ester del pericolo di sterminio e le chiede di arrestare quella follia presentandosi «al re per chiedergli grazia e per intercedere in favore del suo popolo» (4,8). La regina è consapevole della situazione drammatica, ma sa anche che la sua stessa vita è in pericolo in quanto ebrea. Inoltre, nonostante sia regina, non ha la minima libertà di rivolgersi o addirittura di avvicinarsi a suo marito essendo proibito a chiunque, per legge, di stare alla presenza del sovrano «senza essere stato chiamato». Chi lo fa «deve essere messo a morte, a meno che il re non stenda verso di lui il suo scettro d’oro, nel qual caso avrà salva la vita» (4,11). Non essendo stata convocata da trenta giorni, Ester si trova in una posizione di evidente debolezza. Davanti al pericolo dello sterminio, deve operare una scelta: per salvare il suo popolo bisogna trasgredire la legge, anche a rischio della propria vita. Superando le prime esitazioni, decide: «Se devo morire, morirò» (4,16). Dopo tre giorni dalla sua decisione, si fa bella, si veste delle insegne regali e si reca nel cortile interno della reggia dove Assuero siede su di un trono. Inizialmente sorpreso alla vista della consorte e affascinato ancora una volta dalla sua bellezza, il sovrano avvicina lo scettro al suo capo e le chiede di parlare e di esprimere il suo desiderio, «fosse anche la metà del regno!» (5,6). Ma Ester è saggia: comprende che non è ancora il momento giusto per avanzare la sua richiesta; dunque, prende tempo. Tesse la trama e pazienta. Chiede di incontrare quel giorno stesso il re e Aman ad un banchetto durante il quale rinnova l’invito per l’indomani non ritenendo ancora opportuno esporsi. Solo durante questo secondo banchetto, alla domanda di Assuero di comunicargli i suoi desideri, Ester dà voce al proprio dolore rivelando la propria appartenenza al popolo ebraico e il pericolo a cui andrebbe incontro la sua vita nel caso andasse in porto il perfido piano di Aman.

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Il visir, davanti alle parole di Ester, è preso dal terrore e la supplica di salvargli la vita, ma il re, impietoso, lo fa imbavagliare e, tragica ironia, lo fa impiccare sul patibolo che lo stesso Aman aveva preparato per Mardocheo. Il posto di Aman viene immediatamente offerto al tutore di Ester, da lei presentato al re come suo parente. Ma non tutto è ancora risolto: infatti, bisogna revocare al più presto il decreto di sterminio. La giovane regina supplica il re di riparare al danno che ha fatto approvando con leggerezza l’editto di Aman, ma Assuero consacra, ancora una volta, la sua figura all’impotenza e alla passività; egli non può ritirare una legge, da lui stesso stabilita, una volta che sia stata promulgata: non è in suo potere. Lascia, così, ad Ester il compito di formulare un nuovo decreto che possa arginare i danni per il suo popolo. La regina, con l’aiuto di Mardocheo, trova un escamotage ed emana un decreto che autorizza gli ebrei a difendersi con le armi contro coloro che cercheranno di attuare l’editto di Aman. Nel giorno stabilito, il tredici del mese di Adar, tutti coloro che «cercavano di fare loro del male» vengono uccisi. Con i colori accesi, tipici della retorica orientale e con linguaggio iperbolico, il testo non nasconde, anche qui con eccesso, la collera delle vittime: «i giudei colpirono tutti i nemici, passandoli a fil di spada, uccidendoli e sterminandoli; fecero dei nemici quello che vollero» (9,5). Per intervento di Ester, la vendetta si perpetua anche nel giorno successivo «fino a quando saranno impiccati al palo i dieci figli di Aman» (9,13). Ester, nel momento in cui diventa donna di potere, si inserisce nelle sue stesse dinamiche, violente e oppressive. L’essere donna non la fa essere diversa. Il potere come dominio non conosce differenze di genere. Ma il racconto biblico non si preoccupa di ciò; è, in qualche maniera, un manifesto di riscatto per il popolo oppresso: i perseguitati, gli ultimi, con un rovesciamento delle sorti, trovano salvezza per mano di una donna, Ester.

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Dinanzi al suo re, Ester ha dunque deciso improvvisamente di nascondersi, perché è l’unico modo per salvare il popolo ebraico: per proteggerlo, deve rinunciare a qualsiasi tipo di protezione prima garantita. In un crescendo di consapevolezza, la regina incarna quella saggezza che sa opportunamente valutare le scelte da compiere nelle situazioni concrete e che sa calibrare il proprio celarsi e disvelarsi, attendere e intervenire. In fondo, la capacità di Ester di integrarsi nel contesto della corte senza rinnegare la propria identità le ha dato l’opportunità di salvare se stessa e gli ebrei in pericolo. La regina, per questo, rappresenta gli oppressi e la loro speranza. La sua azione è decisiva per le sorti del popolo: per la sua libertà, per il riscatto della sua condizione di vittima. Lei, senza un potere diretto, attraverso la seduzione e la bellezza del proprio corpo, piega il dominio maschile ai propri fini. Lei, scelta per il piacere di Assuero, che la vuole vergine e bella, e consegnata per la sua bellezza al re pagano dallo stesso tutore, l’ebreo Mardocheo, non subisce passivamente il potere che gli uomini esercitano sul suo corpo di donna, ma mette a disposizione la propria avvenenza per salvare gli altri. Non esibisce se stessa, ma usa la propria grazia come mezzo di salvezza. Il racconto termina con la grande gioia per lo scampato pericolo e con l’istituzione di una festa, chiamata Purim, che ancora oggi viene celebrata ogni anno come ricordo del rovesciamento della condizione del popolo: da vittima designata a trionfatore sul nemico. Questo libro di origine sapienziale offre numerosi elementi di riflessione per il nostro tema. Da una parte rappresenta con ironia e sarcasmo il potere maschile, vacuo e arrogante, dall’altra mostra, attraverso la figura di Ester, le possibili strategie che una donna bella può mettere in campo per ottenere risultati positivi e inaspettati. Non è forse la seduzione una forma di potere? Ma è l’unica concessa alle donne?

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Attraverso l’uso sapiente della propria bellezza, la capacità di potenziare le proprie possibilità di mediazione e il coraggio di assumersi la responsabilità delle scelte, la regina Ester è riuscita a indirizzare il potere maschile (degli eunuchi, del visir, del re) a vantaggio proprio e del popolo oppresso a cui appartiene. Non opponendosi direttamente come aveva fatto Vasti, ma cogliendo il momento opportuno per parlare e per agire, piega il corso degli eventi in proprio favore. Per questo Ester è stata molto amata nella storia, considerata l’emblema di donna saggia e autorevole. Già nell’alto medioevo la sua figura ha assunto un forte peso simbolico nei riti di ordinazione delle badesse e delle regine franche che, nel suo nome, acquisirono funzioni di guida e di responsabilità, investite di ruoli di autorevolezza a difesa della cristianità. È diventata in età moderna anche il modello di regina, di cui si serve Dio per liberare la sua Chiesa dai nemici, e di reggente, capace di ruoli di pacificazione nell’Europa lacerata dalle guerre di religione7. All’interno del movimento abolizionista, la figura della regina ebrea è servita per denunciare la schiavitù e il razzismo bianco. I giudei votati allo sterminio da Aman sono stati, ad esempio, paragonati agli schiavi africani d’America dalla abolizionista americana di colore Sojourner Truth, ed Ester è diventata così l’emblema della liberatrice che porta salvezza alle donne e agli schiavi. Anche durante la persecuzione nazista, il libro è risultato di grande conforto e speranza nel capovolgimento delle sorti.

7  André de Rivaudeau (1538-1580) dedica la sua tragedia Aman (1566) a Giovanna III, regina di Navarra, nuova Ester agli occhi dei protestanti che la ritenevano in grado di portare la Francia verso la pace. Dal canto suo, Pierre Matthieu (1585) rilegge la storia della regina biblica guardando a Caterina de’ Medici, sostenitrice della tolleranza civile contro le guerre di religione. Cfr. Mariangela Miotti, Ester nel teatro francese del XVI secolo, in Donne e Bibbia nelle Riforme dell’Europa cattolica, a cura di Maria Laura Giordano e Adriana Valerio, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2013, pp. 219-235.

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Per questo, Edith Stein si sentì profondamente legata alla figura della regina, pronta ad offrire la propria vita per la salvezza del suo popolo; nel testo poetico Il Dialogo notturno (1941) la protagonista è proprio Ester. Ester è regina. Ma fino a dove è compatibile il femminile con l’esercizio del potere? 2. La forza della seduzione Nelle culture gerarchiche e patriarcali, dove il potere è incentrato nelle mani di pochi (maschi), i subalterni mettono in campo una serie di strategie per conquistare spazi di autonomia. Tra queste, certamente la seduzione del corpo femminile ha comportato tanto per le donne la conquista di posizioni di influenza, quanto per gli uomini la perdita di lucidità e di controllo. Nella tradizione ebraico-cristiana la seduzione femminile è stata considerata un potere che si contrappone alla debolezza maschile: un’arma erotica che facilmente fa cadere l’uomo in tentazione, inducendolo al peccato e portandolo alla perdizione. Adamo, nel cedere alla proposta di Eva, non ha forse mostrato la propria fragilità? In questo mito delle origini, tanto utilizzato nella cultura cristiana per sottolineare la pericolosità della donna colpevole della perdizione umana, poco ci si è soffermati sulla gracile personalità del maschio. Nel racconto, infatti, la donna è la protagonista, spinta dal desiderio di sapere e di diventare autonoma, padrona di sé e del proprio destino (albero della conoscenza del bene e del male). Per questo è stata punita? Forse questa narrazione è meno ingenua di quello che può sembrare: la maggiore severità della punizione («con dolore partorirai», Gen 3,16) non manifesta forse la messa al bando di qualunque aspirazione da parte della donna all’autono-

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mia («tuo marito [...] ti dominerà», ibid.)?8 Lei, la madre dei viventi, che ha il potere della vita, paradossalmente, o forse proprio per questo, diventa l’emblema della morte, causa dell’umana infelicità. Per questo la donna è da controllare e, soprattutto, da piegare: la maternità non sarà forza, ma dolore; il desiderio di autonomia si tramuterà in sottomissione. La sua colpa sarà resa visibile nella subalternità e nella sofferenza del parto e troverà riscatto solo in una vita di silenzio e di servizio all’uomo, nel condurre un’esistenza di dedizione nobilitata dalla sola maternità. La narrazione biblica, o piuttosto la sua interpretazione, ha offerto cospicuo materiale per giustificare la subordinazione della donna, legittimandone l’inferiorità fisiologica (tratta dall’uomo), morale (induce al peccato) e giuridica (deve essere soggetta alla tutela dell’uomo: padre, marito, guida religiosa). Questa dinamica tra forza femminile e debolezza maschile la riscontriamo anche in altri episodi presenti nel testo sacro, come, ad esempio, in quelli che narrano le vicende dei genitori d’Israele, dei patriarchi e delle matriarche, cioè, che hanno dato origine al popolo eletto, costruendone l’identità e la memoria9. Abramo, trovandosi in Egitto per sfuggire a una carestia e temendo per la propria vita a causa della bellezza di Sara, facile oggetto dell’altrui desiderio, fa passare la moglie per 8  La teologa Mercedes Navarro Puerto traduce diversamente Gen 3,16: non «Verso tuo marito sarà il tuo istinto ed egli ti dominerà», ma «Verso il tuo uomo andrà il tuo istinto (= desiderio) e lui ti corrisponderà», trovando un parallelo nel Cantico dei Cantici (Ct 7,11). Cfr. Mercedes Navarro Puerto, Ad immagine e somiglianza divina. Donna e uomo in Gen 1-3 come sistema aperto, in La Torah cit., pp. 189-239 [223-224]. 9  Una traduzione riduttiva e parziale della parola ebraica abot ha privilegiato il significato di padri a discapito di quello più corretto di genitori, termine inclusivo che racchiude al proprio interno il ruolo delle donne. Si vedano: Irmtraud Fischer, Donne nell’Antico Testamento, in Donne e Bibbia. Storia ed esegesi, a cura di Adriana Valerio, Dehoniane, Bologna 2006, pp. 161-196 [167 sgg.]; Ead., Il significato dei “testi sulle donne” nei racconti sui progenitori d’Israele, in La Torah cit., pp. 241-277.

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sorella, consentendo in questo modo che lei sia presa nell’harem del faraone (12,10-20). Abramo, dunque, si mostra vile non proteggendo la moglie ed esponendola al pericolo. Al contrario, Sara acconsente a salvare il marito a discapito della propria onorabilità e per questa sua determinazione è protetta da Dio che, svelando l’inganno, la salva, anche perché è attraverso di lei che passerà la linea della salvezza10. Sara, infatti, spingerà Abramo a indicare Isacco come erede e non Ismaele, il primogenito partorito dalla schiava Agar. Di fronte alla volontà della matriarca, Abramo non difende la primogenitura di Ismaele. Analogamente l’anziano Isacco, conquistato in gioventù dalla bellezza di Rebecca («avvince con la sua bellezza»), si fa da lei beffare assegnando l’eredità a Giacobbe, il figlio prediletto della moglie, e non a Esaù, il primogenito da lui amato (27). L’inganno di Rebecca, che prende il sopravvento su un inconsapevole quanto inerte Isacco, fa in modo, ancora una volta, che l’elezione non risponda al diritto di nascita e non passi per il privilegio del primogenito – nel caso di Esaù anche fisicamente il più forte – ma per colui che è prediletto dalla madre. Anche l’altra matriarca Rachele, «bella di forme e avvenente di aspetto», conquista Giacobbe per la sua bellezza, e una certa tradizione ebraica vedrà in lei la complice dell’inganno del padre Labano nei confronti del patriarca affinché sposi, prima di lei, la brutta sorella Lia che difficilmente avrebbe trovato marito e che sarebbe stata esposta all’infelicità e alla vergogna (29). Infine, Giuda è sedotto dalla bella nuora Tamar che, non rassegnandosi a rimanere una vedova senza figli – dunque emarginata nella società patriarcale –, fingendosi prostituta incontra, non riconosciuta, il suocero che le aveva negato un 10  La stessa situazione si ripeterà nuovamente a Gerar sempre con Abramo e Sara (Gen 20,1-18) e poi con Isacco nei confronti della bella Rebecca (Gen 26,1-11).

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terzo matrimonio con un suo figlio. Giuda, davanti alla gravidanza della donna, sarà messo in condizione di assumersi la propria responsabilità: «Lei è più giusta di me» (38,26) e Tamar, difendendo il proprio diritto di essere madre, riacquista la propria dignità di donna. Da lei discenderà Davide e, dunque, il Messia. Sono le donne belle a determinare le sorti del popolo d’Israele, nel bene e nel male, soprattutto se consideriamo i continui richiami del testo sacro rivolti agli uomini più potenti, soprattutto ai re d’Israele, irretiti dalle donne straniere e pagane11. 3. Giuditta e la fragilità del potere maschile Ancora una volta una donna bella ha il potere di sedurre un uomo forte e potente per la salvezza del popolo. Ce ne parla il libro di Giuditta, un altro testo di tipo sapienziale. Il re assiro Nabucodonosor, in preda a un delirio di onnipotenza, decide di effettuare una vera e propria spedizione militare alla conquista del mondo. Attraverso un potere assoluto e violento il re porta desolazione e morte tra i popoli che incontra sul suo cammino: la forza militare del suo esercito non ha rivali. Ma sebbene tutti soccombano davanti alla potenza assira, Israele decide di resistere. Al generale assiro Oloferne, sicuro che sia la forza a governare il mondo, è affidato il compito di distruggere il popolo ebraico. Il suo esercito muove contro la città di Betulia, assediandola con l’intento di far morire la sua gente di fame e di sete. In preda alla disperazione gli abitanti chiedono la resa, ma una donna, l’intelligente e avvenente vedova Giuditta, contraria alla capitolazione, sprona i concittadini a non essere

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  Persino l’imbattibile Sansone cade vittima della bella Dalila (Gdc 13-

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paurosi e inerti e a resistere assumendosi le proprie responsabilità davanti al popolo in pericolo. Giuditta, debole strumento nelle mani di un Dio giusto, prega affinché non si affermi la violenza del potere tracotante: Spezza la loro alterigia per mezzo di una donna! La tua forza, infatti, non sta nel numero, né sui forti si regge il tuo regno; tu invece sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati (9,10-11).

Ed escogita un piano. Fingendo di voler tradire la sua gente, accompagnata dalla sua serva, si presenta al campo di Oloferne vestita, profumata e piena di doni per il generale. Con acuta intelligenza e con parole cariche di sottile ironia e di sapienti equivoci, gli dirà, se le concede di pregare, di essere in grado di rivelare i peccati della città a causa dei quali Dio la consegnerà nelle sue mani. Il generale è subito conquistato da Giuditta: dalla sua avvenenza e dalla sua arte oratoria. Accetta l’offerta e le consente di pregare ogni notte in modo da poter avere la rivelazione. Dopo tre giorni, però, desideroso di possederla («godere della sua compagnia»), la invita ad un banchetto. Giuditta accetta e finge di essere lusingata dal seduttore. Mentre Oloferne è steso nel letto, ubriaco e immerso in un sonno profondo, Giuditta capisce che quello è il momento giusto per agire. Presa la scimitarra, afferra la testa di Oloferne per i capelli e gliela taglia12. Poi la ripone in una bisaccia, insieme all’ancella attraversa l’accampamento, arriva in città con la testa del generale e, da abile stratega, dà istruzioni affinché gli israeliti, approfittando del momento di smarrimento del nemico per la morte di Oloferne, assaltino l’accampamento assiro e lo saccheggino.

12  Anche la temeraria Giaele aveva ucciso il nemico Sisara: dopo avergli dato da bere gli conficca un picchetto nella tempia consegnando il corpo agli israeliti (Gdc 4,17-22).

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Il paese in festa onora Giuditta e la benedice. Tutte le donne giungono per celebrarla e ballano in suo onore; lei stessa le guida, come già aveva fatto la profetessa Miriam che aveva cantato con tamburelli e danze la liberazione dalla schiavitù e la vittoria sugli egiziani (Es 15,20-21). Giuditta vivrà ancora molti anni e «per il resto della sua vita fu famosa in tutta la terra» (16,21). Può una donna mettere in scacco il potere degli uomini? La forza e la possanza dei nemici mostrano ancora di più il volto della fragilità davanti alla sconfitta per mano di chi apparentemente è debole e piccolo. Così era accaduto con Davide alle prese con il gigante Golia, così avviene per questa donna, Giuditta, davanti ad Oloferne, generale supremo di Nabucodonosor, re degli Assiri. Colei che è considerata marginale nella storia ribalta i destini e confonde i potenti. La vedova Giuditta, attraverso i suoi gesti, diviene emblema della fragilità del potere: davanti alla sua bellezza lo spietato nemico crolla e diventa facile preda delle sue lusinghe. Il potere maschile è fragile13. 3.1. La bellezza come rischio  Ma la bellezza femminile è anche un rischio, perché provoca negli uomini atteggiamenti di dominio e di possesso. La Bibbia non nasconde la violenza maschile che s’impone sul corpo della donna narrando casi di abuso, di stupro, di uccisioni14 e mettendo ancora più in risalto la debolezza dell’uomo incapace di instaurare rapporti dialogici con l’alterità femminile. Il testo sacro, infatti, non edulcora la condizione umana e ne registra i limiti, le cadute, le nefandezze perché è in questa storia, della quale dobbiamo assumerci la responsabilità anche nei suoi risvolti più oscuri, che si manifesta la salvezza.   Cfr. Gianfranco Ravasi, Rut, Giuditta, Ester, Dehoniane, Bologna 2010.   Elisabeth E. Green, Lacrime amare. Cristianesimo e violenza contro le donne, Claudiana, Torino 2000. 13 14

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La donna nelle culture antiche è spesso moneta di scambio tra gli uomini, oggetto e strumento nelle loro mani. Lot offre le sue figlie vergini agli uomini di Sodoma («fate loro quel che vi piace»: Gen 19,8) per sottrarre gli ospiti alle loro attenzioni: la regola sacra dell’ospitalità riguardava solo gli uomini. Dina, la figlia di Giacobbe, viene stuprata, subendo non solo l’oltraggio della violenza da parte di un uomo, Sichem, che però vuole riparare sposandola, ma anche da parte dei fratelli che non le concedono alcun riscatto sociale perché decretano la morte dell’uomo e della sua gente (Gen 34) violentandone a loro volta le donne. La moglie del levita, che aveva cercato di sottrarsi al marito, viene da lui consegnata a un gruppo di uomini della tribù di Beniamino che volevano abusare di lui. Per salvare se stesso dalla violenza, acconsente allo stupro della donna che ne morirà. Il suo corpo è infine fatto a pezzi dal levita e inviato alle altre tribù per simboleggiare il torto subìto (Gdc 19-21). Tamar, la figlia del re Davide (2Sam 13), è oggetto di stupro da parte del fratellastro Amnon, ma, allo stesso tempo, è vittima dell’omertà dell’altro fratello Assalonne, che le consiglia di tacere, e della viltà del padre Davide che non interviene per non opporsi al primogenito. La violenza nei confronti di una donna non è un delitto contro la sua persona, ma è un’offesa recata all’uomo, al suo onore, all’ordine patriarcale che egli rappresenta. Lo stupro delle concubine di Davide da parte del figlio che vuole assumerne il potere è la prova più evidente dell’abuso sul corpo femminile come segno di umiliazione per l’uomo, e di dominio per la donna. La violenza nei confronti delle donne è spesso mimetizzata e percepita come ovvia, naturale, incontestabile: introiettata dalle stesse vittime. Eppure, nel testo sacro non poche voci di donne si alzano per denunciare la violenza subìta. Sentiamo il loro grido di dolore nel libro delle Lamentazioni o nei Salmi, dove si dà voce a traumi e a soprusi (Sal 2; 55). La stessa Tamar protesta e condanna il fratellastro: «Non farmi violenza: questo non si fa in Israele; non commettere una tale infamia».

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E la bella Susanna deve fronteggiare uomini potenti, i due anziani giudici che vorrebbero costringerla ad avere rapporti sessuali con loro, sottoponendosi a un infame processo per adulterio che può condurla alla morte (Dn 13). Sola (il marito non la difende), denudata al processo davanti al popolo, Susanna leva il suo grido a Dio perché intervenga a soccorrerla e a liberarla dalla condizione ingiusta: «Io muoio innocente». Il potere maschile si esercita violentando, imponendo rapporti sessuali, controllando il corpo femminile subordinato al piacere dell’uomo. Solo l’intervento del profeta Daniele ne scongiura la morte e ridona a Susanna credibilità e onore. 3.2. La Sulamita: l’amore che non conosce violenza  Il testo sacro, tuttavia, offre anche visioni ideali, orizzonti poetici dove collocare possibili realizzazioni di rapporti riconciliati, di amori redenti. Il Cantico dei Cantici può essere considerato la risposta femminile alla narrazione mitica del conflitto tra Adamo ed Eva (Gen 3), in quanto riprende ed esalta la reciprocità dei generi in uno straordinario canto erotico d’amore che vede protagonista la donna, la Sulamita (pace). Il punto di osservazione è quello di lei. In un gioco narrativo di relazione dialogica, il Cantico riprende il racconto delle origini, ma cambiando prospettiva: è la donna a rispecchiarsi nell’uomo e a riconoscersi in lui, è lei il giardino rigoglioso nel quale l’uomo trova riparo e amore, è lei la fonte della vita, autonoma e responsabile del proprio corpo da donare per amore15, è lei a lasciare la casa della madre per congiungersi all’amato: «Il mio amato è mio, e io sono sua» (Ct 2,16); «Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (6,3). L’amore non porta a sottomissione, il desiderio non com-

15  L’espressione «la mia vigna, quella mia» (1,6) sottende la piena gestione del proprio corpo (la vigna). La donna è custode della propria castità.

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porta sudditanza ma, piuttosto, amicizia e reciprocità: la sposa è amica («Tu sei bella, amica mia», 6,4)16. Le logiche di sopraffazione svaniscono. L’uomo depone la sua funzione guerriera: nell’amore il conflitto si sospende. La Sulamita non cede alla violenza, ma all’amore. Il Cantico, infatti, non conosce violenza né potere prevaricante. Nella donna, debole, disarmata, si custodisce la forza dell’amore capace di superare anche la morte. «Io sono del mio amato e il suo desiderio è verso di me» (7,11). L’espressione di Genesi («verso tuo marito sarà il tuo desiderio ed egli ti dominerà», 3,16), segnata dal peccato e dall’alterarsi dei rapporti tra uomo e donna, qui cambia senso e il termine indica l’attrazione che l’uomo ha verso la donna, in un canto d’amore che non esprime né prevaricazione dell’uno nei confronti dell’altra né subordinazione, ma solo reciproco desiderio e amore dove gli occhi di lui (5,12) si riflettono in quelli di lei (7,5). 16   Cfr. Gianni Barbiero, Sulamita, la donna “pacificata” del Cantico dei Cantici, in Gli Scritti, a cura di Nuria Calduch-Benages e Christl Maier, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2013, pp. 213-230.

II «TRA VOI PERÒ NON SIA COSÌ»: IL POTERE INFRANTO 1. Gesù di Nazareth: Dio capovolge le logiche di dominio Le questioni che si dibattono oggi nel mondo cattolico non riguardano tanto il riconoscimento della dignità che Gesù di Nazareth ha conferito alle donne – seguaci, discepole, apostole –, sul quale tutti concordano, quanto piuttosto l’assegnazione dei ruoli che egli avrebbe loro affidato nella futura Chiesa. Una questione, questa, estremamente complessa se consideriamo che la sua figura giunge a noi attraverso il filtro della fede missionaria di alcuni discepoli che, grazie a un delicato processo di rielaborazione di tradizioni orali e di fonti scritte, hanno aiutato le prime comunità a definire se stesse e la propria identità religiosa e sociale. Rifacendoci ai soli quattro vangeli canonici (Marco, Matteo, Luca e Giovanni) quali elementi possiamo trarre oggi per avvicinarci il più possibile allo stile di vita di Gesù al di là degli interventi redazionali avvenuti a distanza di qualche decennio dalla morte del Maestro? Gli studi più recenti hanno posto in luce come Gesù non abbia voluto fondare una religione e, dunque, un tempio, un sacerdozio, una struttura gerarchica o un diritto canonico: la sua attenzione era rivolta a un profondo rinnovamento di vita nella prospettiva dell’imminente Regno di Dio che ridisegnava radicalmente le forme dell’autorità e del potere. Il suo

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messaggio, infatti, si posiziona sul piano della provocazione profetica indicando orizzonti di senso (cfr. le beatitudini) e non interventi strutturali. Per questo non si può pretendere di ricevere da lui risposte a domande anacronistiche e che esulano dal significato profondo dell’annuncio di gioia e di condivisione rivolto a tutti. E se tante cose non le ha dette, non significa che le abbia negate. Gesù non progetta alcuna riforma sociale e non muta la condizione delle donne – così come quella degli schiavi o dei diseredati –, ma, muovendosi nella linea della tradizione dei riformatori ebrei, attraverso parole profetiche e insegnamenti autorevoli, reinterpreta e attualizza il messaggio di salvezza sia per infondere speranza sia per spingere a scelte etiche di responsabilità. Dalla narrazione dei vangeli possiamo evincere che Gesù, con il suo modo di relazionarsi alle persone che incontra per le strade della Galilea, mette in essere una possibilità di convivenza umana fondata non sull’appartenenza di casta (sacerdoti e laici), classe (ricchi e poveri), popolo (ebrei e pagani) o sesso (maschi e femmine), ma sui rapporti di amore e di condivisione. Il servizio fraterno, infatti, non consente l’esercizio del potere come dominio sugli altri: Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (Mt 20,25-27 = Mc 10,42-44 = Lc 22,24 = Gv 13,1ss.).

La comunità, a imitazione di Gesù, non dovrà riproporre la struttura di potere esistente nella società, ma creare una convivialità fondata sul servizio reciproco (diaconía). È in questo quadro di riferimento che vanno inserite le donne liberate dalla loro emarginazione e che non si limitano a un semplice incontro ma hanno il coraggio di uscire dalle

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case e seguirlo1: «C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità» (Lc 8,1-2). La figura di Maria di Magdala, discepola e apostola, è in tal senso emblematica2. Il gruppo che segue il Maestro per le strade della Galilea non costituisce una cerchia separata di soli uomini, anche se i discepoli manifestano non poco imbarazzo per il suo atteggiamento libero nei confronti delle donne: con loro, infatti, Gesù entra in un dialogo empatico, offre ascolto, partecipazione affettiva e consente spazi di azione; a loro rivolge, come agli uomini, messaggi di salvezza, annuncia le esigenze del Regno di Dio e chiede scelte radicali. Le donne, dunque, non appaiono una categoria a parte né secondaria; al contrario, con tutto il gruppo condividono vita, attese e azioni. Ed è proprio grazie a queste modalità relazionali che instaura con l’universo femminile che Gesù infrange le barriere culturali che si frapponevano tra Dio e l’umanità. Prende le distanze da una visione androcentrica e familistica entrando in conflitto con la sua famiglia e con i legami di sangue (Mc 3,31-35) e creando un modello alternativo di comunità raccolta intorno all’adesione al suo messaggio3. Uomini e donne sono chiamati ad ascoltare la parola di Dio, a custodirla e a metterla in pratica. Tale identità connotativa del discepolo, chiamato a costruire un sodalizio fraterno, non fa distinzioni di sesso. L’alterità del messaggio di Gesù, infatti, lontano dalle «logiche del mondo», si manifesta anche nella risposta alla madre dei figli di Zebedeo che aspira a vedere i figli, Giacomo e Gio-

1  Cfr. Adriana Destro, Mauro Pesce, L’uomo Gesù, Mondadori, Milano 2008; Id., Dentro e fuori le “case”. Trasformazione dei ruoli femminili dal movimento di Gesù alle chiese protocristiane, in I Vangeli. Narrazioni e Storia, a cura di Mercedes Navarro Puerto e Marinella Perroni, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2012, pp. 293-311. 2  Cfr. l’illuminante testo di Marinella Perroni, Cristina Simonelli, Maria di Magdala. Una genealogia apostolica, Aracne, Ariccia 2016. 3  Mara Rescio, La famiglia alternativa di Gesù, Morcelliana, Brescia 2012.

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vanni, partecipi del potere nel Regno di un Messia vittorioso nel quale Gesù, però, non si identifica (Mt 20,21 e par.). Nella «logica del Regno» i rapporti tra le persone non sono più incentrati sull’autorità patriarcale, ma, rovesciato il modello dominante, si articolano in relazioni di fraternità e di servizio reciproco. Centrando l’essenzialità della fede nel farsi prossimo l’uno all’altro (la parabola del samaritano: Lc 10,25-37) e nell’atteggiamento misericordioso (le parabole della misericordia: 15), Gesù fa in modo che il rapporto con Dio non sia chiuso nell’ambito del sacro, ma riconsegna ad ognuno un’identità aperta: anche la donna è chiamata, nella sequela della sua persona, a realizzarsi nell’orizzonte della carità condivisa e della missione apostolica (la samaritana al pozzo: Gv 4). L’atteggiamento del laico Gesù nei confronti delle donne si colloca all’interno della sua stessa polemica nei confronti del Tempio che stabiliva una linea di demarcazione tra la sfera del divino e la sfera dell’umano, tra la classe sacerdotale e il popolo, tra gli uomini e le donne (queste ultime ai margini dello spazio sacro). Il centro della vita religiosa non ruota intorno al Tempio, svuotato della sua sacralità distante e minacciosa, ma, come Gesù rivela alla impura e scismatica donna di Samaria incontrata al pozzo: Credimi, o donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre [...] ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità (Gv 4,22-23).

