Il postumano. La vita oltre l'individuo, oltre la specie, oltre la morte 8865480866, 9788865480861

La nostra seconda vita negli universi digitali, il cibo geneticamente modificato, le protesi di nuova generazione, le te

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Il postumano. La vita oltre l'individuo, oltre la specie, oltre la morte
 8865480866, 9788865480861

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DeriveApprodi 114

Traduzione dall’inglese di Angela Balzano

© 2014 DeriveApprodi srl per la traduzione italiana I edizione: gennaio 2014 © 2013 Polity Press Titolo originale: The Posthuman DeriveApprodi srl piazza Regina Margherita 27 00198 Roma tel 06 85358977 fax 06 97251992 [email protected] www.deriveapprodi.org Progetto grafico di Andrea Wöhr In copertina: Maurizio Cannavacciuolo Courtesy of the artist Isbn 978-88-6548-086-1

DeriveApprodi

Rosi Braidotti

Il postumano La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte

Voglio ringraziare il mio editore John Thompson per avermi suggerito di iniziare a scrivere questo libro. Sono fiera di essere da tempo un’autrice della casa editrice Polity Press. Alla mia traduttrice Angela Balzano va tutta la mia riconoscenza per il suo splendido lavoro. I miei sinceri ringraziamenti vanno anche a Jennifer Jahn per i suoi consigli e il suo sostegno. Mi hanno giovato parecchio le conversazioni con i miei colleghi del gruppo CHCI (Consorzio dei centri e degli istituiti delle scienze umane) e del ECHIC (Consorzio Europeo dei centri e degli istituiti delle scienze umane). Henrietta Moore e Claire Colebrook, Peter Galison e Paul Gilroy si sono dimostrati formidabili lettori e li ringrazio per i loro commenti critici. La mia assistente alla ricerca Goda Klumbyte mi ha aiutata tanto soprattutto nel lavoro bibliografico. Tutta la mia gratitudine va a Nori Spauvem e Bollette Blaagard per le loro intuizioni. I miei ringraziamenti anche a Stephanie Paalvast per l’assistenza critica ed editoriale. Ad Anneke, che è stata al mio fianco, mi ha aiutata nella revisione e supportata come sempre durante tutto il processo di scrittura, va tutto il mio amore.

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Introduzione

Non tutti noi possiamo sostenere, con un alto grado di sicurezza, che siamo sempre stati umani, o che non siamo null’altro all’infuori di questo. Alcuni di noi non sono considerati completamente umani ora, figuriamoci nelle precedenti epoche della storia occidentale sociale, politica e scientifica. Non se per «umano» intendiamo quella creatura che ci è diventata tanto familiare a partire dall’Illuminismo e dalla sua eredità: il soggetto Cartesiano del cogito, la kantiana comunità di esseri razionali o, in termini più sociologici, il soggetto-cittadino, titolare di diritti, proprietario, ecc. (Wolfe, 2010a). E tuttavia questo termine gode di ampio consenso e conserva la rassicurante familiarità del luogo comune. Affermiamo il nostro attaccamento alla specie come se fosse un dato di fatto, un presupposto. Fino al punto di costruire attorno all’umano la nozione fondamentale di Diritto. Ma stanno davvero così le cose? Mentre, oggi sempre più spesso, le forze sociali conservatrici e religiose si adoperano per reinscrivere l’umano all’interno dei paradigmi della legge naturale, il concetto stesso di umano è esploso sotto la doppia pressione degli odierni progressi scientifici e degli interessi dell’economia globale. Dopo la condizione postmoderna, postcoloniale, postindustriale, postcomunista, persino dopo la contestata condizione postfemminista, ci troviamo oggi a vivere la difficile situazione postumana. La condizione postumana, lungi dal costituire l’ennesima variazione n in una sequenza di prefissi che può sembrare infinita e arbitraria, apporta una significativa svolta al nostro modo di concettualizzare la caratteristica fondamentale di riferimento comune per la nostra specie, la nostra politica e la nostra relazione con gli altri abitanti del pianeta. Questa questione solleva una serie di domande intorno alla struttura stes7

sa delle nostre identità condivise – in quanto umani – colta nel bel mezzo della complessità delle scienze attuali, delle relazioni politiche e internazionali. Non umano, inumano, antiumano sono oggi al centro di molti discorsi e molte rappresentazioni, mentre disumano e postumano proliferano e si sovrappongono nel contesto delle società globalizzate e tecnologicamente guidate. I discorsi della cultura mainstream spaziano dalle ostinate discussioni economiche sui robot, le protesi tecnologiche, le neuroscienze e i capitali biogenetici, fino alle più confuse visioni new age del transumanismo e della tecnotrascendenza. Il potenziamento umano è il punto centrale di queste discussioni. Nella cultura accademica, d’altro canto, il postumano è, alternativamente, celebrato come nuova frontiera per la teoria critica e culturale, o respinto come l’ultima moda nella serie dei noiosi post. Il postumano suscita entusiasmo e ansia allo stesso tempo (Habermas 2010) rispetto alla possibilità di un serio decentramento dell’Uomo, misura prima di tutte le cose. Vi è una diffusa preoccupazione circa la perdita di importanza e supremazia che sta interessando la visione dominante del soggetto umano, e il campo di studi a esso attiguo, ovvero le scienze umane. Dal mio punto di vista, il comune denominatore della condizione postumana è l’ipotesi secondo la quale la struttura della materia vivente è in sé vitale, capace di autorganizzazione e al contempo non-naturalistica. Questo continuum natura-cultura è il punto di partenza per il mio viaggio nella teoria postumana. Rimane, tuttavia, da capire se questa ipotesi postnaturalistica, alla fine, si limiti a concludersi nelle sperimentazioni ludiche intorno ai limiti della perfettibilità del corpo, nel panico morale per la scomparsa di credenze vecchie di secoli circa la «natura» umana o nella caccia orientata al profitto dei capitali neuro-genetici. In questo libro cercherò di esaminare tali approcci e di confrontarmici criticamente, sostenendo al contempo le mie argomentazioni a favore della soggettività postumana. A che cosa si riferisce questo continuum natura-cultura? Esso evidenzia un paradigma scientifico che prende le distanze dall’approccio socio-costruttivista, che ha goduto di largo consenso. Un approccio che postula una distinzione categorica tra il dato (la natura) e il costruito (la cultura). Questa distinzione rende maggiormente pregnante l’analisi sociale e fornisce solide basi per lo studio e la critica dei meccanismi sociali che supportano la costruzione delle identità-chiave, delle istituzioni e delle pratiche. Nelle 8

politiche progressiste, i metodi del costruttivismo sociale sostengono i tentativi di denaturalizzare le differenze sociali e di mostrare così la loro struttura contingente e storicamente determinata dall’uomo. Basti pensare agli effetti rivoluzionari che, su scala mondiale, ha avuto la frase di Simone de Beauvoir: «Donna non si nasce, si diventa». Tale comprensione delle ingiustizie sociali, colte all’interno di una natura determinata socialmente e variabile storicamente, apre la strada al progetto umano di risolverle tramite politiche sociali e attivismo. La mia tesi è che questo approccio, che si attesta sull’opposizione binaria tra il dato e il costruito, sia progressivamente sostituito dalla teoria non dualista dell’interazione tra natura e cultura. Dal mio punto di vista quest’ultimo approccio è legato e supportato dalla tradizione filosofica monista, che rifiuta i dualismi, specialmente l’opposizione natura-cultura, e si concentra piuttosto sulla forza autopoietica della materia vivente. I confini tra le categorie del naturale e del culturale sono stati spostati e, in larga misura, sfumati dagli effetti degli sviluppi scientifici e tecnologici. Questo libro prende le mosse dall’ipotesi che la teoria sociale necessiti di fare il punto sulla trasformazione dei concetti, dei metodi e delle pratiche politiche, causata da tale cambiamento di paradigma. Di converso, la domanda circa che tipo di analisi politica, e che tipo di politica progressista, sia sostenuta dall’approccio basato sul continuum natura-cultura, risulta centrale nell’agenda della situazione postumana. Gli interrogativi principali che voglio sollevare in questo libro sono: in primo luogo, cos’è il postumano? E in modo più specifico, quali sono gli itinerari intellettuali e storici che possono condurci al postumano? In secondo luogo: dove la condizione postumana si separa da quella umana? E in modo più specifico: quali nuove forme di soggettività si addicono al postumano? In terzo luogo: in che modo il postumano produce le sue specifiche forme di inumano? Ovvero: come possiamo resistere agli aspetti inumani della nostra era? Infine: quali sono le conseguenze che il postumano ha sulle scienze umane oggigiorno? Ovvero: qual è la funzione della teoria ai tempi del postumano? Questo libro cavalca l’onda della simultanea fascinazione per la condizione postumana come aspetto cruciale della nostra storicità, ma anche della preoccupazione per le sue aberrazioni, per i suoi abusi di potere e per la sostenibilità di alcune sue premesse fondamentali. In parte la fascinazione è legata a quello che io 9

credo sia il compito delle teorie critiche nel mondo attuale, ossia quello di fornire adeguate rappresentazioni delle nostre collocazioni storiche e situate. Questo in sé modesto intento cartografico, connesso all’ideale della produzione di un sapere socialmente utile, si trasforma nella più ambiziosa e astratta questione dello statuto e del valore della teoria stessa. Numerosi critici culturali hanno commentato l’ambivalente natura del malessere posteoretico che ha colpito le contemporanee scienze umane e sociali. Ad esempio, Tom Cohen, Claire Colebrook e J. Hillis Miller (2012) hanno evidenziato il lato positivo di questa fase posteoretica, soprattutto il fatto che essa registra effettivamente sia le nuove opportunità che i pericoli provenienti dalle scienze attuali. I lati negativi, sorprendentemente, consistono proprio nelle carenze di schemi critici adatti ad analizzare il presente. Io ritengo che la svolta antiteoretica sia legata agli eventi che hanno scosso il contesto ideologico. Dopo la fine ufficiale della Guerra fredda, i movimenti politici della seconda metà del XX secolo sono stati marginalizzati e i loro sforzi teoretici sono stati banditi in quanto ritenuti esperimenti storici fallimentari. La nuova ideologia dell’economia del libero mercato ha eliminato tutte le opposizioni, nonostante le massicce proteste di diversi settori della società, imponendo l’antintellettualismo come caratteristica saliente dei nostri tempi. Questo è un duro colpo soprattutto per le scienze umane, in quanto penalizza la sottigliezza dell’analisi, chiamata a prestare indebita fedeltà al senso comune – la tirannia dell’opinione – e al profitto economico – la banalità dell’interesse individuale. In questo contesto, la teoria ha perso valore ed è stata spesso screditata come una sorta di fantasia o di narcisistico autocompiacimento. Di conseguenza, la versione superficiale del neo-empirismo – spesso coincidente con la mera raccolta di dati – è diventata la norma metodologica della ricerca nelle scienze umane. La questione del metodo merita una seria riflessione: dopo la caduta ufficiale delle ideologie, alla luce dei progressi delle scienze neuronali, evoluzionistiche e biogenetiche, possiamo interpretare le capacità dell’analisi teoretica allo stesso modo che alla fine della Seconda guerra mondiale? La situazione postumana si spiega solo con l’atteggiamento posteoretico? Ad esempio, Bruno Latour (2004) – non esattamente un umanista classico, come si evince dal suo lavoro sulla produzione di sapere attraverso reti di attori umani e non umani, cose e oggetti – ha di recente commentato la tradizione di teoria critica e i suoi legami 10

con l’umanesimo europeo. Il pensiero critico si fonda sul paradigma socio-costruttivista che dichiara implicitamente la sua fede nella teoria come mezzo per interpretare e rappresentare la realtà, ma tale fede è ancora oggi legittima? Latour ha sollevato seri dubbi rispetto alla funzione attuale della teoria. È innegabile che vi sia un lato oscuro nella condizione postumana, specialmente a proposito delle genealogie del pensiero critico. È come se, dopo la magnifica esplosione di creatività degli anni Settanta e Ottanta del XX secolo, fossimo entrati in un monotono orizzonte pietrificato, privo di differenze e caratterizzato da un persistente senso di melanconia. Una dimensione spettrale si è infiltrata nei nostri schemi di pensiero, amplificata dai concetti, tipici della destra politica, della fine del tempo delle ideologie (Fukuyama 1989) e della inevitabilità delle crociate civilizzatrici (Huntington 1996). Sul versante della sinistra politica, invece, il rifiuto della teoria ha condotto all’onda di risentimento e di pensiero negativo rispetto alle generazioni intellettuali precedenti. In questo contesto di malessere teorico, intellettuali neocomunisti (Badiou e +i,ek, 2009) hanno sostenuto l’impellenza di ritornare all’azione politica concreta, persino all’antagonismo violento se necessario, piuttosto che insistere con altre speculazioni teoretiche. E hanno così contribuito a rendere obsolete le teorie filosofiche poststrutturaliste. In risposta a questo generale clima sociale negativo, io vorrei rivolgermi alla teoria postumana intendendola sia come strumento genealogico che come bussola per la navigazione. Il postumano è un termine utile per indagare i nuovi modi d’impegnarsi attivamente nel presente, ragionando su alcuni suoi aspetti in modo empiricamente fondato ma non riduttivo, critico ma non nichilista. Mio intento è quello di mappare alcune delle strade attraverso le quali il postumano sta circolando come termine dominante nelle nostre società globalmente connesse e tecnologicamente mediate. Più precisamente, la teoria postumana è uno strumento produttivo capace di sostenere quel processo di ripensamento dell’unità fondamentale, riferimento comune dell’umano, in quest’età biogenetica nota come antropocene, momento storico in cui l’umano è diventato una forza geologica in grado di influenzare la vita su tutto il pianeta. Per estensione, esso può anche aiutarci a ripensare i principi fondamentali della nostra interazione con altri agenti umani e non umani su scala planetaria. 11

Lasciatemi dare spazio a qualche esempio delle contraddizioni frutto della nostra condizione storica postumana. Vignetta 1 Nel novembre 2007 Pekka-Eric Auvinen, un ragazzo finlandese di diciotto anni, spara ai suoi compagni di classe in una scuola superiore vicino Helsinki, uccidendo otto persone prima di colpire se stesso. Prima del massacro, il giovane omicida aveva postato un video su youtube, in cui si ritraeva mentre indossava una t-shirt con la scritta «l’umanità è sopravvalutata». Che l’umanità versi in condizioni critiche – qualcuno direbbe addirittura prossime all’estinzione – è un affermazione ricorrente della filosofia Europea, almeno da quando Friedrich Nietzsche ha dichiarato la morte di dio e dell’idea di Uomo che a esso si articolava. Quest’altisonante affermazione serviva a raggiungere un più modesto obiettivo. Quello che Nietzsche asseriva era la fine dello statuto di autoevidenza attribuito alla natura umana, la fine del senso comune e della fede nella stabilità metafisica e nella validità universale del soggetto umanistico europeo. La genealogia nietzschiana mette in rilievo l’importanza dell’interpretazione rispetto al dogmatico adempimento delle leggi e dei valori naturali. Almeno da allora, dunque, i punti principali della agenda filosofica sono stati: in primo luogo, come sviluppare un pensiero critico dopo la sorprendente presa di consapevolezza dell’incertezza ontologica, e, in secondo luogo, come ricostituire un senso di comunità tenuta insieme da affinità e responsabilità etica, senza incorrere nelle passioni negative del dubbio e del sospetto. Come si evince dall’episodio finlandese, tuttavia, l’antiumanesimo filosofico non dev’essere confuso con la misantropia cinica e nichilista. L’umanità potrebbe essere stata sopravvalutata, ma da quando essa ha raggiunto la cifra di otto miliardi, ogni discorso sull’estinzione sembra completamente fuori luogo. Al contempo, la questione della sostenibilità ecologica e sociale è in cima ai programmi governamentali di tutto il mondo, alla luce della crisi ambientale e del cambiamento climatico. Ebbene, l’interrogativo formulato da Bertrand Russell nel 1963, al culmine della Guerra fredda e del confronto nucleare, suona oggi più appropriato che mai: l’uomo ha davvero un futuro? La scelta tra la sostenibilità e l’estinzione è davvero l’unica che vediamo all’orizzonte del nostro futuro comune, o vi sono per noi altre opzioni disponibili? 12

Il problema dei limiti dell’umanesimo e delle critiche antiumaniste è a ogni modo centrale per il dibattito sulla situazione postumana, e per questo motivo vi dedicherò il primo capitolo. Vignetta 2 Il giornale «The Guardian» ha riportato la notizia che nei paesi attraversti da guerre, come l’Afghanistan, la gente è stata costretta a nutrirsi di erba per sopravvivere. Nello stesso momento storico, le mucche della Gran Bretagna e di altri paesi dell’Unione Europea venivano alimentate con foraggi a base di carne. Il settore dell’agricoltura biotecnologica dei paesi ipersviluppati è caratterizzato da una inaspettata tendenza al cannibalismo, dal momento che fa ingrassare mucche, pecore e polli con mangime a base animale. Questa scelta è stata poi ritenuta la principale causa della malattia letale detta encefalopatia spongiforme bovina (Bse), comunemente chiamata «mucca pazza», che consiste nella degenerazione della struttura celebrale animale, ridotta in poltiglia. La follia va qui, tuttavia, rintracciata decisamente nell’azione degli uomini e delle loro industrie biotecnologiche. Il capitalismo avanzato e le sue tecnologie biogenetiche generano una forma perversa di postumano. Il nocciolo di tale capitalismo consiste nella radicale recisione di ogni interazione umana e animale, dal momento che tutte le specie viventi sono catturate negli ingranaggi dell’economia globale. Il codice genetico della materia vivente – la vita in sé (Rose 2008) – è il capitale fondamentale. La globalizzazione comporta la commercializzazione del pianeta terra in tutte le sue forme, attraverso una serie di mezzi di appropriazione interconnessi. Secondo la Haraway, essi consistono nella proliferazione degli apparati tecno-militari e dei micro-conflitti su scala globale; nella accumulazione ipercapitalista della ricchezza; nella conversione dell’ecosistema nell’apparato mondiale di produzione, e nell’apparato di infointrattenimento globale del nuovo contesto multimediale. Il fenomeno della pecora Dolly rappresenta al meglio le complicazioni prodotte dalla struttura biogenetica delle attuali tecnologie e dai loro supporter sul mercato azionario. Gli animali forniscono materiale vivente per gli esperimenti scientifici. Essi sono manipolati, maltrattati, torturati, geneticamente ricombinati, di modo tale da risultare produttivi per la nostra agricoltura biotecnologica, per l’industria cosmetica, farmaceutica e chimica, per interi settori 13

economici. Gli animali sono addirittura svenduti come prodotti esotici e costituiscono oggi il terzo più grande mercato illegale del mondo, dopo droga e armi, prima delle donne. Topi, pecore, capre, bovini, suini, uccelli, pollame, gatti sono allevati in fattorie industriali, richiusi in gabbie e divisi in batterie per unità di produzione. Come George Orwell aveva scritto profeticamente, tuttavia, tutti gli animali potrebbero essere uguali, ma alcuni sono decisamente più uguali degli altri. Così, essendo parte integrante del complesso industriale biotecnologico, il bestiame dell’Unione Europea riceve un sussidio, pari alla somma di 803 dollari per mucca. Cifra considerevolmente inferiore a quella garantita a ogni mucca americana, pari a 1,057 dollari, o a ogni mucca giapponese, pari a 2,555 dollari. Queste somme sembrano ancora più infelici se paragonate al reddito nazionale lordo pro capite di paesi come l’Etiopia (120 dollari), il Bangladesh (360 dollari), l’Angola (660) o l’Honduras (920)1. La controparte di questa mercificazione globale degli organismi viventi è che gli animali stessi vivono un processo di umanizzazione. Nell’ambito della bioetica, per esempio, la questione dei «diritti umani» degli animali è stata posta proprio come mezzo per problematizzare questi eccessi. La difesa dei diritti degli animali è una questione politica scottante in molte democrazie liberali. Questa commistione di investimenti e abusi costituisce proprio la condizione postumana paradossale generata dal capitalismo avanzato stesso, che innesca al contempo molteplici forme di resistenza. Discuterò approfonditamente la nuova prospettiva postantropocentrica sugli animali nel capitolo secondo. Vignetta 3 Il 10 ottobre 2013, Muammar Gaddafi, ex leader della Libia, viene catturato nel suo paese di origine Sirte, percosso e ucciso dai membri del Consiglio nazionale di transizione libico. Prima che gli fosse sparato dalle forze dei ribelli, il convoglio del colonnello Gaddafi era comunque stato bombardato da jet francesi e dal drone americano Predator, che aveva preso il volo dalla base americana aerea in Sicilia ma che veniva controllato via satellite da una base situata a Las Vegas2.

1. «The Guardian Weekly», 11-17 settembre 2003, p. 5. 2. «The Daily Telegraph», 21 ottobre 2011.

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Dal momento che l’attenzione mediatica si è concentrata sulla brutalità dell’effettiva sparatoria e sull’indignazione per l’immagine globale che espose il corpo ferito e sanguinante di Gaddafi, minore spazio è stato dedicato all’aspetto postumano del warfare contemporaneo: le macchine tele-tanatologiche prodotte dalla nostre stesse tecnologie avanzate. L’atrocità della fine di Gaddafi, nonostante il suo tirannico dispotismo, è sufficiente a farci avvertire la vergogna di essere umani. La negazione del ruolo giocato dalle sofisticate tecnologie della morte del mondo avanzato, tuttavia, aggiunge uno strato ulteriore di sconforto morale e politico. La situazione postumana è caratterizzata da una quota significativa di momenti inumani. La brutalità delle nuove guerre, nel mondo globalizzato guidato dalla gestione della paura, non rimanda solo al controllo della vita, ma anche alle diverse pratiche della morte, soprattutto nei paesi in fase di transizione. Biopolitica e tanatopolitica sono due facce della stessa medaglia, come Mbembe (2003) ha brillantemente mostrato. Il mondo dopo la Guerra fredda ha assistito non solo a una drammatica crescita del warfare, ma anche a una profonda trasformazione delle stesse pratiche belliche in direzione di una più complessa gestione di fenomeni quali la sopravvivenza e l’estinzione. Le attuali tecnologie di morte sono postumane a causa della forte mediazione tecnologica attraverso la quale operano. L’operatore digitale che guidava il drone americano Predator da una sala computer di Las Vegas può essere considerato un pilota? In che cosa è diverso dagli uomini delle Forze aeree che condussero l’aereo Enola Gay su Hiroshima e Nagasaki? Le guerre contemporanee hanno intesificato il potere della necropolitica fino a fargli comprendere un nuovo livello di amministrazione «della distruzione materiale dei corpi umani e della popolazione» (Mbembe 2003, 19). Non solo umana. Le recenti necrotecnologie agiscono in un clima sociale dominato da un lato dall’economia politica della nostalgia e della paranoia, dall’altro dall’euforia e dall’entusiasmo. Questa condizione maniaco-depressiva presenta una serie di variazioni: dalla paura del disastro imminente, la catastrofe che attende di realizzarsi, all’uragano Katrina, fino al successivo disastro ambientale. Un aereo che vola troppo raso terra, le mutazioni genetiche e la fine dell’immunità: l’incidente è lì, sta per compiersi, è virtualmente una certezza; è solo una questione di tempo (Massumi, 1992). Come risultato di questo stato di insicurezza, l’obiettivo imposto socialmente non è il cambiamento, bensì la conservazione o la 15

sopravvivenza. Ritornerò su questi aspetti della necropolitica nel capitolo 3. Vignetta 4 Un paio di anni fa, durante un incontro scientifico promosso dalla olandese Accademia regale delle scienze, circa il futuro dell’umanesimo accademico, un professore di scienze cognitive attaccava frontalmente le scienze umane. Il suo attacco si basava sulla sua convinzione rispetto ai due maggiori difetti delle scienze umane: il loro intrinseco antropocentrismo e il loro nazionalismo metodologico. L’illustre ricercatore dimostrò che tali difetti erano stati letali per il loro stesso campo, che veniva ritenuto inadatto per la scienza contemporanea e pertanto non eleggibile al supporto finanziario dei ministeri competenti o del governo. La crisi dell’umano, la sua successiva ricaduta nel postumano, ha avuto effetti tragici per l’ambito accademico più intimamente legato a esso, ovvero per le scienze umane. Nel clima sociale neoliberale della maggioranza delle democrazie attuali, gli studi umanisti sono stati declassati al rango di scienze soft, ritenuti materia da approfondire nel tempo libero alla fine della scuola. Considerate più una passione personale che un campo di ricerca professionale, le scienze umane stanno correndo il serio pericolo di scomparire dal curriculum universitario europeo del Ventunesimo secolo. Un’altra ragione del mio impegno nei confronti dell’argomento del postumano può essere, quindi, rintracciata nella profonda funzione di responsabilità civica che attribuisco al ruolo dell’intellettuale accademico dei nostri giorni. Un pensatore delle scienze umane, figura nota come intellettuale, oggi corre il rischio di non sapere che ruolo giocare negli scenari pubblici e sociali. Mi si potrebbe criticare sostenendo che il mio interesse per il postumano proviene da una preoccupazione troppo umana circa il tipo di saperi e di valori intellettuali che stiamo attualmente producendo come società. Con maggior precisione, mi preoccupa lo stato in cui versa oggi la ricerca universitaria, all’interno di quanto ancora chiamiamo, in mancanza di un’espressione più adatta, scienze umane. Svilupperò le mie idee sull’università attuale nel quarto capitolo. Questo senso di responsabilità esprime inoltre un’abitudine del pensiero che è cara al mio cuore e alla mia mente, poiché appartengo a quella generazione che aveva un sogno. Esso era ed è ancora il sogno di costituire reali comunità di apprendimento: scuole, 16

università, libri, riviste e giornali, curricula, dibattiti, teatri, televisione, radio e programmi multimediali – e successivamente siti internet e network online – che somigliano alla società che rappresentano, che servono e che contribuiscono a sviluppare. È il sogno della creazione di un sapere importante dal punto di vista sociale, in sintonia con i principi fondamentali della giustizia sociale, del rispetto della dignità umana e della diversità, del rifiuto del falso universalismo; il sogno dell’affermazione della positività delle differenze; dei principi della libertà accademica, dell’antirazzismo, dell’apertura all’altro da sé, della cooperazione. Nonostante io sia propensa a un certo antiumanesimo, non ho alcuna difficoltà ad ammettere che questi ideali sono perfettamente compatibili con la filosofia di valori umanisti. Questo libro non vuole essere uno schieramento in una disputa accademica, mira piuttosto a tentare di spiegare la complessità in cui siamo immersi. Proporrò, perciò, nuovi modi di combinare critica e creatività, ponendo l’accento sull’importanza dell’attivismo, muovendomi alla ricerca di una rappresentazione dell’umanità postumana all’altezza dell’era globale. Il sapere postumano – e i soggetti che ne sono i portatori – sono caratterizzati da una aspirazione di fondo verso i principi che tengono unita la comunità, e tentano pertanto di evitare le trappole della nostalgia conservatrice e dell’euforia neoliberale. Questo libro prende le mosse dalla mia convinzione che le nuove generazioni di soggetti conoscenti affermino un tipo costruttivo di panumanità, impegnandosi a pieno per liberarci dal provincialismo della mente, dal settarismo delle ideologie, dalla disonestà e dalla paura. Questa aspirazione, inoltre, nutre la mia convinzione rispetto a cosa, oggi, un’università dovrebbe essere – un universum, al servizio del mondo attuale, non solo luogo epistemologico di produzione del sapere scientifico, ma anche luogo del desiderio di apprendere ai fini del miglioramento che scaturisce dalla conoscenza e che sostiene la nostra soggettività. Mi piace descrivere questo desiderio come radicale aspirazione alla libertà, che passa per la comprensione delle specifiche condizioni e delle relazioni di potere immanenti alle nostre collocazioni storiche. Queste condizioni includono il potere che ognuno di noi esercita nella sua quotidiana rete di relazioni sociali, sia al livello della micro che della macropolitica. In qualche modo, il mio interesse per il postumano è direttamente proporzionale al senso di frustrazione che avverto nei confronti delle risorse e dei limiti umani, tutti troppo umani, che carat17

terizzano il nostro livello personale e collettivo di potenza e creatività. Ecco perché la questione della soggettività assume tanto rilievo in questo libro: abbiamo bisogno di progettare nuovi schemi sociali, etici e discorsivi della formazione del soggetto per affrontare i profondi cambiamenti cui andiamo incontro. Questo implica che abbiamo bisogno di impare a pensare in modo diverso a noi stessi. La condizione postumana è allora un’opportunità per incentivare la ricerca di schemi di pensiero, di sapere e di autorappresentazione alternativi a quelli dominanti. La condizione postumana ci chiama urgentemente a ripensare, in modo critico e creativo, chi e cosa stiamo diventando in questo processo di metamorfosi.

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Capitolo 1

Postumanesimo La vita oltre l’individuo

All’inizio di tutto vi è Lui: l’ideale classico dell’Uomo, individuato dapprima da Protagora come «la misura di tutte le cose», poi innalzato dal Rinascimento italiano a livello di modello universale, rappresentato da Leonardo da Vinci nell’Uomo Vitruviano (vedi figura). Un’ideale di perfezione corporea che, in linea con il detto classico mens sana in corpore sano, evolve verso una serie di valori intellettuali, discorsivi e spirituali. Insieme, fondano una precisa concezione di cosa dell’umanità sia umano. Inoltre, asseriscono con incrollabile sicurezza la pressoché sconfinata capacità umana di perseguire la perfezione individuale e collettiva. Quell’immagine iconica è il simbolo della dottrina dell’Umanesimo, che interpreta il potenziamento delle capacità umane biologiche, razionali e morali alla luce del concetto di progresso razionale, orientato teleologicamente. La fede nei poteri unici, autoregolatori e intrinsecamente morali della ragione umana rappresenta parte integrante di questa dottrina ultra-umanista, diffusasi soprattutto nel XVIII e XIX secolo tramite le reinterpretazioni dell’antichità classica e degli ideali del Rinascimento italiano. Questo modello fissa gli standard non solo degli individui, ma anche delle loro culture. L’umanesimo si è sviluppato storicamente come un modello di civilizzazione che ha plasmato un’idea di Europa coincidente con i poteri universalizzanti della ragione autoriflessiva. La trasformazione dell’ideale umanistico nel modello culturale egemonico è stata poi canonizzata dalla filosofia della storia di Hegel. Questa prospettiva autocompiacente sostiene che l’Europa non è una collocazione geopolitica, bensì un attributo universale della mente umana che può prestare le sue qualità a ogni oggetto appropriato. Questa è la concezione espressa da Ed19

Figura 1. L’uomo vitruviano, Leonardo Da Vinci, 1492.

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mund Husserl (1970) nel suo famoso saggio La crisi delle scienze europee, che costituisce un’appassionata difesa dei poteri universali della ragione contro il declino morale e intellettuale simbolizzato dall’ascesa del fascismo europeo del 1930. Secondo Husserl, l’Europa presenta se stessa come il luogo di origine della ragione critica e autoriflessiva, qualità che rimandano entrambe alla norma umanista. Uguale solo a se stessa, l’Europa trascende la propria specificità in quanto coscienza universale, o, piuttosto, presenta il potere della trascendenza come sua caratteristica distintiva e l’universalismo umanistico come la sua peculiarità. Questo fa dell’eurocentrismo qualcosa in più di una questione di atteggiamento contingente: si tratta di un elemento strutturale della nostra pratica culturale, radicato persino tanto nelle teorie che nelle pratiche istituzionali pedagogiche. Come ideale di civilizzazione, l’umanesimo ha alimentato «i destini imperiali della Germania del XIX secolo, della Francia, e soprattutto della Gran Bretagna» (Davies 1997, 23). Questo paradigma eurocentrico implica la dialettica tra il sé e l’altro, nonché la logica binaria dell’identità e dell’alterità, in qualità di motori della logica culturale dell’Umanesimo universale. Centrale per questo atteggiamento universalista e per la sua logica binaria è la nozione di differenza, intesa in senso peggiorativo. Il soggetto equivale alla coscienza, alla razionalità universale, al comportamento etico autodisciplinante, mentre l’alterità è definita come la sua controparte negativa e speculare. Eppure quando la parola differenza significa inferiorità, essa assume connotazioni essenzialiste e letali dal punto di vista delle persone marcate come «altre». Essi sono gli altri sessualizzati, razzializzati e naturalizzati, ridotti allo stato non umano di corpi usa e getta. Siamo tutti umani, solo che alcuni di noi sono più mortali di altri. Dal momento che la loro storia in Europa e altrove è stata caratterizzata da nefaste emarginazioni e fatali interdizioni, questi altri sollevano domande circa il potere e l’esclusione. Ci occorre maggiore responsabilità etica per affrontare l’eredità dell’Umanesimo. Tony Davies lo afferma lucidamente: «Tutti gli umanesimi fino a ora sono stati imperialisti. Essi parlano dell’umano nei temini e negli interessi di una classe, un sesso, una razza, un genoma. La loro stretta soffoca coloro che non ignora. È quasi impossibile pensare a un crimine che non sia stato commesso nel nome dell’umanità» (Davies 1997, 141). In verità, in molti casi, sfortunatamente, diverse atrocità sono state commesse in nome dell’odio verso l’umanità, 21

come dimostra il caso di Pekka-Eric Auvinen illustrato nella prima vignetta dell’introduzione. La ridotta nozione umanista di ciò che definisce l’umano è una delle chiavi per comprendere come siamo arrivati alla svolta postumana. L’itinerario non è semplice né individuabile a priori. Edward Said, ad esempio, complica il quadro introducendo una prospettiva postcoloniale: L’umanesimo inteso come una forma di nazionalismo protettivo o anche difensivo è, credo, una miscela pericolosa, anche se a volte inevitabile, per la ferocia ideologica e l’implicito trionfalismo. In contesto coloniale, ad esempio, la rinascita delle lingue e delle culture soppresse, i tentativi di affermazione nazionale e il richiamo ad antenati illustri [...] sono aspetti spiegabili e comprensibili (Said 2007, 64).

Questa qualifica è cruciale per evidenziare l’importanza della collocazione da cui ognuno di noi prende parola. Le differenze di collocazioni tra centri e periferie sono di primaria rilevanza, specialmente in relazione all’eredità di un fenomeno complesso e multisfaccettato quale l’umanesimo. Complice di genocidi e crimini da un lato, foriero di enormi speranze e desideri di libertà dall’altro, l’umanesimo segna la sconfitta della critica lineare. Questa proteiforme qualità è in parte responsabile della sua longevità. Antiumanesimo Lasciatemi scoprire le carte in tavola pur essendo solo all’inizio di questo mio ragionamento: non sono affatto affezionata all’Umanesimo e all’idea di umano che implicitamente sottende. L’antiumanesimo è talmente parte della mia genealogia intellettuale e personale, come di una tradizione di famiglia, che per me la crisi dell’Umanesimo sembra un dato scontato. Perché? La mia gioia nell’accogliere la nozione storica del declino dell’Umanesimo, con il suo nucleo eurocentrico e le sue tendenze imperialiste, si spiega in primo luogo grazie alla politica e alla filosofia. Certamente, il contesto storico conta molto. Sono cresciuta intellettualmente e politicamente negli anni turbolenti che seguirono la Seconda guerra mondiale, quando l’ideale umanista venne messo in discussione radicalmente. Durante gli anni Sessanta e Settanta uno spiccato attivismo antiumanista prese piede grazie ai nuovi movimenti sociali e alle culture giovanili del periodo: fem22

minismo, anticolonialismo e antirazzismo, movimenti pacifisti e antinucleari. Cronologicamente legati alle politiche sociali e culturali della generazione nota come baby-boomers, questi movimenti sociali hanno dato vita a politiche radicali, teorie sociali e nuove epistemologie. Essi hanno sfidato gli stereotipi della retorica della Guerra fredda, con la sua enfasi per la democrazia occidentale e l’individualismo liberale. Nulla più della crisi teoretica di mezza età ci impedisce di riconoscere la nostra appartenenza alla generazione dei baby boomers 3. In questo periodo l’immagine pubblica di quella generazione non è esattamente positiva. Nondimeno, per dire il vero, questa generazione è stata segnata dall’eredità traumatica dei diversi e fallimentari esperimenti politici del XX secolo. Il fascismo e l’Olocausto da un lato, il comunismo e i Gulag dall’altro, si equiparano sulla bilancia insaguinata della storia degli orrori. Vi è un evidente nesso generazionale tra questi momenti storici e il rifiuto dell’Umanesimo negli anni Sessanta e Settanta. Concedetemi di spiegarlo. Al livello dei loro propri contenuti ideologici, questi due fenomeni storici, fascismo e comunismo, rifiutano esplicitamente e implicitamente i principi fondamentali dell’Umanesimo europeo, tradendoli profondamente. Essi rimangono, tutttavia, molto diversi per quanto riguarda struttura e scopi. Laddove il fascismo propugnava una spietata cesura delle radici del concetto illuminista di rispetto per l’autonomia della ragione e della morale, il socialismo perseguiva una versione comunitaria della solidarietà umanista. Sin dagli esordi dei movimenti socialisti utopisti del Settecento la sinistra europea ha provato attrazione per il socialismo umanista. In verità, il marxismo-leninista rifiutava alcuni aspetti dell’umanesimo socialista, in particolare il suo accanimento per la realizzazione del potenziale umano come autenticità (opposta all’alienazione). Esso ha proposto in alternativa l’umanesimo proletario, noto anche come l’umanesimo rivoluzionario tipico dell’Unione Sovietica, famoso per la sua strenua tendenza alla realizzazione della libertà umana, valore dato per universale ma solo sotto e attraverso il comunismo. Due fattori hanno contribuito alla relativa popolarità dell’umanesimo comunista dopo le grandi guerre. Il primo è rappresentato 3. R. Braidotti et al., Baby boomers. Vite Parallele dagli anni cinquanta ai Cinquant’anni, Giunti, Firenze 2003.

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dai disastrosi effetti che il fascismo ebbe sulla storia intellettuale e sociale europea. Fascismo e nazismo furono causa di enormi danni anche alla storia della teoria critica continentale europea, poiché distrussero e bandirono dall’Europa intere scuole di pensiero – in particolare marxismo, psicoanalisi, scuola di Francoforte, la carica dirompente della genealogia nietzschiana (per quanto il caso Nietzsche sia abbastanza complesso) che era stata centrale nella filosofia degli inizi del XX secolo. Inoltre la Guerra fredda e la divisione in due blocchi geopolitici, che seguì alla fine della Seconda guerra mondiale, sgretolò e dicotomizzò l’Europa fino al 1989, non facilitando il ritorno nel continente, che pure le aveva allontanate con violenza e ignoranza, di quelle stesse teorie radicali. È significativo, ad esempio, che molti degli autori che Michel Foucault considera precursori del pensiero critico della modernità avanzata (Marx, Freud, Darwin) siano gli stessi pensatori che il nazismo condannò al pubbligo rogo nel 1930. La seconda ragione per la popolarità del marxismo umanista è rappresentata dal fatto che il comunismo, soprattutto grazie all’Urss, ha svolto un ruolo centrale nella sconfitta del fascismo, e pertanto è risultato vincente alla fine della Seconda guerra mondiale. In questi termini si spiega il fatto che la generazione politica del ’68 ereditò una concezione positiva della prassi e dell’ideologia marxiste, in quanto risultato dell’opposizione comunista-socialista al fascismo e dell’impegno armato dell’Unione Sovietica contro il nazismo. Questo dato di fatto si scontra con il quasi epidermico anticomunismo della cultura americana ed è destinato a rimanere un punto di forte tensione intellettuale tra l’Europa e gli Stati Uniti. È qualcosa di difficile da ricordare, all’alba del terzo millennio, il fatto che i partiti comunisti furono gli unici veri emblemi della resistenza antifascista in Europa. Ed essi hanno inoltre giocato un ruolo significativo nei movimenti di liberazione nazionale in tutto il mondo, in particolare in Africa e in Asia. Il testo fondamentale di André Malraux La condizione umana (1934) è testimone sia della statura morale che della dimensione tragica del comunismo, come lo è, in un diverso momento storico e contesto geopolitico, la vita e l’opera di Nelson Mandela (2008). Edward Said, prendendo parola come cittadino degli Stati Uniti, aggiunge un’altra interessante notazione: L’antiumanesimo ha preso piede sulla scena intellettuale statunitense in parte a causa della diffusa repulsione suscitata dalla Guerra in Vietnam. 24

Questa avvversione ha implicato anche l’emergere di un movimento di resistenza contro il razzismo e in generale l’imperialismo, nonché contro le pedanti discipline umaniste che per anni avevano rappresentato un esempio di atteggiamento apolitico, alieno dal mondo, volutamente ignaro del presente, e dagli effetti a volte manipolatori, sempre risoluto a celebrare le virtù del passato (2007, 42).

Durante gli anni Sessanta e Settanta la nuova sinistra statunitense si caratterizzò per le radicali istanze antiumaniste, che si diffusero non solo in contrasto al liberalismo predominante, ma anche in contrasto al marxismo umanista della sinistra tradizionale. Sono perfettamente consapevole del fatto che una tale nozione di marxismo, oggi considerato un’ideologia violenta e inumana, accostata all’umanesimo potrà lasciare sbalordite le generazioni più giovani e coloro che non hanno familiariatà con la filosofia continentale. È sufficiente, tuttavia, ricordare l’enfasi con la quale pensatori del calibro di Sartre e della de Beauvoir si servivano dell’umanesimo come di un metodo laico di analisi critica. L’esistenzialismo ha sottoposto a torsione la coscienza umanista intesa come origine sia della responsabilità morale che della libertà politica. La Francia occupa una posizione molto speciale nella genealogia della teoria critica antiumanista. Il prestigio degli intellettuali francesi è dovuto non solo al formidabile sistema scolastico del paese, ma anche a ragioni legate al contesto. Tra queste ragioni vi è l’alta levatura morale della Francia alla fine della Seconda guerra mondiale, dovuta alla resistenza di Charles de Gaulle. Di conseguenza gli intellettuali francesi hanno continuato a beneficiare di ottima reputazione, soprattutto se paragonati ai pochi sopravvissuti in quel paesaggio devastato che era la Germania del dopoguerra. Da qui l’illustre fama internazionale di Sartre e della de Beauvoir, ma anche di Aron, Mauriac, Camus, Malraux. Tony Judt lo riporta sinteticamente: Nonostante la sconfitta sconvolgente della Francia nel 1940, nonostante la soggezione umiliante dovuta all’occupazione tedesca durata quattro anni, nonostante l’ambiguità morale del Regime di Vichy del maresciallo Pétain, nonostante l’imbarazzante subordinazione del paese agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna negli anni del Dopoguerra per le politiche estere, la cultura francese divenne nuovamente centro di attenzione internazionale: gli intellettuali francesi acquisivano una speciale rilevanza internazionale come portavoci dell’epoca, e il tenore delle argomentazioni politiche

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francesi sintetizzava la rendita ideologica nel mondo in generale. Ancora una volta – per l’ultima volta – Parigi era la capitale d’Europa (2005, 210).

Durante gli anni del dopoguerra, Parigi ha continuato a funzionare come un magnete che attraeva e metteva in circolazione l’opera di ogni sorta di pensatore critico. Per esempio, Arcipelago Gulag di Aleksandr Sol,enicyn fu dapprima pubblicato in Francia nel 1970, per poi essere contrabbandato in forma clandestina nei paesi dell’Unione Sovietica. È stato dopo il suo ritiro parigino che l’ayatollah Khomeyni condusse la rivoluzione in Iran del 1979, che instaurò il primo governo islamico al mondo. In qualche modo il contesto francese di quel periodo era aperto a ogni genere di movimento politico radicale. È ormai un dato di fatto che in Francia in quel periodo fiorirono, sia a sinistra che a destra, talmente tante scuole di pensiero critico che la filosofia francese divenne quasi il sinonimo della teoria in sé, con conseguenze a lungo termine, come vedremo nel quarto capitolo. Fino agli anni Sessanta, la ragione filosofica era riuscita a evitare, rimanendo quasi illesa, la questione delle proprie responsabilità nel perpetuarsi di modelli storici di dominio ed esclusione. Sia Sartre che de Beauvoir, influenzati dalle teorie marxiste su alienazione e ideologia, compresero che il trionfo della ragione coincideva con l’ascesa di poteri prevaricatori, palesando così la complicità della ragione filosofica nei confronti delle pratiche quotidiane di ingiustizia sociale. Essi hanno continuato, tuttavia, a difendere l’idea di ragione universale e a ricorrere al metodo dialettico per la risoluzione di tali contraddizioni. Questo approccio metodologico, seppur critico riguardo ai modelli egemonici di appropriazione violenta e sussunzione degli altri, ritiene al contempo che la filosofia abbia la funzione di strumento privilegiato e culturalmente egemonico per l’analisi politica. Con Sartre e de Beauvoir l’immagine del filosofo-re si concretizza in un quadro preciso, sia pure in forma critica. Il filosofo, in qualità di critico dell’ideologia e di coscienza dell’oppresso, è un essere umano pensante che insiste nel ricercare sistemi teoretici complessivi e nel raggiungere la verità. Sartre e de Beauvoir considerano l’universalismo umanista un tratto distintivo della cultura occidentale, cioè la sua specifica forma di particolarismo. Essi adoperano gli utensili concettuali forniti dallo stesso umanesimo per accellerare il confronto della filosofia con le proprie responsabilità storiche e il suo ruolo politico di mediazione concettuale. 26

Figura 1.2. La nuova donna vitruviana, Friedrich Saurer/Science Photo Library

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Questo universalismo umanista, associato all’enfasi del costruttivismo sociale sull’uomo-artefatto e sulla natura storicamente variabile delle ingiustizie sociali, prepara il terreno per una solida ontologia politica. Ad esempio, il femminismo emancipatorio della de Beauvoir si fonda sul principio umanista che «la donna è la misura di tutte le cose femminili» e che, per essere responsabile per se stessa, una filosofa femminista necessita di essere responsabile della situazione di ogni donna. Questo comporta a un livello teoretico una sintesi produttiva di sé e altro da sé. A livello politico, la donna Vitruviana ha forgiato un legame di solidarietà tra l’uno e i molti, legame che grazie alla seconda ondata femminista negli anni Sessanta era destinato a trasformarsi nella pratica della sorellanza politica. Questa pratica costituì una base comune per le donne, dal momento che l’essere donne nel mondo rappresentò il punto di partenza di tutte le riflessioni critiche e al contempo di ogni prassi politica elaborata. Il femminismo umanista ha introdotto un nuovo stile di materialismo, uno stile incarnato e situato (Braidotti 1994). La pietra angolare di questa innovazione teoretica è un particolare tipo di epistemologia situata (Haraway 1988), che prende le mosse dalla «politica della collocazione» (Rich 1987) e lungo gli anni Novanta traspone il posmodernismo nel punto di vista teorico femminista e nei relativi dibattiti (Harding 1991). La premessa teoretica del femminismo umanista è la nozione materialista del corpo incarnato, cosa che ci indica i presupposti di una nuova e più accurata analisi del potere. Questi presupposti si sono articolati a partire da una critica radicale all’universalismo maschilista, ma sono ancora dipendenti da una forma di Umanesimo attivo e incline all’uguaglianza. La teoria e la pratica femminista hanno lavorato più velocemente ed efficacemente di molti movimenti sociali degli anni Settanta. Esse hanno sviluppato strumenti originali e metodi di analisi che hanno permesso resoconti più verosimili di come funziona il potere. Le femministe hanno inoltre esplicitamete individuato nella sinistra, presumibilmente rivoluzionaria, comportamenti maschilisti e abitudini sessiste e li hanno denunciati come contradditori rispetto alla loro ideologia, così come intrinsecamente offensivi. Nella sinistra convenzionale del dopoguerra, tuttavia prende corpo una nuova generazione di pensatori con altre priorità. I quali si ribellano contro l’egemonia morale dei partiti comunisti dell’epoca, dell’Europa occidentale come dell’impero sovietico. 28

Fatto che aveva portato a una stretta autoritaria sull’interpretazione dei testi marxisti e dei loro concetti filosofici chiave. Le nuove versioni del radicalismo filosofico sviluppatesi in Francia e nel resto d’Europa nei tardi anni Sessanta formularono una critica esplicita della struttura dogmatica del pensiero e della prassi comunista. Inoltre, portarono avanti la critica dell’alleanza politica sancita tra filosofi come Sartre e de Beauvoir e la sinistra comunista4, durata almeno fino all’insurrezione ungherese del 1956. In opposizione al dogma e alla violenza del comunismo, la generazione del 1968 si rivolge direttamente al potenziale sovversivo dei testi di Marx, in modo da recuperarne le radici antistituzionali. Il loro radicalismo si esprimeva nei termini di una critica delle implicazioni umaniste e del conservatorismo politico tipico delle istituzioni che incarnavano il dogma marxista. L’antiumanesimo emerse come il grido di battaglia di quella generazione di pensatori radicali che più tardi sarebbe stata famosa in tutto il mondo come «generazione poststrutturalista». Essi furono, infatti, postcomunisti ante litteram. Essi abbandonarono il pesiero dicotomico dialettico e svilupparono un terzo modo di accostarsi ai cambiamenti nella nozione di soggettività umana. Dopo la pubblicazione de Le parole e le cose (1967) di Michel Foucault, opera innovativa di critica dell’Umanesimo, la questione di cosa – semmai fosse qualcosa – costituisse l’idea dell’umano circolava nei discorsi radicali del periodo e andava articolando le agende antiumaniste di una serie di gruppi politici. La morte dell’uomo annunciata da Foucault formalizza una crisi epistemologica e morale che spinge molto avanti le opposizioni binarie, tagliando in punti differenti lo spettro politico. A essere preso di mira è l’implicito umanismo del marxismo, in particolar modo l’arrogante pretesa umanista di continuare a porre l’Uomo al centro della storia mondiale. Addirittura il marxismo, in veste di principale teoria del materialismo storico, ha continuato a definire il soggetto del pensiero europeo come univoco ed egemonico e ad assegnargli (il genere non è una coincidenza) il ruolo regale di motore della storia umana. L’antiumanesimo consiste nel disconnettere l’agente umano dalla sua posizione universalistica, richiamandolo a rendere conto, e a spiegare, le azioni concrete che sta intraprendendo. Una volta che il soggetto, in precedenza dominante, si è svincolato dalle sue delusioni di grandezza e non è più il presunto re4. Nonostante Sartre e de Beauvoir non fossero membri del Partico comunista francese.

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sponsabile del progresso storico, emergono differenti e più nitide relazioni di potere. I pensatori radicali della generazione post ’68 rifiutavano l’umanesimo sia nella sua versione classica che in quella socialista. L’ideale dell’Uomo Vitruviano come modello di perfezione e miglioramento fu letteralmente buttato giù dal suo piedistallo e decostruito. Questo ideale umanista rappresenta, infatti, il nucleo della concezione liberal-individualista del soggetto, che definisce la perfettibilità in termini di autonomia e autodeterminazione. E queste sono precisamente le peculiarità che i poststrutturalisti contestavano. Si scoprì che quest’Uomo, lontano dall’essere il canone di proporzioni perfette, sebbene enunciasse un ideale universalistico che aveva raggiunto lo statuto di legge naturale, era di fatto un costrutto storico e come tale era contingente e variabile rispetto ai valori e ai luoghi. L’individualismo non è una componente innata della natura umana, come i pensatori liberali sono disposti a credere, quanto piuttosto una formazione discorsiva specifica dal punto di vista storico e culturale, una formazione che, per di più, sta divenendo sempre più problematica. Il filone decostruttivista del costruttivismo sociale introdotto da filosofi poststrutturalisti quali Jacques Derrida (2002) ha inoltre contribuito a una revisione radicale dei principi umanisti. Un’intera generazione filosofica chiamava all’insubordinazione rispetto alle tradizionali concezioni umaniste della natura umana. Femministe come Luce Irigaray (2010, 1990a) hanno evidenziato che il presunto ideale astratto di Uomo, simbolo dell’umanesimo classico, è in realtà il vero e proprio maschio della specie: egli è un lui. Inoltre, lui è bianco, europeo, bello e normodotato; sulla sua sessualità non si può congetturare molto, sebbene molte speculazioni riguardino quelle del suo pittore, Leonardo da Vinci. Cosa questo modello ideale potesse avere in comune con la media dei molti membri della specie e con la civilizzazione che si supponeva rappresentasse è una questione ancora aperta. Le critiche femministe ai sistemi patriarcali operanti attraverso la mascolinità astratta (Hartstock 1987) e la bianchezza trionfante (hooks, 1981, Ware 1992) argomentavano che l’umanesimo universalista era un plausibile bersaglio di obiezioni non solo epistemologiche, ma anche etiche e politiche. I pensatori anticoloniali adottarono un atteggiamento critico analogo, problematizzando il primato della bianchezza come cano30

ne di bellezza estetica nell’ideale Vitruviano (vedi figura 1.2). Trovando le radici di tali nobili affermazioni nella storia del colonialismo, i pensatori anticolonialisti e antirazzisti hanno esplicitamente messo in questione la rilevanza dell’ideale umanista, alla luce delle ovvie contraddizioni imposte dai suoi presupposti eurocentrici, ma al contempo non lo hanno completamente accantonato. Essi hanno preso in considerazione la responsabilità europea negli usi e negli abusi di questo ideale guardando alla storia coloniale e all’assoggettamento violento delle altre culture, pur continuando ad accettare le sue premesse fondamentali. Franz Fanon ad esempio voleva salvare l’umanesimo dai suoi eredi europei, sostenendo che avevamo malinterpretato e bistrattato l’ideale umanista. Come Sartre scrive nella prefazione al libro di Fanon (1963, 7). Il pensiero postcoloniale asserisce che se l’umanesimo ha dopotutto un futuro, questo proviene dal di fuori del mondo occidentale e supera i limiti dell’eurocentrismo. Per estensione, l’aspirazione all’universalità della razionalità scientifica viene sfidata sia dal punto di vista epistemologico che politico (Spivak 1999, Said 1994). I filosofi poststrutturalisti francesi perseguirono lo stesso obiettivo di quelli postcoloniali attraverso strade e mezzi differenti5. Essi affermavano dopo il colonialismo, dopo Auschiwtz, dopo Hiroshima e i gulag – per citare solo alcuni degli orrori della storia moderna – noi europei necessitiamo di elaborare una critica dell’illusione di onnipotenza che consiste nel porre noi stessi come guardiani morali del mondo e motori dell’evoluzione umana. Così la generazione filosofica degli anni Settanta, fu antifascista, postcomunista, postcoloniale e postumanista, con una eterogeneità di combinazioni fra i termini. Ha portato al rifiuto della definizione di un’identità classica umanista, della razionalità e dell’universale. Le filosofie femministe della differenza sessuale6, attraverso lo spettro della ctitica della mascolinità dominante, hanno inoltre sottolineato la natura etnocentrica dell’aspirazione europea all’universalismo. Hanno difeso la neccessità di aprirsi all’alterità dentro di sé (Kristeva 1991), così da ricollocare la diversità e le appartenenza multiple nella posizione centrale di componente strutturale del soggetto europeo. L’antiumanesimo è, di conseguenza, un’importante risorsa per 5. Il rifiuto di Deleuze della visione trascendentale del soggetto; il decentramento del fallologocentrismo di Irigaray; la critica dell’umanesimo di Foucault; la decostruzione dell’eurocentrismo di Derrida. 6. Si vedano ad esempio Irigaray (1990b), Cixous (1997), Braidotti (1994).

