Il potere delle cose ordinarie. Sguardi antropologici
 8843094947, 9788843094943

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BIBLIOTECA DI TESTI E STUDI/

1231

ANTROPOLOGIA CULTURALE

A Stefano, Sara e Simona

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Adriana Destro

Il potere delle cose ordinarie Sguardi antropologici

Carocci editore

1' edizione, dicembre 2018 ©copyright 2018 by Carocci editore S.p.A., Roma Impaginazione e servizi editoriali: Pagina soc. coop Bari .•

Finito di stampare nel dicembre 2018 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Premessa

9

I.

Le parole sfidano. Ci investono e filano via

l.

Dove conducono le pause e i silenzi

47



In nome della natura

67



Le cose cui non è possibile prestar fede

91



Venire al mondo

1 15

6.

I figli. La favola vera delle donne

133



Abitare. Come viviamo le città

1 65

8.

La bellezza è un tesoro

191



La seduzione è un 'arte e un destino

7

13

209

Premessa

Quella contiguità di gretto e di sublime

è

l'ibrido

della vita, che rode il fegato ma anche scalda il cuore•.

Di tanto in tanto ci chiediamo se la vita possa consistere e esprimersi nelle cose ordinarie, nei piccoli intricati eventi apparentemente di poco conto. E ci rispondiamo che occuparci di cose minuscole e private è inevitabile e utile. È una sfida bella e buona cui siamo quotidianamente soggetti, che non ci disturba veramente. Noi tutti siamo impegnati in mille attività e imprese di cui abbiamo però una imperfetta cognizione. Le abbiamo messe in piedi o assecon­ date e vi abbiamo dedicato non pochi sforzi. Conversiamo e scambiamo messaggi, leggiamo libri e giornali, ammiriamo l'ambiente e i beni della natura, abbiamo figli e li cresciamo, abitiamo città, visitiamo parchi, mu­ sei, reclamiamo cose belle. Minuto per minuto, ci diamo da fare su vari fronti, dedicandoci a progetti poco vistosi, che però giudichiamo necessari e improcrastinabili. Abbiamo anche altri pensieri sulle cose minime della vita. Ci diciamo spesso che gran parte del nostro sfaccettato lavoro è proprio dedicato alle imprese che sembrano consuete, amorfe o un tantino fuori rotta perché così devono essere per strutturare la nostra giornata. Le attività usuali regolano dunque i nostri stili di vita. Rappresentano tentativi, approssimativi ma seri, di migliorare i nostri destini, di moltiplicare i nostri "talenti" e di avanzare di qualche passo nel mondo che ci circonda. Non ci fanno sempre vivere in grande. A volte ci spingono dentro pensieri difficili od ossessivi. Ci cacciano al centro di vicende contorte, che tortu­ rano. Questo è sufficiente per dire che, etnograficamente parlando, sono tutt'altro che trascurabili. Ciascuno in fondo, anche a livello strettamente personale, le considera le cose più certe della vita, memorabili e urgenti. Il fatto che l' indagine etnografica si interroghi dettagliatamente sulle manovre o le piccole avventure umane, che lasciano dietro di sé poco rumo-

1. C. Magris, Microcosmi, Garzanti, Milano 1997, p. 24 5 . 9

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

re ma possono avere effetti di grande portata, mostra bene il loro valore. Se a volte tale indagine le antepone ai drammi planetari, alle cose che hanno risonanza mondiale, che gelano o incantano tutti, è perché l'antropologo intende seguire le manifestazioni della vita reale. In un gran numero di indagini etnografiche classiche , il ricercatore è stato un personaggio non visibile, un non-protagonista. Ha lavorato in mezzo alla gente, ma non è stato presente come parte di ciò che viveva, dell'esperienza di campo. Operante nel concreto processo di rilevamento, non ha avuto una "parte da svolgere" esplicita e significativa, in senso stret­ to. Alla sua persona è mancata visibilità. La sua individualità è stata inglo­ bata in un 'analisi-narrazione che intenzionalmente lasciava il ricercatore nell'anonimato o lo ometteva. La mia narrazione (di soggetti, di biografie, di avventure individuali) è qui invece consapevolmente incentrata su un 'osservazione che non lascia in ombra l'autore di testimonianze e ambientazioni. Rilevando gli eventi, soprattutto quelli minimi, si è voluto dare spazio a modalità personali e scoperte. Si è prodotto un discorso pieno di tratti autobiografici, proprio per valorizzare i materiali schiettamente etnografici. Quasi mai sappiamo a che punto della nostra esistenza ci troviamo, quali cose vanno notate, quali circostanze dimenticate. L'antropologo sa spesso di non capire che cosa può aiutare a scoprire come gli individui vivono. Quindi sta sul campo di indagine - cioè sulla complessa vita quotidiana - con la massima attenzione e con una serie imponente di interrogativi più o meno minuziosi. Normalmente, parte da due convinzioni. In primo luogo, pensa che ogni lavoro etnografico convincente regali un po' di verità e di chiarezza a proposito degli obiettivi veri che osservatore e osservato si stanno dando. In secondo luogo, crede che il lavoro autobiografico che si intreccia con l'et­ nografia oggettivante miri a incentivare la riflessione complessiva. A tempo debito gli eventi, considerati laterali o inconcludenti e sbiadi­ ti, possono emergere violentemente e imporsi all 'osservatore con aria pun­ tigliosa, sotto forma di nostalgie, di voglia di riordinare o di capovolgere ogni racconto. La nascita di questo libro è legata a pensieri maturati nel corso di de­ cenni e rimasti sepolti nel privato. Ho creduto che valesse la pena parlarne, trasformare il particolare in universale, il non detto in narrazione, senza usare la lente dei "grandi fatti" (che di solito ci sono rammentati con i toni della esasperazione, della delusione o del rancore). Ho usato immagini, storie som­ messe e comprensibili pacificamente da chiunque. Fin dall 'inizio non mi sono sentita obbligata a rispettare alla lettera teorie IO

PREMESSA

antropologiche accreditate, temi a lapage. Sono partita da semplici interroga­ tivi. Nella routine quotidiana, cosa ci stimola e ci educa? Cosa ci fa fantasti­ care o ammutolire ? A che punto siamo rispetto al passato ? Sono consapevole che interrogarsi su qualche momento di gioia o di tristezza, su frasi spezzate o sprezzanti, su silenzi e visioni - che del resto sono al centro del lavoro di romanzieri e poeti, della antropologia narrativa - possa apparire un lavoro bizzarro. Sono convinta, però, che sia un esercizio urgente e necessario. La mia narrazione è partita da casi reali che conosco bene e che negli ultimi anni sono per me diventati sensibili, emblematici. È così che mi sono trovata fra le mani cose che mi seguivano da anni, da una vita, senza che io capissi che c 'erano, senza che mi rendessi conto che non erano andate totalmente perdute. Le ho afferrate un momento prima che fossero troppo sbiadite, irrecuperabili, e sparissero. Ho parlato di numerose situazioni del passato perché sono valide e forniscono squarci sulla realtà anche per l'oggi. A volte ci spiegano, più o meno chiaramente, a che punto siamo. Il libro è partito in modo un po' irrituale. Ho sentito il bisogno di rac­ contare le cose con un piccolo atto di spavalderia. Nel tardo e caldo au­ tunno di qualche anno fa ho "incrociato le dita" e ho provato a narrare liberamente vicende che non mi sembravano troppo lontane dagli interessi di moltissimi di noi. Mi sono diretta a lettori non specialisti, ho usato un linguaggio corrente, non tecnico. Ho impiegato frasi semiserie, ironiche, e qualche battuta per ri-costruire episodi non sempre ovvi. Mi sono concessa, talvolta, un tono didascalico un po' semplificante per segnalare meglio le cose che descrivevo. È il tono scherzoso, credo, che può assolvere peccati di ingenuità e semplici dimenticanze. Il libro vuoi essere un omaggio a coloro che ho incontrato e con cui ho dialogato, anche se molti di loro non si ricordano certo di me. Le identità degli individui osservati e descritti sono naturalmente rimaste anonime. I luoghi ove è depositata la mia memoria non sono sempre stati specificati, per pure ragioni di riservatezza. In concreto, ho messo allo scoperto brandelli di storie rappresentando le cose in un modo un po ' battagliero. Ho scelto campi di osservazione imparentati o contigui fra loro, senza cercare di amalgamarli. Ho riportato pochi particolari terribili o brucianti. Ho, invece, captato e divulgato even­ ti e comportamenti intramontabili, o in voga, che possono lasciar intendere bene cosa vola sopra o intorno a noi, cosa sono le onde lunghe della vita, cosa significa scavare dentro le comuni cose umane. Parigi, 16 agosto 2018 II

I

Le parole sfidano. Ci investono e filano via

Conosciamo più o meno bene una quantità di parole. Ne possediamo pa­ recchie ma non tantissime o un numero illimitato. Non le utilizziamo tutte in modo uniforme e omogeneo, anzi sovente le mettiamo insieme in forme disordinate o irregolari. Le parole sono a disposizione di tutti, proprio di tutti. Per una ragione o per un 'altra sono al centro dell 'esistenza. Alcune giungono nella nostra vita in modo soffice, vellutato ; altre ci arrivano con toni sbrigativi e poco amabili ; ci sfidano in modo aggressivo o pedante. Moltissime ci accompa­ gnano, bene o male, per tutta la nostra esistenza. Certi vocaboli sono in grado di ispirarci e sostenerci perché sono fre­ schi e zampillanti. Li incontriamo con piacere ovunque e in ogni tempo ; e ci possono dare anche sconfinata allegria. Parecchi altri ci deludono o ci annoiano perché antiquati, poco pertinenti, scialbi o logori. In genere, le parole sono necessarie ma maledettamente instabili. La vita delle parole è percorsa da sussulti e movimenti. Possono esaltare, scuo­ tere, conquistare. Non meno spesso possono smorzarsi, appassire, restare fuori campo, fra parentesi, o sabotare le nostre giornate. Non è raro che siano lasciate scivolare via, lasciate filare in angoli sconosciuti, all' insaputa di tutti (o con il concorso di tutti). Una volta pronunciate, alcune parole si impongono e non muoiono più : escono dal patrimonio di una persona e diventano bene comune di tut­ ti. Aumentano il loro peso relativo, e talvolta anche quello assoluto. Molte ( ad esempio, sensibilità, dovere, intelligenza, ragione , sopruso, cattiveria ecc.) sono sottoposte a strane evoluzioni : sono obbligatorie in certi mo­ menti facoltative in altri. Possono essere sul punto di diventare antiquate, senza senso, e quasi sempre non aggiornabili. Se per qualche ignoto motivo riguadagnano terreno, sembrano un po' scostate dalla realtà. Nessuno le apprezza più a sufficienza, né desidera concretamente risuscitarle. Ogni giorno, volenti o nolenti, ci facciamo invadere dalle parole, inco13

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

raggianti o ribollenti. Le "lavoriamo, in continuazione. Ci affezioniamo a qualche espressione, nuova o vecchia. Amiamo cioè con intensità parole a cui ci siamo affidati. Perdere qualcuna delle parole amate ci dispiace molto. Soffriamo un po' di nostalgia, se dimentichiamo quelle intense e sostan­ ziose e in fretta cerchiamo di porre rimedio a questa perdita di vocaboli con nuovi termini. Ne adottiamo alcuni piacevoli o almeno decenti, che ci facciano sentir meglio.

1 . 1. Si sa che ci sentiamo più solidi e vicini agli altri se riusciamo a cavarcela bene con le parole. Anche con quelle che non sono di gran valore o che non aprono splendidi orizzonti all 'esistenza. Se riusciamo a farci apprezzare per le parole che sappiamo usare, tutto di guadagnato. Osiamo ritenerci soddi­ sfatti e al riparo da rischi. Un fatto è assodato. Molte parole che udiamo o pronunciamo vengono fuori veloci, a grappolo o in ordine sparso. Ci danno filo da torcere. Non le sappiamo governare mai perfettamente. Ciò ci fa pensare che nessuno può considerarsi vero maestro (padrone o arbitro) delle parole che usa o che gli girano intorno. Scivoliamo tutti in un via vai di frasine, e dobbiamo venirne a capo. Le parole che più ci tormentano o ammaliano sono sovente quelle al­ trui. Ci rimbalzano addosso. Ce le sentiamo letteralmente cadere sulla te­ sta, sulle spalle e sulla schiena. Sembrano lanciate, un po' a tradimento, con mira perfetta e con la voglia di conquistarci o di abbatterci. Ci mettono in allerta o ci sbarrano la strada. Più di una volta ci dicono cosa siamo. Certe parole altrui, manco a dirlo, ci fanno sussultare più di altre, soprattutto se sono esattamente uguali a quelle che inventiamo noi. Di solito temiamo le parole che ci vengono rivolte ; le riteniamo sfide, armi influenti. Sospettiamo che possano essere molto ostili. Più sono dure, più possono portar cattivi presagi. Spesso ci sembrano immeritate, fuori luogo. Ma non possiamo evitarle e uscire dal timore e dall ' incertezza. Ci sentiamo proprio sotto una cascata di parole assurde, smodate, dalle quali è difficile ripararsi o di cui è inutile cercare il senso. Ci impressionano proprio per la loro vacuità, ma a volte per la loro innegabile saggezza (ci ricordano identità, relazioni, compiti).

1 . 2. Le parole dette o udite fanno entrare il nostro io nell' io di tutti gli altri. Danno una fisionomia a tante persone (dal parlante all'uditore occa-

14

I. LE PAROLE SFIDANO. CI INVESTONO E FILANO VIA

sionale, al destinatario finale del discorso ) . Ci fanno apprezzare tipi diversi di interlocutori. Osservando il modo in cui costoro sanno mettere insieme le parole, per come sanno distribuirle intorno a sé, valutiamo un collega, un politico, un compagno di tavola. Giungiamo anche ad adulare o invidiare questi personaggi se si mostrano abili nell ' impadronirsi a parole di noi. Li sopportiamo a malapena, invece, se non sono competenti e brillanti. Li odiamo se spudoratamente, a furia di chiacchiere, umiliano o ingannano qualcuno. In ogni caso, sentiamo che siamo tutti legati a un 'unica catena di parole dette, pensate o taciute che sono strumenti per misurare e misurarci, per avvinghiarci gli uni agli altri. Per trasformare le inezie e i nonnulla - di cui è piena la vita - in cose che condizionano noi stessi e gli altri e ci spin­ gono in veri drammi. Si pensa che certe parole gratifichino, socializzino, e che certe altre mettano in soggezione, in riga o paralizzino. In genere le parole, buone o cattive, fanno esattamente come fanno le onde. Sono aggressive o placide maree. Viaggiano in varie direzioni. Vanno e vengono incessantemente, e spesso nascono da pensieri nascosti, sentimenti che non sappiamo neppure di avere.

È certo che abbiamo una certa inconsapevole abitudine di tener pronte tante parole carezzevoli e tante parole pungenti e aspre. Le parole che stra­ ziano ( nate da odio, dolore, amore ) ci assalgono spesso, ma non le ripudia­ mo mai; le conserviamo a lungo o per sempre. Tutte le parole sono nostre compagne, inevitabili, in ogni nostra im­ presa. Le manovriamo, quasi a nostra insaputa, per renderle consone e vive. Se si appannano troviamo il sistema di riaccenderle perché ci servono per procedere, per duellare, per trovare il senso di noi. Il primato di osticità fra tutte le parole che usiamo appartiene a un mo­ nosillabo inelastico e spietato, "no" ! "No" è un piccolo vocabolo dalle molte sfumature, dai mille scuri bagliori. Può avere un effetto stordente se si riceve in momenti inattesi o ritenuti pacifici. Diventa micidiale se viene lanciato da chi non consideriamo intenzionato a darci un vero e definitivo altolà. Alcuni "no" sono solennemente vocalizzati. Altri sono soffiati a mezz'a­ ria. Un veloce e ben scandito "no" può interrompere la conversazione e diventare un colpo vincente per chi si è permesso di usarlo. Come qualsiasi altra parola, però, il "no" può incoraggiare anziché deprimere. A scorno di chi lo adora, è un meraviglioso pungolo in mano a un avversario o a un presunto perdente. A volte, tre o quattro "no" di seguito, ben piazzati, at1.3.

IS

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

tenuano l'asprezza del monosillabo ( anche se non sempre la modulazione riesce a far cogliere il suo vero senso ) . In conclusione, adoperiamo in continuazione e con competenza paro­ le sonore o sommesse, per sondare, informare, render conto, sfidare varie persone. Addirittura ripeti amo spesso le stesse parole secche, un po' mecca­ niche, per dar loro una "qualifica", una "fisionomia" ( bravo, audace, genia­ le, stupido, sospettoso, inarrivabile ecc. ) , intendendo dare sinteticamente un ' impronta a tipi distinti di persone ( che meriterebbero una migliore descrizione ) . E non stiamo a chiederci se le utilizziamo categoricamente perché siamo troppo pigri, un poco indignati, ultra-ossequienti o abbiamo un gran bisogno di sentire la nostra voce. È come dire che tutti usiamo volentieri e in modo disinvolto parole qualificanti. Le adoperiamo e le sentiamo adoperare. Le collezioniamo, e ne siamo entusiasti, perché richiedono una certa bravura1•

1.4. Con le nostre parole entriamo nel campo intellettuale e operativo dei nostri interlocutori. Li induciamo - a volte con una certa caparbietà - ad aprir bocca, approvare, confermare, smentire e ad agire. E questa mossa del "far agire" non è cosa da poco. Di fatto, in molti casi, sollecitiamo concre­ tamente a intraprendere azioni e strategie ( risposte carezzevoli, attacchi, fughe, incontri, compensazioni ) . Con le parole costruiamo lunghe tele e preziosi ricami, cercando co­ se disparatissime : difese, alleanze, certezze e sostegni negli altri. A nostra protezione, possiamo appoggiarci alle parole per innalzare barriere o peda­ ne di lancio per fiumi di frasi standard, di detti o espressioni "sapienziali", "proverbiali". Entriamo in tutto questo traffico di parole, spesso senza fatica o senza remore, più di quanto sarebbe utile. La cosa importante è che alcuni di­ scorsi nostri o altrui - un po' esagerati o esorbitanti - mostrano che siamo convinti che le parole valgano parecchio, che possano innalzarci fino al firmamento o ficcarci in un pantano insopportabile. È così che, giorno do­ po giorno, ci proponiamo di affidarci a "parole eccellenti", ben rodate, che siano chiare e influenti. Rafforziamo il nostro spazio di manovra, proprio usando quelle che fanno colpo, che ci stringono e ci tallonano.

1. Che non arriverà mai a un livello comparabile a quello di Françoise Héritier: si vedano, a tal proposito, Id., Le sel de la vie, Odile Jacob, Paris 2012, e Id., Le gout des mots, OdileJacob, Paris 2013.

I. LE PAROLE SFIDANO. CI INVESTONO E FILANO VIA

Di norma riteniamo le parole segni emblematici della nostra condizio­ ne nel mondo, andiamo avanti nei nostri sforzi discorsivi senza risparmiar­ ci. Inventiamo frasi espressive per stare alla pari con gli altri o superarli. Non ci facciamo superare da nessun tipo di interlocutore. Le parole che ci condizionano comportano qualche risvolto oneroso. In certi momenti possiamo essere, per così dire, con l'acqua alla gola, ab­ biamo bisogno di trovare parole che ci mantengano in pace con noi stessi e in equilibrio con gli altri. Dialoghiamo abbondantemente - mentalmen­ te - perfino con gli assenti, pur di presentare con precisione le nostre ragioni e i nostri propositi. Dobbiamo ammettere che possiamo essere più o meno "in debito" o "in credito" di parole con molti, se non con tutti. E questo conta molto agli occhi di una persona, nel corso del suo interscambio quotidiano con altri individui. Anche a livello etnografico, ossia a livello tecnico di rilevamento ( di ciò che chiamiamo realtà) , l 'osservatore ha esigenze analoghe. Ognuno vuole parole chiare, dettagliate, e spesso o prevalentemente se ne aspetta di gratificanti, incantevoli. Difficile dire quale sia il punto di bilanciamento fra credito e debito di parole, su vantaggi e svantaggi dei confronti verbali. Impossibile avere certezze sul regime corretto da usare, per l'osservatore etnografo tanto quanto per il soggetto comune.

1.5. Noi tutti abbiamo problemi con il futuro. Non lo possediamo, non ci appartiene. Precise parole possono però farlo risuonare, anticiparlo un po'. Insomma, con certe frasi siamo capaci di far apparire concepibile ciò che è invece oscuro, inconcepibile. Apparentemente, sono molte le parole che ci sospingono o ci traghet­ tano verso mondi futuri. Le onde lunghe dell 'esistenza ci catturano, ci buttano a volte in un vortice di sentimenti e aspettative, che prendono forma verbalmente. Se le parole esprimono cose belle, a ragione o a torto, ci aprono orizzonti in cui abbiamo gran voglia di credere. In cui ci voglia­ mo tuffare. Il parlare del futuro, a certi livelli, è ben di più di una partita di tiri e controtiri. È un gioco rischioso, azzardato. Immaginare e capire il futuro è una qualità che qualcuno attribuisce con fantasia a se stesso. Neppure i discorsi sul passato sono facili. Sono parole che danno un po' di irrequietezza. Sono intriganti perché ci possono sfidare e filare via in modo rapido. E non hanno effetti di poco conto. Oggi possono confortare, domani possono stordirei o massacrarci. Possono consentire qualche bilan-

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IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

cio ottimista ma non sempre fondato. Possono recuperare fatti pregressi che ci possono ammaestrare e farci guadagnare una mira migliore. Nell 'uso delle parole riguardanti il passato, il futuro o ogni tempo, è doveroso tener conto di varie cose : le persone, i ruoli, le consuetudini, i luoghi e le epoche. Le parole dette in piazza sono diverse da quelle pronun­ ciate in cucina, in un luogo di culto, in un 'aula davanti a una giuria. Questa variabilità ci impone frequenti e rapidi calcoli. In altri termini, ci sentiamo nella situazione di dover controllare e scegliere più volte al giorno toni e contenuti. Dalla mattina alla sera, per non parlar della notte, cerchiamo di capire il senso delle situazioni aggiustando il tiro. Gran parte delle parole, incluse quelle false o poco attendibili, vengono spesso dette con tono deciso, a volte sussiegoso. Lo stato delle cose ce lo rivela proprio il tono. I discorsi convinti arrivano più direttamente al risul­ tato. I sottotoni, di norma, non fanno entrare subito in tema o in sintonia con chi ci sta davanti e vuole risposte. Quelli urlati contengono sfide più dure, che conducono a vere battaglie. Intorno a noi c 'è dunque un gran traffico di toni forti e tenui, mormorii e proclami che danno uno sfondo complesso al nostro interscambio usuale. Viste le cose da un diverso punto, va notato che molti fatti verbali ci fanno sentire obbligati - appena ricevuto un messaggio - a girare le parole udite a qualcun altro, per dare suggerimenti, pareri o rimpalli. Nel botta e risposta, quando seminiamo tante parole, diventiamo un po' vittime del loro potere, della loro capacità di smuovere idee e relazioni. In questo giro continuo di toni, accenti e voci costruiamo noi e gli altri : siamo obbligati ciclicamente o a tempo debito a riferire, commentare, ribattere e via di se­ guito. Siamo nella situazione di fare attenzione e imparare quali sono i costi e i guadagni messi in palio dalle parole. Qui interessa rammentare che brevi parole ben congegnate (come i titoli, le sigle, le formule) sono indici preziosi - in tempi e luoghi preci­ si - perché anche in condizione di assoluta normalità canalizzano punti cruciali e non valicabili. Ci sono per di più tante "frasi fatte", soprattutto di segno pessimista. Certune sono a effetto. «Va tutto malissimo ... » è una di queste : si tratta di uno slogan, di una fredda confessione standardizzata, in sé piuttosto insignificante. Ha però un ricaduta sicura. Si presenta come voce comune, come denuncia dei vizi del mondo. Contiene i toni dell 'ac­ cusa e dell'autodifesa anonima e indifferenziata. Viene cioè impiegata per dirsi innocenti, osservatori impotenti di disastri, che restano in attesa che qualcuno faccia qualcosa e permetta di sperare di vivere meglio, o di essere lasciati in pace ! 18

I. LE PAROLE SFIDANO. CI INVESTONO E FILANO VIA 1.6. L'uso delle parole talvolta implica comportamenti complessi. Spesso si parla in modo impersonale per inviare messaggi personalissimi. Oppure con un filo di voce si danno comandi imperiosi che non possono restare inascoltati o inevasi. In certi casi, non potendo dar giusto senso alle parole usuali, ci abban­ doniamo a una o due esclamazioni, a monosillabi, a non-parole (ecco, dai, ujjà) . Alcune frasi vengono mescolate a suoni strani, come se avessero lo stesso peso, lo stesso valore delle parole. I secondi danno impeto alle prime, le quali paiono, così, diventare più incisive o più pertinenti. Ci sono anche casi in cui usiamo super parole, vocaboli strabilianti, tonanti o fuori posto. A volte, le nostre parole vogliono richiamare cose eccezionali, insegnare qualcosa di stupefacente a qualcuno. Andiamo avanti a furia di vocaboli balordi che tendono a impressionare chi ascolta. Di una cosa che ci piace diciamo che è bella da morire, o spensieratamente chiamiamo tutti i dolori infernali, oppure giuriamo che la vita è un mistero. Parliamo così anche se sappiamo dire poco della morte, dell 'inferno, dei misteri, di ciò che è inac­ cettabile. È chiaro che senza questi espedienti a buon mercato, da sempre parcheggiati nei nostri cervelli, la conversazione non andrebbe da nessuna parte. Senza tali banalità saremmo muti ! Sperimentiamo a volte il bisogno di usare parole nuove o presunte tali per adeguarci ai tempi o perché dentro di noi si muove qualcosa. Le parole nuove sono ritenute ottime risorse per aprirsi, per penetrare in zone scono­ sciute della vita. Ci sentiamo inclini a cambiare tono di voce, accenti e voca­ bolario in occasioni irresistibili, quando siamo, ad esempio, sotto l' impeto di pressioni che l'ambiente ( professione, famiglia, politica, religione ) ci im­ pone. Abbiamo cioè cambiato amici e interlocutori e dobbiamo lanciarci in un processo di rinnovamento per accostarci agli altri. Sfortunatamente rinnovarsi o avviare processi creativi è un 'arte difficile. Non sono pochi quelli che si sentono obbligati a usare parole astruse e scivolose ( coatto, chattare, governanza, scaricare, settare, managementare ecc. ) ritenute "di lusso". Sono atteggiamenti portati avanti dalla moda, dall 'emulazione, ma anche dalla vanità. Il problema è che sono parole troppe volte calcate su termini stranieri importati, per essere realmente azzeccate e funzionali. La trasposizione di termini da una lingua all'altra, concepita in modo un po' istrionico, fa pensare a un gioco di prestigio: il trucco c 'è ma non si vede. Ossia un qualche senso c 'è, bisogna accettarlo. Non è difficile ammettere che attraverso le parole, nuove o vecchie, semplici o difficili, possiamo essere colpiti da brutali scossoni. Alcune ci vengono addosso come fulmini a ciel sereno. Ci sconvolgono soprattutto

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IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

perché non ci danno il tempo di assestarci su una linea di difesa, su un di­ gnitoso stato d'animo.

1 .7. Qualche anno fa, mi cadde in testa uno di questi fulmini. Di colpo la mia persona fu al centro di considerazioni e chiacchiere infinite. Da osser­ vatrice divenni l 'osservata; fui costretta a fare narrazioni autobiografiche di ciò che mi era piombato addosso.

A Katmandu, stupenda città artistica del Nepal, stavo in totale estasi davanti a uno

stupa gigantesco, pieno di smaglianti decorazioni e bandiere, con cupola bianca e oro. Ero a bocca aperta in faccia a questo spettacolo nepalese, prezioso ed eloquen­ te. Cercai nella borsa a tracolla la mia macchina fotografica. Inquadrai la cupola, collocando la macchina tra una testa e l'altra. Rimanendo ferma più che potevo, scattai la foto. Sentii una coltellata al piede. Guardai in giù e cacciai un grido. Un cane mi aveva afferrato la caviglia. Tentai di ritrarre la gamba, la carne si lacerò. Si produssero quattro ferite (i canini si erano infissi in modo simmetrico ! ) . Forse per la eccitazione che gli aveva provocato il sangue, il cane non mi lasciava. Riuscii ad aprirgli le fauci afferrandole con le mie mani. Mi liberai. Ero esterrefatta, oltre che sofferente. Mi sentivo vittima di un agguato, di un torto. Mi guardai intorno, tutti mi osservavano. Mi chiesi come poteva accadere una cosa del genere in quel luogo. « Perché questo cane mi ha morso ? A chi appartiene ? È rabbioso ? » . In mezzo secondo, constatai che i cani erano molti, piuttosto vecchi e malandati. Circolavano intorno allo stupa, senza controllo. La gente li lasciava girare, con religioso rispetto. Sentivo addosso rabbia e una sorta di voglia di rivolta. Ero delusa e un po' umiliata per essere stata immobilizzata malamente. Cercavo di tamponare il sangue. I presenti cominciarono a raccontarsi cosa avevano visto o intuito. Le frasi di compassione per me si mescolarono con quelle di solidarietà per il cane ! In tutto il trambusto, una strana conversazione era nata attorno a me. Qualcuno aveva suggerito con aria saputa, poco simpatetica: «È chiaro, l'animale ha sentito il bisogno di difendere il suo posto » . La parola fu ripresa da una signora: «C 'è troppa gente qui, il cane se la prende con chi gli sta troppo addosso ... Fategli un po' di largo, povera bestia » . Ci spostammo su una panchina per tamponare meglio il sangue. Visto aprirsi un po' di spazio, il cane si alzò lentamente e se ne andò a fare un giretto. Non ero troppo convinta della spiegazione che alcuni si davano (un atto di accusa verso di me, in sostanza ! ) . H o notato che tanti, tutti insieme, volevano spiegarmi u n punto preciso : i l ca­ ne aveva bisogno di un suo spazio, bisognava darglielo. Non fiatai. Reagii quando qualcuno mi disse a bruciapelo : « Certamente gli hai pestato la zampa o la coda. Il cane non morde per nulla! » . Non era vero, la narrazione stava stravolgendo l' even­ to. Il discorso stava deragliando, ma fu preso per vero. Risposi: « Non l'ho pestato. Lo saprei se lo avessi fatto» . Non fu sufficiente. La persona decretò anche, con aria 20

I. LE PAROLE SFIDANO. CI INVESTONO E FILANO VIA

esperta, che l'animale aveva capito che io non avevo simpatia per i cani. Si sparse la voce, in un baleno, che avevo pestato un cane perché non amavo i cani. L' idea era che non lo avevo "rispettato" e avevo ricevuto una vera lezione. Questa conclu­ sione - sulla mia presunta colpa o incuria che fosse - sbandierata da chi non aveva visto la scena, mi colpì. Sapevo come erano andate le cose ; era però impossibile far capire ai presenti cosa era successo. Con una certa rabbia mi sforzai di darmi ragione dell'accaduto: pensai che la gente non tiene conto dei fatti. Ne spara delle belle ! Un cane randagio irritabile, forse affamato, forse pestato da qualcuno, si era sentito disturbato e aveva azzannato a caso. Aveva pensato di dover difendere un proprio spazio vitale. Non mi sembrava un caso tanto difficile da capire. Nessuno si espresse sul fatto che i cani potessero essere custoditi in posti più sicuri. Nessuno diede ragioni culturali necessarie per la protezione dei cani. Il cane era tornato, si era accovacciato nuovamente nello stesso posto e si leccava il muso. La disavventura mi aveva lasciata stupefatta. Mi sembrava di aver ricevuto un attacco sgarbato non piccolo. E che nessuno lo capisse. Mi misi ad ascoltare per bene. Era nato un groviglio di chiacchiere, di pseudo-conclusioni che volavano di qua e di là. Molti non avevano visto nulla ma commentavano. Stavano costruendo un episodio da rammentare. Il caotico viavai dei visitatori era troppo per l'animale. Non era quel che serviva per indurlo a trattar bene gli uman i ! Certo era servito a far circolare parole. Un episodio di attimi era entrato nel vortice di discorsi che sarebbero durati ore. Le mie quattro ferite erano ormai contornate da un gonfiore bluastro che si dilatava. Lasciavano colare qualcosa di denso e non proprio piacevole. Mi posi la questione : il sangue serve per testimoniare i diritti violati del cane ? Non altre concezioni, altri retro scena? Qualcuno, quasi leggendo il mio pensiero, rispose ad alta voce : « Il cane non deve tenere a bada l'istinto di mordere, anzi lo deve mostrare col sangue ... Non finge, è un suo diritto » . Il cane, pensai, aveva mostrato la sua indole con intelligenza e terribile prontezza. Molti presenti, forse per padro­ neggiare la situazione, si erano messi a compatire la bestia a voce alta. Un paio di persone eccitate, alla fine, ammisero che i cani randagi erano troppi, che sarebbe stato bene recintare i luoghi dei turisti (non quelli dei cani, che erano già al loro posto !). Nel giro di un quarto d'ora, qualcuno mi portò dritta dritta all'ospedale cittadino, povero ma pulitissimo, dove mi vaccinarono, mi diedero antibiotici, mi fasciarono. Mi dissero che non dovevo posare a terra il piede. Mi incoraggiarono, serissimi, a servirmi dei taxi cittadini, a buon mercato. Sul pavimento dell' ambula­ torio rimasero, con mia scarsa consolazione, le tracce del soccorso : garze, tamponi, schizzi di disinfettanti. I medici mi informarono su come mi dovevo comportare nei giorni successivi. Mi spiegarono, constatando la mia ignoranza, che il morso di cane randagio per loro non era proprio una sorpresa: rientrava nella routine quotidiana. Il personale dell'ospedale aveva tante raccomandazioni da dare. Spiegò che gli ospedali cittadi­ ni erano prontissimi perché i cani, in branchi, vivevano perennemente nei luoghi sacri. Per i casi come il mio, il personale medico era sempre in allerta. Qualcuno 21

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aggiunse che le bestie non erano ammalate, ma che sottopormi alla vaccinazione era in quel momento una misura obbligatoria. Una giovane e bellissima dottoressa nepalese disse che se i cani mordevano e azzoppavano qualcuno era perché i visitatori - ignari, distratti e col naso in su - andavano in mezzo ai pericoli. Attorno allo stupa gli stranieri si perde­ vano nei loro pensieri, non lasciando libero lo spazio per i cani (come questi desideravano) . La logica dei locali combaciava con quella dei visitatori che mi attribuivano uno sbaglio, tanto che gli uni e gli altri usavano frasi simili : essere morsi è errore umano, dovuto a una svista o a imperdonabile ignoranza. Come procedevano i rapporti tra umani e animali ? I nepalesi - quando possono - lo spiegano agli stranieri e commentano la cosa a lungo. Forse, a questo punto, si può azzardare che i cani possono, in certe condizioni, mancare il bersaglio e af­ ferrare la caviglia sbagliata ma vicina (senza provare alcuna titubanza) . E visto il disagio che la gente forestiera irrequieta procura loro, potrebbero essere scusati di procurarne altrettanto. Persi il resto della giornata a commentare i fatti e a rispondere alle domande sul mio piede. A dar chiarimenti. Il giro dei discorsi fu ampio. Furono impiegate molte parole. L'assalto repentino e inspiegabile del cane, che era stata una sorpre­ sa per me e per un buon numero di altre persone, divenne il fatto all'ordine del giorno, sul quale tutti stavano costruendo idee naturalistiche, codici polemici, conclusioni. Le vicende di quella mattinata sono state condensate in una storia semi-buf­ fa : un'antropologa che non conosce bene i cani ne ha pestato uno, anche se dice che non l ' ha nemmeno toccato ! Stupidamente si è lasciata mordere. Si è fatta mettere fuori uso un piede. Il cane non ha subìto danni, per fortuna. Alla signo­ ra è capitata questa disgrazia perché forse non ama i cani. Lei però smentisce. È stata costretta a programmare vaccinazioni antirabbiche per cinque settimane. Ma non è cosa seria, tant'è che l'ospedale l ' ha rilasciata subi to. Poteva andare peggio a chi non è innamorato dei cani randagi, nemmeno di quelli di pertinenza di uno splendido tempio nepalese (che ha le sue tradizioni che contemplano una consuetudine con i cani ! ) .

S i è detto che seminiamo l e parole i n tante situazioni e luoghi. L e parole navigano a lungo, come onde inarrestabili, in posti verdi e ameni, a tavola, nelle feste, in ufficio, in una spiaggia infuocata, sotto un albero ombroso, su un divano accanto a un gatto che fa le fusa. Anche se non ci facciamo caso, le cose che diciamo sono a volte inimmaginabili un minuto prima di essere dette, o inopportune un minuto dopo. Va da sé che ognuno ha proprie parole per proprie manovre e che le preferisce a quelle degli altri. Ognuno cioè si fa in quattro per valorizzare parole in cui crede e che lo soddisfano. Si impegna a farne delle bandiere da sventolare davanti ad altri. Le fa legit­ timare da qualcuno e subire da qualche altro. 22

I. LE PAROLE SFIDANO. CI INVESTONO E FILANO VIA 1.8. L' innamoramento è la situazione ideale per esagerare con le parole. Le frasi d'amore vengono balbettate, soffiate, perché sono ritenute uniche ed epicamente efficaci. Non sono mai considerate né sufficienti, né sprecate. Alla persona innamorata, lo sappiamo per esperienza, capita di vivere uno stato eccezionalissimo, in cui dominano vocaboli un po' fuori misura o sovratono, che riempiono l'aria di suoni celestiali. In genere, sono frasi ben accolte anche se non sono ben dette ! Insomma, i colloqui sentimentali sono apprezzati come fossero una manna. E lo sono quasi sempre. Il linguaggio amoroso di due innamorati è considerato eccentrico. È cosa stravagante, spesso da non condividere. Contiene sempre però qual­ cosa che incoraggia, inietta vigore e speranza. Dipanato in modo contor­ to, accorato, spesso cangiante, da anime stralunate o un po' a soqquadro, rappresenta a volte il punto di incontro tra la confessione liberatoria di chi parla e la felice accondiscendenza di chi ascolta. In certi momenti è insieme resoconto di campo e autobiografia. È dunque il parlare abbondante ed entusiasta che cattura e trasforma gli innamorati. L'amore - che regala loro folgoranti e squisiti sentimenti - il più delle volte chiede di essere rivelato e commentato all ' istante. Le estasi chiedono di essere decantate, fatte conoscere a tutti i costi, con il massimo di attenzione e di toni accattivanti. L'amore può farci sentire, dunque, in grado di scovare e far circolare tante parole. Ci induce a pensare che con parole adatte si possa guadagna­ re una posizione magnifica, esaltanti risultati. Appena il dardo fatale l'ha colpito, qualcuno pensa di essere diventato quasi onnipotente nella ricerca e nella scelta di parole convincenti e beatificanti. Crede di aver il diritto di decantare i propri slanci e i generosi doni ricevuti. In altri termini, i racconti amorosi, e ancor più quelli erotici, possono diventare quasi più importanti dei fatti. Sono performance assolutamente fuori dell'ordinario; si afferma­ no grazie o a furia di toni spettacolari, melodrammatici ( talvolta un po' artificiali ) . Le cose che gli innamorati si narrano prendono la natura infuocata dell' inesorabile e dell ' inconcepibile. Con diluvi di parole, il fuoco amoro­ so invade e soffoca. Fa scottare la fronte, le guance. È capace di farci volare su uccelli di fuoco molto più in alto del cielo che abbiamo sopra la testa. A volte invece i sentimenti incantevoli non vengono a galla; sono coperti dalla consuetudine di temere che ciò che è delicato e riservato possa guastarsi e straziarci. Sono sentimenti tanto forti e indomabili che ci possono paraliz­ zare e far chiudere la bocca. Tutti ci sentiamo diversi se l'amore ha fatto scoprire la potenza di certi

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vocaboli ( in particolare di tre o quattro aggettivi come paradisiaco, divino, unico, meraviglioso, eterno) . Il linguaggio favoloso degli innamorati, in altri termini, si regge su una sarabanda di attributi, nomi dolcissimi e ine­ brianti. Con l'aiuto di pochi vocaboli ci si sente talvolta baldanzosi, pronti per l'avventura della vita. Sentiamo il vento in poppa che ci fa cambiare il senso degli eventi, dei racconti estemporanei, oppure di quelli canonici e frusti. Ci crediamo, in sostanza, in grado di re-inventarci. La scelta che possiamo fare è duplice : possiamo metterei a declamare o chiuderci in un prudente silenzio, ferreo e difensivo. Il punto, dunque, è che il parlare amoroso ci permette di concepirci fantasiosamente, in modo nuovo. Siamo presi dal desiderio di pensare la vita in technicolor, di dipingerla come la vorremmo. Ci raccontiamo migliori di quel che siamo per essere ammessi in un mondo promettente, di grande fascino. A volte concepiamo parole amorose per dar corpo a qualcosa che ci faccia letteralmente ripartire, cominciare a essere fenomenali. Nel tradurre in parole le nostre immaginazioni, scopriamo quanto grande sia la voglia di essere d-accolti e protetti, quanto bene ci faccia non dover più elemosinare un'attenzione, un complimento. Lanciati fuori dalla vecchia orbita, siamo certi di aver conquistato cioè una miracolosa capacità di ricostruire verbal­ mente le nostre vite, con espressioni nuove e mai concepite prima. È questo che, immancabilmente, ci ricolloca a un altissimo livello dell 'esistenza, ci fa scoprire pronti a reinterpretare tutto dentro giganteschi sogni, raramente spie �abili. E possibile, dunque, che quando una persona è presa dalla fantasia amo­ rosa si senta sulla strada giusta, non solo su quella bella. Si sente forte, e soprattutto in grado di scoprire una meta, una irrinunciabile "storia a due". Nel caleidoscopio dei discorsi romantici possono incunearsi malaugurata­ mente anche tante convinzioni un po' allucinate (prima di tutto l'idea che il partner sia una persona perfetta che va adorata, oppure che l'amore ci migliora, o che va ricompensato). Il senno non sempre aiuta. Non può farci essere cauti e tanto meno farci aprire gli occhi in tempo. Nell ' innamoramento, non tutto però si vive sotto il segno della gioia, dello stato ottimale e incoraggiante del vivere una bella storia. Lo prova proprio il linguaggio che accosta pensieri e desideri talora sconcertanti e contradditori, in cui inferno e paradiso si mescolano. La persona che vive d'amore, in sostanza, è spessissimo presa dalla voglia di annaffiare il mondo, anche quello non strettamente personale, di parole abbondanti, lussuose e benefiche. Senza rendersene conto, si invischia in tante immagini stellari e 24

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magiche che riserva a se stessa. Molte le riversa anche sulla persona adorata (e su tutti i confidenti disponibili). Il fatto è che l' innamorato corre più rischi di quanto creda sul piano reale e nei fatti quotidiani. Non sa che vive in bilico, un po' sospeso, almeno finché continua a idealizzare la persona che ama e il sentimento che prova. Corre l 'eterno pericolo di commettere, proprio con lei, stupidi, irritanti errori che non commette mai, di dire cose inverosimili di cui di solito non parla, di fare giuramenti "per sempre" che odia, pur di mantenere in vita quello che vive come un fatto di grande splendore. Tutto questo porta a si­ tuazioni insostenibili. È uno scotto che spesso l' innamorato/a deve pagare, finché ce la fa. Poi gli può capitare di voler dichiarare bancarotta e ritirarsi. Dati gli stati trasecolati in cui si svolgono, dunque, i discorsi intensi degli innamorati non sempre filano lisci. Qualche malinteso, impuntatura o rimprovero arrivano di soppiatto. Possono insinuarsi nelle spiegazioni spontanee e nelle "difese d'ufficio". La freccia della gelosia può aprire falle tra le confidenze e le notizie più innocue. Gli scatti d' invidia a volte fini­ scono per infilare pessime idee nella testa del partner e vampate di indigna­ zione sul suo volto, mentre le parole di riparazione che cerca inutilmente spesso coprono a malapena gli effetti della delusione. Tutte queste cose pos­ sono concludersi con un pandemonio di accuse e rifiuti urlati. Di norma, la persona innamorata - si è visto - loda l'anima superba che l'ha stregata. Con termini superlativi lancia appelli geniali, decisi a questa anima splendida. Mentre si infervora in lunghi soliloqui, in giaculatorie tra sé e sé, l ' innamorato/ a fa ricorso anche a gesti simbolici e attende veri mi­ racoli. Pensando di avere trovato uno spirito raro e insostituibile - col dono della perspicacia, della lealtà, della dedizione, della preveggenza e altro - ar­ riva ad affermazioni sconcertanti o umilianti. Può dire che l'amore che regala deve ricevere una giusta compensazione o un premio. Può decantarlo come specchio della propria intelligenza, sensibilità, prestanza. L'errore o l'eccesso, se non viene rettificato, crescerà via via e diventerà sempre più deleterio e imperdonabile. Costerà moltissimo. Qualche volta, chi si sta inebriando d'amore si adora e si adula a clismi­ sura perché piace. Si trova lodevole, meritevole e senza difetti. In buona fede, l' innamorato/ a si sente più che degno di fiducia, di considerazione. Addirittura può dichiarare a ripetizione di aver trovato un milione di ot­ time cose da insegnare al compagno/ a (valore della libertà, dell'autostima, della sensibilità) che vanno coltivate e richiedono la massima cura. Se si 1.9.

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sente ottimo dispensatore d'amore , desidera sfoggiare ( ai suoi stessi occhi) la propria capacità di capire tutto al volo, di possedere un eccezionale sa­ voir-faire, di possedere le doti dei grandi amatori. L' insieme di pensieri sui propri meriti può purtroppo sfociare in puri egoismi, imperiosità, voglia di dominio. Certe persone hanno il dono di saper narrare e conservare racconti d'amore, propri o altrui, attuali o d'altri tempi. Ne ricamano molti, per sé e per tutti. Sono versatili, brave nel tener banco e sollevare curiosità. Questi narratori o narratrici con il cuore esaltato non temono obiezioni, derisio­ ni o smentite. E parlano quanto vogliono. Sbriciolano ogni altro discorso, travolgono l'audience in un battibaleno. Il tempo passato ha virtù speciali. Fa, infatti, sgorgare chiacchiere che ubriacano o paralizzano. Nei racconti di tante anime sensibili, cadute nella nostalgia o in un bel ricordo amoroso, la vita andata riprende fiato. Si dilata, si arricchisce. Ciò che è accaduto tempo fa si impone, migliora il presente. Lo supera, vince a ogni livello. Per alcuni individui, invece, non c 'è neppure l' inizio di racconti favolo­ si degli amori di oggi o di ieri. Conservano tutto segreto. Sono decisi a non parlare della loro vita, speciale e privata. Su quella altrui non vogliono dire alcunché. Forse, se sapessero dare il via alle proprie memorie, ne avrebbero di belle da raccontare. Non è detto che i reticenti e i grandi taciturni non possano arrivare a usare il registro giusto per farsi intendere. C 'è da pensare però che se parlassero, purtroppo, assumerebbero i modi vaghi o all'oppo­ sto invadenti dei più ciarlieri, oppure dovrebbero imitare le parole dei più ascoltati. Con scarso vantaggio degli ascoltatori. Gli innamorati, quelli che parlano frequentemente e quelli che parlano di rado, spesso narrano le stesse cose, ma hanno tutti l' intenzione di dire stupefacenti novità. Molti sono indotti, a un certo punto, a farsi domande sulla memoria e a rispondersi quasi all'unisono. A causa della spropositata mole di cose curiose e importanti che hanno alle spalle, ci sono alcuni personaggi che selezionano le proprie parole, e quelle che capita loro di sentire. Si arrestano un momento per riflettere. Ascoltano ciò che risuona attorno a loro. Può essere questo il momento in cui gli ascolti diventano essenziali e le strette al cuore si moltiplicano. L'ascoltare - come dice tutta l'opera di Philip Roth - stimola la vita. È sull 'ascoltare che si possono mandare avanti pensieri e azioni. Sulla base di ciò che ascoltiamo, che semplicemente sentiamo narrare, in molti casi costruiamo i nostri modelli quotidiani. 1 . 1 0.

I. LE PAROLE SFIDANO. CI INVESTONO E FILANO VIA

Pochi sono i rimedi contro le nostalgie e i ripensamenti che spingono verso il narrare. Ne siamo un po' dominati. Non va scordato che preci­ se cose stimolanti o inquietanti di tutti i giorni, soprattutto riguardanti il passato, tolgono in modo impertinente il sonno e il senno, anche quello di poi. Se non si sanno affrontare è meglio !asciarle andare. Ogni tormento insano è da evitare. C 'è poco da fare, il fantasticare amoroso e le chiacchiere a due con­ ducono romanticamente la vita in alto mare. Sovente ci sforziamo testar­ damente di pensare che l'alto mare sia un posto adorabile, da sogno, senza pericoli. Una volta in alto mare possiamo con fatica raggiungere un mo­ mento di lucidità e virare verso acque calme o porti sicuri. Intanto, attorno a noi abbiamo prodotto molti eventi (intese e strappi in ugual misura) . Ci restano presenti per tutta la vita. Siamo costretti a non dimenticarli. A ri­ narrare più volte, in futuro, le nostre vicende d'alto mare. Vale la pena mettere a fuoco, a questo punto, l'adorabile e mitica espe­ rienza del primo incontro amoroso. Un vero momento d'alto mare. Gli stati di felicità che nascono al primo appuntamento sono sempre "da sballo", a sentire i protagonisti. Di frequente, hanno effetti seri all' istante, legano o sciolgono. Fanno sentire al settimo cielo o scavano fosse. Fanno epoca an­ che se iniettano gelo nelle vene. Capita tuttavia che non sempre conducano a un secondo faccia a faccia. I primi colloqui a due, dolci e riservati, servono per darsi coraggio, pa­ voneggiarsi quel che basta, o a "miracolarsi" l 'un l'altro. I due protagonisti parlano per conquistare, puntano al successo e, se il caso lo permette, pos­ sono costruire una storia alternativa alla realtà. Inventano una favola che ribalta tutti i fatti della loro vita, come i fatidici calzini. Ma la cosa è così divertente e promettente da diventare la pista di lancio dell 'esistenza, di ciò che si desidera avvenga. Lo stato d'animo di certi ragazzi che si incontrano per la prima volta, accecati da tutta la luce che vedono girare intorno a sé, può essere distur­ bato da banali o feroci incidenti. Qualche richiesta sgradita, sussurrata da giovani fantasiosi ( « Non mi piace il calcio, è troppo plebeo » , «Ballo da dio, tutte mi adorano » , «Vuoi fumare erba con me, stasera ? » , « Mi potre­ sti prestare qualche euro, è tempo di magra ! » ) , può gettare lei o lui in un balbettio un po' lagnoso o implorante. I due possono essere anche trascinati nel buio, in situazioni impietose. Come riemergono dalla desolazione degli insuccessi, delle fughe puerili e delle umiliazioni striscianti ? I. I I.

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Qualcuno, al primo incontro, entra più che ottimisticamente in una radiosa atmosfera. Qualche innamorato, a torto o a ragione, riesce di fatto a entusiasmarsi. Prima ancora di aver avuto il tempo di sedersi al bar, può trovarsi ad assumere le sembianze di uno splendido cigno ( in mezzo a uno splendido lago). Ma può anche venir soffocato da acque putride e male­ odoranti. Oppure da macerie fumanti, da disastri precedenti, che hanno insegnato poco o niente. I protagonisti di primi incontri un po' scoraggiati cercano di resistere al crollo totale e di capirci qualcosa. Per timore di fare scena muta, possono mettersi a enumerare, con aria seria, i dolori dell'umanità o i penosi drammi di cui sono stati vittime o involontari artefici. Sono catturati dal bisogno di dire parole che dovrebbero fare colpo, ma ne usano di vuote e scoraggianti a causa dell 'eccitazione. La coppia che si incontra per la prima volta può inabissarsi in frasi stan­ tie, di bassa lega: « La politica è proprio corrotta, non mi interessa » , « Hai una splendida abbronzatura ... Hai usato la lampada ? » , « Tutte le donne sono deliziose, ma fanno troppo le vittime » . E, in un battibaleno, la coppia è perduta. In sostanza, nel faccia a faccia del primo incontro si cercano le parole più calzanti per decollare, per librarsi. Librarsi, non atterrare. Alcuni non sono capaci di interrompere le loro tiritere e cambiare traiettoria o registro. Farebbero bene a mettere in comune spumeggianti e inattuabili pretese solo nei momenti in cui sono padroni di sé. O dimenticarsene per sempre. I . I 2. Il sentimento amoroso è assolutamente universale forse più di altri stati d'animo o di altre emozioni. Tutti abbiamo sogni e sentimenti legati a persone, luoghi, tempi specifici. Quando, per avventura, si incontra una persona che ci colpisce, è naturale cercare di capire chi è, scoprire cioè se appartiene alla categoria di coloro che vogliono "adorare ed essere adorati senza limiti", subito e per l'eternità. È richiesta, per questa impresa, grande abilità nel chiedere, suggerire, ipotizzare e tenere all 'erta l ' interlocutore. Le parole amorose che, come si è visto, sono innumerevoli, hanno ciascuna un lato particolare. Chi parla della vita amorosa (poeta, storico, filosofo, etnografo ecc.) spesso parte da esperienze vissute ; costruisce la pro­ pria visione su accadimenti propri. Chi "raffigura la vita", come l'etnografo, tende di solito a generalizzare ciò che ha personalmente intuito, ciò che gli è consono. Racconta spesso qualcosa di più grande e più complesso di un singolo, banale evento o di un minuscolo ricordo.

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, , Le parole nate dall innamoramento creano uno stato d animo che spesso chiamiamo incendio. Entrano nel racconto personale o etnografico , con grande impeto. L innamorato adora essere sospinto da tanto ardore. Scaldato da parolone, dice di essere disponibile per imprese coraggiose, ar­ dite, proprio perché tutto sta diventando incandescente. Chi ha conosciuto questo fuoco, quando esso si spegne, può trovarsi cambiato. Si vede altro da sé. Non si bea più di espressioni formidabili, di tiritere zuccherose, di suoni mantrici. Gli atti verbali non sono più miracolosi. Al fuoco può sostituirsi , la cenere, che peraltro con tiene tepore e una certa placidità. Inizia un altra storia, una realtà resistente agli incendi. E il mondo comincia a girare in un altro senso. , C è un dato da considerare meglio : siamo sempre pronti a giurare sul­ le qualità nascoste e preziosissime della persona affascinante da cui siamo attratti. E agitandoci gioiosamente, sprizziamo ammirazione. Sappiamo, però, che la troppa venerazione in sé porta a qualche cattivo risultato. Se r adorazione diventa eccessiva e gratuita, può creare dipendenza e false spe­ ranze. Ci si può rallegrare ( e meravigliare molto ) di ispirare sentimenti squisiti e naturalmente di sentire frasi amorose da una persona di fascino. A volte si crede subito alla ammirazione suscitata. Ci si riscalda di piacere e si trova motivo di incentivare i nostri stessi entusiasmi. Di certo, l'ammirazione ricambiata è graditissima e di norma rende loquaci. Ogni persona desidera credere all 'approvazione che le viene mo­ strata e vuole incrementarla o quantomeno sostenerla. In certe situazioni le parole non sincere possono produrre imbarazzi e trappole. Non si riesce a difendersi o a fuggire. Si tiene duro e si cerca di passare oltre, di mostrarsi , invulnerabili o un po saggi. Ridursi a un sospiro improvviso o rauco, o a , uno scosso ne del capo sarebbe assurdo ! Sarebbe bene assumere l aria di chi non ha capito nulla. In alcune circostanze, si ha voglia di ricevere tanta ammirazione quanta ne sta incassando chi si ha di fronte. Sentiamo che questa sintonia sarebbe bella e necessaria, che val la pena di lanciarsi in alto, verso un cielo infinito. In mancanza di meglio, si decide di chiudersi in una stanza buia, dove non , c è nessuno che abbia il coraggio di venirci a cercare. , Dunque, essere colpiti dall estasi ed estasiare è la condizione perfetta, a cui spesso non si può rinunciare per nulla al mondo. Non è però cosa che capita proprio a tutti o un fatto che possa essere garantito. Ha tutti gli ingreI.I3.

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dienti del sogno che magicamente si è fatto realtà. A volte, si pensa proprio che la meraviglia possa concretizzarsi e irradiarci splendidamente. Anche se il sogno è raccontato proprio in termini di avveramento, è evidente che non tutto si avvera. Il sogno resta sogno. Non entriamo in nessuna magia. E siamo già fortunati se non nascono costosi e tardivi pentimenti. Non esiste riparo alle stregonesche azioni di coloro che usano quoti­ dianamente l'arma del fascino. Le loro manovre vengono di solito accolte con un paziente sorriso di complicità e accondiscendenza. Da parte loro, i personaggi infervorati dal proprio fascino quasi sempre non si accorgono né dell 'arrendevolezza, né della pazienza. Vogliono orgogliosamente pro­ vare che esistono individui fuori dell'ordinario. Che sono loro stessi dei miracoli.

Noi tutti lavoriamo le parole, le assembliamo, le distinguiamo le une dalle altre. Ne selezioniamo alcune col proposito di segnarne il valore. Tan­ te parole sono lavorate male ; sono usate in modi volgari, scurrili. Sono col­ locate in certe parti del discorso per renderlo corrosivo, o inserite arbitra­ riamente nelle frasi per introdurre toni sgradevoli, grotteschi. Riempiono in maniera fastidiosa l'atto verbale con riferimenti ammorbanti. In mezzo a tante parole guaste, deteriorate, ci sentiamo parecchio op­ pressi. Capiamo di essere impotenti, condannati a subire. Pensiamo di esse­ re finiti in mezzo a sabbie mobili, vischiose e soffocanti e che, nella melma, assieme alle parole, possono scivolare e morire molte idee, principi, valori. C 'è di più. Alcune parole scurrili sono assurde, incomprensibili, e non ser­ vono a nulla. Non spiegano nulla; restano vive solo perché si traducono in spavalderie e petulanze. E ci fanno sentire derubati, immiseriti. Lavorare le parole, giorno dopo giorno, non è un gioco da dilettanti, non è neppure un intrattenimento o un esercizio superfluo. Le parole date, rice­ vute e rinviate - sia quelle che si impongono al momento giusto, che quelle che saltano in bocca per abitudine - sono attrezzi necessari del fare umano. Le espressioni ordinarie, quelle più lavorate e quotidiane, sono spesso stringate. Alcune sono brevi (dai, eccomi,Jenno,forza). Sono non-parole, diverse dalle altre. Come si è detto, occupano uno spazio notevole del di­ scorso e possono essere molto eccentriche. I processi di modellamento e di potenziamento delle parole hanno evidentemente bisogno di spirito di iniziativa. Qualche volta amiamo d ' i­ stinto - con grinta e fantasia - un termine ; altre volte avremmo voglia di !asciarlo perdere perché ci sembra scialbo, sfocato. Dobbiamo invece manI . I 4-

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I. LE PAROLE SFIDANO. CI INVESTONO E FILANO VIA

tenere in uso un flusso di termini vocativi consolidati dal bon-ton, dai di­ scorsi politico-accademici o casalinghi (onorevole, eccellenza, monsignore, madama, zietta, collega ecc.). L' impiego di singole parole, soprattutto se solenni e vibranti, ha dunque un percorso definito da modelli linguistici imperativi e non alterabili. C 'è sempre qualcuno che si presenta come esperto di parole, che pensa di dover aggiornare il lessico. Parla e scrive abbondantemente. Senza sa­ perlo, a volte maltratta o snerva le parole. Le storpia, dà loro un senso dif­ ferente che vorrebbe essere sbrigliato o ultra raffinato ( esodato,Jrontaliere, pujfare, settare, hackerare, coatto, super-cablato, shakerato ecc.) Termini di questo genere sono assunti perché ritenuti sintetici e raffinati. Alcuni (cool,

app, clip, bricolage, start-up, on, ofJ, mouse, rendering, styling, city pass, target ecc.) sono proprio stranieri, e sono adottati da tanti esterofili perché hanno l'aspetto di balocchi nuovi e luccicanti.

I . I S . Tra oralità e scrittura esiste un legame assolutamente inscindibile. È come dire che siamo immersi in due sistemi espressivi complessi e corre­ lati. Le nostre azioni linguistiche partono da un polo (quello orale) e ci connettono a un altro polo (la scrittura). Oppure partono dal secondo per arrivare al primo. Ciò che è scritto può cioè essere riutilizzato come discorso orale. Nei nostri microcosmi quotidiani la scrittura è strutturata minuzio­ samente, e gode di priorità quasi assoluta su ogni altra forma comunicativa ( gestualità, performance, espressione corale ecc.) . Vale l a pena di osservare che alcune parole singole - soprattutto scrit­ te - producono cambiamenti radicali, svolte epocali. Sono le firme, i visti, i consensi, i giuramenti, i contratti ecc. Il potere di precise singole parole può essere fissato, in vari tipi di formule e di codici, da un maestro, un giudice, un comandante, un celebrante.

ll trattato mishnico di Sotah, che ha alla sua base il testo biblico ( Num. s, 11-31), discute il caso del marito che è preso dal timore che la moglie gli sia infedele. La gelosia lo porta a chiedere che la donna venga sottoposta a un rito ordalico obbli­ gatorio. Il punto di partenza è rappresentato dal fatto che l' infedeltà coniugale rende impura la donna, e il marito deve starle lontano. Nel testo mishnico il proce­ dimento, che viene definito "rito delle acque amare': serve dunque per determinare la posizione reciproca del marito e della moglie. Non serve solo a tranquillizzare il marito o a confermare i suoi sospettF. È un mezzo legale - e la cosa ha grande 2. A. Destro, In caso digelosia. Antropologia del rituale di Sotah, li Mulino, Bologna 1989.

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IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

peso negli affari quotidiani - ma sembra non sia mai stato applicato. Ha ampia eco nella letteratura rabbinica. ll trattato di Sotah dice che si ricorre al procedimento ordalico quando la don­ na sospettata si professa innocente e nega di essersi contaminata con altri uomini. Il rito è sufficiente per confermare o smentire l' innocenza della moglie. Un sospetto di colpa da parte del marito scatena il procedimento. La procedura di Sotah non scatta dunque per una concreta devianza della moglie : serve per chiarire i timori che la donna ha fatto sorgere. Volente o nolente, il marito sospettoso viene coinvolto. Non può avere rapporti coniugali. La donna deve subire una prova rischiosa. Deve bere una bevanda tassativamente spiegata nel testo. L'assunzione della bevanda, vero strumento ordalico, può dare la morte. Il rito mira a spostare a un inattaccabile livello rituale la vicenda intera (nata da una presunta reticenza, da inganno ecc.). Si cerca di capire se la moglie è fuorviata, facendo appello a un giudizio divino. Ciò che interessa qui è che il testo mishnico di Sotah fissa parole: giuramenti e auto-maledizioni. I testi mishnici dicono che la donna sospettata è consegnata ai sacerdoti. È esposta in pubblico nel tempio (denudata fino alla cintola, le vengono scompigliati i capelli) . L' intento di questo trattamento è quello di farla sembrare inaffidabile e costringerla a confessare. Dopo i trattamenti intimidatori, l'accusata è costretta, come si è detto, ad assumere una bevanda fatta di "parole scritte" in un documento, sciolte nell'acqua, mescolate con polvere del pavimento del tempio. Le parole scritte e disciolte sono i mezzi per dirigere la vita della coppia. Dopo aver bevuto, la donna attende l'esito : la discolpa o la morte. Se il suo corpo si trasforma in modo devastante (gonfiori e dolori), è considerata colpevole. Come è evidente, le posizioni della donna e dell'uomo si giocano sull'ascoltare e sul parlare, sul dire e giurare. La donna è indotta a pronunciare parole brevissime. Dà un assenso. È vincolata a una formula, che deve essere recitata in una lingua che lei capisce. Prima che la donna beva l'acqua della maledizione, i sacerdoti dicono: « Se ti sei traviata ... il Signore faccia di te un oggetto di maledizione e di imprecazione in mezzo al tuo popolo. Quest'acqua che porta maledizione ti entri nelle viscere per farti gonfiare il ventre e avvizzire i fianchi» (Num. s. 19-22). La donna risponde: « Amen, amen » . Con due parole, identiche, accetta da un lato l' imputazione di una colpa e dall'altra il responso dell'acqua bevuta (che la libererà o la distruggerà) . Il ma­ rito è fuori scena. Tutto l'effetto del rito dipende da questo consenso esplicito della donna. Se non viene recitata la formula (da parte dei sacerdoti e della donna), non c 'è da aspettarsi lo scioglimento dei dubbi che le pesano addosso. Le parole sono segni cruciali per la vita della donna perché mostrano sottomissione, liceità, affidabilità. Le parole sono dettate dalla necessità di capire - da parte di tutti - se la donna può essere riaffidata con parole solenni al marito. La donna mette in gioco "ver­ balmente" la propria vita.

Molte parole portano, si è detto, a effetti di non ritorno, in modo simile a ciò che capita alla donna sospettata di adulterio. Un "sì" o un termine equi32

I. LE PAROLE SFIDANO. CI INVESTONO E FILANO VIA

valente - chiaramente pronunciati e socialmente riconosciuti - trasforma­ no, ad esempio, uno scapolo in marito e lo eleggono padre dei figli che sua moglie potrà avere. I figli che lei metterà al mondo sono attribuiti al marito, su base giuridica, ma anche grazie a precise parole di riconoscimento, pro­ , nunciate al momento della nascita. L uomo può, con prove scritte o orali, accettare come proprio il figlio di una donna estranea o disconoscere chi è stato partorito dalla propria donna. , ,, L attività di "scambiare parole in modo spontaneo o formale, è mol­ to impegnativa. È ancorata a fatti minimi e ineludibili. Conversare è un atto che deve rispondere a molte più regole di quel che si pensi. Viviamo imprigionati dal bisogno di colloquiare, di confrontarci con altri, nello stesso modo in cui viviamo legati alla necessità di festeggiare una data, di dare un bacio o di piangere di gioia. La conversazione è più di un fatto di cortesia o di buon gusto, serve alla divulgazione di credenze, di progetti. Può essere il punto di partenza di intese e condivisioni di vastis­ sima portata. Spesso però la conversazione è faticosa o, in moltissimi casi, diventa un compito serio e doveroso. In situazioni di tensione e di crisi, r intesa è , ridotta ad attimi contati, quasi una parentesi fra un azione e raltra. In molti incontri ci si può sentire proprio a disagio, sulle spine. Ci sentiamo turbati , o incapaci, in cerca di un ancora di salvezza. Se r incontro scombussola, tentiamo di districarci e uscire dal turbamento con un « Take care; ciao, ca­ ro ! » . Quasi subito dopo raddio, nella fase dello "sciame di sensazion( che segue, ci si scopre sotto una pessima impressione. Per il resto della giornata, si cerca di esorcizzare cattive previsioni o ripudiare parole dette. Si sa che spesso non siamo noi a scegliere il genere o la forma delle pa­ role. Siamo costretti a fare acrobazie per stare entro un registro linguistico preciso. Non di rado siamo noi invece che, conversando, ci perdiamo in parole scelte per metterei in luce, per accendere i riflettori su di noi. In ogni caso, tutti insieme costruiamo una grande rete di percorsi discorsivi che diventano le nostre guide quotidiane. Le parole usate nelle domande a volte sembrano suscitate da un in­ giustificato bisogno di discorrere o di mettere il naso negli affari altrui. Sembrano a volte intese a provare che, interrogando, siamo in sintonia con le persone, possiamo offrire loro conforto, simpatia, pacificazione. Se le domande non sono proprio innocenti, le risposte possono essere peggiori. Normalmente crediamo che siano doverose. Negarle sarebbe offensivo. A I . I 6.

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IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

dir il vero, alcune risposte fanno un gran male. Ci fanno emettere soffi da animale ferito. Le confessioni spontanee o imposte sono una base salutare dell'esistenza, abbiano o non abbiano un buon epilogo. Servono per tenersi in allerta, perché ci si riconosce in quello che si sente narrare. Le confidenze, notoriamente, permettono varie manovre, da un angolo all 'altro del diva­ no. Sono anche utili per togliersi sassolini dalla scarpa. Parlare è un atto drammatico se un conoscente ti dice a bruciapelo : « Ho bisogno di parlare con qualcuno, soffoco, sto male » . Può creare immagini oppressive, paurosi squarci su cosa siamo e sappiamo fare. Le parole accorate o le frasi di circostanza spicciole (espressioni galanti, toni adulatori, affermazioni servili) impongono spesso uno sforzo disumano, quasi insopportabile. Possono essere dannatamente moleste, soffocanti. Qualcuna, obliqua, può essere piena di autentiche bugie. Davanti a certi modi di dire, si resiste con un sorriso ebete , da persona dotata di "buona creanza". Le parole della conversazione minuta e quotidiana servono per attri­ buire ruoli, gradi d'autorità. Molte sono concise e vivissime. Entro le reti di gente che si conosce bene circolano nomi speciali : compare, padrone, padrino, capo, consigliere, titolare, prestanome. Esistono anche modalità di conversazione codificate che ammettono di tanto in tanto varianti molto interessanti. In una cerimonia pubblica recente, trasmessa da un importante canale britannico, la regina di Inghilterra ha ricevuto saluti e omaggi dalla sua famiglia. Schierati lun­ go file perfette, i parenti della regina hanno posture che indicano la loro maggiore o minore vicinanza alla persona regale. Tutti chiamano la regina "Sua Maestà". Al titolo fanno seguire un discorsetto di poche parole. Così la regina può rispondere con un atto di gradimento, con un breve inchino della testa, un grazie ecc. La scena va avanti per vari minuti. La regina sembra assolutamente contenta e consenziente. Quando giunge il momento del figlio, c 'è una brevissima pausa. Il principe chia­ ma la sovrana "Moummy". Gli occhi della regina sono pieni di sorpresa. Sorride più divertita di prima e fa una piccola mossa extra. Mormora qualcosa. La parola "Moummy" è stata accettata, quasi lodata da questo accenno di conversazione. Di certo non è stata considerata uno strappo grave al rigidissimo protocollo di corte riguardante scambi verbali, parole compite e deferenti.

Quando conversiamo, spesso abbiamo in testa parole precise (di cor­ tesia e intrattenimento, di sollecitazione ecc.). Sono necessarie per essere noi stessi. Alcune sono ben costruite, altre fragili e preoccupanti.

1 . I 7.

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I. LE PAROLE SFIDANO. CI INVESTONO E FILANO VIA

La storia del signor Giorgio, un personaggio della mia giovinezza, esce dai confini del personale, avvia a fatti universali, a riflessioni generali. Ricco e parsimonioso, ma non taccagno, il signor Giorgio possedeva un negozio di dolci. Il migliore della città. Per questo motivo, mi ero convinta che egli fosse persona dolce per forza. Oggi penso che fosse un uomo che voleva uscire dalla monotonia con cose saporite, prelibate, come diceva lui. Allora il suo negozio era la nostra amata meta domenicale. Ricordo bene il viso del signor Giorgio sempre pronto alla buona accoglienza, ma in forme diverse da quelle di altre persone. Assieme ai pasticcini offriva amabi­ lità, con parole piuttosto antiquate. Era generosissimo di parole con tutti i clienti. Era a modo e molto servizievole. Tra gli adulti, alcuni lo vedevano sotto una luce più cruda. Noi ragazzi, tutti, lo trovavamo "in linea" con le nostre esigenze, ma non lesinavamo critiche. I bambini più piccoli amavano tantissimo il negozio e il signor Giorgio stesso. Le mamme trovavano delizioso l'assortimento dei suoi dolci. Dicevano che il locale di Giorgio profumava di buono. Il signor Giorgio si esprimeva su due registri: sussiego e voglia di stupire. Era piuttosto impettito, quasi ingessato. Diventava agile ed estroverso quando gli sembrava fosse il momento di essere parlatore e conquistatore. Da dietro il ban­ co, conversava con i clienti sporgendo un po' il busto. Da questa sua postazione salutava cerimoniosamente o parlottava da solo, "a cascatella". Una volta iniziato il soliloquio, andava avanti a lungo, con convinzione. Si muoveva un po' a scatti. « Parla a ritmo di valzer » , diceva qualche adulto. Con tante parole belle e sonore copriva un qualche tipo di tormento ? Nessuno lo sapeva. Si diceva che era vedovo e in cerca di una compagna. Noi giovani si pensava fosse parecchio strambo come corteggiatore : un po' pupazzo elettrico, un po' Charlot. All'epoca, il signor Giorgio era prossimo alla sessantina. Era un uomo che poteva avvizzire, ma non cambiare nel profondo. Poteva impettirsi ma non im­ porsi. Viveva nello stesso caseggiato dove abitava la mia famiglia, ma non erava­ mo propriamente amici. Nessuno entrava in casa sua. Forse gli sarebbe piaciuto andare in case altrui. Lui, incontrando i condomini, faceva grandi scappellate. In modo particolare omaggiava Cicci, storica portiera dell'edificio, e sua figlia Lilla. Tutti i giorni, sempre solo, si avviava verso il negozio a passo moderato (come se si risparmiasse o si caricasse per una prova di resistenza) . Questo uo­ mo, cortese e manierato, teneva al proprio prestigio e al proprio aspetto. Era affezionato alle giacche Loden in tutte le loro varietà (che comprava anno dopo anno a Bolzano) . Il signor Giorgio aveva un'abitudine, che tutti notavano fin dal primo mo­ mento. Ogni volta che entrava nel suo negozio una signora, lui dava il via al suo repertorio di adulazioni. Usciva lesto dal banco. Si rivolgeva subito alla gentile cliente quasi fosse un dovere inderogabile occuparsi strenuamente di lei. Regalava alla signora un primo baciamano e parole di grande effetto. Le dava molti consigli. Le riprendeva la mano e gliela baciava (anche due volte di seguito) . Tutti i ragazzi 35

IL POTERE DELLE COSE O RD INARIE

stavano a osservare queste manovre e ascoltavano le parolone che le accompagna­ vano. Chiacchierando a ruota libera, il signor Giorgio non perdeva l'occasione di tenere ben stretta la mano della cliente : « Onoratissimo ! Lei è veramente una per­ sona deliziosa: la faccio servire subito » . Ritornava dietro al banco. Si precipitava poco dopo a mostrare qualche cosa di speciale alla signora e semmai a baciare la mano di qualche altra. Veniva voglia di fermarlo e di dirgli che non era necessario proseguire con quei toni e quei ritmi. La conversazione del signor Giorgio era voluttuosa e piena di note alte. Era colma di riferimenti alla profonda gioia che egli provava nell'accontentare questa o quella signora. Diventava un fiume senza freno quando svelava quanto lui si sentisse beneficato e onorato quando baciava splendide mani. Per le mamme, i suoi discorsi erano ridicoli. Lo chiamavano il signor "Posso aver l'onore" oppure "L' in­ cantevole", ma anche il "Leccapiedi" e altre cose peggiori. A modo suo, il signor Giorgio aveva una ineguagliabile, benché maldestra, inclinazione a dar toni rosa alla vita. Alla fine la sua esistenza appariva piena di cose non proprio gratificanti, che sembravano ottime solo a lui. Il signor Giorgio esprimeva i propri pensieri con passione e a più non posso. Volava verso l'alto, senza timori. Su molte clienti, le sue parole, due volte su tre, avevano l'effetto di una colata di melassa e non di un fresco, allegro rapporto fra esseri umani. Solo qualche volta erano veramente toccanti ! Le parole del signor Giorgio, così si pensava, creavano inevitabilmente un'atmosfera surreale, stendevano un velo dolce e opaco ( quasi fossero di zucchero filato ) . Di solito le parole rivolte alle clienti costavano un po' al signor Giorgio, che però non si arrendeva alla fatica. Lui comunque non voleva disturbare, dar fastidio alle adorabili signore. Al contrario. Purtroppo non possedeva altri modelli per trat­ tare con quelle "belle creature", diceva lui. Non sapeva che sarebbe stato bello cercarne uno ragionevole. All'antica quanto basta, il signor Giorgio pareva pensare che le donne fossero quello che non sono, cioè creature da chiudere dentro gabbie di parole dorate. Si muoveva fra loro senza sospetto di sbagliare o senza capire dove era opportuno andare. Se perdeva il filo, tentennava. Si incoraggiava o cullava da sé. E senza ac­ corgersene affondava in beatitudini tutte sue. Ci accorgemmo, un brutto giorno, che il signor Giorgio stava invecchiando. Ansimava troppo. Cercava di stare in forma e continuare la sua sceneggiata quo­ tidiana sfoderando frasi ostinate. Ma ormai lo si vedeva affaticato. Anche quando era stanco, faceva molti inchini: «Venga venga! Lei sa scegliere, il suo palato è finissimo ... lo adoro servirla! » , « Che magnifico profumo ha oggi ! L'ha scelto lei, sono sicuro ... ». Il soliloquio di Giorgio diventava rauco e oscuro. Poi ripartiva con toni un po' più sonanti, senza sfociare in qualcosa di sostenibile o coerente. Rico­ minciava, un po' pallido, i suoi passetti; andava incerto da una signora all'altra. Le signore si stufavano di essere lodate, prima che lui si stufasse di lodarle. Le clienti cercavano una commessa, affrettavano gli acquisti e guadagnavano la porta. Tal­ volta il signor Giorgio espirava rumorosamente, girava lo sguardo con aria pronta

I. LE PAROLE SFIDANO. CI INVESTONO E FILANO VIA

per una nuova impresa (una fortuna per la signora cui un momento prima era stata sequestrata la mano ! ) . La fronte e le guance sbarbatissime di Giorgio non si rilassavano. Le sue esternazioni potevano riaffiorare di colpo. Una mia amichetta, in piena sintonia con quel che pensavo io, guardandolo di sottecchi, un giorno sbottò : « Non riesce a spegnere il motore ... » . Le poche volte in cui i l signor Giorgio s i interrompeva, ritornava la pace. Se non c 'erano signore in giro, il signor Giorgio parlava alla buona. Ma non da plebeo. Amava distinguersi. Dei signori o dei ragazzi non gliene importava granché. E così li faceva contenti passando quasi subito a fornire i dolci. Per qualcuno che lo conosceva bene, il signor Giorgio era un caso senza spe­ ranza. Un cliente con poca pazienza, e ancor meno tatto, lo considerava vuoto, irrecuperabile: «È sempre senza bussola ! Non c 'è da dire altro ! » . Qualcuno so­ steneva che era necessario far sapere al signor Giorgio che doveva dimenticarsi di fare il galante a tutte le ore. Non sapevano come salvarlo dalla sua predilezione per parole superflue ! Il signor Giorgio - che, per di più, non pensava mai male delle persone e neppure di sé - non era triste o infelice. Mai che si accorgesse che il suo adorato locale veniva abbandonato quando le sue chiacchiere erano troppe. O quando qualcuno sussurrava: « Si salvi chi può » . Durante certe strane fughe dal negozio qualche signora sospirava: « S e non la smette, non ci torno più ! » . Ma era tanto per dire. Altre tagliavano corto con mo­ notoni : « Non mi faccia arrossire ! » , « Ora vado ... io, ora devo proprio andare » . Nessuna s e lo sposò. Il negozio fu affidato a i dipendenti, e non ebbe più la stessa fortuna.