Se vogliamo dare peso a queste parole riferite dal Vangelo di Giovanni, è superata sia la mediazione del Tempio sia la struttura di potere che lo caratterizza. Non occorrono gli atti di culto per rendersi degni del Trascendente, non c’è bisogno di purificarsi per avvicinarsi a Dio, ma è Dio che dona il suo amore gratuito a chi sa accoglierlo. Il nuovo culto attinge alla vita dello Spirito.

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Di conseguenza, il corpo femminile non è più il luogo dell’impurità, dell’esclusione e della discriminazione. Gesù accetta il contatto di una donna che aveva continue perdite di sangue (Mc 5,25-34 e par.); ridona la vita ad una ragazza morta stringendo a sé la sua mano esangue (Mc 5,35-42 e par.), contravvenendo così alle norme di purità che vietavano il contatto con un corpo morto e, per di più, femminile. Si fa toccare dal corpo impuro di una peccatrice che bagna i suoi piedi con le lacrime, li asciuga con i capelli, li copre di baci e li cosparge di olio profumato (Lc 7,36-50). Ora, nella nuova comunità nessun essere umano può essere più considerato profano o impuro (At 10,28). Non troviamo nei vangeli una sola parola attribuita a Gesù sulla gerarchia dei sessi, sulla femminilità. Non uno specifico messaggio rivolto alle donne né un richiamo alla figura di Eva o al peccato delle origini. La donna è posta nella prospettiva del Regno: le convenzioni sociali sono ridimensionate e le istituzioni umane sovvertite4. Lo stesso Gesù, nell’indicare un’identità umana che si esprime nelle modalità della condivisione e non del dominio, nella scelta dei gesti simbolici attinge all’esperienza femminile facendosi pane durante l’ultima cena (eucarestia) e mettendosi a servizio degli altri con la lavanda dei piedi. Questi due gesti, infatti, sono profondamente presenti nella vita delle donne che nutrono con il proprio corpo (maternità), che preparano il cibo e che a quei tempi, insieme agli schiavi, avevano il compito di lavare i piedi a chi entrava in casa. Con Gesù, tuttavia, spezzare il pane e distribuirlo, così come occuparsi degli altri con gesti di cura, non sono azioni limitate a un’esperienza esclusivamente femminile e per di più considerata servile, ma diventano modello di vita che ogni cristiano deve assumere se vuole essere credibile:

4  Cfr. la teologia di José Maria Castillo, Vittime del peccato, Fazi, Roma 2012, ed. or. 2004.

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anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi (Gv 13,14-15).

2. Paolo di Tarso: «Non più servo, ma figlio» (Gal 4,7) Paolo di Tarso, di formazione giudaica, è un uomo immerso nella cultura ellenistica oltre ad essere cittadino romano. È una personalità complessa: legata alle tradizioni ebraiche, ma aperta verso il mondo cosmopolita e pagano. Grazie a queste influenze il suo pensiero non si presenta come dogmatico e assertivo, ma piuttosto come dialogico e contingente: si confronta, infatti, con le situazioni concrete che vivono le singole comunità storicamente collocate rispondendo a precise necessità ecclesiali5. Inoltre, Paolo è convinto che la novità cristiana (lo Spirito di Cristo) sia già all’opera nella vita dei credenti trasformandola dall’interno e che, pertanto, non occorra mutare le condizioni sociali destinate a perire. Egli, cioè, non vuole rivoluzionare la società e le sue leggi: il suo interesse è, piuttosto, centrato sulla possibilità offerta a tutti di diventare creature nuove, liberate nello Spirito dalla Legge e dal peccato. Qui non possiamo entrare nel merito della teologia dell’apostolo, ma interessa invece cogliere alcune direttrici di fondo del suo pensiero, in linea con quel sovvertimento delle logiche di dominio già presente nel messaggio evangelico che Paolo aveva recepito. Appare evidente che per lui la figura di Cristo introduce una realtà nuova nell’esistenza di ogni credente – donna o uomo – liberato dal giogo della Legge mosaica. Riscattato, il cristiano è animato da spirito filiale e non si relaziona più a Dio con un rapporto di soggezione: egli è figlio e non più ser5  Cfr. Giuseppe Barbaglio, La Teologia di Paolo, Dehoniane, Bologna 1999; Id., Il pensare dell’apostolo Paolo, Dehoniane, Bologna 2004.

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vo. Morto al peccato, ognuno è inserito, attraverso la grazia del battesimo, in un’esperienza di novità di vita che trasforma e conforma a Cristo risorto. Non è più la circoncisione il segno di appartenenza – prima riservato ai soli maschi –, ma il battesimo somministrato a tutti, donne e uomini che entrano con pari dignità a far parte della nuova comunità salvifica. In tale orizzonte di pensiero, inserito nel contesto culturale del cosmopolitismo stoico, le situazioni contingenti hanno poca rilevanza: essere schiavo o libero, giudeo o greco, donna o uomo, sposato o celibe. All’interno di una vita trasformata dalla grazia, le identità, le condizioni economiche, sociali, culturali e i ruoli che ognuno esercita nel quotidiano sono sostituiti da nuove modalità di esperienze relazionali che superano ogni rapporto di potere e discriminazione: Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina; perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù (Gal 3,28).

Paolo nega la concezione delle opposizioni e delle appartenenze: in Cristo sono annullate perché irrilevanti ai fini della salvezza6. Per questo l’apostolo esorta Filemone a non trattare più Onesimo da schiavo, perché è divenuto fratello davanti all’unico Signore (Fm 16-17) e ricorda alla comunità di Corinto che l’uomo non deve dominare sulla donna: con la grazia del Cristo i rapporti nella coppia si vivono all’insegna della reciprocità. Uomo e donna sono debitori a vicenda e dispongono l’uno del corpo dell’altro nella reciproca dedizione: Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie (1Cor 7,3-4).

6  Vittoria D’Alario, «Non c’è maschile e femminile» (Gal 3,28), in Autorità potere violenza, a cura di Cloe Taddei Ferretti, Esi, Napoli 1999, pp. 41-64.

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Inoltre, Paolo non valuta come esemplari i criteri della forza, della cultura, della purezza o dell’appartenenza etnica: la debolezza della condizione umana acquista forza davanti alla potenza di Dio che opera nella storia per eleggere ciò che agli occhi umani appare fragile: quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio (1Cor 1,27-29).

Dio capovolge i consueti criteri culturali: la forza si manifesta nella debolezza. La fragilità della condizione umana, che «confonde i sapienti del mondo», costituisce un ribaltamento delle logiche di potere non operando tuttavia un rovesciamento dei ruoli, ma ridisegnandoli alla luce dell’esperienza comunitaria. Non è la persona, infatti, che si impone con la forza, ma è Dio che eleva a dignità tutti i figli chiamati a libertà (1,27 = Gal 5,13). La libertà dal peccato, dalla Legge mosaica e dalla morte configura la vita del cristiano in una nuova dimensione di «fede che opera mediante la carità» (5,6). Dati questi presupposti, non deve sorprendere allora l’apertura di Paolo nei confronti della collaborazione delle donne che hanno ruoli attivi nelle sue comunità, impegnate nel campo della carità, del diaconato, della catechesi, dell’evangelizzazione, della missione e dell’apostolato7. Paolo, lungo i suoi viaggi missionari, nelle case di donne trova rifugio e accoglienza, possibilità di instaurare prassi di condivisione pastorale e di tessere relazioni determinanti per la fondazione di comunità. Di alcune di loro si conservano i

7  Marinella Perroni, Le donne di Paolo, in Paolo di Tarso: apostolo o apostata?, atti del Seminario invernale di «Biblia», Pesaro, 26-28 gennaio 2007, Biblia, Settimello 2008, pp. 29-55.

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nomi: Maria, Lidia (At 16,13-15), Tabità (9,36-43), Priscilla (18,2-4), Cloe (1Cor 1,11), Ninfa (Col 4,15) sono solo alcuni esempi. Nel capitolo conclusivo della lettera ai Romani (Rm 16,117) Paolo saluta ben dodici donne. Veniamo così a conoscere, tra le altre, la diacono Febe, una guida autorevole della comunità di Cencre, alle porte di Corinto, la missionaria Priscilla che con il marito Aquila affianca Paolo nella missione a Efeso, mettendo a disposizione la casa e svolgendo un importante lavoro di catechesi nella nascente chiesa domestica; l’apostolo Giunia, inviata in missione con non poche pene e sofferenze; le evangelizzatrici Trifena, Trifosa e Perside, «che hanno faticato per il Signore». E infine, Maria «che ha lavorato tanto», la madre di Rufo che Paolo considera come sua madre, Pàtroba, Giulia, la sorella di Nereo e Olimpas. A queste donne menzionate con rispetto e gratitudine vanno aggiunti i nomi delle missionarie di Filippi Evodia e Sintiche che con Paolo «hanno combattuto per il vangelo» (Fil 4,2-3) e delle benefattrici Apfia (Fm 1,2), che lo accoglie a Colosse, e Ninfa, che lo ospita nella casa di Laodicea per celebrare la cena del Signore (Col 4,15). Ci troviamo, dunque, in presenza di donne attive e autonome, spesso facoltose, che svolgono ruoli non di semplice accoglienza, ma soprattutto di guida, di presidenza e di apostolato, in comunità non ancora dotate di una rigida struttura ministeriale e animate più che altro da differenziati carismi e ministeri. Anche le donne, come gli uomini, sono investite dai doni dello Spirito (charismata) messi a disposizione per l’edificazione della chiesa (ekklesía). Le questioni legate alle donne di Corinto (l’uso del velo e la richiesta di silenzio nelle assemblee) non mettono in discussione né l’impianto teorico né le scelte operative di Paolo. Corinto è metropoli ellenistica con due porti, città multiculturale, dove la comunità cristiana vive molte tensioni, ma anche intense passioni grazie ai componenti, donne e uomini, che vi partecipavano con evidente entusiasmo.

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Nell’assemblea riunita per il culto, le donne condividono con gli uomini i doni dello Spirito e l’esercizio dell’ufficio profetico (1Cor 11,2-16) che Paolo presenta come il carisma più importante dopo quello dell’apostolato: dono da esercitare per l’edificazione della comunità e che si articola in differenziate funzioni pastorali che comprendono esortare, consolare, scrutare i cuori e avere la comprensione delle Scritture. Paolo, però, richiede che le donne abbiano il capo coperto, secondo l’uso adottato «nelle chiese di Dio», contrariamente agli uomini che devono averlo scoperto: «La donna deve portare sul capo un segno di exousía» (11,10). Il significato da attribuire a questo uso del velo è una delle questioni più discusse in campo esegetico. La traduzione del termine exousía ha dato origine a molteplici e opposte interpretazioni perché è stato letto ora in senso passivo (come segno di dipendenza o di sottomissione), ora in senso attivo, come segno per le donne del potere, in Cristo, di pregare e profetizzare al pari degli uomini. Si passerebbe dunque da una potestà subìta, di soggezione e di dipendenza dal marito («per questo la donna deve portare sul capo un segno di sottomissione»), a una potestà esercitata («per questo la donna deve avere sul capo un segno di potere»). Appare evidente come le due interpretazioni si muovano su binari completamente diversi, sottolineando la prima la condizione discriminante della donna anche nelle assemblee, la seconda il suo diritto di pregare a voce alta e di profetizzare durante il culto8. Quest’ultima ipotesi appare oggi la più convincente. Il termine exousía, infatti, «non ha mai nel greco testamentario un senso passivo (subire un dominio), bensì un senso attivo: possedere un diritto, un potere. [...] Pertanto la

8  Cfr.: Giancarlo Biguzzi, Velo e silenzio. Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-36, Dehoniane, Bologna 2001; Jerome Murphy O’Connor, Cettina Militello, Maria Luisa Rigato, Paolo e le donne, Cittadella, Assisi 2006.

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donna ha sul capo il segno della sua capacità a partecipare all’assemblea di preghiera»9. È plausibile che le donne di Corinto, attive in una comunità particolarmente vivace ed effervescente, sentissero con particolare forza la liberazione operata dalla fede in Cristo e proclamata da Paolo che aveva annunciato il superamento in Cristo delle discriminazioni religiose, sociali e sessuali (Gal 3,28). Per affermare meglio la propria emancipazione, esse rifiutavano l’uso del velo sul capo, avvertito come simbolo di inferiorità e di diversità dagli uomini. Infatti, le regole di decoro sociale imponevano alle donne sposate di portare in pubblico un velo, pena l’essere scambiate per prostitute ed etère o essere identificate con le baccanti che nei riti orgiastici portavano la capigliatura sciolta sulle spalle e al vento. A Paolo, invece, sta a cuore che l’assemblea si svolga con ordine e sobrietà: il velo sarebbe, in tal senso, segno di dignità e di rispetto in linea anche con la tradizione delle chiese della Palestina. L’impurità dei capelli sciolti è eliminata se la chioma è raccolta e coperta da un velo assumendo il segno di forza spirituale e di potere profetico. L’apostolo non pone dunque un freno alle donne, ma si preoccupa che ogni cosa sia fatta con decoro, con ordine e senza ambiguità, nel rispetto delle diversità superando ogni possibile rapporto di potere: Tuttavia, nel Signore né la donna è senza l’uomo, né l’uomo senza la donna. Come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio (1Cor 11,11-12).

Allo stesso modo la pericope «Le donne tacciano in assemblea» (14,34) si inserisce nel quadro delle preoccupazioni di Paolo per il corretto svolgimento delle riunioni comunitarie.

9  Pier Angelo Gramaglia, Prefazione, in Tertulliano, De virginibus velandis. La condizione femminile nelle prime comunità cristiane, Borla, Roma 1984, p. 155.

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Non sfugge la contraddizione presente nella stessa lettera tra una accettazione della profezia femminile (11,2-16) e il divieto rivolto alle donne di prendere la parola nell’assemblea liturgica (14,34). Ma ancora altre sono le discrepanze del brano in rapporto alla teologia e alla prassi di Paolo che spin­gono a pensare che la pericope sia un’interpolazione suc­ cessiva. Il richiamo alla consuetudine delle chiese siro-palestinesi qui invocata («la chiesa dei santi») è in contrasto, infatti, con il superamento della legge giudaica, esplicitamente affermata dall’apostolo, e la richiesta di silenzio è certamente incoerente con i ruoli effettivi esercitati dalle donne sue collaboratrici, fondatrici, leader attive e parlanti del movimento missionario10. È indubbio che Paolo non voglia urtare la suscettibilità giudeo-cristiana e desideri l’ordinato svolgimento dell’assemblea finalizzato all’edificazione della comunità (14,26)11, ma ci troviamo qui davanti a una sua preoccupazione (se pensiamo che il brano sia autentico) oppure (se riteniamo sia un’aggiunta) a una tendenza successiva che ridimensiona l’esercizio della parola da parte delle donne relegandole nell’ambito domestico, nel silenzio dello spazio chiuso e privato? Sappiamo che il protagonismo femminile viene presto dimenticato e messo in ombra. Nelle comunità post-paoline, infatti, allontanatasi l’attesa della fine imminente del mondo, si afferma sempre di più un’organizzazione gerarchica a guida maschile, dovuta anche a un lento processo di cleri10  Altra ipotesi non da tutti sostenuta è la distinzione tra assemblea domestica (v. 11,2), nella quale le donne potrebbero profetizzare, e assemblea pubblica (v. 14,26) nella quale devono tacere, o tra le vergini, cui è concessa l’ispirazione, e le sposate che devono rimanere sottomesse. Ad esempio, Elisabeth Schüssler Fiorenza (Women in The Pre-Pauline and Pauline Churches, in «Union Seminary Quarterly Review», 33, 1978, pp. 153-166) ritiene che 1Cor 11,2-16 parli di donne vergini o non sposate alle quali sarebbe concesso profetizzare, mentre 1Cor 14,33b-36 imporrebbe il silenzio alle donne sposate, normalmente sottomesse ai mariti nella tradizione giudaico ellenistica. 11  Cfr. Barbaglio, La teologia di Paolo cit., pp. 175-180.

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calizzazione del tutto assente in Paolo (si vedano le Lettere a Timoteo e a Tito). L’esercizio dell’autorità da parte delle donne diventerà un problema nelle comunità di seconda e di terza generazione, meno carismatiche e più strutturate. Ed è proprio la riflessione sul potere che lacererà i cristiani dei primi secoli. Gli stessi vangeli non nascondono una certa ambivalenza nei confronti del potere, del quale si legittima la funzione, ma non se ne trascurano le insidie. Attraverso il pagamento del tributo (Mc 12,13-17) Gesù riconosce l’autorità imperiale, ma innesca un processo di desacralizzazione che evita qualunque forma di idolatria e, allo stesso tempo, le lusinghe del potere che lui stesso subisce sono rappresentate sotto forma di tentazioni diaboliche da rifiutare drasticamente. Tentazioni che ben conoscevano le comunità primitive: per questo l’Apocalisse, che chiude il canone dei testi sacri, identifica il potere con l’Anticristo.

III ESCLUSE DAL POTERE 1. Silenzio e sottomissione È risaputo che i passi citati dall’epistolario paolino hanno offerto elementi determinanti per l’esclusione delle donne da ogni ambito autorevole. Le due espressioni rivolte alle cristiane di Corinto e che sembrano richiedere l’uso del velo in segno di sottomissione e il loro silenzio nelle pubbliche assemblee hanno inciso drammaticamente sulla condizione femminile. Abbiamo visto in realtà come l’apostolo non ponga un freno al parlare profetico delle donne, ma si preoccupi che ogni cosa sia fatta con decoro, con ordine e senza ambiguità per consentire un corretto e ordinato svolgimento dell’assemblea che non deve essere turbata da scomposto e chiassoso vociare. Non è da escludere l’ipotesi, già precedentemente espressa, che il divieto di parlare sia un’interpolazione, cioè una pericope aggiunta successivamente per ridimensionare le donne che esercitavano il diritto alla parola pubblica1. Il ruolo da loro svolto nelle primitive comunità, infatti, subisce una crescente compressione da parte di opposizioni interne

1  Per Giuseppe Barbaglio l’interpolazione post-paolina rappresenterebbe l’emergere di preoccupazioni circa l’ordine familiare e sociale che sarebbe stato sovvertito dalla possibilità concessa alle donne di esercitare ruoli autorevoli e pubblici: La prima lettera ai Corinzi, Dehoniane, Bologna 1996, pp. 727-774.

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e di resistenze culturali volte a confermare i sistemi familiari e sociali vigenti, fortemente segnati da rapporti gerarchici e patriarcali. Salvo diversi orientamenti del movimento montanista del II secolo, giudicato eretico, nelle comunità cristiane le attività di guida, di amministrazione, e perfino di profezia, sono sempre più riservate agli uomini. Nelle cosiddette lettere pastorali (1Tm, 2Tm e Tt) ritroviamo, ad esempio, le posizioni prese da cristiani di seconda generazione che proibiscono esplicitamente alla donna l’insegnamento per non sovvertire l’ordine familiare e sociale. Con le differenziazioni dei ruoli sessuali stabiliti, le comunità post-paoline organizzano lo spazio, suddividendolo in domestico per le donne e in rituale, o pubblico, per gli uomini2. Morto Paolo e lontani ormai i tempi dell’attesa di una fine imminente, le comunità si avviano verso un processo di stabilizzazione secondo i criteri della società patriarcale. La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre. Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza (1Tm 2,11-15).

In questa lettera, che un discepolo di Paolo rivolge a Timoteo e ai cristiani di seconda generazione, la figura di Eva viene interpretata in chiave letterale, diventando così prototipo di tutte le donne che si lasciano sedurre dal demonio: tutti dobbiamo pagare per la sua colpa. Ci sono tutti i presupposti 2  Jorunn Økland ritiene che la diversità di funzioni attribuite agli uomini e alle donne nelle comunità cristiane dipenda dalla concezione e organizzazione dello spazio: lo spazio rituale (sanctuary space = ekklesía) e quello domestico (household space = oikia) richiedono diversità di ruoli e di modelli; si strutturano, cioè, in relazione ai rapporti di gender che essi devono simbolizzare: cfr. Jorunn Økland, Women in their place. Paul and the Corinthian Discorse of Gender and Sanctuary Space, Clark, London 2006.

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di quella che sarà la teologia del peccato e che vedrà la donna responsabile in prima persona di un debito infinito davanti a un Dio offeso e punitivo. Eva è stata sedotta dal peccato. Per questo il potere della donna è da controllare e, soprattutto, da piegare: la maternità non è forza, ma dolore; il desiderio di autonomia si tramuta in sottomissione. La sua colpa è resa visibile nella subalternità e nella sofferenza del parto: trova riscatto solo in una vita di silenzio e di servizio all’uomo, in una vita di dedizione nobilitata dalla sola maternità. Il potere della vita si tramuta paradossalmente nel dolore della morte. La nascita diventa tabù, la partoriente è segregata e posta fuori dello spazio sacro: alla donna non rimane che mortificazione e colpevolizzazione. Non è secondario considerare come questo testo della Prima lettera a Timoteo sia coevo agli Atti di Paolo e Tecla, scritto autorevole del II secolo che circolava anche esso in Asia Minore3. Qui, però, diversamente dalle lettere pastorali, si afferma una leadership femminile: Tecla, discepola di Paolo, battezza, insegna e predica. Questo significa che evidentemente all’interno del movimento cristiano convivevano posizioni differenziate. Le lettere pastorali, entrate nel canone come testi normativi, hanno dunque svolto un compito di ridimensionamento delle aspettative femminili: occorreva frenare il ruolo autorevole esercitato da alcune donne il cui protagonismo ecclesiale era recepito come minaccia. Allo stesso modo, i codici familiari della cultura del tempo entravano nel canone (Ef 5,21-33 = Col 3,18-24). Nella lettera agli Efesini, anche questa deutero-paolina4, si fa riferimento a un rapporto gerarchico tra i sessi all’interno della famiglia e a 3  Elisa Estévez Lopez, Leadership femminile nelle comunità cristiane dell’Asia Minore, in Donne Bibbia. Storia ed esegesi, a cura di Adriana Valerio, Dehoniane, Bologna 2006, pp. 241-276. 4  Le lettere autentiche di Paolo, scritte nell’arco di un decennio intorno alla metà degli anni Cinquanta del I secolo, sono solo sette: 1Ts, Gal, Rm, 1 e 2Cor, Fil e Fm. Le altre attribuite a Paolo sono invece state redatte da discepoli di seconda generazione.

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un’estesa e universale subalternità femminile rispetto all’uomo. L’affermazione: Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto (Ef 5,22-24)

rientra in quei codici domestici di uso ellenistico in cui la gerarchia dei componenti (padre, madre, figli, schiavi) rispondeva a precise regole di ordine sociale; qui il discepolo di Paolo li riprende, anche se ne attutisce la durezza, inserendo il criterio dell’amore reciproco: E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei [...]. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso (5,28-29).

2. Il potere negato Divisione dei ruoli (motivazione ontologica) e sottomissione a causa del peccato (motivazione morale), in silenzio e in perfetta obbedienza (motivazione sociale) confluiscono nell’elaborazione antropologica del pensiero cristiano che, partendo dai Padri della Chiesa, attraversa tutta l’elaborazione teologica. Infatti, la tradizione patristica non ha esitato a investire il velo di un significato di sottomissione e – andando al di là delle intenzioni dello stesso Paolo che, pur con le sue contraddizioni, non aveva negato alle donne ruoli di responsabilità ma richiesto solo decoro e pudore – trova, ad esempio, nell’obbligo del velo, un motivo di separazione e di soggezione. Per Tertulliano (160-220) la donna, a motivo della caduta di Eva, dovrebbe avere costantemente un atteggiamento di

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lutto penitenziale. La sua sottomissione è determinata dalla creazione e, soprattutto, è la punizione meritata per il peccato delle origini (De virginibus velandis 5,1: Sources Chrétiennes 424). Il velo, allora, non è che il segno esterno di tale sottomissione. Come afferma Origene (185-254), e con lui tutta la tradizione successiva, la donna può essere profetessa, ma non le è permesso di parlare con autorità in pubblico5. Ancor di più, l’Ambrosiaster, l’anonimo ma influente autore del IV secolo, commentando le lettere paoline argomenta la necessità del velo per mostrare la soggezione della donna: lei non è un’immagine diretta di Dio come l’uomo che è stato creato per primo, dominus di tutti gli esseri. «Come è possibile dire della donna che è immagine di Dio, lei che si sa essere soggetta al dominio del marito e non avere alcuna autorità?»6. La subordinazione al marito è scontata né la sottomissione sociale è messa in discussione tanto che il teologo egiziano Didimo il Cieco (313-398) arriva a proibire alle donne di scrivere libri perché ciò offenderebbe l’autorità dell’uomo7. 3. L’imperfezione antropologica e l’immagine riflessa Cultura ebraica, filosofia greca e giurisdizione romana confluiscono nella religione cristiana che ottiene, con l’imperatore Costantino, la sua consacrazione politica divenendo religione dell’impero. Ciascuna a suo modo contribuisce alla costruzione di un’antropologia che delinea un’immagine del maschile e del femminile destinata a rimanere normativa nei secoli.

5  Cfr. Rosemarie Nürnberg, «Non decet neque necessarium est, ut mulieres doceant». Überlegungen zum altkirchlichen Lehrverbot für Frauen, in «Jahrbücher für Antike und Christentum», 31, 1988, pp. 57-73. 6  Ambrosiaster, quaestio 45, CSEL 50,83. 7  Didimo il Cieco, De Trinitate 3,41,3.

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Pertanto gli uomini di chiesa sono sostanzialmente concordi nel ribadire l’imperfezione e l’insufficienza della natura femminile, nata per essere subordinata all’uomo. L’infirmitas mulieris è realtà ovvia e inconfutabile. La creazione di Eva (dalla costola di Adamo) e la sua punizione («sarà a lui sottomessa») diventano modelli rappresentativi dell’effettiva condizione femminile; le parole delle sopra citate epistole paoline e deuteropaoline, con una discutibile e pregiudizievole esegesi, assurgono a fondamenti teologici e disciplinari di esclusione dai ruoli pubblici e magisteriali. Le donne devono seguire le regole della taciturnitas; le loro parole sono collocate nell’esclusivo ambito del privato e della comunicazione personale, allontanate da ogni dimensione pubblica. Il ruolo subalterno è dunque sancito dalla natura prima che dalle leggi; la limitata capacità giuridica femminile è basata sulla presunta debolezza fisiologica e psicologica e Isidoro di Siviglia (560-636) nelle sue fortunate Etimologie avrà gioco facile nel far derivare il termine mulier da mollitia. Tali posizioni dei Padri sono ampiamente studiate e le loro argomentazioni misogine sono così ovvie e conosciute che non ritengo valga la pena di ricordarle qui, in questo contesto8. È opportuno invece tener presente come il pensiero patristico confluisca nelle decisioni canoniche che diventano legge per la Chiesa. Il Codice di Graziano (1140c.), ad esempio, afferma che l’ordine naturale nelle cose umane vuole che le donne servano gli uomini9 e, riprendendo il pensiero dell’Ambrosiaster, afferma che la donna, soggetta all’uomo, non ha alcuna autori-

8  La bibliografia a riguardo è amplissima. Cito, tra i tanti i volumi: A immagine di Dio. Modelli di genere nella tradizione giudaica e cristiana, a cura di Kari Elisabeth Børresen, Carocci, Roma 2001, ed. or. 1995; La donna nello sguardo degli antichi autori cristiani. L’uso dei testi biblici nella costruzione dei modelli femminili e la riflessione teologica dal I al VII secolo, a cura di Kari Elisabeth Børresen ed Emanuela Prinzivalli, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2012. 9  Est ordo naturalis in hominibus ut feminae serviant viris: Decretum Gratiani, q. 5, causa 33, c. 12.

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tà: né di insegnare, né di testimoniare, né di dare garanzia, né di giudicare10. Il Codice, pur riconoscendo alle mogli il diritto di amministrare la propria dote, di fare testamento e di avere una personalità giuridica autonoma, afferma l’incompatibilità tra il divino e il femminile, con la conseguente improprietà dell’esercizio del potere da parte della donna: nel solo maschio (vir) si rinviene l’immagine diretta di Dio; pertanto, egli solo è partecipe del suo potere e può governare. L’immagine di Dio è nel maschio creato unico, origine di tutti gli altri uomini, che ha ricevuto da Dio il potere di governare come suo sostituto, perché è immagine di Dio unico. Ed è per questo che la donna non è fatta a immagine di Dio11.

La svalutazione della donna e della sua corporeità considerata inadeguata a rappresentare il Trascendente per le sue caratteristiche ritenute deboli ha come conseguenza la sua esclusione da tutti gli ambiti del governo. Solo il maschio rappresenta Dio e la sua autorità perché ne è un’immagine diretta. 4. L’allontanamento dal sacro Questo stato di soggezione costituisce per Tommaso d’Aquino (1225-1274) e per la filosofia scolastica un impedimento a ricevere l’ordine sacro: la donna, infatti, non può «significare la posizione eminente che conferisce l’ordine»12. Pertanto, il governo delle donne è considerato contro natura e Tommaso, interpretando liberamente Aristotele, senten-

10  Mulierem constat subiectam dominio viri esse et nullam auctoritatem habere: nec docere potest, nec testis esse, neque fidem dare, nec iudicare, ivi, q. 5, causa 33, c. 17. 11  Ibid. 12  Sent. IV, d. 25, q. 2, a. 2 = Summa Theol., Suppl. q. 39, a. 1. Cum igitur in sexu femineo non possit significari aliqua eminentia gradus, quia mulier statum subjectionis habet; ideo non potest ordinis sacramentum suspicere.

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zia che «la corruzione del potere è quando va in mano alle donne»13. Con la ricezione della filosofia greca, che diventa interpretazione complessiva della realtà naturale, Tommaso d’Aquino elabora una concezione antropologica che fa propri i principi della biologia aristotelica, assumendo la teoria dell’imperfezione del corpo femminile in quanto mas occasionatus (maschio mancato) e ribadendo lo stato di minorità della donna, destinata dunque a mansioni ausiliarie e subalterne14. Per Tommaso il potere non si confà alle donne in quanto sottomesse; ne consegue che lo stesso ministero sacerdotale, incompatibile con lo status subiectionis, non possa essere esercitato dalle donne, le quali, «per la debolezza del corpo e l’imperfezione della ragione», sono inadeguate all’esercizio del potere in tutte le sue forme o ad assumere ruoli di mediazione tra Dio e gli uomini. La donna rimane soggetto di esperienza privata del divino; non può gestire pubblicamente la sacralità dei luoghi e dei momenti liturgici: sacramenti, parola potente, magistero. Né la figura di Maria, mediatrice per eccellenza, conferisce potere alle donne. Un recinto sacro si forma intorno al clero che concentra su di sé tutte le funzioni di guida delle coscienze e di controllo di ogni momento della vita, di elaborazione dottrinale e d’imposizione di modelli di comportamento. La svolta della teologia del sacramento dell’ordine sacro, considerato di diritto divino e che si impone con la cosiddetta Riforma Gregoriana (1073-1085), rende palese come la femminilità sia inconciliabile con la gestione del sacro, divenuto sempre più un potere esclusivo nelle mani degli uomini-maschi. A tale concentrazione dei poteri si affianca l’imporsi di quello che potremmo chiamare «il principio verità», ossia 13  Corruptio regiminis est quando regimen pervenit ad mulieres: Tommaso d’Aquino, Commento al Corpus paulinum, Lezione VII, 880. 14  Tommaso d’Aquino, Summa Theol., I, q. 92.