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il pensiero postumano. Esso non è affatto la sola risorsa, né la connessione tra antiumanesimo e postumanesimo è logicamente necessaria o storicamente inevitabile. Ho scoperto, tuttavia, che è così per il mio stesso lavoro, anche se questa storia non è finita e in qualche modo, come spiegherò nella prossima sezione, la mia relazione con l’umanesimo rimane irrisolta. La morte dell’Uomo, la Decostruzione del secondo sesso Come indicato nel’itinerario genealogico che ho appena tracciato, l’antiumanesimo è uno dei sentieri storici e teorici che può condurre al postumano. Del mio antiumanesimo sono debitrice ai miei amati insegnanti postsessantottini, alcuni dei quali sono stati filosofi straordinari e la cui eredità continuo ad ammirare e rispettare: in particolar modo Foucault, Irigaray e Deleuze. L’umano dell’umanesimo non è un ideale, né una statica media obiettiva o un mediatore necessario. Esso enuncia piuttosto un modello sistematizzato di riconoscibilità – di Identità – grazie al quale tutti gli altri possono essere valutati, normati e assegnati a una definita posizione sociale. L’umano è una convenzione normativa, non intrinsecamente negativa, ma con un elevato potere regolamentare e dunque strumentale alle pratiche di esclusione e discriminazione. Lo standard umano rappresenta la normalità, la normazione, la normatività. Esso funziona trasponendo un particolare modo di essere umano in un modello generalizzato, che è categoricamente e qualitativamente distinto dagli altri sessualizzati, razializzati e naturalizzati e in opposizione agli artefatti tecnologici. L’umano è il costrutto storico che ha saputo consolidare una convenzione sociale intorno alla sua «natura umana». Il mio antiumanesimo mi conduce ad avversare il soggetto unitario dell’umanesimo, comprese le sue varianti socialiste, e a sostituirlo con un soggetto più complesso e relazionale, caratterrizato principalmente dall’incarnazione, dalla sessualità, dall’affettività, dall’empatia e dal desiderio. Altrettanto centrale in questo approccio è l’intuizione appresa da Foucault circa la doppia natura del potere, inteso sia come forza restrittiva (potestas) che produttiva (potentia). Questo significa che le formazioni di potere non agiscono solo al livello materiale ma trovano anche espressioni in sistemi di rappresentazioni teoretiche e culturali, in narravative politico-normative, in modelli sociali di riconoscimento. Queste narrative non sono né coerenti né razionali e la loro natura improvvisata è fun32

zionale alla loro forza egemonica. La consapevolezza dell’instabilità e dell’incoerenza delle narrative dominanti che compongono la struttura sociale e le sue relazioni, lungi dal rimanere in una sorta di sospensione dall’azione politica e morale, diventa il punto di partenza per elaborare nuove forme di resistenza adatte alla struttura policentrica e dinamica del potere contemporaneo (Patton 2000). Questo genera una forma pragmatica di micro-politica che riflette la natura complessa e nomadica dei sistemi sociali contemporanei e dei soggetti che li abitano. Se il potere è complesso, diffuso e produttivo, così deve essere la nostra resistenza a esso. E una volta attivato questo movimento decostruttivo, tanto la nozione tradizionale di Uomo quanto quella di secondo sesso, di donna, vengono messe in questione proprio in nome della loro intrinseca complessità. Questo influenza evidentemente il compito e lo stato attuale del metodo teorico. Il discorso, come Michel Foucault afferma in Sorvegliare e punire (1976), riguarda l’attualità politica che è attribuita a certi significati, o sistemi di significazione, in modo tale da poterli dotare di leggitimità scientifica; non vi è nulla di neutrale o di già dato in esso. Pertanto tra la verità scientifica, l’attualità discorsiva e le relazioni di potere si viene a creare un nesso critico e materialista. Questo approccio all’analisi del discorso mira in primo luogo a rimuovere la credenza nei fondamenti «naturali» delle differenze codificate e imposte socialmente, così come nel sistema di validità scientifica, di valori etici e di rappresentazioni che tale convinzione presuppone (Coward e Ellis, 1977)7. Il femminismo antiumanista, noto anche come postmodernismo femminista, rifiuta le identità unitarie modellate sull’ideale umanista, normativo ed eurocentrico, di quest’Uomo ben definito (Braidotti 2003). Esso si è, tuttavia, spinto oltre, sostenendo che risulta comunque impossibile parlare con una sola voce in nome delle donne, dei nativi e degli altri soggetti emarginati. L’accento viene qui posto sulle questioni delle differenze tra categorie diverse e all’interno di ciascuna di esse. A questo proposito, l’antiumanesimo prende le distanze dallo schema di pensiero dialettico, dove la differenza o l’alterità hanno svolto un ruolo costitutivo, poiché avevano assolto al compito di tracciare i confini con l’altro ses7. Questo approccio è stato inoltre adottato dall’analisi intersezionale, che sostiene il parallelismo metodologico di genere, razza, classe e fattori sessuali, senza appiattire le differenza piuttosto questionando politicamente il problema della loro complessa interazione (Crenshaw 1995).

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sualizzato (le donne), l’altro razzializzato (i nativi), l’altro naturalizzato (gli animali, l’ambiente, la terra). Questi altri erano costitutivi nella misura in cui funzionavano come specchi in grado di confermare la posizione suprema del Medesimo (Braidotti 2008a). Questa economia politica della differenza ha portato alla svalutazione di intere categorie di esseri umani, considerati inferiori e dunque alla stregua di corpi utilizzabili: essere differente da significava essere meno di. La norma definitoria del soggetto veniva posizionata al culmine della scala gerarchica il cui premio consisteva nella stessa assenza di differenze. Questo è il trascorso modello di Uomo dell’umanesimo. I processi dialettici negatvi di sessualizzazione, razzializzazione, naturalizzazione hanno un’altra importante conseguenza: essi provocano la produzione attiva di mezze verità, o di forme di sapere parziale circa questi altri. L’alterità dialettica e peggiorativa diffonde ignoranza strutturale circa coloro che, proprio perché altri, sono collocati al di fuori delle maggiori divisioni categoriali nell’attribuzione dell’Umanità. Paul Gilroy (2010) indica questo fenomeno con il termine agnatology intendendo con questo l’ignoranza imposta e funzionale. È uno degli effetti paradossali della presunta ratio univeralista del sapere umanista. Edward Said critica «la liquidazione bellicosa delle altre culture e civiltà», in quanto «presuntuosa, non umanista, e indubbiamente frutto di una coscienza non illuminata dal punto di vista critico» (2007, 54). La riduzione allo stato subumano degli altri non occidentali è l’origine dell’ignoranza perdurante, della falsità e della cattiva coscienza del soggetto dominante, il quale è responsabile della loro disumanizzazione epistemica e sociale. Queste critiche radicali all’arroganza umanista da parte del femminismo e della teoria postcoloniale non sono meramente negative, dal momento che esse propongono nuovi e alternativi modi di guardare all’umano, da un punto di vista più inclusivo. Sguardi che offrono, inoltre, percezioni significative e innovative dell’immagine del pensiero implicitamente trasmesso dalla visione umanista dell’Uomo misura di tutte le cose, portatore dello standard umano. Pertanto, essi hanno spinto l’analisi del potere fino a sviluppare strumenti e terminologia grazie ai quali siamo in grado di confrontarci con fenomeni quali il maschilismo, il razzismo, la superiorità bianca, il dogma della ragione scientifica e con altri sistemi di valori dominanti diffusi socialmente. Essendo praticamente cresciuta con le teorie della morte di dio 34

(Nietzsche), della fine dell’Uomo (Foucault) e del declino delle ideologie (Fukuyama), mi ci vuole del tempo per capire come mai chi oggi chiami in causa l’umanesimo lo fa a proprio rischio e pericolo. La posizione antiumansita non è di certo scevra da contraddizioni. Come Badmington ci ricorda saggiamente: «I racconti apocalittici sulla morte dell’uomo ignorano la capacità dell’umanesimo di rigenerazione e, quasi letteralmente, di ricapitolazione» (2003, 11). L’Uomo vitruviano si innalza molto al di sopra delle sue ceneri, continua a detenere il ruolo di modello universale e a esercitare un’attrazione fatale. La soluzione mi è venuta in mente ascoltando Plague Mass di Diamanda Galas (1991) per le vittime di Aids: una cosa è proclamare ad alta voce una presa di posizione antiumanista, altra cosa è agire conseguentemente, con un minimo di coerenza. L’antiumanesimo è una posizione così carica di contraddizioni che più si prova a superarle, più scivoloso diventa il terreno. Non solo gli antiumanisti finiscono spesso per riproporre gli ideali umanisti – la libertà è il mio preferito – ma, in qualche modo, la stessa attività di critica critico del pensiero si regge su valori discorsivi implicitamente umanisti (Soper 1986). Né l’umanesimo né l’antiumanesimo sono adeguati allo scopo. L’esempio migliore di contraddizioni intrinseche generate dalla posizione antiumanista è l’emancipazione, o la politica in senso progressista, che io ritengo uno dei più valenti aspetti della tradizione umanista e una sua eredità ancora viva. Lungo lo spettro politico, l’umanesimo ha sostenuto sul fronte liberale l’individualismo, l’autonomia, la responsabilità, l’autodeterminazione (Todorov 2002). Sul fronte radicale, esso ha promosso la solidarietà, i legami comunitari, la giustizia sociale e il principio di uguaglianza. Di orientamento segnatamente laico, l’umanesimo ha diffuso il rispetto per la scienza e la cultura, contro l’autorità dei testi sacri e del dogma religioso. Inoltre, esso è caratterizzato da un elemento avventuroso, un anelito alla scoperta guidato dalla curiosità, un approccio orientato alla progettualità molto apprezzabile per il suo pragmatismo. Questi principi sono così profondamente radicati nelle nostre abitudini di pensiero da risultare difficile abbandonarli del tutto. E perché dovremmo? L’antiumanesimo critica la convinzione implicita circa il soggetto umano racchiuso nell’immagine umanista dell’Uomo, ma questo non comporta un suo rifiuto totale. Per me è impossibile, sia intellettualmente che eticamente, se35

parare gli elementi positivi dell’umanesimo dalle loro controparti negative: l’individualismo genera egoismo ed egocentrismo, l’autodeterminazione può trasformarsi in arroganza e dominazione; e la scienza non è libera dalle sue stesse tendenze dogmatiche. Le difficoltà inerenti al superamento dell’umanesimo come tradizione intellettuale, contesto normativo e pratica istituzionalizzata si trovano al centro dell’approccio decostruttivo al postumano. Derrida (2002) ha aperto questa discussione evidenziando la violenza implicita nell’assegnazione di un significato. I suoi allievi hanno spinto oltre la sua argomentazione: L’affermazione che l’umanesimo può essere decisamente lasciato alle spalle sottintende ironicamente l’assunto di base umanista in materia di volontà e di azione, come se la fine dell’umanesimo potesse essere soggetta al controllo umano, come se noi possedessimo le capacità per cancellare le tracce sia dal presente che da un ipotetico futuro (Peterson, 2011, 128).

L’accento cade perciò sulla difficoltà di cancellare la traccia della violenza epistemica, cosa che permetterebbe agli antiumanisti di ritagliarsi una posizione esterna all’umanesimo. La presa di consapevolezza della violenza epistemica viaggia di pari passo al riconsocimento della violenza nella vita reale, che era ed è ancora praticata contro gli animali, i non umani, gli altri sociali e politici de-umanizzati dalla norma umanista. In questo filone decostruttivista Cary Wolfe (2010b) è particolarmente interessante, poiché tenta di eleborare una nuova prospettiva che combini la sensibilità per la violenza epistemica da un punto di vista storico-mondiale con una distinta fede transumanista (Bostrom 2005) nelle potenzialità aperte dalla condizione postumana. Nutro una grande stima per il decostruttivismo, ma anche una certa insoddisfazione per i limiti del suo sistema di riferimento linguistico. Da parte mia, preferisco seguire un percorso più materialista per affrontare la complessità del postumano in quanto tratto fondamentale della nostra storicità. Questo percorso, come vedremo nella prossima sezione, è carico di insidie. Oltre la laicità In qualità di dottrina politica progressista, l’Umanesimo intrattiene una relazione privilegiata con altre due idee interconnesse: 36

l’emancipazione umana nel perseguimento dell’uguaglianza, la laicità per mezzo della gestione razionale della res publica. Queste due premesse emergono dal concetto di umanesimo proprio come Atena fuoriesce dalla testa di Zeus, già vestita e armata per la battaglia. Come John Gray (2002, XIII) ha affermato: L’umanesimo è la trasformazione della dottrina cristiana della salvezza in un progetto di emancipazione umana universale. L’idea di progresso era una versione laica della fede cristiana nella provvidenza. Si spiega perciò il fatto che presso gli antichi pagani esso era sconosciuto.

Non sorprende, dunque, che uno degli effetti collaterali del declino dell’umanesimo sia l’ascesa della condizione postlaica (Braidotti 2008a, Habermas 2008). Se quella della morte dell’Uomo è risultata essere una affermazione precipitosa, quella sulla morte di dio si è rivelata essere positivamente delirante. La prima crepa nell’edificio della laicità autosufficiente apparve alla fine degli anni Settanta. Appena raffreddato lo zelo rivoluzionario e quando i movimenti sociali cominciarono a scemare, a conformarsi o a mutare, i precdenti militanti agnostici andarono a infoltire la schiera di conversioni verso una vasta gamma di religioni monoteiste, convenzionali o importate da Oriente. Questa svolta nel corso degli eventi ha sollevato seri dubbi circa il futuro della laicità. Il dubbio si è insinuato nella mente collettiva e individuale: quanto e in che modo siamo laiche – noi femministe, antirazziste, postcolonialiste, ambientaliste? Il dubbio diventava ancora più acuto per gli intellettuali politicizzati. La scienza è intrinsecamente laica, essendo la laicità un principio chiave dell’umanesimo, insieme all’universalismo, al soggetto unitario e al primato della razionalità. La scienza stessa, tuttavia, nonostante le sue fondamenta laiche, è lontana dall’essere immune dalla sua medesima forma di dogmatismo. Freud è stato uno dei primi pensatori ad allarmarci rispetto al fanatico ateismo dei sostenitori della ragione scientifica. In L’avvenire di un’illusione (1990) Freud paragona, appunto, forme diverse di rigido dogmatismo, classificando lo scientismo razionalista insieme alla religione come origine di credenze superstiziose, una posizione ben rappresentata oggi dall’estremismo con cui Richard Dawkins difende la propria fede atea. Inoltre, la tanto osannata oggettività della scienza ha ben mostrato di essere imperfetta. Gli usi e gli abusi della sperimentazione scientifica sotto il fascismo dimostra37

no che la scienza non è stata vaccinata contro il nazionalismo, i discorsi e le pratiche egemoniche razziste. Ogni appello alla purezza scientifica, alla sua oggettività, alla sua autonomia, necessita di essere fermamente contrastato. Cosa implica tutto ciò per l’umanesimo e le sue critiche antiumaniste? La laicità è uno dei pilastri dell’umanesimo occidentale, così come l’avversione per religione e chiesa è un aspetto storico integrante delle politiche di emancipazione. La tradizione umanista socialista, così centrale per la sinistra europea e per i movimenti delle donne almeno dal Settecento, giustifica le proprie dichiarazioni di laicità ricorrendo a una definizione assai stretta del termine: essere agnostici se non atei significa riferirsi alla critica illuminista del dogma religioso e dell’autorità ecclesiastica. Come altre filosofie e pratiche politche emancipazioniste, la lotta femminista per i dirittti delle donne in Europa è storicamente ancorata a delle fondamenta laiche. L’influenza perdurante esercitata dal femminismo esistenzialista (de Beauvoir 2008), dal femminismo marxista e socialista sulla seconda ondata del movimento delle donne è responsabile anche del ripetersi di tali presupposti. In qualità di figlie laiche e ribelli dell’Illuminismo, le femministe europee si sono formate alla scuola dell’argomentazione razionale e della distaccata autoironia. Il sistema di volori femminista è di conseguenza civico, non teista e visceralmente opposto ad autoritarismi e ortodossie. La politica femminista è inoltre, e al contempo, una visione a doppio taglio (Kelly 1979) che combina le argomentazioni razionali con le passioni politiche e crea progetti sociali e sistemi di valori alternativi. Per quanto il femminismo del XX secolo possa essere fiero delle sue radici laiche, è nondimeno un fatto che abbia storicamente prodotto diverse pratiche spirituali alternative, talvolta in consonanza, tavolta in contrasto con la principale linea politica laica. Grandi scrittrici legate al filone femminista radicale della seconda ondata americana, in particolare Audre Lorde (1984), Alice Walker (1984), Adrienne Rich (1987), hanno riconosciuto l’importanza della dimensione spirituale nella lotta delle donne per l’uguaglianza e la ricognizione simbolica. Il lavoro di Mary Daly (1973), Schussler Fiorenza (1983), Luce Irigaray (1990b), solo per nominarne alcune, mette in risalto una specifica tradizione femminista di pratiche religiose e spirituali non centrate sul maschio, o sui valori maschili. La teologia femminista ha prodotto comunità ben impiantate, resistenza critica e affermazione di alternative 38

creative nella tradizione cristiana (Keller 1998 Wadud 1999), in quella musulmana (Tayabb 1998), in quella ebraica (Adler 1998). L’appello a nuovi riti e nuove cerimonie ha costituito la fortuna del movimento delle streghe, attualmente rappresentato al meglio da Starhawk (1999) e rivendicato tra le altre dall’epistemologa Stengers (1997). Elementi neopagani sono inoltre emersi dalla cultura cibernetica tecnologicamente mediata, contribuendo alla nascita di diversi stili di tecno-ascetismo postumano (Halberstam e Livingston 1995, Braidotti 2003). Le teorie postcoloniali non sono mai state apertamente laiche. Nell’alquanto religioso contesto americano, la letteratura delle donne afro-americane è piena di riferimenti alla Cristianità, come bell hooks (1990) e Cornell West (1994) attestano. Inoltre, come vedremo più avanti in questo capitolo, le teorie postcoloniali e le critiche antirazziste hanno oggi sviluppato filoni non teisti di neoumanesimo situato, che spesso rimandano a tradizioni e origini non occidentali. La cultura popolare contemporanea ha intensificato la tendenza a oltrepassare la laicità. Madonna, che nella sua (con)versione all’ebraismo ha preso il nome di Esther, intrattiene un dialogo perenne, anche sul palcoscenico, con Cristo e ha rivisitato la tradizione delle crucifissioni femminili. Evelyn Fox Keller (1983), nel suo studio determinate sull’epistemologia femminista, riconosce l’importanza del Buddismo nell’opera della grande microbiologa Barbara McClintock, che vinse il premio Nobel nel 1983 con le sue scoperte e dopo aver patito marginalizzazione e indifferenza da parte dei colleghi universitari. La recente ricerca antropologica sulla sessualità in Kenya di Henrietta Moore (2007) dimostra che, considerato l’impatto delle organizzazioni religiose radicate, oggi essere bianco rappresenta un problema minore dell’essere un mancato cristiano. Di recente Donna Haraway si è dicharata una mancata laica (2006); mentre Helene Cixous decise persino di scrivere un libro dal titolo «Ritratto di Jacques Derrida come giovane santo ebraico». E ora, permettetemi di chiedere di nuovo: cosa c’è di laico in tutto ciò? La posizione che in modo piatto e avventato equipara laicismo, secolarizzazione ed emancipazione delle donne si presenta, quindi, come problematica. Come Joan Scott spiega in modo convincente (2007) questa nozione può essere facilmente contraddetta tramite l’evidenza storica. Se assumiamo, ad esempio, la rivoluzione francese come momento di origine della laicità europea, non esiste alcu39

na prova circa il fatto che la preoccupazione per l’uguaglianza femminile fosse una priorità per coloro che tanto lottarono per separare la chiesa dallo Stato. La laicità è essenzialmente la dottrina politica della divisione dei poteri, che oltre a essersi consolidata in Europa, è ancora oggi un’importante teoria politica (British Humanist Association 2007). Questa tradizione di laicità, tuttavia, genera una polarizzazione tra religione e cittadinanza, rappresentata dalla nuova partizione tra il dominio delle credenze private e la sfera pubblicopolitica. Questa distizione pubblico-privato è completamente sessuata. Storicamente le donne in Europa sono state assegnate sia al dominio privato che all’ambito della fede e della religione, essendo l’Umanesimo il «fardello dell’Uomo bianco». Questa tradizionale assegnazione delle donne alla fede religiosa si spiega con la necessità di concedere loro un surrogato della piena cittadinanza politica. Le donne europee erano incoraggiate a intraprendere attività religiose piuttosto che a partecipare agli affarri pubblici. Questa non è solo una causa dell’emarginazione sociale, ma anche un dubbio privilegio, alla luce del trincerato sessismo delle religioni monoteiste e della loro comune convinzione della necessità di escludere le donne dal sacerdozio e dall’amministrazione dei sacramenti. La laicità incrementa, inoltre, l’allontanamento tra emozioni e razionalità, compresa la fede e il raziocinio. In questo schema polarizzato, le donne erano confinate al polo dell’irrazionalità, delle passioni e delle emozioni, inclusa la religione, e questi fattori tutti insieme hanno contribuito a relegarle nella sfera privata. Pertanto la laicità rincara, in realtà, l’oppressione delle donne e la loro esclusione dalla sfera pubblica della cittadinanza razionale e della politica. La consapevolezza che nella storia politica europea l’ideale della laicità non ha impedito che le donne fossero politicamente inferiori agli uomini, secondo Joan Scott, apre una serie di questioni critiche. Come possono le femministe europee render conto del fatto che, sia logicamente che storicamente, l’uguaglianza nello Stato laico non garantisce il rispetto delle differenze, tantomeno dell’alterità? Questioni provocatorie che si fanno ancora più acute dopo di decenni di critiche antiumaniste che sono sfociate teorie femministe, postcoloniali e ambientaliste. Complessità diventa la parola chiave, poiché è evidente che un’unica narrativa non basta a rendere conto della laicità come progetto ancora non del tutto compiuto e delle sue relazioni con l’umanesimo e la battaglia per l’uguaglianza. Un approccio cha vada oltre la laicità, basato su salde fondamenta antiumaniste, rimuove uno dei tabù della sinistra, pro40

ponendo l’idea scandalosa che l’azione razionale e la soggettività politica possano svilupparsi anche attraverso la pietà religiosa, e siano quindi capaci di comprendere un fondo di spiritualità. L’ambito della fede e i suoi rituali vengono dichiarati compatibili con il pensiero critico e le pratiche di cittadinanza. Simone de Beauvoir sarebbe afflitta dalle implicazioni di tale possibilità. Lasciatemi tentare un approccio ai limiti del femminismo laico da un’altra angolazione. La mia filosofia monista dei divenire si fonda sull’idea che la materia, compresa quella parte determinata della materia che è l’incarnazione umana, è intelligente e capace di autorganizzazione. Questo implica che la materia non è dialetticamente opposta alla cultura, né alla mediazione tecnologica, ma è attigua a esse. Ciò ha come conseguenza un diverso progetto di emancipazione e una politica non dialettica della liberazione umana. Questa posizione ha un altro importante corollario: l’azione politica non deve necessariamente avere l’accezione critica dell’opposizione, in senso negativo, e pertanto non può essere unicamente e prioritariamente volta alla produzione di contro-soggettività. La soggettività è piuttosto un processo di autopoiesi e autocreazione del sé, che include complesse e continue negoziazioni con la norma e i valori dominanti e dunque molteplici forme di responsabilità (Braidotti 2008a). Questa ontologia politica a carattere processuale può agevolare la svolta oltre la laicità, posizione peraltro difesa da una varietà di pensatrici all’interno del femminismo, come la Harding (2000) e la Mahmood (2005). La doppia sfida rappresentata dal tentativo di connettere la soggettività politica all’azione religiosa, separando entrambe dalla coscienza dialettica e dalla critica in senso nichilitsta, è una delle pricipali problematiche emerse dalla condizione postumana. Le questioni che riguardano l’umanesimo, in ogni caso, sono sempre più complesse di quanto ci si possa aspettare. Il ritorno della religione nella sfera pubblica e il tono stridente toccato nel dibattito pubblico globale a proposito dello scontro tra civiltà, per non parlare dello stato di guerra permanente al terrore derivante da questo contesto, coglie molti antiumanisti di sorpresa. Parlare di ritorno delle religioni è inappropriato, perché suggerisce l’idea di un movimento regressivo. Quello che stiamo esperendo è però più complicato. La crisi della laicità intesa come fede essenzialista in una serie di assiomi socio-politici è un fenomeno che prende avvio nella tarda postmodernità globalizzata, non in tempi pre-moderni. Avviene qui e ora. Inoltre, tocca tutte le religioni, si tratti della seconda 41

e terza generazione di emigrati musulmani in Europa, del rinato fondamentalismo cristiano, di quello indù, ebraico o altro ancora. Questo è il contesto globale paradossale e violento in cui l’atteggiamento eccezionalista dell’Occidente sta prendendo le sembianze di un crescente autocompiacimento dell’eredità dell’Illuminsismo umanista. Questa rivendicazione – esplicita e prepotente – di uno statuto culturale eccezionale dell’Europa pone in primo piano l’emancipazione di donne, gay e lesbiche come tratto distintivo dell’Occidente, mentre viaggia di pari passo al crescente intervento bellico geopolitico contro tutto il resto. L’umanesimo ha ancora una volta intrapreso una crociata civilizzatrice. Al contempo sovrastimato per il suo ruolo storico emancipatorio e manipolato dagli intenti razzisti dei politici populisti di tutta Europa, l’umanesimo dovrebbe essere riscattato da queste indebite semplificazioni e da ogni abuso. Mi domando, inoltre, se oggigiorno sia ancora possibile difendere una mera posizione antiumanista. Da un punto di vista intellettuale, politico e metodologico, una forma residuale di umanesimo non è, dopotutto, inevitabile? Se i nuovi bellicosi discorsi sulla supposta supremazia del’Occidente si esprimono nella lingua ereditata dall’umanesimo laico, se la più strenua opposizione a essi prende le sembianze di pratiche che vanno oltre la laicità e di religioni politicizzate, su che cosa può fondarsi oggi una posizione antiumanista? Dichiararsi semplicemente laici vuol dire essere complici della supremazia neocoloniale dell’Occidente, mentre rifiutare l’eredità dell’Illuminismo vuol dire essere del tutto in contraddizione con ogni progetto critico. Il circolo vizioso è soffocante. La considerazione che l’apparentemente infinita polemica tra umanesimo e antiumanesimo abbia raggiunto un punto morto non può essere contradetta. Continuare questa polemica sarebbe non solo improduttivo, ma al contempo non ci permetterebbe una lettura adeguata del nostro contesto storico preciso. Lasciarci alle spalle le tensioni che accompagnano l’umanesimo e il suo rifiuto contraddittorio ora è una priorità. Un’altra possibilità diventa via via più desiderabile e urgente: il postumanesimo come allontanamento da questi binari letali. Concedetemi di tornarci nei prossimi paragrafi. La sfida postumana Il postumanesimo è la condizione storica che segna la fine dell’opposizione tra umanesimo e antiumanesimo e che designa un con42

testo discorsivo differente, guardando in modo più propositivo a nuove alternative. Il punto di partenza è per me la morte dell’Uomo/Donna antiumanista che evidenzia il declino di alcuni presupposti fondamentali dell’Illuminismo, precisamente del progresso dell’umanità attraverso l’uso autoregolatorio e teleologicamente orientato della ragione e della razionalità scientifica laica, che si supponevano volte alla perfettibilità dell’Uomo. La prospettiva postumana si basa sull’assunzione storica del declino dell’umanesimo, ma si spinge anche oltre per esplorare nuove alternative, senza per questo ricadere nella retorica antiumanista della crisi dell’Uomo. Essa si impegna, invece, a elaborare modi alternativi per la concettualizzazione della soggettività postumana, tema centrale di questo libro. La crisi dell’umanesimo ha come conseguenza, nella postmodernità, la riemersione, con propositi di riscatto, degli altri strutturali rispetto al soggetto moderno umanista (Braidotti 2003). È un fatto storico che i più grandi movimenti emancipatori della postmodernità siano guidati e alimentati dagli altri riemergenti: i movimenti per i diritti di donne, gay e lesbiche; i movimenti antirazzisti e anticoloniali; i movimenti antinucleari e ambientalisti sono i megafoni degli altri strutturali della modernità. Essi contrassegnano inevitabilmente la crisi del precedente centro umanista o della posizione dominante del soggetto, eppure non sono meramente antiumanisti, in quanto superano l’antiumanesimo in direzione di una storia e di un progetto completamente postumani. Questi movimenti sociali e politici sono al contempo il sintomo della crisi del soggetto, per i conservatori ne sono addirittura la causa, e l’espressione di alternative positive e propositive. Nel linguaggio della mia teoria nomade (Braidotti 2011, 2012), essi esprimono sia la crisi della maggioranza che i modelli di divenire delle minoranze. La sfida per la teoria critica consiste nell’essere capace di spiegare la differenza tra questi distinti flussi di cambiamento. In altre parole, la posizione postumana che sto difendendo si articola a partire dall’eredità antiumanista, più nello specifico a partire dalle basi epistemologiche e politiche della generazione poststrutturalista, per andare oltre. I punti di vista alternativi sull’umano e le nuove formazioni della soggettività che caratterizzavano le epistemologie radicali della filosofia continentale degli ultimi trent’anni non sono meramente contrari all’umanesimo, dal momento che creano essi stessi altre visioni del sé. Le differenze sessaulizzate, razzializate e naturalizzate, lungi dall’essere custo43

di dei confini categorici del soggetto dell’umanesimo, si sono trasformate in modelli alternativi del soggetto umano, compiuti sotto tutti gli effetti. Il modo in cui essi provocano il decentramento dell’umano sarà ancora più chiaro nel prossimo capitolo, che analizza la svolta postantropocentrica. Per adesso mi preme spiegare questo allontanamento dall’antiumanesimo verso una posizione postumana affermativa ed esaminare criticamente alcuni dei suoi momenti. Nel pensiero postumano attuale rintraccio tre filoni prevalenti: il primo viene dalla filosofia morale e sfocia in una forma reattiva di postumano; il secondo proviene dai science and technologies studies e abbraccia una forma analitica di postumano; e il terzo, dalla mia stessa tradizione di filosofia antiumanista della soggettività e propone un postumanesimo critico. Permettetemi di guardare con ordine a ciascuno di essi. L’approccio reattivo al postumano è difeso, concettualmente e politicamenete, da contemporanei pensatori liberali del calibro di Marta Nussbaum (2006, 2013). Sviluppa un’accurata e attuale difesa dell’umanesimo, inteso come garanzia della democrazia, della libertà e del rispetto della dignità umana, e rifiuta l’idea stessa della crisi dell’umanesimo europeo, tantomeno la possibilità del suo declino storico. Nussbaum riconosce le sfide poste dalle attuali economie globali tecnologicamente guidate, ma risponde a esse riproponendo gli ideali classici umanisti e la politica liberale progressista. Difende la necessità dei valori universali umanisti, poiché li considera un rimedio contro la frammentazione e la deriva relativista dei nostri tempi, che è risultato della globalizzazione stessa. L’universalismo cosmopolita umanista è inoltre presentato come un antidoto contro il nazionalismo e l’etnocentrismo, che affligono il mondo contemporaneo, e contro la prevalente attitudine americana all’indifferenza verso il resto del mondo. Centrale nell’umanesimo reattivo, o negativo, della Nussbaum è l’idea che uno degli effetti della globalizzazione sia una sorta di ricontestualizzazione indotta dall’economia di mercato. Cosa che induce un nuovo sentimento di interconnessione, che a sua volta rimanda alla necessità di un’etica neoumanista. Per la Nussbaum l’universalismo astratto è l’unica presa di posizione capace di fornire solide basi a valori morali quali la compassione e il rispetto degli altri, che lei attribuisce con forza alla tradizione dell’individualismo liberale americano. Sono contenta che alla Nussbaum stia a cuore la questione della soggettività, ma sono meno contenta del fatto che 44

riconduca tale questione all’individualismo, alle identità fisse, a luoghi immutabili e a legami morali opprimenti. In altri termini Nussbaum rifiuta il punto di vista delle filosofie antiumaniste degli ultimi trent’anni. In particolare abbraccia l’universalismo al di sopra e contro le prospettive femministe e postcoloniali circa l’importanza della politica della collocazione e circa l’attenzione al radicamento in termini geopolitici. Abbracciando l’universalismo disincarnato, la Nussbaum finisce per essere paradossalmente provinciale nella sua visione di cosa conti come umano (Bhabha 1996a). Non c’è alcuna stanza per sperimentare nuovi modelli di soggetto; per Nussbaum la condizione postumana può risolversi nella restaurazione del concetto umanista di soggetto. Come vedremo nella prossima sezione, mentre Nussbaum riempe il vuoto etico del mondo globalizzato con le norme classiche umaniste, i postumanisti critici scelgono la strada della sperimentazione. Essi tentano di elaborare nuove rivendicazioni di comunità e di appartenenze da parte di singolarità soggettive che hanno preso le distanze dall’individualismo umanista. Una seconda importante area di sviluppo del postumano è quella dei science and technologies studies. Un’area interdisciplinare che si interroga su questioni etiche e concettuali cruciali circa lo statuto dell’umano, eppure è generalmente disinteressata a uno studio approfondito delle sue conseguenze per una teoria della soggettività. L’influenza della antiepistemologia di Bruno Latour, avversa a una teoria della soggettività, spiega in parte questo disinteresse. Concretamente, si traduce in una serie di filoni di ricerca postumana paralleli e non comunicanti. Una nuova segregazione del sapere ha luogo lungo le linee divisorie delle due culture, l’umanesimo e le scienze, della quale discuterò a fondo nel quarto capitolo. Per adesso vorrei sottolineare che è una comune convinzione delle diverse teorie postumane il fatto che la scienza attuale e le biotecnologie incidono sulla stessa materia e sulla struttura del vivente e che hanno modificato drasticamente il nostro concetto di cosa oggi costituisce il contesto base di riferimento dell’umano. L’intervento tecnologico sulla materia vivente genera un’uniformità negativa e una mutua dipendenza tra gli umani e le altre specie. Il Progetto genoma umano, ad esempio, unifica tutte le specie umane sulla base di una buona padronanza teorica della nostra struttura genetica. Questo punto di consenso, tuttavia, è l’origine di divergenti traiettorie di ricerca. Le scienze umane continuano a 45

porre la questione delle conseguenze epistemologiche e politiche della condizione postumana per la nostra comprensione del soggetto umano. Esse provano inoltre profonda ansia per lo statuto morale dell’umano, ed esprimono il desiderio politico di resistere agli abusi delle nuove appropriazioni commerciali del sapere tecno-genetico orientate al profitto. I contemporanei science and technologies studies, dall’altro lato, assumono priorità differenti. Essi hanno sviluppato una forma analitica di teoria postumana. Ad esempio, Franklin, Lury e Stacey, lavorando all’interno di un quadro socio-culturale di riferimento, indicano il mondo attuale tecnologicamente mediato con il termine panumanità (2000, 26). Ciò denota un senso globale di interconnessione tra tutti gli umani, ma anche tra gli umani e l’ambiente non umano, inclusi ambiente urbano e socio-politico, che disegnano una rete di intricate interdipendenze. Questa nuova panumanità è paradossale sotto due aspetti: in primo luogo, perché una gran quantità delle sue interconnessioni sono negative e si fondano su un senso comune di vulnerabilità e di paura della catastrofe imminente, in secondo luogo perché questa nuova prossimità globale non sempre genera tolleranza e convivenza pacifica. Al contrario, le forme di rifiuto xenfobico dell’alterità e la crescente violenza armata sono peculiarità salienti dei nostri tempi, come mostrerò nel terzo capitolo. Un altro esempio rilevante dello stesso pensiero analitico postumano, all’interno dell’ambito disciplinare dei science studies, è l’opera del sociologo Nicholas Rose (2008). Ha trattato eloquentemente delle nuove forme di biosocietà e biocittadinanza che stanno emergendo a partire dal diffuso riconoscimento della natura biopolitica della soggettività contemporanea. Basandosi sull’intuizione foucaultiana di come il governo biopolitico della vita definisca le economie capitaliste avanzate del presente, Rose ha sviluppato un’analisi efficace ed empiricamente fondata dei dilemmi della condizione postumana. Questa struttura analitica postumana sostiene la causa del filone foucaltiano della normatività neokantiana. Io trovo questa posizione abbastanza utile, anche perché difende una visione del soggetto come processo relazionale, in riferimento all’ultima fase del pensiero di Foucault (Foucault 1978, 1984, 1985). Come spiegherò più in dettaglio nel prossimo capitolo, tuttavia, il ritorno alla nozione kantiana di responsabilità morale immette di nuovo l’individuo al centro del dibattito. Ciò non è compatibile con l’ontologia processuale di Foucault, produce con46

traddizioni teoretiche e pratiche e smentisce lo scopo prefissato di elaborare un approccio postumano. Un altro caso significativo di postumanesimo analitico è quello difeso da Peter Paul Verbeek (2011). Partendo dal riconoscimento dell’intimo e produttivo collegamento tra i soggetti umani e gli artefatti tecnologici, e della conseguente impossibilità teoretica di tenerli separati, Verbeek accenna alla necessità di una svolta postantropologica che connetta l’umano al non umano, ma si mostra al contempo molto attento a non oltrepassare certi limiti. La sua forma analitica di postumanesimo è subito tenuta in scacco da un approccio alla stessa tecnologia profondamente umanista e pertanto normativo. La tesi principale di Verbeek sostiene che le «tecnologie contribuiscono attivamente al modo in cui gli umani sviluppano un’etica» (2011, 5); una sorta di etica umanista rivisitata e aggiornata che si sovrappone alle tecnologie postumaniste. Al fine di difendere il principio umanista al centro delle tecnologie contemporanee, Verbeek enfatizza la natura morale dei mezzi tecnologici come agenti che possono guidare i processi decisionali umani su questioni normative. Egli introduce inoltre forme multiple di intenzionalità macchinica, tutte orientate verso forme non umane di coscienza morale. Soltanto prendendo in seria considerazione la moralità degli oggetti, sostiene Verbeek, noi possiamo sperare di integrare le nostre tecnologie in una più ampia comunità sociale e far approdare il filone postumano dell’umanesimo al XXI secolo. Ciò si traduce in uno spostamento della collocazione dell’intenzionalità morale tradizionale dalla coscienza autonoma trascendentale agli stessi artefatti tecnologici. Il postumanesimo analitico degli science and technologies studies è una delle componenti più importanti dello scenario postumano contemporaneo. Nel senso delle teorie critiche del soggetto, che sono il fulcro della mia attenzione, tuttavia, essa si trova notevolmente fuori traccia, perché ripropone segmenti selezionati di valori umanisti senza trattare le contraddizioni prodotte da un tale esercizio di innesti teorici. L’orgoglio per i successi tecnologici e per la ricchezza che li accompagna non dovrebbe impederci di guardare alle enormi contraddizioni e alle forme di ingiustizia sociale e morale causate dalle stesse tecnologie avanzate. Non prestare attenzione a ciò, in nome della neutralità scientifica e di un senso del legame panumano frettolosamente rinvigorito dalla globalizzazione, è semplicemente un modo per evitare la questione. 47

Ai miei occhi quello che è sorprendente riguardo all’approccio dei science and technologies studies, nonostante esso si ancori teoreticamente alla filosofia morale e alla teoria socio-culturale, è l’alto livello di neutralità politica espresso circa la condizione postumana. Sia Rose che Franklin e le altre, ad esempio, affermano chiaramente che il fulcro delle loro ricerche è analitico e che mira a raggiungere una migliore e più accurata, in qualche modo più interna, comprensione etnografica di come queste nuove tecnologie funzionano realamente. I science and technologies studies tendono a non curarsi delle conseguenze delle loro posizioni circa la rivisitata concezione di soggetto. La soggettività rimane al di fuori del quadro, e con essa rimane fuori una comprovata analisi politica della condizione postumana. Dal mio punto di vista concentrarsi sulla soggettività è necessario perché questa nozione ci permette di tenere insieme problematiche che al momento sono sparpagliate in una quantità di ambiti diversi. Ad esempio, le questioni circa le norme e i valori, le forme dei legami comunitari e delle appartenenze sociali, così come quelle relative alla governance politica presuppongono e richiedono la nozione di soggetto. Il pensiero ciritico postumano desidera riassemblare una comunità discorsiva oltre i filoni attuali, divergenti e frammentati, del postumanesimo. Non posso fare a meno di notare, inoltre, una alquanto bizzarra e molto problematica divisione del lavoro sulla questione della soggettività tra i science and technologies studies da un lato e l’analisi politica del capitalismo avanzato dall’altro. Per esempio, Hardt e Negri (2002, 2004) o la scuola italiana di Lazzarato (2004) o Virno (2002) tentano di evitare le problematiche connesse a scienza e tecnologia e non le trattano con la stessa profondità e accuratezza che riservano all’analisi della soggettività. Io credo che dovremmo rivedere questa segregazione dei campi discorsivi e impegnarci a favore di una reintegrata teoria postumana che comprenda sia la complessità scientifica e tecnologica e le sue conseguenze per la soggettività politica, sia l’economia politica e le forme di governance. Svilupperò questo progetto in modo graduale nei capitoli che seguono. Vi è un altro problema fondamentale a proposito dell’umanesimo residuo della posizione analiticamente postumana e dei suoi tentativi di moralizzare la tecnologia, marginalizzando gli esperimenti collaterali con nuove forme di soggettività, esso consiste in un’espressione di fiducia eccessiva nell’intenzionalità morale 48

della tecnologia in sé. Più nello specifico questa posizione nega il presente stato di autonomia raggiunto dalle macchine. La complessità delle nostre tecnologie intelligenti si trova al centro del cambiamento postantropologico, che sarà argomento del prossimo capitolo. Per adesso vorrei considerare solo un aspetto della nostra intelligenza tecnologica. Un recente numero del settimanale «The Economist» (2 giugno 2012) su «Morali e macchine» solleva alcune domande pertinenti circa il grado di autonomia raggiunto dai robot e si appella alla società per elaborare nuove regole per governarli. L’analisi è significativa: in opposizione all’idea modernista del robot come servo dell’uomo, come esemplificato dalle «tre leggi della robotica» di Isaac Asimov 8 formulate nel 1942, oggi ci confrontiamo con un’altra situazione, in cui l’intervento umano è piuttosto marginale se non del tutto irrilevante. «The Economist» scrive: Non appena i robot sono diventati autonomi, la nozione di macchine guidate da computer capaci di affrontare decisioni etiche è fuoriscita dal dominio della fantascienza per entrare nel mondo reale (2012: 11).

Molti di questi robot sono stati costruiti per fini militari, e ritornerò sulla questione nel terzo capitolo, ma molti altri sono usati per rispettabili fini civili. Tutti condividono una carattersitica cruciale: hanno reso tecnologicamente fattibile il superamento dei processi decisionali umani sia a livello operazionale che morale. Secondo questo resoconto, gli umani agiranno sempre meno «nel circuito» e sempre più «sul circuito», monitorando robot da guerra e da lavoro piuttosto che controllandoli alacremente. Rimangono da sciogliere solo i nodi etici e legali per garantire responsabilità ai processi decisionali autonomi delle macchine, dal momento che esse dispongono già di capacità cognitive. Via via che esse diventano più intelligenti e diffuse, le macchine autonome sono tenute a prendere decisioni sulla vita e la 8. Le tre leggi sono: (1) Un robot non può recar danno a un essere umano, né permettere che, a causa della propria negligenza, un essere umano patisca danno. (2) Un robot deve sempre obbedire agli ordini degli esseri umani, a meno che constrastino con la Prima Legge. (3) Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questo non contrasti con la Prima o la Seconda Legge. Queste leggi furono approntate da Isaac Asimov per un breve racconto del 1942 e poi riproposte per il best-seller mondiale: I Robot, del 1950. Sono divenute nozioni fondamentali dei cyborg-studies. Più tardi Asimov vi aggiunse una quarta legge, presupposto di tutte le altre: (0) Un robot non può recar danno all’umanità, o a causa della propria negligenza, permettere che l’umanità patisca danno.

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morte e pertanto ad assumere comportamenti di responsabilità attiva. Nonostante questo alto grado di autonomia, tuttavia, i risultati nel processo decisionale morale rappresentano, al massimo, una questione aperta. Contro le pretese di una intenzionalità morale incorporata alla tecnologia, io affermerei piuttosto che la tecnologia è normativamente neutrale. Si prenda una qualunque domanda scottante, come: può un veicolo volante senza equipaggio, come un drone, dar fuoco alla casa dove si sa nascondersi il bersaglio, se essa è anche rifugio dei civili? Dovrebbero i robot che riparano ai disastri dire la verità alla gente rispetto alla loro condizione, diffondendo così panico e dolore? Questi interrogativi ci conducono all’ambito dell’«etica delle macchine», che mira a rendere le macchine adatte a compiere tali scelte in modo appropriato, in altre parole a distinguere il bene dal male. Ma chi è che decide davvero? Secondo «The Economist» (2012) un nuovo approccio etico necessita di essere elaborato tramite esperimenti attivi. Essi dovrebbero interessare soprattutto tre aree: in primo luogo il ruolo del diritto, nel decidere se sarà l’ingegnere, il programmatore, l’industriale o l’operatore il colpevole degli errori della macchina. Occorre un dettagliato registro di sistema per assegnare la responsabilità, che possa spiegare il ragionamento che sottende il processo decisionale. Questo ha implicazioni per la progettazione, con agevolazioni per i sistemi che obbediscono a regole predeterminate piuttosto che per i sistemi di decision making. In secondo luogo, quando i sistemi etici sono integrati nei robot, il giudizio che esprimono dovrà sembrare buono per la maggioranza. Le tecniche della filosofia sperimentale, che studia il modo in cui le persone rispondono ai dilemmi etici, dovrebbero essere d’aiuto. In terzo luogo, una nuova collaborazione interdisciplinare è richiesta tra ingegneri, eticisti, giuristi e politici, i quali elaborerebbero regole molto divergenti se lasciati al loro proprio arbitrio. Tutti avrebbero da guadagnare da un lavoro di tipo cooperativo. L’elemento postumano della situazione descritta dall’«Economist» è rappresentato dal fatto che in essa non si assume l’umano, il sé individualizzato, come fattore decisivo del soggetto principale. In essa piuttosto si immagina quella che io definerei un’interconnessione trasversale tra attori umani e non umani, in modo non dissimile dall’Actor Network Theory di Latour (Law e Hassard 1999). È significativo che un giornale cauto e conservatore come «The Economist», confrontandosi con la sfida rappresentata dalle 50

tecnologie di potere postumane che abbiamo sviluppato, non faccia appello a un ritorno dei valori umanisti, ma alla sperimentazione pragmatica. Ciò sollecita tre miei appunti: in primo luogo, che non potrei essere più d’accordo sul fatto che questo non è il momento dei lamenti nostalgici per il trascorso umanista, bensì degli esperimenti lungimiranti per nuove forme di soggettività. In secondo luogo vorrei ribadire la struttura normativamente neutrale delle attuali tecnologie: esse non sono dotate di una responsabilità intrinsecamente umanista. In terzo luogo: noto che i difensori del capitalismo avanzato, nel cogliere il potenziale creativo del postumano, sembrano più veloci di molti oppositori progressisti e neoumanisti, animati dalle migliori intenzioni. Nel prossimo capitolo ritornerò sulla tendenza opportunista del postumano sviluppata nella contemporanea economia di mercato. Postumanesimo critico Il terzo filone del pensiero postumanista, la mia stessa variante, non presenta alcuna ambivalenza concettuale o normativa verso il postumanesimo. Io vorrei spingermi oltre il postumanesimo analitico e sviluppare prospettive affermative a partire dal soggetto postumano. La mia ispirazione ad addentrarmi nel postumanesimo critico proviene certamente dalle mie radici antiumaniste. Più nello specifico, la corrente di pensiero che si è spinta più in là nell’apertura del potenziale produttivo della condizione postumana può essere genealogicamente rinvenuta nel poststrutturalismo, nell’antiuniversalismo femminista e nella fenomenologia anti-coloniale di Fanon (1996) e del suo maestro Aimé Césaire (1995). Essi sono accomunati da un solido impegno per risolvere le conseguenze del postumanesimo sulla nostra comprensione del soggetto umano e dell’umanità nella sua interezza. L’opera dei teorici della razza e di quelli postcoloniali presenta un postumanesimo cosmopolita situato che è sostenuto sia dalla tradizione europea, così come da morali e culture non occidentali. Vi sono svariati esempi che meriterebbero maggiore profondità d’analisi di quella che posso offrire qui; per adesso vorrei scegliere il più pregnante tra essi9. 9. Esempi significativi sono: l’etica diasporica di Avtar Brah (1996), gli echi del neoumanesimo antiglobalizzazione di Vandana Shiva (1999). L’umanesimo africano, detto anche Ubuntu, sta ricevendo crescente attenzione da Patricia Collins (1991) a Drucilla Cornell (2002). Con un accento più nomade, la politica della relazione di Edward

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Edward Said (1999) è stato tra i primi ad allertare i teorici critici in Occidente rispetto alla necessità di elaborare un resoconto motivato e non superficiale dell’Illuminismo fondato sull’Umanesimo laico, che prenda in considerazione le esperienze coloniali, la sua violenza e la sua ingiustizia strutturale, e al contempo il vissuto postcoloniale. La teoria postcoloniale ha sviluppato questa visione nel concetto che gli ideali della ragione, della tolleranza laica, dell’uguaglianza davanti alla legge e alla norma democratica, non hanno bisogno di essere, e quindi storicamente non lo sono stati, esclusivo appannaggio delle pratiche europee di dominazione violenta, di esclusione e di uso sistematico e strumentale del terrore. La comprensione del fatto che ragione e barbarie non si escludono a vicenda, così come Illuminismo e orrore, non deve comportare relativismo culturale o nichilismo morale, quanto piuttosto una critica radicale alla nozione di umanesimo e dei suoi legami con il criticismo democratico e la laicità. Edward Said difende l’idea che sia possibile criticare l’umanesimo in nome dell’umanesimo, e che, resi consapevoli dei suoi abusi dall’esperienza dell’eurocentrismo e dell’imperialismo, si possa dar forma a un diverso approccio umanista, cosmopolita e radicato nel testo e nel linguaggio, capace di far proprie le grandi lezioni del passato [...] senza per questo perdere di vista le voci emergenti e le correnti più attuali (2007, 40).

Lottare per questi spazi laici è una priorità per la ricerca postumana di quella che in alcune zone è oggi nota come etica globale per una politica e un’economia globali (Kung 1998). Anche il cosmopolitismo planetario di Paul Gilroy (2000) propone una forma produttiva contemporanea di postumanesimo critico. Gilroy ritiene l’Europa e gli europei responsabili del fallimento collettivo dell’applicazione degli ideali umanisti dell’Illuminismo. Come le femministe, i teorici della razza sono scettici rispetto alla decostruzione della posizione del soggetto di cui non hanno mai potuto storicamente godere. Gilroy considera il colonialismo e il fascismo traditori dell’ideale europeo dell’Illuminisimo, che è pronto a difendere, pur sempre ritenendo gli europei re-

Glissant (1997) inscrive nel cuore della condizione postumana l’ibridismo multilinguista. Il «secolarismo subalterno» di Homi Bahaba (1994) si articola intorno all’enorme eredità di Edward Said.

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sponsabili dei propri fallimenti etici e politici. Il razzismo divide un’umanità uguale e disimpegna i bianchi da ogni sensibilità etica, riducendoli al mero stato della moralità infraumana. Esso riduce inoltre coloro che non sono bianchi a uno stato ontologico subumano che li espone ad atroci violenze. Assumendo una posizione decisa contro gli appelli fondamentalisti alle differenze etniche avanzati da un’orda di nazionalisti bianchi, neri, serbi, ruandesi, rexani ecc., Gilroy denuncia ciò che Deleuze chiama micro-fascismi come un’epidemia dell’era globalizzata (Deleuze e Guattari, 2006). Egli ascrive il luogo della trasformazione etica alla critica di ogni categoria nazionalista, non alla sua riproposizione in un’ennesima variante. Egli oppone la mobilità diasporica e le interconnessioni transculturali alle forze del nazionalismo. La sua è una teoria della mescolanza, dell’ibridismo, e del cosmopolitismo decisamente antirazzista. Contro il potere permanente dello Stato nazione, Gilroy rivaluta le politiche affermative dei movimenti trasversali, come quelli contro la schiavitù, il femminismo, quelli di Medici senza Frontiere e simili. Ecologia e ambientalismo rappresentano potenti e al contempo differenti risorse di ispirazione per le attuali riconfigurazioni del postumanesimo critico. Essi si basano su un profondo sentimento di interconnessione tra il sé e gli altri, inclusi gli altri non umani e gli altri della «terra». Questa pratica di relazione con gli altri è nutrita e potenziata dal rifiuto dell’individualismo autocentrato. Essa apporta un nuovo modo di combinare gli interessi personali con il benessere di un’intera comunità, a partire dalle interconnessioni ambientali. La teoria ambientalista sottolinea il legame tra l’enfasi umanista per l’Uomo come misura di tutte le cose e l’assoggettamento e lo sfruttamento della natura e condanna gli abusi della scienza e della tecnologia. Entrambe recano con sé violenza epistemica e fisica sugli altri strutturali e sono riconducibili all’ideale della ragione dell’Illuminismo europeo. La visione del mondo in cui potere e controllo scientifico razionale coincidono milita inoltre contro il rispetto della diversità della materia vivente e delle culture (Mies e Shiva 1993). L’alternativa ambientalista consiste in un nuovo approccio olistico che combina cosmologia, antropologia e spiritualità femminista postlaica al fine di ribadire la necessità di forme di rispetto benevolo nei confronti delle differenze, sia di fattezza umana che non umana. In modo significativo, Mies e Shiva sottolineano l’importanza di una spiritualità a favore della 53

sostenibilità della vita in questa battaglia per nuove e concrete forme di universalità: una reverenza nei confronti della sacralità della vita, un rispetto profondamente radicato verso tutto il vivente. Questa attitudine è contraria all’umanesimo occidentale e all’investimento dell’Occidente nella razionalità e nel laicismo come pre-condizioni per lo sviluppo attraverso la scienza e la tecnologia. In una prospettiva olistica, esse invocano un re-incantamento del mondo (1993, 18), o una guarigione della terra e di tutto ciò che è stato bistrattato crudelmente. Invece dell’enfasi per l’emancipazione dall’ambito della necessità naturale, Shiva perora la causa di un’emancipazione che abbia luogo proprio in quest’ambito e in armonia con esso. Da questo cambio di prospettiva deriva la critica all’ideale di eguaglianza come emulazione dei modi di comportamento maschili e anche il rifiuto del modello di sviluppo articolato intorno a questo ideale e che risulta compatibile con le forme globali di supremazia del mercato. Nonostante le postumaniste ambientaliste abbiano molto cura nel differenziarsi da quanto sia anche solo lontanamente connesso al postmodernismo, al postcolonialismo o al postfemminismo, paradossalmente ne condividono le premesse epistemiche della critica postumana. Ad esempio, concordano con la generazione poststrutturalista a proposito della critica alla omogenizzazione delle culture a causa degli effetti del capitalismo avanzato globale. Esse propongono in alternativa un tipo di ambientalismo deciso, basato su un neoumanesimo non occidentale. Quello che importa per Mies e Shiva è la riproposizione della necessità di nuovi valori universali che vadano in direzione dell’interconnessione tra gli umani su scala globale. In questo modo i bisogni universali sono equiparati ai diritti universali e riguardano tanto le necessità basilari e concrete, come il cibo, la casa, la salute, la sicurezza, quanto le più elevate necessità culturali, come l’educazione, l’identità, la dignità, il sapere, gli affetti, la passione e la cura. Tutto ciò costituisce le fondamenta materiali della rivendicazione situata di nuovi valori etici. Un nuovo potumanesimo ambientalista solleva così questioni sul potere e sui diritti nell’età della globalizzazione e fa appello all’autoriflessività del soggetto che occupa l’ex centro umanista, ma anche di coloro che dimorano in uno dei disseminati centri di potere della postmodernità avanzata (Grewal e Kaplan, 1994). Nel mio lavoro, definisco il soggetto critico postumano attraverso un’eco-filosofia delle appartenenze multiple, come soggetto 54

relazionale determinato nella e dalla molteplicità, che vuol dire un soggetto in grado di operare sulle differenze ma anche internamente differenziato, eppure ancora radicato e responsabile. La soggettività postumana esprime quindi una forma parziale di responsabilità incarnata e integrata, basata su un forte sentimento della collettività, articolata grazie alla relazione e alla comunità. La mia posizione è a favore della complessità e promuove la soggettività radicale postumana, fondandosi sull’idea di divenire, come vedremo nel prossimo capitolo. Di conseguenza l’attenzione si sposta dalla soggettività unitaria a quella nomade, in controtendenza rispetto all’umanesimo e alle sue attuali varianti. Questo punto di vista rifiuta l’individualismo, distanziandosi ugualmente dal disfattismo relativista e nichilista. Esso promuove un legame etico di una forma del tutto differente da quella del soggetto individuale e dei suoi interessi, come definito dalle categorie canoniche dell’umanesimo classico. L’etica postumana per un soggetto non unitario propone un profondo sentimento di interconnessione tra il sé e gli altri, inclusi i non umani e gli «altri della terra», attraverso la rimozione dell’ostacolo rappresentato dall’individualismo autocentrato. Come abbiamo visto in precedenza, il capitalismo biogentico attuale produce una sorta di mutua interconnessione in senso reattivo di tutti gli organismi viventi, compresi gli umani. Questa specie di unità tende a essere di tipo negativo, una forma di comune vulnerabilità, vale a dire un sentimento globale di interconnessione tra umani e ambiente non umano al cospetto di pericoli comuni. La ricomposizione postumana dell’interazione umana che avanzo non coincide con il vincolo reattivo della vulnerabilità, essa è piuttosto un legame affermativo che colloca il soggetto nel flusso delle relazioni con i molteplici altri. Come vedremo nel prossimo capitolo, sono convinta che vi sia un nesso necessario tra postumanesimo critico e presa di distanza dall’antropocentrismo. Mi riferisco a questo allontanamento a proposito dell’estensione del concetto di vita al non umano o alla zoe. Nel postumanesimo radicale ciò si traduce in una posizione che traspone l’ibridismo, il nomadismo, le diaspore e i processi di creolizzazione in strumenti per la rivendicazione del ri-posizionamento della soggettività, in connessioni e comunità di soggetti umani e non. Questo è il prossimo passaggio argomentativo che delineerò nel capitolo secondo.