I . I 8. Certe conversazioni hanno senso solo se sono segrete. Parlare nel se­ greto è una modalità del conversare sempre un po' sbagliata, per qualcuno quasi peccaminosa. I discorsi sono pronunciati "alle spalle" di altri, per nar­ rare di chi non pensa di essere chiacchierato. I discorsi segreti, bisogna ammetterlo, sono spesso occasioni attraenti per chi parla e per chi ascolta. Molte chiacchiere, date come cose da custo ­ dire, possono scombussolarci notevolmente. I discorsi sussurrati in luoghi ritenuti neutri e di tutti ( bar, pianerottolo, treno) danno una dimensione bizzarra agli incontri più vari. Non stritolano, non rompono legami. A vol­ te sono però cause di netto calo di socialità:

In un taxi, un'amica di mezz'età mi racconta senza imbarazzo cose privatissime, dimenticando totalmente (cosa ignobile !) l'autista. Nella foga del discorso mi spiega: « Il compagno di mia sorella aveva una storia con una; lei se n'è accorta, l'ha cacciato di casa, senza tante scene. Ora lui vorrebbe tornare. Mia sorella non deve proprio farglielo questo piacere. La tengo d'occhio. Ci sto attenta. Lui è un gran bugiardo, non lo voglio proprio lasciare in pace. Non lo merita, non è giusto ... 37

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

Che sopportazione mi ci vuole ! In verità gli ho raccontato delle balle, per tenerlo lontano da mia sorella ! » . Nel discorso della mia amica, il dramma della donna tradita è depotenziato e schiacciato in una narrazione non equa, sbilanciata. Tutta la storia della sorella è condizionata dalla "parte" che la narratrice attribuisce a se stessa. Certamente la storia vera è volutamente gettata alle ortiche. Nello spazio protetto del taxi, la narratrice reclama una parte decisiva per sé. Vuole punire il colpevole e salvare la vittima. Con fare onnipotente, agi­ sce in piena autonomia, alle spalle della sorella e del suo compagno, e progetta un'offensiva in difesa della prima. Sa che la qualifica di bugiardo che ha inflitto all'uomo lo marchia come persona insopportabile. Le parole di colei che narra, per di più, lo segnano come uno che stupidamente si beve le balle e può essere svillaneggiato. La storia, in altri termini, prende una piega che favorisce chi parla. È la sorella della vittima che castiga con poca pietà l' infedele, senza che lui ne abbia sentore. Lei ha avuto la palma della vittoria, perché si è armata delle parole della virtù offesa e della giustizia.

Nel privato domestico, la circolazione dei segreti raggiunge frequenze altis­ sime. I racconti riguardanti soggetti altri sono pieni di assurde esagerazioni. Sono una fonte costante di scoperte , sussulti e sorprese. Se sono pronunciati da gente ascoltata ( giudici, artisti, intellettuali, preti ecc.) , questi racconti famigliari diventano anche casi epici da trasmettere ai posteri. Vengono ser­ viti in repliche infinite, con varianti d'effetto. Questi "racconti di ritorno" o sussidiari contribuiscono a creare un senso di sicurezza nel proprio am­ biente. Sfortunatamente, anche nelle conversazioni più controllate e sobrie, grazie a un senso sballato di verità e di condivisione, vengono a galla notizie incredibili su conoscenti, su gente ignara che non è considerata degna di interesse, con conseguenze immaginabili. Nei discorsi scambiati in sordina, non di rado vengono rilasciate con­ fidenze efficaci. Qualcuno fatalmente diventa un povero bersaglio. Tanti commenti sono noti a tutti, ma sono irraggiungibili dagli interessati. Sono chiusi da paratie intrafamigliari. Se non sono guastati da troppa inverosi­ miglianza, hanno effetti immediati. «Dire tutto è pericoloso e porta male » , mi diceva una vecchia signora di provincia, nota per la sua vivacità e la sua parlantina. «Non dire a suf­ ficienza - continuava la signora - procura sfiducia e solitudine. È dunque consigliabile usare il trucco di aggiungere compitamente ogni due secondi "esclusi i presenti", "salvo le eccezioni" » : la forma è sempre salvata anche se si sa che è dettata da una colossale ipocrisia. In breve, un mélange di minuscole verità e di frottole volatili, di non-

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sense e piccoli scherzi poco rispettosi, condisce tutti i discorsi quotidiani "alle spalle". Malauguratamente alcune di queste situazioni sono patologi­ che, ad esempio, nei rapporti tra generazioni e tra gender, tra consanguinei e parenti acquisiti. E manco a dirlo, fra vicini di casa e d'ufficio, e tra con­ correnti di ogni genere.

I . I 9. Talora, nella conversazione femminile è presente un po' di vittimi­ smo. Molte donne, con l'aiuto di parole ingarbugliate, si commiserano un bel po ', senza il benestare degli uomini e dei propri compagni. Affrontano spesso e in piena libertà, a parole, tanti nodi a volte futili. Pensano anche di dover parlare con brio. A volte oscillano tra verità e fantasie di scarso valore. Mostrano qualche insofferenza per l'ascolto. Nell'atmosfera domestica, le parole delle donne sono sovente "lavora­ te" per garantire loro un posto in cui stare in pace. Nel proprio ambiente riservato, le donne vogliono poter imporsi e non farsi trainare. Caso mai, fa loro piacere far circolare delle novità, qualche buon consiglio o l'ultimo pettegolezzo. Le parole femminili possono servire anche come veri batti­ strada. Hanno successo nel campo del! ' amicizia e della condivisione. Se una donna desidera sceglierne un 'altra come ascoltatrice e confiden­ te, certamente lo farà. Se è sicura del proprio talento e dell 'ammirazione altrui, nulla la potrà fermare. Se l'entusiasmo di chi ascolta dovesse tardare o essere troppo tiepido, una donna di talento si attrezzerà bene. È questa mossa che dà lustro all 'arte del conversare, quella che la donna vorrebbe vedere sempre premiata.

Tutti sanno che la conversazione va avanti se si segue un rollino di marcia, se chi parla lascia spazio a interlocutori e contestatori. Qualche volta, uomini o donne lanciati nella conversazione chiedono compitamente un minuto di attenzione con un : « Sarò brevissimo » . Non basterà di certo, lo sanno tutti ! È una specie di scusa. Una volta ottenuto il minuto, chi ha voglia di parlare fa fruttare il tempo concesso secondo criteri che nessuno avrebbe potuto immaginare prima. Una donna che vuoi farsi ascoltare a tutti i costi ti insegue per tutta la casa, raccontando imprese di nonni, genitori, nuore e zii con i tocchi magistrali del giornalista di cro­ nache cittadine. Un uomo, a volte, ha suoi metodi di attacco, in casa (ma anche fuori). Lascia più in pace gli antefatti, le vecchie storie. La conversazione dovrebbe essere una forma di mettersi in relazione, 1 . 2 0.

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da individuo a individuo, in due sensi. Le persone di solito si ascoltano, interloquiscono, si rispondono. Altre volte il parlare è inteso come attività promozionale di se stessi e niente più. È abolito ogni confronto. Una per­ sona che si stima molto si impegna proprio in soliloqui. Può scivolare dalla conversazione al monologo secco, senza gravi esitazioni e patemi d'animo. L'esibirsi da sola le fa bene, le dà forza. Le garantisce un ruolo autorevole. Chi entra nella conversazione con scioltezza e inizia a celebrarsi e ad adulare, può via via alzare il volume e un po' per volta togliere voce a tutto il pubblico. In molti casi, qualcuno rosicchia ben bene la conversazione e alla fine la svuota. Non gli importa se, così facendo, calpesta i diritti di chi, in­ vece, gioirebbe nel non vedersi continuamente rubare o usurpare le parole. Un solista che va avanti all ' infinito, si sa, può addormentare il pubblico. Se però è geniale, dà il via a emulazioni a catena (sotto forma di chiose, di osservazioni pungenti o di interventi pronti e aperti). Qualche volta, il gio­ co sfarzoso dei talenti discorsivi può avere un esito positivo. Commuove gli astanti in modo patetico e frastorna gli osservatori. A volte getta entrambi nei fumi tormentosi dell'invidia. Chi ha molte parole in serbo, chi è disponibile o incline al soliloquio, prevarica sugli altri perché pensa di essere dotato, informato, capace, e dun­ que in diritto di dire quel che vuole. Trasforma tutte le situazioni in nette conferme della propria bravura e in inviti a proseguire. Dato lo stato di inerzia o acquiescenza di chi lo ascolta, chi parla non può proprio essere giudicato solo un invadente o un inopportuno : va visto come una persona che crede di avere un compito da svolgere. Di norma lo svolge. Non è inutile dire che ogni esternato re solista conquista l'audience (anche quando pur­ troppo è fuori tema o stona) perché spesso confeziona un pezzo da recitare "da maestro". Il parlatore magistrale vince a mano bassa e tiene incollati alla sedia coloro che non parlano altrettanto bene. Gli ascoltatori del solista, in questi casi, sono in ostaggio. Appena ca­ piscono la situazione sarebbero pronti a scappare, ma non osano. Nessuno vuole essere scortese e creare disagi. Gli ascoltatori aspettano a reagire ; la­ sciano sempre intendere che sono solidali con chi parla (pena la fine di ogni amicizia). Sovente sono semi-asfissiati. L'ascoltatore del solista spesso non si difende, pazienta. Ma vuol inizia­ re a dire la propria. È preso dalla premura di raccontarla. Spera che il gioco delle alternanze possa iniziare. Ha l' idea di andare alla riscossa e proporsi come ottimo narratore. Alla prima pausa del monologo, l'aspirante solista che sta attendendo il suo momento tenta di mettersi in mostra. Vuole am­ mantarsi di gloria anche lui. Parte un altro monologo, nato da una splendi40

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da, tacita intesa di altri aspiranti oratori. L' intesa fra tanti bravi narratori di solito stupisce solo gli ingenui. Dura il tempo di qualche battuta, e sfiorisce se il secondo oratore ha le inclinazioni del precedente e del terzo. Il monologo incoraggia via via l'emulazione. Talvolta iniziano discorsi indisciplinati ( in forma di lezione, di omelia, di filippica, di requisitoria, di declamazione poetica, di bieco auto-incensamento ) . Insomma, i monolo­ ghi danno ottimi risultati fino a un certo momento. Dopo bisogna rispet­ tare l'ordine degli interventi, oppure si rischia di creare un brutto ingorgo ( come capita nei talk-show televisivi ) . 1 . 2 1 . Il monologo è un genere di discorso che piace ai giovanissimi e ai bam­ bini. Essi hanno molte belle risorse da giocare. È un tipo di esternazione a senso unico che pare fatto apposta per loro. Nei soliloqui, i giovani mostrano sorprendenti alterazioni di umore, regalano consigli sorprendenti, mettono in luce tattiche da primo premio. Un giorno dicono di avere la chiave della vita e il giorno dopo di non pos­ sedere la più pallida idea di come risolvere i propri problemi, anche quelli più semplici. È chiaro che i discorsi dei ragazzi sono sempre "al femminile" o "al ma­ schile': I monologanti rispettano e impongono questa distinzione in modo ossessivo e permanente. Molti giovani, però, sanno fare percorsi meraviglio­ si. Le loro estasi e le loro aspettative esistenziali - che rispecchiano le saghe di Harry Potter o di Hunger Games o certe serie televisive - divampano a proposito del colore e del taglio di capelli ( dal giallo al verde, al fucsia, alle rapate, ai boccoli d 'oro, alle treccioline sul collo ) . Alle amiche e agli amici, gli adolescenti fanno sapere solo quel che vo­ gliono ; lo fanno scegliendo oculatamente i tempi e dando una vantaggiosa esposizione del sé ( con una montagna di dettagli e di mosse esplicative ) . Mettendo in bell 'ordine fatti e persone, gli adolescenti li collocano in sce­ nografie eccellenti. Da veri solisti, le condiscono con commenti fioriti e perspicaci. Non sanno comporre grandi discorsi, ma li vogliono fare da soli, davanti a un pubblico che sappia interpretare grugniti, monosillabi, ululati, sbruffi. I giovani fanno tutto questo di giorno e notte, di persona, al telefono, in viva voce. Sono specialisti in parolacce, accompagnate da sghignazza­ te. Un giovanottino o una ragazzina raccontano sempre la stessa scena "da protagonista" con una mimica perfetta ( occhi fiammeggianti, risa, gesti ) e con gran voglia di far scoppiare tutti d ' invidia. I giovani sono certissimi,

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inoltre, che un soliloquio fatto di parole dai toni un po' forti o allusivi va benissimo e non è mai troppo lungo per gli amici. Pensano che costoro abbiano sempre l'obbligo di ascoltare attentamente. E di divertirsi. È così che ognuno guadagna il diritto di dipanare, auspicabilmente al momento giusto, un proprio racconto che inizia come sempre con piroette, strizzati­ ne d'occhio. Chi parla guadagna terreno se non perde il filo, se non irrita l'amico spodestato o quello che cerca di farsi avanti. Una bionda signorina parigina, al bar d'angolo di Piace Maubert - un luogo tanto presente a Mare Augé - conversa con un'amica. Lancia frasi a raffica e con stile da rotocalco. Vuole osare e farsi ascoltare da una coetanea: « Tutto bene, lui è un tesoro: mi fa regali su regali. È sempre puntuale, mi guarda in un modo ... » ; «Devi sapere che è molto sexy... ma è calvo. Nemmeno un capello. Ha quel coso lì ... » ; « Molta barba ma niente capelli » ; « Ha una voce baritonale. Ma non l'ha coltiva­ ta. Così sonoro e stonato è riluttante ... e sta zitto » ; « In pubblico non prende mai le mie difese, gli dà fastidio » ; « Mi piace tanto, tantissimo. È alto e mastodontico. Lo noti subito. Porta solo felpe nere, lunghe, enormi, figurati l'effetto ! Stupisce tutti... a me fa veramente effetto ! » ; « Lo mangio con gli occhi... » . La ragazzina beatamente racconta a lungo la felicità di avere accanto un maschio che non passa inosservato. E che l'amica vorrà certamente ammirare con tutto il cuore !

I.22. I bambini di pochi anni si sentono protagonisti di ogni scena, da quella familiare in avanti. Sono attenti alle parole, le "lavorano" a modo loro e le vivono come vie di ingresso all'ambiente in cui vivono. Naturalmente vogliono parlare e vogliono essere ascoltati con attenzione. Sono dei solisti per vocazione innata. Gli adulti si sentono tenuti a dispensare e spiegare le parole ai piccoli (di casa e fuori casa) , impegnandosi a insegnare loro le cose attraverso le parole. Classiche sono le frasi: « Questo è un cane ... Questo è uno gnomo e l'altro un topo » . I grandi si aiutano con tante immagini, matite, bastoncini, palline, cere, stampini. Le parole fantasiose dell' infanzia, che girano ovunque, piacciono sicu­ ramente agli adulti. Ma gli adulti non sempre le rispettano. Talvolta sono disattenti, troppo affaccendati. I vocaboli infantili sono comunque l'esito di un lavoro delicato e pieno di sfumature. I bimbi chiedono sempre di raccontare da soli. I bambini sono spesso precoci e acuti nell'inventare parole e storie me­ ravigliose che trasmettono - se possibile - agli adulti, a quelli pazienti o meno frettolosi. L' incontro fra bimbi e adulti su questo terreno è talvolta

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I. LE PAROLE SFIDANO. CI INVESTONO E FILANO VIA

difficile. Gli adulti inventano regole e proibizioni e non danno pace ai figli. I piccoli devono imparare che esistono parole da non dire, anche se fini­ scono per dirle ugualmente. Tutti i bimbi sanno che bisogna essere molto coraggiosi per riuscire nell ' impresa di "parlar bene", come dicono i genitori. I bimbi hanno bisogno di tempo per sperimentare e assorbire ciò che va bene e riceve consenso. Gli adulti a volte sbagliano tecnica. Parlano di cose che i bimbi riten­ gono proprie e singolari. Si mettono al loro livello, vogliono dialogare con loro, e si impossessano delle fantasie dei figli : vedono i draghi verdi che il piccolo ha appena descritto, si mettono a capo di imprese che il bambino sta organizzando con i suoi pupazzi. Così facendo ottengono pessime risposte, molte proteste. Il bimbo, deluso da queste intromissioni dei grandi, urla: « Mi copi, sei un bugiardo, non hai visto niente ... Voglio parlare io, voglio fare io il drago che butta fuoco ... Non quello verde ... Tu mi copi ! » . La frase «Voglio parlare io ! » è sintomatica. Le scontrosità del bimbo si palesano proprio in queste poche parole. Lui non è sempre in grado di zittire il genitore, il quale - per ribadire il proprio ruolo - può diventare irrefrenabile. Per rimediare al latte versato, può straparlare : « Il mostro c 'era proprio ! Era seduto alla mia scrivania e mi ha guardato ! » . Niente da fare, il bimbo protesta e non si vuol pacificare con il papà. Le due parti, genitori e figli, non trovano una via d'uscita; le loro narrazioni volteggiano, si rin­ corrono. Tutto resta a mezz'aria. Il bimbo è proprio scontento di non aver spazi verbali sufficienti. Qualche genitore, che forse sottovaluta il bimbo, non ha voglia di ri­ nunciare all' immaginario macroscopico e in technicolor del figlio. Procla­ ma arzillo, un po' petulante : « Hai ragione ... È come dici tu, il tuo mostro è proprio cosÌ » . Vorrebbe continuare a parlare del mostro per placare il bimbo, per mostrarsi sotto una luce migliore. Ma sa che non funzionerebbe.

I . 23 . La maggioranza dei bimbi vuole parlare presto e tanto. E alcuni di lo­ ro danno prova di riuscirei abbastanza. Altri meno. Qualcuno dei piccolis­ simi, pacifico e sognante, aspetta cioè a lungo prima di buttarsi nell' impresa del parlare. Con tante prove, sceglie i termini come meglio può. Salta quelli con troppe sibilanti o doppie. Evita suoni aspri e non si arrende mai nello sforzo di imitare gli adulti. Vuole esprimere i propri dolori e le proprie gioie con tante vocali. E vuol parlare per primo e con libertà. Mentre storpiano parole e parole, i piccoli si aiutano con occhiate, trilli radiosi, braccine protese, oppure faccette lacrimose e imploranti. E diventa-

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no inventori di parole incantevoli e incomprensibili che, se sono ben accol­ te, si stabilizzano ed entrano nel linguaggio quotidiano. E fanno diventare il piccolo un solista di talento. I bambini fanno fatica a calmarsi e ad aspettare il loro "turno". Quando viene finalmente concessa loro la parola, sono stremati o fuori dai gangheri. Qualcuno si dà coraggio, insiste con molta ostinazione. Si lancia con tutto se stesso. Farfuglia, tenta di tirar fuori la parola giusta, ma è incerto e lento. Piagnucola perché si è dimenticato quello che voleva dire. In certi casi, si impermalisce moltissimo perché qualcuno finge di dargli la parola ma poi non lo fa. Il piccolo si contorce, versa lacrime amarissime : «Nessuno mi ascolta. Tocca a me parlare, ho detto ! » , mugola con occhi fiammeggianti (ma non sa dire la frase giusta e tribola ancor di più). Anche i ragazzi abbastanza grandi, quando hanno l'età della ragione, so­ vente parlano maluccio. Il loro frasario - a regime lento o torrentizio che sia - è carente. Usano temporeggiare prima di dire la frase ad alta voce. In occasioni formali, la loro conversazione non va oltre rispostine cavate loro dalla bocca con amorevoli incoraggiamenti (o con la metaforica forchetta). Spesso i bimbi non ottengono spazio e non riescono a farsi capire per­ ché i grandi non hanno tempo di ascoltarli. Le mamme e i babbi spiegano a certi irrequieti frugoli che bisogna rispettare un ordine, attendere il mo­ mento giusto per attaccare a parlare. Poi essi stessi prevaricano. La lentezza verbale dei ragazzini, con i loro molti « Ah, oh, dai » , crea vuoti non proprio gradevoli. Se un adulto interviene con proprie parole, si è detto, nasce un dramma. Il bambino constata la propria irritante incapa­ cità di sbrigarsi. E si mette ansia da sé. Spesso ci rimane tanto male che tace definitivamente e se ne va sconfitto in un'altra stanza, macerato dal dolore. Può cioè fare un fiasco solenne proprio a causa dell' intervento sollecitante degli adulti. Il fiasco non chiude la faccenda, perché non c 'è mai una sola via d'uscita nella ricerca delle parole ! In precisi ambienti, appena si sentono le conversazioni di genitori un po' spaesati o reticenti, si capisce la ragione di tanti problemi. Si capisce che, malauguratamente, sono insufficienti i discorsi veri che vengono adoperati dagli adulti. Si preferisce da parte dei grandi dare risposte che nascondano il problema. Spesso si constata che i bimbi che usano un bla-bla incoerente o di­ cono cose arruffate, lo fanno perché non sentono discorsi filati da parte degli adulti. Sono, talvolta, quest 'ultimi a non sapere bene la lingua, o a impantanarsi in qualche espressione ruvida e maleducata come : « Quanto romp1. ,. » . 44

I. LE PAROLE SFIDANO. CI INVESTONO E FILANO VIA

Fare promesse e rinviare tutto a un altro momento è la prassi quotidiana usata con i bimbi. Lo si fa con naturalezza. È grazie a questa altalena di paro­ le lusinghiere e nebbiose che non di rado ci manteniamo a galla. Insomma, da una parte non si dà veramente ascolto ai bambini e non si insegna loro a parlare bene ; dali ' altra, non si evi ta di dire cose iperboliche e irrealizzabili, promesse sciocche, di fare rampogne fuori tempo, pretendendo di soddi­ sfare esigenze infantili molto impellenti. Quel che è veramente tragico è che i minori non possono "fare a meno" di vivere in situazioni in cui i grandi dicono parole scorrette o assurde, in cui dispensano minacce assieme a verbi sbagliati, a intercalari stupidi o osceni. I bimbi sono pronti a imporsi con molti tipi di parole. Inventano termi­ ni, senza troppo disorientarsi davanti a parole altrui fuori luogo o stonate. Vogliono affidarsi alle proprie fantastiche aspirazioni, raccontarle e utiliz­ zarle al meglio. I bimbi piccoli non hanno possibilità di scegliersi model­ li linguistici appropriati, di capire quale codice o regola lessicale sia bene adottare. Apprendono quel che sentono. Nell' imparare parole, i piccoli marciano su una strada in salita, piena di ostacoli. Sanno a volte gestirsi, tirare l'acqua al proprio mulino, perché sono stati allenati dai discorsi e dagli sproloqui degli adulti. Hanno cercato, il più possibile , di entrare nel gioco della vita e di vincerlo con le parole ardite raccolte in giro. La fatica è però immensa.

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Dove conducono le pause e i silenzi

Nei discorsi che circolano dentro ai nostri microcosmi quotidiani si insi­ nuano o si incastrano varie pause. Se calcolati a modo, gli stop hanno un loro stile o una loro dignità. Fanno spesso capire meglio il senso delle parole. Quando sono contenuti, fanno un gran bene a chi parla perché consento­ no di prendere un po' di fiato, di tranquillizzarsi, o di darsi il necessario coraggio. Le pause fanno anche altro. Fanno percepire che c 'è qualcosa nell 'aria o in palio. Tant 'è che ogni rumore cessa; mancando le parole, l'attenzione de­ gli ascoltatori si ravviva. Si aspettano cose nuove o inattese. Viene alla luce il valore di una sentenza, una civetteria, la retorica o il bon ton del parlante. È quando incominciano a essere più lunghe che le pause possono farci sen­ tire a disagio, o farci rabbrividire. Temiamo, cioè, che sotto le interruzioni possano nascondersi manovre. I silenzi sono differenti dalle pause. Sono atti un po' ostentati, accen­ tuati. Spesso rimuginati e sbattuti in faccia. Sono fenomeni complessi, a volte invadenti. Se ben costruiti o ben ricamati, investono una gran parte della vita, privata o pubblica. Spesso i silenzi sono impressionanti perché so­ no impiegati con impietosa determinazione. Laddove vengono invece usati controvoglia o per dovere, coprono segreti e forse stanno dando delle dritte. Alcuni vuoti di parole sono più o meno temibili: fanno intravedere in­ comunicabilità, distanza insormontabile. Un movimento marcato del viso, non accompagnato da parole, può diventare qualcosa di scostante. Quando la mossa silenziosa è appena accennata ed enigmatica, può diventare offen­ siva. Un sopracciglio alzato, accompagnato da un buio mutismo, blocca il respiro, provoca balbettii. Il silenzio lascia un segno misterioso. Non facilita mai la confidenza e la spontaneità. Talvolta, si sa, spazza via le proteste o le accuse urlate. L'assenza di parole, se protratta, può far nascere malintesi o sottintesi che immancabilmente danneggiano. Certi lunghi silenzi e mutismi non so47

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

no sopportabili. Sono tattiche astutamente inventate per sviare, disturbare. Creano fronti, partigianerie. A volte è proprio lo stare "senza aprir bocca" dell'avversario che gli consente di ottenere la vittoria, perché smorza ogni energia nella sua controparte. I silenzi di una certa consistenza possono avere l'effetto di destabi­ lizzare l 'avversario, di privar! o di un obiettivo, di sottrargli le armi per combattere. Esistono potenti "parole silenziate" - tenute nascoste al fon­ do dei pensieri - veramente devastanti, che si devono tacere anche se si vorrebbe sbatterle in faccia a qualcuno. A volte, come le armi da fuoco, queste parole sono pronte e caricate e possono esplodere senza preavviso, di sorpresa. Parecchi termini (parole iniziatiche, formule magiche, nomi di Dio, ingiurie e spergiuri) richiedono controlli. Non sono vietati, proibiti, occul­ tati in modo permanente. Sono trattenuti a denti stretti, o in modo irritato. Neppure altri (sacro, santità, immacolato, anima, miracolo, ispirazione e molto altro) ovviamente sono banditi. Sono usati con estrema parsimonia e senza ironia, perché toccano temi complessi, imbarazzanti. 2 . 1 . I silenzi sono necessari alle usuali relazioni umane. Non sono però facili per nessuno. Raramente possono !asciarci veramente soddisfatti. In generale, si deve dire che mentre il conversare è un atto utile, un 'arte amata da tutti, il tacere può demoralizzare. Può far vedere ogni cosa attraverso la lente detestabile della povertà di spirito o della gara perduta. Per qualcuno, tacere è un comportamento deprecabile che va rinne­ gato. Si può qui solo notare che ai megalomani e agli arroganti non piace stare muti, perché ciò contrasta la loro voglia di protagonismo. I timidi o gli eterni indecisi, invece, prediligono i silenzi calmi e poco impegnativi. Cavalcano l' incertezza pensando alle "parole silenzi ate" di cui sicuramente dispongono. Laddove scarseggia la comunicazione verbale, di norma, si pensa di vi­ vere una situazione piuttosto deprimente e piena di ombre. Si cerca, con vari espedienti, di non esserne intrappolati. Si occupa il tempo a cercare un altro punto di vista che ci aiuti ad uscire dallo stallo ossessionante. Il silenzio entra in tanti processi sociali. A volte, è denuncia esplicita o difesa ultima. Star zitti, per amore o per forza, non ci espone a immediate decisioni o a prese di posizioni sul fronte sociale. Permette talvolta una conclusione morbida di affari intricati ( grazie a una stretta di mano, saltini di gioia, uno sventoli o del cappello ecc.) e tutto torna in ordine senza troppi

2. DOVE CONDUCONO LE PAUSE E I SILENZI

costi. Socialmente, con il silenzio ci ricollochiamo e facciamo ricollocare pacificamente anche gli altri. Interrompere il silenzio è qualche volta un 'esperienza che non viviamo volentieri, e non sempre con senso di giustizia e lealtà. In casi difficili o stra­ zianti, interrompiamo il silenzio con sospiri e gemiti rauchi, non con vere parole. Se vogliamo segnalare che stiamo veramente per uscire dal mutismo ostinato, a volte usiamo frasette sommesse ma eloquenti o pungenti. Sono modi per farci notare, per richiedere attenzione, compassione. Non sempre, cioè, lanciamo strilli acuti per segnalare che la tregua è finita e che il nemico sta per essere stanato e messo con le spalle al muro. Se qualcuno, invece, sceglie di chiudersi nel "silenzio assordante", il fat­ to - segnato da un viso contratto - ci può prendere alla gola e amareggiarci. Ci sentiamo dentro una morsa. Cerchiamo di trovare uno sbocco, di dire la nostra. Altre volte serriamo la mandibola. Cercando di vincere il disagio possiamo entrare in uno stato di paura o astio, in uno stato di paralisi. È come dire che possiamo cambiare, più e più volte, il senso del "fare silenzio" e dell' interromperlo. In alcuni casi o luoghi ( in piazza, nei tunnel della metro, in uno stadio affollato ) , ci ritroviamo a invocare mentalmente il silenzio, un po' di pace. Arrestare le parole può essere necessario ; può significare essere più presenti a noi stessi. Non è paradossale. C 'è chi non gradisce il vociare dei raduni, i cori che danno sfogo e i discorsi tonanti. Capita a parecchi di sentirsi un po' istupiditi e desiderosi di essere altrove. Al di sopra di tutto, apprezzia­ mo il silenzio, soprattutto dove manca e quando lo spazio acustico comune diventa luogo di bagarre. Il nostro microcosmo abituale, se fosse privato di tutti i rumori, sarebbe incomprensibile. Senza arresti e ripartenze di suoni e senza frastuoni sarem­ mo spaesati, senza punti di riferimento. Per capire dobbiamo smorzare un po' le voci, e ascoltarle. Non farlo, come dice Augé, « sarebbe come giocare col fuoc0 » 1• Non sapremmo capire come il fuoco è stato appiccato, né quale energia lo ha scatenato. 2.2.

Smorzare voci e suoni può, in certi casi, impoverirci. Siamo nella ne­ cessità di capire che spegnere le voci e le parole - entrare cioè nel silen2.3.

1. M. Augé, Le nuovepaure, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 27.

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zio - può capitare per caso o per incapacità. È in questa situazione che si vede cosa i silenzi significhino. A proposito di Babbo Natale, ad esempio, tacciamo molte cose, nascondiamo la verità ai bambini per far posto alle cose inventate, dette per convenienza. Diciamo menzogne e tacciamo la realtà per dilettarli. Dobbiamo silenziosamente sobbarcarci un pizzico di vergogna per l'inganno che costruiamo. Mi è capitato di oscillare tra parlare e tacere in un faccia a faccia con un personaggio famoso. Pochi giorni prima di Capodanno - qualche anno fa - è stata organizzata nella mia città la presentazione di un nuovo romanzo di un autore straniero. Appena saputo della cosa, ho pensato che valesse la pena di andare a sentirlo, a parlare con lui. Tanto più che la sua scrittura riguardava genti e storie che conosco piuttosto bene. Dopo averlo ascoltato con molta attenzione, mi sono avvicinata per salutarlo. Ho sentito di cadere in generiche congratulazioni. Mi è uscita una breve frase, un po' stonata: « Ho finito di leggere il suo romanzo precedente proprio ieri sera » . No­ tizia vera ma banale, anacronistica, da tacere ! Suona falsa, anche se è autentica. Ho aggiunto : « Sono contenta che lei presenti qua il suo nuovo libro ! » . Altra cosa da non dire. È ovvio che non importa se sono contenta che si presentino libri a Parigi, a Palermo o a Pomezia. Per ravvivare un po' la conversazione, ho cercato di parlare dell'eroina del romanzo appena letto ( che sinceramente ho trovato stupenda ) . L'autore mi stava guardando con una certa contentezza. Anche lui era di poche parole, ma sembra­ va in pace. Doveva firmare autografi, non chiacchierare. Diceva qualcosa fra sé : « Ah, sì, ho capito. Stiamo parlando dell'altro romanzo ? Piaciuto ? » Ho risposto troppo lentamente : «Le stavo dicendo che la protagonista è stupenda, la si ama subito ... » . Lui ha alzato gli occhi e ha risposto : «Grazie di avermelo detto ! » . Ho aggiunto : « Nell'eroina h o visto una donna dei nostri tempi che combatte, conquista, non si piega. È una madre che seduce il lettore, mette in moto senti­ menti profondissimi... » . Valeva la pena descrivere la protagonista con un po' di vigore ! Mi sono invece subito arrestata. I secondi sono passati inesorabili, uno dietro l'altro. Alla fine le pause inconcludenti hanno bloccato il mio discorso. In un discreto frastuono della sala, sentivo un po' di disagio a insistere con frasi convenzionali, di poco conto. Forse stavo mettendo a disagio anche lui. Mi sono detta: « Non ho saputo parlare dell'eroina; è una figura che mi commuove ! La sua storia è sostenuta ma anche tormentata da sentimenti squisiti e tragici, da destini irreparabili ... » . Persa nei miei pensieri, ho rinunciato a parlare. Tante sensazioni s i sono aggro­ vigliate. Sono rimasta inerte e tutto si è dissolto nel silenzio. Sono rimasta frenata anche dall'atmosfera espansiva ed entusiasta del pubblico. Tutti, un po' eccitati, hanno scambiato pareri e valutazioni. In mezzo agli applausi, cosa mai si può dire ? Non ci potevo infilare altri auguri, altro consenso. Tacere era naturale. so

2. DOVE CONDUCONO LE PAUSE E I SILENZI

Poco dopo mi sono trovata a meditare lì in piedi, col nuovo romanzo in mano, pronta a farmelo firmare. Zitta, l'ho allungato d' impeto all'autore. L'au­ tografo è sempre un bel segno - da una parte è prova di cordialità e vicinanza, dall'altra di omaggio e di rispetto. L'autografo lancia muti messaggi di intesa, tempi da ricordare. Constato che le buone intenzioni di parlare con lui erano state bruciate in pochi attimi. Avevo cose precise da chiedergli ma l' incontro era finito. Conversare non era più possibile. L'autore ha concluso in fretta : « Ecco il tuo autografo » . Me lo ha offerto come un augurio, con una stretta di mano. Il suo volto era genuino, concentrato e non severo. La sua mano firmava un volume dopo l'altro senza scatti teatrali. Era assalito da tante persone che lo conoscevano bene. Lentamente sono andata verso l'uscita, era notte. Sono scappata via dal brusio. Per strada, l'atmosfera cominciava a essere diversa, dominava sempre più il vuoto ed erano sempre meno le voci. Un po' di calpestio ha coperto le ultime parole che ho scambiato con l'autore, che - mi viene da pensare - aveva un colorito pallido e occhi azzurri sgranati dietro le lenti. La sua mano ossuta ha stretto forte, senza ritrosia. Sovrappensiero, ho poi guardato l'autografo. Calligrafia inclinata verso sinistra, irregolare. Le lettere inclinate mi facevano venire in mente il gioco del tiro alla fune. L'autore non voleva tirarla, ma non la lasciava andare. Aveva avuto a lungo il pubblico in pugno. Alla fine è restato solo con il presentatore. Ha preso a parlare fitto fitto con lui : sapeva di aver fatto centro sull' immaginazione del pub­ blico, senza spendere gesti teatrali o cerimoniosi. Non ha voluto fare spettacolo. Il suo saluto finale, in sintonia con i drammi laceranti di cui scrive, è stato espansivo e insieme pacato. Il pubblico appariva sempre più distratto e frettoloso. Si dedicava a conversa­ zioni usuali, quelle che si sanno imbastire per esorcizzare il silenzio.

2.4. Il silenzio è d'oro, dice un vecchio stereotipo, e perciò bisogna col­ tivarlo, curarlo. Spesso star zitti è un fatto di convenienza e di solidarietà. Il silenzio si addice a certe persone, non a tutte. Qualche volta catego­ rizza, qualifica un individuo rispetto a tante categorie di persone. È questo il caso delle madri. Le madri vivono e raccontano molti loro silenzi. È un fatto da tener presente per capire cosa esse non vogliono affidare alle parole, volatili e instabili. Il silenzio femminile atavico o occasionale, di stampo cortese o tenden­ te all'apocalittico, è un argomento interessante. Nelle società del passato o quelle arcaiche di oggi è stato sovente chiesto alle donne di fare silenzio in milioni di modi, soprattutto in situazioni pubbliche. È stato loro coman­ dato, imposto, anche in sedi rituali. La storia ha mostrato che è stato loro chiesto di non rispettarlo, con atti e performance in momenti critici della vita propria o altrui. Quelli riguardanti la morte e il cordoglio.

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IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

C 'è un dato di partenza importante. Due volte su tre, le donne non sono le destinatarie delle conversazioni o dei discorsi pubblici, e ciò le mette un po' fuori gioco. Tutti i discorsi politici che iniziano con « Cittadine e cittadini ... » - e che sembrano i più educati e corretti - sfortunatamente non tengono veramente conto della dualità uomo-donna. Gli oratori si dimenticano dati ed eventi reali, immediatamente dopo aver pronunciato le parole iniziali che salderebbero donne e uomini. Queste dimentican­ ze - ignorate anche da parte delle donne - svelano non solo disinteresse ma soprattutto imperdonabili ipocrisie. I silenzi sulla vita delle donne non ci meravigliano più. Tante sono le piccole o grandi discriminazioni che ogni giorno farciscono le memorie storiche a tutti i livelli. Di solito, inoltre, omissioni di ogni genere sono prove di disinformazione bella e buona e naturalmente ingiustificata. Ma sono così ben congegnate che fanno credere in realtà di fatto inesistenti. Fortunatamente alle parole delle donne, oggigiorno, si fa ormai un rife­ rimento sempre più ampio. Ma non sempre si discorre bene. Parlando delle donne, soprattutto di quelle zitte e obbedienti, i discorsi possono essere banali, standardizzati. Si può finire per collocarle in gruppi allargati, gene­ rici e inclusivi (la gente, il corpo docente, la famiglia, la classe operaia ecc.) e non distinguerle per quel che sono, soggetti diversi. Il mondo femminile , in sé diverso da altri mondi e per di più molto variegato, è un campo d 'osservazione sterminato. Non c 'è dubbio che sia in gran parte sconosciuto. Rappresenta soggetti e agenti manipolabilissimi da molte parti e per molti scopi. Il mondo delle mamme, di ogni età, rinvia a tante fatiche e altrettanti sogni silenziosi. Narrando il mondo femminile e soprattutto materno non si cade mai nell ' insulsaggine, se si pensa quanta buona volontà le madri dedicano, anche nel più stretto riserbo, a far crescere piccoli e piccolissimi. Ciò significa che pensare che la silenziosa dedizione di una mamma sia do­ vuta a un "fatto di natura", a "un istinto", oppure sia irrilevante o compulsiva, significa non capire.

2.5. Le mamme possono essere descritte con un po ' di ironia. Sono creatu­ re sempre in prima linea, ma a volte sono una miscela esplosiva di attivismo e di esaltante presunzione. Il loro modo di monitorare e proteggere la loro figliolanza è eloquente. Le madri, più o meno giovani, non hanno simpatia per il silenzio. Usano poche pause se si tratta di narrare le storie della prole. Con discorsi

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2. DOVE CONDUCONO LE PAUSE E I SILENZI

estrosi raccontano i figli, le loro trovate, le loro bizze con molte diva­ gazioni. In sostanza, tener le mamme zitte è quasi impossibile. Loro odiano stare da parte e non dire quello che sanno. È così che sono pronte di tanto in tanto a togliere la parola ad altri, perfino alle altre mamme o alle proprie. Non fosse altro che per stare dalla loro parte e approvarle. Per tante mamme l'argomento figli ha un netto vantaggio su tutto ed è sempre a la page. Non passa di moda : dà entusiasmo e mette in luce stupen­ de idee. Le madri sanno che i figli fanno sognare e tribolare per l' intera vita, estate e inverno, dentro casa o in vacanza. E che alla fine diventano sempre fonti di vivide narrazioni. Per gioire delle cose dei figli, le mamme chiedono, il più delle volte, un attimo di silenzio per parlare con agio e dar conto di cose che si sono taciute troppo. Il più delle volte si prendono la libertà di non tenersi dentro nulla. E attaccano un racconto straordinario, che va ben oltre l'attimo che è stato loro concesso. Quando sono lanciate nei ricordi, le mamme sono felici. Le storie dei piccoli (ma anche di quelli ormai cresciuti) trascinano verso l'alto. Offrono un ottimo trampolino verso il domani. A proposito dei figli, le madri stanno zitte per prudenza e voglia di sicu­ rezza. Vogliono minimizzare o parare casi sintomatici o cruciali dei figli con il mutismo. Possiedono però un archivio ben fornito di notizie da condivi­ dere e di traguardi ancora da raggiungere. Hanno sufficiente fermezza per non far esaurire l'attenzione sui casi più interessanti. È un dato scontato. Insomma, se si infervorano, le mamme possono ricominciare da capo ogni tipo di ricordo e sviluppare un soliloquio da record. Ma sanno anche stare in silenzio per il bene comune. In situazioni un po' strane - che le irritano o le tormentano - le mam­ me dicono che hanno deciso di tacere e di mantenere il segreto. Possono assumere un 'aria ostinata e impermalita. Ma la promessa non dura molto. I silenzi, a un certo punto soffocano, fanno male allo stomaco. In certe si­ tuazioni le mamme si concedono qualche pausa, piuttosto modesta se pa­ ragonata al diluvio verbale, liberatorio, che avrebbero voglia di scatenare. Le parole silenziate non vengono più rinviate, vengono messe in libertà. Le madri giovanissime non amano per niente il silenzio, sono pron­ te a snocciolare stupefacenti notizie. Di solito, non esercitano volentieri il modello "bocca chiusà'. Non possono far passare inosservate un mucchio di cose perché si sentono padrone del futuro. Con parole abbondanti e ben scelte esorcizzano ogni tipo di silenzio. Si dilungano sugli apparecchi dentari, sulle novità farmaceutiche, sulle passioni per i giochi elettronici. 53

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE 2.6. In merito alle pause e al silenzio, complessivamente, le mamme se­ guono due leggi. La prima è non mettere mai al bando la propria loquacità per favorire la pace altrui. Quando sono in vena, le mamme aumentano lo scarto fra sé e gli altri. Quelle molto impegnate, in questi casi, si specializ­ zano nell'arte computeristica e mnemonica. Catalogano i diritti dei bam­ bini piccolissimi ( anche quelli che non hanno l'approvazione dei babbi). Di tempo in tempo, recitano a bassa voce raccomandazioni e consigli, per non farli evaporare. Cento volte su cento, gli interventi senza pause che le madri rispet­ tano sono quelli di altre madri, a patto che esse sappiamo dimostrare che sanno il fatto loro. Alcune tirate di frasi allusive che circolano fra loro servono a tutte come insegnamento. Gli uomini, intanto, soffrono di un senso di vertigine e rinunciano a mettere freni alle mogli, che complot­ tano con altre madri per difendere il meraviglioso futuro dei figli (che, al momento, razzolano sul tappeto) . La seconda legge delle madri è più complessa: esse spesso vogliono conquistare il monopolio di tutti i com­ piti e i doveri genitoriali. Non il primo posto, ma l 'esclusiva. Qui le pause e il silenzio hanno ancor meno peso. L'ambizione delle mamme è quella di diventare una super genitrice, senza tempi morti, discettando quotidia­ namente su un mucchio di questioni, assumendo per sé tutti i ruoli dei genitori. In questo campo, le madri non temono il grottesco. Sognano e cercano la perfezione. Queste madri conservano - silenziosamente nel cuore - una idea di educazione superlativa per i loro figli. Essa è sempre costruita sul loro altissi­ mo impegno personale. In questo senso, la perspicacia materna è presentata come una "manna". Le madri, in fondo, ritengono che sia necessario procurare ai figli auto­ stima e molti mezzi di sperimentazione. E non fanno passare sotto silenzio la loro visione delle cose. Il punto è che, più che spiegarla a voce, la mettono in pratica stando ermeticamente in guardia. Tante le strategie cui ricorro­ no, senza perdersi in chiacchiere. L'amatissima creatura viene iscritta a una quantità indescrivibile di corsi ! Bisogna infatti che i figli sappiano suona­ re almeno due strumenti, parlare due o tre lingue straniere, praticare fin dai primi anni una mezza dozzina di sport leggeri, raggiungere una buona conoscenza delle arti marziali, degli esercizi di resistenza-manualità. In al­ ternativa a questi scopi, i figli possono ottenere destrezza negli scacchi, nei giochi di società, nelle gare di precisione, e i più grandicelli devono sapere tutto ciò che concerne lo shopping online e l'home banking. La paura delle mamme è che i piccoli siano troppo riservati, poco brillanti in società, mal

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2. DOVE CONDUCONO LE PAUSE E I SILENZI

attrezzati nelle cose che devono essere conquistate per mantenere in piedi il mondo. Le famiglie con figli piccolissimi vivono una vita a fasi alterne che ri­ guardano donne e uomini. È necessario un totale silenzio se il pupo dorme ( telefoni staccati e apparecchi ronzanti disattivati ) e grandi chiassi e ro­ camboleschi salti da baraccone se il pupo si è svegliato. Ci sono anche altre alternanze. Gli incontri di mamme ( e/o di babbi ) possono tramutarsi in "sedute, regolari - a tempi fissi - negli spogliatoi della palestra, alla fermata dell'autobus, al supermercato, ai giardini pubblici, alle riunioni di classe, in cartoleria, ai raduni degli scout, alla gara calcistica, alla tombola natalizia, negli ambulatori medici e naturalmente a casa di amiche di amiche cono­ sciute nel luogo che tutti i genitori frequentano : l'area di sosta davanti alle scuole. La catena dei contatti verbali, quotidiani, non è solo robusta, talvolta è saldamente chiusa. È accessibile a pochi, con precise regole e precisi obietti­ vi. Alcune reti relazionali si aprono fortunatamente per accogliere qualche persona ( un eventuale genitore ) un po' isolata, che vive ad alta tensione, che non dice verbo anche quando dovrebbe dire la sua. La si gratifica con buone parole, ma senza troppa enfasi. La fiducia può essere revocata alla prima infelice uscita del soggetto benevolmente accolto. Ci sono anche altre situazioni quotidiane, in cui il tacere delle mamme e dei papà è fuori luogo. Sono spesso i genitori molto giovani o quelli che credono smisuratamente in se stessi - riuniti, per così dire, nel "club degli entusiasti, - che sono attivissimi. Si informano su tutto, hanno visto ogni soluzione in anticipo e a gran velocità, imparato cose strabilianti o preziose. Tutte queste manovre sono una fastidiosa tribolazione per genitori, fratelli, coetanei, vicini, amici e insegnanti dei figli, ma essi non si scoraggiano. 2.7.

In molte persone esiste una forte inclinazione ad affidarsi alla rete. Il silenzio è imposto dallo strumento elettronico stesso, che è un mezzo fatto di comandi e pulsanti ( invia, rispondi, cancella, incolla ) . In sostanza, una persona sta davanti al video e alla tastiera per scrivere, per lanciare idee, ma è di fatto innanzi a una scena di silenzio, di isolamento. Resta dentro una bolla vuota di suoni ( che però invadono lo spazio cosmico ) . Alcune donne o certi uomini superattivi con la rete hanno mezzi co­ municativi eccezionali. Fanno ogni tipo di passaparola, coltivano vari tipi 2.8.

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IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

di passatempo. Mandano messaggi per ogni questione relativa al lavoro, alla politica, alle disavventure proprie o di qualcuno. Parlano delle maestre, delle bidelle, dei professori. Molte loro iniziative di base (con le mail, le app. i messaggini, i registri elettronici ecc.) arrivano sempre prima del piano didattico ministeriale e senza sprecar fiato. Il silenzio elettronico, se si dimentica il lieve suono di una tastiera, è molto affascinante. Lo usano molti adolescenti, professionisti e gente pub­ blica, perfino i nonni. Turti sanno che "postare" è un fatto effimero e che in un batter d'occhio la pace e il religioso silenzio possono saltare. Capita esattamente quando la connessione si interrompe, o quando i timpani scop­ piano perché qualcuno fa strepito. Se è un pupo l ' individuo che è entrato in crisi, il silenzio sarà ripristinato quando vorrà lui (eventualmente grazie a un piccolo schermo lucente) . Moltissime mamme, con forte temperamento e gran voglia d i fare, sono in servizio permanente nei servizi telefonici o telematici. Hanno preso sul serio i nuovi media, a cui spesso sono state iniziate da altre donne (e in certa misura da uomini che vogliono dar loro una mano). E sono diventate piut­ tosto esperte, gareggiano in abilità con compagni, colleghi, amici. Se alcune evitano lunghi messaggi o tante chiacchiere, sono però a dir poco "sempre connesse", sempre in attesa di risposte e di informazioni. In poche parole, le donne si sono aggiornate e attrezzate bene. Lan­ ciano infinite foto, richiedono commenti, dati professionali più o meno promettenti. Usano la voce e il silenzio con molta maestria. In particolare, le casalinghe di oggi e di ieri si sentono promosse, proiettate in un mondo esterno condiviso da tantissime persone. È questo un grande passo avanti per chi è spesso dato come "fuori mercato". Per alcune donne il silenzio del computer e l'atmosfera lunare che esso emana giocano una parte eccellente. Sostanzialmente è il lunare che rende i media più interessanti e capaci ai loro stessi occhi.

Le donne e gli uomini danno molti significati alla diffusione telema­ tica. Amano proprio la rete, che dà opportunità e detta legge. Purtroppo ritengono che ciò che si incontra in rete sia accertato, autentico e reale, sia un processo di crescita dell 'umanità, raffinato e nello stesso tempo demo­ cratico. Trasmettono a tutti ( a figli e parenti in primis) questa convinzione, questo tipo di credenze. Le donne rendono lo strumento mediatico qualche cosa che in sé non sarebbe. Grandi flussi di contatti, saluti, divulgazioni varie, imperversano 2.9.

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2. DOVE CONDUCONO LE PAUSE E I SILENZI

nelle abitazioni di ogni livello, senza il filtro del vero e del falso. Le donne hanno reso domestica l'apparecchiatura telematica. In casa ogni individuo è in possesso del necessario per crearsi una propria, silenziosa, introversa domesticità elettronizzata. Questo tip o di domesticità uccide l'altra, quella tradizionale. Non si parla fra essere umani, ma si interroga la cosa elettro­ nica, si cercano - senza alzare la testa - tutte le informazioni che risolvono crisi incombenti, scadenze, piccoli disguidi. Si fanno verifiche da sé, e in un attimo di intensa concentrazione. Si incrociano dati in modo muto, pre­ mendo con un dito un mouse, una tastiera (o cose analoghe) . Molte donne - più dei ragazzini e delle ragazzine - sono dunque in­ cantate dal fatto che con due colpetti delle dita sul piccolo display si possa avere il mondo a disposizione : possono scovare ricette, fare prenotazioni, acquistare biglietti di teatro, rispondere a questionari, socializzare con tutti, conoscere i film da non perdere. Si sentono informate solo dalle espressioni e dai proclami che dominano la rete. La vedono sotto la bella luce dell 'effi­ cienza e dell 'onnipotenza. Infinite idee sono trasmesse, da madre a madre, senza l'aiuto della rete, seguendo la regola del silenzio-assenso. Le idee delle mamme si compon­ gono in schemi liberi, valgono molto se vengono presentate bene. In precisi casi, vengono anche illustrate con disegni e mappe. A una certa età, le madri e i padri si rassegnano e si rifugiano in "op­ portuni silenzi" che corrispondono a reali iso lamenti (e talvolta a piccole umiliazioni). Stanno zitti perché sanno che è già stato detto tutto e ogni ulteriore parola guasterebbe i rapporti !

2. I o. Spesso i giovani, i ragazzi, cercano disperatamente di sottrarsi a ogni regola con un silenzio granitico. I più abili o scaltri invocano - come diritto sacrosanto - la propria in discutibile libertà (e separatezza dai genitori e da altri adulti). In questo campo ogni silenzio è da interpretare, ogni parola è da soppesare ben bene, ogni segnale gestuale può creare contrattacchi. Difficile dire quali siano le tappe di questo sviluppo dell' indipendenza e della separatezza dei giovani. Un tempo, l'esercizio dell'autorità e del controllo da parte dei padri iniziava un po' tardi e si concentrava sui figli maschi. Per le ragazze invece il controllo iniziava prima, ed era gestito dalla madre a una certa distanza dal mondo maschile. Molte le precisazioni che si dovrebbero fare su questi dati. Restiamo entro i termini del silenzio, di padri e madri. Oggi i padri di neonati, vale a dire di autentici principini, vanno con-

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siderati una categoria in costante miglioramento. Molti di loro ammuto­ liscono di stupore nell'osservare il neonato, altri fanno pause imbarazzate se vengono sollecitati a dire la loro. Hanno capito cos'è avere un figlio ? All 'inizio non hanno esperienza e posseggono nozioni oscillanti. Fino a un certo momento, i padri non riescono, ad esempio, a parlare dei bimbi in modo coerente, esplicito. Sono impalati, tanto sono trasecolati. Chiedono aiuto con gli occhi a tutti, soprattutto alle neomamme. Qualcuno malde­ stro dichiara, con un po' di sguardi circospetti, che un bebè è soprattutto un apparato gastro-intestinale. Tutto qua. Le madri delle madri sono in stato di sofferenza se devono stare in silen­ zio. Sono capaci di far entrare nella conversazione lo stesso neonato che, da parte sua, non sa ancora chiacchierare. Fanno mugugnare piccoli di tre me­ si, usando espressioni del viso e cantilene. Ancor più delle mamme, le nonne inducono i piccolissimi a emettere suoni palatali, labiali, buffi e adorabili. Le madri delle madri, nel trattare i neonati, superano tutti nell'uso di carez­ zevoli nomignoli (cocco, pupino, Kiki, grande piscione, mi cino mio, Mimì, Babà ecc.). Per uscire dalla monotonia dei nomi dati al bebè (pescati nella genealogia familiare), ne inventano alcuni di una bellezza incomparabile, anche se un po' usurata (amore, gioia, stella, anima mia ecc. ). Le mamme, le nonne e le zie che parlano dei bebè, quando interrom­ pono il silenzio, lo fanno da specialiste. Le mamme pensano di essere le sole capaci di capire i segreti "da bebè" (ruttini che non vengono, pruriti al sederino che non se ne vanno, bisogno di camminare al più presto o di manovrare il cucchiaino come desiderano). Questa convinzione la possie­ dono, ma in misura minore delle neomadri, anche le donne di casa. È così che le une e le altre non praticano il silenzio ristoratore, ma parlano molto anche a estranei disinteressati. Intanto i padri e i nonni, anche se hanno individuato tutte le possibili mosse per diventare anch'essi esperti, sono ancora al palo, sono inchiodati a un paio di sentenze delle loro compagne, appena sfuggite loro di bocca. Bisogna ricordare che fortunatamente, i bimbi piccoli sono robusti, volitivi, impazienti di arrivare all 'autonomia e di destreggiarsi. Sanno scoc­ care, in silenzio, sorrisi ammaliatori per difendersi e per imporre le proprie esigenze.

Le cose sentite per caso possono essere divertenti, a volte esilaranti. Esistono luoghi frequentati da tutti (dalle panchine, ai baretti, ai corridoi della scuola, ai saloni di barbiere) che sembrano adatti a far sapere cose 2. I I.

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2. DOVE CONDUCONO LE PAUSE E I SILENZI

che fanno tremare. Chi ascolta in luogo pubblico, in silenzio, può sentirsi imbarazzato da narrazioni di cattivo gusto (che talvolta lo riguardano) e ca­ dere nel mutismo. Può essere indotto a una rapida ritirata in qualche luogo silenzioso. A certi giovani ascoltatori (e non solo a loro) piace ripetere altro­ ve la frase pungente o irrispettosa, la disavventura appena sentita. Pensano perfino di rincarare la dose. Ci mettono qualche parola in più per divertirsi. Ci sono tanti "silenzi istituzionali", che stanno agli antipodi di parole udite per caso. Sono il segreto d 'ufficio, il silenzio confessionale o professio­ nale, il ritegno reverenziale, il riserbo perpetuo. Tutti sono accurati, scelti per ruoli importanti o situazioni luttuose. Con forme precise di silenziamento, a livello istituzionale si può guada­ gnare stima e rispetto ai piani alti delle società. Ad esempio la frase « Fare si­ lenzio » , ovvero « Se non sei interrogato, non parlare » , « Aspetta di essere interrogato » , «Non iniziare i saluti prima di sentire il capo » , circolano in parecchi luoghi ove si ha alta considerazione dell 'etichetta, della ritualità, della convivialità formale. È un consiglio sintetico, detto in sordina, che ci istruisce sulle attese che dobbiamo accettare, senza obbiettare, pena il ludibrio. In alcune istituzioni religiose il silenzio è imposto. Ciò mostra che è apprezzato, valorizzato. Risponde a normative di autocostruzione. Il ca­ lendario dei monasteri di clausura si fonda su tassativi ma scarsi tempi del­ la parola e su momenti di silenzio, molto lunghi. Questi ultimi possono coprire quasi tutta la giornata e la notte, senza essere ritenuti innaturali o inattuabili. Gli schemi della istituzione claustrale trasformano i casi imprevedibili della vita in comportamenti silenti programmati, senza soluzione di con­ tinuità. Gli individui, giorno dopo giorno, affrontano gli stessi obblighi. Colmano ciò che fanno con gli stessi significati, qualsiasi siano le parole che si tacciono o si nascondono.

Laddove domina il silenzio claustrale, tutto è sottoposto a regole fis­ se. La vita individuale e quella collettiva scorrono in silenzio, passano in secondo ordine. In sostanza, le ripetizioni di tempi privi di parole costituiscono la strut­ tura portante della vita comunitaria di persone private di ogni tipo di sono­ rità. Nel monastero, tuttavia, possono esistere situazioni di oralità speciale : esistono l 'orazione o la lettura assembleare di testi, i canti salmodiati. Sono attività che non sembrano essere considerate vere interruzione del silenzio. 2. I 2.

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In tanti monasteri questo tipo di oralità speciale non è mai atto semplice ; è arti­ colata ed elaborata. Nasce a volte dalla riscrittura, ricomposizione e ri-lettura ad alta voce di testi regolamentari. È lo scritto che diventa orale, a precise condizio­ ni2 e che per forza fissa e sacralizza il silenzio. Il silenzio strutturato o legiferato dei monaci si stende su vari fenomeni, quali saluti, genuflessioni, spazi, posture del corpo. I monasteri di clausura, maschili e femminili - sparsi nel mondo cattolico italiano, francese, tedesco ecc. - sono luoghi di esaltazione del "non dire", dello stare chiusi in sé e in un contatto ultra-umano. Il tutto non è facile. Pare richiedere lunghi esercizi e tante memorizzazioni. Il "non detto" è fenomeno che richiede molto di più che una cancellazione delle parole. Solo all' interno di una severa quo­ tidianità monastica, preparata e rispettata, è possibile percepire fin dove si spinge il silenziamento.

In conclusione , il grande silenzio della clausura è uno spazio diretto da regole con alto valore diagnostico e programmatico. È una performance scandita dali ' alternanza misurata del parlare e del tacere (parte prevalente). Quest 'ultimo, apparentemente, si applica anche a parole che ci sembrano necessarie e usuali. Esso non nega il valore del parlare, lo disciplina in base ad azioni quotidiane ( inerenti ai cibi, alle scritture, agli abiti, agli sposta­ menti di oggetti, agli strumenti di lavoro ecc.) che potrebbero avere altri percorsi. In alcuni luoghi, religiosi o profani (aule pubbliche, assemblee politi­ che, sale di registrazione musicale, chiese, spazi di isolamento coatto) si vive un silenzio basato su comportamenti antichi. Questo silenzio ineludibile può essere una modalità sostanziale di vita di tanti microcosmi, in termini di memoria sociale o collettiva. Corrisponde alla fondazione di una rete di significati espressivi, ancorché afoni.

2. I 3 . Tante persone ritengono che la vita sia incerta, la descrivono come o n divaga. Possono concepire l 'esistenza come una navigazione accidentata e vedersi in un guscio nel mezzo del mare sterminato. Su questi disagevoli sfondi, il silenzio cala quasi sempre improvvisamente, senza preavviso. A detta dei pessimisti che vedono male i fatti che ci capitano, sarebbero eventi pesanti a procurarci ansie e disperazioni. Crollo della Borsa, voltafaccia di amici o di coniugi, ricorrenti emicranie e via di seguito sono dietro l'ango-

2. F. Sbardella, Scritture riscritte, testo presentato ali ' Incontro annuale sulle origini cristiane, Bertinoro, 2 9 settembre 2016. 6o

2. DOVE CONDUCONO LE PAUSE E I SILENZI

lo : ci assalgono e deturpano. Per i meno pessimisti, quelli che ancora spe­ rano in qualcosa, certi eventi possono dar soddisfazione a discorsi preziosi. C 'è dunque chi cerca il sole anche dietro le nuvole, e chi lo teme anche quando è tutt 'altro che sfacciato. Qualcuno dice di appartenere al secondo gruppo, ma può avere interesse a mentire. Va da sé che spesso siamo poco sicuri che i silenzi siano leciti, compresi, che abbiano buona riuscita o siano una resa totale. Sull 'uso del silenzio si fa fatica a essere sintetici. Un capitolo interessan­ te è quello del teatro, di cui non ci vogliamo qui occupare. Basti dire che l'attore è maestro del dire e del non dire, del fare ostentato e ricercato. E padrone di tante parole, anche di parole rare, nate in contesti antichi o ec­ cezionali. Passa dall 'improvvisazione all' interpretazione di parole e silenzi altrui. Il suo mestiere è legato proprio a toni e significati non chiariti dalla conversazione abituale.

2 . I 4 . I silenzi perpetui possono diventare una catena fortissima. Nelle co­ sche mafiose il tacere omertoso è uno scudo protettivo, una regola di sal­ vaguardia da non infrangere. Un giovane che entra negli ambienti mafiosi sa che la base della propria affiliazione è costituita da un giuramento che sacralizza il suo legame con l'ambiente criminale. Tale giuramento lo ob­ bliga al silenzio perpetuo che, se eventualmente infranto, gli procurerà un castigo irrimediabile. Un ripudio eterno delle parole è spesso premiato con avanzamenti nei ruoli, con stima e considerazione dei superiori. Una volta iniziata, questa condotta si concretizza in uno dei silenzi più custoditi della terra, quelli che reggono molte strutture del mondo contemporaneo. Viene da pensare che, andando avanti con l 'età e l'esperienza, in ogni occasione e in ogni ambiente, bisogna controllare le parole e sapersi muove­ re in mezzo ai silenzi. Tutti scartiamo certe frasi o affermazioni, soprattutto quelle scivolose. Questo "seppellimento di parole" che tutti pratichiamo senza freno è un 'impresa rischiosa, se non la si sa gestire. Certi tipi di "pa­ role sepolte" possono rimanere segrete ma tutt 'altro che dimenticate. Pos­ sono coprire altre parole che qualcuno, prima o poi, decide di lanciare, o di resusci tar e. Si deve sapere dove le parole non stanno bene, oggi e in futuro. Nessuno è in grado di saperlo perfettamente. Ognuno, peraltro, pensa che sia natura­ le e utile poter star zitto, poter avere una bella scorta di silenzi diplomatici, in forma di mezzi di difesa.

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I silenzi a volte sono usati con aria cerimoniosa o sapiente, come se fossero una mossa virtuosa e scaramantica. I mutismi più seri o amari si sca­ tenano più veloci del pensiero e resistono a ogni offerta di pace. Il rapporto tra il silenzio cerimonioso e quello duro, inamovibile, dipende dal cielo. I due tipi sono fatti aleatori, dettati da semplice ordinaria convenienza, ma il secondo può essere sigillato da giuramenti ( «Ti giuro che la pagherai » , «Non ti rivolgerò mai più la parola » ) . 2. I 5 . Il silenzio rigido o tenace può portare disavventure in mille modi. La derisione silenziosa, concentrata in un gesto o in un'occhiata, può avere risultati tremendi, corrosivi. Gela o blocca ogni discorso umano. Un riso beffardo soffoca brutalmente il destinatario dentro un silenzio peggiore del precedente. In situazioni tese o avvelenate, i silenzi possono creare un contagio che scatena il ricatto o la ritorsione. A volte il punto di partenza è un 'insinua­ zione o una maldicenza pronunciata senza sorrisi e senza nomi. Chi si sente pugnalato è vinto prima di tutto dal silenzio che si auto-impone, poi dalla mancanza di spazi per la replica ( che attenuerebbe l' insulto ) . Tramortito, deve incassare e tacere, anche se avrebbe in mente di battagliare e stendere l'avversario. I silenzi, va ribadito, possono essere mezzi che danno vita a mimetismi e svincolamenti. In certi salotti eleganti, alcune persone parlano con tono formale e onnisciente. Altri non aprono bocca. Molti uomini intelligenti e ciarlieri parlano solo di clienti-rendimenti oppure di politica internazio­ nale, di conflitti mediorientali o di attentati sanguinari a Parigi, Bruxelles, in Libano, California, Libia, Berlino e altrove. Sulla politica della raccolta differenziata sono in pochi a far circolare notizie interessanti, temono sia roba da niente. Le donne proprio non si pronunciano su discariche, inqui­ namenti e inceneritori che - a pensarci bene - sono proprio cose disgustose, da gente soffocata dal degrado ambientale. Due o tre si mettono zitti appe­ na si ricordano che uno dei presenti si occupa di smaltimento di materiali tossici. I più taciturni sembrano non volere considerare l' inquinamento che diventa business a spese di tutti. Su questi temi la cappa del silenzio cala in gran fretta. Anche fuori dai salotti, alcuni uomini attaccano con successo il discor­ so che gira attorno a un calcio di rigore, a programmi elettronici buoni e cattivi, ai prezzi dei vini. Tutti argomenti facili e poco offensivi, che addor­ mentano le signore. Lo si sa in partenza, molte signore non capiscono il

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calcio. Qualcuna si annoia da morire, chiusa in un silenzio gelido perché non vuoi far sapere di altri problemi che ha per la testa. Si ha l' impressione talvolta che la conversazione si spenga perché qual­ cuno non vuole buttare benzina sul fuoco o essere imprigionato dalla par­ lantina di qualche amico scontento di tutto, che vive in eterna agitazio­ ne. Qualcun altro è intimorito da certi libri allineati sullo scaffale che è di fronte al divano ed evita di dire cose serie, ma non vuoi cadere in ricordi e storielle infantili. Pensa sia meglio divagare, non vuoi dire che certi libri fanno gelare il sangue anche solo a vedere i loro titoli o che bisognerebbe non tirare in ballo quelli sulla pena di morte, sui bimbi-soldato e sulla fame nel mondo che rattristano troppo. Anche gli stermini, i genocidi, rattrista­ no e rendono muti. C 'è sempre in giro, fra amici e colleghi, un personaggio corteggiato e riverito. Nei salotti fa da catalizzatore di osservazioni, battute. Attrae, capi­ talizza consenso e ammirazione. Ma crea un po' di noia. Il fatto di cui non tiene conto è che rischia di raccogliere attorno a sé il peggio (cioè pacati e servili adulatori). Ma sembra non esserne turbato e di certo non si riduce al silenzio. Tanto la serata passa in fretta. Chi, nel gruppo, non apre mai bocca è giudicato un po' strambo, ano­ malo. Sembra celare ostilità oppure si pensa che voglia fare il guastafeste. Spesso il taciturno non è ben tollerato. Può anche essere visto come abile manovratore che disdegna l'arte oratoria del personaggio più brillante ( il quale sta faticando per far passare bene qualche ora agli amici). La persona molto riservata non passa mai inosservata. È anzi notata, e con un pò di disapprovazione. Si osserva molto una sorridente statuina, sussiegosa, che fa un tutt 'uno con l'arredamento. Qualcuno ama scherzare sugli amici solitari e defilati. Insiste : « Il problema di Giovanni è che con questo suo silenzio non dimostra che è sano di mente » . Chi sceglie il silenzio lo fa per ritrosi a o per snobismo ? H a voglia d i mo­ strarsi diverso ? Oppure si è solo stufato di sentire parlare di politici sornioni o corrotti ? È sicuramente stanco di resoconti di viaggi e shopping, di mance da dare, di alberghi da evitare, di camerieri newyorkesi e napoletani, di zie stravaganti, di bislacche vicine di casa con barboncino bianco. Ciò che si può sicuramente dire è che stare in silenzio, soli con se stessi, non fa sempre bene alla mente e al corpo. Fa malissimo alla salute perché crea acidità e nebbioline agli occhi. In un momento di sincerità, tempo fa, un famosissimo storico statu­ nitense, contornato da molti amici e da un numero inverosimile di avver­ sari, dichiarò con baldanza che non sentiva mai il bisogno di parlare col

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prossimo. Mentre i suoi nemici si logoravano di chiacchiere l'un l'altro, lui parlava con se stesso, perfino in piscina o sull 'autobus. Lo studioso giurava con serietà che il suo cervello era esigente, ma che lui sapeva tenergli testa, senza sforzo. 2. I 6. Il silenzio, anche se è fragile come il vetro e deteriorabile come un foglio di carta, può essere molto denso. Esistono i "grandi silenzi", vicini e lontani. Sono storicamente e simbolicamente concentrati nella vita quoti­ diana più elementare, più nota. Sono quelli, ad esempio, che si notano nelle coppie di anziani che passeggiano sul marciapiede. Possono riguardare i segreti di Pulcinella, che un coniuge conserva in fondo al cuore. Possono essere accompagnati da gesti scostanti di un sussiegoso superiore in carica, ma anche dai sospiri di un pover 'uomo, alle prese con un bilancio familiare rovinoso. Un grande silenzio è quello dell 'uomo dal viso nerissimo, seduto per terra su un cartone, che chiede una moneta con occhi tristi in prossi­ mità del cancello posteriore della Casa Bianca a Washington. E non riceve neppure quella. Fra i "grandi silenzi" si devono includere alcuni che sembrano non esserlo. Sovente le persone con cui lavoriamo stanno in silenzio. Pare si­ ano prese da sentimenti poco sereni, chiuse in una gabbia invisibile di tensioni (che forse sono provocate da noi). I loro stati d'animo rendono impossibile ogni comunicazione verbale. Altre situazioni sono ancor più allarmanti. Talvolta si incontrano bimbetti che, saltellando per strada al fianco di un genitore, lo tempestano di domande. Il genitore non sa sem­ pre dare risposte semplici. Enormi silenzi si impiantano in terreni emotivi delicati, in cui non dovrebbero fiorire, perché smorzano gli entusiasmi dei piccoli. La vita di ogni giorno è fortemente modellata da questi enormi silenzi, che sintetizzano il destino di gran parte degli esseri umani. Chi veramente nota che in tante famiglie non ci si incontra per parlare, ma per mangiare in fretta ? Ci si saluta e via. Raramente questi "grandi silenzi" sono innocui. Oggi crescono in modi esponenziali. Quattro o cinque clienti attorno al tavolino di un bar possono passare ore senza scambiare parola. Non sanno cosa dirsi: guardano il giornale o restano imbambolati per un po' di tempo. Gli esempi sono infiniti. Alla festa del patrono locale, alcuni ragazzi sono occupati a bere birra, non guardano chi c 'è intorno, cosa si è costruito in nome di una protezione religiosa immaginaria. Sotto un raggio di sole in­ vernale, una turista giovane, tedesca, sta seguendo incantata un programma trasmesso dali ' apparecchietto che ha in mano. È prigioniera deli'oggetto

2. DOVE CONDUCONO LE PAUSE E I SILENZI

anche quando si alza, inciampa nelle sedie perché ha gli occhi incollati sulla piccola finestra luminosa. Va avanti alla cieca, non dubita di sbagliare e di essere chiusa in un cerchio di nebbia. Nella rassegna di casi di "grandi silenzi", va detto che non dire nulla alla persona con cui si vive è ritenuto sovente un buon metodo per assecondarla, accontentarla. Si pensa che tocchi al compagno/ a di chi sta sempre zitto sviluppare quel tanto di intuizione che può permettere di navigare bene su tutti i mari. Il silenzio di questo tipo costa poco, sostanzialmente evita battibecchi, contenziosi senza fine. Vale la pena restare sul punto dei "grandi silenzi". Alcuni inestinguibili silenzi non costruiscono e non custodiscono la pace. Pare proprio il con­ trario. Verrebbe da aggiungere che, in questi casi, il "grande silenzio" aiuta a immaginare un tempo alternativo, una via d 'uscita che non verrà. Di certo è un modo per pietrificarsi. 2. I 7. Un illustre docente, studioso di fama internazionale, che è stato un maestro per generazioni di studiosi, aveva un suo metodo per non rispon­ dere ed evitare dialoghi imbarazzanti.

Nei rapporti con gli studenti non illudeva nessuno, usava cordialità e tattiche eva­ sive. Riteneva non si addicesse alla sua funzione star zitto e dunque distribuiva tan­ te parole. Dall'alto della sua posizione, sfornava frasi inconcludenti, ma che non irritavano. A un giovane collega un giorno spiegò ( a proposito di un incarico di lavoro) : « Fossi in lei io non ci crederei troppo, lei gioca fuori campo ... » , «Glielo garantisco, sono cose che si sa come vanno » , « io apprezzo ciò che lei fa, la penso esattamente come lei, sono felice di poterglielo dire... ». Lo studioso fu perfino desideroso di mostrarsi un vero alleato di chi gli era di fronte. Gli creò una specie di mossa di partenza, un piccolo trampolino : « Lei può presentare domanda, con curriculum, fatto bene ... non rischia nulla. Può funzionare ... » . « La invito a essere convinto delle sue capacità. Faccia bene la domanda, è opportuno ... ». Non disse altro. Chiuse con un silenzio totale, la faccenda non lo riguardava più. Il compor­ tamento dello studioso era eccezionale perché suggeriva una via dimenticando che era assolutamente impraticabile, illusoria. Ha detto : « Faccia domanda! » , senza dire a chi e a proposito di cosa. Forse intendeva confessare così la sua impotenza, la sua inerzia, la sua noncuranza ? Di fatto ha detto molto anche se ha pronunciato parole insulse.

2. I 8. In certi luoghi non si può proprio parlare, anche se si vuole. Tutto è reso difficile dalla mancanza di strumenti linguistici condivisi. Mi è capita-

6s

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

to, alla fine degli anni Novanta, di avere un faccia a faccia con una contadina turca. Per ore, ho cercato di entrare in contatto con lei nel totale silenzio\ Un giorno estivo e polveroso, mi sono fermata all' ingresso di un villaggio, nella re­ gione a sud-ovest della Turchia ( Mugla) davanti a una modesta casa contadina. Ero stata colpita dai colori di un orto lussureggiante. Vi trionfavano le tinte violente di pomodori e melanzane, di giganteschi radicchi, di frutta matura, e di enormi rosai scarlatti. Cercavo un contatto in questo mondo con chi viveva attorniato da una natura dai colori splendenti e aggressivi. Una mamma, assieme a tre bimbi, stava vicina alla porta di casa. Mi guardava. Nel modo più naturale possibile, cercai di accostarmi. Dissi qualcosa. Non rispose. Non avevamo una lingua in comune ! Dagli sguardi che la donna mi aveva rivolto avevo avuta la sensazione che potevamo capirci. Sicuramente lei era curiosa quanto me. Si creò una sorta di intesa a distanza fra noi. L'aria del tramonto diventava sempre più variopinta, in alcuni punti molto rossa. La contadina in qualche modo mi mostrava serena e orgogliosa gli ortaggi che avevano acceso la mia curiosità. lo non sapevo come risponderle. Facevo sorrisi di assenso, non avevo parole. Un uomo apparve per pochi attimi. Mi passò davanti. Non si occupò di me, andò a chiudersi in casa. Forse mi era un po' ostile perché ero straniera e intrusa, oppure non aveva capito la situazione. Forse era obbligato a fare così. La donna aspettava qualcosa ? Non mi sollecitava ad andarmene. Restava lì mentre giravo intorno. Mi sentivo quasi in colpa per la strana situazione che avevo creato. Capivo sempre meglio che la donna accoglieva in qualche modo la mia idea di stare insieme. Ri­ maneva vicina alla casa, metteva in mostra i figli, l'orto e se stessa. Sembrava che volesse dirigermi con sue piccole mosse, con la sua aria per nulla indifferente. Capii che non voleva sparire e interrompere l' incontro. Si arrestò e sedette solo quando anch' io mi sedetti dove mi capitò. Ero esausta per le mie stesse manovre. Ho capito che la donna apprezzava lo scambio perché era insolito, muto. Mi sembrava avesse l' intenzione di capire chi ero. Sembrava colpita dalla straniera che era capitata a casa sua per caso. La donna gettava sguardi obliqui verso il rosso del tramonto, spalmato sopra la casa. Tirò ancor più vicini i figli affinché io capissi cosa valevano ? Fu un incontro lungo, che continuò fino a quando mi alzai dal sasso sul quale sedevo. Poco dopo anche lei si alzò, prese ad armeggiare con grossi bidoni, calma. Capii finalmente. Doveva annaffiare ! Senza volere, avevo interrotto il suo lavoro pomeridiano. Pri­ ma del tramonto lei doveva bagnare l'orto, come faceva ogni sera. Aveva atteso, pazientato un bel po'. Non era irritata. Potei salutarla a gesti, a distanza, per non interferire con altri suoi piani. Senza parole non fu possibile fare altro.