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l’ortodossia intesa come unicità del pensiero dominante che non tollera diversità. Ad esso, infatti, è collegata la violenza di un dominio che si impone a livello ideologico e che elimina ogni forma di antagonismo. L’alterità femminile si deve incanalare in questa unicità della verità, uniformandosi e sottomettendosi. Il testo sacro, Parola di Dio, scritta da uomini e interpretata da uomini, diventa funzionale agli interessi del dominio maschile. Va da sé che tutti partecipano a tali logiche: anche le donne, vittime e complici. La logica del dominio maschile, infatti, come afferma Bourdieu nel suo famoso saggio15, struttura tutti i piani dell’ordine costituito, comprese le espressioni culturali, il linguaggio, le auto-percezioni e le auto-rappresentazioni cosicché le stesse donne, introiettando la subalternità, si auto-escludono, si deprezzano, preferendo il silenzio o la seduzione, come arma per opporsi ai rapporti di dominio. Vittime di un meccanismo perverso di oppressione e di complicità inconsce. 15  Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998, ed. or. 1998.

IV POTERE D’ORDINE E CELIBATO ECCLESIASTICO 1. Potere d’Ordine e di giurisdizione Frutto di scontro tra diverse impostazioni teologiche risalenti a più contesti culturali e geografici, l’ortodossia che si andava affermando aveva fermamente deciso, già dal III secolo, che l’esercizio del ministero sacerdotale non dovesse essere conferito al genere femminile: la condanna del movimento chiamato montanismo, nel quale le donne esercitavano ruoli cultuali, amministrando sacramenti, ne fu l’esempio più eloquente. Le strutturazioni delle comunità presenti nelle sedi metropolitane più importanti si stavano configurando ricalcando modelli patriarcali preesistenti, sia con la ripresa della prassi sacrale giudaica, sia attraverso un lento e progressivo processo di romanizzazione ovvero applicando il paradigma istituzionale alla dimensione organizzativa dei gruppi cristiani. La sovra-dimensione giuridica che ne era conseguita aveva rafforzato il sistema gerarchico grazie al fenomeno che lo storico Alexandre Faivre chiama di «istituzionalizzazione per inferiorizzazione», determinando il radicale ridimensionamento dei laici e la marginalizzazione delle donne1. L’amministrazione del sacro fu relegata a ministri maschi. Ampiamente studiate sono le riflessioni dei Padri della Chiesa e, soprattutto, le argomentazioni della teologia scola1  Alexandre Faivre, I laici alle origini della Chiesa, San Paolo, Milano 1987, ed. or. 1984.

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stica che hanno enfatizzato i motivi d’impedimento all’ordinazione sacra che non consentivano alla donna di svolgere tutte quelle funzioni, consone ai gradi gerarchici della Chiesa, legate all’ufficio pubblico e all’esercizio dell’autorità. Brevemente, possiamo dire che cinque temi s’intrecciarono nel pensiero teologico e nella prassi canonistica che dal medioevo giungono fino ai tempi più recenti. Un fondamento scritturistico: Cristo non avrebbe scelto donne tra gli apostoli e Paolo avrebbe vietato loro di predicare e di presiedere all’azione liturgica; una precomprensione antropologica: la donna per natura non può svolgere un ruolo di autorevolezza nell’ambito sacrale; un motivo legato all’ininterrotta Tradizione: la Chiesa non ha mai autorizzato l’ordinazione delle donne; un presupposto teologico: solo il prete di sesso maschile può legittimamente rappresentare il Verbo che si è incarnato nell’essere umano maschio; infine, un principio di autorità secondo cui il magistero della Chiesa proibisce giuridicamente l’ordinazione delle donne. In realtà, le motivazioni profonde di tale esclusione che accomunano tutte queste argomentazioni toccano sottili questioni di potere che trovarono la loro giustificazione ideologica e la loro conferma in una preesistente visione antropologica che, abbiamo visto, la teologia cristiana fece propria: la donna, uguale all’uomo sul piano della salvezza, era inferiore per natura e per diritto. La natura peccaminosa femminile, dovuta alla sua debolezza morale, non poteva essere canale di grazia divina; la sua sessualità, segnata da perdite ematiche, la metteva in uno stato di impurità rituale che non le consentiva di avvicinare oggetti e persone sacre; la sua sottomissione era conseguenza del castigo dovuto al peccato; la fragilità del corpo e della mente la rendevano bisognosa di tutela. Inoltre, a pesare ulteriormente nell’allontanamento delle donne dal sacro fu il legame sempre più forte che s’instaurò tra sacerdozio e sacrificio2 e che trovò nell’antico culto mosaico 2  Esiste il sacerdote perché sussiste il sacrificio: «al tuo cospetto sacerdote e sacrificio, e sacerdote perché sacrificio», Agostino, Confessioni 10, 43.

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il suo fondamento. In tal modo, a discapito della convivialità della mensa evangelica, si conferì maggiore attenzione al ruolo del sacerdote prediligendo l’aspetto sacrificale e i temi del peccato e della colpa: Cristo era il capro espiatorio che si offriva nel sacrificio della messa come vittima per riscattare i peccati dell’umanità. In questa teologia espiatoria il sacerdote, con la sua funzione di mediatore, divenne vero gestore del potere sacro potendo giudicare, castigare, perdonare, salvare. Isidoro di Siviglia, uno dei maestri più influenti nel me­ dioevo, ha contribuito ad accentuare questo carattere cultuale del clero3, focalizzando nell’eucaristia l’atto sacrificale riservato ai sacerdoti: grazie al particolare potere che hanno ricevuto da Cristo, essi soli hanno la sacra potestà che permette loro di offrire il sacrificio e perdonare i peccati. Per Tommaso d’Aquino la donna non poteva ricevere l’ordine sacro giacché il potere legato al ministero sacerdotale non poteva competere a chi si trovava in una condizione di subalternità4. Inoltre, la «debolezza del corpo» e l’«imperfezione della ragione» non le consentivano di esercitare un ruolo di mediazione tra Dio e gli uomini, né la sua mancanza di significazione, cultuale e giuridica, le permetteva di assumere un potere come quello ecclesiastico. L’ordinazione fu concepita come il conferimento di un carattere che abilitava l’uomo (maschio) a compiere l’atto sacro per eccellenza, vale a dire il sacrificio eucaristico, commemorazione e ripresentazione del sacrificio della croce e partecipazione al frutto della passione del Signore5.

3  «Il sacerdote viene da sacrificare […] egli è colui che dona cose sacre, consacra e santifica»: Isidoro, Etymologiae, 9, 4 3, 4 PL 82, 342 e 7, 12, 17 PL 82. 4  Sulla concezione della donna in Tommaso, cfr. il classico di Kari Elisabeth Børresen, Subordination et Equivalence. Nature et rôle de la femme d’après Augustin et Thomas d’Aquin, Oslo‐Paris 1968; riedito con il titolo Subordination and Equivalence. A Reprint of a Pioneering Classic, Kok Pharos Press, Kampen 1995. 5  Sulla questione: Il Sacerdozio Ministeriale. Ricerca Storica e Riflessione Teologica, a cura della Commissione Teologica Internazionale, Dehoniane, Bologna 1972.

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L’ordinazione, secondo la nuova definizione che ne diede Pietro Lombardo, conferiva un potere che aveva un carattere indelebile e permanente e che rendeva presente nella liturgia Cristo risorto. Solo il sesso maschile poteva essere legittimato ad assolvere questo compito. La Riforma Gregoriana, che insisté sulla supremazia del clero, enfatizzò la differenza tra questo e i laici: tutti i poteri sacramentali si consolidarono nelle mani del presbiterio, maschile e celibatario; venne ridefinito il termine «ordinazione» e il ruolo del prete come «mediatore della grazia di Dio». Anche la predicazione fu intesa come un compito dell’apostolato proprio del clero (proprium officium pastorum Ecclesiae), istituito da Cristo per la diffusione del suo messaggio nel mondo (Mc 16,15-20). Il sacerdote divenne in tal modo ministro del sacramento e della parola. La potestas praedicandi gli era conferita dall’ordinazione. Dando un’interpretazione letterale di alcuni brani evangelici (Mt 4,4; 10,20; 17,5 = Lc 8,11; 10,16 = 1Ts 2,13), la tradizione cristiana ha visto nella predicazione il prolungamento della parola che Dio ha rivolto all’umanità, prima ai profeti, poi al Figlio, agli apostoli e, infine, ai predicatori, successori degli apostoli, investiti di autorità per annunciare il suo messaggio. Nella cultura medievale la presenza di Dio fu enfatizzata nella parola del predicatore: a lui fu conferito un potere di incredibile portata. Come sottolineò il domenicano Vincenzo Ferreri (1350-1419): Quando un predicatore predica la parola di Dio non è lui che predica, ma è lo Spirito Santo che parla in lui, o lo stesso Cristo [...] e il predicatore non è altro che un semplice strumento che suona6.

Questa dottrina, per la quale la predicazione era considerata veicolo di grazia, che rimandava più alla presenza della 6  Citazione in Domenico Grasso, L’annuncio della salvezza. Teologia della predicazione, D’Auria, Napoli 1965, p. 77.

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parola potente di Dio che alla mediazione della debole voce umana, non concedeva alla donna molte possibilità d’intervento e spiega i motivi per i quali le risultava impossibile, «nonostante fosse dotta e santa» (quamvis docta et sancta), predicare a un’assemblea di uomini7. L’infrazione femminile al divieto di predicare fu uno dei tratti caratteristici delle comunità giudicate eretiche e che incorrevano nel duro intervento giudiziario. 2. Donne e celibato ecclesiastico Fino al V secolo il clero ammogliato è stato una realtà comune e accettata; condivisa era, inoltre, la visione di un amore casto che non significava necessariamente astenersi dai rapporti sessuali, ma indicava piuttosto uno stile di vita radicato in Cristo. Ciò che contava non era l’esercizio della sessualità o l’astinenza, ma l’appartenere al Signore che esaltava ogni legame e conferiva nuovi significati alle nozze8. A partire dal IV secolo, però, con l’affermarsi del modello monastico, alla pratica di ordinare uomini sposati si affiancarono richieste sempre più pressanti rivolte al clero coniugato di rinunciare al matrimonio, di allontanare la moglie o, almeno, di poter vivere con lei una vita casta. Nel 306 il sinodo di Elvira vietò rapporti sessuali ai preti di quella Chiesa, pena la deposizione (can. 33), e papa Siricio (384-399) affermò nel 385 la necessità per il clero della castità, indispensabile alla purificazione rituale richiesta per il servizio liturgico9. L’asti-

7  Decretum Gratiani, Distinctio XXIII, VI pars, c. 29, in Corpus Iuris Canonici, a cura di Aemilius Friedberg, Lipsiae 1879 (rist. anast. Graz 1959), col. 86. 8  Cettina Militello, IV-VI secolo: l’epoca d’oro, in Clementina Mazzucco, Cettina Militello, Adriana Valerio, E Dio li creò. Coppie straordinarie nei primi 13 secoli del cristianesimo, Paoline, Milano 1990, pp. 191-193. 9  Papa Siricio, Lettera al vescovo Imerio di Tarragona, c. 7: PL XIII, coll. 1131-1147.

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nenza, dunque, appariva inevitabile se il rapporto sessuale era considerato impuro. Mentre in Occidente gli interventi disciplinari furono più rigidi e mirati all’imposizione della castità, in Oriente le posizioni risultarono più morbide: durante il Concilio di Nicea nel 325 si proibì al clero la coabitazione con donne che vivevano al loro servizio, «a meno che non fossero madre, sorella, zia o persona al di sopra di ogni sospetto» (can. 3), ma, allo stesso tempo, emerse nel dibattito l’opposizione del vescovo Pafnuzio che intervenne a difesa del clero uxorato ritenendo che si potesse chiamare «castità anche il rapporto di un uomo con la propria legittima sposa»10. I rapporti sessuali non mettevano in discussione l’onorabilità del matrimonio né tantomeno quella del sacerdozio. L’insistenza nell’allontanare il clero dalle donne fu dovuta a una serie di motivazioni. Il monachesimo, ponendosi sul gradino più alto della vita spirituale con l’austerità di vita e la castità, divenne un modello indiscusso da imitare. La purezza, come simbolo della superiorità e sacralità sacerdotale, non poteva contaminarsi con i rapporti sessuali e con il contatto con l’impuro corpo femminile11. L’esercizio della sessualità divenne un criterio valoriale, gerarchicamente articolato, che assegnò il primo posto alla verginità, il secondo alla vedovanza, il terzo alla vita matrimoniale. La difesa della purezza e la legge del celibato obbligatorio per il clero, che sarà sancito per legge solo nel 1135 dal Concilio di Pisa per la Chiesa latina, inevitabilmente favorirono l’affermazione di una concezione negativa della donna e della sessualità, considerate immonde e ritenute incompatibili con il culto sacrale. Il servizio divino richiedeva un corpo-tempio non profanato, l’offerta di un sacrificio puro e immacolato e, soprattutto, una presa di distanza dall’altro sesso. 10  Socrate di Costantinopoli, Historia Ecclesiastica, I, 11: PG 67,101-104; Sozomeno, Historia Ecclesiastica, I, 23: PG 67,925. 11  Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XX, 11,1.

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2.1. L’amore clandestino  La cosiddetta Riforma Gregoriana, il lungo processo politico e ideologico avviato sotto il pontificato di papa Gregorio VII (1073-1085), comportò il rafforzamento del potere sacerdotale anche attraverso la legge celibataria che s’impose universalmente nella Chiesa latina. L’autonomia del clero, svincolato da qualunque legame familiare, rafforzò in tal modo il potere economico della Chiesa; rendeva inalienabile, infatti, il patrimonio non consentendo a moglie e figli di comprometterne l’integrità dei beni12. Inoltre, se da una parte la legge favoriva i ministri del culto quali soggetti di potere, sia perché svincolati da legami affettivi sia perché arbitri della vita spirituale altrui, da un’altra li rendeva ricattabili: l’istituzione chiedeva la loro totale sottomissione13. Tuttavia, con l’entrata in vigore della legge (avversata, combattuta e non rispettata) le donne del clero non sparirono: esse diventarono clandestine e i preti concubini. Anzi, i diffusi rapporti sessuali del clero con l’universo femminile (convivenza, adescamento, violenza, stupro) furono di tale portata in tutta l’età moderna da richiamare l’attenzione dei grandi predicatori e, soprattutto, da divenire facile oggetto di satira nella novellistica, da Boccaccio a Masuccio Salernitano. Né mancarono interventi autorevoli che fecero intravedere un possibile cambiamento disciplinare14. In area umanista Erasmo da Rotterdam, Andrea Alciato e Antonio Brucioli furono favorevoli, ad esempio, al matrimonio per il clero perché non consideravano la donna un

12  Si veda su questo Adriana Valerio, Donne e celibato ecclesiastico: le concubine del clero, in Donne e religione a Napoli (secoli XVI-XVIII), a cura di Giuseppe Galasso e Adriana Valerio, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 67-90. 13  Eugen Drewermann, Funzionari di Dio, Raetia, Bolzano 1989, ed. or. 1989. 14  Cfr. Alfons Maria Stickler, Evoluzione della disciplina del celibato nella Chiesa d’Occidente dalla fine dell’età patristica al Concilio di Trento, in Sacerdozio e celibato. Studi storici e teologici, a cura di John Coppens, Áncora, Milano 1975, pp. 505-601, ed. or. 1971.

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impedimento alla vita di perfezione, rivalutando così l’unione coniugale. Tuttavia, questa rilettura della tradizionale gerarchia dei valori nella vita cristiana non riuscì a modificare l’atteggiamento dei padri presenti al Concilio di Trento (1545-1563), preoccupati di dover fronteggiare l’avanzata protestante che, proprio attraverso la laicizzazione del ministero presbiterale, era riuscita a minare dall’interno l’istituzione Chiesa, provocando la frattura nella cristianità. In una prospettiva più sacramentale che ecclesiologica, il Concilio considerò il sacerdozio strettamente legato al concetto di sacrificio cultuale. Purità e sfera del sacro diventarono elementi qualificanti intorno ai quali dare una nuova identità al prete cattolico romano, così come emerse dalla trattazione De clericis nel De controversiis (1581) del cardinale Roberto Bellarmino che a lungo si soffermò sulla figura del chierico e sulla opportuna necessità del celibato per l’ordine sacro. È evidente, in tale ottica di ripresa di antiche e radicate tradizioni, l’incompatibilità con l’uso del sesso, considerato immondo: il servizio divino richiedeva una totale integrità morale nei rapporti con l’alterità femminile. A Trento i padri conciliari si resero conto che non era sufficiente allontanare le donne e imporre la castità al clero con autorità; occorreva un’impostazione educativa più vasta e appropriata e puntarono, attraverso l’istituzione dei seminari, sulla formazione spirituale e culturale di un clero severamente educato e separato dal mondo laico. L’etica che ne scaturì diffidava delle esigenze della corporeità. La ripresa del tema paolino del corpo «come sacrificio vivente» (Rm 12,1) ritornò nella riflessione della teologia morale della Controriforma, cosicché il celibato divenne un postulato etico che segnò da una parte l’insufficienza salvifica dell’esperienza terrena che andava mortificata, dall’altra il suo bisogno di redenzione. Per questo, la corporeità femminile fu sottoposta a ogni tipo di vincoli per evitare la sua irruzione nella vita del chierico: ne fu segno eloquente la pedagogia della segregazione di Pao­

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lo Segneri che nella donna individuava la punta massima di pericolosità15; dire corpo significava indicare un’insidia permanente per la vita virtuosa. Ecco allora l’incremento di una precettistica nella quale il sospetto di peccato gravava sulla natura stessa della donna percepita come minacciosa e che caratterizzerà la Chiesa della Controriforma fino alle soglie del Concilio Vaticano II. 2.2. L’amore negato L’angoscia di fronte alla sessualità, il senso di colpa per le norme infrante, la paura di perdere l’indipendenza economica, il timore del disprezzo sociale concorsero a configurare la psicologia del prete in età moderna e a connotare il suo atteggiamento nei confronti del femminile, nella sua rappresentazione simbolica, e delle donne, nei suoi concreti rapporti esistenziali. Le donne vissero dunque un’asimmetria dei rapporti con il clero in una situazione psicologica e sociale subordinata, sentendosi oggetto di desiderio e di repulsione, di amore e di presa di distanza. La donna innamorata di un prete, relegata nella clandestinità, ha vissuto per secoli la sua marginalità: nei confronti della società civile, per la quale non aveva configurazione giuridica, e dell’istituzione ecclesiastica che ne accentuava l’invisibilità volgendo il suo unico interesse al prete da recuperare (per lei vi era esilio o scomunica). Da considerare, inoltre, il dramma dei figli che non potevano essere riconosciuti in una cultura dove l’indicazione matronimica era sinonimo di illegittimità e della scissione interiore della donna che viveva il proprio corpo, esperito come veicolo di male morale e spirituale. Tuttavia, la legge non ridusse il margine di trasgressione segnato dalla libertà dei soggetti. La clandestinità non cancellò le storie dei protagonisti: le nascose, cercò di ridurle al silenzio, non riconoscendo le passioni, gli amori, i dolori di

  Cfr. Valerio, Donne e celibato ecclesiastico cit., p. 88.

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due compagni di vita, dei quali la donna appare comunque l’anello più fragile: figura senza volto, madre illegittima, moglie non riconosciuta. Infatti, l’adagio del teologo Adamo di Brema (1050-1085) rivolto ai chierici, «se non castamente, almeno con cautela» (si non caste, tamen caute)16, divenne una traccia di vita che aiutò il clero a trovare un proprio spazio di vita affettiva o sessuale, ma non protesse certo la donna, relegata nell’illegalità, nella marginalità, nella clandestinità e nell’anonimato. Relativamente al celibato, si può ritenere che la riforma tridentina raggiunse forse raramente i suoi obiettivi perché relegò ipocritamente nella clandestinità o nell’ombra una questione legata profondamente agli affetti e ai bisogni sessuali e, soprattutto, perché non l’affrontò come un problema unitario e inscindibile che riguardava tanto il prete quanto la donna, protagonisti di un dramma umano che né la logica giudiziaria, per quanto cauta e moderata, né la cura pastorale, per quanto capillare, riuscirono a comprendere e a lenire. La legge risultò, e risulta, comunque, fragile e inadeguata su tutto il territorio cattolico17: l’attenzione dell’istituzione Chiesa è stata totalmente concentrata sulla difesa del clero. Le donne sono state viste piuttosto come elemento di disturbo, di tentazione e di devianza. 3. Direzione spirituale e confessione Non è sempre facile districarsi nelle dinamiche della direzione spirituale, di per sé complesse perché soggette tanto ai meccanismi delle relazioni psicologiche e affettive, quanto alle vicendevoli e intricate esperienze di fede che non sempre

16  Adamo di Brema, Gesta Hammaburgensis Ecclesiae Pontificum, scolio 76 (77). 17  Nel 1978 è stata fondata l’Associazione VOCATIO da alcuni preti sposati e dalle loro compagne.

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trovano nei soggetti dialoganti gli stessi registri comunicativi. Il rapporto tra il prete e la donna nel percorso di fede non è stato segnato solo da una direzione spirituale rispettosa, ma anche da abusi di potere caratterizzati da intromissioni nella sfera intima, da correzioni del comportamento e a volte da manipolazioni del pensiero. Non possiamo certo attraversare la storia di duemila anni di direzione spirituale18; tuttavia, dobbiamo segnalare che l’asimmetria del rapporto tra la donna-fedele, perlopiù appartenente a una comunità religiosa, e il prete-guida, incaricato di verificarne la correttezza dell’esperienza spirituale, è stata marcata dal potere che l’uomo ha esercitato sulla donna affinché obbedisse, spesso ciecamente, alle sue direttive. Ricordiamo, tra i tanti episodi, la storia della visionaria Ermine de Reims (†1396)19 sospettata dal suo confessore di essere fuori di testa a causa dei contenuti delle sue visioni considerate delle vere e proprie tentazioni demoniache: sperava, infatti, lei, vedova, di risposarsi; desiderava uscire dalle anguste mura domestiche e girare il mondo; auspicava di ridurre le penitenze che sentiva troppo dure; avrebbe voluto liberarsi del controllo del confessore e instaurare una relazione più diretta con Dio. Questi sogni furono giudicati tentazioni del Maligno e la donna, sotto pressione, fu spinta più volte a tentare il suicidio. Pensiamo alle manipolazioni degli scritti delle mistiche. Noto è il caso di Marina de Escobar (1554-1633), conosciuta soprattutto attraverso i filtri interpretativi del confessore, il gesuita Luis de la Puente (1554-1624), che ne compose la Vida maravillosa, opera che sarà oggetto di non poche polemiche e indagini. De la Puente, stimato direttore di coscienza, ne registrò gli stati contemplativi, le grazie soprannaturali,

18  Cfr. i tre volumi Storia della direzione spirituale, diretti da Giovanni Filoramo, Morcelliana, Brescia 2006-2008. 19  Entre Dieu et Satan. Les Visions d’Ermine de Reims, recueillies, éditées et traduites par Claude Arnaud-Gillet, Edizioni del Galluzzo, Firenze 1997.

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ma non esitò a orientarne i pensieri, a mettere ordine e coerenza in quegli scritti che Marina gli affidava e che, per quanto «meravigliosi», necessitavano da parte del gesuita d’inquadramento teologico20. Analogamente, avveniva che negli stessi anni in Italia la sovrabbondante esperienza mistica della milanese Isabella Berinzaga (1551-1624) veniva incanalata dal gesuita Achille Gagliardi in sistematici schemi concettuali21. Il pensiero femminile doveva essere controllato, corretto, orientato, sistemato. Per questo motivo, troviamo molta diffidenza nelle fondatrici ben consapevoli dei danni che un cattivo direttore poteva rappresentare per il benessere delle religiose. Ne avvertì i limiti Teresa d’Avila (1515-1582) che denunciò l’inadeguatezza di direttori incapaci di guidare nella vita di fede e spesso responsabili di insinuare turbamenti nei cuori delle donne. Ne subì il peso suor Arcangela Biondini (1641-1712), che ebbe difficoltà ad essere compresa dai direttori spirituali che sospettarono di lei. Per questo, non esitò a usare parole ironiche e sferzanti contro un confessore che voleva farle un esorcismo «con parole deboli, ignoranti e ridicole», un altro che usava le confessioni per tramare contro di lei22 e un altro ancora, così da lei descritto:

20  Adriana Valerio, Laica, visionaria, brigidina: Marina di Escobar nella Spagna di Filippo IV, in Hagiologica. Studi per Réginald Grégoire, a cura di Alessandra Bartolomei Romagnoli, Ugo Paoli e Pierantonio Piatti, vol. II, Monastero San Silvestro Abate, Fabriano 2012, pp. 789-799. 21  Achille Gagliardi stampò nel 1611 il Breve compendio intorno alla perfezione cristiana sistemando teologicamente quanto aveva appreso dalla mistica Isabella Berinzaga. Il testo fu giudicato pericoloso perché perorava il rinnovamento spirituale della Compagnia di Gesù. Si vedano: Mario Gioia, Per via di annichilazione. Un inedito testo mistico del ’500. Un testo di Isabella Cristina Berinzaga redatto da Achille Gagliardi S.I., Morcelliana, Brescia 1994; Silvia Mostaccio, Il laboratorio della mistica al servizio degli ‘Esercizi spirituali’, il caso Gagliardi/Berinzaga, in Storia della direzione spirituale, III, L’età moderna, a cura di Gabriella Zarri, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 311-329. 22  Adriana Valerio, Arcangela Biondini: storia di una fondatrice (1641-1712), in Adriana Valerio, Rosa Casapullo, Margherita Cerniglia, L’Autobiografia di

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Giovane di 37 anni, di cervice durissima, nei suoi pensieri facile di lingua e molto inconsiderato nel parlare, di poca prudenza, di niuna pratica, di poca spiritualità, insomma uomo appassionato e inclinato a cercare i suoi vantaggi, il suo avanzamento in stima e concetto e intanto a farsi ricco grande appresso gli uomini23.

Tali esperienze umane spinsero suor Arcangela a mettere in guardia le suore dagli inganni dei direttori spirituali, i quali potevano sospingere facilmente lo spirito nelle tenebre a causa della loro «inadeguatezza e arroganza», della loro «ignoranza e pusillanimità». Problematico fu il caso che riguardò Maria Virginia Boccherini (1761-1801), una terziaria francescana che faceva parlare di sé per le frequenti estasi. Agli interventi di Gesualda Franceschini, una suora a lei vicina che, per liberarla dagli inganni del Maligno, la schiaffeggiava e la prendeva a calci, si affiancò la direzione di alcuni francescani che applicavano la pedagogia dell’annullamento: «Non parlate, non guardate, non ascoltate, non toccate, non desiderate, se non il necessario [...]. Stimatevi vilissima»24. Eppure, Maria Virginia riceveva rivelazioni celesti tali da spingerla a parlare della necessità di una riforma nella Chiesa, a iniziare dai sacerdoti che davano cattivi esempi. Questo suo ruolo profetico, tuttavia, non superò le mura del convento di S. Elisabetta di Lucca dove era reclusa, perché la mistica fu costretta nella funzione di «sofferenza vicaria» nella quale i confessori l’avevano relegata: doveva solo patire per i peccatori e per le anime del Purgatorio.

Arcangela Biondini, vol. I, Studi e testo critico, Fridericiana, Napoli 2009, pp. ix-xx; Adriana Valerio, Arcangela Biondini (1641-1712): l’autorità di una fondatrice, in Les personnes d’autorité en milieu régulier. Des origines de la vie régulière au XVIIIe siècle, a cura di Jean-François Cottier, Daniel-Odon Hurel e Benoît-Michel Tock, CERCOR, Université de Saint-Étienne, Saint-Étienne 2012, pp. 369-378. 23  Arcangela Biondini, Autobiografia, II, c. 71r. 24  Maria Virginia Boccherini, La mistica lucchese di S. Elisabetta, in Elena Bottoni, Scritture dell’anima. Esperienze religiose femminili nella Toscana del Settecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009, pp. 249-285 [270].

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Più doloroso fu certo il caso di Maria Celeste Crostarosa (1658-1743), ispiratrice e promotrice originaria della congregazione dei Redentoristi, emarginata dal padre spirituale Tommaso Falcoia che, scettico nei confronti della sua esperienza mistica, la ostacolò in ogni modo pretendendo la sua totale obbedienza. Per non sottoporsi più al Falcoia e non sentirsi più violentata nell’anima, Celeste sarà costretta a lasciare il monastero di Scala, nell’entroterra salernitano, per trasferirsi dopo varie vicissitudini a Foggia dove fonderà il conservatorio del SS. Salvatore. La religiosa, nel sottrarsi all’arbitrio del direttore e a quella sottomissione cieca che caratterizzava gran parte della vita conventuale femminile dell’epoca, affermò il primato della coscienza sostenuta dall’amore di Dio25. Nel delicato e complesso rapporto tra autonomia e dipendenza, la Crostarosa si è posta in una continua tensione con i suoi direttori spirituali ai quali chiedeva un ascolto rispettoso del proprio cammino di fede. Nemmeno la benignità di Alfonso Maria de’ Liguori, scelto da lei come colui che doveva avviare le missioni presso i ceti poveri, fu sufficiente per la comprensione della sua ispirazione che portò a rivoluzionare la prassi pastorale dell’epoca attraverso la fondazione di una comunità intesa come «viva memoria» dell’amore del Redentore verso le classi disagiate. I padri spirituali vedevano nell’umile sottomissione della donna il comportamento paradigmatico della condizione religiosa femminile; lei, al contrario, ricercava nella propria coscienza, trasformata dall’incontro con il Cristo vivente, il proprio itinerario di fede e la luce di un progetto ecclesiale che rispondesse alle necessità del tempo. Non meno conflittuale fu l’esperienza di Gaetana Sterni (1827-1889), fondatrice delle Suore della Divina Volontà, totalmente sottomessa al confessore che spesso volle umiliarla e mortificarla. Non poche volte la donna disapprovò il 25  Maria Celeste Crostarosa, Le Lettere, a cura di Adriana Valerio e Rita Librandi, Materdomini, Avellino 1996.

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comando ricevuto avvertendo un sentimento di ripugnanza, ma non si oppose quando, in segno di sottomissione, dovette bruciare i propri scritti di meditazione ai quali era legata26. Ancora più delicato è analizzare il controllo sulla coscienza femminile esercitato attraverso il sacramento della confessione. Ci troviamo, infatti, in presenza di differenziate esperienze di rapporti asimmetrici che si accentuarono dopo il Concilio di Trento allorché la Controriforma rafforzò il ruolo del confessore: egli aveva il compito di svolgere una vera e propria inchiesta sulle parti più segrete della coscienza, entrando nelle pieghe più nascoste dei comportamenti. Il peccato sessuale catalizzò l’attenzione del confessore e la donna divenne l’oggetto più indicato per indagare sui suoi sentimenti più intimi. Ne scaturirono confidenze con le penitenti, legami affettivi che non poche volte sfociarono nel reato di sollicitatio ad turpia («provocazione a cose turpi»): un abuso del sacramento della penitenza al fine di provocare pratiche sessuali27. Benché la sollicitatio fosse considerata reato, ciò non fu sufficiente per proteggere le donne dalle insidie di un prete per il quale si ebbe sempre un occhio di riguardo per salvarne l’onore. Nel 1774, nel difendere il parroco Tommaso Ricciardi dall’accusa di aver usato il sacramento della confessione per irretire la donnicciuola Lucrezia d’Andrea e averla ingravidata, l’avvocato Andrea di Vino non ebbe difficoltà nel ricusare tutte le testimonianze femminili, appellandosi a fonti classiche e bibliche per avvalorare la sua tesi che la donna è un essere inattendibile perché «fragile, imbecille, garrula e fallace, imbelle e screditata, porta del Diavolo, corruzione della legge»28.

26  Adriana Valerio, I conflitti dell’anima: Gaetana Sterni (1827-1889), in «Bailamme», 14, 1993, pp. 92-103. 27  Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996; Giovanni Romeo, Esorcisti, confessori e sessualità femminile nell’età della Controriforma, Le Lettere, Firenze 1998. 28  Archivio Storico di Napoli, Cappellano Maggiore, 1098/12, Sanseverino (Salerno) 1774, f. 19r e v. Tommaso Ricciardi era parroco del casale di Caprecano, nella diocesi di Salerno.