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Conclusioni Questo capitolo ha tracciato il mio itinerario personale tra le molteplici possibili genealogie del postumano, compreso l’avvento delle forme alternative di postumanesimo critico. Nuove forme motivate dalla scomparsa dell’Uomo, misura precedente di tutte le cose. Eurocentrismo, maschilismo e antropocentrismo sono spiegati di conseguenza come fenomeni complessi e interrelati. Questo già basterebbe a descrivere il carattere altamente complesso del concetto di umanesimo stesso. Vi sono infatti molti tipi di umanesimo e il mio itinerario personale, dal punto di vista generazionale e geopolitico, evidenzia soprattutto una specifica linea genealogica: Gli umanesimi romantico e positivista grazie ai quali le borghesie europee hanno esercitato le loro egemonie sulla modernità, l’umanesimo rivoluzionario che ha scosso il mondo e l’umanesimo liberale che ha cercato di domarlo, l’umanesimo dei nazisti e gli umanesimi delle loro vittime e dei loro oppositori, l’umanesimo antiumanista di Heidegger e l’antiumanesimo umanista di Foucault e Althusser, l’umanesimo laico di Huxley e Dawkins o il postumanesimo di Gibson e Haraway (Davies 1997, 141).

Il fatto che questi diversi tipi di umanesimo non possano essere ridotti a una sola linea narrativa è alla radice del problema e dei paradossi implicati nei tentativi di superare l’umanesimo stesso. Quello che mi pare assolutamente evidente è la necessità storica, etica e politica di superare tale concezione, alla luce della sua storia di promesse non mantenute e di brutalità senza paragoni. Una misura metodologica e tattica fondamentale è la pratica della politica della collocazione, o delle pratiche di sapere situate e responsabili. Vorrei concludere con tre osservazioni di fondo: in primo luogo, che necessitiamo di una nuova teoria del soggetto che tenga conto della svolta postumana e che prenda consapevolezza del declino dell’umanesimo. In secondo luogo, come mostrato dalla proliferazione di posizioni postumane sia dentro che fuori dalla tradizione filosofica occidentale, la fine dell’umanesimo classico non è una crisi, bensì un’apertura che comporta conseguenze positive. In terzo luogo, il capitalismo avanzato è stato veloce nel rilevamento e nello sfruttamento delle opportunità aperte dal declino dell’umanesimo classico e dai processi di ibridazione culturale indotti dalla globalizzazione. Analizzerò quest’ultimo punto nel 56

prossimo capitolo, perciò vorrei brevemente dire qualcosa sulle altre due osservazioni. Per prima cosa, noi abbiamo bisogno di assumere le conseguenze della condizione postumana nel senso del tramonto dell’umanesimo al fine di sviluppare salde fondamenta per la soggettività etica e politica. L’era postumana è carica di contraddizioni, come vedremo nei prossimi due capitoli. Queste contraddizioni richiedono una valutazione etica, un intervento politico e un’azione normativa. Ne segue quindi che il soggetto postumano non è postmoderno, vale a dire non è antifondazionalista. E neppure è decostruttivista, poiché non è strutturato linguisticamente. La soggettività postumana che difendo è piuttosto materialista e vitalista, incarnata e integrata, saldamente collocata in luoghi precisi, secondo la politica femminista della collocazione, a cui ho accennato nel corso di questo capitolo. Perché sottolineo tanto la questione del soggetto? Poiché una teoria della soggettività che sia al contempo materialista e relazionale, natural-culturale e capace di autorganizzazione è cruciale al fine di elaborare strumenti critici adatti alla complessità e alle contraddizioni dei nostri tempi. Una forma meramente analitica di pensiero postumano non si spinge abbastanza lontano. Soprattutto, un serio interesse per il soggetto ci permette di prendere in considerazione elementi quali la creatività e l’immaginazione, il desiderio, le speranze e le aspirazioni (Moore 2011), senza i quali semplicemente non potremmo comprendere la cultura globale contemporanea e le sue connotazioni postumane. Ci occorre una visione del soggetto che sia «degna del presente». Questo ci conduce alla mia seconda e conclusiva osservazione: il problema dell’eurocentrismo nel senso di «nazionalismo metodologico» (Beck 2007) e il suo perdurante vincolo all’umanesimo. Gli attuali soggetti europei del sapere devono soddisfare l’obbligo etico della responsabilità verso la loro storia trascorsa e verso la lunga ombra che essa getta sul loro presente politico10. La nuova missione che l’Europa deve intraprendere implica la critica del gretto interesse personale, dell’intolleranza e del rifiuto xenofobico degli altri. Emblematico della chiusura mentale degli europei è il destino dei migranti, dei rifugiati e dei richiedenti asilo che subiscono il peso del razzismo nell’Europa contemporanea.

10. Come Morin (1988), Passerini (1998), Balibar (2004) hanno inoltre mostrato.

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Occorre farsi promotrici di un nuovo ordine del discorso, che non sia più quello dell’universale eurocentrico ed europeo, ovvero del soggetto razionale, bensì della trasformazione radicale di esso, in rottura con le tendenze imperialiste, fasciste e antidemocratiche europee. Come ho già sostenuto in questo capitolo, dalla seconda metà del XX secolo, la crisi dell’umanesimo filosofico – noto anche come morte dell’Uomo – ha al contempo riflesso e amplificato ampie preoccupazioni nei confronti del declassamento dell’Europa e il tramonto del suo statuto geopolitico di stampo imperiale e mondiale. La teoria e i fenomeni storici reali lavorano di concerto quando si arriva alle problematiche dell’Umanesimo europeo. A causa della sua risonanza nelle due dimensioni, la teoria critica può apportare notevoli contributi al dibattito sulla questione europea. Credo che la condizione postumana possa facilitare il compito di ridefinire un nuovo ruolo per l’Europa in un periodo in cui il capitalismo globale attraversa una fase di trionfo ma anche evidentemente di difetto in termini di sostenibilità e giustizia sociale (Holland 2011). Questa convinzione piena di speranza si fonda su un approccio postnazionalista (Habermas 2002, Braidotti 2008a), che esprime il declino dell’eurocentrismo come evento storico e invoca un cambiamento qualitativo di prospettiva nel nostro senso collettivo di identità. Seyla Benhabib, nella sua brillante opera sul cosmopolitismo alternativo (2007), indaga la questione dell’Europa come sito di metamorfosi. La sua enfasi per una pratica cosmopolita pluralista e il suo impegno per i diritti dei rifugiati e degli apolidi, come dei migranti, innova la concezione universalista classica di cosmopolitismo e propone pratiche situate e legate a contesti specifici. Tutto questo è in armonia con la mia etica postumana situata. Fine precipuo della teoria critica postumana è quindi l’elaborazione accurata di precise cartografie per le differenti posizioni dei soggetti come trampolino di lancio verso la ricomposizione postumana di un legame cosmopolita panumano. Più nello specifico, mi piacerebbe spingermi oltre l’aspirazione socialdemocratica di Habermas e promuovere un progetto postumano di «divenire molecolare» o di «divenire nomade» dell’Europa (Deleuze e Guattari 2006; Braidotti 2008). Questa è una strada che permette di evitare i trabocchetti dialettici, ad esempio quello che oppone un’Europa culturalmente e globalmente differenziata a un’Europa definita in modo gretto e xenofobico dall’identità. Il divenire nomade dell’Europa implica la resistenza al 58

nazionalismo, alla xenofobia e al razzismo, cattive abitudini della vecchia Europa imperialista. Pertanto la prospettiva situata e responsabile deve rimpiazzare lo spropositato e aggressivo universalismo del passato. Questa prospettiva sposa un progetto eticopolitico, prendendo una posizione decisa anche contro la sindrome della «Fortezza Europa» e riscoprendo la tolleranza come strumento di giustizia sociale (Brown 2006). La svolta postumana può sostenere e intensificare questo progetto nella misura in cui essa sostituisce l’esclusiva concentrazione sull’idea di Europa come culla dell’umanesimo, guidata da una sorta di universalismo che la dota di un senso di finalismo storico unico. Il processo del divenire molecolare, o del divenire nomade, dell’Europa comprende il rifiuto del ruolo autoassegnatosi di supposto centro del mondo. Se davvero una mutazione socio-culturale sta avvenendo in direzione di una società multietnica e multimediale, allora la trasformazione non può riguardare solo il polo degli «altri». Essa deve egualmente smuovere la posizione e le prerogative del «medesimo», del centro precedente. Il progetto di sviluppare un nuovo tipo di identità nomade postnazionalista europea è sicuramente impegnativo in quanto comporta una disidentificazione dalle identità prestabilite, fondate sulla nazione. Questo progetto è soprattutto politico, ma ha anche un forte nucleo affettivo fatto di convinzioni, visioni e desiderio attivo di cambiamento. Noi possiamo collettivamente potenziare questi divenire alternativi. La mia sensibilità postumana potrà apparire visionaria e persino impaziente, ma è davvero propositiva, o per usare il mio termine preferito, essa è affermativa. Una politica affermativa combina critica e creatività alla ricerca di immagini e progetti alternativi. Per quanto mi riguarda, la sfida della condizione postumana consiste nell’afferrare le opportunità offerte dal tramonto della posizione di soggetto unitario sostenuta dall’umanesimo, che si è divisa in una serie di direzioni diverse. Ad esempio: il miscuglio culturale già rintracciabile negli scenari postindustriali, la frizzante ricomposizione dei generi e delle sessualità che avviene nonostante l’immagine di apparente calma offerta dalle pari opportunità, lontane dall’essere sintomi della crisi, sono eventi produttivi. Essi rappresentano i nuovi punti di partenza che mettono in gioco ancora non sfruttate possibilità di legami, di costituzioni di comunità, di potenziamento del soggetto. Allo stesso modo l’attuale rivoluzione scientifica, guidata dalla biogenetica e dalle 59

altre scienze ambientali e neuronali, crea potenti alternative per inventare pratiche e definizioni della soggettività. Invece di ricadere nelle abitudini di pensiero sedimentate che il passato umanista ha istituzionalizzato, la condizione postumana ci esorta a cimentarci in un salto verso la complessità e i paradossi dei nostri giorni. Per adempiere a questo compito, una nuova creatività intellettuale ci è necessaria.

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Capitolo 2

Postantropocentrismo La vita oltre le specie

Ero già una fervente ammiratrice della prosa di George Eliot ancor prima di apprendere che ella era anche la traduttrice inglese di Spinoza, il mio filosofo preferito. Mary Evans fu una donna dai molti talenti e non è detto che tutti coloro che si sono almeno una volta immedesimati con Dorothea in Middelemarch (2012) o Maggie in Il mulino sulla floss (1993) siano effettivamente consapevoli di essersi catapultati – in modo surrettizio e fatale – nell’universo monista delle relazioni affettive reticolari, quelle relazioni che semplicemente fanno girare il mondo. George Eliot è l’autrice della mia frase preferita in lingua inglese: se vedessimo e sentissimo in modo intenso tutta la normale vita umana, sarebbe come udire l’erba crescere e il pulsare del cuore dello scoiattolo, e moriremmo per il frastuono che è al di là del silenzio. Così come stanno le cose, i più svegli di noi si muovono ben imbottiti di stupidità (2012, 207).

Il frastuono che si ode al di sotto della patina urbana, civilizzata che permette identità certe e efficiente interazione sociale è l’indicatore spinozista della pura energia cosmica che rimarca i processi di civilizzazione, le società e i loro soggetti. Il vitalismo materialista è un concetto che ci aiuta a dare senso alla dimensione esterna che di fatto coinvolge l’interno del soggetto come segno interiorizzato delle vibrazioni cosmiche (Deleuze 2004, Deleuze e Guattari 1996). Esso costituisce inoltre il nocciolo della sensibilità postumana che mira al superamento dell’umanesimo. Vorrei spiegare al meglio alcune di queste idee alquanto dense di significato. L’«universo monista» si riferisce al concetto centrale di Spinoza, secondo cui la materia, il mondo e gli umani non sono

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entità strutturatesi dialetticamente secondo i principi dell’opposizione interna ed esterna. Bersaglio ovvio della critica è qui la nota distinzione di Cartesio tra mente e corpo, eppure per Spinoza questo concetto si estende anche oltre: la materia è una, guidata dal desiderio di autoespressione e ontologicamente libera. L’assenza di ogni riferimento al momento negativo e alle violente opposizioni dialettiche ha portato a una forte critica al pensiero di Spinoza da parte di Hegel e del marxismo hegeliano. Il punto di vista monista di Spinoza è stato interpretato come politicamente inefficace e sin troppo olisitico. Questa interpretazione resse fino al 1970, quando in Francia una nuova ondata di studiosi riabilitò il monismo spinozista proprio perché considerato un antidoto alle contraddizioni del marxismo, e perché metodo per chiarire la relazione che vi è tra Hegel e Marx11. L’idea fondamentale è il superamento delle opposizioni dialettiche, producendo varianti non dialettiche dello stesso materialismo (Braidotti 1994, Cleah 2008), come alterntiva al sistema hegeliano. L’eredità spinozista pertanto consiste in un concetto molto attivo di monismo, che permette ai filosofi francesi di definire la materia come vitale e capace di autorganizzazione, e portando così a quella sconcertante combinazione che è il «materialismo vitalista». Dal momento che quest’approccio rifiuta ogni sorta di trascendentalismo, è noto anche come «immanenza radicale». Il monismo si traduce nella ricollocazione della differenza al di fuori dello schema dialettico, come processo complesso di diversificazione dovuto sia alle forze interne che esterne e basato sulla centralità della relazione con i molteplici altri. Queste premesse moniste sono per me i mattoni con cui edificare la teoria postumana della soggettività che non si fonda sull’umanesimo classico e che si allontana con cautela dall’antropocentrismo. La classica enfasi sull’unità della materia, che è centrale in Spinoza, è rinforzata dalla attuale consapevolezza scientifica circa la struttura autonoma e intelligente di tutto il vivente. Questi concetti sono sostenuti dai nuovi sviluppi delle attuali bioscienze, delle scienze cognitive, neuronali e informatiche. I soggetti postumani sono tecnologicamente modificati a un livello senza precedenti. Ad esempio, un approccio neo-spinozista è sostenuto e rin-

11. Il gruppo di Althusser cominciò la discussione nel 1960, lo studio apripista di Deleuze su Spinoza risale al 1968 (in inglese al 1990); l’analisi di Hegel e Spinoza condotta da Machery fu pubblicata nel 1979 (in inglese nel 2011), l’opera di Negri sull’immaginazione in Spinoza risale al 1981 (in italiano al 1980, in inglese al 1991).

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vigorito oggi dalle nuove scoperte delle neuroscienze circa l’interrelazione tra mente e corpo (Damasio 2003). Dal mio punto di vista, vi è una connessione diretta tra monismo, unità di tutta la materia vivente e postantropocentrismo come contesto generale di riferimento per la soggettività contemporanea. Avvertimenti globali L’opera di George Eliot è una buona introduzione ad alcuni aspetti di questa visione del mondo materialista (o, come sosterrò più avanti in questo capitolo, per il «realismo della materia»). Il sostegno è benaccetto, dal momento che molte delle asserzioni e delle premesse dell’universo postantropocentrico sono abbastanza controintuitive, sebbene il termine sia oggi ampiamente diffuso. Nei dibattiti pubblici mainstream, ad esempio, il postumano è di solito caricato d’ansia per gli eccesi di intervento tecnologico e per la minaccia del cambiamento climatico, o circondato dall’euforia per il potenziale di miglioramento umano. Nella cultura accademica, d’altro canto, la critica all’antropocentrismo ha persino conseguenze più traumatiche di quelle della politica transformativa del postumanesimo che ho analizzato nel capitolo precedente. La svolta postantropocentrica, connessa ai concomitanti impatti della globalizzazione e delle forme di mediazione guidate dalla tecnologia colpisce l’umano al cuore e cambia i parametri con i quali si usava definire l’anthropos. In questo capitolo voglio sostenere che la questione del postumano in relazione al postantropocentrismo è di un ordine del tutto diverso da quello del postumanesimo. Per prima cosa, mentre il secondo ha mobilitato prima di tutto l’ambito disciplinare della filosofia, della storia, dei cultural studies e delle scienze umane classiche in generale, la prospettiva del postantropocentrismo considera anche i science and technology studies, i nuovi media e la cultura digitale, l’ambientalismo e le scienze della terra, la biogenetica, le neuroscienze e la robotica, le teorie evoluzioniste, la critica del diritto o critical legal theory, la primatologia, i diritti degli animali e la fantascienza. Questo alto livello di transdisciplinarietà, da solo, aggiunge un ulteriore strato di complessità alla questione. La domanda chiave per me è: quale concenzione della soggettività e dei processi di soggettivazione reca con sé l’approccio postantropocentrico? Cosa c’è oltre il soggetto antropocentrico? Come ciascuno reagisce a questo cambiamento di prospettiva 63

dipende in larga misura dalla propria relazione alla tecnologia. Da tecnofila, sono abbastanza ottimista. Sarò sempre, decisamente, dalla parte del potenziale liberatorio per non dire trasgressivo di queste tecnologie, contro coloro che tentano di ridurle a un profilo predeterminato e conservatore, o a un sistema orientato al profitto che favorisce e accresce l’individualismo. Io credo che uno dei più acuti paradossi dei nostri giorni consista proprio nella tensione tra l’urgenza di trovare nuovi modelli alternativi di responsabilità etica e politica per il nostro mondo tecnologicamente modificato e l’inerzia delle abitudini mentali consolidate. Donna Haraway lo afferma con il solito acume: le macchine sono così vive, mentre gli umani sono così inerti! (Haraway, 1995) Quasi a rispecchiare questo, i science and technology studies oggi sono un ambito fiorente nelle istituzioni accademiche, mentre le scienze umane attraversano una fase seriamente problematica. Potrebbe essere utile cominciare dallo spiegare alcuni aspetti del contesto globale in cui sta avvenendo il decentramento dell’antropocentrismo. Come ho dimostrato altrove il capitalismo avanzato è una forza centrifuga (Braidotti 2003, 2008a) che produce attivamente differenze a vantaggio della mercificazione. Esso è un moltiplicatore di differenze deterritorializzate, che vengono confezionate e commercializzate sotto l’eticchetta di «nuove identità negoziabili» e grazie all’infinita scelta di generi di consumo. Questa logica innesca una proliferazione e un vampiresco consumo di opzioni quantitative. Molti di esse riguardano gli altri dal punto di vista culturale, si pensi alla cucina fusion e alla world music. Jackie Stacey nella sua analisi sulla nuova indutria dell’alimentazione biologica (Franklin et al., 2000) sostiene che stiamo letterlamente mangiando l’economia globale. Paul Gilroy (2000) e Celia Lury (1998) ci ricordano inoltre che la indossiamo ogni giorno, la ascoltiamo e la guardiamo sui nostri schermi. La circolazione globale di beni, dati, capitali, bytes e bit di informazioni influenza quotidianamente l’interazione dei soggetti contemporanei. A ogni passaggio i consumatori si confronatano con molteplici scelte, ma a diversi livelli di libertà e scelta effettive. Prendiamo ad esempio le traformazione occorse nel compito una volta elementare di telefonare alla propria banca. Quello che abbiamo imparato ad aspettarci oggi è un sistema postumano di risposta automatica che fornisce un elenco di numeri i quali ci rimandano a una altra serie di messaggi preregistrati. Oppure accogliamo con favore la sorpresa di ascoltare una voce umana in 64

tempo reale, anche se sappiamo con esattezza che proviene da un call center lontano migliaia di chilometri, da uno dei centri emergenti dell’economia mondiale. Il risultato finale è che le telefonate sono più economiche che mai, ma che la loro durata è decisamente aumentata, poiché chi chiama deve attraversare svariati ostacoli. Di certo la comunicazione via internet sta sostituendo tutto ciò, ma il mio punto è che la forza centrifuga differenziale del nostro sistema economico è tale da imporci di correre più velocemente, lungo segreterie telefoniche e linee transcontinentali, per ritrovarci alla fine allo stesso posto. Il tratto più saliente dell’economia globale contemporanea è, quindi, la sua struttura tecno-scientifica. Esso si sviluppa a partire dalla convergenza tra diverse, e in passato differenziate, branche della tecnologia, soprattutto tra quelle che sono considerate i quattro cavalieri dell’apocalisse contemporanea: nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie dell’informazione e scienze cognitive. La struttura biogenetica del capitalismo contemporaneo è un aspetto rilevante del dibattito sul postumano. Questa struttura comprende il Progetto genoma umano, la ricerca sulle cellule staminali, l’intevento biotecnologico su animali, semi, cellule e piante. In sostanza, il capitalismo avanzato al contempo investe e trae profitto dal controllo scientifico ed economico sulla mercificazione di tutto il vivente. Questo contesto genera una forma paradossale e piuttosto opportunista di postantropocentrismo a vantaggio delle forze di mercato che impunemente privatizzano la vita stessa. La mercificazione della vita operata dal capitalismo biogenetico avanzato è, tuttavia, una questione complessa. Prendete in considerazione la mia tesi: i grandi progressi scientifici della biologia molecolare ci hanno insegnato che la materia si autorganizza (è autopoietica), mentre la filosofia monista aggiunge che essa è anche strutturalmente relazionale e dunque connessa a una serie di ambienti. Queste intuizioni si combinano nella definizione di vitalità intelligente o di capacità autorganizzativa come forza non confinata all’interno dell’individuo umano, ma estesa a tutta la materia vivente. Perché la materia è così intelligente? Perché è diretta da codici informativi, che utilizzano le proprie barre di informazioni, e che al contempo interagiscono in svariati modi con l’ambiente sociale, psichico ed ecologico (Guattari 1991). Cosa accade alla soggettività in questo complesso contesto di forze e in questo flusso di dati? La mia tesi è che essa diventa un sé relazionale ed esteso, generato dagli effetti combinati di tutti questi fattori (Braidotti 1994, 2011a). 65

La capacità relazionale del soggetto postumano non è confinata all’interno della nostra specie, bensì riguarda elementi non antropomorfi. La materia vivente – inclusa la carne – è intelligente e autogestita, e lo è precisamente perché non è separata dal resto della vita organica. Io quindi non mi muovo completamente all’interno del metodo costruttivista, piuttosto sottolineo il non umano, la potenza generatrice della Vita, che ho definito come zoe. Il postantropocentrisimo è segnato dall’emegere della politica della vita (Rose 2008). La vita, invece di essere definita come proprietà esculsiva e diritto inalienabile di una sola specie, quella umana, su tutte e altre, invece di essere santificata come un assunto predeterminato, viene intesa come processo interattivo e senza conclusioni. Questo approccio vitalista alla materia destituisce i confini binari tra quella parte di vita, sia organica che discorsiva, tradizionalmente riservata all’anthropos, vale a dire il bios, e la parte più ampia della vita animale e non umana, anche nota come zoe. Zoe come forza dinamica della vita in sé, capace di autorganizzazione, consente la vitalità generativa (Braidotti 2008, 2011). Zoe è la forza traversale che taglia e ricuce specie, domini e categorie precedentemente separate. L’egalitarismo zoe-centrato è per me il nucleo della svolta postrantropocentrica: è una risposta materialista, laica, fondata e concreta all’opportunistica mercificazione transpecie che è la logica del capitalismo avanzato. Essa è inoltre la reazione positiva delle teorie sociali e culturali al cospetto dei grandi sviluppi fatti dalle scienze. La relazione tra questi due ambiti sarà trattata nel quarto capitolo. Una teoria postumana del soggetto emerge dunque come progetto empirico che mira a sperimentare cosa sono capaci di fare gli attuali corpi modificati biotecnologicamente. Questi esperimenti noprofit con la soggettività contemporanea concretizzano le possibilità virtuali del sé relazionale ed espanso che opera nel continuum natura-cultura ed è mediato tecnologicamente. Non sorprende che questo approccio sperimentale no-profit alle diverse pratiche di soggettivazione non costuituisca esattamente lo spirito del capitalismo contemporaneo. Sotto la copertura dell’individualismo, alimentato dall’insieme quantitativo delle scelte dei consumatori, il sistema promuove efficacemente l’uniformità e il conformismo all’ideologia dominante. La perversione del capitalismo avanzato, e il suo innegabile successo, consiste nel ridurre nuovamente il potenziale per la sperimentazione all’ultrainflazionato discorso dell’individualismo possessivo (MacPher66

son, 1962), legato al principio del profitto. E questo è esattamente il senso opposto a quello delle sperimentazioni intensive gratuite, che difendo nella mia teoria sulla soggettività politica postumana. L’economia politica opportunista del capitalismo biogentico trasforma la vita/zoe – vale a dire la materia intelligente umana e non – in un bene di consumo per il commercio e il profitto. Quello su cui si basano le forze di mercato neoliberiste, e quello in cui investono finanziariamente, è la potenza informativa della materia vivente in sé. La capitalizazzione della materia vivente crea una nuova economia politica, che Melinda Cooper (2013) chiama «la Vita come plusvalore». Essa introduce tecniche politiche discorsivo-materiali di controllo della popolazione di un ordine molto diverso da quello della demografia, che occupa ampio spazio nell’opera di Foucault sulla governamentalità biopolitica. Gli avvertimenti sono ora globali. Oggi noi stiamo conducendo le «analisi dei rischi» non solo su interi sistemi sociali e nazionali, ma anche su interi settori della popolazione nella società del rischio mondializzato (Beck, 1999). Oggi il vero capitale sono le banche dati di informazioni biogenetiche, neuronali e mediatiche sugli individui, come il successo di Facebook dimostra a un livello più banale. Il data-mining comprende profili pratici che identificano diverse tipologie e caratteristiche e li mette in evidenza come obiettivi strategici specifici per gli investimenti di capitale. Questo tipo di analisi predittiva si applica anche alle tecniche di life-mining 12, i cui criteri di selezione fondamentali sono visibilità, prevedibilità e esportabilità. La Cooper sintetizza in modo eccellente le contraddizioni di questa nuova economia politica (2013, 26): dove termina la riproduzione e dove inizia l’invenzione tecnologica, quando la vita è messa a lavoro a livello microbiologico e cellulare? Qual è la posta in palio, vista l’espansione delle leggi sulla proprietà privata, che ormai coprono qualsiasi cosa, dagli elementi molecolari (brevetti biologici) agli accidenti della biosfera (crediti da catastrofi)? Che rapporto c’è tra le nuove teorie biologiche sulla crescita, sulla complessità e sull’evoluzione e le recenti teorie neoliberali sull’accumulazione? E in che modo è possibile lottare contro questi dogmatismi senza cadere nella trappola della politica neo-fondamentalista della vita (un esempio ne sono il movimento per la vita e il catastrofismo vitalista)? 12. Si ringrazia Jose van Dijck per questa espressione.

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Importante è notare l’enfasi che la Cooper pone nel sottolineare i pericoli delle posizioni neo-fondametaliste, come quelle dei difensori del determinismo biologico e della legge naturale, o dell’olismo ecologico. Il rischio dell’essenzialismo è elevato negli attuali contesti socio-politici e richiede una costante attitudine critica da parte di quegli studiosi che si schierano invece dalla parte dell’idea postumana di continuum natural-culturale. Patricia Clough (2008) persegue una linea simile nella sua analisi sulla «svolta affettiva». Dal momento che il capitalismo avanzato riduce i corpi alla loro superficie informativa in termini di risorse energetiche, esso livella altre differenze categoriche, in modo tale che «si possano rinvenire equivalenze in grado di giudicare le forme di vita, e di mettere una capacità vitale contro un’altra» (Clough 2008, 17). Nei nostri sistemi sociali il valore del capitale è costituito dall’accumulazione di informazioni in sé, dalle sue qualità immanenti e vitali così come dalla sua capacità di autorganizzazione. Clough ci fornisce una lista impressionante di tecniche concrete impiegate dal capitalismo cognitivo (Moulier Boutang 2012) per testare e monitorare le capacità dei corpi affettivi e bio-mediati: test del Dna, impronte digitali del cervello, imaging neuronale, rilevazione del calore corporeo e riconoscimento virtuale dell’iride o della mano. Tutte queste tecnologie sono immediatamente operative come dispositivi di sorveglianza, sia nella società civile che nella guerra contro il terrorismo: una governamentalità necropolitica che convive felicemente con la gestione della vita stessa. Questa governamentalità necropolitica è l’argomento del prossimo capitolo. Per adesso, vorrei tornare alla mia tesi principale: l’economia politica biogenetica del capitalismo comporta, se non la completa scomparsa, almeno la sfumatura della distinzione tra la specie umana e le altre, dal momento che ricava profitti da loro stesse. Semi, piante, animali e batteri cadano in questa logica di inesauribile consumo insieme a vari campioni di umanità. L’immagine dell’Uomo Vitruviano di Da Vinci sulla tazza di Starbuck (vedi figura) restituisce ironicamente il carattere vistoso delle connessioni postumane generate dal capitale globale: «Compro dunque sono» potrebbe essere il suo motto. L’economia globale è postantropocentrica poiché, infine, raggruppa tutte le specie sotto l’imperativo del mercato, minacciando con i suoi eccessi la sostenibilità dell’intero nostro pianeta. Una sorta di interconnessione cosmopolita negativa è dunque instau68

Figura 2.1. L’uomo vitruviano sopra una tazza di caffè Sturbuck. © Guardian News & Media Ltd 2011

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rata a partire dal legame panumano della vulnerabilità. La quantità di studi recenti sulla crisi ambientale e il cambiamento climatico basterebbe da sola a testimoniare l’attuale emergenza, nonché l’assunzione della terra a fattore di importanza politica. La retorica ammonitrice del postantropocentrismo è oggi particolarmente fiorente nella cultura popolare. Essa è stata criticata (Smelik e Lykke 2008) in quanto tendenza negativa, che rappresenta le trasformazioni nelle relazioni tra gli esseri umani e gli apparecchi tecnologici o le macchine tramite lo stile dell’orrore neo-gotico. La letteratura e il cinema sull’estinzione della nostra e di altre specie, tra cui i film catastrofici, costituiscono un genere di largo successo, che gode di ampio richiamo popolare. Ho definito questo immaginario sociale, riduttivo e negativo, come tecno-teratologico (Braidotti 2003), cioè come oggetto di ammirazione culturale e aberrazione. Il riflesso distopico della struttura biogenetica del capitalismo contemporaneo è fondamentale per spiegare la popolarità di questo genere. La ricerca delle scienze sociali sull’ansia diffusa riguardo sia il futuro della nostra specie sia l’eredità umanista è ricca e variegata. Importanti pensatori liberali come Habermas (2010), o influenti come Fukuyama (2002), sono molto attenti a questo tema, come si dimostrano essere anche i critici sociali Sloterdijk (2009) e Borradori (2003). In modo diverso, esprimono profonda preoccupazione per lo statuto della persona umana e sembrano particolarmente attenti alla metamorfosi del postumano, per la quale indicano come responsabili le nuove tecnologie avanzate. Da parte mia, condivido quest’interesse, ma come filosofa postumana con una chiara sensibilità antiumanista, sono tanto poco incline a farmi prendere dal panico di fronte alla prospettiva di uno slittamento della centralità della persona umana, quanto capace di vedere i vantaggi di tale evoluzione. Ad esempio: una volta che tali pratiche sfumano i confini qualitativi non solo tra le diverse categorie (uomo/donna, nero/bianco, umano/animale, morto/vivo, centro/margine), ma anche all’interno di ciascuna di loro, l’umano è sussunto nella rete globale di controllo e mercificazione che ha fatto della Vita il suo obiettivo principale. Lo stesso concetto di umano ha di conseguenza gravi problemi. Donna Haraway lo spiega così: la nostra autenticità è garantita da un database del genoma umano. L’archivio molecolare è conservato, sotto forma di proprietà intellettuale lega70

le, nel database di un laboratorio nazionale che ha il mandato di renderlo pubblicamene disponibile per il progresso della scienza e dello sviluppo industriale. Questo è l’uomo tipo tassonomico trasformato nell’uomo marchio di fabbrica (2000, 113).

Sappiamo ormai che il modello di Uomo che è stato postulato come universale è stato ampiamente criticato (Lloyd 1984) proprio a causa della sua parzialità. Quest’Uomo universale, infatti, coincide implicitamente solo con il maschio, bianco, urbanizzato, parlante un linguaggio standard, eterosessuale inscritto nell’unità riproduttiva base, cittadino a pieno di una comunità politica riconosciuta (Irigaray, 1990a; Deleuze e Guattari, 2006). Si può ottenere qualcosa di meno rappresentativo? Come se questa linea argomentativa non bastasse, quest’Uomo è anche chiamato a compiti e riportato alla sua particolarità di specie come anthropos (Rabinow, 2008; Esposito, 2004), vale a dire come rappresentate di una specie generalmente gerarchica, egemonica e violenta, la cui centralità è oggi messa in discussione dalla combinazione dei progressi scientifici e degli interessi dell’economia globale. Massumi si riferisce a questo fenomeno come a quello dell’ex-uomo: «una generica matrice integrata nella materialità dell’umano» e come tale sottoposta a mutazioni significative: «L’integrità della specie è stata sostituita dal modello biochimico di espressione della mutabilità della materia umana» (1998, 60). Queste analisi indicano che l’economia politica del capitalismo biogenetico è postantropocentrica nella sua stessa struttura, ma non necessariamente e automaticamente postumanista. Questo capitalismo tende inoltre a essere profondamente inumano, come vedremo nel prossimo capitolo. La dimensione postumana del postantropocentrismo può quindi essere letta come un movimento decostruttivo. A essere decostruita è la supremazia della specie, ma a subire un duro colpo è qualunque nozione persistente di natura umana, di un anthropos e di un bios come categoricamente distinti dalla vita di animali e non umani, ovvero dalla zoe. A venire in primo piano, invece, è il continuum natura-cultura nella struttura incarnata della soggettività estesa. Si tratta di un cambiamento che può essere interpretato come una sorta di esodo antropologico, una fuga dalla concezione dominante dell’Uomo come signore incontrastato del creato (Hardt e Negri 2002, 206) – una colossale ibridazione della specie. Una volta sfidata la centralità dell’anthropos, un certo numero 71

di confini tra l’uomo e gli altri da sé cominciano a cadere, con un effetto a cascata che apre prospettive inaspettate. Così se il declino dell’umanesimo inaugura il postumano esortando gli umani sessualizzati e razzializzati a emanciparsi dalla relazione dialettica schiavo-padrone, la crisi dell’anthropos spiana la strada all’irruzione delle forze demoniache degli altri naturalizzati. Animali, insetti, piante e ambiente, addirittura pianeta e cosmo nel suo insieme, vengono ora chiamati in gioco. Questo pone un diverso carico di responsabilità sulla nostra specie, che sia la causa principale del disastro ecologico. Il fatto che la nostra era geologica è conosciuta come antropocene 13 evidenzia allo stesso tempo la potenza tecnologicamente mediata acquisita dall’anthropos e le sue conseguenze potenzialmente letali per tutti gli altri. Inoltre, la trasposizione degli altri naturalizzati pone una serie di complicazioni concettuali e metodologiche legate alla critica dell’antropocentrismo. Ciò è dovuto al fatto pratico che, in qualità di entità incarnate, siamo tutti parte della natura, anche se la filosofia accademica continua a cercare fondamenti trascendentali per la coscienza umana. Come conciliare questa consapevolezza materialistica, questo naturalismo strategico con le esigenze del pensiero critico? Materialismo vitalista, la teoria nomade postumana contesta l’arroganza dell’antropocentrismo e l’eccezionalismo dell’umano in quanto categoria trascendentale. Esso sancisce piuttosto un’alleanza con la forza generativa e immanente della zoe, ovvero la vita nei suoi aspetti non umani. Cosa che richiede un cambiamento del nostro comune concetto di pensiero in sé, figuriamoci del pensiero critico. Nel resto di questo capitolo svilupperò quest’intuizione in una serie di ambiti interrelati di ricerca postantropocentrica. La mia attenzione si concentra sugli aspetti produttivi della condizione postumana, nella misura in cui essa apre prospettive per la trasformazione affermativa sia della struttura della soggettività che della produzione di teoria e conoscenza. Ho definito questi processi come «divenire animale, divenire terra e divenire macchina», rifacendomi alla filosofia di Deleuze e Guattari, nonostante la mia autonomia rispetto al loro pensiero. L’asse di trasformazione del divenire animale, quindi, comporta uno spiazzamento dell’antropocentrismo e il riconoscimento della solidarietà transpecie sulla 13. Il termine fu coniato dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen nel 2002. Il suo uso è ampiamente diffuso e condiviso.

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scorta del nostro essere radicati all’ambiente, vale a dire incarnati, integrati, in simbiosi con altre specie (Margulis e Sangan, 1995). La dimensione planetaria o del divenire terra porta alla ribalta le problematiche dell’ambiente e della sostenibilità sociale, con un’enfasi particolare sull’ecologia e la questione del cambiamento climatico. L’asse del divenire macchina incrina la distinzione tra umani e circuiti tecnologici, introducendo relazioni mediate tecnologicamente e intendendole come fondamentali per la costituzione del soggetto. Concluderò proponendo un concetto che sarà centrale nel quarto capitolo, ovvero che ci occorre applicare il concetto vitalista di realismo della materia come punto di partenza di un sistema etico di valori in cui la Vita abbia un ruolo centrale non solo nelle scienze dette giustappunto della vita, ma anche nelle scienze umane del XXI secolo. Cominciamo con il prendere in considerazione questi casi uno alla volta. Postumano e divenire animale Il postantropocentrismo destituisce il concetto di gerarchia tra le specie e il modello singolare e generale di Uomo come misura di tutte le cose. Il vuoto ontologico così aperto viene riempito velocemente dall’arrivo di nuove specie. Ma tra il dire e il fare qui c’è di mezzo la gigantesca barriera di ancestrali abitudini e pratiche di linguaggio e di convenzioni metodologiche inerenti alla filosofia critica. Non è, in fin dei conti, il linguaggio lo strumento antropologico per eccellenza? Nel precedente capitolo abbiamo visto come la tradizione di pensiero umanista determini anche il contesto per una autocompiacente relazione dell’Uomo con se stesso. Questo narcisismo ontologico caratterizza il soggetto dominante sia in relazione alle qualità che include e si vanta di esemplificare, sia in relazione a quelle che esclude, attribuendole agli altri declassati. Il soggetto dell’Umanesimo avanza una pretesa internamente contraddittoria al fine di sostenere la propria posizione sovrana. Egli è al contempo un concetto astratto e universale tanto quanto portavoce di una specie specifica ed elitaria: egli è sia Uomo che anthropos. Questa pretesa logicamente impossibile si fonda sull’assunzione di un’anatomia politica, secondo la quale la controparte del potere della ragione è la nozione dell’Uomo animale razionale. Come abbiamo visto nel primo capitolo, ci si aspetta che il secondo possieda un corpo fisico perfettamente funzionale, implicitamente modellato sugli ideali di mascolinità bianca, normalità, giovinezza 73

e salute. La dialettica dell’alterità è il motore interno del potere umanista dell’Uomo, il quale distribuisce le differenze su una scala gerarchica come metodo per governarle. Tutti gli altri modelli di tipi corporei sono allontanati dalla posizione del soggetto, pur includendo essi alcuni altri antropomorfi: non bianchi, non maschi, non normali, non giovani, non in salute, disabili, malformati o in età avanzata. L’esclusione riguarda anche categorie ontologiche divisorie tra l’uomo e lo zoomorfo, l’organico e le altre specie. Tutti questi altri sono descritti in termini di peggioramento, sono patologizzati ed espulsi dalla normalità, sono spostati sul versante dell’anomalia, della devianza, della mostruosità e della bestialità. Questo processo è completamente antropocentrico, secondo linee di sesso e razza, in quanto sostiene ideali estetici e morali basati sulla civilizzazione europea bianca, maschilista ed eterosessuale. Vorrei guardare più da vicino ai meccanismi coinvolti nella dialettica della differenza negativa, dall’angolazione degli animali. L’animale è il più necessario, familiare e prezioso altro dell’anthropos. Questa familiarità, tuttavia, è carica di insidie. In una brillante e parodica tassonomia, Louis Borges classificava gli animali in tre gruppi: quelli con cui guardiamo la televisione, quelli che mangiamo, quelli di cui abbiamo paura. Questo intenso livello di familiarità vissuta confina l’interazione umano-animale nei parametri classici, soprattutto in quelli della relazione edipica (io e te seduti sullo stesso divano); in quelli della relazione strumentale (tu che sarai eventualmente consumato); in quelli della relazione fantasmatica (oggetti esotici ed estinti di info-intrattenimento e di trastullo). Lasciatemi analizzare sommariamente ognuno di questi casi. La relazione edipica tra umani e animali è ineguale e anch’essa dominata dall’Uomo e dalla consuetudine strutturalmente maschile a dare per scontato l’accesso diretto e il consumo del corpo dell’altra, animali inclusi. Come modello di relazione, è inoltre nevrotica, essendo satura di proiezioni, tabù e fantasie. Simbolizza anche la suprema arroganza ontologica di un soggetto umano che considera che tutto gli sia dovuto. Derrida si rifersice al potere della specie umana sugli animali con il termine di carno-fallologocentrismo (Derrida, 2006) e ne ha fatto oggetto di critica in quanto esempio di violenza epistemica e materiale. Nei loro commenti Berger e Segarra (2011) sostengono che il lavoro di Derrida sull’animalità non è marginale ma centrale per la sua analisi sui limiti del progetto illuminista. L’attacco di Derrida all’antropocentrismo è di conseguenza pre74

sentato come correlato necessario della sua critica all’umanesimo. La forte connessione logica e storica tra essi determina una critica politica dei danni che la ragione occidentale ha inflitto ai molteplici altri. Il riconoscimento di vincoli comuni di vulnerabilità può generare nuove forme di comunità e compassione postumana (Pick, 2011). Questa relazione familiare, edipica, quindi ambivalente e manipolatrice, tra umani e animali si è espressa in svariati modi che si sono poi intrecciati alle nostre abitudini mentali e culturali. Il primo di questi modi è la metaforizzazione. Gli animali hanno a lungo scandito la grammatica sociale delle virtù e delle categorie morali a vantaggio degli umani. Questa funzione normativa è stata canonizzata dai glossari morali e dai bestiari pedagogici che trasformavano gli animali in referenti metaforici per norme e valori. Pensiamo semplicemente ai prestigiosi precedenti letterari delle nobili aquile, delle ingannevoli volpi, degli umili agnelli, dei grilli e delle api che Tito Livio e Molière hanno immortalato. Queste metafore consuetudinarie alimentano il carattere fantasmatico dell’interazione umano-animali, che nella cultura contemporanea è espressa al meglio dal valore di intrattenimento dei caratteri non-antropomorfi, spaziando da King Knog alle creature blu di Avatar, senza dimenticare i famosi dinosuari di Spielberg in Jurrasic Park. A livello sociale, la necessità di nuove interazioni tra umano e animale è molto sentita, e porta spesso alla critica della rappresentazione. Le «specie amiche», come Haraway le ha definite (2003), sono state storicamente relegate in narrative infantilizzanti che stabilivano relazioni di parentela affettive tra le specie. Il principale effetto di questa narrativa è il discorso circa la devozione e l’incondizionata fedeltà dei cani, che Haraway tenta di arginare con tutta la sua passione. Come composto natural-culturale, un cane – non dissimile da altri prodotti delle tecno scienze – è un altro radicale, sia pure un altro significativo. Esso è costruito socialmente come molti umani, non solo attraverso lo screening genetico, ma anche attraverso regole di igiene e salute e attraverso varie pratiche di toelettatura. Chi non si è sforzato di trattenere una risatina all’apprendere la notizia del successo delle cliniche per la dieta degli animali domestici nei ricchi quartieri di Los Angeles? In questi giorni postumani vengono riscoperte sorprendenti forme di equivalenza tra differenti organismi. Ci occorre escogitare, pertanto, un sistema di rappresentazione che sia in armonia con l’attuale complessità degli animali non umani e con la loro prossimità agli umani stessi. Il 75

punto è adesso approssimarsi a nuovi modelli di relazione; gli animali non sono più parte di quel sistema di significati che sorregge le proiezioni e le aspirazioni morali degli umani. Bisogna accostarsi a essi con un nuovo metodo neo-letterale, come a un codice di significato autonomo, una zoontologia (Wolfe 2003). La seconda manifestazione significativa della familiarità problematica e contraddittoria tra umani e animali è legata all’economia di mercato e alla forza lavoro. Sin dall’antichità gli animali hanno costituito una sorta di zoo-proletariato, nella gerarchia delle specie decisa dagli umani. Essi sono stati sfruttati per i lavori faticosi, come schiavi naturali e supporto logistico dagli albori dell’umanità fino all’età meccanica. Essi rappresentano, inoltre, una risorsa industriale, dal momento che i corpi animali costituiscono prima di tutto un prodotto materiale, partendo dal latte fino alla carne commestibile, passando per le zanne di elefante, il pellame di molte creature, la lana delle pecore, l’olio e il grasso delle balene, la seta del bruco. Come indicato dalle figure che ho introdotto nella seconda vignetta dell’introduzione generale, quest’economia politica di sfuttamento discorsivo e materiale su larga scala perdura oggigiorno, dal momento che gli animali rappresentano la materia vivente degli esperimenti scientifici, dell’agricoltura biotecnologica, dell’industria cosmetica, farmacologica e di molti altri settori. Animali come i maiali e i topi vengono geneticamente modificati per produrre organi negli esperimenti per gli xeno-trapianti. L’uso degli animali come cavie e la clonazione sono oggi pratiche scientifiche convalidate: gli Oncotopi e la pecora Dolly fanno già parte della storia (Haraway, 2000; Franklin, 2007). Nel capitalismo avanzato animali di ogni specie e categoria vengono trasformati in corpi disponibili e commerciabili, inscritti nel mercato globale dello sfruttamento postantropocentrico. Come ho già detto, il traffico di animali rappresenta oggi il terzo più ampio mercato illegale al mondo, dopo le droghe e le armi ma prima delle donne. Ciò sfocia in un legame al negativo tra animali e umani. Al culmine della Guerra fredda, quando cani e scimmie venivano lanciati in orbita nell’ambito dei nascenti programmi di esplorazione dello spazio e della crescente competizione tra Usa e Urss, George Orwell ironicamente affermò: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri» (Orwell 1998). All’inizio del terzo millennio, in un mondo caratterizzato da un warfare perenne e mediato tecnologicamente, tale imponenza metafo76

rica risuona piuttosto falsa. Il postantropocentrismo suggerisce piuttosto il contrario: nessun animale è più uguale di ogni altro, dal momento che essi risultano tutti inscritti in un’economia di mercato di scambi globali che mercifica tutti con lo stesso grado di intensità e rende tutti disponibili allo stesso modo. Tutte le altre distinzioni vanno sfumando. Al contempo, si va riarticolando il passato modello di relazione sta. Una svolta zoe-egalitaria sta avanzando, la quale ci esorta a impegnarci in relazioni più eque con gli animali. L’attuale pensiero postantropocentrico ha come effetto una nuova animalità anti-edipica all’interno di una tecno-cultura che cambia velocemente e che innesca mutazioni a tutti i livelli. Nella mia prospettiva la sfida oggi è capire come deterritorializzare, come rendere nomade l’interazione umano-animale, in modo tale da superare la metafisica della sostanza e i suoi corollari, la dialettica dell’alterità. Ciò comporta anche, conseguentemente, la desacralizzazione del concetto di natura umana e della vita che la anima. Donna Haraway, pioniera del pensiero postantropocentrico e accorta studiosa dell’interazione umano-animale, rintraccia questa svolta fondamentale nelle vignette ironiche che ritraggono le specie amiche nella posa dell’Uomo Vitruviano (vedi figura). Possono gatti e cani essere misura almeno di qualcosa, sia pur non di tutte le cose? Può questo sostituire la gerarchia genetica che tacitamente sottende all’autorappresentazione umanista? Qui vediamo all’opera gli effetti contraddittori della politica postantropocentrica della vita in sé, che ho già commentato in questo capitolo. Il postumano nella sua variante postantropocentrica soppianta lo schema dialettico di opposizione, sostituendo ai dualismi predeterminati il riconoscimento di un profondo zoe-egalitarismo tra umani e animali. La vitalità dei loro legami si basa sulla condivisione del pianeta, dei territori, dell’ambiente in termini che non sono più chiaramente gerarchici e autoevidenti. Questa interconnessione vitale dà luogo a un cambiamento qualitativo della relazione, allontanandola dallo specismo e avvicinandola alla rivalutazione etica di cosa i corpi (umani, animali, altri) siano capaci di fare. Un’etologia delle forze basata sull’etica spinozista emerge come principale punto di riferimento per cambiare la relazione umano-animale. Essa traccia un nuovo contesto politico, che io leggo come un progetto affermativo in risposta alla mercificazione della vita in tutte le sue forme, che rappresenta la logica opportunista del capitalismo avanzato. 77

Figura 2.2. S. Harris, Leonardo Da Vinci’s Dog, www.cartoonstock.com.

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Figura 2.3. Maggie Stiefvater, Vitruvian Cat.