3· Per una più diffusa trattazione del fatto descritto si veda A. Destro, I volti della Turchia. Come cambia un paese antico, Carocci, Roma 2012.

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In nome della natura

Si parla con disinvoltura di natura, naturale, naturalistico. Può essere diffi­ cile dare senso e chiarezza a questi termini e alle realtà che rappresentano. Restano sovente espressioni applicate a cose che, al di là delle apparenze, rimangono lontane, astruse. La natura che nominiamo e con la quale cerchiamo di entrare in contat­ to è di solito quella che possiamo avvicinare con i nostri sensi, nei nostri am­ bienti abituali, nei quali investiamo tempo e energia. Quasi tutto il restante mondo fisico-ambientale, che sta al di là del nostro ordinario orizzonte sensibile, resta indistinto e misterioso. È condensato in visioni e nozioni, spesso dense e specialistiche. Ci aiutano poco a comprendere lo "stato delle cose" di cui siamo parte. È come dire che il solo rapporto naturale di cui abbiamo cognizione è quello che passa attraverso i mondi fisici umani, animali o vegetali più ac­ cessibili e comuni, basi delle nostre usuali capacità. Le volte in cui riusciamo ad avere notizia dei grandi fenomeni naturali, ci rendiamo conto dell' impo­ nenza di ciò che chiamiamo natura, e restiamo sconcertati dalla pochezza della nostra condizione o della nostra sfera d'azione. Certamente, intuiamo poco cosa può significare l ' insieme di magistrali e preziose forze naturali. Percepiamo chiaramente che molto resta sostanzialmente irraggiungibile, al di là delle nostre possibilità di conoscenza e sperimentazione. 3 . 1. In molte occasioni, giorno per giorno, siamo investiti da una gamma quasi infinita di odori, suoni, colori, panorami, cioè da realtà che assumono il nome di regno della natura. A livello relativamente limitato sperimentiamo molti fenomeni natura­ li. Li incontriamo di continuo (pioggia, vento, aria, fuoco, marciume, luci, tenebre, suoni striduli o soffusi). Essi ci istruiscono momento per momento su ciò che determina la nostra idea di natura. Gli odori, ad esempio, "con-

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

tengono, messaggi che ci mettono in guardia, ci danno sovente un senso chiaro della nostra condizione. Alcuni profumi ci suggeriscono cose grade­ voli; alcuni luoghi mal olezzanti ci dicono che siamo in territori saturi di ve­ leni, di essenze pericolose. Quotidianamente, gli odori ci danno la sensazio­ ne di avere a disposizione cose meravigliose o di essere attaccati da mi asmi, sostanze mortifere ; ci illustrano la natura. Tinte e colori ci fanno scoprire il bisogno di entrare in contatto con il mondo fisico ricco e polivalente, di accettarne il potere. Anche i suoni più noti e ricorrenti (rumori di fronde, di cascate, i tuoni, l'urlo sordo del vento, il gracidare insistente di una ci­ cala) ci dicono cose decisive e preziose. I suoni dilatano ogni movimento, dominano le nostre percezioni della natura. Certe rauche voci animalesche, il ruggito dei grandi felini, ci dicono che in certi ambienti naturali siamo assediati, troppo esposti alle forze che non possiamo contrastare. Una volta celeste squarciata da lampi ci terrorizza e ci impone veloci azioni difensive. Una luna bianca, cerchiata, che promette un provvidenziale acquazzone, ci restituisce il senso dei tempi, delle stagioni. Da tutto l'intrecciarsi di questi fattori otteniamo una visione più ravvicinata e comprensibile della "nostra natura,. Dobbiamo aggiungere che normalmente non siamo in grado d' inclu­ dere nella nostra idea di natura che pochi esempi della fauna, della vegeta­ zione o dei moti cosmici che sono fuori dal nostro ambiente-sistema. Di molte realtà naturali, non sappiamo parlare : non sappiamo dar conto in modo chiaro di ciò che sono. L' individuo ordinario non parla realmente di natura e spesso ripiega sulla bellezza, sullo splendore dei si ti ambientali, sulle varietà arboree o animali. Spesso si lavora intensamente per custodire la natura. La si asseconda, la si sostiene. Oppure la si imbriglia con progetti ad hoc. Malgrado i suoi numerosi sforzi, l'uomo non sempre ha la meglio sulla natura e non ottiene ciò che vorrebbe ottenere. Sappiamo che gli esseri umani si trovano di tanto in tanto davanti a disastri ambientali (distruzioni apocalittiche, con relativi esodi di popolazioni) che danno differenti configurazioni al rapporto uo­ mo/universo fisico.

3 . 2.

Un nodo inestricabile lega bisogni umani e risorse naturali.

In una delle grandi anse verdastre del fiume Mekong (Vietnam meridionale) , l'acqua scorre poco, è quasi stagnante. È limacciosa e sembra muoversi a fatica. Quest'acqua lenta è ciò che viene concepito come la natura, come la risorsa natu­ rale per eccellenza. È la ricchezza vitale di molte persone. 68

3 · IN NOME DELLA NATURA

Il fiume Mekong è parte di una regione vissuta intensamente. Costituisce il luogo di transito e di attracco di centinaia di barche-abitazioni. È il p osto dove non si fa che navigare e trasportare, o dedicarsi a sorvegliare il fiume. E il confine liquido e perenne della popolazione. La gente rivierasca non conosce e non si ri­ volge alla terraferma. Guardando l'orizzonte si resta incantati dalla luce che l'acqua del fiume ema­ na, dall'odore di questa massa verde, viscida d'erbe acquatiche. Impressiona anche per il segreto brulichio di corpi, per le basse voci umane sulle rive, sulle imbarca­ zioni, al largo, nei punti veloci della corrente. Gli uomini - spesso dritti in piedi sui loro piccoli gusci ondeggianti - fanno un tutt'uno con questa atmosfera brumosa. Si muovono nel silenzio, seminudi e sempre a contatto con l'acqua. Quando si alza il vento gli uomini ammainano le vele, se sale l'acqua corrono alle funi, cercano gli attracchi. Per il resto, uomini e cose restano attaccati al natante, dentro un velo di nebbia. Il fiume non è un luogo stabile, ma una natura mobile e oscillante. Tutto è fatto oscillare da centinaia e centinaia di piccole onde traslucide, in cui si mesco­ lano grigi, blu, verdi. L'acqua sulle rive ha un colore bruno, uniforme. Nel corso centrale, ha un colore ancor più compatto. Qualche onda più chiara increspa la su­ perficie, ricolora la natura circostante. Sono tonalità che non si possono descrivere con poche parole. Uniformano tutto, anche gli umani ; li coprono di scarsi riflessi verdastri, poco scintillanti. Dentro l'ansa, l'acqua arriva quieta, lambisce piano la riva. Non ci sono osta­ coli che la trattengano. La massa liquida non urta, non investe niente. Sulla sabbia della riva, ogni onda lascia una riga appena più scura. Tutti attendono le onde lun­ ghe, notte e giorno, perché segnano l'arrivo dei pesci, il fresco del buio, l' inizio del mercato allestito su barconi, lo scambio di tanti legumi e verdure. L'acqua dentro le anse tocca quasi le fragili stuoie delle barche ormeggiate. Continui tintinnii sono causati da oscillazioni di pochi millimetri, di oggetti e piccole cose mosse dentro le barche. È questo dondolio che fa prevedere ciò che sta per arrivare o ciò che se ne sta andando verso altri lidi. L'acqua odora di muschi acri, del fogliame, delle radici divelte che affiorano. Stupisce il ripetersi impercettibile di fiotti odorosi della vegetazione. Inebriano e fanno volare la fantasia. Sono la prova di un vincolo solidissimo tra l'essere umano e il cosmo, tra la popolazione riversa sul grande fiume e l ' immensità degli spazi liquidi. Man mano che si procede lungo il corso d'acqua, l'ambiente brumoso del Mekong svela cose sempre più complesse su chi vive sui due lembi di terra. Nel mezzo del fiume Mekong le navigazioni sono tante. Le barche sembrano però mezzi solitari o senza guida per la quantità d'acqua che li trascina. Il centro della corrente è il posto in cui passano i grossi pescherecci o i bianchi battelli dei turisti. Attorno a loro qualche minuscolo natante porta merci, cibo e attrezzi. Le piccole barche si muovono irregolarmente; fanno sentire l'isolamento, la solitudi­ ne delle genti naviganti. Il battere dei remi delle barche minuscole dà il senso del lavoro che va avanti adagio.

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

La vita negli insediamenti fluviali non si vede mai con chiarezza. Gli abitanti del fiume sono tutti buoni navigatori. Viaggiano senza posa, senza fretta. I loro occhi neri sono fessure sotto il cappello di paglia a cono. Viaggiano a occhi semi­ chiusi, lungo rotte conosciute. La vita si svolge principalmente dentro le barche più grosse, i barconi arrugginiti, incorporati alla riva. Ciò che si può notare sulle rive del Mekong sono gruppi di barche ancorate, qualche grumo di capanne assiepate, pa­ recchie palafitte un po' cigolanti. Vi si osserva una vita che segue la natura, in modo molto netto, ma riservato, appartato. Si può solo intuire qualche quadro domestico dagli odori dei fuochi e dei fornelli accesi. Il resto si immagina dai silenzi, dalle scie di uccelli acquatici, che si alzano dalle canne a ogni movimento dell'ambiente. Il Mekong di giorno è una fusione di aria, acqua, odori, brume, quiete e stridii. È un impasto di cose che accompagnano e fanno vivere l'uomo, che penetrano lentamente l'aria sovrastante gli abitati cadenti. L'enorme fiume è l' immagine di un destino umano che non vuoi svelarsi mai completamente, venire alla luce del sole. Gli insediamenti eternamente precari impressionano per la loro aria di natura macerata, di una perpetua rovina e rinascita. Nelle anse del Mekong, il silenzio nebbioso della notte diventa una coltre pe­ sante. Investe tutto, patina tutto. Se si alza la luna, la vita non si interrompe. Schizzi di bruma luminosa, assieme agli occhi di luce delle lampare scivolano attorno a figure umane laboriose, attivissime. I lumi dondolano, deformano i profili umani, e quelli naturali sui quali ardono piccoli fuochi. Tutto è obbediente alla natura e al suo impeto, tutto è moderato dalla mediazione umana, indomita e instancabil­ mente all'opera.

Dentro l' habitat potente e fragilissimo del Mekong si manifestano le mul­ tiformi forze della natura. Si intreccia il tremolio delle foglie bagnate, il gracchiare degli animali domestici, il fremere di canne e di vecchie mangro­ vie, il singhiozzo inquietante degli uccelli notturni. Le voci umane, piane e sommesse, si mescolano a tutto questo. Non è possibile, alla fine, scomporre il mondo naturale e l'opera umana in parti distinte. 3 · 3 · Mescolanze e intrecci di suoni, odori, colori - e non solo - sono ovunque.

Anche nelle alte valli austriache, fra i falciatori di fieno, la natura ha il suo modo di rivelarsi e di mandare richiami. E gli uomini stanno attenti a capire e a dar ri­ sposte alle leggi dell'ambiente. Nei giorni dedicati al taglio del fieno, si usano gesti e atti antichi. I costumi umani restano invariati da tempi immemorabili. Almeno fino a qualche decennio fa, la gente che falciava usava attrezzi lucidissimi - in un ambiente ricco di brezze, profumi e colori (azzurro, bianco e verde) - perfezionati dal sapere di generazioni e generazioni. 70

3 · IN NOME DELLA NATURA

Fra i campi, le battute regolari delle falci affilate emettono suoni secchi, tonfi leggeri e misurati ma pieni di sonorità. Accompagnano i ritmi segreti del lavoro al sole e all'aria. Le falciature hanno tempi perfetti. Sono gesti manovrati da ma­ ni allenate e forti. Le popolazioni montane custodiscono tante abilità: lavorano lunghe ore ; fanno turni mirati e pochi riposi necessari. Le persone sono guidate da un eccellente senso degli strumenti, delle risorse e dei doveri da portare a ter­ mine. Talvolta il loro lavoro viene accelerato da raffiche di vento e maltempo, che sconvolgono uomini e praterie e rivoluzionano i calendari del fieno, degli alpeggi. Nelle case alpine, nei casolari antichi, la gente parla poco. Usa parole brevi; vive di gesti, di segni di intesa. È abituata alla solitudine e alla parsimonia, a vivere senza vociare. Nei luoghi montani isolati è più facile udire il colpo di una scure che le chiacchiere di un boscaiolo. È molto più facile sentire il muggire di una vacca che il canto di un montanaro. Le popolazioni degli alpeggi sono eternamente oc­ cupate a scrutare e interpretare i segni del cielo. I picchi innevati, che formano una splendida corona ai campi e prati, istruiscono. Danno senso ai luoghi di residenza, di lavoro e di tribolazioni. I montanari non trascurano nessun angolo del loro ambiente ; vi impiantano ogni millimetro della propria vita. La natura è compagna, coautrice di tante im­ prese. E gli uomini ascoltano le loro terre. Conoscono i più tenui rumori del loro luoghi (il verso di un animale da cortile, i colpi d'ala di un volatile sul tetto, il vento che fa cigolare un infisso) . E si lasciano guidare e istruire da questi rumori. L'ambiente di montagna conferma una nota regola. Quando la natura richie­ de sforzo e costanza, la si vive piamente e senza ostentazione. La si ama anche se è aspra. Le frasi che spiegano questo atteggiamento sono quasi sempre le stesse : « Si fa così... Siamo stati abituati a questa vita » .

I l senso della natura, usuale e corrente, s i rapporta a e s i costruisce su dati e su conoscenze concrete. Un essere umano, in linea di massima, ha poca chiarezza dei movimenti dei ghiacci perenni, dei deserti incandescenti o dei fiumi sotterranei che si spostano giorno dopo giorno. Ancor meno sa di soli scomparsi e di universi infiniti. L'uomo si rapporta a fatti minuscoli e ottiene orientamento da limitati contesti. Non si rivolge, di solito, alla madre-natura o alla madre-terra. Alcuni ambienti sono considerati naturalmente magici e molto at­ traenti perché offrono risorse e momenti ludici.

3 · 4·

Nelle famose terre di Maremma, che degradano verso il mar Tirreno, ci sono stupe­ facenti filari di pini e grandi praterie. È la regione dei prati e degli olivi. Gli alberi diffondono folate asciutte e spesso roventi. Boschi di lecci, sugheri, cipressi, poco battuti dal vento, bisbigliano in continuazione. Spesso il mirto e i pruni ondeggia­ no all'unisono in un'aria carica di vapori e profumi. 71

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

Le piane maremmane sembrano comporre un' isola. Uniscono due realtà am­ bientali: alture alberate da un lato e spiagge sabbiose dall'altro. I posti più arrocca­ ti, di giorno, mostrano i segni della scarsità d'acqua. Quando tutto è buio, poche luci si accendono sui profili accidentati delle colline. Sono gli oliveti che danno un aspetto ricco alle terre di Maremma. E che, manco a dirlo, impongono ritmi precisi alle attività umane. Esiste anche una fauna abbondante. L'animale simbolo è il cinghiale. La caccia al cinghiale in Maremma corrisponde a un' idea precisa di natura. È un'attività diffusa e prestigiosa, cui non ci si sottrae. Lega l'uomo alla vegetazione selvaggia. Le zone di macchia e di sugheri maremmani, in sragioni precise, sono percorse da squadre di cacciatori e altrettante mute di cani. Il territorio cambia faccia, diventa un altro tipo di arena. Tutti aspettano la caccia perché indicizza un tipo speciale di possesso del territorio. I cacciatori sono specialisti nel cercar tracce, nello scovare gli animali, nell ' in­ terpretare i passaggi della selvaggina, nel guidare i cani. Posseggono esperienza e attrezzature sofisticate per leggere il terreno. Curano moltissimo il loro equipag­ giamento. Proteggono le canne dei fucili con fodere. Tutta l'attrezzatura di caccia mette in luce quello che la natura della Maremma richiede: prontezza, decisione, resistenza, un certo gusto per l'avventura e buon apprezzamento di costumi ma­ schili primordiali. Nei momenti di battuta, i cacciatori si immergono integralmen­ te nell'ambiente. Il territorio diventa qualcosa di loro dominio. Le risorse naturali diventano il loro regno. Il cinghiale diventa un bene locale molto speciale da spar­ tire fra chi ne ha diritto o lo sa apprezzare. Uomini corpulenti e zitti conducono le loro imprese di caccia, con passione e con circospezione. Le compagnie di cacciatori sono allegre, scattanti. Quando scoppiano i primi colpi di fucile tutto cambia. Lo stridore degli scoppi fa sobbalza­ re ; dura vari minuti, fintanto che la preda è vicina o in vista. Poi il rumore si arresta di botto. Tutti i fucili si fermano. L'azione umana ha creato un rapporto unico fra uomo e animale giostrando il silenzio e il frastuono, il profumo della boscaglia e l'odore acre delle polveri bruciate. I vecchi cacciatori maremmani sono soggiogati da un progetto particolare. Pa­ recchi uomini dicono di volersi dedicare totalmente ai cinghiali. Vogliono andare presto in pensione per dedicarsi solo all'attività della caccia: « Smetto di lavorare per aver il tempo per cacciare ... » , «Voglio andare a sparare ai cinghiali con gli amici » . È questa una visione singolare della natura che lascia un po' stupiti. Forse in queste frasi c 'è un atto liberato rio che mette di fronte alla forza della natura. I cacciatori si pensano votati a tenere in ordine i conti fra uomo, terreno e selvaggina. Spiega un anziano: « La caccia è una questione seria. Si devono capire gli animali. Prendere quelli giusti, e non guastare i sugheri ... » .

3 · 5 · Il nostro corpo è un punto d i riferimento essenziale per leggere il na­ turale. La cura che gli dedichiamo è una parte importante delle nostre in-

3 · IN NOME DELLA NATURA

terpretazioni della natura, delle strategie che essa suggerisce. Il campionario delle cure (relative al benessere e alla salute) che ci concediamo è curioso. C 'è chi fa bagni di sole sostanzialmente per le stesse ragioni per le quali altri fanno bagni marini, docce scozzesi, tuffi tra i ghiacci. C 'è chi si ciba di soli vegetali, chi non tollera neppure gli infusi di camomilla o di menta. C 'è chi beve intrugli insipidi che depurano, chi al bar ordina solo doppia dose di caffè o altro eccitante. E odia la spremuta di arancia. A volte il nostro fisico può essere banco di prova di riti corporali eccentrici, ritenuti utili per rispettare la natura. Il corpo può anche essere sottoposto a radicali operazioni di peeling, di tintura, di piercing, di verniciature di emollienti. Talvolta lo si copre di pomate, di creme, di burro liquido o di grassi speziati. La bellezza della pelle si cura, a scelta, con acqua zampillante o la si migliora con cenere sottile, talco, ciprie poco naturali. Molti si vestono di veli poco protettivi, altri si avvolgono in teli pesanti come armature. E tutti sono convinti di sapere il fatto proprio in termini di naturalità del proprio corpo. C 'è di più. Nella nostra dieta quotidiana, quando vogliamo trattarci bene e difendere la nostra salute, o almeno non guastarla, cerchiamo ricet­ te di cucina che ci sembrano adatte "alla nostra natura" (che ovviamente riteniamo differente da quella degli altri). Ci offriamo quelli che ritenia­ mo i migliori doni della terra: beviamo acqua di fonte, mangiamo frutta e verdura biologica, ci vestiamo di cotone o di fibra naturale. Al bisogno, ingoiamo anche capsule di estratti di certi fiori semi-magici, ingoiamo estratti esotici, capsule e compresse di radici orientali, crusche e farine che vengono dall 'altro capo del mondo. Appena lo riteniamo opportuno, ci annaffiamo di profumi che riteniamo naturali (alla rosa, al bergamotto, al mughetto, al gelsomino e alla violetta) per sentirei in contatto con cose gradevoli, "che fanno bene", con ingredienti riequilibratori della pelle. Una dozzina di anni fa, in un mercato all'aperto di Aleppo, mi trovai in mezzo a molte bancarelle coloratissime, odorose, stracolme di cibi e di "prodotti naturali"; una conoscente turca con cui viaggiavo mi obbligò letteralmente a comprare due dozzine di saponette "fatte in casa" con ricette antichissime, che potevano dare luce e trasparenza alla mia carnagione troppo opaca ! Quel mercato non esiste più. La gente oggi ad Aleppo ha bisogno di altre cose (cibo pur che sia) . Le buone cose naturali sono scomparse sotto le macerie e la sporcizia. Le famose saponette che avevo comprato da un giovane tutto sorrisi hanno girato per anni in casa, con scarso miglioramento della mia pelle. Ora mi dispiace averle consumate, sarebbero cimeli di tempi andati, segni che ad Aleppo si sapeva vivere, si conoscevano prodot­ ti di ottima qualità (sebbene nel mio caso avessero avuto poco effetto) . Malaugu73

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

raramente, l' indole distruttiva di alcuni uomini ha rovinato tutto, non ha pensato per nulla a proteggere il naturale, l'artigianale, il sapere domestico e il futuro.

In certi momenti di pace e di prosperità, pensare di essere "dentro la naturà' ci fa credere nell 'armonia del creato e nella nostra saggezza. Ci permette di pensare alle nostre virtù naturali. Tuttavia, bastano una pesante grandinata improvvisa o l'allagamento di una via carrabile per farci subito accertare che siamo poco attrezzati e poco giudiziosi per ciò che riguarda il mondo naturale. Le idee e le convinzioni a proposito della natura non le teniamo mai per noi. Fanno parte di quei discorsi che sfidano, e che bisogna reiterare e rinvigorire. Anche senza esserci mossi di un millimetro dalle nostre abitu­ dini, discorriamo di protezione delle aquile che solcano i cieli delle savane africane, di vite straordinarie di squali che si inabissano e si muovono tra i continenti, e di grandi laghi nel sottosuolo del Sahara. Da un canto crediamo che il mondo immancabilmente proceda secon­ do leggi inamovibili, a cui noi stessi siamo soggetti. Dall 'altro, riceviamo e smistiamo tonnellate di notizie disparate su ciò che accade sul nostro globo, e nella vita contraddittoria di chi lo abita. Sul rapporto natura-cultura cor­ rono cioè tante voci che sembrano superflue, notizie che sembrano trafuga­ te e usate solo in certi ambienti confidenziali (per non venire allo scoperto). Molte di queste voci hanno una base di verità. 3 . 6. Il rapporto dell 'uomo col mondo animale, in certi giorni, ha i carat­ teri cangianti dell'arcobaleno (paura, amore, orrore per la massa corporea di qualche animale, per il suo istinto invasivo, il suo proverbiale appetito e la sua voglia di sangue) . Si esprime in grandi slanci d'amore e in fughe precip i to se. L'unico animale che mi impressiona, e che trovo meno pericoloso e feroce di quel che si dice, è il leone. L'ho visto da vicino libero più di una volta e a distanza ravvicinata (un paio di metri). Ha uno sguardo stupefa­ cente. Sembra assente ma è assorto. Guarda fieramente ; tiene lo sguardo fisso e ignora gli umani. Anni fa ero in Sudafrica e cercavo di esplorare la savana, viaggiando entro le riserve naturali.

Gli incontri con grossi felini liberi mi mettevano in corpo entusiasmo e mi por­ tavano a cercare di capire le differenze tra i singoli esemplari. Un leone, un certo giorno ( alle quattro del mattino) , si avvicinò tranquillamente al veicolo sul quale 74

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viaggiavo in un parco famosissimo (Kruger Park) . Camminava a lato degli esseri umani, tranquillamente, non lontano da un grosso fiume. Forse aspettava cibo o più probabilmente stava spostandosi verso qualche luogo riparato, protetto dal sole e dal vento. Non era stagione di "solleone", ma lui aveva bisogno di stare sotto i cespugli. Era molto imponente, padrone dell'ambiente. Sapeva che gli umani gli avevano rubato il nome per descrivere temperature torride e brucianti ? Somigliantissimo a quello di una nota casa cinematografica, il leone in que­ stione procedeva senza alterare il suo passo. Sull'asfalto, guardando avanti, mar­ ciava con passo misuratissimo. Seguiva una linea parallela a quella del nostro ca­ mioncino. Quando questo si fermava, il leone non si arrestava, andava avanti da solo, per conto proprio. Pensai: « Questo leone fila dritto ... Sta di guardia al suo territorio, non è a caccia di cibo. Mi sembra più un guardiano che un predatore della foresta » . Il leone era solo, cosa non del tutto consueta. Forse evitava gli al­ tri del branco ? Era tanto poco affamato da accostarsi a noi senza perdere tempo, senza aggregarsi ad animali o umani. Che progetto aveva ? Sembrava che ci tenesse controllati, osservava tutto un po' di sottecchi. Dentro al truck scoperto non ero molto riparata. Ma mi sentivo tranquilla; certi momenti avrei potuto allungare la mano e toccare il leone, tanto era vicino e apparentemente tranquillo. Sicuro di sé, lui rimase piuttosto indifferente alle voci degli umani (avvertiti dall'autista di non fiatare per nessun motivo ! ) . Ebbi modo di osservare il mantello, piuttosto sporco, le grosse zampe ancor più sporche, una traccia di sangue sul muso. Mi dissi che i leoni non sono belli come i ghepardi, i puma o le tigri. Hanno spesso la criniera arruffata o spelacchiata, frutto di lotte o di altre disavventure del branco. Ma avevano l'aria di superiorità che un grande ruolo comporta ! A un certo momento il leone si avvicinò di più al pick-up, ma non fece mosse strane. Attraversò la strada asfaltata lentamente prima di imboccare il cammina­ mento sterrato, di infilarsi in un cespuglio e sparire. Prima di andarsene dalla vista, si voltò, maestoso e corpulento, padrone di sé e di noi. Tutti abbiamo avuto la certezza che, se avesse voluto, ci avrebbe acchiappati facilmente con una semplice zampata. Non volle : perché ? Era sazio ? A cosa dovevamo quella visita d'onore della belva più famosa della foresta?

Dopo vari anni, con alcuni colleghi, ero di nuovo in Sudafrica. Mi trovavo in un posto relativamente simile al precedente (stesso fiume, stessa terra rossa, stessa sterpaglia, stessi rumori e odori, stessi animali) . Durante un giro per i l parco naturale, u n grosso branco d i leoni sbucò alla destra del nostro furgone. Sicuramente voleva attraversare la strada carrabile. Era diret­ to verso l ' interno, verso una bassa collina. Eravamo sotto mira. La vegetazione aveva lo stesso colore dei leoni. Mimetismo perfetto. Pensai: « La natura sa il fatto suo » . Vedendo avvicinarsi decine di animali, maschi, femmine e picco­ li, tenendoci stretti al sedile, ci scambiammo occhiate di meraviglia. Eravamo 75

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colpiti dal numero delle belve. Facemmo calcoli un po' confusi: I 2- I S maschi e moltissime femmine, 3 0 -40 i piccoli ! Era facile contarli perché si erano divisi in tante file indiane. Auto e furgoncini si erano arrestati sulla strada per osservare i leoni lenti e un po' sornioni. Sembrava che le bestie si fossero messe d'accordo senza badare alle interferenze umane. Guardai bene i leoni, uno per uno. I leoni hanno colorazioni più smorzate di altri felini. Hanno occhi un po' meno altez­ zosi, ma bellissimi. Nel nostro gruppo, un noto collega manteneva un'aria vigile, piena di curio­ sità. Era sul lato destro del furgone, quello migliore per vedere la scena. Fornito di cannocchiale e macchina fotografica, riprendeva le bestie. Ci passò il cannoc­ chiale per farci capire meglio. Seguiva il movimento di animali eleganti e potenti che ci stavano facendo strada. Nessuno di noi, in quel momento, si ricordava che gli animali sono predatori e che gli umani, per legge di natura, sono prede. Turti osservavamo le traiettorie di questi padroni delle savane e delle foreste che non si curavano di essere osservati dagli umani. Di sicuro i leoni osservavano con occhi esperti chi invadeva i parchi naturali e bloccava il traffico dei legittimi padroni di casa. Ma non reagivano male. «Eccone un altro ! » : è il segnale che ci si è scambiato a brevissimi intervalli, a pochi secondi l'uno dall'altro. La scena era molto eccitante. Le auto erano un po' incastrate le une davanti alle altre. I leoni transitavano, si incuneavano fra gli automezzi. In silenzio e seguendo propri camminamenti, gli animali avevano ipnotizzato tutti. Il collega con il cannocchiale per vari minuti bombardò di scatti i leoni accalcati. Era molto attento alle inquadrature. Usava poche frasi per informare chi gli era vicino, dov 'erano gli esemplari più visibili, quante decine erano. La lentezza e la padronanza di sé dei leoni mi colpirono. Mi dissi: « S to osservando un sistema di vita che vige da millenni ? Sento che viviamo per una manciata di minuti, in faccia al regno animale all'opera ( almeno per quel che gli umani consentono ! ) » . Dal fugone non avevamo la possibilità di individuare maschi dominanti e gregari, come dicono gli etologi, né il numero dei cuccioli, delle femmine che stavano al centro protetti dal branco. Ogni loro ordine so­ ciale è apparso impreciso e quello naturale della autodifesa e della caccia non si è attivato. La sera, durante la cena attorno al fuoco, mi chiesi perché i leoni ( che nella confinante foresta stavano ruggendo per farci capire dove eravamo e con chi aveva­ mo a che fare ! ) mi avessero così colpita. Confesso che ero stata messa con le spalle al muro dal fatto che i leoni ci avessero degnati di pochissima attenzione. Mi dissi: « Si è frantumato il mito della naturale ferocia dei leoni: questo è quanto. Mi sono piaciuti questi leoni ! » .

La naturale dotazione dell 'uomo non è da vedersi come qualcosa di aggiunto e sussidiario del mondo fisico. Il corpo umano è un organismo

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che vive in mezzo ad altri organismi. Partecipa, in molti modi e con varie finalità, paritariamente, alla vita attiva di tanti attivissimi organismi. Quando usiamo espressioni come "leggi naturali", "natura sovrana e in­ contaminata", pensiamo di esprimere verità assolute, dati che ci governano dall' inizio del mondo. Ma siamo spaventati da mastodontiche incertezze o veri errori : non si conosce bene il funzionamento del cervello, l ' insieme dei sistemi solari, l 'origine di alcuni disastri ambientali. La percezione della no­ stra inettitudine o impotenza ingigantisce davanti a moltissimi spettacoli del mondo naturale. Non sappiamo liberarci dell' idea della natura buona e generosa, ma nei fatti ci muoviamo piuttosto al buio, senza poter capire veramente la vita organica, cosmica, planetaria. Alcuni fenomeni naturali ci dominano. Il sole infuocato acceca le genti del Sahel, il Mar Morto contiene melme salmastre ulceranti, pungenti co­ me aghi d'acciaio. Le paludi della Florida soffocano uomini e animali e la siccità affama tante popolazioni. A un estremo lembo della catena alpina del Similaun (Austria), sotto la grande col­ tre di ghiaccio - dove anno dopo anno si rincontrano gli stessi escursionisti - c 'è un mistero. Per secoli sono rimasti nascosti, nel più totale silenzio, i resti di un uomo. Si è ipotizzato che l'uomo sia morto in battaglia o per un' imboscata, per una malattia oppure per il gelo e l'assenza di cibo. Oggi quest'uomo è famosissimo, sta in una teca. Anche se è stato sconfitto da condizioni avverse, ed è stato vinto dall' inedia o dai nemici naturali, oggi ha un'esistenza tutta speciale nei musei. È diventato un corpo su cui imparare la forza di certe risorse naturali e umane, capire la fatica di antichissimi camminamenti tra le montagne (che oggi ci "servono" per sciare) .

Gli ambienti estremi, i "confini del mondo", ci conquistano. A un famoso estremo del globo, il Capo di Buona Speranza, nel punto di scontro tra l' Oceano Pacifico e l'Atlantico giacciono inabissate moltissime navi, distrut­ te dalle onde spumeggianti dei due giganti oceanici che si infrangono sui massi. I naufragi fanno scatenare le più pazze fantasie su fantasmi e tesori, su marinai scomparsi. Nel punto del loro massimo incanto ricordano inabissamenti di ca­ richi preziosi. Questa specifica roccia africana insegna cosa sia la natura e cosa possa offrirei. Paradossalmente in questo luogo unico, oggi, alcuni uomini continuano a rischia­ re. Pescatori mezzi nudi e senza strumenti speciali salgono e scendono acrobatica­ mente la crosta pietrosa (per varie centinaia di metri). Sono quotidianamente in cerca di frutti di mare. E vincono la loro battaglia contro forze e condizioni difficili per ottenere cibo raffinato. Malgrado la loro evidente fragilità, vincono la parete impervia. È la loro sfida volontaria e audace rivolta alla natura. 77

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La natura ci stupisce e ci incanta a tutte le età. Fin da quando siamo piccolis­ simi ci occupiamo di gatti, cani e uccelli considerandoli esemplari essenziali della nostra vita. In un lembo della laguna veneziana, davanti a un gabbiano bianco e grigio che saltella, un bimbo dalla pelle dorata scoppia di gioia. Ride e chiama l'uccello. Squittisce e vuole copiare il volteggio dell 'uccello. Si incanta per il "miracolo del volo" e per l'abilità dell'animale intoccabile, guardingo e pronto alla fuga. Quando l'uccello di botto si alza e scompare, il bimbo si ferma. Vorrebbe far rivivere un incantesimo interrotto e solle­ varsi anche lui nel cielo. Non è ancora in grado di problematizzare le sfide della natura. 3.8. Ci sono momenti in cui si accoglie con entusiasmo la natura benefica o benedetta. Eccezionalmente bella o poetica. Tantissime le situazioni che colpiscono e commuovono : una carovana di elefantesse con i piccini attac­ cati alle code che attraversa il Crocodile River (Sudafrica) , gli occhi brillanti dei cani da slitta in montagna, due piedini, mobilissimi, che a mezz 'aria sporgono dalla culla. Sono scene mozzafiato, se ci concediamo il tempo di contemplarle dimenticando ogni protagonismo umano e lasciando cresce­ re l 'ammirazione verso la natura, eterna sconosciuta. Ma c 'è anche il caso opposto. A volte abbiamo una terribile ritrosia a entrare in contatto con fenomeni naturali. La lava di un vulcano o un'onda altissima e anomala ci danno grande inquietudine, quando le vediamo in­ goiare tutto (dentro un impasto rosso e nero, o bianco e azzurro). Talvolta, invece, la potenza della natura ci regala risorse immense :

Nell'ampio letto del Nilo c 'è un' immensa e inverosimile aria rossastra. I riflessi di ocra e di sangue prendono la gola, fanno affogare dentro sensazioni e scoperte ricchissime di stimoli. All'ora del tramonto, i riflessi rossastri diventano il colore uniforme delle tonnellate di sabbia che si stendono sulle rive. In altre ore i riflessi delle sabbie sono molto più tenui, più pallidi. Questa grande valle secca, fatta di roccia e di greti, è lo scenario in cui l'uomo ha costruito favolose città, porti, templi. Il fiume N ilo ha avuto un gran influsso sulla sensibilità e progettualità umana. Per lunghi tratti si mostra in una gamma di profili armoniosi, che ci svelano secoli e secoli di sforzi umani (grandi residenze, lucenti spianate, colonnati stupefacenti). Una profusione di luce bionda aiuta a fantasticare su quello che è stato il destino umano in questo territorio. La favolosa, ineguagliabile, via d'acqua del Nilo p ossiede una grande forza ma non intimorisce : è una risorsa inesauribile e buona. E di volta in volta un incalco­ labile tesoro, una materia divinizzata, una miniera di materiali preziosi. L'uomo ha saputo plasmare la forza del Nilo in mille modi. Dal suo fascino magnetico gli

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uomini hanno fatto nascere sogni giganteschi e in domabili. Seguendo l'acqua han­ no saputo sfruttare la fertilità delle sue rive, la forza della corrente, la suggestione di colori e odori. Vista dalla barca, la superficie traslucida del N ilo curva ora verso destra e ora verso sinistra, come se cercasse un luogo di sosta o di riposo. Poi questa massa splendente ritorna su se stessa, sulla scia precedente. Insegue una nuova curva e permette l' ingresso in un nuovo sito di splendori, di templi di chiarissimo marmo, in una strada maestosa disseminata di luoghi di culto. Lungo il Nilo si cercano le impronte umane di ciò che qui vive in simbiosi col cosmo. In altre parole, l'antica dolce corrente del N ilo calma, domina l'anima. Dona pensieri intensi e labirintici sull'esistenza umana. È l' uomo che ha fatto il N ilo o il N ilo che ha fatto l'umanità che lo abita ? Osservare il N ilo dunque è come farsi versare addosso la storia e le risorse di tanti popoli, di tante vite. Si è detto che le distese di terra rossa, gialla e ocra decorano in modo fantasioso i fianchi del Nilo. Le rive sono lisce e morbide ; attendono tutti i giorni le onde un po' brontolone, sornione. Il fiume maestoso e variopinto è ancora pronto a inon­ dare, a creare terreni paludosi, non navigabili. Le inondazioni, che hanno sempre fertilizzato i campi, oggi raggiungono solo tratti della valle. Hanno nutrito tanti tipi di vegetazione. Ora sono imbrigliate e monitorate. Dal fiume, la gente del N ilo ricava cibo, frescura, allegria, lavoro e giochi. In certi villaggetti, o accanto agli attracchi, i bambini Nuba si tuffano nell'acqua del fiume con grande allegria. Agilissimi, nuotano attorno alle imbarcazioni. Interro­ gano i turisti, cantano canzoni con voci acute, spesso scherzose. Offrono grandi sorrisi. Sono padroni dell'atmosfera. Quelli più audaci portano alle barche, stra­ colme di gente, qualcosa scovata chissà dove. Vicino ad Assuan, un ragazzetto Nuba, silenzioso e con un sorriso smagliante, mi punta addosso grandi occhi a mandorla. Indica col dito, sulla riva più alta, la tomba dell'Aga Khan. Vuole mo­ strare un simbolo che gli stranieri apprezzano sempre, e che i locali connettono al proprio mondo eterno e misterioso. La tomba principesca indica appartenenze ataviche, orizzonti millenari, venerazioni che non sbiadiscono. Il ragazzo dagli oc­ chi a mandorla fa un gesto di saluto alla tomba. Mi invita a ripetere il suo saluto (che mi permetterà di non scordarla più) . Tutto ciò che spunta sui due lati del fiume è un po' fuori dall'ordinario. At­ torno all'albergo dove ha soggiornato Agatha Christie aleggia un'aria piuttosto anacronistica rispetto agli scorci di marmi bianchi e rosa. Sui bordi dell'acqua ci sono pontili traballanti, palmeti e ciuffi di bambù giganteschi, resti di villaggi e di fortificazioni, sentieri fangosi, cammelli che si abbeverano. Tutto spiega l'antichità e la complessità di tante genti e di tanti eventi. Il Nilo, eterno dio locale, fa girare il mondo umano senza averne l'aria. La cultura e la natura si mescolano strettamente su tutto il percorso del N ilo. In ogni borgo, i locali amano pensarsi eredi di popolazioni che provengono da paesi arcani : l'Africa delle foreste, il Golfo Persico, i deserti libici, le coste medi­ terranee. Si sentono discendenti di chi ha eretto monumentali e incrollabili storie. 79

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L'eco della storia fiorita sul Nilo è fortissima. Forse il segno dell'uomo con­ tende la palma ai dati della natura. Ha ragioni molto evidenti per farlo. La storia è impiantata nel profondo del cuore di tante popolazioni che sono germogliate e penetrate in un ambiente singolare. Il richiamo delle vicende storiche investe molto la gente di oggi. Gli abitanti del Nilo hanno in mano il tempo vissuto. Conoscono la storia di tante migrazioni, di antiche razzie, di navigazioni presenti e passate, di varietà di mercanti e di merci. Conservano memoria di cose di cui non sanno parlare, ma che hanno stampate in viso, negli occhi. Certamente sanno i grandi segreti delle rivoluzioni da cui sono stati sfiorati, delle riforme politiche che li hanno isolati, dei territori rivieraschi che hanno disegnato la loro regione. Così come conoscono il senso delle chiamate alla preghiera, degli annunci dei minareti, delle campane dei natanti sul fiume, del rombo degli aerei che rompe il silenzio del cielo blu. La gente d'età sa fin troppo bene la fragilità di case costruite con mattoni di fango, la fatica di pesche stagionali, la strepitosa impresa di spostamento dei templi di Abu Simbel e la costruzione dei bacini artificiali scavati dagli ingegneri di Nasser. E si sentono premiati da questo salvataggio della propria identità. Segnata da opere strepitose, la vita sul Nilo sorprende anche per cose di oggi­ giorno. Un monastero copto (vecchio di secoli ) si innalza su una sponda assolata del magico fiume. Ciò che cattura immediatamente l'attenzione del visitatore è il canto dei monaci che accompagna passo passo la loro giornata. Tutta la vita, i mo­ naci vivono da eremiti, confortati da una serie di dolci preghiere. Sono sommersi dai loro inni musicati da cantori invisibili. Il canto, punto alto della cultura umana, sul Nilo riempie l'anima. Nelle chiese del monastero, piene di coloratissimi dipin­ ti, la vita è dunque ricamata dai salmi tradizionali, lanciati sulla distesa fluviale, sulle feluche dondolanti, sui giardini interni, sui campi di florida verdura. Fra le mura conventuali le attività umane si ripetono dall'antichità, allo stesso modo, con le stesse musiche. Tutto ripete e ritorna, ancor oggi, a ciò che è stata la vita del N ilo per tanto tempo. Ogni mattina è un piacere guardare l'acqua del fiume con calma, ascoltare i canti leggeri degli uccelli, scrutare il N ilo che si colora di cielo. Si scopre che sulla distesa liquida, la vita si accende, il buio scappa. È stato sostituito da vivaci tinte striate. L' Est si è coperto d'oro. I colori brillanti fanno venir voglia di scoprire co­ me sarà la giornata, il domani. Il fiume, illuminato da tante sfumature, dà la forza di proseguire.

3·9· Purtroppo molti fatti naturali sono posti in sordina o sono addirittura nascosti, negati. Sono letti come cose deficitarie, non accettabili. La vecchiaia è mal sopportata in quanto umiliante. È addirittura derisa o fa paura. Si pensa che sfiguri la persona e porti insuccessi a non finire. Anche le differenze di sesso, di colore - e di altri fatti naturali - spesso sono

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mal interpretate. Altre differenze sono viste come indici di stranezze o co­ me irregolarità della natura. Questi atteggiamenti sono spesso strumentali, invocati ad arte per enfatizzare le situazioni che non si vogliono affrontare. Per declassarle a cose che vanno allontanate. La paura è la madre delr errore, anche di quello più banale, che non con­ fessiamo. Il timore di non essere uguali ad altri, di possedere carenze che ci deturpano, fa ritenere la forza della natura una minaccia cieca e distruttiva, ,, una specie di tara dolorosa, che diviene "legge per la vita e la morte. , C è anche un versante letteralmente fantasioso nei rapporti tra il na­ turale e il culturale umano, tra cosa si è e cosa si vuoi far credere di essere. Alcuni individui, uomini o donne, sono considerati eccezionali "per na­ , tura : Si suppone che abbiano ineguagliabili poteri magici, a volte oscuri, che esercitano di nascosto, influssi bizzarri (saprebbero leggere il segreto dei cuori, predire il futuro, far !evitare gli oggetti, accendere misteriose luci con la forza del pensiero, discorrere con i morti e scrivere sotto loro detta­ tura e molto altro). Queste persone vengono talvolta etichettate come geni innati, eroi primordiali, esseri divini, o vati che richiamano la sventura. Le loro caratteristiche congenite non possono essere accettate e facilmente cre­ dute. Resta inquietante la varietà di persone dabbene ma emotive e fragili che credono in questi individui, che si affidano a questi strani imbonitori, ammaliatori, senza prova dei loro reali poteri. Molte cose ritenute naturali non lo sono, se non in misura limitata. Un albero di mele, sottoposto a innesti, potature, disinfestazioni, è tanto , naturale quanto la Pantera rosa (e ! ispettore Clouseau) , splendidi soggetti ,, immaginari, inventati dalla genialità di Isadore "Friz Freleng. Una pian­ ta di vermigli melograni, di fagioli screziati, un turgido pomodoro sono il risultato di interventi non sempre necessari delruomo. È chiarissimo che altrettanto si può dire di una bottiglia di acqua naturale, di una pasta bio­ logica, di un olio di prima spremi tura (troneggiante sulle nostre tavole). La nostra nozione di natura, in questo senso, è approssimativa e superficiale, inadeguata a far chiarezza su ciò che ci contorna. Una gran parte del nostro mondo è dunque stata massicciamente la­ vorata, alterata da opere umane. Le valli sono state colmate, i fiumi de­ viati, le coltivazioni tagliate dalle autostrade. I processi chimici hanno la­ sciato dietro di loro ferite e pericoli per requilibrio organico e ambientale. Giorno dopo giorno, si sa che le indagini scientifiche aumentano le nostre informazioni, ma relativizzano i nostri reali punti di riferimento. Ciò che diventa sempre più inquietante è, ad esempio, il fatto che le "applicazioni ,, della scienza siano incontrollabili e alterino le basi della nostra esistenza. 81

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Ciò che ci danneggia è, oltretutto, il fatto che la scienza sia diventata una strada maestra per inventare alta tecnologia. La cosa ha numerosi effetti. Il nostro globo ruota dentro rifiuti tecnologici, scarti tossici, che volano per ogni dove. In ogni paese del mondo i materiali contaminanti, anche di origine naturale, sono mal stivati o abbondanti e in crescita. Sono spesso e impunemente lasciati in depositi a cielo aperto, in discariche non protet­ te. Le politiche di smaltimento, è noto, non sono al momento in grado di frenare l'ossessione iper-tecnologica che fa diventare velocemente obsoleto ogni oggetto e lo trasforma in breve tempo in qualcosa da destinare all 'eli­ minazione. Entro questo panorama di mezzi e strumenti più o meno sofisticati e dannosi, che non si può qui commentare, galoppa una sperimentazione fai-da-te, che non è altro che ciarlataneria. Si dà credito (e pubblicità) a false novità scientifiche o farmacologiche, date come soluzioni sicure e a buon mercato. Si dà retta a inverosimili formule, o si spera in cose irreali. L'umanità corre il rischio di essere sempre più vittima di raggiri (e di crisi di panico) o di affidarsi a sogni insensati.

A volte si ha notizia di strane figure di guaritori, inventori e maestri nelle arti più varie. Questi individui non solo godono di una fiducia che non meritano, ma fanno credere di aver già ottimi strumenti e ritrovati elargiti da madre natura. Conquistano ingenui o inebetiti seguaci, usando l'aria di conosci tori delle "leggi di natura". Il dramma cresce e ingigantisce quando la gente non sa di non sapere, ma crede di potersi fidare di coloro che vantano esperienze strabilianti (che peraltro restano chiare illusioni). Costoro sostengono bellamente, senza troppe esitazioni, che se il loro rimedio non ha funzionato è per l' incredu­ lità del paziente, per la testardaggine di qualche bastian contrario. Qualcuno colloca la vita umana al di là dell 'umano stesso. Alcuni per­ sonaggi sfruttano duramente la credulità, il bisogno di speranze alternative della gente. Fanno di tutto per passare per esperti di scienze occulte, o di scoperte e formule risolutive. Vogliono apparire generosi benefattori e por­ tano non di rado a disastri micidiali. Vari individui si dedicano a pratiche pseudo-religiose, si dicono capaci di ricorrere a forze astrali, entità o flussi cosmici. La credenza in "soggetti incorporei", in supererai invincibili, guerrieri extra-umani, è piena di allet­ tanti nuance. Le persone non sono sempre chiamate a capire, ma a giocare solo il ruolo del seguace, sereno e incrollabile. 3 . I o.

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Parecchie imprese o interventi umani deturpano o danneggiano risorse essenziali. Certe imprese terapeutiche pericolose, è fatto noto, sono all'ori­ gine di gravi, insensati crimini contro l'umanità. Non si limitano a spacciare prodotti inutili. Silenziosamente contaminano, rovinano. Ci costringono anche a vivere in ambienti soggetti a feroci leggi o a limitazioni riguardanti l'alimentazione. Anche in altro campo, quello della gestione del territorio, una strabica e colpevole visione della nostra quotidianità ci sta costando molto cara in termini di deforestazioni, devastazioni, cementificazioni, in­ cendi, crolli, slavine, e altro.

3 . 1 1. Parigi è il posto di esperienze culturali ad alta tensione. Tutti le cerca­ no a teatro, nei musei, nei parchi. Pochi si sentono esclusi da una città in cui tutto può capitare o entrare in un grandioso, sfavillante scenario. Le strade del centro di Parigi sono un grande palcoscenico dove si vivo­ no storie e manifestazioni, ove a volte scoppiano grandi drammi. Le gallerie e le esibizioni parigine, in particolare, sono poli di grande attrazione per maree di gente. In certe giornate settembrine, il traffico delle visite artisti­ che è alle stelle : chilometriche file di visitatori prendono d 'assalto il centro storico, i tesori (le patrimoine) che si aprono al pubblico. Talvolta invece, nei quartieri, dominano le auto della polizia che sfilano roboanti, dopo as­ salti e stragi orrende. È così che si vive l'usuale, l'anomalo o l' inevitabile nelle giornate parigine. Giorno dopo giorno, nei luoghi più favolosi, la scena di Parigi si anima di molte voci, di molti manifesti incollati sui muri, di molte figure umane fantasiose. Da una mattina all 'altra, sorge qualcosa di inedito ; non si trova più lo stesso negozio. Velocemente, un attraversamento è stato transenna­ to per metter su un piccolo mercato di gastronomia. Un sotto-ponte sulla Senna è diventato momentaneamente una fiera alimentare. Un 'arcata del ponte è un palcoscenico per pattinatori acrobatici e un altro ancora è di­ ventato il "luogo dei lucchetti" ( agganciati al parapetto da innamorati che vogliono lasciare la propria traccia) ricettacolo di sogni immensi. Molti giovani sposi cinesi in abito da cerimonia si fanno fotografare sullo sfondo dei lucchetti. Tutto si tiene a Parigi, tutto si rappresenta e si vive in una speciale forma di naturalità. I pittori sono ovunque. Allestiscono con garbo un cavalletto o un tavolinetto come fosse uno studio, ed espongono i loro quadri e car­ telloni. I tavolini dei bar, con il loro stile inconfondibile e sempre uguale, sono ovviamente preparati per ogni tipo di bevuta. Ottimi luoghi di sosta,

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questi bar contendono spazio, come fosse la cosa più naturale del mondo, ai vasi di fiori allineati dai fiorai fin oltre la metà del marciapiede. Parigi è un luogo che dà anche molte lezioni storiche. Fa riscoprire appartenenze e destini della gente, in tante stagioni, in tante situazioni. Nel 20I4 una cerimonia singolare si è svolta con una certa enfasi in un luogo ame­ no, fatto di prati supercurati, di alberi e di fiori lussureggianti. Dentro il perimetro del lussuoso Jardin des Plantes si è segnato un momento della storia coloniale eu­ ropea di molti decenni fa. La cerimonia al Jardin ha origini in eventi distanti nel tempo e nello spazio. Riguarda un episodio a dir poco sorprendente avvenuto in terre esotiche e perse nelle acque degli oceani. Nel 1878, nella Nuova Caledonia, scoppiò una insurrezione delle popolazioni Kanak contro le truppe francesi. Oggi si medita su questa rivolta indigena che suggerisce sentimenti complessi (con un notevole senso di colpa) . La rivolta ha sfondi ed esiti importanti, non rimossi dai francesi, dagli europei. La celebrazione è stata fatta per concludere o risolvere un problema storico e culturale1• La vicenda insurrezionale dei Kanak oggi riemerge seguendo il filo della storia di un suo celebrato capo, Ata'i. Questo capo locale è noto per le sue impre­ se guerriere e per il destino riservatogli. Il suo corpo è stato decapitato. La sua testa è stata tenuta separata dal corpo. Il suo cranio è finito in Europa ed è stato depositato per quasi un secolo e mezzo presso la sede di un' istituzione scientifica francese. È stato catalogato e studiato sotto vari profili. È stato trasformato in materia di indagini di laboratorio. Per molti decenni, Ata'i è uscito dalle famiglie umane ed è entrato, a causa di interessi culturali e politici, nel novero dei ma­ teriali da analizzare. La sua condizione naturale d'origine è diventata una realtà diversa e manomessa. Il cranio di Ata'i, durante la cerimonia al]ardin, è stato restituito al suo popolo, rappresentato da alcuni suoi discendenti. La restituzione è avvenuta al Muséum national d ' histoire naturelle (sito famoso, rifondato nella seconda metà del Sette­ cento da Buffon) . Questo passaggio segna un condizionamento culturale enorme. Ha messo in evidenza prospettive che hanno poco a che fare con il rispetto della naturalità, e molto con gli interventi fisici sugli esseri umani. Rappresenta una singolare, tardiva, legittimazione di un grande capo, un atto politico-culturale che vuoi porre riparo ad abusi compiuti in nome della scienza. La storia di Ata'i è veramente imbarazzante. Il leader Kanak è stato privato della testa ritenuta ovviamente sede della sua genialità. Non è stata così tramutata in bandiera cuiturai-religiosa dai Kanak. È stata sottratta a chi poteva veder in Ata'i un eroico difensore di popolazioni assoggettate da potenze straniere. È evidente che la riconsegna del cranio di Ata'i al suo popolo, con tanto di rito commemo­ rativo, non chiude la storia dell' insurrezione Kanak. Ingigantisce il significato di

1. "Le Monde", 30 agosto 2014, p. 11.

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vicende individuali e istituzioni che sono nel registro della ricerca e della cronaca politica. La cerimonia che ha investito i resti di Arai non è un gesto isolato. È in linea con situazioni analoghe. Negli ultimi vent'anni, i paesi ex coloniali hanno resti­ tuito materiali umani e manufatti ai legittimi aventi diritto. Il caso di Swatche, la cosiddetta Venere ottentotta, e quello degli affreschi murali restituiti all'Egitto fanno parte dello stesso progetto di recupero di oggetti sottratti alle genti colo­ nizzate. Materiali naturali e manufatti umani sono stati considerati somiglianti o comparabili, o dello stesso valore. Non sfugge che il filo che in queste storie tiene insieme natura e cultura, a volte è stato reciso e riannodato con pochi impacci morali. In sostanza, la testa del capo Kanak è stata, per molti decenni, letteralmen­ te sepolta in un' istituzione che aveva lo scopo di indagarne le caratteristiche biologico-anatomiche e di mettere sotto controllo il loro forte potere evocativo. In breve, una parte di un corpo umano è stato trasformata - una volta scompo­ sta - in documento d'archivio come un qualsiasi reperto inerte. E si è voluto "secretare" un capo nemico in posti sicuri, adatti a trattare un corpo come una stele di pietra. Atal ha oggi subito una nuova radicale trasformazione. In pieno terzo mil­ lennio, in altri termini, il cranio di Atal è uscito da certi recinti in cui era stato confinato, è uscito dai depositi museali rinomati. Il cranio, una volta restituito ai Kanak, non è più un pezzo di una tipologia museale. Non è più un indice, un simbolo o una testimonianza delle variazioni razziali. Non è però neppure una specie di manichino, destinato a segnare un posto nella scala evolutiva umana. Non è cioè più custodito come una calotta cranica, segnata da un numero pro­ gressivo. Non trae il suo valore da misure e dimensioni fisiche. Con la restitu­ zione, il cranio di Arai ha ricevuto una particolare evidenza e nobiltà. Può assu­ mere il significato di tesoro Kanak, altamente simbolico e intramontabile. Ha meritato apprezzamenti, un nuovo valore, che non è però esattamente umano. Muovendosi verso la propria terra, il cranio non è stato ricomposto come parte di una figura umana, non è ritornato a essere la testa di una persona quale era. La manipolazione in sostanza è diventata lunga e complessa. Atal è ancora nel bel mezzo di un'azione che potrebbe far esaltare il lato poco naturalistico della sua vicenda. La restituzione del cranio, in sé atto un po' macabro e pieno di lati oscuri, è dunque una meditata e negoziata decisione culturale. Il cranio, liberatosi dall'o­ dioso statuto di oggetto scientifico da misurare e sottoporre a stime, non sarà più uno scheletro tesaurizzato, seppellito in un luogo di studio. Non sarà più fatto cir­ colare da un deposito a un gabinetto scientifico. Potrà però subire altre mutazioni significative del nesso tra cultura e natura.

2. "Le Monde", supplemento

Cultures et idées, 6 settembre 2014, pp. ss

4-5.

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE 3 . I 2. Il contesto vegetale del Muséum d' histoire naturelle di Parigi è impor­ tante. È un 'esposizione botanica, una permanente natura urbanizzata - il famoso Jardin des Plantes - in cui si scopre la genialità e l'abilità umana. Nel perimetro del Jardin des Plantes campeggiano quattro grandi serre di piante tropicali. Vi ha sede anche un settore dedicato alla Nuova Caledo­ nia, la terra di Ata'i.

La vegetazione della serra è stupenda, contiene essenze provenienti da regioni lon­ tane e arcane. Grande opera architettonica, la serra è impregnata da aria calda, percorsa da un gioco di luci e ombre. Nelle quattro sezioni le varietà arboree sono tante. Costruiscono uno scena­ rio ricco e ben architettato. Ci sono piante floreali con rami penduli o a palma, a ventaglio, a vigna. Tante tinte screziate e venature di colore bruno o verde vel­ lutato coprono tronchi e masse di foglie bagnate. Alcune piante, putride, vivono come parassiti, in un'atmosfera colma di vapori e odori intensi, su altre totalmente morte. Un sentore di natura imbrigliata invade l'ambiente non molto ossigenato. In alcuni angoli della serra alberi reclinati sono immobilizzati da archi chiusi e da vetri. Ci sono rampicanti per decine di metri, fra loro avvinghiate e appoggiate a sostegni di sasso e cemento. In sostanza, le piante raccolte nelle serre del Jardin raccontano la natura, ovviamente a modo proprio. Sembrano raffigurarla un po' da lontano, a volte di striscio. C 'è l'arte dell'uomo che spunta ovunque. L'ardita struttura di metallo delle serre vuole inscatolare una scena gigantesca, a beneficio dei visitatori parigini. Altissime e torreggianti, molte piante sono isolate da tutto, dall'umanità stessa. Il patrimonio botanico delle serre rappresenta l'esito di un' in­ finità di aggiustamenti ed esperimenti. I progettisti dell'orto hanno re-inventato il naturale servendosi di mattoni, vetri, colonne, transenne, reti, cemento ; si sono lanciati a fabbricare un parco tro­ picale dentro vetrine e siti, alti settanta o ottanta metri ! La natura strepitosa del Sud sta inamovibile sotto il cielo del Nord. All'esterno delle celeberrime serre tropicali ci sono aiuole stagionali, rinnovate anno dopo anno. Sono favolose, coperte di dalie stellate dai colori violenti, con corolle minuscole e a raggiera, e ciuffi di petali bianchi, amaranto e gialli. Tutto è organizzato come "armonia naturale". Ogni aiuola crea un arredo sontuoso, pro­ gettato, costruito da e per i parigini. Al Jardin des Plantes, per mettere la cosa in modo semplice, si può dire che ci siano almeno due mondi, due tipi di natura: quella dei fiori stagionali e quella delle serre. L'una rinasce tutti gli anni ed è guidata dal gusto e dalla esperienza di botanici e tecnici. È disegnata in anticipo. L'altra, antica, è ingabbiata, difesa dai mutamenti climatici. Sta dietro a spessi vetri, sorvegliata da strumenti e squadre di esperti (per nulla diversi da quelli che si occupano della vegetazione stagionale) . In sostanza, nelle coltivazioni del Jardin l'uomo ha prodotto tipi di zone verdi con esiti diversi, senza vincolarsi al concetto di stabilità e totale immutabilità della natura. 86

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In una zona monumentale del vne arrondissement di Parigi si stende un ampio prato, povero e mal ridotto in tutte le stagioni. Il prato non è cioè una splendida pelouse, come in altri quartieri parigini. Ha chiazze secche e terrose. Se non fosse per la dimensione passerebbe per un semplice luogo di transito. L'usura però mostra che il prato serve alla gente, non è un cuscino di lusso. C 'è chi si porta da casa una stuoia e si sdraia al sole. Si riposa, legge e spegne il mozzicone dentro una zolla. Il prato è uno spazio di accesso a un edificio enorme ( Hòtel des lnva­ lides ) , in cui sorge un monumento famoso, il Tombeau di Napoleone Bona­ parte. Il Tombeau è adiacente a un parco, suo naturale ornamento. Nell 'area dell' Hòtel si nota il gioco degli spazi, chiusi o aperti, dei grossi fabbricati, che segnalano tutta la complessità di un grande patrimonio artistico. La chiesa in cui stanno le spoglie imperiali è sintomaticamente intitola­ ta a Saint Louis. È sormontata da un' impressionante cupola d 'oro, dalla li­ nea perfetta. Le rigide simmetrie degli archi e delle volte disegnano i volumi degli edifici. Il tutto ispira grandiosità, offre un 'ottima base per l 'identità nazionale francese. Aristocratico e imponente, l' Hòtel des lnvalides richiama all' istante l'attenzione sulle funzioni istituzionali che vi si svolgono. Il ricco complesso monumentale ospita gli uffici delle alte cariche delle forze armate ( l'Armée) Ma l'area dell' Hòtel des lnvalides ha un qualcosa di irreale. È un'opera pre­ stigiosa, dall'aria solenne ma stati ca. A molti dà l'impressione di essere vuota oppure piena di segreti ben sepolti. Le grandi finestre dei fabbricati, identi­ che e allineate, sono buie. È come essere a casa di gente aristocratica e riser­ vata, che non ha voglia di farsi notare. E non si mostrerà mai. 3.13.

.

Una mattina assolata, pochi giorni dopo la riconsegna del cranio di Atal ai suoi discendenti Kanak, all' Hotel si risveglia lo spirito della fierissima Francia repub­ blicana. Accade qualcosa proprio nell'ambiente che richiama potentemente la fi­ gura di Napoleone Bonaparte. A mezzogiorno squadre militari in alta uniforme marciano in formazione. Si vivacizza il cortile d'onore e il piazzale del sepolcro napoleonico. I militari si muovono con sguardo fisso e mani rigide. È in corso un saluto ufficiale a un ospite di riguardo. I soldati in belle divise hanno fucili e mitragliatori bene in vista. C 'è la banda che fa le prove. Un emiro arabo è arrivato a Parigi e sta entrando nell' Hotel tra scoppi di fanfara e colpi secchi di tacchi. Si sta eseguendo un preciso rituale di accoglienza e una bella performance musicale. I militari sincronizzati ricevono un battimano dal pubblico che, assiepato, non si perde nulla, e rende omaggio agli attori in scena. Entro un'aureola di uomini, in lunghe tuniche bianche e mantelli scuri, l'ospi­ te straniero è sistemato tra ufficiali e dignitari francesi. L'apparato militare parigi-

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no onora lo status dell'ospite con busti eretti e berretti tolti e rimessi velocemente. L'ospite ha un abito lungo che splende al sole e svolazza attorno alla sua figura. Un lembo dell'abito sporge da sotto il mantello di mussola nera sottilissima. Il porta­ mento del personaggio è regale, da capo dinastico e religioso. La bianca kufiah è più vaporosa e splendente dell'abito. Le mani dell'emiro stringono le falde del velo. Certo, questi personaggi raffinati in divise militari o in tuniche principesche fanno gran sfoggio delle loro culture. I giovani soldati francesi contemporanea­ mente sono ritti, allineati in file perfette. Il corpo musicale della Gendarmerie mo­ bile esegue pezzi celebri con impegno. I suonatori alzano a più riprese il tono della musica. Tutti sono galvanizzati. La scena è preparata per far effetto sui dignitari stranieri e sul pubblico numeroso, che si dondola di qua e di là a passi di danza. Tutto fila secondo le regole culturali più assolute : uomini potenti sono vicini, si mostrano, si omaggiano e si legittimano a vicenda. I loro corpi raccontano tutto questo in modo cifrato. Tre fotoreporter, con kufiah rossa e bianca, più plebea di quella del loro capo principesco, corrono avanti e indietro per far belle inquadrature. Sono tenuti a bada da una sorridente soldatessa francese, in gonna attillata e tacchi alti, che ripete soavemente in un inglese burocratico : « Il tappeto rosso non va attraversato, non si deve superare il confine della siepe, non è permesso toccare i vasi di fiori sugli scalini del Tombeau » (i tre hanno già smosso un grosso vaso che impediva loro di muoversi bene !). Francesi e stranieri devono restare obbedienti e ossequienti die­ tro la bandiera francese, simbolo insostituibile, cioè non devono far scricchiolare la ghiaia che copre il viale. E soprattutto i fotografi non possono proprio infastidire con lampi di flash il super decorato generale francese, un paio di ministeriali di alto livello e una signora. La signora è una funzionaria, mi si spiega. Nel gruppo delle autorità si distingue a colpo d'occhio : è la sola persona francese priva di divisa militare. Forse la signora non ha calcolato l'effetto che fa il suo abito nero e grigio, quasi un mezzo lutto, accanto a quello bianco e nero dell'emiro. Forse le è stato chiesto di non indossare vestiti colorati (visto che l'emiro non porta colori). La signora sta in disparte; è come fosse sull'attenti anche lei. Si accosta all'ospite per essere presentata. Abbassa la testa, come è naturale davanti alla regalità. Con pochi naturali scatti in avanti del busto, il principe rende omaggio alla signora. Dietro le spalle dei dignitari, in cima alla scalinata che porta alla tomba di Napoleone, a un certo punto la porta viene sommessamente chiusa. Nessuno - du­ rante il saluto - ha fatto un omaggio ufficiale ; tutti hanno proseguito la ceri­ monia senza omaggiare i resti naturali e soprattutto preziosamente simbolizzati di Napoleone. Si è pensato necessario ignorare la cella mortuaria, per non creare anacronismi. Un conquistatore di popoli e di patrie, con il quale i conti sono stati complicati, è un tema culturale da trattare con cautela! I giovani soldati francesi che si muovono energicamente sulla scena sono gli strumenti dell'arte militare, i custodi valorosi dei simboli del popolo francese, le incarnazioni di una grande epopea europea. Rappresentano nel contempo una corporalità bella. Scelta e rispondente a precisi principi. A intervalli giusti i gio88

3 · IN NOME DELLA NATURA

vani soldati, con un'ombra di orgoglio, gettano una sbirciatina verso il pubblico. Sanno fare spettacolo sotto il sole. Sono forti e infervorati ; vogliono essere notati e applauditi. Le figure e i movimenti ritmati dei soldati assecondano "concezioni della na­ tura umana" che si pensa meritino di essere costantemente ribadite. È messo peral­ tro in mostra un mondo culturale. E uno spirito. I movimenti fisici dei drappelli non sono puramente corporali e coreografici. Valgono perché rendono comprensi­ bili tante aspirazioni, convinzioni, speranze profonde. Il vigore e l'abilità di questi giovani sono ottimi strumenti per memorizzare e indicare quello che preme. È fuor di dubbio, in sostanza, che ciò che avviene davanti al Tombeau e in mezzo ai giardini dell' Hotel des Invalides è una performance di professionisti, che mostrano le fondamentali regole delle istituzioni più alte, quelle essenziali dell'offrire, del negoziare, del contraccambiare. Il legame natura-cultura costruito davanti al Tombeau ha radici storiche anti­ che e ricadute sull' immaginario quotidiano. Lo scenario della tomba imperiale co­ stituisce una "armatura culturale" possente. È sintomatico peraltro che il luogo del "culto" dell' imperatore non sia nel giardino tra le aiuole, ma in un tempio lussuoso e silenzioso. Un patrimonio politico-culturale è stato eretto attorno alla sua perso­ na ( lontano dai dati puramente naturali ) . L'azione scenica del principe orientale, abituato a sale del trono e a deserti, è collocata in un quadro culturale speciale. La sua figura fisica, il suo abbigliamento, i suoi gesti sono stati un richiamo a ciò che è l' Oriente, alla sua cifra storica. L'emiro ha però seguito perfettamente i programmi culturali, inventati dai francesi per lui. La cultura aiuta o imbriglia, nei vari casi, molto più degli imperativi naturali. Dopo la carrellata musicale, un giovane soldato francese accaldatissimo, spin­ to da un'evidente voglia di ridurre la morsa della divisa di gala, si è allentato la cintura del pugnale. Si è accontentato di emettere un lungo respiro. Ha puntato lo sguardo sul pubblico e, per non sembrare sfacciato, ha fatto un pallido sorriso. Ha così confessato che si era concesso un po' di relax o uno strappo. Ha stretto di nuovo la cintura e, decoroso, è salito sull'autobus della Gendarmerie mobile che lo avrebbe riportato in caserma. Ha rimesso il suo corpo al posto giusto, seguendo le regole della convivenza istituzionale.

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Le cose cui non è possibile prestar fede

Tutti siamo liberi di credere in nozioni e concetti che ci confortano e ci spronano, o di pensare che proveniamo da poteri supremi, da forze inscru­ tabili. Chiamiamo di volta in volta queste forze creazione divina, stato pri­ mordiale, fondazione mitica, opera degli dèi. Su queste basi, o meglio su questo sguardo volto all'indietro, molti in­ dividui organizzano la loro vita, assumono cioè abiti culturali, concepisco­ no il proprio destino o il proprio obiettivo. In sostanza, si sentono investiti da energie benefiche o indispensabili, di cui peraltro non hanno perfetta coscienza. In altri casi, non meno numerose persone sono certe che non riusciranno mai a capire la propria condizione e che resteranno intrappolate da mille incertezze irrisolvibili. Le concezioni che ci guidano e sulle quali facciamo conto non sono "nostre" in senso stretto, non sono veramente personali, e tanto meno sta­ bili e assolute. Si apprendono, si elaborano, si selezionano, si scartano in un moto o avvicendamento perpetuo. Questo movimento si traduce in ag­ giornamenti e correzioni continue di punti di vista, di prese di posizioni, di credenze. Ci si aspetta, di frequente, che possa stabilizzare e chiarire il destino del mondo e possa dare un profilo sopportabilmente limpido alla vita degli esseri umani. 4 - 1 . In alcuni luoghi, molto frequentati e venerati, vediamo ogni giorno la rappresentazione di alcune nozioni e idee sulle quali si basa la vita della gente.

A Pechino, il favoloso Tempio dei Lama sorge in un settore molto trafficato. È me­ ta di infinite visite di fedeli. Nei luoghi cosiddetti sacri, le persone entrano con la chiara convinzione di fare qualcosa per salvaguardare e garantire la propria esisten­ za. Ciò che colpisce subito è il fatto che tutti eseguono - con moderata inventiva e poca consapevolezza - precisi riti. Si tratta di inchini, flessioni fino a terra, mani 91

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

giunte, invocazioni mormorate. Sono atti che sintetizzano una sapienza, una co­ stanza raramente espresse da parole. In mezzo a statue, tavole delle offerte, tamburi e altri strumenti, la gente accende immancabilmente bastoncini di incenso a cen­ tinaia. Li lascia consumare lentamente, impiantati nella sabbia di cassette di legno o dentro vasi di bronzo. Gli incensi restano accesi ben oltre la visita delle persone. I visitatori, subito dopo aver acceso gli stecchi, scappano altrove ( in luoghi forse meno vistosi e più laici) . Lasciano nel tempio il segno della loro visita e prolungano il senso delle loro aspettative grazie a questi aromi, a queste vaporose striature di fu­ mo. Sono i fumi che dichiarano che è avvenuto qualcosa davanti alle grandi statue di Buddha. Le persone, compiuto questo atto, possono pensare di avere assunto un comportamento corretto e saggio, di aver sconfitto pensieri sbagliati o torbidi. Forse avvertono che la corsa della vita si sta svolgendo regolarmente. Gli stecchi di incenso fumigano tutti insieme. Ondeggiando, i molti fili di fumo si levano gentilmente verso il cielo, verso i luoghi rituali circostanti. Con il loro profumo invadono i cortili, riempiono le sale e i giardini del tempio, e natu­ ralmente richiamano alla mente e solennizzano credenze, modelli arcani. Tutti i fumi, attraverso i loro improvvisati disegni, ricordano che l'essere umano cerca di segnare il proprio posto nel mondo in modi codificati, simbolici, a volte considera­ ti perenni. Rammentano che la vita si esprime in un guizzo e che la saggezza umana è qualcosa di prezioso ed essenziale. Essa va cercata e invocata a furia di vapori e inchini, litanie e gesti che provengono da distanze immense, da poteri nascosti nel mistero dell'universo. I vapori odorosi del tempio testimoniano in sostanza il bisogno di seguire una strada conosciuta, e di rassicurarsi. Il drappello di visitatori oranti, nei vari edifici, è costituito da persone che intuiscono solo parzialmente il proprio destino. Cerca­ no di conoscerlo, di prevedere cosa è l'oggi e cosa sarà il domani. Cercano cose in cui credere, cui appoggiarsi con simpatia e fedeltà. In solitudine o in compagnia, i fedeli si alimentano tutti della stessa credenza ricevuta, conservata generazione dopo generazione.

Nella grande Pechino esiste un Tempio di Confucio, poco distante da quel­ lo dei Lama, che presenta caratteri molto differenti. I due templi non sono che esempi di una gamma infinita di modelli ideali-simbolici della capitale cinese. Nel luogo intitolato a Confucio non si vedono fumi, non si sentono preghiere, non si compiono inchini. Non ci sono vapori profumati, né tanti, né pochi. La gente gironzola a passo lento, nella quiete, per i viali alberati. Sembra molto meno incline ad atti performativi individuali o interiori. Una serie di immagini sui muri del complesso è dedicata al grande maestro, trasmette il suo insegnamento. Alcu­ ne sale ospitano laicamente cimeli della storia cinese che lanciano messaggi poco misteriosi o più laici. Su schermi installati nel giardino si proiettano documentari e 92

4 · LE COSE CUI NON È POSSIBILE PRESTAR FEDE

servizi su manifestazioni attuali. Alla fine di queste gallerie, di cui è difficile memo­ rizzare il tracciato, si giunge al monumento dedicato a Confucio. Vi sono esposti alcuni celebri testi, davanti ai quali la gente straniera, un po' confusa, non si ferma a lungo. Non c 'è fervore e nessuna atmosfera misticheggiante. L'area è alberata ed è più ristretta di quella intitolata ai Lama. In una parte più interna del Tempio di Confucio si intuisce un'altra funzione di questo tempio, un po' disadorno. Una scuola di danza raccoglie ragazzi e ra­ gazze, molto giovani. Frequentano lezioni di danza moderna. La palestra, su un piazzale-proscenio, è inondata di musica a tutto volume. È un luogo che attrae ballerini cinesi acrobatici, impegnati in esercizi scatenati. La musica è occidentale e molto invitante. I ragazzi sembrano non badare alle tradizioni confuciane : sem­ brano entusiasti, attratti dai balli statunitensi degli anni Sessanta. Non lontano dalla "scuola di danza", la scena cambia di nuovo, si ritorna all'an­ tico, alle credenziali culturali della nazione cinese. Alcuni operai e restauratori, piuttosto attempati, sono impegnati in un lavoro di ristrutturazione e recupero di materiali artistici. Hanno l'aria seria e incartapecorita. Sono operai che cono­ scono le arti antiche. Non alzano gli occhi dai materiali che stanno lavorando. Riparano una mezza dozzina di statue mastodontiche, in terracotta, piuttosto mal ridotte. Si tratta di figure di guerrieri antichi. Forse un corredo funerario, un segno del passaggio mortale. C 'è accanto un deposito di altri oggetti che non sembrano avere significato funebre. Questo lavoro di salvataggio - amorevolmente curato da vecchie mani di artigiani - non sembra interessare né i turisti né i ballerini. Sicuramente il restauro è il centro di interesse di questi specialisti che salvano le idee, le maestrie, i valori del passato. La scena dei restauratori dice all' istante che l'ultramoderno, il tradizionale e il monumentale occupano livelli distinti ma contigui dell' immaginario cinese. Prodotti culturali così diversi stanno a portata di gomito, senza troppi problemi. Alimentano l' idea di sé, la speranza e la fedeltà culturale della gente cinese. Senza ricorrere ad astruse filosofie, testimoniano l'esistenza di un potentissimo progetto socio-culturale cinese. Il recupero di nobili tradizioni ha da essere accoppiato a sogni ultramoderni.

Le attività rituali del Tempio dei Lama e di quello di Confucio possono essere tutte commemorative, celebrative. Esse segnano peraltro distanze e varietà di convinzioni, di ideali. In una megalopoli con varie decine di mi­ lioni di abitanti, molti indicatori rituali-religiosi danno segnali culturali in via di forte evoluzione. Non è facile farsi capire veramente quando si parla di credenze, di aspettative e visioni interiori. L' idea di accostarsi al soprannaturale, all' im­ materiale ( o, se si vuole, all 'ultra-umano ) , di tentare di fondere il terreno 4.2.