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Ma, al di là di questi frequenti abusi segnalati all’Inquisizione, la confessione fu uno strumento potente di controllo e di tutela delle norme sociali ed ecclesiali. Fu usata, infatti, per il mantenimento della società gerarchica e per tutelare e rafforzare il potere maschile nella sfera privata e pubblica. Alle donne si chiese sottomissione e obbedienza. La morale individuale fu al centro dell’attenzione del confessore, preoc­ cupato della disciplina di vita e della dignità di condotta delle penitenti. Accondiscendenza alle richieste sessuali del marito, sopportazione delle sue angherie, perdono per i suoi tradimenti furono le maggiori richieste rivolte alle donne affinché, per il bene della famiglia, non mettessero in atto azioni di rivolta nei confronti del coniuge e della sua autorità. 4. Al di là dei rapporti di potere La storia del clero cattolico e delle donne non è stata solo attraversata da relazioni violente e conflittuali o da rapporti di potere e di sottomissione, ma è stata anche mirabilmente ricca di rapporti amicali dalla profonda intensità affettiva e spirituale. Non poche volte nella storia del cristianesimo abbiamo incontrato esperienze di donne e uomini che hanno vissuto un forte legame di reciproca integrazione umana. Tra queste voglio ricordare quella di Cristina di Markyate (1097-1161), appartenente a una nobile famiglia anglosassone, che, dopo aver rinunciato al matrimonio, decise di andare a vivere con l’eremita Roger, inizialmente suo direttore spirituale, poi divenuto suo amico nella fede: a una relazione di subalternità spirituale si sostituisce, attraverso un lungo e tormentato cammino religioso, una condizione di mutua amicizia. A sua volta Cristina diventerà direttrice di anime e consulente particolare dell’abate Geoffry di St. Albans, che si rivolgerà a lei per ogni atto importante e, perfino, per decisioni politiche29.   Christopher J. Holdsworth, Cristina di Markyate, in Sante, regine e avven-

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Anche Abelardo ed Eloisa (1101-1064), attraverso il dolore e la separazione, ebbero modo di ricostruire un legame non più fondato sulla soggezione della discepola verso il proprio maestro, ma sul reciproco aiuto nella ricerca della pace interiore30. I due furono uniti in un’ininterrotta trama di collaborazione e di stima e ognuno agevolò l’altro a riconoscere se stesso. Abelardo, con la sua cultura, aiutò Eloisa a dare nuove basi alla sua identità femminile valorizzando il suo essere donna: per lei tracciò la storia del ruolo attivo delle donne nella Bibbia e nel cristianesimo. Eloisa, da parte sua, testimoniò ad Abelardo, celebre maestro di morale, la propria autonomia di coscienza che l’aveva portata a scelte coraggiose, a vivere con abnegazione un amore disinteressato e a mettere in pratica quell’etica dell’intenzionalità teorizzata dal filosofo, da lei trasformata in etica della responsabilità. La feconda amicizia tra uomini di chiesa e donne è quella presente nella vita dei grandi fondatori. Non si potrebbe comprendere, ad esempio, Chiara d’Assisi senza Francesco: la loro intesa, profonda e intensa, e il reciproco sostenersi nelle scelte difficili. Non avremmo avuto le congregazioni religiose aperte alle molteplici esperienze di vita legate alla carità e alla condivisione, come quelle nate dal lavoro comune di Francesca di Chantal con Francesco di Sales (Ordine della Visitazione), di Luisa di Marillac con Vincenzo de’ Paoli (Figlie della carità); di Maria de Mattias con Gaspare del Bufalo (Suore adoratrici del sangue di Cristo) ecc. Abbiamo anche i casi di iniziatori di congregazioni diverse come Leopoldina Naudet (1773-1834), fondatrice delle So-

turiere nell’Occidente medievale, a cura di Derek Baker, Sansoni, Firenze 1983, pp. 225-248, ed. or. 1978. 30  Abelardo era entrato in monastero dopo essere stato evirato dai parenti di Eloisa, sua discepola, amante e sposa clandestina, i quali temevano che il filosofo non si sarebbe preso le dovute responsabilità nei confronti della donna e del bambino che era nato. Anche la donna fu indirizzata al monastero e i loro rapporti ripresero per via epistolare dopo dieci anni dai tragici avvenimenti: Abelardo ed Eloisa, Epistolario, a cura di Ileana Pagani, Utet, Torino 2008.

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relle della Sacra Famiglia, e Gaspare Bertoni, fondatore dei cosiddetti Stimmatini. Prima confessore, poi direttore spirituale, infine amico intimo, Bertoni si manifesta, già dai primi momenti, guida dolce e rispettosa del cammino di fede di Leopoldina, arrivando, con un notevole atto di coraggio, a lasciarne la direzione perché convinto che la giovane donna ormai avrebbe potuto intraprendere la strada in autonomia. Da allora, siamo nel 1819, il loro rapporto si tramuterà in reciproco sostegno amicale che aiuterà entrambi a trovare la propria identità di vita religiosa31. Non potremmo avvalerci oggi di comunità innovative rivolte alle provocazioni profetiche della missionarietà se non ci fossero state coppie di fondatori come Maria Mazzarello e don Bosco (Figlie di Maria Ausiliatrice) o Teresa Grigolini e Daniele Comboni (Pie Madri della Nigrizia) o Teresa Merlo e Giacomo Alberione (Figlie di S. Paolo). Questi ultimi, ad esempio, compresero che, attraverso gli strumenti della modernità, si poteva rilanciare una diversa presenza della Chiesa nel mondo. Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, scelse Teresa Merlo (1894-1964) come madre della nascente congregazione ben consapevole dell’importante ruolo femminile nella vita religiosa e della necessità dell’uso dei mezzi di comunicazione per diffondere il Vangelo. Insieme capirono che le donne dovevano diventare parte attiva in quest’opera di rinnovamento teologico e pastorale avviando un inarrestabile processo di maturazione e di ridefinizione dell’identità delle suore, convinte di svolgere non più lavori di sussidiarietà, ma, al contrario, di condivisione nelle mansioni apostoliche. Si apriva così la sfida di un «apostolato della stampa»32. Anche senza considerare le fondazioni, tante amicizie sono nate e si sono nutrite di fede e di passioni comuni. Come

31  Cfr. Leopoldina Naudet, Epistolario 1799-1819, I, Le origini, a cura di Adriana Valerio, Gabrielli, S. Pietro in Cariano 2016. 32  Maria Luisa Di Blasi, Il mio nome è Tecla. Vita e pensiero di Teresa Merlo, postfazione di Adriana Valerio, Paoline, Milano 2008.

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non ricordare i progetti di riforma della Chiesa che legarono le umaniste Vittoria Colonna, Giulia Gonzaga e Margherita di Navarra ai loro compagni spirituali Reginald Pole, Juan de Valdés e Lefèvre d’Étaples; o, per arrivare a tempi a noi più vicini, il cammino mistico che accomunò Adrienne von Speyr con il gesuita Hans Urs von Balthasar; o l’attivismo culturale di Romana Guarnieri che legò la sua vita indissolubilmente a don Giuseppe De Luca? Relativamente a quest’ultima coppia, singolare fu l’amicizia tra l’erudito prete De Luca e l’agnostica studiosa olandese Romana Guarnieri (1913-2004). Il loro incontro, imprevedibile, sorprendente, provvidenziale, si tradusse in un sodalizio culturale e spirituale di altissimo livello. A loro si deve la nascita delle Edizioni di Storia e Letteratura e dell’Archivio Italiano per la Storia della pietà che hanno segnato una svolta nel campo degli studi religiosi33. A loro dobbiamo l’attenzione alle istanze delle donne desiderose di maggiore spazio nei circuiti del sapere: entrambi, infatti, condividevano il sogno di costituire una comunità laica dedita allo studio come servizio alla Chiesa che puntava sulla valorizzazione delle qualità intellettuali delle donne34. Come si può comprendere da questi pochi casi appena accennati, l’ascolto reciproco di due esistenze che si interrogano sul cammino di fede sovverte spesso il rapporto direttore spirituale-discepola, instaurando complesse relazioni umane nelle quali è difficile individuare chi sia il maestro e chi l’allievo. Non poche volte, infatti, la comunicazione di vita interiore ha dato origine ad amicizie spirituali intensissime,

33  Romana Guarnieri, Una singolare amicizia. Ricordando don Giuseppe De Luca, Marietti, Genova 1998. 34  Di questo sogno mi parlò la stessa Romana Guarnieri in uno dei tanti incontri avuti nella sua villa a Roma. La Guarnieri avrebbe dovuto essere la guida di tale comunità, costituita nelle originarie intenzioni dalla filologa Christine Mohrmann, dalla medievalista Anneliese Maier e dalla mistica Maria Bordoni, che può essere ritenuta direttrice spirituale di don Giuseppe.

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evidenziando anche «direzioni materne» altrettanto autorevoli come quelle maschili. Esempi, questi citati, che risultano lontani tra di loro ma, tuttavia, vicini per le esperienze che li accomunano: per i rapporti intensi di reciproco sostegno, di profonda consonanza, di affetto intimo e sincero, di mistico pudore. L’amore, nel sentirsi radicati in Cristo, diviene spazio di libertà e di maturazione di personalità autonome e aiuta a superare la distorta immagine del potere riformulando i rapporti tra donna e uomo nella dimensione amicale.

V DONNE DI POTERE Le donne hanno mai esercitato il potere nella Chiesa? Lungo la storia più soggetti hanno esercitato il ruolo magisteriale, insegnando con autorità, spiegando, interpretando, guidando nella fede o svolgendo altre mansioni di rilievo1. Anche le donne, dunque, sono state soggetto di magistero attraverso le tante attività pastorali, profetiche e missionarie delle quali sono state protagoniste. Ricordare il loro contributo significherebbe ripercorrere tutta la millenaria storia cristiana che qui, per motivi di opportunità editoriale, non possiamo intraprendere2. Possiamo, però, offrire alcune indicazioni circa le modalità attraverso le quali le donne hanno esercitato dei poteri, sapendo bene che ogni aspetto potrebbe costituire un libro a parte. Le donne non sono state da meno degli uomini nell’imporre, condizionare oppure orientare le coscienze, contraddicendo l’immagine che le voleva silenziose e sottomesse. Le forme del potere sono, infatti, molteplici e si possono esprimere direttamente o indirettamente, in maniera esplicita o

1  Gerard Mannion, Donne e magistero teologico, in Marinella Perroni, Hervé Legrand (a cura di), Avendo qualcosa da dire. Teologhe e teologi rileggono il Vaticano II, Paoline, Milano 2014, pp. 95-106. 2  Cfr. Valerio, Donne e Chiesa cit.

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implicita, attraverso forme istituzionali o private, con atti di imperio o con il fascino dell’autorevolezza. Occorre tener presente, inoltre, che la posizione teorica, l’ordinamento giuridico e i rapporti quotidiani sono piani diversi e non sempre convergenti cosicché le donne nel corso della storia, nonostante le visioni antropologiche sfavorevoli, hanno trovato modo di esprimersi a seconda dei popoli, delle classi sociali di appartenenza, del contesto urbano o rurale, dello specifico momento culturale o delle eccezioni alle norme che si sono venute a creare in situazioni contingenti. Ad esempio, la condizione sociale che costringeva la donna a vivere sotto tutela, affidata dunque all’autorità di un uomo, ha trovato nel passato la sua eccezione nella donna nobile, alla quale non è stato impedito l’uso del potere in forza di una consuetudine che, nell’esercizio in atto dell’autorità, superava la stessa legge in deroga al diritto comune. Infatti, in mancanza di eredi maschili o in presenza di figli minorenni, in casi di pericolo o in assenza di un governo, per la lontananza o la morte del sovrano, si è concesso alle donne, per consuetudine, di prendere in mano il potere nelle vesti di reggenti. Una consuetudine medievale questa che, in alcune monarchie moderne, si è poi trasformata in reale possibilità di entrare legittimamente nella successione al trono. Nella storia della Chiesa ci troviamo in presenza di altre esperienze non tanto legate a usanze, quanto piuttosto a delle vere e proprie opportunità, teologicamente e giuridicamente fondate, che le donne hanno avuto per svolgere compiti autorevoli e mansioni di potere. 1. Donne al governo 1.1. Ministre, badesse, fondatrici e superiore  I ministeri all’interno della Chiesa hanno subìto non poche trasformazioni essendo non solo uffici in movimento e non stabili, ma anche servizi legati a differenziati ambienti culturali e territoriali. Non esistono modelli unici.

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Nel cristianesimo dei primi secoli quello che nella teologia medievale verrà definito «potere d’ordine» conosce una variazione di significati dovuta alla fluidità sia dei ruoli esercitati dai cristiani sia dei contesti nei quali le prime comunità operavano. Anche la forma del rituale di ordinazione non era fissa. Come afferma lo studioso americano Gary Macy, è illusoria la pretesa unità e uniformità nel cristianesimo solcato, già dalle origini, da diverse linee interpretative e da differenziate risposte pratiche: il ruolo delle donne era molto più articolato e vivace di quello che normalmente si tende a presentare e i confini tra ortodossia ed eresia, fino al IV secolo, non erano ancora ben definiti3. Il sacramento dell’ordine sacro conosce, ad esempio, variazioni storiche e teologiche di comprensione e di definizione che ampliano o restringono attribuzioni e ruoli. L’ordinatio non aveva i caratteri di un potere irrevocabile, ma rappresentava piuttosto la consacrazione di una persona allo svolgimento di una particolare funzione in una specifica comunità. I termini ordinatio, consecratio, benedictio non si riferivano necessariamente a un particolare stato clericale: erano intercambiabili e comprendevano un largo gruppo di ministeri, inclusi quelli relativi alle donne che, ad esempio, fino al medioevo, furono presenti in diversi ordines, non solo come vedove, vergini e diaconesse, ma anche come episcope, presbitere, badesse, e canonichesse. Sul diaconato femminile abbiamo molteplici testimonianze: fonti neotestamentarie, letterarie, epigrafiche, liturgiche e canoniche ne attestano la presenza in Occidente, dal II fino al V secolo, e in Oriente fino all’VIII4. Già l’apostolo Paolo ne aveva richiamato implicitamente il ruolo allorché, scrivendo ai cristiani di Roma, aveva salutato

3  Gary Macy, The Hidden History of Women’s Ordination: Female Clergy in the Medieval West, Oxford University Press, Oxford 2008. 4  Cfr. i risultati della commissione teologica internazionale su Il Diaconato: evoluzione e prospettive, 2003.

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la «nostra sorella Febe, diacono della chiesa di Corinto» (Rm 16,1). Personalità di spicco, forse lei stessa latrice della lettera alla comunità romana, Febe era persona autorevole con significativi compiti ecclesiali: aveva offerto protezione e ospitalità a molti cristiani, compreso Paolo che l’aveva indicata, usando un termine maschile, come vera e propria patrono (prostatis). Anche nella prima lettera a Timoteo, in una Chiesa già strutturata in senso gerarchico, si parla del ministero diaconale, indicando le qualità umane e morali che uomini e donne devono assumere per questa funzione ecclesiale: Allo stesso modo i diaconi siano dignitosi, non doppi nel parlare, non dediti al molto vino né avidi di guadagno disonesto, e conservino il mistero della fede in una coscienza pura. Perciò siano prima sottoposti a una prova e poi, se trovati irreprensibili, siano ammessi al loro servizio. Allo stesso modo le donne siano dignitose, non calunniatrici, sobrie, fedeli in tutto (1Tm 3,8-11).

Dunque, nelle comunità paoline già esistevano donne con il ruolo di diacono inteso come servizio regolare della Chiesa. Per questo non è forse arbitrario pensare che l’evangelista Luca abbia voluto dare un’indicazione tipologica di questo ufficio usando il verbo «servire» (diakonein) per comunicare che le donne al seguito di Gesù servivano il Maestro5. Sappiamo bene infatti che le donne sono state discepole di Gesù fin da quando era in Galilea, presenti alla morte e testimoni di resurrezione, alle origini dunque della fede pasquale, della «rifondazione della comunità dei discepoli», depositarie della sua memoria, partecipi dell’evangelizzazione, apostole di Cristo Risorto6. I 5  È questa la posizione di alcuni studiosi per i quali il ministero diaconale femminile troverebbe un fondamento pre-pasquale. Su questo si veda il documentato, ricco e approfondito lavoro di Moira Scimmi, Le antiche diaconesse nella storiografia del XX secolo. Problemi di metodo, Glossa, Milano 2004. Sulla questione alle pp. 165 sgg. 6  Cfr. lo studio di Marinella Perroni, Un’apostola senza storia: la tradizione canonica, in Marinella Perroni, Cristina Simonelli, Maria di Magdala. Una genea­ logia apostolica, Aracne, Ariccia 2016, pp. 11-122. Perroni si chiede perché il ti-

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ruoli ministeriali sono in continuità storica con la Chiesa delle origini e numerose sono le testimonianze di diaconato femminile nel cristianesimo dei primi secoli. Un’importante attestazione arriva da una lettera inviata verso il 112 d.C. da Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, all’imperatore Traiano dove si parla di due schiave sottoposte a tortura definite ministre, un termine che ci indica un ruolo rilevante e non certo marginale esercitato dalle donne nella Chiesa di Bitinia e che forse è la trasposizione latina di un originario «diacono». Nella Didascalia degli Apostoli (230 d.C. circa) le donne diacono, immagine dello Spirito Santo, sono annoverate tra i membri del clero (cap. IX). La loro funzione era perlopiù richiesta per motivi di decenza e opportunità dovendo svolgere un’attività di assistenza femminile. Collaboratrici del vescovo, il loro servizio poteva riguardare la catechesi e l’unzione pre-battesimale delle donne adulte, l’accoglienza dopo il battesimo, la cura delle ammalate, la preparazione delle defunte alla sepoltura, la cura del luogo di culto e delle suppellettili, la sorveglianza del buon andamento dell’assemblea liturgica, la preghiera liturgica, la proclamazione della lettura evangelica nelle comunità femminili, la distribuzione dell’eucarestia a donne e fanciulli (cap. XVI). Il diaconato femminile era, inoltre, un ministero che, come ci attestano le Costituzioni apostoliche (380-400 d.C.), veniva conferito con un rito liturgico: con l’imposizione delle mani, con la preghiera di invocazione dello Spirito Santo (epiclesi) e con la consegna di stola e calice. Erano incluse nelle liste degli uffici ecclesiali e avevano il compito di servizio ai poveri, sostegno alle donne, accoglienza ed evangelizzazione. tolo attribuito a Maria di Magdala di «apostola degli apostoli» sia stato svuotato di valore ecclesiale: «E se [Maria di Magdala] è apostola, entra nella successione apostolica almeno come Paolo? Non si tratta evidentemente di scivolare nel nominalismo»; ivi, p. 116. Da un punto di vista liturgico e simbolico è stata importante la decisione di papa Francesco, presa il 3 giugno 2016, di elevare la celebrazione di Maria Maddalena, «uguale agli apostoli», a festa (22 luglio) con il medesimo grado riservato nel Calendario Romano agli apostoli.

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La prima normativa a carattere universale che riguarda il diaconato femminile è presente nel Concilio di Calcedonia (451) dove espressamente si parla di ordinazione attraverso l’imposizione delle mani in vista di un ministero da compiere (can. 15). Tra le più note diaconesse ricordiamo la colta e aristocratica Olimpia (361-408), ordinata dal vescovo Nettario di Costantinopoli, che, insieme ad altre diaconesse, affiancò Giovanni Crisostomo nella rigorosa opera pastorale, sostenendolo anche durante l’esilio con un delicato ruolo di interlocutrice in complesse questioni ecclesiali e politiche7. Per ciò che riguarda le presbitere e le episcope, Macy ritiene che fossero appellativi non solo per indicare la moglie del presbitero o del vescovo, ma anche per esprimere funzioni ecclesiali, di ministero o di amministrazione di beni della Chiesa, confermate molto probabilmente da riti di ordinazione. Conosciuto è il caso analizzato da Giorgio Otranto che, attraverso lo studio di fonti letterarie ed epigrafiche antiche, ha evidenziato che nel V secolo in Italia meridionale alcune donne, ordinate «sacerdoti», svolgevano compiti tradizionalmente riservati agli uomini8. Meno noti sono altri casi di presbitere la cui presenza è segnalata in Gallia nel VI secolo, nel vercellese nel X secolo o ancora nella penisola iberica nel XIV secolo. Situazioni, queste, ritenute anche oggi controverse, ma, se indicate allora con riprovazione dalle autorità ecclesiastiche perché ritenute abusive, esprimono, comunque, realtà dinamiche: la donna svolgeva, infatti, in alcuni contesti funzioni ministeriali con il consenso delle comunità di riferimento che ne accettavano l’autorità. Non abusivo era il potere delle badesse. Dalle fonti litur  Cfr. Cettina Militello, Donne e Chiesa. La testimonianza di Giovanni Crisostomo, Oftes, Palermo 1985. 8  Giorgio Otranto, Note sul sacerdozio femminile nell’antichità in margine a una testimonianza di Gelasio I, in «Vetera Christianorum», 19, 1982, pp. 341360. Cfr. anche Donne cristiane e sacerdozio, a cura di Dinora Corsi, Viella, Roma 2004. 7

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giche, anzi, emerge che i riti di ordinazione degli abati e delle badesse erano simili e identici in alcune Chiese, come quella mozarabica: a entrambi erano conferite le insegne episcopali, venivano imposte le mani da parte del vescovo e offerte le medesime funzioni pastorali e giuridiche nei territori soggetti alla loro giurisdizione9. I monasteri diventarono nel medioevo strumento delle strategie politiche adottate dall’aristocrazia che investì beni e prestigio nel fondare, ingrandire ed arricchire comunità religiose presso le quali inviare le donne non destinate al matrimonio. Il governo del monastero era perlopiù riservato ad una donna appartenente alla famiglia del fondatore: attraverso la sua elezione a badessa, esercitava nel monachesimo benedettino un ruolo che le consentiva di svolgere legittime e riconosciute funzioni direttive. L’ampio potere delle badesse è un fenomeno riscontrabile in tutta l’Europa tra l’VIII e il XVI secolo. L’autonomia giurisdizionale di tali monasteri, spesso indipendenti dalla locale autorità episcopale in quanto direttamente soggetti al papa, comportava per le badesse il diretto potere nei confronti del clero e della popolazione del distretto di appartenenza e la possibilità di esercizio di molte prerogative proprie del vescovo, eccettuate quelle strettamente connesse al sacramento dell’ordine che riguardava l’amministrazione dei sacramenti. Si può parlare perciò di poteri semi-episcopali che consentirono alle badesse di fregiarsi delle insegne dell’autorità del vescovo – anello, mitra e pastorale –, di amministrare la giustizia sul proprio territorio e sui preti a loro sottoposti, di avere il privilegio di assistere a sinodi e di firmare i testi dei concili ai quali partecipavano. Il loro fu un vero e proprio governo spirituale e politico. Sappiamo di badesse che non poche volte hanno predicato in pubblico, come Ildegarda di Bingen (1098-1179). Attraverso la sua vita la profezia femminile è entrata con autore9  Cfr. Adriana Valerio, Il potere delle donne, in Il Medioevo, a cura di Umberto Eco, Motta, Milano 2009, vol. III, pp. 593-604 e vol. IV, pp. 612-621.

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volezza nelle trame della storia politica del tempo. Magistra nel governo dell’abbazia benedettina di Rupertsberg, da lei stessa fondata nel 1148, Ildegarda non si limitò a governare e ad amministrare la comunità monastica, ma avviò un’attività pastorale esterna: scrisse con autorità sorprendente e compì lunghi viaggi durante i quali predicò nelle pubbliche piazze chiamando a conversione. A volte le badesse arrivarono ad ascoltare le confessioni, come fecero quelle spagnole di Las Huelgas, suscitando l’intervento delle autorità ecclesiastiche che volevano arginare e limitare quelle funzioni canonicamente riservate al clero. Nel monastero cistercense di Las Huelgas a Burgos, fondato nel 1180 da Alfonso VIII, la domina abbatissa godeva di ampi poteri spirituali e temporali su vasti territori della Castiglia e del León, riceveva obbedienza e sottomissione dai monaci, sceglieva i preti che dovevano amministrare i sacramenti, rilasciava licenze matrimoniali, emetteva censure ecclesiastiche, aveva piena giurisdizione in materia giudiziaria ed emetteva veri e propri atti di governo10. Oltre ad essere responsabili dell’impostazione della direzione spirituale delle monache loro sottoposte, nonché delle necessità della vita religiosa dei fedeli che abitavano il territorio appartenente al monastero, le badesse medievali, in qualità di feudatarie, erano chiamate ad occuparsi dell’amministrazione giuridica ed economica dei feudi. Agivano, dunque, come vere e proprie sovrane sui territori direttamente dipendenti dal monastero. Nel dirigere le abbazie, ne fecero anche importanti centri di studi e di committenza artistica, luoghi di evangelizzazione e di riflessione teologica. Tramite l’autorità delle badesse, il potere delle donne nella Chiesa acquistò una sua legittimazione, anche grazie all’affermarsi del culto della vergine Maria. L’esempio ci viene offerto dai casi emblematici di monasteri doppi a guida 10  Dante Gemmiti, Donne col pastorale. Il potere delle abbadesse nei secoli XII-XIX, Ler, Napoli 2000.

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femminile. Nel 1099 Roberto d’Arbrissel (1045-1116) fondò la congregazione benedettina di Notre-Dame de Fontevrault, nella quale convivevano due comunità, una maschile e una femminile, entrambe poste, però, sotto l’autorità della badessa. Tutti, uomini e donne, facevano professione nelle sue mani. Era lei, rappresentante la vergine Maria, che deteneva il potere supremo: sceglieva tra i novizi coloro da destinare al sacerdozio, riceveva le professioni religiose, sorvegliava la vita della comunità tramite visitatori da lei nominati e che, pur investiti di ampi poteri, erano sempre a lei subordinati. Anche l’abbazia del Santo Salvatore, fondata intorno al 1135 dall’eremita Guglielmo da Vercelli nella località Goleto nell’avellinese, si presenta come comunità doppia posta sotto il governo della badessa. La parte maschile era concepita in funzione di quella femminile: i monaci servivano le monache e provvedevano non solo al servizio liturgico e spirituale del monastero ma anche all’amministrazione dei beni. Le prime tre badesse, Febronia (1151-1162), Marina I (1163-1193) e Agnese (1194-1200), si impegnarono nel consolidamento della potenza economica e dell’indipendenza giuridica del monastero che nel 1191 fu dichiarato indipendente per via diretta dalla Camera Apostolica e diventò diœcesis nullius («di nessuna diocesi»): l’abbazia, con il suo clero e la sua popolazione, divenne una sorta di diocesi separata, giuridicamente e territorialmente indipendente, con a capo la badessa11. Segni del potere esercitato dalle badesse erano le insegne episcopali che adoperavano tra cui il bacolo e la mitra ancora oggi visibili nell’abbazia del Goleto come in molte altre abbazie femminili benedettine. Tra queste ricordiamo il monastero di San Benedetto a Conversano (Bari), fondato nel XIII secolo, che ha conosciuto una forte presenza di autorità

11  Marina Santini, Marina, signora del luogo, in Marirì Martinengo, Claudia Poggi, Marina Santini, Luciana Tavernini, Laura Minguzzi, Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo, Sei, Torino 1996, pp. 225-262.

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femminile attraverso i ruoli politici e religiosi esercitati dalle badesse che ebbero anche il privilegio del baciamano da parte del clero maschile. Una comunità doppia fu progettata da Brigida di Svezia che fondò l’ordine del Santissimo Salvatore, approvato nel 1378. La comunità religiosa da lei ideata prevedeva il ruolo della badessa, che doveva rappresentare la vergine Maria caput et domina, e la presenza di 85 persone tutte alle sue dipendenze: 13 monaci, che simboleggiavano gli apostoli compreso san Paolo, 4 diaconi, 8 fratelli laici e 60 religiose, che richiamavano i 72 discepoli inviati da Gesù in missione (Lc 10,1). Il modello a cui si ispirò Brigida nel progettare questo monastero doppio a guida femminile era quello della Chiesa nascente a Pentecoste raccolta intorno a Maria, madre dei discepoli e della stessa Chiesa (At 2,1-11). Nell’evidenziare la centralità di Maria nella storia della salvezza, Brigida ne riconobbe l’autorità e la indicò a modello per le badesse e le donne. La sua regola, però, anche se fu accettata, non fu mai messa in pratica. I monasteri doppi brigidini furono infatti proibiti nel 1442 da papa Martino V12. In sostituzione del potere delle badesse andato in declino con la crisi del sistema feudale, troviamo altre forme di autorità femminile esercitate all’interno del mondo religioso. Si tratta in primo luogo dell’autorità delle fondatrici che, nell’intero arco della storia cristiana, hanno aperto una miriade di spazi di vita religiosa con determinazione e vigore. In secondo luogo di quella delle superiore delle comunità che, per mantenere la disciplina e lo spirito fondativo, hanno richiesto obbedienza e rigore, non esenti, spesso, da atteggiamenti dispotici e mortificanti per le stesse consorelle. Infine, di quella delle missionarie, che, proprio per il loro essere in territori di frontiera, hanno dovuto prendere decisioni risolute imponendo anche scelte coraggiose. 12  Kari Elisabeth Børresen, Le Madri della Chiesa. Il Medioevo, D’Auria, Napoli 1993.

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La storia della vita religiosa femminile è un patrimonio incredibile per le tante forme che hanno preso corpo sia di esercizio di potere sia di modalità di convivenza che hanno richiesto l’armonizzarsi del principio dell’autorità con il benessere della comunità. 1.2. Sovrane, regine, reggenti, feudatarie  Se è stato disdicevole per gli uomini pensare di essere governati da donne dal momento che il potere è stato ritenuto una prerogativa esclusivamente maschile, nondimeno le donne hanno svolto ruoli politici lì dove è emersa la necessità di un loro intervento. Nella nuova prospettiva storiografica degli ultimi anni che ha indagato sulle forme del potere dinastico si inserisce una molteplicità di studi sulle variegate forme in cui si è articolata la relazione tra donna e potere13. Nelle famiglie aristocratiche e nelle case regnanti le donne hanno esercitato poteri reali nelle vesti di vicarie e di tutrici, impegnate in fondamentali ruoli di salvaguardia degli interessi economici, sociali e politici delle famiglie e delle dinastie nello scenario politico internazionale14. Nella società d’ancien régime caratterizzata dall’ereditarietà della sovranità, dove vi era una stretta relazione tra la famiglia regnante e lo Stato, le donne hanno contribuito a gestire e a perpetuare il potere: non erano solo «indispensabili strumenti di procreazione, oggetto di scambi matrimoniali, mezzo di acquisizioni territoriali e di solidarietà parentali», ma anche «veicoli di trasmissione e conservazione del potere, elementi insostituibili per la formazione e la continuità» della monarchia15.

13  Cfr. in particolare l’introduzione di Mirella Mafrici, Storie di donne, storia del regno, in Ead. (a cura di), All’ombra della corte. Donne e potere nella Napoli Borbonica (1734-1860), Fridericiana, Napoli 2010, pp. 1-8 (il volume è inoltre dotato di amplia bibliografia). 14  I linguaggi del potere nell’età barocca, I, Politica e religione, a cura di Francesca Cantù, Viella, Roma 2009, pp. 7-21. 15  Maria Teresa Guerra Medici, Donne di governo nell’Europa moderna, Viella, Roma 2005, p. 22.