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Questo approccio postantropocentrico richiede maggiori sforzi della nostra immaginazione, al fine di radicare le nostre rappresentazioni nella vita reale e di farlo in modo affermativo. A questo proposito, abbiamo bisogno di ripensare cani, gatti e altri animali da divano come al di sopra delle partizioni tra le specie, non solo affettivamente, ma anche organicamente. In qualità di composti natural-culturali, questi animali si presentano come cyborg, vale a dire come creature ibride, vettori di una relazionalità postumana. Sotto diversi aspetti, la pecora Dolly è la figurazione ideale della nuova relazione postantropocentrica umano-animale, per via della complessa temporalità biomediata e delle forme d’intimità che prefigura. Essa è al contempo l’ultimo esemplare della sua specie – discendente da un lignaggio di pecore concepite e riprodotte come tali – e il primo esemplare di una nuova specie: la pecora elettronica che Philip K. Dick ha sognato, precursore della società di androidi di Blade Runner (1982). Clonata, non concepita tramite attività sessuale, miscuglio eterogeneo di organismo e macchina, Dolly è stata disconessa dalla riproduzione e separata dalla sua genia. Dolly non è la figlia di nessuno dei membri della sua vecchia specie – al contempo orfana e madre di se stessa. Prima di un nuovo genere, ella/essa si situa oltre le dicotomie del sesso del sistema binario e patriarcale di parentela. Copia fatta in assenza di un singolo originale, Dolly spinge la logica del simulacro postmoderno alla sua perversione finale. Essa attualizza l’immacolta concezione in versione biogenetica da terzo millennio. L’ironia raggiunge un picco patetico quando ci ricordiamo che Dolly è morta di una malattia banale e molto familiare: reumatismi. Dopodiché, per aggiungere insulto all’ingiuria, essa ha subito un ultimo attacco alla sua dignità, la tassidermia, ed è stata imbalsamata ed esposta come rarità scientifica in un museo. Essa proviene dal XIX secolo ma come celebrità mediatica è perfettamente in accordo con il XX secolo. Sia arcaica che iper-moderna, Dolly è un composto di molteplici anacronismi, situati su diversi assi cronologici. Essa occupa momenti temporali complessi e autocontraddittori. Come altri animali ed entità tecno-teratologiche (viene in mente l’oncotopo), Dolly infrange la linearità del tempo ed esiste in un continuo presente. Questa temporalità tecno-elettronica senza tempo è satura di asincronie, vale a dire è strutturalmente scardinata. Pensare a Dolly riesce a far sfumare le categorie di pensiero che abbiamo ereditato dal passato – essa forza latitudine e longitudine del pensiero medesimo, apportando profondità, 80

intensità e contraddizioni. Dal momento che essa incarna la complessità, tale entità che non è più un animale ma neppure una macchina compiuta, è l’icona della condizione postumana. Haraway sottolinea inoltre la necessità di nuove figurazioni, visioni e rappresentazioni del continuum umano-animale, proponendo di cominciare col ripensare l’interazione umano-animale dalla figurazione ibrida dell’oncotopo. Come primo animale brevettato al mondo, organismo transgenico creato a scopo di ricerca, l’oncotopo è postumano in ogni senso possibile del termine. Esso è stato creato per le finalità di profitto e commercio tra laboratori e mercato, e così viaggia tra gli uffici per i brevetti e quelli della ricerca. Haraway desidera stabilire un senso di parentela con questi animali transgenici. Enfatizza il fatto che l’oconcotopo è al contempo vittima e capro espiatorio, una figura simile a Cristo che sacrifica se stesso per trovare una cura per il cancro al seno e salvare così la vita di molte donne: un mammifero che salva altri mammiferi. Dal momento che l’oncotopo infrange la purezza del lingnaggio, è anche una figura spettrale. Come Dolly, l’oncotopo è un sempre-vivo che inquina l’ordine naturale semplicemente perché non nasce, ma si fabbrica. Esso è un apparato tecno-teratologico che interferisce con i codici prestabiliti e pertanto destabilizza e ricostruisce al contempo il soggetto postumano. Figurazioni come Dolly e l’oncotopo non sono metafore, bensì veicoli dell’immaginazione per radicare il nostro potere di comprensione degli orizzonti mutevoli del presente. Sono consapevole che la mia gioiosa approvazione della svolta postantropocentrica possa apparire troppo entusiasta o persino trionfalista ad alcuni (Moore 2011). Come ho sostenuto nel capitolo precedente, la relazione di ciascuno al postumano è determinata in primo luogo dalla valutazione critica dell’umano. La mia radicata propensione antiumanista si rivela nell’allegria con cui accolgo il declino dell’anthropos. Il mio entusiasmo per il postumano, tuttavia, non mi rende cieca di fronte alle cruente contraddizioni e alle nuove forme di potere delle differenziazioni negative nelle attuali interazioni umano-animale. I vecchi modelli di comportamento strumentale sono ancora operativi, di certo, sugli animali usati per proccacciare cibo, lana e prodotti per la pelle, nel lavoro del settore agricolo, industriale e scientifico. Se non altro, l’economia necropolitica è aggravata dai conflitti globali e dalla crisi finanziaria. Nel suo essere un capitalismo avanzato con mercati e profitti estratti dalla struttura biogenetica, tale economia contribuisce al 81

declino dell’antropocentrismo. Gli animali sono stretti in una doppia morsa: da un lato, sono oggi più che mai oggetto di un sfruttamento inumano; dall’altro beneficiano di forme di umanizzazione riparatrice. Questa situazione conflittuale mi porta a concludere che il postantropocentrismo ha sia per gli uomini che per gli animali i suoi risvolti negativi. Consentitemi di spiegare. Umanesimo compensatorio Durante la seconda metà del XX secolo, la questione dei diritti degli animali, ha acquistato slancio in molte democrazie liberali avanzate. I partiti politici, di diversi parlamenti del Nord-Europa, si sono dedicati interamente al benessere degli altri non antropomorfi – i partiti Verdi o Animalisti. Si attestano sulla critica allo specismo, ovvero all’arroganza dell’Uomo come specie dominante la cui prepotenza dà per scontato l’accesso al corpo degli altri. Gli attivisti per i diritti degli animali difendono la fine dell’antropolatria, l’assunzione della superiorità umana e lottano per un maggiore rispetto e una maggiore priorità degli interessi delle altre specie e organismi. Nella teoria dei diritti degli animali, tali premesse analitiche postantropocentriche si combinano a elementi del neoumanesimo per riproporre una serie di valori umanisti. Questo riguarda i soggetti antropomorfi, che si presume posseggano identità univoca, coscienza auto-riflessiva, razionalità morale e capacità di condividere emozioni come l’empatia e la solidarietà. Queste stesse virtù e capacità sono attribuite inoltre agli altri non antropomorfi. Le ipotesi epistemologiche e morali che sorreggono questa posizione sono state adottate sin dall’Illuminismo, ma precedentemente erano riservate ai soli umani, a scapito di tutti gli agenti non umani come gli animali e le piante. I sostenitori dei diritti degli animali, che definisco come neoumanisti postantropocentrici, convergono sulla necessità di difendere ed espandere questi valori ad altre specie. Il più noto portavoce dei diritti degli animali, Peter Singer, sostiene una posizione utilitaria a favore del razionalismo morale degli animali. Un’umanista liberale come Nussbaum (2006) concorda nel perseguire l’equità delle specie. Muovendosi all’interno della tradizione liberale, Mary Midgley (1996) arriva persino a non servirsi del termine antropocentrismo, e si riferisce a esso con l’espressione «sciovinismo umano, senza empatia, equiparibile allo 82

sciovinismo nazionalista, razzista e sessista. Esso potrebbe anche essere chiamato umanesimo esclusivo, come opposto al tipo ospitale, amichevole e inclusivo» (1996, 105). Midgley sostiene questo in modo alternativo, ammettendo che «noi non terminiamo in noi stessi e non siamo auto-sufficienti, sia come specie che come individui, ma viviamo naturalmente in una reciproca dipendenza» (1996, 9-10). Nella sua potente analisi sulla crisi ambientale della ragione, Val Plumwood (2003) richiede una nuova etica dialogica interspecie basata sul decentramento del privilegio umano. Per le eco-femministe radicali qui si rintracciano, volendo, sia l’utilitarsimo che il liberalismo: il primo nell’approccio condiscendente verso gli altri non umani, il secondo nella negazione ipocrita del dominio manipolatore dell’uomo sugli animali. Questa critica viene estesa anche alla componente distruttiva dell’individualismo umano che comporta egoismo e un senso di superiorità fuori luogo, che per le femministe è connesso (Donavon e Adams 1996, 2007) al privilegio maschile e all’oppressione delle donne e sostiene la teoria generale dello stesso dominio maschile. Mangiare carne è ritenuta una forma legalizzata di cannibalismo dalle vecchie e dalle nuove femministe vegetariane e vegane (Adams 1990; MacCormack 2012). Lo specismo è pertanto ritenuto responsabile di un privilegio indebito, così come il razzismo e il sessismo. La pervasività del sistema gerarchico sesso-specie tende a rimanere ignorata e non criticata persino nel contesto dell’attivismo per i diritti animali. L’influenza correttiva del femminismo è rivalutata, in quanto sottolinea l’importanza politica sia della collettività che dei legami affettivi. Nuovi dati analitici sullo statuto degli animali sono oggi presi in considerazione grazie agli strumenti interdisciplinari di antropologia, primatologia, paleontologia, agli science e technology studies. Uno dei più promettenti neo-umanisti postantropocentrici in quest’ambito è Frans de Waal (1996), che estende i classici valori umanisti, come l’empatia e la responsabilità morale, ai primati superiori. Sulla base di rigorose osservazioni empiriche delle grandi scimmie, de Waal trasforma i nostri concetti di evoluzione e psicologia evolutiva mettendo in discussione l’accordo sull’enfasi data all’aggressione come motore dello sviluppo delle specie. L’opera innovativa di de Waal sulla nostra scimmia interiore, sulla comunicazione tra i bonobi, sullo scambio sessuale come nucleo della formazione della comunità, suona anche come una nota in sostegno del ruolo delle femmine della specie nell’evoluzione. Nel suo 83

studio più recente (2009) de Waal sottolinea l’importanza dell’empatia come forma di comunicazione emozionale o come forma di comunicazione emozionalmente mediata tra primati non umani. L’enfasi sull’empatia aiuta a realizzare diversi obiettivi significativi in vista della teoria postumana della soggettività. Prima di tutto, essa permette la riappropriazione della comunicazione come strumento dell’evoluzione. In secondo luogo essa identifica nelle emozioni, piuttosto che nella ragione, la chiave di volta della coscienza. In terzo luogo, essa sviluppa quella che Harry Kunnemann ha definito una forma di naturalismo ermeneutico che si allontana criticamente dalla tradizione del costruttivismo sociale, e che considera i valori morali alla stregua di qualità innate. Questo è un apporto significativo per la teoria del continuum natura-cultura. La nostra specie, sostiene de Waal, è obbligatoriamente gregaria (2006, 4). Inoltre, la concezione del soggetto di de Waal è materialista, poiché contraria alla trascendenza della ragione, e attratta dall’approccio di David Hume alle emozioni e alle passioni quali chiavi della formazione dell’identità. Ultimo ma per questo non meno importante, è il fatto che de Waal è un socialdemocratico postantropocentrico molto impegnato nella creazione di infrastrutture sociali di generosità e reciproco altruismo e solidarietà. La sua idea che il bene morale sia contagioso è sostenuta dalla teoria dell’empatia basata sui neuroni mirrors. L’attenzione ricade sulla continuità etica tra umani e primati superiori, anche se si ricorda che è troppo facile proiettare le nostre tendenze aggressive negli animali e riservare la qualità del buono come prerogativa alla nostra specie. De Waal (1996) asserisce che l’evoluzione ha inoltre fornito i requisiti per la moralità e attacca l’antroponegazione degli umani presunti superiori (2006, 16). L’empatia come tendenza morale innata e geneticamente trasmessa, o la naturalizzazione della morale, è molto in voga, mentre i geni egoisti e l’avidità sono decisamente fuori moda. Tutti questi aspetti sono molto rilevanti dal punto di vista di una teoria postumana del soggetto. La ragione per cui sono in qualche modo scettica nei confronti del neoumanesimo postantropocentrico, tuttavia, consiste nel fatto che esso non è critico rispetto all’Umanesimo in sé. I tentativi di compensazione per conto degli animali generano quella che io considero una sorta di tardiva solidarietà tra gli abitanti umani del pianeta, oggi traumatizzati dalla globalizzazione, dalla tecnologia e dalle nuove guerre, e i corrispettivi altri animali. Si tratta, nel migliore dei casi, di un fenomeno ambivalente, dal momento 84

che combina un sentimento negativo di legame tra le specie con un classico e piuttosto magnanimo accento morale umanista. In questo abbraccio transpecie l’umanesimo viene oggi reimposto acriticamente sotto l’egida dell’egalitarismo delle specie. Nel mio lavoro sul soggetto postumano, ho scelto di non accantonare il riconoscimenteo critico dei limiti dell’umanesimo, come delineato nel capitolo precedente. Sono inoltre dolorosamente consapevole del fatto che viviamo nell’era dell’antropocene, ovvero un’era in cui la bilancia ecologica della terra è regolata direttamente dall’umanità. Credo, inoltre, che in un momento di profonda crisi epistemologica, etica e politica, l’estensione dei privilegi dei valori umanisti alle altre categorie difficilmente può essere considerata una mossa generosa e disinteressata, più facilmente come il tentativo di rendere produttiva tale inclusione. Sostenere il legame vitale tra gli esseri umani e le altre specie è non solo necessario ma anche utile. Ritengo questo legame negativo in quanto effetto della vulnerabilità condivisa, che è essa stessa una conseguenza delle azioni umane sull’ambiente. È forse questo il momento in cui gli umani estendono ai non umani la loro continua ansia per il futuro? Il prezzo da pagare è l’umanizzazione degli animali non umani, soprattutto nel momento storico in cui la stessa categoria dell’umano è esposta a critiche. Antropomorfizzare così da estendere agli animali il principio di uguaglianza morale e giuridica può essere un gesto nobile, ma è intrinsecamente difettoso, almeno per due motivi. In primo luogo, conferma il sistema binario di distinzione tra uomo e animale, imponendo, anche se per un buon fine, la categoria egemonica dell’umano agli altri. In secondo luogo, nega del tutto le specificità degli animali, perché li tratta in modo uniforme come simboli del valore transpecie, con uno stesso e universale sentimento di empatia. A mio avviso, il punto sulle relazioni postumane, tuttavia, è quello di comprendere l’interrelazione tra umano e animale come costitutiva dell’identità di ciascuno. È un rapporto di trasformazione o di simbiosi che si ibrida e altera la «natura» di ciascuno per porre in primo piano i motivi centrali della loro interazione. Questo è il milieu del continuum umano/non umano, e ha bisogno di essere esplorato come fosse un esperimento aperto, non come una deduzione morale scontata di valori presunti universali. I termini di quella particolare interazione deveno rimanere normativamente neutrali, al fine di consentire ai nuovi parametri di emergere per il divenire-animale dell’anthropos, un argomento di 85

cui troppo a lungo si è taciuto in virtù del pregiudizio della supremazia della specie. Occorre aprire nuovi spazi intensivi di divenire e, cosa ancora più importante, occorre vigilare affinché tali spazi rimangano aperti. In un’epoca in cui la filiazione naturale è sostituitia dai marchi aziendali e dai bioprodotti brevettati, gli imperativi etici di creare legami transpecie e di essere responsabili per il benessere degli «altri» rimangono forti come sempre. Ma ora abbiamo bisogno di nuove genealogie, rappresentazioni alternative, teoriche e giuridiche, di un nuovo sistema di parentela, di narrazioni che siano all’altezza di questa sfida epocale. L’universo che mi trovo a vivere come soggetto postindustriale del cosiddetto capitalismo avanzato è caratterizzato da molta familiarità e fin troppi punti in comune tra il posizionamento materiale e simbolico di diversi esseri umani sessuati femminili, la pecora clonata Dolly e gli oncotopi usati come cavie. Mi sento altrettanto in debito verso i membri geneticamente modificati dell’ex regno animale che verso gli ideali umanistici che proclamano l’unicità della mia specie. Allo stesso modo, la mia posizione situata di femmina della specie mi rende strutturalmente più vicina agli organismi viventi da cui preleviamo organi e cellule senza il loro consenso che a qualunque nozione astratta di inviolabilità e di integrità della specie umana. So che questo può sembrare incosciente e avventato, ma io rimango da questa parte: dalla parte di ciò che non si identifica più con le categorie dominanti del soggetto, ma che non è ancora del tutto libero dalle gabbie dell’identità, ovvero dalla parte di ciò che è differente e continua a differenziarsi da sé, e quindi si approssima alla zoe, al soggetto postantropocentrico. Questi elementi ribelli sono per me connessi alla consapevolezza femminista di cosa significa incarnare un corpo di donna. In quanto tale, io sono una lupa, un’allevatrice di molteplici cellule in tutte le direzioni; io sono un’incubatrice e un veicolo di virus vitali e letali. Io sono la madre terra, generatrice di futuro. Nell’economia politica del fallologocentrismo e dell’umanesimo antropocentrico, che predica la sovranità del Medesimo in un falso modo universalista, il mio sesso ricade sul versante dell’alterità, considerato come differenza peggiorativa, come essere meno degno. Il divenire postumano si rivolge alla mia coscienza femminista, perché il mio sesso, storicamente parlando, non ha mai del tutto preso parte all’umanità, ecco perché la mia fedeltà a tale categoria resta negoziabile e mai data per scontata. 86

Postumano e divenire terra Il declino dell’antropocentrismo si traduce in una vigorosa ristrutturazione della relazione umano-animale, ma la teoria critica dovrebbe essere in grado di adattarsi alla sfida, considerando la lunga storia letteraria e discorsiva di tale relazione e dei molteplici immaginari e legami affettivi che l’hanno consolidata. La svolta postantropocentrica verso una prospettiva planetaria e geocentrata, tuttavia, è un terremoto concettuale su una scala del tutto diversa rispetto a quella del divenire animale dell’uomo. Questo evento sta propagando onde sismiche nell’ambito delle scienze umane e del pensiero critico. Claire Colebrook, con il suo conseuto acume, si riferisce a esso come a un «cambiamento del clima critico»14. Nell’era dell’antropocene, il fenomeno noto come geomorfismo è di solito epresso in termini negativi, come quelli della crisi ambientale, del cambiamento climatico e della sostenibilità ecologica. Tuttavia, vi è anche una sua dimensione positiva nel senso della riconfigurazione della relazione con il nostro complesso habitat, che usiamo chiamare natura. La terra, o la dimensione planetaria della questione ambientale, non rappresenta un’area di interesse simile alle altre. Essa è piuttosto la questione immanente a tutte le altre, dal momento che la terra costituisce la nostra base generale e comune. Questo è il milieu per ognuno di noi, abitanti umani e non umani di questo particolare pianeta, in questa particolare era. La dimensione planetaria apre a quella cosmica in una prospettiva immanente e materialista. La mia tesi è che, di nuovo, questo cambiamento di prospettiva è foriero di alternative per il rinnovo della soggettività. A cosa somiglierà il soggetto geocentrato? Il punto di partenza rimane per me il continuum natura-cultura, anche se adesso mi preme aggiungere a tale contesto la convinzione della filosofia monista che, come ha affermato la Lloyd, «noi siamo tutti parte della natura» (1994). Questa frase, che lei contestualizza in un’ontologia monista basata sulla filosofia di Spinoza, invita alla riflessione e al contempo è fonte di ispirazione. Essa è ulteriormente complicata dal fatto che noi cittadini del terzo millennio stiamo attualmente vivendo un continuum natura-cultura che è tecnologicamente modificato e globalmente diffuso. Questo comporta il fatto che non possiamo appoggiare una teoria della sogget14. Questo è il titolo della serie di libri on-line che Colebrook pubblica per la Open Humanities Press.

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tività che dia per scontate le fondamenta naturalistiche, né possiamo rifarci al costruttivismo sociale o alla teoria dualista del soggetto che disconosce la dimensione ecologica. Al contrario la teoria critica deve soddisfare richieste potenzialmente contraddittorie. La prima consiste nell’elaborare un concetto, dinamico e sostenibile, di materia vitalista e capace di autorganizzazione; la seconda nell’ampliare il contesto e la portata della soggettività lungo le linee trasversali delle relazioni postantropocentriche che ho descritto nel paragrafo precedente. L’idea di una soggettività come composto che ingloba agenti non umani ha una serie di conseguenze. In primo luogo, implica che la soggettività non è prerogativa esclusiva dell’anthropos; in secondo luogo, che non è legata alla ragione trascendentale; in terzo luogo, che è indipendente dalla dialettica del riconoscimento; e, infine, che è basata sull’immanenza delle relazioni. La sfida per la teoria critica è epocale: ci occorre visualizzare il soggetto come entità trasversale che comprende l’umano, i nostri vicini genetici animali e la terra nel suo insieme, e ci occorre farlo in un linguaggio comprensibile. Vorrei soffermarmi su quest’ultimo per un attimo, in quanto solleva la questione della rappresentazione, cruciale per le scienze umane e per la teoria critica. Trovare un linguaggio adeguato al postantropocentrismo significa che le risorse dell’immaginazione, come gli strumenti dell’intelligenza critica, devono essere impiegate a questo fine. Il tramonto della divisione tra natura e cultura ci obbliga a escogitare un nuovo vocabolario, con nuove figurazioni per riferirci agli elementi della nostra soggettività postumana integrata e incarnata. Qui i limiti del metodo social-costruttuvista si palesano e necessitano di essere compensati da una maggiore creatività concettuale. Tuttavia, molti di noi, cresciuti con i metodi delle scienze sociali, hanno fatto esperienza, almeno a certi livelli, del disagio provato al pensiero che ci siano elementi della nostra soggettività non costruiti socialmente. Parte dell’eredità della sinistra marxista consiste infatti in un sospetto profondamente radicato verso l’ordine naturale e l’ecologia. Come se la diffidenza nei confronti della natura non bastasse, ci occorre riconcettualizzare la relazione con gli artefatti tecnologici, che andrebbero ripensanti come intimi e prossimi almeno quanto lo è stata la natura. L’apparato tecnologico è il nostro nuovo milieu e tale intimità è molto più complessa e produttiva dell’estensione protesica e meccanica che ne ha fatto la modernità. Nel corso di questo stravolgimento dei parametri, desidero non scordarmi del88

l’importanza della politica femminista della collocazione e continuare a indagare chi sia esattamente quel noi che in primo luogo avanza tutti questi dubbi. Questo nuovo progetto per ripensare la soggettività postumana è tanto ricco quaqnto complesso, eppure è radicato nella vita reale, nelle condizioni mondiali storiche che si pongono alla nostra attenzione con pressante urgenza. Diphes Chakrabarty (2009) affronta alcuni di questi problemi analizzando le conseguenze del dibattito sullla crisi ecologica per la pratica della storia. Egli sostiene che la dottrina sul cambiamento climatico causa difficoltà sia spaziali che temporali. Cambiamento che comporta una variazione di scala nel nostro pensiero, il quale ha oggi bisogno di includere una dimensione planetaria geocentrata, riconoscendo che gli umani sono qualcosa in più di un’entità biologica e che ormai detengono una forza d’impatto geologica. Esso sposta inoltre i parametri della temporalità dall’aspettativa di continuità a fondamento della disciplina storica, per contemplare l’idea di estinzione, vale a dire di un futuro senza noi. Inoltre questi cambiamenti dei parametri basilari hanno effetti sul contenuto della ricerca storica, tramite la «distruzione dell’artificiale, anche se onorata dal tempo, distinzione tra storia naturale e storia umana» (Chakrabarty, 2009, 206). Nonostante Chakrabarty non scelga la via postantropocentrica, giunge alla mia stessa conclusione: le questioni della prospettiva geocentrata e del cambiamento della posizione degli umani, da meri agenti biologici ad agenti geologici, richiede la ricomposizione di soggettività e comunità. La svolta geocentrica reca con sé altre serie implicazioni politiche. La prima riguarda i limiti dell’umanesimo classico all’interno del modello illuminista. Affidandosi alle teorie postcoloniali, Chakrabarty fa notare che «i filosofi della libertà sono principalmente, e comprensibilimente, interessati a come gli umani vogliano fuggire dall’ingiustizia, dall’oppressione, dall’ineguaglianza e persino dall’uniformità imposte da altri umani o da sistemi progettati dagli umani stessi» (Chakrabarty, 2009, 208). Il loro antropocentrismo, insieme a uno specifico concetto culturale di umanesimo, limita la loro specifica rilevanza. Ma l’ala radicale non se la cava molto meglio. La questione del cambiamento climatico e il fantasma dell’estinzione umana altera anche «le strategie analitiche che gli storici postcoloniali e postimperiali hanno sviluppato negli ultimi due decenni in risposta allo scenario postbellico della colonizzazione e della globalizzazione» (Chakrabarty, 2009, 198). Io vorrei aggiungere che l’approccio socio-costruttivista delle analisi 89

marxiste, femministe e postcoloniali non li prepara completamente ad affrontare il cambiamento di scala spaziale e temporale prodotto dalla svolta postantropocentrica e geocentrata. Questa intuizione è il nucleo della posizione postantropocentrica che difendo, poiché la ritengo un modo per aggiornare la teoria critica in vista del terzo millennio. Molti studiosi stanno giungendo alla stessa conclusione, attraverso strade diverse. Ad esempio, i filoni postantropocentrici neoumanisti delle teorie socialiste o del punto di vista femminista (Harding 1986) e delle teorie postcoloniali (Shiva 1999) hanno affrontato i problemi dell’ambientalismo in modo postantopocentrico, o almeno non androcentrico, non maschilista, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Questa critica dell’antropocentrismo si esprime nel nome della coscienza ecologica, con un forte accento sulle esperienze delle minoranze sociali, come le donne e le popolazioni non occidentali. Il riconoscimento della prospettiva multiculturale e la critica all’imperialismo e all’etnocentrismo aggiungono un aspetto cruciale alla discussione sul divenire terra, eppure oggi esse cadono nelle loro stesse contraddizioni interne. Vorrei considerare, ad esempio, il caso dell’ecologia profonda. Le analisi di Arne Naess (1997a, 1997b) e l’ipotesi Gaia di James Lovelock (1996) sono teorie geocentrate che propongono un ritorno all’olismo e al concetto di terra come organismo unitario e sacro. Questo approccio olistico è ricco di suggestioni, ma è anche abbastanza problematico per una pensatrice materialista-vitalista. A essere problematica non è tanto la componente olistica quanto il metodo dualista socio-costruttivista. Questo metodo implica l’opposizione della terra all’industrializzazione, della natura alla cultura, dell’ambiente alla società, e inoltre si schiera decisamente dalla parte dell’ordine naturale. Ciò si evince in modo rilevante dall’agenda politica che critica consumismo e individualismo possessivo, e che include pesanti accuse alla ragione tecnocratica e alla cultura tecnologica. Quest’approccio presenta però due inconvenienti. In primo luogo, il suo lato tecnofobico non ci è particolarmente di aiuto, considerato il mondo in cui viviamo. In secondo luogo, paradossalmente reinstaura la divisione tra naturale e manufatto che stiamo cercando di superare. Perché sono in disaccordo con questa posizione? A causa di due concetti interrelati: in primo luogo il concetto di continuum natura-cultura e il conseguente rifiuto del metodo dualista del socio-costruttivismo – i neoumanisti postantropocentrici finisco90

no per restaurare tale distinzione, sebbene con le migliori intenzioni circa l’ordine naturale; in secondo luogo perché diffido del legame, tra umani e non umani, di tipo negativo che avanza nell’era dell’antropocene. L’abbraccio transpecie si fonda sulla nozione di catastrofe imminente: la questione della crisi ambientale e del riscaldamento globale, per non parlare della militarizzazione dello spazio, che riducono tutte le specie allo stesso grado di vulnerabilità. Il problema di questa posizione è che, in flagrante contraddizione con gli scopi esplicitamente predeterminati, essa promuove la piena umanizzazione dell’ambiente. Mi colpisce questo movimento regressivo, quasi una reminiscenza del sentimentalismo della fase romantica della cultura europea. Concordo con la valutazione di Val Plumwood (1993, 2003), la quale sostiene che l’ecologia profonda fraintende il nesso terra-cosmo e si limita ad ampliare i confini dell’egoismo possessivo e dell’interesse personale per includervi agenti non umani. In modo significativo, laddove l’approccio olisitico si serve del monismo di Spinoza, esso si stacca chiaramente dalle riletture materialiste e laiche di Spinoza proposte da intellettuali del calibro di Deleuze e Guattari, Foucault, o altri filoni radicali della filosofia continentale. Il concetto spinozista di unità tra mente e corpo è impiegato invece al fine di sostenere la convinzione che tutta la vita sia sacra e che le sia dovuto il più grande rispetto. Questa idolatria dell’ordine naturale è connessa alla visione di Dio e al concetto di unità di uomo e natura di Spinoza. Essa sottolinea l’armonia tra habitat umano e habitat naturale al fine di proporre una sorta di sintesi dei due. L’ecologia profonda è un movimento caratterizzato da una forte carica spirituale con accenti essenzialisti. Dal momento che non vi sono confini e che tutte le cose sono connesse, arreccare danno alla natura vuol dire, alla fine, arrecare danno a se stessi. Dunque, l’ambiente terra nel suo insieme merita la stessa considerazione etica e politica degli umani. Questa posizione decisamente oltre la laicità può anche esserci utile, ma mi colpisce come essa diventi un’altra maniera per umanizzare l’ambiente, ovvero una sorta di residuo di magnanima normatività antropomorfica, applicata agli agenti planetari non umani. L’umanesimo compensatorio è un’arma a doppio taglio. In contrasto con questa posizione, partendo però da alcune delle sue premesse, preferisco proporre una lettura aggiornata dello spinozismo critico (Citton e Lordon, 2008). Io interpreto il monismo spinozista, e le forme immanenti di critica radicale che 91

su di esso si basano, come un movimento democratico che promuove una sorta di pacifismo ontologico. L’uguaglianza delle specie nel mondo postantropocentrico ci sollecita a dubitare della violenza e del pensiero gerarchico che derivano dall’arroganza umana e dall’ipotesi dell’eccezionalismo trascendentale umano. Un approccio spinozista, reintrepretato grazie a Deleuze e Guattari, ci permette di superare gli ostacoli del pensiero binario e di centrare la problematica ambientale in tutta la sua complessità. Il monismo contemporaneo implica una nozione di materia vitale e capace di autorganizzazione, come abbiamo visto nel precedente capitolo, così come una definizione non umana della vita come zoe, cioè come forza dinamica e generatrice. Esso comporta «l’incarnazione della mente e la mentalizzazione del corpo» (Marks 1998). Deleuze si riferisce a questa energia vitale come al grande animale, alla macchina cosmica, non in senso meccanicista o utilitarista, ma al fine di evitare ogni riferimento al determinismo biologico da un lato, e allo stravalutato e psicologizzato individualismo dall’altro. Deleuze e Guattari usano inoltre il termine Caos per indicare il frastuono dell’energia cosmica che molti di noi preferirebbero ignorare. Essi sono molto attenti, tuttavia, a segnalare che il Caos non è caotico, piuttosto esso contiene le infinite possibilità di tutte le forze virtuali. Queste potenzialità sono reali nella misura in cui esigono di concretizzarsi in pratiche sostenibili. Per sottolineare questa stretta connessione tra il virtuale e il reale, Deleuze e Guattari si rivolgono alla letteratura e prendono in prestito da James Joyce il neologismo caosmosi. Caosmosi significa condensazione di caos e cosmos, e rappresenta la risorsa dell’energia perenne. Ancora, la questione del linguaggio e della rappresentazione si manifesta in una apparentemente astrusa scelta di termini. Quello che ritengo meritevole di lode, tra i miei maestri del pensiero critico, è il fatto che sono disposti a correre il rischio del ridicolo sperimentando un linguaggio che infrange le abitudini prestabilite e provoca deliberatamente reazioni immaginarie ed emozionali. Fine delle teoria critica è sconvolgere le opinioni comuni (doxa), non confermarle. Nonostante questo appraccio sia stato accolto in modo ostile dalle accademie (come vedremo nel quarto capitolo), io lo interpreto come un gesto generoso e spontaneo di sperimentazione, anche rischiosa, e dunque come una dichiarazione a favore della libertà accademica. Per questo sperimento le mie stesse figurazioni alternative, spaziando dal soggetto nomade agli altri personaggi concettuali, 92

che mi aiutano a navigare le tempestose acque della condizione postantropocentrica. Rigorosamente materialista, il mio stesso pensiero nomade difende la nozione postindividualista di un soggetto caratterizzato da una struttura monista e relazionale, il quale non è indifferenziato sotto il profilo delle coordinate sociali della classe, del sesso, del genere, dell’etnia e della razza. La soggettività nomade rappresenta l’ambito sociale della teoria della complessità. Cosa lega tutto questo al divenire terra? In realtà, siamo proprio al centro della questione. Riprendiamo l’argomentazione dall’idea del soggetto postumano. Dovreste ricordare neoumanisti postantropocentrici di ogni sorta, dai diritti degli animali alle eco-femministe, che oggi stanno celebrando la ricomposizione di un nuovo concetto di «umanità» declinato al negativo come specie in via di sparizione, accanto ad altre specie, e categorie non umane. In molti considerano la crisi ambientale come una manifestazione della necessità di restaurare i valori umanisti universali. Non ho veri e propri motivi di dissentire rispetto all’aspirazione morale che guida questo processo e condivido lo stesso slancio etico. Sono, però, seriamente preoccupata da questa riaffermazione acritica dell’Umanesimo, in quanto esso può rappresentare un fattore vincolante alla nozione reattiva implicita in un legame panumano declinato al negativo. È importante sottolineare che la consapevolezza di quel qualcosa che noi chiamiamo umanità non dovrebbe condurre di nuovo all’appiattimento o alla rimozione di tutti i differenziali di potere, che ancora sono emanati e resi efficaci dagli assi di sessualizzazione/razzializzazione/naturalizzazione, sebbene rimescolati dalla forza centrifuga delle tecnologie avanzate, del capitalismo biogenetico. La teoria critica oggi ha bisogno di pensare simultaneamente lo spostamento delle frontiere tra le differenze categoriche e la loro riaffermazione dentro nuove forme di economia politica biomediata e di biopolitica con modelli ormai tradizionali di esclusione e di dominazione. Per esempio, nella sua analisi dei doppi limiti dell’Umanesimo classico e della teoria postmarxista, Dipesh Chakrabarty solleva una questione molto pertinente a riguardo: se si considera la differenza della produzione di anidride carbonica tra le nazioni più ricche e quelle più povere, è davvero giusto parlare della crisi del cambiamento climatico come di una comune preoccupazione umana? Mi spingo ancora oltre e chiedo: non è forse azzardato accettare la costituzione in senso negativo di una nuova formazione dell’umanità, in qualità di categoria che si estende a tutti gli esseri umani, in deroga a tutte le altre differenze? 93

E se queste differenze esistono e continuano a contare, cosa ce ne facciamo di loro? Il processo del divenire terra deve mirare invece a una relazione planeteria qualitativamente differente. La questione delle differenze ci riporta al potere e alla politica della collocazione (Rich, 1984). La necessità di una teoria etica-politica della soggettività, risponde all’esigenza di capire chi sia esattamente il «noi» di questa panumanità riunificata dalla paura della minaccia comune. Chakrabarty scrive lucidamente (2009: 222): «Le altre specie potrebbero costituire una chiave di ingresso, per gli esseri umani, in una nuova storia universale, necessità che è evidenziata dal pericolo del cambiamento climatico»15. Infine, direi che i teorici critici avrebbero bisogno di trovare un argomento rigoroso e coerente per resistere alla neutralizzazione delle differenze, fenomeno indotto dalla materialità perversa e dalla mobilità tendenziosa del capitalismo avanzato. Una via più egalitaria, zoe-centrata, richiede un briciolo di buona volontà da parte del soggetto dominante, in questo caso l’anthropos medesimo, verso gli altri non umani. Sono consapevole, di certo, che questo è chiedere molto. L’allontanamento postantropocentrico dalle relazioni gerarchiche che privilegiavano l’Uomo richiede al soggetto una sorta di estraniazione e di riposizionamento radicali. Il modo migliore di assolvere a tale compito è la strategia della de-familiarizzazione o della presa di distanza critica dalla visione dominante del soggetto. La disidentificazione comprende la perdita delle abitudini familiari del pensiero e della rappresentazione al fine di aprire la strada alle alternative creative. Deleuze avrebbe chiamato tutto ciò deterritorializzazione attiva. Le teorie femministe, postcoloniali e quelle della razza hanno inoltre apportato notevoli contributi al metodo e alla strategia politica della defamiliarizzazione (Gilroy 2005). Io ho difeso tale metodo in quanto disidentificazione dai valori familiari e normativi, come le istituzioni dominanti della mascolinità e della femminilità, in modo tale da spostare la differenza sessuale verso i processi del divenire molecolare (Braidotti 1995, 2011). In modo simile, Moira Gatens e Genevieve Lloyd (1999) affermano che i cambiamenti sociali storicamente fondati esigono una svolta qualitativa, o un desiderio condiviso di trasformazione, per «la nostra immaginazione collettiva». Il contesto concettuale di riferimento che ho 15. D. Chakrabarty, The Climate of History: Four Theses, «Critical Inquiry», 35, 2009, pp. 197-222.

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adottato per il metodo della defamiliarizzazione è il monismo. Esso implica flussi di divenire aperti, interrelazionali, multisessuati e transpecie tramite l’interazione con i molteplici altri. Un soggetto postumano così costituito eccede sia i confini dell’antropocentrismo che dell’umanesimo compensatorio, per acquisire una dimensione planetaria. Postumano e divenire macchina La questione della tecnologia è centrale per la condizione postantropocentrica ed essa è già stata citata diverse volte nei paragrafi precedenti. La relazione tra l’umano e l’altro tecnologico è cambiata nel contesto contemporaneo, per toccare livelli senza precedenti di prossimità e interconnessione. La condizione postumana è tale da costringere allo slittamento delle linee di demarcazione tra le differenze strutturali, o tra le categorie ontologiche, ad esempio tra l’organico e l’inorganico, l’originale e il manufatto, la carne e il metallo, i circuiti elettronici e i sistemi nervosi organici. Come nel caso della relazione umano-animale, l’esigenza critica è andare oltre la metamorfizzazione. La funzione di metafora o analogia che i macchinari hanno assolto nella modernità, in qualità di dispositivi antropocentrici che imitano le capacità incarnate umane, è oggi sostituita da un’economia politica più complessa che connette corpi e macchine in modo più intimo, tramite simulazione e modificazioni reciproche. Come Andrew Huyssen (1986) ha sostenuto, nell’era elettronica, cavi e circuiti esercitano un altro tipo di seduzione rispetto a quella dei pistoni e dei motori dell’industria meccanica. Le macchine elettroniche sono, da quest’angolazione, abbastanza immateriali: scatole di plastica e cavi di metallo che trasmettono informazioni. Esse non rappresentano nulla, piuttosto trasportano istruzioni chiare e sono in grado di riprodurre schemi di informazioni. La pressione principale della seduzione micro-elettronica è, in realtà, neurale in quanto mette in primo piano la compenetrazione della coscienza umana con la complessiva rete elettronica. Le attuali tecnologie dell’informazione e della comunicazione esteriorizzano e duplicano elettronicamente il sistema nervoso umano. Questo ha provocato un cambiamento nel campo delle percezioni: i modelli visuali di rappresentazione sono stati sostituiti da modelli sensoriali-neuronali di simulazione. Come afferma Patricia Clough noi siamo diventati corpi biomediati (2008, 3). 95

Possiamo pertanto tranquillamente partire dall’ipotesi che i cyborg sono le formazioni sociali e culturali dominanti, i quali hanno ruoli attivi nella fabbrica sociale, con diverse implicazioni economiche e politiche (vedi figura). Consentitemi di chiarire quest’affermazione aggiungendo che tutte le tecnologie possono dirsi dotate di un forte effetto biopolitico sui soggetti incarnati con cui si intersecano. Così, i cyborg comprendono non solo gli affascinanti corpi high tech dei piloti militari, degli atleti e delle celebrità, ma anche le masse anonime del proletariato digitale sottopagato, che nutre l’economia globale tecnologicamente guidata senza mai potervi accedere (Braidotti 2008a). Ritornerò su questa economia politica crudele nel prossimo capitolo. Quello che voglio dimostrare adesso è che la mediazione tecnologica è centrale per la nuova visione della soggettività postumana e che essa costituisce il terreno per nuove rivendicazioni etiche. Il concetto postumano di sé relazionale, incarnato ed esteso, tiene sotto controllo la tecno-euforia tramite un’etica sostenibile delle trasformazioni. Questa posizione equilibrata invita a resistere sia all’attrazione fatale rappresentata dalla nostalgia, sia alle fantasie transumaniste e alle altre tecno-utopie. Essa inoltre tiene insieme la retorica del «desiderio di essere cablati» con il senso più radicale del materialismo che si dice «orgoglioso di essere carne» (Sobchack, 2004). L’enfasi sull’immanenza ci permette di rispettare il legame di mutua dipendenza tra i corpi e gli altri tecnologici, evitando al contempo il disprezzo per la carne e la fantasia transumanista di abbandonare la materialità finita del sé incarnato. Come vedremo nel prossimo capitolo, le questioni circa la morte e la mortalità saranno sollevate per necessità. Voglio discutere la visione vitalista degli altri tecnologicamente biomediati. Questa vitalità macchinica non ha molto a che fare con il determinismo, con la teleologia e la finalità intrinseca, quanto con il divenire e il cambiamento. Questo ci conduce al concetto che Deleuze e Guattari esprimono come divenire macchina, ispirati dalle macchine celibi dei Surrealisti, una relazione con la tecnologia ludica e incline al piacere che non si basa sul funzionalismo. Per Deleuze questo è connesso al progetto di liberare la personificazione umana dal suo riferimento alla produttività socializzata, al fine di divenire corpo senza organi, ovvero corpo privo di efficienza organizzativa. Questo non c’entra molto con l’insurrezione hippy dei sensi, quanto piuttosto con un attento e riflettuto programma che persegue due scopi. In primo luogo, esso tenta di ripensare i nostri 96

Figura 2.4. Victor Habbick (Maninblack), Robot in the style of Leonardo Da Vinci’s Vitruvian Man, Clivia – Pixmac.

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corpi in profondità come parte del continuum natura-cultura. In secondo luogo, esso apporta una dimensione politica, stabilendo il contesto per la ricomposizione della materialità corporea in direzione diametricalmente opposta alla simulata efficienza e allo spietato opportunismo del capitalismo avanzato. Le macchine attuali non sono metafore, sono motori, dispositivi che al contempo catturano e sviluppano forze ed energie, promuovendo le interazioni, le connessioni multiple e gli assemblaggi. Esse si distinguono per la relazionalità radicale e la gioia così come per la produttività. Il divenire macchina interpretato in questo modo indica e attualizza le relazioni di potere di un soggetto che non è più rinchiuso nel contesto dialettico, ma che gode di un legame privilegiato con i molteplici altri e che si fonde con l’ambiente planetario tecnologicamente modificato. La fusione di umano e tecnologico si concretizza in un nuovo composto trasversale, un nuovo tipo di unità eco-filosofica, non dissimile dalla relazione simbiotica tra animale e habitat planetario. Questa non è la fusione olitistica che Hegel aveva rimproverato a Spinoza, quanto piuttosto una relazione radicalmente trasversale che genera nuove tipologie di soggettività, prese in considerazione dall’etologia delle forze. Queste nuove relazioni sostengono l’etica vitalista della mutua interdipendenza transpecie. L’ecologia si generalizza, diviene eco-sofia, mira a investire trasversalmente gli strati molteplici del soggetto, dall’interiorità all’esteriorità passando per tutto ciò che vi sta in mezzo. Questo processo è ciò che io chiamo «postantropocentrismo postumanista», ed è ciò che difendo in questo libro. Esso implica una presa di distanza radicale dalle nozioni di razionalità morale, identità unitaria, coscienza trascendentale e valori morali innati e universali. L’attenzione è interamente rivolta alle strutture relazionali normativamente neutrali sia della soggettivazione che delle possibili relazioni etiche. L’elaborazione di nuovi contesti normativi per il soggetto postumano è al centro degli sforzi collettivi delle sperimentazioni no profit di cui parlavo nel capitolo precedente, rappresenta perciò quello che noi siamo attualmente capaci di divenire. Questi esperimenti sono praxis (un progetto condiviso e radicato) non doxa (opinione del senso comune). Il mio stesso concetto di soggetto nomade incarna questo approccio, il quale combina la soggettività non unitaria ed etica della responsabilità, mettendo in primo piano il ruolo ontologico rivestito dalla relazionalità. Secondo Félix Guattari, la condizione postumana evoca una 98

nuova ecologia sociale virtuale che include elementi etici, politici, sociali ed estetici, nonché le connessioni trasversali tra loro. Per spiegare questa visione Guattari propone tre ecologie fondamentali: quella dell’ambiente, della connessione sociale, e della psiche. In modo più significativo, egli evidenzia la necessità di creare linee trasversali che attraversino tutte e tre. Questa spiegazione è importante e vorrei collegarla al promemoria teoretico che ho fatto prima, precisamente al fatto che abbiamo bisogno della pratica della defamiliarizzazione come metodo cruciale della teoria critica postumana per imparare a pensare differentemente. È importante, ad esempio, cogliere le interconnessioni tra effetto serra, condizione delle donne, razzismo, xenofobia e consumismo frentico. Non dovremmo limitarci a nessuna porzione di queste realtà, bensì dovremmo rintracciare i collegamenti trasversali che vi sono tra loro. Il soggetto è ontologicamente polivocale. Esso poggia su un piano di consistenza che comprende sia il reale già avvenuto, le regioni esistenziali territorializzate, che il reale ancora virtuale, gli universi immateriali deterritorializzati (Guattari 2007). Guattari invita alla riappropriazione collettiva della produzione di soggettività, attraverso una caosmotica disgregazione delle categorie differenziali. Dovreste ricordare che Caosmosi è l’universo di riferimento del divenire, nel suo significato di apertura di valori virtuali e trasformativi. Se vogliamo che la soggettività rifugga il regime di mercificazione peculiare alla nostra epoca storica, è necessario un salto qualitativo in avanti, una sperimentazione di possibilità virtuali. Noi abbiamo bisogno di divenire quel tipo di soggetti che desiderano attivamente reinventare la soggettività come insieme di valori mutevoli e che traggono il loro piacere da questa attività, non dalla perpetua riproposizione di regimi familiari. L’opera di Humberto Marturana e Francisco Varela (1972) è una grande fonte di ispirazione al fine di ridefinire questo tipo di etica della codeterminazione tra il sé e gli altri, etica vincolata ambientalmente, non kantiana e postantropocentrica. Il concetto di co-dipendenza sostituisce qui quello di riconoscimento, come l’etica della sostenibilità sostituisce la filosofia morale dei diritti. Questo lavoro conferma l’importanza di una prospettiva radicata, situata, molto specifica e responsabile, all’interno del movimento che definisco egalitarismo zoe-centrato. Nella sua analisi delle metamorfosi esistenziali collettive che stanno avvenendo oggigiorno (2007), Felix Guattari si riferisce 99

alla distinzione di Varela tra sistemi autopoietici (capaci di autorganizzazione) e allopoietici. Guattari si spinge oltre la distinzione proposta da Varela, dal momento che estende il principio di autopoiesi (che in Varela è riservato al solo organismo biologico) all’ambito delle macchine e degli altri tecnologici. La soggettivazione autopoietica, l’autosoggettivazione, è un altro modo di chiamare la soggettività secondo Guattari, ed essa può essere impiegata sia per gli organismi viventi, gli umani come insieme che si autorganizza, che per la materia inorganica, ovvero le macchine. L’autopoiesi macchinica di Guattari stabilisce un collegamento qualitativo tra la materia organica e gli artefatti tecnologici e macchinici. Essa si traduce in una radicale ridefinizione delle macchine, ora considerate sia intelligenti che generatrici. Le quali possiedono una propria temporalità e si sviluppano attraverso generazioni: contengono la loro stessa virtualità e forma futura. Di conseguenza, hanno proprie forme di alterità non solo rispetto agli umani, ma anche tra loro stesse, mirano a raggiungere una sorta di meta-stabilità, presupposto del’individuazione. La rilevanza dell’autorganizzazione e della metastabilità influenzano il progetto di divenire macchina del soggetto postumano. Ciò ci aiuta a ripensare la soggettività mediata trasversalmente e tecnologicamente, evitando al contempo il riduzionismo scientifico. Nella sua critica alla retorica del vitalismo biotecnologico Ansell Pearson (1997) ci mette in guardia circa le pericolose fantasie legate alla nozione rinaturalizzata di evoluzione, modificata dal capitalismo avanzato biotecnologico. Io credo che il fine della posizione postumana sia ripensare l’evoluzione in modo non determinista e al contempo postantropocentrico. In contrasto con le idee classiche, lineari e teleologiche di evoluzione (Chardin de Teillard 1959), mi piace evidenziare il progetto collettivo di trovare una più appropriata interpretazione della complessità di fattori che strutturano il soggetto postumano: la nuova prossimità agli animali, alla dimensione planetaria, agli alti livelli di mediazione tecnologica. L’autopoiesi macchinica indica che la tecnologia è un luogo del divenire postantropocentrico, una soglia per altri possibili mondi. La nozione chiave è la trasversalità delle relazioni, per un soggetto postantropocentrico e postumano che traccia connessioni trasversali lungo le linee materiali e simboliche, concrete e discorsive delle relazioni e delle forze. La trasversalità concretizza l’egalitarismo zoe-centrato come etica e metodo per rendere conto delle forme alternative della soggettività postumana. Un’etica ba100

sata sul primato della relazione, dell’interdipendenza, è un’etica che valorizza zoe in sé. Con le espressioni «neomaterialismo radicale» (Braidotti 1994) o «realismo della materia» (Fraser et. al 2006) mi rifersico, inoltre, a queste pratiche del divenire macchina. Queste concezioni sono supportate e attraversate dalle interpetazioni rivoluzionarie della struttura concettuale della materia stessa (Delanda 2002; Bennet 2010) nell’era delle tecnologie della biogenetica e dell’informazione. L’ottica spinozista dell’ontologia politica monista appoggia le politiche dell’affermazione e sostiene una visione non determinista dell’evoluzione. Da un’angolazione politica, l’accento ricade di conseguenza sulla micro-politica delle relazioni, in qualità di etica postumana che traccia collegamenti trasversali tra linee e forze materiali e simboliche, concrete e discorsive. L’attenzione è rivolta alla potenza e all’autonomia dell’affetto e alla logistica della sua concretizzazione (Massumi 2002). La trasversalità incarna l’etica fondata sulla supremazia della relazione, dell’interdipendenza, che valorizza i non umani e la vita a-personale. Questo è quello che mi piace definire politica postumana (Braidotti 2008a). La differenza come principio del Non-uno Permettetemi di fare un bilancio di quanto siamo arrivati lontano nel complesso dibattito aperto dalla scomparsa dell’anthropos. In primo luogo, ho sostenuto che il capitalismo contemporaneo è biopolitico poiché mira a controllore tutte le forme di vita. Esso si è già evoluto in una sorta di biopirateria (Shiva 1999), dal momento che sfrutta la potenza generativa delle donne, degli animali, delle piante, dei geni e delle cellule. In secondo luogo, questo significa che umani e altri antropomorfi sono ricollocati in uno spazio attiguo e continuo a quello degli altri non antropomorfi, della terra e degli animali. La distinzione categorica che separava l’umano dagli altri naturalizzati è saltata, una volta rovesciata la convinzione umanista riguardo alla costituzione dell’unità di riferimento basilare dell’umano. In terzo luogo, questo processo antropocentrico sfocia in una categoria negativa di umano, intesa come una specie in via di estinzione vincolata alla paura della fine. Esso esorta inoltre a una rinnovata unità tra l’uomo e le altre specie, nella forma dell’estensione compensatoria dei valori e dei diritti umanisti agli altri non umani. In quarto luogo, lo stesso sistema perpetua modelli tradizionali di esclusione, sfruttamento e oppressio101

ne. Al fine di gettare le fondamenta per la mia tesi circa i vantaggi della posizione del soggetto postumano basata sulla relazionalità e le connessioni attraverso gli assi classici della differenziazione, occore che il prossimo passo dell’argomentazione sia compiuto in direzione della questione della differenza. Osserverò quindi criticamente lo statuto e la funzione della differenza in questo nuovo orizzonte postantropocentrico. Come ho affermato nel capitolo precedente, la caratteristica più evidente dell’attuale ridenfinizione scientifica della materia è lo slittamento della differenza dagli schemi binari ai processi rizomatici; dalle opposizioni sesso/genere o natura/cultura ai processi di sessualizzazione/razzializzazione e naturalizzazione che fanno della vita in sé, o della vitalità della materia, il loro obiettivo principale. Questo sistema provoca deliberatamente l’indebolimento delle differenze dicotomiche, il che non risolve né migliora il potere delle differenze, anzi lo intensifica in modi diversi. In altre parole gli effetti dell’opportunismo postantropocentrico dell’economia globale generano un cosmopolitismo negativo o un sentimento reattivo di panumanità attraverso l’introduzione della nozione di plusvalore della vita e un grado più elevato di condivisione della vulnerabilità umana. La linea di ricerca politica deve partire da queste prime considerazioni per sollevare alcune domande chiave riguardo alla soggettività. Ad esempio, Katherine Hayles si chiede: «Cosa hanno a che fare i corpi sessuati con la cancellazione del corpo e con la conseguente fusione dell’intelligenza macchinica e umana nella figura del cyborg?» (Hayles 1999, XII). Con accento simile, Balsamo, che ritiene i corpi già e sempre segnati da sesso e razza, domanda: «Quando il corpo umano è frammentato in organi, fluidi, codici genetici, cosa accade all’identità sessuale? Quando il corpo è diviso in parti funzionali e codici molecolari, dove si colloca il genere?» (1996, 6). Proviamo ad affidarci alle donne, ai gay, alle lesbiche e alle altre esperienze alternative, con i loro corpi storicamente porosi (Grosz 1994) e il loro accesso marginale ai diritti civili, sia per riaffermare la potenza che per migliorare la potenzialità dell’organismo postumano come wetware16 generativo. L’ingegneria genetica e le biotecnologie hanno determinato uno sconvolgimento qualitativo concettuale nella classificazione attua16. Il termine wetware è utilizzato per descrivere l’interazione tra il cervello umano e il software. Nel linguaggio comune indica il cervello inteso come insieme di capacità logiche e computazionali dell’essere umano.

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le dei soggetti incarnati. Come ho affermato in precedenza, i corpi sono ridotti alla loro superficie informazionale in termini di materialità e capacità vitali. Di consegneuza, ciò comporta che i segnali di organizzazione e distribuzione delle differenze sono ricollocati nei micro-elementi della materialità vitale, quali le cellule degli organismi viventi e il codice genetico di intere specie. Siamo ben lungi dal sistema grossolano che evidenziava la differenza sulla base di caratteristiche anatomiche, verificabili a occhio nudo, tra i sessi, le razze e le specie. Siamo passati dal biopotere, che Foucault esemplificava tramite l’anatomia comparata, a una società fondata sul controllo del potere molecolare della zoe. Allo stesso modo siamo passati dalla società disciplinare a quella del controllo, dall’economia politica del Panopoticon all’informatica del dominio (Haraway 1990, 1992, 2003). Le questioni della differenza e della dissimetria del potere, tuttavia, rimangono centrali come sempre. Tale panorama politico postumano non è necessariamente più egualitario o meno razzista ed eterosessista, visto il suo impegno a sostenere ruoli di genere conservatori e valori familiari, anche a costo di proiettarli su speci intergalattiche e aliene, – come nel caso del successo hollywoodiano del film Avatar (2009). Il potere della tecno-cultura contemporanea di destabilizzare gli assi categoriali della differenza inasprisce le relazioni di potere e le conduce a nuovi picchi necropolitici, come vedremo nel prossimo capitolo. Esso si traduce anche in alcune tendenze ingannevoli, quali la tecno-trascendenza, che unita al carattere orientato al profitto dell’individualismo liberale, emerge come uno dei segni distintivi dell’immaginario sociale del capitalismo avanzato. Quali sono le conseguenze del fatto che l’apparato tecnologico non è più sessualizzato, naturalizzato e razzializzato, ma piuttosto neutralizzato come cifra della commistione, dell’ibridismo e dell’interconnessione, nel momento in cui la transessualità diviene topos postumano per eccellenza? Se la macchina è capace di autogestione ed è al contempo transessuale, il vecchio, organico corpo umano necessita di essere collocato altrove. Sempre memore del monito di Lyotard circa l’economia politica del capitalismo avanzato, ritengo che non dovremmo fidarci dello svuotamento di concetti e posizioni né degli stati di indeterminatezza che esso genera. Sebbene allettante, sarebbe fuorviante dare per scontato che i soggetti postumani incarnati siano già oltre le differenze sessuali e razziali. La politica della rappresentazione e, quindi, la posizione delle differenze, sono ancora ferme al loro 103

posto, anche se hanno vacillato significativamente (Bukatman 1993). Lungo la frontiera elettronica, come abbiamo visto prima, il punto di riferimento per il soggetto tecnologicamente mediato non si basa sull’opposizione organico/inorganico, maschio/femmina, e soprattutto non è di colore bianco. Il capitalismo avanzato è un sistema postgenere capace di accogliere un alto livello di androginia e un indebolimento notevole della divisione categorica tra i sessi. Esso è inoltre un sistema postrazziale che non classifica più i popoli e le loro culture in base alla pigmentazione della pelle (Gilroy, 2000), nondimeno rimane profondamente razzista. Una solida teoria della soggettività postumana può aiutarci nella riappropriazione di questi processi, sia teoreticamente che politicamente, non solo come strumento analitico, ma anche come base alternativa della soggettivazione. Le differenze sessualizzate, naturalizzate e razzializzate vengono scardinate dal ruolo di indicatori di confine delle categorie che avevano durante l’umanesimo per funzionare come motori per l’elaborazione di modelli alternativi di soggettività trasversale, che si estendono non solo oltre sesso e razza, ma anche oltre l’umano. L’eco-filosofia postumana si applica alla rilettura in termini materialisti dell’intricata trama di interrelazioni che collegano i soggetti attuali alle loro molteplici ecologie, quella sociale, naturale e psichica, come Guattari ci ha mostrato. Più importante al fine della tesi qui adottata, tali differenze non eliminano i processi di sessualizzazione, naturalizzazione e razzializzazione che costituiscono i pilastri della governamentalità biopolitica, piuttosto li ristrutturano profondamente. In termini di politica femminista, ciò significa che ci occorre ripensare la sessualità senza i generi, cominciando proprio con la ripresa vitalista della struttura polimorfa e, secondo Freud perversa (nel senso di ludica e priva di fini riproduttivi), della sessualità umana. Abbiamo inoltre bisogno di rivalutare la potenza generativa del corpo delle donne. In questa prospettiva, il genere è solo un meccanismo storico e contingente di cattura delle molteplici potenzialità del corpo, incluse le sue capacità generative e riproduttive. Trasformare il genere in matrice transtorica del potere, come suggerisce la teoria queer della tradizione linguista socio-costruttivista (Butler 1991), costituisce semplicemente un errore concettuale e politico. Nella prospettiva monista dell’economia politica postumana, il potere non è un dato statico, ma un flusso complesso e strategico di effetti che invita a una politica pragmatica di intervento e alla 104

ricerca di alternative sostenibili (Braidotti, 2008a). In altre parole, abbiamo bisogno di sperimentare con resistenza e intensità al fine di comprendere che cosa possono i nostri corpi postumani. Dal momento che il sistema cattura la complessità della sessualità umana in una macchina binaria che privilegia la formazione di famiglie eterosessuali e sottrae letteralmente ogni altra possibilità ai nostri corpi, non sappiamo più cosa sono in grado di fare i corpi sessuati. Abbiamo dunque bisogno di riscoprire la nozione di complessità sessuale che delimita la sessualità nelle sue forme umane e postumane. Un approccio postantropocentrico mostra con chiarezza che la materia corporea umana, come delle altre specie, è sempre già sessuata e quindi differenziata sessualmente lungo gli assi della molteplicità e dell’eterogeneità. Ho affermato che il femminismo vitalista, materialista o postumano, poggiando su un’ontologia politica monista e dinamica, sposta l’attenzione lontano dalla distinzione sesso/genere, mettendo in rilievo la sessualità come processo. Questo significa, per estensione, che la sessualità è una forza, un elemento costituente, capace di deterritorializzare l’identità di genere e le sue istituzioni (Braidotti, 1994). Unito all’idea del corpo come di un complesso assemblaggio di possibilità virtuali, questo approccio postula la priorità ontologica della differenza e la sua forza autotrasformatrice. Claire Colebrook (2000), ad esempio, sostiene che la differenza sessuale non è un problema da risolvere, bensì una posizione utile da cui partire. Patricia MacCormack (2008) pone la stessa attenzione alla necessità di ritornare alla sessualità come forza viscerale, polimorfa e complessa e di liberarla sia dal problema dell’identità che dalle opposizione dualiste. Le femministe postumane praticano la sovversione non nel senso dello sviluppo delle contro-identità, bensì nel senso della dislocazione delle identità attraverso la perversione dei modelli standardizzati di interazione sessuale, razziale e naturale. Questo mettere alla prova cosa i nostri corpi sessuati possono fare, tuttavia, non equivale a dire che nella sfera sociale le differenze non contano più o che le relazioni tradizioni di potere sono in realtà migliorate. Al contrario su scala mondiale forme estreme di differenza sessuale polarizzata sono più diffuse che mai. Esse vengono proiettate in relazioni geopolitiche, in modo da creare immagini sessuate belligeranti dello scontro di civiltà, che, come ho sostenuto nel capitolo precedente, è invocato nel presunto nome delle donne e delle persone LGBT. Queste manifestazioni reazio105

narie delle dicotomie di genere costituiscono però solo una parte del quadro generale. Il quadro più ampio mostra che lo spostamento del precedente sistema di indicatori di differenze ha reso ancora più urgente la riproposizione del concetto di differenza come determinante ma non essenzialista. Ho sottolineato la differenza in quanto principio di Non-uno, ovvero come una differenza da sé che è costituitiva del soggetto postumano, e la necessità di elaborare forme di responsabilità etica per accompagnarlo. L’etica postumana ci spinge ad adottare il principio del Non-uno come struttura profonda della nostra soggettività, tramite il riconoscimento dei legami che ci uniscono ai molteplici altri in una trama vitale di interrelazioni complesse. Questo principio etico infrange la fantasia dell’unità, della totalità e dell’univocità, così come le narrative psicanalitiche dominanti della perdita primordiale, della mancanza incolmabile e della separazione irreparabile. Quello che vorrei evidenziare, invece, con un accento maggiormante affermativo, è la priorità della relazione, la consapevolezza che il soggetto Non-uno non è all’origine di se stesso, ma l’effetto del perenne flusso di incontri, interazioni, affettività e desideri che provengono dagli altri e da altrove. Questa umile esperienza di non-unicità, costitutiva del soggetto non unitario, àncora il soggetto a un legame etico con l’alterità, con gli altri molteplici ed esterni che vanno a formare quell’entità che, per pigrizia ed abitudine, siamo soliti chiamare sé. La teoria politica vitalista, nomadica e postuma, sottolinea gli aspetti produttivi della condizione del Non-uno, ovvero la nozione generativa di complessità. All’inizio vi è sempre già una relazione con un’entità affettiva e interattiva dotata di carne intelligente e mente incarnata: la relazionalità ontologica. Una politica materialista delle differenze postumane si serve di divenire potenziali che esigono la loro attualizzazzione. Essi sono concretizzati da prassi collettive basate sulle comunità, e divengono fondamentali per reggere il processo vitalista della ricomposizione non unitaria ma responsabile di un popolo mancante. Questo è il noi che è evocato e attualizzato per esempio dalla creazione postantropocentrica di una nuova panumanità. Esso esprime la dimensione affettiva ed etica del divenire postumano come evento di autogestione collettiva. Esso concretizza una comunità che non è tenuta insieme dal nesso negativo della vulnerabilità, dalla colpa di una comune violenza ancestrale, dalla malinconia per il debito ontologico insolu106

bile, quanto piuttosto dal riconoscimento empatico della propria interdipendenza con i molteplici altri, molti dei quali, nell’era dell’antropocene, semplicemente non sono antropomorfi. Conclusione In questo capitolo ho perseguito un obiettivo duplice: in primis ho tentato di rispondere all’interrogativo su che cosa può significare il postumano all’interno della prospettiva postantropocentrica e poi ho sostenuto la causa della teoria postumana che si fa carico della soggettività. I problemi politici maggiori della politica postantropocentrica provengono dall’alleanza strumentale tra capitalismo biogenetico e individualismo, inteso come definizione umanista residuale. La mia versione del pensiero postumano è invece profondamente anti-individualista e consiste nel lavorare all’interno del sistema, non cedendo al mito dell’organicismo e dell’armonia olistica, così come all’opportunismo capitalista. Katherine Hayles (1999, 286) è autrice di un intervento molto potente sugli attuali corpi postumani: Il postumano non implica davvero la fine dell’umanità. Esso indica piuttosto la fine di una certa concezione dell’umano. [...] A essere letale non è il postumano come tale bensì il suo innesto nella visione liberale umanista del soggetto. Posizionato all’interno della dialettica tra modello e casualità, radicato nell’attualità materiale piuttosto che nell’informazione immateriale, il postumano si presenta come una nuova risorsa, una possibilità per ripensare il rapporto articolato tra umani e macchine intelligenti.