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IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

al divino, rappresenta uno sforzo - titanico e universale - da parte degli uomini. Questo tentativo di comprendere il sovrumano, ad esempio, nel Tempio dei Lama si appoggia sull'uso rituale di molti materiali : bastoncini d ' incenso, acqua delle aspersioni, pane e bevande, chicchi vegetali, polveri colorate, profumi e canti, fiori e frutta, abiti e copricapi, tamburi e cembali. Sono materiali attorno ai quali ruotano nozioni impalpabili, che accom­ pagnano le esistenze concrete della gente. Sono materiali che fanno im­ maginare realtà che, al contrario, non sono rammentate da quelli presenti nel Tempio di Confucio, dove invece sono raccolti testi murali, disegni, statue antiche, attività musicali. La doppia realtà templare interroga, ne fa immaginare mille altre. La questione di fondo è semplice : riceviamo molte presunte verità in modo oscuro e inverificabile. Ciò è inquietante perché è alimentato da dog­ matismo. Le credenze umane sono spesso malamente o frettolosamente tra­ smesse. Ci scappano di mano o non ci raggiungono nemmeno. Non si sa come avvicinarle e darcene ragione. Le dichiarazioni verbali che una persona usa per descrivere quello che vuoi promuovere a credenza si basano su testi, omelie, proclami difficil­ mente interpretabili. Possono in vari casi scatenare in chi ascolta un senso di insufficienza o di impotenza. Possono imprigionare le persone in innu­ merevoli dubbi e incredulità. Le frasi molto comuni, come « lo credo » , oppure « Giorgio è stato un uomo di grande fede ... » , «La fede è la consolazione più grande » , a dispet­ to di tutto, fanno vibrare qualcuno ma allertano qualcun altro. Sono forme di discorso che colpiscono o che impongono gioiose o penose riflessioni. C 'è da rimanere talvolta impressionati da ciò che viene proposto anche in ambienti credibili e da persone sincere. Di certi fantasiosi assiomi è impos­ sibile verificare la fondatezza. Alcuni teoremi, verbalizzati e molto diffusi, sono ritenuti veritieri a priori. È difficile capire perché essi siano assunti come inderogabile orizzonte di vita per sé, e ciò che spesso diventa grave, "per gli altri". 4·3 · Le modalità di trasmissione di una credenza sono legate a fattori d'età, luoghi, circostanze personali e momenti storici. Il mondo infantile riceve da quello adulto cose vere e cose fasulle, sto­ rie illuminanti e racconti che ritardano la presa di coscienza della realtà. Una bimba di nove anni confessa : « Qualche volta credo nella magia, negli animali immaginari ... qualche volta sono veri. Io ho pensato che possono

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4 · LE COSE CUI NON È POSSIBILE PRESTAR FEDE

proprio essere veri ! » . Il suo atteggiamento fa capire che per lei non è un gio­ co : crede a creature che la affascinano ma ha anche ragionevoli titubanze. Certe credenze non sono leggere e innocenti. Ci vengono posate sulle spalle fin dalla più tenera età. Possono riguardare la bontà delle fate e la cattiveria delle streghe, il furbo topino che premia chi perde i denti da latte e il lupo spiritato che si materializza se il bimbo non mangia la pappa. Cer­ te storie narrano di una lanterna magica, di insetti saggi e parlanti, di una orrida matrigna che perde il suo potere su un 'orfanella o di un 'altra donna odiosa che fa abbandonare due teneri fratellini nella foresta (ma viene puni­ ta) , di un vecchione nordico con gran barba bianca che porta doni ai bimbi. La più consolante delle storie è quella di questo personaggio amatissimo del Nord che conferma i bambini nell 'opinione di essere stati proprio bravi e meritevoli (data la quantità di regali che essi ricevono anno dopo anno). Alcune storie infantili parlano di dinosauri, di mammut e insieme di orsacchiotti golosi e prestano a questi animali sentimenti umani. I bimbi ridono per questi racconti che narrano della vittoria finale dei bravi (o della punizione dei bugiardi) e della giustizia ristabilita. Secondo l'opinione dei più, questi racconti aiutano a costruire l' imma­ ginario del bambino, la sua percezione del mondo. Sono credenze che con­ sentono di far diventare meravigliosi i bimbi. Ma a qualcuno viene anche in mente che ci sono storie che mettono in vista facce di orridi individui, armati e aggressivi, poco costruttive per l 'umanità. Moltissimi bimbi vogliono credere a storie terribili, molti adulti sono malauguratamente certi che esse siano da ripetere perché fanno sperare in superpoteri. Molte narrazioni per bambini si potrebbero chiamare favole buone o raffigurazioni consolatorie della vita. Ma a un certo momento de­ vono essere lasciate da parte. Si stenta a spiegarle per quel che sono ( almeno fino a quando i bambini non hanno l'uso della ragione, come si usa dire), ossia prodotti facilmente sostituibili con materiali più nobili e interattivi. Altre narrazioni sono solo piene di esseri strani e malevoli che andrebbero censurate, per l'ansia che scatenano. Anche se normalmente si chiudono con un lieto fine, accendono i timori dei piccoli. Qualche bambino, davanti allo schermo, chiude occhi e orecchi per non assistere a cosa impressionanti (destinate proprio a lui, al suo sviluppo emotivo e intellettuale) ! Alla rivelazione della "verità" - che dovrà per forza essere consegnata ai bambini - si arriva con qualche sforzo. Si tace a lungo, o si danno spie­ gazioni vaghe sul contenuto dei racconti per non turbare i bambini, per non infrangere l' incantesimo delle loro fantasie. I bimbi vanno pazzi per un mucchio di cose : i folletti, gli gnomi, le polveri magiche o i paffuti esseri 95

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con le ali che abitano un universo pieno di risorse. L'universo miracoloso è un patrimonio che ricorderanno per sempre, che vale la pena curare. Crescendo i bambini, pur imbottiti di notizie strabilianti su ultra-uma­ no, celestiale e robe cosmiche, escono da questa atmosfera incantata. Le loro credenze cambiano o si aggiornano. Qualcuno non vorrebbe farlo e qualcun altro trova questa ritrosia ad aprire gli occhi piuttosto assurda. Un ragazzo di una dozzina di anni dichiara un po' scontroso : « È una cosa as­ surda. Mia cugina, che ormai è grandicella, crede a tutto, ma proprio a tut­ to, perfino al topino dei denti, figurati ! » . È irritato, quasi risentito da tanta cecità. Crede decisamente al Big Bang - o "Big Ben", come pronuncia lui - e ne discute coi coetanei. Si vanta di essere evaso da tempo dal mondo dei piccoli creduloni. Dice anche che gli adulti sono altrettanto inaffidabili ... Lui è impegnato a far capire alla cugina cos'è Babbo Natale. Certamente ce la farà. È nell'ordine delle cose. Altre credenze, più complesse e pericolose, entreranno nell ' immaginario della cugina, malgrado gli sforzi del ragazzo. Non sono invece nell 'ordine delle cose gli eccessi degli adulti che pensano di essere esperti della verità pura e perfetta in relazione alla vita. Occorre fare uno sforzo di buona volontà per approvarli. Va notato che la fiducia acritica crea dipendenza e a volte nasconde un po' di malafede. Molto istruttivo è il confronto fra chi si sente credente in mondi so­ prannaturali e chi nega di esserlo, fra chi vuol verificare in cosa credere e cosa rifiutare, e coloro che restano legati ad affermazioni pleonastiche o fal­ se ( « Sono credente e praticante » ). C 'è chi si pone poche domande, sem­ plifica l'ultra-terreno, la volontà divina o cose analoghe e cerca il silenzio. C 'è sempre chi parteggia per cose inverosimili e si industria per presen­ tarle come belle, salutari e credibili. Qualcuno fa riflettere che, alle nostre latitudini culturali-religiose, essendo stato immaginato il peccato originale come marchio di tutti gli uomin i, è stato del tutto conseguente liberare Maria, la "madre carnale" di Gesù, da questo marchio infame e odioso. È così che essa è diventata - per necessità dogmatica - una donna capace di concepire senza colpa. Tutta la sua figura partirebbe da questa "credenza" nella macchia originaria, dal fatto che Maria ne sarebbe stata esente. Parte di sicuro da nozioni a priori sulla condotta umana. Queste credenze sono presentate come preziose, illuminanti (od obbligatorie) anche se hanno po­ co a che fare col mondo femminile, con la sensibilità della madre di Gesù. In questo senso, per gettar luce sulle credenze, occorre uscire da gabbie ideologiche troppo rigide. Una distinzione va fatta subito : chi è credente è ritenuto persona in possesso di precise virtù e di alto tasso di protezio­ ne. Anche se errante, è un individuo accettabile, con buone intenzioni. Si

4 · LE COSE CUI NON È POSSIBILE PRESTAR FEDE

suppone che questi caratteri siano ciò che lo garantiscono e lo qualificano socialmente. Anche se la sua fede appare immatura o zoppicante, colui che si dice credente può essere collocato ben più "in alto" di altri. A colui che si proclama credente, molti attribuiscono assiomaticamen­ te la capacità di vivere in un mondo più sano, e in mezzo a cose che valgono. Nei fatti, tutto questo gli permette di consigliare e sollecitare qualcuno a uscire dallo "sfortunato" stato di miscredente, di accettare di essere condot­ to alla verità appagante, benedetta. 4 - 4 · Talvolta i cosiddetti credenti mostrano generosità ma anche qualche lato ossessivo.

In un momento di fatica e di incertezza, fui raggiunta da una telefonata di una amica - che chiamerò Chiara - che aveva avuto una vita piuttosto ingarbugliata dopo che il marito l'aveva lasciata. Chiara aveva l' intenzione di darmi una mano per uscire dallo scoraggiamento. Non avevo chiesto alcun intervento, ma lei si of­ friva per questo compito. Parlammo di quel che mi capitava. Chiara, a un certo punto, esplose in un caloroso invito ad aver fiducia. La mia dolorosa vicenda mi avrebbe fatto capire molte cose. Non aveva l'aria di chi dubita di sé, delle proprie verità, della necessità di dar consigli. Si proponeva come la persona giusta arrivata nel momento giusto. Chiara assunse fin dall' inizio un tono esuberante. Non cercò di svalutare le mie opinioni, solo di evidenziare la sua grande fiducia nell'aiuto divino. Insistette su questioni che conoscevo perfettamente e che rifiutavo. Mi raccomandò di stare in compagnia di persone amiche. E di cercare riparo in quelle certezze che guidano le persone credenti affidabili. Lei seguiva un filo di ragionamento confidenziale, dal quale sentii il desiderio istintivo di sottrarmi. Il suo monologo era un po' tor­ tuoso. Rimasi stupita di tanto ardore. Dopo un po' mi sentii sulle spine perché la telefonata non si concludeva. L'obiettivo che Chiara si era assunta sembrava piacerle. Capii che anche lei era sotto sforzo, in cerca di qualcosa che aiutasse le sue aspettative. Doveva insegnarmi in cosa credere. In tutta sincerità, aggiunsi che era encomiabile la sua offerta di aiuto ma che non aspettavo certo una particolare illuminazione dal cielo. Non si arrese : qualche giorno dopo, richiamò. Fu cortese e insistente. Temetti che i miei guai fossero diventati per lei una specie di viatico o di ossessione. In mezzo a tante chiacchiere, capii però che, secondo lei, i dispiaceri potevano passare in secondo piano con il suo aiuto. Chiara certamente non pensa­ va che io le fossi ostile, come io non pensavo che lei fosse in malafede. Durante la seconda telefonata volevo chiederle di non dirottare i miei pensieri verso credenze che non mi sembravano accettabili. Non ci riuscii. Non potevo fare altro. Non ci capimmo. Il mio malessere non fu arginato dai dolci auguri di ogni bene che Chiara mi regalò. 97

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Credere in qualcosa di extra-umano è di certo un bisogno stringente per tante anime riflessive e sincere. Per altre persone è un mezzo di cercare ri­ sposte a sfortune, a carenze. Per altre ancora è un fatto assurdo e impossibile. Su tutto domina una convinzione che non può essere sottovalutata: a ogni latitudine, avere una fede religiosa conduce a una ricerca. Capita però che si usino frasi esangui o scontate, in fatto di obiettivi capitali. Si è vittime di assuefazione a modi di dire standard ( « Credo in alti valori morali » , « Il mondo moderno si contrappone a ogni trascendenza » , e via di seguito ) . Sono messaggi che lasciano gelati e un po' sospettosi. In campo religioso, attorno al credere affiorano atti di ingenuità, di forte credulità che non hanno ragione di essere. Alcuni gesti semplici e ri­ petitivi ( un'invocazione, un bacio gettato a una statua, un 'elemosina, una piccola riverenza) si dice bastino per giungere a scelte vincenti. L' ingenuità può essere di ben altra portata. Cose complesse sono ridotte in briciole con due affermazioni, poco diplomatiche ma ben enunciate : «Devi crederci » , « quel che ti capita è l a cosa che serve proprio a te » . Una frase del genere, anziché aprire i l cuore, getta un 'ombra fatalistica sulla vita. Può soffocare chiunque, causargli un ' istantanea e imbarazzante perdita della parola. In fatto di eccessive credenze, certi individui sono riservati, altri grani­ tici, nell'affermare e nel negare idee e obiettivi. Diverse persone titubanti sono in perpetua ricerca di un punto di equilibrio tra i dilemmi e le speranze che le turbano. Le più unilaterali si sentono in una tradizione antica e ono­ rata che non richiede verifiche. Nella maggioranza dei casi, le persone credono in "qualche cosa", o in "un certo modo". Confusi e frenati, alcuni individui non desiderano a nes­ sun costo lasciare la propria posizione interlocutoria. Riconoscono l'ultra­ terreno ma non si chiedono a cosa credere o a che cosa non si deve prestar fede. Per costoro il credere è concepibile solo in modo minimalistico e stru­ mentale. Consente di affrontare il dolore che sta intorno. Occorre osservare da vicino i rapporti tra credenti e non credenti, ossia decifrare le cose su cui si possono intendere. 4·5· Ogni modello di vita, con i suoi obiettivi o campi di battaglia, si in­ carna in persone precise. Il vero e il falso si materializzano in precisi volti, voci, sguardi. Dove si combatte l ' incredulità, si cerca spesso di combattere qualche persona e di sconfessare le sue idee. Se si parla a favore di qualche "credo", lo si individua sovente in un soggetto umano. Le credenze ( come le incredulità) sono affari umani.

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Il devoto può vivere l' incredulità altrui come una minaccia grave, da parte di gente poco seria o poco mansueta. Non di rado, la vittoria da otte­ nere riguarda verità fondamentali, ma soprattutto la sconfitta di un avver­ sario troppo diverso, e ritenuto infido, a torto o a ragione. Davanti a una fede religiosa diversa dalla propria ci si può sentire assaliti da un pericolo o da un attacco penoso e ingiusto (da parte di un leader, di un capo comunità, dell'amico d ' infanzia che si è "radicalizzato"). L' indottrinamento religioso fanatico è cosa diversa dalla trasmissione dei saperi antichi. Contiene ec­ cessi ed esasperazioni. Certi assiomi o target religiosi ci hanno regalato grandi violenze e conflitti. Il terrorismo armato, dal quale oggi non è possibile distogliere lo sguardo, è fra gli esiti sanguinari di credenze ritenute indiscutibili. Il tor­ mento cui sono sottoposte città e popolazioni inermi condiziona la nostra idea di verità religiosa, di impegno civico ed etico. Qualcuno sceglie l' azio­ ne etica laica (solidarietà e volo n tariato) perché diffida di istituzioni che si appellano a schemi religiosi incontrollabili. Oggi esistono varie accuse rivolte a credenti che cercano di denunciare l'uso falso della fede religiosa, quella che porta a uccisioni indiscriminate (di credenti e non credenti). Si è indotti a escludere che gli interventi violenti abbiano a che fare con credenze religiose autentiche. Molto dipende, come si sa, da situazioni politiche, da risorse cruciali, da manovre di grandi potenze. La "gente di fede" o che si dice tale a volte segue percorsi singolari. Si tratta di persone che cercano di rendere sensazionale o spettacolare lo spi­ rito religioso. Sono persone che sorprendono per il loro stile che va dalla totale austerità-astinenza all 'eccessiva estroversione e fantasticheria. Certa gente convinta di vivere una situazione religiosa eccezionale (di essere chia­ mata da Dio) può arrivare a limiti estremi: dal cieco autoritarismo al suici­ dio collettivo. Certe carriere politiche di uomini di religione testimoniano che l'esaltazione e l'arroganza arrivano lontano. I non credenti si scagliano talora contro personaggi religiosi, aridi e supponenti. Il loro impegno non è da poco. Affrontano avversari istituzio­ nali carichi di autorità. I più tenaci ritengono doveroso contestare idee che intorbidiscono il vivere comune. Quanto più il non credente si muove abilmente, tanto più fa alzare le antenne di chi gli è contrario. Suscita diffidenza e rabbia fra i più indottri­ nati. È da dire però che le appassionate idiosincrasie del credente (voglia di paternalismo e proselitismo, voce ispirata e mielosa) si incrociano con quelle del non credente ( insofferenza, bisogno di libertà, idee dissacranti, voglia di mettere in forse leggi superate) . 99

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Molti individui non appartenenti al mondo religioso sono definiti con termini derisori : infedeli, miscredenti, erranti, eretici, senzadio. Il valore di tutti questi termini è oscillante e non sempre appartiene a campi semantici chiari. Il campionario di tanti nomi - che non passano mai di moda malgrado gli enormi sconvolgimenti storici - la dice lunga su quali siano i giudizi che circolano e i pregiudizi che corrono attorno a noi e inquinano. Resta il fatto che questi termini sono strumenti culturali sensibili, pronti per r impiego offensivo. Più spesso di quel che si pensi, le persone sono credenti dichiarati e , miscredenti clandestini. Oppure atei solitari, un po reticenti e imbarazzati, che accettano malvolentieri di rivelare le certezze minime che posseggono. Ci sono anche agnostici incalliti che si mostrano volentieri privi di tituban­ ze o vivono senza ombre. Altre situazioni sono più complesse : qualcuno si dichiara ateo soprattutto a livello ufficiale e politico, sapendo che è diffi­ cilissimo sapere cosa sia r ateismo. Ciò vale anche per il libero arbitrio, un puro ideale, un fatto di coscienza impenetrabile. Il mondo delle credenze è sterminato, pieno di sfumature innocenti o, neanche a dirlo, di idee de­ liranti. , Di solito, non si confessano a cuor leggero i propri stati d animo religio­ si, doppi o tripli, perché in fondo si avverte che ogni ammissione compor­ terebbe un rischio, un fraintendimento. Non si descrive ciò cui non si vuoi credere. Si ha poca voglia di scivolare in qualche coming out imbarazzante e finire per ingarbugliare i propri pensieri, i propri rapporti. Non si vuoi andare a fondo, al nocciolo delle cose, per evitare rivalse vigliacche e poco dignitose degli avversari. Parlare di solide credenze e del loro contrario non è facile. Bisogna la­ sciare da parte gli atteggiamenti da corte dei miracoli o le teorie avveni­ ristiche che sostengono che « la fine del mondo è alle porte » (qualcuno risponde che « Dio verrà a salvarci » ). Sono troppo eccentriche.

4 . 6. Le basi delr incredulo a volte sono vaghe e derivano, come quelle del fedele, da sfiducia e sospetto. Alla fine può capitare di pensare che un cre­ dente dubbioso sia più onesto e convincente di chi non ammette oscilla­ zioni o dubbi. Ognuno è autorizzato peraltro a cercare i terreni di cultura delle credenze religiose dove gli pare. Nulla lo impedisce e nessuno impone alcunché. Ognuno può seppellire quelli che detesta con tutti i ragionamenti che crede opportuni. Questo significa, in primo luogo , che per capire le basi umane di certe

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4 · LE COSE CUI NON È POSSIBILE PRESTAR FEDE

credenze nelle stregonerie o nelle forme astruse della pratica mistica non bisogna essere stregoni, maghi o mistici. Non sono gli individui ispirati che conoscono per davvero quello che professano o propagandano. In secondo luogo, seguendo diagnosi sociologiche, va ricordato che non è il sacro (qualsiasi cosa esso sia) che dà la spiegazione finale dei fenome­ ni umani. Per spiegare la costruzione religiosa di una persona non si è obbligati a dire che è determinata da condizioni non terrene. Questo è un modo che esclude dalla comprensione tutti coloro che si aspettano la salvezza da potenze e forze cosiddette divine. Serve solo a colpevolizzare, a radicalizzare. In terzo luogo, occorre sapere cosa sono le credenze, non confonderle con i precetti o i comportamenti sistemici assunti dall ' am­ biente in cui si vive. Per fortuna, una convinzione è sempre valida : ognuno può dubitare di cose che ad altri sembrano sacrosante. Purtroppo però esistono credenti dichiarati che ritengono iniquo e blasfemo avere incertezze. Sono pronti a uccidere l' incredulo, confesso o no, per salvar! o (dalla indecente colpa di non avere credenze inossidabili ! ) . Nella quotidianità, come s i è già accennato, sentiamo dire : « lo sono credente » , oppure «Non sono credente » . Le frasi vanno prese come una dichiarazione veritiera, ma anche sbrigativa o troppo disadorna. Chi pro­ nuncia la prima, con maggiore o minore fervore, è brava persona, convinta di dover propagare le proprie cognizioni o suggerire pratiche, simboli. Una tale persona non si rende conto di usare parole che non vanno sempre bene come biglietto da visita. Usa cioè scorciatoie per dire cose a cui tiene, ma che sono intricate e opache. Cosicché, davanti a frasi categoriche, non si possono evitare le ombre, gli imbarazzi diventano enormi. È possibile che dichiararsi credente corrisponda semplicemente a ri­ conoscersi in qualche cosa di alternativo, a mostrarsi padrone di una si­ tuazione lodevole e piena di buoni risultati, ma anche molto volatile e probabilistica. Capita qualche volta, in gruppi di amici o colleghi, che qualcuno mi venga introdotto con un discorsetto che suona all ' incirca così : « Questo è un tuo lettore, si intende di religioni ... è uno piuttosto agguerrito » . Chi fa questo discorsetto forse intende dire che quel qualcuno non si fa convincere o deviare, sa il fatto suo ed è poco accomodante. Tutto ciò fa parte del gioco; bisogna essere pronti a confronti civili e paritari. La confessione « Non sono credente » , « Non posso accettare cose in cui non mi identifico » , può avere effetti discriminanti seri. L' incredulità è qualcosa che - nei rapporti umani usuali - viene anche usata come ragione 10 1

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per scartare qualcuno da un gruppo, da un luogo, da una professione. Anche il fedele a una tradizione può essere escluso con altrettanta feroce ottusità. Talora le persone si comportano come non credenti usando astuzie e abilità simili a quelli dei giocolieri dei circhi. Ci si dichiara talora non cre­ denti anche per spirito di contraddizione, per noia o per denunciare po­ sizioni vuote e arcaiche. Le discussioni dure fra credenti, atei o individui dubbiosi sono complesse e non del tutto innocenti. Le cercano i primi e le amano i secondi, che sanno quanto sia difficile difendersi in mezzo a gente apertamente di parte. Qualche parola pepata o dubitativa accende gli animi. Fortunatamente può anche portare a posizioni dialettiche e salutari. 4·7· L' incredulità è qualcosa che appare e scompare, che non segue un ritmo preciso, né corrisponde ad atti irreversibili. A volte si mimetizza in divertenti battibecchi.

Un vecchio medico di origini albanesi, che si era insediato a Roma e naturalizzato italiano, decenni fa, era molto orgoglioso di essere musulmano. Si sentiva un po' eccezionale rispetto agli altri italiani. Dichiarava di saper poco dell' Islam e di non appartenere a nessuna comunità. Si sentiva un puro monoteista, senza bisogno di essere un "credente professionista': come diceva. Era amico fraterno di una signora croata che si faceva chiamare Jeanne (una ex miliardaria divorziata, che ormai do­ veva lavorare come traduttrice per poter campare), entusiasta di essere cristiana, di aver avuto un'educazione inglese, di vivere in un piccolo residence non troppo co­ stoso, di aver un compagno italiano. Da un lato c 'era un personaggio che si diceva orientale e dall'altra una signora di mezza età che si sentiva centro-europea (diver­ sissima dagli americani!). Fra di loro non discutevano che di questa loro differenza, oltre che delle loro disgrazie economiche, dei loro divorzi e dei loro ricordi delle terre d'origine. Si univa a loro qualche volta un giovane diplomatico serbo (che la signora diceva essere il suo figlio "ideale"). La discussione dei tre, in italiano, non aveva sempre l'aria scherzosa. Battagliavano sui principi primi delle loro religioni, come se valessero molto nella loro esistenza. Usavano un ottimo linguaggio come strumento di guerra. Non si dimenticavano però di aggiungere che vivevano se­ condo un proprio spirito libero e moderno (da assoluti atei). Erano pieni di verve, poliglotti esperti. Affermavano che si fronteggiavano solo per stabilire la verità su proibizioni alimentari, restrizioni imposte alla donna, norme dogmatiche (subito messe da parte, con qualche rigido « Non fanno per me » , « lo non ci credo, non mi interessa! » ) . Invecchiarono senza drammi, offrendosi aperitivi e calorosi con­ sigli sul vivere bene (appreso nel variopinto mondo diplomatico romano) . Erano sempre presenti ai ricevimenti delle ambasciate accreditate a Roma e a celebrazioni di vari organismi internazionali. E tenevano sempre aggiornate le liste delle cose in cui non si deve credere. 102

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L' incredulo è un personaggio dai mille volti, che ha una bella partita da giocare. Spesso non ha alcuna verità storica o teorica, ben confezionata, da difendere. Non ha una proposta superpotente da portare avanti. Ha il sentore che ci siano in giro dabbenaggine, inganni, furberie. E così non si culla in un tranquillo riposo ; ritiene di dover contestare l'assuefazione dei credenti. E gli viene bene, anche se non benissimo. Chi non si appoggia alla fede sa di non avere, per così dire, nulla da perdere nei confronti di chi professa idee sublimi e fa propaganda. Non si allarma troppo, in primo luogo perché ha una cosa meravigliosa da contrap­ porre all 'avversario : il senso della propria autonomia. In secondo luogo, di fronte all ' ingombrante e ferrea sicurezza altrui, ha la consapevolezza che i dubbi aiutano e vanno ben coltivati. Sono stimolanti. Sono legittimi stru­ menti per ragionare su un mucchio di cose. Chi non crede, a un certo livello, si trova faccia a faccia con la struttura istituzionale religiosa che esiste in tutte le religioni (dal buddismo al cristia­ nesimo, all' induismo, all'ebraismo, al giainismo, all ' islamismo, allo sci ama­ nismo, al confucianesimo, per nominarne alcune). Naturalmente più forti sono i doveri etico-religiosi, individuali e collettivi, degli apparati religiosi istituzionali, più impetuosa si fa la voglia del non credente di capirne la va­ lidità e i fondamenti. E di liberarsi di eventuali devianze del sistema stesso. Non si raggiunge una vera certezza sulle scelte da mettere in atto che in casi rarissimi. Si cerca, bonariamente, anche di inventare, di lanciare religioni "fai da te". Non va mai dimenticato che esistono sempre buone ragioni, in ogni sistema religioso, per sentirsi convinti e partecipi. Non va neppure igno­ rato che ogni dottrina religiosa (dalla purità personale, alla preghiera, ai programmi educativi o iniziatici), bene o male, diventa il punto di coagulo o il vettore superlativo di desideri, sentimenti, progetti (ovviamente inco­ raggiati dalle istituzioni e da chi si ritiene religioso) . Molte norme comportamentali in campo religioso non si sconfessano e non si dismettono con un colpo netto. Spesso mutano su alcuni punti, su altri meno. Qualcosa si salva sempre nel catalogo dei diritti e doveri religio­ si: una devozione, una identità residua, un debole colore folklorico. Spesso i declini di atti o concetti religiosi sono minimizzati o taciuti perché possono aprire le porte a grandi e indesiderate evoluzioni.

4.8. In fatto di scelte religiose quotidiane, è evidente che l'usuale compor­ tamento religioso passa in larga misura - come si è detto all ' inizio - at-

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traverso simboli, immagini e gestualità. Ogni mondo, in breve, richiede rinnegamenti o litanie di apprezzamenti. Un signore jainista, che ho conosciuto in India, si mostra fedele alla propria antica cultura religiosa. Compassato e gentile, mostra sicurezza nelle faccende culturali-religiose della sua città (Nuova Delhi) . I suoi modi di fare hanno mes­ so in mostra le possibili complicazioni che nascono in universi culturalmente complessi. Nella città santa di Agra, nella regione dell' Urtar Pradesh - antica capitale dell' impero Moghul a due ore di volo da Nuova Delhi -, questo signore si è com­ portato più o meno come un turista, non come un credente, salvo in alcuni casi. All' ingresso del tempio jainista della capitale, che egli frequenta, l'uomo non solo ha rispettato il dovere assoluto di camminare a piedi nudi e di mettersi faccia a terra, ma si è vistosamente inchinato davanti a una immagine che riproduceva un "apostolo" o "messaggero " (il suo sistema religioso gli indica parecchie venerabili guide da rispettare) . Si è prostrato, cioè, davanti all'effige di uno dei più recenti uomini venerabili. Di altri, oltre una ventina, forse non crede di doversi occupare. Ha mostrato un' idea di "non equivalenza" fra le immagini da venerare. Ha voluto forse mostrare che le strade personali si modificano e che la gestualità si adatta ? Ha voluto contestare qualche regola ? O intendeva aggiornare le credenze che le im­ magini suggeriscono ? Resta il fatto che, come credente, aveva il diritto di mostrare preferenze o di graduare la intensità dei propri gesti rituali. Lo ha fatto mostrando alcuni pilastri dell'universo cui appartiene. A Benares, durante una fastosissima cerimonia notturna sul fiume Gange, de­ cine di barche erano state noleggiate per accostarsi ai luoghi dei riti. Le scalinate erano piene di gente che pregava o chiedeva l'elemosina. Le musiche accompagna­ vano canti molto sonori e prolungati. I visi erano attoniti. I celebranti seguivano testi sacri o solo i gesti dei bramini che guidavano la performance ? La gente locale era mescolata agli stranieri, ma dominava la scena collettiva. Lo spettacolo dei locali che cantavano e ritualizzavano le loro "credenze" era mol­ to suggestivo. Colmava di emozioni. Tutti seguivano i loro gesti, incensamenti, declamazioni. Il mio conoscente jainista ha ascoltato molto composto, malgrado il pazzesco via vai. Vari indiani locali hanno salutato rispettosamente e fatto l'elemosina a mem­ bri di vari gruppi religiosi (ben distinguibili per abiti, colori e gestualità) . Hanno seguito con devozione i ritmi dei bramini (che spiccavano per i loro eleganti vestiti bianchissimi) . Ancor oggi, costoro sono personaggi centrali per capire la religiosità indiana, anche se il sistema cascale non è riconosciuto. Il giorno dopo il rito notturno, visitando un tempio monumentale e antichis­ simo, il signore jainista ha evitato di calpestare alcuni luoghi sacri, con i quali non ha nulla a che fare. Ha così riconfermato la propria disponibilità a rispettare l'au­ torevolezza delle consuetudini della gente, con un atteggiamento riverente. Fra i sikh, in un altro ambiente urbano - durante un grosso assembramento di fede1 04

4 · LE COSE CUI NON È POSSIBILE PRESTAR FEDE

li - lo stesso jainista è sembrato invece più distante, più disattento. Il cosmo delle sue credenze-appartenenze mi è sembrato caleidoscopico ma più selettivo.

4 ·9· Molti dei significati o delle forme del "fenomeno religioso" passano per valutazioni intricate. L' immateriale o il divino vengono interpreta­ ti attraverso molti segni culturali, di vario valore. Le situazioni non sono sempre condizioni temi bili e rinnegabili. Sono cose che sollecitano l' inter­ rogazione e il confronto. Mostrano che non si può prestare fede assoluta a strumenti diseguali. A volte, dunque, si marcano i confini della propria cultura religiosa, usando figure, oggetti, scritture, credute necessarie e di origine divina. Al­ cune norme sono obbligatorie, formano l 'ossatura di un interno sistema ( come, ad esempio, quelle alimentari, ritenute vincolanti, ancor più di quel­ le sessuali ) . Molte non portano mai a chiarimenti automatici della natura delle credenze. Aprono molti problemi praticamente insolubili : da dove viene la loro autorità ? Su quali fedeltà si fondano e perché si chiamano leggi sacre ? A livello individuale, l' incredulità talora guizza, come un pesci olino argenteo che salta fuori dall'acqua. Non è sempre eclatante o arrovellante. Vive con un certo agio e modeste pretese fra le pieghe del sistema. Nel cattolicesimo, si possono incontrare individui camaleontici che non pensano proprio di fare i detrattori del sistema, del divino o dell'aldilà. Il mondo cattolico contiene esempi di fedeli tiepidi, un po' disaffezionati. Pronti a velare i propri sentimenti. Analogamente, si incontrano persone che si ritengono credenti a tutto tondo, ma che delegano "il religioso" alla donna ( moglie, madre, sorella, figlia ) oppure ad associazioni di volontariato, alle confraternite, al parroco e ai suoi collaboratori. Molti credenti dei vari sistemi religiosi si muovono sul bordo di due campi differenti. Giudicano essenziale conservare il proprio credo. Sono però attaccati a cose cui non si può proprio dar credito ; la sacralità di certi luoghi e oggetti, la veridicità di ogni parola pronunciata da chi è un "cam­ pione della fede", le miracolose apparizioni di personaggi fantasmagorici. Due cattolici, uno inglese e uno americano, sono personaggi un po ' singolari in questo senso, proprio perché non allineati. Si collocano su un confine, un borderline che pare attrarli entrambi.

L' inglese è un mio coetaneo, amico di vecchia data. Nella sua famiglia si mescolano persone di varie nazionalità. Quale una pare abbia le proprie radici in un cattoliceIOS

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simo francofono. Gli ho sentito dire che essere cattolici al suo paese d'origine (dove non vive più da moltissimo) vuoi dire appartenere a una minoranza abbastanza bizzarra. Ritiene che questa minoranza abbia però uno stile di vita poco mobile come tanti altri stili inglesi. Ripete, con un simpatico sorriso, di non essere prati­ cante, senza spiegare le sue ragioni. Sembra, a volte, quasi promettere di dire o fare qualcosa di anticlericale, in opposizione alla Chiesa romana. Lo fa un po' per gioco o per aggiungere sapore alla conversazione. È come dire che ha scelto di stare in una situazione eccentrica, senza creare rotture. E di starei in sordina, da solo. Non vuole muoversi da questa posizione. Questo vecchio signore ha in sostanza un suo modo di scoraggiare le pedan­ terie dei credenti, soprattutto se poco brillanti. C 'è da credere sia convinto che la posizione religiosa degli altri è rilevante fintanto che lo è per loro. E che non lo fa sentire impegnato o pronto a consolidare le propria. A quanto so, la vita di questo personaggio è sempre stata lontana dalla religione attiva, ma di fatto il problema del credere ha avuto qualche parte nel suo modo di essere. Egli ha conservato per tutta la vita una specie di identità religiosa appannata - da mostrare con molta discrezione -, un segno rivolto anche a se stesso. Egli sottolinea di essere cattolico ogni volta che qualcuno gli mostra di credere il contrario. Parecchio diverso è l'atteggiamento di Jim, americano di famiglia cattolica che conosce bene la religiosità italiana. Jim non mostra proprio di essere fedele alla Chiesa cattolica. Proviene da una famiglia importante dell' East Coast, pratican­ te. La moglie non è cattolica. Qualcuno dei familiari avrebbe frequentato Facoltà gesuite non so dove. Jim è schierato, sta dalla parte del pensiero libero e scettico. Non vuole appartenere a categorie precise. Parla del suo cattolicesimo al passato e scherza un po' sulla "caccia alle streghe" (come fosse un'attività simile al gioco del baseball) . Forse tiene accese speranze diverse, in ambienti diversi. Sembra intenzio­ nato a non conservare alcunché dello stile cattolico della sua infanzia. Non vuole che quel che gli è stato tramandato entri nel suo futuro. Non ne sente il bisogno. I figli, peraltro, sono stati tutti in scuole cattoliche fino all'entrata nei college. Ma non sono cattolici. Jim ha voluto per sé e per i suoi figli una libertà totale. Continua a presentarsi con l'aria un po' spavalda dell'americano colto e dinamico che fa da sé, che tiene lontane da sé idee ingombranti.

Infiniti sono gli esempi di ibridazioni implicite e nascoste del cattolice­ simo. Una giovane collega tedesca, cattolica divorziata, mi ricorda che per molti parenti rigorosi la sua presenza alla celebrazione religiosa delle nozze d'oro dei genitori è stato un fatto difficile. Essendo divorziata, non era nella posizione più consona. Metteva in imbarazzo una parte del gruppo familiare. Persone anziane e conserva­ trici, però, hanno alla fine mostrato un forte senso di adattamento. Grande è stato lo stupore della collega quando ha constatato che il prete catto­ lico che presiedeva la cerimonia era arrivato in chiesa accompagnato da sua figlia. 106

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Non era sposato, non aveva una donna accanto. Pare che la figlia fosse stata rico­ nosciuta e pubblicamente accettata già da molti anni.

I casi irregolari non fanno più timore ? O certe credenze sui regimi religiosi sono state messe definitivamente da parte ? Una mia conoscente cattolica, morta novantenne, dopo la scomparsa del marito di origine ebraica, ha iniziato a frequentare la comunità del marito per ricordarlo. In vedovanza lei, poco religiosa, ha iniziato a celebrare religiosamente il marito, con cerimonie al cimitero a date fisse che non avevano molte parentele con la fede ebraica ( data di laurea, ritorno dalla guerra, primo libro pubblicato ecc. ) . Si dice visitasse spesso la tomba del marito, che facesse "dire messe" - a cui non dava reale importanza - per mandarlo in paradiso ( o dove lui desiderava ! ) . E che portasse alla tomba anche le amiche per sottolineare queste ricorrenze e ravvivare i propri legami personali.

La cosa che non finisce di stupire è proprio questa: non si sa bene quali criteri e quanti casi servano per analizzare il profilo dei credenti e dei non credenti. È certo, peraltro, che non occorre un formulario o un prontuario per capire chi sono gli uni e gli altri. E quante sono le cose che vanno setac­ ciate bene prima di trarre conclusioni. Anche in situazioni di normalità, c 'è il bisogno di dichiarare tutta la propria diversità, con qualche battuta o stoccata o con la pura disobbedien­ za ai costumi correnti. Ricordo un episodio non troppo antico e non troppo gratificante, tutto costruito sull' "avere la fede". 4 . I o.

Al termine di una conferenza su tematiche religiose in un centro culturale medio orientale, fui avvicinata da una signora di mezza età che si proponeva come catto­ lica e "molto credente". Capii subito perché avesse avuto bisogno di insistere sulla propria cattolicità. In terra non cristiana, i cattolici si qualificano con la fede latina ( entro le chiese o i monasteri latini ) . Cercai di spiegare alla signora che per me studiare i fatti religiosi implica assumere punti di vista laici. Per maggior chiarezza, precisai che non ragionavo in termini di fede. Lei non sembrò afferrare il senso di ciò che dicevo. Le spiegai che il mio lavoro è sempre stato un' indagine culturale e storica. Aggiunsi che d'altro canto le mie personali inclinazioni, anche se interes­ savano la signora, potevano essere poco significative per altre persone. Fu un po' sorpresa, un filo delusa. La signora disse la sua sul confine fra credere e non credere. Non la sfiorò l' idea che non era il caso di concentrarsi su cosa fosse la fede, in mezzo a gente che non stava affrontando questo argomento. Non potendo proseguire il tipo di 107

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conversazione che si era avviata, cercai di congedarmi. Non fu semplicissimo. La signora non sembrava temere il fatto che esistono battaglie - verbali o di tipo peg­ giore - umanamente molto costose, proprio attorno a credenze religiose. Si tratta di battaglie che, se esacerbate, conducono a risultati tragici e dilanianti. Lasciano a terra, e non solo metaforicamente, cadaveri e cadaveri.

Credere non di rado conduce a gesti e atti che non passano inosser­ vati. Un amico mi aveva suggerito di fare un viaggio a Fatima, al notissimo santuario della Vergine. Pensava che avrei avuto l 'occasione di veder gente realmente coinvolta in credenze fuori dell'ordinario. 4 . 1 1.

Al santuario della Madonna di Fatima ho visto un'umanità estremamente compo­ sita ed estroversa. Tutti i gruppi interagiscono, intere famiglie si radunano fra loro. Ciò che ho subito notato è un afflusso gigantesco di persone pazienti e convinte nell'area del santuario. La folla passa molte ore, giorno dopo giorno, nello spiazzo antistante il luogo di culto. Si muove con ordine, segue un protocollo. Al momento dell'arrivo della statua, molte candele accese - portate da mi­ gliaia e migliaia di pellegrini - ondeggiano sul piazzale. Sollevata e portata a braccia, la statua della Madonna è il centro dell'attenzione. I pellegrini si avvici­ nano a turno, nella calca. I più impegnati fanno l'ultimo tratto di strada (si dice qualche chilometro) in ginocchio. Il loro sangue inzuppa i panni arrotolati e legati alle ginocchia. Molti ignorano dolore e sanguinamenti. L'effetto è enorme su tutti i partecipanti. All'arrivo della statua nel piazzale, la gente la accerchia. Cerca una figura ma­ teriale visibile. Quando la statua appare, un grido esplode fra la folla: «Eccola ! Eccola ! » . Viene ripetuto molte volte e la statua diventa altra cosa. Non è possibile distinguere la fiducia religiosa dalla bramosia di avvicinare la immagine diviniz­ zata. In brevi attimi, questo prodotto culturale diventa il centro del mondo. La statua pare avere legami impliciti con elaborati sistemi di regole o dogmi. La sua potenza è ravvivata solo se si riesce a sentirla vicina. La statua sintetizza un valore prezioso. È lei la divinità. La folla è un corpo vivo, che si muove tutto insieme, che vuole la stessa cosa. Vuole che le sia concesso di entrare nella storia della potenza infinita. Un signore italiano, capitatomi vicino al ristorante, mi ha raccontato le sue disavventure. Era arrivato da Brescia per ottenere la propria guarigione. Mi ha elencato i suoi malanni e le cure che faceva, i farmaci che doveva prendere (per sei volte al gior­ no) . Sperava in un miracolo. Sottolineò che era molto devoto a Maria, molto più di sua moglie, che era stata al santuario per una visita ma poi era andata a vedere la città. Il giorno in cui l'ho incontrato, nella calca indescrivibile, l'uomo ha detto di aver passato varie ore accanto al baldacchino della Madonna. Ottenere una totale 108

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guarigione era la sua speranza, un po' ingenua ma inequivocabile. Non so se fosse stato suggestionato da ciò che aveva visto. L'uomo mi dichiarò la volontà di passare il giorno seguente nel luogo in cui si espone la statua. Si aspettava di essere guarito ! La sua devozione a un oggetto materiale mi sembrò incrollabile. Altre sue credenze non erano chiare. Il suo modo di essere credente consisteva nell'attendere una nuo­ va vita. Forse il signore bresciano capirà che le narrazioni strabilianti dei miracoli non vanno sempre prese alla lettera.

Di tanto in tanto, nel mondo scoppiano deliri religiosi, atti contro l'umanità. Ci sono giorni in cui comuni credenti e gente incredula sono pronti a reciproci spietati assalti, compiuti come se fossero comandati da Dio stesso. In queste malaugurate situazioni, diffamazione e ferocia mo­ strano uno strano senso del religioso e del trascendente. lsterizzano e de­ turpano un bel po'. Evidentemente, è molto serio il caso di chi dice di dover combattere una lotta sacrosanta e di aver un mandato soprannaturale per condurla. Queste dichiarazioni, spesso urlate al mondo, rappresentano una sfida che pochi possono sopportare. Gli atti estremi raramente aiutano a uscire dal "deserto della vita" che ci tiene prigionieri. I sistemi religiosi temono le cosiddette eresie, e non meno la satira. Due situazioni estremamente distanti. Le prime possono apparire un attacco alle speranze e ai fondamenti più radicati (teorie, interpretazioni di vasta portata) dei credenti. Nel momento in cui le denunce di eresie tendono a combattere i cosiddetti deviati, possono dar luogo a soprusi, a condanne inaudite. Di fatto, dichiarare qualcosa "eretica" significa dire che il suo op­ posto è sacrosanto. Serve a dividere, a inasprire le diversità. In certi ambienti, si pensa che si debbano necessariamente denunciare eresie fastidiose che serpeggiano fra la gente. Paradossalmente, si applicano definizioni negative o riduttive a individui che non sono allineati al pensie­ ro dominante (ma che non pensano di essere eretici). Altri individuano e te o rizzano apostasie e le incollano addosso alla gente come colpe imperdo­ nabili, che meritano la morte. In sostanza, certi leader invitano alla radica­ lizzazione, richiamando una volontà suprema. La satira ha un altro percorso. È diretta o colpisce con decisione. Met­ te in luce ciò cui non si deve dare credito o ridicolizza fatti assurdi, non condivisibili. Nel campo delle credenze religiose, la satira è una modalità espressiva che qualcuno ritiene offensiva, non solo divertente. Régis De­ bray, durante una trasmissione televisiva (cui partecipavano anche disegna­ tori del giornale satirico "Charlie Hebdo") , ha sostenuto che in quest 'epoca 4 . I 2.

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di crescita o di revival religioso la satira è uno strumento potente per disin­ cantare, sradicare e abbattere ordini intoccabili. Il nostro tempo ha molte spade con cui duellare, ma a volte la satira diventa tagliente : è un fatto non cruento e culturalmente dialettico. Tut­ tavia, non sempre è compresa. Gli attacchi terroristici a Parigi ( I I gennaio e 13 novembre 2 0 I S , inizio 2 0 I 6 ) indicano che è possibile che la satira sia considerata atto insopportabile che richiede risposte violente. Se concepi­ ta in questo senso, la satira può facilmente diventare un tipo di narrazione piena di offese, un veicolo di rancori e vendette. I fatti di sangue non en­ trano per nulla negli obiettivi di chi ama la satira, e neppure di chi non se ne scandalizza. Forse nascono da "credenze" o abiti mentali che danno i brividi.

Ogni conclusione è impossibile, oltre che fuori luogo. Ma vanno fatte due considerazioni d' insieme. Innanzitutto, come si è detto, la gente che dice di essere senza fede purtroppo non è giudicata bene. Le convinzioni umane e culturali di tali persone sono viste come carenze, cinismi, devian­ ze o bassezze, cedimenti eretici. Si crede di vedere in costoro la "mano del demonio" o un desiderio insano di manipolare la gente. Si tende a ignorare che alcune scelte laiche sono opera di persone pacifiche, comprensive e di buona volontà. C 'è da dire che, purtroppo, le scelte non religiose non sono sempre un argine all'ortografia del cervello e della coscienza della gente, come non lo sono quelle religiose, imposte o meno. Se il credente lancia anatemi ai propri avversari, veri o presunti, cosa fa il non credente ? Egli può non essere consapevole delle ostilità che stanno nascendogli intorno. Spesso però avverte la necessità di combattere. E se combatte, può diventare destinatario di ulteriori attacchi non troppo ri­ spettosi e non lievi. Soprattutto può essere interpretato come un individuo dissacrante e vendicativo. La resistenza pacifica è una delle vie dell ' incredu­ lo per sottrarsi a pressioni, ma non è sempre sufficiente. Al contrario, come secondo punto, coloro che vantano sonoramente (oppure con un filo di voce tremula) la propria fede sono spesso persone che abbracciano una precisa proposta di vita, ma anche uno stile eterodiretto. Il loro entusiasmo, in certi casi, ha toni sinceri. Non mancano però coloro che diventano un po' supponenti, soprattutto se sono neoconvertiti a mo­ vimenti rigidi e autocentrati. Un'ultima osservazione. Nei discorsi troppo ispirati e ossequienti si può trovare, come dice qualcuno con acutezza, « Qualcosa che non va ! » , 4 . I 3.

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«Un po' di istrionismo o di millanteria » . Si può pensare, comunque, che quelli che si sentono credenti maturi abbiano quasi sempre un linguaggio autentico o siano in buona fede. Usano però narrazioni lievemente abbelli­ te da una inverosimile costante e coatta allegria. 4 . I 4. Da molti credenti, la spiegazione sacra o divina degli accadimenti umani si è detto, è data per prima. Ed è proprio questa spiegazione ciò a cui non si può credere. Molti, in altri termini, riducono ogni accadimento fausto o infausto a un comun denominatore, ossia all' intervento del divi­ no. Per l' interlocutore non credente, questo può portare al congelamento istantaneo dalla testa ai piedi. Tra l'uomo fedele a un credo religioso e uno distante da ogni credo c 'è dunque una sicura differenza finale. Il secondo si trova spesso davanti a eventi e cause ordinarie sulle quali, auspicabilmente, può esercitare la pro­ pria libertà, trovare identità e incoraggiamento. In genere, gli individui sufficientemente liberi non hanno gran timore di essere marginalizzati dai poteri e dalle autorità religiose. E non vogliono passare sopra a dati falsati o infondati ! Forse questa è già un 'ottima posi­ zione da difendere senza tregua. Per tanto o per poco, il non credente non si occupa di leggi divine e di canoni, pensa piuttosto che nessun credente abbia il dovere di screditare e deturpare le ragioni di chi non crede. Soprat­ tutto non pretende di avere la mano divina sulla propria testa. Fra mille situazioni complesse, il non credente possiede un punto fermo : ritiene di meritare attenzione. Pensa per di più di non avere l 'obbligo di fare rigorosi adeguamenti a ciò che appare obbligatorio, imposto o richiesto. In sostanza, ogni sistema religioso ha una grande riserva di ammor­ tizzatori e di freni, di cose da mettere in moto in caso di nuove tendenze, ibridazioni e contestazioni. Chi critica il sistema - chi ha in mente cose cui non credere - si trova faccia a faccia con situazioni in cui l'unico modello da adottare è la flessibilità vigilante.

4 . I 5. Alcune volte si vive molto empiricamente, soprattutto se non si han­ no doveri religiosi vincolanti o totalizzanti. O se si capisce come mettere alcuni argini al costume religioso che ci circonda.

Una donna italiana, sposata da molti anni a un medico marocchino, ha messo a punto una sua strategia per non legarsi ad atteggiamenti e costumi che non le piacevano. Per un paio di decenni, dopo il suo trasferimento in Marocco, è spesso I II

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ritornata in Italia, senza però risiedervi più. La conobbi quando era sulla cinquan­ tina. Avemmo conversazioni memorabili. La signora si dichiarava in privato lontana sia dal Cristianesimo che dall' Islam. Aggiungeva che era però cattolica, come se il Cattolicesimo fosse un'altra via. Ma di quale tipo di Islam o di Cattolicesimo facesse parte ( o rifiutasse ) non lo spiegò mai. Lei non era in grado di dare un quadro completo della sua situazione. Le sue esperienze, nei due sistemi religiosi, erano secondo lei molto simili: precisò che celebrava tutte le festività del marito musulmano, assieme ai parenti marocchini. Ma anche il Natale ( senza di loro) ! Non aveva una visione aggiornata di cosa era capitato all' inizio del terzo millennio in campo cattolico, ma sapeva molte cose pratiche musulmane e cristiane. La vita rituale della famiglia del marito dipendeva da una famosa confraternita marocchina, che lei giudicava di grande importanza. La signora era parte viva in tutti questi processi domestici che la confraternita guidava. Venni a sapere che la signora, non essendo diventata formalmente musulmana, godeva di parecchie libertà. Con me, per darmi un' idea della propria posizione, accoppiò - in modo che mi sembrò proprio molto tradizionale - il divieto di man­ giare carne suina ( che lei in pubblico rispettava) con l'uso cristiano di non man­ giare carni il venerdì. L'accostamento non l'aveva coniato lei, ammise. Non affiorò nelle nostre chiacchierate il problema che le due regole alimentari avessero punti discordanti, e che quelle cristiane fossero molto cambiate ( in sua assenza) . Non fui sorpresa quando si affrontò un altro dato. La signora aveva tre figlie. Diceva che le figlie che l'accompagnavano erano state "battezzate" secondo il costume islamico marocchino ( rito con cui si dà il nome al neonato) . Provai a sondare perché tutte queste donne chiamavano "battesimo" tale rito. La signora non fu imbarazzata: continuò a usare il termine "battesimo" per descrivere la situazione di parità delle sue ragazze con le ragazze italiane. La signora aveva assunto un nome che mi suonava islamico, ma lei disse che non lo era. Non mi venne spiegato nulla in proposito. Risultò che le sue figlie erano iscritte a una scuola cattolica di Roma e che vivevano in Italia, all'europea, durante il periodo scolastico. Stavano a casa della nonna romana. Per la madre erano musul­ mane a tutti gli effetti. Senza ipocrisia, la nonna non musulmana - mi disse - era un'ottima custode della morale islamica delle ragazze. La signora mi è apparsa di indole accomodante. Ha superato vari ostaco­ li - connessi alle fedi religiose che erano praticate in famiglia - con l'aria più tran­ quilla del mondo. Si è sottratta quasi totalmente ad alcuni tratti delle due religio­ ni, che non voleva esaltare. Ha preso le distanze da assiomi stritolanti dell'una e dell'altra. Ha accettato un preciso stile che il marito le offriva, senza cancellare il proprio. Ha preso per buona la diceria che una religione vale l'altra. È rimasta una persona religiosamente tiepida e flessibile. Probabilmente la signora non voleva passare per indifferente o per atea. Non si è comportata in casa del marito come atea perché non le sarebbe servito a nulla dirsi troppo diversa ( nelle varie fasi della sua esistenza) . Ma non si è fatta condi112

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zionare nella pratica quotidiana da doveri assoluti ( peraltro non sempre richiesti alle donne ) : « Mi va bene quello che mio marito fa a mio nome ... per l'elemosina. Solo questo faccio. Gli do la mia solidarietà » . La signora aveva accettato di vivere due realtà parallele, senza dire quale prefe­ riva o quale le risultava poco consona. Non è certo la sola a non voler dire in cosa non può credere. Lei ha conservato un modello personale che bandisce smarrimen­ ti e dubbi feroci. Alcune cose - aggiungeva - non le aveva mai trovate vere e perciò degne di essere credute. Le aveva lasciate di lato, evitando inutili complicazioni e ipocrisie.

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Venire al mondo

Venire al mondo è ovviamente l' inizio di tutto. È la cosa più traumatica e irreversibile che ci sia capitata. Senza dubbio rimane un evento poco co­ noscibile, fonte di infinite incertezze. È come dire che riteniamo il venire al mondo il risultato di un processo singolare e sconcertante, che risulterà sempre coperto e a monte di ogni altro. Rimarrà una delle cose più miste­ riose dell' intera nostra vita. Per non essere imprigionati dal muro impenetrabile che ci separa dalla nostra nascita, fin dalla infanzia raccogliamo notizie dalle persone più vi­ cine. Ci appoggiamo alla loro memoria, alle onde lunghe dei loro ricordi. Abbiamo bisogno di trovare un varco nella oscurità in cui ci troviamo, su­ perare un vuoto. 5.1. Ovviamente ciò che ascoltiamo sulla nostra nascita ci lascia esterrefat­ ti. Rimaniamo tutti pieni di curiosità.

Una bimba dagli occhi neri e sgranati si guarda allo specchio. Cerca qualche segno che confermi che, per arrivare sulla terra, ha fatto un volo eccezionale, primordiale. Si attacca pensosa all ' incantevole vicenda che le è stata raccontata, quella della cicogna che porta un fagottino appeso al becco. Le hanno detto che sta per arrivare un fratellino o sorellina "in volo" e si è scatenata la sua curiosità di sapere tutto sul proprio volo. Dagli adulti ha avuto qualche notizia sull'animale, intelligente, gentile. Dai genitori, la bimba viene a sapere poco del bebè e del modo in cui verrà trasportato. La bimba è contenta che la fatica della cicogna sia sul punto di ripetersi. Lei ci sarà, capirà tutto. Le hanno detto che il fagottino sarà una specie di nido di piume, che viene da lontano sorvolando terre e mari. Alla bimba saltano in mente questioni spinose: « Come fa la cicogna a sapere l' indirizzo della mamma ? Il bebè vola nudo o vestito, col solo pannolino ? Da dove parte questo benedetto fagotto ? » . Le storie che ha sentito sono discordanti. Genitori, zii e nonni sorvolano volentieri sull'esserino che arriverà e descrivono solo i colori intensi del cielo che la cicogna deve solcare. IIS

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

La bimba curiosa vuoi scoprire quel che non sa. Le dicono però che lei è piccola per capire. La zia dovrà portarla a casa sua per un paio di giorni, dicono. La bimba non sarebbe d'accordo, ma nessuno la sta a sentire. Improvvisamente la bimba si sente sconfortata, sotto sopra, scoppia in un pianto dirotto, che va avanti un pezzo. Teme per la mamma. Sente che sta per ac­ cadere qualcosa al suo pancione. La mamma si è infatti coricata sul letto e sembra tormentata. La zia si adopera per fare passare i timori della piccola che è paralizzata dal trambusto che sta crescendo attorno alla mamma. La zia tiene per mano la bimba, così non può scappare accanto al letto della mamma. Le accarezza la testolina, rassicurandola: « La mamma sta bene, appena qualche dolore ... » . La bimba è so­ spettosa. Vuol stare accanto alla mamma, ma tutti la distraggono con parole strane : « Sei felice che arriva un bebè ? Lui vuol conoscerti ! Potrai cullarlo quanto vuoi ... » . « lo non voglio cullare nessuno ! » . Guarda la culla pronta: « Quella è la mia cul­ la ... » dice un po' risentita. La bimba non sa nulla degli sforzi in cui saranno impegnate, tra pochi minuti, due persone. Tutto è occultato, sigillato dal silenzio. Lei ignora che un bebè scono­ sciuto e la mamma amatissima stanno vivendo un momento particolarmente serio. Saranno occupati con tutte le loro energie in un grande sforzo. La zia conduce la piccola alla macchina, dice tante cose su copertine e cuffiette, sussurra alla nipotina che l' indomani di sicuro incontrerà il nuovo esserino. La bimba l'ha capito bene, hanno parlato troppo di cicogna ... Ma cosa e come accadrà ? Nessuno le spiega la cosa. La bimba gioca di intuizione, con un po' di stizza: «Deve essere difficile far arrivare un neonato alla mamma ! Chissà come si fa ? » . Piange. Non è proprio soddisfatta dei grandi. Sono molto nervosi, e i loro discorsi e i loro bacetti a pioggia la confondono poco. Ancora lacrimosa, esce dalla macchina e sale le scale di casa della zia. Si stringe a lei, prima di entrare. Sente nostalgia della mamma stesa sul letto, ma decide di seguire la zia e di fare la brava. Il mattino dopo la bimba è svegliata e vestita di tutta fretta. Si va dalla mamma. La bimba ricostruisce, come può, l'evento a ritroso. Ci riesce male. Purtroppo lei non c 'era ad aprire la porta alla cicogna ! E a casa della zia tutti hanno dormito, se ne sono stati zitti e in pace. Tutto pare dover restare chiuso nel mistero. Si sa solo il fatto che il fagottino è salvo e contiene un maschietto. Entrata nella stanza della mamma, la zia assicura: « La mamma non è malata » . La bimba vede che la culla non è più vuota. S i avvicina per osservare i l neonato. Lui non si muove, dorme, ha qualche brivido. Non si capisce nulla di quel che prova e che pensa. La bimba chiede : « Questo fratellino, resta qua ? Viene ad abitare da nm. �. » . Il giorno dopo nessuno nomina più la cicogna. Alla bimba viene da domandar­ si quanto la mamma c 'entri in questa storia. « Ha fatto tutto la cicogna ? » , chiede la bimba poco convinta. Nessuna spiegazione. È un po' indispettita perché sul più bello - lei si ricorda benissimo cosa è capitato la sera prima - l ' hanno lasciata in mano alla zia loquace e commossa, ma troppo vaga. La zia non ha detto granché 116

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su come si era comportata la cicogna ! «È stata brava, era molto stanca... ». La bimba è certa che la zia si comporta come se lei non avesse capito che i grandi spesso inventano di tutto, mentono dall' inizio alla fine. La bimba chiude la scena lamentandosi: « lo non ho visto la cicogna, mi avete portata via ... Non ho visto la cicogna » . Ha l'aria di chi è stato privato di un diritto immenso.

La storia della cicogna, al pari di tante altre favole, dà evidenza a fasi salienti della vita. È una storia sontuosa, che piace e sazia i bambini, perché riguarda cose un po' fuori dell 'ordinario, fantastiche. Rammenta sempre cose che tutti i bimbi hanno bisogno di capire. La vicenda della cicogna crea realtà molto concrete perché arriva a riempire le culle. Da piccoli, in tempi piuttosto lontani, non abbiamo avuto mezzi per sa­ pere cosa erano i neonati che spuntavano attorno a noi. Un bel po' più tardi, abbiamo saputo che il pancione della mamma era una cosa straordinaria. Ma non era tutto. La cicogna ha continuato ad avere uno splendido ruolo. Date le circostanze di segretezza e il muro creato da zie e altri, i bimbi fantasticavano molto su se stessi. Accettavano bene di venire dal cielo e, co­ me capita per tutte le cose belle, di essere attesi, adorati. Venendo dal cielo in volo, era certo che tutti avevamo intrapreso una stupenda "impresa celeste" verso la terra ( muovendoci in mezzo a stelle, soli, venti ecc. ) . Avevamo spe­ rimentato il dondolio a mezz'aria, dentro a un grumo di piume, ed eravamo planati direttamente dal cielo nelle braccia della mamma. Avevamo tutti l' idea di essere ottimi navigatori dello spazio. Gli adulti non prendevano sul serio questo dato. La cicogna veniva abbondantemente descritta come una benemerita stakanovista, ad ali sempre spiegate. Ci metteva mesi e mesi ad arrivare, in­ segnavano i genitori. La mamma era dipinta come un essere in elettrizzante attesa del prezioso fagottino, con molta trepidazione e riconoscenza per la cicogna. Attorno alla cicogna si potevano creare miriadi di racconti che potenziavano l'animale e noi stessi. Spesso i genitori sembravano in attesa che il volatile si annunciasse di nuovo. La storia della cicogna un tempo serviva agli adulti per saziare la curiosa voglia di essere protagonisti dei piccoli, per creare cose rosee e meravigliose da tenere a mente tutta la vita. La storia serviva, giustamente, per tacere su tutto ciò che i piccoli volevano sapere del venire al mondo ( una curiosità malsana! ) . I genitori, in certe circostanze, sono inclini a seguire la regola del tace­ re a oltranza. Le zie che parlano a vanvera possono sentirsi disorientate se interrogate sulla fine della cicogna. Si sono anzi dimenticate tutto ciò che 117

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ha fatto l'animale. «La cicogna è andata via di fretta, non ha fatto niente altro » . Fin da subito, diventavano però le custodi e confidenti dei bimbi curiosi che dovevano lasciare stare il fratellino (che mangia, dorme o urla) e stare piuttosto con qualche adulto che avrebbe raccontato loro altre storie. La zia della bambina dagli occhi neri - che non ha bambini propri - a un certo punto si è proprio scatenata a riferire le gesta fantasiose del fratelli­ no : « Fa smorfie, sbava, strabuzza gli occhi ... ». Le circostanze non permet­ tevano certo alla benedetta zia di dire qualcosa di accettabile su come quel bimbo preciso fosse arrivato a una mamma precisa. Sembrava vincolata al silenzio, tanto quanto la bimba era vincolata a subirlo. Dato che nessuno ovviamente può aver belle memorie della propria nascita, figuriamoci se può parlare di quella degli altri, si dice la bimba. Mezza perduta nei suoi pensieri, ha cercato di non fare più domande. Alla zia manca la voglia di rispondere (con banalità e bugie). Possiamo dire che ogni favola è un ' invenzione che potenzia il fatto che vuoi illustrare. È la quintessenza della verità, coperta da cose assurde e inesistenti. Quello che offre non è arbitrario, è sovradimensionato e ipno­ tizzante. La storia della cicogna che porta i bambini, malgrado tutto, ci ha aiutati a non aver il timore di non sapere proprio niente e di non avere esperienza. Ha riempito qualche vuoto nella nostra testa. Ha fatto anche crescere ine­ vitabilmente fantasie di supporto. Per la sua vaghezza, di certo, ha creato illusioni, cose inesistenti che nell 'infanzia abbiamo preso per verità. Per tanti anni ho creduto che l' immagine di una cicogna rosa (con accan­ to il mio nome stampato in rosa) su un cartoncino bordato dello stesso colore che annunciava la mia nascita fosse la fotografia del volatile che mi aveva por­ tata a casa mia. Per me quel disegno rappresentava l'uccello snello e veloce che mi aveva regalata a mamma e papà. Ma avevo dei dubbi. Arrivai a farmi un' i­ dea che poteva far chiarezza: la cicogna, a detta di tutti, arriva e riparte subito ; nessuno riesce a fotografare la veloce e indaffaratissima cicogna. La si può solo disegnare, in modo più o meno veritiero. Non potevo quindi più pensare all'immagine del cartoncino come al ritratto vero dell'animale. L'incanto si era rotto : rimasi delusa della mia stessa spiegazione. In famiglia, alla fine, ci si limitò a dire che la cicogna rosa aveva portato proprio un bel biglietto rosa (col mio nome in rilievo), oltre al fratellino tutto vestito di azzurro.

5 . 2. Sicuramente, se siamo entrati nel mondo senza capirci nulla, questo non significa che non abbiamo avuto esperienze. Abbiamo cercato di intui-

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re qualcosa. La bambina con occhi neri, sicuramente, non è riuscita a fare alcuna vera scoperta. A una certa età, per forza di cose, abbiamo seppellito l ' immagine della cicogna. Ci hanno svelato il segreto che anche papà aveva una parte nella strana storia della nostra nascita. Ed è così che l'orizzonte della vita ci è sembrato ancor più frastagliato e il venire al mondo un evento rilevante ma drammaticamente sfuggente. Siamo stati indotti ad allargare e affinare le nostre percezioni. E abbiamo fatto tanti pensieri sulla famiglia. Con gli anni, messa da parte l'eroica cicogna, non abbiamo dunque risolto i nostri problemi. Ci siamo accontentati di una parte di verità, molto semplificata e con pochi dettagli. A scuola le maestre sono state più genero­ se, ma anche loro un po' incomplete. Ai nostri tempi, siamo cresciuti con addosso l' idea che meritavamo più informazioni, meno bei raccontini. Non abbiamo saputo se abbiamo sentito rumori dentro la pancia, quanto ci è costato il primo strillo, la sensazione di freddo e di caldo del primo bagno. Abbiamo raccolto poche notizie, anche quando riguardavano il terribile male ai dentini che ci ha fatto capire la durezza della vita. Non abbiamo saputo, ed era importante saperlo, chi ci ha preso tempestivamente in brac­ cio e consolato nel primo contatto col mondo, chi ci ha fatto fare i primi ruttini o i primi passi. Gli adulti ci hanno solo avviati e un po' accompagnati attraverso zone buie e difficili. Non solo non hanno saputo dirci cosa abbiamo sperimen­ tato al momento del parto o nei primi momenti, ma neppure come siamo stati presi dal piacere di essere vivi. Quanto è stata violenta la voglia di cam­ minare e di parlare ? Gli adulti non ci hanno spiegato che siamo stati gettati dentro l 'esi­ stenza da energici geni e da ingarbugliate abitudini in vigore da secoli o millenni (dal poppare il seno o il dito, al restituire il cibo in un rigurgi­ to ). Molte domande non hanno mai avuto risposta : dobbiamo il nostro ingresso in famiglia a genitori emozionatissimi, allo sforzo di persone affettuose che erano lì ad assistere la mamma in travaglio ? Di nostro ci abbiamo messo qualcosa ? Ci hanno detto solo che nel venire al mondo siamo stati molto coraggiosi e perfino applauditi come campioni di resi­ stenza e di tempismo ! Tutto ciò che sappiamo della nostra venuta al mondo proviene da quel­ lo che hanno deciso altre persone. Da ciò che è stato interpretato da tali persone, le quali certo sanno quasi nulla dei nostri momenti cruciali e nep­ pure dei loro. 11 9

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE 5 · 3 · A pensarci un attimo, ciò che riguarda la nostra nascita ci fa venire le vertigini. Ci dice che non siamo mai stati padroni della nostra esistenza in nessun senso. Le espressioni "venire al mondo", "vedere la luce", "affacciarsi alla vità' suggeriscono azioni che noi abbiamo compiuto senza averle deci­ se. Viviamo facendo capo a stati d'animo e desideri che non abbiamo po­ tuto constatare e memorizzare. Questo di fatto ci sbalza nel vuoto o dentro una specie di voragine. È così che l'essere venuti al mondo diventa per forza un evento carico di conseguenze serie. Continua, per tutta la vita, a essere inteso come l'avvio di scombussolamenti che si sono protratti o ingigantiti fino al presente, che non possiamo frenare o arrestare. La nostra nascita e la nostra storia sono stati lungamente gestiti e tenuti in mano dalle persone a cui siamo legati e che ci girano intorno, da sempre. Da un lato l'essere nati non ci permette di lasciar perdere la nostra realtà, non ci consente di annullare o disattivare i fatti accaduti. Dall'altro, il fatto di sapere che non possiamo sapere non ci permette di chiudere l'argomento del venire al mondo pacificamente o con rassegnazione Alla fine, per non rimanere intrappolati in riflessioni infinite e contraddittorie, cerchiamo di coniugare cose reali e immaginarie, di tessere una strana tela di Penelope, dove alcuni caratteri possono essere molto incerti e alcune questioni non solubili (dati genetici di partenza, fatti temperamentali ecc.).

Una ragazzina di sei o sette anni diventava un po' aggressiva quando si parlava della sua nascita. Non le bastava essere venuta al mondo perché mamma e papà avevano deciso così. Insisteva per sapere perché lo avessero deciso. Forse non le stava bene di essere l'ultima arrivata in famiglia e di essere piazzata dopo gli altri fratelli. Odiava essere considerata piccola perché questo faceva crescere ancor di più i grandi. Non credeva alle spiegazioni che le venivano fornite. Nessuno pareva saperle dare risposte esaurienti. Lei testardamente restava fedele a un' idea: essere terzogenita significava non essere alla stessa altezza degli altri. Questa disparità lei la vedeva gravissima. Sviluppava sentimenti di gelosia verso i più grandi. Pensava di non essere ben voluta dalla famiglia, di non essere nella famiglia giusta. Lo diceva spesso, e non c 'era modo di dissuaderla e consolarla. Veniva spesso fuori dicendo con aria di sfida: « lo sono stata adottata » , « Non sono come voi ... » . Le ripetute smentite delle sue idee non facevano presa. La cosa si risolse da sé anni più tardi.

È dunque possibile che venire al mondo per molti significhi aprire il vaso di Pandora, essere sommersi o buttati in tante avventure senza capirne la ra­ gione o la necessità. Un fatto notevole è cioè che piccole creature, inesperte o senza cognizione di causa, siano indotte a cercare il proprio posto in fa1 20

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miglia e in ambienti spesso complicati. Un bebè affronta immediatamente, appena giunto alla luce, un lavoro di posizionamento (cerca il seno della mamma, si avvinghia alle sue mani, gradisce di cuore nenie carezzevoli, che gli dicono che lo spazio che gli è stato dato è ottimo). La situazione è stupe­ facente : entrato nel mondo, il bebè è obbligato a riconoscerlo, conquistarlo, impadronirsene e utilizzarlo. E il tutto richiede intuito e sicuramente fatica. Il neonato, appena venuto al mondo, ha un "posto" da difendere, che non potrà dismettere o ignorare. Lo deve mettere a frutto, malgrado tutto. Non va sottovalutato che i nuovi venuti, per quanto ignari, danno dritte preziose a un gruppo familiare, a un ambiente. Senza avvedersene e senza poterlo rivendicare, i neonati creano situazioni delicate e fanno capire a tutti un gran numero di cose : mostrano quanta energia ci vuole per mettersi ritti, quanto benessere si può ottenere dall 'uso del biberon (scolato fino all'ultima goccia) , di un cucchiaino anatomico ( gradito ma anche odiato), quanto bene fanno i bacetti scoccati sulle guance. Tanti incantevoli cuccioli umani conoscono bene tutto questo, ma non sanno di sapere. Questo ce li rende estremamente simpatici. I nuovi venuti istruiscono gli adulti, dunque, minuto dopo minuto. Nel momento stesso in cui loro ci insegnano chi sono e cosa valgono, ci fan­ no apprendere chi siamo e come siamo stati fin dali' inizio. Questi piccoli maestri ci impartiscono delle belle lezioni in termini di ruoli, competenze, saperi e diritti; ci fanno diventare i loro esperti insegnanti. Ci aprono un po' gli occhi anche su cose misteriose che, come si è detto, non possiamo scoprire da noi, che non ci è dato conoscere in nessun altro modo. 5 · 4 · Venire al mondo significa usualmente entrare in relazione con perso ­ ne specifiche. Significa venire collocati in classifiche, caselle, diagrammi, far entrare l' individuo appena nato entro schemi mnemonici, trasmissioni complesse. Diventiamo eredi, successori, alleati : diamo il via a tante narra­ zioni che testimoniano che il bebè è nato da una precisa coppia, da specifici antenati e progenitori. Le posizioni assegnate in queste catene suggeriscono diritti e doveri, tassativamente attribuiti ai nuovi venuti, da rispettare per il resto della vita. Certi racconti esprimono una marca identitaria incancella­ bile. Il neonato infatti, ottenuto alla nascita il proprio "spartito musicale", vi preleverà nota per nota e inizierà la sua personale esibizione. Man mano che passa il tempo, attorno al piccolissimo iniziano a cir­ colare aneddoti che lo riguardano. Sono spesso racconti briosi, fatti per piacere. E per essere resi eterni. Vengono ripetuti ed entrano nel lessico

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familiare. Mi è stato detto, fin dalla più tenera infanzia, che appena una anziana parente mi vide mi chiamò Moro, e più tardi addolcì il nome in Moret ' ( al maschile ) . Una prozia invece pretendeva di soprannominarmi alternativamente Violetta o Butteifly. Aveva la passione per l'opera; ascol­ tava dischi famosi e canticchiava le arie più note. Come mi è stato ricordato mille volte, un nonno iniziò a chiamarmi Cemmela, ossia semola, abbrevia­ to in Mel perché - sembra - mi piaceva ripetere : « Cèmmela... Cèmmela » come forma di insulto. Era questa una delle prime parole che papà mi aveva insegnato, quando mi aveva consegnato una verità essenziale : «Ricordati che non hai mica semola nella testa ! » . Negli anni, tenni bene a mente il nome "Cèmmela" e lo applicai senza difficoltà a parecchie persone. In casa, la posizione di un piccolo personaggio che deve cercare un po­ sto nel mondo può essere riassunta in due o tre parole superlative, dissimili fra loro ( bravissimo, benedetto, angelo del cielo ecc. ) . Sono nomi che non illustrano nulla di oggettivo, ma contano parecchio. Gli adulti e soprattutto gli anziani spesso hanno in mente un problema: cercare di definire a chi assomiglia e appartiene il bebè adorato. Cuciono storie strampalate, narrazioni a pezzi e bocconi, che sarebbero da abolire all ' istante ! Tirano in ballo non solo i caratteri degli antenati, ma anche quelli degli angioletti e dei diavoletti ! Nessuno pare riesca a spiegare chi è veramente il neonato e come si possa - onestamente e pacificamente - farlo capire agli altri ! Spesso gli adulti sono perplessi e non sanno come prevedere il futuro del neonato. Non riescono scordarsi però che un neonato possiede una stra­ ripante energia, che è fortissimo. Sanno che, in quanto protagonista della vita, ha un fine primario ineludibile. Vuole vivere, crescere e vincere.

S · S · Va ricordato che il neonato cambierà gli orizzonti di tanti individui. Venire al mondo è un evento che porta stravolgimenti per un bel numero di individui, inclusi quelli passati ad altra vita. A ogni nuova nascita, come detto, i figli diventano padri, i padri diventano grandi padri. In più, i defun­ ti diventano super-padri illustri e quasi perfetti. I neonati non sanno cosa sia l' ironia, ma venendo al mondo, zitti, fanno scherzi ai parenti antichi : senza accorgersene, creano sconquassi gerarchici e cambi di status. I neonati spes­ so riescono a migliorare le immagini dei trapassati e a farli diventare quasi santi. Bisogna che ci siano i neonati affinché le generazioni di narratori possano infiocchettare le storie dei morti. Se contassero solo i parenti vivi, l'arrivo del bebè sarebbe un po' deludente, un poco opaco, privo di epopee.

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In presenza del miracoloso essere nuovo, tutti i parenti morti sono trat­ tati come icone, figure esemplari. Si ravvivano a ogni ciclo generazionale. Su queste basi, è evidente che ogni neonato non solo viene incatenato a esseri che saranno importanti nella sua esistenza, ma contribuisce a elevarli e perfezionarli per l'eternità. Senza i beati antenati, il piccolo non godrebbe dei benefici degli av­ vicendamenti di ruoli (dei beni e dei nomi) che sostengono il suo gruppo familiare. Il piccolino che ha al polso la catenina d 'oro con il suo nome inciso - che la nonna ha regalato al primo compleanno - ha una bella e significativa posizione ! Può stare correttamente accanto alla sua mamma, che porta al dito lo smeraldo della trisavola ! Alcune persone, quando hanno tra le mani una nuova creatura, si in­ dustriano per non sbagliare rotta. Qualcuna vuoi anzi rettificare il destino del bimbo che non le sembra appropriato. Qualcun 'altra, con l 'arrivo dei nuovi nati, si ringalluzzisce oppure si stordisce un bel po'. Ha paura che tenendo i riflettori sul piccolo si anticipino i segni della terza o quarta età, che si evidenzino i danni d ' invecchiamento. Alcune donne corrono ai ri­ pari. Diventate nonne, si fanno chiamare con il nome proprio ; contrastano la fretta degli zii giovanissimi, loro figli, che orgogliosamente ci terrebbero a ricevere il titolo di "zietto". Alcune donne di una certa età, con un bimbo da cullare, diventano anzitempo zie. Altre assumono non troppo volentieri il titolo di single o di "zitella" (perché battute da donne più veloci a dar alla luce dei bimbi). Le donne sicuramente si gloriano invece, in ogni stagione, dell 'appella­ tivo di mamma. Le fa sentire a posto, in possesso di un ' identità che vale di più di un diploma professionale di alto livello. Sono tante le persone che - nei momenti salienti della vita dei neo­ nati - riacquistano arti creative (inventano favole, pappe saporite, giochi straordinari e gesti da clown). Qualcuna, a causa di avversità impreviste, sbaglia nel scegliersi la parte ! Una mia vicina di casa, senza prole, era in attesa del nipotino della sua migliore amica, madrina ufficiale del nascituro. La vicina, volendo partecipare a un ruolo che le piaceva molto, ben prima del parto si era già auto-nominata "nonna Caro­ lina". Aveva preparato una sorpresa: per il giorno della nascita aveva acquistato un bel cappello piumato con veletta. Voleva inaugurarlo alla sua prima visita al neonato. La vicina aspettò di essere invitata. Passarono alcune settimane di attese inutili. Il bimbo dormiva a più non posso, sazio e placido. Alla fine fu invitata, ma senza che una data fosse fissata. L' inaugurazione del cappello non avveniva mai... La cosa aveva effetti depressivi ! 1 23

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Un giorno finalmente, non so quanto tempo dopo, la vicina fu ammessa nella stanza in cui c 'era la culla ; stese le mani e afferrò vigorosamente il maschietto, momentaneamente sveglio. Lui scoppiò in un urlo tremendo. Non si era spa­ ventato della donna, ma del suo cappello. La vicina si prese all' istante il nome di "Carolina con la veletta" ma non cedette davanti all' insuccesso. Testarda, nei giorni successivi ripeté la prova ed ebbe lo stesso risultato : strilli di terrore del bambino. La respingeva con la faccia paonazza e malagrazia. Dopo un certo tem­ po, lei accettò di togliersi le sue decorazioni piuma te dalla faccia (cosa penosa per una signora in visita) prima di entrare nella camera del neonato. Il bambino non subì altri traumi. Il cappello invece fu messo a riposo in ingresso, a ogni successiva visita della signora. La storia volò da persona a persona. Fu raccontata per tanti anni anche al diretto interessato ormai adulto, che commentò : «Ecco perché odio i cappelli delle signore ! Meno male che le signore sono anche capaci di privarsene ! » . "Carolina con la veletta" divenne famosa: aveva superato se stessa per amore del neonato !