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Nella prospettiva della Chiesa cattolica il potere femminile venne accettato in virtù del modello della donna virile (mulier virilis) che superava la debolezza della propria natura attraverso l’acquisizione della forza maschile. Questa virilità femminile, tuttavia, era elogiata o biasimata, a seconda dell’uso del potere: se esso, cioè, era esercitato a favore o contro la Chiesa. Per questo i giudizi sulle donne con mansioni di governo variavano nella misura in cui erano garanti della fede e della sua ortodossia; in caso contrario il potere femminile veniva demonizzato attraverso rappresentazioni negative, ridicole e farsesche. La regina Elena (†335), madre dell’imperatore Costantino, fu il modello della sovrana devota che conduce alla fede, figura esemplare di un potere non fine a se stesso, bensì legittimato per il ruolo materno di guida religiosa, una mansione che troviamo in quelle regine attive nell’opera di evangelizzazione dei popoli pagani: da Clotilde (475-545) in Francia a Teodolinda (†625) in Italia, dalla regina visigota Ingunda (568-585) in Spagna a Olga (†969) in Russia. Altro modello è offerto da Margherita di Scozia (10451093), moglie di Malcom III di Scozia. Sotto la sua reggenza venne avviato il processo di centralizzazione governativa e burocratica, sancita l’unione della Chiesa di Scozia alla Chiesa di Roma, mentre la corte diventava centro di mecenatismo. Il suo impegno nel promuovere ed incoraggiare la cristianizzazione della Scozia, nel patrocinare nuove fondazioni monastiche, opere di carità ed ospizi, nonché l’esemplare condotta di sposa-madre-regina (che metteva insieme regalità, pietà religiosa e umiltà), ne fecero ben presto un modello di regina cristiana tipicamente medievale. Diverso ancora è stato il ruolo esercitato dalla marchesa Matilde di Canossa (1046-1115) che, insieme alla madre Beatrice, governò la Toscana con energia e determinazione a sostegno del papato nella lotta contro gli imperatori tedeschi Enrico IV ed Enrico V. Beatrice e Matilde si dimostrarono personaggi di primo piano nel processo di riforma della

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Chiesa, presenziando entrambe ai sinodi di Roma del 1074 e 1075. Matilde ospitò nel suo castello Gregorio VII e fu testimone autorevole dell’atto di penitenza di Enrico IV, rimanendo punto di collegamento e di mediazione tra papato ed impero; un ruolo che la vide per oltre quarant’anni ai vertici della diplomazia internazionale medievale e che le consentì di arginare le pretese egemoniche imperiali. Matilde in persona guidò le truppe vittoriose contro Enrico IV nel 1084. In tali frangenti, il suo castello, più volte posto sotto assedio dal sovrano, divenne simbolo della resistenza di una donna all’imperatore. Un altro segno del suo potere è l’influenza che ebbe nella designazione dei pontefici Vittore III e Urbano II, eletti grazie ai suoi interventi. Di segno opposto, ma non meno influenti erano state le donne del casato dei Teofilatti (Teodora e Marozia) che, nella prima metà del X secolo, avevano dominato Roma per conquistare il potere o per trasmetterlo ai figli attraverso il controllo della vita politica romana e l’influenza su quella pontificia. Proprio la storia delle Teofilatti, amanti e madri di pontefici, mostra come, nei confronti della gestione del potere, non valgono le differenze sessuali: il potere, che richiede intuito politico e forza d’animo, è stato spesso gestito dalle donne con le uguali tipologie usate dagli uomini, pur nella grande varietà delle esperienze. Lo hanno dimostrato le imperatrici bizantine come la temeraria Teodora (502-548), che riuscì a mantenere compatto l’impero d’Oriente, o l’arguta e crudele Irene (753-803), prima donna nella storia europea a ricoprire il ruolo di monarca sovrano; le regine di Gerusalemme, da Melisenda (1105-1161) a Isabella II (1212-1228), che esercitarono con spregiudicatezza e determinazione il loro ruolo non trascurando il compito assegnato a difesa dei luoghi sacri con donazioni e fondazioni; le castellane, feudatarie e governatrici che popolarono l’Europa nell’età medievale e moderna a difesa del loro territorio e della loro identità religiosa e culturale; le regine degli stati sovrani che, in

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un’Europa spaccata dalle guerre di religione, non esitarono a prendere posizione e a schierarsi16. 2. Parlare in libertà. La «parrhesìa»: la parola come sfida al potere La profezia per l’apostolo Paolo è il primo dei doni dopo l’apostolato (1Cor 12,28). Non è un carisma da vivere nel privato, ma un dono che lo Spirito può elargire a chiunque per il bene della comunità: per edificare, esortare, consolare, discernere e scrutare le Scritture per meglio intenderne il significato. Anche le donne (come Miriam, Hulda e altre) profetizzano, e il loro ruolo, già presente nell’antico Israele, è inteso alle origini del cristianesimo come segno dei tempi messianici. L’evangelista Luca, infatti, riprendendo le parole del profeta Gioele (Gl 3,1-2), ribadisce che il dono dello Spirito è promesso a tutti, senza discriminazioni di età, di sesso e di condizione sociale: le donne, nel nuovo tempo instaurato da Cristo, sono profeticamente abilitate a parlare in nome di Dio e da Dio autorizzate ad annunciare il Vangelo (At 2,17). La storia ci testimonia con alterne vicende questo importante ruolo svolto dalle donne, ridimensionato nell’età patristica, ma dirompente nei secoli XII-XVI, allorché tante figure femminili esercitarono attività critiche e riformatrici con programmi di rinnovamento per la comunità ecclesiale. La profezia, infatti, essendo dono elargito gratuitamente da Dio (gratia gratis data), è carisma ministeriale con una marcata dimensione pubblica e politica che guida la comunità verso il bene comune (1Cor 14,4). L’espressione «Io Caterina», ricorrente nelle lettere di Caterina da Siena verso le più alte autorità ecclesiastiche,

  Per tutti questi aspetti cfr. Valerio, Donne e Chiesa cit.

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manifesta la volontà imperiosa di chi si sente chiamata a una missione profetica ed evangelizzatrice, la consapevolezza di sé e del proprio compito di guida in una comunità cristiana lacerata da scandali e da guerre. Le infuocate parole di Brigida di Svezia perché «le fondamenta della Chiesa vacillano», la severa condanna sull’operato del papa da parte di Francesca Romana, le denunce del comportamento del clero di Caterina Racconigi, i richiami alla mitica figura del «papa Angelico» in Arcangela Panigarola, le minacce di Domenica Narducci contro i pastori corrotti e scellerati sono alcuni esempi che richiamano l’impegno di donne consapevoli del proprio ruolo profetico da esercitare nella costruzione di una società rinnovata nell’arduo compito di riforma della cristianità17. Ma la sfida al potere da parte delle donne si è manifestata anche con altre modalità. Oppositrici, eretiche e streghe con la loro presenza critica e inquietante marcarono strade alternative e coraggiose. A partire dal XIV secolo si registra una crescente ossessione nei confronti del potere che esercitavano le donne giudicate streghe. Nel De planctu ecclesiae (1330), Álvaro Pelayo identificava la donna, impura ministra di idolatria, come l’oggetto privilegiato del demonio, avviando un fatale cambiamento di significato attribuito alla stregoneria che non fu più considerata superstizione da tollerare o, al più, da arginare, ma, piuttosto, eresia da punire con la morte perché considerata segno di rivolta contro la Chiesa. Paradossalmente, la strega, a motivo della sua debolezza, rappresentava un concentrato di potere negativo che esercitava a danno degli altri grazie ad un patto con il diavolo. Proprio per questa sua fragilità, nel Malleus Maleficarum (1484), il manuale che gli inquisitori usavano per decifrare la presenza diabolica nel mondo,

17  Cfr. Alessandra Bartolomei Romagnoli, Santità e mistica femminile nel Medioevo, Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2013.

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la donna risultò essere, rispetto all’uomo, più sensibile alle lusinghe del demonio che conferiva a lei poteri straordinari. Accanto alla figura della strega, specularmente, troviamo quella della mistica. Attraverso l’uso di gesti e parole autorevoli, sacre e magiche, entrambe cercavano di creare nuovi spazi di identità e di riconoscimento. Lo stato mistico, che superava la mediazione maschile nel rapporto con il sacro, e la possessione diabolica, che consentiva alla donna spazi di autonomia e di potere nel creare disordine, hanno espresso esperienze analoghe e usato mezzi espressivi similari, suscettibili, tuttavia, di diverse ispirazioni ed esigenze. Difficile apparve alle autorità distinguere tra presenza del divino o del demoniaco e la Controriforma, in questo arduo compito di discernimento, ridimensionò fortemente le manifestazioni della profezia femminile, che, tuttavia non morì, ma trovò altre forme per manifestarsi18. Pensiamo alle posizioni prese durante la Rivoluzione francese da coloro che la sostennero o la combatterono come Suzette Labrousse e Anna Maria Taigi, o, più recentemente agli inizi del ’900, a quelle prese da donne legate al modernismo, come Antonietta Giacomelli, Elisa Salerno e sorella Maria di Campello che anticiparono i temi del Vaticano II: esse richiamarono la necessità di una riforma liturgica e biblica e, allo stesso tempo, l’urgenza di un nuovo statuto ecclesiologico che esplicitasse una diversa e più positiva considerazione della donna nella Chiesa. In maniera particolare, Elisa Salerno (1873-1957) non ebbe timore di accusare la Chiesa cattolica di essere eretica relativamente alle posizioni prese nei confronti delle donne. Si rivolse a papa Benedetto XV affinché si rivedesse l’antropologia filosofica di Tommaso d’Aquino19; scrisse a Pio XI   Oltre il classico Marcello Craveri, Sante e streghe, Feltrinelli, Milano 1981. Cfr. Susanna Berti Franceschi, Di regine, di sante e di streghe. Storie di donne del Medioevo, Elmi’s word, Saint-Vincent 2011. 19  Elisa Salerno, Per la riabilitazione della donna (Al sommo pontefice Benedetto XVI), Vicenza 1917. Cfr. anche Michela Vaccari, Lavoratrice del pensiero. Elisa Salerno, una teologa ‘ante litteram’, Effatà, Cantalupa 2010. 18

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manifestandogli il suo disappunto sulla condizione della donna nella Chiesa e chiese di correggere le cattive interpretazioni della Bibbia da cui anche lui non era esente20. L’esito della sua franchezza nel parlare fu l’isolamento e una vita di stenti. Se riprendiamo il pensiero di Michel Foucault circa il ruolo che la verità riveste nell’ambito della politica e dei rapporti di potere21, possiamo dire che la profezia si configura nella storia del cristianesimo come capacità e forza di dire la verità. Parlare con libertà è quello che i greci chiamavano parrhesìa, la possibilità di parlare con franchezza anche davanti ai potenti. Fu la sfida al potere che esercitarono ad esempio le martiri cristiane come Perpetua che ampliarono in questo modo, a favore delle donne, una prerogativa che la cultura greca assegnava ai soli cittadini, maschi e liberi nella polis. Un esempio fu l’opposizione di Ildegarda di Bingen quando si rifiutò di obbedire al vescovo di Magonza che voleva far disseppellire il corpo di un cavaliere giudicato eretico. La pietà nei confronti del morto non consentiva alla sua coscienza di sottostare al comando ingiusto dell’istituzione22. Raramente troviamo nella storia del cristianesimo una figura femminile di così alto spessore che è riuscita a esercitare mansioni di prestigio insieme a una straordinaria capacità di elaborazione teorica e di scrittura creativa: monaca visionaria, profetessa, predicatrice, scienziata, musicista, teologa, badessa, direttrice spirituale, scrittrice, poetessa. Ildegarda anticipa gli aspetti più creativi e autorevoli che eserciteranno le donne medievali. Lei, in quanto badessa, svolge l’ufficio pastorale di istruzione e di guida, utilizzan  Elisa Salerno, Una penna inquieta. Lettere scelte, a cura di Maria Grazia Piazza, Messaggero, Padova 2002. 21  Si vedano le conferenze di Michel Foucault del 1983 pubblicate in Il coraggio della verità, Feltrinelli, Milano 2011. 22  Stefania Terzi, Ildegarda di Bingen. Vedere, ascoltare, comprendere (10981179), Effatà, Cantalupa 2015. 20

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do le più diverse forme di comunicazione: ammonizione fraterna, istruzione religiosa, commenti esegetici, trattati. Manifesta il potere della parola femminile che ammaestra e disciplina scrivendo a papi, re, abati, monaci e monache con autorità sorprendente. La figura della profetessa, in tal senso, è stata non solo una figura di confine, tra l’ascolto di Dio che si fa voce attraverso il suo essere corpo di donna e l’obbedienza al potere della Chiesa, ma anche figura di opposizione per la funzione pubblica, e dunque politica, che la profezia assume nei confronti dei tratti più statici delle istituzioni ecclesiastiche, bisognose di riforme e di rinnovamento23. Il recupero e la riflessione sul carisma profetico in tutto il popolo di Dio sono dovuti soprattutto al Concilio Vaticano II. Ricordiamo come Giovanni XXIII abbia indicato nell’enciclica Pacem in terris (1963) come uno dei segni dei tempi gli aneliti di emancipazione delle donne e come Paolo VI con gesto profetico abbia chiamato nella terza e quarta sessione di quel Concilio dieci religiose e tredici laiche a partecipare ai lavori in qualità di uditrici. Tra le religiose ricordiamo la figura profetica di Mary Luke Tobin, della comunità delle Sorelle di Loretto (Sisters of Loretto) e presidente della Conferenza delle Superiore Maggiori degli Istituti Femminili negli Usa, che ebbe modo di maturare la sua passione per la giustizia e la democrazia non violenta. Donna di azione, ottimista, crea­ tiva, di larghe prospettive, antimilitarista, contro la proliferazione del nucleare, impegnata in incontri ecumenici per la difesa dei diritti umani, la religiosa era anche consapevole che le donne dovevano prendere forza e cambiare la società e la Chiesa24.

23  Cfr. Adriana Valerio (a cura di), Donna, potere e profezia, D’Auria, Napoli 1995. 24  Su questo cfr. Adriana Valerio, Madri del Concilio, 23 donne al Vaticano II, Carocci, Roma 2012.

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3. Il magistero femminile Se leggiamo gli scritti delle mistiche siamo colpiti dal ripetersi di uno stereotipo letterario che sottolinea la loro inadeguatezza, in quanto donne, a prendere la parola. Eppure, proprio partendo da tale consapevolezza di limite, esse sono riuscite ad acquisire forza e autorevolezza. Non aveva detto Paolo che «Iddio ha scelto le cose deboli del mondo per confondere le forti» (1Cor 1,27)? Pur nella fragilità della loro parola umana, la storia del cristianesimo conosce un’intensa e continua presenza di magistero femminile fatto di insegnamento, di guida e di direzione spirituale. Pensiamo all’ampio fenomeno delle beghine presenti in diversi paesi europei (Brabante, Germania, Francia, Italia) tra il XII e il XV secolo, una novità nel panorama dei movimenti religiosi che attraversarono il medioevo con il loro zelo riformatore, generando stupore e non poca apprensione nelle gerarchie ecclesiastiche. Le beghine vivevano in comunità senza regola monastica e senza affiliazione a un ordine, ma conducendo una vita fatta di preghiera, di lavoro manuale e di assistenza caritatevole. Spinte dall’aspirazione alla riforma della Chiesa, spingevano per un ritorno agli ideali della vita apostolica, fatta di carità, di povertà, di vita comune e di meditazione del testo sacro. Considerate maestre di vita da discepoli che si raccoglievano intorno a loro, riuscivano a integrare la formazione biblica e dottrinale con l’esperienza mistica e personale. Il movimento produsse una copiosa letteratura spirituale, scritta nelle lingue volgari che consentirono alle donne la capacità di esprimere con libertà e con la freschezza di una lingua viva un’esperienza religiosa intensa e difficilmente comunicabile. Le magistrae beghine hanno svolto l’ufficio pastorale, di istruzione e di guida, utilizzando le più diverse forme di evangelizzazione e i loro insegnamenti, rivolti perlopiù ad altre religiose, si presentavano come nutrimento spirituale, con alto contenuto scritturistico e teologico.

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In età moderna molte donne carismatiche sono state considerate madri divine dai discepoli che hanno ravvisato nella loro guida sapiente la presenza di Dio. Questo fenomeno, studiato a fondo da Gabriella Zarri25, ha evidenziato la complessità e vastità di un’esperienza ampia e significativa per l’autorevolezza femminile, riconosciuta dagli stessi uomini di chiesa che in tante occasioni si sono messi al servizio delle donne invertendo i tradizionali ruoli di maestro e discepola. La guida spirituale delle donne non si è esaurita con la Controriforma, nonostante gli interventi repressivi volti ad affermare la centralità del confessore e del padre spirituale nella vita femminile. Le tante testimonianze di donne, fondatrici, mistiche e carismatiche, che hanno vissuto con forza di carattere e intensità di fede la propria vita religiosa, illustrano come il magistero nella Chiesa non sia circoscritto alla gerarchia ecclesiastica, ma abbia trovato forma attraverso le tante esperienze concrete di insegnamento che le donne hanno svolto nei secoli. Non il chi, ma il come fa la differenza. 25   Gabriella Zarri, Le sante vive, cultura e religiosità femminile nella prima età moderna, Rosenberg & Sellier, Torino 1990.

VI IL POTERE ROVESCIATO. DONNE E UTOPIE Se voi uomini non state attenti accadrà che noi donne insegneremo teologia e predicheremo nella chiesa e vi si priverà delle vostre insegne sacerdotali [...] La scena del mondo sta cambiando. Erasmo da Rotterdam, L’abate somaro, in I Colloqui, Feltrinelli, Milano 1967, pp. 134 sgg.

1. La parodia del potere femminile Non poche volte si è ironizzato sulle donne che esercitano ruoli di potere. Come non ricordare il sagace sarcasmo del tea­ tro di Aristofane (450-385 a.C.) che ha saputo rappresentare i mali della città attraverso l’incapacità degli uomini di governare e la velleitaria risposta delle donne desiderose di ribaltare le regole della convivenza sociale? Come non provare una simpatica tenerezza pensando ai vani tentativi di Prassagora che, una volta in parlamento, delibera la messa in comune delle proprietà, del denaro e perfino dei rapporti amorosi (Le donne al Parlamento) oppure ascoltando l’inventiva di Lisistrata che organizza, con lo sciopero sessuale, una rivolta delle donne greche per costringere gli uomini a smettere di fare la guerra e di uccidersi tra loro (Lisistrata)? Quel teatro, seppure attraverso la scrittura maschile, met-

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teva in scena il desiderio femminile di un mondo eu-topico (luogo del bene) che superava la realtà violenta e ingiusta creata dai maschi, proponendo l’equa distribuzione dei beni e la convivenza pacifica che aboliva l’uso delle armi. Eppure, tali prospettive sono rimaste per secoli nella rappresentazione farsesca di un mondo impossibile, ou-topico (non-luogo/ nessun-luogo) appunto. E l’utopia, se ha conosciuto significative elaborazioni di ideali progetti politici da Platone a Moro, da Campanella a Bacone, da Swift a Rousseau – per citare gli autori classici più noti – non è riuscita a tematizzare reali cambiamenti della condizione femminile. Normalmente la donna è stata o ignorata o pensata in funzione del benessere e del piacere maschile. Non le si concede autorità o potere decisionale, se non nell’ambito ristretto della sua funzione materna, sempre però sottomessa a regole severe imposte e controllate dagli uomini1. L’auspicato mondo giusto sognato dai grandi utopisti non contempla la libertà della donna, la sua autodeterminazione, la sua possibilità di guidare un mondo realmente di benessere e di felicità per tutti. La possibilità che il potere sia nelle sue mani è stata considerata un’aberrazione da esorcizzare con il disprezzo o con il riso. Lo stesso mito medievale della papessa Giovanna, che vede una donna sul posto più alto del potere (la sede papale) non è forse un monito a non riconoscere la legittima possibilità di un governo femminile? La scena ridicola del parto durante una funzione religiosa se da una parte smaschera la sua vera identità femminile che la esclude dal potere sacrale, da un’altra mostra l’inconciliabilità tra il corpo sessuato della donna e la gestione del potere. La maternità, potere della vita, luogo della divina forza creatrice, viene collocata paradossalmente nel luogo privato della casa, nel-

1  Cfr. Mirella Billi, Utopia al femminile: eutopie, distopie e fantasie compensatorie, in Il fascino inquieto dell’utopia. Percorsi storici e letterari in onore di Marialuisa Bignami, a cura di Lidia De Michelis, Giuliana Iannaccaro e Alessandro Vescovi, Università degli Studi di Milano, Milano 2014, pp. 143-160.

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la condizione emarginata dell’impurità, nell’allontanamento dallo spazio sacrale. Al ridicolo si aggiunge il disprezzo. La figura biblica della regina Gezabele (1Re 18-19 = 2Re 9) assurge nella storia del cristianesimo a simbolo per eccellenza della perversione del potere. Il suo corpo dilaniato dai cani esprime con un’incredibile forza espressiva il rifiuto di una donna al comando. La regina, infatti, accusata di idolatria e di perversione, è considerata la causa della rovina morale e religiosa del popolo. Con la stessa veemenza l’autore dell’Apocalisse si scaglia contro la profetessa che era a capo della comunità di Tiatira (Ap 2,20) e che non a caso viene nominata con lo stesso nome, Jezabel. L’apostolo, per rivendicare la supremazia della propria comunità, non esita a stigmatizzare il ruolo di guida esercitato dalla donna su un gruppo concorrente fissando nei secoli lo stereotipo del potere femminile come mostruosità2. 2. Il potere capovolto: il Messia donna D’altra parte, la stessa utopia messianica che attraversa la cultura giudaico cristiana si è espressa attraverso una lotta di potere tutta maschile. Il messia – re, sacerdote, giudice escatologico oppure essere celeste – rimanda a figure maschili chiamate a instaurare la Signoria di Dio sul mondo attraverso la potenza, la gloria, il dominio: «attributi che amplificano la virilità»3. In questa visione androcentrica della concezio2  Cfr. Luca Arcari, Il simbolismo della donna nella letteratura apocalittica, in Donne e Bibbia: per una storia dell’esegesi femminile, a cura di Adriana Valerio, Dehoniane, Bologna 2006, pp. 277-304. 3  Luca Arcari, Quale Messia per le donne? Messianismi giudaici e cristologie proto-cristiane in prospettiva di genere: un possibile percorso storico-religioso, in I Vangeli. Narrazioni e storia, a cura di Mercedes Navarro Puerto e Marinella Perroni, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2012, pp. 107-124 [111].

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ne messianica, il maschio è l’unico operatore sacro chiamato a svolgere un ruolo di liberatore e salvatore. Alla donna è riservato il solo compito di determinare e salvaguardare la purezza della discendenza messianica. Gesù, in verità, all’interno di questo filone, opera un cambiamento: si richiama alla figura profetica del Figlio dell’Uomo per affermare una messianicità aliena da aspetti violenti e dominanti e allo stesso tempo amplia lo spettro dei significati del Regno di Dio, indicandolo come presente nel mondo e contrapposto ai regni dei poteri terreni. Eppure, le differenziate metafore usate: piccolo seme, lievito, perla nascosta, rete, vigna, banchetto (cfr. la Sapienza che invita alla mensa della salvezza: Pr 9,1-6) non hanno suscitato un messianesimo femminile se non in alcune forme di stampo profetico-estatico. Nel movimento montanista del II secolo d.C., ad esempio, le donne vivevano nell’attesa degli ultimi tempi come di una realtà imminente: la profetessa Massimilla prediceva che dopo di lei ci sarebbe stata «la fine di tutto» (oracolo 11); si sentiva inviata dal Signore come «seguace, rivelatrice, interprete» della nuova Rivelazione e diceva di essere «Parola, Spirito e Potenza» (oracolo 12). La visionaria Priscilla raccontava che, mentre si trovava a Pepuza, una località della Frigia fulcro del movimento, aveva ricevuto la visione di Cristo sotto le sembianze di una donna, che le aveva infuso la sapienza rivelandole che quello era un luogo santo e che «là sarebbe scesa la Gerusalemme dal cielo» (oracolo 17)4. Gli oracoli delle montaniste e le loro visioni costituirono certamente un’esperienza dirompente nelle comunità dell’Asia Minore soprattutto perché le donne, sentendosi investite dei doni dello Spirito, avevano elaborato la teoria di una «successione profetica» aperta alle donne accanto a quella episcopale riservata agli uomini, svolgendo allo stesso tempo ruoli ministeriali riservati al clero5. Per questo furono vio  Epifanio, Panarion, 49,1,2.   Eusebio, Hist. Eccl., V,17,4.

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lentemente combattute e per cancellarne la memoria furono denigrate, accusate di essere adultere e prostitute. Ma questo sogno montanista, che inaugurava il mondo degli ultimi giorni rappresentato da comunità dal forte impatto istituzionale femminile, è solo una piccola e fragile traccia di un messianesimo femminile che non è riuscito ad affermarsi nella storia del cristianesimo. Lo ritroveremo in alcuni casi, sporadici ma significativi, che, anche se giudicati eretici, mostrano inquietudini irrisolte: mi riferisco a Guglielma da Milano (1210-1281) e ai suoi seguaci che la ritenevano l’incarnazione dello Spirito Santo e attendevano da lei l’inaugurazione di una Chiesa gerarchica femminile; alla voce profetica di Maria Antonia Colle (17231772)6 che costituì a Mulazzo (piccolo centro toscano) una comunità segreta nella quale svolgeva funzioni sacerdotali7 alternativa e contrapposta a una «Chiesa visibile e corrotta». Lei stessa, trasformata in maschio dal Cristo, sarebbe salita al soglio pontificio annunciando l’attesa di un’età nuova con l’unificazione religiosa del mondo. Anche Lucia Roveri della Mirandola (1728-1788), venerata nel modenese come «incarnazione di Dio Padre», si sentiva chiamata a completare l’opera di redenzione del Figlio per fondare una nuova era all’insegna della pacificazione universale: la caduta del genere umano avvenuta a causa dell’ingenuità di una donna, Eva, sarebbe stata cancellata da Dio stesso, incarnandosi nel corpo femminile di Lucia Roveri per manifestare la sua potenza nell’elevare il sesso debole a strumento di redenzione8. Questi episodi appena richiamati esprimono la smania di rivalsa che dà forma a un potere rovesciato o sono le mani6  Elena Bottoni, Scritture dell’anima. Esperienze religiose femminili nella Toscana del Settecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010, pp. 130179. 7  «Celebrava messe, confessava le sue figlie spirituali, celebrava battesimi e matrimoni; ordinava sempre sacerdoti, vescovi e cardinali», ivi, p. 171. 8  Modena, Archivio di Stato, Fondo inquisitoriale, 241-242. Cfr. Valerio, Donne e Chiesa cit., p. 162.

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festazioni di un disagio? Il non sentirsi rappresentate da una Chiesa visibilmente maschile non spinge forse ad agognare una nuova incarnazione di Dio in corpo femminile per legittimare la propria dignità di donne autorevoli? Da notare che in queste proposte visionarie le donne al potere (incarnazioni ora del Padre, ora del Figlio, ora dello Spirito), se fondano una Chiesa gerarchicamente femminile, instaurano anche un regno di pace e di unificazione religiosa, dove i conflitti sono superati all’insegna della convivenza rispettosa delle diversità. Ma le donne hanno avuto la capacità di immaginare politicamente un altro mondo possibile? 3. La città utopica A Cristina da Pizzano (1364-1430), scrittrice di professione presso la corte francese di Carlo V, si fa risalire la prima visione utopica che vede al centro l’universo femminile. Tra il 1401 e il 1404 scrive Il libro della città delle donne per confutare le posizioni misogine del tempo e per rispondere con una diversa chiave interpretativa alla presentazione elogiativa delle 106 figure femminili fatte dal Boccaccio nel De mulieribus claris (1361). Confortata da Ragione, Rettitudine e Giustizia, che le ap­ paiono nella visione letteraria nelle sembianze di tre dame, Cristina costruisce una città come «un luogo dove potersi rifugiare e difendere contro così tanti assalitori» (Libro I, 2). È l’inizio di un’utopica città delle donne dove le figure femminili, tratte dalla lettura biblica e classica, costituiscono con la loro esemplarità l’impalcatura sulla quale si regge la città ideale. Cristina riscrive alcuni ritratti di donne, valorizzate non per la loro eccezionalità, come in Boccaccio, ma piuttosto per l’universalità delle virtù che esse rappresentano. La presenza delle donne nella storia non si misura per lei su un concetto arbitrario di eccellenza naturale, bensì sull’esercizio delle virtù. Per questo

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motivo le donne non possono essere più escluse dal potere a motivo di una loro presunta debolezza di natura, ma, al contrario, devono essere valutate e considerate per le capacità che possono esprimere. La costruzione della città che ne consegue è la riscrittura della tradizione femminile che affonda le sue radici nel passato e che restituisce autorità alle donne in una città che, fortificata e chiusa da solide mura, è autonoma; non è un convento, ma un luogo di parola e di esperienza. Quest’immagine separata e ideale di un luogo femminile gestito da donne non avrà molti riscontri nella storia del pensiero e dovremo aspettare tempi più recenti per ritrovare alcuni casi di letteratura utopica femminile che, tuttavia, ci mostrano il lento cammino di maturazione verso l’acquisizione di spazi indipendenti. Pensiamo alle posizioni assunte dall’umanista Moderata Fonte (1555-1592) che, attraverso un dialogo tra 7 donne legate da amicizia, mette in luce come l’assenza degli uomini coincida con la libertà delle donne9. Ricordiamo Mary Astell (1666-1731) per la quale il comando del Signore di non chiamare nessuno Maestro (Mt 23,9) rappresentava il fondamento dell’autonomia femminile10. Astell aveva creato e diretto a Londra un circolo di sole donne che condividevano vita e studio, profondamente convinta della necessità della cultura come condizione di indipendenza. Ideò per questo uno spazio isolato dagli uomini, un ritiro religioso femminile, come luogo di sapere, di libertà e di felicità, dove le donne potevano formarsi, attraverso lo studio e le opere di carità, senza sottostare a una struttura gerarchica, ma vivendo in relazioni di amicizia e di affetto. Questa esperienza trova la sua elaborazione concettuale nell’opera Una

  Rosa Rius Gatell, Rinascimento: eccellenti nel proprio tempo. Il merito di Moderata Fonte, in Un punto fermo per andare avanti. Saperi, relazioni, lavoro e politica, a cura di Marisa Forcina, Milella, Lecce 2015, pp. 129-141. 10  Mary Astell, The Christian Religion, Wilkin, London 1717, 1. Cfr. Eleonora Federici, Quando la fantascienza è donna. Dalle utopie femminili del secolo XIX all’età contemporanea, Carocci, Roma 2015. 9

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seria proposta per le dame, a beneficio dei loro veri e più alti interessi. Scritta da un’amante del suo sesso (1694). Così la comunità utopica femminile, che si contrapponeva come modello alla società materialistica del suo tempo, descritta da Sarah Scott in Millennium Hall (1762), è inserita in un mondo bucolico ricco di bellezze paesaggistiche nelle quali erano immerse le donne che si dedicavano alle arti e alle conversazioni e brilla per l’assenza maschile quanto mai inutile in un mondo di armonia e di bellezza11. Analogamente l’utopia della femminista musulmana Rokeya Sakhawat Hossain (1880-1932) si presenta come proposta di un mondo rovesciato. Ne Il sogno di Sultana (Sultana’s Dream, 1905) la protagonista vive in un paese, «Donnelandia», dove le donne, separate dagli uomini resi innocui, possono per questo studiare, lavorare, prendersi cura dei bisogni della città senza uso di violenza e di armi. Non meno efficace è l’opera Herland (1915) di Charlotte Perkins Gilman (1860-1935), che descrive un mondo esclusivamente femminile fondato su principi di uguaglianza e di giustizia, libero da costrizioni e da poteri oppressivi. Il «mondo di lei» (Herland) è il luogo della condivisione dei ruoli, senza discriminazioni di genere, e della pacifica convivenza tra persone che non prevaricano le une sulle altre. È lo spazio del benessere e della felicità. 4. Decostruire la macchina del potere La vita religiosa è caratterizzata dal voto dell’obbedienza. La convivenza, infatti, rende necessaria la messa in atto di un regolamento che disciplini le azioni di un gruppo sottoposto

11  Ricordiamo anche la comunità «Nashoba», nel Tennessee, presso Memphis, fondata nel 1825 dalla femminista e abolizionista Frances Wright (1795-1852) che volle abolire nella sua «cittadella utopica» la schiavitù e ogni discriminazione razziale e sessuale.