Hayles attacca la nozione classica umanista secondo la quale la soggettività coincide con la coscienza responsabile, in modo tale da evitare alcuni degli errori del passato umanista, soprattutto la visione liberale del soggetto autonomo il cui «destino esplicito è quello di dominare e controllare la natura» (Hayles, 1999, 288). Uno dei rischi dell’euforia che circonda i corpi-macchina postantropocentrici è quindi quello di riasserire una forte visione unitaria del soggetto, sotto la copertura della frammentazione pluralista. Corriamo il rischio di riconfermare la trascendenza attraverso la mediazione tecnologica e di proporre una neouniversale etica macchinica. Nel linguaggio della teoria critica postumana ciò 107

dà vita all’inganno della molteplicità quantitativa che non comporta alcuna trasformazione qualitativa. Per evitare questo tranello, in cui incorre l’euforia neoliberale, al fine di innescare trasformazioni qualitative, abbiamo bisogno di prendere egualmente le distanze dalla troppo elogiata immaterialità e dalle fantasie di fuga transumanista, così come dalle concezioni essenzialiste e centraliste dell’individualismo liberale. Avanzo la proposta di reinscrivere i corpi postumani in una relazionalità radicale che comprende varie relazioni di potere al livello sociale, psichico, ecologico, micro-biologico e cellulare. Il postantropocentrismo della scienza e dei nostri tempi globalizzati e tecnologicamente modificati rende più urgenti i lavori in direzione di una «nuova democrazia tecno-scientifica» (Haraway, 2000). Lo statuto e la posizione dell’Umanesimo, argomento del capitolo precedente, sono centrali nel dibattito sul postantropocentrismo. Io cerco di resistere alla neutralità politica dei filosofi e sociologi critici della scienza che sostiene una sorta di postantropocentrismo analitico ed evita o trascura la questione di come rinnovare la soggettività. Sostengo invece che il soggetto postantropocentrico si riferisce anche a un progetto antiumanista, cosa che implica la mia presa di distanza sia dalle convizioni umaniste circa i valori universali e il soggetto unitario, sia dalle forme estremiste di postumanesimo scientificamente orientato che congedano del tutto la necessità del soggetto. Un minimo di soggettività è indispensabile: non necessariamente univoca o esclusivamente antropocentrica, ma presente come terreno di fondo per garantire la responsabilità etica e politica, oltre che gli immaginari collettivi e le aspirazioni comuni. Ho detto e ripetuto che le ricerche filosofiche di modelli alternativi di responsabilità per la natura incarnata e integrata del soggetto sono di notevole importanza al fine di elaborare un approccio alla soggettività adeguato alla complessità della nostra epoca. Come spiegherò meglio nel quarto capitolo, questa discussione riapre la problematica della relazione tra le due culture, quella umanista e quella scientifica. La mia tesi è che gli studi sociali della scienza (Latour 2009) non sono né gli unici né i più utili strumenti di analisi dei fenomeni complessi che circondano i tecnocorpi postantropocentrici del capitalismo avanzato. Vorrei arrivare a questa conclusione da un’altra angolazione. Ho sostenuto che lo zoe-egalitarismo esprime la forza, al contempo vitalista e materialista, della vita in sé, di una zoe intesa come 108

potenza generatrice che fluisce attraverso tutte le specie. La nuova alleanza trasversale tra le specie e i soggetti postumani apre a inattese possibilità per la ricomposizione di comunità, per l’idea stessa di umanità e per le forme etiche dell’appartenenza. Tali possibilità non possono essere ridotte al legame negativo inteso come condivisione dei pericoli del pianeta: cambiamento climatico, crisi ambientale e persino minaccia d’estinzione. Quello che avanzo è un approccio più affermativo al fine di ridefinire la soggettività postumana, ne sono esempio i modelli alternativi di assemblaggio trasversale, relazionale e nomadico, che abbiamo visto nel corso di questo capitolo, o il sé natural-culturale esteso, alternativo rispetto al soggetto classico umanista che abbiamo visto nel precedente capitolo. Molti altri modelli sarebbero concettualizzabili e realizzabili, se solo scegliessimo di sperimentare in modo sistematico che cosa noi, soggetti differentemente collocati nell’era dell’antropocene, siamo capaci di divenire. Abbiamo tutti da guadagnare dal riconoscimento del legame strutturale, trasversale e postantropocentrico insito nella posizione di questi soggetti incarnati non umani, in precedenza noti come altri rispetto all’Uomo antropocentrico e umanista. La dimensione etica di tale progetto riguarda la creazione di un nuovo nesso sociale e di nuove forme di connessione con questi tecnoaltri. Che tipo di legami possiamo instaurare nel continuum natura-cultura in cui sono immersi gli organismi tecnologicamente modificati, e come possiamo sostenerli? Sia la parentela che la responsabilità etica devono essere ridefinte in modo tale da ripensare i vincoli affettivi non solo verso gli altri organici non antropomorfi, ma anche verso le creature tecnologicamente modificate, appena brevettate, con cui condividiamo il pianeta. In opposizione alla tendenza nostalgica che domina nella politica attuale, ma anche in contrasto con la nostalgia della sinistra progressista (Derrida, 2001; Butler, 2004a; Gilroy, 2005), vorrei sostenere che l’enfasi postumana per la vita/zoe è in grado di generare da sola politiche propositive. Il postantropocentrismo critico genera nuove prospettive che si spingono oltre il panico e il rimpianto per approdare a una piattaforma più proficua. Da un alto, esso produce una cartografia più adeguata delle nostre condizioni di vita reale, dal momento che si concentra con maggiore accuratezza sui corpi contemporanei tecnologicamente modificati e sulle pratiche sociali della soggettivazione umana. Inoltre, questo tipo di materialismo vitalista, non vincolato alle nette distinzioni 109

tra le specie, intende il concetto di zoe come potenza di vita generativa e non umana. Questo approccio postumano spazia dai meritevoli studi sui cyborg (Haraway 1995, Hayles 1999) al materialismo postcyborg (Braidotti 2003) e alla teoria postumana (Braidotti 2008a). Un approccio nomadico e zoe-centrato connette vita umana e non umana in modo da sviluppare un’eco-filosofia dei divenire inclusivi. Tale sensibilità postumana e postantropocentrica, che si fonda su risorse affettive e intellettuali profonde, esprime inoltre il mio rifiuto di adeguarmi alla doxa o a una concezione normativa di pensiero comunemente accettata. La condizione postumana, sia nel significato postumanista che in quello postantropocentrico del termine, ci spinge ad affermare che bisogna sperimentare altre forme di attività di pensiero, che bisogna essere persino trasgressivi nel combinare critica e creatività. Come ci insegnano Deleuze e Guattari, il pensiero riguarda l’invenzione di nuovi concetti e di nuove e produttive relazioni etiche. Pertanto, la filosofia è una forma di presa di distanza dai valori dominanti. Più clinica che critica, la teoria postumana ci deve disintossicare dalle tossine concettuali del passato. Deve infrangere la visione classica della soggettività, e muoversi verso una visione del soggetto più estesa, vitalista, trasversale e relazionale. Filosofia vuol dire oggi confronto con concetti che hanno attraversato cambiamenti senza precedenti, analisi della trasformazione dell’unità di riferimento basilare per decidere cosa conti in quanto umano. Questa mutazione propositiva e inattesa può aiutare a creare nuovi concetti, affetti e soggettivazioni planetarie. Proprio perché ignoriamo cosa possono fare i nostri corpi postumani, non possiamo neppure immaginare cosa le nostre menti postantropocentriche e incarnate saranno davvero in grado di pensare.

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Capitolo 3

L’inumano La vita oltre la morte

Uno dei miei film preferiti è L’inhumaine di Marcel L’Herbier17. Con le scenografie progettate da Fernand Léger e Robert MalletStevens, è un manifesto di eleganza espressionista, esuberanza costruttivista e fiducia futurista. L’elemento inumano in quest’opera magistrale è sintomatico del suo stesso momento storico. Il film tratta della capacità sovrannaturale delle femmine della nostra specie di manipolare e controllare il corso della storia umana e dell’evoluzione. Un’alleanza molto affascinate è sancita tra il corpo delle donne e i poteri accelleratori della tecnologia. L’oscillazione tra paura e desiderio viene riformulata nei termini patriarcali di una sfiducia ancestrale nei confronti delle donne potenti o che occupano posizioni di rilievo. La promessa del progresso storico e il potenziale distruttivo del corpo-macchina femminile si mantengono in un preciso e calcolato equilibrio. L’artefatto tecnologico e l’altro macchinico nel modernismo vengono sia sessuati che erotizzati, diventando emblema di un futuro tecnologicamente informato (Huyssen, 1986). In un altro capolavoro espressionista, Metropolis di Fritz Lang (1927), l’eroina Maria rappresenta il robot demoniaco che sovverte il corso della storia. Esso si basa sul racconto futurista L’Ève future18 (1977), che ritrae il corpo dell’altra macchinica della rivoluzione industriale come oggetto di un intenso desiderio: la carne si trasforma in metallo per nutrire la crescita del capitale. Il progresso è rappresentato come un orizzonte fantasmatico in cui le locomotive trainano con 17. Film del 1924, circolato in Italia con il titolo Futurismo. 18. Future Eve è un racconto di Villier de l’Isle-Adam, pubblicato per la prima volta nel 1886.

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successo, attraverso gallerie infinite, la storia occidentale. Sia macchine seducenti che mantidi religiose, sia vergini-madri che gravide attentatrici-suicide, il personaggio di Claire nell’Inhumaine e la Maria di Lang esprimono la relazione altamente sessualizzata e sessuata del XX secolo con le sue tecnologie industriali e le sue macchine. Questa visione è colta non solo all’interno del contesto antropomorfico, che posiziona l’umano al centro dell’evoluzione mondiale; essa sostiene anche la distinzione tra umano e tecnologico, anche al solo fine di ridefinire i termini di una nuova alleanza. Ciò produce un mondo inumano multisfaccettato. Nell’epoca moderna il potere della tecnologia si caratterizza non solo come evento isolato, ma anche come componente rilevante dell’articolazione dell’industrializzazione, che include gli oggetti della manifattura, i soldi, il potere, il progresso sociale, l’immaginazione ma anche la costruzione della soggettività. Come analisi critica di questo momento storico, il marxismo e il socialismo umanista ci insegnano che la reificazione è in realtà un’esperienza umiliante e avvilente per gli uomini, poiché rinnega la loro piena umanità e può davvero essere ritenuta inumana al livello sociale basilare. Il processo di mercificazione in sé riduce gli umani a livello di manufatti e dunque di oggetti modificati dalla tecnologia votata al profitto. Quest’intuizione costituisce il nucleo della tendenza umanista del marxismo, che ho analizzato nel primo capitolo. Per il marxismo la sussunzione della relazione umana nel nesso denaro-potere rappresenta una forma di inumanità, nonché la principale ingiustizia sociale del modello capitalista di produzione. Questa presa di posizione normativa è tanto più suggestiva se si pensa che il marxismo è stato, da un’angolazione metodologica, un movimento di teoria antiumanista che ha criticato l’essenza naturalista dell’Uomo e che ha smascherato la naturalizzazione delle differenze come strategia di potere. Come ho mostrato nel primo capitolo, il marxismo socio-costruttivista è stato un’efficace metodologia antiessenzialista, che poggiava sulla filosofia hegeliana della storia, a sua volta fermamente ancorata al progresso sociale guidato dalla tecnologia. Persino Lenin definì il socialismo forza motrice del progresso storico «soviet (consigli locali di lavoratori) più elettricità». Il delirio modernista, e i suoi derivati marxisti, non sono andati del tutto in fumo, anche se molti dei loro binari ferroviari conducevano al disastro. Tornando al film di Marcel L’Herbier, l’analogia tra la crudeltà della seduttrice, da un lato, e la spietata locomotiva mec112

canica, dall’altro, equipara la nozione di inumano a quella di superuomo, interpretando la tecnologia come un altro trascendente. Essa, inoltre, intende la crudeltà come elemento saliente della narrazione sulla crescita e il progresso, già consapevole che queste nuove tecnologie altro non potevano che alterare il corpo umano organico attraverso forme, volute o meno, di contaminazione. Vi è, di conseguenza, un altro aspetto del concetto di inumano implicito nel canone modernista, ovvero la sua funzione di struttura dell’immaginazione espressa nell’arte. Il modernismo ha collocato il problema della pratica artistica al cuore della modernità industrializzata. Sia l’oggetto tecnologico che l’artefatto sono frutto della manifattura e pertanto appartengono all’ambito dell’innaturale. La loro struttura antinaturalista è proprio il comune denominatore tra la macchina e la sessualità perversa, slegata dalla procreazione, della femme-fatale, in capolavori quali L’inhumaine e Metropolis. La sessualità femminile è iscritta in una sceneggiatura inumana, intesa come pericolo e al contempo come irresistibile attrazione: tecno-Eve dalle tentazioni molteplici, che indicano la via di inquietanti futuri. La natura inumana dell’oggetto artistico consiste in una combinazione di elementi seduttivi non funzionali e ludici. Questo è precisamente ciò che i surrealisti intendevano per macchine celibi – un’idea che Deleuze e Guattari hanno adottato e trasformato nella teoria del corpo senza organi, un flusso di divenire afunzionale e inorganico. L’arte, in modo non dissimile dalla teoria critica, è per Deleuze una pratica intensiva che mira alla creazione di nuovi stili di pensiero, di percezione e di sensazione delle infinite possibilità della vita (Deleuze e Guattari 1996). Trasportandoci oltre i confini delle identità obbligate, l’arte diviene necessariamente inumana, nel senso di non umana, poiché si connette con le forze animali, vegetali, materiali e planetarie che ci circondano. L’arte è, inoltre, cosmica per la sua risonanza e quindi postumana di struttura, dal momento che ci conduce ai limiti di quello che i nostri sé incarnati possono fare e sostenere. Nella misura in cui l’arte estende al massimo i confini della rappresentazione, essa raggiunge i limiti della vita stessa e si confronta così con gli orizzonti della morte. Sotto questo profilo, l’arte è legata alla morte intesa come esperienza del limite (Blanchot 2000). Ritornerò su quest’argomento più avanti nel corso di questo capitolo, quando discuterò della filosofia postumana della morte. Continuando a trattare dell’inumanità della cultura tecno-in113

dustriale, andrebbe aggiunto che ragione scientifica e pratiche razionali della ricerca scientifica non sono del tutto estranee all’evoluzione del modernismo e ai suoi tratti inumani. La scienza condivide l’eredità ibrida di questo periodo storico, è fondamentale per il progetto della modernità industrializzata. Gli altri macchinici, dai sofisticati macchinari industriali ai banali apparecchi domestici, sono gli oggetti ambiti delle pratiche scientifiche sostenute e diffuse collettivamente e socialmente. Al contempo sono un’altra espressione di quella sintesi di paura e desiderio nei confronti della tecnologia che l’arte e il cinema hanno saputo rendere esplicita. Gli aspetti inumani, compresi la crudeltà e la violenza, sono componenti cruciali della ratio scientifica dell’epoca moderna. Come ha scritto Paul Rabinow: Il XX secolo è stato testimone dell’instaurazione di un potente e maligno legame tra il sapere e il militare (o le forze di distruzione più in generale), a partire dagli orrendi effetti dei gas venefici (od altri regali delle industrie chimiche), passando per la bomba atomica (e altri regali della fisica e dell’ingegneria), per l’incubo nazista della purificazione razziale (e altri regali dell’antropologia e delle bioscienze), fino all’indigeribile fatto che quasi i tre quarti della spesa per la ricerca scientifica durante la Guerra fredda erano riservati a scopi militari. Le industrie e le scienze di thanatos hanno avuto il loro secolo di gloria (2008, 114-115).

Qui sono sollevate le problematiche della morte e dell’omicidio, questa volta in relazione agli scopi e alla struttura della scienza in sé. L’opera di Jean-Francois Lyotard L’inhumain (2001) apporta un contributo notevole a questa discussione. Seguendo ancora l’istanza critica che aveva espresso nel suo testo classico La condizione postmoderna (2002), definisce l’inumano causa di alienazione e mercificazione dell’umano, ovvero effetto del capitalismo avanzato. L’invasione tecnologica e la manipolazione provocano la deumanizzazione del soggetto in nome di una spietata efficienza. Lyotard non si limita a quest’intuizione tecnofobica, bensì si spinge fino a definire un tipo più accentuato di inumanità, specifica dell’anthropos in sé. Il punto cruciale di questo estraniamento strutturale, o di quest’estraniazione produttiva, è per Lyotard il nucleo non razionale e non volontaristico dell’inumano, che ci rende umani alla quintessenza19. Questo non solo conferma la struttura 19. Entità che ricorda il perturbante di Freud, il reale di Lacan, l’abiezione di Kristeva (1982).

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non unitaria del soggetto, ma costituisce anche il punto dell’ultima resistenza dell’umanità stessa contro gli effetti disumanizzanti del capitalismo tecno-telecomandato. Sotto questo profilo, per Lyotard l’inumano possiede un’energia produttiva etica e politica, che è in grado di aprire la strada alle relazioni etiche postumane. In questo capitolo difendo la tesi secondo cui nel contesto storico attuale la nozione modernista di inumano si è trasformata in un insieme di pratiche postumane e postantropocentriche. L’inumano non è più ciò che era solito essere. La relazione tra l’umano e l’altro tecnologico, così come gli affetti coinvolti in essa, come il desiderio, la crudeltà e la sofferenza, cambiano radicalmente con le attuali tecnologie del capitalismo avanzato. Da un certo punto di vista, l’oggetto tecnologico oggi si confonde con la carne in virtù di livelli di pervasività senza precedenti, come abbiamo visto nel secondo capitolo. Inoltre, la natura dell’interazione umano-tecnologica si è spostata verso l’indeterminatezza dei confini tra i generi, le razze e le specie, seguendo una tendenza trans che Lyotard giudica peculiarità saliente dell’attuale condizione inumana della postmodernità. L’altro tecnologico – un mero assemblaggio di circuiti e anelli di retroazione – oggi si muove nel dominio sociale delle differenze sfocate, se non rasenta addirittura l’indeterminazione. La più eloquente espressione cinematografica del nuovo carattere androgino del capitalismo avanzato è Avatar (2009), che sta a L’Inhumaine così come l’I phone sta alle vecchie icone. Non vi è alcun dubbio su quale dei due modelli sia più di moda oggi, ma non è questo il punto. Il punto è la straordinaria evoluzione della tecnologia, i suoi inaspettati effetti collaterali. Dalla fantasia modernista circa l’erotizzazione della relazione umano-macchina al distacco postmodernista, o perlomeno la distanza ironica dall’oggetto tecnologico nell’era postmodernista, qualcosa di fondamentale sta cambiando. Una nuova economia politica degli affetti comincia a esprimersi nel sociale; una più fredda sensibilità penetra nel nostro sistema, spianando la strada al postumano. Zygmunt Bauman (1996-2003) è stato tra i primi a commentare quest’approccio cinico, più distaccato. In risposta ai disastri storici e alla sofferenza che hanno attraversato quello che Eric Hobsbawm ha definito il «secolo breve» (2007), più nello specifico in risposta all’Olocausto, Bauman sottolinea il pedaggio che tali eventi hanno fatto pagare in termini di fibra morale e sensibilità etica agli autori, nonché alle vittime, della violenza. Un pedaggio che si è tradotto concretamente nell’abbrutimen115

to dei nostri sé morali, in un aumento del cinismo morale tra gli umani. Pensatori anticolonialisti e antirazzisti come Aimé Césaire e Franz Fanon hanno esteso quest’intuizione all’analisi della dissociazione della sensibilità morale che ha luogo nell’intimo dei misogini, dei razzisti e dei fascisti. In confronto a quest’abbassamento dello standard etico, le vittime della violenza si mostrano in verità dotate di un’elevata statura morale. Questa convinzione costituisce d’altronde il nucleo del neoumanesimo non occidentale e postcoloniale che ho analizzato nel primo capitolo. La domanda diventa, adesso: che fattezze assume la crisi morale della modernità nel contesto di riferimento postumano? Può la condizione postumana essere foriera di innovazione anche sul piano degli aspetti inumani dell’interazione planetaria? Reintroduce la disumanizzazione su scala globale? Se consideriamo l’entità dei problemi principali del mondo contemporaneo, dalle crisi finanziarie alle loro conseguenze in termini di occupazione e disuguaglianza economica, al cambiamento climatico e alla risultante crisi ambientale, per non menzionare i conflitti geopolitici, il terrorismo e gli interventi umanitari armati, è chiaro che la condizione postumana ha già mostrato la sua propria dimensione inumana. Questo capitolo tratta del problema poliedrico dell’inumano, esaminando svariati modi di relazionarsi alla morte e al processo del morire. In questa trattazione sulla vita, intesa come ciò che costituisce la controparte dell’idea di zoe come continuum postumano, ho scelto di guardare più da vicino a thanatos, alla necropolitica, intesa come strumento per articolare anche una teoria postumana positiva della morte. Credo che la svolta concettuale verso il vitalismo materialista, radicato nel monismo ontologico, possa giovare al progetto di ripensare la morte e la mortalità negli attuali contesti biomediati. In termini politici, abbiamo bisogno di valutare i vantaggi di una politica vitalista di sinistra, quindi non determinista e collegata alla vita postumana in maniera materialista e laica. In termini etici, abbiamo bisogno di ridefinire, in questo nuovo contesto, l’empatia e la cura verso gli altri umani e non umani, cioè una nuova democrazia eco-egalitaria. Modi di morire Abbiamo visto nel precedente capitolo che la condizione postumana intesa come governo biopolitico della materia vivente ha condotto alla necessità di un approccio zoe-centrato. Ora vorrei 116

spingermi ancora oltre per sostenere che la politica della vita postumana oltrepassa i confini tra la vita e la morte e di conseguenza riguarda non solo il governo del vivente, ma anche le pratiche del morire. Molte di esse sono connesse ai fenomeni sociali e politici dell’inumano, quali la povertà, le carestie e il fenomeno dei senza fissa dimora, che Zillah Eisenstein ha giustamente etichettato come «oscenità globali» (1998). Vandana Shiva (1999) evidenzia che il biopotere si è già trasformato in biosaccheggio, che rende urgenti analisi politiche concrete e ben fondate. Pertanto, i corpi dei soggetti empirici che denotano differenza (donne/nativi/terra e altri naturali) sono diventati corpi usa e getta nell’economia globale. Il capitalismo contemporaneo è quindi biopolitico nella misura in cui punta a controllare tutto ciò che vive, come suggerisce Foucault, ma poiché la vita non è la prerogativa dell’umano, essa si apre alla dimensione zoe-politica o postantropocentrica. Se il timore dell’estinzione era diffuso nel periodo nucleare, la condizione postumana, quella dell’antropocene, include nell’orizzonte della morte anche altre specie. In ogni caso vi è una differenza notevole tra le due situazioni storiche, come afferma Chakrabarty: «Una guerra nucleare sarebbe una decisione consapevole da parte del potere dominante. Il cambiamento climatico è invece una conseguenza non intenzionale dell’azione totale della specie umana» (2009, 221). Ciò non solo introduce una forma negativa o reattiva di legame panumano planetario, che ricompone l’umanità intorno al collante comunemente esperito della vulnerabilità, ma inoltre riconnette l’umano al destino delle altre specie, come ho mostrato nel precedente capitolo. Morte e distruzione sono i comuni denominatori di quest’alleanza trasversale che fonda una nuova panumanità reattiva. Lasciatemi dare qualche esempio dei contemporanei modi di morire per spiegare quest’economia politica. Gli aspetti postumani della globalizzazione comprendono molti fenomeni che, pur non essendo inumani a priori, innescano comunque notevoli reazioni distruttive. Il contesto storico del dopo laicità comporta l’ascesa dell’estremismo religioso nelle sue varie forme, incluso il fondamentalismo cristiano, provoca una regressione politica dei diritti delle donne, degli omosessuali e gli altri sessuati. Segni significativi di questa regressione sono il declino dei diritti riproduttivi e l’ascesa della violenza contro le donne e i soggetti LGBT. L’effetto della rete finanziaria globale, e di fondi finanziari fuori controllo, è quello di un aumento della povertà, soprattutto tra i 117

giovani e le donne, colpiti da una disparità di accesso alle nuove tecnologie. La condizione dei bambini rappresenta un capitolo a parte; dal lavoro forzato al fenomeno dei bambini-soldato, l’infanzia è stata violentemente immessa nei cicli infernali dello sfruttamento. Il controllo dei corpi è cambiato, dall’avvento dei cyborg alle rinnovate forme di vulnerabilità. Così, accanto al proliferare di pandemie quali Sars, Ebola, Hiv, influenza aviaria, fanno ritorno epidemie più familiari, in particolare malaria la tubercolosi, a tal punto che la salute è diventata un problema di ordine pubblico-politico e oggetto di un rinnovato impegno perché venga rispettata come un diritto umano fondamentale. Il punto è che zoe può divenire una forza distruttiva, così come una potenza generativa. Una gran parte dei problemi collettivi d’oggi, quali la salute, l’ambiente e la geopolitica, di fatto, sfuma la distinzione tra vita e morte. Nell’era del capitalismo biogenetico e del continuum natura-cultura, zoe è diventata una forza infraumana e tutta l’attenzione è oggi concentrata sull’emergenza dettata dalla scomparsa della natura. Prendiamo, ad esempio, il discorso pubblico sulle catastrofi ambientali o sui disastri naturali – l’impianto nucleare di Fukushima e lo tsunami giapponese, l’incendio boschivo australiano, l’uragano Katrina a New Orleans – che si risolve in un doppio nodo contraddittorio: da una parte esprime una nuova consapevolezza ecologica, cioè il continuum natura-cultura, ma dall’altra reintroduce la distinzione tra natura e cultura. Come afferma Protevi (2009) ciò si traduce nella paradossale rinaturalizzazione del nostro ambiente tecnologicamente mediato. Le forze geopolitiche sono al contempo rinaturalizzate e sottomesse alle vecchie relazioni gerarchiche di potere determinate dalla volontà dominante del soggetto antropomorfo. Il discorso pubblico è diventato al contempo moralista, riguardo le forze inumane dell’ambiente, e altrettanto ipocrita nel perpetuare l’arroganza antropocentrica. Questa posizione contraddittoria si traduce nella negazione della responsabilità umana per le catastrofi che continuiamo ad attribuire a forze collocate oltre il nostro controllo, come la terra, il cosmo e la «natura». La nostra moralità pubblica non è semplicemente all’altezza della sfida e della complessità dei danni causati dal nostro progresso tecnologico. Ai miei occhi, questo dà vita a una doppia necessità etica: in primo luogo come fare per trasformare la paura e la tendenza a rimpiangere la perdita dell’ordine naturale in un’effettiva azione sociale e politica, in secondo luogo come ancorare tale azione alla responsabilità per le genera118

zioni future, nello spirito della sostenibilità sociale che ho trattato anche altrove (Braidotti 2008a). Un altro esempio significativo è l’universo umano digitale che ho analizzato nel precedente capitolo e che produce specifiche variabili inumane. Esse sono rappresentate al meglio dal proliferare di virus, sia informatici che organici, alcuni dei quali transitano dagli animali agli umani e viceversa. La malattia non è chiaramente solo una prerogativa delle entità organiche, poiché include un’ampia gamma di contaminazioni tra materia organica – antropomorfa o meno – e circuiti elettronici. Una relazione simbiotica piuttosto complessa si fa spazio nel nostro universo cyborg: una sorta di mutua dipendenza tra la carne e la macchina. Questo determina alcuni paradossi non piccoli, nello specifico che il sito corporale della soggettività è negato, nelle pratiche di miglioramento umano e nelle fantasie della tecno-trascendenza, e al contempo è rinvigorito come crescente vulnerabilità. Balsamo (1996) sostiene che la tecnologia digitale diffonde sogni di immortalità e di controllo sulla vita e la morte: Di nuovo, queste convinzioni sul futuro della vita tecnologica del corpo sono accompagnati da una paura palpabile per la morte e l’annichilimento provocato da minacce fisiche incontrollabili e spettacolari: virus resistenti agli antibiotici, contaminazione spontanea, batteri mangia-carne (Balsamo 1996, 1-2).

I poteri inumani della tecnologia si sono spostati nel corpo, acuendo gli spettrali promemoria del cadavere a venire. Il nostro immaginario sociale si avvia a una svolta forense. La cultura popolare e l’industria dell’info-intrattenimento sono pronte a raccogliere la tendenza contraddittoria che riflette le trasformazioni del rapporto tra corpo umano e cadavere, in fenomeni quali la malattia, la morte e l’estinzione. Il cadavere non è solo una presenza quotidiana nei media globali e nei telegiornali, ma anche un oggetto di intrattenimento della cultura popolare, come dimostra soprattutto il successo del genere poliziesco-investigativo. La cultura e le arti sono state molto attente a registrare il successo delle donne-assassine, come dimostra la popolarità di recenti reinterpretazioni di classici quali Ecuba e Medea. Per non parlare, ovviamente, del fascino globale esercitato da Lara Croft e altre eroine guerriere del mondo dei videogiochi. Il fatto che oggi le donne siano ritenute, in modo più paritario 119

di prima, in grado di uccidere tanto quanto gli uomini, è uno dei principali problemi delle politiche di genere e delle pari opportunità. Tali problemi possono essere sintetizzati nel passaggio dai diritti umani universali richiesti dalle Madri di Plaza de Mayo al brutale interventismo della vedove di guerra cecene, dalle attentatrici-suicide gravide al ruolo crescente delle donne nell’umanesimo militare e negli interventi armati umanitari. Anche la morte spirituale fa parte di questo quadro, se consideriamo certe pratiche sociali assai diffuse ai giorni nostri, quali la dipendenza, i disordini alimentari e la malinconia, il burn-out, gli stati di apatia e disinteresse. Esse vengono spesso patologizzate ma mai abbastanza analizzate. Propongo di non limitarci semplicemente a classificare tali pratiche come autodistruttive, bensì di trattarle come fenomeni, normativamente neutrali, di interazione e resistenza da parte di soggetti specifici dell’economia politica della mercificazione di tutto il vivente. Esse danno la misura dello slittamento delle frontiere tra ciò che vive e ciò che muore nell’era della capitalizzazione della vita in sé. Il volume di consumi di droghe legali (Prozac, Ritalin) così come quello di droghe illegali nella nostra cultura ricolloca la distinzione tra autodistruzione e comportamenti alla moda, il che ci induce a ripensare seriamente a cosa abbia valore come vita in sé. In ultimo, ma non meno importante, le pratiche del suicidio assistito e dell’eutanasia mettono in discussione direttamente il Diritto dal momento che esso rimane ancorato all’assunzione del valore implicito ed evidente della vita in sé. Come spesso accade, il capitalismo avanzato agisce tramite movimenti schizofrenici e internamente contraddittori. Così, l’ideologia, socialmente imposta, del fitness, della salute e dell’eterna giovinezza viaggia di pari passo all’aumento delle disparità sociali, ad esempio l’accesso all’assistenza medica da parte di larghe fasce di popolazione e le notevoli differenze dei tassi di mortalità tra bambini e giovani di classi sociali ed etnie diverse. L’ossessione dell’eterna giovinezza rappresenta la controparte delle pratiche sociali dell’eutanasia e del suicidio assistito. Più ci si pensa, più diventa chiaro che siamo circondati da molteplici modi di morire e di infliggere morte e sofferenza. Eppure davanti a tali fenomeni, la teoria sociale continua a indicare questa logica con il termine biopolitica. Ma cosa c’entra la vita (bios) con questo? Le analisi biopolitiche, sin da Foucault, hanno apportato molte innovazioni e hanno introdotto spiegazioni più incisive di cosa implica esattamente la gestione del vivente. Perché non riser120

Figura 3.1. Vauro, Il o (la) kamikaze, un genere in via di sviluppo.

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viamo lo stesso grado di precisione analitica allo studio dell’amministrazione necropolitica della morte? Sia la mole e la scala dei cambiamenti che hanno avuto luogo nelle pratiche, personali e collettive, del morire, nelle forme di assassinio e di estinzione, sia la creatività dimostrata da nuove generazioni nell’affrontare i riti e le modalità del lutto, sono tali da giustificare l’ampliamento dell’agenda socio-culturale. In altri termini, stiamo assistendo all’emergere di un nuovo campo discorsivo. I death studies stanno diventando una materia nuova e molto richiesta nel mondo accademico. Scaturiscono dalle contropolitiche degli anni Settanta, e oggi si stanno trasformando in un serio e interdisciplinare ambito di studi, che comprende i dibattiti morali e religiosi sulla moralità, così come la ricerca in aree socio-politiche, mediche e professionali20. Ritornerò su quest’apertura ai nuovi studi nel quarto capitolo. Oltre la biopolitica Lasciatemi riprendere il filo del discorso dall’idea fondamentale che le nuove pratiche biopolitiche di governo della vita chiamano in causa non solo le energie generatrici, ma anche le nuove e più sottili declinazioni della morte e dell’estinzione. La mia tesi è che l’attenzione per i poteri vitali e autonomi della vita/zoe disfa ogni netta distinzione tra il vivere e il morire. E intendo la nozione di zoe come potenza della vita postumana ma affermativa. Questo materialismo vitalista poggia, in modo deciso, sull’ontologia politica neospinozista del monismo e dell’immanenza radicale, producendo un’etica relazionale trasversale per contrastare gli aspetti inumani e anche disumani della condizione postumana. Ho sostenuto finora che la condizione postumana, nella misura in cui modifica la concezione tradizionale dell’umano, determina notevoli cambiamenti nello statuto e nella struttura dell’inumano e anche delle pratiche disumane. La prossima domanda sarà allora: che tipo di impatto hanno queste nuove espressioni di carattere disumano sulla teoria del soggetto e sulle pratiche sociali e culturali? L’analisi biopolitica è centrale in questa discussione, ma nel contesto presente si è spostata oltre le premesse elaborate 20. Si veda, ad esempio il Centre for Death and Society all’Università di Bath nel Regno Unito. Diverse riviste testimoniano la vitalità di questo campo. Si vedano tra gli altri: Death Studies (Routledge 1970, riedito nel 1985), Journal of Death and Dying (Baywood Publishing 1970), Journal of Near-Death Studies (1978).

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dalla visione profetica di Foucault. Nelle nuove concettualizzazioni del governo biopolitico della vita e della morte, colgo diverse tendenze. Ad esempio, stanno emergendo studi sulla cittadinanza biopolitica che prestano molta attenzione alle implicazioni del biopotere come istanza di una governamentalità, sia in chiave potenziante che repressiva (Rose 2008, Esposito 2004). Questa scuola di pensiero situa il momento politico nella responsabilità relazionale, capace di autogestione, del soggetto bioetico che assume il pieno controllo della propria esistenza genetica, la quale include in maniera virtuale anche la malattia e altre forme di responsabilità del soggetto incarnato per il proprio corpo in quanto cadavere potenziale. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, questa posizione permette a un tipo residuale di kantismo di riemergere a partire dall’ultima fase del pensiero di Foucault, caratterizzata dall’enfasi sulla responsabilità individuale per l’autogestione della salute e del proprio stile di vita. Il vantaggio di tale posizione è che essa esorta a pensare con un alto grado di lucidità all’esistenza postumana biorganica, che comporta l’abbandono definitivo del paradigma naturalista. Lo svantaggio di tale posizione, tuttavia, è che essa trasforma la nozione di responsabilità in quella di individualismo, nel contesto politico dello smantellamento neoliberale del sistema sanitario pubblico, un pilastro dello stato sociale, e dell’aumento delle privatizzazioni. La cittadinanza bioetica chiede di poter accedere ai costi dei servizi sociali fondamentali come la sanità, e al contempo di poterli sostenere, tramite l’evidente capacità dell’individuo di agire responsabilmente riducendo i rischi e i pericoli connessi allo stile di vita errato. In altre parole, responsabilità bioetica significa prendersi cura in modo adeguato del proprio capitale genetico. Le recenti campagne governative contro il fumo, l’alcolismo e l’obesità eccessive, rappresentano con chiarezza la tendenza normativa neoliberale che sostiene l’iperindividualismo. L’interpretazione neokantiana di Foucault solleva inoltre seri dubbi teoretici circa la nozione di biopotere. Alla luce del ritmo frenetico del progresso e del cambiamento determinato dalle attuali biotecnologie, nonché delle sfide da esse lanciate allo statuto dell’umano, l’opera di Foucault è stata criticata, soprattutto dalla Haraway (2000), in quanto fondata su una visione datata delle tecnologie contemporanee. Haraway ci suggerisce che il biopotere di Foucault rappresenta la cartografia di un mondo che non esiste più, essendo noi oggi entrati nell’era dell’informatica del dominio. Altre 123

teorie etiche si avvicinano molto a quest’obiettivo, in particolar modo quelle femministe, ambientaliste, il pensiero postcoloniale e antirazzista, dal momento che hanno saputo affrontare i temi della soggettività incarnata e della differenza, nel capitalismo avanzato, in modo da riflettere la complessità delle relazioni di potere globali. La discrepanza fondamentale tra la nozione di biopotere di Foucault e le strutture postumane contemporanee ha a che fare proprio con il declino dell’antropocentrismo. Nel secondo capitolo ho sostenuto che la struttura biogenetica del capitalismo avanzato riduceva i corpi allo stato di trasportatori d’informazioni vitali, mettendoli al servizio del valore finanziario e capitalizzandoli. Questi corpi costituiscono il materiale per la nuova classificazione d’intere popolazioni sulla base della predisposizione genetica e delle capacità vitali di autorganizzazione. Vi è una sorta di isomorfismo strutturale tra la crescita economica e quella biologica, che rende le relazioni di potere del capitalismo neoliberista contemporaneo più crude e ciniche rispetto al periodo fordista (Cooper 2013). Ciò ha importanti ripercussioni per la dimensione zoe-centrica delle politiche della morte. Questo sistema si rivela non solo discriminatorio ma anche razzista nel significato elementare del termine, dal momento che l’informazione genetica, come i tratti psicologici e quelli neuronali, sono distribuiti in modo non uniforme. Patricia Clough indaga quest’aspetto dell’economia politica contemporanea analizzando il dibattito pubblico sulla disponibilità di farmaci contro l’Aids, o dei vaccini su larga scala contro la malaria, per limitarsi solo ad alcuni tra gli esempi attuali di governo postumano della vita. Sia nel mondo occidentale che nelle economie globali emergenti stiamo assistendo alla costituzione di un’intera sottoclasse di corpi usa e getta, che sono al contempo geneticamente sovraesposti e socialmente sottoassicurati. Questo tipo di controllo della popolazione si spinge oltre le analisi di Foucault sulla biopolitica, dal momento che esso non funziona tramite le tecniche della disciplina e del controllo, piuttosto tramite la coltura biogenetica dei dati, e tramite il biosacheggio (Shiva 1999). Come ha affermato Mark Halsey: «Se una volta l’obiettivo principale era quello di controllare i folli, i giovani, le donne, i nomadi e i devianti, in tempi recenti esso, invece, consiste nel catturare l’inumano, l’inorganico, l’inerte, in breve i cosiddetti elementi naturali» (2006 15). Qui si tratta di zoe-politica postumana, e non più di governamentalità biopolitica. Ancora, la filosofia postumana monista è di grande aiuto nel 124

tentativo di concettualizzare questi cambiamenti storici epocali. Leggendo Deleuze attraverso le lenti di Massumi, Clough analizza i nuovi meccanismi di cattura non degli individui liberali, bensì dei dividui biogenetici: meccanismi che riconfigurano statisticamente le popolazioni che vengono classificate in termini di capacità corporee, poiché indicano ciò che un corpo può fare al presente e quali caratteristiche potrebbe sviluppare in futuro. Le capacità affettive dei corpi, calcolate in statistica come fattori di rischio, possono essere catturate in quanto tali indipendentemente dal soggetto, addirittura indipendentemente dal corpo del soggetto. Questo si traduce nella diffusione di procedure burocratiche competitive, di controllo e di comando politico, in termini di protezione della vita della popolazione (2008, 18).

Il metodo che collega il controllo politico all’analisi dei fattori di previsione del rischio coincide con la tecnica che Foucault aveva tacciato di razzismo, nella misura in cui configura – producendo una razializzazione – l’organizzazione di intere popolazioni su una scala gerarchica, questa volta non più basata sulla pigmentazione o il sesso, ma su altre caratteristiche o propensioni genetiche. Poiché lo scopo di tale tecnica politica è di valutare la possibilità di sopravvivenza o di estinzione di una data popolazione, il controllo biopolitico della vita non è solo trasversale rispetto alle specie e zoe-centrato, ma è anche intimamente legato alla morte. Questo è il vincolo della morte o la faccia necropolitica del postantropocentrismo e il nucleo del suo lato inumano e disumano: «Esso concede una vita sana e di benessere ad alcune popolazioni mentre riserva solo morte alle altre, che vengono definite in termini di degenerazione naturale e malattia» (Clough, 2008, 18). La dimensione necropolitica ha un’altra implicazione importante, cioè che la loro rappresentazione politica non può più essere compresa all’interno dell’economia visiva biopolitica, nel senso foucaultiano del termine (1978). La rappresentazione dei soggetti incarnati non è più di tipo visivo nel senso ottico del termine, ovvero nell’accezione postplatonica del simulacro. E neppure essa è speculare, come nel modo psicoanalitico di ridefinire l’immagine attraverso lo schema dialettico del riconoscimento dicotomico del sé e dell’altro. La rappresentazione dei soggetti incarnati è stata sostituita dalla simulazione ed è diventata schizoide, o internamente incoerente. Nella prospettiva necropolitica, la rappresentazione del sog125

getto è inoltre spettrale: il corpo diventa il potenziale cadavere che è sempre stato, e viene rappresentato come un sistema biogenetico autoreplicante catturato nell’economia visiva della circolazione infinita (Braidotti 2003). L’immaginario sociale contemporaneo è immerso in questa logica della circolazione senza limiti, rimane così sospeso al di là della vita e oltre il ciclo della morte del singolo soggetto rappresentato. L’immaginazione biogenetica è di conseguenza diventata forense nella sua relazione al corpo inteso come cadavere e nella sua ricerca delle tracce di una vita impersonale che è ormai fuori dal suo controllo. Le soggettività incarnate contemporanee operano sotto un doppio imperativo: devono essere responsabili del loro plusvalore, da un lato in qualità di contenitori biogenetici, dall’altro in qualità di beni visibili che circolano nel circuito mediatico mondiale e nel flusso finanziario globale. I corpi d’oggi soffrono quindi una doppia mediazione: biogenetica e informatica. Inoltre, siccome molta dell’informazione che circola non è basata sul sapere, bensì è mediaticamente inflazionata essa diventa indistinguibile dal mero intrattenimento. Vedremo in seguito come l’attuale biopolitica incroci la dimensione ecofilosofica che ho analizzato nel precedente capitolo, e come illumini il lato oscuro delle relazioni socio-politiche di potere contemporanee. La sfida consiste nel trasformare questi fenomeni sociali ibridi e abbastanza schizoidi in momenti di resistenza ai tratti inumani e disumani della condizione postumana. L’intuizione centrale dell’anatomia politica di Foucault rimane valida: il biopotere comprende anche il controllo della morte. In altre parole, la questione del governo della vita contempla al contempo il governo dell’estinzione. Al fine di dispiegare il pieno potenziale etico e politico di quest’intuizione brillante, dobbiamo ritornare però al primo Foucault e non lasciarci ingannare dall’interpretazione neokantiana della sua seconda fase. Nella sua prima opera (1976) Foucault si concentra esclusivamente sull’analisi critica dei meccanismi di potere al lavoro nella produzione di soggettività. Quest’ultima è definita come un processo di circolazione di effetti sia discorsivi che materiali, che sono anche produttivi oltre che repressivi. Questa attenzione per il potere è cruciale per comprendere la condizione postumana. Teoria sociale forense La teoria sociale politica dopo Foucault è stata investita dalle trasformazioni correnti nello statuto e nella teoria dell’umano, come 126

si evince, ad esempio, in una delle più significative risposte alla svolte forense di Giorgio Agamben (2005). Egli definisce la vita/zoe come risultato dell’intervento letale del potere sovrano sul soggetto incarnato, che è ridotto a nuda vita, vale a dire uno stato non umano di estrema vulnerabilità al limite dell’estinzione. Biopotere significa in questo quadro tanatopolitica e si traduce, in Agamben, nell’imputazione del progetto della modernità industrializzata, a causa dei suoi effetti disumanizzati. La piantagione coloniale è il prototipo di quest’economia politica e dell’uomo asservito, quasi epitome dell’homo sacer (2005). Questa prospettiva si concentra sull’accentuare i punti di contatto tra la modernizzazione e la violenza, la modernità e il terrore, la sovranità e il delitto. L’inumano per Agamben, in modo non dissimile da Lyotard, è conseguenza della modernizzazione, eppure egli ha anche imparato da Hannah Arendt (2004) a interpretare il fenomeno del totalitarismo come ultimo rifiuto dell’umanità dell’altro. La Arendt, tuttavia, ha elaborato una potente alternativa rispetto agli estremismi politici che analizzava, puntualizzando sulla necessità dei diritti umani per tutti, persino e soprattutto per gli altri disumanizzati. La Arendt è, nella brillante interpretazione di Seyla Benhabib, una «modernista riluttante» (1996). Agamben è, dall’altro lato, meno innovativo, dal momento che riproduce la stessa convenzione filosofica che consiste nell’assumere la mortalità, o la finitezza, come orizzonte transtorico nelle discussioni sulla vita. Dal suo punto di vista, la nuda vita non è vitalità generatrice, bensì vulnerabilità costituitiva del soggetto umano, che il potere sovrano può uccidere; trasforma il corpo in materia a disposizione della forza dispostica di un potere senza freni. Questa posizione è connessa alla teoria di Heidegger sull’essere che prende le sue forze dall’annichilimento della vita animale. La finitezza è presentata come elemento costitutivo anche e specialmente nel contesto della soggettività, che produce inoltre l’economia politica affettiva della perdita e della malinconia installate nell’intimo del soggetto. Mi preoccupa quest’eccessiva enfasi su thanatos, che Nietzsche ha criticato più di un secolo fa e che purtroppo è ancora troppo presente nei dibattiti critici attuali. Essa produce spesso una visione cupa e pessimista non solo del potere, ma anche dei progressi tecnologici di cui sono forieri i regimi di biopotere. La mia interpretazione della vita come di una zoe-etica delle trasformazioni sostenibili differisce in modo considerevole da quella che Agamben chiama nuda vita o zoe negativa. Io cerco di differenziarmi dalla 127

tradizionale declinazione del concetto di zoe dentro l’orizzonte della morte, o in quello degli stadi liminali della non-vita. Quest’enfasi eccessiva per gli orizzonti della mortalità e della deperibilità è caratteristica della svolta forense nelle attuali teorie sociali e culturali perseguitate dallo spettro dell’estinzione e dai limiti del progetto della modernità occidentale. Ritengo che quest’enfasi eccessiva sulla morte come termine basilare di riferimento sia inadeguato alla politica vitalista della nostra era. Preferisco rivolgermi a un’altra importante comunità di studiosi che si sono mossi nell’ambito concettuale spinozista21, in modo da poter sottolineare la politica della vita in sé come forza generatrice che include e supera la morte. Ciò implica una problematizzazione delle relazioni, in continua trasformazione, tra le forze – attuali e virtuali – umane e non umane. Prendendo parola in qualità di soggetto femminile incarnato e integrato, capace di riprodurre il futuro e la specie, ritengo questa metafisica della finitudine un modo miope di porre la questione dei confini di ciò che chiamiamo vita. Ci occorre ripensare la morte, la sottrazione finale, come un’altra fase del processo generativo, secondo quanto argomenterò nella seconda metà di questo capitolo. Peccato che gli implacabili poteri generativi della morte richiedano la soppressione proprio di ciò che ci è più caro e vicino, ovvero di noi stessi, del nostro stesso essere in vita. Per noi soggetti umani e narcisisti, come ci insegna la psicanalisi, non è pensabile che la vita vada avanti senza il nostro esserci (Laplanche 1976). Il processo che ci porta ad affrontare la pensabilità di una vita che possa non avere «noi» o ogni altro essere umano al centro è, in verità, un processo che può aiutare anche ad approfondire la riflessione su cosa sia veramente la vitalità. Io intendo la svolta postantropocentrica come il punto di partenza necessario per un’etica della sostenibilità che mira a reindirizzare l’attenzione sulla positività postumana della zoe. Il cuore della mia ricerca consiste in un’etica che include la vulnerabilità ma che al contempo crea attivamente orizzonti sociali di speranza. Necropolitica contemporanea A questo punto del libro è importante sottolineare che la politica affermativa, come processo che trasforma le passioni negative in 21. Tra i quali: Deleuze e Guattari (1975; 2006), Guattari (2007), Glissant (1997), Balibar (2004), Hardt e Negri (2002).

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prassi produttiva e sostenibile, non rinnega la realtà degli orrori, della violenza e della distruzione. Cerca solo di proporre un’altra tecnica per trasformarli. La politica contemporanea è caratterizzata da un grado di crudeltà così elevato che sarebbe irresponsabile non tenerne conto. Nuovi studi si sono concentrati sulla brutalità delle guerre attuali e sulle rinnovate manifestazioni di violenza che riguardano non solo il governo del vivente, ma anche nuove pratiche del morire. Biopotere e necropolitica sono due facce della stessa medaglia, come Achille Mbembe (2003) spiega brillantemente. L’aumento dell’interesse discorsivo per la politica della vita in sé, in altre parole, impatta anche la dimensione geopolitica della morte e dell’assassinio. Mbembe ampia l’intuizione di Foucault in direzione di un’analisi più accurata della gestione biopolitica della sopravvivenza. Ridefinendola giustamente necropolitica, caratterizza questo potere come un’amministrazione della morte: «Generale strumentalizzazione dell’esistenza umana e distruzione materiale dei corpi umani e della popolazione» (Mbembe 2003, 19). E io aggiungerei, distruzione di corpi non solo umani ma anche planetari. Il mondo dopo la Guerra fredda ha conosciuto un drastico aumento del warfare, ma anche una profonda trasformazione della pratica della guerra in sé. Le nuove forme del warfare implicano, simultaneamente, da un lato l’efficienza mozzafiato di armi tecnologiche intelligenti e senza equipaggio, dall’altro la crudezza di corpi umani smembrati e umiliati. Tutto ciò è rappresentato dalla fine indegna di Geddafi, cui ho accennato nella terza vignetta dell’introduzione. La guerra postumana genera nuovi tipi di inumanità. Le conseguenze di quest’approccio al necropotere sono radicali: non sono la razionalità della legge o l’universalismo dei valori morali a strutturare l’esercizio del potere, bensì lo scatenarsi del diritto sovrano e incontrollato di uccidere, mutilare, stuprare e distruggere la vita degli altri. Quest’economia politica amministra l’attribuzione dei diversi gradi di umanità secondo gerarchie che sono scollate dalla vecchia dialettica e scardinate dalla logica biopolitica. Esse adempiono invece alla più strumentale, ristretta e opportunistica logica dello sfruttamento della vita in sé, che è generica e non solo individuale. La necropolitica contemporanea applica la politica della morte su scala regionale e globale. Le nuove forme del warfare industriale si reggono sulla privatizzazione commerciale degli eserciti e della portata globale dei conflitti, che deterritorializzano l’uso e la 129

razionalità del servizio militare. Ridotta a warfare infrastrutturale (Mbembe, 2003), e a operazioni logistiche di vasta scala (Virilio, 2002), la guerra mira alla distruzione di tutti i servizi che permettono alla società civile di funzionare: strade, linee elettriche, aereoporti, ospedali e altre strutture necessarie. Il vecchio esercito fuori moda si è oggi trasformato in «milizie urbane, truppe private di proprietà dei signori locali, imprese di sicurezza private ed eserciti statali che rivendicano il diritto di esercitare violenza e di uccidere» (Mbembe 2003, 32). Il risultato di tutto ciò è che la popolazione, come categoria politica, si è frammentata in «ribelli, bambinisoldato, vittime e rifugiati, civili resi invalidi da mutilazioni o massacrati secondo il modello dell’antico sacrificio, mentre i sopravvissuti, dopo un esodo drammatico, vengono confinati in campi o zone di eccezione» (Mbembe 2003, 34). Molte guerre attuali, condotte da coalizioni occidentali sotto copertura di aiuti umanitari, sono in realtà esperimenti neocoloniali che mirano a garantire l’estrazione mineraria e altre risorse geofisiche essenziali, necessarie a quest’economia globale. Sotto questo profilo, le nuove guerre assomigliano più ai conflitti privati e alla guerriglia o agli attacchi terroristici, che ai confronti militari tradizionali tra eserciti organizzati e condotti dallo Stato. Anche Arjun Appadurai (1998) ha fornito analisi incisive sulla nuova violenza etnocida delle nuove forme di warfare che impattano su amici, parenti e vicini. Inorridisce per la violenza di quei conflitti «che comportano brutalità e umiliazione – come le pratiche della mutilazione, del cannibalismo, dello stupro e degli abusi sessuali, della violenza contro i civili e le popolazioni. Insomma, occorre prendere in considerazione il fatto che la brutalità fisica è praticata da persone normali su altre persone, con le quali in precedenza hanno vissuto, o potrebbero aver vissuto in relativa concordia» (Appadurai 1998, 907). Questo è, appunto, il precipizio inumano e disumano della condizione postumana. Chomsky ha descritto con perspicacia questa situazione, che ha etichettato «nuovo umanesimo militare», il cui emblema sono gli interventi umanitari: Armato di tecnologie di devastazione globale e di un gergo degno della pulp fiction, dei tabloid e dei videogiochi: guerra al terrore, scontro di civilità, Asse del Male, operazione Shock & Wave. Queste avventure sono state intraprese per salvare il mondo civilizzato (homo humanus) dai suoi nemici (homo barbarus), coperte dalle venerabili bandiere della libertà, 130

del decoro e della democrazia (Chomsky citato da Davies 1997, 134).

Non bastano più gli affermati criteri della disciplina del corpo, della lotta contro il nemico o persino delle tecniche della società del controllo a discutere adeguatamente questo sviluppo della violenza bellica tecnologicamente orientata. Siamo entrati, piuttosto, nell’epoca dei massacri pianificati e strumentali, caratterizzata da una nuova semiotica dell’omicidio (Mbembe 2003, 37). Questi modelli necropolitici di governance circolano anche nei circuiti mediatici globali dell’infointrattenimento, secondo la logica della doppia mediazione cui ho accennato prima. Il numero speciale del settimanale «The Economist» (2 giugno 2012, p. 13) su «morale e macchine» che ho citato nel primo capitolo, presenta un impressionante aggiornamento sulla tecnologia militare contemporanea. Esso sostiene che i recenti sviluppi stanno producendo un tecno-bestiario straordinario. Ad esempio, la Sand Flea, letteralmente Pulce di Mare, creata dalla Boston Dynamics22 (una spin-off del Mit) può saltare da una finestra o su un tetto alto nove metri, grazie alla stabilizzazione del giroscopio che le permette di filmare e fotografare senza problemi. Il robot, che pesa 5 kg, si muove su ruote finché non ha bisogno di saltare nuovamente. Poi c’è Rise, un robot a sei zampe con sembianze di scarafaggio che può scalare pareti; il kit robotico TerraMax realizzato dalla Oshkosh Defense (Wisconsin) che permette di trasformare camion militari o veicoli blindati in macchine a controllo remoto. Ls3, invece, è un robot simile a un cane che si serve di immagini virtuali per trotterellare dietro un umano su terreni accidentati, trasportando fino a 180 kg di vettovaglie. SUGV, un robot delle dimensioni di una valigetta che si muove su cingoli in grado di identificare un singolo uomo in mezzo a una folla, caricando una foto segnaletica e seguendolo. First Look, un robot militare costruito dall’iRobot, un’altra spin off del Mit, è progettato per saltare attraverso finestre e muri. ScoutXT Throw-bot realizzato dalla Recon Robotics in Minnesota, ha la forma di un martello a due teste con ruote su ogni testa, nonché la pesantezza di una granata e può essere gettato attraverso finestre di vetro. Pneumatici a spuntone permettono la trazione su superfici ripide e rocciose. Le versioni 22. La Boston Dynamics è una società di ingegneria e robotica meglio conosciuta per lo sviluppo di BigDog, un robot quadrupede progettato per l’esercito statunitense, con il finanziamento del DARPA , e per il DI-Guy, un software molto realistico per la simulazione umana. Marc Raibert è il presidente della società e il responsabile del progetto. Egli separò la società dal Massachusetts Institute of Technology nel 1992.