Ogni bebè partecipa a molte operazioni familiari, entro una catena di montaggio di cui sfugge la meccanica, ma non il valore finale. Chi non sa rispettare il ritmo e non sa usare bene le regole è scartato, messo da parte. Guasterebbe l'umore di tutti. In concreto, il mondo gira veloce a causa del bebè, del suo sviluppo. Ogni piccolissimo personaggio - benché non sappia nulla (ma la famiglia tiene conto di tutto) - assume in fretta modi di fare editi e inediti, obiet­ tivi, gesti da plebeo (mani sporche in bocca) oppure stili da gran signore (sopporta i guanti e anche la cuffia di lana). Raggiunge, a detta di tutti, livelli artistici stratosferici se, ormai ritto sulle sue gambette, scarabocchia i muri con i pennarelli o mostra maniere da bimbo affamato, se si succhia meccanicamente il pollice come se fosse una bottiglia di latte. Fino a una certa età, il bimbo vivrà nella assoluta ignoranza del proprio destino che è quasi sempre incontrovertibile. È l'ambiente che alacremente glielo interpreterà pezzo per pezzo. Una volta cresciuto, il bimbo raggiun­ gerà un po' di destrezza (ma non ancora l'assuefazione al ritmo della vita). Auspicabilmente si libererà delle titubanze e sarà alla pari con quelli del suo stato, della sua intelligenza, della sua condizione economica (assicurata dai genitori) . Il modo di cavarsela, di attrezzarsi, il piccolo lo troverà sempre. Tra bravate, conquiste e bocciature, procederà. In molte società, in gruppi umani differenti è chiarissimo che l'arrivo di un piccolo inaugura splendidi sogni per il presente e per il futuro. La nascita del bebè può essere vissuta con fatalismo, con commovente s.6.

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senso della naturalità dei cicli della vita o con l 'eccitazione di una vittoria , superlativa. In ogni caso, abbiamo tutti un esperienza comune : il nuovo nato è come la rugiada di primo mattino, buonissima ma delicata: segnala un buon clima, una buona giornata. Però quando si alza il sole o si leva un filo di aria, la rugiada non resiste. Ci si augura che la rugiada duri comun­ , que a lungo, ma non si può ignorare che non sempre accade ! L arrivo di un bimbo è dunque un affare che non tocca tutti allo stesso modo. È un evento glorioso nella maggioranza dei casi, ma ci sono molte luci e ombre nei comportamenti delle persone, se premute da pensieri retrospettivi e non da aspirazioni relative al futuro. Non si può dire che la disposizione femminile ad accogliere figli, a unire le forze e a prodigarsi, faccia sempre crescere la stima nelle donne. Resta ve­ ro che la buona accoglienza dei figli e la solidarietà reciproca fra donne sono estremamente importanti : si praticano dove le risorse materiali sono scarse e quelle intellettuali sono modeste (non alzano la media). Con mille sforzi, , le donne sanno sostenersi e "spingersi avantt, parto dopo parto. L impegno non sempre assicura loro vantaggi o conquiste. Se una donna non ha una grande facilità per gravidanze e parti o non vede la ragione per cui i figli che arrivano debbano essere un suo compito primario, è considerata arida, egoista o addirittura incomprensibile. Pur­ troppo, in situazioni ordinarie o culturalmente povere non si trovano molte scusanti per le donne ritrose. Nel tratteggiarle, si nominano spesso cattivo temperamento o scarsa voglia di sacrificarsi. È fuor di dubbio che un figlio che viene al mondo è un evento che si dipana sia nel silenzio che nel gossip più sfrenato. Le donne di norma ca­ piscono l'argomento al volo, assumono un comportamento confacente un istante prima degli uomini.

5·7· Una gestazione ha un valore diagnostico alto, concernente i fatti della vita. Dà segnali su ciò che il mondo è o non è. È come dire che, sulla parte femminile, vengono giocati il ruolo, il rispetto, il futuro dell'uomo, della donna, dei grandi, dei giovani. Vengono abbassate o alzate alcune barriere tra individui. Vengono anche sorvegliati i pericoli che i figli fanno correre : «Mia madre, dopo quel che aveva passato per mio fratello, era terrorizzata che ne venissero altri, lo diceva sempre ... » . Qualche volta si possono notare opportunismi nei discorsi sulle na­ scite. Un marito afferma con scarsa ironia: «l figli sono venuti uno dietro , l altro, così lei ha avuto il suo daffare e non si è permessa di aver grilli per la

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testa » . Sono queste frasi un po' aride, crude, che consentono di valutare gli orizzonti. Che fanno intuire cosa può serpeggiare a livello umano profon­ do, nelle famiglie del padre e della madre, di parenti e congiunti. Un punto va aggiunto. Se alla donna vengono date possibilità di deci­ sione, se la donna può guidare le nascite, le gestioni domestiche assumono profili interessanti. Accettate delicate e primarie responsabilità, le donne possono sentirsi "guardiane della vita,, autrici dello sviluppo familiare, ed , esserne fiere. Neli immaginario delle donne, ogni cosa legata alle gestazioni entra infatti in un campo prezioso : le storie del bebè contengono una sfida , che proviene dali inclemenza del quotidiano, tanto quanto dal talento delle madri. s.8. Bisogna ritornare al periodo pre-nascita, pre-parto. Durante il suo totale nascondimento (nella pancia) , il bimbo intraprende processi psico­ fisici indefessi e impellenti. Si comporta come se sapesse che "tutti capiran­ no che arriverò certamente alla vittoria,. Gli si riconosce una sua posizione, una sua autonomia. È piuttosto raro cioè che si consideri il nascituro, in pri­ mo luogo, parte dei meccanismi corporali della donna. Non lo si confonde con qualcosa di vincolato e limitato all'utero materno. Controlli e prove mediche servono per confermare questo. Gli sforzi di chi se ne occupa mi­ rano a mantenere nella norma il concreto processo di crescita. Il feto dà "illustrazioni di sé,. Nei movimenti e nelle scosse che trasmet­ te, nei sobbalzi e nelle giravolte che fa, ci rivela cose precise. Le mamme e non solo loro ritengono che il feto sia nella condizione di mandare veri mes­ saggi. Qualcuno cercherà di capire meglio cosa dicono. Spesso si tratta di un dialogo complesso fra l' interno e l'esterno del corpo femminile, condotto a suon di piccoli pugni picchiatori, di piedini scaldanti. Gli interlocutori del nascituro, che gli stanno vicinissimi tutto il giorno, non sono ricettori perfetti. Spesso stravedono e parlano con fantasia. Nascono miti che vengo­ no verbalizzati prima e dopo il parto : « Odia i sobbalzi dell'auto » , «Non gli piace il sapore del caffè che finisce nel latte della mamma » , « Gli piace il suono del tamburo » , «Adora le carezze, specialmente sui piedini, che lavorano tanto ! » . Neppure il piccolo essere intrauterino può far a meno dei segnali degli adulti. Segue il programma, mai concordato con lui, in modo garbato. Una volta nato, avrà anche un suo personalissimo piano.

5 · 9 · Alla nascita, il bimbo ha bisogno di scoprire gli altri. È probabile che abbia sue idee prenatali, tutte da decriptare. Quando, appena uscito

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, ali aperto e riposato, è faccia a faccia con qualcuno, gli si scatenano istinti micidiali che esterna come può, col pianto e con un bello sgambetto da calciatore. , È certo che madre e figlio sono subito attratti l 'una dall altro. Hanno voglia di conoscersi in fretta e di gioire insieme, senza ritegno. E lo fanno. , Il neonato è pronto e curioso. Socchiude spesso gli occhi un po traslucidi e rimane abbagliato ; non ce la fa, li richiude. Alcuni bimbi ci mettono giorni per riuscire a dare una sbirciatina a chi si avvicina, tanto hanno occhi gonfi e umidi. Intanto, percependo che qualche cosa sta capitando nel mondo, sussultano a ogni minimo rumore ; si prendono una piccola , , scossa se qualcuno li tocca ali improvviso. Se sono un po sottosopra, iniziano a sputacchiare sui vesti tini nuovi di zecca. Fanno smorfie perché non sanno cosa succhiare e tornano a sbavare (un paio di mani li asciuga per bene) . Loro si irritano, ma si rassegnano a questi strofinamenti. Sono nel mistero più profondo e aspettano di conoscere qualcosa e qualcuno. Vogliono essere compensati per le sofferenze della segregazione subita nel ventre materno. In men che non si dica, alla nascita il bebè sembra iniziare, come si è detto, a dare segni della propria importanza. Reclama attenzione. Comin­ cia a conoscere il valore fisico delle cose e di se stesso. Gorgoglia molto fra sé. Qualche persona anziana spiega: « Ride perché vede gli angeli, ci parla » . Sa di esagerare. Il neonato è aperto al mondo, anzi vuole il mondo per sé. Sicuramente , capire il suo stato d animo è un piacere , ma anche un impegno stressante al quale tutti dedicano un gran tempo.

Il venire al mondo è un processo monitorato, accompagnato da cure e tecnologie che aiutano il concepimento e la gravidanza (vedi maternità assi­ stita, controllo della fertilità ecc. ). In condizioni ordinarie o quasi - fin da quando il parto "si è aperto, - il piccolo ha inviato messaggi e pre-allarmi. Al momento giusto si dà, con la massima energia, al lavoraccio di superare barriere anatomiche resistenti. Ha insomma già scatenato un putiferio nel­ , la madre appena ha intravisto una via d uscita. Fa scattare, passo passo, le , varie fasi dell evento nascita. Da questo trambusto, mostra di avere il piglio di chi sa quel che deve fare. Senza dubbio vuole sopravvivere al cataclisma che lui stesso ha scatenato. Non ha altra scelta dunque che quella eroica del venire al mondo. Fa capire, senza complimenti, che fa un favore a se stesso, non ad altri. s . I o.

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Il fatto concreto di venire al mondo, in luoghi specifici e fra gente in gamba e preparata, mette fine a un 'ambiziosa (e un po' ambigua) relazione di unione-divisione tra madre e figlio/ a. Le parti si definiscono con il fami­ gerato atto del taglio del cordone. Questo gesto fa affiorare un' importante dualità di corpi, di persone. Alcuni tagli sono culturalmente astrusi e non solo in senso materiale. La cosa è di grande impatto. Il neonato può non essere considerato il figlio della donna che l'ha partorito, dalla quale è stato staccato con un atto chi­ rurgico. Una situazione di questo tipo è sorprendente, inquietante. Da un lato, il figlio è totalmente tale solo "prima del taglio"; dopo questo evento, può diventare qualcosa di diverso. Da un altro lato la partoriente, una volta arri­ vato il neonato, può diventare opaca, vivere una vita "di nebbià', o addirittu­ ra scomparire. Può cioè capitare che lei, dopo il parto, diventi una scomoda estranea per il neonato. È questa la condizione di nuclei composti da due uomini. Non è inverosimile che, in questi casi complicati ma reali e vissuti, ogni percezione e ogni decisione sia calcolata non sulla donna ma sul suo "utero in prestito". È solo l'utero concesso in uso ad aspiranti genitori ma­ schi che conta. Esso anzi è la sola cosa che, per un certo periodo prenatale, domina i pensieri dei soggetti implicati. Dopo il parto, l'attenta cura data all'utero per mesi e mesi non è più necessaria. Distinzioni e lontananze de­ cisive si impongono appena il neonato risulta essere diventato figlio di due uomini. La figura di una donna reale e integra, fertile e madre, può finire velocemente nel dimenticatoio. La figura del figlio - ben delineata da fatti fisiologici, organici, o cose analoghe - sembra sempre più incapsulata in realtà artefatte ed enigmatiche. Il taglio del cordone, in particolare, può dar vita a molti elementi di natura giuridica, contrattuale, simbolica. Disconnette due corpi, due vite, due percorsi umani. Si tratta evidentemente di un fatto di straordinaria concretezza. L'unione madre-figlio non esiste più. Di fronte ai due uomini la madre è diventata una figura offuscata, nascosta, perché il taglio è stato riconcepito e risignificato. Sulla base di motivi genitoriali o affettivi, che non sono quelli della donna, il taglio diventa discrimine di significati esistenziali dirompenti. È stato pensato come qualcosa che oltrepassa le fisionomie comuni di madre e figlio. Col taglio si dà inizio a una persona, nettamente diversa da quella cresciuta nel seno materno. Nel parto in "favore di terzi", il taglio è l'atto col quale si può certificare quale sia l'appartenenza psico-fisica del nuovo nato, dopo che quest 'ultimo 1 28

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ha iniziato la sua venuta al mondo. L'atto chirurgico del recidere, quando tutto è stato regolarmente eseguito, dà il via a effetti rilevanti, esclusivi per più persone : chi riceve il bimbo diventa genitore di un neonato, al quale non sempre è biologicamente legato. Il taglio del cordone è lo strumento attuativo di un contratto tra madre e soggetti differenti (parenti naturali, supposti genitori, esperti legali, professionisti). Cambia comunque identi­ tà, legami, doveri. Il caso dell'utero concesso a terzi è dunque pieno di nuance relative al venire al mondo. A partire dal distacco fisico di madre e figlio, la posi­ zione del bebè è definita e gestita da specifici aventi diritto, che diventano responsabili assoluti del neonato. Costui viene al mondo da una donna che ha rinunciato per varie ragioni all 'identità di madre. Ella, fin dall 'inizio, ha accettato di dedicarsi a un puro processo fisiologico-generativo, tempora­ neo e coincidente con la gestazione. L'ingravidata cresce il nascituro per alcuni mesi in un grembo femmi­ nile anonimo, casuale. Ha un compito fisico breve ; non deve svolgere fun­ zioni che vadano al di là di questo compito. Dopo il parto, non deve parte­ cipare alla costruzione di ciò che sarà un essere umano completo. Non può, cioè, compiere azioni pertinenti a campi educativi, emotivi, intellettuali. Il far nascere un individuo "per terzi" non incrementa le funzioni della donna che lo ha partorito. È evidente che l'essere venuti al mondo nelle situazioni descritte mu­ ta la realtà di base, quotidiana, dell'essere umano appena nato. Sostitui­ sce - grazie ad accordi giuridici preventivi - le braccia e le mani materne con altre braccia che lo accoglieranno, con altre mani che lo accudiranno. Gli interscambi sensoriali fra adulti e neonato sono alterati dalla man­ canza volontaria e programmata di piani relativi alla madre. In questi casi, la nascita diventa un processo che, per un verso, rende lontano ed estraneo il neonato da ciò che per lui è più naturale e, dall'altro, lo rende coeso e di­ pendente da chi è solo parzialmente a lui consono o corrispondente. Il neo­ nato viene sciolto da alcuni legami e privato di diritti verso la persona fisica e giuridica della partoriente, ma strettamente sottoposto ad altri vincoli. Gode di diritti filiali trasmessi da due uomini non sempre individuabili come genitori. La madre che lo ha fatto venire al mondo non subisce meno sconvolgimenti. I suoi diritti genitoriali sono annullati. Ella subisce una seria manipolazione. Subisce una d-identificazione, eterodiretta ed eterna. Quanto più, dunque, il neonato è un esserino ambito, tanto più lui e la donna che lo ha messo al mondo sono svestiti dei loro caratteri di madre e di figlio, cui hanno diritto quanto meno per fatti biologici. Sono spoglia1 29

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ti di caratteri legittimi e centrali. Il valore del bimbo diventa misurabile sulla sua distanza dalla madre. Il valore della madre è determinato da una lontananza e da un 'assenza del ruolo materno imposte, forse non del tutto capite. Questa distanza-assenza è qualcosa che può schiacciare la donna. Il trattamento dell 'allontanamento e della sparizione permanente che le si impone le nuoce. Nella visione generale, il "parto per terzi" crea immagini che pesano sulla donna, e talora sul neonato. Lei può sentirsi calpestata e svuotata. Può interpretarsi come un ' in influente gregaria di chi ha messo insieme una squadra di lavoro o ha tracciato un destino umano arbitrario. Può sospet­ tare di essere una donna piuttosto sgradevole o, peggio, nociva per l'essere umano che è uscito dal suo ventre. Potrebbe pensare anche che il neonato possa essere la vittima innocente di un traffico di corpi e di funzioni. Non venendo accostata al figlio - neppure per un momento - la ma­ dre potrà memorizzare il parto come una totale privazione, un 'avventura amarissima di sventurata spoliazione. Avvilita e squalificata, alla fine, ella può affondare nello sterminato oceano delle possibilità perdute o negate. Cosa che certamente non giova a nessuno, tanto meno ai mondi depressi, sfortunati, in lotta per la sopravvivenza (dai quali la madre spesso proviene). Dopo il parto, lo si è appena detto, non conta il fatto che il bimbo sia stato carnalmente solidale con la madre e che questa gli abbia fornito una formidabile e sostanziale base fisica. In sostanza, dopo il taglio del cordone ombelicale il figlio esula forzatamente dalla vita operativa, sentimentale, familiare di chi lo ha partorito. È espulso o perduto per la donna, per la sua esistenza. Va specificato che il bimbo talvolta è posto in un assurdo disagio. Il neonato può essere immesso in un sistema relazionale, forse ricco e colto, ma pieno di segreti, di cose taciute o prefabbricate per custodire esclusività e riservatezza (che riguardano solo gli adulti). Nulla esclude che questo si­ stema possa essere per lui piuttosto carente o divisivo.

Il procedimento cui è assoggettata la donna che si trova nella situazio­ ne descritta è usualmente occultato fin dalla fecondazione. La segretezza gioca una gran parte in questi casi : se il "segreto" non è custodito, la posi­ zione della donna peggiora. Vincolata ad anonimati e mutismi granitici e perpetui, la donna non gode di difese particolari e personali. Il suo ruolo, la sua vicenda, il suo de­ stino, sono seppelliti nel buio e nel nascondimento. Ogni azione diretta o 5.11.

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indiretta della madre relativa alla sua maternità segreta può essere stigmatiz­ zata, seriamente punita. La donna che non rispetta il silenzio, cioè, subisce un indebolimento morale e un ostracismo sociale. Per favorire aspettative e desideri maschili, la donna può dunque vivere, dopo il parto, senza alcun riconoscimento o possibilità di reintegrazione. La "madre per terzi" deve assumersi tutto il peso e le conseguenze di questo silenzioso disconoscimento, di questo respingimento o sparizione forzata dalla vita del neonato. Il processo che si mette in moto sfruttando la fertilità di un corpo fem­ minile inizia da moltissime segrete mosse : accordi economici vincolanti, contratti sottoscritti, cui la donna aderisce o ai quali non può sottrarsi. La donna è, dunque, ingravidata secondo protocolli che altri - i committenti e gli esperti - determinano e guidano. È evidentemente in mano d'altri, per il servizio ad altri, dotati di poteri a lei spesso ignoti. Questa estrema debolezza o forzata inerzia femminile può essere va­ lutata in mille modi, con termini crudi quali stato di schiavitù, prigionia, cancellazione della donna. Di fatto viene descritto o sintetizzato, abbastan­ za arbitrariamente, dalla nozione di "diritto alla paternità" da parte dell'uo­ mo, dal suo bisogno di sentirsi padre. Al figlio, nato da una donna più o meno consapevolmente comprata, silenziata, depotenziata, viene consegnata un 'esistenza piuttosto mutilata. Gli resteranno in mano vincoli contrattuali che lo terranno lontano da tutto ciò che può ricondurlo alla madre. Non gli sarà facile poter capire o veder spiegata la propria fisionomia umana, i processi interpersonali che hanno de­ terminato la sua esistenza. Può essere costretto a constatare che la sua origine "fa problema" nell'ambiente in cui è immesso. Il suo speciale modo di venire al mondo può diventare un dato culturalmente ingombrante, inaccettabile per il nuovo nato o per il mondo in cui è stato inserito. Benché innocente, il bimbo può essere visto come un soggetto diverso, portatore di una storia oscura. Tutto questo intreccio di condizioni mostra che colei che, per motivi personalissimi, imbocca la strada della gravidanza per altri deve assume­ re - non si sa in base a quali principi etici - una fisionomia di "non-madre" o di "madre senza figlio", e il neonato quella di "figlio senza madre", di "non­ figlio" di una madre reale, carnale.

5 . 1 2. Un bimbo, privato di una figura materna essenziale, deve acconten­ tarsi di altre figure surrettizie (sorveglianti, insegnanti, tutori per contratto,

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aiutanti ) le quali, anche se ben attrezzate, colme di buone intenzioni e di risorse, non si trasformano in mamme. Laddove gli è nascosta la madre carnale, oggettivamente insostituibile, il neonato può subire una alterazione sensoriale. Il suo corpo è meno suo di quel che crede, è meno del padre di quel che lo stesso vorrebbe. È in gran parte dell'uomo agente, ma certo anche della madre malauguratamente e silenziosamente scomparsa. Il neonato, proprio a livello sensoriale, è espo­ sto a fatti molto significativi. È talora tra le mani o al collo di una donna o di uomo qualsiasi, di un corpo umano avventizio, assoldato per colmare vuoti insopportabili e deleteri. È l'ambiente che andrà incontro a questo modo di venire al mondo, di vedere la luce ? Ci si augura che l'ambiente si attivi, che si chiariscano le varie performance degli attori in scena. Ci si augura che tutti i bimbi possano invocare una mamma e rispettarne i diritti e i sentimenti.

6 I figli. La favola vera delle donne

La gravidanza è un 'esperienza piena di fantasie, di soddisfazioni. Viene di solito vissuta intensamente dalle donne, con spirito di dedizione. Non si deve dimenticare, tuttavia, che questa esperienza pone sovente la gravida in un labirinto sconosciuto e un po' insidioso, pieno di fatti inusuali, che diventano essenziali per lei e per molti altri. La gravida è sottoposta a una trasformazione, coinvolgente se non addi­ rittura stravolgente, che le fa vivere un evento fiabesco. Questa mutazione passa, da un lato, per un 'estraniazione dalle normali modalità di esistenza e, dall'altro, per un ' invenzione di forme di vita specifiche o di nuove relazioni (riguardanti salute, cura di sé, esperienze cliniche, acquisizione di amiche e consulenti ecc.) . L e donne che iniziano una gravidanza n o n possono facilmente distrarsi da ciò che si sta compiendo nel proprio corpo. Uno stato di eccitazione, un fuoco sacro (ancor prima che la pancia inizi a crescere) si sviluppa nella madre in attesa. Appena è certa di essere incinta, ella si convince, inebriata, di avere grandi compiti, di avere un destino da favola, molto serio. Dovrà essere guardiana della vita e portare avanti un lavoro necessario per l'uma­ nità. Le mamme spesso si osservano, si spiano su questo fatto. Si meraviglia­ no di essere visibilmente entrate in un processo che porterà grandi novità. Produrrà un esaltante capolavoro, un essere umano. Alcune gravide, manco a dirlo, sentono l'obbligo, senza un filo di ironia, di giungere ad altissimi traguardi e cambiano radicalmente la loro esistenza quotidiana. Non sempre la gravida sa che cosa valga la pena o sia necessario fare, ma ritiene di poterlo compiere - appena possibile - con onore, con vero talento. Parte e spara, senza tanti complimenti, idee, principi, previsioni su previsioni. Sa di avere davanti a sé ottime chances, un ruolo fortunato. 6. 1. Se sta per nascere un bimbo, i ritmi ordinari, soprattutto delle donne, si accelerano. E si riempiono di nuove attrattive. La vita viene sommersa

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da cose mai viste o sperimentate prima. In queste situazioni le donne sono determinate, fanno di tutto per far notare le cose stupefacenti che accadono e il proprio ruolo. , Alcune donne in gravidanza confessano di vivere un esperienza che, , sbalzandole violentemente fuori dal loro quotidiano, fornisce un idea fa­ volosa di sé. Le più calme, in stato di commozione e di grazia, vogliono solo guardare la vita. Raccontano di sé e della bella avventura che stanno vivendo , con una nuova luce negli occhi. Si librano a mezz aria come se niente fosse più come prima. Ciò che investe una gravida, si sa, è un vero ciclone di fan­ tasie, un vortice sferzante di impulsi vitali. I pensieri delle gravide possono però ingarbugliarsi e cambiare marcia spesso e vorticosamente. Esse possono passare mille volte dalrentusiasmo , alr incertezza e viceversa. Gli scarti d umore, gli stordimenti, le vaghezze, i pianti e i risi della mamma in attesa sono noti. Sono poco decifrabili. Sono però tutti ritenuti legittimi, beneauguranti. In un certo senso sono parte del pentagramma della sinfonia della madre. Il modo di concepirsi delle donne, in tempo di gravidanza, nasce da domande che possono tendere al caotico. Le mamme sono pressate da fa­ stidiose questioni: «Non so che cosa devo fare » , « Andrà tutto bene ? » , , « Oh Dio ... riuscirò a farcela f , « Che mamma sarò ? » . Ma cercano, visto che il compagno è già sufficientemente teso, di cacciare r ansia fuori dalla finestra. Alcune procedono spavaldamente, malgrado tutto. , Durante l attesa di un figlio/ a, le mamme imparano a interpretare tutto, , anche quello che altre mamme hanno già capito e divulgato. L irrequietez­ za delle gravide, ad esempio, dà la prova che sono esseri caparbi, fantasiosi e irrefrenabili. E che fanno esattamente quel che salta loro in testa, traendo ne uno stato di grazia o un favoloso concetto di sé. La donna incinta registra tutto ciò che riesce a percepire del nascituro e del suo sviluppo prenatale, che lei vuoi valorizzare e consolidare. La gra­ vida non perde r occasione per spiegare e piegare ciò che r ha emozionata e istruita: ciò che ha scoperto di quelressere nascosto, che sta riparato nel suo ventre. Un nascituro ha un suo andamento storico e uno stile. La madre non perde mai intuito e determinazione nel rincorrerli, nel trarne esaltazione, commozione. È presa in un parapiglia confuso che le si scatena dentro e che la induce a ingigantire la portata di ogni particolare. Ogni ragazza, che si interroga sulla parte di madre che le può essere riservata o richiesta, a volte si pone poco chiaramente il problema. E ha bisogno di farsi coraggio anche se sa già se fare la mamma le piace o meno. 134

6. I FIGLI. LA FAVOLA VERA DELLE DONNE

Talvolta si costruisce un universo personale e nascosto per migliorarsi e per­ fezionarsi nella parte di gravida. Altre volte se lo costruisce il meno tormen­ toso possibile. Non sempre riesce bene in tutti questi progetti o propositi. In sostanza, più spesso di quel che si pensa, nella testa delle donne l' ar­ rivo di un bebè è un po' un rompicapo, un rebus. Scuote perché è un evento incombente e stuzzicante. Mette in moto cose positive e negative che non vanno a braccetto. Cose - scritte nel destino, dice qualcuna - si mescolano a fatti di una banalità allarmante o a esperienze stupende e soffocanti, che dureranno per tutti gli anni a venire.

6. 2. L'ambiente in cui vivono conta molto per le gravide. È chiaro che tan­ te nascite non sono sempre un segno di solidità, o un semplice successo. Possono essere la spia di una condizione depressa e malsana, priva di splen­ dore e di effetti consolatori. Il ritmo della riproduzione umana e soprattut­ to le sue modalità - come tutti sanno - rappresentano sintomi di benessere o rovinosi tracolli, sfaldamenti sociali. Va ricordato un aspetto singolare che riguarda le donne di ogni situa­ zione e di ogni livello economico- ambientale. Come sostiene Françoise Héritier, da che mondo è mondo ogni donna sa che può partorire figlie biologicamente identiche a sé e figli totalmente differenti da sé. Aggiun­ gerei che al di là della distinzione fisico-anatomica, la madre può partorire individui femminili molto diversi da lei e figli a lei fortemente somiglianti per temperamento o attitudini. Le donne sanno dunque che inesorabilmente i propri corpi mettono al mondo, quasi equamente, esseri diversi, persone con qualità e tendenze fra loro lontane se non opposte, al di là del sesso. Le donne vivono, in altri termini, nella consapevolezza di possedere un corpo capace di una curiosa "continuità" genetica e storica e, nello stesso momento, di una marcata "di­ scontinuità" individuale. La sfida è stupefacente, a guardar bene ! Fa nascere pensieri irrequieti e incalzanti. Su questo tema si può discutere a lungo. Resta chiaro un punto : una donna che dà alla luce un figlio maschio crea "l 'altro da sé"; costruisce l'altra metà dell'umanità, quella che non la definisce fisicamente o interiormente. "Fare l'altro" - attraverso un corpo dotato di versatili capacità - appare co­ me impresa titanica, sempre in corso. Il tutto porta la madre anche a qualche urtante resistenza. Nascere fem­ mina o maschio non è certo un fatto secondario. È il figlio maschio - in­ dividuo fisicamente lontano dalla madre - che in molte società umane

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diventa lo strumento della sua identificazione. È lui che dà un posto nella vita sociale e intellettuale alla propria genitrice. In alcune società, dunque, un' identità sociale è attribuita alla puerpera in base al sesso del nuovo nato. Assieme all ' identità si configurano anche la responsabilità e l'adeguatezza della puerpera. Per convenzione sociale, in varie situazioni, la madre di un maschio occupa un rango più alto e più onorevole di quello occupato dalla madre di una bambina. Alcune madri hanno vissuto questa situazione fra amare narrazioni e ricordi deprimenti. Hanno usato frasi nette : «Non voglio una femmina, mi serve un maschio » o, dopo il parto, hanno concluso : « In casa non nasce­ vano femmine da generazioni : questa nuova bambina, accidenti... cambia tutto ! » . Le donne stesse s i stupiscono del fatto di avere un corpo che può par­ torire un genere più apprezzato dell 'altro. E si interrogano con le lacrime agli occhi sulle distanze e sulle asprezze che il fatto può generare nei propri ambienti domestici. Oltre quarant 'anni fa, una madre di tre bimbe, quando in clinica le misero accanto la quarta figlia, singhiozzò desolata: « Questa non ci voleva! E chi lo sente adesso mio marito ? Lui non voleva un 'altra femmina! » . Il folle rifiuto ebbe subito il suo effetto : fu difficile trovare un nome per la nuova creatura e, soprattutto, iniziare l'allattamento al seno della neonata.

«l figli sono delle donne » , dice qualcuna, ma non la dice tutta quan­ do deve specificare in che cosa consista un tale possesso. Anche i guai che colpiscono i figli sono spesso delle donne. Le donne incinte, in situazioni di difficoltà, di emarginazione sociale o malattia, mettono in mostra volentieri il loro sapere (di tipo enciclopedi­ co !) istante per istante, per tutta la gravidanza. A dire il vero, non sempre sanno ciò che dovrebbero veramente sapere. Raramente sanno di non sape­ re. Ciò turba poco le loro giornate. In campo femminile, l'annuncio di una nuova nascita è cosa che deve essere, per così dire, decriptata in base a codici locali, a pratiche antiche, al buon senso delle altre madri o delle parenti anziane. In un ambiente femmi­ nile l'attesa di un figlio, e tutte le storie che ne vengono fuori, sono riferite in un miliardo di modi. Tutto sta a come si in tende la gravida : sana o malata, forte o debole, brava o pigra, autonoma o succube di qualcuno. In molte si­ tuazioni umili, colpite da gravi carenze economiche, mediche o altre, la gra­ vida cerca di essere pronta e obbediente e, talvolta, squisitamente riservata. 6.3 .

6. I FIGLI. LA FAVOLA VERA DELLE DONNE

Una norma vale per tutte le situazioni di gravidanza : se di solito è bene essere riservata e modesta, in certi casi lo è di più. Nelle usuali conversa­ zioni non è sempre cortese soffermarsi a parlare troppo di donne fertili e sempre pronte a nuove maternità. In genere, non si decantano donne che ininterrottamente concepiscono, partoriscono, allattano. Sono viste come fuori norma, eccessive. Si sa che ci sono un po' ovunque donne che non possono avere figli e se ne dolgono ! Proprio per questo non bisogna alludere a cose che mettono in imbarazzo le madri mancate (e talvolta an­ che i loro compagni). Le donne che non hanno figli sono spesso inquiete. Si sentono sfortunate, beffate dal destino. Solo alcune hanno rinunciato volontariamente alle gravidanze. E per questo sono considerate un po' in­ comprensibili. Qualche donna senza prole, di certo, pensa che l'arrivo di un bebè sia un evento gratificante, ma anche una meta disgraziatamente troppo difficile. In molte culture, la donna sterile ( altra storia è l'uomo sterile ! ) è considerata preda di una speciale malasorte o maledizione che può essere causa di solitudini e di brutti sospetti, denunciati con veemenza dalle interessate stesse. Una gravidanza, non vale dirlo, è in conclusione una situazione positiva per la madre : non fa mai cedere il proprio posto d 'onore ad altre donne. Talvolta le donne senza figli si compatiscono. Certune fanno commenti acidi o ossessivi. Si difendono dicendo che le più fertili dovrebbero essere più guardinghe o meno accondiscendenti. Una madre di tantissimi figli, al giorno d 'oggi, è vista come poco padrona della propria vita. La si considera un po' avventata. In certi luoghi, poveri e poco conosciuti, avere tanti figli sviluppa, invece, una speciale autorità femminile in famiglia. A chi sta in­ vecchiando, fa pensare che tanti figli aprano buone strade. La madre anziana, in contesti arcaici e molto tradizionali, qualche vol­ ta - in passato ma anche nel presente - è accudita, consultata, festeggiata ecc. Un tempo assumeva il ruolo di matriarca. Dominava le generazioni successive. Molti figli "arricchivano" le donne, se restavano sotto il control­ lo del capo -gruppo famigliare e dei suoi alleati. Codeste donne potevano anzi diventare strumento o sostegno di interessi maschili (a volte differenti da quelli strettamente genitoriali). Soprattutto in tempi recenti, le donne sono prese da preoccupazioni che possono sembrare insofferenza, o qualcosa di simile. Alcune non sop­ portano di stare distanti dai figli : sono decise a restare in precisi ambienti (comunque entro le pareti domestiche) per amore dei figli. Qualcuna tende all'evasione, o fugge. Altre sospettano che i propri diritti a gestire i figli siano maggiori di quel che il mondo ha loro concesso. E li reclamano. 1 37

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE 6. 4 . I momenti decisivi dell 'esistenza di una madre possono creare senso di inadeguatezza, di incertezza. Una donna, nel momento in cui sta per "gestire la vita" di un altro essere, teme di fare errori irreparabili, di non aver capacità per concludere il suo compito. Spesso nel suo cuore esistono domande tormentose : « Chissà se saprò far bene ! » . Come sostiene Martha Nussbaum, normalmente una « sottile corrente di vergogna corre nella psiche di ogni persona » quando è messa di fronte ai propri doveri. Nel tempo dell'attesa di un figlio può crearsi una percezione di insufficienza rispetto all'obiettivo di essere una madre all'altezza della situazione. Si teme di non saper dare il meglio di sé, di perdere la faccia o, addirittura, la bussola. Davanti a questo senso di sconvolgimento, bisogna, sostiene Nussbaum, « non aspirare al controllo o all' invulnerabilità, raf­ figurandosi le proprie prospettive e possibilità al di sopra della sorte dei comuni mortali » 1• In altri termini, possiamo essere un po' tormentati dalla ritrosia, dalla vergogna, ma occorre cercare di respingerle o contenerle. Ciò che, tante volte, fa male alle gravide non sono solo le regole del pudore. È constatare che la gravidanza non è percepita correttamente dalle mamme stesse. Alcune si fanno prendere dalla presunzione o dalla vanteria e sragionano. Non sanno evitare di travisare la natura e i fatti della attesa ( malesseri, stanchezze, fatiche ) . Sbagliano a valutarli come sintomi di uno stato di "infermità'', quasi una perdita di salute, un inciampo per la vita or­ dinaria.

6.5. Alcune donne in gravidanza non parlano di sé, tengono cocciutamen­ te dentro tutti i propri pensieri, anche i migliori. È come se volessero restare fuori dai pettegolezzi e dalle immancabili dicerie che crescono attorno alla gravidanza. Sembrano cavalcare solitariamente praterie smisurate, portan­ dosi addosso i loro ineluttabili destini. E costruiscono una realtà introversa, idee parecchio diffidenti. Sovente il silenzio delle gravide è più che opportuno. Serve a non fare mosse troppo precoci, rivelazioni che possono essere smentite dai fatti. In molti luoghi del mondo, le donne cercano di memorizzare i tempi e gli intervalli giusti ( e naturalmente quelli sbagliati ) per cadenzare le nascite. Non sanno però individuare esattamente i momenti fausti per entrare in una bella avventura. E tengono tutto per sé. La maggioranza degli esseri umani, dunque, può vivere ignorando ciò

I.

M. Nussbaum, L'intelligenza delle emozioni, n Mulino, Bologna 2009, P· s 6.

6. I FIGLI. LA FAVOLA VERA DELLE DONNE

che si può ritenere la basilare programmazione del corpo umano e della sua riproduzione. Malgrado questa situazione generale, in ambienti disagiati, sono le donne che diventano le vere custodi, mute e sfuggenti, della propria storia procreativa. Talvolta, in situazioni colme di reticenze e disparità tra i sessi, la don­ na tace o addirittura nega che sia iniziata una gravidanza. Pare strano, ma l'inizio primo della vita viene oscurato, per prudenza e decenza. Le donne non vogliono anticipare nulla, non spendono parole sul proprio stato o non danno notizie spontanee sulla pancia. Per scaramanzia o rivalità, con silenzi testardi o diplomatici si nascondono. Sul concepimento si può tacere perché lo si sente come un fatto meno condivisibile dell'attesa. È sempre difficile parlare del primo in ambienti chiusi e asfittici (anche attuali) , perché si ha presente quanto esso sia un affare che riguarda la coppia, i fatti sessuali contingenti. Anche nelle nostre società, riferire che si è concepito un figlio sembra spesso un atto un po' sfacciato, indecoroso, fuori luogo. Soprattutto in passato, era più naturale lasciare tempo al tempo, o attendere che fossero una pancia invadente e una nausea irrefrenabile a svelare il segreto. Il ventre che si fa prominente, alla fine, lancia sempre un segno eloquente. È evidente che le cose della gravidanza cambiano nel tempo e attraverso lo spazio. I mutamenti rispondono grandemente alla voglia di partecipare dei famigliari. Qualche volta la gente grida al miracolo, tanto l'evento scate­ na sorpresa; altre volte per lo stesso evento si grida allo scandalo con molta rabbia e senza tentennamenti. Raramente l'ambiente è dunque innocente o generoso. Non si mette sempre nella prospettiva di vivere una favola vera, reale, molto delicata.

6. 6. Le madri regalano all'ospite del loro grembo parole piene di dolcezza. Madre e bebè, nelle loro comunicazioni reciproche (verbali o non verbali ), si rivelano molte cose (appetito e inappetenza, scompigli dello stomaco, in­ tolleranze e stati beati). È questa la strada maestra che conduce a una diade saldissima e premurosa. Lo si constata nelle testimonianze che danno le donne anziane. Spesso insistono che i bimbi che sono nella pancia sono molto esigenti e che è la mamma che capisce di cosa hanno bisogno. Insistono che « messi al mon­ do, vuoi dire messi in collo ! » , come diceva una vecchia domestica delle campagne padovane, sottintendendo che il rapporto a due negli anni non si indebolisce, dura ed è fatto di cure costanti al nuovo nato. Madre e figlio

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appartengono a un nucleo vitale sul quale si giustificano tanti obiettivi della vita femminile. In giro per il mondo, molte donne vivono con bimbi in braccio o ap­ pesi al fianco o al collo, giorno e notte. Lavorano nei campi, in cucina, nel bosco a far legna, puliscono il riso o sbucciano patate con un figlio legato alla schiena, a un 'anca. Portano con sé piccolissimi, la cui testolina spunta appena da una sciarpa legata di traverso. È un modo che lascia libere le mani della madre per lavorare meglio ! È un modo che unisce due esseri che stanno conquistando un proprio posto nel mondo. Parecchie donne povere, incollate ad ambienti diseredati, non hanno scelta. Concepiscono figli e si affidano alle proprie idee sul destino, sul­ la fortuna, sulla casualità. In apparenza accettano la propria fecondità, il proprio ruolo di genitrici con qualche paura; però non si scoraggiano vera­ mente. Sono eroicamente e pazientemente in attesa di "mettere a terra" un figlio, prima di doverne prendere un altro in collo. Vivono così un contatto devoto o adorante con il proprio neonato, sempre pronto a essere aiutato con una carezza e un mezzo sorriso. Molte madri sono tutt 'altro che amorfe o docili. Non tutte sono d'ac­ cordo che le cose debbano andare nel modo in cui vanno. Non si adattano e protestano. Alcune donne con il "bimbo a tracolla" sanno essere dure e scostanti, se si sentono criticate o trascurate. Con rabbia mostrano cosa hanno al collo e, in sovrappiù, nel ventre. In certi ambienti difficili e carenti, certi gesti di irritazione delle gravide sono un po' scaramantici. Sono spesso anche dovuti all'amara delusione di contare poco, al bisogno di essere protette dalla sventura. Alcune donne povere e marginalizzate, invece, sorridono ostinatamente per autodifesa. Sanno che è meglio non mostrarsi deboli o deluse. Si danno un tono acco­ modante e pensano che non c 'è verso : « l figli sono delle donne ... e, oltre­ tutto, prendono più di ciò che danno » .

6.7. In casi estremi, indici importanti del legame madri-figli sono dati dal cibo delle gravide, non dalle loro parole o dai comportamenti di chi vive con loro. Il cibo ha valore diagnostico alto. È una cosa che sostiene, dà forza. La scarsità di cibo uccide ogni speranza. È causa di disordini, di ruberie, di inganni negli ambienti domestici più carenti. Dove non si hanno mezzi per saziarsi, in luoghi molto disastrati, straziante è la scena di bimbetti che si tolgono dalle mani un pezzo di pane o una cipolla cruda. Oppure di quei

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mocciosi che cercano protezione presso la madre ; chiedono cibo alla per­ sona che - è la loro certezza - può disporne. Il cibo segnala la priorità del neonato, o del bimbo che sgambetta nel­ la capanna o gioca nel cortile. I nuclei familiari spesso distribuiscono con parsimonia ciò che è disponibile. Nei programmi domestici, il tipo di cibo che spetta alla madre è sempre qualche cosa di vago e aleatorio. A volte la porzione della donna è ridotta a poca cosa, un residuo nella scodella, nella pentola, sulla stuoia a terra. Si dà cibo alla donna solo dopo gli altri, le si dà quel che è rimasto. In luoghi che conservano usi arcaici, per le donne non c 'è un posto a tavola. Solo qualche anziana in certi casi può sedersi ed essere servita. In una famiglia kazaka, un tizio giovane e gioviale, sposato da anni, spiega l'abitudine della sua terra con grande semplicità: « Se le donne si sedessero chi ci servirebbe ? Loro sono contente di servirei quello che hanno cucinato » . Alcuni ospiti armeni, presenti, approvano appena con la testa e fanno brindisi su brindisi ai visitatori che gradiscono spensie­ ratamente il desinare. Le donne - attorno al lungo tavolo - sono quasi sull'attenti. Stanno silenziose e riservate a sorvegliare che tutti abbiano un buon piatto. Le an­ ziane dirigono le giovani che corrono avanti e indietro, accese in volto. Entrambe si aspettano che il cibo venga apprezzato e lodato. Non ingoiano nulla; forse hanno assaggiato qualcosa in cucina. In genere devono aspettare. Occupatissime a servire con notevole orgoglio, aspettano a lungo prima di toccar cibo. Mi servono varie volte di seguito anche se sono una donna (ai loro occhi faccio un lavoro da uomo ! ) . In tante tavolate ( in Medio Oriente, Sudamerica o Asia), come si è detto, non esiste un piatto o una scodella per segnare il diritto femminile alla commensalità, soprattutto nelle feste con ospiti o gente straniera. Le donne incinte non mangiano meglio. Ricevono ciò che qualche membro della famiglia ha generosamente messo da parte per loro. Non sempre accade. Alcuni cibi sono vietati alle donne. Sono i piatti migliori. Ad esempio i polli sono, in molte parti del mondo, non concessi o vivamente sconsigliati alle donne. E ciò per motivi pratici, simbolici, di etichetta. In sostanza, essendo alimenti piutto­ sto costosi, alcune pietanze servono a indicizzare lo status di chi sta al vertice della scala sociale. È perciò sottratto a chi è in basso.

L'alimentazione delle gravide spesso comporta pro n ostici e regole. In pros­ simità del parto, la gravida - quando è possibile - è trattata con riguardo, perché si teme che il nasci turo possa essere danneggiato dalla malnutrizione o dalle carenze della gestante. Dopo il parto, nei primi momenti, si bada a cosa tocca alla madre per motivi non molto diversi. Alla puerpera viene data la sua porzione. Non sempre però si bada a quanto lei dà del suo cibo all'ultimo nato o ai figli più grandicelli. È sottinteso che la porzione di riso

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della contadina cambogiana, sudanese o messicana che sia, contiene spesso anche quella del bambino che ha appeso al collo. È un dato di fatto, nessuno obietta o si stupisce. Non si nota che la madre sottrae cibo a se stessa, se le risorse scarseggiano. Uscita dalla fase del puerperio, la madre raramente può avere diritto di precedenza, può anzi non essere regolare destinataria di beni comuni. Può avere, grosso modo, il minimo. Talvolta lei pensa sia suo dovere dichiarare di non aver fame o di aver già mangiato. E ciò non è solo un fatto di eti­ chetta. È un contributo preciso al benessere familiare. Con un bimbo in braccio, che desidera e ha bisogno del suo cibo, la mamma talvolta mangia poco, e quel che capita. Nei primi anni di vita, i nostri bimbi godono di specifici vantaggi (rego­ larità dei pasti, sorveglianza degli ingredienti, progressivo passaggio da un tipo di cibo a un altro a seconda dell 'età). In paesi colpiti da gravi penurie, i privilegi dei bimbi sono pochi. A volte sono ridottissimi anche se non mancano del tutto. Molto è lasciato ali ' iniziativa delle madri, che cercano soluzioni, fanno grandi sforzi quotidiani per rispondere alle esigenze della prole. Ed è questo che tiene in vita i più piccoli. Una contadina romagnola ha confessato che una volta si riteneva necessario nu­ trire, il meglio possibile, la madre prossima al parto. La gravida aveva in grem­ bo una creatura affamata e perciò doveva nutrirsi "per due"! Poteva essere col­ ta dalla voglia di cibi speciali o solo saporiti. E doveva essere in qualche modo soddisfatta. Si trattava di contabilità semplice e ritenuta sostanzialmente equa. La contadina sosteneva che "tutte le mamme" di una volta ritenevano questo un comportamento necessario, e ne usufruivano. Anche dopo il parto, in un primo periodo, esistevano cibi che spettavano alla puerpera e nutrice. Questi lussi duravano poco. Quaranta giorn i di riposo e di buon cibo potevano essere considerati il privilegio concesso a chi aveva partorito. Subito dopo, si tornava al regime normale. Un regime familiare classico, sempre nel caso romagnolo, prevedeva zuppe sostanziose per la gravida o la puerpera: il brodo e l'uovo fresco giornaliero. Le scorte messe a disposizione della nuova mamma però erano ben misurate. Su que­ ste dosi, confessate oggi con un po' di stizza, si costruivano narrazioni un po' acide. Si denunciava la voracità della gravida o della puerpera, le loro cattive abitudini alimentari. Si narra che spesso il bebè, fin da quando era in pancia, manifestava repulsione per cibi dati alla gestante (rape e radicchi amari, minestroni insipidi, caffè di cicoria, semolini poco conditi). Austere anziane sorvegliavano le gravide, e reprimevano ingordigie o pretese, ma le aiutavano concretamente. Qualche marito era indisciplinato e non stava alle regole comuni. Si beccava parecchi rimproveri dalla famiglia. Ci rimetteva il prestigio. Un itala-argentino 1 42

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emigrato negli Stati Uniti ( tornato al paese in lrpinia) fu ferocemente ridicolizza­ to, messo alla berlina da uomini e donne, perché aveva cucinato il cappone della puerpera e se n'era mangiato buona parte senza dire nulla. Con un moto di rabbia impotente, un'altra moglie anziana ha ricordato che lei aveva nascosto la "roba ricevuta per il parto': ma purtroppo qualcuno di casa l'aveva trovata e aveva fatto man bassa « delle tagliatelle che le vicine mi avevano regalato» . Nessuno era stupito che la donna riproponesse una storia così logora e antica.

Il sapere delle gravide è un sapere che non tramonta neppure nell 'era della tecnologia avanzata. Ha un immenso valore a tutti i livelli della scala sociale. Le donne sanno piuttosto bene intuire e darsi da fare a tempo de­ bito ad "aggiustare le cose" riguardanti la gravidanza. Per contro, a volte si affidano alle sensazioni più stupefacenti, a calcoli strampalati. Una cin­ quantina d'anni fa, una donna del mondo contadino abruzzese prevede­ va, con grande convinzione e sussiego, il sesso del nascituro mescolando le lettere del nome dei genitori e le loro date di nascita! Se non azzeccava il pronostico, senza scoraggiarsi affermava enigmaticamente : « Il diavolo ci ha messo la coda » . Molte donne moderne sono state istruite a parlare del proprio stato co­ me fatto spontaneo, di assoluta naturalità. Sono state convinte che le leggi del proprio ciclo sono ciò che devono essere e sono "indici salutari". Sono state incitate a fare la propria parte e a sopportare le nausee e i dolori. Le donne, che non hanno quasi mai opposto resistenza e non hanno ignorato che il generare è affare umano serissimo, si sono prese gli oneri delle gravi­ danze ( a volte senza sapere che avevano diritti da vantare ) . In certi luoghi invece, come qualcuno mi ha fatto osservare, sono sempre mancati i mezzi «per far la gravida come si deve ! » . Le dicerie che contornano le vicende della maternità sono molte. Alcu­ ne sono autentiche invenzioni, al pari della storia della cicogna. In qualche storiella le persone mettono dentro anche l ' idea che un angioletto è venuto a rallegrare tutto il mondo. La favola vera è un 'altra. Molte donne sono re­ aliste : cercano di migliorare ma prendono quel che capita. Si fidano spesso di se stesse e marciano senza risparmiarsi. Dalla Cina al Messico, all' India, al Sud-Est asiatico, in Anatolia, in Medio Oriente, esistono atteggiamenti che svelano enormi, imbarazzanti disattenzioni verso le madri. In molti ambienti domestici, purtroppo, ba­ sta che in casa ci siano donne esperte, che sappiano che cosa sia partorire, allattare, pulire, nutrire teneri corpicini per far stare tutti tranquilli. È cioè 6.8.

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possibile - se le donne sono volonterose - sorvolare esigenze primarie e private di chi è in dolce attesa. Se non ci sono fatti eccezionali che possono mettere in pericolo la donna e il nasci turo, molti uomini restano nell'ombra. Tacciono o parlano pochissimo delle gravidanze. Fanno pochi commenti; non sempre sanno cosa dire di confortevole. Spesso aspettano gli eventi. Fanno la fatica di nascondere timori e supposizioni. Le gravide a volte sono state convinte di dover essere fortissime. In so­ cietà arcaiche, disagiate, la gravida spesso si avvale di tutta la propria abilità e furbizia per non chiedere aiuto. Parla con entusiasmo e crede necessario dover far credere di essere in forma e capace. Se si mostrasse debole, avrebbe qualche disagio in più e qualche occhiata di traverso dalle stesse altre don­ ne. Se l'ambiente è poco simpatetico o disorientato, la donna deve andare avanti almeno finché un 'altra donna la invita a mordere uno straccio, con tutte le sue forze. E a spingere. In varie parti del mondo, ancora oggi, vivono donne incinte che non si sottomettono ad alcun controllo medico ( per motivi di riservatezza, di in­ digenza, per remore religiose ) . E quando per qualche ragione sono visitate da un medico, come rivela una giovane studiosa mediorientale, risultano afflitte da gravi infezioni, o addirittura non in grado di mettere al mondo un figlio sano. E non si tratta di casi rari ( o di malate di AIDS). In vari Stati moderni, più o meno in guerra permanente, le donne hanno gravidanze a rischio, quasi impossibili. Partoriscono in qualche campo di rifugiati. Le abbiamo viste sui media: sotto una tenda di plastica, in un gommone o nel fango di un campo profughi privo di tutto. Per lavare il neonato possono servirsi solo di una bottiglia d'acqua. L'acqua viene schizzata su un esserino nudo, tremante. Nella maggior parte di questi casi di indicibile indigenza non siamo semplicemente di fronte a introversione, ritrosa autodifesa delle donne. Si è appena detto che certe gravide non cercano vere protezioni, sanno che sono inesistenti o troppo aleatorie. Molte non raccontano i propri drammi, affinché nessuno possa aver idee su di loro o marginalizzarle. Sono assenti dalla scena sociale e procedono come possono, resistenti e alla giornata. Non sappiamo quante e chi veramente siano quelle che spostano in avanti, secondo per secondo, la linea che esiste tra la vita e la morte. Dove la vita è particolarmente dura e avara, le gravide non parlano del proprio stato se non quando affogano in fatti veramente gravi. A fine gravi­ danza si sentono di difendere l' idea che essere gravida sia un fatto personale, 1 44

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piuttosto che di tutti. Neppure allora, però, ne discorrono a cuor leggero : temono che si creino delusioni o distorsioni dell 'ultima ora. Evitano spesso che la loro storia possa dar luogo a qualche sgarbo, voltafaccia, diniego osti­ le dentro o fuori della famiglia. Vorrebbero essere incoraggiate a pensare il contrario, ma sovente non lo sono propriol. Ogni madre spera di far venire al mondo un essere che sia un inco­ raggiamento, un premio, una protezione. Una madre di Dar el ma'nif, nei territori arabi occupati della Transgiordania3, pregava ogni giorno perché le fosse riservato il privilegio di partorire un figlio maschio, l'unica persona a cui lei potesse ricorrere in caso di bisogno o in vecchiaia. Un figlio ma­ schio, in una società ali' an tic a, si è visto, è essenziale. È l ' individuo su cui una madre dovrebbe poter sempre contare, soprattutto quando si profila un secondo matrimonio del marito o una crisi mortale è alle porte. Le storie vere non conducono sempre le madri a un successo col figlio. Spesso le gravide sono sorvegliate, più o meno sanzionate da altre don­ ne. In ambienti rigidi, vivono un po' in trincea. In ambienti arretrati, cer­ cano di capire se il proprio ventre è troppo sfacciato e se le altre donne sono ostili alla sua ostentazione. Temono che se diventa troppo evidente, il loro "stato interessante" possa attirare invidia, malocchio. Possono avere il ter­ rore di apparire al di sotto di ciò che vogliono essere e alcune mimetizzano la pancia più che possono. A volte celano verità che ritengono umilianti. Temono il giudizio di chi è più sana e fortunata e lo scrutinio cui sono soggette senza sosta. 6.9. La gravida deve a volte ricorrere per forza a qualche compagna, che accetti di dar una mano. Quest 'ultima soccorre ruvidamente la madre affannata o fuori rotta, anche perché sa che potrà venire poi il proprio turno. Le donne con senso pratico sono alla base di un sistema di reciprocità, gestiscono un regime di inclusione di chi è debole. Si attivano con l'aria di chi pensa che la gravida non sia la vera responsabile dei propri mali, dei difficili vissuti quotidiani. Abituate alla fatica e alla precarietà, usano rimedi un po' sbrigativi. Sono piuttosto sganciate dal mondo maschile che è, in molti casi, tenuto intenzionalmente al di fuori. 2. Sullo sfondo degli eventi che intercorrono nel rapporto fra gravide e levatrici, cfr. Mo Yan, Le rane, Einaudi, Torino 201 3. 3· A. Destro, Villaggio palestinese. Mutamento sociale in territorio occupato da Israele, FrancoAngeli, Milano 1977.

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Durante le gravidanze, tra moglie e marito i silenzi o i trinceramenti dietro frasi fatte possono essere infiniti. Un uomo hadiya dell' Etiopia meridionale è considerato il capo della famiglia, in tutto per tutto. In linea di principio ha piena autorità sul nucleo domestico e su tutti i suoi componenti. Ma le gravidanze e tutto quel che ruota attorno alle nascite sono affare della moglie. Se un marito hadiya non sa quando è iniziata la gravidan­ za della moglie o come procede, la sua posizione autorevole non è messa in gioco o oscurata4 Egli, di fatto, non sa proprio nulla di ciò che la donna sta per far venire al mondo. È ignaro fino al momento in cui la condizione della gravida diventa as­ solutamente evidente, o quando la donna decide di confessare il suo stato. I mariti sanno bene di non sapere. Gli uomini hadiya sono, loro malgrado, spettatori che registrano la situazione alla fine. In questo senso, sono malgrado tutto messi al margine dei cicli della vita. Le donne hadiya occultano il più a lungo possibile il loro stato perché gli uo­ mini non possano interferire su ciò che il loro grembo sa fare. Affrontano da sole necessità e pericoli, sanno cioè stimare tempi e organizzare le fasi dell'attesa in soli­ tudine. L'attesa dei figli - e poi la loro cura - sono periodi segreti e personali della vita femminile hadiya. Ogni donna mostra di voler stare lontana dai commenti del marito e da quelli dei parenti. Tacendo può evitare di doversi giustificare per ciò che fa, anche con le donne che la circondano. Mostra di saper tenere la propria vita in un certo alveo. Pare che le donne non siano informate di tutte le gravidanze del proprio am­ biente, anche molto prossimo. Le vicine o le compagne, se sapessero, avrebbero da ridire sullo stile delle donne in attesa. Commenterebbero la sua sottomissione al marito, la sua sfacciata voglia di figli. Col silenzio a oltranza, le gravide hadiya diventano custodi indiscusse della propria funzione : riprodurre il mondo. In que­ sta riproduzione, il garbo della madre hadiya che fa da sé, conta, ha molto valore. Viene da pensare che forse la sua strategica discrezione possa esonerare tutti dal fare preparativi per la nascita. Consente alla donna di non dare troppo disturbo e agli altri di non affaccendarsi troppo attorno a chi partorisce.

La donna hadiya, in sostanza, non deve esporsi, deve venir considerata ri­ spettabile perché è riservata. Questa convinzione è di aiuto all 'uomo, al suo buon nome. 6. I o. Nascondere la pancia prominente era in voga anche nei nostri am­ bienti fino a qualche generazione fa. Evitava fastidiose chiacchiere e sto-

4· V. Peveri, L 'albero delle donne. Etnografia nelle piantagioni e cucine d 'Etiopia, I libri di Emil, Bologna 2012, pp. 146- 7.

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rie. Dai racconti femminili risulta che, un paio di generazioni fa, la donna incinta vestiva abiti che mettevano in ombra il suo stato. Veniva fasciata, imbustata; la sua pancia doveva essere appena intuita, per molti lunghi me­ si. Di sicuro, anche se era segno di prosperità, non doveva essere mostrata come un trofeo. Sarebbe stato non in linea con l'etichetta; non sarebbe stato bene neppure per l'uomo e per chi teneva al suo prestigio. Molto dipendeva da come il corpo era coperto. Si sa quali erano le virtù degli abiti ampi e pudichi, dei famosi pre-maman ! E si conoscono anche le vicende tragiche di donne che, per evitare attacchi violenti, hanno saputo nascondere a lungo il loro corpo sotto ampie gonne, abiti vaporosi, i quali peraltro nascondevano sempre troppo poco di quello che non si voleva di­ ventasse un fatto eclatante. Mantenere un atteggiamento riservato sulle gravidanze fino all'ultimo momento, nelle nostre società, serviva in tanti casi a non inquinare i rap­ porti tra parenti. L'assenza di parole, ad esempio in un ambiente femminile rigido o poco trasparente, poteva evitare che una donna diventasse com­ plice o bersaglio di qualcun'altra. Poteva difendere il decoro familiare se la gravidanza era inopportuna, non gradita. La regola era parlare solo quando era impossibile tacere. Il parlare di co­ se intime con parsimonia permetteva alle donne - che dovevano malgrado tutto gestire una "bella gravidanza" - di far vedere che erano in grado di fare le madri senza vanterie, senza leggerezze. 6. I I. Esistono casi, importanti o curiosi, in cui tutti parlano molto a pro­ posito del corpo gravido. Nelle società tecnologicamente avanzate di oggi, parlarne può dare un sapore diverso alla conversazione. Può far sentire me­ glio la gravida, che sta dentro al labirinto. Alle nostre latitudini e nel nostro tempo, si parla e si gioca in modo estroverso e brillante attorno alla complessa favola delle madri. Ci sono donne, cioè, che non fanno che parlare e dare testimonianze del proprio corpo che si deforma e si ingrossa. Puntano i riflettori su di sé, anche se sanno che le loro chiacchiere sono un po' eccessive. Questo protagonismo, un po ' futile, fa bene a molte. Nel mondo occidentale, le chiacchiere femminili si sviluppano in mo­ do tecnico : sulle tappe mensili, consulenze mediche, corsi pre-parto, regole alimentari. Sono piene di stereotipi e ineliminabili in ambienti dediti alla promozione sociale, alla vita sana. Molti dati empirici sul corpo gravido (prontuari, proiezioni, percentuali) si basano su interviste, inchieste o no­ tizie standard. Partono da indagini rispettose della privacy della genitrice e

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sono piuttosto scarne. Possono essere anche superficiali ed essere consultate solo da persone ingenue. Hanno l'effetto di rendere informate tutte le don­ ne, uniformemente, e di farle vivere "statisticamente". Le future partorienti in rete cercano dati che vanno dall 'igiene della madre alle pasture del nascituro, alle glorie della puerpera. Sono però no­ tizie di natura contabile e probabilistica. Parlano di percentuali e danno tabelle di crescita. Non sempre la mamma ansiosissima individua cosa sia più importante da apprendere : la regolarità dei pasti, l'uso del cucchiaino curvo, l'urgenza delle vaccinazioni. In molti luoghi, vicini e lontani, la gente all 'antica ha avuto in testa una regola d 'oro sull'ordine delle nascite : le donne più anziane dovevano partorire prima delle giovani. E soprattutto alle madri era vivamente scon­ sigliato di rimanere incinte quando lo erano le loro figlie. Erano codici di opportunità che avevano una precisa ma taciuta logica. Si pensava che fosse un sistema per non turbare i valori basilari : lo zio deve essere più vecchio del nipote, alla madre matura non si doveva permettere di svelare che era sessualmente attiva e fertile. Una mia conoscente, sposata da poco, un giorno mi rivelò che era preoccupa­ ta. Aspettava un figlio, ma non voleva farlo sapere perché la cognata, maritata da più tempo, non era ancora gravida. Parlava a mezze parole della propria in­ quietudine. Cercava il modo di rivelare la verità alla cognata senza far nascere drammi. Ma il problema non era piccolo : la cognata già da un po' tirava in ballo il principio che era lei che doveva essere "la prima" e che non si doveva mancarle di rispetto. La storia esplose a una festa di compleanno. La famiglia non se l'a­ spettava. Tutti furono contenti dalla novità e la festa finì indenne. Subito dopo, però, ci furono prese di posizione contro la cognata esigente. Le critiche non la fecero certo sotterrare di vergogna, ma bollarono le sue pretese. La gravida fu sostenuta da un certo numero di parenti, maschi e femmine. Ci si domandò se la donna maritata da poco avesse voluto fare uno smacco all'altra. Non si voleva credere che si potesse ferire qualcuna con il fatto di essere gravide, e lo si vide come cosa sbalorditiva.

6. I 2. Sposandosi, le donne giuridicamente transitano da una famiglia all 'altra, da un campo parentale all 'altro. Sul piano pratico, una ragaz­ za - una volta sposata - può essere sotto una doppia autorità : quella del padre e della propria famiglia, da una parte, e quella del suocero e del ma­ rito dall 'altra. Questo avviene quando, ad esempio, si pratica il matrimo­ nio fra cugini, come in tante culture islamiche, passate e presenti. Quando

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cioè il marito è un cugino, le doppie autorità, quella della famiglia di origine e di destinazione, si intrecciano. Tutti i consanguinei definiscono questi rapporti con rigore. La famiglia islamica della madre, anche oggi, all'arrivo di un nuovo na­ to vive un ruolo di alto profilo. Al parto, il gruppo della sposa ha autorità sufficiente per poter aspettarsi doni e regalie, come parte del "compenso matrimoniale" pattuito al momento delle nozze. L'uomo che è appena di­ ventato padre deve saldare, tutto o in parte, il proprio debito verso un altro uomo - il genitore della puerpera - che gli ha dato una compagna fertile. I famigliari delle spose, in altri termini, ritengono di dover essere in qualche modo compensati da quelli dello sposo. Avendo "dato" la donna, possono aspettarsi di ottenere qualcosa dalla sua maternità. La neomadre, da parte sua, può trovarsi nella condizione, non ottimale, di essere molto dipenden­ te e condizionata dal marito e da ciò che la sua famiglia fa, dice, esige (con la quale deve condividere tutto). Può anche essere testardamente alleata del padre da cui può ottenere sempre sostegno e asilo. 6. I 3 . Il parto è un momento pieno di fatti da sogno, ma anche di eventi ro­ camboleschi. Si accumulano fantasie e contraccolpi mai veramente previsti, che arricchiscono le favolose storie tessute dalle madri. Sulla scena del parto da un lato abbiamo il nasci turo, dall'altro la ma­ dre. Il parto mette in luce soprattutto l'azione della seconda, anche se non si ignora che il primo occupa il posto più alto del podio.

Una donna anziana, vissuta in montagna, ha narrato che il parto "salda per sem­ pre" madre e figlio. E ha aggiunto che la scena del parto è sempre stata colma di tanti protagonisti, esperti o più o meno inutili. Ha ricordato alle nipoti che un tempo non si usava chiamare sempre l'ostetrica, anzi si faceva il contrario, per ri­ sparmiare. La si chiamava se era necessario, quando non c 'erano donne pronte ad aiutare la puerpera. Si chiedeva l'intervento alla levatrice solo quando si era certi che il travaglio era un po' difficile o era iniziato male. In linea di principio era importante rispettare la levatrice : « Guai a chiamare la levatrice troppo presto o ai primi sintomi ! » . Non era solo un po' maleducato, ma anche parecchio ridicolo. La partoriente subiva un po' tutte queste cose, alle quali non poteva sottrarsi, con aria allucinata. Aveva il dovere di lasciarsi aiutare, di non interferire. Semmai dice­ va qualcosa, presentava i propri ringraziamenti a chi la aiutava e in particolare alla levatrice ( anche se non era stata una figura chiave ) . Bisognava essere lungimiranti e comprensivi: ci sarebbero stati altri parti ! «La levatrice affrontava i casi difficili, soccorreva, aveva sempre da fare » , ripe­ teva l'anziana montanara senza malizia. E non poteva essere disponibile sempre, o 1 49

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paziente in casi di falsi allarmi. Con un po' di veemenza aggiungeva: « D ' inverno e con la neve era il tempo peggiore per partorire » , perché la levatrice doveva fare lunghe marce per arrivare. Compariva talvolta tardi (assieme al marito della parto­ dente che era andato a prenderla) per via delle strade coperte di ghiaccio o di fango. E talora giungeva provata da un altro parto (e da un altro ancora) . Doveva essere rifocillata - e questo aumentava i costi per la famiglia - prima di poter assistere la madre già attanagliata dai dolori. Doveva prendere almeno un piatto di minestra o un brodo caldo per affrontare un'altra storia, che seguiva la sceneggiatura di quella già conclusa all'altro capo della valle. Esistono tanti racconti di levatrici coraggiose, ma anche di altre pigre o mal­ destre che non avevano aiutato i bambini a venir al mondo, che si erano mostrate troppo incerte. Si parla sempre volentieri e con partecipazione di quelle che hanno salvato madri e figli. Loro sono stati "angeli in terra" per entrambi. Si continuano a recitare fino a oggi i loro nomi e soprannomi (Assunta, Milena, o la Marescialla, la Comandante). Queste donne, con consigli perentori e inappellabili, hanno fatto del bene a interi paesi. Una di queste donne, ormai a riposo, ha confessato con orgoglio: « Tutti mi vogliono bene, tutti ! Per forza ! Le mamme, le ho prese per i capelli, quando sragionavano, quando non davano più retta ... E potevano perdere il bimbo, eh ! » . Perdere il bimbo all'ultimo istante era la tragedia più grande per una mamma sofferente. Era l'anticamera della disperazione. Senza dubbio, le esistenze delle donne sono state storpiate da carenze, igno­ ranze, che hanno pesato sui loro parti. Oggi, alcune anziane non sono sfuggite al dovere (un po' imposto dai media onnipresenti) di narrare storie autobiografiche, che le turbano ancora: « Avevo quasi trentasei anni. Ero forte. Avevo già fatto quattro bimbi, ma l'ultimo non sono stata capace di farlo. Non c 'era nessuno in casa! Stavo male ... nessuno ad aiutarmi. Era destino, non ero in grado ! Non ne ho più avuti » .

Sulla scena del parto i n casa s i sono costruite straordinarie epopee, tormen­ tati interni familiari in cui la protagonista in travaglio era al centro di tutto. Si sono raccontate tante storie di uomini smarriti allontanati da corpi di donne in pena. In mezzo a rammarichi, le donne raccontano commosse che le lacrime delle madri si sono asciugate ascoltando vagiti, rozze parole di altre donne. Gli uomini più reticenti fanno segni di assenso sentendo questi racconti. Donne umili e decise, dunque, si raccontano attraverso i loro parti. Compongono mappe di presenti e assenti, di figli "vispi e con buoni pol­ moni", di quelli che "hanno combattuto per restare in vità' e di quelli che "avevano la scimmia" e si debilitavano appena venuti al mondo, non era­ no "pronti alla lotta" per la sopravvivenza. Nascite anticipate e gravidanze finite in dramma sono spesso i brandelli di vita che le donne sentono la IS O

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necessità di rammentare. Si tratta di informazioni che nessuna indagine a campione, condotta per aree geografiche o età ( oppure secondo il livello di reddito delle protagoniste ) può restituirei. 6. I 4 - La donna istruita, dinamica, presenta il proprio parto assorbendo voracemente l'attenzione del pubblico. Tiene alta l'ambizione femminile e loda le imprese gloriose di tutto il mondo delle donne. Sana e dotata di risorse, la donna moderna in sostanza brama incarnare una parte magnifica e si tuffa nell'espansività. Nelle società del benessere o del lusso, la tendenza al protagonismo del­ la gravida raggiunge a volte livelli stupefacenti, se non proprio preoccupan­ ti. Oggi, nelle nostre città, tutti sono ammaliati dal modo in cui le gravide mostrano il proprio corpo. Sono entusiaste ed esuberanti, sono spinte a get­ tarsi in tante imprese per prepararsi all'evento, quasi dovessero vincere una gara di prontezza, di stupendo acume. Moltissime gravide sono bellissime, strepitose. Eleganti, mostrano di saper come fare a non infrangere in nulla le norme del buon gusto, dell'accuratezza, dell 'efficienza. Alcune sono prese dal vortice della loro fantasia e lanciano mode. In ogni classe o ambiente, oggi, a volte la rotondità del ventre è rap­ presentata fino alla fine senza schermature, e con eloquenza. La pancia "a termine", giunta al parto - anche se non è veramente perfetta, o è un po' bassa - è un volume trionfante. È morbida e solida nello stesso tempo. Ha linee seducenti che non cessano di suscitare complimenti. La mamma in attesa diventa così una grande indossatrice e una brava attrice. Nel parto è impresaria di se stessa. Tutto ciò significa che la gravida, al momento giusto, è intenzionata a raggiungere i massimi livelli della sua prestanza o efficien­ za. Cerca di interpretarsi e di spendersi bene. La pancia matura e pronta al grande evento di una donna raffinata e a lapage può apparire come qualcosa che ha una vita a sé. La gente discorre di tutti i suoi cambiamenti ( quanto si ingrossa, si tende, si abbassa) . La pancia tesa e preparata al parto è anche destinata a essere un oroscopo infallibile : è vista come un oggetto di alta ingegneria che lavora saggiamente e secondo tempi precisi a favore della donna. È un fattore ricco e imperioso che pro­ mette un buon futuro. Dando cure e attenzioni al pancione, la donna moderna e provvista di mezzi vuoi far capire che vive una meravigliosa occasione. La favola le appartiene e farà di lei un personaggio importante per sempre. Tutta la teoria, la fabulazione della gravidanza si regge su racconti più o meno acuti

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e scherzosi. Si sente dire che non è solo un fenomenale ingrossamento (che la gravida adora) , ma anche uno svuotamento di testa (che la gravida non vuoi ammettere). La donna stessa a volte pensa che il suo corpo domina la sua psiche. E , manco a dirlo, che un minuscolo essere occupa tutta la sua vita. 6. I s . Da un altro punto di vista, si può dire che le nostre società moderne hanno inventato punti di eccellenza in rapporto al parto. Medici, educato­ ri, operatori culturali, cercano di far nascere un essere umano sano, bello, gratificante. Cercano di dare assistenza e nozioni scientifiche alla madre e ricompense emotive al padre. Non scordano la sala travaglio e ciò che vi avviene. Pensano che questo luogo non può essere un incubo, o la caverna di esseri spaventosi. E usano perciò l 'epidurale. Tolgono drammaticità al ricovero e talvolta, in un gesto di pietà verso la gestante sofferente, narrano il parto come fatto indolore e emotivamente facile da gestire. Queste opi­ nioni non convincono molte donne, che in pieno travaglio pensano : « Il dottore non ha mai partorito ; l'ostetrica che ha figli ne sa certo di più » . Si accomodano meglio nelle staffe del lettino, e tengono la mano di un'altra mamma in camice che ordina dolcemente : « Spinga, si fermi, un'altra volta, si rilassi » . In tutto il mondo medico risuonano le stesse parole : Drucken, noch einmal, push again, relax, breath. . . , e altro ancora. Prima della sala parto, le partorienti moderne cercano dunque prote­ zione in una brava ostetrica che sia presente al momento decisivo ! Si sento­ no in ansia ma non confessano paure insormontabili. Sarebbe atto troppo puerile. Assumono una propria ostetrica, che diventa un valore aggiunto. È tutta per la sua partoriente e la condurrà al successo. Malgrado tutto, il venire al mondo somiglia a un intervento chirurgico e segue precisi protocolli. È un evento che clinicamente è fuori della portata della donna. E questo dissesta un po' le partorienti. Benché titubanti, pro­ testano contro alcune procedure. Non si sentono comode, hanno i capelli madidi, la voce rauca. Non sono in grado di respirare profondamente. Si scusano e lasciano perdere le norme che sono state loro insegnate nei corsi preparatori. Nessuno le critica severamente, perché stanno toccando il cielo con un dito e soffrendo le pene dell' inferno. Alle donne che stanno entrando in sala parto dicono che devono ave­ re coraggio perché la struttura clinica e le qualità del personale medico e ospedaliero sono ottime. Questi dati di certo possono tranquillizzarle. Non quieta per nulla la presenza, nei dintorni, di un nugolo di parenti. Non cal-

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ma la voce di qualcuno che suggerisce senza necessità: « Devi essere felice, cara ... Io sono qua. Sono di ottimo umore. Sono pronto » . Ma chi parla ha l'aria di non sapere cosa siano le doglie e di non essere informato - per ragioni naturali - di cosa si prova. 6. I 6. Nessuna partoriente pensa di cedere ad altri il ruolo di protagonista che ha conquistato in tanti mesi. Ma in sala parto è un po' fuori ruolo. È intimidita, le sue nozioni teoriche sono messe alla prova dagli attrezzi tec­ nologici che vede intorno. Essere in sala parto significa che è stato compiuto tutto il percorso di avvicinamento all 'arrivo del bebè. Alla puerpera viene chiesto di obbedire, assecondare. Le si anticipano le operazioni che saranno compiute e le si fa capire che non deve fare di testa propria, anche se conosce tutta la prassi. La donna dolorante pare molto sola, immobilizzata. È però scossa dalla premura altrui. Ogni tanto, le persone più vicine mormorano frasi inco­ raggianti, e aggiungono qualche carezza. A bassa voce, con un cenno del capo, la donna accetta tutte le regole della sala parto, anche banali. Spera di finire in fretta.