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all’autorità. La durezza di questa guida è stata più o meno forte e ha riguardato sia le donne che gli uomini. Tuttavia, come abbiamo visto precedentemente, le donne hanno maggiormente pagato il prezzo dell’obbedienza al confessore, al direttore spirituale, al vescovo o anche a un’altra donna posta come autorità – badessa o madre superiora –, in un rapporto spesso di mortificante sottomissione che ha portato, in casi estremi ma non rari, fino all’annullamento della propria volontà e personalità. Abbiamo, tuttavia, nella storia delle isole felici nelle quali si è teorizzata e sperimentata un’alternativa al potere da esercitarsi all’interno della vita religiosa. Francesco e Chiara d’Assisi, ad esempio, propongono e vivono una fraternitas nella quale trova accoglienza chiunque voglia seguire il Cristo povero e desideri instaurare relazioni di reciproco sostegno; Francesco, spogliandosi davanti all’autorità del padre e del vescovo, rifiuta per sé il ruolo paterno. Egli si presenta «come madre» (sicut mater), perché la relazione materna simboleggia la rinuncia al potere; la madre, infatti, «non domina ma governa», cioè educa e guida con tenerezza. Istanze utopiche le sue o radicamento nel messaggio evangelico delle origini? Chiara segue e dà forza al pensiero di Francesco. Elabora una spiritualità della tenerezza capace di cambiare le regole della convivenza comunitaria. La sua esperienza mistica del «Gesù mammolo» esprime una religiosità che rifiuta un Dio lontano e giudice severo, per recuperare un Dio fragile (mammolo appunto) che suscita amore e non più timore. La spiritualità del Dio bambino, vicino e tenero, muta anche i modi di instaurare i rapporti umani all’insegna di una sororità che caratterizza una comunità compartecipativa dove le decisioni vengono prese dalla madre, che non è più l’autorità che chiede obbedienza, bensì l’aiuto fiducioso, l’amica accogliente. La regola monastica di Chiara, la prima scritta per le donne, ribalta i vigenti criteri gerarchici maschili così come si trovavano nella regola benedettina. Il suo è un ordina-

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mento di vita nel quale la madre che governa (non più badessa che comanda) si configura come «rifugio dialogante»; non ci sono più monache sottomesse, ma sorelle; non più la norma giuridicamente definita e rigida, ma il Vangelo; non le decisioni imposte dall’alto, ma discusse anche con le più piccole sorelle della comunità; non l’obbedienza incondizionata, bensì l’ascolto della coscienza illuminata dal messaggio evangelico. La madre consoli le afflitte, sia l’ultimo rifugio delle tribolate, conferisca con tutte le consorelle circa le cose da trattarsi per l’utilità e il decoro del monastero, poiché spesso il Signore ispira alla più piccola ciò che è meglio (Regola, cap. IV).

Un progetto, questo di Chiara, che ritroviamo in altre fondazioni femminili (ad esempio, quella di Angela Merici), ma rimasto circoscritto, tuttavia, all’interno della vita claustrale che spesso ne ha snaturato la motivazione ideale e che, soprattutto, non è riuscita a diventare esemplare e a incidere sulla struttura della Chiesa. Dobbiamo attendere l’Ordine della Sororità di Maria Santissima Incoronata, fondato nel 1998 da Ivana Ceresa (19422009), per ritrovare una innovativa proposta comunitaria inserita in una prospettiva teologica ed ecclesiale12. La sororità è per Ivana un’esperienza di autorità materna, una comunità aperta a donne, di ogni condizione di vita, fede e religione, riunite per rendere visibile la presenza femminile nella Chiesa. La regola dell’Ordine si ispira ad Angela Merici (1474-1540) e sottolinea il rapporto sororale che le componenti devono vivere nella comunione reciproca per mettere al mondo una Chiesa diversa da quella che

12  Non dimentichiamo l’esperienza di sorella Maria di Campello, testimone di un cristianesimo panico; per lei la Chiesa era la comunione di chiunque credesse, sperasse e amasse, al di là dell’appartenenza istituzionale.

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oggi è ancora «occupata dall’ordine simbolico maschile»13. Per dare testimonianza di un modo alternativo di gestire l’autorità, la regola prevede che la guida sia conferita annualmente a una presidenza individuata a rotazione secondo l’anzianità di appartenenza, cui affiancare, se occorre, due consigliere. 5. Utopia e diritti Alcuni casi che qui ricordiamo danno importanti indicazioni di come anche alcune laiche si siano mosse per elaborare visioni alternative nelle complesse società industrializzate e sempre più globalizzate. Di origine quacchera, Jane Addams fonda a Chicago nel 1889 il Social Settlement Hull-House, una comunità «egualitaria e pacifista» collocata nei sobborghi della città. Tenuta in piedi da giovani volontari, soprattutto donne che prestano sostegno alle classi disagiate costituite all’epoca soprattutto da immigrati, la Hull-House si caratterizza per le attività di servizio e di formazione, educativa, artistica e politica, rivolte agli immigrati. Laboratori di apprendistato e di lavoro, ma anche palestra, teatro, asilo sono alcune delle possibilità offerte per creare spazi di gestione democratica e mai autoritaria: strumenti e luoghi in cui al tempo stesso proporre e sperimentare relazioni solidali tra differenti classi sociali e culture. Addams insiste sulla necessità di trasformare i rapporti fra i cittadini in relazioni amicali dove la simpatia e il rispetto diventano la premessa per accettare l’altro. Per questo, dopo aver aderito alla dottrina tolstoiana della non-resistenza, si impegna anche nella costruzione di una società fondata sulla pace e propone, con un preciso programma di disar13  Ivana Ceresa, L’utopia e la conserva. Una vita spirituale nella contemporaneità, Tre Lune, Mantova 2011, pp. 213 sgg.

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mo e di democrazia, di sostituire le attività di guerra «con il nutrimento della vita umana»14. Il suo impegno pacifista le consente di ricevere nel 1931 il secondo Nobel per la pace dato ad una donna (la prima era stata Bertha von Suttner, nel 1905)15. La pace, per l’intellettuale americana, non è solo negazione della violenza e rifiuto della guerra, è innanzitutto una questione di relazioni cooperative capaci di contenere e superare i sistemi gerarchici. La partecipazione infatti delle categorie escluse come le donne, gli stranieri e i non bianchi, non è solo un problema di diritti, ma anche e soprattutto di partecipazione necessaria16. Dunque, un vasto movimento vide impegnate le donne nella costruzione di una comunità internazionale fondata non su rapporti di forza, ma di rispetto. Non è allora un caso che l’Unione Mondiale delle Organizzazioni Femminili Cattoliche, che raggruppava 36 milioni di donne di 110 organizzazioni sui cinque continenti, scelse come tema del suo congresso del 1952 La pace mondiale e le responsabilità della donna cristiana.

14  Questa concezione di nutrimento della vita umana viene proposta nel corso di una conferenza tenuta nel 1918 alla Food Administration dietro richiesta di Herbert Hoover, futuro presidente degli Usa, dal 1929 al 1933. 15  Bertha von Suttner (1843-1914) fu nel 1905 presidente onorario dell’Ufficio Internazionale per la Pace, la più antica associazione umanitaria mondiale per la diffusione dell’idea del pacifismo (1891). La von Suttner, che era stata segretaria di Alfred Nobel, scrisse nel 1889 Giù le armi, affermando la necessità di un disarmo totale di tutte le nazioni e dell’istituzione di una corte d’arbitrato che risolvesse i conflitti internazionali facendo ricorso al diritto e non alla violenza. L’altro Nobel per la pace fu assegnato nel 1946 a Emily Greene Balch (1867-1961) della Lega Internazionale delle Donne per la Pace e la Libertà (Women’s International League for Peace and Freedom), associazione di sole donne fondata nel 1925 per chiedere a tutti i capi di Stato di fermare la guerra, non per armistizio, ma per tacito accordo. Ricordiamo anche le riflessioni di Virginia Woolf nella sua opera Le tre Ghinee (1936) dove sottolineava come la guerra nascesse dalla sopraffazione e dalla violenza proprie del codice maschile che si erano imposte nell’ambito religioso, economico e politico. 16  Giovanna Providenti, Cristianesimo sociale, democrazia e nonviolenza in Jane Addams, in «Rassegna di Teologia», 45, 2004, pp. 695-717.

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Il tema della pace bussò grazie alle donne anche alle porte del Concilio Vaticano II. Dorothy Day (1897-1980)17, fondatrice del movimento Catholic Worker nel 1933, e Eileen Egan (1912-2000), cofondatrice della sezione americana di Pax Christi nel 1962, sono infatti particolarmente attive durante il Concilio. Nel 1963 Dorothy Day era una delle cinquanta madri per la pace che si recarono a Roma per ringraziare papa Giovanni della sua enciclica Pacem in terris e per chiedere ai padri conciliari una condanna esplicita della guerra. Eileen Egan ha esercitato una notevole influenza nella redazione delle dichiarazioni sulla pace del Concilio: grazie a lei nel 1987 le Nazioni Unite hanno riconosciuto l’obiezione di coscienza come un diritto umano universale. Anche l’economista visionaria Barbara Ward (1914-1981), come amava lei stessa definirsi, appartiene a questa schiera di donne attente a questioni socio-politiche. Per quanto non si ponga espressamente come femminista, la sua persona e il suo pensiero hanno contribuito non poco alla riflessione dell’eco-femminismo. In quanto economista di chiara fama, nell’estate del 1964 durante il Vaticano II, le fu chiesto di preparare un memorandum sulla fame nel mondo per il cardinale belga Joseph Suenens. Fonti americane raccontano che quando lei arrivò a Roma, il cardinale Pericle Felici, segretario del Concilio, notò con orrore che era una donna. In base a questi pregiudizi ancora presenti tra i padri conciliari non le fu consentito di parlare davanti all’assemblea e il suo testo, World Poverty and

17  Dorothy Day, anarchica e socialista prima, cattolica e pacifista poi, fu attenta a tal punto alle sorti del mondo da impegnarsi in prima persona a vivere con i diseredati dei bassifondi di New York battendosi per loro e per i loro diritti. Per questo fondò The Catholic Worker, un vero e proprio movimento in difesa dei più deboli e diventò una attiva pacifista. Nel 1927, a trent’anni, si convertì al cattolicesimo. Si vedano: Caterina Ciriello, Dorothy Day. Le scelte dell’amore, Lateran University Press, Roma 2011; Dorothy Day, Fede e radicalismo sociale, a cura di Roberta Fossati, La Scuola, Brescia 2012.

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the Christian Conscience, fu letto il 5 novembre del 1964 da un uomo, l’uditore James Norris18. Per volontà di Paolo VI, comunque, Barbara divenne un membro attivo della Commissione Pace e Giustizia e fu nominata «consulente laico» del Segretario speciale del Sinodo dei Vescovi del 1971 dedicato al tema della giustizia. Una costante che troviamo sempre nei suoi scritti è l’accostamento della questione della povertà alle responsabilità di ciascuno nel salvaguardare il pianeta e le generazioni future. È lei che ha aperto pionieristicamente la strada al concetto di sviluppo sostenibile e ha spinto la Chiesa cattolica, spesso riluttante a riconoscere il proprio ruolo e le proprie responsabilità all’interno dello sviluppo internazionale, a riflettere sui temi della giustizia e della pace. La sua opera più importante, Una sola terra, scritta su richiesta di Maurice Strong, segretario generale delle Nazioni Unite, è di fondamentale importanza per aver fatto luce sul reale fabbisogno umano del pianeta terra e sul riconoscimento delle risorse non rinnovabili19. Per la Ward solo una proiezione verso il futuro in termini utopici consente il cambiamento. Per questo, «se i nostri padri e le nostre madri non avessero avuto una proie­ zione visionaria», ad esempio, non sarebbe stata abolita la schiavitù. In tal senso il progetto utopico può diventare per l’economista americana tanto scelta operativa quanto elaborazione politica. Profondo impegno sociale lo ha testimoniato in questo campo Hildegard Mayr (1930-) che, con il marito Jean Goss e indipendentemente da lui, ha guidato insieme al MIR (Movimento Internazionale di Riconciliazione) gruppi, movimenti e comunità per sperimentare la nonviolenza evangelica attiva e mettere in atto forme di convivenza aliene da qualunque rapporto di potere20.   Su questo, cfr. Valerio, Madri del Concilio cit.   Barbara Ward, René Dupos, Una sola terra, Mondadori, Milano 1972. 20  Jean Goss, Fede e nonviolenza, L’Epos, Palermo 2006. 18 19

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Ampie prospettive sono portate avanti oggi dall’eco-femminismo con la riflessione sui rapporti tra discriminazione delle donne e disprezzo dell’ambiente e sulle proposte per un necessario ri-centramento dell’economia a vantaggio della dignità degli esseri viventi in un creato da salvaguardare e curare21. Alla luce di tutte queste testimonianze, bisogna chiedersi, infine, se con il cambiamento del paradigma culturale in atto, non ci debba essere un ripensamento sostanziale su una diversa gestione del potere che in qualche maniera superi la visione utopica per tradursi in progetto politico. Ciò significa andare nella direzione di un governo delle relazioni che precede la legge, come afferma Buttarelli sulla scorta della filosofa Maria Zambrano che ama dislocare la sovranità dal potere?22 Oppure deve orientarsi nella prospettiva di una strategia politica che vada oltre l’ingenuità di scelte romantiche per approdare a soluzioni che assumano la logica del diritto e della giustizia?23 Il potere esercitato dalle donne non può prescindere da una politica dell’umanità24 che si assuma la responsabilità del rispondere per altri, che metta al centro la dignità delle persone e non la loro dipendenza, che favorisca la cooperazione e la condivisione, che si prenda cura del mondo in una prospettiva antiutilitaristica e generi solidarietà da tutelare con il rigore del diritto25.   Sull’eco-femminismo, si vedano: Ivonne Gebara, Ecofemminismo, in Dizionario delle teologie femministe, Claudiana, Torino 2010, pp. 150-152; Letizia Tomassone, Crisi ambientale ed etica. Un nuovo clima di giustizia, Claudiana, Torino 2015; Ina Praetorius, L’economia è cura, a cura di Adriana Maestro, Iod, Napoli 2016. 22  Annarosa Buttarelli, Sovrane. L’autorità femminile al governo, Il Saggiatore, Milano 2013. La Buttarelli si interroga sull’idea di sovranità, femminile, regolata dalle leggi della vita, più alta di ogni potere, maschile, segnato da violenza. 23  Cfr. Stefano Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari 2014. 24  Martha Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, il Mulino, Bologna 2000, ed. or. 2000. 25  Cfr. il Manifesto convivialista, Ets, Pisa 2014. Convivialismo è «l’arte di vivere insieme (con-vivere) che valorizza la relazione e la cooperazione e che 21

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Se nelle visioni utopiche il pensiero femminile si è collocato spesso sul piano della separazione, nel progetto politico le donne sono nel cuore del sistema e la gestione della loro autorità si posiziona nell’orizzonte di una strategia istituzionale che mette in campo norme multiculturali di giustizia e di diritto. Tale impostazione dovrebbe essere applicata alla Chiesa, segnata da relazioni guidate da paternalismo e non da giustizia, da elargizione benevola e non dal riconoscimento dei diritti, da logiche di rapporti verticali e maschili e non da relazioni circolari e di comunione. permette di contrapporsi senza massacrarsi, prendendosi cura degli altri e della natura».

VII METTERE AL MONDO Ildegarda di Bingen (1098-1179) sottolineava come la madre nell’atto del partorire sperimentasse in sé la forza creatrice di Dio, dando forza a una visione positiva della natura femminile allora considerata debole e manchevole. La maternità, invece, nella profetessa teutonica così come in un’ancestrale cultura matriarcale mai sopita1, manifestava un potere che tuttavia non ha avuto modo di esprimersi appieno nella storia perché iscritto in un ordine patriarcale che ne ha limitato le funzioni assoggettandolo a interessi altri, familiari e maschili. La tradizione ebraico-cristiana ha prestato una particolare attenzione alla funzione materna: elemento di identità e dignità delle donne che, grazie ad essa, potevano garantire la discendenza ricevendone stima sociale. Pensiamo alla paura, al dolore e all’ansia evidenziate nelle narrazioni delle donne della Prima Alleanza che, a causa dell’età (Sara), della sterilità (Rebecca e Rachele) o della vedovanza (Tamar e Rut), non riuscivano ad avere figli. Ricordiamo le loro lotte per affermare i propri diritti di madri e le lacrime per le sospirate gravidanze (Rachele, Anna, madre di Samuele ed Elisabetta).

1  Cfr. Luciana Percovich, Oscure madri splendenti. Le radici del sacro e delle religioni, Venexia, Venezia 2013. La studiosa, attraverso lo studio dei miti delle culture matriarcali dal Paleolitico e dall’Età delle Grandi Madri di pietra, formula ipotesi sulle società anteriori all’affermazione del patriarcato.

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La mancanza di figli era considerata in Israele, come in tutti i popoli antichi, un’onta e un segno di maledizione. A causa della sterilità le donne venivano ripudiate ed erano costrette a vivere ai margini della famiglia e del clan: la loro vita era superflua, non avevano futuro. Per una donna, dunque, era fondamentale svolgere il ruolo di madre, una funzione determinante all’interno della società arcaica dove i figli, soprattutto i maschi, rappresentavano il futuro della famiglia: attraverso di essi se ne tramandavano nome, beni e valori condivisi. Partendo dalla loro identità di madri, le donne bibliche, come abbiamo visto, hanno esercitato a loro modo un vero e proprio potere, condizionando la linea della promessa che non è passata ai primogeniti, ma ai figli da loro prediletti. In questo modo si sono fatte carico con le loro scelte del posto che Israele occupa nel piano della salvezza universale. Questa prospettiva cambia nel contesto cristiano. Gesù di Nazareth, infatti, ridimensiona i ruoli parentali («Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?»2) per ridisegnare una comunità costituita da fratelli e sorelle seguaci della sua parola e dunque discepoli del Regno. Essere madre non comporta un potere specifico e il suo ruolo è iscritto all’interno delle dinamiche di amore scambievole, comunque subordinato alla testimonianza della fede. Lo aveva ben compreso la martire Perpetua che non si lascia condizionare dalla presenza del suo bambino e va incontro alla morte pur di non rinnegare la sua appartenenza a Cristo. Ma l’esperienza martiriale non è una consuetudine di vita e le comunità cristiane presto riconfermano al loro interno sia la struttura gerarchico-patriarcale del sistema familiare (Ef 5,2233) sia la funzione generativa della donna (1Tm 2,15), caricandola di oneri e responsabilità richiesti dalla società: il ruolo materno è subordinato agli interessi del marito e della famiglia. Tuttavia esso continua a svolgere una missione importante per

  Mc 3,33 e par.

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la crescita nella fede nella misura in cui educa i figli ai principi cristiani e li forma nel rispetto delle norme, nella piena obbedienza ai dettami della Chiesa, fino a indirizzarli verso la santità. Esemplare madre santa è stata, in tal senso, santa Monica, madre di sant’Agostino, modello nei secoli avvenire della «trasmissione dei valori cristiani per via matrilineare»3. L’essere madre gioca dunque un ruolo fondamentale non solo perché salvaguarda il patrimonio e la trasmissione del cognome paterno, ma soprattutto perché protegge e tutela la vita domestica dalle insidie del mondo esterno. Ed è in modo particolare nell’esaltazione di Maria, madre di tutti i credenti, che l’essere madri allarga il suo orizzonte. In lei la maternità acquista la dimensione cosmica dell’accoglienza divina e della cura dell’umanità. In lei i cristiani riscoprono la potenza del suo operare da madre per il bene dei figli e il suo ruolo di mediazione tra l’umanità e il tremendo giudizio di Dio Padre, Rex tremendae maiestatis4. L’«esilio» del volto materno di Dio viene compensato da Maria che concentra in sé i valori femminili dimenticati. E il culto mariano contribuisce a dare forza e vigore all’importante funzione che le donne svolgono nella cura della vita. 1. La maternità come paradigma etico Nell’ultimo secolo la maternità è stata segnata da un mutamento di prospettiva, la cui portata rivoluzionaria non è stata ancora compresa in tutte le sue potenzialità, dal momento 3  Alessandra Bartolomei Romagnoli, Santità e mistica femminile nel Medioevo, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2013, p. 65. Nel capitolo Madri sante nella letteratura medievale l’autrice mostra con numerosi esempi l’importanza della mediazione materna nella costruzione della società cristiana anche se questa santità laicale si trasformerà nel medioevo allorché la perfezione coinciderà con la verginità, dunque con l’orientamento ascetico. La verginità, rispetto alla vedovanza e al matrimonio, si posiziona, infatti, al primo posto nella scala dei valori circa le scelte di vita. 4  Dall’inno Dies irae della liturgia dei defunti.

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che è passata da funzione biologica subìta a ruolo consapevolmente e liberamente svolto; da oblatività di donna che si auto-nega per i figli, a volte non desiderati, a scelta d’amore e ad esperienza positiva da vivere in una nuova dimensione affettiva, solidale e dialogante. In tale delicato rapporto di libertà e relazionalità, dove il bambino è desiderato, voluto e rispettato, la relazione «madre-figlio» è stata assunta da alcune studiose come nuovo paradigma etico perché indica come si possano intrecciare relazioni autoritative non secondo logiche di violenza e di dominio, bensì secondo criteri di cura e accoglienza, nell’ascolto dei bisogni e nel rispetto delle soggettività in divenire. Quest’esperienza unica, ovvero di irrinunciabile ricchezza affettiva in quanto basata su un legame profondo, vitale, intenso e dialogante, può costituire un modello di guida e d’autorità in contrasto con quello rappresentato dal potere maschile. E la maternità, come da anni ci fa riflettere la scuola filosofica di Luisa Muraro, può divenire un’interpretazione del mondo che parte dal «potere simbolico» della funzione generativa: funzione di crescita e di mediazione5. È evidente che la maternità come paradigma etico prescinde dalla singolarità dei casi concreti e assume una valenza universale (paradigma appunto) che tocca ogni persona al di là della propria differenza sessuale. È l’amore che abbraccia, è il luogo che accoglie, nutre e porta a maturazione la vita lì dove si può sperimentare la condivisione scevra da forme di dominio e di manipolazione. Lo aveva compreso bene – come abbiamo già precedentemente evidenziato – Francesco d’Assisi con la sua proposta di una fraternitas nella quale trovava accoglienza chiunque volesse seguire il Cristo povero e desiderasse instaurare relazioni non di potere ma di reciproco sostegno6.   Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991.   Tra i tanti libri su Francesco, si veda lo studio di Grado Giovanni Merlo, Frate Francesco, il Mulino, Bologna 2013. 5 6

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Non è un caso che Francesco non volesse apparire nel ruolo di un «padre»7 e si presentava «come madre» (sicut mater) che guida e nutre i propri figli8. La relazione tra i fratelli si esprime tramite una relazione materna che, attraverso il governo di servizio, simboleggia la rinuncia al potere. Lo stesso Francesco appare in visione a Chiara come una donna con le mammelle dalle quali succhiare: epso sancto (Francesco) trasse del suo seno una mammilla et disse ad essa vergine Chiara: «Viene, receve et sugge». Et havendo lei succhato, epso sancto la admoniva che suggesse un’altra volta. Et epsa suggendo, quello che de lì suggeva, era tanto dolce et delectevole, che per nesuno modo lo poteria explicare. Et havendo succhato, quella rotondità o vero boccha dele poppa donde escie lo lacte remase intra li labri de epsa beata Chiara9.

Questo recupero della maternità come autorità che accompagna, così presente nell’esperienza di Chiara e Francesco, nella misura in cui sottolinea la scelta degli ultimi, degli emarginati e di quelli che non hanno potere, sovverte i ruoli sociali e rappresenta uno spazio largo e accogliente di convivenza. Purtroppo tale proposta è rimasta circoscritta nello spazio chiuso e privato del convento e non si è trasformata in reale possibilità di cambiamento dei rapporti tra le persone nella Chiesa e nella società. Ma il recupero oggi di questa dimen7  Il titolo di padre è riservato a Dio per il quale siamo tutti figli e, dunque, tra di noi fratelli. 8  «Et quilibet diligat et nutriat fratrem suum, sicut mater diligit et nutrit filium suum, in quibus et Deus gratiam largietur»: 1Reg NB 9,11. Jacques Dalarun, “Sicut mater”. Une relecture du billet de François d’Assise à frère Léon, in «Le Moyen Age», 3-4, 2007, pp. 639-668. Dalarun vede nel sicut mater non un semplice sentimento di tenerezza, ma piuttosto una metafora istituzionale di governo materno. 9  Viene conosciuta come visione della mammilla: Chiara Frugoni, Una solitudine abitata. Chiara d’Assisi, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 186. L’episodio è riportato nel Processo di canonizzazione di S. Chiara d’Assisi (dal cod. FinalyLandau 1975/2040), n. 2995.

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sione materna, come potenza della vita che accoglie e mette in relazione, può far riscoprire modalità diverse di gestione dell’autorità. L’autorità materna si presenta infatti come una capacità di tirare fuori ciò che è dentro (maieutica): è l’arte di far crescere10, è l’azione feconda che riesce a mettere in evidenza le potenzialità della persona di cui si ha cura. E se il potere fa a meno delle relazioni, l’autorità materna è orientata in un quadro di relazionalità e di tessitura dei rapporti. Questa autorità relazionale non annulla i soggetti, ma li mette in comunicazione costruendo ponti e cercando mediazioni: riconosce l’altro come singolarità, come un soggetto diverso da sé, lasciando posto alla distinzione e all’alterità, accogliendo le altrui diversità e fragilità. L’autorità materna è anche guida e può condurre verso possibilità diverse di vita inclinandosi verso l’altro, per usare una bella immagine di Adriana Cavarero11: in un incontro di amore elettivo, ma non escludente, che apre nuovi sentieri. Essa è un’autorità nutritiva e appassionata che ha premura per la vita. Ciò che caratterizza l’esperienza materna è il rapporto emozionale con la vita che ha dentro di sé e che poi è messa al mondo. L’autorevolezza materna non può essere segnata da cinico calcolo né da indifferenza così come la possiamo riscontrare nei rapporti tra chi detiene il potere e il suddito, ma si esprime con i colori dei sentimenti che indicano passione e «premura» per l’altro12. La responsabilità, infatti, nasce dalla relazione: è un’etica che potremmo definire «etica della cura e della premura», sottolineando in tal modo la pressione interiore che sollecita   Autorità viene dal latino augere: aumentare, far crescere.   Adriana Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaello Cortina, Milano 2013. Per Cavarero l’inclinazione indicherebbe una diversa posizione del soggetto morale in quanto sporto verso altri. 12  Il trattamento giuridico riservato nei secoli ai figli illegittimi, non riconosciuti, fa capire come la giurisprudenza parta dalla salvaguardia dell’identità maschile e non dai diritti della maternità che non fa distinzione tra i figli. 10 11

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l’urgenza di una risposta al bisogno dell’altro, l’interessamento solerte per la persona che si ha davanti. Quest’etica non può prescindere però dall’analisi sociologica, economica, etnica e politica che caratterizza la complessità del nostro essere al mondo13. Per questo la proposta dell’eco-femminismo si colloca «su una interpretazione unificata della vita in cui ogni essere e ogni processo vitale è assolutamente interdipendente [...] in prospettiva umana ma anche biologica e cosmica»14. Per Vandana Shiva15 la Vita è un insieme eterogeneo che si sottrae alla gerarchizzazione e alla manipolazione della scienza proprie del paradigma occidentale strutturato sulla scissione tra uomo e mondo. Prendersi cura dell’umanità significa allora operare scelte politiche che entrino in relazione con il cosmo intero. All’interno di questa problematica si inserisce la questione delle biotecnologie che negli ultimi anni hanno sconvolto i principi naturali della genitorialità: la vita esce dalla sfera privata ed entra in un orizzonte sociale e politico. Le mercificazioni dei bisogni umani e lo sfruttamento del corpo femminile, attraverso maternità surrogate e uteri in affitto, toccano questioni legate alla dignità inviolabile della persona umana. E però, allo stesso tempo, si pongono nuove domande sulla possibilità di allargare il concetto di maternità, svincolata dalla gravidanza e dal proprio desiderio, per configurarsi come dono e come «gestazione per altri»16. La gratuità del dono della vita, offerto ad altri attraverso il proprio corpo, può rien­ 13  Franca Bimbi, Genere. Donna/donne. Un approccio eurocentrico e transculturale, in «Rivista delle Politiche sociali», 2, 2009, pp. 251-295. Cfr. Cristina Simonelli, Vita Madre dei viventi etica femminista: un’introduzione, in «Studia Patavina», 61, 2014, pp. 749-764. 14  Cfr. Ina Praetorius, Penelope a Davos. Idee femministe per un’economia globale, Libreria delle donne di Milano, Milano 2011, pp. 31-44. 15  Vandana Shiva, Monocolture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura «scientifica», Bollati Boringhieri, Torino 1995, ed. or. 1993. 16  Vittoria Franco, Responsabilità. Figure e metamorfosi di un concetto, Donzelli, Roma 2015.

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trare in uno scenario inedito di relazioni che devono porre al centro, sempre e comunque, sia la responsabilità personale sia il bene dei terzi, in questo caso del bambino, desiderato e amato. Per avere questo occorre educare alla libertà consapevole del bene altrui e avere regole che tutelino i diritti: la messa in campo di dinamiche di autonomia, libertà e relazione può aiutare così a superare l’impostazione dogmatica della verità assoluta incapace di guardare al bene contingente17. 2. Principio materno come metafora di autorità relazionale Da queste osservazioni si evince che recuperare il paradigma etico della maternità come principio d’autorità non comporta rovesciare i rapporti patriarcali per sostituirne di nuovi «nel segno della madre»: il paradigma materno, infatti, se rimanesse in una visione binaria di opposizioni non sospenderebbe le forme di dominio gerarchizzante, di un potere opprimente che scende dall’alto in una relazione tra diseguali. Da questo punto di vista è bene sottolineare che le caratteristiche femminili non sono superiori o migliori di quelle maschili, né legate a una fantomatica natura o a una astorica essenza ontologica. Non è sufficiente essere donne per saper svolgere ruoli di cura materna, né essere uomini per esercitare una funzione paterna. Entrambe le funzioni, materna di cura e paterna di rispetto della legge, elementi portanti del sistema vitale e sociale, possono essere esercitate sia da donne che da uomini in quanto presenti in ognuno di loro18. 17  Emilia D’Antuono, Parole perdute e ritrovate: maternità tra bioetica e cittadinanza, in «Medicina & Storia», 21-22, 2011, pp. 227-238; Ead., Habeas corpus, habeas animam. Questioni di inizio vita tra etica, bioetica, cittadinanza, in Questioni di inizio vita. Italia e Spagna: esperienze in dialogo, a cura di Lorenzo Chieffi e José Ramón Salcedo Hernández, Mimesis, Milano 2015, pp. 29-56. 18  Cfr. Massimo Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2012.