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subacquee di tali robot sono in fase di sperimentazione. Questa è davvero fantascienza che diventa realtà. Come sottolinea «The Economist», le nuove armi più efficaci sono di gran lunga le UGVs (veicoli di terra senza pilota), che sono stati impiegate per la prima volta in Afghanistan un decennio fa, e i UAVs (veicoli aerei senza pilota) – conosciuti anche come droni o aeromobili telecomandate (RPA) – i quali fanno parte del vasto esercito di robot che si muove sia sulla terra che per mare e aria. Nel 2005 i droni della Cia colpirono tre volte il bersaglio in Pakistan; l’anno scorso ci sono stati settantasei attacchi, uno dei quali fondamentale per l’uccisione di Geddafi in Libia. I droni sono disponibili in ogni sorta di dimensione: DelFly, un drone di sorveglianza a forma di libellula, realizzato nel polo tecnologico dell’Università di Delft, pesa meno di una fede d’oro, telecamera compresa. Dall’altro lato della scala si trova il drone americano più grande e veloce, Avenger, che costa quindici milioni di dollari, può trasportare fino a due tonnellate e sette quintali di bombe, sensori e altri equipaggiamenti, alla velocità di oltre 740 km all’ora. Ma i droni rendono più semplice uccidere? Non necessariamente, risponde «The Economist». Perché implicano una tale complessità di trasmissione dei dati da richiedere lo scrutinio costante di specialisti: i legali del governo, e altri personaggi simili, sono presenti e attivi nelle stanze dei bottoni e monitorano i feedvideo inviati dai robot. Il loro compito è cancellare gli attacchi illegali o quelli che sembrerebbero troppo cruenti per la Cnn. I piloti veri e propri agiscono come osservatori umani remoti, e si trovano a lavorare in un ambiente più umano e quindi non sono affetti dallo stress del combattimento. Fireshadow, un missile robotico progettato da MEDA, una compagnia francese, una munizione vagante capace di percorrere 100 km al doppio della velocità massima della tradizionale artiglieria corazzata; può vagare nel cielo per ore, servendosi di sensori per rintracciare i bersagli mobili. Un operatore umano, osservando un feed-video può decidere quando e se aprire il fuoco, trovando una localizzazione migliore o annullando del tutto la missione. Come «The Economist» ha più volte sottolineato, tuttavia, il superamento della decisione umana è già tecnologicamente fattibile. L’esercito israeliano ha munito i suoi confini di marchingegni robotici e li monitora tramite controllo a distanza. La Samson Remote Controlled Weapon Station realizzata da David Ishai della Rafael, un’azienda israeliana, può funzionare senza l’intervento umano, individuando il bersaglio tramite sensori. 132

Intervistati su queste problematiche dal «Guardian» (Caroll 2012) i piloti dei droni hanno affermato che le loro mansioni implicano un diverso tipo di coraggio da quello della guerra tradizionale, non solo perché devono farsi carico delle conseguenze di possibili errori, ma anche perché uccidere a distanza richiede un diverso grado di rigore e precisione. Questi soldati tele-tanatologici necessitano di un’attrezzatura sofisticata, come «un sistema di targeting polivalente che combina sensori a infrarossi con potenti videocamere e laser designatori e illuminatori in un’unica dotazione» (Caroll, 2012, 2). Inoltre, questa struttura polivalente complessa è tenuta sotto lo stretto controllo di una serie di specialisti e supervisori: impiegati, analisti e avvocati militari inclusi. I droni non uccidono con maggiore facilità nel vero senso dell’espressione. I critici di queste tecnologie letali, tra cui l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, pensano il contrario. Essi sostengono che gli attacchi dei droni sono «esecuzioni extragiudiziarie che violano la sovranità delle nazioni, macchiano la levatura morale degli Stati Uniti e fomentano l’estremismo» (Caroll, 2012, 2). Essi affermano che il modo migliore di prendere posizione rispetto a queste complesse problematiche è di bandire le armi automatizzate dal campo di battaglia e al contempo di esigere dai robot una costante cura degli umani. A Berlino nel 2012 un gruppo d’ingegneri, filosofi e attivisti ha dato vita all’Icrac, Comitato Internazionale per il Controllo dei Robot Armati, al fine di cercare di tenere sotto controllo gli effetti dell’autonomia raggiunta dagli attuali sistemi di armi robotiche, in particolare dei droni. Da quando l’amministrazione Obama ha però promesso investimenti pari alla somma di 15 miliardi di dollari per i droni Predator e Reaper, non si può negare la loro crescente importanza sia come armi offensive che come strumenti di policy. «The Economist» mette in rilievo anche altri vantaggi del warfare postumano e sostiene che i robot-soldati autonomi possono apportare più benefici che danni: non stuprano le donne, non incendiano le abitazioni dei civili con rabbia e non prendono decisioni sbagliate a causa dello stress da combattimento. Per analogia le automobili senza conducente sono più sicure di quelle normali, così come i piloti automatici rendono più agevoli i viaggi. Inoltre, i droni sono sempre più impiegati per scopi civili, in modo non dissimile dai robot a lungo usati nelle centrali nucleari, sui ponti di volo per i passeggeri degli aereoplani e nei treni senza conducenti. Un’inchiesta recente del giornale «The Guardian» (Franklin 2012) 133

descrive come un drone a batteria con un range di 300 km e un costo inferiore agli 800 dollari venga impiegato dagli attivisti ambientalisti per denunciare e, possibilmente, fermare la caccia alle balene dei giapponesi nelle acque antartiche. Ciò che una volta era pertinenza esclusiva dei servizi segreti israeliani e dell’areonautica militare statunitense, oggi è impiegato in missioni che variano dalla sopravvivenza dei mammiferi marini all’ispezione delle colture. L’autorità areonautica militare degli Usa ha appena redatto nuove direttive per l’impiego di tali veicoli. La raffinatezza di questi traguardi tecnologici potrebbe suscitare lo stupore dei lettori, o invece indurli a interrogarsi sui rischi inumani implicati dalle armi postantropocentriche. È inoltre sorprendente notare il ruolo giocato dalla ricerca accademica nel coinvolgere le università nello sviluppo di questi robot omicidi. Il legame sancito dal tempo tra l’accademia e l’esercito, nel nostro mondo postumano, sta entrando in una nuova e più produttiva fase. Le tecnologie postantropocentriche stanno, inoltre, riconfigurando le pratiche di sorveglianza in ambito sociale. Il controllo dell’immigrazione ai confini e il contrabbando delle persone sono alcuni fra gli aspetti più impressionanti dell’attuale condizione inumana e fra i fattori centrali dello scenario necropolitico. Diken (2004) sostiene che i rifugiati e i richiedenti asilo divengono l’ennesimo emblema del necropotere contemporaneo, poiché essi sono il perfetto esempio di quell’umanità usa e getta che Agamben definisce anche homo sacer, e pertanto rappresentano l’ultimo soggetto necropolitico. La proliferazione dei campi di detenzione ad alta sicurezza e delle carceri nelle città europee, una volta spazi civili aperti, costituisce un esempio del volto inumano e disumano della Fortezza Europa. I campi – «recinti sterilizzati e monofunzionali» (Diken 2004) – rappresentano i monumenti poco dignitosi dell’inumanità postumana. Dufflied (2008) spinge ancora oltre l’analisi necro e sociopolitica e sottolinea la distinzione tra umani sviluppati e muniti di polizze di assicurazione e gli umani sottosviluppati e non assicurati: «La vita sviluppata è garantita prima di tutto da regimi di assicurazione sociale e di protezione burocratica storicamente associate al capitalismo industriale e alla crescita del welfare state» (Dufflied, 2008, 149). La distinzione e le tensioni tra queste due categorie costituiscono il terreno della guerra civile globale, che è la definizione che Dufflied fornisce per il capitalismo avanzato globalizzato. Il nesso con il colonialismo è evidente: la decolonizzazione ha 134

creato Stati nazione le cui popolazioni, un tempo assoggettate, sono ora libere di circolare globalmente. Queste persone rappresentano la massa dei migranti respinti, dei rifugiati e dei richiedenti asilo che vengono trattenuti e rinchiusi nel mondo sviluppato. In un effetto boomerang non privo di forza ironica, la migrazione mondiale viene percepita dall’Europa come una minaccia d’invasione proprio perché essa attacca la sua principale infrastruttura: il welfare state. La crescente gamma di armi da guerra e le tecniche omicide sollevano interrogativi circa lo statuto della morte come oggetto dell’analisi politica contemporanea. La portata e l’accuratezza della mediazione tecnologica nelle necropolitiche contemporanee mostra che la morte come concetto rimane caratterizzato da contraddizioni. Il concetto di messa a morte è fondamentale per la teoria politica e la pratica, nelle nuove tecniche di uccisione in un contesto tecnologico in veloce espansione, che illustrano anche un notevole aumento del livello di vulnerabilità umana. La morte, tuttavia, rimane sottovalutata come materia di studio, come concetto nella teoria critica e come pratica istituzionale nella governance politica e nelle relazioni internazionali che trattano unicamente di gestione biopolitica. La morte è un concetto che resta unico e indifferenziato, mentre il panorama del pensiero politico sulla vita e il biopotere prolifera e si differenzia. Fortunatamente, la nuova teoria postumana sta riempendo tale vuoto e apportando importanti contributi. Patrick Hanafin (2010), ad esempio, suggerisce che il rinnovato interesse per la necropolitica, affiancato da una visione trasversale della soggettività postumana, può aiutarci a elaborare una contronarrazione etica e politica, alternativa al «soggetto imposto e limitato del legalitarismo liberale» (2010, 133). Per Hanafin, questo implica uno smottamento della collocazione tradizionale della moralità, concepita come orizzonte dell’essere definito e quasi metafisico. Il predominante contratto socio-legale maschile si articola intorno al desiderio di sopravvivere. Questa non è una politica che mira al miglioramento, bensì all’intrappolamento in un supposto ordine naturale, che nei nostri sistemi si traduce nei regimi biopolitici di disciplina e controllo dei corpi. Questo significa che siamo riconosciuti come cittadini a pieno diritto solo quando passiamo attraverso la posizione della vittime, della perdita, dell’ingiustizia e della forma di risarcimento che ne deriva. La necropolitica postumana e la teoria legale e politica si chiedono cosa la 135

teoria politica possa diventare nel momento in cui abbandona le istanze negative della ferita e della perdita. Hanafin propone di analizzare seriamente la dimensione necropolitica smettendo di pensare alla soggettività legale come strettamente collegata alla morte, piuttosto cominciando a considerare che le singolarità senza identità sono intimamente connesse le une alle altre e integrate all’ambiente in cui sono collocate. Tutto questo va nella direzione della critica della filosofia del diritto. A questo punto capiamo come un altro fondamentale binario della filosofia occidentale venga scardinato: quello che separa la vita politica caratterizzata dalla morte, come opposto alla filosofia politica e legale che valorizza la nostra condizione mortale solo per giustificare una politica della sopravvivenza. Una posizione postidentitaria che esorta, seguendo Virginia Woolf, a pensare come se io già non ci fossi più, ovvero a pensare con e non contro la morte. L’enfasi sul continuum vita-morte può secondo Hanafin rappresentare l’ultima sfida per un sistema legale costruito sugli orizzonti confinanti della metafisica della mortalità. La politica del divenire di William Connoly (1999) assume una posizione simile: contro la distruzione necropolitica occorre sviluppare un’etica dell’impegno nei confronti degli elementi sociali e politici – compresi gli orrori dei nostri giorni – per indurre dei contro-effetti, ovvero conseguenze inaspettate e cambiamenti di rotta. La teoria critica deve confrontarsi con il presente, elevandosi all’altezza dei tempi, pur resistendo alla violenza, agli orrori e alle ingiustizie attuali (Braidotti 2008a). L’etica affermativa è basata sulla prassi della costituzione di positività, poiché vuole diffondere nuove condizioni sociali e nuove relazioni, fuori dall’ingiustizia e dalla sofferenza. Si applica attivamente a costruire e a far circolare energia attraverso la trasformazione della carica negativa delle esperienze, persino nell’intimità di quelle relazioni in cui è in funzione la dialettica della dominazione (J. Benjamin 1988). Per Deleuze e Guattari, la temporalità di quest’attività politica è quella di aion, la continua tensione del divenire, molto diversa da quella di chronos, la linea dell’ordine politico egemonico. Occorre impegnarci attivamente e collettivamente per il rifiuto dell’orrore e della violenza – l’aspetto inumano e disumano del nostro presente – e occorre trasformarli nella costruzione di alternative affermative. Un pensiero necropolitico che intende sostenere, tramite l’affermazione, il processo di disfacimento dei presistenti accordi tra vita e morte, così come realizzare alternative produttive. 136

Nel resto di questo capitolo cercherò di ripensare il continuum vita-morte nel contesto del continuo confronto con una responsabilità politica degna della soggettività postumana. La teoria postumana della morte Una delle conclusioni preliminari più immediate che possiamo trarre da quanto detto finora è che ci occorre pensare con maggior rigore ai modi del morire, nel contesto postumano necropolitico, caratterizzato dalla nuova sensibilità sociale forense. Ma come funziona la teoria vitalista e materialista della morte? La morte non è una prerogativa umana, soprattutto nell’era della scomparsa della natura. Posizionandosi agli antipodi dell’idea razionalista dell’amministrazione umana della natura, l’interrogativo ambientalista riguarda la prevenzione dell’estinzione delle specie. Questo è un problema biopolitico: a quali specie è concesso sopravvivere e quali sono destinate a morire? La teoria postumana sottolinea il fatto che per elaborare dei criteri adeguati, ci occorre una visione alternativa della soggettività in grado di sostenere questo progetto e di renderlo operativo. Dovremmo partire dall’indagare come i differenti modelli di morte vengano distribuiti e organizzati a livello sociale: violenze, malattie, povertà, incidenti, guerre e catastrofi. La persistenza della violenza politica e della nozione di guerra giusta sono materia di primaria importanza per quest’indagine, così come lo è l’analisi dei modi in cui alcuni filosofi hanno affrontato la morte (Critcheley 2008). A questo punto dovremmo rivolgerci ai modi del morire generati nell’intimo della soggettività: suicidio, burn-out, depressione e altre patologie psicosomatiche. Che forma assume oggi la teoria postumana della morte? Essa ci fornisce una sobria spiegazione di come oggi si articoli la biopolitica in un contesto segnato dalle nuove guerre e dalle armi tecno-tanatologiche controllate a distanza. L’approccio necropolitico permette una cartografia più accurata delle modalità con cui le soggettività incarnate contemporanee si relazionano e si uccidono tra loro. Ancora, questo approccio offre nuovi strumenti analitici per un’etica che affronti sia l’orrore che la complessità dei nostri giorni e che tenti di farsene carico in una prospettiva affermativa. Un problema all’ordine del giorno, che a malincuore non posso esaurire in questo momento. La nostra opinione sulla morte dipende dalle convinzioni che abbiamo sulla vita. Nella mia prospettiva materialista e vitalista, la 137

vita è un’energia cosmica, al contempo caos vuoto e velocità o movimento senza limiti. Essa è impersonale e inumana nel senso mostruoso e animale di una radicale alterità: zoe in tutta la sua potenza. Questo non significa che zoe, o la vita nella sua illimitata vitalità, non sia mai toccata dalla negatività. Zoe eccede sempre le soglie individuali dell’esistenza incarnata che costituisce un singolo soggetto. L’essere umano è sempre un gradino più in basso dell’intensità pura o della potenza del virtuale. Rispondere alla sfida costante posta dall’etica affermativa dell’amor fati impone una doppia esigenza: essere all’altezza dei nostri tempi, continuando a contrastarli e a resistere. È impegnativo cogliere e cavalcare l’onda dell’intensità della vita in modo laico, svelandone i confini e i limiti tramite la loro stessa trasgressione. Nessuna meraviglia che molti di noi, come George Eliot ha osservato con acume, cerchino di ignorare il frastuono dell’energia cosmica. Spesso non ce la facciamo proprio a confrontarci con la vita, e a volte ne abbiamo semplicemente abbastanza. La morte è la trasposizione finale, anche se non è l’ultima, dal momento che la zoe prosegue implacabile. La morte è l’eccedenza concettuale inumana: l’irrapresentabile, l’impensabile, l’improduttivo buco nero che tutti temiamo. Tuttavia, la morte è anche sintesi creativa di flussi di energia e divenire perpetui. Gilles Deleuze (2002, 1995, 1976) sostiene che per dare un senso alla morte ci occorre un approccio non convenzionale, che si regga sulla distinzione preliminare e fondamentale tra morte personale e impersonale. La prima è connessa alla soppressione dell’ego individualizzato. L’ultima si trova oltre l’io: una morte che è sempre davanti a me e che segna la soglia ultima dei miei poteri di divenire. In altre parole, nella prospettiva postumana, l’enfasi sull’impersonalità della vita è accompagnata da un’analoga riflessione sulla morte. Dal momento che gli umani sono mortali, la morte, o la fugacità della vita, è inscritta nel nostro intimo: essa è l’evento che struttura la nostra temporalità e rimarca i nostri spazi, non come un limite, ma come una soglia porosa. Nella misura in cui essa è presente nel nostro orizzonte psichico e somatico, come un qualcosa che è sempre già avvenuto (Blanchot 2000), la morte ci precede come nostro evento costituente, sempre alle nostre spalle; essa ha già avuto luogo come potenziale virtuale che costituisce tutto ciò che saremo. La piena esplosione della consapevolezza della natura transitoria di tutto ciò che vive è il momento significativo della nostra esistenza. Esso struttura il 138

nostro divenire soggetti, le nostre capacità, il nostro potere di relazione, il processo di acquisizione della consapevolezza etica. Come esseri mortali, siamo tutti dei sopravvissuti: lo spettacolo della nostra morte è da sempre scritto in filigrana nel copione della nostra temporalità, non come un limite, ma come una condizione di possibilità. Questo significa che quello che noi temiamo di più, il nostro essere morti, l’origine dell’angoscia, del terrore e della paura, non si trova avanti a noi, piuttosto è già alle nostre spalle, è già un evento trascorso. Questa morte che appartiene al passato ma è sempre presente non è individuale ma impersonale; essa è la precondizione della nostra esistenza, del nostro futuro. Questa prossimità alla morte costituisce un’amicizia stretta e intima che esorta alla durata, nel suo doppio significato di durata temporale o di continuità, di empatia spaziale o di sostenibilità. Familiarizzare con la necessità impersonale della morte è un espediente etico per radicarsi alla vita come visitatori transitori e leggermente feriti. Potremmo dire che abbiamo costruito la nostra casa su un precipizio, che viviamo per riprenderci dalla scioccante consapevolezza del fatto che questo gioco è finito ancora prima d’iniziare. La vicinanza alla morte sospende la vita, non nella trascendenza, bensì nella radicale immanenza di solo una vita qui ed ora, per tutto il tempo che possiamo goderne. Questo non significa, tuttavia, che la vita si realizzi a pieno nell’orizzonte della morte. Come ho sostenuto prima, questo concetto classico è centrale per la metafisica della finitudine che, specialmente nella tradizione heideggeriana, santifica la morte in quanto entità capace di definire la coscienza umana. Io voglio invece sottolineare la natura differenziale e produttiva di zoe, vale a dire gli aspetti positivi del continuum vita-morte. Il che non significa rinnegare gli orrori della realtà, piuttosto rielaborarli allo scopo di confermare i poteri vitali di passioni positive quali la guarigione e l’empatia. Questo è il nucleo dell’etica affermativa postumana, declinata nella prospettiva spinozista contemporanea (Braidotti 2011). Un esempio illuminante ci è fornito da Edourd Glissant (1997) la cui opera sul colonialismo e la letteratura ricontestualizza gli orrori della modernità in modo affermativo, partendo dall’esperienza storica mondiale della schiavitù. Glissand applica il pensiero nomade alla critica della lingua madre dominante, legata alla nazione, sin troppo eurocentrica. Esortare al polilinguismo ibrido e alla creolizzazione su scala globale rappresenta una rispo139

sta affermativa al monoculturalismo coercitivo imposto dai poteri coloniali e imperiali. L’etica dell’affermazione produttiva è un modo diverso di affrontare la problematica di come relazionarsi al dolore e ai traumi, di come agire in situazioni estreme, cercando sempre di estrapolare la forza generativa della zoe – la vita oltre il limitato ego umano. In questa prospettiva, la morte non è la meta teleologica della vita, una sorta di magnete ontologico che ci spinge avanti: lo ripeto, la morte è alle nostre spalle. La morte è l’evento che ha sempre già avuto luogo a livello della coscienza. Come circostanza individuale si realizzerà nella forma dell’estinzione fisica del corpo, ma come evento, nel senso della consapevolezza della finitudine, del flusso interrotto del mio essere qui, la morte è già avvenuta. Noi siamo tutti sincronizzati con la morte – la morte ci accompagna lungo i giorni della nostra vita, poiché noi viviamo un tempo preso in prestito. Il tempo della morte come evento è il presente continuo e impersonale di aion, divenire perpetuo, non il tempo lineare e individualizzato che chiamiamo chronos. La temporalità della morte è il tempo stesso, nella sua totalità. Ai laici alcuni di questi concetti potranno apparire controintuitivi. Voglio insistere, tuttavia, sulla necessità di ripensare la vita postumana oltre i vecchi limiti della morte. Potrebbe esserci utile ricordare a questo proposito la tattica della defamiliarizzazione, che ho descritto nel capitolo precedente. Per accostarci alla morte in modo differente, dovremmo forse partire dal prendere la giusta distanza critica dal presunto valore autoevidente attribuito alla vita nella nostra cultura. Vivo in un mondo in cui alcune persone uccidono in nome di un sacralizzato diritto alla vita. In risposta vorrei riferirmi a una più lucida tradizione di pensiero che non si fonda sulla convinzione che la vita sia intrinsecamente ed evidentemente sacra, bensì vorrei rivalutare gli elementi traumatici di questa stessa vita nella loro, spesso ignorata, familiarità. La vita, in altre parole, è un gusto acquisito, una forma di dipendenza come un’altra, un progetto dagli esiti non predeterminati. Bisogna impegnarcisi. La vita trascorre senza che noi la possediamo; noi la occupiamo, come si occupa uno spazio condiviso. Morte di un soggetto Secondo la mia visione vitalista, la morte è l’inumano dentro e fra di noi, che ci apre alla vita. Ognuno di noi è sempre già trascorso, dal 140

momento che siamo esseri mortali. Il desiderio come forza ontologica del divenire (potentia) ci esorta a continuare a vivere. Se sostenuta abbastanza a lungo, la vita diventa un’abitudine. Se l’abitudine diventa autosufficiente, la vita diventa una dipendenza, ovvero il contrario della necessità e dell’autoevidenza. Vivere solo una vita è quindi un progetto, non un presupposto, poiché non c’è nulla di naturale o di automatico in tutto ciò. Bisogna tuffarsi nella vita tutti i giorni, rinnovando la carica elettromagnetica del desiderio, non trascinarsi affidandosi al pilota automatico. La vita è irresistibile, ma non compulsiva. Al di là del piacere e del dolore, la vita è un processo di divenire, di torsione dei limiti della sostenibilità. In che modo questo concetto vitalista di morte si distingue dalla teoria critica? L’esperimento postumano della defamiliarizzazione è una forma di disintossicazione che consiste nel tentare di pensare l’infinito, oltre il terrore del vuoto, in selvaggi panorami mentali non umani, con l’ombra della morte proprio sotto i nostri occhi. Pensare diventa così un gesto di affermazione e di speranza per la sostenibilità e la durata, ovvero un gesto di affermazione di relazioni incarnate e immanenza spazio-temporale, al di là dell’ego umano. Situandosi oltre gli effetti paralizzanti della sfiducia e della sofferenza, la chiave dell’etica consiste nel muoversi trasversalmente rispetto a esse. Il pensiero critico postumano non aspira alla supremazia, ma alla trasformazione delle passioni negative in passioni positive. La vita è desiderio che aspira essenzialmente a esprimere se stesso e di conseguenza a produrre energia entropica: esso raggiunge i propri scopi e li dissolve, come i salmoni che nuotano contro corrente per riprodursi e poi morire. L’aspirazione alla morte può di conseguenza essere letta come la controparte e come un’altra espressione del desiderio di vivere intensamente. Il corollario è davvero ironico: non solo qui non vi è nessuna tensione dialettica tra eros e thanatos, ma queste due entità sono in realtà una sola forza vitale che mira a raggiungere il suo pieno compimento. Il materialismo vitalista postumano infrange i confini tra ciò che vive e ciò che muore. La vita, zoe, mira essenzialmente alla sua autoperpetuazione e poi, una volta raggiunto lo scopo, alla sua dissoluzione. Si potrebbe sostenere, quindi, che la vita intesa come zoe comprende ciò che noi chiamiamo morte. Di conseguenza, quello che noi umani desideriamo più profondamente non è semplicemente scomparire, ma farlo nel contesto della nostra vita e a modo nostro (Phillips 1999). Come se ognuno di noi desiderasse morire 141

secondo il proprio stile. Il nostro desiderio più intimo è quello di una morte autoplasmata e autostilizzata. Così noi tendiamo a ciò che in ultimo cerchiamo di evitare, diventando suicidi esistenziali virtuali, non per nichilismo, ma perché morire è nella nostra natura e perché uno dei nostri più profondi desideri consiste nell’autodeterminare la nostra morte. Di certo questo è un paradosso, il paradosso dell’inumano analizzato da Lyotard: qualcosa nella struttura dell’umano semplicemente resiste all’appartenenza comune all’umanità e si estende al di là di essa. L’inumano ontologico è stato spesso interpretato come sacro, ma per una materialista laica come me ciò non è convincente. Quello a cui tendiamo è l’energia cosmica senza fine, impetuosa quanto capace di autorganizzazione. La consapevolezza dell’oltre riguarda la morte come esperienza che è sempre già avvenuta, non come il trascendentale che ci attende. Mentre a livello della coscienza tutti noi lottiamo per la sopravvivenza, a un livello più profondo del nostro inconscio tutti aneliamo a riposare in silenzio, a far scorrere il tempo nell’immobilità della non-vita. Autodeterminare la propria morte è un gesto di affermazione, poiché implica l’elaborazione di un approccio, di uno stile di vita che progressivamente e costantemente fissa modalità e passaggi dell’ultimo atto, non lasciando nulla di impreparato. E poiché l’immortalità esercita una sorta di fascino, la vita etica è vita intesa come suicidio virtuale. La vita come suicidio virtuale è vita in perenne creazione. Vita vissuta in modo da rompere i cicli della ripetizione inerte che corteggiano la banalità. Per non illuderci con pretese narcisiste dobbiamo coltivare la continuità, l’immortalità all’interno del tempo, ossia la morte nella vita. Vale la pena ripetere che la capacità generativa del continuum vita-morte non può essere limitata e confinata nel singolo individuo umano. Esso attraversa piuttosto tutte le barriere per raggiungere il suo scopo, ovvero l’autoperpetuazione come espressione della sua potenza. Ci correla trasnsindividualmente, transgenerazionalmente ed ecofilosoficamente. Come se la vita in me non fosse mia, eccetto che in un senso molto limitato del termine. In entrambi i casi tutto ciò che posso sperare è di plasmare la mia vita e la mia morte secondo la modalità, la velocità e lo stile in grado di sostenere tutta l’intensità di cui l’Io sia capace. Posso autodeterminare quest’azione autopoieticamente, esprimendo così la mia propria essenza come desiderio costituente di durare. Chiamo questo desiderio potentia. 142

Divenire impercettibile Quello che noi umani bramiamo davvero è scomparire fondendoci al flusso generativo del divenire, presupposto per la perdita, la scomparsa, la distruzione del soggetto atomizzato e individuale. L’ideale sarebbe portare con noi solo i ricordi, lasciarci alle spalle solo delle tracce. Quello che desideriamo di più in verità è sciogliere il nodo del soggetto, abbandonandoci preferibilmente all’agonia dell’estasi, scegliendo inoltre il nostro modo di scomparire e di morire, di separarci da noi stessi. Ciò può essere descritto anche come il momento della dissoluzione ascetica del soggetto; il momento della fusione con il tessuto di forze non umane che costituiscono noi stesse/i e l’intero cosmo. Possiamo chiamare tutto ciò morte, ma secondo l’ontologia monista del materialismo vitalista, ha più a che fare con l’immanenza radicale: la totalità radicata del momento in cui coincidiamo completamente con il nostro corpo, il processo di divenire quello che, alla fine, siamo sempre stati, ovvero cadaveri virtuali. La morte, l’inumano tra noi, rende il divenire impercettibile del soggetto la frontiera più lontana dei processi di trasformazione intensiva del divenire. Questa non è trascendenza, bensì immanenza radicale empirica: trasformazione di tutto il vivente nel frastuono del divenire caosmotico. La morte evidenzia la potenza generatrice di zoe, la magnifica macchina-animale dell’universo, al di là della morte individuale personale. Ricordiamo che questo è un discorso laico, elaborato da una teoria critica che vuole pensare fino alla fine il continuum natura-cultura all’interno dell’ontologia monista che considera tutta la materia intelligente e capace di autorganizzazione. Riconoscere questo continuum ci rende in grado di essere all’altezza di quanto ci accade: amor fati significa comprendere pragmaticamente che il soggetto postumano è l’espressione di onde successive di divenire, alimentate da quel motore ontologico che è zoe. L’amor fati non è umano né divino, bensì del tutto materiale e votato alla relazionalità multidirezionale e transpecie. La vita prosegue, implacabilemente non umana nella forza vitale che la anima. Il divenire impercettibile evidenzia il momento della scomparsa e dell’evanescenza dei soggetti isolati e la loro fusione con l’ambiente, con il territorio, con l’immanenza radicale della terra stessa e con la sua risonanza cosmica. Il divenire impercettibile è l’evento per cui non vi è rappresentazione, poiché si fonda sulla scomparsa del sé individualizzato. L’ultimo passaggio della disintossicazione dal143

l’ego umano, umanista e antropocentrico, è il tentativo di riuscire a scrivere come se il soggetto unitario fosse già trascorso, riuscire a pensare al di là di esso. Questo processo concretizza nel presente possibilità virtuali, in una sequenza temporale che si muove tra il non più e il non ancora, fondendo passato, presente e futuro nella massa critica dell’evento. L’energia vitale che catalizza la trasmutazione dei valori nell’affermazione è la potentia della vita intesa come divenire perpetuo che si esprime attraverso il vuoto caotico e generativo della positività. L’evento emana una seduzione alla vita che infrange l’economia spettrale della negatività, innescando un processo di addestramento alla morte impersonale. L’interpretazione postumana della morte intesa come continuum vitale non potrebbe essere più lontana dalla nozione di morte come stato inanimato e indifferente della materia, lo stato entropico al quale si suppone il corpo ritorni. Essa piuttosto parla del desiderio di pienezza e di abbondanza di flussi, non di mancanza. La morte è il divenire impercettibile del soggetto postumano e come tale è parte dei cicli di divenire, anche se come diversa forma d’interconnessione, come relazione vitale che unisce forze multiple. L’impersonale è vita e morte, bios/zoe in noi – ultima frontiera esterna dell’incorporeo: divenire impercettibile. Il paradosso dell’affermazione della vita come potentia, energia, persino dentro e attraverso la soppressione della specifica porzione di vita che io occupo, è un modo per spingere il postumanesimo e il postantropocentrismo fino al punto dell’implosione. Esso dissolve la morte nei cambiamenti processuali sempre mutevoli, e così disintegra l’ego, banca centrale del narcisismo, della paranoia e della negatività. La morte come processo dal punto di vista specifico e molto limitato dell’ego non ha alcun significato. Il tipo di sé che è modellato in e attraverso tale processo è il non-uno, anche se non coincide con la molteplicità anonima. Il sé è differenziale e costituito attraverso linee d’intersezioni incarnate e integrate. L’intima coerenza di tale soggetto postumano è tenuta salda dall’immanenza delle proprie espressioni, dei propri atti e delle proprie interazioni con gli altri, così come dai poteri della memoria e della continuità nel tempo. Mi riferisco a questo processo in termini di sostenibilità, in modo da sottolineare l’idea della durata che esso implica. La sostenibilità si fa carico della fiducia verso il futuro, esorta al senso di responsabilità per la dignitosa consegna di un mondo vivibile alle generazioni future. Un presente in grado di durare è il modello sostenibile del futuro. Contro l’immagine auto-glorificante della 144

coscienza pretenziosa ed egoista, narcisista e paranoica, la teoria critica postumana scatena le forze vitali di zoe che non coincidono con l’umano né con la coscienza. Questi tratti non essenzialistici del vitalismo caratterizzano il soggetto postumano. La mia declinazione vitalista del materialismo non può essere più lontana dall’affermazione cristiana della vita, dalla delega trascendentale del sistema dei valori e dei significati a entità più elevate del sé incarnato. Al contrario, è l’intelligenza radicale immanente alla carne ad affermare, a ogni singolo respiro, che la vita in te non è il frutto di un sistema di significazione e che di certo non porta il tuo nome. La consapevolezza dell’assoluta differenza tra gli affetti intensivi o incorporei e gli specifici corpi affetti che sembriamo essere è cruciale per l’etica affermativa postumana. La morte è l’insostenibile, ma è anche il virtuale per il fatto che possiede la capacità generativa di concretizzare l’attuale. Di conseguenza, la morte è un’ovvia manifestazione di principi attivi in ogni aspetto della vita, soprattutto è il potere impersonale della potentia. Il soggetto postumano si fonda sull’affermazione di questo tipo di molteplicità e sulla connessione relazionale con il fuori cosmico e infinito. Conclusione: etica postumana La condizione postumana comporta forme specifiche di pratiche inumane e disumane che evocano nuovi modelli contestuali di analisi e nuovi valori normativi. In questo capitolo ho trattato gli spettrali scenari necropolitici della condizione postumana attraverso una serie di problematiche interrelate. In primo luogo ho discusso gli aspetti distruttivi delle nuove forme di panumanità reattiva o negativa prodotte dalle società globali del rischio e dalla sottomissione di tutto il vivente all’economia politica della capitalizzazione del valore della vita intesa come informazione. In secondo luogo, mi sono concentrata sulle forme pervasive della mediazione tecnologica, sull’estensione delle reti di comunicazione globale e sull’intervento biogenetico, fattori che hanno ristrutturato la relazione natura-cultura come un insieme continuo sia distruttivo che generativo. I casi qui presi in considerazione sono rappresentati dalle nuove guerre, dagli interventi umanitari e dalle armi automatiche capaci di fare a meno della decisione umana. Ho sostenuto il bisogno di riconsiderare la distinzione vita-morte nei termini del continuum vitale articolato su differen145

ziazioni interne. Ho presentato tale continuum come il doppio capovolgimento dell’individualismo, a favore delle singolarità complesse, e dell’antropocentrismo, a favore delle molteplicità dei flussi e degli assemblaggi non umani. Attraverso tutti questi momenti ho sottolineato l’inumanità e la violenza dei nostri tempi e ho rivendicato pratiche affermative di reazione all’economia necropolitica in cui siamo costretti. Vorrei riassumere una serie di caratteristiche di questa svolta postumana necropolitica. Il primo punto è che il soggetto politico e legale di questo regime di governamentalità della vita-morte è un’entità eco-filosofica postantropocentrica. Questo soggetto guidato da zoe è caratterizzato dall’interdipendenza con il suo ambiente tramite una struttura di flussi reciproci e di trasferimento di dati che si configura al meglio come interconnessione complessa e intensiva. In secondo luogo, questo soggetto connesso all’ambiente è un’entità collettiva finita, che si muove oltre i parametri dell’umanesimo e dell’antropocentrismo classici. L’organismo umano è un’entità di mezzo collegata e connessa a una varietà di possibili risorse e forze. In quanto tale è utile definirlo come macchina, non un dispositivo con uno scopo utilitaristico ben preciso, ma una macchina al contempo astratta e incarnata materialmente. La definizione minimalista di corpo-macchina è quella di un’entità incarnata, intelligente e affettiva che elabora processi e trasforma energie e forze. Essendo legata all’ambiente e radicata a un territorio, un’entità incarnata si nutre di, incorpora e trasforma il suo ambiente costantemente. Essere integrata in questo contesto ecologico high-tech implica una piena immersione nei campi dei flussi perenni e delle metamorfosi. Non tutti sono positivi, anzi, poiché gli aspetti inumani e disumani comportano numerose forme di vulnerabilità, nonostante in un tale sistema dinamico essi non possano essere conosciuti né giudicati a priori. Dunque ci occorre sperimentare nuove pratiche che ci permettano di elaborare una molteplicità di possibili istanze-attualizzazioni e controattualizzazioni – delle differenti linee di divenire, come ho spiegato nel precedente capitolo. In terzo luogo, tale soggetto del zoe-potere solleva questioni d’urgenza etica e politica. Data l’accelerazione dei processi di cambiamento, come possiamo rendere conto della differenza tra i diversi flussi delle trasformazioni e delle metamorfosi? Occorre mappare e analizzare le linee di fuga e di divenire, poiché esse in146

dicano gli assemblaggi collettivi e le altre possibili vie di metamorfosi. Nessun modello monolitico e statico può fornirci risposte adeguate: bisogna sperimentare la diversificazione di strategie più pragmatiche e aperte. Il punto di partenza è l’implacabile forza generatrice e distruttrice di zoe, l’egalitarismo transpecie che fissa le basi dell’etica postumana: una questione di potenza e di etologia. In quarto luogo, la specifica temporalità del soggetto postumano necessita di essere ripensata oltre la metafisica della mortalità. Il soggetto è un motore evolutivo, dotato di una sua incarnata temporalità, sia nel senso del tempo particolare del codice genetico, che nel senso del tempo più genealogico dei ricordi individualizzati. Se il soggetto incarnato del biopotere è un organismo molecolare complesso, una fabbrica di geni immutabili e mutabili, un’entità evolutiva dotata di propri strumenti per la navigazione e di un’intima temporalità, allora ci occorrono delle forme di valori etici e di azione politica che riflettano quest’alto grado di complessità temporale. La mia tesi è che, adottando una visione differente del soggetto e con essa una nuova nozione dell’interazione naturacultura, la teoria critica potrebbe essere in grado di superare il modernismo e le concezioni piuttosto riduttive dell’inumano. In quinto e ultimo luogo, questo approccio etico non può essere disgiunto dall’analisi del potere. La visione zoe-centrata del soggetto tecnologicamente modificato della postmodernità e del capitalismo avanzato è carica di contraddizioni interne. Comprendere queste contraddizioni è l’obiettivo cartografico della teoria critica, così la spiegazione delle conseguenze che esse comportano per la visione storicamente collocata del soggetto è parte integrante di questo progetto (Braidotti 2003). L’egalitarismo zoe-centrato che potenzialmente accompagna le trasformazioni tecnologiche presenti ha conseguenze terribili per la visione umanista del soggetto. La potenza di zoe, in altre parole, disturba l’attrazione gravitazionale necropolotica del capitalismo avanzato. Sia l’individualismo liberale che l’umanesimo classico vengono erosi sin nell’intimo dalle trasformazioni indotte dalla nostra condizione storica. Lontana dall’essere una mera crisi di valori, questa situazione ci mette al cospetto di una formidabile gamma di opportunità. Esse convergono, attraverso strade diverse, sulla riarticolazione del nostro concetto condiviso dell’umano inteso come specie. Una di esse è il legame negativo della vulnerabilità panumana che ho analizzato nel capitolo precedente: siamo in questa situazione caotica tutti insieme, tutte le altre differenze non contano. Un 147

altro approccio, più vicino alla mia posizione, propone di partire dalle differenze di collocazione e, analizzandole in termini di potere, sia repressivo che liberatorio (potestas-potentia), di sperimentare diversi modelli di soggettività postumana. Ho sostenuto che come possibile risposta a questa sfida dovremmo prendere in considerazione il filone postantropocentrico del vitalismo e definire di conseguenza la teoria postumana. Questa convinzione è supportata dalla mia collocazione storica e geopolitica, che mi rende consapevole della coincidenza schizofrenica di effetti sociali diametralmente opposti: l’iperconsumismo e l’esaurimento delle riserve mondiali di biodiversità e sementi, di cereali, piante e acqua sembrano poter convivere dentro l’economia politica dello sfruttamento e della valorizzazione della vita in sé. In modo simile, l’epidemia di anoressia/bulimia da un lato, e la fame indotta dalla povertà dall’altro, rappresentano le ondate di espansione e contrazione del peso corporeo della popolazione delle classi opulente del mondo e la dispersione, nonché la premeditata distruzione, di molte altre popolazioni, tramite intervento attivo o pura negligenza. Biopolitica e necropolitica collaborano per ricollocare la soggettività incarnata nel continuum postumano, fatto che ci esorta a elaborare un nuovo codice etico. Pertanto, riconosco che la definizione di vittima di guerra della Convenzione di Ginevra necessita di un aggiornamento per rendere conto dello statuto specifico degli umani incarnati che subiscono i danni collaterali delle guerre high-tech, e che vengono colpiti dal cielo con bombe intelligenti lanciate da droni pilotati da computer, condizione che mi ricorda quella degli animali dello zoo di Sarajevo forzatamente liberati dopo un bombardamento della Nato e che erravano per le strade terrorizzati e terrorizzando gli umani fino a soccombere sotto il fuoco amico. Voglio confrontarmi con la governamentalità necropolitica del capitalismo biogenetico e pensare partendo dalla consapevolezza che il prezzo di mercato di uccelli esotici e animali quasi estinti è paragonabile, spesso a vantaggio della specie dei volatili, a quello dei corpi usa e getta delle donne e dei bambini nel mercato e nell’industria mondiale del sesso. La terrificante espressione di Conrad sterminare i bruti oggi non conosce limiti tra le specie. Questo è il lato inumano e disumano della mia collocazione storica, il postumano, qui e ora. Ed è in risposta a questa violenza che pongo la teoria critica postumana come rivendicazione attiva di alternative affermative. È anche il contesto in cui voglio pro148

porre un’alternativa creativa, attraverso la teoria positiva postumana, laica, non essenzialista, materialista e vitalista della morte, intesa come l’elemento inumano generativo all’interno della soggettività, che ci rende tutti fin troppo umani.

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Capitolo 4

Scienze postumane La vita oltre la teoria

È inevitabile che le scienze umane subiscano l’impatto della condizione postumana. Lo slittamento dei confini discorsivi e delle differenze categoriali, innescato rispettivamente dall’esplosione dell’umanesimo e dall’implosione dell’antropocentrismo, causa una frattura all’interno delle scienze umane che non può essere riparata dalla semplice buona volontà. Cerchiamo di valutare i danni sulla base delle analisi che ho fornito nei tre precedenti capitoli. Nel primo capitolo ho discusso delle ricadute del postumanesimo. Il concetto di umano implicito nell’umanesimo, che esprime una serie di convinzioni assiomatiche intorno all’unità di riferimento comune per il soggetto della conoscenza, è rappresentato dall’Uomo Vitruviano. Esso veicola l’immagine dell’uomo inteso come animale razionale dotato di linguaggio. Nel corso degli ultimi trent’anni gli antiumanisti hanno problematizzato sia l’autorappresentazione che l’immagine del pensiero implicate dalla definizione umanista di umano, specialmente l’idea di ragione trascendentale e la nozione di soggetto coincidente con la coscienza razionale. Questa autocompiacente immagine di Uomo è tanto problematica quanto parziale poiché promuove comportamenti autocentrati. Inoltre, dal momento che distribuisce le differenze su una scala gerarchica di decrescente dignità, nella storia occidentale questo soggetto umanista definisce se stesso in base a ciò che esclude oltre che a ciò che include nella sua stessa rappresentazione, un approccio che spesso giustifica una relazione violenta e belligerante con gli altri sessualizzati, razzializzati e naturalizzati, che vengono relegati al rango di svalutate differenze. Inoltre, gli appelli all’universalismo sono stati criticati in quanto escludenti, 150

androcentrici ed eurocentrici. Tali appelli diffondono ideologie maschiliste, razziste e prevaricatrici, che trasformano la specificità in falsa universalità e la normalità in ingiunzione normativa. Quest’immagine del pensiero mistifica la pratica delle scienze umane e, in particolare, trasforma la teoria in un esercizio di esclusione gerarchizzata e di egemonia culturale. Negli ultimi trent’anni nuove epistemologie critiche hanno proposto definizioni alternative del concetto di umano, attraverso la creazione di nuovi campi interdisciplinari che si riferiscono a loro stessi con il termine «studi»: studi di genere, femministi, etnici, culturali, di comunicazione, dei diritti umani (Bart et al. 2003). In questo libro ho posto in primo piano la teoria femminista come principale punto di riferimento teoretico e metodologico. Secondo James Chandler (2004) questa proliferazione di controdiscorsi produce una situazione di «disciplinarietà critica» che è sintomo della condizione postumana. Chandler sostiene che a seguito della giusta diagnosi di Foucault sulla morte dell’Uomo, la tradizionale organizzazione dell’università in dipartimenti è stata messa in discussione dall’aumento di questi nuovi ambiti di discorso. Tale proliferazione di studi è sia un pericolo quanto un’opportunità, dal momento che richiede innovazioni metodologiche, così come un approccio genealogico critico che superi la mera retorica della crisi. Le conseguenze del postantropocentrismo, come ho mostrato nel secondo capitolo, determinano un’agenda differente per le scienze umane, non solo per quanto concerne le priorità della ricerca. L’immagine del pensiero implicata dalla definizione postantropocentrica dell’umano si spinge molto avanti nel processo di decostruzione del soggetto, poiché si concentra sulla relazionalità, ovvero sulle identità non unitarie e sulle alleanze multiple. Poiché questo cambiamento avviene in un mondo globalizzato e tormentato da conflitti, esso prospetta nuove sfide negli ambiti postlaici e postnazionalisti, compresa la nuova dimensione europea segnata da multiculturalismo e diversità culturale23. Qual è il ruolo delle scienze umane, come impresa scientifica in una cultura globalizzata che funziona in rete (Terranova 2006), che non trova più nell’unità dello spazio e del tempo i suoi principi regolatori? Nell’era in cui scienza24 e giornalismo vengono eserci23. Questo aspetto della diversità globale è anche detto cosmopolitismo locale (Bhaba 1996b; Nava 2002; Gunew 2004; Werbner 2006). 24. www.citizensciencealliance.org.

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tati direttamente dai cittadini, quale può essere il ruolo delle istituzioni di ricerca accademiche? Il dislocamento dell’antropocentrismo e lo slittamento della gerarchia delle specie lascia l’umano senza punti di ancoraggio e di supporto, cosa che priva l’ambito delle scienze umane delle più che necessarie basi epistemologiche. La questione del futuro delle scienze umane, il problema del loro rinnovamento e del ricorrente rischio del tramonto di tali discipline, è aggravato da un fattore centrale: «I nuovi collegamenti umano-non umano, tra i quali le complesse interfacce che includono assemblaggi macchinici di wetware biologici e di hardware non biologici» (Bono et al. 2008, 3). Abbiamo visto nel secondo capitolo che la distinzione dualista natura-cultura è crollata ed è stata sostituita da un sistema complesso di feedback dei dati, di interazione e trasferimento di comunicazione. Cosa che pone di nuovo il problema della relazione tra le due culture al centro dell’agenda attuale. Contro i profeti di sventura, preferisco sostenere che il postantropocentrismo tecnologicamente mediato può fare proprie le risorse dei codici biogenetici, come quelle delle telecomunicazioni, delle nuove tecnologiche mediatiche e dell’informazione, al fine di innovare le scienze umane. La soggettività postumana rimodella l’identità delle pratiche umaniste, mettendo in rilievo l’eteronomia e la relazionalità multisfaccettata, anziché l’autonomia e la purezza autoreferenziale delle discipline accademiche. Il nucleo profondamente antropocentrico delle scienze umane è sostituito da questa complessa configurazione del sapere dominato dagli studi scientifici e tecnologici sull’informazione, come ho mostrato nel secondo e nel terzo capitolo. Lungi dall’essere una crisi terminale, tuttavia, questa sfida apre a nuove dimensioni globali ed eco-filosofiche. Per quanto mi riguarda, quest’entusiasmo per il postumano, non esattamente scevro da anticipazioni impazienti, trae origine dal mio background antiumanista e femminista. Tale entusiasmo genera un’energica, e nondimeno critica, relazione con l’ambito contemporaneo delle scienze umane classiche. Può apparire paradossale, per non dire altro, il fatto che le pensatrici critiche entrate nelle istituzioni accademiche a seguito della rivoluzione culturale degli anni Settanta, con l’esplicito intento di cambiarle dall’interno, si riducano oggi a restaurare le medesime discipline e a salvarle dal declino istituzionale. Come ho fatto notare nel capitolo precedente, le cose non sono mai chiare e distinte quando si tratta di elaborare una valida posizione postumana, e il pensiero 152

lineare non è di certo il metodo migliore per raggiungerla. Sam Whimster analizza questo dilemma con lucidità (2006, 174): Le scienze umane, le quali consistono nell’encomio e nell’esplicita delucidazione della condizione umana come non riducibile a una base materiale, hanno cominciato a decadere dal tardo ottocento con l’emergere del darwinismo come valida dottrina scientifica sull’origine delle specie viventi. Pertanto una scienza dell’umano deve poter dimostrare di essere capace di pensare il non umano o, in alternativa, di restare umanista ma carente sul piano scientifico.

Whimster ci ricorda inoltre che la filosofia francese ha affrontato il problema delle scienze umane postantropocentriche e dello statuto dell’umano già nel lavoro sorprendentemente originale del 1748 del filosofo Julien La Mettrie (1996). Era un materialista umanista appartenente alla grande tradizione del materialismo illuminista francese, e rappresenta uno dei precursori più moderni degli antichi archivi delle scienze umane. La teoria di La Mettrie sulla struttura dell’umano, intesa come intrinsecamente meccanica e capace di autorganizzazione, costituisce un percorso di rottura molto importante per la nostra attuale situazione. Oggi nuovi fronti di discorsi transdiciplinari, ambientali, evoluzionisti, cognitivi, biogenetici e digitali sorgono ai margini e attraverso le discipline umaniste classiche. Traggono origine dalle premesse postantropocentriche e dall’enfasi tecnologicamente mediata sulla vita come sistema zoe-centrato di egalitarismo transpecie (Braidotti 2008a), e sono molto promettenti per le nuove ricerche nel campo. Probabilmente l’esempio più significativo dell’ottima salute di cui godono le scienze umane postantropocentriche è la recente esplosione di ricerche negli ambiti degli animal studies e dell’ecocriticismo. La rapida evoluzione del campo dei disability studies è anch’essa emblematica della condizione postumana. Sempre memori del fatto che non sappiamo ancora di cosa sia capace un corpo, i disability studies combinano la critica ai modelli fisici normalizzati con la proposta di nuovi e creativi modelli d’incarnazione (Braidotti e Groets 2012). Questi ambiti sono così ricchi e crescono cosi rapidamente che è impossibile tentare di riassumerli25 qui. In che punto questi filoni si separano dalla cultura 25. Un compendio degli Animal studies è stato pubblicato da poco (Gross e Valley 2012), mentre un’antologia completa sull’ecocriticismo è già disponbile da tempo (Glotfley e Fromm 1996). Il «Journal of Eco-criticism» è abbastanza diffuso, mentre un recente

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delle scienze umane? O piuttosto: in che cosa il concetto di umano riguarda questo mutevole orizzonte? E quali sono le conseguenze per il futuro delle scienze umane? Una pensatrice neovitalista contemporanea come Elisabeth Grosz spinge questa linea di ricerca ancora più avanti, attraverso un’interpretazione decostruttivista di Charles Darwin. Grosz (2011) sostiene che la teoria evoluzionista ridimensiona le pretese umaniste ed è anticipatrice della crisi dell’eccezionalismo umano, che al giorno d’oggi è diventata evidente. Grosz esorta quindi allo sviluppo delle scienze umane inumane, sintetizzabile nell’uguaglianza delle specie, in un’attenzione particolare per la differenza sessuale come regola iscritta nel codice genetico, per il primato della selezione sessuata e per l’approccio non teleologico all’evoluzione della specie umana accanto a tutte le altre. Nonostante ritenga l’enfasi di Grosz per le fondamenta genetiche della differenza sessuale troppo rigida per la mia visione fluida e nomadica della soggettività, concordo con lei su un punto significativo. Quando viene in primo piano la nozione vitalista della materia capace di autorganizzazione, le scienze umane devono cambiare e diventare postumane, o in alternativa devono accettare la loro crescente e dolente irrilevanza. Come se queste sfide postantropocentriche non fossero già abbastanza, ultima ma non meno importante è la ricaduta degli aspetti inumani e disumani della nostra condizione storica che ho discusso nel terzo capitolo. Secondo i principi dell’umanesimo classico, le scienze umane erano caratterizzate dalla capacità di umanizzare in nostri comportamenti sociali, i nostri valori e la nostra interazione civica. Ciò porta con sé una missione morale implicita e un interesse per il benessere delle accademie, degli studenti e dei cittadini. Cosa ne è di quest’affermazione in un’era di cambiamenti postumani e postantropocentrici, di migrazioni di massa, guerre al terrore, armi robotizzate, droni e conflitti tecnologicamente mediati? Un’evidente risposta istituzionale alle strutture inumane dei nostri giorni è la nascita e la proliferazione di aree di studio interdisciplinari che si occupano dei disastri della storia moderna e numero dei prestigiosi quaderni «PMLA» (2009) è dedicato al tema degli animali. Per un ottimo resoconto storico si veda Joanna Burke (2011). Per la più giovane generazione di studiosi (Rossini e Tyler 2009) l’animale simboleggia la condizione postumana per eccellenza. Ancora, l’ambito dei disability studies è troppo vasto per essere riassunto adeguatamente, con la sua istituzionalizzata Società dei disability studies che pubblica un quadrimestrale e un’antologia (Lenard, 1997).