6. I 7. Per molte mamme, un nuovo parto inaugura il tempo dei cambia­ menti ; scatena il bisogno di ricominciare. Non è mai un puro remake, sem­ bra un film che, anche se racconta una storia notissima, inventa mille novità e cose eleganti. Un neonato merita cose proprie e belle ; non quelle smesse da fratelli e cugini, dicono le mamme. Attraverso arresti e avvii del rinnovamento famigliare, dopo il parto, tutto viene aggiustato e rivoluzionato. Abitudini e spese diventano, giorno dopo giorno, sempre più ingarbugliate. Non si può fare mai un bilancio realistico di cosa si è investito, di quanto tempo c 'è voluto, di quanto gli armadi di casa siano insufficienti. Con l 'esordio di un nuovo bebè, in ogni angolo della casa appaiono segni chiari e imperituri di cosa sia da rinnovare. Esiste molta roba fuori posto, oggetti che transitano avanti e indietro, di settimana in settimana. Da stanza a stanza (lo stenditoio staziona fra terrazzo, ingresso e salotto per almeno tre o quattro ann i !). Il contenuto del frigo cambia ogni mese in base al tipo di svezzamento, alle in tolleranze alimentari o alla dentizione del bebè. Le pappe che dovrebbero aiutarlo a passare dal dolce al salato, dal liquido al solido, sono in continua sperimentazione. L'ideologia consumistica domina le famiglie, anche quelle con risorse

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modeste. Si tratta di una compulsione che affatica le persone e intossica il senso ordinario delle cose. All'erede, se la famiglia è in ascesa, non si può negare niente. È così che avere dalle venticinque alle trenta Barbie nella propria cameretta rende una bambina adatta a conquistare un buon posto nell'universo dei sentimenti, del buon gusto ! Malgrado queste idee in testa, la famiglia miracolosamente non frana. Tentenna, ma tiene fede ai propri propositi. In tappe quotidiane piuttosto faticose, cacciando indietro molte paure, aggiunge alle tre dozzine di pu­ pazzetti dagli occhi fiammeggianti, supererai e figure mostruose, nonché scatole di Lego, macchine, modellini elettrici e giochi di società. Venire al mondo in queste situazioni significa avere aperte le porte di una società ( planetaria e piena di opportunità) che è schiava di una tecno­ logia avanzata, di strumenti usa e getta, di mezzi elettronici a non finire, che rendono i genitori succubi dell' idea che i bebè abbiano diritto a racchette, pattini, skateboard da campionato. È chiaro che soprattutto le madri ( ma non bisogna ignorare i padri ) vivono problemi strettamente fisici. Devono occuparsi di diete, di visite mediche e di ginnastiche. I consulti amicali si sprecano. Le invenzioni culi­ narie aumentano, per il via vai di amiche e aiutanti di ogni tipo. Alcune disavventure per le nuove mamme sono piuttosto serie e re­ stano nella memoria. La "scomparsa" del latte materno è sempre stato un evento disastroso molto temuto. 6. I 8.

Un tempo non lontano, si doveva sapere quanto latte avesse preso il bebè a ogni singola poppata. Era un segno di modernità a cui non si poteva rinunciare ! C 'era la pratica della "doppia pesata" che occupava molto le menti delle mamme. La favola si tingeva di nero sei o sette volte al giorno. Quando il latte diminuiva o era sparito, bisognava ricorrere all'aggiunta di latte artificiale. Cosa impossibile da fare, se non si sapeva la quantità di latte materno che il bimbo aveva bevuto. La regola della doppia pesata imponeva che il bebè venisse messo sulla bilancia, prima e dopo le poppate, senza indumenti e in una posizione basculante che il neonato non apprezzava neanche un po'. Con la doppia pesata5 si doveva seguire esattamente la curva della nutrizione. Il bimbo era infastidito dalla manovra della pesatura. Appena posato sulla bilan­ cia, tendeva a muoversi troppo e a rigurgitare il latte. La cosa era drammatica, lo dimostravano i pianti della creatura sotto osservazione. La lancetta della bilancia S · E. D. Withaker, Measuring Mamma 's Milk. Fasdsm and the Medicalization ofMa­ ternity in Italy, University ofMichigan Press, Ann Arbor 2000.

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non faceva che dare valori diversi (i grammi andavano e venivano) . Le mamme ammattivano attorno a una manciata di trattini della bilancia, se non riuscivano a sapere quel che il loro seno aveva prodotto ed elargito. E da cui dipendeva la misura dell 'aggiunta salvifica di latte artificiale. Si perdeva un liquido prezioso in un baleno e non si sapeva quanto altro liquido si doveva preparare all' istante. A ogni rigurgito del bebè, tutto il calcolo diventava difficile e terrorizzava la mamma. La doppia pesata indicava molte cose riguardanti la madre : il suo perfezioni­ smo, la sua sfiducia nei metodi usuali. La pratica di pesare due volte il poppante è stata una specie di rovina proprio perché lunga, assillante. Tutta l'operazione era affrontata a brevi intervalli da mamme torturate dalla fretta. Appena i medici han­ no considerato questo metodo non necessario o peggio inutile, i genitori si sono sottratti con gran felicità a queste scomode operazioni. Oggi la pratica è ripudiata. Siamo passati alla pratica opposta. Si lascia spesso il bebè attaccato al seno a suo piacimento. Il seno è offerto ogni volta che il bimbo si sveglia. Ci sono mamme che proclamano : « Ha sempre fame, cerca sempre il seno, quando lo stacco piange, ha tanta fame ... Cresce a vista d'occhio ! » . Meno ingenua fiducia nei ritmi naturali e più informazione possono aiutare a gestire meglio il poppante ?

6. I 9. Si sa che i bambini di pochi anni, quando un nuovo fratello sta per arrivare, inventano cose favolose con personalità e naturalezza. Le bimbette di ogni condizione mimano il processo della mamma gra­ vida, ma anche della zia o della sorella maggiore, decenni prima del momen­ to in cui toccherà a loro entrare in sala parto. Le bambine sono capaci di valutare lo sviluppo del pancione ; tengono conto di molte notizie su colei che sta per diventare mamma. La imitano benissimo. Anche i maschietti raccolgono notizie di ogni genere appena capiscono la situazione. Vivono momenti stupendi sul sof'a assieme alla mamma, appesantita e ingombran­ te. Ma pensano in modo diverso, cercano di apprendere dai gesti degli adul­ ti il cataclisma che sta capitando. Le bimbe sono molto solidali con la gravida, compagne dotate. Ripeto­ no puntualmente tutte le cose "da mamma" ( sospiri, toilette e camminata) :

Una bimba di quasi quattro anni, sentendo i discorsi in famiglia sulla prossima nascita di una sorellina, aveva dichiarato con grande solennità che anche lei aspet­ tava un bimbo, che dunque sarebbe andata in ospedale con la mamma al momento giusto. La bimba si era affidata al calendario che la mamma le aveva spiegato. Si era installata nella parte di co-autrice del lieto "arrivo di una neonata". Vedendo tutta­ via che la pancia della mamma cresceva, mentre la propria rimaneva sempre uguale, ripensò la situazione. Elaborò una sua conclusione e un certo giorno, guardandosi allo specchio con un visino rassegnato, decretò : « Il mio bambino se n'è andato, è andato via » . Da quel momento non parlò più se non del bambino che stava nella ISS

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

pancia della mamma. Ma, appena nata la sorellina, iniziò a giocare intensamente con un bambolotto che doveva fare la parte di un nuovo nato. Il pensiero della bimba aveva preso una strada più realistica, ma non priva di fantastiche invenzioni. Lei aveva goduto comunque della parte lusinghiera di madre del bambolotto che si era attribuita.

I maschietti sono a volte presi da un'esplosione di grande affettività verso la mamma in attesa. Molti abbracciano e baciano spesso la sua pancia. Pensano di essere capaci, con tante carezze, di spianare la strada alla mamma o di ren­ dersi utili in qualche modo. Di solito segnalano a tutti i conoscenti e anche agli sconosciuti che il pancione si gonfia ogni giorno di più. E che c 'è un fratellino che fra un po' uscirà allo scoperto. Sembrano smanio si di conoscere "quel coso" che vive nell'acqua comodamente e senza far rumore. E mangia molto da un lungo tubicino : « che non è però una cannuccia! È il cordone ! » . A volte i maschietti non vogliono saperne di essere esclusi dall'avven­ tura della gestante o di accettare raccomandazioni di buon senso : «Tu non puoi avere la pancia, sei un maschio » , ripetono alcune bimbe in tono sapu­ tello e anche canzonatorio. «Non puoi, non puoi ... » . Il non essere femmi­ na, lì per lì, consola il bimbo, che crede che essere maschio sia un privilegio. Lui non abbandona l ' idea, che gli è stata suggerita da chi sa chi, di essere il migliore, il più forte. E si sente soddisfatto. Un maschietto di cinque anni e mezzo, con occhi ispirati, vuole raccontare qual­ cosa della mamma (che porta a spasso la sua pancia, e tutti ne parlano) . Ha inter­ cettato discorsi che lo hanno colpito. Li ha abbelliti con i suoi pensieri. A caccia di un po' di ammirazione, elabora idee : « La mamma mangia carote perché ha un coniglio nella pancia ! » , e « Il bebè è grosso come un dinosauro, non ci sta più in pancia, bisogna farlo uscire » . Interroga la mamma e la invita molte volte a rivelargli quando il fratellino si vedrà. Il bimbo ha certamente molta voglia di solidarizzare con l'essere che se ne sta nascosto. Aspira al contatto con il nasci turo. Non si dà pace. Vuole vederlo al più presto, dargli un'occhiata, salutarlo. Promette più volte che, appena visto come è fatto il bimbo, richiuderà la pancia e lo lascerà in pace nel posto in cui deve stare. L'arrivo di un piccolissimo serve a quello con gli occhi ispirati per farsi con­ siderare grande dalla mamma. Con pieno successo. Questo scatto lo avvicina alla figura materna, tanto cercata. Serve ad alimentare progetti di magnanimità verso il nascituro: « Gli insegnerò tutti i giochi che so », «Gli regalerò il mio berretto, le mie automobiline » , « Gli farò toccare anche i miei pennarelli » .

L o scenario cambia appena il neonato mostra d i occupare troppo spazio in famiglia. Diventa insopportabile quando è in braccio a tutti e tiene ma-

6. I FIGLI. LA FAVOLA VERA DELLE DONNE

ledettamente occupate le mani della mamma. Assumendo un 'aria di pro­ messa, gli adulti spiegano mille volte ai maschi etti: « Quando sarai grande anche tu farai il papà ! » . Ma il bimbo nervoso vuole essere ugualmente consolato in braccio.

A volte gli anziani, nonni e nonne, rappresentano un pubblico sensi­ bile ai fatti della gestante, al parto e ai primi momenti del neonato. I nonni si dedicano a esaltanti constatazioni e molte profezie. Appena la mamma ha messo al mondo il bebè, essi guardano la creatura come si guarda un miracolo. Alcuni anziani - fortunatamente non troppi - camminano un po' con lo sguardo rivolto all'indietro, o di lato, o vanno avanti a occhi chiusi. Molti sono disturbati in mezzo a fenomeni che girano vorticosamente sopra le loro teste. Non sanno che parte assumere. Scavano un poco nel proprio passato e su quel poco misurano il futuro, con nozioni da Paleolitico. 6. 20.

Un caso simpatico è quello di un uomo piuttosto anacronistico che non ha voluto prendere moglie. Senza figli, in vecchiaia si sente un po' sguarnito. Carlo ( anche detto Gedeone, non si sa perché ) non voleva "affanni" in casa e non sentiva la necessità di avere posteri ai quali affidare la sua esperienza di vita. A volte però appariva inquieto. All'epoca Carlo-Gedeone era un uomo oltre la mezza età. Avrebbe potuto essere un ottimo nonno, se non fosse stato tanto contrario al regime del matrimo­ nio e delle nascite ! Si presentava in modo insolito : piedi piatti e toscano in bocca; aveva una dentiera che faceva strani rumori. Peggiorava il suo aspetto tenendosi capelli incolti e mocassini neri vecchi e sformati. Carlo-Gedeone era un uomo un po' eccentrico in tutte le cose che faceva. Ricordo che leggeva sempre il giornale del giorno avanti, ottenuto gratis dall'edi­ colante che lo conosceva da una vita. Era amato nelle famiglie delle sorelle, che si commuovevano o si infuriavano per le sue trovate. Malvolentieri i parenti lo avreb­ bero scambiato con una persona a modo, ben vestita o con i soldi. Così com'era faceva venire allegria. Era considerato dolce e remissivo, un uomo che portava in giro strani ricordi che tutti avevano dimenticato. Secondo le sorelle, Carlo-Gede­ one era un po' troppo allergico a prendersi reali impegni verso se stesso e verso gli altri. Si lasciava amministrare, bene o male, dalle donne di casa. Faceva parte del panorama familiare e tutti pensavano che rendesse l'entourage un po' extra, un po' divertente. Lui non sapeva di essere così trasparente, prevedibile, e si stupiva dei suoi famigliari. Carlo-Gedeone viveva facendo il messo comunale e raccontando simpatica­ mente barzellette a chiunque; in presenza di una signora, raccontava però solo 1 57

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quelle moderate. Si sforzava con le signore di fare giri di parole per non lasciarsi scappare qualcosa di sconveniente. Aveva sempre un mazzetta di foto pornogra­ fiche con sé che, in casi precisi, nascondeva con rapide mosse. Per decenza, diceva lui. Le mostrava agli uomini, che sono intenditori, in famiglia mai, se non nelle feste affollate come i matrimoni, i diplomi e gli anniversari dei parenti più anziani. Lo faceva però sempre di soppiatto. Se avesse saputo far altro, lo avrebbe fatto per allietare gli amici e i parenti, per dare una mano a stare su di morale. Una sorella lo rimproverava: «Vergognati, che giri con quella robaccia in tasca ! » . Carlo-Ge­ deone non scuoteva neppure la testa; non si avviliva per questi rimbrotti, anzi era soddisfatto e rideva di sé. Aveva successo quando si dava alle grandi fumate. Tutti i maschi lo approvano di gran cuore, anche quelli "strani': come diceva lui. Anche un nipote, un po' appassito, lo trovava di suo gusto. A Carlo-Gedeone stava simpatico questo nipote. Diceva : « Siam brutti uguali ! » , «A mio nipote bisogna insegnare tutto, altrimenti lui si infila dietro a qualche donna, si impiglia nei sentimenti, ed è perduro » . In testa, Carlo-Gedeone aveva un'operazione di difesa del nipote. Non è riu­ scito in questa delicata impresa. A un certo momento il nipote, ottimo cartografo, travolto dai complimenti di una ragazza della sua età, se l'è sposata. Era una donna un po' grassoccia e beata. La gravidanza della nipote, da un certo momento in poi, era diventato l'argomento preferito del vecchio zio Carlo-Gedeone. Lei gli diede in fretta due pronipoti gemelli, un maschio e una femmina ( le nascite gemellari erano ricorrenti nella famiglia) . La moglie del nipote in un batter d'occhio aveva conquistato Carlo-Gedeone, che aveva cominciato ad andare a trovarla, spesso e volentieri, con qualche regalino in mano. Lui diceva di lei: « Non ci sono dubbi, ha la poesia in bocca. È miele ... » . Cercava approvazione. E si aggiustava la dentiera che tendeva ad andare fuori sesto. La messa al mondo dei gemelli - da parte di una donna piena di sentimen­ ti - fu un trionfo. Cambiò totalmente il nipote e i parenti. Portò Carlo-Gedeone, che non smetteva di esaltare la sua vita di scapolo, ad adorare l'opera monumentale della neomadre ( donna adorante, prosperosa, perfetta puerpera e infermiera) . Per Carlo-Gedeone divenne un essere superlativo, una persona che aveva rispettato alla lettera la trafila storica femminile. Ed aveva sparso luce intorno. La trattava con tutti gli onori che lei meritava. La maternità, insomma, l'aveva trasformata in un miracolo della natura, una creatura gentile fuor di misura, diceva lo zio scapolo estasiato. Alla sua età, aveva fatto ben due figli ! La santa donna aveva così reso felici i propri genitori, suoceri, nonni, zii e una sua sorella gemella ( che non aveva mai avuto buone occasioni per mostrarsi brava come lei a restare incinta) . Carlo­ Gedeone diventò grande partigiano della nipote, investendo in lei molte speran­ ze. Passò dal reale all' immaginario con la velocità del fulmine. Sognò in grande perché temeva di aver poco tempo a disposizione o di averne perso troppo. Mise nelle mani della sorella maggiore tutto quel che possedeva ( un libretto di deposito postale ) , destinandolo alla piccola gemella ( come futura dote ! ) e al fratellino ( per i suoi studi ! ) . xs 8

6. I FIGLI. LA FAVOLA VERA DELLE DONNE 6. 2I. I vecchi ci mettono un bel po ' di sentimento nel valutare la gravidanza e tutto ciò che comporta. Dicono che un tempo era importante prevedere il sesso del nasci turo, partendo da strani calcoli. Per la questione dei nomi e delle date fauste del parto facevano pronostici calcolando lune e particolari astrali. Oggi in genere anche i più vecchi ridono di cose tanto strane : ci sono altri metodi. È così che ci mettono tutta la loro pazienza ad aspettare il giorno dell'evento ( già sanno tutto di chi sta per venire al mondo !). Al momento cruciale tutti hanno la fronte che brucia, la parola che si frantuma in bocca, finché il telefono non li salva con la lieta notizia. Alcune fisionomie dei neonati - pensano i nonni - uniscono le gene­ razioni alterne. I più vecchi si comportano come se avessero premura di mettere nonni e neonati dentro le foto di famiglia. Le nonne richiamano le reciproche somiglianze, in modo divertente, anche se non esattissimo. So­ no i loro mezzi preferiti per solennizzare i successi delle generazioni più gio­ vani (passando per quelle antiche) . Gli occhi del neonato giocano un ruolo importante nelle loro fantasie. Nonni e nonne, sono quasi tutti concordi che « gli occhi azzurri di Antonio sono quelli del nonno, quelli grigi di Gio­ vanni sono dell'altro nonno » . Le femmine assomigliano alla mamma del babbo, anche se lei rifiuta di ammetterlo. C 'è da pensare però che i nonni in estasi abbiano proprio ragione a tener fermo il punto delle somiglianze (o dei temperamenti sputati) , anche perché i posteri non possono rimanere con pochi ricordi su cui fantasticare. Quella fra nonni e bebè è un 'ottima relazione che inizia dal primo in­ contro, anche se spesso è mediata dalla neomadre. La relazione è condita da molti vezzeggiativi, smorfie o lacrimucce. I nonni commentano, con piace­ volissimi aggettivi, il colore roseo delle manine, la pelle perlacea, le lunghe ciglia e il cranio pelato della creatura. La parola "creatura" la riferiscono al miglior neonato dell 'universo, che fa ogni giorno passi avanti sui problemi di pappa, di pipì, di paure del buio e di voglia di avere tutto subito. I nonni si elettrizzano per ogni indizio di progresso. A tempo debito, tra i giovani nipoti esiste un modo strano di vede­ re la devozione dei nonni. Seguono una ferrea convinzione, soprattutto riguardo le nonne. Pensano che esse debbano essere disobbedite quanto più possibile, dato che i genitori vanno obbediti anche quando hanno torto. I nonni non condividono la prontezza della mamma nell 'afferrare il telefonino che è lasciato cadere, e nemmeno lo scatto elastico dei bimbi che si tirano su dal sof'a . I vecchi e i giovanissimi peraltro sono uniti da cose indiscutibili : non amano l'acqua minerale gassata, odiano le pappe insipi-

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de, detestano le regole sui dolci dettate dai genitori ( che tengono nascosti i cioccolatini e li chiamano "veleno" ) . I nonni maschi hanno il compito primario di accompagnare i bambini nei tragitti tra casa e scuola, nei due sensi. Le mamme li adorano per questo. Con riconoscenza affidano loro questo incarico, quando il bambino ha su­ perato i tre anni di nido. E ha imparato a obbedire. Mai prima. Da anni in pensione, nonno Gianni accompagna a scuola, prestissimo, il proprio ragazzino dotato di una stretta formidabile, una morsa feroce che imprigiona il suo polso ossuto. Il bambino ha sei anni, e si preoccupa molto per il proprio nonnetto: gli potrebbe capitare qualcosa, per strada! Arrivati alla fermata dell'autobus, il ra­ gazzino si rincuora. Devono salire e lasciarsi trasportare per cinque fermate. Men­ tre fa salire il nonno sull'autobus, grida al conducente : « Aspetta, c 'è un vecchietto che deve salire ! » . E quando lo lascia, nell'atrio della scuola, si volta a salutarlo. Vorrebbe riaccompagnarlo all'autobus. Dargli una mano. Non può. È tardi, e non ha senso farlo. Il bimbo non dimentica di preoccuparsi. «Nonno, non stare vicino alle porte, si aprono di scatto ! » . Il lavoro di accompagnamento è impegnativo e duraturo : va avanti almeno fino alle medie. Varia solo se si cambia residenza o se il nonno non ce la fa più a camminare. E cede l' incarico a qualcun altro.

L'obbligo primario e indefesso dell'accompagnamento ce l' hanno anche le nonne, soprattutto per i primissimi anni del pupo. Le nonne hanno capito subito che è un compito di massima responsabilità. È ciò che le mamme trovano incantevole che le nonne facciano. Fin dai primi anni di vita del bebè, le nonne entrano nella "favola incan­ tevole della maternità" delle figlie e delle nuore. Mostrano buona volontà e capacità di imparare. E talvolta un po' di sano senso di indipendenza. Il bus non fa problema per loro, perché non lo prendono ; hanno un carrozzino da spingere sul marciapiede, con dentro un placido bimbo di qualche mese o di pochi anni. Vogliono anche risparmiare i soldi del biglietto e fare due passi... che fanno bene ! Invece di issare il carrozzino sul bus, attraversano a occhi sbarrati le strade e ai semafori corrono sempre. E, già che ci sono, al ritorno verso casa - se non è troppo tardi - controllano in tasca gli spic­ cioli contati e riescono a comprare un filoncino di pane, ancora caldo, da portare alla neomamma. Le nonne filano dritte anche davanti ai vigili, non si lasciano distrarre dai fischietti e insegnano ai bimbi con il succhiotto in bocca ( anche se non capiscono ) che al vigile si deve rispetto, sennò poi fa la multa ( «Loro la fanno per ogni cosa, la multa, anche se non è giusto » ) . Lo dicono soprattutto se passano un attimo prima che scatti il verde o un atti­ mo dopo che è scattato il rosso. Naturalmente, non si sono mai dimenticate 160

6. I FIGLI. LA FAVOLA VERA DELLE DONNE

di seguire le strisce. Ma vanno zigzagando. Devono arrivare subito a casa, perché la mammina, che è totalmente assorbita dalla beatitudine di avere in braccio un nuovo nato, ha bisogno di aiuto immediato. Hanno bisogno di coordinare i tempi dell 'andata e ritorno, del deposito del pupo al nido, della visita alla panetteria. La nonna paterna, quasi sempre, assume una parte un po' eccessiva. Deve difendere la figura paterna, talvolta oscurata da quella materna. Dà una visione frizzante del papà quando era bambino, degli anni di scuola, delle pagelle, delle maglie e delle scarpe che diventavano subito troppo piccole. Insiste su quello che papà non faceva senza il suo consenso, su come la camicia di papà fosse sempre dentro i pantaloni. L' inclinazione alla pulizia del papà è poco raccontata dalla nonna. Denti a posto, mani e orecchie pulite, sono ricordi sfocati. I quaderni erano perfetti ? Qualche nonna paterna fa l' inverso, e dice cose tremende sulle ginocchia luride e calze rotte del babbo bambino. Ma non ha l'aria lacrimosa di chi soffre per memorie penose. La mamma del papà supera se stessa quando parla della fatica che lui ha sopportato durante le gravidanze. È stato per lui un periodo di insonnia, di corse in farmacia o a prendere bibite gassate contro l'acidità. Il papà doveva ogni tanto fare dei sonnellini a causa della stanchezza: si era procurato un cuscino di piume e uno di lattice per precauzione. La nonna dice : «Papà si è impegnato ; la mamma faceva la chioccia » . « Tre gravidanze lo hanno fatto invecchiare ... gli si sono imbiancati i capelli » . Tutti i nonni sono custodi di oggetti di largo consumo, che usano du­ rante le gravidanze e i parti delle figlie e delle nuore. Li usano oculatamente, perché sanno prevedere in anticipo necessità di ogni tipo. Sanno che devo­ no aver il telefonino acceso anche di notte, la patente valida, e custodire un mazzo di chiavi (di casa dei figli). Devono ricordarsi di lavare l'apparecchio dei denti o il succhiotto, andare d 'accordo con la baby-sitter. Devono evita­ re come la peste il monopattino sul quale un frugolo fa acrobazie (rischiano di essere azzoppati). E devono fare elargizioni coatte di precisi beni (meren­ de, pennarelli, scottex, cerotti miracolosi, dolcetti senza zucchero ... ) . 6.22. L'esperienza del parto possiede i l fascino d i u n rompicapo o l o splen­ dore di un caleidoscopio. È un evento tanto colorato e magico da essere considerato un Big Bang domestico.

Lucia sta aspettando di lasciare la propria casa ed entrare in una grande clinica oste­ trica per far nascere il suo primo figlio. La sua storia di gravida a termine è quella di 161

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

molte donne. Chiusa in precisi spazi domestici, Lucia cerca di starsene tranquilla in poltrona. Ci riesce malamente. Sta aspettando ora per ora e fa segno che non vorrebbe chiasso intorno. È affaticata e disattenta; la testa è un po' tra le nuvole. Non riesce e rispondere alla madre, né a un'amica un po' sussiegosa che è venuta in visita, per vedere « a che punto siamo » . Lucia non ha nulla da dire. Si sente quasi pronta, un po' sospesa a mezz'aria, sola, ma non lo vuoi confessare. Vive una contraddizione. Vorrebbe capire cosa significa che non deve darsi pensiero di nul­ la. Tutti non fanno che dire questo ! Ma lei non trova senso a non far nulla, vuole pensare a ciò che tra breve dovrà fare, anche se tutti sembrano distratti e reticenti. « Tutto è stato previsto» , pensa Lucia con un filo di angoscia. Lei ha in fondo al cuore un senso di fatalità oscura. E se fosse tutto destinato a chiudersi con una tragedia? Se alla fine si arrivasse a una disavventura, una delusione ? Il medico ha sempre lodato la sua serenità. Questo le serve ora per tener meglio testa alle paure più brutte. Ma è un po' poco per liberarsi da un' incertezza invincibile. Lucia, ogni minuto che passa, sente crescere la tensione : teme che il suo cer­ vello si sia un po' inaridito, deteriorato. Da parecchi mesi Lucia ha interrotto il suo lavoro. Si è sentita libera di tuffarsi nella gravidanza, ma ora si sente quasi incapace di riprendere la vita di prima. Niente oggi è calmo e risolto. Il mondo gratifican­ te dei mesi precedenti, dei pré-maman eleganti, delle chiacchiere al telefono, è proprio lontano. Ora tocca affrontare un compito urgente. Tutto è un labirinto complicato. Ancorata alla sua poltrona, Lucia si aggiusta le gambe un po' intorpidite. Si interroga sulla propria volontà di ferro, come dicono in casa. Sarà sufficiente per condurre a termine il suo compito ? Non è preda di preoccupazioni fuori tempo ? Lucia sente un battito diverso dal solito. Sente una breve contrazione, due contra­ zioni. Si sente mancare il respiro : «È l'ora, inizia adesso ... » . Non c 'è da perdere tempo. Lucia, in un minuto, ha perso l'aria trionfalistica che aveva ieri o l'altro ieri. E che le aveva suggerito frasi molto ottimistiche : « Appena avrò partorito, sarà un'altra vita. Mi sento sicura di me » . Il marito gliele ricorda, ma non viene preso in considerazione. Lucia intima a tutti di sveltirsi. Si è messa in piedi e cerca di camminare; sem­ bra una persona in bilico su un terreno instabile. Deve affrontare una questione di vita o di morte, di vittoria o di sconfitta. Lei ormai è in marcia e cerca di incam­ minarsi; sono gli altri che sembrano proprio lenti ! Nasce un po' di confusione. A ogni coltellata nel ventre, Lucia mormora: « Presto ! Presto ! » . Il marito è sulla porta, pronto. L'accompagna alla clinica. La sorregge come può. Si va a piedi. La clinica è vicina. Tanto nessun taxi sarebbe lieto di ospitarla: ha stampato in faccia lo spasimo. All'ospedale ci sono formalità da compiere e carte da firmare. La donna in travaglio si massaggia il pancione, si asciuga la fronte ; vuoi arrivare in fretta alla sala parto. Chiede di andare avanti subito, subito. Lucia viene sistemata in sala trava­ glio. Non in sala parto. Non ci sarà epidurale. Lucia è proprio spaventata, perfino della barella cigolante. Si morde un braccio perché la contrazione è forte. Si lascia

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i segni sulla pelle. « Cosa mi faranno ? » . I respironi che ha imparato a fare non aiutano. Lei li fa per fede e doverosa obbedienza. « Ci vorranno ore ... », sente dire. L'opera monumentale della gestazione, sorvegliata e ammirata, ora non è più in mano alle amiche, alla famiglia. Tutto è in mano alla partoriente e al personale ospedaliero. I momenti drammatici si susseguono a ritmo accelerato. Lucia è stesa, ormai non la fanno più alzare dal letto. Viene finalmente portata in sala parto. Il mondo degli altri è rimasto fuori. Il marito sembra perplesso, dentro una bolla. Quando apparirà il bimbo in tutto il suo splendore ? È partito un fuori programma pieno di sorprese. Un crampo al polpaccio sinistro. Il corpo torturato della gestan­ te sembra reagire bene all' imprevisto. Lei urla. Tutto procede, ma il pericolo non è ancora vinto. L' idea della morte aleggia, fa sentire la sua inafferrabile forza. Di colpo, con grande dolore, una testolina mezza calva e un corpicino umido scivo­ lano fuori. Si diffonde il vagito liberatorio. Grande eccitazione di Lucia. Il bebè viene posto sul ventre della madre tra mille complimenti. Il neonato urla di paura e cerca qualche salvezza con piccoli scatti. Fa anche stupide smorfie. Chissà cosa sente e desidera. Inizia a misurarsi con cose che non gli saranno mai spiegate. Il bebè è sicuramente un trionfatore, ma ora non lo sa. Trema tutto. Ha fatto un meraviglioso lavoro da superman ! L'apoteosi del parto e la storia leggendaria quasi subito diventano memoria. La puerpera parla poco. Ha registrato tutto. Deve pensare, meditare. Ha bisogno di avere un contatto col neonato prima di tutto. La neomadre osserva ed è piena di felicità. È incredibile. « Ha tutto: il nasino, le unghiette, le ciglia » . Lucia è abba­ gliata dal corpicino che è appena uscito dal suo ventre . Pensa che, se i presenti in camera facessero un po' di silenzio, si concederebbe volentieri il meritato riposo ! E capirebbe perché a lei partorire è sempre sembrato rischiare la vita. Capirebbe come ha fatto a vincere quest' idea.

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Abitare. Come viviamo le città

Le città sono luoghi di giacenza di risorse e di ricchezze che ci sostengo­ no e ci istruiscono. Ci portano lontano. Ci offrono talvolta opportunità incoraggianti. Nelle città scopriamo cosa comporta essere inseriti in un territorio geografico e amministrativo, in un tipo di quartiere o di area re­ sidenziale, di quanto siamo in rapporto con differenti vite e tante esistenze. Le città sono dunque mondi densi, attivi, propositivi. In genere sono state teatro di poderosi eventi storici. Da sempre, vivono storie che costru­ iscono genti e popoli, che marcano i loro momenti di vittoria e di scon­ fitta. Naturalmente le città sono anche piene di momenti leggeri, di cose minuscole che stuzzicano, che possono regalarci soddisfazioni e gradevoli scoperte. Ci può capitare di vedere la città, in prima approssimazione, come una massa di "disegni architettonici", di "linee artistiche" dense e ingarbugliate (cioè come un corpo poliedrico fatto di pietre, cristalli, mattoni, tegole e cementi, cinte merlate e altro). Guardiamo ingordamente frastagliati profili cittadini all'orizzonte e subito vogliamo abitare la città. ''Abitare un'area urbana" implica un certo numero di cose. Significa impadronirsi dei caratteri umani e sociali che distinguono un mondo spe­ cifico, capire e assaporare colori, luci e ombre. Vuoi dire interpretare la città dal di dentro, attraverso chi le infonde vita, ma anche ciò che essa obbliga a pensare. È certo che noi possiamo conoscere solo poche porzioni delle città. Di solito, ci muoviamo in luoghi circoscritti e autorizzati. Non abbiamo possibilità di entrare in certe zone speciali, riservatissime. Non possiamo circolare nelle abitazioni private o semiprivate, per ovvie ragioni di cortesia e riservatezza. Infinite sono le aree cittadine che ci restano ignote, nascoste per sempre. Questo ci induce a pensare che siamo privati di molte realtà che ci riguardano, e che il nostro sguardo è concentrato solo su spazi che altri hanno deciso siano di nostro interesse. In molti casi, anche se non sempre, sono quelli che vorremmo celebrare, difendere per la nostra vita. I 6S

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE 7. I. Una gran parte della umanità, ovvero miliardi di individui, è incardi­ nata in ambienti urbani, più o meno belli o adatti a essere abitati dagli esseri umani. I centri urbani sono un grosso e sofisticato ingranaggio, di cui noi desideriamo essere parte. È quanto dire che spessissimo nella nostra città cerchiamo una "buona parte" da svolgere, un'idea da coltivare. È il luogo ove cerchiamo di conquistare premi e affermazioni. Vi subiamo natural­ mente anche scacchi e sconfitte. Con la città siamo esigenti. Ogni mattina, incontrandola, la vogliamo pronta a sorriderei e ad abbracciarci. La interroghiamo perché sappiamo che può assecondarci, stupirei e farci sentire lieti (anche se un po' allarma­ ti) . Tutti cerchiamo le città belle e famose. La loro eleganza, la loro evidente centralità, il loro patrimonio artistico sono fattori che accendono la nostra vita con fantasia. Le città che più volentieri cerchiamo sono luoghi singo­ lari, unici. Li eleggiamo, non sempre ragionevolmente, a luoghi in cui è possibile ottenere qualcosa che può migliorare la nostra vita ! I nostri incontri con le città seguono schemi piuttosto fissi. Partiamo con un programma, un orario, un biglietto. Restiamo ore chiusi nella pan­ cia di un treno o di un velivolo a pensare alle meraviglie che ci attendono. All 'arrivo, dopo due o tre scossoni dell 'aereo, sul quale abbiamo pazientato per ore, planiamo su una lunghissima pista nera (a volte contornata da cor­ doni di neve bianca). Pensiamo : « Ci siamo ! L'aereo si è fermato ; la città è vicina! » . Ma non è vero. Scesi dall'aereo, attraversiamo tunnel con vetri sigillati, porte girevoli. Trascinati dal flusso umano, ci guardiamo intorno per brevi istanti, siamo intimoriti. Andiamo avanti remissivi, seguendo gli annunci (se il frastuono generale non è troppo). L'abbraccio con la città è prossimo, ci diciamo di nuovo, credendoci fino in fondo. Abbiamo già attraversato un duty free o un bar-ristorante lucentissimo. Abbiamo cambiato varie volte direzione. Percepiamo un lieve nervosismo; dobbiamo sorbire altri lumacosi trasferimenti (che ci confon­ deranno le idee). Siamo passati, ci pare, dalla direzione nord-sud a quella est-ovest, e siamo al livello catacombale. Ci consoliamo, qui troveremo i nostri bagagli. Abbiamo il cervello ovattato, dopo ore di volo e tante gira­ volte per le sale. Siamo alla fine accanto al nastro rotante delle valigie. Ci sentiamo frenati. Ci vuole una bella fatica per scovare questa città ! Gioca a rimpiattino ? Cerchiamo di raggiungere l'aperto : siamo nauseati dell'aria dell'aeroporto. Finalmente ci affacciamo a una grande superstrada. Le file dei taxi sono molto variopinte. Alcuni passeggeri serissimi sanno cosa fare ; la loro destrezza incute soggezione. Non hanno titubanze e prendono meccanicamente lo shutde.

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7· ABITARE. COME VIVIAMO LE CITTÀ

Altri non guardano in faccia nessuno ; seguono un cammino che hanno in mente. Molte insegne e cartelli ci informano che si sta pestando il suolo di Hanoi o di Buenos Aires. Acciufferemo la nostra favolosa città ? Ci si rilassa quando, finalmente seduti in taxi, vediamo i cartelli che segnano il centro ( Golden Gate Bridge, Colosseo, Plaza de Mayo). La vita globale ci ha stralunati per ore. Quando saremo dentro la città, non sarà diverso. Altre attese ci aspettano. Alla fine, in hotel possiamo po­ sare le valigie, affidarle a qualcuno. Intuiamo in un lampo che il bancone del check-in è al mezzanino ! Facciamo uno spostamento repentino verso il luogo giusto. Passano altre decine di minuti. Non dobbiamo pretendere troppo dal personale. Una graziosissima receptionist, molto solerte, sorri­ de e suona molte volte il campanello per chiamare i facchini ! Mostriamo passaporti, voucher, carte di credito, riceviamo chiavi elettroniche (che a volte risultano scariche !). Speriamo che la città non ci faccia lo scherzo di deluderci. Non meritiamo un simile affronto, dopo tanto trambusto. In camera ci stendiamo in un letto anonimo e facciamo un pisolino. Risulterà troppo lungo. Ci fa rabbia non aver subito ammirato un po' la città in cui siamo arrivati ! 7. 2. Gli avvicinamenti alle città sono a volte ancora più estenuanti di quel che si prevede. Qualche volta riservano momenti di paura.

Durante un volo verso Chicago, risvegliandomi lentamente, mi sono trovata in pochi minuti in una situazione molto particolare. Stavamo sorvolando l'oceano Atlantico. Sotto di noi si vedevano solo le coste della Groenlandia, grigia, piena di crepacci che somigliavano alla pelle di un elefante. Dopo la Groenlandia, non si vedeva più nulla: tutta la terra era inghiottita dall'oscurità. Uno scoppio violento fece sobbalzare l'aereo. Eravamo immersi nel buio. La cabina era scurissima. La hostess, che stava servendo il caffè, afferrò il vassoio che mi aveva posato in mano e scappò dal comandante. Lo scoppio improv­ viso aveva sorpreso tutti i passeggeri (soprattutto polacchi e tedeschi). Era calata la paura per alcuni lunghissimi minuti. Una voce calma, professionale, dalla postazione di comando invitò i viaggia­ tori a restare con le cinture di sicurezza allacciate : « In caso di uscita dal veicolo, lasciate a bordo tutti gli effetti personali. Tutto è sotto controllo » . « Non è proprio vero » , m i venne da pensare subito dopo questo scarno annuncio. « Dondoliamo in modo sinistro » . « Fuori ci sono oceano e ghiacci, nessuna terraferma » . I pensieri cominciavano a ingarbugliarsi. I polacchi si con­ sultavano. Non capivano i messaggi. Avevano facce indicibili. Interrogavano con gli occhi.

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L'aereo rallentava, volando a quota sensibilmente più bassa, sempre più bassa. Era evidente che il volo non poteva durare molto. Il velivolo stava per impattare. Chicago era perduta, c 'era altro a cui pensare ! Gli annunci della hostess, riapparsa, cercavano di ricreare la calma. Non c 'erano scene di panico. La luce si accese e poi si spense di nuovo. Per fortuna si riaccese non troppo tardi. « Questo aereo funziona ancora » , mi dissi. «È più lento e più basso» . Ci sentivamo tutti paralizzati. L'attesa di notizie durò a lungo, la discesa molto di più (quaranta o cinquan­ ta minuti). Era una specie di agonia. Tutti controllavano l'orologio, senza grandi risultati. Qualcuno dichiarò sonoramente: « Deve essere saltato un motore ... Ora precipitiamo » . Nessuna notizia ufficiale correggeva questa dichiarazione. Tra su­ dori freddi e lunghe occhiate all'oceano, che si vedeva appena, sopportavamo lo stress. Alla fine, si vide una striscia di terra. Qualcuno cercò di decifrare quella righina scura, usando poche parole. L'aereo oscillava sempre di più: vari rumori di motore entrarono nella cabina ... nessuno dava spiegazioni. Cosa stava accadendo ? La striscia nera di terra non poteva più essere la Groenlandia. Doveva essere il Canada. Ma dove eravamo finiti ? Era un' isola o un lembo di terra continentale ? Per quanto tempo potevamo ancora volare ? Eravamo ancora in quota ? Nessuno aveva risposte. Eravamo stati solo invitati a stare calmi... a lasciare tutto sull'aereo in caso di evacuazione. L'aereo girovagò un po'. Manovre lente e incomprensibili. Una breve pista militare apparve alla fine al finestrino. Era come se avessimo avvistato la favolosa Chicago. L'aereo rallentò ancor di più. Tutti ebbero paura che con così poca spinta l'aereo non ce la facesse a fare l'ultimo tratto. Intanto si sentiva uno strano odore. Forse stava iniziando a bruciare qualcos' altro. Qualcuno decretò che era il motore o i motori che bruciavano. Il velivolo oscillò, poi si riprese. Dopo parecchi minuti si accovacciò traballando sulla pista come una grande anatra azzoppata. Ci sentimmo a casa, in un posto sicuro (tutt'altro che magnifico e unico) . Il nostro respiro si regolarizzò. Ci dicevano di non muoverei. Ci aiutarono a scendere in ordine per­ fetto ; i bagagli furono abbandonati in cabina. I mezzi di soccorso erano schierati sulla pista. L'aereo fu trainato a motori spenti. Addio Chicago ! Capimmo un po' di tempo dopo che eravamo sull' isola di Terranova, ben no­ ta per vicende militari della Seconda guerra mondiale, per grandissime ricchezze naturali (vicine ai ghiacci perenni) e prima porta di ingresso nel continente ameri­ cano. Il nostro arrivo negli USA era lontanissimo ; avremmo potuto raggiungere la nostra destinazione solo molto più tardi. Non avevamo visti di ingresso in Canada. Oltre duecento persone trovarono alloggio in alberghi della zona. Ebbero buoni pasto. Furono interrogati e catalogati. Le testimonianze dei passeggeri furono scar­ sissime; i comunicati della compagnia, moltissimi. L'atterraggio di fortuna di certo non ci aveva portati in una bella metropoli. Chicago per il momento ci era sfuggita di mano. Dopo quasi venti ore dall'atterraggio non eravamo ancora in possesso di notizie ufficiali, ma la nostra disavventura aveva letteralmente fatto il giro del mondo. Tutti parlavano di un motore scoppiato e di un salvataggio perfetto. La paura era scomparsa. x68

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Imparai che alcune città si raggiungono in poche ore, ma Chicago in quel mo­ mento non era una di queste a causa della burocrazia che non ci lasciava entrare in territorio canadese. Tra spazi aerei non liberi, disguidi vari, controlli di passaporti, dovemmo scordarci di Chicago. Imparai che le città si bramano di più se si è chiusi e sorvegliati - e illegali - dentro una modesta sala aeroportuale un po' antiquata: avevamo solo il visto statunitense, non utile per entrare in Canada. La notizia che l'unico velivolo sulla pista era pronto e che il viaggio stava per riprendere ci fu data tante volte. Ci furono almeno quattro rinvii, ma nessuno dei passeggeri si sentiva in panciolle o seriamente irritato di non essere sul suolo di Chicago. Facemmo file per presentare il buono pasto, per l'uso della toilette ecc. Ci rammaricammo però di non poter visitare la capitale di Terranova, visto che non avremmo auspicabilmente mai più toccato il suo aeroporto militare ( addetto ai salvataggi ) .

7· 3 · La vita delle città può essere un banco di prova. Bisogna possedere perspicacia, costanza e spirito di avventura per viverla bene e per capire le proposte anche minime dei centri urbani, visto che sono luoghi di caccia, di conquista, di convulse trasformazioni. Insomma, non è un mistero per nessuno che, in città ribollenti e spettacolari, bisogna organizzarsi ! Le città ci lusingano e ci possono far passate dei guai. Qualche volta ci derubano di ogni cosa, indumenti e zaino inclusi. A Mérida (Yucad.n, Messico) fuori dall 'aeroporto, davanti a un taxi, in due minuti fui privata di tutto. Le città possono, in precise circostanze, farci penare molto. Possono lo­ gorarci con cosette che ci mandano fuori di testa. Possiamo essere imprigio­ nati da simboli e segnali stradali, flussi di gente, auto, reti viarie spettacolari, viadotti sotterranei (vedi i 7 0 chilometri di metropolitana che servono per attraversare a zigzag la grande Pechino ! ) . È dentro l e città che i l degrado ambientale è maggiore, a volte intol­ lerabile. È dentro i luoghi nevralgici della città che si mettono in opera vandalismi e distruzioni. È in città che le serate allegre di una certa gioven­ tù finiscono con l 'imbrattamento di piazze storiche o, in ugual misura, di muri privati. Nei quadranti importanti del mondo i grandi disastri, crudeli e gratuiti, avvengono sovente nelle città più belle. Il terrore ha effetti giganteschi e irreversibili proprio perché è diretto contro concentrazioni urbane di risorse, di ricchezze umane, artistiche o altro. Il terrorismo ci ruba le città e ci regala angoli sudici, macerie, barac­ che, abitazioni fatiscenti, gente derelitta, affamata o in fuga. Gli esempi di città prigioniere di attacchi sanguinari provengono da mezzo mondo,

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dall' Iraq, dalla Siria, dagli USA, dalla Francia, dalla Spagna, dalla Libia e dal Medio Oriente, dall' Europa del Nord e del Sud e via dicendo. Le città sotto attacco, in pericolo di stragi quotidiane, sono abitate da persone piene di paure, di miseria. Città allo stremo stanno diventando terribili ricoveri di corpi malati e non salvabili. Con che cosa saranno mai compensate tante macerie e tante morti ? Molte "città lumière", "città d' arte", o cosiddette "città sante", sono no­ te come patrimoni dell 'umanità. Oggi, alcune sono viste o sono ricordate, come martiri, per i delitti che nascondono, e per le rappresaglie micidiali che subiscono. Nessuno può più chiamarle gioielli, o luoghi santi. C 'è da riflettere su ciò che è un'ex città, un ex palazzo, un ex museo, un'ex basilica o ex moschea. Sono tutte briciole o brandelli insanguinati del nostro habitat. A quali livelli di rovina e distruzione può ridursi il nostro abitare le città ?

7· 4· Le città non vanno definite in primo luogo per i loro caratteri artistici, economici e politici. Abbiamo sempre difficoltà a dire come percepiamo i segni grandi e nobili, non meno di quelli piccoli e ordinari delle città. Di frequente immaginiamo e viviamo le città come fari nel mondo, luoghi di progresso e successo. Le vogliamo conquistare perché siamo lusingati dalla loro fastosità. Ci accorgiamo però che, anche in tempi ordinari, esse sono scosse da imprese che le imbruttiscono. Basta un supermercato o un grosso condominio per celare una basilica pluricentenaria e cambiare l'aspetto di tutto un quartiere. Basta costruire un sistema vi ario che concentra il traffico urbano in zone dense per avere un ambiente asfittico o peggio. In città, la gente vuole ottenere benessere e radicamento. Desidera stare vicina ad altra gente con cui comunicare e intendersi. Vuole essere rico­ nosciuta e visibile per stare sulla cresta dell 'onda. Cerca di creare legami solidali anche se la città ha problemi cocenti (affollamento, mancanza di verde pubblico, di scuole ecc.). Le persone, in sostanza, si dedicano agli eventi cittadini che spingo ­ no in avanti (mostre, mercati, gare sportive, sfilate, manifestazioni ecc). Ritengono che in città esistano potenzialità e tesori da mettere a frutto. Molti pensano che la città sia il luogo in cui il talento può trionfare. Qual­ cuno immagina, più grossolanamente, che un luogo cittadino possa acco­ gliere - senza limiti - gente di ogni tipo. E che si possa far di tutto (dal commercio ambulante al comizio, a una festa improvvisata a base di pizza) in una piazza con in mezzo un bel fontanone bianco o un personaggio a cavallo.

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7· ABITARE. COME VIVIAMO LE CITTÀ 7· 5· Le città sono sempre in costruzione, in senso letterale. Il loro piano di viabilità, sempre in rifacimento, può mettere parecchio a disagio. Le piazze cintate da reti e cartelli prendono il nome di "zone chiuse per lavori': Il nucleo antico è per mesi un cantiere a cielo aperto e i cittadini si lamentano a più non posso perché la zona pedonale è ridotta a una passerella. I lavori, insomma, disturbano. Sono costosi per i contribuenti. A Bologna esistono gli umarel (ometti) a tener desta l'attenzione sui lavori pubblici. Sono pensionati e anziani che stanno ore e ore a osservare cosa avviene nei cantieri stradali, a dare opinioni sul lavoro degli operai : « lo non capisco perché la pavimentazione dev 'essere di pietroni squadrati, meglio i cubetti di porfido ... Si sa, se ne sostituiscono due o tre alla volta ... » , diceva un signorotto i n giacca grigia e scarpe di camoscio. «Ti pare, c i chiu­ dono la strada principale, la più bella, piena di negozi » . « Con questo can­ tiere faccio il doppio di strada per andare al bar... » , sospirava un altro. Questi umarel, volontari spettatori dei cambiamenti cittadini, si alter­ nano nel lavoro di vedette, con grande scrupolo. Commentano con costan­ za. Divulgano notizie. Basta passare per lo stesso cantiere per conoscerne gli errori, i ritardi dei lavori. Verificano le opere pubbliche in corso, al mil­ limetro. Grazie alla fedeltà degli umarel, si scoprono i segreti sotterranei della città. Talvolta, invece, proprio dentro il cuore delle città, varie persone si di­ chiarano poco interessate ai progetti migliorativi delle strade e si dedicano alla raccolta di fondi per restauri artistici, per concerti di beneficenza. Allo stesso tempo, badano anche alle proprie abitazioni. Hanno ben in men­ te le beghe condominiali, difendono energicamente lo stato del proprio portone (che deve avere la bottoniera lustratissima). Sono talvolta un po' pessimisti, se il Comune non giunge a far miracoli. Sono anche monocordi. Gli umarel, nei loro lunghi giri a piedi, mostrano di non voler cambiare le cose di una volta; e sono urtati dalle porcherie dei cani lasciate per strada. Scherzano poco sui fatti che deturpano la città. Più di tutto si lamentano che : « Si imbrattano con lo spray i muri, le saracinesche ... Credono di essere artisti ! È mancanza di educazione, di civiltà! » .

7.6. La luce delle città merita la massima attenzione per i suoi infiniti ri­ verberi, guizzi solari e sfumature lunari, per il balenìo della prima e dell'ul­ tima luce. Tutti i giorni, via via che passano le ore, la città si manifesta e si colora. Le mattine d'estate, ad esempio, le città possono assumere un'aria confortevole, calma; verso il pomeriggio vengono attraversate da lame di

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luce sfolgorante ; all ' imbrunire sono coperte da veli rosa o azzurrognoli, eccezionali. Nelle stagioni invernali, le città sono trasformate da pennellate di grigio acciaio dell 'asfalto o del porfido bagnato. Le città ci riempiono di gioia o di malinconia perché si accendono di luce oppure smorzano presto il sole dentro alti grattacieli (un downtown americano ci deprime fin dal pomeriggio ! ) . Molti scorci cittadini, inondati di luce, ci fanno innamorare di abitati candidi o rossi, di pietra verdastra, di legno o di mattoni variopinti, ci inchiodano su piante e fiori, sterpi e lamiere imbrunite. Ci facciamo catturare anche da città sotterranee, da in­ sediamenti su barche e paludi. Con un solo colpo d'occhio, al levar del sole nelle città apprendiamo cose minuscole, da tenere a mente. Si comincia la giornata interrogando la strada che si va riempiendo. Man mano che la luce cresce, vediamo dalla finestra che la gente, curiosamente, non alza gli occhi da terra per andare più in fretta. Mentre le serrande alzandosi stridono, vediamo la luce che entra nelle botteghe. Quando è ormai giorno guardiamo poco i profili della città, abbiamo da fare. Al colmo della giornata, i problemi sono tutti squadernati. Qualco­ sa ci afferra il cervello in strade trafficate e piene di negozi. Il cielo sembra un po' meno splendido, troppo incombente. Nell'atmosfera più pacata della sera nasce un sentimento incerto, un bisogno di riparo tenuto a bada per ore. In poco tempo, cala il drappo del tramonto. Rimuginiamo su qualche cosa che somiglia a un distacco. Veniamo invasi da una sottile nostalgia del giorno che finisce e scompare dalle facciate. Nella penombra serale, le sensazioni di tutti si ingigantiscono, si diventa più lenti. I negozianti sono invece veloci; hanno voglia di arrivare alla chiusura finale. Gente di ogni tipo rincasa o si sistema in un bar del centro cittadino, a incontrare amici. È il momento in cui la giornata cittadina può svanire in pochi secondi. Noi siamo impotenti di fronte alla luce che se ne va e alla città che cambia. Il bello cittadino può risorgere però in scene urbane caleidoscopiche, in piena notte. Lo dice uno in bici che sta fischiettando. Nelle città ci sono cose stupefacenti e di pregio che non si notano mai veramente, quasi non si riferissero all'abitare. Abbiamo a disposizione tanti monumenti ma anche panche e bancarelle di oggetti vari, per non parlare di aree di gioco, prati, bassifondi pittoreschi. Viviamo in mezzo a tram e auto coloratissime in corsa, a eleganti passeggini spinti a gran velocità fra la folla davanti al duomo, a pattinatori - con i colori della propria squadra di calcio - che vanno controcorrente. Nelle città pratichiamo la ricerca del posto migliore, più ombroso, più 1 72

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soleggiato, più arioso, più panoramico. Questa ricerca fa parte del nostro mestiere di intenditori di parchi, monumenti, bar cittadini. Più o meno ci consideriamo degli esperti delle cose belle delle città. Ci capita quasi sempre qualcosa di piacevole nei nostri giri di esperti in città. Troviamo un luogo luminoso, che ci rallegra e cambia il senso del nostro rimugi­ nare sull 'abitare. Facciamo esperienze a buon mercato (concerti, picnic in mezzo ai giardini del Luxembourg o sulle Ramblas) ed eleggiamo una panchina o muretto come nostro angolo ideale. Da lì vediamo tutto in dimensioni extra. 7·7· Un luogo sicuramente piacevole e che ci dà i termini del nostro mondo è la città di Salamanca. La città piace proprio perché contiene molta luce. Il sole estivo di Salamanca è ammiccante la mattina, violento il giorno, dolce e consolante la sera. Molti palazzi cittadini sono affacciati su piazze e strade di ciottoli. Spesso orientati a occidente, gli edifici vogliono acco­ gliere il sole pomeridiano e prolungarne gli effetti, fino a notte. Questo gioco non cessa mai di imprigionare l'attenzione della gente, di attrarla con raffinate geometrie. Proiettato sui muri e sulle facciate, il sole dà un senso sfarzoso alla città di Salamanca. Tante le tinte, in grado di conferire un aspetto inconfondi­ bile alla città: da quelle più sobrie e preziose dell 'ocra, delle foglie morte, dell'uva violacea, a quelle vivacissime dell 'arancia, della fragola, del melo­ grano. Tanti ricami di luci e ombre creano arabeschi sui portali, intorno alle finestre. Saltano fuori dalle vetrate, dai frontoni, dalle scalinate di pietra bianca e smagliante.

I visitatori di Salamanca sono guidati dalla luce, e non solo d'estate. Cercano, nelle varie tonalità della mattina e della sera, di appropriarsi di qualcosa di prezioso, di sentirne il sapore, di non perdere gli incantesimi della città. I turisti fanno scoperte su scoperte (un minuscolo capitello, una torretta, una croce che svetta, il marmo traforato di una balaustra) . Inventano le proprie giornate, in mezzo a splendidi scenari lucenti. Nel tripudio di colori di Salamanca, si oscilla dal lusso della cultura alla ge­ nerosità della natura. Durante il giorno, il caldo è forte ma ben accolto : sotto le lame d'oro del sole, spesso ci si sente sazi e riconoscenti. Qualcuno getta di tanto in tanto un'occhiata alle striature bianche delle nuvole estive (aspettando un soffio d'aria) . All' inizio della serata, sopra residenze, monumenti e monasteri intramon­ tabili, l'aria cambia e ristora. Alle soglie dell' imbrunire, cioè, si ripete un avvincen­ te scenario. È un momento di trapasso che stordisce, in cui la gente si ferma qua o là, prigioniera di immagini solari intense o bizzarre. Un minuto dopo, la gente 17 3

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è invasa dall'allegria portata dall'aria sempre più fresca. Diventa ciarliera, osserva le ultime striature del cielo che giocano sui vetri. Figure filacciose di nubi volano come uccelli rapaci. La sera, tutta la gente si riversa e vive per strada, fra chiese e residenze, ma an­ che tra bar e wine shops luccicanti di specchi, tra banchi di frutta esotica e souvenir. Passa accanto al luogo ove troneggia la statua di Francisco De Vitoria, il teologo, giurista e filosofo vissuto nella prima metà del I S O O. Ammira la maestosità dei colori bronzei della sua immagine. Il chiarore di candele, a un certo punto, diventa un segnale. Una folla di turisti riempie i locali, riempie le stanze bianco-azzurrine delle taverne. I colori attenuati assumono un potere rassicurante, quasi salutare ; tutti attendono l'avvento della sera, il cambio spettacolare della luce. Tutta la vita diurna e serale che si svolge per le strade di Salamanca non può non ricordare le situazioni storiche che essa ha conosciuto. La città ha alle spalle un passato storico di altissimo livello. Ha accolto, per generazioni, uomini di fede e di studio che hanno rivoluzionato i destini umani. È stata la sede di grandi perso­ naggi; si sono elaborati statuti giuridici e disegnati i rapporti fra i vari continenti. Uomini di scienza e di conquista, secoli fa, hanno definito i profili identitari del Nuovo Mondo. I ceti politici e istituzionali hanno costruito primati e privilegi per il Vecchio Mondo. Il primo è diventato lo sventurato obiettivo del secondo, delle sue armi micidiali, della sua sete di egemonia. Gli effetti di queste imprese ci riguardano, ci fanno misurare le nostre eredità. Stermini, spopolamenti, malattie hanno colpito molte etnie del Nuovo Mondo e le hanno attaccate relegando quelle sopravvissute ai margini del mondo. Laici e religiosi hanno riversato su popolazio­ ni sconosciute nozioni, credenze e tecniche di cui si sentivano orgogliosi rappre­ sentanti o emissari. Hanno attaccato antichi sistemi di pensiero ritenuti inferiori. Generazione dopo generazione, malauguratamente, gli "uomini della foresta" del Nuovo Mondo sono stati umiliati e distrutti. Con tutto questo alle spalle, oggi, la città di Salamanca assume le vesti lussuose di una sede museale di patrimoni rari, relativi a percorsi e battaglie che hanno ride­ finito il globo. Due esempi mi vengono da ricordare. Un segno grafico singolare, su muri e lungo corridoi, parla di ciò che è stata Salamanca, degli uomini che si sono formati nella sua università. Il segno è "V': ossia " Victor". Ben visibile, allude in modo sintomatico alla fama degli studiosi cresciuti a Salamanca, che hanno conquistato qui titoli ed esperienze. Gli stemmi dipinti sui muri sono rossi: si dice che fossero in origine disegnati col sangue di tori uccisi nelle corride. Sono stati un simbolo prezioso dei dottori di Salamanca, perché ne immortalavano le carriere storiche e accademiche. Oggi la "V" indica che i dottori in questione sono stati fi­ gure dominanti nel mondo occidentale. Sono stati i vertici vittoriosi di un mondo colto, battagliero e potente. Le sigle rosse sono i marchi di successi conseguiti, nel campo della teologia, della storia, della legge, della filosofia. Un luogo di Salamanca colpisce molto. La città è rammentata per certe stan­ ze di palazzi sobri, in cui aleggiano memorie singolari, forse un po' scomode. Al piano terra di un grande monastero del centro storico esiste una cella speciale. Si 1 74

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narra che in questa cella - vari secoli fa - un consiglio di uomini esperti di fede e di scienze abbia preso la decisione di conquistare le Indie Occidentali. Ho trovato la stanza poco luminosa, molto spoglia: conteneva all'epoca (oltre quindici anni fa) una fila di sedili perimetrali e nulla più. Lo scarso arredo, di gusto odierno, offre spazio a meditazioni e a calcoli. In questa stanza si sono gestiti i destini dei popoli "selvaggi" ? L' impresa è stata mastodontica e umanamente costosissima in vario senso.

7.8. Vista dalla parte inferiore, Salamanca attrae come luogo da scoprire. Vi­ sta dalla parte più alta, fa intuire il groviglio di eredità nobili o popolari, piene di storia. Su questo dislivello a volte si mescolano luci e ombre eccezionali.

Una sera, nel pieno chiarore rosso e oro del tramonto estivo a Salamanca, corre voce che sul tardi - quando sarà buio - ci saranno dei fuochi d'artificio, giù a valle. Tutti si animano, sono sedotti dalla notizia; si passano parola e si prendono accordi per andare a vedere. Si formano comitive. Mi dico : « Le luci sono un linguaggio universale. Com'è Salamanca sotto gli arcobaleni di fuoco ? » . Due ore dopo, mi avvio verso la parte bassa della città. L'afflusso di gente è enorme. La calca cresce, le auto sono incolonnate. Procediamo pianissimo. Non si vede granché. Parecchie persone lasciano l'auto accanto al marciapiede, per non finire in un caos ingover­ nabile. Proseguono a piedi, cercando di superare capannelli e ingorghi. È difficile trovare un posto. Proseguo per poco. Mi arrampico su un muricciolo. Sembra di essere a teatro. Molte le risate, i saluti. C 'è una socialità speciale. Salamanca alta è semivuota, sono tutti scesi giù? Nel vallone si è creata un'on­ da umana che fa ribollire tutto. Nel cielo, si apre il palcoscenico di una notte. Resto sul muretto, non voglio perdere il posto. Cosa significa questa festa di luci ? Molta gente è alle finestre delle case a scrutare il flusso e non sembra infastidita dalla confusione. Gli abitanti di Salamanca non si sentono espropriati dei propri luo­ ghi ? Nei lunghi minuti di attesa dei fuochi, la gente sorridente scatta foto e foto. Improvvisamente scoppia un autentico finimondo. Scoppi a ripetizioni. Poco a poco la gente si ferma, non si muove più. Zittisce. Registi della scena, gli artificieri sono invisibili, manovrano stelle incan­ descenti a forma di fontana, di comete enormi, di globi che scoppiano, di calici fiammeggianti che versano fiori, di cerchi saturnini. Nel cielo appaiono maschere grottesche e incandescenti che sembrano voler ingoiare tutti. A ogni botto pare di essere sollevati da terra e lanciati in alto. La gente sente la terra che tuona sotto i piedi. Applaude e aspetta la prossima vampata di colori. I fuochi crescono di intensità; c 'è un gran frastuono. Impossibile parlare. Tutt' intorno si sentono spari stordenti e grandi esplosioni. Per un paio d'ore non si interrompono i giochi di fuoco. «Vedrai cosa succede ora ! » , invita qualcuno, mostrandosi esperto. Volano, vicinissime, immense sfere fiammeggianti. Quando si capisce che sta arrivando il colpo stordente della fine, qualcuno si tappa le orecchie. Il tuono arriva fortissimo. 17 5

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Gli arabeschi si spengono e lasciano a mezz'aria un puntolino (un pesciolino o un cuoricino verde) che si smorza roteando. Nel luogo dei fuochi, per due ore, il fumo è stato nero e pungente. L'atmosfera è diventata acre. Su tutta la scena è caduta aspra e abbondante una polvere scura. C 'è uno strato di quattro dita di fuliggine, cenere, residui bruciati, tizzoni spenti. Ricopre tutto il terreno. Parecchia cenere è finita sulle spalle e sulla testa della gente (che finora non ci ha badato) . Le persone restano vicine per aiutarsi a rimuoverla, non sono pronte ad andarsene. La grande festa della luce si è esaurita, ma loro restano ancora un po'. Sono assordate, disorientate. Il colore plumbeo è diventato padrone del vallone. La gente annerita, scuote vigorosamente gli indumenti. Fra­ stornata, è presa da un urgente bisogno di recupero e di riemersione. La polvere nera è caduta, fine, come una cipria. È caduta su tutto come cade la pioggia; a un certo punto, ha imprigionato i pensieri infiammati del pubblico. Gli sguardi degli spettatori sono stati catturati da mille pagliuzze nere che continua­ vano a scendere, a svolazzare. La gente non parla della burrasca caliginosa che è passata sulle facce, sulle spal­ le. La serata si sta concludendo tra colori e odori di roba bruciata. Inesorabili sono diventati i colori sobri e bluastri della notte estiva. Tutto appare opaco. La gente è trasecolata. Ha gli occhi offuscati dalle scure tinte metalliche, dal velo di fumo che avvolge tutto. È stata assordata, travolta. Ora è in pienoJall down. Si manda saluti da sonnambuli. A un certo punto, la gente cerca di scuotersi, di riprendersi. Ancora barcollanti, gli spettatori si incamminano lentamente. Sembrano avere poca ener­ gia nelle gambe, un tremore nelle spalle. Qualcuno si massaggia mani e braccia. La tensione è stata alta, ora gli spettatori devono assuefarsi a nuove striature del cielo e a nuovi rumori della città e del vallone. Il deflusso della gente è lento e confuso. C 'è un'atmosfera strana. Il più grande gioco piro tecnico a cui io abbia mai assistito è finito paradossalmente nell'oscurità e senza chiasso. L'entusiasmo della gente è stato soffocato dalla cenere, dai materia­ li bruciati. Girandole di perplessità sembrano avvitarsi le une sulle altre; le persone continuano a scuotersi di dosso la polvere nera.

Quando il gioco pirotecnico lascia il posto alla luce debole delle abitazio­ ni, delle finestre, gli individui sono ancora sotto l 'effetto impressionante dell'alternarsi degli scoppi tonanti e di oscurità opprimenti. Ma le alternan­ ze non sono finite. Domani all 'alba ci sarà un nuovo sussulto, una nuova esplosione. Scoppierà la policromia del sole mattutino. Nuovi cicli faranno incantare, richiameranno nuovi pensieri. A Salamanca le luci solari non sono dipinte solo sui palazzi. E le incan­ tevoli immagini infuocate non sono principalmente i giochi pirotecnici. Sono stampate sulle persone, sul loro modo di vivere.

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7· ABITARE. COME VIVIAMO LE CITTÀ

, In una splendente domenica d estate, una festa di matrimonio di due giovanissimi è una buona occasione per vivere Salamanca. A metà mattina, di punto in bianco, un raduno nuziale occupa una bella strada del centro. A Salamanca, come in tante città spagnole, la festa degli sposi può prendere , d assalto tutti, parenti, amici, passanti e turisti. Una gran folla, una calca infinita, sta davanti a una bianca chiesa, addobbata dal sole. Qualcuno aspetta gli sposi da molto. È annoiato. Comincia a chiamare a gran voce, rivolto verso la chiesa: « lsabel, Isabel... Vogliamo la sposa, la novia! Juan, , facci vedere la sposa! Portate fuori Isabel ! » . La sposa rimane ancora un po dentro la chiesa. Poi appare. Appena lei esce - vestita in stile Madonna, con corsetto e trine - scoppia r applauso. Lunghissimo e sonoro. Uno sciame di ragazzi festanti e inebriati, urla gli evviva. La sposa saluta superba sbracciandosi in mezzo a un im­ menso vociare. La gente partecipa; butta fiori. La sposa, presa dalr irrequietezza, si getta di corsa giù dalla scalinata. E corre avanti. Molti la seguono. Si inizia una passeggiata chiassosa, solare, eccitata, incredibile. Gli invitati (e anche coloro che non lo sono) entrano nei ritmi e nelle pulsioni della gente. Artisti popolari cantano e suonano ; si mettono in capo alla processione degli sposi. Tutti si riversano nelle strade, come fossero a casa loro. Vogliono esserci, godersi r aria splendida. I bambini sono parte del gruppo dei festeggiati. Sono in abiti nuovi e molto colorati. Carini e contenti, non si staccano dalla sposa. La passeggiata va avanti ore, fino al pomeriggio. È accompagnata da risate, saluti e suoni di tromba e di violini. Volano auguri e molti gesti di contentezza. Sono inviati al mondo intero. Quello che resta in mente di una luminosa festa nuziale come questa, è come sia difficile sottrarsi alla vita comune, al cerimoniale di baci e abbracci. Durante il giorno - muovendosi per la città - capita di vedere rispuntare il corteo ai vari cro­ cicchi. Il corteo si elettrizza. Qualcuno viene riacchiappato e reinserito alr interno del gruppo festante. Non ci si stanca di dar fuoco alla festa. Tutti si congratulano , con entusiasmo, più volte, per ! andamento della giornata. Nel mattino solare, Isabel si è mostrata esuberante ed estroversa. Ha baciato commossa un mucchio di gente, ha cantato benissimo con i musicanti. Si è sbrac­ ciata per ringraziare coloro che, commossi quanto lei, le rivolgevano dei gran pa­ negirici e degli inchini augurali.

Ogni città ha una propria fama e se la guadagna sul campo, in tanti eventi, ma spesso anche in piccolissime scene quotidiane. Salamanca, custode di tanti fatti di cultura, ha gli spazi giusti, gli scenari e colori perfetti per far affiorare cose minime che non sempre sappiamo notare e apprezzare. 7. I o. Alcune città sono conosciute come luoghi scuri e freddissimi, altre come molto calde. Tra le prime e le seconde sembra esistere un abisso. Altre

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sommano invece i due aspetti : sono le più calde e le più gelide in modo sorprendente. Il freddo e il caldo, si sa, sono condizioni primordiali dell 'abitare, in­ cidono sui ritmi, sui bisogni, sugli adeguamenti degli uomini. Il gelo dà sensazioni paralizzanti, insopportabili. Passa sulla faccia come una scorza rugosa e graffia. Il gran calore rallenta, annebbia, quasi addormenta. Ogni persona racconta il freddo e il caldo a modo proprio. Parla di strade bianchissime, di cime azzurrine, di laghi d'argento, di deserti ro ­ sati, ma anche di terre bruciate e aride, di climi afosi, di città senz 'aria. Sono tutte sensazioni che variano a seconda di chi le vive e le memorizza. Freddo e caldo a volte favoriscono forme di vita specifiche. Sono alla base di sistemi di condivisione, di specializzazione culturale ( basta ricordare le case delle genti Sami, i mantelli-coperte dei Kwakiud, gli insediamenti dei Masai, le città sotterranee dell 'Anatolia, ecc. ) . Insomma, le metafore del freddo che morde , che trafigge con i suoi lunghi denti di cristallo, e del caldo che secca anche l'anima, sono frequenti e contengono giaculatorie e maledizioni. 7. I I . In tutta la Finlandia, il freddo è di casa e con esso il buio. Il primo diventa spesso compagno fedele dell'altro, ma è più amato e festeggiato. Helsinki è ritenuta una città che possiede due o tre caratteri climatici im­ portanti: lunghi inverni, brevi estati dorate, stagioni ridenti. I racconti re­ lativi alla luce1 fanno parte della più celebrata epopea delle terre nordiche. La capitale finlandese è spaziosa, ariosa, ha larghe zone colme di piante e di fiori. I suoi viali sono disegnati dai perimetri di ricche residenze, carat­ teristiche di varie parti dell' Europa settentrionale. Interna e meridionale rispetto a regioni vicine, la città di Helsinki è talora più accogliente di altre città. Temperatura e luminosità a Helsinki riservano sorprese. Il periodo estivo è generoso di luce e di sole. In quello invernale, le bufere ventose e le nevicate non sono certo di poco conto. In un 'estate appena cominciata, mi trovo a Helsinki dentro il viavai del centro storico. La gente, in abiti estivi, gironzola in mezzo a giardini curati e in fiore. La giornata soleggiata sembra una festa per tutti. Ragazzi e ragazze mangiano all'aperto roba di McDonald's, come in ogni altra parte del mondo. Sgranocchiano patatine e addentano giganteschi hamburger bollenti. A guardarli ci si chiede se esistano panini o merende finlandesi ( e

1. Di cui parla G. Ligi in I miti scandinavi della luce, Gangemi, Roma 1 99 8.

7· ABITARE. COME VIVIAMO LE CITTÀ

se i cibi caldissimi siano di stagione ! ) . Un gruppetto di giovanotti suona e canta in un giardino. Alcuni acrobati si esibiscono in tuta leggera, nello stesso luogo. La sede di un piccolo mercato è l'androne gelido di un grande palazzo. La gente indossa, quasi a caso, abiti leggeri e piumini pesanti. In alcune vetrine, le bambole o i manichini portano stivali di feltro o di pellic­ cia, calzettoni, maglioni di lana, cappotti invernali di pelle. Alcuni pupazzi sono in tenuta da sci. Le bambole e i pupazzi vogliono rappresentare le vere abitudini finlandesi ? Alcuni scherzi climatici, a Helsinki , colgono di sorpresa. La città di Helsinki si affaccia su una baia ampia, con impianti portuali cintati da strade scorrevoli. Sulla parte storica della riva, due imponenti chiese disegnano il profilo della costa. Hanno davanti piazze soleggiate. Le due piazze si trasformano, a giorni precisi, in mercati all'aperto. Una mattina di festa, nella prima piazza, profumata di dolci, c 'è una fiera di stampo latino-americano, nello spazio antistante la bianca cattedrale lurerana (Tuomiokirkko). Molta musica, giochi per bambini, esposizioni di oggetti arti­ gianali e mucchi di cibo. Tanti ragazzi, sull' immensa scalinata, si rilassano seduti al sole. Il tepore della piazza offre una sosta, l'occasione di leccare un gelato, di bere una lattina di birra con una ciambella. Pacchetti di pop-corn volano da una mano all'altra. La musica latina elettrizza. È perfettamente adatta alla gente in piazza. L'altra piazza si stende a ridosso del lungomare, a lato del porto mercantile­ turistico. È anch'essa molto frequentata. Sullo sfondo c 'è la rossa chiesa ortodossa (Uspenski). La piazza sulla riva è anch'essa inondata di luce e sole. Ma non sembra lo stesso sole, scalda meno, per la vicinanza col mare. Il cielo è lucente e bianco. La gente cammina soddisfatta tra le bancarelle. Osserva le merci esposte (berretti, sciarpe e cappelli soprattutto) . Non fa veramente caldo. Si sente odore di frittura, di salse e cose al forno. Per mangiare la gente si ripara come può sotto le tende di piccoli ristoranti all'aperto. File di banchi vendono cartocci di pesce fumante e squisito. Si sono attrezzate tavolate. Varie persone in fila, impazienti, battono i piedi per terra. Arriva una bava d'aria. Alzano il bavero della giacca. Poco dopo mezzogiorno, la seconda piazza è raggiunta da un'aria polare. Il freddo cresce in pochi minuti. Giacche e sciarpe non bastano a proteggere. Il tepore della mattina è in netta discesa; qualcuno abbandona la fila, rinunciando al pesce per sfuggire al vento che si è messo a sbuffare. Non si può più sostare sul lungomare. Il selciato in pochi istanti è diventato scivoloso ; è raggiunto da alcuni schizzi. Il mare increspato getta bagliori di ghiaccio. Una bolla di aria sotto zero si è formata tra le case della riva. Il porto si svuota. Qualcuno resta per qualche minuto sperando che il clima migliori. Dà un'occhiata al mare ; osserva i battelli pronti a partire per una visita alle isole. Se ne va. Lungo tutta la riva, le barche sono sbatacchiate dalle onde. Ascoltando lo sciacquìo, si sente il gelo correre lun­ go la schiena. La gente ha perso interesse per la gita in mare. Le raffiche più forti 17 9

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tagliano la faccia. Pochissimi sono i coraggiosi che prendono il ferry-boat. Un vecchio signore si allontana, si tiene calcato il berretto ora con una mano ora con l'altra. Il vento diventa molto odioso quando strappa il berretto ! Molti escono veloci dalla piazza, guardandosi intorno. L'aria si tinge di scuro. C 'è delusione per i gradi persi in pochi istanti. La gente straniera ha smarrito la baldanza e la curiosità. Il cambio di tempo è invece preso allegramente dai finlandesi. Parecchi locali si mettono come possono al riparo dal vento. Non si fanno rovinare l'umore. Sanno che nell'altra piazza si sta bene. Intanto, alcuni turisti tedeschi scendono da un battello un po' a precipizio, feriti dal freddo della baia. Si presentano di umore nero al bar di fronte all' imbar­ cadero, per un tè caldo. Subito dopo il tè, seguono il flusso dei locali non molto scossi, verso l'altra piazza, più all' interno. Altri stranieri si affrettano a testa bassa nei bar. Cercano il caldo. Per loro, Helsinki ha ormai due profili netti ed estremi. Il lungomare spazzato da schizzi gelati è ormai deserto, la piazza dei dolci messicani e peruviani è invece stracolma. In poche decine di metri, le persone hanno trova­ to sollievo spostandosi sulla scalinata ancora soleggiata, ove mangiano ciambelle. Qualcuno commenta il vento pedante, dal quale è appena fuggito. Guardando il cielo, un tizio dice : « Non ci sarà burrasca. Passerà presto» . « L'estate è salva ? » , m i chiedo. A un certo punto, il tramonto ha iniziato ad appannare l'aria. Ha disegnato ombre allungate e un po' buffe. Nella prima piazza, si sono alla fine conclusi i canti peruviani (arcani e carezzevoli) e i venditori hanno riempiti i furgoni di tavole e scatoloni da portar via. Nell'altra, un bel po' prima, si sono riposte le padelle del pesce e chiusi i fornelli. Si è chiuso tutto con la massima fretta. I turisti fuggitivi sono scoraggiati, i finlandesi gironzolano, sapendo che il pomeriggio se n'è andato col vento. Capita spesso. Non c 'è nulla da fare !

Il freddo così tagliente e l' incerto, ondeggiante sole dell'estate finlandese non passano certo inosservati. Sono vissuti a faccia aperta, con savoir-faire, in ogni parte della Finlandia. Lo n tano dalla capitale, verso nord, nella zona di Jirvenpaa, si sperimen­ tano altri incontri tra freddo tiepido e sole che non scalda. In un'area storica poco distante da Helsinki, in un ridente villaggio, si trovano la casa - chia­ mata Ainola - e la tomba del compositore Jean Sibelius. Nel territorio boscoso di Jarvenpaa esiste un lago attorno al quale sono state co­ struite capanne per la sauna. Esse sono regolarmente usate dagli abitanti. Vengono molto riscaldate. I finlandesi si radunano in questi luoghi di temperature molto calde. Uscendo da queste costruzioni, i finlandesi si buttano urlando dentro l'ac­ qua ghiacciata del lago. Le grida inondano l'aria di un senso di soddisfazione. Si crea un'allegra esaltazione tutto intorno. Il tuffo dentro il lago gelido risponde ad antichi costumi, amati. Diventa una delle meraviglie della vita. ISO

7· ABITARE. COME VIVIAMO LE CITTÀ

Un' insegnante finlandese di mezza età, a capo di una numerosa famiglia che pratica la sauna, spiega che il freddo del lago è un fattore benefico e necessario, un elemento immancabile della vita di queste zone. Ai suoi occhi, un salto nell'acqua fredda rappresenta un bisogno naturale. La signora non si stanca di ripetere : « Il tuffo è un nostro modo di vivere, qualcosa che dà salute » . Turto questo è di certo bello, e in qualche modo stupefacente. Lancia in giro preziose idee su come l'uomo sia duttile, su come cerchi le cose seducenti e sostanziali della vita.