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Il principio materno, allora – come quello paterno –, non va usato come un modello rigido, ma come una metafora che, per la sua funzione simbolica e analogica, ha la capacità di mettere in circolo un sistema sapienziale che rompe le logiche di sfruttamento della dottrina egemonica maschile. Ina Praetorius propone l’espressione durch-ein-ander («attraverso un/a altro/a») per indicare la dimensione della reciprocità delle relazioni umane, l’intreccio delle libertà a protezione della dignità umana affinché si apra la strada di una Care revolution («rivoluzione della cura») che «guardi alla politica e all’economia non dalla prospettiva dei tassi di crescita, dell’assicurazione e massimizzazione dei profitti, ma da quella dei bisogni umani, ovvero, come punto fondamentale, dalla prospettiva del prendersi cura, dell’accudire e dell’essere accudito»19. In questa prospettiva, il paradigma materno non prospetterebbe la soluzione di una diarchia, che vede affiancarsi il potere materno a quello paterno, quanto proporrebbe piuttosto una bidiaconía come modello orizzontale di autorità, insieme femminile e maschile, che si mette al servizio dei bisogni della comunità. La bi-diaconía può rappresentare il paradigma sapienziale dell’essere Maestri nel significato più nobile di «colui/colei che indica la strada con autorevolezza». Questo modello consentirebbe alla donna e all’uomo di svolgere il ruolo di guida che accompagna e focalizzerebbe l’attenzione non tanto sul chi esercita l’autorità, quanto sul come svolge il «potere-servizio». 3. La madre Chiesa La struttura clericale della Chiesa ha legato al sacerdotemaschio tanto la funzione paterna (legata al simbolo della legge e dell’ordine) quanto quella materna (rappresentata

  Praetorius, L’economia è cura cit., p. 119.

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dall’accoglienza e dalla riconciliazione) relegando le donne (laiche e religiose) a ruoli privati di accudimento. Il mancato riconoscimento dell’autorevolezza femminile, allora, concentra nel solo maschio la possibilità di esercitare le funzioni genitoriali che attengono al legiferare e al decidere, impoverendo la comunità della forza dei soggetti femminili. Il principio della bi-diaconía consentirebbe di rivitalizzare una Chiesa di comunione-partecipazione che superi ogni sorta di casta sacerdotale per liberare il ministero dalle maglie ambigue del potere, riconoscendo l’uguale valore alla funzione paterna e materna e consentendo ad ogni membro di poterne esercitare. Anche la donna può (e deve) rappresentare il simbolo della legge; per questo è essenziale che la sua parola autorevole sia presente nei vari ambiti della vita cristiana: liturgica, morale, pastorale e dottrinale. In breve, si tratta di una nuova riforma della Chiesa, real­ mente Madre (Mater Ecclesia) che conduca a una vita di fede accogliendo e facendo crescere la parola di Dio, rifugio e nutrimento per i suoi figli; una Chiesa dove le donne non siano più legate all’obbedienza di un uomo: al confessore che giudica, al superiore che dirige, al prete che predica, al vescovo che comanda, al teologo che insegna, ai cardinali e al papa che decidono. Si tratta di costruire una comunità di credenti che riconosca la presenza e il peso delle donne nei luoghi di responsabilità: al governo, dunque, della Chiesa. Se, inoltre, la comunità di fede trova la propria identità intorno all’eucarestia, al cibo donato e condiviso, questo comporta che il potere deve essere gestito al proprio interno come autorità propositiva e nutritiva che non mortifica le singolarità, ma le alimenta mettendo in relazione dialogica i componenti della mensa che a quel pane attingono20. Cos’è l’eucarestia se non la metafora materna del corpo e del sangue donato perché ci sia vita? 20  Cfr. Stella Morra, Questioni di potere. Meditazioni bibliche da Mosè all’Agnello, Effatà, Cantalupa 2007.

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Tale impegno di ridisegnare la vita ecclesiale coincide con la libertà e la responsabilità delle donne e trova la sua legittimazione non nel principio maschile del Dio padre potente, ma nella kenosis (annullamento) del patriarcato messo in atto da Gesù crocefisso. Riconoscere i ministeri autorevoli delle donne avrà allora come esito un modello inclusivo di Chiesa, più misericordiosa e accogliente delle diversità, segno di salvezza, allorché realizza già al suo interno rapporti umani non più fondati su un sistema di dominio e di discriminazione, ma sulla partecipazione e sulla corresponsabilità legate alla vocazione cristiana21. Così i credenti possono crescere nella gioia dei redenti in quanto figli del Dio padre-materno, del Dio misericordioso che tutti accoglie e nutre. 21   Questo tema è stato già affrontato in Adriana Valerio, Mater ecclesia, Stampa Alternativa, Roma 1997.

VIII POTERE E DEMOCRAZIA NELLA CHIESA Tutte le grandi religioni – ebraica, cristiana, islamica, buddista, induista ecc. – sono nate in contesti pre-moderni, in società, cioè, a struttura gerarchica e in culture androcentriche e patriarcali. In esse l’immagine della donna, per questo, ha risentito necessariamente di un processo di marginalizzazione che l’ha resa insignificante e spesso invisibile agli occhi del potere sacro. Il problema che si affaccia oggi, soprattutto nei contesti dei paesi occidentali a democrazia avanzata, è come conciliare la religione con l’avvenuto cambiamento del paradigma antropologico che richiama la pari dignità della donna e dell’uomo e che afferma i loro diritti come inalienabili. Quale Chiesa dobbiamo immaginare affinché, liberata dalle dinamiche di dominio, favorisca la vita comunitaria dei suoi membri e la piena partecipazione delle donne? 1. Quale Chiesa? Ecclesia semper reformanda est («la Chiesa è sempre da sottoporre a riforma») è l’adagio che attraversa la storia del cristianesimo e nasce dalla consapevolezza che la Chiesa ha sempre bisogno di una continua revisione del suo operato e deve vivere in un perenne movimento di conversione. Potremmo dire, alla luce delle nostre riflessioni e riprendendo

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le preoccupazioni che lo stesso papa Francesco ha espresso per il rinnovamento della vita ecclesiale, che la Chiesa deve operare una riforma che la liberi dalle «logiche di dominio escludenti» e che la renda capace, al contrario, di sperimentare modalità nuove di autorità feconda, creativa e condivisa. Per attuare questo cambiamento epocale occorre, in primo luogo, essere consapevoli che la forma istituzionale che ha assunto la Chiesa cattolica è il frutto di un lungo processo di assimilazione e di adattamento con le categorie politiche e androcentriche delle culture che l’hanno attraversata: dalla ebraica alla greca, dalla latina a quelle dei popoli barbari, da quella delle corti rinascimentali a quella degli stati assolutisti1. Il problema è che quella soluzione di carattere storico, che la Chiesa cattolica ha dato al proprio assetto istituzionale configurandola come gerarchica e monarchica, è stata considerata l’unica possibile divenendo un modello stabile, creduto immutabile, permanente e perfetto. In secondo luogo, è opportuno fare un’opera di demistificazione, smascherando l’inganno dell’ordine sacerdotale che definisce il proprio potere «come servizio» e, allo stesso tempo, esclude le donne che rimangono «a servizio» con molteplici funzioni di accudimento ma senza alcun riconoscimento di autorevolezza. Se quello clericale è cosa negativa in quanto potere, lo è anche per gli uomini, soprattutto se si configura come una casta separata dal resto del popolo di Dio. Se invece essere ministro significa entrare a far parte del gruppo di coloro che hanno responsabilità di servizio ordinato alla comunità dei fedeli, non si comprende perché le donne debbano essere escluse. Mutato il paradigma antropologico, che non considera più il genere femminile come inferiore all’uomo in dignità

1  Cfr. Alexandre Faivre, Naissance d’une hiérarchie, Beauchesne, Paris 1977. La comunità cristiana si è declinata diversamente nella storia e non tutti i modelli hanno uguale valore, essendo analogici e, pertanto, inadeguati e perfettibili: cfr. Avery Dulles, Modelli di Chiesa, Messaggero, Padova 2004, ed. or. 1974.

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e possibilità, quel modello di Chiesa non è più credibile né accettabile. Dalle considerazioni fatte, due sono le conseguenze che devono guidare la nostra proposta di lettura: la donna non può essere esclusa dal potere perché non esistono impedimenti naturali che glielo impediscono; l’uomo e la donna devono trovare forme di governo nuove e libere dalle dinamiche di dominio e di prevaricazione. Gli studi più recenti hanno posto in luce come Gesù non abbia voluto fondare una definita e articolata struttura religiosa gerarchica e maschile così come si è costituita nel tempo: la sua attenzione era esclusivamente rivolta a un profondo rinnovamento di vita, in vista dell’imminente Regno di Dio, e a un radicale cambiamento delle forme dell’autorità e del potere. Al di là degli scopi e degli esiti della sua predicazione, Gesù è comunque il fondamento delle Chiese e per questo diviene oggi indispensabile riformulare le domande sul rapporto tra il suo stile di vita radicale e alternativo e la costruzione della religione cristiana, chiedendoci se l’odierna consapevolezza della dignità delle donne non sia una spinta profetica per superare le sedimentazioni storiche e per recuperare, attraverso quell’annuncio del Regno che trasforma la vita, una modalità diversa di organizzazione ecclesiale, fondata più sulla categoria del dono e della misericordia che su quella del sacrificio e del giudizio2. Riflettere sui ruoli ministeriali nella Chiesa cattolica significa progettare la comunità con compiti più articolati al suo interno tanto da ripensare i tradizionali modelli ecclesiologici secondo i principi di comunione e di corresponsabilità apostolica. Bisognerebbe allora considerare i ministeri nelle loro molteplici possibilità, recuperando non solo quegli spazi e quei

2  Cfr. Ursicin G.G. Derungs, Maria Cristina Bartolomei, Sacerdozio-sacrificio: aporie e conseguenze di un circolo ermeneutico, in Anatemi di ieri sfide di oggi. Contrappunti di genere nella rilettura del Concilio di Trento, a cura di Antonio Autiero e Marinella Perroni, Dehoniane, Bologna 2011, pp. 129-148.

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ruoli che le donne ebbero nelle comunità primitive, ma anche creando nuovi ministeri nel quadro di una pastorale rinnovata: non in supplenza di una eventuale deficienza di personale maschile, ma come servizio necessario alla comunità. In tal senso, relativamente al dibattito di questi giorni sulla reintroduzione del diaconato femminile, se è opportuna una riflessione sulla sua presenza nel cristianesimo delle origini, non è altrettanto conveniente fermarsi all’esperienza del passato perché la Chiesa ha la necessità di rispondere alle esigenze del presente e di aprirsi al futuro. Lo aveva ben compreso nel Concilio Vaticano II allorché ripensò se stessa alla luce dei «segni dei tempi» e previde di ristabilire il diaconato permanente con il suo ufficio di carità e di assistenza: [i diaconi], sostenuti dalla grazia sacramentale, nella «diaconia» della liturgia, della predicazione e della carità servono il popolo di Dio, in comunione col vescovo e con il suo presbiterio. È ufficio del diacono [...] amministrare solennemente il battesimo, conservare e distribuire l’eucaristia, assistere e benedire il matrimonio in nome della Chiesa, portare il viatico ai moribondi, leggere la sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali, presiedere al rito funebre e alla sepoltura. Essendo dedicati agli uffici di carità e di assistenza (Lumen Gentium, 29).

Un compito, tuttavia, di animazione pastorale e di custodia della fede, che il Concilio pensava per i soli uomini non ritenendo di poterlo affidare alle donne, a motivo dell’incertezza della loro presenza nei gradi della gerarchia già nelle comunità delle origini. Ma perché appellarsi al criterio della Chiesa primitiva solo per escludere le donne e non per mettere in discussione realtà ministeriali e istituzionali notoriamente frutto di evoluzione storica come la sacerdotalizzazione dei ministeri, il potere temporale, l’istituzione del collegio cardinalizio, la disciplina sacramentale ecc.? Oggi, a 50 anni dal Concilio molte cose sono cambiate. Oltretutto, il «modello inclusivo di partecipazione» e l’ethos

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di uguaglianza affermatisi nella società civile sollecitano la comunità cattolica anche per la presenza sempre più considerevole di donne ai vertici delle Chiese riformate: vescove nelle Chiese luterana, anglicana e veterocattolica; pastore e moderatrici a capo della Tavola valdese e delle Chiese battiste ecc. I ruoli ministeriali, dunque, aprono alla questione della gestione del governo della Chiesa e della rappresentanza femminile in tutti gli organi di governo: a livello mondiale, diocesano e parrocchiale, nei concili e nei sinodi, relativamente a tutti gli ambiti che regolano la vita morale e pastorale. Riconoscere dignità e autorevolezza a qualsiasi persona, infatti, significa consentirle la partecipazione ai processi decisionali. Non accettare nella donna capacità di governo comporta relegarla nella non-visibilità, nella minorità di una condizione umana che richiede per esistere la presenza della mediazione maschile che controlla, approva, giudica e dirige. Accetterebbero mai gli uomini (maschi) di vedersi rappresentati da un concilio o da un sinodo di sole donne che prendono decisioni anche per loro? Per questi motivi occorre aprire un orizzonte di riforme in una Chiesa che voglia rinnovarsi e affrontare a fondo la questione della condivisione del governo. Le ostilità e le opposizioni tra i vescovi sono ancora oggi molto elevate. Le donne sono elogiate quando si mettono «a servizio degli altri», ma non sono ammesse al «servizio ministeriale». Parlare di sacerdozio è un tabù e l’allontanamento dall’insegnamento nelle facoltà teologiche per chi affronta questo tema è emblematico sia della poca libertà presente nelle accademie pontificie sia della preoccupata insicurezza del clero poco disposto a dialogare e, soprattutto, a condividere i ministeri. Papa Francesco ha affermato con forza che identificare «potestà sacramentale e potere» all’interno della Chiesa può diventare motivo di particolare conflitto e che il sacerdozio «non implica un’esaltazione che lo collochi in cima a tutto il

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resto»3. Parole che rimandano alla discussione sul processo di declericalizzazione della Chiesa, già avviato dal Vaticano II e, tuttavia, poco realizzato. Solo un processo di superamento dell’egemonia clericale potrebbe offrire spazi per una diversa presenza femminile nella realtà ecclesiale che studi criteri e modalità nuovi affinché le donne si sentano non ospiti, ma pienamente partecipi dei vari ambiti della vita sociale ed ecclesiale. Ma il clero va formato ed educato. Se si libera la formazione da oppressioni sessuofobiche e legalistiche si possono aiutare gli aspiranti al presbiterato ad apprezzare l’alterità e la diversità della donna come valore da riconoscere e da accogliere. Come affermare quel genio femminile, di cui parlò Giovanni Paolo II4, senza valorizzare e far entrare nel circuito accademico e pastorale l’apporto che le donne hanno dato nella costruzione del cristianesimo relativamente alla storia della spiritualità e della pietà, al ruolo che hanno svolto nelle comunità religiose e al loro contributo nella riflessione teologica? Come riformulare i libri di testo che si usano nelle università teologiche? Come potenziare lo studio e l’insegnamento delle donne offrendo loro spazi significativi di ricerca e di docenza? In tal senso la proclamazione a dottori della Chiesa di Teresa d’Avila, Caterina da Siena (entrambe nel 1970), Teresa di Lisieux (nel 1997) e Ildegarda di Bingen (nel 2012) è senza dubbio un riconoscimento della loro autorità di dottrina che può aiutare ad apprezzare il contributo teologico femminile, così come l’istituzione della festa di Maria Maddalena (22 luglio), apostola degli apostoli, con il medesimo grado riservato agli apostoli (nel 2016). Il clero, dunque, dovrebbe essere maggiormente educato ad ascoltare le donne e quindi a creare per loro spazi per una presenza non decorativa e consultiva, ma parlante e de  Papa Francesco, esortazione apostolica Evangelii Gaudium, 104.   Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, 29 giugno 1995, nn. 9-12.

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cisionale. Non dovrebbe cimentarsi più nel definire cosa è la donna elaborando un’altra eventuale teologia della donna per esaltarne le virtù e relegarla in ruoli circoscritti, devoti e subordinati. Dovrebbe piuttosto riflettere su di sé e invitare gli altri uomini a meditare sulla propria mascolinità, sulla difficoltà di accettare l’alterità, sulle pulsioni alla violenza e sull’esercizio del potere che amano esercitare, sulle proprie difficoltà di condivisione: sulla possibilità, infine, di elaborare una teologia del maschile, come punto di vista parziale della propria esperienza di fede. Il clero, nell’ascolto delle donne, avrebbe forse più attenzione verso il mondo religioso femminile apprezzandone la presenza. Le religiose, spesso a capo di grandi opere, hanno un ruolo profetico da esprimere, un’attività pastorale da svolgere, un servizio di carità da testimoniare, una gestione patrimoniale da amministrare, un’esperienza mistica da salvaguardare. Dando loro visibilità e fiducia se ne riconoscerebbe il lavoro prezioso e insostituibile. Diversamente, abbiamo donne frustrate, usate come domestiche al servizio del clero e, per questo, mortificate e sottomesse. 2. Il paradigma inclusivo dell’autorità Nessun ministero è incompatibile con le donne (così come Dio non lo è con la femminilità). Non siamo salvati perché Cristo era di sesso maschile, ma perché ha preso su di sé l’umanità intera, che include ogni sesso. L’accesso delle donne al ministero presbiterale nasce dunque dalla necessità di dover rispondere sia a un’esigenza di giusto riconoscimento della sua dignità e delle sue capacità di amministrare in persona Christi (cosa che già può svolgere se deve battezzare e che esercita nel matrimonio), sia a una necessità di rimodulazione della comunità ecclesiale che superi ogni sorta di struttura gerarchica, patriarcale e discriminato-

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ria. Nell’economia ecclesiale non si tratta di rivendicare spazi, ma di fare comunione tra diversi, facendo circolare valori e talenti di cui ciascuno è portatore per l’altro. Assodato, dunque, che non ci sono motivazioni teologiche dell’esclusione delle donne dall’ordine sacro, ma solo di natura storica (sono state sempre escluse) e di opportunità pastorale (in alcuni contesti culturali non sarebbero accettate), bisogna ancora chiedersi se la loro presenza muterebbe il volto della Chiesa. Senza dubbio, la prospettiva femminile comporta nuove modalità di approccio tanto nella lettura dei testi sacri quanto nella dimensione spirituale a motivo delle differenziate caratteristiche legate alle esperienze corporee e quotidiane del maschile e del femminile. Ma come non è sufficiente essere donna per avere consapevolezza della propria dignità e diversità, così non è sufficiente essere donna prete per cambiare il volto della Chiesa. Le dinamiche di dominio toccano tutti: anche la donna prete, infatti, può essere funzionale al potere se non ha consapevolezza di essere motore di cambiamento. È sufficiente esercitare i ministeri e far parte a pieno titolo degli organi di governo per cambiare la Chiesa? Il fattore di rinnovamento è legato all’assunzione di responsabilità da parte delle donne e alla loro maggiore presenza numerica? Le donne possono certamente aiutare a costruire una Chiesa altra5. Non occorre demonizzare il potere, ma riconsegnare ad esso un significato positivo mettendo in evidenza la necessità di prendere decisioni, di riuscire a creare relazioni, di governare la vita di una comunità, di assumersi la responsabilità delle scelte, di avere competenze («io posso») e di poter aiutare. L’essere fedeli seguaci del Vangelo va verificato con l’aderenza allo stile e alle parole di Gesù di Nazareth, alieno da 5  Serena Noceti, Sex gender system: una prospettiva?, in Perroni, Legrand, Avendo qualcosa da dire cit., pp. 61-69.

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ogni forma di sopraffazione, ma ci indica anche che la forma della convivialità da realizzare è avanti a noi, in un continuo processo di adattamento e di «ascolto dei segni dei tempi», dinamica evoluzione e comprensione di quel messaggio di salvezza da inverare. E, rinnovandosi la Chiesa nella linea della comunione, cambierebbe anche l’immagine di Dio, non più Padre punitivo e Signore circondato da sudditi timorosi, ma Padrematerno compassionevole, Sapienza misericordiosa che tutti accoglie e che sollecita i figli e le figlie a creare occasioni di comunione e di solidarietà: di fraternità e sororità6. La misericordia, infatti, luogo di riconciliazione, può essere un efficace antidoto alle relazioni di potere e aiutare nella conciliazione tra annuncio del Vangelo, preso nella sua globalità, e quelli che oggi chiamiamo diritti femminili. Abbiamo visto come lo stile di vita evangelico si sia modulato su logiche di sovrabbondanza e di gratuità. L’etica dell’amore proposta nei Vangeli segue la regola dell’asimmetria del dono spingendosi al di là delle esigenze della giustizia e facendosi in tal modo motore di trasformazione e di promozione di diritti sempre nuovi. L’essere stati creati a immagine di Dio, l’annuncio della salvezza rivolto a tutti e l’appello alla responsabilità etica hanno spinto e orientato verso una ricerca dinamica delle modalità di attuazione concreta dei valori annunciati. Il sovvertimento delle gerarchie e dei poteri del mondo così come il superamento di caste e discriminazioni hanno innescato ineludibili processi di trasformazione nella storia della società occidentale, contribuendo all’affermarsi dei diritti umani e della democrazia. Per questo occorre ripensare i tradizionali modelli ecclesiologici secondo i principi di comunione e di corresponsabilità apostolica più adeguati alla nostra odierna sensibilità.

6  Cfr. Adriana Valerio, Misericordia. Nel cuore della riconciliazione, Gabrielli, Verona 2015.

IX DIO ONNIPOTENTE, DIO FRAGILE «Se così si può dire» è l’espressione che gli ebrei usano per indicare l’inadeguatezza del nostro parlare di Dio. Il linguaggio umano è, infatti, limitato, contingente, incapace di nominare il Trascendente e descriverlo nella sua pienezza1. Per questo motivo troviamo nel testo sacro una pluralità di connotazioni, a volte in contrasto tra di loro, che presentano il Signore, «se così si può dire», non solo come Dimora, Spirito, Sapienza, ma anche come Totalmente Altro e Vicinissimo, Uno e Molteplice, Parola e Silenzio, Presente e Nascosto, Padre e Madre, e così via. La ricerca di tutte le parole possibili non può condurre perciò a definizioni che circoscrivono e determinano né a formulazioni assolute. Anzi, la molteplicità dei volti di Dio in fondo è anche l’impossibilità di ridurre quei volti a un’unica possibilità di rappresentazione. L’esito finale dovrebbe essere il silenzio: il riconoscimento dell’inadeguatezza delle nostre parole data l’ineffabilità di Dio. Non dovremmo più parlare di Lui-Lei, ma dimorarvi, avvolti dalla sua presenza. Se, tuttavia, non vogliamo essere immersi nel solo ascolto e rimanere nel completo silenzio, come suggerisce la cosiddetta teologia apofatica, dobbiamo avvalerci delle nostre, se pure limitate, possibilità linguistiche e concettuali e, come la 1  Paolo De Benedetti, Se così si può dire... Variazioni sull’ebraismo vivente, Dehoniane, Bologna 2013.

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Bibbia, fare uso di metafore e analogie, di ossimori e paradossi per avvicinarci il più possibile a narrare il mistero divino. Questa modalità di approccio, pur riconoscendo che Dio è sempre altro rispetto alle nostre parole, può far luce su quelle immagini potenti che lo hanno descritto e che sono state considerate uniche (re degli eserciti, onnipotente ecc.) mentre, invece, erano speculari alle società androcentriche e patriarcali che le avevano espresse2. Dio, allora, ha bisogno di essere liberato dalle maglie troppo anguste e da un immaginario violento che lo ha ingabbiato: lo stesso testo sacro ci può aiutare a riflettere diversamente su questo potere divino declinato per troppo tempo con i caratteri del dominio maschile. In Genesi 1,27 si sottolinea come l’umanità sia stata creata a immagine di Dio; ricordarlo potrebbe consentire da una parte il recupero della piena dignità dei due sessi, non sottoposti a gerarchie di valore, dall’altra la possibilità di narrare il mistero di Dio senza alcuna preoccupazione utilizzando le categorie del maschile e del femminile. Come ci indica il Cantico dei Cantici, il reciproco amore tra una donna e un uomo esprime la metafora più indicata per parlare del Trascendente; per questo il Cantico è il libro più citato dalla mistica cristiana che in esso trova le parole poetiche che meglio rappresentano il divino, mistero di comunione dialogica nell’amore. 1. Un Dio maschio e potente Le due realtà, immagine di Dio e androcentrica struttura socio-politica, sono in stretta e intima correlazione. Lì dove la cultura ha ritenuto il maschile come l’unica e la più adeguata definizione dell’umano, si sono realizzate strutture civili e religiose (sinagoghe, chiese, moschee) secondo categorie maschili escludenti e discriminatorie, che poggiano su

  Emma Fattorini (a cura di), Dire Dio, Marietti, Genova 2005.

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una rappresentazione di Dio monarca unico e assoluto. Ciò non vuol dire credere ingenuamente che ci sia una corrispondenza deduttiva tra rappresentazione teologica e visione antropologica3, ma certamente ritenere che Dio dia il potere di governare al solo maschio perché meglio lo richiama4 ha comportato l’esclusione della donna da tutti gli ambiti del governo, la giustificazione della sua subordinazione e la svalutazione della sua corporeità, inadeguata a rappresentare il Trascendente. Il Dio unico e onnipotente, che esercita dominio su esseri umani che devono a Lui sottomissione e timore, è quindi il riflesso delle strutture patriarcali delle società antiche. Il monoteismo ha in sé dunque potenzialità di violenza implicita?5 Tante volte nel corso della storia il potere si è presentato nel «nome di Dio» imponendosi con forza sulle coscienze e legando a sé l’immagine di un Signore onnipotente e oppressivo che comanda, proibisce, rimprovera ed esige obbedienza6. Un Dio maschio, violento e collerico, vendicativo e castigatore, guerriero e monarca assoluto che divinizza il potere e spinge gli uomini a desiderare d’essere altrettanto potenti. Anche la signoria di Cristo, esplicitata nella festa di Cristo Re istituita nel 1925, è divenuta l’emblema dell’assoggettamento: della Chiesa al papato, del laicato al-

  Cfr. la teologia politica di Erik Peterson, Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia 1983, ed. or. 1935. 4  «L’immagine di Dio è nel maschio, non nella donna, perché immagine di Dio unico», Decretum Gratiani, q. 5, causa 33, c. 17. Cfr. il cap. III di questo libro. 5  Su questo cfr. Commissione teologica internazionale, Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza, Roma 6 dicembre 2013. Non sembra, diversamente da quanto afferma Bettini, che il politeismo, per quanto sia stato aperto e tollerante nell’accogliere le molte divinità, abbia espresso una società meno violenta e discriminatoria. Maurizio Bettini, L’elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare dalle religioni antiche, il Mulino, Bologna 2014. 6  Marcelo Barros, L’immagine di Dio e la questione del potere, in «Adista», 8, 2015. 3

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la gerarchia clericale, della donna all’uomo, della natura al soggetto umano ecc. Non a caso la teologa Elisabeth Schüssler Fiorenza parla di «struttura kyriarcale della società» per segnalare, con il neo­ logismo kyriarcale (da kyrios-signore e archein-dominare), le strutture molteplici del dominio globale che generano tutte le subordinazioni: economiche, sociali, politiche, razziali, sessuali e così via. Da qui la necessità da parte delle donne di liberare tutti, anche il creato, dalle politiche di sfruttamento da parte del soggetto umano7. Ma veramente il Dio biblico è un sovrano che legittima il potere dei potenti? La sacra Scrittura, in realtà, non contiene una visione teo­ logica unitaria né presenta un’immagine unica di Dio. La Prima Alleanza, ad esempio, è l’esito di una storia millenaria che riflette al suo interno una diversificata fede vissuta dalle tribù d’Israele e che solo nell’ultima fase di redazione (VI secolo a.C.) ha conosciuto un’evoluzione in senso monoteista8. Il formarsi e il consolidarsi delle tribù prima, la nascita della monarchia a protezione da minacce esterne poi e, infine, la costruzione dell’identità giudaica avvenuta al ritorno dalla deportazione babilonese hanno favorito l’affermarsi di un Dio capo degli eserciti e re supremo di una religione che ha assunto sempre più caratteri androcentrici e militari: il popolo sconfitto e disperso ha trovato conforto in un Dio unico, invocato come soccorritore e giudice. 7  Non è casuale che esista una vera funzione trainante nella riflessione su questi temi da parte dell’eco-femminismo (o meglio degli eco-femminismi). Si veda, ad esempio, il lavoro di Rosemary Radford Reuther, Ecofeminism: symbolic and social connections of the oppression of women and the domination of nature, in «Feminist Theology», 3, 1995, pp. 35-50. Cfr. inoltre Stella Morra, L’identità sessuata: volto, genere e differenza, in L’identità e i suoi luoghi. L’esperienza cristiana nel farsi dell’umano, atti del XX Congresso nazionale dell’Associazione teologica italiana, Oristano, 10-14 settembre 2007, Glossa, Milano 2008, pp. 99-124. 8  Cfr. Erhard S. Gestenberger, Teologie nell’Antico Testamento, Paideia, Brescia 2005, ed. or. 2001. Su questo tema cfr. Adriana Valerio, Le ribelli di Dio. Donne e Bibbia tra mito e storia, Feltrinelli, Milano 2014, pp. 101 sgg.

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Ma proprio perché le immagini di Dio sono frutto di esperienze differenziate e rispecchiano le condizioni sociali e storiche nelle quali i libri biblici sono stati elaborati, troviamo altre rappresentazioni che ampliano lo spettro della sua identità. Certamente Dio è presentato perlopiù come soggetto del potere (dynamis) che domina il mondo; tuttavia la sua forza si manifesta in quattro momenti fondamentali della storia umana: nella nascita della vita (la Ruah-Spirito è la forza di Dio nella creazione), nella liberazione degli ebrei dalla schiavitù (Es 15,6-13), nella potenza salvifica presente in Gesù di Nazareth e nel giudizio finale, come nuova creazione e vittoria del bene sulle forze del male. Ma questa potenza di Dio è espressione di un potere di dominio maschile? Non può essere forse letta come forza liberante e salvifica che va oltre le delimitazioni sessuali? La Ruah-Spirito che ridona nuova vita non ha forse anche connotazioni femminili? Così come la Sapienza che governa il mondo non è forse lo specchio della forza di Dio (Sap 7,25ss.), della sua presenza nel cosmo che chiama l’umanità a raccolta (Pr 9)? Il femminile, nella rappresentazione simbolica di Dio, s’inserisce nel testo sacro attraverso immagini legate alle esperienze della cura materna («Come una madre consola un figlio, così vi consolerò», Is 66,13) oppure alla certezza della sua presenza compassionevole a fianco delle persone sofferenti, pronto a ribaltarne i destini e a liberarle dalla loro oppressione (cfr. i libri sapienziali e profetici). Questo Dio che sa capire e amare non è il Dio dei potenti che genera paura e suscita sentimenti d’indegnità, ma il Padre-Materno che accoglie il dolore dell’umanità e ne ascolta i gemiti. Il Dio biblico è un Dio che si schiera: non abbandona il povero e l’oppresso, ma lo soccorre attraverso le gesta di altre persone, spesso le più fragili: sceglie una sterile, Sara, per farne la madre di un popolo; una schiava, Agar, per farne la

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capostipite di una grande nazione; un uomo limitato nella parola, Mosè, per eleggerlo liberatore dalla schiavitù; una donna, Debora, per trasformarla in capo militare; due pastori, Saul e Davide, per farne dei re; una vedova, Giuditta, per salvare gli ebrei dallo sterminio; una straniera, Rut, dalla quale discenderà Davide e, dunque, il Messia; un’umile ragazza, Maria, per far nascere il Messia. E questi sono solo alcuni degli esempi. Dio ascolta le grida di dolore delle vittime e dona loro speranza: nel conflitto tra il bene e il male, tra la vittima e il tiranno, deve trionfare inevitabilmente il bene. «Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei popoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 9,11). Nella storia di Giuditta abbiamo visto come Dio salvi non avvalendosi della potenza delle armi, ma attraverso lo strumento debole rappresentato da una vedova, la cui forza nel combattere il tiranno sta nel sapersi assumere le proprie responsabilità davanti al pericolo imminente, confidando nel trionfo della libertà e della giustizia. In quella di Ester abbiamo osservato come il Trascendente sia presente nelle scelte intraprese per la liberazione degli oppressi dai giochi del potere. In un ambiente profano, immerso negli intrighi del palazzo, Dio si è nascosto e ha lasciato a Ester la responsabilità etica delle sue azioni e la possibilità di ribaltare le sorti avverse a favore del suo popolo votato allo sterminio. Un Dio, dunque, che prende le parti di quelli che nella società sono emarginati e hanno poco peso, che confonde i potenti per riconsegnare dignità a coloro che, come le donne, gli ultimi e i sottomessi, sono vittime di un mondo poggiato sulla violenza e sul sopruso. È a questo padre misericordioso che l’ebreo Gesù si appella (Lc 15) per riconsegnare l’immagine di un Dio che non vuole sottomissione, ma amore, che annuncia e promette ­felicità e speranza9. Il Dio di Gesù è la Sapienza preesi­stente

  Cfr. la teologia di Castillo, Vittime del peccato cit.