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contemporanea. Gli studi femministi, di genere e postcoloniali, che hanno dato molto in termini di strumenti e concetti innovativi, sono i prototipi di questi nuovi ambiti in via di sperimentazione. Nello specifico si sono dovuti istituire nuovi ambiti di ricerca multidisciplinare per comprendere a pieno gli orrori dei nostri tempi: dagli studi sull’Olocausto alle ricerche sulla schiavitù e il colonialismo, grazie al lavoro sui ricordi traumatici dei genocidi causati dalle più disparate ideologie. Il concetto di différend di Llyotard (1985) – un crimine o un errore morale, per il quale non ci può essere alcuna adeguata forma di giustizia, tantomeno retribuzione o compensazione – è importante per confrontarci con la vasta portata delle catastrofi della nostra era. Il concetto di différend rappresenta la risposta etica alla tragedia dell’intollerabile e dell’inconciliabile, ma, dal momento che di molte tragedie non è possibile parlare, quanto possono approfondire davvero le scienze umane? Ancora, le epistemologie radicali rappresentate da un lato dagli studi delle donne, di genere, queer e femministi, dall’altro dagli studi postcoloniali e razziali hanno giocato un ruolo innovativo a questo proposito. Esse hanno proposto temi e metodi per analizzare l’esplosione epistemica di tali orrori e per confrontarsi con le loro conseguenze sul ruolo della teoria critica. Adempiendo anche alla funzione compensatoria di cura del dolore e della sofferenza che tali orrori recavano con sé. La proliferazione di nuovi ambiti discorsivi continua dopo la Guerra fredda, con la nascita dei centri studi sui conflitti e sulla pace, sulla gestione degli aiuti umanitari, sulla medicina orientata ai diritti umani, sul trauma e la riconciliazione, con i death studies. E la lista continua a crescere. Si tratta di strutture istituzionali che combinano una cura pastorale con finalità terapeutiche per affrontare i lati disumani e dolorosi degli orrori della storia. Esse recuperano e aggiornano l’impatto trasformativo delle scienze umane in un contesto inumano, varcando gli stessi confini delle classiche discipline umaniste. Come risultato di questi molteplici effetti domino, la domanda su cosa accade alle scienze umane, quando le loro implicite convinzioni circa l’umano e il processo di umanizzazione non possono più essere date per scontate, occupa un posto di rilievo nell’agenda accademica e sociale. Accanto alle critiche dei pensatori postumani, svariati filoni di neoumanesimo lavorano all’interno delle attuali scienze umane, come abbiamo visto nel precedente capitolo. Considerando ad esempio il caso delle teorie femministe e della razza come 155

principale punto di riferimento, la viva eredità dell’umanesimo socialista di Simone de Beauvoir gioca un ruolo centrale nel pilotare gradualmente l’umanesimo verso il terzo millennio. Altre femministe umaniste hanno inoltre proposte alternative valide alla crisi dei valori – come il modello neokantiano di Sheila Benhabib (2002), ripreso dalla filosofia di Habermas e arricchito dalla sua reinterpretazione di Hannah Arendt (2004). Le teorie postocoloniali, come abbiamo visto nel primo capitolo (Hill Collins 1991; Said 2007) costituiscono forme residuali di neoumanesimo, già influenzate da concetti, tradizioni culturali e valori non occidentali. Gli attuali science studies si rivolgono all’umanesimo compensatorio sia per lo studio delle altre specie (de Wall 1996, 2006, 2009) sia per l’analisi politica delle problematiche ambientali (Shiva 1999). La sostenitrice più strenua della visione liberale umanista delle attuali scienze umane è Marta Nussbaum, la quale, come abbiamo visto nel primo capitolo, rifiuta fermamente ogni critica o decostruzione di tale campo, trasformando l’umanesimo classico in un progetto ancora da realizzare (2006, 2007, 2013). L’appassionata e disinteressata difesa della Nussbaum dell’umanesimo classico, si distingue in questo contesto come un nobile appello ma anche poco realistico per lo status quo ante. L’immagine della facoltà delle scienze umane come un paradiso dell’educazione liberale, fondata sulla nozione kantiana di autonomia del giudizio razionale e sugli specifici criteri estetici ed etici che lo accompagnano, è quantomeno obsoleta. Inoltre poiché tale struttura è finanziata da privati, essa non può neppure essere applicata al modello di educazione pubblica dell’Unione Europea. A livello pratico, quest’analisi non riesce a comprendere fino a che punto le facoltà delle scienze umane sono in realtà orientate al profitto e in che misura esse facciano guadagnare molto alle loro università, soprattutto grazie all’elevato numero di studenti che si iscrivono a esse e grazie all’insegnamento intensivo. Inoltre, l’università ha smesso di modellarsi a questa visione filosofica, in primo luogo negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo, dopo la Guerra fredda. Le preoccupazioni per la sicurezza nazionale, per i conflitti geopolitici e l’interesse per il prestigio internazionale hanno ricondotto le università sotto il controllo governamentale in stretta relazione al settore militare, come abbiamo capito nel terzo capitolo. Dopo gli sconvolgimenti culturali degli anni Sessanta, l’università ha perso la sua funzione egemonica sia come punto di riferimento della cultura nazionale sia 156

come proprietaria del monopolio sulla ricerca fondamentale, che si è spostata invece verso il settore privato e le imprese a partecipazione mista. Mentre la Nussbaum scriveva il suo pamphlet a favore dell’educazione liberale, le università erano già state annesse all’economia di mercato in qualità di importante, benché non unica, struttura aziendale (Readings 1996). Dunque, invece di tornare all’obsoleta e nostalgica interpretazione delle scienze umane intese come custodi ed esecutrici testamentarie della ragione trascendentale e dell’intrinseco bene morale, propongo di spingerci verso i molteplici futuri postumani. Ci occorre un vero sforzo per reinventare l’ambito accademico delle scienze umane nel nuovo contesto globale e per elaborare un quadro etico all’altezza dei nostri tempi postumani. La positività, non la nostalgia, è la strada da percorrere: non l’idealizzazione di metadiscorsi filosofici, ma il più pragmatico compito dell’autometamorfosi attraverso umili esperimenti. Lasciate che vi spieghi questo progetto nel prossimo paragrafo. Modelli istituzionali di dissonanza Le crisi dell’autodefinizione e dell’immagine pubblica delle scienze umane si sono articolate a partire dalla fine degli anni Settanta all’interno di un dibattito istituzionale caratterizzato da espliciti fattori politici. Un recente studio americano analizza con lucidità questa situazione: In aggiunta al declino dei fondi federali, al mercato del lavoro in calo, alle nuove pressioni della globalizzazione, la sfida più significativa per le scienze umane è rappresentata dall’egemonia delle tecno-scienze, dall’impatto della rivoluzione dei nuovi media, dall’ascesa della cultura degli esperti da un lato, dalla proliferazione democratica senza precedenti di nuovi ambiti interdisciplinari dall’altro, come gli studi di genere, etnici, sulla disabilità, afro-americani, così come gli studi di culture non europee, che tutti insieme mettono in discussione il canone tradizionale e la comune missione delle scienze umane (Bono et al. 2008, 2).

La crisi istituzionale si estende quindi oltre le questioni dell’autorappresentazione, per problematizzare il paradigma dominante circa la costituzione del sapere scientifico degli umanisti contemporanei, all’interno di una struttura universitaria che è, a dir poco, immersa nel flusso. 157

Lungo i conflittuali anni Novanta, la guerra delle teorie, detta anche guerra delle scienze o delle due culture, si diffuse nei campus americani (Arthur e Shapiro 1995). Il fulcro della disputa consisteva proprio nella questione delle differenze di paradigma tra le scienze umane e le scienze naturali. La filosofia continentale francese, e soprattutto il poststrutturalismo, sono stati presi di mira con particolare ostilità, con l’accusa generale di «correttezza politica» (Bérubé e Nelson 1995). Scienziati che militavano contro i poststrutturalisti, come Socal e Bricmont (1998), hanno accusato le scienze umane di inadeguatezza scientifica e di assoluta ignoranza, con effetti disastrosi per la morale del campo di studi. Hanno incoraggiato la reazione di rigetto, oggi familiare, delle scienze umane attraverso l’accusa, banale dal punto di vista concettuale, di relativismo morale e cognitivo. Si tratta sicuramente del punto più basso della relazione contemporanea tra le due culture. Nuovamente, contro queste volgari semplificazioni, io continuo a sostenere quanto sia importante riconoscere il contributo proficuo che poststrutturalismo e altre teorie critiche hanno apportato al rinnovamento del campo delle scienze umane. Negli anni Settanta, Foucault aveva mostrato che le scienze umane, come le abbiamo conosciute, sono articolate intorno all’implicita serie di convinzioni umaniste sull’Uomo, il quale, nonostante le loro pretese universaliste, è storicamente definito e contestualmente influenzato. Come doppio empirico-trascendentale l’Uomo è determinato dalle strutture della vita, del lavoro e del linguaggio, in costante work in progress. Questo non costituisce il manifesto del relativismo, piuttosto, come Rabinow (2008, 127) afferma, è un invito a una rinnovata problematizzazione dell’anthropos. Le condizioni in mutamento della nostra storicità sono responsabili del declino dell’Uomo umanista. Incolpare il poststrutturalismo di aver diffuso la cattiva notizia significa confondere messaggero e messaggio. Nei termini ironici di Foucault (1967) questa morte non rappresenta una sorta di estinzione, bensì un contingente modello storico di sopravvivenza dell’ex-Uomo, in seguito all’esodo antropologico esaminato nel secondo capitolo. Con le sua consueta intuizione e la sua arguzia, Gayatri Spivak (1987), identifica questa morte con l’indebolito, ma nondimeno egemonico, modus vivendi dell’ex-Uomo eurocentrico. Il fatto che, da allora, la teoria critica sia venuta a patti con le infinite forme della morte, che vanno dalla morte dell’Uomo a quella dell’universale, dello Stato nazione, dalla fine della storia e dell’ideologia fino alla scomparsa 158

del libro stampato, attesta la sagacia dell’osservazione della Spivak. Ciò che è emerso come potenziale difetto fatale nel nucleo delle scienze umane è il loro antropomorfismo strutturale e il loro profondo nazionalismo metodologico (Beck 2007), come sottolineava il mio collega scienziato ostile alle scienze umane, che ho descritto nella quarta vignetta dell’introduzione. L’antropomorfismo strutturale si traduce in una sostenuta ostilità verso – o una sincera incompatibilità con – la cultura, la pratica e l’esistenza istituzionale della scienza e della tecnologia. Il nazionalismo metodologico mina la capacità delle scienze umane di confrontarsi con due dei tratti distintivi dei nostri giorni: in primo luogo l’ascesa scientifica delle discipline della vita e della comunicazione e del sapere tecnologicamente mediati; in secondo luogo, la necessità di prendere in considerazione la diversità culturale, soprattutto tra aree geopolitiche differenti ma anche all’interno di ciascuna di esse. Questa critica pone seri problemi, soprattutto in considerazione del contesto politico. L’Unione Europea, allo stato attuale, è dominata da un lato da un programma di economia neoliberale di destra, dall’altro da un programma sociale xenofobico e populista. L’università come istituzione, e soprattutto le scienze umane, si trovano di conseguenza sotto attacco. Le accuse si accumulano: sarebbero poco produttive, narcisiste ed obsolete nel loro approccio e inoltre sarebbero incapaci di stabilire punti di contatto con la scienza e la tecnologia attuali. Le scienze umane, dunque, stanno sperimentando di persona la crisi dell’Uomo che è stata teorizzata da filosofie molto radicali quali il poststrutturalismo e gli studi interdisciplinari femministi e postcoloniali, che pure sono stati marginalizzati nel contesto istituzionale universitario. E sono spesso costrette ad assumere una posizione difensiva. Il problema del nazionalismo metodologico è cruciale dal momento che si articola proprio grazie all’autorappresentazione delle scienze umane europee. Edward Said ci ha ricordato che l’umanesimo deve abbandonare il proprio compiaciuto eurocentrismo per sperimentare nuove e differenti tradizioni culturali. Questo cambiamento di prospettiva richiede prima di tutto una presa di coscienza da parte degli studiosi delle scienze umane: «Gli studiosi devono riconoscere con una certa preoccupazione che la politica identitaria e un sistema educativo radicato nel nazionalismo sono ancora alla base del lavoro di molti di noi, nonostante i cambiamenti che hanno investito i confini disciplinari e i temi della ricerca universitaria» (Said, 2007, 81-82). Vedremo in seguito sia come 159

la mutata struttura istituzionale dell’università contemporanea poggi sul declino dello Stato nazione come orizzonte per la ricerca, sia come possieda il potenziale per contribuire alla prospettiva postnazionalista. Per tornare alla tesi principale della mia argomentazione: condivido pienamente l’invito a una metamorfosi epistemologica nelle scienze umane, in modo da renderle capaci di dispiegare i loro processi di produzione di sapere e, conseguentemente, di divenire maggiormente adatte a spiegare i processi delle altre discipline. Vi sono, tuttavia, alcuni seri ostacoli per la degna realizzazione di tale progetto. Il primo è l’assenza di una tradizione di epistemologia autoriflessiva nelle scienze umane. Connessa a quest’assenza, vi è la persistenza deplorevole di una cultura introversa d’insularità disciplinare, si pensi all’eurocentrismo e all’antropocentrismo. Queste abitudini istituzionali delle scienze umane sono davvero poco propense all’autocritica epistemologica. Questo campo disciplinare tende a non saper resistere all’attrazione fatale della forza gravitazionale dell’umanesimo. Soltanto un deciso cambiamento di direzione può dunque aiutare le scienze umane a liberarsi da alcune delle loro radicate cattive abitudini. Cosa che richiede una serie di nuove prospettive, ma, al di là di questi criteri formali, credo che le scienze umane debbano trovare l’ispirazione e il coraggio per superare l’esclusivo interesse per l’umano, sia esso l’Uomo umanista o l’uomo antropocentrico, per dedicarsi alle sfide intellettuali che coinvolgono l’intero pianeta. Le scienze umane nel XXI secolo Nel paragrafo precedente ho sostenuto che la crisi d’identità delle scienze umane contemporanee è dovuta agli alti livelli di mediazione tecnologica e alla struttura multiculturale del mondo globalizzato. Ciò pone il problema della relazione tra le due culture al centro del dibattito. In una valutazione critica della situazione contemporanea Roberts e Mackenzie (2006) si dicono a favore della varietà delle solide e costruttive alternative istituzionali rispetto all’irrisolta e conflittuale relazione tra le scienze umane e quelle scientifiche del terzo millennio. Una strategia utile mira a identificare i punti di compatibilità tra le due culture ed evidenzia il ruolo giocato dalla rappresentazione culturale, dalle immagini e dagli strumenti letterari – tutti provenienti dalle scienze «sottili» (un’espressione che 160

trovo di gran lunga preferibile a quella dispregiativa di scienze soft) – nella realizzazione di una scienza apprezzata dal pubblico. Ad esempio, lo studio di Gillian Beer (1983) sulle narrative evoluzioniste è stato foriero di novità a questo proposito, venendo brillantemente ripreso dagli studi letterari sul darwinismo (Caroll 2004). Muovendosi all’interno della cultura scientifica, Evelyn Fox Keller (1996, 2002) è una pioniera di un genere diverso, che ha scritto una serie di testi-chiave per mostrare la natura complementare del sapere umanista e della cultura scientifica empirista. Lo studio dell’opera e della vita di Barbara McClintock’s (Keller, 1983) è importante soprattutto perché dimostra la continuità tra prospettive culturali, risorse spirituali e scienza sperimentale. Un’altra angolazione da cui accostarsi alla problematica delle due culture consiste oggi nel concentrarsi sulla funzione della visualizzazzione nella scienza. Stephen Jay Gould e Rosamond Purcell (2000) hanno inaugurato il dialogo tra l’arte e la scienza grazie alla sofisticata interazione tra immagini e informazione scientifica. Questa tradizione è stata innovata brillantemente dal lavoro di collaborazione tra Carrie Jones e Peter Galison sulle arti e sulla scienza figurativa (1998). Il campo è vasto e gremito di talenti che spaziano dall’analisi politica dello sguardo scientifico (Keller, 1985; Jordanova, 1989; Braidotti, 1994) fino alla storia culturale della fotografia e dei nuovi media (Lury, 1998; Zylinska, 2009, Parikka 2010). Gli studi trasversali sulle arti visive in relazione alle scienze fisiche e biologiche sono inoltre cruciali, come Barbara Staffort ha mostrato con acume (1999, 2007). L’antropologia ha svolto il ruolo di ispiratrice dello studio della scienza, partendo da pionieri dell’impostazione del programma quali Marylin Stathern (1992) fino alla lettura foucaultiana di Paul Rabinow delle scienze della vita (2008) e alla commistione di elementi politici ed epistemici nell’analisi delle biotecnologie di Rayna Rapp. Le analisi sulla soggettivazione di Henrietta Moore si muovono lungo i decenni del postrutturalismo e rappresentano la principale interpretazione dell’attuale e complicato intreccio di corpi, orizzonti psichici, culture e tecnologie (1994, 2007, 2011). L’epistemologia femminista e gli studi sociali delle scienze ritengono che la teoria femminista costituisca il nesso indispensabile tra gli studi scientifici e l’epistemologia politica della soggettività, con intellettuali anticipatrici come Donna Haraway (1988), Sandra Harding (1991, 1993), Isabelle Stengers (1987, 2000), Lisa Cartwringht (2001), Mette Bryld e Nina Lykke (1999) e Annemarie 161

Mol (2002). Gli studi sociali sulla scienza si sono, inoltre, dimostrati molto innovativi, come si evince dall’opera di Fraser et al. (2006), dalle acute analisi politiche sulla tecnologia di Maureen McNeil (2007) e dall’opera apripista di Sarah Franklin sulla pecora Dolly (2007). Gli studi culturali sulla scienza sono stati inoltre significativi, come nel caso della brillante analisi di Jackie Stacey sul cancro (1997) e sulla vita cinematografica della genetica (2010). L’ambito degli studi sui media ha prodotto una quantità impressionante di ricerche di elevata qualità sulla scienza e la tecnologia, come testimoniano l’opera di Jonathan Crary (2001) e la serie dei Zone Book, che ha reso nota la filosofia e la teoria francese al pubblico americano. Le analisi di Jose van Dijck sulla cultura digitale sono altrettanto innovative (2007); Smelik e Lykke (2008) hanno aperto il campo a svariati interventi originali sulle strutture interdisciplinari della scienza contemporanea e sui suoi aspetti interrelati culturali e sociali. Abbiamo, dunque, l’imbarazzo della scelta di fronte ai nuovi discorsi sulla relazione corrente tra le scienze e le discipline umaniste, e mi duole molto non poter fornire qui una più accurata analisi dell’ambito che ho appena abbozzato. Per il momento, oltre che lodare la portata e la qualità di questi nuovi ambiti tematici, vorrei trarre alcune conclusioni. In primo luogo, il fatto che una tale ricchezza di studi interdisciplinari innovativi, interni e trasversali rispetto alle scienze umane è espressione della vitalità di quest’ambito, non della sua crisi. In secondo luogo, il fatto che la quasi totalità di queste nuove ricerche è condotta in quelle aree di studi interdisciplinari che ho messo in evidenza in questo libro come fonte principale di ispirazione. In terzo luogo il fatto che esse sono epistemologicamente fondate e che di conseguenza permettono alle attuali scienze umane di spiegare i propri metodi e meccanismi di produzione del sapere. Tuttavia, la natura interdisciplinare di questi nuovi ambiti di ricerca non agevola il compito di fornire una nuova sintesi del campo. Questa ricchezza di approcci dunque riapre la vecchia questione dell’identità generica delle scienze umane come disciplina. Commentando quest’assenza di unità nella pratica discorsiva delle scienze umane, Rabinow afferma: Nessun consenso è stato raggiunto sui principi, sui metodi e sui modi della specificazione del problema, [...] o sui principi di verifica, o sulle forme di narrazione nelle scienze umane (2008, 16). 162

È importante sottolineare però che questa disomogeneità si spiega con la sovrabbondanza, non con la mancanza, di conseguenza: «L’anthropos è quell’essere che soffre di troppi logoi» (2008, 18). Questo vale soprattutto per il contesto scientifico contemporaneo e per i progressi tecnologici che hanno contribuito a discorsi anche più eterogenei. Quest’eterogeneità ha determinato l’incapacità delle scienze umane di fornire una teoria generale per la rappresentazione tecnologica. Esse pertanto si spingono ancora oltre nella disaggregazione dell’anthropos, che si è dimostrato molto creativo nell’adattarsi a tale esuberanza scientifica. Probabilmente le scienze umane intrattengono un rapporto differente con la complessità rispetto alle scienze naturali e della vita. Lorraine Daston (2004) riconosce la vastità e la qualità di queste nuove risorse e di questi precursori disciplinari. Sottolinea inoltre l’importanza della cultura e dell’interpretazione nello sviluppo scientifico. Daston mostra che i contesti ermeneutici sono non solo parte integrante di tutte le discipline attigue alle scienze umane – soprattutto le scienze sociali, il diritto e le scienze della vita – ma svolgono anche un ruolo chiave nella società in generale e sono necessari a ogni processo decisionale. Daston esorta pertanto gli umanisti a compiere uno sforzo maggiore per spiegare al mondo esterno come apprendiamo quello che sappiamo. Sostenendo che lo studio su epistemologia e filosofia della scienza è incline alle scienze naturali, evoca un’epistemologia del sapere pratico umanista. Questo si tradurrà nella spiegazione di ciò che rappresenta un’invenzione scientifica o semplicemente una scoperta per le discipline umanistiche, con attenzione per il processo e la prassi, al contrario della mera concentrazione sugli oggetti della conoscenza. Nonostante sia molto importante e necessaria io credo che la reale natura della raccolta dei dati nelle scienze umane si scontri con i metodi delle scienze naturali o della vita, nella misura in cui essa si fonda sull’esperienza vissuta e tende alla complessità, non alla quantificazione. Nel contesto europeo, inoltre, altri fattori devono essere presi in considerazione, ad esempio la struttura plurilingue della ricerca e della riflessione nelle discipline umanistiche. Questo implica che la ricerca pratica si differenzi non solo in base ai fattori geografici, ma anche in base alle diverse collocazioni temporali in Europa e oltre. È giusto richiedere a questo campo ricco e internamente differenziato di conformarsi a un paradigma di ricerca diversa? Mentre gli inviti delle discipline umaniste a sviluppare compe163

tenze biologiche e cibernetiche acquistano forza, la resistenza rimane notevole, sia all’interno delle medesime che della più larga comunità scientifica. Nel frattempo i vecchi indici per le citazioni stanno vengono rapidamente sostituiti dalle ricerche su Google, e i continui tentativi di elaborare un sistema metrico adatto alla cultura della ricerca delle discipline umaniste sono più urgenti, ma anche più problematici, di sempre. Sotto i nostri occhi si sta sviluppando una nuova relazione tra scienze e lettere, ma c’è da chiedersi se le discipline umaniste – che molto hanno da offrire – siano titolate a emanare le regole di questo nuovo esperimento istituzionale, o se siano semplicemente chiamate ad attenersi a norme che non sono state elaborate secondo i loro stessi parametri. Gli anelli mancanti di questo dialogo sono molteplici e si scontrano sulla vera definizione del postumano. Se noi postantropocentrici postumanisti (soggetti non unitari né statici) vogliamo trovare una cassa di risonanza in entrambe le comunità scientifiche, ci occorre insistere sulla cultura del rispetto reciproco. Gli studi culturali e sociali della scienza devono affrontare la loro resistenza alle teorie del soggetto, mentre le filosofie del soggetto, d’altra parte, dovrebbero essere invitate a rivedere la loro sfiducia e il loro disconoscimento delle bioscienze. I tempi postumani richiedono discipline umaniste postumane. La questione dello statuto della teoria è sottintesa in questa discussione. In risposta al dibattito in corso sulle due culture, Peter Galison (2004) si compiace della fine degli ingombranti e sistematici discorsi teoretici e, ricorrendo alla tesi di Lyotard sul declino delle narrazioni egemoniche, invita alla teoria parziale. Quest’espressione indica una posizione intermedia tra le pretese universaliste di trovarsi fuori dallo spazio e dal tempo, da un lato, e lo stretto empirismo, dall’altro. Una teoria parziale è radicata, responsabile ma anche condivisibile e pertanto aperta a svariate applicazioni. Quest’approccio offre vantaggi sia epistemici che etici che possono essere impiegati immediatamente per un buon uso. Io credo, ad esempio, che una delle strategie più efficaci sviluppata dagli studiosi contemporanei delle discipline umaniste sia quella del produrre teoria realmente tramite e grazie alla scienza stessa. Una scelta metodologica e strategicaè basata sull’intuizione poststrutturalista sul parallelismo tra discorsi e pratiche testuali. L’egalitarismo testuale introdotto dalla svolta linguistica e semiotica degli anni Settanta – che da allora ha allarmato e infastidito gli studiosi conservatori – ha aperto la strada a nuovi dialoghi tra le 164

scienze sottili e quelle esatte. È stata dunque perfezionata una nuova teoria della scienza, alla quale mi sono riferita con la definizione di realismo della materia (capitolo secondo). I realisti della materia combinano l’eredità dell’antiumanismo poststrutturalista con il rifiuto dell’opposizione classica materialismo/idealismo per guardare alla vita come a un sistema complesso, non in modo essenzialista bensì vitalista. Io ritengo che le scienze umane debbano adattarsi alla struttura mutevole del materialismo stesso, soprattutto per il fatto che si basa su un nuovo concetto di materia, capace di affetti, autopoiesi e autogestione. La teoria di Karen Barad (2003, 2007) sull’agential realism è l’esempio eminente di questa tendenza. Grazie alla scelta di superare il binarismo tra materiale e culturale, la teoria dell’agential realism si concentra sulla loro interazione. Questo si traduce nella valorizzazione di un’etica del sapere che riflette e rispetta la complessità, rinnovando la pratica della riflessione critica. Luciana Parisi (2004) ha apportato altri contribuiti innovativi alla teoria della complessità, a partire dall’opera di Félix Guattari. Sottolinea il fatto che il contributo più proficuo del monismo vitalista consiste nella definizione del binomio natura-cultura come continuum che evolve tramite l’ecologia della differenziazione. I codici non semiotici (il Dna di tutta la materia genetica) interagiscono con assemblaggi complessi di affetti, pratiche corporee e altre performance che comprendono l’ambito linguistico ma che non si riducono a esso. Parisi rinsalda questa tesi con un riferimento trasversale alla nuova epistemologia di Margulis e Sangan (1995), attraverso il concetto di embiosimbiosi che, come l’autopoiesi, indica una sorta di evoluzione creativa. Questo implica che il materiale genetico è esposto ai processi di divenire liberi da ogni fondazione ontologica della differenza, ma non che esso non è limitato al costruttivismo sociale. Nella ricerca delle discipline umaniste realiste della materia, il primato è dato alla relazione sui termini, la quale pone in primo piano le connessioni trasversali tra materiale e simbolico, entità o forze concrete e discorsive, inclusa la vita non umana. Questo è ciò che io chiamo zoe (Braidotti 2008a, capitoli 2 e 3), che ci permette di trattare la scienza come oggetto di studi umanistici e viceversa, di trascendere entrambi i campi nella ridefinizione trasversale di cosa costituisca il soggetto della pratica scientifica postumana. Il contributo teoretico dell’approccio vitalista e monista del materialismo è costituito dalla capacità di spiegare i meccanismi flui165

di del potere nel capitalismo avanzato o cognitivo, conosciuto anche come società dell’informazione e della rete, riconducendoli a collocazioni specifiche e relazioni immanenti. Questo ci permette di resistere ai meccanismi di potere con i loro stessi mezzi. Gli intellettuali postumani affrontano in modo creativo la sfida rappresentata dalla nostra storicità senza cadere nel panico cognitivo. L’argomento è tutto d’un pezzo: se il corretto studio del genere umano aveva come oggetto classico l’Uomo, e se il modello giusto di umanità era l’umano, si potrebbe concludere che l’oggetto di studio della condizione postumana sia il postumano in sé. Questo nuovo soggetto del sapere è un assemblaggio complesso di umano e non umano, planetario e cosmico, naturale e manufatto, che comporta imponenti cambiamenti del nostro modo di pensare. Questo non è astratto come potrebbe sembrare a una prima lettura. Vorrei darvene degli esempi concreti. Il primo esempio è costituito dalla rapida crescita del campo delle scienze umane ambientaliste, ispirato dal riconoscimento che l’attività umana esercita un’influenza geologica. Conosciuto anche come «scienze umane sostenibili» (Braidotti, 2006) e «scienze umane dell’antropocene»27, questo ambito interdisciplinare di studi apporta imponenti innovazioni metodologiche e teoretiche. In primo luogo, rende conto della fine dell’idea di un ordine sociale denaturalizzato, separato dall’ambiente e dalle fondamenta organiche, e invita a più complesse griglie interpretative della multipla interdipendenza in cui tutti viviamo. In secondo luogo, evidenzia il contributo specifico delle discipline umaniste al dibattito pubblico sul cambiamento climatico, grazie all’analisi dei fattori sociali e culturali che sottendono la rappresentazione pubblica di queste problematiche. Sia la portata che le conseguenze del cambiamento climatico sono così epocali da resistere a ogni rappresentazione. Le discipline umaniste e, soprattutto, la ricerca culturale sono più adatte a riempire i vuoti dell’immaginario sociale, ad aiutarci a pensare l’impensabile. L’impatto delle scienze umane ambientaliste si sta ulteriormente facendo sentire. Nella sua analisi sulle conseguenze della ricerca sul cambiamento climatico per la disciplina storica, Dipesh Chakrabarty (2009) sostiene la necessità di una svolta più concettuale verso la Storia profonda. Essa rappresenta una combinazione interdisciplinare di storia geologica e socio-economica 27. Sono debitrice per questa felice espressione a Debjani Ganguly e Paul Holm.

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che si concentra sia sui fattori planetari e terrestri che sui cambiamenti culturali che congiuntamente hanno plasmato l’umanità per centinaia di migliaia di anni. Affianca le teorie storiche della soggettività al pensiero delle specie. Questo appare, ai miei occhi, come una configurazione postantropocentrica del sapere che garantisce alla terra lo stesso ruolo e la stessa potenza di agire del soggetto umano che la abita. Come ho mostrato nel secondo capitolo, comporta dei cambiamenti nella nostra comprensione della temporalità della storia, dal momento che stiamo riflettendo sulle possibilità di estinzione della specie umana e delle altre, e dunque sulla fine del tempo storico e umano registrato, sulla fine del futuro. Il tramonto della divisione tra storia umana e naturale è un fenomeno molto recente: prima di questa svolta fondamentale, il tempo cronologico degli umani e quello geologico non erano correlati, almeno non all’interno della disciplina della storia. Infatti, le ricerche storiche e quelle sul cambiamento climatico hanno a lungo intrattenuto discussioni parallele prive di scambi interdisciplinari. Tutto ciò sta mutando sotto i nostri occhi. La portata di questi cambiamenti concettuali è tale da impedirne spesso la rappresentazione, come ho indicato prima. Chakrabarty suggerisce ulteriori riflessioni sulla «differenza tra l’odierna storiografia della globalizzazione e la storiografia richiesta dalle teorie antropogeniche del cambiamento climatico» (2009, 216). Ciò ci spinge a tenere insieme categorie di pensiero che finora venivano separate non solo dai confini delle discipline – tra le scienze della terra e la letteratura e la storia, ad esempio – ma anche dal vizio antropocentrico che ha sostenuto le scienze umane. Lungi dal costituire motivo di crisi, questo nuovo sviluppo ha un’ingente forza ispiratrice per questo campo. Ed esso chiama in causa alcune delle attuali idee sulla costituzione negativa di un nuovo senso dell’umano, tenuto insieme dalla vulnerabilità comune in rapporto alle possibilità di estinzione. L’intuizione di Chakrabarty sul cambiamento climatico critico, analizzato alla luce del concetto di Storia profonda, ci spinge anche a sfidare alcune delle ipotesi indicate dalle critiche postcoloniali dell’universale occidentale. Un bel programma. Un altro esempio illuminante dei contributi della posizione scientifica postumana è rappresentato dalla One Health Initiative, la quale definisce il proprio scopo nei confronti della salute pubblica come segue28: 28. www.onehealthinitiative.com/mission.php; un ringraziamento al mio collega Anton Pijpers.

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Ammettendo che la salute umana (incluse la salute mentale attraverso i fenomeni di legame umano-animale), la salute animale, la salute dell’ecosistema siano inestricabilmente connesse, One Health cerca di promuovere, migliorare e difendere la salute e il benessere di tutte le specie, intensificando la cooperazione e la collaborazione tra medici, veterinari, altri professionisti scientifici della natura e dell’ambiente, aumentando la forza della leadership e dell’organizzazione per raggiungere questi obiettivi.

Il movimento si ispira a Rudolf Virchow (1821-1902), che ha coniato il termine zoonosis, per affermare che non vi dovrebbe essere alcuna linea divisoria tra la medicina umana e animale. La One Health Initiative è un’audace alleanza interdisciplinare che unisce, medici, osteopati, veterinari, dentisti, infermieri, e altri operatori scientifici dell’ambiente e della salute delle discipline attigue, sulla base di un’ipotesi semplice: l’isomorfismo delle strutture umane e animali per l’immunologia, per la batteriologia e per gli sviluppi dei vaccini. Questo significa che gli umani sono vulnerabili ed esposti a nuove malattie, come l’influenza aviaria e altre epidemie, che condividono con le specie animali. Ovviamente in risposta alle nuove pandemie emerse nell’era globale, come l’encefalopatia spongiforme bovina (Bse), meglio conosciuta come sindrome della mucca pazza, la One Health Initiative sottolinea la varietà delle comuni malattie che colpiscono uomini e animali. Ad esempio, gli animali sono afflitti da svariate malattie croniche, quali malattie cardiache, cancro, diabete, asma e artrite, come gli umani. Ne deriva, pertanto, che dovremmo elaborare una medicina comparativa come studio, trasversale alle specie, dei processi delle malattie e che dovremmo mettere in relazione medici e veterinari nelle loro pratiche quotidiane, sia quelle terapeutiche che quelle di ricerca. Molto radicata all’ambiente la One Health Initiative persegue la sostenibilità sia ecologica che sociale e ha svariate e notevoli ripercussioni nella società. Le preoccupazioni comuni circa la salute pubblica tra umani e animali aumentano proporzionalmente all’urbanizzazione, alla globalizzazione, al cambiamento climatico, alle guerre e al terrorismo, all’inquinamento microbiologico e chimico della terra e dell’acqua, che hanno generato nuove minacce per la salute sia degli animali che degli umani. I medici e i veterinari devono unire le loro forze con gli scienziati e gli operatori della salute ambientale per affrontare l’epidemia delle malattie, per prevenire le malattie 168

croniche provenienti dall’esposizione ad agenti chimici, per creare ambienti di vita più salutari. Quello di One Health è un’idea perfettamente postantropocentrica, in quanto tiene insieme gli operatori della salute e della cura umane con i veterinari e i medici per il bene dell’ambiente, della sostenibilità sociale e individuale. Un altro significativo esempio è il campo in rapida espansione dell’informatica umanista – anticipato da Kathrine Hayles – che tratta una vasta gamma di temi e problematiche metodologiche. Una di esse è rappresentata dalla rilevanza che ancora rivestono le scienze testuali e il ruolo della stampa – da Gutenberg alle stampanti 3D – nel plasmare il sapere umano. Così come le scienze umane hanno presieduto a queste discussioni nel XVI secolo, quando il torchio da stampa fu introdotto nel mondo occidentale, esse occupano oggi la prima linea delle frontiere contemporanee del pensiero. E non sono sole. Le scienze umane postumane possono creare e sviluppare una nuova serie di narrative sulla dimensione planetaria dell’umanità globalizzata; l’origine evoluzionista della moralità; il nostro futuro e quello delle altre specie; il sistema semiotico dell’apparato tecnologico; i processi di transazione che sostengono le scienze umane digitali; il ruolo del genere e dell’etnicità come fattori che indicano l’accesso alla condizione postumana; le conseguenze istituzionali di tutto ciò. Si tratta di un programma innovativo e non scontato, costruito a partire dalla critica dell’umanesimo e dell’antropocentrismo, ma non limitato a essi, di un nuovo e genuino programma per le discipline umaniste del XXI secolo. A livello sperimentale, sono stati istituiti, dalle più importanti università, svariati nuovi studi interdisciplinari e diverse piattaforme di ricerca e sono in corso esperimenti apripista nello stesso momento in cui questo libro è dato alle stampe29. Come conseguenza di quest’imbarazzante ricchezza di teorie e di ricerche, la domanda che adesso viene posta è: come possono le discipline umaniste ispirarsi a queste sperimentazioni del pensiero postumano e della nuova ricerca postantropocentrica? Come possono adattare questo approccio al loro proprio oggetto di studio?

29. Si pensi, ad esempio, al Posthumanities Hub dell’università di Linkoping, fondato dal governo svedese; alle ricerche condotte dall’Institue of Advanced Study in Humanities and Social Sciences dell’Università di Berna in Svizzera; alle sperimentazioni dell’Università East London della Gran Bretagna; al mio lavoro presso il Centre for the Humanities all’università di Utrecht in Olanda.

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Teoria critica postumana Le scienze umane si possono ispirare a questi nuovi modelli di pensiero. La chiave di tutto risiede per me nella metodologia e pertanto voglio precisare i criteri principali della teoria postumana, come modo per spiegare le nuove regole del gioco, per tentare di applicarle alle discipline umaniste. Le mie regole d’oro sono: accuratezza cartografica, con il corollario della responsabilità etica; transdisciplinarietà; l’importante combinazione di critica e figurazioni creative; il principio della non linearità; i poteri della memoria e dell’immaginazione e la strategia della defamiliarizzazione. Tali linee guida metodologiche sono preziose non solo come punti fermi capaci di edificare la teoria critica postumana, ma anche perché possono aiutarci a ridefinire la relazione tra discipline umaniste e scienze sulla base di un rispetto reciproco. Vorrei cominciare dall’accuratezza cartografica. Una cartografia è una lettura teoreticamente fondata e politicamente radicata del presente. Le cartografie mirano alla responsabilità epistemica ed etica disvelando le collocazioni del potere che strutturano la nostra posizione di soggetti. Come tali, esse rendono conto della collocazioni di ciascuno sia in termini di spazio (dimensione geopolitica o ecologica) che di tempo (dimensione storica e genealogica). Ciò evidenzia la struttura situata della teoria critica e comporta la natura parziale e limitata di tutte le pretese al sapere. Queste qualifiche sono cruciali per sostenere la critica sia dell’universalismo che dell’individualismo liberale. Le critiche delle posizioni del potere non sono, tuttavia, sufficienti. Esse funzionano se accompagnate dalla ricerca di figurazioni alternative o di personaggi concettuali che esprimono queste posizioni, tanto del potere che reprime (potestas) che del potere che potenzia e afferma (potentia). Ad esempio figurazioni come la femminista, il queer, il cyborg, il migrante e il nativo, i soggetti nomadi, come l’oncotopo e la pecora Dolly non sono metafore, ma indicatori di specifiche collocazioni geopolitiche e storiche. In quanto tali, queste figurazioni esprimono singolarità complesse, non pretese universali (Braidotti 2011). Una figurazione è espressione di rappresentazioni alternative del soggetto come entità dinamica e non unitaria; essa è la drammatizzazione dei processi di divenire. Questi processi comportano il fatto che la formazione dei soggetti abbia luogo negli spazi intermedi tra natura e tecnologia; tra uomo e donna; bianco e nero; 170

locale e globale; presente e passato – negli spazi mediani che fluiscono e ricongiungono le opposizioni binarie. Tali spazi intermedi sfidano i modelli precostituiti di rappresentazione teoretica poiché sono trasversali, non lineari, immersi nel processo e non predeterminati da alcun concetto. La critica e la creatività trovano un nuovo accordo nella concretizzazione della pratica dei personaggi concettuali o delle figurazioni come ricerca attiva di alternative affermative alla visone dominante del soggetto. Procedere a zigzag è quindi l’espressione operativa per il prossimo passaggio nella costituzione della teoria postumana critica, che indica precisamente la non linearità. Sarebbe controproducente per le scienze umane attenersi alla regola tradizionale della visualizzazione adottando automaticamente il pensiero lineare, considerando la complessità della scienza contemporanea e il fatto che l’economia globale non funziona in maniera lineare, anzi è piuttosto simile a una rete, diffusa e policentrica. L’eteroglossia dei dati con cui ci confrontiamo richiede topologie complesse del sapere per un soggetto costituito dalla relazionalità multidirezionale. Di conseguenza, dovremmo assumere la non linearità per elaborare cartografie del potere che rendano conto dei paradossi dell’era postumana. Questa problematica diventa ancora più complessa in rapporto al tempo. La linearità è il tempo dominante di Chronos, opposto al tempo più dinamico e ciclico del divenire di Aion, come abbiamo visto nel secondo capitolo. Il primo è il custode del tempo e delle pratiche istituzionali – la Royal science; il secondo è prerogativa di gruppi mariginali – la scienza minore. La Royal science guidata da Chronos si oppone al processo di divenire molecolare della scienza, basato su di una temporalità differente. Il primo è diretto da protocolli; il secondo è spinto dalla curiosità e definisce l’impresa scientifica in termini di creazione di nuovi concetti. La teoria nomade propone una critica dei poteri che i sistemi di sapere dominanti e lineari esercitano sulle scienze umane e sociali. Creatività e critica viaggiano di pari passo alla ricerca di alternative positive che si fondino su una visione non lineare della memoria intesa come immaginazione, della creazione intesa come divenire. Al posto della reverenza verso l’autorità del passato, troviamo la compresenza transitoria di molteplici zone temporali, in un continuum che attiva e deterittorializza le identità statiche e infrange la linearità temporale (Deleuze 2001). Questa visione dinamica del tempo si serve delle risorse dell’immaginazione al fine di riconnettersi con il passato. 171

La non linearità influenza inoltre la pratica accademica delle scienze umane – metodo che sostituisce la linearità con un più rizomatico stile di pensiero, il quale agevola le connessioni multiple e le linee di interazione che per necessità collegano il testo alla molteplice realtà esterna. Questo metodo esprime la convinzione che la verità di un testo non si trovi mai davvero scritta da qualche parte, figuriamoci all’interno dello spazio significante del libro. E tale verità non riguarda neppure l’autorevolezza di un nome proprio, di una firma, di una tradizione, di un canone o del prestigio di una disciplina accademica. La verità di un testo esige una forma del tutto nuova di responsabilità e di accuratezza che consiste nella natura trasversale degli affetti che esso mette in circolo, ovvero delle interconnessioni e delle relazioni con l’esterno che permette e sostiene. George Eliot ha indicato la strada, scrivendo con le orecchie e la mente protese verso il frastuono dell’energia che nutre la vita. Virgina Woolf fece lo stesso rivolgendo il suo sguardo di scrittrice alla perfetta tranquillità della vita intesa come flusso perenne. La scrittura è un espediente, un modo per trasporre l’intensità cosmica in porzioni sostenibili di essere. Questo ha conseguenze rilevanti per il compito del criticismo. Come ci ha insegnato il poststrutturalismo (Barthes 1975) il metodo della fedeltà al testo e della citazione non è altro che una piatta ripetizione senza differenza. Fondamentale è, invece, mettere in primo piano proprio l’abilità creativa, che consiste nell’essere capaci di richiamare alla memoria e di far durare le cariche affettive dei testi e degli eventi. A questo fine, non è richiesta alcuna fedeltà alla spuria profondità del testo, né alla volontà, latente o manifesta, dell’autore, neppure alla fallocentrica sovranità del significato dominante. Un testo, teoretico e scientifico o letterario, è un punto di contatto tra momenti differenti nello spazio e nel tempo, tra livelli diversi, tra gradi, forme e configurazioni dei processi del pensiero. Un testo è un’entità mobile, velocità assoluta. Il pensiero e la scrittura, come il respiro, non possono essere costretti nel modello della linearità o nei confini della carta stampata, ma si spostano verso l’esterno, al di là delle restrizioni, in una rete di incontri con le idee, gli altri, i testi. Il significante linguistico è solo uno dei punti nella catena degli effetti, non il suo centro o la sua fine. L’origine dell’ispirazione intellettuale risiede nel flusso senza fine delle connessioni tra i testi e i loro molteplici fuori. La creatività si ricollega costantemente alla totalità virtuale di un blocco composto da esperienze passate, memorie e affetti, i quali, 172

per la filosofia monista del divenire, si ricompongono come azione o prassi nel presente. Quest’approccio al pensiero critico è simile a un esercizio di sincronizzazione, che permette all’azione di prendere corpo qui e ora, rendendo concreta e presente l’intensità virtuale. Quest’intensità si trova al contempo dopo e prima di noi, è sia passata che futura, in un flusso o in un processo di metamorfosi, di differenziazione e di divenire. Essa costituisce il nucleo materialista del pensiero critico. Il pensiero nomade esorta all’apertura affettiva verso la dimensione geopolitica o planetaria della caosmosi (Guattari, 2007). Esso consiste nel trasformare il soggetto pensante nella soglia di atti gratuiti (principio del no-profit), senza scopi (principio della mobilità o del flusso) che esprimono l’energia vitale del divenire trasformativo (principio della non linearità). La fedeltà, invece, è necessaria per l’intensità delle spinte affettive che compongono un testo o un concetto, al fine di spiegare che cosa un testo – un concetto o una teoria – può fare, che effetti ha avuto in passato, che tipi di influenza ha esercitato sui diversi soggetti. Il tentativo di spiegare l’impatto affettivo dei vari oggetti e dei dati su un determinato soggetto consiste nel processo di richiamare alla memoria. In Bergson come in Deleuze, questo processo ha molto a che fare con l’immaginazione, ovvero con il rimaneggiamento creativo, così come con la passiva ripetizione di esperienze precedenti dal punto di vista cronologico, registrate e recuperabili. Implicito in questo processo è il prossimo criterio-chiave della teoria critica postumana, ovvero il ruolo della memoria. Considerando che il tempo postumano è un sistema complesso e non lineare, fratturato internamente e moltiplicato su diverse sequenze di tempo, l’affetto e la memoria diventano elementi essenziali. Svincolata dalla linearità cronologica e dalla forza gravitazionale logocentrica, la memoria, nella modalità nomade postumana, è la reinvenzione attiva di un soggetto felicemente discontinuo, inteso come opposto all’essere tristemente autosufficiente. I ricordi hanno bisogno dell’immaginazione per potenziare la concretizzazione delle possibilità virtuali nel soggetto, che viene riconfigurato come entità trasversale relazionale che ospita una memoria vitalista e multidirezionale (Rothberg 2009). La memoria opera nei termini delle trasposizioni nomadi, vale a dire tramite interconnessioni creative e altamente produttive che mescolano e abbinano, combinano e moltiplicano le possibilità di espansione e relazioni tra diverse unità ed entità (Braidotti 2008a). 173

Il prossimo indicatore metodologico è rappresentato dalla pratica della defamilirizzazione che ho spiegato nel secondo e terzo capitolo. Questo è un processo che invita alla riflessione, attraverso il quale il soggetto conoscente si libera dalla visione normativa dominante del sé, al quale si è abituato, per evolvere verso un contesto di riferimento postumano. Abbandonando il quadro Vitruviano una volta e per tutte, il soggetto diventa relazionale, in una maniera complessa che lo riconnette con i molteplici altri. Un soggetto così formato infrange già a livello superficiale i limiti dell’umanesimo e dell’antropocentrismo. Abbiamo visto, nei precedenti capitoli, una serie di esempi concreti di come la disidentificazione dai modelli egemonici di soggettivazione possa essere produttiva e creativa, a partire dalla teoria femminista – che implica un radicale allontanamento dalle istituzioni dominanti e dalle rappresentazioni della femminilità e della mascolinità (Braidotti 1994; Butler 2013). I dibattiti postcoloniali e quelli sulla razza erodono il privilegio dei bianchi e le altre convinzioni razziste circa l’opinione diffusa di cosa costituisca un soggetto umano30. Tale disidentificazione si verifica lungo gli assi del divenire donna (sessualizzazione) e del divenire altro (razzializzazione) e avviene perciò all’interno dei parametri dell’antropomorfismo. Ancora, una svolta più radicale è necessaria per rompere con quest’ultimo e per sviluppare forme postumane di identificazione. L’insostenibile leggerezza dell’essere penetra dentro di noi appena cominciamo ad attivare l’energia di zoe; il non umano stesso. Il geocentrismo vitalista della teoria nomade – l’amore di zoe – è un tentativo parallelo nella stessa direzione. Il divenire terra e il divenire impercettibile rappresentano rotture più radicali con i modelli prestabiliti del pensiero (naturalizzazione) e introducono la dimensione planetaria radicalmente imminente. Tale esodo antropologico è molto difficile dal punto di vista emotivo e metodologico, dal momento che può implicare un senso di perdita e di sofferenza. La disidentificazione comporta la perdita delle abitudini care del pensiero e della rappresentazione, un passaggio che può anche causare paura, senso di insicurezza e nostalgia. Dal punto di vista metodologico, la defamilirizzazione modifica la relazione con gli altri non umani ed esige la disidentificazione dalle abitudini vecchie di secoli del pensiero antropocentrico e dell’arroganza umanista, il che equivale quasi a testare l’abilità e la 30. Si vedano Gilroy (2000), Hill Collins (1991), Ware (1992), Griffin e Braidotti (2003).

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volontà delle discipline umaniste. Le scienze naturali e sperimentali, di certo, stanno portando a compimento questo allontanamento dall’antropocentrismo con relativa facilità, come abbiamo visto a proposito della Storia profonda e della ricerca dei movimenti di One Health. Può valere la pena prendere sul serio la critica che lo sviluppo delle scienze umane verso la complessità possa essere ostacolato dall’antropocentrismo che sottende la loro opera. La teoria critica sarà capace di collegarsi alle complesse discipline postumaniste a venire? La mia definizione operativa di metodo scientifico postumano, nelle scienze umane come in quelle della vita, non può essere dissociata da un’etica della ricerca che esiga rispetto per la complessità della vita reale del mondo in cui viviamo. La teoria critica postumana deve applicare una nuova visione della soggettività alla pratica e alla percezione pubblica dello scienziato, che è ancora costretto nel modello umanista classico e retrodatato dell’Uomo di ragione (Lloyd 1984) inteso come quintessenza del cittadino europeo. Abbiamo bisogno di superare questo modello e di dirigerci verso un’intensa forma d’interdisciplinarietà, trasversalità, di andirivieni continui tra differenti discorsi. Tale approccio transdisciplinare influenza la struttura profonda del pensiero e genera una compresenza rizomatica di differenze concettuali nella cultura. Il metodo postumano equivale ai più alti livelli di ibridazione disciplinare e si poggia su un’accurata disintossicazione dalle abitudini del pensiero grazie a incontri che interrompono la piatta ripetizione dei protocolli della ragione istituzionale. Il vero soggetto delle scienze umane non è più l’Uomo In questo libro ho sostenuto che la teoria postumana si fonda su un’ontologia processuale che mette in discussione l’equazione tradizionale tra soggettività e coscienza razionale, resistendo alla riduzione di entrambe all’oggettività e alla linearità31. Il concetto nomade del soggetto postumano, inteso come temporalità continua e assemblaggio collettivo, comporta un doppio impegno, da un lato verso i processi del cambiamento, dall’altro verso una forte etica ecofilosofica. Nei confronti di molteplici comunità la compresenza, ovvero la simultaneità degli esseri nel mondo, definisce l’etica dell’interazione con agli altri umani e non umani. Una coscienza diffusa e allacciata collettivamente emerge, e sprona una riflessione trasversale e non sintetica del legame relazionale che la 175

distingue. Ciò situa la relazione e la nozione di complessità sia al centro dell’etica e delle strutture epistemiche che delle strategie del soggetto postumano (Braidotti 2008a). Questa prospettiva ha risvolti importanti per la produzione del sapere scientifico. La visione dominante dell’impresa scientifica si basa sull’implementazione istituzionale di una serie di regole o leggi che disciplinano la pratica della ricerca scientifica e controllano i confini tematici e metodologici che indicano quale scienza possa dirsi rispettabile, accettabile e degna di ricevere fondi e investimenti. Così facendo le leggi della pratica scientifica decidono praticamente cosa a una mente è permesso pensare, pertanto controllano le strutture del nostro pensiero. Il pensiero postumano propone una visione alternativa sia del soggetto pensante, della sua evoluzione a livello planetario, che delle strutture reali del pensiero. L’idea di Deleuze e Guattari che il compito del pensiero sia quello di creare nuovi concetti è una meravigliosa fonte d’ispirazione per le scienze umane, in quanto si fonda sul parallelismo di scienza, arte e filosofia. Questo concetto non deve essere confuso con quello del livellamento delle differenze tra questi ambiti intellettuali, dal momento che con esso s’intende sottolineare l’unità d’intenti tra queste tre branche del sapere. Deleuze e Guattari intendono evidenziare le differenze dei diversi stili di comprensione che la filosofia, la scienza e le arti rispettivamente incarnano. Mostrano inoltre che questi stili rimangono ancorati al piano comune dell’energia vitale intensiva autotrasformatrice. Questo continuum sostiene l’ontologia del divenire che rappresenta il motore concettuale del pensiero nomade postumano. Nella misura in cui la scienza deve fare i conti con i processi fisici reali del mondo contingente e particolare, essa risulta meno propensa ai processi di divenire e di differenziazione che caratterizzano l’ontologia monista di Deleuze. La filosofia è in vantaggio, in quanto sottile espediente dell’intelligenza curiosa, più in sintonia con il piano virtuale di immanenza, con la forza generatrice dell’universo, caosmosi non umana immersa in un flusso costante. Il pensiero è la controparte concettuale dell’abilità di entrare in modalità relazionale, di affettare ed essere affetti, dal momento che sostiene i cambiamenti qualitativi e di conseguenza le tensio31. Per un eccellente resoconto critico della nozione di oggettività si veda Daston e Galison (2007).

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ni creative, cosa che è anche prerogativa dell’arte. La teoria critica ha pertanto un importantissimo ruolo da ricoprire. Manuel De Landa (2002) analizza brillantemente il modello intensivo della scienza deleuziana e sottolinea l’importanza cruciale dei processi di attualizzazione delle possibilità virtuali, oltre l’essenza universale e le realizzazioni lineari. Delanda afferma che, eccetto l’antiessenzialismo, la scienza nomade intensiva punta a evitare ogni pensiero tipologico. Il principio dominante della somiglianza, dell’identità, dell’analogia e dell’opposizione dev’essere evitato nel pensiero del virtuale e del divenire intensivo. Deleuze ci invita a «elaborare un resoconto di ciò che ci permette di esprimere certi giudizi e che stabilisce determinate relazioni» (De Landa 2002, 42). Il tratto saliente del vitalismo nomade è il suo non essere organicista né essenzialista, bensì pragmatico e immanente. In altri termini, il materialismo vitalista non assume un onnicomprensivo concetto di vita, solo pratiche e flussi di divenire, assemblaggi complessi e relazioni eterogenee. Come ho sostenuto nel secondo capitolo, non c’è alcuna idealizzazione trascendentale, solo molteplicità virtuali. L’ontologia monista che fonda la visione della vita come materia vitalista e capace di autorganizzazione permette inoltre agli intellettuali critici di riunire branche differenti della filosofia, delle scienze e delle arti, in una nuova alleanza. Per me questa è la formula dinamica contemporanea per ridefinire la relazione tra le due culture delle scienze umane e naturali. Esse rappresentano differenti strategie di approccio alla materia vivente che costituisce il nucleo sia della soggettività che delle sue relazioni planetarie e cosmiche. Bonta e Protevi (2004) mostrano che la geofilosofia di Deleuze esorta le scienze umane ad accostarsi in modi davvero creativi alla biologia e alla fisica. L’accento cade sulla complessità nella distinzione tra stati attuali e divenire virtuali – sulla base di un concetto di materia capace di autopoiesi. La prima costituisce l’oggetto della Royal science, la seconda il contesto della scienza minore; entrambe sono necessarie in diversi momenti del tempo, ma soltanto la scienza minore è eticamente trasformativa e non sottomessa agli imperativi economici del capitalismo avanzato e delle sue escursioni cognitive nella materia vivente. Di conseguenza potremmo azzardare la conclusione che l’implicazione principale della teoria critica postumana per la pratica della scienza è che le leggi scientifiche devono essere riarticolate intorno alla nozione del soggetto 177

della conoscenza come singolarità complessa, assemblaggio affettivo ed entità vitalista relazionale. Da quanto detto segue che le scienze umane nell’era postumana dell’antropocene non dovrebbero consacrarsi all’umano – soprattutto all’Uomo – come proprio oggetto di studio. Al contrario, il campo beneficerebbe dell’essere liberato dall’impero umanista dell’Uomo, così da riuscire ad affrontare, con stile postantropocentrico, le problematiche d’importanza planetaria, come i progressi scientifici e tecnologici, la sostenibilità ecologica e sociale e le sfide della globalizzazione. Un tale cambiamento di paradigma richiede l’intervento anche di altri attori scientifici e sociali. La questione è se le scienze umane siano autorizzate a organizzare la propria agenda in rapporto alla scienza contemporanea e alla tecnologia, o se esse siano confinate in luoghi che non hanno scelto. Vi è, infatti, un’evidente tendenza, ad esempio nei dibattiti pubblici sul cambiamento climatico o sulle biotecnologie, ad attribuire, in questi complessi discorsi, all’ambito poco finanziato delle scienze umane tutti i temi caratterizzati da un qualche elemento umano. Questa tendenza ha contribuito alla fortuna istituzionale dell’etica che si presume – e spesso si arroga tale prerogativa – sia capace di produrre nuovi metadiscorsi e ingiunzioni normative adatte ai dilemmi della nostra epoca. Questa pretesa metadiscorsiva è, tuttavia, infondata. Inoltre essa perpetua l’abitudine istituzionale del pensiero – che Deleuze descriverebbe come reattivo e sedentario – di innalzare la filosofia a regina della teoria. L’immagine del filosofo come legislatore del sapere e giudice della verità, modello fissato dalla scuola kantiana, è l’esatto contrario di quello che la teoria critica postumana sta affermando: una soggettività postidentitaria, non-unitaria, trasversale, basata sulle relazioni con gli altri umani e non. Un altro campo discorsivo che viene regolarmente evocato come responsabilità esclusiva degli studi umanistici è rappresentato dalla controversa problematica degli aspetti sociali e culturali di complesse questioni quali il cambiamento climatico e l’impatto delle biotecnologie. In altre parole le scienze umane vengono attivamente ridotte alla prospettiva antropocentrica, e simultaneamente vengono biasimate per questo limite, come si evince dal paradosso illustrato da Whimster (2006, 174): «Una scienza dell’umano deve poter dimostrare di essere capace di pensare il non umano o in alternativa, di restare umanista ma carente sul piano scientifico». Non c’è via d’uscita. 178

La mia tesi è che le discipline umaniste hanno bisogno di cogliere le molteplici opportunità offerte dalla condizione postumana. Le scienze umane possono scegliere i propri oggetti d’indagine, svincolate dai compiti tradizionali o istituzionali dell’umano e dei suoi derivati umanisti. Sappiamo ormai che il campo è provvisto di un archivio ricco di molteplici possibilità che lo dotano delle risorse metodologiche e teoretiche per impostare dibattiti con le scienze e le tecnologie e le altre grandi sfide di oggi. La domanda da porre è: cosa possono diventare le discipline umaniste nell’era postumana, dopo il tramonto della supremazia dell’Uomo e dell’anthropos? Multiversità globale La questione è adesso quale sia la pratica istituzionale più adatta alla teoria critica postumana e alle scienze umane del XXI secolo. Le discussioni circa la capacità degli studi umanisti di far fronte alle sfide del terzo millennio portano con sé l’interrogativo circa la crisi dell’università come concetto e come rappresentazione. Una breve rassegna storica del dibattito sul concetto di università può restituire l’idea della misura della sua crisi. Il modello rinascimentale di accademia umanista che ha definito a lungo il paziente lavoro di ricerca dello studioso, inteso come artista e artigiano, è semplicemente defunto. Esso è stato sostituito dal moderno modello fordista dell’università intesa come catena di produzione di beni accademici di massa. La pretesa della Nussbaum (2006) che questo modello sia ancora adottato dal College americano delle Arti Liberali è al contempo elitaria e nostalgica, come ho accennato nel secondo capitolo. Il classico testo di Immanuel Kant intitolato Il conflitto delle facoltà (Kant 2004), pubblicato per la prima volta nel 1789, mostra il progetto della moderna università, fondato sul modello della produzione industriale. Kant distingue l’università in facoltà più elevate – Legge, Medicina e Teologia – che sono volte alla pratica e facoltà più basse – Arti, discipline umaniste e scienze – volte alla teoria critica e pertanto esenti dagli affari di mercato e dagli impegni pratici32. Questo impianto è ancora abbastanza valido, nonostante i diversi mutamenti storici. Il più significativo è probabilmente il modello otto32. Per un aggiornamento critico contemporaneo sulla visione di Kant dell'università, si veda Lambert (2001).