In una mattina di giugno, il cielo diJirvenpaa è trasparente e lucentissimo. Lasciando la Finlandia, guardo di nuovo fiori e alberi che crescono ovun­ que. Mai viste tante betulle, mai visti tanti acquitrini azzurri e lucenti. Il sole è allo zenit, ma l'aria è percorsa da ventate che mordono. Mi sento tesa, un po' contraddittoria, fra due mondi quasi irreali: quello mediter­ raneo che mi è familiare e quello nordico che ho appena intravisto. So che esistono tanti angoli seducenti da cercare, da incontrare. La vita è fatta al tempo stesso da cose microscopiche e potenti che - tutte insieme - ci dominano. In California ci sono coste e spiagge famose, con un clima meravi­ glioso. Anche le città calde però possono essere colpite da pioggia sottile, battente, e da pensieri tragici. D ' inverno, lungo i marciapiedi umidi, la città di San Francisco, ridente, sembra cadere un po' nella noia. Sembra cambiare. Folate d'aria sollevano bruscamente foglie accartocciate e spazzano le piazze. I suoi colori deperi­ scono, si smorzano. Sui grandi viali, la pelle dei passanti ha il colore della prugna o della cenere. 7. I 2.

A fine novembre, anni fa, un uomo di colore si fermò all' imbocco di una strada nota e trafficata di San Francisco, Market Street. Aveva scarpe sfondate. Tutto il suo vestiario era mal messo. Non aveva giacca, solo una maglia stinta. Era un giorno freddo. Non c 'era molta gente in giro. Era arrivato il cattivo tempo sulla costa californiana. Il caffè Starbucks era pieno di gente, che sorseggiava tazze fumanti e leggeva i quotidiani. Sul marcia­ piede, l'uomo anziano pareva sofferente per la temperatura che stava precipitando. Si muoveva meccanicamente ; sembrava diretto verso un obiettivo. Non guardava in faccia i passanti. Afferrò con le due mani il cerchio di metallo di un cestino di rifiuti che troneggiava all' imbocco della via. Si aggrappò lì. Non si vedeva la sua faccia, ma solo la nuca con i crespi capelli grigi. Un attimo di spasimo. Si abbassò i pantaloni, fino alle ginocchia. La sua testa era volta verso il basso. Era sempre più nascosta. In piedi, energicamente, espulse tutto ciò che aveva nel ventre. Imbrattò il marciapiede. In un secondo ottenne la liberazione dal dolore. La scena fu impres181

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sionante. L'uomo era vicinissimo ai locali affollati e riscaldati, profumati di caffè e di brownies. Lui si sollevò appena, si aggiustò gli abiti. Stette in assoluto silenzio. Se ne andò via con passo incerto. Il ribrezzo dei passanti era evidente. Non si sentiva una parola. Nessuna rea­ zione, nessun appello, nessuna osservazione da parte della gente che aveva visto la scena. Era il freddo, inopportuno e insolente, che guastava una città bella, ricca, calda? Il gesto del vecchio svelava solitudine e disperazione. Il gelo che lo aveva imprigionato mandava messaggi più espliciti delle frasi usuali, delle parole che pe­ raltro non arrivavano neppure alle labbra. Niente discorsi. Erano stati dimenticati o negati, tutto a un tratto. I passanti sembravano pensare che fosse proprio meglio andarsene di lì, dopo quel che era accaduto. C 'era stato un fatto devastante, in­ sopportabile e indecente per molti. In una città rinomata succede di tutto ! Cosa si dovrebbe fare ? Accade e basta, dice il silenzio generale. Debole ed esposto alle intemperie, il vecchio aveva calcolato bene ciò che si accingeva a fare ? Aveva pensato che il luogo era molto visibile ? Si era trattato di una emergenza incontrollabile, dovuta al freddo ? Oppure aveva voluto lanciare un insulto alla città ? Alle tante conventions che vi si tengono e a tutti quelli che le vivono nei grandi alberghi ? Dopo un atto così crudo, l'uomo lentamente prese la strada in direzione della marina. Nessuno pensò di accompagnarlo, mancava il coraggio. Solo, andò verso il grande Golden Gate Bridge. Forse raggiunse i dimostranti del movimento "Oc­ cupy" che da tempo si erano stabiliti lì, si erano accampati da settimane presso la Stazione Marittima, per protestare con qualche cartello di denuncia contro le politiche dello stato californiano.

Casi drammatici come quello di San Francisco non vengono registrati o affrontati, né prima, né poi. Creano stupore che paralizza. Dopo scene tanto desolanti, la gente passa oltre, in fretta, trascinata da pensieri fu­ nerei. Tutto questo fa capire i modelli dell 'abitare le città, le necessità, i silenzi, le tragedie delle metropoli. Mostra quanto la gente povera debba sopportare perché priva di difesa. Tutti sono impreparati davanti a fatti così umani, ma purtroppo disgustosi. Ai pochi presenti quel giorno a Mar­ ket Street, quelli che si trovavano sul marciapiede, imbacuccati e un po' trasecolati, restava la via ( e il linguaggio ) della fuga. Restava la convinzio­ ne, più o meno universale, che non bisogna soccombere a tanti drammi. Non ci si può arrendere alla miseria. Il mondo si ferma a vedere i disastri, ma si sbriga anche a guardare altrove. La cosiddetta condotta consape­ vole si perde , purtroppo, nel vuoto delle cose astratte. Esplodono, con maggior concretezza, le incapacità, gli sconquassi, le sofferenze del vivere cittadino.

7· ABITARE. COME VIVIAMO LE CITTÀ

Nelle città, ci si mostra e ci si nasconde, si creano sintomaticamente atmosfere preziose. Molte città messicane, popolose e trafficate, sono colme di odori invi­ tanti. Oaxaca è molto odorosa. È tutta vapori e profumi. Dai fiori ai cibi. Investe i visitatori con o lezzi fragranti, con cose stuzzicanti (appena cuci­ nate). Dai portoncini d ' ingresso delle case, dai fuochi a gas, scappano fuori gli aromi che, superato l'uscio, invadono la strada. Fino ad alcuni anni fa tutti questi profumi, mescolati insieme, rappresentavano un mondo ondeg­ giante e caloroso. A Oaxaca l'atmosfera è di volta in volta poco cristallina o un po' traslu­ cida. L'aria odorosa fluttua ovunque : sta a mezz'aria. È un po' soffocante d 'estate. Un giardinetto, un'arcata, un' immancabile piazza alberata - prospi­ dente la facciata della chiesa principale - mitigano gli eccessi del vapore esti­ vo. In molte strade, alberi bassi e poco frondosi danno poco riparo. Soffrono la sete per lunghe stagioni e sono totalmente inondati d'acqua in altre. Danno spesso un senso di deperimento. Gli abitanti frettolosi filano via, sotto gli alberi rinsecchiti e tra palazzi e palazzetti colorati. In qualche portico e sotto i tendoni dei caffè, fanno bella figura molti tavolini. Mamme e bimbi, al ritorno dalla scuola, riposano su una panchina o nei pressi di una fontanella, sedendosi sotto una spalliera di edera o di bougan­ villea. Molte donne stanno a chiacchierare, sui marciapiedi, negli ingressi dei ristoranti all'aperto e ancora sotto i tettucci dei carretti pieni di frutta e verdura, bibite e Coca-Cola. Nella canicola delle mattinate più lunghe, a volte manca il respiro. Un perenne brusio, un suono rauco, normalmente invade le strade del centro storico di Oaxaca. Proviene da una zona compatta, piena di case e di luoghi illustri. La planimetria del quadrilatero, il cuore di Oaxaca, è famo­ sa. Le vie centrali compongono disegn i geometrici, tutti eguali. Formano una splendida scacchiera, seguendo assi perpendicolari su cui si affacciano alcune piazze e sfociano crocicchi. Questo colpisce la fantasia e fa nascere domande su vicinanze e distanze, su passaggi e comunicazioni. Fa pensare ad antichi segreti che si moltiplicano in vie abitate da gente che, ostentando modi cordiali ma decisi, non fa trapelare nulla del proprio quotidiano. L'uniformità del disegno stradale del centro non è solo perfetta, fatta di vie che si annodano e si divaricano, ma è una spia di vicende passate. Turto l' impianto viario ha una propria magia. E diffonde un 'atmosfera di anti­ ca impenetrabilità. Per gli estranei è difficile mantenere la rotta fra strade perpendicolari. Nel dedalo è difficile tenere a mente una via, distinguerla dalla successiva o dalla precedente. Ciò dà la sensazione di essere in mezzo 7· 1 3 ·

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a cose non decifrabili. Cosicché, ci si sforza di tener a mente i nomi degli incroci e delle stradine, ma non c 'è molto da fare : si rischia sempre di vagare in tondo. Girovagando in città, è giocoforza accorgersi della ricchezza culturale dell'abitato cittadino. Impossibile non esserne ammaliati e stupiti. Tutto se­ gue un incastro intricato di tracce e modelli ripetuti per tante generazioni. Le vie delle trattorie tipiche hanno una impronta ispanica, alcuni negozi e caffè hanno l'aria logora e scadente della modernità, e sono poco catalo­ gabili. Molti luoghi di raduno o di mercato, nel nostro tempo di turismo imperversante, stanno cambiando la faccia della città. La mobilità delle persone è un indice importante : tutto cambia di po­ sto, minuto per minuto. Transitando avanti e indietro per le strade e i vicoli, ci si accorge di un numero infinito di negozietti colmi di merci deliziose. Alla fine, a causa del traffico, tutto sembra magnificamente mobile, ma di­ retto verso l'eterno. Le notizie che si raccolgono su luoghi di lavoro e com­ merci non sono molte : è difficile decifrare la gente. La popolazione dice poco di sé, del proprio posto, delle proprie speranze. Senza assumere toni cupi o oscuri, sembra nascondere ciò che teme possa esporla negativamente, metterla in cattiva luce. Nei mercati all'aperto i colori sono incantevoli. Grossi teli a strisce sono issati sopra merci e venditori, che se ne stanno accovacciati a contrattare ad alta voce. Lunghe file di negozi vendono abiti femminili, bluse e sciarpe ricamate. In alcuni quartieri, la produzione artigianale di merci differenti (dai pizzi alle stuoie, ai cesti, alle terrecotte, ai tappeti) si svolge nei cortili, o appena dentro i portoni delle case. Sono luoghi in cui girano tante donne affabili e ciarliere che descrivono i propri prodotti e li offrono insistente­ mente. Le attività commerciali non intralciano il passeggio o altri divertimenti modesti (chitarrate, raduni di giocatori di carte, scommesse). Tutta la città ne è piena. Non si sa di preciso dove nascano queste attività ricreative, e non si trovano informazioni sulle loro sedi di quartiere. La vita di città impone molte visite e saluti scambiati in ogni angolo di strada. Molti abitanti gironzolano tra i negozi, scambiano battute con chi sta inchiodando, cucendo, intrecciando, colorando. Qualcuno coltiva il piacere di fermarsi a lungo, di far commenti sui lavori in corso, sugli sgar­ gianti manufatti. Intanto le merci sono prodotte a getto continuo, da mani amorevoli e molto abili. La cronaca di Oaxaca passa per molti fatti difficili : traffici oscuri e vio­ lenze tutt 'altro che lievi. Poca gente locale sa come stanno veramente le

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cose. Le situazioni più brucianti sono sicuramente depositate in fondo alle case, alle famiglie. Non vengono nominate, per un senso di difesa o per dinamiche omertose. In città, peraltro, viene dato ritmo alla vita dal sole che si alza, si infiam­ ma o che si spegne. Viene dato vigore, nelle piazzette del centro, alle musi­ che e ai balli. Momenti importanti a Oaxaca sono le ballate in costume, pie­ ne di abiti e travestimenti sgargianti, a volte stravaganti. Per molti, il ballo e le rappresentazioni musicali hanno un fascino irresistibile. Permettono di sfoggiare bravura, passi incantevoli. La popolazione si dedica regolarmente a queste attività ricreative, vistose e coinvolgenti. Dopo il tramonto, spesso si forma un cerchio di sedie e sgabelli, in piazze minuscole o davanti a un androne. La gente aspetta la musica. Tutti sanno che attaccherà a una certa ora, anche se talvolta non viene precisato il momento di inizio. La città non mancherà di certo a questo appuntamento sui generis, un po' bizzarro. Le compagnie di ballo, si dice, nascono più o meno spontaneamente, per passione. I danzatori sono reclutati nei vari rioni. Offrono quel che sanno fare. Il repertorio più comune è fatto di fantasie ispaniche, di salti e piroette acrobatiche pre-ispaniche. Roba che non entra nei programmi dei teatri o luoghi pubblici (come il grande Z6calo di Città del Mexico ). Le repliche serali di questi spettacoli sono infinite. Nei balli si inscena l'eterna lotta fra uomo e animale, fra bene e male, fra padrone e servo, fra diavo­ lo e santo, tra predoni e contadini. Questo è un recupero favoloso del sé, della giornata. È verosimile che gli spettatori siano pronti a tornare la sera successiva e quella dopo ! Tra le manifestazioni più sfarzo se ci sono le pro­ cessioni, le bande e le esibizioni periodiche di tipo religioso. Raccolgono parecchio pubblico. Sono occasioni pubblicizzare sui muri di Oaxaca, che molti seguono fedelmente. Questo genere di spettacoli, si sa, segna bisogni celebrativi antichi, fedeltà a certe devozioni che non tramontano. Si può entrare nella vita usuale di Oaxaca seguendo i tempi del lavo­ ro. C 'è l 'ora in cui si pulisce la scala di ingresso, si getta qualche secchi o d'acqua saponara sul marciapiede, si preparano focacce e bevande di tutti i tipi. C 'è il tempo in cui si trasportano le prime merci al mercato, in cui si mettono fuori i tavoli e le seggiole delle locande e le stoffe ricamate sulle panche (dei negozietti di abiti). Col passare delle ore, la gente occupata in mille antichi mestieri sembra più pacifica, più rilassata. Il traffico si placa quasi totalmente il primo pomeriggio. Durante la siesta, alcuni vanno a prendere bibite e schiacciate di mais al locale più vicino, d'angolo. E danno un po' di vivacità all'ambiente generale che, con la calura pomeridiana, è decisamente sonnolento. I8S

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Il peso del lavoro si legge sulle facce e nelle mani, negli sguardi digni­ tosi a volte orgogliosamente muti. Le chiacchiere sulle porte dei negozi sono spesso interrotte dagli imperiosi squilli dei clacson di auto e bus che salgono dalla strada o dagli scatenati rintocchi di campane. La gente attende segnali che servono a mostrare (e a mitigare) l 'andamento com­ plesso della città, oppure medita in silenzio l' ineluttabilità di destini e di drammi sociali ? 7. I 4. L'architettura coloniale è un 'attrazione che Oaxaca condivide con altre città messicane. Dà tono al panorama cittadino. Vari hotel e ristoranti sono antiche case coloniali. Sono il lusso più autentico, più nostalgico della città. L'armonia dei porticati, dei pavimenti, delle pietre decorate, dei ferri battuti, ha fruttato a Oaxaca nomi speciali: è chiamata ciudad de)ade o la verde Antequera, perché molti decori delle facciate sono fatti con pietre di giada. I caffè di stile ispanico, i saloni imbanditi e pieni di fiori freschissimi sono, da tempo infinito, un orgoglio della città. Le chiese seguono ritmi piuttosto uniformi, con vari atti solenni. Qual­ che volta le chiese sono in cattivo arnese, ma raccolgono oggetti antichi di pregio (organi, statue vestite, candelabri giganteschi, bandiere, paraventi, tendaggi di seta e tovaglie da altare). Tutto ha un'aria un po' polverosa, se non proprio consunta. Il contrasto tra decrepitezza degli addobbi e pro­ fumo di fiori opulenti è enorme. Riassume molte delle cose minime che rendono particolare il tessuto cittadino. Le navate delle chiese sono cariche di simboli che incutono rispetto. Alcuni spazi, soffusi di ombre (pieni di argenti rossastri, immagini mal in­ corniciate, ex voto ecc. ), portano le tracce di eventi appannati e lontani. In questi luoghi la gente iscrive l' intero ciclo della propria vita: nascite, battesimi, matrimoni, funerali. Non potrebbe concepirsi senza ricorrere a amatissimi quadri di santi, impolverati o un po' scrostati (che consolano delle delusioni del presente). Nell'area del centro storico, le chiese possono essere punti di sosta e di riparo, per tutti. Molti gli anziani che circolano dall 'una all'altra. La popo­ lazione, di tutti i livelli, la domenica compie più o meno regolarmente vari doveri rituali. Sagrati e navate sono invase da autentici fiumi di persone. I fedeli si spingono, si stringono e si salutano. Si legittimano. Altrettanto avviene a Mérida, Guadalajara, Puebla, Santa Cruz, San Crist6bal de las Casas e in tante altre città.

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, I monasteri e i conventi sono sovente un po logori e disadorni, come altri edifici. Sono stati centri di educazione, di ricerca, di costruzione di , memorie. Oggi, se sono sfuggiti ali abbandono, sono diventati luoghi di raduni di un certo livello, non sempre religiosi. La chiesa di Santo Domingo di Oaxaca è un edificio piuttosto elegante e ben tenuto. La sua facciata è un , , esempio di architettura coloniale dell inizio Settecento. L impianto origi­ nario della chiesa risale al 1 5 3 5 , ma è stato distrutto nel terremoto del 1 6 9 6. , Assieme ali importante santuario della Nuestra Seiiora de la Soledad (xvii secolo) e alla chiesa di San Felipe Neri (xvii-XVIII secolo), questo luogo è , considerato un pezzo unico dell arte messicana. , I famosissimi stucchi d oro di Santo Domingo, assolutamente sfavil­ lanti, incorniciano sontuosamente l'altare maggiore, le immagini e figure sacre. La navata, molto adornata, contrasta con la sobria facciata; è peraltro il luogo in cui si vivono le appartenenze religiose. I cortili e il chiostro di Santo Domingo oggi ospitano il Museo regionale di Stato (Museo de las Culturas de Oaxaca) , che spicca nel panorama culturale messicano. Le chiese sono stati luoghi di lotta religiosa nei primi decenni del No­ vecento2. Oggi, in pieno terzo millennio, per certi versi, sono ancora punti nevralgici della città. Le parrocchie più o meno monumentali appaiono malgrado tutto attive (stando ai manifesti-avvisi delle sacrestie ). A Oaxaca, la frescura degli interni dei caffè, dei cortili coloniali, dei ristoranti addolcisce la giornata. Ma ci sono anche altri scenari, che met­ tono in vista la città invasa da tante onde sonore, aliti profumati e colori mozzafiato. Dal punto di vista topografico, il "catino,, suolo concavo in cui è si­ tuata la città di Oaxaca, desta qualche meraviglia. È chiuso da una cinta di campi. Ma ci sono anche zone umide, coperte di piante e canne che influi­ scono sul panorama della città e sugli umori della popolazione. Qualcuno non ama questi luoghi, più che singolari. Li trova insidiosi e degradati. E tende a evitarli. Un lato estremamente sorprendente di Oaxaca è dato dalla composi­ zione etnica degli abitanti. La città invita a meditare e a vivere la diversità. Il métissage, la ibridazione etnica, a Oaxaca costituisce un messaggio culturale potente. Il tessuto culturale è un puzzle. Non è facile scoprire da quali mescolan7· 1 5.

2. J. Meyer, El conflicto religioso en Oaxaca (I920-I93S), Centro de lnvestigaciones y Estudios Superiores en Antropologia Social, Oaxaca 2006.

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

ze la gente sia stata modellata e ammaestrata. Le scene quotidiane della vita cittadina sono dunque entusiasmanti per la varietà delle persone, dei loro tratti fisici, delle loro parlate. Se si incontra un donnone con un cesto in te­ sta vicino alla cattedrale, dopo un po' la si trova più a sud o la si vede sbucare davanti a un carretto di frutta, spinto da un giovane indio. Forse, mi dico, ha finito il suo lavoro in un posto o ne inizia un altro tra gente differente ? Cerco di attaccar discorso con un uomo molto magro e insolitamente alto. Ha poco tempo. Sta raggiungendo altri uomini che stanno riparando un marciapiede. I suoi compagni di lavoro mostrano le più varie fisionomie. Credo che la popo­ lazione abbia evidentemente propri inestricabili legami. Ha una naturale rete di parentele e di scambi che non pensa siano da commentare con stranieri curiosi. Durante un trasferimento fuori di Oaxaca, entro in una grandissima casa di stile coloniale trasformata in hotel (con stanze che si affacciano su un superbo cortile piastrellato) . Mi fermo a guardare tanti bei visi di bimbi. Mi dico: « Qui si sono mescolate tutte le genti del mondo ... ci sono rare bellezze in queste faccine » . È chiaro che la città ha lottato per abitare qui, per ottenere un posto nel mondo. Oggi i giovani e i giovanissimi di Oaxaca bussano con forza alla porta di chi conta. Si intuisce che posseggono qualche strumento culturale e che vogliono ottenere benessere. Timidamente, provano a mettersi in contatto con gli stranieri per capire il proprio posto nella società odierna. In una piazza della Oaxaca an tica, con scalini di pietra bianca a forma di terraz­ za, i venditori di bibite (Coca- Cola e spremute d'agrumi) si muovono tra i tavoli dei loro chioschi. Sembrano capitati per caso in piazza, tanto sono rilassati. Ci sono vecchi clienti sorridenti che consumano poco e pagano le consumazioni a turno. Venditori e clienti sono sistemati su sedie di vimini, dipinte con colori vivaci. I primi sono un po' clienti di se stessi: invitano amici e passanti a partecipare alle be­ vute per amicizia e per togliersi il caldo di dosso ! I venditori aspettano i ragazzi che escono dal liceo. Questi giovani si gettano urlando nella piazza, verso i chioschi. Li invadono esuberanti, padroni dello spazio, del sole, di tutto. Bevono succhi, bibite gassate, chiedono granite. Si asciugano la bocca con la manica della camicia e chie­ dono dell'altro. Un gruppetto di liceali si avvicina. Si sono staccati dalla balaustra che contorna un lato della piazza. Si mettono subito in mostra con sorrisi e battute, ma non sanno come continuare dopo un « Siete europei ? Noi siamo americani » . Guardano d i sottecchi visitatori così bizzarri. Penso all' istante che questi liceali sa­ ranno i professionisti, insegnanti, impresari di domani. Conoscono poco il mondo di fuori. Stanno capendo cosa li aspetta ? Si direbbe di sì. Parlottano in inglese con i forestieri appena dopo averli catalogati come soggetti da esaminare. I ragazzi mi invitano al loro "centro culturale" annesso al liceo - un locale­ corridoio a volta - tappezzato di foto, di avvisi, di manifesti, di ritagli di giornale riguardanti fatti di attualità. Hanno gli stessi bisogni dei nostri ragazzi. Se non fos­ se per il taglio degli occhi, i capelli lisci delle ragazze e la pelle ambrata, sarebbero 188

7· ABITARE. COME VIVIAMO LE CITTÀ

identici ai nostri studenti. Si mostrano stupendamente ottimisti. Guardano dritti negli occhi di chi li sta interrogando (e li vuole per amici) . Il fatto formidabile è che sembrano sapere perfettamente che dietro l'angolo può essere nascosto di tutto.

Lo stato di Oaxaca è famoso per la sua ricchezza archeologica. Non è il solo, naturalmente. Basta nominare il monte Alban per avere un ' idea dei tesori architettonici che arricchiscono la città, che sottolineano genialità, diversità etn ica. I siti archeologici sono pieni di geometrie specialissime : grandi spianate, strade e piramidi immerse nelle steppe, nella terra arida. Contengono le tracce stupefacenti di antichissime abitazioni, templi. Gli scenari della religiosità mesoamericana sono stupendi e vissuti come spet­ tacolari eredità precedenti la Conquista ( che ha insanguinato gradinate, spianate e celle ) . A Oaxaca, l'autobus per la capitale messicana parte di prima mattina. Salgo sul bus. Il mio sguardo resta incollato a un mondo multiforme e im­ pressionante. Oaxaca diventa parte di ognuno di noi ; è quasi un album di immagini da sfogliare, da ricordare. 7. 1 6. A questo punto San Francisco, Oaxaca, Helsinki , Salamanca ci sfi­ lano davanti. Helsinki, offre un benessere ambientale che conta molto. La città è ricca, aperta, culturalmente avanzata. Il suo clima e i suoi spazi pos­ sono fornire visioni gradevolissime ed essere ambienti incantevoli. Le alter­ nanze di caldo-freddo hanno un peso nei modelli quotidiani, nelle scelte giornaliere della gente. L' incontro con Helsinki si realizza soprattutto negli interni, nelle aree familiari protette, dove si sente profumo di legno, di re­ sine o si vede il cielo attraverso bellissime vetrate. L' incanto di Helsinki si esprime in vari luoghi, nei giardini tiepidi, nei ghiacci e nelle folate sferzan­ ti. La popolazione decanta queste alternanze ( il classico stile finlandese ) e le traduce in prove inconfondibili della tempra della gente, della sua forza e della sua salute. San Francisco è una città che accoglie la gente, la fa parte di sé, attra­ verso tanti richiami. Viene incontro ai visitatori calorosa e sbrigliata. È un luogo vitale. È abituata alla varietà dei volti di chi approda in città, per un giorno o per la vita, da est o da ovest. San Francisco è certo occidentale, ma piena di orientali. Sono tanti gli stranieri che vi si sono radicati per avven­ tura o per amore. La città è stata, nell' immaginazione collettiva, aperta a sperimentazioni. È stata via di penetrazione del continente americano in molti sensi, con molti effetti. Amata e cercata per i suoi modelli di vita, per la sua cultura vivace mostra molte realtà urbane, tra cui situazioni buie

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

che sconvolgono e lacerano. Ci consegna testimonianze, in cui si annidano destini umani intollerabili e disperati. Le descrizioni di queste città sono estremamente complesse. Helsinki e San Francisco sono settentrionali, sono stazioni dell 'emisfero Nord. Oaxa­ ca e Salamanca sono percepite come più meridionali; non appartengono però al Sud. Fra di loro sono geograficamente distanti, ma di fatto sono meno dissimili di quel che si pensi. Anzi, alcune caratteristiche delle due città per qualche aspetto si spiegano reciprocamente. Per comprendere que­ sta situazione, occorrono precisi parametri culturali, punti di riferimento e scenari storici. C 'è di più. La prima delle quattro città, Helsinki, vive di tanti stimoli e fatti ambientali problematici. È genericamente meridionale rispetto al suo ambiente scandinavo. Spesso vive situazioni di confine, mostra caratteri fisici complessi ed eccezionali. La seconda, San Francisco, possiede uno stile di comunità accogliente, non proprio nordica. Sembra avere voglia di cogliere il colpo di vento, di dar fiato all ' immaginazione. I suoi abitanti sono coinvolti in mille imprese, impegnati in lotte giornaliere e vicende ag­ grovigliate a non finire. A Oaxaca, nella parte Nord dell 'ambiente centro­ americano, la gente custodisce un brioso desiderio di abitare vivacemente la città. Le facce dei giovani di Oaxaca sono colme di messaggi estrosi, pieni di curiose domande. Questi ragazzi desiderano lanciare messaggi, uscire da un mondo tribolato, incontrare solarmente e con successo il futuro. Città lucente, Salamanca è intimamente viva e la sua vitalità è visibile. È un inse­ diamento urbano lussuoso e colto, collocato nel cuore dell ' Europa in vari sensi. È una delle sue vetrine. Ha speciali patrimoni artistici e scientifici. Per una metà è figlia della storia europea, e per l'altra metà è culla della storia planetaria. È vincolata al mondo europeo dominante e, allo stesso tempo, a tante vicende del Sud del pianeta. Ricorda in ugual misura da dove vengo­ no contemporaneità e globalità. Ognuno sente Salamanca come una patria culturale, venerata e memorabile. E ci tiene che lo sia.

8 La bellezza è

un

tesoro

La bellezza è qualcosa di prezioso, di sbalorditivo, che entusiasma. È la forza che dirige il mondo, di cui abbiamo bisogno e che cerchiamo. Non facilmente decodificabile o sintetizzabile in concetti, la bellezza è presente ovunque, invitante. Pensiamo spesso che debba essere conquistata a ogni costo, con cura e molto amorevolmente. Un'enorme quantità di iniziative umane sembra essere dominata dalla voglia di dare "bella forma" alle cose, da quelle minime e usuali a quelle più complesse. Gli individui appaiono mossi da un estremo bisogno di costru­ ire oggetti, ambienti ammalianti e vite piacevoli. Si sentono investiti del dovere di essere, per quanto possibile, persone incantevoli, piene di fascino. Desiderano dedicarsi a se stessi, a livello materiale, intellettuale o morale, sperando più o meno ingenuamente di piacersi, di rendersi perfetti o quasi. Ogni individuo può essere estremamente attratto dalla bellezza di cose e di persone. Può desiderare di vederla riconosciuta da tutti ed è pronto a impossessarsene a piene mani. Gli esseri umani hanno a disposizione vari strumenti per scoprire, svelare o costruire la bellezza. Ma alcuni di questi strumenti sono mal impiegati e non portano a un buon fine. Molti sono usati per sciuparla in modo gretto e disperante. Malauguratamente, siamo esposti al rischio di perdere o vedere sciupata la bellezza a causa di aggres­ sioni, predazioni. Possiamo subire perdite irreparabili delle cose belle che amiamo. Talvolta sono proprio gli esseri umani che vengono deturpati, feriti, storpiati o cancellati. Le storie di oggigiorno, disgraziatamente, danno am­ pie testimonianze di insopportabili delitti contro persone e cose amabili di cui ci contorniamo. È questo che ci obbliga a cercare di capire la forza e la fragilità delle cose belle, i loro messaggi. 8 . 1 . Ogni gruppo umano produce oggetti e manufatti che considera rap­ presentativi, di sicuro valore. Tutti usano propri specifici canoni estetici.

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

Hanno metodi cioè per "creare bellezza", per metterla in mostra, venerarla, idolatrarla (e farla idolatrare) . Anche i n situazioni di penuria o d i grande difficoltà, l'uomo tenta co­ stantemente di inventare e creare bellezza. Nella maggior parte dei casi, cerca di darsi obiettivi positivi e funzionali, aspira a essere un apprezzato autore di oggetti, sagome attraenti. Fa dipendere la sua vita da ciò che ha il potere di gratificarlo e di spronarlo. L' impresa non è semplice e non ha sempre esisti soddisfacenti e garantiti. La bellezza è spesso condensata in manufatti prodotti dall 'uomo che chiamiamo "beni artistici". È chiaro che le produzioni di pregio occupano un posto singolare nel mondo, negli ambienti in cui vive l'uomo. Si colloca­ no ai vertici della creatività umana. È peraltro vero che tutte le opere umane, anche quelle meno eccezionali, lanciano messaggi, più o meno nascosti o impliciti. I beni artistici istruiscono fortemente. È difficile dare conto di tutto quello che le opere d'arte trasmettono, perché sono soggette a gusti, a mo­ de, a inclinazioni che fioriscono e mutano da persona a persona, di epoca in epoca. Gli oggetti rari e sofisticati, tendenzialmente aumentano di valore grazie anche a precisi processi culturali ( tematiche pittoriche, architettoni­ che, musicali, scientifiche ecc.) . Esistono cioè processi di valorizzazione e reinterpretazioni delle opere artistiche, nel tempo e nello spazio. « Coloro che le contemplano oggi, quale sia la loro erudizione, non avranno mai lo sguardo di chi le vide per la prima volta, quando furono compiute » 1• L'umanità, attraverso i tempi, è impegnata più o meno sistematica­ mente in questi processi di potenziamento e recupero (scavi archeologici, investigazioni varie ecc. ). L'accumulo di opere e di oggetti belli e raffi­ nati può favorire la loro fruizione o la loro spettacolarizzazione, quando questi sono collocati in precisi scenari (musei, residenze, chiese e palaz­ zi). Talvolta però il processo conservativo o migliorativo dei materiali è difficile o ostacolato proprio dai sistemi culturali messi in atto. Alcune messe in scena favolose, in pubblicazioni, films, narrative, possono essere piuttosto inquietanti o un po' ossessive. Ogni opera d'arte è culturalmente misurata e soppesata, per non dire "reinventata", dalla sua collocazione tra altre risorse artistiche. L'oggetto d'arte può essere tesaurizzato, protetto e sorvegliato (nascosto in depositi o magazzini inaccessibili) ; può alimentare un grande e complicato mercato 1. M. Augé, p. 20.

Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2 0 04,

8. LA BELLEZZA È UN TESORO

commerciale. Il fattore tempo incide sul valore oggettivo delle cose. Dispo­ niamo di manufatti antichi o moderni molto deperibili, e di altri duraturi a cui, come spiega Mare Augé, l'età attribuisce maggior pregiol. 8.2. È difficile accaparrarsi la bellezza o impossessarsene. In certi musei, r ammirazione è tutta per un preciso punto di rosso pompeiana, per un marmo bianco purissimo, per un viso dipinto su olio. I fatti rappresenta­ ti rimarrebbero un po' opachi, se non fossero contenuti in una targhetta: "Ritratto di George Washington'', "Nascita di Venere'', "Battaglia di Water­ loo,, "Donna Ottentotta''. Ma tutto questo non ci parla ancora di bellezza. La bellezza deve risuonare nello spettatore ; solo allora possiamo parlare di possesso e di conquista del bello. In alcuni musei, il pubblico è veramente in primo piano. Gestisce il proprio contatto con le opere d'arte. Prima degli scontri drammatici della cosiddetta Primavera araba, il museo egizio del Cairo era ricchissimo di materiali splendidi e rari. Possedeva un patrimonio di belle opere inestima­ bili. Dava conto di millenni di storia del Mediterraneo. Era un luogo che mostrava quello che ha saputo fare r ingegno delle genti. Dava prova della loro voglia di bellezza.

Il tesoro di Tutankhamon ha sempre attratto al Cairo tanti visitatori. Ciò ha fatto temere pericoli e furti. Si temeva il numero eccessivo di coloro che si accalcavano nella sala dove erano gli oggetti personali del faraone. La visita concessa al pubblico a questi oggetti si riduceva a pochi istanti, appena sufficienti per un saluto fretto­ loso a un mito della storia. Nella sala, durante le lunghe pause di attesa, si creava una situazione elettriz­ zata, una commozione particolare. La gente fremeva, si spazientiva e premeva. Si spingeva avanti. Questo andare di fretta, sospinti dentro la calca, era necessario per non creare ingorghi. La gente però aveva una certa ritrosia a darsi premura. Aveva grande voglia di avvicinare, per quanto possibile, un personaggio eccezio­ nale, un sovrano divinizzato quale Tutankhamon. E voleva soprattutto ammirare splendore e bellezza di maschere, gioielli, oggetti. L' incalzare della fila dei visi­ tatori non permetteva di apprezzare a sufficienza gli splendidi materiali esposti (soprattutto la maschera funebre) . Il clima era alquanto sovraeccitato. Sembrava che arrivare vicinissimi a Tutankhamon fosse lo scopo irrinunciabile della vita di tutti i presenti. Il museo appariva quasi un luogo di conquista. La gente pareva 2. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 2 5 -6. 1 93

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

voler certificare la propria esistenza tramite la visione di pezzi archeologici di inestimabile bellezza. La poca calma dei visitatori nuoceva all'apparato storico di Tutankhamon. Lo rendeva un esempio di arte presentata come qualcosa "usa e getta". Trasmetteva la figura regale attraverso ciò che non si poteva intravvedere che per pochi secondi. La trasformava in qualcosa di spettacolarmente elevato, ma lontano e distaccato. Tutt'altro che conquistabile e apprezzabile. La maschera funebre del faraone, preziosissima, nasconde molte cose. Del so­ vrano non mostra nulla. Non si sa a cosa corrisponda il suo simulacro. Quest 'og­ getto d'arte è uno scrigno che sigilla il contenuto. Il pubblico, stordito dall'urgenza di procedere, percepisce che non si può aver alcun riscontro di ciò che fu il sovrano. I capolavori di arte orafa, i laccati dorati, gli oggetti del faraone e le teche sigillate che li contengono avvolgono tutto in un apparato bellissimo ma distante e poco comprensibile. Più o meno consapevolmente, è il pubblico che dilata - con l' insistente vo­ glia di stare di fronte ai resti del faraone - il valore dei beni museali del Cairo. Guarda, scruta e colloca gli oggetti in proprie graduatorie e schemi culturali. Per così dire, "inventa" l'oggetto bello e venerato. Si entusiasma _perfino davanti a cose piuttosto banali che solo la sacralità del museo può esaltare. E il gran pubblico che dà lustro al capolavoro, che rende tutto ciò che concerne il faraone un grandioso e splendido tesoro. Qualcuno lo capisce, e non si sente soddisfatto dell' incontro con Tutankhamon.

8.3. Le cose belle e di pregio possono ovviamente giacere in contesti mode­ sti. Possono essere di pregio solo perché le consideriamo qualche cosa che interessa la nostra vita, perché sono in grado di condizionare il senso delle cose familiari, le concatenazioni tra presente e passato.

Nei luoghi nascosti delle case esistono tesori belli e buoni. A volte sono cose mini­ me. Una mia amica aveva ereditato dalla madre di una sua nonna un vaso d'argen­ to, panciuto e ben sagomato. Tutte le donne di casa lo avevano amato e tenuto in mostra. Avevano decretato, con comportamenti un po' stravaganti, che portasse fortuna. Una delle donne anziane aggiungeva: « Mantiene fresca l'acqua e fa vive­ re più a lungo i fiori recisi » . Un'altra donna di casa sosteneva che completasse la tavola imbandita. Il vaso era considerato bello non solo perché antico, ma perché era entrato in casa come dono di nozze di uno dei figli maggiori della proprietaria. Più gene­ razioni di donne lo avevano sacralizzato, né più né meno, anche perché era uno dei pochissimi oggetti di argento che, una dopo l'altra, avevano ricevuto da altre donne. Si litigò per questo vaso, e insensatamente. I visi si fecero brutti e scuri quando il vaso sparì. Tutti dissero la loro sul valore dell'oggetto perduto. Tutti parlavano di cosa bella che non si dimentica, ma intendevano altra cosa. L'oggetto 1 94

8. LA BELLEZZA È UN TESORO

che era venuto a mancare era un segnale, un mezzo di riconoscimento. Qualcuno aveva voluto cambiare il suo stato. Alcune persone della famiglia non lo videro mai. Eppure lo hanno tenuto in conto come cosa da ricordare.

Quasi senza rendercene conto, spesso siamo molto sensibili alle bellezze naturali. Le cogliamo come ci capita, ne facciamo uso come possiamo. Con grande emozione ammiriamo un' infinità di panorami: il profilo inneva­ to del monte Ararat, le ceneri bianche e fumanti del bush sudafricano, la bruciante Valle dei re in Egitto, l'aria dolce e ferma di Kathmandu, i colori di smalto che si depositano sulle foglie rosse e oro dell'autunno atlantico. Ci abbandoniamo senza fiato a un'alba boreale nel Sud asiatico, ai lampi spaventosi del Golfo del Bengala, alle grandi piogge di Buenos Aires, alla repentina sequenza di neve-sole-pioggia-nebbia-neve-sole sulla Muraglia cinese. Ci lasciamo entusiasmare da molti doni della natura, trasformati in utensili e strumenti dall 'uomo : dalle lane variopinte dei tappeti messicani ai piatti laccati cinesi, dal vasellame siciliano ai cuoi marocchini. Tante sono le cose che hanno un posto di tutto rispetto fra le piccole ricchezze che si trovano in scatole e cassetti : la fotografia color senape di una florida e riccioluta bisnonna che posa in abiti gonfi e pesanti ; il ritratto a matita di un gattino bianco scappato di casa e ritrovato mezzo morto ; un abito da sposa che è restato chiuso per oltre cinquan t ' anni in un armadio. Gli oggetti belli di ieri sono spesso trasposti nell 'oggi e resi eterni. Al­ cuni invece non possono essere traslati. Sono perduti. Ma resta qualcosa di loro. È il caso di una foto di un grattacielo newyorkese con grandi ogive, che è crollato l ' I I settembre 2 0 0 1 . L' immagine di quelle ogive, lustre e ardite, è diventata il segno di un tesoro bello ed espulso dalla storia. Lì, sotto a tanto lusso e bellezza - pochi giorni prima del crollo di quel settembre tragi­ co - eravamo seduti in cinque su una panchina ad ascoltare belle notizie sul­ la Grande Mela portateci da uno studente turco e da una ragazza coreana! La venerazione per la bellezza è un atteggiamento fra i più diffusi, che sovente riguarda il corpo umano e tutto ciò che gli compete. Il corpo è un materiale complesso, espressivo, in costante evoluzio ­ ne, utilizzato per le più varie iscrizioni. I tratti umani - due grandi oc­ chi sgranati o socchiusi, un portamento superbo, una chioma dorata, un timbro di voce, un batter di palpebre - costituiscono il nostro contesto quotidiano. I nostri corpi sono lodati, enfatizzati e magnificati. Non sono sempre 8.4.

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IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

belli, ma sono oggetto di processi di abbellimento o di cure estetiche. Ven­ gono sottoposti a interventi speciali ( anche a deformazioni, non ultima quella del cranio praticata in molte culture ) , che hanno lo scopo di valoriz­ zare al massimo uno strumento di primaria importanza. Davanti alla bellezza degli esseri umani ci si sente conquistati e sedotti. Non si è più noi stessi. Tutto ci cambia dentro. Ci cade addosso un dilu­ vio di emozioni. Talvolta, sentiamo una specie di oscuro rammarico per non aver capito la bellezza, per non aver prestato sufficiente attenzione allo splendore che ci è passato davanti. Il nostro rammarico mostra tutta la for­ za, la vitalità che la bellezza mette in corpo. La bellezza tacitamente ci rende felici. Non è semplice sapere quanto vale la cosa meravigliosa che, di tanto in tanto, ci tiene in stato di estasi. Sappiamo però che restiamo memori del sussulto, del colpo al cuore che abbiamo provato. Rimaniamo debitori estasiati del bello perché questo è il nostro modo di essere, di vivere. La bellezza è concreta ; ha misure, dimensioni tangibili. In particolare, quella umana ha forme, contenuti, profili. Corrisponde a un ' idea che ab­ biamo dentro. È qualcosa di riconoscibile, di verificabile. È una qualità che è e resta incollata su cose e persone, anche se non abbiamo chiare definizioni e concetti limpidi. Laddove la incontriamo, ci investe con un potente colpo d'ala, o si insinua nei pensieri reconditi e poco articolati. Il bello, in breve, ci anima e ci nobilita. Spesso ci fa sentire beneficati da una splendida fortuna. Ci fa sentire anche in grado di non sciuparla o di non disperderla. In sé la bellezza umana, cifra concreta e verificabile, non ha un valore oggettivo definito. È una componente primaria della nostra vita, di ciò di cui viviamo e di cui non vogliamo privarci. Ma resta molto simbolizzata e sfuggente. Non sempre è una forma di benedizione : talvolta può diventare una cosa diversa e costarci cara. S.s. Raccogliendo e proteggendo oggetti che riteniamo belli, ci sembra di migliorare le nostre concezioni, i nostri giorni, i nostri rapporti. Ci sembra di vivere bene la vita. Ci entusiasmiamo perché l'avere una bella persona accanto può diventare il segno di una nostra vittoria, di un 'affermazione. La bellezza ( di un quadro, di una statua, di un partner, di un concerto ) scatena uno stato che ci fa sentire placati e allo stesso tempo lanciati ( e in forma) . Fra tutte le bellezze possibili è la luce di un viso, dolce, rattristato o gio­ ioso, che interessa di più, che ci fa provare un sentimento squisito, che vale moltissimo ! Un viso bello ci fa sentire fragili ma non scontenti di esserlo. Induce a sottometterei e, all ' istante, a librarci nel cielo.

8. LA BELLEZZA È UN TESORO

La bellezza umana crea curiosità, e la curiosità conduce verso stupefa­ centi stati d'animo. Regala aspirazioni (voglia di contemplazione, di imi­ tazione, o di possesso). Davanti alla beltà umana capita peraltro anche di equivocare e straparlare, o di essere soffocati dal turbamento. Comunque sia, anche se poco definibile e standardizzabile, la bellezza è il sogno di tutti. Un punto di partenza mitizzato, il punto di saldatura delle nostre idee più profonde sulla vita. Talvolta siamo noi stessi che crediamo di essere campioni di bellezza, perché qualcuno ce l'ha suggerì to o rivelato in un soffio. No i abbiamo preso la palla al balzo e siamo stati lietissimi di pensare che qualcuno avesse final­ mente decifrato una felice e gratificante realtà. Cercare la bellezza non è un obiettivo inutile o insensato. Senza ren­ dercene conto, in certi casi, ci comportiamo come se fossimo obbligati a esplorare e a esigere bellezza. Lo facciamo come prova di intelligenza, come chiarimento dell 'esistenza. La nostra ricerca quasi compulsiva di ciò che è bello non ha limiti : ci fa amare un frutto maturo e invitante, una bestiola fulva, una bianchissima nuvola, un soffio di vento, la risata di qualcuno che ci sta a cuore. La nostra spinta alla conquista del bello è edonistica ? Forse lo è. Vogliamo ottenere sempre e subito una ricompensa, ottenere un riconoscimento del nostro gusto o della nostra fortuna. Vogliamo anzi cogliere tutti i premi che la bel­ lezza può offrire. Evidentemente restiamo delusi se la bellezza non si lascia avvicinare, o se è corrotta; se qualcuno la deturpa, o la profana. 8.6. La bellezza a volte ci colma di sogni e attese implicite. Qualcuno è preso da un forte desiderio di esserne portatore o destinatario e di volerla indagare a fondo.

Molti anni fa, una studentessa biondissima aveva proprie ipotesi sui valori tradi­ zionali della bellezza. Venne a parlarmene. Aveva l' idea che potessi darle pareri. Si riteneva un esempio di ragazza splendente. Lo era, ma ciò non le bastava. Voleva proclamare a tutti quel che pensava: voleva fare una ricerca su cosa significasse "essere bella". Accettai di darle una mano, ma non ero convinta delle sue argo­ mentazioni. La studentessa iniziò il lavoro con entusiasmo. Ma procedeva male. Dopo vari mesi di tentativi, ridusse i suoi progetti. Era stata messa di fronte alla necessità di definire i propri parametri e scegliere bravi informatori (che dovevano essere quanto più possibile neutrali) . Compilò questionari, interrogò soprattutto quelli che lei considerava belli. Lo dichiarò apertamente. Ma questo mostrò la sua personale debolezza. Il suo sguardo lentamente si modificò. « Lei, bella, non è 1 97

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capita da altri belli » , mi dissi. Fu una delusione : l' indagine era un modo per finire in discussioni inutili, disse lei. La ricerca fu a una svolta. Una sua compagna di corso - che era partita meno brillantemente, ma con propositi comparativi più concreti - si occupò intensamente di criteri estetici in vari campi. Spaziò dalle gigantografie alle miniature, dagli arabeschi ai segni geometrici. La prima ragazza in poco tempo approdò a un bilancio inevitabile dei propri punti di vista. Anche se la prospettiva della seconda ragazza non fu immediatamente apprezzata dalla prima, costei lentamente assunse uno sguardo più critico, meno dogmatico. Ci fu un cambio di rotta di tutta la ricerca. Passo passo, l' indagine si spostò verso temi più chiari: fu un sollievo per tutti.

Ai tempi delle nostre mamme o nonne, si pensava che il credersi belle fosse un atto sgradevole, di superbia. Tratto irritante, non doveva essere coltivato dalle ragazze. Per le giovani, insomma, poteva essere di cattivo gusto e poteva portare a umilianti smentite. Mio nonno materno diceva di sua moglie : «È bella... Ma non facciamoglielo capire ! Lei fa finta di non saper! o. Dirlo può portar!e male ! » . All'epoca, dunque, che la beltà non fosse un merito o una dote da sot­ tolineare, era un fatto pacifico. Per modestia e buona educazione, le donne belle dovevano presentarsi sottotono. Decidevano di vivere un po' scher­ mate dalle regole della famiglia. E di non mettere in luce la propria avve­ nenza. A qualcuna talvolta veniva diligentemente insegnato che la bellezza si accompagnava anche all 'asineria, cosa detestabile. Era raccomandato a tutte di non sopravvalutare la prima per non incorrere nella seconda. Veni­ va insegnato, senza ironia, che al limite la seconda poteva essere "per finta". Sembrare sottomessa e imbarazzata - si diceva dagli adulti - non era fatto così insopportabile quanto essere esposta a critiche. Oggi, fortunatamente, tutto questo non esiste più. I paragoni sulle qualità intellettuali e morali delle ragazze si fanno con poche remare e pochi strepiti. Ma la compara­ zione c 'è e parte spessissimo da precisi criteri relativi alla bellezza ( o a quel che intendiamo con questo termine ) . Nell ' idea di molti, su questi criteri, si mette in ballo un quadro complesso relativo a diversità di genere, consape­ volezza di sé, tenore di vita. Un numero sorprendente di pensieri non si è mai risolto nell 'elogio della bellezza fisica, né ieri né oggi. Il mondo contiene anche molte brutture, che sollecitano reticenza, autocommiserazione, irritazione o rabbia. Esistono angoli bui ovunque3• 8.7.

3· Jean Héritier, Le martyre des affreux. La dictature de la beauté, Éditions Denoel, 1 99 1.

8. LA BELLEZZA È UN TESORO

Queste aree ( periferie e luoghi degradati, devastati da bombe ed eccidi) sono piene di persone ferite e malate, che hanno poche pretese di apparire diverse da ciò che sono. Sono incapsulate in storie tristissime che non si svuotano mai di gente avvilita o sul punto di crollare. Non essere fra i belli può essere una condizione che disturba. È un fatto grave, anche se è spesso vissuto con rassegnazione, e con l'aggiunta di vari sospiri. È una condizione che, a parte alcuni casi tragici, si piglia con buon senso. Se è possibile, se ne parla pacatamente. In situazioni difficili, in cui affiorano pareri graffianti, il tema del "poco avvenente" non è da racco­ mandare. Va poi ricordato che la frase inconcludente e arida secondo cui "ci sono molti tipi di bellezza" non è sempre deprecabile. Non si sa se è vera e mai si saprà; ma fa bene crederci un poco. 8.8. Attorno alla bellezza si possono creare fraintendimenti, invidia e osti­ lità. « Le mie cugine mi odiavano perché ero più bella e più corteggiata di loro ! » , spiega un 'arzilla novantenne, che si è sempre giustamente ritenuta molto bella, senza tanti misteri. Le ragazze attraenti, in concreto, non sempre sono state sagge e ocula­ te. A volte hanno mortificato supinamente se stesse, per non incorrere in restrizioni e ostilità dei familiari. Ma, nei loro pensieri, la bellezza ha avuto un gran ruolo. La bellezza può anche essere descritta con toni decadenti, o con richia­ mi un po' vaporosi. La si indovina, ad esempio, dietro il vetro della finestra, in due occhi socchiusi che scrutano la spiaggia, in un bimbo e una mam­ ma che si guardano come due anime beate, pronte per un abbraccio. La si scopre in un santone magrissimo, avvolto in una vecchia tunica gialla, sugli scalini di uno squat indiano, accanto a un cadavere che sta per essere distrutto. O sul viso tragico di una ragazzina, rigato dalle lacrime di una precoce esaltazione amorosa. La bellezza, qualche volta, si crea con un po' di savoir-faire, grazie a qualche gesto indovinato. Le signore anziane, o all 'antica, non hanno an­ cora rinunciato al fascino del ventaglio spagnolo di merletto nero, da aprire con uno scatto secco del polso ! E fanno lo scatto per amor del bello, non solo a causa del caldo. Nel tempo, la bellezza viene rimodellata con risultati alterni. La perso­ na di beli ' aspetto, abituata a vedersi bella, invecchiando non riesce a sop­ portare di perdere terreno. Può anche non veder più alcunché di bello in sé. L'orgoglio le impone interventi di tutti i tipi su se stessa. Molti vedono que-

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sto sforzo necessario e molto positivo. Possono ritenere di essere destinati a resistere malgrado o a dispetto di tutto. Alcuni non ci credono : aspettano che siano gli altri a crederci per primi. I belli conclamati e cercati, avvicinati di soppiatto o assaliti dafans senza ritegno, possono soffrire. La bellezza può avere costi non lievi. Un' attri­ ce francese, molto famosa negli anni Sessanta, è stata bella. Lo è anche in vecchiaia. Ma afferma che è stata bella per costrizione e per l'ambizione di qualcuno, di chi le stava vicino. Ha dichiarato che è stata maltrattata dagli uomini e che ha sofferto per questo. Una persona bella talvolta può essere poco consapevole di tutto il teso­ ro che porta addosso, e che gli altri volentieri le riconoscono con maniere non sempre adatte. È quasi meglio non sappia di essere bella. Potrebbe sciu­ pare tutto, come si è già ricordato, per la troppa trepidazione o per cause analoghe.

8.9.

Gestire un corpo, un viso bello comporta alcuni problemi.

Nel mio ultimo anno di una scuola linguistica a Roma, ero in classe con una coe­ tanea cinese. Del suo nome ricordo solo una parte. La chiamavamo Lin per sem­ plificare. Capelli lunghissimi, neri e lisci, eccezionali a quei tempi, in cui tutte le ragazze sfoggiavano voluminose capigliature cotonate. Per metà parigina, nata in una famiglia ricca, Lin era una creatura da ammirare non solo per il volto perfet­ to, bruno e lucente, ma anche per la sua intelligenza, prontezza, volontà. Voleva diventare italiana per amore. Il suo ragazzo era molto estroverso e allegro, un po' eccessivo nella sua pretesa di possesso di Lin. Insieme miravano a un successo che non spiegarono a nessuno. Tutti a scuola cercavano di stare accanto a Lin. Volevano sedere al suo stesso tavolo, con lei volevano prepararsi per un' interrogazione. Molti la invitavano a casa propria al termine delle lezioni. Avere vicino Lin era quasi una specie di con­ quista di un trofeo ; molti concorrevano a una specie di gara. I ragazzi erano i più fedeli, o peggio, i più accaniti scrutatori di tutte le sue mosse. Erano sempre pronti a controllare quello che Lin faceva o diceva. La competizione anche fra ragazze era fortissima, non sempre accettata di buon grado da Lin, che poneva fine a tante chiacchiere con un «Non capisco quello che dici ! » . Forse sentiva che si giocava una partita sbagliata attorno a lei. Sentiva qualcosa di vischioso. Viveva giornate insulse, in mezzo a tante voci, giornate di deserto ? Voleva forse confessare un senso di fastidio che non aveva nulla a che fare con la sua conoscenza della lingua italiana (che Lin stava imparando benissimo) . I suoi modi mi parevano la reazione cortese, ma ferma, di chi vedeva attorno troppa intimità, troppi compagni privi di spirito (e pieni di sé) . 200

8. LA BELLEZZA È UN TESORO

Mohamed, egiziano, era l'unico con cui Lin mostrava di trovarsi bene. Con lui, lei parlava solo francese. Lui capiva Lin, assediata dai coetanei, i quali capiva­ no poco il francese e tutto il resto. E mettevano in moto una valanga di manovre che lei non gradiva, che la condizionavano troppo. O che le suggerivano di tener testa superbamente a tutti. Poco per volta si mostrò fredda. Divenne taciturna, nervosa. Un po' lenta, non più scattante. Evitava tutti, rispondeva a monosillabi. Pensai che si irritasse perché non voleva essere al centro di complimenti lezio­ si e di frizzi insulsi. Non amava più Roma, mi disse. Si voleva sottrarre a certi ambienti che la facevano sentire un pesce fuor d'acqua. Non voleva essere tanto adorata e cercata. Voleva stare altrove, avere altri orizzonti, altri amici. Accelerò i tempi, sparì dalla scuola. Qualcuno riferì che si era sposata. Ci fu un diluvio di domande fra i colleghi. La rividi vari mesi più tardi. Era ordinata e bella. Aspettava un bimbo. Sor­ rideva al suo ragazzo italiano che stava al suo fianco. Avevano l'aria soddisfatta. Stavano per partire per Parigi. Bellissimi. Evidentemente, erano in cerca di altra bellezza. Quella che avevano addosso era sicuramente un buon viatico per lanciarsi in una nuova vita.

8 . 1 0.

La bellezza, che alcuni individui incarnano, sprigiona forza e sicurezza.

Mi capitò decenni or sono di lavorare assieme a un uomo brillante ed educato, Karim. Era di mezza età, con un buon portamento e un'aria di grande solidità. Si muoveva in modo un po' trionfale, quasi danzasse. Aveva scurissimi occhi vellu­ tati, mobili, quasi sempre strizzati. Spesso davano l' impressione di essere umidi di commozione o di ilarità. Questa specie di magnetismo faceva classificare Karim fra le persone che tutti vogliono incontrare. Un giorno Karim, accompagnato da due ospiti, si dirige al salone delle con­ ferenze della sua sede romana; con pochi passi arriva al luogo dove lo attendono molte persone. Si arresta sulla porta, con un sorriso, e guarda l'assemblea. Come capo delegazione in Europa, cioè rappresentante governativo di un paese africano, Karim è perfetto. Sicuro di sé, non ha bisogno di aggiustarsi la cravatta per sentirsi a proprio agio. Sta benissimo qui e ovunque. Nella sala, appena entrato, Karim attrae l'attenzione, si impone. Alto, tanto da doversi chinare per stringere la mano a vari convenuti, saluta, affabile e quasi benedicente. Distribuisce parole di benvenuto. Sa di poter vincere. Ha una buona oratoria. Si installa con stupenda lentezza al suo posto, al podio. Karim ha appena sposato una donna del suo paese, di nobile famiglia, religiosa e ben inserita nella buona società. I lineamenti della donna sono graziosi, le mani sottili e curatissime. È snella e il colore della sua pelle è intenso, appena un po' più scuro di quello del marito. La carnagione di Karim è splendida. Non è più un giovanotto, come alcuni uomini presenti. Se la sua famiglia non fosse stata nota, si sarebbe detto che aveva 20 1

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ascendenti europei o asiatici. Il suo viso era una mescolanza di Oriente afroasiatico e Occidente europeo. Posso dire che l'ex presidente americano Barack Obama mi ricorda i tratti e l' allure di Karim. Vicino alla tavola ovale della sala delle conferenze, la moglie di Karim è seduta un po' indietro, in seconda fila. Indossa il velo islamico, parla poco, con una vocina infantile, non troppo naturale per i suoi anni e per la sua educazione inglese. È ap­ pena rientrata da Vienna dove ha accompagnato il marito. Racconta a qualcuno di non essersi trovata bene per la lingua, per lo stile poco confidenziale di altre mogli. Ha avuto una dura conversazione anche con una cameriera dell' hotel. Mentre Karim parla ai convenuti, mi rendo conto che alcuni lo guardano e ba­ sta, non lo ascoltano. Considerano l'uomo già vittorioso. La moglie in particolare è incantata da lui. Non coglie la fine del discorso di Karim, e applaude con visibile ritardo. Sulla faccia di Karim non c 'è ironia o sorpresa mentre fa cenni con la testa a chi l'applaude. E anche a chi ha risposto ammutolendo e subendo il suo fascino. Fuad, il suo segretario e braccio destro, è raggiante, quasi fuori di sé. Fuad è un uo­ mo bassetto con occhi un po' sporgenti, infagottato in abiti sborsanti. Porta scarpe con suole di gomma che non fanno rumore. È sempre in paradiso quando lavora con Karim, quando lui lo chiama, quando gli ordina qualcosa. Fuad risponde al suo capo sempre con un leggero inchino, grato di essere parte della sua sfera, di condividere la sua buona stella. In ufficio, quando viene chiamato da Karim, Fuad corre, serio e premuroso, con le carte in mano, e non dimentica mai di aggiustarsi la cravatta prima di bussare due volte alla sua porta. Scoppia di solito in un gran sorriso girando la maniglia. Entra nella stanza del capo come si entra in una sala di teatro, in punta di piedi. È la sua forma di omaggio a qualcuno di pregio, al suo superiore. Tutti i giorni, Fuad porta in quella stanza, di sua iniziativa, tazze e tazze di tè e di caffè bollenti, una dopo l'altra. Le prepara personalmente. Ritira le tazze, fredde o semi piene, senza rendersi conto che la sete di Karim ha limiti. Scenograficamen­ te installato dietro la sua scrivania, Karim sa ricompensarlo con gentilezza, con un'occhiata e un gesto della mano ( puntata verso il tavolino di lato ) . Accanto a Karim, Fuad non pensa proprio di essere un semplice, comune im­ piegato, ma di essere il co-autore della bellissima storia ( o del poema epico) di Ka­ rim. Pensa di essere il braccio destro di un personaggio ossequiato, che ha l'onore di servire ogni giorno il bene del paese, della sua famiglia e di se stesso. Fuad non parla mai di Karim e tantomeno di Madame, la moglie di Karim. È impenetrabile. Lascia cadere tutte le domande. Il suo capo viene solo ammirato e obbedito, per­ ché appartiene alla schiera degli uomini belli e ineguagliabili. E ciò è tutto per un impiegato come lui, con una difficile carriera alle spalle. Un certo giorno, Karim fu richiamato al suo paese. La delegazione fu riorganizzata. Un nuovo capo arrivò. Non aveva il fascino di Karim; il regime dei rapporti cambiò. Fuad si mostrò vul­ nerabile, sbalzato fuori dal lavoro di aiutante particolare. L'umore di Fuad mutò. Non aveva qualcuno da adorare. Aveva l'aria di non saper più cosa imitare. Non si poteva accontentare di un burocrate in ascesa, abilissimo ma un po' sussiegoso, che 202

8. LA BELLEZZA È UN TESORO

non aveva il dono della cortesia. Fuad si rabbuiò. Perse slancio e si rifugiò in una diligente pazienza. Ostentava grande serietà. Gli suggerii di farsi trasferire. Sorrise un po'. Aveva capito che avevo intuito tutto. Iniziò a sonnecchiare sulle sue carte e cominciò anche a fare meno caffè. Fuad si consolò sposando in pochi mesi una affettuosa concittadina, sua cor­ teggiatrice. Così non ebbe più tempo per piangere il vuoto che aveva intorno a sé, dopo la partenza di Karim. La sposa, più giovane e molto più carina di lui, dimo­ strò un temperamento brillante. Entrò nella sfera personale di Fuad con energia. Gli riorganizzò l'esistenza. Fu il suo vero toccasana: una bella stella era entrata nel suo firmamento. Ci rimase pochi mesi. Lui disse che l'aveva rinviata a casa sua, nel suo paese, per dare alla luce suo figlio. Altri dissero che la nuova stella non aveva potuto sostituire totalmente lo splendore di Karim.

In un clima in cui domina la bellezza, soprattutto se ossequiata - come nel caso di Karim - si costruiscono speranze e attese. Può capitare che ci si im­ pasticci in sentimenti strani. La persona ammirata offusca ogni altra, senza rimedio. Se non si imbocca la strada del buon senso, arriva, in fretta, l'ama­ rezza delle perdi te totali. 8. 1 1. L'aspetto del corpo e la sua energia segnalano, in vari sensi, storie e destini.

Gege W. Nai è un nilotico, uno Shilluk. Figlio maggiore di un capo villaggio, aveva un numero straordinario di fratelli ( le sorelle non erano meno numerose, ma Gege non le nominava mai ) . Uomo molto orgoglioso, voleva fare carriera politica. Aveva viaggiato in Europa e in America. E decantava la propria esperienza. Il suo savoir­ faire era parte della sua astuzia, potenziava la sua convinzione di essere vincente. Gege non era propriamente bello come spesso sono i nilotici. Era soprattutto molto alto anche rispetto ad altri suoi amici. Magrissimo. Mangiava quando ca­ pitava. Diceva che gli bastava fumare : era un fumatore di sigari a buon mercato, e ciò lo rendeva un po' eccentrico e contento. La sua voce incantava. Roca, sin­ ghiozzante, monosillabica. Cantava canzoni del suo paese con delicatezza, usando il minimo di voce, perché conosceva la potenza delle proprie corde vocali. Gege si imponeva con il suo essere altissimo e il suo meraviglioso gesticolare. I suoi amici stavano ad ascoltarlo quando cantava, in estasi. E ammiravano la sua po­ tenza. Guardavano le sue mani snodate che accompagnavano il canto; guardavano come roteava la testa e respirava profondamente. Erano esercizi che lo rendevano un po' istrionico, come lui diceva. Gli amici canticchiavano qualche nota, piano e col timore di sfigurare. Si sollecitavano a vicenda con sguardi obliqui, ma non avevano lo stesso fisico di Gege. Cantavano in coro nenie sconosciute, guidati dalla personalità e la forza fisica di Gege. Tutti insieme erano bellissimi. 20 3

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

Un giorno, dovendo parlare con Gege, lo cercai a casa sua. Entrai in una stanza semibuia, che mi era stata indicata, dove sedevano una dozzina di suoi amici e colleghi. Fui subito sorpresa, non sapevo da dove cominciare per ricono­ scerlo. Non distinguevo le fisionomie. I tratti di uno erano molto simili a quelli dell'altro. Le loro facce nerissime erano stupende, ma incomprensibili. Fui subi­ to imbarazzata e desolata. Fermi e zitti, sembravano tutti uguali. Erano in giacca e cravatta, come non li avevo mai visti. Ciò nascondeva molto la loro identità. Festeggiavano qualcosa, un anniversario del loro paese. Le loro persone si magni­ ficavano da sole, emblemi di etnie antichissime, ma io non sapevo riconoscerle. Rapida, cercai qualche segno per individuare Gege. Lo vidi infine: le sue gambe erano più lunghe delle altre. Seduto un po' di traverso, aveva le ginocchia quasi sotto il mento. Mi salutò con voce potentissima e uno sventolio della mano. Mi ripresi. Loro capirono il mio imbarazzo e mi chiesero, per calcare la mano sul mio smarrimento, chi fosse il più bello fra loro. Orrore ! Non riuscivo a uscire da una situazione di disagio. Cercai di svicolare dicendo che erano tutti «Veramente O K » . Ma non bastò. Gli amici di Gege, vociando, mi fecero osservare che tutti i nilotici sono bel­ lissimi. Era il loro credo. Le loro figure sottili erano mezzi di riconoscimento della loro identità. Qualcuno di loro spiegò la situazione un po' meglio : « Abbiamo te­ sta rotonda, lineamenti fini, naso sottile, siamo alti e snelli... E ci potete paragonare ai Masai. Partite da loro : non capite che non siamo Masai! Siamo Dinka e Shilluk. Noi abbiamo altre fisionomie, siamo meglio dei Masai, meglio di tutti ! » . Pensai: « Sono anche loro sotto una visione rigida di bellezza » .

Le persone belle, nel giudizio comune, sono i n crescita. Questa noti­ zia viene accompagnata da molte altre, più dettagliate ma sostanzialmente in linea. Siamo in un 'epoca in cui, si dice, i bambini nascono più belli e più sani. I tratti fisici migliorano. I genitori sono più attenti alle questioni dello sviluppo dei figli e del proprio stato fisico; vanno in palestra e fanno lunghe passeggiate. Gli anziani non vogliono impigrirsi davanti alla TV o ripetendo favole ai nipoti. Ci sono alcune realtà (malnutrizione, mancanza di igiene, poca preven­ zione, ecc. ) che testimoniano la parzialità di certe nostre spiegazioni e che inquietano anche i più informati. Senza volere indulgere sugli stereotipi, va detto che il mondo sa bene che il dolore continua a imbruttire, la malattia a storpiare e che la fame sfigura i visi umani. Anche se ci mettiamo di buona volontà a guardare il verso luminoso e gradevole della vita, sappiamo dun­ que che esistono nel mondo tante brutture. In tante parti del mondo, le società umane sono una fucina di guerre, di scontri sanguinari che lasciano ovunque corpi martirizzati, vittime di spie8.I2.

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8. LA BELLEZZA È UN TESORO

tati sistemi di sopraffazione. Alcuni malanni, malauguratamente, nascono proprio ali ' in terno dei sistemi sociali avanzati. Malgrado e a dispetto del nostro bisogno di bellezza, esiste il pericolo per tutti di deteriorarsi, di imbruttire malamente, anche in situazioni di benessere o tutt 'altro che deficitarie. Capita anzi che la nostra attenzione puntata sulle cose belle sia contrastata da tantissime disavventure, rischi, drammi. Esistono casi devastanti che non vengono mai raccontati. Sembra "sconveniente " parlarne. Sono situazioni che costringono a esistenze misere e silenziose. 8. 1 3 . I lati sconcertanti della sventura e dell 'avvilimento umano, in specifi­ ci casi, affiorano dove non ci si aspetterebbe :

Un giovane studente - che chiamerò Giorgio - lavorava intensamente a un pro­ getto di ricerca ancor prima di iniziare la sua tesi di laurea. Era un ragazzo di bell'a­ spetto, di buone maniere. Era oltretutto un grande sportivo. Un atleta esuberante sempre in allenamento. Era contento di quello che faceva. Giorgio scriveva benis­ simo e metteva in ordine i suoi testi seguendo un metodo di classificazione, da lui inventato, che prevedeva l'utilizzo di molte schede, files. Lavorò per due semestri a questa catalogazione, che diventava sempre più gigantesca. Il fascino dei progetti a vasto raggio, delle pianificazioni a tutto campo, lo aveva conquistato totalmente. Cominciarono discussioni sulla tesi di laurea. Lui insisteva, con poca allegria, di non essere pronto a scrivere. Dilazionava. Sparì per un po'. Giorgio lavorava in cerca del bello, per capire come vivere. Entrò in ospedale per una cura urgente, dissero gli amici. Vi rimase per varie settimane. Ritornò molto cambiato. Privo di progetti. Sembrava arrabbiato con se stesso. E faceva discorsi funerei. Scomparve una seconda volta, senza dare preavvisi. Tornò e volle rivedere i suoi appunti, riga per riga. Lavorò con buona voglia, ma appari­ va sempre più perso fra le carte. Il ragazzo d'oro non trovava più il suo spirito. Giorgio non aveva sopportato l' irruenza del lavoro contingente. Era questo che lo debilitava. Giorgio si giudicò severamente e si isolò. Si faceva vedere poco. Non si diede però tregua. Tentò di risalire la china con nuovi ordinatissimi quaderni, nuove liste di cose da fare. Diceva che non sapeva più scrivere. Entrò nel lavoro di scrittura già deluso e stanco. Era l'ultima cosa che avrebbe dovuto fare. Aspettò approvazione ma la respinse. Poi scrisse la sua tesi, diversa da quella che aveva sognato.

Esiste un delicato punto finale. Il corpo segue precisi cicli evolutivi e giunge a un esito sicuro : la morte. Il sistema cellulare ci tiene sempre sospesi tra la distruzione e la ricostruzione, in termini di bellezza e funzionalità. 8. 1 4.

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IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

La morte è, per l'universo intero, l'opposto o la negazione della bellez­ za. È il processo di dissolvimento della forza fisica stessa. Davanti all' av­ vicendamento tra morte e vita, cerchiamo di non essere prigionieri di im­ magini rigide, scoraggianti, penose. Ci ingegniamo a pensare alle persone morte come viventi "in altre forme", sotto altre sembianze. Le chiamiamo angeli del paradiso, anime del purgatorio, compagni di bellissime vergini, dolci protettrici dei bambini, spiriti guaritori, per nominare solo alcune immagini correnti. Le raffiguriamo o sintetizziamo in belle effigi, dipinti e miniature, oppure monumenti giganteschi. C 'è un ulteriore richiamo da fare al nesso tra bellezza e morte, prenden­ do in conto il femminicidio, la violenza inflitta alle donne. La violenza sulla donna, tema più che scottante, è ormai un fenomeno orribilmente diffuso. Nel rapporto fra uomo e donna, la bellezza femminile produce sfortu­ natamente illusioni e prevaricazioni che guastano i rapporti interpersonali. Talvolta tra uomo e donna si crea una situazione anomala e sbilanciata, che porta ad atti di morte. Da un lato, esiste l'uomo che cerca nella donna fasci­ no e armonia, qualità che lo soddisfino e lo gratifichino. Dall'altro lato, lo stesso uomo è assalito da un senso di diffidenza o ostilità verso la donna, ver­ so la sua bellezza, verso ciò che questa bellezza significa agli occhi di tutti. Non è necessario sottolineare che il femminicidio si verifica quando la supremazia dell 'uomo sulla donna inizia a vacillare o sta sfumando. Il timore di non essere l'unico compagno, l'arbitro assoluto di una donna di valore, crea immense inquietudini e pessimi timori maschili. Non tutte le donne sono persone deboli, gregarie, poco autonome. Moltissime, è chiaro, sono stimate per la loro bellezza, savoir-faire, capa­ cità professionali, e colgono successi migliori di quelli colti dagli uomini. Costoro spesso non riescono a sopportare i primati che una collega, una collaboratrice o una moglie collezionano. Formulano giudizi sconvenienti e qualche sentenza inappellabile nei confronti di "tutte le donne". In molti casi si pensa che in gran parte giochi l' idea implicita e mai sconfitta di una naturale e, per così dire, "consacrata" superiorità maschile. Da altre parti si ritiene che i crimini sulle donne siano esiti disumani di con­ flitti acutizzati da stati patologici. È facile pensare che, entro questi drammi, si annidi una vasta gamma di sfide e ritorsioni. Quel che interessa qui è che la morte è sempre un ' inevitabile cancella­ zione della bellezza, e che quella violenta inflitta a una donna è un annien­ tamento ancor più grave e più offensivo che le si applica se ha avuto il dono della bellezza o se è stata perciò scelta e amata da un uomo (che alla fine però la sopprimerà brutalmente). La bellezza femminile comporta, in conclusio206

8. LA BELLEZZA È UN TESORO

ne, il rischio che qualcosa possa condurre a una tragedia. Può scatenare un attacco vero e proprio, un assassinio disumano. Un comportamento maschile violento non è sempre imputabile alla deriva di sentimenti individuali. Segnala condizioni di vita complesse, che si sono deteriorate a livello sociale generale oltre che personale. La tragedia del femminicidio tante volte rivela quanto terreno possa perdere l 'uomo, se ignora che la donna che gli è accanto è una persona intoccabile come qualsiasi altra. Non sempre però l'ambiente in cui la violenza sulle donne si sviluppa è scadente o arretrato. La donna - soprattutto se avvenente - può sempre rimanere incatenata ad arcaiche logiche maschili, saldamente in mano a uomini miopi e disadattati ( anche se vivono in ambienti ricchi e colti ) . I casi odierni di assassinio di donne, dunque, sono tanto più odiosi in quanto perpetrati in società avanzate, in ambienti che apprezzano bellezza e intelli­ genza, che sanno valutare perfettamente quale è il posto della donna. 8. 1 5. Il discorso relativo alla morte - come interfaccia della vita e della bel­ lezza - non si può affrontare qui. Resta però chiaro il fatto che una morte spettacolare, o un trapasso ritualizzato, è spesso un motivo di vitale im­ portanza per i sopravvissuti, per il loro ambiente, per i loro stessi concetti estetici. Un esempio etnografico, lontano nel tempo e nello spazio, può servire per chiarire brevemente il nostro rapporto con i defunti. Ci rende consape­ voli che tale rapporto può essere rappresentato da "oggetti artistici" di vario genere. I corpi morti, in tutte le culture, godono cioè di molto rispetto e venerazione. Sono rammentati attraverso simboli, oggetti tesaurizzati che hanno influsso sul sociale e sull ' ideale.

Il nome di nkangi-kiditu è dato a preziosi crocifissi delle popolazioni del Congo. Essi sono simboli del mondo degli antenati e delle potenze dell'aldilà, elevati a tale status attraverso una concettualizzazione della tradizione cristiana. Sono diventati strumento del potere dei capi fin dal xv secolo. Tante popolazioni dell'area fluviale del Congo e di zone limitrofe - tra cui porzioni del Gabon e dell'Angola - sono state eccellenti produttrici di oggetti preziosi di questo tipo. Questi manufatti hanno forma elegante, e sono colmi di elementi sincretistici di vario genere. Varie le notizie dei poteri terapeutici di questi crocifissi, delle loro funzioni funerarie, del loro uso per il trattamento dei moribondi. Erano custoditi come patrimonio ereditario - e praticamente esclusivo - dei capi, che li difende­ vano strenuamente come parte dei propri privilegi. I capi erano i garanti e custodi 207

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di questi materiali di eccellente fattura. Durante i secoli sono stati, da una parte, apprezzati come opere d'arte, ma anche contestati dalle autorità religiose, perché legate a spiriti e morti. Sono stati considerati da rigettare ( attorno al 1 9 20, al tempo della cosiddetta Terza evangelizzazione congolese ) anche dal famoso movimento di Simon Kimbangu. Restano tra le più documentate storie recenti di métissage religioso africano. Oggetti simili ai nkangi-kiditu sono i kluzu, anch'essi crocifissi usati nella cac­ cia, e i santu nzaambi, sculture di esseri umani non appesi a croci, bensì attaccati a telai e cornici. Tutta questa produzione artistica ruota attorno alla morte, data, subìta. Propongono il dopo-morte, come condizione rispettata e potentissima, influente su ogni aspetto della vita. La potenza della morte assume dunque forme ricercate, che si sviluppano nel tempo e nei luoghi e si agganciano alla bellezza. Viene spessissimo raffigurata a un livello stilisti co e simbolico eccezionale affinché sia possibile percepire meglio il corpo, la sua beltà, i suoi significati estetici. E la sua scomparsa dalla vita reale.