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alla creazione (Gv 1,1-3) e che invita a banchetto (Lc 14,12ss. = Pr 9,1-5), è la gallina chioccia che protegge (Mt 23,37 = Es 19,4). A conferma di questa fede in un Dio compassionevole e vicino, nell’elaborazione teologica della tradizione cristiana la potenza di Dio si manifesta nella sofferenza della croce e nella scelta degli oppressi: i forti in Cristo sono al servizio dei loro fratelli deboli (Rm 15,1). In Gesù, Dio rinuncia al suo potere per «assumere una condizione di servo» (Fil 2,7) e la signoria di Cristo si afferma nell’umiltà della croce che ribalta ogni immagine potente di Dio. E la croce non è simbolo – come purtroppo talvolta è stata nei secoli passati – di oppressione e di persecuzione; piuttosto, è segno di dono e di amore per l’umanità contro tutte le forme di dominazione. La forza, la potenza e la combattività del Dio maschio guerriero poco si addicono al Figlio, Gesù Cristo, uomo non violento, morto sulla croce, cibo che, attraverso la mensa eucaristica, nutre la comunità, luogo emblematico di accoglienza e di superamento di ogni ingiusta disuguaglianza; profeta e messia che rifiuta il potere («E non chiamate nessuno padre sulla terra», Mt 23,9) in nome della solidarietà del servizio e della reciprocità dell’amore: «Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Per questi motivi di carattere teologico, nella traduzio­ ne della Lettera ai Romani, la biblista Claudia Janssen10 ha reso Gesù Kyrios non con il titolo della sovranità, «Gesù Signore», ma con l’espressione «Gesù al quale apparteniamo», per evidenziare una cristologia di relazione al di fuori del potere autoritario. Cristo, «il primogenito tra molti fratelli e sorelle» (Rm 8,29), rappresenta, infatti, la speranza

10  Cfr. Claudia Janssen, Christus und seine Geschwister (Röm 8,12-17.29ss), in Christus und seine Geschwister. Christologie im Umfeld der Bibelin gerechter Sprache, a cura di Marlene Crüseman e Carsten Jochum-Bortfeld, Gütersloher, Gütersloh 2009, pp. 64-80.

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di un popolo di persone che si percepiscono come fratelli e sorelle. 2. Un Dio fragile e presente La mistica femminile, della quale abbiamo copiose testimonianze scritte, coglie di Gesù gli aspetti che potremmo chiamare di fragilità. Infatti l’attenzione delle donne si concentra sui due temi del lutto (Morte e Passione) e della vita (Natività): ovvero della morte che chiede un compartecipe dolore per l’assenza dell’Amato, e della nascita che richiede, a motivo della sua condizione fragile, una tenera presenza di cura. Le mistiche medievali, ad esempio, rivivono i momenti della nascita con un affetto materno che non riscontriamo chiaramente con la stessa intensità negli scritti degli uomini di chiesa. Esse hanno avuto esperienza del Trascendente partendo dalle specificità della propria corporeità e, utilizzando i codici simbolici del femminile, hanno fatto sì che nella rappresentazione di Dio rientrasse il dono, la recettività, l’accoglienza, la vicinanza, la tenerezza, la compartecipazione, il dolore, la debolezza. Dio, nel loro vissuto di fede, si fa grembo, cibo, cura. Con la riflessione delle donne la maternità non è più un elemento devozionale utile a mitigare la mascolinità di Dio, ma diviene un dato teologico, costitutivo della sua stessa essenza. Per Hadewijch di Anversa (1210-1260 ca.), la scrittrice beghina dei canti dell’amore (Minnesänger), Dio è la Signora Amore (die Frau Minne), amore assoluto, amore-desiderio, amore primordiale. Per Giuliana da Norwich (1342-1420) la maternità di Dio, che viene espressa nella sua opera Il Libro delle Rivelazioni, rappresenta la pienezza di Dio nel creare, redimere e chiamare il mondo alla libertà. Nella Trinità è Gesù Cristo a rivestire la funzione materna: è lui la nostra vera Madre. Proprio perché l’amore della madre è totale e non ammette

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sconfitte, «Gesù Madre» non permette che periamo: «La nostra Madre celeste, Gesù, non può mai permettere che i suoi figli periscano, perché egli è onnipotente, tutta sapienza e amore»11. In questo caso il potere di Dio (Cristo) Madre è nella protezione dell’amore che nutre e salva, che allevia sofferenze e che annuncia felicità12. La mistica femminile, attraverso l’esperienza corporea, mette in campo gli aspetti più profondi dell’essere donna anche nelle modalità di narrare Dio-Trinità. Per questo il Figlio non è vissuto come Re Giudice, ma come Madre di redenzione (Giuliana da Norwich), bambino da accudire (Chiara d’Assisi e la tradizione francescana femminile), figlio da consolare (Maria d’Oignies), sposo da amare (Teresa d’Avila), latte da succhiare (Domenica Narducci). Lo Spirito non è inteso come il garante delle istituzioni, ma come l’Amore che può suscitare in tutti, uomini e donne, ruoli missionari e profetici (Ildegarda di Bingen); come libertà concessa alle donne di vivere affrancate da rapporti di dominio, superando gli impedimenti della legge che le volevano sottomesse e la censoria mediazione ecclesiastica che le riduceva al silenzio (Margherita Porete); come coscienza critica che dirige la Chiesa per liberarla dalle trame del potere (Caterina da Siena, Brigida di Svezia). Dio Padre non è percepito più come lontano, ma nella parte più profonda di noi stessi (Teresa d’Avila), nella piccolezza del quotidiano (Teresa di Lisieux), nell’estremo abbandono dei derelitti (Teresa di Calcutta), nella croce sperimentata fino in fondo (la scientia crucis di Edith Stein). 11  Giuliana da Norwich, Libro delle Rivelazioni, Àncora, Milano 2003, cap. 61. Cfr. Kari Elisabeth Børresen, Metafore femminili dalla Scrittura alle Rivelazioni di Julian da Norwich, in Donne e Bibbia nel Medioevo (secoli XII-XV) tra ricezione e interpretazione, a cura di Kari Elisabeth Børresen e Adriana Valerio, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2011, pp. 172-183. 12  Caroline W. Bynum, Jesus as Mother. Studies in the Spirituality of the High Middle Ages, University of California Press, Berkeley 1982.

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Le rappresentazioni del Dio Trinità ci indicano come, nella tradizione cristiana, l’unità di Dio sia aperta e conviviale e come il potere che esse esprimono si possa declinare fuori dalle logiche del dominio mortificante: come «forza che muove e alimenta la vita»13. Il Dio Trinità (Padre-Materno – Il Verbo – la RuahSapienza) è relazionalità circolare e non piramidale, senza potere all’interno, dove ogni persona non vive senza l’altra: modello simbolico dell’essere, come relazione di comunione. Ma qual è allora il nome più appropriato di Dio, se non vogliamo caratterizzarlo con le immagini oppressive del potere o con uno specifico genere, sia esso maschile o femminile? Nel testo sacro, alla domanda di Mosè che vorrebbe conoscere il nome di colui che lo chiama a liberare il suo popolo, Dio non risponde con un appellativo che ne circoscriverebbe l’identità chiusa, ma con un’espressione che indica molto di più di una definizione: «Io Sono», da cui l’uso tetragrammato di YHWH, che indica appunto il suo esserci. Se non vogliamo ricadere nelle trappole della lingua segnata dal genere, traducendo «sono colui oppure colei che è», potremmo meglio dire: «Sono la vita che è». «Io sono» indica, infatti, la presenza nella profondità di noi stessi, la compagnia nel cammino della vita, l’esserci accanto nei momenti difficili e gioiosi dell’esistenza. Questo nome-non nome richiama sia l’immagine presente nella Prima Alleanza della Shekhinah, la dimora di Dio nel suo popolo (Nm 24,5), la sua presenza «in mezzo a noi», sia il nome profetico che l’evangelista Matteo attribuisce a Gesù, l’Emmanuele, il cui significato è proprio «Dio è con noi» (Is 7,14 = Is 8,8-10 = Mt 1,23). Questa presenza, che muove e alimenta la vita, via d’amore che redime, è forse l’unico modo per liberare Dio dalle maglie del potere che schiaccia, perché, in fondo, la sua è una 13  Elizabeth A. Johnson, Colei che è. Il mistero di Dio nel discorso teologico femminista, Queriniana, Brescia 1999, p. 521, ed. or. 1992.

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presenza nascosta che chiama la responsabilità di credenti a farsi compagnia nel cammino dell’umanità. Lo aveva ben compreso Etty Hillesum, ebrea olandese vissuta durante l’occupazione nazista e che decide, pur potendosi salvare, di andare in campo di concentramento per essere solidale con il suo popolo e condividerne le sorti fino alle estreme conseguenze. Etty si è fatta carico del dolore della sua gente per essere testimone, anche nel luogo più atroce di disperazione, che la vita è bella e nessuno ce ne può sottrarre il senso; che è possibile, attraverso un’estrema compartecipazione al dolore umano, rendere presente Dio nella nostra vita. Etty si era resa conto che in fondo Dio poteva fare ben poca cosa in quella tragedia umana che fu l’olocausto. Ha compreso che il suo compito era liberare Dio «e contribuire a disseppellirlo dai cuori devastati di altri uomini» e, davanti alla sua fragilità, prese un impegno: Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: [...] Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me [...] è evidente per me che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te e, in questo modo, aiutiamo noi stessi14.

L’essere qui («Io sono»), in questa compartecipazione, insieme con gli altri, del dolore e del bisogno dell’altro, è la possibilità con la quale noi possiamo amare gli altri senza l’arroganza del potere e aiutare Dio salvandolo dalla sua onnipotenza. 14   Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1985, p. 169, ed. or. 1981.

SIGLE E ABBREVIAZIONI Ap Apocalisse At Atti Col Lettera ai Colossesi 1Cor Prima Lettera ai Corinti 2Cor Seconda Lettera ai Corinti Ct Cantico dei Cantici Dn Daniele Dt Deuteronomio Ef Lettera agli Efesini Es Esodo Est Ester Fil Lettera ai Filippesi Fm Lettera a Filemone Gal Lettera ai Galati Gdc Giudici Gdt Giuditta Gen Genesi Gl Gioele Gv Giovanni Is Isaia Lc Luca Mc Marco Mt Matteo Nm Numeri Pr Proverbi 1Re Primo Libro dei Re 2Re Secondo Libro dei Re Rm Lettera ai Romani Rt Rut

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Sal Salmi 2Sam Secondo Libro di Samuele Sap Sapienza Sir Siracide 1Tm Prima Lettera a Timoteo 2Tm Seconda Lettera a Timoteo 1Ts Prima Lettera ai Tessalonicesi Tt Lettera a Tito can. canone par. paralleli

Sigle e abbreviazioni

INDICI

INDICE DEI NOMI Abelardo, Pietro, 63 e n. Abramo, patriarca, 14, 15 e n. Adamo, personaggio biblico, 13, 20, 38, 42. Adamo di Brema, 56 e n. Addams, Jane, 97. Agar, matriarca, 15, 129. Agnese, badessa, 75. Agostino di Ippona, santo, 48n, 105. Alberione, Giacomo, 64. Alciato, Andrea, 53. Alessandro Magno, 5n. Alfonso VIII, re di Castiglia, 74. Aman, visir, 5, 7-10, 12. Ambrosiaster, o pseudo-Ambrogio, 41 e n, 42. Amnon, figlio di re Davide, 19. Anna, madre del profeta Samuele, 103. Antioco IV Epifane, 7n. Apfia, benefattrice, 31. Aquila, discepolo di san Paolo, 31. Arcari, Luca, 89n. Aristofane, 87. Aristotele, 43. Arnaud-Gillet, Claude, 57n. Assalonne, figlio di re Davide, 19. Assuero, re di Persia, 4-11. Astell, Mary, 93 e n. Autiero, Antonio, 117n. Bacone, Francesco, 88. Baker, Derek, 63n. Balch, Emily Greene, 98n. Barbaglio, Giuseppe, 28n, 32n, 37n. Barbiero, Gianni, 21n. Barros, Marcelo, 127n. Bartolomei, Maria Cristina, 117n.

Bartolomei Romagnoli, Alessandra, 58n, 81n, 105n. Battaglia, Luisella, viiin. Baumfree, Isabella, vedi Sojourner, Truth. Beatrice di Canossa, 78. Bellarmino, Roberto, santo, 54. Benedetto XV, papa, 82. Berinzaga, Isabella, 58 e n. Berti Franceschi, Susanna, 82n. Bertoni, Gaspare, santo, 64. Bettini, Maurizio, 127n. Biguzzi, Giancarlo, 32n. Billi, Mirella, 88n. Bimbi, Franca, 109n. Biondini, Arcangela, 58, 59 e n. Boccaccio, Giovanni, 53, 92. Boccherini, Maria Virginia, 59 e n. Bordoni, Maria, 65n. Børresen, Kari Elisabeth, 42n, 49n, 76n, 133n. Bosco, Giovanni, santo, 64. Bottoni, Elena, 59n, 91n. Bourdieu, Pierre, 45n. Brigida di Svezia, santa, 76, 81, 133. Brucioli, Antonio, 53. Buttarelli, Annarosa, viiin, 101 e n. Bynum, Caroline, 133n. Calduch-Benages, Nuria, 21n. Campanella, Tommaso, 88. Cantù, Francesca, 77n. Carlo V, imperatore, 92. Casapullo, Rosa, 58n. Castillo, José Maria, 27n, 130n. Caterina da Siena, santa, 80, 120, 133. Caterina de’ Medici, 12n. Cavarero, Adriana, 108 e n.

­142 Ceresa, Ivana, 96, 97n. Cerniglia, Margherita, 58n. Chiara d’Assisi, santa, 63, 95-96, 107, 133. Chieffi, Lorenzo, 110n. Ciriello, Caterina, 99n. Cloe, collaboratrice di san Paolo, 31. Clotilde, regina dei Franchi, 78. Colle, Maria Antonia, 91. Colonna, Vittoria, 65. Comboni, Daniele, santo, 64. Coppens, John, 53n. Corsi, Dinora, 72n. Costantino, imperatore, 41, 78. Cottier, Jean-François, 59n. Craveri, Marcello, 82n. Cristina da Pizzano, 92. Cristina di Markyate, eremita, 62. Crostarosa, Maria Celeste, 60 e n. Crüseman, Marlene, 131n. D’Alario, Vittoria, 29n. Dalarun, Jacques, 107n. Dalila, personaggio biblico, 16n. d’Andrea, Lucrezia, 61. Daniele, profeta, 20. D’Antuono, Emilia, 110n. d’Arbrissel, Roberto, 75. Davide, re d’Israele, 16, 18-19, 130. Day, Dorothy, 99 e n. De Benedetti, Paolo, 125n. Debora, giudice e profetessa, 4. de Escobar, Marina, 57-58. del Bufalo, Gaspare, santo, 63. de’ Liguori, Alfonso Maria, santo, 60. De Luca, Giuseppe, 65 e n. de Mattias, Maria, santa, 63. De Michelis, Lidia, 88n. de’ Paoli, Vincenzo, santo, 63. Derungs, Ursicin G.G., 117n. Destro, Adriana, 25n. Di Blasi, Maria Luisa, 64n. Didimo il Cieco, 41 e n. Dina, figlia dei patriarchi Giacobbe e Lia, 19. di Vino, Andrea, 61. Drewermann, Eugen, 53n. Dulles, Avery, 116n. Dupos, René, 100n.

Indice dei nomi Eco, Umberto, 73n. Egai, eunuco di re Assuero, 7. Egan, Eileen, 99. Elena, regina e santa, 78. Elisabetta, madre di Giovanni Battista, 103. Eloisa, intellettuale e badessa del Paraclito, 63 e n. Enrico IV, imperatore, 78-79. Enrico V, imperatore, 78. Epifanio di Salamina, santo, 90n. Erasmo da Rotterdam, 53, 87. Ermine de Reims, 57. Esaù, patriarca, 15. Ester, regina, 4, 5 e n, 6 e n, 7, 9-11, 12 e n, 13, 130. Estévez Lopez, Elisa, 39n. Eusebio di Cesarea, 90n. Eva, personaggio biblico, 13, 20, 27, 38-40, 42, 91. Evodia, missionaria, 31. Faivre, Alexandre, 47 e n, 116n. Falcoia, Tommaso, 60. Fattorini, Emma, 126n. Febe, diacono, 31, 70. Febronia, badessa, 75. Federici, Eleonora, 93n. Felici, Pericle, 99. Ferreri, Vincenzo, santo, 50. Filemone, collaboratore di san Paolo, 29. Filoramo, Giovanni, 57n. Fischer, Irmtraud, 4 e n, 14n. Forcina, Marisa, 93n. Fossati, Roberta, 99n. Foucault, Michel, 83 e n. Francesca Romana, santa, 81. Franceschini, Gesualda, 59. Francesco I, papa, vii e n, 71n, 116, 119, 120n. Francesco d’Assisi, santo, 63, 95, 106 e n, 107. Francesco di Sales, santo, 63. Franco, Vittoria, 109n. Friedberg, Aemilius, 51n. Frugoni, Chiara, 107n. Gagliardi, Achille, 58 e n.

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Indice dei nomi Galasso, Giuseppe, 53n. Gebara, Ivonne, 101n. Gemmiti, Dante, 74n. Geoffry, abate di St. Albans, 62. Gestenberger, Erhard S., 128n. Gesù di Nazareth, ix, 23-29, 32-33, 35, 40, 48-50, 60, 66, 70, 76, 80, 9091, 95, 104, 106, 113, 117, 121-122, 127, 129-134. Gezabele, regina d’Israele, 89. Giacobbe, patriarca, 15, 19. Giacomelli, Antonietta, 82. Giacomo, apostolo, ix, 25. Giaele, personaggio biblico, 17n. Gioele, profeta, 80. Gioia, Mario, 58n. Giordano, Maria Laura, 12n. Giovanna, papessa, 88. Giovanna III, regina di Navarra, 12n. Giovanna Francesca di Chantal, santa, 63. Giovanni, apostolo, ix, 25. Giovanni, evangelista, 23, 26. Giovanni XXIII, papa, santo, 84, 99. Giovanni Crisostomo, santo, 72. Giovanni Paolo II, papa, santo, 120 e n. Giuda, patriarca, 15-16. Giuditta, personaggio biblico, 4, 1618, 130. Giulia, collaboratrice di san Paolo, 31. Giuliana da Norwich, santa, 132, 133 e n. Giunia, apostolo, 31. Gonzaga, Giulia, 65. Goss, Jean, 100. Grado Giovanni Merlo, 106n. Gramaglia, Pier Angelo, 33n. Grasso, Domenico, 50n. Graziano, giurista, 42. Green, Elisabeth E., 18n. Gregorio VII, papa, santo, 53, 79. Grigolini, Teresa, 64. Guardati, Tommaso, vedi Masuccio Salernitano. Guarnieri, Romana, 65 e n. Guerra Medici, Maria Teresa, 77n. Guglielma da Milano, mistica, 91. Guglielmo da Vercelli, santo, 75.

Hadewijch di Anversa, 132. Hillesum, Etty, 135 e n. Holdsworth, Christopher J., 62n. Hoover, Herbert, 98n. Hulda, profetessa, 80. Hurel, Daniel-Odon, 59n. Iannaccaro, Giuliana, 88n. Ildegarda di Bingen, santa, 73, 83, 103, 120, 133. Ingunda, regina visigota, 78. Irene, imperatrice d’Oriente, 79. Isabella II, regina di Spagna, 79. Isacco, patriarca, 15. Isidoro di Siviglia, santo, 42, 49, 52n. Ismaele, figlio di Abramo e Agar, 15. Janssen, Claudia, 131 e n. Jezabel, profetessa, 89. Jochum-Bortfeld, Carsten, 131n. Johnson, Elizabeth A., 134n. Labano, suocero di Giacobbe, 15. Labrousse, Suzette, 82. Lefèvre d’Étaples, Jacques, 65. Legrand, Hervé, 67n, 122n. Lia, matriarca, 15. Librandi, Rita, 60n. Lidia, collaboratrice di san Paolo, 31. Lot, patriarca, 19. Luca, evangelista, 23, 70, 80. Luisa di Marillac, santa, 63. Macy, Gary, 69 e n, 72. Maestro, Adriana, 101n. Mafrici, Mirella, 77n. Maier, Annaliese, 65n. Maier, Christl, 21n. Malcom III, re di Scozia, 78. Mannion, Gerard, 67n. Marco, evangelista, 23. Mardocheo, patrigno di Ester, 5-7, 9-11. Margherita di Navarra, regina, 65. Margherita di Scozia, regina, santa, 78. Maria, collaboratrice di san Paolo, 31. Maria, madre di Gesù, 44, 74-76, 105, 130.

­144 Maria di Campello (Valeria Pignetti), 82, 96n. Maria di Magdala o Maddalena, discepola e apostola, 25, 71n, 120. Maria d’Oignies, 133. Marina I, badessa del Goleto, 75. Martinengo, Marirì, 75n. Martino V, papa, 76. Massimilla, profetessa montanista, 90. Masuccio Salernitano (Tommaso Guar­ dati), 53. Matilde di Canossa, 78-79. Matteo, evangelista, 23, 134. Matthieu, Pierre, 12n. Mayr, Hildegard, 100. Mazzarello, Maria Domenica, santa, 64. Mazzucco, Clementina, 51n. Melisenda, regina di Gerusalemme, 79. Memucàn, principe persiano, 6. Merici, Angela, santa, 96. Merlo Tecla (Teresa), 39. Meyers, Carol, 3, 4n. Militello, Cettina, 32n, 51n, 72n. Minguzzi, Laura, 75n. Miotti, Mariangela, 12n. Miriam, profetessa, 4, 18, 80. Moderata Fonte (pseud. di Modesta Pozzo de’ Zorzi), 93. Mohrmann, Christine, 65n. Monica, santa, 105. Morra, Stella, 112n, 128n. Mosè, patriarca, 130, 134. Mostaccio, Silvia, 58n. Muraro, Luisa, 106 e n. Nabucodonosor, re babilonese, 16, 18. Narducci, Domenica, 81, 133. Naudet, Leopoldina, 63, 64 e n. Navarro Puerto, Mercedes, 4n, 14n, 25n, 89n. Nereo, 31. Nettario di Costantinopoli, vescovo, 72. Ninfa, collaboratrice di san Paolo, 31. Nussbaum, Martha, 101n. Nobel, Alfred, 98n.

Indice dei nomi Noceti, Serena, 122n. Norris, James, 100. Nürnberg, Rosemarie, 41n. O’Connor, Jerome Murphy, 32n. Økland, Jorunn, 38n. Olga di Kiev, santa, 78. Olimpas, collaboratrice di san Paolo, 31. Olimpia, santa, 72. Oloferne, condottiero assiro, 16-18. Onesimo, schiavo di Filemone, 29. Origene d’Alessandria, 41. Otranto, Giorgio, 72 e n. Pafnuzio di Tebe, santo, 52. Pagani, Ileana, 63n. Panigarola Arcangela (Margherita), 81. Paoli, Ugo, 58n. Paolo VI, papa, santo, 84, 100. Paolo di Tarso, santo, 28-35, 38, 39 e n, 40, 48, 69-70, 71n, 76, 80, 85. Pàtroba, collaboratrice di san Paolo, 31. Pelayo, Álvaro, 81. Percovich, Luciana, 103n. Perkins Gilman, Charlotte, 94. Perpetua, santa e martire, 83, 104. Perroni, Marinella, 25n, 30n, 67n, 70n, 89n, 117n, 122n. Perside, evangelizzatrice, 31. Pesce, Mauro, 25n. Peterson, Erik, 127n. Piatti, Pierantonio, 58n. Piazza, Maria Grazia, 83n. Pietro Lombardo, teologo, 50. Pignetti, Valeria, vedi Maria di Campello. Pio XI, papa, 82. Platone, 88. Plinio il Giovane, 71. Poggi, Claudia, 75n. Pole, Reginald, 65. Porete, Margherita, 133. Praetorius, Ina, 101n, 109n, 111 e n. Prassagora, 87. Prinzivalli, Emanuela, 42n. Priscilla, profetessa montanista, 31, 90. Prosperi, Adriano, 61n.

145

Indice dei nomi Providenti, Giovanna, 98n. Puente, Luis de la, 57. Racconigi, Caterina, mistica, 81. Rachele, matriarca, 15, 103. Radford Reuther, Rosemary, 128n. Ravasi, Gianfranco, 18n. Rebecca, matriarca, 15 e n, 103. Recalcati, Massimo, 110n. Rescio, Mara, 25n. Ricciardi, Tommaso, 61 e n. Rigato, Maria Luisa, 32n. Rius Gatell, Rosa, 93n. Rivaudeau, André de, 12n. Rodotà, Stefano, 101n. Roger, eremita, 62. Rokeya, Begum Hossain Sakhawat, 94. Romeo, Giovanni, 61n. Rousseau, Jean-Jacques, 88. Roveri della Mirandola, Lucia, profetessa, 91. Rufo, 31. Rut, matriarca, 4, 103, 130. Salcedo Hernández, José Ramón, 110n. Salerno, Elisa, 82 e n, 83n. Samaritana, personaggio biblico, 26. Samuele, profeta, 103. Sansone, personaggio biblico, 16n. Santini, Marina, 75n. Sara, matriarca, 14, 15n, 103, 129. Saul, re d’Israele, 130. Scaiola, Donatella, 7n. Schüssler Fiorenza, Elisabeth, 34n, 128. Scimmi, Moira, 70n. Scott, Sarah, 94. Segneri, Paolo, 54-55. Shiva, Vandana, 109 e n. Sichem, figlio di Camor l’Eveo, 19. Simonelli, Cristina, 25n, 70n, 109n. Sintiche, missionaria, 31. Siricio, papa, santo, 51 e n. Sisara, generale del re Iabin, 17n. Socrate di Costantinopoli, 52n. Stein, Edith (Teresa Benedetta della Croce), santa, 13, 133.

Sterni, Gaetana, santa, 60. Stickler, Alfons Maria, 53n. Strong, Maurice, 100. Suenens, Joseph, 99. Sulamita, personaggio del Cantico dei Cantici, 20-21. Susanna, personaggio biblico, 20. Swift, Jonathan, 88. Tabità, collaboratrice di san Paolo, 31. Taddei Ferretti, Cloe, 29n. Taigi, Anna Maria, 82. Tamar, figlia del re Davide, 19. Tamar, nuora del patriarca Giuda, 15-16, 103. Tavernini, Luciana, 75n. Tecla, beata (Teresa Merlo), 64. Teodolinda, regina dei Longobardi, 78. Teodora, imperatrice d’Oriente, 79. Teofilatti, Marozia, 79. Teofilatti, Teodora, 79. Teresa Benedetta della Croce, vedi Stein, Edith. Teresa d’Avila, santa, 58, 120, 133. Teresa di Calcutta, santa, 133. Teresa di Lisieux, santa, 120, 133. Tertulliano, 33n, 40. Terzi, Stefania, 83n. Timoteo, compagno di san Paolo, 35, 38, 70. Tito, discepolo di Paolo, 35. Tobin, Mary Luke, 84. Tock, Benoît-Michel, 59n. Tomassone, Letizia, 101n. Tommaso d’Aquino, santo, 43, 44 e n, 49 e n, 82. Tommaso Moro, santo, 88. Trifena, evangelizzatrice di san Paolo, 31. Trifosa, evangelizzatrice di san Paolo, 31. Truth, Sojourner (Isabella Baumfree), 12. Urbano II, papa, 79. Vaccari, Michela, 82n.

­146 Valdés, Juan de, 65. Valerio, Adriana, viin, 5n, 12n, 14n, 39n, 51n, 53n, 55n, 58n, 59n, 60n, 61n, 64n, 67n, 73n, 80n, 84n, 89n, 91n, 100n, 113n, 123n, 128n, 133n. Vasti, regina persiana, 5, 8, 12. Vescovi, Alessandro, 88n. Vittore III, papa, 79. von Balthasar, Hans Urs, 65.

Indice dei nomi von Speyr, Adrienne, 65. von Suttner, Bertha, 98 e n. Ward, Barbara, 99, 100 e n. Woolf, Virginia, 98n. Wright, Frances, 94n. Zambrano, Maria, 101. Zarri, Gabriella, 58n, 86 e n. Zebedeo, ix, 25.

INDICE DEL VOLUME Premessa I.

Ester, Giuditta e le altre: la metafora del potere

vii

3

1. Il potere come saggezza: Ester, p. 4 - 2. La forza della seduzione, p. 13 - 3. Giuditta e la fragilità del potere maschile, p. 16

II. «Tra voi però non sia così»: il potere infranto

23

1. Gesù di Nazareth: Dio capovolge le logiche di dominio, p. 23 - 2. Paolo di Tarso: «Non più servo, ma figlio» (Gal 4,7), p. 28

III. Escluse dal potere

37

1. Silenzio e sottomissione, p. 37 - 2. Il potere negato, p. 40 - 3. L’imperfezione antropologica e l’immagine riflessa, p. 41 - 4. L’allontanamento dal sacro, p. 43

IV. Potere d’Ordine e celibato ecclesiastico

47

1. Potere d’Ordine e di giurisdizione, p. 47 - 2. Donne e celibato ecclesiastico, p. 51 - 3. Direzione spirituale e confessione, p. 56 - 4. Al di là dei rapporti di potere, p. 62

V.

Donne di potere

67

1. Donne al governo, p. 68 - 2. Parlare in libertà. La «parrhesìa»: la parola come sfida al potere, p. 80 - 3. Il magistero femminile, p. 85

VI. Il potere rovesciato. Donne e utopie 1. La parodia del potere femminile, p. 87 - 2. Il potere capovolto: il Messia donna, p. 89 - 3. La città utopica, p. 92 - 4. Decostruire la macchina del potere, p. 94 - 5. Utopia e diritti, p. 97

87

­148

Indice del volume

VII. Mettere al mondo

103

1. La maternità come paradigma etico, p. 105 - 2. Principio materno come metafora di autorità relazionale, p. 110 - 3. La madre Chiesa, p. 111

VIII. Potere e democrazia nella Chiesa

115

1. Quale Chiesa?, p. 115 - 2. Il paradigma inclusivo dell’autorità, p. 121

IX. Dio onnipotente, Dio fragile

125

1. Un Dio maschio e potente, p. 126 - 2. Un Dio fragile e presente, p. 132

Sigle e abbreviazioni 137 Indice dei nomi 141