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centesco di von Humboldt, secondo cui l’università è il luogo riservato all’educazione dell’elite sociale per formarla alla direzione dello Stato e la produzione di cittadini intelligenti altamente selezionati, a lungo tempo esclusivamente uomini. Tale modello è ancora prevalente in Europa. Nella sua stimolante e al contempo dissacrante anatomia dell’università contemporanea, Bill Readings (1996), sostiene, tuttavia, che l’istituzione è diventata poststorica, nella misura in cui «sopravvissuta a se stessa, è adesso una superstite dell’era in cui si definiva nei termini del progetto dello sviluppo storico, dell’affermazione e della diffusione forzata della cultura nazionale» (1996, 6). Tutti i modelli precedenti di università che ho citato sinora, kantiana, von humboltiana, colonialista inglese – difesa dal cardinale Newman (1907) – sono stati scossi dall’economia globale. A questo proposito, il declino dello Stato nazione ha avuto effetti negativi per l’università nel suo insieme e in particolar modo per le scienze umane che a lungo hanno usufruito dei vantaggi del nazionalismo metodologico, come dicevo nel primo capitolo. La figura centrale nella vita accademica odierna non è il professore, afferma Readings, ma l’amministratore, e l’università non è più il pilastro dell’identità nazionale, né lo strumento ideologico dello Stato nazione e dei suoi apparati: L’università è ormai un parassita che sta provocando l’esaurimento delle risorse, allo stesso modo in cui la borsa o le compagnie di assicurazione sono un salasso per la produzione industriale. Come la borsa, l’università è uno strumento del sapere del capitale, della capacità del capitale di gestire la diversità e il rischio e al contempo di estrarre plusvalore da questa stessa gestione. Nel caso dell’università, quest’estrazione si verifica come speculazione sui differenziali dei dati informativi (1996, 40).

In questo contesto la tanto ostentata nozione di eccellenza non indica nulla di sostanziale, eppure è un fattore fondamentale dello scambio transnazionale di capitale accademico. Essa rappresenta un mero ideale tecnoburocratico (Readings 1996, 14), senza alcun contenuto di riferimento. Questo svuotamento di contenuti degli standard accademici ha conseguenze sia negative che positive. Dal punto di vista negativo, l’assenza di riferimenti specifici significa che l’eccellenza viene articolata intorno al denaro, alle esigenze del mercato e alla soddisfazione dei consumatori. Da un punto di vista più positivo tale svuotamento di contenuti apre pos180

sibilità di nuovi spazi dentro i quali «possiamo pensare le nozioni di paese e di comunità in modo differente» (1996, 124). Cosa possiamo farcene di questi passati modelli di università oggi? Cominciamo con il guardare al modello conservatore classico, esemplificato da John Searle nella sua difesa delle idee chiave della tradizione occidentale razionalista (1995) e dei valori centrali della ricerca umanista. Fermamente ancorata alla pratica realista della verità, la tradizione razionalista si riferisce costantemente al testo e declina la teoria in modo autocritico. Si fonda sul pensiero lineare, dal momento che ritiene che la funzione del linguaggio sia quella di comunicare efficacemente. Di conseguenza, la verità è una questione di accuratezza della rappresentazione – secondo la corrispettiva teoria della verità che radica le affermazioni alla realtà fattuale osservabile. Ne segue che il sapere si presume oggettivo – poiché poggia su rappresentazioni di una realtà esistente in modo indipendente e non su interpretazioni soggettive. La razionalità regna sovrana e la ragione formale – come opposta alla ragione pratica – ha la sua logica interna che fornisce modelli di verifica e validità. Di conseguenza gli standard intellettuali non sono negoziabili e risultano fondati su criteri oggettivi di eccellenza. Si suppone che il concetto tradizionale di università incarni e difenda questi criteri. A questi Searle oppone l’università postmoderna, influenzata da importate teorie antirealiste sulla verità che minano la scientificità della pratica accademica. La rappresentatività del curriculum in termini di genere, razza ed etnicità – purtroppo per Searle – diviene più importante del suo obiettivo reale, dal momento che introduce un egalitarismo elitario superficiale con il pretesto del multiculturalismo. Questo crea confusione tra l’ambito che deve essere studiato e la causa che deve essere difesa, cosa che ha interrotto lo sviluppo dei metodi e delle pratiche tradizionali delle scienze umane ed erode la fiducia nelle medesime. In un’eloquente risposta a Searle, Richard Rorty (1996) critica l’eccessiva enfasi sul razionalismo inteso come «versione laicizzata della tradizione occidentale monoteista» (1996,33). Il realismo e la corrispondenza alla realtà sono concetti piuttosto privi di significato, termini senza contenuti (1996,26). La tanto elogiata oggettività della scienza, sostiene Rorty, poggia su di un’attiva intersoggettività e sull’interazione sociale. Rivalutando l’importanza dei fattori sociopolitici nella formazione dei significati e della verità, Rorty sceglie una nota più pragmatica:

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Una sana e libera università agevola più che può il cambiamento generazionale, le radicali proteste religiose e politiche e le nuove responsabilità sociali. Essa deve sapersela cavare in tutti questi casi (1996, 28).

La questione della teoria all’indomani degli ignobili conflitti delle teorie torna a tormentare questa discussione. Le osservazioni conservatrici di Searle sono acute espressioni del suo coinvolgimento emotivo nell’autodifesa delle scienze umane. Egli è comunque spietato nell’incolpare i teorici postmoderni di questa situazione. Contrariamente al facile antimodernismo di questo approccio, io vorrei sottolineare le serie sfide metodologiche che esso ha lanciato alle discipline umaniste. Accusare, infatti, gli studiosi postmoderni di aver provocato la crisi che essi cercano di riparare attraverso un appello accorato alla riflessione, visto che le narrative umaniste dominanti sono in difficoltà, è un maldestro colpo di mano che non aiuta affatto la causa delle scienze umane odierne. È un vero peccato che il grande dibattito sul futuro dell’educazione accademica umanista resti impligliato nei residui aggressivi e poco intelligenti dei conflitti teorici ma in realtà politici degli i anni Novanta e delle bellicose polemiche contro il femminismo, il postmodernismo, il multiculturalismo e la filosofia francese. Joan Scott lo spiega brillantemente: Come se i teorici del postmodernismo fossero la causa di tutti i problemi relativi all’indeterminatezza disciplinare con la quale gli studiosi devono oggi confrontarsi, come se la loro marginalizzazione potesse porre fine alla questione della differenza, sollevata dai cambiamenti demografici della popolazione universitaria, dall’emergere delle critiche postcoloniali nei confronti delle posizioni colonialiste, dagli sviluppi della storia della filosofia che risalgono al XIX secolo, dalla più recente fine della Guerra fredda e dagli straordinari vincoli economici degli ultimi anni (1996, 171).

Riprendendo la nozione di John Dewey di un’università come comunità disciplinare, Scott deplora il contesto politicizzato del postmodernismo e del sapere, che sopravvaluta «le presunte implicazioni politiche delle idee degli studiosi, non le idee in loro stesse». Louis Menand (1996) si spinge oltre sino ad affermare che le forze politiche conservatrici negli Usa si sono accostate alla guerra delle teorie con il fine di interferire negli affari interni dell’accademia, come si evince dagli attacchi particolarmente mirati al femminismo, al multiculturalismo e al postcolonialismo. Questa in182

tuizione critica viene raccolta da Edward Said, il quale collega la crisi di identità delle scienze umane al declassamento dei curricula eurocentrici nelle università degli Stati Uniti, e aggiunge: Alcuni studiosi hanno reagito come se la natura stessa della libertà universitaria e accademica fosse minacciata da un’eccessiva politicizzazione. Altri ancora peggio: per costoro la critica del canone occidentale, con la panoplia di quello che il suo avversario definisce maschio bianco europeo, segnala l’improbabile inizio di un nuovo fascismo, la fine della civiltà occidentale stessa, e il ritorno della schiavitù, del matrimonio precoce, della bigamia e degli harem (Said 1996, 214-15).

Ironia a parte, è abbastanza chiaro che l’obiettivo reale delle ire dei conservatori è il pericolo che questi nuovi ambiti di studio rappresentano per il potere delle discipline corporativiste in due modi principali: tramite le loro epistemologie radicali e la loro interdisciplinarietà metodologica. Il crollo dei confini tra le discipline e la conseguente perdita del potere corporativista delle vecchie discipline è una crisi più amministrativa che teorica. Come Menand osserva con acume, dal momento che le discipline non sono entità eterne, ma formazioni discorsive storicamente contingenti, la loro disgregazione non rappresenta di per sé un motivo di ansia per gli studiosi, alcuni dei quali stanno addirittura accelerando questo processo. È invece fonte di maggiore malessere per gli amministratori in carica della gestione delle facoltà umaniste, i quali tendono ad «avvantaggiarsi dello stato del flusso per ridurre la spesa e condurre un ridimensionamento forzato» (1996, 19). Ma cosa c’entra il postumano con tutto ciò? Il postumano ci aiuta a superare questa polemica, esortandoci a cominciare dall’imperativo empirico del pensare globalmente, ma agire localmente, per elaborare un contesto istituzionale che concretizzi una pratica postumana che sia degna dei nostri tempi (Braidotti 2011) e che resista alla violenza, all’ingiustizia e alla volgarità di oggi. Confrontarsi con la storicità della nostra condizione significa spostare il fulcro della riflessione verso l’esterno, nel mondo reale, in modo da assumersi la responsabilità delle condizioni e relazioni di potere che definiscono la nostra collocazione. L’epistemologico e l’etico avanzano in tandem nei complicati orizzonti del terzo millennio. Ci occorrono creatività concettuale e coraggio intellettuale per afferrare quest’occasione, e non si può tornare indietro. 183

Nonostante le questioni della cura pastorale e della giustizia intergenerazionale siano più attuali che mai nelle aule universitarie, questo è anche il momento in cui, a partire dalla Guerra fredda, la funzione delle università è stata per lo più di ricerca e sviluppo al fine del progresso sociale, della crescita industriale e dell’avanzamento tecnologico, incluso, ma non solo, il settore militare, come abbiamo visto nel precedente capitolo. Questo è vero specialmente per gli Stati Uniti, ma l’Europa e gran parte dell’Asia rientrano comunque in questo modello. Secondo Wernick, a partire dagli anni Sessanta l’università si è trasformata nella multiversità, che adempie a una vasta gamma di compiti economici e sociali, spesso connessi alla militarizzazione dello spazio sociale e dei conflitti geopolitici perseguita durante la Guerra fredda. Il termine «multiversità» fu coniato nel 1963 dall’allora rettore dell’università della California Clark Kerr (2001) per indicare l’aumento spropositato dei compiti e delle richieste imposte alle maggiori università. Negli ultimi vent’anni le università hanno continuato a cambiare, così da diventare «corporazioni, orientate alla performance e svincolate dalla tradizione. Sotto l’egida di amministratori professionisti sono diventate istituzioni poststoriche senza memoria» (Wernivk 2006, 561). Nel momento in cui gli organi rappresentativi dei docenti e degli studenti hanno perso il loro potere decisionale nelle strutture amministrative degli atenei, a favore dell’economia politica neoliberale, le scienze umane hanno smarrito i loro valori fondamentali per divenire una sorta di bene di consumo intellettuale di lusso. Questa tendenza può essere invertita? Qual è il modello appropriato di università nell’era globalizzata? Desidero mostrare che la condizione postumana risolleva anche una questione cruciale come quella della responsabilità civica dell’università attuale. Come possono interagire, nel nostro mondo tecnologico e globalizzato, lo spazio accademico e quello civico? La rivoluzione digitale apre almeno la strada per una risposta parziale: le nuove università saranno virtuali e pertanto globali per necessità. Questo comporta il tramonto dell’ideale universale e dei valori trascendentali difeso da Searle. Si sta imponendo una visione infrastrutturale dell’università intesa sia come centro della produzione di saperi locali che della trasmissione globale di dati cognitivi. Questo non implica direttamente e per necessità la deumanizzazione o lo scardinamento dell’università, bensì una nuova forma di rifondazione e di responsabilità per questa venerabile istituzione. Pertanto, in 184

un articolo opportunamente intitolato The Twenty-kilometer University (Philipps et al. 2011), un gruppo interdisciplinare analizza la trasformazione delle relazioni tra università e città globali contemporanee in Cina. Le loro osservazioni sono fonte d’ispirazione per la missione dell’istituzione accademica oggi. Lo spazio della città globale esige, e dipende da, spazi intelligenti di interattività altamente tecnologica e viene perciò definito come spazio cittadino smart, caratterizzato da infrastrutture tecnologiche pervasive. La tecnologia ambientale dipende dalla rete di infrastrutture, che non è gerarchica ma orizzontale rispetto all’utenza, la quale disfa i tradizionali meccanismi di produzione e trasferimento del sapere. In qualche modo, l’ambiente urbano intelligente disloca e ricolloca l’università, iscrivendo il sapere e la sua circolazione nel cuore dell’ordine sociale e urbano. Cosa accade dunque allo spazio accademico in passato segregato e, almeno in Europa, sacralizzato? Gli autori dell’articolo ritengono che l’ambito accademico debba contaminarsi con quello civile e che esso debba integrarsi all’ambiente urbano in modo radicalmente innovativo. La città nel suo insieme è il parco scientifico del futuro. L’università di conseguenza necessita di trasformarsi in multiversità (Wernick 2006, 561), capace di interagire con lo spazio della città in modo da creare un «ethos collettivo di intelligenza comune con il fine condiviso del progresso economico attraverso i mezzi che sostengono e agevolano la vita cittadina» (Philipps et al. 2011, 299). La valorizzazione economica delle città e delle loro università – iniziata all’epoca della Guerra fredda – sta entrando in una fase di promozione commerciale intensiva che comporta sforzi pubblicitari notevoli e una nuova cultura finanziaria di investimenti privati e pubblici. Tutto ciò resta estraneo e indifferente ai contenuti effettivi del lavoro universitario in sé. Il neoliberalismo si vanta quasi di spronare procedimenti e processi trasformativi privi di contenuti. La multiversità globale è lo spazio in cui la tecnologia e la metafisica si incontrano, con effetti esplosivi ma anche esilaranti, poiché tale multiversità globale e mediata tecnologicamente costituisce una nuova entità: «Con il suo ruolo in rapporto alla formazione dei cittadini e all’educazione sempre più sullo sfondo, se non del tutto nell’oscurità» (Philipps et al. 2011, 300). Stefan Collini (2012, 13) riporta la stessa tesi sostenendo che dobbiamo smetterla di pensare nei termini degli ideali dell’Ottocento e che dovremmo invece «concentrarci su come il modello europeo nella sua versione ame185

ricana stia prendendo piede in Asia, soprattutto con scuole di tecnologia, medicina e management, le quali rappresentano più potentemente l’ideale di università del XXI secolo». In altre parole, l’università contemporanea deve ridefinire il suo compito postumano a livello planetario nei termini di una rinnovata relazione con le città globali dove è situata. Questo comporta sia una revisione dello spazio urbano che una ridefinizione della responsabilità civile. Tanto più che, secondo le Nazioni Unite, ci saranno 22 megalopoli nel mondo entro il 2015 e per il 2050 due terzi della popolazione mondiale abiterà nei centri urbani. Nel 2012 abbiamo ufficialmente registrato il fatto che il 50% della popolazione mondiale vive oggi in città. Una maggiore interattività sostenuta da Internet permetterà ai cittadini di partecipare alla pianificazione, gestione e amministrazione del loro ambiente urbano in rapida espansione. Le parole chiave sono: opensource, governo partecipato, informazioni trasparenti e scienza democratica, al fine di garantire al pubblico libero accesso ai dati scientifici e amministrativi. Le città attuali del XXI secolo, come nel caso dello studio cinese citato prima, non sono solo città cresciute disordinatamente e spazi urbani a rischio di esplosione. Esse sono anche – nel migliore dei casi – superfici urbane intelligenti, modificate tecnologicamente. Proprio come in passato, in Europa, le università e le loro città crescono insieme, tessendo una rete complessa di vincoli urbani, sociali, economici, politici, civili, e dunque oggi si sta articolando un nuovo network di rapporti. A causa dell’altro grado di mediazione tecnologica in rete nelle società contemporanee, questo nuovo spazio urbano può essere considerato postantropocentrico e si estende ben oltre la cornice vitruviana di riferimento di matrice umanista. Confrontandosi con preoccupazioni locali e sfide globali, l’attuale multiversità affronta sia le esigenze del competitivo mercato del lavoro che la cultura globale e il mondo dell’impresa, pur continuando a perseguire i suoi ideali ancestrali di eccellenza scientifica e di cittadinanza illuminata. Le città di domani saranno centri viventi di apprendimento, di intermediazione delle informazioni e di pratiche cognitive condivise, basate su un’intensa reticolarità sociale. Dopo i porti marittimi e gli aereoporti, i portali internet saranno i nuovi punti d’ingresso per le città del terzo millennio. Questo mi porta a un secondo aspetto della nuova alleanza tra università e città nel terzo millennio: la dimensione civica. Oggi più che mai, l’università ha bisogno di realizzare il suo scopo principa186

le di garantire una ricerca indipendente, una pratica pedagogica costruttiva e pensiero critico. Visto inoltre il ruolo di traino che le università attuali possono giocare come centri tecnologici nevralgici e fulcri del trasferimento globale del sapere, c’è da sperare che la compresenza di innovazione e tradizione riuscirà a perpetuare l’importanza che ancora riveste l’istituzione universitaria nel mondo contemporaneo. La combinazione di competenze tecniche e responsabilità civica, l’attenzione per una sostenibilità sociale e ambientale, una relazione critica con il consumismo, rappresentano i valori centrali della contemporanea multiversità. Bill Readings (1996) intendeva questo riferendosi alla possibilità che l’attuale università possa aiutare a ridefinire la comunità e l’appartenenza, senza ricorrere al nazionalismo classico né al consumismo sfrenato. Rivolgendosi all’opera di Maurice Blanchot, Readings esorta a un nuovo modello di università intesa come comunità di soggetti postidentitari e postumani. Tale modello avrà la forma di una comunità senza identità statiche e unità fisse, un popolo e una multiversità a venire. Tutto ciò ha effetti notevoli sulla riflessione teorica. Mi ricordo il giorno in cui questo pensiero stupendo mi è venuto in mente. Ero al concerto di Laurie Anderson a Parigi nei tardi anni Ottanta. Lei è una di quelle artiste concettuali che riesce a sdoppiarsi senza difficoltà in un’intellettuale pubblica, capace di creare sempre nuove espressioni acustiche ed estetiche che riflettono e spesso anticipano le metamorfosi tecnologiche del presente. O Superman è stata la prima canzone cyborg a diventare un successo mondiale – una premonizione dei giorni postumani a venire – mentre Strange angels è una reinterpretazione della tesi di Walter Benjamin sulla filosofia della storia, che esprime la continuità tra la ricerca del tempo perduto e la sostenibilità del futuro. In questo concerto particolare, Laurie Anderson, che stava per intraprendere la carriera di artista in residenza alla Nasa, definì il compito odierno delle persone che un tempo si definivano intellettuali come quello di fornitori di contenuti. Questo avveniva nei tardi anni Ottanta. La settimana scorsa ho ricevuto l’annuncio di una conferenza internazionale sul futuro dell’educazione in Europa, di cui un’intera parte era dedicata a saggi sulla funzione dei ricercatori in quanto: intermediari di idee. Il termine stesso è incentrato sul marketing e la pubblicità, piuttosto che sulla ricerca fondamentale e la sperimentazione; cosa che non richiede neppure particolare creatività o immaginazione. Agli accademici è riservata la mediazione delle idee, laddove i network delle informazioni 187

forniscono i contenuti e diventano progressivamente autonomi nei processi decisionali. Tutt’intorno, lo spazio urbano intelligente espanso a dismisura distribuisce i prodotti della conoscenza tra studenti-utenti che sono letteralmente immersi nella produzione infrastrutturale del sapere. Benvenuti nel futuro! Questo futuro si sta già mostrando nella riarticolazione continua e nelle restrizioni finanziarie che affliggono il mondo accademico contemporaneo, e in particolar modo le scienze umane. Louis Menand sostiene che la moderna ricerca universitaria non è più né la materializzazione di verità eterna e di concetti universali, né l’applicazione di criteri di perfezione e virtù. La ricerca universitaria si è rivelata, invece, un’alquanto ingombrante e costosa burocrazia: È debole filosoficamente e produce risultati banali, una mentalità professionale ristretta e scarsa rilevanza sociale. Merita di essere sostituita. Ma se viene sostituita, deve essere nell’interesse di coloro che continuano a valorizzare l’integrità dell’insegnamento e della ricerca, al fine di progettare una nuova struttura istituzionale che svolga la stessa funzione. Altrimenti la libertà accademica verrà eliminata da ciò che, in America, uccide le iniziative con maggiore efficacia, cioè la mancanza di fondi (Menand 1996, 19).

Un simile contesto sociale negativo e segnato a vivo dalla crisi finanziaria, ha causato un notevole peggioramento delle condizioni di lavoro di tutti i dipendenti delle università a livello mondiale. Stefan Collini commenta questo problema con particolare acume: «I dipartimenti accademici contemporanei sono sopraffatti, sommersi da cifre e statistiche, perseguitati dalle valutazioni, a caccia perenne di fondi, e rappresentano quanto di più lontano ci sia dagli ideali classici della vita contemplativa» (Collini 2012, 19). In effetti gli universitari di oggi assomigliano di più a dei commessi viaggiatori di piccole o medie imprese gestite da ragionieri e amministratori finanziari che a studiosi indipendenti in una comunità professionista autogestita. I più capaci di successo stanno diventando molto abili nell’ottenere fondi e finanziamenti esterni. Sono meglio conosciuti come imprenditori da concorso. Rosalin Gill (2010), d’altra parte, non solo deplora le condizioni di lavoro del mondo accademico contemporaneo, ma cerca anche di valutare i danni causati sia agli individui che alle istituzioni dove regnano stress e competitività. La precarietà dei giovani ricercatori è 188

fonte di preoccupazione notevole. Collini aggiunge: «Le condizioni dei lavoratori cognitivi precari e a tempo determinato nelle istituzioni meno privilegiate si avvicina in alcuni casi a quelle degli operatori dei call center» (2012, 19). Potrebbe, tuttavia, apparire incoerente il fatto che io rifletta su tutto ciò dalla mia collocazione specifica, nell’antica cittadina di Utrecht, al centro del vecchio mondo. Nell’arco dei secoli, la città e l’università sono diventate qui così intrecciate che è molto difficile separare la struttura urbana e civica da quella accademica. Civitas e universitas sono due lati della stessa medaglia e non sarà certo facile cambiare le radici della loro interazione nel nome del futuro postumano. A cosa potrà assomigliare il modello del futuro? Io voglio resistere alla visione apocalittica che vedrebbe gli ultimi professori come specie in via di estinzione (Donoghue 2008). Perché non indirizzarsi invece verso le scienze postumane? Caratterizzate da una nuova alleanza tra le lettere e le scienze, arricchite dall’antica tradizione europea di cooperazione tra la sfera accademica e quella civica, sono in grado di diffondere molteplici reti di conoscenze e nuove ecologie dell’appartenenza transdisciplinare. Possono aiutarci a riconfigurare il cosmopolitismo, elaborando una definizione postumana di Europa come luogo storicamente e moralmente obbligato alla revisione critica del suo proprio passato. Per estensione, ci occorre un’università che assomigli alla società che in essa si riflette e a cui essa serve, ovvero una società globalizzata e tecnologicamente modificata, differenziata eticamente e linguisticamente, ma che si vuole ancora in sintonia con i principi della giustizia sociale, del rispetto delle differenze, dell’ospitalità e della convivialità. Sono consapevole che queste aspirazioni hanno una spiccata tendenza umanista, ma tale contraddizione può solo essere produttiva. Contro la costruzione sociale dell’oblio consapevole e della volgare ignoranza, difendo invece uno slancio fondamentale verso la relazionalità postumana. Un’università che sia seriamente impegnata nel mondo attuale deve affrontare questa sfida attraverso l’istituzione di ambiti transdisciplinari che indaghino la produzione del sapere nel mondo tecnologicamente mediato, con attenzione particolare verso le nuove relazioni tra lettere e scienze, e la diversità culturale e le realtà polilingue generate dalla globalizzazione. In una nuova effusione di creatività intellettuale, le scienze postumane della multiversità globale, includeranno: l’informatica umanistica o digitale, le scienze umane neuronali e cognitive, le scienze umaniste ambientali ed ecologiche e le scienze umane bio189

genetiche e quelle globali. Inoltre, adempiranno anche al compito di studiare quali metodi di ricerca e quali prospettive sono sviluppate dalla pratica letteraria e da quella artistica. In ogni modo esse continueranno a sostenere «l’irrequieta ricerca della mente umana di una maggiore comprensione del mondo» (Collini 2012, 27), che è l’intima essenza delle scienze umane. In altri termini, io credo che le discipline umaniste potranno sopravvivere nella misura in cui mostreranno capacità e volontà di seguire un processo sostanziale di trasformazione in direzione postumana. Per essere degni dei nostri tempi, dobbiamo essere pragmatici: ci occorrono schemi di pensiero e figurazioni capaci di rendere conto in termini positivi dei cambiamenti e delle metamorfosi attualmente in corso. Viviamo già in stati permanenti di transizione, di ibridazione e di mobilità nomade, in società emancipate (postfemministe), con alti gradi d’intervento tecnologico. Questi non sono eventi semplici né lineari, bensì fenomeni multisfaccettati e internamente contraddittori. Facendo prova di una sfacciata indifferenza verso la logica del terzo escluso, essi combinano elementi di ultramodernità con tratti di neoarcaismo: progressi tecnologici stupefacenti e manifestazioni di flagrante neoprimitivismo. La cultura accademica contemporanea e l’istituzione universitaria si trovano spesso nell’incapacità di rappresentare queste realtà in maniera adeguata. Favoriscono invece gli inevitabili ritornelli nostalgici sulla fine delle ideologie, che concorrono con le apologie del nuovo. Nostalgia e iperconsumismo viaggiano mano nella mano, sotto l’egida della restaurazione neoliberale dell’individualismo possessivo. Questa visione unitaria del soggetto umanista, tuttavia, non è in grado di fornire un antidoto efficace contro i processi di frammentazione, i flussi e i cambiamenti che caratterizzano la nostra era. Il nostro punto di partenza dev’essere la posizione non unitaria, relazionale del soggetto in modo da imparare a pensare diversamente a noi stessi e al nostro sistema di valori, partendo dalle cartografie appropriate delle nostre collocazioni postumane incarnate e radicate. Un’università che somigli al mondo attuale può essere solo una multiversità, un’istituzione, in crescita ed espansione, che affermerà una postumanità costruttiva. Come tale, non può sostenere la formazione universitaria per il solo scopo dell’integrazione nel mercato del lavoro, ma come un fine in se stessa. Noi dobbiamo intendere il no-profit come valore centrale della produzione 190

del sapere contemporaneo, e la sua gratuità dev’essere collegata alla costruzione di orizzonti sociali di speranza, quindi si tratta di un voto di fiducia nella sostenibilità pura del futuro (Braidotti 2008a). Il futuro non è nient’altro che solidarietà intergenerazionale, responsabilità verso i posteri, eppure è anche il nostro sogno comune, la nostra allucinazione condivisa. Collin lo afferma felicemente: «Noi siamo semplicemente la generazione attuale di custodi di un’eredità intellettuale complessa che non abbiamo creato e che quindi non abbiamo il diritto di distruggere». Le scienze postumane sono già all’opera nella multiversità globale, non solo per contrastare l’estinzione ma anche per realizzare futuri sostenibili postumani.

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Conclusione

Non tutti possiamo sostenere, con un benché minimo senso di certezza, che siamo già diventati postumani, o che non siamo null’altro all’infuori di questo. Alcuni di noi continuano a sentirsi molto legati all’umano, quella creatura che ci è tanto familiare da tempo immemore, la quale in quanto specie, presenza planetaria e formazione culturale, ha saputo sviluppare un particolare tipo di comunità. Neppure possiamo spiegare con alcun grado di precisione, grazie a quale contingenza storica, attraverso quali vicissitudini intellettuali o quali svolte del destino, siamo entrati nell’universo postumano. Ciononostante, l’idea di postumano gode oggi, nell’era nota come antropocene, di ampio consenso. Suscita esaltazione e ansia al contempo, e provoca rappresentazioni culturali assai polemiche. Cosa molto importante ai fini di questo libro, la situazione postumana impone la necessità di pensare nuovamente, e più a fondo, allo statuto dell’umano, di riformulare di conseguenza la questione della soggettività, così come impone il bisogno di inventare forme di relazione etiche, norme e valori adeguati alla complessità di questi tempi. Questo richiede anche la ridefinizione delle finalità e delle strutture del pensiero critico, trattandosi, in ultima analisi, di sostenere il prestigio istituzionale del campo accademico delle scienze umane nell’università contemporanea. Questo libro si è aperto con quattro vignette che illustravano sia le note positive che gli orrori dei nostri giorni: il disfacimento della dicotomia tra natura-cultura e l’alto livello di mediazione tecnologica che genera una serie di paradossi, quali una panumanità connessa elettronicamente che reca con sé anche intolleranza e violenza xenofobica. Piante, animali e vegetali geneticamente modificati proliferano insieme ai virus dei computer mentre veicoli 192

volanti e altri mezzi militari senza equipaggio ci pongono al cospetto di nuovi modi di morire. L’umanità viene ricreata come categoria reattiva, legata dalla comune vulnerabilità e dallo spettro dell’estinzione, ma anche colpita da vecchie e nuove epidemie, coinvolta in nuove guerre senza fine, afflitta dai campi di detenzione e dall’esodo dei rifugiati. Gli appelli a nuove forme di relazione cosmopolite o per un ethos globale sono spesso controbilanciati da atti omicidi come quello di Pekka Eric Auvinen o di Anders Behring Breivik33. In questo libro ho cercato di analizzare, in fasi diverse, l’alternanza tra l’entusiasmo per la condizione postumana e la preoccupazione per i suoi lati inumani e disumani. Per tutto il libro ho sottolineato l’importanza della teoria critica, con la quale intendo quella commistione tra critica e creatività che rende imperativo rinnovare positivamente il nostro confronto con il presente. Le mie preoccupazioni principali sono: come trovare rappresentazioni teoretiche e immaginarie adatte alle nostre condizioni di vita e come sperimentare insieme forme alternative di soggettività postumana? Le quattro domande-chiave che ho posto all’inizio hanno strutturato questo libro come un viaggio attraverso gli scenari multidimensionali del postumano: come possiamo elaborare resoconti degli itinerari storici che ci hanno condotto al postumano? In secondo luogo, cosa comporta la condizione postumana per le scienze umane e, nello specifico, quali nuove forme di soggettività genera questa condizione? In terzo luogo, come possiamo interrompere il processo che rende disumano il postumano? Infine, qual è la funzione delle scienze umane nell’era postumana? Questi interrogativi non sono lineari bensì intrecciati, delineano una strada a zigzag attraverso paesaggi complessi. Come scrittrice e pensatrice ho scelto la posizione dell’apripista e della cartografa, per rendere conto non solo delle difficili transizioni ma anche di alcune contraddizioni inerenti alla nostra situazione attuale. Vediamo, a questo punto del viaggio, quanto siamo arrivati lontano. Soggettività postumana Il soggetto postumano non coincide con quello postmoderno, perché non poggia su alcuna premessa antifodazionalista. Non coin33. Anders Behring Breivik è il pluriomicida norvegese, reo confesso degli attacchi del 2011 a Oslo e sull’isola di Utoya, che ha ucciso prima otto e poi sessantanove persone, in maggioranza giovani socialisti.

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cide neppure con quello poststrutturalista, poiché non si spiega con la svolta linguistica o con altri metodi decostruttivisti. Non essendo delimitato dai poteri ineluttabili della significazione, non è di conseguenza condannato a cercare rappresentazioni adeguate della sua esistenza all’interno di un sistema che è costitutivamente incapace di garantirgli un riconoscimento all’altezza delle aspettative. Il significante linguistico, fondato sulla mancanza e sulla legge, rappresenta semplicemente una trappola e un ostacolo per il potenziamento della soggettività postumana. Il suo potere sovrano si fonda sulle stesse passioni negative che mette in circolazione diffondendo sistematicamente un senso di mancanza, istigando desideri al solo scopo di frustrarli attraverso l’invidia, la castrazione, e incoraggiando in ogni modo l’assuefazione al consumo di beni materiali, discorsivi e culturali. Il soggetto postumano nomade è materialista e vitalista, incarnato e interrelato – esso è sempre situato in qualche luogo – in sintonia con l’immanenza radicale della politica della collocazione, che ho messo in primo piano in questo libro. Tale soggetto è polimorfo e relazionale e perfettamente comprensibile all’interno dell’ontologia monista, attraverso le lenti di Spinoza, Deleuze e Guattari, delle teorie femministe postcoloniali. Tale soggettività è plasmata dalla vitalità relazionale e dalla complessità degli elementi che caratterizzano lo stesso pensiero postumano. La politica vitalista rompe chiaramente con la nozione, canonizzata dal poststrutturalismo e dalla psicoanalisi, della supremazia della cultura e della significazione sui processi di soggettivazione. Non vi è alcuna cattura originaria e fatale del presunto soggetto neutrale da parte di una matrice del potere, si tratti del fallo, del logos, della ragione trascendentale eurocentrica o della normatività eterosessuale. Il potere non coincide con alcuna collocazione statica gestita da un singolo proprietario incontrastato. La politica monista posiziona meccanismi differenziali di distribuzione degli effetti del potere nel cuore della soggettività. Tuttavia, questi molteplici meccanismi di potere generano forme multiple di resistenza. Le formazioni di potere sono legate alla temporalità e di conseguenza sono momentanee e contingenti rispetto all’interazione sociale. Movimento e velocità, linee di sedimentazione e linee di fuga rappresentano i fattori principali che influenzano la formazione del soggetto postumano non unitario. La concezione nomade della soggettività è un buon punto di partenza, ma occorre spingersi oltre, collegandola ad altri due con194

cetti cruciali: il desiderio inteso come pienezza e l’etica postumana. Il concetto del desiderio inteso come pienezza e non come mancanza genera un approccio più trasformativo e meno negativo al soggetto nomade e relazionale cui prima accennavo, ad esempio il soggetto scisso della psicanalisi. Il soggetto nomade è un ramo della teoria della complessità ed esso promuove una continua enfasi sull’etica radicale della trasformazione. Questo non significa negare il ruolo che la contingenza storica e i codici culturali giocano nei processi di soggettivazione, piuttosto significa sottoporre questi fattori a un aggiornamento molto serio, alla luce delle loro stesse strutture mutevoli e della loro composizione complessa. Come Deleuze e Guattari hanno sostenuto nella loro disamina della psicoanalisi, il concetto di simbolico di Lacan è fuori tempo, come una foto polaroid di un mondo passato ormai del tutto mutato. Catturava un fotogramma congelato delle relazioni familiari e intersoggettive nel momento storico in cui il capitalismo avanzato le investiva con la sua forza centripeta. La natura biopolitica di questo sistema è cresciuta in modo esponenziale dagli anni Settanta, plasmando nuove e radicali forme di relazionalità intersoggettiva. Affermare il contrario significherebbe accettare l’essenzialismo psicologico e condannare la nostra vita psichica all’esclusione dalla storia e dalle trasformazioni sociali. La nostra psiche – con le sue fantasie e i suoi affetti, le sue complicazioni dovute al desiderio – sarebbe per sempre ferma in un limbo astorico, plasmata dai poteri autoreplicanti del significato dispotico dominante. Per ogni materialista vitalista, questa triste concezione del soggetto come disperatamente attaccato alle condizioni della sua impotenza è semplicemente una rappresentazione inadeguata dei nostri processi di divenire. Dobbiamo innalzarci all’altezza del presente e pertanto sentirci parte della cultura contemporanea, essendo noi stessi soggettività incarnate e integrate in questo mondo particolare. Lungi dal costituire una fuga dalla realtà, il pensiero postumano inscrive il soggetto contemporaneo alle condizioni della sua storicità. La vita, per lo stesso motivo, non è una nozione metafisica, né un sistema semiotico di significato; essa esprime se stessa in una molteplicità di atti empirici: non vi è molto da dire, ma tutto da fare. La vita, semplicemente in quanto vita, si esprime concretizzandosi in flussi di energia, attraverso codici di informazioni vitali, sistemi e reti somatiche, culturali e tecnologiche. Per questo motivo difendo l’idea dell’amor fati come modo per abbracciare i 195

processi vitali e l’intensità espressiva della vita che condividiamo con molteplici altri, qui e ora. Etica postumana Stiamo divenendo soggetti etici postumani grazie alle nostre plurime capacità di intessere, relazioni di ogni sorta e modalità di comunicazione, attraverso codici che trascendono il segno linguistico eccedendolo in ogni direzione. In questo momento particolare della nostra storia collettiva, ignoriamo semplicemente che cosa i nostri sé incarnati, le nostre menti e i nostri corpi insieme siano realmente in grado di fare. Per capirlo abbiamo bisogno di abbracciare un’etica fatta di sperimentazioni con le intensità. L’immaginazione etica sopravvive e prospera grazie alle soggettività postumane, nella forma della relazionalità ontologica. Un’etica sostenibile per soggetti non unitari poggia su un senso allargato d’interconnessione tra sé e gli altri, compresi gli altri non umani o della terra, da un lato attraverso la rimozione dell’ostacolo rappresentato dall’individualismo autocentrato, dall’altro attraverso la rimozione delle barriere della negatività. In altre parole, essere postumani non significa essere indifferenti agli umani o essere disumanizzati. Al contrario, ciò implica piuttosto un nuovo modo di combinare i valori etici con il benessere di una comunità allargata, che includa le interconnessioni territoriali e ambientali di ciascuno. Questo è un legame etico di un genere del tutto differente da quello dell’interesse personale del soggetto individuale, come definito lungo le linee canoniche dell’umanesimo classico, o dall’universalismo morale dei kantiani e dalla loro fiducia verso l’estensione dei diritti umani a tutte le specie, a tutte le entità virtuali e tutte le composizioni cellulari (Nussbaum, 2007). La teoria postumana inoltre sceglie per la relazione etica radici positive, quali i progetti e le attività condivise, non radici negative o reattive postulate, per esempio, sulla comune vulnerabilità. Questa visione processuale del soggetto ha portata universalistica, nonostante rifiuti l’universalismo morale e cognitivo. Essa esprime una forma di responsabilità radicata e parziale, basata su di un forte senso della collettività e della relazionalità, che si traduce in una rinnovata richiesta di comunità e di appartenenza da parte delle singolarità soggettive. Lloyd si riferisce a tali rivendicazioni situate localmente e microuniversaliste con l’espressione 196

moralità cooperativa (Lloyd 1996,74). I criteri indicati per questa nuova etica includono: il principio del no-profit; l’enfasi sul collettivo; l’accettazione della relazionalità e delle contaminazioni virali; i tentativi concertati per sperimentare e concretizzare opzioni virtuali e potenziali; la nuova connessione tra teoria e pratica; il ruolo centrale della creatività. Tali criteri non rappresentano giudizi morali, bensì cornici dinamiche per esperimenti continui con le energie intensive. Vanno praticati dalla collettività al fine di produrre efficaci cartografie di quanto i corpi possono sostenere, ecco perché le chiamo anche soglie di sostenibilità (Braidotti 2008a), le quali mirano a creare legami collettivi e una nuova comunità politica affettiva. La nozione chiave dell’etica nomade postumana è la trascendenza della negatività. Concretamente, ciò significa che le condizioni per un rinnovamento etico e politico non possono essere ricavate dal contesto prossimo o dallo stato attuale delle cose, neppure attraverso l’opposizione dialettica. Devono invece essere generate affermativamente e creativamente attraverso progetti orientati alla costituzione di futuri possibili, alla mobilitazione delle risorse e delle visioni non ancora sfruttate, attraverso la loro concretizzazione in pratiche quotidiane d’interconnessione con l’alterità. Questo progetto esige un’elevata potenza visionaria o un’energia profetica, qualità che non sono particolarmente in voga nel circuito accademico, né molto apprezzate dalla scienza in questi tempi di perseguimento forzato dell’eccellenza globalizzata e quantificata. Eppure, l’invito all’elaborazione di nuove prospettive emerge da più settori della teoria critica. Fin dall’inizio, Joan Kelly (1979) ha definito la teoria femminista come una visione a doppio taglio con un’accentuata finalità critica e un’altrettanto accentuata funzione creativa. Questa dimensione creativa è rimasta cruciale (Haraway 2000, 2003; Rich 2001), perciò essa costituisce il nucleo affermativo e innovativo delle epistemologie radicali del femminismo, degli studi postcoloniali sulla razza e il genere. La fiducia nei poteri creativi dell’immaginazione è parte integrante della fede che il femminismo colloca nell’esperienza vissuta e nelle radici corporee della soggettività, le quali esprimono le singolarità complesse che i soggetti femministi sono diventati. La creatività concettuale sarebbe semplicemente inimmaginabile senza la spinta visionaria. Coloro che sono in grado di pensare il futuro hanno cervelli profetici e visionari. Il futuro come oggetto attivo del desiderio 197

non solo ci spinge in avanti, ma ci esorta anche a impegnarci qui e ora, nel presente continuo che esige sia resistenza che contro-attualizzazione delle alternative. L’aspirazione a futuri sostenibili può spingerci a costruire un presente vivibile in modo dignitoso. Questo non è un atto di fede, ma una trasposizione attiva, una metamorfosi che avviene molto in profondità (Braidotti 2008a). Una dimensione profetica e visionaria è necessaria per garantire un approccio positivo al presente, quale un trampolino di lancio per divenire sostenibili e trasformazioni qualitative della negatività e dell’ingiustizia del presente. Il futuro è l’apertura virtuale della positività del presente, merita i nostri sforzi e il nostro obbligo nei confronti delle generazioni a venire. Politica affermativa I progetti collettivi diretti all’affermazione sociale del possibile e quindi della speranza, sono radicati nelle micro-pratiche ordinarie della vita quotidiana, in quanto strategie per organizzare, sostenere e documentare le trasformazioni sostenibili. La ragione della costruzione sociale della speranza si trova nel senso di responsabilità intergenerazionale. L’elementare gratuità e il senso di speranza sono parte di questa strategia. La speranza è un modo per sognare possibili futuri: una virtù anticipatrice che permea e attiva le nostre vite. Si tratta di una potente forza motivatrice basata non solo sui progetti che mirano a ricostruire l’immaginario sociale, ma anche sull’economia politica dei desideri, degli affetti e della creatività che la sottendono. Le pratiche attuali della soggettività postumana operano per un approccio più affermativo alla teoria critica. Oltre le concezioni unitarie del soggetto e le interpretazioni teleologiche dei processi di soggettivazione, il pensiero postumano può sostenere i soggetti contemporanei nei loro sforzi di sincronizzazione con il mondo in metamorfosi nel quale tentano di intervenire in modo positivo. Ad esempio, contro la tradizione istituita del nazionalismo metodologico, si può ricorrere a un differente stile di pensiero che rifiuti l’euro-universalismo e che creda invece nei poteri della diversità planetaria. Dobbiamo ricorrere all’affettività, alla memoria e all’immaginazione per adempiere al compito cruciale d’inventare nuove figurazioni e nuove rappresentazioni dei soggetti complessi che siamo diventati. La scienza medesima è socialmente informata ed ecologicamente integrata, dal momento che non si svilup198

pa lungo assi nazionalistici, bensì nella rete nomade di connessioni postumane con la terra tutta. Il divenire postumano è di conseguenza un processo di ridefinizione del senso di connessione verso il mondo condiviso e l’ambiente: urbano, sociale, psichico, ecologico o planetario che sia. Esso esprime multiple ecologie dell’appartenenza, mentre innesca la trasformazione delle coordinate sensoriali e percettive, al fine di riconoscere la natura collettiva e l’apertura verso l’esterno di ciò che ancora chiamiamo soggetto. Tale soggetto è infatti un assemblaggio mobile in uno spazio di vita condiviso che non controlla né possiede, ma che semplicemente occupa, attraversa, sempre in comunità, in gruppo, in rete. Per la teoria postumana il soggetto è un’entità trasversale, pienamente immersa in e immanente a una rete di relazioni non umane (animali, vegetali, virali). Il soggetto incarnato zoe-centrato è preso in collegamenti relazionali di tipo virale e contagioso che lo interconnettono a una vasta gamma di altri, partendo dagli eco-altri fino a includere l’apparato tecnologico. Questo filone non essenzialista del vitalismo riduce la hybris della coscienza razionale, cosa che lungi dal rappresentare un atto di trascendenza verticale promuove piuttosto un ritorno all’esercizio fondamentale dell’immanenza radicale. Tale atto reimette il soggetto nel mondo, mentre riavvolge il mondo all’interno dello stesso. E se la coscienza fosse, infatti, solo un altro modello cognitivo di rapportarsi al proprio ambiente e agli altri? E se, a confronto con l’immanente know-how degli animali, l’autorappresentazione cosciente fosse contaminata dal delirio della trascendenza e di conseguenza accecata dalla sua stessa aspirazione all’autotrasparenza? E se la coscienza fosse, in ultima istanza, incapace di trovare un rimedio al suo male oscuro, questa vita, zoe, una forza impersonale che ci muove senza chiedere il nostro permesso di farlo? Zoe è una forza inumana che si estende oltre la vita, verso nuovi approcci vitalisti alla morte intesa come evento impersonale. Quest’ontologia processuale centrata sulla vita conduce il soggetto postumano a confrontarsi lucidamente con i suoi limiti, senza cedere al panico o alla malinconia. Si afferma una spinta etica laica verso modalità di relazione che migliorano e conservano la propria capacità di rinnovare e ampliare i confini di cosa i soggetti nomadi e trasversali possono diventare. L’ideale etico è quello di attualizzare gli strumenti cognitivi, affettivi e sensoriali per coltivare un maggior grado di responsabilizzazione e di affer199

mazione delle interconnessioni di ciascuno nella loro molteplicità. La selezione delle forze affermative che catalizzano il processo del divenire postumano è regolata da un’etica della gioia e della positività che opera tramite la trasformazione delle passioni negative in passioni positive. Filosofia del fuori in senso stretto, di spazi aperti e di affermazioni incarnate, il pensiero postumano nomade anela a un salto di qualità fuori dal familiare, confida nelle possibilità, ancora inesplorate, aperte dalla nostra posizione storica nel mondo tecnologicamente mediato di oggi. È un modo per essere all’altezza dei nostri tempi, per accrescere la nostra libertà e la nostra comprensione delle complessità che viviamo, in questo mondo non più antropocentrico né antropomorfo, bensì geopolitico, eco-filosofico e fieramente zoe-centrato. Postumano, troppo umano Nell’introduzione ho affermato che la nostra relazione al postumano dipende in larga misura da come ciascuno si relazioni all’umano in primo luogo. Ho mostrato senza riserve la mia propensione all’antiumanesimo lungo tutto il libro; il mio interesse per il postumano è direttamente proporzionale al senso di frustrazione che suscitano in me l’umano, le risorse e i limiti troppo umani che delimitano le nostra intensità personali e collettive. Ciò che ho provato a descrivere in questo libro rivela un senso di anticipazione ma anche un tocco d’impazienza. Innegabilmente, l’egualitarismo vitalista di zoe esercita la sua forza attrattiva in modo più acuto su coloro che hanno perso interesse e si sono allontanati dall’antropocentrismo che è implicito nel pensiero umanista, ma anche dai residui umanisti della sinistra politica, del femminismo e delle teorie postcoloniali. Io vivo il tempo delle battute finali del biopotere, ovvero vivo nel mezzo dell’implacabile necropolitica che consuma tutti gli esseri viventi. Mi impegno a iniziare da qui, non dalla restaurazione nostalgica di un modello onnicomprensivo trascendentale, non dall’elogio dei margini né da un ideale olistico. Desidero pensare a partire dal qui e ora, da mia sorella Dolly la pecora e dall’oncotopo, mia divinità totemica; dai semi dispersi alle specie in estinzione. E anche, simultaneamente e senza contraddizioni, dagli sconcertanti mezzi generativi , inaspettati e implacabili grazie ai quali la vita – bios e zoe compresi – riprende continuamente a lottare. Questo è il tipo di materialismo che fa di me 200

una pensatrice postumana fino al midollo e, in pratica, una felice membra delle svariate specie da compagnia (Haraway,2003). Non ho nessuna nostalgia per l’Uomo, misura presunta di tutte le cose, o per le forme del sapere e dell’autorappresentazione che lo accompagnano. Accolgo ben volentieri gli orizzonti multipli dispiegati dal crollo dell’umanesimo eurocentrico e androcentrico. Interpreto la svolta postumana come una felice opportunità di decidere insieme cosa e chi possiamo divenire, una possibilità unica per l’umanità di reinventarsi in senso affermativo, attraverso la creatività e il miglioramento delle relazioni etiche, e non solo in senso negativo, attraverso la vulnerabilità e la paura. Tale svolta postumana rappresenta il momento opportuno per riconoscere le possibilità di resistenza e potenziamento su scala mondiale. Ho dato gli ultimi ritocchi a questo manoscritto proprio mentre le Olimpiadi di Londra 2012 erano in pieno svolgimento. Sensazionale in questi giochi è stata la performance dell’atleta giamaicano Usain Bolt, che ha corso i 100 metri maschili in 9,63 secondi, a una velocità media di 38 km orari; inoltre ha corso i 200 metri in 19.32 secondi; e con la sua squadra, ha corso la staffetta di 400 metri in 36,84 secondi, segnando un record mondiale. La sua velocità, tale da sfidare le nostre capacità di comprensione, ha infiammato la fantasia del mondo globalmente connesso. Anche se si è previsto che questo straordinario corridore batta il suo miglior record personale almeno di un paio di secondi, è comunemente riconosciuto che la prestazione sovrumana di Usain Bolt ha ampliato i confini di ciò che il corpo umano è in grado di raggiungere in questo momento presente della nostra storia. Rimane da capire se questi confini finiranno per rappresentare un ostacolo fisiologico insormontabile, un limite autoimposto dalla collettività o piuttosto la soglia di cambiamenti potenziali dei nuovi corpi a venire. Durante gli stessi giochi olimpici, l’atleta sudafricano Oscar Pistorius è entrato nella storia come il primo doppio amputato della competizione. Benché la lotta per qualificarsi sia stata lunga e controversa, e l’atleta non abbia vinto alcuna medaglia, Pistorius è stato il primo essere umano potenziato a correre su fibre transtibiali e arti artificiali di carbonio34, e a tenere valorosamente il campo contro i fastidiosi bipedi naturali. Opinione comune è il fatto che la perfomance di Pistoriuos sia stata diversamente umana, e questo ci dà conferma di come quella postumana sia oggi 34. Si tratta di Cheetah Flex-Foot disegnati dalla dita Ossur.

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una questione aperta. Rimane da capire che tipo di futuro e che tipo di scenari caratterizzeranno i tempi postumani35. Al confronto con trasformazioni di tale portata, è urgente organizzare una nuova agenda postumana. I confini e i limiti dei corpi devono divenire oggetto di discussione collettiva e di decisione da parte delle istituzioni plurime della politica e della società civile, in modo tale da non assumere, per inerzia o per paura, la centralità, tantomeno l’universalità, dei principi umanisti antropocentrici. Abbiamo bisogno, adesso, di imparare a pensare differentemente a noi stessi e di sperimentare nuovi modelli di pensiero per rendere conto di cosa costituisca l’unità di riferimento comune dell’umano. Per questo motivo ho insistito tanto in questo libro sulla questione della soggettività: ci servono nuove griglie per mettere a fuoco punti di riferimento comuni e nuovi valori, per venire a patti con le trasformazioni sconcertanti cui stiamo assistendo. Questo libro nasce dalla convinzione che i soggetti postumani all’inizio del terzo millennio, nelle loro molteplici e diverse collocazioni, siano perfettamente in grado di far fronte alla sfida rappresentata dal presente, a condizione che lo facciano in uno sforzo collettivo e nell’orizzonte di un progetto comune. La prassi concreta e attualizzata è il modo migliore per affrontare le nuove possibilità che si dispiegano sotto i nostri occhi, come risultato dei nostri progressi scientifici, sostenuti collettivamente. La corporalità umana e la soggettività stanno oggi vivendo una profonda trasformazione. Come chiunque viva in un’epoca di cambiamenti, non siamo sempre lucidi e attenti rispetto a dove ci stiamo dirigendo, o capaci di spiegare cosa sta esattamente avvenendo intorno a noi. Alcuni di questi eventi provocano in noi soggezione e paura, mentre altri ci fanno sussultare per la gioia: come se il nostro contesto attuale continuasse a spalancare le porte della percezione collettiva, costringendoci a udire il frastuono dell’energia cosmica che si trova dall’altro lato del silenzio e ad ampliare la portata di ciò che è diventato possibile. È inquietante, ma anche esilarante confrontarsi quotidianamente con cambiamenti vertiginosi, con l’immensità dei nuovi orizzonti che ci ricordano, volente o nolente, che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. Non c’è da stupirsi che molti di noi girino le spalle a tutto questo, preferendo riparare nei luoghi comodi e rassicuranti della stupidità, come George Eliot aveva profeticamente intuito. 35. Un anno dopo questa prestazione storica, Pistorius tornerà alla ribalta mondiale in negativo, accusato dell’assassinio della fidanzata.

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Eppure la pecora Dolly è reale, non è un personaggio della fantascienza ma il risultato della ricerca scientifica, dell’immaginario sociale attivo e di solidi investimenti finanziari. Nonostante sia noto come Blade Runner, Oscar Pistorius non sogna pecore elettroniche. Le reti di trasporti globali nei maggiori centri metropolitani ci hanno abituato a treni senza conducenti e i dispositivi elettronici portatili sono così potenti che stentiamo a tenere il passo con loro. Umane, troppo postumane, tutte queste estensioni e queste protesi che i nostri corpi sono in grado di sostenere sono già qui e qui resteranno. Stiamo andando al passo con i nostri sé postumani, o vogliamo continuare a indugiare in una cornice teorica e immaginativa sospesa e confusa rispetto all’ambiente reale in cui viviamo? Questo non è il Mondo nuovo di Huxley, vale a dire una versione disutopica del peggiore degli incubi modernisti. Non è neppure il delirio transumanista della trascendenza dai corpi umani attuali. Questa è la nuova situazione in cui siamo immersi: l’immanente hic et nunc del pianeta postumano; uno dei possibili mondi che ci siamo costruiti. E dal momento che esso è il risultato dei nostri sforzi congiunti e dell’immaginario collettivo, è semplicemente il migliore dei mondi postumani possibili.

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