Uno degli esempi più eloquenti del nesso vita/morte è diffusissimo in chie­ se e palazzi, musei e luoghi lussuosi del nostro universo culturale e artistico : è la raffigurazione della morte di Gesù di Nazareth4, un evento fortemente ritualizzato dalle tradizioni cristiane e riprodotto con molta perizia e effi­ cacia nei patrimoni artistici occidentali.

4· A. Destro, M. Pesce, La morte di Gesù. Indagine su un mistero, Rizzoli, Milano 2014. 208

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La seduzione è un 'arte e un destino

L'arte sapiente della seduzione, non passa mai di moda. È una modalità di vita prevalentemente in mano alle donne, ma anche un gran numero di uomini ne trae profitto. Modo brillante di presentarsi, di rapportarsi e collocarsi, l'arte del se­ durre mira a scopi concreti : catturare, conquistare e portare una persona dalla propria parte. Costituisce uno stile di vita diffusissimo e spesso ir­ rinunciabile. È un 'azione impegnativa, perfezionata giorno dopo giorno, minuto per minuto, da cui otteniamo preziosi risultati. Ma che non ci ri­ sparmia vere sfide e fatiche. Parecchie persone ritengono l'arte seduttiva una pratica abbastanza fantasiosa. Sarebbe il versante magico o il thrilling dell'esistenza, di gran parte delle nostre tattiche di conquista del mondo. Non di rado, si pensa erroneamente che l'azione seduttiva femminile e maschile passi per gesti vistosi ed eclatanti. La si collega a mosse audaci e avvinghianti che possono procurare fastidio. La realtà è meno lineare e trasparente. Spesso, per sedurre, si usano mezzi poco vistosi e molto sot­ tili. Altre volte si contengono al massimo le strategie di conquista, da non confessare mai o da tenere nascoste. È infatti irritante che qualcuno ci veda impastoiati in mosse intriganti e un po' censurabili. Le manovre seduttive talvolta possono essere considerate proprio ne­ gative, e venire equiparate a raggiri e a mosse più che sospettabili. Ci sono tanti individui, tuttavia, che mostrano una forte vocazione a far colpo, a incantare il mondo intero. E non si sentono mai scoraggiati dalle critiche che si tirano addosso. L'abbigliamento è uno strumento di conquista per gli uomini e per le donne. I vestiti sono fra i più fortunati e divertenti oggetti da sognare, da amare e soprattutto da mostrare in giro. Sono sempre tenuti in gran conto perché servono a raccogliere e dispensare apprezzamenti superlativi. 9.1.

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Qualche persona, animata da un certo spirito di contraddizione, non è d 'accordo sul valore personale e inventivo dell 'abbigliamento e dice che spesso si sceglie il vestito per seguire le preferenze di un ambiente, o rispet­ tare precise convenzioni. Tale tipo di persona preferisce pensare che l'abito non risponda alla voglia di divertirsi, di piacersi e di venir ammirati. Nega che il vestire sia parte di un gioco a cui ci sottomettiamo volentieri e dal quale otteniamo un certo tipo di premi. La funzione seduttiva dell 'abito è piuttosto sospetta. La si può conte­ stare e ripudiare, oppure nascondere con pochi atti di noncuranza o di finta modestia. Alla fine, molti lasciano capire quanto grande sia il bisogno di cu­ rare l'abbigliamento, nonostante gli sforzi per farlo apparire di poco conto. L'abito non fa il monaco, ma evidenzia ciò che distingue una persona da un'altra, ciò che la rende soggetto capace di inventiva e di buon gusto. Di frequente il vestito indica condizione sociale, concetti di sé, una certa com­ petenza. E anche idee eccentriche. Naturalmente segnala le appartenenze di genere e i loro significati. Fino a qualche generazione fa, capitava che i bimbi maschi piccoli e pic­ colissimi avessero abbigliamenti molto curiosi. Erano vestiti e fotografati in abiti femminili, con tanto di gonna e colletti di pizzo. Oppure apparivano infilati in pagliaccetti ricamati che non rispondevano per nulla a caratteri maschili. Questo uso dell'abbigliamento può avere molte spiegazioni; di certo ce n'è una incontestabile : sovente l'abbigliamento femminile appari­ va elegante, grazioso. È per questo che andava bene per rendere belli i bimbi e le bimbe. Esprimeva fantasia e buon gusto. Le mamme, le nonne e le zie, infatti, cucivano i modelli che conoscevano meglio e facevano più figura (per sé e per i ragazzini di casa). Nelle vecchie foto di famiglia è testimonia­ to che al maschi etto venivano messe addosso gonnelle (un po' austere, di panno pesante e di colore sobrio) per essere all 'altezza delle bimbe. E lo si agghindava con una bella chioma a boccoli (se qualcuno non aveva preferi­ to imporgli una maschile rapatura) . Alle bimbe, però, era concesso sempre di più: nastri, balze, ricami e via di seguito. La strategia dell 'abito è notissima: bisogna inventare cose graziose e perfezionarle al fine di poter occupare un bel posto nel mondo. Oggigior­ no l'inventiva usata negli abiti è estrosa e temeraria (troppe cose strette o larghissime, coloratissime e stazzonate). Il rapporto abito/corpo richiede attenzione e quello abito/ persona ne richiede di più. Gli abiti procurano, se ben calibrati, un mucchio di vantaggi. Guidano verso il successo. Ottimizzano la personalità e la bellezza. Consentono di avere pretese e fare delle avances ; giustificano una bella parte in ambiente 210

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familiare e altrove. Se risultano azzeccati, gli abiti ci tirano fuori dagli angoli bui dell'esistenza, dalla piattezza. L'abito insignificante o sciupato è visto come un disastro. Non aiuta per nulla a sentirsi capaci e preparati. Se il vestito trasandato è indossato per protesta, dà di solito gli effetti voluti. Se è strumento che dovrebbe poten­ ziare la persona, l'abito malscelto la storpia. Diventa un handicap odioso. In tutte le classi sociali, non mancano le occasioni per osservare i mira­ coli che le donne sanno fare con pochi centimetri di tessuto o con un insoli­ to accostamento di colori (del cappello, del cappotto o del pullover). Senza parlare di accessori e pettinature. Anche gli uomini hanno loro strategie, a cui non rinuncerebbero per nulla al mondo. Sono anzi alle volte molto fe­ deli ai propri stili, antiquati o avveniristici, o tenacemente casual. Malgrado alcuni sforzi maschili siano divertenti e calibrati, non sono sempre in grado di superare la genialità delle donne. Quattro anni fa mi è venuto in mente, all ' inizio dell 'estate, di osser­ vare alcune donne giovani e soprattutto i loro abiti, mentre passeggiavano sinuose e accattivanti in ambienti molto famosi (quasi passerelle da "prime attrici"). Ho scelto donne che sembravano al di sotto dei trent 'anni e luoghi molto distanti: i giardini del Luxembourg di Parigi e le Ramblas di Barcello­ na. Ho raccolto due documentazioni (dossier, direbbero le persone colte) , a distanza di quattro settimane l'una dali' altra. Esse parlano di come le donne sanno ottimizzarsi. In concreto, ho preso nota di abbigliamenti un po' ec­ centrici, ma non fuori dalle regole. Ho osservato gli stili un po' graffianti, per cercare il senso anche dei più ordinari, che vanno sempre bene. Nel parco parigino sono passate davanti a me decine di donne in tenute stravaganti. Colpiva soprattutto l'uso, che non è possibile chiamare "na­ turale", dei capi di vestiario infilati uno sopra l'altro con finta negligenza. Dava un po' di sorpresa poi vedere abiti larghissimi su donne esili, e abiti incollati su altre un po' robuste. Spalle nude e piedi compressi in calze e scarpe pesanti, che non corrispondevano ad alcun bisogno pratico. Alcuni abiti, anche a Barcellona, lasciavano a bocca aperta per le scollature. Certe minigonne, per il solo fatto di essere indossate, lasciavano intendere l'entu­ siasmo e la grande voglia di colpire gli occhi di chi le osservava. Direi che al­ cuni capi sembravano usciti da vecchi bauli, dai mucchi della roba riciclata. Stando agli abbigliamenti visti a Parigi e a Barcellona, viene in mente che la seduzione femminile segue poco le vie "canoniche" (tessuti ricerca­ ti, abiti firmati o esclusivi, indumenti su misura). Tutto l'abbigliamento 9.2.

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più o meno strano delle donne parigine (e non solo) è accompagnato da bracciali e collane vistose, da gesti ritmici delle braccia, da visi patinati e palpebre cerchiate da grandi tratti di matita nera. A Barcellona gli accessori mi sono sembrati meno amati, le sciarpe di più; poche le gonne lunghe alle caviglie. A Parigi pare si esalti di più la casualità; a Barcellona sembra che ci sia l' inseguimento dell'effetto lusso. Difficile dire di più. Nel mio dossier gli uomini sono in genere più trasandati. Sono passati quasi sotto silenzio. Eccetto alcuni, erano spesso vestiti di nero con T-shirt comuni. Non bril­ lavano molto.

9 · 3 · L'abito aiuta a mostrarsi, suggerisce il modo più invitante per farsi notare e inseguire. Aiuta a costruire un 'operazione impegnativa e a far fruttare tutti i particolari di ciò che adorna o distingue la persona ( gra­ dazioni di colore, leggerezza della stoffa, confezione ricercata e costosa) . Subito dopo, passata l' iniziale effervescenza, si passa oltre per cercare altri risultati. La seduzione femminile, al di là dell 'abito, passa per precisi gesti : dita che tamburellano un motivo musicale, tintinnìo di anelli o orecchini, gam­ be ben accavallate, ottimi esercizi di respirazione nel parco, tuffi riusciti in piscina, scattante mossa di fianchi su per le scale, movimento imperioso della mano sul velo che scivola, un indice incollato su labbra serrate, saltelli e gridolini quasi infantili davanti a una vetrina. A volte tutto questo basta ( grazie a due dita incrociate dietro la schiena). Spesso le intenzioni di farsi belli e seducenti sono tenute chiuse in fon­ do al cuore, nella donna e n eli ' uomo, e giocate alle spalle l'una deli' altro. Se le manovre romantiche riescono, quasi per magia portano senso di sollievo e padronanza di sé. Se falliscono procurano buio momentaneo e silenzio tombale. Ma non durano per sempre. Un gesto seduttivo segue a volte etichette arcaiche : si fanno amabili inchini davanti a persone di riguardo, si congiungono le mani ali ' altezza del viso, si fanno sventolii delle dita per ravvivare incensi fumanti, ci si butta in un tempestoso lancio di confetti o di petali. In precisi ambienti, tutta l'arte della seduzione si riassume nel controllo del rossetto su specchietti appannati (e ripuliti col polpastrello dell ' indice). Ci sono casi in cui l'atto seduttivo non decolla. Fallisce in movimenti stanchi, deludenti o spropositati. Il gioco può diventare pieno di nonsense o di colpi di scena, molto commoventi. Le lacrime sono molto efficaci. Quan­ do un tizio o una tizia si asciuga le lacrime - con ostentata lentezza - sei

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o sette volte di seguito, si è quasi pronti a credergli. Le lacrime possono portare a un risveglio di chi assiste a tale commozione, possono portare a un esito gratificante. Le possibilità di fare una conquista svaniscono davanti a disastri im­ provvisi (acquazzone che riduce a un cencio il vestito nuovo, battuta infe­ lice di chi tenta di essere seducente, racconto irritante di precedenti con­ quiste). Si sfiora la tragedia, in casi rari, se si sono perduti minuti preziosi a cercare un buon inizio di discorso o se non si hanno in tasca le monete per offrire un caffè a una meraviglia di ragazza. In situazioni sfortunate, il buon senso suggerisce un 'unica via di uscita per superare l'angoscia della seduzione mancata. È quella eroica della retro­ marcia, della rinuncia a ogni audace tentativo di far bella figura.

La seduzione maschile ha mille effetti. Le ragazze rispondono in tanti modi, che vanno dalla piena allegria all'accelerazione del ritmo cardiaco, al leggero rossore del viso. Davanti alle galanterie maschili, la donna può spe­ rimentare stati d'animo meravigliosi e pensarsi giunta a un giorno formi­ dabile. Se il complimento ricevuto è sbagliato, può essere invece colpita da incipiente depressione. Se si sente a disagio, è presa da senso di stanchezza, che sfocia in una dura rabbia o in una risata derisoria. Se il corteggiatore è sbrigliato e inizia con una frase graziosa, la ragazza si sente rassicurata. Se lui eccede, lei si sente offesa e persa. Sa che deve repli­ care, o far fronte alla situazione (che tende a concludersi male) . Più spesso non sa come avviare la replica, e diventa nervosa. Se viene fatta entrare in un bar, davanti a due tazze di caffè, lei migliora. Se le parole iniziali dell 'uomo sono piaciute , il caffè sarà definito squisito. Quando la coppia - ancora ap­ pesa al bancone - è a proprio agio, si sente intorno il vento dell'ottimismo. Talvolta l'atmosfera è guastata da un increscioso sudore sulla fronte dei due estimatori del caffè ( inchiodati in un arduo bricolage). L'altalena dei comportamenti buoni, cattivi o insipidi, può continuare ovunque e per un bel pezzo. In certi casi, lui crede di aver fatto avances signorili e di tutto rispetto. È invece il momento in cui lei misura tutta la distanza tra routine e momento magico, tra le battute di un ragazzo sveglio e quelle di un burocrate del corteggiamento. Può anche finire, all' improv­ viso, con una gelida stretta di mano della dama e mille scuse. La tragedia è incommensurabile se - senza fiatare, con un'occhiata intorno - l'uomo inizia a retrocedere. E si sottrae con sollievo alla giovane che non ha perce­ pito l'odiosa parte di compagna ottusa che sta incarnando. 9 · 4·

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Nei casi più inconsueti, languore e leggerezza si possono trasformare in timore che tutto sparisca o che qualcuno stia imbastendo, bugiardamente e senza ironia, la scena della felicità. Un cataclisma cardiaco, un sussulto inconsueto, di lui e di lei, meriterebbero un veloce consulto al pronto soc­ corso. Un appuntamento romantico è una gran cosa. Segna tempi, proposi­ ti, rischi. Può essere un 'alba rosea, e non finire in un gesto smodato della donna angosciata. In certi casi, l'angoscia femminile può non uccidere di dispiacere l'adulatore spensierato, che si turba con parsimonia e calcolato distacco. Se non è convinto della necessità di dare un'altra chance alla com­ pagna, costui saluta in modo gattopardesco. Fa comunque di tutto per non farsi giudicare debole o respinto. Chiude mentendo e basta.

9·5· Un tempo la seduzione poteva essere più sentimentale, o più grottesca. Capitava che molte donne si sentissero al centro dell ' interesse maschile, o riferissero di profferte amorose mai ricevute. Raro che capissero di essere sul punto di diventare vittime di bugie insane. Le volte che capivano, sparavano monologhi velenosi. In compenso, molti uomini usavano pensare di avere il dovere di assecondare i pensieri fatui o ineluttabili delle loro compagne, e furbescamente di trarre vantaggio da situazioni amene ( senza il permesso dell'amabile tizia che stava al loro fianco ) . In tema di seduzione, alcune donne d'età raccontano storie incredibili ( di altre donne ) . Raccontano di corteggiamenti assillanti da parte di pre­ tendenti che intervallavano attacchi e fughe repentine. Il "farsi di nebbià' era un gioco ben praticato che si reggeva su castelli di promesse fasulle. C 'e­ rano storie serie che finivano con viaggi a due, alle cinque del mattino per correre in sacrestia (come fece mia nonna materna! ) , avendo come unico capitale una borsa piena di povere cose. Circolano nella memoria di tante dame attempate anche immagini di interni familiari complessi e poco rasserenanti.

Molte vicende fiacche e sgangherate hanno sconquassato la famiglia di Luigi. Era un gruppo di numerosi fratelli, dominato da qualche ammorbante presuntuoso di una certa età. Ci sono state, fra loro, esuberanti donne non capite, mogli dolci e remissive che hanno contato i tradimenti del marito come fossero giorni da prima­ to degli orrori. Oppure come eventi inevitabili. Una moglie, con un giro parentale piuttosto ampio, ha confessato : « L' ho voluto bello, ed ecco cosa mi è capitato : ci sono state tante donne, una dopo l'altra . . . » . Ora lei è padrona di una delle belle case del suo gruppo familiare. 21 4

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Le donne in passato, erano più indifese, meno abili. Quelle realiste hanno memorizzato tutto. Obbedendo a un istinto di sopravvivenza, alcune mogli non hanno lasciato la famiglia (anche se non hanno potuto metter fine alle intempe­ ranze del marito) . Quelle senza mezzi, hanno sopportato e hanno dato il via a litigi e a qualche ricatto. In una famiglia di miei conoscenti emiliani, un paio di fratelli erano sempre dietro alle donne - mi dice una di loro - anche quelle del parentado, a cominciare dalle nipoti. Nessuno ha mai capito con quale fortuna. Ma i danni ci sono stati. Una riuscì a superare i traumi dell'adolescenza quando ormai aveva quarant'anni. Si sposò con un coetaneo un po' ingessato e paziente. Soffrì per non aver avuto una vita sentimentale degna di tale nome. Talvolta le mogli di individui sbrigliati incoraggiavano i mariti, con una punta di rancore o l'animo ferito, a fare un viaggio a Montecatini (a depurarsi e a pren­ dere aria! ) . Ciò consentiva alle donne, malgrado le spese che gravavano sulla fami­ glia, di fare il capo della famiglia per un po' e di vendere qualche bene familiare a proprio vantaggio. Le tresche intrafamiliari sono state l' incubo delle madri e causa di litigi con padri e cognati. Uno dei due fratelli appena nominati ogni tanto cambiava casa su "ordine della moglie" - dicevano gli altri - che cercava di migliorare le proprie sor­ ti. Lui si costruiva una nuova abitazione e vi portava anche la moglie. Le sue storie continuavano. Una delle due cognate ha saputo resistere all'arte seduttiva di un premuroso signore, gran chiacchierone. Nacque una tragedia quando fu cacciato dalla donna stessa.

Insomma, la seduzione maschile, chiara e netta, imperversava quando le donne avevano poca libertà e gli uomini avevano poche remore e una alta stima di sé. Le vittime o istigatrici non mancavano ; varie signorine si so­ no peraltro sposate con qualche irrequieto adoratore, poco meritevole, su consiglio della famiglia o per propria testardaggine. D'altra parte anche le presunte seduttrici, più o meno note, hanno avuto una serie di ricordi roventi, che hanno portato dentro di sé per decenni. Una signora giovane e vivace, stretta in ambienti arretrati, non si è limitata a osse­ quiare il marito molto occupato e lusingato dall' idea di essere un grande lavora­ tore. Ha progettato anche il futuro della famiglia (che possedeva case e terreni). Tutto il patrimonio era conservato sotto il nome del marito, il quale aveva il do­ vere di difendere il nucleo domestico. La giovane, sposando il primogenito, ha fortificato e protetto la famiglia del marito. Ha pensato intensamente anche al cognato, secondogenito. Qualcuno dice che abbia avuto figli e figlie da entrambi, che ignoravano l' intera rete dei rapporti di sangue. Nel piccolo paese in cui la famiglia viveva, si mormorava. Si biasimavano questi costumi. Nessuno emise una vera condanna. O trovò una giustificazione. Giunti a età matura, i protagonisti lasciarono correre le chiacchiere. Nessuno sembrava calcare la mano sul fatto che 21 5

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la donna fosse la vera padrona del nucleo, nonché dei destini dei due fratelli e della prole che lei aveva messo al mondo.

Alcune donne, della cerchia delle attuali matrone mature, si dice abbiano coltivato l'abitudine di corteggiare più o meno bene i giovani poco esperti. Sceglievano i ragazzi più istruiti, in carriera o di bell 'aspetto, annoiati da in­ sipide coetanee ( come si vede nelle trame di vecchi film ) . Da prede, alcune sono diventate autrici di intrighi. Poco seducenti zie che stavano sempre in casa e si dedicavano ai fatidici lavori all 'uncinetto hanno ritenuto la sedu­ zione intrafamiliare un fatto abbastanza innocuo, se i parenti mostravano poca contrarietà. 9.6. Le famiglie uscivano sempre un po' malconce dalle storie di seduzio­ ne, torbide e sotterranee, che duravano interi decenni. Gli aneddoti per­ sonali, anche quelli falsi, descrivono ancor oggi un incontro galeotto o la volubilità umana come cause di intrighi.

Cosimo aveva sposato una donna molto più anziana di lui perché era una "vera bellezza", e usava bene la propria beltà. Era decisa e incalzante. Cosimo non l'ha più potuta sopportare - malgrado i tanti tentativi seduttivi di lei - perché lei non sapeva dargli figli (lui si riteneva al di là di ogni sospetto, avendo avuto un figlio in altro focolare). La moglie di Cosimo, a un certo punto, si è data a strane pratiche occulte e alla preparazione di decotti e medicine che imponeva a tutta la famiglia. Alla fine, lui si permise due famiglie. La moglie sterile e invecchiata restò nella casa padronale, ma non fu più gradita a nessuno. Le sue sperimentazioni da erborista fai da te avevano fatto arrabbiare tutti. La madre di Cosimo era inviperita dopo che la nuora le aveva rubato - a suo dire - una preziosa ricetta. La moglie di Cosimo sollecitò le premure di un dipendente (che era anche lon­ tano parente) . Cosimo andò a lavorare all'estero per anni; lei ebbe campo libero, ma presto ripudiò il parente. Questo pazzo regime di manovre durò fino alla morte di lei. Cosimo sopravvisse alla moglie per più di dieci anni. Esercitò con costanza e sereno ottimismo le sue abitudini amorose.

Un tempo, la donna audace che rischiava il tutto per tutto era una "porta­ guai" o peggio. In tempi non lontanissimi ( in aree mediterranee ) , se veniva scoperta la sua inclinazione a correre dietro a un uomo, ad accettare le sue profferte, rischiava anche di essere uccisa. Come si sa, il delitto d'onore è stata una via seguita da padri, fratelli e mariti. Nell 'ottica generale, questo delitto era ritenuto una soluzione : la famiglia non doveva soffrire a causa di virtù violate. Ciò significa che certi uomini non potevano sottrarsi al 216

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presunto dovere, tutto maschile, di punire e martirizzare la donna sospet­ tata o indomabile. Qualche uomo crede, ancor oggi, di rinsaldare valori famigliari - e la propria onorata vita di capo della donna - uccidendo. La cosa si commenta da sé ; dà un indice inquietante delle mostruosità di ogni giorno.

9·7· Ci sono persone che contano quanti uomini o donne sono capitolati con qualche moina o parola di dolcezza ( li si numera come soldatini periti in guerra !). Questa è l'aritmetica della seduzione ? Di certo, qualche calcolo viene fatto, segretamente e correttamente, senza tanti timori. Le persone di una certa età, si è accennato prima, raccolgono e con­ servano con cura le memorie dei propri compagni o compagne, più o meno sfacciati. Difficilmente le lasciano sbiadire. Alcune donne partono a narrare da quando sono state adocchiate (o insidiate) dal dirimpettaio, dal muratore o idraulico di turno, dal vecchio parente infame, dal com­ pagno di scuola o di viaggio, dall 'amico del fratello. Qualcuna, un po' alla volta, cre de sul serio a ciò che non potrà mai essere provato. Ma ha ragione di farlo (dato che tutti a un certo punto iniziano a interessarsi a ciò che lei ricorda) . Quasi tutti, uomini o donne, provano il desiderio di rendere le memorie più saporite e le colmano di de ttagli soffici o lacrimosi (a propria gloria o discolpa) . L'arte di conquistare un partner, naturalmente, non è fatta solo di scal­ trezza, di raggiri ed egoismi. Fa parte del bisogno di donare simpatia e ri­ cevere sostegno. A tutte le età questo bisogno entra in tanti patetici sogni amorosi, che decantano la prestanza, il fascino dei conquistatori. Nessuna donna ammette altre qualità di tali gentiluomini !

Con divertente inverosimile disinvoltura, gli uomini possono ritenersi adorati e sulla breccia. E lo vogliono far notare a tutti. Alcuni, come Giulio (un signore sici­ liano prossimo all'ottantina), considerano le proprie conquiste pregresse piuttosto gloriose e di grande conforto per le donne che sono state conquistate. Se le persone come Giulio non ce la fanno a credere alle proprie pretese, fanno grandi sproloqui. Spiegano che con alcune donne non si vogliono mettere nei guai. Che sono quelle che preferirebbero, ma che generalmente sono inarrivabili. Questi uomini adora­ bili lo sanno e lo dicono. Alcuni di tali eterni innamorati vivono con accanto una moglie mesta, che an­ che quando è irritata da tante chiacchiere non lo fa capire. Alcuni di questi amatori si mettono a giocare a carte con qualche nipotino, bellissimo e riconoscente della loro attenzione. E alla fine lasciano ad altri il gioco amoroso (non solo quello della 217

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carte) prima di trovarsi squalificati. Qualcuno però con orgoglio non arretra, come spiega Giulio : « lo mi incanto continuamente. Davanti alle donne, mi sciolgo ... per davvero » , « ho sempre un nuovo amore tra le mani, una donna fantastica da inseguire » .

È evidente che le avventure amorose piacciono. Molti adulti sperano ancora nel destino e aspettano il partner ideale. 9.8. In qualche caso gli intenti di donne e uomini divergono, soprattutto quando la donna è in gamba e "vuole di più", quando prende in mano la situazione per dare una bella sterzata alla propria vita. È come dire che le arti femminili oggi sono cambiate, affinate. Si sa che le donne più mo­ derne di tanto in tanto gettano le basi per un' impresa amorosa che giu­ dicano stratosferica. Le loro mosse hanno reso il campo sentimentale più eccitante. Le donne attraenti e vivaci possono permettersi scelte radicali. Qual­ cuno, un po' ferito da propri guai personali, ha sottolineato questi scarti di rotta: « Oggi la donna è molto indipendente : ne inventa delle belle, fa le sue scelte, le più assurde, preferisce avere un bel cane piuttosto che seguire un marito ! » . Le donne che hanno autostima non vogliono fare la parte dell 'uomo : si aspettano spesso corteggiamenti in piena regola. Per ripicca, possono confinare gli uomini in aree tradizionalmente maschili ( pagare il conto, far strada a un portone , portare una pila di pacchetti, aprire una scato ­ letta di tonno), in ruoli cioè che non le attraggono e che non de siderano per sé. La consapevolezza che le donne hanno di sé è alta. E questo influisce sull 'arte seduttiva, attiva e passiva, di uomini e donne. Si sa che esse da sempre hanno incontrato ostacoli e freni in ogni campo. Ciò le ha per così dire irrobustire, allontanate da tresche di ammiratori seduttivi e all'antica. Molte, oggigiorno, sono decise a farsi valere, anche quando sembrano trai­ nate da un rispettoso ma lento capitano di lungo corso, da un piantagrane o strapazzate da una sorta di direttore d'orchestra (con tanto di bacchetta in mano). Il mondo femminile, non ci sono dubbi, si è specializzato nell' accapar­ ramento di specifici spazi. Costruisce nuovi codici. Le donne conquistano "per tutta la vita" il proprio quotidiano con talento, ma non sempre sono vittoriose. Non sempre rendono note agli altri le falle, le battute d'arresto, le brutture che le frenano o le battaglie che le marginalizzano.

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Le donne, quelle che non cedono alla pigrizia o alla delusione, lavorano fino allo stremo. Ottengono quel che vogliono, a patto che l'ambiente non sia troppo soffocante o crudele. Pagano moltissimo per i propri sforzi, anche per dare una mano agli altri. Le donne meno gradite sono quelle che riten­ gono di essere nate regine e dalla nascita regnano per un verso o per l'altro, con ottimi giochi economici, sentimentali, di immagine. Esse si sdegnano, si offendono, si inchinano, blandiscono, minacciano, partono e rientrano, piangono, perdonano, bacchettano. Queste regine sono un tantino viziate e ossessive e sono giudicate, due volte su tre, nevrotiche indisponenti. Alcune donne ricattano gli uomini, in un modo preciso. Sognano e distruggono i piani di tante persone col discorso del "secondo sesso" in­ compreso. Una mia conoscente tratteggia così un'amica: «Lidia è sempre sottosopra per molte idee bislacche. Si descrive sempre come persona soffe­ rente, si lamenta dalla mattina alla sera. E l'ha vinta » . Si è messa nella "sfera di cristallo" o in una "nuvola di incenso soffocante", direi io ! Molte donne mettono in piedi un proprio governo ferreo dei casi fami­ liari. Sanno di essere sotto attacchi velenosi. Soffrono. Cercano di iniettarsi qualche antidoto. Una donna molto gentile, Giovanna, confessa: « Mio marito, quando l'ho cono­ sciuto, era così ! Andava e veniva. Faceva i fatti suoi. L' ho accettato com'era. Mi è andato bene in questo modo, fin dall' inizio » . Un'altra moglie molto perento­ riamente dichiara: « Non si può avere tutto. lo ho molto. Quello che non posso avere ... non posso averlo. È così e basta » . Il paradosso è che di fatto tante donne come queste non riescono a "venir fuori bene" da queste situazioni, a farsi capire, malgrado tutte le loro bravure.

Oggi le situazioni, dunque, sono intricate a livello generale e societa­ rio. Le condizioni femminili, in particolare, risultano spesso inquietanti. A causa di molte incertezze (sul lavoro, sull'inserimento sociale, sulla fami­ glia) , i sensi di sconfitta possono sfociare in acuti vittimismi. Qualche donna più debole di altre, sfortunatamente, cerca di imbocca­ re strade nuove, che crede non rischiose. Per salvare la faccia o imporsi a un ambiente, qualcuna si mette a tessere storie di turbamenti, di preveggenze, di messaggi ultraterreni, di ispirazioni seducenti. Altre inventano strava­ ganti imprese. Vanno a cercare sicurezza in "superpoteri" oppure in oggetti, carte, pendolini. Mettono in moto una catena di aspettative non sempre innocenti. Si dicono ispirate o maghe e naturalmente pronte a far del bene all'umanità. Per sventura, seguono anche gli insegnamenti o cercano i servi9·9·

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gi di qualche persona abile e ammaliatrice, che le confonde definitivamente con fumosi vaticini. Vari uomini ignorano come stiano le faccende femminili. Hanno tal­ volta meno inclinazione per le cose occulte. Tentano di frenare le compa­ gne con vari escamotage, arie seduttive incluse. E continuano a seguire la solita routine, con la faccia arrabbiata o insolente per le strane opinioni che qualche "donna ispirata", sedicente esperta di cose occulte, mette in giro e divulga tra mogli e compagne. Le donne non sono persone totalmente succubi; vogliono meno rico­ noscenza e più riconoscimenti. Sanno di essere capaci di tessere relazioni o conquistare posizioni appena viene data loro una boccata di ossigeno. Spesso sono però in mezzo al guado. Sanno di saper fare, ma non sanno saltar dentro al flusso magico di chi ha successo. Alcune volte le donne amerebbero che tornassero in auge le vecchie for­ me di corteggiamento, gli stili della antica galanteria maschile. Il supposto corteggiatore non sempre intuisce le attese femminili. È premuto da altre urgenze, non fa neppure il minimo uso della frase che si usava un tempo, spesso in modo affettato : « Prima le signore ! » . Ha smarrito il senso di quel­ le piccole mosse che lo facevano primeggiare e gli permettevano di essere gradito ( anche se non obbedito). Le donne, in un mondo variabile e sotto tante minacce come quelle odierne, cercano di mandare avanti i propri compiti con ogni sorta di inven­ zioni. Sono all 'erta, pronte ; sbrigano varie incombenze in famiglia e fuori. Aspettano di poter usare i propri talenti, presumibilmente senza interferen­ ze maschili, in condizioni opportune. Non va dimenticato - per chiarire le competizioni di genere - che le donne conservano sempre qualche diffidenza davanti a galanterie e proffer­ te di colleghi, compagni o parenti, sui quali circolano dubbi scoraggianti. E non vogliono che si ricorra a espedienti o manovre strabiche quando esse ottengono quello che è un loro diritto.

La seduzione, con momenti combattuti tra uomo e donna, gode di ottima salute perché competere vuoi spesso dire battersi e ottenere una qualche forma di visibilità (anche momentanea o pallida) presso avversari agguerri ti. Le maniere accerchianti usate tra uomo e donna possono avere un'aria seria, semiseria, ironica, isterica, impaziente o lamentosa. Sfortunatamen­ te, a furia di tentare, di cambiare registro o mescolare i toni seduttivi con 9 . I o.

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i toni imperativi, uomini e donne mancano l'obiettivo essenziale di stare realmente insieme. In risposta alle donne, al loro fuoco di fila di lamentele e di richieste, gli uomini talora si lasciano sedurre da altro : club sportivi, gruppi di giocatori di bridge, programmi di volontariato, circoli culturali privati e pubblici. Le donne hanno in compenso tanti allettanti pomerig­ gi dal parrucchiere, corsi di ginnastica, collette e via di seguito. Molte fra loro pensano che la parità fra generi sia un ' illusione, anche se viene data come traguardo ormai raggiunto, come equità realizzata. È questa idea che le donne detestano e combattono d' istinto. La considerano un invito a ri­ nunciare a meritati premi. Nel gioco seduttivo combattuto fra uomini e donne, i primi spesso non accettano di essere superati da una donna e soprattutto da una compagna di vita. Un uomo si può sentire destabilizzato se una donna concentra su di sé l 'attenzione dell'assemblea. Non sa cosa farsene, di solito, di una donna che primeggia. Un po' la blandisce, talvolta la subissa di premure per farsela amica! Con tatto l'uomo offre aiuto alla compagna (le cerca un posto a sedere, le fa strada nella calca, le porge galantemente un bicchiere o una tazza, le regala fiori) ma non le cede il bastone del comando alla leggera. Fa di tutto, a conti fatti, per mettersi acrobaticamente in vantaggio. Con lei non usa apertamente ruoli seduttivi per ottenere conferme. Ma le spiega, con con­ vinzione : « Faccio tutto per te, per aiutarti ! » . 9. I I . In certe tradizioni, non è cosa ignota, gli uomini sono aizzati da don­ ne d'acciaio, che custodiscono nell 'ombra voglia di comando o di vendetta e pensano a chi deve mettere in atto attacchi, agguati, rappresaglie. Le te­ stimonianze sono date dalle donne stesse anche nei casi in cui non è stato consegnato loro il bastone del comando. L'uomo, come detto, non di rado è perplesso davanti ai desideri femmi­ nili; non sempre sa cosa la donna chiede o rimugina. Teme di essere preso di contropiede, di essere forzato, giocato. Qualcuno crede però che la cosa sia un fatto veramente grave. Cerca di essere attento agli eventi. Sa di non sapere e appare più insicuro. E va avanti con cortesia assuefacendosi a un regime di rapporti di basso profilo. Bisogna riconoscere che la devota assiduità di alcuni uomini verso le proprie compagne è molto confortante.

Sandro e zia Milia si conoscevano dalle scuole elementari. Lui, appena adolescente, dichiarò che desiderava fare il tenore. Rinunciò a studiare canto (si dilettava priva221

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

tamente canticchiando qualche romanza!) per non viver lontano da lei. Quando Sandro incominciò a corteggiare zia Milia, divenne per tutti i giovani della fami­ glia lo zio Sandro. Fu una predestinazione che Sandro apprezzò molto. Nessuno fu sorpreso di come andarono le cose fra Milia e Sandro, affidabili e senza grilli in testa. Sandro chiese Milia in moglie prima dei vent'anni. Insieme attraversarono la vita. Zio Sandro non si allontanò mai dalla sua cittadina natale perché così voleva Milia. Incoraggiò la ragazza, nel contempo, ad aprire una sartoria. La soccorse nei tempi difficili della Seconda guerra mondiale. Anzi, furono tristi eventi della Bassa padana a consolidare la loro storia, fatta di poche parole e solide speranze nel futuro. La bottega di sartoria, che andava discretamente, fu colpita dalle bom­ be tedesche. Ci pensò Sandro a rifarla da capo, in tanti anni e a piccole tappe. Si sposarono appena ebbero i denari sufficienti. E senza farsi impressionare dai rigori e dalle penurie della guerra. Zia Milia a un certo punto desiderò acquistare un'automobile. Sandro fu sorpreso. Lui non ci aveva mai pensato. Soprattutto riteneva che prendere un auto sign ificasse entrare in un 'avventura imprevedibile. Lui voleva solo che tutto rimanesse com'era. Non sentiva il bisogno di un'auto o di cambiamenti. Sandro non sapeva guidare una "vettura", come diceva lui. Incapace di negare qualcosa a Milia, Sandro imparò a guidare. Volle capire cosa è un motore e come si tratta. Nel frattempo imparò anche a cucire. Lo soddisfaceva molto stare accanto a Milia tutto il giorno, appollaiato su uno degli sgabelli davanti al tavolone ( pieno di stecche e di modelli di carta) . Lui voleva condividere tutto con lei. Ogni volta che zio Sandro toccava il volante della sua utilitaria era preso dai peggiori timori, ma resisteva. Chiedeva a zia Milia - seduta sul sedile accanto - co­ sa fare per cambiare marcia, se aveva fatto bene ad accendere i fari ... Sandro non saliva mai in macchina da solo. Gli altri passeggeri più o meno occasionali teme­ vano ogni minuto che capitasse un disastro. Tuttavia, Sandro diventò un bravo guidatore. A sedurre veramente Milia fu la grande devozione di Sandro, la sua semplice fede in lei. A sedurre San dro fu la pacatezza mista a prontezza di Milia. San dro vis­ se momenti di totale adorazione della moglie. Qualcuno dei parenti più stretti - e più ciarlieri - trovava l'unione troppo piatta, troppo monocorde. Sandro non se ne curava. Milia rispondeva subito che tutto andava benissimo. La gente del paese diceva: « Sono perfetti ! Guardate: guidano la macchina in due » , e stava a guardar­ li passare, a passo di lumaca, sulla loro "vettura" sempre bella lucida. L'auto rimase seminuova per oltre vent 'anni. Quando zia Milia morì in pochi mesi, zio Sandro divenne opaco e nostalgico. Aveva l'aria di chi aveva perso tutto. Il negozio elegante che aveva creato con Mil­ lia era il suo luogo di ristoro. Regalò la "vettura" a uno dei nipoti che lo avevano chiamato zio. Non aveva avuto figli. Aveva avuto solo Milia. 222

9· LA SEDUZIONE È UN 'ARTE E UN DESTINO 9. I 2. Le arti seduttive dei giovani sono fatte di fiamme variopinte. Molti ragazzi si imitano fra loro, diventano maestri gli uni degli altri, in termini di comportamenti e attese. L'emulazione dei ragazzi dilaga fra gente in per­ petua mutazione ed espansione. I ragazzi sono spesso riuniti in branco, operano sulle stesse lunghez­ ze d'onda o si ispirano alle incredibili esperienze che sentono raccontare. Condividono, almeno a livello superficiale, un mucchio di cose : dalla spa­ valderia alla voglia di vincere e di imporsi. I giovani sembrano risvegliare tutto il proprio interesse appena capiscono di avere davanti una controparte da affrontare ( cui non bisogna dare risposte sbagliate ) . I ragazzi sono un po' monadi, un po' incostanti. Un terremoto interio­ re li scuote quando capiscono di non aver capito il gioco del corteggiamen­ to fin dali ' inizio. È così che capiscono di aver pestato una buccia di banana o di essere sulla banchisa che fonde. Alcuni ragazzini vedono la "linea del fuoco" in anticipo perché conoscono tutti i giorni situazioni amorose che li istruiscono, che li obbligano a far attenzione a tutto. C 'è solo da aggiungere che malgrado la loro presunta onniscienza o chiaroveggenza, spesso i ragaz­ zi annaspano. Non sono bravi nell 'intuire quando è necessario buttarsi nei marosi della seduzione. La tecnica seduttiva dei ragazzi, quando inizia a svilupparsi, usa po­ che autocensure. I giovani spendono molto del proprio tempo a cercare un comportamento seduttivo poco costoso, poco invischiante, che con­ senta - se è necessario - una rapida uscita di scena e un allontanamento dal partner. In caso di seria difficoltà, i giovani vogliono disperatamente essere consolati e coccolati dai coetanei, da presunti esperti conquistatori, da compagni audaci e disponibili. Devono riavvolgere il filo insieme a chi li comprende, li tratta lealmente, sa consigliare bene.

9. I 3 . La seduzione pacata o incendiaria, in giovane età, può procurare an­ goscia e insonnia, prima di condurre alla resurrezione. I ragazzi sanno sca­ tenare batticuori, balbettii, sbalzi di pressione, nostalgie e inverosimili moti di orgoglio ( che a volte massacrano ) . Le loro schermaglie seduttive sono aperte a ogni tipo di spavalderia e di esibizione. La fantasia seduttiva maschile, è fatto noto, può provocare comporta­ menti femminili non sempre sensati. Ma a volte le ragazze sono esigenti, più di quel che si vuoi credere : « Ci vuole inclinazione » , dice una mia giovane amica, «per affrontare e accontentare le ragazze di oggi » . Le manovre di conquista dei giovanotti sono farcite di esagerazioni che vorrebbero essere

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IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

romantiche e da supereroe. Talvolta è il talento che manca ai ragazzi. Tutto questo, purtroppo, non fa bene alle ragazze, che si deprimono. La seduzione giovanile femminile può essere una risposta o un antici­ po di quella maschile. Molte sono le avances della signorina che risponde, sollecita o avvia il corteggiamento galoppante. Oggi molte ragazze - che si sentono belle e adulte - non stanno lì impalate a ricevere complimenti o scherzi. Sanno gestire bene i loro corteggiatori e adulatori. Sanno come incoraggiarli o come polverizzarli. Anzi, ci riescono tanto bene che il lui di turno, alla seconda battuta, non sa che aria assumere. Un fatto conta molto nell 'universo dei giovanotti. Fra i maschi poco maturi o permalosi, serpeggia il terrore di essere "piantati" in asso dalle ra­ gazze o veder ridicolizzate le proprie avances seduttive. Spesso hanno bi­ sogno di mettere in giro vanterie e di difenderle a spada tratta. Chiedono alle ragazze di mentire sul punto di chi è stato lasciato ! Pensano che valga la pena subire una momentanea umiliazione con la ex pur di non perdere il titolo di conquistatore che si sono faticosamente guadagnati. Sul filo di storie minime di conquista e seduzione si possono scoprire molti quadri interessanti.

9. I 4.

Un giorno di primavera, a Parigi, una ragazza è seduta su un parapetto della Senna. Borbotta tra sé, contro il vento. Una sigaretta è tenuta stretta tra l' indice e il medio. La giovane e affascinante fumatrice è un po' irrequieta. È silenziosa, fa l' imbron­ ciata. Forse ha appena finito di litigare col suo compagno. Si vede dal viso scuro, dagli sguardi obliqui di lui. Lei se la prende con la sigaretta, ma pare sul punto per prendere d'assalto il ragazzo. La sigaretta diventa lo strumento della rivincita della ragazza, che la inclina un po' in giù e poi in su, in direzione del ragazzo. La giovane dà un colpetto con l' indice al compagno. Iniziano alcune mosse inequivo­ cabili, quelle che si fanno per darsi un tono. Le gambe dondolano dolcemente. La sigaretta è aspirata molte volte, frettolosamente. Il fumo viene espulso con rabbia, a stantuffo. La ragazza si accarezza i capelli. Salta giù dal parapetto, prende ner­ vosamente un sorso d'acqua da una bottiglietta, in faccia al ragazzo. Non gliela offre, sembra fargli un dispetto. La ragazza, ritornata sul muretto, sventola ener­ gicamente i piedi. Le gambe della ragazza sono sempre più nervose, si accavallano. La ragazza è stizzita. O delusa. Accende una nuova sigaretta; di nuovo sotto il naso di lui. La ragazza cerca l'attenzione del ragazzo, che è sempre più rigido e chiuso. Forse lei ha voglia di pace ma non sa come procedere. Dà due tirate, secche. Sembra voglia consumarla all ' istante. Lui non è agganciato, sta solo fermo. Non guarda la ragazza che, con mossa attraente, si liscia i capelli in una coda. Poi lei sospira, ma il ragazzo 224

9· LA SEDUZIONE È UN 'ARTE E UN DESTINO

continua a giocare la carta del disinteresse e della rigidezza. La staticità del ragazzo fa intestardire la ragazza che pare pensare di andar via; si dà un'aggiustatina all'a­ bito che il venticello ha gonfiato. Tocca a lui sgelarsi, mi pare di capire. Sembra non venirgli nulla in mente. Non è ostile. Solo disorientato. Ha inventato qualcosa ! Si mette a camminare alla svelta verso la musica dell' accordéon che si sente vicina. Rallenta quasi subito per essere raggiunto. Lei gli tira addosso la sigaretta ancora accesa. Lui esplode in un francese incerto : « Cosa hai fatto ? » , ma sembra divertito. Lei si accomoda la borsa sulla spalla e lo segue trascinando i piedi. Lo chiama in francese. L'ha costretto a sbilanciarsi, a parlare. Ma non sembra che la lingua sia il loro modo di comunicare. Lei corre e mette il braccio sulle spalle di lui. Gli toglie piano la giacchetta e se la infila. Vuole un po' di conversazione. Continua a trascinare le scarpe in modo ca­ suale. Lei vuoi farsi ammirare, come fanno le bambine quando si infilano le scarpe della mamma. Ci riesce. Lui si china e le aggiusta i lacci. Ottiene solo un danke, perché lei non sa il tedesco e se ne va due passi dietro a lui. Il gioco si è arenato per mancanza di parole.

Qualche volta le parole accompagnano gesti significativi. Due persone di età indefinita, ad Hanoi, si tengono per mano all' ingresso di un supermercato. Cosa non comune. Sono in fila e non hanno nulla da fare. Pazientano. Le loro facce sembrano contente, i caratteri orientali le rendono un po' indecifrabili. Non hanno alcunché da dire, è evidente. Sono composti, atten­ dono quasi sovrappensiero. Guardano di lato il grande lago verdastro, le imbar­ cazioni. Le mani dei due sono però irrequiete, non hanno modo di fermarsi. È quasi incredibile vedere quanto sono delicate. Sembra che stiano contando con le dita, o che facciano lievi massaggi le une alle altre. La coppia fa intrecciare, slacciare, riallacciare le mani in modo che colpisce. Chi sta conducendo il gioco delle dita ? Forse è lui. Palmo contro palmo, due superfici che si toccano, si uniscono. Questo gioco lo fa subito dopo anche lei. A un certo punto un braccio nudo si alza e trac­ cia una curva, e poi una linea. È lei. Cosa disegna? Indica il ristorante di fronte ? Sull'albero fuori dal negozio tanti uccelli cinguettano fortissimo, come ogni sera. Migliaia e migliaia di volatili fra i rami cercano riposo. La coppia silenziosa è perduta in qualche sogno, si guarda come se fosse sola in un' isola deserta, o sulla luna. Muti, prendono una decisione con cenni di intesa. Le mani non si lasciano. I due escono dalla fila. Hanno la faccia di chi è riuscito a farcela. Si affrettano verso un locale di fronte, accogliente. Finalmente potranno avere riparo. Ne hanno bisogno. Hanno scelto un piccolo ristorante che ha piatti poco costosi. Loro malgrado stanno mostrandosi felici ai passanti.

Una passeggiata nel parco fa mettere a fuoco una persona vanitosa, pronta per il gioco seduttivo. 22 5

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

Un uomo in giacca bianca cammina sulla terrazza del Pin cio. È impettito e cammi­ na lento. Ha un paio di occhiali tondi bluastri e una barba brizzolata ben curata. Occhi chiari dietro le lenti e una capigliatura candida. Ha un che di eccessivo, nel camminare. Si sente osservato e si agita, si mette a camminare più svelto. Fa l'ele­ gante. Rifà la strada in senso opposto, lasciando una scia di fumo. Il fumo traccia una linea dritta dietro di lui, con un bell'effetto. Il signore non sembra badare allo sguardo dei passanti. Ma forse è l'opposto. Sente lo sguardo dei passanti su di sé. L'uomo ha un viso fuori dal comune, e lo sta portando in giro per bene. Sta cercando di regalare il suo fascino a qualcuno. Lo regala a una coppia di piccioni grigi (che sono però piuttosto impegnati nei loro preliminari amorosi). Lo vorreb­ be regalare a una signorina seduta su una panchina, che sta valutando le propria labbra in uno specchietto rotondo. La signorina è un po' in fermento, si mostra irrequieta, l'uomo in giacca bianca sembra notarlo. Lei non si sofferma sull'uomo. Non riesce a interessare il suo giovane accompagnatore che mastica qualcosa e poi sputa. Mangia, tutto solo, bruscolini. Lei è mezza accecata dal sole che tramonta, va alla balaustra a vedere di sotto piazza del Popolo. Sembra lontana dall' idea di coccolare il compagno. Anche lei inizia a masticare qualcosa preso da una tasca. La ragazza, a un tratto, sembra aver voglia di prendere in mano la situazione, si risiede e apre un libro. Fa vedere a lui qualcosa dentro il libro. Lui sobbalza. Dà una manata non proprio leggera al libro e lo scaraventa per terra. Ha sbagliato il tiro. Raccoglie il libro trafelato e lo pulisce. Il signore con i capelli bianchi è sparito, inghiottito dall' indifferenza. Se n'è andato altrove inosservato. Qualcuno risponderà al suo fascino ? I due ragazzi han­ no cominciato a farsi un sacco di moine. Sono rimasti soli. La terrazza del Pincio sembra piena di fantasmi e di magnifiche occasioni.

9. I 5 . Qualche volta la seduzione è programmata fin nei dettagli. È perfetta ed efficace anche se non si sa chi l'abbia progettata.

Il presidente di un istituto di ricerca, in un elegante salone, saluta un gruppo di professori. Commenta con poche parole la qualità delle relazioni e il successo del convegno appena concluso. La sua assistente non è molto lontana. Il corpo della ragazza, morbido, si gira un po ' a destra e un po' a sinistra. Stanno per iniziare le riprese di un video : lei deve apparire per prima. La giovane istruisce con le mani l'operatore. Muove a tempo le spalle ; mostra bene il profilo del collo e del busto. Ripete la manovra di prima, girandosi di novanta gradi. Prepara insieme al tecnico uno sfondo dell' imminente pranzo di gala. Il convegno è finito, e anche i compiti di ospite della ragazza stanno finendo, tutto deve essere documentato. La giovane ricercatrice è graziosa e sa di esserlo. Non è proprio tranquilla. Si muove nella sala, cerca con lo sguardo qualcuno : il presidente, il suo capo. Lo avvicina e gli parla impettita, a lungo. La faccia della ragazza è l' immagine del tormento, sembra pronta all'attacco. Fa un cortese an226

9· LA SEDUZIONE È UN 'ARTE E UN DESTINO

nuncio ai commensali, poi si gira e pare congedarsi da loro. Va verso un tavolo in fondo. Toglie di mano la macchina al ragazzo che sta filmando. La giovane donna non dice una parola quando il presidente si porta accanto a lei. È il suo momento. Alza teatralmente le braccia, congiunge le mani dietro la schiena. Sembrano ali abbassate. Con un gesto di scatto abbassa le mani lungo i fianchi. A occhi chiusi scocca un lieve bacio sulla guancia dell 'uomo. Gli regala uno sguardo intenso. È una scena d'amore in formato istantaneo. La macchina da presa è tornata in mano all'operatore, ammutolito e indeciso sul da farsi. Il ragazzo non si muove, forse gli è stato comandato di fermare la ripresa. La scena è seguita da tutti. Poi le immagini degli ospiti si sfilacciano in mille movimenti. Molti sapevano di questo finale tra il romantico e il filmico ? Ha fatto tutto lei ? La ragazza immagina o si aspetta ancora qualcosa? Riesce a sorridere e a ripetere complimenti al pubblico. Il capo pittorescamente l'applaude e la ringrazia forte. Lei non si mette più in posa, con un ordine secco immobilizza definitivamente l'o­ peratore che filma. È soddisfatta di aver tolto di mezzo la distrazione della cinepre­ sa. Rivolge più volte lo sguardo al suo capo, a sua volta guardato da tutti i presenti. Il pranzo va avanti in modo sontuoso. Vanno avanti i brindisi e i tintinnii dei bicchieri. In silenzio, pochi minuti dopo, il presidente fa una mossa galante: scorta la ragazza cerimoniosamente fino al centro della sala. Rimangono così faccia a faccia, alla pari. Ognuno, dopo aver accerchiato o celebrato l'altro, ora osserva il risultato. Lui lancia un messaggio : « Devo congedarmi ! » . Prende la mano della ragazza per vari secondi. In un batter d'occhio, si capisce che i loro modi li hanno trasformati in una coppia.

9. I 6. Le mosse del corteggiamento sono di tanto in tanto il condensato di molti talenti. Sono allegre, scherzose, piene di spirito. Altre possono finire in momenti amari.

Le finestre di un locale francese alla moda sono chiuse e si soffoca di caldo. Vien voglia di scappare fuori a prendere aria. Invece si rimane sulla sedia; un che di effervescente è entrato nell'aria. La cameriera del ristorante ha occhi incantati e movimenti rallentati davanti a un cliente con baffi biondi e sguardo allucinato. Guardandolo fisso, lei si lancia verso il tavolo che lui sta per occupare. La mossa della donna sembra piacere all'ospite. Lei sconsiglia immediatamente al cliente il tavolo che lui ha adocchiato, anzi gli si para davanti per allontanare l'uomo dal posto, troppo centrale, troppo di passaggio. Per dissuaderlo fa un mucchio di ge­ sti, sguardi scenici e molto aggraziati. Lei gli offre il più bel tavolo del locale. Sarà servito «dalla più bella cameriera ... », aggiunge, con una risatina composta. «La più bella signorina del ristorante sono io » . Lui sta al gioco, ma capisce poco la musica delle parole straniere. Le frasi della cameriera hanno comunque creato uno spazio magico che all ' istante lo assorbe. Sta recitando anche lui, in piedi. In un battibaleno lei porta il coperto. Lui si siede. 227

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

Lei aspetta l'ordine, guardandolo in modo incoraggiante. Lui è incerto, non la guarda in faccia. L'uomo fa passare alcuni attimi e imbastisce un discorsetto. Il viso di lei è radioso. Ha vinto ! L'ammirazione dell'uomo baffuto sembra vera. Un minuto dopo l'uomo ha il viso esterrefatto. È stato colpito da qualcosa di imprevisto. Lascia in fretta il tavolo e va al bancone, ordina seccamente un caffè. Non è più l'uomo smaliziato di prima. Si è rabbuiato. È stato salutato stentata­ mente da una donna appena entrata. La sua spinta verso la conquista si è spenta. Ora i gesti e gli spazi devono essere ripensati per una partita a tre, che non si sa chi metterà in mostra, chi sconfiggerà. Il giovanotto baffuto e la cameriera inebriata non sono più sulla stessa lun­ ghezza d'onda. Esaurito il buon umore, è scomparsa la fascinazione della cameriera che tenta di attirare nuovamente l'attenzione dell'uomo, mostrandosi ai suoi co­ mandi, rigida. Ferma al bancone, la terza persona è ormai vicinissima e prende in mano la situazione, ignorando tutti. Il contatto fra cliente e cameriera è finito, lo si vede dai movimenti di lui, non troppo baldanzosi, dalla spinta che dà alla porta. È la donna appena arrivata che si è aggiudicata la partita, senza sorrisi. È lei che, eludendo ogni ostacolo e azzerando i giochi seduttivi della cameriera, accompagna fuori dal locale il giovane, ormai un po' assente e con aria falsamente caparbia.

9. I 7. Si è visto che gli interni e i luoghi privati si prestano a vari giochi seduttivi, dai più inebrianti ai più meschini. Nell'elaborazione del lutto, affiorano alcune interessanti dinamiche interpersonali che incidono molto sull 'ambiente quotidiano :

Il marito di M. Grazia è morto improvvisamente, in un incidente tragico di cui si parla sottovoce. La donna ha violentemente risentito della notizia, mi dice qualcu­ no appena entro nel suo appartamento. M. Grazia ha pianto in sordina, con l'aria stordita. Le si è avvicinata una collega, fra le più anziane e affezionate, per conso­ larla. La vedova è sempre più sconvolta. Tutti si sono presentati da lei, spaventati, con faccia di circostanza. M. Grazia è un po' prigioniera della solidarietà guardinga dei presenti. Ed ecco che entra un collega con aria tristissima, sa tutto. Ma vuole sapere di più. Si guarda intorno con apprensione. M. Grazia scoppia in lacrime e si avvinghia al collo dell'uomo. Prende qualche sorso da un bicchiere. Si vuol ristorare o placare. Forse è un farmaco. L'uomo appena arrivato è un po' inerte, un po' patetico, ha un che di irreale e grottesco. Lei sembra lievemente alterata, come se si sentisse in dovere di stare attenta. Nervosamente qualcuno dà consigli inutili, tirati fuori con le unghie dal solito frasario. Si capisce che la vedova vuole aiuto dal collega. È un po' tramortita. C 'è confidenza fra loro. L'abbraccio doloroso continua. Dopo alcuni singhiozzi forti, la donna non si dispera più. Si asciuga le lacrime. Dice qualche parola, proprio poco. O gli soffia cose personali. L'abbraccio è reciproco, senza ritirate da par228

9· LA SEDUZIONE È UN 'ARTE E UN DESTINO

te dell'uomo. Appare un atto sincero compiuto da una donna debole che chiede comprensione, sostegno. Forse è un po' protratto. I presenti sono ammassati nella stanza. Nessuno osa andarsene. Tutti stanno impalati. E l'abbraccio non è ancora terminato. Un signore di mezza età, parla molto : commenta fatti politici, a spro­ posito. L'aria è pesante. Le persone sono visibilmente a disagio. La vedova è ancora allacciata al collega, angosciata si tiene stretta a lui, che sembra totalmente coinvolto. Le domande su una morte tanto imprevista, non si fanno. Ma i particolari circolano lo stesso. Un vecchio amico dà qualche det­ taglio della disgrazia. Alcuni avrebbero rettifiche da fare, ma si trattengono. La collega anziana sta uscendo per andarsene. Fa un discorsetto di solidarietà alla vedova, lo lascia a mezz'aria. M. Grazia ribatte lì per lì, parla con decisione ; risolverà tutto dopo. La donna anziana, poco abile, precipitosa nell'offrire qual­ che tipo di aiuto, ammutolisce. La mossa, forse involontariamente accerchiante, è durata pochi istanti. Non ha avuto successo. La donna si era fatta avanti per segnare un vantaggio ? Un possibile sodalizio ? Si è creata un'altalena di emozioni fra i presenti. L'atmosfera di scoraggiamento sembra andare al di là dell' imma­ ginazione. L'arte della seduzione, in forme diverse, quel giorno è entrata con forza in azione. I vari comportamenti accerchianti si sono intrecciati senza clamore. Si so­ no arrestati quando l'uomo abbracciato dalla vedova si è scosso e ha interrotto la scena. La collega anziana se n'è andata scontenta. Molte le occhiate a quella lunga stretta della vedova. Qualcuno si è chiesto se si trattava di un legittimo e serio dolore che finalmente si scioglieva o di una speranza che finalmente nasceva. La manovra seduttiva sull'uomo aveva occupato la scena del dolore per un pezzo. Anche l'azione della collega anziana è stata osservata ben bene, anche se è durata molto meno.

9. I 8. Fuori dal campo amoroso, talora, le donne regalano il loro fascino e i loro pensieri più concreti e utili ad altre donne. La donna che affronta un'altra donna ha modi affettuosi, amicali. Cer­ ca di condividere segreti, di fare generose offerte. Tra loro, le donne pro­ mettono comprensione, devozione. Le brave, le felici, le furbe, le innocenti, quelle in carriera, quelle chiuse in casa, sono in genere tutte molto motivate. Ce ne sono molte un po' metalliche o legnose. Disdegnano i premi di con­ solazione e i soliti incoraggiamenti. A certi livelli sociali, tra donne si parla in modo sciolto e un po' di­ dascalico di sororati, di gruppi femminili, di comitati di donne, di centri educativi e ricreativi femminili, senza ricordare quanto vecchie siano queste etichette e quello che vogliono rappresentare. Qualcuna sta attenta a come va la solidarietà, un 'altra non si riconosce nei sodalizi e non partecipa alle

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IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

sedute delle mogli dei membri di facoltà, del comitato direttivo delle "Don­ ne per la Pace" o alla scuola di nouvelle cuisine etnica o nostrana. Eppure le donne vogliono legarsi a filo doppio ad altre donne, di condi­ zione simile se è possibile, o comunque a persone che possono prestar loro attenzione. Dicono che non vogliono vivere in un ambienti sterili e intro­ versi. Resta poi da vedere se parlano di un sentimento reale e sperimentato. Una ragazza, appena conclusi gli studi - è dottore di ricerca - mi contatta. Vuol parlare di un suo grave problema. Confessa subito che vuole sposare un ragazzo straniero, di cui dice di essere innamorata, ma vuole l'approvazione di chi ha pos­ sibilità di darle pareri seri e di aiutarla. Per ragioni religiose, il suo mondo familiare non gradisce il partner che lei si è scelta. La giovane cerca di accendere l' interesse di una donna più esperta e più incline a vedere le cose con un certo distacco professionale. La ragazza vuoi tirare l'esperta dalla sua parte. Si appoggia a un bel discorsetto con un po' di civetteria. Inizia con cose di ordinaria amministrazione: i fraintendimenti fra generazioni, e plana sul suo personale problema. Il ragazzo non vuol parlare con i genitori di lei per convincerli delle sue buone intenzioni. I genitori e la stessa ragazza sospettano che la sua ritrosia celi pensieri di bassa lega. La ragazza in ansia si scusa più volte di parlare di sé. Continua a usare a piene mani il proprio tono accorato. Si svela solo a metà; è misurata. Parla di assurdi osta­ coli di tipo religioso. Fa osservazioni che sembrano innocenti. Ma il punto che scotta alla fine viene toccato: « Quando i genitori hanno religioni diverse, i figli devono essere allevati nella religione del padre ? » . È su questo punto che la ragazza cerca di mettere in piedi un'alleanza con la sua interlocutrice. Alla fine diventa esplicita. Lei cerca - con un po' di insistenza - di procurarsi un difensore credibile. Si è convinta di avere dei diritti e di doverli difendere. Vuole la mediazione di chi non è personal­ mente in causa per essere più certa del successo. La ragazza è convinta di potercela fare se qualcuno combatte con lei, se trova le parole convincenti per difenderla. Lei non esaspera la questione dell'educazione dei figli. Ammette che il fatto religioso va chiarito prima del matrimonio, ma pensa che nel suo caso si possa fare un'eccezione. Cerca, in tutti i modi, di conquistare chi ha di fronte. L' incontro però non ha portato a ciò che lei avrebbe voluto. La pressione della giovane, un po' impacciata, tende a dare a qualcuno un ruolo di giudice o di guida ( « Lei mi consiglia di non dar retta ai genitori ? » ). Ma ha poco effetto. La ragazza non ha conquistato un alleato tuttofare e lo ha saputo fin dall' inizio: ha continuato la sua storia a modo suo, in nome di un' i­ dea di libertà personale, ribadita a oltranza. Una libertà che ha scelto è stata quella di non far precipitare le cose, di dare tempo al tempo, senza imboccare la strada delle imprese a senso unico, non risolvibili con dure prese di posizioni.

L' intenzione di conquistare un partner, un alleato fedele, a volte porta ad azioni battagliere o bellamente salottiere.

9· LA SEDUZIONE È UN 'ARTE E UN DESTINO

In un ambiente pubblico ed elegante una bella signora divorziata, dopo anni di tri­ bolazioni coniugali, spiega a un'amica la tecnica per arrivare con certezza al divor­ zio. Non vuole approvazione, vuole che sia chiaro che non ha fatto torti all'ex mari­ to. Non ha più conti in sospeso. Non intende assumersi alcuna colpa. Tanto meno desidera che altri gliela attribuiscano. Vuole uno scagionamento totale da parte di chi ritiene dalla sua parte. Tutto il discorso ruota attorno alla convinzione di essere stata trattata da colpevole. L'amica cerca di seguirla fino in fondo. Attenta ai par­ ticolari ( e a non sbagliare il tono della conversazione o la sequenza degli eventi ) , la signora divorziata spiega e rispiega sgarbi sopportati, voltafaccia, cambiamenti di residenze, affari di soldi. Ha buon gioco nell'assemblare tutte queste confidenze : chi l'ascolta non può immaginare quel che si deve sopportare nei divorzi ! Tra chi parla e chi ascolta c 'è una bella intesa. La divorziata di certo è convinta che l'amica sia terreno vergine in fatto di divorzi. Un terreno che va dissodato. Nella divorziata, l' impeto della conversazione cresce. Sembra che voglia strin­ gere un legame diverso dal solito con l'altra. Ma la conquista di una confidente non va affrettata: « Oggi manca il tempo per concludere questa chiacchierata » , annuncia la divorziata dopo aver creato un robusto legame d i fiducia con l'amica. E suggerisce immediatamente un altro appuntamento, un incontro per dire tutto ciò che rimane ancora da svelare. Crea un filo col futuro. Allunga i tempi delle confidenze. Fa pensare che il nodo degli eventi finali sarà interessante. Dichiara, all'amica, con aria di intesa - come si trattasse di una bella partita giocata tra per­ sone abili e esperte - che è contenta di averla tra le sue confidenti. Non c 'è da dubitare che la signora divorziata stia pensando che le parole sedu­ centi non devono arrestarsi. La narrazione deve srotolarsi; richiede ulteriori incon­ tri. «Ti farò conoscere alcune mie amiche » , dice promettente. C 'è da chiedersi: « Loro sono già sue alleate ? » . Di faccia l'una all'altra, la divorziata e la sua amica sanno benissimo che il gioco è manovrabile, che lo scambio di narrazioni è appe­ so a un filo. Dopo i saluti e auguri reciproci si lasciano. Passa vario tempo, mesi. L'amica della divorziata rimane ad aspettare il nuovo appuntamento. Un incon­ tro non viene però organizzato allo stesso modo. Non avrà più il tono veemente e vincolante del primo. Si sono complicate le agende di chi tende a conquistare ruoli e credenziali. Sono nate altre confidenti. La divorziata ha trovato un nuovo impegno. È molto occupata o non cerca altre amicizie.

Una persona del passato come del presente può incarnare la sedu­ zione. Cleopatra la incarna sicuramente. Nata attorno all'anno 70 a.C., è la settima regina dei Tolomei a portare questo nome. Le viene attribuita bellezza, raffinatezza ed enorme scaltrezza. La narrazione che è cresciuta attorno a lei ci mostra una sovrana in grado di coltivare relazioni politiche e culturali importantissime fino alla morte (avvenuta nell'anno 30 a.C.), e di gestire ottimamente tutti i vantaggi del suo fascino personale. 9. I 9.

IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE

Cleopatra veniva equiparata o addirittura fatta coincidere con la dea lside-Artemide. Veniva sacralizzata la sua persona, la sua vita. Le sue capaci­ tà seduttive rappresentavano una grande risorsa per il suo regno. Nella men­ te della gente, il valore politico di Cleopatra si basava, in buona misura, sulla sua dignità regale-divina, ma anche sulla sua eccezionale storia amorosa. L' incontro di Cleopatra con Roma avvenne sotto l ' insegna dello splen­ dore e della seduzione. È il tratto storico che viene spesso osservato e defini­ to come meraviglioso e chiaramente vincente. Pare che le navi della sua fa­ mosa flotta - anche dopo sconfitte pesantissime - rientrassero nel porto di Alessandria in gran pompa. La popolazione viveva in delirante adorazione e sottomissione alla propria regina. Si favoleggia che la gente fosse felice di essere sedotta da una personalità tanto splendida e famosa. L' immagine ful­ gida del suo perpetuo "trionfo in patrià' è forse oleografica e un po' lontana dalla realtà se si pensa che, malgrado le capacità straordinarie di Cleopatra, nulla è riuscito a ripararla dal declino e dalla sconfitta. Cleopatra è rappresentata da artisti e studiosi come una donna con­ tornata da un mondo d 'arte raffinato, del quale lei ha piena padronanza. Una mostra, svoltasi a Parigi nel 2 0 I 4 (prima è stata allestita a Roma) , ha dato risalto a questa figura di donna affascinante che intrecciò una storia singolare tra Egitto e Roma. Negli allestimenti museali parigini si è messo in mostra l'ambiente sontuoso in cui Cleopatra era immersa ad Alessandria e nell' intero Mediterraneo. Molte idee sulla vita e morte di Cleopatra escono da film, libri, quadri, lavori teatrali, che perpetuano il suo valore. Le sono stati prestati i volti di Sarah Bernhardt, di Liz Taylor, di Claudette Colbert e di altre. È stata collocata nella storia di due dominatori romani, Cesare e Antonio. Ancora oggi la forza seduttiva di Cleopatra non è tramontata. Il capolavoro della affascinante vita di Cleopatra è stato il suo suicidio. Le raffigurazioni dell ' incantevole Cleopatra illustrano con forza la morte spettacolare che ella si diede, quando capì che la sconfitta era inevi­ tabile. La sua leggenda dice che si fece mordere al seno da un aspide. Con questo gesto di grande impatto, la regina ammiratissima ha ingigantito il suo ruolo di donna sensibile e unica. Il suo nome e il suo stile restano segni perenni delle forti passioni e capacità di conquista femminili. Quello che interessa qui è un punto preciso. Sappiamo che Cleopatra è stata sfarzosamente descritta dagli studi (e anche dai fumetti) e che entra nell ' immaginario attraverso visi e corpi di attrici. Ciò ci permette di capire meglio i canoni della seduzione, i legami amorosi singolari - senza limiti spaziali o epocali - che l'umanità abbraccia, ai quali si affida.

9· LA SEDUZIONE È UN 'ARTE E UN DESTINO

In altre parole, in una società disincantata come la nostra, Cleopatra parla e insegna ancora. La regina tolemaica, che lotta, ammàlia, incanta, incarna gli estremi stati del successo e il tormento orrido dell ' insuccesso. Cleopatra non è sola, naturalmente, nelle gallerie delle donne straordinarie antiche (come Nefertiti, Livia, Giuditta, Esther, Ruth e tante altre). Cleo­ patra però si distingue come donna veramente abile e leggendaria. L' immagine della morte di Cleopatra, dal xv secolo in poi, ha avuto una fortuna eccezionale nella pittura. In tanti quadri (come quelli esposti nella mostra parigina del 20I4) , è rappresentata come una figura che intriga per la sua sensualità e angoscia. È il suo modo di togliersi la vita, come det­ to, che è diventato uno dei temi essenziali, dal quale sono nate avvincenti notizie sulla sua dignità e sul suo combattimento finale. Vari pittori hanno ritratto in particolare il suo seno perfetto un attimo prima, per così dire, del morso fatale dell 'aspide. Questa scena è diventa­ ta un tema ricorrente e molto seducente. Posato sul marmoreo seno della regina, il rettile diventa un 'amara e invincibile sfida a tutto quello che essa possiede ( bellezza, potere, genialità). È lo strumento che lei ha scelto per provare il proprio coraggio ; è un grande simbolo tragico. C 'è in verità, nella mostra del 20I4, un ritratto realizzato da Lavinia Fontana (Bologna I55 2-Roma I6I4), artista singolare, che riproduce Cleo­ patra con viso di fanciulla, seno piatto, copricapo simile a un elmo ( più che a una corona) calato su una cuffia di trine. Ha una lunga e pudica sciarpa di stampo orientale. Si tratta di un mosaico di indizi e di tratti decorativi che suggeriscono venerazione. I lineamenti della Cleopatra dipinta da Lavinia non sono provocanti. Quel che aleggia intorno al quadro di Lavinia è la magia di una figura bella e originale (che viene rincorsa e manipolata dagli artisti, mai rimossa) . La più importante manipolazione di Cleopatra, per gli storici, fu quella operata da Augusto, suo nemico, che le sopravvisse quarant'anni e si adope­ rò molto per occultare la figura della sovrana1• Oggi siamo noi che reinven­ tiamo Cleopatra e la celebriamo, perché siamo ancora ammaliati da ciò che si dice di lei. Non siamo usciti dalla sua presa, dal suo dominio emotivo. La sua morte spettacolare l ' ha resa una figura femminile esaltante. La figura di Cleopatra seduttrice è come si è voluto fosse di epoca in epoca, di autore in autore. La si è voluta sigillare, come esempio indelebile del femminile affascinante perché era conveniente che lo fosse. 1. G. Weill Goudchaux, La subtile stratégie religieuse de Cléopatre, in M. Restellini (dir.), Le mythe de Cléopatre, Pinacothèque de Paris, Paris 2014, p. 7S·

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IL POTERE DELLE COSE ORDINARIE 9. 20. Nei nostri microcosmi quotidiani, si è detto, alcuni personaggi condi­ zionano i propri simili narrando cose spettacolari, scenari fantasiosi. Inventa­ no imprese seduttive su larga scala ( azioni miracolose, viaggi mistici, sedute liturgiche, incontri con gli spiriti ) . Alcune operazioni di suggestione pubblica sono in mano a gente dotata di grande fantasia. Sono ancorate al mondano e coinvolgono folle immense, seguiti fantasmagorici. Circa tre anni fa ho no­ tato un tipo di seduzione che investe migliaia di persone in luoghi pubblici.

Un sabato primaverile, sul boulevard di Saint Germain des Prés, si è svolta una pa­ rata musicale : un evento molto sonoro e vistoso, il Festival della musica elettronica (lanciato da alcune associazioni ecologiste). La musica proveniva da grossi auto­ mezzi attrezzati con altoparlanti, e carichi di giovani che ballavano e si sbracciava­ no. Gettavano annunci e dolci al pubblico. Circolavano giovani e giovanissimi di tutti i tipi, di tutti i colori. Piccoli gruppi di anziani straccioni, molto "bevuti", si erano uniti ai festanti. Il pubblico giovane era in delirio, totalmente soggiogato dalla musica assordan­ te (esattamente quella delle discoteche) che invadeva i grandi viali di Parigi. L'am­ piezza della platea moltiplicava a dismisura la seduzione collettiva. Molti ragazzi erano affascinati e fuori di sé. Tutto era controllato da poliziotti dall'aria severa e allertata, in pieno assetto. La musica martellava, picchiava sul petto e sul cervello di ragazzi invasi da forti emozioni. Ho pensato immediatamente : «Ecco la seduzione trasferita in piazza ... Ecco cosa significa agganciarsi emotivamente l'un l'altro » . Cosa stava avvenendo i n questi ragazzi ? I corpi surriscaldati di chi ballava erano scarabocchiati, dipinti con vari colori. Si ammassavano su carri allestiti con casse sonore. Era nata una performance indiavolata. Qualcuno aveva cominciato a esagerare con la birra: era intervenuta la polizia, le sirene si erano sentite in vari punti della città. Un'ora dopo la parata, i viali di Parigi erano stati lavati dall'ef­ ficiente nettezza municipale, ed erano pronti - dopo ore di effervescenza sfrena­ ta - a rientrare nella normalità. Lungo la Senna, fino a notte alta, non si è smorzata la malìa dei cori, degli slogan.

Oggi viviamo e subiamo la seduzione della rete, una forma di tra­ smissione di idee, suoni, scene. Siamo sotto l' influsso di esperti, inventori e programmatori inediti e potenti. Sono tutti, o in gran parte, sconosciuti alle masse che manovrano. Siamo tutti sotto l' incantesimo di organi decisionali poco raggiungibili e decriptabili. Molte persone comuni sono incatenate alla rete, molti sono esclusi perché incapaci di entrare in sintonia con certe tecnologie. È questa la nuova situazione che seduce l'umanità. Il regista Werner Herzog, in un film documentario, ha presentato alcu­ ne potenzialità della rete e le condizioni conoscitive che essa offre. Ma ha anche detto molto di più sulle tragiche fascinazioni che provoca. 9.21.

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9· LA SEDUZIONE È UN 'ARTE E UN DESTINO

Il regista enuncia i danni serissimi che i nuovi mezzi scatenano, a partire da atteg­ giamenti compulsivi ed estraniamento dalla realtà. L' incisività e la velocità delle comunicazioni, che ogni individuo può recepire e falsare grazie alla rete, non fan­ no che aggiungere problema a problema. I grandi vantaggi - sembra dire il regi­ sta - non possono oscurare i tantissimi rischi della gestione della rete o i malanni fisici che le tecnologie ci regalano. Parecchi individui sono vittime degli effetti dannosi della rete. Una storia che il regista riporta riguarda una donna gravemente malata a causa delle emanazioni elettromagnetiche o radiazioni. È costretta a vivere in una stanza del tutto isolata dal resto del mondo. La storia dimostra cosa significhi essere vittime di una totale dipendenza da tecnologie potenti. È importante osservare che la protagonista si dichiara comunque felice di vivere in tale stanza, anche se il suo orizzonte di vi­ ta è ridottissimo, costituito com'è da pochi metri di spazio e scarsa possibilità di movimento.

Con sguardo molto acuto, Herzog ha dato un quadro, personale e soggettivo, di una realtà che è al limite dell' immaginazione. Fa vedere quale possa essere il costo di una seduzione planetaria, di un incantesimo del tutto fuori regola. Proprio per gli effetti concreti e non volontari che possono produrre, i mezzi telematici si presentano come fattori imponenti del presente e del futuro. Errori e manipolazioni, processi involontari o progetti avveniristici, pos­ sono cancellare molte memorie del passato, addirittura gran parte del nostro attuale sapere e delle nostre capacità. Le grandi tecnologie, rese affascinanti da gente esperta, possono produrre terrificanti contaminazioni e perdite. Sono in grado di annullare dati necessari alla nostra esistenza ( sistemi di difesa, di cura, di interscambio ecc. ) . Possono ledere diritti fondamentali. Le tecniche ultrapotenti di cui l'umanità dispone e che abbondante­ mente utilizza possono far saltare i rapporti fra individui, nazioni e conti­ nenti ; possono devastare istituzioni, interrompere ordinari processi pro­ duttivi e distributivi. Il mondo sta subendo un 'enorme sfida. Ha bisogno di altri mezzi espressivi e di altro impegno progettuale. Non può pensare unicamente a istituire una via di scampo per gente imprigionata da stru­ menti sofisticati e seduttivi che la espongono a devastanti rischi. Gli esseri umani non possono accettare seduzioni tanto nocive e incontrollabili.

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